Rivoluzione francese

Enciclopedia Europea Garzanti
vol. 9 pp. 789-794

Albert Soboul

Indice

■ Movimento politico e sociale che nell'ultimo decennio del sec. XVIII abbatté in Francia l'ordinamento feudale e la monarchia assoluta creando i presupposti per uno stato democratico moderno.

■ La crisi dell'Ancien regime

Gli avvenimenti del 1789, data in cui si fa comunemente iniziare la rivoluzione francese, segnarono l'esplosione delle tensioni e delle contraddizioni economiche, sociali, politiche e finanziarie accumulatesi nell'arco di un secolo e accentuatesi nella seconda metà del Settecento. L'ondata di prosperità che aveva contrassegnato il regno di Luigi XV (1715-74) aveva giovato soprattutto ai ceti urbani (armatori dei porti, mercanti grandi e piccoli, possidenti di estrazione nobiliare o borghese, professionisti e funzionari) e a gruppi ristretti di affittuari intermediari e di appaltatori delle entrate signorili ed ecclesiastiche nelle campagne, mentre i piccoli coltivatori e i braccianti avevano visto peggiorare le loro condizioni di vita per effetto dell'offensiva della rendita, dell'allargarsi della forbice tra prezzi e salari e dell'incremento demografico (da 20 a 26 milioni circa).

Da un lato, quindi, strati intermedi sempre più consistenti per numero e ricchézza aspiravano a un'elevazione sociale che i tradizionali canali d'accesso alla nobiltà non bastavano più a soddisfare; dall'altro, si diffondeva tra le masse, soprattutto rurali, un malessere che si andò aggravando a partire dagli anni Settanta, con l'oscurarsi della congiuntura economica, e che si manifestò in una diffusa reazione sia contro il prelievo signorile, sia contro le tendenze liberistiche e fisiocratiche fatte proprie dalla monarchia (erosione degli usi civici e dei terreni comunali, attacco contro la piccola azienda contadina, tentativi di smantellamento del regime vincolistico, che già nel 177576 provocarono disordini e sommosse).

Nel frattempo, la diffusione delle idee illuministiche (soprattutto a partire dalla pubblicazione dell'Encyclopédie di D. Diderot e J.-B. d'Alembert, 1750 sgg.) andava minando presso i ceti colti le fondamenta ideologiche dell'assolutismo, e su tali idee facevano leva gli stessi gruppi privilegiati (per esempio i parlamenti) per opporsi all'accentramento del potere e al rafforzamento dell'autorità monarchica.

A tutto questo si aggiungeva l'aggravarsi del dissesto finanziario, soprattutto in conseguenza delle enormi spese richieste dalla guerra dei sette anni (1757-63) e dall'intervento contro la Gran Bretagna nella guerra d'indipendenza americana (1778-83).

I tentativi compiuti da A.-R.-J. Turgot (1774-76) e da J. Necker (1776-81) per rimediare allo sbilancio mediante riforme tributarie che ripartissero più equamente il carico fiscale fallirono per l'opposizione della corte, dei parlamenti e dell'alta finanza. Per evitare la bancarotta, il nuovo controllore delle finanze Ch.-A. de Calonne fu costretto a ripresentare la proposta di un'imposizione fondiaria proporzionale al reddito; ma l'assemblea dei notabili da lui stesso convocata rifiutò il proprio assenso (febbraio-marzo 1787) e si appellò agli stati generali, la rappresentanza dei tre ordini della nazione (clero, nobiltà e terzo stato) che non era più stata convocata dal 1614.

Il programma di Calonne fu ripreso dal suo successore, E.-Ch. Loménie de Brienne, ma la tenace resistenza dei parlamenti, sostenuti da un'opinione pubblica sempre più ostile alla monarchia, lo costrinse a ritirare i provvedimenti di riforma già emanati e ad annunciare, prima di dimettersi a sua volta (agosto 1788), la convocazione degli stati generali per il 1° maggio 1789.

Sùbito nacquero controversie sui caratteri e sulla composizione di quest'assemblea. Aderendo a una diffusa richiesta, di cui si fece portavoce fra gli altri l'abate E.-J. Sieyès (autore del celebre pamphlet Che cos'è il terzo stato?), il ministro J. Necker, richiamato da Luigi XVI, propose e ottenne dal re di raddoppiare la rappresentanza del terzo stato, ma la questione essenziale del metodo da tenersi nelle votazioni (per ordine, secondo il sistema tradizionale che assicurava la maggioranza ai due ordini privilegiati, o per testa, cioè computando i suffragi individuali) rimase irrisolta, mentre cresceva il fermento della pubblica opinione e proliferavano ovunque i circoli o club politici.

Nelle campagne, colpite nel 1788-89 da una gravissima carestia, si diffondevano frattanto aspettative messianiche di riforma, che trovarono parziale espressione nei cahiers de doléances, elenchi di gravami redatti in ogni parrocchia per essere poi unificati e trasmessi ai deputati eletti per gli stati generali.

Sin dall'indomani della solenne apertura degli stati generali (5 maggio 1789) si aprì il conflitto tra gli ordini. Il terzo stato reclamò la verifica dei poteri in comune, ciò che implicava il voto per testa e non per ordine. Davanti all'ostinato rifiuto del clero e della nobiltà, il terzo statò intraprese, il 12 giugno, l'appello generale di tutti i deputati. Il blocco dei privilegiati cominciò allora a disgregarsi: il giorno seguente, tre curati risposero alla chiamata del loro cognome. Presentendo la vittoria, il terzo stato si spinse oltre: il 17 giugno 1789, su proposta di Sieyès, si proclamò assemblea nazionale.

La monarchia tentò di domare la rivolta del terzo stato con gli stessi metodi che aveva usato contro l'aristocrazia, adesso sua alleata. Risoluto ad annullare le decisioni del terzo stato, Luigi XVI fece chiudere la sala dell'assemblea. Il 20 giugno 1789, trovando le porte chiuse, i deputati del terzo stato si trasferirono nella sala della Pallacorda dove, sotto la presidenza di J.-S. Bailly e su proposta di J.-J. Mounier, prestarono il giuramento di «non separarsi mai e di riunirsi laddove le circostanze l'avrebbero reso necessario sino a quando la costituzione non fosse stata proclamata e basata su solide fondamenta».

Il 23 giugno 1789 Luigi XVI tenne una seduta regia degli stati generali per dettarvi le proprie volontà. Nel programma di riforme che propose, il re acconsentì all'uguaglianza fiscale, ma mantenne espressamente «le decime, le rendite e i diritti feudali e signorili»: cioè le basi sociali dell'Ancien regime.

Il terzo stato non si lasciò intimidire, e il 9 luglio l'assemblea nazionale si proclamò assemblea costituente. Ma la trasformazione degli ordinamenti, che era implicita in questa denominazione, non era destinata a realizzarsi in maniera pacifica.

Il ricorso all'esercito da parte di Luigi XVI indicò nel modo più evidente l'opposizione della monarchia e dell'aristocrazia a qualsiasi vera concessione. A questo punto fu decisivo l'intervento delle masse popolari, che in pochi mesi portò al crollo dell'Ancien regime.

Sin dalla fine dell'inverno la carestia aveva fatto sentire i suoi effetti nelle città e nelle campagne. Il raccolto del 1788 era stato particolarmente cattivo, e il prezzo del pane non tardò ad aumentare, provocando disordini nei mercati, attacchi ai convogli di grano e alle barriere del dazio. E ciò mentre la convocazione degli stati generali suscitava nelle masse un'immensa speranza. Ed ecco che gli aristocratici, con la loro resistenza, impedivano quel rinnovamento. Allora si formò nella coscienza popolare l'idea del «complotto aristocratico», e si rafforzò l'impulso ad agire prima che i nobili passassero all'attacco.

Alla vigilia del raccolto del 1789, nel delicato momento della saldatura, crisi economica e mobilitazione ideologica si unirono nell'animo popolare in una miscela esplosiva. II 12 luglio 1789 si diffuse a Parigi la notizia dell'esonero di Necker, ritenuto un ministro riformatore: ciò ebbe l'effetto di una bomba. Il 13 luglio gli elettori del terzo stato decisero la creazione di una «milizia parigina» (si trattava in effetti di una milizia borghese). II 14 luglio, dopo aver depredato l'armeria degli Invalidi, la folla parigina si recò alla Bastiglia, la fortezza alta trenta metri in cui erano rinchiusi i prigionieri di stato, e se ne impadroni con un furioso assalto.

Il prestigio della monarchia subì in quelle giornate un grave colpo: Luigi XVI fu costretto a richiamare Necker e a riconoscere la legittimità del comune insurrezionale formatosi a Parigi (17 luglio).

Allora entrarono in scena i contadini. La carestia e la disoccupazione avevano ingrossato le bande dei vagabondi e dei questuanti, e nelle campagne si diffuse la voce che si trattava di briganti al soldo dell'aristocrazia, che voleva ridurre il popolo alla fame. In quel clima di miseria e di insicurezza generale bastarono alcuni incidenti locali per dare origine a correnti di panico che, dal 20 luglio al 6 agosto 1789, percorsero quasi tutta la Francia. Questa «grande paura» suscitò una reazione difensiva che si trasformò ben presto in volontà punitiva. Abbandonando la caccia ai briganti immaginari, i contadini attaccarono i castelli e distrussero gli archivi in cui erano conservati i titoli e i registri dei diritti signorili. La portata dell'insurrezione contadina fu subito evidente all'assemblea nazionale.

Il terzo stato esitò. Finalmente fu trovata una soluzione di compromesso con la nobiltà liberale. All'inizio della memorabile seduta della notte del 4 agosto, il visconte di Noailles propose che i diritti feudali fossero dichiarati riscattabili; il duca d'Aiguillon precisò che «quei diritti erano una proprietà, e poiché ogni proprietà era sacra» non si poteva chiederne la soppressione pura e semplice, senza «una giusta indennità». Salvaguardata così la parte essenziale dei loro interessi, i deputati si lasciarono prendere dall'entusiasmo: furono aboliti tutti i privilegi degli individui e degli ordini, come pure quelli delle province e delle città.

Sulle rovine dell'Ancien regime la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, votata il 26 agosto 1789, pose le fondamenta della nuova società: uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, libertà di pensiero e di espressione, sicurezza della persona e, della proprietà.

Ma già tra agosto e settembre, nel dibattito sull'organizzazione dei poteri costituzionali, l'apparente unanimità che si era creata in seno all'assemblea mostrò le prime crepe: la concessione al re d'un veto puramente sospensivo sulla legislazione fu approvata con una maggioranza esigua (575 voti contro 325) che dimostrò la riluttanza a ogni ulteriore concessione al partito monarchico conservatore. Ad allargare il solco tra quest'ultimo e lo schieramento liberale intervennero poi le giornate del 5-6 ottobre, allorché una folla composta principalmente di donne, esasperate dal carovita, marciò da Parigi a Versailles, invase gli appartamenti reali e costrinse la corte a trasferirsi nel palazzo parigino delle Tuileries.

Questo nuovo intervento delle masse sulla scena politica, accompagnato ed esaltato da una stampa politica dai toni accesi e declamatori (tra i giornali più seguiti erano «L'Ami du peuple» di J.-P. Marat e «Les Révolutions de France et de Brabant» di C. Des Moulins), ebbe l'effetto da un lato di spingere su posizioni più radicali una parte considerevole del terzo stato, dall'altro di irrigidire l'atteggiamento della corte e dell'aristocrazia a essa legata. Erano dunque già in partenza ristrettissimi i margini per un compromesso come quello vagheggiato dal marchese di La Fayette e da altri nobili illuminati, tendente all'instaurazione di una monarchia costituzionale all'inglese, al cui vertice fosse l'aristocrazia fondiaria alleata con l'alta borghesia della finanza e degli affari.

■ Il fallimento della «rivoluzione delle élites»

Per tutto il 1790 le sedute dell'assemblea nazionale furono dominate, oltreché dalla discussione degli articoli della futura costituzione, da due importanti problemi, strettamente legati tra loro: il problema finanziario e il problema religioso. Fallito il tentativo di Necker di ricorrere ancora una volta al credito per colmare il pauroso disavanzo, già il 2 novembre 1789, su proposta del vescovo di Autun, Ch.-M. de Talleyrand, fu deciso che i beni della chiesa fossero messi a disposizione della nazione. Successivamente venne deliberata l'emissione di buoni del tesoro fruttiferi, detti assegnati, il cui rimborso doveva essere garantito dai beni incamerati.

La vendita delle proprietà ecclesiastiche ebbe inizio nel marzo 1790, e si svolse con modalità atte a favorire gli acquirenti più facoltosi. Ma ben presto gli assegnati, emessi in quantità esorbitante e in tagli sempre più piccoli, si trasformarono in vera e propria carta moneta dal corso forzoso, la cui quotazione di mercato cominciò a scendere nei confronti della moneta «buona»; nel maggio del 1791 avevano già perso un quarto del valore nominale, e l'inflazione veniva così ad aggiungersi agli altri fattori di destabilizzazione politica e sociale; tanto più che il nuovo sistema tributario messo a punto nell'inverno 1790-91, e basato su un'imposta fondiaria proporzionale al reddito, stentava a funzionare a causa della mancanza di catasti e dell'inesperienza delle autorità locali incaricate del riparto e della riscossione delle imposte.

L'incameramento dei beni del clero e la soppressione delle decime rendevano necessaria una riorganizzazione della chiesa di Francia, che molti reclamavano anche per ragioni ideologiche. Aboliti il 13 febbraio 1790 gli ordini regolari, il 12 luglio successivo fu approvata la Costituzione civile del clero, che trasformava i ministri del culto in pubblici funzionari stipendiati, cui verrà imposto alla fine dell'anno il giuramento costituzionale.

La condanna pronunciata dal papa il 10 marzo 1791 (e rinnovata il 13 aprile) portò alla scissione tra «clero costituzionale» e «clero refrattario», il quale ultimo, maggioritario in molte regioni, doveva rafforzare le correnti controrivoluzionarie e costituire per molti anni un elemento di insicurezza per i governi repubblicani.

Ma il più importante tra i fattori che portarono al fallimento del compromesso del 1789 fu indubbiamente la questione dei diritti feudali. Le decisioni prese la notte del 4 agosto non vennero accettate dai contadini. I decreti d'applicazione del 5-11 agosto 1789, e poi la legge del 15 marzo 1790, dimostrarono come i sacrifici dell'aristocrazia (che a ogni modo nella sua maggioranza si mostrò ostile al compromesso e fin dall'autunno del 1789 cominciò a scegliere la via dell'emigrazione) fossero più apparenti che reali: la feudalità veniva abolita nella sua forma istituzionale e giuridica, ma rimaneva nella sua realtà economica, come prelievo sul prodotto dei contadini. Il riscatto dei diritti reali che gravavano sulla terra costituì la base del compromesso ricercato sin dal 1789 da una parte della borghesia: compromesso eminentemente favorevole ai signori, che tuttavia lo rifiutarono. Quanto ai contadini, essi non avevano, per lo più, i mezzi per pagare il riscatto, e non erano comunque disposti a farlo.

L'agitazione contadina continuò fino al 1792 (in talune regioni addirittura fino al 1799) in varie forme, delle quali la più diffusa fu il rifiuto di continuare a pagare censi e decime signorili. Le leggi dell'estate 1792 e del luglio 1793, che proclameranno l'abolizione senza indennizzo di tutte le prestazioni feudali, non faranno che sancire una realtà di fatto. In tal modo fallirono la via riformistica e quella che alcuni storici hanno chiamato la «rivoluzione delle élites».

In effetti, quali che fossero le convergenze tra il liberalismo aristocratico e il pensiero borghese contro l'assolutismo monarchico, le élites si divisero sul problema del privilegio, sotto la minacciosa pressione delle masse rurali. Nel 1789 non esisteva una élite francese unificata: la nobiltà francese non aveva saputo né voluto assimilare le nuove forze sociali e intellettuali; lo stato monarchico non aveva saputo fare una politica accettabile dagli elementi più dinamici della borghesia.

Per quanto riguarda le «capacità d'arbitrato e di riforma del re di Francia», alle quali fanno riferimento gli storici della «rivoluzione delle élites», un'analisi approfondita dello stato monarchico alla fine dell'Ancien regime avrebbe dimostrato che esso poteva essere favorevole «a una parte sola»: molto prima del 1789 la monarchia aveva dimostrato di essere lo stato dell'aristocrazia.

E proprio questo aveva dichiarato Luigi XVI in occasione della seduta regia del 23 giugno 1789: «Il re vuole che l'antica distinzione dei tre ordini dello stato sia conservata nella sua integrità, come essenzialmente legata alla costituzione del proprio regno.» Non si poteva esprimere meglio il nesso tra la monarchia d'Ancien regime e il mantenimento del privilegio aristocratico.

La fuga della famiglia reale e il suo arresto a Varennes, il 21 giugno 1791, «lacerarono il velo» che ancora copriva le vere intenzioni della corte, e segnarono uno dei momenti di svolta della rivoluzione. Il silenzio ostile della folla che assistette al rientro di Luigi XVI a Parigi dimostrò fino a qual punto si fosse deteriorata nell'animo popolare l'immagine dell'unto del Signore a cui ancora nel 1789 tanti cahiers de doléances si appellavano con speranza e fiducia.

Rendendo manifesto il ricorso della monarchia allo straniero, e suscitando il timore dell'invasione, la fuga di Varennes ridiede forza all'idea del complotto aristocratico; si acuirono così all'interno le tensioni sociali e all'esterno gli attriti con le potenze assolutiste che dovevano portare alla guerra.

Il 17 luglio una manifestazione repubblicana organizzata dal club estremista dei cordiglieri fu sanguinosamente repressa al Campo di Marte dalla guardia nazionale agli ordini di La Fayette; dal club dei giacobini, fino ad allora centro di raccolta di tutti i «patrioti», si staccò l'ala monarchica dei «fognanti»; il 27 agosto l'imperatore e il re di Prussia lanciavano con la dichiarazione di Pillnitz un minaccioso avvertimento all'assemblea.

In questo clima di tensione e di incertezza venne approvato, il 3 settembre 1791, il testo della nuova costituzione. Preceduta dalla Dichiarazione dei diritti del 1789, essa distingueva i cittadini francesi in «attivi» (coloro che pagavano un minimo di imposta) e «passivi», riservando ai primi, attraverso un sistema di doppio grado, l'elezione dei deputati all'assemblea legislativa e alle cariche municipali e dipartimentali; attuava un largo decentramento amministrativo e introduceva una netta distinzione tra i poteri dello stato, lasciando al re il comando dell'esecutivo e un veto sospensivo sulle leggi; sanciva inoltre lo smantellamento del regime vincolistico e corporativo, proclamando la libertà d'intrapresa e il carattere inviolabile della proprietà.

Concepita per garantire il trapasso pacifico del potere alla borghesia agiata, la costituzione non appagava né la volontà di rivincita della monarchia e dei suoi sostenitori, né le rivendicazioni popolari che si erano variamente manifestate dal 1789 in poi. In un certo senso, essa era nata morta.

■ La guerra e la caduta della monarchia

All'interno dell'assemblea legislativa, che si riunì il 1° ottobre 1791, i giacobini si trovarono in minoranza nei confronti dei fognanti e dei girondini, rappresentanti della ricca borghesia delle province e fautori del liberalismo e del decentramento amministrativo. Furono questi ultimi a premere per una politica estera aggressiva, nell'intento di scaricare all'esterno le tensioni sociali che tornarono ad accentuarsi nell'inverno 1791-92, in conseguenza del rincaro delle derrate alimentari e dei generi coloniali; e al tempo stesso con l'obiettivo di colpire, insieme agli emigrati (i cui beni furono posti sotto sequestro il 9 marzo 1792), le tendenze controrivoluzionarie interne. Per ragioni diverse, nella stessa direzione operava il partito di corte, che sperava nella sconfitta della Francia e nella restaurazione del potere monarchico a opera delle potenze straniere.

Fu così che il 20 aprile 1792 Luigi XVI propose la dichiarazione di guerra all'Austria (al cui fianco subito si schierò la Prussia); l'assemblea legislativa l'approvò quasi all'unanimità. Ma la guerra fece fallire tutti i calcoli di coloro che l'avevano provocata. La borghesia girondina si dimostrò ben presto incapace di condurla e di schiacciare le forze controrivoluzionarie che cospiravano con il nemico. Si avverarono allora le predizioni di M. Robespierre secondo cui, prima di combattere l'aristocrazia all'esterno, occorreva distruggerla all'interno del paese. I rovesci militari della primavera-estate 1792, nei quali la monarchia aveva riposto le sue speranze, ne affrettarono invece la rovina.

La proclamazione della «patria in pericolo» (11 luglio 1792) e il Manifesto del duca di Brunswick (25 luglio) nei quali si minacciava la distruzione di Parigi qualora fosse stata recata la minima offesa alla famiglia reale, suscitarono un'ulteriore ondata di paura e di collera popolare, che i cordiglieri e i giacobini (tra i quali un grande prestigio si era conquistato G.-J. Danton) seppero indirizzare verso uno sbocco politico.

Il 10 agosto 1792 una municipalità insurrezionale insediatasi all'Hotel de Ville proclamava la decadenza della monarchia, mentre una folla inferocita prendeva d'assalto il palazzo delle Tuileries e il re cercava scampo presso l'assemblea legislativa. Lo stesso giorno veniva decisa l'elezione a suffragio universale di una nuova assemblea, la convenzione, e una settimana dopo si procedeva alla creazione di un tribunale rivoluzionario per giudicare i nemici della rivoluzione.

Ma i sanculotti, prima di arruolarsi e correre alla frontiera per arrestare l'invasione austro-prussiana, si fecero giustizia con le proprie mani e tra il 2 e il 5 settembre massacrarono nelle prigioni oltre un migliaio di detenuti politici.

L'insurrezione del 10 agosto ebbe un carattere al tempo stesso nazionale e sociale: nazionale per la presenza dei battaglioni bretoni e marsigliesi (fu composto per questi ultimi quello che doveva divenire l'inno nazionale francese), sociale per la partecipazione dei cittadini «passivi» e in particolare della popolazione operaia e artigiana deifaubourgs. Con il suffragio universale e l'armamento dei cittadini «passivi», questa «seconda rivoluzione» segnò l'avvento della democrazia. Ma al tempo stesso, sanzionando la sconfitta dell'assemblea legislativa e del sistema liberale, produsse una frattura all'interno della borghesia, foriera di nuove lotte sociali e politiche.

La convenzione fu insediata il 20 settembre 1792, lo stesso giorno in cui un esercito di volontari capeggiato da Ch.-F. Dumouriez fermò l'avanzata del nemico a Valmy. Il giorno dopo, 21 settembre, venne proclamata la repubblica, una e indivisibile. All'interno della nuova assemblea si riprodusse quello stesso conflitto che aveva opposto il comune insurrezionale all'assemblea legislativa.

La Gironda, ostile a ogni cedimento alle rivendicazioni popolari in materia economica, e galvanizzata dai successi militari (la vittoria di Jemappes del 6 novembre fu seguita dall'invasione del Belgio e dell'Olanda), disponeva della maggioranza dei suffragi, ma aveva di fronte la Montagna, che puntava le sue carte sull'alleanza con le forze popolari e sulla lotta senza quartiere contro gli aristocratici e i nemici della rivoluzione, e che contava tra le sue file uomini energici e risoluti come Robespierre e Saint-Just.

Il contrasto divenne insanabile in occasione del processo al re, che i girondini tentarono di salvare con l'appello al popolo e poi con l'aggiornamento, e che venne infine condannato a morte e ghigliottinato (21 gennaio 1793).

■ La rivoluzione democratica (1793-94)

Ma il destino della Gironda fu segnato, nella primavera del 1793, dal nuovo oscurarsi della situazione interna e internazionale. Mentre si saldava contro la Francia una coalizione europea comprendente l'Inghilterra, e Dumouriez, sconfitto a Neerwinden, passava al nemico, cresceva a Parigi l'agitazione per le sussistenze, fomentata dai cosiddetti «arrabbiati»; contemporaneamente la Vandea insorgeva contro la convenzione, imitata ben presto da altre province del sud, del centro e dell'ovest.

Alla fine una nuova sollevazione popolare (giornate del 31 maggio e del 2 giugno 1793) portò all'espulsione e all'arresto dei principali esponenti girondini.

La pressione popolare, mantenuta viva per tutta l'estate 1793 dagli «arrabbiati» e dagli hébertisti (i seguaci di J.-J. Hébert, compilatore di un giornale dai toni plebei e violenti, «Le Pére Duchesne»), costrinse la convenzione, ormai dominata dalla Montagna, a prendere una serie di misure eccezionali per salvare la rivoluzione e soddisfare le aspirazioni dei sanculotti.

Il 24 giugno venne approvata una nuova costituzione democratica, preceduta da una Dichiarazione dei diritti che alla libertà e all'uguaglianza univa il diritto alla sussistenza, al lavoro e all'istruzione; ma essa non entrò mai in vigore, a causa dello stato di emergenza politica e sociale.

Il comitato di salute pubblica, nominato dalla convenzione già il 6 aprile 1793, venne riorganizzato il 10 luglio, e con Saint-Just e Couthon entrò a farne parte anche Robespierre (27 luglio): fu il cosiddetto Grande Comitato, che sempre più venne accentrando in sé tutti i poteri.

Il 23 agosto venne proclamata la leva in massa, e un supremo sforzo per armare e approvvigionare un esercito di 750.000 uomini venne compiuto sotto la direzione di L. Carnot.

Le giornate del 4-5 settembre imposero il terrore all'ordine del giorno, e alla costituzione di un esercito rivoluzionario per garantire gli approvvigionamenti alla capitale seguì l'approvazione di un maximum generale dei prezzi e dei salari (29 settembre).

L'adozione di un calendario rivoluzionario (5 ottobre) fu solo un aspetto di una generale campagna di scristianizzazione mirante a sostituire le cerimonie tradizionali con le feste decadarie e con il culto delle virtù repubblicane.

Questo regime di accentramento del potere e di regolamentazione dell'economia venne istituzionalizzato con il decreto del 14 frimaio anno II (4 dicembre 1793) istitutivo del governo rivoluzionario.

Due ordini di problemi si posero nel corso di quel terribile anno II (1793-94): da un lato c'era il problema politico di subordinare alle esigenze della difesa nazionale e della dittatura rivoluzionaria le forme di democrazia diretta, espressioni del comportamento popolare; dall'altro sussisteva il problema, di carattere sociale, di affrontare la contraddizione tra le rivendicazioni economiche dei sanculotti (il cui ideale era una società di artigiani e di piccoli coltivatori indipendenti) e le esigenze della borghesia (che rimaneva l'elemento dirigente della rivoluzione). Era in potere dei Robespierre e dei Saint-Just risolvere queste contraddizioni?

Il pericolo che incombeva sulla nazione le mise per un momento a tacere; ma era prevedibile che, consolidata la vittoria, esse sarebbero riapparse alla luce del sole. A partire dal dicembre 1793 l'immenso sforzo compiuto dal governo rivoluzionario cominciò a dare i suoi frutti: l'insurrezione vandeana e la rivolta federalista furono domate, l'invasione respinta, le frontiere liberate. Ma al tempo stesso una duplice opposizione si manifestò, all'interno della convenzione e tra le masse popolari.

La prima, quella dei cosiddetti «indulgenti», si cristallizzò attorno a Danton, favorevole a un rilassamento delle misure di sicurezza e a un ritorno alla libertà economica; la seconda, guidata dagli hébertisti, faceva leva sul disagio provocato tra i sanculotti dal cattivo funzionamento del calmiere e dai sordi attacchi del comitato di salute pubblica contro le organizzazioni popolari (assemblee di sezione, comitati rivoluzionari), che esso intendeva ridurre all'obbedienza passiva sotto la tutela giacobina.

Il governo rivoluzionario colpì prima a sinistra, poi a destra, inviando alla ghigliottina in marzo gli hébertisti, protagonisti di un fallito tentativo insurrezionale, e ai primi di aprile gli indulgenti. Il dramma di germinale fu decisivo.

Sbarazzatosi di tutte le opposizioni, il comitato di salute pubblica intraprese un vasto sforzo di normalizzazione delle istituzioni e di unificazione delle forze politiche. Se aveva acconsentito all'alleanza con i sanculotti per far fronte al pericolo nazionale, non ne aveva mai accettato gli scopi sociali né i metodi politici. I decreti di ventoso (febbraio-marzo 1794), con i quali Saint-Just propose la distribuzione ai patrioti indigenti dei beni sequestrati ai sospetti, rimasero lettera morta. Tra aprile e luglio 1794 l'accentramento si rafforzò e il terrore subì una brusca accelerazione: in un mese e mezzo si contarono a Parigi 1376 esecuzioni capitali, più che nei dodici mesi precedenti.

Ma l'inasprimento delle misure repressive non fece che aggravare l'isolamento politico del governo rivoluzionario e accentuare i dissensi al suo interno: «La rivoluzione è congelata», scrisse Saint-Just. La vittoria di Fleurus (26 giugno 1794), che allontanò il pericolo dalle frontiere, contribuì a spingere all'azione gli avversari di Robespierre e Saint-Just.

Un'innaturale alleanza si formò nella convenzione tra quanti avevano ragione di temere per la loro vita: deputati corrotti, terroristi da preda, indulgenti, moderati, estremisti. Lo scioglimento fu rapido. L'8 termidoro anno II (26 luglio 1794), davanti alla convenzione, Robespierre attaccò i suoi avversari, ma senza nominarli: tutti si sentirono allora minacciati. Ma l'indomani, 9 termidoro (27 luglio 1794), essi contrattaccarono. In mezzo a una grande confusione, Robespierre venne dichiarato in stato d'arresto. Un tentativo insurrezionale compiuto dal comune di Parigi fallì, ed esso venne dichiarato fuori legge.

Il 10 termidoro Robespierre, Saint-Just, Couthon e i loro sostenitori vennero ghigliottinati senza processo.

■ Dopo termidoro

La nuova fase che si aprì con il dramma di termidoro fu contrassegnata dal graduale smantellamento del governo rivoluzionario, dal rientro della rivoluzione nel suo alveo borghese e dal trionfo di un nuovo ceto di speculatori, affaristi, acquirenti di beni nazionali. L'inflazione, momentaneamente arrestata nell'anno il, riprese a imperversare aggravando le condizioni di vita delle classi inferiori, già duramente provate dalla guerra e dalla crisi economica; «vogliamo pane e la costituzione del '93» fu il motto delle sezioni parigine insorte in un'ultima disperata rivolta nelle giornate di aprile e maggio 1795.

Fallita questa sollevazione, le masse popolari ricaddero in un'inerzia dalla quale non valse a scuoterle la congiura a sfondo comunistico ordita nel 1796 da F.-N. Babeuf e F. Buonarroti (eguali, congiura degli).

Il regime del direttorio, insediato sulla base della nuova costituzione approvata dalla convenzione prima di sciogliersi (22 agosto 1795), non riuscì a consolidarsi a causa del perdurare della guerra e della crisi finanziaria, ma anche per la forza delle opposizioni interne, di destra e di sinistra, contro le quali si inaugurò la pratica dei colpi di mano, esiziale per la credibilità del governo.

L'unico elemento che conservò intatto il proprio prestigio, attraverso queste vicende, fu l'esercito; e da un generale circondato dall'aureola della vittoria, Napoleone Bonaparte, venne la soluzione di forza (9 novembre 1799) che aprì la via al consolato e all'impero.

Ma fu proprio in questi anni di ripiegamento e di crisi, tra il 1795 e il 1799, che con le conquiste militari si diffusero in tutta Europa i principi dell'89 e si affermò il mito della Grande Nazione, cui l'espansione della Francia napoleonica avrebbe dato ancora maggiore risonanza.

Carlo Capra

■ La rivoluzione francese: dal mito alla storia

Il dibattito sulle cause, la natura, le conseguenze della grande rivoluzione cominciò, si può dire, all'indomani degli avvenimenti del 1789 e non è praticamente mai cessato, caricandosi via via di nuovi significati e sottintesi politici, ideologici e culturali. Questa perenne attualità della rivoluzione francese, questa capacità di suscitare in ogni epoca odi ed entusiasmi, di incarnare la speranza o il timore di profonde trasformazioni nell'assetto sociale, si spiega non solo con il carattere drammatico ed emblematico delle lotte che in essa si svolsero e con la statura dei loro protagonisti, ma anche con la parte fondamentale che essa giocò nella nascita e nello sviluppo dei movimenti politici e ideologici destinati a dominare i secc. XIX e XX: dal liberalismo al nazionalismo, dal socialismo all'anarchismo.

Dall'ultimo decennio del Settecento fino alla condanna pronunciata da E. Burke contro l'astrattezza demagogica e il furore distruttivo dei rivoluzionari (Riflessioni sulla rivoluzione francese, 1790) e alla tesi del «complotto» filosofico e massonico prolissamente elaborata dall'abate Barruel (Memorie per servire alla storia del giacobinismo, 1797-99) si contrapposero le parole di fiducia e di speranza degli idealisti tedeschi (Kant e Fichte), l'acuta analisi di Barnave, che per primo vide negli sconvolgimenti politici una conseguenza dei mutamenti avvenuti a livello economico e sociale (Introduzione alla rivoluzione francese, 1843), le distinzioni compiute nel circolo di B. Constant e Mme de Stäel tra i principi liberali dell'89 e la loro degenerazione negli anni del terrore.

Proprio la pubblicazione postuma (1818) delle Considerazioni sulla rivoluzione francese della Stäel rilanciò nell'età della restaurazione un dibattito che ai primi dell'Ottocento si era appiattito nell'esaltazione o nella denigrazione del regime napoleonico.

Mentre le storie di A. Thiers (1824-27) e F.A.M. Mignet (1824) tendevano a giustificare nel suo insieme la rivoluzione, il cui svolgersi acquistava un'aura di fatalità e di inevitabilità che assumerà di lì a poco colori romantici nelle raffigurazioni di Th. Carlyle (1837) o di V. Hugo, F. Buonarroti additava esplicitamente nell'esperienza robespierrista e babuvista il punto di partenza per la ripresa di una lotta rivoluzionaria volta all'instaurazione di una società comunista (La congiura per l'eguaglianza detta di Babeuf 1828).

Questa interpretazione veniva ripresa, nel clima infuocato del 1848, da L. Blanc (Storia della rivoluzione francese, 1847-62). Ma alla nuova ondata rivoluzionaria e alle sue conseguenze sono soprattutto legati i capolavori di J. Michelet (Storia della rivoluzione francese, 1847-53) e di A. de Tocqueville (L'Ancien regime e la rivoluzione, 1856): il primo collocava al centro della scena, in pagine ricche di pathos e di forza evocatrice, il Popolo, visto romanticamente come entità indifferenziata, portatrice di istanze di giustizia e fraternità umana; il secondo analizzava lucidamente l'opera dei governi rivoluzionari in termini di continuità con e tendenze accentratrici e livellatrici proprie già della monarchia assoluta, e al tempo stesso di rottura sul piano culturale e ideologico.

I timori suscitati nella borghesia francese dalla Comune di Parigi determinarono per contro una «criminalizzazione» dell'epoca rivoluzionaria, la cui espressione più fortunata furono le Origini della Francia contemporanea (1871-93) di H. Taine. Contro le deformazioni di Taine reagì A. Aulard, che è comunemente considerato l'iniziatore della storiografia scientifica sulla rivoluzione francese; interprete della mentalità positivista, laica e radicale della terza repubblica, Aulard approfondì con una serie di studi e di miziative la conoscenza dei fatti, e collocò sul piedestallo Danton come eroe nazionale.

All'opera di Aulard possiamo accostare per certi aspetti la Rivoluzione francese di G. Salvemini (1905), mentre un profondo rinnovamento di prospettive veniva agli studi dalla Storia socialista della rivoluzione francese di J. Jaurès (1901-05); ispirata a un marxismo non dogmatico e permeato di istanze democratiche e umanitarie, essa sostituiva una storia «vista dal basso» alla storia puramente politica e ideologica di Aulard, e una «rivoluzione della prosperità», di cui era protagonista una borghesia protesa verso il dominio economico e intellettuale, alla «rivoluzione della miseria» di Michelet.

Dalla polemica contro Aulard, e in particolare contro il culto di Danton, partì anche A. Mathiez, la cui opera matura (e in particolare il suo capolavoro, Carovita e lotte sociali sotto il terrore, che è del 1927) risente chiaramente l'influsso della rivoluzione bolscevica.

Con i fondamentali studi di G. Lefebvre (dalla thèse del 1924 sui contadini del dipartimento del Nord alla definitiva sintesi del 1951, La rivoluzione francese) la visione «dal basso» di Jaurès si allargava al mondo fino allora quasi inesplorato delle campagne, e assumeva più chiari contorni l'interpretazione marxista «classica» della rivoluzione francese come rivoluzione borghese condotta a termine col contributo determinante delle masse popolari; mentre la conoscenza dello sfondo economico era approfondita soprattutto dai lavori di E. Labrousse (in primo luogo La crisi dell'economia francese alla fine dell'Ancien regime e all'inizio della rivoluzione, 1944).

Nella scia di Lefebvre si collocano gli storici d'ispirazione marxista del secondo dopoguerra, dei quali il più autorevole è senza dubbio A. Soboul, titolare della cattedra di storia rivoluzionaria alla Sorbona, che fu già di Aulard e Lefebvre, e direttore delle «Annales histonques de la Revolution francaise». La loro visione «ortodossa» (in senso marxista) degli eventi rivoluzionari è stata attaccata sia da sinistra (per esempio dal trotzkista D. Guérin, autore di Lotta di classe sotto la prima repubblica, 1946), sia soprattutto da destra.

Non molta fortuna ha avuto la teoria di una «rivoluzione atlantica» (di cui la rivoluzione francese sarebbe solo un aspetto, seppure centrale) sostenuta da R.R. Palmer e J. Godéchot.

Altri storici anglosassoni, in particolare A. Cobban (L'interpretazione sociale della rivoluzione francese, 1963), hanno invece negato l'esistenza di un conflitto di classe tra borghesia e nobiltà alla fine dell'antico regime e hanno scomposto il «blocco rivoluzionario» in una serie di movimenti e di contrasti indipendenti l'uno dall'altro.

Le loro critiche sono state riprese in Francia da F. Furet e D. Richet (La rivoluzione francese, 1965-66), che hanno contrapposto la «rivoluzione dei lumi» del 1789-91, prodotto delle élites nobiliari e borghesi, allo «slittamento» del 1792-93, provocato dalla guerra e dalla reazione delle masse alla crisi economica.

Oggi, mentre il dibattito sull'interpretazione generale non accenna a placarsi, la conoscenza dell'epoca rivoluzionaria viene continuamente arricchita sia dalla comparsa di monografie regionali o locali, sia dalla coltivazione di nuovi campi di ricerca, come quelli della cultura e della mentalità popolare, della sensibilità religiosa, della demografia, del comportamento sociale.