Storia d’Italia
volume quarto
Dall’Unità ad oggi
Einaudi, Torino 1976
tomo 3
Parte Terza
La "grande guerra" e l'agonia dello Stato liberale
[...]
III
LE CONSEGUENZE DEL CONFLITTO.
1. Illusioni e realtà di una vittoria.
Le immagini adoperate dagli storici per indicare e descrivere gli
effetti che la partecipazione alla «grande guerra» comportò per i
vari paesi sono quasi tutte di carattere catastrofico, e quella
forgiata da uno storico inglese, Marwick, per il proprio paese, che
tra i belligeranti era andato incontro al conflitto da posizioni di
maggiore potenza, «the deluge», è soltanto la più recente e
maggiormente aggiornata con i metodi di ricerca delle scienze umane
e sociali. Di immagini catastrofiche si sono nutriti soprattutto i
memorialisti e gli storici dei paesi che la catastrofe e il diluvio
hanno più paventato che non effettivamente sofferto. Per quanto si
riferisce all'Italia, immagini catastrofiche e similitudini bibliche
non sono entrate nell'uso corrente probabilmente perché
l'attenzione si è spostata inavvertitamente, senza soluzione di
continuità, dalla spaccatura del paese alla vigilia della guerra al
suo riprodursi e ingigantirsi negli anni immediatamente successivi,
fino a sussumere gli effetti della guerra nelle cause del tipo di
sconvolgimento e di riassetto successivi. L'elemento della
continuità nell'assetto di potere ha contribuito al tramandarsi di
un tipo di giudizio che ha puntato sul riassorbimento delle
contraddizioni aperte o acuite dalla guerra. Ma forse in nessun
paese come in Italia la partecipazione alla «grande guerra» fece
sentire la precarietà di tutti gli equilibri sui quali si fondavano
la società e lo Stato nazionali, aprendo una crisi le cui
conseguenze erano allora non pienamente valutabili e il cui sviluppo
doveva segnare tutta la successiva storia italiana.
Profondamente mutata usciva in primo luogo dalla guerra la
collocazione internazionale del paese. Mai forse come nelle
settimane immediatamente successive al 4 novembre 1918 i vari
componenti il fronte interventista credettero così vicina la meta,
il conseguimento della quale aveva ispirato la politica estera
italiana postrisorgimentale, e cioè la fuoriuscita da quella sorta
di limbo oltre il quale stava il ristretto club delle «grandi
potenze». Distrutto nell'Austria-Ungheria il secolare antagonista
dello Stato unitario italiano, estromessa la Russia dal giro della
grande politica internazionale, perché in preda ad una guerra
civile dagli sbocchi imprevedibili, umiliato nella Germania lo
Stato, il confronto col quale non aveva mai cessato di far avvertire
la fragilità del regno d'Italia tra gli Stati di più recente
costituzione, che cosa poteva impedire che l'Italia abbandonasse
finalmente il suo ruolo di «sesta grande potenza»?
Quanto però fossero lontane dalla realtà tali aspettative fu reso
subito evidente dall'andamento della conferenza della pace.
L'assenza dell'Italia dalle trattative per la sistemazione dei
grandi problemi del riassetto europeo fu il primo segno della
sfasatura esistente tra le illusorie ambizioni e la realtà delle
cose: il ministro degli esteri italiano, ad esempio, non mancò di
interessarsi alla questione della lingua ufficiale della conferenza,
ma tralasciò di intervenire sul problema della Società delle
Nazioni. Le prime recriminazioni nazionalistiche, alimentate
dall'andamento della conferenza e indirizzate contro i
rappresentanti italiani, sembrerebbero trovare una conferma nelle
valutazioni che del comportamento di Orlando e di Sonnino ha dato
la memorialistica dei protagonisti e degli osservatori, soprattutto
di parte anglosassone: Lloyd George e Lansing hanno insistito sulla
non armoniosa composizione della delegazione italiana, soffermandosi
sui dati di carattere antagonistici del presidente del Consiglio e
del ministro degli esteri italiani1; J. M. Keynes, a sua
volta, ha osservato come Orlando, pur facendo parte del Consiglio
dei Quattro, vi recitasse un ruolo assolutamente secondario, non
foss'altro perché, ignorando completamente l'inglese, non aveva
possibilità alcuna di comunicare né col presidente Wilson, né col
premier inglese2; l'aneddotica sulla scarsa conoscenza
dello stesso francese e sull'ignoranza geografica del presidente
italiano alimenterà del resto anche i diari e la memorialistica
italiana. Impressionarono, invece, la chiusa freddezza e
l'autoritarismo di Sonnino, «un freddo, deciso, diplomatico
imperialista della vecchia scuola»3, che riuscì ad
imporre alla delegazione una linea e un metodo ispirati al
principio del «sacro egoismo», e cioè a intervenire nella
discussione dei problemi internazionali soltanto e unicamente per
sostenere le immediate rivendicazioni italiane.
Però, più che nelle caratteristiche di questo o quel personaggio, le
radici della scarsa incidenza italiana alla Conferenza della pace
dovevano manifestarsi nel tipo di politica estera sostenuta da
quella delegazione e, più in generale, dalla reale forza del paese
che quegli uomini rappresentavano. Il collegamento tra i due
aspetti fu colto piuttosto da Salvemini, allorché scrisse che
l'Italia a Parigi era come «un'antilope in un mondo di megateri»,
mentre viceversa Sonnino «manovrava come se cavalcasse un megaterio
in un mondo di antilopi»4. In fondo, col suo ostinato ed
esclusivo riferimento al patto di Londra, Sonnino sembrava non avere
compreso che fatti nuovi, diversi nella loro entità, ma convergenti
nei loro risultati, avevano ormai aperto l'era della «nuova
diplomazia»: i bolscevichi avevano portato la rivoluzione anche in
questo campo pubblicando i testi di tutti gli accordi segreti
sottoscritti dalla diplomazia zarista, mentre il presidente Wilson
aveva proclamato e tentato di affermare nuovi principi, che con la
pubblicità dei documenti diplomatici modificassero la natura dei
rapporti tra i popoli.
Quanto il modo di concepire e di realizzare la politica estera fosse
ormai radicalmente mutato, del resto, lo si vide fin dalla stessa
composizione della delegazione americana alla Conferenza della
pace. Con i suoi milletrecento collaboratori, tra i quali facevano
spicco storici e giuristi, statistici ed economisti, geologi e
geografi, essa fece apparire la piccola delegazione italiana,
formata per lo più da diplomatici della vecchia scuola e da membri
dell'apparato statale, un vero e proprio avanzo del passato.
Ma, soprattutto, i rapporti internazionali avevano ormai acquisito
una dimensione intercontinentale, e di questo gli italiani non
parvero in alcun modo consapevoli. Sulla questione coloniale, ad
esempio, Orlando accolse la proposta giapponese tendente a far sì
che essa venisse affrontata, ma non per inserire la propria linea
d'azione in un vasto giuoco di ampiezza mondiale, bensì solamente
per far valere anche in quel settore gli accordi sottoscritti dalle
potenze nella prima fase della guerra. Quanto invece i diversi
terreni sui quali si svolgevano le trattative fossero tra loro
inestricabilmente connessi, lo si vide allorché il 24 aprile 1919 -
lo stesso giorno dell'abbandono della Conferenza da parte di Orlando
e Sonnino in segno di protesta contro il manifesto di Wilson al
popolo italiano sulla questione adriatica — gli alleati cedettero
alla volontà del Giappone sulla questione dello Shantung, salvo poi
«rifarsi» immediatamente sull'Italia attraverso la cessione di
Smirne alla Grecia. Che l'infelice mossa dell'abbandono della
conferenza danneggiasse l'Italia anche in altre questioni, come
quella dei risarcimenti da parte della Germania e quella dei mandati
sulle ex colonie tedesche in Africa, è indubbio; ma in realtà il
precipitoso ritorno di Orlando e Sonnino a Parigi, una volta che
questi dovettero prendere atto della loro irrimediabile debolezza,
fu anche la prova che la classe dirigente italiana si trovava a
dover subire come realtà di fatto quella dilatazione mondiale dei
rapporti internazionali che i suoi esponenti non sapevano
comprendere come fatto politico. Non va dimenticato, infatti, che
il ritorno di Orlando e Sonnino dipese anche dall'urgenza di
ottenere i crediti americani indispensabili per evitare la
catastrofe dell'economia e della finanza italiana. Nel dopoguerra,
l'Italia si trovò ad essere debitrice agli Stati Uniti di 1,6
miliardi di dollari, cifra, è vero, largamente inferiore a quelle
del debito maturato dalla Francia e dall'Inghilterra nei confronti
degli Stati Uniti nello stesso periodo, ma ben più rilevante, se si
tiene conto del quadro dell'economia italiana e della quantità
enormemente inferiore delle risorse di cui l'Italia poteva disporre
rispetto a tali paesi5.
La scomparsa dell'Impero asburgico e di quello turco, la caduta del
Reich e dell'Impero russo, sottrassero all'Italia tutti i punti di
riferimento poggiando sui quali essa aveva potuto in qualche misura
supplire alla propria debolezza di fondo per svolgere una politica
estera relativamente autonoma; così, in fondo, l'unico vero atto
improntato a lucidità politica compiuto da Orlando a Parigi deve
essere ravvisato nell'appoggio da lui dato a Clemenceau per
scongiurare l'annessione dell'Austria tedesca alla Germania. La
sfasatura fondamentale che si riflesse sul contegno di Orlando e
Sonnino alla conferenza, dunque, fu quella tra l'effettiva debolezza
del paese e la strada della Machtpolitik prescelta dai governanti
italiani. Ben lo comprese, a quanto sembra, la «fertile
immaginazione» di Lloyd George, allorché per compensare le delusioni
patite dall'Italia nell'Asia Minore e in Africa, avanzò la proposta
di sostituire con truppe italiane i contingenti inglesi operanti in
Georgia, abbagliando così i rappresentanti italiani con il miraggio
delle materie prime che l'Italia avrebbe potuto assicurarsi mediante
la sua presenza nel Caucaso6.
La realtà, come scrive Potëmkin, era che «sebbene l'Italia fosse
compresa alla Conferenza della pace nel gruppo delle grandi
potenze, nessuno le faceva più caso dopo la disfatta di Caporetto.
La diplomazia italiana si aggirava attorno al tavolo delle grandi
potenze, in attesa della parte di bottino che essa pretendeva come
compenso per essere uscita dalla Triplice Alleanza. Appoggiando le
richieste ora di questa ora di quella grande potenza, la diplomazia
italiana passava dalla ossequiosità alle minacce; essa si ritirò
persino dalla Conferenza; ma questo atto venne notato anche meno
del suo pentito ritorno nella sala delle riunioni»7. A
ben guardare, l'unica indicazione di fondo che pare emergere dalla
politica estera italiana del dopoguerra è quella di un costante
riferimento in posizione subalterna alla linea inglese, e per
comprendere appieno i limiti di tale atteggiamento è sufficiente
ricordare che, con la guerra, la Gran Bretagna era stata
definitivamente soppiantata dagli Stati Uniti d'America nel ruolo
di «direttore d'orchestra» della politica e della finanza
internazionale, che aveva svolto incontrastata fino al 1914. Ed era
agli Stati Uniti, a loro volta trasformati da potenza
tradizionalmente debitrice in potenza creditrice, che l'Inghilterra
e la Francia dovevano riferirsi per la ricostruzione dell'economia
europea, adattandosi per questo anche a non osteggiare la ripresa
della Germania. A maggior ragione lo doveva dunque l'Italia, per
allontanare da sé lo spettro della catastrofe e della rivoluzione,
che la guerra aveva evocato.
È opinione largamente diffusa tra gli storici «democratici» che si
dovette essenzialmente all'insipienza di Orlando e di Sonnino e
all'incomprensione della realtà europea da parte di Wilson se le
aspirazioni e i risentimenti dell'opinione pubblica italiana
sfociarono nel mito della «vittoria mutilata» e portarono ad un
accoppiamento indebito tra gli appetiti alimentati dal patto di
Londra e la nuova rivendicazione di Fiume, andando infine ad
infrangersi su alcuni scogli dell'Adriatico. Il concentrarsi della
politica estera italiana su questi obiettivi era però un risultato
che travalicava le indubbie responsabilità o le miopie dei singoli.
Il fatto era che la mitologia patriottica e nazionalistica da
«ultima» guerra per il compimento dell'unità nazionale, che aveva
nutrito tutta la propaganda d'intervento e di guerra, non poteva se
non facilitare lo accumularsi di un pacchetto di rivendicazioni
territoriali le più varie, da consumarsi intanto agli immediati
confini del paese. La vicenda delle pretese territoriali italiane
in Alto Adige, che si estesero a macchia d'olio all'indomani
dell'armistizio, investendo zone di lingua tedesca che nessuno
all'infuori di Ettore Tolomei aveva rivendicato prima di allora8,
costituisce la riprova di una tendenza che aveva fondamenti
oggettivi e non fu meno clamorosa per il fatto che non cozzò in
pregiudiziali avverse da parte delle grandi potenze. Per quanto
concerneva, in particolare, i confini orientali e la penisola
balcanica, l'uno e l'altro obiettivo facevano da tempo parte
integrante del programma nazionalista che era sempre stato
l'elemento trainante nel determinare e dirigere la condotta di
guerra dell'Italia. Il dato nuovo della situazione postbellica che
i politici e gli storici democratici, fermi agli schemi
risorgimentali della loro propaganda, non compresero, fu piuttosto
un altro: e cioè che le pretese italiane si erano accresciute in
proporzione geometrica, mentre le possibilità reali non erano
aumentate neppure in proporzione aritmetica. Il crollo degli Imperi
centrali e dell'Impero ottomano aveva creato un vuoto di potenza
politica e anche di influenza economica in un'area d'Europa sulla
quale l'imperialismo italiano aveva appuntato da tempo le proprie
mire9. E in quel vuoto esso si lasciò attrarre come con
un senso di vertigine, non tenendo conto che in quell'area non
erano sorte soltanto delle modeste realtà statuali, ma si faceva
sentire anche l'influenza delle grandi potenze: della Francia,
rivolta a costruirvi uno dei contrafforti della Piccola Intesa,
indirizzata in pari tempo contro la Germania e contro l'Unione
Sovietica, e dell'Inghilterra, disposta a lasciare spazi soltanto a
chi non fosse in grado di surrogare del tutto la penetrazione
economica e politica della Germania.
Per pochi altri paesi come per l'Italia la partecipazione alla
guerra aveva avuto l'effetto di sconvolgere l'assetto sociale
consolidatosi attraverso successive stratificazioni dopo
l'unificazione nazionale. Essa aveva infatti costituito la prima
esperienza collettiva di massa a carattere veramente unificatore e
catalizzatore di questa esperienza era stato un ente fino a quel
momento avvertito come lontano o attraverso una serie di immutabili
mediazioni, quale lo Stato nazionale. Anche l'emigrazione aveva
rappresentato un'esperienza collettiva che aveva interessato milioni
e milioni di proletari del Nord, del Sud e di alcune parti
dell'Italia centrale, ma essa non aveva avuto caratteri di
simultaneità, disseminandosi in un arco di tempo altrettanto lungo
quanto la storia nazionale; si era consumata, dopo l'abbandono del
villaggio o del borgo natio, in comunità al di là delle Alpi e
degli oceani, profondamente diverse le une dalle altre, e non
rapportabili tra di loro neppure nei termini di una coscienza
culturalmente riflessa; era stata comunque vissuta come una
espulsione (permanente o temporanea) dalla società nazionale. Con la
partecipazione alla «grande guerra», invece, si assistette a qualche
cosa di più profondo che non la pura e semplice moltiplicazione
quantitativa e la concentrazione nel tempo di quella coatta
unificazione nazionale rappresentata dal servizio di coscrizione di
leva, uno dei pochissimi segni coi quali lo Stato nazionale avesse
fatto sentire la propria funzione unificatrice dalle Alpi alla
Sicilia.
Anche in questo caso politica continuata con altri mezzi, la guerra
aveva accelerato processi già insiti nello sviluppo della società
italiana, modificandone però il corso e la natura in misura assai
notevole. Proprio in quanto esperienza unificatrice di una società
profondamente differenziata, essa non poteva non far risaltare con
maggiore evidenza tutte le diversità esistenti nel suo seno,
contribuendo a polarizzarne le antitesi fondamentali e quindi anche
a rimettere in discussione il ruolo connettivo dei suoi anelli
intermedi. Gli storici sono soliti valutare le guerre per le
conseguenze che hanno apportato. Porsi un tale problema significa
oggi domandarsi anche che cosa una guerra ha distrutto in fatto di
energie umane, di lavoro e di intelligenza, e un tale interrogativo
comincia ad assumere un valore tanto maggiore quanto più le guerre
nell'età contemporanea hanno assunto le caratteristiche di «guerre
totali», che coinvolgono ogni settore dell'attività umana dei paesi
che vi prendono parte. Il salasso di perdite apportate dalla «grande
guerra» vale quindi per ciascuno dei paesi belligeranti, nessuno
escluso, ma esso ha un rilievo del tutto particolare per un paese
come l'Italia che la guerra aveva colto in una fase difficile di
crescita economica e sociale e di assestamento dei suoi precari
equilibri politici e morali.
Senza dubbio, la trasformazione più profonda apportata dalla
partecipazione alla guerra non consisté tanto nella modificazione
quantitativa della composizione sociale della popolazione italiana,
quanto nel mutato rapporto reciproco delle sue singole componenti.
Infatti, il modo stesso con cui ciascuna di esse aveva partecipato
alla decisiva esperienza della guerra comportò un diverso
determinarsi della sua specifica natura e, insieme, un modo più
ampio e generale di esercitarsi del suo peso e della sua capacità di
incidenza nella trama dei rapporti sociali e politici del paese. Ne
risultò un'ulteriore accentuazione per un verso di squilibri già
preesistenti e, per un altro, di spinte disarticolate ma impetuose
a contrastarli e rimuoverli.
Se le ripercussioni della crisi sociale apportata dalla guerra
esplosero - negli aspetti concernenti le più moderne componenti
della società italiana e i loro reciproci rapporti di forza -
soltanto a dopoguerra inoltrato, la cessazione delle ostilità mise
immediatamente a nudo la durezza che la prova della guerra aveva
rappresentato per i ceti medi, colpiti in tutte le loro diverse
componenti sociali. Quelli che erano stati la «vera struttura»
dello Stato italiano10, e cioè la base sociale della
mediazione del consenso intorno ad esso, se uscivano numericamente
accresciuti dalle trasformazioni sociali avvenute durante il
conflitto, non soltanto non vedevano aprirsi spazi corrispondenti
al ruolo da loro assunto, ma vedevano abbattersi sulle loro spalle
pesanti conseguenze di ordine economico e sociale. La categoria dei
piccoli proprietari terrieri, già foltissima negli anni precedenti
il conflitto, si era ulteriormente accresciuta, ma aveva visto
gravati i suoi piccoli fazzoletti di terra da una rapace politica
fiscale. Il non esiguo strato dei piccoli rentiers aveva ricevuto
dalla svalutazione della moneta e dal blocco dei fitti fondiari e
degli immobili più che un presagio del venir meno della stabilità
della propria condizione sociale. La stessa burocrazia statale era
portata a constatare nella forbice sempre più divaricata tra
l'aumentato costo della vita e l'inadeguata rivalutazione degli
stipendi il segno di un frustrante decadimento del proprio stato. E,
mentre la guerra aveva messo in evidenza a tutti i livelli casi e
miraggi di una rapida e miracolosa promozione sociale, l'attenuarsi
o addirittura il venir meno della fiducia nel funzionamento ordinato
dei tradizionali meccanismi promozionali gettava soprattutto la
piccola borghesia urbana e rurale in una crisi profonda e senza
precedenti.
Tutto questo in un paese che era uscito vittorioso dalla guerra,
anzi che poteva ascrivere la sanguinosa e durissima vittoria
riportata come la prima e unica autentica affermazione
internazionale della sua breve storia unitaria. Si rischia di
pregiudicare gravemente la comprensione di questo nodo cruciale
della storia d'Italia ogni qualvolta si prescinda, in un senso o in
un altro, dalla contraddizione tra realtà interna ed esterna del
paese e aspettative e illusioni fiorite sul tronco dei fermenti,
spesso così diversi, prodotti dalla guerra. Di qui la straordinaria
accelerazione dei tempi e, insieme, il corposo accavallarsi con toni
sempre più densi e cupi, delle spinte che la vicenda italiana
conobbe in quegli anni: quasi un magma incandescente nel quale le
linee di sviluppo della società nazionale si fondevano e si
decomponevano nei loro elementi costitutivi, aprendo la via a
sbocchi diffìcilmente prevedibili, ma non per questo casuali.
Le trasformazioni e gli spostamenti sociali causati dalla guerra si
ripercossero immediatamente sulla estensione, la portata e la natura
del ciclo di lotte sociali inauguratesi nel 1919. La guerra era
intervenuta in un momento di crescita espansiva, anche se
tumultuosa, dei contrasti sociali del paese, che si erano
sviluppati particolarmente in città di piccola e media grandezza di
quella fascia della penisola che rappresentava il cuscinetto tra il
Nord industrializzato e il Mezzogiorno contadino e che, per il fatto
di avere avuto a loro protagonisti gli indistinti strati della
popolazione urbana della provincia, avevano ulteriormente dimostrato
il carattere subalterno del movimento operaio e popolare italiano in
quel periodo. Durante la guerra, come abbiamo visto, le agitazioni
popolari non si erano taciute; il loro carattere si era però venuto
divaricando tra la protesta, espressione di un malcontento
particolarmente diffuso tra le popolazioni delle zone agricole e dei
piccoli centri, segnatamente dell'Emilia e della Toscana, e
l'isolata rivolta operaia di Torino nell'agosto 1917. Il fatto
nuovo, che il ciclo di lotte sociali apertosi nel 1919 viene a
mettere in evidenza, consiste nel delinearsi di un movimento
geograficamente ininterrotto e socialmente indiscriminato, tale cioè
da investire tutti i settori della società nazionale, e nel quale,
accanto ai tradizionali ed endemici epicentri di combattività
popolare, se ne vengono configurando dei nuovi, in parte dislocati
nelle zone di più avanzato sviluppo economico-sociale del paese e in
parte in quelle più arretrate. Il tipo di salto che un simile ciclo
di lotte inaugurava, mentre veniva a cozzare contro le forme
circoscritte nello spazio e sostanzialmente localistiche che il
movimento operaio e contadino si era dato nei decenni precedenti,
introduceva un contrasto tanto più profondo e insanabile nel tessuto
generale della società italiana, dominato dalla contraddizione
generale tra lo Stato accentrato e la squilibrata stratificazione
settoriale del paese.
La riapertura delle ostilità sociali su scala di massa fu
rappresentata dalla ripresa delle agitazioni per il caroviveri nella
primavera del 1919. Come ebbe a scrivere Pietro Nenni, si trattò
però ancora di una «ripresa tumultuosa, anarcoide, priva di
direzione, di vedute d'insieme, di chiari e precisi obiettivi. Ogni
città fece per proprio conto. I negozi furono assaltati,
saccheggiati i forni, s'imposero calmieri del 50 per cento sui
generi più vari di consumo. Molte merci furono distrutte. Ogni
villaggio, ogni cittadina ebbe il suo Marat o il suo Lenin, di
formato ridottissimo»11. A ben guardare queste
agitazioni, verificandosi ancora una volta nella fase stagionale di
congiunzione tra il vecchio e il nuovo raccolto, prolungavano una
lunga tradizione dei moti delle città italiane, che la Settimana
Rossa aveva confermato. Il fatto che questi moti «spontanei»
conoscessero una particolare intensità lungo l'itinerario che si
snoda da Ancona a Carrara attraverso la zona appenninica e in centri
di folta presenza anarchica e sindacalista-rivoluzionaria, dice già
qualcosa sulla continuità che questi moti presentavano rispetto a
quelli degli anni immediatamente precedenti la guerra. Gruppi di
ceti popolari confinanti con la piccola borghesia avevano sempre
partecipato a questo tipo di moti; ma, mentre negli anni precedenti
la guerra la piccola borghesia si era per lo più limitata a fornire
i quadri di un movimento genericamente popolare, ora essa diveniva
una delle grandi componenti di un contrasto sociale dagli esiti
ancora incerti, determinando con questa sua presenza la
irreversibilità del processo di trasformazione della società
italiana avviato dalla guerra.
Ma un valore ancor più innovatore che non la partecipazione ai moti
di un ceto sociale che alla guerra aveva dato i propri quadri e che
ora tendeva a ribellarsi contro lo Stato, aveva il ruolo che la
classe operaia veniva ad esercitarvi, non più di rinnovamento
dall'interno, ma di contrapposizione frontale al vecchio ordine
costituito. Rappresentava inoltre un tratto di congiunzione tra il
passato e il presente il fatto che, tra tutte le regioni d'Italia,
quella nella quale i moti partirono e insieme conobbero una maggiore
intensità fu proprio la Liguria, al tempo stesso la regione più
recentemente industrializzata e nella quale maggiore forza
conservava la componente anarco-sindacalista. La storica conquista
della giornata lavorativa di otto ore, accompagnata da una
sensibile rivalutazione salariale, sembrò non essere avvertita in
tutta la sua importanza innovatrice non soltanto perché limitata
dall'inflazione e dalla crisi economica in atto12, ma
anche perché oggettivamente posta in secondo piano dal venir meno
di un simile obiettivo sindacale rispetto all'affacciarsi di più
importanti problemi connessi col vuoto di potere apertosi nello
Stato liberale.
Da questo stadio di agitazioni tumultuoso e indistinto il movimento
popolare usciva per avviarsi allo scontro diretto coi propri
antagonisti tradizionali, venuti a trasformarsi in conseguenza della
guerra. Lo sciopero del 20-21 luglio 1919 di solidarietà con la
Russia sovietica e con la repubblica ungherese dei consigli, sul cui
esito gli storici sono ancora discordi, costituì tuttavia una prima
dimostrazione della potenzialità del movimento operaio italiano13.
Anche lo sciopero dei duecentomila metallurgici della Lombardia, del
Piemonte, della Liguria e dell'Emilia (agosto-settembre 1919), che
rappresentò la punta più alta delle lotte di quell'anno, si concluse
senza vinti né vincitori, ma pose per la prima volta il problema del
potere in fabbrica, mettendo così in discussione i tentativi di
ristrutturazione della grande borghesia industriale.
Finito il ciclo delle grandi agitazioni operaie e contadine, si
cominciò presto a parlare in Italia di un «biennio rosso» per
indicare gli anni 1919-20; e l'espressione è tornata nell'uso della
storiografia recente. In realtà, piuttosto che di un biennio
dominato da un unico segno, sembra opportuno riferirsi a un periodo
all'interno del quale erano in atto contemporaneamente processi
differenti e contrastanti, e in particolare una serie di ondate
diverse, successive e non coordinate, che hanno come unico, seppure
assai importante termine di ispirazione comune, quello di avere a
proprie protagoniste le classi popolari. Mai però come in questo
caso è necessario differenziare all'interno di un movimento, che
potè apparire unico agli avversari del tempo come ai più entusiasti
storici di oggi, se si vuole capire che cosa in realtà esso fu,
quali furono le sue possibilità e perché esso venne ad esaurimento.
Di queste agitazioni, il dato forse più nuovo che non la compatta
presenza della maggior parte della classe operaia e la inizialmente
diffusa partecipazione di alcuni strati dei ceti medi urbani, è la
massiccia irruzione delle masse contadine nell'arena delle lotte
sociali. Prima della guerra infatti, ove si eccettuino le zone
bracciantili, la partecipazione dei contadini alle lotte sociali si
era limitata ad agitazioni sporadiche non sostenute da alcuna
organizzazione permanentemente costituita. Ora, tutto il 1919 è
ininterrottamente percorso da un denso susseguirsi di agitazioni
contadine estese all'intera penisola, non coincidente con le lotte
operaie e scandito dai ritmi della graduale smobilitazione
dell'esercito: nel Nord imponenti scioperi agricoli per il
miglioramento dei contratti da parte dei lavoratori salariati, che
si estesero per la prima volta ai coloni e ai mezzadri dell'Italia
centrale; occupazione delle terre incolte del latifondo nel Lazio e
nelle regioni meridionali da parte di salariati e di piccoli
proprietari: le prime guidate da organizzazioni sindacali e le
seconde per lo più spontanee o guidate da organizzazioni di ex
combattenti14. Furono movimenti capaci
d'introdurre la nozione stessa di lotta sociale in plaghe e regioni
d'Italia che quasi ne erano rimaste fino a quel momento immuni, e di
mostrare quanto l'esperienza bellica e la promessa della terra
avessero contribuito a fare uscire le popolazioni rurali da un
secolare torpore. La forza di questi movimenti fu però pari alla
loro primitività e alla loro frammentarietà: ciò che rese ancora più
difficile e complesso il compito della direzione sindacale e
politica da parte delle vecchie e nuove forze organizzate del
movimento operaio e contadino italiano.
Il peso delle sollecitazioni alle quali queste furono sottoposte in
seguito al brusco sommovimento della situazione politica e sociale
si registra con particolare evidenza riferendosi, più ancora che ai
partiti e alle formazioni politiche, alle organizzazioni sindacali.
La crescita vertiginosa dei loro effettivi dimostra infatti che, se
il problema della direzione delle lotte si pose spesso in termini di
recupero di manifestazioni cresciute spontaneamente o sotto la
guida di forze nuove ed estranee al movimento sindacale, tuttavia
l'impatto avvenne in gran parte all'interno degli organismi
costituiti. La cifra di per sé impressionante di quattro milioni di
organizzati, risultante dalla somma degli effettivi dei diversi
organismi nel momento della loro massima espansione (oltre 2 milioni
la cgdl, oltre un milione il sindacato cattolico, la Cil, cui sono
da aggiungere svariate centinaia di migliaia di aderenti all'Usi,
alla Uil e ai sindacati autonomi), acquista un significato più
pregnante ove ci si soffermi su alcuni dei dati parziali più
significativi, come quelli della Federterra. Dai 125 000 aderenti
del 1914, pur attraverso il sensibile calo verificatosi negli anni
del conflitto, questa sali infatti a quasi 420 000 nel 1919 e a
760000 nel 1920, denotando così una mobilitazione di massa nel mondo
contadino, per valutare appieno la quale occorre tener conto di
varie circostanze: l'emigrazione, che nel 1919 era ancora pressoché
nulla (29 000 unità) ebbe nel 1920 una impennata che la riportò ai
livelli degli anni più alti, tra il 1905 e il 1913, con 614 000
unità15, mentre conferisce un particolare significato a
tale aumento della Federterra anche il massiccio drenaggio di
braccia dall'agricoltura all'industria di guerra, verificatosi
negli anni precedenti, che contribuì sul piano sindacale alla
crescita impetuosa delle Federazioni di mestiere operaie: la Fiom,
ad esempio, passò da 7000 organizzati nel 19143 104 000 nel 1919 e a
160 000 nel 1920; la Fiot da 9000 a 71 000 e a 145 00016
Né l'aumento quantitativo mancò di riflettersi sul piano
qualitativo: per restare all'esempio parziale ma significativo della
Federterra e degli istituti del bracciantato della valle padana,
mentre deve essere sottolineato il ruolo negativo svolto dalla
parola d'ordine della socializzazione delle terre ai fini di una
direzione generale delle lotte contadine sul piano nazionale,
occorre anche tener presente il grande significato sociale e
politico delle conquiste ottenute nel dopoguerra sul piano del
collocamento e del rafforzamento del movimento cooperativo, tali da
determinare una situazione di vero e proprio monopolio nel mercato
della manodopera da parte delle organizzazioni di classe, contro cui
si ersero in prima fila, e non a caso, nazionalisti come Maffeo
Pantaleoni17. La solidarietà, la disciplina e la capacità
di lotta del movimento operaio e contadino in questi settori,
tuttavia, se costituirono indubbiamente un grande successo, non
mancarono di porre nuovi problemi di direzione, ancora una volta sul
terreno del potere: «Le conquiste dei lavoratori della terra nel
campo del collocamento e dell'imponibile, - ha scritto Renato
Zangheri, - come in quello dei patti colonici, e in generale le
posizioni di forza raggiunte nella contrattazione della manodopera
in ordine al livello della sua retribuzione, alla durata della
giornata lavorativa, alla protezione dei lavoratori dagli infortuni,
e così via, erano tali da intaccare fortemente il profitto
capitalistico e destarono una reazione che superava il limite della
contesa sindacale, ed a cui solo sul terreno politico poteva ormai
opporsi il movimento dei lavoratori»18.
2. L'ascesa dei partiti di massa.
Alle prime elezioni politiche del dopoguerra, svoltesi ad un punto
già alto del ciclo del movimento di lotte (16 novembre 1919) con la
prima compiuta applicazione del suffragio universale maschile e del
sistema proporzionale (che ne fecero non solo le prime elezioni
veramente libere della storia dell'Italia unita, ma anche un
termometro fedele della volontà del paese), fu possibile registrare
come i diversi gruppi del liberalismo italiano avessero perduto la
maggioranza parlamentare, ininterrottamente detenuta fino a quel
momento. In quale misura la guerra avesse spostato gli orientamenti
politici delle grandi masse della popolazione, sottraendone una
gran parte all'influenza dei ceti dominanti e avviandole verso le
vecchie e nuove formazioni politiche di massa, lo dimostrò il
successo riportato dai socialisti e dai popolari, i quali,
ottenendo rispettivamente 156 o 101 seggi, finivano col raggiungere
coi loro circa 3 milioni di voti la maggioranza dei suffragi nel
Parlamento e nel paese19. È però necessario domandarsi
che cosa fossero questi organismi e le forze sociali ed economiche
che ad essi facevano capo.
La tragedia del socialismo italiano negli anni postbellici ha dato
luogo ad un dibattito politico-storiografico che la rapida e
bruciante affermazione del fascismo in Italia, per lunghi anni
isolata in Europa, tinse subito dei colori dell'autocritica
socialista, tanto più che il PSI aveva avuto un atteggiamento
diverso da tutti gli altri partiti della II Internazionale
dell'Europa occidentale nei confronti della guerra imperialistica.
La polemica ideologico-politica all'interno del movimento operaio,
proprio per le sue origini e i suoi caratteri internazionali, si è
soffermata soprattutto sugli elementi che la crisi del socialismo
italiano presentò in quegli anni in comune con la crisi dell'intero
movimento socialista dell'Europa occidentale e centrale: scontro
delle correnti in rapporto alla posizione da esse presa nei
confronti della rivoluzione russa e, conseguentemente, capacità o
meno di porsi i problemi relativi alla conquista e all'esercizio
del potere, e così via. Senza negare l'importanza di questi
elementi, sembra tuttavia necessario riconsiderarli alla luce della
contraddizione che l'esplosione di un forte ma non coordinato
movimento di masse faceva precipitare tra la crisi della società
nazionale e le strutture che il socialismo italiano si era dato e le
tradizioni che ne erano scaturite.
Quella che nel linguaggio del movimento comunista è stata formulata
come contraddizione tra una situazione oggettivamente
rivoluzionaria e l'assenza di un partito effettivamente capace di
guidare la rivoluzione proletaria deve essere sciolta attraverso
una considerazione più attenta e ravvicinata di tutti i dati che
hanno contribuito a darle vita. Che l'Italia uscita formalmente
vittoriosa dalla guerra rappresentasse, in conseguenza non solo
delle condizioni fattele al tavolo della pace, ma anche della
sostanziale dipendenza dalle potenze effettivamente vittoriose,
«l'anello più debole» della catena imperialistica, era un punto sul
quale le motivazioni polemiche degli uomini di Stato italiani
coincidevano inconsapevolmente con le diagnosi dell'Internazionale
comunista. Che, per seguire i nessi della definizione leninista
circa la natura di una situazione rivoluzionaria, le classi
dominanti non fossero più in grado di esercitare il potere nelle
forme tradizionali, corrispondeva alla realtà non meno del fatto che
le classi oppresse non volessero più essere dominate e sfruttate
come nel passato. Ma questa incapacità della classe dominante di
governare come in precedenza passava, è vero, attraverso il
deperimento di istituti tradizionali di costrizione e di consenso,
ma anche attraverso la costituzione e il rafforzamento di alcuni
settori dell'economia nazionale ancora più fortemente compenetrati
col tradizionale apparato dello Stato, mentre la vittoria militare
offriva al nazionalismo italiano potenziali elementi per aggregare
nella loro totalità strati della popolazione fino a quel momento
passivi, contendendoli ai movimenti di opposizione, cui avevano
fornito nel passato il personale dirigente. D'altra parte, le
classi sfruttate e oppresse cominciavano soltanto allora a
riconoscersi come tali in una forma aurorale di coscienza della
propria condizione subalterna. Il problema dunque del «partito
rivoluzionario», in quanto poneva il problema della direzione
politica di forze sociali in formazione e in espansione, veniva a
riferirsi non solo all'orientamento ideale e politico del partito
come tale, ma anche e soprattutto alla sua natura e alla sua
collocazione nella società passando attraverso il rapporto che esso
aveva col complesso del movimento proletario.
I risultati elettorali del 16 novembre 1919 avevano messo in
evidenza una non trascurabile contraddizione tra la crescita del
consenso elettorale socialista - maturata soprattutto nelle regioni
dove più profonde radici aveva l'influenza del PSI(Lombardia,
Piemonie, Emilia, Toscana), e che raggiungevano da sole più di due
terzi dell'elettorato socialista - e la dilatazione degli iscritti
al partito, che, almeno come tendenza, si manifestava in
percentuali di incremento con le punte più elevate proprio nelle
regioni d'Italia in cui fino a quel momento l'organizzazione
socialista era stata più debole20. Si esprimeva
attraverso questa contraddizione l'esigenza della formazione di un
organismo politico, che, muovendo dalle sue roccheforti
tradizionali, acquisisse dimensioni e caratteri nazionali facendosi
promotore e garante di un'alleanza di forze sociali nelle quali,
sotto la direzione della classe operaia, fossero rappresentate
tutte le masse lavoratrici del paese. Forse non è stato ancora
sufficientemente considerato il fatto che il psi conobbe nel breve
spazio di due anni un incremento dei propri effettivi senza eguali
in tutti gli altri partiti europei, arrivando addirittura a
quintuplicare i propri iscritti rispetto al 1914, che pure aveva
segnato il punto di gran lunga più alto toccato durante l'«età
giolittiana»21. Questo dato, accompagnato dal passaggio
della percentuale tra iscritti e voti socialisti dal 6,6 all'i 1,5
per cento, era qualcosa di più che un semplice aumento quantitativo.
Implicava un necessario salto di qualità nella natura del partito,
la trasformazione cioè da una confederazione di localismi
sindacali, cooperativi e amministrativi, di cui l'opinione del
quotidiano del partito e l'orientamento del suo gruppo parlamentare
costituivano i poli di riferimento - spesso discordanti - di natura
politica, in un organismo capace di svolgere un'azione politica
unitaria in quanto omogeneo sotto il profilo programmatico e
organizzativo.
In realtà, quanto più è possibile illuminare la crisi del socialismo
italiano in una prospettiva che si alimenta della conoscenza
dell'humus sociale da cui sorse e dell'intera parabola del suo
decorso, tanto più sembra abbia un fondamento oggettivo la
conclusione che il vecchio partito socialista, in quanto equilibrio
più o meno stabile di tutti gli elementi che avevano sorretto la
sua esistenza, era definitivamente entrato in crisi nel 1912, senza
che il Congresso di Reggio Emilia avesse segnato l'inizio di una
svolta effettiva22. A ben guardare, la crisi del
socialismo italiano, se esplode negli anni immediatamente
postbellici, ha una durata che si identifica con la crisi
complessiva della società italiana e ne diviene uno dei luoghi
nevralgici di risoluzione.
Che il socialismo italiano non avesse preso atto delle conseguenze
della guerra e del mutamento di prospettive da essa arrecato, è un
luogo comune assai diffuso, che va negato in quanto tale per essere
riconsiderato nella sua sostanza di fondo.
In stretto rapporto con l'assunzione delle caratteristiche di un
movimento di massa, il movimento socialista italiano, mentre
rivitalizzava l'antica rete delle proprie organizzazioni di massa,
si dotò fino dall'immediato dopoguerra di istituzioni destinate a
favorirne la penetrazione tra i reduci e gli ex combattenti, come ad
esempio la Lega proletaria dei mutilati, invalidi, reduci, orfani e
vedove di guerra (Mirov). Essa raggiunse un'estensione non
trascurabile, toccando al suo primo congresso (giugno 1919) circa
duecentomila iscritti. Ma sia l'entità della cifra, sia più in
generale la forza di aggregazione della lega rimasero gravemente
condizionate dal fatto che essa non si diffuse al di là delle zone
più tradizionali della presenza socialista, finendo col risultare
nulla più che una nuova variante, non tra le più vitali, del
variegato associazionismo socialista, e riconfermandone ancora una
volta la difficoltà a oltrepassare i confini delle basi originarie
della propria espansione23. Una difficoltà analoga a
quella messa in evidenza nei confronti del problema dei soldati e
dei reduci, il psi manifestò nella capacità di adeguare il proprio
programma ai compiti nuovi impostigli dall'assurgere di grandi
masse sociali al ruolo di protagoniste della storia nazionale. Il
programma di Genova non aveva mai avuto nei dibattiti teorici e
politici del socialismo italiano la stessa importanza di punto di
riferimento costante e di discriminante ideale esercitati, ad
esempio, nella storia della socialdemocrazia tedesca dal programma
di Erfurt: le ragioni di ciò coincidevano, nel positivo e nel
negativo, col fatto che il socialismo italiano non era mai divenuto
quel tipo di partito organizzato e burocratizzato che la
socialdemocrazia tedesca, invece, aveva costruito, servendosi anche
di una schematica interpretazione del proprio programma. La
disordinata sfaccettatura del dibattito programmatico del partito
socialista, componente essenziale del «diciannovismo», derivava una
parte notevole delle sue caratteristiche dal fondamento ideologico
gelatinoso della prassi politica del socialismo italiano, che i
termini nuovi del problema non riuscirono a fare precipitare
intorno ad alcuni poli qualificanti.
L'eco dell'Ottobre sovietico non fu in Italia inferiore a quella di
altri paesi nei quali il movimento operaio e rivoluzionario
avvertiva per rapporti più consolidati l'attrazione della conquista
del potere da parte dei bolscevichi e l'esigenza di «fare come in
Russia». Al contrario, in Italia l'esempio sovietico investì
frontalmente il mondo popolare italiano, facendo leva su tutte le
istanze che in esso premevano per una fuoruscita dallo stato di
subalternità. Prima ancora di divenire elemento di un'informata
discussione politica all'interno del movimento operaio organizzato,
i simboli e gli artefici dell'Ottobre sovietico divennero uno dei
rari tramiti di cultura tra i ribelli in grigioverde e l'humus
sovversivo delle loro famiglie. Estendendo al capo dei bolscevichi
quella consuetudine di trasferire fino nel nome dei propri figli la
protesta sociale e l'augurio di una vita nuova e diversa, che il
primo socialismo italiano - particolarmente in Emilia e in Toscana -
aveva riservato oltre che ai grandi protagonisti della lotta per il
trionfo della ragione e del progresso sociale, persino ai
personaggi dell'opera lirica, numerosi Lenin si iscrissero nei
registri dell'anagrafe italiana prima ancora che la guerra fosse
conclusa 24. In questo senso la rivoluzione russa, se
rappresentò in prospettiva l'avvenimento discriminante tra due
epoche della storia del socialismo italiano, costituì anche l'ultima
e più matura incarnazione dell'ideale in cui si proiettavano le
aspirazioni di libertà e le esigenze di giustizia del sovversivismo
italiano.
Ciò spiega come, unico tra i vecchi partiti socialisti
dell'Occidente europeo, il psi aderisse all'Internazionale comunista
poco dopo la sua fondazione e includesse la dittatura del
proletariato nel programma del partito rinnovato al Congresso di
Bologna (ottobre 1919)25. Ma spiega altresì come questa
proiezione della rivoluzione d'Ottobre in termini appunto di
«ideale», e sia pure di ideale per colti, presso gli strati
dirigenti del partito, impedisse di penetrare e acquisire, al di là
delle formule, il significato di profonda innovazione teorica e
politica rappresentato dall'esperienza russa. In realtà, nella
misura in cui si diffuse una coscienza della portata effettiva della
rivoluzione russa, essa contribuì a far precipitare le differenze di
orientamento all'interno del psi: e in questo senso i riformisti
furono i primi a trarne alcune conseguenze, rendendo più esplicite
le ragioni della loro adesione allo Stato liberale-parlamentare. Ma
al tempo stesso il persistere di una tradizione socialista che
coinvolgeva anche i riformisti e nella quale la solidarietà
internazionale e la predicazione di un «mondo nuovo»
rappresentavano il contrappunto della modesta e oscura opera di
emancipazione, faceva si che le differenze di valutazione, e ancor
più le conseguenze che ne discendevano, fossero sommerse nella
pressoché totale unanimità dell'entusiasmo. Anche la proposta della
Costituente, avanzata per la prima volta dalla Confederazione
generale del lavoro nel suo programma per il dopoguerra, non riuscì
ad assolvere la funzione di un'effettiva pietra di paragone tra le
varie correnti del socialismo italiano: favorevoli le furono i
riformisti — per quanto non tutti — i quali vi scorsero la
possibilità di riversarvi la spinta dell'entusiasmo rivoluzionario
delle masse, utilizzandola in una prospettiva di riassetto
democratico di quell'ordinamento dello Stato italiano, che essi
avevano trascurato per l'innanzi; mentre con l'eccezione del solo
Serrati, che vi aderì, l'ala massimalista non la considerò neppure
occasione opportuna per approfondire di fronte alle masse il
problema dello Stato e della conquista del potere26.
Questa difficoltà di adeguamento programmatico trovava un riscontro
nella struttura organizzativa del partito e del movimento
socialista, sostanzialmente immutata rispetto al periodo prebellico.
La crisi dell'egemonia riformista si era accentuata con la guerra,
senza che di contro fosse venuta configurandosi una reale
alternativa di direzione. Anzi, il prolungarsi della crisi
riformista e l'estendersi dell'influenza «rivoluzionaria» facevano
risaltare la comune matrice culturale delle correnti del socialismo
italiano associandole in una condizione subalterna, che impediva
all'una e all'altra di «fare politica». Di qui il sopravvivere
dell'antiinterventismo come un modo di definirsi nel quale, con
diversa intensità, luna e l'altra corrente si riconoscevano27;
e di qui, soprattutto, la presa che i termini del dibattito politico
prebellico - collaborazione o intransigenza - continuavano ad
esercitare in una situazione completamente mutata. In realtà, nella
nuova corrente che si disse massimalista viveva non poco
dell'eredità di quel singolare fenomeno che era stato
l'integralismo, un misto di indifferentismo ideologico e di
trasformismo politico, mentre l'unica vivente realtà organizzata del
movimento - i sindacati, le cooperative, i municipi - potevano
continuare ad essere diretti dai riformisti, ancora assai influenti
nel gruppo parlamentare e oggettivamente avvantaggiati dall'inerzia
del dibattito politico.
Vi fu, per la verità, un profondo tentativo di rinnovamento anche
istituzionale che, nel movimento operaio italiano come in quello
degli altri paesi, si riallacciava all'Ottobre sovietico e che in
tanto aveva possibilità vitali, in quanto tale rapporto maturava
nell'ambito della nuova realtà creata dalla guerra: l'esperienza dei
consigli di fabbrica. In Italia, forse in misura ancora maggiore che
in altri paesi, i consigli, che furono essenzialmente consigli
operai, trassero la loro origine da un istituto sorto durante la
guerra per ispirazione dei ceti economici e politici dirigenti al
fine di incrementare la produzione bellica: le commissioni interne.
Nati nell'ambito del movimento sindacale, e nella prospettiva di una
collaborazione di classe, i consigli fuoriuscirono rapidamente in
Italia da questa impostazione originaria. Essi divennero il più
forte strumento di aggregazione creato dal movimento operaio
italiano per superare i tradizionali steccati tra lo strato degli
operai organizzati e le più vaste masse dei lavoratori
disorganizzati e, al tempo stesso, tra la sfera delle vertenze
economiche e quella della lotta politica. Rivendicando all'insieme
dei lavoratori delle officine non solo la difesa delle loro
condizioni di lavoro e di vita, ma anche l'organizzazione del
lavoro stesso e la direzione dell'attività produttiva, i consigli
esprimevano la necessità che la classe operaia assumesse il ruolo di
forza dirigente la società nazionale, ponendo, a partire dal luogo
stesso del proprio lavoro, il problema di un mutamento della
direzione del potere.
Non ci fu, si può dire, socialista italiano che tra il 1919 e il
1920 non parlasse dei consigli, ma è significativo che la dizione
più corrente fosse quella di «soviet» o «soviety», mutuata
immediatamente dal prestigioso e affascinante precedente russo. In
realtà, sia nel dibattito programmatico all'interno del psi, che
vide accomunati nella presentazione di un ordine del giorno al
consiglio nazionale dell'aprile 1920 personalità di opposte
tendenze, come Egidio Gennari e Gino Baldesi28, sia nella
più consapevole elaborazione teorica di Amadeo Bordiga e della
rivista che significativamente egli intitolò a questo istituto, i
soviet restarono un ideale staccato e sovrapposto ai problemi reali
del movimento. L'unico gruppo del socialismo italiano che - non a
caso a Torino e partendo dalla viva esperienza delle fabbriche di
quella città - intese il significato di rottura e la profonda carica
innovatrice del movimento dei consigli fu quello che si formò
intorno all'«Ordine nuovo». Tra i giovani, quasi tutti senza un
passato e una storia, che lo componevano, emerse sin dall'inizio
Antonio Gramsci29.Approdato a Torino dalla Sardegna,
aveva già bruciato attraverso un intenso e fecondo rapporto con le
correnti più vive della cultura italiana e alla scuola della classe
operaia della « Pietro-grado d'Italia» gran parte di quella che egli
stesso chiamerà la propria «quadruplice origine provinciale». Aveva
vissuto la crisi del socialismo italiano negli anni del conflitto
collocandosi a fianco di coloro che meglio ne incarnavano
l'avversione alla guerra e il legame con le masse, ma, al tempo
stesso, con l'acuta consapevolezza della necessità di un profondo e
radicale svecchiamento, che lo aveva portato ad un duro confronto
critico con le stratificate tradizioni del movimento operaio
italiano. Il discorso sul tanto controverso marxismo di Gramsci è da
risolvere forse meno attraverso l'identificazione del suo pensiero o
le particolari inflessioni che esso assume tra la canonizzazione
ortodossa della II Internazionale e la ripresa rivoluzionaria
rappresentata da Lenin, e assai più, invece, nello stacco che egli
viene a costituire in un paese in cui teoria marxista e pratica
politica del movimento operaio avevano sofferto non tanto della loro
mìsere, quanto della loro dissociazione. Il rigore critico di
Gramsci nell'esame della crisi del socialismo italiano consisté
nell'abbandono di ogni forma di pedagogismo, per ricercare gli
strumenti teorici e gli istituti politici nuovi che rendessero il
movimento reale protagonista effettivo del proprio rinnovamento. La
ricerca di Gramsci negli anni della guerra può dare l'impressione di
un magma nel quale il confronto con la propria formazione
culturale, la fustigazione dei vizi mentali e morali degli
intellettuali italiani, l'appassionato intervento politico non
sembrano trovare un loro punto di unificazione. Lu però la spinta di
fattori esterni ad evidenziare e a fare maturare quanto di
implicitamente unificato era già presente in tale processo.
Che Gramsci condividesse la sorte di tanti altri socialisti italiani
di non avere una informazione esatta di uomini e forze che avevano
prodotto il grande sommovimento dell'Ottobre sovietico, è dato che
risulta sempre più chiaro. Non per questo, però, La Rivoluzione
contro il Capitale cessa dal costituire il manifesto programmatico
del rinnovamento del socialismo italiano, che ne riproduce con
maggiore efficacia il punto di partenza e la natura della carica
innovatrice che vi viene immessa, e che vi vede fuso in modo
inestricabile l'aspetto intellettuale e morale con quello sociale e
politico. «Rassegna di politica e cultura», la rivista torinese si
conquistò con rapidità un pubblico se non larghissimo, certo ben al
di là dei cancelli delle fabbriche torinesi, dove pure trovò il
primo organico rapporto di classe che una rivista italiana abbia
saputo istituire. La lessero, ricavandone uno stimolo ad un
ripensamento radicale del loro modo di essere militanti
rivoluzionari, giovani socialisti d'ogni parte d'Italia, la cui
collocazione nella lotta delle tendenze poteva essere diversa, ma
cui tuttavia l'avere vissuto la crisi delle generazioni del
socialismo italiano indotta dalla guerra aveva acceso una volontà
d'azione e un'ansia di conoscenza unite e rafforzate dal loro
rapporto reciproco.
Dall'Inghilterra alla Germania, per riferirsi soltanto ai due poli
principali del socialismo europeo, il movimento dei consigli
presentò la caratteristica di portare alle estreme conseguenze,
ribaltandone le finalità, tendenze già manifestatesi all'interno del
movimento operaio dei rispettivi paesi. In Italia, il movimento dei
consigli fu vissuto e visto come germe dello Stato proletario e come
uno strumento rinnovatore del movimento operaio italiano, tanto più
profondo in quanto si manifestava direttamente dal suo interno,
infrangendone le tradizionali alternative di sviluppo. Luogo di
unificazione tra economia e politica, il consiglio avrebbe dovuto
dimostrare per Gramsci la capacità della classe operaia di rinnovare
nel corso del processo rivoluzionario i due strumenti fondamentali
della propria emancipazione, il sindacato e il partito. La
realizzazione di tale prospettiva era in stretta interdipendenza
con l'ampiezza e la profondità del movimento rivoluzionario nel
paese nel suo complesso.
In realtà, l'originalità dei consigli italiani rispetto a quelli di
altri paesi dell'Europa occidentale fu inversamente proporzionale
alla loro diffusione. Sostanzialmente limitati a Torino e a poche
altre zone della parte industrializzata del paese, i consigli
rappresentarono nel variegato e scoordinato insieme delle lotte dei
lavoratori italiani l'ondata più alta destinata a smorzarsi perché
non seguita e sorretta da un movimento generalizzato nel quale
rifluissero e si incanalassero le non convergenti spinte
rinnovatrici dei diversi settori della società nazionale30.
Chi si soffermi sulla rappresentazione che di quel momento cruciale
delle lotte delle classi in Italia fornisce l'«Ordine nuovo», non
può non restare colpito dalla contraddizione tra la lucidità con cui
viene individuato il cuore dei problemi della rivoluzione italiana,
e l'inadeguatezza nel coglierne i ritmi e le articolazioni
specifiche. Il Gramsci dell'«Ordine nuovo» supera d'un balzo i
limiti che avevano fino a quel momento impedito al socialismo
italiano di individuare come, nella definizione del problema dello
Stato, potessero unificarsi gli obiettivi di lotta dell'alleanza
tra gli operai e i contadini per affrontare e risolvere, nel
superamento della frattura tra il Nord e il Sud, la più grande
questione della nazione italiana. Ma si trattava di intuizioni non
ancora completamente enucleate in un magma di politica e di
cultura, di originale ripensamento della storia d'Italia e di
elaborazione di un concreto programma politico, cui il carattere
privilegiato dell'osservatorio torinese conferiva in profondità ciò
che toglieva in estensione.
La sconfitta subita dal movimento consiliare nell'aprile e ribadita
successivamente nel settembre del 1920 avrebbe fatto rifluire il
problema del rinnovamento del socialismo italiano dal livello
globale del consiglio a quello istituzionale del sindacato e del
partito. Se la prima ipotesi era concepibile soltanto nel quadro
dell'affermazione del movimento rivoluzionario, la seconda diveniva
una necessità in una prospettiva che era già di ripiegamento,
seppure non ancora di sconfitta. La spiegazione autocritica avanzata
dal gruppo dell'«Ordine nuovo» per la propria mancata trasformazione
in gruppo organizzato all'interno del PSI31, se ha poco a
che vedere con l'indirizzo e con la diffusione della rivista, trae
tuttavia la sua ragion d'essere da questo mutamento di piano che il
problema del rinnovamento del socialismo italiano conobbe tra la
primavera del 1919 e l'autunno del 1920.
Né «Comunismo» e neppure «Il Soviet» furono riviste anche
lontanamente comparabili per originalità di impostazione e capacità
di corrispondere all'ansia di rinnovamento delle giovani
generazioni del socialismo italiano con P«Ordine nuovo».
«Comunismo» era l'organo di cui il direttore dell'«Avanti!» si era
provvisto per incanalare nell'alveo del vecchio massimalismo e
verso l'Internazionale comunista i fermenti politici e
intellettuali suscitati anche in Italia dall'ondata della
rivoluzione mondiale. «Il Soviet», originariamente organo della
sezione napoletana del psi, divenne una rivista di risonanza
nazionale in quanto strumento politico e organizzativo di una
frazione istituzionalmente costituita e di colui che l'aveva voluta
come coronamento di un'azione conseguente e di punta dagli anni
precedenti la guerra in poi, ostinatamente e isolatamente rivolta
alla creazione di un'avanguardia organizzata del socialismo
italiano: Amadeo Bordiga. Non a caso perciò, quando il dilemma
«rinnovamento o scissione» cominciò a inclinare verso il secondo dei
due termini, i maggiori interlocutori della nuova fase di dibattito
introdotta nel socialismo italiano dai ventun punti posti dal II
Congresso dell'Internazionale comunista furono proprio Serrati e
Bordiga, cioè i rappresentanti di due soluzioni opposte e
simmetriche nell'ambito della stessa tendenza32.
Note
1 Cfr F. Curato, La Conferenza della pace, 1919-1920, voi. I, Milano
1942, pp. 180 sgg.
2 Cfr. J. M. Keynes, Politici ed economisti,
Torino 1974, p. 16, nota.
3 Cosi, l'americano R. S. Baker, cit. in Curato, La
Conferenza della pace cit., p. 189.
4 G. Salvemini, La diplomazia italiana nella grande guerra (1925),
in Dalla guerra mondiale alla dittatura (1916-1925), acura di C.
Pischedda, Milano 1964, p. 754.
5 Cfr. G. G. Micone, Le origini dell'egemonia americana in Europa,
in «Rivista di storia contemporanea», III, 1974. p. 434. Una
immagine eloquente dello stato di dipendenza in cui si trovava
l'Italia nei confronti dell'Inghilterra e soprattutto degli Stati
Uniti d'America può trarsi da un allarmato telegramma di Orlando
all'ambasciatore italiano a Londra, del 2 gennaio 1919, dopo che le
difficoltà finanziarie del paese avevano provocato il blocco delle
importazioni di carne congelata: «Fra dieci giorni - scriveva il
presidente del Consiglio - intero esercito e parte popolazione si
troveranno senza carne». Cfr. I documenti diplomatici italiani,
serie VI: 1918-1922, voi. I: 4 novembre 1918 -17 gennaio 1919, Roma
1956, p. 397. Si veda anche la risposta dell'ambasciatore
Imperiali, a p. 401. Non meno significativo il testo del telegramma
di pochi giorni successivo inviato da Sonnino all'incaricato
d'affari italiano a Washington, nel quale si richiedevano
consistenti crediti per mantenere le importazioni dagli Stati
Uniti, essenziali per la stessa sopravvivenza del paese. Nel corso
della guerra, infatti, queste si erano accresciute del 578 per
cento, con un forte stacco rispetto a quelle della Gran Bretagna (+
203 per cento) e della Francia (+109 per cento): ibìd., p. 440.
6 Cfr. Seton-Watson, Storia d'Italia dal 1870 al 1925 cit., p. 611.
7 V Potëmkin, Storia della diplomazia, voi. IV, con la
collaborazione di N. Kolcianovskij, I. Mints, A. Pankratova ed E.
Tarlé, Roma 1956, p. 38.
8 Cfr. La Questione dell'Alto Adige, saggio di E. Vallini,
introduzione di P. Alatri, Firenze
1961, pp. 29 sgg.
9 Cfr. Valiani, La dissoluzione dell'Austria
Ungheria cit. Per un quadro complessivo della si
tuazione politica
e diplomatica internazionale all'indomani della guerra, cfr. il
fondamentale lavoro
di A. J. Mayer, Politics and Diplomacy of
Peace-making. Containement and Counterrevolution at
Versailles,
1918-1019, New York 1967; il fascicolo dedicato all'Europa del
novembre 1918 dalla
«Revue d'histoire moderne et contemporaine»,
tomo XVI, gennaio-marzo 1969; e, sui rapporti ita
lo-austriaci, gli
atti del I Convegno storico italo-austriaco (Innsbruck, 1-4 ottobre
1971), in «Storia
e politica», XII, 1973, fase. 3.
10 Chabod, L'Italia contemporanea (1918-1048), Torino 1961, p. 29.
11 P. Nenni II diciannovìsmo, Milano 1962, pp. 39-40. Sulle lotte
sociali del 1919, cfr. R. Vivarelli, Il dopoguerra in Italia e
l'avvento del fascismo (1918-1922), I: Dalla fine della guerra
all'impresa di Fiume, Napoli 1967, e sul primo episodio di
occupazione di una fabbrica, verificatosi nel mese di marzo del
1919, A. Scalpelli, Dalmine 1919. Storia e mito di uno sciopero
«rivoluzionario», Roma 1973.
12 Cfr. I. Barbadoro, Storia del sindacalismo italiano
dalla nascita al fascismo, voi. II: La Con
federazione
generale del lavoro cit., pp. 373 sgg.
13 Cfr. E. Santarelli, Italia e Ungheria nella crisi
postbellica (1918-1920), Urbino 1968, pp. 132 sgg.
14 Cfr. A. Caracciolo, L'occupazione delle terre in Italia, Roma s.
d. (1950), e G. Sabbatucci, 1 combattenti nel primo dopoguerra, Bari
1974, pp. 184 sgg. (specialmente per ciò che riguarda il Lazio). Tra
i numerosi studi locali, si vedano in particolare S. Colarizi,
Dopoguerra e fascismo in Duglia (1919-1926), Bari 1971, pp. 50 sgg.,
e L. Accati, L'occupazione delle terre. Lotta rivoluzionaria dei
contadini siciliani e pugliesi nel 1919-1920, in 1920. La grande
speranza, fascicolo speciale de «Il Ponte», XXIV, 1970, pp. 1263-93.
15 Cfr. «Annuario statistico italiano», serie II, vol.
VIII, Anni 1919-1921. Indici economici fino al 1924, Roma
1925, p. 405.
16 Cfr. La Confederazione generale del lavoro negli
atti, nei documenti e nei congressi, 1906-1926, a cura di L.
Marchetti, Milano 1962, pp. 421-22.
17 Cfr. G. Preziosi, Cooperativismo rosso piovra dello
Stato, introduzione di M. Pantaleoni, Bari 1922.
18 R. Zangheri, Introduzione a Lotte agrarie in Italia
cit., p. XLI.
19 Cfr. MINISTERO PER L'INDUSTRIA, IL COMMERCIO ED IL LAVORO,
UFFICIO CENTRALE DI STATI
STICA, Statistica delle elezioni generali
politiche per la XXV legislatura (16 novembre 1910), Ro
ma 1920.
20 Cfr. T. Betti, Serrati e la formazione del Partito
comunista italiano. Storia della frazione ter
zinternazionalista,
1921-1914, Roma 1972, p. XXIX.
21 Si veda a questo proposito la statistica degli
iscritti al PSI tra il 1914 e il 1920, pubblicata
in «Almanacco
socialista italiano», Milano 1921, pp. 446-549.
22 Sull'importanza del 1912 come data periodizzante
nella storia del movimento operaio italiano
e sui limiti del
rinnovamento di Reggio Emilia, cfr. E. Ragionieri, Problemi di
storia del PCI, in
«Critica marxista», VII, 1969, pp. 206 sgg.
23 Cfr. al riguardo Sabbatucci, I combattenti nel primo dopoguerra
cir., pp. 78 sgg.
24 Cfr. S. Garetti, La Rivoluzione russa e il socialismo italiano
(1917-1921), Pisa 1974, p. 116.
25 Cfr. Cortesi, Il socialismo italiano tra riforme e
rivoluzione cit., pp. 719 sgg.
26 Per il dibattito sulla Costituente all'interno del
socialismo italiano, si veda A. Lepre e s. Le-vrero, La formazione
del Partito comunista d'Italia, Roma 1971, pp. 63 sgg.
27 Su questi problemi, e più in generale sull'esistenza
di «blocchi» provocati dalla guerra, cfr.
Procacci, Appunti in tema
di crisi dello Stato liberale e dì origini del fascismo cit., p.
237, e anche
E. Berti, Problemi di storia del PCI. e
dell'Internazionale comunista, in «Rivista storica italiana»,
LXXXII, 1970, p. 162.
28 Cfr. Gennari, Regent e Baldesi, Mozione per la
costituzione dei Soviety, in «Comunismo»,
I, n. 15, 1-15 maggio
1920, pp. 1029 sgg. Per il dibattito su questo argomento si veda
anche II Con
siglio nazionale socialista, sessione svoltasi a
Milano dal 18 al 22 aprile 1920, 3 voli., Milano
1967-68.
29 Nell'ormai sterminata bibliografia sulla vita, il
pensiero e l'opera di Gramsci, si vedano sem
pre le pagine di p.
Togliatti, Gramsci, a cura di E. Ragionieri, Roma 1967, mentre, per
la forma
zione culturale e politica di Gramsci, è fondamentale L.
Paggi, Gramsci e il moderno principe, I:
Nella crisi del socialismo
italiano, Roma 1970; importante anche il lavoro di C. Buci
Glucksmann,
Gramsci et l'Etat, Paris 1973 (trad. it. Roma 1976).
30 Cfr. (ma in chiave rozzamente «spontaneistica») G. Maione, II
biennio rosso: autonomia e spontaneità operaia contro le
organizzazioni tradizionali (1919-1920), in «Storia contemporanea»,
I, I970, PP- 825-80.
31 Cfr. quanto scrisse Gramsci a Leonetti il 28 gennaio 1924, in P.
Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del partilo comunista
italiano nel 1923-1924, Roma 19692, pp. 182-84.
32 Sulle tre «alternative» presenti nel movimento socialista nel
dopoguerra, cfr. F. De Felice, Serrati, Bordiga, Gramsci e il
problema della rivoluzione in Italia, 1919-1920, Bari 1971.
[...]
IV.
LA GRANDE PAURA.
1. La sconfitta operaia.
La visione incentrata sul concetto di catastrofe che ha presieduto
alla ricostruzione della lotta sociale e politica negli anni del
primo dopoguerra ha forse messo troppo in ombra gli sforzi compiuti
dalla classe dirigente liberale per uscire dalla crisi postbellica.
Il fatto stesso che i governi successivi al «gabinetto della
vittoria» siano stati presieduti da Nitti e da Giolitti, e cioè dai
due uomini politici borghesi che, rispettivamente all'interno e
all'esterno del blocco interventista, avevano rappresentato i punti
di maggiore consapevolezza delle conseguenze che la partecipazione
alla guerra comportava per il paese, attesta che l'agonia dello
Stato liberale non si consumò passivamente. I programmi e gli atti
di questi due governi dimostrano, al contrario, che i tentativi
compiuti dagli esponenti della vecchia classe dirigente liberale per
trovare nuove forme nelle quali continuare ad esercitare l'antica
egemonia non furono né intellettualismi velleitari, né
anacronistici propositi di un ritorno al sistema politico
prebellico. Particolarmente se confrontati ai programmi e agli atti
contemporanei degli altri governi delle potenze vincitrici, essi
mettono in evidenza un grado di coscienza assai elevato quanto meno
delle esigenze primarie imposte dalla mutata situazione e una
conseguente volontà di provvedervi. Solo che le profonde
trasformazioni intervenute nella società italiana avevano scosso
alla radice i già precari equilibri sui quali si reggeva il vertice
del potere, alterandone le componenti fondamentali. La stessa
capacità di previsione circa gli esiti della crisi ne fu
universalmente sconvolta. Per di più, presso uomini nei quali anche
il disegno politico più audace tendeva quasi naturalmente a tradursi
e degradarsi nei termini della manovra che doveva assicurarne il
successo, e posti alla sommità di un apparato dello Stato abituato a
muoversi entro tale dimensione, la necessaria settorialità e
immediatezza delle soluzioni di volta in volta proposte conferiva
carattere di espediente ai provvedimenti che essi presero. Se è vero
che la crisi postbellica dell'Italia non doveva necessariamente
sboccare nel fascismo, resta tuttavia indiscutibile che erano scesi
nel campo della lotta sociale e politica protagonisti forse ancora
incapaci di imporre un loro gioco, ma assolutamente non riducibili
sotto le regole sia pure ammodernate di quello antico.Lo sforzo di
Nitti fu quello più audace, perché le sue proposte di rinnovamento
tendevano a coprire un arco assai ampio di problemi, anche se con
alcuni vuoti e con significative priorità. Si è spesso contrapposta
la politica interna autoritaria di Nitti alla sua politica estera
democratica. È da approfondire l'origine di questa contraddizione,
che forse consiste meno in un'incoerenza di natura programmatica e
assai più nella sfasatura tra il programma complessivo di Nitti e la
natura delle forze interne ed esterne che esso si riprometteva di
mediare.
In politica estera Nitti si dimostrò subito desideroso di chiudere
la partita della guerra, in modo tale da far uscire l'Italia, se non
dalla sua posizione subalterna, quanto meno dall'isolamento in cui
era entrata dopo il trattato di Versailles, cercando di impedire
inoltre che la politica internazionale continuasse ad essere motivo
di agitazione interna. A tal fine riallacciò più stretti rapporti
con Francia, Inghilterra e Stati Uniti, ripromettendosi
dall'accantonamento delle iniziali rivendicazioni territoriali un
più regolare rifornimento delle materie prime essenziali alla
economia italiana e il necessario sostegno internazionale per
procedere al pareggio della bilancia dei pagamenti. D'altra parte,
riottenuta la fiducia delle potenze alleate, Nitti si ripropose un
adeguamento degli indirizzi tradizionali della politica estera
italiana alla nuova situazione postbellica. Ricercò i contatti con
la Germania al fine di stipulare accordi di carattere commerciale,
ma soprattutto rifiutò di accodarsi alla politica di intervento
contro la Russia sovietica promossa dalle potenze occidentali,
bloccando il corpo di spedizione già approntato dai suoi
predecessori1.
Studioso della ricchezza nazionale e indagatore dell'influenza del
capitale straniero in Italia, Nitti sapeva fin troppo bene come
l'economia italiana, ritardata nel suo sviluppo e uscita cresciuta
ma instabile dalla guerra, avrebbe potuto acquistare un suo
equilibrio solo trovando forme di collegamento e di cooperazione coi
paesi vinti non meno che con i paesi vincitori. Di qui il suo
tentativo di far rivivere, in un contesto di rapporti sconvolti da
una guerra mondiale e dalla prima rivoluzione socialista della
storia, il tipo di presenza dell'Italia nel quadro internazionale
già affermatosi nel primo decennio del secolo. In questo caso le
preoccupazioni per la stabilità interna erano assai maggiori di
quelle che avevano dettato gli indirizzi della politica giolittiana
in campo internazionale. Ne fu dimostrazione il fatto che, mentre
questi piani di politica estera ebbero effetto soprattutto per
quanto concerneva il loro aspetto di normalizzazione, in politica
interna Nitti si impegnò con tutte le sue forze e fini col giocare
il suo destino.
Le aperture e gli atti di rinnovamento compiuti da Nitti in politica
interna furono numerosi e di molteplice natura. Non solo portò a
compimento fino a renderlo universale l'allargamento del suffragio,
ma con l'introduzione della proporzionale e con l'ingiunzione ai
prefetti di non interferire nella campagna elettorale provocò la più
compiuta espressione politico-parlamentare dei partiti di massa2.
Varò il decreto Visocchi per la distribuzione di terre ai contadini
associati in organizzazioni cooperative, impose il prezzo politico
del pane, rese obbligatoria l'assicurazione contro la
disoccupazione e quella di invalidità e vecchiaia, e in generale
attuò una serie di misure di legislazione sociale e protezione del
lavoro. Tutto ciò, che avrebbe ben potuto costituire il
prolungamento più audace e avanzato dell'ultimo ministero Giolitti,
rappresentava però ben poco nella mutata situazione postbellica. «Il
dramma di Nitti - è stato giustamente osservato - fu quello di un
riformatore che va al governo proprio nel momento in cui le riforme
è difficile farle ma nessuno sembra desiderarle; o, meglio, da un
lato tutti le vogliono tutte e tutte insieme (e magari a ragione) e,
dall'altro, per le condizioni gravi ed estreme in cui ci si trova,
c'è anche chi reclama la rivoluzione. Così il suo governo si trovò
stretto tra il sovversivismo dei ceti medi e l'atteggiamento
rivoluzionario o, per essere più precisi, parainsurrezionale delle
masse popolari, mentre sullo sfondo molti dei centri più importanti
del potere militare ed economico infittivano la trama della
reazione»3.
Va precisato, inoltre, che la sfida dell'impopolarità che Nitti
accettò con coraggio, ma non senza un certo compiacimento
intellettualistico, lanciando la parola d'ordine di «consumare di
meno e produrre di più», traeva origine dalla sua estraneità dalle
masse e anche da un relativo isolamento da numerosi gruppi della
borghesia. Strettamente legato alla Banca di sconto e ai gruppi
idroelettrici, egli forni con tale atteggiamento anche una riprova
della divisione all'interno della classe dominante italiana e della
lotta che nel suo seno si svolgeva. Né i provvedimenti riformatori
che egli adottò riuscirono a creargli una base di consenso più ampia
o alternativa. Il decreto Visocchi fu promulgato più per
regolarizzare la situazione di fatto creata dalle occupazioni di
terre nell'agosto del 1919, che non per incoraggiare la formazione
della piccola proprietà contadina. Il prezzo politico del pane, il
più rilevante provvedimento «sociale» del governo Nitti, fu
revocato pochi mesi dopo la sua introduzione. La presentazione in
Parlamento della legge sulla giornata lavorativa di otto ore, mentre
segnava la ratifica di una conquista sindacale già ottenuta dalla
maggioranza delle categorie lavoratrici nel corso del 1919, non fu
seguita da una rapida approvazione. La stessa concessione del
suffragio universale e lo svolgimento di quelle che Nitti vantò come
le elezioni più libere che si fossero mai svolte nella storia
dell'Italia unita, ebbero conseguenze che travalicarono di gran
lunga le intenzioni del loro promotore. Dopo che la Camera uscita da
queste elezioni risultò non meno difficilmente governabile del paese
che l'aveva espressa, a Nitti non restò aperta altra via se non
quella del ricorso sempre più frequente ai decreti-legge e
dell'istituzione di un nuovo corpo di polizia, la guardia regia, per
fronteggiare le agitazioni sociali. Furono proprio queste ultime a
mettere in crisi la realizzazione del suo programma di governo e a
concorrere alla sua caduta, nonostante i vari rimpasti ministeriali
ai quali egli procedette nella primavera del 1920. L'ininterrotta
ascesa delle lotte operaie e contadine coincise infatti con la
durata dei governi Nitti. L'occupazione delle terre da parte dei
contadini nell'Italia del latifondo (dal Lazio alla Sicilia) poneva
sul terreno questioni di natura ben diversa da quelle che i
provvedimenti riformistici nittiani avevano inteso risolvere: nella
rivendicazione al possesso della terra confluivano infatti
aspirazioni antiche dei contadini meridionali e al tempo stesso le
richieste degli ex combattenti, resi per di più consapevoli degli
ulteriori squilibri che la guerra aveva apportato nei rapporti tra
il Nord e il Mezzogiorno d'Italia. Né deve essere trascurato, in
questo quadro, ciò che di profondamente nuovo rappresentava
nell'Italia del tempo il movimento combattentistico, in quanto
autonomo tentativo di rinnovamento, reso corposo dalla consistente
adesione di ampi strati del ceto medio e delle masse contadine del
Mezzogiorno, e autorevole per la partecipazione di uomini come
Gaetano Salvemini4.
Le lotte operaie, a loro volta, non potevano essere smorzate dalla
soddisfazione di alcune esigenze di carattere normativo, in quanto
tendevano ormai a fuoruscire da un ambito strettamente sindacale
per investire l'assetto produttivo e l'insieme dei rapporti sociali,
ponendo quindi il problema del potere. Questo fu appunto il senso
dello «sciopero delle lancette», combattuto dagli operai di Torino
nell'aprile 19205. Che la posta in gioco fosse ben
superiore al motivo contingente che lo occasionò — l'istituzione
dell'ora legale nelle fabbriche — non fu percepito soltanto dagli
animatori di quello sciopero, e in primo luogo da Gramsci, ma con
sicuro intuito anche dagli esponenti più avvertiti della classe
padronale, come Gino Olivetti, segretario della Confederazione
generale dell'industria, il quale ebbe ad affermare che «in officina
non possono coesistere due poteri», individuando in pieno il
carattere politico, anzi istituzionale dello sciopero6.
Per tale motivo la sconfitta degli operai nel corso di questa
agitazione ebbe ripercussioni che incisero ben al di là di Torino e
apri un nuovo capitolo nella lotta sociale e politica del
dopoguerra. Essa segnò la prima grande vittoria della Confederazione
generale dell'industria, ricostituitasi da appena un anno (8 aprile
1919), con la partecipazione massiccia di tutta la grande industria
e della stragrande maggioranza della media e piccola impresa
industriale7: era la prima tappa di un processo di
unificazione delle forze padronali che si esprimerà successivamente
nella costituzione della Confederazione generale dell'agricoltura
(18 agosto 1920) e, più in generale, nel coordinamento della loro
azione in una comune strategia contro le classi lavoratrici. A
partire da questo momento industriali e agrari non avrebbero più
combattuto in ordine sparso, ma avrebbero fronteggiato le lotte
operaie, prive di un qualsivoglia coordinamento, sulla base di
un'organizzazione su scala nazionale e fortemente centralizzata. Si
delineavano insomma uno schieramento e una contrapposizione di
forze sociali, di fronte ai quali il tentativo di mediazione
nittiano mostrava tutta la sua anacronistica inadeguatezza.
Fu in questa situazione che l'impresa dannunziana di Fiume si
trasformò da un gesto di romanticismo politico in un cancro
destinato a espandersi in tutte le fibre del corpo del paese e a
corroderne gli equilibri già in via di disfacimento. Il
«poeta-soldato» aveva occupato la città, che né il patto di Londra
né il trattato di Versailles avevano destinato all'Italia, con un
colpo di mano del quale Nitti probabilmente non ignorò la
preparazione, ma che tollerò perché presumeva di servirsene come
pedina di scambio nella politica internazionale8. Solo
che dal 12 settembre 1919 in poi Fiume divenne a poco a poco il
punto di riferimento piri o meno obbligato di tutto ciò che vi era
di sovversivo in Italia: le schiere dei legionari di D'Annunzio si
ingrossarono di giorno in giorno con l'affluire di uomini spinti
dalle più diverse suggestioni, e se Fiume divenne «il ricettacolo di
un miscuglio eteroclito d'idealisti, di scioperati e di bricconi,
gli uni inebriati dalla loro passione patriottica, gli altri spinti
dal gusto dell'avventura o dal bisogno del godimento»9,
al tempo stesso vi conversero esponenti e aspirazioni del
sindacalismo rivoluzionario come del nazionalismo, dell'arditismo di
guerra e del combattentismo, mentre più volte circolò intorno alle
vicende fiumane persino il nome del rappresentante più prestigioso
dell'anarchismo italiano, Errico Malatesta. Paradossalmente, l'unico
fronte sul quale la vicenda di Fiume ebbe effetti estremamente
limitati fu quello internazionale, al quale sembrava originariamente
destinata. Importanti furono invece le due facce interna ed esterna
che essa mostrò destinate a segnare le sorti successive della
società e dello Stato italiani. Il dannunzianesimo non fu senza
dubbio il fascismo, sebbene il secondo traesse dal primo non solo
coreografia e gesti, riti e cerimoniale; ma il fatto che alla carica
di capi di gabinetto di D'Annunzio si succedessero un ex
sindacalista rivoluzionario come Alceste De Ambris e un
nazionalista come Giovanni Giuriati lascia intendere quali fossero
le matrici fondamentali del fiu-manesimo e come in esso si
sviluppasse quasi in vitro il processo che, attraverso il
corporativismo, saldava il nazionalismo con la demagogia sociale,
facendolo divenire per la prima volta un movimento tendenzialmente
di massa al di là del momento dell'infatuazione bellica10.
Per chi non si lasci sopraffare da una concezione della storia che
dà i processi scontati fino dal loro inizio, le vicende interne di
Fiume rappresentano il crogiuolo nel quale comincia a verificarsi la
fusione tra la base sociale dell'interventismo di sinistra
rivoluzionario e il nazionalismo, sotto il segno reazionario
imposto da quest'ultimo.
Lo sbocco di questo esperimento avrebbe potuto anche essere diverso
da quello che effettivamente fu, se esso non avesse operato come
forza catalizzatrice nella dissoluzione dello Stato italiano. Esso
mise in evidenza come gli stessi strumenti dell'apparato dello
Stato fossero alienati alle leve di comando che presiedevano loro.
L'esercito in primo luogo, cui doveva essere affidato il compito di
reprimere la sedizione, si scopri non solo restio ad eseguire un
simile ordine, ma mostrò più di un segno di simpatia e di
solidarietà nei confronti dell'iniziativa dannunziana11;
nessuna istanza dell'apparato dello Stato, del resto, andò esente da
manifestazioni di incertezza e di sbandamento, mentre anche
nell'orientamento dell'opinione pubblica si misuravano le
conseguenze dell'ondata di infatuazione favorita dall'impresa
fiumana. La «vittoria mutilata» è parola d'ordine che sorse prima
dell'impresa fiumana; ma soltanto questa riusci a conferirle la
corposità di un mito destinato ad avere una profonda suggestione di
fronte alle masse.
Il ritorno di Giolitti al potere dopo la caduta di Nitti rappresentò
un tentativo di diverso indirizzo in quanto costituì il definitivo
abbandono della linea riformatrice per una scelta di restaurazione
da parte della classe dirigente italiana. Non già che il programma
giolittiano fosse un programma di pura e semplice restaurazione. Nel
discorso che aveva tenuto a Dronero, durante la campagna elettorale
del 1919, egli si era anzi spinto più in là di ogni altro uomo
politico della borghesia italiana, aggiornando alla luce delle
modificazioni nella distribuzione della ricchezza apportate dalla
guerra il nucleo caratteristico della sua politica finanziaria e
tributaria, riprendendo l'antico progetto di collaborazione col
socialismo riformista e aggiungendovi — fatto questo indotto dal suo
neutralismo e inedito per lui, uomo di stretta fiducia della
monarchia -il proposito di rivedere l'articolo 5 dello Statuto
albertino12. Come per Nitti, però, vale anche per
Giolitti la considerazione che la dinamica delle forze in presenza
scatenata dalla guerra superava gli orizzonti delle limitate
innovazioni che essi intendevano introdurre nell'assetto politico
italiano. Con l'aggravante, inoltre, che l'illuministico programma
di «democrazia del lavoro» avanzato da Nitti fu travolto solo
parzialmente dall'eversione di destra, ma più direttamente da un
movimento di lotte popolari in ascesa, mentre Giolitti, se fu in
grado di affossare le lotte operaie e liquidare il nodo di Fiume,
per realizzare questi obiettivi non potè contare su quel controllo
dell'apparato dello Stato nel cui uso, pure, era stato maestro; ma
dovette fare ricorso al supporto della nuova forza nella quale la
classe dominante italiana cominciava a identificare sempre di più lo
strumento più idoneo al rinsaldamento del proprio potere. La nota
immagine di Giovanni Giolitti come «Giovanni Battista del
fascismo», che è passata nel senso comune, come una continuità di
mezzi, di strumenti e di fini, deve essere intesa piuttosto come
l'atto risolutore della crisi rivoluzionaria italiana, secondo il
quale una classe dominante messa nell'impossibilità di governare
come nel passato, sotto la pressione delle masse subalterne che non
vogliono più essere sfruttate come prima, finisce col passare in
altre mani l'esercizio del proprio dominio.
Giolitti cercò in primo luogo di chiudere le partite che il suo
predecessore aveva lasciato aperte : il problema del potere nei
gangli decisivi della produzione e la questione di Fiume.
Nell'estate del 1920 larghi settori del movimento operaio italiano
condividevano la valutazione dell'Internazionale comunista e dello
stesso Lenin, secondo la quale l'Italia sarebbe stata insieme con
la Germania il paese dell'Occidente capitalistico più prossimo alla
rivoluzione socialista. Nel determinare questa aspettativa si
incontravano le caratteristiche esteriori della situazione
italiana, alla cui immagine il sovrapporsi di moti operai e di
agitazioni contadine, di instabilità dei ceti medi urbani - in
realtà fenomeni privi di un minimo di coordinamento tra di loro - e
più in generale la paralisi delle principali istituzioni dello
Stato, conferiva l'apparenza di un'imminente catastrofe, e la
tendenza connaturata agli schemi di giudizio dell'Internazionale
comunista, portata a dedurre da simili manifestazioni la previsione
di un necessario sbocco rivoluzionario13. Alla luce di
questa diagnosi e di queste previsioni l'occupazione delle
fabbriche del settembre 1920 potè sembrare la principale ed estrema
occasione per la conquista del potere da parte della classe operaia
italiana. In realtà, la lotta degli operai metallurgici costituì il
supremo sforzo da parte dei lavoratori italiani per imporre alla
classe dominante una soluzione dell'assetto produttivo e
dell'organizzazione del lavoro in fabbrica e, seppure soltanto per
un attimo storico, condensò in quella che a ragione è stata
chiamata una nuova incarnazione della «grande paura», tutti i timori
e i risentimenti che gli strati non proletari della popolazione
avevano accumulato dopo la fine della guerra. La tragedia del
movimento operaio italiano consistette per l'appunto in questo: che
l'occupazione delle fabbriche, prodottasi quando già la curva
complessiva delle lotte popolari cominciava a discendere e restava
in campo soltanto il reparto più compatto e organizzato della classe
operaia, era in grado di provocare timori piuttosto che di
strappare successi, in quanto dimostrava una incapacità di aggregare
intorno a sé più vaste alleanze sociali corrispettiva alla sua
efficacia nel favorire compatti schieramenti di segno opposto14.
Due elementi concorrevano nel determinare la carenza di direzione
del movimento operaio italiano. La crisi economica, di origine
internazionale, collegata ai problemi della riconversione dalla
produzione di guerra a quella di pace, provocando la chiusura di
numerosi stabilimenti industriali, aveva accresciuto sensibilmente
il numero dei disoccupati, riducendo così in misura notevole la
forza contrattuale di un movimento sindacale impetuosamente
cresciuto all'insegna di una congiuntura favorevole e ormai abituato
a strappare importanti conquiste salariali e normative, senza
peraltro possedere un piano conseguente e di ampio respiro per lo
sviluppo dell'economia nazionale al di là di un'occupazione
ritenuta stabile nei suoi termini quantitativi. Tale limitazione
oggettiva del potere contrattuale della classe operaia era
ulteriormente accentuata dal divergere delle ipotesi di fondo,
coesistenti nei gruppi dirigenti del movimento operaio e
socialista, circa le prospettive di soluzione della crisi sociale e
politica. La lotta conclusasi con l'occupazione delle fabbriche mise
infatti a nudo e fece esplodere divisioni e contrasti che fino a
quel momento non erano emersi in tutte le loro implicazioni,
conferendo loro il suggello di una divisione non più soltanto di
indirizzi, ma di schieramenti ormai non più riconducibili ad unità15.
Giustamente gli studi più recenti hanno sottolineato come ancora
una volta il significato di questo scontro avesse rapidamente
oltrepassato i termini originari della vertenza che lo originò; ma è
estremamente significativo che, a fare di questa lotta una battaglia
il cui esito si sarebbe rivelato decisivo per le sorti della lotta
di classe ingaggiata nel 1919, non fossero questa o quella tendenza
del movimento operaio, ma piuttosto le punte più aggressive e
organizzate della classe dominante.
I metallurgici iniziarono infatti la loro agitazione semplicemente
chiedendo un rinnovo del loro contratto che puntava in prevalenza
sull'adeguamento del salario all'accresciuto costo della vita,
nonché su di una rivalutazione nelle retribuzioni delle prestazioni
straordinarie di lavoro: niente, insomma, che preludesse
direttamente alle forme che la lotta avrebbe assunto. Fu l'assoluta
intransigenza padronale, motivata con la situazione di crisi nella
quale si trovava l'industria siderurgica e meccanica e che fece leva
sulla diversità di posizioni delle varie organizzazioni sindacali
(alla piattaforma prevalentemente rivendicativa a livello nazionale
della Fiom faceva riscontro quella articolata delle organizzazioni
della Cil e dell'Usi, accompagnata in quest'ultima dalla richiesta
di una partecipazione operaia alla divisione degli utili), a
determinare una svolta nelle trattative e il rapido passaggio
dall'ostruzionismo operaio alla serrata padronale16.
L'occupazione scaturì quindi da un tentativo operaio di risposta
all'iniziativa padronale, piuttosto che da una scelta deliberata: si
trattò tuttavia di una risposta forte, nella quale si espressero una
combattività e una maturità senza precedenti. Non soltanto nel
triangolo industriale, e in primo luogo in quella Torino che era
stata ribattezzata la «Pietrogrado d'Italia», ma anche a Firenze e a
Roma, a Napoli e a Palermo, «ovunque sia una fabbrica o un
cantiere, un'acciaieria, una ferriera, una fonderia in cui si lavori
il metallo»17, le officine divennero fortilizi operai
presidiati dalle «guardie rosse», all'interno dei quali la
produzione proseguiva mirabilmente organizzata. Mai, nel corso della
storia di tutte le sue lotte precedenti, la classe operaia italiana
potè dare l'impressione di essere composta di giganti così vicini a
dare l'assalto al cielo. Però, non solo nel complesso della società
nazionale, ma anche in ogni singola città in cui i proletari in armi
vegliavano alla difesa delle fabbriche occupate, si ripeteva, non
meno drammatico e foriero di tragiche conseguenze, l'isolamento che
era stato della Comune di Parigi. Agli «stati generali» del
movimento socialista italiano, che si riunirono a Milano nel
settembre 1920, nel pieno dell'occupazione delle fabbriche, emerse
in piena luce l'impotenza conseguente a tale isolamento '. Gli
operai avevano avuto la forza di procedere all'occupazione delle
fabbriche e di gestirne la produzione; ma ciò che restava loro
interdetto era proprio la possibilità di estendere il rivolgimento
sociale dalla fabbrica alla società: essi avevano compiuto questo
atto di radicale significato politico in un momento in cui i
movimenti e le agitazioni sociali si erano ormai esauriti, senza che
alcuna forza politica si fosse rivelata capace di raccoglierne e
indirizzarne la spinta rin-novatrice. D'altra parte, gli
industriali, mentre avevano imposto lo scontro sul terreno della
forza, non si rivelarono poi in grado di sostenerlo fino in fondo su
quello stesso terreno.
Piuttosto che il punto più alto dell'ondata rivoluzionaria
postbellica, l'occupazione delle fabbriche può quindi essere
definita come il cristallizzarsi di una situazione di stallo, nella
quale nessuno dei due principali antagonisti sembrava essere in
grado di prevalere sull'altro, ma in cui, in realtà, il fattore
tempo giocava tutto a vantaggio di chi poteva giovarsi delle
diffuse conseguenze della «grande paura» per riorganizzare un
sistema di dominio che non era stato dall'avversario né manomesso né
intaccato.
Fu a questo punto che emerse il ruolo di Giolitti come esecutore
testamentario delle pendenze apertesi nel dopoguerra tanto sul
fronte interno quanto su quello internazionale, per la classe
dominante italiana. Tornato al governo nel giugno 1920, aveva
colpito il vecchio sovversivismo in una delle sue roccheforti
tradizionali, reprimendo nell'agosto 1920 la rivolta di Ancona,
insorta in solidarietà con i soldati che si rifiutavano di partire
per l'Albania, mentre di li a poco avrebbe proclamato la rinuncia
italiana alle proprie pretese in tale direzione18. Entro
il 1920 egli avrebbe pure liquidato la questione di Fiume,
raggiungendo prima un accordo con la Jugoslavia sulla base di un
netto ridimensionamento delle aspirazioni italiane (trattato di
Rapallo, n novembre 1920), e successivamente facendo sloggiare
D'Annunzio dalla città con pochi colpi di cannone sparati dalla
marina da guerra italiana19. Ma l'atto di
«normalizzazione» più rilevante compiuto da Giolitti fu il suo
atteggiamento verso l'occupazione delle fabbriche. Resistendo alle
sollecitazioni per porre fine all'occupazione, Giolitti parve
portare fino alle estreme conseguenze, cioè anche di fronte alla
manomissione dei diritti della proprietà, la sua vecchia politica
di neutralità dello Stato nei conflitti tra capitale e lavoro. In
realtà, intervenendo al momento opportuno con una proposta di
mediazione che risolveva la vertenza col riconoscimento del
«controllo operaio», contribuiva non solo ad estinguere la carica
rivoluzionaria del movimento, ma altresì a dare al padronato un
respiro che gli avrebbe consentito di riorganizzarsi e di assumere
una nuova iniziativa, questa volta al di fuori della politica di
equilibrio che egli stesso incarnava.
Chi all'inizio dell'autunno del 1920 avesse gettato uno sguardo
superficiale sulla vita politica italiana poteva avere più di un
elemento per giustificare l'impressione di un avanzato processo di
restaurazione. Liquidate le più gravi vertenze internazionali,
conclusa con l'apparente soddisfazione di tutti il più acuto
conflitto sociale del dopoguerra, sembrava davvero che lo statista
di Dronero fosse riuscito nel miracolo di fare rivivere l'Italia di
un periodo che era legato al suo nome, cancellando le tracce più
vistose di una guerra che egli non aveva voluto. Le stesse
formazioni politiche che erano uscite tanto rafforzate dalle
elezioni del 1919, i socialisti e i cattolici, poterono apparire
possibili componenti di un risorto sistema giolittiano, comunque
assai più malleabili che non di fronte all'esperienza di governo di
Nitti: se i popolari erano già entrati a far parte del ministero di
quest'ultimo, ora anche una parte dei socialisti non nascondeva di
non essere sorda al richiamo della vecchia sirena. Ma, mentre i
popolari avevano la forza di condizionare il programma giolittiano,
rendendolo il più congruo possibile ai «diritti della Chiesa» (con
l'introduzione dell'esame di Stato ad opera del ministro Croce e
con lo svuotamento della nominatività dei titoli), i riformisti
ancora predominanti nel gruppo parlamentare erano impediti nelle
loro simpatie filogiolittiane dalla polarizzazione in senso
antagonistico della stragrande maggioranza del loro partito. Ancor
più degli equilibri parlamentari era però mutato il vero e proprio
strumento privilegiato del sistema giolittiano, e cioè la macchina
dello Stato con la quale egli aveva di fatto governato fino al 1914.
Impressionante era stato l'accrescimento degli organici
dell'amministrazione dello Stato negli anni della guerra, che aveva
visto i dipendenti pubblici salire dai 339203 del 1915, ai 619440
della fine del 1920, con un incremento pari all'82 per cento. Se una
parte rilevante di questo aumento era dovuta al dilatarsi dei
servizi connessi con lo sforzo bellico, in particolare quelli
ferroviari, si trattò tuttavia di un processo che investi l'intero
apparato dello Stato, tendendo a riprodurre in tutte le sue nuove
competenze le caratteristiche proprie alla forma centralizzata che
esso aveva assunto fino dalla sua costituzione.
Accanto agli antichi uffici - scriveva Giolitti in una nota apposta
al disegno di legge sulla riforma della pubblica amministrazione da
lui stesso presentato -se ne sono continuamente creati altri, per lo
più improvvisati, sorti per iniziativa di pochi uomini
dell'Amministrazione o ad essa estranei e provenienti dagli ambienti
della guerra, della politica, degli altari, e pertanto senza seria
preparazione, senza matura connessione, senza adeguati controlli.
Si è avuto così lo Stato armatore, commerciante, industriale,
fabbricante, non solo di armi e di munizioni, ma di molte altre
cose, e venditore dei generi più svariati all'ingrosso e al minuto20.
Colpirono gli osservatori contemporanei particolarmente alcuni
aspetti di questa «elefantiasi burocratica» da tanto tempo temuta e
ora finalmente realizzatasi: l'enorme aggravamento della spesa
pubblica, e l'assunzione di una serie di servizi che l'opinione
liberistica dominante avrebbe voluto riservati all'iniziativa
privata. Ma si fece ben presto luce anche la consapevolezza che
l'amministrazione statale era divenuta una macchina, in qualche
misura regolata da meccanismi suoi propri, alla cui riforma sarebbe
stato difficile mettere mano21.
In realtà, si trattava di un mutamento che doveva risultare in primo
luogo di ordine qualitativo. L'afflusso indiscriminato di un
personale dal reclutamento e dalla preparazione necessariamente
incontrollati (l'unico elemento di continuità col passato era
rappresentato dall'accentuarsi della componente meridionale) ne
faceva uno strumento che non presentava più spiccate
caratteristiche di «spirito di corpo» ed era anche per questo più
difficilmente governabile proprio nel momento in cui entravano in
crisi le forme e i rapporti di consenso allo Stato parlamentare. Il
movimento sindacale è stato studiato anche per gli anni del
dopoguerra soprattutto nelle sue componenti sociali primarie, gli
operai e i contadini. Probabilmente le tendenze all'organizzazione
di categoria degli strati intermedi e dei ceti impiegatizi, che le
cronache sindacali del tempo registrano con una certa evidenza, sono
indici, oltre che della spinta generalizzata all'associazione che
caratterizzò la società italiana in quegli anni, anche di uno
scollamento del tessuto connettivo dell'apparato statale. Si era di
fronte, in ultima analisi, ad un altro aspetto della crisi dello
Stato uscito dall'unificazione nazionale, forse non meno importante
di quello messo in evidenza dalle elezioni del 1919. Lo Stato
accentrato aveva dimostrato una possibilità di funzionare
strettamente connessa col suo carattere oligarchico: il venir meno
di questo tratto caratteristico aveva conseguenze vistose non meno
sul piano amministrativo che su quello parlamentare. Si apriva così
un vuoto che avrebbe attratto lo stesso apparato dello Stato, in
tutte le sue istanze, verso nuove forme di riaggregazione della
classe dirigente e di cui il fascismo avrebbe largamente
beneficiato.
Non a caso proprio le elezioni per il rinnovamento dei consigli
comunali e provinciali, svoltesi il 31 ottobre e il 7 novembre
1920, misero in luce che la spinta operaia e contadina aveva
raggiunto un tetto e che, per converso, la borghesia veniva
riorganizzandosi su basi reazionarie. Le amministrazioni comunali e
provinciali non avevano perduto durante la guerra la loro importanza
di punto di incontro tra la politica generale dello Stato e la
spinta delle masse. Anzi, mentre l'impegno suscitato dallo sforzo
bellico aveva rappresentato l'occasione per allargare la loro sfera
d'intervento, l'acutezza della lotta sociale e politica nel
dopoguerra ne aveva fatto una delle sedi nelle quali si avvertivano
di più le tensioni esistenti nel paese, e quindi una posta
particolarmente ambita. Soprattutto nelle regioni in cui il
movimento dei lavoratori aveva raggiunto una maggiore espansione e
una più elevata combattività, esse rappresentavano il centro di un
sistema di potere verso il quale si accumulavano da una parte
rancori e aspirazioni di rivincita, non solo simbolica, in chi
aveva visto intaccato il proprio dominio di classe, e dall'altra la
sanzione dei propri successi in chi era portato dalle tradizionali
strutture del proprio movimento a convogliare in questo delimitato
orizzonte le aspirazioni al rinnovamento della società. Contribuì
inoltre a radicalizzare lo scontro la circostanza che nelle elezioni
amministrative non fu applicato il sistema proporzionale già
introdotto per le elezioni politiche. Ne fu favorita la tendenza
alla formazione di blocchi di concentrazione borghese, in funzione
dichiaratamente antisocialista, nei quali si espresse nella maniera
più compiuta l'aggressività dei ceti dominanti resa più acuta dalla
«grande paura» recentemente avvertita con l'occupazione delle
fabbriche. Sturzo ingaggiò una battaglia che risultò
complessivamente vittoriosa per affermare, di contro alla tradizione
dei blocchi clerico-moderati, la tattica intransigente del partito
popolare, ma non potè impedire che nei due maggiori centri
industriali d'Italia tale linea subisse una deroga: a Torino, dove i
cattolici confluirono nel blocco d'ordine, contribuendo in maniera
determinante alla sconfitta di misura dei socialisti, e a Milano,
dove i popolari furono costretti a proclamare l'astensione
dall'ultima battaglia antisocialista combattuta sul letto di morte
dal cardinale Ferrari.
I risultati elettorali furono comunque tali da modificare
profondamente la direzione politica dei comuni e delle province
italiane. Su 8327 comuni, i socialisti ottennero la maggioranza in
2022 comuni e i popolari in 1613; su 69 consigli provinciali, i
popolari ne conquistarono io e i socialisti 2622. Anche
prescindendo dalle minoranze conquistate dai due partiti di massa, è
rilevante il fatto che essi con queste elezioni venissero a
detenere la direzione del 44 per cento dei consigli comunali e del
52 per cento di quelli provinciali d'Italia. È pure significativo,
inoltre, che tutti i 36 consigli provinciali diretti dai due partiti
facessero parte dei 44 dell'Italia centro-settentrionale e che in
tali regioni i 3239 consigli comunali da essi conquistati
equivalessero in percentuale al 56 per cento. Mentre i popolari
traducevano in elemento di direzione autonomo la forza raggiunta
nelle zone tradizionalmente «bianche», fino a quel momento spesa a
favore dei blocchi clerico-moderati (5 consigli provinciali su 8, e
333 comuni su 797 nel Veneto), i socialisti, oltre a confermare la
loro egemonia in Emilia e nella valle padana, la estendevano alla
Toscana e ad altre zone dell'Italia centrale (rispettivamente 7 e 6
su 8 consigli provinciali, e il 63 e 52 per cento dei comuni in
Emilia e Toscana, con forti affermazioni nelle Marche e in Umbria,
cui sono da aggiungere quelle ottenute in Piemonte e in Lombardia,
le regioni operaie per eccellenza). Per i gruppi dominanti locali,
per i notabili di estrazione prevalentemente agraria, che già negli
anni del dopoguerra avevano dovuto adattarsi alla volontà delle
leghe oltre che alla pressione costante delle masse, la perdita
della direzione dei comuni, e spesso di ogni influenza su di essi,
fu avvertita come il segno di una modificazione dei rapporti di
potere irrevocabile in termini di lotta elettorale. D'altra parte è
rivelatore che il successo socialista fosse di gran lunga più
corposo nelle province che nei comuni: le grandi città, con le
uniche eccezioni di Milano e di Bologna, del resto già conquistate
dai socialisti nel 1914, dimostravano in particolare che il blocco
conservatore sapeva resistere all'ascesa dei partiti di massa e
coagulare intorno a sé vaste fasce elettorali del ceto medio,
delineando i primi centri di aggregazione della imminente
controffensiva. In questo senso, le cifre delle elezioni
amministrative, se poterono dare la sensazione immediata e quasi
fisica della profonda trasformazione portata dalla guerra nei
rapporti tra le forze politiche e sociali specie in alcune regioni,
costituirono al tempo stesso la riprova di un riflusso già in atto:
rispetto ai risultati delle elezioni politiche del 1919 i socialisti
aumentarono sensibilmente alle amministrative del 1920 in alcune
grandi città, come Genova, Napoli, Messina e Palermo, ma al tempo
stesso, stando sempre al voto del 1919, essi avrebbero dovuto
conquistare la maggioranza, oltre che a Milano, Bologna e Livorno,
anche a Torino (con il 62,8 per cento), a Venezia e a Firenze23.
Il 7 novembre 1920, due mesi dopo la conclusione della lotta per
l'occupazione delle fabbriche, le bandiere rosse issate in segno di
trionfo sui balconi di tante sedi di amministrazioni comunali e
provinciali potevano far ritenere che la spinta rivoluzionaria del
proletariato italiano fosse ancora in ascesa e conoscesse quella
estensione dalla fabbrica al paese che la lotta dei metallurgici
non aveva registrato. Mentre però queste illusioni erano destinate
presto a svanire, l'immediato scatenarsi della reazione doveva
dimostrare che si era soltanto raggiunto il punto in cui una
minaccia di trasformazione incapace di infrangere gli equilibri sui
quali poggiava il potere delle classi dominanti, apriva la strada a
un processo di riorganizzazione su nuove basi di questo stesso
potere.
Note
1 Sulla politica estera di Nitti cfr. Vivarelli, Il dopoguerra in
Italia e l'avvento del fascismo cit. In particolare
sull'atteggiamento di Nitti verso la Russia sovietica, si vedano R.
Mosca, La diplomazia italiana e la Russia dalla Rivoluzione
d'ottobre alla marcia su Roma, e G. Petracchi, Alle origini dei
rapporti fra l'Italia e la Russia sovietica. La politica del governo
Nitti verso la Russia, Riugno 1919 - giugno 1920, relazioni al VI
Convegno degli storici italiani e sovietici (Venezia, 2-5 maggio
1974).
2 Occorre tuttavia precisare che a votare furono meno di sei
milioni di persone, e che d'altra
parte Nitti non prevedeva un
simile risultato: «Le elezioni, - scriveva infatti a Tittoni il 9
settem
bre 1919, - saranno un trionfo dei partiti dell'ordine e
avremo non più che sessanta socialisti, di
cui la metà riformista
disposta a partecipare al governo. I repubblicani scompariranno o
quasi.
I cattolici verranno piuttosto numerosi, forse cinquanta»
(cit. in P. Aatri, Nitti, D'Annunzio e la
questione adriatica
(1919-1920), Milano 1959, p. 178).
3 E. Galli Della Loggia, Nitti, in I protagonisti
della storia d'Italia. Lo Stato unitario: il No
vecento, a cura di
E. Ragionieri, Milano 1974, p. 232.
4 Cfr. Sabbatucci, I combattenti nel primo dopoguerra cit., e, per
una situazione particolare ma grandemente significativa, S. Sechi,
Dopoguerra e fascismo in Sardegna. Il movimento autonomistico nella
crisi dello Stato liberale (1918-1926), Torino 1969.
5 Sullo «sciopero delle lancette» cfr. P. Spriano,
Gramsci e «L'Ordine nuovo», Roma 1965,
pp. 100 sgg.
6 Cfr. A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo.
L'Italia dal 1918 al 1922, Bari 1971, p. 133.
7 Su queste vicende si veda Abrate, La lotta
sindacale nell'industrializzazione in Italia cit., pp.
199 sgg-
8 Secondo Alatri, Nitti, D'Annunzio e la questione
adriatica cit., pp. 185 sgg., Nitti ignorava la preparazione
dell'impresa dannunziana, ma era al corrente di movimenti
nazionalisti per un colpo di Stato a Fiume, in atto da alcuni mesi.
9 Tasca. Nascita e avvento del fascismo cit., p.
78. Su questi problemi cfr. anche F. Cordova,
Arditi e legionari
dannunziani, Padova 1969.
10 Per i punti di riferimento essenziali del problema cfr. N.
Valeri, D'Annunzio davanti al fa
scismo, con documenti inediti,
Firenze 1963; Carteggio D'Annunzio-Mussolini (1919-1938), a cura
di
R. De Felice e E. Mariano, Milano 1971; R. De Felice. Sindacalismo
rivoluzionario e fiumane-simo nel carteggio De Ambris - D'Annunzio
(1919-1922), Brescia 1966.
11 Cfr. Alatri, Nitti, D'Annunzio e la questione adriatica
cit. Sull'esercito italiano in questo
periodo (ma senza riferimenti
all'impresa di Fiume) si veda G. rochat, L'esercito italiano da
Vit
torio Veneto a Mussolini (1919-1925), Bari 1967.
12 Si veda il discorso di Dronero in Giolitti, Discorsi
extraparlamentari cit., pp. 294-327.
13 Sul carattere della crisi del 1919-20 e sul giudizio del
Komintern su di essa, cfr. M. L. Salvadori, Rivoluzione e
conservazione nella crisi del 1929-1920, in Problemi di storia
dell'Internazionale comunista (1919-1939). Relazioni tenute al
Seminario di Studi organizzato dalla Fondazione L. Einaudi (Torino,
aprile 1972), a cura di A. Agosti, Torino 1974, PP. 33-58.
14 Sul tema si veda P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche,
settembre 1920, Torino 1964. Significativo l'atteggiamento tenuto in
questa occasione non solo dalle autorità ecclesiastiche e dal
pattino popolare, ma, dopo un primo momento, dallo stesso sindacato
cattolico: cfr. P. G. Zunino, L'atteggiamento dei cattolici di
fronte all'occupazione delle fabbriche, in «Rivista di storia
contemporanea», ir, 1973, pp. 186-215.
15 Cfr. G. Bosio, La grande paura. Settembre 1920: l'occupazione
delle fabbriche nei verbali inediti delle riunioni degli Stati
generali del movimento operaio, Roma 1970.
16 Sugli orientamenti del padronato, cfr. V. Castronovo, La grande
industria: i giochi interni e linea di fondo, in 1920. La grande
speranza cit., pp. 1198-1221.
17 Spriano, L'occupazione delle fabbriche cit..
18 Cfr. Bosio, La grande paura cit., p. 60.
19 Sulla rivolta di Ancona si veda E, Santarelli, Le Marche
dall'unità al fascismo. Democrazia repubblicana e movimento
socialista, Roma 1964, pp. 238 sgg. Su queste vicende (ma
significativamente con poco spazio riservato all'impresa dannunziana
e alla sua liquidazione) si veda M. G. Melchionni, ìm politica
estera di Carlo Sforza nel 1920-21, in «Rivista di studi politici
internazionali», XXXVI, 1969, pp. 547 sgg.
20 camera dei deputati, segretariato generale, Le inchieste
parlamentari e governative sul problema della burocrazia nel primo
dopoguerra italiano, Roma 1969, p. 13 e - per i dati sopra citati -
p. 11.
21 Cfr. L. Einaudi, Cronache economiche e politiche di un
trentennio cit., voi. VI: 1921-1922, Torino I966, pp. 343-46.
22 Cfr. U. Giusti, Le correnti politiche italiane attraverso due
riforme elettorali dal 1909 al 1921, Firenze 1922, p. 32.
23 Cfr. Giusti, Le elezioni generali amministrative del
settembre-ottobre 1920 in alcuni grandi comuni italiani, in
«Bollettino dell'Unione statistica delle città italiane», VIII 1921,
n. 1, pp. 4-6, e J. Petersen, Elettorato e base sociale del fascismo
italiano negli anni venti, in «Studi storici», XVI I975, p. 631.
[...]
2. L'ora di Mussolini.
L'apparizione del fascismo come elemento rilevante nella lotta
sociale e politica avviene, si può dire, d'improvviso nell'autunno
del 1920, ed esso si configura immediatamente come movimento di
reazione armata che nello spazio di pochi mesi travolge e
distrugge, mediante una sistematica offensiva militare, tutti i
maggiori fortilizi del movimento operaio e contadino italiano. Nella
primavera del 1921 l'esito di questa operazione è già scontato e il
sistema di potere economico, sociale e politico faticosamente
costruito da generazioni di socialisti italiani è radicalmente
sconvolto:
L'azione socialista d'anteguerra e il successo socialista del
dopoguerra avevano creato in Italia - all'epoca del telefono e
della ferrovia - diverse centinaia di piccole «repubbliche», di
«oasi» socialiste senza comunicazioni tra loro, come nel Medioevo,
ma senza i bastioni che difendevano allora le città. Il socialismo
risultava dalla somma di qualche migliaio di «socialismi» locali. La
mancanza di una coscienza nazionale compiuta, il campanilismo
municipale hanno costituito un gravissimo handicap per il socialismo
italiano. Il fascismo si adatta esso pure alle condizioni locali,
per una specie di mimetismo, ma ha sul movimento operaio una
immensa superiorità colle sue possibilità di spostamento e di
concentrazione basate su una tattica militare. I sessantatre comuni
della provincia di Rovigo, la provincia di Matteotti, tutti in mano
dei socialisti, sono occupati uno dopo l'altro senza che mai l'idea
venga loro di unirsi per opporsi, nel punto minacciato, alle forze
superiori. Le campane non hanno mai suonato come all'epoca della
Grande Rivoluzione, per dare l'allarme ai contadini; nella valle del
Po, la «grande paura» non ha fatto che aggravare l'isolamento.
Trenta, cinquanta fascisti armati sono in ciascun paese, al momento
in cui arrivano, più forti dei lavoratori locali. I fascisti sono
quasi tutti degli arditi e degli ex combattenti, guidati da
ufficiali; sono spesso trapiantati, come lo si è al fronte, e
possono vivere ovunque. I lavoratori, al contrario, si agglomerano
intorno alla loro Casa del popolo, come altre volte le capanne dei
contadini attorno al castello: ma il castello difendeva, sia pur
angariandolo, il villaggio: la Casa del popolo, invece, ha bisogno
di essere difesa. I lavoratori sono legati alla loro terra, ove
hanno, nel corso di lunghe lotte, realizzato conquiste ammirevoli.
Questa situazione lascia al nemico tutte le superiorità: quella
della offensiva sulla difensiva, quella della guerra di movimento
sulla guerra di posizione. Nella lotta tra il camion e la Casa del
popolo, è il primo che deve vincere e vincerà1.
Questa sorta di istantanea sulla tecnica della guerriglia civile
condotta dallo squadrismo fascista, mentre riproduce efficacemente
il fattore sorpresa che esso rappresentò e illumina le carenze
rivelate dall'impatto con esso del movimento dei lavoratori
italiani, tende a mettere in ombra, come del resto un po' tutta
l'opera di Tasca, i numerosi elementi che concorsero a determinare
la vittoria del fascismo, privilegiando il tema dell'autocritica
socialista. In realtà, il carattere fulmineo del Blitzkrieg
fascista non deve occultare la visione della genesi profonda del
movimento e della sua affermazione.
«Fascismo» entra, a partire da questo momento, nel vocabolario
politico italiano e internazionale come parola che designa un
movimento di destra, anzi di un radicalismo della Destra eversiva. A
conferirgli questo significato e a fargli compiere questa evoluzione
dall'originario significato democratico e di sinistra, che gli era
stato proprio nella storia italiana del secolo XIX, altri non era
stato se non il suo fondatore Benito Mussolini. Sull'itinerario
politico dell'ex direttore dell'«Avanti!» tra guerra e dopoguerra si
è accumulata una letteratura sterminata, in cui molto spesso hanno
continuato a vivere le connotazioni polemicamente indirizzate a
sottolineare il succedersi dei voltafaccia mussoliniani1. Che questi
momenti non mancassero, è indubbio in quanto facevano parte della
natura dell'uomo, abituato a considerare le posizioni politiche che
di volta in volta sosteneva come meri strumenti di affermazione
individuale, piuttosto che come parti di una linea di condotta
conseguente. È però estremamente dubbio che sia necessario
attendere l'esito della lotta per l'occupazione delle fabbriche per
vederlo deporre i panni del rivoluzionario: colui che aveva definito
se stesso «l'homme qui cherche», ormai da tempo aveva fatto
approdare la sua ricerca a lidi ben distanti dal sovversivismo
originario. Vano sarebbe cercare di segnare una periodizzazione
della sua vita attraverso la misurazione dei toni rabbiosamente
anticapitalistici o delle pose demagogiche volte a guadagnargli la
simpatia delle folle, perché tutta la sua carriera sarà, fino
all'ultimo, intrisa di un miscuglio di propositi e di risentimenti
tale da rendere per lui stesso estremamente labile il confine tra
verità e propaganda. Né gli verrà mai meno l'arte di suggestionare
uomini e masse, praticata negli anni dell'apprendistato socialista,
da lui utilizzata per annientare il movimento dal quale proveniva.
Ma a chi guardi, al di là di tutto questo, alla sostanza reale della
sua evoluzione politica non potrà sfuggire che essa ha due poli di
riferimento obbligati, che ne costituiscono rispettivamente il punto
d'arrivo e di partenza: la lotta contro il movimento operaio
organizzato e il ralliement al programma produttivistico del
nazionalismo.
Guardata in questa luce, la sua tumultuosa e apparentemente
tormentata biografia dopo il 1914 presenta più anfrattuosita
psicologiche che vere e proprie oscurità politiche. Se l'espulsione
dal movimento operaio aveva rappresentato una obbligata scelta di
campo in negativo, l'adozione del programma nazionalista,
confortata dalle cospicue sovvenzioni elargite al «Popolo d'Italia»
dai magnati dell'industria pesante2, l'aveva costituita in
positivo. Particolarmente dopo Caporetto e dopo la rivoluzione
bolscevica in Russia, i margini per la propaganda «rivoluzionaria»
si erano ristretti per Mussolini al punto da lasciare spazio
soltanto a manovre di copertura per le manifestazioni
dell'aggressiva campagna antisocialista che egli guidava sul fronte
interno e con una subordinazione sempre maggiore ai problemi della
politica estera. Lo stesso programma dei Fasci di combattimento del
23 marzo 1919, che è stato tanto spesso invocato quale testimonianza
dell'originario radicalismo del fascismo, contiene in realtà un
singolare miscuglio di rivendicazioni correnti nei programmi
«diciannovisti» - dalla costituente al suffragio universale maschile
e femminile, dalla giornata lavorativa di otto ore al sequestro
degli illeciti profitti di guerra - cui sovrasta però la richiesta
di una «politica estera nazionale intesa a valorizzare nelle
competizioni pacifiche della civiltà la nazione italiana nel
mondo»3. Forse soltanto la lotta scatenata contro l'interventismo
democratico dal «Popolo d'Italia» nei mesi di conclusione del
trattato di pace dà la misura della funzione di punta di diamante
nella propagazione e nell'affermazione del programma nazionalista
assunta da Mussolini. Di fronte a tutto questo l'esaltazione
indiscriminata e la presentazione in termini di rivoluzione dei
principali movimenti del dopoguerra non ubbidivano soltanto al gusto
parolaio del loro autore, ma corrispondevano anche agli stati
d'animo e alle aspirazioni di coloro cui Mussolini si rivolgeva.
L'entità e la diffusione dei primi fasci furono limitate e
ristrette, ma non per questo meno significative per il processo di
dissoluzione e di ricomposizione delle forze sociali e politiche
italiane. Costituitisi nelle maggiori città dell'Italia
centro-settentrionale, i primi fasci di combattimento contarono
sull'adesione di uomini - per lo più ex combattenti e comunque nella
stragrande maggioranza giovani o giovanissimi - cui non costituiva
impedimento il provenire e spesso anche il continuare ad appartenere
a gruppi e partiti diversi, accomunati da una rivendicazione del
proprio ruolo personale e delle proprie ambizioni che trovava il
suo fondamento in una sorda e decisa avversione contro la classe
operaia, non meno che nell'esaltazione dell'esperienza e del
significato della guerra: repubblicani e futuristi, nazionalisti e
sindacalisti rivoluzionari, ex socialisti e interventisti
democratici, ex anarchici, arditi e studenti cominciarono a trovare
in questi fasci un crogiuolo che li faceva scoprire più simili tra
di loro di quanto potessero indicare le rispettive provenienze. Non
tutti ressero al calore di quella fusione, ma pochi tornarono ai
luoghi di provenienza. Si riflettevano in realtà in questi
spostamenti molecolari tendenze maturate nella piccola borghesia
urbana durante la guerra ad abbandonare un ruolo subalterno e di
supporto alle classi sociali e a forze politiche antagonistiche, per
crearsi uno spazio autonomo e privilegiato, motivato con una
generica aspirazione di svecchiamento delle strutture economiche e
degli istituti politici.
Se l'insorgere della questione di Fiume e l'apparire della stella di
D'Annunzio costituirono per il neonato movimento fascista una causa
di ritardo nell'avviato processo di unificazione di tutte queste
tendenze, se il governo dannunziano a Fiume sembrò ribadire
l'eclissi di Mussolini, decretata dalla sconfitta subita alle
elezioni del 1919, pure tra il 1919 e il 1920 per un verso usci
consolidato il quadro originario del movimento, per un altro esso si
arricchì di nuovi seguaci. Mussolini dimostrò nel corso di tutta la
vicenda di Fiume quella che si configurò come la sua maggiore dote
politica: la capacità di sapere attendere per giocare la propria
carta al momento opportuno, il destreggiarsi tra tutti i possibili
concorrenti senza combatterne apertamente alcuno, ma facendosi
riconoscere come diverso da ciascuno degli altri, uscendo allo
scoperto soltanto dopo avere saggiato la disponibilità della vecchia
classe dominante ad una decisa svolta restauratrice, avendo
l'accortezza di presentarsi come un semplice strumento, in attesa di
assurgere al ruolo di protagonista. Ricevuto da Giolitti, nella fase
conclusiva della vicenda fiumana, un messaggio che non lasciava
adito a dubbi circa la volontà di procedere ad una liquidazione di
tutte le pendenze belliche con una scelta di carattere conservatore
per puntare sulla lotta sociale e politica all'interno del paese,
Mussolini rifiutò di farsi puro e semplice esecutore di questo
programma di restaurazione. Ma se il programma di Giolitti potè
consistere ad un certo momento nell'utilizzare il fascismo per quel
ridimensionamento di socialisti e popolari che era condizione
indispensabile per il ricostituirsi dei vecchi equilibri politici,
Mussolini, nel realizzare la parte a lui affidata, si spinse assai
più lontano, e forgiando nel corso di quest'opera una forza che
trovava la sua efficacia nell'essere uno strumento di repressione
armata, incontrava un elemento di saldatura col desiderio di
revanche del padronato agrario e in generale di tutti quei ceti che,
dopo avere provato la paura a distanza dell'occupazione delle
fabbriche, avevano visto nell'esito delle elezioni amministrative
dell'autunno 1920 la sanzione politica, sul terreno delle
istituzioni, di un biennio di agitazioni sociali.
Sebbene Milano sia stata la culla del fascismo, non è certo un caso
che la geografia della sua espansione armata coincida con quella
delle lotte agrarie e quindi di una maggiore densità delle
organizzazioni contadine socialiste e cattoliche, delle
amministrazioni comunali e provinciali socialiste e popolari: i
fatti di Palazzo d'Accursio in primo luogo, ma anche quello che fu
il loro corrispondente « minore » in uno dei più forti centri
«rossi» del Meridione, Castellammare di Stabia, ne costituiscono
una riprova esemplare, confermando al tempo stesso il carattere di
risposta che lo squadrismo ebbe nei confronti di quella sanzione sul
piano istituzionale delle lotte contadine e operaie che furono le
elezioni amministrative del 19205.
Da Bologna - è stato scritto - il fascismo si diffuse con la
velocità di un contagio lungo la via Emilia: nel giro di poche
settimane Modena, Reggio Emilia, Parma, Cremona e Pavia videro la
crescita dei fasci che, sebbene spesso di dimensioni modeste, erano
però invariabilmente vigorosissimi. Da Ferrara il movimento si
allargò verso Nord in direzione di Mantova, e attraverso il Veneto
sino a Rovigo, Padova, Verona e Vicenza. Tra le diverse province
erano frequenti i contatti diretti... Dove non ci fu contatto
diretto, fu tuttavia soprattutto l'esempio dello squadrismo
vittorioso ad attirare l'attenzione e a sollecitare l'imitazione.
In Toscana l'azione delle squadre si intensificò a partire dalla
fine di febbraio. Centro operativo era Firenze, e gli obiettivi da
un lato Livorno, Pisa e Carrara, e dall'altro, a sud, attraverso le
province di Siena e Arezzo, l'Umbria, dove alla fine di aprile
Perugia e Terni erano solidamente in mano fascista6.
Questi i punti di partenza del dilagare del fascismo. Se lo
squadrismo mosse in genere dalle città, esso dipese tuttavia
dall'inizio della reazione agraria contro i movimenti di occupazione
delle terre e delle cascine (cosi nel novembre 1920 a Cremona, dove
il movimento contadino fu guidato dalle organizzazioni cattoliche,
capeggiate da Migliori), la cui importanza non è stata forse
adeguatamente sottolineata sinora in sede storica7. Elemento
determinante della riorganizzazione e dello sviluppo in nuove forme
del movimento fascista fu dunque il sostegno della proprietà
terriera; su questa connessione l'indagine storica ha fatto una
luce che può essere considerata definitiva: la grande proprietà
terriera diede alle squadre d'azione fasciste per le loro spedizioni
punitive mezzi, punti d'appoggio e uomini. Rivelatori del carattere
in primo luogo agrario dello squadrismo fascista sono tra l'altro il
crollo vertiginoso degli scioperi nell'agricoltura (da 189 scioperi
con oltre un milione di disoccupati nel 1920 a 89 scioperi e 80000
scioperanti nel 1921) rispetto al calo meno sensibile nell'industria
(da 188161300 000 a 1045 e 645 000)8 nonché quello corrispondente
degli organizzati nella Federterra, scesi da 760 000 a 293 000,
mentre la Fioe passò da 176 000 a 138 000, la Fiom da 160 000 a 129
000 e la Fiot da 145 000 a 88 0009.
Tutto ciò non può tuttavia porre in secondo piano i complessi
meccanismi sociali messi in moto nella società italiana da questo
drenaggio nel fascismo degli strati dominanti la grande proprietà
fondiaria. La rottura del fronte popolare provocata dall'offensiva
armata del fascismo faceva tornare alla luce ed esplodere contrasti
antichi che la pressione delle forze lavoratrici organizzate aveva
sopito, ma non spento: bottegai e piccoli proprietari, fattori e
sensali, più in generale tutti gli stratificati e multiformi ceti
intermedi dei borghi e delle campagne, una parte stessa della
popolazione lavoratrice, che era stata trascinata non senza
contrasti al seguito del movimento, quando non addirittura nelle sue
file, sentirono riemergere nel loro intimo ataviche paure e
inconfessati rancori. Tutto ciò trovò espressione attiva nello
squadrismo fascista e manifestazioni passive negli atteggiamenti e
negli stati d'animo che ne facilitarono la vittoria. Della
composizione delle squadre d'azione occorre sottolineare non solo i
quadri direttivi, costituiti da ex ufficiali che non sapevano
ritrovare nella vita quotidiana una collocazione adeguata al ruolo
acquisito durante la guerra, ma anche i più semplici gregari:
spostati, sottoproletari e interi nuclei familiari e interfamiliari,
studenti ai quali la compagnia dei figli dei padroni offriva la
sensazione che l'ordine militare del quale erano entrati a far parte
rappresentasse già di per sé la promozione sociale alla quale
ambivano. Lo squadrismo fascista risultò in realtà una combinazione
di elementi antichi e moderni della vita italiana, o meglio un
innesto di tecnica organizzativa e militare moderna capace di fare
riemergere e di ridare forza a elementi arretrati della vita
sociale italiana.
Le opposte interpretazioni del fascismo come «rivoluzione», o
meglio come frutto improvviso della partecipazione dell'Italia alla
guerra, o come «rivelazione» di antiche tare che affondavano le loro
radici nei secoli della storia d'Italia e che il travagliato
consolidamento dello Stato unitario non era valso a estirpare,
sembrano trovare un superamento nella ricerca, promossa di recente
da studiosi stranieri, intorno alle modificazioni di alcuni
meccanismi sociali e politici, verificatesi in Italia tra la fine
dell'«età giolittiana» e il primo dopoguerra. Concentrandosi con
particolare attenzione su quegli aspetti delle origini del movimento
fascista che ne mettono in evidenza - accanto agli aspetti di
reazione di classe — le fondamenta che esso riusci a trovare nella
estensione delle basi di massa della vita sociale e politica del
paese, esse avviano anche a comporre la contraddizione, altrimenti
difficilmente spiegabile, tra la sua «modernità»
politico-organizzativa e la sua funzione di restaurazione sociale.
Sintomatico fra tutti, il caso delle campagne. Che le campagne
italiane, e con particolare intensità quelle della valle padana,
siano state teatro nel secondo decennio del secolo di una crisi
profonda all'interno della quale ciascuno dei gruppi sociali
decisivi cercava di far sentire maggiormente il proprio peso, è cosa
nota; come pure è conosciuta l'aspirazione al possesso della terra
che si diffuse in quegli anni tra i braccianti e tra i contadini
poveri di quelle zone. Il segreto della rapidità dell'affermazione
fascista consistette nell'accompagnare la reazione armata e la
distruzione fisica dell'organizzazione proletaria con la
divulgazione e con la parziale affermazione di un programma
corrispondente con tempestiva demagogia ad aspirazioni diffuse, che
la propaganda e le parole d'ordine massimalistiche avevano
alimentato, senza peraltro adeguarsi al ritmo estremamente rapido
degli sconvolgimenti sociali arrecati dalla guerra. «Guardia bianca»
della grande proprietà terriera, il fascismo seppe presentarsi con
un volto di aggressività liberatrice ai vari strati della
popolazione delle campagne esclusi dal cosmo dei braccianti
organizzati e dalla loro pretesa di esercitare un monopolio sul
mercato del lavoro. Varia fu la presa che il fascismo riusci ad
esercitare su ciascuno di questi strati nel variegato mosaico delle
campagne italiane: sui fattori più che sui mezzadri, sui braccianti
disoccupati più che sugli obbligati, sui fittavoli più che sui
salariati fissi. Nel complesso, però, gli riusci l'operazione di
coalizzare mediante una conquista attiva o una neutralizzazione,
tutte queste forze contro i più omogenei strati contadini
organizzati dalle leghe e dai sindacati socialisti, cosicché una
minoranza nel complesso assai ristretta fu capace di catalizzare
spinte vaste e assai eterogenee. Senonché la sorprendente
affermazione del fascismo agrario, che derivava la sua forza da una
presenza dinamica oltre che repressiva sul terreno locale, dalla
ristrettezza stessa degli orizzonti e dei perimetri in cui si trovò
a operare, derivò pure il suo limite come momento di aggregazione
del movimento fascista nel suo insieme oltre che, naturalmente, come
elemento risolutore della crisi sul piano nazionale10.
Alla fine della prima ondata della violenza fascista, Giolitti
ritenne giunto il momento opportuno per lo scioglimento della Camera
e per nuove elezioni che egli immaginava avrebbero sensibilmente
ridimensionato socialisti e popolari e agito come un «calmante» sul
corpo del paese. Ma la situazione era ormai mutata in modo tale da
sfuggire al vecchio statista piemontese e da impedirgli di
riassumerne il controllo.
«Le elezioni si faranno dunque fra il terrore, — scrisse il
direttore dell'"Avanti!", Serrati, a un suo corrispondente, dopo
avere descritto con costernazione lo spettacolo quotidiano delle
Camere del lavoro incendiate e distrutte, delle leghe devastate,
dei compagni assassinati. - Saremo battuti. E attraverseremo un
periodo durissimo di feroce reazione». E, poco dopo:
È tutto il nostro vecchio movimento che viene sfasciato da una
scatenazione di violenza che non ha eguale in nessun altro paese.
Giolitti non c'entra. Questo vecchio routinier della vecchia routine
parlamentare ha evocato il diavolo fascista per vincere
elettoralmente ed ora egli stesso ne è vittima... Quella che ci
tormenta è una tale reazione che difficilmente si può immaginare,
perché non è dello Stato, non parte dai poteri pubblici, viene dal
basso, si manifesta secondo gli arbitrii, la criminalità, la
brutalità dei diversi ambienti. Tutto il bassofondo sociale si è
armato di rivoltelle e di pugnale, di moschetti e di bombe a mano,
si è inquadrato, si è assoldato a venti-trenta lire al giorno e vive
della caccia al socialista11.
I risultati delle elezioni del 1921 non corrisposero alle
aspettative nutrite con opposti stati d'animo da Giolitti e da
Serrati: le perdite socialiste furono parzialmente compensate dai
seggi conquistati dai comunisti (dai 156 ottenuti dal psi nel 1919,
si passò rispettivamente a 123 ai socialisti e 15 ai comunisti),
mentre i popolari aumentarono da 101 a 10812. Lo
squadrismo fascista aveva distrutto in molti centri nevralgici la
presenza organizzata del movimento operaio e contadino, ma non si
era ancora rivelato in grado di ridimensionare il consenso
elettorale dei due grandi partiti di massa, che affondava troppo nel
profondo della storia del paese per poter essere estirpato da un
momento all'altro.
L'unico vero elemento di novità messo in luce dalle elezioni del
1921 fu dato dall'ingresso alla Camera di trentacinque deputati
fascisti, e la circostanza è ben più significativa di quanto la
forza numerica di questa rappresentanza possa far intendere.
All'interno dei blocchi nazionali i fascisti rappresentarono la
forza più omogenea ed organizzata: in un solo mese, quello
precedente le elezioni, i fasci videro infatti quasi raddoppiarsi i
propri aderenti, che passarono da 98 000 a 187 000. E furono
indubbiamente proprio i fascisti a risultare i più avvantaggiati
dalla prassi dei blocchi elettorali tra forze spesso eterogenee e
disorganizzate, grazie anche all'impiego massiccio e abilmente
manovrato del voto di preferenza, che permise a parecchi candidati
fascisti di primeggiare all'interno delle stesse liste bloccarde13.
Le elezioni sancirono cosi anche sul piano istituzionale e
parlamentare la legittimità della presenza fascista non più
soltanto come elemento di disgregazione sociale e politica dei
vecchi equilibri; mentre Giolitti non riuscì a conseguire la
restaurazione alla quale aspirava, l'esperimento fascista - la cui
novità Serrati pareva avvertire, pur ignorandone le connivenze con
l'apparato dello Stato, che lo squadrismo e le stesse elezioni
misero in luce — si trasformava per le classi dominanti in un
potenziale polo di riaggregazione del sistema di potere. Uscendo per
l'ultima volta di scena il 27 giugno 1921, appena due settimane dopo
l'apertura della nuova legislatura, Giolitti poteva illudersi di
ripetere ancora una volta il gioco del passaggio di mano a un
luogotenente, secondo quella che era stata sua consuetudine nel
passato. Questa volta, però, le tendenze che lo avevano allontanato
dal potere nel 1914 erano divenute ben altrimenti forti e decise e
non avrebbero consentito altri ritorni. È vero che i governi che
succedettero al suo furono presieduti da suoi stretti collaboratori:
Bono-mi era stato ministro della guerra nel suo gabinetto, e a Facta
la provenienza dalla stessa provincia di Giolitti sembrava
conferire la livrea del maggiordomo piuttosto che la divisa del
luogotenente giolittiano. Questi governi furono però soltanto la
facciata di un edifìcio al cui interno si preparava, anche se non
senza contrasti, una diversa successione14. Se mai le vicende
governative e parlamentari erano state al centro della vita politica
dell'Italia unita, ora i destini del paese si decidevano più di
sempre nei luoghi originari della produzione economica e dello
scontro di classe.
Negli ultimi mesi del 1921 si avviò il processo di trasformazione
del movimento fascista in partito politico. L'entità della
progressiva e sempre maggiore convergenza di tutti gli strati della
borghesia attorno alle forme organizzative e al programma politico
del fascismo è misurabile dal crescente e ormai imponente peso dei
finanziamenti all'organizzazione centrale dei fasci, il cui gettito
medio mensile raggiunse le punte massime nel periodo
ottobre-dicembre 1921 : i finanziatori erano in questa fase
prevalentemente concentrati nelle regioni settentrionali e
centrali, e anche a Roma (ma Milano restava il centro più
importante del finanziamento). Nella prima metà del 1922 si estese
il numero delle province finanziatrici, ma solo nella seconda metà
dell'anno anche l'Italia meridionale cominciò a fornire fondi ai
fasci. Preponderante resta -dall'ottobre 1921 all'ottobre 1922 - nel
dato globale dei finanziamenti, la percentuale proveniente da
società industriali e commerciali, aggirantesi tra il 72 e il 73 per
cento del totale15. La definitiva affermazione del
fascismo e la sua trasformazione da movimento in partito, tuttavia,
passarono attraverso momenti di crisi e contrasti anche aspri.
In una situazione profondamente modificata dalla ormai stabile
presenza del fascismo e dalla connivenza non più episodica
dell'apparato dello Stato con lo squadrismo, Bonomi (eletto nella
circoscrizione di Mantova con l'appoggio diretto del forte movimento
fascista locale) intese continuare nella politica giolittiana di
assorbimento e utilizzazione strumentale del fascismo, dando il
proprio contributo attivo al tentativo di pacificazione tra
fascisti e socialisti. Sulle trattative influì anche l'episodio di
Sarzana del 21 luglio, quando, per la prima volta, una spedizione
di squadristi fu dispersa dall'intervento dei carabinieri e poi dei
contadini del luogo. Non si comprende, dal punto di vista del
fascismo, il perché del patto firmato il 3 agosto 1921 col partito
socialista e la Confederazione del lavoro, senza considerare che i
fascisti avevano conosciuto appunto per la prima volta la
sconfitta. Mussolini, che perseguiva l'obiettivo di stabilizzare la
presenza del movimento nell'ambito politico, istituzionale e
parlamentare, dovette fronteggiare un dibattito interno nel quale i
contrasti sul patto di pacificazione si intrecciavano con quelli
sulla questione della trasformazione del movimento in partito. Il
patto era avversato dalla componente agraria del fascismo, Grandi e
Balbo in Emilia, Perrone Compagni in Toscana, Farinacci in
Lombardia, Misuri in Umbria, Caradonna in Puglia: le zone che
costituivano la spina dorsale del movimento, e Mussolini riuscì a
risolvere la situazione proprio ottenendo, in cambio della
definitiva denuncia del patto, che avverrà pubblicamente solo dopo
il Congresso dell'Augusteo, l'avallo della maggioranza del fascismo
alla trasformazione del movimento in partito. Grandi e Marsich
restarono gli oppositori più decisi anche a questa trasformazione.
Ma per Grandi la questione centrale era sempre quella del patto di
pacificazione: una volta ottenuta la rottura di questo, egli
accettò in sostanza la creazione del pnf; Marsich e l'ala
«dannunziana» del fascismo diedero invece vita a un tentativo di
ribellione aperta che non ebbe successo.
Che tipo di partito era quello che al Congresso dell'Augusteo del
novembre 1921 fu fondato con la denominazione di partito nazionale
fascista? A giudicare dal suo primo statuto, esso non era poi
troppo differente dagli altri partiti di massa, almeno dal punto di
vista dell'organizzazione formale, delle strutture gerarchiche
centrali e locali, ecc. La sua caratteristica più originale era in
fondo rappresentata dal fatto che esso era dotato di
un'organizzazione paramilitare (anche se solo con la creazione della
Milizia nel 1923 si dette a tale organizzazione una struttura
effettivamente centralizzata). Gli iscritti ai fasci avevano il
diritto di discutere il programma politico e di eleggere gli organi
dirigenti a livello locale, direttori dei fasci e segreterie
provinciali; gli organi superiori, comitato centrale e direzione,
erano eletti da congressi periodici: e «di fatto, se a livello
provinciale questo meccanismo non funzionava gran che, ... al
vertice Mussolini si trovava ancora obbligato a consultare gli
altri membri della direzione»16.
La caratteristica fondamentale del pnf stava però, al di là del
programma o della struttura organizzativa interna, nel suo essere
partito completamente diverso dalle organizzazioni precedenti della
borghesia italiana, nel costituire una novità storica per
l'organizzazione politica di tutti gli strati della borghesia. Uno
sguardo alla composizione sociale del pnf al tempo del congresso di
fondazione è sufficiente a evidenziare tale caratteristica: intanto,
secondo le stime del ministero dell'Interno, più attendibili di
quelle fornite dai fascisti stessi, il pnf aveva già alla fine del
1921 una consistenza di massa pari a quella del partito socialista
all'inizio dello stesso anno (216 000 iscritti socialisti, 218 000
fascisti), e non tarderà a divenire, dopo un ulteriore balzo
quantitativo dall'aprile al maggio 1922 (da quasi 220 000 a 322 000
iscritti), il più consistente partito politico mai esistito nella
storia d'Italia. I dati della relazione Pasella al Congresso
dell'Augusteo possono essere stati indubbiamente amplificati (si
parla di oltre 300 000 iscritti), ma è interessante riflettere
sulla loro suddivisione per categorie sociali (di tutti gli
iscritti, solo poco più di 150000 furono censiti), che vedeva come
componenti più numerose lavoratori della terra (24,3 per cento),
operai (15,4), studenti (13), proprietari terrieri e fittavoli (12),
seguiti da impiegati (9,8), commercianti e artigiani (9,2) e altri
strati della borghesia per un 15,3 per cento17.
La prevalenza anche quantitativa degli strati della borghesia indica
già il processo in atto di ricomposizione di un blocco di forze
piccolo e medio borghesi sotto la direzione dei gruppi superiori
degli industriali e degli agrari; la percentuale di lavoratori
dell'agricoltura e dell'industria riflette il successo dei sindacati
fascisti in alcune zone della pianura padana e dell'Emilia (ma
questa percentuale sarà destinata a ridursi fortemente negli anni
seguenti, poiché si seguirà la prassi di iscrivere i lavoratori,
più che al partito, appunto ai sindacati). Dei 151 000 iscritti
censiti circa l'8o per cento erano combattenti, ma ancor più
significativo è il dato che si riferisce alla struttura per età: ben
39 000 iscritti erano non elettori, e considerato che il numero
delle donne era piuttosto esiguo, si può calcolare che circa il 25
per cento erano giovani sotto i ventun anni.
Figlio dei tempi nuovi portati dal conflitto mondiale, il fascismo
poteva trovare nella massiccia presenza dei giovanissimi nelle sue
file una solida garanzia per l'avvenire. Allo stesso modo,
l'avversione delle più giovani generazioni avrebbe mostrato quale
fosse la forza destinata a contrastargli più validamente il cammino.
Nel bagliore degli incendi che distruggevano le Camere del lavoro e
le sedi delle organizzazioni proletarie si erano intanto consumati
gli ultimi atti della crisi socialista e della nascita del nuovo
partito della classe operaia italiana, il partito comunista
d'Italia, destinato a divenire il maggiore antagonista storico del
fascismo. Forse il più acuto osservatore straniero della lotta
politica italiana nel primo dopoguerra, J. C. Mariàtegui, scriverà
nel 1925 :
La lotta attuale restituirà allo spirito liberale un poco della sua
antica forza combattiva. Ma non otterrà che rinasca come fede, come
passione, come religione. E per la sua mediocrità, questo programma
non può scuotere le masse, non può esaltarle, non può condurle
contro il regime fascista. Solo nel misticismo rivoluzionario dei
comunisti si notano i caratteri religiosi che Gentile scopre nel
misticismo reazionario dei fascisti. La battaglia finale non si
scatenerà, perciò, tra fascismo e democrazia18.
Ciò che Mariàtegui chiamava «misticismo rivoluzionario» dei
comunisti, in un momento in cui il nuovo partito temprato dalle
persecuzioni e rinnovato nella sua direzione cercava di contrastare
il consolidamento del regime fascista identificando nella lotta di
massa la dimensione in cui affermare la propria egemonia, altro non
era se non la veste esteriore di una decisione e di un costume che
con quelli del fascismo avevano quel tanto di affinità derivante
loro dall'essere «aspetti opposti, ma nella loro opposizione uniti,
di una maturità rivoluzionaria della società italiana, che non è più
soltanto nelle cose, ma si incarna e prende forma nella coscienza,
nella volontà, nella attività e nella lotta dei lavoratori, nelle
reazioni alle volte bestiali che questa lotta è destinata a
suscitare»19. La svolta decisiva per l'unificazione delle
forze decise a dare vita al nuovo partito fu segnata dal Convegno di
Imola (28-29 novembre 1920) della frazione comunista, nella quale
confluirono attorno alla corrente astensionista di Bordiga uomini
che andavano da Gramsci a Misiano, ma il cui nerbo era costituito
prevalentemente dalla stragrande maggioranza degli aderenti alla
federazione giovanile socialista e da cospicui gruppi di
massimalisti soprattutto toscani (Gennari, Salvatori, Caroti), cui
in un secondo momento si unirono i massimalisti emiliani e anche
piemontesi, che avevano aderito alla «circolare» di due vecchi
militanti socialisti come Anselmo Marabini e Antonio Graziadei20.
Fu l'incontro tra questo nucleo di dirigenti e questa base di
militanti a dare l'impronta al nuovo partito, e a segnarne il
comportamento fin dal suo atto di nascita con la separazione dal
partito socialista, avvenuta al Congresso di Livorno il 21 gennaio
1921.
Ma la peculiarità della scissione di Livorno, e conseguentemente del
nuovo partito, risultò dall'intreccio degli elementi internazionali
oltre che nazionali che presiedettero alla sua nascita21.
Nella campagna promossa dal Komintern per la formazione di nuovi
partiti comunisti in previsione dell'estendersi dell'ondata
rivoluzionaria in Europa, Livorno rappresentò l'ultimo atto di
questa campagna e al tempo stesso la più radicale applicazione della
politica fissata dai ventun punti. Proprio all'indomani della
scissione di Livorno, infatti, e anche prendendo lo spunto dal suo
esito, nell'Internazionale comunista si accese un dibattito, che,
focalizzato prevalentemente intorno alla Germania, avrebbe portato
nell'estate del 1921 all'approvazione da parte del III Congresso —
auspici Lenin e Trockij - della parola d'ordine «alle masse» e alla
linea del fronte unico22. La scissione di Livorno,
inoltre, anche per l'esasperazione che degli indirizzi
internazionali avevano fatto in primo luogo Bordiga e gli emissari
del Komintern, risultò la più nettamente minoritaria tra quelle
realizzatesi nei grandi partiti socialisti dell'Europa occidentale.
Se perciò Livorno potè essere giudicata nel 1923 dallo stesso
Gramsci come «il più grande trionfo della reazione», in quanto
aveva mantenuto all'esterno del nuovo partito la maggioranza della
classe operaia italiana23, tuttavia fu proprio il
carattere assunto da questa scissione a conferire ad esso
quell'aspetto di «falange d'acciaio» che sino a quel momento nessuna
formazione politica del movimento operaio e popolare italiano aveva
mai avuto. Contribuiva a determinare questa natura il fatto che esso
nasceva come una formazione di giovani che nel periodo della loro
formazione - avvenuta negli anni della «grande guerra» e della
rivoluzione d'Ottobre — avevano avviato per via di esperienza e di
riflessione la più profonda rottura generazionale che il socialismo
italiano avesse conosciuto nel corso della sua storia, traendone una
totale volontà di rinnovamento. Gli dava un fondamento il supporto
di sperimentati quadri provenienti dai consigli di fabbrica, ma
anche dalle organizzazioni tradizionali del movimento operaio e
contadino.
È tuttavia venuto il momento di affermare con forza che l'artefice
della coagulazione originaria di tutte queste forze fu colui che
ormai da lungo tempo aveva indirizzato tutta la sua attività di
pensiero e di azione verso l'obiettivo della costituzione in
partito politico dell'avanguardia rivoluzionaria del proletariato
italiano: Amadeo Bordiga. Formatosi intellettualmente in una
riflessione solitaria, che aveva fatto assumere al suo marxismo
inflessioni razionalistiche sconosciute al pur variegato campo della
cultura socialista italiana, Bordiga aveva tratto dall'opposizione
alla tattica compromissoria del socialismo napoletano un amore
dell'intransigenza ad ogni costo, che sfiorava l'aristocraticismo
dei grandi intellettuali meridionali. Nella composita falange della
sinistra socialista italiana decollata dopo Reggio Emilia, egli era
stato colui che di fronte alla guerra imperialista aveva assunto la
posizione di lotta più intransigente e avanzata, per passare di qui
alla caparbia battaglia per la scissione dal vecchio socialismo
italiano. La singolarità di Bordiga rispetto all'organizzazione e
alla tradizione dalle quali sosteneva la necessità del distacco si
chiarisce e si conferma attraverso la sua collocazione
nell'emergente movimento comunista internazionale. L'averne voluto
fare il Lenin italiano significa misconoscere la verità elementare
che il leninismo è, in primo luogo, riconoscimento del carattere di
massa della lotta politica rivoluzionaria. Ma anche l'avvicinamento
agli esponenti del comunismo di sinistra dell'Europa occidentale, da
Korsch a Pannekoek, non trova elementi di raffronto adeguati in una
comparabile formazione culturale. In realtà, non si capisce Bordiga
se non si tiene conto del fatto che egli non ebbe né ambi mai ad
avere vasti e profondi legami di massa. L'ammirazione verso la sua
persona spinta fino alla devozione fu un fenomeno che investi coloro
che erano il vero oggetto del suo interesse, ossia i quadri
dell'organizzazione politica, qualunque fosse la loro formazione
culturale. Egli fu in realtà e rimase sempre il capo di una
frazione, certo, come tale, tra i più energici e capaci, e,
proprio in quanto capo frazione, senza dubbio il più grande capo di
partito espresso dai nascenti partiti comunisti dell'Europa
occidentale24. Come nessun'altra variante del comunismo
occidentale, il bor-dighismo nacque e restò una ideologia di
frazione, che si esaurì in gran parte nella contrapposizione
frontale alla vecchia organizzazione socialista da cui era uscito.
Frazione anche all'interno di un Comintern ormai conquistato alla
politica del fronte unico, e volto ad attenuare le conseguenze
della scissione minoritaria di Livorno, il nuovo partito comunista
d'Italia riusci a definirsi prevalentemente soltanto in rapporto
alle formazioni tradizionali del movimento operaio italiano,
pregiudicandosi cosi la possibilità di «fare politica» in un momento
di crisi decisiva della società nazionale. Fu questo il prezzo
pagato per formare un ampio vivaio di quadri e di militanti
rivoluzionari, dotati di un attaccamento senza limiti alla causa del
socialismo e temprati a durissime lotte, che avrebbero costituito
l'ossatura di un partito in cui «spirito di scissione» e senso della
propria indipendenza politica sarebbero discesi dal modo stesso
della sua formazione 25.
Mentre il partito comunista d'Italia - costituendosi - gettava le
basi di quello che sarebbe divenuto il più forte e irriducibile
avversario storico del fascismo, non riuscendo però nell'immediato
a svolgere un'azione politica incisiva e di rilievo, il movimento
operaio italiano vedeva crollare a ritmo vertiginoso tutto il
proprio tradizionale sistema organizzativo sotto i colpi della
reazione fascista, senza trovare in se stesso la capacità di opporre
un'apprezzabile resistenza. Sul piano inclinato della disfatta
maturata a partire dall'occupazione delle fabbriche, la crisi
socialista - latente da anni ed esasperata nel periodo del
conflitto mondiale e del dopoguerra - giunse a rapida conclusione
nel modo più drammatico. L'intero 1921 e il 1922 trascorsero per
molti aspetti invano per le due ali del socialismo italiano, che
continuarono a fronteggiarsi sulla logora alternativa tra
collaborazione e intransigenza, senza che delle rispettive
posizioni né l'una né l'altra sapessero trarre le debite
conseguenze sul piano dell'iniziativa politica, e soprattutto senza
che si ponesse al centro del dibattito la sempre più forte e
scatenata offensiva fascista. La cieca indifferenza e l'incapacità
di comprendere il fenomeno fascista, proprio nel momento in cui lo
squadrismo infieriva sulle cooperative e sui comuni rossi, sulle
Camere del lavoro, sulle leghe e sulle sedi dei partiti operai,
tinse di grottesco la più grave sconfitta del movimento operaio
italiano.
Mentre dalla base operaia e popolare saliva una forte spinta
unitaria e si esprimeva una decisa e disperata volontà di lotta
contro il fascismo, i partiti e gli organismi costituiti del
movimento operaio italiano non seppero raccogliere queste
indicazioni e con la loro condotta contribuirono a indebolire la
capacità di resistenza popolare, facilitando la vittoria fascista.
Il destino del movimento degli arditi del popolo ne fu la più chiara
dimostrazione. Sorti nell'estate 1921 per iniziativa di alcuni ex
ufficiali degli arditi di sentimenti democratici e
anarchicheg-gianti, tra i quali primeggiava la figura di Argo
Secondari, gli arditi del popolo incontrarono immediatamente un
larghissimo favore popolare in quanto strumento unitario di
opposizione al fascismo sul terreno della lotta armata. Movimento a
carattere popolare e spontaneo, gli arditi del popolo si diffusero
in breve in tutta la penisola, da Roma a Parma, da Pisa a Genova, da
Vercelli a Livorno, da Torino a Bari; vi aderirono numerosi ex
combattenti, interventisti democratici ed anche legionari
dannunziani, mentre il massiccio afflusso nelle loro file di
militanti anarchici e repubblicani, sindacalisti, socialisti e
comunisti conferiva loro un carattere più spiccatamente operaio e
popolare, grazie anche al ruolo di direzione svolto da uomini quali
il deputato socialista Giuseppe Mingrino e il repubblicano Vincenzo
Baldazzi. Ma, violentemente combattuti dai fascisti e dalle
autorità governative26, gli arditi del popolo furono
condannati a sparire rapidamente come erano sorti, perché ad essi
non giunse alcun sostegno da parte dei partiti e delle forze
organizzate del movimento operaio, che mantennero nei loro confronti
un atteggiamento di ostile diffidenza, richiamando i loro uomini
alla disciplina. Cosi il più fiero colpo fu inferto agli arditi del
popolo dai dirigenti socialisti, con la loro inerte propaganda di
rassegnazione, non priva di toni evangelici, e con l'infelice patto
di pacificazione con i fascisti, mentre il più forte spirito
combattivo dei militanti comunisti fini con l'essere smorzato e reso
vano dal settarismo del gruppo dirigente bordighiano, che agli
arditi del popolo contrappose una milizia di partito scarsamente
consistente27.
Le divisioni e le incertezze dei partiti operài e delle forze
sindacali ebbero ancora modo di manifestarsi per l'ultima volta
nelle vicende dell'Alleanza del lavoro e del cosiddetto «sciopero
legalitario» dell'agosto 1922. Nata nel febbraio 1922 per iniziativa
del Sindacato ferrovieri con l'adesione della CGDL, dell'Usi e della
Uil, l'Alleanza del lavoro fu indubbiamente una nuova espressione
della volontà unitaria che animava alla base numerose organizzazioni
sindacali, ma non riusci mai a perdere il carattere di fenomeno di
vertice che le derivò dal confronto tra le diverse componenti
sindacali e politiche, e rimase costantemente paralizzata da
contrasti e incertezze derivanti in primo luogo dalla
inconciliabilità delle rispettive posizioni: mentre infatti i
dirigenti confederali guardavano in primo luogo a D'Annunzio per
risalire la china, gli anarchici dell'Usi, con Malatesta alla
testa, si dichiararono favorevoli alla sola azione diretta. Tardiva
accoglienza della richiesta di sciopero generale a più riprese
avanzata dai comunisti nell'Alleanza del lavoro, lo sciopero del 1-3
agosto 1922 voluto dai riformisti del psi e della cgdl per il
ripristino della legalità costituzionale, dopo che si era mostrata
vana la carta della collaborazione governativa giocata da Turati con
la sua andata dal re, portò il segno di questi contrasti e di queste
incertezze: male organizzato, noto agli avversari nonostante la sua
pretesa segretezza, solo parzialmente seguito da quelle masse la cui
combattività era stata sistematicamente delusa nei mesi precedenti,
lo «sciopero legalitario» fu l'ultima e decisiva battaglia campale
della guerra civile in atto in Italia, ma si risolse in una pesante
e irreversibile sconfitta per il movimento operaio, che l'attacco
fascista trasformò «in una vera e propria rotta»28.
Caddero in quella occasione le ultime «roccheforti» rosse del paese,
dopo Ravenna, occupata alcuni giorni prima dalle squadre di Balbo,
i fascisti si accanirono contro Ancona, Brescia, Genova e Livorno,
mentre anche Bari cadeva dopo una strenua resistenza, e a Milano
D'Annunzio parlava dal balcone di Palazzo Marino occupato. Fu allora
Parma a salvare l'onore del proletariato italiano: dell'eroica
resistenza organizzata nei popolari quartieri di Oltretorrente dagli
arditi del popolo al comando del giovane deputato socialista Guido
Picelli, infatti, le squadre di Balbo non riuscirono ad avere
ragione durante tre giorni di furiosi combattimenti, e mentre solo
l'esercito potè in seguito vincere la resistenza della città e
smantellare le barricate, Parma con il successo della sua
resistenza, dovuto alla partecipazione unitaria di tutte le
componenti del movimento operaio e popolare, costituì un luminoso
punto di riferimento per la lotta contro il fascismo29.
La definitiva sconfitta dell'agosto 1922 fu suggellata dal
precipitare della crisi socialista, aggravatasi fin dal mese di
giugno con l'approvazione da parte del gruppo parlamentare del psi
di un ordine del giorno Zirardini per l'appoggio o la partecipazione
ad un governo che garantisse «il ripristino delle pubbliche
libertà». Si trattò di una separazione attuata tardivamente, così
come tardiva fu la decisione riformista di compiere alfine il passo
della rottura della disciplina di partito per attuare una
collaborazione governativa, quando ormai lo spazio della
prospettiva di un governo democratico a partecipazione socialista
si era ristretto fino a divenire inesistente. La scissione,
comunque, fu provocata non solo e non tanto dalle iniziative prese
in questa direzione da Turati e dal gruppo parlamentare, quanto
soprattutto dalle posizioni del gruppo dirigente della
Confederazione generale del lavoro, orientato fin dall'estate per
la rottura del patto di alleanza che univa la cgdl al partito
socialista, e volto alla ricerca di una collaborazione che nelle
intenzioni di alcuni non escludeva neppure un accordo con il
fascismo. Fu questo, assieme alla distruzione fisica della rete
organizzativa del movimento socialista, il motivo primo della
scissione: con la rottura del patto di alleanza tra psi e cgdl (che
peraltro formalmente sarebbe avvenuto solo a scissione consumata)
veniva meno il nucleo attorno al quale aveva ruotato per anni
l'intero «sistema» socialista, e veniva ad essere infranto nei
fatti quel vincolo unitario la cui salvaguardia aveva condizionato e
pregiudicato gravemente l'iniziativa dei riformisti come dei
massimalisti, costringendo il psi a un'inerzia ampiamente
dimostratasi esiziale per le sorti del movimento operaio. La
spaccatura del vecchio psi avrebbe comunque consentito agli uni e
agli altri di riacquistare una più precisa fisionomia e di svolgere
una più concreta azione politica, ma perché di questo potessero
raccogliersi i frutti molto tempo sarebbe dovuto passare: quando al
Congresso di Roma avvenne infine la scissione del partito
socialista, i giochi erano ormai fatti e nello spazio di pochi
giorni la «marcia su Roma» avrebbe formalmente concluso il cammino
della reazione fascista verso il potere.
Note
1 Tasca, Nascita e avvento del fascismo cit., p. 191
2 Per un quadro delle principali posizioni del dibattito
storiografico a questo proposito, cfr. tranfaglia, Dallo Stato
liberale al regime fascista cit., pp. 73 sgg. Per una critica
puntuale dell'interpretazione fornita in particolare da R. de
felice, Mussolini il rivoluzionario cit., cfr. r. viva-RELLI, Benito
Mussolini dal socialismo al fascismo, in «Rivista storica italiana»,
lxxix, 1967, pp. 428-38.
3 Cfr. castronovo, La stampa italiana dall'unità
al fascismo cit., pp. 235 sgg.
4 Sulle componenti del fascismo sansepolcrista
cfr. e. Santarelli, Storia del movimento e del
regime fascista, Roma
1967, pp. ior sgg.; id., Fascismo e neofascismo, studi e problemi di
ricerca,
Roma 1974, pp. 51 sgg. (sul problema dell'imperialismo) e
G. rumi, Mussolini e il «programma»
di San Sepolcro, in «Il
Movimento di liberazione in Italia», xv, 1963, PP- 3-26.
5 Cfr. rispettivamente b. della casa, II movimento
operaio e socialista a Bologna dall'occupa
zione delle fabbriche al
Patto di pacificazione, in aa.vv., Movimento operaio e fascismo
nell'Emilia-
Romagna, 1919-1923, Roma 197^, PO. 22 sgg., e A.
barone, Piazza Spartaco. Il movimento operaio
e socialista a
Castellammare di Stabia. 1900-1922, prefazione di G. Amendola, Roma
1974.
6 p. corner, II fascismo a Ferrara, 1913-1923,
Bari 1974, p. 1.55. Atipico il caso della Venezia
Giulia, dove il
fascismo attecchì per primo a causa della sua situazione geografica,
politica e cultu
rale affatto particolare, compiendo le sue prime
prove di forza. Cfr. e. apih, Italia, fascismo e anti
fascismo
nella Venezia Giulia (1918-1943), Bari 1966. Su Ferrara si veda
anche A. roveri, Le ori
gini del fascismo a Ferrara 1918-1921,
Milano 1974. Su Reggio Emilia e. cavandoli, Le origini del
fascismo
a Reggio Emilia, 1919-1923, Roma 1973.
7 Cfr. a questo proposito g. giarrizzo, Lotte e
movimenti contadini dalla fine della prima
guerra mondiale alle
leggi fondiarie, relazione al I Congresso nazionale di storia del
movimento
contadino (Reggio Emilia 26-29 gennaio 1975), sul tema
«Antifascismo, Resistenza, contadini»
(dattiloscritto, pp. 12-13
sgg.).
8 Cfr. la tabella riportata in appendice a lay,
marucco e pesante, Classe operaia e scioperi cit.,
p. 145.
9 Cfr. La Confederazione generale del lavoro negli
atti, nei documenti e nei congressi cit.,
p. 422 e, per i dati
relativi al 1921, ministero per il lavoro e la previdenza sociale,
«Bollet
tino del lavoro e della previdenza sociale», voi. XXXVIII,
luglio-dicembre 1922, Roma 1923, pp.
42-57.
10 Suggestiva ed equilibrata la riconsiderazione
dell'intero problema, compiuta sulla base di
una conoscenza
ravvicinata della letteratura sull'argomento, di f. m. snowden, On
the Social Ori-
gins of Agraria» Fascistn in Italy, in «Archives
Européennes de Sociologie», xin, 1972, pp. 268-95.
11 Corrispondenza di Giacinto Menotti Serrati con
Jacques Mcsnil ( 1917-1921), a cura di G.
Berti, in Istituto G. G.
Feltrinelli, «Annali», xiv, 1972, Milano 1973, p. 379. La seconda
lettera,
non inclusa in tale pubblicazione, è citata da P. SPRIANO,
Storia del Partito comunista italiano, I:
Da Bordiga a Gramsci,
Torino 1.967, p. 123.
12 Cfr. MINISTERO DELL'ECONOMIA NAZIONALE,
DIREZIONE GENERALE DELLA STATISTICA, Statistica
delle elezioni generali politiche per la XXVI Legislatura (i$ maggio
1921). In appendice, Statistica delle elezioni generali
amministrative del 1920, Roma 1924.
13 Cfr. r. de felice, Mussolini il fascista, I: La
conquista del potere (1921-192$), Torino 1966,
P. 92.
14 Sul primo gabinetto Facta, cfr. d. veneruso, La
vigilia del fascismo. Il primo ministero
Facta nella crisi dello
Stato liberale in Italia, Bologna 1968.
15 Cfr. r. de felice, Mussolini il fascista, voi.
I cit., pp. 292-96.
16 A. lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al
1929, Bari 1974, p. 121. Per le questioni precedenti, cfr. le pp.
114-19.
17 Per questi dati si vedano r. de felice, Mussolini il fascista,
voi. I cit., pp. 6-7; Santarelli, Storia del movimento e del regime
fascista cit., p. 262; petersen, Elettorato e base sociale del
fascismo cit., pp. 644 sgg. Per alcuni aspetti della presenza
giovanile nel movimento fascista, cfr. inoltre f. de negri,
Agitazioni e movimenti studenteschi nel primo dopoguerra in Italia,
in « Studi storici », xvi, 1975, pp. 733-63.
18 J. e. mariàtegui, Lettere dall'Italia e altri
scritti, a cura di I. Delogu, Roma 1973, p. 122.
19 p. Togliatti, Momenti della storia d'Italia,
Roma 1963, pp. 126-27.
20 Cfr. La frazione comunista al Convegno di
Imola, 28-29 novembre 1920, Atti delle manife
stazioni celebrative
tenute ad Imola il 28-29 novembre 1970, Roma 1971.
21 Forse come per nessuna altra questione della storia italiana del
primo dopoguerra, sulla nascita e la formazione del pcdt si è
sviluppato un lungo e vivace dibattito - politico prima ancora che
storiografico -, protrattosi fino ad anni recenti. Centrato dapprima
sul tema della divisione portata da Livorno nel socialismo italiano
in lotta contro il fascismo, poi divaricato tra le accentuazioni
delle cause ora nazionali, ora internazionali della scissione, tale
dibattito si è di fatto concluso (almeno nei suoi termini
originari) con l'apparizione degli studi più maturi e recenti sulla
formazione del PCD'i, tra gli anni '60 e il cinquantesimo
anniversario della scissione di Livorno. Tra le numerose rassegne e
gli interventi critici pubblicati su questo argomento, si vedano in
particolare m. l. salvadori, Orientamenti dell' attuale
storiografia sul Partito comunista d'Italia, in Gramsci e il
problema storico della democrazia cit., pp. 153-85, e p. spriano,
Problemi della storiografia sul PCI, in «Critica marxista»,
Quaderno n. 5: Cinquantesimo del PCI, storia politica
organizzazione nelle lotte dei comunisti italiani per un nuovo
blocco storico, Roma 1972, pp. 355-73.
22Cfr. e. finale, La scissione di Livorno e la crisi della direzione
comunista tedesca nel 1921, in «Movimento operaio e socialista», x,
1964, pp. 3-18 e, più in generale, m. hajek, Storia
dell'Internazionale comunista (1921-1935). La politica del fronte
unico, Roma 1969, pp. 7 sgg.
23 Cfr. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente cit., p. 102.
24 Per una aggiornata informazione critica sugli studi su Bordiga,
si veda la recente rassegna di P. Livorsi, Amadeo Bordiga nella
storiografia sul PCI, in «Studi storici», xv, 1974, pp. 430-44. Cfr.
anche a. bordiga, Scritti scelti, a cura di F. Livorsi, Milano 1975.
25Cfr. Togliatti, Momenti della storia d'Italia
26 Cfr. NEPPi modona, Sciopero, potere politico e
magistratura, 1870-1922 cit., pp. 256 sgg. È si
gnificativo che
l'orientamento del governo e della magistratura nei confronti degli
arditi del popolo
vengano qui assunti come punto d'avvio di una più
aperta scelta di campo dell'apparato statale nella
lotta tra
fascismo e movimento operaio.
27 Questo atteggiamento fu oggetto di severi
rilievi da parte di Bucharin al IV Congresso del
l'Internazionale
comunista: cfr. a. G. lòwy, Die Weltgeschichte als Weltgericht.
Bucharin: "Vision
des Kommunismus, Wien-Frankfurt-Zurich 1969, pp.
178-79. Sugli arditi del popolo e l'atteggia
mento dei partiti
operai nei loro confronti, si vedano spriano, Storia del Partito
comunista italiano,
voi. I cit., pp. 139 sgg., G. palazzolo.
L'apparato illegale del Partito comunista d'Italia nel 1921-22
e la
lotta contro il fascismo, in «Rivista storica del socialismo», ix,
1966, pp. 93-142, e Cordova,
Arditi e legionari dannunziani cit.,
pp. 83 sgg.
28 spriano, Storia del Partito comunista italiano, voi.
I cit., pp. 211. Più in generale sull'Al
leanza del lavoro e lo
«sciopero legalitario», si vedano le op. 192 sgg.
29 Cfr. su questo episodio M. De Micheli, Barricate a
Parma. Nel cinquantenario della battaglia
dell Oltretorrente contro
i fascisti, Parma 1972.
[...]
Parte Quarta
Il Fascismo
I. Il fascio della borghesia
[...]
4. L'antifascismo tra sconfìtta e rinnovamento.
La fine della libertà e la definitiva sconfitta delle forze
democratiche coincisero con una stagione di debolezze e di errori,
di irresolutezze e financo di tradimenti da cui in diversa misura
nessuna delle forze che si opponevano al fascismo restò esente. Se
per consapevolezza attiva di un processo storico in atto s'intende
non soltanto la volontà di fronteggiarne i pericoli, ma anche la
capacità di comprendere gli esiti immediati e più lontani di questo
processo, onde farne scaturire concrete iniziative atte a bloccarne
la marcia, si può dire che nessuna delle forze politiche fu
completamente pari ai compiti che la situazione imponeva loro.
Tuttavia chi si ponga a considerare le discussioni e i propositi, i
ripensamenti e le azioni di quegli anni non soltanto alla luce
degli esiti immediati della lotta politica, ma anche sull'onda più
lunga di ciò che il fermento di idee di quegli anni ha rappresentato
nella storia d'Italia, non può non essere colpito dalla sua
straordinaria ricchezza. Si ha quasi l'impressione che la
conclusione di un periodo si intrecci con l'inizio di uno nuovo in
un viluppo inestricabile nel quale la coscienza che i contemporanei
e i protagonisti riescono a farsi dello svolgersi degli avvenimenti
è offuscata e insieme resa più drammatica dall'assenza di condizioni
e di strumenti per rendere questa coscienza effettivamente operante
e incisiva. Di qui il carattere convulso di una discussione in cui
ciò che è vecchio e condannato è sempre sul punto di soffocare il
nuovo, e il nemico stesso che si combatte si annida spesso nelle
coscienze dei suoi antagonisti. Il fatto era che l'ultimo atto
della lotta per la difesa della libertà si combatteva in un'Italia
nella quale i giuochi erano ormai sostanzialmente fatti: le forze
sociali decisive attestate sulle posizioni conquistate o subite nel
corso della guerra civile e nella fase di travagliato assestamento
che le era seguita; le fatiscenti istituzioni dello Stato liberale
compromesse a vantaggio dei vincitori e l'unica forza realmente
alternativa, le masse popolari, schiacciata sotto il peso di un
terrore ormai divenuto disciplina di Stato. Eppure, è difficile
considerare quella lotta soltanto come una semplice testimonianza
morale. Si produce in questa fase una spaccatura di esperienze e di
mentalità spesso a base generazionale che attraversa tutte le
formazioni politiche e che è qualche cosa di più di un fatto
anagrafico, come dimostrerà la successiva storia d'Italia.
Numerosissime tra le personalità che avranno un peso decisivo nella
Resistenza e nella costruzione della repubblica italiana
conosceranno in questi anni il loro battesimo del fuoco
intellettuale e politico1.
Si trattò di un momento complesso, di trapasso e tendenzialmente
anche di una svolta, in quella storia degli intellettuali italiani
che nel secolo xx si intreccia tanto inestricabilmente con la lotta
politica, e quindi con la decomposizione e la riaggregazione delle
formazioni politiche: un momento nel quale tanti nodi sembrarono
venire al pettine, i destini individuali di uomini di estrazione
sociale comune, vicini nella formazione culturale e nell'esperienza
politica, differenziarsi e divaricarsi fino a contrapporsi2,
alimentando un chiarimento di posizioni e di scelte da cui
acquisteranno contorni netti e definiti le forze politiche
destinate a percorrere fino in fondo la loro strada negli anni
successivi. Faceva da sfondo, tuttavia, e contribuiva a conferire un
lontano ma insopprimibile punto di riferimento a queste scelte
individuali o di piccoli gruppi, l'esodo proletario che dalle zone
più battute dallo squadrismo fascista iniziò ancor prima della
marcia su Roma, e avviò sulle piste ormai divenute tradizionali
dell'emigrazione italiana decine e decine di migliaia di operai e di
contadini, sospinti dalla crisi economica sotto lo spettro della
disoccupazione e non disposti ad implorare lavoro dai despoti
locali contro i quali erano insorti negli anni precedenti e che con
l'avvento del fascismo avevano riaffermato il loro dominio. Anche in
questo l'antifascismo italiano si differenzierà dalla tipica
esperienza tedesca.
A differenza dell'emigrazione italiana iniziatasi già nel 1921 e
formatasi per lente e successive stratificazioni, - scriverà nel
1933 un collaboratore dei «Quaderni di Giustizia e Libertà», -
l'emigrazione tedesca si è prodotta di colpo in modo tumultuoso. Fu
la fuga in massa, di gente che ieri ancora era tranquilla ed
ignorava la sorte che l'attendeva per l'indomani... L'emigrazione
italiana ha una certa omogeneità di classe; l'emigrazione tedesca ha
una sua omogeneità di razza. L'emigrazione italiana la troviamo al
Faubourg St-An-toine; quella tedesca la troviamo a Montparnasse, al
Quartiere Latino, nel Ghetto3.
Tra le molte differenze che non consentono, infatti, troppe «false
analogie» tra l'avvento al potere del fascismo in Italia e del
nazionalsocialismo in Germania c'è da aggiungere anche la volontà
di rigenerazione morale e politica che scuote le avanguardie
antifasciste in Italia e a cui in Germania non fa riscontro che una
disperata volontà di sacrificio o una cupa filosofia della
sconfitta.
L'animatore del rinnovamento nella democrazia liberale fu Giovanni
Amendola, cui tra l'altro spettò il merito di avere promosso la
risposta al manifesto degli intellettuali fascisti: che Arturo
Labriola e Guglielmo Ferrerò si fossero proposti, prima di Croce o
insieme con lui, di redigerla, dice già qualcosa circa il raggio
dell'influenza politica e morale esercitata da Amendola. Egli aveva
conseguito questa influenza durante la crisi Matteotti:
dell'Aventino egli era stato infatti non soltanto l'animatote, ma
anche l'ideatore, assertore da tempo di un atteggiamento di
intransigente opposizione morale che togliesse ogni paravento
legale al predominio fascista. Ma era stato anche colui che sul suo
giornale, «Il Mondo», aveva alimentato la campagna contro il
fascismo, pubblicando il memoriale di Cesare Rossi, e cioè l'atto di
accusa più documentato sulle responsabilità di Mussolini nel
preparare l'uccisione del deputato socialista e nel tentativo di
fuorviare le indagini, e con l'Unione nazionale si era posto il
problema di dar vita ad una forza che si collocasse al centro dello
schieramento politico in modo da unificare i settori democratici
della borghesia italiana. Assertore di una «nuova democrazia»
imperniata su di una rigenerazione morale della vecchia classe
dirigente e perciò chiuso ad ogni reale istanza di rinnovamento
sociale e politico, Amendola vedeva nel fascismo una improvvisa
escrescenza negativa, tanto più dolorosa perché inspiegabile, da
combattere rilanciando gli ideali risorgimentali e ridando alla
borghesia italiana fiducia in essi. La riconquista dei ceti medi
alla democrazia sarebbe dovuta partire dal Mezzogiorno,
dimostratosi più impermeabile alla penetrazione sia del fascismo
sia dei partiti popolari di massa, e che, se aveva dato ampi
consensi al listone fascista sulla base della mediazione delle
vecchie clientele meridionali, aveva anche confortato del proprio
sostegno la campagna elettorale dello stesso Amendola. La grande
forza di attrazione morale esercitata da Amendola gli derivò
principalmente dall'avere compreso, con particolare evidenza dopo il
3 gennaio, come nella battaglia contro il fascismo non fossero più
consentite illusioni miracolistiche, trattandosi di una battaglia
che richiedeva la più assoluta intransigenza, perché, com'egli
scrisse, «i tempi volgeranno - non ne dubitate - e daranno ragione
alla nostra buona fede, alla nostra buona volontà ed alla nostra
sete di libertà e di giustizia. I nostri figli e i nostri nipoti
benediranno la memoria di coloro che non hanno disperato mai, e che
hanno continuato a testimoniare l'esistenza del sole nel più fitto
della notte»4. Reiteratamente aggredito e minacciato dai
fascisti, Amendola testimoniò col sacrificio della vita la sua
capacità di incarnare con coerenza le ragioni della sua battaglia.
Ma lo strumento da lui fondato per realizzare il proprio programma
doveva mettere in evidenza l'antinomia fondamentale della sua
concezione politica. Circoscritta sostanzialmente a Roma e al
Mezzogiorno (limitata nel Nord dall'autonoma ripresa del partito
liberale e dalla secessione di Bonomi), l'Unione nazionale fu
sostanzialmente un raggruppamento di intellettuali e di notabili,
non a caso fortemente appoggiato dalla massoneria: il suo tentativo
di costituirsi come un partito democratico di ceti medi nasceva in
forte ritardo, quando ormai la maggior parte di questi erano stati
saldamente attratti nel blocco fascista, e per di più inficiato da
una preclusione a sinistra verso i partiti operai e dall'incapacità
di farsi carico delle istanze più spregiudicate portate avanti dal
più giovane liberalismo italiano. Non tutti i membri dell'Unione
condividevano queste preclusioni ed erano altrettanto lontani da
queste incapacità. Ma anche per questo essa restò sostanzialmente un
preparativo: costituirà il punto di incrocio tra vecchio e nuovo
antifascismo e lascerà alla democrazia italiana un'eredità di idee
piuttosto che una tradizione di partito politico.
Paradossalmente si organizzava come partito politico in questi anni
di agonia della libertà politica in Italia il liberalismo, ma la
vita del partito liberale italiano, fondato al Congresso di Bologna
(8-10 ottobre 1922), fu più l'accolta di naufraghi di una tradizione
morente che non l'atto costitutivo di una formazione politica
vitale. Volto al futuro era invece il rinnovamento della tradizione
liberale promosso in quegli anni da Piero Gobetti attraverso una
rivista e una casa editrice, «La Rivoluzione liberale», che si
posero anch'esse come elemento di dibattito e di confronto capaci di
coinvolgere le figure e i momenti di pensiero più validi e i
fermenti nuovi di tutta la cultura politica italiana. Ancor più che
l'originalità del suo pensiero, ciò che ha colpito e continua a
colpire chi studia il breve arco della sua attività è la
determinazione con cui egli seppe proporre un'immagine inedita del
liberalismo italiano, che per la prima volta rompeva con l'equazione
liberalconservatrice e presentava il volto di una libertà
liberatrice aperta anche sul piano sociale all'emancipazione degli
oppressi e al rapporto con le avanguardie della classe operaia. Non
tutti i rappresentanti delle diverse generazioni degli intellettuali
italiani che egli riuscì a coagulare intorno alla sua rivista e
alle sue iniziative mantennero l'intransigenza morale che animò
Gobetti fino alla sua morte immatura, ma egli seppe introdurre tra
gli intellettuali italiani, in un momento in cui tutte le frazioni
della classe dominante si raccoglievano intorno al fascismo, la
tendenza a comprendere che erano «essenzialmente nazionali e
portatrici dell'avvenire due forze sociali: il proletariato e i
contadini»5.
L'autocritica socialista non investì ancora un ripensamento
strategico dei due partiti nei quali si articolava la forza residua
del socialismo italiano. Il dualismo tra politica e cultura, che
aveva caratterizzato l'intera storia del socialismo italiano, si
ripropose anche in quest'ora di sconfitta. Riformisti e massimalisti
diedero luogo ad una controversia di non breve durata intorno agli
errori tattici compiuti negli anni precedenti e alle occasioni, dai
diversi punti di vista, mancate. Incapaci di misurarsi, anche
teoricamente, con la nuova realtà del fascismo, erano divisi tra chi
lo considerava un «nuovo '98» e chi lo vedeva come un movimento
transeunte della piccola borghesia e degli spostati prodotto dalla
guerra. Unitari e massimalisti furono tuttavia il centro di raccolta
di una nuova leva di giovani e più anziani militanti, i quali
rivissero e reinterpretarono le tradizioni del socialismo italiano
approdandovi dalle esperienze più disparate. Il psu, il partito di
Matteotti, non riuscì a colmare il vuoto lasciato dalla scomparsa
del suo segretario: esso disponeva di dirigenti popolari e
prestigiosi - i vecchi esponenti del riformismo italiano - che erano
capaci di attirare e di affascinare col loro esempio i giovani, ma
non erano capaci di guidarli e di orientarli nella lotta politica.
Non a caso, dopo il delitto Matteotti, aderì al psu Carlo Rosselli
che poi troverà altre strade per la lotta contro il fascismo.
Adesioni più ampie o comunque destinate ad incidere maggiormente sul
suo destino politico ricevè il psi, che trovò proprio allora in
Pietro Nenni una guida stabile che lo avrebbe diretto nel suo lungo
e tormentato cammino dell'espiazione e del rinnovamento6.
La forza politica nella quale il ripensamento critico si fuse
maggiormente col rinnovamento politico e organizzativo fu il
partito comunista d'Italia. Nel 1923 esso aveva attraversato una
durissima crisi politica. Arrestati tutti i suoi maggiori dirigenti,
questo partito aveva visto ridotti i suoi iscritti a poco più di
7000: era certamente un'esagerazione quella di alcuni uffici del
Komintern che volevano passati al fascismo alcune migliaia di
comunisti2, ma non c'è dubbio che anche il partito comunista subì
nel primo anno di dominazione fascista gli effetti del panico che
colpi le frange meno solide di tutti i partiti politici italiani e
dell'opera di disgregazione dell'avversario vittorioso. L'aspetto
più rilevante della sua crisi era stato tuttavia quello politico.
L'avvento al potere del fascismo contraddiceva la strategia
bordighiana fondata sulla asserzione di poche leggi elementari e
immutabili della lotta di classe e su di una pratica settaria, che
rifiutava il momento stesso dell'iniziativa e della politica, e si
traduceva nell'attesa inerte della rivoluzione inevitabile. La
critica dell'Internazionale comunista, se coglieva giustamente gli
effetti negativi di tale strategia in rapporto agli altri partiti
operai italiani, era troppo lontana per individuare le cause
profonde dell'inadeguatezza di quella politica e per indicare le
vie di uscita.
L'iniziativa per uscire da tale impasse fu presa da Gramsci. Nel
1921-1922 egli era stato compartecipe del settarismo della direzione
bordighiana, ma non aveva mai perso di vista gli spostamenti
sociali e le tensioni politiche e militari delle quali la conquista
del potere da parte del fascismo era stata espressione. Il soggiorno
nell'Unione Sovietica in qualità di rappresentante del partito
italiano presso l'esecutivo dell'Internazionale comunista lo aveva
indotto a considerare la sconfitta del movimento operaio italiano e
la crisi del suo stesso partito come un aspetto del difficile
impatto della rivoluzione proletaria nella società dell'Occidente
capitalistico. Egli non ne fece derivare soltanto la necessità di un
adeguamento disciplinare con le posizioni generali
dell'Internazionale comunista, ma anche l'esigenza di una
ricognizione approfondita sulle forze motrici della rivoluzione in
Italia. In questo senso il suo Che fare? del 19237 non è
altro che il preludio a un'opera di profondo rinnovamento del
comunismo italiano che si tradusse nella formazione di un nuovo
gruppo dirigente e nella fondazione di tutto un nuovo orientamento
politico. Quest'opera di Gramsci venne a coincidere
cronologicamente con la bolscevizzazione dei partiti comunisti
perseguita dall'Internazionale comunista e ne trasse autorità e
prestigio per prevalere sulla forza di attrazione che la persona di
Bordiga non meno che il corpo elementare delle sue idee
conservavano presso i militanti e i quadri intermedi del partito. Se
la bolscevizzazione del partito italiano, a differenza di quella di
numerosi altri partiti europei, dette luogo ad un gruppo dirigente
destinato a durare al di là delle vicissitudini durissime che il
movimento operaio italiano e internazionale andavano ad affrontare,
ciò si dovette essenzialmente a due motivi, che di rado si
manifestano insieme nella storia del movimento operaio e che invece
si fusero mirabilmente nell'opera di Gramsci: l'elaborazione
teorica e la politica di massa. Le tesi approvate al Congresso di
Lione, nel quale il nuovo gruppo dirigente gramsciano vedeva
sancito il proprio insediamento alla direzione del partito,
rappresentano il primo documento del movimento operaio italiano in
cui un programma politico abbia per supporto un'analisi della
società e della storia nazionali: alla individuazione del blocco tra
industriali del Nord e agrari del Sud come fondamento dell'assetto
di potere che aveva dominato in Italia faceva riscontro l'alleanza
tra la classe operaia del Settentrione e i contadini del Mezzogiorno
quale fondamento della rivoluzione proletaria italiana; al
rafforzamento di questo blocco di potere con l'affermazione del
fascismo lo sforzo di individuare tutte le contraddizioni che si
aprivano al suo interno. E, soprattutto, una individuazione e una
assunzione da parte della classe operaia delle grandi questioni
nazionali, questione meridionale, questione contadina, questione
vaticana — che implicavano una necessità di intervento costante a
livello di una grande politica di massa. Anche sotto questo profilo
l'opera di Gramsci consegui successi notevoli. Nel 1924 il partito
comunista d'Italia risaliva da 7000 a più di 25 000 iscritti, con
una particolare crescita nei grandi centri operai che riprendeva
quella spinta di massa dal basso che aveva costituito la forza e
l'originalità dell'«Ordine nuovo » e cui conferiva ora nuovo
risalto la fusione con la frazione terzinternazionalista, costituita
da migliaia di quadri intermedi che portavano nel nuovo partito
l'esperienza sindacale del movimento operaio italiano. Accanto al
capo dei «terzini», Giacinto Menotti Serrati, entravano in quella
circostanza nel partito comunista d'Italia Fabrizio Maffi e Girolamo
Li Causi, Giuseppe Di Vittorio e Agostino Novella9.
Se il partito di Gramsci non divenne un elemento risolutivo della
crisi del movimento operaio e della sua capacità di corrispondere
alle necessità storiche che gli si ponevano, ciò non si dovette
soltanto al fattore «tempo» che giocava ormai contro ogni tentativo
di riorganizzazione dell'antifascismo italiano. Anche nell'azione
del partito comunista, sia pure in misura diversa che nelle altre
formazioni politiche, si manifestava quella compresenza di vecchio e
di nuovo che abbiamo già segnalato come limite forse inevitabile di
questa grande stagione di risveglio dell'antifascismo e che in
questo caso si espresse in una mancata individuazione e
applicazione concreta di quella prospettiva di vaste alleanze
sociali e politiche che esso poneva alla base di una rivoluzione
italiana «proletaria» e «popolare». Con tutto ciò è in questa fase
che il partito comunista d'Italia gettava le premesse di
quell'azione che lo avrebbe fatto divenire la forza più combattiva e
organizzata dell'antifascismo italiano.
Note
1 Indica chiaramente una tale periodizzazione e. F. Delzell, I
nemici di Mussolini, Torino 1966.
2 Cfr. le osservazioni di carattere generale di E.
Garin, Ernesto Codignola, ora in Intellettuali
italiani del xx
secolo, Roma 1974, p. 141.
3 Manfredo, Colpo d'occhio sull'emigrazione tedesca, in
«Quaderni di Giustizia e Libertà»,
n. 8, agosto 1933, p. 47.
Sull'emigrazione proletaria antifascista manca ancora un lavoro
d'insieme.
Spunti utili si trovano nella recente memorialistica
comunista.
4 Cit. in S. Colarizi, I democratici all'opposizione. Giovanni
Amendola e l'Unione nazionale (1922-1926), Bologna 1973, p. 162.
Importanti documenti in E. Amendola Kuhn, Vita con Giovanni
Amendola. Epistolario (1903-1926), Firenze 1960. Sui limiti della
battaglia di Amendola per il rinnovamento della democrazia liberale
insiste G. Carocci, Giovanni Amendola nella crisi dello Stato
italiano 1911-1923, Milano 1956.
5 A. Gramsci, Alcuni temi della questione meridionale, ora in La
costruzione del Partito comunista cit., p. 138.
6 Cfr. E. Santarelli, Nenni dal repubblicanesimo
al socialismo (1908-1921). Contributo ad
una biografia, in «Studi
storici», XIV, 1973, pp. 870-905.
7 Si veda la risposta a questa accusa nella lettera del
13 maggio 1923 di Togliatti al Comitato
esecutivo
dell'Internazionale comunista ora in Togliatti, Opere, vol. I cit.,
p. 746.
8 Per la verità cit., pp. 267-76.
9 Sulla consistenza e sull'apporto dei «terzini» cfr. Detti, Serrati
e la formazione del Partito Comunista Italiano cit.
II. Lo Stato autoritario
[...]
3. L'isolamento delle opposizioni
Ancora prima che la promulgazione delle leggi eccezionali venisse a sancire la scomparsa delle ultime vestigia delle garanzie liberali, era sorta in alcuni settori dell'antifascismo borghese la consapevolezza della necessità di proiettare la propria azione al di là della legalità fascista, emigrando fuori d'Italia e organizzando l'attività clandestina all'interno del paese. Nel 1924 fu Nitti a prendere la via dell'esilio parigino, e nel 1925 ne seguirono l'esempio Amendola e Gobetti, già minati nel loro organismo dalle percosse subite nelle selvagge aggressioni squadristiche e destinati a morire di li a poco. Intanto all'indomani del 3 gennaio un gruppo di giovani raccolti intorno a Salvemini (Carlo Rosselli, Ernesto Rossi, Nello Traquandi) dava vita al «Non mollare!», il primo giornale clandestino che si stampasse e si diffondesse in Italia: nel suo stesso titolo esso rifletteva il sentimento che la battaglia politica contro il fascismo era stata perduta nei tempi brevi e che si trattava in primo luogo di approntare animi e mezzi per una lotta di lunga durata. Simultaneamente, e proprio per questo, il «Non mollare!» abbandonava le illusioni costituzionali dello schieramento aventiniano e impostava su basi repubblicane il programma della battaglia contro il fascismo1.
Si trattava, però, di una prospettiva d'azione sulla quale, per diversi motivi, i vari gruppi delle forze che si opponevano al fascismo erano ben lontani dal potersi raccogliere. La combinazione di repressione condotta con l'apparato dello Stato e di rigurgiti di violenza squadristica avevano limitato ai minimi termini e solo ad alcune zone del paese la precaria esistenza delle organizzazioni politiche, mentre i loro gruppi dirigenti stentavano a rendersi conto della portata non episodica di quanto era accaduto. Storditi dai colpi ricevuti, nessuno di loro si sottrasse alla contraddizione tra lo slancio necessario per assicurare la volontà di lotta e le misure organizzative rese indispensabili da una situazione in cui era preclusa ogni azione legale. I popolari, che l'abbandono del Vaticano aveva posto alla mercè delle vendette fasciste, commisero l'ingenuità di cercare di tornare a Montecitorio per prendere parte alla commemorazione della regina Margherita, ma furono duramente malmenati dai deputati fascisti. Il partito socialista unitario, il più forte dei due tronconi del socialismo italiano, fu il primo partito politico italiano ad essere posto fuori legge, all'indomani della denuncia dell'attentato Zaniboni, e il travaglio ideologico e politico del partito socialista italiano era ancora ai suoi inizi perché fosse in grado di tradursi in termini di lotta politica attiva.
Ma anche il partito comunista, che si era mosso con maggiore decisione su questa strada, scontò duramente le difficoltà di adeguamento alla nuova logica dell'azione clandestina. Deciso a servirsi fino in fondo, secondo l'insegnamento leninista e le prescrizioni dell'Internazionale, del Parlamento, come di una tribuna dalla quale denunciare lo sfruttamento capitalistico e indicare al proletariato la via della riscossa, Gramsci fu arrestato subito dopo la sospensione dell'immunità parlamentare, estesa ai comunisti contro la lettera stessa del provvedimento di revoca, che prendeva a pretesto l'assenza dei deputati aventiniani dai lavori della Camera. Insieme con Gramsci cadde nelle mani del fascismo gran parte dello stato maggiore comunista, da Bordiga a Scoccimarro, da Terracini, che già si trovava in carcere, a Roveda. Ad eccezione di Grieco, Bendini e Gennari, che poterono rifugiarsi all'estero, tutti i deputati comunisti furono arrestati.
Gli iscritti al partito, già falcidiati nel corso del 1926, si ridurranno a 6-7000 nel 1927. Essi reagirono all'applicazione delle leggi eccezionali con uno slancio di attività propagandistica e con una decisione nell'ingaggiare la lotta, rese ancora più evidenti dall'accanirsi su di loro della polizia fascista e dal silenzio e dall'inerzia in cui erano cadute nel paese le altre formazioni politiche. L'impatto con la lotta illegale si manifestò subito durissimo. «Anno terribile» per i comunisti italiani ha definito il 1927 Paolo Spriano:
Bisogna riandare al 1923 per ritrovare un momento altrettanto teso; quel primo momento «carbonaro» del partito fu, tuttavia, seguito nel 1924-23 da una vera e propria sortita, una rivitalizzazione del quadro medio, un rinnovato proselitismo, uno sviluppo vivace del dibattito politico interno. La lotta che accompagnò la crisi Matteotti mise il PCI in contatto con vasti strati di lavoratori, mentre si dispiegava l'opera di costruzione e di educazione intrapresa da Gramsci. Ora le cose volgono al peggio, cominciano i lunghi anni nei quali i colpi ricevuti dal nemico, gli arresti, le peregrinazioni, le delusioni si succederanno ininterrotti. Essere il 1927 il primo di questi anni significa però che i colpi appaiono particolarmente gravi, il modo di pararli e di reagire ad essi ancora inadatto, anche se il coraggio non viene meno2.
Intanto all'inizio del 1927 i comunisti avevano provveduto, in collegamento con l'Internazionale comunista, alla costituzione di un «centro estero», del quale fu fatto responsabile Palmiro Togliatti. Esso curò immediatamente la formazione di un «centro interno» con l'aiuto del quale coordinare la direzione della lotta illegale nel paese. «Lo Stato Operaio», la rivista comunista che Togliatti diresse nell'emigrazione, potè in larga misura conservare e sviluppare le caratteristiche di cultura militante proprie dell'insegnamento gramsciano in quanto, a differenza di gran parte della stampa antifascista pubblicata nell'emigrazione, ebbe quale proprio obiettivo costante una conoscenza dei processi sociali e politici in atto in Italia, rinnovata dalla drammatica esperienza di lotta e dai mai recisi rapporti con le masse dei suoi militanti. Il pci pagò un prezzo durissimo per la presenza nel paese, mantenuta in questa prima fase della sua attività clandestina particolarmente con la diffusione di un gran numero di giornali, che cercarono di rivolgersi sui luoghi di lavoro e nei maggiori insediamenti sociali a tutti gli strati decisivi della popolazione lavoratrice: alla fine dell'estate del 1927, almeno 2000 erano i comunisti arrestati e il Tribunale speciale aveva già comminato, dopo un anno di attività, 275 condanne, quasi tutte a comunisti, per 1371 anni di galera3. Nessun mezzo fu lasciato intentato dal fascismo per venire a capo di questa opposizione irriducibile: dalla infiltrazione di numerose spie nelle organizzazioni comuniste alla provocazione che giustificasse la repressione in massa (un significativo episodio della quale risultò l'installazione di una bomba ad orologeria all'inaugurazione della Fiera campionaria di Milano, il 12 aprile 1928). Subito dopo il Tribunale speciale iniziava la celebrazione del «processone» contro i maggiori dirigenti comunisti, conclusosi con la condanna di Terracini a ventidue anni e nove mesi, e di Gramsci, Scoccimarro e Roveda a oltre venti anni.
Sotto questi colpi durissimi, il persistere nel paese di un'organizzazione illegale configurava oggettivamente il partito comunista come il partito rivoluzionario della classe operaia italiana. Mentre, infatti, i dirigenti riformisti trasportavano a Parigi la centrale della CGL (e l'ala destra di Rigola e D'Aragona si adatterà invece a una connivenza con il fascismo), i comunisti promuovevano all'inizio del 1927 la ricostituzione clandestina in Italia dell'organizzazione sindacale dei lavoratori.
Le altre forze politiche alimentarono l'emigrazione in modi assai diseguali. Pochissimi furono i popolari che seguirono in esilio don Sturzo, ai quali non riusci mai per altro di realizzare il progetto di ricostituire all'estero il loro partito. I più attivi cercarono di collegarsi con esponenti di altre correnti politiche di orientamento laico, e non a caso dettero i loro frutti migliori in scritti storico-politici, tra i quali primeggia Le regime fasciste italien di Francesco Luigi Ferrari, un'interpretazione delle origini del fascismo e una denuncia della sua dittatura, che costituisce l'unica voce cattolica di alto livello nel processo di ripensamento autocritico che si delinea in quegli anni nei settori più avvertiti della cultura italiana4. A ondate successive e a piccoli gruppi, si allontanarono dall'Italia nel corso del 1926, ma soprattutto dopo l'emanazione delle leggi eccezionali, gli stati maggiori degli altri partiti politici italiani, che seguivano quasi tutti in terra di Francia decine di migliaia di quadri intermedi, di giornalisti, di organizzatori locali e, in misura ancora maggiore, di semplici lavoratori: Treves, Turati, Modigliani, Saragat, Nenni, per non fare che alcuni nomi, tra i socialisti, e Facchinetti, Mario Bergamo, Chiesa e Fernando Schiavetti tra i repubblicani, e, tra coloro che erano ormai espressione più di gruppi di opinione che di partiti organizzati, Salvemini, Sforza, Cianca, Arturo Labriola e Tarchiani.
L'azione di questi uomini, che cominciarono a fregiarsi in positivo dell'appellativo ingiuriosamente dato loro dai fascisti di «fuorusciti», stentò a coagularsi intorno a un'attività che non fosse quella giornalistica o quella di denuncia e di smascheramento della propaganda, che proprio in quegli anni il fascismo andava sviluppando, con uno stuolo di pubblicisti brutamente prezzolati, non solo nei circoli politici delle capitali, ma anche tra le masse degli italiani emigrati. Spesso vecchi e incapaci di riaversi dalle delusioni subite, si trovavano per di più ad operare in un ambiente che, per coloro che erano stati politici attivi, era troppo dissimile da quello della loro formazione o delle loro attività consuete. Gli stessi partiti socialisti, cui pure non mancavano i collegamenti internazionali e rapporti anche di ordine sindacale con gruppi di lavoratori italiani emigrati, incontrarono notevoli difficoltà a conservare la fisionomia di partiti politici. Frutto più di queste difficoltà che non espressione di un organico programma e di una precisa linea di azione fu la Concentrazione antifascista, di orientamento laico e anticomunista, fondata nell'aprile 1927 su invito e con l'appoggio della Lega italiana per i diritti dell'uomo. Neppure l'adesione ad essa dei partiti socialisti riuscirà ad infonderle quel carattere di rappresentatività dell'Italia liberale e democratica cui il settimanale che essa pubblicava a Parigi dal i° maggio 1927, «La libertà», aspirava5.
Una maggiore rappresentatività della vecchia Italia assunse invece un pensatore, proprio in questi anni convertitosi alla filosofìa della libertà 6, e fattosi emigrato in patria dopo avere fiancheggiato l'avvento e il consolidamento al potere del fascismo. Benedetto Croce seppe utilizzare con straordinaria capacità i margini di libertà che il fascismo dovette concedergli, poiché troppo universalmente noto e stimato era il suo nome perché su di esso potesse abbattersi, senza gravi ripercussioni sul piano internazionale, l'uniforme logica del totalitarismo fascista. Senatore dal 1910, ministro della pubblica istruzione nell'ultimo gabinetto Giolitti, Croce non fu mai così intensamente e consapevolmente uomo politico come negli anni della dittatura fascista. Egli stesso, del resto, teorizzò con grande lucidità, agli inizi del 1928, la funzione che sembrava voler desumere dalla necessità della tristezza dei tempi. «La verità — scriveva a Giuseppe Lombardo Radice — è che, nei tempi di calma, i pratici curano la pratica e gli studiosi gli studi. Nei tempi di crisi, i pratici si smarriscono o sono eliminati, e gli uomini di studi assumono la parte dei critici ed educatori per l'avvenire»7.
Croce aveva cominciato ad esplicare questa missione rivendicata in nome del primato dei grandi intellettuali e della loro direzione dei grandi processi storici pubblicando alla fine del 1927 una Storia d'Italia dal 1871 al 1915 che, contrapponendosi all'Italia in cammino di Volpe, sembrò rinnovare sul piano storiografico il duello ingaggiato due anni prima sul piano filosofico con Giovanni Gentile e col suo Manifesto degli intellettuali fascisti. Il libro, forse sopravvalutato rispetto ad altre, superiori opere storiche di Croce, assolveva in realtà ad un compito più generale. Fornendo l'immagine non già di ciò che la classe dirigente liberale era effettivamente stata (e neppure del modo col quale il politico Croce l'aveva a suo tempo valutata), ma piuttosto di ciò che a suo avviso avrebbe dovuto essere negli anni immediatamente precedenti, egli riusciva a bloccare il processo autocritico in corso nelle giovani generazioni della intellettualità italiana circa il rapporto tra Stato liberale e avvento al potere del fascismo, proponendo altresì agli oppositori della dittatura la piattaforma della restaurazione conservatrice.
Non si comprende tutta l'efficacia dell'insegnamento crociano nella cultura italiana durante il ventennio, nella sua grandezza e nei suoi limiti, se non si tiene presente che egli seppe incarnare con una coerenza, che non trovò uguali in altri paesi europei sottoposti alla dittatura fascista, l'ideale del lavoro intellettuale come forma di attività politica: una forma di resistenza passiva cui la fiducia nella ragione incarnata nella storia conferiva i tratti della «religione della libertà». Strumento del colloquio ininterrotto di Croce col pubblico colto dell'Italia fascista continuarono ad essere i fascicoli bimestrali della «Critica», di diffusione forse più limitata di quanto non è stato a lungo affermato, ma non per questo meno efficace.
Emigrati fuori d'Italia, e nel migliore dei casi intenti a rintuzzare la propaganda fascista nell'opinione pubblica internazionale, impegnati in un'attività clandestina nel paese spesso con l'unico fine di non disperdere le basi sicure che ad essi rimanevano, oppure ridotti ad un dignitoso silenzio, seppure nutrito di studi, gli antifascisti italiani attraversarono in questi anni il momento probabilmente più nero della loro vicenda. È innegabile che il rimodellamento autoritario della società italiana da parte del fascismo riusciva a ottenere l'effetto di sospingere ai suoi margini non soltanto gli emigrati, ma anche quanti lottavano per porsi al di fuori della sua logica. Le discussioni spesso esasperate e quasi sempre nominalistiche, che in questi anni si accendevano tra i gruppi di fuorusciti e all'interno delle loro stesse organizzazioni, erano il segnale di un isolamento più o meno marcato, ma sempre operante, dai bisogni e dalle abitudini quotidiane delle più larghe masse della popolazione. Né poteva essere di effettivo conforto a chi combatteva o resisteva contro la dittatura trionfante il richiamo al precedente del Risorgimento, in quanto opera di uomini che per la libertà avevano sofferto il carcere o affrontato l'esilio, perché non c'era chi non avvertisse, anche nella forma più confusa o elementare, che nuova, più dura e insidiosa, era la natura della tirannide insediatasi nel paese.
Negli anni successivi la volontà di lotta di importanti nuclei di operai, di contadini e di intellettuali di avanguardia, consentirà di rimontare in parte questa china, mentre la comprensione del carattere della dittatura fascista costituirà per gli esponenti più lucidi dell'antifascismo italiano la premessa necessaria per riprendere e rendere indistruttibili i legami col paese, mantenendo le radici negli strati decisivi della popolazione lavoratrice e al tempo stesso forgiando le armi per intervenire nei successivi sviluppi. Resterà tuttavia come una ferita profonda e difficile a rimarginarsi sul corpo dell'intera nazione la dicotomia allora apertasi tra una piccola minoranza decisa a pensare e a operare in termini politici, senza avere però la possibilità reale di fare politica e di incidere in modo decisivo sulle sorti del paese, e grandi masse della popolazione, che il nuovo regime veniva politicamente inquadrando proprio in nome e sotto il segno della negazione dell'autonoma e cosciente partecipazione popolare. Era il costo pagato alla lacerazione dell'unità nazionale portata dal fascismo, la disabitudine al vivere e al confronto civile che esso aveva introdotto: una pesante eredità, che soltanto una nuova grande esperienza nazionale avrebbe potuto rimuovere, impostando in termini completamente nuovi la lotta sociale e politica nel paese.
Note
1 Cfr. Non mollare (1025), riproduzione fotografica dei numeri usciti, con tre saggi storici di G. Salvemini, E. Rossi, P. Calamandrei, Firenze 1933. Si veda anche Giorgio Amendola, Comunismo, antifascismo, resistenza, Roma 1961, PP- 403-10.
2 P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, voi. II: Gli anni della clandestinità, Torino 1969, p. 88.
3 Per tutti i dati relativi alle condanne inflitte dal Tribunale speciale cfr. A. Dal Pont, A. Leonetti, P. Maiello, L. Zocchi, Aula IV. Tutti i processi del Tribunale speciale fascista, a cura dell'Anppia, Roma 1961.
4 Cfr. M. G. Rossi, Francesco Luigi Ferrari dalle leghe bianche al partito popolare, Roma 1965.
Sui popolari in esilio cfr. g. ignf.sti, Momenti del popolarismo in esilio, in aa.vv., I cattolici tra
fascismo e democrazia, a cura di P. Scoppola e F. Traniello, Bologna 1975, pp. 75-183.
5 Cfr. Delzell, I nemici di Mussolini cit., pp. 41 sgg.
6 Cfr. N. Bobbio, Politica e cultura, Torino 1955.
7 Cfr. R. Colapietra, Lettere inedite di Benedetto Croce a Giuseppe Lombardo Radice, in « Il
Ponte», XXIV, 1968, p. 994.