CAPITOLO III - L'UDIENZA

 

 

Il signor di Tréville era, in quel momento, di pessimo umore; purtuttavia salutò gentilmente il giovanotto, che si inchinò fino a terra, e sorrise ricevendo il suo complimento, l'accento bearnese del quale gli ricordò insieme la sua gioventù e il suo paese, doppio ricordo che fa sorridere l'uomo in tutte le età. Ma, avvicinandosi quasi subito all'anticamera e facendo con la mano un cenno a d'Artagnan, come per chiedergli il permesso di terminare con gli altri prima di cominciare con lui, chiamò a tre riprese, rafforzando di mano in mano la voce, e passando dal tono imperativo all'accento irritato: "Athos! Porthos! Aramis!" I due moschettieri coi quali abbiamo già fatta conoscenza e che rispondevano ai due ultimi nomi, lasciarono prontamente il gruppo di cui facevano parte ed entrarono nel gabinetto, la cui porta fu chiusa non appena ne ebbero varcata la soglia. Il loro contegno, sebbene non fosse perfettamente tranquillo, destò ugualmente l'ammirazione di d'Artagnan per la disinvoltura piena insieme di sottomissione e di dignità; il giovane vedeva in quegli uomini dei semidei e nel loro capo un Giove olimpico armato di tutte le sue folgori.Quando i due moschettieri furono entrati, quando la porta fu chiusa dietro loro, quando il chiacchierio dell'anticamera, al quale quella chiamata aveva dato senza dubbio nuovo alimento di chiacchiere, ebbe ripreso a ronzare, quando, infine, il signor di Tréville ebbe misurato a gran passi, silenzioso e con le sopracciglia corrugate, per tre o quattro volte, il suo gabinetto, passando a ripassando ogni volta davanti a Porthos e ad Aramis rigidi e muti come alla parata, si arrestò di colpo in faccia a loro, e squadrandoli dal capo a piedi con uno sguardo irritato: "Sapete che cosa mi ha detto il Re" esclamò "non più tardi di ieri sera, lo sapete, signori?" "No" risposero dopo un attimo di silenzio i due moschettieri "no, signore, non lo sappiamo." "Ma spero ci farete l'onore di dircelo" aggiunse Aramis col suo tono più gentile e col più grazioso degli inchini. "Mi ha detto che da ora in poi recluterà i suoi moschettieri fra le guardie del Cardinale!" "Fra le guardie del Cardinale! E perché?" chiese con vivacità Porthos. "Perché ha visto che il suo vinello ha bisogno di essere rafforzato con un poco di vino buono." I due moschettieri arrossirono fino al bianco degli occhi. D'Artagnan non sapeva dove fosse e avrebbe voluto sprofondare cento piedi sotto terra. "Sì, sì" continuò il signor di Tréville animandosi. "Sì, Sua Maestà aveva ragione, perché, sul mio onore, i moschettieri fanno una ben triste figura a corte. Monsignor Cardinale raccontava ieri sera al giuoco del Re, con un'aria di commiserazione che mi dispiacque molto, che ieri l'altro quei dannati moschettieri, quei diavoli a quattro, e appoggiava su queste parole con un accento ironico che mi dispiacque anche di più, quegli spaccamondi, aggiunse guardandomi coi suoi occhi di gattopardo, si erano attardati in via Férot in un'osteria e che una ronda delle sue guardie - credetti che stesse per ridermi in faccia - era stata costretta ad arrestare i perturbatori. Giurabacco! Voi dovete saperne qualcosa! Arrestare dei moschettieri! Voi eravate del numero e non vi difendeste, vi hanno riconosciuto e il Cardinale ha fatto i vostri nomi. E questa è colpa mia, è colpa mia perché sono io che scelgo i miei uomini. Ditemi, ditemi voi, Aramis, perché mi avete chiesto la casacca del moschettiere quando eravate così ben adatto per portare la tonaca del prete? E voi, Porthos, che avete una così bella bandoliera, l'avete forse soltanto per appendervi una spada di legno. E Athos! Non vedo Athos. Dov'è?" "Signore" rispose tristemente Aramis "è malato, molto malato." "Malato? Molto malato dite? di quale malattia?" "Si teme sia vaiuolo, signore" rispose Porthos che voleva a sua volta mettere una parola nella conversazione "e sarebbe una ben triste cosa perché certamente il suo viso rimarrebbe sfigurato." "Malato di vaiuolo! Ecco una ben strana storia che mi raccontate, Porthos! Malato di vaiuolo, alla sua età? Non lo credo!... sarà ferito senza dubbio, ucciso forse. Ah! se lo sapessi... per Dio! Signori moschettieri, esigo che non si frequentino così certi pessimi ambienti, che si litighi per le strade e che ci si batta a ogni crocevia. Non voglio infine che si offra motivo di riso alle guardie di monsignor Cardinale che sono brave, tranquille e furbe, che non si mettono mai in condizioni di essere arrestate e che d'altra parte non si lascerebbero arrestare, ne sono sicuro. Esse preferirebbero morire sul posto che fare un passo indietro... Scappare, darsela a gambe, fuggire, questo è degno solo dei moschettieri del Re!" Porthos e Aramis fremevano di rabbia. Avrebbero volentieri strozzato il signor di Tréville se, in fondo in fondo, non avessero capito che era solamente il suo grande affetto per loro a farlo parlare così. Essi battevano il piede sul tappeto, si mordevano le labbra fino a farle sanguinare e stringevano con tutta la loro forza l'elsa della spada. Come s'è detto, coloro ch'erano in anticamera avevano sentito chiamare Athos, Porthos e Aramis, e, dal tono della voce del signor di Tréville, si erano resi conto ch'egli era nella più grande collera. Dieci teste curiose erano appoggiate alla porta e impallidivano per l'ira, perché le loro orecchie incollate all'uscio non perdevano una sillaba di ciò che si diceva dentro, mentre le loro bocche ripetevano sottovoce agli altri dell'anticamera le parole insultanti del capitano, a misura ch'egli le pronunciava. In un attimo, dall'anticamera alla porta di strada, tutto il palazzo fu in ebollizione. "Ah! i moschettieri del Re si fanno arrestare dalle guardie del Cardinale" continuò il signor di Tréville non meno furioso dei suoi soldati; ma scandendo le parole e immergendole a una a una, per così dire, come altrettanti colpi di pugnale nel petto degli ascoltatori. "Ah! sei guardie di Sua Eminenza arrestano sei moschettieri di Sua Maestà! Perbacco! Ho preso la mia decisione. Vado immediatamente al Louvre, mi dimetto da capitano dei moschettieri e domando il posto di luogotenente nelle guardie del Cardinale, e se me lo rifiuta, perbacco! mi faccio abate!" A queste parole il mormorio dell'esterno divenne un'esplosione: non s'udirono che esclamazioni e bestemmie. I 'perdio!' I 'sangue di Dio!' I 'morte di tutti i diavoli!' s'incrociavano nell'aria. D'Artagnan cercava una tenda dietro la quale nascondersi, e si sarebbe volentieri ficcato sotto il tavolo. "Ebbene, capitano" proruppe Porthos fuor dei gangheri "è vero, noi eravamo sei contro sei, ma fummo presi a tradimento e prima che avessimo potuto sguainare le spade due di noi erano caduti morti e Athos, gravemente ferito, non valeva più di loro. Voi conoscete Athos; ebbene, capitano, egli ha cercato per due volte di rialzarsi e per due volte è ricaduto. Purtuttavia noi non ci siamo arresi! Ci hanno trascinati a forza. Lungo la strada siamo fuggiti. In quanto a Athos, lo avevano creduto morto e lo avevano lasciato tranquillo sul campo di battaglia, credendo non valesse la pena di trasportarlo. Ecco com'è la storia. Diavolo, capitano, non si possono vincere tutte le battaglie! Il gran Pompeo perdette quella di Farsaglia e il re Francesco Primo che, per quanto ne so, valeva quanto chiunque altro, perse quella di Pavia." "E io ho l'onore di assicurarvi che uno l'ho ucciso con la sua stessa spada" disse Aramis "perché la mia si spezzò alla prima parata... Ucciso o pugnalato come meglio vi piace, signore." "Questo non lo sapevo" riprese il signor di Tréville con tono alquanto raddolcito. "A quanto vedo monsignor Cardinale aveva alquanto esagerato." "Ma, di grazia, signore" continuò Aramis, che, vedendo calmarsi il suo capitano, osava arrischiare una preghiera "di grazia, signore, non dite che Athos è ferito; egli sarebbe disperato se ciò arrivasse alle orecchie del Re, e siccome la sua ferita è fra le più gravi, poiché la spada dopo avergli attraversata la spalla è penetrata nel petto, ci sarebbe da temere..." Nello stesso istante la portiera si sollevò e una testa nobile e bella, ma spaventosamente pallida, apparve fra le frange. "Athos!" esclamarono i due moschettieri."Athos!" ripeté il signor di Tréville."Mi avete chiamato, signore" disse Athos al signor di Tréville, con voce debole ma perfettamente calma "voi mi avete chiamato, mi hanno detto i miei camerati, e mi sono fatto premura di accorrere ai vostri ordini; che volete da me, signore?" E con queste parole, il moschettiere, in tenuta impeccabile, attillato come di consueto, entrò con passo fermo nel gabinetto. Il signor di Tréville, profondamente commosso da questa prova di coraggio, si precipitò verso lui. "Stavo dicendo a questi signori" aggiunse "che proibisco ai miei moschettieri di arrischiare la loro vita senza necessità, poiché i valorosi sono molto cari al Re, e il Re sa che i suoi moschettieri sono i soldati più coraggiosi del mondo. Datemi la vostra mano, Athos." E senza aspettare che il nuovo venuto rispondesse da sé a questa prova d'affetto, il signor di Tréville afferrò la sua mano destra e la strinse con tutte le sue forze, senza accorgersi che Athos, nonostante il dominio che aveva su se stesso, non poteva fare a meno di dare in un gemito di dolore e, cosa che si sarebbe potuta credere impossibile, diventava più pallido. La porta era restata socchiusa, tanta era stata la sensazione prodotta dall'arrivo di Athos della cui ferita, a dispetto del segreto, tutti erano informati. Un mormorio di soddisfazione accolse le ultime parole del capitano e, trascinate dall'entusiasmo, due o tre teste apparvero dall'apertura della portiera. Il signor di Tréville si disponeva certamente a reprimere con vivaci parole questa infrazione all'etichetta, quando sentì la mano di Athos contrarsi nella sua, e volgendo gli occhi su di lui si accorse ch'era lì lì per svenire. Nello stesso momento, Athos, che aveva fatto appello a tutte le sue forze per lottare contro il dolore, sopraffatto infine da questo, cadde sul pavimento come morto. "Un chirurgo!" gridò il signor di Tréville. "Il mio, quello del Re, il migliore! Un chirurgo, perdio! Il mio valoroso Athos morirà!" Alle grida del signor di Tréville, tutti si precipitarono nel suo gabinetto senza ch'egli pensasse a respingere nessuno, poiché tutti si affollavano intorno al ferito. Ma ogni premura sarebbe stata inutile se il dottore invocato non fosse stato nel palazzo; egli fendette la folla, si avvicinò ad Athos sempre svenuto, e, siccome tutto quel rumore e quel movimento lo disturbavano assai, chiese per prima cosa e come cosa più urgente che il moschettiere fosse trasportato in una camera vicina. Subito il signor di Tréville aprì una porta e mostrò la via a Porthos e ad Aramis che trasportarono a braccia il loro camerata. Il chirurgo seguì il gruppo, e la porta si richiuse subito dietro il chirurgo. Allora il gabinetto del signor di Tréville, quel luogo di solito così rispettato, divenne momentaneamente una succursale dell'anticamera. Ciascuno discuteva, perorava, parlava ad alta voce, bestemmiava, sacramentava mandando il Cardinale e le sue guardie a tutti i diavoli. Un momento dopo Porthos e Aramis rientrarono; solo il chirurgo e il signor di Tréville erano restati presso il ferito. Infine il signor di Tréville rientrò a sua volta. Il ferito aveva ripreso conoscenza; il chirurgo dichiarava che lo stato del moschettiere non aveva nulla che potesse preoccupare i suoi amici, il suo svenimento era stato provocato semplicemente dalla perdita di sangue. Poi il signor di Tréville fece un cenno con la mano e ciascuno si ritirò, eccetto d'Artagnan che non dimenticava d'esser stato ammesso all'udienza e, con la sua tenacia di Guascone, rimaneva allo stesso posto. Allorché tutti furono usciti e la porta fu richiusa, il signor di Tréville si volse e si trovò solo col giovanotto. Ciò che era successo gli aveva fatto perdere un poco il filo delle idee. Chiese quindi che cosa desiderasse l'ostinato sollecitatore. D'Artagnan disse il suo nome e il signor di Tréville, richiamando tutti i suoi ricordi del passato e del presente, si ritrovò al corrente della situazione. "Scusate" disse sorridendo "scusate e, caro compatriota, vi avevo completamente dimenticato. Che volete! Un capitano non è che un padre di famiglia carico di una responsabilità più, grande di quella di un padre normale di famiglia. I soldati sono dei grandi fanciulli; ma siccome ci tengo a che gli ordini del Re e soprattutto quelli di monsignor Cardinale siano eseguiti..." D'Artagnan non poté dissimulare un sorriso. A quel sorriso il signor di Tréville capì che non aveva a che fare con uno sciocco e, cambiando argomento, venne diritto al fatto: "Io ho amato molto il vostro signor padre" disse. "Che posso fare per suo figlio? Ditelo presto perché il mio tempo è contato." "Signore" disse d'Artagnan "lasciando Tarbes e venendo qui, mi ero proposto di chiedervi in ricordo di questa amicizia di cui non avete perduto la memoria, una casacca da moschettiere, ma da quanto osservo da due ore, comprendo che un tale favore sarebbe enorme e temo di non meritarlo." "In verità sarebbe un grande favore, giovanotto" rispose il signor di Tréville "ma non forse tanto al disopra di quanto voi credete o avete l'aria di credere. Tuttavia un decreto di Sua Maestà ha previsto questo caso e con dispiacere debbo dirvi che nessuno può essere accolto nel corpo dei moschettieri prima che abbia data prova di sé in qualche campagna, o prima di certe azioni segnalate o di un servizio di due anni in qualche altro reggimento meno favorito del nostro." D'Artagnan si inchinò senza rispondere. Egli desiderava ancora più ardentemente di indossare l'uniforme del moschettiere, visto che vi erano tante difficoltà per poterla ottenere. "Ma" continuò Tréville fissando sul suo compatriota uno sguardo così acuto che pareva volesse leggergli in fondo al cuore "ma in favore di vostro padre, mio antico compagno d'arme come vi ho detto, voglio fare qualcosa per voi, giovanotto. I nostri cadetti del Bearn non sono ricchi di solito e credo che le cose non saranno molto mutate dacché ho lasciato la mia provincia. Il denaro che avete portato con voi, non deve essere troppo per vivere a Parigi." D'Artagnan si rizzò con aria fiera per significare che non chiedeva l'elemosina a nessuno. "Va bene, giovanotto, va bene" continuò Tréville "conosco bene queste arie; sono venuto a Parigi con quattro scudi in tasca e mi sarei battuto con chiunque mi avesse detto che non erano sufficienti per comperare il Louvre." D'Artagnan s'irrigidì ancor più; in grazia alla vendita del suo cavallo, egli cominciava la sua carriera con quattro scudi più di quelli che aveva il signor di Tréville allorché cominciò la sua. "Dunque, dicevo, voi avete bisogno di conservare il denaro che avete per quanto ingente sia questa somma; ma voi dovete aver bisogno anche di perfezionarvi negli esercizi che convengono a un gentiluomo. Oggi stesso scriverò una lettera al Direttore dell'Accademia reale e sin da domani egli vi riceverà senza nessuna retribuzione da parte vostra. Non rifiutate questa piccola facilitazione. I nostri gentiluomini più nobili e ricchi la sollecitano molte volte senza poterla ottenere. Imparerete il maneggio del cavallo, la scherma e la danza, farete delle buone conoscenze e, tratto tratto verrete a vedermi per dirmi come vi trovate e se posso fare qualcosa per voi." D'Artagnan, per quanto estraneo fosse ai modi di corte, si accorse della freddezza di questa accoglienza. "Ahimé, signore" disse "vedo bene quanto mi nuoce non aver con me la lettera di raccomandazione che mio padre mi aveva data per voi!" "Infatti" rispose Tréville "mi meraviglio assai che abbiate fatto un così lungo viaggio senza questo viatico, che è la sola risorsa di noi Bearnesi." "L'avevo, signore e, grazie a Dio, nella forma migliore" esclamò d'Artagnan "ma mi è stata perfidamente rubata." E raccontò tutta la scena di Meung, descrisse il gentiluomo sconosciuto nei suoi minimi particolari, il tutto con un calore e un'esattezza che piacquero molto al signor di Tréville. "Ciò è ben strano" disse quest'ultimo dopo qualche istante di meditazione. "Avevate dunque parlato ad alta voce di me?" "Sì, signore, dovevo certo aver commesso quest'imprudenza; che volete, un nome come il vostro doveva servirmi da scudo lungo la strada; pensate se me ne sono servito!" L'adulazione era cosa di quei tempi e il signor di Tréville amava l'incenso al pari di un Re o di un Cardinale. Non poté quindi fare a meno di sorridere con visibile soddisfazione, ma questo sorriso fu tosto cancellato e Tréville tornò da sé all'avventura di Meung: "Ditemi" continuò "questo gentiluomo non aveva una leggera cicatrice a una guancia?" "Sì, come la scalfittura fatta da una palla." "Era un uomo di bella presenza?" "Sì." "Alto di statura?" "Sì." "Pallido e di capelli scuri?" "Sì, sì, proprio così. Come fate a conoscere quest'uomo, signore? Ah, se lo trovo, e lo ritroverò, vi giuro, fosse pure all'inferno..." "Aspettava una donna?" continuò Tréville. "Per lo meno, è partito dopo aver parlato per un attimo con quella che attendeva." "Non sapete di che parlassero?" "Egli le consegnò una scatola e le disse che in quella scatola erano le sue istruzioni e le raccomandò di non aprirla che a Londra." "Quella donna era inglese?" "La chiamava milady." "E' lui!" mormorò Tréville. "E' lui! e lo credevo ancora a Bruxelles!" "Oh, signore, se sapete il nome di quest'uomo" esclamò d'Artagnan "ditemi chi è e dove è, dopodiché vi considererò sciolto da ogni impegno nei miei riguardi, anche dalla vostra promessa di farmi entrare nei moschettieri, perché prima di tutto, voglio vendicarmi." "Astenetevene assolutamente, giovanotto" esclamò Tréville "anzi, se lo vedete arrivare da un lato della strada, passate dall'altro! Non urtatevi a simile roccia; sareste frantumato come vetro." "Ciò non mi impedirà" disse d'Artagnan "se lo trovo..." "Intanto" riprese Tréville "non cercatelo, ascoltate il mio consiglio." D'un tratto Tréville ammutolì, colpito da un subito sospetto. Quel grande odio che il giovane viaggiatore proclamava a gran voce per quell'uomo che, cosa assai inverosimile, gli aveva rubata la lettera di suo padre, quell'odio non nascondeva qualche insidia? Quel giovanotto non era forse un inviato di Sua Eminenza? Non veniva a tendergli qualche tranello? Questo preteso d'Artagnan non era un emissario che il Cardinale cercava di introdurre nella sua casa e che gli veniva messo vicino per sorprendere la sua fiducia e per perderlo più tardi, come era successo molte volte? Egli guardò d'Artagnan più fissamente ancora della prima volta; e fu mediocremente rassicurato da quell'espressione scintillante di astuzia e di ostentata umiltà. "So bene che è Guascone" pensò "ma può esserlo tanto per il Cardinale quanto per me: mettiamolo alla prova." "Amico mio" disse lentamente "io voglio, come figlio del mio antico compagno, dato che considero vera la storia della lettera perduta, io voglio, dicevo, anche per riparare alla freddezza che voi avete notata nella mia accoglienza, mettervi a conoscenza dei segreti della nostra politica. Il Re e il Cardinale sono i migliori amici di questo mondo. I loro apparenti contrasti servono soltanto per ingannare gli sciocchi. Non voglio che un compatriota, un gentile cavaliere, un bravo ragazzo nato per far carriera, sia zimbello di tutte queste finte e cada nella pania come tanti altri che si sono perduti. Ricordatevi che io sono devoto a questi due potentissimi padroni e che mai le cose serie che faccio avranno altro scopo che di servire il Re e monsignor Cardinale che è uno dei più illustri geni che la Francia abbia prodotti. Dunque, giovanotto, regolatevi di conseguenza e se voi avete, o per legami di famiglia, o d'amicizia, o per vostro istinto contro il Cardinale una di quelle inimicizie che vediamo manifestarsi in qualche gentiluomo, ditemi addio, e lasciamoci. Io vi aiuterò in mille circostanze, ma senza prendervi alle mie dipendenze. Spero, ad ogni modo, che la mia franchezza farà di voi un mio amico; giacché voi siete, a tutt'oggi, il solo giovanotto al quale abbia parlato come ho fatto." Intanto Tréville pensava: "Se il Cardinale mi ha mandato questa giovane volpe, non avrà certamente mancato, lui che sa sino a che punto lo detesti, di dire alla sua spia che il miglior modo per entrare nelle mie grazie è di dirmi le peggiori cose sul suo conto; per cui, nonostante le mie proteste, il furbo compare mi dirà che odia Sua Eminenza." Ma la cosa andò in modo del tutto diverso da come si aspettava Tréville; d'Artagnan rispose con la più grande semplicità: "Signore, arrivo a Parigi coi vostri stessi sentimenti. Mio padre mi ha raccomandato di non sopportar nulla se non dal Re, da monsignor Cardinale e da voi, ch'egli considera come le tre principali personalità della Francia". D'Artagnan, come si noterà, aggiungeva il signor di Tréville ai primi due; ma pensava che questa aggiunta non potesse guastar nulla. "Io ho dunque la massima venerazione per monsignor Cardinale" continuò "e il massimo rispetto per ciò che egli fa. Tanto meglio per me, signore se mi parlate con franchezza, perché, in questo caso, mi farete l'onore di stimare questa identità di sentimenti; ma se voi avete qualche diffidenza, d'altra parte ben naturale, sento che, dicendo la verità, mi perdo; ma tanto peggio per me, non per questo voi cesserete di stimarmi, ed è alla vostra stima che io tengo soprattutto." Il signor di Tréville rimase grandemente stupito: tanta penetrazione e tanta franchezza destavano la sua ammirazione, ma non facevano scomparire del tutto i suoi dubbi: più il giovanotto era superiore ai suoi simili, più era da temersi se egli s'ingannava. Nondimeno strinse la mano a d'Artagnan e gli disse: "Voi siete un ragazzo onesto, ma per il momento nulla più di quanto ho detto posso fare per voi. Il mio palazzo vi sarà sempre aperto, più tardi, potendo chiedere di me a tutte le ore, e, per conseguenza, essendo così in grado di afferrare tutte le occasioni, otterrete probabilmente ciò che desiderate." "Vale a dire, signore" riprese d'Artagnan "che voi aspettate ch'io me ne renda degno. Ebbene, potete essere sicuro" aggiunse con la familiarità dei Guasconi "che non aspetterete molto." E salutò mentre stava ritirandosi, come se ormai il resto riguardasse solo lui. "Aspettate dunque" disse il signor di Tréville fermandolo "vi ho promesso una lettera per il direttore dell'Accademia. Siete dunque così orgoglioso da non accettarla, mio giovane gentiluomo?" "No, signore" disse d'Artagnan "e vi assicuro che con questa non mi capiterà come con l'altra. La custodirò così bene che arriverà a destinazione, ve lo giuro, e sventura a colui che tentasse di togliermela!" Il signor di Tréville sorrise a questa fanfaronata; e, lasciando il suo giovane compatriota nel vano della finestra dove si trovavano e dove si era svolto il loro colloquio, andò a sedersi a un tavolo e si mise a scrivere la lettera di raccomandazione promessa. Frattanto d'Artagnan, che non aveva niente di meglio da fare, si mise a battere una marcia sui vetri guardando i moschettieri che se ne andavano gli uni dopo gli altri e seguendoli con gli occhi finché sparivano alla svolta della via. Il signor di Tréville, dopo avere scritta la lettera, la sigillò e, alzatosi, si avvicinò al giovanotto per dargliela, ma nello stesso momento in cui d'Artagnan stendeva la mano per riceverla, il signor di Tréville fu altamente meravigliato di vedere il suo protetto trasalire, arrossire di collera e slanciarsi fuor del gabinetto gridando: "Ah, per Giove! questa volta non mi scapperà!" "Chi mai?" domandò il signor di Tréville. "Il mio ladro!" rispose d'Artagnan. "Ah, traditore!" e disparve. "Diavolo d'un pazzo!" mormorò Tréville. "Purché" aggiunse "non sia questa una maniera assai abile di svignarsela, visto che ha mancato il colpo."

 

 

 

 

 

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