CAPITOLO XXXII - UN PRANZO DA PROCURATORE

 

 

Frattanto, il duello in cui Porthos aveva fatto così bella figura non gli aveva fatto dimenticare il pranzo cui era stato invitato dalla moglie del procuratore. Il giorno seguente, verso l'una, dopo essersi fatto dare una spazzolata da Mousqueton, si incamminò verso la via degli Orsi col passo di un uomo che ha in vista una duplice conquista. Il suo cuore batteva, ma non già, come quello di d'Artagnan, di un giovane e impaziente amore. No, un sentimento più materiale gli frustava il sangue; egli stava finalmente per varcare quella soglia misteriosa, per salire quella scala sconosciuta che gli scudi del vecchio Coquenard avevano salito a uno a uno. Stava per vedere in realtà un certo forziere del quale aveva visto venti volte l'immagine in sogno; forziere di forma lunga e profonda, chiuso da chiavistelli e lucchetti, saldato al pavimento; forziere di cui aveva così spesso sentito parlare e che le mani secche ma non ineleganti della procuratrice avrebbero aperto ai suoi sguardi ammirati. E poi lui, l'uomo errante sulla terra, l'uomo senza ricchezza, l'uomo senza famiglia, il soldato abituato agli alberghi, alle osterie, alle taverne, alle 'posades', il buongustaio costretto la maggior parte dell'anno ad accontentarsi dei pasti d'occasione, avrebbe conosciuto i pranzi di famiglia, assaporata la pace di una casa elegante, lasciandosi circondare da quelle piccole cure che, come dicono i vecchi soldati, più si è rozzi, più piacciono Venire, in qualità di cugino, a sedere tutti i giorni a una buona tavola, rasserenare la fronte gialla e grinzosa del procuratore, spennare un poco i giovani di studio insegnando loro la bassetta, il passadieci e il lanzichenecco, vincendo loro, come onorario per una lezione che gli sarebbe costata un'ora di fatica, le loro economie di un mese, erano tutte cose che sorridevano infinitamente a Porthos. Il moschettiere richiamava bene alla memoria, di qua e di là, le pessime voci che correvano a quel tempo su i procuratori e che sono sopravvissute loro: la spilorceria, la ladreria, i giorni di digiuno, ma poiché, tutto sommato, tranne qualche accesso di economia che Porthos aveva sempre trovato intempestiva, la procuratrice si era generalmente mostrata abbastanza generosa, per una procuratrice, beninteso, egli sperava di imbattersi in una casa nella quale regnasse l'abbondanza. Tuttavia, alla porta il moschettiere ebbe qualche dubbio; l'ingresso non prometteva molto; un corridoio puzzolente e nero, una scala male illuminata da certe finestrelle a grata attraverso le quali filtrava la luce di un cortile vicino; al primo piano, una porta bassa, ferrata, con enormi chiodi come la porta principale del Grand-Chatelet{27}. Porthos batté alla porta; uno scrivano grande e pallido, sepolto sotto una foresta vergine di capelli, venne ad aprire e salutò con l'aria di un uomo costretto a rispettare in un altro l'alta statura che indica la forza, l'uniforme militare che indica la condizione e l'aspetto florido che indica l'abitudine del vivere bene. Un altro scrivano più piccolo stava dietro il primo, un altro più grande dietro il secondo, un ragazzo di dodici anni dietro il terzo. In tutto tre scrivani e mezzo; ciò che, per quei tempi, era indizio di uno studio tra i più avviati. Quantunque il moschettiere non dovesse arrivare che all'una, la procuratrice era in vedetta da mezzogiorno, e contava sul cuore e fors'anche sullo stomaco del suo adoratore per fargli anticipare l'ora. La signora Coquenard arrivò dunque dalla porta dell'appartamento quasi nello stesso tempo in cui il suo invitato arrivava dalla porta delle scale e l'apparizione della degna signora valse a trarre quest'ultimo d'imbarazzo. Gli scrivani avevano l'occhio curioso, ed egli, non sapendo bene che cosa dire a quella scala ascendente e discendente, se ne stava muto. "E' mio cugino" esclamò la procuratrice "entrate, entrate, signor Porthos." Il nome di Porthos ebbe un certo effetto sugli scrivani che scoppiarono a ridere; ma Porthos si volse e tutti i visi ridivennero gravi. Dopo aver attraversato l'anticamera dove erano gli scrivani e lo studio dove avrebbero dovuto essere, si giunse nel gabinetto del procuratore, che era una specie di sala nera e piena di incartamenti. Uscendo dallo studio, fu lasciata a destra la cucina e si entrò nella sala di ricevimento. Tutte queste camere, che erano l'una dentro l'altra, non ispirarono molta fiducia a Porthos; le parole dovevano arrivare lontano attraverso tutte quelle porte aperte; inoltre egli aveva gettato al passaggio un rapido sguardo investigatore alla cucina e doveva riconoscere, a discapito della procuratrice e con rammarico proprio, di non avervi notato quel fuoco, quell'animazione e quel movimento che regnano di solito, prima di un buon pasto, in quel santuario della ghiottoneria. Il procuratore era certamente stato avvertito della visita, perché non mostrò alcuna sorpresa alla vista di Porthos, che si avanzò fino a lui con aria disinvolta e lo salutò cortesemente. "Siamo cugini, a quanto pare, signor Porthos?" disse il procuratore alzandosi a forza di braccia sulla sua poltrona di vimini. Il vecchio, avviluppato in un ampio farsetto nero entro il quale il suo magro corpo spariva, era verde e secco; i suoi piccoli occhi grigi brillavano come carbonchi e sembravano, insieme con la bocca contorta, la sola parte del suo viso in cui fosse rimasta un po' di vita. Disgraziatamente le gambe cominciavano a rifiutarsi di servire quella macchina ossea e da cinque o sei mesi, da quando cioè quell'indebolimento aveva incominciato a farsi sentire, il degno procuratore era pressoché diventato lo schiavo della moglie. Il cugino fu accettato con rassegnazione e nulla più. Se mastro Coquenard fosse stato ancora nella pienezza delle proprie forze, avrebbe certamente declinato qualsiasi parentela con Porthos. "Proprio così, signore, siamo cugini" disse senza sconcertarsi Porthos, il quale, d'altronde, non aveva mai pensato di poter essere accolto con entusiasmo dal marito. "Per parte di donne, credo?" disse maliziosamente il procuratore. Porthos, che non avvertì l'ironia, la prese per un'ingenuità di cui rise sotto i grossi baffi. La signora Coquenard invece sorrise lievemente e arrossì molto perché sapeva che l'ingenuità non era merce da procuratori. Dal momento in cui il moschettiere era entrato in casa, mastro Coquenard guardava con inquietudine un grande armadio posto di fronte alla sua scrivania di quercia. Porthos capì che quell'armadio, sebbene non corrispondesse come forma a quello che aveva visto nei suoi sogni, doveva essere la beata cassaforte e si rallegrò del fatto che la realtà fosse di sei piedi più alta del sogno. Mastro Coquenard non spinse più innanzi le sue investigazioni genealogiche, ma, riportando il suo sguardo inquieto dall'armadio a Porthos, si accontentò di dire: "Il nostro signor cugino, prima di partire per la guerra, ci farà la grazia di pranzare una volta con noi, non è vero, signora Coquenard?" Questa volta, Porthos ricevette il colpo in pieno stomaco e lo sentì; sembrò che neppure la signora Coquenard fosse insensibile a esso, perché soggiunse: "Se lo tratteremo male, mio cugino non tornerà più; ma nel caso contrario egli ha troppo poco tempo da trascorrere a Parigi, quindi da intrattenersi con noi, perché non gli si debba chiedere di dedicarci quasi tutti gli istanti di cui può disporre, sino alla sua partenza." "Oh, le mie gambe! le mie povere gambe!" mormorò Coquenard cercando di sorridere. Porthos fu molto riconoscente alla procuratrice di questo soccorso arrivato nel momento in cui egli si vedeva minacciato nelle sue speranze gastronomiche. Ben presto giunse l'ora di sedersi a tavola. Si passò nella sala da pranzo, una grande camera nera che era proprio di fronte alla cucina. Gli scrivani che, a quanto pare, avevano sentito odori insoliti in quella casa, erano stati di un'esattezza militare e tenevano in mano i loro sgabelli, pronti a sedersi. Si vedevano le loro mascelle muoversi in anticipo con disposizioni spaventevoli. "Perdinci!" pensò Porthos gettando uno sguardo sui tre affamati, poiché l'apprendista, come si può immaginare, non era ammesso agli onori della tavola padronale "perdinci, al posto di mio cugino, licenzierei questi ghiottoni. Si direbbero dei naufraghi che non abbiano mangiato da sei settimane." Mastro Coquenard entrò sulla sua poltrona a rotelle spinta dalla signora Coquenard, alla quale Porthos venne in aiuto per spingere il vecchio fino alla tavola. Appena entrato, egli mosse il naso e le mascelle come i suoi scrivani. "Oh, oh!" disse. "Ecco una minestra promettente." "Ma che diavolo sentono di straordinario in questa minestra?" si disse Porthos vedendo un brodo pallido, abbondante, ma perfettamente cieco e sul quale navigavano alcune croste di pane rare come le isole di un arcipelago. La signora Coquenard sorrise, fece un cenno e tutti sedettero con premura. Mastro Coquenard fu il primo a essere servito, poi fu servito Porthos, indi la signora Coquenard riempì la propria scodella e distribuì le croste, senza brodo, agli scrivani impazienti. In quel momento la porta della sala da pranzo si aprì da sola e Porthos vide nell'apertura l'apprendista che, non potendo prender parte al festino, mangiava il proprio pane al doppio odore della cucina e della sala da pranzo. Dopo la minestra la domestica portò un pollo lesso, ghiottoneria eccezionale che fece sbarrare gli occhi ai convitati. "Si vede che amate molto la vostra famiglia, signora Coquenard" disse il procuratore con un sorriso quasi tragico '"questa è certo una galanteria che fate a vostro cugino!" Il povero pollo era magro e rivestito d'una di quelle grosse pelli che le ossa non riescono mai a bucare nonostante tutti i loro sforzi; è probabile che fosse stato necessario cercarlo lungamente prima di trovarlo nel pollaio dove si era ritirato per morire di vecchiaia. "Diavolo! " pensò Porthos "ecco una cosa triste. Io rispetto la vecchiaia ma non l'apprezzo né lessata né arrostita." E si guardò intorno per vedere se gli altri fossero del suo parere; invece vide soltanto degli occhi fiammeggianti che divoravano in anticipo quel pollo sublime, oggetto del suo disprezzo. La signora Coquenard tirò a sé il piatto, staccò con destrezza le due grandi zampe nere, che mise nel piatto di suo marito, tagliò il collo che pose da parte per sé con la testa, dette un'ala a Porthos e riconsegnò il pollo alla domestica che lo aveva portato, cosicché esso tornò quasi intatto in cucina e disparve prima che il moschettiere avesse il tempo di esaminare i cambiamenti che la delusione provoca nei visi umani, a seconda dei vari temperamenti di coloro che restano delusi. Fu portato in sua vece un enorme piatto di fave nel quale alcune ossa di montone, che di primo acchito si sarebbero potute credere guarnite di carne, facevano bella mostra di sé. Ma gli scrivani non si lasciarono ingannare da questa apparenza, e i visi, da lunghi che erano, si fecero rassegnati. La signora Coquenard distribuì questa pietanza ai giovanotti con una moderazione degna di una buona massaia. Era giunto il momento del vino. Mastro Coquenard versò da una bottiglia di terra molto piccola il terzo di un bicchiere a ciascuno dei suoi impiegati, si servì egli stesso in misura quasi eguale, dopo di che la bottiglia passò immediatamente dalla parte di Porthos e della signora Coquenard. Gli scrivani riempivano d'acqua il bicchiere che conteneva quel poco vino, poi, quando avevano bevuto la metà del liquido contenuto nel bicchiere, lo riempivano ancora, e continuavano così; il che li conduceva a bere alla fine del pranzo una bevanda che, dal colore del rubino, era passata a quello del topazio bruciato. Porthos mangiò timidamente la sua ala di pollo e fremette allorché sentì sotto la tavola il ginocchio della procuratrice che veniva a incontrare il suo. Bevette anche mezzo bicchiere di quel vino tanto parsimoniosamente elargito, nel quale riconobbe un certo perfido vinello di Montreuil, terrore degli intenditori. Mastro Coquenard lo guardò bere quel vino pretto e sospirò. "Vorreste un poco di fave, cugino Porthos?" chiese la signora Coquenard con quel tono che vuol dire: "Credete a me, non mangiatene". "Fossi matto!" mormorò Porthos. E aggiunse ad alta voce: a Grazie, cugina; non ho più fame". Tutti tacquero. Porthos non sapeva che contegno assumere. Il procuratore ripeté più volte: "Ah, signora Coquenard! Mi rallegro con voi, questo non è stato un pranzo, ma un vero festino. Quanto ho mangiato!" Mastro Coquenard aveva mangiato la minestra, le zampe nere del pollo e il solo osso di montone sul quale fosse ancora un'ombra di carne. Porthos temette che volessero burlarsi di lui e cominciò a rialzare fieramente i baffi e ad aggrottare le sopracciglia; ma il ginocchio della signora Coquenard venne piano piano a consigliargli la pazienza. Quel silenzio e l'interruzione del servizio, inintelligibili per Porthos, avevano invece un significato terribile per gli scrivani; a un occhiata del procuratore, accompagnata da un sorriso della signora Coquenard, si levarono da tavola lentamente, piegarono i loro tovaglioli più lentamente ancora, poi salutarono e uscirono. "Andate, giovanotti, andate a digerire lavorando" disse gravemente il procuratore. Appena usciti gli scrivani, la signora Coquenard si alzò, trasse da una credenza un pezzo di formaggio, della marmellata di mele cotogne e un dolce di mandorle e miele fatto con le sue mani. Mastro Coquenard corrugò le sopracciglia perché vedeva troppe cose da mangiare; Porthos si morse le labbra perché si accorse che non c'era di che sfamarsi. Guardò se ci fosse ancora il piatto di fave, ma anche le fave erano sparite. "Decisamente questo è un banchetto" esclamò mastro Coquenard agitandosi sulla poltrona. "Un vero festino, 'epuloe epularum'; Lucullo pranza da Lucullo." Porthos guardò la bottiglia che aveva vicino e sperò di saziare la sua fame con pane, vino e formaggio; ma il vino mancava, la bottiglia era vuota e il signore e la signora Coquenard non ebbero l'aria di accorgersene. "Va bene" pensò il moschettiere "eccomi avvisato." Passò la lingua su un cucchiaio di marmellata e s'invischiò i denti nella pasta attaccaticcia della signora Coquenard. "Ora" si disse "il sacrificio è consumato. Ah! se non avessi la speranza di dare un'occhiata insieme con la signora Coquenard nell'armadio di suo marito!" Mastro Coquenard, dopo le delizie di un simile pasto, che considerava alla stregua di uno stravizio, sentì la necessità di fare la siesta. Porthos sperava che la cosa avrebbe avuto luogo seduta stante e in quello stesso luogo; ma quel maledetto procuratore non ne volle sapere, pretese di esser condotto in camera sua e gridò finché non fu collocato dirimpetto al suo armadio, contro la base del quale, per colmo di precauzione, appoggiò i piedi. La procuratrice condusse Porthos in una camera vicina e cominciò a porre le basi della riconciliazione. "Da oggi in poi potrete venire a pranzo da noi tre volte per settimana" disse la signora Coquenard. "Grazie" disse Porthos "non voglio abusare della vostra cortesia; e d'altra parte debbo anche pensare al mio equipaggiamento." "E' vero" disse la procuratrice lamentosamente. "C'è anche quel maledetto equipaggiamento." "Ahimè, sì" disse Porthos. "C'è anch'esso." "Ma di che cosa è composto l'equipaggiamento del vostro corpo, signor Porthos?" "Oh, di molte cose" disse Porthos "i moschettieri, come sapete, sono soldati scelti e hanno bisogno d'una quantità di oggetti che non sono necessari né alle guardie, né agli svizzeri." "Entrate nei particolari." "Ma il tutto può ammontare a…" disse Porthos che preferiva discutere il totale che i vari capi. La procuratrice attendeva fremente. "A quanto?" domandò. "Spero che non sorpasserà le…" E qui si arrestò perché il fiato le venne a mancare. "Oh, no, non sorpasserà le duemila cinquecento lire" finì Porthos "credo anzi che con un po' d'economia riuscirò a cavarmela con duemila!" "Dio mio! Duemila lire!" esclamò la donna. "Ma è un capitale!" Porthos fece una smorfia molto espressiva, la signora Coquenard la capì. "Io chiedevo i particolari" disse "perché avendo molti parenti e molte conoscenze in commercio, ero quasi certa di ottenere le cose per metà di quanto le paghereste voi." "Ah, ah!" fece Porthos. "Se volevate dir questo…" "Sì, caro signor Porthos. Dunque, prima di tutto vi occorrerà un cavallo?" "Sicuro, un cavallo." "Ebbene, ho ciò che fa al caso vostro." "Ah" esclamò Porthos raggiante "eccoci dunque a posto col cavallo; mi occorrono poi tutte le bardature complete che si compongono di oggetti che soltanto un moschettiere può comprare, ma che non costeranno più di trecento lire." "Bene, diciamo trecento lire" sospirò la procuratrice. Porthos sorrise; il lettore ricorderà che aveva la sella ricevuta in dono da Buckingham, erano dunque trecento lire che contava di mettere abilmente nelle proprie tasche. "Poi" continuò "occorre un cavallo per il mio servitore e una valigia; in quanto alle armi non ve ne preoccupate, le ho già." "Un cavallo per il vostro servitore?" riprese con qualche esitazione la procuratrice "ma volete farla da gran signore, amico mio." "Ma… signora" disse fieramente Porthos "sono forse un villano?" "No, dicevo soltanto che un bel muletto vale quanto un cavallo e pensavo che procurandovi un bel muletto per Mousqueton…" "E vada per un bel muletto!" esclamò Porthos. "Avete ragione. Ho visto dei gran signori spagnoli che viaggiavano con un ricco seguito di servi tutti montati su muli. Però voi capite, signora Coquenard, è necessario che il mulo sia ben impennacchiato e con molti sonagli." "Quanto a questo state tranquillo" disse la procuratrice. "Rimane la mia valigia" riprese Porthos. "Oh, di questo non preoccupatevi!" esclamò la signora Coquenard. "Mio marito ha cinque o sei valige e sceglierò la migliore; ce n'è una ch'egli preferiva nei suoi viaggi, e che è così grande da contenere il mondo intiero." "E dunque vuota questa valigia?" chiese ingenuamente Porthos. "Certamente" rispose la signora con altrettanta ingenuità. "Ah, ma la mia valigia deve essere una valigia ben fornita, mia cara!" La signora Coquenard sospirò di nuovo. Molière non aveva ancora scritto la sua famosa scena dell'Avaro; la signora Coquenard ha dunque la precedenza su Arpagone. Anche il resto dell'equipaggiamento fu discusso nello stesso modo; e il risultato della scena fu che la procuratrice avrebbe chiesto un prestito di ottocento lire in denaro liquido a suo marito e fornito il cavallo e il mulo che avrebbero avuto l'onore di portare Porthos e Mousqueton alla gloria. Stabilite queste condizioni, fissati gli interessi e l'epoca del rimborso, Porthos si congedò dalla signora Coquenard. Questa avrebbe voluto trattenerlo facendogli gli occhi dolci; ma Porthos mise innanzi le esigenze del servizio, e la procuratrice dovette rassegnarsi a cedere il passo al Re. Il moschettiere rincasò con una fame da lupo e di pessimo umore.

 

 

 

 

 

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