Antologia del Pensiero Socialista

Comunismo e Socialdemocrazia

a cura di Alfredo Salsano
Laterza, Bari 1982
volume IV pp. 329-358
v.
IL PARTITO COMUNISTA ITALIANO DA BORDIGA A GRAMSCI
La costituzione del Partito comunista d'Italia a seguito della scis­sione del partito socialista al congresso di Livorno del gennaio 1921, avvenne con caratteristiche molto diverse da quelle che avevano assunto nei mesi precedenti il partito comunista tedesco, con l'ade­sione degli indipendenti decisa ad Halle (ottobre 1920) e il partito comunista francese, sorto a Tours dalla vecchia sfio (dicembre 1920). Nonostante una estrema mediazione tentata proprio da Paul Levi, presente a Livorno a nome della vkpd, restò infatti esclusa dal nuovo partito la maggioranza massimalista che non accettava per il momento di procedere all'espulsione dei riformisti, condizione questa imposta dai « 21 punti » fissati dal II congresso dell'Internazionale comunista.
II partito comunista italiano raccolse dunque le varie componenti della frazione di sinistra che già al convegno precongressuale di Imola (novembre 1920) si era di fatto schierata per la scissione. A Livorno, come già ad Imola, il gruppo meglio organizzato del nuovo partito era quello napoletano de « Il Soviet », guidato da Amadeo Bordiga, del quale si sono appena visti i dissensi col gruppo torinese de « L'Ordine nuovo » a proposito dei consigli di fabbrica, e che ora rinunziava alle posizioni astensionistiche difese ancora contro Lenin al II congresso dell'Internazionale (cfr. pp.  375-82).

Dominato dalla personalità di Bordiga, il nuovo partito, che dopo il congresso di Livorno annuncerà la propria costituzione con un Manifesto ai lavoratori d'Italia (cfr. pp. 331-38), nasceva dunque sulla base di una rottura non solo con la destra riformista (per l'intervento di Turati a Livorno cfr. pp. 643-49) ma anche con una maggioranza che pure dichiarava la propria volontà di adesione alla Terza Internazionale. Le polemiche sull'evitabilità della scissione e sulle conseguenze della divisione del vecchio partito socialista italiano ln due, poi in tre tronconi (quando infine, poco più di  un  anno dopo Livorno i massimalisti romperanno con i riformisti) sono più la proiezione di una problematica politica (antifascista) che non un contributo alla comprensione storica. Non fu certo la netta caratte­ristica di sinistra con cui nacque il pcd'i a facilitare l'avvento al potere del fascismo, quanto piuttosto il fatto che erano ormai rica­dute quelle spinte di massa che il socialismo italiano nel suo com­plesso si era rivelato incapace di gestire durante il « biennio rosso ».

D'altra parte, il pcd'i si costituiva quando ormai, sul piano inter­nazionale, alla linea dell'offensiva — peraltro già subordinata dal II congresso dell'Internazionale comunista alla disciplinata adesione dei singoli partiti alle sue direttive, — era sul punto di sostituirsi quella difensiva del fronte unico. Sei mesi dopo la scissione di Li­vorno, fu con stupefazione che la delegazione italiana al III con­gresso dell'Internazionale si trovò di fronte alla consegna di svol­gere un'azione comune con i socialisti. E lo stesso Lenin dovette intervenire contro Terracini per precisare che alla lotta contro i « cen­tristi » bisognava ormai sostituire la parola d'ordine « alle masse! » (cfr. pp. 392-95).

Al II congresso del PCd'I, tenuto a Roma nel marzo 1922, le Tesi sulla tattica, redatte da Bordiga e difese da Terracini, non fecero tut­tavia alcuna concessione nel senso di attenuare il contrasto con l'In­ternazionale, favorevole alla riunificazione con i socialisti. L'interpre­tazione, che sarà mantenuta anche dopo l'avvento al potere del fasci­smo, della situazione italiana in termini di un rafforzamento del « regime dittatoriale borghese » attraverso l'integrazione in esso della socialdemocrazia, portava il gruppo dirigente comunista ad indicare come unica tattica possibile, anche ai fini della lotta contro il fasci­smo, quella della « recisa e instancabile » polemica contro il partito socialista (cfr. pp.  340-45).

Più tardi, Gramsci sosterrà di aver fatto modificare due articoli di quelle tesi nel senso di avere impedito che vi figurasse l'idea del­l'impossibilità dell'avvento di una dittatura fascista o militare. Ma a parte il fatto che ciò non sembra trovare un preciso riscontro testuale, una recente testimonianza di Terracini parla solo di esita­zioni, non espresse pubblicamente, di Gramsci circa l'attacco alle socialdemocrazie.

In realtà, il testo di Gramsci cui ci si riferisce — l'importante lettera scritta da Vienna nel febbraio 1924 in risposta al « manife­sto » di Bordiga dell'anno precedente (cfr. pp. 345-49) — poneva le basi per la formazione di un nuovo gruppo dirigente del partito, che si venne appunto aggregando nel corso di quelle discussioni epistolari: da Terracini dapprima favorevole al « manifesto », a To­gliatti  indeciso,  a Leonetti, fin  dall'inizio contrario.  In questa prospettiva, la lettera di Gramsci valorizza dunque retrospettivamente delle divergenze che, se ci furono, acquistano nuovo rilievo nella proclamazione dell'attuale coincidenza delle sue posizioni con quelle dell'Internazionale, respinte viceversa in toto da Bordiga.

L'adesione alla tattica dell'Internazionale, al di là delle diverse interpretazioni cui andranno soggette le parole d'ordine del fronte unico e del governo operaio e contadino, comportava in Gramsci sia una diversa concezione delle prospettive della rivoluzione proletaria, rinviata a dopo un periodo di « fasi suppletive »; sia una diversa con­cezione del partito e della sua azione, il cui logico sbocco sarà la bolscevizzazione. Questa infatti interverrà — dopo le ambiguità del periodo aventiniano, tra la proposta dell'Antiparlamento e il tenta­tivo di realizzare il fronte unico dal basso con i comitati operai e contadini — a garantire la linea sin da allora nazionale e popolare di Gramsci. Come dimostra il fatto che l'indicazione meridionalistica, del resto già presente in una sua precedente lettera da Mosca, e destinata com'è noto ad essere sviluppata in Alcuni temi della qui-stione meridionale (1926) è sin d'ora integrata nel nuovo indirizzo del partito il cui senso complessivo si riassume nella formula se­guente: « Amadeo si pone dal punto di vista di una minoranza internazionale. Noi dobbiamo porci dal punto di vista di una mag­gioranza nazionale » (cfr. pp. 349-58).'

Manifesto e programma del PCd'I

* Da Partito Comunista d'Italia, Manifesti ed altri documenti politici (21 Gennaio-31 dicembre 1921), Libreria Editrice del pc d'Italia, Roma s. d., pp. 7-14 (reprint Feltrinelli). Il Manifesto era stato pubblicato il 30 gennaio 1921 ne « Il Comunista », organo centrale del partito.

A) Dal Manifesto ai lavoratori d'Italia *

Proletari italiani!

Nessuno di voi ignora che il Partito socialista italiano, nel suo congresso nazionale tenuto a Livorno, si è diviso in due partiti.

I rappresentanti di quasi sessantamila dei suoi membri sui centosettantamila  che  hanno  partecipato  al congresso,  si  sono

allontanati, e in un primo congresso hanno costituito il nuovo partito:  il nostro Partito comunista.

I rimasti nel vecchio partito hanno conservato il nome di Partito socialista italiano.

Ciò voi avrete appreso, proletari tutti d'Italia, dalla nuda cronaca di questi ultimi giorni; ma tale nuova, che non appare ben chiara nelle ragioni che ne furono la causa a molti di voi, mentre essa tanto da vicino riguarda i vostri interessi ed il vostro avvenire, vi sarà presentata e commentata dagli interessati sotto una luce artificiosa e sfavorevole.

È perciò che il I congresso del nuovo partito ha sentito, come suo primo dovere, la necessità di rivolgersi a voi; e con questo manifesto vuole rendervi ragione del sorgere del nuovo partito, perché vi stringiate intorno ad esso, accogliendolo come il solo e vero strumento delle vostre rivendicazioni, come il vostro partito.

Richiamiamo, quindi, tutta la vostra attenzione su quanto abbiamo il compito di esporvi nel modo più chiaro, onesto e preciso.

Vi fu detto per molti anni che coloro i quali lavorano e sono sfruttati dalla minoranza sociale dei padroni delle fabbriche, delle terre, delle aziende tutte, devono tendere, se vogliono sottrarsi allo sfruttamento e ad ogni sorta di miserie, a rovesciare le isti­tuzioni attuali che difendono i privilegi degli sfruttatori. Vi fu detto, a ragione, che questo scopo poteva raggiungersi solo col formarsi di un partito dei lavoratori, di un partito politico di classe, il quale doveva condurre la lotta rivoluzionaria di tutti gli sfruttati contro la borghesia, contro i suoi partiti, contro i suoi istituti politici ed economici.

Ma già prima della guerra in molti paesi, ed anche in Italia, i capi dei partiti proletari avevano cominciato a transigere con la borghesia, ad accontentarsi di ottenere da essa e dal suo go­verno piccoli vantaggi, e sostenevano che, a poco a poco e senza lotta violenta, sareste, così, giunti a quel regime di giustizia sociale ch'era nelle vostre aspirazioni.

Questi uomini erano anche nel Partito socialista italiano. Alcuni, come i Bissolati e i Podrecca, ne furono allontanati; altri, però, come i Turati, i Treves, i Modigliani, i D'Aragona, ecc.,  vi  rimasero,  capi  incontrastati  nell'azione  parlamentare  e nelle organizzazioni economiche, anche dopo che la maggioranza del partito ebbe dichiarato erronee le loro teorie riformiste.

Guidata da costoro, o da altri meno sinceri, ma in fondo simili ad essi per pensiero e per temperamento, l'azione del par­tito non corrispondeva alle aspettazioni delle masse e alle esi­genze della situazione. Venne la guerra del 1914. Come voi sapete, in moltissimi paesi i partiti socialisti, diretti da quei capi riformisti e transigenti di cui abbiamo detto, anziché opporsi energicamente alla guerra, divennero i complici del sacrificio proletario per gli interessi borghesi.

Ciò dipese soprattutto dal fatto che essi non capirono che la guerra era una conseguenza del regime capitalistico; che rappre­sentava il crollo di esso nella barbarie, e creava una situazione in cui i socialisti avevano il dovere di spingere le masse ad un'al­tra e ben diversa guerra, alle lotte rivoluzionarie contro la bor­ghesia imperialista.

Voi, proletari italiani, ricordate anche che il Partito socialista in Italia tenne un contegno migliore di quello degli altri partiti socialisti europei: attraversammo un periodo di neutralità, du­rante il quale avemmo l'agio di meglio comprendere quale enor­mità fosse l'adesione dei socialisti alla guerra.

Ma quando si trattò di passare da un'opposizione verbale all'azione effettiva contro la borghesia italiana impegnata nella guerra, ad una propaganda in senso rivoluzionario, allora gli uomini della destra del partito ed altri ancora — anche e soprat­tutto quando il territorio italiano fu invaso — dimostrarono col loro contegno esitante tutta la loro avversione al metodo rivo­luzionario.

A chiarire e precisare l'atteggiamento dei socialisti dinanzi alla guerra e alle sue conseguenze, venne la rivoluzione russa. Essa ci mostrò i socialisti russi divisi in campi opposti: mentre alcuni partiti e frazioni socialiste, che pure erano stati contro la guerra, propugnavano l'alleanza coi partiti borghesi, la continua­zione della guerra, la limitazione delle conquiste rivoluzionarie alla costituzione di una repubblica democratica al posto del vec­chio dispotico impero zarista; all'avanguardia del proletariato rivoluzionario si poneva un forte e cosciente partito politico: quello dei bolscevichi, che ora è il grande Partito comunista di Russia.

I bolscevichi avevano già il loro programma rivoluzionario. Essi fin dal 1914 avevano dichiarato che la guerra delle nazioni doveva volgersi in guerra civile rivoluzionaria del proletariato internazionale contro la borghesia; e nel 1917 sostennero che, data la situazione creata dalla guerra, non v'era altra soluzione che la dittatura del proletariato, da raggiungersi con la lotta rivoluzionaria, respingendo ogni alleanza coi partiti borghesi russi e colle borghesie estere dell'Intesa imperialistica.

I bolscevichi e i lavoratori rivoluzionari russi col trionfo di
questo loro programma attirarono l'attenzione dei lavoratori di
tutto il mondo su importanti questioni nelle quali i riformisti
di tutti i paesi avevano portato grande confusione. Eccole.

II proletariato non arriverà mai al potere né alleandosi con
partiti borghesi, né servendosi del suffragio elettorale per la con­
quista dei mandati elettivi nei parlamenti.

Solamente se il proletariato si impadronirà con la violenza del potere, spezzando le forme attuali dello Stato: polizia, buro­crazia, esercito, parlamento, potrà costituire una forza di governo organizzata, capace di operare la distruzione dei privilegi bor­ghesi e la costruzione del regime sociale comunista.

In questo nuovo sistema di potere, al posto dei parlamenti democratici vi è la rete dei Consigli dei lavoratori, alle elezioni dei quali partecipano solo quelli che lavorano e producono, e che la Russia ci ha mostrati per la prima volta nei Soviet.

Ma l'insegnamento più importante ancora della rivoluzione russa fu questo: che nella lotta decisiva per la conquista del potere proletario, quei socialisti riformisti, democratici, che, o furono per la guerra, od anche non seppero passare dalla oppo­sizione alla guerra all'affermazione rivoluzionaria che la guerra aprì in tutto il mondo il periodo della lotta per la dittatura pro­letaria, tutti costoro nella lotta finale si alleano alla borghesia contro il proletariato. Se il proletariato vince, come in Russia, continuano la loro opera per sminuirne e distruggerne i successi d'accordo con le borghesie estere. Se, come in Germania e altrove, il proletariato è vinto, i socialdemocratici appaiono come gli agenti e i boia della borghesia.

Ed allora — altra conseguenza della rivoluzione russa — la nuova Internazionale, che deve sostituire la seconda Internazio­nale vergognosamente battuta nell'adesione alla guerra, deve sor­gere su questa base: riunire non già tutti i socialisti che in qual­che modo furono contrari alla guerra, bensì quelli che sono per la rivoluzione, per la dittatura proletaria, per la repubblica dei Soviet, come unica possibile uscita dalla situazione lasciata dalla guerra in tutti i paesi.

La nuova Internazionale infatti, soprattutto ad opera dei comunisti russi, si costituiva a Mosca, tenendovi nel marzo 1919 il primo suo congresso mondiale.

Attraverso vicende che non è qui il caso di rammentare, ben presto si delineò una minaccia per la nuova Internazionale: l'in­vasione delle sue file da parte di elementi equivoci, usciti dalla seconda Internazionale, ma non completamente aderenti alle direttive comuniste.

Per ovviare a tale pericolo si riuniva a Mosca, nel luglio 1920, il II congresso mondiale, il quale stabilì che ogni partito desideroso di entrare nell'Internazionale comunista dovesse, per essere accettato, dimostrare che la sua composizione e la sua attività corrispondevano al programma e al  metodo comunisti.

A tale scopo il congresso stabilì una serie di condizioni di ammissione, nelle quali sono contenuti i criteri a cui i partiti che entrano nell'Internazionale devono corrispondere.

Queste condizioni si applicano a tutti i partiti senza ecce­zione. Poiché, mentre la Seconda Internazionale lasciava arbitro ogni partito aderente di seguire la tattica che meglio credeva — e fu quest'autonomia la causa principale della sua rovina — la III Internazionale è invece fondata sulla comunanza ai partiti di tutti i paesi delle fondamentali norme di organizzazione e di azione; le quali appunto figurano nelle ventuno condizioni di ammissione.

Ciò non vuol dire che la III Internazionale ignori che in ciascun paese l'azione rivoluzionaria può presentare problemi speciali. Ma mentre nelle 21 condizioni è fissato il contegno dei partiti di fronte ai problemi più importanti che si presentano in tutti i paesi, il secondo congresso stabiliva anche la tesi sui com­piti principali dell'Internazionale, di cui la terza tratta delle mo­dificazioni della linea di condotta e parzialmente della composi­zione sociale dei partiti che aderiscono o vogliono aderire alla Internazionale.

In queste tesi si parla di ciascun paese partitamente ed anche dell'Italia, che presentava questo speciale problema:  la esistenza di un partito, che pur essendo stato contrario alla guerra ed avendo aderito a grande maggioranza alla III Internazionale, dimostrava tuttavia coi fatti un'evidente incapacità rivoluzionaria.

Abbiamo detto quale immenso valore abbiano avuto per i proletari di tutti i paesi gli insegnamenti della rivoluzione russa. Quale utilizzazione se ne è fatta finora nel movimento proletario italiano?

In Italia si è molto parlato della rivoluzione russa, della dit­tatura proletaria, dei Soviet, della III Internazionale. Ma furono, in realtà quegli insegnamenti, verso i quali si protendeva ansioso il nostro proletariato, efficacemente intesi ed applicati? Tutt'altro. Il Partito socialista italiano accettò nel suo congresso di Bolo­gna il programma comunista, aderì alla III Internazionale. Si era nell'agitatissima situazione del dopoguerra, che dura tutt'ora, e si parlò molto di rivoluzione nei comizi, mentre in realtà il partito non aveva mutato dopo la guerra, né mutò col congresso di Bologna, i caratteri tradizionali dell'opera sua, che seguitò a basarsi nel campo politico sulla pura azione inspirata da finalità elettorali. Né attraverso la guerra, né per effetto del congresso di Bologna fu cambiato quello stato di cose per cui l'azione poli­tica ed economica del partito era affidata alla destra riformista; e le conseguenze poterono essere constatate così nell'andamento della campagna elettorale politica e di quella amministrativa, come nella piega che presero tutte le grandi agitazioni che scop­piavano in seno al proletariato italiano. Il partito, benché diretto da massimalisti, non fece nulla per togliere il monopolio della Confederazione del Lavoro ai D'Aragona, Baldesi, Buozzi, Colombino, Bianchi, ecc., la cui opera spesso si presentò come un indi­rizzo politico apertamente opposto a quello del partito, e prati­camente si svolse attraverso continui compromessi con la bor­ghesia, culminando nella famosa derisoria concessione giolittiana del controllo operaio.

Il Partito socialista italiano in conclusione rimase sostanzial­mente quello che era prima della guerra, ossia un partito un po' migliore di altri partiti della II Internazionale, ma non divenne un partito comunista capace di opera rivoluzionaria secondo le direttive dell'Internazionale comunista.

L'azione e la tattica dei partiti comunisti a questa aderenti devono essere ben diversi. I partiti comunisti hanno come loro finalità la preparazione ideale e materiale del proletariato alla lotta rivoluzionaria per la conquista del potere. Come mezzi per la loro propaganda, agitazione ed organizzazione, essi si servono dell'intervento nell'azione sindacale e cooperativa, nelle elezioni e nei parlamenti, ma non considerano affatto le conquiste che si realizzano con queste azioni come fine a se stesse. Il Partito socialista italiano invece, lasciando dirigere queste azioni dagli uomini dell'ala destra o anche da uomini della sinistra che da quelli si differenziano soltanto per affermazioni verbali senza essere capaci di intendere la nuova tattica rivoluzionaria, non fece utile opera di preparazione rivoluzionaria, ed il suo massi­malismo condusse soltanto a quella serie d'insuccessi e di delu­sioni ben noti a tutti i lavoratori, di cui la destra del partito, infischiandosi dell'impegno assunto di essere disciplinata a quel­l'indirizzo che la maggioranza aveva stabilito, si servì per deri­dere audacemente il metodo massimalista.

Per evitare tutto ciò non vi sarebbe stato che un solo mezzo: eliminare dal partito i riformisti, basandosi sulla loro avversione di principio al programma comunista, per poterli scacciare dalle loro posizioni squalificandoli innanzi a tutto il proletariato ita­liano come avversari della rivoluzione e della III Internazionale, come equivalenti dei menscevichi russi e di altri controrivoluzio­nari esteri.

In questo modo la situazione italiana e l'andamento della lotta di classe tra noi vengono a confermare quelle esperienze internazionali, su cui si basano i comunisti per liberare il prole­tariato dai suoi falsi amici socialdemocratici.

Tutto ciò in Italia fu sostenuto dagli elementi di sinistra del partito, che andarono sempre meglio organizzandosi sul terreno del pensiero e del metodo comunista, ed intrapresero la lotta contro il pericoloso andazzo preso dal partito.

Lo stesso giudizio intorno alla situazione italiana fu espresso dal congresso di Mosca e sancito nelle sue deliberazioni, richie­dendosi in esse che il partito italiano si liberasse dai riformisti, e divenisse come nel programma così nella tattica, nell'azione e nd nome un vero partito comunista. Intanto i riformisti italiani, sempre più imbaldanziti dagli insuccessi  del massimalismo  che aveva apparentemente trionfato a Bologna, si erano organizzati in frazione « di concentrazione socialista » col loro convegno di Reggio Emilia dell'ottobre  1920.

Tutti i comunisti italiani che, al di sopra di singoli apprez­zamenti tattici, accettavano la disciplina internazionale alle deli­berazioni di Mosca, si costituirono in frazione, e nel convegno di Imola del 28-29 novembre 1920 decisero di proporre al con­gresso del partito una mozione, che oltre al comprendere l'appli­cazione di tutte le altre decisioni del congresso di Mosca, stabi­liva che il partito si chiamasse comunista e che tutta la frazione di « concentrazione » dovesse esserne esclusa.

L'organo supremo dell'Internazionale comunista, ossia il Co­mitato esecutivo di Mosca, approvò ed appoggiò tale proposta.

Intanto nelle file del partito, da parte di coloro che tanto facilmente si erano proclamati massimalisti e avevano inneggiato a Mosca quando si trattava di andare ai trionfi elettorali, si orga­nizzò una corrente unitaria, venendo così a costituire una fra­zione di centro che si opponeva alla divisione tra comunisti e riformisti.

I capi di questa tendenza si dicevano comunisti, ma oggi che essi hanno dimostrato coi fatti di tenere più ai riformisti e ai controrivoluzionari, come Turati e D'Aragona, che ai comunisti e alla Terza Internazionale, riesce evidente che essi costituiscono la peggiore specie di opportunisti. Infatti costoro nel recente congresso di Livorno, capitanati da G. M. Serrati, hanno respinto le precise disposizioni del congresso mondiale dell'Internazionale comunista, trascinando la maggioranza del congresso a decidere che i riformisti restassero nel partito, tutti senz'alcuna eccezione.

Tale atto inqualificabile — voluto da pochi capi che hanno saputo speculare sull'inesperienza dei gregari — ha preparato questa logica conseguenza: l'espulsione del Partito socialista ita­liano dall'Internazionale comunista.

Dinanzi a tale situazione la frazione comunista ha senz'altro abbandonato il congresso ed il partito, ed ha deciso di costituirsi in Partito comunista d'Italia - Sezione dell'Internazionale comu­nista.

B) Programma *

* Ivi, pp. 20-21. Il Programma adottato a Livorno era lo stesso già unito alla mozione precongressuale di Imola (novembre 1920). Fu pubbli­cato ne « Il Comunista », 31 gennaio 1921.

Il Partito comunista d'Italia (Sezione dell'Internazionale co­munista) è costituito sulla base dei seguenti princìpi.

1. Nell'attuale regime sociale capitalistico si sviluppa un sem­pre crescente contrasto tra le forze produttive ed i rapporti di produzione, dando origine all'antitesi ed alla lotta di classe tra il proletariato e la borghesia dominante.

2. Gli attuali rapporti di produzione sono protetti dal potere dello Stato borghese, che, fondato sul sistema rappresentativo della democrazia, costituisce l'organo per la difesa degli interessi della classe capitalistica.

3. Il proletariato non può infrangere né modificare il sistema dei rapporti capitalistici di produzione, da cui deriva il suo sfrut­tamento, senza l'abbattimento violento del potere borghese.

4. L'organo indispensabile della lotta rivoluzionaria è il par­tito politico di classe. Il Partito comunista, riunendo in sé la parte più avanzata e cosciente del proletariato, unifica gli sforzi delle masse lavoratrici, volgendoli dalle lotte per gli interessi di gruppi e per risultati contingenti alla lotta per la emancipazione rivoluzionaria del proletariato; esso ha il compito di diffondere nelle masse la coscienza rivoluzionaria, di organizzare i mezzi materiali d'azione e di dirigere nello svolgimento della lotta il proletariato.

5. La guerra mondiale, causata dalle intime insanabili con­traddizioni del sistema capitalistico, le quali produssero l'impe­rialismo moderno, ha aperto la crisi di disgregazione del capita­lismo, in cui la lotta di classe non può che risolversi in conflitto armato tra le masse lavoratrici ed il potere degli Stati borghesi.

6. Dopo l'abbattimento del potere borghese, il proletariato non può organizzarsi in classe dominante che con la distruzione dell'apparato statale borghese e con la instaurazione dello Stato basato sulla sola classe produttiva ed escludendo da ogni diritto politico la classe borghese.

7. La forma di rappresentanza politica nello Stato proletario è il sistema dei Consigli dei lavoratori (operai e contadini), già in atto nella rivoluzione russa, inizio della rivoluzione proletaria mondiale e prima stabile realizzazione della dittatura proletaria.

8. La necessaria difesa dello Stato proletario, contro tutti i tentativi contro-rivoluzionari, può essere assicurata solo col to­gliere alla borghesia ed ai partiti avversi alla dittatura proletaria ogni mezzo di agitazione e di propaganda politica, e con l'orga­nizzazione armata del proletariato per respingere gli attacchi interni ed esterni.

9.    Solo lo Stato proletario potrà sistematicamente attuare
tutte quelle successive misure d'intervento nei rapporti dell'eco­
nomia sociale con le quali si effettuerà la sostituzione del sistema
capitalistico con la gestione collettiva della produzione e della
distribuzione.

10.    Per effetto di questa trasformazione economica e delle
conseguenti trasformazioni di tutte le attività della vita sociale,
eliminandosi la divisione della società in classi, andrà anche eli­
minandosi la necessità dello Stato politico, il cui ingranaggio si
ridurrà progressivamente a quello della razionale amministrazione
delle attività umane.

Dalle «Tesi di Roma»: il partito comunista italiano e il momento attuale *

* Da Tesi del 2° congresso del PCI (Tesi di Roma), Les Arts Gra-phiques, Bruxelles [1928], pp. 33-39. Il II congresso del pcd'i si tenne a Roma dal 20 al 24 marzo 1922. Sui punti 51 e 52 delle Tesi sulla tattica, qui riportati con l'intero cap. finale, cfr. anche quanto ne dice Gramsci nel testo più sotto riportato, p. 357.

48. — La fase, e quindi il problema, della formazione del par­tito è ormai completamente superata in Italia. Col Congresso socialista di Milano, fino al quale non era stata ancora definiti­vamente scartata la possibilità di una modificazione sostanziale della base di costituzione del Partito comunista italiano colla fusione di una frazione di sinistra del Partito socialista, che vi avrebbe acquistato l'importanza di elemento essenziale ed inte­gratore, col Congresso di Milano e colle sue decisioni questa possibilità è  venuta  completamente  a mancare ed  appare  evidente che  solamente  la frazione  estrema  staccatasi  a  Livorno poteva costituirne  il nucleo creatore.  Ed egualmente  è  ormai chiaro che lo sviluppo progressivo normale del partito procederà per l'avvenire non già per l'avvicinarsi di gruppi organizzati stac-cantisi da altre formazioni politiche, ma solamente per l'adesione individuale di singole persone che entrando nelle sue file preor­dinate a riceverle, non vi apporteranno disordine e mutamenti ma forza più grande di numero e conseguentemente di azione. 49. — Il Partito perciò, libero delle sue cure inerenti ad ogni periodo di incominciamento deve dedicarsi completamente al suo lavoro di penetrazione  sempre più ampia tra le masse costituendo e moltiplicando gli organi di collegamento tra esse e se stesso. Nessun campo dell'attività proletaria deve restare ignorato ai  comunisti:   i Sindacati,  le  Cooperative,  le Mutue, devono essere penetrate sempre più profondamente colla costi­tuzione dei Gruppi comunisti col loro collegamento, e conqui­state alle direttive del Partito; mentre i varii Comitati di assi­stenza, prò vittime politiche, prò Russia, ecc., devono avere la rappresentanza dei comunisti  e  devono godere della loro  col­laborazione.  Questo però  soltanto perché il Partito non deve disinteressarsi di nessuno strumento che lo ponga maggiormente a contatto col proletariato, deve porre cura alla soddisfazione delle necessità contingenti di questo, non mai per costituire rap­porti durevoli con altri partiti politici, sia pure sovversivi.

50. — Nei confronti di questi la polemica tendente a chia­rificare di fronte ai lavoratori il loro atteggiamento ed a spezzare l'equivoco delle loro dichiarazioni programmatiche, deve conti­nuare instancabile. Socialisti e libertari perseguono oggi in Italia in due diverse forme l'indebolimento della classe proletaria:  gli uni colla loro tattica di remissione e di disarmo verso l'attacco del capitalismo, gli altri con la loro lotta contro la Repubblica dei Soviet ed il  principio della  dittatura  del  proletariato  cui contrappongono la vuota e teorica apoteosi di una libertà astratta. L'attuale situazione italiana caratteristica dell'offensiva sem­pre più vasta e completa della borghesia, porge ogni giorno mille dolorosi documenti alla nostra polemica contro gli anarchici e contro i socialdemocratici che danno prova evidente della loro incomprensione del momento il quale, anziché costituire qualche cosa di eccezionale e di transitorio, è in realtà uno stadio na­turale e prevedibile dello sviluppo del regime capitalistico, una manifestazione specifica della funzione e degli scopi dello Stato democratico.

51. — Si può  oggi constatare in  Italia  una  caratteristica involuzione  dello  Stato in ordine  al  modo  del  suo  funziona­mento;  il periodo costitutivo dello Stato borghese che ha se­gnato   un   progressivo   accentramento   di   tutte   le   funzioni   di governo nell'organizzazione di un'autorità centrale, trova il suo riscontro e la sua negazione nell'attuale periodo in cui l'unità salda di tutti i poteri, già sottratti all'arbitrio dei singoli, si smi­nuzza e si sparpaglia;  i poteri statali ritornano ad essere eser­citati individualmente da ogni singolo, e non sarebbe neppure più necessario che lo Stato ponesse esplicitamente, come pure fa,  a  disposizione della  conservazione  borghese  i   suoi  organi dall'esercito alla magistratura, dal Parlamento ai funzionari del Potere esecutivo, poiché ciascuno di essi, nella persona dei suoi addetti, usa delle proprie attribuzioni allo stesso scopo in ma­niera  autonoma ed incontrollabile.

Per impedire poi che [in] un improvviso arresto di questa crisi di dissoluzione lo Stato possa riprendere un qualsiasi con­trollo sull'attività dei singoli, la classe borghese procede affretta­tamente alla costituzione di organi suppletivi che, in perfetto ac­cordo con gli organi statutari quando questi funzionano secondo i desideri espliciti della conservazione, si contrappongono loro invece e vi si sostituiscono quando essi si dimostrano restii alla più supina acquiescenza. (Comitati civili, Comitati di difesa, ecc. ).

Invocare come fanno i socialdemocratici il ritorno all'auto­rità dello Stato ed al rispetto della legge indica che essi, pure affermando che lo Stato democratico parlamentare è uno Stato di classe, non giungono a compredere che appunto per ciò esso assolve oggi al suo compito essenziale, violando le leggi scritte che furono necessarie al suo progressivo consolidarsi ma che danneggerebbero da oggi la sua conservazione.

52. — La presente situazione italiana racchiude in sé sin­teticamente tutti gli elementi costitutivi del colpo di Stato pure non essendosi verificato il fatto esteriore e probante del gesto militarista. Il progressivo verificarsi di episodi di violenza an­nullanti l'uno dopo l'altro le normali condizioni di vita sociale per tutta una classe di cittadini, il sovrapporsi alle disposizioni della legge scritta della volontà mutevole di gruppi e di singoli, la immunità assicurata a questi, e la persecuzione stabilita per i loro avversari, tutto ciò è giunto agli stessi risultati cui sarebbe pervenuto un atto unico più grandioso e più violento che avesse posto  in  moto contemporaneamente  forze  più  numerose.

La classe borghese ha perfetta coscienza di questa condizione di cose, ma il suo interesse richiede che l'apparenza . esteriore di una democrazia formale non venga distrutta; e che l'economia generale non venga più profondamente turbata da un mutamento violento che in definitiva non porgerebbe al suo privilegio una tutela maggiore di quella di cui oggi fruisce. È probabile quindi che essa, divisa sulla valutazione della sua necessità ed ancora sufficientemente potente per stroncarlo, si opporrebbe ad un tentativo militarista perturbatore e motivato quasi solo da am­bizioni personali. Nessuna nuova forma di governo potrebbe avere più della presente lo sprezzo per la libertà, per i diritti acquisiti e sanciti, per la vita degli operai; soltanto in un ulte­riore perfezionamento dello Stato democratico, più capace a coprire la reale sostanza del regime dittatoriale della borghesia, questa può porre la sua mèta. Ciò si otterrà con la formazione di un governo socialdemocratico.

53. — La situazione attuale italiana genera e matura appunto questo ulteriore stadio del martirio del proletariato. Da due parti si lavora a questo risultato: una forte corrente del Partito so­cialista ed i partiti di sinistra della borghesia saggiano il terreno per trovare il punto favorevole al loro incontro ed alla loro al­leanza. Gli uni e gli altri motivano in realtà la loro azione sola­mente con la necessità di trovare e costruire una difesa alla vio­lenza fascista distruggitrice, e su questo terreno chiedono l'ac­cordo di tutti i partiti sovversivi e pretendono che si ponga termine alle polemiche ed ai reciproci attacchi.

Se un governo socialdemocratico avrà la forza di combattere e sconfiggere il fascismo, del che siamo fortemente dubbiosi e per le nostre convinzioni teoriche e per gli esempi della storia più recente e fosse quindi necessario preparare un terreno fa­vorevole alla sua formazione questo sarà tanto più facilmente e rapidamente costituito quanto più i comunisti proseguiranno la loro attuale recisa ed instancabile polemica contro il partito socialista. L'attacco comunista valorizza il partito socialista di fronte alla borghesia come bersaglio della violenza rivoluzionaria e come remora ed ostacolo allo sfrenarsi della lotta di classe, e rende così più probabile il loro accordo e la loro alleanza. Non bisogna infatti dimenticare che si incominciò ad affacciare come realizzabile in Italia la collaborazione socialista per parte dei gruppi di sinistra della borghesia da quando, colla scissione di Livorno, il Partito socialista venne liberato da ogni corrente comunista. Un acquietarsi della lotta tra comunisti e socialisti riporrebbe questi ultimi nella apparente e falsa posizione di favorevoli alla dottrina ed alla pratica della Terza Internazionale impedendo il rafforzarsi di quella fiducia che è il presupposto per la creazione del blocco socialdemocratico.

Perciò l'intransigenza più assoluta verso i partiti sovversivi è da praticarsi sul campo della lotta politica, sia pure nella pre­visione, per noi fallace, che un mutamento di uomini nello Stato formalmente immutato, sia possibile in un senso favorevole al proletariato.

54. — In quanto al fascismo, il pci, pure reputandolo una conseguenza ineluttabile dello sviluppo del regime, non ne trae la conseguenza che di fronte ad esso sia da assumersi un atteg­giamento di inerte passività. Combattere il fascismo non significa credere di poter annullare una funzione della società borghese, pure non troncando la esistenza di questa, e neppure illudersi che il fascismo possa essere vinto di per sé, come episodio stac­cato ed isolato della complessa azione di offesa del capitalismo; ma tende invece a rendere meno gravi e dolorosi i danni che la violenza nemica infligge in questo lo spirito combattivo e d'insofferenza [sic].

55. — Il pci non escludendo, anzi tenendo presente la possibilità che dalla situazione instabile possa sorgere la occa­sione di una azione violenta di una parte della borghesia ed approntando quindi un minimum di mezzi necessari ad affron­tarla e superarla, si pone di fronte al problema dell'azione di­retta in un atteggiamento di preparazione.

La crisi mondiale dell'economia capitalistica ha influito sini­stramente sullo slancio del proletariato il quale ne ha viste spezzate le sue organizzazioni più salde che non l'avevano pre­vista e non si erano quindi preparate a sormontarla vittoriosa­mente. Il Partito crede che occorre oggi ricostruire questa sal­dezza passata, guidato dalla persuasione che, in una situazione analoga a quella trascorsa, un proletariato saldamente inquadrato e guidato da un partito rivoluzionario, potrebbe validamente passare all'attacco. Costituire quindi questo partito e allargare la sua influenza sulle masse; dare ai propri aderenti coesione, disciplina e preparazione; attrarre dietro a sé strati sempre più ampi della classe lavoratrice: ecco i compiti essenziali dei comunisti italiani che li assolveranno avendo per norma le tesi che sulle varie quistioni (sindacale, agricola, ecc.) verranno approvate e discusse dal presente Congresso.

Le divergenze tra il partito e l'Internazionale comunista *

* Dal «manifesto» di A. Bordiga ai compagni del PCd'I (firmato « Gli iniziatori »), in Nuova documentazione sulla « svolta » nella direzione del Partito Comunista d'Italia nel 1923-24, in « Rivista storica del socialismo », VII, n° 23, settembre-dicembre 1964, pp. 515, 517-20. È la prima stesura fatta in carcere da Bordiga, proveniente dalle carte sequestrate il 21 set­tembre 1923 a Togliatti, e da questi menzionata in una lettera a Gramsci del 1° maggio dello stesso anno.

A tutti i compagni del Partito Comunista d'Italia.

Riteniamo di compiere con piena coscienza e dopo matura deliberazione il nostro dovere di comunisti rivolgendo ai com­pagni il presente appello. Il partito attraversa una crisi di tale natura che solo con la partecipazione di tutte le masse dei suoi aderenti può essere risolta.

Non alludiamo alla crisi di efficienza ed organizzativa che consegue inevitabilmente dalla vittoria delle forze antiproletarie in Italia, crisi che merita anche tutta l'attenzione, ma che po­trebbe essere fronteggiata, se altro non vi fosse, con opportune misure dagli organi direttivi fedelmente eseguite.

Si tratta di un'altra crisi, che purtroppo aggrava le conse­guenze della prima: crisi interna, di direttive generali, che da singole questioni tattiche ormai si è allargata a tutta la impo­stazione di principio ed alla tradizione della politica di partito.

Questa crisi non ha avuto origine da dissensi interni, ma da divergenze tra il partito italiano e la Internazionale Comunista, nella sua attuale maggioranza e nella sua Centrale. Appunto per­ché la crisi ha preso tale carattere — d'assoluta anormalità — essa condurrebbe alla paralisi della vita del partito ed alla sterilità della sua azione se la questione non fosse posta innanzi al partito tutto, con una completa informazione dei compagni, una discussione a fondo, e la valutazione finale e definitiva di ciò che dev'essere la piattaforma di pensiero e d'azione del no­stro partito.

Questo documento si propone di iniziare un tal lavoro, mal­grado le difficoltà che derivano di non potere avere libere adu­nanze di partito ed una libera stampa.

Nella questione della tattica da applicare in Italia nel seno del movimento proletario, la divergenza tarda a definirsi. Seb­bene già al terzo Congresso la delegazione italiana fosse all'op­posizione in materia di tattica dell'Internazionale, pure l'opera concreta del_ partito fino a quella epoca ed oltre, venne appro­vata e lodata.

Più tardi dinanzi alla parola del « fronte unico » e del « go­verno operaio » — mentre il nostro partito precisava la sua linea nella norma di evitare che i mezzi tattici potessero venire in urto con le necessità della propaganda, non solo in teoria ma coi  fatti,  in  due  capisaldi fondamentali:   « solo  con  la  politica sostenuta dal Partito comunista e con la direzione di  questo il proletario può battere la borghesia », e « solo nella dittatura rivoluzionaria può costituirsi il potere proletario », ed agiva di conseguenza nel « fronte unico sindacale » e coll'aperta campagna contro ogni sfumatura di opportunismo — non si seppe  mai con precisione cosa invece volesse che si facesse l'Internazionale. Questa fece volta a volta critiche particolari, ma anche nel giugno 1922 non esigeva dal partito che di lanciare la parola del « governo operaio » ma dando di questa una definizione che lo rendeva « pseudonimo della dittatura proletaria » mentre in epoche ulteriori si disse poi che era una vera partecipazione par­lamentare e ministeriale. Nella questione sindacale e del fascismo neppure si chiarì mai che cosa l'Internazionale volesse modifi­care del metodo da noi seguito.

Ma la divergenza si è approfondita e allargata a un campo di importanza sostanziale, con la questione della fusione col partito massimalista.

Mentre noi vedevamo costituito storicamente « il ceppo » del partito nella base di Livorno, e sempre sostenemmo che l'af­fluire di altri elementi proletarii, scopo precipuo del partito, doveva farsi strappandoli al quadro di altri movimenti per inserrarli nel nostro, e fummo contro ogni idea di fusione in massa con altri partiti ed ogni lavoro di costruzione di frazioni nel seno di questi fra i simpatizzanti invece di farli venire nelle nostre file (fummo cioè contro il « noyautage »), è oggi chiaro che l'Internazionale consideri la soluzione di Livorno come tran­sitoria ed aspira alla adesione in massa di un'altra « fetta » del partito socialista. Secondo essa i massimalisti erano divisi da noi dal solo fatto che esitavano dal separarsi dai riformisti; se­condo noi il massimalismo è una forma di opportunismo tanto pericoloso quanto il riformismo, e nella sua tradizione, nel suo stato maggiore, non sarà mai rivoluzionario, ma eserciterà ancora il compito di sviare le masse col suo linguaggio ciarlatanesco che copre la più perniciosa coltivazione di uno stato d'impotenza e di inerzia.

L'Internazionale vedendo il proletariato italiano perdere ter­reno e per conseguenza restringersi i ranghi del nostro partito, credeva di poter spostare lo sviluppo della situazione e al tempo stesso avere un successo internazionale colla adesione dei mas­simalisti; noi volevamo apertamente denunziare questo come disfattismo [frase scorretta], rafforzare, pur nello indietreggiare inevitabile del proletariato militante, il predominio del partito comunista colla liquidazione degli altri partiti.

I fatti hanno dimostrato la refrattarietà dei massimalisti come organismo politico a porsi sul terreno rivoluzionario ed accettare lealmente di aderire alla Internazionale: si aveva l'opinione che Serrati [frase scorretta] e si è visto lo stesso Serrati liquidato dal partito, ossia alcune decine di capi che fanno tutto in nome dei lavoratori massimalisti, mentre questi possono essere solo guadagnati rompendo la rete in cui ora sono inquadrati. E si dice... che i comunisti hanno impedito la fusione!!!

Quali sono state le conseguenze di questa attitudine dell'In­ternazionale in Italia? L'azione tattica del partito nel fronte unico ne fu impacciata, fornendo agli altri partiti un diversivo alla situazione in cui li chiudeva la nostra tattica, nel proporre la coalizione « politica » per celare la loro ripugnanza all'azione secondo le proposte comuniste [sic]. I massimalisti poterono far fino all'ultimo il gioco dei riformisti nella Confederazione e nel­l'Alleanza del Lavoro, ingannando gli operai grazie anche al fatto che Mosca li invitava ad aderire, perpetuando così il vecchio e  fatale   equivoco.   Ricordiamo  solo  che  l'ultima   occasione  di eliminare i capi confederali e predisporre su ben diverse basi il movimento dell'agosto 1922, si ebbe al convegno confederale del luglio a Genova, ove i riformisti erano in minoranza, ed i mas­simalisti li fecero rimanere al loro posto, paghi delle loro affer­mazioni contro il collaborazionismo parlamentare che non è meno pernicioso delle loro formule nulliste: né azione proletaria, né collaborazione.

Evidentemente, oltre alla vecchia ripugnanza alla lotta, è in gioco il piano di Serrati e di altri di barattare a poco a poco la loro posizione ed influenza contro la riammissione nell'Interna­zionale.

Il formarsi della frazione terzinternazionalista, in cui quegli elementi che potevano venire a noi erano invitati a restare, ser­viva in fondo a perpetuare l'equivoco; ed in conclusione il par­tito  massimalista che  dopo  la  divisione  dai  riformisti  doveva sparire, pur beffandosi della  Internazionale e dei  suoi  ripetuti passi e non contraendo  alcun impegno,  sfruttava  la  situazione in un comodo opportunismo,  e  sfrutta  purtroppo la  tendenza degli operai alla inerzia in questo difficile momento, sottraendoli [sic] ancora in una certa misura alla sua bandiera di passiva e simulata fedeltà ad alcune frasi rivoluzionarie:   forza destinata, anche se la situazione cambiasse, ad esaurirsi nella peggiore im­potenza.

E la politica seguita dall'Internazionale, senza ottenere la fusione, ha impedito al partito comunista di utilizzare talune situazioni in cui i lavoratori tendevano ad accorrere ad esso, sia pure in senso « relativo » alla diminuzione di effettivi imposta da cause superiori.

Così è stato dopo lo sciopero di agosto, quando invece la In­ternazionale ha voluto vedere il fatto più notevole nella scissione socialista, e in certo senso anche dopo l'avvento fascista e la stessa reazione scatenatasi sul nostro partito.  Invece nel  seno di questo, sottoposto ad un regime permanentemente anormale di attesa e di profonda modificazione strutturale, si è formato e venuto accrescendo uno stato di malessere, che contrasta ogni probabilità, che forse non mancherebbe, di fortunata « ripresa ». E inoltre la divergenza con l'Internazionale ha prodotto il formarsi di una corrente, la cosiddetta « minoranza », che mentre si atteggia a comunista ortodossa, raccoglie in realtà gli elementi che sin dopo Livorno rimasero attaccati un poco ai vecchi metodi socialisti e mal sopportavano i suoi rudi sistemi di lavoro e di responsabilità: costoro hanno sostenuto le tesi dell'Inter­nazionale non con elevati e fondati argomenti ma col recalcitrare e talvolta col pettegolare in sordina.

Per tutto questo il partito soffre, ed un rimedio si impone.

Lo sbocco di questo indirizzo « fusionista » si delinea nella « liquidazione » del partito quale esso sorse a Livorno e com­batte per oltre due anni, non senza onore; e ciò vorrebbe dire ripiombare il proletariato italiano nella morta gora del « cen­trismo » massimalista vile e bagolone. Sicché neppure un'utile esperienza per il domani trarrebbe dal suo calvario la classe operaia italiana.

Può sembrare che prima un simile allarme dovesse essere lanciato. Ma come abbiamo detto, per la questione tattica, il dissenso, in pratica, fu per qualche tempo inafferrabile: essendo nel metodo dell'Internazionale di non dar che volta per volta le sue parole particolari, mentre noi le vorremmo tracciate e definite con più ampio respiro. Per la stessa fusione vi fu qualche cosa di analogo, a seconda di tutte le alternative che si ebbero nei successivi congressi socialisti: ad esempio dopo quello del '21 parve che non si pensasse più alla fusione; e perfino i rap­porti con la frazione terzinternazionalista furono, se non a no­stra insaputa, almeno non considerati ufficiali. È dalla fine del '22 che la divergenza si mostra in tutta la sua gravità, e solo i successivi avvenimenti hanno fatto sì che finora essa si trasci­nasse in modo poco noto al partito. Ed è negli ultimi tempi che si è dovuto perdere la speranza di una soluzione attraverso una vera e vasta discussione nel seno della Internazionale e non con palliativi escogitati in lunghe e penose trattative e con espedienti a carattere più che altro personale.

Il nuovo indirizzo del partito *

* Dalla lettera di A. Gramsci  [Masci]  a Togliatti  [Palmi], Terracini [Urbani] e C, datata « U.9. Vienna, 9 febbraio  1924, N.P. 90»;  ora in P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del partito comunista ita­liano nel 1923-1924, Editori Riuniti, Roma 1962, pp. 190-200.

Il manifesto della sinistra comunista. — Vengo ora alle que­stioni più strettamente nostre.  Il compagno Urbani scrive che io ho molto esagerato nel mio apprezzamento sul carattere del manifesto. Sostengo ancora che esso è* l'inizio di una battaglia a fondo contro l'Internazionale e che in esso si domanda una revisione di tutto lo sviluppo tattico avvenuto dopo il Terzo Congresso.

Tra i punti conclusivi del manifesto quello alla lettera b) dice che bisogna provocare negli organi competenti dell'Internazionale una discussione sulle condizioni della lotta proletaria in Italia negli ultimi anni, con ampia portata e al di fuori delle sistema­zioni contingenti e transitorie che spesso soffocano l'esame e-la soluzione dei più importanti problemi '. Cosa significa ciò se non che si domanda e si ritiene possibile una revisione non solo della tattica del Comintern in Italia dopo il Terzo Congresso, ma anche una discussione sui princìpi generali che sono alla base di questa tattica? Non è vero che dopo il Terzo Congresso, come si afferma nell'ultimo periodo del capitolo {La tattica comunista in Italia), l'Internazionale non abbia detto che cosa volesse fosse fatto in Italia. Nel numero 28 della rivista Internazionale co­munista è pubblicata una lettera aperta dell'Esecutivo interna­zionale al ce del PCI, lettera scritta verso la metà del marzo 1922, cioè dopo l'Es. allargato del febbraio. In essa tutta la concezione delle tesi sulla tattica presentate al Congresso di Roma, viene confutata e rigettata e si afferma che essa è in com­pleto disaccordo con le risoluzioni del Terzo Congresso. Nella lettera sono specialmente trattati questi punti: 1) il problema della conquista della maggioranza, 2) le situazioni in cui la bat­taglia diviene necessaria e le possibilità di lotta, 3) il fronte unico, 4) la parola d'ordine del governo operaio.

Nel terzo punto si fissa la questione del fronte unico nel campo sindacale e nel campo politico. Cioè si dice esplicitamente che il partito deve entrare a far parte di comitati misti per la lotta e l'agitazione. Nel punto quarto si cerca di tracciare una linea tattica immediata per la lotta italiana, che deve condurre al governo operaio. La lettera finisce con questa frase: è prefe­ribile che il partito si accontenti delle tesi elaborate dal Terzo Congresso e dall'Es. A. di febbraio e che rinunzi a delle tesi proprie piuttosto che presentare le tesi in questione, che costrin­gerebbero l'Esecutivo a combattere apertamente e nel modo più energico le concezioni del ce italiano. Io non so se dopo questa lettera dell'Es., che ha un valore e un significato ben preciso, si possa domandare, come è detto nel manifesto, che si rifaccia tutta la discussione al disopra dei fatti contingenti. Ciò signifi­cherebbe dire apertamente che il partito italiano, dopo il Terzo Congresso, si è sistematicamente e permanentemente trovato in disaccordo con l'indirizzo del Comintern, e che vuole iniziare una lotta di principio.

La tradizione del partito. — Nego recisamente che la tradi­zione del partito sia quella che si riflette nel manifesto. Si tratta della tradizione, cioè della concezione di uno dei gruppi che hanno inizialmente costituito il nostro partito e non già di una tradizione di partito. Allo stesso modo nego che esista una crisi di fiducia tra l'Internazionale e il partito nel suo complesso. Questa crisi esiste solo tra l'Internazionale e una parte dei diri­genti del partito. Il partito si è formato a Livorno non sulla base di una concezione che poi abbia continuato a persistere e a svi­lupparsi, ma su una base concreta e immediata: il distacco dai riformisti e da coloro che si mettevano dalla parte dei riformisti contro l'Internazionale. La base più larga, quella che ha portato al comitato provvisorio di Imola le simpatie di una parte del proletariato, era la fedeltà all'Internazionale comunista. Si può perciò affermare tutto il contrario di quanto il manifesto sostiene. I suoi firmatari potranno essi, ed a ragione, essere accusati di non aver saputo interpretare e di essere usciti fuori dalla tradi­zione del partito. Ma questa questione è puramente verbale e bizantina. Si tratta di un fatto politico: Amadeo, trovatosi alla dirigenza del partito, ha voluto che la sua concezione predomi­nasse e diventasse quella del partito. Oggi ancora, col manifesto, egli vorrebbe ciò. Che noi si sia permesso che per il passato questo tentativo riuscisse è una questione; che oggi si continui a volerlo e, firmando il manifesto, si sanzioni tutta una situazione e si incapsuli il partito è un'altra. In verità non abbiamo mai, in senso assoluto, lasciato che questa situazione si consolidasse. Io, almeno prima del Congresso di Roma, nel discorso fatto all'as­semblea di Torino, avevo detto abbastanza chiaramente che accettavo le tesi sulla tattica solo per una ragione contingente di  organizzazione del partito,  ma mi dichiaravo favorevole  al fronte unico fino alla sua conclusione normale del governo ope­raio. Del resto tutto il complesso delle tesi non era stato mai discusso a fondo dal partito e, al Congresso di Roma, la que­stione fu abbastanza chiara; se l'Esecutivo non avesse conchiuso con i delegati del Comintern un compromesso per il quale le tesi erano presentate solo a titolo consultivo e sarebbero state mutate dopo il Quarto Congresso, non è molto probabile che la maggioranza dei delegati sarebbe stata con l'Esecutivo. Essa, di­nanzi ad un ultimatum del Comintern, non avrebbe esitato e avrebbe seguito la sua tradizione di fedeltà internazionale. Certo io avrei fatto cosi e con me le delegazioni piemontesi con le quali io avevo avuto una riunione dopo il discorso di Kolarov e con le quali mi ero trovato d'accordo su questi punti:  impedire alla minoranza di conquistare per sorpresa il partito, ma non dare al voto un significato che andasse al di là della questione organiz­zativa.

La concezione del manifesto.  — A parte  queste  questioni più o meno giuridiche,  ritengo che sia giunto il momento di dare al partito un indirizzo diverso da quello che esso ha avuto fino ad ora.  Incomincia una nuova fase nella storia non solo del nostro partito, ma anche del nostro paese. Bisogna quindi che si entri in una fase di maggiore chiarezza nei rapporti interni di partito e nei rapporti tra il partito e l'Internazionale. Non voglio dilungarmi  troppo,  tratterò solo  alcuni punti nella spe­ranza che essi riescano ad illuminare anche le questioni lasciate in disparte.

Uno dei più gravi errori che hanno caratterizzato e ancora caratterizzano l'attività del nostro partito può essere riassunto con le stesse parole con cui si esprime la seconda delle tesi sulla tattica: « Questi due fattori di coscienza e di volontà sarebbe erroneo considerarli come facoltà che si possano ottenere e si debbano pretendere dai singoli, poiché si realizzano solo per la integrazione dell'attività di molti individui in un organismo col­lettivo unitario ».

Questo concetto, giusto se riferentesi alla classe operaia, è sbagliato ed estremamente pericoloso se riferito al partito. Prima di Livorno esso era il concetto di Serrati, il quale sosteneva che il partito nel suo complesso era rivoluzionario anche se in esso coabitavano socialisti di diverso pelo e colore. Nel congresso di scissione della socialdemocrazia russa questo concetto era sostenuto dai menscevichi, i quali dicevano che il partito nel suo complesso conta e non i singoli individui. Per questi, basta che essi dichiarino di essere socialisti. Nel nostro partito questa con­cezione  ha solo parzialmente determinato  il pericolo  opportu­nista. Non si può negare infatti che la minoranza sia nata e abbia fatto proseliti per l'assenza di discussioni e di polemiche nel­l'interno del partito, cioè per non aver dato importanza ai singoli compagni e non aver cercato di indirizzarli un po' più concre­tamente di quanto non possa avvenire coi comunicati e le di­sposizioni tassative. Nel nostro partito si è avuto a lamentare un  altro  aspetto del pericolo:   l'isterilirsi  di ogni  attività  dei singoli, la passività della massa del partito, la ebete sicurezza che tanto c'era chi a tutto pensava e a tutto provvedeva. Questa situazione ha avuto gravissime ripercussioni nel campo organiz­zativo. Mancò al partito la possibilità di scegliere, con criteri razionali, gli elementi di fiducia ai quali assegnare determinati lavori. La scelta fu fatta empiricamente,  secondo le conoscenze personali dei singoli dirigenti, e cadde il più delle volte su ele­menti che non godevano la fiducia delle organizzazioni locali e quindi si vedevano sabotare. E si aggiunga che il lavoro svolto non veniva controllato che in minima parte, e quindi nel partito si produsse un vero e proprio distacco tra la massa e i dirigenti. Questa situazione permane ancora e mi pare piena di innume­revoli pericoli. Nella mia permanenza a Mosca non ho trovato uno solo degli emigrati politici, ed essi venivano dai punti più diversi d'Italia e sono tra gli elementi più attivi, che compren­desse la posizione del nostro partito e che non criticasse acer­bamente il ce pur facendo si capisce le premesse più ampie di disciplina e di obbedienza. L'errore del partito è stato quello di aver messo al primo piano e in modo astratto il problema della organizzazione del  partito,  che poi ha voluto dire  sola­mente creare un apparecchio di funzionari i quali fossero orto­dossi verso la concezione ufficiale. Si credeva e si crede tuttora che la rivoluzione dipende solo dall'esistenza di un tale appa­recchio e si arriva fino a credere che una tale esistenza possa determinare la rivoluzione.

Il partito ha mancato di una attività organica di agitazione e propaganda, che invece avrebbe dovuto avere tutte le nostre cure e dar luogo al formarsi di veri e propri specialisti in que­sto campo. Non si è cercato di suscitare fra le masse, in ogni  occasione, la possibilità di esprimersi nello stesso senso del par­tito comunista. Ogni avvenimento, ogni ricorrenza di carattere locale o nazionale o mondiale avrebbe dovuto servire per agitare le masse attraverso le cellule comuniste, facendo votare mozioni, diffondendo manifestini. Ciò non è stato casuale. Il partito co­munista è stato perfino contrario alla formazione delle cellule di fabbrica. Ogni partecipazione delle masse alla attività e alla vita interna del partito, che non fosse quella delle grandi occa­sioni e in seguito a un ordine formale del centro, era vista come un pericolo per la unità e per l'accentramento. Non si è conce­pito il partito come il risultato di un processo dialettico in cui convergono il movimento spontaneo delle masse rivoluzionarie e la volontà organizzativa e direttiva del centro, ma solo come un qualche cosa di campato in aria, che si sviluppa in sé e per sé e che le masse raggiungeranno quando la situazione sia pro­pizia e la cresta dell'ondata rivoluzionaria giunga fino alla sua altezza, oppure quando il centro del partito ritenga di dover iniziare una offensiva e si abbassi alla massa per stimolarla e por­tarla all'azione. Naturalmente, poiché le cose non procedono in questo modo, si sono formati all'insaputa del centro dei posti di infezione opportunistica. E questi avevano il loro riflesso nel gruppo parlamentare e poi lo ebbero, in una forma più orga­nica, nella minoranza.

Questa concezione ha influito nella questione della fusione. La domanda che sempre veniva rivolta al Comintern era questa: si crede che il nostro partito sia ancora allo stato di nebulosa, oppure che esso sia una formazione compiuta? La verità è che storicamente un partito non è mai definito e non lo sarà mai. Poiché esso si definirà quando sarà diventato tutta la popola­zione e cioè sarà sparito. Fino alla sua sparizione per aver rag­giunto i fini massimi del comunismo esso attraverserà tutta una serie di fasi transitorie e assorbirà volta per volta elementi nuovi nelle due forme storicamente possibili: per adesione individuale o per l'adesione di gruppi più o meno grandi. La situazione era resa ancor più difficile per il nostro partito, date le dissenzioni con il Comintern. Se l'Internazionale è un partito mondiale, anche inteso ciò con molti grani di sale, è evidente che lo svi­luppo del partito e le forme che esso può assumere dipendono da due fattori e non solamente da uno.

Non solo cioè dall'Esecutivo nazionale, ma anche e specialmente dall'Esecutivo internazionale, che è il più forte. Per sa­nare la situazione, per ottenere di imprimere allo sviluppo del nostro partito l'impulso che Amadeo vuole è necessario conqui­stare l'Esecutivo internazionale, cioè diventare il perno di tutta un'opposizione. Politicamente si arriva a questo risultato ed è naturale che l'Esecutivo internazionale cerchi di spezzare le reni all'Esecutivo italiano.

Amadeo ha tutta una concezione a questo proposito e nel suo sistema tutto è logicamente coerente e conseguente. Egli pensa che la tattica dell'Internazionale risenta i riflessi della situazione russa, sia cioè nata sul terreno di una civiltà capita­listica arretrata e primitiva. Per lui questa tattica è estremamente volontaristica e teatrale, perché solo con un estremo sforzo di volontà si poteva ottenere dalle masse russe un'attività rivo­luzionaria che non era determinata dalla situazione storica. Egli pensa che per i paesi più sviluppati dell'Europa centrale ed occidentale questa tattica sia inadeguata o addirittura inutile. In questi paesi il meccanismo storico funziona secondo tutti i crismi marxistici: c'è la determinazione che mancava in Russia, e perciò il compito assorbente deve essere quello di organizzare il partito in sé e per sé. Io credo che la situazione sia molto diversa. In primo luogo perché la concezione politica dei comu­nisti russi si è formata su un terreno internazionale e non su quello nazionale; in secondo luogo perché nell'Europa centrale ed occidentale lo sviluppo del capitalismo ha determinato non solo la formazione di larghi strati proletari, ma anche e perciò creato lo strato superiore, l'aristocrazia operaia con i suoi annessi di burocrazia sindacale e di gruppi socialdemocratici. La determi­nazione, che in Russia era diretta e lanciava le masse nelle strade all'assalto rivoluzionario, nell'Europa centrale ed occidentale si complica per tutte queste superstrutture politiche, create dal più grande sviluppo del capitalismo, rende più lenta e più pru­dente l'azione della massa e domanda quindi al partito rivolu­zionario tutta una strategia e una tattica ben più complessa e di lunga lena di quelle che furono necessarie ai bolscevichi nel periodo tra il marzo ed il novembre 1917. Ma che Amadeo abbia questa sua concezione e che cerchi di farla trionfare non solo su scala nazionale, ma anche su scala internazionale, è una cosa: €gli è convinto e lotta con molta abilità e con molta elasticità Per ottenere il suo scopo, per non compromettere le sue tesi, per dilazionare una sanzione del Comintern che gli impedisca di continuare fino alla saldatura col periodo storico in cui la rivoluzione nell'Europa occidentale e centrale abbia tolto alla Russia il carattere di egemonia che oggi essa ha. Ma che noi, che non siamo persuasi della storicità di questa concezione, con­tinuiamo politicamente ad affiancarla e a darle quindi tutto il suo valore internazionale è un'altra cosa. Amadeo si pone dal punto di vista di una minoranza internazionale. Noi dobbiamo porci dal punto di vista di una maggioranza nazionale. Non pos­siamo perciò volere che il governo del partito sia dato a rappre­sentanti della minoranza perché questi sono d'accordo con l'In­ternazionale, anche se dopo la discussione aperta del manifesto la maggioranza del partito rimane con gli attuali dirigenti. È questo secondo me il punto centrale, che deve politicamente determinare il nostro atteggiamento. Se poi fossimo d'accordo con le tesi di Amadeo, naturalmente dovremmo porci il problema se avendo con noi la maggioranza del partito convenga rimanere nell'Internazionale, diretti nazionalmente dalla minoranza per dar tempo al tempo e giungere fino a un capovolgimento della situazione che ci dia ragione teoricamente, o se convenga rom­perla. Ma se non siamo d'accordo con le tesi, firmare il mani­festo significa assumersi tutta la responsabilità di questo equi­voco. Se si ottiene la maggioranza sulle tesi di Amadeo accet­tare la direzione della minoranza noi che non siamo d'accordo con queste tesi e che potremmo quindi risolvere la situazione organicamente, oppure rimanere in minoranza, quando per le nostre concezioni siamo d'accordo con la maggioranza, che si schiererebbe intorno all'Internazionale. Ciò significherebbe la nostra liquidazione politica e il distacco da Amadeo in seguito a un tale stato di cose assumerebbe l'aspetto più antipatico e odioso.

Indicazioni per il lavoro avvenire. — Non voglio dilungarmi molto in questa parte perché essa domanderebbe molto spazio per essere trattata adeguatamente.

Mi accontenterò di alcune indicazioni. Il lavoro futuro del partito dovrà essere rinnovato nei due punti, organizzativo e politico.

Nel campo organizzativo penso che sia necessario valorizzare il ce e farlo lavorare di più, per quanto è possibile data la si­tuazione. Penso che sia necessario stabilire meglio i rapporti che devono intercorrere tra i vari organismi di partito, stabilendo più esattamente e rigorosamente la divisione del lavoro e la fis­sazione delle responsabilità. Due organi e due attività nuove devono essere create: una commissione di controllo costituita prevalentemente di vecchi operai che deve giudicare in ultima istanza le questioni litigiose che non abbiano una immediata ripercussione politica, per le quali non sia quindi necessario l'immediato intervento dell'Esecutivo. E deve esaminare conti­nuamente la situazione dei membri del partito per le revisioni periodiche; un comitato di agitazione e propaganda che deve raccogliere tutto il materiale locale e nazionale necessario e utile per il lavoro di agitazione e di propaganda del partito. Esso deve studiare le situazioni locali, proporre agitazioni, compilare manifestini e tesine per Indirizzare il lavoro degli organismi lo­cali; esso deve poggiare su tutta una organizzazione nazionale, il cui nucleo costitutivo sarà il rione per i grandi centri urbani e il mandamento per le campagne; esso deve cominciare il suo lavoro da un censimento dei soci del partito i quali devono essere divisi ai fini della organizzazione a seconda della anzianità e delle cariche che hanno coperto, della capacità che hanno dimostrato oltre evidentemente alle doti morali e politiche.

Dovrà essere stabilita una precisa divisione del lavoro tra l'Esecutivo e l'ui. Stabilite precise responsabilità e competenze che non possano essere violate senza gravi sanzioni disciplinari. Io penso che questo sia uno dei lati più deboli del nostro par­tito e quello che più ha dimostrato come il centralismo instaurato fosse più una formalità burocratica e una banale confusione delle responsabilità e delle competenze che un rigoroso sistema or­ganizzativo.

Nel campo politico occorre stabilire con esattezza delle tesi sulla situazione italiana e sulle possibili fasi del suo sviluppo ulteriore. Nel 1921-22 il partito aveva questa concezione uffi­ciale: che fosse impossibile l'avvento di una dittatura fascista o militare; a gran stento io riuscii a far togliere dalle tesi che questa concezione avesse a diventar scritta, facendo modificare fondamentalmente le tesi 51 e 52 sulla tattica2. Ora mi pare che si cada in un altro errore strettamente legato a quello d'allora. Allora non si valutava l'opposizione sorda e latente della borghesia industriale contro il fascismo e non si pensava che fosse possibile il governo socialdemocratico, ma solo una di queste tre soluzioni: dittatura del proletariato (soluzione meno proba­bile), dittatura dello stato maggiore per conto della borghesia industriale e della corte, dittatura del fascismo; questa concezione ha legato la nostra azione politica e ci ha condotto a molti errori. Ora nuovamente non si tiene conto della emergente opposizione della borghesia industriale e specialmente di quella che si delinea nel Mezzogiorno con carattere più recisamente territoriale e quindi affacciando alcuni aspetti della questione nazionale. È un po' opinione che una ripresa proletaria possa e debba avve­nire solo a beneficio del nostro partito. Io credo invece che ad una ripresa il nostro partito sarà ancora di minoranza, che la maggioranza della classe operaia andrà con i riformisti e che i borghesi democratici liberali avranno ancora da dire molte pa­role. Che la situazione sia attivamente rivoluzionaria non dubito e che quindi entro un determinato spazio di tempo il nostro partito avrà con sé la maggioranza; ma se questo periodo forse non sarà lungo cronologicamente esso sarà indubbiamente denso di fasi suppletive, che dovremo prevedere con una certa esat­tezza per poter manovrare e non cadere in errori che prolun­gherebbero le esperienze del proletariato.