CAPITOLO 5

L’esilio a Parigi



    5.1    ​​​I «Deutsch-Französische Jahrbücher»

La nuova rivista era nata sotto una cattiva stella: di essa uscì soltanto un numero doppio alla fine del febbraio 1844.

Il «principio gallo-germanico» o, come fu ribattezzato da Ruge, la «alleanza intellettuale tra tedeschi e francesi» non si poté realizzare; il «principio politico della Francia» non volle saperne dell’apporto tedesco, cioè dell’«acume logico» della filosofia hegeliana, che avrebbe dovuto servirgli da più sicura bussola nelle regioni metafisiche, dove Ruge vedeva i francesi senza timone, in preda al vento e alle onde.

Veramente, se, stando alla sua testimonianza, si sarebbero dovuti conquistare anzitutto Lamartine, Lamennais, Louis Blanc, Leroux e Proudhon, questa lista era già di per sé abbastanza variopinta. Di questi, infatti, soltanto Leroux e Proudhon avevano un’idea della filosofia tedesca, e mentre quest’ultimo viveva in provincia, il primo aveva per il momento appeso al chiodo il mestiere dello scrittore per sprofondarsi nel l’invenzione di una macchina tipografica. Gli altri poi si rifiutarono chi per questo chi per quello scrupolo religioso, perfino Louis Blanc, che vedeva sorgere l’anarchia in politica dall’ateismo in religione.

Quanto a collaboratori tedeschi, la rivista se ne procurò, a dire il vero, una bella schiera: accanto agli editori stessi, Heine, Herwegh, Johann Jacoby erano nomi di primo piano, e anche in seconda linea si potevano vedere Moses Hess e F. C. Bernays, un giovane giurista del Palatinato renano, per tacere del più giovane di tutti, Friedrich Engels, che, dopo aver già fatto le sue prime prove nell’attività di scrittore, qui per la prima volta si schierava in battaglia a visiera alzata e con la corazza smagliante. Ma anche questa schiera era abbastanza variopinta; alcuni di loro capivano poco della filosofia hegeliana e ancor meno del suo «acume logico»; soprattutto, tra i due editori stessi si manifestò presto un dissidio, che rese impossibile ogni collaborazione.

Il numero doppio della rivista, che fu poi l’unico, si apriva con un «carteggio» tra Marx, Ruge, Feuerbach e Bakunin, un giovane russo, che si era legato a Ruge a Dresda e aveva pubblicato nei Deutsche Jahrbücher un articolo che era stato molto notato. Sono in tutto otto lettere, contrassegnate con le iniziali dei nomi degli autori, di cui tre sono di Marx, tre di Ruge, una di Bakunin e una di Feuerbach. Più tardi Ruge definì questo carteggio come una scena drammatica da lui composta, pur utilizzando «in parte passi di lettere vere », e l’accolse anche nelle sue opere complete, ma significativamente apportandovi notevoli mutilazioni e sopprimendo l’ultima lettera, che è firmata da Marx e contiene il succo di tutto questo carteggio. Il contenuto delle lettere non lascia dubbio che esse sono degli autori di cui portano le iniziali, e se rappresentano una composizione unitaria, il violino di spalla di questo concerto è Marx, senza voler perciò contrastare che Ruge, sia nelle lettere di lui che in quelle di Bakunin e Feuerbach, possa averci messo le mani.

Marx non solo conclude il carteggio, ma anche lo apre con un breve attacco denso di motivi: la reazione romantica porta alla rivoluzione, lo Stato è una cosa troppo seria per lasciarsi ridurre a una buffonata; si
potrebbe forse lasciare che una nave piena di pazzi andasse per un tratto col vento, ma essa andrebbe incontro al suo destino proprio perché i pazzi non lo crederebbero. A questo Ruge rispondeva con una lunga geremiade sulla irrimediabile pazienza pecorina dei filistei tedeschi, «accusando e disperando», come disse più tardi egli stesso; infatti Marx gli ribatteva subito cortesemente: «La sua lettera è una buona elegia, un canto sepolcrale che toglie il respiro, ma politicamente non conclude nulla di malia».

Se il mondo apparteneva al filisteo, valeva la pena di studiare questo signore del mondo. Signore del mondo esso era soltanto in quanto lo riempiva della sua società, come i vermi un cadavere; e finché continuasse a costituire il materiale della monarchia, anche il monarca non poteva essere altro che il re dei filistei. Il nuovo re di Prussia, più sveglio e più vivo del padre, aveva voluto porre lo Stato dei filistei sulla propria base, ma fino a che essi restavano quelli che erano, egli non poteva fare né di se stesso né della sua gente dei veri uomini liberi. Così era seguito il ritorno all’antico Stato fossilizzato dei servi e degli schiavi.

Ma questa situazione disperata riempiva di nuova speranza. Marx additava l’incapacità dei signori e la infingardaggine dei servi e dei sudditi, che lasciavano che tutto avvenisse come a Dio piaceva, eppure le due cose insieme bastavano già a provocare una catastrofe. Egli affermava che i nemici del filisteismo, tutti gli uomini che pensavano e che soffrivano, erano giunti a una intesa, e che perfino il sistema passivo di riproduzione dei vecchi sudditi, arruolava ogni giorno nuove reclute per il servizio della nuova umanità. Anche più rapidamente il sistema dell’industria e del commercio, del possesso e dello sfruttamento dell’uomo portava ad una rottura entro l’attuale società, che il vecchio sistema era incapace di sanare, perché in generale esso non sanava e non creava nulla, ma solo esisteva e possedeva. Perciò bisognava portare del tutto alla luce il vecchio mondo e creare positivamente il nuovo.

Bakunin e Feuerbach scrivono, ciascuno a suo modo, ma tutte due incoraggiando, a Ruge. E costui si professa convinto «ad opera del nuovo Anacarsi e dei nuovi filosofi». Se Feuerbach aveva paragonato la fine dei Deutsche Jahrbücher alla fine della Polonia, dove gli sforzi di pochi uomini erano vani nella palude stagnante di tutta la vita popolare, Ruge nella sua lettera a Marx diceva: «Sì ! Come la fede cattolica e la libertà nobiliare non salvarono la Polonia, così la filosofia teologica e la scienza aristocratica non poterono liberarci. Noi non possiamo proseguire il nostro passato se non rompendo decisamente con esso. Gli Jahrbucher sono finiti, la filosofia di Hegel appartiene al passato. Noi vogliamo fondare a Parigi un organo su cui giudicare in tutta libertà e con spietata sincerità noi stessi e tutta la Germania». Egli promette di occuparsi dell’aspetto economico e prega Marx di dire il suo parere sul piano della rivista.

Marx ha non solo la prima ma anche l’ultima parola. Era chiaro che bisognava creare un nuovo punto d’incontro per le persone veramente pensanti e indipendenti. Ma anche se non c’erano dubbi sul punto di partenza, tanto maggiore era la confusione che regnava sul punto di arrivo. «Non solo è scoppiata una generale anarchia tra i riformatori, ma ciascuno sarà costretto a confessare a se stesso di non avere un’idea esatta di ciò che dovrà venir fuori. Tuttavia, il vantaggio della nuova tendenza è proprio questo, che noi non anticipiamo dogmaticamente il mondo, ma vogliamo trovare il nuovo mondo muovendo dalla critica del vecchio. Finora i filosofi avevano belle pronta nella loro scrivania la soluzione di tutti gli enigmi, e lo stupido mondo essoterico non aveva che da spalancare la bocca perché le colombe della scienza assoluta ci volassero dentro belle arrostite. La filosofia si è fatta terrena, e la prova più schiacciante ne è che la stessa coscienza filosofica è portata non solo esteriormente, ma anche interiormente nel tormento della lotta. Se non è affar nostro costruire il futuro e metter le cose a posto una volta per tutte, è però tanto più certo quello che noi abbiamo da compiere presentemente, intendo la critica senza riguardi di tutto ciò che esiste, senza riguardi nel senso che la critica non ha paura dei propri risultati e tanto meno del conflitto con i poteri attuali».

Marx non voleva innalzare nessuna bandiera dogmatica, e il comunismo, anche come lo insegnavano Cabet, Dezamy, Weitling, era per lui soltanto un’astrazione dogmatica. L’interesse fondamentale nella Germania contemporanea era anzitutto la religione, poi la politica, ad esse non bisognava contrapporre un qualche sistema, come il viaggio in Icaria, ma anzi bisognava ricollegarsi ad esse, comunque esse si presentassero.

Marx rigetta l’opinione dei «crassi socialisti» secondo cui le questioni politiche sarebbero al disotto di ogni dignità. Dal conflitto dello Stato politico, dal contrasto della sua destinazione ideale con le sue pre messe reali, si poteva dappertutto sviluppare la verità sociale. «Nulla dunque ci impedisce di collegare la nostra critica alla critica della politica, a un intervento nella politica, insomma a lotte reali. Allora noi non ci contrapponiamo dottrinariamente al mondo con un nuovo principio: ‘Qui è la verità; qui s’inginocchi ognuno!’. Noi elaboriamo per il mondo nuovi principi partendo dai principi del mondo. Noi non diciamo ad esso: ‘Cessa dalle tue lotte; sono roba da nulla; noi vogliamo dirti la vera parola d’ordine della lotta’. Noi gli mostriamo soltanto per che cosa esso veramente combatte, e la consapevolezza è una cosa che esso deve far sua anche se non vuole». Così Marx riassume il programma della nuova rivista: comprensione (filosofia critica) da parte della nostra epoca, di quelle che sono le sue lotte e i suoi desideri.

A questa «comprensione» è giunto solo Marx, ma non Ruge. Già il «carteggio» mostrava che Marx era quello che spingeva avanti e che Ruge si faceva spingere. A questo si aggiunse che Ruge si ammalò dopo il suo arrivo a Parigi e che si poté occupare poco della redazione. Così fu paralizzato nella sua più sostanziale capacità, quella per la quale Marx gli appariva « troppo cerimonioso». Egli non poté dare alla rivista la forma e il carattere che riteneva più adatti, e neppure poté pubblicarvi un suo lavoro- personale. Tuttavia non si mostrò del tutto contrario al primo numero. Vi trovò «cose notevolissime, che faranno grande scalpore in Germania», anche se biasimava che «fossero imbandite insieme molte cose poco rifinite»., che egli avrebbe corretto, ma che ormai nella fretta erano passate. E la iniziativa sarebbe proseguita di certo, se non avesse urtato in ostacoli esterni.

Anzitutto i mezzi del Literarisches Kontor si esaurirono molto rapidamente, e Fröbel dichiarò di non poter più continuare l’impresa. E poi il governo prussiano già al primo annunzio dell’apparire dei Deutsch-Französische Jahrbücher, si mobilitò contro di essi.

Comunque non fu contraccambiato di pari sollecitudine né da Metternich, né tanto meno da Guizot; il 18 aprile 1844 dovette accontentarsi di comunicare ai prefetti di tutte le province che gli Jahrbucher rappre sentavano la fattispecie del tentativo di alto tradimento e di lesa maestà; i prefetti, senza suscitare scalpore, dovevano ordinare alle autorità di polizia di arrestare Ruge, Marx, Heine e Bernays appena mettessero pie de sul suolo prussiano, e di sequestrare tutte le loro carte. Ma era ancora un provvedimento ben innocuo, con ciò che quelli di Norimberga, come si dice, non impiccano nessuno se prima non l’hanno tra mano. Ma la cattiva coscienza del re di Prussia divenne più pericolosa in quanto seppe far sorvegliare i confini con la vigilanza più malevola. Su un battello del Reno furono sequestrate 100 copie, presso Bergzabern, al confine franco-palatino, molto più di 200; erano colpi alla nuca molto dolorosi dato che si dovevano fare i conti con una tiratura relativamente modesta.

Ma dove già esistono attriti interni, avviene che essi facilmente si fanno più amari e più aspri con le difficoltà esterne. Stando a quel che dice Ruge, esse hanno anche accelerato o addirittura provocato la sua rottura con Marx, nel che ci può essere qualche cosa di vero, in quanto nelle faccende finanziarie Marx era di una sovrana indifferenza, e Ruge di una taccagna sospettosità.  Egli non si peritò di pagare lo stipendio che spettava a Marx, a imitazione del trucksystem (pagamento con merci invece che con denaro, Ndr), con copie degli Jahrbücher, ma si agitò poi moltissimo, dato che non aveva nessuna pratica del commercio librario, quando gli parve che si pretendesse da lui che arrischiasse i suoi averi per continuare la rivista. Comunque, in una situazione del genere, è più facile che Marx abbia accollato a se stesso piuttosto che a Ruge un simile peso. Gli potrà magari aver consigliato di non gettare il fucile alle ortiche subito al primo insuccesso, e Ruge, che già si era «adirato» per l’invito a tirar fuori qualche franco per la stampa degli scritti di Weitling, potrà aver fiutato in questo un attentato alla sua borsa.

Per di più Ruge stesso accenna alla vera causa della rottura quando dà come motivo immediato una lite a proposito di Herwegh, che lui «comunque, forse con eccessiva violenza», aveva definito «un mascalzone», mentre Marx aveva insistito sul suo «grande avvenire». I fatti hanno dato ragione a Ruge: Herwegh non ha avuto un «grande avvenire», e il genere di vita ch’egli conduceva allora a Parigi sembra sia stato effettiva mente molto discutibile; perfino Heine lo ha stigmatizzato severamente, e Ruge ammette che anche Marx non se ne compiaceva molto. Tuttavia, questo magnanimo errore onorava il «mordace» Marx più di quanto l’«onesto» e «nobile» Ruge potesse gloriarsi del suo maligno istinto. Infatti all’uno importava il poeta rivoluzionario, all’altro l’irreprensibile piccolo borghese. Questo era il senso più profondo dell’insignificante incidente che separò per sempre i due. Per Marx la rottura con Ruge non ebbe l’importanza sostanziale che ebbero magari le sue successive spiegazioni con Bruno Bauer o con Proudhon. Come rivoluzionario egli deve essersi adirato parecchie volte con Ruge, prima che il dissidio a proposito di Herwegh, anche se si svolse effettivamente come ce lo descrive Ruge, gli facesse montare la bile.

Se si vuole conoscere Ruge sotto il suo aspetto migliore, bisogna leggere le memorie ch’egli pubblicò venti anni dopo. I quattro volumi giungono fino alla fine dei Deutsche Jahrbucher, fino al periodo cioè in cui la
vita di Ruge fu esemplare per quella avanguardia letteraria di professori e studenti che erano i portavoce di una borghesia che viveva di piccoli traffici e di grandi illusioni. Esse contengono una quantità di quadretti di genere sull’infanzia di Ruge, che era cresciuto nella pianura del Ruge e della Pomerania occidentale, e danno un quadro così vivace del primo periodo delle associazioni studentesche e della infame caccia ai «demagoghi», come non ne esistono altri nella letteratura tedesca. Fu una sventura per esse che uscissero in un momento in cui la borghesia tedesca dava l’addio alle grandi illusioni per dar principio ai grandi affari; così le memorie di Ruge restarono quasi inosservate, mentre un libro dello stesso genere, ma incomparabilmente inferiore non solo dal punto di vista storico, ma anche da quello letterario, il Diario del carcere di Reuter scatenò veri uragani d’applausi. Ruge era stato un vero membro delle Burschenschaften, mentre Reuter era testato al margine, solo per spassarsela: ma alla borghesia .che già luceva gli occhi dolci alle baionette prussiane, l’«aureo umorismo» con cui Reuter scherzava su quell’infame violazione del diritto che era la caccia ai demagoghi, piacque incomparabilmente di più dell’ «umorismo ardito» con cui, secondo l’indovinata espressione di Freiligrath, Ruge riscontrava come quei miserabili non l’avessero spuntata con lui, e come le casematte lo avessero reso libero.

Ma proprio nella vivace narrazione di Ruge si avverte chiaramente che il liberalismo prequarantottesco, nonostante tutte le sue grandi parole non fosse altro che puro filisteismo e che i suoi portavoce alla fin fine dovevano restare sempre dei filistei. Tra questi filistei Ruge era ancora quello più dotato, ed entro i suoi limiti ideologici combatté con sufficiente coraggio. Tuttavia il suo stesso temperamento lo trascinò tanto più rapidamente su posizioni false, quando a Parigi gli si presentarono i grandi contrasti della vita moderna.

Se col socialismo egli si era accomodato come con un gioco di filosofi filantropi, di fronte al comunismo dei circoli operai di Parigi lo colpì il terrore del borghesuccio non soltanto per la propria pelle ma anche per la propria borsa. Se nei Deutsch-Franzòsische Jahrbucher egli aveva consegnato il certificato di morte alla filosofia di Hegel, nel corso dello stesso 1844 egli salutava nel più stravagante rampollo di questa filosofia, cioè nel libro di Stirner, la liberazione dal comunismo, che era la più stupida di tutte le stupidaggini, il nuovo cristianesimo predicato dai semplici e la cui attuazione sarebbe stata una abbietta vita da animali di stalla.

Tra Marx e Ruge non c’era ormai più nulla in comune.

    5.2    ​​​Una prospettiva filosofica

Perciò i Deutsch-Französische Jahrbücher erano nati morti. Se alla lunga, i loro editori non potevano asso lutamente procedere insieme poco importava quando e come essi si sarebbero separati, ed era addirittura preferibile rompere prima piuttosto che poi. Bastava che Marx avesse fatto un grande passo in avanti nella sua «comprensione».

Egli pubblicò nella rivista due articoli: Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, e La questione ebraica, recensione di due scritti di Bauer. Nonostante il campo così diverso dei loro argomenti, essi sono strettamente legati insieme per il loro contenuto di pensiero; se in seguito Marx riassunse la sua critica della filosofia del diritto di Hegel nel fatto che la chiave per la comprensione dello sviluppo storico non sia da ricercare nello Stato, che Hegel apprezza, ma nella società che egli disprezza, ebbene, nel secondo articolo, questo punto è trattato addirittura in maniera più approfondita che nel primo.

Per un altro riguardo i due articoli stanno in rapporto fra loro come mezzo e fine. Il primo dà un abbozzo filosofico della lotta di classe del proletariato, il secondo un abbozzo filosofico della società socialista. Ma né l’uno né l’altro fanno l’impressione di cose improvvisate, anzi mostrano tutte due in una linea rigorosamente logica lo sviluppo spirituale dell’autore. Il primo si riallaccia direttamente a Feuerbach, che aveva portato a termine negli aspetti essenziali la critica della religione, premessa di ogni critica. L’uomo fa la religione, non la religione l’uomo. Ma, così prosegue Marx, l’uomo non è un essere astratto, rimpiattato fuori del mondo. L’uomo è il mondo dell’uomo, lo Stato, la società, che, essendo un mondo a rovescio, producono la religione come coscienza rovesciata del mondo. La lotta contro la religione è quindi indirettamente lotta contro quel mondo di cui la religione è l’aroma spirituale. Così, dopo che è scomparso l’aldilà della verità, il compito della storia consiste nello stabilire la verità di questo mondo. E allora la critica del cielo si tramuta nella critica della terra, la critica della religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica.

Ma per la Germania questo compito storico può essere risolto soltanto dalla filosofia. Se si rinnegano le condizioni della Germania del 1843, secondo la cronologia francese si sta appena al 1789, ancor meno nel punto focale del presente. Se si deve sottoporre a critica la moderna realtà politico-sociale, questa si trova al di fuori della realtà tedesca, oppure la critica afferrerebbe il suo oggetto al di sotto del suo oggetto stesso. Come esempio del fatto che la storia tedesca, come una recluta maldestra, finora non aveva altro compito che di ripetere pappagallescamente storie già fritte e rifritte, Marx si richiama a un «problema fondamentale dell’età moderna», al rapporto dell’industria, o del mondo della ricchezza in generale, col mondo politico.

Questo problema occupa i tedeschi sotto forma di dazi protettivi, di sistema protezionistico, di economia nazionale. In Germania si comincia appena da dove Francia e Inghilterra stanno finendo. La vecchia situazione stagnante contro di cui questi paesi sono teoreticamente in agitazione, e che essi sopportano ancora soltanto come si sopportano delle catene, in Germania è salutata come l’aurora nascente di un bell’avvenire. Mentre in Francia e in Inghilterra il problema è: economia politica, ossia dominio della società sulla ricchezza, in Germania è: economia nazionale, ossia dominio della proprietà privata sulla nazione. Là si tratta già di sciogliere e qui si tratta ancora di fare il nodo.

Ma i tedeschi sono contemporanei della loro epoca, se non sul piano storico, almeno su quello filosofico. La critica della filosofia tedesca del diritto e dello Stato, che ha avuto da Hegel la sua più conseguente sistemazione, porta in mezzo alle questioni scottanti di essa. Qui Marx prende decisamente posizione sia di fronte alle due tendenze che erano state luna accanto all’altra nella Rheinische Zeitung, sia di fronte a Feuerbach. Pur se quest’ultimo aveva messo la filosofia tra i ferri vecchi, Marx diceva che, se ci si voleva ricollegare a veri principi vitali, non si doveva dimenticare che il vero principio vitale del popolo tedesco fino ad allora aveva vissuto soltanto dentro il suo cranio. Ma ai «cavalieri del cotone» e agli «eroi del ferro» egli diceva: avete perfettamente ragione di eliminare la filosofia, ma non la potete eliminare senza attuarla; e ai contrario, al vecchio amico Bruno Bauer e al suo seguito diceva: avete perfettamente ragione di attuare la filosofia, ma non la potete attuare senza eliminarla.

La critica della filosofia del diritto finisce col prospettare compiti per la cui soluzione c’è un solo mezzo: la prassi. Come può la Germania arrivare a una prassi che sia all’altezza del principio, cioè a una rivoluzione che non soltanto la innalzi allo stesso livello dei popoli moderni, ma a quell’altezza umana che sarà l’immediato futuro di questi popoli? Come può superare con un salto mortale non soltanto i suoi propri limiti, ma insieme i limiti dei popoli moderni, che nella realtà essa deve avvertire e aver di mira come liberazione dai propri limiti reali ?

Comunque, l’arma della critica non può sostituire la critica delle armi, il potere materiale deve essere abbattuto con la forza materiale; e del resto, anche la teoria diventa forza materiale non appena essa investe le masse, ad essa investe le masse non appena diventa radicale. Tuttavia, una rivoluzione radicale ha bisogno di un elemento passivo, di una base materiale; la teoria si attua in un popolo sempre soltanto in quanto essa è l’attuazione dei suoi bisogni. Non basta che il pensiero tenda ad attuarsi, bisogna che la realtà stessa si spinga verso il pensiero. Ma per questo pare che manchi ancora qualcosa in Germania, dove le diverse sfere si comportano luna con l’altra non drammaticamente, ma epicamente, dove anzi perfino la consapevolezza del proprio valore nella classe media si fonda soltanto sulla coscienza di essere la rappresentante generale della mediocrità filistea di tutte le altre classi, dove ogni sfera della società civile subisce la sconfitta prima di celebrare la sua vittoria e fa valere la sua ristrettezza prima di poter far valere la sua magnanimità, di modo che ogni classe, prima di cominciare la lotta con la classe che le sta sopra, viene coinvolta nella lotta con quella che le sta sotto.

Tuttavia, con ciò non è dimostrato che in Germania la rivoluzione radicale, universalmente umana è impos sibile, ma soltanto che lo è la rivoluzione a metà, la rivoluzione soltanto politica, la rivoluzione che lascia intatti i pilastri della casa In Germania mancano quelle che sono le condizioni preliminari e cioè, da una par te, una classe che, movendo dalla sua particolare situazione, si accinga all’emancipazione generale della società e liberi tutta la società anche se soltanto presupponendo che tutta la società si trovi nella situazione di questa classe, e possieda, per esempio, denaro o cultura o li possa acquistare a piacimento; dall’altra parte, una classe nella quale si concentrino tutti i difetti della società, una particolare sfera sociale che passi notoriamente come la colpa della società intera, di modo che la liberazione da questa sfera appaia come
la auto liberazione generale. Il significato negativo universale della nobiltà francese e del clero francese condizionò il significato positivo universale della borghesia che era immediatamente accanto e contro ad essi.

Ora Marx, dalla impossibilità della rivoluzione a metà, deduce la «positiva possibilità» della rivoluzione radicale. Alla domanda dove sussista questa possibilità, egli risponde: «Nella formazione di una classe con catene radicali, di una classe della società civile che non è una classe della società civile, di un ceto che è la dissoluzione di tutti i ceti, di una sfera che possiede un carattere universale grazie alle sue sofferen ze universali e che non rivendica nessun diritto particolare perché non si commette su di essa nessuna ingiustizia particolare, ma l’ingiustizia per eccellenza, che non può più rivendicare un titolo storico ma or mai soltanto il titolo umano, che non sta in una contraddizione unilaterale con le conseguenze, ma in una contraddizione universale con le premesse dello Stato tedesco, una sfera infine che non può emanciparsi senza emanciparsi da tutte le altre sfere della società e senza emancipare con ciò tutte le altre sfere; che, in una parola, è la perdita totale dell’uomo, e che insomma può riconquistare se stessa soltanto con la piena riconquista dell’uomo. Questa dissoluzione della società è il proletariato».

Esso cominciava appena a formarsi con l’irrompente movimento industriale per la Germania, perché non la povertà sorta naturalmente, ma la povertà prodotta artificialmente, non la massa umana oppressa meccanicamente dal peso della società, ma quella nascente dalla dissoluzione acuta di essa, preminentemente dalla dissoluzione del ceto medio, formava il proletariato, sebbene a poco a poco, come ben si comprendeva, entrassero nelle sue file anche la povertà naturale e la servitù della gleba cristiano-germanica. Come la filosofia trova nel proletariato le sue armi materiali, così il proletariato trova nella filosofia le sue armi spirituali, ed appena il lampo del pensiero avrà fatto luce in questo ingenuo terreno popolare, si completerà l’emancipazione del tedesco a uomo. L’emancipazione del tedesco è l’emancipazione dell’uomo. La filosofia non può attuarsi senza eliminare il proletariato, il proletariato non può eliminarsi senza attuare la filosofia. Quando saranno adempiute tutte le condizioni interne, il giorno della resurrezione tedesca, sarà annunciato dal canto del gallo francese.

Per la forma e per il contenuto questo articolo sta in primo piano tra i lavori giovanili di Marx che ci sono stati conservati; un rapido schizzo delle linee generali del suo pensiero non può dare nemmeno una lontana idea della prorompente piena di pensieri che egli riesce a costringere in una succosa forma epigrammatica. I professori tedeschi che vi hanno voluto avvertire uno stile lezioso e una assoluta mancanza di gusto non hanno fatto altro che fornire una prova ingloriosa della loro propria leziosaggine e mancanza di gusto. A dire il vero anche Ruge trovava già «troppo artificiosi» gli «epigrammi» dell’articolo; egli biasimava questa
«mancanza e questo eccesso di forma», ma vi scopriva anche un «talento critico, che talvolta si esprime in una dialettica che degenera in un eccessivo sfoggio di bravura». Questo giudizio non è ingiusto. Infatti il giovane Marx qualche volta prendeva già gusto al tintinnio delle sue armi affilate e pesanti. Far sfoggio di bravura è proprio di ogni gioventù geniale.

E ancora, è solo una prospettiva filosofica quella che l’articolo apre per il futuro. Nessuno ha dimostrato in modo più concludente di quanto abbia fatto Marx in seguito, che nessuna nazione può superare con un salto mortale i gradi necessari del suo sviluppo storico. Ma quelli che la sua mano sicura traccia sono contorni non tanto inesatti quanto indeterminati. Nei particolari le cose sono andate altrimenti, ma nel complesso sono andate proprio come lui aveva predetto. Di questo gli dà atto sia la storia della borghesia tedesca che la storia del proletariato tedesco.

    5.3    ​​​«La questione ebraica»

Il secondo articolo che Marx pubblicò nei Deutsch-Französische Jahrbücher non è altrettanto avvincente nella forma, ma è forse anche superiore per la capacità dell’analisi critica. In esso egli studiò la differenza fra l’emancipazione umana e quella politica, sulla base di due studi di Bruno Bauer sul problema ebraico.

Allora questo problema non era ancora sceso alle bassezze dei discorsi anti e fìlosemitici di oggi. Una classe della popolazione che, in quanto portatrice preminente del capitale mercantile e usurarlo, conquistava una potenza sempre maggiore, era privata, a causa della sua religione, di tutti i diritti civili, anche se, a causa dell’usura che praticava, le erano consentiti particolari privilegi; il rappresentante più famoso dell’«assolutismo illuminato», il filosofo di Sanssouci, dette questo edificante esempio, concedendo la «libertà del banchiere cristiano» agli usurai ebrei che lo aiutavano nel falsificare le monete e in altre ambigue ope razioni finanziarie, mentre tollerò appena nel suo Stato il filosofo Moses Mendelssohn, e non perché fosse un filosofo e si occupasse di inserire il proprio popolo nella vita spirituale tedesca, ma perché ricopriva il posto di contabile da uno degli usurai ebrei privilegiati.

Ma anche gli illuministi borghesi — pur con qualche eccezione — non si scandalizzavano troppo del bando dato a una classe della popolazione a causa della sua religione. La religione israelitica ripugnava loro come prototipo dell’intolleranza religiosa, dalla quale il cristianesimo aveva appreso a trafficare con le coscien ze, e gli ebrei stessi non mostrarono il minimo interesse per l’illuminismo borghese. Essi si compiacquero della critica illuministica alla religione cristiana, che loro stessi avevano sempre maledetta, ma gridarono al tradimento dell’umanità quando la stessa critica attaccò la religione ebraica. Così rivendicavano l’emancipazione politica dell’ebraismo, ma non nel senso dell’uguaglianza dei diritti, non con l’intenzione di abbandonare la loro posizione particolare, bensì piuttosto con l’intenzione di consolidarla, sempre pronti ad abbandonare i principi liberali non appena contrastassero un interesse particolare degli ebrei.

La critica della religione esercitata dai Giovani hegeliani si era naturalmente estesa anche all’ebraismo, che essi consideravano come un’anticipazione del cristianesimo. Feuerbach aveva analizzato l’ebraismo come religione dell’egoismo.  «Gli ebrei si sono mantenuti fino ad oggi nella loro particolarità.  Il loro principio, il loro dio è il principio più pratico del mondo: l’egoismo nella forma di religione. L’egoismo raccoglie, concentra l’uomo in se stesso, ma lo rende teoreticamente limitato, perché indifferente a tutto quello che non si riferisce direttamente al benessere dell’Io stesso». Similmente parlava Bruno Bauer, che ripeteva agli ebrei che essi si erano annidati tra le pieghe e nelle fessure della società borghese per sfruttarne gli elementi incerti, simili agli dei di Epicuro, che abitavano negli spazi intermedi del mondo, dove erano dispensati da un lavoro determinato.

Soltanto, se Feuerbach spiegava il carattere della religione ebraica col carattere degli ebrei, Bauer, nono stante la profondità, l’arditezza e la acutezza che Marx lodava nei suoi studi sul problema ebraico, vedeva questo problema ancora attraverso le lenti della teologia. Come i cristiani, così anche gli ebrei potevano aprirsi la via alla libertà soltanto in quanto superassero la loro religione. Lo Stato cristiano non poteva, dato il suo carattere, emancipare gli ebrei, ma anche gli ebrei non potevano essere emancipati dato il loro carattere religioso. Cristiani ed ebrei dovevano cessare di esser cristiani ed ebrei se volevano essere liberi. Ma siccome l’ebraismo in quanto religione era stato sopravanzato dal cristianesimo, l’ebreo aveva una via più dura e più lunga del cristiano per giungere alla libertà. Secondo l’opinione di Bauer, gli ebrei, prima di poter diventare liberi, dovevano passare attraverso il tirocinio del cristianesimo e della filosofia di Hegel.

Marx obiettava che non era sufficiente ricercare chi dovesse emancipare e chi essere emancipato, ma che la critica doveva domandarsi di che genere di emancipazione si trattasse, se della emancipazione politica o di quella umana. Gli ebrei, come i cristiani, in parecchi Stati erano stati emancipati del tutto politicamente, senza essere per ciò emancipati umanamente. Doveva dunque esserci una differenza tra l’emancipazione politica e quella umana.

L’essenza dell’emancipazione politica era lo Stato moderno pienamente evoluto, e questo Stato era anche lo Stato cristiano perfetto, perché lo Stato cristiano-germanico, lo Stato dei privilegi, era soltanto lo Stato incompiuto, ancora teologico, non ancora evolutosi in purezza politica. Lo Stato politico nella sua perfezione suprema non esigeva però né dall’ebreo l’eliminazione dell’ebraismo, né dall’uomo in genere l’eliminazione della religione; esso aveva emancipato gli ebrei e doveva emanciparli secondo la propria essenza. Dove la costituzione dello Stato dichiarava espressamente indipendente dalla fede religiosa il godimento dei diritti politici, si considerava però ugualmente uomo indegno un uomo senza religione. L’esistenza della religione non contraddiceva perciò alla perfezione dello Stato. L’emancipazione politica dell’ebreo, del cristiano, del l’uomo religioso in genere, era l’emancipazione dello Stato dall’ebraismo, dal cristianesimo, dalla religione in generale. Lo Stato poteva liberarsi da un limite, senza che l’uomo ne fosse veramente libero, e qui si vedeva dove s’arrestava l’emancipazione politica.

Ora, Marx sviluppa ulteriormente questo pensiero. Lo Stato in quanto Stato nega la proprietà privata; l’uomo dichiara abolita la proprietà privata sul piano politico appena abolisce il censo per l’elettorato attivo e passivo, come è avvenuto in molti degli Stati liberi del Nordamerica.  Lo Stato abolisce a suo modo la differenza di nascita, di ceto, di cultura, di mestiere, quando dichiara che nascita, censo, cultura, mestiere non sono differenze politiche, quando senza riguardo a queste differenze proclama ugualmente partecipe della sovranità popolare ogni membro del popolo. Cionondimeno lo Stato lascia sussistere la proprietà privata, la cultura, il mestiere al modo loro, cioè come proprietà privata, come cultura, come mestiere, e lascia validità al loro particolare modo d’essere. Ben lungi dall’abolire queste differenze di fatto, esso piuttosto esiste a condizione che esse esistano, si sente piuttosto soltanto come Stato politico e fa valere la sua universalità soltanto in contrasto con questi suoi elementi. Lo Stato politico perfetto è, per il suo modo d’essere, la vita dell’umanità, come specie, in contrasto con la vita materiale. Tutte le premesse di questa vita egoistica sussistono al di fuori della sfera dello Stato nella società civile, ma come proprietà della società civile. Il rapporto dello Stato politico con le sue premesse, e siano pure queste elementi materiali, come la proprietà privata, oppure anche elementi spirituali, come la religione, è il dissidio tra l’interesse privato e quello generale. Il conflitto in cui l’uomo, in quanto professa una particolare religione, si trova coi suoi concittadini, con gli altri uomini in quanto membri della comunità, si riduce alla scissione tra lo Stato politico e la società civile.

La società civile è la base dello Stato moderno, come la schiavitù antica era la base dello Stato antico. Lo Stato moderno riconobbe questa sua origine annunciando i diritti universali dell’uomo, il cui godimento spetta agli ebrei quanto il godimento dei diritti politici. I diritti universali dell’uomo riconoscono l’individuo egoistico, borghese, e lo sfrenato movimento degli elementi spirituali e materiali che costituiscono il con tenuto della sua situazione di vita, il contenuto della odierna vita borghese. Essi non liberano l’uomo dalla religione, ma gli danno libertà di religione; non lo liberano dalla proprietà, ma gli danno libertà di proprietà; non lo liberano dal sudiciume dell’industria, ma gli danno libertà d’industria. La rivoluzione politica ha crea to la società civile frantumando la screziata struttura feudale, tutti i ceti, le corporazioni, le arti che erano altrettante espressioni della separazione del popolo dalla sua comune essenza; ha creato lo Stato politico come situazione universale, come Stato effettivo.

Quindi Marx si riassume: «L’emancipazione politica è la riduzione dell’uomo da una parte a membro della società civile, all’individuo egoistico indipendente, dall’altra al cittadino dello Stato, alla persona morale. Soltanto quando l’uomo concreto, individuale, riprenda in sé l’astratto cittadino dello Stato, e in quanto uomo individuale nella sua vita empirica, nel suo lavoro individuale, nelle sue relazioni individuali, sia divenuto essere appartenente alla specie, soltanto quando l’uomo abbia riconosciuto e organizzato, le proprie forze come forze sociali, e quindi non separi più da sé la forza sociale sotto forma di forza politica, sarà finalmente compiuta l’emancipazione umana».

Restava ancora da provare l’affermazione che il cristiano sia più suscettibile di emancipazione che non l’ebreo, affermazione che Bauer aveva cercato di spiegare con la religione ebraica. Marx si ricollegò a Feuer bach che aveva spiegato la religione ebraica con gli ebrei, e non gli ebrei con la religione ebraica. Soltanto, egli va anche oltre Feuerbach, in quanto accerta anche il particolare elemento sociale che si rispecchia nella religione ebraica. Qual era il fondamento terreno dell’ebraismo? Il bisogno pratico, l’egoismo. Qual era il culto terreno dell’ebreo? L’usura. Quale il suo dio terreno? Il denaro. «Orbene, l’emancipazione dall’usura e dal denaro, cioè dall’ebraismo pratico e concreto, sarebbe l’autoemancipazione del nostro tem po. Un’organizzazione della società, che eliminasse le premesse dell’usura, cioè la possibilità dell’usura, renderebbe impossibile l’ebreo. La sua coscienza religiosa si dissolverebbe come una nebbia sottile nella reale aura vitale della società. D’altra parte, se l’ebreo riconosce li inanità di questa sua natura pratica, e lavora alla sua abolizione, uscendo dalla evoluzione nel quale si trovava finora, senz’altro giunge alla vera e propria emancipazione umana, e si rivolge contro la suprema espressione pratica dell’auto alienazione umana». Marx riconosce nell’ebraismo un elemento universale, attuale, antisociale, che è stato spinto al suo presente livello, nel quale si deve necessariamente dissolvere, dallo sviluppo storico, al quale gli ebrei in questo senso negativo hanno zelantemente collaborato.

Era una duplice conquista quella a cui Marx giungeva con questo articolo. Egli sviscerava il rapporto tra società e Stato. Lo Stato non è, come pensa Hegel, la realtà dell’idea morale, l’assoluto nazionale e l’as soluto fine a se stesso, ma deve accontentarsi del compito incomparabilmente più modesto di proteggere l’anarchia della società civile che lo ha posto a farle da guardiano: la lotta universale dell’uomo contro l’uo mo, dell’individuo contro l’individuo, la guerra reciproca di tutti gli individui separati gli uni dagli altri ormai soltanto per la propria individualità, l’universale movimento sfrenato delle forze vitali elementari liberate delle catene feudali, la schiavitù effettiva, anche se con l’apparenza di libertà e indipendenza dell’individuo, il quale crede di riconoscere la propria libertà nel movimento sfrenato dei suoi elementi vitali alienati, pro prietà, industria, religione, mentre esso è piuttosto il suo pieno asservimento e la sua piena privazione di umanità.

Ma poi Marx aveva riconosciuto che le questioni religiose del giorno avevano ormai soltanto un’importanza sociale. Lo sviluppo dell’ebraismo egli lo additava non nella teoria religiosa, ma nella prassi industriale e commerciale, che trova nella religione ebraica un riflesso fantastico. L’ebraismo pratico non è altro che il mondo cristiano perfetto. Dato che la società civile ha un carattere assolutamente ebraico-commerciale, l’ebreo le appartiene necessariamente e può rivendicare l’emancipazione politica come il godimento degli universali diritti dell’uomo. Tuttavia la emancipazione umana è una nuova organizzazione delle forze sociali, che rende l’uomo padrone delle sue fonti di vita; compare qui, in contorni indefiniti, l’immagine della società socialista.

Nei Deutsch-Französische Jahrbücher egli arava ancora nel campo della filosofia, ma nei solchi tracciati dal suo aratro critico germogliavano i semi di una concezione materialistica della storia che, alla luce della civiltà francese, crescevano rapidamente in spighe.

    5.4    ​​​Civiltà francese

Dato il modo in cui Marx lavorava, è molto probabile che egli avesse abbozzato nelle loro linee generali ì due articoli sulla filosofia del diritto di Hegel e sulla questione ebraica quando ancora viveva in Germania, nei primi mesi del suo felice matrimonio. Ma se essi già gravitavano attorno alla grande rivoluzione francese, tanto più era ovvio che Marx si sprofondasse nella storia di questa rivoluzione non appena il suo soggiorno a Parigi gli consentisse di studiare le fonti di essa e insieme le fonti sia della sua preistoria, cioè il materialismo francese, sia dei suoi sviluppi, cioè il socialismo francese.

Allora Parigi poteva vantarsi a buon diritto di marciare alla testa della civiltà borghese. Nella rivoluzione del luglio 1830 la borghesia francese, dopo una serie di illusioni e di catastrofi che hanno il peso di avvenimenti storici mondiali, aveva consolidato quanto aveva acquistato nella grande rivoluzione del 1789. I suoi talenti si dispiegavano a loro agio, ma quando la resistenza delle antiche forze era ancor lontana dall’esser spez zata, si annunciarono nuove forze, e la guerra degli ingegni divampò in un’incessante vicenda, quale non sera mai vista in Europa e tanto meno nella Germania sepolta nel suo silenzio di tomba.

In queste onde vivificanti Marx si lanciò a capofitto. Nel maggio 1844 Ruge scriveva a Feuerbach, non con l’intenzione di lodare, ma appunto perciò tanto più persuasivamente, che Marx leggeva moltissimo e lavorava con enorme intensità, ma che non portava a termine nulla, interrompeva tutto e si precipitava sempre di nuovo in uno sterminato mare di libri. Era eccitato e impetuoso, soprattutto quando aveva lavorato fino allo sfinimento e non era andato a dormire per tre o quattro notti di seguito. Aveva abbandonato la critica della filosofia di Hegel e voleva sfruttare il suo soggiorno a Parigi per scrivere, cosa che Ruge trovava molto giusta, una storia della Convenzione, per la quale aveva raccolto materiale e fatto osservazioni molto profonde.

Marx non scrisse la storia della Convenzione, ma non per questo restano smentite le notizie di Ruge, che sono anzi tanto più credibili. Quanto più profondamente Marx penetrava nella essenza storica della rivoluzione del 1789, tanto più poteva rinunciare alla critica della filosofia di Hegel come mezzo per la «comprensione» delle lotte e dei desideri dell’epoca, ma tuttavia tanto meno poteva accontentarsi della storia della Convenzione, che aveva rappresentato, sì, un massimo di energia politica, di potere politico e di intelligenza politica, ma che si era dimostrata impotente di fronte all’anarchia sociale.

Purtroppo, eccettuate le parche notizie di Ruge, non si è conservata nessuna testimonianza sulla base della quale si possano dedurre nei particolari le attività di studio di cui Marx si occupò nella primavera e nell’estate del 1844. Ma nell’insieme si può ben stabilire come sono andate le cose. Lo studio della rivoluzione francese portò Marx a quella letteratura storica del «terzo stato» che era sorta sotto la restaurazione borbonica ad opera di notevoli ingegni, volti a indagare l’esistenza storica della loro classe su su fino al secolo XI, e a raffigurare la storia francese dal Medioevo in poi come una serie ininterrotta di lotte di classe.

A questi storici — ed egli nomina espressamente Guizot e Thierry — Marx deve la cognizione della natura storica delle classi e delle loro lotte, la cui anatomia economica egli apprese poi dagli economisti borghesi, tra i quali egli nomina espressamente Ricardo. Egli stesso negò sempre di aver scoperto la teoria della lotta di classe; quello che egli rivendicava a sé era soltanto di aver dimostrato che l’esistenza delle classi è legata a determinate lotte storiche di sviluppo della produzione, che la lotta di classe porta necessariamente alla dittatura del proletariato e che questa dittatura stessa non costituisce altro che il passaggio all’eliminazione di tutte le classi e a una società senza classi. Questo nesso di pensieri si è sviluppato in Marx durante l’esilio di Parigi.

L’arma più splendente e più acuta con cui il «terzo stato» lottò contro le classi dominanti era stata nel secolo decimottavo la filosofia materialistica. E anche questa Marx studiò con ardore durante il suo esilio parigino, ma delle sue due correnti studiò meno quella che partiva da Descartes e si perdeva nelle scienze naturali, che quella che si ricollegava a Locke e sboccava nella scienza sociale. Helvetius e Holbach, che avevano trasferito il materialismo nella vita sociale, e che avevano messo al centro dei loro sistemi l’ugua glianza naturale delle intelligenze umane, l’unità tra il progresso della ragione e il progresso dell’industria, la naturale bontà dell’umanità, l’onnipotenza dell’educazione, furono anch’essi stelle che illuminarono i lavori parigini del giovane Marx. Egli battezzò la loro dottrina col nome di «umanesimo positivo», come aveva anche battezzato la filosofia di Feuerbach; soltanto, il materialismo degli Helvetius e degli Holbach era divenuto la «base sociale del comunismo».

Per studiare il comunismo e il socialismo, come Marx aveva già annunciato nella Rheinische Zeitung, Parigi offriva proprio la migliore delle occasioni. Quel che si offerse qui ai suoi sguardi era un quadro di una pienezza di pensieri e di figure quasi sconcertante. L’aria culturale era satura di germi socialisti, e nemmeno il Journal des Débats, il classico foglio dell’aristocrazia finanziaria dominante, che era sostenuto dal governo con un considerevole contributo annuo, si poteva sottrarre a questa corrente, anche se si limitava a pubblicare nella sua appendice i pseudosocialisti romanzi d’avventure di Eugène Sue. Formavano il polo opposto a questo pensatori geniali come Leroux, generati già dal proletariato. Nel mezzo cerano i resti dei sansimonisti e l’attiva setta dei fourieristi, che aveva in Considérant il suo capo e nella Démocratie pacifique il suo organo, socialisti cristiani, come il prete cattolico Lamennais o l’antico carbonaro Buchez, socialisti piccolo-borghesi, come Sismondi, Buret, Pecqueur, Vidal, e non ultima anche la letteratura, nelle cui creazioni spesso eminenti, come i canti di Béranger o i romanzi di George Sand, giocavano luci e ombre socialiste.

Era caratteristico, però, di tutti questi sistemi socialisti contare sull’accortezza e la benevolenza delle classi possidenti, che per mezzo di una propaganda pacifica avrebbero dovuto essere convinte della necessità di riforme o di rivolgimenti sociali. Sorti essi stessi dalle delusioni della grande rivoluzione, sdegnavano la via politica che aveva portato a queste delusioni; bisognava aiutare le masse oppresse, poiché esse non erano in grado di aiutarsi da sé. Le rivolte operaie del quarto decennio del secolo erano fallite, e in realtà i loro uomini più decisi, come Barbès e Blanqui, non avevano conosciuto né una teoria socialista né determinati mezzi pratici per un rivolgimento sociale.

Soltanto per questo il movimento operaio cresceva tanto più rapidamente, e Heinrich Heine definiva con sguardo profetico il problema che ne sorgeva, quando diceva: «I comunisti sono l’unico partito in Francia che meriti una decisa considerazione. Io rivendicherei sia per i resti del sansimonismo, i cui seguaci sono sempre in vita sotto strane etichette, sia per i fourieristi, che sono ancora freschi ed attivi, la stessa attenzione, ma questi uomini onorati li muove solo la parola, il problema sociale come problema, il concetto tramandato, ed essi non sono spinti da necessità demoniaca, non sono i ministri predestinati per mezzo dei quali la suprema volontà del mondo attua le sue grandi decisioni. Prima o poi la famiglia dispersa di Saint-Simon e tutto lo stato maggiore dei fourieristi passerà all’esercito sempre crescente del comunismo e, dando al rozzo bisogno la parola creatrice, si assumerà la parte che già ebbero i padri della Chiesa». Così scriveva Heine il 15 giugno 1843, e non era ancora passato un anno, quando arrivò a Parigi l’uomo che doveva compiere quello che Heine, nel suo linguaggio poetico, chiedeva ai sansimonisti e ai fourieristi, dare al rozzo bisogno la parola creatrice.

Probabilmente già in terra tedesca, e in ogni caso muovendo ancora da considerazioni filosofiche, Marx si era dichiarato contro la costruzione del futuro e la sistemazione definitiva una volta per tutte, contro lo spie gamento di una bandiera dogmatica, contro la posizione del crasso socialismo, secondo cui l’occuparsi di questioni politiche sarebbe al di sotto di ogni decoro. E se egli aveva pensato che non bastasse che il pensiero andasse verso la realtà, ma che la realtà dovesse essa stessa andare verso il pensiero, anche questa condizione si adempì in lui. Da quando, nel 1839, era stata repressa l’ultima insurrezione operaia, movimento operaio e socialismo cominciarono ad avvicinarsi in tre correnti.

Anzitutto nel partito democratico-socialista. Il suo socialismo era alquanto mal combinato, poiché esso si componeva di elementi piccolo-borghesi e proletari, e le parole d’ordine che esso scriveva sulla sua ban diera — organizzazione del lavoro e diritto al lavoro — erano utopie piccolo-borghesi, che non si potevano attuare nella società capitalistica. In questa il lavoro è organizzato come deve essere organizzato date le condizioni di vita di questa società, cioè sulla base del lavoro salariato, che presuppone il capitale e che può essere eliminato soltanto insieme col capitale. Non altrimenti stanno le cose col diritto al lavoro, che si può attuare soltanto attraverso la proprietà comune degli strumenti di produzione, cioè attraverso l’elimi nazione della società borghese, alle cui radici i capi di questo partito, Louis Blanc, Ledru-Rollin, Ferdinand Flocon, si rifiutavano solennemente di porre l’accetta. Essi non volevano essere né comunisti né socialisti.

Ma per quanto le mete sociali di questo partito fossero utopistiche, tuttavia esso compiva un progresso decisivo, in quanto entrava nella strada politica che conduceva ad esse. Esso dichiarava che senza riforma politica era impossibile ogni riforma sociale, e che la conquista del potere politico era l’unica leva con cui le masse oppresse potevano salvarsi. Esso chiedeva il suffragio universale, e questa rivendicazione trovava un’eco potente tra il proletariato, che, stanco dei colpi di mano e delle congiure, cercava armi più efficaci per la sua lotta di classe.

Schiere anche maggiori si riunivano sotto la bandiera del comunismo operaio, innalzata da Cabet. Egli era stato in origine giacobino, ma si era convertito al comunismo attraverso la via della letteratura, ed esatta mente attraverso Utopia di Tommaso Moro. Egli lo professava tanto apertamente quanto apertamente lo ripudiava il partito democratico-socialista, ma era d’accordo con questo in quanto riteneva che la democra zia politica fosse uno stadio di passaggio necessario. Per questo il Voyage en Icarie, in cui Cabet tratteggiò la società del futuro, fu incomparabilmente più popolare delle geniali fantasie avveniristiche di Fourier, con le quali del resto, col suo procedere asmatico, era ben lungi dal potersi commisurare.

Infine dal grembo del proletariato si levavano chiare voci che annunziavano senza ambiguità che questa classe cominciava a divenire maggiorenne. Marx conobbe Leroux e Proudhon, ambedue appartenenti, in quanto tipografi, alla classe operaia, sin dai tempi della Rheinische Zeitung, e sin da allora si era ripromesso di studiare a fondo i loro scritti. E tanto più ciò gli veniva fatto, in quanto sia Leroux che Proudhon tentavano di riallacciarsi alla filosofia tedesca, tutte due a dire il vero, con gravi incomprensioni. Quanto a Proudhon, Marx stesso ha affermato di aver cercato di illuminarlo sulla filosofia hegeliana, con lunghe conversazioni durate spesso tutta la notte. Ed essi giunsero su posizioni comuni, per risepararsi poi di nuovo; ma, dopo la morte di Proudhon, Marx ha spontaneamente riconosciuto il grande impulso dato dai suoi primi scritti, e che, indubbiamente egli stesso aveva avvertito. Nel primo scritto di Proudhon, che, accantonando tutte le utopie, sottoponeva la proprietà privata, come causa di tutto il male sociale, a una critica radicale e senza riguardi, Marx vide il primo manifesto scientifico del proletariato moderno.

Tutte queste correnti portavano alla fusione tra il movimento operaio e il socialismo, ma, a quel modo che esse erano in contraddizione luna con l’altra, così ciascuna si smarriva dopo i primi passi in nuove contrad dizioni. Ora per prima cosa a Marx, dopo lo studio del socialismo, importava lo studio del proletariato. Nel luglio 1844 Ruge scriveva a un comune amico in Germania: «Marx si è buttato a studiare il comunismo tedesco di qui dal punto di vista sociale, s’intende, perché da quello politico è impossibile che trovi impor tante questa meschina agitazione. Una ferita così piccola come sono in grado di procurare gli artigiani e poi questi altri quattro gatti conquistati qui, la Germania la può sopportare senza troppe medicine». Ben presto Ruge doveva essere erudito sul perché Marx trovasse importante l’agitarsi di quei quattro gatti di artigiani.

    5.5    ​​​Il «Vorwärts» e l’espulsione

Sulla vita privata di Marx nel suo esilio di Parigi non si hanno troppe notizie. La moglie gli donò la prima figlioletta e tornò poi in patria per farla conoscere ai parenti. Con gli amici di Colonia egli continuò a mantenersi in relazione; con un’offerta di mille talleri essi contribuirono notevolmente a far sì che quell’anno fosse così fecondo per Marx.

Marx era in stretti rapporti con Heinrich Heine, ed è anche merito suo se l’anno 1844 segnò un punto particolarmente felice nella vita di questo poeta. Il Racconto d’inverno e il Canto dei tessitori, e così pure le satire immortali sui despoti tedeschi, li ha tenuti a battesimo Marx. Egli fu in relazione col poeta soltanto pochi mesi, ma gli ha mantenuto fede anche quando le urla dei filistei risanarono contro Heine anche più alte che contro Herwegh; Marx ha perfino magnanimamente taciuto quando Heine, dal suo letto di malato, lo citò, contro la verità, come testimone della insospettabilità della pensione annua che il poeta aveva avuto dal ministero Guizot. Marx, che, ancora ragazzo, aveva mirato sia pur transitoriamente all’alloro poetico, conservò sempre una viva simpatia per la corporazione dei poeti, e molta indulgenza per le loro piccole debolezze. Pensava certo che i poeti sono degli strani originali che bisognava lasciare andare per la loro strada, che non si potevano misurare con la misura degli uomini comuni e anche non comuni; volevano essere adulati quando dovevano cantare; non era il caso di affrontarli con una critica tagliente.

In Heine, però, Marx vedeva non soltanto il poeta, ma anche il lottatore. Nella polemica tra Börne e Heine, che in quel periodo era divenuta una specie di pietra di paragone degli intelletti, egli si schierò decisamente per Heine. Egli pensava che in nessun periodo della letteratura tedesca si era ancora mai vista un’accoglienza più balorda di quella che lo scritto di Heine su Börne aveva avuto da parte degli asini cristiano-germanici, sebbene in nessun periodo fossero mancati i balordi. Marx non si lasciò mai ingannare dal chiasso sul presunto tradimento di Heine, dal quale perfino Engels e Lassalle, l’uno e l’altro, a dire il vero, in giovanissima età, si erano lasciati turbare. «Ci bastano pochi segni per capirci », gli scrisse una volta Heine, per scusare gli « illeggibili scarabocchi» della sua scrittura, ma l’espressione aveva un senso più profondo di quello esteriore a cui egli accennava.

Marx era ancora sui banchi di scuola quando, nel 1834, Heine già scopriva che lo «spirito di libertà» della nostra letteratura classica si esprimeva «tra i dotti, i poeti e i letterati molto meno» che «tra le grandi masse operose, tra gli artigiani e gli operai», e dieci anni dopo, al tempo in cui Marx viveva a Parigi, egli scopriva che i «proletari nella loro lotta contro la situazione esistente » avevano «come guida degli intelletti più avanzati, i grandi filosofi». La libertà e la sicurezza di questo giudizio si comprendono appieno quando si considera che nel frattempo Heine riversava la più mordace derisione sul continuo chiacchierar di politica nelle piccole conventicole di esuli, nelle quali Börne faceva la parte del grande odiator dei tiranni. Heine riconosceva che erano due cose del tutto diverse se era Börne o Marx a occuparsi di quei «quattro gatti di artigiani».

Quello che lo legava a Marx era lo spirito della filosofia tedesca e lo Spirito del socialismo francese, era l’avversione radicale contro la poltroneria cristiano-tedesca, il falso germanesimo che modernizzava un po’ le sue parole d’ordine radicali l’aspetto dell’antica follia tedesca. I Massmann e i Venedey, che continuavano a vivere nella satira di Heine, camminavano proprio sulle orme di Börne, per quanto questi stesse al di sopra di loro per intelligenza e per spirito. Ma a costui mancava ogni;»usto per l’arte, ogni intelligenza della filosofia, conformemente alla sua frase famosa secondo cui Goethe sarebbe stato un servo in versi e Hegel un servo in prosa1, ma quando egli ruppe con le grandi tradizioni della storia tedesca, non acquistò però un rapporto di parentela spirituale con le nuove potenze culturali dell’Europa occidentale. Heine invece non poteva rinunciare a Goethe e a Hegel senza perdere se stesso, e si buttò sul socialismo francese con grande ardore, come su una nuova fonte di vita spirituale. I suoi scritti vivono ancora e vivranno; essi eccitano ancor oggi l’ira dei nipoti, così come hanno eccitato l’ira degli ivi, mentre gli scritti di Börne sono dimenticati, molto meno per colpa del «fiacco ritmo» del suo stile che per il loro contenuto. Di fronte alle pettegole indiscrezioni che Börne aveva già diffuso sul conto di Heine, quando stavano ancora tutte due spalla a spalla, e che gli eredi letterari di Börne sono stati tanto poco intelligenti da pubblicare tra i suoi scritti postumi, Marx pensava di non essersi ancora immaginato un Börne così scipito, insulso e meschino. Non perciò Marx avrebbe dubitato del carattere incontrastabilmente onesto di quel pettegolo, se avesse scritto sulla polemica com’era sua intenzione. Non si trovano facilmente nella vita pubblica gesuiti peggiori di quei radicali limitati e adoratori della lettera, che nel logoro mantello della loro virtuosità non arretrano di fronte a nessuna insinuazione contro spiriti più acuti e più liberi, ai quali è dato di svelare i più profondi nessi della vita storica. Marx è stato sempre dalla parte di questi, mai di quegli altri, tanto più che conosceva a fondo per esperienza personale la loro razza virtuosa.

Più avanti negli anni, Marx ha parlato di «aristocratici russi» che durante il suo esilio a Parigi lo avevano portato in palma di mano, aggiungendo comunque che non era cosa da valutar troppo. L’aristocrazia russa veniva educata nelle università tedesche, e passava a Parigi la sua giovinezza. Essa tendeva sempre agli estremi che l’occidente forniva; ma questo non impediva a quegli stessi russi di diventare dei manigoldi non appena entravano al servizio dello Stato. Pare che Marx pensasse al conte Tolstoi, agente segreto del governo russo, o a qualcun altro del genere; ma non aveva e non poteva aver di mira l’aristocratico russo sul cui sviluppo spirituale egli esercitava in quel tempo un notevole influsso: cioè Mikhail Bakunin. Questo influsso Bakunin lo ammetteva ancora quando le loro due strade si erano già da tempo separate; anche nella polemica tra Marx e Ruge, Bakunin prese decisamente partito per Marx contro Ruge, che era stato suo protettore fino a quel momento.

Questa polemica divampò ancora una volta nell’estate del 1844, e ormai pubblicamente. Dal capodanno del 1844 usciva a Parigi, due volte alla settimana, il Vorwärts, la cui origine non fu una delle più pulite. Un certo Heinrich Bornstein, che si occupava di teatro e di altri affari di pubblicità del genere, lo aveva fondato per i fini della sua attività commerciale, e invero con un discreto sussidio offertogli dal compositore Meyerbeer; sappiamo anzi, grazie a Heine, quanto questo regio direttore d’orchestra prussiano, che viveva di preferenza a Parigi, smaniasse per procurarsi la più intensa reclame e quanto dovesse contarci. Ma, da consumato uomo d’affari, Bornstein rivestì il Vorwärts di un manto patriottico e ne affidò la direzione a Adalbert von Bornstedt, ex ufficiale prussiano e ormai spia internazionale, che era sia «confidente» di Metternich che agente pagato dal governo di Berlino. In realtà i Deutsch-Französische Jahrbücher, subito al loro apparire, furono salutati dal Vorwärts con una salva d’ingiurie, delle quali è difficile dire se fossero più idiote o più volgari.

Ciò nondimeno, l’affare non doveva riuscir bene. Bornstein, nell’interesse di una fabbrica di traduzioni in serie, messa su da lui per fornire con incredibile disinvoltura le novità della scena parigina alle imprese teatrali tedesche, doveva cercare di soppiantare i drammaturghi giovani-tedeschi nel favore dei benpensanti che si atteggiavano ormai a ribelli, e per raggiungere questo scopo dovette prendere un atteggiamento di «moderato progresso» e rinunciare alle posizioni «ultra» non soltanto a sinistra ma anche a destra. Nella stessa necessità si trovava Bornstedt, se non voleva insospettire i circoli degli emigrati, il libero accesso ai quali era condizione preliminare per poter ricevere il prezzo del suo sporco mestiere. Soltanto, il governo prussiano era così accecato da non comprendere le stesse necessità della propria salvezza, e proibì il Vorwàrts nei suoi territori, dopo di che altri governi tedeschi fecero lo stesso.

E allora, al principio di maggio, Bornstedt abbandonò il gioco ormai senza prospettive di successo, ma non così fece Bornstein. Egli voleva fare i suoi affari, in un modo o nell’altro, e col sangue freddo di uno speculatore consumato si disse che il Vorwàrts, una volta che doveva esser proibito in Prussia, doveva avere anche tutto l’aroma di un giornale proibito, in modo che per il borghesuccio prussiano valesse la pena di riceverlo per vie proibite. Fu perciò per lui una manna quando quella giovane testa calda di Bernays gli offrì per il Vorwàrts un articolo pepato, e dopo qualche scaramuccia Bernays ebbe la direzione del giornale al posto di Bornstedt. Ormai anche altri emigrati lavoravano al giornale, data la totale mancanza di un altro organo, indipendentemente dalla redazione e ciascuno sotto la propria responsabilità.

Tra i primi si trovò anche Ruge. Anche luì da principio sostenne qualche scaramuccia con Bornstein fir mando col proprio nome, e, come se fosse ancora del tutto d’accordo con Marx, difese i suoi articoli usciti sui Deutsch-Französische Jahrbücher. Un paio di mesi dopo pubblicò due nuovi articoli, alcune brevi an notazioni sulla politica prussiana e un lungo articolo sulla dinastia prussiana, nella quale si parlava del «re beone», della «regina zoppicante», del loro matrimonio «puramente spirituale» e così via, ma tutte due non più firmati col suo nome, ma firmati «Un prussiano», il che faceva pensare a Marx come loro autore. Ruge era consigliere comunale di Dresda e come tale era registrato alla ambasciata sassone a Parigi; Bernays era del Palatinato renano bavarese, e Bornstein, che poi visse molto in Austria, ma mai in Prussia, era nativo di Amburgo.

A che cosa Ruge mirasse con quella firma dei suoi articoli che confondeva le idee, non si può stabilire oggi. Nel frattempo, come dimostrano le sue lettere ai suoi amici e ai suoi parenti, era passato a un odio rabbioso contro Marx, «volgarissimo individuo» ed «ebreo svergognato», ed è anche indiscutibile che due anni dopo in una contrita supplica al ministro prussiano degli interni tradì i suoi compagni d’esilio a Parigi e contro coscienza accollò a questi «giovani indefinibili» i peccati che egli stesso aveva commesso nel Vorwärts. Ma è tuttavia possibile che Ruge, per dare maggiore efficacia agli articoli che trattavano di affari prussiani, li abbia fatti passare come scritti da un prussiano. Ma agì con una leggerezza estrema, e fu comprensibilissimo che Marx si affrettasse a parare il colpo del preteso «prussiano».

Naturalmente lo fece in maniera molto dignitosa. Si ricollegò a quel paio di osservazioni per così dire concrete di Ruge sulla politica prussiana e si sbrigò del lungo articolo sulla dinastia prussiana con questa nota a pie di pagina, che egli appose alla sua replica: «Motivi particolari mi inducono a dichiarare che il presente articolo è il primo che io ho fatto pervenire al Vorwàrts». Per il momento restò anche l’ultimo.

Quanto all’argomento, si trattava dell’insurrezione dei tessitori slesiani del 1844, che Ruge aveva trattato come cosa indifferente: le era mancata l’anima politica, e senza un’anima politica una rivoluzione sociale era impossibile. Quello che Marx ribatteva, nella sostanza lo aveva già detto nella Questione ebraica. Il potere politico non può sanare nessun male sociale, perché lo Stato non può abolire situazioni di cui esso è il prodotto. Marx si volgeva duramente contro l’utopismo, dicendo che il socialismo non si può attuare senza rivoluzione, ma non meno duramente si volgeva contro il blanquismo, spiegando che l’intelletto po litico inganna l’istinto sociale quando cerca di farsi avanti per mezzo di piccoli vani colpi di mano. Marx delineava con acutezza epigrammatica l’essenza della rivoluzione: «Ogni rivoluzione dissolve l’antica so cietà; in questo essa è sociale. Ogni rivoluzione rovescia l’antico potere; in questo essa è politica». La rivoluzione sociale con un’anima politica, come Ruge pretende, non aveva senso, mentre era. razionale una rivoluzione politica con un’anima sociale. La rivoluzione in generale — il rovesciamento del potere co stituito e la dissoluzione degli antichi rapporti — era un atto politico. Il socialismo aveva bisogno di questo atto politico, in quanto aveva bisogno della distruzione e della dissoluzione. Ma dove cominciava la sua attività organizzatrice, dove comparivano il suo fine ultimo e la sua anima, il socialismo buttava via il suo velo politico.

Se con questi pensieri Marx si ricollegava alla Questione ebraica, l’insurrezione dei tessitori slesiani aveva presto confermato quanto egli aveva detto sulla fiacchezza della lotta di classe in Germania. C’era più comunismo ora nella Kölnische Zeitung che prima nella Rheinische Zeitung, gli aveva scritto da Colonia il suo amico Jung; essa apriva una sottoscrizione per le famiglie dei tessitori caduti o arrestati; per lo stesso scopo, ad un pranzo d’addio al presidente del governo, erano stati raccolti tra i più alti funzionari e tra i più ricchi commercianti della città cento talleri; dappertutto tra la borghesia c’era simpatia per i pericolosi ribelli; «quella che pochi mesi fa era per essi una idea ardita e del tutto nuova, ha acquistato quasi la certezza del luogo comune». Marx faceva valere la universale presa di posizione a favore dei tessitori contro la sottovalutazione dell’insurrezione fatta da Ruge, «ma la scarsa resistenza della borghesia a tendenze e idee sociali» non lo illudeva minimamente. Egli prevedeva che il movimento operaio avrebbe soffocato le antipatie e le contraddizioni politiche entro le classi dominanti, e che avrebbe attirato su di sé tutta l’ostilità della politica appena avesse acquistato una forza decisa. Marx svelava la profonda differenza tra l’eman cipazione borghese e l’emancipazione proletaria, indicando in quella il prodotto del benessere sociale, in questa il prodotto della miseria sociale. L’isolamento dalla comunità politica, dallo Stato era la causa della rivoluzione borghese, l’isolamento dall’umanità, dalla vera comunità degli uomini, era la causa della rivo luzione proletaria. Come l’isolamento da questa era incomparabilmente più universale, più insopportabile, più terribile, più contraddittorio dell’isolamento dalla comunità politica, così la sua eliminazione, anche come fenomeno parziale, come nella insurrezione dei tessitori slesiani, era tanto più infinita quanto l’uomo è più infinito del cittadino e la vita umana della vita politica.

Da qui risulta che Marx giudicava questa insurrezione in maniera del tutto diversa da Ruge. «Anzitutto ci si ricordi del canto dei tessitori, di questa audace parola d’ordine di lotta, in cui il proletariato grida subito la sua opposizione alla società della proprietà privata, in maniera evidente, acuta, ardita, possente. L’insurrezione slesiana comincia proprio di là dove terminano le insurrezioni francese ed inglese, con la coscienza della natura del proletariato. Gli avvenimenti stessi hanno questo carattere di superiorità. Non soltanto si distruggono le macchine, queste rivali degli operai, ma anche i libri contabili, questi titoli di
proprietà, e mentre tutti gli altri movimenti si rivolsero inizialmente soltanto contro i signori dell’industria, cioè contro il nemico visibile, questo movimento si rivolge nello stesso tempo contro il banchiere, cioè contro il nemico nascosto. Infine nessuna insurrezione operaia inglese è stata condotta con uguale valore, ponderazione e resistenza».

Facendo seguito a questo, Marx ricordava gli scritti geniali di Weitling, che per l’aspetto teorico spesso su peravano quelli dello stesso Proudhon, di tanto di quanto gli rimanevano addietro per l’esecuzione. «Dove mai potrebbe la borghesia — compresi i suoi filosofi e i suoi dotti — mostrare un’opera concernente l’eman cipazione della borghesia, cioè l’emancipazione politica, che sia all’altezza delle Garanzie dell’armonia e della libertà di Weitling ? Se si confronta la insulsa, meschina mediocrità della letteratura politica tedesca con questo enorme e brillante debutto degli operai tedeschi; se si confrontano questi giganteschi stivali delle sette leghe del proletariato con la piccolezza delle logore scarpe politiche della borghesia, si deve presagire che questo paria tedesco farà molta strada». Marx dice che il proletariato tedesco è il teorico del proletariato europeo, come il proletariato inglese è il suo economista e il proletariato francese il suo politico.

Quel che egli dice sugli scritti di Weitling è stato confermato dal giudizio dei posteri. Erano per il suo tempo lavori geniali, tanto più geniali in quanto il lavorante sarto tedesco aveva aperto la strada, ancor prima di Louis Blanc, Cabet e Proudhon, all’intesa tra il movimento operaio e il socialismo. Più strano appare oggi quanto Marx dice sai significato storico dell’insurrezione dei tessitori slesiani. Egli le attribuisce tendenze che certamente le sono state del tutto estranee, e sembra che Ruge abbia valutato molto più esattamente la ribellione dei tessitori come una semplice insurrezione per fame, priva di un più profondo significato. Tuttavia, come nella loro precedente polemica a proposito di Herwegh, si mostrò anche qui, e in modo anche più lampante, che tutto il torto dei filistei di fronte al genio consiste nell’aver ragione. Solo che alla fin fine un grande cuore riporta sempre la vittoria su di un piccolo intelletto !

Quei «quattro gatti di artigiani» che Ruge guardava sdegnosamente dall’alto in basso, mentre Marx li stu diava con impegno, erano organizzati nella Lega dei Giusti, che si era sviluppata nel quarto decennio del secolo in collegamento con le società segrete francesi, e nella cui ultima disfatta del 1839 era stata coinvol ta. La cosa era stata per essa salutare in quanto i suoi elementi dispersi non soltanto erano tornati a riunirsi nell’antico centro di Parigi, ma avevano anche diffuso la Lega in Inghilterra e in Svizzera, dove la libertà di riunione e di associazione le offriva un campo più vasto, di modo che queste propaggini si svilupparono più potentemente del vecchio ceppo. L’organizzazione parigina era sotto la direzione di Hermann Ewerbeck, di Danzica, che, come aveva tradotto in tedesco l’utopia di Cabet, così era tuttora impigliato nell’utopismo moraleggiante di Cabet. Weitling, che guidava l’agitazione nella Svizzera, gli si dimostrò intellettualmente superiore, ed Ewerbeck era superato almeno in decisione rivoluzionaria anche dai capi della Lega di Londra, l’orologiaio Josef Moli, il calzolaio Heinrich Bauer, e Karl Schapper, un ex studente di silvicultura, che tirava avanti ora facendo il tipografo, ora l’insegnante di lingue.

Marx deve aver sentito parlare della «impressione di forza » che facevano questi «tre veri uomini» per la prima volta da Friedrich Engels, che gli fece visita a Parigi, dov’era di passaggio, nel settembre del 1844 e trascorse dieci giorni con lui. Ora essi trovarono pienamente confermato l’accordo dei loro pensieri, già rivelatosi nella loro collaborazione ai Deutsch-Franzòsische Jahrbucher. Nel frattempo il loro vecchio amico Bruno Bauer si era volto contro questa concezione in una rivista letteraria da lui fondata, e la sua critica giunse a loro conoscenza proprio mentre erano insieme. Essi decisero immediatamente di rispondergli, ed Engels buttò subito giù quello che aveva da dire. Ma Marx, secondo il suo solito, affrontò la cosa più a fondo di quanto non fosse stato originariamente previsto, e con un lavoro accanito durante i mesi seguenti scrisse venti fogli di stampa finiti i quali, nel gennaio 1845, finì anche il suo soggiorno a Parigi.

Da quando aveva assunto la direzione del Vorwärts, Bernays prese direttamente di petto i «balordi cristiano-germanici» di Berlino, e non si peritò nemmeno di commettere reati di «lesa maestà». Specialmente Heine lanciava le sue frecce incendiarie, una dietro l’altra, contro il «nuovo Alessandro» nel castello di Berlino. La monarchia legittima rivolse perciò una petizione al manganello della polizia della illegittima monarchia borghese chiedendo un colpo di forza contro il Vorwärts. Ma Guizot si mostrò duro d’orecchie; con tutti i suoi sentimenti reazionari egli era un uomo di cultura e sapeva inoltre che gioia avrebbe dato all’opposizione interna se si fosse mostrato un tirapiedi del despota prussiano. Divenne un po’ più condiscendente soltanto quando il Vorwärts pubblicò un «articolo infame» sull’attentato del borgomastro Tschech contro Federico Guglielmo IV. Dopo una discussione nel consiglio dei ministri, Guizot si dichiarò pronto a intervenire contro il Vorwärts, e in due maniere: una prima con la polizia correzionale, citando il direttore responsabile per mancato deposito cauzionale, e una seconda in via penale, rinviandolo davanti ai giurati per istigazione al regicidio.

A Berlino si era d’accordo con la prima proposta, ma la sua attuazione si risolse in un buco nell’acqua: Bernays fu condannato a due mesi di carcere e a trecento franchi di multa, perché non aveva sborsato la cauzione richiesta dalla legge, tuttavia il Vorwàrts dichiarò subito che avrebbe seguitato a uscire come rivista mensile, per il che non si richiedeva alcuna cauzione. Della seconda proposta di Guizot, a Berlino non se ne voleva assolutamente sapere, nel timore, presumibilmente molto giustificato, che dei giurati parigini non avrebbero fatto violenza alla propria coscienza per amore del re di Prussia. Si provò dunque ancora, affinché Guizot espellesse i redattori e i collaboratori del Vorwärts.

Alla fine, dopo prolungate trattative, il ministro francese si lasciò convincere, come allora si suppose, e come Engels ripetè ancora nel suo discorso funebre per la moglie di Marx, grazie all’opera poco nobile di mediazione di Alexander von Humboldt, cognato del ministro prussiano degli esteri. Recentemente si è cercato di alleggerire di questo peso la memoria di Humboldt, con la constatazione che gli archivi prussiani non contengono nulla in proposito. Ma questo non dimostra nulla in contrario, perché anzitutto gli atti su questa trista faccenda ci sono pervenuti incompleti, e in secondo luogo faccende del genere non vengono mai trattate per iscritto. Quello che di veramente nuovo è stato tratto dagli archivi dimostra anzi soltanto che dietro le quinte si è svolta una azione decisiva. A Berlino si era su tutte le furie contro Heine, che aveva pubblicato nel Vorwärts undici delle sue satire più taglienti sul regime prussiano e particolarmente anche contro il re. Ma d’altra parte Heine era per Guizot il punto più delicato della delicata faccenda. Era un poeta di fama europea e per i francesi era quasi un poeta nazionale. Questa grave considerazione di Guizot — dato che lui in persona non poteva parlare — deve essere stata sussurrata all’orecchio dell’ambasciatore prussiano a Parigi da qualche spia, perché il 4 ottobre egli annunciò improvvisamente a Berlino che era molto dubbio se Heine, di cui soltanto due poesie erano state pubblicate sul Vorwàrts, appartenesse alla redazione del giornale; e allora anche a Berlino si comprese.

Heine non fu importunato, ma contro una serie di altri emigrati tedeschi, che avevano scritto per il Vorwàrts o erano in sospetto di averlo fatto, l’ 11 gennaio 1845, fu emanato l’ordine di espulsione; tra loro Marx, Ruge, Bakunin, Bornstein e Bernays. Una parte di loro si salvò: Bornstein, impegnandosi a rinunciare a pubblicare il Vorwärts, e Ruge, consumandosi le scarpe a recarsi dall’ambasciatore sassone e da deputati francesi, per assicurarli di quanto egli fosse un cittadino leale. Marx, naturalmente, non era di questo stampo: e si trasferì a Bruxelles.

Il suo esilio a Parigi era durato meno di un anno, ma era stato il periodo più importante dei suoi anni di noviziato e di pellegrinaggio: ricco di suggestioni e di esperienze, più ricco per l’acquisto di un compagno d’armi che, col passare degli anni, gli divenne sempre più necessario per completare la grande opera della sua vita.