Storia d’Italia

volume quarto

Dall’Unità ad oggi

Einaudi, Torino 1976
tomo 3

Parte Terza
La "grande guerra" e l'agonia dello Stato liberale

[...]

III
LE CONSEGUENZE DEL CONFLITTO.

1. Illusioni e realtà di una vittoria.

Le immagini adoperate dagli storici per indicare e descrivere gli effetti che la partecipazione alla «grande guerra» comportò per i vari paesi sono quasi tutte di carattere catastrofico, e quella forgiata da uno storico inglese, Marwick, per il proprio paese, che tra i belligeranti era andato incontro al conflitto da posizioni di maggiore potenza, «the deluge», è soltanto la più recente e maggiormente aggiornata con i metodi di ricerca delle scienze umane e sociali. Di immagini catastrofiche si sono nutriti soprattutto i memorialisti e gli storici dei paesi che la catastrofe e il diluvio hanno più paventato che non effettivamente sofferto. Per quanto si riferisce all'Italia, immagini catastrofiche e similitudini bibliche non sono entrate nell'uso corrente probabilmente perché l'attenzione si è spostata inavvertitamente, senza soluzione di continuità, dalla spaccatura del paese alla vigilia della guerra al suo riprodursi e ingigantirsi negli anni immediatamente successivi, fino a sussumere gli effetti della guerra nelle cause del tipo di sconvolgimento e di riassetto successivi. L'elemento della continuità nell'assetto di potere ha contribuito al tramandarsi di un tipo di giudizio che ha puntato sul riassorbimento delle contraddizioni aperte o acuite dalla guerra. Ma forse in nessun paese come in Italia la partecipazione alla «grande guerra» fece sentire la precarietà di tutti gli equilibri sui quali si fondavano la società e lo Stato nazionali, aprendo una crisi le cui conseguenze erano allora non pienamente valutabili e il cui sviluppo doveva segnare tutta la successiva storia italiana.

Profondamente mutata usciva in primo luogo dalla guerra la collocazione internazionale del paese. Mai forse come nelle settimane immediatamente successive al 4 novembre 1918 i vari componenti il fronte interventista credettero così vicina la meta, il conseguimento della quale aveva ispirato la politica estera italiana postrisorgimentale, e cioè la fuoriuscita da quella sorta di limbo oltre il quale stava il ristretto club delle «grandi potenze». Distrutto nell'Austria-Ungheria il secolare antagonista dello Stato unitario italiano, estromessa la Russia dal giro della grande politica internazionale, perché in preda ad una guerra civile dagli sbocchi imprevedibili, umiliato nella Germania lo Stato, il confronto col quale non aveva mai cessato di far avvertire la fragilità del regno d'Italia tra gli Stati di più recente costituzione, che cosa poteva impedire che l'Italia abbandonasse finalmente il suo ruolo di «sesta grande potenza»?

Quanto però fossero lontane dalla realtà tali aspettative fu reso subito evidente dall'andamento della conferenza della pace. L'assenza dell'Italia dalle trattative per la sistemazione dei grandi problemi del riassetto europeo fu il primo segno della sfasatura esistente tra le illusorie ambizioni e la realtà delle cose: il ministro degli esteri italiano, ad esempio, non mancò di interessarsi alla questione della lingua ufficiale della conferenza, ma tralasciò di intervenire sul problema della Società delle Nazioni. Le prime recriminazioni nazionalistiche, alimentate dall'andamento della conferenza e indirizzate contro i rappresentanti italiani, sembrerebbero trovare una conferma nelle valutazioni che del comportamento di Orlando e di Sonnino ha dato la memorialistica dei protagonisti e degli osservatori, soprattutto di parte anglosassone: Lloyd George e Lansing hanno insistito sulla non armoniosa composizione della delegazione italiana, soffermandosi sui dati di carattere antagonistici del presidente del Consiglio e del ministro degli esteri italiani1; J. M. Keynes, a sua volta, ha osservato come Orlando, pur facendo parte del Consiglio dei Quattro, vi recitasse un ruolo assolutamente secondario, non foss'altro perché, ignorando completamente l'inglese, non aveva possibilità alcuna di comunicare né col presidente Wilson, né col premier inglese2; l'aneddotica sulla scarsa conoscenza dello stesso francese e sull'ignoranza geografica del presidente italiano alimenterà del resto anche i diari e la memorialistica italiana. Impressionarono, invece, la chiusa freddezza e l'autoritarismo di Sonnino, «un freddo, deciso, diplomatico imperialista della vecchia scuola»3, che riuscì ad imporre alla delegazione una linea e un metodo ispirati al principio del «sacro egoismo», e cioè a intervenire nella discussione dei problemi internazionali soltanto e unicamente per sostenere le immediate rivendicazioni italiane.

Però, più che nelle caratteristiche di questo o quel personaggio, le radici della scarsa incidenza italiana alla Conferenza della pace dovevano manifestarsi nel tipo di politica estera sostenuta da quella delegazione e, più in generale, dalla reale forza del paese che quegli uomini rappresentavano. Il collegamento tra i due aspetti fu colto piuttosto da Salvemini, allorché scrisse che l'Italia a Parigi era come «un'antilope in un mondo di megateri», mentre viceversa Sonnino «manovrava come se cavalcasse un megaterio in un mondo di antilopi»4. In fondo, col suo ostinato ed esclusivo riferimento al patto di Londra, Sonnino sembrava non avere compreso che fatti nuovi, diversi nella loro entità, ma convergenti nei loro risultati, avevano ormai aperto l'era della «nuova diplomazia»: i bolscevichi avevano portato la rivoluzione anche in questo campo pubblicando i testi di tutti gli accordi segreti sottoscritti dalla diplomazia zarista, mentre il presidente Wilson aveva proclamato e tentato di affermare nuovi principi, che con la pubblicità dei documenti diplomatici modificassero la natura dei rapporti tra i popoli.

Quanto il modo di concepire e di realizzare la politica estera fosse ormai radicalmente mutato, del resto, lo si vide fin dalla stessa composizione della delegazione americana alla Conferenza della pace. Con i suoi milletrecento collaboratori, tra i quali facevano spicco storici e giuristi, statistici ed economisti, geologi e geografi, essa fece apparire la piccola delegazione italiana, formata per lo più da diplomatici della vecchia scuola e da membri dell'apparato statale, un vero e proprio avanzo del passato.

Ma, soprattutto, i rapporti internazionali avevano ormai acquisito una dimensione intercontinentale, e di questo gli italiani non parvero in alcun modo consapevoli. Sulla questione coloniale, ad esempio, Orlando accolse la proposta giapponese tendente a far sì che essa venisse affrontata, ma non per inserire la propria linea d'azione in un vasto giuoco di ampiezza mondiale, bensì solamente per far valere anche in quel settore gli accordi sottoscritti dalle potenze nella prima fase della guerra. Quanto invece i diversi terreni sui quali si svolgevano le trattative fossero tra loro inestricabilmente connessi, lo si vide allorché il 24 aprile 1919 - lo stesso giorno dell'abbandono della Conferenza da parte di Orlando e Sonnino in segno di protesta contro il manifesto di Wilson al popolo italiano sulla questione adriatica — gli alleati cedettero alla volontà del Giappone sulla questione dello Shantung, salvo poi «rifarsi» immediatamente sull'Italia attraverso la cessione di Smirne alla Grecia. Che l'infelice mossa dell'abbandono della conferenza danneggiasse l'Italia anche in altre questioni, come quella dei risarcimenti da parte della Germania e quella dei mandati sulle ex colonie tedesche in Africa, è indubbio; ma in realtà il precipitoso ritorno di Orlando e Sonnino a Parigi, una volta che questi dovettero prendere atto della loro irrimediabile debolezza, fu anche la prova che la classe dirigente italiana si trovava a dover subire come realtà di fatto quella dilatazione mondiale dei rapporti internazionali che i suoi esponenti non sapevano comprendere come fatto politico. Non va dimenticato, infatti, che il ritorno di Orlando e Sonnino dipese anche dall'urgenza di ottenere i crediti americani indispensabili per evitare la catastrofe dell'economia e della finanza italiana. Nel dopoguerra, l'Italia si trovò ad essere debitrice agli Stati Uniti di 1,6 miliardi di dollari, cifra, è vero, largamente inferiore a quelle del debito maturato dalla Francia e dall'Inghilterra nei confronti degli Stati Uniti nello stesso periodo, ma ben più rilevante, se si tiene conto del quadro dell'economia italiana e della quantità enormemente inferiore delle risorse di cui l'Italia poteva disporre rispetto a tali paesi5.

La scomparsa dell'Impero asburgico e di quello turco, la caduta del Reich e dell'Impero russo, sottrassero all'Italia tutti i punti di riferimento poggiando sui quali essa aveva potuto in qualche misura supplire alla propria debolezza di fondo per svolgere una politica estera relativamente autonoma; così, in fondo, l'unico vero atto improntato a lucidità politica compiuto da Orlando a Parigi deve essere ravvisato nell'appoggio da lui dato a Clemenceau per scongiurare l'annessione dell'Austria tedesca alla Germania. La sfasatura fondamentale che si riflesse sul contegno di Orlando e Sonnino alla conferenza, dunque, fu quella tra l'effettiva debolezza del paese e la strada della Machtpolitik prescelta dai governanti italiani. Ben lo comprese, a quanto sembra, la «fertile immaginazione» di Lloyd George, allorché per compensare le delusioni patite dall'Italia nell'Asia Minore e in Africa, avanzò la proposta di sostituire con truppe italiane i contingenti inglesi operanti in Georgia, abbagliando così i rappresentanti italiani con il miraggio delle materie prime che l'Italia avrebbe potuto assicurarsi mediante la sua presenza nel Caucaso6.

La realtà, come scrive Potëmkin, era che «sebbene l'Italia fosse compresa alla Conferenza della pace nel gruppo delle grandi potenze, nessuno le faceva più caso dopo la disfatta di Caporetto. La diplomazia italiana si aggirava attorno al tavolo delle grandi potenze, in attesa della parte di bottino che essa pretendeva come compenso per essere uscita dalla Triplice Alleanza. Appoggiando le richieste ora di questa ora di quella grande potenza, la diplomazia italiana passava dalla ossequiosità alle minacce; essa si ritirò persino dalla Conferenza; ma questo atto venne notato anche meno del suo pentito ritorno nella sala delle riunioni»7. A ben guardare, l'unica indicazione di fondo che pare emergere dalla politica estera italiana del dopoguerra è quella di un costante riferimento in posizione subalterna alla linea inglese, e per comprendere appieno i limiti di tale atteggiamento è sufficiente ricordare che, con la guerra, la Gran Bretagna era stata definitivamente soppiantata dagli Stati Uniti d'America nel ruolo di «direttore d'orchestra» della politica e della finanza internazionale, che aveva svolto incontrastata fino al 1914. Ed era agli Stati Uniti, a loro volta trasformati da potenza tradizionalmente debitrice in potenza creditrice, che l'Inghilterra e la Francia dovevano riferirsi per la ricostruzione dell'economia europea, adattandosi per questo anche a non osteggiare la ripresa della Germania. A maggior ragione lo doveva dunque l'Italia, per allontanare da sé lo spettro della catastrofe e della rivoluzione, che la guerra aveva evocato.

È opinione largamente diffusa tra gli storici «democratici» che si dovette essenzialmente all'insipienza di Orlando e di Sonnino e all'incomprensione della realtà europea da parte di Wilson se le aspirazioni e i risentimenti dell'opinione pubblica italiana sfociarono nel mito della «vittoria mutilata» e portarono ad un accoppiamento indebito tra gli appetiti alimentati dal patto di Londra e la nuova rivendicazione di Fiume, andando infine ad infrangersi su alcuni scogli dell'Adriatico. Il concentrarsi della politica estera italiana su questi obiettivi era però un risultato che travalicava le indubbie responsabilità o le miopie dei singoli. Il fatto era che la mitologia patriottica e nazionalistica da «ultima» guerra per il compimento dell'unità nazionale, che aveva nutrito tutta la propaganda d'intervento e di guerra, non poteva se non facilitare lo accumularsi di un pacchetto di rivendicazioni territoriali le più varie, da consumarsi intanto agli immediati confini del paese. La vicenda delle pretese territoriali italiane in Alto Adige, che si estesero a macchia d'olio all'indomani dell'armistizio, investendo zone di lingua tedesca che nessuno all'infuori di Ettore Tolomei aveva rivendicato prima di allora8, costituisce la riprova di una tendenza che aveva fondamenti oggettivi e non fu meno clamorosa per il fatto che non cozzò in pregiudiziali avverse da parte delle grandi potenze. Per quanto concerneva, in particolare, i confini orientali e la penisola balcanica, l'uno e l'altro obiettivo facevano da tempo parte integrante del programma nazionalista che era sempre stato l'elemento trainante nel determinare e dirigere la condotta di guerra dell'Italia. Il dato nuovo della situazione postbellica che i politici e gli storici democratici, fermi agli schemi risorgimentali della loro propaganda, non compresero, fu piuttosto un altro: e cioè che le pretese italiane si erano accresciute in proporzione geometrica, mentre le possibilità reali non erano aumentate neppure in proporzione aritmetica. Il crollo degli Imperi centrali e dell'Impero ottomano aveva creato un vuoto di potenza politica e anche di influenza economica in un'area d'Europa sulla quale l'imperialismo italiano aveva appuntato da tempo le proprie mire9. E in quel vuoto esso si lasciò attrarre come con un senso di vertigine, non tenendo conto che in quell'area non erano sorte soltanto delle modeste realtà statuali, ma si faceva sentire anche l'influenza delle grandi potenze: della Francia, rivolta a costruirvi uno dei contrafforti della Piccola Intesa, indirizzata in pari tempo contro la Germania e contro l'Unione Sovietica, e dell'Inghilterra, disposta a lasciare spazi soltanto a chi non fosse in grado di surrogare del tutto la penetrazione economica e politica della Germania.

Per pochi altri paesi come per l'Italia la partecipazione alla guerra aveva avuto l'effetto di sconvolgere l'assetto sociale consolidatosi attraverso successive stratificazioni dopo l'unificazione nazionale. Essa aveva infatti costituito la prima esperienza collettiva di massa a carattere veramente unificatore e catalizzatore di questa esperienza era stato un ente fino a quel momento avvertito come lontano o attraverso una serie di immutabili mediazioni, quale lo Stato nazionale. Anche l'emigrazione aveva rappresentato un'esperienza collettiva che aveva interessato milioni e milioni di proletari del Nord, del Sud e di alcune parti dell'Italia centrale, ma essa non aveva avuto caratteri di simultaneità, disseminandosi in un arco di tempo altrettanto lungo quanto la storia nazionale; si era consumata, dopo l'abbandono del villaggio o del borgo natio, in comunità al di là delle Alpi e degli oceani, profondamente diverse le une dalle altre, e non rapportabili tra di loro neppure nei termini di una coscienza culturalmente riflessa; era stata comunque vissuta come una espulsione (permanente o temporanea) dalla società nazionale. Con la partecipazione alla «grande guerra», invece, si assistette a qualche cosa di più profondo che non la pura e semplice moltiplicazione quantitativa e la concentrazione nel tempo di quella coatta unificazione nazionale rappresentata dal servizio di coscrizione di leva, uno dei pochissimi segni coi quali lo Stato nazionale avesse fatto sentire la propria funzione unificatrice dalle Alpi alla Sicilia.

Anche in questo caso politica continuata con altri mezzi, la guerra aveva accelerato processi già insiti nello sviluppo della società italiana, modificandone però il corso e la natura in misura assai notevole. Proprio in quanto esperienza unificatrice di una società profondamente differenziata, essa non poteva non far risaltare con maggiore evidenza tutte le diversità esistenti nel suo seno, contribuendo a polarizzarne le antitesi fondamentali e quindi anche a rimettere in discussione il ruolo connettivo dei suoi anelli intermedi. Gli storici sono soliti valutare le guerre per le conseguenze che hanno apportato. Porsi un tale problema significa oggi domandarsi anche che cosa una guerra ha distrutto in fatto di energie umane, di lavoro e di intelligenza, e un tale interrogativo comincia ad assumere un valore tanto maggiore quanto più le guerre nell'età contemporanea hanno assunto le caratteristiche di «guerre totali», che coinvolgono ogni settore dell'attività umana dei paesi che vi prendono parte. Il salasso di perdite apportate dalla «grande guerra» vale quindi per ciascuno dei paesi belligeranti, nessuno escluso, ma esso ha un rilievo del tutto particolare per un paese come l'Italia che la guerra aveva colto in una fase difficile di crescita economica e sociale e di assestamento dei suoi precari equilibri politici e morali.

Senza dubbio, la trasformazione più profonda apportata dalla partecipazione alla guerra non consisté tanto nella modificazione quantitativa della composizione sociale della popolazione italiana, quanto nel mutato rapporto reciproco delle sue singole componenti. Infatti, il modo stesso con cui ciascuna di esse aveva partecipato alla decisiva esperienza della guerra comportò un diverso determinarsi della sua specifica natura e, insieme, un modo più ampio e generale di esercitarsi del suo peso e della sua capacità di incidenza nella trama dei rapporti sociali e politici del paese. Ne risultò un'ulteriore accentuazione per un verso di squilibri già preesistenti e, per un altro, di spinte disarticolate ma impetuose a contrastarli e rimuoverli.

Se le ripercussioni della crisi sociale apportata dalla guerra esplosero - negli aspetti concernenti le più moderne componenti della società italiana e i loro reciproci rapporti di forza - soltanto a dopoguerra inoltrato, la cessazione delle ostilità mise immediatamente a nudo la durezza che la prova della guerra aveva rappresentato per i ceti medi, colpiti in tutte le loro diverse componenti sociali. Quelli che erano stati la «vera struttura» dello Stato italiano10, e cioè la base sociale della mediazione del consenso intorno ad esso, se uscivano numericamente accresciuti dalle trasformazioni sociali avvenute durante il conflitto, non soltanto non vedevano aprirsi spazi corrispondenti al ruolo da loro assunto, ma vedevano abbattersi sulle loro spalle pesanti conseguenze di ordine economico e sociale. La categoria dei piccoli proprietari terrieri, già foltissima negli anni precedenti il conflitto, si era ulteriormente accresciuta, ma aveva visto gravati i suoi piccoli fazzoletti di terra da una rapace politica fiscale. Il non esiguo strato dei piccoli rentiers aveva ricevuto dalla svalutazione della moneta e dal blocco dei fitti fondiari e degli immobili più che un presagio del venir meno della stabilità della propria condizione sociale. La stessa burocrazia statale era portata a constatare nella forbice sempre più divaricata tra l'aumentato costo della vita e l'inadeguata rivalutazione degli stipendi il segno di un frustrante decadimento del proprio stato. E, mentre la guerra aveva messo in evidenza a tutti i livelli casi e miraggi di una rapida e miracolosa promozione sociale, l'attenuarsi o addirittura il venir meno della fiducia nel funzionamento ordinato dei tradizionali meccanismi promozionali gettava soprattutto la piccola borghesia urbana e rurale in una crisi profonda e senza precedenti.

Tutto questo in un paese che era uscito vittorioso dalla guerra, anzi che poteva ascrivere la sanguinosa e durissima vittoria riportata come la prima e unica autentica affermazione internazionale della sua breve storia unitaria. Si rischia di pregiudicare gravemente la comprensione di questo nodo cruciale della storia d'Italia ogni qualvolta si prescinda, in un senso o in un altro, dalla contraddizione tra realtà interna ed esterna del paese e aspettative e illusioni fiorite sul tronco dei fermenti, spesso così diversi, prodotti dalla guerra. Di qui la straordinaria accelerazione dei tempi e, insieme, il corposo accavallarsi con toni sempre più densi e cupi, delle spinte che la vicenda italiana conobbe in quegli anni: quasi un magma incandescente nel quale le linee di sviluppo della società nazionale si fondevano e si decomponevano nei loro elementi costitutivi, aprendo la via a sbocchi diffìcilmente prevedibili, ma non per questo casuali.

Le trasformazioni e gli spostamenti sociali causati dalla guerra si ripercossero immediatamente sulla estensione, la portata e la natura del ciclo di lotte sociali inauguratesi nel 1919. La guerra era intervenuta in un momento di crescita espansiva, anche se tumultuosa, dei contrasti sociali del paese, che si erano sviluppati particolarmente in città di piccola e media grandezza di quella fascia della penisola che rappresentava il cuscinetto tra il Nord industrializzato e il Mezzogiorno contadino e che, per il fatto di avere avuto a loro protagonisti gli indistinti strati della popolazione urbana della provincia, avevano ulteriormente dimostrato il carattere subalterno del movimento operaio e popolare italiano in quel periodo. Durante la guerra, come abbiamo visto, le agitazioni popolari non si erano taciute; il loro carattere si era però venuto divaricando tra la protesta, espressione di un malcontento particolarmente diffuso tra le popolazioni delle zone agricole e dei piccoli centri, segnatamente dell'Emilia e della Toscana, e l'isolata rivolta operaia di Torino nell'agosto 1917. Il fatto nuovo, che il ciclo di lotte sociali apertosi nel 1919 viene a mettere in evidenza, consiste nel delinearsi di un movimento geograficamente ininterrotto e socialmente indiscriminato, tale cioè da investire tutti i settori della società nazionale, e nel quale, accanto ai tradizionali ed endemici epicentri di combattività popolare, se ne vengono configurando dei nuovi, in parte dislocati nelle zone di più avanzato sviluppo economico-sociale del paese e in parte in quelle più arretrate. Il tipo di salto che un simile ciclo di lotte inaugurava, mentre veniva a cozzare contro le forme circoscritte nello spazio e sostanzialmente localistiche che il movimento operaio e contadino si era dato nei decenni precedenti, introduceva un contrasto tanto più profondo e insanabile nel tessuto generale della società italiana, dominato dalla contraddizione generale tra lo Stato accentrato e la squilibrata stratificazione settoriale del paese.

La riapertura delle ostilità sociali su scala di massa fu rappresentata dalla ripresa delle agitazioni per il caroviveri nella primavera del 1919. Come ebbe a scrivere Pietro Nenni, si trattò però ancora di una «ripresa tumultuosa, anarcoide, priva di direzione, di vedute d'insieme, di chiari e precisi obiettivi. Ogni città fece per proprio conto. I negozi furono assaltati, saccheggiati i forni, s'imposero calmieri del 50 per cento sui generi più vari di consumo. Molte merci furono distrutte. Ogni villaggio, ogni cittadina ebbe il suo Marat o il suo Lenin, di formato ridottissimo»11. A ben guardare queste agitazioni, verificandosi ancora una volta nella fase stagionale di congiunzione tra il vecchio e il nuovo raccolto, prolungavano una lunga tradizione dei moti delle città italiane, che la Settimana Rossa aveva confermato. Il fatto che questi moti «spontanei» conoscessero una particolare intensità lungo l'itinerario che si snoda da Ancona a Carrara attraverso la zona appenninica e in centri di folta presenza anarchica e sindacalista-rivoluzionaria, dice già qualcosa sulla continuità che questi moti presentavano rispetto a quelli degli anni immediatamente precedenti la guerra. Gruppi di ceti popolari confinanti con la piccola borghesia avevano sempre partecipato a questo tipo di moti; ma, mentre negli anni precedenti la guerra la piccola borghesia si era per lo più limitata a fornire i quadri di un movimento genericamente popolare, ora essa diveniva una delle grandi componenti di un contrasto sociale dagli esiti ancora incerti, determinando con questa sua presenza la irreversibilità del processo di trasformazione della società italiana avviato dalla guerra.

Ma un valore ancor più innovatore che non la partecipazione ai moti di un ceto sociale che alla guerra aveva dato i propri quadri e che ora tendeva a ribellarsi contro lo Stato, aveva il ruolo che la classe operaia veniva ad esercitarvi, non più di rinnovamento dall'interno, ma di contrapposizione frontale al vecchio ordine costituito. Rappresentava inoltre un tratto di congiunzione tra il passato e il presente il fatto che, tra tutte le regioni d'Italia, quella nella quale i moti partirono e insieme conobbero una maggiore intensità fu proprio la Liguria, al tempo stesso la regione più recentemente industrializzata e nella quale maggiore forza conservava la componente anarco-sindacalista. La storica conquista della giornata lavorativa di otto ore, accompagnata da una sensibile rivalutazione salariale, sembrò non essere avvertita in tutta la sua importanza innovatrice non soltanto perché limitata dall'inflazione e dalla crisi economica in atto12, ma anche perché oggettivamente posta in secondo piano dal venir meno di un simile obiettivo sindacale rispetto all'affacciarsi di più importanti problemi connessi col vuoto di potere apertosi nello Stato liberale.

Da questo stadio di agitazioni tumultuoso e indistinto il movimento popolare usciva per avviarsi allo scontro diretto coi propri antagonisti tradizionali, venuti a trasformarsi in conseguenza della guerra. Lo sciopero del 20-21 luglio 1919 di solidarietà con la Russia sovietica e con la repubblica ungherese dei consigli, sul cui esito gli storici sono ancora discordi, costituì tuttavia una prima dimostrazione della potenzialità del movimento operaio italiano13. Anche lo sciopero dei duecentomila metallurgici della Lombardia, del Piemonte, della Liguria e dell'Emilia (agosto-settembre 1919), che rappresentò la punta più alta delle lotte di quell'anno, si concluse senza vinti né vincitori, ma pose per la prima volta il problema del potere in fabbrica, mettendo così in discussione i tentativi di ristrutturazione della grande borghesia industriale.

Finito il ciclo delle grandi agitazioni operaie e contadine, si cominciò presto a parlare in Italia di un «biennio rosso» per indicare gli anni 1919-20; e l'espressione è tornata nell'uso della storiografia recente. In realtà, piuttosto che di un biennio dominato da un unico segno, sembra opportuno riferirsi a un periodo all'interno del quale erano in atto contemporaneamente processi differenti e contrastanti, e in particolare una serie di ondate diverse, successive e non coordinate, che hanno come unico, seppure assai importante termine di ispirazione comune, quello di avere a proprie protagoniste le classi popolari. Mai però come in questo caso è necessario differenziare all'interno di un movimento, che potè apparire unico agli avversari del tempo come ai più entusiasti storici di oggi, se si vuole capire che cosa in realtà esso fu, quali furono le sue possibilità e perché esso venne ad esaurimento.

Di queste agitazioni, il dato forse più nuovo che non la compatta presenza della maggior parte della classe operaia e la inizialmente diffusa partecipazione di alcuni strati dei ceti medi urbani, è la massiccia irruzione delle masse contadine nell'arena delle lotte sociali. Prima della guerra infatti, ove si eccettuino le zone bracciantili, la partecipazione dei contadini alle lotte sociali si era limitata ad agitazioni sporadiche non sostenute da alcuna organizzazione permanentemente costituita. Ora, tutto il 1919 è ininterrottamente percorso da un denso susseguirsi di agitazioni contadine estese all'intera penisola, non coincidente con le lotte operaie e scandito dai ritmi della graduale smobilitazione dell'esercito: nel Nord imponenti scioperi agricoli per il miglioramento dei contratti da parte dei lavoratori salariati, che si estesero per la prima volta ai coloni e ai mezzadri dell'Italia centrale; occupazione delle terre incolte del latifondo nel Lazio e nelle regioni meridionali da parte di salariati e di piccoli proprietari: le prime guidate da organizzazioni sindacali e le seconde per lo più spontanee o guidate da organizzazioni di ex combattenti14. Furono movimenti capaci d'introdurre la nozione stessa di lotta sociale in plaghe e regioni d'Italia che quasi ne erano rimaste fino a quel momento immuni, e di mostrare quanto l'esperienza bellica e la promessa della terra avessero contribuito a fare uscire le popolazioni rurali da un secolare torpore. La forza di questi movimenti fu però pari alla loro primitività e alla loro frammentarietà: ciò che rese ancora più difficile e complesso il compito della direzione sindacale e politica da parte delle vecchie e nuove forze organizzate del movimento operaio e contadino italiano.

Il peso delle sollecitazioni alle quali queste furono sottoposte in seguito al brusco sommovimento della situazione politica e sociale si registra con particolare evidenza riferendosi, più ancora che ai partiti e alle formazioni politiche, alle organizzazioni sindacali. La crescita vertiginosa dei loro effettivi dimostra infatti che, se il problema della direzione delle lotte si pose spesso in termini di recupero di manifestazioni cresciute spontaneamente o sotto la guida di forze nuove ed estranee al movimento sindacale, tuttavia l'impatto avvenne in gran parte all'interno degli organismi costituiti. La cifra di per sé impressionante di quattro milioni di organizzati, risultante dalla somma degli effettivi dei diversi organismi nel momento della loro massima espansione (oltre 2 milioni la cgdl, oltre un milione il sindacato cattolico, la Cil, cui sono da aggiungere svariate centinaia di migliaia di aderenti all'Usi, alla Uil e ai sindacati autonomi), acquista un significato più pregnante ove ci si soffermi su alcuni dei dati parziali più significativi, come quelli della Federterra. Dai 125 000 aderenti del 1914, pur attraverso il sensibile calo verificatosi negli anni del conflitto, questa sali infatti a quasi 420 000 nel 1919 e a 760000 nel 1920, denotando così una mobilitazione di massa nel mondo contadino, per valutare appieno la quale occorre tener conto di varie circostanze: l'emigrazione, che nel 1919 era ancora pressoché nulla (29 000 unità) ebbe nel 1920 una impennata che la riportò ai livelli degli anni più alti, tra il 1905 e il 1913, con 614 000 unità15, mentre conferisce un particolare significato a tale aumento della Federterra anche il massiccio drenaggio di braccia dall'agricoltura all'industria di guerra, verificatosi negli anni precedenti, che contribuì sul piano sindacale alla crescita impetuosa delle Federazioni di mestiere operaie: la Fiom, ad esempio, passò da 7000 organizzati nel 19143 104 000 nel 1919 e a 160 000 nel 1920; la Fiot da 9000 a 71 000 e a 145 00016 Né l'aumento quantitativo mancò di riflettersi sul piano qualitativo: per restare all'esempio parziale ma significativo della Federterra e degli istituti del bracciantato della valle padana, mentre deve essere sottolineato il ruolo negativo svolto dalla parola d'ordine della socializzazione delle terre ai fini di una direzione generale delle lotte contadine sul piano nazionale, occorre anche tener presente il grande significato sociale e politico delle conquiste ottenute nel dopoguerra sul piano del collocamento e del rafforzamento del movimento cooperativo, tali da determinare una situazione di vero e proprio monopolio nel mercato della manodopera da parte delle organizzazioni di classe, contro cui si ersero in prima fila, e non a caso, nazionalisti come Maffeo Pantaleoni17. La solidarietà, la disciplina e la capacità di lotta del movimento operaio e contadino in questi settori, tuttavia, se costituirono indubbiamente un grande successo, non mancarono di porre nuovi problemi di direzione, ancora una volta sul terreno del potere: «Le conquiste dei lavoratori della terra nel campo del collocamento e dell'imponibile, - ha scritto Renato Zangheri, - come in quello dei patti colonici, e in generale le posizioni di forza raggiunte nella contrattazione della manodopera in ordine al livello della sua retribuzione, alla durata della giornata lavorativa, alla protezione dei lavoratori dagli infortuni, e così via, erano tali da intaccare fortemente il profitto capitalistico e destarono una reazione che superava il limite della contesa sindacale, ed a cui solo sul terreno politico poteva ormai opporsi il movimento dei lavoratori»18.

2. L'ascesa dei partiti di massa.

Alle prime elezioni politiche del dopoguerra, svoltesi ad un punto già alto del ciclo del movimento di lotte (16 novembre 1919) con la prima compiuta applicazione del suffragio universale maschile e del sistema proporzionale (che ne fecero non solo le prime elezioni veramente libere della storia dell'Italia unita, ma anche un termometro fedele della volontà del paese), fu possibile registrare come i diversi gruppi del liberalismo italiano avessero perduto la maggioranza parlamentare, ininterrottamente detenuta fino a quel momento. In quale misura la guerra avesse spostato gli orientamenti politici delle grandi masse della popolazione, sottraendone una gran parte all'influenza dei ceti dominanti e avviandole verso le vecchie e nuove formazioni politiche di massa, lo dimostrò il successo riportato dai socialisti e dai popolari, i quali, ottenendo rispettivamente 156 o 101 seggi, finivano col raggiungere coi loro circa 3 milioni di voti la maggioranza dei suffragi nel Parlamento e nel paese19. È però necessario domandarsi che cosa fossero questi organismi e le forze sociali ed economiche che ad essi facevano capo.

La tragedia del socialismo italiano negli anni postbellici ha dato luogo ad un dibattito politico-storiografico che la rapida e bruciante affermazione del fascismo in Italia, per lunghi anni isolata in Europa, tinse subito dei colori dell'autocritica socialista, tanto più che il PSI aveva avuto un atteggiamento diverso da tutti gli altri partiti della II Internazionale dell'Europa occidentale nei confronti della guerra imperialistica. La polemica ideologico-politica all'interno del movimento operaio, proprio per le sue origini e i suoi caratteri internazionali, si è soffermata soprattutto sugli elementi che la crisi del socialismo italiano presentò in quegli anni in comune con la crisi dell'intero movimento socialista dell'Europa occidentale e centrale: scontro delle correnti in rapporto alla posizione da esse presa nei confronti della rivoluzione russa e, conseguentemente, capacità o meno di porsi i problemi relativi alla conquista e all'esercizio del potere, e così via. Senza negare l'importanza di questi elementi, sembra tuttavia necessario riconsiderarli alla luce della contraddizione che l'esplosione di un forte ma non coordinato movimento di masse faceva precipitare tra la crisi della società nazionale e le strutture che il socialismo italiano si era dato e le tradizioni che ne erano scaturite.

Quella che nel linguaggio del movimento comunista è stata formulata come contraddizione tra una situazione oggettivamente rivoluzionaria e l'assenza di un partito effettivamente capace di guidare la rivoluzione proletaria deve essere sciolta attraverso una considerazione più attenta e ravvicinata di tutti i dati che hanno contribuito a darle vita. Che l'Italia uscita formalmente vittoriosa dalla guerra rappresentasse, in conseguenza non solo delle condizioni fattele al tavolo della pace, ma anche della sostanziale dipendenza dalle potenze effettivamente vittoriose, «l'anello più debole» della catena imperialistica, era un punto sul quale le motivazioni polemiche degli uomini di Stato italiani coincidevano inconsapevolmente con le diagnosi dell'Internazionale comunista. Che, per seguire i nessi della definizione leninista circa la natura di una situazione rivoluzionaria, le classi dominanti non fossero più in grado di esercitare il potere nelle forme tradizionali, corrispondeva alla realtà non meno del fatto che le classi oppresse non volessero più essere dominate e sfruttate come nel passato. Ma questa incapacità della classe dominante di governare come in precedenza passava, è vero, attraverso il deperimento di istituti tradizionali di costrizione e di consenso, ma anche attraverso la costituzione e il rafforzamento di alcuni settori dell'economia nazionale ancora più fortemente compenetrati col tradizionale apparato dello Stato, mentre la vittoria militare offriva al nazionalismo italiano potenziali elementi per aggregare nella loro totalità strati della popolazione fino a quel momento passivi, contendendoli ai movimenti di opposizione, cui avevano fornito nel passato il personale dirigente. D'altra parte, le classi sfruttate e oppresse cominciavano soltanto allora a riconoscersi come tali in una forma aurorale di coscienza della propria condizione subalterna. Il problema dunque del «partito rivoluzionario», in quanto poneva il problema della direzione politica di forze sociali in formazione e in espansione, veniva a riferirsi non solo all'orientamento ideale e politico del partito come tale, ma anche e soprattutto alla sua natura e alla sua collocazione nella società passando attraverso il rapporto che esso aveva col complesso del movimento proletario.

I risultati elettorali del 16 novembre 1919 avevano messo in evidenza una non trascurabile contraddizione tra la crescita del consenso elettorale socialista - maturata soprattutto nelle regioni dove più profonde radici aveva l'influenza del PSI(Lombardia, Piemonie, Emilia, Toscana), e che raggiungevano da sole più di due terzi dell'elettorato socialista - e la dilatazione degli iscritti al partito, che, almeno come tendenza, si manifestava in percentuali di incremento con le punte più elevate proprio nelle regioni d'Italia in cui fino a quel momento l'organizzazione socialista era stata più debole20. Si esprimeva attraverso questa contraddizione l'esigenza della formazione di un organismo politico, che, muovendo dalle sue roccheforti tradizionali, acquisisse dimensioni e caratteri nazionali facendosi promotore e garante di un'alleanza di forze sociali nelle quali, sotto la direzione della classe operaia, fossero rappresentate tutte le masse lavoratrici del paese. Forse non è stato ancora sufficientemente considerato il fatto che il psi conobbe nel breve spazio di due anni un incremento dei propri effettivi senza eguali in tutti gli altri partiti europei, arrivando addirittura a quintuplicare i propri iscritti rispetto al 1914, che pure aveva segnato il punto di gran lunga più alto toccato durante l'«età giolittiana»21. Questo dato, accompagnato dal passaggio della percentuale tra iscritti e voti socialisti dal 6,6 all'i 1,5 per cento, era qualcosa di più che un semplice aumento quantitativo. Implicava un necessario salto di qualità nella natura del partito, la trasformazione cioè da una confederazione di localismi sindacali, cooperativi e amministrativi, di cui l'opinione del quotidiano del partito e l'orientamento del suo gruppo parlamentare costituivano i poli di riferimento - spesso discordanti - di natura politica, in un organismo capace di svolgere un'azione politica unitaria in quanto omogeneo sotto il profilo programmatico e organizzativo.

In realtà, quanto più è possibile illuminare la crisi del socialismo italiano in una prospettiva che si alimenta della conoscenza dell'humus sociale da cui sorse e dell'intera parabola del suo decorso, tanto più sembra abbia un fondamento oggettivo la conclusione che il vecchio partito socialista, in quanto equilibrio più o meno stabile di tutti gli elementi che avevano sorretto la sua esistenza, era definitivamente entrato in crisi nel 1912, senza che il Congresso di Reggio Emilia avesse segnato l'inizio di una svolta effettiva22. A ben guardare, la crisi del socialismo italiano, se esplode negli anni immediatamente postbellici, ha una durata che si identifica con la crisi complessiva della società italiana e ne diviene uno dei luoghi nevralgici di risoluzione.

Che il socialismo italiano non avesse preso atto delle conseguenze della guerra e del mutamento di prospettive da essa arrecato, è un luogo comune assai diffuso, che va negato in quanto tale per essere riconsiderato nella sua sostanza di fondo.

In stretto rapporto con l'assunzione delle caratteristiche di un movimento di massa, il movimento socialista italiano, mentre rivitalizzava l'antica rete delle proprie organizzazioni di massa, si dotò fino dall'immediato dopoguerra di istituzioni destinate a favorirne la penetrazione tra i reduci e gli ex combattenti, come ad esempio la Lega proletaria dei mutilati, invalidi, reduci, orfani e vedove di guerra (Mirov). Essa raggiunse un'estensione non trascurabile, toccando al suo primo congresso (giugno 1919) circa duecentomila iscritti. Ma sia l'entità della cifra, sia più in generale la forza di aggregazione della lega rimasero gravemente condizionate dal fatto che essa non si diffuse al di là delle zone più tradizionali della presenza socialista, finendo col risultare nulla più che una nuova variante, non tra le più vitali, del variegato associazionismo socialista, e riconfermandone ancora una volta la difficoltà a oltrepassare i confini delle basi originarie della propria espansione23. Una difficoltà analoga a quella messa in evidenza nei confronti del problema dei soldati e dei reduci, il psi manifestò nella capacità di adeguare il proprio programma ai compiti nuovi impostigli dall'assurgere di grandi masse sociali al ruolo di protagoniste della storia nazionale. Il programma di Genova non aveva mai avuto nei dibattiti teorici e politici del socialismo italiano la stessa importanza di punto di riferimento costante e di discriminante ideale esercitati, ad esempio, nella storia della socialdemocrazia tedesca dal programma di Erfurt: le ragioni di ciò coincidevano, nel positivo e nel negativo, col fatto che il socialismo italiano non era mai divenuto quel tipo di partito organizzato e burocratizzato che la socialdemocrazia tedesca, invece, aveva costruito, servendosi anche di una schematica interpretazione del proprio programma. La disordinata sfaccettatura del dibattito programmatico del partito socialista, componente essenziale del «diciannovismo», derivava una parte notevole delle sue caratteristiche dal fondamento ideologico gelatinoso della prassi politica del socialismo italiano, che i termini nuovi del problema non riuscirono a fare precipitare intorno ad alcuni poli qualificanti.

L'eco dell'Ottobre sovietico non fu in Italia inferiore a quella di altri paesi nei quali il movimento operaio e rivoluzionario avvertiva per rapporti più consolidati l'attrazione della conquista del potere da parte dei bolscevichi e l'esigenza di «fare come in Russia». Al contrario, in Italia l'esempio sovietico investì frontalmente il mondo popolare italiano, facendo leva su tutte le istanze che in esso premevano per una fuoruscita dallo stato di subalternità. Prima ancora di divenire elemento di un'informata discussione politica all'interno del movimento operaio organizzato, i simboli e gli artefici dell'Ottobre sovietico divennero uno dei rari tramiti di cultura tra i ribelli in grigioverde e l'humus sovversivo delle loro famiglie. Estendendo al capo dei bolscevichi quella consuetudine di trasferire fino nel nome dei propri figli la protesta sociale e l'augurio di una vita nuova e diversa, che il primo socialismo italiano - particolarmente in Emilia e in Toscana - aveva riservato oltre che ai grandi protagonisti della lotta per il trionfo della ragione e del progresso sociale, persino ai personaggi dell'opera lirica, numerosi Lenin si iscrissero nei registri dell'anagrafe italiana prima ancora che la guerra fosse conclusa 24. In questo senso la rivoluzione russa, se rappresentò in prospettiva l'avvenimento discriminante tra due epoche della storia del socialismo italiano, costituì anche l'ultima e più matura incarnazione dell'ideale in cui si proiettavano le aspirazioni di libertà e le esigenze di giustizia del sovversivismo italiano.

Ciò spiega come, unico tra i vecchi partiti socialisti dell'Occidente europeo, il psi aderisse all'Internazionale comunista poco dopo la sua fondazione e includesse la dittatura del proletariato nel programma del partito rinnovato al Congresso di Bologna (ottobre 1919)25. Ma spiega altresì come questa proiezione della rivoluzione d'Ottobre in termini appunto di «ideale», e sia pure di ideale per colti, presso gli strati dirigenti del partito, impedisse di penetrare e acquisire, al di là delle formule, il significato di profonda innovazione teorica e politica rappresentato dall'esperienza russa. In realtà, nella misura in cui si diffuse una coscienza della portata effettiva della rivoluzione russa, essa contribuì a far precipitare le differenze di orientamento all'interno del psi: e in questo senso i riformisti furono i primi a trarne alcune conseguenze, rendendo più esplicite le ragioni della loro adesione allo Stato liberale-parlamentare. Ma al tempo stesso il persistere di una tradizione socialista che coinvolgeva anche i riformisti e nella quale la solidarietà internazionale e la predicazione di un «mondo nuovo» rappresentavano il contrappunto della modesta e oscura opera di emancipazione, faceva si che le differenze di valutazione, e ancor più le conseguenze che ne discendevano, fossero sommerse nella pressoché totale unanimità dell'entusiasmo. Anche la proposta della Costituente, avanzata per la prima volta dalla Confederazione generale del lavoro nel suo programma per il dopoguerra, non riuscì ad assolvere la funzione di un'effettiva pietra di paragone tra le varie correnti del socialismo italiano: favorevoli le furono i riformisti — per quanto non tutti — i quali vi scorsero la possibilità di riversarvi la spinta dell'entusiasmo rivoluzionario delle masse, utilizzandola in una prospettiva di riassetto democratico di quell'ordinamento dello Stato italiano, che essi avevano trascurato per l'innanzi; mentre con l'eccezione del solo Serrati, che vi aderì, l'ala massimalista non la considerò neppure occasione opportuna per approfondire di fronte alle masse il problema dello Stato e della conquista del potere26.

Questa difficoltà di adeguamento programmatico trovava un riscontro nella struttura organizzativa del partito e del movimento socialista, sostanzialmente immutata rispetto al periodo prebellico. La crisi dell'egemonia riformista si era accentuata con la guerra, senza che di contro fosse venuta configurandosi una reale alternativa di direzione. Anzi, il prolungarsi della crisi riformista e l'estendersi dell'influenza «rivoluzionaria» facevano risaltare la comune matrice culturale delle correnti del socialismo italiano associandole in una condizione subalterna, che impediva all'una e all'altra di «fare politica». Di qui il sopravvivere dell'antiinterventismo come un modo di definirsi nel quale, con diversa intensità, luna e l'altra corrente si riconoscevano27; e di qui, soprattutto, la presa che i termini del dibattito politico prebellico - collaborazione o intransigenza - continuavano ad esercitare in una situazione completamente mutata. In realtà, nella nuova corrente che si disse massimalista viveva non poco dell'eredità di quel singolare fenomeno che era stato l'integralismo, un misto di indifferentismo ideologico e di trasformismo politico, mentre l'unica vivente realtà organizzata del movimento - i sindacati, le cooperative, i municipi - potevano continuare ad essere diretti dai riformisti, ancora assai influenti nel gruppo parlamentare e oggettivamente avvantaggiati dall'inerzia del dibattito politico.

Vi fu, per la verità, un profondo tentativo di rinnovamento anche istituzionale che, nel movimento operaio italiano come in quello degli altri paesi, si riallacciava all'Ottobre sovietico e che in tanto aveva possibilità vitali, in quanto tale rapporto maturava nell'ambito della nuova realtà creata dalla guerra: l'esperienza dei consigli di fabbrica. In Italia, forse in misura ancora maggiore che in altri paesi, i consigli, che furono essenzialmente consigli operai, trassero la loro origine da un istituto sorto durante la guerra per ispirazione dei ceti economici e politici dirigenti al fine di incrementare la produzione bellica: le commissioni interne. Nati nell'ambito del movimento sindacale, e nella prospettiva di una collaborazione di classe, i consigli fuoriuscirono rapidamente in Italia da questa impostazione originaria. Essi divennero il più forte strumento di aggregazione creato dal movimento operaio italiano per superare i tradizionali steccati tra lo strato degli operai organizzati e le più vaste masse dei lavoratori disorganizzati e, al tempo stesso, tra la sfera delle vertenze economiche e quella della lotta politica. Rivendicando all'insieme dei lavoratori delle officine non solo la difesa delle loro condizioni di lavoro e di vita, ma anche l'organizzazione del lavoro stesso e la direzione dell'attività produttiva, i consigli esprimevano la necessità che la classe operaia assumesse il ruolo di forza dirigente la società nazionale, ponendo, a partire dal luogo stesso del proprio lavoro, il problema di un mutamento della direzione del potere.

Non ci fu, si può dire, socialista italiano che tra il 1919 e il 1920 non parlasse dei consigli, ma è significativo che la dizione più corrente fosse quella di «soviet» o «soviety», mutuata immediatamente dal prestigioso e affascinante precedente russo. In realtà, sia nel dibattito programmatico all'interno del psi, che vide accomunati nella presentazione di un ordine del giorno al consiglio nazionale dell'aprile 1920 personalità di opposte tendenze, come Egidio Gennari e Gino Baldesi28, sia nella più consapevole elaborazione teorica di Amadeo Bordiga e della rivista che significativamente egli intitolò a questo istituto, i soviet restarono un ideale staccato e sovrapposto ai problemi reali del movimento. L'unico gruppo del socialismo italiano che - non a caso a Torino e partendo dalla viva esperienza delle fabbriche di quella città - intese il significato di rottura e la profonda carica innovatrice del movimento dei consigli fu quello che si formò intorno all'«Ordine nuovo». Tra i giovani, quasi tutti senza un passato e una storia, che lo componevano, emerse sin dall'inizio Antonio Gramsci29.Approdato a Torino dalla Sardegna, aveva già bruciato attraverso un intenso e fecondo rapporto con le correnti più vive della cultura italiana e alla scuola della classe operaia della « Pietro-grado d'Italia» gran parte di quella che egli stesso chiamerà la propria «quadruplice origine provinciale». Aveva vissuto la crisi del socialismo italiano negli anni del conflitto collocandosi a fianco di coloro che meglio ne incarnavano l'avversione alla guerra e il legame con le masse, ma, al tempo stesso, con l'acuta consapevolezza della necessità di un profondo e radicale svecchiamento, che lo aveva portato ad un duro confronto critico con le stratificate tradizioni del movimento operaio italiano. Il discorso sul tanto controverso marxismo di Gramsci è da risolvere forse meno attraverso l'identificazione del suo pensiero o le particolari inflessioni che esso assume tra la canonizzazione ortodossa della II Internazionale e la ripresa rivoluzionaria rappresentata da Lenin, e assai più, invece, nello stacco che egli viene a costituire in un paese in cui teoria marxista e pratica politica del movimento operaio avevano sofferto non tanto della loro mìsere, quanto della loro dissociazione. Il rigore critico di Gramsci nell'esame della crisi del socialismo italiano consisté nell'abbandono di ogni forma di pedagogismo, per ricercare gli strumenti teorici e gli istituti politici nuovi che rendessero il movimento reale protagonista effettivo del proprio rinnovamento. La ricerca di Gramsci negli anni della guerra può dare l'impressione di un magma nel quale il confronto con la propria formazione culturale, la fustigazione dei vizi mentali e morali degli intellettuali italiani, l'appassionato intervento politico non sembrano trovare un loro punto di unificazione. Lu però la spinta di fattori esterni ad evidenziare e a fare maturare quanto di implicitamente unificato era già presente in tale processo.

Che Gramsci condividesse la sorte di tanti altri socialisti italiani di non avere una informazione esatta di uomini e forze che avevano prodotto il grande sommovimento dell'Ottobre sovietico, è dato che risulta sempre più chiaro. Non per questo, però, La Rivoluzione contro il Capitale cessa dal costituire il manifesto programmatico del rinnovamento del socialismo italiano, che ne riproduce con maggiore efficacia il punto di partenza e la natura della carica innovatrice che vi viene immessa, e che vi vede fuso in modo inestricabile l'aspetto intellettuale e morale con quello sociale e politico. «Rassegna di politica e cultura», la rivista torinese si conquistò con rapidità un pubblico se non larghissimo, certo ben al di là dei cancelli delle fabbriche torinesi, dove pure trovò il primo organico rapporto di classe che una rivista italiana abbia saputo istituire. La lessero, ricavandone uno stimolo ad un ripensamento radicale del loro modo di essere militanti rivoluzionari, giovani socialisti d'ogni parte d'Italia, la cui collocazione nella lotta delle tendenze poteva essere diversa, ma cui tuttavia l'avere vissuto la crisi delle generazioni del socialismo italiano indotta dalla guerra aveva acceso una volontà d'azione e un'ansia di conoscenza unite e rafforzate dal loro rapporto reciproco.

Dall'Inghilterra alla Germania, per riferirsi soltanto ai due poli principali del socialismo europeo, il movimento dei consigli presentò la caratteristica di portare alle estreme conseguenze, ribaltandone le finalità, tendenze già manifestatesi all'interno del movimento operaio dei rispettivi paesi. In Italia, il movimento dei consigli fu vissuto e visto come germe dello Stato proletario e come uno strumento rinnovatore del movimento operaio italiano, tanto più profondo in quanto si manifestava direttamente dal suo interno, infrangendone le tradizionali alternative di sviluppo. Luogo di unificazione tra economia e politica, il consiglio avrebbe dovuto dimostrare per Gramsci la capacità della classe operaia di rinnovare nel corso del processo rivoluzionario i due strumenti fondamentali della propria emancipazione, il sindacato e il partito. La realizzazione di tale prospettiva era in stretta interdipendenza con l'ampiezza e la profondità del movimento rivoluzionario nel paese nel suo complesso.

In realtà, l'originalità dei consigli italiani rispetto a quelli di altri paesi dell'Europa occidentale fu inversamente proporzionale alla loro diffusione. Sostanzialmente limitati a Torino e a poche altre zone della parte industrializzata del paese, i consigli rappresentarono nel variegato e scoordinato insieme delle lotte dei lavoratori italiani l'ondata più alta destinata a smorzarsi perché non seguita e sorretta da un movimento generalizzato nel quale rifluissero e si incanalassero le non convergenti spinte rinnovatrici dei diversi settori della società nazionale30. Chi si soffermi sulla rappresentazione che di quel momento cruciale delle lotte delle classi in Italia fornisce l'«Ordine nuovo», non può non restare colpito dalla contraddizione tra la lucidità con cui viene individuato il cuore dei problemi della rivoluzione italiana, e l'inadeguatezza nel coglierne i ritmi e le articolazioni specifiche. Il Gramsci dell'«Ordine nuovo» supera d'un balzo i limiti che avevano fino a quel momento impedito al socialismo italiano di individuare come, nella definizione del problema dello Stato, potessero unificarsi gli obiettivi di lotta dell'alleanza tra gli operai e i contadini per affrontare e risolvere, nel superamento della frattura tra il Nord e il Sud, la più grande questione della nazione italiana. Ma si trattava di intuizioni non ancora completamente enucleate in un magma di politica e di cultura, di originale ripensamento della storia d'Italia e di elaborazione di un concreto programma politico, cui il carattere privilegiato dell'osservatorio torinese conferiva in profondità ciò che toglieva in estensione.

La sconfitta subita dal movimento consiliare nell'aprile e ribadita successivamente nel settembre del 1920 avrebbe fatto rifluire il problema del rinnovamento del socialismo italiano dal livello globale del consiglio a quello istituzionale del sindacato e del partito. Se la prima ipotesi era concepibile soltanto nel quadro dell'affermazione del movimento rivoluzionario, la seconda diveniva una necessità in una prospettiva che era già di ripiegamento, seppure non ancora di sconfitta. La spiegazione autocritica avanzata dal gruppo dell'«Ordine nuovo» per la propria mancata trasformazione in gruppo organizzato all'interno del PSI31, se ha poco a che vedere con l'indirizzo e con la diffusione della rivista, trae tuttavia la sua ragion d'essere da questo mutamento di piano che il problema del rinnovamento del socialismo italiano conobbe tra la primavera del 1919 e l'autunno del 1920.

Né «Comunismo» e neppure «Il Soviet» furono riviste anche lontanamente comparabili per originalità di impostazione e capacità di corrispondere all'ansia di rinnovamento delle giovani generazioni del socialismo italiano con P«Ordine nuovo». «Comunismo» era l'organo di cui il direttore dell'«Avanti!» si era provvisto per incanalare nell'alveo del vecchio massimalismo e verso l'Internazionale comunista i fermenti politici e intellettuali suscitati anche in Italia dall'ondata della rivoluzione mondiale. «Il Soviet», originariamente organo della sezione napoletana del psi, divenne una rivista di risonanza nazionale in quanto strumento politico e organizzativo di una frazione istituzionalmente costituita e di colui che l'aveva voluta come coronamento di un'azione conseguente e di punta dagli anni precedenti la guerra in poi, ostinatamente e isolatamente rivolta alla creazione di un'avanguardia organizzata del socialismo italiano: Amadeo Bordiga. Non a caso perciò, quando il dilemma «rinnovamento o scissione» cominciò a inclinare verso il secondo dei due termini, i maggiori interlocutori della nuova fase di dibattito introdotta nel socialismo italiano dai ventun punti posti dal II Congresso dell'Internazionale comunista furono proprio Serrati e Bordiga, cioè i rappresentanti di due soluzioni opposte e simmetriche nell'ambito della stessa tendenza32.


Note

1 Cfr F. Curato, La Conferenza della pace, 1919-1920, voi. I, Milano 1942, pp. 180 sgg.

2    Cfr. J. M. Keynes, Politici ed economisti, Torino 1974, p. 16, nota.

3   Cosi, l'americano R. S. Baker, cit. in Curato, La Conferenza della pace cit., p. 189.

4 G. Salvemini, La diplomazia italiana nella grande guerra (1925), in Dalla guerra mondiale alla dittatura (1916-1925), acura di C. Pischedda, Milano 1964, p. 754.

5 Cfr. G. G. Micone, Le origini dell'egemonia americana in Europa, in «Rivista di storia contemporanea», III, 1974. p. 434. Una immagine eloquente dello stato di dipendenza in cui si trovava l'Italia nei confronti dell'Inghilterra e soprattutto degli Stati Uniti d'America può trarsi da un allarmato telegramma di Orlando all'ambasciatore italiano a Londra, del 2 gennaio 1919, dopo che le difficoltà finanziarie del paese avevano provocato il blocco delle importazioni di carne congelata: «Fra dieci giorni - scriveva il presidente del Consiglio - intero esercito e parte popolazione si troveranno senza carne». Cfr. I documenti diplomatici italiani, serie VI: 1918-1922, voi. I: 4 novembre 1918 -17 gennaio 1919, Roma 1956, p. 397. Si veda anche la risposta dell'ambasciatore Imperiali, a p. 401. Non meno significativo il testo del telegramma di pochi giorni successivo inviato da Sonnino all'incaricato d'affari italiano a Washington, nel quale si richiedevano consistenti crediti per mantenere le importazioni dagli Stati Uniti, essenziali per la stessa sopravvivenza del paese. Nel corso della guerra, infatti, queste si erano accresciute del 578 per cento, con un forte stacco rispetto a quelle della Gran Bretagna (+ 203 per cento) e della Francia (+109 per cento): ibìd., p. 440.

6 Cfr. Seton-Watson, Storia d'Italia dal 1870 al 1925 cit., p. 611.

7 V Potëmkin, Storia della diplomazia, voi. IV, con la collaborazione di N. Kolcianovskij, I. Mints, A. Pankratova ed E. Tarlé, Roma 1956, p. 38.

8  Cfr. La Questione dell'Alto Adige, saggio di E. Vallini, introduzione di P. Alatri, Firenze
 1961, pp. 29 sgg.

9    Cfr. Valiani, La dissoluzione dell'Austria Ungheria cit. Per un quadro complessivo della si
tuazione politica e diplomatica internazionale all'indomani della guerra, cfr. il fondamentale lavoro
di A. J. Mayer, Politics and Diplomacy of Peace-making. Containement and Counterrevolution at
Versailles, 1918-1019, New York 1967; il fascicolo dedicato all'Europa del novembre 1918 dalla
«Revue d'histoire moderne et contemporaine», tomo XVI, gennaio-marzo 1969; e, sui rapporti ita
lo-austriaci, gli atti del I Convegno storico italo-austriaco (Innsbruck, 1-4 ottobre 1971), in «Storia
e politica», XII, 1973, fase. 3.

10 Chabod, L'Italia contemporanea (1918-1048), Torino 1961, p. 29.

11 P. Nenni II diciannovìsmo, Milano 1962, pp. 39-40. Sulle lotte sociali del 1919, cfr. R. Vivarelli, Il dopoguerra in Italia e l'avvento del fascismo (1918-1922), I: Dalla fine della guerra all'impresa di Fiume, Napoli 1967, e sul primo episodio di occupazione di una fabbrica, verificatosi nel mese di marzo del 1919, A. Scalpelli, Dalmine 1919. Storia e mito di uno sciopero «rivoluzionario», Roma 1973.

12    Cfr. I. Barbadoro, Storia del sindacalismo italiano dalla nascita al fascismo, voi. II:  La Con
federazione generale del lavoro cit., pp. 373 sgg.

13   Cfr. E. Santarelli, Italia e Ungheria nella crisi postbellica (1918-1920), Urbino 1968, pp. 132 sgg.

14 Cfr. A. Caracciolo, L'occupazione delle terre in Italia, Roma s. d. (1950), e G. Sabbatucci, 1 combattenti nel primo dopoguerra, Bari 1974, pp. 184 sgg. (specialmente per ciò che riguarda il Lazio). Tra i numerosi studi locali, si vedano in particolare S. Colarizi, Dopoguerra e fascismo in Duglia (1919-1926), Bari 1971, pp. 50 sgg., e L. Accati, L'occupazione delle terre. Lotta rivoluzionaria dei contadini siciliani e pugliesi nel 1919-1920, in 1920. La grande speranza, fascicolo speciale de «Il Ponte», XXIV, 1970, pp. 1263-93.

15    Cfr. «Annuario statistico italiano», serie II, vol. VIII,  Anni 1919-1921. Indici economici fino al 1924, Roma 1925, p. 405.

16    Cfr. La Confederazione generale del lavoro negli atti, nei documenti e nei congressi, 1906-1926, a cura di L. Marchetti, Milano 1962, pp. 421-22.

17    Cfr. G. Preziosi, Cooperativismo rosso piovra dello Stato, introduzione di M. Pantaleoni, Bari 1922.

18    R. Zangheri, Introduzione a Lotte agrarie in Italia cit., p. XLI.

19   Cfr. MINISTERO PER L'INDUSTRIA, IL COMMERCIO ED IL LAVORO, UFFICIO CENTRALE DI STATI
STICA, Statistica delle elezioni generali politiche per la XXV legislatura (16 novembre 1910), Ro
ma 1920.

20    Cfr. T. Betti, Serrati e la formazione del Partito comunista italiano. Storia della frazione ter
zinternazionalista, 1921-1914, Roma 1972, p. XXIX.

21    Si veda a questo proposito la statistica degli iscritti al PSI tra il 1914 e il 1920, pubblicata
in «Almanacco socialista italiano», Milano 1921, pp. 446-549.

22    Sull'importanza del 1912 come data periodizzante nella storia del movimento operaio italiano
 e sui limiti del rinnovamento di Reggio Emilia, cfr. E. Ragionieri, Problemi di storia del PCI, in
«Critica marxista», VII, 1969, pp. 206 sgg.

23 Cfr. al riguardo Sabbatucci, I combattenti nel primo dopoguerra cir., pp. 78 sgg.

24 Cfr. S. Garetti, La Rivoluzione russa e il socialismo italiano (1917-1921), Pisa 1974, p. 116.

25    Cfr. Cortesi, Il socialismo italiano tra riforme e rivoluzione cit., pp. 719 sgg.

26   Per il dibattito sulla Costituente all'interno del socialismo italiano, si veda A. Lepre e s. Le-vrero, La formazione del Partito comunista d'Italia, Roma 1971, pp. 63 sgg.

27    Su questi problemi, e più in generale sull'esistenza di «blocchi» provocati dalla guerra, cfr.
 Procacci, Appunti in tema di crisi dello Stato liberale e dì origini del fascismo cit., p. 237, e anche
 E. Berti, Problemi di storia del PCI. e dell'Internazionale comunista, in «Rivista storica italiana», LXXXII, 1970, p. 162.

28    Cfr. Gennari, Regent e Baldesi, Mozione per la costituzione dei Soviety, in «Comunismo»,
 I, n. 15, 1-15 maggio 1920, pp. 1029 sgg. Per il dibattito su questo argomento si veda anche II Con
siglio nazionale socialista, sessione svoltasi a Milano dal 18 al 22 aprile 1920, 3 voli., Milano
1967-68.

29    Nell'ormai sterminata bibliografia sulla vita, il pensiero e l'opera di Gramsci, si vedano sem
pre le pagine di p. Togliatti, Gramsci, a cura di E. Ragionieri, Roma 1967, mentre, per la forma
zione culturale e politica di Gramsci, è fondamentale L. Paggi, Gramsci e il moderno principe, I:
 Nella crisi del socialismo italiano, Roma 1970; importante anche il lavoro di C. Buci Glucksmann,
 Gramsci et l'Etat, Paris 1973 (trad. it. Roma 1976).

30 Cfr. (ma in chiave rozzamente «spontaneistica») G. Maione, II biennio rosso: autonomia e spontaneità operaia contro le organizzazioni tradizionali (1919-1920), in «Storia contemporanea», I,  I970, PP- 825-80.

31 Cfr. quanto scrisse Gramsci a Leonetti il 28 gennaio 1924, in P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del partilo comunista italiano nel 1923-1924, Roma 19692, pp. 182-84.

32 Sulle tre «alternative» presenti nel movimento socialista nel dopoguerra, cfr. F. De Felice, Serrati, Bordiga, Gramsci e il problema della rivoluzione in Italia, 1919-1920, Bari 1971.

[...]

IV.
LA GRANDE PAURA.
1. La sconfitta operaia.

La visione incentrata sul concetto di catastrofe che ha presieduto alla ricostruzione della lotta sociale e politica negli anni del primo dopoguerra ha forse messo troppo in ombra gli sforzi compiuti dalla classe dirigente liberale per uscire dalla crisi postbellica. Il fatto stesso che i governi successivi al «gabinetto della vittoria» siano stati presieduti da Nitti e da Giolitti, e cioè dai due uomini politici borghesi che, rispettivamente all'interno e all'esterno del blocco interventista, avevano rappresentato i punti di maggiore consapevolezza delle conseguenze che la partecipazione alla guerra comportava per il paese, attesta che l'agonia dello Stato liberale non si consumò passivamente. I programmi e gli atti di questi due governi dimostrano, al contrario, che i tentativi compiuti dagli esponenti della vecchia classe dirigente liberale per trovare nuove forme nelle quali continuare ad esercitare l'antica egemonia non furono né intellettualismi velleitari, né anacronistici propositi di un ritorno al sistema politico prebellico. Particolarmente se confrontati ai programmi e agli atti contemporanei degli altri governi delle potenze vincitrici, essi mettono in evidenza un grado di coscienza assai elevato quanto meno delle esigenze primarie imposte dalla mutata situazione e una conseguente volontà di provvedervi. Solo che le profonde trasformazioni intervenute nella società italiana avevano scosso alla radice i già precari equilibri sui quali si reggeva il vertice del potere, alterandone le componenti fondamentali. La stessa capacità di previsione circa gli esiti della crisi ne fu universalmente sconvolta. Per di più, presso uomini nei quali anche il disegno politico più audace tendeva quasi naturalmente a tradursi e degradarsi nei termini della manovra che doveva assicurarne il successo, e posti alla sommità di un apparato dello Stato abituato a muoversi entro tale dimensione, la necessaria settorialità e immediatezza delle soluzioni di volta in volta proposte conferiva carattere di espediente ai provvedimenti che essi presero. Se è vero che la crisi postbellica dell'Italia non doveva necessariamente sboccare nel fascismo, resta tuttavia indiscutibile che erano scesi nel campo della lotta sociale e politica protagonisti forse ancora incapaci di imporre un loro gioco, ma assolutamente non riducibili sotto le regole sia pure ammodernate di quello antico. Lo sforzo di Nitti fu quello più audace, perché le sue proposte di rinnovamento tendevano a coprire un arco assai ampio di problemi, anche se con alcuni vuoti e con significative priorità. Si è spesso contrapposta la politica interna autoritaria di Nitti alla sua politica estera democratica. È da approfondire l'origine di questa contraddizione, che forse consiste meno in un'incoerenza di natura programmatica e assai più nella sfasatura tra il programma complessivo di Nitti e la natura delle forze interne ed esterne che esso si riprometteva di mediare.

In politica estera Nitti si dimostrò subito desideroso di chiudere la partita della guerra, in modo tale da far uscire l'Italia, se non dalla sua posizione subalterna, quanto meno dall'isolamento in cui era entrata dopo il trattato di Versailles, cercando di impedire inoltre che la politica internazionale continuasse ad essere motivo di agitazione interna. A tal fine riallacciò più stretti rapporti con Francia, Inghilterra e Stati Uniti, ripromettendosi dall'accantonamento delle iniziali rivendicazioni territoriali un più regolare rifornimento delle materie prime essenziali alla economia italiana e il necessario sostegno internazionale per procedere al pareggio della bilancia dei pagamenti. D'altra parte, riottenuta la fiducia delle potenze alleate, Nitti si ripropose un adeguamento degli indirizzi tradizionali della politica estera italiana alla nuova situazione postbellica. Ricercò i contatti con la Germania al fine di stipulare accordi di carattere commerciale, ma soprattutto rifiutò di accodarsi alla politica di intervento contro la Russia sovietica promossa dalle potenze occidentali, bloccando il corpo di spedizione già approntato dai suoi predecessori1.

Studioso della ricchezza nazionale e indagatore dell'influenza del capitale straniero in Italia, Nitti sapeva fin troppo bene come l'economia italiana, ritardata nel suo sviluppo e uscita cresciuta ma instabile dalla guerra, avrebbe potuto acquistare un suo equilibrio solo trovando forme di collegamento e di cooperazione coi paesi vinti non meno che con i paesi vincitori. Di qui il suo tentativo di far rivivere, in un contesto di rapporti sconvolti da una guerra mondiale e dalla prima rivoluzione socialista della storia, il tipo di presenza dell'Italia nel quadro internazionale già affermatosi nel primo decennio del secolo. In questo caso le preoccupazioni per la stabilità interna erano assai maggiori di quelle che avevano dettato gli indirizzi della politica giolittiana in campo internazionale. Ne fu dimostrazione il fatto che, mentre questi piani di politica estera ebbero effetto soprattutto per quanto concerneva il loro aspetto di normalizzazione, in politica interna Nitti si impegnò con tutte le sue forze e fini col giocare il suo destino.

Le aperture e gli atti di rinnovamento compiuti da Nitti in politica interna furono numerosi e di molteplice natura. Non solo portò a compimento fino a renderlo universale l'allargamento del suffragio, ma con l'introduzione della proporzionale e con l'ingiunzione ai prefetti di non interferire nella campagna elettorale provocò la più compiuta espressione politico-parlamentare dei partiti di massa2. Varò il decreto Visocchi per la distribuzione di terre ai contadini associati in organizzazioni cooperative, impose il prezzo politico del pane, rese obbligatoria l'assicurazione contro la disoccupazione e quella di invalidità e vecchiaia, e in generale attuò una serie di misure di legislazione sociale e protezione del lavoro. Tutto ciò, che avrebbe ben potuto costituire il prolungamento più audace e avanzato dell'ultimo ministero Giolitti, rappresentava però ben poco nella mutata situazione postbellica. «Il dramma di Nitti - è stato giustamente osservato - fu quello di un riformatore che va al governo proprio nel momento in cui le riforme è difficile farle ma nessuno sembra desiderarle; o, meglio, da un lato tutti le vogliono tutte e tutte insieme (e magari a ragione) e, dall'altro, per le condizioni gravi ed estreme in cui ci si trova, c'è anche chi reclama la rivoluzione. Così il suo governo si trovò stretto tra il sovversivismo dei ceti medi e l'atteggiamento rivoluzionario o, per essere più precisi, parainsurrezionale delle masse popolari, mentre sullo sfondo molti dei centri più importanti del potere militare ed economico infittivano la trama della reazione»3.

Va precisato, inoltre, che la sfida dell'impopolarità che Nitti accettò con coraggio, ma non senza un certo compiacimento intellettualistico, lanciando la parola d'ordine di «consumare di meno e produrre di più», traeva origine dalla sua estraneità dalle masse e anche da un relativo isolamento da numerosi gruppi della borghesia. Strettamente legato alla Banca di sconto e ai gruppi idroelettrici, egli forni con tale atteggiamento anche una riprova della divisione all'interno della classe dominante italiana e della lotta che nel suo seno si svolgeva. Né i provvedimenti riformatori che egli adottò riuscirono a creargli una base di consenso più ampia o alternativa. Il decreto Visocchi fu promulgato più per regolarizzare la situazione di fatto creata dalle occupazioni di terre nell'agosto del 1919, che non per incoraggiare la formazione della piccola proprietà contadina. Il prezzo politico del pane, il più rilevante provvedimento «sociale» del governo Nitti, fu revocato pochi mesi dopo la sua introduzione. La presentazione in Parlamento della legge sulla giornata lavorativa di otto ore, mentre segnava la ratifica di una conquista sindacale già ottenuta dalla maggioranza delle categorie lavoratrici nel corso del 1919, non fu seguita da una rapida approvazione. La stessa concessione del suffragio universale e lo svolgimento di quelle che Nitti vantò come le elezioni più libere che si fossero mai svolte nella storia dell'Italia unita, ebbero conseguenze che travalicarono di gran lunga le intenzioni del loro promotore. Dopo che la Camera uscita da queste elezioni risultò non meno difficilmente governabile del paese che l'aveva espressa, a Nitti non restò aperta altra via se non quella del ricorso sempre più frequente ai decreti-legge e dell'istituzione di un nuovo corpo di polizia, la guardia regia, per fronteggiare le agitazioni sociali. Furono proprio queste ultime a mettere in crisi la realizzazione del suo programma di governo e a concorrere alla sua caduta, nonostante i vari rimpasti ministeriali ai quali egli procedette nella primavera del 1920. L'ininterrotta ascesa delle lotte operaie e contadine coincise infatti con la durata dei governi Nitti. L'occupazione delle terre da parte dei contadini nell'Italia del latifondo (dal Lazio alla Sicilia) poneva sul terreno questioni di natura ben diversa da quelle che i provvedimenti riformistici nittiani avevano inteso risolvere: nella rivendicazione al possesso della terra confluivano infatti aspirazioni antiche dei contadini meridionali e al tempo stesso le richieste degli ex combattenti, resi per di più consapevoli degli ulteriori squilibri che la guerra aveva apportato nei rapporti tra il Nord e il Mezzogiorno d'Italia. Né deve essere trascurato, in questo quadro, ciò che di profondamente nuovo rappresentava nell'Italia del tempo il movimento combattentistico, in quanto autonomo tentativo di rinnovamento, reso corposo dalla consistente adesione di ampi strati del ceto medio e delle masse contadine del Mezzogiorno, e autorevole per la partecipazione di uomini come Gaetano Salvemini4.

Le lotte operaie, a loro volta, non potevano essere smorzate dalla soddisfazione di alcune esigenze di carattere normativo, in quanto tendevano ormai a fuoruscire da un ambito strettamente sindacale per investire l'assetto produttivo e l'insieme dei rapporti sociali, ponendo quindi il problema del potere. Questo fu appunto il senso dello «sciopero delle lancette», combattuto dagli operai di Torino nell'aprile 19205. Che la posta in gioco fosse ben superiore al motivo contingente che lo occasionò — l'istituzione dell'ora legale nelle fabbriche — non fu percepito soltanto dagli animatori di quello sciopero, e in primo luogo da Gramsci, ma con sicuro intuito anche dagli esponenti più avvertiti della classe padronale, come Gino Olivetti, segretario della Confederazione generale dell'industria, il quale ebbe ad affermare che «in officina non possono coesistere due poteri», individuando in pieno il carattere politico, anzi istituzionale dello sciopero6. Per tale motivo la sconfitta degli operai nel corso di questa agitazione ebbe ripercussioni che incisero ben al di là di Torino e apri un nuovo capitolo nella lotta sociale e politica del dopoguerra. Essa segnò la prima grande vittoria della Confederazione generale dell'industria, ricostituitasi da appena un anno (8 aprile 1919), con la partecipazione massiccia di tutta la grande industria e della stragrande maggioranza della media e piccola impresa industriale7: era la prima tappa di un processo di unificazione delle forze padronali che si esprimerà successivamente nella costituzione della Confederazione generale dell'agricoltura (18 agosto 1920) e, più in generale, nel coordinamento della loro azione in una comune strategia contro le classi lavoratrici. A partire da questo momento industriali e agrari non avrebbero più combattuto in ordine sparso, ma avrebbero fronteggiato le lotte operaie, prive di un qualsivoglia coordinamento, sulla base di un'organizzazione su scala nazionale e fortemente centralizzata. Si delineavano insomma uno schieramento e una contrapposizione di forze sociali, di fronte ai quali il tentativo di mediazione nittiano mostrava tutta la sua anacronistica inadeguatezza.

Fu in questa situazione che l'impresa dannunziana di Fiume si trasformò da un gesto di romanticismo politico in un cancro destinato a espandersi in tutte le fibre del corpo del paese e a corroderne gli equilibri già in via di disfacimento. Il «poeta-soldato» aveva occupato la città, che né il patto di Londra né il trattato di Versailles avevano destinato all'Italia, con un colpo di mano del quale Nitti probabilmente non ignorò la preparazione, ma che tollerò perché presumeva di servirsene come pedina di scambio nella politica internazionale8. Solo che dal 12 settembre 1919 in poi Fiume divenne a poco a poco il punto di riferimento piri o meno obbligato di tutto ciò che vi era di sovversivo in Italia: le schiere dei legionari di D'Annunzio si ingrossarono di giorno in giorno con l'affluire di uomini spinti dalle più diverse suggestioni, e se Fiume divenne «il ricettacolo di un miscuglio eteroclito d'idealisti, di scioperati e di bricconi, gli uni inebriati dalla loro passione patriottica, gli altri spinti dal gusto dell'avventura o dal bisogno del godimento»9, al tempo stesso vi conversero esponenti e aspirazioni del sindacalismo rivoluzionario come del nazionalismo, dell'arditismo di guerra e del combattentismo, mentre più volte circolò intorno alle vicende fiumane persino il nome del rappresentante più prestigioso dell'anarchismo italiano, Errico Malatesta. Paradossalmente, l'unico fronte sul quale la vicenda di Fiume ebbe effetti estremamente limitati fu quello internazionale, al quale sembrava originariamente destinata. Importanti furono invece le due facce interna ed esterna che essa mostrò destinate a segnare le sorti successive della società e dello Stato italiani. Il dannunzianesimo non fu senza dubbio il fascismo, sebbene il secondo traesse dal primo non solo coreografia e gesti, riti e cerimoniale; ma il fatto che alla carica di capi di gabinetto di D'Annunzio si succedessero un ex sindacalista rivoluzionario come Alceste De Ambris e un nazionalista come Giovanni Giuriati lascia intendere quali fossero le matrici fondamentali del fiu-manesimo e come in esso si sviluppasse quasi in vitro il processo che, attraverso il corporativismo, saldava il nazionalismo con la demagogia sociale, facendolo divenire per la prima volta un movimento tendenzialmente di massa al di là del momento dell'infatuazione bellica10. Per chi non si lasci sopraffare da una concezione della storia che dà i processi scontati fino dal loro inizio, le vicende interne di Fiume rappresentano il crogiuolo nel quale comincia a verificarsi la fusione tra la base sociale dell'interventismo di sinistra rivoluzionario e il nazionalismo, sotto il segno reazionario imposto da quest'ultimo.

Lo sbocco di questo esperimento avrebbe potuto anche essere diverso da quello che effettivamente fu, se esso non avesse operato come forza catalizzatrice nella dissoluzione dello Stato italiano. Esso mise in evidenza come gli stessi strumenti dell'apparato dello Stato fossero alienati alle leve di comando che presiedevano loro. L'esercito in primo luogo, cui doveva essere affidato il compito di reprimere la sedizione, si scopri non solo restio ad eseguire un simile ordine, ma mostrò più di un segno di simpatia e di solidarietà nei confronti dell'iniziativa dannunziana11; nessuna istanza dell'apparato dello Stato, del resto, andò esente da manifestazioni di incertezza e di sbandamento, mentre anche nell'orientamento dell'opinione pubblica si misuravano le conseguenze dell'ondata di infatuazione favorita dall'impresa fiumana. La «vittoria mutilata» è parola d'ordine che sorse prima dell'impresa fiumana; ma soltanto questa riusci a conferirle la corposità di un mito destinato ad avere una profonda suggestione di fronte alle masse.

Il ritorno di Giolitti al potere dopo la caduta di Nitti rappresentò un tentativo di diverso indirizzo in quanto costituì il definitivo abbandono della linea riformatrice per una scelta di restaurazione da parte della classe dirigente italiana. Non già che il programma giolittiano fosse un programma di pura e semplice restaurazione. Nel discorso che aveva tenuto a Dronero, durante la campagna elettorale del 1919, egli si era anzi spinto più in là di ogni altro uomo politico della borghesia italiana, aggiornando alla luce delle modificazioni nella distribuzione della ricchezza apportate dalla guerra il nucleo caratteristico della sua politica finanziaria e tributaria, riprendendo l'antico progetto di collaborazione col socialismo riformista e aggiungendovi — fatto questo indotto dal suo neutralismo e inedito per lui, uomo di stretta fiducia della monarchia -il proposito di rivedere l'articolo 5 dello Statuto albertino12. Come per Nitti, però, vale anche per Giolitti la considerazione che la dinamica delle forze in presenza scatenata dalla guerra superava gli orizzonti delle limitate innovazioni che essi intendevano introdurre nell'assetto politico italiano. Con l'aggravante, inoltre, che l'illuministico programma di «democrazia del lavoro» avanzato da Nitti fu travolto solo parzialmente dall'eversione di destra, ma più direttamente da un movimento di lotte popolari in ascesa, mentre Giolitti, se fu in grado di affossare le lotte operaie e liquidare il nodo di Fiume, per realizzare questi obiettivi non potè contare su quel controllo dell'apparato dello Stato nel cui uso, pure, era stato maestro; ma dovette fare ricorso al supporto della nuova forza nella quale la classe dominante italiana cominciava a identificare sempre di più lo strumento più idoneo al rinsaldamento del proprio potere. La nota immagine di Giovanni Giolitti come «Giovanni Battista del fascismo», che è passata nel senso comune, come una continuità di mezzi, di strumenti e di fini, deve essere intesa piuttosto come l'atto risolutore della crisi rivoluzionaria italiana, secondo il quale una classe dominante messa nell'impossibilità di governare come nel passato, sotto la pressione delle masse subalterne che non vogliono più essere sfruttate come prima, finisce col passare in altre mani l'esercizio del proprio dominio.

Giolitti cercò in primo luogo di chiudere le partite che il suo predecessore aveva lasciato aperte : il problema del potere nei gangli decisivi della produzione e la questione di Fiume.

Nell'estate del 1920 larghi settori del movimento operaio italiano condividevano la valutazione dell'Internazionale comunista e dello stesso Lenin, secondo la quale l'Italia sarebbe stata insieme con la Germania il paese dell'Occidente capitalistico più prossimo alla rivoluzione socialista. Nel determinare questa aspettativa si incontravano le caratteristiche esteriori della situazione italiana, alla cui immagine il sovrapporsi di moti operai e di agitazioni contadine, di instabilità dei ceti medi urbani - in realtà fenomeni privi di un minimo di coordinamento tra di loro - e più in generale la paralisi delle principali istituzioni dello Stato, conferiva l'apparenza di un'imminente catastrofe, e la tendenza connaturata agli schemi di giudizio dell'Internazionale comunista, portata a dedurre da simili manifestazioni la previsione di un necessario sbocco rivoluzionario13. Alla luce di questa diagnosi e di queste previsioni l'occupazione delle fabbriche del settembre 1920 potè sembrare la principale ed estrema occasione per la conquista del potere da parte della classe operaia italiana. In realtà, la lotta degli operai metallurgici costituì il supremo sforzo da parte dei lavoratori italiani per imporre alla classe dominante una soluzione dell'assetto produttivo e dell'organizzazione del lavoro in fabbrica e, seppure soltanto per un attimo storico, condensò in quella che a ragione è stata chiamata una nuova incarnazione della «grande paura», tutti i timori e i risentimenti che gli strati non proletari della popolazione avevano accumulato dopo la fine della guerra. La tragedia del movimento operaio italiano consistette per l'appunto in questo: che l'occupazione delle fabbriche, prodottasi quando già la curva complessiva delle lotte popolari cominciava a discendere e restava in campo soltanto il reparto più compatto e organizzato della classe operaia, era in grado di provocare timori piuttosto che di strappare successi, in quanto dimostrava una incapacità di aggregare intorno a sé più vaste alleanze sociali corrispettiva alla sua efficacia nel favorire compatti schieramenti di segno opposto14.

Due elementi concorrevano nel determinare la carenza di direzione del movimento operaio italiano. La crisi economica, di origine internazionale, collegata ai problemi della riconversione dalla produzione di guerra a quella di pace, provocando la chiusura di numerosi stabilimenti industriali, aveva accresciuto sensibilmente il numero dei disoccupati, riducendo così in misura notevole la forza contrattuale di un movimento sindacale impetuosamente cresciuto all'insegna di una congiuntura favorevole e ormai abituato a strappare importanti conquiste salariali e normative, senza peraltro possedere un piano conseguente e di ampio respiro per lo sviluppo dell'economia nazionale al di là di un'occupazione ritenuta stabile nei suoi termini quantitativi. Tale limitazione oggettiva del potere contrattuale della classe operaia era ulteriormente accentuata dal divergere delle ipotesi di fondo, coesistenti nei gruppi dirigenti del movimento operaio e socialista, circa le prospettive di soluzione della crisi sociale e politica. La lotta conclusasi con l'occupazione delle fabbriche mise infatti a nudo e fece esplodere divisioni e contrasti che fino a quel momento non erano emersi in tutte le loro implicazioni, conferendo loro il suggello di una divisione non più soltanto di indirizzi, ma di schieramenti ormai non più riconducibili ad unità15. Giustamente gli studi più recenti hanno sottolineato come ancora una volta il significato di questo scontro avesse rapidamente oltrepassato i termini originari della vertenza che lo originò; ma è estremamente significativo che, a fare di questa lotta una battaglia il cui esito si sarebbe rivelato decisivo per le sorti della lotta di classe ingaggiata nel 1919, non fossero questa o quella tendenza del movimento operaio, ma piuttosto le punte più aggressive e organizzate della classe dominante.

I metallurgici iniziarono infatti la loro agitazione semplicemente chiedendo un rinnovo del loro contratto che puntava in prevalenza sull'adeguamento del salario all'accresciuto costo della vita, nonché su di una rivalutazione nelle retribuzioni delle prestazioni straordinarie di lavoro: niente, insomma, che preludesse direttamente alle forme che la lotta avrebbe assunto. Fu l'assoluta intransigenza padronale, motivata con la situazione di crisi nella quale si trovava l'industria siderurgica e meccanica e che fece leva sulla diversità di posizioni delle varie organizzazioni sindacali (alla piattaforma prevalentemente rivendicativa a livello nazionale della Fiom faceva riscontro quella articolata delle organizzazioni della Cil e dell'Usi, accompagnata in quest'ultima dalla richiesta di una partecipazione operaia alla divisione degli utili), a determinare una svolta nelle trattative e il rapido passaggio dall'ostruzionismo operaio alla serrata padronale16. L'occupazione scaturì quindi da un tentativo operaio di risposta all'iniziativa padronale, piuttosto che da una scelta deliberata: si trattò tuttavia di una risposta forte, nella quale si espressero una combattività e una maturità senza precedenti. Non soltanto nel triangolo industriale, e in primo luogo in quella Torino che era stata ribattezzata la «Pietrogrado d'Italia», ma anche a Firenze e a Roma, a Napoli e a Palermo, «ovunque sia una fabbrica o un cantiere, un'acciaieria, una ferriera, una fonderia in cui si lavori il metallo»17, le officine divennero fortilizi operai presidiati dalle «guardie rosse», all'interno dei quali la produzione proseguiva mirabilmente organizzata. Mai, nel corso della storia di tutte le sue lotte precedenti, la classe operaia italiana potè dare l'impressione di essere composta di giganti così vicini a dare l'assalto al cielo. Però, non solo nel complesso della società nazionale, ma anche in ogni singola città in cui i proletari in armi vegliavano alla difesa delle fabbriche occupate, si ripeteva, non meno drammatico e foriero di tragiche conseguenze, l'isolamento che era stato della Comune di Parigi. Agli «stati generali» del movimento socialista italiano, che si riunirono a Milano nel settembre 1920, nel pieno dell'occupazione delle fabbriche, emerse in piena luce l'impotenza conseguente a tale isolamento '. Gli operai avevano avuto la forza di procedere all'occupazione delle fabbriche e di gestirne la produzione; ma ciò che restava loro interdetto era proprio la possibilità di estendere il rivolgimento sociale dalla fabbrica alla società: essi avevano compiuto questo atto di radicale significato politico in un momento in cui i movimenti e le agitazioni sociali si erano ormai esauriti, senza che alcuna forza politica si fosse rivelata capace di raccoglierne e indirizzarne la spinta rin-novatrice. D'altra parte, gli industriali, mentre avevano imposto lo scontro sul terreno della forza, non si rivelarono poi in grado di sostenerlo fino in fondo su quello stesso terreno.

Piuttosto che il punto più alto dell'ondata rivoluzionaria postbellica, l'occupazione delle fabbriche può quindi essere definita come il cristallizzarsi di una situazione di stallo, nella quale nessuno dei due principali antagonisti sembrava essere in grado di prevalere sull'altro, ma in cui, in realtà, il fattore tempo giocava tutto a vantaggio di chi poteva giovarsi delle diffuse conseguenze della «grande paura» per riorganizzare un sistema di dominio che non era stato dall'avversario né manomesso né intaccato.

Fu a questo punto che emerse il ruolo di Giolitti come esecutore testamentario delle pendenze apertesi nel dopoguerra tanto sul fronte interno quanto su quello internazionale, per la classe dominante italiana. Tornato al governo nel giugno 1920, aveva colpito il vecchio sovversivismo in una delle sue roccheforti tradizionali, reprimendo nell'agosto 1920 la rivolta di Ancona, insorta in solidarietà con i soldati che si rifiutavano di partire per l'Albania, mentre di li a poco avrebbe proclamato la rinuncia italiana alle proprie pretese in tale direzione18. Entro il 1920 egli avrebbe pure liquidato la questione di Fiume, raggiungendo prima un accordo con la Jugoslavia sulla base di un netto ridimensionamento delle aspirazioni italiane (trattato di Rapallo, n novembre 1920), e successivamente facendo sloggiare D'Annunzio dalla città con pochi colpi di cannone sparati dalla marina da guerra italiana19. Ma l'atto di «normalizzazione» più rilevante compiuto da Giolitti fu il suo atteggiamento verso l'occupazione delle fabbriche. Resistendo alle sollecitazioni per porre fine all'occupazione, Giolitti parve portare fino alle estreme conseguenze, cioè anche di fronte alla manomissione dei diritti della proprietà, la sua vecchia politica di neutralità dello Stato nei conflitti tra capitale e lavoro. In realtà, intervenendo al momento opportuno con una proposta di mediazione che risolveva la vertenza col riconoscimento del «controllo operaio», contribuiva non solo ad estinguere la carica rivoluzionaria del movimento, ma altresì a dare al padronato un respiro che gli avrebbe consentito di riorganizzarsi e di assumere una nuova iniziativa, questa volta al di fuori della politica di equilibrio che egli stesso incarnava.

Chi all'inizio dell'autunno del 1920 avesse gettato uno sguardo superficiale sulla vita politica italiana poteva avere più di un elemento per giustificare l'impressione di un avanzato processo di restaurazione. Liquidate le più gravi vertenze internazionali, conclusa con l'apparente soddisfazione di tutti il più acuto conflitto sociale del dopoguerra, sembrava davvero che lo statista di Dronero fosse riuscito nel miracolo di fare rivivere l'Italia di un periodo che era legato al suo nome, cancellando le tracce più vistose di una guerra che egli non aveva voluto. Le stesse formazioni politiche che erano uscite tanto rafforzate dalle elezioni del 1919, i socialisti e i cattolici, poterono apparire possibili componenti di un risorto sistema giolittiano, comunque assai più malleabili che non di fronte all'esperienza di governo di Nitti: se i popolari erano già entrati a far parte del ministero di quest'ultimo, ora anche una parte dei socialisti non nascondeva di non essere sorda al richiamo della vecchia sirena. Ma, mentre i popolari avevano la forza di condizionare il programma giolittiano, rendendolo il più congruo possibile ai «diritti della Chiesa» (con l'introduzione dell'esame di Stato ad opera del ministro Croce e con lo svuotamento della nominatività dei titoli), i riformisti ancora predominanti nel gruppo parlamentare erano impediti nelle loro simpatie filogiolittiane dalla polarizzazione in senso antagonistico della stragrande maggioranza del loro partito. Ancor più degli equilibri parlamentari era però mutato il vero e proprio strumento privilegiato del sistema giolittiano, e cioè la macchina dello Stato con la quale egli aveva di fatto governato fino al 1914.

Impressionante era stato l'accrescimento degli organici dell'amministrazione dello Stato negli anni della guerra, che aveva visto i dipendenti pubblici salire dai 339203 del 1915, ai 619440 della fine del 1920, con un incremento pari all'82 per cento. Se una parte rilevante di questo aumento era dovuta al dilatarsi dei servizi connessi con lo sforzo bellico, in particolare quelli ferroviari, si trattò tuttavia di un processo che investi l'intero apparato dello Stato, tendendo a riprodurre in tutte le sue nuove competenze le caratteristiche proprie alla forma centralizzata che esso aveva assunto fino dalla sua costituzione.

Accanto agli antichi uffici - scriveva Giolitti in una nota apposta al disegno di legge sulla riforma della pubblica amministrazione da lui stesso presentato -se ne sono continuamente creati altri, per lo più improvvisati, sorti per iniziativa di pochi uomini dell'Amministrazione o ad essa estranei e provenienti dagli ambienti della guerra, della politica, degli altari, e pertanto senza seria preparazione, senza matura connessione, senza adeguati controlli. Si è avuto così lo Stato armatore, commerciante, industriale, fabbricante, non solo di armi e di munizioni, ma di molte altre cose, e venditore dei generi più svariati all'ingrosso e al minuto20.

Colpirono gli osservatori contemporanei particolarmente alcuni aspetti di questa «elefantiasi burocratica» da tanto tempo temuta e ora finalmente realizzatasi: l'enorme aggravamento della spesa pubblica, e l'assunzione di una serie di servizi che l'opinione liberistica dominante avrebbe voluto riservati all'iniziativa privata. Ma si fece ben presto luce anche la consapevolezza che l'amministrazione statale era divenuta una macchina, in qualche misura regolata da meccanismi suoi propri, alla cui riforma sarebbe stato difficile mettere mano21.

In realtà, si trattava di un mutamento che doveva risultare in primo luogo di ordine qualitativo. L'afflusso indiscriminato di un personale dal reclutamento e dalla preparazione necessariamente incontrollati (l'unico elemento di continuità col passato era rappresentato dall'accentuarsi della componente meridionale) ne faceva uno strumento che non presentava più spiccate caratteristiche di «spirito di corpo» ed era anche per questo più difficilmente governabile proprio nel momento in cui entravano in crisi le forme e i rapporti di consenso allo Stato parlamentare. Il movimento sindacale è stato studiato anche per gli anni del dopoguerra soprattutto nelle sue componenti sociali primarie, gli operai e i contadini. Probabilmente le tendenze all'organizzazione di categoria degli strati intermedi e dei ceti impiegatizi, che le cronache sindacali del tempo registrano con una certa evidenza, sono indici, oltre che della spinta generalizzata all'associazione che caratterizzò la società italiana in quegli anni, anche di uno scollamento del tessuto connettivo dell'apparato statale. Si era di fronte, in ultima analisi, ad un altro aspetto della crisi dello Stato uscito dall'unificazione nazionale, forse non meno importante di quello messo in evidenza dalle elezioni del 1919. Lo Stato accentrato aveva dimostrato una possibilità di funzionare strettamente connessa col suo carattere oligarchico: il venir meno di questo tratto caratteristico aveva conseguenze vistose non meno sul piano amministrativo che su quello parlamentare. Si apriva così un vuoto che avrebbe attratto lo stesso apparato dello Stato, in tutte le sue istanze, verso nuove forme di riaggregazione della classe dirigente e di cui il fascismo avrebbe largamente beneficiato.

Non a caso proprio le elezioni per il rinnovamento dei consigli comunali e provinciali, svoltesi il 31 ottobre e il 7 novembre 1920, misero in luce che la spinta operaia e contadina aveva raggiunto un tetto e che, per converso, la borghesia veniva riorganizzandosi su basi reazionarie. Le amministrazioni comunali e provinciali non avevano perduto durante la guerra la loro importanza di punto di incontro tra la politica generale dello Stato e la spinta delle masse. Anzi, mentre l'impegno suscitato dallo sforzo bellico aveva rappresentato l'occasione per allargare la loro sfera d'intervento, l'acutezza della lotta sociale e politica nel dopoguerra ne aveva fatto una delle sedi nelle quali si avvertivano di più le tensioni esistenti nel paese, e quindi una posta particolarmente ambita. Soprattutto nelle regioni in cui il movimento dei lavoratori aveva raggiunto una maggiore espansione e una più elevata combattività, esse rappresentavano il centro di un sistema di potere verso il quale si accumulavano da una parte rancori e aspirazioni di rivincita, non solo simbolica, in chi aveva visto intaccato il proprio dominio di classe, e dall'altra la sanzione dei propri successi in chi era portato dalle tradizionali strutture del proprio movimento a convogliare in questo delimitato orizzonte le aspirazioni al rinnovamento della società. Contribuì inoltre a radicalizzare lo scontro la circostanza che nelle elezioni amministrative non fu applicato il sistema proporzionale già introdotto per le elezioni politiche. Ne fu favorita la tendenza alla formazione di blocchi di concentrazione borghese, in funzione dichiaratamente antisocialista, nei quali si espresse nella maniera più compiuta l'aggressività dei ceti dominanti resa più acuta dalla «grande paura» recentemente avvertita con l'occupazione delle fabbriche. Sturzo ingaggiò una battaglia che risultò complessivamente vittoriosa per affermare, di contro alla tradizione dei blocchi clerico-moderati, la tattica intransigente del partito popolare, ma non potè impedire che nei due maggiori centri industriali d'Italia tale linea subisse una deroga: a Torino, dove i cattolici confluirono nel blocco d'ordine, contribuendo in maniera determinante alla sconfitta di misura dei socialisti, e a Milano, dove i popolari furono costretti a proclamare l'astensione dall'ultima battaglia antisocialista combattuta sul letto di morte dal cardinale Ferrari.

I risultati elettorali furono comunque tali da modificare profondamente la direzione politica dei comuni e delle province italiane. Su 8327 comuni, i socialisti ottennero la maggioranza in 2022 comuni e i popolari in 1613; su 69 consigli provinciali, i popolari ne conquistarono io e i socialisti 2622. Anche prescindendo dalle minoranze conquistate dai due partiti di massa, è rilevante il fatto che essi con queste elezioni venissero a detenere la direzione del 44 per cento dei consigli comunali e del 52 per cento di quelli provinciali d'Italia. È pure significativo, inoltre, che tutti i 36 consigli provinciali diretti dai due partiti facessero parte dei 44 dell'Italia centro-settentrionale e che in tali regioni i 3239 consigli comunali da essi conquistati equivalessero in percentuale al 56 per cento. Mentre i popolari traducevano in elemento di direzione autonomo la forza raggiunta nelle zone tradizionalmente «bianche», fino a quel momento spesa a favore dei blocchi clerico-moderati (5 consigli provinciali su 8, e 333 comuni su 797 nel Veneto), i socialisti, oltre a confermare la loro egemonia in Emilia e nella valle padana, la estendevano alla Toscana e ad altre zone dell'Italia centrale (rispettivamente 7 e 6 su 8 consigli provinciali, e il 63 e 52 per cento dei comuni in Emilia e Toscana, con forti affermazioni nelle Marche e in Umbria, cui sono da aggiungere quelle ottenute in Piemonte e in Lombardia, le regioni operaie per eccellenza). Per i gruppi dominanti locali, per i notabili di estrazione prevalentemente agraria, che già negli anni del dopoguerra avevano dovuto adattarsi alla volontà delle leghe oltre che alla pressione costante delle masse, la perdita della direzione dei comuni, e spesso di ogni influenza su di essi, fu avvertita come il segno di una modificazione dei rapporti di potere irrevocabile in termini di lotta elettorale. D'altra parte è rivelatore che il successo socialista fosse di gran lunga più corposo nelle province che nei comuni: le grandi città, con le uniche eccezioni di Milano e di Bologna, del resto già conquistate dai socialisti nel 1914, dimostravano in particolare che il blocco conservatore sapeva resistere all'ascesa dei partiti di massa e coagulare intorno a sé vaste fasce elettorali del ceto medio, delineando i primi centri di aggregazione della imminente controffensiva. In questo senso, le cifre delle elezioni amministrative, se poterono dare la sensazione immediata e quasi fisica della profonda trasformazione portata dalla guerra nei rapporti tra le forze politiche e sociali specie in alcune regioni, costituirono al tempo stesso la riprova di un riflusso già in atto: rispetto ai risultati delle elezioni politiche del 1919 i socialisti aumentarono sensibilmente alle amministrative del 1920 in alcune grandi città, come Genova, Napoli, Messina e Palermo, ma al tempo stesso, stando sempre al voto del 1919, essi avrebbero dovuto conquistare la maggioranza, oltre che a Milano, Bologna e Livorno, anche a Torino (con il 62,8 per cento), a Venezia e a Firenze23.

Il 7 novembre 1920, due mesi dopo la conclusione della lotta per l'occupazione delle fabbriche, le bandiere rosse issate in segno di trionfo sui balconi di tante sedi di amministrazioni comunali e provinciali potevano far ritenere che la spinta rivoluzionaria del proletariato italiano fosse ancora in ascesa e conoscesse quella estensione dalla fabbrica al paese che la lotta dei metallurgici non aveva registrato. Mentre però queste illusioni erano destinate presto a svanire, l'immediato scatenarsi della reazione doveva dimostrare che si era soltanto raggiunto il punto in cui una minaccia di trasformazione incapace di infrangere gli equilibri sui quali poggiava il potere delle classi dominanti, apriva la strada a un processo di riorganizzazione su nuove basi di questo stesso potere.

Note

1 Sulla politica estera di Nitti cfr. Vivarelli, Il dopoguerra in Italia e l'avvento del fascismo cit. In particolare sull'atteggiamento di Nitti verso la Russia sovietica, si vedano R. Mosca, La diplomazia italiana e la Russia dalla Rivoluzione d'ottobre alla marcia su Roma, e G. Petracchi, Alle origini dei rapporti fra l'Italia e la Russia sovietica. La politica del governo Nitti verso la Russia, Riugno 1919 - giugno 1920, relazioni al VI Convegno degli storici italiani e sovietici (Venezia, 2-5 maggio 1974).

2  Occorre tuttavia precisare che a votare furono meno di sei milioni di persone, e che d'altra
parte Nitti non prevedeva un simile risultato: «Le elezioni, - scriveva infatti a Tittoni il 9 settem
bre 1919, - saranno un trionfo dei partiti dell'ordine e avremo non più che sessanta socialisti, di
cui la metà riformista disposta a partecipare al governo. I repubblicani scompariranno o quasi.
 I cattolici verranno piuttosto numerosi, forse cinquanta» (cit. in P. Aatri, Nitti, D'Annunzio e la
 questione adriatica (1919-1920), Milano 1959, p. 178).

3    E. Galli Della Loggia, Nitti, in I protagonisti della storia d'Italia. Lo Stato unitario: il No
vecento, a cura di E. Ragionieri, Milano 1974, p. 232.

4 Cfr. Sabbatucci, I combattenti nel primo dopoguerra cit., e, per una situazione particolare ma grandemente significativa, S. Sechi, Dopoguerra e fascismo in Sardegna. Il movimento autonomistico nella crisi dello Stato liberale (1918-1926), Torino 1969.

5    Sullo «sciopero delle lancette» cfr. P. Spriano, Gramsci e «L'Ordine nuovo», Roma 1965,
pp. 100 sgg.

6   Cfr. A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo. L'Italia dal 1918 al 1922, Bari 1971, p. 133.

7    Su queste vicende si veda Abrate, La lotta sindacale nell'industrializzazione in Italia cit., pp. 
199 sgg-

8    Secondo Alatri, Nitti, D'Annunzio e la questione adriatica cit., pp. 185 sgg., Nitti ignorava la preparazione dell'impresa dannunziana, ma era al corrente di movimenti nazionalisti per un colpo di Stato a Fiume, in atto da alcuni mesi.

9    Tasca. Nascita e avvento del fascismo cit., p. 78. Su questi problemi cfr. anche F. Cordova,
 Arditi e legionari dannunziani, Padova 1969.

10   Per i punti di riferimento essenziali del problema cfr. N. Valeri, D'Annunzio davanti al fa
scismo, con documenti inediti, Firenze 1963; Carteggio D'Annunzio-Mussolini (1919-1938), a cura
 di R. De Felice e E. Mariano, Milano 1971; R. De Felice. Sindacalismo rivoluzionario e fiumane-simo nel carteggio De Ambris - D'Annunzio (1919-1922), Brescia 1966.

11   Cfr. Alatri, Nitti, D'Annunzio e la questione adriatica cit. Sull'esercito italiano in questo
 periodo (ma senza riferimenti all'impresa di Fiume) si veda G. rochat, L'esercito italiano da Vit
torio Veneto a Mussolini (1919-1925), Bari 1967.

12   Si veda il discorso di Dronero in Giolitti, Discorsi extraparlamentari cit., pp. 294-327.

13 Sul carattere della crisi del 1919-20 e sul giudizio del Komintern su di essa, cfr. M. L. Salvadori, Rivoluzione e conservazione nella crisi del 1929-1920, in Problemi di storia dell'Internazionale comunista (1919-1939). Relazioni tenute al Seminario di Studi organizzato dalla Fondazione L. Einaudi (Torino, aprile 1972), a cura di A. Agosti, Torino 1974, PP. 33-58.

14 Sul tema si veda P. Spriano, L'occupazione delle fabbriche, settembre 1920, Torino 1964. Significativo l'atteggiamento tenuto in questa occasione non solo dalle autorità ecclesiastiche e dal pattino popolare, ma, dopo un primo momento, dallo stesso sindacato cattolico: cfr. P. G. Zunino, L'atteggiamento dei cattolici di fronte all'occupazione delle fabbriche, in «Rivista di storia contemporanea», ir, 1973, pp. 186-215.

15 Cfr. G. Bosio, La grande paura. Settembre 1920: l'occupazione delle fabbriche nei verbali inediti delle riunioni degli Stati generali del movimento operaio, Roma 1970.

16 Sugli orientamenti del padronato, cfr. V. Castronovo, La grande industria: i giochi interni e linea di fondo, in 1920. La grande speranza cit., pp. 1198-1221.

17 Spriano, L'occupazione delle fabbriche cit..

18 Cfr. Bosio, La grande paura cit., p. 60.

19 Sulla rivolta di Ancona si veda E, Santarelli, Le Marche dall'unità al fascismo. Democrazia repubblicana e movimento socialista, Roma 1964, pp. 238 sgg. Su queste vicende (ma significativamente con poco spazio riservato all'impresa dannunziana e alla sua liquidazione) si veda M. G. Melchionni, ìm politica estera di Carlo Sforza nel 1920-21, in «Rivista di studi politici internazionali», XXXVI, 1969, pp. 547 sgg.

20 camera dei deputati, segretariato generale, Le inchieste parlamentari e governative sul problema della burocrazia nel primo dopoguerra italiano, Roma 1969, p. 13 e - per i dati sopra citati - p. 11.

21 Cfr. L. Einaudi, Cronache economiche e politiche di un trentennio cit., voi. VI: 1921-1922, Torino I966, pp. 343-46.

22 Cfr. U. Giusti, Le correnti politiche italiane attraverso due riforme elettorali dal 1909 al 1921, Firenze 1922, p. 32.

23 Cfr. Giusti, Le elezioni generali amministrative del settembre-ottobre 1920 in alcuni grandi comuni italiani, in «Bollettino dell'Unione statistica delle città italiane», VIII 1921, n. 1, pp. 4-6, e J. Petersen, Elettorato e base sociale del fascismo italiano negli anni venti, in «Studi storici», XVI I975, p. 631.

[...]

2. L'ora di Mussolini.

L'apparizione del fascismo come elemento rilevante nella lotta sociale e politica avviene, si può dire, d'improvviso nell'autunno del 1920, ed esso si configura immediatamente come movimento di reazione armata che nello spazio di pochi mesi travolge e distrugge, mediante una sistematica offensiva militare, tutti i maggiori fortilizi del movimento operaio e contadino italiano. Nella primavera del 1921 l'esito di questa operazione è già scontato e il sistema di potere economico, sociale e politico faticosamente costruito da generazioni di socialisti italiani è radicalmente sconvolto:

L'azione socialista d'anteguerra e il successo socialista del dopoguerra avevano creato in Italia - all'epoca del telefono e della ferrovia - diverse centinaia di piccole «repubbliche», di «oasi» socialiste senza comunicazioni tra loro, come nel Medioevo, ma senza i bastioni che difendevano allora le città. Il socialismo risultava dalla somma di qualche migliaio di «socialismi» locali. La mancanza di una coscienza nazionale compiuta, il campanilismo municipale hanno costituito un gravissimo handicap per il socialismo italiano. Il fascismo si adatta esso pure alle condizioni locali, per una specie di mimetismo, ma ha sul movimento operaio una immensa superiorità colle sue possibilità di spostamento e di concentrazione basate su una tattica militare. I sessantatre comuni della provincia di Rovigo, la provincia di Matteotti, tutti in mano dei socialisti, sono occupati uno dopo l'altro senza che mai l'idea venga loro di unirsi per opporsi, nel punto minacciato, alle forze superiori. Le campane non hanno mai suonato come all'epoca della Grande Rivoluzione, per dare l'allarme ai contadini; nella valle del Po, la «grande paura» non ha fatto che aggravare l'isolamento. Trenta, cinquanta fascisti armati sono in ciascun paese, al momento in cui arrivano, più forti dei lavoratori locali. I fascisti sono quasi tutti degli arditi e degli ex combattenti, guidati da ufficiali; sono spesso trapiantati, come lo si è al fronte, e possono vivere ovunque. I lavoratori, al contrario, si agglomerano intorno alla loro Casa del popolo, come altre volte le capanne dei contadini attorno al castello: ma il castello difendeva, sia pur angariandolo, il villaggio: la Casa del popolo, invece, ha bisogno di essere difesa. I lavoratori sono legati alla loro terra, ove hanno, nel corso di lunghe lotte, realizzato conquiste ammirevoli. Questa situazione lascia al nemico tutte le superiorità: quella della offensiva sulla difensiva, quella della guerra di movimento sulla guerra di posizione. Nella lotta tra il camion e la Casa del popolo, è il primo che deve vincere e vincerà1.

Questa sorta di istantanea sulla tecnica della guerriglia civile condotta dallo squadrismo fascista, mentre riproduce efficacemente il fattore sorpresa che esso rappresentò e illumina le carenze rivelate dall'impatto con esso del movimento dei lavoratori italiani, tende a mettere in ombra, come del resto un po' tutta l'opera di Tasca, i numerosi elementi che concorsero a determinare la vittoria del fascismo, privilegiando il tema dell'autocritica socialista. In realtà, il carattere fulmineo del Blitzkrieg fascista non deve occultare la visione della genesi profonda del movimento e della sua affermazione.

«Fascismo» entra, a partire da questo momento, nel vocabolario politico italiano e internazionale come parola che designa un movimento di destra, anzi di un radicalismo della Destra eversiva. A conferirgli questo significato e a fargli compiere questa evoluzione dall'originario significato democratico e di sinistra, che gli era stato proprio nella storia italiana del secolo XIX, altri non era stato se non il suo fondatore Benito Mussolini. Sull'itinerario politico dell'ex direttore dell'«Avanti!» tra guerra e dopoguerra si è accumulata una letteratura sterminata, in cui molto spesso hanno continuato a vivere le connotazioni polemicamente indirizzate a sottolineare il succedersi dei voltafaccia mussoliniani1. Che questi momenti non mancassero, è indubbio in quanto facevano parte della natura dell'uomo, abituato a considerare le posizioni politiche che di volta in volta sosteneva come meri strumenti di affermazione individuale, piuttosto che come parti di una linea di condotta conseguente. È però estremamente dubbio che sia necessario attendere l'esito della lotta per l'occupazione delle fabbriche per vederlo deporre i panni del rivoluzionario: colui che aveva definito se stesso «l'homme qui cherche», ormai da tempo aveva fatto approdare la sua ricerca a lidi ben distanti dal sovversivismo originario. Vano sarebbe cercare di segnare una periodizzazione della sua vita attraverso la misurazione dei toni rabbiosamente anticapitalistici o delle pose demagogiche volte a guadagnargli la simpatia delle folle, perché tutta la sua carriera sarà, fino all'ultimo, intrisa di un miscuglio di propositi e di risentimenti tale da rendere per lui stesso estremamente labile il confine tra verità e propaganda. Né gli verrà mai meno l'arte di suggestionare uomini e masse, praticata negli anni dell'apprendistato socialista, da lui utilizzata per annientare il movimento dal quale proveniva. Ma a chi guardi, al di là di tutto questo, alla sostanza reale della sua evoluzione politica non potrà sfuggire che essa ha due poli di riferimento obbligati, che ne costituiscono rispettivamente il punto d'arrivo e di partenza: la lotta contro il movimento operaio organizzato e il ralliement al programma produttivistico del nazionalismo.

Guardata in questa luce, la sua tumultuosa e apparentemente tormentata biografia dopo il 1914 presenta più anfrattuosita psicologiche che vere e proprie oscurità politiche. Se l'espulsione dal movimento operaio aveva rappresentato una obbligata scelta di campo in negativo, l'adozione del programma nazionalista, confortata dalle cospicue sovvenzioni elargite al «Popolo d'Italia» dai magnati dell'industria pesante2, l'aveva costituita in positivo. Particolarmente dopo Caporetto e dopo la rivoluzione bolscevica in Russia, i margini per la propaganda «rivoluzionaria» si erano ristretti per Mussolini al punto da lasciare spazio soltanto a manovre di copertura per le manifestazioni dell'aggressiva campagna antisocialista che egli guidava sul fronte interno e con una subordinazione sempre maggiore ai problemi della politica estera. Lo stesso programma dei Fasci di combattimento del 23 marzo 1919, che è stato tanto spesso invocato quale testimonianza dell'originario radicalismo del fascismo, contiene in realtà un singolare miscuglio di rivendicazioni correnti nei programmi «diciannovisti» - dalla costituente al suffragio universale maschile e femminile, dalla giornata lavorativa di otto ore al sequestro degli illeciti profitti di guerra - cui sovrasta però la richiesta di una «politica estera nazionale intesa a valorizzare nelle competizioni pacifiche della civiltà la nazione italiana nel mondo»3. Forse soltanto la lotta scatenata contro l'interventismo democratico dal «Popolo d'Italia» nei mesi di conclusione del trattato di pace dà la misura della funzione di punta di diamante nella propagazione e nell'affermazione del programma nazionalista assunta da Mussolini. Di fronte a tutto questo l'esaltazione indiscriminata e la presentazione in termini di rivoluzione dei principali movimenti del dopoguerra non ubbidivano soltanto al gusto parolaio del loro autore, ma corrispondevano anche agli stati d'animo e alle aspirazioni di coloro cui Mussolini si rivolgeva.

L'entità e la diffusione dei primi fasci furono limitate e ristrette, ma non per questo meno significative per il processo di dissoluzione e di ricomposizione delle forze sociali e politiche italiane. Costituitisi nelle maggiori città dell'Italia centro-settentrionale, i primi fasci di combattimento contarono sull'adesione di uomini - per lo più ex combattenti e comunque nella stragrande maggioranza giovani o giovanissimi - cui non costituiva impedimento il provenire e spesso anche il continuare ad appartenere a gruppi e partiti diversi, accomunati da una rivendicazione del proprio ruolo personale e delle proprie ambizioni che trovava il suo fondamento in una sorda e decisa avversione contro la classe operaia, non meno che nell'esaltazione dell'esperienza e del significato della guerra: repubblicani e futuristi, nazionalisti e sindacalisti rivoluzionari, ex socialisti e interventisti democratici, ex anarchici, arditi e studenti cominciarono a trovare in questi fasci un crogiuolo che li faceva scoprire più simili tra di loro di quanto potessero indicare le rispettive provenienze. Non tutti ressero al calore di quella fusione, ma pochi tornarono ai luoghi di provenienza. Si riflettevano in realtà in questi spostamenti molecolari tendenze maturate nella piccola borghesia urbana durante la guerra ad abbandonare un ruolo subalterno e di supporto alle classi sociali e a forze politiche antagonistiche, per crearsi uno spazio autonomo e privilegiato, motivato con una generica aspirazione di svecchiamento delle strutture economiche e degli istituti politici.

Se l'insorgere della questione di Fiume e l'apparire della stella di D'Annunzio costituirono per il neonato movimento fascista una causa di ritardo nell'avviato processo di unificazione di tutte queste tendenze, se il governo dannunziano a Fiume sembrò ribadire l'eclissi di Mussolini, decretata dalla sconfitta subita alle elezioni del 1919, pure tra il 1919 e il 1920 per un verso usci consolidato il quadro originario del movimento, per un altro esso si arricchì di nuovi seguaci. Mussolini dimostrò nel corso di tutta la vicenda di Fiume quella che si configurò come la sua maggiore dote politica: la capacità di sapere attendere per giocare la propria carta al momento opportuno, il destreggiarsi tra tutti i possibili concorrenti senza combatterne apertamente alcuno, ma facendosi riconoscere come diverso da ciascuno degli altri, uscendo allo scoperto soltanto dopo avere saggiato la disponibilità della vecchia classe dominante ad una decisa svolta restauratrice, avendo l'accortezza di presentarsi come un semplice strumento, in attesa di assurgere al ruolo di protagonista. Ricevuto da Giolitti, nella fase conclusiva della vicenda fiumana, un messaggio che non lasciava adito a dubbi circa la volontà di procedere ad una liquidazione di tutte le pendenze belliche con una scelta di carattere conservatore per puntare sulla lotta sociale e politica all'interno del paese, Mussolini rifiutò di farsi puro e semplice esecutore di questo programma di restaurazione. Ma se il programma di Giolitti potè consistere ad un certo momento nell'utilizzare il fascismo per quel ridimensionamento di socialisti e popolari che era condizione indispensabile per il ricostituirsi dei vecchi equilibri politici, Mussolini, nel realizzare la parte a lui affidata, si spinse assai più lontano, e forgiando nel corso di quest'opera una forza che trovava la sua efficacia nell'essere uno strumento di repressione armata, incontrava un elemento di saldatura col desiderio di revanche del padronato agrario e in generale di tutti quei ceti che, dopo avere provato la paura a distanza dell'occupazione delle fabbriche, avevano visto nell'esito delle elezioni amministrative dell'autunno 1920 la sanzione politica, sul terreno delle istituzioni, di un biennio di agitazioni sociali.

Sebbene Milano sia stata la culla del fascismo, non è certo un caso che la geografia della sua espansione armata coincida con quella delle lotte agrarie e quindi di una maggiore densità delle organizzazioni contadine socialiste e cattoliche, delle amministrazioni comunali e provinciali socialiste e popolari: i fatti di Palazzo d'Accursio in primo luogo, ma anche quello che fu il loro corrispondente « minore » in uno dei più forti centri «rossi» del Meridione, Castellammare di Stabia, ne costituiscono una riprova esemplare, confermando al tempo stesso il carattere di risposta che lo squadrismo ebbe nei confronti di quella sanzione sul piano istituzionale delle lotte contadine e operaie che furono le elezioni amministrative del 19205.

Da Bologna - è stato scritto - il fascismo si diffuse con la velocità di un contagio lungo la via Emilia: nel giro di poche settimane Modena, Reggio Emilia, Parma, Cremona e Pavia videro la crescita dei fasci che, sebbene spesso di dimensioni modeste, erano però invariabilmente vigorosissimi. Da Ferrara il movimento si allargò verso Nord in direzione di Mantova, e attraverso il Veneto sino a Rovigo, Padova, Verona e Vicenza. Tra le diverse province erano frequenti i contatti diretti... Dove non ci fu contatto diretto, fu tuttavia soprattutto l'esempio dello squadrismo vittorioso ad attirare l'attenzione e a sollecitare l'imitazione. In Toscana l'azione delle squadre si intensificò a partire dalla fine di febbraio. Centro operativo era Firenze, e gli obiettivi da un lato Livorno, Pisa e Carrara, e dall'altro, a sud, attraverso le province di Siena e Arezzo, l'Umbria, dove alla fine di aprile Perugia e Terni erano solidamente in mano fascista6.

Questi i punti di partenza del dilagare del fascismo. Se lo squadrismo mosse in genere dalle città, esso dipese tuttavia dall'inizio della reazione agraria contro i movimenti di occupazione delle terre e delle cascine (cosi nel novembre 1920 a Cremona, dove il movimento contadino fu guidato dalle organizzazioni cattoliche, capeggiate da Migliori), la cui importanza non è stata forse adeguatamente sottolineata sinora in sede storica7. Elemento determinante della riorganizzazione e dello sviluppo in nuove forme del movimento fascista fu dunque il sostegno della proprietà terriera; su questa connessione l'indagine storica ha fatto una luce che può essere considerata definitiva: la grande proprietà terriera diede alle squadre d'azione fasciste per le loro spedizioni punitive mezzi, punti d'appoggio e uomini. Rivelatori del carattere in primo luogo agrario dello squadrismo fascista sono tra l'altro il crollo vertiginoso degli scioperi nell'agricoltura (da 189 scioperi con oltre un milione di disoccupati nel 1920 a 89 scioperi e 80000 scioperanti nel 1921) rispetto al calo meno sensibile nell'industria (da 188161300 000 a 1045 e 645 000)8 nonché quello corrispondente degli organizzati nella Federterra, scesi da 760 000 a 293 000, mentre la Fioe passò da 176 000 a 138 000, la Fiom da 160 000 a 129 000 e la Fiot da 145 000 a 88 0009.

Tutto ciò non può tuttavia porre in secondo piano i complessi meccanismi sociali messi in moto nella società italiana da questo drenaggio nel fascismo degli strati dominanti la grande proprietà fondiaria. La rottura del fronte popolare provocata dall'offensiva armata del fascismo faceva tornare alla luce ed esplodere contrasti antichi che la pressione delle forze lavoratrici organizzate aveva sopito, ma non spento: bottegai e piccoli proprietari, fattori e sensali, più in generale tutti gli stratificati e multiformi ceti intermedi dei borghi e delle campagne, una parte stessa della popolazione lavoratrice, che era stata trascinata non senza contrasti al seguito del movimento, quando non addirittura nelle sue file, sentirono riemergere nel loro intimo ataviche paure e inconfessati rancori. Tutto ciò trovò espressione attiva nello squadrismo fascista e manifestazioni passive negli atteggiamenti e negli stati d'animo che ne facilitarono la vittoria. Della composizione delle squadre d'azione occorre sottolineare non solo i quadri direttivi, costituiti da ex ufficiali che non sapevano ritrovare nella vita quotidiana una collocazione adeguata al ruolo acquisito durante la guerra, ma anche i più semplici gregari: spostati, sottoproletari e interi nuclei familiari e interfamiliari, studenti ai quali la compagnia dei figli dei padroni offriva la sensazione che l'ordine militare del quale erano entrati a far parte rappresentasse già di per sé la promozione sociale alla quale ambivano. Lo squadrismo fascista risultò in realtà una combinazione di elementi antichi e moderni della vita italiana, o meglio un innesto di tecnica organizzativa e militare moderna capace di fare riemergere e di ridare forza a elementi arretrati della vita sociale italiana.

Le opposte interpretazioni del fascismo come «rivoluzione», o meglio come frutto improvviso della partecipazione dell'Italia alla guerra, o come «rivelazione» di antiche tare che affondavano le loro radici nei secoli della storia d'Italia e che il travagliato consolidamento dello Stato unitario non era valso a estirpare, sembrano trovare un superamento nella ricerca, promossa di recente da studiosi stranieri, intorno alle modificazioni di alcuni meccanismi sociali e politici, verificatesi in Italia tra la fine dell'«età giolittiana» e il primo dopoguerra. Concentrandosi con particolare attenzione su quegli aspetti delle origini del movimento fascista che ne mettono in evidenza - accanto agli aspetti di reazione di classe — le fondamenta che esso riusci a trovare nella estensione delle basi di massa della vita sociale e politica del paese, esse avviano anche a comporre la contraddizione, altrimenti difficilmente spiegabile, tra la sua «modernità» politico-organizzativa e la sua funzione di restaurazione sociale. Sintomatico fra tutti, il caso delle campagne. Che le campagne italiane, e con particolare intensità quelle della valle padana, siano state teatro nel secondo decennio del secolo di una crisi profonda all'interno della quale ciascuno dei gruppi sociali decisivi cercava di far sentire maggiormente il proprio peso, è cosa nota; come pure è conosciuta l'aspirazione al possesso della terra che si diffuse in quegli anni tra i braccianti e tra i contadini poveri di quelle zone. Il segreto della rapidità dell'affermazione fascista consistette nell'accompagnare la reazione armata e la distruzione fisica dell'organizzazione proletaria con la divulgazione e con la parziale affermazione di un programma corrispondente con tempestiva demagogia ad aspirazioni diffuse, che la propaganda e le parole d'ordine massimalistiche avevano alimentato, senza peraltro adeguarsi al ritmo estremamente rapido degli sconvolgimenti sociali arrecati dalla guerra. «Guardia bianca» della grande proprietà terriera, il fascismo seppe presentarsi con un volto di aggressività liberatrice ai vari strati della popolazione delle campagne esclusi dal cosmo dei braccianti organizzati e dalla loro pretesa di esercitare un monopolio sul mercato del lavoro. Varia fu la presa che il fascismo riusci ad esercitare su ciascuno di questi strati nel variegato mosaico delle campagne italiane: sui fattori più che sui mezzadri, sui braccianti disoccupati più che sugli obbligati, sui fittavoli più che sui salariati fissi. Nel complesso, però, gli riusci l'operazione di coalizzare mediante una conquista attiva o una neutralizzazione, tutte queste forze contro i più omogenei strati contadini organizzati dalle leghe e dai sindacati socialisti, cosicché una minoranza nel complesso assai ristretta fu capace di catalizzare spinte vaste e assai eterogenee. Senonché la sorprendente affermazione del fascismo agrario, che derivava la sua forza da una presenza dinamica oltre che repressiva sul terreno locale, dalla ristrettezza stessa degli orizzonti e dei perimetri in cui si trovò a operare, derivò pure il suo limite come momento di aggregazione del movimento fascista nel suo insieme oltre che, naturalmente, come elemento risolutore della crisi sul piano nazionale10.

Alla fine della prima ondata della violenza fascista, Giolitti ritenne giunto il momento opportuno per lo scioglimento della Camera e per nuove elezioni che egli immaginava avrebbero sensibilmente ridimensionato socialisti e popolari e agito come un «calmante» sul corpo del paese. Ma la situazione era ormai mutata in modo tale da sfuggire al vecchio statista piemontese e da impedirgli di riassumerne il controllo.

«Le elezioni si faranno dunque fra il terrore, — scrisse il direttore dell'"Avanti!", Serrati, a un suo corrispondente, dopo avere descritto con costernazione lo spettacolo quotidiano delle Camere del lavoro incendiate e distrutte, delle leghe devastate, dei compagni assassinati. - Saremo battuti. E attraverseremo un periodo durissimo di feroce reazione». E, poco dopo:

È tutto il nostro vecchio movimento che viene sfasciato da una scatenazione di violenza che non ha eguale in nessun altro paese. Giolitti non c'entra. Questo vecchio routinier della vecchia routine parlamentare ha evocato il diavolo fascista per vincere elettoralmente ed ora egli stesso ne è vittima... Quella che ci tormenta è una tale reazione che difficilmente si può immaginare, perché non è dello Stato, non parte dai poteri pubblici, viene dal basso, si manifesta secondo gli arbitrii, la criminalità, la brutalità dei diversi ambienti. Tutto il bassofondo sociale si è armato di rivoltelle e di pugnale, di moschetti e di bombe a mano, si è inquadrato, si è assoldato a venti-trenta lire al giorno e vive della caccia al socialista11.

I risultati delle elezioni del 1921 non corrisposero alle aspettative nutrite con opposti stati d'animo da Giolitti e da Serrati: le perdite socialiste furono parzialmente compensate dai seggi conquistati dai comunisti (dai 156 ottenuti dal psi nel 1919, si passò rispettivamente a 123 ai socialisti e 15 ai comunisti), mentre i popolari aumentarono da 101 a 10812. Lo squadrismo fascista aveva distrutto in molti centri nevralgici la presenza organizzata del movimento operaio e contadino, ma non si era ancora rivelato in grado di ridimensionare il consenso elettorale dei due grandi partiti di massa, che affondava troppo nel profondo della storia del paese per poter essere estirpato da un momento all'altro.

L'unico vero elemento di novità messo in luce dalle elezioni del 1921 fu dato dall'ingresso alla Camera di trentacinque deputati fascisti, e la circostanza è ben più significativa di quanto la forza numerica di questa rappresentanza possa far intendere. All'interno dei blocchi nazionali i fascisti rappresentarono la forza più omogenea ed organizzata: in un solo mese, quello precedente le elezioni, i fasci videro infatti quasi raddoppiarsi i propri aderenti, che passarono da 98 000 a 187 000. E furono indubbiamente proprio i fascisti a risultare i più avvantaggiati dalla prassi dei blocchi elettorali tra forze spesso eterogenee e disorganizzate, grazie anche all'impiego massiccio e abilmente manovrato del voto di preferenza, che permise a parecchi candidati fascisti di primeggiare all'interno delle stesse liste bloccarde13. Le elezioni sancirono cosi anche sul piano istituzionale e parlamentare la legittimità della presenza fascista non più soltanto come elemento di disgregazione sociale e politica dei vecchi equilibri; mentre Giolitti non riuscì a conseguire la restaurazione alla quale aspirava, l'esperimento fascista - la cui novità Serrati pareva avvertire, pur ignorandone le connivenze con l'apparato dello Stato, che lo squadrismo e le stesse elezioni misero in luce — si trasformava per le classi dominanti in un potenziale polo di riaggregazione del sistema di potere. Uscendo per l'ultima volta di scena il 27 giugno 1921, appena due settimane dopo l'apertura della nuova legislatura, Giolitti poteva illudersi di ripetere ancora una volta il gioco del passaggio di mano a un luogotenente, secondo quella che era stata sua consuetudine nel passato. Questa volta, però, le tendenze che lo avevano allontanato dal potere nel 1914 erano divenute ben altrimenti forti e decise e non avrebbero consentito altri ritorni. È vero che i governi che succedettero al suo furono presieduti da suoi stretti collaboratori: Bono-mi era stato ministro della guerra nel suo gabinetto, e a Facta la provenienza dalla stessa provincia di Giolitti sembrava conferire la livrea del maggiordomo piuttosto che la divisa del luogotenente giolittiano. Questi governi furono però soltanto la facciata di un edifìcio al cui interno si preparava, anche se non senza contrasti, una diversa successione14. Se mai le vicende governative e parlamentari erano state al centro della vita politica dell'Italia unita, ora i destini del paese si decidevano più di sempre nei luoghi originari della produzione economica e dello scontro di classe.

Negli ultimi mesi del 1921 si avviò il processo di trasformazione del movimento fascista in partito politico. L'entità della progressiva e sempre maggiore convergenza di tutti gli strati della borghesia attorno alle forme organizzative e al programma politico del fascismo è misurabile dal crescente e ormai imponente peso dei finanziamenti all'organizzazione centrale dei fasci, il cui gettito medio mensile raggiunse le punte massime nel periodo ottobre-dicembre 1921 : i finanziatori erano in questa fase prevalentemente concentrati nelle regioni settentrionali e centrali, e anche a Roma (ma Milano restava il centro più importante del finanziamento). Nella prima metà del 1922 si estese il numero delle province finanziatrici, ma solo nella seconda metà dell'anno anche l'Italia meridionale cominciò a fornire fondi ai fasci. Preponderante resta -dall'ottobre 1921 all'ottobre 1922 - nel dato globale dei finanziamenti, la percentuale proveniente da società industriali e commerciali, aggirantesi tra il 72 e il 73 per cento del totale15. La definitiva affermazione del fascismo e la sua trasformazione da movimento in partito, tuttavia, passarono attraverso momenti di crisi e contrasti anche aspri.

In una situazione profondamente modificata dalla ormai stabile presenza del fascismo e dalla connivenza non più episodica dell'apparato dello Stato con lo squadrismo, Bonomi (eletto nella circoscrizione di Mantova con l'appoggio diretto del forte movimento fascista locale) intese continuare nella politica giolittiana di assorbimento e utilizzazione strumentale del fascismo, dando il proprio contributo attivo al tentativo di pacificazione tra fascisti e socialisti. Sulle trattative influì anche l'episodio di Sarzana del 21 luglio, quando, per la prima volta, una spedizione di squadristi fu dispersa dall'intervento dei carabinieri e poi dei contadini del luogo. Non si comprende, dal punto di vista del fascismo, il perché del patto firmato il 3 agosto 1921 col partito socialista e la Confederazione del lavoro, senza considerare che i fascisti avevano conosciuto appunto per la prima volta la sconfitta. Mussolini, che perseguiva l'obiettivo di stabilizzare la presenza del movimento nell'ambito politico, istituzionale e parlamentare, dovette fronteggiare un dibattito interno nel quale i contrasti sul patto di pacificazione si intrecciavano con quelli sulla questione della trasformazione del movimento in partito. Il patto era avversato dalla componente agraria del fascismo, Grandi e Balbo in Emilia, Perrone Compagni in Toscana, Farinacci in Lombardia, Misuri in Umbria, Caradonna in Puglia: le zone che costituivano la spina dorsale del movimento, e Mussolini riuscì a risolvere la situazione proprio ottenendo, in cambio della definitiva denuncia del patto, che avverrà pubblicamente solo dopo il Congresso dell'Augusteo, l'avallo della maggioranza del fascismo alla trasformazione del movimento in partito. Grandi e Marsich restarono gli oppositori più decisi anche a questa trasformazione. Ma per Grandi la questione centrale era sempre quella del patto di pacificazione: una volta ottenuta la rottura di questo, egli accettò in sostanza la creazione del pnf; Marsich e l'ala «dannunziana» del fascismo diedero invece vita a un tentativo di ribellione aperta che non ebbe successo.

Che tipo di partito era quello che al Congresso dell'Augusteo del novembre 1921 fu fondato con la denominazione di partito nazionale fascista? A giudicare dal suo primo statuto, esso non era poi troppo differente dagli altri partiti di massa, almeno dal punto di vista dell'organizzazione formale, delle strutture gerarchiche centrali e locali, ecc. La sua caratteristica più originale era in fondo rappresentata dal fatto che esso era dotato di un'organizzazione paramilitare (anche se solo con la creazione della Milizia nel 1923 si dette a tale organizzazione una struttura effettivamente centralizzata). Gli iscritti ai fasci avevano il diritto di discutere il programma politico e di eleggere gli organi dirigenti a livello locale, direttori dei fasci e segreterie provinciali; gli organi superiori, comitato centrale e direzione, erano eletti da congressi periodici: e «di fatto, se a livello provinciale questo meccanismo non funzionava gran che, ... al vertice Mussolini si trovava ancora obbligato a consultare gli altri membri della direzione»16.

La caratteristica fondamentale del pnf stava però, al di là del programma o della struttura organizzativa interna, nel suo essere partito completamente diverso dalle organizzazioni precedenti della borghesia italiana, nel costituire una novità storica per l'organizzazione politica di tutti gli strati della borghesia. Uno sguardo alla composizione sociale del pnf al tempo del congresso di fondazione è sufficiente a evidenziare tale caratteristica: intanto, secondo le stime del ministero dell'Interno, più attendibili di quelle fornite dai fascisti stessi, il pnf aveva già alla fine del 1921 una consistenza di massa pari a quella del partito socialista all'inizio dello stesso anno (216 000 iscritti socialisti, 218 000 fascisti), e non tarderà a divenire, dopo un ulteriore balzo quantitativo dall'aprile al maggio 1922 (da quasi 220 000 a 322 000 iscritti), il più consistente partito politico mai esistito nella storia d'Italia. I dati della relazione Pasella al Congresso dell'Augusteo possono essere stati indubbiamente amplificati (si parla di oltre 300 000 iscritti), ma è interessante riflettere sulla loro suddivisione per categorie sociali (di tutti gli iscritti, solo poco più di 150000 furono censiti), che vedeva come componenti più numerose lavoratori della terra (24,3 per cento), operai (15,4), studenti (13), proprietari terrieri e fittavoli (12), seguiti da impiegati (9,8), commercianti e artigiani (9,2) e altri strati della borghesia per un 15,3 per cento17.

La prevalenza anche quantitativa degli strati della borghesia indica già il processo in atto di ricomposizione di un blocco di forze piccolo e medio borghesi sotto la direzione dei gruppi superiori degli industriali e degli agrari; la percentuale di lavoratori dell'agricoltura e dell'industria riflette il successo dei sindacati fascisti in alcune zone della pianura padana e dell'Emilia (ma questa percentuale sarà destinata a ridursi fortemente negli anni seguenti, poiché si seguirà la prassi di iscrivere i lavoratori, più che al partito, appunto ai sindacati). Dei 151 000 iscritti censiti circa l'8o per cento erano combattenti, ma ancor più significativo è il dato che si riferisce alla struttura per età: ben 39 000 iscritti erano non elettori, e considerato che il numero delle donne era piuttosto esiguo, si può calcolare che circa il 25 per cento erano giovani sotto i ventun anni.

Figlio dei tempi nuovi portati dal conflitto mondiale, il fascismo poteva trovare nella massiccia presenza dei giovanissimi nelle sue file una solida garanzia per l'avvenire. Allo stesso modo, l'avversione delle più giovani generazioni avrebbe mostrato quale fosse la forza destinata a contrastargli più validamente il cammino.

Nel bagliore degli incendi che distruggevano le Camere del lavoro e le sedi delle organizzazioni proletarie si erano intanto consumati gli ultimi atti della crisi socialista e della nascita del nuovo partito della classe operaia italiana, il partito comunista d'Italia, destinato a divenire il maggiore antagonista storico del fascismo. Forse il più acuto osservatore straniero della lotta politica italiana nel primo dopoguerra, J. C. Mariàtegui, scriverà nel 1925 :

La lotta attuale restituirà allo spirito liberale un poco della sua antica forza combattiva. Ma non otterrà che rinasca come fede, come passione, come religione. E per la sua mediocrità, questo programma non può scuotere le masse, non può esaltarle, non può condurle contro il regime fascista. Solo nel misticismo rivoluzionario dei comunisti si notano i caratteri religiosi che Gentile scopre nel misticismo reazionario dei fascisti. La battaglia finale non si scatenerà, perciò, tra fascismo e democrazia18.

Ciò che Mariàtegui chiamava «misticismo rivoluzionario» dei comunisti, in un momento in cui il nuovo partito temprato dalle persecuzioni e rinnovato nella sua direzione cercava di contrastare il consolidamento del regime fascista identificando nella lotta di massa la dimensione in cui affermare la propria egemonia, altro non era se non la veste esteriore di una decisione e di un costume che con quelli del fascismo avevano quel tanto di affinità derivante loro dall'essere «aspetti opposti, ma nella loro opposizione uniti, di una maturità rivoluzionaria della società italiana, che non è più soltanto nelle cose, ma si incarna e prende forma nella coscienza, nella volontà, nella attività e nella lotta dei lavoratori, nelle reazioni alle volte bestiali che questa lotta è destinata a suscitare»19. La svolta decisiva per l'unificazione delle forze decise a dare vita al nuovo partito fu segnata dal Convegno di Imola (28-29 novembre 1920) della frazione comunista, nella quale confluirono attorno alla corrente astensionista di Bordiga uomini che andavano da Gramsci a Misiano, ma il cui nerbo era costituito prevalentemente dalla stragrande maggioranza degli aderenti alla federazione giovanile socialista e da cospicui gruppi di massimalisti soprattutto toscani (Gennari, Salvatori, Caroti), cui in un secondo momento si unirono i massimalisti emiliani e anche piemontesi, che avevano aderito alla «circolare» di due vecchi militanti socialisti come Anselmo Marabini e Antonio Graziadei20. Fu l'incontro tra questo nucleo di dirigenti e questa base di militanti a dare l'impronta al nuovo partito, e a segnarne il comportamento fin dal suo atto di nascita con la separazione dal partito socialista, avvenuta al Congresso di Livorno il 21 gennaio 1921.

Ma la peculiarità della scissione di Livorno, e conseguentemente del nuovo partito, risultò dall'intreccio degli elementi internazionali oltre che nazionali che presiedettero alla sua nascita21. Nella campagna promossa dal Komintern per la formazione di nuovi partiti comunisti in previsione dell'estendersi dell'ondata rivoluzionaria in Europa, Livorno rappresentò l'ultimo atto di questa campagna e al tempo stesso la più radicale applicazione della politica fissata dai ventun punti. Proprio all'indomani della scissione di Livorno, infatti, e anche prendendo lo spunto dal suo esito, nell'Internazionale comunista si accese un dibattito, che, focalizzato prevalentemente intorno alla Germania, avrebbe portato nell'estate del 1921 all'approvazione da parte del III Congresso — auspici Lenin e Trockij - della parola d'ordine «alle masse» e alla linea del fronte unico22. La scissione di Livorno, inoltre, anche per l'esasperazione che degli indirizzi internazionali avevano fatto in primo luogo Bordiga e gli emissari del Komintern, risultò la più nettamente minoritaria tra quelle realizzatesi nei grandi partiti socialisti dell'Europa occidentale. Se perciò Livorno potè essere giudicata nel 1923 dallo stesso Gramsci come «il più grande trionfo della reazione», in quanto aveva mantenuto all'esterno del nuovo partito la maggioranza della classe operaia italiana23, tuttavia fu proprio il carattere assunto da questa scissione a conferire ad esso quell'aspetto di «falange d'acciaio» che sino a quel momento nessuna formazione politica del movimento operaio e popolare italiano aveva mai avuto. Contribuiva a determinare questa natura il fatto che esso nasceva come una formazione di giovani che nel periodo della loro formazione - avvenuta negli anni della «grande guerra» e della rivoluzione d'Ottobre — avevano avviato per via di esperienza e di riflessione la più profonda rottura generazionale che il socialismo italiano avesse conosciuto nel corso della sua storia, traendone una totale volontà di rinnovamento. Gli dava un fondamento il supporto di sperimentati quadri provenienti dai consigli di fabbrica, ma anche dalle organizzazioni tradizionali del movimento operaio e contadino.

È tuttavia venuto il momento di affermare con forza che l'artefice della coagulazione originaria di tutte queste forze fu colui che ormai da lungo tempo aveva indirizzato tutta la sua attività di pensiero e di azione verso l'obiettivo della costituzione in partito politico dell'avanguardia rivoluzionaria del proletariato italiano: Amadeo Bordiga. Formatosi intellettualmente in una riflessione solitaria, che aveva fatto assumere al suo marxismo inflessioni razionalistiche sconosciute al pur variegato campo della cultura socialista italiana, Bordiga aveva tratto dall'opposizione alla tattica compromissoria del socialismo napoletano un amore dell'intransigenza ad ogni costo, che sfiorava l'aristocraticismo dei grandi intellettuali meridionali. Nella composita falange della sinistra socialista italiana decollata dopo Reggio Emilia, egli era stato colui che di fronte alla guerra imperialista aveva assunto la posizione di lotta più intransigente e avanzata, per passare di qui alla caparbia battaglia per la scissione dal vecchio socialismo italiano. La singolarità di Bordiga rispetto all'organizzazione e alla tradizione dalle quali sosteneva la necessità del distacco si chiarisce e si conferma attraverso la sua collocazione nell'emergente movimento comunista internazionale. L'averne voluto fare il Lenin italiano significa misconoscere la verità elementare che il leninismo è, in primo luogo, riconoscimento del carattere di massa della lotta politica rivoluzionaria. Ma anche l'avvicinamento agli esponenti del comunismo di sinistra dell'Europa occidentale, da Korsch a Pannekoek, non trova elementi di raffronto adeguati in una comparabile formazione culturale. In realtà, non si capisce Bordiga se non si tiene conto del fatto che egli non ebbe né ambi mai ad avere vasti e profondi legami di massa. L'ammirazione verso la sua persona spinta fino alla devozione fu un fenomeno che investi coloro che erano il vero oggetto del suo interesse, ossia i quadri dell'organizzazione politica, qualunque fosse la loro formazione culturale. Egli fu in realtà e rimase sempre il capo di una frazione, certo, come tale, tra i più energici e capaci, e, proprio in quanto capo frazione, senza dubbio il più grande capo di partito espresso dai nascenti partiti comunisti dell'Europa occidentale24. Come nessun'altra variante del comunismo occidentale, il bor- dighismo nacque e restò una ideologia di frazione, che si esaurì in gran parte nella contrapposizione frontale alla vecchia organizzazione socialista da cui era uscito. Frazione anche all'interno di un Comintern ormai conquistato alla politica del fronte unico, e volto ad attenuare le conseguenze della scissione minoritaria di Livorno, il nuovo partito comunista d'Italia riusci a definirsi prevalentemente soltanto in rapporto alle formazioni tradizionali del movimento operaio italiano, pregiudicandosi cosi la possibilità di «fare politica» in un momento di crisi decisiva della società nazionale. Fu questo il prezzo pagato per formare un ampio vivaio di quadri e di militanti rivoluzionari, dotati di un attaccamento senza limiti alla causa del socialismo e temprati a durissime lotte, che avrebbero costituito l'ossatura di un partito in cui «spirito di scissione» e senso della propria indipendenza politica sarebbero discesi dal modo stesso della sua formazione 25.

Mentre il partito comunista d'Italia - costituendosi - gettava le basi di quello che sarebbe divenuto il più forte e irriducibile avversario storico del fascismo, non riuscendo però nell'immediato a svolgere un'azione politica incisiva e di rilievo, il movimento operaio italiano vedeva crollare a ritmo vertiginoso tutto il proprio tradizionale sistema organizzativo sotto i colpi della reazione fascista, senza trovare in se stesso la capacità di opporre un'apprezzabile resistenza. Sul piano inclinato della disfatta maturata a partire dall'occupazione delle fabbriche, la crisi socialista - latente da anni ed esasperata nel periodo del conflitto mondiale e del dopoguerra - giunse a rapida conclusione nel modo più drammatico. L'intero 1921 e il 1922 trascorsero per molti aspetti invano per le due ali del socialismo italiano, che continuarono a fronteggiarsi sulla logora alternativa tra collaborazione e intransigenza, senza che delle rispettive posizioni né l'una né l'altra sapessero trarre le debite conseguenze sul piano dell'iniziativa politica, e soprattutto senza che si ponesse al centro del dibattito la sempre più forte e scatenata offensiva fascista. La cieca indifferenza e l'incapacità di comprendere il fenomeno fascista, proprio nel momento in cui lo squadrismo infieriva sulle cooperative e sui comuni rossi, sulle Camere del lavoro, sulle leghe e sulle sedi dei partiti operai, tinse di grottesco la più grave sconfitta del movimento operaio italiano.

Mentre dalla base operaia e popolare saliva una forte spinta unitaria e si esprimeva una decisa e disperata volontà di lotta contro il fascismo, i partiti e gli organismi costituiti del movimento operaio italiano non seppero raccogliere queste indicazioni e con la loro condotta contribuirono a indebolire la capacità di resistenza popolare, facilitando la vittoria fascista. Il destino del movimento degli arditi del popolo ne fu la più chiara dimostrazione. Sorti nell'estate 1921 per iniziativa di alcuni ex ufficiali degli arditi di sentimenti democratici e anarchicheg-gianti, tra i quali primeggiava la figura di Argo Secondari, gli arditi del popolo incontrarono immediatamente un larghissimo favore popolare in quanto strumento unitario di opposizione al fascismo sul terreno della lotta armata. Movimento a carattere popolare e spontaneo, gli arditi del popolo si diffusero in breve in tutta la penisola, da Roma a Parma, da Pisa a Genova, da Vercelli a Livorno, da Torino a Bari; vi aderirono numerosi ex combattenti, interventisti democratici ed anche legionari dannunziani, mentre il massiccio afflusso nelle loro file di militanti anarchici e repubblicani, sindacalisti, socialisti e comunisti conferiva loro un carattere più spiccatamente operaio e popolare, grazie anche al ruolo di direzione svolto da uomini quali il deputato socialista Giuseppe Mingrino e il repubblicano Vincenzo Baldazzi. Ma, violentemente combattuti dai fascisti e dalle autorità governative26, gli arditi del popolo furono condannati a sparire rapidamente come erano sorti, perché ad essi non giunse alcun sostegno da parte dei partiti e delle forze organizzate del movimento operaio, che mantennero nei loro confronti un atteggiamento di ostile diffidenza, richiamando i loro uomini alla disciplina. Cosi il più fiero colpo fu inferto agli arditi del popolo dai dirigenti socialisti, con la loro inerte propaganda di rassegnazione, non priva di toni evangelici, e con l'infelice patto di pacificazione con i fascisti, mentre il più forte spirito combattivo dei militanti comunisti fini con l'essere smorzato e reso vano dal settarismo del gruppo dirigente bordighiano, che agli arditi del popolo contrappose una milizia di partito scarsamente consistente27.

Le divisioni e le incertezze dei partiti operài e delle forze sindacali ebbero ancora modo di manifestarsi per l'ultima volta nelle vicende dell'Alleanza del lavoro e del cosiddetto «sciopero legalitario» dell'agosto 1922. Nata nel febbraio 1922 per iniziativa del Sindacato ferrovieri con l'adesione della CGDL, dell'Usi e della Uil, l'Alleanza del lavoro fu indubbiamente una nuova espressione della volontà unitaria che animava alla base numerose organizzazioni sindacali, ma non riusci mai a perdere il carattere di fenomeno di vertice che le derivò dal confronto tra le diverse componenti sindacali e politiche, e rimase costantemente paralizzata da contrasti e incertezze derivanti in primo luogo dalla inconciliabilità delle rispettive posizioni: mentre infatti i dirigenti confederali guardavano in primo luogo a D'Annunzio per risalire la china, gli anarchici dell'Usi, con Malatesta alla testa, si dichiararono favorevoli alla sola azione diretta. Tardiva accoglienza della richiesta di sciopero generale a più riprese avanzata dai comunisti nell'Alleanza del lavoro, lo sciopero del 1-3 agosto 1922 voluto dai riformisti del psi e della cgdl per il ripristino della legalità costituzionale, dopo che si era mostrata vana la carta della collaborazione governativa giocata da Turati con la sua andata dal re, portò il segno di questi contrasti e di queste incertezze: male organizzato, noto agli avversari nonostante la sua pretesa segretezza, solo parzialmente seguito da quelle masse la cui combattività era stata sistematicamente delusa nei mesi precedenti, lo «sciopero legalitario» fu l'ultima e decisiva battaglia campale della guerra civile in atto in Italia, ma si risolse in una pesante e irreversibile sconfitta per il movimento operaio, che l'attacco fascista trasformò «in una vera e propria rotta»28. Caddero in quella occasione le ultime «roccheforti» rosse del paese, dopo Ravenna, occupata alcuni giorni prima dalle squadre di Balbo, i fascisti si accanirono contro Ancona, Brescia, Genova e Livorno, mentre anche Bari cadeva dopo una strenua resistenza, e a Milano D'Annunzio parlava dal balcone di Palazzo Marino occupato. Fu allora Parma a salvare l'onore del proletariato italiano: dell'eroica resistenza organizzata nei popolari quartieri di Oltretorrente dagli arditi del popolo al comando del giovane deputato socialista Guido Picelli, infatti, le squadre di Balbo non riuscirono ad avere ragione durante tre giorni di furiosi combattimenti, e mentre solo l'esercito potè in seguito vincere la resistenza della città e smantellare le barricate, Parma con il successo della sua resistenza, dovuto alla partecipazione unitaria di tutte le componenti del movimento operaio e popolare, costituì un luminoso punto di riferimento per la lotta contro il fascismo29.

La definitiva sconfitta dell'agosto 1922 fu suggellata dal precipitare della crisi socialista, aggravatasi fin dal mese di giugno con l'approvazione da parte del gruppo parlamentare del psi di un ordine del giorno Zirardini per l'appoggio o la partecipazione ad un governo che garantisse «il ripristino delle pubbliche libertà». Si trattò di una separazione attuata tardivamente, così come tardiva fu la decisione riformista di compiere alfine il passo della rottura della disciplina di partito per attuare una collaborazione governativa, quando ormai lo spazio della prospettiva di un governo democratico a partecipazione socialista si era ristretto fino a divenire inesistente. La scissione, comunque, fu provocata non solo e non tanto dalle iniziative prese in questa direzione da Turati e dal gruppo parlamentare, quanto soprattutto dalle posizioni del gruppo dirigente della Confederazione generale del lavoro, orientato fin dall'estate per la rottura del patto di alleanza che univa la cgdl al partito socialista, e volto alla ricerca di una collaborazione che nelle intenzioni di alcuni non escludeva neppure un accordo con il fascismo. Fu questo, assieme alla distruzione fisica della rete organizzativa del movimento socialista, il motivo primo della scissione: con la rottura del patto di alleanza tra psi e cgdl (che peraltro formalmente sarebbe avvenuto solo a scissione consumata) veniva meno il nucleo attorno al quale aveva ruotato per anni l'intero «sistema» socialista, e veniva ad essere infranto nei fatti quel vincolo unitario la cui salvaguardia aveva condizionato e pregiudicato gravemente l'iniziativa dei riformisti come dei massimalisti, costringendo il psi a un'inerzia ampiamente dimostratasi esiziale per le sorti del movimento operaio. La spaccatura del vecchio psi avrebbe comunque consentito agli uni e agli altri di riacquistare una più precisa fisionomia e di svolgere una più concreta azione politica, ma perché di questo potessero raccogliersi i frutti molto tempo sarebbe dovuto passare: quando al Congresso di Roma avvenne infine la scissione del partito socialista, i giochi erano ormai fatti e nello spazio di pochi giorni la «marcia su Roma» avrebbe formalmente concluso il cammino della reazione fascista verso il potere.


Note

1 Tasca, Nascita e avvento del fascismo cit., p. 191

2 Per un quadro delle principali posizioni del dibattito storiografico a questo proposito, cfr. tranfaglia, Dallo Stato liberale al regime fascista cit., pp. 73 sgg. Per una critica puntuale dell'interpretazione fornita in particolare da R. de felice, Mussolini il rivoluzionario cit., cfr. r. viva-RELLI, Benito Mussolini dal socialismo al fascismo, in «Rivista storica italiana», lxxix, 1967, pp. 428-38.

3    Cfr. castronovo, La stampa italiana dall'unità al fascismo cit., pp. 235 sgg.

4    Sulle componenti del fascismo sansepolcrista cfr. e. Santarelli, Storia del movimento e del
regime fascista, Roma 1967, pp. ior sgg.; id., Fascismo e neofascismo, studi e problemi di ricerca,
Roma 1974, pp. 51 sgg. (sul problema dell'imperialismo) e G. rumi, Mussolini e il «programma»
di San Sepolcro, in «Il Movimento di liberazione in Italia», xv, 1963, PP- 3-26.

5    Cfr. rispettivamente b. della casa, II movimento operaio e socialista a Bologna dall'occupa
zione delle fabbriche al Patto di pacificazione, in aa.vv., Movimento operaio e fascismo nell'Emilia-
Romagna, 1919-1923, Roma 197^, PO. 22 sgg., e A. barone, Piazza Spartaco. Il movimento operaio
e socialista a Castellammare di Stabia. 1900-1922, prefazione di G. Amendola, Roma 1974.

6    p. corner, II fascismo a Ferrara, 1913-1923, Bari 1974, p. 1.55. Atipico il caso della Venezia
Giulia, dove il fascismo attecchì per primo a causa della sua situazione geografica, politica e cultu
rale affatto particolare, compiendo le sue prime prove di forza. Cfr. e. apih, Italia, fascismo e anti
fascismo nella Venezia Giulia (1918-1943), Bari 1966. Su Ferrara si veda anche A. roveri, Le ori
gini del fascismo a Ferrara 1918-1921, Milano 1974. Su Reggio Emilia e. cavandoli, Le origini del
fascismo a Reggio Emilia, 1919-1923, Roma 1973.

7    Cfr. a questo proposito g. giarrizzo, Lotte e movimenti contadini dalla fine della prima
guerra mondiale alle leggi fondiarie, relazione al I Congresso nazionale di storia del movimento
contadino (Reggio Emilia 26-29 gennaio 1975), sul tema «Antifascismo, Resistenza, contadini»
(dattiloscritto, pp. 12-13 sgg.).

8    Cfr. la tabella riportata in appendice a lay, marucco e pesante, Classe operaia e scioperi cit.,
p. 145.

9    Cfr. La Confederazione generale del lavoro negli atti, nei documenti e nei congressi cit.,
p. 422 e, per i dati relativi al 1921, ministero per il lavoro e la previdenza sociale, «Bollet
tino del lavoro e della previdenza sociale», voi. XXXVIII, luglio-dicembre 1922, Roma 1923, pp.
42-57.

10    Suggestiva ed equilibrata la riconsiderazione dell'intero problema, compiuta sulla base di
una conoscenza ravvicinata della letteratura sull'argomento, di f. m. snowden, On the Social Ori-
gins of Agraria» Fascistn in Italy, in «Archives Européennes de Sociologie», xin, 1972, pp. 268-95.

11    Corrispondenza di Giacinto Menotti Serrati con Jacques Mcsnil ( 1917-1921), a cura di G.
Berti, in Istituto G. G. Feltrinelli, «Annali», xiv, 1972, Milano 1973, p. 379. La seconda lettera,
non inclusa in tale pubblicazione, è citata da P. SPRIANO, Storia del Partito comunista italiano, I:
Da Bordiga a Gramsci, Torino 1.967, p. 123.

12    Cfr. MINISTERO DELL'ECONOMIA NAZIONALE, DIREZIONE GENERALE DELLA  STATISTICA,  Statistica

delle elezioni generali politiche per la XXVI Legislatura (i$ maggio 1921). In appendice, Statistica delle elezioni generali amministrative del 1920, Roma 1924.

13    Cfr. r. de felice, Mussolini il fascista, I: La conquista del potere (1921-192$), Torino 1966,
P. 92.

14    Sul primo gabinetto Facta, cfr. d. veneruso, La vigilia del fascismo. Il primo ministero
Facta nella crisi dello Stato liberale in Italia, Bologna 1968.

15    Cfr. r. de felice, Mussolini il fascista, voi. I cit., pp. 292-96.

16 A. lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Bari 1974, p. 121. Per le questioni precedenti, cfr. le pp. 114-19.

17 Per questi dati si vedano r. de felice, Mussolini il fascista, voi. I cit., pp. 6-7; Santarelli, Storia del movimento e del regime fascista cit., p. 262; petersen, Elettorato e base sociale del fascismo cit., pp. 644 sgg. Per alcuni aspetti della presenza giovanile nel movimento fascista, cfr. inoltre f. de negri, Agitazioni e movimenti studenteschi nel primo dopoguerra in Italia, in « Studi storici », xvi, 1975, pp. 733-63.

18    J. e. mariàtegui, Lettere dall'Italia e altri scritti, a cura di I. Delogu, Roma 1973, p. 122.

19    p. Togliatti, Momenti della storia d'Italia, Roma 1963, pp. 126-27.

20    Cfr. La frazione comunista al Convegno di Imola, 28-29 novembre 1920, Atti delle manife
stazioni celebrative tenute ad Imola il 28-29 novembre 1970, Roma 1971.

21 Forse come per nessuna altra questione della storia italiana del primo dopoguerra, sulla nascita e la formazione del pcdt si è sviluppato un lungo e vivace dibattito - politico prima ancora che storiografico -, protrattosi fino ad anni recenti. Centrato dapprima sul tema della divisione portata da Livorno nel socialismo italiano in lotta contro il fascismo, poi divaricato tra le accentuazioni delle cause ora nazionali, ora internazionali della scissione, tale dibattito si è di fatto concluso (almeno nei suoi termini originari) con l'apparizione degli studi più maturi e recenti sulla formazione del PCD'i, tra gli anni '60 e il cinquantesimo anniversario della scissione di Livorno. Tra le numerose rassegne e gli interventi critici pubblicati su questo argomento, si vedano in particolare m. l. salvadori, Orientamenti dell' attuale storiografia sul Partito comunista d'Italia, in Gramsci e il problema storico della democrazia cit., pp. 153-85, e p. spriano, Problemi della storiografia sul PCI, in «Critica marxista», Quaderno n. 5: Cinquantesimo del PCI, storia politica organizzazione nelle lotte dei comunisti italiani per un nuovo blocco storico, Roma 1972, pp. 355-73.

22Cfr. e. finale, La scissione di Livorno e la crisi della direzione comunista tedesca nel 1921, in «Movimento operaio e socialista», x, 1964, pp. 3-18 e, più in generale, m. hajek, Storia dell'Internazionale comunista (1921-1935). La politica del fronte unico, Roma 1969, pp. 7 sgg.

23 Cfr. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente cit., p. 102.

24 Per una aggiornata informazione critica sugli studi su Bordiga, si veda la recente rassegna di P. Livorsi, Amadeo Bordiga nella storiografia sul PCI, in «Studi storici», xv, 1974, pp. 430-44. Cfr. anche a. bordiga, Scritti scelti, a cura di F. Livorsi, Milano 1975.

25Cfr. Togliatti, Momenti della storia d'Italia

26    Cfr. NEPPi modona, Sciopero, potere politico e magistratura, 1870-1922 cit., pp. 256 sgg. È si
gnificativo che l'orientamento del governo e della magistratura nei confronti degli arditi del popolo
vengano qui assunti come punto d'avvio di una più aperta scelta di campo dell'apparato statale nella
lotta tra fascismo e movimento operaio.

27    Questo atteggiamento fu oggetto di severi rilievi da parte di Bucharin al IV Congresso del
l'Internazionale comunista: cfr. a. G. lòwy, Die Weltgeschichte als Weltgericht. Bucharin: "Vision
des Kommunismus, Wien-Frankfurt-Zurich 1969, pp. 178-79. Sugli arditi del popolo e l'atteggia
mento dei partiti operai nei loro confronti, si vedano spriano, Storia del Partito comunista italiano,
voi. I cit., pp. 139 sgg., G. palazzolo. L'apparato illegale del Partito comunista d'Italia nel 1921-22
e la lotta contro il fascismo, in «Rivista storica del socialismo», ix, 1966, pp. 93-142, e Cordova,
Arditi e legionari dannunziani cit., pp. 83 sgg.

28    spriano, Storia del Partito comunista italiano, voi. I cit., pp. 211. Più in generale sull'Al
leanza del lavoro e lo «sciopero legalitario», si vedano le op. 192 sgg.

29    Cfr. su questo episodio M. De Micheli, Barricate a Parma. Nel cinquantenario della battaglia
dell Oltretorrente contro i fascisti, Parma 1972.

[...]

Parte Quarta
Il Fascismo

 

I. Il fascio della borghesia

[...]

4. L'antifascismo tra sconfìtta e rinnovamento.

La fine della libertà e la definitiva sconfitta delle forze democratiche coincisero con una stagione di debolezze e di errori, di irresolutezze e financo di tradimenti da cui in diversa misura nessuna delle forze che si opponevano al fascismo restò esente. Se per consapevolezza attiva di un processo storico in atto s'intende non soltanto la volontà di fronteggiarne i pericoli, ma anche la capacità di comprendere gli esiti immediati e più lontani di questo processo, onde farne scaturire concrete iniziative atte a bloccarne la marcia, si può dire che nessuna delle forze politiche fu completamente pari ai compiti che la situazione imponeva loro. Tuttavia chi si ponga a considerare le discussioni e i propositi, i ripensamenti e le azioni di quegli anni non soltanto alla luce degli esiti immediati della lotta politica, ma anche sull'onda più lunga di ciò che il fermento di idee di quegli anni ha rappresentato nella storia d'Italia, non può non essere colpito dalla sua straordinaria ricchezza. Si ha quasi l'impressione che la conclusione di un periodo si intrecci con l'inizio di uno nuovo in un viluppo inestricabile nel quale la coscienza che i contemporanei e i protagonisti riescono a farsi dello svolgersi degli avvenimenti è offuscata e insieme resa più drammatica dall'assenza di condizioni e di strumenti per rendere questa coscienza effettivamente operante e incisiva. Di qui il carattere convulso di una discussione in cui ciò che è vecchio e condannato è sempre sul punto di soffocare il nuovo, e il nemico stesso che si combatte si annida spesso nelle coscienze dei suoi antagonisti. Il fatto era che l'ultimo atto della lotta per la difesa della libertà si combatteva in un'Italia nella quale i giuochi erano ormai sostanzialmente fatti: le forze sociali decisive attestate sulle posizioni conquistate o subite nel corso della guerra civile e nella fase di travagliato assestamento che le era seguita; le fatiscenti istituzioni dello Stato liberale compromesse a vantaggio dei vincitori e l'unica forza realmente alternativa, le masse popolari, schiacciata sotto il peso di un terrore ormai divenuto disciplina di Stato. Eppure, è difficile considerare quella lotta soltanto come una semplice testimonianza morale. Si produce in questa fase una spaccatura di esperienze e di mentalità spesso a base generazionale che attraversa tutte le formazioni politiche e che è qualche cosa di più di un fatto anagrafico, come dimostrerà la successiva storia d'Italia. Numerosissime tra le personalità che avranno un peso decisivo nella Resistenza e nella costruzione della repubblica italiana conosceranno in questi anni il loro battesimo del fuoco intellettuale e politico1.

Si trattò di un momento complesso, di trapasso e tendenzialmente anche di una svolta, in quella storia degli intellettuali italiani che nel secolo xx si intreccia tanto inestricabilmente con la lotta politica, e quindi con la decomposizione e la riaggregazione delle formazioni politiche: un momento nel quale tanti nodi sembrarono venire al pettine, i destini individuali di uomini di estrazione sociale comune, vicini nella formazione culturale e nell'esperienza politica, differenziarsi e divaricarsi fino a contrapporsi2, alimentando un chiarimento di posizioni e di scelte da cui acquisteranno contorni netti e definiti le forze politiche destinate a percorrere fino in fondo la loro strada negli anni successivi. Faceva da sfondo, tuttavia, e contribuiva a conferire un lontano ma insopprimibile punto di riferimento a queste scelte individuali o di piccoli gruppi, l'esodo proletario che dalle zone più battute dallo squadrismo fascista iniziò ancor prima della marcia su Roma, e avviò sulle piste ormai divenute tradizionali dell'emigrazione italiana decine e decine di migliaia di operai e di contadini, sospinti dalla crisi economica sotto lo spettro della disoccupazione e non disposti ad implorare lavoro dai despoti locali contro i quali erano insorti negli anni precedenti e che con l'avvento del fascismo avevano riaffermato il loro dominio. Anche in questo l'antifascismo italiano si differenzierà dalla tipica esperienza tedesca.

A differenza dell'emigrazione italiana iniziatasi già nel 1921 e formatasi per lente e successive stratificazioni, - scriverà nel 1933 un collaboratore dei «Quaderni di Giustizia e Libertà», - l'emigrazione tedesca si è prodotta di colpo in modo tumultuoso. Fu la fuga in massa, di gente che ieri ancora era tranquilla ed ignorava la sorte che l'attendeva per l'indomani... L'emigrazione italiana ha una certa omogeneità di classe; l'emigrazione tedesca ha una sua omogeneità di razza. L'emigrazione italiana la troviamo al Faubourg St-An-toine; quella tedesca la troviamo a Montparnasse, al Quartiere Latino, nel Ghetto3.

Tra le molte differenze che non consentono, infatti, troppe «false analogie» tra l'avvento al potere del fascismo in Italia e del nazionalsocialismo in Germania c'è da aggiungere anche la volontà di rigenerazione morale e politica che scuote le avanguardie antifasciste in Italia e a cui in Germania non fa riscontro che una disperata volontà di sacrificio o una cupa filosofia della sconfitta.

L'animatore del rinnovamento nella democrazia liberale fu Giovanni Amendola, cui tra l'altro spettò il merito di avere promosso la risposta al manifesto degli intellettuali fascisti: che Arturo Labriola e Guglielmo Ferrerò si fossero proposti, prima di Croce o insieme con lui, di redigerla, dice già qualcosa circa il raggio dell'influenza politica e morale esercitata da Amendola. Egli aveva conseguito questa influenza durante la crisi Matteotti: dell'Aventino egli era stato infatti non soltanto l'animatote, ma anche l'ideatore, assertore da tempo di un atteggiamento di intransigente opposizione morale che togliesse ogni paravento legale al predominio fascista. Ma era stato anche colui che sul suo giornale, «Il Mondo», aveva alimentato la campagna contro il fascismo, pubblicando il memoriale di Cesare Rossi, e cioè l'atto di accusa più documentato sulle responsabilità di Mussolini nel preparare l'uccisione del deputato socialista e nel tentativo di fuorviare le indagini, e con l'Unione nazionale si era posto il problema di dar vita ad una forza che si collocasse al centro dello schieramento politico in modo da unificare i settori democratici della borghesia italiana. Assertore di una «nuova democrazia» imperniata su di una rigenerazione morale della vecchia classe dirigente e perciò chiuso ad ogni reale istanza di rinnovamento sociale e politico, Amendola vedeva nel fascismo una improvvisa escrescenza negativa, tanto più dolorosa perché inspiegabile, da combattere rilanciando gli ideali risorgimentali e ridando alla borghesia italiana fiducia in essi. La riconquista dei ceti medi alla democrazia sarebbe dovuta partire dal Mezzogiorno, dimostratosi più impermeabile alla penetrazione sia del fascismo sia dei partiti popolari di massa, e che, se aveva dato ampi consensi al listone fascista sulla base della mediazione delle vecchie clientele meridionali, aveva anche confortato del proprio sostegno la campagna elettorale dello stesso Amendola. La grande forza di attrazione morale esercitata da Amendola gli derivò principalmente dall'avere compreso, con particolare evidenza dopo il 3 gennaio, come nella battaglia contro il fascismo non fossero più consentite illusioni miracolistiche, trattandosi di una battaglia che richiedeva la più assoluta intransigenza, perché, com'egli scrisse, «i tempi volgeranno - non ne dubitate - e daranno ragione alla nostra buona fede, alla nostra buona volontà ed alla nostra sete di libertà e di giustizia. I nostri figli e i nostri nipoti benediranno la memoria di coloro che non hanno disperato mai, e che hanno continuato a testimoniare l'esistenza del sole nel più fitto della notte»4. Reiteratamente aggredito e minacciato dai fascisti, Amendola testimoniò col sacrificio della vita la sua capacità di incarnare con coerenza le ragioni della sua battaglia. Ma lo strumento da lui fondato per realizzare il proprio programma doveva mettere in evidenza l'antinomia fondamentale della sua concezione politica. Circoscritta sostanzialmente a Roma e al Mezzogiorno (limitata nel Nord dall'autonoma ripresa del partito liberale e dalla secessione di Bonomi), l'Unione nazionale fu sostanzialmente un raggruppamento di intellettuali e di notabili, non a caso fortemente appoggiato dalla massoneria: il suo tentativo di costituirsi come un partito democratico di ceti medi nasceva in forte ritardo, quando ormai la maggior parte di questi erano stati saldamente attratti nel blocco fascista, e per di più inficiato da una preclusione a sinistra verso i partiti operai e dall'incapacità di farsi carico delle istanze più spregiudicate portate avanti dal più giovane liberalismo italiano. Non tutti i membri dell'Unione condividevano queste preclusioni ed erano altrettanto lontani da queste incapacità. Ma anche per questo essa restò sostanzialmente un preparativo: costituirà il punto di incrocio tra vecchio e nuovo antifascismo e lascerà alla democrazia italiana un'eredità di idee piuttosto che una tradizione di partito politico.

Paradossalmente si organizzava come partito politico in questi anni di agonia della libertà politica in Italia il liberalismo, ma la vita del partito liberale italiano, fondato al Congresso di Bologna (8-10 ottobre 1922), fu più l'accolta di naufraghi di una tradizione morente che non l'atto costitutivo di una formazione politica vitale. Volto al futuro era invece il rinnovamento della tradizione liberale promosso in quegli anni da Piero Gobetti attraverso una rivista e una casa editrice, «La Rivoluzione liberale», che si posero anch'esse come elemento di dibattito e di confronto capaci di coinvolgere le figure e i momenti di pensiero più validi e i fermenti nuovi di tutta la cultura politica italiana. Ancor più che l'originalità del suo pensiero, ciò che ha colpito e continua a colpire chi studia il breve arco della sua attività è la determinazione con cui egli seppe proporre un'immagine inedita del liberalismo italiano, che per la prima volta rompeva con l'equazione liberalconservatrice e presentava il volto di una libertà liberatrice aperta anche sul piano sociale all'emancipazione degli oppressi e al rapporto con le avanguardie della classe operaia. Non tutti i rappresentanti delle diverse generazioni degli intellettuali italiani che egli riuscì a coagulare intorno alla sua rivista e alle sue iniziative mantennero l'intransigenza morale che animò Gobetti fino alla sua morte immatura, ma egli seppe introdurre tra gli intellettuali italiani, in un momento in cui tutte le frazioni della classe dominante si raccoglievano intorno al fascismo, la tendenza a comprendere che erano «essenzialmente nazionali e portatrici dell'avvenire due forze sociali: il proletariato e i contadini»5.

L'autocritica socialista non investì ancora un ripensamento strategico dei due partiti nei quali si articolava la forza residua del socialismo italiano. Il dualismo tra politica e cultura, che aveva caratterizzato l'intera storia del socialismo italiano, si ripropose anche in quest'ora di sconfitta. Riformisti e massimalisti diedero luogo ad una controversia di non breve durata intorno agli errori tattici compiuti negli anni precedenti e alle occasioni, dai diversi punti di vista, mancate. Incapaci di misurarsi, anche teoricamente, con la nuova realtà del fascismo, erano divisi tra chi lo considerava un «nuovo '98» e chi lo vedeva come un movimento transeunte della piccola borghesia e degli spostati prodotto dalla guerra. Unitari e massimalisti furono tuttavia il centro di raccolta di una nuova leva di giovani e più anziani militanti, i quali rivissero e reinterpretarono le tradizioni del socialismo italiano approdandovi dalle esperienze più disparate. Il psu, il partito di Matteotti, non riuscì a colmare il vuoto lasciato dalla scomparsa del suo segretario: esso disponeva di dirigenti popolari e prestigiosi - i vecchi esponenti del riformismo italiano - che erano capaci di attirare e di affascinare col loro esempio i giovani, ma non erano capaci di guidarli e di orientarli nella lotta politica. Non a caso, dopo il delitto Matteotti, aderì al psu Carlo Rosselli che poi troverà altre strade per la lotta contro il fascismo. Adesioni più ampie o comunque destinate ad incidere maggiormente sul suo destino politico ricevè il psi, che trovò proprio allora in Pietro Nenni una guida stabile che lo avrebbe diretto nel suo lungo e tormentato cammino dell'espiazione e del rinnovamento6.

La forza politica nella quale il ripensamento critico si fuse maggiormente col rinnovamento politico e organizzativo fu il partito comunista d'Italia. Nel 1923 esso aveva attraversato una durissima crisi politica. Arrestati tutti i suoi maggiori dirigenti, questo partito aveva visto ridotti i suoi iscritti a poco più di 7000: era certamente un'esagerazione quella di alcuni uffici del Komintern che volevano passati al fascismo alcune migliaia di comunisti2, ma non c'è dubbio che anche il partito comunista subì nel primo anno di dominazione fascista gli effetti del panico che colpi le frange meno solide di tutti i partiti politici italiani e dell'opera di disgregazione dell'avversario vittorioso. L'aspetto più rilevante della sua crisi era stato tuttavia quello politico. L'avvento al potere del fascismo contraddiceva la strategia bordighiana fondata sulla asserzione di poche leggi elementari e immutabili della lotta di classe e su di una pratica settaria, che rifiutava il momento stesso dell'iniziativa e della politica, e si traduceva nell'attesa inerte della rivoluzione inevitabile. La critica dell'Internazionale comunista, se coglieva giustamente gli effetti negativi di tale strategia in rapporto agli altri partiti operai italiani, era troppo lontana per individuare le cause profonde dell'inadeguatezza di quella politica e per indicare le vie di uscita.

L'iniziativa per uscire da tale impasse fu presa da Gramsci. Nel 1921-1922 egli era stato compartecipe del settarismo della direzione bordighiana, ma non aveva mai perso di vista gli spostamenti sociali e le tensioni politiche e militari delle quali la conquista del potere da parte del fascismo era stata espressione. Il soggiorno nell'Unione Sovietica in qualità di rappresentante del partito italiano presso l'esecutivo dell'Internazionale comunista lo aveva indotto a considerare la sconfitta del movimento operaio italiano e la crisi del suo stesso partito come un aspetto del difficile impatto della rivoluzione proletaria nella società dell'Occidente capitalistico. Egli non ne fece derivare soltanto la necessità di un adeguamento disciplinare con le posizioni generali dell'Internazionale comunista, ma anche l'esigenza di una ricognizione approfondita sulle forze motrici della rivoluzione in Italia. In questo senso il suo Che fare? del 19237 non è altro che il preludio a un'opera di profondo rinnovamento del comunismo italiano che si tradusse nella formazione di un nuovo gruppo dirigente e nella fondazione di tutto un nuovo orientamento politico. Quest'opera di Gramsci venne a coincidere cronologicamente con la bolscevizzazione dei partiti comunisti perseguita dall'Internazionale comunista e ne trasse autorità e prestigio per prevalere sulla forza di attrazione che la persona di Bordiga non meno che il corpo elementare delle sue idee conservavano presso i militanti e i quadri intermedi del partito. Se la bolscevizzazione del partito italiano, a differenza di quella di numerosi altri partiti europei, dette luogo ad un gruppo dirigente destinato a durare al di là delle vicissitudini durissime che il movimento operaio italiano e internazionale andavano ad affrontare, ciò si dovette essenzialmente a due motivi, che di rado si manifestano insieme nella storia del movimento operaio e che invece si fusero mirabilmente nell'opera di Gramsci: l'elaborazione teorica e la politica di massa. Le tesi approvate al Congresso di Lione, nel quale il nuovo gruppo dirigente gramsciano vedeva sancito il proprio insediamento alla direzione del partito, rappresentano il primo documento del movimento operaio italiano in cui un programma politico abbia per supporto un'analisi della società e della storia nazionali: alla individuazione del blocco tra industriali del Nord e agrari del Sud come fondamento dell'assetto di potere che aveva dominato in Italia faceva riscontro l'alleanza tra la classe operaia del Settentrione e i contadini del Mezzogiorno quale fondamento della rivoluzione proletaria italiana; al rafforzamento di questo blocco di potere con l'affermazione del fascismo lo sforzo di individuare tutte le contraddizioni che si aprivano al suo interno. E, soprattutto, una individuazione e una assunzione da parte della classe operaia delle grandi questioni nazionali, questione meridionale, questione contadina, questione vaticana — che implicavano una necessità di intervento costante a livello di una grande politica di massa. Anche sotto questo profilo l'opera di Gramsci consegui successi notevoli. Nel 1924 il partito comunista d'Italia risaliva da 7000 a più di 25 000 iscritti, con una particolare crescita nei grandi centri operai che riprendeva quella spinta di massa dal basso che aveva costituito la forza e l'originalità dell'«Ordine nuovo » e cui conferiva ora nuovo risalto la fusione con la frazione terzinternazionalista, costituita da migliaia di quadri intermedi che portavano nel nuovo partito l'esperienza sindacale del movimento operaio italiano. Accanto al capo dei «terzini», Giacinto Menotti Serrati, entravano in quella circostanza nel partito comunista d'Italia Fabrizio Maffi e Girolamo Li Causi, Giuseppe Di Vittorio e Agostino Novella9.

Se il partito di Gramsci non divenne un elemento risolutivo della crisi del movimento operaio e della sua capacità di corrispondere alle necessità storiche che gli si ponevano, ciò non si dovette soltanto al fattore «tempo» che giocava ormai contro ogni tentativo di riorganizzazione dell'antifascismo italiano. Anche nell'azione del partito comunista, sia pure in misura diversa che nelle altre formazioni politiche, si manifestava quella compresenza di vecchio e di nuovo che abbiamo già segnalato come limite forse inevitabile di questa grande stagione di risveglio dell'antifascismo e che in questo caso si espresse in una mancata individuazione e applicazione concreta di quella prospettiva di vaste alleanze sociali e politiche che esso poneva alla base di una rivoluzione italiana «proletaria» e «popolare». Con tutto ciò è in questa fase che il partito comunista d'Italia gettava le premesse di quell'azione che lo avrebbe fatto divenire la forza più combattiva e organizzata dell'antifascismo italiano.


Note

1 Indica chiaramente una tale periodizzazione e. F. Delzell, I nemici di Mussolini, Torino 1966.

2    Cfr. le osservazioni di carattere generale di E. Garin, Ernesto Codignola, ora in Intellettuali
 italiani del xx secolo, Roma 1974, p. 141.

3   Manfredo, Colpo d'occhio sull'emigrazione tedesca, in «Quaderni di Giustizia e Libertà»,
 n. 8, agosto 1933, p. 47. Sull'emigrazione proletaria antifascista manca ancora un lavoro d'insieme.
 Spunti utili si trovano nella recente memorialistica comunista.

4 Cit. in S. Colarizi, I democratici all'opposizione. Giovanni Amendola e l'Unione nazionale (1922-1926), Bologna 1973, p. 162. Importanti documenti in E. Amendola Kuhn, Vita con Giovanni Amendola. Epistolario (1903-1926), Firenze 1960. Sui limiti della battaglia di Amendola per il rinnovamento della democrazia liberale insiste G. Carocci, Giovanni Amendola nella crisi dello Stato italiano 1911-1923, Milano 1956.

5 A. Gramsci, Alcuni temi della questione meridionale, ora in La costruzione del Partito comunista cit., p. 138.

6    Cfr. E. Santarelli, Nenni dal repubblicanesimo al socialismo (1908-1921). Contributo ad
 una biografia, in «Studi storici», XIV, 1973, pp. 870-905.

7   Si veda la risposta a questa accusa nella lettera del 13 maggio 1923 di Togliatti al Comitato 
esecutivo dell'Internazionale comunista ora in Togliatti, Opere, vol. I cit., p. 746.

8 Per la verità cit., pp. 267-76.

9 Sulla consistenza e sull'apporto dei «terzini» cfr. Detti, Serrati e la formazione del Partito Comunista Italiano cit.

 

II. Lo Stato autoritario

[...]

3. L'isolamento delle opposizioni

Ancora prima che la promulgazione delle leggi eccezionali venisse a sancire la scomparsa delle ultime vestigia delle garanzie liberali, era sorta in alcuni settori dell'antifascismo borghese la consapevolezza della necessità di proiettare la propria azione al di là della legalità fascista, emigrando fuori d'Italia e organizzando l'attività clandestina all'interno del paese. Nel 1924 fu Nitti a prendere la via dell'esilio parigino, e nel 1925 ne seguirono l'esempio Amendola e Gobetti, già minati nel loro organismo dalle percosse subite nelle selvagge aggressioni squadristiche e destinati a morire di li a poco. Intanto all'indomani del 3 gennaio un gruppo di giovani raccolti intorno a Salvemini (Carlo Rosselli, Ernesto Rossi, Nello Traquandi) dava vita al «Non mollare!», il primo giornale clandestino che si stampasse e si diffondesse in Italia: nel suo stesso titolo esso rifletteva il sentimento che la battaglia politica contro il fascismo era stata perduta nei tempi brevi e che si trattava in primo luogo di approntare animi e mezzi per una lotta di lunga durata. Simultaneamente, e proprio per questo, il «Non mollare!» abbandonava le illusioni costituzionali dello schieramento aventiniano e impostava su basi repubblicane il programma della battaglia contro il fascismo1.

Si trattava, però, di una prospettiva d'azione sulla quale, per diversi motivi, i vari gruppi delle forze che si opponevano al fascismo erano ben lontani dal potersi raccogliere. La combinazione di repressione condotta con l'apparato dello Stato e di rigurgiti di violenza squadristica avevano limitato ai minimi termini e solo ad alcune zone del paese la precaria esistenza delle organizzazioni politiche, mentre i loro gruppi dirigenti stentavano a rendersi conto della portata non episodica di quan­to era accaduto. Storditi dai colpi ricevuti, nessuno di loro si sottrasse alla contraddizione tra lo slancio necessario per assicurare la volontà di lotta e le misure organizzative rese indispensabili da una situazione in cui era preclusa ogni azione legale. I popolari, che l'abbandono del Vaticano aveva posto alla mercè delle vendette fasciste, commisero l'inge­nuità di cercare di tornare a Montecitorio per prendere parte alla commemorazione della regina Margherita, ma furono duramente malmenati dai deputati fascisti. Il partito socialista unitario, il più forte dei due tronconi del socialismo italiano, fu il primo partito politico italiano ad essere posto fuori legge, all'indomani della denuncia dell'attentato Zaniboni, e il travaglio ideologico e politico del partito socialista italiano era ancora ai suoi inizi perché fosse in grado di tradursi in termini di lotta politica attiva.

Ma anche il partito comunista, che si era mosso con maggiore decisione su questa strada, scontò duramente le difficoltà di adeguamento alla nuova logica dell'azione clandestina. Deciso a servirsi fino in fondo, secondo l'insegnamento leninista e le prescrizioni dell'Internazionale, del Parlamento, come di una tribuna dalla quale denunciare lo sfruttamento capitalistico e indicare al proletariato la via della riscossa, Gramsci fu arrestato subito dopo la sospensione dell'immunità parlamentare, estesa ai comunisti contro la lettera stessa del provvedimento di revoca, che prendeva a pretesto l'assenza dei deputati aventiniani dai lavori della Camera. Insieme con Gramsci cadde nelle mani del fascismo gran parte dello stato maggiore comunista, da Bordiga a Scoccimarro, da Terracini, che già si trovava in carcere, a Roveda. Ad eccezione di Grieco, Bendini e Gennari, che poterono rifugiarsi all'estero, tutti i deputati comunisti furono arrestati.

Gli iscritti al partito, già falcidiati nel corso del 1926, si ridurranno a 6-7000 nel 1927. Essi reagirono all'applicazione delle leggi eccezionali con uno slancio di attività propagandistica e con una decisione nell'ingaggiare la lotta, rese ancora più evidenti dall'accanirsi su di loro della polizia fascista e dal silenzio e dall'inerzia in cui erano cadute nel paese le altre formazioni politiche. L'impatto con la lotta illegale si manifestò subito durissimo. «Anno terribile» per i comunisti italiani ha definito il 1927 Paolo Spriano:

Bisogna riandare al 1923 per ritrovare un momento altrettanto teso; quel primo momento «carbonaro» del partito fu, tuttavia, seguito nel 1924-23 da una vera e propria sortita, una rivitalizzazione del quadro medio, un rinnovato proselitismo, uno sviluppo vivace del dibattito politico interno. La lotta che accompagnò la crisi Matteotti mise il PCI in contatto con vasti strati di lavoratori, mentre si dispiegava l'opera di costruzione e di educazione intrapresa da Gramsci. Ora le cose volgono al peggio, cominciano i lunghi anni nei quali i colpi ricevuti dal nemico, gli arresti, le peregrinazioni, le delusioni si succederanno ininterrotti. Essere il 1927 il primo di questi anni significa però che i colpi appaiono particolarmente gravi, il modo di pararli e di reagire ad essi ancora inadatto, anche se il coraggio non viene meno2.


Intanto all'inizio del 1927 i comunisti avevano provveduto, in col­legamento con l'Internazionale comunista, alla costituzione di un «cen­tro estero», del quale fu fatto responsabile Palmiro Togliatti. Esso curò immediatamente la formazione di un «centro interno» con l'aiuto del quale coordinare la direzione della lotta illegale nel paese. «Lo Stato Operaio», la rivista comunista che Togliatti diresse nell'emigrazione, potè in larga misura conservare e sviluppare le caratteristiche di cultura militante proprie dell'insegnamento gramsciano in quanto, a differenza di gran parte della stampa antifascista pubblicata nell'emigrazione, ebbe quale proprio obiettivo costante una conoscenza dei processi sociali e po­litici in atto in Italia, rinnovata dalla drammatica esperienza di lotta e dai mai recisi rapporti con le masse dei suoi militanti. Il pci pagò un prezzo durissimo per la presenza nel paese, mantenuta in questa prima fase della sua attività clandestina particolarmente con la diffusione di un gran numero di giornali, che cercarono di rivolgersi sui luoghi di lavoro e nei maggiori insediamenti sociali a tutti gli strati decisivi della popolazione lavoratrice: alla fine dell'estate del 1927, almeno 2000 era­no i comunisti arrestati e il Tribunale speciale aveva già comminato, dopo un anno di attività, 275 condanne, quasi tutte a comunisti, per 1371 anni di galera3. Nessun mezzo fu lasciato intentato dal fascismo per venire a capo di questa opposizione irriducibile: dalla infiltrazione di numerose spie nelle organizzazioni comuniste alla provocazione che giustificasse la repressione in massa (un significativo episodio della quale risultò l'installazione di una bomba ad orologeria all'inaugurazione della Fiera campionaria di Milano, il 12 aprile 1928). Subito dopo il Tribunale speciale iniziava la celebrazione del «processone» contro i maggiori dirigenti comunisti, conclusosi con la condanna di Terracini a ven­tidue anni e nove mesi, e di Gramsci, Scoccimarro e Roveda a oltre venti anni.

Sotto questi colpi durissimi, il persistere nel paese di un'organizzazione illegale configurava oggettivamente il partito comunista come il partito rivoluzionario della classe operaia italiana. Mentre, infatti, i dirigenti riformisti trasportavano a Parigi la centrale della CGL (e l'ala destra di Rigola e D'Aragona si adatterà invece a una connivenza con il fascismo), i comunisti promuovevano all'inizio del 1927 la ricostituzione clandestina in Italia dell'organizzazione sindacale dei lavoratori.

Le altre forze politiche alimentarono l'emigrazione in modi assai diseguali. Pochissimi furono i popolari che seguirono in esilio don Sturzo, ai quali non riusci mai per altro di realizzare il progetto di ricostituire all'estero il loro partito. I più attivi cercarono di collegarsi con esponenti di altre correnti politiche di orientamento laico, e non a caso dettero i loro frutti migliori in scritti storico-politici, tra i quali primeggia Le regime fasciste italien di Francesco Luigi Ferrari, un'interpretazione delle origini del fascismo e una denuncia della sua dittatura, che costituisce l'unica voce cattolica di alto livello nel processo di ripensamento autocritico che si delinea in quegli anni nei settori più avvertiti della cultura italiana4. A ondate successive e a piccoli gruppi, si allontanarono dall'Italia nel corso del 1926, ma soprattutto dopo l'emanazione delle leggi eccezionali, gli stati maggiori degli altri partiti politici italiani, che seguivano quasi tutti in terra di Francia decine di migliaia di quadri intermedi, di giornalisti, di organizzatori locali e, in misura ancora maggiore, di semplici lavoratori: Treves, Turati, Modigliani, Saragat, Nenni, per non fare che alcuni nomi, tra i socialisti, e Facchinetti, Mario Bergamo, Chiesa e Fernando Schiavetti tra i repubblicani, e, tra coloro che erano ormai espressione più di gruppi di opinione che di partiti organizzati, Salvemini, Sforza, Cianca, Arturo Labriola e Tarchiani.

L'azione di questi uomini, che cominciarono a fregiarsi in positivo dell'appellativo ingiuriosamente dato loro dai fascisti di «fuorusciti», stentò a coagularsi intorno a un'attività che non fosse quella giornalistica o quella di denuncia e di smascheramento della propaganda, che proprio in quegli anni il fascismo andava sviluppando, con uno stuolo di pubblicisti brutamente prezzolati, non solo nei circoli politici delle capitali, ma anche tra le masse degli italiani emigrati. Spesso vecchi e incapaci di riaversi dalle delusioni subite, si trovavano per di più ad operare in un ambiente che, per coloro che erano stati politici attivi, era troppo dissimile da quello della loro formazione o delle loro attività consuete. Gli stessi partiti socialisti, cui pure non mancavano i collegamenti internazionali e rapporti anche di ordine sindacale con gruppi di lavoratori italiani emigrati, incontrarono notevoli difficoltà a conservare la fisionomia di partiti politici. Frutto più di queste difficoltà che non espressione di un organico programma e di una precisa linea di azione fu la Concentrazione antifascista, di orientamento laico e anticomunista, fondata nell'aprile 1927 su invito e con l'appoggio della Lega italiana per i diritti dell'uomo. Neppure l'adesione ad essa dei partiti socialisti riuscirà ad infonderle quel carattere di rappresentatività dell'Italia liberale e democratica cui il settimanale che essa pubblicava a Parigi dal i° maggio 1927, «La libertà», aspirava5.

Una maggiore rappresentatività della vecchia Italia assunse invece un pensatore, proprio in questi anni convertitosi alla filosofìa della libertà 6, e fattosi emigrato in patria dopo avere fiancheggiato l'avvento e il consolidamento al potere del fascismo. Benedetto Croce seppe utilizzare con straordinaria capacità i margini di libertà che il fascismo dovette concedergli, poiché troppo universalmente noto e stimato era il suo nome perché su di esso potesse abbattersi, senza gravi ripercussioni sul piano internazionale, l'uniforme logica del totalitarismo fascista. Senatore dal 1910, ministro della pubblica istruzione nell'ultimo gabinetto Giolitti, Croce non fu mai così intensamente e consapevolmente uomo politico come negli anni della dittatura fascista. Egli stesso, del resto, teorizzò con grande lucidità, agli inizi del 1928, la funzione che sembrava voler desumere dalla necessità della tristezza dei tempi. «La verità — scriveva a Giuseppe Lombardo Radice — è che, nei tempi di calma, i pratici curano la pratica e gli studiosi gli studi. Nei tempi di crisi, i pratici si smarriscono o sono eliminati, e gli uomini di studi assumono la parte dei critici ed educatori per l'avvenire»7.

Croce aveva cominciato ad esplicare questa missione rivendicata in nome del primato dei grandi intellettuali e della loro direzione dei grandi processi storici pubblicando alla fine del 1927 una Storia d'Italia dal 1871 al 1915 che, contrapponendosi all'Italia in cammino di Volpe, sembrò rinnovare sul piano storiografico il duello ingaggiato due anni prima sul piano filosofico con Giovanni Gentile e col suo Manifesto degli intellettuali fascisti. Il libro, forse sopravvalutato rispetto ad altre, superiori opere storiche di Croce, assolveva in realtà ad un compito più generale. Fornendo l'immagine non già di ciò che la classe dirigente liberale era effettivamente stata (e neppure del modo col quale il politico Croce l'aveva a suo tempo valutata), ma piuttosto di ciò che a suo avviso avrebbe dovuto essere negli anni immediatamente precedenti, egli riusciva a bloccare il processo autocritico in corso nelle giovani generazioni della intellettualità italiana circa il rapporto tra Stato liberale e avvento al potere del fascismo, proponendo altresì agli oppositori della dittatura la piattaforma della restaurazione conservatrice.

Non si comprende tutta l'efficacia dell'insegnamento crociano nella cultura italiana durante il ventennio, nella sua grandezza e nei suoi limiti, se non si tiene presente che egli seppe incarnare con una coerenza, che non trovò uguali in altri paesi europei sottoposti alla dittatura fascista, l'ideale del lavoro intellettuale come forma di attività politica: una forma di resistenza passiva cui la fiducia nella ragione incarnata nella storia conferiva i tratti della «religione della libertà». Strumento del colloquio ininterrotto di Croce col pubblico colto dell'Italia fascista continuarono ad essere i fascicoli bimestrali della «Critica», di diffusione forse più limitata di quanto non è stato a lungo affermato, ma non per questo meno efficace.

Emigrati fuori d'Italia, e nel migliore dei casi intenti a rintuzzare la propaganda fascista nell'opinione pubblica internazionale, impegnati in un'attività clandestina nel paese spesso con l'unico fine di non disperdere le basi sicure che ad essi rimanevano, oppure ridotti ad un digni­toso silenzio, seppure nutrito di studi, gli antifascisti italiani attraversarono in questi anni il momento probabilmente più nero della loro vicenda. È innegabile che il rimodellamento autoritario della società italiana da parte del fascismo riusciva a ottenere l'effetto di sospingere ai suoi margini non soltanto gli emigrati, ma anche quanti lottavano per porsi al di fuori della sua logica. Le discussioni spesso esasperate e quasi sempre nominalistiche, che in questi anni si accendevano tra i gruppi di fuorusciti e all'interno delle loro stesse organizzazioni, erano il segnale di un isolamento più o meno marcato, ma sempre operante, dai bisogni e dalle abitudini quotidiane delle più larghe masse della popolazione. Né poteva essere di effettivo conforto a chi combatteva o resisteva contro la dittatura trionfante il richiamo al precedente del Risorgimento, in quanto opera di uomini che per la libertà avevano sofferto il carcere o affrontato l'esilio, perché non c'era chi non avvertisse, anche nella for­ma più confusa o elementare, che nuova, più dura e insidiosa, era la natura della tirannide insediatasi nel paese.

Negli anni successivi la volontà di lotta di importanti nuclei di operai, di contadini e di intellettuali di avanguardia, consentirà di rimontare in parte questa china, mentre la comprensione del carattere della dittatura fascista costituirà per gli esponenti più lucidi dell'antifascismo italiano la premessa necessaria per riprendere e rendere indistruttibili i legami col paese, mantenendo le radici negli strati decisivi della popo­lazione lavoratrice e al tempo stesso forgiando le armi per intervenire nei successivi sviluppi. Resterà tuttavia come una ferita profonda e difficile a rimarginarsi sul corpo dell'intera nazione la dicotomia allora apertasi tra una piccola minoranza decisa a pensare e a operare in ter­mini politici, senza avere però la possibilità reale di fare politica e di incidere in modo decisivo sulle sorti del paese, e grandi masse della popolazione, che il nuovo regime veniva politicamente inquadrando proprio in nome e sotto il segno della negazione dell'autonoma e cosciente partecipazione popolare. Era il costo pagato alla lacerazione dell'unità nazionale portata dal fascismo, la disabitudine al vivere e al confronto civile che esso aveva introdotto: una pesante eredità, che soltanto una nuova grande esperienza nazionale avrebbe potuto rimuovere, impostando in termini completamente nuovi la lotta sociale e politica nel paese.

Note

1 Cfr. Non mollare (1025), riproduzione fotografica dei numeri usciti, con tre saggi storici di G. Salvemini, E. Rossi, P. Calamandrei, Firenze 1933. Si veda anche Giorgio Amendola, Comuni­smo, antifascismo, resistenza, Roma 1961, PP- 403-10.

2 P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, voi. II: Gli anni della clandestinità, To­rino 1969, p. 88.

3 Per tutti i dati relativi alle condanne inflitte dal Tribunale speciale cfr. A. Dal Pont, A. Leonetti, P. Maiello, L. Zocchi, Aula IV. Tutti i processi del Tribunale speciale fascista, a cura dell'Anppia, Roma 1961.

4 Cfr. M. G. Rossi, Francesco Luigi Ferrari dalle leghe bianche al partito popolare, Roma 1965.
Sui popolari in esilio cfr. g. ignf.sti, Momenti del popolarismo in esilio, in aa.vv., I cattolici tra
fascismo e democrazia, a cura di P. Scoppola e F. Traniello, Bologna 1975, pp. 75-183.

5 Cfr. Delzell, I nemici di Mussolini cit., pp. 41 sgg.

6 Cfr. N. Bobbio, Politica e cultura, Torino 1955.

7 Cfr. R. Colapietra, Lettere inedite di Benedetto Croce a Giuseppe Lombardo Radice, in « Il
Ponte», XXIV, 1968, p. 994.