CAPITOLO 13


Gli inizi dell’Internazionale



    13.1    ​​​La fondazione

Qualche settimana dopo la morte di Lassalle, il 28 settembre, 1864, in un grande meeting in St. Martin’s Hall, a Londra, fu fondata l’Associazione Internazionale degli Operai.

Non era opera di un singolo, non era un «piccolo corpo con una grossa testa», non era una banda di congiurati senza patria; non era né una vana ombra né un mostro spaventoso, come asseriva, con grazioso avvicendarsi, la fantasia degli araldi capitalisti punta da cattiva coscienza. Corrispondeva piuttosto a uno stadio transitorio della lotta di emancipazione del proletariato, e la sua essenza storica determinò tanto la sua necessità quanto la sua transitorietà.

Il modo di produzione capitalistico, che è in se stesso contraddittorio, genera gli Stati moderni e insieme li distrugge. Accentua al massimo i contrasti nazionali, ma trasforma anche tutte le nazioni secondo la propria immagine. Sul suo terreno questo contrasto è insolubile, e per causa sua sempre ha fatto fallimento la fratellanza dei popoli tanto proclamata e decantata dalla rivoluzione borghese. Mentre predicava libertà e pace fra le nazioni, la grande industria faceva di questo mondo un campo di battaglia quale nessun periodo precedente della storia aveva mai visto.

Ma al modo di produzione capitalistico è strettamente unita anche la sua contraddizione interna. Senza dubbio la lotta di emancipazione del proletariato può svilupparsi soltanto sul terreno nazionale: poiché il processo di produzione capitalistico si compie all’interno di barriere nazionali, ogni proletariato si trova anzitutto di fronte alla propria borghesia. Ma il proletariato non soggiace alla lotta inesorabile della concorrenza, che prepara una fine così rapida e repentina a tutti i sogni di libertà e di pace internazionale della borghesia. Appena gli operai comprendono che devono far cessare la concorrenza nelle loro stesse file, per opporre una resistenza efficace al dominio del capitale (e questo lo comprendono appena si desta la loro coscienza di classe) resta ormai solo un passo per arrivare alla cognizione più profonda che anche la concorrenza fra le classi operaie dei diversi paesi deve cessare, e anzi è necessario il loro comune concorso per infrangere il dominio internazionale della borghesia.

La tendenza internazionale si affermò quindi assai presto nel movimento operaio moderno. Ciò che l’intelletto borghese, barricato nel suo interesse economico, non poteva interpretare che come sentimento antipatriottico e mancanza di istruzione e di intelletto, non era altro che una condizione vitale della lotta di emancipazione del proletariato. Ma se questa lotta può e deve risolvere anche il dissidio fra tendenza nazionale e internazionale, nel quale si contorce eternamente la borghesia, non per questo essa dispone di una bacchetta magica, per trasformare la sua ascesa aspra e dura in una strada piana e facile. La classe operaia moderna lotta in condizioni che le sono imposte dallo sviluppo storico, che non possono essere oltrepassate di slancio con un assalto violento, ma solo esser superate attraverso la loro comprensione, nel senso del motto hegeliano: comprendere significa superare.

Questa comprensione fu resa estremamente difficile dal vario coincidere e sovrapporsi degli inizi del mo vimento operaio europeo, in cui subito si espresse la sua tendenza internazionale, con la costituzione di grandi Stati nazionali, creati proprio dal modo capitalistico di produzione. Poche settimane dopo che il Manifesto comunista ebbe proclamato l’unità d’azione del proletariato in tutti i paesi civili come presupposto indispensabile per la sua emancipazione, scoppiò la rivoluzione del 1848, che in Inghilterra e in Francia mi se già di fronte borghesia e proletariato come potenze nemiche, ma in Germania e in Italia fece divampare soltanto lotte d’indipendenza nazionale. E’ vero che allora il proletariato con la sua partecipazione attiva riconobbe, com’era perfettamente giusto, che queste lotte d’indipendenza, se non erano affatto il suo fine ultimo erano però una tappa verso di esso; il proletariato dette ai movimenti nazionali in Germania e in Italia i combattenti più coraggiosi, e questi movimenti non hanno mai ricevuto suggerimenti migliori di quelli della Neue Rheinische Zeitung, che era pubblicata dagli autori del Manifesto comunista. Ma la lotta nazionale naturalmente ricacciò indietro l’idea internazionale, soprattutto quando in Germania e in Italia la borghesia cominciò a rifugiarsi sotto la protezione di baionette reazionarie. In Italia si organizzarono società operaie di mutuo soccorso sotto la bandiera tutt’altro che socialista, ma almeno repubblicana, di Mazzini, e nella più progredita Germania, dove gli operai già dai tempi di Weitling non erano ignari dei legami internazionali della loro causa, si arrivò a una decennale guerra civile, appunto a motivo della questione nazionale.

Diversamente stavano le cose in Francia e in Inghilterra, dove l’unità nazionale era da lungo tempo assi curata quando cominciò il movimento proletario. Qui l’idea internazionale era molto vitale già prima del quarantotto: Parigi era considerata la capitale della rivoluzione europea, e Londra era la metropoli del mercato mondiale. Eppure anche qui, dopo le sconfitte del proletariato, l’idea internazionale perse più o meno terreno.

Lo spaventoso salasso della battaglia di giugno paralizzò la classe operaia francese, e la ferrea oppressione del dispotismo bonapartista impedì la sua organizzazione, tanto sindacale che politica. Essa ricadde nella confusione prequarantottesca delle sette, donde emersero con più chiarezza due tendenze fra le quali in certa misura si ripartiva l’elemento rivoluzionario e l’elemento socialista. La prima tendenza si ricollegava a Blanqui, che non aveva un programma propriamente socialista, ma voleva conquistare il potere politico mediante il colpo di mano di una minoranza decisa. L’altra tendenza — ed era incomparabilmente la più forte — era sotto l’influenza ideologica di Proudhon, che con le sue banche di scambio per istituire un credito gratuito e simili esperimenti dottrinari si allontanava dal movimento politico; di questo movimento Marx aveva già detto, nel Diciotto brumaio, che esso rinunciava a trasformare il vecchio mondo coi grandi mezzi collettivi che gli erano propri, e cercava piuttosto di conseguire la propria emancipazione alle spalle della società, in via privata, entro i limiti delle sue meschine condizioni d’esistenza.

Uno sviluppo per molti aspetti simile si compì nella classe operaia inglese dopo il fallimento del cartismo. Il grande utopista Owen viveva ancora, in età molto avanzata, ma la sua scuola si insabbiò nei problemi della libertà del pensiero religioso. Inoltre sorse il socialismo cristiano dei Kingsley e Maurice il quale, quantunque non vada messo in un sol fascio con le sue caricature continentali, con tutte le sue aspirazioni culturali e sociali non voleva però saperne di lotta politica. Ma anche le associazioni sindacali delle Trade Unions, per cui l’Inghilterra era più avanzata della Francia, si ostinavano nell’indifferenza politica e si limitavano a soddisfare i propri immediati bisogni, ciò che per esse era facilitato dalla febbrile attività industriale degli anni fra il ’50 e il ’60 e dalla supremazia inglese sul mercato mondiale.

Ma nonostante tutto, in Inghilterra il movimento operaio internazionale non si era assopito che molto gra dualmente. Se ne possono seguire le ultime tracce fino alla fine del quinto decennio del secolo. I Fraternal Democrats avevano trascinato la loro esistenza fino ai giorni della guerra di Crimea e anche quando essi ebbero cessato di dar segni di vita sorse un Comitato Internazionale e poi una Associazione Internazionale, che furono soprattutto oggetto degli sforzi di Ernest Jones. Certo non avevano acquistato grande impor tanza, ma pure mostravano che l’idea internazionale non era del tutto spenta, e che invece sopravviveva in deboli faville che delle vigorose folate di vento avrebbero potuto ravvivare, fino a far divampare in fiamme splendenti.

Le ventate che ebbero questo effetto furono, successivamente, la crisi commerciale del 1857, la guerra del 1859 e soprattutto la guerra civile che era scoppiata nel 1860 fra gli Stati del Nord e gli Stati del Sud dell’Unione nordamericana. Dopo che la crisi commerciale del 1857 aveva inferto il primo duro colpo allo splendore bonapartista in Francia, il tentativo di parare questo colpo grazie a una riuscita avventura di
politica estera era completamente fallito. La macchina che l’uomo di dicembre aveva messo in moto gli era sfuggita dalle mani da un pezzo. Il movimento per l’unità italiana era diventato più grande di lui, e la borghesia francese non si era lasciata soddisfare dai magri allori delle battaglie di Magenta e di Solferino. Per smorzare la crescente arroganza, veniva più che naturale il pensiero di accordare un più largo campo d’azione alla classe operaia; anzi, la possibilità d’esistenza del Secondo Impero dipendeva proprio dal riuscire a tenere in scacco reciproco borghesia e proletariato.

Naturalmente Bonaparte non pensava a concessioni politiche, ma sindacali. Proudhon, che negli ambien ti operai francesi godeva di un’influenza relativamente grande, era un avversario dell’Impero, per quanto parecchie delle sue trovate paradossali potessero dar l’impressione del contrario, ma era anche un avver sario dello sciopero. Questo però era il punto che sembrava urtare di più gli operai francesi. Nonostante i tentativi di dissuasione di Proudhon e il rigoroso divieto di coalizione, dal 1853 al 1866 non meno di 3.909 operai furono condannati per avere partecipato a 749 coalizioni. Il falso Cesare cominciò col graziare i condannati. Poi appoggiò l’invio di operai francesi all’Esposizione Mondiale di Londra del 1862, e anzi non si può negare che abbia realizzato quest’idea ingegnosa in maniera molto più sostanziale di quanto abbia fatto nello stesso tempo l’Unione nazionale tedesca. I delegati dovevano essere eletti dai loro compagni di categoria professionale; a Parigi furono creati 50 uffici elettorali per 150 categorie che in complesso man darono a Londra 200 rappresentanti; a parte una sottoscrizione volontaria, le spese furono sostenute dalla cassa imperiale e dalla cassa municipale, ciascuna con 20.000 franchi. Al loro ritorno i delegati poterono diffondere per mezzo della stampa dei resoconti particolareggiati, che per lo più andavano parecchio al di fuori del campo professionale. Data la situazione di allora, questo era un affare di Stato, che all’animo presago del prefetto di polizia di Parigi strappò la lagnanza che piuttosto di darsi a scherzi di questo genere l’imperatore doveva abolire il divieto di coalizione.

In lealtà i lavoratori non manifestarono al loro interessato benefattore la gratitudine che pretendeva, ma soltanto quella che si meritava. Alle elezioni del 1863 furono dati soltanto 82.000 voti per i candidati del governo, e 153.000 per i candidati dell’opposizione, mentre alle elezioni del 1857 il governo aveva avuto dalla sua ancora 111.000 elettori, e la opposizione soltanto 96.000. Si ritenne generalmente che il cambia mento fosse da attribuire solo in piccola parte allo spostamento della borghesia, ma soprattutto al mutato atteggiamento della classe operaia, che, proprio mentre il falso Bonaparte civettava con i suoi interessi, volle affermare la propria indipendenza, anche se per il momento continuava a marciare sotto la bandiera del radicalismo borghese. Questa interpretazione fu confermata quando, per alcune elezioni suppletive che ebbero luogo a Parigi nel 1864, sessanta operai presentarono come loro candidato l’incisore Tolain, e pubblicarono un manifesto nel quale annunciavano il risveglio del socialismo. Esso diceva che i socialisti avevano senza dubbio imparato dalle esperienze del passato; che nel 1848 gli operai non erano ancora arrivati a un programma chiaro; che avevano seguito questa o quella teoria sociale più per istinto che per riflessione. Ora essi si tenevano lontani da esagerazioni utopistiche e miravano a riforme sociali. Di queste riforme Tolain chiedeva libertà di stampa e di associazione, abolizione del divieto di coalizione, istruzione obbligatoria e gratuita e soppressione del bilancio del culto.

Ma Tolain non riuscì a raccogliere che qualche centinaio di voti. Proudhon, che pure era d’accordo sul contenuto del manifesto, era però contrario alla partecipazione alle elezioni, perché gli pareva che deporre le schede bianche fosse una protesta più energica contro l’Impero; per i blanquisti il manifesto era troppo moderato, e la borghesia, nelle sue sfumature liberali e radicali, a parte singole eccezioni, si scagliò con scherno e disprezzo contro la partecipazione indipendente degli operai, nonostante che il programma elettorale di Tolain non le desse ancora proprio nessun motivo d’inquietudine. La cosa aveva un aspetto molto simile alla situazione tedesca contemporanea. Incoraggiato da ciò, Bonaparte osò compiere un altro passo avanti: con una legge del maggio 1864, senza abolire il divieto delle associazioni professionali (ciò che avvenne solo quattro anni dopo), soppresse i paragrafi del Code penai che proibivano la coalizione degli operai per il miglioramento delle condizioni di lavoro.

In Inghilterra i divieti di coalizione erano già stati aboliti nel 1825, ma l’esistenza delle Trade Unions non era per questo garantita, né di diritto né di fatto, e la massa dei loro membri era priva del diritto di voto politico, che avrebbe permesso loro di eliminare gli ostacoli legali che rendevano diffìcile la loro lotta per un più alto livello di vita. L’ascesa del capitalismo continentale, che troncò un numero enorme di esistenze, creò loro il pericolo di una sporca concorrenza. Ogni volta che gli operai inglesi muovevano all’attacco per l’aumento dei salari o per la riduzione delle ore di lavoro, i capitalisti minacciavano di importare operai francesi, belgi, tedeschi o di altri paesi. Poi una scossa particolarmente efficace fu provocata dalla guerra civile americana: essa causò una crisi del cotone che ridusse alla più grave miseria gli operai dell’industria tessile inglese.

Allora le Trade Unions furono scosse dalla loro esistenza contemplativa. Sorse un nuovo unionismo che era rappresentato specialmente da provati funzionari delle maggiori Trade Unions: Allan dei meccanici, Applegarth dei carpentieri, Lucraft dei falegnami, Cremer dei muratori, Odger dei calzolai ed altri. Questi uomini riconobbero la necessità della lotta politica anche per i sindacati. Essi si posero come obiettivo una riforma elettorale; furono le forze motrici di un gigantesco meeting che ebbe luogo in St. Martin’s Hall, sotto la presidenza del radicale Bright, ed elevò una tempesta di proteste contro il piano di Palmerston per un intervento nella guerra civile americana a favore degli Stati schiavisti dei Sud, e preparò una festosa accoglienza a Garibaldi quando egli, nella primavera del 1864, si recò in visita a Londra.

Il risveglio politico della classe operaia inglese e francese ridestò l’idea internazionale. Già in occasione dell’Esposizione Mondiale del 1862 aveva avuto luogo una « festa dell’affratellamento» fra i delegati fran cesi e gli operai inglesi. Il legame si strinse ancora di più in seguito alla sollevazione polacca del 1863. La causa polacca era sempre stata popolarissima fra gli elementi rivoluzionari dei popoli civili dell’Europa occidentale; l’oppressione e lo smembramento della Polonia faceva delle tre potenze orientali una forza reazionaria; la restaurazione della Polonia era un colpo al cuore per l’egemonia russa sull’Europa. I Fra ternal Democrats in passato avevano celebrato regolarmente gli anniversari della rivoluzione polacca del 1830, con entusiastiche manifestazioni a favore della nazione polacca, ma anche col sentimento che la restaurazione di una Polonia libera e democratica era un presupposto necessario per l’emancipazione del proletariato. Così fu anche nel 1863. Al meeting polacco di Londra, al quale gli operai francesi avevano mandato i loro rappresentanti, il motivo sociale fu sentito in maniera acuta, e costituì anche la nota fon damentale di un indirizzo rivolto da un comitato di operai inglesi, sotto la presidenza di Odger, agli operai francesi per ringraziarli della loro partecipazione al meeting polacco. In particolare l’indirizzo sottolineava che la sporca concorrenza che il capitale inglese faceva al proletariato inglese mediante l’importazione di operai stranieri era possibile soltanto perché mancava un collegamento sistematico fra le classi operaie di tutti i paesi.

Esso fu tradotto in francese dal professor Beesly (uno studioso, per più aspetti benemerito della causa operaia, che insegnava storia all’Università di Londra) e suscitò un movimento vivace nelle fabbriche di Parigi, che culminò nella decisione di inviare una deputazione a Londra, a rispondere personalmente. Per accogliere la delegazione il comitato inglese convocò per il 28 settembre 1864 un meeting in St. Martin’s Hall, che si riunì sotto la presidenza di Beesly ed era affollato da soffocare. Tolain lesse l’indirizzo francese di risposta, che prendeva le mosse dalla sollevazione polacca (« Ancora una volta la Polonia è stata soffocata col sangue dei suoi figli, e noi siamo rimasti spettatori impotenti» ) per chiedere poi che fosse ascoltata la voce del popolo in tutte le grandi questioni politiche e sociali. Seguitava affermando che il potere dispotico del capitale doveva essere spezzato; che la divisione del lavoro aveva fatto dell’uomo uno strumento meccanico, e che il libero commercio senza la solidarietà degli operai avrebbe portato una servitù industriale più crudele e nefasta della servitù infranta nei giorni della Grande Rivoluzione. Infine che gli operai di tutti i paesi dovevano unirsi per opporre una barriera insuperabile a un sistema nefasto.

Dopo un vivace dibattito, durante il quale Eccarius parlò per i tedeschi, su proposta del tradunionista Wheeler il meeting decise di nominare un comitato con facoltà di aumentare il numero dei propri membri e di stendere gli statuti per una associazione internazionale che avrebbero avuto un valore provvisorio, finché un congresso internazionale, da tenersi in Belgio l’anno seguente, non avesse preso delle decisioni definitive in proposito. Il comitato fu eletto: era composto di numerosi tradunionisti e rappresentanti stranieri della causa operaia. Fra i rappresentanti tedeschi (il resoconto giornalistico lo nomina per ultimo) era Karl Marx.

    13.2    ​​​Indirizzo inaugurale e statuti

Fino allora Marx non aveva preso parte attiva al movimento. Era stato invitato dal francese Le Lubez a intervenire in rappresentanza degli operai tedeschi, e in particolare a designare un operaio tedesco quale
oratore. Egli propose Eccarius, mentre per parte sua assistè dalla tribuna senza prender la parola.

Marx aveva un concetto abbastanza alto del suo lavoro scientifico, per anteporlo a qualsiasi affaccendarsi per creare associazioni che apparisse fin dall’inizio privo di prospettive; ma lo rimandava volentieri quando c’era da fare del lavoro utile per il proletariato. Questa volta capì che erano in gioco delle «forze effettive». Scrisse a Weydemeyer (e in termini simili ad altri amici): «Il Comitato internazionale degli operai, di recente costituito, non è privo di importanza. I suoi membri inglesi sono per lo più capi delle Trade Unions, quindi i veri sovrani londinesi degli operai, le stesse persone che prepararono la grandiosa accoglienza a Garibaldi e che col gigantesco meeting di St. James Hall (presieduto da Bright) impedirono a Palmerston di dichiarare guerra agli Stati Uniti, come era sul punto di fare. I membri francesi sono insignificanti, ma sono organi diretti dell’avanguardia operaia di Parigi. Esiste pure un collegamento con le associazioni italiane, che di recente hanno tenuto il loro congresso a Napoli. Quantunque io abbia rifiutato per anni sistematicamente di partecipare a qualsiasi organizzazione , questa volta ho accettato perché si tratta di una faccenda in cui si può esercitare un’azione considerevole». Marx vedeva che «evidentemente era in corso una rinascita delle classi lavoratrici», e ritenne suo primo dovere aprire loro nuove strade.

Si aggiunse il caso fortunato che per circostanze esterne la direzione ideologica toccò a lui. Il comitato eletto si integrò con l’aggiunta di nuove forze: era costituito da una cinquantina di membri, per metà operai inglesi. Dopo gli inglesi, la più forte era la Germania, rappresentata da una decina di membri che, come Marx, Eccarius, Lessner, Lochner, Pfàn-der, avevano già appartenuto alla Lega dei Comunisti. La Francia aveva nove rappresentanti, l’Italia sei, la Polonia e la Svizzera due ciascuna. Dopo la sua costituzione il comitato nominò un sottocomitato che doveva redigere il programma e gli statuti.

In questo sottocomitato fu eletto anche Marx ma, indisposto o informato troppo tardi, fu impedito più volte di partecipare alle deliberazioni. Nel frattempo il maggiore Wolff, segretario privato di Mazzini, l’inglese Weston e il francese Le Lubez avevano provato inutilmente ad assolvere il compito che era stato assegnato al comitato. Per quanto a quel tempo fosse popolare fra gli operai inglesi, Mazzini conosceva troppo poco il movimento operaio moderno per imporsi col suo programma ad esperti tradunionisti. La lotta di classe del proletariato gli era incomprensibile, e perciò invisa. Il suo programma arrivava tutt’al più a una fraseologia socialistica che ormai il proletariato, dopo il ’60, aveva superato da tempo. Anche i suoi statuti traevano parimente la loro origine dallo spirito di un tempo passato: redatti alla maniera rigidamente centrali stica delle società di cospirazione politica, non tenevano conto in particolare delle condizioni di vita delle Trade Unions, e in generale delle condizioni di vita di una lega internazionale degli operai che non doveva creare un nuovo movimento, ma soltanto collegare il movimento di classe del proletariato che già esisteva in diversi paesi ma era ancora disperso. Anche i programmi proposti da Le Lubez e Weston non andavano al di là di un generico vaniloquio.

La cosa era quindi assai imbrogliata quando Marx la prese nelle sue mani. Egli decise che «possibilmente non dovesse restare di quella roba una sola riga»[i]1, e per sbarazzarsene del tutto redasse un Indirizzo alle classi lavoratrici, specie di rassegna delle loro vicende dopo il 1848 (che non era stato previsto nel meeting di St. Martin’s Hall) per poi stendere gli statuti nella forma più chiara e più breve. Il sottocomitato accettò subito le sue proposte, inserendo però nell’introduzione degli statuti qualche frase su «diritto, dovere, verità, morale e giustizia», che però Marx seppe collocare, come scrisse a Engels[ii]2, in modo che non arrecassero nessun danno. Di poi anche il comitato generale accettò Indirizzo e statuti all’unanimità e con grande entusiasmo.

Dell’Indirizzo inaugurale[iii]3 disse una volta Beesly che era probabilmente l’esposizione più potente e pre cisa della causa operaia contro la classe media che fosse mai stata scritta, concentrata in una dozzina di paginette. L’Indirizzo cominciava col sottolineare l’importante dato di fatto che la miseria della classe ope raia non era diminuita dal 1848 al 1864, sebbene questo periodo non avesse avuto l’uguale per lo sviluppo dell’industria e per l’incremento del commercio. Dimostrava questo fatto contrapponendo, con prove docu mentate, da una parte la spaventosa statistica dei libri azzurri ufficiali sulla miseria del proletariato inglese, dall’altra le cifre che il Cancelliere dello Scacchiere Gladstone aveva prodotto, nel suo discorso sul bilancio, sull’incremento di potenza e ricchezza, che si sarebbe verificato in quello spazio di tempo, incremento inebriante ma in tutto e per tutto limitato alle classi possidenti. L’Indirizzo svelava questo contrasto riferendosi alle condizioni inglesi, perché l’Inghilterra marciava alla testa dell’Europa commerciale e industriale, ma aggiungeva che esso esisteva, con altre sfumature locali e su scala un poco ridotta, in tutti i paesi del continente dove si sviluppava la grande industria.

L’incremento inebriante di potenza e ricchezza si limitava dovunque alle classi possidenti, se si eccettua un piccolo numero di operai, come in Inghilterra, che aveva avuto un certo aumento di salario, ma compen sato di nuovo da un generale aumento dei prezzi. « Dappertutto la grande massa delle classi lavoratrici è caduta più in basso, almeno nella stessa misura in cui le classi che stanno sopra di esse sono salite nella scala sociale. In tutti i paesi d’Europa è ora diventata verità dimostrabile a ogni intelletto libero da pregiu dizi, che viene contestata solo da coloro che hanno interesse a rinchiudere gli altri in una felicità illusoria, che nessun perfezionamento delle macchine, nessuna applicazione della scienza alla produzione, nessun progresso dei mezzi di comunicazione, nessuna nuova colonia, nessuna emigrazione, nessuna apertura di nuovi mercati, nessun libero scambio, né tutte queste cose prese insieme elimineranno la miseria delle masse lavoratrici; che, anzi, sulla falsa base presente, ogni nuovo sviluppo delle forze produttive del lavoro inevitabilmente deve tendere a rendere più profondi i contrasti sociali, e più acuti gli antagonismi sociali. La morte per inanizione in questa inebriante epoca di progresso economico si è quasi elevata, nella metro poli dell’Impero britannico, al grado di una istituzione permanente. Questa epoca è contrassegnata, negli annali del mondo, dal ritorno sempre più frequente, dalla estensione sempre più larga, dagli effetti sempre più mortali di quella peste sociale che si chiama crisi economica e industriale».

L’Indirizzo accennava poi alla sconfitta subita dal movimento operaio negli anni fra il ’50 e il ’60 e rilevava che questo periodo in compenso aveva avuto anche degli aspetti favorevoli. Erano messi in speciale rilievo due fatti importanti. Prima di tutto la giornata legale di dieci ore con le sue conseguenze così salutari per il proletariato inglese. La lotta per la limitazione legale del tempo di lavoro toccava direttamente la grave con troversia tra il cieco dominio delle leggi dell’offerta e della domanda, che costituiscono l’economia politica della borghesia, e la produzione sociale regolata dalla previdenza sociale[v]5, che è l’economia politica della classe operaia. «Perciò la legge delle dieci ore non fu soltanto un grande successo pratico; fu la vittoria di un principio. Per la prima volta, alla chiara luce del giorno, l’economia politica della borghesia soggiaceva all’economia politica della classe operaia».

Una vittoria ancora maggiore l’economia politica del proletariato riportò col movimento cooperativo, special mente con le fabbriche cooperative create dagli sforzi di pochi lavoratori intrepidi non aiutati da nessuno.

«Il valore di questi grandi esperimenti sociali non può mai essere apprezzato abbastanza. Coi fatti, invece che con argomenti, queste cooperative hanno dimostrato che la produzione su grande scala e in accordo con le esigenze della scienza moderna, è possibile senza l’esistenza di una classe di padroni che impieghi una classe di lavoratori; che i mezzi di lavoro non hanno bisogno, per dare i loro frutti, di essere monopoliz zati come uno strumento di asservimento e di sfruttamento del lavoratore; e che il lavoro salariato, come il lavoro dello schiavo, come il lavoro del servo della gleba, è solo una forma transitoria e inferiore, destinata a sparire dinanzi al lavoro associato, che impugna i suoi strumenti con mano volenterosa, mente alacre e cuore lieto»[vii]7. Tuttavia il lavoro cooperativo, limitato all’angusta cerchia di tentativi occasionali, non può rompere il monopolio capitalistico. «Forse appunto per questa ragione è avvenuto che aristocratici pieni di buone intenzioni, filantropi borghesi chiacchieroni e persino economisti d’ingegno sottile hanno coperto im provvisamente di complimenti stucchevoli quello stesso sistema cooperativo, che invano avevano cercato di soffocare in germe deridendolo come utopia di sognatori e bollandolo come sacrilegio di socialisti»[viii]8. Soltanto lo sviluppo del lavoro cooperativo su scala nazionale — continuava l’Indirizzo — poteva salvare le masse; ma i signori della terra e del capitale utilizzeranno sempre i loro privilegi politici per perpetuare i loro monopoli economici. Perciò il grande compito della classe operaia è diventato la conquista del potere politico.

Gli operai sembravano aver compreso questo dovere, come dimostrava il loro simultaneo risveglio in In ghilterra, in Francia, in Germania e in Italia, i loro sforzi simultanei per riorganizzare politicamente il partito operaio. «La classe operaia possiede un elemento del successo, il numero; ma i numeri pesano sulla bilancia solo quando sono uniti dall’organizzazione e guidati dalla conoscenza. L’esperienza del passato ha insegnato come il dispregio di quel legame fraterno, che dovrebbe esistere tra gli operai dei diversi paesi e spronarli a sostenersi gli uni con gli altri in tutte le loro lotte per l’emancipazione, venga punito inesora bilmente con la sconfitta comune dei loro sforzi incoerenti»[ix]9. Questa idea aveva spinto i partecipanti al meeting di St. Martin’s Hall a fondare l’Associazione Internazionale degli Operai.

Anche un’altra convinzione animava quest’assemblea: se l’emancipazione della classe operaia richiedeva la sua fraterna unione e cooperazione, come poteva essa adempiere questa grande missione sino a che una politica estera che perseguiva disegni criminosi puntava su pregiudizi nazionali, e profondeva in guerre di rapina il sangue e la ricchezza del popolo? «Non la saggezza della classe dominante, ma l’eroica resistenza della classe operaia inglese alla sua delittuosa follia, fu ciò che salvò l’Europa occidentale dall’esser gettata nell’avventura di un’infame crociata per eternare e propagare la schiavitù sull’opposta riva dell’Oceano. Il plauso spudorato, la simpatia ipocrita o l’indifferenza idiota, con cui le classi superiori dell’Europa hanno veduto la fortezza montuosa del Caucaso essere preda della Russia e la eroica Polonia essere assassinata dalla Russia stessa... hanno insegnato alle classi lavoratrici che è loro dovere dominare anch’esse i misteri della politica internazionale, vigilare gli atti diplomatici dei loro rispettivi governi, opporsi ad essi, all’occorrenza, con tutti i mezzi in loro potere, e che, ove siano nell’impossibilità di prevenire, è loro dovere unirsi, per smascherare simultaneamente questa attività, e per rivendicare come leggi supreme nei rapporti fra le nazioni le semplici leggi della morale e del diritto che dovrebbero regolare i rapporti fra privati. La lotta per una tale politica estera è una parte della lotta generale per l’emancipazione della classe operaia»[x]10. L’Indirizzo si chiudeva, come già il Manifesto comunista, con le parole: «Proletari di tutti i paesi, unitevi!».

Gli Statuti cominciavano con dei «considerando» che si possono riassumere come segue: l’emancipazione della classe operaia deve essere opera della classe operaia stessa, e questa lotta non è una lotta per nuovi privilegi di classe, ma per abolire ogni dominio di classe; la soggezione economica del lavoratore a colui che gode del monopolio dei mezzi di lavoro, cioè delle fonti della vita, forma la base della servitù in tutte le sue forme, la base di ogni miseria sociale, di ogni degradazione spirituale e dipendenza politica; l’emancipazione economica della classe operaia è il grande fine cui deve essere subordinato, come mezzo, ogni movimento politico; tutti gli sforzi per raggiungere questo fine sono finora falliti per la mancanza di solidarietà tra le molteplici categorie di operai in ogni paese, e per l’assenza di una unione fraterna tra le classi operaie dei diversi paesi; l’emancipazione degli operai non è un problema locale né nazionale, ma un problema sociale che abbraccia tutti i paesi in cui esiste la società moderna, e la cui soluzione dipende dalla collaborazione pratica e teorica di questi paesi[xi]11. A queste proposizioni chiare e acute erano poi aggiunti quei luoghi comuni morali sulla giustizia e. la verità, sui doveri e i diritti, che Marx accolse solo con riluttanza nel suo testo.

L’organizzazione dell’Associazione culminava in un Consiglio Generale che doveva essere composto da operai dei diversi paesi rappresentati nell’Associazione. Fino al primo congresso il comitato eletto in St. Martin’s Hall si assumeva le attribuzioni del Consiglio Generale. Esse consistevano nel fungere da col legamento fra le organizzazioni operaie dei diversi paesi, tenere costantemente informati gli operai di ogni paese sul movimento della loro classe in ogni altro paese, condurre ricerche statistiche sulle condizioni delle classi lavoratrici, far discutere in tutte le società operaie questioni d’interesse generale, suscitare un’a zione unitaria e simultanea delle associazioni aderenti in caso di conflitti internazionali, pubblicare bollettini periodici, e altri compiti simili. Il Consiglio Generale veniva eletto dal congresso che si riuniva una volta l’anno. Il congresso fissava la sede del Consiglio Generale e il luogo e la data per il congresso successivo. Il Consiglio Generale era autorizzato ad aggregarsi nuovi membri e in caso di necessità a spostare la sede del congresso, ma non a differire la data della sua convocazione. Le società operaie dei singoli paesi che aderivano all’Internazionale conservavano intatta la loro organizzazione. A nessuna associazione locale indipendente era impedito di aver rapporti diretti col Consiglio Generale, ma era richiesto, come condizio ne necessaria per l’efficace attività del Consiglio Generale, che le associazioni isolate dei singoli paesi si riunissero, per quanto possibile, in associazioni nazionali rappresentate da organi nazionali centrali. Per quanto sia errato affermare che l’Internazionale fu l’invenzione di una « grande mente», la sua fortuna fu però ugualmente di aver trovato, al suo sorgere, una grande mente che indicandole la via giusta le risparmiò di avviarsi su strade sbagliate. Più di questo Marx non fece, né volle fare. La genialità incom parabile dell’Indirizzo e degli Statuti stava appunto nel fatto che essi si ricollegavano interamente allo stato presente delle cose e nello stesso tempo, come una volta disse giustamente Liebknecht, contenevano fino alle ultime conseguenze i princìpi del comunismo, non meno del Manifesto comunista.

Dal Manifesto essi non differivano soltanto per la forma: « occorre tempo», scrisse Marx ad Engels, «prima che il movimento ridestato consenta l’antica audacia di parola. Necessario fortiter in re, suaviter in modo»[xiii]13. La cosa aveva uno scopo diverso. Ora importava fondere in un grande esercito tutto l’elemento operaio combattivo d’Europa e d’America, stabilire un programma che, secondo un’espressione di Engels, non chiudesse la porta alle Trade Unions inglesi, ai proudhoniani francesi, belgi, italiani, spagnoli, ai lassalliani tedeschi. Per la vittoria finale del socialismo scientifico, com’era impostato nel Manifesto comunista, Marx faceva assegnamento unicamente sullo sviluppo intellettuale della classe operaia, quale doveva risultare dalla sua azione unita.

Ben presto la sua attesa fu sottoposta a una dura prova: aveva appena cominciato il lavoro di propaganda per l’Internazionale, quando entrò in grave conflitto con quella classe operaia europea che prima di ogni altra avrebbe dovuto accettare i princìpi dell’Internazionale.

    13.3    ​​​La rottura con Schweitzer

Una tradizione non bella né vera vuol far credere che i lassalliani tedeschi abbiano rifiutato di entrare nell’Internazionale e che abbiano assunto nei suoi confronti una posizione del tutto ostile.

Prima di tutto non si vede che motivo ne avrebbero avuto. La loro rigida organizzazione, alla quale attribui vano un grande valore, non era neppur lontanamente toccata dagli Statuti dell’Internazionale, e l’Indirizzo inaugurale poteva esser sottoscritto da loro dalla alla zeta; e particolarmente soddisfacente era per loro la parte sul lavoro cooperativo, del quale era detto che avrebbe potuto salvare le masse solo se esteso su dimensioni nazionali e alimentato con mezzi statali.

In realtà i lassalliani tedeschi furono fin da principio ottimamente disposti verso l’Internazionale, nonostante che a quel tempo avessero abbastanza da fare in casa propria. Dopo la morte di Lassalle e per sua raccomandazione testamentaria, Bernhard Becker era stato eletto presidente dell’Associazione Generale degli Operai tedeschi, ma si dimostrò talmente incapace che ne nacque una disperata confusione. Quel che teneva ancora insieme l’Associazione era il suo organo, il Sozialdemokrat, che usciva dalla fine del 1864 sotto la direzione ideologica di Johann Baptist von Schweitzer. Quest’uomo energico e capace si era dato la massima cura per avere la collaborazione di Marx e di Engels, aveva accolto Liebknecht nella direzione, cosa a cui nessuno lo obbligava, e subito nel secondo e terzo numero del suo giornale aveva riportato l’Indirizzo inaugurale.

Ora Moses Hess, che da Parigi scriveva corrispondenze per il giornale, aveva avanzato dei sospetti sull’indi pendenza di Tolain, definendolo amico del Palais royal, dove Girolamo Bonaparte si atteggiava a demagogo rosso; ma Schweitzer aveva pubblicato la lettera soltanto in seguito all’espresso consenso di Liebknecht. Quando Marx se ne lagnò, fece anche di più, e dispose che Liebknecht redigesse da sé tutto ciò che si riferiva all’Internazionale; anzi, il 15 febbraio 1865 scrisse a Marx che avrebbe proposto una risoluzione in cui l’Associazione Generale degli Operai tedeschi avrebbe affermato il suo pieno accordo con i princìpi dell’Internazionale, avrebbe promesso di partecipare ai congressi, e avrebbe rinunciato ad aderire formal mente soltanto a motivo delle leggi tedesche, che vietavano l’unione di associazioni diverse. Schweitzer non ebbe più alcuna risposta a questa offerta; anzi, Marx ed Engels annunciarono in una dichiarazione pubblica di cessare la collaborazione al Sozialdemokrat.

Da questi fatti risulta a sufficienza che la spiacevole rottura non aveva nulla a che fare con dissensi sorti a proposito dell’Internazionale. Il motivo che l’aveva determinata era espresso chiarissimamente da Marx ed Engels nella loro dichiarazione, in questi termini: essi non avevano in nessun momento disconosciu to la difficile posizione del Soziademokrat e non avevano avanzato alcuna pretesa che fosse inopportuna per il meridiano di Berlino; ma avevano chiesto ripetutamente che nei confronti del ministero e del parti to feudale-assolutista fosse usato un linguaggio almeno tanto ardito quanto quello usato nei confronti dei progressisti. La tattica seguita dal Sozialdemokrat escludeva ogni loro ulteriore partecipazione al giornale. Il giudizio sul regio socialismo governativo prussiano e sulla posizione del partito operaio di fronte a tale opera ingannatrice, da essi formulato un tempo nella Deutsche Brusseler Zeitung, in risposta al Rheini scher Beobachter, che aveva proposto una «alleanza» del « proletariato» col «governo» contro la « borghesia liberale», lo sottoscrivevano ancora parola per parola.

La tattica del Sozialdemokrat non aveva niente a che fare con una simile «alleanza» o con un «socialismo governativo prussiano». Dopo che la speranza di Lassalle, di ridestare la classe operaia tedesca con uno slancio potente, si era dimostrata fallace, l’Associazione Generale degli Operai tedeschi con le sue migliaia di aderenti era rinserrata fra due avversari, ciascuno dei quali era abbastanza forte per schiacciarla. Così come stavano allora le cose il giovane partito operaio non poteva aspettarsi proprio nulla dall’odio ottuso della borghesia, mentre da quello scaltro diplomatico di Bismarck almeno poteva aspettarsi che non potesse condurre la sua politica grande-prussiana senza certe concessioni alle masse popolari. Tanto sul valore che sullo scopo di simili concessioni Schweitzer non si è mai abbandonato a illusioni; ma in un tempo in cui alla classe operaia tedesca mancavano affatto le premesse legali per potersi organizzare, in un tempo in cui essa non aveva un effettivo diritto di voto, e le libertà di stampa, di associazione e di riunione erano abbandonate all’arbitrio burocratico, il Sozialdemokrat non poteva spingersi fino al punto di condurre attacchi di pari violenza contro ambedue gli avversari, ma doveva limitarsi a servirsi di uno degli avversari per giocare l’altro. Condizione indispensabile per una politica di questo genere era che restasse salvaguardata da tutti i lati l’indipendenza del giovane partito operaio e che la coscienza di questa indipendenza fosse mantenuta sempre desta nelle masse operaie.

Ciò riuscì a Schweitzer con fatica ma anche con successo, e inutilmente nel Sozialdemokrat si cercherebbe anche una sola sillaba che potesse far nascere il sospetto di una « alleanza» col governo contro il partito progressista. Se si segue l’attività pubblica svolta a quel tempo da Schweitzer in rapporto con lo sviluppo politico generale, si riscontrano parecchi errori, che del resto lo stesso Schweitzer ha ammesso, ma in sostanza ci si trova di fronte a una politica accorta e conseguente che mirava sempre soltanto agli interessi della classe operaia, e non poteva esser dettata da Bismarck né da qualsiasi altro reazionario.

Di fronte a Marx ed Engels, Schweitzer se non altro aveva il vantaggio di una precisa conoscenza della situazione prussiana. Essi vedevano sempre questa situazione attraverso idee preconcette, e Liebknecht non riuscì nella sua attività di informazione e di mediazione che le circostanze gli avevano assegnato. Era tornato in Germania nel 1862, chiamato dal repubblicano rosso Brass, che era pure rimpatriato dall’esilio, per fondare la Norddeutsche Allgemeine Zeitung. Liebknecht era appena entrato nella redazione, quando si seppe che Brass aveva venduto il giornale al ministero Bismarck. Liebknecht ne uscì subito; ma questa prima esperienza sul suolo tedesco fu ugualmente per lui un incidente disgraziatissimo. Non soltanto materialmente, nel senso che si trovò un’altra volta per la strada, come nei lunghi anni dell’esilio. Questo era ciò che lo preoccupava meno: gli interessi della causa erano per lui sempre al di sopra dei suoi interessi personali. Ma la sua esperienza con Brass*gli impedì di orientarsi obiettivamente sulla nuova situazione che trovò in Germania.

Quando ritornò sul suolo tedesco, Liebknecht era ancora sostanzialmente il vecchio uomo del quarantot to. L’uomo del quarantotto nel senso della Neue Rheinische Zeitung, nella quale la teoria socialista e la stessa lotta di classe del proletariato restavano ancora in seconda linea rispetto alla lotta rivoluzionaria della nazione contro il dominio di classi arretrate. La teoria socialista nella sua ossatura scientifica non fu mai posseduta da Liebknecht, per quanto ne comprendesse i concetti fondamentali; quel che aveva impa rato da Marx, negli anni dell’esilio, era specialmente la tendenza a considerare i vasti campi della politica internazionale in base ai germi rivoluzionari che vi si sviluppavano. Ora lo Stato prussiano era tenuto in con siderazione troppo bassa da Marx ed Engels, che, renani per nascita, guardavano con eccessivo disprezzo tutto ciò che stava a oriente dell’Elba, e più ancora da Liebknecht che, nato nella Germania meridionale, negli anni del movimento aveva svolto la sua attività in territorio badese e svizzero, patria originaria della politica dei piccoli cantoni. Per lui la Prussia era sempre lo Stato prequarantottesco vassallo dello zarismo, che con i mezzi odiosi della corruzione resisteva al progresso della storia e che anzitutto si doveva comin ciare ad abbattere, prima che in Germania si potesse pensare alla lotta moderna delle classi. Liebknecht non si avvide che lo sviluppo economico degli anni dopo il ’50 aveva trasformato anche lo Stato prussiano e vi aveva creato delle condizioni per effetto delle quali era diventata una necessità storica la liberazione della classe operaia dalla democrazia borghese.

Perciò un accordo durevole fra Liebknecht e Schweitzer era impossibile, e fu troppo per Liebknecht quan do Schweitzer pubblicò cinque articoli sul ministero Bismarck, che in sostanza tracciavano un felicissimo parallelo fra la politica grande-prussiana e la politica proletaria rivoluzionaria nella questione dell’unità te desca, ma commettevano l’« errore» di dipingere con tanta eloquenza il pericoloso slancio della politica grande-prussiana che pareva quasi la si esaltasse. In compenso Marx commise 1’«errore» di spiegare a Schweitzer, in una lettera del 13 febbraio, che dal governo prussiano ci si poteva aspettare ogni specie di trucchi, con le sue associazioni produttive, ma non l’abolizione del divieto di coalizione, che avrebbe spez zato il burocratismo e il dispotismo poliziesco. Marx dimenticava qui quel che una volta aveva spiegato così diffusamente contro Proudhon, cioè che i governi non comandano alle condizioni economiche, ma che all’inverso le condizioni economiche comandano ai governi. Ancora pochi anni e il ministero Bismarck, vo lente o nolente, dovette abolire i divieti di coalizione. Nella sua risposta del 15 febbraio (quella stessa lettera in cui Schweitzer prometteva di promuovere l’adesione dell’Associazione Generale degli Operai tedeschi all’Internazionale, e sottolineava ancora una volta che Liebknecht era incaricato ’di curare da sé la pubbli cazione di tutto ciò che si riferiva all’Internazionale) Schweitzer affermava che avrebbe accettato volentieri, da parte di Marx, tutti i chiarimenti teorici, ma che per decidere opportunamente sulle questioni pratiche di tattica quotidiana, occorreva trovarsi al centro del movimento e conoscere esattamente la situazione. Dopo di che Marx ed Engels la ruppero definitivamente con lui.

Questi errori e malintesi però si spiegano del tutto soltanto tenendo conto delle manovre nefaste della contessa di Hatzfeldt. In questo tempo la vecchia amica di Lassalle commise le colpe più gravi contro la memoria dell’uomo che un tempo aveva salvato la sua vita dalla morte civile. Essa voleva fare della creatu ra di Lassalle una setta ortodossa, che giurasse sulle parole di Lassalle, e neppure così come lui le aveva pronunciate, ma come le interpretava la contessa di Hatzfeldt. Della confusione che essa provocava si ha un’idea da una lettera scritta il 10 marzo da Engels a Weydemeyer. Dopo alcune parole sulla fondazione del Sozialdemokrat vi è detto: «Ma ora nel giornaletto è venuto fuori un insopportabile culto lassalliano, mentre noi intanto siamo venuti a sapere in modo positivo (la vecchia Hatzfeldt l’ha raccontato a Liebkne cht, e gli ha chiesto di agire in questo senso) che Lassalle era con Bismarck in contatto molto più stretto di quanto noi avessimo mai saputo. Fra i due esisteva una alleanza formale che era arrivata a tal punto che Lassalle doveva andare nello Schleswig-Holstein e là adoprarsi per l’annessione dei ducati, mentre Bismarck aveva fatto alcune promesse poco definite in favore dell’introduzione di una specie di suffragio universale, e altre più definite in favore del diritto di coalizione e di concessioni sociali, di appoggio statale per associazioni operaie ecc. Lo sciocco Lassalle non aveva assolutamente nessuna garanzia da parte di Bismarck, al contrario sarebbe stato gettato in gattabuia appena fosse diventato incomodo. I signori del Sozialdemokrat sapevano tutto questo e nonostante tutto hanno continuato con veemenza sempre mag giore a sostenere il culto di Lassalle. Per giunta questi tipi si sono lasciati indurre, intimiditi dalle minacce di Wagener (della Kreuzzeitung), a fare la corte a Bismarck, a civettare con lui ecc. Noi abbiamo fatto pubblicare una dichiarazione e ne siamo usciti, e anche Liebknecht ne è uscito». E’ difficile capire come Marx ed Engels e Liebknecht, che avevano conosciuto Lassalle e leggevano il Sozialdemokrat, credessero alle favole della contessa di Hatzfeldt, ma una volta che vi ebbero creduto era comprensibilissimo che si allontanassero dal movimento avviato da Lassalle.

Il loro distacco non ebbe effetti pratici su quel movimento. Anche vecchi membri della Lega dei Comunisti, come Ròser, che un tempo, di fronte alle Assise di Colonia, aveva difeso i princìpi del Manifesto comunista, si dichiararono in favore della tattica di Schweitzer.

    13.4    ​​​La prima Conferenza di Londra

Mentre i lassalliani rompevano così i rapporti con la nuova associazione, anche il lavoro di reclutamento fra i sindacati inglesi e i proudhoniani francesi procedeva lentamente.

Solo una ristretta cerchia di dirigenti sindacali aveva capito la necessità della lotta politica, e anch’essi vedevano nell’Internazionale più che altro un mezzo per i loro fini sindacali. Ma se costoro almeno erano dotati di una vasta esperienza pratica in tutte le questioni organizzative, ai proudhoniani francesi mancava addirittura un’idea chiara sull’essenza storica del movimento operaio. Era appunto un compito enorme, quello che la nuova associazione si era posto, e per assolverlo occorreva un enorme impegno unito a un’enorme forza.

Marx si applicò con impegno e con forza, nonostante che fosse continuamente tormentato da malattie dolorose e gli urgesse di portare a una certa conclusione il suo capolavoro scientifico. Una volta si lagnava: «La cosa peggiore in tale movimento si è che, appena uno vi prenda qualche parte, ha grandi fastidi», oppure diceva che l’Internazionale, con tutti gli annessi e connessi, pesava su di lui «come un incubo» e che sarebbe stato contento di liberarsene. Ma aggiungeva che neppur questo era giusto, e che chi ha cominciato bisogna che continui, e in fondo Marx non sarebbe stato se stesso se non fosse stato più lieto e felice di portare questo peso che di liberarsene.

Si vide subito che egli era il vero «capo» di tutto il movimento. Non che si sia fatto avanti in qualche mo do; aveva uno sconfinato disprezzo per qualsiasi popolarità a buon mercato e lavorando dietro le quinte, senza comparire pubblicamente, voleva distinguersi dalla maniera di fare democratica, di darsi importanza in pubblico senza far nulla. Ma fra tutti coloro che lavoravano nella piccola associazione, nessuno come lui possedeva, neppur lontanamente, le rare qualità che erano necessarie per la sua così estesa agitazione: la visione chiara e profonda delle leggi dello sviluppo storico, l’energia di volere ciò che era necessario e la pazienza di contentarsi del possibile, la tollerante indulgenza per l’errore fatto in buona fede e l’im periosa inflessibilità contro l’ignoranza ostinata. In un campo incomparabilmente più vasto della Colonia rivoluzionaria di un tempo, ora Marx poteva dispiegare la sua ineguagliabile attività nel dominare gli uomini, ammaestrandoli e guidandoli.

«Un tempo enorme» gli costarono fin da principio i litigi e le contese personali che sono sempre ine vitabili agli inizi di movimenti di questo genere; i membri italiani e specialmente i francesi creavano molte difficoltà inutili. Fin dagli anni della rivoluzione a Parigi esisteva una profonda antipatia fra i «lavoratori del braccio e della mente» : i proletari non potevano dimenticare i tradimenti troppo frequenti dei letterati, e i letterati scomunicavano qualsiasi movimento operaio che non volesse saper di loro. Ma anche all’interno della stessa classe operaia fiorivano i sospetti di imbrogli bonapartisti, tanto più che mancava ogni mezzo di chiarificazione mediante associazioni o giornali. Il ribollire di questo «minestrone francese» costò al Consiglio Generale parecchie nottate e parecchie lunghe risoluzioni.

Più grate e più fruttuose erano per Marx le attività che lo mettevano in relazione col ramo inglese dell’Inter nazionale. Dopo essersi opposti all’intervento del governo inglese in favore degli Stati americani ribelli del Sud, gli operai avevano il buon diritto di felicitarsi con Abraham Lincoln per la sua rielezione a presidente. Marx redasse l’indirizzo al «semplice figlio della classe operaia, al quale è toccato il compito di guidare il suo paese nella nobile lotta per la liberazione di una classe asservita»; finché i lavoratori bianchi dell’U nione non avevano compreso che la schiavitù disonorava la loro Repubblica — diceva l’indirizzo —, finché essi, di fronte al negro che veniva venduto senza il suo proprio consenso, avevano continuato ad andare orgogliosi dell’alto privilegio, riservato al lavoratore bianco, di vendersi da sé e di potersi eleggere il padro ne, per tutto questo tempo essi erano stati incapaci di conseguire la vera libertà o di appoggiare la lotta di emancipazione dei loro fratelli europei. Ma il rosso mare di sangue della guerra civile aveva spazzato via questa barriera. L’indirizzo era scritto con evidente compiacimento ed amore per l’oggetto, benché Marx, che come Lessing amava parlare in tono noncurante dei propri lavori, scrivesse a Engels che doveva «di nuovo stenderlo (cosa ben più difficile di un lavoro di contenuto), perché la fraseologia a cui si restringe tal sorta di scritti si distingua almeno dall’abusata fraseologia democratica». Lincoln avvertì benissimo la differenza: rispose in tono molto amichevole e cordiale, con meraviglia della stampa londinese, perché agli indirizzi di felicitazioni di parte borghese-democratica il «vecchio» rispose con un paio di complimenti convenzionali.

«Come contenuto» senza dubbio era molto più importante un saggio su Salario, prezzo e profitto che Marx lesse il 26 giugno 1865 al Consiglio Generale dell’Internazionale, per controbattere l’opinione, sostenuta da qualche membro, secondo cui un aumento generale del salario non gioverebbe per niente agli operai, e quindi l’azione delle Trade Unions sarebbe stata dannosa. Questa opinione derivava dalla concezione errata secondo cui il salario determinerebbe il valore delle merci e i capitalisti, se oggi pagassero 5 scellini di salario invece di 4, domani venderebbero le loro merci per 5 scellini invece di 4 in conseguenza dell’au mento di domanda. Per quanto ciò fosse sciocco — diceva Marx — e si attenesse soltanto alla pura apparenza esteriore, non era tuttavia facile spiegare agli ignoranti tutte le questioni economiche che vi si accumulavano intorno: non si poteva condensare un corso di economia politica in un’ora2. Ciò nonostante vi riuscì ottimamente, e le Trade Unions gli furono grate del sostanziale servigio.

Ma l’Internazionale dovette i suoi primi notevoli successi all’energico movimento per la riforma elettorale inglese. Già il 1◦ maggio 1865 Marx informava Engels: «La Reform League è opera nostra. Nel comita to ristretto di 12 (6 della classe media e 6 della classe operaia) gli operai sono tutti membri del nostro Consiglio Generale (fra i quali Eccarius). Abbiamo frustrato tutti i tentativi dei borghesi medi di far deviare gli operai... Se riesce questa rigalvanizzazione del movimento politico della classe operaia inglese, la nostra Associazione, senza chiasso di sorta, ha già fatto per la classe operaia europea più di quanto fosse possibile per qualsiasi altra via. Ed esistono tutte le prospettive di successo». A questa lettera, il 3 maggio Engels rispose: «L’Associazione Internazionale in breve tempo e con poco chiasso ha effettivamente conquistato un terreno vastissimo; però è bene che essa adesso si adoperi in Inghilterra, invece di doversi occupare eternamente di tutte le brighe francesi. Qua almeno ottieni qualche cosa in cambio della tua perdita di tempo». Ben presto però si sarebbe visto che anche questo successo aveva il suo lato negativo.

Tutto considerato, Marx ritenne che la situazione non fosse ancora abbastanza matura per un congresso pubblico, che era previsto per l’anno 1865 a Bruxelles. Egli temeva, e non a torto, che ne sarebbe venuto fuori un caos di linguaggi diversi.  Con gran fatica, soprattutto contro la resistenza dei francesi, riuscì a trasformare il congresso in una conferenza provvisoria riservata a Londra, alla quale dovevano venire soltanto dei rappresentanti dei comitati direttivi, per preparare il successivo congresso. Per giustificare la necessità di questo incontro preliminare, Marx addusse come motivi il movimento elettorale in Inghilterra e lo sciopero che cominciava in Francia, e infine una legge sugli stranieri da poco promulgata in Belgio, che avrebbe reso impossibile la riunione di un congresso a Bruxelles.

Questa Conferenza tenne le sue sedute dal 25 al 29 settembre 1865. Dal Consiglio Generale furono delegati, oltre al presidente Odger, al segretario generale Cremer e qualche altro membro inglese, Marx e i suoi due principali collaboratori negli affari dell’Internazionale, Eccarius e Jung, un orologiaio svizzero che risiedeva a Londra e parlava ugualmente bene tedesco, inglese e francese. Dalla Francia erano venuti Tolain, Fribourg, Limousin, che in seguito non restarono fedeli all’Internazionale, e poi Schily, vecchio amico di Marx fin dal 1848, e Varlin, il futuro eroe e martire della Comune di Parigi. Dalla Svizzera il legatore di libri Dupleix, per gli operai della Svizzera romanza, e Johann Philipp Becker, ex spazzolalo e ora agitatore infaticabile, per gli operai della Svizzera tedesca. Dal Belgio Cesar de Paepe, che da apprendista tipografo si era dato allo studio della medicina ed era arrivato a diventare medico.

Prima di tutto la Conferenza si occupò delle finanze dell’Associazione. Risultò che per il primo anno erano state raccolte non più di 33 sterline qirca. Non ci fu ancora nessun accordo su un contributo regolare dei membri, fu soltanto deciso di raccogliere 150 sterline destinate alla propaganda e alle spese del congres so: 80 dall’Inghilterra, 40 dalla Francia, ( 10 sterline rispettivamente dalla Germania, dal Belgio e dalla Svizzera. Ma il bilancio non diventò mai realtà, perché il «nervo di tutte le cose» non fu mai il nervo dell’In ternazionale. Anni dopo Marx notava ironicamente che le finanze del Consiglio Generale erano grandezze in continuo aumento, ma negative, e decenni dopo Engels scrisse che invece dei famosi «milioni dell’Inter nazionale» il Consiglio Generale per lo più non aveva avuto a disposizione altro che debiti: inai si era fatto tanto con così poco denaro.

Sulla situazione inglese riferì il segretario generale Cremer. Disse ( he sul continente si ritenevano molto ricche le Trade Unions, tanto da poter appoggiare una causa che era anche la loro causa, ma che esse erano legate da statuti severi, che le costringevano entro limiti ristretti; che ad eccezione di pochi, i loro membri, non sapevano nulla di politica, e che sarebbe stato difficile fare intendere loro qualche cosa di politica; che però si notava un certo progresso: pochi anni prima non si sarebbe neppur dato ascolto a dei delegati dell’Internazionale, mentre ora si accoglievano amichevolmente, si ascoltavano e si accettavano i loro princìpi. Era la prima volta che un’associazione che aveva in qualche modo a che fare con la politica, era riuscita così a introdursi presso le Trade Unions.

Fribourg e Tolain riferirono che in Francia l’Internazionale aveva incontrato accoglienza favorevole, che, a parte Parigi, si erano reclutati membri a Rouen, Nantes, Elbeuf, Caen e in altre città, ed erano state vendute tessere in numero considerevole, per l’ammontare annuale di franchi 1,25, ma che il ricavato era stato esaurito per istituire un ufficio centrale a Parigi e per le spese di viaggio dei delegati: il Consiglio Generale avrebbe potuto contare sulla vendita delle 400 tessere che non erano state ancora distribuite. I delegati francesi si rammaricavano del rinvio del congresso, che era un grave ostacolo per lo sviluppo dell’associa zione, e lamentavano le vessazioni subite dagli operai da parte del governo poliziesco bonapartista; dissero infine che si imbattevano continuamente nell’obiezione: mostrate che sapete agire, e noi aderiremo.

Molto favorevole fu la relazione di Becker e Dupleix sulla Svizzera, nonostante che là l’agitazione fosse cominciata soltanto sei mesi prima. A Ginevra avevano 400 membri, a Losanna 150 e altrettanti a Vevey. Il contributo mensile ammontava a 50 pence, ma i membri avrebbero pagato anche il doppio: essi erano perfettamente convinti della necessità di versare un contributo per il Consiglio Generale. E’ vero che i delegati per il momento non portavano ancora denaro; ma potevano assicurare, a titolo di consolazione, che se non ci fossero state le loro spese di viaggio avrebbero portato un avanzo netto.

In Belgio l’agitazione esisteva soltanto da un mese. Ma Paepe informò che erano già stati reclutati 60 iscritti, che si erano impegnati a pagare annualmente almeno 3 franchi, un terzo dei quali sarebbe stato devoluto al Consiglio Generale.

Quanto al congresso, Marx propose a nome del Consiglio Generale che si tenesse a Ginevra nel settembre o ottobre del 1866.  La sede fu approvata all’unanimità, ma la data fu anticipata all’ultima settimana di maggio in seguito alla vivace pressione dei francesi. I francesi chiesero anche che potesse partecipare con pieni diritti al congresso chiunque avesse presentato la tessera di iscritto: affermarono che per loro era una questione di principio, e che il suffragio universale andava inteso così. Soltanto dopo un dibattito infocato fu fatto passare il principio della rappresentanza per mezzo di delegati, sostenuto particolarmente da Cremer e da Eccarius.

L’ordine del giorno fissato dal Consiglio Generale era assai vasto: attività dell’associazione; riduzione del l’orario di lavoro; lavoro delle donne e dei fanciulli; passato e futuro dei sindacati; influsso dell’esercito permanente sugli interessi delle classi lavoratrici, ecc. Tutto fu accettato all’unanimità, eccetto due punti che provocarono dei dissensi.

Il primo di essi non fu proposto dal Consiglio Generale, ma dai francesi. Essi chiedevano, come punto particolare dell’ordine del giorno: idee religiose e loro influenza sul movimento sociale, politico e spirituale. Il modo come essi ci arrivarono, e la posizione di Marx in proposito risultano forse con la maggior con cisione da alcune frasi del necrologio per Proudhon, che Marx aveva pubblicato qualche mese prima sul Sozialdemokrat, e che fra l’altro fu il suo unico contributo a quel giornale: «Gli attacchi di Proudhon contro la religione e la Chiesa avevano una grande importanza locale, in un’epoca in cui i socialisti francesi si vantavano dei loro sentimenti religiosi come di una superiorità sul volterrianesimo del secolo XVIII e sull’ateismo tedesco del secolo XIX. Se Pietro il Grande aveva abbattuto la barbarie russa con la barbarie, Proudhon fece del suo meglio per demolire la frase francese con la frase». Anche dei delegati inglesi misero in guardia contro questo «pomo della discordi!», ma i francesi riuscirono a far passare la loro proposta con 18 voti contro 13.

L’altro punto dell’ordine del giorno che suscitò discussione fu proposto dal Consiglio Generale, e riguar dava una questione di politica europea che aveva particolare importanza per Marx, cioè «la necessità di impedire il progressivo influsso della Russia in Europa, restaurandouna Polonia indipendente su base de mocratica e socialista, in conformità col diritto di autodecisione delle nazioni». Anche in questo caso furono specialmente i francesi a non volerne sapere: perché mescolare questioni politiche alle questioni sociali, perché perdersi dietro a cose tanto lontane quando c’era da lottare contro un’oppressione così grave in ca sa propria, perché impedire l’influsso del governo russo quando l’influsso dei governi prussiano, austriaco, francese e inglese non era meno nefasto? Con particolare energia parlò in questo senso anche il delegato belga. Cesarde Paepe sostenne che la restaurazione della Polonia poteva giovare soltanto a tre classi: all’alta nobiltà, alla bassa nobiltà e al clero.

L’influsso di Proudhon è qui perfettamente riconoscibile. Proudhon si era ripetutamente pronunciato contro la restaurazione della Polonia, da ultimo anche al tempo della sollevazione polacca del 1863, in un libro nel quale, come scrisse Marx nel suo necrologio, aveva professato in onore dello zar un cinismo da cretino. La medesima sollevazione invece aveva ravvivato le vecchie simpatie per la causa polacca che Marx ed Engels avevano manifestato negli anni della rivoluzione; in quell’occasione essi volevano stendere insieme un manifesto, di cui però non fecero più nulla.

La loro simpatia per la Polonia non era affatto cieca; il 23 aprile 1863 Engels scrisse a Marx: «Devo dire che per entusiasmarsi dei polacchi del 1772 ci vuole un bufalo. Nella massima parte d’Europa la aristocrazia allora cadeva, ma con dignità, talvolta con esprit, anche se la sua massima universale era che il materialismo consiste nel mangiare, nel bere, nel fottere, nel vincere al gioco o nel venir pagati per compiere infamie; ma così stupida nel metodo di vendersi ai russi, come fecero i polacchi, non ci fu nessun’altra nobiltà». Ma fin tanto che non c’era da pensare a una rivoluzione in Russia, la restaurazione della Polonia offriva l’unica possibilità di bloccare l’influsso zarista sulla civiltà europea„ e di conseguenza nella crudele repressione della sollevazione polacca e nella contemporanea avanzata del dispotismo zarista sul Caucaso Marx vedeva i più importanti avvenimenti europei dopo il 1815. A questi avvenimenti aveva dato il massimo rilievo nella parte dell’Indirizzo inaugurale riguardante la politica estera del proletariato, e anche molto tempo dopo si espresse con asprezza sulla resistenza che questo punto dell’ordine del giorno aveva incontrato presso Tolain, Fribourg ed altri. Ma intanto riuscì a spezzare questa resistenza con l’aiuto dei delegati inglesi: la questione polacca rimase all’ordine del giorno.

La Conferenza si riuniva al mattino in sedute riservate, presiedute da Jung, e la sera in riunioni semipub bliche, presiedute da Odger. In queste assemblee un pubblico operaio più largo discuteva le questioni che erano già state chiarite nelle sedute private. I delegati francesi pubblicarono un resoconto sulla Conferenza e il programma preparato per il Congresso, che ebbe larga risonanza nella stampa parigina. Con evidente soddisfazione Marx osservò: « I nostri parigini sono alquanto sbalorditi per il fatto che il paragrafo sulla Russia e Polonia, che essi non volevano, abbia prodotto proprio la maggior impressione». E ancora una dozzina di anni più tardi Marx si richiamava volentieri al «commento entusiastico» che Henri Martin, il noto storico francese, aveva fatto a quel paragrafo in particolare, e al programma per il Congresso in generale.

    13.5    ​​​La guerra tedesca

L’attività spesa per l’Internazionale, interrompendo ogni lavoro che gli procurava da vivere, ebbe per Marx personalmente la spiacevole conseguenza di risuscitare tutte le miserie.

Già il 31 luglio egli dovette scrivere, a Engels, che da due mesi viveva esclusivamente del Monte dei pegni. «Ti assicuro che avrei preferito farmi tagliare il pollice piuttosto che scriverti questa lettera. E’ veramente cosa che ti accascia, per metà della vita restar dipendenti. L’unico pensiero che mi sostiene in tali circostanze è questo, che noi due conduciamo un affare in società in cui io dò il mio tempo per il lato teorico c di partito del business. E’ vero, ho un alloggio troppo caro per le mie condizioni, ed inoltre quest’anno abbiamo vissuto meglio che dianzi. Ma questa è l’unica via per cui le ragazze, non parlando del molto che ha uno patito e di cui esse almeno per breve tempo sono state compensate, possono allacciare relazioni e amicizie adatte ad assicurare loro un avvenire. Credo che anche tu sarai dell’avviso che, perfino considerando la cosa da un punto di vista commerciale, qui sarebbe fuor di luogo un tenor di vita strettamente proletario, che andrebbe bene se fossimo mia moglie ed io soltanto o se le ragazze fossero ragazzi». Engels venne subito in soccorso; ma cominciò ancora una volta la miseria con le ordinarie preoccupazioni della vita.

Qualche mese dopo si presentò a Marx una nuova fonte di guadagno, grazie ad un’offerta tanto strana quanto inaspettata che gli arrivò in una lettera di Lothar Bucher del 5 ottobre 1865. Negli anni di esilio che Bucher aveva passato a Londra, fra i due non c’erano state relazioni di nessun genere, e meno che mai di amicizia; anche dopo che nella massa degli emigrati Bucher aveva cominciato ad assumere una posizione indipendente ed era diventato il più entusiasta dei seguaci di Urquhart, Marx mantenne verso di lui un atteggiamento molto critico. Invece Bucher aveva parlato a Borkheim in modo molto favorevole dello scritto polemico che Marx aveva diretto contro Vogt, e voleva recensirlo sulla Allgemeine Zeitung, ciò che però non avvenne, o che Bucher non abbia scritto la recensione o che il giornale di Augusta l’abbia rifiutata. In seguito Bucher era rimpatriato, dopo la concessione dell’amnistia prussiana, e a Berlino aveva stretto amicizia con Lassalle; con lui si era recato a Londra nel 1862, per l’Esposizione Mondiale, e per mezzo di Lassalle aveva conosciuto personalmente Marx, che disse di aver trovato in lui «un ometto gentilissimo, anche se un poco strambo» e di non crederlo capace di condividere la «politica estera» di Lassalle. Dopo la morte di Lassalle, Bucher si era messo al servizio del governo prussiano, e quindi Marx, in una lettera a Engels, aveva liquidato lui e Rodbertus con questo energico motto: «Branco di manigoldi, tutto questo canagliume di Berlino, della Marca e della Pomerania!».

Ora Bucher scrisse a Marx: «Prima di tutto business! Lo Staatsanzeiger desidera mensilmente un reso conto sulmovimento del mercato finanziario (e naturalmente anche sul mercato delle merci, in quanto non si possono separare). Mi è stato chiesto se potevo raccomandare qualcuno, e ho risposto che nessuno l’avrebbe fatto meglio di Lei. Quindi sono stato pregato di rivolgermi a Lei. Riguardo alla lunghezza degli articoli non Le sono posti limiti, quanto più saranno condotti a fondo ed estesi, tanto meglio. Riguardo al contenuto s’intende che Lei si atterrà soltanto alle Sue convinzioni scientifiche; tuttavia sarebbe convenien te, per riguardo alla cerchia dei lettori (haute finance), non alla redazione, che Lei lasciasse intravvedere la sostanza più intima delle questioni soltanto ai competenti, e evitasse la polemica». Seguivano ancora un paio d’osservazioni d’affari, il ricordo di una passeggiata fatta insieme con Lassalle, la cui fine restava per lui ancora un «enigma psicologico», e la notizia che egli, come Marx sapeva, era tornato al suo primo amore, agli archivi. «Io fui sempre di parere diverso da Lassalle, che si immaginava uno sviluppo così rapido. Il partito progressista muterà pelle ancora molte volte, prima di morire: dunque chi durante la sua vita vuole operare ancora nell’ambito dello Stato, deve stringersi attorno al governo». Dopo i complimenti alla signora Marx e i saluti alle signorine, specialmente alla piccola, la lettera si chiudeva con i soliti fioretti: devotissimo e affezionatissimo.

Marx rispose rifiutando, ma mancano indicazioni più precise su ciò che scrisse e su quel che pensava della lettera di Bucher. Subito dopo averla ricevuta partì per Manchester, dove avrà discusso la cosa con Engels; nel loro carteggio non se ne parla e per il resto Marx vi accenna una sola volta di sfuggita, nelle lettere all’amico, per quanto esse finora ci sono note. Ma quattordici anni dopo, quando a Berlino si scatenò la caccia rabbiosa ai socialisti, dopo gli attentati di Hòdel e di Nobiling[i]27, egli scagliò la lettera di Bucher nel campo dei provocatori, dove essa esplose con la forza distruttrice di una bomba. A quel tempo Bucher era segretario del Congresso di Berlino, e aveva redatto, secondo quanto assicura il suo biografo ufficioso, il progetto della prima legge contro i socialisti, che dopo l’attentato di Hòdel era stata presentata al Reichstag, ma da questo respinta.

Da allora si è scritto molto sulla questione se Bismarck, con la lettera di Bucher, abbia tentato di comprare Marx. E’ vero che nell’autunno del 1865, quando il trattato di Gastein aveva a stento saldato la rottura con l’Austria, Bismarck era certamente disposto a «mettere in libertà tutti i cani che volevano abbaiare», per usare la sua immagine venatoria. Era indubbiamente un Junker di razza troppo pura, per amoreggiare con la questione operaia alla maniera di un Disraeli o anche di un Bonaparte; è risaputo che buffe idee egli si facesse di Lassalle, con cui pure aveva trattato più volte personalmente. Ora egli aveva molto vicino a sé due persone che su questa questione delicata la sapevano più lunga, appunto Lothar Bucher e Hermann Wagener, e Wagener a quel tempo li dava molto da fare per adescare il movimento operaio tedesco, e ci sarebbe anche riuscito, per quanto dipendeva dalla contessa di Hatzfeldt. Ma come capo ideale del partito degli Junker e come vecchio amico di Bismarck, già da prima del ’48, Wagener occupava una posizione incomparabilmente più indipendente di Bucher, che restava in tutto affidato alla benevolenza di Bismarck, perché la burocrazia guardava di traverso questo intruso importuno, e anche il re non voleva sapere di lui per i trascorsi del ’48. Oltretutto Bucher era un carattere debole, «un pesce senza lisca», come soleva definirlo il suo amico Rodbertus.

Dunque se Marx doveva essere comprato con la lettera di Bucher, ciò non è certo avvenuto all’insaputa di Bismarck. C’è soltanto da chiedersi se tale tentativo di corruzione ha avuto realmente luogo. Il modo come Marx si valse della lettera di Bucher, contro la caccia ai socialisti del 1878, era una mossa tanto lecita quanto abile, ma con ciò non è neppure provato che fin da principio Marx abbia considerato la lettera di Bucher come un tentativo di corruzione, e tanto meno che tale tentativo vi fosse. Bucher sapeva benissimo che per il momento Marx aveva un cattivo credito presso i lassalliani, dopo la sua rottura con Schweitzer, e per di più un resoconto mensile sul mercato internazionale delle valute e delle merci, nel più noioso fra tutti i giornali tedeschi, non era davvero il mezzo più appropriato per sedare il malumore generale contro la politica di Bismarck, o addirittura per cattivarsi il favore degli operai verso questa politica. Inoltre l’assicu razione di Bucher, di aver raccomandato senza nessun secondo fine politico il vecchio compagno d’esilio all’amministratore dello Staatsanzeiger, ha molto di verosimile, ammesso che l’amministratore abbia potuto rimettersi al parere di un liberale progressista. Dopo che il tentativo con Marx fu andato a vuoto, Bucher si rivolse a Dùhring, che accettò l’incarico ma subito dopo vi rinunciò, perché l’amministratore non dette affatto prova di quel rispetto per le «convinzioni scientifiche» che Bucher aveva lodato in lui.

Ancora peggiori delle difficoltà economiche in cui Marx si venne a trovare in conseguenza della sua attività estenuante per l’Internazionale e del suo lavoro scientifico, furono le crescenti scosse subite dalla sua salute. Il 10 febbraio 1866 Engels gli scrisse: «Davvero devi deciderti a far qualche cosa di giudizioso, per venir fuori da questa faccenda dei foruncoli... Tralascia per qualche tempo di lavorare di notte e conduci una vita un poco più regolare». Marx rispose il 13 febbraio: «Ieri ero di nuovo a terra, perché era scoppiato un vigliacchissimo favo al fianco sinistro. Se avessi denaro abbastanza per la mia famiglia, e se fosse finito il mio libro, mi sarebbe del tutto indifferente se oggi o domani fossi gettato allo scorticatoio, alias se crepassi. Ma nelle menzionate circostanze questo non va ancora». E una settimana dopo Engels rice vette la allarmante notizia: «Questa volta ne è andato della pelle. La mia famiglia non ha saputo quanto il caso fosse serio. Se la cosa si ripete ancor tre o quattro volte nella medesima forma, sono spacciato. Sono straordinariamente deperito e ancora maledettamente debole, non di cervello, ma di reni e di gambe. I medici hanno ragione, l’esagerato lavoro di notte è la causa principale di questa ricaduta. Ma io non posso dire a quei signori le ragioni che mi costringono a questa stravaganza, il che del resto sarebbe anche inutile». Ma ora finalmente Engels ottenne che Marx si concedesse qualche settimana di distrazione e andasse a Margate sul mare.

Qui Marx ritrovò subito il suo buonumore. In una lettera scherzosa alla figlia Laura scriveva: «Sono proprio contento di aver preso alloggio in una casa privata e non in un albergo, dove si tormenta la gente con la politica locale, gli scandali familiari e i pettegolezzi sul vicinato. Eppure non posso cantare col mugnaio del Dee: non mi importa di nessuno e nessuno si cura di me. Perché qui ce pur sempre la mia padrona, che è sorda come un piuolo, e sua figlia che è affetta da raucedine cronica. Io stesso mi sono trasformato in un bastone da passeggio ambulante, vado attorno trottando la maggior parte del giorno, prendo aria, vado a letto alle dieci, non leggo nulla, scrivo ancora meno, e soprattutto mi sprofondo in quello stato d’animo del nulla che il buddismo considera come il culmine della beatitudine umana». E alla fine, canzonando, aggiunse un’allusione ad eventi che si preparavano: «Questo maledetto briccone di Lafargue mi tormenta col suo proudhonismo e non starà tranquillo finché non avrò bastonato ben bene quel suo cranio di creolo».

Proprio in quei giorni, mentre Marx si tratteneva a Margate, si scaricavano i primi lampi del temporale di guerra che si era addensato sulla Germania. L’8 aprile Bismarck aveva concluso con l’Italia un’alleanza aggressiva contro l’Austria, e il giorno dopo presentò alla Dieta federale la proposta di convocare un parla mento tedesco, sulla base del suffragio universale, per discutere una riforma della Confederazione, su cui i governi tedeschi dovevano accordarsi. La posizione che Marx ed Engels assunsero di fronte a questi eventi dimostrò che essi avevano perso di vista la situazione tedesca. Il loro giudizio fu oscillante. Il 10 aprile, a proposito della proposta di Bismarck per un parlamento tedesco, Engels scrisse: «Che razza di somaro dev’esser costui per credere che questo gli gioverebbe sia pur di una briciola!... Se davvero si arri verà a soluzioni estreme, per la prima volta nella storia lo sviluppo degli avvenimenti dipenderà da Berlino. Se i berlinesi ingaggiano battaglia al tempo debito, tutto può andar bene, ma chi può fidarsi di loro?».

Tre giorni dopo scrisse di nuovo, con singolare preveggenza: «Da quel che sembra, il borghese tedesco dopo qualche impennata finirà per piegar la testa, perché il bonapartismo è in effetti la vera religione della borghesia moderna. Mi si rivela sempre più chiaramente che la borghesia non ha la stoffa per dominare essa stessa direttamente, e che quindi dove un’oligarchia non può, come qui in Inghilterra, assumersi la guida dello Stato e della società, contro buon pagamento, nell’interesse della borghesia, una semidittatura bonapartista è la forma normale; essa attua gli interessi materiali della borghesia perfino contro la borghe sia, ma non le lascia nessuna partecipazione al potere. D’altra parte anche questa dittatura è costretta a sua volta ad abbracciare contro voglia questi interessi materiali della borghesia. Così noi vediamo adesso il signor Bismarck che adotta il programma dell’Unione nazionaleˆ Il portarlo a compimento è di certo tutt’altra cosa, ma di fronte al borghese tedesco, Bismarck difficilmente fallisce». Ma quel che lo avrebbe fatto fallire, secondo Engels, era la forza militare austriaca: perché Benedek era in ogni caso un generale migliore del principe Federico Carlo; perché l’Austria poteva ben costringere la Prussia alla pace, ma la Prussia non poteva costringervi l’Austria con le sue sole forze; e quindi ogni successo prussiano sarebbe stato per Bonaparte un incoraggiamento a intromettersi.

Quasi con le stesse parole Marx esponeva la situazione di quel tempo in una lettera[ii]28 a un amico di recente acquistato, il medico Kugelmann di Hannover, che sin da ragazzo, nel 1848, era stato preso da entusiasmo per Marx ed Engels, aveva raccolto con cura tutti i loro scritti, ma soltanto nel 1862, per mezzo di Freiligrath, si era rivolto direttamente a Marx, col quale entrò presto in intima dimestichezza. In tutte le questioni militari Marx accettava i giudizi pronunziati da Engels, rinunziando, cosa quanto mai insolita in lui, a qualsiasi critica propria.

Ancora più sorprendente della sopravvalutazione della potenza austriaca, era il giudizio dato da Engels sulle condizioni interne dell’esercito prussiano. Più sorprendente soprattutto perché in un suo ottimo scritto egli aveva esposto, con una perspicacia di molto superiore alle chiacchiere democratico-borghesi, la rifor ma dell’esercito per la quale era divampato il conflitto per la Costituzione prussiana. Il 25 maggio scrisse:

«Se gli austriaci sono abbastanza abili da non attaccare, certamente si comincerà a ballare nell’esercito prussiano. La gente non fu mai tanto ribelle come in questa mobilitazione. Purtroppo si sa soltanto la minima parte di quello che succede, ma è già sufficiente per dimostrare che con questo esercito è impossibile una guerra offensiva». E ancora, l’11 giugno: «In questa guerra la milizia territoriale sarà tanto pericolosa quanto furono pericolosi nel 1806 i polacchi, che formavano oltre un terzo dell’esercito e disorganizzarono ogni cosa. Solo che la territoriale, invece di disperdersi, dopo la sconfìtta si ribellerà». Tutto ciò era scritto tre settimane prima di Sadowa.

Sadowa dissipò tutte le nebbie, e il giorno dopo la battaglia Engels già scriveva: «Che cosa ne dici dei prussiani? Lo sfruttamento dei primi successi è avvenuto con estrema energia... Una così decisiva battaglia condotta a termine in 8 ore è cosa mai prima d’ora accaduta; in altre circostanze sarebbe durata due giorni. Ma il fucile ad ago è un’arma spietata, e poi quella gente si batte veramente con un valore quale non ho mai visto in tali truppe di pace». Engels e Marx potevano sbagliarsi e si sono spesso sbagliati, ma non rifiutavano mai di riconoscere il proprio errore quando gli avvenimenti stessi lo imponevano. La vittoria prussiana era per loro un boccone difficile da trangugiare, ma essi non aspettarono di restarne soffocati. Engels, la cui autorità aveva la prevalenza in tale questione, il 25 luglio riassunse così la situazione: «La storia in Germania mi sembra adesso abbastanza semplice. Dal momento in cui Bismarck ha attuato con l’esercito prussiano e con così colossale successo il piano piccolo tedesco della borghesia, lo sviluppo degli avvenimenti in Germania ha preso questa direzione così decisamente, che noi alla stessa maniera di altri dobbiamo riconoscere il fatto compiuto, ci piaccia o non ci piaccia... La cosa ha questo di buono, c he semplifica la situazione, con ciò facilita la rivoluzione, elimina le sommosse delle piccole capitali ed affretta in ogni caso lo sviluppo degli avvenimenti. In fin dei conti un Parlamento tedesco è tutt’altra cosa che una Camera prussiana. La massa dei piccoli staterelli verrà gettata nel vortice, cesseranno le peggiori influenze di carattere locale e finalmente i partiti diventeranno nazionali invece che puramente locali». Due giorni dopo Marx rispose con laconica tranquillità: «Sono perfettamente della tua opinione che bisogna prendere questa sozzura così come. Però è bello, durante questo primo periodo dell’amore in boccio, esser lontani».

Contemporaneamente Engels scrisse, non in senso elogiativo, che «frate Liebknecht si è ficcato a capo fitto in una fanatica austrofilia»; che delle «corrispondenze furiose» da Lipsia nella Neue Frankfurter Zeitung venivano evidentemente da lui; che questo giornale sterminatore di principi era arrivato al punto di rimproverare ai prussiani il loro vergognoso trattamento all’«onorabilissimo principe elettore della Assia» e a entusiasmarsi per irpovero Guelfo cieco. Invece a Berlino Schweitzer assunse la medesima posizione che Marx ed Engels a Londra, sulla base degli stessi motivi e con le stesse parole, è per questa sua politica «opportunistica» questo infelice deve subire ancor oggi lo sdegno morale degli importanti uomini politici che adorano Marx ed Engels senza capirli.

    13.6    ​​​Il Congresso di Ginevra

A differenza di quanto stabilito, quando la battaglia di Sadowa decise delle sorti tedesche il primo Con gresso dell’Internazionale non aveva ancora avuto luogo. Il Congresso aveva dovuto essere ancora una volta rimandato al settembre di quell’anno, nonostante che nel secondo anno di vita l’Associazione avesse compiuto, rispetto al primo, un’ascesa incomparabilmente più rapida.

Sul continente il suo nucleo più importante cominciò ad essere Ginevra, dove tanto la sezione romanza che la tedesca procedettero alla fondazione di propri organi di partito. Quello tedesco era il Vorbote, un mensile fondato e diretto dal vecchio Becker, le cui sei annate costituiscono ancora oggi una delle fonti più importanti per la storia della Internazionale. Il Vorbote uscì dal gennaio del 1866 e si denominava «Organo centrale del gruppo di sezioni di lingua tedesca», perché anche i membri tedeschi dell’Internazionale, tanti o pochi che fossero, dipendevano da Ginevra, dato che le leggi tedesche sulle associazioni impedivano la formazione di sezioni all’interno della Germania. Per motivi simili la sezione romanza di Ginevra estese profondamente la propria influenza in Francia.

Anche in Belgio il movimento si era già creato un giornale proprio, la Tribune du peuple, che Marx ricono sceva come organo ufficiale della Internazionale, alla pari dei due giornali ginevrini. Ma non considerava tali uno o due giornaletti che uscivano a Parigi e che difendevano a modo loro la causa operaia. Il movi mento prese un buon avvio anche in Francia, ma più come un fuoco di paglia che come qualche cosa di duraturo. A causa della completa mancanza di libertà di stampa e di riunione, era difficile creare dei veri e propri centri del movimento, e la tolleranza ambigua della polizia bonapartista aveva l’effetto piuttosto di addormentare che di destare le energie degli operai. Anche il forte predominio del proudhonismo non era adatto per alimentare la forza organizzativa del proletariato.

Il proudhonismo si faceva sentire specialmente nella «giovane Francia», che viveva in esilio a Bruxelles o a Londra. Nel febbraio del 1866 una sezione francese, che si era formata a Londra, fece una violenta op posizione al Consiglio Generale perché aveva messo la questione polacca nel programma del Congresso di Ginevra. Riecheggiando idee proudhoniane essa chiedeva come si potesse pensare ad arginare l’influsso russo mediante la restaurazione della Polonia, in un momento nel quale i servi della gleba russi erano liberati dalla Russia, mentre i nobili e i preti polacchi si eran sempre rifiutati di dare la libertà ai loro servi della gleba. Anche allo scoppio della guerra tedesca i membri francesi dell’Internazionale e persino quelli del Consiglio Generale sollevarono inutili contese col loro «stirnerianismo proudhonizzato», come una volta disse Marx, affermando che tutte le nazionalità erano superate e chiedendo il loro scioglimento in piccoli «gruppi», che avrebbero dovuto formare di nuovo una «unione», ma non uno Stato. «E dunque questa ‘individualizzazione dell’umanità e il corrispondente  mutualisme  debbono aver luogo mentre la storia in tutti gli altri paesi si ferma, e tutto il mondo aspetta che la gente sia matura per compiere una rivoluzione sociale. Poi ci metteranno davanti agli occhi il loro esperimento, e il resto del mondo, soggiogato dalla forza del loro esempio, farà come loro»[i]31. Con questa canzonatura Marx colpiva prima di tutto i suoi «ottimi amici» Lafargue e Longuet, che dovevano diventare suoi generi, ma intanto, come «credenti di Proudhon», gli causavano molte seccature.

Il nucleo principale dell’Internazionale erano sempre le Trade Unions. Così giudicava anche Marx: il 15 gennaio 1866, in una lettera a Kugelmann[ii]32, esprimeva la sua soddisfazione per essere riuscito ad attirare nel movimento l’unica organizzazione operaia veramente grande; una gioia particolare gli aveva procurato una colossale assemblea che si era tenuta alcune settimane prima in St. Martin’s Hall a favore della riforma elettorale, sotto la direzione ideale dell’Internazionale. Quando poi il ministero whig Gladstone ebbe presentato, nel marzo 1866, un progetto di riforma elettorale che parve troppo radicale a una parte del suo stesso partito, e cadde in seguito alla scissione di questi suoi membri, per essere sostituito dal ministero tory Disraeli, che cercò di tirare per le lunghe la riforma elettorale, il movimento assunse forme tempestose. Il 7 luglio Marx scrisse a Engels: «Le dimostrazioni operaie londinesi, spettacolose se paragonate con ciò che abbiamo veduto in Inghilterra dal 1849, sono pura opera dell’Internazionale. Lucraft, per esempio, il capitano in Trafalgar Square, fa parte del nostro Consiglio». A Trafalgar Square, dove erano riunite 20.000 persone, Lucraft convocò la riunione di un meeting in White Hall Gardens, dove «qualche volta abbiamo tagliato la testa a uno dei nostri re», subito dopo si arrivò già quasi all’aperta rivolta in Hyde Park, dove erano riunite 60.000 persone.

Le Trade Unions riconobbero pienamente i servigi resi dall’Internazionale a questo movimento che si esten deva a tutto il paese. Una conferenza a Sheffield, alla quale erano rappresentate tutte le Trade Unions, dichiarò in una risoluzione: «Mentre la Conferenza tributa il suo pieno riconoscimento all’Associazione Internazionale degli Operai per gli sforzi da essa compiuti per unire con un legame di fratellanza gli operai di tutti i paesi, essa raccomanda caldamente a tutte le società qui rappresentate di entrare a far parte di questa Associazione, con la convinzione che ciò sia di estrema importanza per il progresso e il benessere dell’intera classe operaia».  Allora un buon numero di sindacati entrò a far parte dell’Internazionale, ma questo successo morale e politico non rappresentò un pari successo materiale. Ai sindacati aderenti fu accordato di pagare un contributo a piacere, o anche nessun contributo, e anche quando lo versavano era in misura molto modesta. Così i calzolai, con 5.000 membri, pagavano annualmente cinque sterline, i falegnami con 9.000 membri due sterline, i muratori con 3 o 4.000 membri addirittura una sterlina sola.

Marx si accorse anche molto presto che nel «Reformmovement» si manifestava di nuovo «il maledetto carattere tradizionale di tutti i movimenti inglesi». Già prima della fondazione dell’Internazionale le Trade Unions si erano messe in relazione con i radicali borghesi per la riforma elettorale. Questi rapporti diven tarono ancora più stretti via via che il movimento prometteva di far maturare frutti tangibili; degli «acconti » che prima sarebbero stati respinti con indignazione, erano considerati ora degne ricompense per la lotta sostenuta; Marx arrivava a rimpiangere lo spirito ardente dei vecchi cartisti. Biasimava l’incapacità degli inglesi, di fare due cose in una volta: quanto più il movimento per la riforma elettorale andava avanti, tanto più si raffreddavano i capi inglesi «nel nostro movimento più circoscritto»; «in Inghilterra il movimento per la riforma, che era stato chiamato in vita da noi, ci ha quasi ammazzato»[iv]34.  Un forte ostacolo a questo andazzo venne a mancare per la malattia e il soggiorna a Margate di Marx, che gli impedirono di intervenire personalmente.

Grande fatica e preoccupazioni gli procurò anche il giornale The Workman’s Advocate, che la Conferenza del 1865 aveva proclamato organo ufficiale dell’Internazionale, e che nel febbraio del 1866 fu ribattezzato The Commonwealth. Marx faceva parte del consiglio d’amministrazione del giornale, che era costan temente alle prese con difficoltà finanziarie e quindi doveva ricorrere agli aiuti di borghesi fautori della riforma elettorale; egli si dava gran da fare per mantenere un contrappeso agli influssi borghesi, e inoltre proteggere dalle meschine invidie il posto di direttore; Eccarius diresse temporaneamente il giornale e vi pubblicò il suo noto scritto contro Stuart Mill, al quale Marx dette un forte contributo. Ma alla fine Marx non potè impedire che il Commonwealth «per il momento si trasformasse in un puro organo per la riforma», come scrisse in una lettera a Kugelmann«per ragioni in parte economiche e in parte politiche».

Questo stato generale delle cose spiega a sufficienza i grandi timori con cui Marx guardava al primo Con gresso dell’Internazionale, perché temeva che esso finisse in «una figuraccia di fronte a tutta l’Europa». Poi ché i parigini restavano fermi alla decisione della Conferenza di Londra, secondo cui il Congresso avrebbe dovuto tenersi alla fine di maggio, Marx voleva andare di persona sul Continente per convincerli dell’im possibilità di questo termine, ma Engels era del parere che tutta la faccenda non meritava il rischio che Marx correva di finire fra gli artigli della polizia bonapartista, dove non sarebbe stato protetto da nessuno; e disse che era cosa secondaria che il Congresso decidesse qualche cosa di buono, purché potesse essere evitato ogni scandalo, e questo sarebbe stato ben possibile; e che in un certo senso ogni dimostrazione del genere — per lo meno di fronte a se stessi — sarebbe stata una cattiva figura senza tuttavia essere necessariamente una cattiva figura di fronte all’Europa[v]35.

La difficoltà fu superata perché gli stessi ginevrini, che non erano pronti con la loro preparazione, decisero di rimandare il Congresso fino a settembre, e questa decisione trovò consenso dovunque, meno che a Parigi. Marx non aveva intenzione di partecipare personalmente al Congresso, perché il lavoro per la sua opera scientifica non permetteva più altre interruzioni prolungate; gli pareva che questo suo lavoro fosse molto più importante per la classe operaia di quanto egli avrebbe potuto fare personalmente a qualsiasi congresso. Ma spese molto tempo per assicurare al Congresso uno svolgimento favorevole; per i delegati londinesi stese un memorandum che limitò di proposito a quei punti «che consentono un’intesa e una collaborazione immediata tra gli operai e forniscono un alimento e uno stimolo immediato ai bisogni della lotta di classe e all’organizzazione degli operai come classe»[vi]36. A questo memorandum si può fare lo stesso elogio che Beesly aveva fatto all’Indirizzo inaugurale: le rivendicazioni immediate del proletariato internazionale vi sono riassunte in maniera quanto mai profonda ed efficace. Come rappresentanti del Consiglio Generale andarono a Ginevra il presidente Odger e il segretario generale Cremer, e con loro Eccarius e Jung, della cui intelligenza Marx poteva fidarsi più che di altri.

Il Congresso tenne le sedute dal 3 all’8 settembre, sotto la presidenza di Jung e alla presenza di 60 delegati. Marx trovò che «era andato meglio di quanto fosse da aspettarsi». Soltanto sui «signori parigini» si espresse con molta asprezza. «Essi avevano la testa piena delle più vane frasi proudhoniane. Essi cianciano di scienza e non sanno nulla.  Disdegnano ogni azione rivoluzionaria, cioè ogni azione che scaturisca dalla lotta di classe stessa, ogni movimento sociale concentrato, tale che si possa attuare anche con mezzi politici (come p.  e.  riduzione della giornata di lavoro per legge).  Col pretesto della libertà e dell’antigo ver nativismo o dell’individualismo antiautoritario — questi signori che da 16 anni hanno sopportato e sopportano tanto tranquillamente il più miserabile dispotismo! — predicano in realtà la volgare economia borghese, soltanto proudhonianamente idealizzata!». E così seguitava, in termini anche più duri.

Questo giudizio è molto severo, quantunque alcuni anni dopo Johann Philipp Becker, che era stato presente al Congresso come dirigente, si esprimesse con una durezza anche maggiore, se possibile, sulla gazzarra che vi aveva dominato. Solo che Becker oltre i francesi non dimenticava i tedeschi, e oltre i proudhoniani non dimenticava i seguaci di Schulze-Delitzsch. «Quante cortesie si dovettero prodigare a quella buona gente, per scampare decentemente al pericolo delle loro aggressive felicitazioni!». Diverso era certo il tono dei resoconti del Vorbote, che vanno letti con qualche riserva.

I francesi avevano una rappresentanza relativamente forte, disponevano di circa un terzo dei mandati, e non facevano mancare l’oratoria, ma non ottennero molto. La loro proposta di accogliere nell’Internazio nale soltanto lavoratori del braccio e non lavoratori della mente fu respinta, e la stessa sorte subì la loro proposta di ammettere nel programma dell’Associazione le questioni religiose, e così questa idea malnata fu eliminata per sempre. Fu accettata invece una proposta abbastanza inoffensiva, da loro presentata, per degli studi sul credito internazionale, che miravano, secondo le idee proudhoniane, a portare in seguito a una banca centrale dell’Internazionale. Di maggior peso fu l’approvazione di una proposta, presentata da Tolain e Fribourg, che condannava il lavoro delle donne come « principio di degenerazione» e indicava la famiglia come posto destinato alla donna. Ma essa trovò obiezioni già da parte dello stesso Varlin e di altri francesi, e fu accettata solo unitamente alle proposte del Consiglio Generale sul lavoro delle donne e dei bambini, che la soffocarono. Quanto al resto, i francesi riuscirono soliamo a introdurre di contrabbando qua e là nelle risoluzioni qualche riempitivo proudhoniano, ciò che spiega come Marx fosse parecchio indispettito per questi difetti esteriori, che sfiguravano la sua opera faticosa, senza però disconoscere di poter essere ben soddisfatto per tutto lo svolgimento del Congresso.

Solo su un punto Marx aveva avuto un delusione che poteva rincrescergli e gli rincrebbe assai: sulla questione polacca. Dopo le esperienze della Conferenza di Londra questo punto era stato motivato con cura nel memorandum inglese. Esso affermava che gli operai europei dovevano sollevare questa questione, perché le classi dominanti la mettevano a tacere, nonostante tutti i loro entusiasmi per ogni sorta di nazio nalità, perché aristocrazia e borghesia consideravano la tenebrosa potenza asiatica come l’ultimo mezzo di salvezza contro l’avanzare della classe operaia; che questa potenza sarebbe stata resa inoffensiva soltanto mediante la restaurazione della Polonia su fondamenta democratiche; che sarebbe dipeso da questo se la Germania doveva essere un avamposto della Santa Alleanza o un alleato della Francia repubblicana; che il movimento operaio sarebbe stato arrestato, interrotto e ritardato finché questa grande questione europea non fosse risolta. Gli inglesi sostennero energicamente questa proposta, ma i francesi e una parte degli svizzeri romanzi si opposero con energia non minore; infine, per suggerimento di Becker, che parlò lui stesso in favore della proposta ma voleva evitare una scissione aperta su questa questione, fu raggiunto un accordo su una risoluzione evasiva secondo cui l’Internazionale, essendo contraria a ogni dominazione violenta, si adoperava anche per eliminare l’influsso imperialistico della Russia e per la restaurazione della Polonia su basi democratico-sociali.

Quanto al resto, il memorandum inglese vinse su tutta la linea. Gli statuti provvisori furono convalidati, salvo alcune modifiche; l’Indirizzo inaugurale non fu discusso, ma da allora fu sempre citato come documento ufficiale nelle risoluzioni e nelle dichiarazioni dell’Internazionale. Il Consiglio Generale fu rieletto, con sede in Londra; esso doveva preparare un’ampia statistica sulla situazione della classe operaia internazionale, e redigere un bollettino su tutto ciò che interessava l’Associazione Internazionale degli Operai, ogni volta che i suoi mezzi glielo permettessero. Per coprire le spese fu imposto ad ogni membro, per l’anno seguente, un contributo straordinario di 30 centesimi (24 Pfennig); come contributo ordinario annuale per la cassa del Consiglio Generale il Congresso raccomandò di fissare mezzo penny o un penny (8,5 Pfennig), oltre al prezzo della tessera.

Fra le dichiarazioni programmatiche del Congresso vi erano in primo luogo le risoluzioni sulle leggi per la protezione degli operai e sulle associazioni sindacali. Il Congresso affermò il principio che la classe operaia
deve conquistarsi leggi per la protezione degli operai. « Riuscendo ad ottenere tali leggi, la classe operaia non rafforza il potere del governo. Al contrario, essa trasforma in proprio strumento quel potere, che ora è impiegato contro di essa». Con una legge generale essa realizzava ciò che sarebbe stato un inutile tentativo voler realizzare mediante sforzi individuali isolati. Il Congresso raccomandò la limitazione della giornata lavorativa come una condizione senza la quale sarebbero falliti tutti gli altri sforzi del proletariato per la propria emancipazione; ciò era necessario per garantire energia e salute fisica alla classe operaia, per assicurarle la possibilità di sviluppo spirituale, di relazioni sociali e di attività sociale e politica. Come limite legale della giornata lavorativa il Congresso propose otto ore, che dovevano essere fissate in un determinato spazio di tempo della giornata, in modo tale che questo spazio di tempo comprendesse le otto ore di lavoro e le interruzioni per i pasti. La giornata di otto ore doveva valere per tutti i maggiorenni, uomini e donne, fissando la maggiorità a partire dal compimento del diciottesimo anno d’età. Il lavoro notturno era da respingere per ragioni di salute, le eccezioni indispensabili dovevano essere regolate per legge. Le donne dovevano essere escluse col massimo rigore dal lavoro notturno e da qualsiasi altro lavoro che fosse pericoloso per la salute femminile o che fosse sconveniente per il sesso femminile.

Nella tendenza dell’industria moderna a introdurre bambini e giovani dei due sessi a collaborare alla pro duzione sociale, il Congresso vedeva un progresso utile e legittimo, per quanto esecrabile fosse la forma in cui esso era attuato sotto il dominio del capitale. In una situazione sociale razionalmente ordinata, ogni ragazzo maggiore di nove anni, senza distinzione, doveva diventare un lavoratore produttivo, allo stesso modo che nessun adulto doveva sottrarsi alla generale legge di natura: lavorare, cioè, per poter mangiare, e lavorare non soltanto col cervello, ma con le mani.  Nella società attuale — proseguiva la risoluzione —  si impone di ripartire i ragazzi e i giovanetti in tre classi e di trattarli differenziatamente: ragazzi da 9 a 12 anni, ragazzi da 13 a 15 anni, giovanetti e ragazze da 16 a 17 anni. Il tempo di lavoro per la prima classe, in qualsiasi posto di lavoro o lavoro a domicilio, doveva essere limitato a due ore, per la seconda classe a quattro, per la terza a sei ore, dovendo restare riservata, per quest’ultima classe, un’interruzione del tempo di lavoro di almeno un’ora per i pasti e per la ricreazione. Ma il lavoro produttivo dei ragazzi e dei giovani poteva esser permesso soltanto se congiunto all’educazione, intendendo con ciò tre cose: educa zione spirituale, educazione fisica e infine istruzione tecnica, che impartisse i princìpi scientifici generali di ogni processo di produzione e nello stesso tempo iniziasse la giovane generazione all’uso pratico degli strumenti più elementari.

Sulle associazioni di mestiere il Congresso decise che la loro attività era non solo legittima, ma anche ne cessaria. Esse erano il mezzo per opporre al potere sociale concentrato del capitale l’unico potere sociale che il proletariato avesse in suo possesso: il numero. Finché esisteva il modo di produzione capitalistico, delle associazioni di mestiere non si poteva lare a meno, anzi esse avrebbero reso generale la loro attività mediante collegamenti internazionali. Resistendo coscientemente agli incessanti soprusi del capitale, esse sarebbero diventate inconsciamente dei centri d’attrazione per l’organizzazione della classe operaia, così come i comuni medioevali erano diventati analoghi centri d’attrazione per la classe borghese. Ingaggiando incessanti azioni di guerriglia nella lotta quotidiana fra capitale e lavoro, le associazioni di mestiere sareb bero diventate ancora molto più importanti come strumenti organizzati per l’abolizione del lavoro salariato. Fino allora le associazioni di mestiere avevano avuto di mira troppo esclusivamente la lotta immediata con tro il capitale, in avvenire esse non dovevano tenersi al di fuori del generale movimento politico e sociale della loro classe. Si sarebbero estese col massimo vigore se la gran massa del proletariato si fosse con vinta che il loro scopo, lungi dall’essere limitato ed egoistico, mirava invece alla liberazione di milioni di oppressi.

Subito dopo il Congresso di Ginevra, Marx intraprese un tentativo nel senso espresso da questa risoluzione, dal quale si riprometteva molto. Il 13 ottobre 1866 scrisse a Kugelmann: «Il Consiglio Londinese delle Trade Unions (il suo segretario è il nostro presidente Odger) sta esaminando in questo momento se dichiararsi Sezione Inglese dell’Associazione Internazionale. Qualora lo facesse, la direzione della classe operaia passerebbe qui, in un certo senso, a noi, e noi potremmo spingere innanzi il movimento». Ma il Consiglio non prese questa decisione, e con tutta la sua amicizia per l’Internazionale risolse di mantenere la propria indipendenza e rifiutò anche, se le informazioni degli storici delle Trade Unions sono giuste, di far partecipare alle sue sedute un rappresentante dell’Internazionale per riferire brevemente su tutti gli scioperi del Continente.

Sin dai primi anni l’Internazionale si accorse che grandi successi l’attendevano, ma che questi successi avevano i loro determinati limiti. Per ora però poteva rallegrarsi dei suoi successi, e Marx registrò con viva soddisfazione nella sua opera, alla quale dava giusto ora l’ultima mano, che contemporaneamente al Congresso di Ginevra, un Congresso generale degli operai a Baltimora aveva indicato la giornata di otto ore come prima rivendicazione, per liberare il lavoro dai ceppi del capitalismo.

Marx osservava che il lavoro della pelle bianca non poteva emanciparsi in un paese dove veniva marchiato a fuoco il lavoro della pelle nera. Ma il primo frutto della guerra civile americana, che aveva ucciso la schiavitù, era stato l’agitazione per le otto ore, che camminò con gli stivali delle sette leghe della locomotiva dall’Atlantico al Pacifico, dalla Nuova Inghilterra alla California.