Cap X

Marxisti occidentali

Labriola Antonio (1843-1904)

filosofo e uomo politico socialista. Si formò all’Università di Napoli ed ancora giovane si fece notare con alcuni scritti di rilievo (tra i quali una monografia su Socrate del 1869). Dal 1873 fu professore di filosofia morale e di pedagogia all’Università di Roma; in questo periodo fui politicamente vicino alla Destra, ma ben presto (1875-76) se ne venne staccando, per iniziare una critica penetrante del mondo culturale italiano che lo avvicinava ai gruppi radicali e socialisti. Nel 1890, entrato in corrispondenza con Engels (Lettere ad Engels, pubblicate per la prima volta tra il 1924 e il 1929), iniziò lo studio sistematico dei testi di Marx ed Engels. Si staccò allora decisamente dai gruppi radicali, per dedicarsi alla formazione di un partito dei lavoratori; quando poi però questo partito sorse (nel 1892), egli ne restò formalmente fuori per seri dissensi con Filippo Turati e con gli altri esponenti del socialismo italiano.

Labriola si impegnò in un’opera di divulgazione del marxismo, opera che risultò in realtà una elaborazione originale che lo pose come il primo e certamente come uno dei maggiori studiosi italiani del marxismo. La sua polemica si svolse su due fronti:

- contro le revisioni e le volgarizzazioni deterministiche e positivistiche del marxismo, ne affermò il significato integralmente storicistico e antimetafisico;

- contro i fautori della "crisi" e del "superamento" del marxismo in nome delle nuove teorie volontaristiche, pragmatistiche ed individualistiche, egli attribuì al materialismo storico carattere non di semplice "canone per la interpretazione della storia", ma di integrale concezione del mondo.

I suoi scritti principali di carattere marxista sono: In memoria del Manifesto dei comunisti (1895), La concezione materialistica della storia: dilucidazione preliminare (1896); Discorrendo di socialismo e di filosofia (1897). Il suo insegnamento ha lasciato una traccia profonda nella cultura italiana anche per l’influenza esercitata, con diversi esiti, su Croce e Gramsci.

Ecco come lo ricorda Trotsky ne La mia Vita: "Fu nella mia cella che lessi con delizia due noti saggi di un vecchio italiano marxista-hegeliano, Antonio Labriola, che giunsero in galera in edizione francese. Diversamente da molti scrittori latini, Labriola padroneggiava la dialettica materialista, se non in politica - nella quale era confuso - almeno nella filosofia della storia. Il brillante dilettantismo della sua esposizione in realtà nascondeva una perspicacia veramente profonda. […] Malgrado siano passati trent'anni da quando ho letto i suoi saggi, il senso generale dei suoi argomenti è ancora fermamente trincerato nella mia memoria, insieme col suo continuo refrain 'le idee non cadono dal cielo'."

R. Mondolfo (1877 - 1976)

da www. filosofico.net
VITA E OPERE

Rodolfo Mondolfo, nato a Senigallia il 20 agosto 1877, è l'ultimo di quattro fratelli di una famiglia di origine ebraica. Dopo aver frequentato il liceo della città marchigiana, nel 1885 si era iscritto alla sezione di filosofia e filologia dell'Istituto di sudi superiori e pratici di Firenze. Fu grazie al fratello Ugo Guido, che da Firenze si accingeva a trasferirsi a Siena per completare gli studi universitari, che egli entrò in contatto con un gruppo di giovani studenti che si ritrovavano presso la casa fiorentina di Ernesta Bittanti in via Lungo il Mugnone. Rodolfo, di qualche anno più giovane, poté incontrare e successivamente entrare in rapporti d'amicizia con Ernesta, futura moglie di Cesare Battisti, con lo stesso Battisti all'epoca giovane studioso di geografia, con lo storico della letteratura Alfredo Galletti, con Gaetano Salvemini e Gennaro Mondaini. Fu in questo stesso gruppo di amici, grazie alle frequenti discussioni e alle letture comuni sotto lo sguardo attento di maestri della qualità di Pasquale Villari, che maturò una sorta di adesione collettiva al nascente Partito socialista.

Gli anni della formazione fiorentina, le discussioni interne a quella piccola comunità di giovani intellettuali appassionati per le questioni sociali e per i problemi non risolti nel processo di unità nazionale, rimasero un punto di riferimento per il successivo percorso intellettuale e politico di Mondolfo. Per le sue qualità di storico della filosofia, legato all'apprendimento del mestiere di esperto lettore di testi, non va dimenticata l'incidenza della lezione di Pasquale Villari, del grecista Girolamo Vitelli, dello storico della filosofia Felice Tocco, dal quale venne indirizzato ai primi studi sull'associazionismo e sulla psicologia cartesiana. Per l'evoluzione delle sue posizioni politiche, sempre legate a un forte impegno intellettuale e teorico, Mondolfo rimase nel tempo legato agli orientamenti del riformismo turatiano, aprendosi, specie rispetto alla diagnosi del caso italiano e delle sue crisi, alle interpretazioni di Salvemini.

Quando Mondolfo giunse a Bologna nel 1913, dopo aver insegnato a Padova e a Torino, aveva appena pubblicato presso l'editore Formaggini il suo " Materialismo storico in Federico Engels ". Negli anni precedenti, oltre ad essersi impegnato nel lungo e tormentato lavoro di studio e di redazione di tale opera, si era confrontato con i nodi principali della filosofia moderna sviluppando un particolare interesse per il pensiero etico-giuridico nei suoi rapporti con la politica e la realtà sociale. Una ricerca che avvicina Mondolfo al leader del socialismo francese Jaurès, nel tentativo di rendere compatibile all'interno del materialismo storico l'assunzione di alcuni elementi del giusnaturalismo e della tradizione rivoluzionaria dei diritti dell'uomo, e che si inquadra in un significativo sforzo di etica della politica e del socialismo. Non a caso Mondolfo, intrecciando passione politica e ricerca, intervenne più volte sui rapporti tra socialismo e filosofia: su L'Unità salveminiana, su Critica sociale, ma anche sulle più significative riviste dell'antifascismo, quelle dirette da Piero Gobetti e da Carlo Rosselli, "Energie Nuove", "Rivoluzione liberale" e "Quarto Stato", dando volutamente vita ad un dialogo proficuo fra generazioni.

Anche la fortunata raccolta di studi " Sulle orme di Marx " (1919), è espressione di un'analoga tensione: il socialismo italiano aveva bisogno di una propria autonoma coscienza teorica, una coscienza che fosse strumento di analisi della realtà e che sapesse cogliere la vitalità del rapporto soggetto/oggetto; un marxismo interpretato secondo la formula di matrice gentiliana di " rovesciamento della prassi ". Nel contempo questa proposta teorica non poteva prescindere dall'analisi di due grandi eventi spartiacque: la Rivoluzione russa e la prima guerra mondiale con i suoi effetti sulla crisi del dopoguerra italiano. Fattori di grande impatto e di cambiamento epocale che trovano adeguata trattazione nell'accresciuta terza edizione di " Sulle orme di Marx ", in particolare nel I volume che raccoglie gli " Studi sui tempi nostri ". Secondo Mondolfo, nella doppia veste di autore e di direttore della collana, il nuovo volume offre " una nuova vigorosa analisi della crisi contemporanea, una del problema sociale del dopoguerra e un ampio studio sulla rivoluzione russa: il primo tentativo di sintesi storica della genesi, degli aspetti e dell'evoluzione del grande fatto storico ". Ad indicare la rilevanza del nesso fra indagine storica, politica, economico-sociale del dopoguerra e ricerca marxiana, che appunto si incarica di indicare le orme di Marx da seguire nell'azione, va ricordato il dibattito che le varie edizioni dell'opera, tre nell'arco di quattro anni, e che progressivamente andava accrescendosi, contribuì a produrre fuori e dentro l'area socialista e il mondo accademico. Dibattito che ebbe tra i protagonisti, per citare solo alcuni nomi rappresentativi di generazioni diverse e di diversi orientamenti politici e filosofici, Gaetano Mosca, Carlo Rosselli, Balbino Giuliano, Lelio Basso, Ermanno Bartellini, Ernesto Cesare Longobardi, Guido De Ruggiero, Adriano Tilgher, Alessandro Levi.

Fra le pieghe di quel dibattito, solo parzialmente ricostruito nel suo orizzonte teorico-politico generale, vanno ricercate le ragioni di fondo dell'iniziativa editoriale, del progetto della collana e delle singole opere da essa promosse e pubblicate. Nel 1923, con i tredici titoli fino ad allora stampati e con i contatti già avviati per altre opere chiamate ad arricchire la collana, si era già chiaramente delineato l'articolarsi del progetto. I testi già usciti e l'annuncio degli altri volumi vengono dal direttore della collana inquadrati in tre titoli, sorta di sezioni, alle quali corrispondono tre proposte di promozione commerciale per l'acquisto dei volumi: " Socialismo e movimento operaio "; " Il fascismo e i partiti politici italiani ", gruppo di testi ai quali si collega il volume di Panunzio su " Diritto, forza e violenza "; infine " Problemi del dopoguerra ". Dei due titoli che successivamente verranno pubblicati, " La Rivoluzione liberale " di Gobetti e i " Saggi intorno alla concezione materialistica della storia " di Antonio Labriola curati da Luigi Del Pane di cui non si fa menzione nella presentazione del 1923, non è difficile riconoscere la collocazione all'interno di una di queste tre sezioni. Così come i volumi annunciati ma non realizzati: è il caso dello scritto di Balbino Giuliano " Il fascismo secondo un nazionalista ", di cui si annuncia l'imminente pubblicazione, o il volume di Gino Luzzato, " Politica ed economia nell'Italia d'oggi ", annunciato nel volume di Filippo Turati. Dedicato alla storia e alla teoria del movimento operaio e socialista è l'opera capitale di Mondolfo " Sulle orme di Marx ", III edizione, la cui analisi dei problemi politici e sociali del dopoguerra ci conduce alla celebre inchiesta su " Il fascismo e i partiti politici italiani ", anch'essa imposta dalla cronaca, dalla storia recente, dagli effetti dirompenti della crisi italiana. "

Da quando, per l'accrescimento delle sue schiere e per lo sviluppo della sua azione politica, il fascismo è apparso nella sua importanza di fatto storico, si sono moltiplicate in contrasto le apologie dei seguaci e le polemiche degli avversari ". In tale contesto, dove passioni e conflitti rendono impossibile la " serenità della conoscenza storica, l'unica anticipazione possibile del giudizio della storia era in una raccolta sistematica delle visioni e valutazioni di tutti i diversi partiti politici ". Da qui l'idea di raccogliere " i punti di vista dei diversi partiti politici sul fascismo, chiamando a scrivere sull'argomento rappresentanti eminenti di tutti, per offrire al pubblico il poliedrico gruppo delle divergenti visioni ".

Su questa importante impresa mondolfiana già Renzo De Felice ha avuto modo di esprimersi, pubblicando nel 1966 presso l'editore Cappelli l'intero materiale dell'inchiesta " Il fascismo e i partiti politici ", sottolineando anche in tempi più recenti l'importanza documentaria e la qualità delle analisi. In queste note è possibile solo constatare la grande articolazione del progetto e, appunto, la qualità e la rappresentatività degli autori chiamati a collaborare. Dai fascisti Adolfo Zerboglio e Dino Grandi, il primo autore di uno scritto analitico, legato alla ricostruzione degli eventi, il secondo " pieno di ardore e vibrante di fede, che qualche critico ha giudicato la mente più pensosa e viva, per cultura e per fede filosofica, che sia apparsa nel movimento fascista ", al giornalista Mario Missiroli con il suo studio critico su " Il fascismo e la crisi italiana ". Dalle presenze oltremodo scomode, dal repubblicano Guido Bergamo, alle firme altrettanto significative e pesanti dell'anarchico Luigi Fabbri, dell'avvocato ex-popolare Cesare Degli Occhi, agli esponenti socialisti Giuseppe De Falco e Giovanni Zibordi. Mancano all'appello i nazionalisti, per i quali è in cantiere il saggio di Balbino Giuliano che però non verrà pubblicato, e i comunisti, che rifiutarono di aderire all'iniziativa. Programmati ma non realizzati gli interventi del popolare Filippo Meda e del nazionalista Roberto Forges Davanzati, che dopo aver promesso la collaborazione a un volume Studi sul fascismo " stimarono più prudente chiudersi in un'astensione diplomatica ".

Discorso a parte merita la pubblicazione del volume di Sergio Panunzio, " Diritto, forza e violenza. Lineamenti di una teoria della violenza " (1921), che si " collega con la raccolta sul fascismo, rappresentando quasi una teorizzazione dell'azione di questo ", per il quale Mondolfo compose una prefazione intitolata "Forza e violenza nella storia" (aprendo una discussione). Nel 1922 era iniziato il carteggio che più significativamente caratterizza l'attività di Mondolfo come direttore della collana. Si tratta delle lettere scambiate con Gobetti in vista della pubblicazione de " La Rivoluzione liberale ". Pubblicazione che avvenne nel 1924, dopo un lungo lavoro di rielaborazione e di nuova articolazione del materiale originario (gli articoli apparsi su "Rivoluzione liberale"), ma che egli, probabilmente per un delicato contenzioso con l'editore, non volle o non poté annunciare nel 1923. Non è questo il luogo per entrare nel merito della pubblicazione dell'opera gobettiana e del ruolo di attenta e partecipe supervisione esercitato da Mondolfo. Già Norberto Bobbio, pubblicando le lettere di Mondolfo a Gobetti, ha avuto occasione di inquadrare il loro rapporto intellettuale, politico e teorico, mettendo in luce gli elementi di dissenso e prendendo in considerazione la collaborazione di Mondolfo alle riviste gobettiane e le critiche che Gobetti e i suoi collaboratori riservarono all'autore di " Sulle orme di Marx ".

Rimane interessante considerare alcuni elementi che emergono dal carteggio: a partire da una testimonianza che Mondolfo rilasciò a Renato Treves in una lettera del 25 dicembre 1963 relativa ai suoi rapporti con Gobetti: " la corrispondenza con Gobetti [da parte di Mondolfo andata distrutta nel 1939 con l'esilio argentino] si svolse a proposito della collaborazione di lui alla "Biblioteca di studi sociali" che io dirigevo allora per l'editore Cappelli di Bologna nella quale egli desiderò pubblicare la prima edizione del libro La rivoluzione liberale [...]. Ricordo che allora mi scrisse che desiderava che il suo libro uscisse in quella raccolta alla quale diceva io avevo dato una fisionomia a lui grata; e ricordo che sui problemi dei vari capitoli da inserire e dell'ordine in cui disporli avemmo a scambiarci alcune lettere ".

Dalla corrispondenza di Mondolfo risulta che Gobetti propose la pubblicazione dello scritto, sotto forma di raccolta di saggi e articoli vari, il 19 luglio 1922. All'epoca la collana aveva dato alle stampe i testi di Mondolfo, Turati, Panunzio, Missiroli, Zerboglio e Grandi; mancavano ancora i volumi di Luigi Fabbri e Cesare Degli Occhi, per completare l'inchiesta sul fascismo, e i saggi di Salvemini, Carli e Viterbo. Non è quindi difficile immaginare che Gobetti fosse interessato proprio all'inchiesta sul fascismo e alle riflessioni mondolfiane, che pur egli non condivideva fino in fondo, sulla crisi del dopoguerra dettate in " Sulle orme di Marx " e negli articoli che il professore dell'Università di Bologna aveva pubblicato sulle riviste gobettiane. La risposta di Mondolfo è positiva. Chiede un rinvio di un anno per rispettare i precedenti accordi con l'editore e rilancia, dando una prima indicazione che nel corso della corrispondenza verrà ulteriormente specificata, raccomandando " di dare alla raccolta un assetto organico, in modo che risulti un libro piuttosto che una raccolta, di cui i vari scritti appaiono capitoli e non articoli disgiunti e indipendenti ". Un impegno di lavoro che Gobetti porterà fino in fondo, integrando, sfumando giudizi troppo pesanti o perentori, componendo nuove parti e nuovi capitoli. Il direttore editoriale Rodolfo Mondolfo, che pur con Gobetti era entrato più volte in contrasto, svolse il proprio lavoro, rispettando e incoraggiando il giovane autore, tutelando l'editore, contribuendo a dare alle stampe un testo che grande fortuna ebbe nel secondo dopoguerra, visto che dopo il 1924 la furiosa reazione fascista distrusse buona parte della collana mondolfiana.

IL PENSIERO

Nonostante le aspre critiche mossegli da Croce e da Gentile, il marxismo aveva continuato a svilupparsi in Italia e a dare rilevanti frutti anche sul piano teorico, grazie soprattutto all'opera di Rodolfo Mondolfo (1877-1976). Marchigiano di origini ebree, ebbe un'originaria formazione positivistica (fu in qualche misura vicino alle posizioni di Ardigò) e, a partire dal 1903, collaborò a "Critica sociale", la rivista diretta da Filippo Turati. Nel 1910 diventò professore all'Università di Torino e, in seguito, a quella di Bologna; però nel 1938, a cause delle infami leggi razziali varate dal regime fascista, fu costretto ad abbandonare l'insegnamento e l'Italia, riparando in Argentina come esule. Proprio in Argentina ottenne una cattedra prima all'università di Cordoba e poi a quella di Tucumàn. Dopo la guerra, pur ritornando di tanto in tanto in Italia, continuò a vivere in Argentina, dove si spense nel 1976. Mondolfo scorge nel marxismo il punto culminante delle concezioni della libertà e della democrazia, elaborate dal pensiero politico moderno: il marxismo è la filosofia di cui il movimento operaio ha bisogno per realizzare il compito storico che gli spetta, la realizzazione del regno della libertà.

A illustrare le caratteristiche del marxismo inteso come progetto finalizzato all'attuazione della libertà, Mondolfo dedica una nutrita serie di studi, da " Il materialismo storico di Federico Engels " (1912) all'insieme di studi dal titolo " Sulle orme di Marx " (1919, più volte riediti), fino alla raccolta, curata da Norberto Bobbio, " Umanismo di Marx " (1968). La linea interpretativa del marxismo era sempre stata divisa (e sempre lo sarà) su un punto essenziale: chi, come Althusser e Geymonat, legge il marxismo come filosofia deterministica e materialistica, e chi, come Mondolfo e Gramsci, lo legge invece come "filosofia della prassi", quasi come una sorta di umanesimo che ravvisa nell'agire libero degli uomini il motore della storia. Certo, spiega Mondolfo, non si tratta di una libertà assoluta, poiché l'uomo trasforma con la sua azione la natura e la storia sempre a partire da condizioni date, e l'ambiente da lui trasformato reagisce, a sua volta, sull'uomo, che procede a ulteriori trasformazioni, secondo un ritmo che Mondolfo, riprendendo l'interpretazione di Giovanni Gentile, definisce " la prassi che si rovescia ". Questo vuol dire che ogni momento del processo storico condiziona sempre il successivo e che, tra i vari momenti, esiste un legame di continuità.

Una rivoluzione può dunque aver luogo solamente se sono mature le condizioni storiche che la rendono possibile: sotto questo profilo, Mondolfo giudicherà la rivoluzione russa del 1917 una forzatura del processo storico, costretta a impiegare la violenza, come metodo d'azione, e a fondarsi sulla dittatura di un gruppo rivoluzionario e non del partito operaio. In opposizione a questa forma di "volontarismo", che trascura le reali condizioni storiche in atto, Mondolfo riconosce il peso della struttura economico-sociale, ma escludendo sempre ogni forma di concezione fatalistica dell'evoluzione storica e abbracciando invece le posizioni del socialismo riformista.

Dopo l'avvento del fascismo, Mondolfo si dedicò prevalentemente a studi di storia della filosofia, soprattutto antica, ma sempre alla luce del presupposto di una continuità tra le varie epoche storiche: sotto questo profilo, soprattutto con i volumi su " L'infinito nel pensiero dei Greci " (1934) e " La comprensione del soggetto umano nella cultura antica " (1955), egli tenderà a mettere in evidenza la presenza di concezioni dell'infinito e della soggettività nel mondo antico, in polemica contro la tesi di Gentile secondo cui la filosofia degli antichi sarebbe stata esclusivamente una forma di oggettivismo e una dialettica del pensato, non del pensare.

Antonio Gramsci (1891-1937)

Biografia

Antonio Gramsci nacque ad Ales, nei pressi di Oristano, da Francesco (1860-1937) e Giuseppina Marcias (1861-1932).[Francesco, originario di Gaeta, di famiglia medio-borghese, era studente in legge quando morì suo padre, colonnello dei carabinieri; dovendo trovare subito un lavoro, nel 1881 partì per la Sardegna per impiegarsi nell'Ufficio del registro di Ghilarza (Oristano).

In questo paese, che allora contava circa 2.200 abitanti, conobbe Peppina, figlia di un esattore delle imposte e proprietario di alcune terre; malgrado l'opposizione dei genitori, rimasti in Campania, che consideravano i Marcias una famiglia di rango inferiore alla propria, la sposò nel 1883. Dal matrimonio nascerà Gennaro, nel 1884, e dopo che l'ufficio fu trasferito da Ghilarza ad Ales, Grazietta nel 1887, Emma nel 1889 e, il 22 gennaio 1891, Antonio, battezzato il 29 gennaio.

L'anno dopo la famiglia si trasferì a Sorgono (NU), il paese di cui la madre era originaria, e qui nacquero gli altri figli, Mario nel 1893, Teresina nel 1895 e Carlo nel 1897. Antonio, a due anni, si ammalò del morbo di Pott, una tubercolosi ossea che in pochi anni gli deformò la colonna vertebrale e gli impedì una normale crescita: adulto, Gramsci non supererà il metro e mezzo di altezza; i genitori pensavano che la sua deformità fosse la conseguenza di una caduta e anche Antonio rimase convinto di quella spiegazione. Ebbe sempre una salute delicata: a quattro anni, soffrendo di emorragie e convulsioni, fu dato per spacciato dai medici, tanto che la madre comprò la bara e il vestito per la sepoltura.

Arrestato il 9 agosto 1898 con l'accusa di peculato, concussione e falsità in atti, il padre Francesco venne condannato il 27 ottobre 1900 al minimo della pena con l'attenuante del «lieve valore»: 5 anni, 8 mesi e 22 giorni di carcere, da scontare a Gaeta; priva del sostegno dello stipendio del padre, per la famiglia Gramsci furono anni di estrema miseria che la madre affrontò vendendo la sua parte di eredità, tenendo a pensione il veterinario del paese e guadagnando qualche soldo cucendo camicie.

Proprio per le sue delicate condizioni di salute Antonio cominciò a frequentare la scuola elementare soltanto a sette anni: la concluse nel 1903 con il massimo dei voti, ma la situazione familiare non gli permise di iscriversi al ginnasio. Già dall'estate precedente aveva iniziato a dare il suo contributo all'economia domestica lavorando 10 ore al giorno nell'Ufficio del catasto di Ghilarza per 9 lire al mese - l'equivalente di un chilo di pane al giorno - smuovendo «registri che pesavano più di me e molte notti piangevo di nascosto perché mi doleva tutto il corpo».

Il 31 gennaio 1904 Francesco Gramsci, grazie a un'amnistia, anticipò di tre mesi la fine della sua pena: inizialmente guadagnò qualcosa come segretario in un'assicurazione agricola, poi, riabilitato, fece il patrocinante in conciliatura e infine fu riassunto come scrivano nel vecchio Ufficio del catasto, dove lavorò per il resto della sua vita. Così, pur affrontando gli abituali sacrifici, i genitori poterono iscrivere il quindicenne Antonio nel Ginnasio comunale di Santu Lussurgiu, a 18 chilometri da Ghilarza, «un piccolo ginnasio in cui tre sedicenti professori sbrigavano, con molta faccia tosta, tutto l'insegnamento delle cinque classi».

Con tale preparazione un poco avventurosa riuscì tuttavia a prendere la licenza ginnasiale a Oristano nell'estate del 1908 e a iscriversi al Liceo Dettori di Cagliari, stando a pensione, prima in un appartamento in via Principe Amedeo 24 poi, l'anno dopo, in corso Vittorio Emanuele 149, insieme con il fratello Gennaro il quale, terminato il servizio di leva a Torino, lavorava per cento lire al mese in una fabbrica di ghiaccio del capoluogo sardo.

La modesta preparazione ricevuta nel ginnasio si fece sentire, perché inizialmente Gramsci nelle diverse materie ottenne appena la sufficienza, ma riuscì a recuperare in fretta: del resto, leggere e studiare era il suo impegno costante. Non si concedeva distrazioni, non soltanto perché avrebbe potuto permettersele solo con grandi sacrifici, ma anche perché l'unico vestito che possedeva, per lo più liso, non lo incoraggiava a frequentare né gli amici né i locali pubblici.

Il fratello Gennaro, che era tornato in Sardegna militante socialista, ai primi del 1911 divenne cassiere della Camera del lavoro e segretario della sezione socialista di Cagliari: «Una grande quantità di materiale propagandistico, libri, giornali, opuscoli, finiva a casa. Nino, che il più delle volte passava le sere chiuso in casa senza neanche un'uscita di pochi momenti, ci metteva poco a leggere quei libri e quei giornali»[Leggeva anche i romanzi popolari di Carolina Invernizio, di Anton Giulio Barrili e quelli di Grazia Deledda, ma questi ultimi non li apprezzava, considerando folkloristica la visione che della Sardegna aveva la scrittrice sarda; leggeva «Il Marzocco» e «La Voce» di Giuseppe Prezzolini, Papini, Emilio Cecchi «ma in cima alle sue raccomandazioni, quando mi chiedeva di ritagliare gli articoli e di custodirli nella cartella, stavano sempre Croce e Salvemini».

Alla fine della seconda classe liceale, alla cattedra di lettere italiane del Liceo salì il professor Raffa Garzia, radicale e anticlericale, direttore de «L'Unione Sarda», quotidiano legato alle istanze sardiste rappresentate, in Parlamento da Francesco Cocco-Ortu, allora impegnato in una dura opposizione al ministero di Luigi Luzzatti. Gramsci instaurò con il Garzia un buon rapporto, che andava oltre il naturale discepolato: invitato ogni tanto a visitare la redazione del giornale, ricevette nell'estate del 1910 la tessera di giornalista, con l'invito a «inviare tutte le notizie di pubblico interesse»: e il 25 luglio Gramsci ebbe la soddisfazione di vedersi stampato il suo primo scritto pubblico, venticinque righe di cronaca ironica su un fatto avvenuto nel paese di Aidomaggiore.

In un tema dell'ultimo anno di liceo che ci è conservato, Gramsci scriveva, tra l'altro, che «Le guerre sono fatte per il commercio, non per la civiltà [...] la Rivoluzione francese ha abbattuto molti privilegi, ha sollevato molti oppressi; ma non ha fatto che sostituire una classe all'altra nel dominio. Però ha lasciato un grande ammaestramento: che i privilegi e le differenze sociali, essendo prodotto della società e non della natura, possono essere sorpassate». La sua concezione socialista, qui chiaramente espressa, va unita, in questo periodo, all'adesione all'indipendentismo sardo, in una sorta di «socialsardismo», nel quale egli esprimeva, insieme con la denuncia delle condizioni di arretratezza dell'isola e delle disuguaglianze sociali, l'ostilità verso le classi privilegiate del continente, fra i quali venivano compresi, secondo una polemica mentalità di origine contadina, gli stessi operai, concepiti come una corporazione elitaria fra i lavoratori salariati.

Tra poco, Gramsci conoscerà da vicino la realtà operaia di una grande città del Nord: nell'estate del 1911 il conseguimento della licenza liceale con una votazione molto buona - tutti otto e un nove in italiano - gli prospetta la possibilità di continuare gli studi all'Università. Nell'autunno del 1911 il Collegio Carlo Alberto di Torino bandì un concorso, riservato a tutti gli studenti poveri licenziati dai licei del Regno, offrendo 39 borse di studio, ciascuna equivalente a 70 lire al mese per 10 mesi, per poter frequentare l'Università di Torino: Gramsci fu uno dei due studenti di Cagliari ammessi a sostenere gli esami a Torino.

«Partii per Torino come se fossi in stato di sonnambulismo. Avevo 55 lire in tasca; avevo speso 45 lire per il viaggio in terza classe delle 100 avute da casa». Il 27 ottobre 1911 conclude gli esami: li supera classificandosi nono; al secondo posto è uno studente genovese venuto da Sassari, Palmiro Togliatti.

Si iscrive alla Facoltà di Lettere ma le 70 lire al mese non bastano nemmeno per le spese di prima necessità: oltre alle tasse universitarie, deve pagare 25 lire al mese per l'affitto della stanza di Lungo Dora Firenze 57, nel popolare quartiere di Porta Palazzo, e il costo della luce, delle pulizia della biancheria, della carta e dell'inchiostro, e ci sono i pasti - «non meno di due lire alla più modesta trattoria» - e la legna e il carbone per il riscaldamento: privo anche di un cappotto, «la preoccupazione del freddo non mi permette di studiare, perché o passeggio nella camera per scaldarmi i piedi oppure devo stare imbacuccato perché non riesco a sostenere la prima gelata»; Sono frequenti le richieste di denaro alla famiglia che però, da parte sua, non se la passava di certo molto meglio.

L'Università di Torino vantava professori di alto livello e di diversa formazione: Luigi Einaudi, Francesco Ruffini, Vincenzo Manzini, Pietro Toesca, Achille Loria, Gioele Solari e poi il giovane glottologo Matteo Bartoli,[14] che si legò di amicizia con Gramsci, come fece anche l'incaricato di letteratura italiana Umberto Cosmo, contro il quale, nel 1920, indirizzò però un articolo violentemente polemico. Anni dopo, durante la dura esperienza in carcere, continuò comunque a ricordarlo con simpatia - «serbo del Cosmo un ricordo pieno di affetto e direi di venerazione [...] era e credo sia tuttora di una grande sincerità e dirittura morale con molte striature di quella ingenuità nativa che è propria dei grandi eruditi e studiosi» - ricordando anche che, con questi e con molti altri intellettuali dei primi quindici anni del secolo, malgrado divergenze di varia natura, egli avesse questo in comune: «partecipavamo in tutto o in parte al movimento di riforma morale e intellettuale promosso in Italia da Benedetto Croce, il cui primo punto era questo, che l'uomo moderno può e deve vivere senza religione rivelata o positiva o mitologica o come altro si vuol dire. Questo punto anche oggi mi pare il maggior contributo alla cultura mondiale che abbiano dato gli intellettuali moderni italiani».

È a casa per le elezioni politiche del 26 ottobre 1913, nell'Italia a quel tempo in guerra contro l'Impero Ottomano per la conquista della Libia; votano, per la prima volta, anche gli analfabeti, ma la corruzione e le intimidazioni sono le stesse delle elezioni precedenti. Il timore che l'allargamento della base elettorale favorisse i socialisti portò al blocco delle candidature di tutte le forze politiche contro i candidati socialisti, indicati come il comune nemico da battere. In questo obbiettivo, «sardisti» e «continentali» si trovarono d'accordo e deposero le vecchie polemiche. Gramsci scrisse di quest'esperienza elettorale al compagno di studi Angelo Tasca, giovane dirigente socialista torinese, il quale affermò Gramsci «era stato molto colpito dalla trasformazione prodotta in quell'ambiente dalla partecipazione delle masse contadine alle elezioni, benché non sapessero e non potessero ancora servirsi per conto loro della nuova arma. Fu questo spettacolo, e la meditazione su di esso, che fece definitivamente di Gramsci un socialista».

Tornò a Torino ai primi di novembre del 1913, andando ad affittare una stanza all'ultimo piano del palazzo di via San Massimo 14, oggi Monumento nazionale; dovrebbe datarsi a questo periodo la sua iscrizione al Partito socialista. Si trovò in ritardo con gli esami, con il rischio di perdere il contributo della borsa di studio, a causa di «una forma di anemia cerebrale che mi toglie la memoria, che mi devasta il cervello, che mi fa impazzire ora per ora, senza che mi riesca di trovare requie né passeggiando, né disteso sul letto, né disteso per terra a rotolarmi in certi momenti come un furibondo». Riconosciuto «afflitto da grave nevrosi» gli fu concesso di recuperare gli esami nella sessione di primavera.

Prese anche lezioni private di filosofia dal professore Annibale Pastore, il quale scrisse poi che «il suo orientamento era originalmente crociano ma già mordeva il freno e non sapeva ancora come e perché staccarsi [...] voleva rendersi conto del processo formativo della cultura agli scopi della rivoluzione [...] come fa il pensare a far agire [...] come le idee diventano forze pratiche». Gramsci stesso scriverà di aver sentito anche la necessità di «superare un modo di vivere e di pensare arretrato, come quello che era proprio di un sardo del principio del secolo, per appropriarsi un modo di vivere e di pensare non più regionale e da villaggio, ma nazionale» ma anche «di provocare nella classe operaia il superamento di quel provincialismo alla rovescia della palla di piombo [come il Sud Italia era generalmente considerato nel Nord] che aveva le sue profonde radici nella tradizione riformistica e corporativa del movimento socialista».

L'iscrizione al partito gli permise di superare in parte un lungo periodo di solitudine: ora frequentava i giovani compagni di partito, fra i quali erano Tasca, Togliatti, Terracini: «uscivamo spesso dalle riunioni di partito [...] mentre gli ultimi nottambuli si fermavano a sogguardarci [...] continuavamo le nostre discussioni, intramezzandole di propositi feroci, di scroscianti risate, di galoppate nel regno dell'impossibile e del sogno».

Nell'Italia che ha dichiarato la propria neutralità nella Prima guerra mondiale in corso - neutralità affermata anche dal Partito socialista - scrive per la prima volta sul settimanale socialista torinese Il Grido del popolo, il 31 ottobre 1914, l'articolo Neutralità attiva e operante in risposta a quello apparso il 18 ottobre sull'«Avanti!» di Mussolini Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante,[21] senza però poter comprendere quale svolta politica stesse preparando l'allora importante e popolare esponente socialista.

Sostenne il 13 aprile 1915 quello che sarà, senza che lo sapesse ancora, il suo ultimo esame all'Università; il suo impegno politico si fece crescente con l'entrata in guerra dell'Italia e con il suo ingresso nella redazione torinese dell'«Avanti!».

L'attività giornalistica: il critico teatrale

Dal 1916 gran parte della giornata di Gramsci trascorse all'ultimo piano nel palazzo dell'Alleanza Cooperativa Torinese al numero 12 di corso Siccardi (oggi Galileo Ferraris), dove, in tre stanze, erano situate la sezione giovanile del partito socialista e le redazioni del Grido del popolo e del foglio piemontese dell'Avanti!, che comprendeva la rubrica della cronaca torinese, Sotto la Mole; in entrambi i giornali Gramsci pubblicava di tutto, dai commenti sulla situazione interna ed estera agli interventi sulla vita di partito, dagli articoli di polemica politica alle note di costume, dalle recensioni dei libri alla critica teatrale. Dirà più tardi di aver scritto in dieci anni di giornalismo, «tante righe da poter costituire quindici o venti volumi di quattrocento pagine, ma esse erano scritte alla giornata e dovevano morire dopo la giornata» [22] e di aver contribuito «molto prima di Adriano Tilgher» a rendere popolare il teatro di Pirandello: «ho scritto sul Pirandello, dal 1915 al 1920, tanto da mettere insieme un volumetto di duecento pagine e allora le mie affermazioni erano originali e senza esempio: il Pirandello era o sopportato amabilmente o apertamente deriso».

Della commedia di Pirandello Pensaci, Giacomino! scrisse che «è tutto uno sfogo di virtuosismo, di abilità letteraria, di luccichii discorsivi. I tre atti corrono su un solo binario. I personaggi sono oggetto di fotografia piuttosto che di approfondimento psicologico: sono ritratti nella loro esteriorità più che in una intima ricreazione del loro essere morale. È questa del resto la caratteristica dell'arte di Luigi Pirandello, che coglie della vita la smorfia, più che il sorriso, il ridicolo, più che il comico: che osserva la vita con l'occhio fisico del letterato, più che con l'occhio simpatico dell'uomo artista e la deforma per un'abitudine ironica che è l'abitudine professionale più che visione sincera e spontanea», mentre considerò Liolà «il prodotto migliore dell'energia letteraria di Luigi Pirandello. In esso il Pirandello è riuscito a spogliarsi delle sue abitudini retoriche. Il Pirandello è un umorista per partito preso [...] troppo spesso la prima intuizione dei suoi lavori viene a sommergersi in una palude retorica di una moralità inconsciamente predicatoria, e di molta verbosità inutile».

Il fu Mattia Pascal, secondo Gramsci, è una sorta di prima stesura del Liolà che, liberato dalla zavorra moralistica del romanzo, si è rinnovato diventando una pura rappresentazione, «una farsa che si riattacca ai drammi satireschi della Grecia antica, e che ha il suo corrispondente pittorico nell'arte figurativa vascolare [...] è una vita ingenua, rudemente sincera [...] una efflorescenza di paganesimo naturalistico, per il quale la vita, tutta la vita è bella, il lavoro è un'opera lieta, e la fecondità irresistibile prorompe da tutta la materia organica».

Severo fu invece il giudizio sul Così è (se vi pare): dalla tesi - pseudologistica - che la verità in sé non esista, Pirandello «non ha saputo trarre dramma [...] e neppure motivo a rappresentazione viva e artistica di caratteri, di persone vive che abbiano un significato fantastico, se non logico. I tre atti di Pirandello sono un semplice fatto di letteratura [...] puro e semplice aggregato di parole che non creano né una verità né un'immagine [...] il vero dramma l'autore l'ha solo adombrato, l'ha accennato: è nei due pseudopazzi che non rappresentano però la loro vera vita, l'intima necessità dei loro atteggiamenti esteriori, ma sono presentati come pedine della dimostrazione logica».

La Rivoluzione russa

Su richiesta di alcuni giovani compagni, scrisse da solo il numero unico del giornale dei giovani socialisti La Città futura, uscito l'11 febbraio 1917. Qui mostra la sua intransigenza politica, la sua ironia, anche contro i socialisti riformisti, il fastidio verso ogni espressione retorica ma anche la sua formazione idealistica, i suoi debiti culturali nei confronti di Croce, superiori perfino a quelli dovuti a Marx: «in quel tempo» - scriverà - «il concetto di unità di teoria e pratica, di filosofia e politica, non era chiaro in me e io ero tendenzialmente crociano».

Nel marzo 1917 lo zar di Russia è facilmente rovesciato da pochi giorni di manifestazioni popolari, per lo più spontanee, che chiedono pane e la fine dell'autocrazia: viene instaurato un moderato governo liberale e, insieme, si ricostituiscono i Soviet, forme di rappresentanza su base popolare, controllati dai partiti socialisti, già creati nella precedente Rivoluzione russa del 1905; le notizie giungono in Italia parziali e confuse: i quotidiani «borghesi» sostengono che si tratta dell'avviamento di un processo di democratizzazione in Russia, sull'esempio della grande Rivoluzione francese, mentre Gramsci è convinto che «la rivoluzione russa è [...] un atto proletario ed essa naturalmente deve sfociare nel regime socialista [...] i rivoluzionari socialisti non possono essere giacobini: essi in Russia hanno solo attualmente il compito di controllare che gli organismi borghesi [...] non facciano essi del giacobinismo». Con il ritorno in Russia di Lenin, che pone subito il problema della pace immediata e della consegna del potere ai Soviet, la lotta politica si radicalizza. Gramsci è convinto che Lenin abbia «suscitato energie che più non morranno. Egli e i suoi compagni bolscevichi sono persuasi che sia possibile in ogni momento realizzare il socialismo». Gramsci nega esplicitamente la necessità dell'esistenza di condizioni obbiettive affinché una rivoluzione trionfi, quando scrive che i bolscevichi «sono nutriti di pensiero marxista. Sono rivoluzionari, non evoluzionisti. E il pensiero rivoluzionario nega il tempo come fattore di progresso. Nega che tutte le esperienze intermedie tra la concezione del socialismo e la sua realizzazione debbano avere nel tempo e nello spazio una riprova assoluta e integrale». È l'anticipazione dell'articolo, più famoso, che scriverà subito dopo la notizia del successo della Rivoluzione d'ottobre.

Anche in Italia la guerra interminabile, costata già centinaia di migliaia di morti e di mutilati, la penuria dei generi alimentari, la sconfitta di Caporetto e la stessa eco provocata dalla rivoluzione russa portarono a insofferenze che a Torino sfociarono, il 23 agosto 1917, in un'autentica sommossa spontanea duramente repressa dal governo: oltre 50 morti, più di duecento feriti, la città dichiarata zona di guerra con la conseguente applicazione della legge marziale, arresti a catena che colpirono non solo i diretti responsabili ma, indiscriminatamente, anche gli elementi politici d'opposizione e segnatamente l'intero nucleo della sezione socialista, con l'accusa di istigazione alla rivoluzione. In conseguenza dell'emergenza venutasi a creare, la direzione della Sezione socialista torinese venne assunta da un comitato di dodici persone, del quale fece parte anche Gramsci, il quale rimane l'unico redattore de Il Grido del popolo che cesserà le pubblicazioni il 19 ottobre 1918.

I bolscevichi avevano preso il potere in Russia il 7 novembre 1917 ma per settimane in Europa giunsero solo notizie confuse, finché il 24 novembre l'edizione nazionale dell'Avanti! uscì con un editoriale dal titolo La rivoluzione contro il Capitale, firmato da Gramsci:

«La rivoluzione dei bolscevichi è materiata di ideologia più che di fatti [...] essa è la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un'era capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico [...] se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. Essi non sono «marxisti», ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina esteriore di affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche».

In realtà Marx, almeno negli ultimi anni, non aveva escluso che un paese arretrato potesse giungere al socialismo saltando fasi di sviluppo capitalistico: ma qui interessa rilevare tanto la visione di Gramsci ancora idealistica, volontaristica, dell'azione politica, quanto la critica che di fatto Gramsci rivolgeva ai dirigenti socialisti europei, e italiani in particolare, di concepire lo sviluppo storico in modo meccanicistico.

Finita la guerra e usciti dal carcere i dirigenti torinesi del partito, dal 5 dicembre 1918 Gramsci lavorò unicamente all'edizione piemontese dell' Avanti!, che allora si stampava in via Arcivescovado 3, insieme con alcuni giovani colleghi: Giuseppe Amoretti, Alfonso Leonetti, Mario Montagnana, Felice Platone; ma egli e altri giovani socialisti torinesi, come Tasca, Togliatti e Terracini, intendevano ormai esprimere, dopo l'esperienza della rivoluzione russa, esigenze nuove nell'attività politica, che non sentivano rappresentate dalla Direzione nazionale del partito: «L'unico sentimento che ci unisse, in quelle nostre riunioni, era quello suscitato da una vaga passione di una vaga cultura proletaria; volevamo fare, fare, fare; ci sentivamo angustiati, senza un orientamento, tuffati nell'ardente vita di quei mesi dopo l'armistizio, quando pareva immediato il cataclisma della società italiana». Il 1º maggio 1919 uscì il primo numero dell'Ordine nuovo con Gramsci segretario di redazione e animatore della rivista.

L'Ordine Nuovo

La rivista ebbe un avvio incerto: all'inizio «il programma fu l'assenza di un programma concreto, per una vana e vaga aspirazione ai problemi concreti [...] nessuna idea centrale, nessuna organizzazione intima del materiale letterario pubblicato» Tasca intendeva farne una pubblicazione culturale: «per "cultura" intendeva "ricordare", non intendeva "pensare", e intendeva "ricordare" cose fruste, cose logore, la paccottiglia del pensiero operaio [...] fu una rassegna di cultura astratta, di informazione astratta, con la tendenza a pubblicare novelline orripilanti e xilografie bene intenzionate; ecco cosa fu l'Ordine Nuovo nei suoi primi numeri [...]».[32]

Gramsci intendeva invece definirlo su posizioni nettamente operaistiche, ponendo all'ordine del giorno la necessità d'introdurre nelle fabbriche italiane nuove forme di potere operaio, i Consigli di fabbrica, sull'esempio dei Soviet russi: «Ordimmo, io e Togliatti, un colpo di Stato redazionale; il problema delle commissioni interne fu impostato esplicitamente nel n. 7 della rassegna [...] il problema dello sviluppo della commissione interna divenne problema centrale, divenne l'idea dell'Ordine Nuovo; era esso posto come problema fondamentale della rivoluzione operaia, era il problema della "libertà" proletaria. L'Ordine Nuovo divenne, per noi e per quanti ci seguivano, "il giornale dei Consigli di fabbrica"; gli operai amarono l'Ordine Nuovo [...] perché negli articoli del giornale ritrovavano una parte di se stessi, la parte migliore di se stessi; perché sentivano gli articoli dell'Ordine Nuovo pervasi dallo stesso loro spirito di ricerca interiore: "Come possiamo diventar liberi? Come possiamo diventare noi stessi?". Perché gli articoli dell'Ordine Nuovo non erano fredde architetture intellettuali, ma sgorgavano dalla discussione nostra con gli operai migliori, elaboravano sentimenti, volontà, passioni reali».

Diversamente dalle Commissioni interne, già esistenti all'interno dalle fabbriche, che venivano elette soltanto dagli operai iscritti ai diversi sindacati, i Consigli dovevano essere eletti indistintamente da tutti gli operai e avrebbero dovuto, nel progetto degli ordinovisti, non tanto occuparsi dei consueti problemi sindacali, ma porsi problemi politici, fino al problema della stessa organizzazione, della gestione operaia della fabbrica, sostituendosi al capitalista: nel settembre 1919, alla FIAT furono eletti i primi Consigli.

La Confindustria, nella sua Conferenza nazionale del marzo 1920, espresse chiaramente «la necessità che la borghesia del lavoro attinga in se stessa [...] il mezzo per un'energica azione contro deviazioni e illusioni».[34] e il 20 marzo i tre maggiori industriali torinesi, Olivetti, De Benedetti e Agnelli fecero presente al prefetto Taddei la loro volontà di ricorrere all'arma della serrata delle fabbriche contro «l'indisciplina e le continue esorbitanti pretese degli operai».

Così quando in occasione di una controversia sindacale nelle Industrie Metallurgiche tre membri delle commissioni interne furono licenziati e gli operai protestarono con lo sciopero, l'Associazione degli industriali metalmeccanici rispose il 29 marzo con la serrata di tutte le fabbriche torinesi. La lotta si estese fino allo sciopero generale proclamato a Torino il 15 aprile e in alcune province piemontesi, mentre il governo presidiava il capoluogo con migliaia di soldati. I tentativi degli ordinovisti di allargare la protesta, se non in tutta l'Italia, almeno nei maggiori centri industriali del paese, fallì e alla fine d'aprile gli operai furono costretti a riprendere il lavoro senza avere ottenuto nulla.

Lo sciopero fallì per la resistenza degli industriali ma anche per l'isolamento in cui la Camera del Lavoro, controllata dai socialisti riformisti, contrari alla costituzione dei Consigli operai, e lo stesso Partito socialista lasciarono i lavoratori torinesi; l'8 maggio Gramsci pubblicò sull' Ordine Nuovo una sua relazione, approvata dalla Federazione torinese, che denunciava l'inefficienza e l'inerzia del Partito. Dopo aver sostenuto che era matura la trasformazione dell'«ordine attuale di produzione e di distribuzione» in un nuovo ordine che desse «alla classe degli operai industriali e agricoli il potere di iniziativa nella produzione», alla quale si opponevano gli industriali e i proprietari terrieri, appoggiati dallo Stato, Gramsci rilevava che «le forze operaie e contadine mancano di coordinamento e di concentrazione rivoluzionaria perché gli organismi direttivi del Partito socialista hanno rivelato di non comprendere assolutamente nulla della fase di sviluppo che la storia nazionale e internazionale attraversa nell'attuale periodo [...] il Partito socialista assiste da spettatore allo svolgersi degli eventi, non ha mai un'opinione sua da esprimere [...] non lancia parole d'ordine che possano essere raccolte dalle masse, dare un indirizzo generale, unificare e concentrare l'azione rivoluzionaria [...] il Partito socialista è rimasto, anche dopo il Congresso di Bologna, un mero partito parlamentare, che si mantiene immobile entro i limiti angusti della democrazia borghese [...]».

Rilevò la mancanza di omogeneità la composizione del partito, nei quali continuavano a essere presenti riformisti e «opportunisti», contrari agli indirizzi della III Internazionale. Non solo: «mentre la maggioranza rivoluzionaria del partito non ha avuto una espressione del suo pensiero e un esecutore della sua volontà nella direzione e nel giornale, gli elementi opportunisti invece si sono fortemente organizzati e hanno sfruttato il prestigio e l'autorità del Partito per consolidare le loro posizioni parlamentari e sindacali [...] se il Partito non realizza l'unità e la simultaneità degli sforzi, se il Partito si rivela un mero organismo burocratico, senza anima e senza volontà, la classe operaia istintivamente tende a costituirsi un altro partito e si sposta verso tendenze anarchiche [...]».

Il Partito socialista non svolge alcuna funzione di educazione e di spiegazione di quanto sta avvenendo nella scena internazionale, dalla quale esso è assente, non partecipando nemmeno alle riunioni dell'Internazionale comunista, le cui tesi non sono riportate nell'Avanti!. Analogamente, le edizioni socialiste non stampano le pubblicazioni comuniste: «valga per tutte il volume di Lenin Stato e rivoluzione». Occorre pertanto, secondo Gramsci, che il Partito socialista acquisti «una sua figura precisa e distinta: da partito parlamentare piccolo borghese deve diventare il partito del proletariato rivoluzionario che lotta per l'avvenire della società comunista [...] i non comunisti rivoluzionari devono essere eliminati dal Partito [...] ogni avvenimento della vita proletaria nazionale e internazionale deve essere immediatamente commentata [...] per trarne argomenti di propaganda comunista e di educazione delle coscienze rivoluzionarie [...] le sezioni devono promuovere in tutte le fabbriche, nei sindacati, nelle cooperative, nelle caserme la costituzione di gruppi comunisti [...] l'esistenza di un Partito comunista coeso e fortemente disciplinato [...] è la condizione fondamentale e indispensabile per tentare qualsiasi esperimento di Soviet [...] il Partito deve lanciare un manifesto nel quale la conquista rivoluzionaria del potere politico sia posta in modo esplicito [...]».

L'occupazione delle fabbriche

La risoluzione dell'Internazionale comunista che chiedeva ai partiti socialisti l'allontanamento dei riformisti, venne disattesa dal Partito Socialista Italiano. Infatti, a dispetto dell'approvazione e dell'avallo ottenuto dagli ordinovisti da parte di Lenin nel corso del II Congresso dell'Internazionale, alla quale il PSI aveva aderito con il congresso di Bologna tenuto nell'ottobre del 1919, i vecchi dirigenti del partito erano riluttanti di fronte alla svolta politica e sociale realizzatasi nel dopoguerra.

In Italia, la rivendicazioni salariali, rese necessarie dall'elevato indice d'inflazione, non trovavano accoglienza presso gli industriali. Il 30 agosto 1920, a Milano, a seguito della serrata dell'Alfa Romeo, 300 fabbriche furono occupate dagli operai: la FIOM appoggiò l'iniziativa, ordinando l'occupazione di tutte le fabbriche metalmeccaniche d'Italia, con la speranza che una tale, estrema iniziativa provocasse l'intervento del governo a favore di una soluzione delle trattative. All'inizio di settembre tutte le maggiori fabbriche d'Italia erano occupate da mezzo milione di operai, parte dei quali armati, sia pure in modo rudimentale; alla FIAT di Torino, tuttavia, ci fu una novità: dell'ufficio di Giovanni Agnelli prese possesso l'operaio comunista Giovanni Parodi e i Consigli di fabbrica decisero di continuare la produzione, per dimostrare che una grande fabbrica poteva funzionare anche in assenza del proprietario.

Di fronte alla neutralità del governo Giolitti e alla decisione della Confindustria di non cedere, il 10 settembre, nell'assemblea milanese che vide riuniti i dirigenti del Partito socialista e della Camera del Lavoro, questi ultimi si dimisero lasciando la gestione della difficile situazione al Partito, che tuttavia non aveva alcuna intenzione di prolungare l'agitazione: la proposta estrema dell'allargamento delle occupazioni a tutte le fabbriche del paese e alle campagne fu respinta dalla maggioranza dei rappresentanti. Un accordo salariale raggiunto con la mediazione di Giolitti pose termine, alla fine di settembre, alle occupazioni delle fabbriche.

Quell'esperienza dimostrò tanto la mancanza di una strategia dei dirigenti socialisti quanto l'impreparazione degli stessi operai a iniziative rivoluzionarie, per le quali occorrevano organizzazione e disciplina. In previsione del prossimo XVII Congresso del Partito socialista, Gramsci scrisse che «la costituzione del Partito comunista crea le condizioni per intensificare e approfondire l'opera nostra: liberati dal peso morto degli scettici, dei chiacchieroni, degli irresponsabili, liberati dall'assillo di dover continuamente, nel seno del Partito, lottare contro i riformisti e gli opportunisti, di dover sventare le loro insidie, di dover analizzare e criticare i loro atteggiamenti equivoci e la loro fraseologia pseudo-rivoluzionaria, noi potremo dedicarci interamente al lavoro positivo, all'espansione del nostro programma di rinnovamento, di organizzazione, di risveglio delle coscienze e delle volontà».

Nell'ottobre 1920 si riunì a Milano il gruppo favorevole alla costituzione di un partito comunista e Gramsci, Nicola Bombacci, Amadeo Bordiga, Bruno Fortichiari, Francesco Misiano, Luigi Repossi e Umberto Terracini costituirono il Comitato provvisorio della frazione comunista del Partito Socialista.

La fondazione del Partito comunista
Il congresso di Livorno

La scissione si realizzò il 21 gennaio 1921, nel Teatro San Marco di Livorno, con la nascita del «Partito Comunista d'Italia, sezione italiana dell'Internazionale». Il comitato centrale fu composto dagli ex-massimalisti - Nicola Bombacci, Ambrogio Belloni, Egidio Gennari, Francesco Misiano, Anselmo Marabini, Luigi Repossi e Luigi Polano) - dagli astensionisti (Amadeo Bordiga, Ruggiero Grieco, Giovanni Parodi, Cesare Sessa, Luduvico Tarsia e Bruno Fortichiari) - e dagli ordinovisti Gramsci e Terracini.

Dal 1º gennaio 1921 Gramsci diresse l'Ordine nuovo, divenuto ora uno dei quotidiani comunisti insieme con Il Lavoratore di Trieste e Il Comunista di Roma, quest'ultimo diretto da Togliatti. Non venne eletto deputato alle elezioni del 15 maggio: Gramsci non ha capacità oratorie, è ancora giovane e anche la sua conformazione fisica non lo agevola nell'apprezzamento di molti elettori.

Alla fine di maggio partì per Mosca, designato a rappresentare il Partito italiano nell'esecutivo dell'Internazionale comunista. Vi arrivò già malato e nell'estate fu ricoverato in un sanatorio per malattie nervose di Mosca. Qui conobbe una degente russa, Eugenia Schucht, membro del Partito, figlia di Apollon Schucht, dirigente del Pcus ed amico personale di Lenin, [40] una violinista che ha vissuto alcuni anni in Italia e, attraverso di lei, la sorella Giulia (Julka) (1894-1980) che, anch'ella violinista, aveva abitato diversi anni a Roma diplomandosi al Liceo musicale romano.

Giulia, ventiseienne, è bella, alta, ha un aspetto romantico; Gramsci ne è conquistato: ricorderà «il primo giorno che [...] non osavo entrare nella tua stanza perché mi avevi intimidito [...] al giorno che sei partita a piedi e io ti ho accompagnato fino alla grande strada attraverso la foresta e sono rimasto tanto tempo fermo per vederti allontanare tutta sola, col tuo carico da viandante, per la grande strada, verso il mondo grande e terribile [...] ho molto pensato a te, che sei entrata nella mia vita e mi hai dato l'amore e mi hai dato ciò che mi era sempre mancato e mi faceva spesso cattivo e torbido». E quell'immagine di lei, viandante in un mondo grande e terribile, con il suo senso doloroso di distacco, ritornerà ancora dal carcere: «Ricordi quando sei ripartita dal bosco d'argento [...] ti ho accompagnata fino all'orlo della strada maestra e sono rimasto a lungo a vederti allontanare [...] così ti vedo sempre mentre ti allontani a passi brevi, col violino in una mano e nell'altra la tua borsa da viaggio, così pittoresca». Si sposano nel 1923 e avranno due figli, Delio, il 5 settembre 1924 e Giuliano, il 30 agosto 1926. Julia diverrà nel 1924 membro della OGPU, il servizio di Sicurezza sovietico.

A differenza di Bordiga, tutto inteso a salvaguardare la «purezza» programmatica del partito, e perciò contrario a qualunque iniziativa al di fuori della dittatura del proletariato, Gramsci guardava anche a obiettivi democratici, intermedi, raggiungibili utilizzando le 'contraddizioni' presenti negli strati sociali e le forze che potevano rappresentare elementi di rottura, come il movimento sindacale cattolico di Guido Miglioli e l'intellettualità progressista liberale di cui Piero Gobetti è allora tra i maggiori rappresentanti.

Nel III Congresso dell'Internazionale comunista, di fronte al riflusso dell'ondata rivoluzionaria rappresentata dalle sconfitte delle esperienze comuniste in Germania e in Ungheria, si decise la tattica del fronte unito con la socialdemocrazia. Bordiga e la maggioranza dei dirigenti comunisti italiani si oppose, elaborando le Tesi di Roma, base programmatica del II Congresso del Partito, tenuto a Roma nel marzo del 1922. Gramsci vi aderì ma scrisse di aver «accettato le tesi di Amadeo perché esse erano presentate come un'opinione per il Quarto Congresso [dell'Internazionale comunista] e non come un indirizzo d'azione. Ritenevamo di mantenere così unito il partito attorno al suo nucleo fondamentale, pensavamo che si potesse fare ad Amadeo questa concessione [...] senza nuove crisi e nuove minacce di scissione nel seno del nostro movimento».

Nel IV Congresso dell'Internazionale, tenutosi dal 5 novembre al 5 dicembre 1922, di fronte all'avvento al potere di Mussolini, ai delegati comunisti italiani fu posta con ancora maggior forza la necessità di fondersi con corrente socialista degli internazionalisti, capeggiata da Giacinto Menotti Serrati, e di costituire un nuovo Esecutivo, mettendo in minoranza Bordiga, sempre contrario a ogni accordo. Lo stesso Bordiga fu arrestato al suo rientro in Italia nel febbraio 1923 e, in settembre, a Milano, furono incarcerati anche i rappresentanti del nuovo Esecutivo: Gramsci restò così il massimo dirigente del Partito e nel novembre del 1923 si trasferì a Vienna per seguire più da vicino la situazione italiana. Fu allora che egli ritenne necessario rompere con la politica di Bordiga: «Il suo stesso carattere inflessibile e tenace fino all'assurdo ci obbliga [...] a prospettarci il problema di costruire il partito e il centro di esso anche senza di lui e contro di lui. Penso che sulle questioni di principio non dobbiamo più fare compromessi come nel passato: vale meglio la polemica chiara, leale, fino in fondo, che giova al partito e lo prepara ad ogni evenienza».

Il 12 febbraio 1924 uscì a Milano il primo numero del nuovo quotidiano comunista l'Unità e dal primo marzo la nuova serie del quindicinale l'Ordine nuovo. Il titolo del giornale, da lui scelto, venne giustificato dalla necessità dell' «unità di tutta la classe operaia intorno al partito, unità degli operai e dei contadini, unità del Nord e del Mezzogiorno, unità di tutto il popolo italiano nella lotta contro il fascismo».

Alle elezioni del 6 aprile venne eletto deputato al parlamento, potendo così rientrare a Roma, protetto dall'immunità parlamentare, il 12 maggio 1924. Quello stesso mese, nei dintorni di Como, si tenne un convegno illegale dei dirigenti delle Federazioni comuniste italiane: pubblicamente, si fingevano dipendenti di un'azienda milanese in gita turistica, con tanto di pubblici discorsi fascisti e inni a Mussolini, mentre, a parte, discutevano dei problemi del partito.

Nel convegno si affrontò il «caso Bordiga», il quale aveva rifiutato la candidatura al Parlamento, era in rotta con la maggioranza dell'Internazionale e rifiutava ogni azione politica comune con le altre forze politiche di sinistra, considerandosi all'opposizione nel suo stesso partito. Delle tre mozioni presentate, che rispecchiavano le tre correnti in seno al Partito, la corrente di destra di Tasca, di centro di Gramsci e Togliatti, e di sinistra di Bordiga, questa raccolse l'adesione della grande maggioranza dei delegati, confermando il notevole prestigio di cui il politico napoletano godeva ancora nel Partito.

Il 10 giugno un gruppo di fascisti rapì e uccise il deputato socialista Giacomo Matteotti; sembrò allora che il fascismo stesse per crollare per l'indignazione morale che in quei giorni percorse il Paese, ma non fu così; l'opposizione parlamentare scelse la linea sterile di abbandonare il Parlamento, dando luogo alla cosiddetta Secessione dell'Aventino: i liberali speravano in un appoggio della Corona, che non venne, i cattolici erano ostili tanto ai fascisti che ai socialisti e questi ultimi erano ostili a tutti, comunisti compresi. Gramsci avanzò al «Comitato dei sedici» - il nucleo dirigente dei gruppi aventiniani - la proposta di proclamare lo sciopero generale che però fu respinta; i comunisti uscirono allora dal «Comitato delle opposizioni» aventiniane il quale, secondo Gramsci, non aveva alcuna volontà di agire: ha una «paura incredibile che noi prendessimo la mano e quindi manovra per costringerci ad abbandonare la riunione».

Malgrado le divisioni dell'opposizione antifascista, Gramsci credeva che la caduta del regime fosse imminente: «Il regime fascista muore perché non solo non è riuscito ad arrestare, ma anzi ha contribuito ad accelerare la crisi delle classi medie iniziatasi dopo la guerra. L'aspetto economico di questa crisi consiste nella rovina della piccola e media azienda [...] il monopolio del credito, il regime fiscale, la legislazione sugli affitti hanno stritolato la piccola impresa commerciale e industriale: un vero e proprio passaggio di ricchezza si è verificato dalla piccola e media alla grande borghesia [...] L'apparato industriale ristretto ha potuto salvarsi dal completo sfacelo solo per un abbassamento del livello di vita della classe operaia premuta dalla diminuzione dei salari, dall'aumento della giornata di lavoro [...] La disgregazione sociale e politica del regime fascista ha avuto la sua piena manifestazione di massa nelle elezioni del 6 aprile. Il fascismo è stato messo nettamente in minoranza nella zona industriale [...] Le elezioni del 6 aprile [...] segnarono l'inizio di quella ondata democratica che culminò nei giorni immediatamente successivi all'assassinio dell'on. Matteotti [...] le opposizioni avevano acquistato dopo le elezioni un'importanza politica enorme; l'agitazione da esse condotta nei giornali e nel Parlamento per discutere e negare la legittimità del governo fascista [...] si ripercuoteva nel seno dello stesso Partito nazionale fascista, incrinava la maggioranza parlamentare. Di qui l'inaudita campagna di minacce contro le opposizioni e l'assassinio del deputato unitario [...]».

«Il delitto Matteotti dette la prova provata che il Partito fascista non riuscirà mai a diventare un normale partito di governo, che Mussolini non possiede dello statista e del dittatore altro che alcune pittoresche pose esteriori; egli non è un elemento della vita nazionale, è un fenomeno di folklore paesano, destinato a passare alla storia nell'ordine delle diverse maschere provinciali italiane, più che nell'ordine dei Cromwell, dei Bolivar, dei Garibaldi».

S'ingannava, perché l'inerzia dell'opposizione non riuscì a dare alternative del blocco sociale in cui la piccola borghesia teme il «salto nel buio» della caduta del regime e i fascisti riprendono coraggio e ricominciano le violenze squadriste: in una delle tante viene aggredito anche Gobetti. E dopo il 12 settembre, quando il militante comunista Giovanni Corvi uccide in un tram il deputato fascista Armando Casalini, per vendicare la morte di Matteotti, la repressione s'inasprisce. Il 20 ottobre Gramsci propose vanamente che l'opposizione aventiniana si costituisca in «Antiparlamento», in modo da segnare nettamente la distanza e svuotare di significato un Parlamento di soli fascisti; il 26 partì per la Sardegna, per intervenire al Congresso regionale del partito e per rivedere i famigliari. Il 6 novembre si congedò dalla madre, che non avrebbe più rivisto.

Il 12 novembre 1924 il deputato comunista Luigi Repossi rientrò in Parlamento, dove sedevano solo i deputati fascisti e i loro alleati, per commemorare Matteotti a nome di tutto il suo partito; il 26 vi rientrò anche tutto il gruppo parlamentare comunista, a segnare l'inutilità dell'esperienza aventiniana. Il 27 dicembre 1924 il quotidiano di Giovanni Amendola "Il Mondo" pubblicò le dichiarazioni di Cesare Rossi, già capo ufficio stampa di Mussolini, a proposito del delitto Matteotti: «Tutto quanto è successo è avvenuto sempre per la volontà diretta o per l'approvazione o per la complicità del duce» e il 3 gennaio 1925 Mussolini, in un discorso rimasto famoso, a confermare quella testimonianza, dichiara alla Camera dei deputati di assumersi «la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto», dando il via a una nuova azione repressiva.

In febbraio Gramsci andò a Mosca, per stare con la moglie e conoscere finalmente il figlio Delio. Tornato in Italia a maggio, il 26 tenne il suo primo - e unico - discorso in Parlamento, davanti all'ex compagno di partito Mussolini, ora Primo ministro, che aveva descritto l'anno prima come un capo «divinizzato, dichiarato infallibile, preconizzato organizzatore e ispiratore di un rinato Impero Romano [...] conosciamo quel viso: conosciamo quel roteare degli occhi nelle orbite che nel passato dovevano, con la loro ferocia meccanica, far venire i vermi alla borghesia e oggi al proletariato. Conosciamo quel pugno sempre chiuso alla minaccia [...] Mussolini [...] è il tipo concentrato del piccolo-borghese italiano, rabbioso, feroce impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale da vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del proletariato; divenne il dittatore della borghesia, che ama le facce feroci quando ridiventa borbonica».

Con il pretesto di colpire la Massoneria, il governo aveva predisposto un disegno di legge per disciplinare l'attività di associazioni, enti e istituti: continuamente interrotto, Gramsci respinse il pretesto che il governo si era dato, «perché la Massoneria passerà in massa al Partito fascista e ne costituirà una tendenza, è chiaro che con questa legge voi sperate di impedire lo sviluppo di grandi organizzazioni operaie e contadine».

E ironizzando: «Qualche fascista ricorda ancora nebulosamente gli insegnamenti dei suoi vecchi maestri, di quando era rivoluzionario e socialista, e crede che una classe non possa rimanere tale permanentemente e svilupparsi fino alla conquista del potere, senza che essa abbia un partito e un'organizzazione che ne riassuma la parte migliore e più cosciente. C'è qualcosa di vero, in questa torbida perversione degli insegnamenti marxisti».

Concluse: «Voi potete conquistare lo Stato, potete modificare i codici, potete cercar di impedire alle organizzazioni di esistere nella forma in cui sono esistite fino adesso ma non potete prevalere sulle condizioni obbiettive in cui siete costretti a muovervi. Voi non farete che costringere il proletariato a ricercare un indirizzo diverso da quello fin'oggi più diffuso nel campo dell'organizzazione di massa. Ciò noi vogliamo dire al proletariato e alle masse contadine italiane, da questa tribuna: che le forze rivoluzionarie italiane non si lasceranno schiantare, il vostro torbido sogno non riuscirà a realizzarsi».

Il Congresso di Lione

Dal 20 al 26 gennaio 1926 si svolse clandestinamente a Lione il III Congresso del Partito.[50] Vi parteciparono 70 delegati, con tutti i maggiori responsabili, Gramsci, Bordiga, Tasca, Togliatti, Grieco, Leonetti, Scoccimarro: vi era anche Serrati, che aveva lasciato da poco il Partito socialista di cui era stato a lungo dirigente di primo piano. Assisteva, a nome dell'Internazionale, Jules Humbert-Droz. Gramsci presentò, a nome della maggioranza, le Tesi congressuali, elaborate insieme con Togliatti.

Con un capitalismo debole e l'agricoltura base dell'economia nazionale, in Italia si assiste al compromesso fra industriali del Nord e proprietari fondiari del Sud, ai danni degli interessi generali della maggioranza della popolazione. Il proletariato, in quanto forza sociale omogenea e organizzata rispetto alla piccola borghesia urbana e rurale, che ha interessi differenziati, viene visto, nelle Tesi, come l'unico elemento che abbia una funzione unificatrice di tutta la società.

Secondo Gramsci il fascismo non è, come ritiene Bordiga, l'espressione di tutta la classe dominante, ma è il prodotto politico della piccola borghesia urbana e agraria che ha consegnato il potere alla grande borghesia, e la sua tendenza imperialistica è l'espressione della necessità, da parte delle classi industriali e agrarie, «di trovare fuori del campo nazionale gli elementi per la risoluzione della crisi della società italiana» che tuttavia permette, per la sua natura oppressiva e reazionaria, una soluzione rivoluzionaria delle contraddizioni sociali e politiche; le due forze sociali idonee a dar luogo a questa soluzione sono il proletariato del Nord e i contadini del Mezzogiorno. A questo scopo, il Partito andrà bolscevizzato, ossia organizzato per cellule di fabbrica e disciplinato negando al suo interno la possibilità dell'esistenza delle frazioni.

Il Congresso approvò le Tesi a grande maggioranza ed elesse il Comitato centrale con Gramsci segretario del Partito. Da allora, la sinistra comunista di Bordiga non ebbe più alcun ruolo influente nel Partito.

La questione meridionale

Tornato a Roma - da via Vesalio si era trasferito in via Morgagni - ebbe il tempo di passare alcuni mesi con la famiglia - la moglie Giulia e il piccolo Delio, oltre alle cognate Eugenia e Tatiana - che abitano tuttavia in un altro appartamento, in via Trapani: le squadre fasciste, superato da tempo lo smarrimento provocato dal delitto Matteotti, avevano piena libertà d'azione e non era prudente coinvolgere i familiari in loro possibili aggressioni; lo scorso 4 ottobre, a Firenze, era stato ucciso l'ex-deputato socialista Gaetano Pilato, la stessa casa di Gramsci era stata messa a soqquadro dalla polizia il 20 ottobre. Mentre gli esponenti dell'opposizione antifascista prendevano la via dell'emigrazione - Gobetti, che muore il 6 febbraio 1926, venticinquenne, a Parigi, in conseguenza delle bastonate squadriste, Amendola, Salvemini - un processo farsa condannava a una pena simbolica gli assassini di Matteotti, difesi dal capo-squadrista Roberto Farinacci.

La moglie Giulia, che aspettava il secondo figlio Giuliano, lasciò l'Italia il 7 agosto e il mese dopo fu la volta della cognata Eugenia a tornare a Mosca con il figlio Delio: Gramsci non l'avrebbe più rivisto.

Elaborando temi già affrontati nelle Tesi di Lione, in settembre Gramsci iniziò a scrivere un saggio sulla questione meridionale, intitolato Alcuni temi sulla quistione meridionale, in cui analizzò il periodo dello sviluppo politico italiano dal 1894, anno dei moti dei contadini siciliani, seguito nel 1898 dall'insurrezione di Milano repressa a cannonate dal governo Di Rudinì. Secondo Gramsci, la borghesia italiana, impersonata politicamente da Giovanni Giolitti, di fronte all'insofferenza delle classi emarginate dei contadini meridionali e degli operai del Nord, piuttosto che allearsi con le forze agrarie, cosa che avrebbe dovuto comportare una politica di libero scambio e di bassi prezzi industriali, scelse di favorire il blocco industriale-operaio, con la conseguente scelta del protezionismo doganale, unita a concessione di libertà sindacali.

Di fronte alla persistenza dell'opposizione operaia, manifestatasi anche contro i dirigenti socialisti riformisti, Giolitti cercò un accordo con i contadini cattolici del Centro-Nord. Il problema è allora, per Gramsci, di perseguire una politica di opposizione che rompa l'alleanza borghesia-contadini, facendo convergere questi ultimi in un'alleanza con la classe operaia.

La società meridionale, secondo Gramsci, è costituita da tre classi fondamentali: braccianti e contadini poveri, politicamente inconsapevoli; piccoli e medi contadini, che non lavorano la terra ma dalla quale ricavano un reddito che permette loro di vivere in città, spesso come impiegati statali: costoro disprezzano e temono il lavoratore della terra, e fanno da intermediari al consenso fra i contadini poveri e la terza classe, costituita dai grandi proprietari terrieri, i quali a loro volta contribuiscono alla formazione dell'intellettualità nazionale, con personalità del valore di Benedetto Croce e di Giustino Fortunato e sono, con quelli, i principali e più raffinati sostenitori della conservazione di questo blocco agrario.

Per poter spezzare questo blocco occorrerebbe la formazione di un ceto di intellettuali medi che interrompa il flusso del consenso fra le due classi estreme, favorendo così l'alleanza dei contadini poveri con il proletariato urbano.

L'arresto e il processo

In Unione Sovietica è in corso la lotta fra la maggioranza di Stalin e Bucharin e la minoranza di sinistra del Partito comunista, guidata da Trotskij, Zinov'ev e Kamenev, che critica la politica della NEP, la quale favorisce i contadini ricchi a svantaggio degli operai, e la rinuncia alla rivoluzione socialista mondiale attraverso la costruzione del «socialismo in un solo paese» che porterebbe all'involuzione del movimento rivoluzionario. Il dissidio, che porta all'esclusione di Zinov'ev dall'Ufficio politico del Partito sovietico, si era fatto sempre più aspro con la costituzione in frazione della minoranza e si era esteso anche all'interno del Partito comunista tedesco, provocando una scissione. Il 18 ottobre il «New York Times», forse su ispirazione di Lev Trotsky, pubblicava il testamento di Lenin, con i suoi noti rilievi sul carattere di Stalin e sul pericolo rappresentato dal troppo potere che la carica di segretario del Partito gli concedeva.

Su incarico dell'Ufficio politico, Gramsci scrisse a metà ottobre una lettera al Comitato centrale del Partito sovietico. Egli si mostra preoccupato per «l'acutezza delle polemiche» che potrebbero portare a una scissione che «può avere le più gravi ripercussioni, non solo se la minoranza di opposizione non accetta con la massima lealtà i principi fondamentali della disciplina rivoluzionaria di Partito, ma anche se essa, nel condurre la sua lotta, oltrepassa certi limiti che sono superiori a tutte le democrazie formali». Riconosciuto ai dirigenti sovietici il merito di essere stati «l'elemento organizzatore e propulsore delle forze rivoluzionarie di tutti i paesi», li rimprovera di star «distruggendo l'opera vostra, voi degradate e correte il rischio di annullare la funzione dirigente che il Partito comunista dell'URSS aveva conquistato per l'impulso di Lenin: ci pare che la passione violenta delle quistioni russe vi faccia perdere di vista gli aspetti internazionali delle quistioni russe stesse, vi faccia dimenticare che i vostri doveri di militanti russi possono e debbono essere adempiuti solo nel quadro degli interessi del proletariato internazionale».

Nel merito del fondamento del contrasto - la contraddizione di un proletariato formalmente «dominante» in URSS, ma in condizioni economiche molto inferiori alla classe «dominata» - Gramsci appoggia la posizione della maggioranza, rilevando che «è facile fare della demagogia su questo terreno ed è difficile non farla quando la quistione è stata messa nei termini dello spirito corporativo e non in quelli del leninismo, della dottrina dell'egemonia del proletariato [...] è in questo elemento la radice degli errori del blocco delle opposizioni e l'origine dei pericoli latenti che nella sua attività sono contenuti. Nella ideologia e nella pratica del blocco delle opposizioni rinasce in pieno tutta la tradizione della socialdemocrazia e del sindacalismo che ha impedito finora al proletariato occidentale di organizzarsi in classe dirigente».

Gramsci concludeva esortando all'unità: «I compagni Zinov'ev, Trotskij, Kamenev hanno contribuito potentemente a educarci per la rivoluzione [...] sono stati i nostri maestri. A loro specialmente ci rivolgiamo come ai maggiori responsabili dell'attuale situazione perché vogliamo essere sicuri che la maggioranza del CC dell'URSS non intenda stravincere nella lotta e sia disposta a evitare le misure eccessive [...] l'unità e la disciplina in questo caso non possono essere meccaniche e coatte, devono essere leali e di convinzione e non quelle di un reparto nemico imprigionato e assediato che pensa all'evasione o alla sortita di sorpresa».

Togliatti, allora a Mosca quale rappresentante italiano all'Internazionale, criticò le ultime considerazioni che ripartivano, seppure in modo diseguale, le responsabilità delle due fazioni, credendo ancora nella illusoria possibilità di una compattezza del gruppo dirigente sovietico: a suo avviso, invece, «d'ora in poi l'unità della vecchia guardia leninista non sarà più o sarà assai difficilmente realizzata in modo continuo».

Non ci sarà tempo e occasione per approfondire la questione: lo stesso giorno in cui il Comitato centrale comunista doveva riunirsi clandestinamente a Genova, il 31 ottobre 1926, Mussolini subì a Bologna un attentato senza conseguenze personali, che provoca una tale pressione poliziesca da far fallire il convegno. L'attentato Zamboni costituì il pretesto per l'eliminazione degli ultimi, minimi residui di democrazia: il 5 novembre il governo sciolse i partiti politici di opposizione e soppresse la libertà di stampa. L'8 novembre, in violazione dell'immunità parlamentare, Gramsci venne arrestato nella sua casa e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Dopo un periodo di confino a Ustica, dove ritrovò, tra gli altri, Bordiga, il 7 febbraio 1927 fu detenuto nel carcere milanese di San Vittore. Qui ricevette, in agosto, la visita del fratello Mario, le cui scelte politiche erano state opposte a quelle del fratello - già federale di Varese, ora si occupava di commercio - e, soprattutto, quella della cognata Tatiana, la persona che si manterrà sempre, per quanto possibile, in contatto con lui. L'istruttoria andò per le lunghe, perché vi erano difficoltà a montare su di lui accuse credibili: fu anche fatto avvicinare da due agenti provocatori - prima un tale Dante Romani e poi un certo Corrado Melani - ma senza successo.

Il processo a ventidue imputati comunisti, fra i quali Umberto Terracini, Mauro Scoccimarro e Giovanni Roveda, iniziò finalmente a Roma il 28 maggio 1928; per essere meglio servito, Mussolini aveva «fascistizzato» anche la magistratura, istituendo il 1º febbraio 1927 il Tribunale Speciale Fascista. Presidente è un generale, Alessandro Saporiti, giurati sono cinque consoli della milizia fascista, relatore l'avvocato Giacomo Buccafurri e accusatore l'avvocato Michele Isgrò, tutti in uniforme; intorno all'aula, «un doppio cordone di militi in elmetto nero, il pugnale sul fianco ed i moschetti con la baionetta in canna».[54] Gramsci è accusato di attività cospirativa, istigazione alla guerra civile, apologia di reato e incitamento all'odio di classe.

Il pubblico ministero Isgrò concluse la sua requisitoria con una frase rimasta famosa: «Per vent'anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare»; e infatti Gramsci, il 4 giugno, venne condannato a venti anni, quattro mesi e cinque giorni di reclusione; il 19 luglio raggiunse il carcere di Turi, in provincia di Bari.

Il carcere

Fin da quando si trovava in carcere a Milano, Gramsci era intenzionato a occuparsi «intensamente e sistematicamente di qualche soggetto» che lo «assorbisse e centralizzasse la sua vita interiore».L'8 febbraio 1929, nel carcere di Turi, il detenuto 7.047 ottenne finalmente l'occorrente per scrivere e iniziò la stesura dei suoi «Quaderni del carcere». Il primo quaderno si apre proprio con una bozza di 16 argomenti, alcuni dei quali saranno abbandonati, altri inseriti e altri ancora svolti solo in parte. Caratteristico era il suo modo di lavorare: quasi tutti i giorni, per alcune ore, camminando all'interno della cella, rifletteva sulle frasi da scrivere e poi si chinava sul tavolino, scrivendo senza sedersi, un ginocchio appoggiato sullo sgabello, per riprendere a camminare e a pensare.

A fare da tramite tra Gramsci ed il mondo esterno,ed i particolare con Piero Sraffa e tramite questi col Pcus ed il PCdI, fu la cognata Tatiana Schucht, essendo la moglie di Gramsci tornata in Urss.

Intanto, il VI Congresso dell'Internazionale comunista, tenutosi a Mosca dal luglio al settembre 1928, aveva stabilito l'impossibilità di accordi con la socialdemocrazia, che veniva anzi assimilata allo stesso fascismo. Era la tesi di Stalin il quale, liquidata l'opposizione di Trotskij, eliminava anche l'influenza di Bucharin che, già suo alleato contro la sinistra di Trotskij, era rimasto il suo principale oppositore da destra. Al nuovo orientamento dell'Internazionale, riaffermato nel X Plenum del Comitato esecutivo nel luglio 1929, dovevano adeguarsi i Partiti nazionali, espellendo, se necessario, i dissidenti. Il Partito comunista d'Italia si adeguò alle scelte dell'Internazionale, espellendo Angelo Tasca in settembre e in successione, ma con l'accusa di trotskismo, prima Bordiga, poi, nell'aprile del 1930, Alfonso Leonetti, Pietro Tresso e Paolo Ravazzoli.

Gramsci teneva, durante l'ora d'aria, dei "colloqui-lezioni" con i compagni di partito: non esistono dirette testimonianze delle opinioni espresse da Gramsci riguardo la «svolta» politica del movimento comunista, ma può costituire un indiretto riferimento un rapporto che un suo compagno di carcere, Athos Lisa, amnistiato nel 1933, inviò subito al Centro estero comunista.[57] Secondo quella relazione, Gramsci riferì la teoria della necessità dell'alleanza fra operai del Nord e contadini meridionali che già stava elaborando nei suoi Quaderni: «L'azione per la conquista degli alleati diviene per il proletariato cosa estremamente delicata e difficile. D'altra parte, senza la conquista di questi alleati, è precluso al proletariato ogni serio movimento rivoluzionario». Qui s'intende che il proletariato - la classe operaia - debba allearsi con i contadini e la piccola borghesia: «Se si tiene conto delle particolari condizioni nei limiti delle quali va visto il grado di sviluppo politico degli strati contadini e piccoli borghesi in Italia, è facile comprendere come la conquista di questi strati sociali comporti per il partito una particolare azione [...]»

«La lotta per la conquista diretta del potere è un passo al quale questi strati sociali potranno solo accedere per gradi [...] il primo passo attraverso il quale bisogna condurre questi strati sociali è quello che li porti a pronunciarsi sul problema istituzionale e costituzionale. L'inutilità della Corona è ormai compresa da tutti i lavoratori [...] a questo obiettivo deve improntarsi la tattica del partito senza tema di apparire poco rivoluzionario. Deve fare sua prima degli altri partiti in lotta contro il fascismo la parola d'ordine della Costituente». Ma l'azione del partito «deve essere intesa a svalutare tutti i programmi di riforma pacifica dimostrando alla classe lavoratrice come la sola soluzione possibile in Italia risieda nella rivoluzione proletaria».

La richiesta di una Costituente, e dunque di un'iniziativa politica che si ponesse obiettivi intermedi, avrebbe comportato necessariamente una convergenza, per quanto temporanea, con altre forze antifasciste, e se è difficile considerare tale linea politica come «socialdemocratica», durante le discussioni nel cortile del carcere qualche suo compagno arrivò a sostenere che egli era ormai fuori del Partito comunista: probabilmente le reazioni di alcuni «erano esasperate dal clima di detenzione» ma certo le posizioni di Gramsci dovevano apparire «in contrasto con la linea politica indicata in quegli anni dal Partito comunista».

Dal 1931 Gramsci, oltre al morbo di Pott di cui soffriva fin dall'infanzia, fu colpito da arteriosclerosi e poté così ottenere una cella individuale; cercò di reagire alla detenzione studiando ed elaborando le proprie riflessioni politiche, filosofiche e storiche, tuttavia le condizioni di salute continuarono a peggiorare e in agosto ebbe un'improvvisa e grave emorragia.

Anche la moglie Giulia, in Russia, era sofferente di una seria forma di depressione e rare erano le sue lettere al marito che, all'oscuro dei motivi dei suoi lunghi silenzi, sentiva crescere intorno a sé il senso di un opprimente isolamento. Scriveva alla cognata: «Non credere che il sentimento di essere personalmente isolato mi getti nella disperazione [...] io non ho mai sentito il bisogno di un apporto esteriore di forze morali per vivere fortemente la mia vita [...] tanto meno oggi, quando sento che le mie forze volitive hanno acquistato un più alto grado di concretezza e di validità. Ma mentre nel passato mi sentivo quasi orgoglioso di sentirmi isolato, ora invece sento tutta la meschinità, l'aridità, la grettezza di una vita che sia esclusivamente volontà».

Quando la madre morì, il 30 dicembre 1932, i famigliari preferirono non informarlo; il 7 marzo 1933 ebbe una seconda grave crisi, con allucinazioni e deliri. Si riprese a fatica, senza farsi illusioni sul suo immediato futuro: «Fino a qualche tempo fa io ero, per così dire, pessimista con l'intelligenza e ottimista con la volontà [...] Oggi non penso più così. Ciò non vuol dire che abbia deciso di arrendermi, per così dire. Ma significa che non vedo più nessuna uscita concreta e non posso più contare su nessuna riserva di forze».

Eppure lo stesso codice penale dell'epoca, all'art. 176, prevedeva la concessione della libertà condizionata ai carcerati in gravi condizioni di salute. A Parigi si costituì un comitato, di cui fecero parte, fra gli altri, Romain Rolland e Henri Barbusse, per ottenere la liberazione sua e di altri detenuti politici, ma solo il 19 novembre Gramsci venne trasferito nell'infermeria del carcere di Civitavecchia e poi, il 7 dicembre, nella clinica del dottor Cusumano a Formia, sorvegliato in camera e all'esterno. Il 25 ottobre 1934 Mussolini accolse finalmente la richiesta di libertà condizionata, ma Gramsci non rimase libero nei suoi movimenti, tanto che gli fu impedito di andare a curarsi altrove, perché il governo temeva una sua fuga all'estero; solo il 24 agosto 1935 poté essere trasferito nella clinica "Quisisana" di Roma. Vi giunse in gravi condizioni: oltre al morbo di Pott e all'arteriosclerosi, soffriva di ipertensione e di gotta.

Il 21 aprile 1937 Gramsci riacquistò la piena libertà, ma era ormai in gravissime condizioni in clinica: morì all'alba del 27 aprile, a quarantasei anni, di emorragia cerebrale. Cremato, il giorno seguente si svolsero i funerali, cui parteciparono soltanto il fratello Carlo e la cognata Tatiana: le ceneri, inumate nel cimitero del Verano, furono trasferite, dopo la Liberazione, nel Cimitero acattolico di Roma.

Il pensiero di Gramsci
L'egemonia

Conquistare la maggioranza politica di un Paese vuol dire che le forze sociali, che di tale maggioranza sono espressione, dirigono la politica di quel determinato paese e dominano le forze sociali che a tale politica si oppongono: significa ottenere l'egemonia.

Vi è distinzione fra direzione - egemonia intellettuale e morale - e dominio - esercizio della forza repressiva: «Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a liquidare o a sottomettere anche con la forza armata, ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere ed anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche dirigente».[62]

La crisi dell'egemonia si manifesta quando, anche mantenendo il proprio dominio, le classi sociali politicamente dominanti non riescono più a essere dirigenti di tutte le classi sociali, non riuscendo più a risolvere i problemi di tutta la collettività e a imporre la propria concezione del mondo. A quel punto, la classe sociale subalterna, se riesce a indicare concrete soluzioni ai problemi lasciati irrisolti dalla classe dominante, può diventare dirigente e, allargando la propria concezione del mondo anche ad altri strati sociali, può creare un nuovo «blocco sociale», cioè una nuova alleanza di forze sociali, divenendo egemone. Il cambiamento dell'esercizio dell'egemonia è un momento rivoluzionario che inizialmente avviene a livello della sovrastruttura - in senso marxiano, ossia politico, culturale, ideale, morale - ma poi trapassa nella società nel suo complesso, investendo anche la struttura economica, e dunque tutto il «blocco storico», termine che in Gramsci indica l'insieme della struttura e della sovrastruttura, ossia i rapporti sociali di produzione e i loro riflessi ideologici.

L'egemonia nella storia italiana

Analizzando la storia italiana e il Risorgimento in particolare, Gramsci rileva che l'azione della borghesia avrebbe potuto assumere un carattere rivoluzionario se avesse acquisito l'appoggio di vaste masse popolari, in particolare dei contadini, che costituivano la maggioranza della popolazione. Il limite della rivoluzione borghese in Italia consistette nel non essere capeggiata da un partito giacobino, come in Francia, dove le campagne, appoggiando la Rivoluzione, furono decisive per la sconfitta delle forze della reazione aristocratica.

Il partito politico italiano allora più avanzato fu il Partito d'Azione di Mazzini e Garibaldi, che non seppe impostare il problema dell'alleanza delle forze borghesi progressive con la classe contadina: Garibaldi in Sicilia distribuì le terre demaniali ai contadini, ma gli stessi garibaldini repressero le rivolte contadine contro i baroni latifondisti. Per conquistare l'egemonia contro i moderati guidati da Cavour, il Partito d'Azione avrebbe dovuto «legarsi alle masse rurali, specialmente meridionali, essere giacobino [...] specialmente per il contenuto economico-sociale: il collegamento delle diverse classi rurali che si realizzava in un blocco reazionario attraverso i diversi ceti intellettuali legittimisti-clericali poteva essere dissolto per addivenire ad una nuova formazione liberale-nazionale solo se si faceva forza in due direzioni: sui contadini di base, accettandone le rivendicazione di base [...] e sugli intellettuali degli strati medi e inferiori».

Al contrario, i cavourriani seppero mettersi alla testa della rivoluzione borghese, assorbendo tanto i radicali che una parte dei loro stessi avversari. Questo avvenne perché i moderati cavourriani ebbero un rapporto organico con i loro intellettuali che erano proprietari terrieri e dirigenti industriali come i politici che essi rappresentavano. Le masse popolari restarono passive nel raggiunto compromesso fra i capitalisti del Nord e i latifondisti del Sud.

Il Piemonte assunse la funzione di classe dirigente, anche se esistevano altri nuclei di classe dirigente favorevoli all'unificazione: ma «questi nuclei non volevano dirigere nessuno, cioè non volevano accordare i loro interessi e aspirazioni con gli interessi e aspirazioni di altri gruppi. Volevano dominare, non dirigere e ancora: volevano che dominassero i loro interessi, non le loro persone, cioè volevano che una forza nuova, indipendente da ogni compromesso e condizione, divenisse arbitra della Nazione: questa forza fu il Piemonte», che ebbe una funzione paragonabile a quella di un partito.

«Questo fatto è della massima importanza per il concetto di rivoluzione passiva, che cioè non un gruppo sociale sia il dirigente di altri gruppi, ma che uno Stato, sia pure limitato come potenza, sia il dirigente del gruppo che esso dovrebbe essere dirigente e possa porre a disposizione di questo un esercito e una forza politica-diplomatica». Che uno Stato si sostituisca ai gruppi sociali locali nel dirigere la lotta di rinnovamento «è uno dei casi in cui si ha la funzione di dominio e non di dirigenza di questi gruppi: dittatura senza egemonia».[64] E dunque per Gramsci il concetto di egemonia si distingue da quello di dittatura: questa è solo dominio, quella è capacità di direzione.

Le classi subalterne

Le classi subalterne - sottoproletariato, proletariato urbano, rurale e anche parte della piccola borghesia - non sono unificate e la loro unificazione avviene solo quando giungono a dirigere lo Stato, altrimenti svolgono una funzione discontinua e disgregata nella storia della società civile dei singoli Stati, subendo l'iniziativa dei gruppi dominanti anche quando ad essi si ribellano.

Il «blocco sociale», l'alleanza politica di classi sociali diverse, formato, in Italia, da industriali, proprietari terrieri, classi medie, parte della piccola borghesia, non è omogeneo, essendo attraversato da interessi divergenti, ma una politica opportuna, una cultura e un'ideologia o un sistema di ideologie impediscono che quei contrasti di interessi, permanenti anche quando siano latenti, esplodano provocando la crisi dell'ideologia dominante e la conseguente crisi politica dell'intero sistema di potere.

In Italia, l'esercizio dell'egemonia delle classi dominanti è ed è stata parziale: tra le forze che contribuiscono alla conservazione di tale blocco sociale è la Chiesa cattolica, che si batte per mantenere l'unione dottrinale tra fedeli colti e incolti, tra intellettuali e semplici, tra dominanti e dominati, in modo da evitare fratture irrimediabili che tuttavia esistono e che essa non è in realtà in grado di sanare, ma solo di controllare: «la Chiesa romana è sempre stata la più tenace nella lotta per impedire che ufficialmente si formino due religioni, quella degli intellettuali e quella delle anime semplici», una lotta che ha fatto risaltare «la capacità organizzatrice nella sfera della cultura del clero» che ha dato «certe soddisfazioni alle esigenze della scienza e della filosofia, ma con un ritmo così lento e metodico che le mutazioni non sono percepite dalla massa dei semplici, sebbene esse appaiano "rivoluzionarie" e demagogiche agli "integralisti"».

Anche la dominante cultura d'impronta idealistica, esercitata dalle scuole filosofiche crociane e gentiliane, non ha «saputo creare una unità ideologica tra il basso e l'alto, tra i semplici e gli intellettuali», tanto che essa, anche se ha sempre considerato la religione una mitologia, non ha nemmeno «tentato di costruire una concezione che potesse sostituire la religione nell'educazione infantile», e questi pedagogisti, pur essendo non religiosi, non confessionali e atei, «concedono l'insegnamento della religione perché la religione è la filosofia dell'infanzia dell'umanità, che si rinnova in ogni infanzia non metaforica».[66] La cultura laica dominante utilizza la religione proprio perché non si pone il problema di elevare le classi popolari al livello di quelle dominanti ma, al contrario, intende mantenerle in una posizione di subalternità.

La coscienza di classe

La frattura tra gli intellettuali e i semplici può essere sanata da quella politica che «non tende a mantenere i semplici nella loro filosofia primitiva del senso comune, ma invece a condurli a una concezione superiore della vita». L'azione politica realizzata dalla «filosofia della prassi» - così Gramsci chiama il marxismo, non solo per l'esigenza di celare quanto scrive alla repressiva censura carceraria - opponendosi alle culture dominanti della Chiesa e dell'idealismo, può condurre i subalterni a una «superiore concezione della vita. Se afferma l'esigenza del contatto tra intellettuali e semplici non è per limitare l'attività scientifica e per mantenere una unità al basso livello delle masse, ma appunto per costruire un blocco intellettuale-morale che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali». La via che conduce all'egemonia del proletariato passa dunque per una riforma culturale e morale della società.

Tuttavia l'uomo attivo di massa - cioè la classe operaia, - non è, in generale, consapevole né della funzione che può svolgere né della sua condizione reale di subordinazione, Il proletariato, scrive Gramsci, «non ha una chiara coscienza teorica di questo suo operare che pure è un conoscere il mondo in quanto lo trasforma. La sua coscienza teorica anzi può essere in contrasto col suo operare»; esso opera praticamente e nello stesso tempo ha una coscienza teorica ereditata dal passato, accolta per lo più in modo acritico. La reale comprensione critica di sé avviene «attraverso una lotta di egemonie politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo dell'etica, poi della politica per giungere a una elaborazione superiore della propria concezione del reale». La coscienza politica, cioè l'essere parte di una determinata forza egemonica, «è la prima fase per una ulteriore e progressiva autocoscienza dove teoria e pratica finalmente si unificano».

Ma autocoscienza critica significa creazione di una èlite di intellettuali, perché per distinguersi e rendersi indipendenti occorre organizzarsi, e non esiste organizzazione senza intellettuali, «uno strato di persone specializzate nell'elaborazione concettuale e filosofica».

Il partito politico

Già Machiavelli indicava nei moderni Stati unitari europei l'esperienza che l'Italia avrebbe dovuto far propria per superare la drammatica crisi emersa nelle guerre che devastarono la penisola dalla fine del Quattrocento. Il Principe del Machiavelli «non esisteva nella realtà storica, non si presentava al popolo italiano con caratteri di immediatezza obiettiva, ma era una pura astrazione dottrinaria, il simbolo del capo, del condottiero ideale; ma gli elementi passionali, mitici [...] si riassumono e diventano vivi nella conclusione, nell'invocazione di un principe realmente esistente».

In Italia non si ebbe una monarchia assoluta che unificasse la nazione perché dalla dissoluzione della borghesia comunale si creò una situazione interna economico-corporativa, politicamente «la peggiore delle forme di società feudale, la forma meno progressiva e più stagnante: mancò sempre, e non poteva costituirsi, una forza giacobina efficiente, la forza appunto che nelle altre nazioni ha suscitato e organizzato la volontà collettiva nazional-popolare e ha fondato gli Stati moderni».

A questa forza progressiva si oppose in Italia la «borghesia rurale, eredità di parassitismo lasciata ai tempi moderni dallo sfacelo, come classe, della borghesia comunale». Forze progressive sono i gruppi sociali urbani con un determinato livello di cultura politica, ma non sarà possibile la formazione di una volontà collettiva nazionale-popolare, «se le grandi masse dei contadini lavoratori non irrompono simultaneamente nella vita politica. Ciò intendeva il Machiavelli attraverso la riforma della milizia, ciò fecero i giacobini nella Rivoluzione francese; in questa comprensione è da identificare un giacobinismo precoce del Machiavelli, il germe, più o meno fecondo, della sua concezione della rivoluzione nazionale».

Modernamente, il Principe invocato dal Machiavelli non può essere un individuo reale, concreto, ma un organismo e «questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico: la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali»; il partito è l'organizzatore di una riforma intellettuale e morale, che concretamente si manifesta con un programma di riforma economica, divenendo così «la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume».

Perché un partito esista, e diventi storicamente necessario, devono confluire in esso tre elementi fondamentali:

1 - «Un elemento diffuso, di uomini comuni, medi, la cui partecipazione è offerta dalla disciplina e dalla fedeltà, non dallo spirito creativo ed altamente organizzativo [...] essi sono una forza in quanto c'è chi li centralizza, organizza, disciplina, ma in assenza di questa forza coesiva si sparpaglierebbero e si annullerebbero in un pulviscolo impotente»

2 - «L'elemento coesivo principale [...] dotato di forza altamente coesiva, centralizzatrice e disciplinatrice e anche, anzi forse per questo, inventiva [...] da solo questo elemento non formerebbe un partito, tuttavia lo formerebbe più che il primo elemento considerato. Si parla di capitani senza esercito, ma in realtà è più facile formare un esercito che formare dei capitani»

3 - «Un elemento medio, che articoli il primo col secondo elemento, che li metta a contatto, non solo fisico, ma morale e intellettuale».

Gli intellettuali

Per Gramsci, tutti gli uomini sono intellettuali, dal momento che «non c'è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l' homo faber dall' homo sapiens», in quanto, indipendentemente della sua professione specifica, ognuno è a suo modo «un filosofo, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale», ma non tutti gli uomini hanno nella società la funzione di intellettuali.

Storicamente si formano particolari categorie di intellettuali, «specialmente in connessione coi gruppi sociali più importanti e subiscono elaborazioni più estese e complesse in connessione col gruppo sociale dominante». Un gruppo sociale che tende all'egemonia lotta «per l'assimilazione e la conquista ideologica degli intellettuali tradizionali [...] tanto più rapida ed efficace quanto più il gruppo dato elabora simultaneamente i propri intellettuali organici».

L'intellettuale tradizionale è il letterato, il filosofo, l'artista e perciò, nota Gramsci, «i giornalisti, che ritengono di essere letterati, filosofi, artisti, ritengono anche di essere i veri intellettuali», mentre modernamente è la formazione tecnica a formare la base del nuovo tipo di intellettuale, un costruttore, organizzatore, persuasore - ma non assolutamente il vecchio oratore, formatosi sullo studio dell'eloquenza «motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni» - il quale deve giungere «dalla tecnica-lavoro alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane specialista e non si diventa dirigente».

Il gruppo sociale emergente, che lotta per conquistare l'egemonia politica, tende a conquistare alla propria ideologia l'intellettuale tradizionale mentre, nello stesso tempo, forma i propri intellettuali organici. L'organicità degli intellettuali si misura con la maggiore o minore connessione con il gruppo sociale cui essi fanno riferimento: essi operano tanto nella società civile - l'insieme degli organismi privati in cui si dibattono e si diffondono le ideologie necessarie all'acquisizione del consenso, apparentemente dato spontaneamente dalle grandi masse della popolazione alle scelte del gruppo sociale dominante - quanto nella società politica, dove si esercita il «dominio diretto o di comando che si esprime nello Stato e nel governo giuridico». Gli intellettuali sono così «i commessi del gruppo dominante per l'esercizio delle funzioni subalterne dell'egemonia sociale e del governo politico, cioè: 1) del consenso spontaneo dato dalle grandi masse della popolazione all'indirizzo impresso alla vita sociale dal gruppo fondamentale dominante [...] 2) dell'apparato di coercizione statale che assicura legalmente la disciplina di quei gruppi che non consentono».

Come lo Stato, nella società politica, tende a unificare gli intellettuali tradizionali con quelli organici, così nella società civile il partito politico, ancor più compiutamente e organicamente dello Stato, elabora «i propri componenti, elementi di un gruppo sociale nato e sviluppatosi come economico, fino a farli diventare intellettuali politici qualificati, dirigenti, organizzatori di tutte le attività e le funzioni inerenti all'organico sviluppo di una società integrale, civile e politica».

La letteratura nazionale-popolare

Pur essendo sempre stati legati alle classi dominanti, ottenendone spesso onori e prestigio, gli intellettuali italiani non si sono mai sentiti organici, hanno sempre rifiutato, in nome di un loro astratto cosmopolitismo, ogni legame con il popolo, del quale non hanno mai voluto riconoscere le esigenze né interpretare i bisogni culturali.

In molte lingue - in russo, in tedesco, in francese - il significato dei termini «nazionale» e «popolare» coincidono: «in Italia, il termine nazionale ha un significato molto ristretto ideologicamente e in ogni caso non coincide con popolare, perché in Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo, cioè dalla nazione e sono invece legati a una tradizione di casta, che non è mai stata rotta da un forte movimento popolare o nazionale dal basso: la tradizione è libresca e astratta e l'intellettuale tipico moderno si sente più legato ad Annibal Caro o a Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese o siciliano».

Dall'Ottocento, in Europa, si è assistito a un fiorire della letteratura popolare, dai romanzi di appendice del Sue o di Ponson du Terrail, ad Alexandre Dumas, ai racconti polizieschi inglesi e americani; con maggior dignità artistica, alle opere del Chesterton e di Dickens, a quelle di Victor Hugo, di Émile Zola e di Honoré de Balzac, fino ai capolavori di Fëdor Michailovič Dostoevskij e di Lev Tolstoj. Nulla di tutto questo in Italia: qui la letteratura non si è diffusa e non è stata popolare, per la mancanza di un blocco nazionale intellettuale e morale tanto che l'elemento intellettuale italiano è avvertito come più straniero degli stranieri stessi.

Il pubblico italiano cerca la sua letteratura all'estero perché la sente più sua di quella nazionale: è questa la dimostrazione del distacco, in Italia, fra pubblico e scrittori: «Ogni popolo ha la sua letteratura, ma essa può venirgli da un altro popolo [...] può essere subordinato all'egemonia intellettuale e morale di altri popoli. È questo spesso il paradosso più stridente per molte tendenze monopolistiche di carattere nazionalistico e repressivo: che mentre si costruiscono piani grandiosi di egemonia, non ci si accorge di essere oggetto di egemonie straniere; così come, mentre si fanno piani imperialistici, in realtà si è oggetto di altri imperialismi». Hanno fallito nel compito di elaborare la coscienza morale del popolo, non diffondendo in esso un moderno umanesimo, tanto gli intellettuali laici quanto i cattolici: la loro insufficienza è «uno degli indizi più espressivi dell'intima rottura che esiste tra la religione e il popolo: questo si trova in uno stato miserrimo di indifferentismo e di assenza di una vivace vita spirituale; la religione è rimasta allo stato di superstizione [...] l'Italia popolare è ancora nelle condizioni create immediatamente dalla Controriforma: la religione, tutt'al più, si è combinata col folclore pagano ed è rimasta in questo stadio».

Sono rimaste famose le note di Gramsci sul Manzoni: lo scrittore più autorevole, più studiato nelle scuole e probabilmente il più popolare, è una dimostrazione del carattere non nazionale-popolare della letteratura italiana: «Il carattere aristocratico del cattolicismo manzoniano appare dal compatimento scherzoso verso le figure di uomini del popolo (ciò che non appare in Tolstoi), come fra Galdino (in confronto di frate Cristoforo), il sarto, Renzo, Agnese, Perpetua, la stessa Lucia [...] i popolani, per il Manzoni, non hanno vita interiore, non hanno personalità morale profonda; essi sono animali e il Manzoni è benevolo verso di loro proprio della benevolenza di una cattolica società di protezione di animali [...] niente dello spirito popolare di Tolstoi, cioè dello spirito evangelico del cristianesimo primitivo. L'atteggiamento del Manzoni verso i suoi popolani è l'atteggiamento della Chiesa Cattolica verso il popolo: di condiscendente benevolenza, non di immediatezza umana [...] vede con occhio severo tutto il popolo, mentre vede con occhio severo i più di coloro che non sono popolo; egli trova magnanimità, alti pensieri, grandi sentimenti, solo in alcuni della classe alta, in nessuno del popolo [...] non c'è popolano che non venga preso in giro e canzonato [...] Vita interiore hanno solo i signori: fra Cristoforo, il Borromeo, l'Innominato, lo stesso don Rodrigo [...] il suo atteggiamento verso il popolo non è popolare-nazionale ma aristocratico».

Una classe che muova alla conquista dell'egemonia non può non creare una nuova cultura, che è essa stessa espressione di una nuova vita morale, un nuovo modo di vedere e rappresentare la realtà; naturalmente, non si possono creare artificialmente artisti che interpretino questo nuovo mondo culturale, ma «un nuovo gruppo sociale che entra nella vita storica con atteggiamento egemonico, con una sicurezza di sé che prima non aveva, non può non suscitare dal suo seno personalità che prima non avrebbero trovato una forza sufficiente per esprimersi compiutamente». Intanto, nella creazione di una nuova cultura, è parte la critica della civiltà letteraria presente, e Gramsci vede nella critica svolta da Francesco De Sanctis un esempio privilegiato:

«La critica del De Sanctis è militante, non frigidamente estetica, è la critica di un periodo di lotte culturali, di contrasti tra concezioni della vita antagonistiche. Le analisi del contenuto, la critica della struttura delle opere, cioè della coerenza logica e storica-attuale delle masse di sentimenti rappresentati artisticamente, sono legate a questa lotta culturale: proprio in ciò pare consista la profonda umanità e l'umanesimo del De Sanctis [...] Piace sentire in lui il fervore appassionato dell'uomo di parte che ha saldi convincimenti morali e politici e non li nasconde». Il De Sanctis opera nel periodo risorgimentale, in cui si lotta per creare una nuova cultura: di qui la differenza con il Croce, che vive sì gli stessi motivi culturali, ma nel periodo della loro affermazione, per cui «la passione e il fervore romantico si sono composti nella serenità superiore e nell'indulgenza piena di bonomia». Quando poi quei valori culturali, così affermatisi, sono messi in discussione, allora in Croce «subentra una fase in cui la serenità e l'indulgenza s'incrinano e affiora l'acrimonia e la collera a stento repressa: fase difensiva non aggressiva e fervida, e pertanto non confrontabile con quella del De Sanctis».

Per Gramsci, una critica letteraria marxistica può avere nel critico campano un esempio, dal momento che essa deve fondere, come De Sanctis fece, la critica estetica con la lotta per una cultura nuova, criticando il costume, i sentimenti e le ideologie espresse nella storia della letteratura, individuandone le radici nella società in cui quegli scrittori si trovavano a operare.

Non a caso, Gramsci progettava nei suoi Quaderni un saggio che intendeva intitolare «I nipotini di padre Bresciani», dal nome del gesuita Antonio Bresciani (1798 - 1862), tra i fondatori e direttore della rivista La Civiltà Cattolica e scrittore di romanzi popolari d'impronta reazionaria; uno di essi, L'ebreo di Verona, fu stroncato in un famoso saggio del De Sanctis. I nipotini di padre Bresciani sono, per Gramsci, gli intellettuali e i letterati contemporanei portatori di una ideologia reazionaria, sia essa cattolica che laica, con un «carattere tendenzioso e propagandistico apertamente confessato».

Fra i «nipotini» Gramsci individua, oltre a molti scrittori ormai dimenticati, Antonio Beltramelli, Ugo Ojetti - «la codardia intellettuale dell'uomo supera ogni misura normale» - Alfredo Panzini, Goffredo Bellonci, Massimo Bontempelli, Umberto Fracchia, Adelchi Baratono - «l'agnosticismo del Baratono non è altro che vigliaccheria morale e civile [...] Baratono teorizza solo la propria impotenza estetica e filosofica e la propria coniglieria» - Riccardo Bacchelli - «nel Bacchelli c'è molto brescianesimo, non solo politico-sociale, ma anche letterario: la Ronda fu una manifestazione di gesuitismo artistico» - Salvator Gotta, «di Salvator Gotta si può dire ciò che il Carducci scrisse del Rapisardi: Oremus sull'altare e flatulenze in sagrestia; tutta la sua produzione letteraria è brescianesca», Giuseppe Ungaretti.

Secondo Gramsci «la vecchia generazione degli intellettuali è fallita (Papini, Prezzolini, Soffici, ecc.) ma ha avuto una giovinezza. La generazione attuale non ha neanche questa età delle brillanti promesse, Titta Rosa, Angioletti, Malaparte, ecc.). Asini brutti anche da piccoletti».

La critica a Benedetto Croce

Benedetto Croce, il più autorevole intellettuale dell'epoca, secondo Gramsci aveva dato alla borghesia italiana gli strumenti culturali più raffinati per delimitare i confini fra gli intellettuali e la cultura italiana, da una parte, e il movimento operaio e socialista dall'altra; è allora necessario mostrare e combattere la sua funzione di maggior rappresentante dell'egemonia culturale che il blocco sociale dominante esercita nei confronti del movimento operaio italiano. Come tale, il Croce combatte il marxismo, cercando di negarne validità nell'elemento che egli individua come decisivo: quello dell'economia; Il Capitale di Marx sarebbe per lui un'opera di morale e non di scienza, un tentativo di dimostrare che la società capitalistica è immorale, diversamente dalla comunista, in cui si realizzerebbe la piena moralità umana e sociale. La non scientificità dell'opera maggiore di Marx sarebbe dimostrata dal concetto del plusvalore: per Croce, solo da un punto di vista morale si può parlare di plusvalore, rispetto al valore, legittimo concetto economico.

Questa critica del Croce è in realtà un semplice sofisma: il plusvalore è esso stesso valore, è la differenza tra il valore delle merci prodotte dal lavoratore e il valore della forza-lavoro del lavoratore stesso. Del resto, la teoria del valore di Marx deriva direttamente da quella dell'economista liberale inglese David Ricardo la cui teoria del valore-lavoro «non sollevò nessuno scandalo quando fu espressa, perché allora non rappresentava nessun pericolo, appariva solo, come era, una constatazione puramente oggettiva e scientifica. Il valore polemico e di educazione morale e politica, pur senza perdere la sua oggettività, doveva acquistarla solo con la Economia critica [Il Capitale di Marx]».

La filosofia crociana si qualifica come storicismo, ossia, seguendo il Vico, la realtà è storia e tutto ciò che esiste è necessariamente storico ma, conformemente alla natura idealistica della sua filosofia, la storia è storia dello Spirito, dunque storia speculativa, di astrazioni - storia della libertà, della cultura, del progresso - non è la storia concreta delle nazioni e delle classi: «La storia speculativa può essere considerata come un ritorno, in forme letterarie rese più scaltre e meno ingenue dallo sviluppo della capacità critica, a modi di storia già caduti in discredito come vuoti e retorici e registrati in diversi libri dello stesso Croce. La storia etico-politica, in quanto prescinde dal concetto di blocco storico, in cui contenuto economico-sociale e forma etico-politica si identificano concretamente nella ricostruzione dei vari periodi storici, è niente altro che una presentazione polemica di filosofemi più o meno interessanti, ma non è storia [...] la storia del Croce rappresenta figure disossate, senza scheletro, dalle carni flaccide e cascanti anche sotto il belletto delle veneri letterarie dello scrittore».

L'operazione conservatrice del Croce storico fa il paio con quella del Croce filosofo: se la dialettica dell'idealista Hegel era una dialettica dei contrari - uno svolgimento della storia che procede per contraddizioni - la dialettica crociana è una dialettica dei distinti: commutare la contraddizione in distinzione significa operare un'attenuazione, se non un annullamento dei contrasti che nella storia, e dunque nelle società, si presentano. Tale operazione si manifesta nelle opere storiche del Croce: la sua Storia d'Europa, iniziando dal 1815 e tagliando fuori il periodo della Rivoluzione francese e quello napoleonico, «non è altro che un frammento di storia, l'aspetto passivo della grande rivoluzione che si iniziò in Francia nel 1789, traboccò nel resto d' Europa con le armate repubblicane e napoleoniche, dando una potente spallata ai vecchi regimi e determinandone non il crollo immediato come in Francia, ma la corrosione riformistica che durò fino al 1870».[88] Analoga è l'operazione operata dal Croce nella sua Storia d'Italia dal 1871 al 1915 la quale affronta unicamente il periodo del consolidamento del regime dell'Italia unita e si «prescinde dal momento della lotta, dal momento in cui si elaborano e radunano e schierano le forze in contrasto [...] in cui un sistema etico-politico si dissolve e un altro si elabora [...] in cui un sistema di rapporti sociali si sconnette e decade e un altro sistema sorge e si afferma, e invece [Croce] assume placidamente come storia il momento dell'espansione culturale o etico-politico».

Il materialismo storico

Gramsci, fin dagli anni universitari, fu un deciso oppositore di quella concezione fatalistica e positivistica del marxismo, presente nel vecchio partito socialista, per la quale il capitalismo necessariamente era destinato a crollare da sé, facendo posto a una società socialista. Questa concezione mascherava l'impotenza politica del partito della classe subalterna, incapace di prendere l'iniziativa per la conquista dell'egemonia.

Anche il manuale del bolscevico russo Nikolai Bucharin, edito nel 1921, La teoria del materialismo storico manuale popolare di sociologia, si colloca nel filone positivistico: «la sociologia è stata un tentativo di creare un metodo della scienza storico-politica, in dipendenza di un sistema filosofico già elaborato, il positivismo evoluzionistico [...] è diventata la filosofia dei non filosofi, un tentativo di descrivere e classificare schematicamente i fatti storici, secondo criteri costruiti sul modello delle scienze naturali. La sociologia è dunque un tentativo di ricavare sperimentalmente le leggi di evoluzione della società umana in modo da prevedere l'avvenire con la stessa certezza con cui si prevede che da una ghianda si svilupperà una quercia. L'evoluzionismo volgare è alla base della sociologia che non può conoscere il principio dialettico col passaggio dalla quantità alla qualità, passaggio che turba ogni evoluzione e ogni legge di uniformità intesa in senso volgarmente evoluzionistico».

La comprensione della realtà come sviluppo della storia umana è solo possibile utilizzando la dialettica marxiana - della quale non vi è traccia nel Manuale del Bucharin - perché essa coglie tanto il senso delle vicende umane quanto la loro provvisorietà, la loro storicità determinata dalla prassi, dall'azione politica che trasforma le società.

Le società non si trasformano da sé: già Marx aveva rilevato come nessuna società si ponga compiti per la cui soluzione non esistano già le condizioni almeno in via di apparizione né essa si dissolve, se prima non ha svolto tutte le forme di vita che le sono implicite. Il rivoluzionario si pone il problema di individuare esattamente i rapporti tra struttura e sovrastruttura per giungere a una corretta analisi delle forze che operano nella storia di un determinato periodo. L'azione politica rivoluzionaria, la prassi, per Gramsci è anche catarsi che segna «il passaggio dal momento meramente economico (o egoistico-passionale) al momento etico-politico cioè l'elaborazione superiore della struttura in superstruttura nella coscienza degli uomini. Ciò significa anche il passaggio dall' oggettivo al soggettivo e dalla necessità alla libertà. La struttura, da forza esteriore che schiaccia l'uomo, lo assimila a sé, lo rende passivo, si trasforma in mezzo di libertà, in strumento per creare una nuova forma etico-politica, in origine di nuove iniziative. La fissazione del momento catartico diventa così, mi pare, il punto di partenza di tutta la filosofia della passi; il processo catartico coincide con la catena di sintesi che sono risultate dallo svolgimento dialettico».

La dialettica è dunque strumento di indagine storica, che supera la visione naturalistica e meccanicistica della realtà, è unione di teoria e prassi, di conoscenza e azione. La dialettica è «dottrina della conoscenza e sostanza midollare della storiografia e della scienza della politica» e può essere compresa solo concependo il marxismo «come una filosofia integrale e originale che inizia una nuova fase nella storia e nello sviluppo mondiale in quanto supera (e superando ne include in sé gli elementi vitali) sia l'idealismo che il materialismo tradizionali espressione delle vecchie società. Se la filosofia della prassi [il marxismo] non è pensata che subordinatamente a un'altra filosofia, non si può concepire la nuova dialettica, nella quale appunto quel superamento si effettua e si esprime».

Il vecchio materialismo è metafisica; per il senso comune la realtà oggettiva, esistente indipendentemente dall'uomo, è un ovvio assioma, confortato dall'affermazione della religione per la quale il mondo, creato da Dio, si trova già dato di fronte a noi. Ma per Gramsci va rifiutata «la concezione della realtà oggettiva del mondo esterno nella sua forma più triviale e acritica» dal momento che «a questa può essere mossa l'obbiezione di misticismo». Se noi conosciamo la realtà in quanto uomini, ed essendo noi stessi un divenire storico, anche la conoscenza e la realtà stessa sono un divenire.

Come potrebbe esistere un'oggettività extrastorica ed extraumana e chi giudicherà di tale oggettività? «La formulazione di Engels che l'unità del mondo consiste nella sua materialità dimostrata dal lungo e laborioso sviluppo della filosofia e delle scienze naturali contiene appunto il germe della concezione giusta, perché si ricorre alla storia e all'uomo per dimostrare la realtà oggettiva. Oggettivo significa sempre umanamente oggettivo, ciò che può corrispondere esattamente a storicamente soggettivo [...]. L'uomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per tutto il genere umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario; ma questo processo di unificazione storica avviene con la sparizione delle contraddizioni interne che dilaniano la società umana, contraddizioni che sono la condizione della formazione dei gruppi e della nascita delle ideologie [...]. C'è dunque una lotta per l'oggettività (per liberarsi dalle ideologie parziali e fallaci) e questa lotta è la stessa lotta per l'unificazione culturale del genere umano. Ciò che gli idealisti chiamano spirito non è un punto di partenza ma di arrivo, l'insieme delle soprastrutture in divenire verso l'unificazione concreta e oggettivamente universale e non già un presupposto unitario».

Karl Korsch (1886-1961)

VITA E OPERE

Nato da genitori borghesi nelle vicinanze di Lüneburg nel 1886, Karl Korsch si iscrive all’università e intraprende gli studi di giurisprudenza, di economia, di sociologia e di filosofia: tra il 1912 e il 1914, va in Inghilterra e là stringe rapporti con la Fabian Society. Finita la Prima Guerra Mondiale, Korsch milita nel Partito Socialdemocratico tedesco indipendente: ma ben presto se ne allontana per aderire, nel 1920, al Partito Comunista Tedesco.

Tra il 1924 e il 1928, Korsch è deputato del Reichstag e assume un atteggiamento altamente critico nei confronti tanto del Partito Comunista Tedesco quanto del Comintern: di conseguenza è espulso dal Partito nel 1926 e “scomunicato” dall’Internazionale Comunista, che accusa di “revisionismo idealistico” la sua celebre opera Marxismo e filosofia. Emarginato dall’azione politica e impossibilitato a praticare un’opposizione al movimento comunista ufficiale, Korsch si ritaglia un piccolo spazio nel quale intrattiene rapporti con piccoli gruppi operai ultraradicali e con intellettuali marxisti (tra cui Bertolt Brecht).

Abbandonata la Germania quando in questa si affermò il Nazismo, Korsch si trasferisce dapprima in Inghilterra e in Danimarca, successivamente negli USA, dove resta fino alla morte, avvenuta nel 1961.

Tra gli scritti principali di Korsch, ricordiamo Marxismo e filosofia (1923), Il materialismo storico antiKautsky (1929), la riedizione di Marxismo e filosofia (1930), cui fa seguito una serratissima critica del leninismo; va poi ricordato Karl Marx (1938), uno dei tanti saggi che costellano la sua produzione tra il 1931 e il 1939, caratterizzata dall’audace tentativo di sottoporre il marxismo ad una revisione teorica tale da portarlo all’altezza del nuovo tempo, in cui proliferano incontrastati i totalitarismi, risorge il capitalismo, pare tramontata la possibilità di una rivoluzione operaia. Tra questi scritti, ricordiamo Crisi del marxismo (1931).

IL PENSIERO

Al cuore di Marxismo e filosofia sta il recupero del pensiero di Hegel in una prospettiva strettamente marxiana e la ripresa del concetto di totalità. Tanto Hegel quanto Marx hanno voluto costruire (il primo nell’età della borghesia rivoluzionaria, il secondo ai tempi della borghesia conservatrice) una teoria della società borghese incentrata sul nesso dialettico di pensiero e realtà, di teoria e prassi sociale. Sia la teoria sia il suo oggetto (la società borghese) sono pertanto concepiti come concreta totalità dialettica, che non accetta di essere disarticolata nelle sue singole parti: e queste parti sono la prassi sociale (“l’aspro regno delle lotte reali”) e la sovrastruttura ideologica data soprattutto dalla filosofia. Così sia Hegel sia Marx (o, meglio, il marxismo, che è espressione teorica del movimento operaio) considerano la “rivoluzione nella forma del pensiero” come una componente reale dell’effettivo processo sociale rivoluzionario. E in termini hegeliano-marxisti il sorgere della teoria marxista è solo l’altra faccia del sorgere del reale movimento operaio, cosicché, solo se presi insieme, essi formano la totalità concreta del processo storico. Nasce di qui la grande e ineludibile problematica che dà il titolo all’opera di Korsch: qual è il rapporto tra marxismo e filosofia?

Marx ed Engels, con la loro formulazione del materialismo storico, avevano sostenuto che, con la rivoluzione, la filosofia sarebbe scomparsa insieme a tutte le altre espressioni della società borghese (compreso lo Stato). Ma se si tiene presente che il processo storico rivoluzionario, dopo i clamorosi fallimenti del 1848, è apparso non imminente, ma anzi destinato a dover attendere ancora per molto tempo, allora non ci si può sottrarre alla domanda circa il rapporto tra marxismo e filosofia fintanto che il processo storico rivoluzionario non ha ancora spazzato via la filosofia. Finché la filosofia resta in piedi, quale deve essere il suo rapporto col marxismo? Questo problema capitale è stato ignorato dal marxismo “volgare” della seconda metà dell’Ottocento, che ha commesso il grande errore di pensare che tali questioni teoriche fossero irrilevanti per la prassi. Questa deleteria separazione tra prassi e teoria, tipica del marxismo ottocentesco, è sempre e di nuovo criticata da Korsch, il quale giunge a ridicolizzare i marxisti dell’Ottocento asserendo che essi, rivoluzionari nella prassi, potevano tranquillamente essere seguaci della teoria di Schopenhauer. E quando i marxisti dell’età della Seconda Internazionale si sono spinti nelle regioni della filosofia, l’hanno fatto in maniera altrettanto volgare, scegliendo come ancella del marxismo le filosofie borghesi di Kant o di Mach, riconfermando l’assurda tesi per cui il marxismo sarebbe privo di contenuto filosofico.

Questa gravissima perdita del nesso prassi-teoria, realtà-coscienza, è avvenuto per una pletora di motivi: innanzitutto perché, dopo i disastri del 1848, erano crollate le prospettive rivoluzionarie; ma anche (e soprattutto) perché si era perso di vista il nucleo dialettico, di marca hegeliana, del materialismo storico elaborato da Marx. E, perso di vista tale nucleo, si era di conseguenza perso di vista anche il concetto di totalità, indebitamente sostituito dal prevalere delle interpretazioni economicistiche che hanno surrettiziamente ridotto l’azione della classe a mera trasformazione di strutture economiche. La conseguenza da ciò scaturita era la separazione di teoria e prassi, separazione giunta al culmine con la riflessione di Rudolf Hilferding nel Capitale finanziario secondo cui non si potrebbero identificare marxismo e socialismo perché si sarebbe potuto utilizzare il primo contro il secondo. Le stesse posizioni riformistiche, opponendosi al rapporto rivoluzionario tra Stato e marxismo delineato da Marx, erano scaturite tutte in forza di questa indebita separazione di teoria e prassi. A partire dal XX secolo tuttavia, in virtù del mutato contesto storico e dell’affermarsi di un movimento rivoluzionario destinato a trionfare in Russia, il problema del rapporto tra marxismo e filosofia esce dall’oblio e torna all’ordine del giorno, come è attestato dai dibattiti rivoluzionari di Lenin o della Luxemburg. Torna cioè ad affacciarsi l’istanza originaria fatta valere da Marx e da Engels secondo la quale la lotta alla società borghese necessita del momento della critica teorica in vista della soppressione anche delle manifestazioni ideologiche della società.

Korsch, profondamente convinto della necessità di una storicizzazione del marxismo, si sofferma sull’analisi dei momenti in cui si è sviluppato l’atteggiamento di Marx e di Engels nei confronti del rapporto tra realtà sociale e forme di coscienza (o ideologie), a cominciare proprio dalla filosofia. La prima forma in cui si è sviluppato il marxismo è, secondo la puntuale analisi di Korsch, quella degli anni precedenti il ’48: di questa forma, il Manifesto del partito comunista è l’espressione migliore. Essa è caratterizzata dal rigetto della filosofia borghese e della filosofia in quanto tale, come recita l’undicesima delle Tesi su Feuerbach. Ma, nonostante il dichiarato rifiuto della filosofia, questa prima forma del marxismo è fortemente filosofica, e si pone come teoria dello sviluppo sociale visto come totalità vivente, o, più precisamente, della rivoluzione sociale intesa e applicata come totalità vivente.

Dopo il 1848, si assiste ad una seconda forma del marxismo: dopo tale data, infatti, la teoria marxista ha necessariamente dovuto modificare la sua forma, anche in forza del periodo storico non rivoluzionario in cui si è trovata ad esistere: l’espressione più tipica di questa seconda fase è il Capitale, opera in cui il marxismo trapassa in socialismo scientifico, con l’importante conseguenza che i singoli elementi (economia, politica, ideologia, prassi sociale, ecc), da congiunti che erano, si sono disgiunti e autonomizzati gli uni rispetto agli altri. Insistendo nel differenziare gli elementi costitutivi della totalità, questa seconda forma del marxismo ha forse contribuito – nota Korsch – all’indebita operazione compiuta dai successivi marxisti dell’Ottocento, i quali hanno frantumato in disjecta membra la teoria unitaria della rivoluzione sociale. Ed è a questo punto che si sviluppa la risposta korschiana alla questione del rapporto tra marxismo e filosofia.

Sopprimere la filosofia non significa certo, per Marx ed Engels, metterla da parte: infatti, come i due non si stancarono mai di ripetere, non si può sopprimere la filosofia senza realizzarla. Sicché anche per il Marx maturo, teorico del socialismo scientifico, resta vero che di quella totalità che è la società borghese fanno parte anche le ideologie più alte, quali l’arte, la religione e la filosofia: la conseguenza è che il processo rivoluzionario non potrà mai spazzarle via. Il saggio sul Il materialismo storico antiKautsky, si configura come una sferzante requisitoria (peraltro già sullo sfondo di Marxismo e filosofia) condotta contro il marxismo di Kautsky: a lui Korsch muove l’accusa di aver ridotto il marxismo a mera dottrina scientifica, sciolta dalla dialettica hegeliana e da ogni nesso immediato con la prassi sociale del proletariato. È sì vero che Marx ed Engels ravvisano nella storia della natura il necessario presupposto su cui poggia lo sviluppo della struttura economica della società: ma essi escludono tassativamente che tale sviluppo sia interpretabile secondo il modello dei processi naturali. L’altra accusa che Korsch muove a Kautsky è di aver fornito un’interpretazione idealistica dello Stato, intendendolo come la più alta realizzazione della storia. In ciò, Kautsky è rimasto prigioniero di una visione borghese e idealistica dello sviluppo storico, tale per cui l’apparizione dello Stato moderno segnerebbe il punto d’approdo della Modernità. Assunto nella sua attuale forma democratico-borghese come sub specie aeternitatis, lo Stato è da Kautsky inteso come l’autentica realizzazione del processo storico. L’intento di Korsch era quello di colpire con la sua critica anche il marxismo trionfante della Terza Internazionale e il pensiero di Lenin, di cui scorgeva la diretta prosecuzione nel Diamat e nell’incipiente fenomeno dello stalinismo.

Non a caso, appena a un anno dalla pubblicazione del Il materialismo storico antiKautsky, Korsch fece uscire la riedizione di Marxismo e filosofia con l’aggiunta di un saggio significativamente intitolato Lo stato attuale del problema ‘marxismo e filosofia’ (Anticritica). In questo saggio, egli individua una totale convergenza tra le critiche mosse al suo libro tanto dalla Socialdemocrazia quanto dal marxismo-leninismo. Ma la Socialdemocrazia e il marxismo-leninismo non sono che metamorfosi del marxismo in vuota ideologia, giacché avanzano l’assurda pretesa di inserirsi dall’esterno nel movimento operaio, di pilotarne dall’alto la prassi: la Socialdemocrazia esaurisce la dimensione politica nella cornice dello Stato borghese, e il marxismo-leninismo instaura la dittatura del partito sulla classe, mettendo in luce una spiccata tendenza giacobina e autoritaria. È questa la premessa teorica che per Korsch ha permesso al leninismo e allo stalinismo di nascondere, dietro la vernice ideologica del socialismo, la realtà di un capitalismo di Stato oppressivo e iperburocratico.

In particolare, Korsch sottopone a dura critica i principali nodi teorici della teoria di Lenin, accusata di non essere adeguata all’attuale fase di sviluppo: la teoria leniniana della conoscenza intesa come mero rispecchiamento e riproduzione passiva non è che una banale riproposizione di un realismo meccanicistico ed ingenuo prekantiano, che ignora la relazione dialettica tra essere e coscienza. Tale teoria del rispecchiamento è peraltro consona al giacobinismo politico di Lenin, giacché include il riconoscimento dell’assoluta oggettività e necessità delle leggi che presiedono allo sviluppo sociale e che, sfuggendo alla coscienza immediata dei proletari, sono colte solo dal partito.

Dal 1931 inizia un periodo particolarmente travagliato per la filosofia di Korsch, che prende le mosse dal riconoscimento della crisi che caratterizza il marxismo e dalla speranza di un recupero del movimento rivoluzionario. Nella monografia del 1938 su Karl Marx, Korsch apporta novità decisive al suo modo d’intendere sia il rapporto Hegel-Marx sia la teoria marxiana nel suo insieme. In quell’opera, Korsch rileva che l’eredità di Hegel in Marx va soprattutto ricercata nel contenuto delle analisi dedicate alla società civile, le cui contraddizioni erano state colte da Hegel. Marx si sarebbe però distaccato dal suo maestro ideale rifiutando la prospettiva di conciliazione fatta valere dall’Aufhebung hegeliano. Proprio grazie a tale rottura con l’hegelismo, Marx avrebbe potuto congedarsi dalla filosofia per approdare alla scienza e al socialismo scientifico. Diversamente da quel che aveva fatto in Marxismo e filosofia, in Karl Marx Korsch non distingue più tra il Marx “rivoluzionario” del Manifesto e il Marx “scienziato” del Capitale: tende invece a scorgere una continuità nell’operato del filosofo di Treviri. Prova ne è il fatto che quella che negli scritti filosofici era stata denominata (con un’espressione mutuata da Feuerbach) “autoestraniazione” dell’uomo, nel Capitale è chiamata “feticismo delle merci”, senza però che vari la sostanza.

La vera novità introdotta dal Capitale sta piuttosto nell’aver adottato un metodo critico intorno al modo di produzione del capitalismo moderno: un metodo che, col suo rigore scientifico, intende rispettare la specificità delle forme proprie della società borghese. Connesso a questo principio di “specificazione” è il principio di “mutamento”, per cui la società borghese è concepita come una fase di passaggio verso qualcosa di più alto, e non come se le sue leggi fossero naturali e inviolabili. Sicché tale teoria della società capitalistica è necessariamente una teoria della rivoluzione proletaria. Questo è il vero cuore del marxismo, da distinguere dalle degenerazioni successive che – a partire da Engels stesso – hanno voluto fare del marxismo una teoria generale di ogni società o, peggio ancora, una filosofia totalizzante e onnicomprensiva. Sicché, come Korsch rileva anche in Crisi del marxismo, è possibile individuare una vera e propria frattura all’interno del marxismo: dapprima esso è nato come fenomeno storico dalla lotta rivoluzionaria della prima metà del XIX secolo, e poi (dalla seconda metà del XIX secolo) si è tragicamente capovolto in ideologia rivoluzionaria al servizio di un movimento operaio che non era più rivoluzionario. Ma Korsch, fatta questa diagnosi poco lusinghiera, apre spiragli di speranza verso il futuro, sostenendo che la teoria della rivoluzione proletaria del futuro sarà una prosecuzione storica del marxismo e che si porrà come un recupero, nei limiti del possibile, dell’originaria teoria rivoluzionaria formulata da Marx ed Engels nella prima metà del XIX secolo.

Ma in questo modo Korsch si trova dinanzi ad un’aporia difficilmente risolvibile: come può il marxismo rispecchiare concettualmente una rivoluzione che non è ancora avvenuta? Non si deve forse riconoscere che il marxismo potrà esistere nella sua forma compiuta soltanto quando la rivoluzione proletaria sarà stata ultimata? E che pertanto il marxismo di Marx è insospettatamente rispecchiamento della rivoluzione capitalistica e borghese? O, meglio, della rivoluzione proletaria quale emersa dalla rivoluzione borghese? Korsch è pienamente consapevole di questa aporia, e a tal proposito parla, nel saggio su Hegel e la rivoluzione (raccolto in Dialettica e scienza nel marxismo), di “trasferimento”, con l’idea che quella creata da Marx sia una “teoria della rivoluzione proletaria non come si è sviluppata sui suoi propri fondamenti, bensì come è emersa dalla rivoluzione borghese”.

La conseguenza di tale “trasferimento” è che la teoria marxiana porta con sé i segni del giacobinismo originario della rivoluzione borghese: sicché il giacobinismo non è un carattere specifico del leninismo (come Korsch aveva sostenuto in precedenza), ma è un tratto peculiare della teoria marxiana dalla seconda metà del XIX secolo in avanti. Pur avendo riconosciuto la grave crisi in cui versa il marxismo, Korsch non se ne allontana mai: tutt’al più, ne è allontanato ad opera dei vari partiti che non accettano nuove forme di marxismo eterodosso. E negli scritti degli anni ’30 e ’40, ormai emarginato, Korsch continua a farsi depositario del marxismo come movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti, restituendo ad esso il suo statuto scientifico, antidogmatico e improntato alla prassi rivoluzionaria.

G. Lukàcs (1885-1971)

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Biografia

Nato in una ricca famiglia ebrea da József (1855–1928) - direttore di banca, appartenente alla piccola nobiltà - e Adél Wertheimer (1860–1917), dopo il liceo frequentò la Facoltà di giurisprudenza dell'Università di Budapest, appassionandosi di arte e in particolare di teatro, fondando con altri studenti il teatro «Talia», ove venivano rappresentate produzioni contemporanee.

Laureatosi in legge nel 1906 e in filosofia nel 1909, si trasferì a Berlino per seguire, con l'amico Ernst Bloch le lezioni private di Simmel: si interessò al neocriticismo e allo storicismo di Weber e di Dilthey, e a Heidelberg ascoltò, dal 1912 al 1914, le lezioni di Windelband e di Rickert. Anche lo studio di Kierkegaard fu importante per la formazione culturale del giovane Lukács: «negli ultimi anni dell'anteguerra a Heidelberg intendevo addirittura occuparmi della sua critica a Hegel in un saggio monografico».

A questi anni risalgono i suoi primi scritti relativi all'estetica: La forma drammatica (1909), Metodologia della storia letteraria (1910), Cultura estetica e, in tedesco, Die Seele und die Formen (L'anima e le forme) (1911), Storia dello sviluppo del dramma moderno (1912).

I primi scritti sull'estetica

Come scrisse lo stesso Lukács ripubblicando nel 1968 i suoi lavori giovanili di storiografia letteraria, la sua Storia dello sviluppo del dramma moderno si opponeva alle teorie artistiche dominanti nella Ungheria di inizio Novecento, che avevano un prevalente orientamento positivistico, con l'eccezione dell'«impressionismo soggettivistico» rappresentato dalla rivista Nyugat (Occidente). Non ancora marxista, Lukásc era allora influenzato dalla filosofia e dalla sociologia di Simmel, «il quale aveva tentato di inserire singoli risultati del marxismo nella sociologia idealista, che a quell'epoca incominciava a svilupparsi in Germania».

I saggi - sostenne poi lo stesso Lukásc - «avevano un carattere idealistico-borghese, in quanto in essi non si muoveva dai rapporti diretti e reali tra la società e la letteratura, ma si cercava invece di cogliere intellettualmente e realizzare una sintesi di quelle scienze - sociologia ed estetica - che si occupano di tali argomenti». Di qui, il carattere di astrattezza della tesi del libro, secondo la quale il conflitto drammatico sarebbe una «manifestazione ideologica della decadenza di classe»: per quanto sia vero, secondo il Lukács maturo, che «un dramma autentico nasce solo se nella realtà sociale le norme morali valide, che si creano necessariamente nella società, entrano tra loro in contrasto».

«L'anima e le forme»

Uno sforzo di maggiore concretezza fu tentato con la raccolta di saggi L'anima e le forme, nei quali Lukács intendeva individuare l'essenza di determinate forme del comportamento umano, collegandole alle forme letterarie nelle quali vengono espressi i conflitti della vita. Non si trattava, per Lukács, di fare dello psicologismo ma, influenzato profondamente da Hegel, cercò di analizzare il comportamento tragico «mediante la dialettica interna dello Spirito e sulla base del rapporto fra l'uomo (individuo) e la società».

Ma ne L'anima e le forme - composta di saggi su Rudolf Kassner, Kierkegaard, Novalis, Theodor Storm, Stefan George, Charles-Louis Philippe, Richard Beer-Hofmann, Laurence Sterne e Paul Ernst - vi sono altri determinanti influssi, quelli esercitati dagli ideologi neokantiani della «filosofia della Vita», i quali presupponevano la vita come principio assoluto, origine di ogni manifestazione dell'attività umana. L'anima umana, attraverso le «forme» - che sono le strutture che danno significato alla realtà umana, rendendola necessaria e non causale e contingente - si sforza di trasformare la banalità e l'inessenzialità della propria esistenza quotidiana in quella pienezza di vita in cui consiste l'assoluto. Ma di fronte al principio assoluto, trascendente e positivo, della «Vita», le forme del mondo umano non possono essere che inadeguate, e pertanto ogni esistenza individuale si manifesta «come scacco ontologicamente necessario di fronte a un assoluto annichilante, totalmente altro rispetto al mondo della storia che diventa in sé e completamente, per necessità d'essenza, il mondo del negativo».

Lukács stabilisce un'opposizione tra lo spirito e la natura, che si risolve in quella tra l'arte e la scienza, tra poesia ed empiria, tra l'opera artistica e l'opera scientifica: la prima è finita, è chiusa, è fine, «è qualcosa di primo e ultimo, l'altra diviene superata ogni qualvolta si produce una prestazione migliore. In breve, l'una ha una forma, l'altra no». La forma è il «limite e il significato» che il poeta dà alla vita, la materia grezza che è l'oggetto della sua operazione artistica: da questa materia egli può ricavare «univocità dal caos, può temprare simboli dalle apparenze incorporee, può dar forma - cioè limite e significato - alle molteplicità disarticolate e fluttuanti».

Da questa opposizione deriva ancora che l'autentica esistenza non è quella comune e quotidiana: «l'esistenza reale non raggiunge mai il limite e conosce la morte soltanto come un che di spaventosamente minaccioso, assurdo, un qualcosa che tronca improvvisamente il suo flusso»; invece, l'esistenza autentica è quella che assume in sé il suo proprio limite, la sua stessa negazione, la morte, è l'esistenza vissuta tragicamente. Inautentica è la vita vissuta per il mondo, autentica è la vita consapevole «del non-valore del mondo [...] e della necessità del rifiuto radicale del mondo stesso». Non si può non vedere, qui, oltre ai richiami di Kierkegaard e Windelband, anticipazioni di problematiche svolte da Heidegger e dall'esistenzialismo: ma si riscontra anche «una crescente influenza della filosofia hegeliana. La Fenomenologia dello Spirito (nonché altre opere di Hegel) mi indusse a tentar di chiarire il problema mediante la dialettica interna dello «Spirito» e sulla base del rapporto fra l'uomo (individuo) e la società».

La «Teoria del romanzo»

E influenzato da Hegel è il successivo saggio sulla Teoria del romanzo (Die Theorie des Romans), iniziato nel 1914, ultimato l'anno successivo e pubblicato nel 1920. La filosofia è indicata essere, in quanto «forma vitale e condizione della forma», il contenuto stesso della poesia e insieme «un segno della sostanziale diversità di io e mondo, dell'incongruenza di anima e fare». Espressione di questa scissione è la moderna forma artistica del romanzo, laddove invece l'antica forma dell'epica greca «raffigura la totalità estensiva della vita»: il mondo greco è un mondo omogeneo e «anche la separazione di uomo e mondo, di io e tu, non giunge ad alterare questa uniformità. Come ogni altro membro di questa ritmìa, l'anima sta nel pieno del mondo». In questa prospettiva, l'eroe dell'epica non è nemmeno un individuo, ma è l'intera collettività, «in quanto la perfezione e la conchiusione del sistema di valori che determina il cosmo epico, dà luogo a un tutto troppo organico perché in esso una parte possa a tal punto segregarsi in se stessa, possa così solidamente fondarsi su se stessa, da trovare se stessa quale interiorità, da divenire individualità».

Al contrario, il romanzo è l'epopea del mondo abbandonato dagli dei e la psicologia dell'eroe da romanzo appartiene al demonico: il romanzo «è la forma dell'avventura, del valore proprio dell'interiorità; il suo contenuto è la storia dell'anima, che qui imprende ad autoconoscersi, che delle avventure va in cerca, per trovare, in esse verificandosi, la propria essenzialità». L'eroe epico - si pensi a Ulisse - malgrado tutte le avventure percorse, resta sostanzialmente passivo, perché gli dei devono sempre trionfare dei demoni e quelle avventure sono in realtà «la raffigurazione dell'obiettiva ed estensiva totalità del mondo» e l'eroe è il «punto interiormente più immobile del ritmico movimento del mondo». La passività dell'eroe da romanzo, invece, contraddistingue il suo rapporto con la propria anima e con il mondo che lo circonda.

La svolta marxista: «Storia e coscienza di classe»

Lukács precisò successivamente che fu indotto a scrivere la Teoria del romanzo dallo scoppio della guerra, a cui era contrario, giudicandola l'espressione della crisi di tutta la cultura europea: il presente, fichtianamente concepito come «era della compiuta peccaminosità» - poteva essere superato da una rivoluzione che tuttavia, per il Lukács idealista di allora, doveva essere una rivoluzione morale, della quale, per esempio, i romanzi di Dostoevskij costituivano un preannuncio. Gli studi su Marx, ripresi durante questo periodo per «andare al di là del radicalismo borghese», [16] erano accompagnati dall'influsso del sindacalismo rivoluzionario di Georges Sorel, al quale era stato indirizzato dal socialista ungherese Erwin Szabo, dalla conoscenza degli scritti di Rosa Luxemburg, oltre che dalla sua formazione avvenuta sotto il segno di Kierkegaard, dei «filosofi della Vita» e di Hegel: «da tutto ciò derivava un amalgama internamente contraddittorio nella teoria, che doveva diventare decisivo per il mio pensiero negli anni della guerra e del primo dopoguerra».

Iscrittosi al Partito comunista ungherese, nella Repubblica sovietica instaurata da Bela Kun con la rivoluzione del 1919 assume le cariche di commissario all'istruzione e di commissario politico della quinta divisione rossa. La repressione della Repubblica lo costringe a fuggire a Vienna, dove viene arrestato con la minaccia dell'estradizione. Liberato grazie all'intervento di intellettuali - tra i quali Thomas Mann - può continuare a vivere a Vienna, allora un crocevia internazionale di esponenti comunisti, dove collabora alla rivista «Kommunismus», organo dei comunisti di sinistra della III Internazionale e scrive i saggi che furono poi riuniti e pubblicati a Berlino nel 1923 con il titolo di Geschichte und Klassenbewusstsein. Studien über marxistische Dialektik (Storia e coscienza di classe. Studi sulla dialettica marxista). L'opera è composta dagli scritti Che cos'è il materialismo ortodosso? (marzo 1919), Rosa Luxemburg marxista (gennaio 1921), Coscienza di classe (marzo 1920), La reificazione e la coscienza del proletariato, Il mutamento di funzione del materialismo storico, Legalità e illegalità (luglio 1920), Osservazioni critiche sulla Critica della rivoluzione russa di Rosa Luxemburg e dalle Considerazioni metodologiche alla questione dell'organizzazione.

Come indica il sottotitolo, i saggi di Storia e coscienza di classe affrontano il problema del metodo del marxismo, che si fonda essenzialmente sulla dialettica. Per Lukács, vi è una fondamentale differenza tra il metodo delle scienze che studiano la natura e il metodo dialettico di Marx, che si applica invece alla realtà sociale: il metodo delle scienze della natura «non conosce alcuna contraddizione, alcun antagonismo nel proprio materiale». Quando sorgessero contraddizioni, sarebbe il segno dell’esistenza di errori nella comprensione scientifica da superare successivamente con una più precisa ricerca scientifica: «in rapporto alla realtà sociale, invece, queste contraddizioni non sono segni di una comprensione scientifica ancora imperfetta, ma appartengono piuttosto inseparabilmente all'essenza della realtà stessa, alla essenza della società capitalistica». Esse sono contraddizioni necessarie, espressioni del fondamento antagonistico di questo ordinamento sociale, e possono essere superate realmente - non tanto nel pensiero - solo nel corso dello sviluppo sociale.

La separazione operata tra metodo dialettico marxiano e scienze della natura porta Lukács a criticare il tentativo fatto da Engels di estendere, «seguendo il falso esempio di Hegel», il metodo dialettico alla conoscenza della natura: «nella conoscenza della natura non sono presenti le determinazioni decisive della dialettica: l'interazione tra soggetto e oggetto, l'unità di teoria e prassi, la modificazione storica del sostrato delle categorie [economiche] come base della loro modificazione nel pensiero».

Una corretta analisi del processo storico non può prescindere dalla categoria della totalità: la realtà non si presenta mai come un insieme disaggregato di fatti. Nell’analizzare la totalità sociale è certamente necessario isolare singoli elementi, ma occorre intendere «questo isolamento soltanto come mezzo per la conoscenza dell’intero». Allo stesso modo, anche il soggetto della conoscenza deve essere una totalità: «L’economia classica e ancor più i suoi volgarizzatori hanno sempre considerato lo sviluppo capitalistico dal punto di vista del capitalista singolo e si sono perciò avviluppati in una serie di contraddizioni insolubili e di problemi apparenti»; questo individualismo metodologico appartiene anche ai revisionisti del marxismo come Bernstein, Tugan-Baranovskij o Bauer, privi della categoria della totalità: «all’individuo il suo mondo circostante, il suo milieu sociale [...] appare necessariamente come qualcosa di brutale, di insensato e di fatale, che gli resta per sempre estraneo nella sua essenza». Con questi presupposti, come non è più possibile conoscere la realtà, così è impossibile modificarla e questi marxisti possono solo postulare una trasformazione etica dell’uomo e utilizzare le «leggi» assunte fatalisticamente nella loro presunta immodificabilità.

Secondo Lukács, il soggetto, inteso come totalità, in grado di afferrare e penetrare la totalità che costituisce la realtà è la classe: «soltanto la classe può penetrare mediante l'azione la realtà sociale e modificarla nella sua totalità [...] il proletariato come soggetto del pensiero della società lacera in un colpo solo il dilemma dell'impotenza: il dilemma tra il fatalismo delle leggi pure e l'etica della pura intenzione».

Citando Marx - «il proletariato esegue la condanna che la proprietà privata infligge a se stessa producendo il proletariato» - Lukács deduce la «coscienza di classe» come la verità del processo storico «come soggetto», come consapevolezza del processo dialettico che richiede, nei momenti di crisi dello sviluppo storico, l'azione pratica, organizzata dal partito politico, il quale è la «forma della coscienza proletaria di classe». La coscienza di classe viene definita da Lukács anche l'etica del proletariato, l'unità della sua teoria e della sua prassi, ma in definitiva essa rimane un concetto astratto: Lukács stesso criticherà poi la sua esposizione come idealistica e la conversione della coscienza in prassi rivoluzionaria «come un puro e semplice miracolo».

Un'analisi approfondita viene compiuta da Lukács sul problema della reificazione (Verdinglichung, il diventare una cosa), sviluppato nel saggio La reificazione la coscienza del proletariato, il cui spunto è dato dalle pagine dedicate da Marx ne Il Capitale sul carattere di feticcio della merce e la trasformazione, che avviene soltanto nella coscienza umana, dei rapporti sociali, che intercorrono tra gli uomini, in apparenti rapporti tra cose: come scrive Lukács, «una relazione tra persone riceve il carattere della cosalità e quindi un' «oggettività spettrale» che occulta nella sua legalità autonoma, rigorosa, apparente, conclusa e razionale, ogni traccia della propria essenza fondamentale: il rapporto tra uomini». D'altra parte, nell'economia capitalistica, la capacità produttiva del lavoratore, la forza-lavoro, è una merce come ogni altra, e dunque è effettivamente una cosa: «questo trasformarsi in merce di una funzione umana rivela con la massima pregnanza il carattere disumanizzato e disumanizzante del rapporto di merce».

La moderna fabbrica è l'espressione della reificazione: è «un processo regolato secondo leggi meccaniche che si svolge indipendentemente dalla coscienza sul quale l'attività umana non ha alcun influsso [...] modifica anche le categorie fondamentali del rapporto immediato dell'uomo con il mondo: esso riduce il tempo e lo spazio a un unico denominatore [...] la persona diventa [...] uno spettatore incapace di influire su ciò che accade della sua esistenza, come una particella isolata e inserita in un sistema estraneo». Nell'analisi della moderna organizzazione del lavoro Lukács mette l'accento non tanto sull'uso capitalistico dell'utilizzo della forza-lavoro operaia, quanto sugli effetti dell'introduzione delle macchine, così che la reificazione finisce per essere una conseguenza del progresso scientifico e tecnico e non già, marxianamente, un'espressione dei rapporti di produzione della società borghese.

La filosofia di Hegel superava l'opposizione al soggetto della realtà esterna concependo quest'ultima come un prodotto alienato del soggetto stesso, opposizione che veniva risolta in una successiva riappropriazione dell'oggetto da parte del soggetto, che così ricostituiva l'unità originaria: infatti in Hegel qualunque oggetto - dunque tutta la realtà - è un prodotto del soggetto; in Marx, invece, solo la realtà sociale - non la natura - è prodotta dall'uomo e a lui si oppone come estranea. Lukács, pur volendo sviluppare un aspetto della critica marxista, finisce per concepire hegelianamente l'opposizione tra soggetto e oggetto sociale come un'opposizione generalizzata tra soggettività e oggettività, tra pensiero ed essere: «poiché l'oggetto, la cosa, in Hegel esiste soltanto come alienazione dell'autocoscienza, la sua riassunzione nel soggetto rappresenterebbe la fine della realtà oggettiva, quindi della realtà in generale. Ora, Storia e coscienza di classe segue Hegel nella misura in cui l'estraneazione viene posta sullo stesso piano dell'oggettivazione. Questo fondamentale e grossolano errore ha sicuramente contribuito in notevole misura al successo di Storia e coscienza di classe [...] Per la critica filosofica-borghese della cultura, basti pensare a Heidegger, era del tutto ovvio sublimare la critica in una critica puramente filosofica, fare dell'estraneazione per sua essenza sociale un'eterna condition humaine».

Il libro fu criticato da Zinov'ev a nome dell'Internazionale comunista e anche dal massimo teorico socialdemocratico dell'epoca, Karl Kautsky. Lukács non replicò alle critiche, per quanto non le condividesse. Secondo la sua testimonianza, solo nel 1930, quando a Mosca divenne collaboratore dell'Isituto Marx-Engels e poté leggere il testo autografo dei Manoscritti economico-filosofici di Marx, fino ad allora sconosciuti e lì custoditi e decifrati per la pubblicazione, «caddero in una volta tutti i pregiudizi idealistici di Storia e coscienza di classe [...] ricordo ancora oggi l'impressione sconvolgente che fecero su di me le parole di Marx sull'oggettività come proprietà materiale primaria di tutte le cose e di tutte le relazioni [...] l'oggettivazione è un modo naturale - positivo o negativo - di dominio umano del mondo, mentre l'estraneazione è un tipo particolare di oggettivazione che si realizza in determinate circostanze sociali. Con ciò erano crollati definitivamente i fondamenti teorici di ciò che rappresentava il carattere particolare di Storia e coscienza di classe. Questo libro mi divenne completamente estraneo, così come era accaduto nel 1918-19 per i miei scritti anteriori».

«Il giovane Hegel»

Alla morte di Lenin, nel 1924, l'editore viennese di Lukács lo invitò a scrivere un profilo del rivoluzionario russo, impegno portato a termine in poche settimane. Secondo Lukács, è caratteristico di Lenin considerare ogni categoria filosofica sotto il punto di vista dell'azione politica concreta: Lenin non è «né un teorico né un pratico, ma un profondo pensatore della prassi [...] un uomo il cui penetrante sguardo è sempre rivolto al punto in cui la teoria trapassa nella prassi e la prassi nella teoria».

L'anno dopo uscirono due sue recensioni critiche degli scritti di Bucharin, Teoria del materialismo storico, e della Scienza della società borghese di Karl August Wittfogel: la polemica è rivolta contro le concezioni «materialistico-volgari» e «borghese-positivistiche» che vedono nella «tecnica» il principio dello sviluppo delle forze produttive e pertanto del mutamento sociale, concezioni che neutralizzano l'attività politica rivoluzionaria sostituendole l'attesa fatalistica del rinnovamento, che dovrebbe scaturire per intima necessità dal seno stesso della società.

Proseguiva intanto il suo impegno di militante del Partito comunista ungherese: nel 1928, Lukács presentò al congresso di partito le sue tesi - chiamate Tesi di Blum dal suo nome di clandestino - nelle quali proponeva che, a fronte della dittatura di Miklós Horthy, il partito dovesse proporre l'alternativa politica di una Repubblica democratica, accantonando per il momento l'obiettivo di una Repubblica sovietica. La proposta presupponeva la possibilità di un'alleanza con le forze socialdemocratiche, possibilità appena esclusa dall'Internazionale comunista che nell'ultimo congresso, sotto l'influenza del gruppo di maggioranza raccolto intorno a Stalin, aveva tacciato i socialdemocratrici di «socialfascismo».

Il partito ungherese respinse le sue Tesi e il capo indiscusso del partito, Bela Kun, minacciò persino la sua espulsione: Lukács si piegò, facendo autocritica, per quanto, scrisse poi, «del tutto convinto della giustezza del mio punto di vista, sapevo anche [...] che allora un'espulsione dal partito rappresentava l'impossibilità di partecipare attivamente alla lotta contro il fascismo che si avvicinava», [33] ma più in generale, una sua emarginazione politica avrebbe forse pregiudicato la possibilità di rimanere inserito nel dibattito culturale e filosofico di quegli anni. A Berlino, infatti, continuò la sua collaborazione con la rivista «Linkskurve», pubblicando recensioni di critica letteraria e i suoi primi saggi sul realismo finché, con l'avvento del nazismo, nel 1933, si trasferì a Mosca, lavorando nell'Istituto di Filosofia dell'Accademia delle Scienze e pubblicando in riviste moscovite gran parte dei suoi saggi di critica e di estetica letteraria, che saranno raccolti in volume nel successivo dopoguerra.

A Berlino aveva già iniziato, e completò a Mosca nel 1937 il suo saggio su Il giovane Hegel che sarà pubblicato nel dopoguerra. La tesi di Lukács è una elaborazione delle considerazioni di Engels sulla filosofia hegeliana: «per questa filosofia non vi è nulla di definitivo, di assoluto, di sacro; di tutte le cose e in tutte le cose essa mostra la caducità, e null'altro esiste per essa all'infuori del processo ininterrotto del divenire e del perire [...] essa ha però anche un lato conservatore: essa giustifica determinate tappe della conoscenza e della società per il loro tempo e per le loro circostanze [...] il carattere conservatore di questa concezione è relativo, il suo carattere rivoluzionario è assoluto».

Per Engels, il carattere conservatore e, soprattutto, caduco, di Hegel, è il suo «sistema» filosofico, mentre il suo carattere rivoluzionario consiste nel metodo dialettico: per Lukács, Hegel «voleva dominare teoricamente determinate connessioni sociali e storiche, e si serviva della filosofia solo per effettuare le generalizzazioni indispensabili», deducendo dai rapporti esistenti tra l'uomo e la società leggi dinamiche che implicano «contraddizioni il cui superamento e la cui riapparizione a un livello più alto rende comprensibile, in ultima istanza, l'intera struttura della società e della storia».

«La distruzione della ragione»
Il realismo nell'arte

Per quanto riguarda l'arte, essa è una forma di sistema in cui si supera l'accidentalità e si arriva ad un momento eterno; essa deve essere realista ma non naturalista. L'estetica è legata al realismo che dà l'idea dell'uomo nella sua totalità, non solo interiormente ma anche nelle sue interrelazioni (soprattutto in Walter Scott). Invece l'arte naturalista come quella di Zola, Maupassant o Verga si compiace nell'affondare nel patologico-fisiologico, dimenticando la politica e la storia: l'uomo è considerato nella sua individualità e una conseguenza delle sue origini, ciò conduce alla creazione di personaggi staccati dalla società e in contrasto con la ricerca della totalità. Questo è uno dei motivi per cui egli preferisce il romanzo storico.

Il Realismo è visto come riproduzione fedele di circostanze tipiche in cui si intrecciano realtà con caratteristiche unitarie, dialettiche e problematiche. Il romanzo racchiude la storia di un popolo: per esempio in Ivanhoe di Scott il protagonista non è un eroe classico come Achille ma appartiene alla piccola nobiltà inglese. Si rievoca un intero periodo storico attraverso un eroe medio, che ha una dimensione umana e storica. La rievocazione di un passato si crea necessariamente con un anacronismo, perché non può essere identico. Infatti lo scontro di classi a quell'epoca era sicuramente caotico, mentre Scott lo presenta in maniera molto chiara. Per Lukács il primo eroe di un romanzo storico è Waverley nel 1814, che insieme a Ivanoe è un personaggio-tipo che rappresenta istanze sociali, è un'idea.

Lo scopo del romanzo storico è di dimostrare con mezzi poetici le circostanze storiche e far diventare la storia un modello assoluto. Esso crea un nesso tra la spontaneità delle masse e la consapevolezza storica della classe dominante; Scott cerca di comunicare questa consapevolezza alla massa comportandosi come un intellettuale organico. La rievocazione del passato lontano è ripresa da Cooper, considerato continuatore di Scott, che scrive delle lotte tra inglesi e indiani.

Per Lukács Manzoni è superiore a Scott (pur essendone un continuatore, e anche in virtù della sua esperienza di tragediografo) nell'individuazione dei personaggi e nel descrivere le vicende e le sofferenze degli italiani, la crisi della vita di un intero popolo in relazione alle dominazioni e alle condizioni feudali e conservatrici ad esso imposte.

da www.sociologia.uniroma1.it/users/studenti/Riassunti/Storia%20del%20P.Sociologico/LUKACS_E_MANNHEIM.doc.

Lukacs, ungherese di Budapest, diventò, in Germania, allievo di Simmel e frequentò il circolo che si riuniva attorno a Weber, approfondendo nello stesso periodo la conoscenza di Hegel e della concezione materialistica della storia.

In un primo momento egli faceva parte di un circolo culturale di orientamento prevalentemente umanista ed idealista che sosteneva che occorreva difendere l’essenzza dell’uomo, lo spirito, dal materialismo, dal positivismo e dalle briglie delle scienze. Di conseguenza, destò grande stupore la successiva scelta di Lucaks, alla fine della prima guerra mondiale, di convertirsi al marxismo e di partecipare attivamente, seppure con alterne vicende, alla vita politica del suo Paese. E’ vero, però, che egli continuò sempre a risentire dell’influenza dei suoi maestri ed il suo pensiero rimase costantemente in rapporto, seppur polemico, con loro. Tale polemica, d’altra parte, era diretta anche nei confronti del marxismo revisionista e della socialdemocrazia così come anche nei confronti di coloro che volevano ridurre il marxismo stesso allo studio del rapporto tra strutture economiche e sovrastrutture ideologiche.

Storia e coscienza di classe, pubblicato nel 1923, è una raccolta di saggi nei quali Lucaks si rifà apertamente al marxismo ma che è anche imbevuta di temi weberiani ed in essa è anche fortemente presente la dialettica di Hegel e tutto ciò gli ha procurato aspre critiche anche da parte del marxismo ortodosso.

La storia, egli afferma, non è riducibile a natura e non è retta da leggi umanamente immodificabili essendo essa il risultato dell’attività umana. Contrariamente a quanto sostenuto dalla “scienza borghese” che considera i fatti come isolati dal loro contesto storico-sociale, intendendoli nella loro esistenza “oggettiva”; i fatti che la scienza studia vanno intesi nel loro contesto specifico, come prodotto dell’attività umana in una determinata epoca.

La storia va compresa come un processo totale, in cui tutto è inglobato, così che non si può comprendere il particolare se non collegandolo con questa totalità dialettica: solo in quest’ottica è possibile conoscere la realtà. La scienza borghese, invece, fa apparire immediato e naturale ciò che invece è mediato storicamente.

In particolare, nei saggi Coscienza di classe e Che cos’è il marxismo ortodosso?, Lucaks riprende ed approfondisce questo tema. Il marxismo scientifico riconosce l’indipendenza delle forze motrici della storia dalla psicologia degli uomini: esso deve registrare le distorsioni del pensiero umano, scoprire i fattori ai quali esse sono dovute e quali sono le possibilità per superarle.

La società e la storia sono il risultato dell’opera dell’uomo e non possono essere spiegate attraverso leggi naturalistiche (come invece fa la sociologia borghese) o leggi che si ispirano allo “spirito del popolo” (inteso come entità inspiegabile) o alle grandi personalità perchè così facendo si innalzano a legge generale ed immutabile i principi dell’ordinamento in atto e si scambia lo status quo per natura immutabile. E’ questo il medesimo errore che Marx contesta all’economia politica.

Lucaks, come Toennies, Simmel e Weber, si rifà alle pagine del Capitale dove si tratta della mercificazione dei rapporti tra uomini (tali rapporti, storicamente, attraverso il valore di scambio, diventano rapporti tra cose, permettendo l’errore dell’economia politica che chiude questi rapporti umani, storici, entro leggi necessitanti e naturali) ma mentre questi ultimi giungono a sostenere l’inevitabilità dell’oggettivazione dei rapporti nella società industriale, Lucaks, come Marx, cerca di superare tale barriera.

Lucaks afferma che l’oggettivazione dei rapporti (la reificazione = identificazione con la realtà, estraniazione da sé stessi)coinvolge tanto la borghesia quanto il proletariato ma mentre per la borghesia è impossibile andare oltre la reificazione perchè i suoi interessi di classe la portano “all’apologia dell’ordinamento esistente delle cose o almeno alla dimostrazione della sua immodificabilità”, per il proletariato il discorso è diverso perchè la sua posizione di classe sfruttata e subalterna lo porta a ricercare la possibilità di trasformazione e di superamento di ciò che è dato (= ricerca della possibilità oggettiva).

Ma che cos’è che spinge il proletariato a ricercare il cambiamento? E’ la coscienza di classe che non è data ne’ dalla somma ne’ dalla media della coscienza dei singoli appartenenti alla classe ma altro non è che l’effettiva capacità di agire di una classe in una determinata situazione storica. In queste affermazioni di Lucaks vediamo come vicine siano le sue idee al concetto di soggetto universale di Hegel che agiva attraverso l’”astuzia della ragione” al di sopra dei singoli e servendosene come strumento: ecco che le critiche a Lucaks di idealismo e di hegelismo appaiono non del tutto infondate.

Nel famosissmo saggio La reificazione e la coscienza del proletariato, Lucaks distingue tra un aspetto oggettivo della reificazione (che consiste nel fatto che il mondo dell’economia è regolato da leggi le quali, pur essendo storiche, si pongono ormai come realtà oggettiva, naturale, estranea all’uomo) da un aspetto soggettivo (che consiste nelle conseguenze che la reificazione oggettiva comporta all’uomo inserito in un simile contesto). Ancora una volta Lucaks si riporta alle pagine del Capitale ma fortissima è anche l’influenza di Weber.

Con la mercificazione, i rapporti tra persone scadono a rapporti tra cose; la reificazione entra nell’anima stessa del lavoratore e ne condiziona l’intera esistenza: il sua lavoro e tutta la sua vita appaiono regolati dal principio della calcolabilità e tutto è quantificato, misurabile, regolato burocraticamente. Di fronte al meccanismo produttivo, che segue una sua razionalità formalistica (termine weberiano), l’intervento umano appare solo come fonte di errore. Questo processo coinvolge tutti: il lavoratore, il datore di lavoro ma anche il giornalista e lo scienziato (che si prostituisce agli interessi capitalistici) che non è capace di superare il dato immediato e cogliere la totalità. Ciò che in Weber era il compito specifico della scienza è considerato da Lucaks una distorsione (storicamente superabile) della scienza nella società borghese.

Ora, se anche il proletariato è invischiato, assieme alla borghesia, nella reificazione di tutte le manifestazioni di vita, come può, a differenza di questa, riuscire ad uscire dalla reificazione, dalla falsa coscienza e costruire la base del mutamento?

Lucaks, ancora una volta si riporta a Marx ed afferma che mentre la borghesia in questa estraniazione si trova a suo agio, anzi, in essa realizza la sua potenza, il proletariato nell’estraniazioni si annienta e vede in essa la sua impotenza. Ecco perché la borghesia resta teoricamente prigioniera dell’immediatezza mentre il proletariato è in grado di oltrepassarla.

In questo modo Lucaks risolve anche il problema lasciato aperto da Weber: il punto di vista del proletariato rappresenta quello attraverso cui si può giungere a una verità scientifica superiore e serve di guida alla trasformazione radicale della società. Occorre quindi assumere il punto di vista del proletariato e come via da seguire la trasformazione rivoluzionaria dell’ordinamento socio-economico borghese. Lucaks, naturalmente, si riferisce a quella coscienza di classe che non è la coscienza del singolo proletario (in quanto essa è deificata e alienata è, cioè, una falsa coscienza) ma quella di una entità superindividuale che si incorpora nella classe del proletariato.

Ecco perchè a Lucaks arrivano le critiche da parte dei marxisti ufficiali che lo accusano di idealismo e da parte dei non marxisti che lo accusano di fideismo per aver risolto il problema con un atto di fede.

L’idea di Lucaks sulla diversità dei punti di vista delle due classi sociali come una diversità radicata nella realtà sociale e non riconducibile a scelta psicologica rimane importantissima nella storia del pensiero sociologico e segnerà anche il pensiero di autori anche non marxisti.

E. Bloch (1885 –1977)

da www.wikipedia.it
Vita e opere

Nato in una famiglia di origine ebraica del Palatinato, si laureò in filosofia nel 1908 con una tesi intitolata Disquisizioni critiche su Rickert e il problema dell'epistemologia moderna. Nel 1913 si sposò con la scultrice Else von Stritzky (che morì nel 1921). Ad Heidelberg conobbe Max Weber, mentre a Berlino frequentò Bertolt Brecht, Kurt Weill e Theodor W. Adorno, tra gli altri. Nel 1922 si sposò con la pittrice Linda Oppenheimer. Da questo matrimonio nacque sua figlia Mirijam nel 1928, anno in cui si dissolse il matrimonio.

Nel 1933, all'avvento del nazismo in Germania, emigrò prima in Svizzera, poi in Austria, in Cecoslovacchia e in Francia, finché non si stabilì negli Stati Uniti d'America, dove scrisse la sua opera principale, "Il principio speranza", un'opera non a caso permeata dallo spirito della filosofia americana, da Emerson a James. Nel 1948 Bloch accettò l'incarico di professore all'Università di Lipsia, nella Repubblica Democratica Tedesca, e qui volle portare il suo contributo di filosofo marxista al fine di creare una società socialista.

Tuttavia entrò presto in conflitto con il regime della RDT, che vedeva in lui un fautore del revisionismo rispetto all'ortodossia marxista e che cercò nel 1957 di isolarlo come un "tentatore della gioventù", costringendolo a lasciare la docenza. Nel 1961 fuggì, passando per Berlino Ovest, a Tubinga, dove ottenne una cattedra universitaria.

Ne Il principio speranza (pubblicato in tre volumi dal 1953 al 1959), Bloch sosteneva che speranza e utopia sono elementi essenziali dell'agire e del pensare umano. Egli intendeva così porre in luce il contenuto utopico del pensiero di Karl Marx, che viene ad assumere, nell'interpretazione di Bloch, una peculiare tensione messianica. Bloch tentò di stabilire un collegamento fra marxismo e cristianesimo, poiché in quest'ultimo riconosceva un significato utopico, come speranza di una redenzione, che il marxismo avrebbe trasformato in una prospettiva rivoluzionaria.

Al tempo stesso egli interpretava il materialismo storico marxiano alla luce di elementi filosofici a esso estranei, quali il naturalismo del pensiero rinascimentale e le filosofie della natura di Wolfgang Goethe e di Friedrich Schelling, per pervenire a una nozione di materia.

Contestò la linearità del concetto di progresso e insieme ridefinì il concetto di tempo:

Nel suo stile prevale un tono elevato e magniloquente, simile a quello di un profeta biblico, tuttavia punteggiato dal gusto del paradosso e da guizzi d'ironia. Tali registri stilistici rispecchiano la sua vicinanza giovanile e familiare tanto alle letture bibliche quanto all'espressionismo e alle avanguardie artistiche.

Altre opere importanti di Bloch sono: "Spirito dell'utopia" (1918); "Thomas Münzer come teologo della rivoluzione" (1921); "Tracce" (1930); "Soggetto-Oggetto, Delucidazioni su Hegel" (1949); "Avicenna e la sinistra aristotelica" (1952); "Ateismo nel cristianesimo" (1968); "Il problema del materialismo: storia e sostanza" (1972); "Experimentum Mundi" (1975).

Il pensiero

Da pacifista convinto, rifugiatosi allo scoppio della prima guerra mondiale in Svizzera, Bloch scrisse qui la sua prima importante opera Spirito dell'utopia (1918) dove espone il piano generale della sua ricerca filosofica.

La guerra sta dimostrando nei fatti come la cultura europea ha fatto fallimento: bisogna quindi, per costruire una vita nuova, elaborare un nuovo concetto utopico

«intraprendendo la costruttiva via della fantasia, invocando ciò che non c'è ancora, cercando e costruendo nell'azzurro il vero, il reale, là dove il puro dato di fatto scompare - incipit vita nova»

(E. Bloch, Spirito dell'utopia)

L'utopia

Questo programma sarà ripreso cinquant'anni più tardi nell'opera Ateismo nel Cristianesimo (1968), dimostrazione questa della rilevanza centrale nel suo pensiero del concetto di utopia.

L'utopia di cui tratta Bloch rimanda solo genericamente al significato che il termine assumeva negli autori rinascimentali poiché per lui l'utopia non vuole intendere un contenuto utopistico, vale a dire impossibile perché privo di una qualsiasi base reale, senza un'effettiva possibilità di realizzazione, ma un contenuto utopico, non chiaramente determinabile di per sè, ma possibile, indicante la strada da percorrere per raggiungere un obiettivo lontano ma conseguibile; se si parlasse in termini politici, l'utopia di Bloch potrebbe essere assimilata a un programma politico a lunghissima scadenza.

L'utopia ha una doppia valenza: è presente in noi, come la completa realizzazione di un uomo che non è mai ancora nato, l' homo absconditus[1], ed è esterna a noi come la patria, dove ancora non siamo mai stati ma che sentiamo come nostra, come fine del nostro cammino.

Giustamente il marxismo ha contestato il socialismo utopistico rilevandone il carattere ideologico e alla fine facente il gioco della reazione, opponendovi un socialismo scientifico concretamente indirizzato alla realizzazione dei bisogni dell'uomo, ma i socialisti commetterebbero un errore fatale se si privassero dell'elemento utopico, lottando per necessari ma insufficienti obiettivi, se esclusivamente economici.

Il socialismo deve fare proprie le più profonde e ampie aspirazioni dell'uomo nei campi dell'arte, della religione, della filosofia, che sono quelle che lo rendono completo nella sua umanità e che gli consentono di vedere il futuro come nuovo e di sperare di realizzarlo storicamente.

Il concetto di materia

Abbastanza semplice sulla base del materialismo storico opporre qui a Bloch l'obiezione che queste manifestazioni "spirituali" della vita dell'uomo, di cui egli rivendica l'importanza primaria, non sono alla fine che semplici sovrastrutture della strutture economiche materiali, infingimenti che alterano l'essenzialità del reale.

Consapevole di questa obiezione Bloch nell'opera Storia e contenuto del concetto di materia [2] dà una ridefinizione del concetto marxiano di materia.

Riprendendo alcuni testi di Marx dove il concetto di materia non è inteso meccanicisticamente, ma è visto come «impulso vitale, forza espansiva...tormento della materia» [3] Bloch risale al concetto aristotelico di materia come potenza rilevandovi due connotazioni:

* quella per cui viene definita come il complesso delle concrete possibilità oggettive,

* quella per cui può essere identificata come l'insieme delle potenzialità che si agitano, vivono in embrione in tutto ciò che ancora non è nato, realizzato.

Il primo significato caratterizza la corrente fredda del marxismo che punta l'obiettivo delle sue conquiste badando solo a ciò che è realmente conseguibile sulla base dei condizionamenti economici: in questo modo il marxismo fissa realisticamente le speranze dell'uomo sui piedi della realtà, avviandosi alla realizzazione di un utopia concreta

Nel suo secondo significato la materia si riferisce a ogni tipo di aspirazione e di realizzazione dei più profondi e vitali interessi dell'uomo dando vita a quella corrente calda del marxismo come programma politico proiettato verso un futuro dove si realizzeranno i bisogni più nobili dell'umanità.

Questo nuovo concetto di materia amplia il significato del marxismo oltre il limite politico come rivalutazione di ogni aspetto della vita spirituale come l'arte, la filosofia, la religione ecc.

La speranza

Ne Il principio speranza, Bloch mostra come la coscienza anticipante dell'uomo, la sua capacità di anticipare i progetti più alti mettendo in moto lo sviluppo storico, si manifesti sia nelle piccole forme storiche quali: i sogni e le aspirazioni che caratterizzano la vita quotidiana, il mondo fantastico delle favole, i racconti dei films e degli spettacoli teatrali, le utopie sociali sia nelle grandi concezioni religiose, filosofiche.

In tutte queste forme della coscienza anticipante dell'uomo, l'elemento fondamentale è la speranza, la quale non è qualcosa di puramente soggettivo ma aspetto reale dello sviluppo concreto dell'essere.

L'essere non è infatti ontologicamente definibile nella sua immediata staticità e cristallizzazione ma il vero, vitale essere è il non-essere-ancora.

Dall'analisi della natura della coscienza anticipante dell'uomo, infatti, emerge chiaramente il non-ancora come la sua verità più profonda che dà valore reale alla speranza, intesa non più come astratto sogno campato in aria, ma come docta spes, oggettivamente basata sul dinamismo della realtà.

La speranza allora, non è solo un atteggiamento sentimentale, ma concreta forza di voler costruire, con precisione razionale, la realtà. Così accade nell'arte e in particolare nella musica quando, sulla base di una rigorosa reale base matematica, essa suscita in noi un flusso di sentimenti.

Tuttavia, già nell'Introduzione alla traduzione italiana di quest'opera principale di Bloch, Remo Bodei ricorda che non tutti i miti e i filosofi hanno considerato la speranza una virtù. E di ciò sembra accorgersi pure lo stesso Bloch, sia prendendo atto delle impreviste e non volute ricadute del suo pensiero sulla "Teologia della speranza" del protestante Moltmann[4], sia inserendo al capitolo 20 un'importante alternativa: la speranza non più come sguardo ottimisticamente diretto al futuro, bensì come immersione nelle potenzialità insite nel presente, quando l'uomo tenta di vivere cogliendo l'eternità nell'istante, il carpe aeternitatem in momento e il nunc aeternum dell’attimo oscuro.

La nostra coscienza del presente, che noi crediamo chiara, in effetti è offuscata: alla base del faro non c'è luce ; noi dobbiamo dirigere la sua luce della speranza su ogni attimo della nostra vita presente, altrimenti la luce del faro si perde nella notte del futuro.

Il futuro-nuovo

La speranza come proiettata nel divenire storico, come creatrice della storia, implicava una nuova definizione della filosofia della storia e, in quest'ambito, della dialettica sia hegeliana che marxista.

L'utopia e la speranza infatti, danno all'uomo la possibilità di anticipare quel futuro dove l'uomo stesso realizza la sua intima essenza; ma il vero futuro deve essere nuovo, non può essere qualcosa di predeterminato nel passato e nel presente così da essere prevedibile in modo del tutto certo.

La speranza è certa nella soggettività (spes qua speratur, la speranza nella quale si spera) dell'individuo ma è altrettanto incerta nella sua oggettività (spes quae speratur, la speranza che si spera), altrimenti si renderebbe nullo e inefficace il concetto stesso di speranza.

La speranza infatti è continuamente sottoposta al rischio, all'incertezza, deve il continuamente lottare per il futuro-nuovo, deve sempre stare sul fronte

L'ottimismo militante

La speranza quindi concepita nell'ambito di un ottimismo che combatte per realizzarla, per superare il rischio ad essa connessa. Non quindi un ottimismo garantito dalla necessità infallibile delle leggi scientifiche, come auspicava un marxismo di ispirazione positivistico, né tantomeno un ottimismo assicurato dalla religione che garantisca la presenza di un ens realissimum, fonte di ogni realizzazione.

Bloch è convinto che si possa oggi fondare una filosofia della speranza basata sull'ottimismo militante che realizzi con l'impegno, le possibilità future poiché appare ormai superata ogni dottrina che basava se stessa collegandosi inesorabilmente al passato.

Già Hegel aveva tentato di svincolarsi da questo cordone ombelicale col passato mettendo al centro dello sviluppo la dialettica delle opposizioni ma poi aveva concepito l'intero processo dialettico come un tutto già completato che il pensiero dell'uomo ripercorreva nel ricordo. Riaffiorava cioè in Hegel quell'anamnesi platonica che riportava la dialettica hegeliana nell'ambito del pensiero contemplativo.

Il recupero del pensiero hegeliano

Mentre Engels a proposito del pensiero hegeliano sosteneva che, eliminato il "sistema", si potesse accogliere il "metodo" dialettico, Bloch ritiene che invece tutta intera la filosofia hegeliana possa essere presa come valido modello di sapere confacente alla ricchezza della vita e della storia a patto però di eliminarne l'aspetto anamnestico, [8] così come del resto era avvenuto con Marx che aveva opposto all'immobilità del pensiero contemplativo, la dinamicità di un pensiero come sintesi dialettica di teoria e prassi.

Solo a un pensiero dialettico che non perda di vista la realtà, caratterizzato da una profonda volontà di cambiamento, si aprirà la strada verso il futuro. Il pensiero hegeliano chiuso nella sua immobilità contemplativa si era rivelato incapace di fare la storia, possibilità questa ora fondata sulla concezione della teoria-prassi.

In questo modo la totalità dialettica hegeliana, non più chiusa in se stessa e predefinita, diverrà una totalità aperta al novum, una totalità utopica, dove l'utopia futura darà senso e concretezza alla speranza anticipante la realizzazione storica.

La patria dell'identità

Compiuta l'utopia, l'uomo raggiungerà la patria dell'identità, quel marxiano regno della libertà dove soddisfatti i suoi dedideri e intimi bisogni, risolverà finalmente ogni alienazione, ogni espropriazione ed estraniamento di sè da se stesso, recuperando la sua vera identità.

L'utopia compiuta realizzerà, afferma Bloch riprendendo il tema marxiano espresso nei Manoscritti economici-filosofici del 1844, la completa «umanizzazione della natura e naturalizzazione dell'uomo» risolvendo quel drammatico contrasto tra uomo e natura, soggetto e oggetto da cui era originata l'alienazione:

«Proprio in quanto il marxismo non è assolutamente altro che lotta contro la disuminazzazione culminante nel capitalismo, lotta fino alla completa abolizione, ne risulta anche, e contrario, che nella sua spinta di lotta di classe, nei suoi contenuti di finalità, il marxismo genuino non è nient'altro che promozione o incremento di umanità»

(E. Bloch, Il principio speranza)

La teologia della speranza

«Solo un ateo può essere buon cristiano, solo un cristiano può essere buon ateo»

(E. Bloch, Ateismo nel Cristianesimo. Per una religione dell'Esodo e del Regno (1968))

Questo provocatorio motto può essere considerato come sintesi del dialogo aperto da Bloch, dopo il suo ritorno nella Germania occidentale, tra la concezione marxista e la visione teologica cristiana da cui si è sviluppata la cosiddetta "teologia della speranza".

Bloch propone una nuova lettura e interpretazione della Bibbia secondo quella che egli chiama deteocratizzazione, l'eliminare cioè dai testi sacri tutto quello che viene attribuito a Dio come monarca trascendente: configurazione questa presa a giustificazione di ogni sopraffazione del potere dell'uomo sull'uomo. Bisogna invece rintracciare e mettere in rilievo quell'ideale di liberazione che attraversa tutto il testo biblico e che anticipa la finale salvezza dell'uomo.

Percorrendo la linea tracciata da Feuerbach e Marx, per cui «la critica della religione porta alla dottrina secondo la quale l'uomo è, per l'uomo, l'essere supremo; dunque essa perviene all'imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l'uomo è un essere degradato, asservito, abbandonato e spregevole», [9] Bloch giunge così a quell'ateismo umanistico che afferma l'assolutezza dell'uomo, incompatibile con l'assolutezza di Dio.

Il trascendente divino, così come appare nella Bibbia, mette in luce questo contrasto insanabile tre Dio e l'uomo, questa rivalità tra il divino e l'umano che è da superare eliminando dalla Bibbia ogni raffigurazione della trascendenza divina sostituendovi il «trascendere senza trascendenza» proprio dell'uomo che vuole essere «come Dio», senza Dio, per arrivare alla sua totale liberazione.

L'opera citata si conclude auspicando un incontro, non un compromesso, basato sul carattere umanistico che vive in entrambi, tra marxismo utopico, (purificato dal materialismo meccanicistico e dagli interessi solo economici, aperto all'utopia del regno della libertà) e cristianesimo ateo (privo di elementi teocratici e finalizzato alla liberazione utopica dell'uomo).

Come il marxismo ha indicato materialmente la strada verso l'ideale utopico,così il cristianesimo ha sempre tenuto vivo nel cuore dell'uomo il desiderio utopico: ora, di comune accordo, possono avviare l'uomo verso l' utopia concreta.

La speranza oltre la morte

In opposizione alla tradizione filosofica da Socrate, Platone sino ad Heidegger che fanno della filosofia una scuola di preparazione alla morte, Bloch manifesta invece una fiducia di una vittoria sulla morte, sulla "lampada funebre" come egli dice, che si spegnerà con il sopravvenire di una nuova alba. Alla base di questa generica speranza c'è la considerazione invece realistica che tutta la storia dell'uomo, nella sua evoluzione, è stata guidata verso il meglio da quelle forze invisibili che noi chiamiamo Dio.

Tuttavia il problema più irrisolto di Bloch è forse quello del rapporto fra il cosmo e il suo sottoinsieme antropico, ossia: davvero la cosmogenesi è antropocentrica? Davvero l'universo è diretto al miglioramento e questo dipende dall'uomo?[10] C’è persino chi sostiene la tesi opposta: noi umani saremmo d’intralcio e d’ostacolo per il termine della cosmo(a)gonia.

Lo affermavano già le apocalissi giudaiche precristiane, lo ribadisce Nietzsche: «In un angolo remoto dell'universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari, c'era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più menzognero della storia del mondo, ma tutto ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire. Era anche tempo: difatti, sebbene si vantassero di aver già conosciuto molto, alla fine avevano scoperto, con grande riluttanza, di aver conosciuto tutto falsamente. Essi perirono, e morendo maledissero la verità. Così accadde a quei disperati animali che avevano scoperto la conoscenza.»[11]

Così per Leopardi, col suo pessimismo globale, l’esperimento cosmico è destinato a fallire, uomo o non uomo: «Tempo verrà che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che grandissimi regni ed imperi umani, e loro meravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimenti del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure vestigia; ma un silenzio nudo e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell'esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi.»[12]

La Scuola di Francoforte

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

La Scuola di Francoforte è una scuola filosofica e sociologica neo-marxista. Il nucleo originario di tale scuola, formato per lo più da filosofi e sociologi tedeschi di origine ebraica, emerse nel 1923 nell'ambiente del neonato "Istituto per la Ricerca Sociale" (Institut für Sozialforschung) dell'Università Johann Wolfgang Goethe di Francoforte sul Meno, in Germania, sotto la guida dello storico marxista Karl Grünberg. Il nucleo successivamente si ampliò per numero di studiosi ed ambiti di ricerca. Il primo periodo di attività della scuola si inquadra nel primo dopoguerra, tra gli anni venti e gli anni trenta; all'avvento del nazismo il gruppo lasciò la Germania e si trasferì dapprima a Ginevra, poi a Parigi e infine a New York, dove continuò la sua attività. Dopo la seconda guerra mondiale alcuni esponenti (tra cui Adorno, Horkheimer e Pollock) tornarono in Germania per fondare un nuovo Istituto per la ricerca sociale.

L'espressione "Scuola di Francoforte" è una denominazione informale usata per designare quei pensatori che furono affiliati o influenzati dall'Istituto per la Ricerca Sociale: non fu mai la denominazione di alcuna istituzione, né i suoi appartenenti la usarono per descrivere sé stessi.

La scuola raccolse studiosi di diverse discipline e ambiti culturali, ma la linea di pensiero che ha accomunato tutti gli esponenti risiede nella critica della società presente, tendente a smascherare le contraddizioni del contemporaneo vivere collettivo. L'ideale di società e di uomo a cui fa riferimento questa critica è quella utopistica e rivoluzionaria del marxismo; l'elaborazione di questa filosofia da parte della Scuola è autonoma e originale, e per alcuni studiosi (come Horkheimer) implica addirittura un allontanamento da alcuni punti centrali del pensiero di Karl Marx. Nel complesso questa linea di interpretazione si pone polemicamente in contrasto con le correnti di pensiero marxiste diffuse all'inizio del secolo, influenzate o dall'ortodossia sovietica o dalle correnti revisioniste.

Le motivazioni storiche che stavano alla base della reinterpretazione e dello sviluppo della filosofia marxista da parte dei pensatori della Scuola affondavano le loro radici nel fallimento della rivoluzione della classe operaia nell'Europa occidentale, negli sviluppi della rivoluzione bolscevica, vista come esempio negativo di "rivoluzione fallita", e nell'ascesa dei totalitarismi in gran parte d'Europa, anche in nazioni economicamente, tecnologicamente, e culturalmente avanzate come la Germania; essi si prefiggevano di discernere quali aspetti del pensiero di Marx potessero effettivamente chiarire quell'evoluzione delle condizioni sociali che lo stesso Marx non aveva previsto. Dalla Scuola emersero altri filoni di pensiero il cui obiettivo rimase sempre lo sviluppo critico del pensiero marxista, così da attualizzarlo e arricchirlo con l'analisi di altre discipline (psicoanalisi, sociologia). Sotto questo aspetto Max Weber e Sigmund Freud esercitarono notevole influenza.

L'enfasi sulla componente "critica" della teoria derivava significativamente dal loro tentativo di superare i limiti del positivismo, del crudo materialismo, e della fenomenologia ritornando alla filosofia critica di Kant e dei suoi successori dell'idealismo tedesco, principalmente Hegel; in particolare con riferimento all'enfasi che questi pose sulla negazione e sulla contraddizione come proprietà intrinseche della realtà, nonché all'approccio totalizzante e globale con cui il filosofo tedesco aveva studiato i collegamenti tra i diversi aspetti del reale. Un'influenza decisiva la esercitò la pubblicazione nel 1930 dei Manoscritti economico-filosofici e dell'Ideologia tedesca, che mostrò gli elementi di continuità con l'hegelismo che caratterizzavano la filosofia di Marx: Marcuse fu uno dei primi ad articolare il significato teoretico di questi testi.

Il primo periodo

L'istituto diede i contributi maggiori in relazione a due aspetti riguardanti la possibilità dei soggetti umani di agire razionalmente e prendersi così carico delle contraddizioni della propria società e degli sviluppi della propria storia. Il primo aspetto ha a che fare con quei fenomeni sociali che nel marxismo sono considerati sovrastruttura e ideologia: la famiglia, le strutture gerarchiche, il regno dell'estetica e della cultura di massa. Gli studi ebbero qui una preoccupazione comune riguardo all'abilità con cui il capitalismo distrugge le condizioni previe al nascere di una coscienza critica e rivoluzionaria. Questo significava arrivare ad una consapevolezza sofisticata della dimensione profonda dove l'oppressione sociale alimenta se stessa. Significava anche l'inizio di una esplorazione da parte della teoria critica dell'ideologia come parte dei fondamenti della struttura sociale.

L'istituto e vari dei suoi collaboratori ebbero una gigantesca influenza (specie negli USA) sulle scienze sociali tramite la loro opera The Authoritarian Personality, che condusse un'estesa ricerca empirica, usando categorie sociologiche e psicoanalitiche, alla fine di caratterizzare gli impulsi che causavano le persone ad affiliarsi a o sostenere movimenti o partiti fascisti. Lo studio trovò che l'asserire l'esistenza di universali, o perfino di una verità, fossero tratti tipici del fascismo; mettendo in dubbio ogni nozione di un ideale superiore, o una missione comune per l'umanità, The Authoritarian Personality contribuì in gran parte all'emergere della controcultura.

La natura del marxismo costituiva il secondo punto focale dell'Istituto, e in questo contesto nacque il concetto di "teoria critica". Il termine era inteso per vari scopi - primo, contrastava nozioni tradizionali di teorie, che erano in gran parte o positivistiche o scientifiche. Secondo, il termine concedeva di evitare l'etichetta politicamente carica di "marxismo". Terzo, li metteva in connessione esplicita con la "filosofia critica" di Immanuel Kant, dove il termine "critica" voleva intendere la riflessione filosofica sui limiti di certi tipi di conoscenza e una connessione diretta tra una tale critica e l'enfasi sull'autonomia morale. In un contesto definito dal dogmatismo positivistico e scientifico da una parte e lo "socialismo scientifico" dogmatico dall'altra, la teoria critica intendeva riabilitare tramite il suo approccio filosoficamente critico una svolta verso l'azione rivoluzionaria, o perlomeno la sua possibilità, in un periodo nel quale sembrava in declino.

Infine, nel contesto di ortodossia sia marxista-leninista che socialdemocratica, che sosteneva il marxismo come un nuovo tipo di scienza positiva, si stavano rifacendo all'epistemologia implicita di Karl Marx, come espressa nel Capitale, che si presentava come critica, volendo sottolineare che Marx stesse cercando di creare una nuova analisi critica, volta all'unità di teoria e pratica rivoluzionaria, invece che una nuova scienza positiva. Negli anni '60 Jürgen Habermas portò la discussione epistemologica ad un nuovo livello nella sua opera "Knowledge and Human Interests", identificando la conoscenza critica come basata su principi che la rendevano differente sia dalle scienze fisiche che da quelle umanistiche, attraverso l'orientamento sulla riflessione ed emancipazione.

Mentre la distinzione di Horkheimer tra teoria tradizionale e teoria critica in un certo senso ripeteva solo la dichiarazione di Marx che i filosofi avessero sempre solo interpretato il mondo e che ora si trattava di cambiarlo, l'istituto, nella sua critica all'ideologia, sfidò correnti filosofiche come il positivismo, la fenomenologia, l'esistenzialismo, e il pragmatismo, con una critica implicita del marxismo contemporaneo, che aveva trasformato la dialettica in una scienza o metafisica alternative. L'istituto tentò di riformulare la dialettica come un metodo scientifico concreto, continuamente attento alle specifiche radici sociali del pensiero e della specifica costellazione di forze che influenzavano la possibilità di liberazione. Conseguentemente, la teoria critica rifiutò la metafisica materialista della ortodossia marxista. Per Horkheimer e i suoi colleghi, il materialismo significava l'orientamento della teoria verso la pratica e verso la soddisfazione delle necessità umane, non una dichiarazione metafisica sulla natura della realtà.

Il secondo periodo

La seconda fase del pensiero critico della Scuola di Francoforte viene a definirsi principalmente in due opere che costituiscono dei classici del pensiero del XX secolo: Dialettica dell'illuminismo (Horkheimer e Adorno) e Minima Moralia (Adorno), entrambi scritti durante l'esilio americano dell'Istituto, negli anni del nazismo. Pur conservando molto dell'analisi marxiana, in questi lavori la teoria critica muta il suo punto focale. La critica del capitalismo diviene ua critica della civiltà occidentale a tutto tondo. La "Dialettica dell'illuminismo", infatti, usa l'"Odissea" come paradigma per l'analisi della coscienza borghese. Horkheimer e Adorno già presentano in questi lavori molti temi poi venuti a dominare il pensiero sociale degli anni recenti: la dominazione della natura appare centrale nella civiltà occidentale molto prima che l'ecologia diventi lo slogan dei giorni nostri.

L'analisi della ragione ora passa allo scalino successivo. La razionalità della civiltà occidentale sembra una commistione di dominio e razionalità tecnologica,portando ogni natura ,interna ed esterna, ad essere assoggettata all'uomo. Tuttavia lo stesso soggetto viene inghiottito in questo processo e nessuna forza sociale analoga al proletariato può essere identificata come quella che permetterà al soggetto di emanciparsi. Da qui il sottotitolo dei Minima Moralia: "Riflessioni dalla vita danneggiata". Dalle parole di Adorno:

«Siccome l'oggettività opprimente del movimento storico nella sua fase presente consiste solo nella dissoluzione del soggetto, senza ancora averne creato uno nuovo, l'esperienza individuale si basa necessariamente su un vecchio argomento, oggi storicamente condannato, che il soggetto viva per se stesso ma non in se stesso'.Il soggetto si sente ancora sicuro della sua autonomia, ma la nullificazione dimostrata ai soggetti nel campo di concentramento sta già sorpassando la forma stessa di soggettività»

Di conseguenza , in un tempo in cui sembra che la realtà stessa sia divenuta ideologia, il più grande contributo che la teoria critica può dare è quello di esplorare le contraddizioni dialettiche dell'esperienza soggettiva ed individuale da una parte, e di preservare la verità della teoria dall'altra. Anche la dialettica può divenire un mezzo per la dominazione: "La sua verià o falsità non é, perciò, inerente a ciò che riguarda il metodo in sé, ma alla sua intenzione nel processo storico". E questa intenzione deve rivolgersi verso la felicità e verso la libertà: "La sola filosofia che può essere praticata responsabilmente a dispetto della disperazione è quella che cerca di contemplare ogni cosa come se si presentasse dal punto di vista della redenzione". Ecco quindi quanto é lontana la conclusione di Adorno rispetto all'ortodossia marxista: "Ma accanto alla richiesta posta in questo modo sul pensiero ,il problema della realtà o dell' irrealtà della redenzione diventa centrale in modo determinante".

Adorno, musicista navigato, scrisse la "Filosofia della musica moderna" in cui, in sostanza, polemizza contro la "bellezza" in sé --poiché è diventata parte del sistema capitalistico progredito e della falsa coscienza che contribuisce a imbellettarlo. L'avanguardia artistica e musicale conservano la verità catturando la realtà della soffernza umana. Per cui:

«Ciò che la musica estremista percepisce è la sofferenza umana senza trasfigurazione. La registrazione sismografica dello shock traumatico diventa, allo stesso tempo , la legge tecnico- strutturale della musica.Ciò impedisce la continuità e lo sviluppo. Il linguaggio musicale é polarizzato a seconda del suo estremo; da un lato verso gesti che richiamano lo shock di convulsioni del corpo, dall'altro verso l'immobilità cristallina di un essere umano la cui ansietà ne causa il congelamento sui suoi binari. La musica moderna vede come suo obiettivo l'oblio assoluto. Il messaggio di disperazione che sopravvive al naufragio.»

Questa visione dell'arte moderna come produttrice di verità solo attraverso la negazione della forma estetica tradizionale e delle norme tradizionali della bellezza (poiché sono divenute ideologiche) è tipica di Adorno e della Scuola di Francoforte. Viene criticata da coloro che non ne condividono l'idea di una società moderna concepita come una falsa totalità che renede obsolete le concezioni tradizionali e le sue immagini di bellezza e armonia.

Il terzo periodo

Il terzo periodo della Scuola di Francoforte coincise col periodo post-bellico, in particolare dai primi anni 50 alla metà degli anni 60. Con la crescita della società industriale avanzata sotto le condizioni della Guerra Fredda, i teorici della critica riconobbero che la struttura del capitalismo e della storia erano cambiati in modo decisivo, che i metodi oppressivi operavano in modo diverso, e che la classe lavoratrice industriale non incarnava più la ferma negazione del capitalismo. Questo condusse al tentativo di radicare la dialettica in un metodo di assoluta negatività, come nell' Uomo a una dimensione di Marcuse o nella Dialettica negativa di Adorno. Durante questo periodo l'istituto di ricerca sociale si ristabilì a Francoforte (sebbene molti dei suoi associati rimasero negli Stati Uniti), con il fine non di continuare la ricerca ma di diventare una forza dominante nell'istruzione sociologica e nella democratizzazione della Germania Occidentale. Questo portò a una certa "sistematizzazione" dell'intera analisi teoretica e ricerca empirica dell'Istituto.

Più importante, invece, è il tentativo della Scuola di Francoforte di definire il fato della ragione nel nuovo periodo storico. Mentre Marcuse procedette tramite un'analisi di cambiamenti strutturali nei processi di lavoro sotto regime capitalistico e le caratteristiche intrinseche della metodologia della scienza, Horkheimer e Adorno si concentrarono su un riesame dei fondamenti della teoria critica. Questo tentativo appare in forma sistematica nell'opera di Adorno Dialettica Negativa, che tenta di ridefinire la dialettica per un'era in cui «la filosofia, che un tempo sembrava superata, continua a vivere perché mancò il momento di realizzarla». La dialettica negativa concepisce l'idea del pensiero critico espressa in modo tale che le strutture per la dominazione non possano servirsene. La sua nozione centrale, che fu a lungo un punto focale per Horkheimer e Adorno, suggerisce che il peccato originale del pensiero stia nel suo tentativo di eliminare tutto ciò che è diverso dal pensiero, il tentativo da parte del soggetto di divorare l'oggetto, l'anelare all'identità. Questa riduzione rende il pensiero il complice della dominazione. La Dialettica Negativa salva la "preponderanza dell'oggetto", non attraverso una epistemologia ingenua o un realismo metafisico, ma tramite un pensiero basato sulla distinzione, il paradosso e l'inganno: una "logica di disintegrazione". Adorno critica complessivamente l'ontologia fondamentale di Heidegger, che reintroduce concetti idealisti e basati sull'identità sotto le spoglie di un superamento della tradizione filosofica.

La Dialettica negativa si erge a monumento della fine della tradizione del soggetto individuale quale obiettivo della critica. Senza una classe lavoratrice rivoluzionaria, la scuola di Francoforte non ebbe nessuno a cui riferirsi tranne l'individuo soggettivo. Ma, dal momento che la base sociale liberal-capitalistica dell'individuo autonomo retrocedeva verso il passato, la dialettica basata su di esso diventava sempre più astratta. Questo aiutò ad aprire la strada verso la quarta, corrente fase della scuola di Francoforte, formata dalla teoria della comunicazione di Habermas.

Il lavoro di Habermas usufruisce dei costanti interessi della scuola di Francoforte verso la razionalità, il soggetto umano, il socialismo democratico, il metodo dialettico e riesce a ribaltare una serie di contraddizioni che avevano sempre reso debole la teoria critica: le contraddizioni tra il metodo materialista e trascendentale, tra la teoria sociale marxiana e i presupposti del razionalismo critico, fra razionalizzazione tecnica e sociale e tra i fenomeni culturali e psicologici da una parte e la struttura economica della società dall'altra. La scuola di Francoforte evitò di prendere una posizione riguardo alla precisa relazione tra il metodo materialista e quello trascendentale, il che portò alla confusione tra i lettori e ambiguità nei loro testi. L'epistemologia di Habermas sintetizza queste due tradizioni mostrando che l'analisi fenomenologica e quella trascendentale si possono sussumere sotto una teoria materialista di evoluzione sociale, sebbene la teoria materialista abbia senso solo se intesa quale parte di un teoria quasi-trascendentale della conoscenza emancipatrice, che è l'immagine riflessa a se stessa dell'evoluzione culturale. La natura simultaneamente empirica e trascendentale della conoscenza emancipatrice diviene la pietra su cui si fonda la teoria critica.

Localizzando le condizioni di razionalità nella struttura sociale dell'uso del linguaggio, Habermas sposta il luogo della razionalità dal soggetto autonomo ai soggetti interazione. La razionalità non è proprietà degli individui di per sé, ma delle strutture della comunicazione non distorta. Con questa nozione Habermas ha oltrepassato il concetto ambiguo di soggetto nella teoria critica. Se la società di massa capitalistica e tecnologica indebolisce l'autonomia e la razionalità del soggetto, non è attraverso il dominio dell'individuo da parte dell'apparato statale ma attraverso la razionalità tecnologica che sostituisce una razionalità di comunicazione descrivibile. Nel suo lavoro sull'etica comunicativa Habermas suggerisce che la sorgente di una nuova pratica politica che incorpori gli imperativi della razionalità evolutiva rappresenta il livello più alto della logica interna all'evoluzione dei sistemi etici.

La teoria critica ha influenzato alcuni segmenti delle politiche progressiste e del pensiero di sinistra (in particolare la nuova sinistra). Herbert Marcuse viene talvolta descritto come il teorico o l'intellettuale progenitore della nuova sinistra. Il loro lavoro influenzò pesantemente il discorso intellettuale sulla cultura popolare e della scolarizzazione.

Ponendo le condizioni di razionalità nella struttura sociale dell'uso del linguaggio, Habermas muove il luogo della razionalità dal soggetto autonomo all'intersoggettività. Razionalità non è una proprietà di individui in sé, ma di strutture di comunicazione non distorta. Con questa nozione Habermas ha oltrepassato l'ambiguità del soggetto nella teoria critica. Se la società capitalistica e tecnologica indebolisce l'autonomia e la razionalità del soggetto, ciò non avviene attraverso la dominazione del soggetto da parte dell'apparato ma attraverso una razionalità tecnologica che sostituisce una descrivibile razionalità di comunicazione. Nelle sue riflessioni di etica comunicativa come punto più alto nell'interna logica dell'evoluzione di un sistema etico, Habermas suggerisce la sorgente di una nuova prassi politica che incorpora di imperativi della razionalità evoluzionista.

La teoria critica della Scuola di Francoforte ha influenzato alcuni frangenti della sinistra e del suo pensiero (in particolare la nuova sinistra). Herbert Marcuse è spesso citato come il teorizzatore o progenitore della nuova sinistra. Il loro lavoro è stato inoltre di grande importanza per il dibattito sulla cultura popolare e ha prodotto studi sulla cultura popolare di livello accademico.

Herbert Marcuse (1898-1979)

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Biografia

Herbert Marcuse nacque come figlio di un fabbricante di tessuti ebraico originario di Pommern presso Berlino. Nel 1916, dopo la maturità abbreviata (per via della guerra), fu chiamato alle armi nella Reichswehr per la Prima Guerra Mondiale. Nel 1917 diventa membro della SPD, nel 1918 è eletto nel consiglio di soldati di Berlin-Reinickendorf. Nel 1918 Marcuse inizia gli studi di Germanistica e storia della letteratura tedesca contemporanea come materie principali, tenendo filosofia ed economia come secondarie, inizialmente per quattro semestri all'Università di Berlino, poi quattro semestri a Friburgo. Avendo assistito alla tragica conclusione della sollevazione Spartachista (vedi: Lega Spartachista), che fu soppressa dalle forze della Repubblica di Weimar, dopo l'assassinio di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, Marcuse abbandona la SPD nel 1919. Nel 1922 consegue il dottorato a Berlino con una tesi sul romanzo d'artista tedesco (deutscher Künstlerroman).

Nel 1929 inizia a lavorare alla sua abilitazione sotto Martin Heidegger a Friburgo, ma non essendogli possibile completare il suo lavoro sotto il regime Nazista, alla fine del 1932 approda all'Istituto per la Ricerca Sociale (Institut für Sozialforschung) a Francoforte.

Ancora prima della presa di potere di Adolf Hitler, Marcuse fugge nel 1933 via Zurigo a Ginevra, dove si trova una sussidiaria dell'Istituto, prima di emigrare definitivamente negli Stati Uniti nel 1934, dove ottenne la cittadinanza nel 1940. La cosiddetta "Frankfurter Schule" (Scuola di Francoforte), formata da Marcuse, Max Horkheimer e Theodor Adorno, nasce negli anni seguenti a New York, dove Marcuse viene ri-assunto dall'Istituto per la Ricerca Sociale, che pure si era trasferito a New York. La situazione economica dell'Istituto lo porta ad accettare una nuova posizione nel 1942 a Washington presso l' Office of Strategic Services (OSS, precursore della CIA) durante la Seconda Guerra Mondiale, fino al 1951, analizzando le informazioni riguardo alla Germania. Negli anni 1951 - 1954 lavora agli Russian Institutes della Columbia University (New York) e a Harvard, occupandosi di studi riguardo il Marxismo Sovietico. Nel 1954 consegue la sua prima posizione di professore alla Brandeis University in filosofia e scienze politiche. Nel 1965 Marcuse diventa professore in Politologia alla University of San Diego in California.

Negli Stati Uniti comparvero le sue due opere principali: Triebstruktur und Gesellschaft 1955 (dt. 1965) e Der eindimensionale Mensch 1964 (dt. 1967). Entrambe sono annoverate tra le opere più importanti della teoria critica (Kritische Theorie) e sono tra le opere centrali del movimento studentesco degli anni '60 in tutto il mondo, e principalmente negli USA e Germania.

Negli anni 1968 e 1969 si reca per alcuni mesi in Europa, tenendo lezioni e discussioni con studenti a Berlino, Parigi, Londra e Roma. Con l'inizio del movimento studentesco Marcuse diventa uno dei suoi principali interpreti, definendosi Marxista, socialista e Hegeliano. Le sue critiche al capitalismo (specialmente la sua interpretazione di Marx e Freud "Eros e civiltà" pubblicato nel 1955) risuonarono con le preoccupazioni del movimento.

Nel 1979 Marcuse muore per le conseguenze di un'emorragia cerebrale durante una visita in Germania a Starnberg, curato nei suoi ultimi giorni da Jürgen Habermas, importante esponente della seconda generazione della Scuola di Francoforte.

La critica al “socialismo reale” e alla civiltà industriale

Nell’opera Il Marxismo sovietico, Marcuse osserva come anche in Unione sovietica il mutamento dei rapporti di produzione sia stato seguito da una perdita di coscienza rivoluzionaria, finendo per diventare un’altra espressione, accanto al capitalismo, di quella società industriale inevitabilmente portatrice di una morale repressiva.

Su questo punto egli condivide almeno in parte, il pessimismo di Adorno e Horkheimer (due filosofi appartenenti alla cosiddetta "Scuola di Francoforte", riguardo al rapporto tra progresso tecnologico ed emancipazione umana).

Critica della "teoria della civiltà" di Freud

Per Freud la civiltà inizia quando gli uomini per convivere (o sopravvivere) sostituiscono al "principio del piacere" il "principio di realtà"; l'uomo reprime i propri istinti, le proprie pulsioni, opera quindi il differimento dei piaceri e, in sostituzione di questi ultimi, sublima attraverso tutte quelle attività che sono comunemente considerate "frutto della civiltà" (arte, cultura, lavoro, ecc.). La società impone, quindi, una modifica dell'essenza degli istinti, dirottandoli dalla sfera sessuale a quella del lavoro.

Marcuse pone la sua obiezione in questi termini: il processo repressivo descritto da Freud è un fatto intrinseco alla natura di ogni società, o si tratta di un fenomeno transitorio in quanto frutto di un'organizzazione irrazionale delle forme di convivenza tra gli uomini?

La risposta che Marcuse fornisce a questa domanda è in aperto contrasto con la tesi di Freud: la scarsità di beni per cui sono necessari meccanismi quali la divisione del lavoro e il differimento dei bisogni (in una parola, repressione) è frutto di una organizzazione irrazionale della società, nella quale i beni sono distribuiti in misura iniqua. Freud ha scambiato per caratteristica generale un assetto transitorio che configura un dominio attuato attraverso forme di violenza in un primo momento e, successivamente, con l'amministrazione totale della società.

In relazione a quanto detto, Marcuse critica anche le teorie dei neo-freudiani e di Erich Fromm, i quali curano le nevrosi considerandole come forme di adattamento all'assetto sociale esistente. Il filosofo tedesco considera "revisionista" questa visione poiché si accetta supinamente il dato di fatto, e non si coglie il potenziale eversivo della liberazione dell'eros e degli istinti repressi.

Il principio di prestazione

Come detto, la repressione è per Marcuse connessa alla sostituzione del "principio del piacere" col "principio di realtà"; ma egli sottolinea la presenza di un altro livello attraverso il quale la società opprime l'essere umano, e cioè il cosiddetto "principio di prestazione": per prestazione si intende ciò che "si deve fare" a causa del proprio ruolo nella società, quindi la repressione attuata attraverso questo principio è strettamente legata alla stratificazione sociale e alla divisione del lavoro. In altre parole la prestazione è ciò che l'individuo deve fornire alla società, ed è ciò che la società si aspetta dall'individuo. Questa ulteriore repressione non avviene solamente attraverso la funzione che la persona svolge, ma è veicolata anche dalla famiglia patriarcale e dalla direzione univoca imposta alla sessualità, ovvero la genitalità.

La società totalitaria e le sue potenzialità non repressive

Apparentemente l'apparato produttivo ha raggiunto dimensioni tali che i desideri umani possano subire un mutamento qualitativo (in senso onnilaterale come direbbe Marx), ma la società crea bisogni artificiali impedendo la liberazione degli individui attraverso il soddisfacimento delle pulsioni vitali. Ed è proprio per questo, secondo Marcuse, che le società che si definiscono democratiche finiscono per essere intrinsecamente totalitarie, cioè rendono impossibile qualsiasi forma di opposizione.

Ma questi agglomerati così oppressivi per l'uomo, contengono al loro interno grandi potenzialità non repressive e, sulla scorta delle suggestioni di Fourier (socialista utopista) e di Schiller, il filosofo tedesco attribuisce una fondamentale importanza all'immaginazione ("immaginazione al potere" sarà uno dei motti preferiti del '68; vedi più avanti) e all'utopia, per far sì che un giorno l'eros sia liberato e che le energie possano confluire liberamente in tutti gli aspetti della vita umana, non solo nel lavoro, che a quel punto diventerebbe una piacevole attività ludica.

Queste considerazioni si basano, oltre che sulle influenze del già citato "socialismo utopistico", anche sulle considerazioni di Marx, secondo il quale lo sviluppo industriale fornirà all'uomo beni tali da creare un mondo libero dall'alienazione, nel quale ogni individuo potrà sviluppare autonomamente la propria individualità.

L'uomo a una dimensione

«Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno del progresso tecnico»

Così Herbert Marcuse inizia la sua opera forse più importante, L'uomo a una dimensione. È questo un Marcuse più pessimista rispetto ad Eros e Civiltà, più disponibile ad arrendersi ad un ordine sociale che appare totalitario, che permea di sé ogni aspetto della vita dell'individuo e, soprattutto, che ha inglobato anche forze tradizionalmente "anti-sistema" come la classe operaia. In questo modello la vita dell'individuo si riduce al bisogno atavico di produrre e consumare, senza possibilità di resistenza. Marcuse denuncia il carattere fondamentale repressivo dalla società industriale avanzata, appiattisce in realtà, l'uomo alla dimensione di consumatore, euforico e ottuso, la cui libertà è solo la possibilità di scegliere tra molti prodotti diversi.

Tolleranza repressiva

Nelle moderne democrazie occidentali i valori, che una volta erano propri di una parte della società (la classe borghese), si sono diffusi a tutti gli altri soggetti sociali, che si appiattiscono sull'ordine esistente: è in questo quadro che Marcuse elabora il concetto di tolleranza repressiva, ovvero il momento nel quale la libertà va a coincidere col permissivismo.

Nelle democrazie occidentali, a livello teorico, si parte dall'assunto che nessuno possiede la verità assoluta, allora la scelta viene affidata alla collettività, che può scegliere liberamente tra diverse interpretazioni politico-etico-culturali della realtà; è proprio a questo punto del processo "democratico" che si innesca il meccanismo repressivo: l'amministrazione totale dell'esistenza da parte della società impedisce, di fatto, una scelta che sia veramente libera, il contrario del relativismo democratico, ovvero un diffuso conformismo. In altre parole all'uomo viene data la possibilità di scegliere, ma non vengono forniti gli strumenti per farlo in modo veramente indipendente.

Anche il pensiero filosofico è asservito al senso comune, è unidimensionale. Marcuse critica alcune delle più importanti correnti del pensiero novecentesco sulla base dell'incapacità da parte di queste dottrine di opporre un radicale rifiuto al sistema esistente: il neopositivismo giudica l'attendibilità di una proposizione in base alla constatazione empirica, la filosofia analitica rispetto alla conformità col linguaggio comune. La ragione ed il linguaggio non sono più strumenti in grado di assolvere al compito principale della filosofia, cioè trascendere la realtà esistente, restando fedele al contenuto universale dei concetti.

Democratica non-libertà

La società tecnologica avanzata riduce tutto a sé, ogni dimensione "altra" è asservita al potere capitalistico e ai consumi, conquistata dal dominio "democratico" della civiltà industriale; una società che condiziona i veri bisogni umani, sostituendoli con altri artificiali. È in questo senso che Marcuse formula la condanna della tecnologia, che conterrebbe già insita nella sua natura un'ideologia di dominio.

Possibilità di cambiamento

Questa "democratica non-libertà" permea tutto di sé, niente le sfugge, neanche gli strati tradizionalmente anti-sistema come la classe operaia, che si è pienamente integrata nel sistema stesso. Ma esistono ancora dimensioni al di fuori di esso, "al di sotto della base popolare conservatrice"? Marcuse risponde affermativamente: vanno ricercate negli emarginati, nei reietti, nei perseguitati, nei disoccupati, in coloro cioè, che non sono ancora stati fagocitati dalla società repressiva. Il filosofo tedesco, non a caso, chiude la sua opera con una citazione da Walter Benjamin:

«è solo per merito dei disperati che ci è data una speranza»

L'immaginazione al potere

Un'altra considerazione fatta da Marcuse, quella che più lo ha reso celebre presso gli studenti del sessantotto, è la grande importanza da lui attribuita all'immaginazione. Come si è già detto, la ragione e il linguaggio non sono più in grado di trascendere la realtà e di opporre un "grande rifiuto" al modello vigente, per questo la filosofia deve appellarsi all'immaginazione, unico strumento capace di comprendere le cose alla luce della loro potenzialità.

"Immaginazione al potere" diventerà una delle parole d'ordine degli studenti del sessantotto, ai quali Marcuse guarda come veicolo attraverso il quale si può realizzare la liberazione, insieme ai guerriglieri del terzo mondo, alle minoranze emarginate, a tutte le istanze critiche verso il sistema, a tutti i soggetti non integrati in esso, giustificandone anche la violenza perché mossa da una vera e sana intolleranza. Nonostante questo egli si rende conto di come queste categorie siano profondamente impotenti di fronte alla civiltà tecnologica se non si alleano con gli strati dell'opposizione interna ad essa (per esempio i sindacati).

L'eredità e il sessantotto

Herbert Marcuse è stato uno dei pensatori più influenti del Novecento, soprattutto è nota la passione che per lui avevano gli studenti in rivolta nei tardi anni '60. Il suo pensiero, intrinsecamente anti-autoritario, rispecchiava la volontà di cambiamento radicale che animava la protesta dei giovani in tutto il mondo occidentale; il suo rifiuto di ogni forma di repressione, il suo secco no alla civiltà tecnologica (in entrambe le declinazioni liberal-capitalistica e comunista-sovietica), lo resero il filosofo del "grande rifiuto" verso ogni forma di repressione. Egli può essere infatti definito solo in modo generico un pensatore marxista, poiché, di fronte al fallimento, durante il XX secolo delle previsioni di Marx, col dileguarsi dello scontro di classe in occidente, intuì che la lotta non era finita, ma si era solamente spostata nel terzo mondo, oppresso dall'imperialismo occidentale, sul quale anche le classi emarginate del "primo mondo" esercitavano una oppressione, pur accontentandosi delle briciole del banchetto capitalista.

Per i sessantottini fu anche molto importante il concetto di "liberazione dell'eros", inteso non solo come liberazione sessuale, ma come liberazione delle energie creative dell'uomo dal condizionamento della società repressiva, per la creazione di una società più aperta, fatta di uomini liberi e solidali tra loro. Eros inteso anche come "bello", in opposizione al concetto di dominio della società tecnologica; egli utilizzò l'espressione "società come opera d'arte", ovvero una società più autentica, veramente libera, dominata dalla fantasia e dall'arte come dimensione fondamentale di ogni forma di convivenza. Marcuse avrà un ripensamento e, soprattutto nel suo capolavoro, L'uomo ad una dimensione, arriverà a denunciare come falsa la liberazione sessuale, contrapponendovi una liberazione dell'amore ancora tutta da venire e persino da capire. ma non fu compreso

E. Fromm (1900 – 1980)

da www.filosofico.net
A cura di Antonino Magnanimo

" Il guaio della vita di oggi è che molti di noi muoiono prima di essere nati pienamente ."

Erich Fromm nacque a Francoforte sul Meno nel 1900. Figlio di un ricco commerciante israelita di vini, fu educato in un' atmosfera rigidamente religiosa. Dopo aver completato la sua educazione secondaria, nel 1922, a 22 anni, si laurea a Heidelberg in filosofia con una tesi " Sulla funzione sociologica della legge ebraica nella Diaspora ". Mentre prepara la sua dissertazione, Fromm è ancora un ebreo ortodosso che si interroga sui timori che suscitava "negli uomini semplici" la figura dell'ebreo. Tenta quindi di offrire delle spiegazioni., individuando nella legge la forza che garantisce al corpo sociale ebraico di permanere nel suo scontro con corpi storici estranei. Utilizzando gli strumenti concettuali di Max Weber, Martin Buber e Hermann Cohen, propone una ricostruzione sociologica delle origini della diaspora, del rabbinismo, dei rapporti con il cristianesimo e con l'islam con un excursus storico sul crinale di quella legge che evita l'autodistruzione e permette il compromesso con i non ebrei, preservando l'identità nel corso del tempo. Fromm concentra la sua analisi su alcuni momenti della storia religiosa che ritiene esemplari. Negli anni Settanta, sull'onda del successo dei suoi libri, la tesi viene pubblicata.

In seguito studiò psicanalisi a Monaco svolgendo anche attività di psicanalista presso l'Istituto psicanalitico di Berlino e di Francoforte. Non si laureò in medicina. Cominciò a praticare la psicoanalisi nel 1925 e divenne presto famoso. Dal 1929 al 1932 fu assistente nell'Università di Francoforte, e nel 1930 la sua prima tesi sulla funzione delle religioni, fu pubblicata in "Imago", una rivista edita da Freud. Invitato all'Istituto di psicoanalisi di Chicago, visitò gli Stati Uniti nel 1933. Nel 1934, per opposizione al nazismo, lasciò la Germania per stabilirsi permanentemente negli Stati Uniti. Tenne lezioni all' Università di Columbia dal 1934 al 1939 e in altre università americane. Nel 1951 divenne professore del dipartimento di psicanalisi dell' Università nazionale del Messico. Nel 1955 fu nominato Direttore del dipartimento di psicologia della stessa Università del Messico col compito di dirigere l'addestramento di psicoanalisi e di psichiatria. Nel 1962 diventa titolare di una cattedra di psichiatria a New York.

Erich Fromm è considerato uno dei maggiori rappresentanti della psicologia post-freudiana . La sua posizione propositiva è stata definita "Socialismo umanistico", utopia di un mondo umano che sappia realizzare le istanze sociali e superare l'alienazione dell'uomo, le spinte a fuggire dalla libertà, che sappia vivere l'amore per la vita.

Le opere più importanti di Fromm sono : "Fuga dalla libertà" (1941); "Psicoanalisi e religione" (1950); "Il linguaggio dimenticato" (1951); "Psicoanalisi della società contemporanea" (1955); "L'arte di amare" (1956); Buddismo, zen e psicoanalisi" (1960); "Marx e Freud" (1962); "Il cuore dell'uomo" (1964 ); "La rivoluzione della speranza" (1968); "Anatomia della distruttività umana" (1973); "Avere o essere" (1976); "Grandezza e limiti della psicoanalisi di Freud"(1979).

Fromm insieme a Adorno, Horkheimer e Marcuse diventa uno dei maggiori esponenti della Scuola di Francoforte , che nei primi anni del secondo dopoguerra si afferma nella cultura tedesca. La nuova corrente di pensiero, fortemente influenzata dal marxismo, si ispira a diverse matrici culturali: la dialettica e la fenomenologia hegeliana, il nichilismo di Nietzsche e di Heidegger, la psicoanalisi di Freud. La Scuola con il marxismo ha un rapporto tormentato e complesso per motivi sia teorici che pratici poiché respinge il concetto cardine del marxismo del progresso sociale che conduce al consumismo e alla tecnocrazia. La Scuola si oppone ai regimi totalitari di ispirazione marxista degli anni Cinquanta e Sessanta. Il nucleo originario si costituisce a partire dal 1922 presso l'Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, destinato a diventare particolarmente importante quando, nel 1931, ne prende la direzione Max Horkheimer.

Dopo l'avvento del nazismo i componenti della Scuola sono costretti a trasferirsi all'estero, soprattutto negli Stati Uniti d'America e solo alcuni di loro torneranno in Germania alla fine della guerra. Il compito che la Scuola si prefigge è quello di svolgere ricerche collettive e interdisciplinari, tenendo presenti i metodi della sociologia, della ricerca storica, dell'economia politica e del marxismo. Oggetto di studio sono le società industriali e i modi di vivere che in esse tendono a realizzarsi. L'indagine è volta ad analizzare l'autoritarismo, il conformismo, l'alienazione che si presentano in forma più o meno latente nelle società industrializzate ed è condotta prendendo in considerazione anche le manifestazioni culturali e in particolare le avanguardie artistiche del Novecento. La contestazione giovanile del 1968 sembra ispirarsi alla Scuola di Francoforte che in questo periodo suscita pertanto un rinnovato interesse nel mondo della cultura.

Di orientamento socialista e materialista, la Scuola ha elaborato le sue teorie e svolto le sue indagini alla luce delle categorie di totalità e dialettica: la ricerca sociale non si dissolve in indagini specializzate e settoriali; la società va indagata come un tutto nelle relazioni che legano gli ambiti economici con quelli culturali e psicologici. E' qui che si instaura il nesso tra Hegelismo, Marxismo e Freudismo che tipicizzerà la Scuola di Francoforte. La teoria critica si prefigge di far emergere le contraddizioni fondamentali della società capitalistica e punta ad uno sviluppo che conduca ad una società senza sfruttamento. Con la presa del potere da parte di Hitler il gruppo francofortese emigra prima a Ginevra, poi a Parigi e infine a New York. Dopo la seconda guerra mondiale Marcuse, Fromm, Lowenthal e Wittfogel restano negli Stati Uniti, mentre Adorno, Horkheimer e Pollock tornano a Francoforte, dove nel 1950 rinasce L'Istituto per la ricerca sociale. Nella scuola di Francoforte si propone e sviluppa la teoria critica della società che avversa il tipo di lavoro della sociologia empirica americana.

Per i francofortesi la sociologia non si riduce né si dissolve in indagini settoriali e specialistiche, in ricerche di mercato (tipiche, queste, della sociologia americana). La ricerca sociale è, invece, per loro, la teoria della società come un tutto, una teoria posta sotto il segno delle categorie della totalità e della dialettica e tesa all'esame delle relazioni intercorrenti tra gli ambiti economici, psicologici e culturali della società contemporanea. Siffatta teoria è critica in quanto da essa emergono le contraddizioni della moderna società industrializzata e in particolar modo della società capitalistica. Per maggior precisione il teorico critico " è quel teorico la cui unica preoccupazione consiste in uno sviluppo che conduca ad una società senza sfruttamento ". Il primo lavoro di rilievo della Scuola di Francoforte è il volume collettivo "Studi sull'autorità e la famiglia" (1936): la famiglia, come anche la scuola o le istituzioni religiose, viene vista quale tramite dell'autorità e dell'insediarsi di questa nella struttura psichica degli individui. Un lavoro analogo verrà successivamente progettato in America: i suoi esiti sono pubblicati nel volume "La personalità autoritaria".

L'analisi più significativa compiuta da Fromm è quella relativa al tema della fuga dalla libertà che caratterizza la civiltà moderna. La storia dell'umanità è storia della libertà e ha inizio quando l'uomo, diventato consapevole della propria esistenza, spezza il legame che lo lega alla natura entro la quale era immerso, così come la storia individuale ha inizio con la separazione dalla madre. L'esistenza umana comincia quando l'adattamento alla natura perde il suo carattere coercitivo; quando il modo di agire non è più fissato da meccanismi ereditari. In altre parole, sin dall'inizio l'esistenza umana e la libertà sono inseparabili. Lo sviluppo della storia ha determinato una serie di conquiste quali il dominio sulla natura, la crescita della ragione, lo sviluppo della solidarietà verso altri uomini, ma ha causato anche isolamento, insicurezza, solitudine. Dalla fine del Medioevo in poi è cresciuta la libertà degli uomini rispetto alla natura e ai legami della tradizione e delle consuetudini del passato. Questa accresciuta libertà ha determinato, però, una perdita di significato dell'esistenza: l'uomo si sente solo, anonimo, impotente. Vive in modo spersonalizzante il lavoro e, ridotto al ruolo di consumatore, avverte la propria limitatezza anche di fronte alle scelte politiche. Tale insicurezza e precarietà determinano alcuni comportamenti di fuga dalla libertà che investono la società in tutti i suoi aspetti, anche quelli politici. Pertanto lo sviluppo dei regimi totalitari del fascismo e del nazismo non ha spiegazione solo a carattere economico e sociale ma anche psicologico poiché ha a che fare con questa tendenza dell'uomo moderno a fuggire dalla libertà che diventa dolorosa e a rinunciare alla responsabilità e all'autonomia delle scelte, rendendolo disponibile a sottomettersi a un regime politico autoritario.

Altro punto fondamentale dell'analisi di Fromm in "Fuga dalla libertà" è quello relativo al tema dell' autorità , dove viene operata una distinzione molto chiara tra autorità e autoritarismo, indicati con i termini di "autorità razionale" e "autorità inibitoria". L'autorità non è una qualità ma si riferisce a un rapporto interpersonale, in cui una persona considera un'altra superiore a se stessa. Nel caso dell'autorità razionale, assistiamo a un processo in cui un rapporto si basa su una differenza gerarchica (come avviene per esempio tra insegnante e alunno): la parte inferiore riconosce all'altra una superiorità effettiva che non opera però nei suoi confronti in termini di sfruttamento. E' un rapporto in cui la parte superiore offre all'altra una serie di strumenti che le consentono di avvicinarsi al suo livello e in questo senso si tratta di un rapporto di scambio reciproco su una base affettiva positiva. Si parla invece di autorità inibitoria quando il rapporto di sudditanza viene mantenuto e consolidato da chi ha potere. Fromm prende in considerazione anche le diverse forme di autorità come quelle che si realizzano nel rapporto tra padrone-operaio, padre-figlio, moglie-marito, ecc.

L'importanza di Fromm risiede proprio nel tentativo di analizzare i grandi temi della vita sociale in un'ottica psico-sociologica che dà conto dell'importanza dei fattori culturali e sociali nello sviluppo della personalità. Anche il conformismo dilagante nella società moderna, l'assunzione acritica e automatica dei modelli di comportamento proposti dalla società comportano l'annullamento della personalità dell'individuo. In sostanza, si tratta di un meccanismo psicologico di difesa messo in atto per fuggire dalla paura e dalla solitudine, in ultima analisi per fuggire dalla libertà. L'uomo cessa di essere un atomo isolato attraverso la libertà positiva con la realizzazione spontanea e completa della sua personalità e dei rapporti d'amore che lo legano agli altri uomini e al lavoro come creatività. Solo la libertà positiva garantisce la possibilità di un' autentica democrazia .

L'analisi della società contemporanea porta all'individuazione del suo carattere fondamentale e cioè dell' alienazione come effetto del capitalismo sulla personalità umana. L'alienazione caratterizza i rapporti dell'uomo con il lavoro, con gli altri uomini, con le cose, con se stesso. In "Psicoanalisi della società contemporanea" viene esaminata con estrema lucidità la situazione dell'uomo moderno in una società la cui principale preoccupazione è la produzione economica più che l'aumento della produttività creativa dell'uomo: una società dove l'uomo ha perduto il predominio. L'uomo moderno è estraniato dal mondo che egli stesso ha creato, alienato dagli altri uomini, dalle cose che usa e consuma, dal suo governo, da se stesso. Egli è ora " una personalità fittizia ". Se si lascerà che le tendenze attuali si sviluppino senza controllo, ne risulterà una società malata, costituita da uomini alienati. Fromm presenta in questo modo una completa e sistematica concezione della psicoanalisi umanistica e propone un'ipotesi di società "mentalmente sana" in cui l'uomo sia il centro dell'interesse delle attività economiche e produttive, evidenziando così l'alternativa tra il sistema capitalistico e la dittatura totalitaria.

In "Psicanalisi e religione", Fromm discute il bisogno dell'uomo di una struttura di orientamento con cui egli può superare la sua alienazione e stabilire relazioni con gli altri. Questo bisogno può essere soddisfatto da un' ideologia, da una religione, o persino da una nevrosi mentale. Fromm confronta questo tipo di psicoanalisi che chiama cura dell'anima con le religioni che accentuano il potere e la forza dell'individuo: " la cura dell' anima è quella di mettere un uomo in contatto col suo subcosciente aiutandolo così ad essere libero di stabilire relazioni d' amore ". Il metodo normale per superare l'isolamento è stabilire spontaneamente relazioni col mondo attraverso l'amore e lavorare senza sacrificare l'indipendenza e l'integrità del processo.

Nel suo lavoro di analista Fromm scopre una grande varietà di altri meccanismi d'evasione che sono alternativi all'amore: masochismo, sadismo, distruttività, conformismo. Essi producono una riduzione dell'alienazione e dell'ansia ma solo al caro prezzo della rinuncia della propria individualità. L'uomo alienato diventa estraneo a se stesso, non si riconosce come centro del suo mondo e come protagonista delle sue scelte, ma i suoi atti diventano i suoi padroni e a questi si sottomette. Nella società dominata dal denaro e dal consumo, l'uomo concepisce se stesso come una cosa in vendita. Nella società capitalista il consumo diventa fine a se stesso, fa nascere nuovi bisogni e costringe all'acquisto di nuove cose, si perde di vista l'uso delle cose e l'uomo è schiavo del possesso. Si può uscire dall'alienazione solo costituendo un tipo di società organizzata secondo il " socialismo comunitario " con la partecipazione di tutti i lavoratori alla gestione del mondo del lavoro. Il socialismo comunitario prospettato da Fromm è vicino alle posizioni dei socialisti utopistici ed è influenzato dal sindacalismo e dal socialismo corporativista. In "Avere o Essere" Fromm propone all'uomo contemporaneo la scelta netta tra due categorie, due progetti di uomo: o quello dell'avere, dominante nella società capitalistica dei consumi, o quello dell'essere, della realizzazione dei bisogni più profondi dell'uomo. L'analisi di Fromm individua due modi di determinarsi dell'esistenza dell'uomo nella società:

# avere, modello tipico della società industrializzata, costruita sulla proprietà privata e sul profitto che porta all'identificazione dell'esistenza umana con la categoria dell'avere, del possesso. Io sono le cose che possiedo, se non possiedo nulla la mia esistenza viene negata. In tale condizione l'uomo possiede le cose ma è vera anche la situazione inversa e cioè le cose possiedono l'uomo. L'identità personale, l'equilibrio mentale si fonda sull' avere le cose.

# essere è l'altro modo di concepire l'esistenza dell'uomo ed ha come presupposto la libertà e l'autonomia che finalizza gli sforzi alla crescita e all'arricchimento della propria interiorità. L'uomo che si riconosce nel modello esistenziale dell'essere non è più alienato, è protagonista della propria vita e stabilisce rapporti di pace e di solidarietà con gli altri.

Fromm ritiene necessario attuare una nuova società, fondata sull'essere, liberata dalla categoria dell'avere , che garantisca, a livello politico e nell'ambito del lavoro, la partecipazione democratica di tutti gli uomini. Il rapporto tra l'uomo e la società differisce da quello di Freud per il quale l'uomo è fondamentalmente antisociale e deve essere addomesticato dalla società. Sia la psicoanalisi che il marxismo hanno parzialmente fallito nel loro intento, spiega Fromm in "Marx e Freud". Né l'una né l'altro sono in grado di produrre sostanziali cambiamenti della condizione umana: la psicoanalisi e il marxismo sembrano aver perso la loro carica liberatrice e non sono in grado di fornire la comprensione dei processi in atto. C'è bisogno di una revisione sia per l'una che per l'altro. Della psicoanalisi freudiana, oltre a criticare l'impianto meccanicistico, retaggio di una cultura positivista, Fromm denuncia il carattere borghese proprio dell'epoca e dell'ambiente in cui Freud viveva. Freud non ha espresso nella sua psicoanalisi la vera natura umana, ma solo quella di una società capitalistica, egoista e maschilista riducendo i rapporti tra uomo e mondo solo in termini di soddisfacimento libidico. Nella società alienata del capitalismo non sono, però, i bisogni e le potenzialità umane ad essere realizzati, ma i bisogni socialmente indotti dal mercato. Il marxismo d'altra parte non ha colto il peso che le forze psicologiche, attraverso i meccanismi di riproduzione sociale, hanno sulla personalità degli individui.

In "Fuga dalla libertà" Fromm analizza i meccanismi che hanno operato nella storia dell'uomo, in particolar modo analizzando la storia moderna dell'Occidente, che ha spesso visto gli uomini fuggire dalla libertà, cedere la libertà mantenendo l'appartenenza alla società, luogo di sicurezza contro la solitudine. Anche il totalitarismo nazista può essere spiegato con questi meccanismi. Famosa è l'analisi psicoanalitica che egli fa di Hitler, descritto come sadico con il popolo tedesco, che domina e sottomette e masochista nei confronti del destino. Non sembra, però, che Fromm attribuisca a un processo rivoluzionario la possibilità di superamento dell'alienazione. La psicoanalisi può compiere la necessaria critica dell'alienazione dell'uomo contemporaneo e della sua infelicità. Mentre la società capitalista preferisce personalità ferme a stadi pregenitali, demandando alla famiglia il compito della repressione sessuale, Fromm guarda ad una sessualità genitale, che egli vede come simbolo di libertà, creatività, socievolezza.

E' stata notata in Fromm una lettura di Marx nella quale i valori della vita, del lavoro liberato, dell'utopia e del Socialismo vengono contrapposti ai valori della morte, dello sfruttamento, dell'alienazione e del capitalismo. In particolare, fra i valori che nella lettura di Fromm vengono esaltati, fondamentale è quello dell'amore. In "L'arte di amare", che è la sua opera più nota e più popolare, discute cinque tipi di amore : amore fraterno, amore tra genitori e figli, amore erotico, amore per se stessi, amore per Dio. Tutte queste forme di amore hanno elementi comuni e devono essere basati sul senso di responsabilità, rispetto e conoscenza. Per ogni individuo l'amore è il modo normale di superare il senso di isolamento e, come desiderio di unione con gli altri, assume una forma specificamente biologica tra l'uomo e la donna. Fromm afferma che è errato interpretare l' amore come una reciproca soddisfazione sessuale poiché una completa felicità sessuale si raggiunge soltanto quando c'è l'amore. La concentrazione sulla tecnica sessuale come se questa rappresentasse la via alla felicità è, egli afferma, una delle molti ragioni per cui l'amore è diventato così raro nella moderna società capitalistica.

Fromm crede che l'amore sia l'unica e soddisfacente risposta al problema dell'esistenza umana. L'amore non può essere insegnato, bensì deve essere acquisito tramite uno sforzo continuo, disciplina, concentrazione e pazienza, tutte cose che sono difficili per la pressione continua della vita moderna. Il più importante contributo di Fromm sta nell' accentuazione della dignità e del valore dell'individuo . A differenza degli psicologi del comportamento, egli non riduce l'uomo ad un comune denominatore di istinti e considera il sesso molto meno importante dell'amore. Le sue idee sulla teoria della pratica dell'amore sono della massima importanza poiché dimostrano che uomini e donne possono superare le pressioni della vita quotidiana e le difficoltà che essi incontrano quando vogliono formare mature relazioni d'amore.

Dal punto di vista strettamente psicanalitico, Fromm è noto per aver approntato una teoria della personalità. Formatosi innanzitutto come sociologo, Fromm ha saputo coniugare il pensiero di Freud con molti altri grandi filoni culturali, da Marx alla tradizione ebraica. All'interno di questa vasta sintesi dottrinale, si trova anche una teoria della personalità ed una caratterologia, nata come tipologia causale, studiata empiricamente con indagini sul campo e con uso di test proiettivi. La tipologia di Fromm è centrata sul concetto di produttività. Il carattere "produttivo" è quello pienamente sviluppato, non alienato, maturo e ricco di amore per la vita; questo è il punto di riferimento, cui tendono gli altri tre tipi principali, che sono il "ricettivo", l' "appropriativo" e il "mercantile". I tre tipi non costituiscono categorie fisse, ma piuttosto, come in tutti i sistemi caratterologici moderni, delle tendenze presenti in una certa proporzione in ogni carattere. E' significativo quindi non solo il caso in cui una tendenza appare più sviluppata delle altre, ma anche il caso contrario, in cui una tendenza appare appena accennata. Inoltre, la produttività non esclude che il carattere possa essere classificato come appartenente ad uno degli altri tipi; il pieno sviluppo delle potenzialità umane può essere raggiunto attraverso vie differenti.

In "Analisi della distruttività umana", Fromm ha descritto anche un altro tipo interamente negativo, il "necrofilo", amante della morte e nemico della vita; questo rappresenta un caso limite, patologicamente lontano dai valori del carattere produttivo. E' raro, fortunatamente, che il necrofilo possa incontrarsi allo stato puro, ma può presentarsi allo stato di tendenza nelle persone troppo affascinate dalla tecnica e dall'ordine.

Louis Althusser (1918-1990)

Filosofo francese che tentò di riconciliare marxismo e strutturalismo, si unì al PCF nel 1948. A quel tempo Jean-Paul Sartre, il fondatore dell'esistenzialismo che aveva combattuto nella resistenza, ed il suo collega a Les Temps Moderne, il fondatore della fenomenologia Maurice Merleau-Ponty, facevano parte di quello strato dell'intellighenzia che si era allineato sulle posizioni dell'Unione Sovietica staliniana. Nel 1945 il PCF ottenne il 25% dei voti alle prime elezioni post-belliche e l'anno successivo entrò nel primo governo della Quarta Repubblica. Dal maggio 1947, quando i altri partiti sovietici occidentali furono estromessi dai governi della zona d'influenza statunitense, fino al 1968 il PCF ottenne circa un terzo dei suffragi senza però mai aver la possibilità di entrare in nessuna compagine governativa.

Il cupo carattere tipico dell'esistenzialismo divenne ormai fuori tempo con la ripresa economica ed il boom degli anni '60 e fu così rimpiazzato dalla nuova moda dello strutturalismo, le cui basi scientifiche meglio si adattavano all'era tecnologica appena inaugurata. Negli anni '60 lo strutturalismo linguistico di Roman Jakobson, la critica letteraria strutturalista di Roland Barthes e lo strutturalismo antropologico di Levi-Strauss, godettero in Francia una vasta attenzione. Louis Althusser ed il suo allievo Michel Foucault erano anch'essi considerati rappresentanti di questa corrente. Gli strutturalisti sottolineavano la persistenza di 'profonde strutture' che sottostanno a tutte le culture umane, lasciando così poco spazio all'iniziativa umana e alla possibilità di mutazioni storiche.

Partendo dalla critica marxiana dell'empirismo, Althusser rigettò completamente il contenuto positivo della conoscenza empirica. Egli asserì che l'Essenza non può essere ritrovata nell'Apparenza, ma che deve essere scoperta attraverso la 'pratica teorica'; occorre quindi considerare "i caratteri storici nel Il Capitale [di Marx] come una parte della teoria, non come un qualcosa di reale, come un oggetto 'astratto' (concettuale) e non come un oggetto reale e concreto". Così, come in Kant, la storia 'reale' è un qualcosa che è situato altrove, dietro la 'teoria della storia' che è l'unico vero oggetto di conoscenza. Althusser inoltre rifiutò anche il concetto di contraddizione tipico della filosofia hegeliana-marxiana; egli considerava i primi capitoli del Capitale di Marx non come la chiave di lettura, ma come una barriera per la comprensione del punto di vista di Marx sulla società capitalistica, suggerì quindi ai lettori del Capitale di iniziare la lettura dalla seconda parte. In questo modo Althusser arrivò non ad una revisione, ma ad una completa negazione di Marx.

Paul Marlor Sweezy (1910–2004)

Gli studi universitari

Sweezy studiò all'Università Harvard, dove si laureò nel 1931. Dopo la laurea frequentò per un anno la London School of Economics, dove venne avvicinato al marxismo dalle lezioni di Harold Laski, esponente di primo piano del Partito Laburista, e dalla lettura della Storia della rivoluzione russa di Lev Trockij. Tornato alla Harvard, tenne dei corsi sull'economia dei paesi socialisti e le teorie economiche socialiste (cristiane, fabiane e marxiste) e fu assistente di Joseph Schumpeter. Conseguì il dottorato nel 1937, discutendo la tesi Monopoly and Competition in the English Coal Trade, 1550-1850. Lasciò l'insegnamento nel 1942 per arruolarsi e lavorò fino al 1945 presso la divisione di ricerca e analisi dell'Office of Strategic Services (da cui poi deriverà la CIA).

Sono da ricordare, di questo periodo, i suoi studi sul monopolio e sull'oligopolio ed il suo libro sulla teoria dello sviluppo capitalistico, nel quale affronta il problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione e le teorie marxiste delle crisi.

La fondazione della Monthly Review

Finita la guerra, la sua carriera universitaria risultò ostacolata dalle sue posizioni marxiste. Sweezy fondò quindi nel 1949, con Leo Huberman, la Monthly Review. An Independent Socialist Magazine, una rivista definita "indipendente" in quanto non legata ad alcun partito (allora i partiti comunisti erano "dipendenti" da Mosca), che esercitò notevole influenza sulla "Nuova Sinistra" americana ed inglese e sui movimenti "antimperialisti" di molti paesi. Il primo numero ospitava, tra gli altri, un articolo di Albert Einstein intitolato Perché il socialismo?.

Nel 1952, quando il giornalista I.F. Stone cercava invano un editore per pubblicare un libro che contestava la versione ufficiale circa la Guerra di Corea, Sweezy e Leo Huberman fondarono la casa editrice Monthly Review Press, che ha poi pubblicato testi come Lavoro e capitale monopolistico di Harry Braverman, Capitalismo e sottosviluppo in America Latina di Andre Gunder Frank, Lo sviluppo ineguale di Samir Amin.

Nel 1954 il Procuratore Generale del New Hampshire citò Sweezy in giudizio in merito alle sue opinioni politiche ed alle associazioni cui partecipava, chiedendogli di fare i nomi di altri associati, ma Sweezy rifiutò invocando la libertà di espressione tutelata dal Primo Emendamento. Fu condannato per oltraggio alla corte, ma presentò appello e la Corte Suprema lo prosciolse nel 1957.


Il capitale monopolistico


      Nel 1966 Sweezy pubblicò con Paul A. Baran la sua opera più importante, Il capitale monopolistico, dedicata a Che Guevara. In quest'opera gli autori sostengono che l'economia delle grandi imprese non segue i principi della concorrenza perfetta. Le grandi imprese sono in grado di imporre il prezzo di vendita dei loro prodotti, anche perché evitano di farsi concorrenza sul terreno dei prezzi, e di assorbire eventuali aumenti salariali aumentando i prezzi. Ne segue la capacità di realizzare profitti sempre più cospicui, ma anche la difficoltà crescente di convertire tali profitti in investimenti e consumi, con il conseguente loro impiego in spese per la promozione delle vendite, nella spesa pubblica, nel militarismo e nell'imperialismo.

Tuttavia, «La fatale domanda "per che cosa spendere?", a cui il capitalismo monopolistico non può trovare risposta nel campo della spesa civile, è surrettiziamente penetrata nello stesso apparato militare. Ma da tutte le indicazioni disponibili risulta chiaro che neppure qui essa può trovare risposta»

Ne segue, secondo gli autori, una ineliminabile tendenza alla stagnazione.