CAPITOLO 8


Rivoluzione e controrivoluzione



    8.1    ​​​Le giornate di febbraio e marzo

Il 24 febbraio 1848 la rivoluzione aveva rovesciato la monarchia borghese di Francia. Essa ebbe il suo contraccolpo anche a Bruxelles, ma il re Leopoldo, un Coburgo furbo matricolato, seppe cavarsi d’impaccio più abilmente di quanto avesse fatto suo suocero a Parigi. Egli promise ai suoi ministri, ai suoi deputati e ai suoi borgomastri liberali di depone la corona se la nazione lo desiderasse, e così commosse a tal punto i sensibili uomini di Stato della borghesia che essi rinunciarono ad ogni pensiero di ribellione.

Poi il re fece disperdere dai suoi soldati le assemblee popolari sulle pubbliche piazze, e scatenò la polizia alla caccia dei rifugiati stranieri. In quest’occasione si procedette con particolare brutalità contro Marx; non solo si arrestò lui, ma anche sua moglie, che fu tenuta per una notte rinchiusa con delle prostitute. Il commissario di polizia responsabile di questa infamia fu poi destituito, e l’arresto fu subito revocato ma fu confermata l’espulsione, che era del resto un’angheria superflua.

Marx era infatti senz’altro in procinto di partire per Parigi. Il Comitato centrale di Londra della Lega dei Comunisti, subito dopo lo scoppio della rivoluzione di febbraio, aveva trasmesso i suoi poteri al Comitato distrettuale di Bruxelles. Ma questo, nelle condizioni di stato d’assedio esistenti già di fatto a Bruxelles, trasmise i suoi poteri a Marx il 3 marzo, con l’autorizzazione a creare un nuovo comitato centrale a Parigi, dove Marx era stato invitato a tornare sin dal 1◦ marzo con una lettera del Governo provvisorio, a firma di Flocon, assai lusinghiera per lui.

Già il 6 marzo Marx poté dimostrare la superiorità del suo giudizio contrapponendosi, in una grande as semblea dei tedeschi viventi a Parigi, al piano avventuroso di irrompere in Germania a mano armata per farvi scoppiare la rivoluzione. Il piano era stato covato dall’ambiguo Bornstedt, al quale purtroppo riuscì di convincere Herwegh. Anche Bakunin, che più tardi se ne pentì, allora fu favorevole. Il Governo provvisorio sostenne il piano, non per entusiasmo rivoluzionario, ma con il secondo fine di liberarsi degli operai stranieri in un momento di disoccupazione crescente; esso accordò loro alloggiamenti e un soldo di 50 centesimi al giorno durante la marcia fino al confine. Herwegh non si ingannò sul «motivo egoistico di liberarsi di molte migliaia di operai che facevano concorrenza ai francesi», ma per la sua mancanza di senso politico spinse l’avventura fino al suo miserevole epilogo presso Niederdos-senbach.

Marx, mentre si contrapponeva decisamente a questo modo di giocare alla rivoluzione, che era divenuto del tutto insensato dopo che la rivoluzione aveva vinto a Vienna il 13 marzo e a Berlino il 18 marzo, si procura va i mezzi per sostenere efficacemente la rivoluzione tedesca, sulla quale soprattutto i comunisti avevano rivolto la loro attenzione. Sulla base dei pieni poteri ricevuti egli costituì un nuovo comitato centrale, formato per metà da antichi brussellesi (Marx, Engels, Wolff), per metà da antichi londinesi (Bauer, Moli, Schapper). Esso lanciò un appello contenente diciassette rivendicazioni «nell’interesse del proletariato tedesco, del ceto piccolo-borghese e contadino», tra cui la proclamazione della intera Germania a repubbli:a una e indivisibile, l’armamento generale del popolo, la statizzazione dei possessi fondiari principeschi e delle altre terre feudali, delle miniere, delle cave, dei mezzi di trasporto, l’istituzione di opifici nazionali, l’istru zione popolare generale e gratuita, ecc. Naturalmente queste rivendicazioni della propaganda comunista dovevano soltanto segnare le direttive generali; nessuno meglio di Marx sapeva che esse non potevano essere realizzate dall’oggi al domani, ma soltanto in un lungo processo di sviluppo rivoluzionario.

La Lega dei Comunisti era troppo debole per promuovere come organizzazione chiusa, il movimento rivoluzionario. Si vide che la sua riorganizzazione sul continente era ancora ai suoi primi inizi. Tuttavia la cosa importava poco, io quanto era venuta meno ogni giustificazione della sua esistenza dopo che la rivo luzione aveva fornito alla classe operaia i mezzi e la possibilità per una propaganda pubblica. In queste condizioni, Marx ed Engels fondarono a Parigi un club comunista tedesco, in cui consigliarono agli operai di non partecipare alla spedizione di Herwegh, e di ritornare invece in patria ciascuno per proprio conto e di agire a favore del movimento rivoluzionario. Così essi aiutarono qualche centinaio di operai a passare in Germania, ottenendo loro, per mezzo di Flocon, le stesse agevolazioni che erano state accordate al reparto partigiano d: Herwegh dal Governo provvisorio.

In queste modo anche la grande maggioranza dei membri della Lega arrivò in Germania, e per mezzo loro la Lega si confermò un’eccellente scuola per la rivoluzione. Dove il movimento prese uno slancio possente, le forze che lo sospingevano erano membri della Lega: Schapper nel Nassau, Wolff a Breslavia, Stephan Born a Berlino, altri altrove. Born scriveva a Marx cogliendo nel segno: «La Lega è dissolta, dappertutto e in nessun luogo». Come organizzazione non era in nessun luogo, come propaganda era dovunque fossero già poste le reali condizioni per la lotta di emancipazione del proletariato, cosa che a dire il vero avveniva soltanto per una parte relativamente piccola della Germania. Marx e i suoi amici più intimi si lanciarono in Renania, in quanto era la parte più progredita della Germania, dove per di più il Code Napoléon assicurava loro più libertà di movimento di quanto ne avrebbe concessa il diritto regionale prussiano a Berlino. Riuscì loro di controllare i preparativi fatti a Colonia da parte di democratici e anche di comunisti per fondare un grande giornale. Certo restavano ancora una serie di difficoltà da superare; in particolare, Engels ebbe la delusione di vedere che il comunismo del Wuppertal, lungi dall’essere una realtà, e tanto meno una forza, da quando la rivoluzione si era mostrata in carne ed ossa, era rimasto soltanto un fantasma scomparso al cessar della notte.

Il 25 aprile egli scriveva da Barmen a Marx, a Colonia: «C'è maledettamente poco da contare sulla vendita di azioni qui.... Tutti han paura di discutere questioni sociali come della peste; lo chiamano incitamento alla rivolta.... Dal mio vecchio non c’è proprio niente da cavar fuori. Per lui già la Kōlner Zeitung è il non plus ultra dell’incitamento alla rivolta, e invece di 1.000 talleri preferirebbe mandarci tra capo e collo 1.000 proiettili»1. Comunque anche Engels procurò altre quattordici azioni, e dal 1◦ giugno poté uscire la Neue Rheinische Zeitung.

Marx firmava come redattore capo, e al suo comitato di redazione appartenevano Engels, Dronke, Weerth e i due Wolff.


    8.2    ​​​Le giornate di giugno

La Neue Rheinische Zeitung si definiva «Organo della democrazia», ma non lo era nel senso di una qualche sinistra parlamentare. Essa non mirava a questo onore, riteneva anzi urgentemente necessario sorvegl are i democratici; la repubblica nero-rosso-oro, essa scriveva, era tanto pco il suo ideale, che la sua opposizione saiebbe cominciata primamente sul suo terreno.

Essa cercava di spingere avanti il movimento rivoluzionario, così come esso era allora, assolutamente nello spirito del Manifesto comunista. Il compito era tanto più urgente in quanto il terreno rivoluzionario che le giornate di marzo avevano conquistato, a giugno a poco a poco era già andato perduto. A Vienna, coi suoi contrasti di classe ancora non sviluppati, dominava una allegra anarchia; a Berlino la borghesia aveva il
coltello dalla parte del manico, ma soltanto per riconsegnarlo alle potenze prequarantottesche sconfitte; negli Stati piccoli e medi troneggiavano ministri liberali, che si distinguevano dai loro predecessori feudali non certo per dignità umana di fonte ai troni regali, ma soltanto per una maggiore flessibilità della spina dorsale; e l’Assemblea nazionale di Francoforte, che, nella piena sovranità dei suoi poteri, doveva creare l’unità tedesca, appena si riunì il 18 maggio, si dimostrò da capo a fondo un club di chiacchiere senza speranza.

La Neue Rheinische Zeitung sin dal suo primo numero fece subito i conti con quest’ombra, e in modo così radicale che la metà dei suoi poco numerosi azionisti batté in ritirata. Essa non aveva in nessun modo avanzato pretese esagerate sull’intelligenza e sul coraggio degli eroi parlamentari. Criticando il feudalismo repubblicano rappresentato dalla sinistra del Parlamento di Francoforte, essa metteva in rilievo che una federazione di monarchie costituzionali, di piccoli principati e di piccole repubbliche con alla testa un governo repubblicano non poteva essere la costituzione definitiva della Germania, ma aggiungeva: «Noi non avanziamo il desiderio utopistico che venga proclamata sin dal principio una repubblica tedesca unica e indivisibile, ma esigiamo dal cosiddetto partito radical-democratico di non scambiare il punto di partenza della lotta e del movimento rivoluzionario con il loro punto di arrivo. L’unità tedesca, come la costituzione tedesca, possono venir fuori soltanto come risultato di un movimento in cui saranno tanto i conflitti interni quanto la guerra con l’Oriente a spingere a una decisione. La costituzione definitiva non può venir decretata, essa coincide col movimento che noi dobbiamo attraversare. Si tratta quindi non di realizzare questa o quella opinione, questa o quella idea politica, ma si tratta di comprendere il processo di sviluppo. L’Assemblea nazionale non ha che da fare i passi che sono praticamente possibili all’inizio».

Ma l’Assemblea nazionale fece ciò che secondo tutte le leggi della logica sarebbe dovuto risultare praticamente impossibile: elesse reggente dell’Impero l’arciduca austriaco Giovanni, e così, per la parte sua, mise il movimento tra le mani dei principi.

Gli avvenimenti di Berlino furono più importanti di quelli di Francoforte. Entro i confini tedeschi lo Stato prussiano era l’avversario più pericoloso della rivoluzione.  Sì, il 18 marzo essa lo aveva abbattuto, ma i frutti della vittoria, conformemente alla situazione storica, erano caduti anzitutto tra le mani della borghesia, e questa si affrettò a tradire la rivoluzione. Per mantenere la «continuità dello Stato di diritto», cioè per smentire la sua origine rivoluzionaria, il ministero borghese Camphausen-Hansemann convocò il Landtag unificato, per far stabilire le basi di una costituzione borghese da questa rappresentanza feudale corporativa. Ciò fu fatto con le leggi del 6 e dell’8 aprile, delle quali la prima scrisse sulla carta, come linee essenziali della nuova costituzione, una serie di diritti civili, ma l’altra dispose il suffragio universale, uguale, segreto e indiretto per un’assemblea che doveva stabilire la nuova costituzione dello Stato attraverso un accordo con la corona.

Col famigerato principio dell’«accordo» era di fatto frustrata la vittoria che il proletariato berlinese aveva conquistato il 18 marzo sui reggimenti prussiani della guardia. Se le decisioni della nuova assemblea avevano bisogno dell’approvazione della corona, questa aveva di nuovo il sopravvento; essa dettava la sua volontà o avrebbe dovuto essere messa al bando con una nuova rivoluzione, a impedire la possibilità della quale il ministero Camphausen-Hansemann fece quanto era nelle sue forze. Esso vessò nel modo più gretto l’assemblea riunitasi il 22 marzo, ma si pose come «scudo di fronte alla dinastia», e dette un capo alla controrivoluzione che ne era ancor priva, richiamando dall’Inghilterra, dove il 18 marzo lo aveva cacciato l’ira delle masse, l’erede al trono, reazionario fino nelle midolla.

Ora, a dire il vero, nemmeno l’Assemblea di Berlino era all’altezza della rivoluzione, anche se magari non si muoveva nel regno aereo dei sogni così come il Parlamento di Francofone. Essa si prestò a riconoscere il principio dell’«accordo», che le succhiò il midollo dalle ossa, ma poi si riprese e assunse un contegno un po’ più deciso, quando il 14 giugno la popolazione di Berlino fece sentire la sua voce minacciosa con l’assalto all’arsenale. Camphausen cadde, ma non ancora Hansemann. I due si distinguevano per il fatto che Camphausen era tormentato ancora da un resto di ideologia borghese, mentre Hansemann si era messo a disposizione dei più scoperti interessi finanziari della borghesia, senza pentimenti e senza pudori. Egli credette di imporre questi interessi corteggiando ancor più la monarchia e gli Junker, corrompendo ancor più l’assemblea, e maltrattando le masse ancor più di quanto era stato fatto sino ad allora. La controrivoluzione aveva buoni motivi per lasciarlo stare dov’era.

A questo fatale sviluppo la Neue Rheinische Zeitung si oppose con tutta la decisione. Essa dimostrava che Camphausen seminava la reazione per favorire la grande borghesia, ma che il raccolto andava a vantaggio del partito feudale. Essa stimolava l’Assemblea berlinese, e soprattutto anche la sinistra, a un atteggia mento più deciso; di fronte all’indignazione di essa per la distruzione di qualche bandiera e di qualche arma durante l’assalto alle prigioni, essa lodò il giusto intuito del popolo che agiva rivoluzionariamente non soltanto contro i suoi oppressori, ma anche contro le brillanti illusioni del suo stesso passato. Essa mise la sinistra in guardia contro l’illusoria apparenza di vittorie parlamentari che il vecchio potere le consentiva volentieri, mentre conservava per sé tutte le posizioni veramente decisive.

Al ministero Hansemann il giornale predisse una fine miserabile. Esso voleva fondare il dominio della bor ghesia concludendo nello stesso tempo un compromesso col vecchio Stato feudale e poliziesco. «In questo compito ambiguo e contraddittorio esso vede ogni momento il dominio ancor da fondare della borghesia e la sua propria esistenza sopravanzati dalla reazione nel senso assolutistico feudale, e le soggiacerà. La borghesia non può conquistare il proprio dominio senza aver provvisoriamente come alleato tutto il popolo, senza agire più o meno democraticamente». Il giornale trattò con tagliente disprezzo anche l’affannarsi della borghesia per ridurre a un vano imbroglio la liberazione dei contadini, che è il compito più legittimo di una rivoluzione borghese. «La borghesia tedesca del 1848 tradisce senza il minimo pudore i contadini, i suoi più naturali alleati, che sono carne della sua carne, e senza dei quali essa è impotente di fronte alla nobiltà». Così la rivoluzione tedesca del 1848 era soltanto una parodia della rivoluzione francese del 1789.

E lo era anche in un altro senso. La rivoluzione tedesca non aveva vinto per forza propria, ma in conseguenza di una rivoluzione francese, che aveva già procurato al proletariato la partecipazione al governo. E, a dire il vero, con questo non si giustificava e nemmeno si scusava il tradimento della borghesia nei confronti della rivoluzione tedesca, ma comunque lo si chiariva. Ma ora, quasi nelle stesse giornate di giugno in cui il ministero Camphausen cominciava il suo lavoro di becchino, parve che le si togliesse questo peso dal petto. In una terribile lotta di strada di quattro giorni il proletariato parigino fu battuto, grazie al mestiere di carnefice che tutte le classi e i partiti borghesi si prestarono a compiere in comune per conto del capitale.

Ma in Germania la Neue Rheinische Zeitung sollevò dalla polvere la bandiera del «vinto vincitore». Da che parte dovesse schierarsi la democrazia nella lotta di classe tra borghesia e proletariato, Marx lo diceva con queste possenti parole: «Ci si domanderà se non abbiamo lacrime, sospiri, parole per le vittime che sono cadute sotto il furore del popolo, cioè per la guardia nazionale, la guardia mobile, la guardia repubblicana, l’esercito di linea. Lo Stato avrà cura delle loro vedove e dei loro orfani, esse saranno onorate per decreto, solenni funerali accompagneranno i loro resti al sepolcro, la stampa ufficiale le dichiarerà immortali, la reazione europea farà loro omaggio dall’Oriente fino all’Occidente. Ma i plebei, dilaniati dalla fame, derisi dalla stampa, abbandonati dai medici, ingiuriati dagli onesti come ladri incendiari, schiavi da galera, le loro donne e i loro bambini precipitati in una miseria ancora più immensa, i migliori dei loro sopravvissuti deportati di là dall’oceano — intrecciare l’alloro sulla loro cupa fronte minacciosa, è il privilegio, è il diritto della stampa democratica».

Questo stupendo articolo, dal quale ancor oggi guizzano le fiamme della passione rivoluzionaria, costò allaNeue Rheinische Zeitung l’altra metà dei suoi azionisti.

    8.3    ​​​La guerra contro la Russia

Nella politica estera la guerra contro la Russia era il cardine intorno a cui si muoveva la Neue Rheinische Zeitung. Nella Russia essa vedeva uno dei nemici veramente temibili della rivoluzione, che sarebbe im mancabilmente entrato nella lotta quando il movimento avesse preso un’estensione europea.

E in questo essa era assolutamente sulla giusta strada. Nello stesso tempo in cui essa chiedeva la guerra rivoluzionaria contro la Russia, lo Zar — ed essa non poteva saperlo, ma oggi è noto attraverso documenti storici — offriva al principe di Prussia l’aiuto dell’esercito russo per restaurare con la forza il dispotismo, e un anno dopo l’orso russo salvò il dispotismo austriaco abbattendo con le sue zampe pesanti a rivoluzione ungherese. La rivoluzione tedesca non poteva vincere senza distruggere gli Stati oppressori prussiano ed austriaco, e questo scopo era irraggiungibile se non si fosse prima infranta la potenza dello Zar.

Dalla guerra contro la Russia il giornale si attendeva uno scatenamento di forze rivoluzionarie simile a quello scatenato dalla rivoluzione francese del 1789 con la guerra contro la Germania feudale. Quando essa, secondo un’espressione di Weerth, trattava en canaille la nazione tedesca, aveva ragione poiché fustigava con tutta severità la parte del poliziotto che i tedeschi si erano assunti da settanta anni contro la libertà e l’indipendenza di altri popoli; in America e in Francia, in Italia e in Polonia, in Olanda e in Grecia e magari altrove. «Ora che i tedeschi scuotono il loro stesso giogo, deve anche cambiare tutta la loro politica di fronte agli stranieri, altrimenti nelle catene con cui incateniamo gli altri popoli metteremo la nostra stessa giovane libertà appena ora intravista. La Germania si rende libera nella stessa misura in cui essa lascia liberi i popoli vicini». Il giornale denunciava la politica machiavellica che, mentre nell’interno della Germania era scossa nelle sue fondamenta, evocava un gretto odio razziale, contrastante col carattere cosmopolitico dei tedeschi, per paralizzare l’energia democratica, distogliere da sé l’attenzione, creare un canale di sfogo per la lava incandescente della rivoluzione, e forgiare così le armi della repressione interna.

«Nonostante le grida e gli stamburamenti patriottici di quasi tutta la stampa tedesca», esso sin dal primo momento prese posizione a Posen per i polacchi, in Italia per gli italiani, in Ungheria per gli ungheresi. Esso derise la «profondità della combinazione», il «paradosso storico», di intraprendere, nello stesso momento in cui i tedeschi lottavano contro il loro governo, una crociata contro la libertà della Polonia, dell’Ungheria, dell’Italia, sotto il comando dello stesso governo. «Soltanto la guerra contro la Russia è una guerra della Germania rivoluzionaria, una guerra in cui essa può lavare i peccati del passato, farsi animo, vincere i propri autocrati, in cui essa, come si conviene a un popolo che scuote le catene di una lunga ignava schiavitù, acquista il diritto di farsi banditrice di civiltà col sacrificio dei suoi figli, e si rende libera all’interno liberando all’esterno».

Da ciò veniva che per nessuna delle nazioni oppresse il giornale prese posizione tanto appassionatamente quanto per la Polonia. Il movimento polacco del 1848 si limitò alla provincia prussiana di Posen, dato che la Polonia russa era ancora fiaccata per la rivoluzione del 1830 e la Polonia austriaca per l’insurrezione del 1846. Esso tenne un atteggiamento abbastanza moderato e rivendicò appena quanto era stato promesso coi trattati del 1815, e non era poi stato mantenuto: la sostituzione dell’occupazione militare con truppe nazionali, e l’assegnazione di tutti gli uffici a polacchi. Nel primo momento di panico dopo il 18 marzo, a Ber lino si promise una «riorganizzazione nazionale», ma naturalmente col segreto pensiero di non effettuarla. Mentre i polacchi erano abbastanza creduli da prestar fiducia alla buona volontà di Berlino, da qui si eccitava la popolazione tedesca ed ebrea della Posnania e si attizzava intenzionalmente una guerra civile, del cui incendio la Prussia portava tutta la responsabilità e dei cui orrori quasi tutta. I polacchi, spinti dalla violenza a una resistenza violenta, si batterono valorosissimamente, e più di una volta sbaragliarono totalmente il nemico superiore per numero e per armi, come il 30 aprile a Miloslaw, ma alla lunga la lotta delle sciabole polacche contro le granate prussiane era naturalmente senza possibilità di successo.

Sulla questione polacca la borghesia tedesca si comportò, come sempre, tanto senza cervello quanto senza fede. Nel periodo prerivoluzionario essa aveva compreso benissimo quanto strettamente fossero collegate la causa tedesca e la causa polacca, e, ancora dopo il 18 marzo, i suoi saggi avevano solenne mente dichiarato nel preparlamento di Francoforte che la ricostituzione della Polonia era un sacro dovere della nazione tedesca. Ma non per questo Camphausen si trattenne dal fare anche in questo caso la parte del poliziotto per conto degli Junker prussiani. Egli mantenne la promessa della «riorganizzazione nazio nale» in una maniera infame, strappando a pezzo a pezzo alla Posnania più di due terzi del suo territorio e facendoli annettere alla Confederazione tedesca con l’ultimo rantolo della Dieta federale, che finì sotto il peso dell’universale disprezzo. All’Assemblea nazionale di Francoforte non restava ormai che occuparsi del problema se riconoscere o no come propri membri di diritto i deputati eletti nelle parti sottratte alla Po snania. Dopo un dibattito di tre giorni, essa decise come solo ci si poteva attendere da lei: questa figlia degenere della rivoluzione consacrò il misfatto della controrivoluzione.

Quanto questo problema interessasse da vicino la Neue Rheinische Zeitung lo dimostra il modo esauriente con cui in otto o nove articoli, alcuni dei quali molto lunghi, essa commentò i dibattiti di Francoforte, in mcdo assolutamente opposto alla sprezzante brevità con cui di solito si sbrigava delle chiacchiere parlamentari. È il lavoro più esteso che sia apparso in generale sulle sue colonne. Per quanto il contenuto e lo stile consentono una supposizione, esso è stato scritto insieme da Marx e da Engels; comunque, Engels vi ha contribuito notevolmente; esso parta tracce molto evidenti del suo stile.

Quello che anzitutto colpisce in esso, e che in realtà costituisce il suo merito maggiore, è la refrigerante franchezza con cui esso scopriva il vano gioco che si faceva con la Polonia. Ma l’indignazione morale di cui Marx ed Engels erano capaci — molto più capaci di quanto potesse anche soltanto supporre il filisteo dabbene — non aveva nulla a che fare con la compassione sentimentale che per esempio Robert Blum a Francoforte aveva dedicato alla Polonia angariata: «la più triviale retorica da politicanti, anche se, e lo concediamo volentieri, retorica in grande e per un nobile compito», ecco quanto si sentì dire il celebrato oratore della sinistra, e non senza ragione. Egli non capì che il tradimento verso la Polonia era insieme il tradimento della rivoluzione tedesca, la quale perdeva così l’arma indispensabile contro il mortale nemico zarista.

Come «trivialissima retorica» Marx ed Engels consideravano anche la «fratellanza universale dei popoli» che, senza riguardo alla posizione storica, al grado di sviluppo sociale dei popoli pretendeva pari pari di af fratellare tutti a vanvera; «giustizia», «umanità», «libertà», «uguaglianza», «fraternità», «indipendenza» erano per essi parole più o meno morali che suonavano molto bene, ma che non dimostravano assolutamente nulla in questioni storiche e politiche. Questa «moderna mitologia» è sempre stata per loro motivo d’orrore. E tanto più in quelle giornate roventi della rivoluzione per loro valeva soltanto la parola d’ordine: prò o contro?

Così gli articoli della Neue Rheinische Zeitung sulla Polonia erano animati da una passione schiettamente rivoluzionaria, che li innalzava molto al di sopra dei discorsi filopolacchi della democrazia corrente. Ancor oggi essi valgono come un’eloquente testimonianza di un penetrante acume politico. Tuttavia non sono privi di errori sulla storia polacca. Per quanto fosse importante dire che la lotta per l’indipendenza della Polonia poteva essere vittoriosa soltanto se fosse stata nello stesso tempo una vittoria della democrazia nelle campagne sull’assolutismo patriarcale-feudale, era però inesatto supporre che i polacchi avessero riconosciuto questa connessione sin dai tempi della costituzione del 1791. Ed era altrettanto inesatto che nel 1848 la vecchia Polonia della democrazia nobiliare fosse da tempo morta e sepolta e che avesse la sciato dietro, di, sé un figlio vivo e vitale, la Polonia della democrazia contadina. Negli Junker polacchi che combattevano con splendido eroismo sulle barricate dell’Europa occidentale per liberare il loro popolo dalli stretta mortale della potenza orientale, Marx ed Engels vedevano i rappresentanti della nobiltà polacca, mentre avveniva soltanto che i Lelewel e i Mieroslawski, induriti e purificatisi nel fuoco della lotta, si alzavano al di sopra della loro classe, come una volta gli Hutten e i Sickingen si erano alzati al di sopra dei cavalieri tedeschi e, in un passato più recente, i Clausewitz e gli Gneisenau al di sopra degli Junker prussiani.

Anche Marx ed Engels superarono ben presto questo errore. Engels, invece, ha sempre mantenuto lo sprezzante giudizio della Neue Rheinische Zeitung dalle lotte per l’indipendenza delle nazioni e nazioncine slave del sud. Nel 1882 Engels si espresse in proposito non diversamente che nella polemica che egli ebbe nel 1849 con Bakunin. Nel luglio del 1848 il rivoluzionario russo era stato sospettato sul giornale dal loro corrispondente parigino, Ewerbeck, di essere un agente del governo russo, e l’affermazione era stata confermata da un analogo e contemporaneo comunicato dell’agenzia Havas. Tuttavia la notizia si era subito rivelata falsa ed era stata smentita in pieno dalla redazione. Poi Marx, quando alla fine d’agosto e al principio di settembre compì un viaggio a Berlino e Vienna, aveva rinnovato le sue vecchie relazioni amichevoli con Bakunin e aveva aspramente stigmatizzato nell’ottobre la sua espulsione dalla Prussia. Anche Engels univa a una sua polemica contro un appello di Bakunin agli slavi la premessa che Bakunin era suo amico, ma poi stroncava con concretezza e decisione le tendenze panslavistiche del breve scritto di lui.

Anche qui decisivo era anzi tutto l’interesse della rivoluzione. Nella lotta del governo di Vienna contro i rivoluzionari tedeschi e ungheresi, gli slavi dell’Austria — ad eccezione dei polacchi — si erano schierati dalla parte della reazione. Essi avevano assalito Vienna rivoluzionaria e ’avevano consegnata alla spie tata vendetta dei governanti imperialregi; nel momento in cui Engels scriveva contro Bakunin, essi erano in campo contro l’Ungheria insorta, la cui guerra rivoluzionaria Engels seguiva nella Neue Rheinische Zei tung con grande competenza tecnica, e per di più con quell’appassionata partecipazione, che gli faceva sopravvalutare i magiari, come i polacchi, oltre il livello del loro sviluppo storico. Alla rivendicazione di Bakunin, che fosse assicurata l’indipendenza agli slavi dell’Austria, Engels rispondeva: « Noi non ci pen siamo nemmeno. Alle frasi sentimentali sulla fratellanza, che qui ci vengono presentate in nome delle nazioni più reazionarie d’Europa, noi rispondiamo che l’odio contro i russi era ed è ancora tra i tedeschi la prima passione rivoluzionaria; che dalla rivoluzione vi si è aggiunto l’odio contro i cechi e i croati, e che noi, insieme con i polacchi e i magiari, possiamo consolidare la rivoluzione soltanto col più deciso terrorismo contro questi popoli slavi. Ora noi sappiamo dove sono concentrati i nemici della rivoluzione: in Russia e nei paesi slavi dell’Austria, e nessuna frase, nessun rinvio a un indeterminato futuro democratico di questi paesi ci tratterrà dal trattare da nemici i nostri nemici». E così Engels decretava una lotta spietata per la vita e per la morte contro lo «slavismo traditore della rivoluzione».

E tuttavia ciò non era scritto o non era scritto soltanto in un impeto d’ira per i servizi che gli slavi dell’Austria prestavano alla reazione europea. Engels negava ai popoli slavi — ad eccezione dei polacchi, dei russi e magari degli slavi della Turchia — ogni avvenire storico, «per il semplice motivo che a tutti gli altri slavi mancavano tutte le premesse storiche, geografiche, politiche e industriali per l’indipendenza e la stessa esistenza». La lotta per la loro indipendenza nazionale li rendeva strumenti inerti dello zarismo, e in questo le beneintenzionate illusioni dei panslavisti democratici non potevano cambiare nulla. Il diritto storico dei grandi popoli civili a uno sviluppo rivoluzionario era preminente rispetto alla lotta di queste piccole, striminzite, impotenti nazioncine per la loro indipendenza, anche se così dovesse andar sgualcito di fora il fiorellino delicato di qualche nazione; soltanto così esse sarebbero state messe in grado di partecipare a uno sviluppo storico a cui, abbandonate a se stesse, sarebbero rimaste del tutto estranee. E così, ancora nel 1882, quando la spinta alla libertà degli slavi dei Balcani contrastava con gli interessi del proletariato dell’Europa occidentale, Engels diceva che avrebbe fatto volentieri a meno di queste longae manus dello zarismo; simpatie poetiche non hanno posto nella politica.

Engels si sbagliava quando negava uri avvenire storico alle piccole nazioni slave, ma il suo pensiero fonda mentale era senza dubbio giusto, e la Neue Rheinische Zeitung lo sostenne con tutta decisione anche in un caso in cui esso coincideva con le «simpatie poetiche» del filisteo.

    8.4    ​​​Le giornate di settembre

Si trattava della guerra che dopo il 18 marzo il governo prussiane aveva cominciato, per mandato della Confederazione tedesca, contro la Danimarca, e precisamente a proposito della questione dello Schleswig-Holstein.

Lo Holstein era un paese tedesco e apparteneva alla Confederazione tedesca; lo Schleswig era al di fuori di questa Confederazione e, almeno nelle sue province settentrionali, era prevalentemente danese. Ambedue i ducati erano legati da qualche secolo, per la comunanza della dinastia regnante, col regno di Danimarca, solo di poco più esteso e più popoloso ma lo erano tuttavia con la restrizione che in Danimarca valeva anche la discendenza femminile, mentre nello Schleswig-Holstein soltanto quella maschile. I due ducati erano stretti in una salda unione di fatto e in questa inseparabilità godevano di indipendenza statale.

Tali erano i rapporti della Danimarca coi ducati secondo i trattati internazionali. In pratica essi si esprime vano col fatto che fino all’inizio del secolo decimonono la cultura tedesca predominava a Copenhagen, la lingua tedesca era la lingua ufficiale del regno danese e la nobiltà dello Schehwig-Holstein aveva un’in fluenza determinante nei ministeri danesi. Durante le guerre napoleoniche i contrasti nazionali si acuirono; coi Trattati di Vienna, la Danimarca dovette scontare con la perdita della Norvegia, la fedeltà serbata fino all’ultimo all’erede della rivoluzione francese, e nella lotta per la sua esistenza statale essa fu spinta ad annettersi lo Scbelswig-Holstein, tanto più che la progressiva estinzione della discendenza maschile nella sua famiglia reale faceva prevedere vicino il passaggio dei ducati a una linea collaterale e con ciò la loro piena separazione dalla Danimarca. Così, per quanto glielo permettevano le sue forze, la Danimarca si emancipava dall’influenza tedesca, e in cambio, essendo troppo piccola per dar vita a un suo spirito na zionale, promuoveva un artificiale scandinavismo, per il quale cercava di legarsi con la Norvegia e con la Svezia in una particolare unità culturale.

I tentativi del governo danese per impadronirsi completamente dei ducati dell’Elba, trovarono in essi una te nace resistenza, che divenne presto un fatto nazionale tedesco. La Germania, in pieno rigoglio economico, soprattutto dopo la costituzione dello Zollverein, riconosceva l’importanza che la penisola dello Schle swig-Holstein, distesa tra due mari, aveva per il suo traffico commerciale marittimo, e salutò con plauso sempre crescente l’opposizione dello Schleswig-Holstein alla propaganda danese. Sin dal 1844 la canzone «Schleswig-Holstein meerumschlungen, deutscher Sitte hohe Wacht» divenne una specie di inno nazionale. A dire il vero il movimento non andava oltre i limiti sonnacchiosi e noiosi di un’agitazione di tipo prequarantottesco, ma i governi tedeschi non riuscirono a sottrarsi del tutto al suo influsso. Quando nel 1847 il re di Danimarca Cristiano VIII preparò un atto di forza decisivo con la lettera patente in cui dichiarava parte integrante del comune Stato danese, il ducato dello Schleswig e anche una parte del ducato dello Holstein, perfino la Dieta federale levò un’impacciata protesta, invece di dichiararsi incompetente, come era sua usanza, quando si trattava della difesa di stirpi tedesche dall’oppressione di principi stranieri.

Ora, la Neue Rheinische Zeitung non sentiva la minima parentela razziale con questo entusiasmo borghese da birreria abbracciato dal mare; vi vedeva soltanto il contraltare dello scandinavismo che essa fustigava come «entusiasmo per la brutale, sporca, piratesca nazionalità antico-nordica, per quella profonda interio rità che non riesce a tradurre in parole i suoi prorompenti pensieri e sentimenti, ma che li sa ben tradurre in azioni, specialmente in atti brutali nei riguardi delle donnine, nell’ubriachezza permanente, e nei furori alternati al sentimentalismo lacrimoso». Tutta la situazione si complicò a tal punto che, sotto la bandiera reazionaria dello scandinavismo, combatteva in Danimarca per l’appunto l’opposizione borghese, il partito dei cosiddetti danesi dell’Eider, che aspirava alla danizzazione del ducato dello Schleswig e all’estensione del territorio economico danese, per consolidare poi tutto lo Stato con una costituzione moderna, mentre la lotta dei ducati pei il loro diritto antico e patentato era più o meno una lotta per privilegi feudali e per fanfaluche dinastiche.

Nel gennaio del 1848 salì al potere in Danimarca, Federico VII, ultimo rampollo del ramo maschile, e, seguendo il consiglio del padre morente, cominciò a preparare per la Danimarca e i ducati una costituzione comune liberale. Un mese dopo, la rivoluzione di febbraio suscitò a Copenhagen un travolgente movimento popolare. Esso portò al governo il partito dei danesi dell’Eider, che si accinse subito con slancio furibondo all’attuazione del suo programma, all’annessione dello Schleswig fino all’Eider. Allora i Ducati proclamarono il proprio distacco dal re danese, col loro esercito forte di 7.000 uomini, e crearono un governo provvisorio a Kiel. In esso la nobiltà aveva il sopravvento, ma invece di scatenare le energie del paese, che avrebbe potuto misurarsi benissimo con la potenza danese, essa si rivolse implorando aiuto alla Dieta federale e al governo prussiano, dai quali non aveva nulla da temere per i privilegi feudali.

Trovò pronta condiscendenza presso l'una e l’altro, a cui la «tutela della causa tedesca» parve il pretesto benvenuto per potersi rifare dei colpi micidiali della rivoluzione. Soprattutto il re di Prussia aveva urgente bisogno di ristabilire con una passeggiata militare contro la debole Danimarca il decoro della sua guardia, che il 18 marzo era stata battuta in pieno dai combattenti delle barricate di Berlino. Egli odiava il partito dei danesi dell’Eider come un parto della rivoluzione, ma anche negli abitanti dello Schleswig-Holstein vedeva dei ribelli contro l’autorità imposta da Dio, e comandò ai suoi generali di compiere nel modo più fiacco possibile il «servizio militare per conto della rivoluzione»; per mezzo di un inviato segreto, il maggiore von Wildenbruch, egli fece sapere a Copenhagen che desiderava soprattutto mantenere i Dubiti dell’Elba al loro re-duca; egli interveniva soltanto per impedire il funesto intervento di elementi repubblicani e radicali.

Ma la Danimarca non si lasciò adescare. Essa invocò da parte sua la protezione delle grandi potenze, e sia l’Inghilterra che la Russia erano fin troppo pronte ad accordargliela. Il loro aiuto permise alla piccola Danimarca di dare una solenne lezione alla grande Germania. Mentre le navi da guerra danesi inferivano colpi sensibilissimi al commercio tedesco, l’esercito federale tedesco, che era penetrato nei Ducati dell’Elba sotto il comando del generale prussiano Wrangel e aveva respinto, nonostante la sua miserabile strategia, le tanto più deboli truppe danesi, fu completamente paralizzato dall’intervento diplomatico delle grandi potenze. Alla fine di maggio Wrangel ricevette da Berlino l’ordine di ritirarsi dallo Jutland, e il 9 giugno l’Assemblea nazionale decise che ia causa dei Ducati rientrava nella sua competenza in quanto affare della nazione tedesca, e che essa avrebbe salvato l’onore della Germania.

In realtà, la guerra fu condotta in nome della Confederazione tedesca, e dirigerla sarebbe stato affare dell’Assemblea nazionale e del principe asburgico, che essa il 28 giugno aveva insediato come reggente dell’Impero. Ma il governo prussiano non si piegò a questo, e il 28 agosto, dietro pressione dell’Inghilterra e della Russia, concluse con la Danimarca per sette mesi l’armistizio di Malmo, col più assoluto disprezzo delle condizioni poste dal reggente dell’Impero e dal loro latore.  Le singole disposizioni dell’armistizio erano addirittura offensive per la Germania; il governo provvisorio dello Schleswig-Holstein fu deposto, e durante l’armistizio la suprema autorità fu affidata a un partigiano dei danesi; le disposizioni del fu governo provvisorio furono sospese, e le truppe dello Schleswig furono separate da quelle dello Holstein. Anche dal punto di vista militare la Germania rimase svantaggiata in quanto l’armistizio fu deciso per i mesi invernali, durante i quali la flotta danese diveniva inutile per il blocco delle coste tedesche, mentre il gelo avrebbe permesso ai tedeschi di avanzare sui ghiacci del piccolo Belt, espugnare Fünen e ridurre la Danimarca al Seeland. La notizia della conclusione dell’armistizio cadde nei primi giorni di settembre come un colpo di fulmine sull’Assemblea nazionale di Francoforte, che, «parolaia come gli scolastici del Medioevo», discuteva fino a non poterne più sui «diritti fondamentali», destinati a rimaner sulla carta, di una futura costituzione dell’Impero. Nel primo stupore, essa, il 5 settembre, decise di sospendere l’esecuzione dell’armistizio, e provocò così le dimissioni del Gabinetto.

La Neue Rheinische Zeitung salutò questa decisione con viva soddisfazione, pur senza farsi illusioni. Di là dalla equità dei trattati essa chiedeva la guerra contro la Danimarca, come un diritto dello sviluppo storico. «I danesi sono un popolo che sta nella più assoluta dipendenza commerciale, industriale, politica e culturale dalla Germania. È noto che la capitale di fatto della Danimarca non è Copenhagen, ma Amburgo; che la Danimarca trae dalla Germania non solo tutti i suoi mezzi di sussistenza culturali ma anche quelli materiali e che la letteratura danese — con l’eccezione di Holberg — non è che una pallida copia di quella tedesca... Con lo stesso diritto con cui i francesi hanno preso le Fiandre, la Lorena e l’Alsazia, e prima o poi prenderanno il Belgio, con lo stesso diritto la Germania prende lo Schleswig: col diritto della civiltà contro la barbarie, del progresso contro la stagnazione... La guerra che noi conduciamo nello Schleswig-Holstein è una vera guerra nazionale. Chi è stato sin dal principio dalla parte della Danimarca? Le tre potenze più controrivoluzionarie d’Europa: la Russia, l’Inghilterra e il governo prussiano. Il governo prussiano finché ha potuto ha condotto soltanto un simulacro di guerra; si pensi alla no:a di Wildenbruch, alla prontezza con la quale egli ordinava la ritirata dallo Jutland di fronte alle rimostranze anglorusse, e infine all’armistizio. La Prussia, l’Inghilterra e la Russia sono le tre potenze che hanno più da temere dalla rivoluzione tedesca e dalla sua prima conseguenza, l’unità tedesca: la Prussia, perchè così essa cessa d’esistere, l’Inghilterra, perchè così il mercato tedesco viene sottratto al suo sfruttamento, la Russia perché così la democrazia avanzerà non soltanto fino alla Vistola, ma addirittura fino alla Dvina e al Dnieper. La Prussia, l’Inghilterra e la Russia hanno complottato contro lo Schleswig-Holstein, contro la Germania e contro la risoluzione. La guerra, che ora può anche sorgere dalle decisioni di Francoforte, sarebbe una guerra della Germania contro la Prussia, l’Inghilterra e la Russia. E proprio di una guerra siffatta c’è bisogno per il movimento tedesco che sta addormentandosi; una guerra contro le tre grandi potenze della controrivoluzione, una guerra che dissolva veramente la Prussia nella Germania, che faccia dell’alleanza con la Polonia una necessità inevitabile, che porti immediatamente alla liberazione dell’Italia, che sia
rivolta proprio contro gli antichi alleati controrivoluzionari della Germania dal 1792 al 1815, una guerra che metta la ‘patria in pericolo’ e proprio per questo la salvi in quanto fa dipendere la vittoria della Germania dalla vittoria della democrazia».

Quello che la Neue Rheinische Zeipung esprimeva chiaro e netto in queste frasi, lo sentiva anche l’istinto delle masse rivoluzionarie; migliaia di persone accorrevano da cinquanta miglia all’intorno verso Francoforte, pronte a una nuova lotta rivoluzionaria. Ma come il giornale aveva detto a ragione, questa nuova lotta avrebbe tolto di mezzo la stessa Assemblea nazionale, e al suicidio per eroismo essa preferì il suicidio per viltà. Il 16 settembre essa approvò l’armistizio di Malmò, ed anche la sua sinistra, ad eccezione di pochi membri, rifiutò di proclamarsi convenzione rivoluzionaria. Si giunse soltanto a una piccola lotta di barricate nella stessa Francoforte, che il bravo reggente dell’Impero lasciò appositamente che crescesse, per far poi arrivare dalla fortezza di Magonza truppe in forze schiaccianti e porre così il parlamento sovrano sotto l’imperio delle baionette.

Nello stesso tempo il ministero Hansemann a Berlino andò incontro a quella misera fine che la Neue Rheinische Zeitung gli aveva predetto. Rafforzando l’«autorità dello Stato» contro l’«anarchia», esso contribuì a rimettere in piedi il vecchio Stato prussiano, burocratico, militaristico e poliziesco, che era crollato il 18 marzo, senza nemmeno riuscire a estorcergli i nudi interessi finanziari della borghesia, per amore dei quali tradiva la rivoluzione. Anzitutto, come sospirava un membro dell’Assemblea di Berlino, sussisteva ancora «assolutamente intatto il vecchio sistema militare, col quale aveva avuto luogo la rottura nelle giornate del marzo», e, dalle giornate parigine di giugno in poi, la sciabola gli sferragliava da sé nella guaina. Era un segreto di pubblico dominio che il proposito di richiamare Wrangel nei dintorni di Berlino e preparare il colpo decisivo della controrivoluzione non era l’ultima ragione per cui la Prussia aveva realizzato l’armistizio con la Danimarca. Perciò il 7 settembre l’Assemblea di Berlino giunse alla decisione di chiedere al ministro della guerra un’ordinanza che mettesse in guardia gli ufficiali dell’esercito contro ogni velleità reazionaria e considerasse debito d’onore per loro le dimissioni dall’esercito, nel caso che le loro convinzioni politiche non fossero compatibili con il diritto costituzionale.

Con ciò si era fatto ben poco, tanto più che ordinanze simili erano già state emesse senza alcun effetto nei riguardi della burocrazia, ma era tuttavia molto di più di quanto il militarismo potesse consentire a un ministero borghese. Il ministero Hansemann cadde, e il generale Pfuel formò un nuovo ministero puramente burocratico, che trasmise con tutta cordialità al corpo degli ufficiali l’ordinanza chiesta dall’Assemblea, te stimonianza per tutto il mondo di come il militarismo non temesse più l’autorità borghese, ma ormai soltanto ne ridesse.

Così si compì nei riguardi della «piagnucolosa, furbastra, indecisi» Assemblea di Berlino la profezia della Neue Rheinische Zeitung, secondo cui la sinistra avrebbe potuto trovare un bel mattino che la sua vittoria parlamentare e la sua sconfitta sostanziale coincidevano. Ma di fronte al chiasso della stampa controrivo luzionaria sul fatto che la vittoria delle sinistre si doveva spiegare soltanto con la pressione esercitata dalle masse popolari di Berlino sull’Assemblea, essa respinse i maldestri tentativi di smentita dei fogli liberali e dichiarò apertamente: «Il diritto delle masse popolari democratiche di influire moralmente con la loro pre senza sull’atteggiamento delle assemblee costituenti è un antico diritto popolare, da cui, dopo le rivoluzioni inglese e francese, non si può prescindere in nessun momento. A questo diritto la storia deve quasi tutti i passi energici di tali assemblee». Era un’allusione al «cretinismo parlamentare», che nelle giornate del settembre del 1848 colpiva l’Assemblea di Francoforte tanto quanto quella di Berlino.

1 Schleswig-Holstein abbracciato dal mare, avamposto della civiltà tedesca.

    8.5    ​​​La democrazia di Colonia

Le crisi di settembre a Berlino e a Francoforte esercitarono un fotte contraccolpo anche su Colonia.


I paesi renani rappresentavano la preoccupazione più grave per la controrivoluzione. In essi vennero ammassate truppe reclutate nelle province orientali; circa un terzo dell’esercito prussiano era in Renania e in Vestfalia. Contro di esso non si poteva arrivare a nulla con piccole insurrezioni; tanto più necessaria era quindi un’energica e rigida organizzazione della democrazia per il giorno in cui dalla mezza rivoluzione potesse venirne fuori una intera.

L’organizzazione democratica, decisa nel giugno in un congresso a Francoforte sul Meno, al quale avevano inviato delegati 88 associazioni democratiche, si creò un’ossatura solida soltanto a Colonia, mentre in tutte le altre località della Germania restò un qualche cosa di molto inconsistente. La democrazia di Colonia constava di tre grandi associazioni, ciascuna delle quali annoverava diverse migliaia di iscritti: l’Associazione democratica, che era diretta da Marx e dall’avvocato Schneider, l’Associazione operaia, alla cui testa erano Moli e Schapper, e l’Unione degli imprenditori e degli operai, rappresentata dal referendario Hermann Becker. Queste associazioni, quando Colonia fu scelta dal Congresso di Francoforte Come centro per la Renania e la Vestfalia, si riunirono in un Comitato (entrale, che convocò per la metà di agosto a Colonia un congresso delle associazioni di tendenza democratica della Renania e della Vestfalia. Vennero 40 deputati che rappresentavano 17 associazioni e confermarono il Comitato centrale delle tre associazioni di Colonia a Comitato regionale per la Renania e la Vestfalia.

Anima di questa organizzazione era Marx, così come egli era l’anima della Neue Rheinische Zeitung. Egli aveva il dono di dominare gli uomini, cosa che la democrazia corrente non seppe proprio perdonargli. Al congresso di Colonia Karl Schurz, che era allora un giovane studente di diciannove inni, lo vedeva per la prima volta e lo descrisse più tardi così in una sua rievocazione: «Allora Marx aveva trent’anni, ed era già il capo riconosciuto di una scuola socialista. Quell’uomo tozzo, possente, con la fronte spaziosa, i capelli e la barba nerissimi e gli occhi scuri lampeggianti, attirò subito su di sé l’attenzione di tutti. Aveva fama di essere un dotto di grande valore nella sua disciplina, e quel che egli diceva era in realtà ricco di contenuto, logico e chiaro. Ma io non ho mai conosciuto un uomo dal comportamento così offensivo e arrogante». E quest’eroe della borghesia si è sempre ricordato del tono tagliente e sprezzante, con cui Marx, per così dire quasi sputando, pronunciava la parola «borghese».

Era la stessa musica che due anni dopo veniva intonata dal tenente Techow, che dopo una conversazione con Marx scriveva: «Marx mi ha fatto l’impressione non soltanto di una rara superiorirà, ma anche di una notevole personalità. Se avesse tanto cuore quanto intelletto, tanto amore quanto odio, passerei attraverso il fuoco per lui, sebbene egli non soltanto mi abbia in diverse maniere fatto intendere il suo pieno disprezzo, ma alla fine me lo abbia espresso pari pari. È il primo e il solo tra noi tutti a cui io attribuisca la stoffa del dominatore, la capacità di non perdersi nelle piccolezze nemmeno nelle grandi situazioni». E poi viene la litania sul pericolosissimo orgoglio che avrebbe divorato tutto in Marx.

Diversamente giudicava Albert Brisbane, l’apostolo americano di Fourier, che nell’estate del 1848 si trat tenne a Colonia come corrispondente della New York Tribune, insieme a Charles Dana, editore di questo giornale: «Là vidi Karl Marx, capo del movimento popolare. Allora era proprio nel momento dell’ascesa, un uomo sulla trentina, con una figura robusta e tarchiata, con un viso fine e una folta capigliatura nera. I suoi lineamenti avevano un’espressione di grande energia, e di là dalla sua misurata riservatezza si poteva scoprire il fuoco appassionato di un’anima ardita». In realtà allora Marx guidava la democrazia di Colonia con meditato ardire.

Per quanto grande fosse l’agitazione che le crisi di settembre avevano suscitato tra le sue file, tuttavia l’Assemblea di Francoforte non osò fare una rivoluzione, e il ministero Pfuel non osò ancora fare una controrivoluzione. Con ciò ogni insurrezione locale era senza prospettive di successo, ma tanto più inte ressava alle autorità di Colonia provocare un colpo di mano che potesse essere sanguinosamente represso con poca fatica. Sulla base di pretesti inventati e presto lasciati cadere, esse procedettero con misure giudi ziarie e poliziesche contro i membri del Comitato regionale democratico e i redattori della Neue Rheinische Zeitung. Marx mise in guardia contro l’insidia tesa dagli avversari; in un momento in cui nessuna grossa questione spingeva alla lotta la massa della popolazione, e ogni colpo di mano era perciò destinato a falli re, un tentativo di insurrezione era tanto più senza scopo in quanto nel prossimo futuro sarebbero potuti intervenire avvenimenti di grande portata, e non ci si doveva perciò mettere fuori combattimento prima del giorno della decisione. Se la corona osava una controrivoluzione, allora suonava per il popolo l’era di una nuova rivoluzione.

Tuttavia, quando il 25 settembre Becker, Moll, Schapper e Wilhelm Wolff dovevano essere arrestati, si venne a un piccolo tumulto. Si innalzarono perfino alcune barricate alla notizia che arrivavano le truppe per disperdere una adunanza popolare che aveva luogo nel Mercato vecchio; ma le truppe non giunsero, e soltanto quando in seguito fu completamente ristabilito l’ordine, il comandante ebbe il coraggio di proclamare lo stato d’assedio a Colonia. Così la Neue Rheinische Zeitung veniva soppressa; il 27 settembre essa cessò le pubblicazioni. Colpirla a morte era certo stata l’intenzione dell’insensato atto di forza ma pochi giorni dopo il ministero Pfuel dovette far marcia indietro. Ed essa era stata colpita anche abbastanza duramente, tanto che potè tornare di nuovo sul terreno della lotta soltanto il 12 ottobre.

La sua redazione si trovava dispersa, dato che la maggior parte dei redattori, per sfuggire ai mandati di cattura, avevano passato i confini, rifugiandosi nel Belgio, come Dronke ed Engels, o nel Palatinato come Wilhelm Wolff, donde poterono tornare soltanto a poco a poco; Engels era a Berna ancora al principio del gennaio del 1849, dove era arrivato attraverso la Francia, per lo più a piedi. Ma soprattutto le finanze del giornale erano totalmente dissestate. Dopo l’abbandono dei suoi azionisti, esso aveva tenuto duro grazie alla sua crescente diffusione; ma dopo questo nuovo polpo lo si potè salvare soltanto in quanto Marx se lo accollò come «proprietà personale», il che vuol dke che gli sacrificò quel po’ di averi che aveva ereditato da suo padre, o quel po’ che riuscì ad aver di liquido ipotecando la sua futura parte di eredità. Lui personalmente non ha mai lasciato cadere una parola in proposito, ma la cosa è stata confermata da Certe espressioni delle lettere di sua moglie, e anche da pubbliche dichiarazioni dei suoi amici, nelle quali si dà la somma di circa 7.000 talleri sacrificati da Marx per l’agitazione e per il giornale durante gli anni della rivoluzione. Ma naturalmente non si tratta dell’ammontare della somma, ma del fatto che egli cercò di mantenere la posizione fino all’ultima cartuccia.

Anche per un altro riguardo egli viveva alla giornata. Dopo lo scoppio della rivoluzione, il 30 marzo, la Dieta federale aveva deciso che anche i profughi tedeschi potevano essere elettori ed eleggibili all’Assemblea nazionale tedesca, se tornavano in Germania e dichiaravano di voler riacquistare il diritto di cittadinanza. Questa decisione fu espressamente riconosciuta dal governo prussiano. Marx aveva adempiuto le con dizioni che gli assicuravano il diritto di cittadinanza dell’Impero, e tanto più poteva pretendere che non gli fosse negata la cittadinanza prussiana. In realtà il consiglio comunale di Colonia glielo assicurò subito, quando nell’aprile del 1848 egli ne fece domanda, e il capo della polizia di Colonia, Müller, a cui Marx fece presente che non poteva trasferire la propria famiglia da Treviri a Colonia così alla cieca, gli assicurò che la sua rinaturalizzazione sarebbe stata accordata anche dal governo regionale che, secondo una vecchia leg ge prussiana, doveva convalidare la decisione del consiglio comunale. Nel frattempo cominciò ad uscire la Neue Rhemische Zeitung, e il 3 agosto Marx ricevette una lettera ufficiale del direttore della polizia, Geiger, nella quale costui gli comunicava che il regio governo, presa visione della sua situazione non aveva fatto «per il momento» alcun uso a suo favore del proprio potere di concedere ad uno straniero la qualifica di suddito prussiano, e che perciò egli era da considerarsi, come prima, uno straniero. Un’energica protesta che Marx rivolse al ministero degli interni il 22 agosto, fu respinta.

Ma lui, il più tenero dei mariti e dei padri, aveva fatto venire la sua famiglia a Colonia, anche «alla cieca». E nel frattempo essa era cresciuta; alla prima figlioletta, che si chiamava Jenny come la madre ed era nata nel maggio del 1844, nel settembre del 1845 era seguita un’altra bambina, Laura, e, dopo un periodo di tempo presumibilmente non più lungo, anche un bambino, Edgar, l’unico di questi figli e di quelli venuti in seguito di cui non si è più in grado di precisare il mese e l’anno della nascita. Helene Demuth accompagnava la famiglia già dal periodo di Parigi, come fedele nume familiare.

Marx non era di quegli uomini che passano facilmente da un’amicizia all’altra, ma di quelli che mantengono la fede e sanno conservare l’amicizia. Nello stesso congresso in cui egli avrebbe respinto con la sua insopportabile arroganza anche quelli che erano ben disposti verso ci lui, egli si conquistò nell’avvocato Schily di Treviri e nell’insegnante Imandt di Krefeld degli amici per la vita, e se la severa riservatezza del suo carattere apparve inquietante a dei rivoluzionari a metà come Schurz e Techow, essa, proprio in queste giornate di Colonia, mise tante più irresistibilmente in sua balia, sia intellettualmente che affettivamente dei veri rivoluzionari, come Freiligrath e Lassalle.

    8.6    ​​​Freiligrath e Lassalle

Ferdinand Freiligrath era di otto anni maggiore di Marx. Nei suoi anni giovanili egli aveva bevuto abbondan temente il latte della religiosità e aveva ricevuto i colpi della vecchia Rheinische Zeitung, quando, dopo l’espulsione di Herwegh dalla Prussia, aveva intonato un inno satirico sul fallito viaggio trionfale di questo poeta. Ma presto la reazione prequarantottesca aveva fatto di questo Saulo un Paolo, e nell’esilio di Bru xelles egli si era incontrato fuggevolmente, sì, ma amichevolmente, con Marx, un tipo com’egli diceva «interessante, simpatico, senz’alcuna pretenzione», e in questo Freiligrath sapeva giudicare. Infatti, sebbe ne, o piuttosto, siccome era privo di ogni vanità, egli aveva una acuta sensibilità per tutto quello che avesse sentore di arroganza.

Una vera amicizia i due uomini la strinsero soltanto nell’estate e nell’autunno del 1848. Ciò che li unì fu il reciproco rispetto per l’audacia e la forza di carattere con cui ciascuno dei due rappresentò nel movimento renano il comune principio rivoluzionario. «È un vero rivoluzionario e un uomo assolutamente onesto, lode che io saprei fare soltanto di pochi», scriveva Marx con sincero rispetto in una lettera a Weydemeyer, incoraggiandolo nello stesso tempo ad adulare un po’ il poeta, perché il piccolo popolo dei poeti aveva bisogno di sentirsi un po’ adulare quando doveva cantare. E Marx, che altrimenti non aveva il cuore sulle labbra, così scriveva a Freiligrath stesso in un momento di tensione: «Ti dico francamente che non mi so decidere a perdere per malintesi secondari uno dei pochi uomini che io ho amato come amici nel senso più alto della parola». Nei momenti del più grave bisogno Marx non ebbe, accanto ad Engels, un amico più fedele di Freiligrath.

Poiché questa amicizia fu così schietta e semplice, essa è stata da tempre uno scandalo e una follia per i filistei. Ora sarebbe stata la accesa immaginazione del poeta ad avergli giocato un brutto scherzo e ad averlo .tiiirito nella compagnia di gente sospetta, ora sarebbe stato un demoniaco demagogo ad avere avvelenato e ridotto al silenzio un innocente cantore. Non varrebbe la pena di spendere anche soltanto una parola sull’argomento, se non si fosse usato come contravveleno a queste insensataggini il rimedio errato di fare di Freiligrath un socialdemocratico moderno, col che lo si mette ugualmente in una luce falsa. Egli era un rivoluzionario per intuizione poetica, e non per ragionamento scientifico; vedeva in Marx un campione della rivoluzione e nella Lega dei Comunisti un’avanguardia rivoluzionaria che non aveva uguali ai suoi tempi, ma il pensiero storico del Manifesto comunista gli rimase più o meno estraneo; non ci si poteva accostare alla sua ardente fantasia con le piccolezze spesso cosi misere e grette dell’agitazione.

Di tutt’altra tempra era Ferdinand Lassalle, che si legò strettamente a Marx nello stesso periodo. Era più giovane di lui di sette anni, e fino a questo momento si era reso noto soltanto per una lotta tenace a favore della contessa Hatzfeldt, maltrattata dal marito e tradita dalla sua Casta; arrestato nel febbraio 1848 per presunta istigazione al furto di una cassetta, l’11 agosto era stato assolto dai giurati di Colonia dopo una brillante difesa, e solo da quel momento potè prender parte alla lotta rivoluzionaria, come capo della quale, data la sua «infinita simpatia per ogni grande forza», Marx non poteva che imporglisi.

Lassalle era passato per la scuola di Hegel e dominava in pieno il metodo del maestro, senza dubitare ancora della sua infallibilità, ma anche senza le piccinerie degli epigoni; durante un suo soggiorno a Parigi egli aveva conosciuto il socialismo francese e dallo sguardo profetico di Heine gli era stato perdetto un grande avvenire. Soltanto, le grandi aspettative che questo giovinetto aveva fatto nascere restarono deluse per certe discordanze del suo carattere che, nella lotta contro l’eredità umiliante di una razza oppressa, egli non aveva ancora saputo correggere; nella sua casa paterna dominava ancora incontrastato lo spirito insulso dell’ebraismo polacco. E nella sua levata di scudi a favore della contessa Hatzfedt anche spiriti più liberi non seppero sempre riconoscer e quello che egli stesso asseriva e che dal suo punto di vista poteva anche asserire a ragione, cioè che nel caso singolo egli combatteva la miseria sociale di un’epoca destinata a morire. Perfino Freiligrath, che in generale non ebbe molta simpatia ter lui, parlò con disgusto del «luridume familiare» intorno a cui secondo Lassalle girava tutta la sroria del mondo.

Sette anni dopo Marx si esprimeva in modo del tutto simile: Lassalle si credeva un dominatore del mondo perchè era stato privo di scrupoli in un intrigo privato, come se un uomo veramente notevole potesse sacrificare dieci anni a una bagattella del genere. E ancora un ventennio copo Engels diceva che Marx aveva nutrito fin dal principio una forte antipatia verso Lassalle; la Neue Rheinische Zeitung aveva accolto appositamente quante meno notizie potè sulla causa della Hatzfeldt patrocinata da Lassalle, perchè non si era voluta creare l’apparenza che si avesse qualcosa in comune con Lassalle in questa faccenda. Ma su questo punto Engels è stato ingannato dalla sua memoria. La Neue Rheinische Zeitungt fino al giorno in cui fu soppressa, il 27 settembre, ha dato notizie molto circostanziate sul processo per il furto della cassetta, e da queste notizie si può proprio vedere che il processo aveva i suoi lati meno belli. Inoltre Marx, come lui stesso ammetteva in una sua lettera a Freiligrath, aiutò con prestiti, pur nella modestia dei suoi mezzi, la contessa Hatzfeldt cella tragica situazione in cui allora si trovava, e quando egli stesso, subito dopo il periodo di Colonia, si trovò in una grave situazione, in una città cove aveva più di un vecchio amico, scelse come suoi intimi accanto a Freiligrath, Lassalle.

Sicuramente Engels ha ragione sul fatto che, per dirla come si usa, Marx aveva allora questa antipatia, come l’aveva lo stesso Engels e anche Freiligrath, quella antipatia che sta al di sopra o anche al di sotto di ogni ragionamento. Ma ci sono testimonianze sufficienti del fatto che Marx non si lasciò guidare da capo a fondo dalla sua antipatia, fino a misconoscere il significato nonostante tutto profondo dell’affare Hatzfeldt, né tanto meno l’ardente entusiasmo di Lassalle per la causa della rivoluzione, le sue doti preminenti per la lotta di classe del proletariato, e infine anche l’amicizia piena di abnegazione che il più giovane compagno di lotta ebbe per lui.

Non è soltanto per amor di Lassalle, il cui diritto storico è già stato assicurato da gran tempo, che si deve valutare con tanta cura quali siano stati sin dal principio i rapporti fra i due uomini. Importa di più tutelare Marx da ogni falsa apparenza perchè la sua relazione con Lassalle è il problema psicologico più difficile che la sua vita presenta.

    8.7    ​​​Le giornate dell’ottobre e del novembre

Quando, il 12 ottobre, la Neue Rheinische Zeitung tornò ad uscire, con l’annuncio che Freiligrath era entrato a far parte della sua redazione, essa ebbe la ventura di salutare una nuova rivoluzione. Il 6 ottobre il proletariato viennese aveva fermato col suo solido pugno il perfido piano della controrivoluzione asburgica, di schiacciare con l’aiuto delle popolazioni slave, dopo le vittorie di Radetzky in Italia, prima i ribelli ungheresi e poi i ribelli tedeschi.

Dal 28 agosto al 7 settembre Marx si era trattenuto a Vienna, per illuminare le masse di questa città. Stando alle molto scarse informazioni giornalistiche che abbiamo sull’argomento, la cosa non gli era riuscita; il che è abbastanza spiegabile, dato che gli operai viennesi si trovavano incora ad un grado di sviluppo rela tivamente inferiore. Tanto più era da apprezzare lo schietto istinto rivoluzionario con cui essi si opposero alla marcia dei reggimenti destinati a schiacciare gli ungheresi. Così essi si tirarono addosso il primo colpo della controrivoluzione, magnanimo sacrificio, di cui la nobiltà ungherese non fu capace in ugual misura. Essa volle condurre la lotta per l’indipendenza del proprio paese sulla base dei suoi diritti patentati, e l’eser cito ungherese azzardò un’avanzata incerta e timorosa, che non alleggerì la lotta mortale dell’insurrezione viennese, ma la rese più grave.

Né la democrazia tedesca si comportò meglio. Essa riconobbe, sì, l’importanza che per essa aveva l’esito dell’insurrezione viennese. Se nella capitale austriaca vinceva la controrivoluzione, essa avrebbe portato il colpo decisivo anche nella capitale prussiana, dove stava da tempo in agguato. Ma la democrazia tedesca si abbandonava soltanto a lamentele sentimentali, a sterili simpatie, a invocazioni d’aiuto all’impotente reggente dell’Impero. Il congresso democratico che si radunò per la seconda volta a Berlino alla fine d’ottobre, emanò un appello redatto da Ruge a livore di Vienna assediata, di cui la Neue Rheinische Zeitung disse, cogliendo nel segno, che sostituiva la mancanza di energia rivoluzionaria con un pathos da predicatore piagnone, dietro al quale si nascondeva la più assoluta mancanza di pensiero e di passione. Ma i suoi appelli appassionati, scritti da Marx in una prosa veemente, e da Freiligrath in versi stupendi, perchè si portasse ai viennesi l’unico aiuto che poteva salvarli, cioè la vittoria sulla controrivoluzione in casa propria, caddero nel vuoto.

Così era segnato il destino della rivoluzione viennese. Traditi anche dalla borghesia e dai contadini in casa propria, sostenuti soltanto dagli studenti e da una parte della piccola borghesia, gli operai viennesi opposero una resistenza eroica. Ma alla sera del 31 ottobre l’attacco delle truppe assedianti riuscì; il 1◦ novembre sul campanile di Santo Stefano sventolava una gigantesca bandiera gialla e nera.

Alla drammatica tragedia di Vienna tenne dietro la grottesca tragicommedia di Berlino. Il ministero Pfuel fu sostituito dal ministero Brandenburg, che ordinò all’Assemblea di ritirarsi nella città di provincia di Brandeburgo, e Wrangel entrò a Berlino coi reggimenti della guardia, per far eseguire quest’ordine con la forza delle armi. Brandenburg, un Hohenzollern illegittimo, si paragonava anche troppo lusinghieramente a un elefante che doveva schiacciare la rivoluzione; più giustamente la Neue Rheinische Zeitung diceva che Brandenburg e il suo complice Wrangel erano «due uomini senza testa, senza cuore, senza opinioni, tutto baffi» e tuttavia, in quanto tali, erano l’esatto contrasto delia degna assemblea dei conciliatori.

In realtà il «tutto baffi» riuscì a intimidirla. A dire il vero, essa indugiò ad abbandonare la sua sede costi tuzionale di Berlino, e quando, colpo su colpo, una violenza si succedeva all’altra — lo scioglimento della guardia nazionale, la proclamazione dello stato d’assedio — essa dichiarò i ministri rei d’alto tradimento, e li denunciò alla... autorità dello Stato. Ma respinse la richiesta del proletariato berlinese di ristabilire, armi alla mano, il diritto calpestato del paese, e proclamò la « resistenza passiva», cioè la nobile decisione di ricevere sul dorso le nerbate dell’avversario. Poi lasciò che le truppe di Wrangel la cacciassero da una sala all’altra, e infine, in un momentaneo prorompere di energia, di fronte alle baionette che già penetravano nella sua sede, negò al ministero Brandenburg il diritto di disporre dei denari dello Stato e di imporre im poste, fino a che essa non avesse potuto tenere liberamente le sue sedute a Berlino. Ma era appena stata dispersa che il suo presidente von Unruh, in gran pena per il suo caro cadavere, convocò l’ufficio di presi denza per mettere a verbale che la decisione di rifiutare le imposte, che altrimenti egli avrebbe lasciato che fosse tranquillamente diffusa per il paese, non poteva avere vigore di legge a causa di un vizio di forma.

Toccava alla Neue Rheinische Zeitung di rispondere al colpo di mano del governo in modo storicamente dignitoso. Per essa era venuto il momento decisivo in cui bisognava :he la controrivoluzione fosse abbat tuta da una seconda rivoluzione, e ogni giorno essa chiamava le masse a contrapporre alla forza ogni genere di forza. La resistenza passiva doveva avere alla base la resistenza attiva, altrimenti assomigliava alla resistenza di un vitello al macellaio. Tutte le sottigliezze giuridiche della teoria della conciliazione, dietro cui si voleva nascondere la viltà della borghesia, furono spazzate via. «La corona prussiana è nel suo diritto quando si contrappone all’Assemblea come corona assoluta. Ma l’Assemblea nel torto, perchè non si contrappone alla corona come assemblea assoluta... La vecchia burocrazia non vuole abbassarsi a servitrice di una borghesia di cui finora era la dispotica maestra. Il partito feudale non vuole lasciar bruciare le sue decorazioni e i suoi interessi sull’altare della borghesia. E infine la corona scorge negli elementi della vecchia società feudale di cui essa è la più alta escrescenza, il terreno sociale su cui essa è, mentre nella borghesia scorge una terra straniera artificiale, dalla quale è soltanto sopportata a condizione che si rattrappisca. La borghesia trasforma l’inebriante ‘grazia di Dio’ in un nudo titolo giuridico, il dominio del sangue nel dominio della .carta, il sole regio in una lampada borghese. Perciò la monarchia non si è lasciata incantare dalle chiacchiere della borghesia. Alla sua mezza rivoluzione ha risposto con una controrivoluzione intera. Ha riprecipitato indietro la borghesia tra le braccia della rivoluzione, del popolo, gridandole: Brandenburg nell’Assemblea, e l’Assemblea a Brandeburgo».

La Neue Rheinische Zeitung tradusse esattamente questa parola d’ordine della controrivoluzione: il corpo di guardia nell’Assemblea e l’Assemblea nel corpo di guardia. Essa sperava che Con questa parola d’ordine il popolo avrebbe vinto, essa vi leggeva l’epitaffio della casa di Brandeburgo.

Quando l’Assemblea di Berlino decise il rifiuto delle imposte, il Comitato regionale democratico, in un ap pello del 18 novembre redatto da Marx, Schapper e Schneider, invitò le associazioni democratiche della Renania a mandare ad effetto l’esecuzione delle seguenti misure: la riscossione violenta delle imposte sarà respinta dappertutto con ogni forma di resistenza; si organizzerà dappertutto la guardia mobile per re spingere il nemico; per le persone prive di mezzi si procureranno armi e munizioni a spese della comunità o con contributi volontari; nel caso che- le autorità si rifiutino di riconoscere o di eseguire le decisioni del l’Assemblea, si costituiranno comitati di sicurezza, possibilmente d’accordo coi consigli comunali; consigli comunali che contrastino all’Assemblea legislativa saranno rinnovati attraverso elezioni popolari. Con ciò il Comitato democratico fece ciò che avrebbe dovuto fare l’Assemblea di Berlino, se, decidendo il rifiuto delle imposte, avesse voluto fare sul serio. Ma questi eroi tremarono subito di fronte al loro eroico coraggio; si affrettarono a recarsi nelle loro circoscrizioni elettorali per impedire l’esecuzione della loro decisione, e poi trotterellarono a Brandeburgo per proseguire le loro consultazioni. Così l’Assemblea aveva perso a tal punto ogni dignità che il 5 dicembre il governo potè disperderla con una pedata, elargendo una nuova costituzione e una nuova legge elettorale.

Così anche il Comitato regionale renano era paralizzato nella sua provincia irta di armi. Il 22 novembre, Lassalle, che aveva risposto con entusiasmo all’appello, fu imprigionato a Dusseldorf, e a Colonia il pro curatore dello Stato procedette contro i firmatari dell’appello, anche se non osò arrestarli. L’8 febbraio essi stavano davanti ai giurati di Colonia per istigazione alla resistenza armata contro le autorità militari e civili.

Con un’argomentazione incontestabile Marx respinse il tentativo del procuratore dello Stato di dedurre dalle leggi del 6 e dell’8 aprile, dalle stesse leggi che il governo aveva strappato col suo colpo di stato, l’illegit timità dell’Assemblea e tanto meno l’illegittimità dell’azione degli accusati. Se una rivoluzione riesce felicemente, essa potrebbe impiccare i suoi avversari, ma non condannarli, spazzarli via come nemici vinti, ma non giudicarli come criminali. E’ una vile ipocrisia giuridica, dopo finita la rivoluzione o la controrivoluzione, applicare le leggi calpestate contro i difensori delle stesse leggi. La questione di chi sia stato nel diritto, se la corona o l’Assemblea, è un problema storico che può esser deciso soltanto dalla storia e non da una giuria.

Ma Marx andò oltre, e rifiutò in generale di riconoscere le leggi del 6 e dell’8 aprile. Esse erano pasticci arbitrari del Landtag unificato, che avrebbero dovuto risparmiare alla corona il riconoscimento della scon fitta subita nelle giornate, del marzo. Non si poteva giudicare secondo le leggi di un’assemblea feudale, un’assemblea che rappresenta la moderna società borghese. Era una presunzione giuridica il credere che la società si fondi sulla legge. Al contrario è la legge che si fonda sulla società. «Ecco il Code Napoléon, che io ho tra le mie mani: non esso ha generato la moderna società borghese; piuttosto, è la società borghese, sorta nel secolo decimottavo e ulteriormente sviluppatasi nel secolo decimonono, che trova nel Code soltanto un’espressione giuridica. Appena esso non corrisponde più alle condizioni sociali, si riduce a una palla di carta. Loro non possono fare delle vecchie leggi la base della nuova società, così come queste leggi non hanno creato le antiche condizioni».

L’Assemblea di Berlino non aveva compreso la sua posizione storica quale era uscita dalla rivoluzione di marzo. Il rimprovero del procuratore dello Stato, secondo cui essa non avrebbe voluto nessuna mediazione, la riguardava così poco che la sua sventura e il suo torto consistevano appunto nel fatto che essa si era degradata da convenzione rivoluzionaria ad un’ambigua associazione di conciliatori. «Qui si trattava non di un conflitto politico di due frazioni sul terreno di una sola società, ma del conflitto politico di due società, di un conflitto sociale, che aveva preso un aspetto politico, cioè della lotta della vecchia società feudale-burocratica con la moderna società borghese, della lotta tra la società della libera concorrenza e la società delle corporazioni, tra la società della proprietà fondiaria e la società dell’industria, tra l.i società della fede e la società della scienza». Tra queste società non esiste pace, ma soltanto lotta per la vita e per la morte. Il rifiuto delle imposte non scuoteva le fondamenta della società, come aveva comicamente affermato il procuratore dello Stato, ma era una legittima difesa della società contro il governo che minacciava la società nelle sue fondamenta.

Decidendo il rifiuto delle imposte, l’Assemblea non aveva agito illegalmente, ma piuttosto aveva agito illegalmente proclamando la difesa passiva. «Una volta che la riscossione delle imposte è proclamata illegale, non devo respingere con la forza l’esercizio violento di un’illegalità?». Se i signori che rifiutavano di pagare le imposte disdegnavano la via rivoluzionaria per non rischiare la testa, allora il popolo doveva mettersi sul terreno rivoluzionario, praticando il rifiuto delle imposte. Il comportamento dell’Assemblea non costituiva una regola per il popolo. «L’Assemblea non ha nessun diritto di per sé, il popolo le ha soltanto affidato l’affermazione dei suoi propri diritti. Se essa non adempie al suo mandato, essa scompare. Il popolo viene quindi in scena in prima persona e agisce nella pienezza dei propri poteri. Se la corona fa una controrivoluzione, a buon diritto il popolo risponde con una rivoluzione». Marx concludeva dicendo che era finito soltanto il primo atto del dramma. Il seguito sarebbe Stato o la vittoria completa della controrivoluzione, o una nuova rivoluzione vittoriosa. Forse la vittoria della rivoluzione sarebbe stata possibile soltanto dopo che si fosse compiuta la controrivoluzione.

Dopo questo discorso pieno d’orgoglio rivoluzionario i giurati assolsero gli accusati, e il loro presidente ringraziò per di più l’oratore per l’istruttiva spiegazione.

    8.8    ​​​Un colpo mancino

Con la vittoria della controrivoluzione a Vienna e a Berlino erano sta-ti gettati i dadi decisivi per la Germania. Quel che ancora rimaneva delle conquiste rivoluzionarie era l’Assemblea di Francoforte, che aveva già da un pezzo perduto ogni credito politico e si occupava tra chiacchiere infinite di una costituzione di carta, della quale restava dubbio ancora soltanto se dovesse essere infilzata dalla spada austriaca o da quella prussiana.

La Neue Rheinische Zeitung, dopo aver narrato ancora una volta, nel dicembre, in una serie di brillanti articoli la storia della rivoluzione e della controrivoluzione prussiana per il nuovo anno 1849, rivolse il suo sguardo pieno di speranza alla sollevazione della classe operaia francese, dalla quale si attendeva una guerra mondiale. «Il paese che trasforma intere nazioni in suoi proletari, che tiene stretto tra le sue braccia gigantesche tutto il mondo, che col suo denaro ha già una volta fatto fronte alle spese della restaurazione europea, in seno al quale gli antagonismi di classe si sono spinti alla forma più marcata e più sfrontata, l’Inghilterra insomma, sembra lo scoglio contro cui s’infrangono le onde della rivoluzione, fa morir di fame la nuova società già nel grembo materno. L’Inghilterra domina il mercato mondiale. Un sovvertimento della situazione politico-economica in ogni paese del continente europeo, su tutto il continente europeo, senza l’Inghilterra, è una tempesta in un bicchier d’acqua. La situazione dell’industria e del commercio all’interno di ogni nazione sono dominate dal commercio con le altre nazioni, sono condizionate dal loro rapporto col mercato mondiale Ma l’Inghilterra domina il mercato mondiale, e la borghesia domina l’Inghilterra». Così ogni sovvertimento francese-sociale fallirà di fronte alla borghesia inglese, di fronte al dominio mondiale dell’industria e del commercio esercitato dalla Gran Bretagna. Ogni parziale riforma sociale in Francia, e sul continente europeo in generale, che debba essere definitiva, è e rimane nient’altro che un pio desiderio.

E la vecchia Inghilterra sarà rovesciata soltanto con una guerra mondiale, la quale sola offre al partito cartista, il partito organizzato degli operai inglesi, le condizioni per una sollevazione vittoriosa contro i suoi giganteschi oppressori. I cartisti alla testa del governo inglese: e soltanto da questo momento la rivoluzione sociale entra dal regno dell’utopia nel regno della realtà.

La premessa di queste speranze nel futuro non si avverò; dopo le giornate di giugno la classe operaia francese, ancora sanguinante da mille ferite, era incapace di una nuova sollevazione. Dopo il giro che la controrivoluzione europea aveva percorso, dalle giornate parigine del giugno, attraverso Francoforte, Vienna e Berlino, per concluderlo momentaneamente il 10 dicembre con l’elezione elei falso Bonaparte a presidente della repubblica francese, la rivoluzione sopravviveva soltanto in Ungheria, e trovò in Engels, che nel frattempo era tornato a Colonia, l’avvocato più eloquente e più competente.

Per il resto la Neue Rheinische Zeitung dovette limitarsi alla guerriglia contro la prorompente controrivoluzione, e la combatté con lo stesso ardire e la stessa tenacia che le grandi battaglie campali dell’anno precedente. Un fascio di processi per reati di stampa che il ministero le accollò come al giornale peggiore della stampa cattiva, essa lo accolse osservando sprezzantemente che l’autorità dell’Imiti o era la più comica di tutte le comiche autorità. Alla pomposa esibizione di «prussianesimo», di cui gli Junker delle terre al di là dell’Elba si compiacquero dopo il colpo di Stato di Berlino, essa contrappose il meritato dileggio: «Noi della Renania abbiamo la fortuna di aver acquisito nel grande mercato d’uomini di Vienna un granduca del basso Reno, che non ha adempiuto alle condizioni sulla base delle quali era divenuto ‘granduca’. Un re di Prussia esiste per noi soltanto attraverso l’Assemblea di Berlino, e siccome per il nostro ‘granduca del basso Reno’ non esiste nessuna assemblea, per noi non esiste nessun re di Prussia. Noi siamo caduti in balia del ‘granduca del basso Reno’ grazie al mercato dei popoli. Appena saremo abbastanza avanti per non riconoscere il traffico delle anime chiederemo conto al granduca del suo ‘titolo di possesso’». Questo veniva scritto nel mezzo delle più selvagge orge della controrivoluzione.

Di una cosa, a dire il vero, si sente la mancanza a un primo sguardo gettato sulle colonne della Neue Rheinische Zeitung, di una cosa che si poteva presumere di trovarvi in primo piano: un’informazione esauriente sul contemporaneo movimento operaio in Germania. Esso non era poi così insignificante nemmeno nelle campagne al di là dall’Elba; aveva i suoi congressi, le sue organizzazioni, i suoi giornali, e Stephan Born, la sua mente più dotata, era amico di Marx e di Engels sin dai tempi di Bruxelles e di Parigi; anche ora, da Berlino e da Lipsia, egli collaborava alla Neue Rheinische Zeitung. Born capiva molto bene il Manifesto comunista, se sapeva adattarlo, sia pur imperfettamente, alla coscienza di c lasse del proletariato, ancor non del tutto sviluppata nella massima parte della Germania; soltanto in tempi più recenti Engels giudicò con ingiusta severità l’attività di Born in quel periodo. E’ assolutamente credibile, come Born racconta nelle sue memorie, che Marx e Engels non abbiano mai espresso una parola di scontentezza sulla sua attività di allora, col che non è poi escluso che essi siano stati scontenti di qualche cosa nei particolari. Comunque, essi stessi nella primavera del 1849 compirono un avvicinamento al movimento operaio, che era sorto indipendentemente dalla loro influenza.

La scarsa attenzione che da principio la Neue Rheinische Zeitung dedicò a questo movimento, si spiegava in parte col fatto che due volte alla settimana usciva un organo speciale dell’Unione operaia di Colonia, di retto da Moll e Schapper, e in parte, e a dire il vero per la parte maggiore, col fatto che essa era anzitutto un «organo della democrazia», cioè voleva assicurare gli interessi comuni della borghesia e del proletariato di fronte all’assolutismo e al feudalismo. In realtà, questa era anche la cosa più necessaria, in quanto pre parava il terreno su cui il proletariato poteva cominciare il suo duello con la borghesia. Soltanto, l’elemento borghese di questa democrazia si disgregava sempre più con l’andar del tempo; ad ogni prova appena ap pena seria, esso crollava. Nel Comitato centrale di cinque membri, che era stato eletto dal primo congresso democratico nel giugno del 1848, si trovavano gente come Meyen e Kriege, tomaio dall’America; con una guida siffatta, questa organizzazione andò incontro a un rapido sfacelo, che si manifestò paurosamente quando alla vigilia del colpo di stato prussiano essa si riunì per la seconda volta a Berlino. Se allora fu eletto un nuovo comitato centrale, a cui appartenne anche d’Ester, che era un amico personale e politico di Marx, fu però soltanto una cambiale tratta sul futuro. La sinistra parlamentare dell’Assemblea ci Berlino durante la crisi del novembre aveva miseramente ceduto, e la sinistra di Francoforte sprofondava sempre più nella palude di lamentevoli compromessi.

Stando così le cose, Marx, Wilhelm Wolff, Schapper e Hermann Becker, dettero il 15 aprile le dimissioni dal Comitato democratico regionale. Essi motivarono la loro decisione con queste parole: «Noi riteniamo che l’attuale organizzazione delle associazioni democratiche racchiuda in sé troppi elementi eterogenei perchè sia possibile un’attività giovevole allo scopo della causa. Noi siamo anzi dell’opinione che sia preferibile un più stretto collegamento delle associazioni operaie, poiché esse consistono di elementi simili». Nello stes so tempo l’Associazione operaia di Colonia si staccò dalla Lega delle associazioni democratiche renane, e convocò quindi ad un nuovo congresso provinciale indetro per il 6 maggio, tutte le associazioni operaie nonché tutte le altre che aderissero alle tesi fondamentali della democrazia sociale. Questo congresso doveva decidere su di una organizzazione delle associazioni operaie della Renania e della Vestfalia e sul l’opportunità o no di mandare delegati al congresso di tutte le associazioni operaie tedesche, convocato a Lipsia per il mese di giugno dalla Fratellanza operaia di Lipsia, organizzazione diretta da Born.

Già il 20 marzo, prima di queste dichiarazioni, la Neue Rhehische Zeitung aveva cominciato a pubblicare gli infiammati articoli di Wilhelm Wolff sui miliardi della Slesia, che mettevano in moto il proletariato rurale, e il 5 aprile Marx in persona aveva iniziato la stampa delle conferenze da lui tenute nell’Associazione operaia di Bruxelles su Lavoro salariato e capitale. Il giornale, dopo aver dimostrato, sulla base delle gigantesche lotte di massa dell’anno 1848, che ogni sollevazione rivoluzionaria, per quanto il suo scopo potesse sembrare lontano dalla lotta di classe, doveva fallire fino a che non vincesse la classe operaia rivoluzionaria, ormai voleva affrontare lo studio delle condizioni economiche su cui si fondava sia l’esistenza della borghesia che la schiavitù degli operai.

Ma il promettente sviluppo fu interrotto dalie lotte per quella costituzione di carta dell’Impero che l’Assem blea di Francoforte era finalmente riuscita a confezionare. In sé e per sé essa non valeva la pena che si versasse per lei anche una sola goccia di sangue; la corona imperiale ereditaria che essa voleva ficcare sulla testa del re di Prussia, somigliava pari pari a un berretto da pazzo. Il re non l’accettò, ma nemmeno la rifiutò; voleva trattare coi prìncipi tedeschi sulla costituzione dell’Impero, con la segreta speranza che essi avrebbero riconosciuto l’egemonia prussiana, se egli avesse abbattuto con la spada prussiana quanto rimaneva ancora di forza rivoluzionaria nei medi e piccoli Stati tedeschi.

Era una spoliazione del cadavere della rivoluzione, che attizzò di nuovo la fiamma rivoluzionaria. Essa provocò una serie di insurrezioni, alle quali la costituzione dell’Impero dava il nome, anche se non il con tenuto. Nonostante tutto essa impersonava la sovranità della nazione, che bisognava assassinare in essa, per restaurare la sovranità dei prìncipi. Nel regno di Sassonia, nel granducato del Baden e nel Palatinato bavarese si combatté con le armi alla mano per la costituzione dell’Impero, e dappertutto il re di Prussia fece la parte del carnefice, a dire il vero per essere poi truffato dai potentati da lui salvati sul compenso per questo servizio. Anche nella provincia renana si venne a singole insurrezioni, ma furono soffocate in germe dalla superiorità schiacciante delle truppe con cui il governo aveva inondato questa temibile provincia.

E ora si prese il coraggio anche per un colpo definitivo contro la Neue Rheinische Zeitung. Quanto più crescevano i segni di una nuova sollevazione rivoluzionaria, tanto più luminose splendevano nelle sue colonne le fiamme della passione rivoluzionaria; tutti i suoi numeri straordinari dell’aprile e del maggio furono altrettanti appelli al popolo a tenersi pronto all’attacco; allora il giornale si meritò dalla Kreuzzeitung la lode onorifica di avere un’audacia vulcanica, al confronto della quale impallidiva quella del Moniteur del 1793. Da un pezzo il governo avrebbe voluto prenderla per il collo, ma il coraggio, il coraggio! Con due processi contro Marx non si era fatto altro, dato l’umore dei giurati renani, che preparargli nuovi trionfi; alle sollecitazioni di Berlino perchè fosse proclamato ancora una volta lo stato d’assedio a Colonia, il comando della piazza non ebbe il coraggio di dar corso. Esso preferì rivolgersi alla direzione di polizia con la richiesta di espellere Marx come «individuo pericoloso».

Questa autorità a sua volta si rivolse al governo regionale di Colonia, il quale per la parte sua riversò i suoi datori in petto a Manteuffel che, in quanto ministro degli Interni, era il suo superiore. Il 10 marzo essa comunicava che Marx era sempre a Colonia senza permesso di soggiorno e che il giornale da lui diretto continuava nelle sue tendenze distruttive, istigando a rovesciare la costituzione vigente e a istituire una re pubblica sociale, deridendo e disprezzando tutto ciò che ogni uomo rispetta e ritiene santo; esso diventava tanto più dannoso in quanto la sfrontatezza e il tono di scherno con cui era scritto facevano aumentare sem pre più la cerchia dei suoi lettori. La direzione di polizia aveva delle riserve circa la richiesta del comando della piazza di espellete Marx, e il governo non poteva che dar ragione a queste riserve; un’espulsione «senza un particolare motivo pubblico», «soltanto a causa della tendenza e della pericolosità del giornale», poteva forse provocare una dimostrazione del partito democratico.

Avuta questa comunicazione, Manteuffel si rivolse a Eichmann, prefetto della provincia renana, per sentire anche il suo parere. Eichmann rispose il 29 marzo che l’espulsione era sì giustificata, ma non tale da non destar preoccupazioni, prima che Marx non si rendesse ulteriormente colpevole. Allora, il 7 aprile, Manteuffel decise che non aveva nulla da eccepire contro l’espulsione, ma che la scelta del momento doveva esser lasciata al governo; comunque, era desiderabile che avvenisse in seguito a qualche preciso addebito. Essa ebbe luogo l’11 maggio, e non per un particolare addebito, ma per la pericolosa tendenza della Neue Rheinische Zeitung. In altre parole: il governo l’11 maggio si sentì abbastanza forte per un colpo mancino, a compiere il quale era stato troppo vile il 29 marzo e il 7 aprile.

Il professore prussiano che recentemente ha scoperto negli archivi, sulla base di documenti, il modo in cui si sono svolte le cose, ha voluto, in questo modo, evidentemente celebrare lo sguardo profetico del poeta Freiligrath, che sotto l’impressione diretta dell’espulsione, cantava:

Non un colpo diretto in aperta battaglia... Mi abbattono malizie e perfidie,

Mi abbatte la strisciante abiezione Degli sporchi calmucchi occidentali.

    8.9    ​​​Un altro colpo vigliacco

Marx si trovava fuori, quando arrivò l’ordine di espulsione. Sebbene il giornale fosse in continua ascesa e contasse circa 6.000 abbonamenti, però le sue difficoltà finanziarie non erano superate ancora; con l’aumento degli abbonamenti crescevano le spese nette, mentre le entrate potevano accrescersi soltanto successivamente. A Hamm Marx trattò con Rempel, uno dei due capitalisti che nel 1846 si erano mostrati disposti a fondare una casa editrice comunista, ma il prode tenne anche questa volta la borsa chiusa e indirizzò Marx dall’ex tenente Henze, che in realtà anticipò al giornale 300 talleri, il cui rimborso Marx si assunse come debito personale. Henze, che poi si rivelò per un provocatore, fu allora perseguitato dalla polizia e si recò con Marx a Colonia dove questi trovò il «pezzo di carta del governo».

Così il destino del giornale era segnato. Anche qualche altro redattore poteva venire espulso come «straniero», i rimanenti erano sotto processo. Il 19 maggio uscì l’ultimo numero col noto canto d’addio di Freiligrath e con un fiero congedo di Marx, che faceva piovere sulla schiena del governo una grandinata di colpi. «A che scopo le vostre insulse menzogne, le vostre frasi ufficiali? Noi non abbiamo riguardi, né pretendiamo che li abbiate voi. Quando verrà il nostro turno non risparmieremo il terrorismo. Ma i terroristi monarchici, i terroristi in grazia di Dio e del diritto, nella pratica sono brutali, spregevoli, volgari, nella teoria vili, simulatori, ambigui, per l’uno e per l’altro aspetto disonesti». Il giornale mise in guardia gli operai di Colonia contro ogni tentativo armato; data la situazione militare di Colonia sarebbero stati irrimediabilmente perduti. I redattori li ringraziavano per il loro vivo interesse; «la loro ultima parola sarà sempre e dovunque: emancipazione della classe lavoratrice!».

Quindi Marx compì i doveri che toccavano a lui, come comandante della nave naufragata. I 300 talleri che gli aveva prestati Henze, 1.500 talleri di abbonamento che aveva ricevuto per posta, la macchina tipografica che gli apparteneva ecc., furono tutti adoperati per pagare i debiti del giornale al compositore, allo stampatore, al cartolaio, agli impiegati, ai corrispondenti, al personale di redazione, ecc. Per sé egli conservò soltanto l'argenteria di sua moglie, che fu versata al Monte di Pietà di Francoforte. I circa duecento fiorini che essa fruttò furono il viatico della famiglia quando essa dovette di nuovo, come solevano dire i nostri padri, emigrare alla « ventura».

Da Francoforte Marx si recò con Engels sul campo dell’insurrezione nel Baden e nel Palatinato. Andarono anzitutto a Karlsruhe, poi a Kaiserslautern, dove s’incontrarono con d’Ester, che era l’anima del governo provvisorio. Da lui Marx ricevette un mandato del Comitato centrale democratico, per rappresentare il Partito rivoluzionario tedesco a Parigi, presso la Montagna dell’Assemblea nazionale, la socialdemocrazia di allora, mista di elementi piccolo-borghesi e proletari, che preparava un colpo di forza contro i partiti dell’ordine e il loro rappresentante, il falso Bonaparte. Durante il viaggio di ritorno essi vennero imprigionati dalle truppe dell’Assia, come sospetti di partecipazione all’insurrezione, trasportati a Darmstadt e da lì a Francoforte, dove furono di nuovo messi in libertà. Allora Marx andò a Parigi, mentre Engels tornò a Kaiserslautern per entrare come aiutante nei reparti volontari formati dall’ex tenente prussiano Willich.

Il 7 giugno Marx scriveva da Parigi che là imperversava una reazione monarchica più terribile che sotto Guizot, ma anche che mai era stata più imminente una colossale esplosione del cratere rivoluzionario. Ma in quest’aspettazione egli si illuse; il colpo che la Montagna progettava fallì e in modo nemmeno molto dignitoso. E un mese dopo lui stesso fu colpito dalla vendetta del vincitore; il 19 luglio il ministro degli Interni gli fece ordinare dal Prefetto di polizia di prender dimora nel dipartimento del Morbihan. Era un colpo vigliacco, «l’infamia delle infamie», come Freiligrath scriveva a Marx appena avuta la notizia. «Daniels dice che il Morbihan è la religione più malsana della Francia, paludosa e malarica: le paludi pontine della Bretagna». Ma Marx non accettò questo «assassinio mascherato»; per il momento gli riuscì di rinviarne l’esecuzione con un appello al ministero degli Interni.

Egli si trovava nella più nera miseria, avendo esaurito le sue scarse risorse, e si rivolse a Freiligrath e a Lassalle per aiuto. L’uno e l’altro fecero il possibile, ma tuttavia in modo tale che Freiligrath si lamentò per l’indiscrezione con cui Lassalle conduceva la cosa facendone una chiacchiera da birreria. Marx ne restò amaramente toccato; il 30 luglio rispondeva: «Preferisco le più grandi ristrettezze, piuttosto che mendicare in pubblico. Per questo gli ho scritto. Questa storia mi fa indicibilmente adirare». Tuttavia Lassalle seppe fargli passare questo malumore con una lettera traboccante di buona volontà, anche se le assicurazioni del suo autore, di aver trattato la cosa «con estrema delicatezza», lasciassero però qualche dubbio.

Il 23 agosto Marx annunciava ad Engels che lasciava la Francia, e il 5 settembre scriveva a Freiligrath che la moglie lo avrebbe seguito il 15 settembre; egli non sapeva come scovare i mezzi necessari per partire e trovare poi una sistemazione. Nel suo terzo esilio lo accompagnavano i neri pensieri che dovevano poi restargli compagni anche troppo fedeli.

1 Carteggio Marx-Engels, vol. I cit., p. 120.