CAPITOLO 9


L’esilio a Londra



    9.1    ​​​La «Neue Rheinische Revue»

Nell’ultima lettera che Marx mandò ad Engels da Parigi, gli comunicava di aver tutte le buone prospettive di fondare a Londra una rivista tedesca; una parte del denaro gli era già stata assicurata. Pregava Engels, che dopo il fallimento dell’insurrezione nel Baden e nel Palatinato viveva esule in Svizzera, di venire subito a Londra. Engels seguì il richiamo, facendo il viaggio da Genova con un veliero.

Da dove venissero i mezzi per l’impresa progettata, oggi non è più possibile determinarlo. Non possono essere stati abbondanti, e nemmeno si contava su una lunga vita della rivista; Marx sperava che dopo tre o quattro mesi sarebbe scoppiato un incendio rivoluzionario. «L’invito a sottoscrivere azioni» per la Neue Rheinische Zeitung, Politisch-Okonomische Revue, redatta da Karl Marx porta la data di Londra, 1◦ gennaio 1850, ed è firmato da Konrad Schramm come gerente dell’impresa. Vi si dice che redattori della Neue Reintsche Zeitung si erano ritrovati a Londra, dopo aver preso parte sia nella Germania meridionale che a Parigi ai movimenti rivoluzionari dell’estate precedente, e avevano deciso di continuare a Londra il loro giornale. Inizialmente esso poteva uscire soltanto come rivista in quaderni mensili di circa cinque fogli di stampa; appena i mezzi lo avessero consentito, sarebbe dovuto uscire però due volte al mese nello stesso formato o, possibilmente, come grosso settimanale del tipo dei settimanali inglesi o americani, per trasformarsi subito in un quotidiano, appena la situazione avesse consentito il ritorno in Germania. Infine si invitava a sottoscrivere azioni di 50 franchi.

Non devono essere state collocate molte azioni. La rivista fu stampata ad Amburgo, dove una ditta commerciale aveva accettato di curarne l’edizione; essa pretendeva per questo il 50 per cento dei 25 Groschen d’argento che costituivano il prezzo ordinario di vendita per un trimestre. Essa non si dette un gran da fare con la cosa, tanto più che l’occupazione prussiana ad Amburgo le tolse ogni slancio. Ma sarebbe andata sì e no meglio se vi avesse messo uno zelo maggiore. Lassalle non riuscì a scovare a Dusseldorf 50 abbonamenti, e Weydemeyer, che si era fatto mandare 100 copie a Francoforte per la diffusione, dopo mezzo anno aveva incassato appena 51 fiorini; «io insisto davvero parecchio con la gente, ma nonostante tutte le sollecitazioni nessuno ha fretta di pagare». Con giustificata amarezza la signora Marx gli scriveva che l’impresa era stata del tutto rovinata per il disordine e la trascuratezza dell’amministrazione, e che non si sapeva che cosa fosse stato più dannoso, se l’ostruzionismo del libraio o quello degli incaricati e degli amici di Colonia, oppure l’atteggiamento della democrazia.

Non del tutto immune da responsabilità era anche l’insufficiente preparazione redazionale dell’iniziativa, che in sostanza ricadeva tutta su Marx ed Engels. Il manoscritto per il fascicolo di gennaio arrivò ad Amburgo soltanto il 6 febbraio. Ma i posteri hanno tutte le ragioni di essere grati che il progetto sia stato comunque eseguito, perché, se fosse stato rinviato soltanto di pochi mesi, il rapido defluire dell’ondata rivoluzionaria l’avrebbe reso assolutamente impossibile.  Così nei sei fascicoli della rivista ci sono state conservate testimonianze preziose di come Marx, secondo le parole di sua moglie, sapeva sollevarsi «grazie a tutta la sua energia, la serena, chiara, tranquilla coscienza di sé» al di sopra delle cure meschine della vita che giorno per giorno ed ora per ora lo assalivano «in modo rivoltante».

Marx, ed anche Engels — anzi questi più dell’altro — a dire il vero nella loro gioventù hanno visto sempre troppo vicino il futuro, e sperato spesso di poter già cogliere i frutti quando cominciava appena la fioritura; quanto spesso sono stati per questo derisi come falsi profeti! Ed essere un falso profeta non è proprio la lode maggiore di un politico. Ma si deve distinguere se le false profezie derivano dall’ardita sicurezza di un pensiero chiaro ed acuto o dal vano fantasticare su pii desideri. In questo caso la delusione ha un effetto snervante, in quanto un miraggio scompare senza lasciar traccia, ma in quell’altro caso ha un effetto corroborante, in quanto la mente che ragiona indaga le cause del suo errore e conquista così nuove cognizioni.

Forse non ci sono mai stati politici che in questa autocritica siano stati di una sincerità così spietata come Marx ed Engels. Essi erano totalmente privi di quella miserevole presunzione che anche di fronte alle più aspre delusioni cerca di illudersi ancora, immaginandosi che avrebbe avuto ragione purché questa o quella cosa fosse andata diversamente da come è andata in realtà. Ed erano altrettanto schivi dal sentenziare a buon mercato, da ogni sterile pessimismo; dalla sconfitta imparavano, onde preparare la vittoria con forze maggiori.

Col colpo mancato del 13 giugno a Parigi, col fallimento della campagna per la costituzione dell’Impero in Germania e con lo schiacciamento della rivoluzione ungherese ad opera dello Zar, era giunto alla fine un grande capitolo della rivoluzione. Che essa si ridestasse era possibile ormai soltanto in Francia, dove il dado decisivo, nonostante rutto, non era ancora stato tratto. Marx si teneva saldo a questa speranza, ma ciò non gli impediva di agire, lo spingeva anzi a sottoporre il corso della rivoluzione francese fino a quel momento a una critica spietata, schernitrice di ogni illusione. Così avvenne che egli illuminasse il confuso intrico delle sue lotte, che doveva apparire più o meno indecifrabile agli ideologi politici, movendo dalla loro fonte interiore, dalle contraddizioni economiche che si scontravano in esse.

Così in questa descrizione, che si prolungò per i primi tre fascicoli della rivista, gli riuscì abbastanza spesso di semplificare le più complicate questioni del giorno con qualche frase epigrammatica. Quante chiacchiere le teste più illuminate della borghesia e anche i dottrinari del socialismo avevano accumulato nella Assem blea nazionale di Parigi sul diritto al lavoro, e con quanta penetrazione Marx attinse il senso e il nonsenso storico di questa parola d’ordine in queste sue poche frasi: «Nel primo progetto di Costituzione, elaborato prima delle giornate di giugno, si trovava ancora il droit au travail, il diritto al lavoro, prima formula goffa in cui si riassumono le esigenze rivoluzionarie del proletariato. Lo si trasformò nel droit à l'assistance, nel diritto alla pubblica assistenza. E qual è lo Stato moderno che non nutre, in un modo o nell’altro, i suoi poveri? Il diritto al lavoro è nel senso borghese un controsenso, un meschino, pio desiderio; ma dietro il diritto al lavoro sta il potere sul capitale, dietro il potere sul capitale sta l’appropriazione dei mezzi di produzione, il loro assoggettamento alla classe operaia associata, e quindi l’abolizione del lavoro salariato, del capitale e dei loro rapporti reciproci». Che la lotta di classe è la ruota motrice della storia, Marx l’aveva riconosciuto per la prima volta nella storia francese, dato che in essa per l’appunto questa lotta si è manifestata sin dai giorni del Medioevo in forme particolarmente chiare e classiche, e perciò si spiega facilmente la sua particolare predilezione per la storia francese. Questa trattazione, come poi l’altra sul colpo di stato del Bonaparte e quella ancora più tarda sulla Comune di Parigi sono le gemme più luminose nello scrigno dei suoi scritti storici.

Come riscontro ameno, ma non senza un tragico esito, c’era nei primi tre fascicoli della rivista, tratteggiato da Engels, il quadro di una rivoluzione piccolo-borghese, la campagna tedesca per la costituzione. Le rassegne mensili, nelle quali essi soprattutto indagavano il corso delle vicende economiche, erano redatte in comune da loro due. Già nel fascicolo di febbraio essi additavano nella scoperta delle miniere d’oro in California, un fatto «anche più importante della rivoluzione di febbraio», che avrebbe avuto risultati anche più grandiosi della scoperta dell’America. «Una costa estesa per trenta gradi di latitudine, una delle più belle e feconde della terra, finora quasi disabitata, si trasforma sotto i nostri occhi in una terra ricca e civile, densamente abitata da uomini di tutte le razze, dal yankee al cinese, dal negro all’indiano e al malese, dal creolo e dal meticcio all’europeo. L’oro californiano si riversa a torrenti sull’America e sulla costa asiatica dell’Oceano Pacifico e trascina i riluttanti barbari nel traffico mondiale, nella civiltà. Per la seconda volta il traffico mondiale prende una nuova direzione. Grazie all’oro californiano e all’instancabile energia degli yankees, tutte due le coste dell’Oceano Pacifico saranno presto altrettanto popolate, altrettanto aperte al commercio, altrettanto industrializzate come è ora la costa da Boston a Nuova Orleans. Allora l’Oceano Pacifico avrà la stessa funzione che ha ora l’Atlantico e che il Mediterraneo ha avuto nell’antichità, quella della grande via marittima del commercio mondiale, e l’Oceano Atlantico decadrà alla funzione di un mare interno, quale è oggi il Mediterraneo. L’unica possibilità che i paesi civili europei non cadano poi nella stessa dipendenza industriale, commerciale e politica in cui si trovano ora il Portogallo, la Spagna e l’Italia, risiede in una rivoluzione sociale che, finché si è in tempo, trasformi il modo di produzione e di commercio secondo i bisogni della produzione risultanti dalle forze produttive moderne, e in questo modo permetta di creare nuove forze produttive che assicurino la superiorità dell’industria europea, compensando così gli svantaggi della situazione geografica».

Soltanto, come ben presto dovettero riconoscere gli autori di questa prospettiva grandiosa, la rivoluzione in corso si insabbiava proprio per la scoperta delle miniere d’oro di California.

Ugualmente opera comune di Marx ed Engels sono le recensioni degli scritti in cui alcuni luminari pre quarantotteschi avevano cercato di affrontare la rivoluzione: il filosofo tedesco Daumer, lo storico francese Guizot e l’originale genio inglese Carlyle. Se Daurner veniva dalla scuola di Hegel, Guizot aveva esercitato una notevole influenza su Marx, e Carlyle su Engels. Ormai si poteva dire di tutti e tre: pesati sulla bilancia della rivoluzione e trovati troppo leggeri. Gli incredibili luoghi comuni con cui Daumer predicava «la religione della nuova epoca», vengono riassunti in questo «quadro commovente»: la filosofia tedesca si torce le mani e geme lamentosamente presso il letto di morte del padre suo adottivo, la piccola borghesia tedesca. A proposito di Guizot si mostra come perfino le persone più intelligenti dell’ancien regime, perfino persone alle quali non si poteva negare di possedere a modo loro del talento storico, erano state messe tal mente in imbarazzo dal fatale avvenimento del febbraio, che avevano perduto ogni comprensione storica e addirittura la comprensione della loro stessa attività precedente. Infine, se lo scritto di Guizot mostrava che le capacità della borghesia erano in decandenza, alcuni opuscoli di Carlyle dimostravano la insufficienza del genio letterario di fronte all’acuirsi delle lotte storiche, contro le quali esso cercava di far valere le sue misconosciute, immediate, profetiche ispirazioni.

Dimostrando con queste brillanti recensioni gli effetti devastatoli della rivoluzione sulle grandezze letterarie del periodo prequarantottesco, Marx ed Engels erano tuttavia molto lontani dal credere ad una qualche mistica forza della rivoluzione, come tavolta è stato detto di loro. La rivoluzione non creò il quadro che spaventò a morte i Daumer, i Guizot, i Carlyle, ma non fece che strappare il velo davanti a questo quadro. Nelle rivoluzioni lo sviluppo storico non prende un corso diverso, ma soltanto un corso più celere; in questo senso Marx le ha chiamate una volta le «locomotive della storia». La sciocca fiducia filistea nella «riforma pacifica e legale», che sarebbe superiore a tutte le esplosioni rivoluzionarie, è stata naturalmente sempre estranea a uomini come Marx ed Engels; per loro la violenza era anche una potenza economica, la levatrice di ogni nuova società.

    9.2    ​​​Il caso Kinkel

Col suo quarto quaderno, nell’aprile 1850, la Neue Rheinische Revue cessò di uscire regolarmente, e vi ha contribuito un po’ un breve articolo di questo fascicolo, di cui gli autori predissero che «avrebbe provocato l’universale indignazione degl’imbroglioni sentimentali e dei declamatori democratici»: una breve recensione stroncatrice dell’arringa difensiva che Gottfried Kinkel aveva pronunciato il 7 agosto 1849 davanti al tribunale militare di Rastatt nella sua qualità di volontario preso prigioniero, e che aveva poi pubblicato in un giornale di Berlino al principio dell’aprile 1850.

Questa recensione era pienamente giustificata in sé. Kinkel, davanti ai tribunale militare, aveva rinnegato la rivoluzione e i suoi compagni d’arme; egli aveva reso omaggio al «principe delle granate» e gridato un evviva all’«impero degli Hohenzollern», davanti allo stesso tribunale militare che aveva mandato alla fucilazione ventisei suoi compagni, tutti morti eroicamente. Ma Kinkel era ancor in carcere quando Marx ed Engels lo attaccarono; e, a quanto generalmente si credeva, vi era come vittima agognata della regia bramosia di vendetta, la quale, si credeva, con un atto del ministero di giustizia aveva trasformato la condanna alla fortezza, pronunciata dal tribunale militare, nel carcere disonorante. Metterlo per di più alla berlina politica mentre era in quella situazione, era cosa che poteva muovere forti riserve non soltanto presso degli «imbroglioni sentimentali e dei declamatori democratici».


Da allora sono stati aperti gli archivi sul caso Kinkel, che si presenta come un vero groviglio di tragicomici equivoci. Kinkel era da principio un teologo, e precisamente un teologo ortodosso; con la sua apostasia dall’ortodossia protestante, che era stata accompagnata o magari provocata dal suo matrimonio con una cattolica intransigente, egli si era tirato addosso l’odio inconciliabile degli ortodossi, che gli procurò la no mea, molto superiore ai suoi meriti e alla sua dignità, di «eroe della libertà». In realtà egli era poi andato a finire nello stesso partito di Marx ed Engels soltanto per un «malinteso»; politicamente egli non andava oltre le parole d’ordine della democrazia corrente, anche se — per dirla con Freiligrath — la «maledetta retorica», che gli era rimasta appiccicata addosso dal suo periodo teologico, all’occasione poteva trascinarlo a sinistra tanto quanto lo aveva trascinato a destra nella sua arringa di Rastatt. Una modesta vena poetica serviva a renderlo più noto di altri democratici del suo stampo.

Nella campagna per la costituzione dell’Impero, Kinkel era entrato nel reparto volontario di Willich, nel quale combatterono anche Engels e Moli; qui egli si comportò valorosamente, e nell’ultimo combattimento alla Murg, dove cadde Moli, fu ferito al capo da un colpo di striscio, e quindi preso prigioniero. Il tribunale militare lo condannò alla fortezza a vita ma con ciò il «principe delle granate», o come Kinkel si era preziosamente espresso nella sua difesa, «l’Altezza reale del nostro erede al trono» non era ancora servito, e la Corte militare suprema di Berlino propose al re di annullare la sentenza del tribunale militare, dato che Kinkel avrebbe meritato la pena di morte, e riaprire il procedimento giudiziario contro di lui.

Contro di ciò si levò però tutto il ministero, poiché esso riconosceva, sì, che la pena era stata troppo mite per un reato di alto tradimento, ma consigliava di convalidare la condanna con un «atto di grazia», per riguardo all’opinione pubblica. Nello stesso tempo gli sembrava «indicato» disporre che la pena fosse scontata in un carcere «giudiziario», perché se Kinkel fosse stato trattato come un condannato alla fortezza, la cosa avrebbe fatto «grande sensazione». Il re approvò queste proposte del ministero, ma proprio così sollevò quella «grande sensazione» che si era voluta evitare. La «opinione pubblica» avvertì come un oltraggio sanguinoso che un re con un «atto di grazia» mandasse in carcere un reo di alto tradimento, che perfino un tribunale militare aveva voluto inviare soltanto in una fortezza.

Ma si trattava di un errore, perché essa non si intendeva delia raffinatezza delle pene nelle fortezze prussia ne. Kinkel non era stato condannato all’arresto militare in fortezza, ma alla pena militare della fortezza, una pena che si scontava in un modo anche più duro e brutale che quella carceraria. I condannati alla fortezza venivano ammassati in dieci o venti entro buchi angusti, avevano come giaciglio soltanto una dura panca, venivano nutriti poco e male, dovevano eseguire i lavori più umili, come pulire latrine, spazzare strade, ecc., alla minima mancanza dovevano assaggiare lo staffile. Il ministero aveva voluto salvare il prigioniero Kinkel da questa vita da cani, per paura dell’« opinione pubblica», ma quando la «opinione pubblica» capì la co sa alla rovescia, esso non osò per paura del «principe delle granate» e del suo partito ebbro di vendetta, confessare apertamente le sue «umane» intenzioni, e preferì lasciare il re sotto il peso di un sospetto che doveva danneggiarlo, e lo ha danneggiato gravemente, anche agli occhi dei benpensanti.

Sotto la fatale impressione di questa azione malriuscita, il ministero non volle provocare nuova «sensazione » con le vicende di Kinkel nel carcere, ma osò soltanto arrivare fino a dare l’ordine che in nessun caso si eseguissero su di lui punizioni corporali. Esso aveva visto di buon occhio anche che lo si esentasse dal lavoro forzato e fece capire al direttore del carcere di Naugard, dove Kinkel risiedette da principio, che egli doveva accollarsene personalmente la responsabilità. Ma il rigido burocrate si tenne al suo regolamento e mise Kinkel alla ruota dell’incannatoio. E di nuovo grande indignazione; nacque una «canzone della ruota» e la si cantò moltissimo, ritratti del«poeta alla ruota» inondarono la Germania, e Kinkel stesso scrisse alla moglie: «il giuoco del destino e la rabbia dei partiti arrivano all’assurdo, perchè la mano che scrisse per la nazione tedesca Ottone il tiratore, ora gira la ruota». Tuttavia si confermò subito l’antica esperienza secondo cui la «indignazione morale» del filisteo finisce di solito in una grande ridicolaggine. Spaventato dal chiasso e più coraggioso del ministero, ma a dire il vero denunciato anche subito per «opinioni democratiche», il governo regionale di Stettino ordinò che Kinkel fosse occupato in lavori d’ufficio, al che lo stesso Kinkel dichiarò che desiderava restare alla ruota perché un leggero esercizio fisico gli consentiva di abbandonarsi liberamente ai suoi pensieri, mentre il copiare per tutto il giorno gli affaticava il petto e lo faceva ammalare.

L’opinione diffusissima che nel carcere Kinkel fosse trattato per ordine del re con particolare perfidia, non corrispondeva al vero, anche se egli ebbe a soffrire di qualche sevizia. Schnuchel, direttore della prigione di Naugard, era un rigido burocrate, ma non un essere disumano: dava del tu a Kinkel, ma gli consentiva molto moto all’aria aperta, ed aveva umana comprensione per l’instancabile affaccendarsi della signora Kinkel per liberare il marito. Invece a Spandau, dove Kinkel andò nel maggio del 1850, gli si dava del Lei, ma dovette lasciarsi tagliare barba e capelli, il direttore Jeserich, un bigotto reazionario, lo tormentava tentando di convertirlo, ed attaccò subito i litigi più indisponenti con «la coniugata Kinkel». Tuttavia anche questo mercante d’anime non fece troppe difficoltà quando il ministero lo invitò a riferire sulla proposta della signora Kinkel secondo la quale, nel caso che si lasciasse partire suo marito per l’America, egli si sarebbe impegnato sulla sua parola d’onore a rinunciare a ogni attività politica e a non ritornare mai più in Europa. Jeserich pensava addirittura, per quel che egli conosceva di Kinkel, che in America si sarebbe ottenuta anche prima una radicale guarigione del suo spirito. Ma egli doveva scontare almeno un anno di galera, perché la spada dell’autorità non si ottundesse e si smussasse troppo; poi gli si poteva consentire di emigrare, a menò che la salute di Kinkel non risentisse della lunga prigionia, del che tuttavia non vi erano indizi. Questo rapporto di Jeserich arrivò al re, che ora si dimostrò veramente più vendicativo dei ministri e del direttore del carcere; «Sua Altezza in persona» decise che al prof. Kinkel non si poteva accordare di emigrare nemmeno dopo un anno, perché bisognava umiliarlo ancora di più di quanto si era fatto sino ad allora.

Se si considera il culto che fu allora tributato a Kinkel, si comprende l’avversione che egli doveva suscitare in uomini come Marx ed Engels. Teatralità piccolo-borghesi del genere sono state sempre insopportabili per loro. Già nella sua narrazione della campagna per la costituzione dell’Impero, Engels si era espresso molto amaramente sul conto esagerato che si era fatto degli «intellettuali vittime» dell’insurrezione di maggio, mentre nessuno parlava delle centinaia e migliaia di operai che erano caduti in battaglia o ammuffivano nelle casematte di Rastatt, o all’estero, soli tra tutti gli esuli, dovevano assaporare l’esilio fino alla feccia della miseria. Ma anche se si prescindeva da questo, c’erano anche tra le «vittime intellettuali» molti che avevano da sopportare sacrifici incomparabilmente più gravi e li sopportavano in modo incomparabilmente più virile di Kinkel, senza che per questo nessun gallo cantasse. Basti ricordare August Rockel, che come artista era almeno alla pari di Kinkel; nel carcere di Waldheim fu maltrattato nella maniera più crudele, fino alle punizioni corporali, ma dopo dodici anni di torture insopportabili non lo si potè indurre a chieder grazia neppure con un cenno delle ciglia, di modo che la reazione, disperando per il suo orgoglio, alla fine dovette per così dire gettar via di forza dal carcere. E Ròckel non era l’unico del suo stampo. Piuttosto Kinkel fu l’unico che, già dopo pochi mesi di una prigionia pur sempre sopportabile, pubblicando la sua difesa di Rastatt, espresse davanti a tutto il mondo pentimento e dolore. E allora l’aspra e dura critica che Marx ed Engels fecero di questo discorso era assolutamente opportuna; essi potevano dire a ragione che non peggioravano così la situazione di Kinkel nella sua prigione, ma che la miglioravano.

Il seguito del caso Kinkel dette loro ragione anche per altra via. L’entusiasmo per Kinkel sciolse i lacci delle borse borghesi al punto che potè essere corrotto un impiegato del carcere di Spandau, e nel novembre del 1850 Kinkel potè essere liberato ad opera di Karl Schurz.

Il re se l’era voluta, con la sua sete di vendetta. Se egli avesse lasciato che Kinkel, dietro parola d’onore di non far più politica, emigrasse in America, Kinkel sarebbe stato presto dimenticato, come aveva compreso perfino il direttore del carcere Jeserich; ma ora, grazie al successo della sua fuga, Kinkel fu un agitatore tre volte celebrato, e il re dovette aggiungere al danno le beffe.

Tuttavia egli seppe comportarsi nella sua maniera regale. Il rapporto sulla fuga di Kinkel fece nascere in lui un pensiero che egli stesso fu abbastanza onesto da dichiarare ignobile. Egli ordinò ai suo Manteuffel di scoprire e far punire un complotto per mezzo di quella «preziosa persona» di Stieber. Stieber era allora già così universalmente disprezzato, che perfino il presidente della polizia di Berlino Hinckeldey, che nel perseguitare gli avversari politici aveva una coscienza molto elastica, si oppose violentemente alla sua riassunzione al servizio della polizia. Ma nulla valse, e Stieber inscenò allora come saggio delle sue capacità quel pezzo a base di furti e di spergiuri che fu il processo dei comunisti di Colonia.

Quanto a mascalzonate di ogni genere esso superò di gran lunga il caso Kinkel, ma non si è mai sentito
dire che anche un solo galantuomo borghese si sia agitato per esso. Forse questa piacevole classe volle così dimostrare di aver compreso bene, fino in fondo, Marx ed Engels.

    9.3    ​​​La scissione nella Lega dei Comunisti

Del resto, il caso Kinkel ebbe un significato più sintomatico che effettivo. La natura del dissidio in cui Marx ed Engels si trovarono con l’emigrazione londinese, la si può riconoscere esattamente da esso, ma la sua manifestazione più importante non fu esso, e tanto meno ne fu la causa.

Quello che legava Marx ed Engels agli altri emigrati e quello che li divideva da loro, lo mostrano le due attività a cui essi si dedicarono nell’anno 1850, accanto alla pubblicazione della Neue Rheinische Revue: da una parte il Comitato dei profughi, che essi fondarono con Bauer, Pfänder e Willich per aiutare gli emigrati che affluivano a Londra, tanto più numerosi quanto più la Svizzera cominciava a mostrare agli esuli il muso duro; dall’altra la ricostituzione della Lega dei Comunisti, che diventava tanto più necessaria in quanto la controrivoluzione vittoriosa strappava senza riguardi alla classe operaia la libertà di stampa e di riunione e tutti i mezzi di propaganda in generale. Si può dire che Marx ed Engels si dichiarassero solidali con l’emigrazione umanamente ma non politicamente; che condividessero le sofferenze, ma non le illusioni di essa; che le sacrificassero l’ultimo centesimo, ma non le più piccole briciole delle loro convinzioni.

L’emigrazione tedesca, e anzi internazionale, rappresentava una massa confusa dei più diversi elementi. Tutti speravano in un ridestarsi della rivoluzione che li avrebbe riportati in patria, e tutti lavoravano per questo scopo, col che pareva che fosse creata l’unità d’azione. Tuttavia ogni slancio in questa direzione falliva regolarmente; arrivava, al massimo, a manifestazioni cartacee che tanto meno dicevano quanto più pomposamente tuonavano. Appena si doveva cominciare ad agire, nascevano i litigi meno edificanti. Essi non erano dovuti alle persone, e ruttai più venivano acuiti dalla situazione sconfortante in cui queste persone si trovavano; la loro vera causa erano le lotte di classe che avevano determinato il corso della rivoluzione e che proseguivano nell’emigrazione, nonostante tutti i tentativi di esorcizzarle. La sterilità di questi tentativi fu subito avvertita da Marx ed Engels, ed essi non vi parteciparono, cosa che unì tutte le frazioni e frazioncine dell’emigrazione almeno in quest’unica convinzione che Marx ed Engels fossero i veri e incorreggibili disturbatori della pace.

Da parte loro essi proseguirono la lotta di classe del proletariato, che avevano cominciato già da prima della rivoluzione. I vecchi membri della Lega dei Comunisti si erano ritrovati quasi al completo a Londra sin dall’autunno del 1849, ad eccezione di Moli, che era caduto nelle battaglie sulla Murg, e di Schapper, che arrivò soltanto nell’estate del 1850, e infine di Wilhelm Wolff, che vi si trasferì dalla Svizzera soltanto un anno più tardi. Inoltre si erano acquistate nuove energie: August Willich, l’ex ufficiale prussiano, che nella campagna del Baden e del Palatinato si era rivelato accorto capo di truppe volontarie ed era stato conqui stato dal suo aiutante d’allora, Engels: una personalità notevole, ma teoricamente una testa poco chiara. Poi giovani d’ogni tipo, il commerciante Konrad Schramm, l’insegnante Wilhelm Pieper, e soprattutto Wi lhelm Liebknecht, che aveva studiato nelle università tedesche, ma aveva preso la laurea nell’insurrezione del Baden e nell’esilio in Svizzera. Tutti questi stettero molto intorno a Marx in questi anni, ma il più attacca to e il più fedele fu certo Liebknecht. Sugli altri due Marx non si espresse sempre favorevolmente, ma non si deve prendere alla lettera ogni parola pronunciata in un momento d’impazienza su di loro. Quando Konrad Schramm, ancor giovane d’anni, fu rapito dalla tisi, Marx lo esaltò come il «Percy testa calda» del partito; anche il Pieper diceva che «nonostante tutto era un bon garçon». Per mezzo di Pieper si mise in contatto epistolare con Marx l’avvocato Johannes Miquel di Gottinga, che entrò nella Lega dei Comunisti. Marx lo apprezzava apertamente come uomo d’ingegno, e Miquel ha tenuto fede alla sua bandiera per parecchi anni, finché non tornò indietro, come il suo amico Pieper, nel campo liberale.

Una circolare del Comitato centrale, in data marzo 1850, redatta da Marx ed Engels e portata in Germania dall’emissario Heinrich Bauer, era destinata a ricostituire la Lega dei Comunisti. Essa muoveva dall’idea che fosse imminente una nuova rivoluzione, «sia che essa stia per essere provocata da una sollevazione indipendente del proletariato francese, o dall’invasione della Santa Alleanza contro la Babele rivoluziona ria». Come la rivoluzione del marzo aveva portato alla vittoria la borghesia, così la nuova rivoluzione vi avrebbe portato la piccola borghesia, che avrebbe tradito ancora una volta la classe operaia. L’atteggiamento del partito rivoluzionario operaio verso la democrazia piccolo-borghese veniva così riassunto: «Esso procede d’accordo con quest’ultima contro la frazione di cui persegue la caduta; esso si oppone ai democratici piccolo-borghesi in tutte le cose pel cui mezzo essi vogliono consolidarsi per conto proprio». I piccoli borghesi avrebbero sfruttato una rivoluzione per loro vittoriosa per riformare la società capitalistica fino al punto di renderla più comoda e più vantaggiosa per la loro stessa classe e, fino a un certo punto, anche per gli operai. Ma il proletariato non avrebbe potuto esserne in alcun modo soddisfatto. Mentre i piccoli borghesi democratici avrebbero spinto il più rapidamente possibile, dopo l’attuazione delle loro li mitate rivendicazioni, all’accantonamento della rivoluzione, compito degli operai sarebbe stato piuttosto di rendere permanente la rivoluzione «sino a che tutte le classi più o meno possidenti non siano scacciate dal potere, sino a che il proletariato non abbia conquistato il potere dello Stato, sino a che l’Associazione dei proletari, non solo in un paese, ma in tutti i paesi dominanti del mondo, si sia sviluppata al punto che venga meno la concorrenza tra proletari di questi paesi, e sino a che almeno le forze produttive decisive non siano concentrate nelle mani dei proletari».

Conforme a ciò, la circolare metteva in guardia gli operai dal lasciarsi ingannare dalle prediche dei demo cratici piccolo-borghesi sull’unione e sulla conciliazione, e dal lasciarsi degradare ad appendice della de mocrazia borghese. Al contrario essi dovevano organizzarsi il più saldamente e il più fortemente possibile, per dettare alla piccola borghesia, dopo la vittoria della rivoluzione, che come sempre sarebbe stata conqui stata grazie alla loro forza e al loro valore, condizioni tali che il dominio dei democratici borghesi portasse in sé il germe della sua fine e che si rendesse più facile soppiantarlo in seguito col dominio del proletariato. «Innanzi tutto gli operai debbono durante il conflitto e immediatamente dopo la lotta, fin quando è possibile, opporsi ai tentativi della borghesia di mantenere la calma, e costringere i democratici a tradurre in atto le loro attuali frasi terroristiche... Ben lungi dall’opporsi ai cosiddetti eccessi, casi di vendetta popolare su persone odiate o su edifici pubblici, cui non si connettono altro che ricordi odiosi, non soltanto si devono tollerare quegli esempi, ma se ne deve prendere in mano la direzione».

Nell’elezione di una assemblea nazionale gli operai avrebbero dovuto presentare dappertutto candidati indipendenti, anche dove non ci fosse la minima prospettiva di successo, senza curarsi di tutte le frasi democratiche. Naturalmente gli operai all’inizio del movimento non avrebbero potuto ancora proporre nessuna misura direttamente comunistica, ma avrebbero potuto costringere i democratici a intervenire il più ampiamente possibile nell’ordinamento attuale della società, a disturbarne il corso regolare, e a compromettere se stessi, come anche a concentrare nelle mani dello Stato il più gran numero possibile di forze produttive, mezzi di trasporto, fabbriche, ferrovie, ecc. Soprattutto gli operai non avrebbero dovuto tollerare che nell’abolizione del feudalesimo le terre feudali venissero date, come nella grande rivoluzione francese, ai contadini in libera proprietà, col che si sarebbe lasciato sussistere il proletariato agricolo e si sarebbe creata una classe di contadini piccolo-borghesi, che avrebbe dovuto attraversare lo stesso ciclo di impoverimento e di indebitamento per cui è passato il contadino francese. Gli operai, al contrario, avrebbero dovuto pretendere che lette feudali confiscate restassero beni demaniali e fossero trasformate in colonie di lavoro, coltivate dal proletariato agricolo associato con tutti i mezzi della grande agricoltura. Così il principio della proprietà comune avrebbe ricevuto subito una base salda in mezzo agli scossi rapporti della società borghese.

Armato di questa circolare, Bauer ebbe un grande successo nella sua missione in Germania. Riuscì a rian nodare delle fila strappate e a intesserne delle nuove, e in particolare a guadagnare una grande influenza sui resti delle associazioni operaie, contadine, di salariati, ginnastiche, che si erano conservati anche nel pieno furore della controrivoluzione. Anche i membri più influenti della Fratellanza operaia fondata da Ste phan Born si unirono alla Lega, che «aveva guadagnato a sé tutte le forze adoperabili», come scriveva a Zurigo Karl Schurz, il quale nello stesso periodo viaggiava attraverso la Germania per incarico di un’or ganizzazione di profughi in Svizzera. In un secondo comunicato, in data giugno 1850, il Comitato centrale poteva annunciare che la Lega aveva preso piede saldamente in una serie di città tedesche e che si erano formati dei circoli direttivi ad Amburgo per lo Schleswig-Holstein, a Schwerin per il Mecklemburgo, a Breslavia per la Slesia, a Lipsia per la Sassonia e Berlino, a Norimberga per la Baviera, a Colonia per la Renania e la Vestfalia.

Sempre in questo appello il circolo di Londra era indicato come il più forte della Lega, quello che quasi da solo faceva fronte alle spese. Esso continuava a dirigere l’Associazione tedesca operaia di cultura a Londra, e insieme la parte più decisa degli esuli di lì; inoltre il Comitato centrale era in stretti rapporti coi partiti rivoluzionari inglese, francese e ungherese.  Ma per altri riguardi il circolo di Londra era però la parte più debole della Lega, in quanto la avviluppava nelle lotte sempre più roventi ma anche sempre più inconcludenti dell’emigrazione.

Nel corso dell’estate del 1850, venne palesemente meno la speranza di un rapido ridestarsi della rivoluzione. In Francia fu abolito il suffragio universale, senza che la classe operaia si sollevasse; ormai la decisione era tra il pretendente Luigi Bonaparte e l’Assemblea nazionale monarchica e reazionaria. In Germania la democrazia piccolo-borghese si ritirava dalla scena politica, mentre la borghesia liberale partecipava alla spoliazione del cadavere della rivoluzione tedesca tentata dalla Prussia. Ma la Prussia fu gabbata dai medi e dai piccoli Stati tedeschi, che ballavano tutti al suono della musica austriaca, mentre lo Zar agitava su tutta questa società tedesca il suo staffile minaccioso.  Ma nella misura in cui la vera rivoluzione rifluiva, aumentavano gli sforzi febbrili dell’emigrazione per fabbricare una rivoluzione artificiale; essa continuava ad illudersi ad ogni segno minaccioso, e riponeva le sue speranze nei prodigi che avrebbe saputo compiere grazie alla sua decisa volontà. Nella stessa misura essa divenne più diffidente contro ogni autocritica nelle proprie file. Così Marx ed Engels, che contemplavano con uno sguardo chiaro e freddo il vero corso delle cose, si trovarono in contrasto sempre più acuto con l’emigrazione. Ma in che modo la voce della logica e della ragione avrebbe potuto domare la tempesta delle passioni in questa massa dirigente più o meno disperata? Lo poteva tanto poco, che la generale ubriacatura penetrò anche nel circolo di Londra della Lega dei Comunisti e scompigliò profondamente il suo Comitato centrale.

Nella sua seduta del 15 settembre del 1850 si venne alla scissione aperta. Sei membri stavano contro quattro: Marx ed Engels, poi Bauer, Eccarius, Pfänder della vecchia guardia, e della giovane generazione, Konrad Schramm, contro Willich, Schapper, Fränkel e Lehmann, dei quali uno solo era del vecchio ceppo: cioè Schapper, un rivoluzionario nato, come Engels lo ha ben definito, trascinato ancora dalla passione rivoluzionaria, dopo che aveva visto da vicino gli orrori della controrivoluzione per tutto un anno ed era arrivato proprio allora in Inghilterra.

Nella seduta decisiva Marx caratterizzò il contrasto con queste parole: «Al posto della considerazione critica, la minoranza ne mette una dogmatica, al posto di una materialistica ne mette una idealistica. Per essa invece delle condizioni effettive diventa ruota motrice della rivoluzione la nuda volontà. Mentre noi diciamo agli operai: Voi dovete attraversare 15, 20, 50 anni di guerre civili e di lotte popolari non soltanto per cambiare la situazione ma anche per cambiare voi stessi e per rendervi capaci del dominio politico voi dite invece: Noi dobbiamo giungere subito al potere, oppure possiamo andare a dormire! Mentre noi richiamiamo in particolare gli operai tedeschi sul fatto che il proletariato tedesco non è ancora sviluppato, voi adulate nel modo più goffo il sentimento nazionale e i pregiudizi di casta dell’artigiano tedesco, cosa che comunque dà più popolarità. Come i democratici hanno fatto della parola popolo un qualcosa di sacro, così voi avete fatto della parola proletariato». Si venne a delle spiegazioni violente, perfino a una sfida a duello di Schramm a Willich — deplorata del resto da Marx — che ebbe luogo presso Anversa e portò a una leggera ferita di Schramm. Ma una riconciliazione degli spiriti si dimostrò impossibile.

La maggioranza cercò di salvare la Lega, trasferendone la direzione a Colonia; il circolo di Colonia avrebbe dovuto eleggere un nuovo Comitato centrale e al posto dell’unico circolo esistito fino ad allora a Londra se ne sarebbero dovuti fare due che, indipendenti l’uno dall’altro, avrebbero dovuto aver relazione soltanto col comune Comitato centrale. Il circolo di Colonia fu d’accordo, ed elesse un nuovo Comitato centrale, ma la minoranza si rifiutò di riconoscerlo. Essa aveva il seguito maggiore nel circolo di Londra e soprattutto nell’Associazione tedesca operaia di cultura, da cui Marx e i suoi amici più intimi si staccarono. Willich e Schapper fondarono una Lega scissionista, che si perdette subito in un vano giocare alla rivoluzione.

Marx ed Engels motivarono la loro posizione, più ampiamente che nella seduta del 15 settembre, nel quinto e sesto fascicolo della loro rivista, un fascicolo doppio col quale essa terminò di esistere nel novembre del 1850. Accanto a un lungo studio nel quale Engels esponeva la guerra dei contadini del 1525 secondo la concezione del materialismo storico, esso conteneva un articolo di Eccarius sulle sartorie di Londra, che Marx accoglieva con questo lieto saluto: «Il proletariato, prima di conquistare la vittoria sulle barrica te, annunzia l’avvento del proprio dominio con una serie di vittorie intellettuali». Eccarius, che lavorava personalmente in una delle sartorie londinesi, considerava un progresso storico il soccombere dell’arti gianato di fronte alla grande industria, mentre nello stesso tempo nei risultati e nei portati della grande industria riconosceva le condizioni reali della rivoluzione proletaria suscitate dalla storia stessa e riprodu centisi giornalmente. In questa concezione schiettamente materialistica, che senza lasciarsi prendere da vani sentimentalismi si contrapponeva alla società borghese e al suo movimento, Marx esaltava il grande progresso sulla critica sentimentale, moralistica e psicologica, con cui Willich e altri pubblicisti operai pre tendevano di porsi di fronte alla situazione esistente. Era un frutto del suo lavoro instancabile, e un frutto per lui graditissimo.

Ma il centro di gravità di questo ultimo fascicolo era nella rassegna politico-economica dei mesi dal maggio all’ottobre. Con un’ampia indagine Marx ed Engels chiarivano le cause economiche della rivoluzione e della controrivoluzione politica, spiegando come quella fosse sorta da una grave crisi economica e questa avesse la sua radice in un nuovo slancio della produzione. Essi giungevano al risultato che: «Data questa prosperità universale, in cui le forze produttive della società borghese si sviluppano con quella sovrabbondanza che è, in generale, possibile nelle condizioni borghesi, non si può parlare di una vera rivoluzione. Una rivoluzione siffatta è possibile solamente in periodi in cui entrambi questi fattori, le forze moderne di produzione e le forme borghesi di produzione entrano in conflitto tra di loro. Le diverse beghe, a cui attualmente si abbandonano i rappresentanti delle singole frazioni del partito continentale dell’ordine, e in cui si compromettono a vicenda, bea lungi dal fornire l’occasione di nuove rivoluzioni, sono al contrario possibili soltanto perché la base dei rapporti é momentaneamente così sicura e, ciò che la reazione ignora, così borghese. Contro di essa si spezzeranno tutti i tentativi reazionari di arrestare l’evoluzione borghese, come tutta l’indignazione morale e tutti i proclami ispirati dai democratici. Una nuova rivoluzione non è possibile se non in seguito a una nuova crisi. L'una però è altrettanto sicura quanto l’altra».

A questa chiara e convincente esposizione era poi contrapposta, a conclusione della rassegna, la critica dell’appello di un Comitato centrale europeo, che, firmato da Mazzini, Ledru-Rollin, Darasz e Ruge, com pendiava in breve spazio tutte le illusioni dell’emigrazione, faceva risalire il fallimento della rivoluzione alle ambiziose gelosie dei singoli capi e alle opinioni contrastanti dei diversi apostoli dei popoli, e faceva la sua professione di fede nella libertà, nell’uguaglianza, nella fraternità, nella famiglia, nei comuni, nello Stato, nella patria, in breve in una situazione sociale che aveva al vertice Dio e la sua legge, e alla base il popolo.

Questa rassegna porta la data del 1◦ novembre 1850. Con essa i due autori cessavano per due decenni di lavorare l’uno accanto all’altro; Engels partì per Manchester, per rientrare come impiegato nella fabbrica tessile Ermen & Engels, mentre Marx restò a Londra per dedicarsi con tutte le sue forze al lavoro scientifico.

    9.4    ​​​Vita d’esule

Questi giorni di novembre, che cadono quasi esattamente alla metà della sua vita, appaiono non soltanto esteriormente una svolta notevole della attività esplicata da Marx. Egli stesso lo avvertiva molto vivamente, e forse in grado anche maggiore lo avvertiva Engels.

«Si vede sempre più — egli scriveva nel febbraio del 1851 a Marx — che l’emigrazione è un’istituzione nella quale chiunque non si tenga del tutto lontano da essa e non si accontenti della posizione di scrittore indipendente che se ne infischia anche del cosiddetto partito rivoluzionario, diventa necessariamente un pazzo, un somaro e un volgare briccone». E Marx rispondeva. «Mi piace molto il pubblico autentico isolamento in cui ci troviamo ora noi due, tu ed io. Corrisponde del tutto alla nostra posizione e ai nostri principi. Il sistema delle reciproche concessioni, dei mezzi termini tollerati per correttezza, e il dovere di assumersi davanti al pubblico la propria parte di ridicolaggine insieme con tutti questi somari del partito, son cose finite». Ed Engels ancora: «Finalmente abbiamo un’altra volta — per la prima volta dopo lungo tempo — l’occasione di dimostrare che non abbiamo bisogno di nessuna popolarità, di nessun support di qualsiasi partito di qualsiasi paese e che la nostra posizione è totalmente indipendente da miserie del genere. Da questo momento noi siamo responsabili soltanto di noi stessi... Del resto non possiamo in fondo lamentarci molto che i petits grands hommes ci temano; non abbiamo da tanti e tanti anni fatto come se Tizio e Caio fossero del nostro partito quando non avevamo proprio nessun partito e quando le persone che noi calcolavamo che appartenessero al nostro partito, almeno ufficialmente... non capivano neanche le basi più elementari delle nostre idee?». Non ce bisogno di pesare col bilancino i «pazzi» e i «bricconi» e si può anche fare un po’ la tara a questi sfoghi appassionati: questo resta certo, che Marx ed Engels videro a ragione una decisione liberatrice nel separarsi con passo risoluto dalle sterili beghe dell’emigrazione e, come si espresse Engels, in «solitudine cosciente» indagare scientificamente fino a che non venissero gli uomini e i tempi che comprendessero le loro cose.

Soltanto, il taglio non fu né così reciso né così rapido né così profondo come può forse apparire all’osser vatore che si volga ora a guardare. Nelle lettere che Engels e Marx si scambiarono nell’anno seguente, le lotte dell’emigrazione trovarono un’eco ancor molto intensa. La cosa avvenne se non altro per gli attriti non ancora sopiti tra le due frazioni in cui si era divisa la Lega dei Comunisti. Inoltre i due amici non avevano affatto l’intenzione di rinunciare ad ogni partecipazione alle lotte politiche, anche se non si mescolavano più nelle gazzarre dell’emigrazione. Se non cessarono la loro collaborazione agli organi cartisti, essi non pensarono nemmeno di rassegnarsi alla fine della Neue Rheinische Revue.

L’editore Schabelitz di Basilea voleva curarne l’edizione; ma non se ne fece di nulla; con Hermann Becker, che era rimasto a Colonia e aveva diretto dapprima la Westdeutsche Zeitung e, dopo che questa fu soppressa, una piccola casa editrice, Marx trattò per la pubblicazione di tutti i suoi scritti e poi anche per una rivista trimestrale che sarebbe dovuta uscire a Liegi. Questi progetti andarono in fumo con l’arresto di Becker nel maggio del 1851, però dei Saggi raccolti a cura di Hermann Becker è uscito se non altro un fascicolo. Avrebbero dovuto comprendere due volumi di 25 fogli di stampa ciascuno. Chi sottoscriveva per questi volumi entro il 15 maggio, li avrebbe ricevuti in dieci fascicoli a 8 Groschen d’argento l’uno; altrimenti il loro prezzo sarebbe stato di 1 tallero e 15 Groschen d’argento per ogni volume. Il primo fascicolo fu smerciato subito, però la notizia di Weydemeyer, secondo cui sarebbe stato diffuso in 15.000 copie, deve fondarsi su di un errore; già la decima parte di questa cifra avrebbe rappresentato nelle condizioni d’allora un successo considerevole.

A questi progetti Marx era spinto anche dalla «imperiosa necessità di un lavoro redditizio». Egli viveva nelle più amare condizioni. Nel novembre del 1849 gli nacque il quarto bambino, il figlioletto Guido. La madre allattò lei stessa il bambino, e scriveva in proposito: «Il povero angioletto succhiò da me tante ansie e muti affanni che stette quasi sempre malato, soffrendo giorno e notte forti dolori. Da quando è venuto al mondo non ha ancora dormito una sola notte, al massimo due o tre ore». Il povero piccino morì un anno dopo la nascita.

La famiglia fu estromessa brutalmente dalla sua prima abitazione in Chelsea, perchè essa aveva sì pagato la pigione alla affittuaria, ma questa non l’aveva versata al padrone di casa. Con molta fatica potè trovare un nuovo alloggio in un albergo tedesco in Leicester Street, Leicester Square, da dove si trasferì presto in Deanstreet 28, Soho Square. Qui per una mezza dozzina di anni trovò una dimora stabile in due stanzette.

Ma non per questo fu scongiurata la miseria. Essa cresceva sempre più; alla fine di ottobre del 1850, Marx scriveva a Weydemeyer, a Francoforte sul Meno, che ritirasse e vendesse l’argenteria impegnata in quel Monte di Pietà; soltanto una posata da bambino, che apparteneva alla piccola Jenny, doveva esser salvata ad ogni costo. «Ora la mia situazione è tale che devo scovare del denaro ad ogni caso, anche per poter continuare a lavorare». Proprio in questi giorni Engels si trasferiva a Manchester, per dedicarsi allo «sporco commercio», certamente già con la prospettiva di poter così soprattutto aiutare l’amico.

Se no gli amici si facevano veramente rari nella sventura. « Quello che davvero mi annienta fin nel più intimo e fa sanguinare il mio cuore — scriveva la signora Marx a Weydemeyer nel 1850 — è che mio marito deve far fronte a tante piccolezze, nelle quali basterebbe così poco per aiutarlo, e che lui, che ha aiutato tanti spontaneamente e gioiosamente, è rimasto così privo di aiuto. Non creda, caro signor Weydemeyer, che noi pretendiamo nulla da nessuno. L’unica cosa che mio marito poteva pretendere da quelli che avevano trovato in lui della sollecitudine, un sollievo, un aiuto, era che dimostrassero una maggiore abilità commerciale, un maggiore interessamento per la sua rivista. Posso affermarlo con orgoglio e franchezza. Di questo poco gli si era debitori, e credo che nessuno ci avrebbe rimesso. Ciò mi addolora, ma mio marito pensa altrimenti. Nemmeno nei momenti più terribili egli ha mai perduto la certezza del futuro e nemmeno il suo sereno umore ed era tutto contento quando mi vedeva serena e i nostri teneri bambini circondavano amorosamente la madre». E come lei pensava a lui quando gli amici tacevano, così lui pensava a lei quando i nemici alzavano troppo la voce.

Sempre a Weydemeyer Marx scriveva nell’agosto del 1851: «Puoi immaginarti quanto la mia situazione sia fosca. Mia moglie non ce la farà più, se le cose durano così a lungo. Le cure continue, la meschinità di questa lotta borghese la estenuano.  E per di più anche l’infamia dei miei avversari che non hanno ancora nemmeno tentato di attaccarmi con argomenti concreti e cercano di vendicarsi della loro impotenza diffamandomi di fronte alla gente e diffondendo le più nefande malignità sul mio conto... Naturalmente, io riderei di tutta questa porcheria; cose del genere non mi disturbano un solo istante nel mio lavoro, ma tu capisci che mia moglie, che è sofferente e dal mattino alla sera si trova immersa nella più spiacevole miseria borghese e ha il sistema nervoso logorato, non ha ristoro dal fatto che ogni giorno degli stupidi pettegoli le portino le esalazioni delle pestilenziali cloache democratiche. La mancanza di tatto di certa gente è spesso enorme». Quando pochi mesi prima, nel marzo, gli era nata la figlioletta Franziska, la signora Marx, nonostante il parto facile, era rimasta gravemente malata, « per motivi più borghesi che fisici»; in casa non c’era un centesimo, «e inoltre avremmo anche sfruttato gli operai! e tenderemmo alla dittatura!» scriveva Marx di tristissimo umore a Engels.

Personalmente Marx trovava nel lavoro scientifico un conforto inesauribile. Dalle 9 del mattino alle 7 di sera lavorava al British Museum. Riferendosi al vuoto indaffararsi dei Kinkel e dei Willich, egli diceva: «i Simplicii democratici, a cui l’illuminazione viene dall’alto , non hanno naturalmente bisogno di affaticarsi così. A che scopo dovrebbero tormentarsi coi fatti dell’economia e della storia questi uomini nati vestiti? E’ tutto così semplice, soleva dirmi il bravo Willich. Tutto così semplice! In queste teste vuote. Semplicioni, costoro!». Marx sperava allora di finire la sua Critica dell’economia politica entro poche settimane e cominciava già a cercare un editore, ricerca che ancora una volta gli portò soltanto una delusione dopo l’altra.

Poi, nel maggio 1851 venne a Londra un fedele amico, su cui Marx poteva contare con sicurezza e con cui negli anni seguenti fu in strettissime relazioni: Ferdinand Freiligrath. Ma anche a lui tenne dietro una notizia funesta. Il 10 maggio fu arrestato a Lipsia il sarto Nothjung durante un suo viaggio di propaganda come inviato della Lega dei Comunisti, e grazie alle carte che egli aveva con sé fu rivelata alla polizia l’esistenza della Lega. Subito dopo vennero arrestati i membri del Comitato centrale di Colonia; Freiligrath si era sottratto giusto in tempo alla stessa sorte, senza sospettare del pericolo che lo minacciava. Al suo arrivo a Londra le diverse frazioncine dell’emigrazione tedesca si disputarono il famoso poeta, ma Freiligrath dichiarò la propria fedeltà a Marx e alla cerchia dei suoi intimi. Così rifiutò anche di partecipare a un’assemblea che doveva aver luogo il 14 luglio 1851 e doveva servire ancora una volta al tentativo di ristabilire l’unità dell’emigrazione tedesca. Il tentativo fallì, come tutti i precedenti, e provocò soltanto nuove discordie.  Il 20 luglio fu fondata l’Unione di agitazione sotto la direzione spirituale di Ruge, e il 27 luglio il Club dell’emigrazione sotto la direzione spirituale di Kinkel. Le due associazioni condussero subito una guerra rabbiosa luna contro l’altra, soprattutto nella stampa tedesco-americana.

Marx naturalmente non aveva ormai altro che scherno per questa «guerra dei topi e delle rane», i cui capi, per tutta la loro mentalità, lo indisponevano parecchio. I tentativi di Ruge nel 1848 di «dimostrar per iscritto la ragione degli avvenimenti» erano stati trattati sulla Neue Rheinische Zeitung con una specie di predilezione artistica, ma non erano nemmeno mancati colpi alquanto secchi contro «Arnold Winkelried Ruge», il «pensatore della Pomerania», i cui scritti erano lo scolo dove «andavano a fluire tutte le immondi zie retoriche e tutte le contraddizioni della democrazia tedesca». Ruge, con tutta la sua confusione in fatto di politica, era pur sempre altro uomo da Kinkel, che dopo la sua fuga dal carcere di Spandau, faceva a Londra la primadonna, «ora per la birreria, ora per il salotto», come diceva per derisione Freiligrath. Per il momento egli presentava nondimeno per Marx un interesse maggiore, perchè Willich si era collegato con Kinkel per il solenne imbroglio di una nuova rivoluzione da fondarsi per mezzo di azioni. Il 14 settembre 1851 Kinkel sbarcò a New York con la missione di convincere degli esuli di riguardo a far da garanti di un prestito nazionale tedesco «per l’importo di due milioni di dollari, onde preparare l’imminente rivoluzione repubblicana», e di raccogliere un fondo preliminare di 20.000 talleri. Comunque, Kossuth era arrivato prima alla geniale trovata di attraversare l’oceano con la borsa per la questua rivoluzionaria. Ma Kinkel, su una base più modesta, condusse l’affare con zelo non minore e non meno senza scrupoli; sia il maestro che il discepolo predicarono negli Stati del nord contro la schiavitù e negli Stati del sud a suo favore. Di fronte a queste farse Marx stringeva più serie relazioni col nuovo mondo. Date le sue crescenti ristrettezze —  «è impossibile seguitare a vivere così», scriveva il 31 luglio a Engels — egli aveva appunto l’intenzione di pubblicare insieme con Wilhelm Wolff una Corrispondenza litografica per i giornali americani, quando, pochi giorni dopo, ricevette l’invito a collaborare regolarmente alla New York Tribune, il giornale più diffuso nel Nordamerica, da parte del suo editore Dana, con cui s’era conosciuto sin dai tempi di Colonia. Siccome egli non padroneggiava ancora la lingua inglese tanto da poterla scrivere correntemente, da principio lo sostituì Engels, che scrisse una serie di articoli sulla rivoluzione e la controrivoluzione tedesca. Marx però potè subito dopo pubblicare anche lui su suolo americano uno scritto tedesco.

    9.5    ​​​Il «Diciotto brumaio»

Josef Weydemeyer, l’antico amico di Bruxelles, aveva partecipato valorosamente alla lotta negli anni della rivoluzione, come redattore di un giornale democratico a Francoforte sul Meno. Nel frattempo questo giornale era stato soppresso dalla controrivoluzione che imperversava sempre più sfrontatamente, e Wey demeyer, dopo che la polizia scoprì la Lega dei Comunisti, di cui egli era uno dei membri più attivi, ebbe i segugi alle calcagna.

Da principio egli si nascose «in una tranquilla birreria a Sachsenhausen»; voleva lasciar passare la tempesta e intanto scrivere un libro di economia politica, ma l’aria diventava sempre più soffocante e «neanche il diavolo può sopportare alla lunga di restarsene nascosto e di bighellonare». Come marito e padre di due bambini egli non vedeva nessuna prospettiva nel trasferirsi in Svizzera o a Londra; così si decise ad emigrare in America.

Marx ed Engels perdettero a malincuore il compagno fedele. Invano Marx tormentò il suo cervello con mille progetti per procurargli un posto come ingegnere o come geometra nelle ferrovie o simili; «perché una volta laggiù, chi garantisce che tu non ti perda nel Far West? E noi abbiamo forze così scarse e dobbiamo fare gran conto delle nostre capacità». Tuttavia, se non poteva essere diversamente, c’era anche un vantaggio nel sapere che nella metropoli del nuovo mondo c’era un rappresentante in gamba della causa del comunismo. «A New York c’è proprio mancato un ragazzo in gamba come lui, e alla fine anche New York non è poi fuori del mondo e con Weydemeyer si è sicuri che le cas échéant sarà subito a portata di mano» pensava Engels. Così dettero la loro benedizione al progetto di Weydemeyer, che il 29 settembre alzò le vele da Le Havre e, dopo una traversata tempestosa di circa 40 giorni, arrivò a New York.

Marx, già il 31 ottobre, gli aveva mandato una lettera nella quale gli proponeva di occuparsi di attività edito riali e di pubblicare come opere a sé le migliori cose della Neue Rheinische Zeitung e della Revue. E fece subito fuoco e fiamme, quando Weydemeyer, fra un improperio e l’altro contro la mentalità da rivenduglioli che in nessun luogo si mostrava in tutta la sua ripugnante nudità come in America, gli comunicava che sperava di poter pubblicare già al principio di gennaio un settimanale dal titolo Revolution, e lo pregava di mandar subito della collaborazione. Marx si affrettò a mettere al lavoro tutte le penne comuniste, Engels soprattutto, poi Freiligrath, di cui Weydemeyer desiderava soprattutto una poesia, Eccarius e Weerth, i due Wolff; rimproverava che nell’annuncio del suo settimanale Weydemeyer non avesse fatto anche il nome di Wilhelm Wolff: «Nessuno tra tutti noi ha il suo stile popolare. E’ straordinariamente modesto. Tanto più bisogna evitare che sembri che si ritiene superflua la sua collaborazione». Quanto a se stesso, — accanto a un lungo studio su di una nuova opera di Proudhon — annunciava in particolare uno studio sul Diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, cioè sul colpo di stato bonapartistico del 2 dicembre, che in quel momento era l’avvenimento più importante della politica europea e aveva dato occasione a innumerevoli scritti.

Tra questi, due soprattutto divennero famosi e portarono ai loro autori un ricco compenso; e Marx così chiarì in seguito ciò che li differenziava dal suo. Nel Napoléon le Petit, Victor Hugo si limita a un’invettiva amara e piena di sarcasmo contro l’autore responsabile del colpo di Stato. L’avvenimento in sé gli appare come un fulmine a ciel sereno. Egli non vede in esso altro che l’atto di violenza di un individuo. Non si accorge che ingrandisce questo individuo invece di rimpicciolirlo, in quanto gli attribuisce una potenza di iniziativa personale che non avrebbe esempi nella storia del mondo». Nel coup d’Etat, Proudhon, dal canto suo, cerca di rappresentare il colpo di Stato come il risultato di una precedente evoluzione storica; ma la ricostruzione storica del colpo di Stato si trasforma in lui in un’apologia storica dell’eroe del colpo di Stato. Egli cade così nell’errore dei nostri cosiddetti storici oggettivi. Io mostro, invece come in Francia la lotta di classe creò delle circostanze e una situazione che rendono possibile a un personaggio mediocre e grottesco di far la parte dell’eroe». Quest’opera fece, accanto alle sue due più fortunate sorelle, la figura di una Cenerentola, ma mentre queste sono da lungo ridotte in cenere e in polvere, essa splende ancor oggi di intramontabile freschezza.

In questo suo lavoro scintillante di spirito e di ingegno, con una maestria prima appena raggiunta, Marx riuscì a spiegare fin nel profondo un avvenimento contemporaneo sulla base della concezione materiali stica della storia; la forma è altrettanto deliziosa quanto il contenuto. Dallo stupendo paragone dell’inizio: «Le rivoluzioni borghesi, come quelle del secolo decimottavo, passano tempestivamente di successo in successo; i loro effetti drammatici si sorpassano l’un l’altro; gli uomini e le cose sembrano illuminate da fuochi di Bengala; l’estasi è lo stato d’animo d’ogni giorno. Ma hanno una vita effimera, presto raggiungono il punto culminante; e allora una lunga nausea s’impadronisce della società, prima che essa possa rendersi freddamente ragione dei risultati del suo periodo di febbre e di tempesta. Le rivoluzioni proletarie invece, quelle del secolo decimonono, criticano continuamente se stesse; interrompono ad ogni istante il loro pro prio corso; ritornano su ciò che già sembrava cosa compiuta, per ricominciare daccapo; si fanno beffe in modo spietato e senza riguardi delle mezze misure, delle debolezze e delle miserie dei loro primi tentativi; sembra che abbattano il loro avversario solo perchè questo attinga dalla terra nuove forze e si levi di nuovo più formidabile di fronte ad esso; si ritraggono continuamente, spaventate dall’infinita immensità dei loro propri scopi, sino a che si crea la situazione in cui è reso impossibile ogni ritorno addietro e le circostanze stesse gridano: Hic Rhodus, hic salta! Qui è la rosa, qui balla!...» fino alle sicure parole profetiche della conclusione: «Ma quando il mantello imperiale cadrà finalmente sulle spalle di Luigi Bonaparte, la statua di bronzo di Napoleone precipiterà dall’alto della colonna Vendóme».

E in quali condizioni fu composto questo scritto stupendo! Fu ancora il male minore che Weydemeyer dovesse «bloccare» il suo settimanale già dopo il primo numero, per mancanza di mezzi; egli scriveva in proposito: «La disoccupazione che infierisce qui sin dall’autunno in proporzioni finora sconosciute, pone notevoli ostacoli sul cammino di ogni nuova iniziativa. E poi tutte le diverse maniere con cui da qualche tempo sono sfruttati gli operai di qui: prima Kinkel, poi Kossuth, e la maggioranza è abbastanza asinesca da tirar fuori un dollaro per ogni propaganda a lei ostile, piuttosto che un centesimo per chi sostiene i suoi interessi. Il terreno americano esercita una enorme corruzione su questa gente, e nello stesso tempo dà anche loro l’illusione di guardare dall’alto i loro compagni del vecchio mondo». Tuttavia Weydemeyer non disperava di destare a nuova vita il suo settimanale come rivista mensile; con 200 miserabili dollari sperava di poter combinare la faccenda.

Ma il peggio fu che, subito dopo il 1◦ gennaio Marx si ammalò e potè lavorare soltanto con grande sforzo; «da anni nulla mi ha tanto abbattuto come queste maledette emorroidi, nemmeno le peggiori figuracce francesi». Ma soprattutto era esasperato dai «maledetti guai finanziari», che gli turbavano ogni momento tranquillo; il 27 febbraio scriveva: «da una settimana sono arrivato al punto che per mancanza degli abiti impegnati al Monte di Pietà non esco più e per mancanza di credito non posso più mangiare carne». Finalmente il 25 marzo potè mandare a Weydemeyer l’ultimo fascicolo di manoscritti, insieme con l’augurio per la nascita di un piccolo rivoluzionario, che Weydemeyer gli aveva annunciato: «Non si può venire al mondo in un tempo più stupendo di oggi. Quando andrà in sette giorni da Londra a Calcutta, noi due saremo da lungo tempo decapitati o avremo le teste vacillanti. E l’Australia e la California e l’Oceano Pacifico! I nuovi cittadini del mondo non comprenderanno più quanto fosse piccolo il nostro mondo». Con lo sguardo volto alle possenti prospettive dello sviluppo dell’umanità, Marx conservava in mezzo a tutte le avversità personali il sereno equilibrio dello spirito.

Ma tristi giornate lo attendevano presto. In una lettera del 30 marzo Weydemeyer dovè togliergli ogni speranza di poter stampare il suo scritto. Non si è conservata la lettera ma soltanto un’eco di essa: una violenta lettera di Wilhelm Wolff del 16 aprile, scritta nel giorno in cui era stata sepolta una bambina di Marx, scritta «nell’universale disgrazia e nelle più orribili ristrettezze di quasi tutti i conoscenti», piena di amari rimproveri per Weydemeyer, che pur non stava nemmeno lui su di un letto di rose e faceva sempre del suo meglio.

Fu una Pasqua terribile per Marx e la sua famiglia. La bambina che essi perdettero era la figlioletta nata un anno prima; su di un foglio di diario della madre sono state trovate queste commoventi parole: «Pasqua del 1852, la nostra piccola Franziska si ammalò di una grave bronchite. Per tre giorni la povera piccina lottò con la morte. Soffrì moltissimo. Il suo piccolo corpicino inanimato giaceva nella seconda delle due stanzette, tutti noi passammo insieme nella prima, ci mettemmo a giacere per terra. Là i tre bambini vivi si distesero con noi, e noi piangemmo per il piccolo angelo, che giaceva accanto a noi freddo e bianco. La morte della cara piccina avvenne nel momento della nostra più nera miseria. Allora io corsi da un esule francese, che abitava nelle vicinanze e che ci aveva fatto visita poco prima. Mi dette subito due sterline condolendosi nel modo più amichevole con noi. Con esse fu pagata la piccola bara, nella quale ora dorme in pace la mia povera piccina. Non ebbe culla quando venne al mondo, ed anche l’ultimo piccolo riparo gli fu negato per lungo tempo. Che cosa è stato per noi, quando fu portata fuori per l’ultima sua dimora!». E proprio in questa giornata dolorosa arrivò la triste lettera di Weydemeyer. Marx era estremamente preoccupato per sua moglie, che da due anni vedeva fallire tutte le sue iniziative.

Tuttavia, in queste ore di sventura già da una settimana varcava l’oceano una nuova lettera di Weydemeyer in data 9 aprile, che così cominciava: «Un aiuto inaspettato ha finalmente fatto superare le difficoltà che si frapponevano alla stampa dell’opuscolo. Dopo l’invio della mia ultima lettera incontrai uno dei nostri operai di Francoforte, un sarto, che era venuto quaggiù anche lui quest’estate. Mi ha messo subito a disposizione tutti i suoi risparmi, quaranta dollari». Si deve a questo operaio se il Diciotto brumaio potè vedere allora la luce. Weydemeyer non nominò nemmeno questa persona così meritevole; ma che importa che si chiamasse in un modo o nell’altro? Quello che lo guidò fu la coscienza di classe del proletariato, che mai si stanca nei suoi magnanimi sacrifici per la propria emancipazione.

Il Diciotto brumaio formò così il primo fascicolo della rivista mensile Revolution, a cui Weydemeyer tentò di dar vita: il secondo e ultimo fascicolo conteneva due missive poetiche di Freiligrath a Weydemeyer, nelle quali si fustigavano con stupenda ironia per l’appunto gli accattonaggi americani di Kinkel. Poi la cosa finì; alcune cose mandate da Engels andarono perdute in viaggio.

Del Diciotto brumaio Weydemeyer fece tirare mille copie, delle quali un terzo arrivò in Europa, anche se non nelle librerie europee; queste copie furono diffuse da amici del partito in Inghilterra e particolarmente in Renania. Nemmeno dei librai « radicali» si lasciarono indurre a curarsi della diffusione di un libro così «contrario ai tempi», né tanto meno potè vedere la luce una traduzione inglese buttata giù da Pieper e riveduta da Engels.

Ma se il bisogno di un editore si accrebbe ancora per Marx, ciò fu dovuto al fatto che al colpo di Stato bonapartistico seguì il processo dei comunisti di Colonia.

    9.6    ​​​Il processo dei comunisti di Colonia

Dopo gli arresti del maggio 1851, Marx aveva seguito con grande attenzione il corso dell’istruttoria, ma dato che essa s’inceppava ad ogni momento per mancanza di «risultanze obiettive per l’accusa», come stabilì perfino il Senato d’accusa della Corte d’Appello di Colonia, in principio ci fu poco da fare. Agli undici accusati non si poteva addebitare altro che la partecipazione a un’associazione segreta di propaganda, e per questo il Code penal non prevedeva alcuna pena.

Ma per volontà del re la «preziosa persona» di Stieber doveva fornire il «saggio delle sue capacità» e dare al pubblico prussiano lo spettacolo, lungamente e giustamente atteso, di un complotto scoperto e (soprattutto) punito, e Stieber era un troppo buon patriota per non render giustizia alla volontà del suo avito signore e re. Egli cominciò degnamente con un furto con scasso, facendo scassinare da uno dei suoi tirapiedi la scrivania di un certo Oswald Dietz, segretario della lega scissionista di Willich. Col suo fiuto da poliziotto Stieber aveva capito che l’irriflessiva e incauta attività di questa lega apriva alla sua degna missione prospettive di riuscita che egli avrebbe cercato invano nel «partito di Marx».

In realtà, con l’aiuto degli scritti rubati, nonché con l’aiuto di provocazioni di ogni genere e di altri sistemi polizieschi, nei quali la polizia bonapartistica alla vigilia del colpo di Stato gli dette una mano, egli riuscì a confezionare un cosiddetto «complotto franco-tedesco di Parigi», che nel febbraio 1852 portò a far condannare dai giurati parigini alcuni poveri diavoli di operai tedeschi a un periodo più o meno lungo di perdita della libertà.

Ma quello che non si potè fabbricare con tutte le arti stieberiane fu una qualche relazione con gli accusati di Colonia; contro di loro dal «complotto franco-tedesco» non venne fuori nemmeno l’ombra di una prova.

Anzi grazie ad esso divenne anche più acuto il contrasto tra il «partito di Marx» e il «partito di Willich e Schapper». Nella primavera e nell’estate dei 1852 si venne ad attriti più forti, tanto più che Willich continuava come prima a far causa comune con Kinkel, il cui ritorno dall’America tornò a far divampare più vive le fiamme anche delle altre contese tra i profughi. Egli non era riuscito a raccogliere i 20.000 talleri che avrebbero dovuto servire come deposito base per il prestito nazionale rivoluzionario, ma soltanto una metà, e il problema di quel che ci si dovesse fare diventò un problema sul quale gli esuli democratici si ruppero la testa anche nel senso materiale della parola. Infine 1.000 sterline — il resto se ne era andato in spese di viaggio e varie — furono depositate nella Westminsterbank a disposizione del primo governo provvisorio. A dire il vero esse non servirono a questo scopo, ma tutta la faccenda finì tuttavia in modo passabilmente conciliante, dato che quindici anni dopo questi danari contribuirono a far superare alcune difficoltà alla stampa della socialdemocrazia tedesca ai suoi inizi.

Mentre ancora infuriava la contesa per questo tesoro dei Nibelunghi, Marx ed Engels effigiarono gli eroi contendenti con alcuni tratti di penna che purtroppo non sono giunti ai posteri. Essi furono sollecitati a ciò dal colonnello ungherese Banya, che si era accreditato presso di loro con una dichiarazione di mano di Kossuth come capo della polizia dell’emigrazione ungherese. In realtà Banya era una spia internazionale, che si rivelò come tale per l’appunto in questa occasione, consegnando al governo prussiano il manoscritto affidatogli da Marx per un editore di Berlino. Marx smascherò subito questo soggetto con una denuncia da lui firmata nella New Yorker Criminalzeitung, ma il suo manoscritto andò perduto e non lo si è più trovato. Se il governo prussiano aveva cercato di averlo per trovarci del materiale per il processo di Colonia, s’era dato da fare per nulla.

Disperando di poter scovare delle prove contro gli accusati, esso aveva rinviato lo svolgimento pubblico del processo da un’assise all’altra e aveva così eccitato al massimo la tensione del rispettabile pubblico, finché nell’ottobre del 1852 dovette finalmente decidersi ad alzare il sipario per la rappresentazione. Ma poiché con tutti i convulsi spergiuri della canaglia poliziesca non si potè dimostrare che gli accusati avessero qualche cosa a che fare col «complotto franco-tedesco», cioè con un complotto che era stato messo su da provocatori della polizia durante l’arresto preventivo in una organizzazione con la quale essi erano stati in palese ostilità, alla fine Stieber se ne venne fuori con « l’originale dei verbali del partito di Marx», una serie di verbali dei dibattiti in cui Marx e i suoi compagni di partito avrebbero discusso i loro piani scellerati per sconvolgere il mondo. Il fascicolo era una infame falsificazione, messa insieme a Londra sotto la guida del tenente di polizia Greif ad opera dei provocatori Charles Fleury e Wilhelm Horsch. Portava visibilissime le tracce della falsificazione, anche a prescindere dal contenuto balordo, ma Stieber contava sull’ottusità borghese dei giurati accuratamente vagliati e sulla severa vigilanza della posta, grazie alla quale sperava di poter impedire l’arrivo di ogni chiarimento da Londra.

Ma il piano indegno fallì per l’energia e la vigilanza con cui Marx seppe rispondergli, per quanto poco egli fosse armato per una lotta estenuante e protrattasi per settimane. L’8 settembre egli aveva scritto a Engels:

«Mia moglie è malata, la piccola Jenny è malata, Lenchen ha una specie di febbre nervosa. Il dottore non potevo e non posso chiamarlo, perchè non ho denaro per le medicine. Da otto o dieci giorni ho nutrito la family con pane e patate, ed è anche dubbio che io riesca a scovarne oggi... Articoli per Dana non ne ho scritti perchè non avevo il penny per andare a leggere i giornali... La cosa migliore e più desiderabile che potrebbe accadere sarebbe che la landlady mi cacciasse di casa. Perlomeno in tal caso mi liberei di un debito di 22 sterline. Ma riesco appena a crederla capace di tanta cortesia. Inoltre il fornaio, il lattaio, quello del tè, il greengrocer, e ancora un vecchio debito col macellaio. Come debbo fare a farla finita con tutta questa merda del diavolo? Finalmente, negli ultimi otto o dieci giorni ho preso in prestito qualche scellino e qualche pence da certi zoticoni, il che è stato per me la cosa più noiosa ma era necessario per non crepare». In questa situazione disperata egli dovette intraprendere la lotta contro avversari strapotenti, e nella lotta lui, e con lui la sua coraggiosa moglie, dimenticò le cure domestiche.

La vittoria non era ancora decisa, quando la signora Marx scriveva a un amico americano: «Bisognò far pervenire di qua tutte le prove della falsificazione, sicché mio marito dovette lavorare tutto il giorno fino a notte alta. Poi bisognò copiare tutti i documenti da sei a otto volte, e spedirli in Germania per diverse vie, per Francoforte, Parigi ecc., perchè tutte le lettere a mio marito, come quelle da qui a Colonia, venivano aperte e sequestrate. Tutto si riduce ora a una lotta tra la polizia da una parte e mio marito dall’altra, sulle cui spalle si fa gravare tutto, anche la condotta del processo. Mi scusi per il mio modo disordinato di scrivere, ma anch’io ho collaborato in questo intrigo e ho copiato, e le dita mi bruciano. Perciò questa confusione.  Proprio ora arrivano da parte di Weerth ed Engels pacchi interi di indirizzi di commercianti e di lettere dall’aspetto commerciale, per poter far pervenire sicuramente i documenti, ecc.  Abbiamo un intero ufficio in casa, adesso. Due, tre persone scrivono, altri corrono, altri ancora mettono insieme i pence affinché gli scrivani abbiano di che vivere e possano portare al cospetto di tutto il mondo ufficiale le prove dello scandalo più inaudito. Intanto i miei allegri bambini fischiettano e cantano e spesso si prendono delle belle risciaquate dal loro signor papà. Questo si chiama lavorare».

Marx vinse questa battaglia; la falsificazione di Stieber fu scoperta ancor prima di arrivare in assise, e lo stesso procuratore dello Stato dovette lasciar cadere come mezzo di prova l’«infelice libro». Ma la vittoria fu fatale per la maggior parte degli accusati. I dibattiti durati cinque settimane avevano scoperto una massa tale di scandali polizieschi, ordinati dalle più alte autorità dello Stato prussiano, che la piena assoluzione di tutti gli accusati avrebbe bollato questo Stato davanti a tutto il mondo. Piuttosto di far arrivare le cose a tal punto, i giurati preferirono far violenza al loro onore e alla loro coscienza, e condannarono sette degli undici accusati per tentativo di alto tradimento: il sigaraio Roser, lo scrittore Bùrgers, il lavorante sarto Nothjung a 6 anni di fortezza, l’operaio Reifl il chimico Otto, l’ex referendario Becker a 5 anni e il lavorante sarto Lessner a 3. Vennero assolti l’impiegato Ehrhardt e i medici Daniels, Jacoby e Klein. Tuttavia uno degli assolti fu colpito più duramente di tutti: Daniels morì pochi anni dopo in seguito alla tisi che si era preso in cella durante l’istruttoria durata un anno e mezzo, profondamente compianto da Marx, a cui la signora Daniels mandò in una commovente lettera gli ultimi saluti del marito.

Le altre vittime di questo vergognoso processo sopravvissero a lungo e in parte sono ritornate nel mondo borghese, come Bürgers, che arrivò ad essere deputato progressista al Parlamento, e Becker, che diventò primo sindaco di Colonia e membro del senato prussiano, stimato dalla corte e dal governo per i suoi alti sentimenti patriottici. Dei condannati che rimasero fedeli alla bandiera, Nothjung e Ròser sono stati attivi ancora agli inizi della ripresa del movimento operaio, e Lessner sopravvisse a lungo a Marx ed Engels, tra i più fedeli compagni dei quali egli fu durante il suo esilio.

Dopo il processo dei comunisti, la Lega dei Comunisti si sciolse, e la seguì presto la Lega scissionista di Willich e Schapper. Willich emigrò in America, dove acquistò gloria meritata come generale dei nordisti nella guerra di secessione, e Schapper tornò pentito dai vecchi compagni.

Ma Marx volle stigmatizzare il sistema che davanti alle assise di Colonia aveva ottenuto una vergognosa vittoria. Egli scrisse le Rivelazioni sul processo dei comunisti di Colonia che voleva pubblicare in Svizzera e possibilmente anche in America. Il 7 dicempre scriveva a certi amici americani: «Voi potrete apprezzare lo spirito dell’opuscolo, se rifletterete che il suo autore è praticamente internato a causa della mancanza di una copertura bastevole per il di dietro e per i piedi, e che inoltre era ed è sotto la minaccia di veder presentarsi ad ogni momento alla sua famiglia una miseria veramente disastrosa. Il processo mi mise nei pasticci anche perché per cinque settimane, invece di lavorare per il pane, dovetti lavorare per il partito contro le macchinazioni del governo. Inoltre mi ha del tutto alienato alcuni editori tedeschi coi quali speravo di concludere un contratto per la mia Economia». Ma l’11 dicembre Schabelitz figlio, che intendeva curarne l’edizione, scriveva da Basilea a Marx che aveva appunto terminato di leggere le prime bozze di stampa. «Sono convinto che l’opuscolo farà un grande scalpore, perchè è un capolavoro». Schabelitz voleva tirarne
2.000 copie e fissare il prezzo dell’opuscolo a 10 Groschen d’argento, nella supposizione che in ogni caso una parte della tiratura sarebbe stata sequestrata.

Purtroppo tutta l’edizione fu sequestrata proprio quando la si doveva mandare dal villaggio di confine nel Baden, dove era rimasta sei settimane, nell’interno della Germania. Il 10 marzo Marx dava la brutta notizia ad Engels con queste amare parole: «In queste condizioni non si deve perdere la voglia di scrivere? Lavo rar sempre pour le roi de Prusse!». Non si potè più appurare come erano andate le cose; il sospetto nutrito in principio da Marx contro l’editore si rivelò presto ingiustificato. Schabelitz voleva addirittura diffondere ancora nella Svizzera 500 copie che aveva trattenuto presso di sé, ma pare che non se ne sia fatto nulla, e per Marx la faccenda ebbe ancora l’amaro strascico che tre mesi dopo non propriamente Schabelitz in persona, ma il suo socio Amberger pretese da lui il rimborso delle spese di stampa per l’ammontare di 424 franchi.

Quello che era fallito in Svizzera, riuscì poi in America, dove, a dire il vero, l’apparire delle Rivelazioni non aveva ragione di preoccupare troppo il governo prussiano. La New England-Zeitung di Boston le ristampò, ed Engels ne fece tirare a sue spese 440 copie speciali che avrebbero dovuto essere diffuse in Renania con l’aiuto di Lassalle.  La signora Marx fu per questo in corrispondenza con Lassalle, che si dimostrò abbastanza attivo, ma da questa corrispondenza non è possibile stabilire se lo scopo è stato effettivamente raggiunto.

Il libro trovò larga risonanza nella stampa tedesco-americana, dove specialmente Willich si dette da fare contro di esso, cosa che indusse di nuovo Marx a un piccolo scritto contro Willich, che uscì alla fine del 1853 col titolo: Ilcavaliere della nobile coscienza. Oggi vale sì e no la pena di riesumarlo dal passato dove è sprofondato da tempo. Come sempre in lotte del genere, anche allora si è peccato da una parte e dall’altra, e, uscito vincitore dalla contesa, Marx rinunciò volentieri a trionfare sul vinto. Già nel 1860 egli diceva a proposito dei primi anni dell’emigrazione, che la più splendida difesa che si potesse farne era un confronto della sua storia con la storia contemporanea dei governi e della società borghese; ad eccezione di pochissime persone, non si poteva rimproverarle altro che delle illusioni, più o meno giustificate dalle condizioni dei tempi, e delle follie, che sorgevano di necessità dalle circostanze straordinarie in cui essa si trovò inaspettatamente coinvolta.

E quando, nel 1875, Marx preparò una seconda edizione delle Rivelazioni, esitò un istante domandandosi se non dovesse togliere la parte sulla frazione Willich-Schapper. E la lasciò stare, ma soltanto perchè, dopo più attenta riflessione, ogni mutilazione del testo gli parve una falsificazione di un documento storico, ma vi aggiunse: «La sconfitta violenta di una rivoluzione lascia nelle teste di chi vi ha partecipato, soprattutto di quelli scagliati nell’esilio, lontano dalla scena patria, una scossa che rende per così dire irresponsabili per un periodo più o meno lungo anche delle personalità in gamba. Esse non riescono più a ritrovarsi nel cammino della storia, non vogliono riconoscere che la forma del movimento è cambiata. Da qui il giocare alla cospirazione e alla rivoluzione, ugualmente compromettente per loro stesse e per la causa al cui servizio esse stanno; da qui anche gli sbagli di Schapper e di Willich. Willich dimostrò nella guerra nordamericana di essere qualcosa di più che un fantasticone, e Schapper, per tutta la vita campione del movimento operaio, riconobbe e confessò subito dopo la fine del processo di Colonia il suo temporaneo errore. Molti anni dopo, sul suo letto di morte, un giorno prima di morire, egli parlò ancora con mordace ironia di quei tempi delle ‘balordaggini degli esuli’. D’altra parte, le circostanze nelle quali furono scritte le rivelazioni, spiegano l’amarezza dell’attacco agli involontari complici del comune nemico. Nei momenti di crisi la mancanza di riflessione diventa tradimento del partito, che richiede un’espiazione pubblica». Parole auree, tanto più in giorni in cui l’attenzione del «tono adatto» vien messa al di sopra della fedeltà ai principi.

Combattuta la battaglia e conquistata la vittoria, Marx era meno che mai uomo da serbar rancore. Conce dette più di quanto occorreva che concedesse, quando nel 1860, di fronte a certe brusche osservazioni di Freiligrath sugli «elementi ambigui e abbietti» che si erano infiltrati nella Lega, ammetteva per parte sua: «è certo che durante le tempeste si accumuli della sporcizia, che nessun periodo rivoluzionario odori di estratto di rose, che qua e là ti resti addosso anche dell’immondizia d’ogni genere. Ma, o luna cosa o l’al tra». Tuttavia poteva aggiungere a buon diritto: «Del resto, quando si riflette agli sforzi enormi fatti contro di noi da tutto il mondo ufficiale che, per rovinarci, non soltanto rasentava ma contravveniva al Code penal, quando si riflette alla faccia viziosa della ‘democrazia dell’idiozia’, che non potè mai perdonare al nostro partito di avere più intelligenza e più carattere di quanto non ne avesse lei, quando si conoscono le vicende contemporanee di tutti gli altri partiti, e ci si domanda alla fine che cosa mai possa essere rinfacciato a tutto il partito, si giunge alla conclusione che in questo secolo decimonono esso si distingue per la sua purezza».

Con lo scioglimento della Lega dei Comunisti, si strapparono gli ultimi fili che legavano Marx con la vita pubblica della Germania. L’esilio, «la patria dei buoni», da questo momento fu per lui la seconda patria.