CAPITOLO 4

Il discepolo di Hegel



    4.1    ​​​Il primo anno a Berlino

Ancor prima che Karl Marx si fidanzasse, suo padre aveva deciso che avrebbe proseguito gli studi a Berlino; la dichiarazione, tuttora conservataci, con la quale Heinrich Marx non solo dà il benestare, ma anzi dichiara esser sua volontà che il figlio Karl frequenti per il trimestre seguente l’Università di Berlino per proseguirvi gli studi di scienze giuridiche e amministrative, porta la data del 1◦ luglio 1836.

E’ verosimile che il fidanzamento stesso abbia piuttosto rafforzato che indebolito questa decisione del padre; la sua natura riflessiva, mirando lontano, può avergli fatto considerare consigliabile per il momento una lunga separazione dei due innamorati. E d’altronde può anche darsi che nella scelta di Berlino egli sia stato spinto dal suo patriottismo prussiano, e anche dal fatto che l’Università di Berlino non conosceva quegli antichi fasti studenteschi dei quali, a giudizio del provvido vecchio, Karl Marx aveva goduto a sufficienza a Bonn; «le altre Università non sono altro che birrerie in confronto a questa casa di lavoro», diceva Ludwig Feuerbach.

Comunque, non è stato il giovane studente a decidersi da sé per Berlino. Karl Marx amava il suo paese e la capitale prussiana gli è stata antipatica per tutta la vita. Tanto meno la filosofia di Hegel, dominatrice incontrastata all’Università di Berlino dopo la morte ancor più che durante la vita del suo fondatore, poteva averlo attratto poiché gli era del tutto sconosciuta. A ciò si aggiungeva la grande lontananza dall’amata. Egli aveva, sì, promesso di contentarsi per il futuro dell’assenso di lei, e di rinunciare per il presente a tutte le manifestazioni esteriori dell’amore. Ma anche tra persone come loro questi giuramenti da innamorati hanno il singolare privilegio di esser scritti sull’acqua; più tardi Karl Marx racconterà ai suoi figli, di essere stato allora, nell’amore per la loro madre, un vero Orlando furioso, e così il suo giovane e ardente cuore non ebbe pace finché non gli fu permesso di scambiare delle lettere con la fidanzata.

Soltanto, egli ricevette la prima lettera di lei quando si trovava a Berlino già da un anno, e su quest’anno noi siamo per un certo aspetto informati più esattamente che su qualsiasi altro degli anni della sua gioventù o della sua vecchiaia: e ciò grazie a una lettera che egli scrisse ai suoi genitori il 30 novembre 1837 per fornir loro, «alla fine di un anno trascorso qui, uno sguardo sulla situazione di esso». Questo notevole documento ci mostra già nel giovane l’uomo intero, che lotta per la verità fino al completo esaurimento delle sue energie fisiche e spirituali: la sua insaziabile sete di sapere, la sua inesauribile capacità di lavoro, la sua spietata autocritica e quello spirito di lotta che, quando pareva averli del tutto vinti, in realtà aveva soltanto soffocato i battiti del cuore.

Karl Marx si immatricolò il 22 ottobre 1836. Delle lezioni accademiche non si curò troppo; in nove semestri non seguì più di dodici corsi, soprattutto corsi obbligatori di diritto, e anche di questi presumibilmente ha ascoltato poche lezioni. Degli insegnanti ordinari dell’Università, soltanto Eduard Gans ha esercitato un qualche influsso sulla sua evoluzione spirituale. Di Gans seguì le lezioni di diritto penale e di diritto civile
prussiano, e lo stesso Gans attestò «l’eccellente diligenza» con cui Karl Marx seguì i due corsi. A questo proposito ha un valore di prova maggiore di tali attestati, che di solito si danno con molta indulgenza, la polemica spietata condotta da Marx nei suoi primi scritti contro la scuola storica del diritto, contro la cui angustia e ottusità, contro la cui dannosa influenza sulla legislazione e sullo sviluppo del diritto aveva già levato la sua voce eloquente il Gans, giurista ricco di cultura filosofica.

Tuttavia, per sua stessa ammissione, Marx si occupò dello studio regolare della giurisprudenza soltanto come di una disciplina secondaria dopo la storia e la filosofia, e in queste due materie non si preoccupò minimamente delle lezioni, ma si iscrisse soltanto al normale corso obbligatorio di logica, con Gabler, successore ufficiale di Hegel, ma il più mediocre tra i suoi mediocri ripetitori. Abituato a pensare con la sua testa, già all’Università Marx lavorava in maniera indipendente, e in due semestri si impadronì di tante cognizioni quante venti semestri non sarebbero bastati a elaborare col lento imbottimento delle lezioni accademiche.

Dopo il suo arrivo a Berlino, fu «il nuovo mondo dell’amore » a rivendicare per primo i propri diritti. «Ebbro di nostalgia e vuoto di speme», esso si riversò in tre quaderni di poesie, tutti dedicati «alla mia cara, eternamente amata Jenny von Westphalen». Tra le cui mani si trovarono nel dicembre 1836, salutati, come gli annunciava a Berlino la sorella Sophie, «con lacrime di voluttà e di dolore ». Il poeta stesso, un anno più tardi, nella lunga lettera ai genitori, giudicava con molto poco riguardo questi parti della sua musa.

«Sentimento espresso con prolissità e senza forma, nulla di naturale, tutto campato in aria, contrasto assoluto tra quello che è e quello che dev’essere, riflessioni retoriche invece di un pensiero poetico»: tutto questo elenco di peccati era il giovane poeta stesso a formularlo, e anche se poteva far valere come circostanza attenuante «magari un certo calore di sentimento e e un certo tentativo d’estro», però queste qualità più lodevoli colpivano nel segno forse soltanto nel senso e nei limiti dei Canti a Laura di Schiller.

In generale le sue poesie giovanili hanno un tono romantico di maniera, in mezzo al quale raramente risuona una voce schietta. Inoltre la tecnica del verso è impacciata e rigida in un modo in verità non più ammissibile dopo che Heine e Platen avevano fatto sentire il loro canto. Le capacità artistiche che Marx possedeva in notevole misura, e che rivelò per l’appunto anche nelle sue opere scientifiche, cominciarono a svilupparsi attraverso così strani errori. Come nell’espressività del suo linguaggio egli si avvicinò ai primi maestri della letteratura tedesca, così attribuiva grande valore all’equilibrio estetico dei suoi scritti, diversamente da quegli spiriti meschini per i quali la noia più pesante costituisce il titolo fondamentale del lavoro erudito. Ma tra le molteplici doti che le muse gli avevano posto nella culla, non si trovava la dote dell’eloquio poetico.

Tutt’al più, come scriveva ai suoi genitori nella lunga lettera del 10 novembre 1837, la poesia poteva essere soltanto un accompagnamento; lui doveva studiare giurisprudenza e sentiva soprattutto l’impulso a cimen tarsi con la filosofia. Aveva studiato a fondo Heineccius, Thibaut e le fonti, tradotto in tedesco i due primi libri delle Pandette e cercato di fondare una filosofia del diritto sul terreno del diritto. Questa’ «opus infelice» egli scriveva di averlo portato avanti fino alla trecentesima pagina, se pur non si tratta di un lapsus calami. Alla fine si accorse della «erroneità dell’insieme» e si gettò tra le braccia della filosofia, per progettare un nuovo sistema metafisico, al cui termine però fu di nuovo costretto a prender atto della assurdità di tutti gli sforzi compiuti. A parte ciò, aveva l’abitudine di farsi estratti da tutti i libri che leggeva, come dal Laocoonte di Lessing, alla Storia dell’arte del Wicckelman, dalla Storia tedesca di Luden; e di scribacchiarvi accanto delle riflessioni. Contemporaneamente traduceva la Germania di Tacito e i Tristia di Ovidio, e cominciò a studiare per conto proprio, cioè sulle grammatiche, l’inglese e l’italiano, senza arrivare per il momento a nessun risultato concreto; leggeva il Diritto penale di Klein e i suoi Annali e tutte le novità letterarie, que st’ultime soltanto di sfuggita. La chiusura del semestre fu però costituita di nuovo da «danze di muse e musica di satiri », ma d’improvviso il regno della vera poesia gli apparve lontano come un palazzo incantato, e tutte le sue creature svanirono nel nulla.

E infine il risultato di questo primo semestre era stato che egli «aveva vegliato molte notti, affrontato molte lotte, subito molte agitazioni interne ed esterne», ma senza ottenere molto, e che natura, arte, il mondo stesso erano stati trascurati e gli amici tenuti lontani. Inoltre il fisico d’adolescente risentì dello sforzo eccessivo, e per consiglio del medico Marx si trasferì a Stralau, che allora era ancora un tranquillo villaggio di pescatori. Qui egli si riprese subito, e così ricominciò l’attività intellettuale. Anche nel secondo semestre affrontò lo studio dei più vari argomenti, ma la filosofia di Hegel si mostrò sempre più chiaramente come il polo immobile nel flusso dei fenomeni. Quando Marx la conobbe per la prima volta in maniera frammentaria,
la sua «grottesca musica rupestre» non riuscì a piacergli, ma durante una nuova malattia la studiò da capo a fondo, e capitò inoltre in un «Doktorklub» di Giovani hegeliani, dove, nelle continue discussioni, si legò sempre più saldamente «alla attuale filosofia del mondo» a dire il vero non senza che ogni voce in lui si ammutolisse e lo assalisse «una vera smania di ironia dopo tutte quelle negazioni».

Karl Marx rivelava tutto ciò ai suoi genitori e chiudeva con la preghiera di lasciarlo tornare a casa subito, e non soltanto per la Pasqua dell’anno seguente come il padre gli aveva già consentito. Voleva discutere col padre sulle «condizioni del suo spirito così disperso e disorientato»; soltanto nella «cara vicinanza» dei genitori avrebbe potuto acquietare questi «agitati fantasmi».

Quanto questa lettera è oggi preziosa per noi come specchio nel quale contempliamo l’immagine vivente del giovane Marx, tanto male fu accolta nella casa paterna. Il padre, già malandato, si vide davanti il «demone» che aveva sempre temuto nel figlio, che temeva doppiamente da quando amava «una certa persona» come una figlia sua propria, da quando una famiglia molto degna era stata sollecitata ad approvare una relazione che, stando alle apparenze e coi tempi che correvano, era piena di pericoli e cupe prospettive per questa cara fanciulla. Egli non era stato mai così ostinato da prescrivere al figlio il cammino da percorrere a meno che ciò servisse soltanto a far rispettare dei «sacri impegni»; ma quello che ora si vedeva davanti era un mare tempestoso senza nessun ancoraggio sicuro.

Così, nonostante la sua «debolezza», di cui era ben consapevole, si decise ad essere «duro almeno per una volta», e nella sua risposta del 1◦ dicembre fu «duro » alla sua maniera, ingrandendo esageratamente le cose e intercalando dolorosi sospiri. Chiedeva in che modo il figlio avesse compiuto il suo dovere, e rispondeva lui stesso: «Lo giudichi Iddio! Disordine assoluto, balordo vagabondaggio in tutti i campi del sapere, balorde sgobbate al fioco lume della lucerna; abbrutimento nello studio in veste da camera e coi capelli arruffati, invece che abbrutimento nel bere in una birreria; repellente mancanza di socievolezza e di ogni decoro e perfino di ogni riguardo verso tuo padre; l’arte di frequentare il mondo limitata alla sporca stanza, dove forse le lettere d’amore di una Jenny e le amichevoli esortazioni paterne, scritte magari tra le lacrime, vengono adoperate per accender la pipa, il che del resto è sempre meglio che vederle capitare, grazie a un disordine anche più irresponsabile, in mano di terzi».

Poi il dolore lo sopraffa e, per restare spietato, egli si fa forza con le pillole che il medico gli ha ordinato. Biasima severamente Karl per i suoi sprechi incontrollati. «Come se fossimo pieni d’oro, il signor figlio consuma in un anno quasi 700 talleri, contro ogni accordo, contro ogni usanza, mentre i più ricchi non ne spendono 500». Certo Karl non è un crapulone né un dissipatore, ma chi ogni settimana o al massimo ogni due settimane è costretto a trovare nuovi sistemi e disfare gli antichi, come può occuparsi di tali piccolezze? Tutti attingono alla sua tasca, e tutti lo ingannano.

Dopo aver proseguito un pezzo in questa maniera, alla fine il padre rifiutò inesorabilmente la visita di Karl.

«Venire qui in questo momento sarebbe una sciocchezza. Certo io so che tu fai poco conto delle lezioni —    e magari paghi —, ma io voglio almeno salvare il decoro. Io non sono certamente schiavo di quel che dice la gente, ma non mi piace neppure che si chiacchieri sul mio conto». Karl sarebbe potuto venire per le vacanze di Pasqua, o anche dieci giorni prima, dato che il padre non voleva essere così pittima.

Tra tutte le sue lamentele risuonava il rimprovero che il figlio non aveva cuore, e poiché questo rimprovero è stato tante e tante volte mosso a Karl Marx, è bene, qui che esso risuona per la prima volta e forse con più ragione che altrove, dire subito quel poco che se ne può dire. Con la frase sul «diritto di godere la vita», trovata da una civiltà rammollita per giustificare un vile egoismo, naturalmente non si spiega nulla; né molto di più si spiega con la frase più antica sui «diritti del genio», il quale potrebbe permettersi più che i comuni mortali. In Karl Marx, piuttosto, la lotta indefessa per acquistare piena coscienza delle cose scaturiva dal sentimento più profondo del cuore; egli non era, secondo una rude espressione da lui stesso usata una volta, abbastanza bue da voltare le spalle ai «dolori dell’umanità», o, per dirla con le parole con cui Hutten aveva già espresso questo pensiero, Dio lo aveva condannato a sentir più male e a esser colpito più profondamente degli altri per un dolore comune. Nessun altro mai ha fatto tanto quanto Karl Marx per estirpare le radici dei «dolori dell’umanità». Quando la nave della sua vita navigava in alto mare, tra venti e tempeste e sotto il sibilare dei proiettili nemici, la sua bandiera ha continuato a sventolare sull’albero maestro, ma a bordo la vita non era comoda né per il comandante né per l’equipaggio.

Non perciò Marx era privo di sentimento per i suoi. Il suo animo di lottatore poteva sì far tacere i sentimenti del cuore, ma non soffocarli, e spesso, già avanti negli anni, egli si dolse amaramente, che quelli che gli erano più vicini dovessero soffrire della dura sorte della sua vita più di lui stesso. Anche da giovane studente non era sordo alle grida di allarme del padre; rinunciò non solo a tornare subito a Treviri, ma al viaggio per Pasqua, con dispiacere della madre, ma con grande soddisfazione del padre, la cui collera cominciò a calmarsi rapidamente. Questi seguitò, è vero, con le sue lagnanze, ma lasciò andare le esagerazioni; nell’arte del ragionamento astratto non poteva del resto tener testa a Karl, e in quanto a studiare anche la terminologia, era troppo vecchio per poter sia pure affacciarsi nel suo santuario. In un punto tutto il trascendente non serviva a nulla, e il figlio osservò saggiamente un dignitoso silenzio. Ma il padre voleva deporre le armi per stanchezza, e la parola aveva un senso più serio di quel che sembrava a giudicare dal sottile umorismo che tornava a giocare tra le righe di questa lettera. Essa porta ti data del 10 febbraio 1838, quando Heinrich Marx si era appena alzato dopo una malattia che lo aveva tenuto a letto per cinque settimane. Non era una guarigione definitiva; la malattia, a quanto pare al fegato, ricomparve e si aggravò, fino a che, proprio tre mesi dopo, il 10 maggio 1838, sopravvenne la morte. E giunse a tempo opportuno per risparmiare al suo cuore paterno le delusioni di fronte alle quali esso si sarebbe spezzato un poco alla volta.

Ma Karl Marx ha sempre riconosciuto con gratitudine quel che suo padre era stato per lui. Come il padre lo aveva portato nell’intimo del cuore, così lui portò nel cuore l’immagine paterna, fin nella tomba.

    4.2    ​​​I Giovani hegeliani

Dopo la primavera del 1838, quando perdette il padre, Karl Marx visse ancora tre anni a Berlino, nell’ambiente del Doktorklub, la cui vita intellettuale gli aveva dischiuso i segreti della filosofia hegeliana.

Allora questa filosofia passava ancora come la filosofia ufficiale dello Stato prussiano. Il ministro del culto Altenstein e il suo consigliere segreto Johannes Schulze l’avevano presa sotto la loro personale protezione. Hegel esaltava lo Stato come la realtà dell’idea morale, come il razionale assoluto e l’assoluto fine a se stesso, e perciò come il diritto supremo nei confronti dei singoli, supremo dovere dei quali è quello di essere membri dello Stato. Questa dottrina dello Stato era estremamente suasiva per la burocrazia prussiana; gettava perfino una luce trasfigurante sulle colpe della caccia ai «demagoghi» !

Né Hegel aveva in alcun modo compiuto un’ipocrisia con questa dottrina, perché dalla sua evoluzione politica si vide che la monarchia, nella quale i servitori dello Stato dovevano agire nel modo migliore, era per lui la forma ideale dello Stato; se mai egli riteneva necessario accanto ad essa un certo condominio moderato delle classi dominanti, ma soltanto nei limiti della divisione in «stati»; di una rappresentanza generale del popolo in senso moderno costituzionale, ne voleva sapere tanto poco quanto il re di Prussia e il suo oracolo Metternich.

Ma il sistema che Hegel si era confezionato per la propria persona, era in contraddizione insanabile col metodo dialettico di cui egli era il rappresentante in quanto filosofo. Col concetto dell’essere è dato anche il concetto del nulla, e dalla loro lotta sorge il più alto concetto del divenire. Tutto è e insieme non è, poiché tutto scorre ed è concepito in continuo mutamento, in un continuo divenire e trapassare. Così la storia era un processo di sviluppo ascendente dall’inferiore al superiore, concepito in perpetua rivoluzione, ed Hegel con la sua cultura universale nei più diversi campi della scienza storica, si accinse a dimostrarlo, anche se soltanto nella forma, corrispondente alla sua concezione idealistica, secondo cui l’idea assoluta —  che Hegel, senza precisar altro di essa, definiva l’anima vivificante di tutto l’universo — si attua in ogni accadimento storico.

Perciò l’alleanza tra la filosofia di Hegel e lo Stato dei Federici Guglielmi poteva essere soltanto un matri monio di convenienza, che durò appunto finché le due parti lo trovarono conveniente: cioè all’incirca fino ai giorni delle decisioni di Karlsbad e delle persecuzioni contro i «demagoghi». Ma già la rivoluzione del luglio 1830 dette all’evoluzione europea una così energica spinta in avanti, che il metodo di Hegel si rivelò incom parabilmente più genuino del suo sistema. Non appena le pur sempre deboli ripercussioni della rivoluzione di luglio sulla Germania furono soffocate e la pace del sepolcro tornò a pesare sul popolo dei poeti e dei pensatori, la nobiltà prussiana degli Junker si affrettò a far giocare un’altra volta contro la filosofia moderna la vecchia merce avariata del romanticismo medievalizzante.

E la cosa le fu tanto più facile in quanto l’ammirazione per Hegel più che di quella nobiltà era stata propria della mezzo illuminata burocrazia, e in quanto Hegel, con tutta l’esaltazione dello Stato dei funzionari, non aveva però fatto nulla per mantenere nel popolo la religione, che ormai era l’Alfa e l’Omega della tradizione feudale, come lo è in ultima analisi di tutte le classi sfruttatrici.

E proprio sul terreno della religione si ebbe il primo urto. Se Hegel aveva ritenuto che le storie sacre della Bibbia dovessero essere considerate come storie profane, e che la conoscenza storica di fatti normali e reali non avesse nulla a che fare con la fede, un giovane svevo, David Strauss1, prese sul serio le parole del maestro. Egli pretese che i racconti degli Evangeli fossero sottoposti alla critica storica, e dimostrò la fondatezza di questa pretesa con la sua Vita di Gesù, che apparve nel 1835 e sollevò un enorme scalpore. Con ciò Strauss si ricollegava all’illuminismo borghese, sulla cui «illuminazione» Hegel si era espresso in modo anche troppo sdegnoso. Ma il dono del pensiero dialettico gli Consentiva di affrontare la questione in modo incomparabilmente più profondo di come l’avesse affrontata il vecchio Reimarus, l’«Anonimo» di Lessing. Strauss non vedeva più nella religione cristiana un prodotto dell’inganno, e negli apostoli una masnada di imbroglioni, e spiegava invece gli elementi mitici degli Evangeli con l’inconsapevole creazione delle comunità cristiane primitive. Ma in molte cose degli Evangeli riconosceva ancora delle notizie stori che sulla vita di Gesù, e in Gesù stesso riconosceva un personaggio storico, come del resto in generale presupponeva ancora un nocciolo storico nei punti principali.

Politicamente Strauss era del tutto innocuo, e lo è rimasto per tutta la sua vita. Un carattere alquanto più politico ebbero gli Hallische Jahrbücher, fondati daArnold Ruge e da Theodor Echtermeyer nel 1838 come organo dei Giovani hegeliani. Essi pure, a dire il vero, muovevano dalla letteratura e dalla filosofia, e inizialmente non volevano essere altro che il contraltare dei Berliner Jahrbücher für wissenschaftliche Kritik, che erano l’arrugginito organo dei Vecchi hegeliani. Ma Arnold Ruge, di fronte al quale Echtermeyer, che morì poco dopo, passò presto in seconda linea, era già stato attivo nella Associazione studentesca e aveva passato sei anni in prigione a Köpenick e Kolberg, vittima della caccia ai demagoghi. A dire il vero non aveva preso tragicamente questa sua disgrazia, e attraverso un matrimonio fortunato si era procurato come libero docente a Halle una comoda esistenza che gli consentiva di definire la forma di Stato prussiana, nonostante tutto, libera e giusta. Non avrebbe avuto nulla da eccepire contro di essa se si fosse avverato in lui quanto malignamente dicevano i mandarini della vecchia Prussia, e cioè che in Prussia nessuno fa una carriera tanto rapida quanto un demagogo convertito. Ma proprio qui le cose non funzionarono.

Ruge non era un pensatore originale e tanto meno uno spirito rivoluzionario, ma aveva per l’appunto cul tura, orgoglio, zelo e combattività sufficienti per dirigere bene una rivista culturale. Una volta si definì lui stesso, e non senza colpire nel segno, un grande commerciante dello spirito. I suoi Hallische Jahrbücher divennero, grazie a lui, il punto di incontro di tutti gli spiriti irrequieti che possiedono la prerogativa — fu nesta all’interesse di ogni ordine statale — di dare in pasto alla stampa quasi tutti i fatti della vita. Come collaboratore, David Strauss avvinceva i lettori incomparabilmente di più di quanto avrebbero potuto farlo tutti quanti i teologi che combattevano a spada tratta per la divina infallibilità degli Evangeli. E Ruge assicurava, sì, che i suoi Jahrbücher restavano «cristiani hegeliani e prussiani hegeliani», ma il ministro del culto Altenstein, che del resto era già stato messo con le spalle al muro dalla reazione romantica, non cessò per questo di sospettare e non accondiscese alle imploranti preghiere di Ruge che chiedeva un impiego statale in riconoscimento della sua attività, Così agli Hallische Jahrbücher balenò l’idea che bisognasse sciogliere i legami che tenevano legata la libertà e la giustizia in Prussia.

Tra i collaboratori degli Hallische Jahrbücher c’erano anche i Giovani hegeliani di Berlino, in mezzo ai quali Karl Marx passò tre anni della sua giovinezza. Il Doktorklub era formato da docenti, insegnanti, scrittori nel primo fiorire dell’età virile.  Rutenberg, che Karl Marx da principio in una lettera al padre chiamava il più «intimo » dei suoi amici berlinesi, aveva insegnato geografia al corpo dei cadetti di Berlino, ma era stato licenziato, ufficialmente perché un mattino s’era sdraiato ubriaco sull’orlo della strada, in realtà perché si sospettava che avesse pubblicato in giornali di Amburgo o di Lipsia degli articoli «malevoli». Eduard Meyen aveva collaborato a una rivista di breve vita, nella quale Marx pubblicò due delle sue poesie, fortunatamente le sole che abbiano mai visto la luce del giorno.

Non è possibile stabilire se appartenesse a
questa associazione anche Max Stirner, che insegnava in una scuola femminile da quando Marx studiava a Berlino. Non abbiamo prove che i due si siano conosciuti personalmente, né la questione presenta un interesse troppo profondo, dato che tra Marx e Stirner non ci sono stati contatti spirituali di nessun genere. Tanto più forte però è stata l’influenza che hanno esercitato su Marx i membri spiritualmente più dotati del Doktorklub. Bruno Bauer2, libero docente all’Università di Berlino, e Karl Friedrich Köppen, insegnante alla scuola tecnica comunale Dorothea.

Karl Marx contava appena venti anni quando entrò nel Doktorklub, ma, come gli avvenne spesso anche in seguito, quando entrava in un nuovo ambiente, ne diventava l’anima e il centro. Anche Bauer e Köppen, maggiori di una decina d’anni, riconobbero ben presto la sua superiorità intellettuale, e preferirono a tutti i compagni di lotta questo giovane che pure poteva ancora imparare e imparò molto da loro. Köppen dedicò
«al suo amico Karl Heinrich Marx di Treviri» l’impetuoso libello che pubblicò nel 1840 per il centenario della nascita di re Federico di Prussia.

Köppen possedeva un talento storico non comune, come testimoniano ancor oggi i suoi articoli negli Hallische Jahrbücher, a lui dobbiamo la prima valutazione veramente storica del terrore rosso nella grande Rivoluzione francese. Egli seppe sottoporre i rappresentanti della storiografia del tempo, i Leo, i Ranke, i Raumer, gli Schlosser, alla critica più felice e più precisa. Si cimentò personalmente nei campi più vari della ricerca storica, da una introduzione letteraria alla mitologia nordica, che meritò di essere posta accanto alle ricerche di Jakob Grimm e di Ludwig Uhland, a un grosso lavoro su Budda, che ebbe perfino il riconosci mento di Schopenhauer, di solito poco tenero col vecchio pensatore hegeliano, Se si pensa che una mente come Köppen auspicava il peggior despota della storia prussiana, quasi «spirito risorto », per «sterminare con la spada fiammeggiante tutti gli avversari che ci impediscono l’accesso alla terra promessa», siamo trasportati immediatamente nell’ambiente particolare in cui vivevano questi Giovani hegeliani di Berlino.

Certo, non bisogna trascurare due cose. La reazione romantica e tutto ciò che le si ricollegava si adoperava con tutte le forze a tinger di nero la memoria del vecchio Fritz. Era, come pensava Köppen, un «orribile baccano: trombe del vecchio e del nuovo Testamento, ocarine morali, edificanti cornamuse, storiche pive e altre fanfaluche, e in mezzo inni alla libertà, urlati con teutoniche voci da ubriachi». Ma fuori di questo non c’era ancora nessuna ricerca critico=scientifica, che fosse in certo modo all’altezza della vita e delle imprese del re prussiano, né poteva ancora esserci, dal momento che le fonti essenziali per una sua storia non erano state ancora rese pubbliche. Aveva fama di essere stato un «illuminista», e perciò gli uni lo odiavano e gli altri lo ammiravano.

In realtà, col suo scritto, Köppen voleva rivalutare l’illuminismo del secolo decimottavo; Ruge diceva di Bauer, Köppen e Marx che era una loro caratteristica questo richiamarsi all’illuminismo borghese; essi, una specie di partito della Montagna in filosofia, scrivevano il loro Mane, Thecel, Phares sul cielo tempestoso della Germania. Köppen respingeva le «scipite declamazioni» contro la filosofia del secolo decimottavo affermando che nonostante la loro pesantezza noi dovevamo molto agli illuministi tedeschi: il loro difetto era soltanto di non essere stati abbastanza illuminati. Con ciò Köppen dava ottimi spunti di riflessione ai ripetitori di Hegel privi di pensiero, «solitari penitenti del concetto>, «vecchi bramini della logica», che, seduti eternamente immobili con le gambe incrociate, leggono e rileggono con monotono borbottio i tre Veda, e gettano soltanto di quando in quando uno sguardo lascivo verso il mondo dove danzano le baia dere. Nell’organo dei Vecchi hegeliani Varnhagen respinse lo scritto di Köppen, definendolo «schifoso» e
«ripugnante»; probabilmente si sentiva toccato particolarmente dalle aspre parole di Kòppen sui «rospi della palude», vermi senza religione, senza patria, senza convinzioni, senza coscienza, senza cuore, senza caldo né freddo, senza gioia né dolore, senza amore né odio, senza dio né diavolo, miserabili che si aggiravano dinanzi alle porte dell’inferno e valevano troppo poco perfino per esso.

Köppen celebrava il «gran re» soltanto in quanto «grande filosofo». Ma in questo colpiva a vuoto, più ancora di quel che fosse lecito per lo stato delle cognizioni di allora. Egli diceva: «Federico non aveva, come Kant, una doppia ragione, una teoretica, che si mostra abbastanza sinceramente e arditamente coi suoi scrupoli e dubbi e negazioni, ed una pratica, paternalistica, al servizio dello Stato, che rimedia alle colpe dell’altra e ne mette a tacere le scappatelle giovanili. Soltanto il più immaturo scolaretto può affermare che nel vecchio Fritz la ragione teoretica del filosofo appaia molto trascendente di fronte a quella pratica
del re, e che egli si sia ricordato troppo di rado dell’eremita di Sans=souci. Anzi, in lui il re non è mai rimasto addietro rispetto al filosofo». Oggi proprio chi osasse ripetere queste affermazioni di Köppen si attirerebbe nella storiografia prussiana il rimprovero di essere il più immaturo scolaretto, ma anche per l’anno 1840 era già un po’ troppo porre l’opera illuminatrice di un uomo come Kant al di sotto degli scherzi «illuministici » che il despota borussico soleva imbastire coi begli spiriti francesi che si prestavano a fargli da buffoni di corte.

In questa posizione si manifestava la singolare meschinità e vuotaggine della vita berlinese, che fu in generale fatale per i Giovani hegeliani di quella città. Proprio in Köppen, che infine avrebbe dovuto tenersene lontano al massimo, essa si manifestò nel modo più vistoso, tanto più che si trattava di un’opera polemi ca scritta con tutta l’anima. In Berlino mancava ancora quel potente sostegno che l’industria renana, già considerevolmente sviluppata, offriva alla coscienza borghese, ma la capitale prussiana restò indietro non soltanto a Colonia, ma anche a Lipsia e perfino a Königsberg non appena la lotta dell’epoca cominciò a combattersi sul terreno pratico. «Credono di essere enormemente liberi», scriveva dei berlinesi di allora Walesrode, nativo della Prussia orientale, «quando nei caffé dicono freddure su Cerf, la Hagen, il re, gli avvenimenti del giorno ecc. ecc., alla ben nota maniera dei fannulloni». Berlino era anzitutto una città sede del monarca e di una guarnigione e la sua popolazione piccolo=borghese si ripagava in pettegolezzi me schini della vile sottomissione che manifestava pubblicamente davanti ad ogni corteo reale. Degno ritrovo di questa opposizione era il salotto dello stesso Varnhagen, che davanti all’illuminismo di Federico, così come lo intendeva Kòppen, si faceva il segno della croce.

Non c’è alcun motivo di dubitare che il giovane Marx condividesse il contenuto dello scritto che per la prima volta faceva onorevolmente il suo nome davanti al pubblico. Egli era intimo amico di Kòppen e molto ha preso dallo stile del compagno più anziano. Rimasero buoni amici, sebbene le loro strade divergessero presto; quando, venti anni dopo, Marx tornò a Berlino, ritrovò in lui «tutto il vecchio Kòppen», e passarono ore liete ritrovandosi senza ombre. Non molto tempo dopo, nel 1863, Köppen morì.



    4.3    ​​​La filosofia dell’autocoscienza

Il vero capo dei Giovani hegeliani di Berlino non era però Kòppen, ma Bruno Bauer. E fu anche riconosciuto per il vero discepolo del maestro specialmente quando con orgoglio speculativo si dichiarò contro la sveva Vita di Gesù di Strauss, da cui si ebbe una dura risposta. Il ministro del culto Altenstein tenne la sua mano protettrice su questo promettente ingegno.

Con tutto ciò Bruno Bauer non era un arrivista, e Strauss s’era sbagliato quando aveva predetto che avrebbe approdato alla «fossilizzata scolastica» del capo degli ortodossi, Hengstenberg. Anzi, nell’estate del 1839, Bauer entrò in guerra letteraria con Hengstenberg, che voleva innalzare a dio del cristianesimo il dio della vendetta e della collera del Vecchio Testamento; guerra che si mantenne ancora a dire il vero nei limiti di una disputa accademica, ma che tuttavia indusse Altenstein, indebolito dagli anni e gravemente preoccupato, a sottrarre il suo protetto agli sguardi sospettosi dell’ortodossia, tanto vendicativa quanto gelosa della sua fede. Nell’autunno del 1839 egli mandò Bruno Bauer nell’Università di Bonn, dapprima come libero docente, ma con l’intenzione di farlo assumere come professore nel termine di un anno.



3​​http://www.marxpedia.org/“biblioteca/“vitadimarx/“#_ednref1 4http://www.marxpedia.org/“biblioteca/“vitadimarx/“#_ednref2

Ma in questo periodo Bruno Bauer, come risulta particolarmente dalle sue lettere a Marx, stava già attra versando un’evoluzione spirituale che doveva portarlo molto più avanti di Strauss. Egli mise mano a una critica degli Evangeli che lo condusse a far piazza pulita degli ultimi frantumi che Strauss aveva ancora conservato. Bruno Bauer dimostrava che negli Evangeli non è contenuto neanche un atomo di storia, che in essi tutto è libera produzione letteraria degli evangelisti; dimostrava che la religione cristiana non è stata imposta come religione universale all’antico mondo greco=romano, ma era il prodotto specifico di questo mondo. Così egli si incamminava per l’unica strada sulla quale si poteva indagare scientificamente il sor gere del cristianesimo. E’ già sufficientemente indicativo che Harnack, il teologo di corte, oggi alla moda e celebrato in tutti i salotti, che acconcia gli Evangeli nell’interesse della classe dominante, abbia cercato di condannare seccamente come «cosa miserabile» il procedere sulla via aperta da Bruno Bauer.

Quando questi pensieri cominciavano a maturare in Bruno Bauer, Karl Marx era il suo compagno insepa rabile, e Bauer stesso vedeva nell’amico, di nove anni più giovane di lui, il suo più valente compagno di lotta. Egli si era appena ambientato a Bonn, quando cercò di attrarvi Marx con lettere affettuose. Un club di professori a Bonn era la più «schietta filisteria» in confronto al Doktorklub a Berlino, nel quale era stato sempre vivo un interesse spirituale; e a Bonn egli rideva anche molto, per quel che si dice ridere, ma non aveva più riso come a Berlino, quando andava per le strade con Marx. Marx doveva soltanto liberarsi dello «sporco esame di laurea », per il quale bastavano Aristotele, Spinoza, Leibniz e nient’altro; doveva insomma smettere di tirar per le lunghe una sciocchezza del genere, una pura e semplice farsa. Coi filosofi di Bonn sarebbe stato uno scherzo per lui; ma era improrogabile soprattutto una rivista radicale, che avrebbero do vuto pubblicare insieme. Non erano più sopportabili le baie berlinesi e la fiacca degli Hallische Jahrbùcher; per Ruge gli dispiaceva, ma perché non cacciava fuori dalla sua rivista tutti quei vermi?

Talvolta queste lettere hanno un tono abbastanza rivoluzionario, ma si trattava sempre di una rivoluzione filosofica, per la quale Bauer contava molto di più sull’aiuto che sulla resistenza dell’autorità statale. Aveva appena scritto a Marx, nel dicembre 1839, che la Prussia sembrava destinata a progredire soltanto grazie a una battaglia di Jena, da non combattersi necessariamente proprio su un campo di cadaveri, quando pochi mesi dopo — nel momento in cui, quasi contemporaneamente, erano morti il suo protettore Altenstein e il vecchio re — evocava la più alta idea della nostra vita statale, cioè lo spirito familiare della dinastia principe sca degli Hohenzollern, che da quattro secoli aveva impegnato le sue forze migliori a sistemare i rapporti tra Stato e Chiesa. Nello stesso tempo Bauer prometteva che la scienza non si sarebbe stancata di difendere l’idea dello Stato contro le pretese della Chiesa; lo Stato poteva bene sbagliarsi una volta, divenire sospet toso contro la scienza e prendere misure repressive, ma la ragione gli apparteneva troppo intimamente perché potesse sbagliarsi a lungo. A questo omaggio il nuovo re rispose nominando successore di Alten stein l’ortodosso reazionario Eichhorn, che si adoperava a sacrificare alle pretese della Chiesa la libertà della scienza, là dove essa era legata all’idea dello Stato, cioè la libertà accademica d’insegnamento.

L’inconsistenza politica di Bauer era molto maggiore di quella di Kòppen, che si poteva magari sbagliare sul conto di uno degli Hohenzollern che superasse il livello medio della famiglia, ma non sul conto dello «spirito familiare» di questa dinastia di sovrani. Kòppen aveva approfondito molto meno di Bauer lo studio della ideologia di Hegel. Ma non si deve trascurare il fatto che la miopia politica di quest’ultimo non era altro che la contropartita della sua perspicacia filosofica. Egli aveva scoperto negli Evangeli il sedimento spirituale dell’epoca nella quale essi erano sorti, e così, in modo non proprio ingiustificato perché muoveva da una posizione meramente ideologica, pensava che, se era già stato possibile alla religione cristiana col suo torbido fermento di filosofia greco=romana superare l’antica cultura, sarebbe riuscito tanto più facile alla libera e chiara critica della dialettica moderna scuoter via l’incubo della cultura cristiano=germanica.

Quel che gli dava questa impressionante sicurezza era la filosofia dell’autocoscienza. Sotto questo nome si erano comprese una volta quelle scuole filosofiche greche che erano sorte dalla decadenza nazionale della vita greca e che avevano contribuito in massima parte a fecondare la religione cristiana; gli scettici, gli epicurei e gli stoici. Essi non potevano misurarsi per la profondità speculativa con Platone, né per l’universalità del sapere con Aristotele, ed erano stati trattati con sufficiente disprezzo da Hegel Loro scopo comune era di rendere indipendente da ogni cosa esteriore il singolo individuo, che era stato separato per un crollo terribile da tutto ciò che fino ad allora lo aveva legato e sorretto, e di ricondurlo alla sua vita interiore, a cercare la sua felicità nella pace dello spirito, che resiste impavido, anche se un mondo gli precipiti addosso.

Ma, così concludeva Bauer, sui frantumi di un mondo scomparso l’Io, quasi svuotato, aveva avuto orrore di se stesso come unica forza esistente; esso aveva allora alienato ed estraniato la propria autocoscienza, ponendo la propria forza universale di fronte a sé come qualcosa di estraneo, e aveva creato per il signore del mondo in Roma, che assommava in sé tutti i diritti e sulle cui labbra risiedeva il diritto di vita e di mor te, un fratello ostile, ma pur sempre un fratello, nel Signore del racconto evangelico, che col proprio alito piega la resistenza della natura o abbatte i suoi nemici, e che già sulla terra si annuncia come il Signore e il Giudice del mondo. Ma, tuttavia, sotto la servitù della religione cristiana l’umanità era stata educata per preparare tanto più radicalmente la libertà e per abbracciarla tanto più intimamente quando l’avesse finalmente conquistata; l’autocoscienza infinita, giunta a sé stessa, che intende sé stessa e comprende il proprio essere, avrebbe avuto il potere sulle creature della sua auto alienazione. Se si rinuncia al rivesti mento filosofico del tempo, si può esprimere in maniera più semplice e comprensiva quello che avvinceva Bauer, Kòppen e Marx alla filosofia greca dell’autocoscienza. In fondo, anche in questo essi si collegavano all’illuminismo borghese. Le antiche scuole greche dell’autocoscienza non avevano davvero avuto espo nenti così geniali come i più antichi filosofi della natura li avevano avuti in Democrito o in Eraclito, o i più tardi filosofi del concetto in Platone e in Aristotele, ma anche esse avevano avuto una grande importanza storica. Esse avevano aperto allo spirito umano nuove prospettive, spezzato i limiti nazionali della grecità e i limiti sociali della schiavitù nei quali Platone e Aristotele erano ancora rimasti del tutto impigliati; es se avevano fecondato in modo decisivo il cristianesimo primitivo, religione dei sofferenti e degli oppressi che, soltanto dopo esser divenuta la Chiesa sfruttatrice e oppressiva dei dominatori, passò a Platone e ad Aristotele. Per quanto Hegel avesse parlato con durezza della filosofia dell’autocoscienza, aveva però anche lui sottolineato l’importanza che la libertà interiore del soggetto aveva avuto nella perfetta infelicità dell’Impero romano, quando ogni nobiltà e bellezza dell’individualità spirituale era stata cancellata da rozza mano. E così, anche l’Illuminismo borghese del secolo decimottavo aveva mobilitato le filosofie greche del l’autocoscienza, il dubbio degli scettici, l’odio degli epicurei contro la religione, l’atteggiamento repubblicano degli stoici.

Kòppen toccava gli stessi motivi, quando nel suo scritto sul re Federico, il suo eroe dell’Illuminismo, diceva

: «Epicureismo, stoicismo e scetticismo, sono i nervi e i muscoli e le interiora dell’organismo antico, la cui unità immediata e naturale condizionava la bellezza e la moralità dell’antichità, e che si disgregarono al suo morire. Federico li ha accolti in sé e realizzati tutti e tre con forza meravigliosa. Essi sono divenuti caratte ristiche essenziali della sua concezione del mondo, del suo carattere, della sua vita». Marx riconobbe il «profondo significato» almeno di quello che Kòppen diceva in queste frasi sul rapporto dei tre sistemi con la vita greca.

Quanto a lui, egli affrontò il problema, che non lo occupò meno dei suoi amici più anziani, in modo diverso. Egli non cercò di riconoscere la « autocoscienza umana come divinità suprema» accanto a cui non poteva esserci nessuno, né nello specchio deformante della religione, né nelle divagazioni filosofiche di un despota, ma risali alle fonti storiche di questa filosofia, i cui sistemi erano anche per lui le chiavi per la vera storia dello spirito greco.

    4.4    ​​​La dissertazione di laurea

Bruno Bauer, quando, nell’autunno del 1839, stimolava Marx a liberarsi una buona volta dello «sporco esame di laurea », aveva un certo motivo di essere impaziente, in quanto Marx aveva dietro di sé ormai otto semestri. Ma tuttavia non supponeva in Marx una paura dell’esame nel vero senso della parola, altrimenti non lo avrebbe ritenuto capace di mandare a gambe all’aria al primo urto i professori di filosofia di Bonn.

Era nello stile di Marx, e lo è rimasto fino alla fine della sua vita, che la insaziabile brama di sapere lo costringesse ad affrontare rapidamente i problemi più difficili, e che d’altra parte l’inesorabile autocritica gli impedisse di venirne altrettanto rapidamente a capo. Dato il suo modo di lavorare, si sarà buttato a capofitto nella filosofia greca, ma lo studio anche soltanto di quei tre sistemi dell’autocoscienza non era cosa da potersi sbrigare in un paio di semestri. In cambio, Bruno Bauer, che confezionava i suoi lavori con non comune rapidità, anche troppa perché durassero, poteva comprendere poco, molto meno di quanto non lo potrà poi Friedrich Engels — che pure qualche volta si mostrò impaziente — che Marx non riuscisse

a trovare né un limite né una meta alla sua autocritica.



Lo «sporco esame di laurea» del resto aveva le sue difficoltà anche senza di ciò, se non per Bauer, certo per Marx. Quando ancora era vivo suo padre, egli si era deciso per la carriera accademica, senza però che la scelta di una professione pratica fosse per questo del tutto esclusa dalla sua visuale. Ma ora, con la morte di Altenstein, cominciava a scomparire il lato più attraente del «mestiere di professore », quello che poteva principalmente aiutare a superarne i molteplici lati oscuri: cioè la relativa libertà consentita al filosofare dalle cattedre dell’Università. Quanto poco si potesse del resto combinare con le parrucche ademiche, Bauer non sapeva descrivere da Bonn con sufficiente vivezza.

Ben presto Bauer stesso doveva fare la prima esperienza di come per un professore prussiano non ci fosse più molto da fare con la ricerca scientifica. Dopo la morte di Altenstein, nel maggio del 1840, per alcuni mesi fu al ministero del culto il direttore generale Ladenberg, che aveva sufficiente rispetto per la memoria del suo antico superiore per adempirne le promesse e cercare di fare entrare in ruolo Bauer a Bonn, Ma appena fu nominato ministro del culto Eichhorn, la facoltà di teologia di Bonn respinse la nomina di Bauer a professore col pretesto che egli avrebbe turbato la sua unità, in realtà con quell’eroismo che il professore tedesco ritrova sempre ogni volta che può esser sicuro del segreto consenso dei suoi alti superiori.

Bauer apprese la decisione proprio quando stava per ritornare a Bonn dalle vacanze autunnali che aveva trascorso a Berlino. E allora nel circolo dei suoi amici si discusse se non esistesse già una frattura insanabile tra la tendenza religiosa e quella scientifica, se un seguace di questa tendenza potesse ancora metter d’accordo con la sua coscienza l’appartenenza a una facoltà teologica. Ma Bauer stesso insisté nella sua ottimistica concezione della natura dello Stato prussiano, e respinse anche la proposta ufficiosa di dedicarsi alla produzione scientifica, per la quale avrebbe goduto di un aiuto statale. Tornò, pieno di ardore battagliero, a Bonn dove sperava di provocare la crisi in una forma sostanziale, insieme a Marx, che avrebbe dovuto presto raggiungerlo.

Essi tenevano ancora al progetto di una rivista radicale che volevano pubblicare insieme, ma quanto alla carriera accademica di Marx nell’Università renana, le cose si mettevano molto male. Come amico e collaboratore di Bauer egli doveva contare sulla più ostile accoglienza da parte della cricca dei professori di Bonn, e nulla era più lontano dalle sue intenzioni che mettersi ad adulare Eichhorn o Ladenberg, come gli consigliava Bauer, nella previsione assolutamente verosimile che poi a Bonn sarebbe stato «tutto caduco

». In cose del genere Marx è sempre stato di una rigidezza estrema. Ma, anche se fosse stato incline a incamminarsi per questo lubrico sentiero, era sempre da prevedere con certezza che ci sarebbe scivolato sopra. Infatti Eichhorn non aspettò molto a mostrare come la pensasse. Per finire di demolire la schiera, già indebolita dalla vecchiaia, degli arrugginiti Vecchi hegeliani, egli chiamò all’Università di Berlino il vecchio Schelling, che era divenuto un credente nella rivelazione, e prese provvedimenti contro gli studenti di Halle, che in un rispettoso ricorso al re, in qualità di loro rettore, avevano chiesto la nomina di Strauss a Halle.

Con tali prospettive, Marx, date le sue concezioni da Giovane hegeliano, rinunciò totalmente a prendere una laurea prussiana. Se però non gli sorrideva l’idea di farsi maltrattare dai volenterosi aiutanti di un Eichhorn, non per questo si ritirò dalla lotta. Anzi! Egli decise di guadagnarsi il cappello di dottore in una piccola università, di pubblicare nello stesso tempo la sua dissertazione, come prova delle sue capacità e del suo impegno con una ardita prefazione di sfida, e di stabilirsi poi a Bonn, per pubblicare con Bauer la progettata rivista. Né l’Università gli era del tutto sbarrata; secondo gli statuti universitari nella sua qualità di Doctor ppromotus egli avrebbe dovuto soltanto adempiere alcune formalità per essere ammesso come libero docente in una università «straniera».

Marx eseguì questo progetto; il 15 aprile 1841, in sua assenza, gli fu conferito a Jena il titolo di dottore, per il suo lavoro Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e di Epicuro. Era un’anticipazione di un’opera maggiore nella quale Marx voleva studiare l’intero ciclo della filosofia epicurea, stoica e scettica nei suoi rapporti con tutta la speculazione greca. Inizialmente questo rapporto doveva essere sviluppato soltanto con un esempio, e soltanto in relazione alla speculazione più antica.

Tra i più antichi filosofi greci della natura, Democrito aveva sviluppato più conseguentemente il materialismo. Nulla nasce dal nulla; nulla di quello che è può essere annullato. Ogni variazione è soltanto unione e separazione di parti. Nulla accade a caso, ma tutto per un motivo e di necessità. Nulla esiste, se non gli atomi e lo spazio vuoto; tutto il resto è opinione. Gli atomi sono infiniti di numero e hanno una infinità diversa

di forme. In eterno moto di caduta attraverso lo spazio infinito, i più grossi, che cadono più rapidamente, si urtano coi più piccoli; il moto laterale che ne risulta, e il vortice, sono l’inizio della formazione del mondo. Infiniti mondi si formano e scompaiono di nuovo l’uno accanto all’altro e l’uno dopo l’altro.

Ora, Epicuro aveva accettato questa concezione della natura di Democrito, ma con certi mutamenti. Il più decisivo di questi mutamenti consisteva nella cosiddetta «declinazione degli atomi»; Epicuro sosteneva che gli atomi, nella loro caduta, «declinano», cioè non cadono perpendicolarmente, ma deviano un po’ dalla linea retta. Egli fu molto deriso, per questa assurdità fisica, da Cicerone e Plutarco fino a Leibniz e Kant, come un ripetitore di Democrito, che aveva saputo soltanto peggiorare il proprio modello. Ma ci fu anche un’altra corrente, che riconosceva nella filosofia di Epicuro il più compiuto sistema materialistico dell’antichità, grazie alla circostanza che essa ci è stata tramandata nel poema didascalico di Lucrezio, mentre della filosofia di Democrito soltanto pochi frammenti si sono salvati dalla tempesta dei secoli. Lo stesso Kant, che liquidò la declinazione degli atomi come una «sfrontata» invenzione, vedeva ugualmente in Epicuro il più eminente filosofo del senso, in contrasto con Platone, il più eminente filosofo dell’intelletto.

Ora, Marx non contestò in nessun modo l’irrazionalità fisica di Epicuro; egli ammise la sua «illimitata avventatezza nella spiegazione dei fenomeni fisici»; spiegò che per Epicuro la percezione sensibile’ era stata l’unica prova della verità; il sole lo riteneva largo due piedi, perché pareva largo due piedi. Ma Marx non si accontentò di liquidare con un qualche epiteto queste evidenti pazzie; piuttosto, cercò la ragione filosofica in questa irrazionalità fisica. Egli procedette conformemente alla bella osservazione da lui scritta in una nota del lavoro in onore del suo maestro Hegel, e cioè che la scuola di un filosofo che ha fatto ricorso a un accomodamento, non deve incolpare il maestro, ma chiarire l’accomodamento con l’insufficienza del principio dal quale esso aveva radice, e così doveva trasformare in un progresso della scienza quello che appariva progresso della coscienza.

Quello che per Democrito era il fine, per Epicuro era soltanto il mezzo in vista del fine. Per lui non si trattava della conoscenza della natura, ma di una concezione della natura, che potesse convalidare il suo sistema. Se la filosofia dell’autocoscienza, così come l’antichità la conobbe, si era divisa in tre scuole, per Hegel gli epicurei rappresentavano una coscienza astratta=individuale e gli stoici la coscienza astratta=universale, gli uni e gli altri in quanto dogmatismi unilaterali, ai quali a causa di questa unilateralità, si era subito con trapposto lo scetticismo. Anche, come espresse lo stesso rapporto uno storico più recente della filosofia greca, nello stoicismo e nell’epicureismo si contrapponevano inconciliabilmente con pari pretese i lati in dividuali e universali dello spirito soggettivo, l’isolamento atomistico dell’individuo e la sua sommissione al tutto, mentre nello scetticismo questa contrapposizione si risolveva nella neutralità.

Nonostante il loro fine comune, epicurei e stoici furono portati molto lontani gli uni dagli altri per la diversità dei loro punti di partenza. La sommissione al tutto rendeva gli stoici in filosofia dei deterministi per i quali andava da sé la necessità di ogni accadere, e in politica dei repubblicani decisi, mentre sul terreno religioso non riuscirono a liberarsi da un misticismo superstizioso e non libero.  Essi si rifacevano a Eraclito, per il quale la sommissione al tutto aveva assunto la forma della più rigida autocoscienza, e col quale essi del resto procedevano tanto disinvoltamente quanto gli epicurei con Democrito. Al contrario, il principio dell’individuo isolato rendeva gli epicurei in filosofia degli indeterministi, degli assertori della libertà del volere per ogni singolo individuo, e in politica delle vittime rassegnate — il detto biblico “siate soggetti all’autorità che ha potere su di voi”, è un’eredità di Epicuro — mentre li liberava da tutti gli impacci della religione.

Ora, in una serie di sottili ricerche, Marx mostrò come si spiegava la «differenza fra la filosofia della natura di Democrito e di Epicuro». Per Democrito si trattava soltanto dell’esistenza materiale dell’atomo, mentre Epicuro aveva messo in luce accanto ad essa il concetto dell’atomo, accanto alla sua materia anche la sua forma, accanto alla sua esistenza anche la sua essenza; egli aveva scorto nell’atomo non soltanto il fondamento materiale del mondo dei fenomeni, ma anche il simbolo dell’individuo isolato, il principio formale dell’autocoscienza astratta=individuale. Se Democrito dalla caduta perpendicolare degli atomi arguiva la necessità di ogni accadere, Epicuro li faceva deviare un po’ dalla linea retta, perché — come dice nel suo poema didascalico Lucrezio, il più elevato divulgatore della filosofia di Epicuro — dove sarebbe rimasta altrimenti la libera volontà, la volontà dell’essere vivente sottratta al fato? Questa contraddizione tra l’atomo in quanto fenomeno e in quanto essenza si trascina attraverso tutta la filosofia di Epicuro e la spinge a quella infinitamente arbitraria spiegazione dei fenomeni fisici, che fu derisa già nei tempi antichi. Soltanto

nei corpi celesti si risolvono tutte le contraddizioni della filosofia della natura di Epicuro, ma nella loro esistenza universale ed eterna vien meno anche il principio dell’autocoscienza astratta=individuale. Così esso respinge lontano da sé ogni travestimento materiale, ed Epicuro, «il più grande illuminista greco», come lo chiama Marx, lotta contro la religione, che col suo sguardo minaccioso atterrisce dall’alto dei cieli i mortali.

Nel suo primo scritto Marx si rivelava già uno spirito creatore, anche quando, anzi proprio quando si do vrebbero muovere obiezioni ai particolari del suo commento a Epicuro. Contro di esso infatti si potrebbe muovere soltanto l’appunto che Marx ha approfondito il principio di Epicuro e ne ha dedotto delle conclu sioni più chiare di quanto non abbia fatto Epicuro stesso. Hegel aveva definito la filosofia di Epicuro come l’assenza di pensiero nel principio, e sicuramente il suo fondatore, che, in quanto autodidatta, riponeva sempre grande importanza nel linguaggio usuale di tutti i giorni, non la fondò sulle espressioni speculative della filosofia hegeliana, con le quali Marx la spiegava. E la prova di maturità che l’allievo di Hegel ha supe rato con questa sua trattazione; con mano sicura egli domina il metodo dialettico, e il linguaggio annuncia quella forza vigorosa che, nonostante tutto, era stata propria al maestro Hegel, ma che era andata perduta da parecchio per il seguito dei suoi discepoli.

Tuttavia, in questo suo scritto, Marx resta del tutto sul terreno idealistico della filosofia hegeliana. Quello che sorprende al primo sguardo il lettore odierno è il suo giudizio sfavorevole su Democrito. Di lui si dice che ha solo affacciato un’ipotesi la quale è il risultato dell’esperienza e non il suo energico principio, e perciò resta senza attuazione tanto quanto la concreta indagine della natura non viene ulteriormente determinata da essa. In contrasto con Democrito, si celebra di Epicuro il fatto che egli ha creato la scienza dell’ato mistica, nonostante il suo arbitrio nella spiegazione dei fenomeni naturali e nonostante la sua coscienza astratta=individuale, che, come lo stesso Marx ammette, elimina ogni scienza vera ed effettiva, in quanto non domina la singolarità nella natura delle cose.

Oggi non occorre neppure mettersi a dimostrare che, se esiste una scienza degli atomi, se la dottrina dei corpi elementari e del sorgere di tutti i fenomeni per il loro movimento è diventata la base della moderna indagine scientifica, se le leggi dell’acustica, dell’ottica, del calore, dei mutamenti chimici e fisici sono state spiegate grazie ad essa, il pioniere ne è stato Democrito, e non Epicuro. Soltanto, per il Marx di allora la filosofia o, più esattamente, la filosofia del concetto coincideva ancora a tal punto con la scienza, che egli poteva pervenire a una concezione che noi oggi potremmo appena comprendere se in essa non si fosse anche rivelata l’essenza stessa del suo essere.

Vivere era per lui sempre lavorare, e lavorare era per lui sempre lottare. Quello che lo allontanava da Democrito era la mancanza di un «principio energico», era, come egli si espresse in seguito, «il difetto fondamentale di ogni materialismo passato», il fatto che l’oggetto, la realtà, il senso veniva concepito soltanto sotto forma di oggetto o di intuizione, non soggettivamente, non come prassi, non come attività umana sensibile. Quello che in Epicuro lo attirava era l’«energico principio» con cui questo filosofo si levava contro il grave fardello della religione e osava contrastarla, “Non atterrito dai fulmini, né da mormorio di dei, o dal cupo brontolio del cielo....”. Nella prefazione con la quale Marx pensava di pubblicare la sua Dissertazione e di dedicarla al suocero, erompe prepotente un’indomabile volontà di lotta. «La filosofia, finché una goccia di sangue pulsa nel suo cuore dominatore del mondo e assolutamente libero, griderà sempre agli avversari, con Epicuro: ateo non è colui che disprezza gli dei della massa, ma chi aderisce alle opinioni della massa sugli dei ». La filosofia non cela la professione di fede di Prometeo: “A dirla franca, nutro odio contro tutti gli dei”. Ma a quelli che si lamentano della posizione borghese apparentemente peggiorata, essa risponde quello che Prometeo rispondeva a Hermes senatore degli dei: “Non cambierei mai la mia sorte infelice, siine ben certo, con la tua vita di schiavo”. Prometeo è il santo ed il martire più alto del calendario filosofico: così Marx concludeva questa fiera prefazione, che spaventò perfino il suo amico Bauer. Quello che sembrava a costui «una temerità superflua», era invece soltanto una semplice professione di fede dell’uomo che doveva diventare un nuovo Prometeo, nella lotta come nel dolore.

    4.5    ​​​Gli «Anecdota» e la «Rheinische Zeitung»

Marx aveva appena messo in tasca il diploma della sua nuova dignità accademica, quando i progetti ad essa collegati caddero di fronte ai nuovi colpi della reazione romantica. Anzitutto Eichhorn, nell’estate del 1841, mobilitò le facoltà teologiche per una infame battuta in grande stile contro Bruno Bauer, a causa della sua critica degli Evangeli; ad eccezione di quelle di Halle e di Kònigsberg tutte tradirono il principio protestante della libertà d’insegnamento, e Bauer dovette ritirarsi. Ma con questo era esclusa anche per Marx ogni prospettiva di porre piede stabilmente nell’Università di Bonn.

E nello stesso tempo andava a monte il progetto di una rivista radicale. Il nuovo re era un fautore della libertà di stampa, e fece preparare un’istruzione più moderata sulla censura, che vide poi la luce alla fine del 1841. Ma insieme pose la condizione che la libertà di stampa si compiacesse di restare nell’ambito degli umori romantici. E come egli intendesse la cosa lo dimostrò, appunto nell’estate del 1841, con un’ordinanza del Gabinetto con la quale si ordinava a Ruge di sottoporre alla censura prussiana i suoi Jahrbùcher, editi e stampati da Wigand a Lipsia, o di aspettarsi di vederli proibiti nello Stato prussiano. E così Ruge si chiarì sufficientemente le idee sulla sua «libera e giusta Prussia» e si trasferì a Dresda, dove dal 1◦ luglio 1841 pubblicò la sua rivista col titolo di Deutsche Jahrbùcher. E ora assunse da sé quel tono più polemico di cui Bauer e Marx avevano finora sentito la mancanza in lui, e tutte due si decisero a divenire suoi collaboratori invece di fondare una loro rivista. Marx non pubblicò la sua dissertazione di laurea. Il suo scopo immediato era venuto a mancare, e, secondo quanto accennò più tardi, essa avrebbe ormai dovuto attendere di trovare posto nello studio d’insieme della filosofia epicurea, stoica e scettica, al cui compimento «attività politiche e filosofiche di tutt’altro genere» non gli consentirono di pensare.

Tra queste attività c’era in prima linea la dimostrazione che non soltanto il vecchio Epicuro, ma anche il vecchio Hegel era stato un ateo perfetto. Nel novembre 1841 uscì presso Wigand un «ultimatum» sotto il titolo: La tromba del giudizio universale contro Hegel ateo e anticristo. Sotto la maschera di un credente ortodosso, l’autore di questo pamphlet anonimo, col tono dei profeti della Bibbia, gemeva sull’ateismo di Hegel, ma intanto dimostrava nel modo più convincente questo ateismo attraverso l’esame delle opere stesse di Hegel. La cosa suscitò grande scalpore, tanto più che da principio nessuno, nemmeno Ruge, si accorse che l’ortodossia era una maschera. Effettivamente la «Tromba» era stata composta da Bauer, che ora pensava di proseguirla insieme con Marx, per dedurre anche dall’estetica, dalla filosofia del diritto ecc. di Hegel la prova che i veri eredi dello spirito del maestro erano non i Vecchi, ma i Giovani hegeliani.

Nel frattempo la Tromba era stata proibita, e Wigand fece delle difficoltà per proseguirla; inoltre Marx cadde ammalato e, per di più, il 3 marzo 1842, il suocero dopo tre mesi di letto morì. Così per Marx fu «impossibile combinare alcunché». Tuttavia il 10 febbraio 1842 egli inviò un «breve scritto» a Ruge, e si mise a disposizione dei Deutsche Jahrbùcher per quanto glielo consentivano le sue forze. Lo scritto riguardava la recente istruzione sulla censura, con la quale il re aveva disposto una mitigazione della censura. Con questo articolo Marx cominciò la sua carriera politica; con critica tagliente e in netto contrasto col giubilo dei filistei che si atteggiavano a liberali e perfino di qualche Giovane hegeliano, che «vedeva già il sole raggiare alto nel cielo» per la «buona disposizione » che il re manifestava nell’istruzione, egli scopriva punto per punto la contraddizione logica che l’istruzione nascondeva sotto un vago velo romantico. Nella sua lettera di accompagnamento Marx pregava di affrettare la stampa, «se la censura non censura la mia censura»; ma il brutto presentimento non lo ingannò. Ruge rispose il 25 febbraio che sui Deutsche Jahrbùcher si era abbattuta la più grave sorveglianza della censura: «Il suo articolo è divenuto impossibile

». Ed egli aveva ammassato «una élite di cose così graziose e piccanti» tra gli articoli respinti dalla censura, che aveva l’intenzione di pubblicarli in Svizzera come Anecdota philosophica. Marx, il 5 marzo, accettò con grande entusiasmo questo progetto. «Data l’improvvisa resurrezione» della censura sassone, era divenuto assolutamente impossibile stampare il suo studio sull’arte cristiana, che doveva uscire come seconda parte della Tromba. Egli lo offriva in una nuova redazione per gli Anecdota, insieme a una critica del diritto naturale di Hegel, per quel che si riferiva alla costituzione interna, tendente a combattere la monarchia costituzionale come un ibrido contraddittorio destinato a neutralizzarsi da sé. Ruge fu d’accordo su tutto, ma, a parte l’articolo riguardante l’istruzione sulla censura, non ricevette altro.

Il 20 marzo Marx scriveva di voler liberare l’articolo sull’arte cristiana dal tono della Tromba e dalla gravosa schiavitù dell’impostazione hegeliana, e di volergli dare un’impostazione più libera e perciò più approfondita,

e prometteva di finirlo per la metà di aprile. Il 27 aprile era «quasi pronto»; Ruge doveva «pazientare soltanto qualche giorno»; avrebbe ricevuto l’articolo sull’arte cristiana soltanto in compendio, dato che la cosa gli era cresciuta tra mano fino a diventare quasi un volume. Poi, il 9 luglio, Marx diceva che se non lo scusavano gli avvenimenti cioè, «spiacevoli ragioni intrinseche», rinunciava a scusarsi anche lui; tuttavia non voleva accingersi a nulla finché non avesse terminato la collaborazione per gli Anecdota. Finalmente, il 21 ottobre, Ruge annunciava che gli Anecdota erano ormai completi e che sarebbero stati pubblicati dal Literarisches Kontor di Zurigo; aveva sempre spazio a disposizione per Marx, anche se lui finora gli aveva concesso più speranze che realizzazioni; vedeva molto bene quanto Marx avrebbe potuto compiere di buono, se ci si fosse messo sul serio.

Come Bruno Bauer e Kòppen, anche Ruge, più anziano di sedici anni, aveva la più grande stima di questo giovane ingegno che aveva messo a così dura prova la sua pazienza di redattore. Marx non è mai stato un autore comodo né per i suoi collaboratori né per i suoi editori, ma nessuno di loro ha mai pensato di addebitare a trascurataggine o a infingardaggine ciò che era dovuto soltanto alla piena irrompente dei pensieri e a una autocritica che non si accontentava mai.

In questo caso particolare si aggiunse anche un’altra circostanza per giustificare Marx anche agli occhi di Ruge; egli cominciava allora a sentirsi attratto da un interesse incomparabilmente maggiore di quello filosofico. Col suo articolo sull’istruzione sulla censura egli si era gettato nella lotta politica, e la continuava ora nella Rheinische Zeitung, invece di seguitare a filare il filo della filosofia negli Anecdota.

La Rheinische Zeitung uscì il 1◦ gennaio 1842 a Colonia. In origine non era un giornale d’opposizione, ma piuttosto un foglio governativo. Sin dal quarto decennio del secolo, al tempo dei torbidi di Colonia per la questione del vescovo, la Kòlnische Zeitung coi suoi ottomila abbonati aveva rappresentato le pretese del partito ultramontano, che era potentissimo in Renania, e che dava molto da fare alla politica poliziesca del governo. Essa non lo faceva per un sacro entusiasmo per la causa cattolica, ma per considerazioni com merciali nei riguardi dei lettori, che ormai non volevano saperne più delle benedizioni del controllo berlinese. Il monopolio della Kòlnische Zeitung era talmente forte che il suo proprietario riusciva regolarmente ad eli minare, acquistandoli, tutti i giornali concorrenti che comparissero, anche se erano sostenuti da Berlino. Lo stesso destino minacciava la Rheinische Allgemeine Zeitung, che nel dicembre 1839, appunto per spezzare il monopolio della Kòlnische Zeitung, aveva ricevuto dai censori l’autorizzazione allora occorrente. Tuttavia, all’ultimo momento si costituì una società di borghesi benestanti che fornì un capitale per azioni per una completa trasformazione del giornale. Il governo favoriva queste intenzioni e confermò provvisoriamente alla nuova Rheinische Zeitung l’autorizzazione già concessa al giornale che essa continuava.

In realtà la borghesia di Colonia era lontana le mille miglia dal procurare fastidi di qualsiasi genere al dominio prussiano, che tra le masse della popolazione renana seguitava ad esser considerato come un dominio straniero. Siccome gli affari andavano bene, essa aveva rinunciato alle sue simpatie per la Francia, e dopo la costituzione dello zollverein auspicava addirittura il predominio prussiano sulla Germania. Le sue rivendicazioni politiche erano estremamente moderate e restavano addietro rispetto alle sue esigenze economiche, che miravano a ottenere agevolazioni per il modo di produzione capitalistico, già sviluppato in Renania: e cioè amministrazione parsimoniosa delle finanze statali, costruzione di una rete ferroviaria, ridu zione delle spese giudiziarie e delle tariffe postali, una bandiera comune e consoli Comuni per lo Zollverein, e tutto quel che suole stare scritto tra i desiderata della borghesia.

Ma ora si vide che i due giovani borghesi a cui essa aveva dato l’incarico di costituire la redazione, il refe rendario Georg Jung e l’assessore Dagobert Oppenheim, erano accesi Giovani hegeliani, e in particolare che stavano sotto l’influsso di Moses Hess, figlio anche lui di un commerciante renano, che oltre alla filo sofia hegeliana conosceva a fondo il socialismo francese. Essi assunsero i collaboratori del giornale tra i loro compagni di idee, e particolarmente anche tra i Giovani hegeliani di Berlino, tra i quali Rutenberg ebbe addirittura l’incarico della redazione dell’articolo sui problemi tedeschi: su raccomandazione di Marx, che con ciò non si acquistò davvero un merito speciale. Certamente anche Marx dovette essere fin da principio nell’impresa. Alla fine di marzo egli voleva trasferirsi da Treviri a Colonia, ma la vita era troppo tumultuosa per lui laggiù; provvisoriamente piantò le tende a Bonn, da dove nel frattempo Bruno Bauer era scomparso

: «sarebbe anche un peccato se non rimanesse nessuno qui per far arrabbiare i Santi». Da qui cominciò a mandare alla Rheinische Zeitung quella sua collaborazione con la quale doveva presto superare tutti gli altri collaboratori. Anche se le relazioni personali di Jung e Oppenheim possano aver dato la prima spinta

a fare del giornale una palestra dei Giovani hegeliani, è però difficile ammettere che questa svolta possa essersi compiuta senza consenso o addirittura all’insaputa dei veri e propri azionisti. Essi dovevano essere abbastanza furbi da riconoscere che nella Germania di allora non avrebbero potuto trovare dei lavoratori della mente più capaci di questi. Anche i Giovani hegeliani erano filo prussiani fino all’esaltazione, e tutto quello che nella loro attività poteva essere incomprensibile o sospetto per la borghesia di Colonia, questa lo avrà considerato alla stregua di fisime innocue. Comunque, essa non intervenne quando, già dalle pri me settimane, da Berlino giunsero lamentele sulla «tendenza sovversiva» del giornale, e si minacciò di proibirlo per la fine del primo trimestre. I censori di Berlino erano stati particolarmente allarmati per la no mina di Rutenberg; egli passava per un terribile rivoluzionario, ed era tenuto sotto una severa sorveglianza politica; ancora nelle giornate del marzo 1848, Federico Guglielmo IV tremava di fronte a lui come davanti al vero istigatore della rivoluzione. Se la folgore mortale per il momento non si abbatté sul giornale la cosa si dovette in prima linea al ministro del culto; con tutti i suoi sentimenti reazionari Eichhorn avvertiva la necessità di contrastare la tendenza ultramontana della Kòlnische Zeitung; infatti, per quanto la tendenza della Rheinische Zeitung potesse essere «quasi ancora più preoccupante», essa però giocava con idee, che non potevano presentare alcun interesse per chiunque tenesse in qualche modo i piedi sulla terra. Se no sarebbe incomprensibile il fatto che essi, nell’ottobre 1842, pochi mesi dopo che lui aveva mandato la sua prima collaborazione, lo chiamarono alla direzione del giornale. Marx dimostrò qui per la prima volta la sua incomparabile capacità di legarsi alla realtà così com’essa era, e di far ballare al suono della sua musica situazioni di fatto ormai cristallizzate.

    4.6    ​​​Il Landtag renano

Marx si accinse a illustrare in una serie di cinque lunghe trattazioni le discussioni del Landtag provinciale re nano, che proprio un anno prima aveva tenuto le sue riunioni per nove settimane a Dusseldorf. I parlamenti provinciali erano delle impotenti assemblee solo apparentemente rappresentative, con la cui istituzione la corona prussiana aveva cercato di nascondere la violazione delle promesse di concedere una costituzione, da essa fatte nel 1815; essi si riunivano a porte chiuse e potevano metter bocca al massimo in piccole que stioni locali. Da quando, nel 1837, erano scoppiati i torbidi con la chiesa cattolica a Colonia e i Posen, essi non furono nemmeno più convocati; dai parlamenti provinciali della Renania e della Posnania ci si poteva attendere prevalentemente un’opposizione, anche se soltanto di tendenza ultramontana.

Questi degni corpi rappresentativi erano sufficientemente protetti dal pericolo di prendere una tendenza liberale, dal fatto che condizione indispensabile per appartenervi era la proprietà, e, più esattamente, la proprietà fondiaria di origine feudale doveva fornire la metà di tutti i membri, quella cittadina un terzo, e quella contadina un sesto. Questo edificante principio non si potè realizzare in tutta la sua bellezza in tutte le province, e soprattutto nelle province renane, recentemente annesse, dovettero fare delle concessioni allo spirito moderno; tuttavia restava sempre il fatto che la proprietà di origine feudale possedeva più di un n i/o di tutti i voti, di modo che, siccome le decisioni dovevano esser prese con due terzi di maggioranza, non si poteva fare nulla contro la sua volontà. Inoltre alla proprietà fondiaria cittadina era imposta li limitazione, che, per dar diritto all’eleggibilità, essa doveva essere stata dieci anni nelle stesse mani, e per giunta il governo poteva respingete l’elezione di qualsiasi funzionario cittadino.

Questi parlamenti provinciali erano universalmente disprezzati, ma tuttavia Federico Guglielmo IV li aveva riconvocati per il 1841, dopo l’entrata in carica del suo governo. Egli aveva addirittura un po’ esteso i loro diritti, anche se soltanto con lo scopo di far vedere bianco invece che nero ai creditori dello Stato, coi quali la corona si era impegnata nel 1820 a contrarre nuovi prestiti soltanto con l’approvazione e la garanzia della futura assemblea rappresentativa. In un suo famoso opuscolo Johann Jacoby sollecitava i parlamenti provinciali a esigere come un loro diritto il mantenimento delle promesse regie di una costituzione; ma era come se parlasse ai sordi.

Anche il Landtag renano fallì e proprio anche nelle questioni di politica ecclesiastica, a proposito delle quali il governo lo aveva temuto di più. Esso respinse con due terzi di maggioranza la proposta, ugualmente comprensibile sia da un punto di vista liberale che da un punto di vista ultramontano, di portare davanti a un tribunale o di restituire al suo ufficio l’arcivescovo di Colonia illegalmente arrestato. La questione della

costituzione non fu nemmeno toccata dal Landtag e di fronte a una petizione firmata da più di mille persone, che veniva da Colonia ed esigeva libero accesso alle sedute del Landtag, il resoconto quotidiano completo delle sue discussioni, il libero dibattito sui giornali di tutte le questioni sue e del paese, e infine una legge sulla stampa invece della censura, esso se la cavò nella maniera più pietosa. Si limitò cioè a pregare il re di poter pubblicare il nome ,degli oratori nei verbali del Landtag e rivendicò insieme non una legge sulla stampa che abolisse la censura, ma soltanto una legge sulla censura che prevenisse gli arbitri dei censori. Com’è destino per ogni atto vile, anche questa richiesta non sortì alcun effetto davanti alla corona.

Questo Landtag si ravvivò un poco soltanto quando si trattò di sostenere gli interessi della proprietà fon diaria. Certo esso non poteva pensare a ristabilire il dominio feudale. Ogni tentativo in questo senso era avversato così mortalmente dai renani, che su questo punto essi non stavano assolutamente allo scherzo, come comunicavano a Berlino anche i funzionari inviati in Renania dalle province orientali. In particolare la popolazione renana non lasciava che si attentasse alla libera suddivisibilità delle terre, né a favore del «ceto nobiliare» né a favore del « ceto contadino», anche se la parcellizzazione della proprietà fondiaria, continuata all’infinito, portava, come non a torto diceva il governo, a un polverizzamento vero e proprio. Ma la proposta del governo di porre certi limiti alla parcellizzazione «per conservare un solido ceto contadino

», fu respinta con 49 voti contro 8 dal Landtag, che in questo era d’accordo con la provincia. Tanto più esso si risvegliò a proposito di alcune leggi sui furti di legna, sui reati riguardanti la caccia, le foreste, i campi che gli erano state sottoposte dal governo; qui di fronte all’interesse privato della proprietà fondiaria, il potere legislativo si prostituì senza più pudori.

Secondo un suo vasto piano, Marx sottopose il Landtag a una vera e propria inchiesta. Nel primo scritto, che abbracciava sei lunghi articoli, egli affrontò i dibattiti sulla libertà di stampa e sulla pubblicazione delle discussioni parlamentari. L’autorizzazione a questa pubblicazione, senza che si potessero fare i nomi degli oratori, era stata una di quelle piccole riforme per mezzo delle quali il re aveva tentato di di rianimare i parlamenti provinciali, incontrando tuttavia su questo punto una violenta resistenza da parte dei parlamenti stessi. A dire il vero il Landtag renano non arrivò fino al punto di quelli del Brandeburgo o della Pomera nia, che si erano semplicemente rifiutati di pubblicare i loro verbali, ma anche in esso si rispecchiò quella balorda presunzione che considera gli eletti una specie di esseri superiori, che devono essere soprattutto protetti dalla critica dei propri elettori. «Il Landtag non tollera la luce del giorno. Noi ci sentiamo molto più a nostro agio nella notte della vita privata. Se l’intera provincia si fida di affidare i suoi diritti a singoli individui, va da sé che questi singoli individui sono tanto condiscendenti da accettare la fiducia della provincia, ma sarebbe una vera e propria stravaganza pretendere che essi debbano contraccambiare con la stessa mi sura e abbandonare se stessi, la loro esistenza, la loro personalità al giudizio della provincia, che ha dato loro soltanto un giudizio di coerenza». Sin dal suo primo entrare in campo Marx derideva con gustoso umo rismo quello che poi egli avrebbe battezzato come «cretinismo parlamentare» e che non avrebbe potuto sopportare per tutta la vita.

Ma per la libertà di stampa colpì con tale maestria quale non si vide più né prima né poi. Ruge confessò onestamente: «Non era stato finora detto e nemmeno si potrà poi dire nulla di più profondo a proposito e in difesa della libertà di stampa. Possiamo felicitarci per la cultura, la genialità e il sovrano dominio di idee, ordinariatamente confuse, che fa ora la sua apparizione nella nostra pubblicistica». In questi articoli Marx parlò una volta del clima aperto e sereno della tua patria, e ancor oggi aleggia su di essi uno splendore luminoso, come la luce del sole sui colli del Reno ricchi di vigneti. Se Hegel aveva parlato della «miserabile soggettività della cattiva stampa che vuoi tutto dissolvere», Marx ritornava all’Illuminismo borghese, quando appunto sulla Rheinische Zeitung riconobbe nella filosofia di Kant la teoria tedesca della rivoluzione francese, ma vi ritornava arricchito di tutte le prospettive politiche e sociali che gli erano state dischiuse dalla dialettica della storia di Hegel. Basta confrontare i suoi articoli nella Rheinische Zeitung con le Quattro questioni di Jacoby per riconoscere quanto egli fosse andato avanti: la promessa regia di una costituzione, del 1815, alla quale Jacoby continuava pur sempre a richiamarsi come all’Alfa e all’Omega di tutto il problema costituzionale, Marx non l’ha ritenuta nemmeno degna di una citazione incidentale.

Soltanto, per quanto celebrasse la libera stampa come l’occhio aperto dello spirito del popolo — in confronto alla stampa sottoposta a censura col suo vizio fondamentale dell’ipocrisia, dal quale derivavano tutti gli altri suoi delitti e i suoi vizi schifosi anche soltanto a considerarli dal lato estetico — egli non misconosceva però i pericoli che minacciavano anche la libera stampa. Un oratore del ceto cittadino aveva rivendicato
la libertà di stampa come una parte della libertà di industria; al che Marx rispondeva: «È libera la stampa che si degrada a industria? Lo scrittore è costretto comunque a guadagnare, per poter esistere e vivere, ma non è costretto in nessun modo a esistere e scrivere per guadagnare... La prima libertà di stampa consiste nel fatto che essa non è un’industria. Allo scrittore che la abbassa a strumento materiale, tocca, come punizione per questa interna mancanza di libertà, quella esterna, cioè la censura, o piuttosto, già la sua esistenza è la sua punizione». E Marx ha confermato con tutta la sua vita ciò che egli pretendeva dallo scrittore, cioè che i suoi lavori siano sempre fine a se stessi; essi sono così poco strumenti per lui stesso e per gli altri, che egli, se è necessario, sacrifica la propria esistenza alla loro esistenza.

Il secondo scritto sul Landtag renano si occupava della «faccenda dell’arcivescovo», come scriveva Marx a Jung. Esso fu soppresso dalla censura e non fu pubblicato nemmeno in seguito, sebbene Ruge si offrisse di accoglierlo negli Anecdota. A Ruge Marx scriveva il 9 luglio 1842: «Non creda che qui sul Reno noi si viva in un Eldorado politico. Ci vuole la più coerente tenacia per tirare avanti un giornale come la Rheinische Zeitung. Il mio secondo articolo sul Landtag, che trattava dei torbidi ecclesiastici, è stato censurato. Io vi avevo dimostrato come i difensori dello Stato si sian posti dal punto di vista della Chiesa, e i difensori della Chiesa da quello dello Stato. Questo incidente è tanto più spiacevole per la Rheinische in quanto quegli stupidi dei cattolici di Colonia sarebbero caduti in trappola, e la difesa dell’arcivescovo avrebbe procurato abbonamenti. Del resto è difficile che Lei possa immaginare quanto siano abbiette le autorità e nello stesso tempo quanto stupidamente abbiano trattato con questi testoni di ortodossi. Ma il successo ha coronato l’opera; la Prussia ha baciato la pantofola del Papa davanti agli occhi di tutto il mondo, e le nostre macchine governative camminano per la strada senza arrossire». La frase finale si riferisce al fatto che Federico Guglielmo IV, conformemente alle sue tendenze romantiche, aveva iniziato trattative di pacificazione con la Curia, che per tutto ringraziamento, secondo le regole dell’arte vaticana, rispondeva a schiaffi.

Quello che Marx scriveva a Ruge su questo articolo non deve essere frainteso al punto di pensare che egli avesse seriamente preso le difese dell’arcivescovo per attrarre in trappola i cattolici di Colonia. Anzi, egli restava del tutto coerente con se stesso quando commentava l’arresto, assolutamente illegale, dell’arcive scovo per le sue attività ecclesiastiche è la richiesta, avanzata dai cattolici, di un procedimento giudiziario nei riguardi del vescovo illegalmente arrestato, osservando che i difensori dello Stato si erano posti sul terreno della Chiesa e quelli della Chiesa sul terreno dello Stato. Prendere la giusta posizione in questo mondo a rovescio era comunque una questione decisiva per la Rheinische Zeitung, proprio anche per le ragioni che Marx adduceva più avanti nella lettera a Ruge, perché il partito ultramontano, che veniva vivacemente combattuto dal giornale, era il più pericoloso in Renania, e l’opposizione si era troppo abituata a far l’opposizione all’interno della Chiesa.

Il terzo scritto, che comprendeva cinque lunghi articoli, gettava luce sui dibattiti svoltisi al Landtag sulla legge sui furti di legna. Con esso Marx metteva «i piedi in terra», o, com’egli espresse in altra Occasione lo stesso pensiero, si trovò nell’imbarazzo di dover parlare di interessi materiali che non erano previsti nel sistema ideologico di Hegel. In realtà egli non affrontò il problema posto da queste leggi con quel rigore che avrebbe avuto ormai in anni successivi. Si trattava della lotta dell’era capitalistica avanzante contro gli ultimi resti della proprietà comune del suolo, di una crudele guerra per espropriare le masse popolari; su
207.478 procedimenti penali svoltisi in Prussia nel 1826, circa 150.000, cioè circa i tre quarti, si riferivano a furti di legna e reati concernenti la caccia, le foreste e i pascoli.

Nella discussione della legge sui furti di legna si era imposto nel Landtag renano l’interesse esoso della proprietà fondiaria privata nella miniera più sfrontata, anche più in là del progetto governativo. Contro di questo Marx intervenne con la sua critica tagliente «in favore della massa povera, politicamente e socialmente nul latenente», non ancora però con ragioni economiche, bensì per ragioni giuridiche. Egli rivendicava per i poveri, gravemente minacciati, il mantenimento dei loro diritti consuetudinari, i cui fondamenti egli trovava nel carattere oscillante di una determinata proprietà non caratterizzata decisamente né come privata né come comune, in un miscuglio di diritto privato e di diritto pubblico, quale ci si presenta in tutte le istituzioni del medioevo. L’intelletto aveva eliminato queste formazioni ibride e oscillanti della proprietà, applicando ad esse le categorie del diritto privato astratto derivate dal diritto romano, ma nel diritto consuetudinario della classe povera viveva un senso giuridico istintivo; la sua radice era positiva e legittima.

Se in questo scritto la comprensione storica conserva un «certo carattere oscillante», tuttavia, o piuttosto proprio per questo, esso mostra che cos’è che in ultima analisi ha sollecitato questo grande campione delle «classi povere». Dalla descrizione delle furfanterie con cui l’interesse privato dei proprietari di foreste calpestava logica e ragione, legge e diritto e, non ultimi, gli interessi dello Stato, per soddisfarsi ai danni dei poveri e dei miseri, si avverte ovunque come tutto l’uomo reagisca indignato. «Per garantirsi dai reati riguardanti la proprietà forestale, il Landtag non soltanto ha fatto a pezzi il diritto, ma gli ha trafitto il cuore». Con questo esempio Marx volle dimostrare che cosa ci si potesse attendere da un’assemblea rappresentativa di interessi di ceti particolari, una volta che essa fosse chiamata sul serio a legiferare.

In questo Marx si atteneva ancora alla filosofia del diritto e dello Stato di Hegel. E non in quanto egli celebrasse lo Stato prussiano come lo Stato ideale, a somiglianza dei ripetitori letterali di Hegel, ma in quanto commisurava lo Stato prussiano allo Stato ideale quale risultava dalle premesse filosofiche di Hegel. Marx considerava lo Stato come il grande organismo in cui doveva trovare attuazione la libertà giuridica, morale e politica, e in cui il singolo cittadino, obbedendo alle leggi dello Stato, obbedisce alle leggi naturali della sua stessa ragione, della ragione umana. Muovendo da questa posizione Marx potè sì venire a capo dei dibattiti del Landtag intorno alla legge sui furti di legna, e sarebbe venuto a capo anche del quarto scritto che doveva affrontare una legge sui reati riguardanti la caccia, le foreste e i campi, ma non sarebbe venuto a capo del quinto scritto, che avrebbe dovuto coronare tutto l’edificio e discutere la «questione terrena alla grandezza naturale», cioè la questione della parcellizzazione.

Come la borghesia renana, Marx sosteneva la libera suddivisibilità del suolo; limitare la libertà del contadino di creare nuove parcelle significava aggiungere alla sua povertà fisica la povertà giuridica. Ma su questa base giuridica la questione non era risolta; il socialismo francese aveva già da tempo indicato che la libera suddivisibilità del suolo creava un proletariato inerme, e l’aveva posta sullo stesso piano dell’isolamento atomistico dell’artigianato. Se Marx voleva trattarne, doveva venire a una spiegazione col socialismo.

Certamente egli aveva avvertito questa necessità e non le si sarebbe davvero sottratto se avesse portato a termine la serie progettata dei suoi studi. Ma non arrivò a tanto. Quando fu pubblicato nella Rheinische Zeitung il terzo scritto, Marx era già il suo direttore, e l’enigma socialista gli si presentò ancor prima che egli potesse risolverlo.

    4.7    ​​​Cinque mesi di lotta

Nel corso dell’estate la Rheinische Zeitung si era permessa un paio di piccoli excursus nel campo sociale; è da supporre che l’iniziativa risalga a Moses Hess. Una volta essa ristampò da una rivista di Weitling un articolo sulle case d’abitazione di Berlino, come contributo a una «questione scottante», e aggiunse a una sua corrispondenza da Strasburgo su un congresso di scienziati, nel quale si erano trattate anche questioni di socialismo, l’osservazione del tutto innocua che, se il ceto non abbiente mirava alle ricchezze della classe media, la cosa poteva esser paragonata alla lotta della classe media contro la nobiltà del 1789, ma che questa volta si sarebbe trovata una soluzione pacifica.

Queste occasioni in sé innocue bastarono alla Allgemeine Zeitung di Augusta per accusare la Rheinische Zeitung di far l’occhiolino al comunismo. Su questo punto neanche quel giornale aveva la coscienza a posto, e aveva pubblicato sul socialismo e sul comunismo francese molte Cose di mano di Heine che sapevano alquanto di bruciaticcio, ma era l’unico giornale tedesco di importanza nazionale o addirittura internazionale, e questa posizione cominciava ad essere minacciata dalla Rheinische Zeitung. Per quanto dunque il suo violento attacco avesse poco degni motivi, pure era scagliato non senza una maligna abilità; accanto ad allusioni di ogni genere ai figli di ricchi commercianti che giocavano Con innocente ingenuità con le idee socialiste, senza darsi alcun pensiero di come dividere i loro averi con i lavoranti del duomo o gli scaricatori del porto di Colonia, essa dimostrava trionfalmente che in un paese come la Germania, economicamente ancora tanto arretrato da osare appena di respirare liberamente, era proprio un errore da bambini minacciare alla classe media la sorte della nobiltà francese del 1789.

La difesa contro questo acido attacco fu il primo compito redazionale che si presentò a Marx, ed era abbastanza incomodo per lui. Egli non voleva farsi paladino di cose che lui stesso riteneva «balordaggini», ma non poteva nemmeno esprimere una sua opinione sul comunismo. Così considerò la possibilità di portare la guerra nel campo dell’avversario, attribuendogli velleità comuniste, ma confessò onestamente che alla Rheinische Zeitung non era concesso liquidare con una sola frase problemi alla cui soluzione lavoravano due popoli. Essa avrebbe sottoposto a una critica radicale le idee comuniste — alle quali nella loro forma attuale non poteva nemmeno attribuire realtà teoretica, delle quali tanto meno poteva perciò auspicare la pratica attuazione, o che anche soltanto non poteva ritenere possibili — «facendo precedere studi estesi e approfonditi», perché scritti come quelli di Leroax, Considérant e soprattutto l’acuta opera di Proudhon non potevano essere liquidati accontentandosi di uno sguardo superficiale.

Più tardi Marx può aver pensato di aver preso in uggia il lavoro alla Rheinische Zeitung in seguito a questa polemica e di aver afferrato «avidamente» l’occasione di ritirarsi nel suo studio. Ma, come suole accadere nel ricordo, causa ed effetto gli si sono presentati confusi. Per il momento Marx era ancora preso anima e corpo dalla cosa, che gli appariva tanto importante da romperla per amore suo con i vecchi compagni di Berlino. Di loro infatti non c’era più da gloriarsi, da quando la irruzione mitigata sulla censura aveva tra sformato il Doktorklub, nel quale era stato pur sempre vivo «un interesse spirituale», in una associazione di cosiddetti «Liberi », dove quasi tutti i letterati della capitale prussiana del periodo pre=quarantottesco si erano dati convegno per recitare la parte di rivoluzionari politici e sociali sotto forma di filistei inselvatichiti. Già nell’estate Marx era alquanto allarmato da questo atteggiamento; diceva che altro era proclamare la propria emancipazione, che era coscienziosità, e altro screditarsi in anticipo come dei tromboni da propa ganda. Ma pensava che fortunatamente Bruno Bauer era a Berlino; lui avrebbe fatto sì che almeno non si commettessero «sciocchezze».

Ma in questo Marx, purtroppo, si sbagliava. Secondo un’informazione degna di fede, Kòppen si tenne lontano dall’atteggiamento dei Liberi, ma non così Bruno Bauer, che non si vergognava nemmeno di fare il capo in testa delle loro buffonate. Il loro bighellonare per le strade, le loro scene scandalose in bordelli e birrerie, il loro insulso farsi beffe di un prete indifeso, a cui Bruno Bauer, al matrimonio di Stirner, porgeva gli anelli d’ottone del suo portamonete di maglia, facendo notare che come anelli matrimoniali potevano anche servire, tutto ciò faceva dei Liberi l’oggetto un po’ dell’ammirazione e un po’ del terrore di tutti i mansueti filistei, ma comprometteva irrimediabilmente la causa che essi dicevano di rappresentare.

Naturalmente questi atteggiamenti da ragazzacci di strada esercitavano un’influenza desolante anche sulla produzione culturale dei Liberi, e Marx aveva un bel da fare con la loro collaborazione alla Rheinische Zeitung. Molte loro cose cadevano sotto il lapis rosso del censore, ma — così scriveva Marx a Ruge — « io mi permettevo di annullarne tante quante il censore, dal momento che Meyen e consorti ci mandavano mucchi di sudicerie piene di velleità rivoluzionarie e vuote di pensiero, in uno stile indecente, condito con un pizzico di ateismo e di comunismo (che i signori non hanno mai studiato), e dal momento che, data l’assoluta mancanza in Rutenberg di spirito critico, di indipendenza e di capacità, si erano abituati a considerare la Rheinische Zeitung come un loro organo, privo di volontà propria; ma io ho creduto di non dover più permettere che seguitassero a farvi come prima le loro pisciatine». Questa fu la prima ragione dell’«oscuramento del cielo di Berlino», come diceva Marx.

Alla rottura si venne quando, nel novembre del 1842, Herwegh e Ruge si recarono a Berlino. Herwegh si trovava allora nel suo famoso giro trionfale per la Germania, durante il quale aveva anche fatto rapidamente amicizia con Marx a Colonia; a Dresda si era incontrato con Ruge, ed era andato insieme con lui a Berlino. Qui, com’era prevedibile, essi non riuscirono a prender gusto agli eccessi dei Liberi: Ruge ebbe un duro scambio di parole col suo collaboratore Bruno Bauer, perché costui voleva «fargli passar per buone le cose più ridicole», come per esempio che bisognava risolvere nel concetto lo Stato, la proprietà e la famiglia, senza doversi ulteriormente dar pensiero dell’aspetto concreto della faccenda. Altrettanto scarso interesse dimostrò Herwegh per i Liberi, che si vendicarono di questo disprezzo prendendo in giro nel loro (ile la nota udienza che il poeta aveva ottenuto dal re e il suo fidanzamento con una ricca fanciulla. Le parti in lite si rivolsero tutte due alla Rheinische Zeitung. Herwegh, d’accordo con Ruge, chiese ospitalità per una nota nella quale si concedeva, sì, ai Liberi che, presi uno per uno, essi erano per lo più persone, ma si aggiungeva che, come Herwegh e Ruge avevano loro dichiarato apertamente, col loro romanticismo politico, le loro pose genialoidi e reclamistiche compromettevano la causa e il partito della libertà. Marx pubblicò questa nota, ma fu tempestato da Meyen che si faceva portavoce dei Liberi, con lettere ingiuriose.

Da principio Marx rispose molto concretamente, cercando di riportare sulla giusta via la collaborazione dei Liberi. «Esigevo che mettessero in mostra meno vaghi ragionamenti, meno frasi altisonanti, meno allusioni compiaciute, e più determinatezza, più aderenza alle situazioni concrete, più cognizioni specifiche. Dichiaravo di ritenere sconveniente, anzi immorale, far passare di contrabbando dogmi socialisti e comunisti, cioè una nuova concezione del mondo, in occasionali critiche teatrali, ecc., e di pretendere sul comunismo, se una volta lo si doveva discutere, una discussione del tutto diversa e approfondita. Chiedevo poi che si criticasse la religione nella critica della situazione politica, piuttosto che la situazione politica nella religione, perché questo modo di impostare le cose corrispondeva di più al carattere di un giornale e alla cultura del pubblico, dal momento che la religione, priva di per sé di contenuto, si nutre non del cielo, ma della terra, e cade da sé una volta risolto il rovesciamento della realtà di cui essa è la teoria. Infine volevo che, se si par lava di filosofia, ci si baloccasse meno con l’etichetta Ateismo (quasi come fanno i bambini, che assicurano chiunque li voglia stare a sentire che loro non hanno paura dell’uomo nero) e se ne divulgasse piuttosto il contenuto tra il pubblico».  Queste dichiarazioni consentono anche di gettare uno sguardo istruttivo ai criteri coi quali Marx dirigeva la Rheinische Zeitung.

Ma ancor prima che i suoi consigli fossero giunti a destinazione, egli ricevette da Meyen una «lettera insolente», nella quale costui pretendeva né più né meno che il giornale non «temperasse la polemica», ma « prendesse posizioni estreme», cioè si facesse sopprimere per amore dei Liberi. E allora anche Marx perse la pazienza e scrisse a Ruge: «Da tutta la faccenda traspare una enorme dose di vanità, che non comprende come, per salvare un organo politico, si debbano sacrificare alcune vesciche gonfiate di Berlino, e che non sa pensare ad altro che alle faccende della sua cricca... Dato che noi dobbiamo sopportare dal mattino alla sera le più orribili torture della censura, le pratiche ministeriali, le lagnanze della prefettura, le lamentele del Landtag, le grida degli azionisti ecc. ecc., ed io resto al mio posto soltanto perché ritengo mio dovere di far fallire, per quanto è in me, la realizzazione degli scopi che le autorità si prefiggono, Lei può immaginarsi che sono alquanto irritato e che ho risposto alquanto duramente a Meyen ». In realtà era la rottura coi Liberi, che politicamente hanno fatto tutti più o meno una brutta fine; da Bruno Bauer, più tardi collaboratore della Kreuzzeitung e della Post, fino a Eduard Meyen, che morì direttore della Danziger Zeitung e metteva il punto alla sua vita sprecata con la pietosa freddura che gli era consentito di deridere soltanto i protestanti ortodossi, dato che il proprietario liberale del giornale gli aveva proibito di criticare il Sillabo per riguardo gli abbonati cattolici. Altri dei Liberi si sono insinuati nella stampa ufficiosa o addirittura ufficiale, come Rutenberg, che qualche decennio dopo morì direttore del Preussicher Staatsanzeiger.

Ma allora, nell’autunno 1842, costui era ancora l’uomo più temuto, e il governo pretese il suo allontana mento. A dire il vero, quest’ultimo durante l’estate aveva tormentato il giornale con la censura, ma gli aveva ancora concesso di vivere, nella speranza che morisse da sé; l’8 agosto il prefetto renano von Schaper co municava a Berlino che il numero degli abbonati ammontava soltanto a 885. Ma il 15 ottobre aveva assunto la direzione Marx, e il 10 novembre Schaper annunciava che il numero degli abbonati cresceva incessan temente; da 885 si era elevato a 1820, e la evidenza del giornale diveniva sempre più ostile e insolente. A ciò si aggiunse che sul tavolo della Rheinische Zeitung era capitato un progetto di legge sul matrimonio estremamente reazionario, la cui pubblicazione anticipata inasprì il re tanto più in quanto le difficoltà che esso frapponeva il divorzio trovarono una violenta resistenza tra la popolazione. Egli pretendeva che si minacciasse al giornale l’immediata soppressione se non denunciava chi aveva fornito il progetto, ma i mi nistri non vollero Intrecciare la corona del martirio per l’odiato giornale, che prevedevano avrebbe respinto una così infame pretesa. Si contentarono di allontanare Kuicnberg da Colonia e di pretendere, sotto pena di divieto, la nomina di un direttore responsabile che avrebbe firmato il giornale invece dell’editore Renard. Nello stesso tempo, al posto del censore Dolleschall, Caduto in discredito per la sua scarsa intelligenza, fu nominato un tale assessore Wiethaus.

Il 30 novembre Marx comunicava a Ruge: «Rutenberg, al quale era già stato disdetto l’articolo tedesco (per il quale la sua attività consisteva principalmente nel mettere la punteggiatura), al quale soltanto per opera mia era stato affidato quello francese, Rutenberg, data l’immensa stupidità delle nostre autorità sta tali di controllo, aveva la fortuna di passare per Un individuo pericoloso, sebbene per nessuno fosse più pericoloso che per la Rheinische Zeitung e per se stesso. Ci è stato imposto d’autorità l’allontanamento di Rutenberg. L’autorità prussiana di controllo, questo despotisme prussien, le plus hypocrite, le plus fourbe, ha risparmiato al gerente [Renard] un passo spiacevole, e il nuovo martire, che sa già rappresentare la coscienza del martirio con un certo virtuosismo nella fisionomia, nell’atteggiamento e nel linguaggio, Ru tenberg insomma, sfrutta questa occasione, scrive a tutto il mondo, scrive a Berlino dicendo di essere il principio della Rheinische Zeitung in esilio, che assume ora un’altra posizione verso il governo». Marx com menta l’incidente osservando che il suo dissidio coi Liberi di Berlino si è così acuito, ma sembra quasi che prendendo in giro il «martire» Rutenberg abbia calcato un po’ troppo la mano contro quel povero diavolo.

La sua osservazione che l’allontanamento di Rutenberg era stato «imposto d’autorità» e che così era stato risparmiato all’editore Renard un «passo spiacevole», non si può spiegare altrimenti se non pensando che ci si adattò all’intervento d’autorità e che si rinunciò a ogni tentativo di mantenere Rutenberg. Un tentativo del genere sarebbe stato senza dubbio privo di prospettive, e si aveva certamente motivo di risparmiare all’editore ogni «passo spiacevole», cioè ogni interrogatorio obbligato, per cui quell’editore assolutamente apolitico non era all’altezza. Egli si limitò a firmare una protesta scritta contro il minacciato divieto, ma, come dimostra la copia a mano che si trova nell’archivio di Stato di Colonia, essa fu stesa da Marx.

In essa, «cedendo all’imposizione», si accetta il provvisorio allontanamento di Rutenberg e ci si impegna alla nomina di un direttore responsabile. E si afferma che la Rheinische Zeitung farà il possibile per evitare la fine, per quanto ciò sia compatibile con la missione di un giornale indipendente. Essa si imporrà nella forma una maggiore moderazione di quella mostrata finora, naturalmente fin dove il contenuto lo consenta. Lo scritto è redatto con una cautela diplomatica di cui non si può portare altro esempio nella vita del suo autore, ma come sarebbe ingiusto pesare ogni parola con la bilancia dell’orefice, non meno ingiusto sareb be dire che il giovane Marx avesse proprio fatto violenza alle sue convinzioni di allora. Nemmeno per quello ch’egli dice sui sentimenti filoprussiani del giornale. Accanto ai suoi articoli polemici contro l’agitazione antiprussiana condotta dalla Allgemeine Zeitung di Augusta, e accanto alla sua azione per l’estensione del lo Zollverein alla Germania nord=occidentale, le sue simpatie prussiane si sarebbero mostrate soprattutto nel suo continuo richiamo alla scienza della Germania settentrionale in contrasto con la superficialità delle teorie francesi e anche tedesche del sud. La Rheinische Zeitung era il primo «giornale renano e in gene rale tedesco del sud» che introduceva nel sud lo spirito nordico=tedesco e che contribuiva così all’unione spirituale delle stirpi divise. A questo ricorso il prefetto von Schaper rispose alquanto di malagrazia; anche se Rutenberg fosse stato subito licenziato e se fosse stato nominato un direttore assolutamente adatto, il rilascio di un’autorizzazione definitiva sarebbe dipeso dal futuro atteggiamento del giornale. Soltanto per l’incarico del nuovo direttore fu concesso un margine di tempo fino al 12 dicembre. Ma non ci si arrivò, per ché a metà dicembre era in atto già una nuova guerra. Due corrispondenze al giornale da Bernkastel sulla miserevole situazione dei contadini della Mosella dettero a Schaper l’occasione a due rettifiche che erano altrettanto inconcludenti per il contenuto quanto dure per la forma. La Rheinische Zeitung, da principio, fece ancora buon viso a cattivo gioco e lodò la «pacata dignità» di queste rettifiche, la quale era tale da far arrossire idi uomini dello Stato di polizia segreta e si prestava «tanto per toglier di mezzo la sfiducia quanto per rafforzare la fiducia».

Ma dopo aver raccolto il materiale necessario, essa, a cominciare dalla metà di gennaio, portò in cinque articoli una quantità di prove documentate di come il governo avesse soffocato con spietata crudeltà le grida di soccorso dei contadini della Mosella. Il più alto funzionario della Renania faceva così una pessima figura. Tuttavia egli si ebbe la dolce consolazione di apprendere che la soppressione del giornale era stata decisa dal consiglio dei ministri, in presenza del re, già il 21 gennaio 1843. Verso la fine dell’anno la collera del re era stata eccitata da una serie di avvenimenti: e cioè da una lettera tra sentimen tale e insolente che Herwegh gli aveva indirizzata da Konigsberg, e che la Leipziger Allgemeine Zeitung aveva pubblicato ad insaputa e contro la volontà dell’autore, poi dall’assoluzione di Johann Jacoby, da parte della Corte suprema, dall’accusa di alto tradimento e di lesa maestà, e infine anche una professione di fede «nella democrazia coi suoi problemi pratici» resa dai Deutsche Jahrbùcher per l’anno nuovo. In seguito a ciò essi vennero subito proibiti e così anche — per la Prussia — la Leipziger Allgemeine Zeitung; ora, senza por tempo in mezzo, anche «l’altra puitana del Reno» doveva fare la stessa fine, tanto più che essa aveva duramente stigmatizzato la soppressione degli altri due giornali.

Come pretesto formale del divieto servì la pretesa mancanza di una autorizzazione («quasi che in Prussia, —  diceva Marx — dove nemmeno un cane può vivere senza il bravo bollo della polizia, la Rheinische Zeitung avrebbe potuto uscire anche un sol giorno senza le condizioni ufficiali per esistere») e come «motivo concreto» fu ripetuto il chiacchierio antico e neo=prussiano sulla scellerata tendenza («il vecchio ritornello —  diceva Marx irridendo — sui cattivi sentimenti, sulle buone teorie, sui trallalalà ecc.» ) Per un riguardo verso gli azionisti si consentì l’uscita del giornale per tutto il trimestre. «Durante questa dilazione accordata al condannato, essa è sottoposta a una doppia censura. Il nostro censore, persona degna, è infatti sottopo sto alla censura del locale presidente del governo, von Gerlach, un testone che obbedisce passivamente; e, più esattamente, il nostro giornale, una volta pronto, dev’essere posto sotto il naso della polizia perché lo annusi, e se c’è puzza appena un po’ di anticristiano o di antiprussiano, il giornale non può uscire». Così Marx a Ruge. In realtà l’assessore Wiethaus fu abbastanza dignitoso da rinunciare alla censura, cosa per cui la società corale di Colonia lo onorò con una canzone. Al posto suo fu mandato da Berlino il segretario ministeriale Saint=Paul, il quale esercitò il mestiere del secondino con tanto zelo che già il 18 febbraio si potè abolire la doppia censura.

Il divieto del giornale fu accolto da tutta la provincia del Reno come un’onta inflitta ad essa medesima. Il numero degli abbonati salì rapidamente a 3.200, e petizioni firmate da migliaia di persone giunsero a Berlino per scongiurare il colpo imminente. Perfino una delegazione di azionisti si mise in viaggio, ma non fu ammessa alla presenza del re, come del resto le petizioni della popolazione sarebbero scomparse senza lasciar segno nel cestino della cartaccia, se non avessero occasionato energici rabbuffi ai funzionari che le avevano firmate. Più preoccupante era il fatto che gli azionisti cercassero di ottenere con un atteggiamento più remissivo del giornale quello che non erano riuscite ad ottenere le loro rappresentanze viaggianti; essenzialmente questa circostanza indusse Marx a dimettersi dalla direzione sin dal 17 marzo, cosa che naturalmente non gli impedì di rendere fino all’ultimo momento il più possibile amara la vita alla censura.

Saint Paul era un giovane bohémien che a Berlino frequentava le birrerie coi Liberi, e a Colonia si azzuffava coi guardiani notturni davanti ai bordelli. Ma era un tipo scaltro, che scoprì presto dove risiedeva il «centro dottrinale » della Rheinische Zeitung e la «fonte viva» delle sue teorie. Nelle sue relazioni a Berlino egli parlò con involontario rispetto di Marx, di cui sia il carattere che l’intelligenza gli avevano evidentemente fatto una grande impressione, nonostante il «profondo errore speculativo » che pretendeva di avere scoperto in lui. Il 2 marzo Saint=Paul poteva annunciare a Berlino che Marx si era deciso, «date le attuali circostanze», a rompere ogni rapporto con la Rheinische Zeitung e a lasciare la Prussia, cosa che indusse i furbi signori di Berlino notare nei loro atti che non era davvero una perdita se Marx se ne andava all’estero, dato che i suoi «sentimenti ultra democratici si trovano in assoluto contrasto col principio dello Stato prussiano»; sul che non c’era certamente nulla da obbiettare. Il 18, poi, il degno censore giubilava: «Lo spiritus rector di tutta l’impresa, il dott. Marx, se ne è andato ieri definitivamente, e Oppenheim, uomo veramente moderato nel complesso e del resto insignificante, gli è succeduto nella direzione... Io mi trovo molto avvantaggiato, e oggi ho impiegato appena un quarto del tempo abituale per la censura». A Marx che se ne andava egli faceva il più lusinghiero complimento proponendo a Berlino di lasciare ormai che la Rheinische Zeitung continuasse a vivere in pace. Ma i suoi committenti lo superavano in viltà; gli fu suggerito di comprare in segreto il direttore della Kölnische Zeitung, un certo Hermes, e di spaventare l’editore di questo giornale, al quale la Rheinische Zeitung aveva mostrato la possibilità di una pericolosa concorrenza; e il colpo mancino riuscì.

Marx stesso però scriveva già il 25 gennaio a Ruge, nello stesso giorno cioè in cui era arrivato a Colonia il divieto della Rheinische Zeitung: «Nulla mi ha sorpreso. Lei sa che cosa io già pensassi dell’istruzione sulla censura. Io vedo qui soltanto una conseguenza, io vedo nella soppressione della Rheinische Zeitung un progresso della coscienza politica perciò mi rassegno. Inoltre l’atmosfera era divenuta troppo pesante per me. E’ brutto compiere lavori servili anche per la libertà e combattere a colpi di spillo invece che di mazza. Mi sono stancato dell’ipocrisia, della stupidità, della rozza autorità e del nostro piegarci, curvarci, chinare le spalle e sofisticare con le parole. Insomma il governo mi ha ridato la libertà... In Germania non posso combinare più nulla. Qui si falsifica sé stessi».

    4.8    ​​​Ludwig Feuerbach3

Proprio in questa lettera Marx confermava di aver ricevuto la raccolta nella quale aveva dato alla luce il suo primo parto politico. Fu pubblicata al principio del marzo 1843 in due volumi, sotto il titolo: Anecdota zur neuesten deutschen Philosophie und Publizistik, a cura della rivista di Zurigo, che Julius Fròbel aveva fon dato come rifugio dei tedeschi che fuggivano la censura. In essi sfilava ancora una volta la vecchia guardia dei Giovani hegeliani, ma già con le file ondeggianti, e in mezzo a loro l’audace pensatore che decretava la morte di tutta la filosofia di Hegel, che vedeva nello « spirito assoluto» lo spirito defunto della teologia e con ciò la pura credenza nei fantasmi, che vedeva risolti tutti i segreti enigmi della filosofia nell’intuizione del l’uomo e della natura. Le Tesi provvisorie per la riforma della filosofia, che Ludwig Feuerbach pubblicava negli Anecdota, furono una rivelazione anche per Marx.

Più tardi Engels datò il grande influsso di Feuerbach sull’evoluzione spirituale del giovane Marx a partire dall’Essenza del Cristianesimo, il più famoso scritto di Feuerbach, uscito già nel 1841. Dell’«effetto liberatore» di questo libro, che bisognava aver provato personalmente per farsene un’idea, Engels diceva:

«L’entusiasmo era generale, in quel momento eravamo tutti feuerbachiani». Soltanto, in quello che Marx ha pubblicato sulla Rheinische Zeitung non si avverte ancora l’influenza di Feuerbach; Marx ha «salutato entusiasticamente» la nuova concezione, nonostante tutte le riserve critiche, soltanto nei Deutsch Französische Jahrbücher, che apparvero nel febbraio 1844 e già nel titolo tradivano un certo riecheggiamento del pensiero di Feuerbach.

Ora, le Tesi provvisorie sono certamente già contenute nella Essenza del Cristianesimo, e in questo senso l’errore in cui Engels è incorso nel ricordo, appare indifferente.  Ma non lo è in quanto esso nasconde il rapporto spirituale tra Feuerbach e Marx. Feuerbach, per quanto si sentisse a suo agio soltanto nella solitudine della campagna, era nondimeno un lottatore. Egli pensava, con Galileo, che la città era simile a una prigione per gli animi speculativi, e che invece la libera vita della campagna fosse un libro della natura, aperto davanti agli occhi di chiunque amasse leggervi col proprio intelletto. Con tali parole Feuerbach difese sempre contro ogni tentazione la sua vita solitaria a Bruckberg; egli amava la solitudine della campagna, non nel senso del vecchio detto che proclama «beato chi vive in solitudine», ma perché da essa attingeva le forze per la lotta, nel bisogno che ha il pensatore di raccogliersi e di non lasciare che i rumori del giorno lo strappino alla contemplazione della natura, che era per lui la fonte prima di tutta la vita e dei suoi segreti.

Nonostante la sua vita ritirata in campagna, Feuerbach partecipava in prima linea alle grandi lotte del suo tempo. I suoi articoli davano alla rivista di Ruge la mordacità e l’acutezza più taglienti. Nell’Essenza del Cristianesimo egli dimostrava che è l’uomo che fa la religione e non la religione che fa l’uomo, e che gli esseri superiori creati dalla nostra fantasia sono soltanto i riflessi fantastici del nostro stesso essere. Ma proprio nel momento in cui usciva questo libro, Marx si volgeva alla lotta politica che lo portava in mezzo al frastuono della pubblica piazza, per quel tanto che si potesse in genere parlarne; per essa non bastavano le armi che Feuerbach aveva approntato nel suo scritto. Ma ora che la filosofia di Hegel gli si era rivelata incapace a risolvere le questioni materiali, che gli si erano presentate alla Rheinische Zeitung, apparivano per l’appunto le Tesi provvisorie per la riforma della filosofia, che davano il colpo mortale alla filosofia di Hegel, ultimo rifugio, ultimo sostegno razionale della teologia. Così esse fecero una profonda impressione su Marx, anche se egli si riservò subito il suo diritto di critica.

Nella sua lettera del 13 marzo egli scriveva a Ruge: «Gli aforismi di Feuerbach mi paiono inadeguati soltanto per il fatto che rimandano troppo alla natura e troppo poco alla politica. Ma questo è l’unico legame attraverso il quale la filosofia attuale può diventare una verità. Tuttavia avverrà certamente come nel secolo decimosesto, quando agli entusiasti della natura corrispose tutta un’altra serie di entusiasti dello Stato». In realtà nelle sue Tesi Feuerbach sfiorava la politica soltanto con una misera osservazione che era un passo indietro piuttosto che in avanti rispetto a Hegel. In questo punto si inserì Marx, per affrontare la filosofia del diritto e dello Stato di Hegel altrettanto radicalmente quanto Feuerbach aveva affrontato la filosofia della natura e della religione del maestro.

In un altro passo, la lettera a Ruge del 13 marzo rivelava quanto Marx subisse allora l’influenza di Feuer bach. Non appena fu chiaro per lui che non poteva scrivere sotto la censura prussiana né respirare l’aria prussiana, fu presa insieme la decisione di non lasciare la Germania senza la fidanzata. Il 25 gennaio aveva già domandato a Ruge se avrebbe potuto trovare lavoro nel Deutscher Bote, che Herwegh aveva intenzione di pubblicare a Zurigo, ma le intenzioni di Herwegh andarono in fumo, ancor prima di attuarsi, in seguito alla sua espulsione da Zurigo. Ruge fece allora nuove proposte di lavoro in comune, tra l’altro quella della direzione in comune degli Jahrbùcher trasformati e ribattezzati; Marx avrebbe potuto recarsi a Lipsia, dopo sistemate le lue «beghe redazionali» di Colonia, per concordare a voce il «luogo «Iella nostra risurrezione».

Il 13 marzo Marx si dichiarava d’accordo, ma esprimeva «provvisoriamente» la sua convinzione sul «nostro progetto» con queste parole: «Quando Parigi fu conquistata, alcuni proposero di dare il potere al figlio di Napoleone con una reggenza, altri a Bernadotte, altri ancora a Luigi Filippo. Ma Talleyrand rispose: Luigi XVIII o Napoleone.  Questo è un principio„ tutto il resto è intrigo.  E così anch’io potrei definire non un
principio ma un intrigo quasi tutte le città meno Strasburgo (o al massimo la Svizzera). Libri di più di venti fogli di stampa non sono letture per il popolo. Il massimo che si può osare sono i quaderni mensili. Anche se si avesse di nuovo il permesso per i Deutsche Jahrbùcher, nel caso migliore potremmo arrivare a una scialba copia dei defunti, e oggi questo non basta più. Invece: Deutsch=Franzósische Jahrbùcher, questo sarebbe un principio, un avvenimento fecondo di conseguenze, un’impresa per cui ci si può entusiasmare

». Si avverte qui l’eco delle Tesi di Feuerbach, nelle quali si dice che il filosofo vero, tutt’uno con la vita e con l’uomo, deve essere di sangue gallo=germanico. Il cuore doveva essere francese, la testa tedesca. La testa fa la riforma, ma il cuore la rivoluzione. Soltanto dove c’è movimento, agitazione, passione, sangue, sensi bilità, c’è anche lo spirito. Soltanto l’esprit di Leibniz, il suo principio sanguigno, materialistico=idealistico, ha strappato per la prima volta i tedeschi dal loro pedantismo e dal loro scolasticismo.

Nella sua risposta del 19 marzo, Ruge si dichiarò perfettamente d’accordo con questo «principio gallo=germanico», ma la sistemazione commerciale della faccenda si trascinò ancora per parecchi mesi.

    4.9    ​​​Nozze ed esilio

Negli anni agitati delle sue prime lotte pubbliche, Marx ha dovuto lottare anche con alcune difficoltà dome stiche. Di queste non parlava volentieri e sempre soltanto se ve lo costringeva una dura necessità; in netto contrasto con la misera sorte del filisteo, che dimentica cielo e terra per le sue carabattole, a lui era dato di sollevarsi anche al di sopra della più amara miseria fino ai «grandi fatti dell’umanità». E la vita gli ha offerto anche troppe occasioni di esercitarsi in questa sua capacità.

Già nelle prime parole che si hanno di lui sulle sue « miserie private», la sua concezione di queste cose si esprime in modo molto significativo. Per scusarsi con Ruge del ritardo della collaborazione promessa per gli Anecdota, egli scriveva il 9 luglio 1842, dopo aver elencato altri ostacoli: «Tutto il resto del tempo è stato sempre interrotto e angustiato dalle più spiacevoli controversie familiari. La mia famiglia mi ha creato delle difficoltà che, nonostante la sua buona situazione, mi hanno cacciato momentaneamente nella più deprimente situazione. Non posso davvero annoiarLa col racconto di queste miserie private; è una vera fortuna che le porcherie pubbliche rendano impossibile a un uomo di carattere irritarsi all’occasione per faccende private». E proprio questa testimonianza di una inconsueta forza di carattere i filistei, con la loro
«irritabilità per faccende private», hanno da sempre rinfacciato a questo Marx «senza cuore».

D’altra parte non si conosce più esattamente che cosa fossero queste «spiacevolissime controversie familiari»; Marx ci tornò su soltanto un’altra volta, e tenendosi sempre sulle generali, quando si trattò della fondazione dei Deutsch-Französische Jahrbücher. Egli scriveva a Ruge che, appena il progetto avesse preso forma concreta, si sarebbe recato a Kreuznach, dove la madre della sua sposa viveva da quando le era morto il marito, e là si sarebbe sposato, e vi sarebbe restato poi qualche tempo dalla suocera, «dato che in ogni caso, prima di accingerci all’opera, dovremmo aver finito certi lavori... Posso assicurarLa, senza alcun romanticismo, che sono innamorato da capo a piedi e con tutta serietà. Sono fidanzato già da più di sette anni, e la mia fidanzata ha affrontato per me le battaglie più dure, che sono state quasi esiziali per la sua salute, in parte coi suoi parenti pietisti=aristocratici, per i quali il ‘Signore che è nei cieli’ e ‘il Signore che è a Berlino’ sono uguali oggetti di culto, in parte con la mia stessa famiglia, nella «piale si sono annidati alcuni preti e altri miei nemici. Perciò la mia fidanzata ed io abbiamo combattuto per anni lotte inutili e logoranti, più di certi altri, che sono tre volte più vecchi e parlano continuamente della loro ‘esperienza di vita’ ». Ma oltre queste parche allusioni, niente altro ci è noto sulle lotte del periodo di fidanzamento.

Non senza fatica, ma relativamente presto, e anche senza che Marx li locasse a Lipsia, l’uscita della nuova rivista fu assicurata. Fröbel si decise ad assumersene l’edizione, dopo che Ruge, che disponeva di un discreto patrimonio, si era dichiarato pronto a entrare nel Literarisches Kontor come accomandatario con 6.000 talleri. Come stipendio di direttore per Marx furono stanziati 500 talleri. Con questa prospettiva egli sposò la sua Jenny il 19 giugno 1843.

Restava ancora da stabilire il luogo dove i Deutsch-Franzosische avrebbero dovuto uscire. La scelta on deggiava tra Bruxelles, Parigi e Strasburgo. La città alsaziana avrebbe’‘corrisposto al massimo ai desideri della giovane coppia Marx, ma alla fine la decisione cadde su Parigi, dopo che Fròbel e Ruge si furono personalmente recati là a Bruxelles. A Bruxelles, a dire il vero, la stampa godeva di una maggiore libertà che a Parigi con le sue cauzioni e le sue leggi di settembre, ma nella capitale francese si era molto più a contatto con la vita tedesca che in quella belga. A Parigi Marx poteva vivere con 3.000 franchi o poco più, scriveva Ruge incoraggiandolo.

Secondo il suo progetto, Marx aveva trascorso i primi mesi del suo matrimonio nella casa della suocera; a novembre egli si trasferì con la moglie a Parigi. Come ultimo segno di vita in patria si è conservata una lettera che egli mandò da Kreuznac Feuerbach, il 23 ottobre 1843, per chiedergli un articolo, e più precisamente uno studio su Schelling, per il primo quaderno dei nuovi jahrbùcher: «Credo di poter quasi concludere dalla sua prefazione alla seconda edizione dell’Essenza del Cristianesimo che Lei avesse qualche cosa in petto su questa vescica gonfiata. Vede, questo sarebbe uno stupendo debutto. Con quanta abilità il signor Schelling ha saputo adescare i francesi, prima il debole, eclettico Cousin, poi perfino il geniale Leroux. Per Pierre Leroux e le persone come lui, Schelling passa sempre come l’uomo che al posto dell’idealismo trascendentale ha messo il realismo razionale, al posto del pensiero astratto il pensiero in carne e ossa, al posto della filosofia degli specialisti, la filosofia del mondo... Perciò Lei renderebbe un grande servigio alla nostra iniziativa, ma anche più alla verità, se ci procurasse subito per il primo quaderno una monografia su Schelling. Lei è proprio l’uomo adatto per questo, perché Lei è lo Schelling a rovescio. Lo schietto pensiero giovanile di Schelling — noi dobbiamo credere a quel che c’è di buono nei nostri avversari — questo pensiero per la cui realizzazione egli non aveva tuttavia altro strumento che l’immaginazione, altra energia che la vanità, altro incentivo che l’oppio, altro organo che l’irritabilità di una ricettività femminea, questo schietto pensiero giovanile di Schelling che in lui è rimasto un fantastico sogno giovanile, è divenuto in Lei verità, realtà, virile serietà... Perciò io la ritengo l’avversario necessario, naturale di Schelling, insomma, quegli a ciò destinato dalle Loro Maestà la Natura e la Storia». Con quanta amabilità è scritta questa lettera, e come ne traspare luminosa la lieta speranza di una grossa battaglia!

Ma Feuerbach esitava. Egli aveva già lodato in un primo momento, di fronte a Ruge, la nuova iniziativa, ma poi l’aveva rifiutata; e nemmeno il richiamo al suo «principio gallo=germanico» lo aveva fatto con vertire. I suoi scritti avevano in prima linea contribuito ad accendere le ire dei potenti, di modo che essi abbattevano col bastone della polizia quel che ancora sopravviveva in Germania della libertà della filosofia, e l’opposizione filosofica dovette fuggire all’estero, se non voleva arrendersi vilmente.

Arrendersi non era cosa da Feuerbach, ma non era nemmeno da lui slanciarsi arditamente nelle onde che si infrangevano intorno alla morta terra tedesca. Il giorno in cui Feuerbach rispose alle ardenti parole, con cui Marx lo sollecitava, con cordiale interessamento, ma tuttavia con un rifiuto, fu il giorno più nero della sua vita. Da quel momento egli si isolò anche spiritualmente.

 

Note

1 David Strauss (18081874), discepolo della filosofia Hegeliana, sottopone i Vangeli ad una ricerca sto rica, seguendo il monito di Hegel secondo cui la religione rivelata era in verità una costruzione storica. Su questa base scrive “La vita di Gesù”, che darà via ad un forte dibattito tra i giovani hegeliani e in generale all’interno della filosofia tedesca.

2 Bruno Bauer (18091882). Professore di teologia, discepolo di Hegel, fu uno dei principali esponenti della sinistra hegeliana. Fu allontanato dall’insegnamento per i suoi scritti in cui aderisce all’idea della storicità della figura di Gesù

3 Ludwig Feuerbach (18041872). Fu il primo esponente della sinistra hegeliana a spingere le proprie concezioni oltre lo stesso idealismo hegaliano. Feuerbach partiva dalla dialettica hegeliana per sostenere che non poteva esistere sistema di pensiero definito e immutato, arrivando ad affermare la necessità di tro vare l’origine del pensiero umano all’interno della natura stessa. La svolta materialista di Feuerbach tuttavia rimase incompleta, visto che non individuò quale fosse la base materiale di formazione della coscienza. Di conseguenza, l’idealismo negato a parole, faceva il capolino di nuovo nelle sue tesi.