Che la storia non sia una scienza come le altre, quasi tutti ne sono
    persuasi, senza contare coloro i quali ritengono che non sia affatto
    una scienza. Parlare di storia non è facile, ma queste
    difficoltà del linguaggio conducono nel centro stesso delle
    ambiguità della storia.
    
    In questo articolo ci si sforzerà al tempo stesso di
    ricondurre la riflessione sulla storia nella durata, di situare la
    scienza storica stessa nelle periodizzazioni della storia, e di non
    ridurla alla visione europea, occidentale, anche se, per ignoranza
    di chi scrive e per lo stato – significativo – della documentazione,
    bisognerà parlare soprattutto della scienza storica europea.
    
    La parola ‘storia’ (in tutte le lingue romanze e in inglese) deriva
    dal greco antico ἱστορίη, nel dialetto ionico [Keuck 1934]. Questa
    forma deriva dalla radice indeuropea *wid-, *weid ‘vedere’. Donde il
    sanscrito vettas ‘testimone’ e il greco ἴστωρ ‘testimone’ nel senso
    di ‘colui che vede’. Questa concezione della vista come fonte
    essenziale di conoscenza porta all’idea che ἴστωρ ‘colui che vede’
    è anche colui che sa: ἱστωρεῖν, in greco antico, significa
    ‘cercare di sapere’, ‘informarsi’. Iστορίη significa dunque
    ‘indagine’. È il senso della parola in Erodoto all’inizio
    delle sue Storie, che sono delle «ricerche», delle
    «indagini» [cfr. Benveniste 1969, trad. it. p. 414;
Hartog 1980]. Vedere, donde sapere, è un primo problema.
    
    Ma, nelle lingue romanze (e nelle altre) ‘storia’ esprime due, se
    non tre, concetti differenti. Significa: 1) l’indagine sulle
    «azioni compiute dagli uomini» (Erodoto) che si è
    sforzata di costituirsi in scienza, la scienza storica; 2) l’oggetto
    dell’indagine, quello che gli uomini hanno compiuto. Come dice Paul
    Veyne, «la storia è sia un susseguirsi di avvenimenti,
    sia il racconto di questo susseguirsi di avvenimenti» [1968,
    p. 423]. Ma storia può avere un terzo significato,
    precisamente quello di «racconto». Una storia è
    un racconto che può essere vero o falso, con una base di
    «realtà storica», o puramente immaginario, e
    questo può essere un racconto «storico» oppure
    una favola. L’inglese sfugge quest’ultima confusione in quanto
    distingue history da story, ‘storia’ da ‘racconto’. Le altre lingue
    europee si sforzano piú o meno di evitare queste
    ambiguità. L’italiano manifesta la tendenza a designare se
    non la scienza storica quanto meno i prodotti di questa scienza con
    la parola ‘storiografia’, il tedesco tenta di stabilire la
    differenza tra questa attività «scientifica»,
    Geschichtsschreibung, e la scienza storica propriamente detta,
  Geschichtswissenschaft. 
Questo gioco di specchi e di equivoci
    è proseguito nel corso dei secoli. Il secolo XIX, secolo
    della storia, inventa sia delle dottrine, che privilegiano la storia
    nel sapere, parlando, come si vedrà, sia di ‘istorismo’, sia
    di ‘storicismo’, e una funzione, direi piú volentieri una
    categoria del reale, la ‘storicità’ (la parola appare nel
    1872 in francese). Charles Morazé la definisce cosí:
    «Bisogna… cercare al di là della geopolitica, del
    commercio, delle arti e della scienza stessa ciò che
    giustifica l’oscura certezza degli uomini che essi non sono che uno,
    trasportati come sono dall’enorme flusso di progresso che li
    specifica opponendoli. Si sente che questa solidarietà
    è legata all’esistenza implicita, che ciascuno prova in
    sé, di una certa funzione comune a tutti. Noi chiameremo
    storicità questa funzione» [1967, p. 59].
    
    Questo concetto di storicità si è staccato dalle sue
    origini «storiche», legate allo storicismo del XIX
    secolo, per svolgere una funzione di primo piano nel rinnovamento
    epistemologico della seconda metà del XX secolo. La
    storicità permette per esempio di rifiutare sul piano teorico
    la nozione di «società senza storia», rifiutata
    d’altra parte dallo studio empirico delle società osservate
    dall’etnologia [Lefort 1952]. Essa pertanto obbliga a inserire la
    storia stessa in una prospettiva storica: «C’è una
    storicità della storia. Essa implica il movimento che lega
    una pratica interpretativa a una prassi sociale» [Certeau
  1970, p. 484]. 
Un filosofo come Paul Ricœur vede nella soppressione
    della storicità attraverso la storia della filosofia il
    paradosso del fondamento epistemologico della storia. In effetti,
    secondo Ricœur, il discorso filosofia fa scoppiare la storia in due
    modelli di intelligibilità, un modello
    événementiel e un modello strutturale, cosa che fa
    scomparire la storicità: «Il sistema è la fine
    della storia in quanto essa si annulla nella logica; anche la
    singolarità è la fine della storia in quanto tutta la
    storia si nega in essa. Si arriva a questo risultato, assolutamente
    paradossale, che è sempre alla frontiera della storia, della
    fine della storia, che si comprendono i tratti generali della
    storicità» [1961, pp. 224-25].
    
    Infine, Paul Veyne trae una doppia morale dal fondamento del
    concetto di storicità. La storicità permette
    l’inclusione nel campo della scienza storica di nuovi oggetti della
    storia: il non-événementiel; si tratta di avvenimenti
    non ancora accolti come tali: storia rurale, delle mentalità,
    della follia o della ricerca della sicurezza attraverso le
    età. Si chiamerà dunque
    non-événementielle la storicità della quale non
    avremo coscienza come tale [1971, trad. it. pp. 35 sgg.]. D’altra
    parte la storicità esclude l’idealizzazione della storia,
    l’esistenza della Storia, con una S maiuscola: «Tutto è
    storico, dunque la storia non esiste».
    
    Ma bisogna pur vivere e pensare con questo doppio o triplo
    significato di ‘storia’. Lottare, certamente, contro le confusioni
    troppo grossolane e troppo mistificanti tra i differenti
    significati, non confondere scienza storica e filosofia della
    storia. Condivido con la maggior parte degli storici di mestiere la
    diffidenza nei confronti di questa filosofia della storia,
    «tenace e insidiosa» [Lefebvre 1945-46, trad. it. p.
    12], che ha la tendenza, nelle sue diverse forme, a ricondurre la
    spiegazione storica alla scoperta, o all’applicazione di una causa
    unica e prima, a sostituire precisamente lo studio con delle
    tecniche scientifiche dell’evoluzione delle società, con
    questa stessa evoluzione concepita in astrazioni fondate
    sull’apriorismo o su una conoscenza molto sommaria dei lavori
  scientifici. 
È per me argomento di grande stupore la risonanza avuta – piú che altro fuori degli ambienti degli storici, è vero – dal pamphlet di Karl Popper The Poverty of Historicism [1960]. Non un solo storico di mestiere vi è citato. Non bisogna pertanto fare di questa diffidenza nei confronti della filosofia della storia la giustificazione di un rifiuto di questo genere di riflessione. La stessa ambiguità del vocabolario rivela che la frontiera tra le due discipline, i due orientamenti di ricerca, non è – in ogni ipotesi – strettamente tracciata né tracciabile. Lo storico non deve concluderne tuttavia di dover allontanarsi da una riflessione teorica necessaria al lavoro storico. È facile scorgere che gli storici piú inclini a non rifarsi che ai fatti non soltanto ignorano che un fatto storico risulta da un montaggio e che lo stabilirlo esige un lavoro sia tecnico sia teorico, ma anche e soprattutto sono accecati da una inconsapevole filosofia della storia, spesso sommaria e incoerente.
Certamente, lo ripeto,
    l’ignoranza dei lavori storici della maggior parte dei filosofi
    della storia – corrispondente del disprezzo degli storici per la
    filosofia – non ha facilitato il dialogo. Ma, per esempio,
    l’esistenza di una rivista di alta qualità come
    «History and Theory. Studies in the Philosophy of
    History», edita dal 1960 dalla Wesleyan University a
    Middletown (Connecticut, Usa), prova la possibilità e
    l’interesse di una riflessione comune dei filosofi e degli storici e
    della formazione di specialisti informati nel campo della
    riflessione teorica sulla storia.
    
    La brillante dimostrazione di Paul Veyne relativa alla filosofia
    della storia va forse un po’ oltre la realtà. Egli ritiene
    [1971] che non si tratti che di un genere morto o «che
    sopravvive soltanto presso epigoni di tono alquanto
    popolareggiante» e che «era un genere falso». In
    effetti, «a meno di essere una filosofia rivelata, una
    filosofia della storia sarà un doppione della spiegazione
    concreta dei fatti, e rinvierà alle leggi e ai meccanismi che
    reggono questa spiegazione. Sono vitali soltanto i due casi limite:
    da una parte il provvidenzialismo della Civitas Dei, e dall’altra
    l’epistemologia storica. Tutto il resto è spurio»
    (trad. it. p. 50, nota 8).
    
    Senza spingersi fino ad affermare, con Raymond Aron, che
    «l’assenza e il bisogno di una filosofia della storia sono
    elementi ugualmente caratteristici del nostro tempo» [1961a,
    p. 38], si può dire che è legittimo che ai margini
    della scienza storica si sviluppi una filosofia della storia come
    delle altre branche del sapere. È augurabile che essa non
    ignori la storia degli storici, ma costoro devono ammettere che essa
    possa avere con l’oggetto della storia altri rapporti di conoscenza
    che non i loro.
    
    È la dualità della storia come storia-realtà e
    storia-studio di questa realtà che spesso spiega, almeno mi
    sembra, le ambiguità di alcune dichiarazioni di Claude
    Lévi-Strauss sulla storia. Cosí in una discussione con
    Maurice Godelier, il quale, avendo rilevato che l’omaggio reso, in
    Du miel aux cendres, alla storia come contingenza, irriducibile, si
    rivoltava contro la storia e che equivaleva a «dare alla
    scienza della storia uno statuto… impossibile, riducendola in uno
    stallo», Lévi-Strauss replicava: «Non so cosa voi
    chiamiate una scienza della storia. Mi accontenterei di dire la
    storia tout court; e la storia tout court è qualcosa di cui
    noi non possiamo fare a meno, precisamente perché questa
    storia ci mette constantemente di fronte a fenomeni
    irriducibili» [Lévi-Strauss, Augé e Godelier
    1975, pp. 182-83]. Tutta l’ambiguità della parola ‘storia’
    è in questa dichiarazione.
    
    S’affronterà dunque la storia mutuando a un filosofo l’idea
    di base: «La storia non è storia se non nella misura in
    cui essa non ha avuto accesso né al discorso assoluto,
    né alla singolarità assoluta, nella misura in cui il
    senso ne resta confuso, mescolato… la storia è essenzialmente
    equivoca, nel senso che essa è virtualmente
    événementielle e virtualmente strutturale. La storia
    è veramente il regno dell’inesatto. Questa scoperta non
    è inutile; giustifica lo storico. Lo giustifica di tutte le
    sue incertezze. Il metodo non può essere che un metodo
    inesatto… La storia vuole essere obiettiva e non può esserlo.
    Vuol far rivivere e non può che ricostruire. Vuole rendere le
    cose contemporanee, ma al tempo stesso le occorre restituire la
    distanza e la profondità della lontananza storica. Alla fine,
    questa riflessione tende a giustificare tutte le aporie del mestiere
    dello storico, quelle che Marc Bloch aveva segnalato nella sua
    apologia della storia e del mestiere di storico. Queste
    difficoltà non riguardano vizi di metodo, sono equivoci ben
    fondati» [Ricœur 1961, p. 226].
    
    Discorso sotto certi aspetti un po’ troppo pessimista, ma che sembra
    vero.
    
    Verranno qui presentati, quindi, dapprima i paradossi e le
    ambiguità della storia, ma per meglio definirla come una
    scienza, scienza originale, ma fondamentale.
    
    Si tratterà poi della storia nei suoi aspetti essenziali,
    spesso mescolati, ma che bisogna distinguere: la cultura storica, la
    filosofia della storia, il mestiere di storico.
    
    Lo si farà in una prospettiva storica, in senso cronologico.
    La critica che sarebbe stata fatta nella prima parte, di una
    concezione lineare e teleologica della storia, allontanerà il
    sospetto che chi scrive identifichi la cronologia con il progresso
    qualitativo, anche se sottolinea gli effetti cumulativi della
    conoscenza e ciò che Meyerson ha chiamato «la crescita
    della coscienza storica» [1956, p. 354].
    
    Non si cercherà di essere esaurienti. Ciò che importa
    è mostrare, in prima prospettiva, con qualche esempio, il
    tipo di rapporto che le società storiche hanno intrattenuto
    con il loro passato, il posto della storia nel loro presente.
    Nell’ottica della filosofia della storia si vorrebbe mostrare,
    rifacendosi al caso di alcuni grandi spiriti e di alcune correnti
    importanti di pensiero, come, al di là e al di fuori della
    pratica disciplinare della storia, la storia sia stata, in certi
    ambienti e in certe epoche, concettualizzata, ideologizzata.
    
    L’orizzonte professionale della storia darà, paradossalmente,
    spazio maggiore alla nozione di evoluzione e perfezionamento.
    Infatti, collocandosi nella prospettiva della tecnologia e della
    scienza, vi incontrerà l’inevitabile idea del progresso
    tecnico.
    
    Un’ultima parte consacrata alla situazione attuale della storia
    ritroverà alcuni dei temi fondamentali di questo articolo e
    alcuni aspetti nuovi.
    
    La scienza storica ha conosciuto da mezzo secolo uno slancio
    prodigioso: rinnovamento, arricchimento delle tecniche e dei metodi,
    degli orizzonti e dei domini. Ma, intrattenendo con le
    società globali relazioni piú intense che mai, la
    storia professionale, scientifica, vive una crisi profonda. Il
    sapere della storia è tanto piú scosso quanto
    piú il suo potere è aumentato.
    
    1. Paradossi e ambiguità della storia.
    
    1.1. La storia è scienza del passato o «non vi è
    che storia contemporanea»?
    
    Marc Bloch non amava la definizione «La storia è la
    scienza del passato», e trovava «assurda l’idea stessa
    che il passato, in quanto tale, possa essere oggetto di
    scienza» [1941-42, trad. it. pp. 38-39]. Egli proponeva di
    definire la storia come «la scienza degli uomini nel
    tempo» [ibid., p. 42]. Intendeva con ciò sottolineare
    tre caratteri della storia. Il primo è il suo carattere
    umano. Sebbene la ricerca storica oggi inglobi volentieri alcuni
    campi della storia della natura [cfr. Le Roy Ladurie 1967], si
    ammette generalmente in effetti che la storia è storia umana,
    e Paul Veyne ha sottolineato che una «differenza enorme»
    separa la storia umana dalla storia naturale: «L’uomo
    delibera, la natura no; la storia umana diventerebbe un nonsenso se
    si trascurasse il fatto che gli uomini hanno degli scopi, dei fini,
    delle intenzioni» [1968, p. 424].
    
    Tale concezione della storia umana invita del resto molti storici a
    pensare che la parte centrale, essenziale della storia sia la storia
    sociale. Charles-Edmond Perrin ha scritto di Marc Bloch: «Alla
    storia, egli assegna come oggetto lo studio dell’uomo in quanto
    integrato in un gruppo sociale» [in Labrousse 1967, p. 3]; e
    Lucien Febvre aggiungeva: «Non l’uomo, ancora una volta, non
    l’uomo, mai l’uomo. Le società umane, i gruppi
    organizzati» [ibid.]. Marc Bloch pensava poi alle relazioni
    che intrattengono, nella storia, passato e presente. Riteneva in
    effetti che la storia debba non soltanto permettere di
    «comprendere il presente mediante il passato» –
    atteggiamento tradizionale – ma anche di «comprendere il
    passato mediante il presente» [1941-42, trad. it. pp. 50, 54].
    Affermando risolutamente il carattere scientifico, astratto, del
    lavoro storico, Marc Bloch negava che questo lavoro fosse
    strettamente tributario della cronologia: l’errore grave, in
    effetti, consisterebbe nel credere che l’ordine adottato dagli
    storici nelle loro indagini debba necessariamente modellarsi su
    quello degli avvenimenti. Salvo poi a restituire alla storia il suo
    movimento vero, essi avranno vantaggio a incominciare col leggerla,
    come diceva Maitland, «a ritroso». Donde l’interesse per
    «un metodo prudentemente regressivo» [ibid., p. 55].
    «Prudentemente», cioè che non trasporta
    ingenuamente il presente nel passato e che non percorre a ritroso un
    tragitto lineare che sarebbe tanto illusorio quanto nel senso
    contrario. Vi sono delle rotture, delle discontinuità che non
    si possono saltare, sia in un senso sia nell’altro.
    
    L’idea che la storia sia dominata dal presente riposa in gran parte
    su una frase celebre di Benedetto Croce, il quale dichiara che
    «ogni storia» è «storia
    contemporanea». Croce intende dire con ciò che
    «remoti e remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti
    che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre
    riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei
    fatti propagano le loro vibrazioni» [1938, p. 5]. Infatti,
    Croce pensa che dal momento che gli avvenimenti storici possono
    costantemente essere ripensati, essi non sono «nel
    tempo»; la storia è la «conoscenza dell’eterno
    presente» [Gardiner 1952]. Cosí questa forma estrema di
    idealismo è la negazione della storia. Come ha ben visto
    Carr, Croce ha ispirato la tesi di Collingwood, esposta in The Idea
    of History [1932], raccolta postuma di articoli nella quale lo
    storico britannico afferma – mescolando i due significati di storia,
    l’indagine dello storico e la serie degli avvenimenti passati sui
    quali indaga – che la «storia non tratta né del
    “passato in quanto tale” né delle “concezioni dello storico
    in quanto tali” ma di “entrambi i termini visti nei loro rapporti
    reciproci”» [Carr 1961, trad. it. p. 26]. Concezione al tempo
    stesso feconda e pericolosa. Feconda perché è vero che
    lo storico parte dal suo presente per porre delle domande al
  passato.
Pericolosa perché, se il passato ha nonostante tutto un’esistenza rispetto al presente, è vano credere a un passato indipendente da quello che lo storico costituisce (si veda il supplemento 16 di «History and Theory», The Constitution of the Historical Past, 1977). Questa considerazione condanna tutte le concezioni di un passato «ontologico», come è espresso, per esempio, dalla definizione della storia di Emile Callot: «Una narrazione intelligibile di un passato definitivamente trascorso» [1962, p. 32]. Il passato è una costruzione e una reinterpretazione costante e ha un avvenire che fa parte integrante e significativa della storia. Ciò è vero in un duplice senso. Anzitutto perché il progresso dei metodi e delle tecniche permette di pensare che una parte importante dei documenti del passato sia ancora da scoprire. Parte materiale: l’archeologia scopre incessantemente dei monumenti nascosti del passato, gli archivi del passato continuano senza tregua ad arricchirsi. Ma anche nuove letture di documenti, frutto di un presente che nascerà nel futuro, devono assicurare una sopravvivenza – o meglio, una vita – al passato che non è «definitivamente trascorso».
Al rapporto essenziale
    presente-passato bisogna dunque aggiungere l’orizzonte del futuro.
    Qui ancora i significati sono molteplici. Le teologie della storia
    l’hanno subordinata a uno scopo definito come il suo fine, il suo
    completamento e la sua rivelazione. È vero della storia
    cristiana, segnata dall’escatologia; lo è anche per il
    materialismo storico – nella sua versione ideologica – che basa su
    una scienza del passato un desiderio di avvenire che non dipende
    soltanto dalla fusione di un’analisi scientifica della storia
    passata e di una prassi rivoluzionaria chiarita da questa analisi.
    Uno dei compiti della scienza storica è quello d’introdurre,
    in modo non ideologico e rispettando l’imprevedibilità
    dell’avvenire, l’orizzonte del futuro nella sua riflessione [Erdmann
    1964; Schulin 1973]. Si pensi semplicemente a questa constatazione
    banale ma gravida di conseguenze. Un elemento essenziale degli
    storici dei periodi antichi è che essi sanno quello che
    è accaduto dopo.
    
    Gli storici del tempo presente lo ignorano. La storia propriamente
    contemporanea differisce cosí (sono anche altre le ragioni di
    questa differenza) dalla storia delle epoche precedenti.
    
    Questa dipendenza della storia dal passato rispetto al presente deve
    indurre lo storico ad alcune precauzioni. Essa è inevitabile
    e legittima nella misura in cui il passato non cessa di vivere e di
    farsi presente. Ma questa lunga durata del passato non deve impedire
    allo storico di prendere le sue distanze dal passato, distanze
    reverenziali, necessarie per rispettarlo e per evitare
    l’anacronismo.
    
    Io penso in definitiva che la storia sia la scienza del passato, a
    condizione di sapere che questo passato diventa oggetto della storia
    attraverso una ricostituzione incessantemente rimessa in causa. Non
    si può, per esempio, parlare di crociate come lo si sarebbe
    fatto prima del colonialismo del XIX secolo, ma occorre domandarsi
    se e in quali prospettive il termine ‘colonialismo’ si applichi
    all’insediarsi dei crociati del medioevo in Palestina [Prawer
    1969-70].
    
    Questa interazione tra passato e presente è ciò che
    è stato chiamato la funzione sociale del passato o della
    storia.
    
    Cosí Lucien Febvre [1949]: la storia «raccoglie
    sistematicamente, classificando e raggruppando i fatti passati, in
    funzione dei suoi bisogni presenti. Solo in funzione della vita essa
    interroga la morte… Organizzare il passato in funzione del presente:
    tale si potrebbe definire la funzione sociale della storia»
    (trad. it. pp. 185-86). Ed Eric Hobsbawm si è interrogato
    sulla «funzione sociale del passato» [1972].
    
    Si farà ora qualche esempio di come ciascuna epoca si
    fabbrica mentalmente la sua rappresentazione del passato storico.
    
    Da Georges Duby [1973] viene risuscitata, ricreata la battaglia di
    Bouvines (27 luglio 1214), vittoria decisiva del re di Francia
    Filippo Augusto sull’imperatore Ottone IV e i suoi alleati.
    Orchestrata dagli storiografi francesi e divenuta leggendaria, la
    battaglia dopo il XIII secolo cade nell’oblio; poi conosce delle
    risurrezioni, nel XVII secolo perché si esaltano i ricordi
    della monarchia francese, sotto la Monarchia di luglio perché
    gli storici liberali e borghesi (Guizot, Augustin Thierry) vi
    scorgono l’alleanza benefica tra regalità e popolo, tra il
    1871 e il 1914 come «prima vittoria dei Francesi sui
    Tedeschi»! Dopo il 1945 Bouvines cade nel disprezzo
    dell’histoire-bataille.
    
    Nicole Loraux e Pierre Vidal-Naquet hanno mostrato come in Francia
    dal 1750 al 1850, da Montesquieu fino a Victor Duruy si costruisca
    una immagine «borghese» dell’Atene antica, le cui
    principali caratteristiche sarebbero state «rispetto della
    proprietà, rispetto della vita privata, fioritura del
    commercio, del lavoro, dell’industria», e dove si ritrovano
    anche le esitazioni della borghesia del XIX secolo:
    «Repubblica o Impero? Impero autoritario? Impero liberale?
    Atene assume simultaneamente tutte queste figure» [Loraux e
    Vidal-Naquet 1979, pp. 207-8, 222]. Tuttavia, Zvi Yavetz,
    domandandosi perché Roma era stata il modello storico della
    Germania all’inizio del XIX secolo, rispondeva: «Perché
    il conflitto tra signori e contadini prussiani, arbitrato dopo Jena
    (1806) dall’intervento riformista dello Stato sotto l’impulso degli
    statisti prussiani, forniva un modello che si credeva ritrovare
    nella storia della Roma antica: Niebuhr, autore della Römische
    Geschichte, apparsa nel 1811-12, era uno stretto collaboratore del
    ministro prussiano Stein» [1976, pp. 289-90].
    
    Philippe Joutard [1977] ha seguito a passo a passo la memoria del
    sollevamento popolare dei camisardi ugonotti nelle Cevenne
    all’inizio del XVIII secolo. Nella storiografia scritta una svolta
    avviene verso il 1840. Fino ad allora gli storici, sia cattolici sia
    protestanti, non avevano che disprezzo per questa rivolta di
    contadini. Ma con l’Histoire des pasteurs du désert di
    Napoléon Peyrat (1843), Les Prophètes protestants di
    Ami Bost (1842) e poi con l’Histoire de France di Michelet
    (1833-67), si sviluppa una leggenda dorata dei camisardi, alla quale
    si oppone una leggenda nera cattolica. Questa opposizione si
    alimenta esplicitamente sulle passioni politiche della seconda
    metà del XIX secolo, facendo scontrare sostenitori del
    movimento e sostenitori dell’ordine, i quali fanno dei camisardi gli
    antenati di tutte le rivolte del XIX secolo, dei pionieri della
    «eterna armata del disordine», «i primi precursori
    dei demolitori della Bastiglia», i precursori dei comunardi e
    dei «socialisti attuali, loro discendenti diretti», con
    i quali «avrebbero reclamato il diritto al saccheggio,
    all’omicidio, all’incendio, in nome della libertà di
    sciopero». Tuttavia, in un altro tipo di memoria, trasmessa
    attraverso la tradizione orale, che secerne «un’altra
    storia», Philippe Joutard ha trovato una leggenda positiva e
    vivente dei camisardi, ma anch’essa agente in rapporto con il
    presente, che fa dei rivoltosi del 1702 «i laici e i
    repubblicani» della fine del regno di Luigi XIV. Poi il
    risveglio regionalista li trasforma in ribelli occitani e la
    Resistenza in maquisards.
    
    È anche in funzione di posizioni e di idee contemporanee che
    è nata in Italia dopo la prima guerra mondiale una polemica
    sul medioevo (Falco, Severino). Recentemente ancora il medievalista
    Ovidio Capitani ha evocato la distanza e la prossimità del
    medioevo in una raccolta di saggi dal titolo significativo, Medioevo
    passato prossimo: «L’attualità del medioevo è
    questa: sapere di non poter fare a meno di cercare dio là
    dove non c’è… Il Medioevo è “attuale” proprio
    perché è passato: ma passato come elemento che si
    è attaccato alla nostra storia in maniera definitiva, per
    sempre, e ci obbliga a tenere conto, perché racchiude un
    formidabile complesso di risposte che comunque l’uomo ha dato e non
    può dimenticare, anche se ne ha verificato l’inadeguatezza.
    L’unica sarebbe abolire la storia…» [1979, p. 276].
    
    Cosí la storiografia appare come un seguito di nuove letture
    del passato, piena di perdite e di risurrezioni, di vuoti di memoria
    e di revisioni. Questi aggiornamenti possono cosí influire
    sul vocabolario dello storico e, con anacronismi concettuali e
    verbali, falsare gravemente la qualità del suo lavoro. E
    cosí che in esempi concernenti la storia inglese ed europea
    tra il 1450 e il 1650, e a proposito di termini come ‘partito’,
    ‘classe’, ecc., Hexter ha reclamato una grande e rigorosa revisione
    del vocabolario storico.
    
    Collingwood ha visto in questo rapporto tra il passato e il presente
    l’oggetto privilegiato della riflessione dello storico sul suo
    lavoro: «Il passato è un aspetto o una funzione del
    presente; è cosí che deve sempre apparire allo storico
    che riflette intelligentemente sul proprio lavoro o, in altri
    termini, guarda a una filosofia della storia» [cfr. Debbins
    1965, p. 139].
    
    Questo rapporto tra il presente e il passato nel discorso sulla
    storia è in ogni caso un aspetto essenziale del problema
    tradizionale della obiettività storica.
    
    1.2. Sapere e potere: obiettività e manipolazione del
    passato. 
    
    Secondo Heidegger, la storia sarebbe non soltanto proiezione, da
    parte dell’uomo del presente, nel passato, ma proiezione della parte
    piú immaginaria del suo presente, la proiezione nel passato
    dell’avvenire che si è scelto, una storia romanzata, una
    storia-desiderio a ritroso. Paul Veyne ha ragione di condannare
    questo punto di vista e di dire che Heidegger «non fa che
    elevare a filosofia antintellettualista la storiografia nazionalista
    del secolo scorso». Ma non è forse ottimista quando
    aggiunge: «Cosí facendo, come la civetta di Minerva,
    egli si è risvegliato un po’ troppo tardi» [1968, p.
    424]?
    
    Anzitutto perché vi sono due storie almeno, e su questo
    ritornerò: quella della memoria collettiva e quella degli
    storici. La prima appare come essenzialmente mitica, deformata,
    anacronica. Ma essa è il vissuto di questo rapporto mai
    concluso tra il presente e il passato. È augurabile che
    l’informazione storica prodigata dagli storici di mestiere,
    volgarizzata dalla scuola e – almeno cosí dovrebbe essere –
    dai mass media, corregga questa storia tradizionale falsata. La
    storia deve rischiarare la memoria e aiutarla a rettificare i suoi
    errori. Ma lo storico stesso è indenne da una malattia se non
    del passato, quanto meno del presente e forse da una immagine
    inconscia di un futuro sognato?
    
    Una prima distinzione deve essere fatta tra obiettività e
    imparzialità: «L’imparzialità è
    deliberata, l’obiettività inconsapevole. Lo storico non ha il
    diritto di perseguire una dimostrazione a dispetto delle
    testimonianze, di difendere una causa, qualunque essa sia. Egli deve
    stabilire e rendere manifesta la verità o ciò che
    crede essere la verità. Ma gli è impossibile essere
    obiettivo, fare astrazione dalle sue concezioni dell’uomo,
    specialmente quando si tratta di misurare l’importanza dei fatti e
    le loro relazioni causali» [Génicot 1980, p. 112].
    
    Bisogna spingersi piú lontano. Se bastasse questa distinzione
    il problema dell’obiettività non sarebbe, secondo
    l’espressione di Carr, «a famous crux» che ha fatto
    versare molto inchiostro. [Si vedano specialmente Junker e Reisinger
    1974; Leff 1969, pp. 120-29; Passmore 1958; Blake 1959].
    
    Si segnaleranno anzitutto le incidenze dell’ambiente sociale sulle
    idee e i metodi dello storico. Wolfgang J. Mommsen ha rilevato tre
    elementi di questa pressione sociale: «1) L’immagine che di
    sé (self-image) ha il gruppo sociale del quale lo storico
    è l’interprete o al quale appartiene o è infeudato. 2)
    La sua concezione delle cause del mutamento sociale. 3) Le
    prospettive di mutamenti sociali a venire che lo storico giudica
    probabili o possibili e che orientano la sua interpretazione
    storica» [1978, p. 23].
    
    Ma se non si può evitare ogni «presentismo» –
    ogni influenza deformante del presente sulla lettura del passato –
    se ne possono limitare le conseguenze nefaste per
    l’obiettività. Anzitutto, e ritornerò su questo punto
    capitale, perché esiste un corpo di specialisti abilitati a
    esaminare e giudicare la produzione dei loro colleghi.
    «Tucidide non è un collega», ha detto
    giudiziosamente Nicole Loraux [1980], mostrando che la sua Guerra
    del Peloponneso, benché si presenti a noi come un documento,
    che dà ogni garanzia di serietà al discorso storico,
    non è un documento nel senso moderno del termine, ma un
    testo, un testo antico, che è anzitutto un discorso
    appartenente anche all’ambito della retorica. Ma mostrerò
    piú avanti – come ben sa Nicole Loraux – che ogni documento
    è un monumento o un testo, e non è mai
    «puro», cioè puramente obiettivo. Resta il fatto
    che da quando vi è storia vi è accesso a un mondo di
    professionisti, esposizione alla critica degli altri storici. Quando
    un pittore dice del quadro di un altro pittore «È fatto
    male», uno scrittore dell’opera di un altro scrittore
    «È scritta male», nessuno s’inganna; ciò
    vuol dire soltanto «Non mi piace». Ma quando uno storico
    critica l’opera di un «collega» può certo
    ingannarsi e una parte del suo giudizio può dipendere dal suo
    gusto personale, ma la critica sarà fondata, almeno in parte,
    su criteri «scientifici». Dall’alba della storia
    è sul metro della verità che si giudica lo storico. A
    torto o a ragione Erodoto passa a lungo per «bugiardo»
    [Momigliano 1958; cfr. anche Hartog 1980] e Polibio nel libro XII
    delle sue Storie, nel quale espone le proprie idee sulla storia,
    attacca soprattutto un «confratello», Timeo.
    
    Come ha detto Wolfgang J. Mommsen, le opere storiche, i giudizi
    storici sono «intersoggettivamente comprensibili» e
    «intersoggettivamente verificabili». Questa
    intersoggettività è costituita dal giudizio degli
    altri, e anzitutto da quello degli altri storici. Mommsen rileva tre
    modi di verifica: 1) sono state utilizzate fonti pertinenti e
    l’ultimo stadio della ricerca è stato preso in
    considerazione? 2) fino a che punto questi giudizi storici si sono
    avvicinati a una integrazione ottimale di tutti i dati storici
    possibili? 3) i modelli espliciti o soggiacenti di spiegazione sono
    rigorosi, coerenti e non contraddittori? [1978, p. 33]. Si
    potrebbero trovare anche altri criteri, ma la possibilità di
    un largo accordo degli specialisti sul valore di una gran parte di
    ogni opera storica è la prova prima della sua
    «scientificità» e la prima pietra di paragone
    dell’obiettività storica.
    
    Se tuttavia si vuole applicare alla storia la massima del grande
    giornalista liberale Scott, «i fatti sono sacri, i giudizi
    sono liberi» [citato in Carr 1961, trad. it. p. 14], bisogna
    fare due rilievi. Il primo è che il campo dell’opinione
    è in storia meno vasto di quanto il profano creda, se si
    resta nel campo della storia scientifica (si parlerà
    piú avanti della storia dei dilettanti, degli
    «appassionati»); il secondo è che, in cambio, i
    fatti sono molto meno sacri di quanto non si creda, dato che se
    fatti ben stabiliti (per esempio la morte di Giovanna d’Arco sul
    rogo a Rouen nel 1431, della quale dubitano solo i mistificatori e
    gli ignoranti incalliti) non possono essere negati, in storia il
    fatto non è la base essenziale dell’obiettività, sia
    perché i fatti storici sono fabbricati e non dati, sia
    perché in storia l’obiettività non significa pura
    sottomissione ai fatti.
    
    Sulla costruzione del fatto storico si troveranno delle messe a
    punto in tutti i trattati di metodologia storica [per esempio Salmon
    1969, ed. 1976, pp. 46-48; Carr 1961, trad. it. pp. 11-35; Topolski
    1973, parte V]. Si citerà solo Lucien Febvre nella sua
    celebre prolusione al Collège de France [1933]: «Non
    dato, ma creato dallo storico – e quante volte? Inventato e
    fabbricato per mezzo di ipotesi e di congetture, per mezzo di un
    lavoro delicato e appassionante… Elaborare un fatto significa
    costruirlo. Se si vuole, fornire la risposta a un problema. E, se
    non c’è il problema, ciò significa che non c’è
    niente» (trad. it. pp. 73-74). Non vi è fatto o fatto
    storico che all’interno di una storia-problema.
    
    Che l’obiettività non sia la pura sottomissione ai fatti,
    ecco altre due testimonianze. Anzitutto Max Weber [1904]: «Un
    caos di “giudizi esistenziali” sopra infinite osservazioni
    particolari sarebbe il solo esito a cui potrebbe recare il tentativo
    di una conoscenza della realtà che fosse seriamente “priva di
    presupposti”» (trad. it. p. 92). Carr [1961] parla con humour
    del «feticismo dei fatti» degli storici positivisti del
    XIX secolo: «Ranke aveva una pia fiducia nel fatto che la
    divina provvidenza si sarebbe presa cura del senso della storia se
    egli si fosse preso cura dei fatti… La concezione della storia
    propria del liberalismo ottocentesco mostra strette affinità
    con la dottrina economica del laissezfaire… Era l’età
    dell’innocenza, e gli storici vagavano per il giardino dell’Eden…
    ignudi e senza vergogna dinanzi al dio della storia. Dopo di allora,
    abbiamo conosciuto il Peccato e abbiamo vissuto l’esperienza della
    Caduta: e gli storici che, al giorno d’oggi, fingono di fare a meno
    di una filosofia della storia [considerata qui nel senso di una
    riflessione critica sulla pratica storica], cercano semplicemente di
    ricreare, con l’artificiosa ingenuità dei membri di una
    colonia nudista, il giardino dell’Eden in un parco di
    periferia» (trad. it. pp. 24-25).
    
    Se l’imparzialità non richiede da parte dello storico che
    onestà, l’obiettività vuole di piú. Se la
    memoria è un luogo del potere, se autorizza manipolazioni
    consapevoli o inconsapevoli, se obbedisce a interessi individuali o
    collettivi, la storia, come tutte le scienze, ha per norma la
    verità. Gli abusi della storia sono il fatto dello storico
    solo quando diventa egli stesso un partigiano, un politico o un
    valletto del potere politico [Schieder 1978; Faber 1978]. Quando
    Paul Valéry dichiara che «la storia è il
    prodotto piú pericoloso che la chimica dell’intelletto abbia
    elaborato… La storia giustifica ciò che si vuole. Essa non
    insegna rigorosamente nulla, perché contiene tutto e offre
    esempi di tutto» [1931, pp. 63-64], questo spirito, per altri
    versi cosí acuto, confonde la storia umana e la storia
    scientifica e mostra la sua ignoranza del lavoro storico.
    
    Anche se mostra un po’ di ottimismo, Paul Veyne ha ragione quando
    scrive: «Significa non comprendere nulla della conoscenza
    storica e della scienza in generale non vedere che in essa è
    sottesa una norma di veracità… Assimilare la storia
    scientifica ai ricordi nazionali dai quali è uscita significa
    confondere l’essenza di una cosa con la sua origine; significa non
    distinguere la chimica dall’alchimia, l’astronomia dall’astrologia…
    Fin dal primo giorno… la storia degli storici si definisce contro la
    funzione sociale dei ricordi storici e si pone come appartenente a
    un ideale di verità e a un interesse di pura
    curiosità» [1968, p. 424].
    
    Scopo ambizioso, l’obiettività storica si costruisce a poco a
    poco, attraverso le revisioni incessanti del lavoro storico, le
    laboriose rettifiche successive, l’accumulazione delle verità
    parziali. Sono stati forse due filosofi a esprimere meglio questa
    lenta marcia verso l’obiettività.
    
    Paul Ricœur: «Noi ci aspettiamo dalla storia una certa
    obiettività, l’obiettività che le conviene; il modo in
    cui la storia nasce e rinasce ce lo attesta: essa procede sempre
    dalla rettifica della sistemazione ufficiale e pragmatica del loro
    passato operata dalle società tradizionali. Questa rettifica
    non ha uno spirito diverso da quello che la scienza fisica
    rappresenta nei confronti della prima sistemazione delle apparenze
    nella percezione e nelle cosmologie che le restano tributarie»
    [1955, pp. 24-25].
    
    E Adam Schaff [1970]: «La conoscenza si configura… come un
    processo, infinito che, perfezionando il sapere sotto aspetti
    diversi e raccogliendo verità parziali, non produce una
    semplice somma di conoscenze, mutamenti solo quantitativi del
    sapere, ma anche, e necessariamente, modificazioni qualitative della
    nostra visione della storia» (trad. it. p. 254).
    
    1.3. Il singolare e l’universale: generalizzazioni e
    regolarità della storia.
    
    La piú flagrante contraddizione della storia è senza
    dubbio costituita dal fatto che il suo oggetto è singolare,
    un avvenimento, un seguito di avvenimenti, dei personaggi che non si
    producono che una sola volta, mentre il suo scopo, come quello di
    tutte le scienze, è di cogliere l’universale, il generale, il
    regolare.
    
    Già Aristotele aveva respinto la storia dal novero delle
    scienze proprio perché si occupa del particolare, che non
    è oggetto di scienza. Ciascun fatto storico non è
    accaduto che una volta e non accadrà che una volta. Questa
    singolarità costituisce anche per molti – produttori e
    consumatori di storia – la sua principale attrazione: «Amare
    ciò che mai si vedrà due volte».
    
    La spiegazione storica deve trattare oggetti «unici»
    [Gardiner 1952, II, 3]. Le conseguenze di questo riconoscimento
    della singolarità del fatto storico possono essere ridotte a
    tre; esse hanno avuto un ruolo considerevole nella storia della
    storia.
    
    La prima è costituita dalla priorità dell’avvenimento.
    Se si pensa in effetti che il lavoro storico consiste nello
    stabilire degli avvenimenti, basta applicare ai documenti un metodo
    che dai medesimi faccia scaturire gli avvenimenti. Cosí
    Dibble [1963] ha distinto quattro tipi d’inferenza che portano dai
    documenti agli avvenimenti, in funzione della natura dei documenti,
    i quali possono essere: testimonianze individuali (testimony), fonti
    collettive (social bookkeeping), indicatori diretti (direct
    indicators), correlati (correlates). Questo eccellente metodo non ha
    che il torto di fissarsi un obiettivo contestabile. Vi è
    anzitutto una confusione tra avvenimento e fatto storico, e si sa
    oggi che lo scopo della storia non consiste nello stabilire quei
    dati falsamente «reali» che sono stati battezzati
    avvenimenti o fatti storici.
    
    La seconda conseguenza della limitazione della storia alla
    singolarità sta nel privilegiare il ruolo degli individui e,
    piú particolarmente, dei grandi uomini. Edward H. Carr ha
    mostrato come questa tendenza risalga, nella tradizione occidentale,
    ai Greci, che hanno attribuito le loro piú antiche epopee e
    le loro prime leggi a individui ipotetici (Omero, Licurgo e Solone),
    e si sia rinnovata nel Rinascimento con la moda di Plutarco; egli
    ritrova poi ciò che chiama scherzosamente «la teoria
    del “cattivo re Giovanni” [senza Terra]» (the bad King John
    theory of history) nell’opera di Isaiah Berlin Historical
    Inevitability (1954) [Carr 1961, trad. it. p. 52]. Questa
    concezione, che è praticamente scomparsa dalla storia
    scientifica, resta sfortunatamente diffusa a opera dei
    volgarizzatori e dei media, a cominciare dagli editori. Non confondo
    la spiegazione volgare della storia come fatta dagli individui con
    il genere biografico, che – nonostante i suoi errori e le sue
    mediocrità – è uno dei generi maggiori della storia e
    ha prodotto dei capolavori storiografici come il Kaiser Friedrich
    der Zweite di Ernst Kantorowicz (1927-31). Carr ha ragione di
    rammentare ciò che Hegel diceva dei grandi uomini:
    «Gl’individui cosmico-storici sono… quelli che hanno voluto e
    realizzato non un oggetto della loro fantasia od opinione, ma una
    realtà giusta e necessaria: quelli che sanno, avendone avuto
    la rivelazione nel loro intimo, quel che è ormai il portato
    del tempo e della necessità» [Hegel 1805-31, trad. it.
    p. 88].
    
    A dire il vero, come ha ben detto Michel de Certeau [1975], la
    specialità della storia è sí il particolare, ma
    il particolare, come ha mostrato Elton [1967], è differente
    dall’individuale e specifica sia l’attenzione che la ricerca
    storica, non in quanto esso sia oggetto pensato ma perché, al
    contrario, è il limite del pensabile.
    
    La terza conseguenza abusiva tratta dal ruolo del particolare nella
    storia è stata di ridurla a una narrazione, a un racconto.
    Augustin Thierry, come ricorda Roland Barthes, è stato uno
    dei sostenitori – in apparenza tra i piú ingenui – di questa
    credenza nelle virtú del racconto storico: «È
    stato detto che lo scopo dello storico era quello di raccontare, non
    di provare; non so, ma sono certo che in storia il miglior genere di
    prova, il piú capace di colpire e di convincere gli spiriti,
    il genere che permette la minore diffidenza e lascia i minori dubbi,
    è la narrazione completa» [1840, ed. 1851, II, p. 227].
    Ma che cosa vuol dire completa? Si tralasci il fatto che un racconto
    – storico o non – è una costruzione che, sotto un’apparenza
    onesta e obiettiva, procede da tutta una serie di scelte non
    esplicite. Ogni concezione della storia che la identifichi con il
    racconto mi pare oggi inaccettabile. Certo, la successività
    che costituisce la stoffa del materiale della storia obbliga ad
    accordare al racconto un posto che pare soprattutto di ordine
    pedagogico. È semplicemente la necessità in storia di
    esporre il come, prima di ricercare il perché, che pone il
    racconto alla base della logica del lavoro storico. Il racconto non
    è dunque che una fase preliminare, anche se ha richiesto allo
    storico un lungo lavoro preparatorio. Ma questo riconoscimento di
    un’indispensabile retorica della storia non deve condurre alla
    negazione del carattere scientifico della storia stessa.
    
    In un libro affascinante, Hayden White [1973] ha considerato l’opera
    dei principali storici del secolo XIX come una pura forma retorica,
    un discorso narrativo in prosa. Per giungere a spiegare, o piuttosto
    per raggiungere un «effetto di spiegazione», gli storici
    hanno la scelta fra tre strategie: spiegazione mediante argomento
    formale, per intreccio (emplotment) e per implicazione ideologica.
    All’interno di queste vi sono quattro modi di articolazione
    possibili per raggiungere l’effetto esplicativo: per gli argomenti
    vi è il formalismo, l’organicismo, il meccanicismo e il
    contestualismo; per gli intrecci, il romanzo, la commedia, la
    tragedia e la satira; per l’implicazione ideologica, l’anarchismo,
    il conservatorismo, il radicalismo e il liberalismo. La combinazione
    specifica dei modi di articolazione ha per risultato lo
    «stile» storiografico dei singoli autori. Questo stile
    è ottenuto con un atto essenzialmente poetico, per il quale
    Hayden White utilizza le categorie aristoteliche della metafora,
    della metonimia, della sineddoche e dell’ironia. Egli applica questa
    griglia a quattro storici: Michelet, Ranke, Tocqueville e
    Burckhardt, e a quattro filosofi della storia: Hegel, Marx,
    Nietzsche e Croce.
    
    Il risultato di questa indagine è anzitutto la constatazione
    che le opere dei principali filosofi della storia del XIX secolo
    differiscono da quelle dei loro corrispondenti nel campo della
    «storia propriamente detta» solo per l’enfasi, non per
    il contenuto. Risponderò subito a questa constatazione che
    Hayden White non ha fatto altro che scoprire la relativa
    unità di stile di un’epoca e ritrovare ciò che Taine
    aveva rilevato in una prospettiva ancora piú vasta per il
    XVII secolo: «Tra un pergolato di Versailles, un ragionamento
    filosofico di Malebranche, un precetto di versificazione di Boileau,
    una legge di Colbert sulle ipoteche, una sentenza di Bossuet sul
    regno di Dio, la distanza sembra infinita, i fatti sono cosí
    dissimili che al primo sguardo li si giudica isolati e separati. Ma
    i fatti comunicano tra loro attraverso la definizione dei gruppi nei
    quali sono compresi» [citato in Ehrard e Palmade 1964, p. 72].
    
    Vi è poi la caratterizzazione degli otto autori scelti nel
    modo seguente: Michelet è il realismo storico come romanzo,
    Ranke il realismo storico come commedia, Tocqueville il realismo
    storico come tragedia, Burckhardt il realismo storico come satira,
    Hegel la poetica della storia e la via al di là dell’ironia,
    Marx la difesa filosofica della storia secondo il modo metonimico,
    Nietzsche la difesa poetica della storia secondo il modo metaforico
    e Croce la difesa filosofica della storia secondo il modo ironico.
    
    Quanto alle sette conclusioni generali sulla coscienza storica del
    XIX secolo, alle quali perviene Hayden White, esse possono
    riassumersi in tre idee: 1) non vi è alcuna differenza
    fondamentale tra storia e filosofia della storia; 2) la scelta delle
    strategie di spiegazione storica è di ordine morale o
    estetica piú che epistemologica; 3) la rivendicazione di una
    scientificità della storia non è che il travestimento
    di una preferenza per questa o quella modalità di
    concettualizzazione storica.
    
    Infine, la conclusione piú generale – anche al di là
    della concezione della storia nel XIX secolo – è che l’opera
    dello storico è una forma di attività intellettuale al
    tempo stesso poetica, scientifica e filosofica.
    
    Sarebbe troppo facile ironizzare – soprattutto a partire dallo
    scheletrico sunto che ho dato di un libro pieno di suggestive
    analisi di dettaglio – su questa concezione della
    «metastoria», sui suoi a priori e i suoi semplicismi.
    
    Vi scorgo due possibilità interessanti di riflessione. La
    prima è che egli ha contribuito a chiarire la crisi dello
    storicismo alla fine del XIX secolo, della quale si parlerà
    piú avanti. La seconda è che egli permette di porre –
    su un esempio storico – il problema dei rapporti tra la storia come
    scienza, come arte e come filosofia.
    
    Mi sembra che questi rapporti si definiscano anzitutto storicamente
    e che là dove Hayden White vede una specie di natura
    intrinseca, vi sia la situazione storica di una disciplina e che si
    possa dire sommariamente che la storia, intimamente mescolata fino
    alla fine del XIX secolo all’arte e alla filosofia, si sforzi e
    riesca parzialmente a essere sempre piú specifica, tecnica,
    scientifica e meno letteraria e filosofica.
    
    Bisogna comunque rilevare che alcuni dei piú grandi storici
    di oggi rivendicano ancora per la storia il carattere di arte.
    Cosí Georges Duby: «Ritengo che la storia sia anzitutto
    un’arte, un’arte essenzialmente letteraria. La storia esiste solo
    con il discorso. Perché sia buona, bisogna che sia buono il
    discorso» [Duby e Lardreau 1980, p. 50]. Ma d’altronde egli
    afferma anche: «La storia, se deve essere, non può
    essere libera: può benissimo essere un modo del discorso
    politico, ma non deve essere una propaganda; può ben essere
    un genere letterario, ma non deve essere della letteratura»
    [ibid., pp. 15-16]. È dunque chiaro che l’opera storica non
    è un’opera d’arte come le altre, che il discorso storico ha
    la sua specificità.
    
    La questione è stata ben posta da Roland Barthes: «La
    narrazione degli avvenimenti passati, sottoposta comunemente nella
    nostra cultura, a partire dai Greci, alla sanzione della “scienza”
    storica, collocata sotto la cauzione imperiosa del “reale”,
    giustificata da principî di esposizione “razionale”,
    differisce veramente per qualche tratto specifico, per una
    pertinenza indubitabile, dalla narrazione immaginaria quale si
    può trovare nell’epopea, nel romanzo, nel dramma?»
    [1967, p. 65]. Alla questione Emile Benveniste [1959] aveva risposto
    insistendo sull’intenzione dello storico: «L’enunciazione
    storica degli avvenimenti è indipendente dalla loro
    verità “oggettiva”. Conta soltanto l’intenzione “storica”
    dello scrittore» (trad. it. p. 298, nota 5).
    
    La risposta di Roland Barthes, in termini di linguistica, è
    che «nella storia “oggettiva”, il “reale” non è mai che
    un significato informulato, protetto dietro l’onnipotenza apparente
    del referente. Questa situazione definisce ciò che si
    potrebbe chiamare l’effetto di reale… il discorso storico non segue
    da vicino il reale, non fa che significarlo, senza cessare di
    ripetere è accaduto, senza che questa asserzione possa mai
    essere altro che il significato inverso di tutta la narrazione
    storica» [1967, p. 74]. Barthes termina il suo intervento
    spiegando il decadere della storia-racconto, oggi, con la ricerca di
    una maggiore scientificità: «Cosí si comprende
    che la cancellazione (se non la scomparsa) della narrazione nella
    scienza storica attuale, che cerca di parlare delle strutture
    piú che delle cronologie, implica ben piú di un
    semplice cambiamento di scuole, una vera trasformazione ideologica:
    la narrazione storica muore perché il segno della storia
    è ormai meno il reale che l’intelligibile» [ibid., p.
    75].
    
    Su un’altra ambiguità del termine ‘storia’, che nella maggior
    parte delle lingue designa la scienza storica e un racconto
    immaginario, la storia e una storia (l’inglese, s’è detto,
    distingue story e history [cfr. Gallie 1963, pp. 150-72]), Paul
    Veyne ha fondato una visione originale della storia.
    
    Per lui la storia è sí un racconto, una narrazione, ma
    è «racconto di avvenimenti veri» [1971, trad. it.
    p. 23]. Essa s’interessa a una forma particolare di
    singolarità, di individualità che è lo
    specifico: «La storia s’interessa ad avvenimenti
    individualizzati di cui nessuno è inutile ripetizione di un
    qualsiasi altro, è però vero anche che non è la
    loro individualità in quanto tale che la interessa. Essa
    cerca di comprenderli, vale a dire di ritrovarvi una sorta di
    generalità, o piú precisamente, di
    specificità» [ibid., p. 102]; e ancora: «La
    storia è la descrizione di ciò che è specifico
    – vale a dire comprensibile – negli avvenimenti umani» [ibid.,
    p. 106]. La storia rassomiglia dunque a un romanzo. Essa è
    fatta di intrecci. Si vede ciò che questa nozione ha
    d’interessante nella misura in cui essa preserva la
    singolarità senza farla cadere nel disordine, rifiuta il
    determinismo ma implica una certa logica, valorizza il ruolo dello
    storico che «costruisce» il suo studio storico come un
    romanziere la sua «storia».
    
    Agli occhi di chi scrive tale nozione ha il torto di far credere che
    lo storico abbia la stessa libertà del romanziere e che la
    storia non sia affatto una scienza, ma – per quante precauzioni
    prenda Veyne – un genere letterario; essa appare come una scienza
    che ha – il che è banale ma bisogna pur dirlo – sia i
    caratteri di tutte le scienze, sia dei caratteri specifici.
    
    Una prima precisazione. Di fronte ai sostenitori della storia
    positivista che hanno creduto di poter bandire ogni immaginazione, e
    anche ogni «idea», dal lavoro storico, numerosi storici
    e teorici della storia hanno rivendicato e rivendicano ancora il
    diritto all’immaginazione.
    
    William Dray ha anche definito la «rappresentazione
    immaginativa» (imaginative re-enactment) del passato come una
    forma di spiegazione razionale. La «simpatia» che
    permette di sentire e di far sentire un fenomeno storico non
    sarà dunque che un procedimento di esposizione [Dray 1957;
    cfr. Beer 1963]. Gordon Leff ha opposto la ricostruzione
    immaginativa dello storico al procedimento dello specialista delle
    scienze della natura: «Lo storico, a differenza di chi opera
    nel campo delle scienze naturali, deve crearsi il proprio quadro per
    valutare gli avvenimenti di cui si occupa; egli deve fare una
    ricostruzione immaginativa di ciò che, per sua natura, non
    era reale, ma era piuttosto contenuto in avvenimenti individuali.
    Deve astrarre il complesso di atteggiamenti, valori, intenzioni e
    convenzioni che fa parte delle nostre azioni per coglierne il
    significato» [1969, pp. 117-18].
    
    Questo apprezzamento dell’immaginazione dello storico sembra
    insufficiente. Vi sono due specie d’immaginazione delle quali lo
    storico può fare sfoggio. Quella che consiste nell’animare
    ciò che è morto nei documenti e che fa parte del
    lavoro storico, poiché questo mostra e spiega le azioni degli
    uomini. È augurabile che s’incontri questa capacità
    d’immaginazione che rende concreto il passato, proprio come Georges
    Duby augurava talento letterario allo storico. Esso è ancor
    piú desiderabile poiché è necessario che lo
    storico dia prova di questa forma d’immaginazione che è
    l’immaginazione scientifica e che si manifesta, al contrario, con il
    potere di astrazione. Nulla qui distingue o deve distinguere lo
    storico dagli altri uomini di scienza. Egli deve lavorare sui suoi
    documenti con la stessa immaginazione dei matematici nei loro
    calcoli o del fisico e del chimico nelle loro esperienze. È
    una questione di stato d’animo e non si può che seguire
    Huizinga [1936] quando dichiara che la storia non è soltanto
    un ramo del sapere ma anche «una forma intellettuale per
    comprendere il mondo».
    
    Per contro va deplorato che uno studioso come Raymond Aron, nella
    sua passione empiristica, abbia affermato che i concetti dello
    storico sono vaghi perché «nella misura in cui ci si
    avvicina al concreto si elimina la generalità» [1938a,
    p. 206]. I concetti dello storico sono, in effetti, non vaghi, ma
    spesso metaforici, perché devono precisamente rinviare sia al
    concreto, sia all’astratto, essendo la storia – come le altre
    scienze umane o sociali – una scienza non tanto del complesso, come
    si ama dire, quanto dello specifico, come sostiene Veyne.
    
    La storia, come ogni scienza, deve dunque generalizzare e spiegare.
    Essa lo fa in modo originale. Secondo Gordon Leff, al pari di molti
    altri, il metodo di spiegazione in storia è essenzialmente
    deduttivo. «Non vi sarebbe storia, né discorso
    concettuale, senza generalizzazione… La comprensione storica non
    differisce per i processi mentali che sono inerenti a ogni
    ragionamento umano, ma per il suo statuto, che è quello di un
    sapere deduttivo piuttosto che dimostrabile» [1969, pp.
    79-80]. Il significato in storia si pone sia con la messa in
    intelligibilità di un insieme di dati separati all’inizio,
    sia con una logica interna di ciascun elemento: «Il
    significato in storia è essenzialmente contestuale»
    [ibid., p. 57].
    
    Infine, le spiegazioni in storia sono piú delle valutazioni
    che delle dimostrazioni, ma esse comprendono l’opinione dello
    storico in modo razionale, inerente al processo intellettuale di
    spiegazione: «Alcune forme di analisi causale sono chiaramente
    indispensabili a ogni tentativo di correlare degli avvenimenti;
    cosí come bisogna distinguere tra il caso e la
    necessità, lo storico deve decidere se ciascuna situazione
    è regolata da fattori a lungo termine o a breve termine. Ma,
    come le sue categorie, questi fattori sono concettuali. Essi non
    corrispondono a entità empiricamente confermate o infirmate.
    Per queste ragioni le spiegazioni dello storico sono piuttosto delle
    valutazioni» [ibid., pp. 97-98].
    
    I teorici della storia si sono sforzati nel corso dei secoli
    d’introdurre grandi principî suscettibili di fornire delle
    chiavi generali dell’evoluzione storica. Le due principali nozioni
    avanzate sono state da una parte quella di un senso della storia,
    dall’altra quella di leggi della storia.
    
    La nozione di un senso della storia si può scomporre in tre
    tipi di spiegazione: la credenza in grandi movimenti ciclici, l’idea
    di un fine della storia consistente nella perfezione di questo
    mondo, la teoria di un fine della storia collocato al di fuori della
    storia stessa [Beglar 1975]. Si può ritenere che le
    concezioni azteche o, in una certa misura, quelle di Arnold Toynbee,
    rientrino nella prima opinione, il marxismo nella seconda e il
    cristianesimo nella terza.
    
    Nel cristianesimo viene a stabilirsi una grande frattura tra coloro
    che, con Agostino e l’ortodossia cattolica, fondandosi sull’idea
    delle due città – la città terrestre e la città
    celeste, esposta nel De civitate Dei – sottolineano l’ambivalenza
    del tempo della storia, presente tanto nel caos apparente della
    storia umana (Roma non è eterna e non è la fine della
    storia), quanto nel flusso escatologico della storia divina, e
    coloro che, con i millenaristi come Gioacchino da Fiore, cercano di
    conciliare la seconda e la terza concezione del senso della storia.
    La storia terminerebbe una prima volta con l’avvento di una terza
    età, regno dei santi sulla terra, prima di concludersi con la
    risurrezione della carne e il giudizio universale. È del XIII
    secolo l’opinione di Gioacchino da Fiore e dei suoi discepoli. Non
    si esce qui soltanto dalla teoria storica, ma anche dalla filosofia
    della storia, per entrare nella teologia della storia. Nel XX secolo
    il rinnovamento religioso ha generato in alcuni pensatori un
    recupero della teologia della storia. Il russo Berdjaev [1923] ha
    profetizzato che le contraddizioni della storia contemporanea
    farebbero posto a una nuova creazione congiunta dell’uomo e di Dio.
    Il protestantesimo del XX secolo ha visto affrontarsi diverse
    correnti escatologiche: per esempio, quella dell’«escatologia
    conseguente» di Schweizer, quella dell’«escatologia
    demitizzata» di Baltmann, quella dell’«escatologia
    realizzata» di Dodd, quella dell’«escatologia
    anticipata» di Cullmann. Riprendendo l’analisi di Agostino, lo
    storico cattolico Henri–Irénée Marrou [1968] ha
    sviluppato l’idea dell’ambiguità del tempo della storia:
    «È sufficiente spingere un po’ piú addentro
    l’analisi per far apparire l’ambivalenza radicale del tempo della
    storia… Questo tempo vissuto si rivela di natura molto piú
    complessa, ambivalente, ambigua di quanto non ne conveniva
    l’ottimismo dei moderni che… non volevano vedervi altro che un
    “fattore di progresso”, facendo del divenire un vero idolo… Tutto
    ciò che accade all’essere attraverso il divenire, è
    necessariamente votato alla degradazione, φθορά, e alla morte»
    (trad. it. p. 45).
    
    Sulla concezione ciclica e sull’idea di decadenza, piú
    avanti, verrà esposto un campione di questa concezione, la
    filosofia della storia di Spengler.
    
    Sull’idea di un fine della storia, consistente nella perfezione di
    questo mondo, la legge piú coerente che sia stata avanzata
    è quella di progresso. Per la nascita, il trionfo e la
    critica della nozione di progresso qui ci si limiterà a
    qualche annotazione sul progresso tecnologico [cfr. Gallie 1963, pp.
    191-93].
    
    Gordon Childe, dopo aver affermato che il lavoro dello storico
    consiste nel trovare un ordine nel processo della storia umana
    [1953, p. 5], e aver sostenuto che in storia non vi sono leggi ma
    una «sorta di ordine», ha preso come esempio di questo
    ordine la tecnologia. Esiste, a suo parere, un progresso tecnologico
    «dalla preistoria all’età del carbone», che
    consiste in una sequenza ordinata di avvenimenti storici. Ma Childe
    rammenta che in ciascuna fase il progresso tecnico è un
    «prodotto sociale» e se si cerca di analizzarlo da
    questo punto di vista ci si accorge che ciò che sembrava
    lineare è irregolare (erratic) e che, per spiegare
    «queste irregolarità e queste fluttuazioni»,
    bisogna volgersi verso le istituzioni sociali, economiche,
    politiche, giuridiche, teologiche, magiche, i costumi e le credenze
    – che hanno agito come stimoli o come freni – in breve, verso tutta
    la storia nella sua complessità. Ma è legittimo
    isolare il campo della tecnologia e ritenere che il resto della
    storia agisca su di esso solo dall’esterno? La tecnologia non
    è una componente di un piú vasto insieme le cui parti
    non esistono se non per la scomposizione piú o meno
    arbitraria dello storico?
    
    Questo problema è stato recentemente posto in modo rilevante
    da Bertrand Gille [1978, pp. VIII sgg.]. Egli propone la nozione di
    sistema tecnico, insieme coerente di strutture compatibili le une
    con le altre. Questi sistemi tecnico-storici rivelano un
    «ordine tecnico». Questo «modo di approccio del
    fenomeno tecnico» obbliga a un dialogo con gli specialisti
    degli altri sistemi: l’economista, il linguista, il sociologo, il
    politico, il giurista, il filosofo…
    
    Da questa concezione scaturisce la necessità di una
    periodizzazione, dal momento che i sistemi tecnici si susseguono gli
    uni agli altri e la cosa piú importante è di
    comprendere, se non spiegare totalmente, i passaggi da un sistema
    tecnico a un altro. Cosí si pone il problema del progresso
    tecnico, nel quale d’altra parte Gille distingue tra il
    «progresso della tecnica» e il «progresso
    tecnico», che si contraddistingue per l’ingresso delle
    invenzioni nella vita industriale o corrente. Gille sottolinea
    inoltre che «la dinamica dei sistemi», cosí
    concepita, dà un nuovo valore a quelle che si chiamano, con
    espressione nello stesso tempo vaga e ambigua, le «rivoluzioni
    industriali».
    
    Si trova cosí posto il problema che verrà considerato
    piú generalmente come il problema della rivoluzione in
    storia. Esso si è posto alla storiografia sia nel campo
    culturale (rivoluzione della stampa [cfr. McLuhan 1962; Eisenstein
    1966], rivoluzioni scientifiche [cfr. Kuhn 1957]) sia nella
    storiografia [Fussner 1962; cfr. Nadel 1963], sia nel campo politico
    (rivoluzioni inglese del 1640, francese del 1789, russa del 1917).
    
    Questi avvenimenti e la nozione stessa di rivoluzione hanno
    costituito ancora recentemente oggetto di animate controversie.
    Sembra che la tendenza attuale sia, da una parte, di porre il
    problema in correlazione con la problematica della lunga durata
    [cfr. Vovelle 1978] e, dall’altra, di vedere nelle controversie
    intorno a «la» rivoluzione o «le»
    rivoluzioni un campo privilegiato dei partiti presi ideologici e le
    scelte politiche del presente. «È uno dei terreni
    piú “sensibili” di tutta la storiografia» [Chartier
    1978, p. 497].
    
    Per quanto mi riguarda, ritengo che non vi siano in storia delle
    leggi paragonabili a quelle che sono state scoperte nel campo delle
    scienze della natura – opinione largamente diffusa oggi con il
    rifiuto dello storicismo e del marxismo volgare e la diffidenza nei
    confronti delle filosofie della storia. Molto dipende comunque dal
    significato che si attribuisce alle parole. Si riconosce, per
    esempio, oggi che Marx non ha formulato delle leggi generali della
    storia, ma che egli ha soltanto concettualizzato il processo storico
    unificando teoria (critica) e pratica (rivoluzionaria) [Lichtheim
    1973]. Runciman ha giustamente detto che la storia, come la
    sociologia e l’antropologia, è «una consumatrice, non
    una produttrice di leggi» [1970, p. 10].
    
    Ma di fronte alle affermazioni, spesso piú provocatorie che
    convinte, della irrazionalità della storia, è
    convinzione di chi scrive che il lavoro storico abbia come scopo di
    mettere della intelligibilità nel processo storico e che
    questa intelligibilità conduca al riconoscimento di
    regolarità nell’evoluzione storica.
    
    È ciò che riconoscono i marxisti aperti, anche se
    hanno la tendenza a fare slittare il termine di ‘regolarità’
    verso quello di ‘legge’ [cfr. Topolski 1973, trad. it. pp. 319-49].
    
    Queste regolarità sono da riconoscere anzitutto all’interno
    di ciascuna serie studiata dallo storico, che la rende intelligibile
    scoprendovi una logica, un sistema, termine preferibile a intreccio,
    in quanto insiste piú sul carattere oggettivo che soggettivo
    dell’operazione storica. Esse devono poi essere riconosciute tra
    delle serie; da qui l’importanza del metodo comparativo in storia.
    Un proverbio dice: «Comparazione non è ragione»,
    ma il carattere scientifico della storia risiede sia nella
    valorizzazione delle differenze sia in quella delle somiglianze,
    mentre le scienze della natura cercano di eliminare le differenze.
    
    Il caso ha, naturalmente, un posto nel processo della storia e non
    ne turba le regolarità, poiché precisamente il caso
    è un elemento costitutivo del processo storico e della sua
    intelligibilità.
    
    Montesquieu ha dichiarato che «se una causa particolare, come
    l’esito accidentale di una battaglia, ha condotto uno Stato alla
    rovina… esisteva una causa di carattere generale che provocò
    la caduta di quello Stato per colpa di un’unica battaglia»
    [citato in Carr 1961, trad. it. p. 108]; e Marx ha scritto in una
    lettera: «La storia universale avrebbe un carattere davvero
    mistico se essa escludesse il caso. Naturalmente anche il caso
    diventa a sua volta parte del generale processo di sviluppo ed
    è compensato da altre forme di causalità. Ma
    l’accelerazione e il ritardo dipendono da questi “accidenti”, che
    includono il carattere “casuale” degli individui che sono alla testa
    di un movimento nella sua fase iniziale» [ibid., pp. 108-9].
    
    Si è tentato recentemente di valutare scientificamente la
    parte del caso in taluni episodi storici. Cosí Jorge Basadre
    [1973] ha studiato la serie delle probabilità
    nell’emancipazione del Perú. Egli ha utilizzato i lavori di
    Vendryès [1952] e di Bousquet [1967]. Quest’ultimo sostiene
    che lo sforzo per matematizzare il caso esclude tanto il
    provvidenzialismo che la credenza in un determinismo universale. A
    suo parere, il caso non ha parte né nel progresso scientifico
    né nell’evoluzione economica, e si manifesta come tendenza a
    un equilibrio che elimina non il caso stesso, ma le sue conseguenze.
    Le forme piú «efficaci» di caso nella storia
    sarebbero il caso meteorologico, l’assassinio, la nascita di geni.
    
    Avendo cosí abbozzato la questione delle regolarità e
    della razionalità in storia, restano da considerare i
    problemi dell’unità e della diversità, della
    continuità e della discontinuità. Poiché questi
    problemi sono al centro stesso della crisi attuale della storia,
    essi verranno ripresi alla fine di questo articolo.
    
    Ci si limiterà a dire che se lo scopo della vera storia
    è sempre stato quello di essere una storia globale o totale –
    integrale, perfetta, dicevano i grandi storici della fine del secolo
    XVI –, via via che essa si costituisce in un corpo di disciplina
    scientifica e scolastica, deve incanalarsi in categorie che,
    pragmaticamente, la frazionano. Queste categorie dipendono
    dall’evoluzione storica stessa: la prima parte del XX secolo ha
    visto nascere la storia economica e sociale, la seconda la storia
    delle mentalità. Alcuni, come Perelman [1969, p. 13],
    privilegiano le categorie periodologiche, altri le categorie
    schematiche. Ciascuna di esse ha la sua utilità, la sua
    necessità. Esse sono degli strumenti di lavoro e di
    esposizione. Non hanno alcuna realtà oggettiva, sostanziale.
    Cosí l’aspirazione degli storici alla totalità storica
    può e deve prendere forme diverse, che evolvono anch’esse con
    il tempo. Il quadro può essere costituito da una
    realtà geografica o da un concetto: cosí Fernand
    Braudel, prima con il Mediterraneo ai tempi di Filippo II, poi con
    la civiltà materiale e il capitalismo. Jacques Le Goff e
    Pierre Toubert [1975] hanno cercato, nel quadro della storia
    medievale, di mostrare come l’intento di una storia totale sembri
    oggi accessibile, in modo pertinente, attraverso oggetti
    globalizzanti costruiti dallo storico; per esempio,
    l’incastellamento, la povertà, la marginalità, l’idea
    di lavoro, ecc. Chi scrive non crede che il metodo degli approcci
    multipli – se non si alimenta a un’ideologia eclettica superata –
    sia dannoso al lavoro dello storico. Esso è talvolta
    piú o meno imposto dallo stato della documentazione, dato che
    ciascun tipo di fonte esige un trattamento differente all’interno di
    una problematica d’insieme. Studiando la nascita del purgatorio, dal
    III al XIV secolo in Occidente, il presente autore si è
    indirizzato tanto a testi teologici quanto a racconti di visioni,
    sia a exempla, sia a usi liturgici, sia a pratiche di devozione; e
    avrebbe fatto ricorso all’iconografia se proprio il purgatorio non
    fosse stato a lungo assente da essa. Sono stati analizzati talvolta
    pensieri individuali, talvolta mentalità collettive, talvolta
    il livello dei potenti, talaltra quello delle masse. Ma si è
    sempre avuto presente alla mente che, senza determinismo né
    fatalità, con lentezze, perdite, svolte, la credenza nel
    purgatorio si era incarnata in seno a un sistema e che questo aveva
    senso solo in relazione al suo funzionamento in una società
    globale [cfr. Le Goff 1981].
    
    Uno studio monografico limitato nello spazio e nel tempo può
    essere un eccellente lavoro storico se pone un problema e si presta
    alla comparazione, se è condotto come un case study. Sembra
    condannata soltanto la monografia chiusa in se stessa, senza
    orizzonti, che è stata la figlia prediletta della storia
    positivista e non è affatto morta.
    
    Per quanto concerne la continuità e la discontinuità,
    si è già parlato del concetto di rivoluzione. Giova
    insistere sul fatto che lo storico deve rispettare il tempo che,
    sotto diverse forme, è la stoffa della storia e che alle
    durate del vissuto deve far corrispondere i suoi quadri di
    spiegazione cronologica. Datare resta e resterà uno dei
    compiti e dei doveri fondamentali dello storico, ma la datazione
    deve accompagnarsi a un’altra manipolazione necessaria della durata,
    per renderla storicamente pensabile: la periodizzazione.
    
    Gordon Leff l’ha ricordato con forza: «La periodizzazione
    è indispensabile a ogni forma di comprensione storica»
    [1969, p. 130], aggiungendo in modo assai pertinente: «La
    periodizzazione, come la storia stessa, è un processo
    empirico delineato dallo storico» [ibid., p. 150]. Si
    può aggiungere che non vi è storia immobile e che la
    storia non è nemmeno il cambiamento puro, ma che è lo
    studio dei cambiamenti significativi. La periodizzazione è lo
    strumento principale d’intelligibilità dei cambiamenti
    significativi.
    
    2. La mentalità storica: gli uomini e il passato.
    
    È già stato fornito qualche esempio del modo nel quale
    gli uomini costruiscono e ricostruiscono il loro passato. Piú
    generalmente, interessa ora il posto del passato nelle
    società. Viene accolta qui l’espressione ‘cultura storica’,
    impiegata da Bernard Guenée [1980]. Sotto questo termine
    Guenée raccoglie piú cose: da una parte, il bagaglio
    professionale degli storici, la loro biblioteca di opere storiche;
    dall’altra, il pubblico e l’uditorio degli storici. Va aggiunto il
    rapporto che, nella sua psicologia collettiva, una società
    intrattiene con il suo passato. La concezione di chi scrive non
    è molto lontana da ciò che gli Anglosassoni chiamano
    historical mindedness. Sono noti i rischi di questa riflessione:
    considerare come unità una realtà complessa e
    strutturata, se non in classi quanto meno in categorie sociali
    distinte per i loro interessi e la loro cultura, supporre uno
    «spirito del tempo» (Zeitgeist), cioè un
    inconscio collettivo; si tratta di pericolose astrazioni. Tuttavia,
    le inchieste e i questionari utilizzati nelle società
    «sviluppate» di oggi mostrano che è possibile
    accostarsi al modo di sentire dell’opinione pubblica di un paese
    verso il suo passato e altri fenomeni e problemi [cfr. Lecuir 1981].
    Poiché queste inchieste sono impossibili per il passato, ci
    si sforzerà qui di caratterizzare – senza dissimulare la
    parte che di arbitrario e semplificatorio vi è in questa
    domanda – l’atteggiamento dominante in un certo numero di
    società storiche di fronte al loro passato e alla storia. Si
    prenderanno come interpreti di questa opinione collettiva
    soprattutto gli storici, sforzandosi di distinguere tra ciò
    che in loro deriva da idee personali e ciò che viene dalla
    mentalità comune. Chi scrive sa bene di confondere ancora
    passato e storia nella memoria collettiva e deve dunque aggiungere
    qualche spiegazione supplementare che preciserà le sue idee
    sulla storia.
    
    La storia della storia dovrebbe preoccuparsi non soltanto della
    produzione storica professionale, ma di tutto un insieme di fenomeni
    che costituiscono la cultura, o meglio la mentalità storica
    di un’epoca. Uno studio dei manuali scolastici di storia ne è
    un aspetto privilegiato, ma questi manuali non esistono praticamente
    che dal XIX secolo. Lo studio della letteratura e dell’arte
    può essere illuminante a questo proposito. Il posto di
    Carlomagno nelle chansons de geste, la nascita del romanzo nel XII
    secolo e il fatto che questa nascita si sia prodotta nella forma del
    romanzo storico (argomento antico: cfr. il n. 238 della
    «Nouvelle Revue Française», Le roman historique,
    1972), l’importanza delle opere storiche nel teatro di Shakespeare
    [Driver 1960] testimoniano del gusto di talune società
    storiche per il loro passato. Nel quadro di una recente esposizione
    di un grande pittore del XV secolo, Jean Fouquet, Nicole Reynaud ha
    mostrato [1981] come, accanto all’interesse per la storia antica,
    segno del Rinascimento (miniature delle Antiquités
    judaïques, della Histoire ancienne, del Tite-Live), Fouquet
    manifesti un pronunziato gusto per la storia moderna (Heures
    d’Etienne Chevalier, Tapisserie di Tormisuy, Grandes Chroniques de
    France, ecc.). Bisognerebbe aggiungervi lo studio dei nomi, delle
    guide di pellegrini e dei turisti, delle incisioni, della
    letteratura divulgativa, dei monumenti, ecc. Marc Ferro [1977] ha
    mostrato come il cinema abbia aggiunto una nuova fonte capitale per
    la storia, il film, precisando d’altronde giustamente che il cinema
    è «agente e fonte della storia». Ciò
    è vero per l’insieme dei media, il che basta a spiegare come
    il rapporto degli uomini con la storia abbia compiuto con i moderni
    media (stampa di massa, cinema, radio, televisione) un balzo
    considerevole. È questo allargamento della nozione di storia
    (nel senso di storiografia) che Santo Mazzarino ha accolto nel suo
    grande studio Il pensiero storico classico [1966]. Mazzarino ricerca
    di preferenza la mentalità storica negli elementi etnici,
    religiosi, irrazionali, nei miti, nelle fantasie poetiche, nelle
    storie cosmogoniche, ecc. Ne risulta anche una nuova concezione
    dello storico, che Arnaldo Momigliano ha ben definito: «Lo
    storico non è per Mazzarino essenzialmente un professionale
    ricercatore della verità sul passato, ma piuttosto un
    rabdomantico, “profetico” interprete del passato condizionato dalle
    sue opinioni politiche, dalla fede religiosa, da caratteristiche
    etniche e infine, ma non esclusivamente, dalla situazione sociale.
    Ogni rievocazione poetica o mitica o utopica o altrimenti fantastica
    del passato rientra nella storiografia» [1967, ed. 1969 p.
    61].
    
    Anche in questo caso bisogna distinguere. L’oggetto della storia
    della storia è certamente questo senso diffuso del passato,
    che riconosce nelle produzioni dell’immaginario una delle principali
    espressioni della realtà storica, e particolarmente il loro
    modo di reagire di fronte al loro passato. Ma questa storia
    indiretta non è la storia degli storici, la sola che abbia
    vocazione scientifica. Lo stesso dicasi della memoria. Cosí
    come il passato non è la storia, ma il suo oggetto, la
    memoria non è la storia, ma, insieme, uno dei suoi oggetti e
    un livello elementare di elaborazione storica. La rivista
    «Dialectiques» ha pubblicato (1980) un numero speciale
    dedicato ai rapporti fra la memoria e la storia: Sous l’histoire, la
    mémoire. Lo storico inglese Ralph Samuel, uno dei principali
    iniziatori degli «History Workshop», dei quali si
    parlerà in seguito, vi espone considerazioni ambigue sotto un
    titolo non meno ambiguo: Déprofessionnaliser l’histoire
    [1980]. Se con questo vuol dire che il ricorso alla storia orale,
    alle autobiografie, alla storia soggettiva allarga la base del
    lavoro scientifico, modifica l’immagine del passato, dà la
    parola ai dimenticati della storia, allora ha perfettamente ragione
    e sottolinea uno dei grandi progressi della produzione storica
    contemporanea. Se invece vuol mettere sullo stesso piano
    «produzione autobiografica» e «produzione
    professionale», quando aggiunge che «la pratica
    professionale non costituisce né un monopolio né una
    garanzia» [ibid., p. 16], allora il pericolo mi pare
    rilevante. Quello che è vero – e su questo si tornerà
    – è che le fonti tradizionali dello storico non sono spesso
    piú «obiettive» – in ogni caso non piú
    «storiche» – di quanto lo storico creda. La critica
    delle fonti tradizionali è insufficiente, ma il lavoro dello
    storico deve esercitarsi sulle une e sulle altre. Una scienza
    storica autogestita non solo sarebbe un disastro, ma è anche
    priva di senso. Questo perché la storia, anche se vi perviene
    solo approssimativamente, è una scienza e dipende da un
    sapere che si acquista professionalmente. Certo, la storia non ha
    raggiunto il grado di tecnicità delle scienze della natura o
    della vita. E non mi auguro che lo raggiunga, affinché possa
    restare piú facilmente comprensibile e anche controllabile
    dal maggior numero di persone. La storia – sola tra tutte le
    scienze? – ha già la fortuna (o la sfortuna) di poter essere
    fatta dignitosamente dagli amatori. In effetti, essa ha bisogno di
    volgarizzatori, e gli storici di mestiere non sempre si degnano di
    accedere a questa funzione comunque essenziale e degna, della quale
    si sentono incapaci; ma l’era dei nuovi media moltiplica il bisogno
    e le occasioni di mediatori semiprofessionali. Non è il caso
    di aggiungere che piace a chi scrive leggere romanzi storici, quando
    sono ben fatti e scritti, riconoscendo agli autori la libertà
    di fantasia che loro appartiene. Salvo naturalmente, se si chiede il
    parere dello storico, segnalare le libertà che si sono presi
    con la storia. E perché non un settore letterario di
    storia-finzione nel quale, rispettando i dati di base della storia –
    costumi, istituzioni, mentalità – fosse possibile ricrearla
    giocando sul caso e sull’événementiel? Vi sarebbe il
    duplice piacere della sorpresa e del rispetto di ciò che vi
    è di piú importante in storia. Per questo mi è
    piaciuto il romanzo di Jean d’Ormesson La gloire de l’empire, che
    riscrive con talento e sapere la storia bizantina. Non un intrigo
    che scivoli negli interstizi della storia – come Ivanhoe, The Last
    Days of Pompei, Quo vadis?, Les trois mousquetaires, ecc. –, ma
    l’invenzione di un nuovo corso degli avvenimenti politici a partire
    dalle strutture fondamentali della società.
    
    Ma devono tutti diventare storici? Non si vuole il potere per gli
    storici al di fuori del loro territorio, cioè il lavoro
    storico e le sue ripercussioni sulla società globale, in
    particolare l’insegnamento. Ciò che dev’essere superato
    è l’imperialismo della storia nei campi delle scienze e della
    politica. Agli inizi del secolo XIX la storia non contava quasi
    nulla. Lo storicismo, nelle sue diverse forme, ha voluto farne
    tutto. La storia non deve reggere le altre scienze, e ancor meno la
    società. Ma, come il fisico, il matematico, il biologo – e,
    in altro modo, gli specialisti di scienze umane e sociali – lo
    storico deve essere ascoltato per la sua parte, cioè una
    branca fondamentale del sapere.
    
    Come i rapporti tra memoria e storia, cosí anche le relazioni
    tra passato e presente non devono condurre alla confusione o allo
    scetticismo. Si sa ora che il passato dipende parzialmente dal
    presente. Ogni storia è contemporanea nella misura in cui il
    passato è colto nel presente e risponde dunque agli interessi
    di questo. Ciò non è soltanto inevitabile, ma anche
    legittimo. Poiché la storia è durata, il passato
    è al tempo stesso passato e presente. Spetta allo storico
    fare uno studio «obiettivo» del passato nella sua
    duplice forma. Certo, impegnato com’è egli stesso nella
    storia, non potrà giungere a una vera
    «obiettività», ma nessun altro tipo di storia
    è possibile. Lo storico compirà ancora dei progressi
    nella comprensione della storia, sforzandosi di mettere in causa se
    stesso, proprio come un osservatore scientifico tiene conto delle
    modificazioni che eventualmente apporta all’oggetto in osservazione.
    È ben noto, per esempio, che i progressi della democrazia
    inducono a ricercare sempre piú il posto degli
    «umili» nella storia, a porsi al livello della vita
    quotidiana, e questo s’impone, secondo modalità diverse, a
    tutti gli storici. È anche noto che l’evoluzione del mondo
    porta a porre l’analisi delle società in termini di potere, e
    questa problematica è cosí entrata nella storia. Si sa
    pure che la storia si fa piú o meno nello stesso modo nei tre
    grandi gruppi di paesi che esistono oggi nel mondo: il mondo
    occidentale, il mondo comunista, il Terzo Mondo. I rapporti tra le
    produzioni storiche di questi tre insiemi dipendono certamente dai
    rapporti di forza e dalle strategie politiche internazionali, ma si
    sviluppa anche, in una prospettiva scientifica comune, un dialogo
    tra specialisti, tra uomini di mestiere. Questo quadro professionale
    non è puramente scientifico o piuttosto, come per tutti gli
    uomini di scienza, richiede un codice morale, ciò che Georges
    Duby chiama un’etica [Duby e Lardreau 1980, pp. 15-16] e chi scrive,
    piú «obiettivamente», una deontologia. Su questo
    punto non è necessario insistere, pur considerandolo
    essenziale: basti constatare che, nonostante qualche deviazione,
    questa deontologia esiste e bene o male funziona.
    
    La cultura (o la mentalità) storica non dipende soltanto dai
    rapporti memoria-storia, presente-passato. La storia è
    scienza del tempo. Essa è strettamente legata alle differenti
    concezioni del tempo che esistono in una società e sono
    elemento essenziale dell’apparato mentale dei suoi storici. Si
    ritornerà sulla concezione di un contrasto
    nell’antichità, e nel pensiero stesso degli storici, tra una
    nozione circolare e una nozione lineare del tempo. È stato
    giustamente ricordato agli storici che la loro propensione a non
    considerare che un tempo «cronologico» dovrebbe far
    posto a maggiori inquietudini, se tenessero conto degli
    interrogativi filosofici sul tempo. L’ammissione che Agostino ne fa
    è rappresentativa: «Cos’è dunque il tempo? Se
    nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga,
    non lo so» [Confessioni, XI, 14, 17; cfr. Starr 1966].
    Elizabeth Eisenstein [1966], riflettendo sul celebre libro di
    Marshall McLuhan The Gutenberg Galaxy [1962], insiste sulla
    dipendenza delle concezioni del tempo dal rapporto con i mezzi
    tecnici di registrazione e trasmissione dei fatti storici. Essa vede
    nella stampa la nascita di un tempo nuovo, quello dei libri, che
    segnerebbe la rottura nelle relazioni tra Clio e Chronos. Questa
    concezione riposa sull’opposizione tra orale e scritto. Storici ed
    etnologi hanno rivolto l’attenzione all’importanza del passaggio
    dallo scritto all’orale. Anche Jack Goody [1977] ha mostrato come le
    culture dipendano dai loro mezzi di traduzione, essendo l’avvento
    della literacy legato a una mutazione profonda di una
    società. Egli ha d’altronde rettificato qualche luogo comune
    sul «progresso» che segue il passaggio dall’orale allo
    scritto. Lo scritto sarebbe apportatore di una maggiore
    libertà, mentre l’orale condurrebbe a un sapere meccanico,
    mnemonico, intangibile. Ora, lo studio della tradizione in un
    ambiente orale mostra che gli specialisti di questa tradizione
    possono introdurre innovazioni, mentre la scrittura può al
    contrario presentarsi con un carattere «magico» che la
    rende piú o meno intoccabile. Non bisogna dunque opporre una
    storia orale, intesa come storia della fedeltà e
    dell’immobilismo, a una storia scritta identificata con la
    malleabilità e il perfettibile. Studiando il passaggio dal
    ricordo memorizzato al documento scritto nell’Inghilterra medievale,
    Clanchy [1979] ha anche messo in evidenza che l’essenziale non
    è tanto il ricorso allo scritto quanto il cambiamento della
    natura e della funzione dello scritto, il trasformarsi dello scritto
    da tecnica sacra in pratica utilitaria, la conversione di una
    produzione scritta di élite e memorizzata in una produzione
    scritta di massa, fenomeno generalizzatosi in Occidente solo nel XIX
    secolo, ma le cui origini risalgono ai secoli XII-XIII.
    
    A proposito della coppia orale-scritto, anch’essa fondamentale per
    la storia, si faranno due considerazioni. È chiaro che il
    passaggio dall’orale allo scritto è importante tanto per la
    memoria quanto per la storia. Ma non bisogna dimenticare 1) che
    oralità e scrittura coesistono in generale nelle
    società e che questa coesistenza è assai importante
    per la storia; 2) che la storia, se ha conosciuto con la scrittura
    una tappa decisiva, non è nata con essa, poiché non vi
    è società senza storia.
    
    Quanto alle «società senza storia», si faranno
    due esempi. Da una parte quello di una società
    «storica» che taluni considerano refrattaria al tempo e
    non suscettibile di essere analizzata e compresa in termini storici:
    l’India. Dall’altra, quello delle società dette
    «preistoriche» o «primitive».
    
    La tesi astorica sull’India è stata sostenuta nel modo
    piú brillante da Louis Dumont [1962]. Egli ricorda che Hegel
    e Marx hanno considerato la storia dell’India come un caso a
    sé, l’hanno messa praticamente fuori della storia. Hegel
    giudicava le caste indú il fondamento di una
    «differenziazione indistruttibile»; Marx riteneva che,
    diversamente dallo sviluppo occidentale, l’India fosse
    caratterizzata da un «ristagno», ristagno di una
    economia naturale – in opposizione all’economia mercantile – alla
    quale si sovrimponeva un «dispotismo» (trad. it. p. 49).
    L’analisi di Dumont porta a conclusioni molto vicine a quelle di
    Marx, ma mediante considerazioni differenti e piú precise.
    Dopo aver facilmente respinto l’opinione dei marxisti volgari che
    vogliono ricondurre il caso dell’India all’immagine semplicistica di
    un’evoluzione millenaria, Dumont mostra che «lo sviluppo
    indiano, straordinariamente precoce, si arresta presto e non fa
    esplodere il suo proprio quadro, la forma di integrazione non
    è quella che, a torto o a ragione, noi identifichiamo con la
    nostra storia» (ibid., p. 64). Louis Dumont scorge la causa di
    questo blocco in due fenomeni del lontano passato dell’India, la
    secolarizzazione precoce della funzione regale e l’affermazione –
    altrettanto precoce – dell’individuo. Cosí «la sfera
    politico-economica, privata dei valori per la secolarizzazione
    iniziale della funzione regale, è rimasta subordinata alla
    religione» [ibid.]. In tal modo l’India si è arrestata
    a una struttura immobile di caste nella quale l’uomo gerarchico
    [cfr. Dumont 1966] si differenzia radicalmente dall’uomo delle
    società occidentali, che potrebbe chiamarsi per contrasto
    uomo storico. Infine, Dumont considera «la trasformazione
    contemporanea» dell’India, rilevando che non può essere
    decifrata alla luce di concetti validi per l’Occidente, e
    sottolineando in particolare il fatto che l’India è riuscita
    a liberarsi dalla dominazione straniera «con il minimo di
    modernizzazione» [1962, trad. it. p. 75]. Chi scrive non ha la
    competenza necessaria per discutere le idee di Dumont;
    s’accontenterà di segnalare che la sua tesi non nega
    l’esistenza di una storia indiana, ma ne rivendica la
    specificità. Di essa viene qui accolta, piú che il
    rifiuto, divenuto oggi banale, di una concezione unilineare della
    storia, la messa in evidenza di lunghe fasi temporali senza
    evoluzione significativa in talune società e la resistenza di
    certi tipi di società al mutamento.
    
    Lo stesso sembra possa dirsi per le società preistoriche e
    «primitive». Per quel che riguarda le prime, un grande
    specialista come André Leroi-Gourhan [1974] ha sottolineato
    che le incertezze relative alla loro storia derivano in particolare
    dall’insufficienza delle ricerche: «È evidente che se
    negli ultimi cinquant’anni si fosse praticata l’analisi esaustiva
    anche solo di una cinquantina di località ben scelte, oggi
    disporremmo dei materiali di una storia sostanziale per un certo
    numero delle tappe dell’evoluzione culturale
    dell’umanità» (trad. it. p. 71). Henri Moniot [1974]
    notava: «C’era l’Europa, ed era tutta la storia. A monte e a
    distanza, alcune “grandi civiltà”, che i loro testi, le loro
    rovine, talvolta i loro legami di parentela, di scambio o
    d’eredità con l’antichità classica, nostra madre, o
    l’ampiezza delle masse umane che avevano opposto ai poteri e allo
    sguardo europeo, facevano ammettere ai confini dell’impero di Clio.
    Il resto: tribú senza storia, secondo il giudizio unanime
    dell’uomo della strada, dei manuali e dell’università».
    E aggiungeva: «Le cose sono cambiate. Negli ultimi dieci o
    quindici anni, ad esempio, l’Africa nera entra in forze nel campo
    degli storici» (trad. it. p. 73). Henri Moniot spiega e
    definisce questa storia africana che resta da fare. La
    decolonizzazione la permette perché i nuovi rapporti
    d’inuguaglianza fra ex colonizzatori e colonizzati «non
    annientano piú la storia» e le società prima
    dominate si applicano a un «tentativo di riprendere possesso
    di sé» che «porta a riconoscere le
    eredità» [ibid., p. 75]. Storia che beneficia dei nuovi
    metodi delle scienze umane (storia, etnologia, sociologia) e che ha
    il vantaggio di essere «una scienza sul terreno», che
    utilizza ogni sorta di documenti e specialmente il documento orale.
    
    Un’ultima opposizione si presenta nel campo della cultura storica
    che mi sforzo di mettere in luce, quella tra mito e storia. È
    utile distinguere qui due casi. Si possono studiare nelle
    società storiche la nascita di nuove curiosità
    storiche, le cui origini ricorrono spesso al mito. Cosí
    nell’Occidente medievale quando i lignaggi nobili, le nazioni o le
    comunità urbane si preoccupano di darsi una storia, è
    spesso cominciando da antenati mitici che inaugurano le genealogie,
    da eroi fondatori leggendari: i Franchi pretendono di discendere dai
    Troiani, la famiglia dei Lusignano dalla fata Melusina, i monaci di
    Saint-Denis attribuiscono la fondazione della loro abbazia a Dionigi
    l’Areopagita, l’ateniese convertito da san Paolo. Si vede molto bene
    in questi casi in quali condizioni storiche questi miti sono nati e
    fanno dunque parte della storia.
    
    Il problema è piú difficile quando si tratta delle
    origini delle società umane o delle società dette
    «primitive». La maggior parte di queste società
    ha spiegato la propria origine con miti e si è generalmente
    ritenuto che una fase decisiva dell’evoluzione di queste
    società consistesse nel passaggio dal mito alla storia.
    
    Daniel Fabre [1978] ha mostrato come il mito, in apparenza
    «refrattario all’analisi storica», sia recuperabile
    dalla storia perché «si è costituito da qualche
    parte in un periodo storico preciso». Oppure, come ha detto
    Lévi-Strauss, il mito recupera e ristruttura le sopravvivenze
    desuete di «sistemi sociali antichi», o la lunga vita
    culturale dei miti permette attraverso la letteratura di farne una
    «selvaggina per lo storico», come, per esempio,
    attraverso il teatro tragico della Grecia antica, Vernant e
    Vidal-Naquet [1972] hanno fatto per i miti ellenici. Come ha detto
    Marcel Detienne: «Alla storia événementielle
    dell’antiquario e del cenciaiolo, che attraversano la mitologia con
    un gancio alla mano, felici di scovare qua e là un lembo di
    arcaismo o il ricordo fossilizzato di qualche avvenimento “reale”,
    l’analisi strutturale dei miti – delineando talune forme invarianti
    attraverso contenuti differenti – oppone una storia globale che si
    iscrive nella lunga durata, attinge al di sotto delle espressioni
    coscienti e reperisce sotto l’apparente movenza delle cose le grandi
    correnti inerti che la attraversano in silenzio…» [1974, p.
    74].
    
    Cosí il mito, nelle prospettive della nuova problematica
    storica, non è solamente oggetto di storia, ma allunga verso
    le origini il tempo della storia, arricchisce i metodi dello storico
    e alimenta un nuovo livello di storia, la storia lenta.
    
    Sono stati giustamente sottolineati i rapporti che esistono tra
    l’espressione del tempo nei sistemi linguistici e la concezione, al
    di là del tempo della storia, che avevano (o che hanno) i
    popoli che utilizzano tali logiche. Uno studio esemplare di tale
    problema è quello di Emile Benveniste intitolato Les
    relations de temps dans le verbe français [1959]. Uno studio
    preciso dell’espressione grammaticale del tempo nei documenti
    utilizzato dallo storico e nel racconto storico stesso reca preziose
    informazioni all’analisi storica. André Miquel [1977] ne ha
    offerto un notevole esempio nel suo studio di un racconto delle
    Mille e una notte, dove ha potuto ritrovare come griglia sottostante
    il racconto la nostalgia delle origini dell’Islam arabo.
    
    Resta il fatto che l’evoluzione delle concezioni del tempo è
    di grande importanza per la storia. Il cristianesimo ha segnato una
    svolta nella storia e nel modo di scrivere la storia, perché
    ha combinato almeno tre tempi: il tempo circolare della liturgia,
    legata alle stagioni e che recuperava il calendario pagano, il tempo
    cronologico lineare, omogeneo e neutro, calcolato col computo, e il
    tempo lineare teleologico, o tempo escatologico. L’illuminismo e
    l’evoluzionismo hanno costruito l’idea di un progresso irreversibile
    che ha avuto la piú grande influenza sulla scienza storica
    del XIX secolo, lo storicismo in particolare. I lavori dei
    sociologi, dei filosofi, degli artisti, dei critici letterari hanno
    avuto nel XX secolo un impatto considerevole su nuove concezioni del
    tempo che la scienza storica ha accolto. Cosí l’idea della
    molteplicità dei tempi sociali, elaborata da Maurice
    Halbwachs [1925; 1950], è stata il punto di partenza della
    riflessione di Fernand Braudel [1958] espressa nell’articolo
    fondamentale sulla «lunga durata», che propone allo
    storico di distinguere fra tre velocità storiche, quelle del
    «tempo individuale», del «tempo sociale» e
    del «tempo geografico». Tempo rapido e agitato
    dell’événementiel e del politico, tempo intermedio dei
    cicli economici ritmanti l’evoluzione delle società, tempo
    molto lento, «quasi immobile», delle strutture. O ancora
    il senso della durata espresso in un’opera letteraria come quella di
    Marcel Proust e che certi filosofi e critici propongono alla
    riflessione degli storici [Jauss 1955; Kracauer 1966]. Quest’ultimo
    orientamento sottende una delle tendenze attuali della storia,
    quella che si preoccupa di una storia del vissuto.
    
    Come ha detto Georges Lefebvre [1945-46], «per noi che siamo
    occidentali, la storia, come quasi tutto il nostro pensiero,
    è stata creata dai Greci» (trad. it. p. 32).
    
    Tuttavia, per limitarsi ai documenti scritti, le piú antiche
    tracce della preoccupazione di lasciare alla posterità
    testimonianze del passato si scaglionano dall’inizio del IV
    all’inizio del i millennio a.C. e concernono, da una parte, il Medio
    Oriente (Iran, Mesopotamia, Asia Minore) e dall’altra la Cina. Nel
    Medio Oriente la preoccupazione di perpetuare avvenimenti datati
    sembra soprattutto legata alle strutture politiche: all’esistenza di
    uno Stato e piú particolarmente di uno Stato monarchico.
    Iscrizioni che descrivono le campagne militari e le vittorie dei
    sovrani, lista regale sumerica (circa il 2ooo a.C.), annali dei re
    assiri, gesta dei re dell’Iran antico che si ritrovano nelle
    leggende regali della tradizione medo-persiana antica [cfr.
    Christensen 1936], archivi reali di Mari (XIX secolo a.C.), di
    Ugarit a Rās Šamra, di attuša a Boazköy (XV-XIII secolo a.C.).
    Cosí il tema della gloria regale e del modello regale hanno
    svolto spesso una funzione decisiva alle origini delle storie dei
    differenti popoli e civiltà. Pierre Gilbert [1979] ha
    sostenuto che, nella Bibbia, la storia appare insieme con la
    dignità regale, lasciando d’altronde intravedere, intorno ai
    personaggi di Samuele, Saul e David, una corrente promonarchica e
    una antimonarchica [cfr. Hölscher 1942]. Quando i cristiani
    creeranno una storia cristiana, insisteranno sull’immagine di un
    re-modello, l’imperatore Teodosio il Giovane, il cui τόπος
    s’imporrà nel medioevo, per esempio ai personaggi di Edoardo
    il Confessore e di san Luigi [Chesnut 1978, pp. 223-41].
    
    Piú generalmente, è alla struttura dello Stato e
    all’immagine dello Stato che sarà spesso unita l’idea della
    storia, alla quale si opporrà, positivamente o negativamente,
    l’idea di una società senza Stato e senza storia. Non si
    ritrova forse una manifestazione di questa storia legata allo Stato
    nel romanzo autobiografico di Carlo Levi Cristo si è fermato
    a Eboli? L’intellettuale antifascista piemontese, nel suo esilio nel
    Mezzogiorno, si scopre un odio per Roma comune con i contadini
    abbandonati dallo Stato e scivola in una condizione di astoricismo,
    di memoria immobile: «Chiuso in una stanza, e in un mondo
    chiuso, – ricorda fin dalle prime pagine, – mi è grato
    riandare con la memoria a quell’altro mondo, serrato nel dolore e
    negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente; a
    quella mia terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive,
    nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su
    un suolo arido, nella presenza della morte».
    
    Delle mentalità storiche non occidentali si dirà
    quindi assai poco; non vorrei ridurle a stereotipi e lasciar credere
    che, come nel caso della indiana (e tra l’altro, come si è
    visto, bisogna intendersi sull’idea di una civiltà indiana
    «fuori della storia»), esse si sarebbero rinchiuse in
    una tradizione sclerotizzata, poco penetrabile allo spirito storico.
    
    Si consideri il caso ebraico. È chiaro che, per ragioni
    storiche, nessun popolo ha sentito maggiormente la storia come
    destino, ha vissuto la storia come dramma dell’identità
    collettiva. Tuttavia, il senso della storia ha conosciuto in passato
    presso gli ebrei importanti vicissitudini e la creazione dello stato
    d’Israele ha condotto gli ebrei a una rivalutazione della loro
    storia [cfr. Ferro 1981]. Per limitarsi al passato, ecco quanto
    afferma Butterfield: «Nessuna nazione, nemmeno l’Inghilterra
    con la Magna Charta, è stata tanto ossessionata dalla storia,
    e non è strano che gli antichi ebrei abbiano mostrato potenti
    doti narrative e siano stati i primi a produrre una specie di storia
    nazionale, i primi a tracciare la storia dell’umanità dai
    tempi della creazione. Essi hanno raggiunto un’alta qualità
    nella costruzione del puro racconto, specialmente nel racconto di
    avvenimenti relativamente recenti, come nel caso della morte di
    David e della successione al suo trono. Dopo l’Esodo essi si sono
    concentrati piú sulla Legge che sulla storia, volgendo la
    loro attenzione verso la speculazione sul futuro, e in particolare
    sulla fine dell’ordine terreno. In un certo senso hanno perduto il
    contatto con la terra. Ma solo lentamente hanno smarrito il loro
    talento per la narrazione storica, come si vede dal primo libro dei
    Maccabei, prima dell’era cristiana, e dagli scritti di Flavio
    Giuseppe del I secolo d. C.» [1973, p. 466]. Ma se questa fuga
    nel diritto e l’escatologia non sono state inutili, è
    comunque necessario introdurre delle sfumature. Ecco, per esempio,
    ciò che dice Robert R. Geis dell’immagine della storia nel
    Talmūd: «Il III secolo segna una svolta nell’insegnamento
    della storia. Ne sono causa, da una parte, il miglioramento della
    situazione degli ebrei grazie alla concessione del diritto di
    cittadinanza romana nel 212 e la pacificazione che ne seguí,
    dall’altra l’influsso sempre piú marcato delle scuole
    babilonesi, attraverso il quale la rappresentazione del fine ultimo
    della storia si allontana notevolmente da un atteggiamento di
    interesse verso le cose terrene. Ma come la credenza biblica
    nell’aldiqua è rimasta riconoscibile nonostante tutti gli
    sviluppi posteriori, cosí è rimasta l’immagine della
    storia dei primi maestri, i tannāīm. La rinunzia alla storia non
    sarà affatto definitiva. Ciò che rabbī Meir (130-160)
    dice nella sua interpretazione di Roma non è mai stato
    abbandonato: “Verrà giorno in cui la supremazia sarà
    resa al suo possessore (Koh. r. i) per il compimento del regno di
    Dio su questa terra”» [1955, p. 124].
    
    Come l’India, come il popolo ebraico e – lo si vedrà
    piú avanti – come l’Islam, anche la Cina sembra avere avuto
    una sorta di senso precoce della storia, in seguito piuttosto
    rapidamente bloccato. Ma Jacques Gernet ha contestato che i fenomeni
    culturali che hanno fatto credere in una cultura storica molto
    antica possano considerarsi senso della storia. Dalla prima
    metà del i millennio a.C. appaiono raccolte di documenti
    classificati secondo l’ordine cronologico come gli Annali di Lou e
    il Chou King. A partire da Ssu–ma Ch’ien, soprannominato
    «l’Erodoto cinese», si sviluppano storie dinastiche
    secondo il medesimo schema: si tratta di raccolte di atti solenni
    riuniti in ordine cronologico: «La storia cinese è un
    mosaico di documenti» [Gernet 1959, p. 32]. Si ha dunque
    l’impressione che molto presto i Cinesi abbiano compiuto due gesti
    costitutivi del procedimento storico: raccogliere gli archivi,
    datare i documenti. Tuttavia, se si esaminano la natura e la
    funzione di questi testi e le attribuzioni dei personaggi che ne
    sono i produttori o i custodi, un’altra immagine appare. La storia
    in Cina è strettamente legata alla scrittura: «Non vi
    è storia, nel senso cinese del termine, che di ciò che
    è scritto» [ibid.]. Ma questi scritti non hanno una
    funzione di memoria, ma una funzione rituale, sacra, magica. Sono
    dei mezzi di comunicazione con le potenze divine. Sono stesi
    «affinché gli dèi li osservino» e
    diventino cosí efficaci, in un eterno presente. Il documento
    non è fatto per servire da prova, ma per diventare un oggetto
    magico, un talismano. Non è prodotto per essere dedicato agli
    uomini, ma agli dèi. La data non ha altro scopo che quello di
    indicare il carattere fasto o nefasto del tempo della produzione del
    documento: «Essa non segna un momento, ma un aspetto del
    tempo» [ibid., p. 40]. Gli annali non sono documenti storici,
    ma scritti rituali, «lungi dall’implicare la nozione di un
    divenire umano, essi notano corrispondenze che sono valide per
    sempre» [ibid.]. Il Grande Scriba che li conserva non è
    un archivista, ma un sacerdote del tempo simbolico, che ha cura
    anche del calendario. All’epoca degli Han lo storico di corte
    è un mago, un astronomo, che stabilisce con precisione il
    calendario.
    
    Tuttavia, l’utilizzazione da parte degli storici attuali di questi
    falsi archivi non è soltanto un’astuzia della storia, che
    mostra come il passato sia creazione costante della storia. I
    documenti cinesi rivelano un senso e una funzione differente della
    storia secondo le civiltà, e l’evoluzione della storiografia
    cinese, sotto i Sung per esempio, e il suo rinnovamento con il regno
    di Ch’ien Lung – del quale è testimonianza l’opera assai
    originale di Chang Hsüeh-ch’eng – mostra che la cultura storica
    cinese non è stata immobile [cfr. Gardner 1938; Hölscher
    1942].
    
    L’Islam favorí dapprima un tipo di storia fortemente legato
    alla religione, e piú particolarmente all’epoca del suo
    fondatore, Maometto, e al Corano. La storia araba ha come culla
    Medina e come motivazione la raccolta dei ricordi delle origini
    destinati a diventare «un deposito sacro e intangibile».
    Con la conquista, la storia assume un duplice carattere: quello di
    una storia del califfato, di natura annalistica, e di una storia
    universale, della quale il grande esempio è la storia di
    a-abarī e di al-Masūdī, scritta in arabo e di ispirazione sciita
    [Miquel 1968, trad. it. p. 177]. Tuttavia, nella grande raccolta
    delle opere delle vecchie culture (indiana, iraniana, greca) a
    Baghdād, al tempo degli Abbasidi, gli storici greci sono
    dimenticati. Nei territori degli Zeugiti e degli Ayyubiti (Siria,
    Palestina, Egitto), nel secolo XII la storia domina la produzione
    letteraria, specialmente con la biografia. La storia è
    fiorente anche alla corte mongola, presso i Mamelucchi, sotto la
    dominazione turca. Della personalità di Ibn Khaldūn si
    parlerà a parte (cfr. qui p. 70). Se Ibn Khaldūn domina con
    il suo genio gli storici e i geografi musulmani del basso medioevo,
    la sua filosofia della storia è fondamentalmente quella dei
    suoi contemporanei, segnata dalla nostalgia per l’unità
    dell’Islam, dall’ossessione del declino. Tuttavia, la storia non
    occupò mai nel mondo musulmano il posto privilegiato che si
    conquistò invece in Europa e nell’Occidente. Essa rimase
    «cosí fortemente accentrata sul fenomeno della
    rivelazione coranica, della sua avventura nel corso dei secoli e
    degli innumerevoli problemi che essa pose, da sembrare oggi non
    aprirsi che con difficoltà, se non con reticenza, a un tipo
    di studi e di metodi storici ispirati all’Occidente» [Miquel
    1967, p. 461]. Se per gli ebrei la storia ebbe il ruolo di fattore
    essenziale d’identità collettiva – ruolo svolto dalla
    religione nell’Islam – per gli Arabi e i musulmani la storia
    è stata soprattutto «nostalgia del passato»,
    l’arte e la scienza del rimpianto [cfr. Rosenthal 1952 e i testi che
    presenta]. Resta il fatto che se l’Islam ha avuto un altro senso
    della storia rispetto all’Occidente, non ha conosciuto gli stessi
    sviluppi metodologici in storia, e il caso di Ibn Khaldūn è
    particolare [cfr. Spuler 1955].
    
    Il sapere occidentale considera dunque la storia nata con i Greci.
    Essa è legata a due motivazioni principali. L’una è di
    ordine etnico. Si tratta di distinguere i Greci dai barbari. Alla
    concezione della storia è unita l’idea di civiltà.
    Erodoto prende in considerazione i Libici, gli Egiziani e
    soprattutto gli Sciti e i Persi, e getta su di loro uno sguardo da
    etnografo. Per esempio, gli Sciti sono dei nomadi – e il nomadismo
    è difficile da pensare. Al centro di questa geostoria vi
    è la nozione di frontiera: civiltà da questa parte,
    barbarie dall’altra. Gli Sciti che hanno attraversato la frontiera e
    hanno voluto ellenizzarsi – civilizzarsi – sono stati uccisi dai
    loro perché i due mondi non possono mescolarsi. Gli Sciti non
    sono che uno specchio nel quale i Greci si vedono alla rovescia
    [Hartog 1980].
    
    L’altro stimolo della storia greca è la politica legata alle
    strutture sociali. Finley rileva che non vi è storia in
    Grecia prima del V secolo a.C. Non annali comparabili a quelli dei
    re di Assiria, non interesse da parte di poeti e filosofi, non
    archivi. È l’epoca dei miti, fuori del tempo, trasmessi
    oralmente. Nel V secolo la memoria nasce dall’interesse delle
    famiglie nobili (e regali) e dei sacerdoti dei templi come quelli di
    Delfo, Eleusi e Delo.
    
    Dal canto suo, Santo Mazzarino ritiene che il pensiero storico sia
    nato ad Atene negli ambienti dell’orfismo, nel quadro di una
    reazione democratica contro la vecchia aristocrazia, in particolare
    la famiglia degli Alcmeonidi, e che «la storiografia nasca
    entro una setta religiosa, ad Atene, anziché tra i liberi
    pensatori della Ionia» [Momigliano 1967, ed. 1969 p. 63].
    «L’orfismo aveva… esaltato, attraverso la figura di Phlyos, il
    ghénos per eccellenza avverso agli Alcmeonidi: il
    ghénos da cui poi nacque Temistocle, l’uomo della flotta
    ateniese… La rivoluzione ateniese contro la parte conservatrice
    della vecchia aristocrazia terriera partí certamente,
    già verso il 630 a.C., dalle nuove esigenze del mondo
    commerciale, e marinaro, che faceva capo alla città… La
    “profezia sul passato” era l’arma principale della lotta
    politica» [Mazzarino 1966, I, pp. 32-33].
    
    La storia, arma politica. Questa motivazione, infine, assorbe la
    cultura storica greca poiché l’opposizione ai barbari non
    è che un altro modo di esaltare la città; elogio della
    città che suggerisce d’altronde ai Greci l’idea d’un certo
    progresso tecnico: «L’orfismo, che aveva dato il primo impulso
    al pensiero storico, aveva “scoperto”, anche, l’idea stessa di
    progresso tecnico, nella maniera in cui essa fu concepibile per i
    Greci. Dei Nani dell’Ida, scopritori della metallurgia o “arte
    (téchne) di Efesto”, aveva parlato già la poesia epica
    di spiriti piú o meno orfici (la Foronide)» [ibid., p.
    240].
    
    Cosí, quando scomparve l’idea di città, scomparve
    anche la coscienza della storicità. I sofisti, conservando
    l’idea del progresso tecnico, respinsero ogni nozione di progresso
    morale, ridussero il divenire storico alla violenza individuale, lo
    sbriciolarono in un agglomerato di «aneddoti scabrosi».
    È l’affermazione di una antistoria che non considera
    piú il divenire come una storia, come una successione
    intelligibile di avvenimenti, ma come un insieme di atti
    contingenti, opera di individui o di gruppi isolati [Châtelet
    1962, trad. it. pp. 5-61].
    
    La mentalità storica romana non si presenta molto differente
    da quella greca, che d’altronde l’ha formata. Polibio, il greco che
    iniziò i Romani al pensiero storico, vede nello spirito
    romano la dilatazione dello spirito della città, e di fronte
    ai barbari gli storici romani esalteranno la civiltà
    incarnata da Roma, la stessa che Sallustio esalta di fronte a
    Giugurta, l’africano che ha preso da Roma solo i mezzi per
    combatterla, la stessa che Livio illustra di fronte ai popoli
    selvaggi d’Italia e ai Cartaginesi, questi stranieri che hanno
    cercato di ridurre i Romani in schiavitú, come i Persiani
    avevano fatto con i Greci, che Cesare incarna contro i Galli, che
    Tacito sembra abbandonare nel suo risentimento antimperiale per
    ammirare i buoni selvaggi bretoni e germani, che egli vede in
    definitiva con i tratti degli antichi, virtuosi, romani di prima
    della decadenza. La mentalità storica romana è in
    effetti – come sarà piú tardi l’islamica – dominata
    dal rimpianto delle origini, il mito della virtú degli
    antichi, la nostalgia dei costumi ancestrali, del mos maiorum.
    L’identificazione della storia con la civiltà greco-romana
    non è temperata che dalla credenza nel decadimento, della
    quale Polibio ha fatto una teoria fondata sulla somiglianza tra le
    società umane e gl’individui. Le istituzioni si sviluppano,
    declinano e muoiono come gl’individui, perché anch’esse
    sottoposte alle «leggi della natura»; cosí anche
    la grandezza romana perirà. Di questa teoria si
    ricorderà Montesquieu. La lezione della storia per gli
    antichi si riassume in definitiva in una negazione della storia.
    Ciò che essa lascia di positivo sono gli esempi degli
    antenati, eroi e grandi uomini. Bisogna combattere la decadenza
    riproducendo individualmente le grandi gesta degli antenati,
    ripetendo i modelli eterni del passato. La storia, fonte di exempla,
    non è lontana dalla retorica, dalle tecniche di persuasione.
    Essa ricorre dunque volentieri alle arringhe, ai discorsi. Ammiano
    Marcellino, alla fine del IV secolo, riassume nel suo stile barocco
    e con il suo gusto per lo stravagante e il tragico, i tratti
    essenziali della mentalità storica antica. Questo siriano
    idealizza il passato, evoca la storia romana attraverso exempla
    letterari e ha come unico orizzonte – benché abbia viaggiato
    in gran parte dell’impero, a eccezione della Bretagna, della Spagna
    e dell’Africa del Nord a ovest dell’Egitto – Roma aeterna [cfr.
    Momigliano 1974].
    
    Il cristianesimo è stato visto come una rottura, una
    rivoluzione nella mentalità storica. Dando alla storia tre
    punti fissi – la creazione, inizio assoluto della storia,
    l’incarnazione, inizio della storia cristiana e della storia della
    salvezza, il giudizio universale, fine della storia – il
    cristianesimo avrebbe sostituito alle concezioni antiche di un tempo
    circolare la nozione di un tempo lineare, avrebbe orientato la
    storia e dato a essa un senso. Sensibile alle date, esso cerca di
    datare la creazione, i principali punti di riferimento dell’Antico
    Testamento, data il piú precisamente possibile la nascita e
    la morte di Gesú. Religione storica, ancorata alla storia, il
    cristianesimo avrebbe impresso alla storia in Occidente un impulso
    decisivo. Guy Lardreau e Georges Duby hanno anche recentemente
    insistito sul legame tra cristianesimo e sviluppo della storia in
    Occidente. Guy Lardreau ha ricordato le parole di Marc Bloch:
    «Il cristianesimo è una religione di storici», e
    aggiunto: «Sono convinto, semplicemente, che noi facciamo
    della storia perché siamo cristiani». Al che Georges
    Duby risponde: «Avete ragione, vi è una maniera
    cristiana di pensare, che è la storia. La scienza storica non
    è forse cosa occidentale? Che cos’è la storia in Cina,
    nelle Indie, nell’Africa nera? L’Islam ha avuto mirabili geografi,
    ma gli storici?» [Duby e Lardreau 1980, pp. 138-39]. Il
    cristianesimo ha sicuramente favorito una certa propensione a
    ragionare in termini storici, caratteristici delle abitudini di
    pensiero occidentali, ma lo stretto rapporto tra il cristianesimo e
    la storia sembra debba essere sfumato. Anzitutto, studi recenti
    hanno mostrato che non bisogna ridurre la mentalità storica
    antica – e soprattutto greca – all’idea di un tempo circolare
    [Momigliano 1966b; Vidal-Naquet 1960]. Dal canto suo, il
    cristianesimo non può essere ridotto alla concezione di un
    tempo lineare: un tipo di tempo circolare, il tempo liturgico,
    svolge un ruolo di primo piano. La sua supremazia ha a lungo ridotto
    il cristianesimo a datare soltanto giorni e mesi, senza menzionare
    l’anno, in modo da integrare l’avvenimento nel calendario liturgico.
    D’altra parte, il tempo teleologico, escatologico, non conduce
    necessariamente a una valorizzazione della storia. Si può
    ritenere che la salvezza avvenga tanto fuori della storia, con il
    rifiuto della storia, quanto attraverso la storia e per la storia.
    Le due tendenze sono esistite e esistono ancora nel cristianesimo.
    Se l’Occidente ha accordato un’attenzione speciale alla storia, ha
    particolarmente sviluppato la mentalità storica e attribuito
    un posto importante alla scienza storica, è in ragione
    dell’evoluzione sociale e politica. Assai presto taluni gruppi
    sociali e politici e gli ideologi dei sistemi politici hanno avuto
    interesse a pensarsi storicamente e a imporre quadri di pensiero
    storico. Come si è visto, questo interesse è apparso
    dapprima nel Medio Oriente e in Egitto, presso gli ebrei, poi presso
    i Greci. È soltanto perché è stato a lungo
    l’ideologia dominante in Occidente che il cristianesimo gli ha
    fornito talune forme di pensiero storiche. Quanto alle altre
    civiltà, se sembrano dare un posto minore allo spirito
    storico è, da una parte, perché viene riservato il
    nome di storia a concezioni occidentali e non vengono riconosciuti
    come tali altri modi di pensare la storia e, dall’altra,
    perché le condizioni sociali e politiche che hanno favorito
    lo sviluppo della storia in Occidente non si sono sempre prodotte
    altrove.
    
    Resta il fatto che il cristianesimo ha dato importanti elementi alla
    mentalità storica, anche al di fuori della concezione
    agostiniana della storia (cfr. oltre, pp. 68-69), che ha avuto
    grande influenza nel medioevo e piú tardi. Anche storici
    cristiani orientali hanno avuto un’influenza importante sulla
    mentalità storica, non soltanto in Oriente, ma anche,
    indirettamente, in Occidente. È il caso di Eusebio di
    Cesarea, di Socrate lo Scolastico, di Evagrio, di Sozomeno, di
    Teodoreto di Ciro. Essi credevano nel libero arbitrio (Eusebio e
    Socrate erano anche origenisti) e pensavano dunque che il cieco
    destino, il fatum, non aveva una funzione nella storia, a differenza
    di quanto credevano gli storici greco-romani. Per loro il mondo era
    governato dal λόγος o ragione divina (altrimenti definita
    Provvidenza), che delineava la struttura di tutta la natura e di
    tutta la storia: «Si poteva dunque analizzare la storia e
    considerare la logica interna alla concatenazione dei suoi
    avvenimenti» [Chesnut 1978, p. 244]. Nutrito di cultura
    antica, questo umanismo storico cristiano aveva accolto la nozione
    di Fortuna per spiegare gli «accidenti» della storia. Il
    carattere fortuito della vita umana si ritrovava in storia e dava
    origine, in particolare, all’idea della ruota della fortuna,
    cosí popolare nel medioevo, e che introduceva un altro
    elemento circolare nella concezione della storia. I cristiani
    conservarono cosí due idee essenziali del pensiero storico
    pagano, ma trasformandole profondamente: l’idea dell’imperatore, ma
    sul modello di Teodosio il Giovane, fu l’immagine di un imperatore
    per metà guerriero, per metà monaco; l’idea di Roma,
    ma respingendo sia l’idea del declino di Roma sia quella della Roma
    eterna. Il tema di Roma divenne nel medioevo sia il concetto di un
    sacro impero romano al tempo stesso cristiano e universale [cfr.
    Falco 1942], sia l’utopia di una Europa degli Ultimi Giorni, i sogni
    chiliastici di un imperatore della fine dei tempi.
    
    Al pensiero storico cristiano l’Occidente deve ancora due idee che
    ebbero fortuna nel medioevo: il quadro, mutuato agli ebrei, da una
    cronaca universale [cfr. Brincken 1957; Krüger 1976]; l’idea di
    tipi privilegiati di storia: biblica (cfr. Historia scholastica di
    Pietro Mangiadore, c. 1170) ed ecclesiastica.
    
    Si parlerà ora di qualche tipo di mentalità e di
    pratica storiche legato a taluni interessi sociali e politici in
    diversi periodi della storia occidentale.
    
    Alle due grandi strutture sociali e politiche del medioevo, la
    feudalità e la città, sono legati due fenomeni di
    mentalità storica: le genealogie e la storiografia urbana. A
    questo bisogna aggiungere – nella prospettiva di una storia
    nazionale monarchica – le cronache regali, tra le quali le
    piú importanti furono, dopo la fine del XII secolo, le
    Grandes Chroniques de France, «alle quali i Francesi
    credettero come alla Bibbia» [Guenée 1980, p. 339].
    
    L’interesse che hanno le grandi famiglie di una società a
    stabilire le loro genealogie quando le strutture sociali e politiche
    hanno raggiunto un certo stadio, è cosa nota. Già le
    prime righe della Bibbia svolgono la litania delle genealogie dei
    patriarchi. Nelle società dette «primitive» le
    genealogie sono spesso la prima forma di storia, il prodotto del
    momento in cui la memoria mostra la tendenza a organizzarsi in serie
    cronologiche. Georges Duby ha mostrato come nel secolo XI – e
    soprattutto nel XII – i signori, grandi e piccoli, abbiano
    patrocinato in Occidente, soprattutto in Francia, una abbondante
    letteratura genealogica «per innalzare la reputazione del loro
    lignaggio, piú precisamente per appoggiare la loro strategia
    matrimoniale e poter cosí contrarre piú lusinghiere
    alleanze» [ibid., p. 64; cfr. anche Duby 1967]. A maggior
    ragione le dinastie regnanti fecero stabilire genealogie immaginarie
    o manipolate per affermare il loro prestigio e la loro
    autorità. Cosí i Capetingi riuscirono nel XII secolo a
    ricollegarsi ai Carolingi [Guenée 1978]. Cosí
    l’interesse dei principi e dei nobili produsse una memoria
    organizzata intorno alla discendenza delle grandi famiglie [cfr.
    Génicot 1975]. La parentela diacronica diventa un principio
    di organizzazione della storia. Caso particolare: quello del papato,
    il quale, quando si afferma la monarchia pontificia, sente il
    bisogno di avere una sua storia, che non può evidentemente
    essere dinastica, ma che vuole distinguersi dalla storia della
    Chiesa [Paravicini-Bagliani 1976].
    
    Dal canto loro, le città, quando si sono costituite in
    organismi politici coscienti della loro forza e del loro prestigio,
    hanno voluto anch’esse elevare questo prestigio esaltando la loro
    antichità, la gloria delle loro origini e dei loro fondatori,
    le gesta dei loro antichi figli, i momenti eccezionali nei quali
    erano state favorite dalla protezione di Dio, della Vergine, dei
    loro santi patroni. Alcune di queste storie acquistarono un
    carattere ufficiale, autentico. Cosí, il 3 aprile 1262 la
    cronaca del notaio Rolandino, letta pubblicamente nel chiostro di
    Sant’Urbano di Padova davanti ai maestri e agli studenti
    dell’università, assunse il carattere di storia vera della
    città e della comunità urbana [Arnaldi 1963, pp.
    85-107]. Firenze dà lustro alla sua fondazione attribuendola
    a Giulio Cesare [Rubinstein 1942; Del Monte 1950]. Genova possedeva
    una sua storia autentica fin dal XII secolo [Balbi 1974]. È
    naturale che la Lombardia, regione di importanti città, abbia
    conosciuto una fiorente storiografia urbana [Martini 1970]. È
    naturale che nessuna città del medioevo abbia avuto maggior
    interesse di Venezia per la sua storia. Ma l’autostoriografia
    veneziana medievale ha conosciuto molte vicissitudini rivelatrici.
    Dapprima, si registra un netto contrasto tra la storiografia antica,
    che riflette piú le divisioni e le lotte interne della
    città che l’unità e la serenità finalmente
    conquistate: «La storiografia… rifletterà una
    realtà in movimento, le lotte e le conquiste parziali che la
    segnano, una o piú forze che in essa agiscono; e non con la
    serenità soddisfatta di chi contempla un processo
    compiuto» [Cracco 1970, pp. 45-46]. D’altra parte, gli annali
    del doge Andrea Dandolo alla metà del secolo XIV acquistarono
    una tale fama da far dimenticare la storiografia veneziana anteriore
    [Fasoli 1970, pp. 11-12]. È l’inizio della «pubblica
    storiografia» o «storiografia comandata», che
    culmina ai primi del XVI secolo con i diari di Marin Sanudo il
    Giovane.
    
    Il Rinascimento è una grande epoca per la mentalità
    storica. Essa è segnata dall’idea di una storia nuova,
    globale, la storia perfetta, e da importanti progressi di metodo, di
    critica storica. Dai suoi rapporti ambigui con l’antichità
    (al tempo stesso modello paralizzante e pretesto ispirante), la
    storia dell’umanesimo e del Rinascimento assume un duplice e
    contraddittorio atteggiamento verso la storia.
    
    Da una parte, il senso delle differenze e del passato, della
    relatività delle civiltà, ma anche la ricerca
    dell’uomo, di un umanismo e di un’etica nelle quali la storia,
    paradossalmente, si fa magistra vitae, negando se stessa, fornendo
    esempi e lezioni atemporalmente valide [cfr. Landfester 1972].
    Nessuno meglio di Montaigne [1580-92] ha saputo esprimere questo
    punto ambiguo per la storia: «Gli storici sono quelli che mi
    vanno piú a genio: sono piacevoli e facili;… l’uomo in
    generale, che io cerco di conoscere, vi appare piú vivo e
    piú completo che in ogni altro luogo, la varietà e
    verità delle sue tendenze interiori all’ingrosso e al minuto,
    la diversità dei modi della sua complessione e degli
    accidenti che lo minacciano» (trad. it. p. 537). Non stupisce
    quindi che Montaigne dichiari che in fatto di storia il «suo
    uomo» è Plutarco, oggi considerato un moralista
    piú che uno storico.
    
    D’altra parte, la storia stringe alleanza, in questo periodo, con il
    diritto e questa tendenza culmina con l’opera del protestante
    François Baudoin, allievo del grande giurista Dumoulin, De
    institutione historiae universae et eius cum jurisprudentia
    conjunctione (1561). Lo scopo di quest’alleanza è l’unione
    del reale con l’ideale, del costume con la moralità. Baudoin
    si accompagnerà ai teorici che sognano una storia
    «integrale», ma la visione della storia resta
    «utilitaria» [Kelley 1970]. È utile ricordare qui
    le ripercussioni, nel XVI e all’inizio del XVII secolo, di uno dei
    piú importanti fenomeni di questo periodo: la scoperta e la
    colonizzazione del Nuovo Mondo. Si menzioneranno due soli esempi,
    l’uno attinto ai colonizzati, l’altro ai colonizzatori. In un libro
    pionieristico, La vision des vaincus, Nathan Wachtel ha studiato
    [1971] la reazione della memoria india alla conquista spagnola del
    Perú. Wachtel ricorda anzitutto che la conquista non colpisce
    una società senza storia: «Non si può pensare a
    cattivi geni nella storia: ogni avvenimento si produce in un campo
    già costituito, fatto di istituzioni, di costumi, di
    significati e di tracce multiple che resistono e insieme forniscono
    l’appiglio all’azione umana» (trad. it. pp. 330-31). Il
    risultato della conquista sembra essere, da parte degli Indi, la
    perdita dell’identità. La morte degli dèi e dell’Inca,
    la distruzione degli idoli costituiscono per gli Indi «un
    trauma collettivo», nozione assai importante in storia, che a
    parere di chi scrive deve prendere posto tra le forme principali di
    discontinuità storica: i grandi avvenimenti – rivoluzioni,
    conquiste, sconfitte – sono risentiti come «traumi
    collettivi». A questa destrutturazione i vinti reagiscono
    inventando una «prassi di ristrutturazione», la cui
    principale espressione è all’occorrenza «la Danza della
    Conquista»: si tratta di una «ristrutturazione danzata,
    di tipo immaginifico, perché le altre forme di prassi
    falliscono» [ibid., pp. 327-28]. Wachtel fa qui un’importante
    riflessione sulla razionalità storica: «Quando parliamo
    di una logica o di una razionalità della storia, ciò
    non significa che pretendiamo definire leggi matematiche,
    necessarie, valide per tutte le società come se la storia
    obbedisse a un determinismo naturale; ma la combinazione dei fattori
    che costituiscono il non-cronachistico dell’avvenimento, disegna un
    paesaggio originale, diverso, sostenuto da un insieme di meccanismi
    e di regolarità, insomma una coerenza – di cui spesso i
    contemporanei non sono consci – la cui restituzione si rivela
    indispensabile per la comprensione dell’avvenimento» [ibid.,
    p. 329]. Questa concezione permette allora a Wachtel di definire la
    coscienza storica dei vincitori e dei vinti: «La storia sembra
    allora razionale soltanto ai vincitori, mentre i vinti la vivono
    come irrazionalità e come alienazione» [ibid., p. 331].
    Ma un’ultima astuzia della storia appare; al posto di una vera
    storia, i vinti si costituiscono una tradizione come «mezzo di
    rifiuto». Una storia lenta dei vinti è cosí una
    forma di opposizione, di resistenza, alla storia rapida dei
    vincitori, e, paradossalmente, «nella misura in cui i resti
    dell’antica civilizzazione inca hanno attraversato i secoli per
    giungere fino ai nostri giorni, si può dire che anche questo
    tipo di rivolta, questa impossibile prassi ha, in un certo senso,
    trionfato» [ibid., p. 336]. Doppia lezione per lo storico: da
    una parte, la tradizione è certamente storia; spesso, anche
    se sceglie relitti di un passato lontano, è una costruzione
    storica relativamente recente, reazione a un traumatismo politico e
    culturale e piú spesso a tutti e due insieme; dall’altra,
    questa storia lenta, che si ritrova nella cultura
    «popolare», è in effetti una sorta di antistoria
    nella misura in cui si oppone alla storia ostentata e animata dai
    dominatori.
    
    Bernadette Bucher, attraverso lo studio dell’iconografia della
    collezione «Les Grands Voyages», pubblicata e illustrata
    dalla famiglia De Bry tra il 1590 e il 1634, ha definito i rapporti
    che gli Occidentali hanno stabilito fra la storia e il simbolismo
    rituale in base al quale essi hanno rappresentato e interpretato la
    società india che avevano scoperto. Essi hanno trasformato le
    loro idee e i loro valori di Europei e di protestanti nelle
    strutture simboliche delle immagini degli Indi. È cosí
    che le differenze culturali tra Indi ed Europei – specialmente nelle
    abitudini culinarie – sono apparse a un certo momento ai De Bry
    «come il segno che l’indio è respinto da Dio»
    [Bucher 1977, pp. 227-28]. La conclusione è che «le
    strutture simboliche sono opera di una combinatoria nella quale
    l’adattamento all’ambiente, agli avvenimenti, e dunque l’iniziativa
    umana, entrano costantemente in gioco per mezzo di una dialettica
    tra struttura e avvenimento» [ibid., pp. 229-30]. In tal modo
    gli Europei del Rinascimento ritrovano il modo di procedere di
    Erodoto e si fanno porgere dagli Indi uno specchio nel quale
    riflettono se stessi. Cosí, gli incontri di culture fanno
    nascere risposte storiografiche diverse allo stesso avvenimento.
    
    Resta il fatto che – nonostante i suoi sforzi verso una storia
    nuova, indipendente, erudita – la storia del Rinascimento è
    strettamente dipendente dagli interessi sociali e politici
    dominanti, all’occorrenza dallo Stato. Dal XII al XIV secolo il
    protagonista della produzione storiografica era stato, nell’ambiente
    signorile e monarchico, il protetto dei grandi (un Goffredo di
    Monmouth o un Guglielmo di Malmesbury dedicano le loro opere a
    Roberto di Gloucester, i monaci di Saint-Denis lavorano alla gloria
    dei re di Francia, protettori della loro abbazia, Froissart scrive
    per Filippa di Hainaut, regina d’Inghilterra, ecc.), oppure,
    nell’ambiente urbano, il notaio cronista [Arnaldi 1966].
    
    Ormai, in ambiente urbano, lo storico è un membro dell’alta
    borghesia al potere, come Leonardo Bruni, cancelliere di Firenze dal
    1427 al 1444, o un alto funzionario dello Stato; i due piú
    grandi esempi, a questo proposito, sono, sempre a Firenze,
    Machiavelli, segretario della Cancelleria fiorentina (benché
    abbia scritto le sue grandi opere dopo il 1512, anno nel quale fu
    cacciato dalla Cancelleria per il ritorno dei Medici) e
    Guicciardini, ambasciatore della repubblica fiorentina, poi al
    servizio, successivamente, di papa Leone X e del duca di Toscana
    Alessandro.
    
    Fu comunque in Francia che si poté meglio seguire il
    tentativo, a opera della monarchia, di addomesticare la storia,
    specialmente nel secolo XVII durante il quale i difensori
    dell’ortodossia cattolica e i partigiani dell’assolutismo regio
    condannarono come «libertinismo» la critica storica
    degli storici del XVI secolo e del regno di Enrico IV [Huppert
    1970]. Questo tentativo si espresse con lo stipendiare gli
    storiografi ufficiali, dal XVI secolo alla rivoluzione.
    
    Anche se la parola viene impiegata per la prima volta per Alain
    Chartier alla corte di Carlo, si trattava però allora
    «di una distinzione piuttosto che di una carica
    precisa». Il primo vero storiografo reale è Pierre de
    Paschal nel 1554. Ormai lo storiografo è un apologista. Egli
    non occupa d’altronde che un posto modesto, anche se Charles Sorel
    ha tentato di delineare, nel 1646, nell’Avertissement à
    l’Histoire du roy Louis XIII di Charles Bernard, la carica di
    storiografo di Francia in modo da attribuirle importanza e
    prestigio. Egli ne valorizza l’abilità e la funzione: provare
    i diritti del re e del regno, lodare le buone azioni, dare esempi
    alla posterità, tutto questo per la gloria del re e del
    regno. Tuttavia, la carica resterà relativamente oscura, e il
    tentativo di Boileau e di Racine nel 1677 fallirà. I
    philosophes criticheranno vivamente l’istituzione, e il programma di
    riforma della funzione esposto da Jacob-Nicolas Moreau, in una
    lettera del 22 agosto 1774 al primo presidente della Corte dei Conti
    di Provenza, J.-B. d’Albertas, arriverà troppo tardi. La
    rivoluzione sopprimerà la carica di storiografo [Fossier
    1977].
    
    Lo spirito dei lumi, un po’ come quello del Rinascimento,
    avrà nei confronti della storia un atteggiamento ambiguo.
    Certamente, la storia filosofica – soprattutto con Voltaire
    (principalmente nell’Essai sur les mœurs et l’esprit des nations,
    concepito nel 1740 e la cui edizione definitiva è del 1769)
    apporta allo sviluppo della storia «un allargamento
    considerevole della curiosità e soprattutto i progressi dello
    spirito critico» [Ehrard e Palmade 1964, p. 37]. Ma «il
    razionalismo dei filosofi ostacola lo sviluppo del senso storico.
    È meglio razionalizzare l’irrazionale, come tenta di fare
    Montesquieu, o coprirlo di sarcasmi alla maniera di Voltaire? Nei
    due casi la storia viene passata al setaccio di una ragione
    atemporale» [ibid., p. 36]. La storia è un’arma contro
    il «fanatismo» e le epoche nelle quali esso ha regnato,
    specialmente il medioevo, non sono degne che di disprezzo e oblio:
    «Non bisogna conoscere la storia di quei tempi che per
    disprezzarla» [Voltaire 1756, cap. xciv]. Alla vigilia della
    rivoluzione francese l’Histoire philosophique et politique des
    établissements et du commerce des Européens dans les
    deux Indes (1770) dell’abate Raynal ebbe un grande successo:
    «Per Raynal come per tutto il partito “filosofico”, la storia
    è il campo chiuso dove si affrontano la ragione e i
    pregiudizi» [Ehrard e Palmade 1964, p. 36].
    
    Paradossalmente la rivoluzione francese non ha stimolato nel suo
    tempo la riflessione storica. Georges Lefebvre [1945-46, trad. it.
    pp. 150-52] ha visto molte ragioni per questa indifferenza: i
    rivoluzionari non s’interessavano alla storia, la facevano; essi
    volevano distruggere un passato detestato e non pensavano a
    dedicargli del tempo che poteva essere meglio impiegato in compiti
    creativi. Cosí come la gioventú era attratta dal
    presente e dall’avvenire, «il pubblico che durante l’Ancien
    régime si era interessato alla storia si era disperso o era
    scomparso o era economicamente rovinato» [ibid., p. 151].
    
    Tuttavia, Jean Ehrard e Guy Palmade hanno ricordato a giusto titolo
    l’opera della rivoluzione a favore della storia, nel campo delle
    istituzioni, dell’apparato documentario e dell’insegnamento. Su
    questo punto si ritornerà piú avanti. Cosí se
    Napoleone ha tentato di mettere la storia al suo servizio, ha
    continuato e sviluppato, in questo campo come in molti altri, quello
    che aveva fatto la rivoluzione. L’opera principale di questa nel
    campo della mentalità storica fu di avere costituito una
    rottura e dato a molti in Francia e in Europa la sensazione che essa
    non aveva solamente segnato l’inizio di una nuova era, ma che la
    storia cominciava con lei, quanto meno la storia di Francia:
    «Noi non abbiamo, propriamente parlando, una storia di Francia
    che a partire dalla rivoluzione», scrive, nel germinale
    dell’anno X, il giornale «La Décade
    philosophique». E Michelet scriverà: «Di fronte
    all’Europa, sappiatelo, la Francia non avrà mai che un nome,
    inespiabile, e che è il suo vero nome eterno: la
    rivoluzione» [citato in Ehrard e Palmade 1964, p. 62].
    Cosí si stabilisce, positivo per gli uni e negativo per gli
    altri (controrivoluzionari e reazionari), un grande traumatismo
    storico: il mito della rivoluzione francese.
    
    Verranno ricordati piú avanti il clima ideologico e
    l’atmosfera di sensibilità romantica nella quale è
    nata e si è sviluppata quella ipertrofia del senso storico
    che è stata lo storicismo. Si menzioneranno qui semplicemente
    due correnti, due idee che contribuirono in primo piano a promuovere
    la passione della storia durante il secolo XIX: l’ispirazione
    borghese alla quale sono allora legate le nozioni di classe e di
    democrazia, il sentimento nazionale. Il grande storico della
    borghesia è Guizot. Nel movimento comunale del XII secolo
    egli vede già la vittoria dei borghesi e la nascita della
    borghesia: «La formazione di una grande classe sociale, della
    borghesia, era il risultato necessario dell’affrancamento locale dei
    borghesi» [1829, trad. it. p. 269]. Donde l’origine della
    lotta delle classi, motore della storia: «Il terzo grande
    risultato dell’affrancamento dei Comuni fu la lotta delle classi:
    lotta che riempie la storia moderna. L’Europa moderna nacque dalla
    lotta delle diverse classi della società» [ibid., p.
    270]. Guizot e Augustin Thierry (soprattutto il Thierry dell’Essai
    sur l’histoire de la formation et des progrès du Tiers Etat,
    1850) hanno avuto un lettore attento, Karl Marx [1852]: «Molto
    tempo prima di me, storiografi borghesi hanno descritto lo sviluppo
    storico di questa lotta delle classi ed economisti borghesi la loro
    anatomia economica» (trad. it. p. 537). La democrazia uscita
    dalle vittorie borghesi ha un osservatore acuto nella persona del
    conte di Tocqueville: «Ho per le istituzioni democratiche una
    predilezione razionale, si dirà, ma sono aristocratico per
    istinto, vale a dire disprezzo e temo la folla. Amo con passione la
    libertà, la legalità, il rispetto dei diritti, ma non
    la democrazia» [citato in Ehrard e Palmade 1964, p. 61]. Egli
    studia i progressi della democrazia nella Francia dell’ancien
    régime, durante il quale essa procede per scoppiare poi nella
    rivoluzione (che, di conseguenza, non è piú un
    cataclisma, una novità sconvolgente, ma la conclusione di una
    lunga storia), e nell’America dell’inizio del XIX secolo, con un
    misto di spinte in avanti e retrocessioni. Tuttavia, Tocqueville ha
    delle formule che quasi superano quelle di Guizot: «Si
    è anzitutto della propria classe prima di essere della
    propria opinione», oppure «Mi si possono opporre
    indubbiamente gli individui; io parlo di classi; esse soltanto
    devono occupare la storia» [citato ibid.].
    
    L’altra corrente è il sentimento nazionale, che dilaga per
    l’Europa del XIX secolo e contribuisce potentemente a diffondervi il
    senso storico. È Michelet che scrive: «Francesi di ogni
    condizione, di ogni classe e di ogni partito, tenete bene a mente
    una cosa, non avete su questa terra che un amico sicuro, la
    Francia» [citato ibid., p. 62]. Chabod rammenta che se l’idea
    di nazione risale al medioevo, la novità sta nella religione
    della patria, che data dalla rivoluzione francese: «La nazione
    diventa la patria: e la patria diviene la nuova divinità del
    mondo moderno. Nuova divinità: e come tale sacra. È,
    questa, la gran novità che scaturisce dall’età della
    Rivoluzione francese e dell’Impero. Lo dice, per primo, Rouget de
    Lisle nella penultima strofa della Marsigliese: “Amour, sacré
    de la patrie | conduis, soutiens nos bras vengeurs”. E lo ripete,
    quindici anni piú tardi, il nostro Foscolo, proprio nella
    chiusa dei Sepolcri: “Ove fia santo e lagrimato il sangue | per la
    patria versato”» [1943-47, pp. 61-62]. E aggiunge che questo
    sentimento è stato soprattutto vivo nelle nazioni, nei popoli
    che non avevano ancora potuto realizzare la loro unità
    nazionale: «Com’è ovvio, l’idea di nazione sarà
    particolarmente cara ai popoli non ancora politicamente uniti…
    quindi, sarà soprattutto in Italia e in Germania che l’idea
    nazionale troverà assertori entusiasti e continui; e, dietro
    a loro, negli altri popoli divisi e dispersi, in primis i
    polacchi» [ibid., pp. 65-66]. Di fatto, la Francia non
    è meno toccata da questa influenza del nazionalismo sulla
    storia. È il sentimento nazionale che ispira una grande opera
    classica, L’Histoire de France, pubblicata sotto la direzione di
    Ernest Lavisse fra il 1900 e il 1912, alla vigilia della prima
    guerra mondiale. Ecco il programma che Lavisse assegnava
    all’insegnamento della storia: «All’insegnamento storico
    incombe il glorioso dovere di fare amare e di comprendere la patria…
    i nostri antenati galli e le foreste dei druidi, Carlo Martello a
    Poitiers, Rolando a Roncisvalle, Goffredo di Buglione a Gerusalemme,
    Giovanna d’Arco, tutti i nostri eroi del passato anche se circonfusi
    dalla leggenda… Se lo scolaro non porta con sé il vivo
    ricordo delle nostre glorie nazionali, se non sa che i nostri
    antenati hanno combattuto su mille campi di battaglia per nobili
    cause, se non ha appreso quel che di sangue e di sforzi è
    costato per fare l’unità della nostra patria e far scaturire
    poi dal caos delle nostre istituzioni invecchiate le leggi sacre che
    ci hanno fatti liberi, se egli non diventa un cittadino penetrato
    dai suoi doveri e un soldato che ama la sua bandiera, il maestro
    avrà perduto il suo tempo» [citato in Nora 1962, pp.
    102-3]. Non s’è ancora messo in evidenza che fino al XIX
    secolo manca un elemento essenziale della formazione di una
    mentalità storica. La storia non è oggetto
    d’insegnamento. Aristotele, s’è detto, l’aveva scartata dal
    novero delle scienze. Nelle università medievali non era tra
    le discipline insegnate [cfr. Grundmann 1965]. I gesuiti e gli
    oratoriani le fecero un po’ di spazio nei collegi [cfr. Dainville
    1954]. Ma fu la rivoluzione francese a dare l’impulso e furono i
    progressi dell’insegnamento scolastico – primario, secondario e
    superiore – nel XIX secolo ad assicurare la diffusione nelle masse
    di una cultura storica. Ormai uno dei migliori osservatori per lo
    studio della mentalità storica sono i manuali scolastici di
    storia.
    
    3. Filosofi della storia.
    
    Chi scrive ha già detto di condividere con la maggior parte
    degli storici una diffidenza nata dalla convinzione del danno
    prodotto dalla mescolanza dei generi e dei misfatti di tutte le
    ideologie suscettibili di far indietreggiare la riflessione storica
    sul difficile cammino della scientificità; e direbbe
    volentieri con Fustel de Coulanges: «Vi è una filosofia
    e vi è una storia, ma non vi è una filosofia della
    storia» [citato in Ehrard e Palmade 1964, p. 72]; e con Lucien
    Febvre [1949]: «Filosofeggiare… significa, in bocca a uno
    storico,… il delitto capitale» (trad. it. p. 181). Ma direbbe
    anche, con quest’ultimo, «Due spiriti, beninteso: la filosofia
    e la storia. Due spiriti irriducibili. Ma non si tratta,
    precisamente, di “ridurre” l’uno all’altro. Si tratta di fare in
    modo che, restando l’uno e l’altro sulle loro posizioni, essi non
    ignorino il vicino al punto da essergli, se non ostile, quanto meno
    estraneo» [1938, ed. 1953, p. 282].
    
    Si dirà di piú. Nella misura in cui l’ambiguità
    – rivelata dal vocabolario – tra la storia come svolgimento del
    tempo degli uomini e delle società e la storia come scienza
    di questo svolgimento resta fondamentale, nella misura in cui la
    filosofia della storia è stata spesso volontà di
    colmare – in modo probabilmente inadeguato – l’increscioso
    disinteresse degli storici «positivisti» – che si
    volevano puri eruditi – per i problemi teorici e il loro rifiuto di
    prendere coscienza dei pregiudizi «filosofici»
    sottostanti il loro lavoro, che si pretendeva puramente scientifico,
    «gli storici che rifiutano di giudicare non riescono ad
    astenersi dal giudizio. Essi non riescono che a nascondere a se
    stessi i principî che fondano i loro giudizi» [Keith
    Hancockeité, citato in Barraclough 1955, p. 157]. Lo studio
    dei filosofi della storia non soltanto fa parte di una riflessione
    sulla storia, ma s’impone a ogni studio della storiografia.
    Tuttavia, piú ancora che nelle altre parti del presente
    articolo, non si cercherà qui di essere completi; ci si
    porrà risolutamente nel discontinuo delle dottrine,
    poiché sono i modelli intellettuali e non l’evoluzione del
    pensiero che qui interessano, anche se l’inserimento degli esempi
    scelti nel loro ambiente storico richiederà molta attenzione.
    Gli esempi verranno scelti fra pensieri individuali (Tucidide,
    Agostino, Bossuet, Vico, Hegel, Marx, Croce, Gramsci), fra scuole
    (l’agostinismo, il materialismo storico) o correnti (lo storicismo,
    il marxismo, il positivismo). Si prenderanno due esempi di teorici
    che sono stati nel medesimo tempo degli storici e dei filosofi della
    storia, senza avere raggiunto un livello molto alto né
    nell’una né nell’altra di queste discipline, ma che hanno
    suscitato nel XX secolo reazioni rivelatrici: Spengler e Toynbee. Da
    una parte sono i casi di un grande spirito non occidentale, Ibn
    Khaldūn, e di un grande intellettuale contemporaneo, che è al
    tempo stesso un grande storico e un grande filosofo e che ha avuto
    un ruolo di primo piano nel rinnovamento della storia: Michel
    Foucault. Sembra che Carr abbia grosso modo ragione quando scrive
    [1961]: «Le civiltà classiche [della Grecia e di Roma]
    erano fondamentalmente astoriche… il padre della storia, Erodoto,
    ebbe un’esigua discendenza. In complesso, gli autori classici si
    preoccupavano poco sia del futuro che del passato. Tucidide credeva
    che nell’età che precedeva gli eventi da lui descritti non
    fosse accaduto niente d’importante, e che niente d’importante,
    probabilmente, si sarebbe verificato nell’età
    successiva» (trad. it. pp. 117-18). Sarebbe forse augurabile
    discutere piú da vicino il riassunto della storia greca
    (l’«archeologia») e i principali avvenimenti dopo le
    guerre persiane (la «pentecontaitria») che precedono la
    Storia della guerra del Peloponneso.
    
    Tucidide ha scritto una storia della guerra del Peloponneso
    dall’inizio, nel 431, fin verso il 411. «Egli si vuole
    positivista» [Romilly 1973, p. 82], esponendo «i fatti
    nell’ordine senza commenti». La sua filosofia è dunque
    implicita. «La guerra del Peloponneso è essa stessa
    stilizzata e per cosí dire idealizzata» [Aron 1961a, p.
    164]. Il grande motore della storia è la natura umana.
    Romilly ha ben messo in evidenza le frasi con le quali Tucidide
    indica che la sua opera sarà «una acquisizione per
    sempre»: valida «finché la natura umana
    resterà la stessa» essa rischiara non solo gli
    avvenimenti greci del V secolo ma anche «quelli che, in
    avvenire in virtú del carattere umano che è il loro,
    saranno simili o analoghi» [1973, p. 82]. Cosí la
    storia sarebbe come immobile, eterna, o piuttosto essa ha delle
    possibilità di costituire il ricominciamento eterno di uno
    stesso modello di cambiamento. Questo modello di cambiamento
    è la guerra: «Dopo Tucidide non vi furono piú
    dubbi che le guerre rappresentavano il piú evidente fattore
    di mutamento» [Momigliano 1972, ed. 1975 p. 18]. La guerra
    è una «categoria della storia» [Châtelet
    1962, trad. it. pp. 125 sgg.]. Essa è suscitata dalle
    reazioni di paura e di gelosia degli altri Greci di fronte
    all’imperialismo ateniese. Gli avvenimenti sono i prodotti di una
    razionalità che lo storico deve rendere intelligibile:
    «Tucidide, mentre estende progressivamente
    l’intelligibilità dell’azione voluta da un attore
    all’avvenimento, che non è stato voluto tale da nessuno,
    innalza l’avvenimento, sia esso stato conforme o no alle intenzioni
    degli attori, al di sopra della particolarità storica
    chiarendolo con l’impiego di termini astratti, sociologici o
    psicologici» [ibid.]. Tucidide, come quasi tutti gli storici
    dell’antichità, considera che la storia, nella sua scrittura,
    è strettamente legata alla retorica. Egli attribuisce dunque
    una importanza particolare ai discorsi (orazione funebre dei soldati
    ateniesi da parte di Pericle, dialogo degli Ateniesi e dei Melii) e
    il ruolo che egli assegna – con un pessimismo di fondo – tanto alla
    morale individuale quanto alla politica ha fatto di lui un
    precursore di Machiavelli, uno degli esponenti principali della
    filosofia occidentale della storia. Ranke gli ha dedicato il suo
    primo lavoro storico, la sua «tesi».
    
    Anche se si esagera il contrasto tra una storia pagana, che
    ruoterebbe intorno a una concezione circolare della storia, e una
    storia cristiana, che la ordinerebbe invece verso uno scopo in una
    corsa lineare, la tendenza dominante del pensiero giudaico-cristiano
    operò un mutamento radicale nel pensiero – e nella scrittura
    – della storia. «Furono gli ebrei, e dopo di loro i cristiani,
    che introdussero un elemento del tutto nuovo postulando un fine
    verso cui si dirigerebbe l’intero processo storico: nasceva,
    cosí, la concezione teleologica della storia. In tal modo la
    storia acquistava un significato e un fine, ma finiva col perdere il
    suo carattere mondano. Attingere il fine della storia avrebbe
    significato automaticamente mettere un termine alla storia stessa:
    la storiografia si trasformò in una teodicea» [Carr
    1961, trad. it. p. 118]. Colui che, piú degli storici
    cristiani antichi e come suo malgrado, fu il grande teorico della
    storia cristiana fu Agostino. Egli fu indotto a trattare di storia
    dai compiti del suo apostolato e dagli avvenimenti. Fu dapprima
    spinto a rifiutare la filosofia neoplatonica di Porfirio, «il
    piú illustre dei filosofi pagani», che aveva affermato
    che la «“via universale di salvezza”, quale era stata
    rivendicata dai cristiani, era fino a quel momento “ignota alla
    scienza storica”» [Brown 1967, trad. it. pp. 78, 318]. Volle
    in seguito riprendere le accuse lanciate dai pagani, dopo il sacco
    di Roma a opera di Alarico e dei Goti nel 410, contro i cristiani
    che, a loro parere, avevano minato le tradizioni e le forze del
    mondo romano, incarnazione della civiltà. Agostino respinse
    l’idea che l’ideale dell’umanità consistesse nell’opporsi al
    cambiamento. La salvezza degli uomini non era legata alla
    perennità della romanità. Vi erano due schemi storici
    operanti nella storia umana. I prototipi erano Caino e Abele. Il
    primo era all’origine di una storia umana, di una città del
    male – Babilonia – che serviva il diavolo e i suoi demoni; al
    secondo risale l’origine dell’«antica Città di Dio…
    sempre anelante al cielo – il cui nome è anche Gerusalemme o
    Sion». Nella storia umana le due città sono
    inestricabilmente unite, gli uomini vi sono stranieri, dei
    «pellegrini» [ibid., cap. XXVII], fino alla fine dei
    tempi, quando Dio separerà le due città. La storia
    umana è stata dapprima una catena senza significato, lo
    «spazio di tempo nel quale il neonato estromette il
    moribondo» [Agostino, De civitate Dei, XV, I, I], fino a che
    l’Incarnazione venne a darle un senso: «I secoli della storia
    passata sarebbero rotolati l’uno dopo l’altro come vasi vuoti, se
    Cristo non fosse venuto a riempirli» [In Joannis Evangelium
    Tractatus, IX, 6]. La storia della città terrestre è
    simile alla evoluzione di un organismo unico, di un corpo
    individuale. Esso passa per le sei età della vita e con
    l’Incarnazione è entrato nella vecchiaia, il mondo invecchia
    (mundus senescit), ma l’umanità ha trovato il senso
    dell’immenso concerto che lo trasporta fino a che si rivelerà
    «la bellezza del ciclo compiuto del tempo»; la
    «diligenza storica» non mostra che la medesima
    successione di avvenimenti, mentre qualche momento privilegiato
    lascia intravedere in questa «profetica verità»
    la possibilità della salvezza. Questo è l’affresco che
    alla fine traccia il De civitate Dei [XXII; cfr. Brown 1967, trad.
    it. pp. 318 sgg.], mescolando la gioiosa speranza nella salvezza e
    il senso tragico della vita [Marrou 1950].
    
    Le ambiguità del pensiero storico agostiniano hanno dato
    luogo in seguito, e particolarmente nel medioevo, a tutta una serie
    di deformazioni e semplificazioni: «È possibile seguire
    di secolo in secolo le metamorfosi che il piú delle volte non
    sono che caricature dello schema agostiniano del De civitate
    Dei» [Marrou 1961, p. 20]. La prima caricatura fu opera di un
    prete spagnolo, Paolo Orosio, la cui opera Adversus paganos,
    ispirata dall’insegnamento diretto di Agostino a Ippona, ebbe grande
    influenza nel medioevo. Nacquero cosí la confusione tra la
    nozione mistica di Chiesa, prefigurazione della città divina,
    e l’istituzione ecclesiastica che pretendeva sottomettersi la
    società terrena, la pseudospiegazione della storia opera di
    una Provvidenza imprevedibile ma sempre bene orientata, la
    persuasione nella decadenza progressiva dell’umanità
    d’altronde infallibilmente trascinata verso un fine voluto da Dio,
    il dovere di convertire a ogni costo i non cristiani per farli
    entrare nella storia della salvezza riservata ai soli cristiani.
    
    Mentre nel medioevo la storia occidentale, all’ombra di questa
    teoria «agostiniana», perseguiva lentamente e umilmente
    i compiti del mestiere di storico, l’Islam, dal canto suo, produceva
    tardivamente un’opera geniale nel campo della filosofia della
    storia, la Muqaddima di Ibn Khaldūn. Ma, a differenza del De
    civitate Dei, la Muqaddima, pur senza avere alcuna influenza
    immediata, prefigurava taluni degli elementi dello stato d’animo
    della storia scientifica moderna.
    
    Tutti gli specialisti sono concordi nel considerare Ibn Khaldūn come
    «uno spirito critico eccezionale per il suo tempo»
    [Monteil 1967-68, p. XXV], «un genio», cioè uno
    di quegli esseri dall’intuizione senza uguali [ibid., p. XXXV],
    «in anticipo sul suo tempo per le idee e i metodi»
    [ibid., p. XXXII]; Arnold Toynbee vede nella sua opera al-Muqaddima
    «senza alcun dubbio la piú grande opera del suo genere
    che sia mai stata finora creata, in ogni tempo e in ogni
    luogo» [citato ibid., p. XXXV].
    
    Pur senza essere in grado di analizzarla nel suo tempo, la si
    ricorda qui, perché da un lato costituisce ormai parte
    integrante di un settore dell’insieme della produzione storica
    dell’umanità, dall’altro perché capace oggi
    d’influenzare direttamente la riflessione storica del mondo
    musulmano e del Terzo Mondo. Ecco l’opinione di un intellettuale
    algerino, il medico Ahmed Taleb, imprigionato dai Francesi durante
    la guerra d’Algeria e che lesse Ibn Khaldūn in carcere: «Sono
    stato colpito specialmente dalla finezza e dalla penetrazione delle
    sue riflessioni sullo Stato e il suo ruolo, sulla Storia e la sua
    definizione. Egli ha aperto prospettive inconsuete alla psicologia…
    cosí come alla sociologia politica, mettendo l’accento, per
    esempio, sull’opposizione tra uomini di città e di campagna o
    sul ruolo dello spirito di corpo nella costituzione degli imperi e
    del lusso nella loro decadenza» [1959, p. 98]. Il geografo
    francese Yves Lacoste, dal canto suo, vede nella Muqaddima «un
    contributo fondamentale alla storia del sottosviluppo. Essa segna la
    nascita della storia in quanto scienza e ci riporta a una tappa
    essenziale del passato di quello che si chiama oggi il Terzo
    Mondo» [1966, p. 17].
    
    Ibn Khaldūn, nato a Tunisi nel 1332 e morto al Cairo nel 1406,
    scrisse nel 1377 la Muqaddima nel ritiro algerino presso Biscra,
    prima di trascorrere gli ultimi anni della sua vita al Cairo come
    qāī ‘giudice’ dal 1382 al 1406. La sua opera è una
    introduzione (Muqaddima) alla storia universale. A questo riguardo,
    egli si colloca nel solco di una grande tradizione musulmana e
    rivendica apertamente questa ascendenza. Per un lettore occidentale
    moderno l’inizio della Muqaddima evoca ciò che si scriveva in
    Occidente durante il Rinascimento, da uno a due secoli piú
    tardi, e ciò che avevano scritto taluni storici
    dell’antichità: «La storia è una nobile scienza.
    Essa presenta molti aspetti utili. Essa si propone di raggiungere un
    nobile scopo. Essa ci fa conoscere le condizioni proprie delle
    nazioni antiche, quali si traducono nel loro carattere nazionale.
    Essa ci trasmette la biografia dei profeti, la cronaca dei re, le
    loro dinastie e la loro politica. In tal modo, chi lo voglia
    può ottenere felici risultati imitando i modelli storici in
    materia religiosa o profana. Per scrivere opere storiche bisogna
    disporre di numerose fonti e di conoscenze assai varie. È
    necessario anche uno spirito ponderato e della acutezza: per
    condurre il ricercatore alla verità e preservarlo
    dall’errore» [Ibn Khaldūn, al-Muqaddima, Introduzione].
    
    Ibn Khaldūn presenta la sua opera come «un commento sulla
    civiltà» (umrāh). Ciò che prende in
    considerazione è il cambiamento e la sua spiegazione. Egli si
    distingue dagli storici che si accontentano di parlare di
    avvenimenti e di dinastie senza spiegarli. Egli «dà le
    cause degli avvenimenti» e pensa dunque di cogliere «la
    filosofia (hikma) della storia». Si è visto in Ibn
    Khaldūn il primo sociologo. Sembra piuttosto un amalgama di
    antropologo storico e filosofo della storia. Egli prende le distanze
    nei confronti della tradizione: «La ricerca storica unisce
    strettamente l’errore alla leggerezza. La fede cieca nella
    tradizione (taqlīd) è congenita…» Grazie al suo libro
    «non ci sarà piú bisogno di credere ciecamente
    nella tradizione» [ibid., Avvertenza]. Ciò che è
    particolarmente rilevante nelle sue spiegazioni è il
    riferimento alla società e alla civiltà che sono per
    lui le strutture e i campi essenziali, benché non trascuri
    né la tecnica né l’economia. Ecco, per esempio, il
    tipo di testimonianza che costituiscono per lo storico i monumenti
    edificati da una dinastia: «Tutti questi lavori degli antichi
    non sono stati possibili che con la tecnica e il lavoro concertato
    di una manodopera numerosa… Non bisogna dar fede alla credenza
    popolare, secondo la quale gli antichi erano piú grandi e
    forti di noi… L’errore dei narratori dipende qui dal fatto che essi
    ammirano le vaste proporzioni dei monumenti antichi, senza
    comprendere le differenti condizioni di organizzazione sociale
    (itgimā) e di cooperazione. Essi non vedono che tutto era questione
    di organizzazione sociale e di tecnica (hindām). Di conseguenza,
    immaginano a torto che i monumenti antichi siano dovuti alla forza e
    alla energia di esseri di taglia superiore» [ibid., I, III,
    16]. Come è naturale a un musulmano in funzione di ciò
    che vede e sa del passato dell’islam, egli accorda grande importanza
    all’opposizione nomadi/sedentari, beduini/cittadini. Uomo del
    Maghrib urbanizzato, egli s’interessa particolarmente alla
    civiltà urbana, ma considera anche il fenomeno dinastico e
    monarchico, e constata che non si tratta di un prodotto
    dell’urbanizzazione: «La dinastia precede la
    città», ma le è strettamente legata: «La
    monarchia chiama la città» [ibid., II, IV, 1-2].
    
    Dove egli appare piuttosto come un filosofo della storia è
    con la teoria (che annunzia Montesquieu, ma che è nella sua
    epoca già tradizionale presso gli storici e i geografi
    musulmani) dell’influenza dei climi, non priva di razzismo (nei
    confronti dei negri), e soprattutto con la teoria del declino. Ogni
    organizzazione sociale e politica non dura che per un certo periodo
    di tempo e va verso il declino, piú o meno rapidamente: per
    esempio, il prestigio di un lignaggio non dura che quattro
    generazioni. Questo meccanismo è assai chiaro nel caso delle
    monarchie: per natura la monarchia vuole la gloria, il lusso e la
    pace, ma divenuta gloriosa, lussuosa e pacifica, essa volge al
    declino. Ibn Khaldūn non separa in questo processo gli aspetti
    morali da quelli sociali: «Una dinastia non dura,
    generalmente, piú di tre generazioni: la prima generazione
    conserva le virtú beduine, la rudezza e la selvatichezza del
    deserto… essa conserva dunque il suo spirito di clan. I suoi membri
    sono decisi e temuti e le genti gli obbediscono… Sotto l’influenza
    della monarchia e del benessere, la seconda generazione passa dalla
    vita beduina alla vita sedentaria, dalla privazione al lusso e
    all’abbondanza, dalla gloria comune e condivisa alla gloria di uno
    solo… il vigore dello spirito tribale è incrinato, la gente
    si abitua al servilismo e all’obbedienza… la terza generazione ha
    completamente dimenticato l’epoca della rude vita beduina… Ha
    perduto ogni gusto per la gloria e i legami del sangue,
    poiché è governata con la forza… I suoi membri
    dipendono dalla dinastia che li protegge, come donne e bambini. Lo
    spirito di clan scompare completamente… Il sovrano deve dunque fare
    appello alla sua clientela, al suo seguito. Ma Dio permette un
    giorno che la monarchia venga distrutta» [ibid., I, III, 12].
    Ciò che questa teoria sottende è l’assimilazione di
    una forma sociopolitica a una persona umana, un modello
    organicistico, biologico della storia. Nondimeno, la Muqaddima resta
    una delle grandi opere del sapere storico. Come ha detto Jacques
    Berque, si tratta di «un pensiero maghribino, islamico e
    mondiale… la gioia amara dell’intelligibile ha segnato, per
    quest’uomo in disgrazia, la storia che si svolgeva in quel momento
    stesso, e che egli ha avuto per primo il merito di situare entro
    cosí vaste prospettive» [1970, p. 327].
    
    Ma si torni ora all’Occidente. L’antichità greco-romana non
    aveva avuto il vero senso della storia. Essa non aveva avanzato come
    schemi esplicativi generali che la natura umana (vale a dire
    l’immutabilità), il destino e la fortuna (vale a dire
    l’irrazionalità), lo sviluppo organico (vale a dire il
    biologismo). Essa aveva posto il genere storico nel campo dell’arte
    letteraria e gli aveva assegnato come funzioni il divertimento e
    l’utilità morale. Ma essa aveva prefigurato una concezione e
    una pratica «scientifica» della storia sulla
    testimonianza (Erodoto), l’intelligibilità (Tucidide), la
    ricerca della cause (Polibio), la ricerca e il rispetto della
    verità (tutti e infine Cicerone). Il cristianesimo aveva dato
    alla storia un senso, ma l’aveva sottomessa alla teologia. Il XVIII
    e soprattutto il XIX secolo dovevano assicurare il trionfo della
    storia in sé, dandone un senso secolarizzato con l’idea di
    progresso, fondendone le funzioni di sapere e di saggezza per mezzo
    di concezioni (e di pratiche) scientifiche che l’assimilavano tanto
    alla realtà, non piú soltanto alla verità
    (storicismo), quanto alla prassi (marxismo).
    
    Ma l’intermezzo che separa la teologia della storia medievale dallo
    storicismo trionfante del XIX secolo non è per nulla privo
    d’interesse dal punto di vista della filosofia della storia.
    
    Secondo George Nadel [1964], l’età d’oro della filosofia
    della storia sarebbe stata il periodo che va approssimativamente dal
    1550 al 1750. Il suo punto di partenza sarebbe stata l’affermazione
    di Polibio: «L’insegnamento che si ricava dalla storia
    è la piú efficace istruzione e la migliore
    preparazione alla vita politica» [Storie, I, I].
    
    Occorre introdurre qui una nota. Si può a questo proposito
    scorgere l’influenza di Machiavelli e Guicciardini, ma a condizione
    di rilevare la posizione marginale di ciascuno di questi pensatori
    quanto al rapporto tra storia e politica [Gilbert 1965]. Per
    Machiavelli l’idea essenziale è quella della
    specificità della politica e, in un certo modo, la politica,
    che deve essere ricerca della stabilità della società,
    deve opporsi alla storia che è un flusso perpetuo, sottoposto
    ai capricci della Fortuna, come in effetti sostenevano Polibio e gli
    storici dell’antichità. Per Machiavelli gli uomini dovevano
    rendersi conto della «impossibilità di fondare un
    ordine sociale permanente, che rispecchi la volontà di Dio o
    in cui la giustizia sia distribuita in modo da rispondere a tutte le
    esigenze umane». Di conseguenza, «Machiavelli si attenne
    fermamente all’idea che la politica aveva le proprie leggi e quindi
    era o avrebbe dovuto essere una scienza; il suo scopo era di tenere
    in vita la società nel perpetuo fluire della storia».
    La conseguenza di questa concezione era «il riconoscimento
    della necessità della coesione politica e la tesi
    dell’autonomia della politica sviluppatasi in seguito nel concetto
    di stato» [Gilbert 1965, trad. it. p. 171].
    
    Guicciardini, al contrario, vuole e realizza l’autonomia della
    storia a partire dalla medesima constatazione del cambiamento (del
    quale si è detto scherzosamente che era la sola legge
    discernibile della storia). Specialista dello studio del
    cambiamento, «lo storico acquistava cosí la propria
    funzione peculiare, e la storia assumeva un’esistenza autonoma nel
    mondo della conoscenza; il significato della storia non andava
    cercato altrove che nella storia stessa. Lo storico diventava
    registratore e interprete insieme. La Storia d’Italia di
    Guicciardini è l’ultima grande opera storica condotta secondo
    lo schema classico, ma è anche la prima grande opera della
    storiografia moderna» [ibid., p. 255].
    
    Per tornare a Nadel, la sua idea è che la concezione
    dominante della storia, dal Rinascimento all’illuminismo, sia stata
    la concezione della storia esemplare, didattica nei suoi propositi,
    induttiva nel metodo e fondata sui luoghi comuni degli stoici,
    retori e storici romani. La storia era ridiventata un insegnamento
    per i governanti come al tempo di Polibio. Questa concezione della
    storia magistra vitae ispira sia studi particolari, sia dei trattati
    sulla storia, delle artes historicae (una collezione di questi
    trattati, l’Artis Historicae Penus in due volumi fu pubblicata a
    Basilea nel 1579), tra i quali i piú importanti furono, nel
    XVI secolo, il Methodus ad facilem historiarum cognitionem di Jean
    Bodin (1566), nel XVII secolo l’Ars historica (1623) di Voss, per il
    quale la storia era la conoscenza delle particolarità che
    è utile rammentare «ad bene beateque vivendum»,
    nel XVIII secolo la Méthode pour étudier l’histoire di
    Lenglet du Fresnoy, la cui prima edizione, seguita da molte altre,
    è del 1713.
    
    La storia dei filosofi dei lumi, che si sforzarono di rendere la
    storia razionale, aperta alle idee d’incivilimento e di progresso,
    non ha sostituito la concezione della storia esemplare, e la storia
    è cosí sfuggita alla grande rivoluzione scientifica
    dei secoli XVII e XVIII. La storia esemplare è sopravvissuta
    finché non è stata rimpiazzata dallo storicismo.
    Questa nuova concezione dominante della storia è nata in
    Germania, piú particolarmente a Göttingen. Alla fine del
    secolo XVIII e agli inizi del XIX, degli universitari che non
    dovevano preoccuparsi di un pubblico per il quale la storia era da
    considerare una scienza etica, la trasformarono in una faccenda per
    professionisti, specialisti. «La lotta tra lo storico
    antiquario e lo storico filosofo, il saggio pedante e il gentleman
    ben educato terminò con la vittoria dell’erudito sul
    filosofo» [Nadel 1964, p. 315]. Già nel 1815 Savigny
    aveva affermato che la storia non è piú soltanto una
    raccolta di esempi, ma la sola via alla conoscenza vera della nostra
    condizione particolare. La dichiarazione piú netta, che
    è divenuta celebre, è quella di Ranke: «Si
    è attribuito alla storia la funzione di giudicare il passato
    e di istruire il presente per rendere il futuro utile; il mio
    tentativo non tende a cosí gigantesche funzioni, tende
    soltanto a mostrare come le cose sono realmente andate» [1824,
    ed. 1957, p. 4].
    
    Prima di esaminare le nuove concezioni della storia erudita tedesca
    del secolo XIX, cioè lo storicismo, occorre rettificare
    l’interessante idea di Nadel su due punti. Il primo è che le
    idee dei principali storici della fine del secolo XVI non si
    riducono all’idea della storia esemplare, ma che la teoria della
    storia perfetta o integrale va assai al di là. Il secondo –
    al quale Nadel allude – è che la teoria provvidenzialista
    cristiana della storia prosegue nel secolo XVII e trova la sua
    piú rilevante espressione nel Discours sur l’histoire
    universelle (1681).
    
    Un certo numero di storici francesi nella seconda metà del
    secolo XVI espressero una visione molto ambiziosa della storia: la
    storia integrale compiuta o perfetta. S’incontra questa concezione
    in Bodin, in Nicolas Vigner, autore di un Sommaire de l’histoire des
    français (1579), di una Bibliothèque historiale
    (1588), in Louis le Roy (De la vicissitude ou variété
    des choses en l’univers…, 1575) e soprattutto in Lancelot-Voisin de
    La Popelinière con un volume di tre trattati: L’Histoire de
    l’histoire, L’idée de l’histoire accomplie, Le Dessein de
    l’Histoire nouvelle des français (1599). Bodin è
    soprattutto conosciuto per la sua idea dell’influenza del clima
    sulla storia, che annunzia Montesquieu e la sociologia storica. Ma
    il suo Methodus (1566) non è che un’introduzione al suo
    grande trattato La République (1576). È un filosofo
    della storia e della politica e non uno storico. La sua concezione
    della storia resta fondata sull’idea umanista di utilità.
    
    Tutti questi sapienti hanno in comune tre idee che La
    Popelinière esprimerà nel modo migliore. La prima
    è che la storia non è pura narrazione, opera
    letteraria. Essa deve ricercare le cause. La seconda, la piú
    nuova e la piú importante, è che oggetto della storia
    sono le civiltà e la civiltà. Questa comincia prima
    ancora della scrittura. «Nella sua forma piú primitiva,
    – sostiene La Popelinière, – la storia va cercata ovunque,
    nelle canzoni e nelle danze, nei simboli e in altri procedimenti
    mnemonici» [citato in Huppert 1970, p. 137]. È la
    storia dei tempi in cui gli uomini erano «rurali e non
    civilizzati» [ibid.]. La terza idea è che la storia
    dev’essere universale, nel senso piú completo: «La
    storia degna di questo nome deve essere generale» [ibid., p.
    139]. Myriam Yardeni [1964] ha giustamente sottolineato che questa
    storia era un fatto nuovo e che La Popelinière ne ha
    precisamente sottolineato la novità. Ma egli era ostacolato
    dalla sua concezione cristiana pessimista.
    
    L’agostinismo storico che pesa ancora su La Popelinière ha
    dato il suo ultimo capolavoro con il Discours sur l’histoire
    universelle di Bossuet (1681). Bossuet, che doveva scrivere un
    compendio della storia di Francia per il suo allievo, il Delfino,
    figlio di Luigi XIV, incomincia anche il suo Discours per il suo
    discepolo: la prima parte, una specie di panorama della storia fino
    a Carlomagno, è un vero discorso, la seconda,
    «dimostrazione… della verità della religione cattolica
    nei suoi rapporti con la storia, è un sermone»
    [Lefebvre 1945-46, trad. it. p. 93]. La terza parte, esame del
    destino degli imperi, è piú interessante. Infatti,
    sotto l’affermazione generale del dominio imprevedibile della
    Provvidenza sulla storia, appare una razionalità della Storia
    dovuta al fatto che gli avvenimenti particolari entrano in sistemi
    generali, globalmente determinati, Dio intervenendo (e raramente)
    solo attraverso l’intermediario di cause seconde. Non soltanto, ma
    Bossuet, benché abbia letto i lavori degli eruditi, è
    molto spesso a metà tra l’apologetica e la polemica;
    tuttavia, l’idea di una verità che si sviluppi nel tempo gli
    è estranea. «Per lui il cambiamento è sempre il
    segno dell’errore. Ciò che manca di piú a questo
    storico, prigioniero di una certa teologia, è il senso del
    tempo e dell’evoluzione» [Ehrard e Palmade 1964, p. 33].
    
    Resta da ricordare una filosofia della storia originale, isolata nel
    suo tempo ma che ha conosciuto una sorprendente posterità,
    quella di Giambattista Vico, professore all’università di
    Napoli, la cui opera principale, La Scienza nuova (o piú
    esattamente Principî di scienza nuova d’intorno alla commune
    natura delle nazioni) ha conosciuto parecchie edizioni dal 1725 al
    1740. Cattolico, Vico è antirazionalista. Egli
    «introduceva una sorta speciale di dualismo fra la storia
    sacra e la storia profana. Poneva tutta la moralità e la
    razionalità dalla parte della storia sacra e vedeva nella
    storia profana lo sviluppo di istinti irrazionali, di una
    immaginazione truculenta, di una violenta ingiustizia»
    [Momigliano 1966c, p. 156]. Le passioni umane conducono le nazioni e
    i popoli alla decadenza. Una specie di lotta di classe tra gli
    «eroi» conservatori e i «bestioni» plebei e
    sostenitori del cambiamento termina in generale con la vittoria dei
    bestioni, la decadenza dopo l’apogeo e il passaggio a un altro
    popolo che, a sua volta, cresce e declina: «È l’uomo
    che ha fatto questo mondo storico».
    
    Questa filosofia della storia ha ispirato ammiratori molto diversi.
    Michelet ha tradotto in francese la Scienza nuova nel 1836 e
    nell’introduzione ha affermato: «Il motto della Scienza Nuova
    è questo: l’umanità è l’opera di se
    stessa». Croce ha in parte formato il suo pensiero storico
    sulla lettura e il commento di Vico (La filosofia di Giambattista
    Vico, 1911). Vi è un’interpretazione marxista di Vico, del
    quale Marx raccomandava la lettura a Lassalle nel 1861, che si
    è sviluppata attraverso Georges Sorel (Etudes sur Vico, in
    «Le devenir social», 1896), Antonio Labriola, Paul
    Lafargue, la citazione di Trockij nella prima pagina della Storia
    della rivoluzione russa (Istorija russkoj revoljucii, 1931-33) e che
    ha ispirato l’Introduzione a G. B. Vico (1961) di Nicola Badaloni.
    Ernst Bloch ha scritto: «È con Vico che riappare per la
    prima volta, dopo il De civitate Dei di Agostino, una filosofia
    della storia, senza storia della salvezza, ma sostenuta
    dall’affermazione applicantesi alla storia tutta intera che non vi
    sarebbe comunità umana senza il legame della religione»
    [1972, p. 154].
    
    Lo storicismo è stato definito da Nadel nel modo seguente:
    «Il suo fondamento è il riconoscimento che gli
    avvenimenti storici devono essere studiati non, come si faceva in
    precedenza, come dati per una scienza della morale o della politica,
    ma come fenomeni storici. Nella pratica, ciò si è
    manifestato con l’affermarsi della storia come disciplina
    universitaria indipendente, di nome e di fatto. In campo teorico,
    ciò si espresse con due proposizioni: 1) ciò che
    è accaduto deve essere spiegato in funzione del momento in
    cui è accaduto; 2) esiste per spiegarlo una scienza dotata di
    specifici procedimenti logici, la scienza della storia. Nessuna di
    queste due proposizioni era nuova; nuova era invece l’insistenza con
    la quale le si sottolineava e che condusse a esagerare ambedue in
    modo dottrinale: dalla prima si trasse l’idea che fare la storia di
    qualcosa significasse darne una spiegazione sufficiente, e chi
    attribuiva un ordine logico all’ordine cronologico degli avvenimenti
    considerò la scienza storica capace di predire il
    futuro» [1964, p. 291].
    
    Lo storicismo è da ricollocare nell’insieme delle correnti
    filosofiche del secolo XIX, come ha fatto Maurice Mandelbaum [1971].
    Egli constata che vi sono due fonti distinte e forse opposte. Una
    è la rivolta romantica contro l’illuminismo, mentre l’altra
    era, sotto certi aspetti, la continuazione della tradizione
    dell’illuminismo. La prima tendenza apparve alla fine del XVIII
    secolo, soprattutto in Germania, ed essa considerò lo
    sviluppo storico sul modello della crescita degli esseri viventi. Da
    questa tendenza uscí Hegel, che si spinse molto piú
    lontano. La seconda, che si sforzò di stabilire una scienza
    della società fondata su leggi dello sviluppo sociale, ebbe
    come maestri Saint-Simon e Comte; il marxismo appartiene a questa
    tendenza. Di fatto, nel XIX secolo, lo storicismo segnò tutte
    le scuole di pensiero e ciò che lo fece alla fine trionfare
    fu la teoria di Darwin su The Origin of Species (1859),
    l’evoluzionismo. Il concetto centrale è quello di sviluppo,
    spesso precisato da quello di progresso. Ma lo storicismo si
    arenò sul problema dell’esistenza in storia di leggi che
    avessero un senso e su quello di un modello unico di sviluppo
    storico.
    
    Con Georg Iggers si ricorderanno, sommariamente, i fondamenti
    teorici dello storicismo tedesco in Wilhelm von Humboldt e Leopold
    von Ranke, l’apice dell’ottimismo storicistico con la scuola
    prussiana e la crisi dello storicismo con la filosofia critica della
    storia di Dilthey e di Max Weber, con il relativismo storico di
    Troeltsch e Meinecke.
    
    Wilhelm von Humboldt, filosofo del linguaggio, diplomatico,
    fondatore dell’università di Berlino nel 1810, scrisse
    numerose opere storiche e riassunse il suo pensiero nel trattato Il
    dovere dello storico [1821]. Humboldt, spesso vicino al
    romanticismo, influenzato (positivamente e negativamente insieme)
    dalla rivoluzione francese, fu il creatore della dottrina delle idee
    storiche; egli insistette sull’importanza dell’individuo in storia,
    sul posto centrale della politica in storia, chiave di volta della
    filosofia della storia che ispirò la scienza storica tedesca
    da Ranke a Meinecke [cfr. Iggers 1971, pp. 84-85]. Le idee non sono
    idee metafisiche, platoniche, esse sono storicamente incarnate in un
    individuo, in un popolo (spirito del popolo, Volksgeist), in
    un’epoca (spirito del tempo, Zeitgeist), ma restano vaghe.
    Benché non sia «né un nichilista né un
    relativista», egli ha una concezione fondamentalmente
    «irrazionale» della storia.
    
    Il piú grande e il piú importante degli storici e
    teorici tedeschi della storia del secolo XIX è Leopold von
    Ranke. La sua opera di storico concerne soprattutto la storia
    europea dei secoli XVI-XVII e la storia prussiana dei secoli
    XVIII-XIX. Egli scrisse alla fine della sua vita una Storia
    universale (Weltgeschichte), che rimase però incompiuta.
    Ranke è stato piú un metodologo che un filosofo della
    storia. È stato «il piú grande maestro del
    metodo critico-filologico» [Fueter 1911, trad. it. p. 606].
    Lottando contro l’anacronismo, egli ha denunziato il falso
    romanzesco storico del romanticismo, per esempio dei romanzi di
    Walter Scott, e affermato che il grande compito dello storico
    consisteva nel dire «quel che propriamente è
    stato». Ranke ha impoverito il pensiero storico accordando
    un’importanza eccessiva alla storia politica e diplomatica. Ma si
    è deformato il suo pensiero in due sensi, positivista e
    idealista. Gli storici francesi [Langlois e Seignobos 1898] e
    soprattutto americani [Adams 1884] hanno visto in lui il
    «padre della storia», di una storia che si limitava alla
    «stretta osservanza dei fatti, [al]l’assenza di moralizzazione
    e di ornamento, [al]la pura verità storica» [ibid., pp.
    104 sgg.; cfr. Iggers 1971, pp. 86 sgg.].
    
    Ora, Ranke si è certamente posto, nella scia di Humboldt,
    come un sostenitore (prudente) della dottrina delle idee storiche e
    ha attribuito grande importanza alla psicologia storica, come ha
    mostrato nella sua Storia dei papi romani [1834-36]. Ma
    benché si siano spesso utilizzate un certo numero di frasi
    nelle quali egli dice che «ciascun popolo è immediato
    con Dio», egli è stato un «avversario delle
    teorie storiche nazionali» [Fueter 1911, trad. it. p. 607].
    
    L’ottimismo storicista raggiunse l’apogeo con la scuola prussiana,
    le cui figure piú rilevanti furono Johann Gustav Droysen, che
    espresse le sue teorie nel Sommario di istorica (Grundriss der
    Historik, 1858) e Heinrich von Sybel. Droysen pensa che non vi sia
    conflitto tra la morale e la storia o la politica. Se un governo non
    poggia sulla forza pura e semplice ma anche su un’etica, esso
    raggiunge lo stadio supremo della realizzazione etico-storica, lo
    Stato. Lo Stato prussiano è stato nel XIX secolo il modello
    di questo risultato, realizzato nell’antichità anche da
    Alessandro. In seno allo Stato non esiste piú conflitto tra
    la libertà individuale e il bene comune.
    
    Sybel insistette ancora di piú sulla missione dello Stato e
    sulla realtà di un progresso generale dell’umanità. Vi
    aggiunse una preminenza della ragion di Stato, dovendo la forza
    avere la meglio in caso di conflitto con il diritto.
    
    Questo smilzo sommario dovrebbe essere arricchito da uno studio
    degli stretti legami tra queste concezioni della storia e la storia
    tedesca e europea del XIX secolo e da uno studio degli altri campi
    della scienza nei quali lo storicismo tedesco si è
    trionfalmente installato, per esempio la scuola storica del diritto,
    la scuola storica dell’economia, la linguistica storica, ecc.
    [Iggers 1973].
    
    Alla fine del secolo si assistette al riflusso dello storicismo in
    Germania, mentre aveva la meglio altrove, ma con deformazioni
    positiviste (Francia, Stati Uniti) o idealiste (Italia: Croce).
    
    Iggers si è giustamente espresso dicendo che la critica allo
    storicismo fu fatta prima del 1914-18 soprattutto come critica
    dell’idealismo e, dopo, soprattutto come critica dell’idea di
    progresso. Vanno distinte, in particolare, la critica dei filosofi e
    la critica degli storici.
    
    Per quanto riguarda la prima, rinvio al grande libro di Raymond Aron
    La philosophie critique de l’histoire [1938b] e ai bei saggi Lo
    storicismo tedesco contemporaneo di Pietro Rossi [1956] e Lo
    storicismo di Carlo Antoni [1957].
    
    Verranno ricordate ora le due principali figure della critica
    filosofica: Dilthey e Max Weber. Dilthey ha cominciato col criticare
    i concetti fondamentali dello storicismo di Humboldt e di Ranke:
    anima popolare (Volksseele), spirito del popolo (Volksgeist),
    nazione, organismo sociale, che sono per lui concetti
    «mistici», inutili alla storia [Iggers 1971, p. 180].
    Poi ha pensato che il sapere era possibile nelle scienze dello
    spirito – ivi compresa la storia – perché la vita «si
    obiettiva» in istituzioni quali la famiglia, la società
    civile, lo Stato, il diritto, l’arte, la religione e la filosofia
    [ibid., p. 182]. Alla fine della sua vita (1903), egli pensava di
    scorgere il fine della sua ricerca per stabilire «una critica
    della ragione storica». Egli credeva che «la visione
    storica del mondo (geschichtliche Weltanschauung) fosse la
    liberazione dello spirito umano, che essa affrancava dalle ultime
    catene che le scienze della natura e la filosofia non avevano
    spezzato» [ibid., p. 188]. Tutta la critica dello storicismo,
    alla fine del secolo XIX e agl’inizi del XX, è ambigua. Essa
    cerca, come si è visto con Dilthey, piú di superare lo
    storicismo che di rinnegarlo.
    
    Max Weber, oltre che filosofo, è stato un grande storico e
    sociologo. Raymond Aron ha sintetizzato la teoria weberiana della
    storia nei termini seguenti: «Tutte le polemiche di Weber
    hanno come scopo di dimostrare indirettamente la sua teoria,
    escludendo le concezioni che potrebbero minacciarla. La storia
    è una scienza positiva; questa proposizione è messa in
    dubbio da: a) i metafisici, consapevoli o inconsapevoli, dichiarati
    o pudichi, che utilizzano un concetto trascendentale
    (libertà) nella logica della storia; b) gli esteti e/o i
    positivisti, che partono dal pregiudizio secondo il quale non si
    dà scienza e concetto che del generale, essendo l’individuo
    suscettibile di essere soltanto intuitivamente. La storia è
    sempre parziale, perché il reale è infinito,
    perché l’ispirazione della ricerca storica cambia con la
    storia stessa. Mettono in pericolo queste proporzioni: a) i
    “naturalisti”, che proclamano che la legge è il fine unico
    della scienza o che pensano di esaurire il contenuto della
    realtà per mezzo di un sistema di relazioni astratte; b) gli
    storici ingenui che, inconsapevoli dei loro valori, si immaginano di
    scoprire nel mondo storico stesso la selezione dell’importante e
    dell’accidentale; c) tutti i metafisici, che credono di aver colto
    in maniera positiva l’essenza dei fenomeni, le forze profonde, le
    leggi del tutto, che governerebbero il divenire al di sopra della
    testa degli uomini che pensano e credono di agire» [1938b, p.
    256]. Si vede come Max Weber combattesse lo storicismo sia dal lato
    idealistico sia da quello positivistico, i due versanti del pensiero
    storico tedesco del XIX secolo.
    
    Questo capitolo sullo storicismo e sulla sua critica si chiude con i
    due ultimi grandi storici tedeschi del XIX secolo: Ernst Troeltsch e
    Friedrich Meinecke, che verso la fine della loro attività
    hanno pubblicato due opere sullo storicismo: Il trionfo dello
    storicismo [1924] e Le origini dello storicismo [1936].
    
    Prima di tutto essi sono i primi a chiamare Historismus ‘storicismo’
    il movimento storiografico tedesco del XIX secolo, la cui figura
    centrale fu Ranke. Ne seguí tra l’altro una interminabile
    polemica sul modo di tradurre il vocabolo in francese – ed
    eventualmente di definirlo – con i termini historisme o historicisme
    [Iggers 1973]. In italiano si è usato soltanto il termine
    ‘storicismo’. Le due opere sono infatti una critica dello storicismo
    e nello stesso tempo un monumento alla sua gloria. Troeltsch, che
    come Ranke pensava che non vi è una storia ma delle storie,
    aveva voluto superare il dualismo fondamentale dello storicismo: il
    conflitto tra natura e spirito, azione sotto l’impulso della forza
    (ϰράτος) e azione secondo la giustificazione morale (῎Εθος),
    coscienza storicistica e bisogno di valori assoluti. Meinecke
    accetta questo dualismo [cfr. Chabod 1927]. Egli definisce lo
    storicismo «il piú alto grado raggiunto nella
    comprensione delle cose umane». Indubbiamente, egli si
    arresta, come ha ben visto Carlo Antoni, prima della dissoluzione
    della ragione e della fede nel pensiero, principio di unità
    della natura umana, proprio a causa dell’umanesimo che Ranke aveva
    mantenuto. Ma Delio Cantimori [1945] ha dato ragione a Croce, che
    vedeva nello storicismo definito da Meinecke una sorta di tradimento
    «irrazionale» dello «storicismo vero».
    «“Storicismo”, nell’uso scientifico della parola, è
    l’affermazione che la vita e la realtà è storia e
    nient’altro che storia. Correlativa a quest’affermazione è la
    negazione della teoria che considera la realtà divisa in
    soprastoria e storia, in un mondo d’idee o di valori, e in un basso
    mondo che li riflette, o li ha riflessi finora, in modo fuggevole e
    imperfetto, e al quale converrà una buona volta imporli
    facendo succedere alla storia imperfetta, o alla storia senz’altro,
    una realtà razionale e perfetta… Il Meinecke, invece, fa
    consistere lo storicismo nell’ammissione di quel che d’irrazionale
    è nella vita umana, nell’attenersi all’individuale senza per
    altro trascurare il tipico e il generale che vi si lega, e nel
    proiettare questa visione dell’individuale sullo sfondo della fede
    religiosa o del religioso mistero… Ma lo storicismo vero, in tanto
    critica e vince il razionalismo astratto dell’illuminismo, in quanto
    è piú profondamente razionalista di esso…»
    [Croce 1938, pp. 51-53]. Alla vigilia del nazismo, le opere di
    Troeltsch e di Meinecke rappresentarono le tombe glorificatrici
    dello storicismo. Ma si faccia un passo indietro per ritornare a
    Georg Wilhelm Friedrich Hegel, che è stato il primo filosofo
    a mettere la storia al centro della sua riflessione. Sotto
    l’influenza della rivoluzione francese, egli fu il primo a vedere
    «l’essenza della realtà nel divenire storico e nello
    sviluppo dell’autocoscienza» [Carr 1961, trad. it. p. 145].
    Affermando che «tutto ciò che è razionale
    è reale e tutto ciò che è reale è
    razionale», egli ritiene che la storia sia governata dalla
    ragione. «L’unico pensiero che essa [la filosofia] porta con
    sé è il semplice pensiero della ragione: che la
    ragione governi il mondo, e che quindi anche la storia universale
    debba essersi svolta razionalmente» [Hegel 1830-31, trad. it.,
    I, p. 7]. La storia stessa è presa in un sistema che è
    quello dello Spirito. La storia non è identica alla logica.
    Hélène Védrine ha portato l’attenzione su un
    passo della Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio
    [1830]: «Ma lo spirito pensante della storia universale, –
    poiché insieme ha cancellato quelle limitatezze degli spiriti
    dei popoli particolari e il suo proprio carattere terreno, –
    conquista la sua universalità concreta e si eleva al sapere
    dello spirito assoluto, come della verità eternamente reale,
    nella quale la ragione conoscitrice è libera per sé, e
    la necessità, la natura e la storia sono solo gli strumenti
    della rivelazione e dell’onore dello spirito» (trad. it. pp.
    525-26). La Védrine nota giustamente che quest’opera attesta
    sí l’idealismo di Hegel, ma soprattutto che in essa si
    manifesta «il paradosso di tutte le filosofie della storia:
    per cogliere il senso dello sviluppo, bisogna trovare il punto
    focale nel quale si sopprimono gli avvenimenti nella loro
    singolarità ed essi diventano significativi secondo una
    griglia che permette di interpretarli. Nella sua totalizzazione, il
    sistema produce un concetto del suo oggetto in modo che l’oggetto
    diventa razionale e sfugge con ciò all’imprevisto e a una
    temporalità nella quale il caso potrebbe avere un
    ruolo» [1975, p. 21]. Quanto al processo storico, Hegel
    precisa che «nella storia del mondo non si può trattare
    che di popoli i quali costituiscano uno stato» [1830-31, trad.
    it., I, p. 107] e nella Filosofia del diritto [1821] egli presenta
    lo Stato moderno dopo la rivoluzione francese formato da tre classi:
    la classe sostanziale o contadina, la classe industriale, la classe
    universale (= burocrazia), che sembra rappresentare la perfezione
    nella storia. Certo, Hegel non ha arrestato la storia a questo
    punto; egli pensa piuttosto che la preistoria si è conclusa e
    che la storia, che non è piú il cambiamento dialettico
    ma il funzionamento razionale dello Spirito, abbia avuto inizio.
    
    Senza dubbio Ranke ha vivamente criticato Hegel [Simon 1928] e il
    suo modello di un processo unico di sviluppo lineare, ma si
    può sostenere, che «dal punto di vista della conoscenza
    come da quello del valore, Hegel rappresenti uno storicismo
    completo, sistematicamente applicato» [Mandelbaum 1971, p.
    60].
    
    Non si può collocare il materialismo storico nel campo dello
    storicismo che dando a quest’ultimo un significato molto vasto (si
    veda piú avanti la critica di Althusser a questa concezione).
    Per Marx [cfr. Vilar 1978; Lichtheim 1973], la «concezione
    materialistica della storia» (espressione che non ha mai
    usato) ha un duplice carattere: 1) come principio generale la
    ricerca storica sotto una forma di concettualizzazione semplicemente
    abbozzata; 2) come teoria del processo storico reale una
    applicazione: lo studio della società borghese che conduce a
    un abbozzo storico dello sviluppo del capitalismo in Europa
    occidentale. I principali testi di Marx concernenti la storia sono
    nell’Ideologia tedesca [Marx e Engels 1845-46] che fa
    «cogliere il materialismo storico nella sua genesi e nelle sue
    sfumature» [Vilar 1978], e anche – ma diffidando delle
    citazioni senza contesto e dei commenti deformanti o limitanti –
    nella «prefazione» del 1859 a Per la critica
    dell’economia politica [1859], e infine nel Capitale. La tesi
    fondamentale è che il modo di produzione della vita materiale
    condiziona il processo sociale, politico e intellettuale in
    generale. Non è la coscienza degli uomini che determina la
    loro esistenza, ma al contrario il loro essere sociale che determina
    la loro coscienza.
    
    Contro Hegel, Marx ha respinto ogni filosofia della storia
    assimilata a una metodologia. Nel Manifesto [Marx e Engels 1848] ha
    fondato la storia di ogni società esistente come storia della
    lotta di classe.
    
    Su un certo numero di punti particolarmente contestabili e
    pericolosi del materialismo storico, Marx – senza essere
    responsabile delle interpretazioni abusive e delle conseguenze
    illegittime che altri ne hanno voluto trarre durante la sua vita e
    dopo la sua morte – ha tuttavia o accettato formulazioni oltranziste
    e semplificanti, o lasciato nel vago o nell’ambiguità dei
    concetti importanti. Egli non ha formulato leggi generali della
    storia, ha soltanto concettualizzato il processo storico, ma
    talvolta ha egli stesso impiegato il termine pericoloso di ‘legge’ o
    accettato che il suo pensiero fosse formulato in tali termini. Per
    esempio, egli accetta l’impiego del termine ‘leggi’ a proposito
    delle concezioni espresse nel primo volume del Capitale [1867],
    fatto nel resoconto di un professore della università di
    Kiev, Sieber [Mandelbaum 1971, pp. 72-73]. Egli lascia che Engels
    esponga nell’Anti-Dühring [1878] una concezione grossolana del
    modo di produzione e della lotta di classe. Come è stato
    notato, la sua documentazione storica (e quella di Engels) era
    insufficiente ed egli non ha scritto delle vere e proprie opere
    storiche ma dei pamphlet. Ha lasciato nel vago il piú
    pericoloso dei suoi concetti, la distinzione tra struttura e
    sovrastruttura, benché non abbia mai espresso una concezione
    grossolanamente economica della struttura, né designato come
    sovrastruttura altro che la costruzione politica (lo Stato, in
    completa opposizione con la maggior parte degli storici tedeschi del
    suo tempo, e parecchi esponenti di quello che si chiamerà lo
    storicismo) e l’ideologia, termine per lui peggiorativo. Non ha
    nemmeno precisato come la teoria critica e la pratica rivoluzionaria
    dovessero unificarsi nello storico: nella vita, nell’opera. Egli ha
    fornito basi teoriche ma non pratiche al problema dei rapporti tra
    storia e politica. Benché abbia parlato della storia
    dell’Asia, egli non ha praticamente ragionato che sulla storia
    europea e ha ignorato il concetto di civiltà. A proposito del
    suo rifiuto di leggi meccaniche in storia si può citare una
    lettera del 1877 nella quale dichiara: «Degli eventi
    sorprendentemente analoghi, che tuttavia si verificano in contesti
    storici diversi, hanno effetti completamente diversi. Studiando
    separatamente ognuno di questi processi evolutivi e confrontandoli,
    troviamo facilmente la chiave per comprendere il fenomeno in
    questione; ma in nessun caso è possibile arrivare a tale
    comprensione servendosi come di un passe-partout di certe teorie
    storico-filosofiche che hanno la gran virtú di porsi al di
    sopra della storia» [citato in Carr 1961, trad. it. p. 71].
    Egli ha criticato la concezione événementielle della
    storia: «Si vede come la passata concezione della storia fosse
    un nonsenso che trascurava i rapporti reali e si limitava ai grandi
    avvenimenti politici e storici altisonanti» [citato in Vilar
    1978, p. 372]. Come dice Pierre Vilar, «egli ha scritto pochi
    “libri di storia”, egli ha sempre scritto libri di storico, il
    “concetto di storia” è nella sua pratica» [ibid., p.
    374].
    
    Si sa che Benedetto Croce è stato attratto in gioventú
    dal marxismo e Gramsci [1932-35, p. 1240] ha ritenuto che Croce sia
    stato in seguito ossessionato dal materialismo storico. Per Croce
    come per il materialismo storico, «l’identità di storia
    e di filosofia è immanente nel materialismo storico»
    [ibid., p. 1241]. Ma Croce si rifiuterebbe di andare fino al fondo
    di questa identità, vale a dire di concepirla «come
    previsione storica di una fase avvenire» [ibid.]. Croce
    rifiuterebbe soprattutto d’identificare storia e politica,
    cioè ideologia e filosofia [ibid., p. 1242]. Croce
    dimenticherebbe che «realtà in movimento e concetto
    della realtà, se logicamente possono essere distinti,
    storicamente devono essere concepiti come unità
    inseparabile» [ibid., p. 1241]. Croce sarebbe cosí
    caduto nel sociologismo «idealistico» e il suo
    storicismo non sarebbe che una forma di riformismo, non il
    «vero» storicismo, sarebbe una ideologia nel senso
    deteriore. Sembra a chi scrive che Gramsci abbia abbastanza ragione
    opponendo la filosofia della storia di Croce a quella del
    materialismo storico. Se vi scorge delle radici comuni è
    perché egli stesso è ritornato (come Croce) a Hegel
    dietro Marx, perché ha interpretato il materialismo storico
    come uno storicismo, il che non è – in ogni caso – il
    pensiero di Marx, ed è forse lui stesso, Gramsci, che non
    riesce a liberarsi interamente dall’influenza di Croce, che definiva
    nel 1917 «il piú grande pensatore dell’Europa in questo
    momento».
    
    Sull’idealismo storico di Croce non vi sono dubbi. In Teoria e
    storia della storiografia egli definisce cosí la concezione
    idealistica: «Non si tratta già d’instaurare, accanto
    od oltre l’astratta storiografia individualistica e prammatica,
    un’astratta storia dello spirito, dell’astratto universale; ma
    d’intendere che individuo e idea, separatamente presi, sono due
    astrazioni equivalenti e inadatte l’una e l’altra a fornire il
    soggetto alla storia, e che la vera storia è storia
    dell’individuo in quanto universale e dell’universale in quanto
    individuo. Non si tratta di abolire Pericle a vantaggio della
    Politica, o Platone a vantaggio della Filosofia, o Sofocle a
    vantaggio della Tragedia; ma di pensare e rappresentare la Politica,
    la Filosofia e la Tragedia come Pericle, Platone e Sofocle, e questi
    come ciascuna di quelle in uno dei loro particolari momenti.
    Perché, se fuori della relazione con lo spirito l’individuo
    è ombra di un sogno, ombra di sogno è anche lo spirito
    fuori delle sue individuazioni; e raggiungere nella concezione
    storica l’universalità è ottenere insieme
    l’individualità, e renderle entrambe salde della saldezza che
    l’una conferisce all’altra. Se l’esistenza di Pericle, di Sofocle e
    di Platone fosse indifferente, non sarebbe per ciò stesso
    pronunziata indifferente anche l’esistenza dell’Idea?» [1915,
    ed. 1976 pp. 97-98]. E nella Storia come pensiero e come azione,
    dopo aver criticato il razionalismo positivista del was eigentlich
    gewesen ‘quel che propriamente è stato’ di Ranke, egli giunge
    ad affermare che «nessun’altra unità sussiste fuori di
    quella del pensiero stesso che distingue e unifica» [1938, p.
    312]. Come commenta Chabod, «non v’è unità in
    re, ma solo nel pensiero critico» [1952, ed. 1972, p. 228].
    
    Arnaldo Momigliano ha sottolineato la scarsa influenza di Croce sui
    filosofi: «Nessuno può prevedere se la filosofia di
    Croce sarà un punto di partenza per i futuri filosofi.
    Attualmente egli ha in Italia pochi discepoli, e forse nessuno
    all’estero. Anche Collingwood, già prima della sua prematura
    morte, aveva cessato di essere suo discepolo» [1966a, ed.
    1969, p. 110].
    
    Delio Cantimori ha notato che gli storici di professione non hanno
    considerato come storia la maggior parte dell’opera di Croce,
    compresi gli scritti che recavano il titolo Storia… Fu il caso di
    Federico Chabod, che Croce peraltro aveva invitato a dirigere
    l’Istituto per gli studi storici da lui fondato a Napoli: «Le
    scartava, perché gli sembrava che in esse ci fosse troppo del
    filosofo, del politico dottrinario, dell’uomo che non sa spogliarsi
    della propria ideologia e passione di parte» [1966, ed. 1978,
    p. 402]. Chi scrive confessa di condividere l’opinione di Chabod,
    benché occorra sottolineare che Croce, diversamente da molti
    filosofi della storia che erano dei «puri» filosofi, era
    anche un vero storico.
    
    Per contro, crede che Cantimori abbia ragione di sottolineare il
    grande progresso nel pensiero storico che si deve in gran parte a
    Croce: la distinzione tra storia e storiografia: «Nel corso
    delle sue varie e molteplici esperienze storiografiche, e delle sue
    riflessioni sul lavoro storiografico, il Croce ha ritrovato e
    trasmesso chiaramente, con la formula della distinzione fra res
    gestae e historia rerum gestarum, agli studi di storia e di
    questioni storiche, il risultato della grande, fondamentale, e in
    sostanza irreversibile esperienza critica della filologia moderna,
    che è scienza del conosciuto e non dell’ignoto. Ciò
    non vuol dire, per il Croce, che non si debbono fare ricerche
    archivistiche o di materiale inedito; anzi, che si debbono fare, e
    che solo nello studio del documento o di una serie di documenti,
    compiuto direttamente, si può avere la valutazione
    dell’importanza e del significato di quel materiale» [ibid.,
    p. 406]. Dopo aver esposto dettagliatamente l’insieme dei
    procedimenti professionali dello storico, Cantimori conclude, a
    proposito di Croce: «Non rinunciare alla critica (historia
    rerum) per l’illusione di poter cogliere la sostanza o essenza delle
    cose come sono andate e di poterle far conoscere una volta per
    sempre (res gestae); perché solo tale distinzione critica
    permette di mantenersi su un punto di vista dal quale si possa
    seguire il movimento e l’andare delle società e degli
    individui, degli uomini e delle cose – e di conoscere nel vivo e nel
    concreto e non nell’astratto e generico» [ibid.].
    
    A questa distinzione fondamentale si aggiunge il fatto che Croce ha
    anche insistito sull’importanza della storia della storiografia:
    «Con l’attenzione per la storia della storiografia, il Croce
    ha indicato la necessità e la possibilità di questo
    secondo approfondimento critico per gli storici, come scala e
    graduazione per giungere, attraverso il riconoscimento delle
    interpretazioni, del loro ambiente generale culturale e sociale, a
    una esposizione e a un giudizio bene informati e autonomi, liberi
    cioè da ripetizioni e ossequi a metafisiche e metodologie
    derivanti non dalla tecnica e dalla esperienza ma da principî
    filosofici e scolastici» [ibid., p. 407].
    
    Antonio Gramsci è considerato come interprete di un marxismo
    aperto, ed è certamente vero che nei suoi scritti come nella
    sua azione politica si ritrovano posizioni estremamente duttili. Ma
    chi scrive non pensa che le sue concezioni della storia segnino un
    progresso del materialismo storico. Vi si scorge piuttosto, da una
    parte, un certo ritorno al hegelismo, dall’altra uno scivolamento
    verso il marxismo volgare. Certamente, egli riconosce che la storia
    non funziona come una scienza e che non si può applicarle una
    concezione meccanica della causalità. Ma la sua famosa teoria
    del blocco storico pare molto pericolosa per la scienza storica.
    L’affermazione che la struttura e la sovrastruttura costituiscono un
    blocco storico – in altre parole che «l’insieme complesso
    contraddittorio e discorde delle soprastrutture è il riflesso
    dell’insieme dei rapporti sociali di produzione» [1931-32, p.
    1051] – è stata generalmente interpretata come un
    ammorbidimento della dottrina dei rapporti tra struttura e
    sovrastruttura che Marx aveva lasciato relativamente nel vago e che
    pareva la parte piú falsa, piú debole e pericolosa
    dello stesso materialismo storico, anche se Marx non ha ridotto la
    struttura a economia. Quello che Gramsci sembra abbandonare è
    l’idea peggiorativa di ideologia, ma se egli lascia l’ideologia
    nella sovrastruttura, la valorizzazione della stessa ideologia non
    fa che minacciare ancor piú l’indipendenza (non l’autonomia,
    che evidentemente non esiste) del settore intellettuale. Ora Gramsci
    consolida doppiamente l’assoggettamento del lavoro intellettuale. Da
    una parte, a fianco degli intellettuali tradizionali e degli
    intellettuali organici, Gramsci non riconosce come validi che
    intellettuali che identificano scienza e prassi, andando al di
    là dei legami che Marx aveva tracciato. Inoltre, colloca la
    scienza nella sovrastruttura. All’origine di questi scivolamenti
    è possibile ritrovare la concezione gramsciana del
    materialismo storico come «storicismo assoluto».
    
    Louis Althusser ha violentemente protestato contro l’interpretazione
    «storicistica» del marxismo, che egli collega con
    l’interpretazione «umanistica». Egli ne scorge la
    nascita nella «reazione di sopravvivenza contro il
    meccanicismo e l’economicismo della II Internazionale, nel periodo
    che precedette e soprattutto negli anni che seguirono la Rivoluzione
    del 1917» [in Althusser e Balibar 1965, trad. it. p. 127].
    Questa concezione storicistica e umanistica (secondo Althusser,
    questi due caratteri si sono trovati uniti dalla contingenza storica
    ma non lo sono necessariamente da un punto di vista teorico)
    è stata anzitutto quella della sinistra tedesca, di Rosa
    Luxemburg e Franz Mehring, poi, dopo la rivoluzione del 1917, quella
    di Lukács e soprattutto di Gramsci, prima di essere in certo
    modo ripresa dal Sartre della Critique de la raison dialectique.
    È nella tradizione marxista italiana, nella quale Gramsci
    è l’erede di Antonio Labriola e di Croce (Althusser tende a
    minimizzare l’opposizione Gramsci-Croce), che Althusser trova le
    espressioni piú marcate del marxismo come «storicismo
    assoluto». Egli cita il celebre passo della nota di Gramsci su
    Croce: «Si è dimenticato in una espressione molto
    comune [materialismo storico] che occorreva posare l’accento sul
    secondo termine “storico” e non sul primo di origine metafisica. La
    filosofia della praxis è lo “storicismo” assoluto, la
    mondanizzazione e terrestrità assoluta del pensiero, un
    umanesimo assoluto della storia. In questa linea è da scavare
    il filone della nuova concezione del mondo» [Gramsci 1932-33,
    p. 1437].
    
    Certamente, Althusser tiene conto della polemica in questo testo, e
    non scaglia interdetti contro Gramsci, la cui sincerità e
    onestà rivoluzionaria gli sembrano al di sopra di ogni
    sospetto; egli vuole semplicemente togliere ogni valore teorico a
    testi di circostanza. Per lui identificare «la genesi
    speculativa del concetto» con «la genesi del concreto
    reale stesso», cioè con il processo della storia
    «empirica», è un errore. Gramsci ha avuto il
    torto di formulare «una concezione autenticamente “storicista”
    di Marx: una concezione “storicista” della teoria del rapporto tra
    la teoria di Marx e la storia reale» [in Althusser e Balibar
    1965, trad. it. p. 137]. Althusser ritiene che si debba distinguere
    il materialismo storico che può essere considerato come una
    teoria della storia e il materialismo dialettico, filosofia che
    sfugge alla storicità. Althusser ha senza dubbio ragione, in
    quanto esegeta di Marx, nel fare questa distinzione, ma quando egli
    rimprovera alla concezione storicistica del marxismo di dimenticare
    la novità assoluta, la «rottura» che il marxismo
    costituirebbe in quanto scienza – «questa volta un’ideologia
    che si fonda su una scienza: cosa che non era mai avvenuta»
    [ibid., p. 138] –, non si comprende piú molto bene se parla
    del materialismo dialettico o del materialismo storico o di entrambi
    [ibid., pp. 126-51]. Sembra che separando parzialmente il marxismo
    dalla storia, Althusser lo faccia oscillare dalla parte della
    metafisica, della credenza e non della scienza. Non è che con
    un va e vieni costante dalla prassi alla scienza, nel quale si
    alimentino l’un l’altra pur restando accuratamente distinte, che la
    storia scientifica potrà liberarsi della storia vissuta,
    condizione indispensabile perché la disciplina storica acceda
    a uno statuto scientifico.
    
    Ove la critica di Althusser contro Gramsci non pare particolarmente
    pertinente è quando – considerando «le stupefacenti
    pagine di Gramsci sulla scienza» [ibid., p. 138] («anche
    la scienza è una superstruttura, una ideologia»
    [Gramsci 1932-33, p. 1457]) – rammenta che Marx rifiuta
    un’applicazione ampia del concetto di struttura, che è valido
    soltanto per la sovrastruttura giuridico-politica e la
    sovrastruttura ideologica (le «forme di coscienza
    sociale» corrispondenti), e che in particolare Marx «non
    vi include mai… la conoscenza scientifica» [in Althusser e
    Balibar 1965, trad. it. p. 140]. In tal modo, ciò che di
    positivo potrebbe avere l’interpretazione gramsciana del
    materialismo storico come storicismo – nonostante i pericoli di
    feticizzazione di diverso genere che ciò implica – viene
    annientato dalla sua concezione della scienza come sovrastruttura.
    La storia – i due significati della parola confusi – diventa essa
    stessa «organica», espressione e strumento del gruppo
    dirigente. La filosofia della storia è spinta al culmine:
    storia e filosofia sono confuse, formano anch’esse un altro tipo di
    «blocco storico»: «La filosofia di un’epoca
    storica non è dunque altro che la “storia” di quella stessa
    epoca, non è altro che la massa di variazioni che il gruppo
    dirigente è riuscito a determinare nella realtà
    precedente: storia e filosofia sono inscindibili in questo senso,
    formano “blocco”» [Gramsci 1932-35, p. 1255].
    
    Sembra che l’interpretazione «storica» e non
    «storicista» della dialettica marxiana e marxista di
    Galvano Della Volpe sia piú vicina ai rapporti che Marx
    poneva tra storia e teoria del processo storico: «Le
    contraddizioni (o diciamo pure i contrari) che interessa unicamente
    a Marx di risolvere o superare nella loro unità sono reali,
    cioè appunto contraddizioni storiche, o meglio storicamente
    determinate o specifiche» [1969, p. 317].
    
    Passerò rapidamente su due concezioni della storia, qui
    menzionate unicamente per la risonanza che hanno avuto in un passato
    recente, in particolare tra il grosso pubblico.
    
    Oswald Spengler ha reagito contro l’ideologia del progresso e nel
    Tramonto dell’Occidente [1918-22] presenta una teoria biologica
    della storia, costituita da civiltà che sono «dei vivi
    del sangue supremo», mentre gli individui non esistono che
    nella misura in cui partecipano di questi «viventi». Vi
    sono due fasi nella vita delle società: la fase di cultura
    che corrisponde al loro slancio e al loro apogeo, la fase di
    civiltà che corrisponde alla loro decadenza e scomparsa.
    Spengler ritrova cosí la concezione ciclica della storia.
    
    Arnold Toynbee è invece uno storico. In A Study of History
    [1934-39] egli parte da Spengler sperando di riuscire dove questi
    non è riuscito. Egli distingue delle civiltà, ventuno
    di numero, che hanno raggiunto nel corso della storia uno stadio
    completo di fioritura e delle culture che non sono pervenute che a
    un certo livello di sviluppo. Tutte queste civiltà passano
    per quattro fasi: una corta genesi durante la quale la
    civiltà nascente riceve (in generale dall’esterno) una
    «sfida», alla quale dà una
    «risposta»; un lungo periodo di crescita, poi un arresto
    segnato da un accidente; e infine una fase di disaggregazione che
    può essere molto lunga [cfr. Crubellier 1961, pp. 8 sgg.].
    Questo schema è «progressista»,
    «aperto» al livello dell’umanità. Di fatto,
    accanto a questa storia, frutto di una successione di cicli, esiste
    un’altra storia, «provvidenziale»: l’umanità
    è globalmente in marcia verso una trasfigurazione che rivela
    la «teologia dello storico». Cosí procedono l’una
    accanto all’altra una teoria spengleriana e una concezione
    agostiniana. Oltre all’aspetto «metafisico» di questa
    concezione, si è giustamente criticato il taglio arbitrario e
    confuso delle civiltà e delle culture, la conoscenza
    imperfetta che Toynbee ha di molte di esse, l’illegittimità
    della comparazione tra queste, ecc. Raymond Aron ha comunque
    sottolineato il merito principale di questa impresa: il desiderio di
    sfuggire a una storia eurocentrica, occidentalista. «Spengler
    ha voluto rifiutare l’ottimismo razionalista dell’Occidente, a
    partire da una filosofia biologica e da una concezione nietzscheana
    dell’eroismo; Toynbee ha voluto rifiutare la superbia provinciale
    degli Occidentali» [1961b, p. 46].
    
    Michel Foucault occupa nella storia della storia un posto
    eccezionale per tre ragioni.
    
    Anzitutto, perché è uno dei piú grandi storici
    nuovi. Storico della follia, della clinica, del mondo carcerario,
    della sessualità, egli ha introdotto alcuni dei nuovi
    oggetti, tra i piú «provocatori» della storia, e
    ha mostrato una delle grandi svolte della storia occidentale tra la
    fine del medioevo e il XIX secolo: la grande segregazione dei
    devianti.
    
    In secondo luogo, perché ha compiuto la diagnosi piú
    perspicace di questo rinnovamento della storia. Egli vede questo
    rinnovamento sotto quattro forme:
    
    1) «Il processo al documento»: «La storia, nella
    sua forma tradizionale, si dedicava a “memorizzare” i monumenti del
    passato, a trasformarli in documenti e a far parlare quelle tracce
    che, in se stesse, non sono affatto verbali, o dicono tacitamente
    cose diverse da quelle che dicono esplicitamente; oggi invece, la
    storia è quella che trasforma i documenti in monumenti, e
    che, laddove si decifravano delle tracce lasciate dagli uomini e si
    scopriva in negativo ciò che erano stati, presenta una massa
    di elementi che bisogna poi isolare, raggruppare, rendere
    pertinenti, mettere in relazione, costituire in insiemi»
    [1969, trad. it. pp. 12-14].
    
    2) «Nelle discipline storiche la nozione di
    discontinuità acquista un ruolo di maggior rilievo»
    [ibid., p. 15].
    
    3) Il tema e la possibilità di una storia globale cominciano
    a perdere consistenza, e si assiste al delinearsi del disegno, molto
    differente, di quella che si potrebbe chiamare una storia generale,
    determinando «quale forma di rapporto possa essere
    legittimamente descritta tra… serie differenti» [ibid., p.
    17].
    
    4) Nuovi metodi. La storia nuova incontra un certo numero di
    problemi metodologici, parecchi dei quali, senza alcun dubbio, le
    preesistevano largamente, ma che nel loro insieme ora la
    caratterizzano. Tra essi si può citare: la costituzione di
    corpus coerenti e omogenei di documenti (corpi aperti o chiusi,
    finiti o indefiniti), la fissazione di un principio di scelta (a
    seconda che si voglia trattare esaurientemente la massa
    documentaria, praticare una campionatura secondo metodi di prelievo
    statistico, o che si tenti di determinare preliminarmente gli
    elementi piú rappresentativi); la definizione del livello di
    analisi e degli elementi che gli sono pertinenti (nel materiale
    studiato, si possono rilevare le indicazioni numeriche); i
    riferimenti – espliciti o no – a avvenimenti, istituzioni, pratiche;
    le parole impiegate, con le loro regole d’uso e i campi semantici
    che delineano o ancora la struttura formale delle proposizioni e i
    tipi di connessione che le uniscono; la specificazione di un metodo
    di analisi (trattamento quantitativo dei dati, decomposizione
    secondo un certo numero di tratti assegnabili dei quali si studiano
    le correlazioni, decifrazione interpretativa, analisi delle
    frequenze e delle distribuzioni); la delimitazione degli insiemi e
    dei sottoinsiemi che articolano il materiale studiato (regioni,
    periodi, processi unitari); la determinazione delle relazioni che
    permettono di caratterizzare un insieme (può trattarsi di
    relazioni numeriche o logiche; di relazioni funzionali, causali,
    analogiche; può trattarsi di relazioni tra significante e
    significato) [ibid., pp. 19-20].
    
    Infine, Foucault propone una filosofia originale della storia
    fortemente legata alla pratica e alla metodologia della disciplina
    storica. Si lascia a Paul Veyne il compito di caratterizzarla:
    «Per Foucault, l’interesse della storia non è
    nell’elaborazione di invarianti, siano essi filosofici o si
    organizzino in scienze umane; ma nell’utilizzazione degli
    invarianti, quali essi siano, per dissolvere i razionalismi
    continuamente rinascenti. La storia è una genealogia
    nietzscheana. Per questo la storia secondo Foucault passa per essere
    filosofia (cosa che non è vera né falsa); in ogni caso
    essa è ben lontana dalla vocazione empirista tradizionalmente
    attribuita alla storia. “Che nessuno entri qui se non è o non
    diventa filosofo”. Storia scritta in parole astratte piú che
    in una semantica d’epoca, ancora carica di colore locale; storia che
    sembra trovare dovunque analogie parziali, abbozzare tipologie,
    poiché una storia scritta in una rete di parole astratte
    presenta minore diversità pittoresca che una narrazione
    aneddotica» [1978, p. 378]. «La storia-genealogia alla
    Foucault occupa dunque interamente il programma della storia
    tradizionale; essa non tralascia la società, l’economia,
    ecc., ma struttura questa materia diversamente: non i secoli, i poli
    o le civiltà, ma le pratiche; gli intrighi che essa racconta
    sono la storia delle pratiche, nella quale gli uomini hanno visto
    delle verità e loro lotte intorno a queste verità.
    Questa storia nuovo modello, questa “archeologia”, come la chiama il
    suo inventore, “si dispiega nella dimensione di una storia
    generale”; essa non si specializza nella pratica, il discorso, la
    parte nascosta dell’iceberg, o piuttosto la parte nascosta del
    discorso e della pratica non è separabile dalla parte
    affiorante» [ibid., pp. 384-85]. «Ogni storia è
    archeologica per natura e non per scelta: spiegare e esplicitare la
    storia consiste nello scorgerla anzitutto interamente, nel
    rapportare i pretesi oggetti naturali alle pratiche datate e rare
    che li obiettivizzano e nello spiegare queste pratiche, non partendo
    da un motore unico, ma da tutte le pratiche vicine alle quali esse
    si ancorano» [ibid., p. 385].
    
    
    
    4. La storia come scienza: il mestiere di storico.
    
    La miglior prova che la storia è e dev’essere una scienza
    è costituita dal fatto che essa ha bisogno di tecniche, di
    metodi, e che s’insegna. Lucien Febvre, piú restrittivamente,
    ha detto: «Qualifico la storia come studio condotto
    scientificamente e non come scienza» [1941, trad. it. p. 141].
    I teorici piú ortodossi della storia positivista, Langlois e
    Seignobos, hanno espresso in una formula stringente, che costituisce
    la professione di fede fondamentale dello storico, ciò che
    è alla base della scienza storica: «Senza documenti,
    non vi è storia» [1898, ed. 1902, p. 2].
    
    Ma le difficoltà cominciano qui. Se il documento è
    piú agevole da definire e da reperire che il fatto storico,
    il quale non è mai dato come tale ma costruito, esso non pone
    comunque allo storico dei problemi rilevanti.
    
    Anzitutto, esso non diventa documento che dopo una ricerca e una
    scelta. La ricerca è in generale il fatto non dello storico
    stesso, ma di ausiliari che costituiscono le riserve di documenti
    alle quali lo storico attingerà la propria documentazione:
    archivi, scavi archeologici, musei, biblioteche, ecc. Le perdite, le
    scelte delle raccolte di documenti, la qualità della
    documentazione sono condizioni obiettive, ma costrittive, del
    mestiere di storico. Piú delicati sono i problemi che si
    presentano allo storico stesso a partire da questa documentazione.
    
    Si tratta in primo luogo di decidere ciò che egli
    considererà come documento e ciò che invece
    respingerà. Per molto tempo gli storici hanno pensato che i
    veri documenti storici fossero quelli che rischiaravano quella parte
    della storia degli uomini che era degna di essere conservata,
    riferita e studiata: la storia dei grandi avvenimenti (vita dei
    grandi uomini, eventi militari e diplomatici, battaglie e trattati),
    la storia politica e istituzionale. D’altronde, l’idea che la
    nascita della storia fosse legata a quella della scrittura portava a
    privilegiare il documento scritto. Nessuno piú di Fustel de
    Coulanges ha privilegiato il testo come documento di storia. Nel
    primo capitolo della Monarchie franque egli scriveva: «Leggi,
    carte, formule, cronache e storie, bisogna avere letto tutte queste
    categorie di documenti senza averne omesso neppure una… [Lo storico]
    non ha altra ambizione che quella di vedere bene i fatti e di
    comprenderli con esattezza. Non è nella sua immaginazione o
    nella logica che egli li cerca; li cerca e li coglie con
    l’osservazione minuziosa dei testi, come il chimico trova i suoi in
    esperimenti minuziosamente condotti. La sua unica abilità
    consiste nel trarre dai documenti tutto quello che contengono e nel
    non aggiungervi nulla che non vi sia contenuto. Il migliore degli
    storici è quello che si attiene di piú ai fatti, che
    li interpreta con la maggiore correttezza, che non scrive e non
    pensa che secondo tali fatti» [1888, pp. 29, 30, 33].
    
    Tuttavia, in una lezione all’università di Strasburgo, lo
    stesso Fustel aveva dichiarato: «Là dove alla storia
    mancano i monumenti scritti occorre che essa chieda alle lingue
    morte i loro segreti, e che nelle loro forme e nelle loro stesse
    parole indovini il pensiero degli uomini che le hanno parlate. La
    storia deve scrutare le favole, i miti, i sogni della fantasia,
    tutte queste vecchie falsità, al di sotto delle quali deve
    scoprire qualcosa di reale, le credenze umane. Là dove
    è passato l’uomo, dove ha lasciato qualche impronta della sua
    vita e della sua intelligenza, là sta la storia» [1862,
    p. 245; cfr. anche Herrick 1954].
    
    Tutto il rinnovamento della storia oggi in corso si è fatto
    contro le idee espresse da Fustel nel 1888. Si tralascia qui la
    pericolosa ingenuità che portava alla passività di
    fronte ai documenti. Essi non rispondono che alle domande dello
    storico, e questi deve affrontarli non certo con pregiudizi e
    risentimenti, ma con ipotesi di lavoro. Grazie a Dio, Fustel, che
    era un grande storico, non ha lavorato secondo il metodo esposto nel
    1888. Non si ritornerà sulla necessità
    dell’immaginazione storica.
    
    Quello che si vuol affermare qui è il carattere multiforme
    della documentazione storica. Replicando, nel 1949, a Fustel de
    Coulanges, Lucien Febvre diceva: «La storia si fa, senza
    dubbio, con documenti scritti. Quando ce n’è. Ma si
    può fare, si deve fare senza documenti scritti, se non ne
    esistono. Per mezzo di tutto quello che l’ingegnosità dello
    storico gli consente di utilizzare per fabbricare il suo miele, in
    mancanza dei fiori normalmente usati. Quindi, con parole. Con segni.
    Con paesaggi e con mattoni. Con forme di campi e con erbe cattive.
    Con eclissi lunari e con collari da tiro. Con le ricerche su pietre,
    eseguite da geologi, e con analisi di spade metalliche, compiute da
    chimici. In una parola, con tutto quello che, essendo proprio
    dell’uomo, dipende dall’uomo, serve all’uomo, esprime l’uomo,
    significa la presenza, l’attività, i gusti e i modi d’essere
    dell’uomo» [1949, trad. it. p. 177]. Anche Marc Bloch
    [1941-42] aveva dichiarato: «La diversità delle
    testimonianze storiche è quasi infinita. Tutto ciò che
    l’uomo dice o scrive, tutto ciò che costruisce e che tocca,
    può e deve fornire informazioni su di lui» (trad. it.
    p. 71).
    
    Si riparlerà della grande estensione della documentazione
    storica odierna, in particolare con la moltiplicazione della
    documentazione audiovisiva, il ricorso al documento figurato o
    propriamente iconografico, ecc. Ma è utile insistere su due
    aspetti particolari di questa estensione della ricerca documentaria.
    
    Il primo concerne l’archeologia. Il problema non consiste nel sapere
    se essa sia una scienza ausiliaria della storia o una scienza a
    sé. Bisogna solo notare come il suo sviluppo abbia rinnovato
    la storia. Quando essa fece i primi passi, nel XVIII secolo, permise
    immediatamente alla storia di estendersi sul vasto territorio della
    preistoria e della protostoria e rinnovò la storia antica.
    Strettamente unita alla storia dell’arte e delle tecniche, essa
    costituisce un elemento fondamentale dell’allargamento della cultura
    storica che si esprime nell’Encyclopédie. «È in
    Francia che degli “antiquari” dedicano per la prima volta al
    documento archeologico, oggetto d’arte, utensile o resto di
    costruzione, un interesse tanto vivo quanto obiettivo e
    disinteressato», dice Duval [1961, p. 255], che mette in
    rilievo il ruolo di Peiresc, consigliere al parlamento di Aix. Ma
    sono gli Inglesi che fondano la prima società scientifica
    nella quale l’archeologia occupa un posto essenziale, la Society of
    Antiquaries di Londra (1707). È in Italia che cominciano i
    primi scavi, che annunziano la scoperta archeologica del passato, a
    Ercolano (1738) e a Pompei (1748). Sono un tedesco e un francese che
    pubblicano le due opere piú importanti del XVIII secolo, per
    quanto concerne l’introduzione del documento archeologico in storia:
    Winckelmann, con la Storia dell’arte antica (Geschichte der Kunst
    des Altertums, 1764), e il conte di Caylus con il Recueil
    d’antiquités égyptiennes, étrusques, grecques,
    romaines, et gauloises (1752-67). In Francia, il Musée des
    monuments français, del quale Alexandre Lenoir fu il primo
    conservatore nel 1769, risvegliò il gusto per l’archeologia e
    contribuí a rovesciare la visione negativa del medioevo. Si
    noti che l’archeologia è stata uno dei settori della scienza
    storica che piú si sono rinnovati negli ultimi decenni:
    evoluzione dell’interesse dall’oggetto e dal monumento al luogo
    globale, urbano o rurale, poi al paesaggio, archeologia rurale e
    industriale, metodi quantitativi, ecc. [cfr. Schnapp 1980; Finley
    1971]. L’archeologia si è anche evoluta verso la costituzione
    di una storia della cultura materiale, che è anzitutto
    «storia dei grandi numeri e della maggioranza degli
    uomini» [Pesez 1978, trad. it. p. 205] e che ha già
    dato luogo a un capolavoro della storiografia contemporanea:
    Civilisation matérielle et capitalisme di Fernand Braudel
    [1967].
    
    Si noti anche che la riflessione storica oggi si applica
    altresí all’assenza di documenti, ai silenzi della storia.
    Michel de Certeau ha sottilmente analizzato gli «scarti»
    dello storico verso le «zone silenziose», delle quali
    dà come esempio «la stregoneria, la follia, la festa,
    la letteratura popolare, il mondo dimenticato del contadino,
    l’Occitania, ecc.» [1974, p. 27]. Ma egli parla dei silenzi
    della storiografia tradizionale, mentre ritengo si debba andare
    piú lontano: interrogare la documentazione storica sulle sue
    lacune e interrogarsi sugli oblii, i vuoti, gli spazi bianchi della
    storia. Bisogna fare l’inventario degli archivi del silenzio, e fare
    la storia a partire dai documenti e dalle assenze di documenti.
    
    La storia è divenuta scientifica facendo la critica dei
    documenti che si definiscono «fonti». Paul Veyne [1971]
    ha detto alla perfezione che la storia doveva essere «una
    lotta contro l’ottica imposta dalle fonti» e che «i veri
    problemi dell’epistemologia storica sono problemi di critica»,
    mentre il centro di tutta la riflessione sulla conoscenza deve
    essere il seguente: «La conoscenza storica è ciò
    che le fonti fanno di essa» (trad. it. pp. 383-84). Veyne
    unisce d’altronde a questa constatazione la considerazione che
    «è impossibile improvvisarsi storici… È infatti
    necessario sapere quali quesiti porsi, e anche quali problematiche
    sono superate: non si scrive la storia politica, sociale o religiosa
    con le opinioni rispettabili, realistiche o avanzate che siano, che
    possediamo su questi argomenti a titolo privato» [ibid., p.
    384].
    
    Gli storici, soprattutto dal XVII al XIX secolo, hanno messo a punto
    una critica dei documenti che è oggi acquisita, che resta
    necessaria, ma si rivela insufficiente [cfr. Salmon 1969, ed. 1976,
    pp. 85-140]. Tradizionalmente si distingue una critica esterna, o
    critica di autenticità, da una critica interna, o critica di
    credibilità.
    
    La critica esterna tende essenzialmente a ritrovare l’originale e a
    determinare se il documento che si esamina è autentico o
    falso. È un procedimento fondamentale, che richiede tuttavia
    due osservazioni complementari.
    
    La prima è che anche un documento «falso»
    è un documento storico e può costituire una
    testimonianza preziosa dell’epoca in cui è stato fabbricato e
    del periodo durante il quale è stato considerato autentico e
    utilizzato.
    
    La seconda è che un documento, specialmente un testo, ha
    potuto, nel corso del tempo, subire manipolazioni in apparenza
    scientifiche che hanno fatto dimenticare l’originale. Per esempio,
    è stato brillantemente dimostrato che la lettera di Epicuro a
    Erodoto conservata nelle Vite dei filosofi illustri di Diogene
    Laerzio è stata rimaneggiata da una tradizione secolare che
    ha ricoperto la lettera del testo di postille e correzioni che,
    volontariamente o no, hanno finito per soffocarla e deformarla con
    «una lettura incomprensiva, indifferente o partigiana»
    [Bollack e altri 1971].
    
    La critica interna deve interpretare il significato del documento,
    valutare la competenza e la sincerità del suo autore,
    misurarne l’esattezza, e controllarlo con altre testimonianze. Ma
    anche qui, soprattutto qui, questo programma è insufficiente.
    
    Che si tratti di documenti consapevoli o inconsapevoli (tracce
    lasciate dagli uomini al di là di ogni volontà di
    tramandare una testimonianza alla posterità), le condizioni
    di produzione del documento devono essere minuziosamente studiate.
    In effetti, le strutture del potere di una società
    comprendono il potere delle categorie sociali e dei gruppi dominanti
    di lasciare, volontariamente o involontariamente, testimonianze
    suscettibili di orientare la storiografia in questo o quel senso. Il
    potere sulla memoria futura, il potere di perpetuazione deve essere
    riconosciuto e svuotato dallo storico. Nessun documento è
    innocente. Esso deve essere giudicato. Ogni documento è un
    monumento che bisogna saper destrutturare, smontare. Lo storico non
    deve soltanto sapere discernere un falso, valutare la
    credibilità di un documento, egli deve demistificarlo. I
    documenti non diventano delle fonti storiche se non dopo aver subito
    un trattamento destinato a trasformare la loro funzione da menzogna
    in confessione di verità [Immerwahr 1960].
    
    Jean Bazin, analizzando la produzione di un «racconto
    storico» – il racconto dell’avvento di un celebre re di
    Segú (Mali), all’inizio del secolo XIX, fatto da un letterato
    musulmano appassionato di storia a Segú nel 1970 – avverte
    che «poiché esso si dà non come invenzione, un
    racconto storico è sempre una trappola: si può
    facilmente credere che il suo oggetto gli attribuisca un senso, che
    non dica null’altro che ciò che racconta», mentre, in
    realtà, «la lezione della storia ne nasconde un’altra,
    di politica o di etica, che resta per cosí dire da
    fare» [Bazin 1979, p. 446]. Bisogna dunque, con l’aiuto di una
    «sociologia della produzione narrativa», studiare le
    «condizioni della storicizzazione». Da una parte,
    bisogna conoscere lo statuto dei dicitori di storia (e questo
    rilievo vale per i diversi tipi di produttori di documenti e per gli
    storici stessi nei diversi tipi di società), dall’altra
    riconoscere i segni della potenza poiché «questo genere
    di racconto apparterrebbe piú a una metafisica della
    potenza». Sul primo punto Jean Bazin rileva che «fra il
    sovrano e i suoi dipendenti, gli specialisti del racconto occupano
    una sorta di terza posizione di illusoria neutralità: essi
    sono, da una parte e dall’altra, a ogni momento, invitati a
    fabbricare l’immagine che i dipendenti hanno del sovrano cosí
    come quella che il sovrano ha dei dipendenti» [ibid., p. 456].
    Bazin avvicina la sua analisi a quella effettuata da Louis Marin
    appoggiandosi al Projet de l’histoire de Louis XIV con il quale
    Pellisson-Fontanier tentò di ottenere la carica di
    storiografo ufficiale. «Il re ha bisogno dello storico,
    poiché il potere politico non può trovare il suo
    compimento, il suo assoluto se non con un certo uso della forza, che
    è il punto di applicazione della forza del potere
    narrativo» [Marin 1979, p. 26; cfr. Marin 1978].
    
    La messa a punto di metodi che fanno della storia un mestiere e una
    scienza è stata lunga e prosegue. Essa ha conosciuto, in
    Occidente, delle battute di arresto, delle lentezze e delle
    accelerazioni, a volte degli indietreggiamenti; non è
    avanzata in tutte le sue parti con lo stesso passo, non ha sempre
    dato lo stesso contenuto alle parole con le quali cercava di
    definire i suoi obiettivi, anche in apparenza il piú
    «obiettivo», quello della verità. Si seguiranno
    le grandi linee del suo sviluppo dal duplice punto di vista delle
    concezioni e dei metodi, da una parte, degli strumenti di lavoro
    dall’altra. I momenti essenziali sembrano essere il periodo
    greco-romano dal V al I secolo prima dell’era cristiana, che inventa
    il «discorso storico», il concetto di testimonianza, la
    logica della storia e fonda la storia sulla verità; il IV
    secolo, durante il quale il cristianesimo elimina l’idea del caso
    cieco, dà un senso alla storia, diffonde un computo del tempo
    e una periodizzazione della storia; il Rinascimento, che comincia
    col tracciare una critica dei documenti fondata sulla filologia e
    finisce con la concezione della storia perfetta; il secolo XVII, che
    con i bollandisti e i benedettini di Saint-Maur pone le basi
    dell’erudizione moderna; il XVIII secolo, che crea le prime
    istituzioni consacrate alla storia e allarga il campo delle
    curiosità storiche; il XIX secolo, che mette a punto i metodi
    dell’erudizione, costituisce le basi della documentazione storica ed
    estende la storia dovunque; la seconda parte del secolo XX, a
    partire dagli anni Trenta, conosce insieme una crisi e una moda
    della storia, un rinnovamento e un ingrandimento considerevole del
    territorio dello storico, una rivoluzione documentaria. L’ultima
    parte di questo articolo sarà dedicata a questa fase recente
    della scienza storica. Non bisogna d’altronde credere che le lunghe
    fasi di tempo nelle quali la scienza storica non ha fatto balzi
    qualitativi non abbiano conosciuto progressi del mestiere dello
    storico, come Bernard Guenée ha brillantemente dimostrato per
    il medioevo [1980; 1977].
    
    Con Erodoto ciò che entra nel racconto storico non è
    l’importanza della testimonianza. Per lui la testimonianza per
    eccellenza è quella personale, quella nella quale lo storico
    può dire: io ho visto, io ho sentito. Questo è
    particolarmente vero per la parte della sua indagine consacrata ai
    barbari, dei quali nei suoi viaggi egli ha percorso i paesi [cfr.
    Hartog 1980]. È vero anche per il racconto delle guerre
    persiane, avvenimenti della generazione che lo ha preceduto e della
    quale egli raccoglie direttamente, o per sentito dire, la
    testimonianza. Questa priorità accordata alla testimonianza
    orale e alla testimonianza vissuta resterà nella storia,
    sarà piú o meno attenuata quando la critica dei
    documenti scritti e appartenenti a un passato lontano si
    porrà in primo piano, ma conoscerà importanti riprese.
    Cosí nel XIII secolo, membri dei nuovi ordini mendicanti,
    domenicani e francescani, privilegiano, nel loro desiderio di
    aderire alla nuova società, la testimonianza orale personale,
    il contemporaneo o il molto vicino, preferendo per esempio inserire
    nel loro sermone degli exempla i cui argomenti sono tratti dalla
    loro esperienza (audivi) piuttosto che dalla loro scienza libresca
    (legimus). Le Memorie, tuttavia, sono a poco a poco diventate
    piú degli elementi ai margini della storia che non la storia
    stessa, dato che la compiacenza degli autori nei confronti di se
    stessi, la ricerca di effetti letterari, il gusto per la pura
    narrazione le separano dalla storia e ne fanno un materiale –
    relativamente sospetto – della storia. «Raggruppare storici e
    memorialisti è concepibile in una prospettiva puramente
    letteraria», hanno sottolineato Jean Ehrard e Guy Palmade
    [1964, p. 7], che hanno scartato il genere memorialistico dal loro
    eccellente studio. La testimonianza tende a rientrare nel campo
    storico e in ogni caso pone allo storico dei problemi con lo
    sviluppo dei media. L’evoluzione del giornalismo, la nascita della
    «storia immediata», il «ritorno
    dall’avvenimento» [cfr. Lacouture 1978; Nora 1974].
    
    Arnaldo Momigliano [1972, ed. 1975 pp. 13-15] ha sottolineato che i
    «grandi» storici dell’antichità greco-romana
    hanno trattato esclusivamente o preferibilmente del passato
    prossimo. Dopo Erodoto, Tucidide scrive la storia della guerra del
    Peloponneso, avvenimento contemporaneo; Senofonte ha trattato delle
    egemonie di Sparta e di Tebe, delle quali è stato testimone;
    Polibio ha dedicato la parte essenziale delle sue Storie al periodo
    che va dalla seconda guerra punica alla sua epoca. Sallustio e Livio
    hanno fatto lo stesso, Tacito ha preso in esame il secolo precedente
    il suo e Ammiano Marcellino si è interessato soprattutto
    della seconda metà del IV secolo. A partire dal V secolo
    a.C., gli storici antichi furono in grado di raccogliere una buona
    documentazione sul passato, ma ciò non ha impedito a essi
    d’interessarsi soprattutto agli avvenimenti contemporanei o recenti.
    
    La priorità accordata alle testimonianze vissute o
    direttamente raccolte non ha impedito agli storici antichi di fare
    la critica di queste testimonianze. Cosí Tucidide:
    «Riguardo… ai fatti verificatisi durante la guerra, non ho
    creduto opportuno descriverli per informazioni desunte dal primo
    venuto, né a mio talento; ma ho ritenuto di dover scrivere i
    fatti ai quali io stesso fui presente e quelli riferiti dagli altri,
    esaminandoli, però, con esattezza a uno a uno, per quanto era
    possibile. Era ben difficile la ricerca della verità
    perché quelli che erano stati presenti ai singoli fatti non
    li riferivano allo stesso modo, ma secondo che uno aveva buona o
    cattiva memoria, e secondo la simpatia per questa o quella parte. E
    forse la mia storia riuscirà, a udirla, meno dilettevole
    perché non vi sono elementi favolosi; ma sarà per me
    sufficiente che sia giudicata utile da quanti vorranno indagare la
    chiara e sicura realtà di ciò che in passato è
    avvenuto e che un giorno potrà pure avvenire, secondo l’umana
    vicenda, in maniera uguale o molto simile. Appunto come un acquisto
    per l’eternità è stata essa composta, non già
    da udirsi per il trionfo nella gara d’un giorno» [La guerra
    del Peloponneso, I, 22].
    
    Con Polibio lo scopo dello storico è qualcosa di piú
    di una logica della storia. È la ricerca delle cause. Attento
    al metodo, Polibio dedica tutto il libro XII delle sue Storie a
    definire il lavoro dello storico attraverso la critica a Timeo di
    Tauromenio. Egli aveva in precedenza definito il suo obiettivo.
    Anziché una storia monografica, scrivere una storia generale,
    sintetica e comparata: «Nessuno degli scrittori contemporanei
    si è assunto il compito di scrivere una storia universale…
    È soltanto dallo studio accurato della connessione e del
    confronto reciproco di tutti i fatti, delle loro analogie e
    differenze che si può giungere a ricavare dalla storia non
    solo l’utile, ma anche il diletto» [I, 4]. E soprattutto
    l’affermazione essenziale: «Gli storici e i lettori debbono
    badare non tanto all’esposizione dei fatti, quanto alle circostanze
    precedenti, concomitanti e susseguenti ai fatti stessi;
    perché se si tolgono dallo studio della storia le cause, i
    mezzi e gli scopi che determinarono gli eventi e quale esito felice
    o infelice ebbero, ciò che resta nella storia è
    spettacolo declamatorio, non opera istruttiva, e se produce un
    momentaneo godimento, non giova affatto per il futuro… Le parti
    indispensabili della storia sono quelle che considerano le
    conseguenze, le circostanze concomitanti e specialmente le cause
    degli avvenimenti» [ibid., III, 31 e 32]. Detto questo, non
    bisogna dimenticare che Polibio colloca al primo posto nella
    causalità storica la nozione di fortuna; il principale
    criterio da lui usato per valutare una testimonianza o un destino
    è di ordine morale; inoltre i discorsi occupano grande spazio
    nella sua opera [cfr. Pédech 1964].
    
    Gli storici antichi hanno soprattutto fondato la storia sulla
    verità. «È proprio della storia anzitutto
    raccontare la storia secondo verità», assicura Polibio.
    E Cicerone formula le definizioni che resteranno valide durante il
    medioevo e il Rinascimento. Questa soprattutto: «Nam quis
    nescit primam esse historiae legem, ne quid falsi dicere audeat?
    Deinde ne quid veri non audeat?» ‘Chi non sa che la prima
    legge della storia sta nel non osare dir nulla di falso? E quindi
    osare dire tutto ciò che è vero?’ [De oratore, II, 15,
    62]. E nella celebre apostrofe nella quale reclama per l’oratore il
    privilegio di essere il miglior interprete della storia, quello che
    le assicura l’immortalità, e nella quale lancia la famosa
    definizione della storia come «maestra di vita», si
    dimentica che, in questo testo che in generale non viene citato per
    intero, Cicerone chiama la storia «luce di
    verità» («Historia vero testis temporum, lux
    veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis, qua
    voce alia nisi oratoris immortalitati commendatur?» [ibid., 9,
    36]).
    
    Benché Momigliano abbia giustamente insistito sul gusto degli
    storici antichi per la nuova storia, non bisognerebbe esagerare
    dicendo, come Collingwood [1932], che «il loro metodo li
    legava a una corda la cui lunghezza era quella della memoria
    vivente: l’unica fonte… era un testimone oculare con cui potessero
    conversare faccia a faccia» (trad. it. p. 58). Tacito, per
    esempio, fa l’elogio dei moderni – il che va contro la tradizione
    romana – ma mostra la sua conoscenza e la sua padronanza cronologica
    del passato; di un passato che, a dire il vero, egli appiattisce e
    avvicina al presente: «Quando sento dire “di antichi”,
    immagino degli uomini nati e vissuti molto tempo addietro; e mi
    passano dinanzi agli occhi Ulisse e Nestore, l’età dei quali
    precede la nostra di circa mille e trecento anni. Voi invece citate
    Demostene e Iperide, che, a quanto consta, hanno goduto fama ai
    tempi di Filippo e di Alessandro, ad entrambi i quali, però,
    sono sopravvissuti. Dal che appare chiaro che fra la nostra
    età e quella di Demostene intercorrono non molto piú
    di trecento anni. Ora, se tu consideri questo intervallo in rapporto
    con la fragilità delle nostre singole persone, ti
    sembrerà forse lungo: ma in confronto alla durata vera dei
    secoli e alla considerazione di questo tempo infinito, è
    molto breve e quanto mai vicino. Se infatti, come scrive Cicerone
    nell’Ortensio, il vero grande anno è quello in cui si
    riproduce assolutamente identica una determinata posizione del cielo
    e delle stelle, e se tale anno abbraccia dodicimila novecento
    cinquantaquattro di quelli che noi chiamiamo anni, il vostro
    Demostene, che mi presentate come vecchio e antico, ha incominciato
    a esistere non solo nel medesimo anno, ma addirittura nel medesimo
    mese» [Dialogus de oratoribus, 16, 5-7].
    
    Piú che la finalità data alla storia, ciò che,
    dal punto di vista dell’attrezzatura e del metodo dello storico,
    pare importante con la storiografia cristiana è il suo
    impatto sulla cronologia. Certamente quest’ultima ha subito la prima
    elaborazione a opera degli storici antichi – quelli in generale che
    non sono posti fra i grandi – che gli storici cristiani hanno
    utilizzato. Diodoro Siculo ha stabilito una concordanza degli anni
    consolari e delle olimpiadi. Trogo Pompeo, conosciuto attraverso un
    riassunto di Giustino, ha presentato il tema dei quattro imperi
    successivi. Ma i primi storici cristiani hanno avuto un’influenza
    decisiva sul lavoro storico e sull’inquadramento cronologico della
    storia.
    
    Eusebio di Cesarea, autore all’inizio del IV secolo di una Cronaca,
    poi di una Storia ecclesiastica, è stato «il primo
    storico antico a manifestare la stessa attenzione di uno storico
    moderno per la citazione fedele del materiale copiato e la
    identificazione corretta delle sue fonti» [Chesnut 1978, p.
    245]. Questa utilizzazione critica dei documenti ha consentito a
    Eusebio e ai suoi successori di risalire con sicurezza al di
    là della memoria dei testimoni viventi. Piú
    generalmente Eusebio, la cui opera è «un tentativo
    paziente, scrupoloso e soprattutto profondamente umano per sistemare
    i rapporti del cristianesimo col secolo» [Sirinelli 1961, p.
    495], non ha cercato di privilegiare una cronologia propriamente
    cristiana, e la storia ebraico-cristiana che egli fa cominciare con
    Mosè non è per lui che una fra le altre [ibid., pp.
    59-61]; il «suo progetto un po’ ambiguo di una storia
    sincronica si situa tra una visione ecumenica e un semplice
    perfezionamento dell’erudizione» [ibid., p. 63].
    
    Gli storici cristiani ripresero dall’Antico Testamento (sogno di
    Daniele [Daniele, 7]) e da Giustino il tema della successione dei
    quattro imperi: babilonese, persiano, macedone e romano. Eusebio, la
    cui cronaca fu ripresa e messa a punto da san Gerolamo e
    sant’Agostino, espose una periodizzazione della storia secondo la
    storia sacra, che distingueva sei età (fino a Noè,
    fino ad Abramo, fino a Davide, fino alla cattività
    babilonese, fino al Cristo, dopo il Cristo) e che Isidoro di
    Siviglia nel Chronicon (inizio del VII secolo) e Beda nell’Opera de
    temporibus (inizio dell’VIII secolo) cercarono di calcolare. I
    problemi di datazione, di cronologia, sono essenziali per lo
    storico. Anche qui gli storici e le società antiche avevano
    posto delle basi. Gli elenchi regali di Babilonia e d’Egitto avevano
    fornito i primi quadri cronologici, il computo per anni di regno
    aveva avuto inizio verso il 2000 a.C. a Babilonia. Nel 776 comincia
    il computo per olimpiadi, nel 754 la lista degli efori di Sparta,
    nel 686-685 quella degli arconti eponimi di Atene, nel 508 il
    computo consolare a Roma. Nel 45 a.C. Cesare aveva istituito a Roma
    il calendario giuliano. Il computo ecclesiastico cristiano si
    riferisce soprattutto alla datazione della festa della Pasqua. Le
    esitazioni durarono a lungo, come per la fissazione dell’inizio
    della cronologia e dell’inizio dell’anno. Gli atti del concilio di
    Nicea sono datati sia con i nomi dei consoli sia secondo gli anni
    dell’età dei Seleucidi (312-311 a.C.). I cristiani latini
    adottarono dapprima generalmente l’età di Diocleziano o dei
    martiri (284); ma nel VI secolo il monaco romano Dionigi il Piccolo
    propose di adottare l’era ab incarnatione, di fissare cioè
    come inizio della cronologia la nascita del Cristo. L’uso non fu
    definitivamente introdotto che nel secolo XI. Ma tutte le ricerche
    sul computo ecclesiastico, la cui espressione piú rilevante
    fu il trattato De temporum ratione di Beda (725), nonostante le
    esitazioni e gli scacchi, costituirono una tappa importante sul
    cammino del dominio del tempo [Cordoliani 1961; Guenée 1980,
    pp. 147-65].
    
    Bernard Guenée ha mostrato come l’Occidente medievale abbia
    avuto degli storici accaniti nel ricostruire il loro passato e in
    possesso di una lucida erudizione. Questi storici, che fino al
    secolo XIII sono stati soprattutto dei monaci, hanno anzitutto
    beneficiato di un accrescimento della documentazione. Si è
    visto che gli archivi sono un fenomeno molto antico, ma il medioevo
    ha accumulato carte, nei monasteri, nelle chiese,
    nell’amministrazione reale, e moltiplicato le biblioteche. Furono
    costituiti gli inserti, il sistema delle citazioni, che precisavano
    libro e capitolo, fu generalizzato, specialmente sotto l’influenza
    del monaco Graziano, autore di una compilazione del diritto
    canonico, il Decretum, a Bologna (c. 1140), e del teologo Pier
    Lombardo, vescovo di Parigi, morto nel 1160. Si può
    considerare la fine del secolo XI e la maggior parte del secolo XII
    come «il tempo di una erudizione trionfante». La
    scolastica e le università, indifferenti e anche ostili nei
    confronti della storia, che non vi fu insegnata [Borst 1969],
    segnarono un certo regresso della cultura storica. Tuttavia,
    «un vasto pubblico laico continuò ad amare la
    storia» e alla fine del medioevo questi dilettanti – cavalieri
    o mercanti – si moltiplicarono e il gusto per la storia nazionale
    passò in primo piano, mentre si affermavano gli stati e le
    nazioni. Comunque, il posto della storia nel sapere restava modesto;
    fino al XIV secolo essa fu considerata come una scienza ausiliaria
    della morale, del diritto e soprattutto della teologia [cfr. Lammers
    1965], benché Ugo di San Vittore, nella prima metà del
    XII secolo, abbia detto in un testo rilevante (De tribus maximis
    circumstanciis gestorum) che essa era fundamentum omnis doctrinae
    ‘il fondamento di ogni scienza’; ma il medioevo non rappresenta uno
    iato nell’evoluzione della scienza storica; al contrario esso ha
    conosciuto «la continuità dello sforzo storico»
    [Guenée 1980, p. 367].
    
    Gli storici del Rinascimento hanno reso alla scienza storica alcuni
    eminenti servigi: essi hanno avviato la critica dei documenti con
    l’aiuto della filologia, hanno cominciato a «laicizzare»
    la storia e a eliminare da essa i miti e le leggende, hanno posto le
    basi delle scienze ausiliarie della storia e stretto l’alleanza
    della storia con l’erudizione.
    
    L’inizio della critica scientifica dei testi viene fatto risalire a
    Lorenzo Valla, che nella sua De falso credita et ementita
    Constantini donatione declaratio (1440), scritta su richiesta del re
    aragonese di Napoli in lotta con la Santa Sede, prova che il testo
    è un falso poiché la lingua usata non può
    risalire al IV secolo, ma è datata quattro o cinque secoli
    dopo: cosí le pretese del papa sugli Stati della Chiesa,
    fondate su questa presunta donazione di Costantino a papa Silvestro,
    si fondavano su un falso carolingio. «Cosí nacque la
    storia, come filologia, ossia come coscienza critica di sé e
    degli altri» [Garin 1951, p. 115]. Valla applicò la
    critica dei testi agli storici dell’antichità, Livio,
    Erodoto, Tucidide, Sallustio, e anche al Nuovo Testamento, nelle sue
    Adnotationes, per le quali Erasmo scrisse la prefazione
    dell’edizione parigina del 1505. Ma le sue Historiae Ferdinandi
    regis Aragoniae, padre del suo protettore, portata a termine nel
    1445 e pubblicata a Parigi nel 1521, non è che una serie di
    aneddoti riguardanti essenzialmente la vita privata del sovrano
    [cfr. Gaeta 1955]. Come il Biondo è fra gli storici umanisti
    il primo erudito, cosí il Valla è il primo critico.
    
    Dopo i lavori di Bernard Guenée forse non è possibile
    mantenere un’affermazione cosí radicale. Il Biondo, nei suoi
    manuali sulla Roma antica (Roma instaurata, 1446, stampata nel 1471;
    Roma triumphans, 1459, stampata nel 1472 c.) e nelle sue Romanorum
    decades, che sono una storia del medioevo dal 412 al 1440, è
    stato un grande raccoglitore di fonti, ma nelle sue opere non vi
    è né critica delle fonti né senso della storia:
    i documenti sono pubblicati gli uni accanto agli altri; tutt’al
    piú, nelle Decades, l’ordine è cronologico; ma Biondo,
    segretario del papa, fu il primo a inserire l’archeologia nella
    documentazione storica.
    
    Nel XV secolo gli storici umanisti inaugurano una scienza storica
    profana scevra di favole e d’invenzioni soprannaturali. Il grande
    nome qui è Leonardo Bruni, cancelliere di Firenze, le cui
    Historiae fiorentini populi (fino al 1404) ignorano le leggende
    sulla fondazione della città e non parlano mai
    dell’intervento della provvidenza. «Con lui si iniziò
    il cammino per una spiegazione naturale della storia» [Fueter
    1911, trad. it. p. 22]. Hans Baron [1932] ha potuto parlare della
    Profanisierung della storia.
    
    Il rifiuto dei miti pseudostorici ha dato luogo a una lunga polemica
    a proposito delle pretese origini troiane dei Franchi. Di volta in
    volta, Etienne Pasquier nelle Recherches de la France (il primo
    libro è del 1560; dieci libri nell’edizione postuma del
    1621), François Hotman nella sua Franco-Gallia (1573), Claude
    Fauchet nelle Antiquités gauloises et françoises
    jusqu’à Clovis (1599) e Lancelot-Voisin de La
    Popelinière nel Dessein de l’Histoire nouvelle des
    François (1599) mettono in dubbio l’origine troiana, mentre
    Hotman sostiene in modo convincente l’origine germanica dei Franchi.
    
    Bisogna sottolineare in questi progressi del metodo storico il ruolo
    della Riforma. Suscitando polemiche sulla storia del cristianesimo e
    liberi dalla tradizione ecclesiastica autoritaria, i riformati hanno
    contribuito a far evolvere la scienza storica.
    
    Infine, gli storici del XVI secolo, soprattutto quelli francesi
    della seconda metà, hanno ripreso la fiaccola dell’erudizione
    dagli umanisti italiani del Quattrocento. Guillaume Budé reca
    un importante contributo alla numismatica con il suo trattato sulle
    monete romane: De asse et partibus eius (1514). Giuseppe Giusto
    Scaligero è partito dalla cronologia nel De emendatione
    temporum (1583). Il protestante Isaac Casaubon, «la fenice
    degli eruditi», replica agli «Annales
    ecclesiastici» del cattolicissimo cardinale Cesare Baronio
    (1588-1607) con le sue Exercitationes (1612); anche il fiammingo
    Giusto Lipsio arricchisce l’erudizione storica, soprattutto nei
    campi filologico e numismatico. Si moltiplicano i dizionari, come il
    Thesaurus linguae latinae di Robert Estienne (1531) e il Thesaurus
    grecae linguae di suo figlio Henri (1572). Il fiammingo Jan Gruter
    pubblica il primo Corpus inscriptionum antiquarum del quale
    Scaligero compila l’indice. Non bisogna infine dimenticare che il
    XVI secolo dà alla periodizzazione storica la nozione di
    secolo.
    
    Mentre gli umanisti – imitando l’antichità – avevano
    mantenuto, nonostante i progressi dell’erudizione, la storia nel
    campo della letteratura, alcuni dei grandi storici del XVI e
    degl’inizi del XVII secolo si distinguono esplicitamente dagli
    uomini di lettere. Molti sono dei giuristi (Bodin, Vignier, Hotman,
    ecc.) e questi savants gens de robe annunziano la storia dei
    philosophes del XVIII secolo [Huppert 1970]. Donald Kelley ha
    mostrato [1964] che la storia delle origini e della natura del
    feudalesimo non data da Montesquieu, ma da dibattiti tra eruditi del
    XVI secolo.
    
    La storia nuova che volevano promuovere i grandi umanisti della fine
    del XVI e dell’inizio del XVII secolo fu aspramente combattuta nella
    prima parte del XVII secolo e compresa tra le manifestazioni del
    libertinismo. Il risultato fu la separazione crescente fra
    erudizione e storia (nel senso di storiografia), rilevata da Paul
    Hazard [1935] e George Huppert [1970]. L’erudizione fece dei
    progressi decisivi durante il secolo di Luigi XIV, mentre la storia
    conosceva una eclissi profonda.
    
    «Gli studiosi del XVII secolo sembrano disinteressarsi delle
    grandi questioni, dei grandi problemi della storia generale.
    Compilano glossari, come quel grande leguleio che fu Du Cange
    (1610-1688). Scrivono vite di santi, come Mabillon. Pubblicano fonti
    per la storia medievale, come Baluze (1630-1718), studiano le monete
    come Vaillant (1632-1706). In breve, tendono verso ricerche da
    antiquari piú che da storici» [ibid., p. 178].
    
    Due imprese ebbero una importanza particolare. Esse si collocano nel
    quadro di una ricerca collettiva: «La grande innovazione
    consiste nel fatto che, negli anni di regno di Luigi XIV,
    l’erudizione è stata condotta collettivamente»
    [Lefebvre 1945-46, trad. it. p. 97]. È in effetti una delle
    condizioni richieste dall’erudizione.
    
    La prima è l’opera di gesuiti, il cui iniziatore fu
    Héribert Roswey (Rosweyde), morto a Anversa nel 1629, che
    aveva stabilito una sorta di repertorio di vite di santi,
    manoscritti conservati nelle biblioteche belghe. Partendo dalle sue
    carte, Jean Bolland fece approvare dai suoi superiori il piano di
    una pubblicazione di vite di santi e di documenti agiografici,
    presentati secondo l’ordine del calendario. Cosí si
    formò un gruppo di gesuiti specializzati nell’agiografia, ai
    quali si darà il nome di bollandisti e che pubblicarono nel
    1643 i due primi volumi del mese di gennaio degli «Acta
    Sanctorum». I bollandisti sono ancora oggi in piena
    attività in un campo che non ha cessato di essere al primo
    posto dell’erudizione e della ricerca storica. Nel 1675 un
    bollandista, Daniel van Papenbroeck (Papebroch) pubblicò in
    cresta al tomo II di aprile degli «Acta Sanctorum» una
    dissertazione «sul discernimento del vero e del falso nelle
    vecchie pergamene». Papenbroeck non fu particolarmente abile
    nell’applicazione del suo metodo. Spetterà a un benedettino
    francese, dom Mabillon, diventare il vero fondatore della
    diplomatica.
    
    Jean Mabillon apparteneva all’altra équipe che dava
    all’erudizione le sue patenti di nobiltà, quella dei
    benedettini della congregazione riformata di Saint-Maur, che fecero
    allora di Saint-Germain-des-Prés, a Parigi, «la
    cittadella dell’erudizione francese».
    
    Il loro programma di lavoro era stato redatto nel 1648 da Luc
    d’Achéry. Il loro campo abbracciava i padri della Chiesa
    greci e latini, la storia della Chiesa, la storia dell’ordine
    benedettino. Nel 1681, Mabillon, per confutare Papenbroeck,
    pubblicò il De re diplomatica, che pose le regole della
    diplomatica (studio dei «diplomi») e i criteri che
    permettono di discernere l’autenticità degli atti pubblici o
    privati. Marc Bloch, non senza esagerazioni, vede nel «1681,
    l’anno della pubblicazione del De re diplomatica, una grande data
    nella storia dello spirito umano» [1941-42, trad. it. p. 83].
    L’opera insegna soprattutto che la concordanza di due fonti
    indipendenti stabilisce la verità e, ispirandosi a Descartes,
    applica il principio «di fare dovunque scomposizioni
    cosí intere e revisioni cosí generali» da essere
    «certi di non omettere nulla» [Tessier 1961, p. 641]. Si
    riportano due aneddoti che mostrano fino a che punto, passando dal
    XVII al XVIII secolo, il divorzio fra la storia e l’erudizione fosse
    divenuto profondo. Padre Daniel, storiografo ufficiale di Luigi XIV,
    che Fueter [1911] definisce però «un coscienzioso
    lavoratore» (trad. it. p. 187), apprestandosi a scrivere la
    sua Histoire de la milice française (1721), fu condotto alla
    biblioteca reale dove gli furono mostrate milleduecento opere che
    potevano essergli utili. Ne consultò un certo numero per
    circa un’ora e alla fine dichiarò che «tutti quei libri
    erano delle scartoffie inutili, delle quali non aveva bisogno per
    scrivere la sua storia». L’abate di Vertot aveva terminato
    un’opera sull’assedio di Rodi da parte dei Turchi; gli vennero
    portati dei nuovi documenti. Li respinse dicendo: «Il mio
    assedio è fatto» [Ehrard e Palmade 1964, p. 28].
    
    Questo lavoro di erudizione proseguí e si estese nel XVIII
    secolo. Il lavoro storico si assopí, si risvegliò
    soprattutto in occasione del dibattito sulle origini – germaniche o
    romane – della società e delle istituzioni francesi. Alcuni
    storici si rimisero alla ricerca delle cause, ma unendo l’attenta
    erudizione a questa riflessione intellettuale. Tale alleanza
    giustifica – nonostante alcune ingiustizie per il XVI secolo –
    l’opinione di Collingwood: «“Nel senso stretto in cui Gibbon e
    Mommsen sono degli storici, non esiste storico prima del XVIII
    secolo”, cioè nonesistono autori di uno “studio sia critico
    sia costruttivo, il cui campo è tutto il passato umano preso
    nella sua integralità e il cui metodo è di ricostruire
    il passato partendo da documenti scritti e non scritti, analizzati e
    interpretati in uno spirito critico”» [citato in Palmade 1968,
    p. 432].
    
    Dal canto suo, Henri Marrou ha sottolineato che «ciò
    che costituisce il merito di Gibbon [celebre autore inglese della
    History of the Decline and Fall of the Roman Empire, 1776-88]
    è precisamente l’aver realizzato la sintesi tra l’apporto
    dell’erudizione classica quale si era a poco a poco formulata presso
    i primi umanisti fino ai benedettini di Saint-Maur e ai loro emuli,
    e il senso dei grandi problemi umani, considerati dall’alto e
    ampiamente, come poteva averlo sviluppato in lui la
    familiarità con i filosofi» [1961, p. 27].
    
    Con il razionalismo filosofico – che non ebbe, lo si è visto,
    che delle conseguenze feconde per la storia –, con il definitivo
    rifiuto della Provvidenza e con la ricerca di cause naturali, gli
    orizzonti della storia si allargano a tutti gli aspetti della
    società e a tutte le civiltà. Fénelon, in un
    Projet d’un traité sur l’histoire (1714), pretende dallo
    storico lo studio «dei costumi e dello stato di ogni corpo
    della natura» e di mostrarne la verità,
    l’originalità – ciò che i pittori chiamano il costume
    – e insieme i cambiamenti: «Ogni nazione ha i suoi costumi,
    molto diversi da quelli dei popoli vicini, ogni popolo cambia spesso
    per i propri costumi» [citato in Palmade 1968, p. 432].
    Voltaire, nelle sue Nouvelles considérations sur l’histoire
    (1744), aveva preteso una «storia economica, demografica,
    storia delle tecniche e dei costumi e non solo storia politica
    militare, diplomatica. Storia degli uomini, e non solo storia dei re
    e dei grandi. Storia delle strutture e non solo degli avvenimenti.
    Storia in movimento, storia delle evoluzioni e delle trasformazioni,
    e non storia statica, storia-quadro. Storia esplicativa, e non
    puramente storia narrativa, descrittiva – o dogmatica. Storia
    globale infine…» [Le Goff 1978, trad. it. p. 24].
    
    Al servizio di questo programma – o di programmi meno ambiziosi – lo
    storico mette ormai un’accurata erudizione, che iniziative sempre
    piú numerose e fatto nuovo, le istituzioni, cercano di
    soddisfare. In questo secolo di accademie di sociétés
    savantes, la storia o ciò che la riguarda non è
    dimenticato.
    
    Sul piano delle istituzioni la scelta di un esempio può
    cadere sull’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres di
    Francia. La «piccola accademia» fondata da Colbert nel
    1663 non comprendeva allora che quattro membri e la sua missione era
    puramente utilitaria: redigere i motti delle medaglie e le
    iscrizioni dei monumenti che perpetueranno la gloria del Re Sole.
    Nel 1701 i suoi effettivi furono portati a quaranta e diventò
    autonoma. Venne ribattezzata con il suo nome attuale nel 1716, e a
    partire dal 1717 pubblicò regolarmente delle memorie dedicate
    alla storia, all’archeologia e alla linguistica, e intraprese
    l’edizione del Recueil des ordonnances des rois de France.
    
    Sul piano degli strumenti di lavoro, si possono citare, da una
    parte, l’Art de vérifier les dates, della quale i maurini
    pubblicano la prima edizione nel 1750, dall’altra la costituzione,
    intorno al 1717-20, degli Archivi reali a Torino, i cui regolamenti
    sono la migliore espressione dell’archivistica del tempo, e la
    stampa del catalogo della biblioteca reale di Parigi (1739-53).
    
    Quale rappresentante dell’attività erudita al servizio della
    storia può citarsi Lodovico Antonio Muratori, nato nel 1672,
    bibliotecario dell’Ambrosiana a Milano nel 1694, bibliotecario e
    archivista del duca d’Este a Modena nel 1700, morto nel 1750. Dal
    1744 al 1749 egli pubblicò gli Annali d’Italia, preceduti
    (1738-42) dalle Antiquitates italicae Medii Aevi. Egli fu,
    segnatamente, in relazione con Leibniz [cfr. Campori 1892].
    
    Muratori ha preso come modello Mabillon, ma, in quanto laico, egli
    libera, alla maniera degli umanisti del Rinascimento, la storia dai
    miracoli e dai presagi. Egli spinge piú lontano del maurino
    la critica delle fonti, ma anch’egli non è un vero storico.
    Non vi è elaborazione storica della documentazione e la
    storia si riduce a storia politica. Ciò che concerne le
    istituzioni, i costumi e le mentalità è rigettato
    nelle Antiquitates. «I suoi Annali… sono da chiamarsi
    piuttosto studi per la storia italiana ordinati cronologicamente,
    che non un’opera storica» [Fueter 1911, trad. it. p. 411].
    
    Dal punto di vista che qui preme, il secolo XIX è decisivo
    perché mette definitivamente a punto il metodo critico dei
    documenti, che interessano lo storico fin dal Rinascimento, diffonde
    questo metodo e i suoi risultati con l’insegnamento e la
    pubblicazione e unisce storia ed erudizione.
    
    Sull’attrezzatura erudita della storia si prenda l’esempio della
    Francia. La rivoluzione, poi l’impero, costituiscono le Archives
    Nationales, che, poste sotto l’autorità del ministro degli
    Interni nel 1800, passano sotto quella del ministro dell’Istruzione
    pubblica nel 1883. La Restaurazione creò l’Ecole des Chartes
    nel 1821, per formare un corpo di archivisti specializzati che
    dovevano essere piú degli storici che degli amministratori e
    ai quali fu riservata, a partire dal 1850, la direzione degli
    archivi dipartimentali. La ricerca archeologica sui principali
    luoghi dell’antichità fu favorita dalla fondazione delle
    Ecoles di Atene (1846) e di Roma (1874), l’insieme dell’erudizione
    storica dalla fondazione della Ecole Pratique des Hautes Etudes
    (1868). Nel 1804 era nata a Parigi l’Académie Celtique, per
    studiare il passato nazionale francese. Essa si trasformò nel
    1814 in Société des Antiquaires de France. Nel 1834 lo
    storico Guizot, divenuto ministro, istituí un Comité
    des Travaux Historiques, incaricato di pubblicare una
    «Collection de Documents inédits sur l’histoire de
    France». Nel 1835, la Société Française
    d’Archéologie fondata nel 1833 tiene il suo primo congresso.
    La Société de l’Histoire de France nasce nel 1835.
    Ormai «un’armatura» esiste per la storia: cattedre di
    facoltà, centri universitari, sociétés
    savantes, collezioni di documenti, biblioteche, riviste. Dopo i
    monaci del medioevo, gli umanisti e i giuristi del Rinascimento, i
    philosophes del XVIII secolo, i professori borghesi introducevano la
    storia nel cuore dell’Europa e nel suo prolungamento, gli Stati
    Uniti d’America, dove era stata fondata nel 1800 la Library of
    Congress a Washington.
    
    Il movimento era europeo e fortemente colorato di spirito nazionale,
    se non di nazionalismo. Un segno evidente vien dato dalla creazione
    in poco tempo di una rivista storica (nazionale) nella maggior parte
    dei paesi europei. In Danimarca, «Historisk Tidsskrift»
    (1840); in Italia, «Archivio Storico Italiano» (1842),
    al quale farà seguito la «Rivista Storica
    Italiana» (1884); in Germania, «Historische
    Zeitschrift» (1859); in Ungheria,
    «Századok» (1867); in Norvegia, «Historisk
    Tidsskrift» (1870); in Francia, «Revue Historique»
    (1876), che era stata preceduta fin dal 1839 dalla
    «Bibliothèque de l’Ecole des Chartes»; in Svezia,
    «Historisk Tidsskrift» (1881); in Inghilterra,
    «English Historical Review «(1886); nei Paesi Bassi,
    «Tijdschrift voor Geschiedenis» (1886); in Polonia,
    «Kwartalnik Historyczny» (1887); e negli Stati Uniti,
    «The American Historical Review» (1895).
    
    Ma il grande centro, il faro, il modello della storia erudita, nel
    XIX secolo fu la Prussia. Non soltanto l’erudizione vi ha creato
    delle istituzioni e delle collezioni prestigiose quali i
    «Monumenta Germaniae historica» (a partire dal 1826), ma
    la produzione storica vi uní meglio che altrove il pensiero
    storico, l’erudizione e l’insegnamento nella forma del seminario e
    vi assicurò la continuità dello sforzo di erudizione e
    ricerca storica. Emergono alcuni grandi nomi: il tedesco-danese
    Niebuhr per la sua Storia romana (Römische Geschichte,
    1811-32); l’erudito Waitz, allievo di Ranke, autore di una Storia
    della costituzione tedesca (Deutsche Verfassungs-geschichte,
    1844-78) e direttore dal 1875 dei «Monumenta Germaniae
    historica»; Mommsen, che dominò la storia antica, dove
    utilizzò l’epigrafia per la storia politica e giuridica
    (Römische Geschichte, a partire dal 1849); Droysen, fondatore
    della scuola prussiana, specialista di storia greca e autore di un
    manuale di storiografia: Sommario di istorica (Grundriss der
    Historik, scritto nel 1858, pubblicato nel 1868); la cosiddetta
    scuola «nazional-liberale» con Sybel, fondatore della
    «Historische Zeitschrift», Haüsser, autore di una
    Storia di Germania (Deutsche Geschichte, 1854-57) nel XIX secolo,
    Treitschke, ecc. Il piú grande nome della grande scuola
    storica tedesca del XIX secolo è Ranke, del quale si è
    visto il ruolo ideologico nello storicismo. Lo si ricorda qui come
    fondatore, nel 1840, del primo seminario di storia nel quale maestri
    e allievi si dedicavano insieme alla critica dei testi.
    
    L’erudizione tedesca aveva esercitato una forte seduzione sugli
    storici europei del XIX secolo, compresi quelli francesi, che non
    erano lontani dal pensare che la guerra del 1870-71 era stata vinta
    dai maestri prussiani e dagli eruditi tedeschi. Un Monod, un
    Jullian, un Seignobos, per esempio, andarono a completare la loro
    formazione nei seminari d’Oltre Reno. Marc Bloch doveva anch’egli
    confrontarsi con l’erudizione tedesca a Lipsia. Un allievo di Ranke,
    Godefroid Kurth, fondò all’università di Liegi un
    seminario dove il grande storico belga Henri Pirenne, che nel XX
    secolo doveva contribuire a fondare la storia economica, fece il suo
    apprendistato.
    
    Tuttavia, uscendo dalla Germania, i pericoli dell’erudizione tedesca
    apparvero alla fine del secolo XIX. Camille Jullian nel 1896
    constatava: «La storia in Germania si sbriciola e si
    sfalda», talvolta essa «si perde a poco a poco in una
    sorta di scolastica filologica: i grandi nomi spariscono l’uno dopo
    l’altro; v’è di che aver paura di veder sopraggiungere gli
    epigoni di Alessandro o i nipoti di Carlomagno…» [citato in
    Ehrard e Palmade 1964, p. 77]. Lo storicismo erudito tedesco
    degenerava in Germania, e altrove in Europa, in due tendenze
    opposte: una filosofia della storia idealista, un ideale erudito
    positivista che fuggiva le idee e bandiva dalla storia la ricerca
    delle cause.
    
    Spetterà a due universitari francesi dare a questa storia
    positivista il suo statuto: l’Introduction aux études
    historiques [1898] di Langlois e Seignobos, che, definendosi
    «breviario dei metodi nuovi», riprendeva insieme gli
    elementi positivi di una erudizione progressista e necessaria e i
    germi di una sterilizzazione dello spirito e dei metodi della
    storia.
    
    Resta da fare il bilancio positivo di questa storia erudita del XIX
    secolo, come ha fatto Marc Bloch nella sua Apologie pour l’histoire:
    «Il coscienzioso sforzo del secolo XIX» ha consentito
    che «le tecniche della critica» cessino di essere il
    monopolio «di un pugno di eruditi, di esegeti e di
    curiosi» e «lo storico è stato ricondotto al
    banco di lavoro». Bisogna far trionfare «i piú
    elementari precetti di una morale dell’intelligenza» e
    «le forze della ragione» che operano nelle «nostre
    umili note, [nei] nostri piccoli minuziosi rimandi, che oggi tanti
    begli spiriti disprezzano, senza comprenderli» [1941-42, trad.
    it. pp. 85-88; cfr. anche Ehrard e Palmade 1964, p. 78].
    
    Cosí, fermamente stabilita sulle sue ancelle, le scienze
    ausiliarie (archeologia, numismatica, sigillografia, filologia,
    epigrafia, papirologia, diplomatica, onomastica, genealogia,
    araldica), la storia si è installata sul trono
    dell’erudizione.
    
    5. La storia oggi.
    
    Della storia oggi si traccerà qui, da una parte, il
    rinnovamento in quanto pratica scientifica, mentre dall’altra se ne
    ricorderà il ruolo nella società.
    
    Il primo punto verrà trattato in modo relativamente breve,
    rinviando a un altro studio [Le Goff 1978] nel quale chi scrive ha
    presentato la genesi e i principali aspetti del rinnovamento della
    scienza storica nell’ultimo mezzo secolo.
    
    Questa tendenza pare soprattutto francese, ma si è
    manifestata anche altrove, specialmente in Gran Bretagna e in
    Italia, in particolare intorno alle riviste «Past and
    Present» (dopo il 1952) e «Quaderni storici» (dopo
    il 1966).
    
    Una delle sue piú antiche manifestazioni è stata lo
    sviluppo della storia economica e sociale; bisogna quindi menzionare
    qui il ruolo della scienza storica tedesca intorno alla rivista
    «Vierteljahrsschrift für Sozial- und
    Wirtschaftsgeschichte», fondata nel 1903, e quello del grande
    storico belga Henri Pirenne, teorico dell’origine economica delle
    città nell’Europa medievale. Nella misura in cui la
    sociologia e l’antropologia hanno svolto un grande ruolo nel
    mutamento della storia nel secolo XX, l’influenza di un grande
    spirito come Max Weber e quella dei sociologi e degli antropologi
    anglosassoni sono ben note.
    
    Il successo della «storia orale» è stato grande e
    precoce tra i popoli anglosassoni. La moda della storia quantitativa
    è stata notevole un po’ dovunque, salvo forse nei paesi
    mediterranei.
    
    Ruggiero Romano, che ha dato un’immagine, che colpisce per
    l’intelligenza e le posizioni prese, della Storiografia italiana
    oggi [1978], ha indicato un gruppo di paesi nei quali la
    partecipazione della storia e degli storici alla vita sociale e
    politica – non soltanto alla vita culturale – è viva:
    l’Italia, la Francia, la Spagna, i paesi sudamericani, la Polonia,
    mentre il fenomeno non esiste nei paesi anglosassoni, russi e
    germanici. Esempio pionieristico di una storia nazionale, che
    integra in sé le acquisizioni e le aperture dei nuovi
    orientamenti storiografici, è costituito dalla Storia
    d’Italia dell’editore torinese Einaudi (1972-76).
    
    Oggi il lavoro storico e la riflessione sulla storia si sviluppano
    in un clima di critica e di disincanto nei confronti dell’ideologia
    del progresso, e piú recentemente, in Occidente, di ripudio
    del marxismo, in ogni caso del marxismo volgare. Tutta una
    produzione senza valore scientifico che aveva potuto illudere sotto
    la pressione della moda e di un certo terrorismo
    politico-intellettuale, ha perduto ogni credito. Va segnalato che,
    inversamente e nelle stesse condizioni, fiorisce una pseudostoria
    antimarxista che sembra avere assunto come bandiera il tema consunto
    dell’irrazionale.
    
    Poiché il marxismo, se si eccettua Max Weber, è stato
    il solo pensiero coerente della storia nel secolo XX, è
    importante vedere ciò che si è prodotto alla luce
    della disaffezione per la teoria marxista e del rinnovamento, da
    tempo avviato, delle pratiche storiche in Occidente, non contro il
    marxismo, ma al di fuori di esso, anche se si pensa con Michel
    Foucault che certi problemi capitali per lo storico non possano
    ancora essere posti che a partire dal marxismo. In Occidente, un
    certo numero di storici di valore si sono sforzati di mostrare che
    non soltanto il marxismo poteva giungere a una buona convivenza con
    «la nuova storia», ma che era vicino a questa storia per
    la sua considerazione per le strutture, la sua concezione di una
    storia totale, il suo interesse per il campo delle tecniche e delle
    attività materiali.
    
    Pierre Vilar [1973] e Guy Bois [1978] si sono augurati che il
    rinnovamento passi «attraverso un certo ritorno alle
    fonti» (trad. it. p. 256). Talune opere collettive come
    Aujourd’hui l’histoire [Hincker e Casanova 1974] e Ethnologie et
    histoire [Ethnologie 1975], pubblicate a Parigi dalle Editions
    Sociales, manifestano un desiderio di apertura. Un’interessante
    serie di testi pubblicati qualche anno fa da un certo numero di
    storici marxisti italiani [Cecchi 1974] ha mostrato la
    vitalità e l’evoluzione di questa ricerca. Un’opera come Le
    féodalisme, un horizon théorique di Alain Guerreau
    [1980] manifesta, nonostante i suoi eccessi, l’esistenza di un
    pensiero marxista forte e nuovo.
    
    Si conosce male in Occidente la produzione storica dei paesi
    dell’Est. A eccezione della Polonia e dell’Ungheria, ciò che
    se ne sa non è per nulla incoraggiante. Vi sono forse lavori
    e correnti interessanti nella Germania dell’Est.
    
    Sono stati già indicati in alcuni storici del passato gli
    antenati della nuova storia, per il loro gusto per la ricerca delle
    cause, la loro curiosità nei confronti delle civiltà,
    il loro interesse per il materiale, il quotidiano, la psicologia. Da
    La Popelinière, alla fine del XVI secolo, a Michelet,
    passando per Fénelon, Montesquieu, Voltaire, Chateaubriand e
    Guizot, si tratta di una impressionante linea ereditaria nella
    diversità. Bisogna aggiungere l’olandese Huizinga (morto nel
    1945), il cui capolavoro, Autunno del Medio Evo [1919] fece entrare
    la sensibilità e la psicologia collettive nella storia.
    
    Si considera la fondazione, nel 1929, della rivista
    «Annales» («Annales d’histoire économique
    et sociale» nel 1929, «Annales. Economies,
    Sociétés, Civilisations» dal 1945), a opera di
    Marc Bloch e Lucien Febvre, come l’atto di nascita della nuova
    storia [cfr. Revel e Chartier 1978; Allegra e Torre 1977; Cedronio e
    altri 1977]. Le idee della rivista ispirarono, nel 1947, la
    fondazione, a opera di Lucien Febvre (morto nel 1956) (Marc Bloch,
    resistente, era stato fucilato dai Tedeschi nel 1944), di un
    istituto di ricerca e d’insegnamento della ricerca nel campo delle
    scienze umane e sociali, la sesta sezione (delle scienze economiche
    e sociali) della Ecole Pratique des Hautes Etudes, prevista da
    Victor Duruy al momento della fondazione della scuola nel 1868, ma
    che non aveva potuto concretizzarsi. Divenuta nel 1975 Ecole des
    Hautes Etudes en Sciences Sociales, questo istituto nel quale la
    storia aveva un posto eminente accanto alla geografia, all’economia,
    alla sociologia, all’antropologia, alla psicologia, alla linguistica
    e alla semiologia, assicurò la diffusione in Francia e
    all’estero delle idee che erano state alle origini delle
    «Annales».
    
    Si possono riassumere queste idee nella critica del fatto storico,
    della storia événementielle, in particolare politica;
    nella ricerca di una collaborazione con le altre scienze sociali
    (l’economista François Simiand – che aveva pubblicato nel
    1903 nelle «Revue de Synthèse Historique»
    [pioniera della nuova storia sotto l’impulso di Henri Berr] un
    articolo, Méthode historique et science sociale, nel quale
    denunziava gli «idoli» «politici»,
    «individuali» e «cronologici», articolo che
    ispirò il programma delle «Annales» –, il
    sociologo Emile Durkheim, il sociologo e antropologo Marcel Mauss
    furono gli ispiratori dello «spirito» delle
    «Annales»); nella sostituzione della storia-problema
    alla storia-racconto; nella attenzione per il presente della storia.
    
    Fernand Braudel, autore di una «tesi» rivoluzionaria su
    La Méditerranée et le monde
    méditerranéen à l’epoque de Philippe II [1966],
    nella quale la storia era scomposta in tre piani digradanti, il
    «tempo geografico», il «tempo sociale» e il
    «tempo individuale» – e l’événementiel
    respinto nella terza parte – ha pubblicato nelle
    «Annales» l’articolo sulla «lunga durata»
    [1958], che doveva ispirare in seguito una parte importante della
    ricerca storica.
    
    Un po’ dovunque negli anni Settanta, colloqui, opere, piú
    spesso collettive, fecero il punto sui nuovi orientamenti della
    storia. Un lavoro d’insieme [Le Goff e Nora 1974] presentò
    sotto il titolo Faire de l’histoire i «nuovi problemi»,
    i «nuovi approcci» e i «nuovi obiettivi»
    della storia. Tra i primi, il quantitativo in storia, la storia
    concettualizzante, la storia prima della scrittura, la storia dei
    popoli senza storia, l’acculturazione, la storia ideologica, la
    storia marxista, la nuova storia événementielle. I
    secondi concernevano l’archeologia, l’economia, la demografia,
    l’antropologia religiosa, i nuovi metodi di storia della
    letteratura, dell’arte, delle scienze, della politica. La scelta dei
    nuovi oggetti si era fissata sul clima, l’inconscio, il mito, le
    mentalità, la lingua, il libro, i giovani, il corpo, la
    cucina, l’opinione pubblica, il film, la festa. 
    
    Quattro anni dopo La nouvelle histoire [Le Goff, Chartier e Revel
    1978], rivolgendosi a un pubblico piú vasto ancora, attestava
    i progressi della volgarizzazione della nuova storia e i rapidi
    spostamenti d’interesse all’interno del suo ambito, insieme con la
    focalizzazione intorno a qualche tema: antropologia storica, cultura
    materiale, immaginario, storia immediata, lunga durata, marginali,
    mentalità, strutture.
    
    Il dialogo della storia con le altre scienze proseguiva, si
    approfondiva, si concentrava e allargava al tempo stesso.
    
    Si concentrava. Accanto alla persistenza dei rapporti fra storia e
    economia [attestata, per esempio, da Lhomme 1967], storia e
    sociologia (una testimonianza tra le altre è quella del
    sociologo Alain Touraine, che dichiara [1977, p. 274]: «Io non
    separo il lavoro della sociologia dalla storia di una
    società»), una relazione privilegiata si è
    stretta fra la storia e l’antropologia, auspicata, da parte degli
    antropologi, da Evans-Pritchard [1961], considerata con maggiore
    circospezione da Lewis [1968], che insiste sugl’interessi differenti
    delle due scienze (la storia volta al passato, l’antropologia al
    presente, la prima verso i documenti, la seconda verso l’indagine
    diretta, la prima verso la spiegazione degli avvenimenti, la seconda
    verso i caratteri generali delle istituzioni sociali). Ma uno
    storico come Carr scrive [1961]: «Piú la storia
    diventerà sociologica e la sociologia storica, tanto meglio
    sarà per entrambe» (trad. it. p. 73). E un antropologo
    come Marc Augé afferma: «L’oggetto dell’antropologia
    non è quello di ricostruire società scomparse, ma di
    mettere in evidenza delle logiche sociali e delle logiche
    storiche» [1979, p. 170].
    
    In questo incontro fra storia e antropologia lo storico ha
    privilegiato taluni campi e problemi. Quello per esempio dell’uomo
    selvaggio e dell’uomo quotidiano [Furet 1971b; Le Goff 1971a] o in
    uno dei rapporti fra cultura dotta e cultura popolare [cfr. Ginzburg
    1976, p. XI: «In passato si potevano accusare gli storici di
    voler conoscere soltanto le “gesta dei re”. Oggi, certo, non
    è piú cosí»]. O ancora la storia orale,
    nella cui abbondante letteratura si potrebbero scegliere il numero
    speciale dei «Quaderni storici» (1977) dedicato alla
    Oral History: fra antropologia e storia, che pone bene i problemi
    per le differenti classi sociali e le diverse civiltà; il
    libretto di Jean-Claude Bouvier e d’un’équipe d’antropologi,
    storici e linguisti Tradition orale et identité culturelle.
    Problèmes et méthodes (1980), perché valorizza
    bene i rapporti tra oralità e discorso sul passato, definisce
    gli etnotesti e un metodo per raccoglierli e utilizzarli; e infine
    la relazione di Dominique Aron-Schnapper e Danièle Hanet
    Histoire orale ou archives orales? (1980) sulla costituzione di
    archivi orali per la storia della sicurezza sociale, che pone bene
    il problema dei rapporti tra un nuovo tipo di documentazione e un
    nuovo tipo di storia.
    
    Da queste esperienze, da questi contatti, da queste conquiste, un
    certo numero di storici – fra i quali anche chi scrive – auspicano
    che si costituisca una nuova disciplina storica strettamente legata
    all’antropologia: l’antropologia storica.
    
    Nel supplemento del 1980 l’Encyclopaedia Universalis dedica un lungo
    articolo all’antropologia storica [Burguière 1980]. L’autore
    vi mostra che questa nuova etichetta, nata dall’incontro tra
    l’etnologia e la storia, è di fatto piú una riscoperta
    che un fenomeno radicalmente nuovo. Essa si pone nella tradizione di
    una concezione della storia il cui padre è senza dubbio
    Erodoto e che, nella tradizione francese, si esprime nel XVI secolo
    con Pasquier, La Popelinière o Bodin, nel XVIII secolo nelle
    opere storiche piú importanti dell’illuminismo, e che domina
    la storiografia romantica. Essa è «piú
    analitica, dedita a rintracciare l’itinerario e i progressi della
    civiltà, si interessa ai destini collettivi piú che
    agli individui, alla evoluzione delle società piú che
    alle istituzioni, agli usi piú che agli avvenimenti»,
    di fronte a un’altra concezione, «piú narrativa,
    piú vicina ai luoghi del potere politico», quella che
    va dai grandi cronisti medievali agli eruditi del XVII secolo e alla
    storia événementielle e positivista che trionfa alla
    fine del secolo XIX. È un allargamento del campo della storia
    nello spirito dei fondatori delle «Annales», «alla
    intersezione dei tre assi principali che Marc Bloch e Lucien Febvre
    distinguevano per gli storici: la storia economica e sociale, la
    storia delle mentalità, le ricerche interdisciplinari».
    Il suo modello sono Les rois thaumaturges di Marc Bloch [1924]. Uno
    dei suoi risultati è l’opera di Fernand Braudel Civilisation
    matérielle et capitalisme, nella quale lo storico
    «descrive la maniera con la quale i grandi equilibri
    economici, i circuiti di scambi creavano e modificavano la trama
    della vita biologica e sociale, la maniera con la quale, per
    esempio, il gusto si abituava a un prodotto alimentare nuovo»
    [Burguière 1980, p. 159]. André Burguière
    prende come esempio di un campo che l’antropologia storica cerca di
    conquistare, quello di una storia del corpo, sulla quale lo storico
    tedesco Norbert Elias, in un libro d’anteguerra [1939] la cui
    risonanza data dagli anni Settanta, ha offerto un’ipotesi che spiega
    l’evoluzione delle relazioni verso il corpo nella civiltà
    europea: «L’occultamento e la messa a distanza del corpo
    traducevano al livello dell’individuo la tendenza al rimodellamento
    del corpo sociale imposta dagli Stati burocratici; rientravano nel
    medesimo processo la separazione delle classi di età, la
    messa in disparte dei devianti, la segregazione dei poveri e dei
    folli, cosí come il declino delle solidarietà
    locali» [Burguière 1980, p. 159]. I quattro esempi che
    sceglie Burguière per illustrare l’antropologia storica sono:
    1) la storia dell’alimentazione, che «si occupa di ritrovare,
    studiare e, all’occorrenza, quantificare, tutto ciò che si
    riferisce a questa funzione biologica essenziale al mantenimento
    della vita: la nutrizione»; 2) la storia della
    sessualità e della famiglia, che ha fatto entrare la
    demografia storica in un’era nuova con l’utilizzazione di fonti
    massicce (i registri parrocchiali) e una problematica che tiene
    conto delle mentalità, per esempio gli atteggiamenti nei
    confronti della contraccezione; 3) la storia dell’infanzia, che ha
    mostrato come gli atteggiamenti nei confronti del bambino non si
    riducessero a un ipotetico amore dei genitori, ma dipendessero da
    condizioni culturali complesse: non vi è, per esempio,
    specificità del bambino nel medioevo; 4) la storia della
    morte, che si è rivelata come il campo piú fecondo
    della storia delle mentalità.
    
    In tal modo, il dialogo tra la storia e le scienze sociali tende a
    privilegiare i rapporti tra storia e antropologia, benché, a
    parere di chi scrive, per esempio, l’antropologia storica includa
    anche la sociologia. Tuttavia, la storia tende a uscire dal suo
    territorio in modo ancor piú audace, dirigendosi verso le
    scienze della natura [cfr. Le Roy Ladurie 1967] come verso le
    scienze della vita, specialmente la biologia.
    
    Vi è anzitutto il desiderio degli scienziati di fare la
    storia della loro scienza, ma non una storia qualsiasi. Ecco cosa
    scrive un grande biologo, il premio Nobel François Jacob
    [1970]: «Per un biologo, vi sono due modi di considerare la
    storia della scienza. Si può guardare, anzitutto, alla
    successione delle idee e alla loro genealogia; si cerca, allora, il
    filo conduttore che ha guidato il pensiero fino alle teorie odierne.
    Questo tipo di storia si fa, per cosí dire, a ritroso,
    estrapolando il presente in direzione del passato. Passo per passo,
    si esamina l’ipotesi che ha preceduto quella oggi dominante, poi
    quella che, a sua volta, l’ha preceduta, e cosí via. In
    questo modo, le idee acquistano una loro indipendenza… Si assiste,
    allora, a una specie di evoluzione delle idee, soggetta talvolta a
    una sorta di selezione naturale fondata su un criterio di
    interpretazione teorica (e quindi di riutilizzazione pratica),
    talaltra alla sola teleologia della ragione… Ma vi è un altro
    modo di considerare la storia della biologia, che consiste nel
    ricercare come gli oggetti di questa scienza siano diventati
    accessibili all’analisi, e come si siano aperti – in tal modo –
    sempre nuovi campi di indagine. Si tratta, allora, di precisare la
    natura di questi oggetti, l’atteggiamento di coloro che li studiano,
    il loro modo di osservarli, gli ostacoli che la tradizione culturale
    oppone al ricercatore… Non vi è piú una filiazione
    pressoché lineare di idee che nascono l’una dall’altra; vi
    è un campo d’indagine che il pensiero cerca di esplorare e
    nel quale tenta di instaurare un ordine, di costituire un insieme di
    relazioni astratte che si accordino non soltanto con l’osservazione
    e la tecnica, ma anche con la pratica, i valori e le interpretazioni
    dominanti» (trad. it. pp. 19-20).
    
    È dunque chiaro cosa è qui in questione. È il
    rifiuto di una storia idealista, dove le idee si generano con una
    sorta di partenogenesi, di una storia guidata dalla concezione di un
    progresso lineare, di una storia che interpreta il passato con i
    valori del presente. Al contrario, François Jacob propone la
    storia di una scienza che tenga conto delle condizioni (materiali,
    sociali, mentali) della sua produzione e che individui in tutta la
    loro complessità le tappe del sapere.
    
    Ma bisogna spingersi piú lontano. Ruggiero Romano, basandosi
    sui lavori suggestivi e dai fondamenti indiscutibili di Jacques
    Ruffié [1976] e su quelli piú contestabili di Wilson
    [1975], afferma: «Laddove la storia aveva cercato d’imporsi
    alla biologia servendosene (bassamente e male) per storia
    demografica, oggi la biologia vuole e può insegnare qualcosa
    alla storia» [1978, p. 8].
    
    Nitschke ha richiamato l’attenzione sull’interesse che avrebbe una
    collaborazione tra storici e specialisti dell’etologia:
    «Molteplici incitamenti alla ricerca storica vengono da un
    confronto con l’etologia dei biologi. Bisogna auspicare che questo
    incontro tra le due discipline nella prospettiva di una etologia
    storica diventi fruttuoso per entrambe» [1974, p. 97].
    
    Ogni profondo mutamento della metodologia storica si accompagna a
    una trasformazione importante della documentazione. In questo
    settore, la nostra epoca conosce una vera e propria rivoluzione
    documentaria: è l’irruzione del quantitativo e il ricorso
    all’informatica. Chiamato dall’interesse della nuova storia per i
    grandi numeri, postulato dall’utilizzazione di documenti che
    permettano di raggiungere le masse, come i registri parrocchiali in
    Francia, base della nuova demografia [cfr. ad esempio Goubert 1960],
    reso necessario dallo sviluppo della storia seriale, il calcolatore
    è cosí entrato nell’attrezzatura dello storico. Il
    quantitativo era apparso nella storia con la storia economica, in
    particolare con la storia dei prezzi, della quale Ernest Labrousse
    [1933], sotto l’influenza di François Simiand, fu uno dei
    grandi pionieri, ha invaso la storia demografica, la storia
    culturale. Dopo un periodo di entusiasmo ingenuo, sono stati
    individuati i servizi indispensabili resi dal calcolatore in taluni
    tipi di ricerca storica e i suoi limiti [cfr. Furet 1971a; Shorter
    1971; Arnold 1974]. Anche nella storia economica, uno dei principali
    sostenitori della storia quantitativa, Marczewski, ha scritto:
    «La storia quantitativa non è che uno dei metodi della
    ricerca storica nel campo della storia economica. Essa non esclude
    affatto il ricorso alla storia qualitativa. Questa le apporta un
    complemento indispensabile» [1965, p. 48]. Un modello di
    ricerca storica innovatrice, fondato sull’utilizzazione intelligente
    del calcolatore, è l’opera di Herlihy e Klapisch-Zuber Les
    Toscans et leurs familles [1978].
    
    Lo sguardo dello storico sulla storia della sua disciplina ha
    sviluppato recentemente un nuovo settore, particolarmente ricco,
    della storiografia: la storia della storia.
    
    Sulla storia della storia il filosofo e storico polacco Krzysztof
    Pomian ha gettato uno sguardo particolarmente acuto. Egli ha
    ricordato in quali condizioni storiche questa storia nacque alla
    fine del secolo XIX sulla critica del regno della Storia: «Dei
    filosofi, dei sociologi e anche degli storici si misero a dimostrare
    che l’obiettività, i fatti dati una volta per tutte, le leggi
    dello sviluppo, il progresso, tutte nozioni che erano state
    considerate fino a quel momento come evidenti e che fondavano le
    pretese scientifiche della storia, non erano che illusioni… Gli
    storici… furono indicati, nella migliore delle ipotesi, come degli
    ingenui, accecati dalle illusioni che essi stessi avevano prodotte,
    nella peggiore come dei ciarlatani» [1975, p. 936].
    
    La storia della storiografia prese come insegna le parole di Croce:
    ogni storia è una storia contemporanea e lo storico, da
    sapiente che pensava di essere, diventa un fabbricante di miti, un
    politico inconsapevole. Ma, aggiunge Pomian, questa messa in
    questione non tocca soltanto la storia, ma «tutta la scienza e
    in particolare il suo nucleo, la fisica» [ibid.]. La storia
    delle scienze si sviluppò con lo stesso spirito critico della
    storia della storiografia. Per Pomian questo tipo di storia è
    oggi sorpassato perché dimentica l’aspetto cognitivo della
    storia, e della scienza in particolare, e dovrebbe diventare una
    scienza dell’insieme delle pratiche dello storico e, piú
    ancora, una storia della conoscenza: «La storia della
    storiografia ha fatto il suo tempo. Ciò di cui oggi noi
    abbiamo bisogno è una storia della storia che dovrebbe porre
    al centro delle sue ricerche le interazioni tra la conoscenza, le
    ideologie, le esigenze della scrittura, in breve tra gli aspetti
    diversi e talvolta discordanti del lavoro dello storico. E che,
    cosí facendo, dovrebbe permettere di gettare un ponte tra la
    storia delle scienze e quella della filosofia, della letteratura,
    forse dell’arte. O meglio: tra una storia della conoscenza e quella
    dei differenti usi che se ne fanno» [ibid., p. 952].
    
    Dell’allargamento del campo della storia reca testimonianza la
    creazione di nuove riviste, in un quadro tematico, mentre il grande
    movimento della nascita di riviste storiche nel XIX secolo si era
    soprattutto operato in un quadro nazionale.
    
    Giova ricordare tra le nuove riviste: 1) quelle che s’interessano
    alla storia quantitativa, per esempio «Computers and the
    Humanities», pubblicata dal 1966 dal Queen’s College della
    City University di New York; 2) quelle che riguardano la storia
    orale e l’etnostoria, tra cui «Oral History. The Journal of
    the British Oral History Society» (1973),
    «Ethnohistory», edita dall’università
    dell’Arizona dal 1954, i ricordati «History Workshop»
    britannici; 3) quelle che si dedicano alla comparazione e alla
    interdisciplinarità: i «Comparative Studies in Society
    and History» americani, dal 1959; l’«Information sur les
    Sciences Sociales», bilingue (francese e inglese), pubblicata
    dalla Maison des Sciences de l’Homme (Parigi) dal 1966; 4) quelle
    che si occupano della teoria e della storia della storia, la
    piú importante delle quali è la ricordata
    «History and Theory», fondata nel 1960.
    
    Vi è un allargamento dell’orizzonte storico che deve portare
    a un vero e proprio sconvolgimento della scienza storica. È
    la necessità di mettere fine all’etnocentrismo, la
    necessità di diseuropeizzare la storia.
    
    Queste manifestazioni di etnocentrismo storico sono state censite da
    Roy Preiswerk e Dominique Perrot [1975]. Essi hanno rilevato dieci
    forme della colonizzazione della storia operata dagli Occidentali:
    1) l’ambiguità della nozione di civiltà. Ve n’è
    una o parecchie?; 2) l’evoluzionismo sociale, cioè la
    concezione di un’evoluzione unica e lineare della storia sul modello
    occidentale. A questo proposito, la dichiarazione di un antropologo
    del XIX secolo è tipica: «Il progresso si è
    rivelato sostanzialmente dello stesso tipo… in tribú e
    nazioni abitanti continenti diversi, magari separati da oceani… Se
    estese, queste affermazioni finiscono, in prospettiva, con
    l’affermare l’unità delle origini umane. Studiando la
    condizione delle tribú e delle nazioni che hanno legato la
    propria esistenza a singoli e diversi periodi etnici, ciò che
    si affronta in sostanza è la storia antica e la condizione
    dei nostri stessi remoti progenitori» [Morgan 1877, trad. it.
    p. 13]; 3) l’alfabetismo come criterio di differenziazione tra il
    superiore e l’inferiore; 4) l’idea che i contatti con l’Occidente
    sono il fondamento della storicità delle altre culture; 5)
    l’affermazione del ruolo causale dei valori in storia, confermato
    dalla superiorità del sistema di valori occidentale:
    l’unità, la legge e l’ordine, il monoteismo, la democrazia,
    il sedentarismo, l’industrializzazione; 6) la legittimazione
    unilaterale dell’azione occidentale (schiavitú, propagazione
    del cristianesimo, necessità di intervento, ecc.); 7) il
    trasferimento interculturale di concetti occidentali (feudalesimo,
    democrazia, rivoluzione, classe, Stato, ecc.); 8) l’uso di
    stereotipi quali i barbari, il fanatismo musulmano, ecc.; 9) la
    selezione autocentrata dei dati e degli avvenimenti
    «importanti» della storia, imponendo all’insieme della
    storia del mondo la periodizzazione elaborata per l’Occidente; 10)
    la scelta delle illustrazioni, i riferimenti alla razza, al sangue,
    al colore.
    
    Sempre attraverso lo studio dei manuali scolastici, Marc Ferro si
    è spinto piú lontano nella messa in questione della
    concezione tradizionale di «storia universale».
    Analizzando Comment on raconte l’histoire aux enfants à
    travers le monde entier sugli esempi dell’Africa del Sud,
    dell’Africa nera, delle Antille (Trinidad), delle Indie, dell’Islam,
    dell’Europa occidentale (Spagna, Germania nazista, Francia),
    dell’Urss, dell’Armenia, della Polonia, della Cina, del Giappone,
    degli Stati Uniti – e con uno sguardo alla storia
    «interdetta» (Messicani-Americani, Aborigeni
    d’Australia) –, Marc Ferro dichiara: «È ormai tempo di
    confrontare oggi tutte queste rappresentazioni poiché, con
    l’allargamento del mondo, con la sua unificazione economica ma con
    la sua disintegrazione politica, il passato delle società
    è piú che mai una delle poste in gioco nei confronti
    tra Stati, tra nazioni, tra culture e gruppi etnici… La rivolta
    sorda di coloro la cui storia è “interdetta”» [1981, p.
    7]. È nella sua novità imperfetta un libro capitale
    che spiace di non aver potuto utilizzare dall’inizio della
    preparazione e della redazione di questo articolo.
    
    Ciò che sarà una storia veramente universale, non
    è dato sapere. Forse sarà qualcosa di radicalmente
    diverso da quello che viene chiamato storia. Essa deve anzitutto
    fare l’inventario delle differenze, dei conflitti. Ridurla a una
    storia edulcorata, dolciastramente ecumenica, per far piacere a
    tutti, non è la via giusta. Di qui il semi-fallimento dei
    cinque volumi della Histoire du développement scientifique et
    culturel de l’humanité, pubblicati dall’Unesco nel 1969 e
    pieni di buone intenzioni.
    
    A partire dalla seconda guerra mondiale, la storia si è
    trovata di fronte a nuove sfide. Se ne considereranno tre.
    
    La prima è che essa deve piú che mai rispondere alla
    domanda dei popoli, delle nazioni, degli Stati, che la vogliono,
    piú che maestra di vita, piú che specchio della loro
    idiosincrasia, elemento essenziale dell’identità individuale
    e collettiva che essi cercano con angoscia: vecchi paesi
    colonizzatori che hanno perso il loro impero e si ritrovano nel loro
    piccolo spazio europeo (Gran Bretagna, Francia, Portogallo); vecchie
    nazioni che si risvegliano dall’incubo nazista o fascista (Germania,
    Italia); paesi dell’Europa dell’Est nei quali la storia non è
    d’accordo con quello che la dominazione sovietica vorrebbe far loro
    credere; Unione Sovietica presa tra la storia breve della sua
    unificazione e la storia lunga delle sue nazionalità; Stati
    Uniti che avevano creduto conquistarsi una storia nel mondo intero e
    si ritrovano esitanti tra l’imperialismo e i diritti dell’uomo;
    paesi oppressi che lottano per la loro storia come per la loro vita
    (America latina); paesi nuovi che cercano a tentoni il modo di
    costruirsi la loro storia [cfr., per l’Africa nera, Assorodobraj
    1967].
    
    Bisogna, è possibile scegliere tra una storia - sapere
    obiettivo e una storia militante? Bisogna adottare gli schemi
    scientifici forgiati dall’Occidente o inventarsi una metodologia
    storica insieme con una storia?
    
    L’Occidente, da parte sua, si è chiesto durante le sue
    piú dure prove (seconda guerra mondiale, decolonizzazione,
    scossa del maggio 1968) se non fosse piú saggio rinunziare
    alla storia. Non faceva essa parte dei valori che avevano condotto
    all’alienazione e all’infelicità?
    
    Ai nostalgici di una vita senza passato, Jean Chesneaux ha risposto
    ricordando la necessità di dominare una storia, ma ha
    proposto di farne «una storia per la rivoluzione».
    È uno dei risultati possibili della teoria marxista di una
    unificazione del sapere e della prassi. Se, come crede chi scrive,
    la storia – con la sua specificità e i suoi pericoli –
    è una scienza, essa deve sfuggire a una identificazione di
    storia e politica, vecchio sogno della storiografia che deve aiutare
    il lavoro storico a dominare il suo condizionamento da parte della
    società. Senza di ciò la storia sarà il
    peggiore strumento di ogni potere.
    
    Piú sottile fu il rifiuto intellettuale che sembrò
    incarnare lo strutturalismo. Va detto anzitutto che il pericolo
    sembra essere soprattutto venuto – e non è interamente
    scomparso – da un certo sociologismo. Gordon Leff ha giustamente
    osservato: «Gli attacchi di Karl Popper contro quello che egli
    chiamava a torto lo storicismo nelle scienze sociali sembrano avere
    intimidito una generazione; coniugandosi con l’influenza di Talcott
    Parsons, essi hanno abbandonato la teoria sociale, sicuramente
    almeno in America, a una condizione astorica, a un livello tale che
    essa sembra spesso non avere piú rapporto con la terra degli
    uomini» [1969, p. 2].
    
    Philip Abrams, a dieci anni di distanza, sembra aver ben definito i
    rapporti tra la sociologia e la storia [1971; 1972; 1980]
    accogliendo l’idea di Runciman, per il quale non esiste una seria
    distinzione tra storia, sociologia e antropologia, ma alla
    condizione di non ridurle a punti di vista limitanti: né a
    una sorta di psicologia, né a una comunanza di tecniche; le
    scienze sociali – come le altre – non devono subordinare i problemi
    alle tecniche.
    
    Pare invece che solo una deformazione dello strutturalismo possa
    farne un astoricismo. Non è questa la sede per studiare
    dettagliatamente i rapporti di Claude Lévi-Strauss. Si sa che
    sono complessi. Bisogna rileggere i grandi testi dell’Anthropologie
    structurale [1958, trad. it. pp. 13-28], della Pensée Sauvage
    [1962], di Du miel aux cendres [1966]. È chiaro che spesso
    Lévi-Strauss ha pensato tenendo presente sia la disciplina
    storica sia la storia vissuta: «Possiamo piangere sul fatto
    che vi sia storia» [Backès-Clément 1974, p.
    141]; ma chi scrive considera come l’espressione piú
    pertinente del suo pensiero sull’argomento queste righe
    dell’Anthropologie structurale [1958]: «In un cammino dove
    compiono, nello stesso senso, lo stesso percorso, solo il loro
    orientamento è diverso: l’etnologo procede in avanti cercando
    di raggiungere, attraverso una zona cosciente che non ignora mai, un
    ambito sempre piú vasto di quell’inconscio verso cui si
    dirige; mentre lo storico procede, per cosí dire, come i
    gamberi, tenendo fissi gli occhi sulle attività concrete e
    particolari, da cui si allontana solo per considerarle in una
    prospettiva piú ricca e piú completa. Vero Giano
    bifronte, giacché permette di dominare con lo sguardo la
    totalità del percorso, è, in ogni caso, solo l’insieme
    solidale delle due discipline» (trad. it. p. 37).
    
    C’è in ogni caso uno strutturalismo estremamente adatto agli
    storici: lo strutturalismo generico e dinamico dell’epistemologo e
    psicologo svizzero Jean Piaget, secondo il quale le strutture sono
    intrinsecamente evolutive.
    
    Se la storia può vincere queste sfide, nondimeno essa si
    trova oggi ad affrontare seri problemi. Se ne ricorderanno due, uno
    generale, l’altro particolare.
    
    Il grande problema è quello della storia globale, generale,
    la tendenza secolare a una storia che non sia soltanto universale,
    sintetica – vecchia impresa, che va dal cristianesimo antico allo
    storicismo tedesco del XIX secolo e alle innumerevoli storie
    universali della volgarizzazione storica del XX secolo – ma
    integrale o perfetta, come diceva La Popelinière, o globale,
    totale, come sostenevano le «Annales» di Lucien Febvre e
    Marc Bloch.
    
    Vi è oggi una «panistorizzazione» che Paul Veyne
    considera come la seconda grande mutazione del pensiero storico
    dall’antichità. Dopo una prima mutazione che,
    nell’antichità greca, ha portato la storia dal mito
    collettivo alla ricerca di una conoscenza disinteressata della pura
    verità, una seconda mutazione, nell’epoca attuale, si opera
    perché gli storici «hanno a poco a poco preso coscienza
    del fatto che tutto era degno di storia: nessuna tribú, per
    quanto minuscola sia, nessun gesto umano, per quanto insignificante
    in apparenza, è indegno della curiosità storica»
    [1968, p. 424].
    
    Ma questa storia bulimica è capace di pensare e di
    strutturare questa totalità? Alcuni pensano che il tempo
    della storia in briciole sia arrivato. «Viviamo la
    disintegrazione della storia», ha scritto Pierre Nora,
    fondando nel 1971 la collezione «Bibliothèque des
    Histoires». Sarebbero da fare delle storie, non una storia.
    Quello che chi scrive pensa della legittimità e dei limiti
    degli «approcci multipli in storia» e dell’interesse di
    prendere come temi di ricerca e di riflessioni storiche, mancando le
    globalità degli oggetti globalizzanti, è stato esposto
    sopra [cfr. Le Goff e Toubert 1975].
    
    Il problema particolare è quello della necessità,
    sentita da molti – produttori o consumatori della storia –, di un
    ritorno alla storia politica. Chi scrive crede a questa
    necessità, a condizione che questa nuova storia politica sia
    arricchita dalla nuova problematica della storia, che sia
    un’antropologia storica [Le Goff 1971b].
    
    Alain Dufour, prendendo a modello i lavori di Federico Chabod sullo
    Stato milanese al tempo di Carlo V, ha auspicato «una storia
    politica piú moderna», il cui programma sarebbe:
    «Comprendere la nascita degli Stati moderni – o dello Stato
    moderno – nel secolo XVI e XVII, distogliendo la nostra attenzione
    dal principe per dirigerlo verso il personale politico, verso la
    nascente classe dei funzionari, con la sua etica di nuovo genere,
    verso le aristocrazie politiche in generale, le cui aspirazioni,
    piú o meno implicite, si sono rivelate in quella politica
    alla quale hanno dato tradizionalmente il nome di quel principe che
    ne è stato il porta-bandiera» [1966, trad. it. p. 12].
    
    Affrontando il problema di una nuova storia politica, si pone quello
    del posto da attribuire all’avvenimento nella storia, nel duplice
    senso del termine. Pierre Nora ha mostrato come i media
    contemporanei abbiano creato un nuovo avvenimento in storia: si
    tratta del «ritorno dell’avvenimento».
    
    Ma questo nuovo avvenimento non sfugge alla costruzione dalla quale
    risulta ogni documento storico. I problemi che ne derivano sono oggi
    ancor piú gravi.
    
    In uno studio rilevante, Eliseo Verón ha analizzato il modo
    con il quale i media «costruiscono oggi l’avvenimento».
    A proposito dell’incidente alla centrale nucleare americana di Three
    Mile Island (marzo-aprile 1979), Verón mostra come, in questo
    caso, che è caratteristico degli avvenimenti tecnologici
    sempre piú numerosi e importanti, «è difficile
    costruire un avvenimento di attualità con pompe, valvole,
    turbine e soprattutto radiazioni che non si vedono». Di qui
    l’obbligo per i media di una trascrizione: «È il
    discorso didattico, specialmente alla televisione, che si è
    incaricato di trascrivere il linguaggio dei tecnologi in quello
    dell’informazione». Ma il discorso dell’informazione fatto dai
    nuovi media racchiude pericoli sempre piú grandi per la
    costituzione della memoria che è una delle basi della storia.
    «Se la stampa è il luogo di una molteplicità di
    modi di costruzione, la radio segue l’avvenimento e definisce il
    suono, mentre la televisione fornisce le immagini che resteranno
    nella memoria e assicureranno l’omogeneizzazione dell’immaginario
    sociale». Si ritrova quello che è sempre stato in
    storia «l’avvenimento», tanto dal punto di vista della
    storia vissuta e memorizzata, quanto da quello della storia
    scientifica fondata su documenti (tra i quali l’avvenimento come
    documento occupa, lo ripeto, un posto essenziale). È il
    prodotto di una costruzione che coinvolge il destino storico delle
    società e la validità della verità storica,
    fondamento del lavoro storico: «Nella misura in cui le nostre
    decisioni e le nostre lotte quotidiane sono sostanzialmente
    determinate dal discorso dell’informazione, è chiaro che la
    posta in gioco è nientemeno che l’avvenire delle nostre
    società» [1981, p. 170].
    
    In questo quadro di sfide e interrogativi, si è manifestata
    recentemente una crisi nel mondo degli storici, della quale si
    può considerare espressione esemplare un dibattito tra due
    storici anglosassoni, Lawrence Stone ed Eric Hobsbawm, pubblicata in
    «Past and Present».
    
    Nel saggio The Revival of Narrative Lawrence Stone constata un
    ritorno al racconto in storia, fondato sul fallimento del modello
    determinista di spiegazione storica, sulla delusione prodotta dalla
    pochezza dei risultati della storia quantitativa, sulle disillusioni
    nate dall’analisi strutturale, sul carattere tradizionale,
    cioè «reazionario», della nozione di
    «mentalità». Nella sua conclusione, che è
    il vertice di ambiguità di una analisi ambigua, Stone sembra
    ridurre i «nuovi storici» a operatori degli slittamenti
    e delle dislocazioni della storia, di una storia che sarebbe
    ritornata, da quella di tipo determinista, a storia tradizionale:
    «La storia narrativa e la biografia individuale sembrano da
    segni evidenti risuscitare alla vita» [1979, p. 23].
    
    Eric Hobsbawm gli ha risposto che i metodi, gli orientamenti e i
    prodotti della storia «nuova» non costituivano per nulla
    una rinunzia ai «grandi» temi, né un abbandono
    della ricerca delle cause per un ripiegamento sul «principio
    d’indeterminazione», ma che si trattava della
    «continuazione delle iniziative storiche precedenti con altri
    mezzi» [1980, p. 8].
    
    Eric Hobsbawm ha giustamente sottolineato che la nuova storia ha
    anzitutto degli obiettivi di allargamento e approfondimento della
    storia scientifica. Essa ha indubbiamente incontrato problemi,
    limiti, forse degli stalli. Nondimeno continua a estendere i campi e
    i metodi della storia e, quel che piú conta, Stone non ha
    saputo vedere quello che può essere veramente nuovo,
    «rivoluzionario», negli odierni orientamenti della
    storia: la critica del documento, il nuovo modo di considerare il
    tempo, i nuovi rapporti tra il «materiale» e lo
    «spirituale», le analisi del fenomeno del potere in
    tutte le sue forme, non solo in quella strettamente politica.
    
    Mostrando di considerare i nuovi orientamenti della storia come
    delle mode in via di esaurimento e abbandonate anche dai loro
    sostenitori, Stone non soltanto è rimasto alla superficie del
    fenomeno, ma ha finito per schierarsi in modo ambiguo con coloro che
    vorrebbero ricondurre la storia al vibrionismo o al positivismo
    limitato di un tempo. Che costoro rialzino la testa nell’ambiente
    degli storici e intorno a esso, ecco il vero problema della crisi.
    Si tratta di un problema di società, di un problema storico
    nel senso «oggettivo» del termine.
    
    Come conclusione di questo articolo, una professione di fede e la
    constatazione di un paradosso.
    
    La rivendicazione degli storici – nonostante la diversità
    delle loro concezioni e delle loro pratiche – è insieme
    modesta e immensa. Essi chiedono che ogni fenomeno
    dell’attività umana sia studiato e messo in pratica tenendo
    conto delle condizioni storiche nelle quali esiste o è
    esistito. Per «condizioni storiche» s’intende il dar
    forma cognitiva alla storia concreta, una conoscenza sulla coerenza
    scientifica per la quale vi sia un sufficiente consenso
    nell’ambiente professionale degli storici (anche se tra questi
    esistono disaccordi sulle conseguenze da trarne). Non si tratta in
    alcun modo di spiegare il fenomeno in questione mediante queste
    condizioni storiche, d’invocare una causalità storica pura, e
    in ciò deve consistere la modestia del procedimento storico.
    Ma questo procedimento ha anche la pretesa di ricusare la
    validità di ogni spiegazione e di ogni pratica che non
    tenesse conto di tali condizioni storiche. Bisogna dunque respingere
    ogni forma imperialista di storicismo – che essa si presenti (o che
    sembri) come idealista, positivista o materialista – ma rivendicare
    con forza la necessità della presenza del sapere storico in
    ogni attività scientifica o in ogni prassi. Nel campo della
    scienza, dell’azione sociale, della politica, della religione o
    dell’arte – per considerare alcuni terreni essenziali – questa
    presenza del sapere storico è indispensabile. In forme
    diverse, certamente. Ciascuna scienza ha il suo orizzonte di
    verità che la storia deve rispettare; la spontaneità e
    la libertà dell’azione sociale o politica non devono essere
    ostacolate dalla storia, che non è nemmeno incompatibile con
    l’esigenza di eternità e di trascendenza del religioso,
    né con le pulsioni della creazione artistica. Ma, scienza del
    tempo, la storia è una componente indispensabile di ogni
    attività nel tempo. Piuttosto che esserlo inconsapevolmente,
    nella forma di una memoria manipolata e deformata, non è
    forse meglio che lo sia come un sapere fallibile, imperfetto,
    discutibile, mai completamente innocente, ma che la sua norma di
    verità e le sue condizioni professionali di elaborazione e di
    esercizio permettono di chiamare scientifico?
    
    Sembra trattarsi, in ogni caso, di una esigenza per l’umanità
    d’oggi, secondo i diversi tipi di società, di cultura, di
    rapporto con il passato, di orientamento verso l’avvenire che essa
    conosce. Forse non sarà la stessa cosa in un avvenire
    piú o meno lontano. Non perché non si sentirà
    piú il bisogno di avere una scienza del tempo, un sapere vero
    sul tempo, ma perché questo sapere potrà prendere
    forme diverse da quelle alle quali oggi conviene il nome di storia.
    Il sapere storico è esso stesso nella storia, cioè
    nella imprevedibilità. Non per questo è meno reale e
    vero.
    
    Girolamo Arnaldi, riprendendo un’idea esposta da Croce nella Storia
    come pensiero e come azione (1938), ha affermato la sua fiducia
    nella «storiografia come mezzo di liberazione dal
    passato», per il fatto che «la storiografia… apre la via
    a una vera e propria “liberazione dalla storia”» [1974, p.
    553]. Senza essere cosí ottimista, chi scrive crede che
    spetti allo storico trasformare la storia (res gestae) da fardello –
    come diceva Hegel – in una historia rerum gestarum che faccia della
    conoscenza del passato uno strumento di liberazione. Non si vuol
    rivendicare qui, per il sapere storico, un ruolo imperialista. Se si
    ritiene indispensabile il ricorso alla storia nell’insieme delle
    pratiche della conoscenza umana e della coscienza delle
    società, si crede anche che questo sapere non debba essere
    una religione e una dimissione. Bisogna respingere «il culto
    integralista della storia» [Bourdieu 1979, p. 124]. Nelle
    parole del grande storico polacco Witold Kula «lo storico deve
    – paradossalmente – lottare contro la feticizzazione della storia…
    La deificazione delle forze storiche, che conduce a un sentimento
    generalizzato di impotenza e di indifferenza, diventa un vero
    pericolo sociale; lo storico deve reagire, mostrando che nulla
    è mai integralmente iscritto in anticipo nella realtà
    e che l’uomo può modificare le condizioni che gli sono
    fatte» [1961, p. 173].
    
    Il paradosso viene dal contrasto tra il successo della storia nella
    società e la crisi del mondo degli storici.
    
    Il successo si spiega con il bisogno delle società di nutrire
    la loro ricerca d’identità, di alimentarsi a un immaginario
    reale; e le sollecitazioni dei media hanno fatto entrare la
    produzione storica nel movimento della società di consumo.
    Sarebbe importante d’altronde studiare le condizioni e le
    conseguenze di quella che Arthur Marwick ha definito
    «l’industria della storia» [1970, pp. 240-43].
    
    La crisi del mondo degli storici nasce sia dai limiti e dalle
    incertezze della nuova storia, sia dal disincanto degli uomini di
    fronte alle asperità della storia vissuta. Ogni sforzo per
    razionalizzare la storia, per far sí che offra migliori punti
    di presa sul suo svolgimento urta nella derisione e nella
    tragicità degli avvenimenti, delle situazioni e delle
    evoluzioni apparenti. Questa crisi interna ed esterna è,
    beninteso, sfruttata dai nostalgici di una storia e di una
    società che si contentano di poco, di qualche derisoria e
    illusoria certezza. Bisogna ripetere con Lucien Febvre [1947]:
    «La storia storicizzante chiede poco. Molto poco. Troppo poco,
    per i miei gusti e anche per quelli di altri» (trad. it. p.
    167). È la natura stessa della scienza storica di essere
    strettamente unita alla storia vissuta, della quale fa parte. Ma si
    può, si deve – lo storico per primo – operare, lottare
    affinché la storia, nei due sensi del termine, sia altra.