CAPITOLO XXVI - LA TESI DI ARAMIS

 

 

D'Artagnan non aveva parlato a Porthos né della sua ferita, né della sua procuratrice. Era un ragazzo giudiziosissimo, il nostro Bearnese, sebbene fosse tanto giovane. Ne consegue che aveva finto di credere a tutto quanto gli aveva raccontato l'orgoglioso moschettiere, convinto che non ci sono amicizie che reggano a un segreto, specialmente se questo segreto interessi l'orgoglio; inoltre, si ha sempre una certa superiorità morale sopra coloro di cui si conosce la vita. Ora d'Artagnan, nei suoi progetti d'intrighi futuri e deciso com'era a fare dei suoi tre compagni gli strumenti della propria fortuna, d'Artagnan, dicevamo, non era spiacente di riunire nelle proprie mani quei fili invisibili con l'aiuto dei quali sperava di poterli guidare. Però durante tutto il cammino una profonda tristezza gli stringeva il cuore; egli pensava alla giovane e bella signora Bonacieux che doveva dargli il premio per la sua devozione; ma, affrettiamoci a dirlo, questa tristezza nasceva nel giovane meno dal rimpianto della felicità perduta che dal timore che potesse essere accaduta qualche disgrazia alla povera donna. Non v'erano dubbi per lui, essa era vittima di una vendetta del Cardinale e, come si sa, le vendette di Sua Eminenza erano terribili. Come egli avesse potuto trovar grazia agli occhi del Ministro era ciò che ignorava egli stesso e che certo gli avrebbe rivelato il signor di Cavois, se il capitano delle guardie lo avesse trovato in casa. Nulla fa passare il tempo e abbrevia la strada come un pensiero in cui si assorbiscano tutte le facoltà intellettive. L'esistenza esterna rassomiglia allora a un sonno di cui questo pensiero è il sogno. Grazie a esso, il tempo non ha più misura, lo spazio non ha più distanza. Si parte da un luogo e si arriva a un altro, ecco tutto. Dell'intervallo percorso, nulla resta presente al nostro ricordo se non qualcosa di simile a una nebbia leggera in cui si cancellano mille immagini confuse di alberi, di montagne, di paesaggi. Fu in preda a questa allucinazione che d'Artagnan percorse, alla velocità che il suo cavallo volle tenere, le sei od otto leghe che separano Chantilly da Crèvecoeur, senza che arrivando in questo villaggio, ricordasse nulla di quanto aveva visto durante la strada. A Crèvecoeur la memoria gli ritornò ed egli scosse la testa, poi, scorta l'osteria dove aveva lasciato Aramis, mise il cavallo al trotto e si fermò alla porta. Questa volta non fu l'oste, ma l'ostessa a riceverlo. D'Artagnan, che era fisionomista, avvolse con un'occhiata la grossa faccia sorridente della padrona del luogo ed intuì che con lei non c'era bisogno di dissimulare, perché non c'era nulla da temere da parte di una così allegra fisionomia. "Mia buona signora" chiese d'Artagnan "potreste dirmi che ne è stato di uno dei miei amici che fummo obbligati a lasciar qui una decina di giorni fa?" "Un bel giovanotto di ventitré o ventiquattro anni, dolce, gentile, ben fatto?" "E' lui." "E, inoltre, ferito ad una spalla?" "Proprio così." "Ebbene, signore, è sempre qui." "Ah, perbacco, mia cara signora" disse d'Artagnan scendendo da cavallo e gettando la briglia a Planchet. "Voi mi rendete la vita; dov'è dunque questo caro Aramis ché io lo abbracci, perché ve lo confesso, ho fretta di rivederlo." "Scusate, signore, ma credo che in questo momento non possa ricevervi." "Perché? E' forse con una donna?" "Dio mio! che dite mai? Povero figliuolo! No, signore, non è con una donna." "E con chi è dunque?" "Col curato di Montdidier e col superiore dei gesuiti di Amiens." "Dio mio" esclamò d'Artagnan "forse che il povero ragazzo è agli estremi?" "No, signore, al contrario; ma in seguito alla sua malattia, la grazia l'ha toccato ed egli si è deciso ad entrare negli ordini." "E' giusto" disse d'Artagnan "avevo dimenticato che non è moschettiere se non temporaneamente." "Il signore insiste per vederlo?" "Più che mai." "Ebbene, il signore prenda la scala a destra, nel cortile, e salga al secondo piano, numero 5." D'Artagnan si lanciò nella direzione indicata e trovò una di quelle scale esterne come se ne trovano ancora ai nostri giorni, nei cortili degli antichi alberghi. Ma non si arrivava così facilmente dal futuro abate: l'ingresso della camera d'Aramis era custodito né più né meno dei giardini d'Armida; Bazin, che montava la guardia nel corridoio, gli sbarrò il passo con tanta maggiore intrepidezza ché, dopo molti anni di prova, si vedeva finalmente sul punto di giungere al risultato cui aveva sempre aspirato. Il sogno del povero Bazin era sempre stato infatti quello di servire un ecclesiastico, ed egli aspettava con impazienza il momento, incessantemente intravisto nell'avvenire, in cui Aramis avrebbe gettato finalmente alle ortiche la casacca del moschettiere per indossare la tonaca. La promessa rinnovata ogni giorno che il momento non poteva tardare, era stato l'elemento che lo aveva trattenuto al servizio del moschettiere, servizio nel quale, a quanto diceva, non poteva mancare di perdere l'anima. Bazin era dunque al colmo della gioia. Secondo ogni probabilità questa volta il suo padrone avrebbe mantenuto la parola. L'unione del dolore fisico col dolore morale aveva prodotto l'effetto per tanto tempo desiderato; Aramis, che soffriva insieme nel corpo e nell'anima, aveva finalmente fissato sulla religione i suoi occhi e il suo pensiero, aveva considerato come un avvertimento del cielo il doppio incidente che gli era capitato; vale a dire l'improvvisa scomparsa della sua amante e la sua ferita alla spalla. Si capisce che nulla poteva, nella disperazione d'animo in cui si trovava, essere più spiacevole a Bazin dell'improvviso arrivo di d'Artagnan, che poteva rigettare il suo padrone nel turbine delle relazioni mondane che lo aveva travolto per tanto tempo. Egli prese quindi la risoluzione di difendere arditamente la porta; e siccome, tradito dall'albergatrice, non poteva dire che Aramis era assente, cercò di dimostrare al sopraggiunto che sarebbe stato il colmo dell'indiscrezione disturbare il suo padrone nella pia conversazione ch'egli aveva iniziato sin dal mattino e che, a sentirlo, non poteva essere terminata prima di sera. Ma d'Artagnan non dette alcun peso all'eloquente discorso di Bazin e, siccome non aveva nessuna voglia di entrare in una discussione polemica col servo del suo amico, lo scostò semplicemente dalla porta, con una mano, mentre con l'altra girò la maniglia del numero 5. La porta s'aprì e d'Artagnan entrò. Aramis indossava un soprabito nero, aveva in capo una specie di berretto rotondo e piatto che somigliava discretamente a una calotta ed era seduto a una tavola ovale coperta di rotoli di carta e di enormi in folio; alla sua destra era seduto il superiore dei gesuiti e alla sua sinistra il curato di Montdidier. Le tende erano semichiuse e non lasciavano penetrare che una luce, molto adatta per una beata fantasticheria. Tutti gli oggetti mondani che possono colpire lo sguardo di chi entri nella camera di un giovanotto elegante, e specialmente quando questo giovanotto è un moschettiere, erano spariti come per incanto, e Bazin aveva anche fatto man bassa sulla spada, le pistole, il cappello piumato, i ricami e i pizzi d'ogni genere e d'ogni specie, per paura senza dubbio che la loro vista riportasse il suo padrone alle idee di questo mondo. In loro vece parve a d'Artagnan di scorgere in un angolo oscuro, appeso al muro con un chiodo, una specie di silicio. Al rumore che fece d'Artagnan aprendo la porta, Aramis levò il capo e riconobbe l'amico. Ma, con grande stupore del giovanotto, parve che la sua presenza non facesse una gran de impressione sul moschettiere, tanto il suo spirito era distaccato dalle cose terrene. "Buongiorno, caro d'Artagnan" disse Aramis "sono molto felice di rivedervi." "Anch'io" disse d'Artagnan "sebbene non sia ancora ben sicuro che sia Aramis colui al quale sto parlando." "Proprio lui, amico mio, proprio lui; ma che cosa ha potuto farvene dubitare?" "Avevo avuto paura di avere sbagliata la camera, e, lì per lì, mi sono creduto nell'abitazione di un uomo di chiesa; poi un altro dubbio si è impadronito di me vedendovi in compagnia di questi signori, ed è che voi foste gravemente ammalato." I due uomini neri, che capirono le intenzioni di d'Artagnan, gli lanciarono uno sguardo quasi minaccioso, ma il moschettiere non se ne preoccupò. "Forse vi disturbo, mio caro Aramis" continuò d'Artagnan "giacché da ciò che vedo, mi sento indotto a credere che foste intento a confessarvi a questi signori." Aramis arrossì impercettibilmente. "Disturbarmi? Oh, al contrario, caro amico, ve lo giuro. E in prova di ciò che dico, permettetemi di rallegrarmi di rivedervi sano e salvo." "Ah! ci arriva finalmente!" pensò d'Artagnan. "E' una gran fortuna." "Perché, il signore" continuò Aramis con compunzione indicando ai due ecclesiastici d'Artagnan "che è un mio carissimo amico, esce vincitore da un grave pericolo." "Lodatene Dio, signore" dissero i due preti inchinandosi contemporaneamente. "Non ho mancato di farlo, reverendi" affermò il giovanotto restituendo il saluto. "Voi arrivate a proposito, caro d'Artagnan" disse Aramis "e prendendo parte alla discussione, l'illuminerete con il vostro buon senso. Il signor rettore di Amiens, il signor parroco di Montdidier e io ragionavamo su certe questioni teologiche il cui interesse ci occupa da molto tempo; sarei felice di sentire anche il vostro parere." "Il parere di un militare ha poco valore in certe materie" rispose d'Artagnan che cominciava a preoccuparsi della cattiva piega che prendevano le cose "e voi potete, credetemi, fidarvi della scienza di questi signori." I due preti fecero ancora un inchino. "Al contrario" riprese Aramis "la vostra opinione ci sarà preziosa; ecco di che si tratta: il signor rettore afferma che la mia tesi deve essere soprattutto dogmatica e didattica." "La vostra tesi! Voi fate dunque una tesi?" "Certamente" rispose il gesuita "per l'esame che precede l'ordinazione una tesi è obbligatoria." "L'ordinazione'" esclamò d'Artagnan che non poteva ancor credere a quanto gli avevano già affermato l'albergatrice e Bazin "l'ordinazione…" E portava lo sguardo stupefatto dall'uno all'altro dei tre uomini che aveva davanti. "Ora" continuò Aramis prendendo nella sua poltrona la stessa posa graziosa che avrebbe assunto in un'alcova ed esaminando con compiacenza la sua mano bianca e grassottella come quella di una donna, che teneva in alto per farne discendere il sangue. "Ora, come avete udito, d'Artagnan, il signor rettore vorrebbe che la mia tesi fosse dogmatica, mentre io vorrei che fosse ideale. E' per questo che il signor rettore mi propose questo soggetto che non è stato trattato ancora, e nel quale, lo riconosco, v'è la possibilità di magnifici sviluppi: 'Utraque manus in benedicendo clericis inferioribus necessaria est'." D'Artagnan, del quale conosciamo l'erudizione, non batté palpebra a questa citazione più di quanto non avesse fatto a quella del signor di Tréville circa il regalo che questi credeva che egli avesse preso da Buckingham. "Il che vuol dire" riprese Aramis per rendergli facile la cosa: "Le due mani sono indispensabili ai preti degli ordini inferiori, quando danno la benedizione." "Soggetto mirabile!" esclamò il gesuita. "Mirabile e dogmatico!" ripeté il curato che, essendo pressappoco della stessa forza di d'Artagnan, per quanto riguardava il latino, sorvegliava attentamente il gesuita per seguirne le orme e ripetere le sue parole come un'eco. D'Artagnan invece rimase perfettamente indifferente all'entusiasmo dei due uomini neri. "Sì, mirabile! 'prorsus admirabile'!" continuò Aramis "ma che esige uno studio approfondito dei Santi Padri e delle Scritture. Ora io ho confessato a questi sapienti ecclesiastici, con grande umiltà, che le veglie al corpo di guardia e il servizio del Re, mi hanno fatto un poco trascurare lo studio. Mi troverei quindi più a mio agio, 'facilius natans', in un soggetto di mia scelta, che starebbe a queste rudi questioni teologiche, come la morale sta alla metafisica in filosofia." D'Artagnan si annoiava maledettamente, come d'altronde il curato. "Sentite che esordio!" esclamò il gesuita. "Exordium" ripeté il curato tanto per dire qualche cosa. "Quemadmodum inter coelorum immensitatem." Aramis dette un'occhiata a d'Artagnan e vide che il suo amico sbadigliava da slogarsi le mascelle. "Parliamo francese, padre" disse al gesuita "il signor d'Artagnan gusterà meglio le nostre parole." "Sì, sono stanco per il lungo cammino" disse d'Artagnan "e non afferro tutto questo latino." "D'accordo" disse il gesuita con lieve dispetto, mentre il parroco, rallegrato, gettava su d'Artagnan uno sguardo pieno di riconoscenza "ebbene vedete un po' quale partito si potrebbe trarre da questa glossa." "Mosè, servo di Dio… egli non è che un servitore, lo capite? Mosè benedice con le mani; egli si fa tenere le due braccia, mentre gli Ebrei battono i loro nemici; dunque benedice con le due mani. D'altra parte che cosa dice il Evangelo: 'Imponite manus', non 'manum'. Imponete le mani, non la mano." "Imponete le mani" ripeté il curato con un gesto. "E San Pietro, al contrario, San Pietro del quale i papi sono successori" continuò il gesuita: "Porrigite digitos. Presentate le dita: ci siete ora?" "Certo" rispose Aramis che sembrava deliziarsi "ma la cosa è sottile." "Le dita!" riprese il gesuita. "San Pietro benedice con le dita. Anche il papa dunque benedice con le dita. E con quante dita benedice? Con tre dita, uno per il Padre, uno per il figlio e uno per lo Spirito Santo." Tutti si fecero il segno della croce e d'Artagnan credette di dover seguire questo esempio. "Il papa è il successore di San Pietro e rappresenta i tre poteri divini; il resto, 'ordines inferiores' della gerarchia ecclesiastica, benedice nel nome dei santi arcangeli e degli angeli. I più umili chierici, quali i nostri diaconi e sagrestani, benedicono con gli aspersori che simulano un numero indefinito di dita benedicenti. Ecco semplificato il soggetto: 'Argumentum omni denudatum ornamento'. Sull'argomento" continuò il gesuita "io farei due volumi grossi come questo." E nel suo entusiasmo batteva su un San Crisostomo in folio che faceva piegare la tavola sotto il suo peso. D'Artagnan fremette. "Certo" disse Aramis "io non mi nascondo la bellezza di questa tesi, ma debbo pur tuttavia riconoscere che è troppo grave per me. Io avevo scelto questo testo; ditemi, mio caro d'Artagnan, se vi piace: 'non inutile est desiderium in oblatione', o ancora meglio: un po' di rimpianto non è fuor di luogo in un'offerta al Signore." "Alto là!" esclamò il gesuita "questa tesi sfiora l'eresia: c'è una proposizione quasi simile nell''Augustinus' dell'eretico Giansenio{20} il cui libro sarà presto o tardi bruciato per mano del boia. State attento, mio giovane amico; voi inclinate verso le false dottrine e vi perderete." "Vi perderete" confermò il curato scotendo dolorosamente il capo. "Voi ponete il dito su quel famoso punto del libero arbitrio che è uno scoglio mortale, accostate di fronte le insinuazioni dei pelagiani e dei semi-pelagiani." "Ma reverendo…" riprese Aramis benché un po' sbalordito dalla grandine d'argomenti che gli piombava sul capo. "Come proverete" continuò il gesuita, senza dargli il tempo di parlare "che si deve rimpiangere il mondo quando ci si offre a Dio? Ascoltate questo dilemma: Dio è Dio e il mondo è il diavolo. Rimpiangere il mondo, equivale a rimpiangere il diavolo; ecco la mia conclusione." "E anche la mia" affermò il curato. "Ma, di grazia…" riprese Aramis. "'Desideras diabolum', disgraziato!" esclamò il gesuita. "Egli rimpiange il diavolo! Ah! mio giovane amico" intervenne il curato con un gemito "non rimpiangete il diavolo, sono io che ve ne supplico." D'Artagnan si sentiva diventare idiota; gli sembrava di essere in un manicomio e di stare impazzendo, come coloro che gli erano vicini. Però era costretto a tacere giacché non comprendeva la lingua che si parlava intorno a lui. "Ma ascoltatemi, dunque" riprese Aramis con una gentilezza non scevra d'impazienza "non dico di rimpiangere, no, io non pronuncerei mai una frase così poco ortodossa…" Il gesuita alzò le braccia al cielo, e il curato lo imitò. "No, ma convenite almeno che è poco gentile offrire al Signore soltanto ciò di cui si è del tutto disgustati. Non vi pare che io abbia ragione, d'Artagnan?" "Lo credo bene, perdio!" esclamò l'interrogato. Il curato e il gesuita diedero un balzo sulle loro sedie. "Ecco il mio punto di partenza; è un sillogismo; il mondo è pieno di attrattive, io abbandono il mondo, dunque faccio un sacrificio; ora la scrittura dice positivamente: Fate un sacrificio al Signore." "Questo è vero", dissero gli antagonisti. "E poi" continuò Aramis pizzicandosi il lobo dell'orecchio per farlo diventare rosso, così come scoteva le mani alzate perché diventassero bianche "e poi ho scritto un certo rondò che ho mandato l'anno scorso al signor Voiture{21}, il quale me ne fece molti complimenti." "Un rondò" fece sdegnosamente il gesuita. "Un rondò" ripeté macchinalmente il curato. "Dite, dite" esclamò d'Artagnan "ci svagheremo un poco." "No, perché è religioso" rispose Aramis "è della teologia in versi." "Diavolo!" fece d'Artagnan. "Eccolo" disse Aramis con un'aria di modestia non esenta da una leggera tinta di ipocrisia: "Voi che guardate all'ieri con rimpianto, senza apprezzare le grazie divine, tutti i vostri dolori avranno fine se a Dio solo offrirete il vostro pianto, voi che guardate!" D'Artagnan e il curato parvero lusingati, ma il gesuita persistette nella sua opinione. "Guardatevi dal gusto profano nello stile teologico. Che cosa dice Sant'Agostino? 'Severus sit clericorum sermo'." "Sì, che il sermone sia chiaro!" disse il curato. "Ora" si affrettò ad interrompere il gesuita vedendo che il suo accolito si fuorviava "ora la vostra tesi piacerà alle signore, ecco tutto, avrà il successo di un'arringa del signor Patru{22}." "Dio lo voglia!" esclamò Aramis con entusiasmo. "Voi lo vedete" incalzò il gesuita "il mondo parla ancora in voi e a gran voce, 'altissima voce'. Voi seguite il mondo, mio giovane amico, e tremo che la grazia non sia efficace. "Rassicuratevi, reverendo, garantisco di me." "Presunzione mondana!" "Mi conosco, padre mio, la mia risoluzione è irrevocabile." "Allora vi ostinate a continuare quella tesi?" "Mi sento chiamato a trattare quella e non un'altra; la continuerò dunque e spero che domani sarete contento delle correzioni che avrò fatte seguendo i vostri consigli." "Lavorate lentamente" disse il curato "vi lasciamo in eccellenti disposizioni." "Si, il terreno è tutto seminato" convenne il gesuita "e non c'è da temere che una parte del grano sia caduta sulla pietra, l'altra lungo la strada e che gli uccelli del cielo abbiano mangiato il resto, 'aves coeli comederunt illam'." "La peste stermini te e il tuo latino!" disse tra sé d'Artagnan che era allo stremo delle sue forze. "Addio, figlio mio" disse il curato "a domani." "A domani, giovane temerario" aggiunse il gesuita "voi promettete di diventare uno dei luminari della Chiesa; voglia il cielo che questa luce non sia un fuoco distruggitore!" D'Artagnan che per un'ora intera s'era rosicchiato le unghie per frenare la sua impazienza, cominciò ad attaccare la carne. I due uomini neri si levarono, salutarono Aramis e d'Artagnan e si mossero verso la porta. Bazin, che era sempre rimasto in piedi e che aveva ascoltato tutti quei dibattiti con religioso giubilo, si slanciò verso di loro, prese il breviario del curato, il messale del gesuita e li precedette rispettosamente facendo loro strada. Aramis li condusse fino in fondo alle scale e risalì immediatamente da d'Artagnan che credeva ancora di sognare. Rimasti soli, i due amici stettero per un poco in un silenzio imbarazzato; però era necessario che uno di loro parlasse per primo, e siccome d'Artagnan pareva ben deciso a lasciare questo onore al suo amico, così Aramis disse: "Come vedete, sono ritornato alla mia prima vocazione." "Si, la grazia efficace vi ha toccato, come diceva quel signore poco fa." "Oh! il progetto di ritirarmi era fatto già da un pezzo nel mio cervello; e voi me ne avete già sentito parlare, non è vero, amico mio?" "Certamente, ma confesso che credevo scherzaste." "Con simili cose! Oh! d'Artagnan!" "Diavolo! Si scherza pure con la morte!" "E si ha torto, d'Artagnan, perché la morte è la porta che conduce alla perdizione o alla gloria." "D'accordo, ma se non vi dispiace, non teologizziamo, Aramis; dovete averne abbastanza per il resto della giornata; quanto a me, ho pressappoco dimenticato quel po' di latino che non ho mai saputo; poi ve lo confesso, non ho mangiato da questa mattina alle dieci ed ho una fame da lupo." "Subito, caro amico; soltanto vi ricorderete che oggi è venerdì; ora in un giorno simile io non posso né mangiare né vedere carne. Se volete contentarvi del mio desinare esso si compone solo di chenopodee cotte e di frutta." "Che cosa sono queste chenopodee?" chiese d'Artagnan con inquietudine. "Sono spinaci" rispose Aramis "ma per voi aggiungerò delle uova ed è una grave infrazione alla regola, poiché le uova sono carne visto che generano il pulcino." "Il banchetto non è succulento, ma non importa; mi ci rassegnerò pur di restare con voi." "Vi sono riconoscente del sacrificio" disse Aramis "che se non sarà proficuo al vostro corpo, lo sarà alla vostra anima." "Cosicché è deciso, Aramis; voi entrate in religione? Che cosa diranno i nostri amici, che cosa dirà il signor di Tréville? Vi prevengo che vi tratteranno come un disertore." "Non ci entro in religione, vi ci rientro. E' la Chiesa che avevo disertato, giacché voi sapete che dovetti fare violenza a me stesso per indossare la giubba del moschettiere." "Io non so niente." "Non sapete come lasciai il seminario?" "No, certo." "Ecco la mia storia; d'altra parte, le Scritture dicono: 'Confessatevi l'un l'altro'; io mi confesso a voi, d'Artagnan." "E io vi assolvo in anticipo, vedete che sono un bravo uomo." "Non scherzate con le cose sante, amico mio." "Allora parlate, vi ascolto." "Ero dunque in seminario dall'età di nove anni, ne avevo venti meno tre giorni, stavo per diventare abate, non c'era più nulla da dire. Una sera in cui, secondo il solito, andammo in una casa che frequentavo con piacere (che volete; si e giovani, si è deboli), un ufficiale che mi vedeva con occhio geloso leggere le vite dei Santi alla padrona di casa, entrò all'improvviso senza essersi fatto annunciare. Proprio quella sera avevo tradotto un episodio di Giuditta, e fatto conoscere certi miei versi alla signora che mi faceva ogni genere di complimenti, e, china sulla mia spalla, li leggeva con me. La posa che, debbo confessarlo, era alquanto languida, colpì l'ufficiale; egli non disse nulla, ma quando uscii, uscì dietro di me, mi raggiunse e: "Signor abate" disse "vi piacciono le bastonate?" "Non posso affermarlo, signore" risposi "perché nessuno ha mai osato darmene." "Ebbene, statemi a sentire, signor abate, se ritornerete nella casa nella quale vi ho incontrato questa sera, io l'oserò." "Credo di aver avuto paura perché impallidii, sentii che le gambe mi tremavano e non seppi rispondere. "L'ufficiale che attendeva una risposta, vedendo che non parlavo, si mise a ridere, mi voltò le spalle e rientrò in casa. Io tornai al seminario. "Io sono un gentiluomo e ho il sangue vivo, come avete potuto notare, caro d'Artagnan; l'insulto era stato terribile e, benché nessuno ne sapesse nulla, pure io lo sentivo vivere e agitarsi in fondo al mio cuore. "Dichiarai ai miei superiori che non mi sentivo sufficientemente preparato per prendere gli ordini, e a mia domanda la cerimonia fu rimandata all'anno dopo. "Andai a consultare il migliore maestro d'armi di Parigi e stabilii che mi avrebbe dato lezione di scherma ogni giorno, e ogni giorno, per un anno, presi questa lezione. Poi, il giorno anniversario di quello in cui ero stato insultato, attaccai a un chiodo la mia sottana, mi vestii da cavaliere e andai a un ballo che dava una signora amica mia, dove ero certo di trovare il mio uomo. Era in via dei Francs-Bourgeois vicino alla Force. "L'ufficiale infatti era là; mi avvicinai a lui, mentre cantava un poemetto amoroso, guardando teneramente una donna e lo interruppi a metà della seconda strofa dicendogli: "Signore, vi dispiace ancora ch'io torni in una certa strada di via Payenne, e siete ancora pronto a bastonarmi se avrò il capriccio di disubbidirvi?" "L'ufficiale mi guardò meravigliato e rispose: "Che volete da me, signore? Non vi conosco". "Sono il piccolo abate che legge la Vita dei Santi e che traduce in versi l'episodio di Giuditta." "Ah! ah! ricordo! Che cosa desiderate?" "Vorrei che veniste a fare una passeggiatina con me." "Domattina, se ci tenete, e col massimo piacere." "No domattina, se non vi spiace, ma subito." "Se assolutamente lo esigete…" "Lo esigo infatti." "Allora usciamo. Signore, non scomodatevi" disse l'ufficiale. "Il tempo di uccidere questo signore e torno a finire l'ultima strofa." "Uscimmo. Lo condussi in via Payenne, proprio nel posto in cui un anno prima e alla stessa ora mi aveva fatto il complimento che sapete. C'era un magnifico chiaro di luna. Sguainammo le spade e alla prima finta lo lasciai stecchito." "Diavolo!" esclamò d'Artagnan. "Orbene" continuò Aramis "siccome le signore non videro tornare il cantante che fu trovato morto in via Payenne con una feritaccia attraverso il corpo, si pensò che ero stato io a conciarlo così e scoppiò uno scandalo. Fui dunque costretto a rinunciare per qualche tempo alla tonaca. Athos, che conobbi in quel tempo, e Porthos che mi aveva insegnato in aggiunta alle lezioni di scherma, qualche colpo maestro, mi indussero a chiedere una casacca da moschettiere. Il Re, che aveva voluto un gran bene a mio padre, ucciso all'assedio di Arras, mi fece dare questa casacca. Capirete quindi che per me ormai è giunto il momento di rientrare in seno alla Chiesa." "E perché proprio oggi, piuttosto che ieri o domani? Che cosa vi è capitato oggi per darvi delle idee così cattive?" "Questa ferita, caro d'Artagnan, è stata un avvertimento del cielo." "Questa ferita? Evvia! Essa è quasi guarita e sono sicuro che non è questa la ferita che vi fa soffrire maggiormente." "E che cosa dunque?" chiese Aramis arrossendo. "Voi ne avete in cuore una ben più viva e sanguinante, una ferita fatta da una donna." L'occhio d'Aramis brillò suo malgrado. "Ah!" disse dissimulando la sua emozione con un'aria di voluta indifferenza "non parlatemi di certe cose. Io pensare a questo genere di cose! avere rimpianti amorosi. 'Vanitas vanitatum! Secondo voi dunque, io mi sarei montato la testa, ma per chi? Per qualche sartina, per qualche cameriera alla quale avrei fatto la corte in una guarnigione? Evvia!" "Scusatemi, mio caro Aramis, ma io credevo che voi miraste più in alto." "Più in alto? ma chi sono io per avere simili ambizioni? Non sono che un povero moschettiere, molto cencioso e molto oscuro, che odia la sottomissione e si trova malissimo nel mondo." "Aramis, Aramis!" esclamò d'Artagnan guardando l'amico con aria dubitativa. "Polvere, torno alla polvere. La vita è piena di dolori e di umiliazioni; tutti i fili che ci legano alla felicità si rompono l'uno dopo l'altro nelle mani dell'uomo, specialmente quelli d'oro. Ah! caro d'Artagnan" continuò Aramis dando alla sua voce un lieve tono di amarezza. "Nascondete bene le vostre piaghe, quando ne avrete. Il silenzio è l'ultima gioia degli infelici; cercate di non mettere nessuno sulle tracce dei vostri dolori; i curiosi bevono le nostre lacrime, come le mosche succhiano il sangue di un daino ferito." "Ahimè, mio caro Aramis!" disse d'Artagnan con un profondo sospiro "voi raccontate la mia storia." "E come?" "Sì, una donna che amavo, che adoravo, mi è stata strappata con la forza. Non so dove sia, dove l'abbiano condotta; forse è prigioniera, forse è morta!" "Ma voi avete almeno la consolazione di sapere che non siete stato abbandonato volontariamente; che se non avete sue notizie è perché le impediscono di comunicare con voi; mentre…" "Mentre…" "Niente…" riprese Aramis "niente…" "Così rinunciate per sempre al mondo; è un partito preso, una risoluzione irremovibile?" "Irremovibile. Oggi voi siete il mio amico, domani non sarete per me che un'ombra; o meglio ancora non esisterete più, per me. Quanto al mondo, è un sepolcro." "Diavolo! Quello che dite è molto triste." "Che volete, la vocazione mi attira, mi travolge." D'Artagnan sorrise senza rispondere. Aramis continuò: "E tuttavia, mentre sono ancora di questo mondo, avrei voluto parlarvi di voi e dei vostri amici." "E io" disse d'Artagnan "avrei voluto parlare anche di voi, ma vi vedo così distaccato dalle cose terrene… voi disprezzate l'amore, gli amici sono ombre, il mondo è un sepolcro." "Ahimè! finirete con l'accorgervene anche voi." "Dunque non parliamone più" disse d'Artagnan "bruciamo questa lettera che certamente vi annuncerà qualche nuova infedeltà della vostra sartina o della vostra cameriera." "Quale lettera?" chiese Aramis con uno scatto. "Una lettera che è stata portata a casa vostra mentre eravate assente e che mi fu consegnata perché ve la recapitassi." "Ma di chi è quella lettera?" "Oh! di qualche cameriera lacrimante, di qualche sartina disperata; la cameriera della signora di Chevreuse, forse, che sarà stata costretta a tornare a Tours con la sua padrona e che, per fare buona figura, avrà preso la carta profumata della sua signora e avrà sigillata la lettera con una corona di duchessa." "Ma che dite?" "Non l'avrò mica perduta?" disse con aria sorniona il giovanotto fingendo di cercarla. "Fortunatamente il mondo è un sepolcro, gli uomini, e naturalmente le donne, non sono che ombre, e l'amore un sentimento che voi disprezzate." "D'Artagnan, d'Artagnan!" esclamò Aramis "mi farete morire!" "Eccola finalmente!" disse d'Artagnan. E estrasse la lettera di tasca. Aramis fece un balzo, afferrò la lettera; la lesse o meglio la divorò, e il suo viso divenne raggiante. "Pare che la cameriera scriva bene!" "Grazie, d'Artagnan!" esclamò Aramis quasi in delirio. "Venite, ella è stata forzata a tornare a Tours; non mi è infedele, mi ama sempre. Venite, amico mio, che vi baci, la felicità mi soffoca." E i due amici si misero a ballare attorno al venerabile San Crisostomo, calpestando arditamente i fogli della tesi che erano caduti in terra. In quel mentre Bazin entrava con gli spinaci e la frittata. "Va' via, disgraziato" gridò Aramis gettandogli in viso la sua callotta "ritorna da dove vieni, porta via quegli orribili legumi! chiedi una lepre in salmì, un cappone ben grasso, un cosciotto d'agnello all'aglio e quattro bottiglie di vecchio Borgogna." Bazin, che guardava il padrone e che non comprendeva niente, lasciò malinconicamente scivolare la frittata negli spinaci e gli spinaci sul pavimento. "Ecco il momento di consacrare la vostra esistenza al Re dei Re" disse d'Artagnan "se volete fargli una cortesia: 'non inutile desiderium in oblatione'." "Vattene al diavolo col latino! Caro d'Artagnan, beviamo, beviamo molto e raccontami ciò che si fa laggiù."

 

 

 

 

 

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