CAPITOLO 10


Engels-Marx



    10.1    ​​​Genio e società

Se si può dire che Marx aveva trovato in Inghilterra una seconda patria, non si deve però davvero esten dere troppo il concetto di patria. Sul suolo inglese egli non fu mai importunato per la sua propaganda rivoluzionaria, che non da ultimo era diretta contro lo Stato inglese. Il governo dell’«avido, invidioso popolo di mercantucoli» aveva rispetto di se stesso e coscienza delle sue forze in misura maggiore di quanto non ne possedessero quei governi continentali che, con la paura che viene dalla cattiva coscienza, davano la caccia ai loro avversari con tutte le armi della polizia, anche se questi si muovevano soltanto sul terreno della discussione e della propaganda.

Soltanto in un altro senso più profondo Marx non ha trovato più patria, da quando ficcò il suo sguardo geniale nel cuore e nelle viscere della società borghese. Il destino del genio in questa società è un lungo capitolo, sul quale si sono pronunciate le più differenti opinioni; dall’innocua fede in Dio del filisteo, che predice ad ogni genio la vittoria finale, fino alle malinconiche parole di Faust:

I pochi che ne hanno capito qualche cosa,

Che furono abbastanza folli da non custodire il loro cuore

E rivelarono al volgo il loro sentimento e le loro visioni

Sempre li hanno crocifissi e bruciati.

Il metodo storico che Marx ha sviluppato consente anche a proposito di questa questione uno sguardo più profondo nella connessione dei fatti. Il filisteo predice ad ogni genio la vittoria finale appunto perché è un filisteo; ma se un genio una volta tanto non viene crocifisso o bruciato, è soltanto perché alla fin fine si rassegna a divenire un filisteo. Senza il codino che pende dalle loro teste, i Goethe e gli Hegel non sarebbero mai stati riconosciuti come i grandi della società borghese.

La società borghese, che per questo aspetto non è che la forma più marcata di ogni società classista, può avere quanti meriti vuole, ma non è mai stata una patria ospitale per il genio. E nemmeno può esserlo, perché l’intima essenza del genio consiste proprio nel mettere in gioco lo slancio creativo di una forza umana originaria contro le usanze tradizionali, e nello scuotere i limiti entro i quali soltanto può sussistere una società classista. Il solitario cimitero sull’isola di Sylt, che ospita i morti ignoti che il mare getta sulla spiaggia, porta questa pia iscrizione: «Patria pei senza patria è la croce sul Golgota». In queste parole è descritta inconsapevolmente, ma non per questo cogliendo meno nel segno, la sorte del genio in una società classista: senza patria com’egli è in essa, trova la sua patria soltanto nella croce sul Golgota.

A meno che il genio in un modo o nell’altro non si metta d’accordo con la società classista. Quando esso si pose al servizio della società borghese per rovesciare la società feudale, acquistò apparentemente una forza smisurata, ma questa forza si disfece nel momento in cui egli volle atteggiarsi a padrone di sé: e dovette finire sulle rocce di Sant’Elena. Oppure il genio si avvolse nel soprabito del piccolo borghese, e potè arrivare ad essere ministro granducale della Sassonia a Weimar o regio professore prussiano a Berlino. Ma guai al genio che in superba indipendenza e inaccessibilità si contrappone alla società borghese, che sa scorgere nelle sue più intime giunture il suo vicino tramonto, che forgia le armi che le assesteranno il colpo mortale. Per questi geni la società borghese ha soltanto torture e tormenti, che esternamente possono apparire meno brutali, ma intimamente sono più crudeli del legno del martirio degli antichi e del rogo della società medioevale.

Nessuno degli uomini di genio del secolo decimonono ha sofferto di questa sorte più duramente del più geniale di tutti, di Karl Marx. Già nel primo decennio della sua attività pubblica, egli dovette lottare con la miseria quotidiana, e quando si trasferì a Londra lo accolse l’esilio con tutti i suoi orrori; ma quello che si può chiamare il suo destino davvero prometeico, cominciò però soltanto quando, dopo il faticoso ascendere verso l’alto, egli, nel pieno del suo vigore virile, per anni e decenni fu preso ogni giorno dalle ordinarie necessità della vita, dalle preoccupazioni umilianti per il pane quotidiano. Fino al giorno della sua morte non riuscì ad assicurarsi sul terreno della società borghese una sia pur modesta esistenza.

Eppure egli era molto lontano da quella che il filisteo suole chiamare nel senso corrente e superficiale una condotta di vita «geniale». Alla sua capacità gigantesca corrispondeva la sua gigantesca operosità; l’abitudine di lavorare giorno e notte cominciò presto a intaccare la sua salute, originariamente salda quanto il ferro. Egli diceva che l’incapacità di lavorare era la condanna a morte per ciascun uomo che non fosse una bestia, e quando parlava così parlava sul serio; una volta che fu malato per parecchie settimane, scriveva ad Engels: «In questo tempo essendo del tutto incapace di lavorare, ho letto: Carpenter Physiology, Lord io stesso, Kòlliker Istologia, Spurzheim Anatomia del cervello e del sistema nervoso, Schwann e Schleiden sulla merda delle cellule»[i]1. E con tutta l’insaziabilità della sua sete di sapere, Marx fu sempre consapevole, come aveva già detto da giovane, che lo scrittore non doveva lavorare per guadagnare, ma guadagnare per lavorare; Marx non ha mai «frainteso la imperiosa necessità di un lavoro per guadagnare».

Ma tutti i suoi sforzi fallirono davanti al sospetto o all’odio o, nel caso più favorevole, alla paura di un mondo ostile. Anche quegli editori tedeschi, che solevano altrimenti vantarsi della loro indipendenza, rifuggivano davanti al nome del malfamato demagogo.  Tutti i partiti tedeschi lo calunniavano ugualmente, e poiché i puri tratti della sua figura balenavano sempre tra i vapori artificiali, allora subentrava la perfida astuzia del silenzio sistematico. In nessun altro caso il più grande pensatore di una nazione è scomparso così dall’orizzonte di essa.

L’unica relazione per mezzo della quale Marx si sarebbe potuto assicurare in parte il terreno sotto i piedi, era la sua collaborazione per la New York Tribune, che dal 1851 in poi gli procurò un decennio discreto. La Tribune coi suoi 200.000 abbonati era allora il giornale più letto e più ricco degli Stati Uniti, e con la sua agitazione a favore del fourierismo americano si era pur sempre innalzata al di sopra del piatto affarismo di un’impresa puramente capitalistica. In sé e per sé le condizioni alle quali Marx doveva lavorare per essa non erano nemmeno del tutto sfavorevoli; egli doveva scrivere due articoli alla settimana e ogni articolo sarebbe stato compensato con 2 sterline (40 marchi). Sarebbe stato un incasso annuo di 4.000 marchi, e con esso, limitandosi allo strettamente necessario, Marx avrebbe potuto mantenersi a galla anche a Londra. Freiligrath, che continuava a vantarsi ancora di mangiare «la bistecca dell’esilio», da principio non incassava di più per la sua attività commerciale.

Naturalmente non si trattava in nessun modo di sapere se il compenso che Marx riscuoteva dal giornale americano corrispondesse o no al valore letterario e scientifico della sua collaborazione. Un’impresa editoriale capitalistica calcola soltanto sulla base dei prezzi del mercato, e ne. ha tutto il diritto nella società borghese. Né Marx pretese di più; ma quello che pure lui avrebbe potuto pretendere anche nella società borghese, era il rispetto del contratto una volta concluso e magari anche un certo rispetto per il suo lavoro. Ma la New York Tribune e il suo editore fecero mancare del tutto l’uno e l’altro. Dana era, si, in teoria un fourierista, ma in pratica era uno yankee di tre cotte, il suo socialismo si riduceva alla più pidocchiosa abilità piccolo-borghese di truffare il prossimo, diceva Engels in un momento d’ira. Quantunque Dana sapesse bene che collaboratore avesse in Marx e se ne vantasse non poco coi suoi abbonati, se pure non faceva passare le corrispondenze che Marx gli mandava come suo lavoro redazionale, cosa che accadeva anche troppo spesso e provocava la collera giustificata del loro autore, tuttavia non esitò di fronte a nessuna di quelle mancanze di riguardo che uno sfruttatore capitalistico crede di poter osare verso la forza lavorativa da lui sfruttata.

Non soltanto, appena gli affari andarono male, egli mise subito Marx a mezzo salario, ma in generale pagava soltanto gli articoli che stampava effettivamente, e non era così balordo da buttare via tutto quello che non trovava posto tra la sua roba. Capitava che per tre, per sei settimane gli articoli che Marx inviava andassero a finire nel cestino. A dire il vero, quei pochi giornali tedeschi coi quali Marx trovò un introito passeggero, come la Wiener Presse, non facevano meglio. Così egli poteva dire a ragione che col suo lavoro per i giornali se la cavava peggio del peggior scribacchino.

Sin dal 1853 egli sentiva il bisogno di qualche mese di solitudine, per occuparsi dei suoi lavori scientifici:

«Sembra che io non debba riuscirci. Il continuo scribacchiar per i giornali mi annoia. Mi prende parecchio tempo, mi disperde e non se ne cava nulla. Indipendente quanto si vuole, si è legati al giornale e al suo pubblico, specialmente se si è pagati in contanti come lo sono io. Lavori puramente scientifici sono qualche cosa di assolutamente diverso». Un tono del tutto differente Marx usò dopo aver lavorato qualche anno di più sotto il mite scettro di Dana: «E’ schifoso in realtà che si sia condannati a considerare una fortuna che un simile fogliaccio di carta ti prenda nella sua barca. Il lavoro politico a cui si è abbondantemente condannati in simili imprese si riduce a pestare ossa, macinarle e farne una zuppa come i poveri nel workhouse». Non soltanto nelle ristrettezze della vita, ma specialmente nella totale mancanza di sicurezza dell’esistenza, Marx ha condiviso la sorte del proletario moderno.

Quello che prima si sapeva soltanto in generale, le sue lettere ad Engels lo mostrano nella forma più palpabile; come una volta dovesse starsene chiuso in casa perché non aveva né cappotto né scarpe per uscire, come un’altra volta gli mancassero i centesimi per comprarsi della carta da scrivere o per leggere i giornali, come un’altra volta ancora andasse alla caccia di un paio di francobolli per potere mandare una manoscritto all’editore. Per di più l’eterno litigare con rivenduglioli e mercantucoli, a cui non poteva pagare i viveri indispensabili, per tacere del padron di casa, che ad ogni istante minacciava di mandargli in casa l’usciere, e poi, come costante rifugio, il Monte di Pietà, le cui cedole a tassi usurari si inghiottivano le ultime risorse che avrebbero dovuto tener lontano dalla soglia della sua casa lo spettro della disperazione.

Ed essa non soltanto posava sulla soglia, ma sedeva con loro a tavola. Abituata sin dall’infanzia a una vita senza preoccupazioni, la moglie, donna di alto sentire, vacillava sotto i colpi di un destino feroce e desiderava di morire coi suoi bambini. Nelle sue lettere non mancano tracce di scene familiari, e all’occasione egli diceva che per chi avesse delle aspirazioni di carattere universale non c’era asineria peggiore che quella di sposarsi e di abbandonarsi così alle piccole necessità della vita privata. Ma sempre, quando i lamenti di lei lo spazientivano, egli la scusava e la giustificava; per lei tutto era molto più duro che per lui nell’affrontare le umiliazioni, i tormenti e i timori che bisognava superare nella loro situazione, tanto più che a lei era tolto di rifugiarsi nelle sale della scienza, nelle quali lui finiva sempre per salvarsi. Veder sottrarre ai loro figli le gioie innocenti della giovinezza, era cosa che colpiva con uguale amarezza i due genitori.

Per quanto questo destino di un grande spirito fosse triste, tuttavia esso divenne tragedia soltanto in quanto Marx accettò consapevolmente l’aspro martirio di decenni e respinse ogni tentativo di salvarsi nel porto di una professione borghese, che avrebbe potuto trovare con tutti gli onori. Quel che c’è da dire in proposito, egli lo disse semplicemente e pianamente senza parole solenni: «Devo mirare al mio scopo attraverso ogni ostacolo, e non devo permettere alla società borghese di trasformarmi in una macchina per far de naro». Questo Prometeo non fu saldato alla rupe dalle catene di Vulcano, ma da una volontà di ferro, che additava la meta più alta dell’umanità con la sicurezza di una bussola. Tutta la sua natura è flessibile acciaio. Nulla di più ammirevole di quando, spesso nella stessa lettera, soffocato in apparenza dalla più la mentevole miseria, s’innalza con meravigliosa agilità a discutere dei problemi più importanti con la serenità di spirito di un saggio al quale nessuna preoccupazione segna di rughe la fronte pensosa.

Ma davvero Marx li ha sentiti i colpi con cui la società borghese lo ha perseguitato. Sarebbe stoicismo da strapazzo domandare: che cosa significano in sostanza tormenti come quelli che ha sopportato Marx, per il genio che soltanto dalla posterità riceverà quanto gli è dovuto? Se son fatui quei letterati vani che desidererebbero vedere tutti i giorni il loro nome stampato sul giornale, è però indispensabile a ogni perso nalità creatrice trovare lo spazio necessario al proprio dispiegarsi, e nell’eco suscitata trovare nuova forza per nuove creazioni. Marx non era uno di quei retori della virtù che si incontrano nei cattivi drammi e romanzi, ma un uomo pieno di gioia di vivere, come lo era stato Lessing, e così non gli fu estraneo lo stato d’animo con cui Lessing morente scriveva ai vecchi amici di gioventù: «Non credo che Loro mi conoscano come un uomo avido di lodi. Ma la freddezza con cui il mondo suole far capire a certe persone che, secondo lui, non fanno nulla di buono, se non uccide, certo agghiaccia». E’ la stessa amarezza con cui Marx, alla vigilia del suo cinquantesimo compleanno, scriveva: «Mezzo secolo sulle spalle e sempre ancora povero! »

Così una volta si augurava di trovarsi cento tese sotto terra, piuttosto che seguitare a vegetare così,
o la disperazione gli sgorgava dal cuore quando diceva di non augurare al suo peggiore nemico di passare attraverso il pantano nel quale lui si trovava da otto settimane, con la rabbia, per di più, di vedere il proprio spirito demolito e la propria capacità di lavoro spezzata da questo sudiciume.

Certo Marx non divenne per questo un «cane maledettamente triste», come diceva scherzando, all’occa sione, e in questo senso Engels poteva dire a ragione che il suo amico non aveva mai ispirato tristezza. Ma se Marx amava definirsi un carattere duro, nella fucina della sventura è stato forgiato a maggior durezza. Il cielo sereno che si stendeva sui suoi lavori giovanili si coprì sempre più di pesanti nuvole temporalesche, di tra le quali i suoi pensieri prorompevano come fulmini, e i suoi giudizi su nemici, e abbastanza spesso anche su amici, acquistarono ima tagliente mordacità, che era destinata a ferire non soltanto delle anime deboli.

Quelli che lo ingiuriavano come demagogo freddo come il ghiaccio, sono su di una falsa strada non meno —  anche se certo non più — di quelle prodi anime di sottufficiali che in questo grande lottatore vedevano soltanto un fantoccio da parata.


    10.2    ​​​Un’amicizia senza pari

Tuttavia Marx deve la vittoria della sua vita non soltanto alla sua forza possente. Secondo ogni umano giudizio, alla fine egli avrebbe dovuto soccombere in un modo o nell’altro se non avesse avuto in Engels un amico della cui fedeltà e della cui capacità di sacrificio ci si può fare un’immagine esatta soltanto da quando è stato pubblicato il loro epistolario.

Un’immagine che non ha l’uguale in tutta la storia. Non sono certo mancate, nemmeno nella storia tedesca, delle coppie storiche d’amici la cui opera si confonda talmente da non potersi dire quello che è di uno e quello che è dell’altro, ma restava sempre un qualche rimasuglio di egoismo o di presunzione o magari anche soltanto una resistenza segreta ad abbandonare la propria personalità, che secondo le parole del poeta è « la più alta ventura dei figli della terra». In fin dei conti Lutero vedeva in Melantone soltanto un dotto dal cuore debole, e Melantone in Lutero soltanto un rozzo contadino, e bisogna avere scarsa sensibilità per non avvertire nel carteggio tra Goethe e Schiller la segreta dissonanza tra il grande consigliere segreto e il piccolo consigliere di corte. All’amicizia che legò Marx ed Engels mancò anche quest’ultima traccia di debolezza umana; quanto più il loro pensiero e la loro attività si intrecciavano, tanto più anzi ciascuno dei due restava un uomo intero.

Già esteriormente si distinguevano. Engels, il biondo germano, slanciato, con le maniere di un inglese, come scrisse di lui un osservatore, vestito sempre accuratamente, severamente compreso della disciplina non soltanto della caserma, ma anche dell’ufficio; voleva con sei impiegati metter su una sezione di ministero mille volte più semplice e chiara che con sessanta consiglieri di governo che non sapevano nemmeno scrivere comprensibilmente e ti introiavano tutti i registri in modo tale che nessuno ci capiva più niente: ma, con tutta la rispettabilità di un membro della borsa di Manchester, negli affari e nei piaceri della borghesia inglese, nelle sue cacce alle volpe e nei suoi banchetti di Natale, restò il lavoratore e il combattente intellettuale che nella casetta ai margini della città nascondeva il suo tesoro, una popolana irlandese, tra le cui braccia si ristorava quando si sentiva troppo stanco della canaglia umana.

Invece Marx, robusto, tarchiato, con gli occhi fiammeggianti e la criniera leonina nera come l’ebano, che rivelavano l’origine semitica, trascurato nell’aspetto esteriore; padre di famiglia pieno di guai, che viveva lontano da tutta la vita di società della metropoli, tutto immerso in uno snervante lavoro intellettuale, che gli consentiva appena di consumare un rapido pranzo, e che logorava le sue forze fino a notte alta; un pensatore senza riposo, per il quale pensare era la gioia più alta e in questo il vero erede di un Kant, di un Fichte, e soprattutto di uno Hegel, di cui ripeteva volentieri il detto: «Anche il pensiero delittuoso di uno scellerato è più nobile e più grandioso di tutte le meraviglie del cielo», con la sola differenza che il suo pensiero spingeva incessantemente all’azione; poco pratico nelle cose piccole, ma molto nelle cose grandi; anche troppo impacciato nel sistemare un piccolo ménage familiare, ma incomparabile nella capacità di arruolare e guidare un esercito destinato a sconvolgere il mondo.

Se per altri aspetti lo stile è l’uomo, essi si distinguono anche come scrittori. Ciascuno di loro era a modo suo un maestro della lingua, e ciascuno anche un genio per le lingue, che dominava molti gruppi di lingue straniere e anche di dialetti. Engels in questo era anche superiore a Marx, ma quando scriveva nella sua lingua materna si controllava moltissimo anche nelle sue lettere, per non parlare dei suoi scritti, e manteneva il suo stile libero da ogni sia pur minimo tratto straniero, senza per questo andare a finire nelle bizzarrie dei puristi teutonici. Scriveva semplice e chiaro, in modo così comprensibile, che si può contemplare sempre fino al fondo la corrente limpida del suo fluido discorso.

Marx scriveva in modo più trascurato insieme e più difficile. Nelle sue lettere giovanili, come nelle lettere giovanili di Heine, si può ancora chiaramente avvertire una certa lotta con la lingua, e nelle lettere dei suoi anni più maturi, soprattutto da quando visse in Inghilterra, egli usava un suo gergo misto di tedesco, inglese e francese. Anche nelle sue opere ci sono più parole straniere di quanto fosse indispensabile, e non man cano né gli anglicismi né i gallicismi, ma egli è tanto un maestro della lingua tedesca, che non lo si può tradurre senza perder molto. Engels, una volta che lesse un capitolo dell’amico in una traduzione francese alla quale Marx in persona aveva dato con cura l’ultima mano, sentì subito che forza e vigore e vita se ne erano andate al diavolo.

Se Goethe una volta scriveva alla signora von Stein: «Nelle similitudini io gareggio coi proverbi di Sancio Panza», Marx poteva gareggiare nella concreta immaginosità della lingua coi più grandi «autori di similitudini», un Lessing, un Goethe, uno Hegel. Egli aveva compreso il detto di Lessing, che per una figurazione completa ci vogliono concetto e immagine, come maschio e femmina, e per questo i dotti delle Università, dal decano Wilhelm Roscher fino al più giovane libero docente io hanno convenientemente ripagato stroncandolo. in quanto sarebbe riuscito a farsi capire soltanto in una maniera approssimativa, «tutta rappezzata di immagini». Marx approfondiva le questioni che trattava soltanto fino al punto in cui restasse al lettore feconda materia di riflessione; il suo discorso è un gioco d’onde sulla profondità purpurea del mare.

Engels ha sempre riconosciuto in Marx il genio superiore; accanto a lui egli pretende di aver sempre avuto la parte del secondo violino. Non è però mai stato soltanto il suo commentatore e il suo aiutante, ma il suo collaboratore indipendente, un intelletto se non uguale, certo degno del suo. Come agli inizi della loro amicizia, Engels ha dato più di quanto ha ricevuto, e in un campo decisivo, così venti anni dopo Marx gli scriveva: «Tu sai che 1. a tutto io arrivo con ritardo e 2. che io seguo sempre le tue orme. Nella sua armatura leggera Engels si muoveva più agilmente, e se il suo sguardo era abbastanza acuto per rico noscere il punto decisivo di una questione o di una situazione, non penetrava abbastanza al profondo per considerare subito tutti i se e i ma, di cui è piena anche la più necessaria soluzione. Questo difetto a dire il vero è un grande vantaggio per l’uomo d’azione e Marx non prendeva nessuna decisione politica senza essersi prima consigliato con Engels, che di solito l’imbroccava giusta.

Era conforme a questa situazione che il consiglio che Marx chiedeva a Engels anche in questioni teoriche non si dimostrasse altrettanto produttivo quanto in quelle politiche. Qui Marx si trovava di solito già più avanti. E fece orecchie da mercante a un consiglio che Engels gli dette spesso, per spingerlo a terminare con una certa sollecitudine la sua maggiore opera scientifica: «Sii una buona volta meno coscienzioso nei riguardi dei tuoi lavori; vanno sempre anche troppo bene per il miserabile pubblico. La cosa principale è che il lavoro sia scritto e che esca; i punti deboli che a te saltano agli occhi questi somari non li scoveranno». In questo consiglio c’era tutto Engels; nel non tenerne conto c’era tutto Marx.

Da tutto ciò risulta che per il quotidiano lavoro pubblicistico Engels era meglio dotato di Marx; «una vera enciclopedia», come lo definiva un amico comune, «pronto a lavorare ad ogni ora del giorno e della notte, sazio o digiuno, vivace e tutto preso dallo scrivere come un diavolo». Pare anche che, dopo la cessazione della Neue Rheinische Revue, nell’autunno del 1850, essi avessero da principio concepito l’idea di un’altra iniziativa comune a Londra; per lo meno nel dicembre del 1853 Marx scriveva ad Engels: «Se noi due — tu ed io — avessimo cominciato a tempo giusto a fare a Londra il mestiere dei corrispondenti inglesi, tu non te ne staresti a Manchester, tormentato dall’ufficio, e io non sarei tormentato dai debiti». Se Engels alle prospettive di questo «affare» preferì il posto di impiegato nella ditta paterna, certo lo ha fatto in considerazione della situazione disperata in cui Marx si trovava, e con la prospettiva di tempi migliori, ma non già con l’intenzione di dedicarsi stabilmente al «maledetto commercio». Ancora nella primavera del 1854, ma comunque per l’ultima volta, Engels indugiava sul pensiero di tornare a Londra per darsi all’attività letteraria; in questo momento deve aver preso la decisione di assoggettarsi stabilmente all’odiato giogo, non soltanto per aiutare l’amico, ma per conservare al partito la sua maggiore forza intellettuale. Soltanto a questa condizione Engels poteva affrontare il sacrificio e Marx accettarlo; per affrontarlo come per accettarlo ci voleva un animo egualmente grande.

Prima che col passar degli anni Engels divenisse comproprietario della ditta, come semplice impiegato non stava proprio su di un letto di rose; ma, sin dal primo giorno del suo trasferimento a Manchester, ha mandato il suo aiuto e non si è mai stancato di mandarlo. Incessantemente i fogli da una, da cinque, da dieci, poi anche da cento sterline partivano per Londra. Engels non perdette mai la pazienza, anche quando essa era messa a una prova più dura di quanto sarebbe stato necessario da Marx e dalla moglie di lui, le cui capacità in economia domestica pare non siano state eccessive. Scosse appena la testa una volta che Marx, dimenticandosi l’importo di una cambiale che era tratta anche su lui, si trovò spiacevolmente sorpreso il giorno della sua scadenza. O ancora, quando la signora Marx, in occasione di un ennesimo risanamento del bilancio familiare, tacque per falsi pudori una grossa somma, per risparmiarla a poco a poco col denaro delle spese quotidiane, e ricominciare da capo così, nonostante tutte le buone intenzioni, con la vecchia miseria; Engels perdonò all’amico il gusto un po’ farisaico di sparlare della «follia delle femmine» che «evidentemente avevano sempre bisogno del tutore», e si limitò al bonario ammonimento: «Cerca soltanto che una cosa del genere non si ripeta per il futuro».

Tuttavia, non soltanto di giorno Engels sgobbava per l’amico nell’ufficio e alla Borsa, ma gli sacrificava in gran parte le ore di riposo della sera fino a notte inoltrata. Da principio ciò accadeva per scrivere al posto di Marx, o per tradurre le corrispondenze per la New York Tribune finché questi non potè padroneggiare la lingua inglese; ma egli continuò questa tacita collaborazione anche quando il suo motivo originario non sussisteva più.

Ma tutto ciò appare di poco conto di fronte al sacrificio maggiore che Engels affrontò: la rinuncia all’enorme produzione scientifica di cui sarebbe stato in grado con la sua incomparabile capacità di lavoro e le sue ricche doti. Anche di questo si ha un’idea esatta soltanto dall’epistolario tra i due amici, anche se ci si limita soltanto agli studi linguistici e militari, che Engels praticava con particolare predilezione, sia per una «antica inclinazione» che per le necessità pratiche della lotta per l’emancipazione proletaria. Infatti, per quanto gli ripugnasse ogni «autodidattismo» — « è sempre una balordaggine», pensava sprezzantemente — e per quanto solido fosse il metodo del suo lavoro scientifico, tuttavia egli, come Marx, non era uno studioso da tavolino, e ogni nuova cognizione aveva per lui un valore doppio, se poteva essere subito utile per far saltare le catene del proletariato.

Così cominciò a studiare le lingue slave, per la «opportunità» che «almeno uno di noi» conosca al prossimo grande avvenimento politico, la lingua, la storia, la letteratura, le istituzioni sociali proprio di quelle nazioni con le quali si verrà subito in conflitto. I torbidi nell’oriente lo indussero a studiare le lingue orientali; davanti all’arabo con le sue quattromila radici indietreggiò con spavento, ma «il persiano... è un vero gioco di bambini come lingua»[ii]6; voleva venirne a capo in tre settimane. Poi vennero le lingue germaniche: «Sto tutto immerso nei testi di Ulfila, ora, dovevo una buona volta venire a capo di questo maledetto gotico, che ho sempre studiato così a sbalzi. Con mio stupore trovo di saperne molto di più di quanto pensassi; se riesco ad avere un altro testo sussidiario, penso di arrivarne completamente a capo entro due settimane. Poi, sotto con la lingua nordica antica e con l’anglosassone, coi quali pure sono sempre restato a mez zo. Finora lavoro senza lessico e senza altri testi sussidiari, soltanto il testo gotico e il Grimm, ma questo vecchione è proprio in gamba»[iii]7. Quando, nel decennio 18601870, si acuì la questione dello Schle swig-Holstein, Engels studiò alquanto «filologia e archeologia frisone-inglese-jutlandico-scandinava», e al nuovo divampare della questione irlandese «un po’ di celtico-irlandese» e così via. Nel Consiglio generale dell’Internazionale le sue vaste cognizioni linguistiche gli furono poi di grande aiuto: «Engels balbetta in venti lingue», si diceva giustamente, dato che nei momenti in cui parlava con più agitazione s’inceppava un po’.

Così egli si meritò anche il soprannome di « generale» per i suoi studi, anche più assidui e approfon diti, di scienza militare. Anche qui una «antica inclinazione» fu nutrita da bisogni pratici della politica rivoluzionaria. Engels contava sulla «importanza enorme che la partie militane avrebbe avuto al pros simo movimento». Con gli ufficiali che negli anni della rivoluzione avevano combattuto dalla parte del popolo, non si era fatta troppo buona esperienza.  «Questa canaglia militare — diceva Engels — ha un incomprensibilmente sporco spirito di corpo. Si odiano l’un l’altro a morte, si invidiano l’uno all’altro come scolaretti la più piccola decorazione, ma contro i civili sono tutti uniti». Engels voleva soltanto arrivare al punto di poter dire la sua sul piano teorico senza rischiare di far brutta figura.

S’era appena ambientato a Manchester, quando cominciò a «sgobbare sulla scienza militare». Cominciò dalle cose «più piatte e più comuni, che si richiedono negli esami per allievi ufficiali e ufficiali, e che appunto per questo si presuppongono dappertutto come cose note». Studiò tutta la struttura dell’esercito fin nelle minuzie tecniche: tattica elementare, sistemi di fortificazione di Vauban fino al sistema moderno dei forti isolati, costruzione di ponti e trincee campali, scienza delle armi fino alle diverse costruzioni di affusti da campo, organizzazione degli ospedali da campo e altro ancora; infine passò alla storia militare generale nella quale studiò l’inglese Napier, il francese Jomini e il tedesco Clausewitz con intelligente diligenza.

Ben lungi dall’infervorarsi in una superficiale illustrazione della irrazionalità morale delle guerre, Engels cercava piuttosto di riconoscerne la ragione storica, e con ciò eccitò più di una volta l’ira sfrenata della democrazia declamatoria. Se una volta un Byron riversò la sua ira ardente sui due condottieri che, come portabandiera dell’Europa feudale, nella battaglia di Waterloo dettero il colpo mortale all’erede della rivolu zione francese, così un caso significativo volle che Engels nelle sue lettere a Marx abbozzasse dei ritratti storici di Blùcher e di Wellington, che nei loro brevi limiti sono disegnati con tanta chiarezza e acume che anche allo stato attuale della scienza militare non hanno bisogno di essere cambiati sia pure di un tratto.

Anche in un terzo campo, nel quale Engels lavorò molto e volentieri, nel campo delle scienze naturali, non gli è stato concesso di dare l’ultima mano alle sue ricerche dei decenni in cui fece il suo servizio nel commercio, per dar campo libero al lavoro scientifico di uno più grande di lui.

Tutto ciò era anche un tragico destino. Ma Engels non ci ha mai piagnucolato su, perché ogni sentimentalismo era tanto estraneo a lui quanto al suo amico. Egli considerò sempre come la più grande ventura della sua vita, quella di essere stato per quaranta anni accanto a Marx, anche a costo di vedere che la figura possente di lui lo metteva in ombra. Non ha mai considerato come una tardiva soddisfazione il fatto di essere stato dopo la morte dell’amico per più di un decennio la prima personalità del movimento operaio internazionale, e di essere stato incontestabilmente in esso il primo violino; al contrario, egli pensava che gli venisse attribuito un merito maggiore di quello che gli spettava.

In quanto ognuno di loro si dedicò completamente alla causa comune e ognuno di loro sostenne non il medesimo sacrificio, ma un sacrificio ugualmente grande, senza alcun’ombra penosa di rammarico o di orgoglio, la loro amicizia fu un legame che non trova l’uguale nella storia.