CAPITOLO XXVII - LA MOGLIE DI ATHOS

 

 

"Ora bisogna avere notizie di Athos" disse d'Artagnan al brioso Aramis, dopo che l'ebbe messo al corrente di ciò che era successo alla capitale dalla loro partenza in poi e dopo che un eccellente pranzo ebbe fatto dimenticare all'uno la tesi, all'altro la stanchezza. "Pensate che gli sia successa qualche disgrazia?" chiese Aramis. "Athos è così freddo, così valoroso e maneggia così bene la spada!" "Certamente, e nessuno più di me ammira il coraggio e l'abilità di Athos; ma preferisco sentire sulla lama della mia spada l'urto delle lance che quello dei bastoni; ho paura che Athos sia stato strigliato dal servidorame, e i servi sono gente che picchia forte e non la smette facilmente. Ecco perché, lo confesso, vorrei partire più presto che fosse possibile." "Cercherò di accompagnarvi" disse Aramis "quantunque non mi senta ancora abbastanza forte per restare a cavallo. Ieri cercai di disciplinarmi con quell'arnese che vedete appeso al muro, e il dolore mi impedì di continuare questo pio esercizio." "Mio caro, non si è mai sentito dire che si guarisca da una fucilata curandola con lo staffile; ma voi eravate malato e le malattie indeboliscono il cervello, questa è la vostra scusa." "E quando partite?" "Domani, sul fare del giorno; riposate bene stanotte e domattina, se lo potrete partiremo assieme." "A domani dunque" disse Aramis "perché sebbene voi siate di ferro, dovete aver bisogno di riposo." Il giorno dopo, allorché d'Artagnan entrò da Aramis, lo trovò alla finestra. "Che cosa guardate?" gli domandò d'Artagnan. "In fede mia, ammiro quei tre magnifici cavalli che i garzoni di stalla tengono per la briglia; sarebbe un piacere da principi viaggiare con simili bestie." "Ebbene, mio caro Aramis, è un piacere di cui potrete godere, perché uno di quei cavalli è vostro." "Quale?" "Quello che vorrete: io non ho preferenze." "E la ricca gualdrappa che lo copre è anch'essa mia?" "Certamente." "Voi scherzate, d'Artagnan." "Io non scherzo più da quando voi vi siete rimesso a parlare in francese." "Sono per me quelle fondine dorate, quella gualdrappa di velluto, quella sella con le borchie d'argento?" "Vostre come il cavallo che scalpita è mio, e come l'altro che caracolla è di Athos." "Diamine! Sono tre animali magnifici." "Ho piacere che vi piacciano." "E' dunque stato il Re a farvi un simile regalo?" "Non il Cardinale certamente; ma non occupatevi della loro provenienza, pensate soltanto che uno dei tre è vostra proprietà." "Prendo quello tenuto per la briglia da quel servo rosso." "Benone." "Viva Dio!" esclamò Aramis "ecco quel che ci voleva per farmi passare quel poco dolore che ancora mi resta; lo cavalcherei con trenta palle in corpo. Ah! sull'anima mia, che belle staffe! Olà! Bazin, subito da me." Bazin apparve sulla soglia della porta con aria cupa e triste. "Lucidate la mia spada, pulite il mio feltro, spazzolate il mio mantello e caricate le pistole!" gli gridò Aramis. Bazin sospirò. "Suvvia, mastro Bazin" disse d'Artagnan "state tranquillo, ci si può guadagnare il regno dei cieli in tutte le condizioni." "Il signore era già un così buon teologo!" piagnucolò Bazin. "Sarebbe diventato vescovo e fors'anche cardinale." "Ebbene, mio povero Bazin, rifletti un poco; dimmi, ti prego a che serve essere un ecclesiastico; non per questo si può evitare di andare in guerra; tu vedi che il Cardinale si mette in campagna con l'elmo in testa e la partigiana in pugno; e che cosa ne dici del signor di Nogaret de la Vallette?{23} anch'egli è cardinale; domanda al suo lacché quante volte egli ha fatto delle filacce." "Ahimè" sospirò Bazin "lo so, signore, tutto va alla rovescia al giorno d'oggi." Nel frattempo i due giovanotti e l'infelice servitore erano discesi. "Tienimi la staffa, Bazin" disse Aramis. E Aramis saltò in sella con la solita grazia e la solita leggerezza; ma dopo qualche volteggio e qualche corvetta del nobile animale, il suo cavaliere fu assalito da dolori così insopportabili che impallidì e traballò. D'Artagnan che, in previsione di un tale incidente, non lo aveva perso di vista, si slanciò verso di lui, lo strinse fra le braccia e lo ricondusse in camera. "Va bene, mio caro Aramis" gli disse "curatevi e intanto io andrò solo a cercare Athos." "Voi siete un uomo di bronzo" fu la risposta di Aramis. "No, ho fortuna, ecco tutto; ma come vivrete aspettandomi? Basta con le tesi, basta con le glosse sulle dita e le benedizioni, mi raccomando." Aramis sorrise. "Farò dei versi" disse. "Sì, dei versi profumati col profumo del biglietto che avete ricevuto dalla cameriera della signora di Chevreuse, e insegnate la prosodia a Bazin, ciò lo consolerà. In quanto al cavallo, montatelo tutti i giorni un poco e vi abituerete a manovrarlo." "In quanto a questo state tranquillo, mi ritroverete pronto a seguirvi." I due giovani si dissero addio e, dieci minuti dopo, d'Artagnan, raccomandato l'amico a Bazin e all'albergatrice, trottava in direzione di Amiens. Come avrebbe ritrovato Athos? E lo avrebbe ritrovato? Egli lo aveva lasciato in una posizione molto critica, poteva anche essere stato sopraffatto; questa idea, oscurando la sua fronte, gli strappò qualche sospiro e gli fece formulare sottovoce qualche giuramento di vendetta. Fra i suoi amici, Athos era il più attempato, e quindi il meno vicino in apparenza ai suoi gusti, alla sua simpatia. Purtuttavia egli provava per quel gentiluomo una spiccata preferenza. La sua aria nobile e distinta, certi lampi di grandezza che sprizzavano di tanto in tanto dall'ombra nella quale si chiudeva volontariamente, quell'inalterabile uguaglianza di umore che faceva di lui il più gradito compagno del mondo, quella gaiezza forzata e mordace, quel coraggio che si sarebbe potuto dire cieco se non fosse stato il risultato di un rarissimo sangue freddo, tutte queste qualità insieme, suscitavano in d'Artagnan più che stima, più che amicizia, ammirazione. Paragonato al signor di Tréville, l'elegante e nobile cortigiano, Athos nei suoi giorni di buon umore aveva parecchi punti a vantaggio, così ben fatto e così ben proporzionato che, più d'una volta, lottando con Porthos, aveva vinto il gigante la cui forza fisica era diventata proverbiale fra i moschettieri; la sua testa dagli occhi penetranti, dal naso diritto, dal mento alla Bruto, aveva un carattere indefinibile di nobiltà e di grazia; le sue mani, delle quali non aveva cura alcuna, facevano disperare Aramis che curava le sue a forza di pasta di mandorle e di olio profumato; il suono della sua voce era penetrante e melodioso insieme, e poi, quel che v'era d'indefinibile in Athos, che si faceva sempre piccolo e oscuro, era quella scienza delicata del mondo e degli usi della più brillante società, quelle consuetudini di casa nobile che trapelavano a sua insaputa nelle sue minime azioni. Se si trattava di un pranzo, Athos l'ordinava meglio di chiunque altro, mettendo ogni convitato al posto, e al rango che gli avevano creato i suoi antenati o che si era creato egli stesso. Se si trattava di araldica, Athos conosceva tutte le famiglie nobili del reame, la loro genealogia, le loro alleanze, i loro stemmi e l'origine degli stemmi. L'etichetta non aveva minuzie che gli fossero sconosciute, sapeva quali fossero i diritti dei grandi proprietari, conosceva a fondo l'arte della caccia e della falconeria, e un giorno, parlando di questa grande arte, aveva fatto meravigliare lo stesso Luigi Tredicesimo che purtuttavia si diceva ne fosse maestro. Come tutti i grandi signori di quei tempi, montava a cavallo e tirava di scherma alla perfezione. C'è di più: la sua educazione era stata così poco trascurata, anche dal punto di vista degli studi scolastici, tanto rari a quell'epoca tra i gentiluomini, che gli avveniva di sorridere alle frasi latine biascicate da Aramis che Porthos si dava l'aria di capire; anzi due o tre volte, con grande stupore dei suoi amici, quando Aramis si era lasciato sfuggire qualche errore di grammatica, gli era accaduto di rimettere un verbo al suo posto e di ristabilire il caso di un sostantivo. Si aggiunga che la sua probità era inattaccabile, in un secolo nel quale i militari transigevano con facilità con la propria religione e con la propria coscienza, gli amanti con la rigorosa delicatezza dei giorni nostri, e i poveri col settimo comandamento di Dio. Athos era dunque un uomo assolutamente straordinario. Eppure quest'uomo così distinto, questa creatura così bella, questo spirito così fine doveva soccombere alle leggi della vita materiale, come i vecchi tendono all'imbecillità fisica e morale. Athos, nelle sue ore di malinconia, e queste ore erano frequenti, si rabbuiava e perdeva tutta la sua fiera disinvoltura, il suo lato brillante. Allora, svanito il semidio, egli rimaneva a malapena un uomo. Con la testa bassa, l'occhio senza luce, la parola grave e faticosa, Athos contemplava per lunghe ore o la bottiglia ed il bicchiere, o Grimaud, che, abituato a obbedirgli a segni, leggeva nello sguardo atono del padrone anche il minimo desiderio, e lo soddisfaceva immediatamente. Se in uno di questi momenti i quattro amici erano insieme, una parola detta con uno sforzo evidente era tutto quanto Athos metteva di suo nella conversazione. In cambio, beveva da solo per quattro, e ciò senz'altro effetto che un più pronunciato corrugamento delle sopracciglia e una tristezza più profonda. D'Artagnan, del quale conosciamo lo spirito investigatore e penetrante, per quanto interesse avesse a soddisfare la propria curiosità in proposito, non era riuscito ancora a scoprire la ragione della tristezza del suo amico. Athos non riceveva mai lettere e non faceva mai nulla che i suoi amici non sapessero. Non si poteva dire che questa malinconia fosse prodotta dal vino giacché, al contrario, egli beveva appunto per vincere la tristezza, che però questo rimedio, come s'è detto, rendeva ancora più cupa. Non si poteva attribuire questo eccesso di cattivo umore al giuoco, perché, a differenza di Porthos, che accompagnava con i suoi canti e con le sue bestemmie gli alti e bassi della fortuna, Athos, quando vinceva, rimaneva impassibile come quando perdeva. Una sera, era stato visto al circolo dei Moschettieri vincere mille pistole e perderle subito dopo insieme col suo cinturone ricamato in oro dei giorni di gala, poi riguadagnare tutto con cento luigi in più, senza che il suo bel sopracciglio nero si abbassasse o si alzasse di un millimetro, senza che le sue mani perdessero la loro sfumatura madreperlacea, senza che la sua conversazione, che quella sera era gradevole, cessasse per un momento di essere calma e divertente. Né si poteva pensare che, come avviene per i nostri vicini inglesi, fosse un'influenza atmosferica a incupire il suo volto, perché la sua tristezza diventava più intensa e generale nei più bei giorni dell'anno; il giugno e il luglio erano per lui mesi terribili. Nella vita presente non aveva guai e scoteva le spalle se gli si parlava dell'avvenire; il suo segreto era dunque del passato, come era stato detto vagamente a d'Artagnan. Questa atmosfera di mistero che circondava tutta la sua persona, rendeva ancora più interessante quell'uomo, che mai, sia pure nei momenti di più completa ebbrezza e per quanto abili fossero le domande rivoltegli, aveva rivelato qualche cosa. "Ebbene" disse d'Artagnan "in questo momento il povero Athos forse è morto per colpa mia, perché sono stato proprio io a trascinarlo in quell'avventura di cui ignorava l'origine, e dalla quale non doveva trarre alcun profitto." "Senza contare, signore" rispose Planchet "che molto probabilmente gli dobbiamo la vita. Vi ricordate come gridò: "Al largo, d'Artagnan, sono preso". E dopo che ebbe scaricato le pistole, che terribile rumore faceva ancora con la sua spada! Si sarebbe detto che fossero dieci uomini che si battevano, o meglio dieci diavoli." Queste parole raddoppiarono l'ardore di d'Artagnan che eccitava il suo cavallo, il quale, tuttavia, non aveva bisogno di essere eccitato perché trasportava il suo cavaliere al galoppo. Verso le undici del mattino Amiens apparve all'orizzonte; alle undici e mezzo i nostri viaggiatori erano alla porta dell'albergo maledetto. D'Artagnan aveva spesso meditato contro il perfido albergatore una di quelle belle vendette che consolano anche soltanto a pensarle. Entrò quindi nell'albergo col feltro sugli occhi, la mano sinistra sul pomo della spada e facendo fischiare il frustino con la destra. "Mi riconoscete?" gridò all'albergatore che si avanzava per salutarlo. "Non ho questo onore, monsignore" rispose quello con gli occhi ancora abbagliati dal ricco equipaggio col quale d'Artagnan si presentava. "Ah, non mi conoscete?" "No, monsignore." "Ebbene, spero di rinfrescarvi la memoria con due parole. Che avete fatto di quel gentiluomo al quale quindici giorni or sono aveste l'audacia di rivolgere l'accusa di falsario?" L'albergatore impallidì perché d'Artagnan aveva assunto il più minaccioso degli atteggiamenti e Planchet imitava il padrone. "Ah, monsignore, non me ne parlate" esclamò con la sua voce più lacrimosa. "Dio mio, ho pagato ben caro il mio errore. Sono ben disgraziato!" "Vi chiedo che ne è di quel gentiluomo?" "Degnatevi di ascoltarmi, monsignore, e siate clemente. Suvvia, sedetevi, di grazia." D'Artagnan, muto per la collera e l'inquietudine, sedette minaccioso come un giudice. Planchet si appoggiò fieramente alla sua poltrona. "Ecco la mia storia, monsignore" riprese l'albergatore tremando "perché ora vi riconosco; siete quel cavaliere che partì mentre disputavo, per mia disgrazia, col cavaliere di cui parlate." "Sì, sono io. Cosicché vedete bene che non ci sarà grazia per voi se non dite tutta la verità." "Allora ascoltatemi e saprete la verità intiera." "Ascolto." "Le autorità mi avevano comunicato che un falsario sarebbe sceso al mio albergo con parecchi compagni, tutti travestiti da guardie o da moschettieri. Mi avevano descritto i vostri cavalli, i vostri lacché, le vostre persone." "E poi? E poi?" insistette d'Artagnan che intuì da dove provenivano i connotati comunicati con tanta esattezza. "Le autorità mi mandarono anche sei uomini di rinforzo e io presi le misure più urgenti per non lasciarmi sfuggire questi presunti falsari." "Ancora!" disse d'Artagnan, al quale questa parola, falsari, riscaldava terribilmente il sangue. "Scusatemi, monsignore, se dico simili cose, ma esse sono le sole che possano scusarmi. Le autorità mi avevano minacciato e voi sapete che un albergatore deve aver dei riguardi per le autorità." "Ma, ancora una volta, dov'è questo gentiluomo? Che gli è capitato? E' morto? E' vivo?" "Pazienza, monsignore, ci siamo. Successe dunque ciò che già sapete; e la vostra precipitosa fuga" soggiunse l'albergatore con una finezza che non sfuggì a d'Artagnan "sembrava giustificare gli avvenimenti. Il vostro amico si difese da disperato. Il suo servo che per sua disgrazia aveva attaccato briga con i gendarmi travestiti da mozzi di stalla…" "Ah, scellerato!" esclamò d'Artagnan "voi eravate tutti d'accordo e non so chi mi trattenga dallo sterminarvi tutti." "Ahimè, no, monsignore! Non eravamo d'accordo e lo vedrete. Il vostro amico (scusate se non lo chiamo col nome onorato che porta senza dubbio, ma noi questo nome lo ignoriamo) il vostro amico, signore, dopo aver messo fuori combattimento due uomini con due colpi di pistola, batté in ritirata difendendosi con la spada e riuscendo così a stordire un altro dei miei uomini e a gettarmi a terra stordito con una piattonata." "Ma, carnefice, quando la finirai?" chiese d'Artagnan "che ne è di Athos?" "Indietreggiando, come ho detto a monsignore, egli trovò dietro di sé la scala della cantina e siccome la porta era aperta tirò la chiave a sé e si barricò dentro. Poiché eravamo sicuri di ritrovarlo sempre laggiù, lo lasciammo libero di fare ciò che voleva." "Già" disse d'Artagnan "non volevate ucciderlo, volevate solo tenerlo prigioniero." "Giusto Dio! Noi imprigionarlo, monsignore? Ma si è imprigionato da sé, ve lo giuro. E aveva già fatto un bel lavoro! Un uomo ucciso sul colpo e due feriti gravemente. Il morto e i feriti furono portati via dai loro camerati e non ho più sentito parlare né degli uni né degli altri. Io stesso, quando ripresi i sensi, andai dal signor governatore, gli raccontai l'accaduto e gli chiesi che cosa dovessi fare del prigioniero. Ma il signor governatore finse di cadere dalle nuvole; mi disse di ignorare assolutamente ciò che volevo dire, che gli ordini impartitimi non erano stati emanati da lui, e se mi fossi provato a raccontare che egli aveva qualche cosa a che vedere in tutto quel pasticcio, mi avrebbe fatto impiccare senz'altro. Sembra che mi fossi sbagliato, signore, e che avessi arrestato proprio quello che non dovevo arrestare, lasciando fuggire quello che era necessario prendere." "Ma Athos?" esclamò d'Artagnan, la cui impazienza aumentava per la noncuranza con cui l'autorità considerava la cosa. "Che ne è di Athos?" "Siccome avevo fretta di porre un riparo ai miei torti verso il prigioniero, andai alla cantina per rimetterlo in libertà. Ah! signore, quello non era più un uomo, era un diavolo! Allorché gli dissi che ero pronto a rendergli la libertà, rispose che questo era un tranello che gli veniva teso e che non sarebbe uscito se prima non avesse imposto le sue condizioni. Siccome capivo che mi ero messo in cattive acque alzando la mano su un moschettiere del Re, gli dissi con umiltà che ero pronto a sottomettermi alle sue condizioni. "Per prima cosa" gridò "voglio che mi si restituisca il mio servo armato." Ci affrettammo a ubbidire, perché eravamo dispostissimi a fare tutto quanto il vostro amico voleva. Il signor Grimaud (egli disse il suo nome, sebbene non parli molto), il signor Grimaud fu quindi trasportato in cantina, benché fosse ferito; allora il suo padrone, fattolo entrare, barricò la porta e ci ordinò di rimanere nella nostra bottega." "Ma infine" esclamò d'Artagnan "dov'è? dov'è Athos?" "In cantina, signore." "Come, disgraziato! Da allora lo avete tenuto chiuso in cantina?" "Bontà divina! No, Signore, noi tenerlo in cantina! Non sapete dunque quello che fa in cantina? Ah! se poteste farlo uscire, signore, ve ne sarei grato per tutta la vita e vi adorerei come il mio santo patrono." Allora è là? Lo troverò là?" "Certamente, signore, poiché si è ostinato a restarvi. Tutti i giorni gli passiamo dallo spiraglio il pane in cima a una forca, e la carne quando ne chiede; ma, ahimè! Non sono certo né il pane né la carne le cose di cui abusa. Una volta cercai di scendere in cantina insieme con due dei miei garzoni; ma divenne furente! Udii il rumore delle sue pistole di cui sollevava il cane e del moschetto che veniva armato dal suo servo. Poi, allorché gli chiedemmo che intenzioni avesse, ci rispose che aveva pronti quaranta colpi da scaricare su noi e che li avrebbe scaricati sino all'ultimo prima di permettere che uno solo di noi entrasse in cantina. Allora, signore, andai a lamentarmi dal governatore il quale mi rispose che avevo proprio quello che mi ero meritato e che avrei così imparato a non insultare più gli onorati signori che si fermavano al mio albergo." "Di modo che, da allora?…" riprese d'Artagnan che non poteva trattenersi dal ridere dell'aria sconsolata dell'albergatore. "Di modo che da allora, signore, noi viviamo la vita più tribolata che si possa immaginare; perché, signore, dovete sapere che tutte le nostre provviste sono in cantina. Abbiamo là il nostro vino in bottiglie e quello nelle botti, la birra, l'olio, le spezie, il lardo, i salami; e siccome non possiamo discendere a rifornirci, siamo costretti a rifiutare il cibo e le bevande ai viaggiatori e, di giorno in giorno, questo povero albergo va in rovina. Ancora una settimana col vostro amico in cantina, e saremo a terra." "Sarebbe una giusta punizione, birbante. Non si vedeva forse dal nostro aspetto che eravamo persone distinte e non falsari?" "Sì, signore, sì voi avete ragione" disse l'albergatore. "Ma sentite, sentite, eccolo che si inquieta." "L'avranno disturbato" disse d'Artagnan."Ma è pur necessario che lo disturbiamo" esclamò l'albergatore "sono arrivati or ora due gentiluomini inglesi." "E con questo?" "Ebbene! gli Inglesi amano il buon vino, come sapete, signore, e costoro me ne hanno chiesto del migliore. Allora mia moglie avrà pregato il signor Athos di permetterle di entrare per soddisfare questi signori; egli avrà rifiutato come sempre… Dio mio! Dio mio! ecco che ricomincia la ridda!" D'Artagnan sentì infatti un gran rumore in cantina, si alzò e, preceduto dall'albergatore che si torceva le mani e seguito da Planchet che teneva pronto il moschetto, si avvicinò al teatro delle gesta di Athos. I due gentiluomini erano esasperati, avevano fatta una lunga corsa e morivano di fame e di sete. "Questa è una prepotenza" gridavano con accento straniero, ma in buon francese "è possibile che questo pazzo da legare possa impedire a questa buona gente di vendere il proprio vino? Sfonderemo la porta, e se è proprio arrabbiato, lo uccideremo." "Piano, cari signori!" intervenne d'Artagnan levando le pistole dalla cintura "voi non ucciderete proprio nessuno." "Bene, bene" diceva di dietro la porta la voce calma di Athos "fateli entrare questi divoratori di bimbi e poi vedremo." Per quanto coraggiosi sembrassero, i due gentiluomini inglesi si guardarono con qualche esitazione; si sarebbe detto che in quella cantina fosse rinchiuso uno di quegli orchi affamati, giganteschi eroi di qualche leggenda popolare, dei quali non si forza impunemente la caverna. Vi fu un attimo di silenzio; poi i due Inglesi si vergognarono di indietreggiare, e il più arcigno dei due discese i cinque o sei gradini della scala e dette alla porta un calcio tale che avrebbe spaccato un muro. "Planchet" disse d'Artagnan armando le pistole "io mi incarico di quello che è in alto, tu incaricati di quello che è in basso. Ah, signori, volete battaglia! Ebbene, vi daremo battaglia." "Dio mio!" esclamò la voce roca di Athos "questo mi sembra d'Artagnan." "Sono io infatti" disse d'Artagnan alzando a sua volta la voce "sono io, amico mio." "Ah! bene" disse Athos "allora ci lavoreremo a dovere questi sfondatori di porte." I gentiluomini avevano sguainate le spade, ma erano presi fra due fuochi ed esitarono ancora per qualche secondo; ma anche questa volta l'orgoglio ebbe il sopravvento e un altro poderoso calcio fece scricchiolare la porta dal basso in alto. "Scansati, d'Artagnan, scansati" gridò Athos "scansati perché sparo." "Signori" disse d'Artagnan che non perdeva mai la facoltà di riflettere "signori, pensateci! Un po' di pazienza, Athos. Voi state per cacciarvi in un brutto imbroglio e sarete presto crivellati di colpi. Io e il mio servo vi tireremo tre colpi d'arma da fuoco, altrettanti ve ne saranno tirati dalla cantina; poi ci rimarranno le spade e posso assicurarvi che tanto io quanto il mio amico le sappiamo adoperare discretamente. Lasciate che io curi i vostri affari e i miei. Fra poco potrete bere, ve ne do la mia parola d'onore." "Se ce ne sarà" brontolò la voce canzonatoria di Athos. L'albergatore sentì un sudorino freddo scivolargli lungo la schiena. "Come, se ce ne sarà?" mormorò. "Diavolo! Ce ne sarà, non temete" riprese d'Artagnan "state dunque tranquillo, in due non avranno bevuta tutta la cantina. Signori, ringuainate le spade." "E voi rimettete alla cintura le pistole." "Ben volentieri." E d'Artagnan dette il buon esempio. Poi si volse verso Planchet e gli fece segno di disarmare il suo moschetto. Gli inglesi convinti ringuainarono brontolando le spade. Fu raccontata loro la storia della prigionia di Athos, e siccome erano ottimi gentiluomini, diedero torto all'albergatore. "Ora, signori" disse d'Artagnan "andate nelle vostre camere, vi garantisco che fra dieci minuti vi sarà portato tutto quello che potrete desiderare." Gli Inglesi salutarono e uscirono. "Ora che sono solo, caro Athos" disse d'Artagnan "apritemi la porta, ve ne prego." "Subito" disse Athos. Allora si sentì un gran rumore di fascine rimosse e di travi scricchiolanti; erano le controscarpe e i bastioni di Athos, che l'assediato demoliva da sé. Un attimo dopo, la porta si mosse e comparve il viso pallido di Athos che con un'occhiata esplorò i dintorni. D'Artagnan gli si gettò al collo, lo baciò teneramente e fece per farlo uscire da quella umida tana, allora si accorse che il suo amico traballava. "Siete ferito?" gli chiese. "Io? Neppure per sogno; sono ubbriaco fradicio, ecco tutto, e vi giuro che mai nessuno ha fatto meglio di me ciò che è necessario fare per ottenere questo scopo. Vivaddio! mio caro albergatore, bisogna dire che io abbia bevuto per parte mia almeno centocinquanta bottiglie." "Misericordia!" esclamò l'albergatore; "se il servo ha bevuto solamente la metà di quanto ha bevuto il padrone, sono un uomo rovinato." "Grimaud è un servo ben educato, che non si permetterebbe mai di bere lo stesso vino che beve il suo padrone; perciò ha sempre spillato dalla botte, anzi guardate, mi pare che abbia dimenticato di rimettere lo zipolo. Sentite come scorre." D'Artagnan scoppiò in una risata che mutò il brivido dell'albergatore in febbre terzana. Nello stesso tempo Grimaud comparve dietro al padrone, col moschetto sulla spalla e la testa oscillante come certi satiri ubbriachi dei quadri di Rubens. Era tutto imbrattato davanti e di dietro di un liquido grasso che l'oste riconobbe per il suo migliore olio di oliva. Il gruppetto attraversò il salone e andò ad insediarsi nella miglior stanza dell'albergo, che d'Artagnan occupò d'autorità. Nel frattempo l'albergatore e sua moglie si precipitarono con dei lumi in quella cantina nella quale per tanto tempo non avevano potuto entrare e dove li attendeva uno spettacolo spaventoso. Al di là delle fortificazioni nelle quali Athos aveva fatta una breccia per uscire, e che si componevano di fascine di assi, di botti vuote, ammucchiate secondo le regole dell'arte strategica, si vedevano qua e là navigare in pozze di olio o di vino le ossa dei prosciutti mangiati, mentre un mucchio di bottiglie rotte occupava tutto l'angolo sinistro della cantina e una botte con la cannella aperta perdeva le ultime gocce di sangue. Era l'immagine della desolazione e della morte, come dice il poeta antico, che regnava in quei luoghi, come su un campo di battaglia. Di cinquanta salami appesi alle travi, ne restavano appena dieci. Allora gli urli dell'albergatore e dell'albergatrice bucarono il soffitto della cantina, tanto che lo stesso d'Artagnan ne fu commosso. Athos non girò neppure il capo. Ma al dolore successe la rabbia e l'albergatore, fuori di sé per la disperazione, afferrò uno spiedo e si precipitò nella camera in cui erano i due amici. Allorché Athos lo scorse, gli gridò: "Del vino!" "Del vino!" esclamò l'oste stupefatto. "Del vino? Ma se me ne avete bevuto per più di cento pistole e io sono un uomo rovinato, annientato!" "Be'!" disse Athos "siamo sempre rimasti con la sete." "Almeno vi foste accontentato di bere, ma avete anche rotto tutte le bottiglie." "Mi avete spinto sopra un mucchio che è precipitato. Colpa vostra." "E tutto il mio olio perduto!" "L'olio è un rimedio sovrano per le ferite ed era pur necessario che il povero Grimaud curasse quelle che gli avevate fatto." "Tutti i miei salami rosicchiati!" "Ci sono tanti topi in quella cantina!" "Mi pagherete tutto" gridò l'albergatore esasperato. "Tripla canaglia" disse Athos alzandosi; ma ricadde seduto; egli aveva data la misura delle sue forze, d'Artagnan corse in suo aiuto e alzò il frustino. L'albergatore indietreggiò e dette in uno scoppio di pianto. "Così imparerete" disse d'Artagnan "a trattare con più cortesia gli ospiti che Dio vi manda." "Dio? dite il diavolo!" "Caro amico" continuò d'Artagnan "se voi ci romperete ancora le orecchie, andremo tutti e quattro a barricarci in cantina e verificheremo se il disastro è così enorme come dite." "E' vero! ho torto" ammise l'albergatore "lo riconosco, ho torto; ma ogni peccatore merita misericordia; voi siete dei signori, e io sono un povero albergatore, voi avrete pietà di me." "Ah! se parli così" disse Athos "mi farai sanguinare il cuore e le lacrime coleranno dai miei occhi come il vino colava dalle tue botti. Il diavolo non è brutto come lo si dipinge. Avvicinati e parliamo." L'albergatore si avvicinò con inquietudine. "Avvicinati, ti dico, non avere paura" continuò Athos. "Nel momento in cui stavo per pagarti avevo posata la mia borsa sulla tavola, è vero?" "Sì, monsignore." "In quella borsa c'erano sessanta pistole; dov'è ora?" "E' depositata presso la cancelleria; mi avevano detto che conteneva moneta falsa." "Ebbene, fattela restituire e tienti le sessanta pistole." "Ma, monsignore, voi sapete che la cancelleria non restituisce mai ciò che ha preso. Se le monete fossero state false, poteva esserci qualche speranza, ma per mia disgrazia sono buone!" "Accordati con la cancelleria, brav'uomo; la cosa non mi riguarda, tanto più che non mi resta una lira." "Vediamo un po'" disse d'Artagnan "il cavallo di Athos dov'è?" "In scuderia." "Quanto vale?" "Cinquanta pistole al massimo." "Ne vale ottanta, piglialo e non se ne parli più." "Come? Tu vendi il mio cavallo!" disse Athos. "Vendi il mio Baiazet? Con che dunque farò la guerra? Dovrò forse cavalcare Grimaud?" "Te ne porto un altro" fece d'Artagnan. "Un altro?" "E magnifico!" esclamò l'oste. "Allora se ce n'è un altro più bello e più giovane, prendi vecchio e da bere." "Di quale?" chiese l'oste tutto rasserenato. "Di quello che è nel fondo, vicino alle travi; ne restano ancora venticinque bottiglie, tutte le altre sono andate rotte per la mia caduta. Portane sei." "Ma è un fulmine quest'uomo" disse l'albergatore tra sé; "se rimane qui per soltanto quindici giorni e paga tutto quello che beve, rimetterò in sesto i miei affari." "E non dimenticare" continuò d'Artagnan "di portare ai due signori inglesi quattro bottiglie uguali a quelle che porterai a noi." "E ora" disse Athos "mentre aspettiamo il vino, raccontami che cosa è avvenuto dei nostri amici." D'Artagnan gli raccontò che aveva trovato Porthos a letto per una distorsione e Aramis alla scrivania tra due teologhi. Finiva il racconto quando l'albergatore entrò con le bottiglie richieste, e un prosciutto che fortunatamente era rimasto fuori dalla cantina. "Bene" disse Athos riempiendo il suo bicchiere e quello di d'Artagnan "ora so di Aramis e di Porthos ma, a voi personalmente, amico mio, che cosa è capitato? Avete un'aria triste." "Ahimè!" disse d'Artagnan "è che io sono il più infelice fra tutti noi!" "Tu infelice, d'Artagnan!" disse Athos. "Vediamo un po' perché sei infelice? Dimmelo." "Più tardi" disse d'Artagnan. "Più tardi? e perché più tardi? Perché credi che io sia ubbriaco, d'Artagnan. Ricorda bene questo: io non ho mai le idee così chiare come quando ho bevuto: parla, dunque, sono tutto orecchie." D'Artagnan raccontò per disteso la sua avventura con la signora Bonacieux. Athos stette ad ascoltare senza far motto, poi quando l'amico ebbe finito: "Queste sono miserie" disse "miserie!" Era l'intercalare di Athos. "Voi dite sempre 'miserie!', mio caro Athos" disse d'Artagnan. "Non potete giudicare voi che non avete mai amato." L'occhio smorto di Athos scintillò d'improvviso, ma fu un attimo; esso tornò fosco e vago come prima. "E' vero" disse tranquillamente "io non ho amato." "Vedete bene, allora, cuore di pietra, che avete torto di ridere di noi cuori teneri." "Cuori teneri, cuori trafitti" disse Athos. "Che cosa dite?" "Dico che l'amore è una lotteria in cui chi vince, guadagna la morte. E voi siete ben fortunato di aver perduto, credetemi, caro d'Artagnan. E se ho un consiglio da darvi, è di perdere sempre." "Pareva che mi amasse tanto." "Pareva." "Oh! essa mi amava." "Bambino! Non c'è uomo che non abbia creduto come voi di essere amato dalla sua amante e non c'è uomo che non sia stato ingannato." "Voi eccettuato, Athos, che non ne avete mai avute." "E' vero" disse Athos dopo un momento di silenzio "io non ne ho avute mai. Beviamo!" "Ma allora, poiché siete un filosofo" disse d'Artagnan "istruitemi, aiutatemi; ho bisogno di sapere e di essere consolato." "Consolato di che?" "Della mia disgrazia." "La vostra disgrazia fa ridere" disse Athos scrollando le spalle; "sarei curioso di sapere che cosa direste se vi raccontassi una certa storia d'amore." "Capitata a voi?" "O a un mio amico, che importa?" "Dite, Athos, dite." "Beviamo, sarà meglio." "Bevete e raccontate." "Infatti, ciò è possibile" disse Athos vuotando il bicchiere; "le due cose possono stare benissimo assieme." "Vi ascolto" disse d'Artagnan. Athos si raccolse, e, a misura che si raccoglieva, d'Artagnan lo vedeva impallidire; egli era giunto a quel grado di ebbrezza nel quale i bevitori comuni cascano e si addormentano. Egli invece sognava ad alta voce senza dormire. Questo sonnambulismo dell'ubriachezza aveva qualche cosa di spaventoso. "Lo volete assolutamente?" chiese. "Ve ne prego" disse d'Artagnan. "E sia come desiderate. Uno dei miei amici, uno dei miei amici, capitemi bene! non io" disse Athos interrompendosi con un cupo sorriso. "Un conte della mia regione, cioè del Berry, nobile come un Dandolo o un Montmorency, s'innamorò a venticinque anni d'una giovanetta di sedici, bella come un amore. Attraverso l'ingenuità della sua età trapelava uno spirito ardente, uno spirito non già di donna, ma di poetessa; essa non piaceva, dava l'ebbrezza; viveva in un paesetto con suo fratello che era parroco. Erano giunti entrambi nel paese e non si sapeva da dove venissero; ma vedendo lei così bella e suo fratello tanto pio, nessuno pensava a chiedere loro da dove venissero. D'altronde, si diceva che fossero di buona famiglia. Il mio amico, che era signore del paese, avrebbe potuto sedurla o prenderla a forza, a suo piacere; era il padrone; chi sarebbe accorso in aiuto di due stranieri, di due sconosciuti? Per sua disgrazia egli era un uomo onesto e la sposò. Sciocco, ingenuo, imbecille!" "Perché? Se l'amava?" domandò d'Artagnan. "Aspettate" disse Athos. "La condusse al suo castello e fece di lei la prima signora della provincia; bisogna renderle giustizia, essa era perfettamente all'altezza del suo compito." "E allora?" disse d'Artagnan. "Allora, un giorno in cui era a caccia col marito" continuò Athos a voce bassa e parlando precipitosamente "essa cadde da cavallo e svenne; il conte si slanciò per aiutarla e poiché essa soffocava nei suoi abiti, egli li tagliò col pugnale e le scoprì una spalla. Indovinate ciò che aveva sulla spalla?" disse Athos scoppiando a ridere. "Come posso saperlo?" domandò d'Artagnan. "Un fiordaliso" disse Athos. "Essa era marcata." E Athos vuotò d'un fiato il bicchiere che aveva in mano. "Orrore!" esclamò d'Artagnan "che cosa mi dite!" "La verità. Mio caro, l'angelo era un demonio. La povera giovanetta aveva rubato." "E che cosa fece il conte?" "Il conte era un gran signore; sulle sue terre aveva diritto di alta e bassa giustizia. Finì quindi di tagliare gli abiti della contessa, le legò le mani dietro la schiena e l'impiccò a un albero." "Dio mio, Athos! Un assassinio!" esclamò d'Artagnan. "Sì. Un assassinio e nulla più" disse Athos pallido come un morto. "Ma mi pare che qui ci lascino mancare il vino." E Athos prese per il collo l'ultima bottiglia che restava, se la portò alla bocca e la vuotò di un fiato come se si fosse trattato di un bicchiere. Poi lasciò cadere la testa fra le mani e d'Artagnan restò dinanzi a lui, muto per lo spavento. "Ciò mi ha guarito delle donne belle, poetiche e innamorate" disse Athos rialzandosi e rinunciando a continuare la finzione del conte. "Dio vi conceda altrettanto. Beviamo." "Ed è morta?" balbettò d'Artagnan. "Perbacco!" disse Athos "datemi il vostro bicchiere. Porta del prosciutto, briccone. Non possiamo più bere!" "E suo fratello?" chiese timidamente d'Artagnan. "Suo fratello?" "Sì, il prete." "Volevo farlo impiccare anche lui, ma mi prevenne; aveva abbandonato la parrocchia il giorno prima." "Sì è almeno saputo chi fosse quel miserabile?" "Era certamente il primo amante e il complice della bella; un brav'uomo, che si era finto prete forse per maritare la sua amante e assicurarle un avvenire. Sarà stato arrestato vivo, spero." "Oh! Mio Dio! Mio Dio!" esclamò d'Artagnan scosso. "Mangiate un po' di questo prosciutto, d'Artagnan, è squisito" disse Athos tagliandone una fetta che mise sul piatto del giovanotto. "Che disgrazia non ce ne fossero neanche quattro come queste in cantina! Avrei bevute cinquanta bottiglie in più." D'Artagnan non poteva più resistere a questa conversazione che lo avrebbe fatto impazzire; lasciò cadere la testa fra le mani e finse di addormentarsi. "I giovanotti non sanno più bere" disse Athos guardandolo con pietà "eppure questo è fra i migliori."

 

 

Questo volume pubblicato da REA Multimedia è stato acquistato il giorno 19/10/2013 4.44.51 da Luigi Anepeta