CAPITOLO VI - SUA MAESTA' IL RE LUIGI TREDICESIMO

 

 

La faccenda fece molto rumore. Il signor di Tréville tempestò molto ad alta voce contro i suoi moschettieri e li complimentò sotto voce; ma siccome non c'era tempo da perdere per prevenire il Re, il signor di Tréville si affrettò a recarsi al Louvre. Era già troppo tardi, il Re era a colloquio col Cardinale e il signor di Tréville si sentì rispondere che in quel momento lavorava e non poteva ricevere. La sera il signor di Tréville andò al giuoco del Re. Il Re vinceva e siccome Sua Maestà era avarissimo, era di ottimo umore; cosicché appena scorse Tréville gli disse: "Venite qui, signor capitano, debbo farvi dei rimproveri; sapete che Sua Eminenza è venuta a lamentarsi dei vostri moschettieri? E con una tale emozione che questa sera Sua Eminenza ne è ammalata. Ma, dite un po'! i vostri moschettieri sono dei diavoli a quattro, gente da forca!" "No, Sire" rispose Tréville vedendo di primo acchito che la cosa si metteva bene "no, al contrario, sono delle buone creature, dolci come agnelli, che hanno un solo desiderio, me ne rendo garante: quello che la loro spada non esca dal fodero se non per il servizio di Vostra Maestà. Ma, che volete, le guardie di monsignor Cardinale cercano sempre di attaccar briga con loro, per cui, per l'onore stesso del corpo, quei poveri ragazzi sono costretti a battersi." "Ascoltate un po' il signor di Tréville!" disse il Re "ascoltatelo! non si direbbe che parli di una comunità religiosa? In verità, mio bravo capitano, mi fate venire il desiderio di togliervi il brevetto e la carica e di dar l'uno e l'altra alla signorina di Chemerault, alla quale ho promesso un'abbazia. Ma non crediate che vi presti fede sulla parola. Mi chiamano Luigi il Giusto, signor di Tréville, e fra poco ci rivedremo." "Ed è appunto perché fido nella vostra giustizia. Sire, che attenderò tranquillamente e pazientemente le buone grazie di Vostra Maestà." "Aspettate, dunque, signore" disse il Re "aspettate, che non vi farò aspettare a lungo." Infatti, siccome la fortuna cambiava, e il Re cominciava a perdere ciò che aveva guadagnato, non era spiacente di avere un pretesto per 'faire Charle Magne' (ci si consenta di servirci di questa espressione da giocatore, della quale, confessiamo, non conosciamo l'origine){4}. Il Re si alzò dunque in capo a un istante, e intascando il denaro che era davanti a lui e che, nella massima parte, proveniva dalla sua vincita, disse: "La Vieuville, prendete il mio posto, ho urgenza di parlare al signor di Tréville per una faccenda importante. Ah!… Avevo davanti a me ottanta luigi, mettete la stessa somma, perché quelli che hanno perduto non debbano lamentarsi. La giustizia prima di tutto." Poi, voltandosi verso il signor di Tréville e andando con lui nel vano di una finestra, continuò: "Ebbene, signore, voi dite che sono le guardie di Sua Eminenza che hanno provocato i vostri moschettieri?" "Sì, Sire, come sempre." "Com'è andata la cosa, vediamo? Perché voi lo sapete, mio caro capitano, è necessario che un giudice ascolti entrambe le parti." "Ah! mio Dio! Nel modo più semplice e naturale del monto. Tre dei miei migliori soldati che Vostra Maestà conosce di nome e di cui ha più volte apprezzato la devozione, e che hanno, posso affermarlo al Re, il suo servizio molto a cuore, tre dei miei migliori soldati, dico, i signori Athos, Porthos e Aramis avevano fatta una scampagnata con un giovane, cadetto di Guascogna, che avevo loro raccomandato proprio quella mattina. La scampagnata doveva aver luogo a Saint-Germain, credo, ed essi si erano dati appuntamento ai Carmelitani Scalzi, quando la loro festa fu turbata dal signor di Jussac, dai signori di Cahusac, Bicarat e da altre due guardie, che non venivano certo là in così numerosa compagnia senza cattive intenzioni contro gli editti." "Ah! mi ci fate pensare" disse il Re "senza dubbio, erano andati là per battersi." "Io non li accuso, Sire, ma lascio giudicare a Vostra Maestà, ciò che potessero andare a fare cinque uomini armati, in un luogo così deserto come lo sono i paraggi dei Carmelitani." "Sì, avete ragione, Tréville, avete ragione." "Allora, quando hanno visto i miei moschettieri, hanno cambiato idea e hanno dimenticato i loro odi particolari per l'odio di corpo. Vostra Maestà sa che i moschettieri, che sono del Re e solo del Re, sono i nemici naturali delle guardie di monsignor Cardinale." "Sì, Tréville" disse il Re malinconicamente "è ben triste, credete a me, che in Francia vi siano due partiti, due teste alla regalità; ma tutto ciò finirà, Tréville, tutto ciò finirà. Dunque voi dite che le guardie hanno provocato i moschettieri?" "Dico che è probabile le cose siano andate così. Ma non lo giuro, Sire. Voi sapete come sia difficile conoscere la verità, a meno di non essere dotati di quell'istinto ammirevole che ha fatto sì che Luigi Tredicesimo sia chiamato il Giusto…" "Avete ragione, Tréville; ma non erano soli i vostri moschettieri, con loro c'era un fanciullo?" "Sì, Sire, e un ferito, di modo che tre moschettieri del Re, di cui uno ferito, e un fanciullo, non solo hanno tenuto a bada cinque delle più terribili guardie del Cardinale, ma ne hanno stese a terra quattro." "Ma questa è una vittoria!" esclamò il Re raggiante "una vittoria completa!" "Sì, Sire, non meno completa di quella dei Ponts-de-Cé{5}." "Quattro uomini, di cui uno ferito e un fanciullo, dite?" "Un ragazzo appena, il quale si è anzi così ben condotto in questa occasione che mi prenderò la libertà di raccomandarlo caldamente a Vostra Maestà." "Come si chiama?" "D'Artagnan, Sire. E' il figlio d'uno dei miei più antichi amici; il figlio di un uomo che ha fatto la guerra partigiana col Re vostro padre di gloriosa memoria." "E voi dite che questo giovanotto si è condotto bene? Raccontatemi la cosa, Tréville; sapete bene che amo i racconti di guerra e di combattimento." E il Re Luigi Tredicesimo rialzò fieramente i baffi mettendosi una mano sul fianco. "Sire" riprese Tréville "come vi ho detto, il signor d'Artagnan è quasi un fanciullo e siccome non ha l'onore di essere moschettiere, era in abito borghese; le guardie del Cardinale, notando la sua giovine età e, inoltre, che non apparteneva al corpo, lo invitarono ad allontanarsi prima dell'attacco." "Allora vedete bene che sono stati loro ad attaccare, Tréville." "E' vero, Sire, non possono sussistere più dubbi; dunque, gli imposero di ritirarsi, ma egli rispose che per sentimento si sentiva moschettiere, e che era tutto per Vostra Maestà e che restava perciò con i signori moschettieri." "Bravo giovanotto!" mormorò il Re. "E infatti rimase con loro; e Vostra Maestà ha in lui un così valoroso campione che fu proprio lui a dare a Jussac quel terribile colpo di spada che mette tanto in collera monsignor Cardinale." "E' lui che ha ferito Jussac?" esclamò il Re. "Ma se avete detto che è un ragazzo! La cosa mi pare impossibile, Tréville." "E' come ho avuto l'onore di dire a Vostra Maestà." "Jussac, una delle prime lame del regno!" "Ebbene, Sire, ha trovato il suo maestro." "Voglio vedere questo giovanotto, Tréville, voglio vederlo e se si può far qualche cosa per lui, la faremo." "Quando si degnerà di riceverlo, la Maestà Vostra?" "Domani a mezzogiorno, Tréville." "Dovrò accompagnare soltanto lui?" "No, accompagnateli tutti e quattro insieme. Voglio ringraziarli tutti in una volta. Gli uomini devoti sono rari, Tréville, conviene ricompensarne l'abnegazione." "A mezzogiorno, Sire, saremo al Louvre." "Passate dalla scala privata, Tréville. E' inutile che il Cardinale sappia…" "Sarete obbedito, Sire." "Voi mi capite, Tréville, un editto è pur sempre un editto, e in fin dei conti abbiamo decretato che non ci si deve battere." "Ma questo scontro, Sire, non è uno dei soliti duelli; è piuttosto una rissa e la prova di ciò è che le guardie del Cardinale erano cinque contro tre moschettieri e d'Artagnan." "E' giusto" disse il Re "ma non importa, Tréville, venite ugualmente dalla scala privata." Tréville sorrise. Ma siccome era già molto per lui aver ottenuto che quel fanciullone si ribellasse al suo mentore, tacque; e salutando rispettosamente si congedò. La sera stessa i tre moschettieri furono avvertiti dell'onore loro accordato. Ma siccome da lungo tempo conoscevano il Re, non si entusiasmarono troppo. D'Artagnan invece, con la sua fantasia di Guascone, immaginò di avere già raggiunto la fortuna e passò la notte in sogni dorati, e appena alle otto del mattino era da Athos. D'Artagnan trovò il moschettiere già pronto per uscire. Siccome non dovevano presentarsi al Re che a mezzogiorno, egli si era proposto di andare, insieme con Porthos e Aramis, a fare una partita di pallacorda in una bisca vicinissima alle scuderie del Lussemburgo. Athos invitò d'Artagnan a seguirlo, e quantunque egli ignorasse assolutamente quel giuoco al quale non aveva mai preso parte, accettò di buon grado non sapendo come impiegare il suo tempo dalle nove a mezzogiorno. I due moschettieri erano già arrivati e avevano cominciato il giuoco. Athos, che era fortissimo in tutti gli esercizi fisici, passò con d'Artagnan dal lato opposto e li sfidò. Ma al primo movimento, sebbene giocasse con la mano sinistra, capi che la sua ferita era ancora troppo recente per permettergli un simile sforzo. D'Artagnan restò dunque solo, e siccome dichiarò che era troppo maldestro per sostenere una partita in regola, continuarono a lanciarsi le palle senza contare i punti. Ma una palla lanciata dall'erculeo Porthos passò così vicina al viso di d'Artagnan che questi pensò che, se invece di passare di fianco, lo avesse colpito in pieno, l'udienza reale sarebbe andata in fumo, perché gli sarebbe stato impossibile presentarsi al Re. Ora, poiché da questa udienza, nella sua immaginazione di Guascone, dipendeva tutto il suo avvenire, salutò gentilmente Porthos e Aramis, dichiarò che non avrebbe ripreso la partita se non quando fosse stato degno dei suoi avversari, e andò a mettersi vicino alla corda, fra gli spettatori. Per sua disgrazia, fra gli spettatori c'era una guardia di Sua Eminenza che, ancora tutta ardente per la sconfitta dei suoi compagni, arrivata in città soltanto il giorno prima, si era ripromessa di cogliere la prima occasione per farne vendetta, Egli credette quindi che l'occasione fosse propizia e indirizzandosi al suo vicino disse: "Non c'è da meravigliarsi che questo giovanotto abbia avuto paura di una palla, è certamente un aspirante moschettiere." D'Artagnan si volse come fosse stato morsicato da un serpente e guardò fissamente la guardia che aveva pronunciato quelle parole insolenti. "Perbacco!" riprese questa arricciandosi i baffi con aria insolente "guardatemi pure finché vi piacerà, mio piccolo signore, quello che ho detto ho detto." "E siccome quello che avete detto è chiarissimo" rispose a bassa voce d'Artagnan "vi prego di seguirmi." "E quando?" disse la guardia con la stessa aria canzonatoria "Subito, se vi piace." "Certamente voi sapete chi sono?" "Non lo so e non mi importa saperlo." "Avete torto, perché se sapeste il mio nome, avreste forse meno fretta." "Come vi chiamate?" "Bernajoux, per servirvi." "Ebbene, signor Bernajoux" disse tranquillamente d'Artagnan "vado ad attendervi alla porta." "Andate, signore, vi seguo." "Non affrettatevi troppo, affinché non ci si accorga che usciamo insieme; capirete che per fare ciò che dobbiamo fare, un pubblico troppo numeroso ci disturberebbe." "Va bene" rispose la guardia meravigliata che il suo nome avesse fatto così poco effetto sul giovanotto. Infatti il nome di Bernajoux era conosciutissimo da tutti tranne che da d'Artagnan; egli era uno di quelli che prendevano parte il più sovente alle risse giornaliere a cui tutti gli editti del Re e del Cardinale non avevano potuto porre fine. Porthos e Aramis erano così occupati nella loro partita e Athos li guardava con tanta attenzione che non si accorsero che il loro giovane compagno usciva. Questi, come aveva detto alla guardia di Sua Eminenza, si fermò sulla porta; un istante dopo, la guardia discese a sua volta. Poiché d'Artagnan non aveva tempo da perdere essendo l'udienza del Re fissata per mezzogiorno, si guardò intorno e, vedendo che la strada era deserta, disse al suo avversario: "In fede mia, è una bella fortuna per voi, quantunque vi chiamiate Bernajoux, di avere a che fare con un semplice aspirante moschettiere; tuttavia, state tranquillo che cercherò di fare del mio meglio. In guardia!" "Ma" disse colui che d'Artagnan provocava in questo modo "mi sembra che questo non sia un luogo bene scelto per il nostro affare, staremmo meglio dietro l'abbazia di Saint-Germain o nel Pré-aux-Clercs." "Ciò che dite è pieno di buon senso" rispose d'Artagnan "disgraziatamente non ho tempo da perdere perché ho un appuntamento per mezzogiorno preciso. In guardia dunque, signore, in guardia!" Bernajoux non era uomo da farsi ripetere due volte un simile invito. Nello stesso istante la sua spada brillò nella sua mano ed egli si slanciò sul suo giovanissimo avversario, sperando di intimidirlo. Ma d'Artagnan, che il giorno prima aveva fatte le sue prime prove e, fresco e orgoglioso della sua vittoria e pieno di speranza per l'avvenire, era ben risoluto a non indietreggiare di un passo, non si mosse e le due lame si incrociarono fino alla guardia, e siccome il Guascone si tenne fermo al suo posto, fu l'avversario che dovette fare un passo indietro. Ma d'Artagnan colse il momento in cui, per questo movimento, la lama di Bernajoux deviava dalla linea di guardia, si disimpegnò, tirò una botta a fondo e toccò il suo avversario alla spalla. Immediatamente, d'Artagnan arretrò a sua volta di un passo e rialzò la spada; ma Bernajoux gli gridò che non era niente, e, gettandosi ciecamente su di lui, si infilzò da sé. Tuttavia, poiché non cadeva, poiché non si dichiarava vinto, ma si limitava a indietreggiare verso il palazzo del signor de La Trémouille al servizio del quale aveva un parente, d'Artagnan, ignorando egli stesso la gravità dell'ultima ferita ricevuta dal suo avversario, lo incalzava da vicino e senza dubbio lo avrebbe finito con un terzo colpo. Senonché, in quel momento, al rumore che si alzava dalla strada e che si udiva sin dentro la pallacorda, due amici della guardia, che l'avevano sentita scambiare qualche parola con d'Artagnan e l'avevano vista uscire, si precipitarono con la spada in pugno fuori della bisca e piombarono sul vincitore. Ma subito Athos, Porthos e Aramis apparvero a loro volta, e nel momento in cui le due guardie attaccavano il loro giovane camerata, le costrinsero a voltarsi. Proprio allora Bernajoux cadde, e poiché le guardie erano soltanto due contro quattro, si misero a gridare: "A noi, casa La Trémouille!" A queste grida, tutti coloro che erano nel palazzo uscirono, avventandosi contro i quattro compagni che, dal canto loro, si misero a gridare: "A noi, moschettieri!". Questo grido di solito era inteso perché si sapeva che i moschettieri erano nemici di Sua Eminenza ed erano amati appunto per l'odio che tutti avevano per il Cardinale. Cosicché le guardie delle altre compagnie che non appartenevano al Duca Rosso, come lo aveva chiamato Aramis, in simili casi facevano lega con i moschettieri del Re. Di tre guardie della compagnia del signor Des Essarts che passavano in quel mentre, due vennero dunque in aiuto ai quattro compagni e l'altra corse verso il palazzo del signor di Tréville, gridando: "A noi moschettieri, a noi!". Come di solito, il palazzo del signor di Tréville era pieno di soldati appartenenti a quest'arma, e tutti si precipitarono in soccorso dei loro camerati; la mischia divenne generale, ma i moschettieri erano i più forti e le guardie del Cardinale e le genti del signor La Trémouille si rifugiarono nel palazzo e fecero appena in tempo a chiuderne le porte per impedire che i moschettieri vi facessero irruzione. In quanto al ferito, era già stato trasportato nel palazzo in pessimo stato. L'agitazione fra i moschettieri e i loro alleati era al colmo, e si stava già discutendo se per punire l'insolenza dei domestici del signor di La Trémouille che avevano osato fare una sortita contro i moschettieri, non fosse opportuno appiccar fuoco al palazzo. La proposta anzi era già stata accolta con entusiasmo, allorché, per fortuna, sonarono le undici; d'Artagnan e i suoi compagni si ricordarono della loro udienza, e poiché sarebbero stati spiacenti che un così bel colpo fosse fatto senza di loro, riuscirono a calmare gli spiriti. Ci si accontentò, dunque, di gettare qualche ciottolo contro le porte, ma le porte resistettero e gli assalitori si stancarono. D'altronde, coloro che avrebbero dovuto essere considerati come i capi dell'impresa, avevano ormai abbandonato il gruppo e si incamminavano verso il palazzo del signor di Tréville, che li aspettava, già al corrente della nuova bravata. "Presto al Louvre" egli disse "al Louvre senza perdere un istante, e tentiamo di vedere il Re prima che venga messo al corrente dei fatti dal Cardinale; gli racconteremo la cosa come una conseguenza della faccenda di ieri, e tutto passerà in una volta sola." Il signor di Tréville, accompagnato dai quattro giovani, si incamminò dunque verso il Louvre; ma, con grande meraviglia del capitano dei moschettieri, gli venne annunciato che il Re era andato alla caccia al cervo nella foresta di Saint-Germain. Il signor di Tréville si fece ripetere due volte questa notizia, e ogni volta i suoi compagni videro il suo volto rannuvolarsi. "Sua Maestà" domandò egli "aveva in progetto sin da ieri questa caccia?" "No, Eccellenza" rispose il cameriere "questa mattina il gran venatore è venuto ad annunciargli che nella nottata era stato scovato un cervo per lui. Sulle prime il Re ha detto che non si sarebbe mosso, poi non ha saputo resistere all'idea del piacere che gli avrebbe procurato questa caccia ed è partito dopo colazione." "E il Re ha veduto il Cardinale?" chiese il signor di Tréville. "Secondo ogni probabilità lo ha visto" rispose il cameriere "perché stamane ho visto la carrozza di Sua Eminenza; ho domandato dove andasse e mi è stato risposto: "A Saint-Germain"." "Siamo stati prevenuti" disse il signor di Tréville. "Signori, vedrò il Re questa sera; ma quanto a voi, vi consiglio di non farvi vedere." Il consiglio era fin troppo ragionevole e soprattutto veniva da un uomo che conosceva troppo bene il Re, perché i quattro giovani tentassero di discuterlo. Il signor di Tréville li invitò a tornare alle loro case e ad aspettare tranquillamente sue notizie. Ritornato al palazzo, il signor di Tréville pensò che era meglio fare il primo passo e avanzare subito le proprie lamentele. Mandò quindi un suo domestico al signor di La Trémouille con una lettera nella quale lo pregava di non dare asilo alle guardie di monsignor Cardinale e di rimproverare le sue genti per l'audacia che avevano dimostrato facendo una sortita contro i moschettieri. Ma il signor di La Trémouille, che era già stato prevenuto dal suo scudiero, di cui, come si sa, Bernajoux era parente, gli fece rispondere che non spettava né al signor di Tréville né ai suoi moschettieri lamentarsi, ma a lui solo inquantoché i moschettieri avevano assalito i suoi servitori e minacciato di bruciare il suo palazzo. Ora, siccome la disputa fra questi due signori sarebbe durata molto a lungo perché ciascuno doveva necessariamente intestardirsi nella propria opinione, il signor di Tréville pensò di porvi fine con un espediente: andare in persona dal signor de La Trémouille. Andò dunque immediatamente al suo palazzo e si fece annunciare. I due signori si salutarono gentilmente giacché, se non c'era grande amicizia tra loro, c'era però una stima reciproca. Erano entrambi uomini di cuore e d'onore; e poiché il signor de La Trémouille, protestante e poco assiduo presso il Re, non apparteneva a nessun partito, in generale non portava nelle sue relazioni sociali nessuna prevenzione. Questa volta, però, la sua accoglienza, benché cortese, fu più fredda del solito. "Signore" disse il signor di Tréville "noi crediamo di aver ragione di lamentarci l'uno dell'altro e sono venuto di persona affinché insieme si metta in chiaro la cosa." "Volentieri" rispose il signor de La Trémouille "ma vi avverto che sono bene informato e che tutto il torto è dei vostri moschettieri." "Voi siete un uomo troppo giusto e troppo ragionevole, signore" disse Tréville "per non accettare la mia proposta." "Dite, vi ascolto." "Come sta il signor Bernajoux?" "Malissimo, signore. Oltre alla ferita al braccio, che non è pericolosa, ne ha ricevuta un'altra che gli ha attraversato il polmone, di modo che il medico fa delle previsioni tutt'altro che belle." "Ma il ferito è in sé? "Perfettamente." "Parla?" "Con difficoltà, ma parla." "Ebbene, signore, rechiamoci presso di lui e scongiuriamolo in nome di Dio, di fronte al quale potrebbe comparire fra poco, di dirci la verità. Io lo prendo per giudice nella sua stessa causa, e quel che dirà, lo crederò." Il signor de La Trémouille rifletté un istante, poi, siccome sarebbe stato difficile fare una proposta più ragionevole, accettò. Tutti e due discesero nella camera del ferito. Questi, vedendo entrare quei due nobili signori che venivano a fargli visita, cercò di sollevarsi sul letto, ma era così debole che, spossato dallo sforzo, ricadde quasi senza conoscenza. Il signor de La Trémouille gli si avvicinò e gli fece respirare dei sali che lo richiamarono in vita. Allora Tréville, non volendo che si potesse accusarlo di avere influito sul malato, pregò il signor de La Trémouille d'interrogarlo egli stesso. Ciò che aveva preveduto Tréville avvenne. Sospeso fra la vita e la morte, Bernajoux non tentò neppure di tacere per un istante la verità e raccontò come erano andate precisamente le cose. Era quanto voleva Tréville. Egli augurò a Bernajoux una pronta guarigione, si congedò dal signor de La Trémouille, rientrò al suo palazzo e fece avvertire i quattro amici che li aspettava a pranzo. Il signor di Tréville riceveva un'ottima compagnia, ma tutta anticardinalista. Si comprende quindi che la conversazione durante tutto il pranzo si aggirò sui due scacchi subiti dalle guardie di Sua Eminenza. Ora, poiché d'Artagnan era stato l'eroe di quelle due giornate, fu su di lui che caddero tutte le felicitazioni e Athos, Porthos e Aramis gliele abbandonarono non soltanto da buoni camerati, ma da uomini che troppo spesso avevano avuto il loro turno per non concedergli il suo. Verso le sei, il signor di Tréville annunciò che doveva andare al Louvre. Ma siccome l'ora dell'udienza accordata da Sua Maestà era passata, invece di reclamare l'ingresso per la scala privata, egli prese posto nell'anticamera insieme con i quattro giovani. Il Re non era ancora tornato dalla caccia. I nostri amici attendevano da mezz'ora mischiati alla folla dei cortigiani, allorché tutte le porte si aprirono e venne annunciata Sua Maestà. A quest'annunzio d'Artagnan si sentì fremere fino al midollo; quell'istante avrebbe deciso probabilmente tutta la sua vita, per cui i suoi occhi si fissavano con ansia sulla porta dalla quale il Re doveva entrare. Luigi Tredicesimo apparve: era in costume da caccia, ancora tutto polveroso, in stivaloni e col frustino in mano. Al primo colpo occhio d'Artagnan giudicò che il Re era in collera. Questa disposizione, per quanto evidente in Sua Maestà, non impedì ai cortigiani di far ala al suo passaggio: nelle anticamere reali val meglio essere scorti da un occhio sia pure irritato, che non esser scorti affatto. I tre moschettieri non esitarono e fecero un passo avanti mentre, al contrario, d'Artagnan rimase nascosto dietro loro. Ma benché il Re conoscesse personalmente Athos, Porthos e Aramis passò davanti a loro senza guardarli, senza rivolger loro la parola, come se non li avesse mai visti. In quanto al signor di Tréville, allorché gli occhi del Re si posarono un istante su di lui, sostenne quello sguardo con tanta fermezza che fu il Re a distogliere il suo, dopo di che, brontolando, Sua Maestà rientrò nel suo appartamento. "Gli affari vanno male" disse Athos sorridendo "e nemmeno questa volta saremo fatti cavalieri dell'ordine." "Aspettatemi qui dieci minuti" disse il signor di Tréville "e se fra dieci minuti non mi vedrete uscire, ritornate al mio palazzo: sarà inutile che mi aspettiate più a lungo." I quattro giovani attesero dieci minuti, un quarto d'ora, venti minuti, ma vedendo che Tréville non compariva, uscirono inquietissimi per ciò che sarebbe successo. Il signor di Tréville era entrato arditamente nel gabinetto del Re e aveva trovato Sua Maestà di pessimo umore; seduto in una poltrona si batteva gli stivali col manico del frustino, il che non aveva impedito al capitano di chiedergli con la massima flemma notizie della sua salute. "Cattiva, signore, cattiva" rispose il Re "mi annoio." Questa era infatti la peggior malattia di Luigi Tredicesimo, che spesso prendeva uno dei suoi cortigiani, lo attirava presso una finestra e gli diceva: "Signor Tal dei Tali, annoiamoci insieme". "Come! Vostra Maestà si annoia!" disse il signor di Tréville. "Non si è dunque divertita oggi a caccia?" "Bel divertimento, signore! Tutto degenera, in fede mia, e non so se sia la selvaggina che non lascia più traccia o i cani che non hanno più naso! Lanciamo un cervo di dieci palchi, lo inseguiamo per tre ore e quando siamo per raggiungerlo e Saint-Simon sta per portare il corno alle labbra e suonare l'hallalì, ecco che improvvisamente i cani si danno a inseguire un cerbiatto di due anni. Vedrete che sarò costretto a rinunciare alla caccia a cavallo come ho rinunziato a quella al volo. Ah! sono un re ben disgraziato, signor di Tréville. Non avevo più che un solo girifalco ed è morto ieri l'altro." "Comprendo il vostro dolore, Sire; però mi pare che abbiate ancora un buon numero di falchi e di sparvieri." "E non un uomo che sappia istruirli; i falconieri scompaiono, ormai solo io conosco l'arte della falconeria. Dopo di me tutto sarà finito e non si caccerà più che con le tagliuole, le trappole, i lacciuoli. Se almeno avessi il tempo di formare degli allievi! Ma monsignor Cardinale mi è sempre alle costole e non mi lascia un minuto di riposo; mi parla della Spagna, dell'Austria, dell'Inghilterra. Ah! a proposito di monsignor Cardinale, signor di Tréville, io sono assai malcontento di voi." Il signor di Tréville aspettava il Re a questo varco. Lo conosceva da troppi anni e sapeva benissimo che tutte le sue lamentele non erano che una prefazione, una specie di eccitamento per infondersi coraggio e arrivare poi dove voleva arrivare. "In che cosa ho avuto la disgrazia di spiacere a Vostra Maestà?" chiese Tréville fingendo la massima meraviglia. "E' così che adempite la vostra missione, signore?" continuò il Re senza rispondere direttamente alla domanda del signor di Tréville. "E' per questo che vi ho nominato capitano dei miei moschettieri? perché essi assassinino un uomo, mettano a soqquadro un rione, e si propongano di bruciare Parigi senza che voi fiatiate? Ma forse" continuò il Re "io vi accuso con troppa fretta, forse i perturbatori sono già in prigione e voi siete venuto appunto per dirmi che giustizia è fatta." "Sire" rispose con tranquillità Tréville "vengo al contrario per chiedervela." "E contro chi?" esclamò il Re. "Contro i calunniatori" rispose il signor di Tréville. "Ah! questa è nuova" riprese il Re. "Non vorrete dirmi che i vostri tre dannati moschettieri, Athos, Porthos e Aramis, e il vostro cadetto del Bearn non si siano gettati come anime dannate sul povero Bernajoux e non l'abbiano maltrattato in così malo modo che a quest'ora, forse, sta morendo! Non vorrete negarmi che dopo di ciò abbiano assediato il palazzo del duca de La Trémouille e che siano stati lì lì per incendiarlo, il che, a dire il vero, non sarebbe stata una gran disgrazia in tempo di guerra, visto che è un nido di Ugonotti; ma in tempo di pace, è un cattivo esempio. Non vorrete negarmi tutto questo, spero?" "E chi vi ha fatto questo bel racconto, Sire?" chiese tranquillamente Tréville. "Chi mi ha fatto questo bel racconto, signore? E chi volete che sia se non colui che veglia mentre io dormo, che lavora quanto mi diverto, che dirige tutto dentro e fuori del regno, in Francia come in Europa?" "Sua Maestà vuole certamente parlare di Dio" disse il signor di Tréville "perché solo Dio è tanto superiore a Vostra Maestà." "No, signore, vi parlo del sostegno dello Stato, del mio solo servitore, del mio solo amico, di monsignor Cardinale." "Sua Eminenza non è sua Santità, Sire." "Che cosa intendete di dire, signore?" "Che solo il Papa è infallibile, e che questa infallibilità non si estende ai cardinali." "Volete dire ch'egli m'inganna, che mi tradisce. Allora voi l'accusate? Suvvia, confessatemi francamente che lo accusate." "No, Sire, non dico questo, dico che egli si inganna, dico che è stato male informato, dico che ha avuto troppa fretta di accusare i moschettieri di Vostra Maestà, verso i quali egli è sempre ingiusto, dico che non ha attinto a una buona fonte le sue informazioni." "L'accusa parte dal signor de La Trémouille, dal duca stesso. Che sapete rispondere a ciò?" "Potrei rispondere, Sire, che egli è troppo interessato nella questione, per essere un testimonio imparziale: ma lungi da me questo pensiero; io conosco il duca e so che è un galantuomo, mi rimetto dunque a lui, ma ad una condizione, Sire." "Quale ?" "Che Vostra Maestà lo faccia venire e lo interroghi direttamente, ma da solo a solo e senza testimoni; e che io rivedrò Vostra Maestà non appena il duca sia partito." "Bene" fece il Re "e vi rimetterete completamente a quanto dirà il signor de La Trémouille?" "Sì, Sire." "Accetterete il suo giudizio?" "Senza dubbio." "E vi assoggetterete alle riparazioni che esigerà?" "Perfettamente." "La Chesnaye!" fece il Re. "La Chesnaye!" Il cameriere privato di Luigi Tredicesimo, che stava sempre fuori della porta, entrò. "La Chesnaye" disse il Re "mandate subito a cercare il signor de La Trémouille, voglio parlargli questa sera." "Vostra Maestà mi dà la sua parola d'onore che non parlerà con nessuno tra il signor de La Trémouille e me?" "Con nessuno, sulla mia parola di gentiluomo." "Allora a domani, Sire." "A domani, signore." "A che ora, di grazia, Maestà?" "All'ora che vorrete!" "Ma venendo troppo presto temo di svegliare Vostra Maestà." "Svegliarmi? Dormo io forse? Io non dormo più, signore, tutt'al più qualche volta sogno. Venite dunque presto come vorrete, anche alle sette, ma guai a voi se i vostri moschettieri sono colpevoli!" "Se i miei moschettieri sono colpevoli li rimetterò nelle mani di Vostra Maestà che li punirà come le piacerà meglio. Vostra Maestà vuole altro da me? Parli, sono pronto a obbedire." "No, signore; non è senza ragione che mi chiamano Luigi il Giusto. A domani dunque, a domani." "Sino allora, Dio guardi Vostra Maestà." Per quanto poco dormisse il Re, Tréville dormì meno ancora; la sera stessa aveva fatto avvertire i tre moschettieri e il loro compagno perché si recassero da lui la mattina dopo alle sei e mezzo. Egli li condusse con sé senza affermare nulla, senza nulla promettere, e non nascondendo loro che la loro fortuna e la sua stessa erano alla mercé di un gittata di dadi. Arrivati ai piedi della scala privata, li fece aspettare. Se il Re era sempre irritato contro di loro, si sarebbero allontanati senza farsi vedere; se il Re acconsentiva a riceverli, li avrebbe fatti chiamare. Arrivato nell'anticamera particolare del Re, il signor di Tréville trovò La Chesnaye che gli disse che la sera prima non si era trovato il duca de La Trémouille al suo palazzo, che egli era rincasato troppo tardi per presentarsi al Louvre, che era arrivato poco prima e che in quel momento era dal Re. Questa coincidenza soddisfece molto Tréville il quale fu così ben sicuro che nessuna interferenza estranea si sarebbe inserita tra la deposizione del signor de La Trémouille e lui. Infatti, erano appena trascorsi dieci minuti, che la porta del gabinetto del Re si aprì e Tréville vide uscirne il duca de La Trémouille che venne a lui e gli disse: "Signor di Tréville, Sua Maestà mi ha mandato a chiamare per sapere da me come andarono le cose ieri mattina al mio palazzo, Gli ho detto la verità, vale a dire che la colpa era delle mie genti e che ero pronto a farvi le mie scuse. Poiché v'incontro ve le faccio subito e vi prego di volermi considerare sempre vostro amico". "Signor duca" disse il signor di Tréville "ero così pieno di fede nella vostra lealtà che non ho voluto altri difensori che voi, presso Sua Maestà. Vedo che non mi ero ingannato e vi ringrazio poiché per merito vostro, posso affermare che in Francia esistono ancora uomini dei quali si può dire ciò che io ho detto di voi." "Bene, bene" disse il Re che aveva ascoltato tutti questi complimenti tra le due porte "soltanto ditegli, Tréville, poiché egli afferma di essere vostro amico, che anch'io vorrei essere compreso tra i suoi, ma che egli mi trascura; che sono tre anni che non l'ho visto e che non lo vedo se non quando lo mando a chiamare. Ditegli tutto ciò da parte mia, perché si tratta di cosa che un re non può dire egli stesso." "Grazie, Sire, grazie" disse il duca "Vostra Maestà ricordi che non sono coloro, e non dico ciò per il signor di Tréville, non sono coloro ch'essa vede in ogni ora del giorno che gli son più devoti." "Ah! avete inteso ciò che ho detto, tanto meglio, duca, tanto meglio" disse il Re avanzando sino alla porta. "Ah, Tréville, siete voi; dove sono i nostri moschettieri? Ieri l'altro vi dissi di condurmeli, perché non lo avete fatto?" "Sono dabbasso, Sire, e col vostro permesso La Chesnaye può farli salire." "Sì, vengano subito. Sono ormai le otto e alle nove attendo una visita. Andate, signor duca, fatevi rivedere. Entrate, Tréville." Il duca salutò ed uscì mentre i tre moschettieri e d'Artagnan guidati da La Chesnaye apparivano sull'alto della scala. "Venite, miei valorosi" disse il Re "venite ché debbo rimproverarvi." I moschettieri si avvicinarono inchinandosi; d'Artagnan li seguì ma rimase dietro a loro. "Come diavolo avete fatto" continuò il Re "voi quattro soli a mettere in due giorni sette guardie del Cardinale fuori combattimento? E' troppo, signori, è troppo. Di questo passo, Sua Eminenza sarà costretta a rinnovare la sua compagnia in tre settimane, e io dovrei fare applicare gli editti col massimo rigore. Una, per combinazione, passi, ma sette in due giorni è troppo, lo ripeto, è troppo!" "Per questo, Sire, essi vengono contriti e pentiti a farvi le loro scuse." "Contriti e pentiti! Uhm!" fece il Re "non mi fido delle loro facce ipocrite, specialmente di quel Guascone laggiù. Venite qui, signore." D'Artagnan, avendo compreso che questo complimento era rivolto a lui, si avvicinò assumendo la sua aria più contrita. "Ebbene! che cosa mi dicevate che era un giovanotto, signor di Tréville? Questo è un ragazzo, un vero ragazzo! Ed è lui che ha dato quel famoso colpo di spada a Jussac?" "E quei due bei colpi a Bernajoux." "Davvero?" "Senza contare" disse Athos "che se egli non mi avesse difeso da Bicarat, io non avrei ora certamente l'onore di inchinarmi umilmente alla Maestà Vostra." "Ma questo Bearnese è dunque un vero demonio, 'ventre saint-gris!' signor di Tréville, come avrebbe detto il Re mio padre. In questo modo egli bucherà molte giubbe e spezzerà molte spade. Ora, i Guasconi sono sempre poveri, è vero?" "Sire, devo confessarvi che non hanno ancora trovate delle miniere d'oro nelle loro montagne, sebbene il Signore dovesse loro questo miracolo in premio del coraggio con cui sostennero i diritti di vostro padre." "E poiché io sono figlio di mio padre, ciò vuol dire che sono i Guasconi che mi hanno fatto Re, è vero Tréville? Ebbene! alla buon'ora, non dico di no. La Chesnaye, andate a vedere se, frugando in tutte le mie tasche, trovate quaranta pistole e portatemele. E ora, giovanotto, ditemi, con la mano sulla coscienza, come sono andate le cose." D'Artagnan raccontò con tutti i particolari l'avventura del giorno prima; disse come non potendo dormire per la gioia che provava all'idea di vedere Sua Maestà si fosse recato dai suoi amici tre ore prima dell'udienza, come fossero andati insieme a una bisca e come, avendo egli dimostrato di aver paura di ricevere una palla sul viso, Bernajoux lo avesse canzonato ed avesse corso il rischio di pagare con la vita la sua canzonatura e il signor de La Trémouille, che non c'entrava per nulla, fosse stato lì lì per avere il palazzo incendiato. "Va bene" mormorò il Re "è proprio così che il duca mi ha raccontato la cosa. Povero Cardinale! Sette uomini in due giorni e fra i più cari! Però ora basta, signori, basta, mi capite? Voi avete ben presa la vostra rivincita per l'attacco subìto in via Férou e dovete essere soddisfatti." "Se lo è Vostra Maestà" disse Tréville "lo siamo anche noi." "Sì, lo sono" rispose il Re prendendo un pugno d'oro dalle mani di La Chesnaye e, mettendolo in quelle di d'Artagnan "ed ecco" aggiunse "una prova della mia soddisfazione." In quell'epoca certe idee di fierezza che sono di prammatica ai nostri giorni, non erano ancora di moda, e un gentiluomo non si sentiva umiliare se il Re gli regalava del denaro. D'Artagnan intascò dunque le quaranta pistole di buon grado e ringraziò con effusione Sua Maestà. "E ora" disse il Re guardando la pendola "poiché sono le otto e mezzo, ritiratevi: alle nove, come vi ho detto, attendo qualcuno. Grazie della vostra devozione, signori. Posso contarci, non è vero?" "Oh, Sire!" esclamarono ad una voce i quattro compagni "ci faremo tagliare a pezzi per Vostra Maestà!" "Bene, bene; ma restate intieri; è meglio e mi servirete di più. Tréville" aggiunse il Re a mezza voce mentre gli altri si ritiravano "dato che per ora non ci sono posti nei moschettieri, e siccome d'altronde abbiamo, deciso che non si possa entrare in quel corpo senza aver fatto prima un noviziato, fate entrare il giovanotto nella compagnia delle guardie del signor Des Essarts, vostro cognato. Perbacco, Tréville, come mi diverto all'idea delle smorfie che farà il Cardinale; egli sarà furioso ma non me ne preoccupo perché sono nel mio diritto." E il Re salutò con la mano Tréville che uscì e andò a raggiungere i suoi moschettieri; li trovò che stavano dividendosi con d'Artagnan le quaranta pistole. Il Cardinale, come aveva detto il Re, fu così furioso che per otto giorni non andò al giuoco di Sua Maestà; ciò che non impediva al Re di fargli ogni volta che lo incontrava la più graziosa accoglienza e di chiedergli con la voce più carezzevole: "Ebbene, monsignor Cardinale, come stanno quei poveri Jussac e Bernajoux che vi sono tanto fedeli?"

 

 

 

 

 

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