Antologia del Pensiero Socialista

Comunismo e Socialdemocrazia

a cura di Alfredo Salsano
Laterza, Bari 1982
vol. IV pp. 641-668
VI.
IL SOCIALISMO RIFORMISTA IN ITALIA
Del socialismo italiano, preso tra il sorgere di un movimento comunista che si affermava in rottura non solo col riformismo ma anche col vecchio massimalismo (cfr. pp. 329 sgg.) e la reazione fasci­sta che giungeva al potere quando ormai era venuta meno la spinta rivoluzionaria del « biennio rosso » che il vecchio partito si era dimostrato incapace di gestire, si è scelto di riprodurre dei testi che, molto diversi  tra  loro, hanno  tutti  la  caratteristica  di  un  bilancio.

Bilancio, oltre che «profezia», è il passo del discorso che Filippo Turati — del quale si sono visti nei precedenti volumi dell'Anto­logia il ruolo di fondatore svolto alle origini del partito socialista (II, pp. 645 sgg.) e quello di protagonista anche in seguito mante­nuto (III, pp. 511 sgg.) — pronunciò al congresso di Livorno nel gennaio 1921, esponendo le ragioni dell'anima riformista del socia­lismo italiano. Il richiamo ai momenti salienti della storia del par­tito, proprio mentre si sanciva una scissione in pratica già consu­mata, e persino l'ironica — e orgogliosa — assunzione della qua­lifica di «socialtraditore» riflettono una visione indubbiamente coe­rente, al servizio di un progetto politico ostinatamente perseguito: quello della mediazione sul piano delle istituzioni di una lenta opera di organizzazione e di educazione del proletariato nel cui procedere evolutivo si annullerebbero le spinte disordinate della realtà e le ambizioni dei singoli. Ma la coerenza e, se si vuole, la lucidità è ottenuta per l'appunto con il salto dal piano delle contingenze a quello di una storia morale — se non di una positivistica «antro­pologia» — del socialismo, in cui l'invarianza del riformismo è sot­tratta a qualsiasi critica (cfr. pp. 643-49).

Bilancio marxista è il titolo della polemica svoltasi nel 1923 sulle pagine della «Critica sociale» tra il giovane Carlo Rosselli (1899-1937) — che solo l'anno seguente, dopo l'assassinio di Giacomo Matteotti entrerà nel Partito socialista unitario, costituito dai  riformisti dopo la loro espulsione dal psi nell'ottobre 1922, — e Rodolfo Mondolfo (1877-1976), protagonista di un «ritorno a Marx» che, al di là di revisionismo e positivismo, passava per la ritrovata filo­sofia di Antonio Labriola. Se Rosselli è già sulle posizioni di un antimarxistico liberalsocialismo (sul suo Socialismo liberale, del 1928-1929, cfr. voi. sg.), espressione peraltro di un impegno democratico e antifascista subito concretatosi nella collaborazione con Pietro Nenni alla direzione della rivista «Il Quarto Stato» (1924), la difesa che Mondolfo fa del marxismo come parte irrinunciabile del socialismo è l'esatto equivalente in sede di filosofia politica del­l'evoluzionismo riformistico di Turati. Critico della rivoluzione bol­scevica su posizioni che l'avevano portato a rifiutare la gramsciana Rivoluzione contro il Capitale, tra leninismo e rinuncia al marxismo, Mondolfo riafferma infatti la validità del materialismo storico, della «concezione critico-pratica», come teoria del gradualismo (cfr. pp. 649-61).

Bilancio critico è infine quello che, sul piano della storia del movimento socialista e operaio in Italia, traccia Ermanno Bartellini (1897-1945) in un libro pubblicato nel 1925 dalle edizioni Gobetti. Candidato alle elezioni del 1924 nelle liste del Partito socialista italiano, Bartellini, che collaborava all'«Avanti!», a « Rivoluzione liberale», a «Pietre», fece parte di quei «giovani socialisti» che tentavano una autonomistica «rigenerazione» del pensiero socialista, criticando tanto il vecchio massimalismo, confluito con Serrati nel partito comunista, quanto il riformismo e le nuove tendenze liberal­socialiste sorte dalla sconfitta socialista. Posizione difficile indubbia­mente da tenere in quegli anni e che pure, attraverso le vicende del Centro interno socialista e della Resistenza — Bartellini parteciperà ad entrambe, a contatto soprattutto con Lelio Basso — avrà un peso non indifferente nelle successive vicende del socialismo italiano. Il giudizio storico che Bartellini dà del riformismo, sia nella sua com­ponente politica, sia nella sua componente sindacale, è centrato su una acuta individuazione delle sue basi oggettive, anzi dell'oggettiva integrazione delle lotte operaie nello sviluppo del capitale in Italia. Valutazione che per Bartellini doveva costituire la base di una ripresa del movimento rivoluzionario nel momento in cui la crisi seguita al delitto Matteotti scuoteva il regime, ma che in definitiva, cambiata di segno, non era poi troppo lontana dall'interpretazione riformistica e gradualistica della stessa storia (cfr. pp. 661-68).

La profezia di Filippo Turati
* Da Resoconto stenografico del XVII Congresso Nazionale del Par­tito Socialista Italiano (Livorno 15-16-17-18-19-20 gennaio 1921), Edizioni della Direzione del Partito, Roma; Società editrice Avanti!, Milano 1921; ora in L. Cortesi, Il socialismo italiano tra riforme e rivoluzione. Dibattiti congressuali del Psi. 1892-1921, Laterza, Bari 1969, pp. 943-49.


Consentite ancora alla vecchiaia — amici, ho quasi quaranta anni di milizia e di propaganda — di affermarvi un'altra con­vinzione, che, se la parola non fosse lievemente ridicola, potrei anche dire una profezia. Una profezia tanto facile che per me è di assoluta certezza, perché vale a compensarmi anche quando l'asprezza dei vostri contrasti mi amareggia e mi produce quel profondo dolore che tutti quelli che hanno veramente amato il Partito sentono. {Applausi). Ad ogni modo io vi faccio questa profezia da Barbanera, perché, se tra qualche anno la troverete smentita, avrete la gioia di poter dire che ero, non un bagolone, ma certamente un illuso.

Tra qualche anno, io non sarò forse più qui, non sarò forse più al mondo, voi constaterete se questo si sia avverato.

Questo culto della violenza, che è la fonte di tutti i nostri dissensi, la nota profonda, vera, unica del nostro dissenso, que­sta possibilità del miracolo, della violenza fisica, esterna, verso le altre classi, interna verso una parte del Partito, della violenza fisica e della violenza morale, perché vi è anche una forma di violenza morale che è perfettamente antipedagogica e dannosa allo scopo: la violenza morale che vuole precipitare le cose al di là del possibile, che vuole violentare le mentalità che non hanno trovato nelle circostanze esteriori — perché dalle cose nascono le idee — la possibilità di usare in dati momenti la violenza, che vuole far camminare il mondo sulla propria testa (secondo la frase con cui Marx definiva la filosofia di Hegel) mentre il grande vanto di Marx è stato di rimettere il mondo sui propri piedi, vi è anche una violenza morale, e il comuni­smo di Marx e di Engels è la negazione di tutte queste violenze in tutto il mondo, tutto questo tra qualche anno non potrà più esistere. Ma per fermarci all'Italia, che, come evoluzione economica sta tra mezzo a quello che fu la Germania ed a quello che è ancora la Russia, sta come un secolo di mezzo fra due secoli, o anche fra due ere, un medio evo di un evo che per noi è ancora futuro, per fermarci all'Italia, la storia dei nostri Con­gressi, che riassume in qualche punto, simboleggia le varie fasi di pensiero per cui il Partito è passato — oh! vi darò un con­siglio che vi farà ridere, ma a torto lo fareste — storia che è magnificamente riassunta in un articolo contenuto nel numero di dicembre della «Nuova antologia» scritto da un nostro avver­sario, Filippo Meda, con una comprensione storica quale diffi­cilmente noi avremmo avuto — leggetelo quell'articolo — la storia dei nostri Congressi dimostra che la lotta di oggi acuita dalla guerra, inasprita dalle conseguenze della guerra è la lotta che è stata sempre combattuta, e nella quale il culto della vio­lenza rinasce, fu smantellato, demolito, torna a rinascere in varie truccature a seconda del momento e delle circostanze, ma è sem­pre l'unica lotta che si è combattuta e nella quale sempre il socialismo antico, quello classico, il socialismo che crea le co­scienze, le organizzazioni, gli organismi, venuti a poco a poco, per acquisizioni successive, è sempre stato il vincitore, pure avendo l'indomani a combattere la stessa lotta.

Non è da oggi che siamo socialtraditori: lo siamo stati per tutta la nostra vita, lo fummo sempre. All'epoca degli scioperi generali — chi non lo ricorda? — di quelli anche economici, a ripetizione, non eravamo noi che difendevamo le ragioni della borghesia perché ci opponevamo a quella perdita di forze, a quell'albuminuria, a quel diabete cui l'abuso della grande arma dello sciopero sottoposero il Partito e la classe?

Il Partito operaio, dal 1880 al 1890, era una reazione utile di fronte al vecchio corporativismo infetto di tutta la lue labou-rista, l'abuso della casacca, e via via, e noi abbiamo combattuto, cercando di renderlo un Partito politico nel senso moderno della parola, e fummo derisi, sospetti. Abbiamo poi vinto.

Nel 1891-92 il Partito operaio a Milano prima, a Genova poi, si allargava nel concetto del Partito dei lavoratori italiani in senso più alto, più vario, più largo, perché nei lavoratori c'è anche l'operaio dell'intelligenza, il professionale, e via via, e noi e noi imprimevamo nella massa quell'anelito alla conquista del potere politico che oggi ci annunzia Terracini come cosa sua, ed anche allora eravamo segnati a dito come traditori da quel­l'anarchismo inconscio che c'era nella massa operaia.

A Parma nel 1894, quando si creò il Partito socialista con questo nome, la vittoria fu completa e le manette, il carcere, il domicilio coatto ci servirono per far correre avanti a più rapidi passi la concezione politica che era stata prima derisa, vilipesa, sospettata.

Era il concetto della conquista del potere contro l'azione che — per carità, non ve l'abbiate a male — chiamerò preada­mitica di quel Partito operaio che non ammette che l'azione teorica, che considera la lotta elettorale come un mezzo di pro­paganda escludendo che si possa pensare alla conquista proletaria del potere.

Nel 1892 ci fu la grande lotta a Genova contro gli anarchici, dolorosa anche per noi. Abbiamo vinto, ce ne siamo separati, molti degli anarchici di sentimento che diventarono più colti, più riflessivi a poco a poco tornarono nelle nostre file e contiamo fra essi alcuni dei nostri migliori compagni anche oggi.

Forse che ci divideva dagli anarchici la visione della società futura? Ma neanche per sogno! Noi, proiettando la nostra spe­ranza nell'avvenire, possiamo essere anarchici e l'anarchismo è il più perfetto ideale di società futura, salvo le possibilità graduali.

Non era questo quello che ci divideva. Era l'impazienza, il miracolismo, il culto della violenza, queste le sole ragioni di quella lotta nella quale siamo stati vincitori.

Dal '94 al '98 ricordate ciò che avvenne? Lo sciopero gene­rale, il primo, la lotta col sindacalismo, lo sciopero di Parma; i vecchi ricordano bene, anche i semi-vecchi. Ebbene, anche allora fu la stessa cosa. Il sindacalismo, l'azione diretta, era il vero sovietismo italiano, solamente tentato all'italiana, era vera­mente la superiorità degli operai, indipendentemente dalla con­quista dello Stato, che doveva imporsi e regnare, — non c'è niente di uguale anche nei fenomeni storici, che pur si riprodu­cono eternamente identici nella storia nell'intimo loro — era il primo sovietismo nostro che precedeva Mosca, eravamo più avanti. E sollecitazioni, ritorni, transazioni a josa, fu la stessa lotta che abbiamo combattuto avanti.

E venne il ferrismo che era il rivoluzionismo verbale, era, mi pare, quello che è oggi il graziadeismo. (Viva ilarità). Mutatis mutandis. Tutto si muta e tutto è uguale.

E venne la transazione integralista dell'ottimo Morgari che durò due anni — mi pare — sui nostri palcoscenici di Con­gresso che, badate, ebbe i suoi meriti, perché salvò il Partito, in quanto il labriolismo tentava di sommergerlo, ma era una contraddizione in termini, era secondo me... (Interruzioni viva­cissime).

Non pretenderete che dica le idee di ciascuno di voi. Le direte meglio da voi stessi.

... era, secondo me, l'anticipazione di quello che si potrebbe chiamare oggi il serratismo, cioè il comunismo socialista; il socialismo comunista, che è un po' di qua e un po' di là (inter­ruzioni), per tenere tutti uniti anche allora, ma che aveva la dissoluzione nel suo seno e si dovette dissolvere due anni dopo. (Applausi dei concentrazionisti).

Stessi fenomeni, stesse identiche mentalità, e, oserei dire, gli stessi tipi antropologici e somatologici. (Commenti. Approvazioni).

Ebbene, amici, l'anarchismo di un tempo fu dissolto, fu spaz­zato via, ma rinasce sempre dalle ceneri o tenta di rinascere. Oggi la guerra lo ha fatto rinascere. Il corporativismo fu dis­solto, il sindacalismo fu rigettato, il labriolismo andò al potere (ilarità), il ferrismo fece le capriole che sapete, l'integralismo anche esso sparì, e rimase il nucleo vitale dei socialtraditori, il vile riformismo, il marcio riformismo, per alcuni, il socialismo vero per altri, immortale, invincibile, inesorabile, che può essere minoranza oggi, maggioranza domani, ma che salva il Partito, che conduce la classe, che tesse la sua tela ogni giorno e compie quella dura e tenace fatica di cui parlava Engels nel periodo che vi ho citato, che non fa miracoli, che non si culla nelle illusioni delle cose precipitate, che crea oggi una cooperativa, domani fa un sindacato di resistenza, posdomani si occupa della cultura ope­raia, senza della quale non usciremo mai da questi dolorosi an­fratti (applausi), che si impossessa dei Comuni, del Parlamento, di tutti gli organi, a poco a poco, giorno per giorno, che crea lentamente ma sicuramente la maturità delle cose e degli animi, crea lo Stato di domani e gli uomini capaci di manovrarne il timone. Sempre socialtraditori, in un momento, sempre vincitori alla fine.

Ricordate questo fenomeno. La lotta sarà questa volta più dura, più lenta, ma sarà lo stesso l'effetto, e fra qualche anno quando anche il mito russo, che avete il torto di confondere con la rivoluzione russa, cui applaudo con tutto il cuore (grida di «Viva la Russia!») quando il mito, quello che è di religioso nei vostri animi, il mito bolscevico, sarà evaporato, quando il bolscevismo attuale o avrà fatto fallimento o sarà trasformato dalla forza delle cose, la nostra vittoria verrà. Quando sotto le lezioni dell'esperienza, e speriamo che non sia troppo dura per l'Italia e non debbano versarsi quei torrenti sanguinosi che si versarono in Ungheria, quando sotto la lezione delle cose voi avrete inteso più che non abbiate inteso ora; quando le vostre affermazioni di oggi saranno da voi stessi onestamente abban­donate e sconfessate; e i Consigli degli operai e dei contadini, a cui non si aggiungono i soldati non so perché, dovranno pur cedere il passo a quel grande Parlamento proletario in cui sarà riassunta tutta la forza intellettuale, politica e tecnica di tutto il proletariato italiano alleato al proletariato di tutto il mondo, solo allora avrete inteso come il fenomeno russo sia un grande fenomeno storico, ma non nel suo aspetto, forse il più caduco, il meno vitale che voi considerate vedendone l'applicazione pu­ramente tecnica e meccanica, che non sarà possibile e che se fosse possibile ci condurrebbe al medio evo, avrete capito — in­telligenti come voi siete — che la forza del bolscevismo russo è in un nazionalismo russo che avrà una grande influenza nella storia del mondo come opposizione all'imperialismo dell'Intesa, ma che è pur sempre una forma di nazionalismo orientale che è conseguenza della necessità statale di trasformare o perire e si aggrappa a noi, al Partito socialista italiano (non si meravigli Serrati se ci domanda di più di quanto non oserebbe doman­dare all'Inghilterra od alla Francia) si aggrappa a noi dispera­tamente per salvare se stesso, che non possiamo seguire cieca­mente perché diventeremmo gli strumenti di quel nazionalismo orientale che avrà, ripeto, anche esso la sua grande funzione nella storia del mondo, aprirà l'Oriente alla vita civile e chiamerà la Cina, il Giappone, l'Asia Minore, le vecchie razze che sono negli ipogei della storia, alla vita della storia, ma non si può sostituire, né distruggere, né imporre alla Internazionale maggiore dei popoli più evoluti nel cammino della storia.

Il nucleo solido quindi — e con questo finisco — che rimane di tutte queste lotte, che sono sempre le stesse nelle diverse forme transitorie e caduche, il nucleo solido è nell'azione. Nel­l'azione che non è l'illusione, che non è il miracolo, la rivolu­zione in un giorno o in un anno, ma è l'abilitazione progressiva, faticosa, misera, per successive graduali conquiste, obiettive e soggettive, nelle cose e nelle teste, della maturità proletaria a subentrare nella gestione sociale: sindacati, cooperative, potere comunale, parlamentare, cultura, tutta la gamma, questo è il socialismo che diviene! E non diviene per altre vie: ogni scor­ciatoia non fa che allungare la strada; la via lunga è la sola breve.

E l'azione è la grande pacificatrice, è la grande unificatrice; essa creerà l'unità di fatto, che noi troviamo nelle formule, che non troveremo mai nelle parole né negli ordini del giorno, per quanto abilmente ponzati con dosature farmaceutiche di fraterno opportunismo. Azione perenne, azione fatale, prima e dopo quella tale rivoluzione che si avvera sempre, nella quale siamo dentro, perché essa stessa, questa azione è la rivoluzione. Azione paci­ficatrice e unificatrice; non è a caso che in talune plaghe dove l'azione è più rudimentale, l'organizzazione è una speranza, dove non si riesce a mettere assieme una lega di cinquanta individui, non per colpa di uomini, ma per situazione arretrata economica dell'industria, della civiltà, ecc. — mi pare che l'affermasse Bor-diga stesso questa mattina scambiando le rivoluzioni politiche con quelle sociali — non è a caso che proprio in quelle plaghe dove c'è meno azione, ivi sembra che l'estremismo trovi spesso più facile la via, mentre dove avete già un'azione di masse coscienti, dove più impera la Confederazione Generale del La­voro, ivi trovate la maggiore resistenza, per le necessità orga­niche di questo movimento che non riuscirete a placare con ordini del giorno né con imposizioni, perché nasce dalle viscere stesse del movimento e dalle sue necessità storiche fatali.

Ond'è che quando avrete fatto il Partito comunista, quando avrete — e non mi pare che ancora vi ci si avvii molto rapida­mente — impiantato i Soviety in Italia, se vorrete fare qualche cosa che sia rivoluzionaria davvero, che rimanga come elemento di civiltà nuova, voi sarete forzati, a vostro dispetto, ma dopo ci verrete, perché siete onesti, con convinzione, a percorrere completamente la nostra via, a percorrere la via dei socialtraditori, e questo lo dovrete fare perché questo è il socialismo che è solo immortale, che è solo quello che veramente rimane di vitale in tutte queste nostre beghe e diatribe.
Bilancio marxista
* Da «Critica sociale. Rivista quindicinale del socialismo», XXXIII, n° 21, 1-15 novembre 1923, pp. 326-30. Sotto questo titolo, preceduto da una nota redazionale, furono pubblicati l'art, di C. Rosselli (ora in C. Ros­selli, Socialismo liberale, a cura di J. Rosselli, Einaudi, Torino 1973, pp. 83-95), di cui si riporta la parte centrale, — e la risposta di R. Mondolfo (ora in R. Mondolfo, Umanismo di Marx. Studi filosofici 1908-1966, Einaudi, Torino 1968, reprint 1975, pp. 228-33). La polemica proseguì in «Critica sociale», 1-15 dicembre 1923 e 1-15 gennaio 1924.

A) La crisi intellettuale del Partito socialista

Le ragioni della crisi.

Sono profondamente convinto che una delle cause principali della crisi è da ricercarsi nella diffusione (e particolarmente nel modo e nella direzione della diffusione) della dottrina marxista in Italia. Volendo chiarire ulteriormente, direi che l'errore più grave consistette nell'assumere la dottrina marxista a pensiero ufficiale dei gruppi e Partiti socialisti.

Mi si chiederà: ma di quale marxismo intendete parlare? Perché, oltre la marca originale, v'è una marca kautskiana, bern-steiniana, sorelliana, mondolfiana, per non citare che le più note.

Ora, proprio in questa molteplicità di interpretazioni e ridu­zioni, che sarebbero segno di enorme vitalità e libertà di pen­siero se si limitassero a distinguere diverse correnti in seno ad uno stesso movimento che tutte le comprenda e le superi, sta un altro fattore della crisi. Perché quella dottrina che veniva assunta a pensiero ufficiale del Partito, a forza di venir corretta, annacquata, adulterata, o, più semplicemente, interpretata, finì per trasformarsi in qualche cosa di così vago ed incerto da poter ad un tempo servire ad ogni frazione, dalla più barrica­diera alla più riformista; per ogni problema, da quello più trascendentale a quello più concreto e materiale. A distanza di anni e di mesi gli stessi testi venivano usati, dalle diverse frazioni succedentisi al potere, in senso radicalmente diverso.

Si ebbero così tutti i mali di una rigida codificazione auto­ritaria affidata in concreto alle edizioni delle opere del Marx, e tutti i mali della libera interpretazione, di fatto troppo spesso affidata al primo scriba che volesse ammannirti la centesima definitiva edizione del pensiero marxista.

Che cosa rimane del marxismo.

Nessuno, eccettuato forse il Bernstein, che in questa que­stione vide più acutamente d'ogni altro, si propose di veder con chiarezza che cosa rimaneva, alla chiusa dei conti, dopo tutto il revisionismo di destra e di sinistra (Pareto, Croce, Labriola, Bernstein, Turati, Merlino, Mondolfo, Leone, Sorel...) del corpo originario. Si trattava, e ancor oggi si tratta, di eseguire un vero e proprio bilancio teorico della dottrina marxista che, par­tendo da basi essenzialmente scientifiche e realistiche, collo scar­tare cioè tutto ciò che è in contraddizione coi fatti, o in con­traddizione col generico indirizzo del Partito e del movimento socialista, ci dicesse ciò che è vivo e ciò che è morto del marxismo.

Tra l'altro si verificò anche questo: che il Partito, mentre rimaneva tenacemente attaccato alle vecchie tavole, si andava profondamente modificando, specie in ordine ai metodi della lotta. E, al pari del pigro imbianchino che applica il nuovo colore sul vecchio, cosicché avviene che questo, a distanza di tempo, intorbidi quello, così molti socialisti italiani, anziché rico­noscere coraggiosamente che, dopo le numerosissime critiche anche da loro personalmente ed acutamente avanzate, meglio valeva far punto e da capo, rinunziando al biglietto d'ingresso nel tempio marxista, si accontentarono di riverniciare a nuovo le pareti, di mutarne le porte e l'impiantito. Infatti, dopo aver preso atto delle svariate e profondissime critiche che scalzavano sin dalle basi alcuni degli antichi princìpi, ci si continuò bella­mente a professare marxisti, concbiudendo con un atto di fede (segno troppo spesso di volgare pigrizia intellettuale) ciò che doveva essere un atteggiamento fondato sulla pura ragione. In­tanto la tara a peso lordo dell'originaria dottrina, tara sempre sottintesa e mai dichiarata apertamente, venne facendosi sempre più imponente e radicale; la scatola rimaneva e il contenuto scompariva lentamente.

Lo spazio per un articolo è così breve, che io non mi pro­pongo davvero di tentare cotesto bilancio; mi limiterò a darne sinteticamente i risultati, quei risultati meno contrastati e per nulla originali, che ognuno avrà agio di controllare personal­mente, anche senza uscire dalla collezione della Critica Sociale.

Alla definitiva condanna della teoria del valore doveva se­guire quella delle «crisi», della «miseria crescente», dell'« ac­centramento capitalistico», della «scomparsa delle classi medie», della «dittatura del proletariato», del troppo radicale « interna­zionalismo», della «funzione della violenza». In una parola: si respingeva tutto ciò che costituiva la parte positiva del socia­lismo marxista, un po' frutto delle tendenze dell'epoca, un po' infelicissimo frutto della dialettica hegeliana, e una notevole parte del lato negativo in ordine alla critica della economia capitalistica. Si veniva così chiaramente delineando una distin­zione tra l'opera del Marx scienziato e l'opera del Marx uomo di parte, di fede e di passione. Che cosa dunque rimaneva?

Io direi che rimanevano pressoché intatti i due caposaldi del pensiero marxista, i due piloni centrali: materialismo storico e lotta di classi. Questo è il monumento imperituro eretto alla memoria di Carlo Marx, anche se sono da rigettarsi la troppo larga estensione da lui data alla teoria ed alcune tendenze troppo piattamente materialistiche, per lo meno nelle espressioni usate.

Ma nel frattempo, dal 73 al '923, è intervenuto un fatto nuovo e rivoluzionatore. Tanto la teoria economica della storia, quanto la teoria della lotta di classe (la quale in realtà non costituisce che un addentellato importantissimo della prima) fa­cevano, più o meno integralmente, più o meno chiaramente, il loro ingresso nel campo scientifico, indipendentemente da Par­titi e da Chiese; venivano sempre più considerati quali valori obiettivi acquisiti alla coscienza moderna.

Si può essere marxisti senza essere socialisti.

Liberali e nazionalisti, in parte gli stessi cattolici, già rico­noscono il fatto lotta di classi e la verità del materialismo storico, sia pure con la limitazione crociana di cànone di interpre­tazione; filosofi idealisti, come il Croce, che così grande influsso ebbe ad esercitare sulla cultura italiana, furono tra i primi a riconoscere il grande valore del marxismo; la nuova scuola sto­rica, la cosiddetta scuola economico-giuridica, che annovera tra i suoi maggiori il Volpe ed il Salvemini, accetta questi due ele­menti del pensiero marxista come princìpi fondamentali di me­todo storico. Basta d'altronde aprire un giornale, sfogliare una rivista, intrattenersi con uno studioso di scienze sociali, inter­vistare il man in the Street, per convincersi che molto sangue di Marx si è silenziosamente transfuso nel cuore degli stessi più acerrimi nemici delle dottrine di lui. Quale trionfo più gran­dioso poteva egli attendersi da un'opera affidata alle speranze di una classe insorgente, in scritti frammentari e troppo spesso contraddittori?

Ma con ciò non è detto che oggi l'essere marxisti voglia dire essere socialisti. Il fatto che scrittori conservatori come il Pareto, dotato di profondo spirito critico, abbiano potuto accettare que­sta parte della dottrina marxista, conferma a chiare note che si può essere marxisti senza essere socialisti.

Questo mi sembra un punto fondamentale sul quale è neces­sario insistere sino alla noia. Quello che di veramente positivo in senso socialista conteneva il pensiero marxista è unanime­mente rigettato, o perché in troppo stridente contraddizione con la realtà, o perché in urto con le nuove tendenze liberali demo­cratiche; ma nessuno pensò di compiere questa elementare ope­razione di sottrazione e di interpretazione del risultato.

Il marxismo ci appare oggi più come un principio metodico per l'interpretazione della storia, che una vera e propria filosofia dell'azione operaia. Principio metodico sempre più universal­mente accettato quale verità obiettiva. Ora è il caso di doman­darsi: v'è qualcuno che, parlando di geometria o di fisica, si professi seguace di Euclide o di Archimede, anche se diverse possono essere le opinioni sulla importanza relativa e sull'origi­nalità del loro contributo alla scienza? Quelli stessi che sosten­gono la grandiosità del contributo non sentono davvero la neces­sità di assumere una tale etichetta. Perché la etichetta — mi si passi la metafora — serve generalmente a denotare una posi­zione di battaglia in difesa di princìpi cui siano contrapposti princìpi diversi, senza che sia possibile stabilire per il momento da qual lato stiano verità e ragione. Così oggi abbiamo i seguaci e gli oppositori di Einstein, ma non quelli di Galileo; e il giorno in cui le affermazioni einsteiniane risultassero pienamente accer­tate, la scuola tramonterà e non vorrà richiamarsi al suo nome, che più non sarà simbolo di lotta e di divisione.

Essere marxisti, oggi, non esprime dunque gran che, salvo che non si tratti di designare con quel nome quei socialisti, abbastanza numerosi tuttora, che di Marx assumono dogmatica­mente verità ed errori, o che ne deformano l'interpretazione riducendo tutta la sua filosofia della storia ad un volgare deter­minismo.

V'è infine un lato della questione, riguardante da presso i socialisti gradualisti, che rafforza grandemente questa tesi. I socialisti gradualisti e democratici sono in profondo contrasto con tutto lo spirito informatore dell'opera marxistica. Per quanti tentativi di conciliazione si possano fare, la dimostrazione del contrario non è stata mai data né mai potrà darsi. Ma, se anche si riuscisse, attraverso inutili sforzi dialettici, a provare che il Marx fu in sostanza un socialista democratico e liberale e che il marxismo, nella sua parte positiva e socialistica, in nulla vi contrasta, allora davvero potremmo a buon diritto dire: poi che nel marxismo tutto è compreso, rivoluzionarismo e riformismo, materialismo e idealismo, dittatura e democrazia, liberalismo e tirannia, inutile riferirsi al marxismo! Meglio, mille volte meglio, un sano empirismo all'inglese piuttosto che questo cieco e tor­tuoso dogmatismo.

I mali d'un Partito marxista.

Da tutto ciò balza evidente ed imperiosa la conclusione, che intanto non ha senso l'affermazione essere il Partito Socialista un Partito marxista, poi che il marxismo, per concorde ricono­scimento, nel suo valore reale ed attuale non solo è diventato, o è sulla via di diventare, patrimonio universale, ma non indica neppure alcuna tendenza precisa in ordine al fine ed al metodo. E, se questo è vero, concesso che ad un Partito non spetta mai l'opera dello storico ma piuttosto quella di fare la storia, pre­parandone ed elaborandone la materia prima, risulta chiaro che i princìpi marxistici, fondamento essenziale per l'interpretazione delle umane vicende, hanno da passare e passano automatica­mente in seconda linea quando si tratti di agire in concreto e di assumere decisioni positive in ordine a problemi, che son diversi da paese a paese, e rapidamente mutevoli nel tempo.

Esistono d'altronde altre cause, in parte costanti e in parte contingenti, che consigliano l'abbandono di questa tendenza dog­matica del Partito, di questa spesso inconscia ma continua subor­dinazione dell'azione concreta d'un movimento di masse ad una rigida teoria. Un partito ha bisogno di un grado estremo di elasticità, di una grande libertà di atteggiamenti, anche se è necessario che mantenga una chiara e coerente linea di condotta nel tempo. Un partito legato ad un corpo rigido di dottrine finisce per appesantirsi, per muoversi con una lentezza esaspe­rante, sì che, attaccato da una tribù di veloci predatori, risponde a destra quando già l'attacco si è spostato a sinistra.

Questa immagine si presentò chiara alla mente dell'osserva­tore spassionato, soprattutto nel dopo guerra, in ordine a due serie di avvenimenti: rivoluzione russa e lotta tra fascisti e socialisti.

Si è dimostrato, con una meravigliosa abbondanza di cita­zioni, che la rivoluzione russa è in flagrante contraddizione con le previsioni del marxismo, e si è preteso dedurne che era vano attendere che in Russia si consolidasse il regime comunistico. Effettivamente la rivoluzione russa si è ribellata alle formule marxistiche, in quanto è scoppiata in un paese di civiltà arre­trata e in un periodo in cui non c'era certo sovraproduzione. Ma se pure eran chiare (e più son chiare oggi) le ragioni per cui il comunismo integrale dei primi anni doveva fatalmente tra­montare, è tuttavia certo che restano sempre da compiersi, nel solco di quella rivoluzione, sforzi utilissimi in senso socialista. Perché in certi momenti occorre accettare le condizioni ambien­tali nelle quali, per eventi difficilmente prevedibili e regolabili, ci si è venuti a trovare. L'importante, dal punto di vista rifor­mista, non sta nel differenziarsi in ordine alla interpretazione del fenomeno, prendendo atto via via — nel caso citato — della liquidazione fallimentare della rivoluzione e producendo le prove del sorgere del nuovo spirito capitalistico nella Repubblica dei Soviety, per concludere infine con un inno al marxismo; ma nel differenziarsi chiaramente in ordine ad un fatto fondamentale: la dittatura che imperversa in Russia, l'assenza di  un regime democratico e liberale, senza peraltro mai dimenticare quelle che possono essere state le dolorose necessità storiche di un moto rivoluzionario in un paese come la Russia.

Nel giudizio e nell'atteggiamento riformista rispetto alla rivo­luzione russa, la troppo stretta aderenza alle formule marxiste ha fatto sì che si condannasse aprioristicamente, quasi prima che nascesse, un fenomeno che conteneva e contiene tuttora in sé maravigliosi germi di vita e di rinnovamento. Dichiaro franca­mente che sarei felicissimo che le formule marxistiche risultas­sero erronee, purché la rivoluzione russa conducesse alla stabi­lizzazione di un regime gradualmente socialista. Riconosco che le probabilità attuali sono limitatissime; ma il compito d'un so­cialista sta non nel sabotare quel piccolo fattore di probabilità, ma al contrario, nel rafforzarlo '.

Il secondo avvenimento che dimostrò l'impotenza socialista anche dal lato intellettuale fu la lotta tra fascisti e socialisti. Non si creda, per carità, che voglia arrecare a conforto della mia tesi il camaleontismo di Mussolini e dei suoi seguaci. Ma, tutto sommato, sembra che, tra quel camaleontismo e la rigidezza, la cecità, l'abulica mummificazione serratiana, v'era e v'è tuttora la possibilità di un atteggiamento intermedio. Mentre gli uni pestavano, gli altri (non tutti, s'intende, per fortuna) strillavano che non v'era nulla da fare, che eravamo di fronte ad un feno­meno internazionale, ad una crisi fisiologica propria del mondo capitalistico, quasi che la disfatta risultasse in tal modo più ono­revole e meno dolorosa, e come se in qualche Stato cotesta rea­zione non avesse dovuto avere il suo inizio isolato.

Nell'atteggiamento di molti socialisti, tra il 1919 e il 1922, era troppo chiara l'influenza di quel fatalismo cosiddetto marxi­sta, che deriva da una erronea, per quanto spiegabilissima, inter­pretazione degli scritti più conosciuti di Marx.

Sarebbe facile continuare coll'esemplificazione; ma è tempo di stringere le fila del discorso.

1 Non si deve peraltro dimenticare che non ultimi responsabili di que­sto atteggiamento furono i comunisti nostrani, con il loro infantile mime­tismo  [n. di C. Rosselli}.

Erronea funzione del marxismo in seno al movimento socialista.

L'errore fu di assumere il marxismo a termine comune di partenza, di paragone, di arrivo. Si finì per muoversi in un campo intellettualmente chiuso. Tutto era orientato in un unico senso; tutte le discussioni teoriche concludevano fatalmente con una interpretazione dell'opera marxista. Ogni controversia, ogni questione, per quanto estranea all'originario corpo dottrinale, ogni fatto, financo, che si ribellasse alle linee prevedute e volute dell'evoluzione, veniva riportato, a forza di dialettica, nell'an­gusto quadrato della teoria, o condannato e trascurato senz'altro. Insensibilmente si andò creando una scuola e, più che una scuola, una setta, con una sua logica, disciplina, dialettica, munita del divino specifico buono per tutti i casi e che stava di casa nei cinque o sei volumi, editi dall'Avanti!, delle opere di Marx e di Engels. Una setta che ad ogni costo voleva ospitare nell'an­tico edificio le nuove tendenze assolutamente inconciliabili con le antiche, che contorceva la realtà pur di collocarla nel gran quadro teorico. Una nuova Chiesa, insomma, colla sua pattuglia di filosofi scolastici, solo preoccupati di salvare la forma e il metodo a dispetto della  sostanza.   [...]

CARLO   ROSSELLI

B) Le attività del bilancio

È veramente confortante il fervor di vita spirituale che ci appare in questo revisionismo giovanile: vita vera, stimolata da intimo bisogno e tesa in energico sforzo di rinnovamento e moto indipendente. Auguriamoci che l'esempio, contagioso, si propaghi.

Ma poiché questa vita attiva e feconda delle idee domanda ed esige la discussione, eccoci ad accoglierne l'invito.

La spiegazione, che il Rosselli dà della paralisi intellettuale del movimento socialista italiano, è un po' semplicista e un po' contraddittoria. Semplicista, perché riconduce specialmente ad un cristallizzarsi del pensiero socialista entro il marxismo quel complesso fenomeno dell'allontanarsi, dal movimento proletario, del favore delle nuove generazioni intellettuali che han parteci­pato al moto di flusso e riflusso delle classi medie, sospinte da

un cumulo di fattori molteplici a sentir prima un'affinità di intenti e di metodi d'azione e poi un antagonismo con le classi lavoratrici. È un po' contraddittoria, perché converte in causa quella che è anche effetto; tanto che riesce a presentare la para­lisi e la cristallizzazione intellettuale, da un lato come il feno­meno stesso da spiegare, dall'altro come la causa della propria causa.

Ma senza attardarci in discussioni secondarie, cominciamo col riconoscere che nel socialismo, come in tutte le fedi politiche o religiose, la cristallizzazione nelle formule dogmatiche, l'irrigidi­mento in un principio d'autorità, il ricorso all'ipse dixit segnano la decadenza intellettuale, la sostituzione della lettera allo spi­rito e, insieme, il pullulare dei contrasti fra gli interpreti e glos­satori dei testi. Lo spirito non si assimila se non vivendo: non cioè imitando gli scolastici, che (diceva Bruno) vissero morti gli anni propri e gli altrui, ma tenendo viva l'eredità del passato col vivere una vita propria, fervida di movimento e di rinno­vazione.

È questa l'esigenza che muove anche il Rosselli a porsi il problema di ciò che è vivo e ciò che è morto del marxismo: che significa proposito non di repudiare, ma di richiamare a più intensa e feconda azione le forze vitali, liberandole dalla mesco­lanza paralizzante delle scorie morte.

Se non che il Rosselli conclude: il punto sta nel rifiutare la vecchia etichetta del marxismo, e dirsi semplicemente socialisti, per rendere a ognuno la libertà di pensare a suo modo. Ora è evidente che, se si fa questione della libertà di ognuno di pen­sare a modo suo, neppure il titolo di socialisti può più conser­varsi; ma se questa libertà s'intenda, come il Rosselli pur vuole, nei limiti dell'accettazione dei metodi e degli scopi del partito (e sarebbe assurdo intendere diversamente, quando si fa que­stione della crisi del partito socialista e della via del suo supe­ramento), allora il consentimento su un certo nucleo di dottrine, ossia la comunanza di un orientamento spirituale e di una visione della posizione e funzione storica propria è necessaria.

Dirsi semplicemente socialisti significa professare una deter­minata finalità; ma la questione del fine implica quella dei mezzi, l'orientamento si collega alla intuizione della vita e della storia, l'azione pratica suppone il problema della possibilità storica e del metodo. E per ciò non è possibile distaccare l'affermazione di un fine dal complesso delle condizioni e concezioni, che ne costi­tuiscono le necessarie premesse e l'inquadramento, e gli confe­riscono quindi la possibilità della conversione in realtà pratica attraverso l'azione.

Di socialisti ce ne son stati in età diverse; e nella stessa età presente ce ne sono varie scuole. Ma che cosa ha costituito la forza di propagazione del socialismo marxista, ed ha determi­nato la conquista della sua preponderanza sopra tutti gli altri indirizzi? Ciò che è vivo o ciò che è morto in esso?

Porre l'alternativa è già attaccarsi al primo capo di essa. La potenza storica del marxismo è consistita in ciò: che ad una azione pratica esso forniva l'adeguato fondamento, in quanto non intendeva esser più sogno generoso di un ideale nelle nu­vole; non predicazione (nobilissima, certo, ma storicamente vana) di un'esigenza morale; non utopia contrapposta alla realtà, in quanto distaccata da essa; ma concezione critico-pratica di un processo storico, che ha una sua necessità in quanto risponde alle esigenze incoercibili delle masse proletarie; e trova nelle condizioni reali e nel processo del loro sviluppo gli elementi materiali della sua possibilità di attuazione e le forze interessate a questa: arma materiale dell'idea, che è a sua volta loro arma spirituale.

La conversione dell'esigenza ideale in azione storica è pre­cisamente ciò che distingue il socialismo marxista da tutti gli altri; che ne ha costituito la superiore forza di attrazione; che gli ha dato il predominio su tutti gli altri nel movimento pro­letario. Il marxismo era ed è sopra tutto la coscienza storica del movimento proletario: coscienza critica, fatta guida e norma all'attività pratica; che nel materialismo storico ricerca la con­sapevolezza che la lotta di classe deve avere di se stessa, delle sue possibilità e del cammino progressivo delle sue conquiste.

Dice il Rosselli, i due capisaldi del pensiero marxista, mate­rialismo storico e lotta di classi, sono entrati ormai nella co­scienza di tutti, sono fra quei princìpi universalmente accettati, che non possono più valere a differenziare un partito; tanto che si può essere marxisti senz'essere socialisti — se per marxisti si intendano i seguaci del pensiero sempre vivo, e non gli ado­ratori della parola di tutte le parole, veritiere od erronee, eterne o caduche, di Carlo Marx. Io non oserei asserire questa univer­sale accettazione del materialismo storico e della lotta di classe quali verità indiscutibili; non soltanto fuori del pensiero socia­lista essa è tutt'altro che un fatto compiuto; ma negli stessi limiti di tale pensiero è a ritenersi una conquista tutt'altro che saldamente stabilita, se la rivoluzione russa, nelle intenzioni dei suoi condottieri e degli apologisti occidentali (non nella realtà, che s'è presa l'immancabile rivincita), voleva essere un ripudio del materialismo storico e della dottrina critico-pratica; e se lo stesso Rosselli si dichiara pronto a repudiare quelle che, Impro­priamente, chiama le formule marxistiche, quando si trovasse a scegliere fra il materialismo storico e l'attuazione del socialismo in Russia. Se si trattasse di una scelta volontaria, potrei anche dargli ragione; ma supporta tale è già muoversi fuori dell'orbita di quel materialismo storico, che egli stesso ha pur dichiarato patrimonio ormai comune a tutte le menti. E la critica rifor­mista della rivoluzione russa, che il Rosselli accusa di aver bat­tuto cattiva strada (ego adsum qui feci; e non me ne pento), ha inteso trarre da una durissima esperienza storica quegli inse­gnamenti fecondi, che essa poteva dare ad un movimento pro­letario che voglia essere consapevole, mostrando quale errore fosse nella fede nell'onnipotenza dell'azione politica, nella tra-scuranza delle esigenze delle nuove forze di produzione in via di sviluppo (la piccola borghesia agraria) invano compresse ed oppresse, nel ripudio della dipendenza di ogni tentativo di tra­sformazione sociale dalle condizioni reali e dalle possibilità, che queste offrano, di soddisfare gli incoercibili bisogni delle masse. Lezione storica, di prim'ordine, che sarebbe colpa lasciar andare perduta; ma che, nella stessa necessità di esser lumeg­giata, mostra quanto si sia lontani da quella universale conver­sione del materialismo storico in succo e sangue del pensiero di tutti, che pure il Rosselli afferma.

E tuttavia, anche se questa affermazione fosse esatta, non basterebbe a giustificare il repudio del marxismo. Giacché se ci sono marxisti che non sono socialisti, l'importante per noi è il collegamento del socialismo col marxismo, la salda fondazione del primo sulle basi del secondo, il passaggio insomma dall'affer­mazione di un ideale (che potrebbe anche essere utopia) all'azione storica, che è conquista di realtà. Azione storica, che ha bisogno di essere guidata e sorretta continuamente da una coscienza cri­tica: quella esigenza di non proporsi se non problemi storica­mente possibili, e fini raggiungibili, le cui condizioni, cioè, si trovino, se non già raggiunte, almeno nel processo del loro dive­nire, costituisce la norma fondamentale di ogni prassi storica; e basterebbe da sola a giustificare l'ispirazione marxistica del moderno movimento proletario.

Per giudicare quali siano, storicamente, i problemi risolvi­bili e i fini raggiungibili, il canone è nel materialismo storico. Il quale non è per il partito socialista soltanto un criterio diret­tivo per le ricostruzioni degli storici e l'interpretazione delle umane vicende; ma è (qui il suo immenso valore pratico) la coscienza stessa delle condizioni della propria azione storica, coscienza necessaria per fare la storia ancor più che per rico­struirla: giacché lo studioso, che sbagli nella sua interpretazione ricostruttiva, non va incontro ad altro pericolo che di compiere lavoro poco pregevole; ma le masse, che errino nella direzione della loro azione, vanno a cozzare contro le tremende vendette della realtà. Le esperienze dei nostri giorni insegnano, con le conseguenze terribili che per il proletariato di vari paesi ha avuto la traduzione in norma universale di necessità particolari, che la rivoluzione russa aveva seguite per le specialissime con­dizioni storiche del paese.

E il marxismo significa anche questo: che, come diceva En­gels, «le pillole di Morrison, le ricette buone per tutti i tempi, non sono affare nostro». E il fatto che negli scritti e nell'azione di Marx i seguaci delle più varie correnti socialiste possano tro­vare il versetto o l'esempio che fa al caso loro, dimostra, meglio di qualsiasi glossa, come lo spirito del marxismo fosse in quella coscienza critico-pratica, la quale dalla critica delle condizioni reali vuol prender sempre norma all'azione, alle sue possibilità, al suo indirizzo — variabili quindi a seconda delle condizioni stesse.

È il caso di repudiare questa coscienza critico-pratica, quasi che potesse essere elemento di debolezza, anziché di forza e di sicurezza al movimento proletario? Marx avrà potuto, più che una volta, come individuo, ingannarsi: che importa? Avere un buon criterio d'orientamento non vuol dir certo essere infalli­bili; ma non averlo significa andare più che mai soggetti all'errore. E nel marxismo non gli atti o le parole dell'individuo si devono ricercare; ma lo spirito vivo animatore, che il movimento socia­lista non ha alcun interesse a repudiare, come il navigatore non ha interesse a gettar via la bussola, o l'artefice a buttare lo stru­mento del suo lavoro.

E tanto più ciò vale per i socialisti gradualisti. Sono essi, come il Rosselli afferma in profondo contrasto con tutto lo spi­rito informatore marxista? Ma che cos'è il materialismo storico, che cos'è la concezione critico-pratica, che cos'è la dipendenza sempre riaffermata dei problemi e dei fini dalle condizioni rag­giunte o in processo di divenire, se non la teoria entro la quale il gradualismo trova il suo più organico e coerente inquadra­mento?

Il pericolo, dal quale bisogna guardarsi, non è qui; non è in quel volontarismo concreto, che, mentre riconosce l'impor­tanza e la funzione delle condizioni esistenti, afferma insieme il valore e il compito delle esigenze di classe e dell'azione volon­taria agenti su quelle; non è, insomma, nell'accettazione della concezione critico-pratica; ma è nella separazione dei due ter­mini che il marxismo congiunge — la volontà (azione politica) affermata indipendente dalle condizioni del suo operare (sopra tutto economiche); e lo svolgimento dei processi economici, sup­posti automatici, fatali e inflessibili, dominatori degli uomini. L'esempio, che il Rosselli richiama, del fatalismo di taluni pseu­domarxisti di fronte al fascismo, egli stesso dichiara derivante da una erronea interpretazione del marxismo; e non può quindi corroborare una proposta di ripudio.

Il socialismo per essere, come deve, una forza storica, ha bisogno di una coscienza storica: questa è la funzione che allo spirito marxistico spetta in esso — allo spirito e non alla parola; a ciò che è vitale ed attivo, non a ciò che è caduco ed inerte.

R.   MONDOLFO
La funzione storica del riformismo *
* Da E. Bartellini, La rivoluzione in atto (1919-1924), Gobetti, To­rino 1925; n. ed. La rivoluzione in atto e altri scritti, La Nuova Italia, Firenze  1967, pp.  14-16,  18-22.

Nel Partito Socialista si sono sempre agitate, in contrasto, due anime: quella riformista e quella rivoluzionaria. «Sono due concezioni», rilevava il Tilgher ' «profondamente opposte della vita e della storia» che convivevano sotto il medesimo tetto nonostante la profonda incompatibilità di carattere. Il divorzio non è ammesso in Italia...

Nell'ala riformista era scomparso quell'elemento volontari­stico che pure è parte essenziale dell'azione umana nel pensiero di Marx, in quanto egli sostiene che tutte le condizioni prece­denti determinano e condizionano non soltanto le condizioni materiali necessarie al superamento delle prime, ma anche le energie e le volontà indispensabili. Nei riformisti, insomma, il materialismo storico di Marx, che realizzava la fusione perfetta del soggetto e dell'oggetto nella prassi, era stato lentamente sostituito da una concezione evoluzionistica che trovava rispon­denza nell'accettazione quasi integrale del positivismo assunto, per l'occasione, all'importante ruolo di filosofia del socialismo. Si assisteva, quindi, ad una sofisticazione inconsapevole, ma non per questo meno dannosa, del pensiero di Marx; perché, alla sua concezione del processo dialettico della storia inquadrato nella teoria rivoluzionaria del rovesciamento della prassi, si sostituiva quella del soggetto che subisce passivamente il riflesso della lenta ed inevitabile modificazione delle istituzioni sociali ad opera di élites proletarie o, meglio ancora, per concessione graziosa dello Stato previdente.

Il rivoluzionarismo di Marx veniva, così, relegato in sof­fitta ed un Presidente del Consiglio ne poteva dare l'annunzio ufficiale.

«Dal 1860 allo scoppio della guerra il socialismo traversa la fase riformistica; forse storicamente necessaria ed inevitabile, ma nella quale il fermento rivoluzionario del proletariato si spegne presso che del tutto»2. E il Tilgher stesso definisce questa fase una fase lassalliana perché il Lassalle era stato il teorizzatore di questa alleanza più o meno esplicita fra i partiti socialisti e lo Stato borghese, conseguenza del trasferimento del­l'azione proletaria ad un piano di pura economia sociale.

I residui di questa concezione gradualistica ed evoluzioni­stica della storia affiorano nuovamente alla superficie dopo la guerra e proprio nel folto della mischia.

1    A. Tilgher, La crisi mondiale e Saggi di Socialismo e Marxismo,
Zanichelli, Bologna  1921, p. 265.

2    Ivi, p. 248.

Nel 1919 il pensiero e l'azione dell'ala rivoluzionaria del Partito, la cui concezione storica contraddiva pure in parte al pensiero di Marx in quanto l'obbligava a chiudersi nella torre eburnea della sua intransigenza dottrinaria nell'aspettazione mes­sianica della catastrofe finale, dovevano cozzare profondamente col pensiero e con l'azione dell'ala riformista.

Non è, io credo, in quella che si è voluto definire la pletora degli iscritti e dei seguaci in un con la loro impreparazione che si rintracciano le cause della sconfitta proletaria, ma è appunto in questo persistente dualismo nel Partito che si può trovare la causa di massima debolezza nel momento di maggior forza. L'azione dei rivoluzionari era, cioè, paralizzata dal fatto che, come inevitabile reazione alla concezione antistorica dei rifor­misti che negavano, sotto l'apparenza di uno storicismo di nuovo conio, le potenzialità immanenti della volontà della classe, essi dovevano racchiudersi in una trincea d'intransigenza sempre maggiore che oscurava in loro ogni visione realistica del mo­mento storico che vivevano. Mentre le masse, storicamente pronte, urgevano alle porte del Partito per indurlo ad agire, questo bizantineggiava sui sacri testi: proprio come quando, mentre il conflitto fra il mondo pagano e quello cristiano era nella fase più acuta, i dottori della Chiesa inseguivano vana­mente, per disputarvi, le querele sulla transustanziazione o sulla unione ipostatica...

Ma nel Partito, se la maggioranza appariva dominata dai rivoluzionari, la minoranza era così influente per tradizione e per il valore indiscusso dei suoi capi, che quella si vedeva obbli­gata a trascurare le esigenze immediate della lotta per conservare integra la propria vereconda verginità politica.

Così, mentre necessitava agire, la resistenza all'azione veniva offerta proprio da quel mito nel quale si tentava di stringere in una ferrea unità la massa operaia per portarla alla vittoria: il mito russo. Perseguendo quello, proponendosi, cioè, la realizza­zione del programma massimo, il Partito rinunciava ad ogni atti­vità contingente e si esauriva in vani e sterili formalismi. Sfug­giva, in quel momento, ai capi del Partito, uno dei più preziosi insegnamenti dell'esperienza: che le rivoluzioni, cioè, si attuano gradualmente e mai ex abrupto. Quel gradualismo che si voleva cacciare dalla porta rientrava dalla finestra, ma quantum mutatus ab illo\  Là, nell'anima riformista, era un gradualismo pantofolaio, insensibile, centenario; qui è il gradualismo rivoluzionario, contingente all'azione ed al quale è giuocoforza sottostare. [...]

Mentre il Partito, dominato quasi sempre dall'ala rivoluzio­naria era, ciononostante, costretto all'inazione, la Confederazione, governata da elementi riformisti, batteva un cammino solitario nel quale il sincronismo col pensiero rivoluzionario del Partito — specialmente in questi anni — restava un pio desiderio delle masse.

È bene, a questo punto, intenderci sul significato della parola « riformismo».

Che il processo rivoluzionario si svolga in correlazione  ad un contemporaneo processo evolutivo e gradualistico, non v'ha dubbio.  La classe proletaria, per esempio, non avrebbe acqui­stato coscienza del proprio valore storico e della sua funzione preminente nel processo produttivo se la evoluzione sociale non l'avesse resa, attraverso una serie di riforme e di miglioramenti, capace di un meno disumano tenor di vita e vogliosa non solo di conservare, ma di aumentare le sue conquiste superando tutti gli ostacoli che glielo impediscono.  Sotto questo aspetto nem­meno i comunisti odierni rinunciano a tutte quelle lotte sinda­cali che corrispondono a coteste necessità storico-ambientali. In questo senso, quindi, quella parola non presenta nessun equi­voco. Il Labriola3, domandandosi se si può essere riformisti e rivoluzionari   nel   medesimo   tempo,   risponde   con   un   «certa­mente!» al quale non si saprebbe dare una smentita assoluta. Tutta l'azione leniniana, del resto, è contraddistinta dalla fusione perfetta dei due termini.

Il guaio, invece, sorge quando col metodo riformista si perde di vista il fine rivoluzionario e ci si adagia in un comodo wagon-lit, tutto ovattato di riforme, sul quale si vorrebbe fare tran­quillamente il tragitto dalla vecchia alla nuova società. È, cioè, la trasformazione del pensiero rivoluzionario in legalitario, con relativo consentimento alla confusione delle due lingue, bor­ghese e socialista, quella che costituisce il cosiddetto « tradi­mento»   dell'idealità   rivoluzionaria   della   classe,   ed   è   questa  l'accusa che viene fatta ad alcuni capi della Confederazione e del Partito politico.

Non perdere di vista il fine rivoluzionario della classe, non vuol dire astrarsi dalla realtà e prefiggersi come unico scopo quello di mantener viva l'«ossessione della rivoluzione»; vuol dire, più semplicemente, rendersi conto che le concessioni strap­pate, nella pratica quotidiana, alle variopinte democrazie che tentano di agire da repulsori nella serrata lotta fra l'avvenire ed il passato, non annullano in nessun modo l'essenza e l'esi­stenza del privilegio borghese. È, insomma, il precetto di Marx, secondo il quale la classe proletaria non deve mai concedere tregua alla classe avversa: è la traduzione in pratica del con­cetto della rivoluzione in permanenza.

Prima della guerra, al contrario, il fenomeno dell'ostracismo del pensiero rivoluzionario era molto diffuso in tutta l'Europa socialista e non bisognava avere difficoltà ad ammettere che esso rispondeva ad alcune necessità pratiche e contingenti.

In Italia questo fenomeno datava, all'ingrosso, dalla fine del XIX secolo, ma come pratica di governo esso risale fino al 1860.

La monarchia italiana, un po' provinciale, arrivata al governo di oltre una trentina di milioni d'italiani più perché rimorchiata da potenti forze esterne e dalle necessità storiche del Risorgi­mento che per un proprio atto volitivo, conservava, nel governo della cosa pubblica, il carattere dei parvenus. Mancava ad essa un'idea originale della propria funzione da imporre agli italiani: e, come gl'improvvisi arricchiti, in assenza di una propria qual­siasi preparazione culturale, si contentano d'esser sempre del­l'opinione del proprio interlocutore, così la monarchia sabauda, salita ai fastigi del governo d'un vasto territorio per merito esclusivo di pochi liberali, repubblicani e socialisti, anziché di monarchici che, anzi, erano riluttanti ad ogni avventura del genere (è storia di ieri!), accettò tutte le politiche che le veni­vano proposte dalle varie forze che si contrastavano il potere.

L'aspetto più interessante della monarchia italiana, politica­mente parlando, è appunto questa sua estraneità alla vita pub­blica e ciò spiega in parte la sua malleabilità e la sua adattabi­lità a subire, senza opporre la minima resistenza, tutte le poli­tiche imposte dal paese, da quella di Nitti a quella di Mussolini.

Nella monarchia non è possibile rintracciare, quindi, nessuna delle cause che possono aver originato quel fenomeno «rifor­mista» che caratterizzò il periodo antecedente alla guerra. Que­sto fu imposto, invece, dagli operai e da una parte della bor­ghesia:   quella più evoluta e più capace.

Mentre, infatti, la borghesia agraria, più rapace e più gretta, e riluttante, sempre, ad ogni idea di progresso, si isolava sempre più dalla vita attiva del paese, un'altra frazione della borghesia, quella industriale dell'Alta Italia, prendeva lentamente il soprav­vento e, con l'esperienza delle sue esigenze quotidiane, dettava le norme di una nuova legislazione del paese: la legislazione sociale.

Quello che si è amato chiamare dualismo tra nord e sud, non è che un aspetto di questo fenomeno.

Aperta alle vaste correnti culturali d'oltralpe, questa bor­ghesia fu la prima a sentire la necessità e a comprendere la utilità di una tale legislazione. Non si trattava, si badi, di una nuova coscienza etica formatasi sotto l'influenza delle dottrine socialiste importate dalla Germania e dalla Francia; ma piut­tosto di un avvertimento subcosciente della utilità di seguire quegli stessi sistemi che andavano adottando le borghesie più progredite. Inoltre lo sviluppo che il movimento operaio aveva preso anche in Italia e che andava rovesciando lentamente tutti i valori morali sui quali si era assisa la società italiana ante 1870, aveva particolarmente influito a rendere più sensibili le classi industriali.

Premuti dalla necessità di affrontare un movimento che an­dava giornalmente giganteggiando e che non era più possibile, quindi, strozzare in fasce, cotesti ceti ricorsero ai metodi usati altrove, da borghesie più vecchie e più evolute, nella illusione comune a tutte le classi pericolanti di propinare, con la Riforma, un veleno mortifero alle forze della Rivoluzione.

Del resto la sua aumentata sensibilità rendeva inconsciamente avvertita cotesta borghesia che la Riforma poteva contribuire efficacemente al suo stesso sviluppo e che l'ottusità delle classi reazionarie ridondava anche e soprattutto a suo danno. Infatti l'atmosfera di democraticismo e di libertà nella quale si svolge­vano coteste prime lotte fra capitale e lavoro, consentiva il for­marsi delle condizioni atte ad un sempre maggior incremento delle capacità produttive della borghesia medesima. Se le riforme sociali attuate dallo Stato e gli aumenti di salario strappati dalle classi operaie rappresentavano dei veri e propri prelevamenti sul profitto degli industriali e dei capitalisti agrari, questi si trovavano necessariamente costretti a migliorare i processi della produzione sia perfezionandola tecnicamente, sia eliminando tutti gli elementi improduttivi e superflui che ne aumentavano il costo. In altre parole reazione voleva dire statica sociale e demo­crazia (Riforma) significava dinamismo vivo e vitale.

Per questo la funzione del riformismo è stata benemerita per la borghesia e per il socialismo.

Lo fu per la borghesia perché consentì a creare le condizioni per una maggior razionalità nei processi di produzione (e per forza di cose ne furono coinvolte anche le relative classi agra­rie), e la guidò all'odierno sviluppo, onde si potrebbe dire che gli attuali ceti plutocratici sono figliazione diretta di quel rifor­mismo; e lo fu per il socialismo perché fece maturare molte delle condizioni necessarie per il suo avvento.

L'alleanza fra i riformisti ed i ceti industriali dell'Alta Italia trovò il suo uomo in Giovanni Giolitti che seppe fondere armo­nicamente le esigenze delle classi operaie con quelle dei datori di lavoro ed intuì la profonda utilità storica di una politica ten­denzialmente riformista. In questo modo la collaborazione fra borghesia e Confederazione, anche se non appariscente e non conclamata con solennità, si attuò praticamente nella estrinse­cazione di una attività legislativa ventennale a favore delle classi lavoratrici, e contro tutti i ceti reazionari della penisola.

Cotesto atteggiamento legalitario della Confederazione, dal quale era trascinato lo stesso Partito, volente o nolente, trovava la sua ragione d'essere proprio nella natura del Sindacato. Esso contrassegna, cioè, il fallimento del sorellismo.

Il Sindacato non è più l'humus fecondatore e rigeneratore ad un tempo della Rivoluzione. Esso si trasforma in uno stru­mento di equilibrio sociale e il mito dello sciopero sfuma al contatto della realtà. Il contenuto prettamente economico e con­tingente dell'azione sindacale, tutto rivolto, cioè, a strappare una sempre maggior quota del profitto dell'industriale, prende il sopravvento assoluto.

Il sindacalismo ne esce colle ossa rotte.

La Confederazione, infatti, non è che un corpo elefantiaco sul quale premono incessantemente i bisogni immediati e mate­riali dei suoi membri:   e la sua tattica deve assolutamente convergere sul modo migliore per soddisfare quelle esigenze. Lo sciopero non è l'arma sognata dai rivoluzionari, ma è quella del momento; in esso ogni volontà eroica e carlyliana che avrebbe dovuto costituirne il sostrato fermentatore viene necessariamente annullata dalla passività dell'ambiente.

Due tuttavia sono i risultati, e apparentemente contraddit­tori, della tattica riformista: in un certo senso essa ha funzio­nato da elemento conservatore della società perché ha contri­buito a smorzare tutti gli spiriti rivoluzionari delle masse; ma, contemporaneamente, essa ha contribuito a spingere verso il limite la concorrenza in seno alla società borghese ed a creare nell'altra classe la coscienza dei propri diritti e la necessità con­sapevole dell'unione.