​​CAPITOLO 17


L’ultimo decennio



    17.1    ​​​Marx nella sua casa

Alla fine del 1873, dopo gli ultimi sussulti dell’Internazionale, Marx si ritirò nella sua stanza da lavoro, così come aveva fatto nel 1853, dopo gli ultimi sussulti della Lega dei Comunisti. Ma questa volta fu per tutto il resto della sua vita.

Il suo ultimo decennio è stato definito «una lenta morte», ma con molta esagerazione. E’ vero che le lotte sostenute dopo la caduta della Comune avevano inferto nuovi, duri colpi alla sua salute: nell’autunno del 1873 egli soffrì molto di emicrania e corse il grave rischio di un colpo apoplettico. Questo stato di oppressione cronica al capo lo rese incapace di lavorare e gli tolse la voglia di scrivere: a lungo andare ciò avrebbe potuto avere brutte conseguenze. Ma Marx si riprese sotto le cure del medico Gumpert di Manchester, amico suo e di Engels, nel quale riponeva piena fiducia.

Nel 1874, per consiglio di Gumpert, si decise ad andare a Karlsbad, e altrettanto fece i due anni seguenti; nel 1877, per cambiare, scelse Neuenahr, dopo di che, nel 1878, i due attentati contro l’imperatore tedesco e la caccia ai socialisti gli chiusero l’accesso al continente. Tuttavia le cure, e soprattutto i tre soggiorni a Karlsbad, gli avevano giovato «meravigliosamente» e lo avevano liberato quasi del tutto del suo mal di fegato. Restavano ancora i dolori di stomaco e la tensione nervosa, che si manifestava nel dolor di capo e soprattutto in un’ostinata insonnia. Ma queste infermità più o meno scomparivano d’estate, dopo un soggiorno in una stazione balneare o climatica, per ricomparire più fastidiose dopo il principio dell’anno successivo.

Un completo ristabilimento della sua salute sarebbe stato certamente possibile soltanto se Marx si fosse concesso il riposo che avrebbe ben potuto pretendere all’avvicinarsi dei sessantanni, dopo una vita di lavoro e di sacrifici. Ma per lui non c era neppur da pensarci. Per terminare il suo capolavoro scientifico, si gettò con tutto l’ardore negli studi, il cui campo nel frattempo si era molto allargato. «Per un uomo che esaminava ogni oggetto nella sua origine storica e nelle sue condizioni prime», dice in proposito Engels, «da ogni singola questione scaturiva naturalmente tutta una serie di nuove questioni. Storia primitiva, agronomia, rapporti di proprietà fondiaria russi e americani, geologia ecc. furono presi in esame, per portare particolarmente la sezione sulla rendita fondiaria del terzo volume a una completezza finora mai tentata. Oltre a tutte le lingue germaniche e romanze, che leggeva con facilità, imparò anche l’antico slavo, il russo e il serbo». E questo non era che la metà del suo lavoro quotidiano. Per quanto si fosse ritirato dall’agitazione politica, Marx non sì occupava meno attivamente del movimento operaio europeo e americano. Era in corrispondenza con quasi tutti i dirigenti dei diversi paesi, che nelle occasioni importanti gli chiedevano il suo personale consiglio: era sempre più il consigliere più ricercato e sempre pronto del proletariato combattivo.

Come Liebknecht aveva ritratto in maniera suggestiva Marx cinquantenne, così Lafargue ha ritratto Marx
sessantenne. Egli afferma che il fisico di suo suocero doveva essere di costituzione ben robusta, per essere adatto a un tenore di vita inconsueto e a un lavoro intellettuale estenuante. «Infatti era assai robusto, di statura superiore alla media, le spalle larghe, il torace ben sviluppato, le membra ben proporzionate, sebbene la spina dorsale fosse un po’ troppo lunga in confronto alla gambe, come spesso si nota nella razza ebraica». E non soltanto nella razza ebraica; il fisico di Goethe era costruito nella stessa maniera: anche lui era uno di quei «giganti seduti», come la voce popolare suole chiamare quelle figure che, per la lunghezza relativa della loro spina dorsale, sedute appaiono più alte di quello che sono.

Lafargue riteneva che se Marx in giovinezza avesse fatto molta ginnastica sarebbe diventato un uomo straordinariamente forte. Invece l’unico esercizio fisico che avesse fatto regolarmente era quello di cam minare a piedi, oppure di salire sulle colline, senza avvertire la benché minima stanchezza. Ma di solito esercitava questa capacità solo nella sua stanza da lavoro per ordinare le idee: dalla porta alla finestra il tappeto presentava una striscia completamente logora, come il sentiero di un prato.

Nonostante che andasse a riposare sempre a ora avanzata, al mattino fra le otto e le nove era in piedi, beveva il suo caffè nero, leggeva i giornali e andava nella sua stanza da lavoro che fino a mezzanotte o più tardi non lasciava che per prendere i pasti o, se dia sera il tempo lo permetteva, per fare una passeggiata fino a Hampsteed Heath; durante il giorno dormiva un’ora o due sul suo divano. Lavorare era diventata la sua passione a tal punto che spesso dimenticava di mangiare. Il suo stomaco doveva pagare per il suo straordinario lavorio cerebrale. Era un mangiatore molto debole, e soffriva di disappetenza, che cercava di vincere facendo uso di cibi molto salati, prosciutto, pesci affumicati, caviale e aringhe. Debole mangiatore, non era però un forte bevitore, per quanto non sia mai stato un apostolo della temperanza e, come figlio della Renania, sapesse apprezzare un buon goccio. Invece era un fumatore accanito e grande sciupone di fiammiferi: diceva che il Capitale non gli avrebbe reso tanto quanto gli erano costati i sigari che aveva fumato mentre lo scriveva. Poiché nei lunghi anni della miseria aveva dovuto contentarsi di tabacco di qualità molto dubbia, questa passione non giovò alla sua salute, e il dottore dovette vietargli più volte di fumare.

Marx trovava ristoro e sollievo nella letteratura, che per tutta la vita ha servito efficacemente a confortarlo. In questo campo aveva le conoscenze più vaste, senza che mai ne facesse mostra: le sue opere ne lasciano apparire poco, con la sola eccezione dello scritto polemico contro Vogt, nel quale egli fece uso, per i propri fini artistici, di numerose citazioni da tutte le letterature europee. Come il suo capolavoro scientifico rispecchia tutta un’epoca, così anche i suoi autori preferiti erano quei grandi poeti mondiali delle cui creazioni si può dire la stessa cosa: da Eschilo e Omero fino a Dante, Shakespeare, Cervantes e Goethe. Come racconta Lafargue, ogni anno leggeva Eschilo nel testo originale; restò sempre fedele ai suoi antichi greci e avrebbe voluto cacciare dal tempio con la verga quelle meschine anime di mercanti che avrebbero voluto togliere agli operai l’interesse per la cultura antica.

Conosceva la letteratura tedesca ben addentro fin nel Medio Evo. Dei moderni, accanto a Goethe, egli si sentiva vicino soprattutto a Heine; di Schiller sembra si sia disgustato da giovane, al tempo in cui il filisteo tedesco si entusiasmava per l’«idealismo» più o meno frainteso di questo poeta, nel che Marx vedeva la miseria della grettezza sostituita dalla miseria dell’enfasi. Dopo la sua definitiva partenza dalla Germania, Marx non si curò più molto della letteratura tedesca; non nomina mai neppure quei pochi che avrebbero meritato la sua attenzione, come Hebbel o Schopenhauer; occasionalmente critica aspramente il modo in cui Richard Wagner deformava la mitologia tedesca.

Fra i francesi aveva in alta considerazione Diderot: definiva un capolavoro unico Il nipote di Rameau. Questa predilezione si estendeva alla letteratura francese dell’illuminismo del diciottesimo secolo, di cui En gels dice una volta che in essa lo spirito francese ha creato le sue cose più alte, per forma e contenuto; che per il contenuto, tenendo conto dello stato della scienza del tempo, essa occupa una posizione infinitamente elevata, per la forma non è stata mai più uguagliata. A questa predilezione corrispondeva l’avversione di Marx per i romantici francesi; specialmente Chateaubriand non gli andò mai a genio, con la sua falsa profondità, i suoi eccessi bizantini, la sua variopinta civetteria sentimentale, e insomma il suo intruglio inaudito di ipocrisia. Era molto entusiasta della Commedia umana di Balzac, che riflette nello specchio della poesia una intera epoca: dopo aver terminato la sua grande opera, voleva scrivere in proposito, ma questo progetto, come molti altri, non è mai stato tradotto in pratica.

Dopo che egli si fu stabilito a Londra, la letteratura inglese passò in primo piano nei suoi interessi letterari, e qui sopravanzava tutti gli altri la figura potente di Shakespeare, che per tutta la famiglia era oggetto di un vero culto. Purtroppo Marx non ha mai espresso il suo parere sulla posizione di Shakespeare rispetto ai problemi centrali della sua epoca. A proposito di Byron e di Shelley invece affermò che chi amava e capiva questi poeti doveva considerare una fortuna che Byron fosse morto a trentasei anni, perché se fosse vissuto più a lungo sarebbe diventato un borghese reazionario, e al contrario rammaricarsi che Shelley avesse perduto la vita a soli ventinove anni: era stato profondamente rivoluzionario e avrebbe sempre appartenuto all’avanguardia del socialismo. I romanzi inglesi del diciottesimo secolo piacevano molto a Marx, specialmente Tom Jones di Fielding, che a suo modo è anch’esso un’immagine di un mondo e di un’epoca, ma anche in singoli romanzi di Walter Scott riconosceva dei modelli nel loro genere.

Nei suoi giudizi letterari Marx era libero da ogni pregiudizio politico, come dimostra già la sua predilezione per Shakespeare e Walter Scott, ma non accettava neppure quella « pura estetica» che spesso e volentieri va unita all’indifferenza politica o anche al servilismo. Anche in questo era appunto un uomo intero, uno spirito indipendente e originale, che non si poteva misurare con metro comune; anche perché non era affatto di palato difficile, e non disprezzava nemmeno di gustare quei prodotti letterari di fronte ai quali gli estetici di scuola si fanno tre volte il segno della croce. Marx era un gran lettore di romanzi, come Darwin e Bismarck; aveva una speciale predilezione per i racconti avventurosi e umoristici: dai suoi Balzac, Cervantes e Fielding scendeva a Paul de Kock e a Dumas padre, che ha sulla coscienza il Conte di Montecristo.

Marx soleva prender ristoro spirituale anche in un campo del tutto diverso dalla letteratura: soprattutto in giorni di sofferenze morali e di gravi dolori si rifugiava volentieri nella matematica, che aveva su di lui un effetto distensivo. Non si può dire con certezza, qui, se in questo campo abbia fatto delle scoperte indipendenti, come sostengono Engels e Lafargue: i matematici che hanno esaminato i manoscritti da lui lasciati sono di diverso parere.

Con tutto ciò Marx non era un Wagner, che, segregato nel suo museo, non vedesse mai il mondo neppur da lontano, né un Faust, che avesse due anime in petto. «Lavorare per il mondo» era una delle sue frasi preferite: e chi era così fortunato da potersi dedicare a fini scientifici, doveva anche porre le sue conoscenze al servizio dell’umanità. In tal modo Marx conservava fresco il sangue nelle vene e il vigore nelle membra. Nell’ambiente familiare e fra gli amici era il compagno più lieto e scherzoso, cui il riso cordiale prorompeva dal largo petto, e chi cercava il «dottore del terrore rosso», come Marx era chiamato dai giorni della Comune, non si trovava davanti un cupo fanatico o un orso trasognato, ma un uomo di mondo che si trovava a suo agio in qualunque conversazione sensata.

Quella maniera di passare insensibilmente dall’esuberante tensione dell’ira impetuosa al mare profondo ma tranquillo della considerazione filosofica, che sembra spesso così meravigliosa al lettore delle sue lettere, pare che avesse un effetto non meno forte sui suoi ascoltatori. Scrive Hyndman dei suoi colloqui con Marx: «Quando parlava con violenta collera della politica del partito liberale, specialmente della sua politica ir landese, i piccoli occhi infossati del vecchio guerriero s’infiammavano, le sopracciglia folte si aggrottavano, il naso largo e forte e il volto erano visibilmente agitati dalla passione, e lasciava prorompere un torrente di violente accuse, che rivelavano insieme il fuoco del suo temperamento e la sua meravigliosa capacità di padroneggiare la nostra lingua. Era straordinario il contrasto fra il suo atteggiamento quando era pro fondamente agitato dalla collera, e il suo contegno quando passava ad esporre i suoi giudizi sui processi economici del nostro tempo. Senza sforzo visibile passava dalla parte del profeta e del violento accusatore alla parte del tranquillo filosofo, e fin da principio sentii che sarebbero potuti passare parecchi anni prima che io potessi cessare di stare di fronte a lui come uno scolaro di fronte al maestro».

Marx continuò sempre ad astenersi dal frequentare la cosiddetta società, nonostante che negli ambienti borghesi fosse diventato molto più noto che ventanni prima; per esempio era stato indicato a Hyndman da un membro conservatore del parlamento. Ma nei primi anni dopo il 70 la sua stessa casa era diventata centro di un movimento molto attivo, un altro « rifugio dei giusti» per i profughi della Comune, che vi trovavano sempre consiglio e aiuto. Tutta questa gente irrequieta portò certamente con sé anche molti dispiaceri e preoccupazioni; quando a poco a poco scomparve, nonostante tutta la sua premura ospitale la signora Marx non poté reprimere un sospiro: ne avevamo abbastanza.

Ma vi furono anche delle eccezioni. Nel 1872 Charles Longuet, che aveva fatto parte del Consiglio della
Comune e che ne aveva diretto il giornale ufficiale sposò Jenny Marx. Nella famiglia non entrò, né perso nalmente né politicamente, nella stessa intimità di Lafargue, ma era anche lui un tipo in gamba; una volta la signora Marx scrisse di lui: «Si agita, grida e argomenta come prima, ma devo dire a suo onore che ha fatto le sue lezioni al King’s College regolarmente e con soddisfazione dei suoi superiori». Il matrimonio felice fu turbato dalla morte precoce del primo bambino, ma poi crebbe un «grasso, robusto e splendido ragazzo» per la gioia di tutta la famiglia e, non da ultimo, del nonno.

Anche i Lafargue erano fra i profughi della Comune, e abitavano nelle vicinanze. Avevano avuto la sventura di perdere due figli in giovane età; oppresso da questo colpo della sorte, Lafargue aveva smesso di fare il medico, perché gli pareva di non poterlo fare senza una certa dose di ciarlataneria. «E’ un peccato che sia stato infedele al vecchio padre Esculapio», diceva la signora Marx; infatti con lo studio fotografico e litografico le cose andavano avanti a stento, nonostante che Lafargue, che vedeva sempre tutto color rosa, stesse «sulla breccia con un lavoro veramente da negro» e avesse nella moglie un’aiutante coraggiosa e instancabile. Ma era diffìcile lottare contro la concorrenza del grande capitale.

In questo periodo anche la terza figlia trovò un pretendente francese in Lissagaray, che più tardi scrisse la storia della Comune, alle cui lotte aveva partecipato. Sembra che Eleanor Marx fosse favorevolmente disposta verso di lui, ma il padre faceva delle riserve sulla solidità di questo partito; dopo molte esitazioni non se ne fece nulla.

Nella primavera del 1875 la famiglia cambiò ancora una volta residenza, ma sempre nella stessa parte della città: si trasferì al 41 Maitland Park, Haverstock Hill. Qui Marx visse gli ultimi anni, e qui morì.

    17.2    ​​​La socialdemocrazia tedesca

Poiché fin dagli inizi si era sviluppata in una cornice nazionale, la socialdemocrazia tedesca evitò la crisi che tutti gli altri rami dell’Internazionale attraversarono nel trasformarsi in partiti operai nazionali. Pochi mesi dopo il fiasco del Congresso di Ginevra, il 10 gennaio 1874, essa riportò la sua prima vittoria elettorale: furono ottenuti 350.000 voti e nove mandati, di cui tre spettarono ai lassalliani e sei agli eisenachiani.

Le cause che provocarono il tramonto della vecchia Internazionale diventano definitivamente e completa mente chiare se si pensa che Marx ed Engels, le menti che dirigevano il suo Consiglio Generale, riuscivano soltanto con difficoltà a intendersi persino con quel nascente partito operaio che per loro avrebbe dovuto essere il più familiare per la sua origine, e il più vicino per le sue posizioni teoriche. Anch’essi dovevano risentire della loro posizione: l’osservatorio internazionale da cui guardavano le cose impedì loro di com prendere sino in fondo la situazione delle singole nazioni. Ammiratori entusiasti che essi hanno avuto in Inghilterra e in Francia hanno pure convenuto che essi non hanno mai penetrato fino in fondo la situa2Ìone inglese e francese. Da quando avevano lasciato la loro patria, non avevano più avuto uno stretto contatto con la situazione tedesca: neppure nelle questioni strettamente di partito, perché il loro giudizio era turbato dalla invincibile sfiducia per Lassalle e tutto ciò che sapeva di Lassalle.

Ciò si vide in maniera assai indicativa quando si riunì per la prima volta il nuovo Reichstag. Due dei sei rappresentanti eisenachiani, Bebel e Liebknecht, erano ancora in carcere; l’atteggiamento degli altri quattro, Geib, Most, Motteler e Vahlteich, provocò una grande delusione fra i loro stessi seguaci; nelle sue memorie Bebel riferisce che da molte parti aveva ricevuto aspre lagnanze perché i quattro nell’attività parlamentare erano rimasti indietro ai tre lassalliani, Hasenclever, Hasselmann e Reimer. Engels giudicava le cose in modo del tutto diverso: «i lassalliani — scriveva a Sorge — sono talmente screditati dai loro rappresentanti al Reichstag, che il governo deve mettere in atto delle persecuzioni contro di loro, per dare a questo movimento l’apparenza di qualche cosa di serio. Del resto dopo le elezioni i lassalliani si sono trovati nella necessità di stare al seguito dei nostri. Una vera fortuna, che Hasselmann e Hasenclever siano stati eletti al Reichstag. Si screditano a vista d’occhio». Era impossibile fraintendere le cose più di così.

I rappresentanti parlamentari delle due frazioni andavano ottimamente d’accordo, e non si davano gran pensiero che gli uni o gli altri facessero una prova migliore o peggiore sulla tribuna. Le due frazioni avevano condotto la campagna elettorale in modo tale che non si poteva muovere agli eisenachiani il rimprovero di semisocialismo, né ai lassalliani quello di civettare col governo; gli uni e gli altri avevano avuto un numero quasi uguale di voti; nel Reichstag gli uni e gli altri si trovavano opposti agli stessi avversari con le stes se rivendicazioni, e dopo il loro successo elettorale si trovavano esposti a una persecuzione egualmente violenta da parte del governo. L’unica vera divergenza che esisteva fra loro era sulla questione dell’orga nizzazione, ma anche quest’ultimo ostacolo fu eliminato dallo zelo ambizioso del procuratore Tessendorff, che da tribunali volenterosi ottenne dei verdetti che distrussero tanto l’organizzazione più blanda degli eisenachiani che quella più rigida dei lassalliani.

In tal modo l’unificazione delle due frazioni era avviata da sé. Quando, nell’ottobre del 1874, Tòlke portò l’offerta di pace dei lassalliani a Liebknecht, che frattanto era stato rilasciato dal carcere, Liebknecht l’ac cettò subito, forse un po’ arbitrariamente ma con una premura che non tornava meno a suo merito anche se a Londra veniva presa molto male. Per Marx ed Engels i lassalliani restavano sempre una setta in via di estinzione che presto o tardi avrebbe dovuto arrendersi a discrezione. Trattare con loro su un piede di piena parità sembrava a Marx ed Engels uno sciocco errore contro gli interessi della classe operaia tedesca, e quando, nella primavera del 1875, fu pubblicato il progetto del programma comune, su cui i rappresentanti delle due frazioni si erano accordati, essi furono presi da collera furiosa.

Il 5 maggio Marx mandò ai capi degli eisenachiani la cosiddetta lettera del programma, dopo che Engels si era già rivolto a Bebel con una protesta particolareggiata. Nella lettera Marx trattava Lassalle in modo più che mai duro: diceva che Lassalle sapeva a memoria il Manifesto comunista, ma lo aveva falsato in modo grossolano per giustificare la sua alleanza con gli avversari assolutisti e feudali contro h borghesia, affermando che tutte le altre classi erano una massa reazionaria rispetto alla classe operaia. Questa formula di «massa reazionari!» non era stata affatto creata da Lassalle, ma da Schweitzer, dopo la morte di Lassalle, e quando Schweitzer l’aveva coniata ne era stato espressamente lodato da Engels. Lassalle aveva realmente preso dal Manifesti quella che egli aveva battezzato «legge bronzea del salario»: per essa dovette subire il rimprovero di essere seguace della teoria malthusiana della popolazione, che egli aveva rifiutato come la rifiutavano Marx ed Engels.

Ma a parte questa pagina assai spiacevole, le Glosse erano una trattazione molto istruttiva sui princìpi fondamentali del socialismo scientifico, e non lasciavano pietra su pietra del programma di coalizione. Tut tavia l’importante lettera non ebbe altro effetto, come noto, che quello di indurre i destinatari a fare un paio di piccole e insignificanti correzioni al loro progetto. Un paio di decenni dopo Liebknecht disse che i più, se non tutti, erano stati d’accordo con Marx, e che in questo senso forse si sarebbe potuta raggiungere la maggioranza al congresso d’unificazione, ma una minoranza sarebbe rimasta scontenta, ciò che doveva essere evitato, dal momento che si trattava non di formulare dei princìpi scientifici, ma dell’unificazione delle due frazioni.

Del fatto che le Glosse furono passate sotto silenzio si può dare una spiegazione meno solenne, ma in compenso più plausibile, osservando che esse andavano di là dall’orizzonte spirituale degli eisenachiani, e più ancora di là dall’orizzonte spirituale dei lassalliani. E’ vero che pochi mesi prima Marx aveva deplorato che di quando in quando sull’organo degli eisenachiani uscissero fantasie di filistei semidotti: quella roba proveniva da maestri di scuola, dottori, studenti, e perciò occorreva dare una lavata di capo a Liebknecht. Tuttavia riteneva che l’orientamento realistico, che con tanta fatica era stato dato al partito ma che ora aveva messo le sue radici, sarebbe stato cancellato dalla setta dei lassalliani con le sue corbellerie giuridiche e con altre bubbole familiari ai democratici e ai socialisti francesi.

In questo Marx si sbagliava completamente. Nelle questioni teoriche le due frazioni si trovavano all’inarca allo stesso livello, oppure, se differenza vi era, i lassalliani in certo modo erano in vantaggio. Fra gli eise nachiani il progetto del programma di unificazione non suscitò obiezioni, mentre invece un congresso degli operai della Germania occidentale, a cui parteciparono quasi esclusivamente delegati lassalliani, lo sotto pose a una critica che molti punti di contatto aveva con la critica fatta alcune settimane dopo da Marx. Su questo fatto tuttavia non bisogna insistere: tanto luna che l’altra parte erano ancora lontane dal socialismo scientifico, così come era stato fondato da Marx ed Engels; non avevano alcuna idea del metodo del ma terialismo storico, e anche il segreto del modo di produzione capitalistico restò precluso per loro. Ne dà la prova più evidente il modo con cui C. A. Schramm, che allora era il teorico più rinomato degli eisenachiani, non si raccapezzava nella teoria del valore.

In pratica l’unificazione fu raggiunta, ed anche Marx ed Engels non ebbero niente da dire in contrario, a
parte il fatto che essi ritenevano che gli eisenachiani si fossero lasciati gabbare dai lassalliani. Anche Marx però nella Critica del programma di Gotha aveva detto: «Ogni passo di movimento reale è più importante di una dozzina di programmi». Ma poiché nel nuovo partito unificato la mancanza di chiarezza teorica aumentava più che non diminuisse, in questo fatto essi vedevano un effetto dell’innaturale fusione, e la loro insoddisfazione assunse forme piuttosto rudi che indulgenti.

Ma essi avrebbero dovuto notare con sorpresa che quel che li faceva indignare proveniva assai più dagli ex eisenachiani che dagli ex lassalliani, dei quali Engels all’occasione disse che ben presto sarebbero stati le menti più chiare, perché nel loro giornale (che esisteva ancora un anno dopo l’unificazione) accoglievano meno scemenze di tutti gli altri. Diceva anche che la maledizione degli agitatori pagati, degli individui dall’istruzione fatta a metà colpiva gravemente anche il loro partito. Lo irritava soprattutto Most, che «è riuscito a fare degli estratti di tutto il Capitale e malgrado ciò a non capirne niente» e che si dava un gran da fare in favore del socialismo di Dühring. Il 24 maggio 1876 Engels scriveva a Marx: «E’ chiaro: nell’idea di quella gente Dühring, con i volgarissimi suoi attacchi contro di te, si è reso inviolabile nei nostri confronti, giacché, se noi attiriamo le risa sulle sue scemenze teoriche, si tratterebbe di vendetta per quelle cose personali!». Ma anche Liebknecht aveva il fatto suo: «E’ la manìa di W. [Liebknecht], di colmare le lacune della nostra teoria, di avere una risposta a ogni obiezione de filistei, e di avere pronto un quadro della società futura, giacché su questo lo interpella anche il filisteo, e inoltre di essere anche nel campo teorico il più possibile indipendente da noi, il che gli è sempre riuscito molto meglio di quel che lui stesso sappia, data la sua totale mancanza di ogni teoria». Tutto ciò non aveva niente a che fare con Lassalle e le sue tradizioni.

Fu il rapido aumento dei suoi successi pratici e rendere il nuovo partito indifferente verso la teoria, e anche così si è ietto troppo. Esso non disprezzava la teoria come tale, ma ciò che esso, nella foga della sua marcia in avanti, considerava pedanteria teorica. Attorno al suo astro in ascesa si raccoglievano inventori incompresi, avversari della vaccinazione, naturisti e simili teste bizzarre, che speravamo di trovare nelle classi lavoratrici, nel loro movimento così potente, quel riconoscimento che altrove era loro negato. Solo che uno portasse la sua buona volontà o un qualche rimedio per il corpo malato della società, era il benvenuto, e per giunta dagli ambienti accademici affluivano coloro che promettevano di suggellare l’alleanza fra il proletariato e la scienza. Un professore universitario che era o sembrava amico del socialismo, in qualsiasi sfumatura di questa parola dai molti significati, non aveva da temere una critica troppo severa delle sue doti intellettuali.

Da questa critica più di tutti era immune Dühring, perché in lui molte qualità, personali e obiettive, dovevano attrarre gli elementi intellettualmente vivaci della socialdemocrazia berlinese. Aveva indubbiamente grandi doti e capacità, e non poteva non essere simpatico agli operai per il modo in cui, povero e del tutto cieco in età non ancora avanzata, seppe restare nella posizione di Privatdozent senza fare alcuna concessione alle classi dominanti, professando anche dalla cattedra il suo radicalismo politico, celebrando senza paura Marat, Babeuf e gli uomini della Comune. Gli aspetti negativi della sua personalità, la presunzione con cui pretendeva di dominare da sovrano una mezza dozzina di campi della scienza, nessuno dei quali gli era realmente familiare se non altro per la sua minorazione fisica, e la manìa di grandezza sempre crescente, con cui liquidava i suoi predecessori, nel campo filosofico Fichte e anche Hegel, nel campo economico Marx e Lassalle, restavano in secondo piano o erano da scusare come deviazioni comprensibili per l’isolamento spirituale e per le dure lotte da lui sostenute per la vita.

Marx non aveva affatto notato gli attacchi «volgarissimi» di Dühring, e per il loro contenuto essi non erano neppure tali da poterlo provocare. Anche il nascente entusiasmo per Dühring dei compagni di partito berlinesi lo lasciò indifferente per molto tempo, nonostante che con la sua presunzione di essere infallibile e col suo sistema di «verità di ultima istanza» Dühring avesse tutte le tendenze del perfetto fondatore di setta. Anche quando Liebknecht, che in questo caso stava alle vedette, li mise sull’avviso, inviando loro delle lettere contro il pericolo dell’involgarimento della propaganda nel partito, Marx ed Engels rifiutarono di fare una critica a Dühring, come «lavoro troppo inferiore», e solo una lettera provocatoria, che Most inviò a Engels nel maggio del 1876, sembra sia stata la goccia che fece traboccare il vaso.

Da allora Engels si occupò a fondo di quel che Dühring chiamava le sue «verità creatrici di un sistema», e pubblicò la sua critica in una serie di articoli che, a partire dal principio del 1877, cominciarono a uscire sul Vorwàrts, che allora era l’organo centrale del partito unificato. Essi finirono col diventare il documento più importante e più efficace (se si eccettua il Capitale) del socialismo scientifico, ma l’accoglienza che riservò loro il partito dimostrò che un ritardo sarebbe stato pericoloso. Poco mancò che il congresso annuale del partito, che ’si tenne a Gotha nel maggio 1877, sottoponesse Engels a un processo da Inquisizione, come accadeva contemporaneamente a Dühring per opera della fazione ufficiale dell’università. Most propose che gli articoli contro Dühring fossero banditi dall’organo centrale, poiché essi «erano del tutto privi di interesse o persino estremamente offensivi per la stragrande maggioranza dei lettori del Vorwàrts», e Valhlteich, che per il resto era nemico acerrimo di Most, gli tenne dietro affermando che il tono usato da Engels avrebbe portato a un pervertimento del gusto e avrebbe fatto diventare intollerabile il nutrimento spirituale del Vorwàrts. Per fortuna la peggior vergogna fu evitata mediante l’approvazione della proposta conciliativa di far continuare quella polemica scientifica, per motivi di agitazione pratica, non più sul giornale principale, ma su un supplemento scientifico del Vonvàrts.

Nello stesso tempo questo congresso decise di pubblicare, a partire dall’ottobre di quell’anno, un quindicina le per iniziativa e con l’appoggio finanziario di Karl Hòchberg, uno di quegli adepti borghesi del socialismo che a quel tempo erano tanto numerosi in Germania. Era figlio di un ricevitore del lotto di Francoforte, ed era un uomo ancor giovane ma assai facoltoso, pronto a sacrificarsi e disinteressato; tutti quelli che l’hanno conosciuto danno ottime testimonianze delle sue qualità personali. Con meno favore va giudicata la sua personalità politico-letteraria, quale è rispecchiata nelle sue pubblicazioni: qui Hòchberg appare uno spiri to incolore e arido, cui erano sconosciute la storia e la teoria del socialismo, e completamente estranee le teorie scientifiche che Marc ed Engels avevano elaborato. Non vedeva nella lotta di classe del proletariato la leva per l’emancipazione della classe operaia, ma voleva conquistare alla causa degli operai, attraverso un’evoluzione pacifica e legale, le classi possidenti e in particolare i loro elementi colti.

Marx ed Engels però non sapevano di lui nient’altro, se non che rifiutavano di collaborare alla Zukunft (così fu battezzati la nuova rivista); del resto erano stati invitati a collaborare, come anche molti altri, per mezzo di una semplice circolare anonima. Engels affermò che le risoluzioni di un congresso, per quanto potessero essere rispettabili sul piano dell’agitazione pratica, non valevano nulla dal punto di vista scientifico e non bastavano per dare a una rivista un carattere scientifico, che non poteva essere oggetto di decreti; che una rivista socialista scientifica senza una tendenza scientifica ben determinata era una cosa assurda, e nella grande differenza o incertezza di tendenze che a quel tempo imperversava in Germania mancava ogni garanzia che si adattasse loro la tendenza da prendersi.

Il primo numero della Zukunft dimostrò subito quanto fossero giuste le loro riserve. L’articolo introduttivo di Hòchberg era, per così dire, un decotto di tutto ciò che essi avevano combattuto, come mortificante e debili tante, nel socialismo degli anni fra il ’40 e il ’50. Così fu risparmiata loro ogni penosa spiegazione. Quando un compagno di partito chiese se essi serbassero rancore a causa della discussione del Congresso di Go tha, Marx rispose: «Non ho rancore, come dice Heine, e neppure Engels. Noi non diamo un centesimo per la popolarità. Prova ne sia, per esempio, il fatto che al tempo dell’Internazionale, in contrasto con ogni culto personale, non lasciai mai trapelare in pubblico numerose manovre tendenti a tributarmi dei riconoscimenti, con cui da diversi paesi ero molestato, né mai vi ho risposto se non, di quando in quando, con dei rimproveri». E aggiungeva ancora: «Ma dei fatti come quelli successi all’ultimo congresso del partito (essi vengono adeguatamente sfruttati all’estero dai nemici del partito) ci hanno in ogni caso insegnato la prudenza verso i compagni di partito della Germania». Ma ciò era detto senza cattive intenzioni, perché Engels continuò tranquillamente a pubblicare i suoi articoli contro Dühring sul supplemento scientifico del Vorwàrts.

Ma per le questioni pratiche Marx era seriamente colpito dallo «spirito putrido» che predominava non tanto tra le masse quanto fra i capi. Il 19 settembre scrisse a Sorge: «Il compromesso coi lassalliani ha portato al compromesso con altre mediocrità, a Berlino (pel tramite di Most) con Dühring e coi suoi ammiratori e inoltre con tutta una banda di studenti immaturi e di sapientissimi dottori, che vogliono dare al socialismo un indirizzo ‘ideale superiore’, cioè vogliono sostituire alla base materialistica (che, se si vuole operare su di essa, esige un serio studio oggettivo) una mitologia moderna con le sue idee di giustizia, libertà, eguaglianza e fraternità. Uno dei rappresentanti di questa tendenza è il signor dottor Hòchberg, che pubblica la rivista Zukunft e si è ‘comprato’ un posto nel partito con le ‘più nobili intenzioni, suppongo, ma io me ne infischio delle intenzioni . Di rado è apparso alla luce del sole con ‘più modesta presunzione’ qualcosa di più miserabile del suo programma per la rivista Zukunft».

In verità Marx ed Engels avrebbero dovuto rinnegare tutto il loro passato, se si fossero conciliati con questa «tendenza».

    17.3    ​​​Anarchismo e guerra d’Oriente

Al Congresso di Gotha fu deciso anche di inviare delegati al congresso socialista mondiale, che doveva aver luogo a Gand. Come rappresentante del partito tedesco fu eletto Liebknecht.

L’iniziativa di questo congresso era stata presa dai belgi, nei quali frattanto era sorta ripugnanza per le teorie anarchiche e che desideravano che tornassero a riunirsi le due tendenze che si erano scisse al Congresso dell’Aia. La corrente bakuninista, come nel 1873 a Ginevra, aveva tenuto i suoi congressi a Bruxelles nel 1874 e a Berna nel 1876, ma con forze sempre decrescenti; essa era in declino di fronte alle necessità pratiche della lotta di emancipazione del proletariato, dalle quali essa era sorta.

Proprio alla fonte di queste complicazioni, nella contesa ginevrina fra la fabrique e i gros métiers, si rivelava no i reali antagonismi. Qui un ceto operaio ben pagato, con diritti politici che gli consentivano di partecipare alla lotta parlamentare, ma che lo attiravano anche in ogni sorta di discutibili alleanze con partiti borghesi; là uno strato operaio mal pagato, privo di diritti politici, che poteva contare soltanto sulla sua nuda for za. Si trattava di questi antagonismi pratici e non, come suole raccontare la tradizione leggendaria, di un antagonismo teorico: qui la ragione, là mancanza di ragione!

Le cose non erano così semplici, e non lo sono neppure oggi, come indica il sempre nuovo risorgere del l’anarchismo, ogni volta che è stato dato per morto e sepolto. Non significa davvero professarlo, se ci si guarda dal disconoscerne il significato; proprio come non significa rifiutare il dovuto riconoscimento all’atti vità politico-parlamentare se non si disconosce che essa, con la sue riforme, certo accertabili, può portare il movimento operaio a un punto morto, dove cessa il suo respiro rivoluzionario. Non era un caso che Bakunin contasse un certo numero di seguaci che si sono acquistati grandi meriti nella lotta di emancipa zione del proletariato. Liebknecht non apparteneva certo al numero degli amici di Bakunin, ma al tempo del Congresso di Basilea si pronunciò per l’astensione politica almeno con lo stesso fervore di Bakunin. Altri invece erano i più fervidi bakuninisti al tempo del Congresso di Basilea e anche per molto tempo dopo, come Jules Guesde in Francia, Carlo Cafiero in Italia, Cesar de Paepe, Pavel Axelrod in Russia; se essi poi diventarono altrettanto fervidi marxisti, ciò accadde, come taluno di loro ha espressamente affermato, non perché essi si siano sbarazzati delle loro precedenti convinzioni, ma solo perché erano legati a ciò che Bakunin aveva in comune con Marx.

Gli uni e gli altri volevano un movimento proletario di massa, e vi era fra loro contrasto solo a proposito della strada maestra che tale movimento doveva prendere. Ma i congressi dell’Internazionale bakuninista indicarono che la strada degli anarchici era impraticabile.

Porterebbe troppo lontano, in questa sede, seguire la rapida decadenza dell’anarchismo nel corso di cia scuno dei suoi congressi. Il lavoro distruttivo si svolse con successo e radicalmente: fu abolito il Consiglio Generale e il contributo annuale, fu vietato ai congressi di votare su questioni di principio, e fu respinto a fatica il nuovo tentativo di escludere dall’Internazionale i lavoratori della mente. Ma nel lavoro costruttivo, nel progetto di un nuovo programma e di una nuova tattica, vi fu assai più confusione. Al Congresso di Ginevra si era discusso soprattutto sulla questione dello sciopero generale come mezzo unico e infallibile della rivoluzione sociale, ma non si era giunti a nessun accordo; ancor più lontani dall’accordo si restò, al successivo Congresso di Bruxelles;, sulla questione dei servizi pubblici, principale oggetto delle discus sione, su cui de Paepe tenne una relazione tale che gli attirò il rimprovero», non ingiustificato, di avere abbandonato del tutto il terreno dell’anarchismo. E’ evidente quanto fosse necessaria questa deviazione di de Paepe, se proprio su quella questione si voleva dire qualche cosa di concreto. Dopo vivaci discus sioni anch’essa fu rimandata al congresso successivo, ma neppure allora fu risolta. Gli italiani dichiararono addirittura che «l’era dei congressi era chiusa», e chiesero «la propaganda dell’azione»; in due anni essi organizzarono sessanta piccoli moti rivoluzionari, approfittando della fame che infieriva tra la popolazione, ma alla loro causa ciò non giovò niente.

Ancor più che per la disperata confusione delle sue posizioni teoriche, l’anarchismo finì per irrigidirsi in setta per il suo atteggiamento negativo di fronte a tutte le questioni pratiche che toccavano gli interessi
immediati del proletariato moderno. Quando in Svizzera si sviluppò un movimento di massa per la gior nata legale di dieci ore, gli anarchici rifiutarono di prendervi parte; altrettanto fecero quando i socialisti fiamminghi intrapresero una campagna con una petizione intesa a ottenere la proibizione legale del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche. Naturalmente essi respinsero anche ogni lotta per il suffragio universale o per metterlo in pratica dove esisteva. Di fronte a questa politica sterile e senza prospettive, i successi della socialdemocrazia tedesca brillavano di luce tanto maggiore, e dappertutto provocavano l’allontanamento delle masse dalla propaganda anarchica.

La convocazione di un congresso socialista mondiale a Gand, decisa dal congresso anarchico di Berna del 1876 per l’anno seguente, era già un risultato del riconoscimento che l’anarchismo non era riuscito a guadagnare a sé le masse. Il Congresso tenne le sue sedute a Gand dal 9 al 15 settembre. Erano presenti 42 delegati; gli anarchici non disponevano più che di un solido nucleo di 11 membri, sotto la guida di Guillaume e Kropotkin; molti dei loro aderenti di prima, fra cui la maggioranza dei delegati belgi e l’inglese Hales, passarono all’ala socialista, che era capeggiata da Liebknecht, Greulich e Frankel. Fra Liebknecht e Guillaume si arrivò a un violento scontro, quando questo ultimo accusò la socialdemocrazia tedesca di aver messo da parte il suo programma delle elezioni per il Reichstag. Ma in generale le discussioni si svolsero in maniera del tutto pacifica: gli anarchici avevano perso il gusto delle parole grosse e tenevano i loro discorsi in tono minore, pacato, ciò che rese possibile un contegno conciliante ai loro avversari. Ma non si giunse al progettato «patto di solidarietà»: su questo le opinioni erano troppo discordi.

Marx non si era aspettato nient’altro; la sua attenzione era tutta tesa verso un altro punto dell’orizzonte, dal quale si aspettava una tempesta rivoluzionaria. Di due lettere in cui cava dei consigli a Liebknecht, la pri ma, del 4 febbraio 1878, cominciava: «Noi parteggiamo decisamente per la Turchia per due ragioni: primo, perché abbiamo studiato il contadino turco (quindi la massa del popolo turco) e abbiamo incondizionata mente riconosciuto in lui uno dei rappresentanti più capaci e più morali della classe contadina europea; secondo, perché la disfatta dei russi accelererebbe la rivoluzione sociale in Russia, di cui numerosi ele menti esistono già, e quindi accelererebbe la rivoluzione in tutta Europa». Tre mesi prima Marx aveva già scritto a Sorge: «Questa crisi è un nuovo momento di svolta della storia europea. La Russia — e io ne ho studiato la situazione su fonti originali russe, non ufficiali e ufficiali (queste ultime, accessibili soltanto a poche persone, mi sono state procurate da amici di Pietroburgo) — si trovava già da lungo tempo alla vigilia di una rivoluzione: tutti gli elementi erano pronti. I bravi turchi hanno accelerato di anni l’esplosione, con le legnate che hanno assestato non soltanto all’esercito russo e alle finanze russe, ma anche, in via del tutto personale, alla dinastia che comanda l’esercito (zar, successore al trono e altri sei Romanoff). Le sciocchezze che fanno gli studenti russi sono solo un sintomo, di per sé privo di valore. Ma sono un sintomo. Tutti gli strati della società russa sono economicamente, moralmente, intellettualmente in piena decomposizione». Queste osservazioni si sono dimostrate perfettamente giuste ma, come gli è spesso accaduto nella sua impazienza rivoluzionaria, pur vedendo chiaramente la strada che prendevano le cose, Marx sottovalutava la lunghezza della strada stessa.

Le sconfitte iniziali dei russi si trasformarono in successi; ciò avvenne, come riteneva Marx, per il segreto appoggio di Bismarck, per il tradimento dell’Inghilterra e dell’Austria e, non da ultimo, per colpa degli stessi turchi, che avevano trascurato di rovesciare, con una rivoluzione a Costantinopoli, il vecchio governo del saltano, che era stato la miglior truppa di difesa dello zar. Un popolo che in simili momenti di estrema crisi non sa intervenire con un’azione rivoluzionaria, è perduto.

Così la guerra russo-turca finì non con una rivoluzione europea, ma con un congresso diplomatico, nello stesso luogo e nello stesso tempo in cui la socialdemocrazia tedesca sembrò esser distrutta da un terribile colpo.

    17.4    ​​​Luci dell’alba

Nonostante tutto una nuova aurora stava spuntando sull’orizzonte mondiale. La legge contro i socialisti con cui Bismarck pensava di distruggere la socialdemocrazia tedesca, servì solo ad aprire il suo periodo eroico, e così sgombrò anche il terreno da tutti gli errori e i malintesi che esistevano fra di essa e i due vecchi di Londra.

Ma ciò avvenne soltanto dopo una lotta mortale. Il partito tedesco aveva superato con onore, nell’estate del 1878, la caccia ai socialisti e le elezioni che seguirono i due attentati. Ma nel prepararsi al colpo che lo minacciava esso non aveva valutato a sufficienza con quale somma di odio accanito avrebbe avuto a che fare. La legge era appena entrata in vigore che furono completamente dimenticate tutte le promesse della sua «leale applicazione» con cui i rappresentanti del governo avevano messo a tacere gli scrupoli del Reichstag, e tutta la struttura del partito fu colpita così spietatamente che centinaia di persone furono messe in mezzo a una strada. Subito dopo poche settimane, in evidente contraddizione col tenore della legge, fu proclamato il cosiddetto piccolo stato d’assedio a Berlino e dintorni, e circa sessanta padri di famiglia ricevettero subito l’ordine di espulsione, che costò loro non solo il pane, ma anche la casa.

Ciò era sufficiente a far nascere una comprensibile e inevitabile confusione. Se dopo la caduta della Comune di Parigi il Consiglio Generale dell’Internazionale aveva già lamentato che il provvedere ai profughi della Comune gli aveva impedito per mesi di sbrigare i suoi lavori ordinari, ora la direzione del partito tedesco doveva risolvere un compito molto più difficile, ostacolata com’era ad ogni pie sospinto dalla polizia e in mezzo a una terribile crisi economica. Non può essere neppur contestato che la tempesta sceverò il grano dal loglio, che gli elementi borghesi, che negli ultimi anni erano affluiti verso il partito, si dimostrarono spesso infidi, che molti capi non dettero buona prova di sé, che altri, anche uomini capaci, si sentirono mancare il coraggio sotto i colpi della reazione, ed ebbero paura che un’energica resistenza non avrebbe fatto che irritare maggiormente i nemici.

Da tutti questi fatti Marx ed Engels si sentivano ben poco edificati anche se sottovalutavano le difficoltà che bisognava superare. Ma essi potevano muovere critiche giustificate anche all’atteggiamento della frazione socialdemocratica del Reichstag, che in seguito alle elezioni tenute dopo l’attentato era risultata di nove membri. Nella discussione di una nuova tariffa doganale, uno di costoro, Max Kayser, ritenne op portuno parlare in favore di un aumento dei dazi sul ferro, ciò che dovette fare un’impressione penosa. Infatti tutti sapevano che la nuova tariffa doganale aveva il compito di procurare due milioni annuali in più alle casse del Reich, di proteggere le rendite della grande proprietà fondiaria contro la concorrenza americana e permettere alla grande industria di sanare le ferite che essa si era inferta da sé negli anni del Grundertaumel[i]1, e che la legge contro i socialisti era stata promulgata fra l’altro per infrangere la resistenza delle masse contro l’impoverimento che le minacciava.

Quando Bebel cercò di giustificare il voto di Kayser con i suoi accurati studi sulla questione dei dazi sul ferro, Engels gli rispose breve e conciso: «Se i suoi studi valessero un soldo, dorrebbero insegnargli che in Germania esistono due ferriere, Dortmunder Union e quelle di Kònigshùtte e Laurahutte, ciascuna delle quali è in grado di coprire l’intero fabbisogno del paese, e inoltre le molte piccole, e che dunque il dazio protettivo è pura assurdità, e solo la conquista del mercato estero può aiutare, quindi libero commercio assoluto, oppure bancarotta. Che gli stessi produttori di ferro possono desiderare il dazio protettivo sol tanto nel caso che abbiano formato un’unione, un complotto, per imporre al mercato interno prezzi di monopolio, e per disfarsi invece all’estero, a prezzi bassissimi, dei prodotti eccedenti, come già fanno in questo momento in misura considerevole. Kayser ha parlato nell’interesse di questa unione, di questo complotto di monopolisti, e votando per i dazi sul ferro ha votato nel loro interesse». Quando anche Karl Hirsch, sulla Laterne, criticò piuttosto ruvidamente la tattica di Kayser, i membri della frazione parlamentare ebbero l’idea infelice di far la parte degli offesi, perché Kayser aveva parlato con la loro approvazione. Così essi persero completamente il favore di Marx ed Engels; Marx disse: «Sono già tanto infetti da cretinismo parlamentare che credono di stare al di sopra delle critiche, e condannano la critica come delitto di lesa maestà».

Karl Hirsch era un giovane scrittore che si era guadagnato i galloni come vicedirettore del Volksstaat durante gli anni della detenzione di Liebknecht, e in seguito aveva vissuto a Parigi, ma poi ne era stato espulso dopo la promulgazione della legge eccezionale tedesca. Allora aveva fatto quello che la direzione del partito tedesco avrebbe dovuto fare fin da principio: a partire dalla metà di dicembre del 1878 pubblicò a Breda, in Belgio, la Laterne, un piccolo foglio settimanale del formato e dello stile della Laterne di Rochefort, così che potesse essere spedito in Germania in una semplice busta da lettera, per diventare qui un punto di raccolta e di appoggio per il movimento socialdemocratico. L’intenzione era buona, e Hirsch in linea di massima era una testa assolutamente chiara, ma la forma da lui scelta, epigrammi brevi, formulati con spirito, conveniva poco alle esigenze di un giornale operaio. Per questa ragione era più felice la Freiheit. un settimanale che poche settimane dopo Most cominciò a pubblicare a Londra con l’aiuto dell’Associazione comunista operaia di cultura; solo che dopo inizi passabilmente ragionevoli si perdette in un vano rivoluzionarismo.

Per la direzione del partito tedesco la comparsa di questi due giornali, nati in un certo senso spontanea mente e indipendentemente da essa, rese scottante la questione di un organo di stampa all’estero. Bebel e Liebknecht vi insistettero con tutta la loro energia, e riuscì loro anche di superare la resistenza ancora molto tenace di gruppi influenti del partito che volevano restar fermi sulla tattica del prudente riserbo. Con Most non era più possibile alcun accordo, ma Hirsch sospese la Laterne e si disse disposto ad assumere la direzione del nuovo organo; anche Marx ed Engels, che in Hirsch riponevano piena fiducia, erano di sposti a collaborare. Il nuovo foglio doveva uscire settimanalmente a Zurigo, e dei suoi preparativi furono incaricati tre compagni di partito che vivevano a Zurigo: l’impiegato delle assicurazioni Schramm, che era stato espulso da Berlino, Karl Hòchberg e Eduard Bernstein, che Hòchberg aveva chiamato come direttore letterario.

Ma evidentemente non si dettero gran premura per l’incarico che era stato loro assegnato, e il motivo del loro ritardo fu chiaro quando, nel luglio del 1879, vennero fuori con certi loro ]ahrbucher fur Sozialwissenschaft und Soziapolitik che dovevano uscire due volte l’anno. Lo spirito con cui erano diretti si rivelava soprattutto in un articolo che gettava Sguardi retrospettivi sul movimento socialista e che era siglato con tre stelle. Ma i veri autori erano Hòchberg e Schramm; Bernstein vi aveva contribuito con poche righe.

Il contenuto dell’articolo era una tirata grossolana, priva di gusto e di tatto, sopra le colpe del partito, sulla sua mancanza di «buone maniere», sulla sua mania di insultare, sul suo civettare con le masse e il suo disprezzo per le classi colte, e su tutto ciò che nei movimenti proletari ha sempre mosso a sdegno la vigliaccheria del filisteo. L’ultima conclusione della sua sapienza pratica era che si doveva approfittare dell’ozio forzato, in conseguenza della legge contro: socialisti, per la penitenza e il riposo. Marx ed Engels furono indignati di questo pasticcio; in una circolare privata diretta ai dirigenti del partito chiesero che se si voleva sopportare nel partito, per motivi pratici, della gente con simili opinioni, per lo meno non la si lasciasse parlare da una posizione eminente. Questo diritto del resto non era staro neppure accordato a Hòchberg, ma egli se l’era preso semplicemente da sé, e pare che abbia agito di proprio arbitrio anche quando chiese per i «tre astri»[ii]2 di Zurigo il diritto di controllo sulla redazione di Hirsch, e non tollerò per il giornale una direzione sullo stile di quella della Laterne. In conseguenza di ciò Hirsch e i due vecchi di Londra ritirarono l’impegno a collaborare.

Di tutto ciò che allora fu scritto in proposito non sono rimasti che frammenti. Ne risulta però che Bebel e Liebknecht non erano affatto d’accordo con le pretese dei «tre astri», ma non si vede bene perché non siano intervenuti a tempo. Lo stesso Hòchberg era andato a Londra, dove però si incontrò soltanto con En gels, che riportò una pessima impressione delle sue opinioni confuse, per quanto lui o Marx potessero non dubitare delle sue buone intenzioni. Anche la reciproca irritazione era poco adatta a favorire un’opportuna comprensione; il 19 settembre Marx scrisse a Sorge che se il nuovo settimanale fosse stato diretto con lo stile di Hòchberg, essi sarebbero stati costretti a intervenire pubblicamente contro un simile «scempio» del partito e della teoria. «I signori sono avvertiti, e ci conoscono abbastanza per sapere che ciò vuol dire: o piegarsi o spezzarsi! Se si vogliono compromettere, tanto peggio! In nessun caso sarà permesso a loro di compromettere noi».

Per fortuna non si arrivò agli estremi. Vollmar assunse la direzione del Sozialdemokrat di Zurigo, e la tenne in maniera abbastanza «miserabile», come dissero Marx ed Engels, ma non tale da dar loro motivo di protestare pubblicamente. Vi furono soltanto «continue controversie epistolari con quelli di Lipsia, che spesso si facevano aspre». I «tre astri» dimostrarono di essere innocui. Schramm si tenne completamente in disparte, Hòchberg partiva spesso per dei viaggi e Bernstein, sotto la spinta degli avvenimenti, si liberò dai suo stato di depressione come accadde, nella stessa misura e nello stesso tempo, anche a molti com pagni di partito, che fino allora avevano un po’ lasciato che le cose seguissero il loro corso. Poté contribuire non poco a placare gli animi il fatto che Marx ed Engels con l’andar del tempo resero giustizia, più di quanto avessero fatto da principio, alle immense difficoltà con cui la direzione del partito doveva lottare. Il 5 novembre 1880 Marx scrisse a Sorge: «A coloro che stanno relativamente tranquilli all’estero non conviene render più grave, con gaudio della borghesia e del governo, la posizione di quelli che all’interno operano in condizioni difficili e con grandi sacrifici personali». Poche settimane dopo fu addirittura conclusa una pace formale.

Per il 31 dicembre 1880 Vollmar si era congedato dal suo posto di direttore, e la direzione del partito decise allora di chiamare Hirsch, per compiere un gesto conciliante. Poiché Hirsch in quel periodo viveva a Londra, Bebel decise di recarsi là per trattare con lui; nello stesso tempo voleva spiegarsi esaurientemente con Marx ed Engels, ciò che era nelle sue intenzioni da molto tempo, e portò con sé anche Bernstein, che nel frattempo aveva dato ottima prova di sé, per distruggere la prevenzione che a Londra esisteva ancora contro di lui. Questo pellegrinaggio a Canossa, come fu chiamato in certi ambienti del partito, raggiunse in pieno i suoi diversi scopi; soltanto Karl Hirsch, dopo avere accettato, pose in un secondo tempo questa condizione, che voleva dirigere da Londra il Sozialdemokrat. Questa proposta fu respinta, e la fine di tutta la storia fu che Bernstein fu incaricato, in un primo tempo in via provvisoria e poi definitivamente, della direzione; egli assolse il suo compito con onore e con soddisfazione, più che di altri, dei londinesi. E quando, un anno dopo, si svolsero le prime elezioni sotto la legge contro i socialisti, Engels esultò: nessun proletariato si è mai battuto in modo così mirabile.

Anche la Francia si trovava sotto una buona stella. Dopo la settimana di sangue del maggio 1871, Thiers aveva annunciato ai borghesi versagliesi ancora tremanti che per la Francia il socialismo era morto, senza darsi pensiero del fatto che già una volta, dopo le giornate del giugno 1848, si era dimostrato falso profeta dando la stessa assicurazione. Voleva credere che quanto maggiore era stato il salasso (nel 1871 si cal colava che le perdite della classe operaia parigina, in conseguenza delle lotte per le strade, le esecuzioni, le deportazioni, le condanne al carcere e l’emigrazione ammontassero a 100300 persone), tanto maggiore ne sarebbe stato l’effetto. Tanto maggiore, invece, fu l’abbaglio di Thiers. Dopo il 1848 il socialismo aveva richiesti) due decenni, per ridestarsi dal suo stordimento e dal suo silenzio; mi dopo il 1871 richiese solo mezzo decennio per tornare a farsi vivo. Nel 1876, mentre i tribunali militari attendevano ancora alla loro opera sanguinosa e i difensori della Comune venivano fucilati, si riuniva già il primo congresso operaio a Parigi.

Esso, certo, in primo luogo non fu altro che un annuncio. Stava sotto la protezione dei repubblicani borghe si, che cercavano negli operai un appoggio contro i nobilucci di campagna monarchici, e le sue risoluzioni restavano sul piano dell’innocuo sistema cooperativo, quale era rappresentato, in Germania, da Schul ze-Delitzsch. Ma si poteva prevedere che non si sarebbe rimasti a questo punto. Dopo il 1870 la grande industria meccanica, che dopo il trattato commerciale con l’Inghilterra del 1803 si era sviluppata lentamente, ricevette un impulso incomparabilmente più rapido. Essa doveva supplire a parecchie esigenze: riparare i danni causati dalla guerra a un terzo della Francia; creare i mezzi per dar vita a un nuovo gigantesco appa rato militaristico, e infine colmare il vuoto che si era creato per la perdita dell’Alsazia, la provincia francese che fino al 1870 era stata la più progredita industrialmente. La grande industria seppe fare ciò che da essa si pretendeva. In tutte le parti del paese sorsero fabbriche, si formò un proletariato industriale, che ai tempi migliori della vecchia Internazionale esisteva soltanto in alcune città della Francia nord-occidentale.

Questo presupposto spiega i rapidi successi riportati da Jules Guesde, quando si gettò con la sua oratoria infocata nel movimento operaio, che aveva preso l’avvio dal congresso di Parigi del 1876. Distaccatosi recentemente dall’anarchismo, Guesde non brillava per troppa chiarezza teorica, come si può vedere ancor oggi nell’Egalité da lui fondata nel 1877; nonostante che il Capitale fosse già stato tradotto e pub blicato in francese, non sapeva niente di Marx, le cui teorie egli aveva appreso soltanto da Karl Hirsch. Ma aveva afferrato con gran decisione e chiarezza l’idea della proprietà collettiva della terra e dei mezzi di produzione prodotti, e con questa parola d’ordine avanzata della lotta proletaria di emancipazione, che nei congressi della vecchia Internazionale aveva sempre urtato contro la violenta resistenza dei delegati francesi, Guesde, che era un’oratore di prim’ordine e un acuto polemista, seppe scuotere gli operai francesi.

Sin dal secondo congresso operaio, riunitosi nel febbraio 1878 a Lione, che, nelle intenzioni degli orga nizzatori, avrebbe dovuto essere soltanto una nuova edizione del congresso di Parigi, Guesde riuscì a raccogliere sotto la sua bandiera una minoranza di dodici delegati. A questo punto la cosa cominciava a diventare preoccupante per il governo e per la borghesia: si iniziarono le persecuzioni contro il movimento operaio, e si riuscì anche a sopprimere l’Egalité mediante multe e condanne al carcere contro i suoi redat tori. Ma Guesde e i suoi compagni non si lasciarono scoraggiare: continuarono a lavorare instancabilmente e al terzo congresso operaio, che si riunì a Marsiglia nell’ottobre del 1879, ebbero con sé la maggioranza, che si costituì in partito socialista e si organizzò per la lotta politica. L’Egalité risorse e trovò in Lafargue un attivo collaboratore, che scriveva quasi tutti gli articoli teorici; poco più tardi Malon, anche lui ex bakuninista, cominciò a pubblicare la Revue Socialiste, che Marx ed Engels sostennero con alcuni loro articoli.

Nella primavera del 1880, Guesde si recò a Londra, per stendere insieme con Marx, Engels e Lafargue un programma elettorale per il giovane partito. Si accordarono sul cosiddetto programma minimo che, dopo una breve introduzione che esponeva il fine comunista, nella sua parte economica consisteva solo di rivendicazioni immediate del movimento operaio. Non ci fu accordo però su ogni singolo punto: quando Guesde insisté per inserire nel programma la rivendicazione di un salario minimo legale, Marx disse che se il proletariato francese era ancora così infantile da aver bisogno di una simile esca, non valeva neppure la pena di stabilire un programma.

Ma ciò non era detto con malanimo: in complesso Marx considerava il programma come un enorme pas so avanti, per far discendere gli operai francesi dalle loro frasi nebulose sul terreno della realtà, e tanto dall’opposizione che dal consenso che esso incontrò, Marx concluse che sorgeva in Francia il primo vero movimento operaio. Fino allora erano esistite soltanto delle sette, che naturalmente avevano ricevuto la loro parola d’ordine da fondatori di sette, mentre la massa del proletariato seguiva i borghesi radicali o radicaleggianti e il giorno delle decisioni si batteva per loro, per poi venire massacrata, deportata ecc., il giorno dopo, dalla gente che essa aveva portato al potere. Perciò Marx fu anche d’accordo che i suoi ge neri, appena l’amnistia per i comunardi, strappata al governo francese, avesse permesso loro di ritornare, si trasferissero in Francia: Lafargue, per lavorare insieme con Guesde, e Longuet, per assumere un posto influente di redattore nella Justice di Clemenceau, che era a capo dell’estrema sinistra.

In Russia la situazione era diversa e, nel giudizio di Marx, più favorevole. Qui il suo capolavoro era letto con maggior cura e apprezzato più vivamente che altrove; soprattutto fra le generazioni colte Marx si era guadagnato molti seguaci e anche amici personali. Ma la sua concezione e la sua dottrina erano ancora completamente ignote alle due principali tendenze del movimento russo di massa, almeno così come allora esisteva: il partito della Volontà del popolo e il partito della Ripartizione nera. Esse erano ancora in tutto su di un piano bakuninista, se non altro perché la classe contadina importava loro più di ogni altra cosa. La questione che prima di tutto importava loro era formulata da Marx ed Engels in questi termini: la comunità rurale russa, questa forma in gran parte già dissolta, è vero, della originaria proprietà comune della terra, potrà passare direttamente a una più alta forma comunistica di proprietà terriera, o dovrà attraversare prima lo stesso processo di dissoluzione che costituisce lo sviluppo storico dell’occidente?

La «sola risposta oggi possibile» fu data da Marx e da Engels nella prefazione a una nuova traduzione russa del Manifesto comunista, opera di Vera Zasulic, con queste parole: «Se la rivoluzione russa servirà di segnale a una rivoluzione operaia in occidente, in modo che entrambe si completino, allora l’odierna proprietà comune rurale russa potrà servire di punto di partenza per una evoluzione comunista». Questa affermazione spiega l’appassionata presa di posizione di Marx in favore del partito della Volontà del popolo, la cui politica terroristica aveva reso lo zar prigioniero della rivoluzione a Gàcina, mentre egli biasimava con una certa durezza il partito della Ripartizione nera, che respingeva ogni azione politico-rivoluzionaria e si limitava alla propaganda. Ma proprio a questo partito appartenevano uomini, come Axelrod e Plekhanov, che tanto hanno contribuito a infondere lo spirito marxista nel movimento operaio russo.

Anche in Inghilterra, infine, cominciava a spuntare il sole. Nel giugno 1881 uscì un libretto: L’Inghilterra per tutti; era stato scritto da Hyndman e doveva essere il programma della Federazione democratica, un’as sociazione che si era appena costituita, formata da diverse associazioni radicali inglesi e scozzesi, parte di borghesi e parte di proletari. Il capitolo sul lavoro e il capitale era fatto di estratti o parafrasi del Capitale di Marx, ma Hyndman non nominava né l’opera né il suo autore, e solo alla fine dell’introduzione osservava che doveva molto all’opera di un grande pensatore e scrittore indipendente. Questa singolare maniera di citare fu resa ancora molto più offensiva da Hyndman con le scuse con cui cercava di giustificarsi di fronte a Marx: il suo nome era troppo screditato, gli inglesi accettavano malvolentieri consigli dagli stranieri, e via dicendo. Allora Marx ruppe i rapporti con Hyndman, e lo gratificò per giunta del titolo di «imbecille».

Grande soddisfazione gli procurò invece, nello stesso anno, un articolo su di lui che Belfort Bax aveva pubblicato nel fascicolo di dicembre di una rivista mensile inglese.  Marx trovava, è vero, che le notizie biografiche erano per lo più inesatte, e che anche nell’esposizione dei suoi princìpi economici vi era molto di falso e di confuso, ma dopotutto era la prima pubblicazione del genere in Inghilterra, perfusa di un vero entusiasmo per le nuove idee, che si levasse coraggiosamente contro il filisteismo inglese; e* riteneva che nonostante tutto l’apparizione di questo articolo, annunciato a grandi lettere in manifesti sui muri dell’West End di Londra, aveva suscitato gran sensazione.

Se Marx scriveva così a Sorge, si può pensare che per una volta l’uomo ferreo, così insensibile alla lode e al biasimo, abbia avuto un piccolo attacco di vanità, e non vi sarebbe stato niente di più perdonabile. Ma ciò che scriveva era soltanto dettato da uno stato di animo profondamente commosso, come risulta dalle frasi finali della lettera: «In questo la cosa più importante per me è stata che ho ricevuto quel numero sin dal 30 novembre, in modo che gli ultimi giorni di vita della mia cara moglie sono stati rischiarati. Tu sai che interesse appassionato prendeva per tutte queste cose». La signora Marx era morta il 2 dicembre 1881.

    17.5    ​​​Ombre del crepuscolo

Mentre l’orizzonte politico-sociale — che per Marx restava sempre la cosa più importante — si rischia rava tutt’intorno, le ombre del crepuscolo scendevano sempre più fonde su di lui e sulla sua casa. Da quando gli era stato sbarrato l’accesso al continente, con le sue benefiche stazioni termali, le sue soffe renze fisiche erano sempre aumentate e lo avevano reso più o meno incapace di lavorare; dal 1878 non lavorò più al compimento del suo capolavoro, e circa nello stesso tempo o poco dopo cominciò l’assillante preoccupazione per la salute della moglie.

Essa aveva goduto dei giorni più tranquilli della vita con la felice serenità di un’anima sempre in armonia, come lei stessa diceva in una lettera scritta ai Sorge, per confortarli della perdita di due figli in età fiorente:

«So troppo bene, com’è doloroso, e quanto tempo ci vuole, dopo perdite come queste, prima di ritrovare il proprio equilibrio; poi viene in nostro aiuto la vita con le sue piccole gioie e con le sue grandi preoccupazioni, con tutte le sue piccole contrarietà e tribolazioni di tutti i giorni, e la pena più grande viene attutita, ora per ora, dai piccoli dolori e, senza che noi ce ne accorgiamo, l’intenso tormento si attenua; non che la ferita guarisca mai, specialmente in un cuore di madre, ma a poco a poco rinasce nell’animo una nuova sensibilità e una nuova capacità di avvertire nuovi dolori e nuove gioie, e così si continua a vivere col cuore ferito e che tuttavia spera sempre, finché alla fine si arresta del tutto e ce la pace eterna». Nessuno, più di questa martire e combattente, avrebbe meritato di spegnersi in una facile morte sotto la mano placida della natura, ma non le fu concesso: essa dovette sopportare pene sempre più gravi, prima dell’ultimo respiro.

Marx scrisse dapprima a Sorge, nell’autunno del 1878, che sua moglie si sentiva «molto male»; un anno dopo già scrisse: «Mia moglie è sempre gravemente malata, e anch’io continuo a non star bene». Dopo lunga incertezza, a quanto sembra, la malattia della signora Marx si rivelò un cancro, che doveva portarla alla morte fra dolori tormentosi, lentamente ma irreparabilmente. Ciò che Marx soffrì per lei, si può capire soltanto se si pensa a ciò che sua moglie era stata per lui durante tutta una lunga vita. Essa restò più calma di suo marito e di tutta la famiglia: con coraggio senza eguali dominava tutte le sofferenze per mostrare ai suoi un viso sempre sereno. Quando il male era già avanzato, nell’estate del 1881, essa trovò ancora la forza di affrontare un viaggio a Parigi per rivedere le figlie sposate: poiché nessun rimedio era più possibile, i medici si rassegnarono al rischio. In una lettera del 22 giugno 1881 alla signora Longuet, Marx annunciava la comune visita: «Rispondi subito, per favore, perché la mamma non partirà finché tu non scrivi che cosa ti deve portare da Londra. Tu sai che questi incarichi le piacciono immensamente». Per la malata la gita andò bene, per quanto era possibile in quelle circostanze; invece Marx al ritorno fu colto da una violenta pleurite, unita a una bronchite con principio di polmonite. La malattia fu pericolosissima, ma fu superata grazie alle cure devote di Eleanor e di Lenchen Demuth. Furono giorni tristi, di cui Eleanor scrive: «Nella grande stanza anteriore giaceva la nostra mammina, nella stanzetta attigua il Moro. E questi due, tanto abituati l’uno all’altro talmente fatti per vivere uniti, non potevano stare nella stessa stanza... Ancora una volta il Moro vinse il male. Mai dimenticherò la mattina in cui si sentì abbastanza forte per recarsi nella stanza della mammina. Erano ritornati giovani — lei una fanciulla innamorata e lui un adolescente innamorato che insieme si affacciavano alla vita, e non un vecchio, roso dalla malattia, e una vecchia donna moribonda che prendono congedo per sempre».

Quando la signora Marx morì, il 2 dicembre 1881, Marx era ancora tanto debole che il medico gli vietò di seguire la moglie amata nell’ultimo viaggio. «Mi sono sottomesso a quest’ordine», scrisse Marx alla signora Longuet, « perché ancora qualche giorno prima di morire la cara morta espresse il desiderio che alla sua sepoltura non vi fosse alcuna cerimonia: ‘noi non diamo alcun valore alle esteriorità’. Perirne è una grande consolazione che le forze le siano venute meno così rapidamente. Come il medico aveva predetto, la malattia ha assunto il carattere di una morte generale, come se fosse causata dalla vecchiaia. Persino nelle ultime ore, nessuna lotta con la morte, un lento assopirsi, e anche gli occhi, più grandi, più belli, più radiosi che mai».

Sulla tomba di Jenny Marx parlò Engels. La elogiò come la compagna fedelissima del marito, e concluse con queste parole: «Non occorre che io parli delle sue qualità personali.  Gli amici la conoscono e non la dimenticheranno. Se mai vi fu una donna la cui più grande felicità era di rendere felici gli altri, essa fu questa donna».

    17.6    ​​​L’ultimo anno

Marx sopravvisse alla moglie circa un anno e tre mesi. Ma in realtà questa vita non fu altro che una «lenta morte», e l’impressione di Engels fu giusta quando, il giorno della morte della signora Marx, disse:

«Anche il Moro è morto».

Poiché in questo breve tratto di tempo i due amici furono per lo più separati, il loro carteggio riprende per l’ultima volta, e in esso l’ultimo anno della vita di Marx scorre via nella sua cupa grandezza, commovente per i particolari dolorosi fra i quali l’inesorabile destino dell’uomo vinse anche questo spirito possente.

Quel che ancora lo teneva legato alla vita era il suo ardente desiderio di dedicare le sue ultime forze alla grande causa cui era stata dedicata tutta la sua vita. Il 15 dicembre 1881 scriveva a Sorge: «Dall’ultima malattia io esco doppiamente troncato, moralmente per la morte di mia moglie, fisicamente perché mi son rimasti un ispessimento della pleura e una grande irritabilità dei bronchi. Dovrò perdere completamente un certo periodo di tempo a manovrare per ristabilire la mia salute». Ma questo periodo durò fino alla morte, perché tutti i tentativi per ristabilire la sua salute fallirono.

    I  medici lo mandarono dapprima a Ventnor, nell’isola di Wight, e poi ad Algeri. Qui arrivò il 22 febbraio 1882, ma dopo un viaggio freddo e una nuova pleurite. Un fatto ancora più grave fu che l’inverno e la primavera ad Algeri furono piovosi e inclementi come mai erano stati. Un’esperienza non migliore Marx fece a Montecarlo, dove si trasferì il 2 maggio; anche qui, in conseguenza di un viaggio freddo e umido, prese una pleurite, e anche qui trovò sempre brutto tempo.

    II  suo stato di salute migliorò soltanto al principio di giugno, quando soggiornò ad Argenteuil dai Longuet. Vi dovette contribuire non poco la vita di famiglia; contro la sua radicata bronchite approfittò anche con buon esito delle sorgenti sulfuree della vicina Enghien. Anche un soggiorno di sei settimane a Vevey sul lago di Ginevra, con la figlia Laura, contribuì decisamente a farlo migliorare. Quando tornò a Londra, in settembre, aveva un aspetto sano e spesso senza risentirne disagio salì con Engels sulla collina di Hampstead, circa trecento piedi più alta della sua abitazione.

Marx pensò allora di riprendere i suoi lavori, perché i medici gli avevano permesso di trascorrere l’inverno in Inghilterra, non a Londra, ma sulla costa meridionale inglese. Quando le nebbie di novembre cominciarono a minacciare, andò a Ventnor, ma vi trovò quel che aveva trovato in primavera ad Algeri e a Montecarlo: nebbia e umido, che gli tirarono addosso nuove infreddature e invece di permettergli il movimento all’aria aperta lo costrinsero a indebolirsi restando chiuso nella sua stanza. Non c’era da pensare ai lavori scientifici, per quanto Marx dimostrasse un vivo interesse per tutte le scoperte scientifiche, anche per quelle che erano lontane dal suo stretto campo di lavoro, per esempio gli esperimenti di Deprez alla mostra dell’elettri cità a Monaco. Nelle sue lettere generalmente va prevalendo un umore depresso e scontento; quando nel giovane partito operaio francese si manifestarono le inevitabili malattie infantili, fu scontento di come le sue idee erano rappresentate dai suoi generi: «Longuet ultimo proudhoniano e Lafargue ultimo bakuninista. Il diavolo li porti!». In quel tempo gli sfuggì quella frase che poi il mondo dei filistei ha inteso in modo così singolare: che per suo conto, in ogni caso, lui non era marxista.

Poi, l’11 gennaio 1883, venne il colpo decisivo: la morte improvvisa della figlia Jenny. Il giorno dopo Marx tornava a Londra, con una serie bronchite, alla quale presto si unì una laringite che gli impediva quasi del tutto di inghiottire. «Lui che sapeva sopportare con stoica impassibilità i più forti dolori, preferiva bere un litro di latte (che per tutta la vita aveva avuto in orrore) piuttosto di mangiare la corrispondente quantità di nutrimento solido». In febbraio si sviluppò un ascesso nel polmone. I rimedi non ebbero alcun effetto sul corpo già saturo di medicine da quindici mesi: riuscirono soltanto a indebolire l’appetito e a disturbare la digestione. Il malato dimagriva visibilmente quasi giorno per giorno. Ma i medici non avevano perduto ogni speranza, perché la bronchite era quasi superata e inghiottire diventava più facile. Così la fine giunse inaspettata. Il 14 marzo, verso mezzogiorno, Karl Marx spirò placidamente e senza dolore nella sua poltrona.

Nonostante tutto il dolore per la perdita irreparabile, Engels trovò un motivo di conforto: «L’arte dei medici gli avrebbe forse potuto assicurare ancora per alcuni anni un’esistenza vegetativa, la vita di un essere impotente, il quale, per far trionfare l’arte medica, anziché morire d’un sol colpo, soccombe poco a poco. Questo Marx non lo avrebbe sopportato mai. Vivere avendo dinanzi a sé i molti lavori incompiuti, col supplizio di Tantalo di volerli completare e di non poterlo fare, questo sarebbe stato per lui mille volte più amaro della morte benigna che lo colse. La morte non è una disgrazia per colui che muore, bensì per colui che sopravvive’, soleva dire con Epicuro. E vedere questo possente uomo di genio vegetare come un rudere per la maggior gloria della medicina, esposto allo scherno dei filistei, tante volte fulminati da lui quando era nel pieno possesso delle sue forze: no, mille volte meglio com’è mille volte meglio se lo portiamo domani l’altro nella tomba dove riposa sua moglie».

Il 17 marzo, un sabato, Karl Marx fu deposto nella tomba accanto a sua moglie. Molto opportunamente la famiglia aveva rifiutato « qualsiasi cerimonia», che avrebbe chiuso questa vita con una stridente sto natura. Solo pochi intimi erano attorno alla fossa aperta: Engels con Lessner e Lochner, i vecchi compagni del tempo della Lega dei Comunisti; dalla Francia erano venuti Lafargue e Longuet, dalla Germania Liebk necht; la scienza era rappresentata da due uomni di prim’ordine, il chimico Schorlemmer e lo zoologo Ray Lancaster

L’ultimo saluto che Engels rivolse in lingua inglese all’amico morto riassume in semplici parole, con tanta sincerità e verità ciò che Marx è stato e sarà per l’umanità, che anche qui convien lasciargli l’ultima parola:

«Il 14 marzo, alle due e quarantacinque pomeridiane, ha cessato di pensare la più grande mente dell’epoca nostra. L’avevamo lasciato solo da appena due minuti, e al nostro ritorno l’abbiamo trovato tranquillamente addormentato nella sua poltrona, ma addormentato per sempre.

«Non è possibile misurare la gravità della perditi che questa morte rappresenta per il proletariato militan te d’Europa e d’America, nonché per la scienza storica. Non si tarderà a sentire il vuoto lasciato dalla scomparsa di questo titano.

«Così come Darwin ha scoperto la legge dello sviluppo della natura organica, Marx ha scoperto la legge dello sviluppo della storia umana cioè il fatto elementare, finora nascosto sotto l’orpello ideologico, che gli uomini devono innanzi tutto mangiare, bere, avere un tetto e vestirsi, prima di occuparsi di politica, di scienza, d’arte, di religione, ecc.; e che, per conseguenza, la produzione dei mezzi materiali immedia ti di esistenza e, con essa, il grado di sviluppo economico di un popolo e di un’epoca in ogni momento determinato costituiscono la base sulla quale si sviluppano le istituzioni statali, le concezioni giuridiche, l’arte ed anche le idee religiose degli uomini, e partendo dalla quale esse devon venir spiegate, e non inversamente, come si era fatto finora.

«Ma non è tutto. Marx ha anche scoperto la legge peculiare dello sviluppo del moderno modo di produzione capitalistico e della società borghese da esso generata. La scoperta del plusvalore ha subitamente gettato
un fascio di luce nell’oscurità in cui brancolavano prima, in tutte le loro ricerche, tanto gli economisti borghesi che i critici socialisti.

«Due scoperte simili sarebbero più che sufficienti a riempire tutta una vita. Fortunato chi avesse avuto la sorte di farne anche una sola. Ma in ognuno dei campi in cui Marx ha svolto le sue ricerche — e questi campi furono molti e nessuno fu toccato da bui in modo superficiale — in ognuno di questi campi, compreso quello delle matematiche, egli ha fatto delle scoperte originali.

«Tale era lo scienziato. Ma lo scienziato non era neppure la metà di Marx. Per lui la scienza era una forza motrice della storia, una forza rivoluzionaria. Per quanto grande fosse la gioia che gli dava ogni scoperta in una qualunque disciplina teorica, e di cui non si vedeva forse ancora l’applicazione pratica, una gioia ben diversa gli dava ogni innovazione che determinasse un cambiamento rivoluzionario immediato nell’industria e, in generale, nello sviluppo storico. Così egli seguiva in tutti i particolari le scoperte nel campo dell’elettricità e, ancora in questi ultimi tempi, quelle di Marcel Deprez.

«Perché Marx era prima di tutto un rivoluzionario. Contribuire in un modo o nell’altro all’abbattimento della società capitalistica e delle istituzioni statali che essa ha creato, contribuire all’emancipazione del proletaria to moderno al quale Egli, per primo, aveva dato la coscienza delle condizioni della propria situazione e dei propri bisogni, la coscienza delle condizioni della propria liberazione: questa era la sua reale vocazione. La lotta era il suo elemento. Ed ha combattuto con una passione, con una tenacia e con un successo come pochi hanno combattuto. La prima Rheinische Zeitung nel 1842, il Vorwàrts di Parigi nel 1844, la Deutsche Brusseler Zeitung nel 1847, la Nette Rheinische Zeitung nel 184849, la New York Tribune dal 1852 al 1861 e, inoltre, i numerosi opuscoli di propaganda, il lavoro a Parigi, a Bruxelles, a Londra, il tutto coronato dalla grande Associazione Internazionale degli Operai, ecco un altro risultato di cui colui che lo ha raggiunto potrebbe esser fiero anche se non avesse fatto nient’altro.

«Marx era perciò l’uomo più odiato e calunniato del suo tempo. I governi, assoluti e repubblicani, lo espulsero, i borghesi, conservatori e democratici radicali, lo coprirono a gara di calunnie. Egli sdegnò tutte queste miserie, non prestò loro nessuna attenzione, e non rispose se non in caso di estrema necessità. E’ morto venerato, amato, rimpianto da milioni di compagni di lavoro rivoluzionari in Europa e in America, dalle miniere siberiane sino alla California. E posso aggiungere, senza timore: poteva avere molti avversari, ma nessun nemico personale.

«Il suo nome vivrà nei secoli, e così la sua opera!».