Eugène Sue
I MISTERI DI PARIGI
PARTE PRIMA
I
LA BETTOLA
Un tapis-franc, nel gergo dei ladri e degli assassini, è un’osteria
o una bettola della peggior specie.
Un pregiudicato che, in quella ignobile lingua, si chiama orco, o
una donna, anch’essa pregiudicata, che si chiama orchessa,
gestiscono di solito queste taverne, frequentate dalla feccia della
popolazione parigina: vi si trovano a bizzeffe ex forzati,
truffatori, ladri, assassini.
Quando viene commesso un delitto, la polizia getta, per così dire,
la sua rete dentro questa melma; quasi sempre vi prende i colpevoli.
Il lettore capisce da questo inizio che dovrà assistere a scene
sinistre; se vorrà, potrà penetrare in regioni orribili,
sconosciute; individui repellenti, spaventosi, pulluleranno in
queste immonde cloache come i rettili negli stagni.
Tutti hanno letto le pagine stupende nelle quali Cooper, il Walter
Scott americano, ha descritto i feroci costumi dei selvaggi, la loro
lingua pittoresca, poetica, le mille astuzie con le quali sfuggono
ai loro nemici o li inseguono.
Abbiamo temuto per i coloni e per gli abitanti delle città al
pensiero che così vicino a loro vivessero e s’aggirassero queste
tribù barbare tanto lontane dalla civiltà per via delle loro
abitudini sanguinarie.
Noi cercheremo di far passare davanti agli occhi del lettore alcuni
episodi della vita di altri barbari, lontani dalla civiltà come lo
sono i popoli selvaggi descrittici così bene da Cooper.
I barbari che intendiamo sono proprio in mezzo a noi; possiamo
trovarci gomito a gomito con loro, avventurandoci nei covi in cui
vivono, in cui si raccolgono per concertare il delitto, la rapina,
per spartire infine il bottino dei loro misfatti.
Questi uomini hanno costumi propri, donne proprie, una lingua
propria, una lingua misteriosa, piena di immagini funeste, di
metafore gocciolanti sangue.
Come i selvaggi, infine, questa gente suole chiamarsi con soprannomi
mutuati dalla propria energia, dalla propria crudeltà, da certe doti
o da certe deformità fisiche.
Noi affrontiamo con duplice timore alcune scene del nostro racconto.
Temiamo innanzitutto di essere accusati di ricercare episodi
repellenti e, ammessa pure questa licenza, di essere considerati
inferiori al compito che comporta la riproduzione fedele, vigorosa,
audace di questi costumi eccentrici.
Nello scrivere questi passi che non sono lontani dall’impressionare
anche noi, non abbiamo potuto non sentire una stretta al cuore...
non oseremmo dire una dolorosa ansietà... per paura di venire
tacciati di ridicola pretesa.
Al pensiero che forse i nostri lettori avrebbero provato la stessa
sensazione, ci siamo chiesti se fosse necessario fermarci o
continuare per la strada che prendevamo, se simili scene dovessero
essere fatte scorrere davanti agli occhi del lettore.
Non siamo riusciti a liberarci dal dubbio: se non fossimo stati
spinti dall’imperiosa esigenza della narrazione, rimpiangeremmo
d’aver preso, come soggetto della descrizione del racconto che
leggeremo, un ambiente così detestabile. Tuttavia noi facciamo
assegnamento su quella specie di timida curiosità che suscitano
talvolta gli spettacoli terribili.
Inoltre crediamo alla potenza dei contrasti.
Dal punto di vista artistico, forse non è male riprodurre certi
caratteri, certe esistenze, certe figure i cui colori cupi,
energici, forse anche crudi, faranno da contrappeso a scene di
tutt’altro genere.
Il lettore, prevenuto dell’escursione che gli proponiamo
d’intraprendere fra gli indigeni della razza infernale che gremisce
le prigioni, la colonia penale, e il cui sangue tinge di rosso i
patiboli... il lettore acconsentirà forse a seguirci. Senza dubbio
questa investigazione sarà per lui una novità; affrettiamoci
dapprima ad avvertirlo che, se in un primo tempo i suoi piedi
poggeranno sull’ultimo gradino della scala sociale, a mano a mano
che il racconto procederà l’atmosfera si purificherà sempre di più.
Il 13 dicembre del 1858, in una serata piovosa e fredda, un uomo di
statura atletica, con addosso un logoro camiciotto, attraversò il
pont-au-Change e s’addentrò nella Cité, labirinto di vie oscure,
strette, tortuose che va dal palazzo di Giustizia fino a NotreDame.
Il quartiere del palazzo di Giustizia, assai circoscritto, alquanto
sorvegliato, serve nondimeno da asilo e da luogo d’appuntamento per
i malfattori di Parigi. Non è strano, o meglio fatale, che
un’irresistibile attrazione faccia sempre gravitare questi criminali
attorno al temibile tribunale che li condanna alla prigione, ai
lavori forzati, al patibolo?
Quella notte, dunque, il vento s’infilava con violenza nelle orrende
viuzze del lugubre quartiere; la luce pallida, vacillante, dei
lampioni investiti dalla tramontana si rifletteva sul rigagnolo
d’acqua nerastra che scorreva in mezzo ai selciati fangosi.
Le case color fango avevano rade finestre con gli infissi tarlati e
quasi senza vetri. Androni neri, infetti, conducevano a scale ancora
più nere, più infette, e così perpendicolari che chi avesse voluto
salirvi avrebbe dovuto aiutarsi con una corda fissata con ganci di
ferro ai muri alti e umidi.
Il pianterreno di alcune case era occupato da banchetti di carbonai,
di trippai, o di rivenditori di carni di bassa macellazione.
Nonostante lo scarso valore di questi generi di consumo, la vetrina
di quasi tutte le miserabili botteghe era protetta da un’inferriata,
talmente i venditori temevano l’audacia dei ladri del quartiere.
Il nostro uomo, entrando nella rue aux Fèves, situata al centro
della Cité, rallentò di molto l’andatura: si sentiva a casa sua.
La notte era fonda, l’acqua cadeva a torrenti, forti raffiche di
vento e di pioggia frustavano i muri.
Lontano, all’orologio del palazzo di Giustizia, rintoccavano le
dieci.
Alcune donne imboscate sotto portici a volta, oscuri, profondi come
caverne, cantavano a mezza voce qualche arietta popolare.
Una di queste creature doveva senza dubbio essere conosciuta dal
nostro uomo; perché, fermandosi bruscamente davanti a lei, l’afferrò
per un braccio.
«Buonasera, Chourineur.»
Quest’uomo, un pregiudicato, era stato soprannominato così nella
colonia penale.
«Sei tu, Goualeuse?» disse l’uomo in camiciotto «adesso mi paghi
l’eau d’aff, o ti faccio ballare senza musica!»
«Non ho soldi», rispose la donna tremando; poiché quell’uomo
incuteva un grande terrore nel quartiere.
«Se sei all’asciutto, la padrona della bettola ti farà credito per i
tuoi begli occhi.»
«Dio mio! le devo già il nolo dei vestiti che porto...»
«Ah! osi fare obiezioni?» esclamò lo Chourineur.
E diede nell’ombra e a caso un pugno così violento alla disgraziata,
ch’ella mandò un acuto grido di dolore.
«Questo non è ancora niente, ragazza! è un piccolo avvertimento...»
Subito dopo aver pronunciato queste parole, il brigante sbottò in
una spaventosa bestemmia:
«Ho un braccio bucato; mi hai graffiato con le forbici».
E, furioso, si lanciò all’inseguimento della Goualeuse nel nero
androne.
«Non avvicinarti, o ti cavo i fanali con le forbici» disse con
tono deciso. «Non t’avevo fatto niente, perché mi hai picchiata?»
«Te lo dico subito» esclamò il bandito, senza cessare di avanzare
nell’oscurità.
«Ah! t’ho presa! e adesso ti faccio ballare io!» aggiunse afferrando
con le sue larghe e forti mani il polso sottile e fragile di lei.
«Ballerai tu invece!» disse una voce maschia.
«Un uomo! Sei tu, Bras-Rouge? rispondi dunque e non stringere così
forte... sono nell’androne di casa tua, non puoi essere che tu...»
«Non sono Bras-Rouge» rispose la voce.
«Bene, poiché non si tratta di un amico, spanderemo del rosso»
esclamò lo Chourineur. «Ma di chi è allora la zampetta che ho qui
tra le mani?»
«È sorella di quest’altra.»
Sotto la pelle delicata e morbida della mano che venne ad afferrarlo
bruscamente alla gola, lo Chourineur sentì tendersi nervi e muscoli
d’acciaio.
La Goualeuse, rifugiatasi in fondo all’androne, aveva fatto
lestamente alcuni gradini: si fermò un momento e si rivolse
all’ignoto difensore esclamando:
«Oh! grazie, signore, d’aver preso le mie parti. Lo Chourineur m’ha
picchiata perché non volevo pagargli da bere. Io ho reagito, ma non
ho potuto fargli molto male con le mie piccole forbici. Ora sono
fuori pericolo, lasciatelo; state attento, perché avete a che fare
con lo Chourineur.»
Il terrore che incuteva quell’uomo era grandissimo.
«Ma voi non mi ascoltate, allora? Vi dico che è lo Chourineur!»
ripeté la Goualeuse.
«E io sono un tipo che non ha fifa» rispose lo sconosciuto. Poi
tutto tacque.
Si sentì per qualche secondo il rumore di una lotta accanita. «Ma
allora vuoi che ti accoppi?» esclamò il bandito facendo
uno sforzo violento per liberarsi del suo avversario che trovava di
una forza straordinaria. «Bene, bene, pagherai per la Goualeuse e
per te» aggiunse digrignando i denti.
«Pagare a pugni contanti, sì» rispose lo sconosciuto.
«Se non mi molli il collo, ti mangio il naso» mormorò lo Chourineur
con voce strozzata.
«Ho il naso troppo piccolo, amico, e tu non ci vedi molto bene!»
«Allora vieni sotto il lampione.»
«Vieni» rispose lo sconosciuto, «ci guarderemo nel bianco degli
occhi.»
E buttandosi contro lo Chourineur, che teneva sempre per il collo,
lo fece indietreggiare fino alla porta dell’androne e lo spinse
violentemente sulla strada illuminata a malapena dalla fioca luce
del lampione.
Il bandito incespicò; ma, riprendendosi subito, si gettò infuriato
contro lo sconosciuto la cui corporatura agile e slanciata non
sembrava nascondere la forza straordinaria di cui dava prova.
Lo Chourineur, benché di costituzione atletica e di grandissima
abilità in un tipo di pugilato chiamato volgarmente la savate,
trovò, come si dice, il suo maestro.
Lo sconosciuto gli agganciò la gamba (con una specie di sgambetto)
mostrando meravigliosa abilità, e lo fece cadere due volte.
Non volendo riconoscere la superiorità dell’avversario, lo
Chourineur ritornò alla carica con ruggiti di rabbia.
Allora il difensore della Goualeuse, cambiando bruscamente tecnica,
fece piovere sulla testa del bandito una gragnuola di colpi così
efficaci che sembravano assestati con un guanto di ferro.
Questi colpi, degni dell’invidia e dell’ammirazione di Jack Turner,
uno dei più famosi pugili di Londra, non erano d’altronde
contemplati nei regolamenti della savate, perciò lo Chourineur ne fu
doppiamente stordito; per la terza volta il brigante cadde come un
bue sul selciato mormorando:
«Mi hai tolto tutta la polvere di dosso.»
«Non finitelo, se si arrende, abbiate pietà di lui!» disse la
Goualeuse, che durante la rissa s’era arrischiata sulla soglia
dell’androne della casa di Bras-Rouge. Poi, presa da stupore,
aggiunse: «Ma chi siete voi? A parte il Maître d’école, non c’è
nessuno, dalla rue Saint-Eloi fino a Notre-Dame, che sia in grado di
battere lo Chourineur. Vi ringrazio molto, signore; ahimè, senza di
voi egli mi avrebbe ucciso.»
Lo sconosciuto, invece di rispondere alla donna, stava ad ascoltarne
attentamente la voce.
Mai timbro più dolce, più fresco, più argentino era giunto alle sue
orecchie; cercò di vedere in volto la Goualeuse; non poté riuscirvi,
la notte era troppo buia, la luce del lampione era troppo debole.
Dopo essere stato qualche minuto immobile, lo Chourineur mosse le
gambe, le braccia, e infine si pose a sedere.
«State attento!» gridò la Goualeuse, rifugiandosi di nuovo
nell’androne e tirando il suo protettore per un braccio, «state
attento, forse vuole vendicarsi!»
«Stai tranquilla, ragazza! se ne vuole ancora, ho di che
accontentarlo.»
Il brigante udì quelle parole.
«Ho la zucca a pezzi» disse allo sconosciuto. «Per oggi ne ho
abbastanza, non ho più voglia; un’altra volta forse, se ti ritrovo.»
«Non sei contento? ti lamenti?» esclamò lo sconosciuto con tono
minaccioso. «Mi sono comportato da vigliacco?»
«No, no, non mi lamento; sei un giovanotto che ha del fegato»
rispose il brigante con tono burbero, ma con quella sorta di stima
piena di rispetto che la forza fisica ispira sempre alla gente di
quella specie. «Mi hai vinto; e nessuno, eccetto il Maître d’école,
che si mangerebbe tre Alcidi per colazione, nessuno fino a questo
momento può vantarsi d’avermi messo i piedi in testa.»
«Bene; e poi?»
«Poi?... ho trovato il mio maestro, ecco tutto. Tu troverai il tuo
un giorno o l’altro, prima o poi... tutti trovano il loro... In
mancanza di uomini c’è sempre Dio, come dicono i preti. Una cosa è
sicura: ora che hai messo sotto i piedi lo Chourineur, puoi fare
tutto quello che vuoi nella Cité. Tutte le sgualdrine saranno tue
schiave: osti e ostesse non oseranno rifiutare di farti credito. Ma
insomma chi sei?... parli il nostro gergo come non ho mai sentito!
4 Mi hai vinto.
Se sei ladro, non sono l’uomo che fa per te. Io ho dato coltellate,
è vero; perché, quando il sangue mi monta alla testa, vedo rosso, e
devo colpire... ma ho pagato il fio delle mie coltellate con
quindici anni di galera. Ho scontato la pena, non devo niente ai
giudici, e non ho mai rubato; domandalo alla Goualeuse.»
«È vero, non è un ladro» disse questa.
«Allora andiamo a bere un bicchiere d’acquavite, così mi conoscerai»
disse lo sconosciuto, «andiamo, da buoni amici.»
«È gentile da parte tua... Sei il mio maestro, lo riconosco, sai
adoperare molto bene le mani... C’è stata soprattutto la gragnuola
di colpi alla fine... Capperi! come mi grandinavano sulla testa! non
ho mai visto niente di simile... che fuoco di fila! picchiavi come
un martello. È un gioco nuovo... bisognerà che me lo insegni.»
«Ricomincerò quando vorrai.»
«Eh! non con me, almeno; eh! non con me. Ho ancora il capogiro. Ma
allora tu conosci Bras-Rouge, dal momento che ti trovavi
nell’androne di casa sua?»
«Bras-Rouge!» disse lo sconosciuto sorpreso dalla domanda; «non so
che cosa tu voglia dire. Senza dubbio, Bras-Rouge non è il solo ad
abitare in questa casa.»
«Sì, invece, amico... Bras-Rouge ha i suoi motivi per non volere
vicini» rispose lo Chourineur sorridendo con espressione singolare.
«Ebbene, meglio per lui» riprese lo sconosciuto, che sembrava non
volere continuare la conversazione su questo argomento. «Non conosco
né Bras-Rouge né Bras-Noir; pioveva, ero entrato un momento
nell’androne per mettermi al coperto: volevi picchiare questa povera
ragazza, io t’ho battuto, tutto qui.»
«Giusto; d’altronde i tuoi affari non mi riguardano; tutti quelli
che hanno bisogno di Bras-Rouge non vanno a gridarlo sui tetti. Non
parliamone più.» Poi, rivolgendosi alla Goualeuse: «Per me, sei una
brava ragazza; t’ho dato una scoppola e tu m’hai ripagato con un
colpo di forbici, era nel gioco; ma è stato gentile da parte tua non
avermi aizzato contro questo mastino, quando non ne potevo più.
Vieni a bere con noi! paga il signore. A proposito, amico» disse
allo sconosciuto, «invece d’andare a bere proporrei di cenare al
Lapin Blanc: è una bettola.»
«D’accordo, pago la cena. Vuoi venire, Goualeuse?» disse lo
sconosciuto.
«Oh! Avevo molta fame» rispose; «ma la vista delle batterie mi dà la
nausea, mi toglie l’appetito.»
«Su! su! ti verrà mangiando» disse lo Chourineur «e la cucina del
Lapin Blanc è molto buona.»
I tre personaggi, allora, in perfetto accordo, si avviarono verso la
taverna.
Durante la lotta tra lo Chourineur e lo sconosciuto, un carbonaio di
statura colossale, imboscato in un altro androne, aveva osservato
con ansietà le fasi del combattimento, senza tuttavia, come abbiamo
visto, prestare il più piccolo aiuto a uno o all’altro dei due
avversari.
Quando lo sconosciuto, lo Chourineur e la Goualeuse si diressero
verso la taverna, il carbonaio si mise a seguirli.
Il bandito e la Goualeuse entrarono per primi nella bettola; lo
sconosciuto stava seguendoli, quando il carbonaio gli si avvicinò e
gli disse a bassa voce in inglese e con tono di rispettosa
rimostranza:
«Signore, state molto attento!»
Lo sconosciuto fece spallucce e raggiunse i compagni.
Il carbonaio non si allontanò dalla porta della bettola; porgen-
do attentamente orecchio, guardava di tanto in tanto attraverso un
buchetto praticato nel grosso strato di bianco di Spagna che in
genere si spalma sulla parte interna dei vetri di tali covi.
II L’OSTESSA
La bettola del Lapin Blanc si trova verso la metà della rue aux
Fèves. La taverna occupa il pianterreno di una grande casa la cui
facciata dispone di due finestre dette a ghigliottina.
Sopra la porta di un oscuro androne a volta oscilla una lanterna
oblunga sul cui vetro incrinato sta scritta in lettere rosse questa
parola: «Alloggi».
Lo Chourineur, lo sconosciuto e la Goualeuse entrarono nella
taverna.
È una sala ampia e bassa, dal soffitto affumicato percorso da travi
nere, rischiarata dalla luce rossastra di una lampada difettosa. Sui
muri, ridipinti a calce, sono stati incisi qua e là disegni osceni o
sentenze in gergo.
Il suolo battuto, impregnato di salnitro, è ricoperto di fango; una
bracciata di paglia è disposta, come un tappeto, ai piedi del banco
dell’ostessa, situato a destra della porta e sotto la lampada.
A ogni lato della sala ci sono sei tavoli; essi hanno un’estremità
incastrata nel muro, come le panche a cui s’accompagnano. In fondo,
una porta conduce in cucina; a destra, vicino al banco, c’è
un’uscita sul corridoio che conduce ai tuguri dove si dorme la notte
per tre soldi.
Ora, qualche parola sull’ostessa e sui suoi ospiti.
L’ostessa si chiama comare Ponisse; la sua triplice professione
consiste nel dare alloggio, nel gestire la bettola e nel noleggiare
vestiti ai miserabili che pullulano per queste vie immonde.
L’ostessa ha circa quarant’anni. È grande, robusta, corpulenta,
accesa in volto, con un po’ di barba. La voce rauca, virile, le
braccia grosse, le mani larghe fanno pensare a una forza non comune;
porta sopra la cuffia un vecchio fazzoletto rosso e giallo; uno
scialle di pelo di coniglio le si incrocia sul petto e le si annoda
dietro la schiena: il suo vestito di lana verde non riesce a
privarci della vista di due zoccoli neri bruciacchiati in più di un
posto da uno scaldino; inoltre l’ostessa ha una faccia abbronzata,
infiammata dall’uso eccessivo di liquori forti.
Il banco, piombato, è pieno di grandi boccali in legno cerchiati di
ferro e di varie misure di stagno; su una mensoletta attaccata al
muro si scorgono parecchi flaconi di vetro sagomati in maniera da
rappresentare la figura in piedi dell’imperatore.
Queste bottiglie contengono bevande adulterate di color rosa e
verde, conosciute col nome di Parfait Amour e di Consolation.
Infine un grosso gatto nero dalle pupille gialle, accovacciato
vicino all’ostessa, sembra il genio familiare di questo luogo.
Per un contrasto che sembrerebbe impossibile se non si sapesse che
l’animo umano è un abisso insondabile... un ramo di ulivo benedetto,
che l’ostessa aveva comperato in chiesa a Pasqua, era posto dietro
la cassa d’un vecchio orologio a cucù.
Due figure sinistre, con la barba ispida, vestite quasi di stracci,
cominciavano allora un boccale di vino che era stato servito loro, e
parlavano a voce bassa con aria inquieta.
Uno di loro in particolare, pallidissimo, quasi livido, si calcava
spesso fin sopra gli occhi il vecchio berretto greco che aveva in
testa; teneva la mano sinistra quasi sempre nascosta, avendo cura,
per quanto possibile, di dissimularla quando era obbligato a
servirsene.
Più in là stava a tavola un giovane di appena sedici anni, imberbe,
emaciato, scavato, terreo, con lo sguardo spento: aveva lunghi
capelli neri che gli svolazzavano attorno al collo; questo
adolescente, ritratto del vizio precoce, fumava una corta pipa
bianca.
Con la schiena appoggiata al muro, con le mani nelle tasche del
camiciotto, con le gambe stese sulla panca, si levava la pipa di
bocca solo per portare alle labbra la bottiglia di acquavite che
aveva davanti.
Gli altri clienti della bettola, uomini o donne, non offrivano
niente di notevole, i loro volti erano feroci o inebetiti, la loro
allegria volgare o licenziosa, il loro silenzio cupo o stupido.
Questi erano gli ospiti della bettola quando lo sconosciuto, lo
Chourineur e la Goualeuse vi entrarono.
I tre ultimi personaggi hanno una parte troppo importante in questo
nostro racconto, le loro figure spiccano troppo sulle altre perché
le si debba trascurare.
Lo Chourineur, un uomo di grande statura e di costituzione atletica,
ha capelli d’un biondo pallido che dà sul bianco, sopracciglia folte
ed enormi favoriti d’un rosso acceso.
Il sole, la miseria, le dure fatiche dei lavori forzati gli hanno
dato quell’abbronzatura di color scuro, olivastro, per così dire,
tipico dei galeotti.
Nonostante il terribile soprannome, quest’uomo ha un volto in cui
traspare più una sorta di audacia brutale che la ferocia; quantunque
la parte posteriore del suo cranio, singolarmente sviluppata,
indichi il predominare in lui degli appetiti sanguinari e carnali.
Lo Chourineur indossa un vecchio camiciotto blu, un paio di
pantaloni di velluto frusto un tempo verde, di cui non si riesce a
distinguere il colore sotto il notevole strato di fango che li
ricopre.
Per una strana anomalia, i lineamenti della Goualeuse offrono un
esempio di quei tipi angelici e candidi che conservano la loro
idealità anche in mezzo alla depravazione, come se la creatura fosse
incapace di cancellare con i suoi peccati l’alta impronta che Dio ha
stampato sul volto di qualche essere privilegiato.
La Goualeuse aveva sedici anni e mezzo.
Una fronte purissima, bianchissima sovrastava un volto d’un ovale
perfetto.
Una frangia di ciglia, così lunghe da arricciarsi un poco, velava
per metà due grandi occhi azzurri. La peluria della prima giovinezza
vellutava due gote tonde e vermiglie. I dolcissimi tratti che
disegnavano la piccola bocca purpurea, il naso fine e dritto, il
mento con la fossetta erano adorabili. Dalle tempie morbide come il
raso scendevano due trecce d’un magnifico biondo cinerino che
s’ingrossavano all’altezza delle guance, risalivano dietro
l’orecchio di cui si vedeva il lobo di roseo avorio e scomparivano
poi sotto le pieghe strette d’un grande fazzoletto di cotonina a
quadri blu, annodato, come si dice comunemente, en marmotte.
Al collo, che era d’una bellezza e di una bianchezza folgoranti,
portava un giro di coralli. Sotto il vestito di lana scura, troppo
largo, si poteva intuire un corpo sottile, flessuoso e affusolato
come un giunco. Un vecchio scialletto color arancio, a frange verdi,
le s’incrociava sul petto.
La Goualeuse aveva colpito con la dolcezza della voce il suo ignoto
difensore. Infatti la sua voce soave, vibrante, melodiosa, aveva
un’attrattiva così irresistibile sull’orda di scellerati e di donne
perdute in mezzo ai quali viveva la ragazza che questi la
supplicavano spesso di cantare, la ascoltavano rapiti, e avevano
finito col soprannominarla la cantante.
La Goualeuse aveva ricevuto un altro soprannome, dovuto forse al
candore verginale dei suoi lineamenti...
La chiamavano anche Fleur-de-Marie, parole che in gergo significano
la Vergine.
Chi sa se potremo far capire al lettore la strana impressione che
abbiamo provato quando in seno a questa lingua infame in cui le
parole che significano rapina, sangue, assassinio sono ancora più
orribili e spaventose delle cose orribili e spaventose che esse
esprimono, quando, dunque, abbiamo colto in questa metafora, una
poesia così soave, così teneramente devota: Fleur-deMarie.
Non pare quasi di vedere un bel giglio che innalzi il biancore
odoroso del suo calice immacolato in mezzo a una carneficina?
Contrasto bizzarro, caso stranissimo! gli inventori di questa lingua
spaventosa hanno attinto alla sfera della poesia sacra! il casto
pensiero che volevano esprimere si è arricchito d’un fascino nuovo!
Queste riflessioni facendoci pensare agli altri contrasti che spesso
rompono l’orribile monotonia delle esistenze più criminali, non ci
spingono a credere che anche le anime più tenebrose sono ancora
attraversate di tanto in tanto dalla vivida luce di certi princìpi
morali, religiosi, per così dire innati? Lo scellerato tutto d’un
pezzo è un fenomeno rarissimo.
Il difensore della Goualeuse (daremo a questo sconosciuto il nome di
Rodolphe) dimostrava un’età tra i trenta e i trentasei anni; la sua
statura, media, snella, perfettamente proporzionata, non dava a
vedere la forza sorprendente che aveva appena dimostrato nella lotta
con l’atletico Chourineur.
Sarebbe stato difficile attribuire un carattere preciso al volto di
Rodolphe; vi si leggevano i contrasti più strani.
I lineamenti erano regolari e belli, troppo belli forse per un uomo.
Il colorito d’un pallore delicato, i grandi occhi d’un bruno
arancione, quasi sempre mezzo chiusi e circondati da una leggera
aureola azzurra, la molle andatura, lo sguardo distratto, il sorriso
ironico sembravano denunciare un uomo vissuto la cui costituzione
fisica fosse non diciamo rovinata, ma indebolita dalle raffinate
dissolutezze d’una vita opulenta.
Eppure, con la sua mano elegante e bianca, Rodolphe aveva appena
atterrato uno dei banditi più robusti, più temuti di quel quartiere
di banditi.
Noi diciamo raffinate dissolutezze perché l’ubriachezza che dà un
vino generoso è completamente diversa da quella che dà una schifosa
bevanda sofisticata; perché insomma, agli occhi d’un osservatore, le
dissolutezze hanno sintomi diversi come hanno natura e specie
differenti.
Certe pieghe della fronte di Rodolphe rivelavano il pensatore
profondo, l’uomo essenzialmente contemplativo... eppure i contorni
decisi della bocca, l’accennare della testa alle volte imperioso e
sicuro denunciavano allora l’uomo d’azione, la cui forza fisica, la
cui audacia esercitano sempre un irresistibile ascendente sulla
folla.
Spesso il suo sguardo si caricava di una triste malinconia, e allora
una indulgente commiserazione e una pietà commossa si dipingevano
sul suo viso. Altre volte, invece, lo sguardo di Rodolphe diventava
duro, cattivo; il suo volto esprimeva tanto sdegno e tanta crudeltà
da far credere che egli fosse incapace di un qualche sentimento di
tenerezza.
Il seguito del racconto mostrerà con che ordine i fatti e le idee
destavano in lui passioni così contrarie.
Nella lotta con lo Chourineur, Rodolphe non aveva provato né collera
né odio contro un avversario indegno di lui. Sicuro della sua forza,
della sua abilità, della sua agilità, non poteva avere che un
disprezzo beffardo per quella specie di bestione che aveva
atterrato.
Per completare il ritratto di Rodolphe diremo che i suoi capelli
castano chiari avevano le stesse sfumature delle sue sopracciglia
nobilmente arcuate e dei suoi baffetti fini e morbidi come la seta;
il suo mento, un po’ lungo, era accuratamente sbarbato.
Peraltro le maniere e la lingua che ostentava con straordinaria
disinvoltura lo rendevano molto simile agli ospiti della bettola.
Al collo, slanciato, modellato con la stessa eleganza di quello del
Bacco indiano, portava un fazzoletto nero annodato senza cura, e le
cui estremità ricadevano sul colletto di un camiciotto blu le cui
macchie biancastre dimostravano quanto fosse consumato. Le sue
grosse scarpe erano munite di una doppia fila di chiodi. Infine,
niente, eccetto le mani che erano di insolita signorilità, lo
distingueva materialmente dagli ospiti della bettola; mentre il suo
fare risoluto, e, per così dire, di serena audacia lo poneva a una
enorme distanza da loro.
Entrando nella bettola, lo Chourineur, posando una delle sue larghe
mani pelose sulla spalla di Rodolphe, gridò:
«Salute al maestro dello Chourineur!... Sì, amici, questo giovanotto
me le ha suonate... Lo dico per i pivelli che avessero voglia di
farsi spezzare le reni o spaccare la testa, compreso il Maître
d’école che, questa volta, troverà pane per i suoi denti... Ve lo
giuro, parola d’onore.»
A queste parole, tutti, dall’ostessa all’ultimo dei clienti della
bettola, guardarono il vincitore dello Chourineur con timoroso
rispetto.
Alcuni spostarono bicchieri e boccali verso un’estremità della
tavola a cui erano seduti, premurosi di fare posto a Rodolphe nel
caso che egli avesse voluto mettersi accanto a loro; altri
s’avvicinarono allo Chourineur per domandargli a voce bassa alcuni
particolari su questo sconosciuto che faceva il suo debutto in
società con una vittoria così clamorosa.
L’ostessa, infine, aveva rivolto a Rodolphe uno dei suoi più
graziosi sorrisi.
Cosa inaudita, ineffabile, favolosa nei fasti del Lapin Blanc, essa
si era alzata da dietro il banco per andare a ricevere ordini da
Rodolphe e per sapere che cosa dovesse servire alla compagnia,
riguardo che l’ostessa non aveva mai avuto neppure per il famigerato
Maître d’école, lo scellerato terribile che faceva tremare lo stesso
Chourineur.
Uno dei due individui sinistri che abbiamo prima descritto (quello
che, pallidissimo, nascondeva la mano sinistra e si calcava sempre
il berretto greco sulla fronte) si chinò verso l’ostessa, che
asciugava con cura la tavola di Rodolphe, e le disse, con voce
rauca:
«Il Maestro è venuto quest’oggi?» «No» disse comare Ponisse.
«E ieri?»
«Ieri sì.»
«Con la nuova donna?»
«Ma insomma! Vuoi farmi passare per una spia, con le tue sciocche
domande? Pensi che vada a denunciare i miei clienti?» disse
l’ostessa con voce brutale.
«Ho un appuntamento questa sera col Maestro» ripeté il brigante,
«dobbiamo sbrigare assieme degli affari.»
«Chissà che bella roba saranno i vostri affari, genia d’assassini
che non siete altro!»
«Assassini!» ripeté il brigante irritato, «siamo noi, gli assassini,
che ti diamo da vivere!»
«Ma insomma! vuoi o non vuoi lasciarmi in pace!» gridò l’ostessa
minacciosa, alzando sull’interlocutore il boccale che aveva in mano.
L’uomo ritornò al posto, brontolando.
Fleur-de-Marie, entrando nella taverna dietro allo Chourineur,
scambiò un amichevole cenno di testa con l’adolescente sciupato in
volto.
Lo Chourineur gridò a quest’ultimo:
«Eh! Barbillon, ti scoli sempre acquavite?»
«Sempre! Preferisco non mangiare e avere le ciabatte piutto-
sto che stare senza acquavite nel gargarozzo e senza tabacco nella
pipa» rispose il giovane con voce rotta, senza cambiare posizione e
lanciando enormi boccate di fumo.
«Buonasera, comare Ponisse» disse la Goualeuse.
«Buonasera, Fleur-de-Marie» rispose l’ostessa avvicinandosi alla
ragazza per scrutare i vestiti che la disgraziata portava e che le
aveva dato a nolo. Dopo averla esaminata, le disse con una sorta di
burbera soddisfazione:
«È un piacere darti a nolo della roba, a te... tu sei pulita come
una gattina... io non avrei prestato questo grazioso scialle arancio
a delle canaglie come la Tourneuse o la Tête-de-Mort. Ma per questo
t’ho educata io quando sei uscita di prigione... e bisogna essere
giusti, non c’è persona migliore di te in tutta la Cité.»
La Goualeuse abbassò la testa e non sembrò per niente fiera degli
elogi dell’ostessa.
«To’!» disse Rodolphe, «avete l’ulivo benedetto sull’orologio a
cucù, comare?»
E mostrò col dito il sacro ramoscello posto dietro al vecchio
orologio.
«Ebbene, bisogna pur vivere da cristiani!» rispose ingenuamente
l’orribile donna.
Poi, rivolgendosi a Fleur-de-Marie, aggiunse:
«Senti un po’, Goualeuse, ci farai sentire una delle tue canzoni?»
«Dopo mangiato, comare Ponisse» disse lo Chourineur.
«Che cosa vi porto, brav’uomo?» disse l’ostessa a Rodolphe da cui
voleva farsi benvolere e di cui forse voleva avere l’appoggio in
caso di necessità.
«Chiedetelo allo Chourineur, comare; lui mangia; io pago.»
«Ebbene!» disse l’ostessa volgendosi al bandito, «che cosa vuoi da
mangiare, brutto cane?»
«Due litri di vino da dodici soldi, tre croste di pane molto tenero
e un arlequin»5 disse lo Chourineur, dopo aver meditato un istante
sulla composizione di questo menu.
«Vedo che non hai cessato d’essere un gran bevitore e che gli
arlequins ti piacciono sempre.»
«Ebbene! ora, Goualeuse, hai fame?» disse lo Chourineur. «No,
Chourineur.»
«Vuoi qualcos’altro invece di un arlequin, ragazza?» disse Ro-
dolphe.
«Oh! no... la fame mi è passata...»
«Ma guardalo pure il mio maestro... ragazza» disse lo Chouri-
neur sfoderando una grande risata e indicando con uno sguardo
Rodolphe. «Hai paura di sbirciarlo?»
La Goualeuse arrossì e abbassò gli occhi senza rispondere.
Dopo qualche istante, l’ostessa andò di persona a portare sulla
tavola di Rodolphe un grande boccale di vino, un pane, e un arlequin
che risparmieremo di descrivere al lettore ma che lo Chourineur
sembrò trovare perfettamente di suo gusto, perché gridò:
«Che piatto! Dio d’un Dio!... che piatto! È come un omnibus! Ce n’è
per tutti i gusti, per quelli che mangiano di grasso e per quelli
che mangiano di magro, per quelli a cui piace lo zucchero e per
quelli a cui piace il pepe... Cosce di pollo, code di pesce, ossi di
costoletta, croste di pasticcio, fritto, formaggio, verdure, teste
di beccaccia, biscotto e insalata. Ma mangia, su, Goualeuse... Hai
fatto bisboccia quest’oggi?»
«Bisboccia! sì, proprio. Ho preso stamattina, come il solito, un
soldo di latte e un soldo di pane.»
L’ingresso d’un nuovo personaggio nell’osteria fece interrompere
tutti i discorsi e alzare tutte le teste.
5 L’arlequin è un piatto di carne, pesce, e di tutti gli avanzi di
tavola dei domestici delle famiglie abbienti. Siamo obbligati a
insistere su questi particolari, per quanto rivoltanti, perché
contribuiscono a illuminarci sugli strani costumi di questa gente.
Era un uomo di mezza età, agile e robusto, con giacca e berretto,
perfettamente al corrente delle usanze della bettola; per chiedere
da mangiare, ricorse alla lingua familiare a quella gente.
Benché lo straniero non fosse un cliente abituale della bettola,
dopo un secondo nessuno gli badò più: era giudicato.
Per riconoscere i loro simili, i banditi, come la gente per bene,
hanno un occhio infallibile.
Il nuovo arrivato si era messo in modo da poter osservare i due
individui sinistri dei quali uno, poco prima, aveva chiesto del
Maestro. Li teneva sempre sott’occhio; ma questi, data la loro
posizione, non potevano accorgersi di essere oggetto di
sorveglianza.
Le conversazioni, interrotte un momento prima, ripresero il loro
corso.
Nonostante la sua audacia, lo Chourineur mostrava una sorta di
deferenza per Rodolphe; non osava dargli del tu.
Quest’uomo non rispettava le leggi, rispettava però la forza...
«Credetemi!» disse a Rodolphe, «benché mi abbiate fatto ballare,
nondimeno sono contento di avervi incontrato.»
«Perché ti piace l’arlequin?»
«Prima di tutto... e poi perché non vedo l’ora di vedervi azzannare
il Maestro, lui che mi ha sempre bastonato... vederlo a sua volta
bastonato... come mi divertirò.»
«Ma come! credi che per divertirti io salterò addosso al Maestro
come un mastino?»
«No, ma vi salterà addosso lui, non appena sentirà dire che siete
più forte» rispose lo Chourineur fregandosi le mani.
«Ho ancora in serbo tanto contante da dare anche a lui la sua
parte!» disse con noncuranza Rodolphe; poi riprese: «Sentite, fa un
tempo da lupi... se domandassimo un boccale d’acquavite con
zucchero, forse alla Goualeuse verrebbe la voglia di cantare...»
«La cosa mi piace» disse lo Chourineur.
«E per fare conoscenza, ci racconteremo la nostra storia» aggiunse
Rodolphe.
«Sono l’Albino» disse lo Chourineur, «ex forzato, scaricatore di
legname fluitato al quai Saint-Paul, pieno di freddo d’inverno,
abbrustolito d’estate, ecco il mio ritratto» disse il commensale di
Rodolphe facendo il saluto militare con la mano sinistra. «Ma dico»
aggiunse, «e voi, maestro, è la prima volta che vi si vede nella
Cité... Non è per rimproverarvelo, ma ci siete entrato passando
spavaldamente sulla mia testa e picchiandomi come
una pelle di tamburo. Perdinci, che scarica... soprattutto la
gragnuola finale... Ritorno sempre sullo stesso punto, che stile
perfetto!... Ma il vostro mestiere non è certo quello di picchiare
lo Chourineur.»
«Faccio il pittore di ventagli! e mi chiamo Rodolphe.»
«Pittore di ventagli! È per questo allora che avete le mani così
bianche» disse lo Chourineur. «Non importa, se tutti i vostri
colleghi sono come voi, penso che non si debba essere debolucci per
fare quel mestiere... Ma dal momento che siete operaio, e senza
dubbio un onesto operaio... perché venite in una bettola dove non ci
sono che ladri, assassini o ex forzati come me, e che non possono
andare altrove?»
«Vengo qui, perché mi piace la buona compagnia.»
«Uhm!... Uhm!...» disse lo Chourineur scuotendo la testa dubbioso.
«Vi ho trovato nell’androne di Bras-Rouge; insomma... insomma...
basta... Dite di non conoscerlo?»
«Hai intenzione di seccarmi ancora per molto con questo tuo
Bras-Rouge? Che vada all’inferno... se la cosa piace a Lucifero!...»
«Sentite, maestro, voi forse non vi fidate di me e avete ragione...
Ma se vorrete vi racconterò la mia storia... a condizione che
m’insegniate a dare quei colpi che sono stati la girandola finale
del sacco di legnate che ho ricevuto.»
«Ci sto, Chourineur, mi racconterai la tua storia... e anche la
Goualeuse racconterà la sua.»
«Va bene» riprese lo Chourineur... «fa un tempo da non lasciare un
cane di fuori... ci divertiremo... vuoi, Goualeuse?»
«Certo che lo voglio; ma non sarà una cosa lunga» disse la
Goualeuse.
«E voi ci racconterete la vostra, amico Rodolphe?» aggiunse lo
Chourineur.
«Sì, comincerò...»
«Pittore di ventagli» disse la Goualeuse, «è un mestiere molto
carino.»
«Eh! quanto guadagnate facendo questo lavoro?» disse lo Chourineur.
«Mi pagano un tanto al ventaglio» rispose Rodolphe; «nelle giornate
buone arrivo fino a quattro franchi, qualche volta fino a cinque, ma
d’estate, perché i giorni sono lunghi.»
«E andate spesso in giro, briccone?»
«Sì, fintanto che ho denaro! prima di tutto pago sei soldi alla
notte per la mia cameretta.»
«Scusate, mio signore... avete una camera a sei soldi, voi!» disse
lo Chourineur portando la mano al berretto...
L’espressione mio signore, detta ironicamente dallo Chourineur, fece
impercettibilmente sorridere Rodolphe, che riprese:
«Oh! mi piacciono le comodità e la pulizia.»
«Ecco un pari di Francia! un banchiere! un ricco!» esclamò lo
Chourineur, «ha una camera a sei soldi.»
«Inoltre» continuò Rodolphe, «quattro soldi di tabacco, e fa dieci,
quattro soldi per fare colazione alla mattina, quattordici; quindici
soldi per pranzare; uno o due soldi di acquavite, e fa all’incirca
trenta soldi al giorno. Non ho bisogno di lavorare tutta la
settimana; nel tempo che mi resta faccio bisboccia.»
«E la vostra famiglia?» disse la Goualeuse.
«Il colera se l’è inghiottita» riprese Rodolphe.
«Che cosa facevano i vostri genitori?» domandò la Goualeuse.
«Rigattieri sotto i portici delle Halles, negozianti di roba
vecchia.»
«E quanto avete preso vendendo la loro merce?» disse lo
Chourineur.
«Ero troppo giovane, è stato il mio tutore a venderla; quando
sono diventato maggiorenne, gli sono rimasto debitore di trenta
franchi... Ecco la mia eredità.»
«E il vostro padrone di adesso?» domandò lo Chourineur.
«Il mio padrone si chiama Borel, rue des Bourdonnais, stupido... ma
brutale; ... ladro... ma avaro; piuttosto che dare la paga agli
operai preferisce farsi cavare gli occhi. Ecco i suoi connotati; se
si smarrisce, bisogna lasciare che si perda, non bisogna ricondurlo
alla sua fabbrica. Sono stato garzone da lui dall’età di quindici
anni; ho avuto la fortuna di non andare a fare il militare; abito in
rue de la Juiverie, al quarto piano sul davanti; mi chiamo Rodolphe
Durand... Ecco la mia storia.»
«Ora, tocca a te, Goualeuse» disse lo Chourineur «la mia storia la
tengo in serbo per la fine.»
III
STORIA DELLA GOUALEUSE
«Cominciamo pure dall’inizio» disse lo Chourineur. «Sì... i tuoi
genitori?» riprese Rodolphe.
«Non li conosco» disse la Goualeuse.
«Ah! bella!» fece lo Chourineur.
«Mai visti; nata sotto un cavolo, come si dice ai bambini.» «To’, è
strano, Goualeuse!... siamo della stessa famiglia...» «Anche tu,
Chourineur?»
«Orfanello abbandonato su un marciapiede di Parigi, proprio
come te, ragazza.»
«E chi t’ha allevata, Goualeuse?» domandò Rodolphe.
«Non so... Risalendo il più lontano possibile nel tempo, mi ricordo
che vivevo, credo fra i sette e gli otto anni, con una vecchia orba
d’un occhio chiamata Chouette... perché aveva un naso adunco, un
occhio verde e rotondo che la rendevano simile a una civetta senza
un occhio.»
«Ah!... ah!... ah!... Me la immagino la Chouette!» esclamò lo
Chourineur ridendo.
«La guercia» riprese la Goualeuse, «mi faceva vendere, la sera, lo
zucchero d’orzo sul Pont-Neuf; un espediente per chiedere
l’elemosina... Quando rientrando non portavo a casa almeno dieci
soldi, mi picchiava invece di darmi da mangiare.»
«Capisco, ragazza» disse lo Chourineur, «una pedata per companatico,
scapaccioni per contorno.»
«Oh! Dio mio, sì...»
«E sei sicura che questa donna non fosse tua madre?» domandò
Rodolphe.
«Ne sono sicura, la Chouette me l’ha tanto rimproverato di non avere
né padre né madre; mi diceva sempre d’avermi raccolta dalla strada.»
«Così» riprese lo Chourineur, «invece di mangiare dovevi ballare,
quando non facevi un incasso di dieci soldi?»
«Ci bevevo sopra un bicchiere d’acqua, e andavo a battere i denti
sopra un pagliericcio steso per terra e in cui la guercia aveva
fatto un buco per ficcarmici... Vedete, si crede che la paglia sia
calda; ebbene, ci si sbaglia.»
«La paglia» esclamò lo Chourineur, «hai ragione, ragazza, è una vera
ghiacciaia; il letame sarebbe cento volte meglio! ma si fa gli
schizzinosi, si dice: è volgare... è già stato usato!»
La facezia fece sorridere la Goualeuse che continuò:
«La mattina del giorno dopo la guercia mi dava per colazione la
stessa razione di botte che mi aveva dato per cena, e io me ne
andavo a Montfaucon in cerca di lombrichi che dovevano servire da
esca ai pesci; perché di giorno la Chouette aveva una bottega di
canne da pesca sotto il ponte Notre-Dame... Per una bambina di sette
anni che muore di fame e di freddo, c’è molta strada... dalla rue de
la Mortellerie a Montfaucon.»
«Il camminare t’ha fatto crescere dritta come una canna, ragazza!
non devi lamentartene» disse lo Chourineur battendo l’acciarino per
accendersi la pipa.
«Insomma, ritornavo sfinita con una cesta piena di lombrichi.
Allora, verso mezzogiorno, la Chouette mi dava un bel pezzo di pane,
e mi mangiavo anche la mollica, ve lo giuro.»
«Il digiunare t’ha fatto un vitino di vespa, ragazza; non devi
lamentartene» disse lo Chourineur aspirando rumorosamente alcune
boccate di fumo. «Ma che cosa avete, amico? no, voglio dire maestro
Rodolphe? Avete una espressione tutta così... Perché questa giovine
ha dovuto soffrire? Vedi... tutti abbiamo dovuto soffrire!»
«Oh! scommetto proprio, Chourineur, che non sei stato infelice come
me» disse la Goualeuse.
«Io, Goualeuse!... Ma pensa allora, ragazza, che sei stata una
regina rispetto a me! Tu almeno, quand’eri piccola, dormivi sulla
paglia e mangiavi pane... Io invece passavo le notti, nella migliore
delle ipotesi, nelle fornaci di gesso di Clichy, da vero vagabondo,
e mi rifocillavo con le foglie dei cavoli che trovavo sul ciglio
della strada; ma, il più delle volte, siccome c’era troppo da
camminare per arrivare alle fornaci di Clichy, dato che la gran fame
mi tagliava le gambe, mi coricavo sotto le grosse pietre del
Louvre... e d’inverno avevo le lenzuola bianche... quando nevicava.»
«Vedi, un uomo è molto più resistente; ma una povera ragazzina»
disse la Goualeuse; «senza contare che ero piccola come uno
scricciolo.»
«Ma ti ricordi di queste cose, tu?»
«Lo credo bene; quando la Chouette mi picchiava, cadevo sempre al
primo colpo; allora lei mi metteva sotto i piedi gridando: “Questa
piccola pezzente! non ha un briciolo di forza; non è neppure capace
di resistere a due scappellotti”. E poi mi chiamava Pégriotte; non
ho avuto altro nome; è stato il mio battesimo.»
«Come me che ho avuto il battesimo dei cani randagi; mi chiamavano
cosa... coso... o Albino. È strano come noi ci assomigliamo,
ragazza» disse lo Chourineur.
«È vero» disse la Goualeuse, che si rivolgeva quasi sempre a
quest’uomo; provando, suo malgrado, una sorta di vergogna in
presenza di Rodolphe, osava appena alzare gli occhi, benché questi
sembrasse appartenere al genere di gente che era solita frequentare.
«E dopo essere stata in cerca di lombrichi per la Chouette, che cosa
facevi?» domandò lo Chourineur.
«La guercia mi faceva chiedere la carità vicino a lei fino a notte;
perché la sera lei andava a vendere fritture sul Pont-Neuf! Certo! a
quell’ora il mio pezzo di pane era molto lontano; ma se
disgraziatamente chiedevo da mangiare alla Chouette, lei mi
picchiava dicendo: “Portami i dieci soldi d’elemosina, Pégriotte, e
avrai da mangiare!”. Allora io, siccome avevo fame e le botte mi
facevano male, piangevo tutte le lacrime dei miei occhi. La vecchia
mi passava attorno al collo la mia piccola cassetta di zucchero
d’orzo, e mi piantava sul Pont-Neuf. Quanti singhiozzi! e come
tremavo di freddo e di fame!...»
«Sempre come te, ragazza» disse lo Chourineur, interrompendo la
Goualeuse «chi lo crederebbe... eppure la fame fa tremare quanto il
freddo.»
«Insomma, io restavo sul Pont-Neuf fino alle undici di sera col mio
arnese di zucchero d’orzo intorno al collo e piangendo tanto. Al
vedermi piangere... i passanti spesso si commovevano, e qualche
volta arrivavano a darmi fino a dieci, a quindici soldi che io
portavo alla Chouette.»
«Brutta serata per uno scricciolo!»
«Ma ecco che la guercia che vedeva la cosa...»
«Con un occhio» disse lo Chourineur ridendo.
«Con un occhio, se vuoi, dato che ne aveva uno solo; ma ecco
che la guercia prende l’abitudine di darmi sempre le botte prima di
lasciarmi di sentinella sul Pont-Neuf, per farmi piangere davanti ai
passanti e aumentare così il mio incasso.»
«Non era poi così stupida!»
«Sì, tu credi, Chourineur? Io ho finito col fare il callo alle
botte; vedevo che la Chouette andava in bestia quando non piangevo;
allora, per vendicarmi, più lei mi faceva male, più io ridevo; e la
sera, invece di singhiozzare vendendo le mie pasticche di zucchero
d’orzo, cantavo come un usignolo, benché non ne avessi molta
voglia... di cantare.»
«Senti un po’... le pasticche di zucchero d’orzo... quelle sì
dovevano farti gola, povera Goualeuse.»
«Oh! lo credo bene, Chourineur; ma non ne avevo mai assaggiate; era
un mio desiderio... ed è stato questo desiderio a perdermi, adesso
ti dico come. Un giorno, tornando dalla ricerca dei lombrichi, ero
stata picchiata e derubata del mio cesto da alcuni monelli. Rientro,
sapevo che cosa mi aspettava; mi busco la mia dose di botte e niente
pane. La sera, prima che andassi sul ponte, la guercia, furiosa
perché la volta precedente non avevo venduto, invece di picchiarmi
come il suo solito per farmi piangere,
mi tortura a sangue strappandomi i capelli dalle tempie, che è il
punto più sensibile.»
«Canaglia! questo è troppo!» esclamò il bandito battendo il pugno
sul tavolo e aggrottando la fronte. «Picchiare una bambina, passi...
ma torturarla, è troppo!»
Rodolphe aveva ascoltato con attenzione il racconto di
Fleurde-Marie; guardò stupito lo Chourineur; era stato colpito da
questo baleno di sensibilità.
«Ma che cos’hai, Chourineur?» gli disse.
«Che cos’ho! che cos’ho! Come! questo non è niente per voi? Quel
mostro della Chouette che tortura una bambina. Allora voi siete duro
come i vostri pugni!»
«Continua, ragazza» disse Rodolphe alla Goualeuse, senza rispondere
all’interpellanza dello Chourineur.
«Dunque vi dicevo che la Chouette mi torturava per farmi piangere;
io mi impunto; per farla arrabbiare, mi metto a ridere e me ne vado
sul ponte con il mio zucchero d’orzo. La guercia stava davanti alla
padella... Di tanto in tanto, mi mostrava i pugni. Allora, invece di
piangere, cantavo più forte; per giunta avevo una fame, una fame!
Erano sei mesi che portavo pasticche di zucchero d’orzo, e non ne
avevo assaggiato neppure una... Credetemi! Quel giorno, non ci
resisto... Spinta dalla fame e dalla voglia di fare arrabbiare la
Chouette, mi prendo una pasticca e me la mangio.»
«Brava, ragazza!»
«Ne mangio due.»
«Brava! bravissima!!!»
«Perdinci! com’erano buone, ma ecco una venditrice di aranci
che si mette a gridare alla guercia: “Ohè, Chouette... la Pégriotte
ti mangia la merce!”»
«Oh! diavolo la cosa si mette male... la cosa si mette male» disse
lo Chourineur particolarmente interessato. «Povero topolino! Chissà
come tremavi di paura quando la Chouette s’è accorta del fatto, eh!»
«Come te la sei cavata, povera Goualeuse?» disse Rodolphe che
dimostrava lo stesso interesse dello Chourineur.
«Ah! perbacco! è stata dura; ma la cosa divertente» aggiunse la
Goualeuse, «era che la guercia, pur schiattando di rabbia al vedermi
mangiare le sue pasticche, non poteva lasciare la padella perché la
frittura stava cuocendo.»
«Ah!... ah!... ah!... è vero. Ecco una circostanza difficile»
esclamò lo Chourineur ridendo da smascellarsi.
Dopo aver partecipato all’ilarità del bandito, Fleur-de-Marie
riprese:
«Parola d’onore! pensando alle botte che m’aspettavano, mi dico:
“Tanto peggio! che ne mangi una o tre tanto sarò comunque
picchiata”. Prendo una terza pasticca e, prima di mangiarla, siccome
la Chouette da lontano mi minacciava ancora, con la sua grande
forchetta di ferro,... vi giuro che è la verità, le mostro la
pasticca, e gliela mangio sotto gli occhi.»
«Brava! ragazza!... così si spiega il colpo di forbici di poco fa...
Via... via, te l’ho detto che hai del coraggio. Ma la Chouette
t’avrà scorticata viva dopo quel tiro?»
«Venduta la frittura, viene da me... Avevo raccolto tre soldi
d’elemosina e avevo mangiato per sei. Quando la guercia m’ha presa
per mano per portarmi via, ho creduto di cadere sul posto, tanta era
la paura... me ne ricordo come se fosse ora... perché si era proprio
verso capodanno. Sai, ci sono sempre botteghe di giocattoli sul
Pont-Neuf; tutta la sera m’ero sentita gli occhi pieni di luce...
solo per aver guardato tutte quelle belle bambole, tutti quei bei
mobili piccoli... ci pensi, per una bambina...»
«E tu, Goualeuse, non avevi mai avuto qualche giocattolo?» disse lo
Chourineur.
«Io! sei stupido, allora... Chi avrebbe dovuto darmelo? Insomma, la
serata finisce! benché in pieno inverno, avevo addosso solo uno
straccetto di vestito di tela, senza calze, senza camicia, con
zoccoli ai piedi! non c’era pericolo che morissi dal caldo, ti pare?
Ebbene, quando la guercia m’ha preso la mano, mi sono sciolta tutta
in sudore. Quello che più mi spaventava era che la Chouette, per
tutta la strada, non faceva che brontolare fra i denti, invece di
bestemmiare, di strepitare... Ma non mi mollava, e mi faceva
camminare così in fretta, così in fretta che, con le mie gambette,
ero costretta a correre per tenerle dietro. Correndo, avevo perso
uno zoccolo; avevo paura di dirglielo; nonostante un piede scalzo,
le tenni dietro lo stesso... All’arrivo, avevo il piede tutto
insanguinato.»
«Brutta vecchia infame!» esclamò lo Chourineur picchiando di nuovo
con collera sul tavolo; «mi fa uno strano effetto pensare a una
bambina che cammina dietro a quella ladra di vecchia, con il suo
piedino tutto sanguinante.»
«Abitavamo in una soffitta della rue de la Mortellerie; vicino
all’androne c’era un venditore di liquori: la Chouette vi entrò. Lì
si fece dare al banco un quarto d’acquavite.»
«Capperi! se lo bevessi, mi ubriacherei da non reggermi.»
«Era la razione della guercia; la ragione per cui andava a letto che
era sempre ubriaca fradicia. Per questo forse mi picchiava tanto.
Insomma, saliamo: io, te lo giuro, non andavo certo a una festa.
Arriviamo: la Chouette chiude a doppia mandata; mi getto alle sue
ginocchia domandando a più non posso perdono d’aver mangiato le sue
pasticche. Lei non risponde e io la sento camminare nella camera e
borbottare: “Dunque, che cosa farò questa sera, a questa Pégriotte,
a questa ladra di zucchero d’orzo?... Vediamo un po’, che cosa le
farò allora?”. E si fermava per guardarmi stralunando l’occhio
verde. Io ero sempre in ginocchio. Tutt’a un tratto, la vecchia va
verso un’asse e prende un paio di tenaglie.»
«Le tenaglie!» esclamò lo Chourineur. «Sì, le tenaglie.»
«E per cosa fare?»
«Per picchiarti?» disse Rodolphe.
«Per tormentarti?» disse lo Chourineur. «Ah molto, sì!»
«Per strapparti i capelli?»
«Non avete capito: rinunciate a indovinare?»
«Rinuncio.»
«Rinunciamo.»
«Ebbene, era per strapparmi un dente!»
Lo Chourineur tirò una tale bestemmia e la fece seguire da tali
imprecazioni che tutti gli ospiti della bettola si girarono stupiti.
«Ebbene, che cosa hai mai?» disse la Goualeuse.
«Che cosa ho?... ho che se avessi quella vecchia fra le mani, la
ucciderei... Dov’è? Dimmelo. Dov’è? Se la trovo, la faccio fuori.» E
gli occhi del bandito s’iniettarono di sangue.
Rodolphe aveva condiviso l’orrore dello Chourineur per la
crudeltà della guercia; ma si chiedeva per quale fenomeno un
assassino andasse su tutte le furie al sentir raccontare che una
vecchia malvagia aveva voluto, per cattiveria, strappare un dente a
una bambina.
Noi crediamo possibile, anzi probabile, un tale sentimento di pietà
anche in una natura feroce.
«E quella vecchia miserabile te l’ha strappato il dente, povera
piccola?» domandò Rodolphe.
6 Preghiamo i lettori che trovassero esagerata questa crudeltà di
ricordarsi le condanne pronunciate quasi quotidianamente contro
esseri feroci che picchiano e feriscono bambini: e tra tali ignobili
seviziatori non mancano padri e madri.
«Me l’ha strappato, eccome!... e non al primo colpo anche! Dio mio!
come ci ha lavorato! Mi teneva la testa fra le ginocchia come in una
morsa. Alla fine, un po’ con le tenaglie un po’ con le dita, m’ha
estratto il dente; e poi m’ha detto, sicuramente per spaventarmi:
“Adesso, ogni giorno te ne strapperò uno alla stessa maniera,
Pégriotte; e quando non avrai più denti, ti butterò in acqua: sarai
mangiata dai pesci; essi si vendicheranno di te perché sei andata in
cerca di lombrichi per farli abboccare”. Mi ricordo di ciò perché
non mi sembrava giusto... Ecco, come se fosse per fare un piacere a
me che andavo in cerca di lombrichi!»
«Ah! che farabutta! rompere, strappare i denti a una povera
bambina!» esclamò lo Chourineur con rinnovato furore.
«Ebbene, poi? Via, non si vede niente adesso!» disse la Goualeuse.
E sorridendo dischiuse le rosee labbra, mostrando due file di
dentini bianchi come perle.
Indifferenza, dimenticanza, generosità istintiva da parte di questa
disgraziata creatura? Rodolphe notò che nel suo racconto non c’era
stata una sola parola d’odio contro la donna feroce che l’aveva
torturata.
«Ebbene, poi, che cosa hai fatto?» riprese lo Chourineur.
«Credetemi, questo mi era bastato. Il giorno successivo, invece di
andare in cerca di lombrichi, sono fuggita dalle parti del Pantheon.
Ho camminato tutto il giorno in quei paraggi, tanto avevo paura
della Chouette. Sarei andata in capo al mondo piuttosto che ricadere
tra le sue grinfie.
Siccome mi trovavo in quartieri sperduti, non avevo incontrato
nessuno a cui domandare l’elemosina, e poi non ne avrei avuto il
coraggio. Durante la notte, avevo dormito in un magazzino, sotto
cataste di legna. Ero grande come un topo; passando sotto una
vecchia porta, mi ero nascosta in mezzo a un mucchio di scorze. Ero
divorata dalla fame: cercai di masticare un po’ di corteccia
d’albero per ingannare la gran fame, ma non potevo; mi riuscì di
mordere solo un po’ una corteccia di betulla; era più tenera. Dopo
di che, mi sono addormentata. All’alba, sentendo dei rumori, mi sono
nascosta ancora meglio sotto una pila di legna. Faceva quasi caldo,
come in una cantina. Se avessi avuto da mangiare, non avrei passato
nessun inverno meglio di così.»
«Come me quando ero in una fornace di gesso.»
«Non osavo uscire dal magazzino, pensavo che la Chouette mi cercasse
dappertutto per strapparmi i denti e per buttarmi in
pasto ai pesci e che avrebbe potuto prendermi facilmente se mi fossi
mossa di lì.»
«Senti, non parlarmi più di quella vecchia farabutta, mi fai montare
il sangue alla testa!»
«Alla fine del secondo giorno, avevo masticato ancora un po’ di
corteccia di betulla e cominciavo ad addormentarmi quando sento
abbaiare un grosso cane. Mi sveglio di soprassalto. Ascolto... Il
cane s’avvicinava alla pila di legna senza cessar d’abbaiare. Ecco
una nuova circostanza che mi mette paura; meno male che il cane, non
so perché, non osava avanzare... ma tu riderai, Chourineur.»
«Con te c’è sempre da ridere... sei una brava ragazza, lo stesso.
Ecco, vedi, adesso, credimi, mi dispiace d’averti picchiata.»
«Perché non avresti dovuto picchiarmi? Non ho nessuno che mi
difenda...»
«E io?» disse Rodolphe.
«Voi siete molto buono, signor Rodolphe, ma lo Chourineur non sapeva
che voi sareste stato lì... e neppure io.»
«Non fa niente, sostengo quanto ho detto... mi dispiace d’averti
picchiata» riprese lo Chourineur.
«Continua la storia, ragazza» riprese Rodolphe.
«Ero rannicchiata sotto la pila di legna quando sento un cane
abbaiare. Mentre il cane latrava, un vocione si mette a dire: “Il
cane abbaia! c’è qualcuno nascosto nel magazzino”. “Sono i ladri”
riprende un’altra voce... E “Dalli! dalli!” eccoli che aizzano il
cane incitandolo: “Prendilo! prendilo!”.
Il cane si precipita su di me; ho paura d’essere morsa, e mi metto a
gridare con tutte le forze. “Senti!” disse la voce, “sembrano quasi
le grida d’un bambino...”. Richiamano il cane e vanno a prendere una
lanterna; esco dal mio buco, e mi trovo di fronte un omone e un
ragazzo in camiciotto. “Che cosa fai nel mio magazzino, ladruncola?”
mi dice l’omone bruscamente.
“Buon signore, non mangio da due giorni; sono sfuggita alla Chouette
che m’ha strappato un dente e voleva darmi in pasto ai pesci; non
sapendo dove dormire, sono passata disotto alla vostra porta, ho
dormito la notte fra le vostre scorze, sotto le vostre pile di
legna, credendo di non fare male a nessuno.”
Ecco il padrone che si mette a dire al giovane: “Questa non la bevo,
è una piccola ladra, viene a rubarmi la legna”.»
«Ah! brutta canaglia! vecchio rimbambito!» esclamò lo Chourineur.
«Rubargli la legna; e avevi otto anni.»
«Era una sciocchezza... perché il giovane gli risponde: “Rubarvi la
legna, padrone? e come potrebbe? Non è grande neppure
come il più piccolo dei vostri ceppi”. “Hai ragione” disse il
mercante di legna; “ma se non è venuta per conto suo, è lo stesso. I
ladri fanno tutti così, mandano i bambini a spiare e a nascondersi
per aprire la porta agli altri. Bisogna portarla in commissariato.”»
«Ah! che bestia quel mercante di legna...»
«Mi portano in commissariato. Vuoto il sacco; mi accusano di
vagabondaggio; mi mandano in prigione; sono citata dinanzi al
tribunale correzionale; condannata, sempre come vagabonda, a restare
fino a sedici anni in una casa di correzione. Ringrazio
infinitamente i giudici della loro bontà... Perdinci!... ci pensi,
in prigione... avevo da mangiare; non ero picchiata, era un paradiso
rispetto alla soffitta della Chouette. Inoltre, in prigione, ho
imparato a cucire. Il guaio è che non facevo niente e andavo di qua
e di là; mi piaceva più cantare che lavorare, soprattutto quando
c’era il sole... Oh! quando nel cortile della prigione il tempo era
bellissimo, non potevo fare a meno di cantare... e allora... com’è
strano!... a forza di cantare, mi sembrava di non essere più una
carcerata.»
«Vuoi dire, ragazza, che sei un vero usignolo di nascita» disse
Rodolphe sorridendo.
«Siete molto gentile, signor Rodolphe; da allora sono stata chiamata
Goualeuse invece di Pégriotte. Finalmente compio sedici anni, esco
dal carcere. Ecco che alla porta ti trovo la padrona della bettola
con due o tre vecchie che venivano di tanto in tanto a visitare le
mie amiche di prigione e che mi dicevano sempre che, il giorno in
cui sarei uscita, avrebbero avuto un lavoro da darmi.»
«Ah! bene, bene, capisco» disse lo Chourineur.
«“Stelluccia cara, bell’angelo, bella bambina” mi dissero l’ostessa
e le vecchie “... volete venire a stare da noi? vi daremo bei
vestiti, e voi dovrete solo divertirvi”.»
«Capisci bene, Chourineur, che non si può restare in prigione otto
anni senza imparare a capire al volo ciò che uno vuole dire. Quelle
vecchie ruffiane, le mando a quel paese. Mi dico: “So cucire bene,
ho trecento franchi in tasca, una giovinezza...”»
«E un’avvenente giovinezza... ragazza!» disse lo Chourineur.
«Sono otto anni che sto in prigione, mi godo un po’ la vita, non
faccio male a nessuno; il lavoro me lo cercherò quando non avrò più
denaro... E comincio a spendere i trecento franchi. È stato il mio
grande sbaglio» aggiunse Fleur-de-Marie con un sospiro; «avrei
dovuto, prima di tutto, assicurarmi un lavoro... ma non avevo
nessuno con cui consigliarmi... Insomma, quel che è stato è stato...
Mi metto allora a spendere il denaro. Dapprima compero tanti fiori
da riempirmi tutta la stanza; mi piacciono tanto i fiori!
e poi mi compero un vestito, un bello scialle e vado a farmi
cavalcate sull’asino al bois de Boulogne e a Saint-Germain.»
«Assieme a un moroso, ragazza?» disse lo Chourineur.
«No, credetemi: mi piaceva farmi bella per me. Facevo le gite con
un’amica di prigione che era stata ai Trovatelli, una ragazza molto
buona; la chiamavamo Rigolette perché rideva sempre.»
«Rigolette, Rigolette! non la conosco» disse lo Chourineur, dando
l’impressione di rovistare fra i ricordi.
«Credo bene che tu non la conosca! È onestissima, Rigolette; è
un’operaia molto brava; ora guadagna almeno venticinque soldi al
giorno; ha una sua casetta... Perciò ho avuto sempre paura d’andarla
a trovare. Insomma, a forza di spendere il denaro, m’erano rimasti
solo quarantatré franchi.»
«Dovevi comperarti dei gioielli con quei soldi» disse lo Chourineur.
«Vi assicuro che ho fatto di meglio... Avevo come lavandaia una
donna chiamata la Lorraine, una pecorella del buon Dio; allora era
in stato di avanzata gravidanza, eppure sempre con i piedi e le mani
nell’acqua del lavatoio. Ci pensi? Non potendo più lavorare, aveva
chiesto d’entrare alla Bourbe; non c’era più posto, non l’hanno
accettata, non guadagnava più niente. È sul punto di partorire e non
ha neppure i soldi per pagarsi un letto. Fortunatamente, una sera,
incontrò per caso all’angolo del ponte Notre-Dame la moglie di
Goubin, che da quattro giorni si nascondeva nella cantina di una
casa che si stava demolendo dietro l’Hôtel-Dieu.»
«Eh! ma perché la moglie di Goubin stava nascosta di giorno?»
«Per non farsi prendere dal marito che voleva ucciderla! Usciva solo
di notte per andare a comperarsi il pane. Così aveva incontrato la
povera Lorraine che non sapeva più dove sbattere, perché s’aspettava
da un momento all’altro di partorire... Impietosita, la moglie di
Goubin l’aveva portata nella cantina in cui si nascondeva. Erano
comunque quattro mura.»
«Aspetta un po’! aspetta un po’, la moglie di Goubin è Helmina?»
disse lo Chourineur.
«Sì, una brava ragazza» rispose la Goualeuse... «una sarta che aveva
lavorato per me e per la Rigolette... Diavolo, ha fatto il
possibile, ha diviso la cantina, la paglia, il pane con la Lorraine,
che sta per partorire un povero bambino; e neanche una coperta, solo
paglia!... A tale vista la moglie di Goubin non resiste; col rischio
di farsi ammazzare dal marito che la cercava dappertutto, affronta
la luce del sole, esce dalla cantina e viene a trovarmi. Sapeva che
avevo ancora un po’ di denaro e che non ero cattiva; stavo
proprio salendo in una carrozza con Rigolette; volevamo finire i
quarantatré franchi, farci portare in campagna, nei campi... mi
piacciono tanto i campi! gli alberi... i prati... Ma, oh, quando
Helmina mi racconta la disgrazia della Lorraine, mando via la
carrozza, corro a casa a prendere tutta la biancheria che avevo, il
materasso, la coperta, carico il tutto sulle spalle di un facchino,
e corro alla cantina con la moglie di Goubin... Ah! aveste visto
com’era contenta, la povera Lorraine! Io ed Helmina l’abbiamo
assistita tutta la notte; dopo il parto, l’ho aiutata con il resto
del denaro finché fu in condizione di ritornare al lavatoio. Ora si
guadagna da vivere; ma non posso riuscire a farle avere il conto
della mia biancheria! Capisco che vuole sdebitarsi in questo modo!
Prima di tutto... se continuerà ancora, non mi servirò più di
lei...» disse la Goualeuse gravemente.
«E la moglie di Goubin?» chiese lo Chourineur.
«Come! Non lo sai?» disse la Goualeuse.
«No; che cosa?»
«Ah! povera disgraziata!... non è sfuggita a Goubin! tre col-
tellate nella schiena! Gli avevano detto che s’aggirava dalle parti
dell’Hôtel-Dieu; e una sera in cui lei era uscita per andare a
prendere il latte per la Lorraine, lui l’ha uccisa.»
«Per questo è stato condannato a morte, per questo corre voce che
sarà giustiziato fra otto giorni?» domandò Chourineur.
«Proprio così» disse la Goualeuse.
«E dopo aver dato i soldi alla Lorraine, che cosa hai fatto,
ragazza?» disse Rodolphe.
«Perdinci, allora ho cercato un lavoro. Sapevo cucire benissimo;
avevo coraggio, non ero impacciata; entro in una bottega di
biancheria della rue Saint-Martin. Per non ingannare nessuno, dico
di essere uscita di prigione da due mesi e d’aver voglia di
lavorare; mi indicano la porta. Chiedo un lavoro da portare a casa;
per aver chiesto di portare via solo una camicia, mi dicono se ho
voglia di prendere in giro la gente. Mentre me ne ritornavo triste,
triste... ho incontrato l’ostessa e una delle vecchie che mi stavano
alle costole dal giorno della mia liberazione... Non sapevo più con
che cosa vivere!... M’hanno portata via... m’hanno fatto bere
acquavite!... Ed ecco...»
«Capisco» disse lo Chourineur; «adesso ti conosco come se fossi tua
madre e ti avessi tenuta sempre in grembo. Ebbene! questa, credo, è
la confessione.»
«Abbiamo l’impressione che ti sia dispiaciuto, ragazza, d’averci
raccontato la tua vita» disse Rodolphe.
«Il fatto è che mi fa male guardarmi indietro così; è la prima
volta, dalla mia infanzia, che mi capita di ricordare queste cose
tutte insieme... e non c’è da stare allegri... non è vero,
Chourineur?»
«Certo» rispose questi con ironia, «rimpiangi forse di non avere
fatto la sguattera in una gargotta, o la domestica di vecchi
signori, con l’incarico di curare i loro figli?»
«Ad ogni modo... dev’essere molto bello essere onesti...» disse la
Goualeuse con un sospiro.
«Onesta! oh! che storia!...» esclamò il bandito con una sonora
risata. «Onesta!... e perché non vergine, semplicemente, per onorare
il padre e la madre che non conosci?»
Il volto della ragazza aveva perduto da qualche momento
l’espressione d’indifferenza che lo caratterizzava. Disse allo
Chourineur:
«Senti, Chourineur, io non sono una piagnucolona. Mio padre e mia
madre mi hanno abbandonato su un marciapiede, come un cagnolino che
sia di troppo; non serbo loro rancore; senza dubbio non avevano
neppure loro da vivere! Questo non vuol dire, vedi, Chourineur, che
non ci siano persone più felici di me.»
«Tu? ma che cosa ti manca dunque? Sei splendida come una Venere; non
hai neanche diciassette anni; canti come un usignolo; sembri una
vergine, hai nome Fleur-de-Marie, e ti lamenti! Ma che cosa dirai
allora quando avrai uno scaldino sotto i piedi, e una parrucca
grigia, così come la nostra ostessa!»
«Oh! non arriverò mai a quell’età.»
«Forse hai il brevetto d’invenzione per non invecchiare?» «No, ma
non avrò una vita così lunga! ho già una brutta tosse!» «Ah! bene!
ti vedo già in una cassa da morto. Non fare la stupida... via!»
«Ti passano spesso per la mente queste idee, Goualeuse?» disse
Rodolphe.
«Alle volte... Sentite, signor Rodolphe, voi forse capite queste
cose: la mattina, quando vado a comperare il mio soldo di latte
dalla lattaia all’angolo della rue de la Vieille-Draperie e la vedo
partire sul suo carrettino trainato da un asino, la invidio
tantissimo, via... Mi dico: lei va in campagna, all’aria buona,
nella sua casa, dalla sua famiglia... e io invece devo ritornare
sola soletta nella topaia dell’ostessa dove non ci si vede neppure a
mezzogiorno.»
«Ebbene! fa’ l’onesta, ragazza, recita pure la tua farsa... fa’
l’onesta!» disse lo Chourineur.
«Onesta! Dio mio! e come vuoi dunque che possa fare l’onesta? I
vestiti che porto sono dell’ostessa; le devo la camera e il vitto...
non posso muovermi di qui... mi farebbe arrestare per ladra... Io le
appartengo tutta... Bisogna che mi sdebiti...»
A queste ultime orribili parole, la sventurata non poté fare a meno
di rabbrividire.
«Allora resta come sei, e non paragonarti più a una campagnola»
disse lo Chourineur. «Stai diventando matta? Ma pensa un po’ che tu
fai una vita movimentata nella capitale, mentre la lattaia deve
preparare la pappa ai marmocchi, mungere le mucche, andare a far
erba per i conigli, e prendersi un carico di legnate dal marito che
torna a casa dall’osteria. Ecco, questa è una vita, fra le altre,
che può vantarsi di essere... lusinghiera!»
«Da bere, Chourineur» disse bruscamente la Goualeuse dopo un
silenzio piuttosto lungo; e tese il bicchiere. «No, niente vino,
acquavite... è più forte» disse in tono dolce, scostando il boccale
di vino che lo Chourineur avvicinava al bicchiere di lei.
«Acquavite! finalmente! ecco come mi piaci, ragazza, così senza
incertezze!» disse quest’uomo senza capire il moto impulsivo della
ragazza e senza far caso alla lacrima tremolante che le era spuntata
sul ciglio.
«Peccato che l’acquavite sia così cattiva da bere... perché scaccia
i pensieri...» riprese Fleur-de-Marie riposando il bicchiere sulla
tavola dopo aver bevuto con disgustata ripugnanza.
Rodolphe aveva ascoltato il racconto triste e semplice della
Goualeuse con crescente interesse.
La miseria, la mancanza di una famiglia, più che le cattive
inclinazioni, avevano spinto la povera ragazza alla perdizione.
IV
STORIA DELLO CHOURINEUR
Il lettore non avrà dimenticato che due degli ospiti della bettola
erano attentamente osservati da un terzo personaggio arrivato da
poco nella taverna.
Uno di questi due uomini, abbiamo detto, portava un berretto greco,
nascondeva sempre la mano sinistra, e aveva chiesto con insistenza
all’ostessa se il Maître d’école non fosse ancora venuto.
Durante il racconto della Goualeuse, che non potevano sentire, i due
uomini s’erano più volte parlati a voce bassa, guardando verso la
porta con ansietà.
Quello che portava il berretto greco disse al compagno:
«Il Maître d’école non viene; purché l’amico non l’abbia ucciso per
rubargli la sua parte di bottino.»
«Sarebbe una rovina per noi che abbiamo preparato il furto» riprese
l’altro.
Il nuovo arrivato, l’uomo cioè che osservava i due individui, era
troppo lontano per poter cogliere le loro ultime parole; dopo aver
più volte consultato con grandissima abilità un pezzetto di carta
nascosto nella fodera del cappello, parve soddisfatto degli
accertamenti, si alzò da tavola e disse all’ostessa che sonnecchiava
sopra il banco, con i piedi sullo scaldino e con il gattone nero
sulle ginocchia:
«Senti un po’, comare Ponisse, io ritorno subito; stai attenta al
mio boccale e al mio piatto... perché non bisogna fidarsi dei
beoni.»
«Vai tranquillo, amico» rispose comare Ponisse, «che se il piatto e
il boccale sono vuoti, nessuno te li tocca.»
L’uomo si mise a ridere alla facezia dell’ostessa e scomparve senza
che la sua partenza venisse notata.
Nel momento in cui questi aprì la porta per uscire, Rodolphe scorse
sulla strada il carbonaio dalla faccia nera e dalla statura
colossale di cui abbiamo parlato; prima che la porta si richiudesse,
Rodolphe ebbe il tempo di far vedere con un gesto d’impazienza
quanto gli desse fastidio la vigilanza del carbonaio e il suo
eventuale aiuto; ma quest’ultimo, pur tenendo conto del disappunto
di Rodolphe, restò nelle vicinanze della bettola.
Nonostante il bicchiere d’acquavite, la Goualeuse non aveva
ritrovato la sua allegria; sotto l’azione dell’alcolico, il viso le
diventava, invece, sempre più triste: con la schiena appoggiata al
muro, la testa china sul petto, i grandi occhi blu erranti
macchinalmente intorno, la sventurata creatura sembrava in preda ai
più cupi pensieri.
Due o tre volte Fleur-de-Marie, incontrando lo sguardo fisso di
Rodolphe, aveva distolto gli occhi; non si rendeva conto
dell’impressione che provocava in lei questo sconosciuto.
Imbarazzata, oppressa dalla presenza di lui, si rimproverava di
mostrarsi così poco riconoscente con colui che l’aveva strappata
dalle mani dello Chourineur; si rammaricava quasi d’avere raccontato
così sinceramente la sua vita davanti a Rodolphe.
Lo Chourineur, invece, era molto allegro; da solo aveva divorato
l’arlequin; il vino e l’acquavite lo rendevano molto comunicativo;
l’onta d’aver trovato il suo maestro, come diceva, era svanita
davanti al comportamento generoso di Rodolphe a cui egli attribuiva,
d’altronde, una così grande superiorità che la sua umiliazione aveva
fatto posto a un sentimento che era un impasto di ammirazione,
timore e rispetto.
L’assenza in lui di ogni sorta di rancore, la selvaggia schiettezza
con cui confessava d’avere ucciso e di essere stato giustamente
punito, l’orgoglio feroce con cui sosteneva di non avere mai rubato
dimostravano almeno che, nonostante i delitti commessi, lo
Chourineur non era un criminale completamente incallito.
Questo particolare non era sfuggito alla sagacia di Rodolphe il
quale aspettava con curiosità il racconto dello Chourineur.
L’ambizione dell’uomo è così insaziabile, così strana nelle sue
infinite pretese che, ora, Rodolphe desiderava essere faccia a
faccia col Maître d’école, il terribile brigante, che aveva quasi
detronizzato. Quindi, per ingannare l’impazienza, indusse lo
Chourineur a raccontare le sue avventure.
«Forza... ragazzo» gli disse, «ti ascoltiamo.»
Lo Chourineur vuotò il bicchiere e cominciò così:
«Tu almeno, povera Goualeuse, sei stata allevata dalla Chouette, che
il diavolo se la porti! hai avuto un alloggio fino al giorno in cui
ti hanno imprigionata per vagabondaggio... Io, invece, ricordo di
non aver mai dormito in ciò che si dice un letto prima di diciannove
anni... la bella età in cui sono andato soldato.»
«Hai fatto il soldato, Chourineur?» disse Rodolphe.
«Tre anni; ma ve lo racconterò dopo. Le pietre del Louvre, le
fornaci di gesso di Clichy e le cave di Montrouge, ecco gli alberghi
della mia gioventù. Vedete, avevo una casa a Parigi e una in
campagna, tutto qui.»
«E che mestiere facevi?»
«Vi giuro, maestro... vedo come attraverso una nebbia i vagabondaggi
della mia infanzia assieme a un vecchio straccivendolo che mi
caricava di botte con un rampone. Dev’essere vero perché tutte le
volte che mi è capitato d’incontrare uno straccivendolo mi veniva
voglia di saltargli addosso: segno che essi probabilmente mi avevano
picchiato nella mia infanzia. Il mio primo mestiere è stato quello
di aiutare gli squartatori a scannare i cavalli a Montfaucon...
Avevo dieci o dodici anni. Quando ho cominciato a uccidere quei
poveri e vecchi animali, mi faceva una certa impressione; dopo un
mese, non ci pensavo più; anzi il mestiere mi piaceva. Non c’era
nessuno che avesse coltelli affilati e arrotati come il mio... Mi
veniva voglia di servirmene... Dopo aver scannate le bestie
assegnatemi, mi mettevano fra le mani, come compenso del mio lavoro,
un pezzo di culaccio di cavallo morto di malattia, perché quelli che
venivano uccisi si vendevano agli imbroglioni del quartiere
dell’École-de-Médecine, che li spacciavano per carne di bue, di
montone, di vitello, per selvaggina, secondo i gusti della gente...
Ah! ma quando avevo avuto il mio pezzo di carne di cavallo mi pareva
perlomeno d’essere un re! Filavo alla mia fornace di gesso, come un
lupo nella sua tana; e lì, con il permesso dei fornaciai, lo
arrostivo accuratamente sulle braci. Quando i fornaciai non
lavoravano, andavo a raccogliere della legna secca a Romainville,
battevo l’acciarino, mi preparavo l’arrosto a un angolo delle mura
del macello. Diavolo! era al sangue e quasi crudo: ma in questa
maniera non mangiavo sempre la stessa cosa.»
«E il tuo nome? Come ti chiamavi?» disse Rodolphe.
«Avevo i capelli più biondicci di adesso, avevo sempre gli occhi
arrossati; per questo fatto mi chiamavano l’Albino. Gli albini sono
conigli bianchi e hanno gli occhi rossi» aggiunse gravemente lo
Chourineur, aprendo una parentesi fisiologica.
«E i tuoi genitori, la tua famiglia?»
«I miei genitori? stanno allo stesso numero di quelli della
Goualeuse... il mio luogo di nascita? il primo angolo d’una via
qualsiasi, il marciapiede sinistro o il marciapiede destro a seconda
che si discenda o si risalga il corso del rigagnolo.»
«Hai maledetto tuo padre e tua madre d’averti abbandonato?»
«Bel guadagno ci avrei fatto!... Comunque, mi hanno fatto un brutto
scherzo mettendomi al mondo... Non me ne lamenterei se m’avessero
fatto almeno come Dio dovrebbe fare i pezzenti, cioè senza che
debbano soffrire il freddo, la fame, la sete; non gli sarebbe
costato niente, e ai pezzenti non sarebbe costato poi tanto essere
onesti.»
«Hai avuto fame, hai avuto freddo, e non hai rubato, Chourineur?»
«No! eppure sono stato in grande miseria, via... Sono stato a
digiuno qualche volta per due giorni di seguito e più di quanto
dovessi... Ebbene non ho rubato.»
«Per paura della prigione?»
«Oh! che stupidaggine!» disse lo Chourineur, alzando le spalle e
ridendo da smascellarsi. «Non avrei rubato un po’ di pane per paura
di avere il pane?... Onesto, crepavo di fame; ladro, mi avrebbero
dato da mangiare in prigione... No, non ho rubato perché...
perché... insomma perché non mi andava l’idea di rubare.»
Questa risposta veramente bella, e di cui lo Chourineur non comprese
la portata, stupì profondamente Rodolphe.
Capì che il povero che restava onesto in mezzo alle più crudeli
privazioni era doppiamente rispettabile, perché la punizione del
delitto poteva diventare per lui una garanzia di sussistenza.
Rodolphe tese la mano a questo disgraziato selvaggio della civiltà,
che la miseria non aveva completamente perduto.
Lo Chourineur guardò il suo anfitrione con stupore, quasi con
rispetto; osò appena toccare la mano che gli si offriva. Presentì
che fra lui e Rodolphe c’era un abisso.
«Bene, bene!» gli disse Rodolphe, «hai ancora un cuore e un
onore...»
«Credetemi, non so niente» disse lo Chourineur tutto commosso; «ma
le parole che m’avete detto adesso... vedete... non avevo provato
mai qualcosa di simile... Una cosa è sicura, ed è... e i pugni
scaricatimi addosso verso la fine.. che erano così bene assestati e
che avrebbero potuto continuare fino a domani, mentre invece voi mi
pagate da mangiare... e mi dite certe cose... Insomma basta, potete
contare sullo Chourineur per la vita e per la morte.»
Rodolphe riprese, più freddamente, non volendo far trasparire
l’emozione che sentiva:
«Sei rimasto per molto tempo aiuto squartatore?»
«Certo... Dapprima lo scannare quei poveri e vecchi animali mi
disgustava... poi mi divertiva; ma quando sono arrivato verso i
sedici anni e ho cambiato la voce, allora uccidere è diventato per
me una smania, una passione! Non avevo voglia di bere né di
mangiare... pensavo solo a questa cosa!... Bisognava vedermi durante
il lavoro: all’infuori d’un vecchio paio di pantaloni di tela, non
avevo altro addosso. Quando, col mio affilatissimo coltellaccio in
mano, avevo attorno (modestia a parte) fino a quindici, fino a venti
cavalli che facevano la coda per aspettare il loro turno; diavolo!!!
quando cominciavo a scannarli, non so più che cosa mi prendesse...
ero come una furia; le orecchie mi fischiavano! vedevo rosso, tutto
rosso e colpivo... e colpivo... e colpivo finché il coltello non mi
cadeva di mano! Perbacco!!! come godevo! Se fossi stato milionario
avrei pagato per fare quel mestiere.»
«Da lì ti sarà venuta l’abitudine d’ammazzare» disse Rodolphe.
«Può darsi; ma intanto la mia smania, io avevo passato i sedici
anni, ha finito col diventare così forte che, una volta cominciato a
colpire, diventavo come un pazzo, e guastavo il lavoro... Sì,
rovinavo le pelli a forza di dare coltellate a casaccio. Alla fine
m’hanno sbattuto fuori dal macello. Ho cercato di trovare lavoro
presso i macellai: m’è sempre piaciuto il loro mestiere. Ah, sì!
hanno fatto i superbi! m’hanno disprezzato come avrebbero fatto i
calzolai con
i ciabattini. Stando così le cose e d’altronde la smania di scannare
essendomi passata con i sedici anni, ho cercato un lavoro altrove...
e non l’ho trovato subito; allora ho digiunato più d’una volta. Alla
fine mi sono messo a lavorare nelle cave di Montrouge. Ma dopo due
anni mi ero bell’e scocciato d’arrampicarmi sempre come uno
scoiattolo in cima a grandi ruote per tirar su le pietre, per un
salario di venti soldi al giorno. Ero grande e forte, mi sono
arruolato in un reggimento. Hanno voluto sapere il mio nome, la mia
età, vedere i miei documenti. Il mio nome? Albino; la mia età?
guardatemi la barba; i miei documenti? ecco il certificato
rilasciatomi dal padrone delle cave. Potevo essere un ottimo
granatiere, m’hanno arruolato.»
«Con la tua forza, col tuo coraggio e con la tua smania di scannare,
se ci fosse stata la guerra, in quel tempo, saresti forse diventato
ufficiale.»
«Perbacco! a chi lo dite. Squartando gli inglesi o i prussiani avrei
provato un piacere ben diverso da quello che avevo scannando le
rozze... Ma il brutto era che non c’era la guerra e che c’era,
invece, la disciplina. Un garzone si prova a dare un carico di
legnate al padrone, bene: se è più debole, se le prende; se è più
forte, le dà; viene licenziato, qualche volta schiaffato in
gattabuia, non succede diversamente. Nell’esercito è un altro paio
di maniche. Un giorno un sergente mi spinge per farmi obbedire più
rapidamente; aveva ragione, perché io facevo il lavativo; io mi
scoccio, faccio il restio; lui mi spinge, io lo spingo; lui mi
prende per il collo, e io gli appioppo un cazzotto. Mi saltano
addosso; allora mi ritorna la smania, il sangue mi monta alla testa,
vedo rosso... avevo il coltello in mano, ero di servizio alle
cucine, e via! Comincio a colpire... a colpire... come al mattatoio.
Uccido il sergente, ferisco due soldati!... un vero macello! undici
coltellate per loro tre soli, sì, undici!... tanto sangue, tanto
sangue come all’ammazzatoio!»
Il brigante abbassò la testa incupito, sconvolto, e restò un secondo
silenzioso.
«A che cosa pensi, Chourineur?» disse Rodolphe osservandolo con
interesse.
«A niente, a niente» rispose bruscamente. Poi riprese con feroce
indifferenza: «Alla fine mi afferrano e mi sbattono sul tavolaccio e
sono condannato a morte.»
«Sei fuggito allora?»
«No, ma sono rimasto quindici anni in prigione invece di essere
giustiziato. Ho dimenticato di dirvi che al reggimento avevo
ripescato due amici che stavano per annegare nella Senna; eravamo di
stanza a Melun. Un’altra volta, adesso riderete e direte che sono
uno che può vivere nell’acqua e nel fuoco, che sono un salvatore di
uomini e di donne! un’altra volta che eravamo di stanza a Rouen, una
città tutta case di legno, vere casette, scoppia un incendio in un
quartiere; le case bruciavano come fiammiferi; mi si comanda di
spegnere l’incendio; arriviamo sul posto; gridano che c’è una
vecchia che non può uscire da una stanza che cominciava a bruciare:
corro lì. Diavolo! sì, faceva un caldo che mi ricordava le fornaci
di gesso nei giorni di sole; alla fine salvo la vecchia. Il mio
avvocato ha mosso tanto le mani e la lingua che è riuscito a farmi
commutare la pena; invece di salire sulla forca, mi sono fatto
quindici anni di galera. Quando ho capito che non sarei stato
ucciso, il mio primo impulso è stato quello di scaraventarmi contro
quel ciarlatano del mio avvocato per strangolarlo. Voi, maestro, le
capite queste cose?»
«Ti dispiaceva vedere la tua pena commutata?»
«Sì... per chi maneggia il coltello, ci vuole la mannaia del boia,
per chi ruba, le catene ai piedi! a ciascuno la sua pena. Ma
costringervi a vivere, quando avete ucciso, sentite, i giudici non
sanno che cosa si prova i primi tempi.»
«Hai avuto rimorsi allora, Chourineur?»
«Rimorsi! No, perché ho scontato la mia condanna» rispose il
selvaggio; «ma una volta, non passava quasi notte che non vedessi,
come in un incubo, il sergente e i soldati che avevo squartato, cioè
non erano soli» aggiunse il brigante con una sorta di terrore;
«erano decine, centinaia, migliaia che aspettavano il loro turno in
una specie di ammazzatoio come i cavalli che scannavo a Montfaucon.
Allora vedevo rosso, e cominciavo a menar colpi... a menar colpi
contro quegli uomini come una volta sui cavalli. Ma più soldati
uccidevo, più ne sorgevano. E morendo essi mi fissavano con uno
sguardo così dolce, così dolce che io mi pentivo maledettamente di
averli uccisi; ma non potevo frenarmi. Non era tutto... io non ho
mai avuto fratelli, eppure mi pareva che tutti quelli che ammazzavo
fossero miei fratelli... e dei fratelli per cui mi sarei buttato nel
fuoco. Alla fine, quando non ne potevo più, mi svegliavo che ero in
un bagno di sudore freddo come la neve.»
«Era un brutto sogno, Chourineur.»
«Oh! sì, certo. Ebbene! i primi tempi che ero in prigione, ogni
notte l’avevo... questo sogno. Sentite, c’era da diventare pazzi o
idrofobi. Per questo ho cercato per due volte di togliermi la vita,
una volta inghiottendo un po’ di verderame, un’altra volta tentando
di strozzarmi con una catena; ma io sono forte come un toro. Il
verderame m’ha fatto venire sete e nient’altro. Il giro di catena
attorno al collo è stato per me come una naturale cravatta di color
turchino.
Dopo di che fui ripreso dal tran tran della vita, gli incubi si sono
diradati, e ho seguito gli altri.»
«Avevi però buoni maestri per imparare a rubare.»
«Sì, ma non era di mio gusto. Gli altri galeotti mi prendevano in
giro a questo proposito, ma io li caricavo di colpi di catena. È
così che ho conosciuto il Maestro... di questi, però, rispetto i
cazzotti! egli mi ha somministrato la sua dose di pugni come avete
fatto voi poc’anzi.»
«Allora è un ex forzato?»
«O meglio era un forzato a vita, ma s’è liberato da sé.»
«È evaso? perché non lo denunciano?»
«Non sarò io a denunciarlo, comunque, potrebbe sembrare che
avessi paura di lui.»
«Come mai la polizia non l’ha scoperto? Avrà senz’altro i suoi
connotati.»
«I suoi connotati! Ah sì, proprio! da un pezzo ha fatto sparire
quelli che Dio gli aveva dato. Solo il diavolo ora potrebbe
riconoscere il Maestro.»
«Come ha fatto?»
«Ha cominciato coll’accorciarsi il naso che aveva lungo un palmo;
dopo di che s’è passato il vetriolo sul viso.»
«Dici sul serio?»
«Se stasera viene, lo vedrete; aveva un gran naso da pappagallo, ora
è camuso... come la morte, senza contare che ha labbra grosse come
un pugno, e una faccia olivastra imbastita come la giacca d’un
cenciaiolo.»
«A tal punto è irriconoscibile!»
«Da sei mesi è scappato da Rochefort, eppure i poliziotti l’avranno
incontrato centinaia di volte senza riconoscerlo.»
«Perché era ai lavori forzati?»
«Perché era stato falsario, ladro e assassino. Lo chiamano il
Maestro perché ha una bellissima scrittura ed è molto istruito.»
«Ed è temuto?»
«Non lo sarà più quando l’avrete picchiato come avete fatto con me.»
«Che cosa fa per campare?»
«Dicono che si vanta d’aver ucciso e derubato, tre settimane fa, un
mercante di buoi sulla strada di Poissy.»
«Prima o poi verrà arrestato.»
«Bisognerà, per fare questo, essere più di due, perché sotto il
camiciotto porta sempre due pistole cariche e un pugnale. Il boia
l’aspetta, può morire una volta sola. Per salvarsi ucciderà tutto
quello che potrà uccidere. Oh! non ne fa mistero; e, siccome è più
forte di noi due messi assieme, si faticherà a immobilizzarlo.» «Che
cosa hai fatto, Chourineur, appena uscito dai lavori for-
zati?»
«Sono andato a offrirmi come scaricatore al padrone del quai
Saint-Paul, e lì mi guadagno tuttora da vivere.»
«Ma, siccome, dopo tutto, non sei un ladro, perché vivi nel-
la Cité?»
«E dove volete che viva? Chi vorrebbe bazzicare con un pre-
giudicato? E poi io mi annoio a stare da solo; mi piace la
compagnia, e qui vivo con i miei simili. Qualche volta faccio
baruffa... Nella Cité mi temono come il fuoco, e il commissario non
ha niente da dirmi, salvo per le scazzottate che mi valgono qualche
volta ventiquattr’ore di guardina.»
«E quanto guadagni al giorno?»
«Trentacinque soldi. Tirerò avanti finché avrò forza; quando non ne
avrò più, mi prenderò un rampone e una cesta di vimini come il
vecchio straccivendolo che vedo nei ricordi incerti della mia
infanzia.»
«Nonostante tutto questo non sei infelice?»
«Ce ne sono che stanno peggio di me, sicuro; senza il sogno del
sergente e dei soldati scorticati, sogno che ho ancora spesso,
potrei tranquillamente crepare come uno qualsiasi sul ciglio d’una
strada o all’ospedale; ma questo sogno... Sentite... perdinci! non
mi piace pensare a questo» disse lo Chourineur.
E svuotò su un angolo della tavola il fornello della pipa.
La Goualeuse aveva ascoltato lo Chourineur con distrazione, sembrava
assorta in una dolorosa fantasticheria.
Anche Rodolphe era pensoso.
I due racconti che aveva ascoltato gli avevano suscitato nuovi
pensieri.
Un tragico incidente fece ripiombare i tre personaggi nell’ambiente
in cui si trovavano.
V
L’A R R E S T O
L’uomo che era uscito un momento, dopo avere raccomandato
all’ostessa il suo boccale e il suo piatto, ritornò subito,
accompagnato da un nuovo personaggio, con spalle larghe e faccia
energica.
«Che combinazione averti incontrato qui, Borel!» disse, «vieni pure
avanti che andiamo a bere un bicchiere di vino.»
Lo Chourineur allora si rivolse sottovoce a Rodolphe e alla
Goualeuse, indicando il nuovo arrivato:
«C’è aria di tempesta... è un poliziotto. State attenti!»
Il bandito che portava il berretto greco calcato fin sopra le
orecchie e che aveva più volte chiesto del Maître d’école lanciò una
rapida occhiata all’altro; capitisi, i due banditi si alzarono
simultaneamente da tavola e si diressero verso la porta; ma i due
agenti si gettarono su di loro emettendo un grido particolare.
Seguì una lotta terribile.
La porta della taverna si aprì; altri agenti si riversarono nella
sala, e in quel momento si videro balenare da fuori i fucili dei
gendarmi.
Approfittando del tumulto, il carbonaio di cui abbiamo parlato s’era
spinto fin sulla soglia della bettola e, incontrando per caso lo
sguardo di Rodolphe, s’era portato alle labbra l’indice della mano
destra.
Rodolphe, con un gesto rapido e imperioso, gli ordinò d’andare via;
poi riprese a osservare quello che succedeva nella taverna.
L’uomo dal berretto greco urlava rabbiosamente; benché mezzo disteso
sulla tavola, faceva sforzi così disperati che a malapena tre uomini
riuscivano a tenerlo fermo.
Annientato, incupito, col volto livido, con le labbra smorte, con la
mascella inferiore pendente e convulsamente agitata, l’altro bandito
non fece alcuna resistenza; offrì spontaneamente le mani alle
manette.
L’ostessa, seduta dietro il banco, restava impassibile con le mani
nelle tasche del grembiule, essendo abituata a simili scene.
«Ma che cosa hanno fatto questi due uomini, signor Borel?» domandò a
quell’agente che conosceva.
«Ieri hanno ucciso una vecchia della rue Saint-Christophe, per
potere svaligiare la sua casa. Prima di morire, la povera donna ha
detto d’aver morso una mano a uno dei due assassini. Li tenevamo
d’occhio questi due delinquenti. Il mio collega è venuto poco fa ad
assicurarsi della loro identità, ed eccoli beccati.»
«Meno male che m’hanno pagato in anticipo la consumazione» disse
l’ostessa. «E voi, volete prendere qualcosa, signor Borel? un
bicchiere di Parfait-Amour, di Consolation?»
«Grazie, comare Ponisse; bisogna che sbatta dentro questi briganti.
Vedete che uno sta ancora scalciando!...»
Infatti, il delinquente col berretto greco si stava dibattendo
rabbiosamente. Quando si trattò di cacciarlo nella carrozza che
aspettava sulla strada, oppose una tale resistenza che bisognò
immobilizzarlo e trasportarlo a braccia.
Il complice, invece, in preda a un tremito nervoso, poteva appena
reggersi in piedi: muoveva le labbra livide come se stesse
parlando... Gettarono quella massa inerte nella carrozza.
«Eh! comare Ponisse» disse l’agente, «non fidatevi di BrasRouge; lui
è astuto, potrebbe compromettervi.»
«Bras-Rouge! è da settimane che non lo vedo nel quartiere, signor
Borel.»
«È sempre così, quando è in un posto... mica si fa vedere, voi lo
sapete bene... Ma attenta a non tenere o prendere in consegna
qualche pacco o qualche involto per conto suo; sarebbe
ricettazione.»
«State tranquillo, signor Borel, ho paura di Bras-Rouge come del
diavolo. Non si sa mai da dove venga né dove vada. L’ultima volta
che l’ho visto, m’ha detto che arrivava dalla Germania.»
«Insomma io vi avverto... state attenta.»
Prima di lasciare la bettola, l’agente guardò con attenzione gli
altri clienti e, visto lo Chourineur, gli disse con tono quasi
affettuoso: «Ehi, buona-lana! è un pezzo che non si sente parlare di
te!
Non hai fatto più a cazzotti? Fai il bravino allora?»
«Sono buono come un angelo; voi sapete che spacco la faccia
solo a quelli che me lo domandano.»
«Ci mancherebbe altro, che fossi tu a provocare, forte come sei.»
«Eppure costui è il mio maestro, signor Borel» disse lo Chou-
rineur posando la mano sulla spalla di Rodolphe.
«To’! questo non lo conosco» disse l’agente esaminando Ro-
dolphe.
«E non avremo mai occasione di conoscerci, camerata» rispo-
se Rodolphe.
«Ve lo auguro, ragazzo» disse l’agente. Poi, rivolgendosi
all’ostessa:
«Buonasera, comare Ponisse: la vostra bettola è una vera trap-
pola per sorci, è il terzo delinquente che ci pizzico».
«E spero che non sarà neppure l’ultimo, signor Borel; sempre al
vostro servizio...» disse con grazia l’ostessa inchinandosi rispet-
tosamente.
Partito il poliziotto, il giovane dalla faccia terrea che alternava
il fumo con l’acquavite, ricaricò la pipa; poi disse con voce rauca
allo Chourineur:
«Non hai riconosciuto il tipo col berretto greco? è l’uomo della
Boulotte, è il Vélu. Quando ho visto entrare gli agenti, mi sono
detto: “C’è sotto qualcosa; per questo il Vélu teneva sempre
nascosta la mano sotto il tavolo”.»
«Comunque, il Maître d’école è stato fortunato a non essersi trovato
qui» riprese l’ostessa. «Il tipo col berretto greco ha chiesto più
volte di lui perché hanno degli affari insieme... Ma io non
denuncerò mai i miei clienti. Se li arrestano, bene... ognuno fa il
suo mestiere... ma io non li vendo... To’, quando si parla del
lupo...» aggiunse l’ostessa proprio nell’attimo in cui un uomo e una
donna entravano nell’osteria; «ecco appunto il Maestro con sua
moglie.»
Un fremito di terrore percorse gli ospiti della bettola.
Lo stesso Rodolphe non poté evitare, nonostante la naturale
intrepidezza, una certa emozione alla vista del terribile brigante
che contemplò per qualche secondo con curiosità mista a orrore.
Lo Chourineur aveva detto la verità, il Maître d’école si era
spaventosamente mutilato.
Non si poteva immaginare cosa più terrificante del volto di questo
brigante.
La faccia era solcata in tutte le direzioni da cicatrici livide e
profonde; le labbra, tumefatte dall’azione corrosiva del vetriolo;
le cartilagini, del naso tagliate; le narici, sostituite da due
buchi informi. Gli occhi grigi, chiarissimi, microscopici, tondi
tondi, sprizzavano ferocia; la fronte, schiacciata come quella di
una tigre, era quasi nascosta da un berretto di pelle con pelo lungo
e rossiccio... si sarebbe pensato alla criniera d’un mostro.
Il Maestro non era alto più di cinque piedi e due o tre pollici; la
testa, smisuratamente grossa, s’incassava tra due spalle larghe,
alte, potenti, carnose che si notavano anche sotto le pieghe
svolazzanti del camiciotto di tela grezza; aveva le braccia lunghe,
muscolose; le mani corte, grosse e pelose fin sopra le dita; le
gambe erano un po’ arcuate, ma i polpacci enormi denunciavano una
forza atletica.
Insomma, quest’uomo incarnava l’esagerazione di ciò che c’è di
corto, di massiccio, di tozzo nel tipo alla Ercole Farnese.
Dobbiamo rinunciare a dipingere l’espressione di ferocia che
scoppiava su questa maschera spaventosa, in quegli occhi inquieti,
mobili, ardenti come quelli di una fiera.
La donna che accompagnava il Maestro era vecchia, portava un
discreto abito scuro, uno scialle a quadri rossi e neri e una cuffia
bianca.
Rodolphe la vedeva di profilo; l’occhio verde e tondo, il naso
adunco, le labbra sottili, il mento sporgente, il volto astuto e
malvagio gli rammentarono la Chouette.
Stava per dire la sua impressione alla Goualeuse quando, levando gli
occhi sulla ragazza, la vide impallidire; ciononostante essa
continuava a guardare con muto terrore la scostante amica del
Maestro; infine, afferrando con mano tremante il braccio di
Rodolphe, gli disse sottovoce:
«La Chouette! Dio mio! la Chouette... la guercia!»
A questo punto il Maestro, dopo aver scambiato qualche parola con
uno degli avventori della bettola, avanzò lentamente verso la tavola
dove stavano Rodolphe, la Goualeuse e lo Chourineur.
Poi, rivolgendosi a Fleur-de-Marie, con voce rauca e cavernosa come
il ruggito d’una tigre:
«Ehi! senti un po’, bella bionda, lascia ’sti due bei musi e vieni
subito con me...»
La Goualeuse non rispose parola, ma s’avvicinò ancor più a Rodolphe,
tremante di paura.
«E io... io non farò la gelosa» disse l’orribile Chouette, ridendo a
crepapelle.
Non aveva ancora riconosciuto nella Goualeuse la Pégriotte, la sua
vittima.
«Ehi, piccola, mi hai sentito?» disse il mostro avvicinandosi. «Se
non ti muovi, ti cavo un occhio tanto per appaiarti alla Chouette.
Tu, coi baffi,» (queste parole erano dirette a Rodolphe), «se non mi
butti la bionda sopra la tavola... ti spacco...»
«Dio mio, Dio mio! difendetemi» gridò la Goualeuse a Rodolphe,
congiungendo le mani. Poi, pensando che lo mandava incontro a un
grosso pericolo, aggiunse a bassa voce: «No, no, non muovetevi,
signor Rodolphe; quando mi verrà vicino, griderò aiuto, e l’ostessa
prenderà sicuramente le mie parti se non vorrà far nascere un
tafferuglio che potrebbe attirare la polizia.»
«Sta’ tranquilla, ragazza» disse Rodolphe, guardando intrepidamente
il Maestro. «Tu sei con me, non muoverti; e siccome questo lurido
bestione fa schifo a te come a me, adesso lo butto fuori sulla
strada...»
«Tu?» disse il Maître d’école.
«Io!!!» rispose Rodolphe.
E, nonostante la Goualeuse lo tirasse giù, si alzò da tavola. Alla
vista terribile del volto di Rodolphe, il Maestro fece un
passo indietro.
Anche Fleur-de-Marie e lo Chourineur furono colpiti dall’espressione
carica di cattiveria, di rabbia diabolica che, in quel momento,
contrasse la nobile figura del loro amico; era diventato
irriconoscibile. Nella zuffa con lo Chourineur, Rodolphe s’era
mostrato sprezzante e beffardo; di fronte al Maestro, invece,
sembrava posseduto da un odio feroce; le pupille, dilatate per la
collera, mandavano strani bagliori.
Certi sguardi hanno una potenza magnetica irresistibile; dicono che
certi famosi duellisti attribuiscano i loro ferali successi
all’azione affascinatrice del loro sguardo, uno sguardo che
demoralizza, che abbatte gli avversari.
Rodolphe aveva il dono di queste implacabili occhiate fisse,
penetranti, che atterriscono e che non possono essere evitate da
coloro che ossessionano... È uno sguardo che li sconvolge, li
domina; lo sentono quasi come un fatto fisico che ricercano, loro
malgrado... sono incapaci di distogliere gli occhi.
Il Maestro trasalì, fece un altro passo indietro, e, non più sicuro
ora della sua forza prodigiosa, cercò sotto il camiciotto il manico
del pugnale.
Un fatto sanguinoso sarebbe forse successo nella bettola, se la
Chouette, afferrando il Maestro per un braccio, non fosse
intervenuta:
«Un momento... un momento... malandrino, fammi dire una parola...
poi ti farai un boccone di questi due bei musi, tanto non ti
sfuggiranno.»
Il Maestro guardò la guercia con stupore.
Da qualche momento la Chouette stava osservando Fleur-deMarie con
crescente attenzione tentando di mettere insieme i ricordi.
Alla fine non ebbe più alcun dubbio: riconobbe la Goualeuse.
«Com’è possibile!» esclamò stupita la guercia congiungendo le mani,
«è la Pégriotte, la ladra di pasticche. Ma da dove salti fuori? è il
diavolo che ti manda!» aggiunse mostrando i pugni alla ragazza. «Non
puoi sottrarti alle mie grinfie! Stai tranquilla che se non ti
strappo più i denti, ti farò spremere tutte le lacrime degli occhi.
Ah! vedrai come t’arrabbi! non sai allora? io conosco i tuoi
genitori: il Maestro ha conosciuto in galera l’uomo che t’ha
consegnata a me quand’eri piccina... Gli ha detto il nome di tua
madre... Sono ricchi i tuoi genitori...»
«I miei genitori! Li conoscete?...» esclamò Fleur-de-Marie.
«Sì, mio marito sa il nome di tua madre... ma gli strapperò la
lingua piuttosto che permettergli di dirtelo. Anche ieri ha visto
l’uomo che ti ha portata nel mio tugurio perché nessuno pagava più
sua moglie che ti aveva tenuto a balia... perché premevi ben poco a
tua madre, avrebbe preferito saperti morta, sicuro... Ma non
importa, se tu sapessi ora il suo nome, potresti ricattarla per
benino, non ti pare piccola bastarda?... L’uomo di cui ti parlo è in
possesso di documenti... sì, Pégriotte, ha alcune lettere di tua
madre... e se non se ne serve, ha le sue ragioni... Eh! sei
arrabbiata... piangi, Pégriotte... Ebbene, no, tua madre non la
conoscerai... Non la conoscerai.»
«Preferisco che mi creda morta...» disse Fleur-de-Marie,
asciugandosi gli occhi.
Rodolphe, dimenticato il Maître d’école, s’era messo ad ascoltare
con attenzione e interesse il racconto della Chouette.
Nel frattempo il brigante, non più sotto l’influsso dello sguardo di
Rodolphe, aveva ripreso coraggio; non poteva credere che un giovane
di media e slanciata statura fosse in grado di misurarsi con lui;
sicuro ora della sua forza erculea, s’avvicinò al difensore della
Goualeuse e disse seccamente alla Chouette:
«Basta con le chiacchiere... Voglio squadrare questo bel tomo e
sfondargli il muso... perché la bella bionda mi trovi più carino di
lui.»
Con un balzo Rodolphe saltò la tavola.
«State attenti ai miei piatti!» gridò ripetutamente l’ostessa.
Il Maître d’école si mise in guardia, portando le mani in avanti
e il busto all’indietro, piantandosi solidamente sui lombi e
puntellandosi, per così dire, su una delle sue enormi gambe... che
sembrava un pilastro.
Nel momento in cui Rodolphe gli si lanciava addosso, la porta della
bettola si aprì violentemente; il carbonaio di cui abbiamo parlato,
un uomo alto circa sei piedi, entrò a precipizio nella sala,
allontanò senza riguardi il Maestro, s’avvicinò a Rodolphe, e in
inglese gli disse a un orecchio:
«Signore, Tom e Sarah... sono in fondo alla strada.»
A quelle misteriose parole, Rodolphe ebbe un gesto di collera e,
gettato un luigi sul banco dell’ostessa, corse verso la porta.
Il Maître d’école tentò di sbarrare la strada a Rodolphe; ma questi,
voltandosi, gli appioppò in piena faccia due pugni così violenti che
il toro, rintronato, vacillò e cadde rovinosamente sopra un tavolo.
«Evviva! questi sono i pugni che ho ricevuto io alla fine» gridò lo
Chourineur. «Ancora qualcuna di queste lezioni, e avrò imparato...»
Ritornato in sé dopo alcuni secondi, il Maître d’école si lanciò
all’inseguimento di Rodolphe.
Quest’ultimo, assieme al carbonaio, era scomparso nel dedalo oscuro
delle vie della Cité; era impossibile raggiungerlo.
Poco dopo che il Maître d’école era tornato nella bettola schiumante
di rabbia, due uomini, accorsi in fretta dalla parte opposta a
quella per cui era andato Rodolphe, si precipitarono nella taverna;
ansimavano come se avessero fatto una lunga corsa.
Entrando, si preoccuparono prima di tutto di rovistare con lo
sguardo ogni angolo della taverna.
«Maledizione!» disse uno dei due, «ci è sfuggito ancora!...»
«Pazienza!... i giorni hanno ventiquattro ore, e la vita è lunga»
rispose l’altro.
I nuovi arrivati parlavano tutti e due inglese.
VI
TOM E SARAH
Si vedeva che i due ultimi personaggi entrati nella bettola
appartenevano a un ceto molto più elevato di quello dei clienti
della taverna.
Uno dei due era alto e slanciato; aveva i capelli quasi bianchi, le
sopracciglia e i favoriti neri, una faccia bruna e magra, segnata da
un’espressione energica e severa. Sul cappello portava, in segno di
lutto, una fascia nera; indossava una lunga finanziera scura che si
abbottonava fin sul collo; portava, sopra gli aderenti calzoni
grigi, un paio di stivali detti un tempo alla Suvarov.
L’amico, di statura molto bassa, bello anche se pallido, vestiva a
lutto.
I lunghi capelli, le sopracciglia e gli occhi bruno scuri facevano
risaltare il languido pallore del volto; il portamento, la statura,
la finezza dei lineamenti dimostravano apertamente che questo
personaggio era una donna travestita da uomo.
«Tom, chiedete da bere e interrogate un po’ questa gente» disse
Sarah, sempre in inglese.
«Sì, Sarah» rispose l’uomo dai capelli bianchi e dalle sopracciglie
nere.
Poi, sedutosi a un tavolo mentre Sarah si asciugava la fronte, disse
all’ostessa in un buonissimo francese quasi senza accento:
«Signora, fateci, per favore, portare qualcosa da bere.»
L’arrivo di questi due personaggi alla bettola aveva destato un vivo
interesse; i loro vestiti, i loro modi davano a vedere che essi non
avevano mai frequentato locali di questo genere. Dalla loro
espressione inquieta e preoccupata, si capiva che erano venuti nel
quartiere per motivi importanti.
Lo Chourineur, il Maître d’école e la Chouette li guardavano con
avida curiosità.
La Goualeuse, spaventata dalla presenza della Chouette e impaurita
dalle minacce del Maître d’école che voleva condurla con sé,
approfittò della disattenzione dei due delinquenti per portarsi
verso la porta rimasta socchiusa e uscire dalla taverna.
Lo Chourineur e il Maître d’école non avevano, nessun interesse a
prendersi ancora a cazzotti.
Sorpresa dall’arrivo di ospiti così insoliti, l’ostessa partecipava
alla curiosità generale. Tom, spazientitosi, le chiese una seconda
volta:
«Abbiamo ordinato qualcosa da bere, signora; abbiate la gentilezza
di servirci.»
Comare Ponisse, lusingata dal complimento, si alzò da dietro il
banco e andò ad appoggiarsi con tutta la grazia che poteva avere sul
tavolo di Tom, e gli disse:
«Volete un litro di vino o una bottiglia sigillata?».
«Portateci una bottiglia di vino, due bicchieri e un po’ d’acqua.»
L’ostessa servì; Tom le gettò cento soldi, e, lasciatole il resto
che lei voleva restituirgli:
«Tenete pure, ostessa, e venite a bere un bicchiere di vino
con noi.»
«Siete molto gentile, signore» disse comare Ponisse guardan-
do Tom più con stupore che con riconoscenza.
«Ma, dite un po’» riprese quest’ultimo «noi avevamo dato ap-
puntamento a un nostro amico in una taverna di questa strada; forse
ci siamo sbagliati.»
«Questo è il Lapin Blanc, per servirvi, signore.»
«È proprio questo» rispose Tom facendo un cenno d’intesa a Sarah.
«Sì, proprio al Lapin Blanc doveva aspettarci.»
«Di Lapin Blanc ce n’è uno solo in questa strada» disse
orgogliosamente l’ostessa. «Ma com’era questo vostro amico?»
«Alto e magro, capelli e baffi castano chiari» rispose Tom.
«Aspettate un po’, aspettate un po’, è il tipo di poco fa; un
carbonaio di statura colossale è venuto a chiamarlo, e sono andati
via insieme.»
«Sono loro» disse Tom.
«Ed erano soli qui?» chiese Sarah.
«Veramente, il carbonaio c’è stato per un solo momento, mentre
l’altro vostro amico ha cenato qui con la Goualeuse e lo
Chourineur»; e così dicendo l’ostessa indicò con uno sguardo quel
commensale di Rodolphe che era rimasto nella taverna.
Tom e Sarah si girarono dalla parte dello Chourineur.
Dopo un breve esame dello Chourineur, Sarah disse in inglese al
compagno:
«Conoscete quell’uomo?»
«No. Karl aveva perduto le tracce di Rodolphe all’inizio di queste
vie oscure. Accortosi che Murph s’aggirava nelle vicinanze della
bettola, travestito da carbonaio, e che spesso andava a incollare
gli occhi ai vetri di questa, ha subodorato qualcosa ed è venuto
quindi ad avvertirci.»
Durante questo dialogo, svoltosi sottovoce e in lingua straniera, il
Maestro diceva in un orecchio alla Chouette guardando Tom e Sarah:
«Lo spilungone ha scucito cento soldi all’ostessa. Presto è
mezzanotte; piove, tira vento: quando saranno usciti, ci metteremo a
seguirli; stordirò il tipo magro e gli soffierò il denaro. È con una
donna, non oserà fiatare.»
«Se la piccola chiama aiuto, ho il mio vetriolo in tasca, le
spaccherò la bottiglia sulla faccia» disse la guercia; «si deve
sempre dar da bere ai bambini perché non gridino.» Poi aggiunse:
«Senti un po’, furfante, la prossima volta che incontriamo la
Pégriotte, dobbiamo portarla via di forza. Una volta che sarà con
noi, le sfregheremo il muso con il vetriolo, così non farà più la
superba con quel suo grazioso visino...»
«Senti, Chouette, finirò con lo sposarti» disse il Maître d’école
«non c’è nessuno che ti superi in abilità e coraggio... La notte del
mercante di buoi, t’ho giudicata... mi sono detto: “Questa sarà mia
moglie: lavorerà meglio di un uomo”.»
Dopo aver riflettuto un momento, Sarah disse a Tom indicandogli lo
Chourineur:
«Se chiedessimo a quell’uomo di Rodolphe, forse potremmo sapere che
cosa l’ha condotto qui.»
«Proviamo» rispose Tom. Poi, rivolgendosi allo Chourineur: «Sentite,
buon uomo, noi dovevamo trovarci in questa taverna con un nostro
amico; egli ha cenato con voi qui dentro; dal momento che lo
conoscete, diteci se sapete dove è andato.»
«Io lo conosco perché due ore fa ha preso le difese della Goualeuse
e m’ha picchiato di santa ragione.»
«E prima d’allora non l’avevate mai visto?»
«Mai... Ci siamo incontrati nell’andito della casa di BrasRouge.»
«Ostessa! una bottiglia sigillata, e del migliore» gridò Tom.
I bicchieri di Tom e Sarah erano ancora pieni perché essi s’erano
limitati a intingervi le labbra; comare Ponisse, invece, certamente
per fare onore alla propria cantina, ne aveva già vuotati parecchi.
«E portatela sul tavolo di questo signore se si compiace di
permetterlo» aggiunse Tom andando con Sarah accanto allo Chourineur,
stupito e lusingato a un tempo da questa cortesia.
Il Maître d’école e la Chouette continuavano sempre a parlare
sottovoce dei loro sinistri progetti.
Dopo che la bottiglia fu portata, e che Tom e Sarah si sedettero a
tavola con lo Chourineur e con l’ostessa che aveva ritenuto
superfluo un secondo invito, il colloquio riprese:
«Ci dicevate dunque, buon uomo, d’aver incontrato il nostro amico
Rodolphe nella casa di Bras-Rouge?» disse Tom brindando con lo
Chourineur.
«Sì, signore» rispose questi vuotando rapidamente il bicchiere.
«È un nome strano codesto... Bras-Rouge! Che fa questo BrasRouge?»
«Fa passare la roba» rispose con noncuranza lo Chourineur; poi
aggiunse: «Questo sì che è un vino eccellente, comare Ponisse!»
«Per questo, buon uomo, non vi lascio mai il bicchiere vuoto»
riprese Tom versando di nuovo da bere allo Chourineur.
«Alla vostra salute» disse questi, «e a quella del vostro
amichetto... insomma basta... Se mia zia fosse un uomo, sarebbe mio
zio, come dice il proverbio... Via, burlone, mi capisco io!»
Sarah arrossì impercettibilmente.
Tom riprese:
«Non ho ben capito quello che m’avete detto su Bras-Rouge.
Sicuro che Rodolphe uscisse dalla casa di BrasRouge?»
«Vi ho detto che Bras-Rouge faceva passare la roba.»
Tom guardò sorpreso lo Chourineur.
«Che cosa vuol dire far passare la... come avete detto?»
«Far passare la roba, insomma fare contrabbando. Mi sa che
voi non spiccicate?»
«Buon uomo, non vi capisco più.»
«Io vi dico: Non parlate allora il nostro gergo come il signor
Rodolphe.»
«Gergo?» disse Tom guardando Sarah con aria stupita.
«Andiamo, voi siete dei semplici... Rodolphe, invece, lui sì che è
un ottimo amico; nonostante faccia il pittore di ventagli, darebbe
lezioni di gergo anche a me... Orbene, dal momento che non parlate
questa bella lingua, vi dico in buon francese che BrasRouge fa il
contrabbandiere; dicendo questo non faccio la spia... perché lui non
ne fa mistero, anzi se ne vanta in presenza dei gabellotti; ma
Bras-Rouge è astuto, inutile cercarlo e volerlo prendere.»
«E che cosa andava a fare Rodolphe in casa di quest’uomo?» chiese
Sarah.
«Credetemi signore... o signora, come volete, non ne so
assolutamente niente, e quel che dico è vero come il bicchiere di
vino che ho davanti. Stasera volevo picchiare la Goualeuse; avevo
torto: è una brava ragazza; lei s’inoltra nell’androne della casa di
Bras-Rouge, io la inseguo... faceva buio come all’inferno; invece di
raggiungere la Goualeuse, incappo in padron Rodolphe, che mi dà una
buona batosta, e con colpi duri... oh! sì... c’erano soprattutto i
pugni finali... capperi! com’erano bene aggiustati! m’ha promesso
d’insegnarmeli.»
«E che uomo è Bras-Rouge?» domandò Tom. «Che tipo di merci vende?»
«Bras-Rouge? diavolo! vende tutto quello che è proibito vendere, fa
tutto quello che è proibito fare. Ecco il suo mestiere e la sua
merce. Non è vero, comare Ponisse?»
«Oh! è uno scaltro» rispose l’ostessa.
«E mette bellamente i gabellotti nel sacco» riprese lo Chourineur.
«Più di venti volte hanno fatto incursioni nella sua casetta, non
hanno mai trovato niente, eppure quando esce di casa è quasi sempre
carico di involti.»
«È furbo!» disse l’ostessa; «dicono che in casa sua c’è un
nascondiglio che comunica con un pozzo che conduce alle catacombe.»
«Eppure non hanno mai trovato il suo nascondiglio; si dovrebbe
demolirgli la casetta per scoprirlo» disse lo Chourineur.
«E che numero ha di casa Bras-Rouge?»
«Il 13 della rue aux Fèves: Bras-Rouge spacciatore di tutto ciò che
si vuole... È conosciuto nella Cité» disse lo Chourineur.
«Voglio segnarmi quest’indirizzo sul taccuino; se non troveremo
Rodolphe, andremo da Bras-Rouge per cercare di avere qualche
informazione» riprese Tom. E scrisse il nome e il numero della
strada del contrabbandiere.
«Voi, da parte vostra, potete vantarvi d’avere, in padron Rodolphe,
un amico sicuro...» disse lo Chourineur «e buon figliolo... Se non
interveniva il carbonaio, stava per venire alle mani col Maestro che
è laggiù in quel canto con la Chouette... Per tutti i diavoli! se
non mi tengo la stritolo, quella vecchia fattucchiera, quando penso
a quello che ha fatto alla Goualeuse... Ma pazienza... un pugno si
può sempre dare, come dice quell’altro.»
«Rodolphe vi ha picchiato? lo odierete!» disse Sarah.
«Io odiare un uomo che è così? neanche per idea! Effettivamente è
una cosa buffa... vedete, il Maître d’école mi ha picchiato, eppure
non sapete come mi piacerebbe vederlo strangolato... Il signor
Rodolphe m’ha picchiato e anche più duramente... è il contrario
invece: gli voglio bene. Insomma credo che mi butterei nel fuoco per
lui, e lo conosco appena da questa sera.»
«Lo dite, buon uomo, perché siamo suoi amici.»
«No, perdio! no, ve lo giuro!... Vedete, egli ha dalla sua i pugni
finali... di cui non va assolutamente fiero: non c’è da dire... è un
maestro perfetto... E poi vi dice certe parole... certe cose che vi
rimettono l’anima in corpo; poi infine, quando vi guarda... c’è nei
suoi occhi un non so che... Sentite, io sono stato soldato..., con
un capo come lui... vedete, si conquisterebbero la luna e le
stelle.»
Tom e Sarah si guardarono in silenzio.
«Questa straordinaria potenza magnetica ce l’ha sempre allora e
dovunque vada?» disse amaramente Sarah.
«Sì... finché non avremo rotto l’incanto» riprese Tom.
«Sì, e, qualunque cosa succeda, dobbiamo farlo, dobbiamo farlo»
disse Sarah passandosi una mano sulla fronte come per cacciare un
triste ricordo.
Al palazzo municipale suonò la mezzanotte.
La lampada della taverna non gettava più che un incerto chiarore.
All’infuori dello Chourineur e dei due commensali, del Maestro e
della Chouette, tutti i clienti della bettola, chi prima chi poi,
s’erano ritirati.
Il Maître d’école disse piano alla Chouette:
«Andremo a nasconderci nell’androne di fronte e, quando vedremo
uscire le due vittime, ci metteremo a seguirle. Se vanno a sinistra,
li aspettiamo dietro l’angolo della rue Saint-Eloi; se vanno a
destra, li aspettiamo dietro le macerie della casa in demolizione,
dalla parte della tripperia; lì vicino c’è un gran buco; so io che
cosa fare.»
E il Maître d’école e la Chouette si diressero verso la porta.
«Non mangiate proprio niente questa sera?» disse loro l’ostessa.
«No, comare Ponisse... eravamo entrati per metterci al riparo»
rispose il Maestro. E uscì seguito dalla Chouette.
VII
O LA BORSA O LA VITA
Al rumore che fece la porta richiudendosi, Tom e Sarah si scossero
dalle loro fantasticherie; si alzarono e ringraziarono lo Chourineur
delle informazioni avute: questi ispirava loro meno fiducia dopo che
aveva espresso volgarmente sì ma anche sinceramente quella sua
brutale ammirazione per Rodolphe.
Nel momento in cui uscì lo Chourineur, il vento infuriava con
maggiore violenza e la pioggia cadeva a torrenti.
Il Maître d’école e la Chouette, in agguato nell’androne dirimpetto
alla bettola, videro lo Chourineur prendere per la strada in cui si
trovava la casa mezzo demolita. Dopo un po’ il rumore dei suoi
passi, un po’ appesantiti dalle frequenti libagioni della serata, si
perdette in mezzo ai sibili del vento e allo scrosciare della
pioggia che sferzava le muraglie.
Nonostante la bufera, Tom e Sarah uscirono dalla taverna e presero
per una direzione opposta a quella dello Chourineur.
«Sono perduti» disse piano il Maître d’école alla Chouette; «stappa
il vetriolo: attenta!»
«Leviamoci le scarpe, non ci sentiranno quando cammineremo alle loro
spalle» disse la Chouette.
«Hai ragione, Chouette, sempre ragione, io non ci avrei mai pensato;
facciamo il passo felpato.»
L’orribile coppia si scalzò e scivolò poi nell’ombra, rasente alle
case...
Grazie a questo stratagemma, i passi della Chouette e del Maître
d’école fecero così poco rumore che i due poterono seguire Tom e
Sarah talmente vicino da toccarli quasi senza che questi li
udissero.
«Meno male che la nostra carrozza si trova all’angolo della strada»
disse Tom; «perché la pioggia ci sta inzuppando. Avete freddo,
Sarah?»
«Forse sapremo qualcosa dal contrabbandiere, da questo Bras-Rouge»
rispose Sarah pensosa senza badare alla domanda di Tom.
D’un tratto questi si fermò.
Non erano molto lontani dal punto scelto dal Maître d’école per
commettere il delitto.
«Ho sbagliato strada» disse Tom, «bisognava girare a sinistra appena
usciti dalla bettola; dobbiamo passare davanti a una casa mezzo
demolita per trovare la carrozza. Torniamo indietro.»
Il Maître d’école e la Chouette si gettarono nell’ombra di un vano,
contro una porta, per non essere visti da Tom e Sarah che li
sfiorarono quasi col gomito.
«Veramente preferisco che vadano dalla parte delle macerie» disse
piano il Maestro; «se il signore fa resistenza... so io che cosa
fare.»
Tom e Sarah intanto, dopo essere ripassati davanti alla bettola,
arrivarono vicino alla casa in rovina.
Era una catapecchia mezzo demolita i cui scantinati senza soffitto
formavano una specie di precipizio; in quel punto la strada si
allargava.
Il Maître d’école balzò fuori col vigore e l’agilità d’una tigre;
con una delle sue larghe mani afferrò Tom per il collo e gli disse:
«I denari, o ti butto nella buca.»
E spingendo indietro Tom, gli fece perdere l’equilibrio; con una
mano lo tenne per così dire sospeso sul precipizio, mentre l’altra
strinse il braccio di Sarah come in una morsa.
Prima che Tom avesse fatto il minimo movimento, la Chouette lo aveva
spogliato di tutto con straordinaria abilità.
Sarah non mandò un grido né cercò di difendersi; si limitò a dire
con voce calma:
«Date loro la vostra borsa, Tom.» Poi si rivolse al brigante: «Non
grideremo, ma non fateci del male.»
La Chouette, dopo avere scrupolosamente frugato nelle tasche delle
vittime dell’agguato, disse a Sarah:
«Vediamo un po’ se hai qualche anello alle dita. Niente» continuò la
vecchia brontolando. «Non hai proprio nessuno che ti dia qualche
anello?... che miserabile!»
Il proverbiale sangue freddo di Tom non si smentì neppure in un
frangente folgorante e imprevedibile come quello.
«Volete fare un buon affare? Il mio portafogli contiene documenti
che a voi non serviranno; portatemeli, e domani vi darò venticinque
luigi» disse Tom al Maître d’école, la cui mano già stringeva con
meno forza.
«Sì, per farci cadere in un tranello!» rispose il brigante. «Forza,
fila via e senza voltarti indietro. Puoi dirti fortunato d’essertela
cavata a così buon mercato.»
«Un momento» interloquì la Chouette; «se farà il bravo, avrà il
portafogli; il mezzo c’è.» Poi, rivolgendosi a Tom: «Conoscete la
spianata di Saint-Denis?»
«Sì.»
«Sapete dov’è Saint-Ouen?»
«Sì.»
«Dirimpetto a Saint-Ouen, in fondo alla strada della Révolte,
c’è un tratto di aperta campagna; guardando attraverso i campi, si
riesce a vedere in lontananza; trovatevi lì domani mattina da solo;
portate il denaro, io ci sarò con il portafogli, non si fa niente
per niente, e ve lo restituirò.»
«Ma ti farà pizzicare, Chouette!»
«Mica sono così stupida! non può farlo... si vede troppo in
lontananza; io ho un occhio solo... ma è buono; se il signore verrà
con qualcuno, non troverà più nessuno, avrò tagliato la corda.»
Un’idea s’affacciò d’improvviso alla mente di Sarah:
«Vuoi guadagnarti un po’ di soldi?» disse al brigante. «Certamente.»
«Hai visto nella bettola da cui siamo usciti, perché adesso ti ri-
conosco, hai visto l’uomo che il carbonaio è venuto a chiamare?» «Il
magro con i baffi? Sì, stavo mangiandomi un pezzo di quel bel muso;
ma non me n’ha dato il tempo... Mi ha stordito con due pugni e m’ha
buttato sopra un tavolo... è la prima volta che mi ca-
pita... Oh! ma mi vendicherò!»
«Ebbene! si tratta di lui» disse Sarah.
«Di lui?» esclamò il Maestro. «Datemi mille franchi e ve lo
accoppo...»
«Sarah!» gridò Tom spaventato.
«Miserabile! Non si parla di ucciderlo...» rispose Sarah al
Maître d’école.
«Di che cosa allora?»
«Andate domani alla spianata di Saint-Denis, lì troverete il
mio compagno» riprese; «vedrete che sarà solo; egli vi dirà ciò che
dovete fare. Non mille franchi, ma duemila ve ne darò... se
riuscirete.»
«Furfante» disse piano la Chouette al Maître d’école, «c’è da
guadagnare un po’ di soldi; è gente ricca che vuole preparare un
agguato a un nemico; il nemico è quel pezzente che tu volevi
sfondare... Bisogna andarci; ci andrò io al tuo posto... Duemila
baiocchi! marito mio, vale la pena.»
«Ebbene! ci verrà mia moglie» disse il Maître d’école; «le direte
che cosa c’è da fare, e poi vedremo.»
«Bene, domani all’una.»
«All’una.»
«Nella spianata di Saint-Denis.»
«Nella spianata di Saint-Denis.»
«Tra Saint-Ouen e la via della Révolte, in fondo alla strada.»
«D’accordo.»
«E io vi porterò il portafogli.»
«E voi avrete i cinquecento franchi promessi, e un acconto
sull’altro affare se combineremo.»
«Ora voi andate a destra, noi a sinistra; non seguiteci, se no...» E
il Maestro con la Chouette s’allontanò lestamente.
«Il demonio ci è venuto in aiuto» disse Sarah; «quel bandito
può esserci utile.»
«Sarah, ora ho paura...» rispose Tom.
«Io non ho paura. Anzi ho qualche speranza. Ma, venite, veni-
te, adesso mi ritrovo; la carrozza non deve essere lontana.»
E i due personaggi si diressero a grandi passi verso la piazza
di Notre-Dame.
Un testimone aveva assistito, non visto, alla scena.
Si trattava dello Chourineur che si era rimpiattato tra le mace-
rie per mettersi al riparo dalla pioggia.
La proposta fatta da Sarah al brigante circa Rodolphe destò
un vivo interesse nello Chourineur; sbigottito dal pericolo che
sovrastava il suo nuovo amico, provò grande rincrescimento per non
poterlo aiutare. L’odio che aveva per il Maître d’école e la
Chouette ebbe forse parte in quel buon sentimento.
Lo Chourineur decise di informare Rodolphe del pericolo a cui andava
incontro; ma come fare? Aveva già dimenticato l’indirizzo del
sedicente pittore di ventagli. Forse Rodolphe non sarebbe più
ritornato alla bettola; come ritrovarlo?
Queste erano le sue riflessioni quando, dopo averli macchinalmente
seguiti, lo Chourineur vide Tom e Sarah salire in una carrozza che
li aspettava sulla piazza di Notre-Dame.
La carrozza partì.
Lo Chourineur ebbe subito un’idea luminosa; salì dietro la carrozza.
All’una di notte la carrozza si fermò nel boulevard de
l’Observatoire; Tom e Sarah scesero e infilarono poi una delle
viuzze che sboccano in quel punto.
La notte era buia; tanto che lo Chourineur non riuscì a individuare
un solo punto di riferimento che, il giorno successivo, potesse
fargli riconoscere esattamente il posto in cui si trovava.
Allora, da sagace selvaggio qual era, si trasse di tasca il coltello
e fece un taglio largo e profondo in uno degli alberi vicino ai
quali s’era fermata la carrozza. Dopo di che s’incamminò verso casa;
se n’era notevolmente allontanato.
Per la prima volta, dopo molto tempo, lo Chourineur assaporò, nel
tugurio dove abitava, un sonno profondo, per la prima volta, dopo
molto tempo, non fu turbato dell’orribile visione del mattatoio dei
sergenti, come diceva nel suo brutale linguaggio.
VIII
LA PASSEGGIATA
Alla sera in cui erano avvenuti i fatti che abbiamo descritto era
seguito un bel mattino di sole, un radioso sole autunnale che
brillava al centro d’un cielo terso; la bufera della notte era
passata. Benché sempre all’ombra per via delle case alte, l’equivoco
quartiere in cui il nostro lettore ci ha accompagnati sembrava meno
orribile, visto alla luce d’un bel giorno.
Tanto perché non temeva più d’incontrare le due persone che aveva
evitato la sera precedente quanto perché voleva farlo, Rodolphe,
verso le undici del mattino, imboccò la rue aux Fèves, e si diresse
verso la bettola.
Era sempre vestito da operaio, ma si notava nel suo abbigliamento
una certa ricercatezza; il camiciotto nuovo, aperto davanti, metteva
in mostra una camicia di lana rossa munita di una lunga fila di
bottoni d’argento; il colletto di un’altra camicia di tela bianca
poggiava con le punte sul fazzoletto di seta nera annodato senza
cura attorno al collo; da sotto il berretto rigido di velluto
cilestrino, con visiera verniciata, uscivano alcune ciocche di
capelli castani; un paio di stivali lucidati alla perfezione avevano
preso il posto degli scarponi chiodati della sera precedente e
mettevano in evidenza un piede ben fatto, che sembrava tanto più
piccolo in quanto usciva da un paio di pantaloni larghi di velluto
color oliva.
Il vestito si adattava benissimo all’elegante portamento di
Rodolphe, raro impasto di grazia, di agilità e di forza.
I nostri abiti sono così brutti che non perdiamo niente a lasciarli,
anche per i vestiti più volgari.
L’ostessa stava rilassandosi sulla porta della taverna quando
Rodolphe le si parò davanti:
«Serva vostra, giovanotto! Siete venuto a prendervi il resto dei
venti franchi?» disse con una certa deferenza, non osando finge-
re d’avere dimenticato che la sera prima il vincitore dello
Chourineur le aveva gettato sul banco un luigi; «vi vengono
diciassette lire e dieci soldi... Non è tutto... Ieri è venuta gente
a chiedere di voi: un signore alto, ben vestito; aveva ai piedi un
paio di stivali alla Suvarov come un tamburo maggiore in borghese,
ed era a braccetto di una donnetta travestita da uomo. Hanno bevuto
una bottiglia sigillata con lo Chourineur.»
«Ah! hanno bevuto con lo Chourineur! E che cosa gli hanno detto?»
«Veramente non hanno bevuto, non hanno fatto che intingere le labbra
nei bicchieri; e...»
«Voglio sapere quello che hanno detto allo Chourineur!»
«Hanno parlato di tante cose, di Bras-Rouge, della pioggia e del bel
tempo.»
«Conoscono Bras-Rouge?»
«Al contrario, lo Chourineur ha spiegato loro chi era... e come era
stato suonato da voi.»
«Va bene, non si tratta di questo.»
«Volete il resto?»
«Sì... e condurrò la Goualeuse a passare la giornata in cam-
pagna.»
«Oh! questo è impossibile, ragazzo.»
«Perché?»
«Ci mancherebbe altro che non tornasse più. I panni che ha
indosso sono miei, senza contare che mi deve duecentoventi franchi,
se vuole saldare il conto del vitto e dell’alloggio da quando l’ho
presa in casa con me; se non fosse onesta com’è, non la lascerei
andare oltre l’angolo della strada, come minimo.»
«La Goualeuse ti deve duecentoventi franchi?»
«Duecentoventi franchi e dieci soldi. Ma che cosa v’importa,
ragazzo? Si direbbe quasi che vogliate pagarli! Fate pure il
milord!»
«Tieni» disse Rodolphe, gettando undici luigi sul banco
dell’ostessa. «Ora dimmi quanto valgono i cenci che le noleggi.»
La vecchia, sbalordita, esaminava i luigi, uno dopo l’altro, con
aria dubbiosa e diffidente.
«Ehi, credi che ti dia soldi falsi? Manda a cambiare quest’oro, e
finiamola. Quanto valgono i cenci che noleggi a quella disgraziata?»
L’ostessa, divisa tra il desiderio di fare un buon affare, lo
stupore di vedere un operaio possedere tanto denaro, il timore
d’essere ingannata e la speranza di guadagnare ancora di più, stette
un momento in silenzio, poi riprese:
«I suoi vestiti valgono almeno... cento franchi».
«Quegli stracci! Via! Ti tieni il resto di ieri e ti do ancora un
luigi, e basta. Farmi ricattare da te vuol dire privare i poveri
delle elemosine a cui hanno diritto.»
«Ebbene, ragazzo, mi tengo i vestiti: la Goualeuse non uscirà di
qui: posso vendere la mia roba a chi voglio.»
«Che Lucifero ti bruci come ti meriti! Ecco il tuo denaro, vammi a
chiamare la Goualeuse.»
L’ostessa intascò i soldi, pensando che l’operaio avesse rubato o
ereditato; poi gli disse con un ignobile sorriso: «Perché, figliolo,
non andate voi stesso a chiamare la Goualeuse!... le farebbe
piacere... dato che, parola di comare Ponisse, ieri vi sbirciava con
occhio dolce!»
«Va’ a chiamarla e dille che la porto in campagna... nient’altro.
Che non sappia, soprattutto, che ti ho pagato il suo debito.»
«Ma perché?»
«Che t’importa?»
«Be’, poco male, preferisco che si creda ancora in mio potere.»
«Vuoi star zitta? Vuoi andare?...»
«Oh! che brutte maniere! Compiango coloro a cui voi ne vole-
te... Sì, sì, ci vado... ci vado...»
«E l’ostessa andò.»
Dopo qualche minuto, fu di ritorno.
«La Goualeuse non voleva credermi; è diventata bordò quan-
do ha sentito che eravate qui... Ma quando le ho detto che le davo
il permesso di passare la giornata in campagna, ho creduto che
impazzisse; per la prima volta in vita sua le è venuta voglia di
saltarmi al collo.»
«Era la gioia di lasciarti.»
In quel momento entrò Fleur-de-Marie, vestita come la sera
precedente: abito di lana scura, scialle color arancione annodato
dietro la schiena, cuffia a quadri rossi da cui uscivano due grosse
trecce di capelli biondi. Riconosciuto Rodolphe, arrossì e chinò gli
occhi confusa.
«Volete venire con me, figliola, a passare la giornata in campagna?»
disse Rodolphe.
«Molto volentieri, signor Rodolphe» rispose la Goualeuse, «dal
momento che la signora me lo permette.»
«Te lo permetto, cara gattina, per la tua buona condotta... che dà
lustro... Su, vieni a darmi un bacio.»
E la megera porse a Fleur-de-Marie la guancia color rame. La
ragazza, vincendo la ripugnanza, accostò la fronte alle lab-
bra dell’ostessa; ma con una violenta gomitata Rodolphe spinse la
vecchia contro il banco, prese a braccetto Fleur-de-Marie e uscì
dalla taverna inseguito dalle maledizioni di comare Ponisse.
«State attento, signor Rodolphe» disse la Goualeuse, «l’ostessa è
capace di tirarvi dietro qualcosa, è così cattiva!»
«State tranquilla, figliola. Ma che cosa avete? Mi sembrate
imbarazzata... triste? Vi dispiace venire con me?»
«Al contrario... ma... ma voi mi tenete per un braccio.» «Ebbene?»
«Voi siete un operaio... qualcuno potrebbe andare a dire al vo-
stro padrone d’averci visti assieme... potreste avere qualche
dispiacere per causa mia. I padroni non vogliono che i loro operai
siano traviati.»
E la Goualeuse si staccò dolcemente dal braccio di Rodolphe,
aggiungendo:
«Andate avanti solo... fino alla barriera io starò dietro a voi.
Quando saremo in campagna, vi ritornerò vicino.»
«Non temete» disse Rodolphe, commosso da tale delicatezza e,
rimettendosi a braccetto di Fleur-de-Marie: «Il mio padrone non
abita nel quartiere e poi, adesso, andiamo a prendere una carrozza
sul quai aux Fleurs.»
«Come volete, signor Rodolphe; ve lo dicevo perché non vi dovesse
capitare qualche guaio...»
«Vi credo e ve ne sono grato. Ma, ditelo apertamente, vi fa lo
stesso se andiamo in un posto qualsiasi della campagna?»
«È lo stesso, signor Rodolphe, purché sia in campagna... È così
bello... fa così bene respirare aria pura! Sapete che sono cinque
mesi che non vado al di là del mercato dei Fiori? Tenendo presente
che l’ostessa mi permetteva di uscire dalla Cité perché si fidava di
me.»
«E quando andavate al mercato, comperavate fiori?»
«Oh, no; non avevo soldi; andavo solamente a guardarli, a respirare
il loro profumo... Durante la mezz’ora che l’ostessa mi permetteva
di trascorrere davanti ai fiorai, nei giorni di mercato, mi sentivo
così contenta che dimenticavo ogni cosa.»
«E ritornando dall’ostessa... per quelle brutte strade?»
«Ritornavo più triste di quanto non fossi partita... e ringoiavo le
lacrime per non essere picchiata! Vedete... al mercato... ciò che
invidiavo, invidiavo tanto, erano le piccole operaie tutte pulitine
che se n’andavano contente contente, con un bel vaso di fiori fra le
braccia.»
«Sono sicuro che se aveste avuto uno o due fiori sul davanzale della
vostra finestra, essi vi avrebbero tenuto compagnia!»
«È proprio vero quello che avete detto, signor Rodolphe!
Immaginatevi che l’ostessa, il giorno del suo compleanno, m’aveva
regalato una piantina di rose. Se sapeste com’ero felice! non mi
annoiavo più, no! Non facevo che guardare la mia piantina... mi
divertivo a contarne le foglie, i fiori... Ma l’aria della Cité è
così cattiva, in capo a due giorni è incominciato a ingiallire.
Allora... ma non mi prenderete in giro, signor Rodolphe?»
«No, no, continuate.»
«Ebbene, allora ho chiesto all’ostessa il permesso di uscire con la
mia piantina di rose e di andare a portarla a passeggio... sì...
come se avessi portato a passeggio un bambino. La conducevo con me
al mercato, pensavo che essere in mezzo agli altri fiori, dentro
quell’aria buona, fresca e profumata gli facesse bene; immergevo le
sue povere foglie appassite nella bella acqua della fontana, e poi,
per asciugarla, la lasciavo un buon quarto d’ora al sole... Cara
piccola rosa, di sole non ne vedeva mai nella Cité, perché nella
nostra strada non scende mai al di sotto dei tetti... Alla fine
rientravo... Orbene, vi assicuro, signor Rodolphe, che, senza quelle
passeggiate, la mia piantina di rose forse non sarebbe vissuto i
dieci giorni in più che è vissuta.»
«Vi credo; ma quand’è morta, è stata una grande perdita per voi?»
«Ho pianto, è stato un vero dolore... E, sentite, signor Rodolphe,
dal momento che capite quelli a cui piacciono i fiori, posso
senz’altro dirvi una cosa. Ebbene, sentivo anche una certa
riconoscenza... di... Ah, questa volta riderete sicuramente di
me...»
«No, no! mi piacciono... adoro i fiori; così capisco tutte le follie
che essi ci fanno fare o ci ispirano.»
«Ebbene, le ero riconoscente, alla povera piantina, del fatto che mi
faceva la gentilezza di mettere fiori... benché... insomma...
nonostante quel che fossi.»
E la Goualeuse abbassò la testa e s’imporporò di vergogna...
«Infelice figliola! con questa coscienza della vostra orribile
situazione, avete dovuto spesso...»
«Avere voglia di finirla, non è vero, signor Rodolphe?» disse la
Goualeuse interrompendo il compagno; «oh, sì, certo, più d’una volta
dal parapetto ho guardato la Senna... ma dopo guardavo i fiori, il
sole... Allora mi dicevo: Il fiume sarà sempre qui; non ho neppure
diciassette anni... chi sa?»
«Quando avete detto Chi sa?... avevate qualche speranza?» «Sì...»
«E che cosa speravate?»
«Non so... speravo... sì, speravo quasi contro la mia volontà
stessa... In quei momenti mi sembrava di non meritarmi la mia sorte,
mi sembrava che ci fosse qualcosa di buono in me. Mi dicevo: Sono
stata tormentata molto; ma, almeno, non ho mai fatto del male a
nessuno... Se avessi avuto qualcuno con cui consigliarmi, non sarei
al punto in cui sono!... Allora questo pensiero mi scacciava un po’
di tristezza... Devo aggiungere però che queste idee m’erano venute
in seguito alla morte della mia piantina di rose» soggiunse la
Goualeuse con un’aria solenne che fece sorridere Rodolphe.
«Sempre il solito grande dolore...»
«Sì, vedete, eccolo.»
E la Goualeuse trasse di tasca un piccolo involto di rametti
sminuzzati con cura, chiuso da un nastrino rosa.
«L’avete conservato?»
«Lo credo bene... è tutto quanto possiedo al mondo.» «Come! non
avete niente di vostro?»
«Niente...»
«Ma quel vezzo di coralli?»
«È dell’ostessa.»
«Come! voi non possedete un vestito, una cuffia, un fazzo-
letto?»
«No, niente... niente... se non i rami secchi della mia povera
piantina. Per questo ci tengo tanto...»
A ogni parola della Goualeuse, Rodolphe si stupiva sempre
più; non poteva capire quella spaventosa schiavitù, quella orribile
cessione del proprio corpo e della propria anima per quattro sordide
mura, qualche straccio e un vitto disgustoso.7
Rodolphe e la Goualeuse arrivarono intanto al quai aux Fleurs: c’era
una carrozza che aspettava: Rodolphe fece salire la Goualeuse; poi
salì anche lui, dopo di che disse al vetturino:
«A Saint-Denis; ti dirò poi la strada che dovrai prendere.»
La carrozza partì; il sole era radioso, il cielo senza nubi ma il
freddo pizzicava un po’; dai finestrini aperti entrava un’aria
pungente e fresca.
7 Se ci è permesso entrare in particolari che ci ripugnano,
dimostreremo che questa schiavitù esiste, che le leggi di polizia
sono fatte in modo tale che una sventurata creatura gettata in
questo abisso d’infamia, spesso per colpa dei suoi stessi parenti, è
per sempre condannata a restarci; vani sono i pentimenti e i
rimorsi, le è materialmente impossibile uscire da quel fango. (Si
legga a questo proposito la preziosa opera del dottor
Parent-Duchâtelet, filosofo e grande benefattore.)
«To’! una pelliccia da donna!» disse la Goualeuse accortasi di
essere seduta su qualcosa di soffice che non aveva visto.
«Sì, è per voi, figliola: ve l’ho portata per paura che prendiate
freddo; copritevi per bene.»
La poveretta, poco avvezza a simili attenzioni, guardò attonita
Rodolphe.
Quella certa soggezione che quest’ultimo le ispirava diventava
ancora più forte, quasi una vaga tristezza di cui lei non si rendeva
conto.
«Dio mio, signor Rodolphe, come siete buono voi! io mi vergogno!»
«Perché sono buono?»
«No; ma... mi pare che ora non parliate più come ieri, che siate
tutto diverso...»
«Vediamo, Fleur-de-Marie, che cosa vi piace di più che io sia il
Rodolphe di ieri o il Rodolphe di oggi?»
«Mi piacete molto di più come adesso... Eppure ieri mi sembrava
d’essere più una pari vostra...»
Poi, riprendendosi subito, aggiunse, per paura d’avere umiliato
Rodolphe:
«Quando dico una pari vostra... signor Rodolphe, so bene che questo
non può essere...»
«C’è una cosa che mi stupisce in voi, Fleur-de-Marie.»
«Che cosa, signor Rodolphe?»
«Sembra che abbiate dimenticato quello che la Chouette ieri
vi ha detto riguardo ai vostri genitori... che essa conosceva vostra
madre...»
«Oh, non l’ho dimenticato... ci ho pensato per tutta la notte... e
ho pianto molto... ma sono sicura che non è vero... la guercia avrà
inventato quella storia per farmi stare male...»
«Può darsi che la Chouette sia più informata di quanto non crediate;
se fosse così, non sareste contenta di ritrovare vostra madre?»
«Ahimè, signor Rodolphe! se mia madre non mi ha mai voluto bene... a
che giova che la ritrovi?... Ella non vorrà neppure vedermi... Se mi
ha voluto bene... quale onta le farei subire!... Forse ne morrebbe.»
«Se vostra madre, Fleur-de-Marie, vi ha amato, ella vi compiangerà,
vi perdonerà, continuerà ad amarvi... Se, invece, vi ha
abbandonato... nel vedere di quale terribile destino siete alla
mercé, per essere stata abbandonata da lei... la sua onta sarà la
vostra vendetta.»
«A che serve vendicarsi? e, poi, se mi vendicassi, mi pare di non
dover più avere il diritto di sentirmi infelice... E spesso sono
consolata da questo pensiero...»
«Forse avete ragione... Non parliamone più...»
In quel momento la carrozza arrivava nei pressi di Saint-Ouen, alla
confluenza della strada di Saint-Denise di quella della Révolte.
Nonostante la monotonia del paesaggio, Fleur-de-Marie fu presa da
tale gioia al vedere i campi, come diceva lei, che, dimenticati i
tristi pensieri che le aveva suscitato in mente il ricordo della
Chouette, s’illuminò in viso. Si sporse dal finestrino, batté le
mani
e gridò:
«Signor Rodolphe, che piacere!... l’erba! i campi! Se voleste per-
mettermi di scendere... fa così bello!... Mi piacerebbe tanto
correre in mezzo a quei prati...»
«Corriamo, figliola... Ferma, vetturino!» «Come! anche voi, signor
Rodolphe?» «Anch’io... fa piacere anche a me.» «Che gioia! signor
Rodolphe!!»
E Rodolphe e la Goualeuse si presero per mano e si misero a correre
a più non posso in una larga sezione di guaime tardivo, falciato da
poco.
Ridire i salti, le piccole grida gioiose, l’enorme contentezza di
Fleur-de-Marie, sarebbe impossibile. Povera gazzella da molto
prigioniera, ella aspirava con ebbrezza l’aria libera. Andava,
veniva, si fermava, ripartiva con slancio infaticabile.
Alla vista dei numerosi cespi di margheritine e dei pochi bottoni
d’oro risparmiati dalle prime brinate, non poté trattenere altre
esclamazioni di piacere; di quei fiorellini non ne restò uno nel
prato, ella lo spigolò tutto.
Dopo avere così corso in mezzo ai campi, stancatasi presto perché
mancava di esercizio, la ragazza si fermò e, per riprendere fiato,
andò a sedersi sul tronco di un albero che si trovava vicino
all’orlo di un fosso profondo.
Il colorito trasparente e bianco di Fleur-de-Marie, solitamente un
po’ pallido, prendeva le sfumature dei colori più vivi. I grandi
occhi azzurri le brillavano dolcemente; la bocca vermiglia,
ansimante, mostrava due fili di perle umide; il seno le palpitava
sotto il vecchio scialletto arancio; si metteva una delle mani sul
cuore per comprimere le pulsazioni, mentre con l’altra porgeva a
Rodolphe il mazzetto di fiori di campo che aveva raccolto.
Espressione di pura e innocente gioia, più di ogni altra
affascinante, quella che raggiava sul candido volto di
Fleur-de-Marie.
Quando fu in grado di parlare, disse a Rodolphe con voce intonata a
felicità profonda e a riconoscenza quasi religiosa:
«Com’è buono il buon Dio a darci un giorno così bello!»
Rodolphe si sentì venire le lacrime agli occhi davanti a quella
povera creatura abbandonata, disprezzata, perduta, senza tetto e
senza mangiare, che, con un grido, diceva al Creatore la sua
felicità e la sua infinita gratitudine, perché lei godeva d’un
raggio di sole, della vista di un prato.
Rodolphe fu distolto dalla sua meditazione da un fatto imprevisto.
IX
LA SORPRESA
Abbiamo detto prima che la Goualeuse s’era seduta sul tronco di un
albero che si trovava vicino all’orlo d’un fosso profondo.
A un tratto un uomo, rizzatosi sul fondo del fosso, si scosse di
dosso lo strato di foglie sotto cui s’era nascosto, e dette in una
scrosciante risata.
La Goualeuse si girò gettando un grido di terrore.
Era lo Chourineur.
«Non aver paura, ragazza» disse lo Chourineur al vedere che
la fanciulla, per paura, s’era rifugiata dal suo compagno. «Questo
sì che è un bell’incontro, non ve l’aspettavate, eh, maestro
Rodolphe? e neppure io...»
Poi aggiunse in tono serio: «Ecco, padrone... vedete, si dica pure
quel che si vuole... ma c’è qualcosa nell’aria... lassù... al di
sopra delle nostre teste. Dio è furbo, ho quasi l’impressione che
dica agli uomini: Vai dove ti mando... visto che vi ha mandato qui,
cosa che è maledettamente sorprendente!»
«Che fai qui?» disse Rodolphe al colmo dello stupore.
«Vi faccio da angelo custode, maestro... Ma, diavolo, che bello
scherzo quello di trovarvi proprio nelle vicinanze della mia casa di
campagna... Sentite, c’è qualcosa; decisamente c’è qualcosa.»
«Ma, si può sapere che fai qui?»
«Lo saprete fra poco, datemi solo il tempo di salire in cima alla
carrozza che farò funzionare da osservatorio. E lo Chourineur corse
alla carrozza ferma non molto lontano, frugò l’immensa pianura con
occhiate da lince e ritornò lestamente a raggiungere Rodolphe.»
«Vuoi spiegarmi che cosa significa tutto questo?»
«Pazienza, pazienza, maestro! Ancora una parola. Che ora è?»
«Mezzogiorno e mezzo» rispose Rodolphe consultando il suo orologio.
«Bene... abbiamo tempo. La Chouette sarà qui solo fra mezz’ora.»
«La Chouette!» esclamarono insieme Rodolphe e la ragazza.
«Sì, la Chouette. Ecco, padrone, in due parole la storia: ieri,
quando avete lasciato la bettola, è venuto...»
«... un uomo di statura alta con una donna vestita da uomo: hanno
chiesto di me, questo lo so. E poi?»
«Poi m’hanno pagato da bere e hanno voluto farmi parlare sul conto
vostro. Io non ho voluto dire niente... visto che non mi avete
comunicato nient’altro se non le batoste che avete avuto la
gentilezza... non sapevo nient’altro dei vostri segreti. Poi anche
se avessi saputo qualcosa, sarebbe stato lo stesso. Sono con voi,
maestro Rodolphe, per la vita e per la morte. Che il diavolo mi
porti se so perché mi sento per voi, chiamiamolo pure l’attaccamento
di un mastino per il suo padrone; ma non importa, così è. È una cosa
più forte di me, non ci penso più... riguarda voi, arrangiatevi.»
«Ti ringrazio, ragazzo, ma continua.»
«Il signore alto e la donnetta vestita da uomo, vedendo che non
riuscivano a tirarmi niente di bocca, sono usciti dalla taverna, e
io dopo di loro; loro dalla parte del palazzo di Giustizia, io dalla
parte di Notre-Dame. Arrivato in fondo alla via, comincio ad
accorgermi che l’acqua veniva giù come le noci... un diluvio!
Vicinissimo c’era una casa in demolizione. Mi dico: “Se il temporale
durerà per tanto tempo, qui dormirò bene come nella mia cameretta”.
Mi lascio andare giù in una specie di cantina dove stavo però al
coperto; una vecchia trave mi fa da letto, un calcinaccio da
cuscino, e in un batter d’occhio mi sento come nel letto di un re.»
«E dopo, dopo?»
«Noi, mastro Rodolphe, avevamo bevuto assieme; io avevo bevuto
ancora con il tipo alto e la donnetta vestita da uomo: per dirvi che
avevo la testa un po’ pesante... inoltre non c’è niente che mi culli
come il rumore della pioggia che cade. Comincio dunque a
sonnecchiare. Non era, credo, da molto che sonnecchiavo quando vengo
svegliato di soprassalto da un rumore: era il Maître d’école che
discorreva, diciamo pure amichevolmente, con un altro. Ascolto...
diavolo! che sento? la voce del tipo alto che era venuto nella
bettola con la donnetta vestita da uomo!»
«Discorrevano col Maestro e la Chouette?» disse Rodolphe stupefatto.
«Con il Maître d’école e la Chouette. Parlavano di trovarsi
l’indomani.»
«Oggi!» disse Rodolphe.
«All’una.»
«Fra un istante!»
«Alla confluenza della strada di Saint-Denis e quella della
Révolte.» «Qui!»
«Sì, mastro Rodolphe, proprio qui!»
«Il Maître d’école! guardatevene, signor Rodolphe!...» esclamò
Fleur-de-Marie.
«Calmati, ragazza... lui non deve venire... ma solo la Chouette.»
«Come ha potuto, quest’uomo, fare la conoscenza di quei due
miserabili?» chiese Rodolphe.
«Non ne so niente, credetemi. Forse, maestro, mi sarò svegliato solo
alla fine della cosa; perché il tipo alto parlava di riavere il
portafogli che la Chouette deve riportargli... in cambio di
cinquecento franchi. C’è da credere che il Maître d’école avesse
cominciato col derubarli e che solo poi si saranno messi a parlare
da buoni amici.»
«È strano!»
«Dio mio! ho paura per voi, signor Rodolphe» disse Fleur-deMarie.
«Mastro Rodolphe non è un bambino, ragazza; ma, come hai detto tu,
ci potrebbero essere guai in vista per lui, e allora eccomi qua.»
«Continua, ragazzo.»
«Il tipo alto e la donna hanno promesso duemila franchi al Maître
d’école, per farvi... non so più che cosa. La Chouette fra poco
verrà qui a riportare il portafogli e a sapere di che cosa si
tratta, per andare a riferirlo al Maître d’école che si incaricherà
del resto.»
Fleur-de-Marie trasalì.
Rodolphe sorrise sdegnosamente.
«2000 franchi per farvi qualcosa, mastro Rodolphe! la cosa mi
ha fatto pensare (senza riferimenti) a quando io, letto in un
affisso “500 soldi di ricompensa per chi riporta un cane smarrito”,
mi dico dentro di me con tutta modestia: “Se tu, animale, ti
smarrissi, nessuno darebbe neppure 100 soldi per riaverti”. Duemila
franchi per farvi qualcosa! Ma chi siete voi?»
«Te lo dirò fra poco.»
«Basta, mastro... Appena sentita la proposta fatta alla Chouette, mi
dico: devo sapere dove abitano i ricconi che vogliono sguinzagliare
il Maestro alle calcagna del signor Rodolphe; può venire utile.
Quando si sono allontanati, esco dalle macerie, li seguo a passi
felpati; il tipo alto e la donnetta raggiungono una carrozza in
piazza Notre-Dame; loro salgono dentro, io dietro, e arriviamo nel
boulevard de l’Observatoire. Faceva buio come in un forno, non si
poteva vedere niente; faccio un taglio in un albero per potermi
ritrovare il giorno dopo.»
«Benissimo, ragazzo.»
«Stamattina ci sono ritornato. A dieci passi dall’albero ho visto
una viuzza sbarrata da un cancello; nel fango della viuzza, tracce
piccole e tracce grandi; in fondo alla viuzza una casa... il nido
del tipo grande e della donnetta dev’essere quello.»
«Grazie, amico... m’hai reso, senza saperlo, un grande servizio.»
«Scusate, mastro Rodolphe, io lo sapevo, per questo l’ho fatto.»
«Lo so, ragazzo, e vorrei poter ricompensare il servizio che m’hai
reso non ringraziandoti solamente; purtroppo non sono che un povero
diavolo d’operaio... benché si voglia spendere, come hai detto,
duemila franchi per farmi qualcosa. Ti spiegherò tutto.»
«Bene, se non vi dispiace, altrimenti per me è lo stesso. Si trama
qualcosa contro di voi, io mi oppongo... il resto non mi riguarda.»
«Intuisco che cosa vogliono. Stammi a sentire: ho un segreto per
tagliare l’avorio dei ventagli a macchina; ma questo segreto non
appartiene a me solo; aspetto il mio socio per mettere in pratica
questo procedimento, e sicuramente vogliono a ogni costo
impossessarsi del modello della macchina che ho in casa: perché c’è
da guadagnare molto denaro con questa scoperta.»
«Il tipo alto e la donnetta sono allora?...»
«Fabbricanti dai quali ho lavorato, e ai quali non ho voluto dare il
mio segreto.»
La spiegazione sembrò soddisfacente allo Chourineur la cui
intelligenza non era molto sviluppata; per cui continuò:
«Ora capisco... Guardate un po’ che canaglie! e non hanno neppure il
coraggio di fare i loro misfatti da soli. Ma, per finirla, ecco che
cosa mi son detto stamattina: “So l’ora dell’appuntamento tra la
Chouette e il tipo alto, andrò ad aspettarli, ho buone gambe; il mio
padrone aspetterà, tanto peggio...” Arrivo qui; vedo quel buco, vado
a prendermi una bracciata di letame laggiù,
mi nascondo tutto fino alla punta del naso, e aspetto la Chouette.
Ma ecco che voi ruzzate nella pianura e la povera Goualeuse va a
sedersi proprio ai margini del mio parco; allora, ve lo giuro, ho
voluto farvi uno scherzetto e mi sono messo a gridare come un
ossesso uscendo da sotto la mia lettiera.»
«Che cosa intendi fare adesso?»
«Aspettare la Chouette che, sicuramente, arriverà per prima; cercare
di sentire ciò che dirà al tipo alto perché questo può esservi
utile. Nel campo non c’è che quel tronco d’albero; da sopra il
tronco si vede tutta la spianata, è quasi fatto apposta per
sedervici. Il luogo dell’appuntamento è a quattro passi,
all’incrocio delle strade; c’è da scommettere che verranno a sedersi
qui. Se non ci verranno, se non potrò sentire niente... quando si
saranno separati, balzo sulla Chouette, sarà sempre lo stesso; le do
quello che le devo per il dente della Goualeuse, e le torco il collo
finché non avrà detto il nome dei genitori della povera ragazza...
Che cosa dite della mia idea, mastro Rodolphe?»
«C’è del buono, ragazzo; ma si deve modificare qualcosa nel tuo
piano.»
«Oh, Chourineur, non procuratevi guai per causa mia. Se picchierete
la Chouette, il Maître d’école...»
«Basta, ragazza. La Chouette mi dovrà passare per le mani. Capperi!
rincarerò la dose proprio perché ha il Maître d’école come
difensore.»
«Ascolta, ragazzo, ho un mezzo migliore per vendicare la Goualeuse
delle cattiverie della Chouette. Te lo dirò poi. Per intanto» disse
Rodolphe scostandosi di qualche passo dalla Goualeuse e abbassando
la voce, «per intanto vuoi farmi veramente un piacere?»
«Dite, mastro Rodolphe.»
«La Chouette ti conosce?»
«L’ho vista ieri per la prima volta alla bettola.»
«Ecco che cosa dovrai fare. Prima di tutto ti nasconderai; ma
quando la vedrai vicino a questo punto, uscirai dalla buca...» «Per
torcerle il collo?...»
«No... un’altra volta! oggi devi solamente impedirle di parlare
con il tipo alto. Questi, vedendo qualcuno con lei, non oserà
avvicinarsi. Se si avvicina, non lasciare un minuto la vecchia...
egli non potrà farle le sue proposte in tua presenza.»
«Se l’uomo mi trova curioso, me la vedo io con lui; tanto non è né
il Maître d’école né padron Rodolphe.»
«Conosco quel signore, non se la prenderà con te.»
«Sta bene. Seguirò la Chouette come un’ombra. L’uomo non dirà parola
che non sentirò, e così finirà per andarsene...»
«Se si daranno un altro appuntamento, lo saprai perché non li
lascerai mai. D’altra parte la tua presenza sarà sufficiente a far
allontanare quel signore.»
«Bene, bene. Dopo, do una strizzata alla Chouette... Ci tengo a
questo.»
«Non ancora. La guercia sa che tu non sei ladro?»
«No; a meno che il Maître d’école non le abbia detto che il rubare
non è una mia abitudine.»
«Se glielo ha detto, fingerai d’aver cambiato parere.»
«Io?»
«Tu!»
«Diavolo! signor Rodolphe. Ma dite un po’... hum! hum! mi va
poco, questa storia.»
«Lo farai solo se vorrai. Vedrai che non ti propongo un’azio-
ne infame...»
«Oh, per questo sono tranquillo.»
«E hai ragione.»
«Dite, maestro... obbedirò.»
«Quando l’uomo si sarà allontanato, cercherai di circuire la
Chouette.»
«Io? quella vecchia pezzente... Preferirei battermi col Maître
d’école. Non so neppure come farò a non saltarle addosso.» «Allora
rovineresti tutto.»
«Ma allora che cosa devo fare?»
«La Chouette sarà furiosa d’avere perso i soldi; tu cercherai di
calmarla dicendole che c’è da fare un bel colpo; che sei qui per
aspettare il tuo complice e che se il Maître d’école ci sta, c’è da
guadagnare molto denaro.»
«To’... to’...»
«Dopo averla fatta aspettare un’ora, le dirai: “Il mio amico non
viene, rimandiamo a un altro giorno...” e prenderai appuntamento con
la Chouette e il Maître d’école... di buon’ora. Capisci?»
«Capisco.»
«E stasera, ti troverai, verso le dieci, all’angolo degli
ChampsElysées e l’allée des Veuves; io ti raggiungerò lì e ti dirò
il resto.» «Se si tratta d’una trappola, state attento! il Maître
d’école è furbo... Voi l’avete picchiato: al minimo sospetto, è
capace di uc-
cidervi.»
«Sta’ tranquillo.»
«Capperi! è uno scherzo... ma fate pure di me quello che volete. Non
è difficile pensare che c’è una lavata di testa in vista per il
Maître d’école e la Chouette. Eppure... ancora una parola, signor
Rodolphe.»
«Parla.»
«Non già che io vi creda capace di tendere un tranello al Maître
d’école per farlo pizzicare dalla polizia. È un manigoldo
matricolato che merita cento volte la morte; ma farlo arrestare...
non me la sento.»
«E neppure io, ragazzo. Ma ho un conto da regolare con lui e la
Chouette, dal momento che complottano con gente che me ne vuole, e
noi due da soli ci riusciremo se mi dai una mano.»
«Oh sì, allora ci sto perché il maschio non è meglio della femmina.»
«E se riusciremo» disse Rodolphe con un tono serio, quasi solenne,
che fece impressione sullo Chourineur, «potrai esserne fiero come
quando hai salvato dal fuoco e dall’acqua l’uomo e la donna che ti
devono la vita!»
«Come dite certe cose voi, mastro Rodolphe! Non vi ho mai visto
quello sguardo... Ma presto, presto» esclama lo Chourineur, «vedo
laggiù, laggiù un punto bianco: dev’essere la cuffia della Chouette.
Partite, io mi rimetto nella buca.»
«E stasera, alle dieci...»
«All’angolo dell’allée des Veuves e degli Champs-Elysées,
d’accordo.»
Fleur-de-Marie non aveva sentito quest’ultima parte del colloquio
fra lo Chourineur e Rodolphe. Ella risalì in carrozza con il suo
compagno di viaggio.
X
LA FATTORIA
Dopo il colloquio con lo Chourineur, Rodolphe rimase per qualche
istante meditabondo e pensieroso.
Fleur-de-Marie, non osando turbare il silenzio del suo compagno, lo
guardava mestamente.
Rodolphe alla fine alzò il capo e le disse con un dolce sorriso:
«A che cosa pensate, figliola? L’incontro con lo Chourineur non vi è
piaciuto, vero? Eravamo così allegri prima!»
«Al contrario; è stato un bene per noi, signor Rodolphe, dal momento
che lo Chourineur potrà venirvi in aiuto.»
«Quest’uomo non passava per essere, fra gli avventori della bettola,
uno che avesse ancora qualche buon sentimento?»
«Non lo so, signor Rodolphe... Prima del fatto di ieri, l’avevo
visto spesso, ma parlato assieme poche volte... Lo ritenevo cattivo
come gli altri...»
«Non pensiamo più a tutto questo, piccola Fleur-de-Marie. Se vi
facessi rattristare, ne avrei rimorso, proprio io che volevo farvi
passare una bella giornata.»
«Oh, come sono contenta! da un pezzo non andavo fuori Parigi!»
«Da quando facevate le gite in carrozza con Rigolette.»
«Dio mio, sì... signor Rodolphe. Eravamo in primavera... ma anche
adesso mi fa tanto piacere, anche se siamo quasi in inverno. Che bel
sole c’è!... guardate un po’ quelle nuvolette rosa laggiù...
laggiù... e quella collina!... con quelle casette bianche in mezzo
agli alberi... Quante foglie ci sono ancora! È una cosa
straordinaria per il mese di novembre, non è vero, signor Rodolphe?
A Parigi, invece, le foglie cadono così presto... E laggiù quel volo
di piccioni... ecco adesso vanno a posarsi sul tetto di un mulino...
In campagna non ci si stanca mai di guardare, tutto è così bello.»
«È un piacere vedere quanto siate sensibile, Fleur-de-Marie, a
quelle piccole cose che sono l’essenziale dello spettacolo
affascinante della campagna.»
«E laggiù quel fuoco di stoppie in mezzo alle terre coltivate e quel
filo di fumo bianco che sale al cielo... e quell’aratro con i suoi
due bravi cavalli grigi... Se fossi un uomo, mi piacerebbe tanto
fare il contadino!... Stare in mezzo a una pianura immersa nel
silenzio, essere dietro all’aratro... vedere, con un tempo come oggi
per esempio, lontano lontano i grandi boschi!... subito vi verrebbe
la voglia di cantare quelle canzoni un po’ tristi che vi fanno
salire le lacrime agli occhi... come Genoveffa di Brabante.
Conoscete la canzone Genoveffa di Brabante, signor Rodolphe?»
«No, figliola; ma se volete, me la canterete quando saremo arrivati
alla fattoria.»
«Che bello! andiamo in una fattoria, signor Rodolphe?»
«Sì, in una fattoria tenuta dalla mia balia, una degna e buona donna
che mi ha allevato.»
«E potremo avere un po’ di latte?» esclamò la Goualeuse battendo le
mani.
«Via! un po’ di latte... una panna squisita, per piacere, e un burro
che la fittavola farà davanti ai nostri occhi, e uova freschissime.»
«Che andremo a scovare noi stessi?»
«Certo...»
«E andremo a vedere le mucche nella stalla?»
«Se volete.»
«E andremo anche nella cascina?»
«Anche nella cascina.»
«E a vedere la colombaia?»
«E a vedere la colombaia.»
«Ah, sentite, signor Rodolphe, quasi quasi non ci credo...
Come mi divertirò! Che bella giornata!... che bella giornata!»
esclamò la ragazza tutta contenta.
Poi, in seguito a un brusco cambiamento di pensiero, l’infelice
ragazza all’idea che, dopo quelle ore di libertà trascorse in
campagna, sarebbe dovuta rientrare nel suo infetto tugurio, si prese
la testa fra le mani e scoppiò in lacrime.
«Che cosa avete, Fleur-de-Marie, che cosa vi tormenta?» le chiese
Rodolphe stupito.
«Niente... niente, signor Rodolphe.» E si asciugò gli occhi
sforzandosi di sorridere. «Scusatemi, se mi rattristo... non fateci
caso... non ho niente, ve lo giuro... era un’idea... fra poco sarò
allegra...»
«Ma eravate così contenta poco fa.»
«Per questo...» rispose ingenuamente Fleur-de-Marie alzando su
Rodolphe gli occhi ancora umidi di lacrime.
A quelle parole Rodolphe s’illuminò; indovinò ogni cosa.
Per distogliere la ragazza dai cupi pensieri, le disse con tono
scherzoso:
«Scommetto che pensavate alla vostra piantina di rose! vi dispiace,
ne sono sicuro, di non poterla far partecipare alla nostra visita
alla fattoria... Povera piantina! sareste stata capace di farle
mangiare anche un po’ di panna!!»
La facezia fece sorridere la Goualeuse; a poco a poco la leggera
nube di tristezza svanì dalla sua mente; e allora decise di godersi
il presente e di non preoccuparsi dell’avvenire.
La carrozza era arrivata intanto nei pressi di Saint-Denis; da
lontano si vedeva l’alta guglia della chiesa.
«Oh, che bel campanile!» esclamò la Goualeuse.
«È il campanile della bellissima chiesa di Saint-Denis... Volete
visitarla? possiamo far fermare la carrozza.»
La Goualeuse abbassò gli occhi.
«Da quando sto con l’ostessa, non sono mai entrata in una chiesa;
avevo paura. In prigione, invece, mi piaceva tanto cantare
a messa! e al Corpus Domini preparavamo dei mazzi di fiori così
belli per l’altare!»
«Ma Dio è buono e misericordioso: perché avere paura di pregarlo, di
entrare in una chiesa?»
«Oh, no, no... signor Rodolphe... sarebbe quasi un’empietà. Non
basta che offenda il buon Dio in altra maniera?»
Dopo un momento di silenzio, Rodolphe disse alla Goualeuse: «Finora
non avete amato nessuno?»
«Nessuno, signor Rodolphe.»
«Perché?»
«Avete visto le persone che frequentano la bettola... E poi, per
amare, bisogna essere onesti.»
«Come?»
«Dipendere solo da se stessi... potere... Ma sentite, signor
Rodolphe, se per voi fa lo stesso, vi prego, non parliamo di queste
cose...»
«Bene, Fleur-de-Marie, parliamo d’altro... Ma che avete da guardarmi
così? avete ancora i begli occhi pieni di lacrime. C’è qualcosa che
vi ha addolorato?»
«Oh, no, al contrario; ma voi siete così buono con me che ho voglia
di piangere... e poi non mi date più del tu... e poi, infine, si
direbbe quasi che voi m’abbiate accompagnata in campagna solo per
fare piacere a me tanto sembrate contento di vedermi felice. Non
contento d’avermi difesa ieri... oggi mi fate passare assieme a voi
una simile giornata...»
«Veramente siete contenta?»
«Per molto tempo non dimenticherò questi attimi di felicità.» «È
cosa così rara, la felicità!»
«Sì, molto rara...»
«Io, credetemi, in mancanza d’altro, mi diverto qualche volta
a sognare ciò che vorrei avere, a dirmi: ecco che cosa desidererei
essere... E voi, Fleur-de-Marie, non fate qualche volta dei sogni
così, dei castelli in aria?»
«Sì, una volta, in prigione; prima di andare a stare dall’ostessa,
passavo la mia vita a fare sogni e a cantare; ma poi più di rado...
E voi, signor Rodolphe, che cosa vorreste?»
«Io vorrei essere ricco, molto ricco... avere domestici, carrozze,
un palazzo, frequentare il bel mondo, andare tutti i giorni a
teatro. E voi, Fleur-de-Marie?»
«Io non sarei così difficile: i soldi per pagare l’ostessa, un po’
di denaro fintanto che non avrò trovato un lavoro, una bella stanza
linda e pulita da dove poter vedere qualche albero mentre lavoro.»
«Molti fiori sulla vostra finestra?»
«Oh, certo... Abitare in campagna, se fosse possibile, tutto qui...»
«Una stanzetta, un lavoro, è proprio l’indispensabile; ma quando si
esprimono solo desideri, si può anche permettersi il superfluo...
Voi non vorreste avere carrozze, diamanti e bei vestiti?»
«Io non vorrei tanto... La mia libertà, vivere in campagna, ed
essere sicura di non morire all’ospedale... oh, questo
soprattutto... non morire all’ospedale! Sentite, signor Rodolphe,
spesso mi viene in mente questa idea... è terribile!»
«Ahimè! noi, povera gente...»
«Non lo dico... per la miseria... Ma dopo... quando siamo morti...»
«Ebbene?»
«Voi non sapete allora, signor Rodolphe, che cosa fanno di voi
dopo?»
«No...»
«Avevo conosciuto una ragazza in prigione... è morta all’ospedale...
il suo corpo è stato dato ai chirurghi...» mormorò l’infelice,
rabbrividendo.
«Ah, è orribile!!! Perché, povera figliola, avete sempre così
dolorosi pensieri?...»
«Vi stupisce, vero, signor Rodolphe, che io abbia vergogna... per
quando sarò morta... Ahimè, Dio mio... mi è rimasto solo questo.»
Queste dolorose e amare parole colpirono Rodolphe.
Egli si prese la testa fra le mani fremendo: pensava alla fatalità
che si era accanita contro Fleur-de-Marie... pensava alla madre di
quella povera creatura... Sua madre... Ella era felice, ricca,
onorata, forse...
Onorata... ricca... felice... e la sua figliola, che ella aveva
atrocemente sacrificato all’ignominia, aveva lasciato la soffitta
della Chouette per la prigione, la prigione per la tana
dell’ostessa; da cui ella poteva andare a finire i suoi giorni sul
giaciglio di un ospedale... e dopo morta...
La povera Goualeuse, notata l’aria cupa del compagno, si rattristò e
poi disse a Rodolphe:
«Scusatemi, signor Rodolphe, non dovrei avere simili idee... Mi
portate con voi perché sia allegra, e invece vi parlo di cose tanto
tristi... tanto tristi! Dio mio, non so come sia, ma lo faccio mio
malgrado... Non sono mai stata così felice come oggi; eppure in ogni
momento mi salgono le lacrime agli occhi. Dite, signor Rodolphe, non
me ne volete? D’altronde... vedete... la tristezza se
ne va... come è venuta... molto in fretta. Ecco adesso... non ci
penso già più... sarò ragionevole... Ecco, signor Rodolphe...
guardatemi gli occhi.»
E Fleur-de-Marie, dopo avere chiuso gli occhi due o tre volte per
scacciare un’ultima lacrima ribelle, li spalancò... li spalancò, e
guardò Rodolphe con affascinante candore.
«Fleur-de-Marie, vi prego, non sforzatevi... Siate allegra, se avete
voglia di essere allegra... triste, se vi va di essere triste. Dio
mio, anch’io che vi parlo, alle volte ho, come voi, qualche idea
nera... e soffrirei moltissimo se dovessi fingere una gioia che non
sento.»
«Veramente, signor Rodolphe, qualche volta siete triste anche voi?»
«Sicuro; il mio avvenire non è certo migliore del vostro... Sono
senza padre e senza madre... se un giorno mi ammalo, come vivere?
Spendo giorno per giorno quello che guadagno.»
«È uno sbaglio, vedete... un grande sbaglio, signor Rodolphe» disse
la Goualeuse con tono di grave rimostranza che fece sorridere
Rodolphe, «dovreste depositarlo in una cassa di risparmio... Io, il
mio triste destino è dipeso tutto dal fatto che non ho risparmiato
il denaro che avevo. Con duecento franchi, un operaio non ha bisogno
di nessuno, non è mai in difficoltà... e spesso sono proprio le
angustie a dare cattivi consigli.»
«Queste parole sono molto sagge, molto sensate, cara piccola
risparmiatrice. Ma duecento franchi... come mettere insieme duecento
franchi?»
«Ma è semplicissimo, signor Rodolphe: facciamo un po’ i calcoli;
vedrete... Alle volte riuscite a guadagnare anche cinque franchi al
giorno, vero?»
«Sì, quando lavoro.»
«Si deve lavorare tutti i giorni. E un lavoro tanto brutto? Un bel
mestiere come il vostro... Pittore di ventagli... ma dovrebbe essere
un piacere per voi... Vedete, signor Rodolphe, non siete
ragionevole!» soggiunse la Goualeuse con tono severo. «Un operaio
può vivere, e vivere benissimo, con tre franchi; vi restano dunque
quaranta soldi, alla fine del mese sessanta franchi risparmiati...
Sessanta franchi al mese... ma è una bella somma!»
«Sì; ma è così bello andare in giro, non fare niente!»
«Signor Rodolphe, torno a ripetervelo, ragionate come un bambino...»
«Ebbene, sarò ragionevole, piccola brontolona; mi suggerite delle
buone idee... Non avevo pensato a questo.»
«Veramente?» disse la ragazza battendo le mani con gioia. «Se
sapeste come mi fate contenta!... Risparmierete quaranta soldi al
giorno! davvero?»
«Va bene... risparmierò quaranta soldi al giorno» disse Rodolphe
sorridendo suo malgrado.
«Davvero? davvero?»
«Ve lo prometto...»
«Vedrete come sarete fiero dei primi risparmi che avrete fat-
to... E poi non è tutto qui... se mi promettete di non
arrabbiarvi...» «Sono tanto cattivo?»
«No, certo... ma non so se devo...»
«Dovrete dirmi tutto, Fleur-de-Marie...»
«Ebbene, insomma voi che... questo si vede, non meritate il mestiere
che fate... come mai frequentate certe taverne come quella
dell’ostessa?»
«Se non fossi venuto nella bettola, oggi, Fleur-de-Marie, non avrei
avuto il piacere di venire in campagna con voi.»
«È verissimo, ma non c’entra, signor Rodolphe. Vedete, io sono
contentissima di questa giornata, eppure rinuncerei ben volentieri a
passarne un’altra uguale, se questo dovesse in qualche modo
danneggiarvi...»
«Al contrario, dal momento che m’avete dato buoni consigli sul
risparmio.»
«E li seguirete?»
«Ve l’ho promesso, parola d’onore. Risparmierò al minimo quaranta
soldi al giorno...»
XI
I CASTELLI IN ARIA
Proprio in quel momento la carrozza passava per Sarcelles; allora
Rodolphe disse al vetturino:
«Prendi la prima strada a destra e poi, attraversato Villiers-leBel,
a sinistra, sempre dritto.»
Quindi si rivolse alla Goualeuse:
«Ora, Fleur-de-Marie, che siete contenta di me, possiamo, come
dicevamo poco fa, divertirci a fare dei castelli in aria. Non costa
molto, non potete rimproverarmi tali spese.»
«No... Vediamo, fate prima il vostro.»
«Prima... il vostro, Fleur-de-Marie.»
«Vediamo se indovinate i miei gusti, signor Rodolphe.»
«Tentiamo... sto immaginando che questa strada... dico questa perché
siamo qui...»
«Giusto, non dobbiamo andare a cercare tanto lontano.»
«Sto immaginando dunque che questa strada ci porti in un paese
lontano, lontano dalla strada maestra.»
«Sì, si sta molto più tranquilli.»
«È situato a mezza costa ed è pieno di alberi.»
«Vicinissimo c’è un ruscello.»
«Proprio... un ruscello. In fondo al paese si vede una bella fat-
toria; la casa ha da una parte un frutteto, dall’altra un bel
giardino pieno di fiori.»
«Mi pare d’esserci, signor Rodolphe.»
«Al pianterreno una gran cucina per la servitù e una sala da pranzo
per la fittavola.»
«La casa ha le persiane verdi... fanno così allegria, vero, signor
Rodolphe?»
«Le persiane verdi... certo... non c’è niente che faccia più
allegria delle persiane verdi. Naturalmente la fittavola sarebbe
vostra zia.»
«Naturalmente... e sarebbe una donna buonissima.» «Eccezionale: vi
vorrebbe bene come una madre...»
«Cara zia! dev’essere così bello essere amati da qualcuno!» «E le
vorreste bene anche voi?»
«Oh!» esclamò Fleur-de-Marie congiungendo le mani e alzan-
do gli occhi con un’espressione d’intraducibile felicità; «oh, sì
che le vorrei bene; e poi la aiuterei a lavorare, a cucire, a
mettere a posto la biancheria, a lavare, a sistemare la frutta per
l’inverno, insomma in tutte le faccende di casa l’aiuterei... Non
avrebbe mai occasione di dirmi che sono pigra, ve l’assicuro!... La
mattina...»
«Aspettate un po’, Fleur-de-Marie... come siete impaziente!... che
finisca almeno di dipingervi la casa.»
«Forza, forza, signor pittore, si vede che siete abituato a fare i
bei paesaggi sui ventagli» disse Fleur-de-Marie ridendo.
«Piccola chiacchierona... lasciatemi finire la casa...»
«È vero, sono chiacchierona; ma è così divertente! Vi ascolto,
signor Rodolphe, finite pure la casa della fittavola.»
«La vostra stanza è al primo piano.»
«La mia stanza! che gioia! Vediamo la mia stanza, vediamo.» E la
ragazza si strinse contro Rodolphe spalancando due occhi
pieni di curiosità.
«La vostra stanza ha due finestre che si aprono sul giardino
pieno di fiori e su un prato al cui limite scorre il ruscello.
Dall’al-
tra parte del ruscello c’è una collinetta coperta di antichi
castagni tra i quali si vede spuntare il campanile della chiesa.»
«Com’è bello!... com’è bello, signor Rodolphe! Mi viene voglia di
essere in quel posto!»
«Tre o quattro belle mucche pascolano nel prato che una siepe di
biancospino divide dal giardino.»
«E dalla mia finestra io vedo le mucche?»
«Esatto.»
«Ce n’è una che sarà la mia prediletta; vero, signor Ro-
dolphe? le farò un bel collare con un campanaccio, e la abituerò a
venir a mangiare nella mia mano.»
«E lo farà. Essa è giovanissima, bianchissima; si chiama Musette.»
«Ah, che bel nome! come mi piace, la cara Musette!»
«Finiamo la vostra stanza, Fleur-de-Marie; essa è tappezzata di una
bella tela azzurra e ha le tende dello stesso colore; un grande
roseto e un enorme caprifoglio ricoprono il muro esterno della
fattoria da quella parte e circondano le vostre finestre cosicché
ogni mattina basterà che allunghiate la mano per cogliere un bel
mazzetto di rose e di caprifoglio.»
«Ah, signor Rodolphe, che bravo pittore siete!»
«Ecco ora come passate la vostra giornata.»
«Vediamo la mia giornata.»
«La vostra buona zia viene a svegliarvi con un tenero bacio
sulla fronte; vi porta una tazza di latte bollente, perché siete
malata di petto, povera figliola! Vi alzate; andate a fare un giro
per la fattoria, a vedere Musette, i polli, i colombi, vostri amici,
i fiori del giardino. Alle nove arriva il vostro maestro.»
«Il mio maestro?»
«Capite da voi che dovrete imparare a leggere, a scrivere e a far di
conto per potere aiutare vostra zia a tenere la contabilità.»
«Giusto, signor Rodolphe, non ci pensavo... devo proprio imparare a
scrivere per aiutare mia zia» disse gravemente la povera ragazza che
era così presa dalla ridente prospettiva di quella vita tranquilla
che già le sembrava reale.
«Dopo le lezioni, lavate la biancheria della casa, o vi ricamate una
cuffietta alla campagnola. Verso le due, fate esercizi di
calligrafia, e poi andate con vostra zia a fare una bella
passeggiata, a vedere, d’estate, i mietitori, in autunno, gli
aratori; vi stancate per bene e ritornate con un gran mazzetto
d’erba di campo che voi stessa avete raccolto per la vostra cara
Musette.»
«Perché ritorniamo passando per il prato, vero, signor Rodolphe?»
«Certo; c’è un ponte di legno sul ruscello. Quando ritornate, sono
ormai le sei o le sette; verso quell’ora un bel fuoco allegro
fiammeggia nella grande cucina della fattoria; voi andate a
riscaldarvi e a discorrere un momentino con i bravi contadini che
sono rientrati dal lavoro per cenare. Poi consumate il pasto della
sera con vostra zia. Qualche volta a tavola con voi c’è o il parroco
o qualche amico di famiglia. Dopo cena, vi mettete a leggere o a
lavorare mentre vostra zia fa una partita a carte. Alle dieci, dopo
che la zia vi ha dato il bacio della buona notte, andate nella
vostra stanza; e l’indomani mattina ricominciate di nuovo...»
«Si potrebbe vivere cent’anni così, signor Rodolphe, senza rischio
di annoiarsi neppure un po’...»
«Ma questo non è niente. E le domeniche! e i giorni di festa!» «E in
quei giorni, signor Rodolphe?»
«Vi fate bella, vi mettete un bel vestito alla campagnola, con
una graziosa cuffia che vi sta a meraviglia; salite in una carretta
di giunchi vicino a vostra zia e a Jacques per andare alla messa
grande del paese; poi, d’estate, andate a vedere, sempre in
compagnia di vostra zia, tutte le feste che si daranno nelle
parrocchie vicine. Voi siete così gentile, così dolce, così brava
donna di casa, vostra zia vi vuole tanto bene, il parroco dà di voi
informazioni così favorevoli che tutti i figli dei fittavoli dei
dintorni vogliono farvi ballare perché i matrimoni nascono sempre
così... Quindi, a poco a poco, cominciate a mettere gli occhi su
uno... e...»
Rodolphe, sorpreso dal silenzio della Goualeuse, si volse a
guardarla.
La povera ragazza soffocava a stento i singhiozzi.
Le parole di Rodolphe le avevano fatto per un po’ dimenticare il
presente, ma il sogno di una vita dolce e piacevole le aveva fatto
per contrasto tornare alla mente il ricordo della sua esistenza di
peccato.
«Che avete, Fleur-de-Marie?»
«Ah, signor Rodolphe, senza volerlo, m’avete fatto stare molto
male... ho creduto per un istante al vostro paradiso...»
«Ma, figliola cara, questo paradiso esiste... ecco, guardate...
Ferma, vetturino!»
La carrozza si fermò.
La Goualeuse alzò automaticamente la testa. Era in cima a una
collinetta.
Quali non furono la sua meraviglia, il suo stupore.
Il paesello che sorgeva a mezza costa, la fattoria, il prato, le
belle mucche, il ruscello, il castagneto, la chiesa sullo sfondo, la
visione le stava sotto gli occhi... non mancava niente, c’era
perfino Musette, la bella giovenca bianca, futura prediletta della
Goualeuse.
Un bel sole di novembre illuminava il dolce paesaggio... I castagni
ancora coperti di foglie gialle e rossicce si stagliavano contro
l’azzurro del cielo.
«Ebbene, che ne dite, Fleur-de-Marie? Sono o no un buon pittore?»
chiese Rodolphe sorridendo.
La Goualeuse lo guardò sorpresa e inquieta insieme. Le sembrava
quasi qualcosa di soprannaturale.
«Com’è possibile, signor Rodolphe?... Ma, Dio mio, non è un sogno?
Ho quasi paura... Come! quello che m’avete detto...»
«Chiarissimo, figliola... La fittavola è la mia balia, io sono stato
allevato qui... Stamattina prestissimo le ho scritto che sarei
venuto a farle visita: dipingevo la realtà al naturale.»
«Ah, è vero, signor Rodolphe!» disse la Goualeuse con un profondo
sospiro.
XII
LA FATTORIA
La fattoria in cui Rodolphe aveva portato Fleur-de-Marie era situata
al limite del paese di Bouqueval, una parrocchietta isolata,
sconosciuta, sperduta nella campagna, e lontana due leghe circa da
Ecouen.
Il vetturino, seguendo le indicazioni di Rodolphe, prese una
scorciatoia che sbucava in un lungo viale fiancheggiato da ciliegi e
da meli. La carrozza procedeva senza far rumore sopra un tappeto di
erbetta fine e ordinata simile a quella che cresce di solito nella
maggior parte delle strade locali.
Fleur-de-Marie, silenziosa, triste, restava, nonostante reagisse,
sotto la dolorosa impressione che Rodolphe si rimproverava d’averle
suscitato.
Dopo un po’ la carrozza passò davanti al cancello del cortile della
fattoria, continuò poi per un viale di fitti carpini e quindi si
fermò di fronte a un piccolo portico in legno rustico mezzo nascosto
da un grosso ceppo di vite a cui l’aria d’autunno aveva venato di
rosso le foglie.
«Eccoci arrivati, Fleur-de-Marie» disse Rodolphe, «siete contenta?»
«Sì, signor Rodolphe... ma ora ho l’impressione di dover provare
vergogna dinanzi alla fittavola; non avrei mai il coraggio di
guardarla...»
«Perché, figliola?»
«Avete ragione, signor Rodolphe, lei non mi conosce.»
E la Goualeuse represse un sospiro.
Sicuramente la carrozza doveva essere stata avvistata e l’arrivo
di Rodolphe atteso.
Quando il cocchiere aprì lo sportello, una donna di cin-
quant’anni circa, vestita come le ricche fittavole dei dintorni di
Parigi, con un volto mesto e dolce a un tempo, comparve sotto il
portico e si fece incontro a Rodolphe con rispettosa premura.
La Goualeuse diventò di porpora e, dopo un momento di esitazione,
scese dalla carrozza.
«Buon giorno, buona signora Georges...» disse Rodolphe alla
fittavola; «come vedete, sono puntuale...»
Poi, voltosi al vetturino e messogli qualche soldo in mano: «Puoi
tornartene a Parigi.»
Il vetturino, un ometto tozzo, con un cappello calcato fin so-
pra gli occhi, con la faccia quasi interamente nascosta dal bavero
foderato di pelo del suo pastrano, intascò il denaro senza proferir
parola, risalì a cassetta, frustò il cavallo e scomparve rapidamente
nel frondoso viale.
«Dopo un viaggio così lungo, questo musone di cocchiere ha ancora
tanta fretta di andarsene...» pensò subito Rodolphe. «Bah! sono
appena le due; vorrà essere di ritorno a Parigi tanto presto da
poter mettere a profitto il resto della giornata.»
E finì col non attribuire nessuna importanza alla prima idea.
Fleur-de-Marie si avvicinò a Rodolphe, inquieta, turbata, quasi
allarmata e gli disse sottovoce in modo da non farsi sentire dalla
signora Georges:
«Dio mio, signor Rodolphe, scusate... Mandate via la carrozza... Ma
la ostessa, ahimè!... devo ritornare da lei questa sera..,
altrimenti mi riterrà una ladra. I miei vestiti appartengono a
lei... e io le devo...»
«Calmatevi, figliola, tocca a me chiedervi scusa.»
«Scusa! e di cosa?»
«Di non avervi detto prima che non siete più indebitata con
l’ostessa e che potevate smettere questi orrendi vestiti per
indossarne degli altri, quelli che vi darà adesso la buona signora
Georges. Ne ha qualcuno che è press’a poco della vostra taglia e che
vi presterà molto volentieri. Vedete, ha già cominciato la sua parte
di zia.»
Fleur-de-Marie credeva di sognare; guardava ora Rodolphe ora la
fittavola perché non poteva credere a quello che sentivano i suoi
orecchi.
«Come» disse con voce palpitante d’emozione, «non ritornerò più a
Parigi? potrò restare qui? la signora me lo permetterà?... potrebbe
essere possibile il castello in aria di poco fa?»
«Era questa fattoria... eccolo realizzato.»
«No, no, sarebbe troppo bello, troppa felicità.»
«Di felicità non se ne ha mai troppa, Fleur-de-Marie.»
«Ah, per pietà, signor Rodolphe, non ingannatemi, mi fareb-
be molto male.»
«Figliola cara, credetemi» disse Rodolphe, con un tono di voce
affettuoso, sì, ma anche un po’ sostenuto che Fleur-de-Marie non gli
conosceva ancora; «sì, se vi piace, potete fin da oggi vivere,
assieme alla signora Georges, la vita tranquilla che poco fa vi ha
incantato. Benché non sia vostra zia, la signora Georges, non appena
vi avrà conosciuta, avrà per voi le più tenere cure; anzi agli occhi
della gente della fattoria passerete per sua nipote; questa piccola
menzogna darà più decoro alla vostra posizione. Torno a ripetervi,
Fleur-de-Marie, che, se vorrete, potrete realizzare il sogno di
poc’anzi. Non appena sarete vestita da piccola fittavola» aggiunse
Rodolphe sorridendo, «vi condurremo a vedere la vostra futura
prediletta, Musette, la giovenchetta bianca che aspetta il collare
che le avete promesso. Andremo anche a dare un’occhiata ai colombi,
vostri amici, e poi alla cascina; insomma percorreremo in lungo e in
largo la fattoria; ci tengo a mantenere la promessa.»
Fleur-de-Marie congiunse le mani con forza. Sorpresa, gioia,
riconoscenza, rispetto le si dipinsero in volto: gli occhi le
s’inondarono di lacrime:
«Signor Rodolphe» esclamò, «dovete essere un angelo mandato dal buon
Dio per fare tanto bene agli infelici e per liberarli dalla vergogna
e dalla miseria.»
«Figliola cara» rispose Rodolphe con un sorriso di profonda
malinconia e d’indicibile bontà, «benché molto giovane, ho già
sofferto in vita mia; questo vi spiega la compassione che provo per
quelli che soffrono. Fleur-de-Marie, o meglio Marie, andate con la
signora Georges. Sì, Marie, che vi chiamino ormai con questo nome,
dolce e bello come voi. Non partirò senza prima aver parlato ancora
assieme a voi e vi lascerò contentissimo di sapervi felice.»
Fleur-de-Marie come risposta si avvicinò a Rodolphe, piegò le
ginocchia, gli prese la mano e se la portò rispettosamente alle
labbra con un gesto pieno di grazia e di modestia.
Poi si allontanò con la signora Georges che era stata a guardarla
con profonda commozione.
XIII
MURPH E RODOLPHE
Rodolphe si diresse verso il cortile della fattoria e vi trovò
l’uomo dall’alta statura che, la sera prima, travestito da
carbonaio, era andato ad avvertirlo dell’arrivo di Tom e Sarah.
Murph, tale è il nome del personaggio, aveva circa cinquant’anni,
una testa quasi completamente calva su cui risaltavano due ciuffetti
riccioluti d’un biondo vivo, al di sopra di ciascuna delle tempie,
argentati da qualche ciocca bianca; aveva un viso largo, colorito,
che era completamente rasato, due favoriti cortissimi, d’un biondo
acceso, che si fermavano all’altezza dell’orecchio e si curvavano, a
guisa d’uncino, sopra le guance paffute. Nonostante l’età e la
grossezza, Murph era agile e robusto. Benché flemmatico, aveva un
volto affabile ed energico a un tempo; portava una cravatta bianca,
un grande giubbetto, un lungo abito a larghe falde, un paio di
pantaloni, d’un grigio verdastro, fatti con una stoffa uguale a
quella delle ghette con bottoni di madreperla, le quali ghette, non
arrivando fino alle giarrettiere, lasciavano emergere i calzettoni
da viaggio di lana grezza.
Il modo di vestire e l’aspetto virile di Murph richiamavano alla
mente l’immagine perfetta di ciò che gli inglesi chiamano il
gentiluomo di campagna. Affrettiamoci a precisare che Murph era
inglese, gentiluomo (squire), ma non gentiluomo di campagna.
Nel momento in cui Rodolphe arrivò nel cortile, Murph stava
rimettendo in una borsa, che si trovava in un calessino da viaggio,
un paio di pistole che aveva allora accuratamente pulito.
«Che diamine vuoi fare con le pistole?» gli domandò Rodolphe.
«So io, signore» rispose Murph scendendo dal predellino. «Fatevi gli
affari vostri, io faccio i miei.»
«Per che ora saranno pronti i cavalli?»
«Sul cader della notte, secondo i vostri ordini.»
«Sei arrivato stamattina?»
«Alle otto. La signora Georges ha avuto il tempo di prepara-
re ogni cosa.»
«Sei un po’ di cattivo umore... Non sei contento di me?» «Anche
troppo, signore... anche troppo. Un giorno o l’altro...
insomma il pericolo... è la vostra vita.»
«Ti conviene parlare solamente! Se ti lasciassi fare, tutti i rischi
sarebbero per te, e...»
«E se faceste il bene senza mettere a rischio la vostra vita, che
gran male ci sarebbe, signore?»
«E dove sarebbe il gran piacere, signor Murph?»
«Voi» disse il gentiluomo alzando le spalle, «voi in quei locali!»
«Oh, siete tutti così, voialtri, John Bull, con i vostri scrupoli da
aristocratici che vi fanno credere che i grandi signori siano di
natura superiore alla vostra, poveri montoni, fieri dei vostri
beccai!!!»
«Se foste inglese, signore, capireste... Chi onora è onorato.
D’altronde, anche se fossi turco, cinese, americano, penserei lo
stesso che avete sbagliato a esporvi così. Ieri sera, in quella
orribile strada della Cité, in cui ci siamo recati per snidare
BrasRouge, che l’inferno se lo prenda, c’è voluto tutto il timore
che ho d’irritarvi, di disobbedirvi, per trattenermi dal correre a
darvi man forte contro il furfante che avete trovato nell’androne di
quel tugurio.»
«Vale a dire, signor Murph, che voi dubitate della mia forza e del
mio coraggio!»
«Purtroppo mille volte m’avete messo in condizione di non dubitare
né dell’una né dell’altro. Grazie a Dio Crabb di Ramsgate vi ha
insegnato a boxare, che Lacour di Parigi vi ha insegnato il bastone,
la savate, e, per curiosità vostra, il gergo; che il celebre
Bertrand v’ha insegnato a tirare di scherma e che voi nelle prove
contro tali professori avete spesso avuto la meglio. Con la pistola
colpite una rondine al volo, avete muscoli d’acciaio; benché esile e
snello, sareste capace di vincermi con la stessa facilità con cui un
cavallo da corsa vincerebbe una rozza... Questo è vero.»
Rodolphe, dopo avere ascoltato con compiacenza l’enumerazione delle
sue doti di gladiatore, riprese sorridendo:
«Ebbene, di che cosa hai paura, allora?»
«Affermo, signore, che non è dignitoso da parte vostra offrire il
collo al primo mascalzone che viene. Non dico questo per il disdoro
che deriva a un onorato gentiluomo di mia conoscenza a sporcarsi il
viso con il carbone finendo così col sembrare un demonio; voi sapete
bene che, a dispetto dei miei capelli grigi, della mia pinguedine,
della mia gravità, io mi trasformerei in un funambolo se con questo
potessi esservi utile; ma sostengo quanto ho detto prima.»
«Oh, lo so, vecchio Murph, che, quando ti sei fisso un’idea in
quella tua testa di ferro e hai fatto attecchire la fedeltà in quel
tuo cuore franco e valoroso, il diavolo consumerebbe denti e unghie
prima di grattartele via.»
«Sono lusingato, signore; state meditando qualche...»
«Non preoccuparti.»
«Qualche follia, signore.»
«Caro Murph, hai scelto male il momento per farmi la predica.»
«Perché?»
«Sono in uno dei miei migliori momenti di soddisfazione e di
felicità... sono qui...»
«In un posto in cui avete fatto tanto bene?»
«In un rifugio contro le omelie, è il mio Temple-Bar...»
«Se è così, dove volete che vi prenda, signore?»
«Signor Murph, voi mi lusingate, volete impedirmi di fare
follie.»
«Mio signore, ci sono follie per le quali sono indulgente.» «Le
follie di denaro?»
«Si, perché, dopo tutto, con quasi due milioni di rendita...» «Si è
spesso e volentieri in difficoltà, caro Murph.»
«A chi lo dite, mio signore?»
«Eppure ci sono piaceri così vivi, così puri, così profondi che
costano tanto poco. Che vi è di paragonabile a quello che ho provato
poco fa quando quella povera creatura si è veduta al sicuro qui e
nella sua riconoscenza m’ha baciato la mano? Non è tutto; la mia
felicità durerà a lungo; domani, domani l’altro, per molti giorni
insomma, potrò pensare con delizia a ciò che proverà la povera
ragazza quando si sveglierà ogni mattina in questo asilo tranquillo,
accanto all’ottima signora Georges che l’amerà teneramente; perché
l’infelice simpatizza subito con l’infelice.»
«Oh, quanto alla signora Georges, mai beneficio è stato meglio
collocato. Nobile, coraggiosa donna!... un angelo di virtù, un
angelo! Io mi commuovo raramente, e dinanzi alle disgrazie della
signora Georges mi sono commosso... Ma la vostra nuova protetta!...
ecco, non parliamo più di ciò, signore.»
«Perché, Murph?»
«Mio signore, voi fate sempre quello che vi pare.»
«Io faccio quello che è giusto» rispose Rodolphe un po’ spa-
zientito.
«Quello che è giusto... secondo voi.»
«Quello che è giusto davanti a Dio e davanti alla mia coscien-
za» aggiunse Rodolphe severamente.
«Vedete, mio signore, noi non c’intendiamo. Ve lo dico per la
seconda volta, non parliamone più!»
«E io ti ordino di parlare!» disse Rodolphe imperiosamente.
«Non mi sono mai esposto a dovermi sentire ordinare di tacere; spero
non vorrete comandarmi di parlare» rispose Murph con alterigia.
«Signor Murph!!!» gridò Rodolphe sempre più irritato.
«Mio signore!...»
«Lo sapete, mio signore, che a me non piacciono le reticenze.» «Non
posso non avere reticenze» disse bruscamente Murph. «Sappiate,
signore, che se mi abbasso sino a essere familiare con
voi, lo faccio perché voi vi innalziate fino a essere franco con
me.» Impossibile descrivere l’espressione di somma alterigia che
ebbe Rodolphe nel pronunciare queste parole.
«Mio signore, ho cinquant’anni, sono gentiluomo; non dovete
parlarmi in questa maniera.» «Tacete!»
«Mio signore!»
«Tacete!»
«Mio signore, non è bello costringere un uomo di cuore a ram-
mentarvi i servigi resi.»
«I tuoi servigi? non te li pago in tutti i modi forse?»
Si deve dire che Rodolphe non aveva dato a queste crudeli e
umilianti parole un significato tale da far passare Murph per un
mercenario; purtroppo questi le interpretò in tale maniera. Diventò
rosso dalla vergogna, si portò alla fronte spaziosa i pugni stretti
in atto di dolorosa indignazione; poi, al vedere il volto di
Rodolphe contratto, alterato dalla selvaggia e violenta collera,
cambiò improvvisamente, represse un sospiro, guardò il giovane con
pietosa commiserazione e gli disse con voce commossa:
«Ritornate in voi, mio signore; non siate irragionevole.»
Queste parole esasperarono l’irritazione di Rodolphe; nello sguardo
gli passò un lampo feroce; le labbra gli si sbiancarono e subito
gridò, avanzando verso Murph con gesto minaccioso:
«Osi ancora!...»
Murph si trasse indietro rispondendo con impeto quasi suo malgrado:
«Mio signore, mio signore, RICORDATEVI DEL 13 GENNAIO!»
Questa frase produsse un effetto magico su Rodolphe. Il viso,
contratto dalla collera, gli si ricompose.
Fissò in volto Murph, abbassò la testa; poi, dopo un momento di
silenzio, mormorò con voce alterata:
«Ah mio signore, come siete crudele... eppure io credevo!... e anche
voi!... voi!...»
Rodolphe non poté continuare perché la voce gli si spense; si lasciò
cadere su una panchina e si prese la testa fra le mani.
«Mio signore» disse Murph addolorato, «mio buon signore,
perdonatemi, perdonate al vostro vecchio e fedele Murph! Ho parlato
così solo perché ci sono stato spinto e perché, ahimè, temevo, non
per me ma per voi, le conseguenze del vostro sdegno... non l’ho
fatto per cattiveria o per muovervi rimprovero, l’ho fatto un po’
mio malgrado e un po’ per compassione. Mio signore, ho avuto torto a
essere suscettibile... Dio mio! chi può conoscere il vostro
carattere se non io, io che non vi ho mai abbandonato da quando
eravate bambino! Di grazia, dite che mi perdonate d’avervi
rammentato quel giorno funesto.»
Rodolphe alzò la testa; era pallidissimo. Poi con tono dolce e
triste disse al compagno:
«Basta, basta, vecchio amico, ti ringrazio d’avere stroncato con una
parola il mio sdegno funesto; io non ti chiedo scusa, io, delle
atrocità che t’ho detto; sai bene però che tra il cuore e le labbra
ci corre molto, come dice la brava gente da noi. Sono stato pazzo,
non parliamone più.»
«Ahimè, ecco adesso sarete triste per molto tempo... Come sono
infelice!... Io non desidero altro che potervi distogliere dai
vostri cupi pensieri e invece, con la mia sciocca suscettibilità, vi
faccio ripiombare dentro. Maledizione! a che cosa serve essere
onesto e avere i capelli grigi se non a sopportare con pazienza i
rimproveri che non si meritano!»
«Ma no» proseguì Murph, con uno slancio che sapeva di comico perché
contrastava con la sua flemma abituale, «ma no, ho assolutamente
bisogno di sentirmi lodare giorno per giorno, di sentirmi dire:
Signor Murph, siete il modello dei servitori; signor Murph, non c’è
fedeltà eguale alla vostra; signor Murph, siete un uomo
meraviglioso; signor Murph! diavolo, accidenti! oh, oh! com’è bello,
il signor Murph! bravo Murph!!! Su, vecchio pappagallo, fatti
grattare un po’ la testa grigia!!!»
Poi, ricordandosi delle affettuose parole che Rodolphe gli aveva
detto all’inizio della conversazione, si lasciò prendere da un nuovo
slancio di ridicola esagerazione:
«Ma lui mi aveva chiamato buono, vecchio, fedele Murph!... E io che
mi comporto come un cafone per una facezia non intenzionale! alla
mia età... Maledizione!... c’è da strapparsi i capelli».
E il bravo gentiluomo si portò le mani alle tempie.
Quando Murph diceva queste parole e faceva questo gesto, voleva dire
che egli aveva toccato l’apice della disperazione. Per sfortuna o
per fortuna sua, Murph era quasi completamente calvo, cosa che
rendeva innocuo questo suo attacco alla capigliatura e con suo
grande e sentito dispiacere; perché quando il bravo gentiluomo
accompagnava le parole col gesto, cioè quando, nervoso, posava le
dita sulla testa calva, superficie lucida e levigata come una lastra
di marmo, ci restava male, si vergognava della presunzione avuta e
finiva col considerarsi un millantatore, un fanfarone. Per
allontanare ogni sospetto di furfanteria da Murph va detto subito
che egli aveva posseduto la più folta, la più bionda capigliatura
che mai avesse ornato testa di gentiluomo dello Yorkshire.
Di solito Rodolphe si divertiva a notare il disappunto che veniva a
Murph dai capelli; ma questa volta egli era preso da gravi e
dolorosi pensieri. Ciononostante, per non acuire il dispiacere del
compagno, gli sorrise con dolcezza e gli disse:
«Ascoltami, buon Murph: prima hai mostrato di lodare senza riserve
il bene che ho fatto alla signora Georges...»
«Mio signore...»
«E di stupirti del mio interessamento per quella povera ragazza
perduta.»
«Mio signore, di grazia... Ho avuto torto... ho avuto torto...»
«No... Ti capisco, le apparenze hanno potuto ingannarti... Ma,
siccome tu sai tutto quello che faccio... siccome con tanta fedeltà
come con tanto coraggio mi aiuti nel compito che mi sono proposto...
è mio dovere, o se preferisci, è mio dovere per riconoscenza verso
di te, dimostrarti che non mi comporto alla leggera...»
«Lo so, signore.»
«Tu conosci le mie idee a proposito del bene che l’uomo può fare.
Soccorrere gli infelici meritevoli che si lamentano, è bene.
Interessarsi a coloro che lottano con dignità, con energia e venire
loro in aiuto, qualche volta a loro insaputa... prevenire in tempo
la miseria o la tentazione che conducono al delitto... è meglio.
Riabilitare ai loro propri occhi, rendere del tutto onesti e buoni
coloro che hanno conservato intatto un qualche nobile sentimento in
mezzo al disprezzo da cui sono bollati, alla miseria da cui sono
divorati, alla corruzione da cui sono circondati, e per fare questo
affrontare prima se stessi e poi il contatto con quella miseria, con
quella corruzione, con quel fango... è meglio ancora. Perseguitare
con odio feroce, con implacabili vendette il vizio, l’infamia, il
delitto, che striscino nel fango o che troneggino sulle sete, è un
atto di giustizia... Ma soccorrere ciecamente una miseria meritata,
ma degradare la carità e la pietà, ma prostituire questi puri e
spirituali conforti della mia anima ferita... prostituirli per
esseri indegni, infami, sarebbe orribile, un’empietà, un sacrilegio.
Sarebbe come far dubitare di Dio. Invece colui che fa la carità deve
far credere in Dio.»
«Mio signore, non volevo dire che voi avevate mal collocato i vostri
benefici.»
«Ancora una parola, vecchio amico. La signora Georges e la povera
ragazza che le ho affidato sono partite da due punti opposti per
precipitare nella stessa voragine... la disgrazia. Una, felice,
ricca, ammirata, onorata, colma di ogni virtù, ha visto la sua
esistenza infamata, infranta, annientata da uno scellerato ipocrita
a cui i ciechi genitori l’avevano data in sposa... Lo dico con
gioia, senza di me l’infelice sarebbe morta nella miseria e nel
bisogno; perché, per la vergogna, non aveva il coraggio di
rivolgersi a nessuno.»
«Ah, mio signore, quando siamo arrivati in quella soffitta, che
squallida miseria! era terribile... terribile!... e quando dopo la
lunga malattia, s’è, per così dire, svegliata qui, in questa casa
così calma, che sorpresa! quanta riconoscenza! Avete ragione, mio
signore, il veder soccorrere tali infelici ci fa credere in Dio.»
«E soccorrerli vuol dire onorare Dio; lo riconosco, niente è più
celestiale della virtù serena e meditata, niente è più rispettabile
di una donna come la signora Georges che, allevata da una buona e
santa madre nell’intelligente osservanza di tutti i doveri, non ne
ha mai trascurato nessuno... nessuno! e ha affrontato con coraggio
le prove più terribili. Ma anche trarre dal fango una di quelle rare
creature con cui Dio si è compiaciuto di essere generoso non vuol
forse dire onorarlo in ciò che ha di più divino? Non merita anche
lei pietà, aiuto, rispetto... sì, rispetto, l’infelice fanciulla
che, abbandonata al suo solo istinto, che, torturata, imprigionata,
vilipesa, insozzata, ha santamente conservato in fondo al proprio
cuore i sacri germogli che Dio le aveva dato? Se tu l’avessi
sentita, quella povera creatura... alla prima parola benevola che le
ho detto, alla prima parola buona e amica che s’è sentita dire, come
i più begli impulsi, i gusti più puri, i pensieri più delicati, più
poetici si sono destati in massa nella sua anima innocente, come in
primavera i mille fiori selvatici dei prati si aprono alla più
pallida spina di sole... senza saperlo! Nel dialogo di un’ora col
povero operaio che ero io, ho scoperto in Fleur-de-Marie tesori di
bontà, di grazia, di saggezza, sì, di saggezza, vecchio Murph. Un
sorriso
m’è venuto alle labbra, una lacrima sul ciglio degli occhi, quando,
con il suo grazioso parlare, m’ha dimostrato che, per essere fuori
dal bisogno e dalle tentazioni, dovevo risparmiare quaranta soldi al
giorno. Povera piccola, com’era seria e compresa quando me l’ha
detto! provava una soddisfazione così deliziosa nel darmi un buon
consiglio, una gioia così dolce a sentirmi dire che l’avrei
seguito!... Ero commosso... oh, commosso fino alle lacrime, te l’ho
già detto... E mi si accusa d’essere indifferente, duro,
inflessibile... oh, no, no, grazie a Dio! qualche volta sento ancora
il cuore battermi ardente e generoso... Ma anche tu, vecchio amico,
ti sei intenerito... Via, Fleur-de-Marie non sarà gelosa della
signora Georges, tu ti interesserai anche della sua sorte.»
«Sì, mio signore... il particolare di farvi risparmiare quaranta
soldi al giorno... credendovi un operaio... invece di spingervi a
spendere per lei... questo particolare mi commuove più di quanto
forse avrebbe dovuto.»
«E quando penso che questa ragazza ha una madre ricca, onorata,
dicono, che l’ha malvagiamente abbandonata... Oh, se è vero... lo
saprò, spero... e ti dirò come. Oh, se è vero! guai... guai a quella
donna! dovrà subire un’espiazione terribile... Murph, Murph... non
mi sono mai sentito acceso da un odio così implacabile come quando
ho pensato a quella donna che non conosco. Tu lo sai, Murph... lo
sai... certe vendette mi sono molto care... certe sofferenze
preziosissime... sono assetatissimo di certe lacrime!»
«Ahimè, mio signore» disse Murph colpito dall’espressione
d’infernale cattiveria che si disegnava sul volto di Rodolphe mentre
diceva queste parole, «lo so, quelli che meritano aiuto e
compassione hanno spesso detto di voi: “È proprio un angelo!”.
Quelli che meritano disprezzo e odio hanno gridato, maledicendovi,
nella loro disperazione: “È proprio il demonio!»
«Taci, ecco la signora Georges e Marie... Fai preparare ogni cosa
per la nostra partenza; dobbiamo essere a Parigi di buon’ora.»
XIV L’ADDIO
Marie (ormai daremo questo nome alla Goualeuse), grazie alle cure
della signora Georges, non era più riconoscibile.
Una bella cuffia tonda alla campagnola e due folte bande di capelli
biondi incorniciavano il virgineo volto della fanciulla. Un ampio
scialletto di mussolina bianca le s’incrociava sul petto e
spariva per metà sotto la pettorina a quadri di un grembiulino di
taffetà cangiante, i cui riflessi blu e rosa brillavano sul fondo
scuro di un vestito marrone che sembrava essere stato fatto
appositamente per Marie.
Il volto era profondamente raccolto; certe felicità gettano lo
spirito in un’indicibile tristezza, in una santa malinconia.
Rodolphe non si sorprese della gravità di Marie, se la aspettava. Se
fosse stata allegra ed espansiva, egli se ne sarebbe fatto un’idea
meno alta.
Rodolphe, dimostrando così un grandissimo tatto, non le fece nessun
complimento anche se la bellezza di Marie splendeva del più puro
fulgore.
Egli sentiva che c’era qualcosa di solenne, di augusto nel riscatto
di un’anima strappata al peccato.
Sul volto serio e rassegnato della signora Georges si vedevano i
segni di diuturne sofferenze e di profondi dolori; essa guardava
Marie con un affetto e con una compassione quasi materni, talmente
riuscivano simpatiche la grazia e la dolcezza della fanciulla.
«Ecco la mia figliola... che viene a ringraziarvi della vostra
bontà, signor Rodolphe» disse la signora Georges presentando Marie a
Rodolphe.
Alla parola «mia figliola», la Goualeuse volse lentamente i grandi
occhi verso la sua protettrice e la contemplò per qualche istante
con una espressione d’inesprimibile riconoscenza.
«Cara signora Georges, vi ringrazio per Marie; è degna delle vostre
tenere cure... e le meriterà sempre.»
«Signor Rodolphe» disse Marie con voce tremante, «voi capite...
vero, se non trovo niente da dirvi?»
«La vostra emozione mi dice tutto, Marie...»
«Oh, sa che è soprannaturale la felicità che le è toccata» disse la
signora Georges, intenerita. «Il suo primo impulso, entrando nella
mia stanza, è stato quello di buttarsi in ginocchio davanti al
crocefisso.»
«Perché ora, signor Rodolphe, grazie a voi... non ho paura di
pregare...» disse Marie guardando l’amico.
Murph si girò subito di scatto: la flemma d’inglese, la dignità di
gentiluomo non gli permettevano di lasciar vedere come fosse toccato
dalle semplici parole di Marie.
Rodolphe disse alla fanciulla:
«Figliola, avrei da parlare con la signora Georges... Il mio amico
Murph vi condurrà a visitare la fattoria... e vi farà fare co-
noscenza con i vostri futuri protetti... noi vi raggiungeremo fra
poco... Ebbene, Murph... Murph, mi senti?»
Il buon gentiluomo stava ancora con le spalle girate e fingeva di
soffiarsi il naso con un rumore, con un fragore enormi; si rimise il
fazzoletto in tasca, si calò il cappello sugli occhi e si girò quel
tanto che gli permettesse di offrire il braccio a Marie.
Murph aveva manovrato così abilmente che né Rodolphe né la signora
Georges poterono vederlo in volto. Presa sotto braccio la ragazza,
si diresse rapidamente verso il fabbricato della fattoria,
camminando così in fretta che, per stargli dietro, la Goualeuse
dovette correre, come da bambina correva dietro alla Chouette.
«Ebbene, signora Georges, cosa pensate di Marie?» chiese Rodolphe.
«Signor Rodolphe, ve l’ho detto: appena entrata nella mia stanza...
visto il crocefisso, è corsa a mettersi in ginocchio... È
impossibile dirvi quanto c’era di spontaneo, di istintivamente
religioso in quel movimento. Ho capito all’istante che la sua anima
non si era degradata. E poi, signor Rodolphe, la sua riconoscenza
per voi non ha niente di esagerato, di enfatico; anzi è molto
sincera. Ancora qualcosa che vi dimostrerà come è forte in lei
l’istinto religioso; le ho detto: “Sarete rimasta stupita, contenta
quando Rodolphe vi ha annunciato che sareste restata qui ormai...
Chissà che grande impressione ne avrete avuto!”. “Oh, sì” m’ha
risposto; “quando il signor Rodolphe me l’ha detto, non so che cosa
mi sia improvvisamente successo; ma ho provato quella beata
felicità, quel sacro rispetto che avevo quando entravo in una
chiesa... quando potevo entrarci” ha aggiunto, “perché, signora,
dovete sapere...”. Non l’ho fatta finire perché l’avevo vista
arrossire di vergogna. “So, figlia mia... e vi chiamerò sempre
figlia... se volete... so che avete sofferto molto: ma Dio benedice
coloro che lo amano e coloro che lo temono... quelli che sono stati
infelici e quelli che si pentono...”»
«Bene, cara signora Georges, sono doppiamente contento di ciò che ho
fatto. Vi occuperete della povera ragazza... Non avete che da
seminare per raccogliere; avete indovinato, una natura eccellente.»
«Inoltre, signor Rodolphe, m’ha colpito il fatto che non abbia
chiesto nessuna informazione sul conto vostro benché la sua
curiosità debba essere stata molto stuzzicata. Impressionata da
questo riserbo pieno di delicatezza, ho voluto sapere se ne fosse
cosciente. Le ho detto; “Sarete molto curiosa di sapere chi sia il
vostro misterioso benefattore”. “Lo so” mi rispose con incantevole
candore, “si chiama mio benefattore.”»
«Così, le vorrete bene, allora? Santissima donna, la sua compagnia
vi sarà dolce... Almeno occuperà il vostro cuore...»
«Sì, mi occuperò di lei come mi sarei occupata di lui» rispose la
signora Georges con voce straziata.
Rodolphe le prese una mano.
«Forza, forza, non vi scoraggiate ancora... Se le nostre ricerche
sono state finora inutili, chi sa che un giorno...»
La signora Georges scosse tristemente la testa e disse con amarezza:
«Il mio povero figlio avrebbe vent’anni adesso...»
«Dite pure che ha vent’anni.»
«Che Dio vi ascolti e vi esaudisca, signor Rodolphe!»
«Mi esaudirà... lo spero... Ieri ero andato (ma inutilmente) in
cerca di un certo furfante soprannominato Bras-Rouge che poteva
forse, m’era stato detto, darmi informazioni su vostro figlio.
Uscendo dalla casa di Bras-Rouge, dopo una rissa, ho incontrato
questa povera ragazza...»
«Ahimè! meglio così!... l’ottima risoluzione che avevate preso per
me vi ha messo almeno sulla pista di una nuova disgrazia, signor
Rodolphe.»
«Da molto tempo d’altronde avevo intenzione di esplorare un po’
queste classi di miserabili... quasi sicuro che c’era ancora qualche
anima da togliere al vecchio Satana che mi diverto spesso ad
avversare» aggiunse Rodolphe sorridendo «e a cui di tanto in tanto
strappo di bocca i bocconi migliori.» Poi riprese con tono più
serio: «Da Rochefort non avete alcuna notizia?»
«Nessuna» rispose la signora Georges a bassa voce e con un sussulto.
«Meglio così! quel mostro avrà trovato la morte tra i banchi di
melme mentre cercava di evadere. I suoi connotati sono abbastanza
diffusi; dal momento che sono state... fatte tutte le ricerche
possibili per scoprirlo dev’essere un criminale molto pericoloso; e
da sei mesi circa è uscito dall’erg...»
Al momento di pronunciare l’orribile parola Rodolphe si fermò.
«Dall’ergastolo! oh, ditelo... dall’ergastolo!» esclamò la povera
donna inorridita con voce quasi rotta. «Il padre di mio figlio!...
Ah, se lo sventurato ragazzo vive ancora... se, come me, non ha
cambiato nome, che vergogna!... che vergogna! E questo non è niente
ancora... Suo padre forse ha mantenuto la promessa terribile. Ah,
signor Rodolphe, perdonatemi; ma, nonostante i vostri benefici, io
sono ancora tanto infelice!»
«Calmatevi, mia cara.»
«Alle volte sono presa da terribili spaventi. Immagino che mio
marito sia fuggito senza danno da Rochefort; che mi cerchi per
uccidermi come forse ha già fatto col nostro bambino. Ma insomma,
che ne ha fatto di lui? che ne ha fatto di lui?»
«In questo mistero la mia mente è come nelle tenebre della morte»
disse Rodolphe soprappensiero. «A quale scopo questo miserabile ha
portato via vostro figlio, quando, quindici anni fa, come m’avete
detto, ha tentato di passare in un Paese straniero? Un bambino di
quell’età non poteva che rendergli difficile la fuga.»
«Ahimè, signor Rodolphe, quando mio marito» (la sventurata
rabbrividì nel pronunciare quella parola), «fermato alla frontiera,
è stato ricondotto a Parigi e gettato nella prigione in cui, con un
permesso, ho potuto vederlo m’ha detto queste terribili parole:
“T’ho portato via il figlio perché tu gli vuoi bene e perché così ho
un modo per costringerti a mandarmi denaro di cui godrà o non
godrà... dipende da me. Che viva o che muoia poco t’importa; ma se
vivrà, sarà in buone mani: berrai l’onta del figlio come hai bevuto
quella del padre”. Ahimè! un mese dopo, mio marito era condannato ai
lavori forzati a vita. Dopo le istanze, le preghiere di cui erano
piene le mie lettere, tutto è stato inutile; non ho potuto sapere
niente sulla sorte del bambino... Ah, signor Rodolphe, dov’è ora mio
figlio? Mi ritornano sempre alla mente le terribili parole: “Berrai
l’onta del figlio come hai bevuto quella del padre!”.»
«Ma sarebbe stata un’atrocità incomprensibile; perché rovinare,
corrompere il povero bambino? perché soprattutto portarlo via?»
«Ve l’ho detto, signor Rodolphe, per costringermi a mandargli
denaro; benché mi avesse spremuta, mi restavano ancora alla fine
poche risorse che andarono perdute così. Nonostante la sua
scelleratezza, non potevo credere che egli non adoperasse almeno una
parte di tale somma per fare allevare lo sventurato bambino.»
«Ma vostro figlio non aveva qualche segno, qualche indizio che lo
potesse far riconoscere?»
«Nessuno se non quello di cui vi ho parlato, signor Rodolphe: una
medaglietta di lapislazzuli attaccata a una catenina d’argento che
portava al collo. Questa reliquia, benedetta dal Santo Padre, era di
mia madre; lei l’aveva portata da piccola e la venerava molto.
L’avevo portata anch’io; l’avevo messa al collo di mio figlio!
Ahimè! come talismano ha perduto il suo potere.»
«Chi sa, povera madre? Dio è onnipotente.»
«La Provvidenza mi ha messo sulla vostra strada, signor Rodolphe.»
«Troppo tardi, buona signora Georges, troppo tardi. Forse vi avrei
risparmiato i dolori di tanti anni.»
«Ah, signor Rodolphe, m’avete fatto tanto bene voi.»
«E come? Ho comperato la fattoria. Nel tempo in cui stavate bene,
voi facevate abilmente valere la vostra roba; avete consentito a
farmi da amministratore; grazie alle vostre cure preziose, alla
vostra intelligente attività, la fattoria mi rende...»
«Vi rende, signore?» disse la signora Georges interrompendo
Rodolphe; «non sono forse io a pagare il fitto del buon parroco
Laporte? e tale somma non è forse distribuita da lui, per vostro
ordine, in elemosine?»
«Ebbene, è una cosa bellissima. Ma, avete fatto avvertire il buon
parroco del mio arrivo, vero? Ci tengo a raccomandargli la mia
protetta. Ha ricevuto la mia lettera?»
«Il signor Murph gliel’ha portata subito stamattina.»
«Nella lettera raccontavo brevemente al buon parroco la storia della
povera ragazza. Non ero sicuro di poter venire quest’oggi; in tal
caso sarebbe stato Murph ad accompagnare qui Marie.»
Un garzone di fattoria interruppe la conversazione che si svolgeva
in giardino.
«Signore, il signor parroco vi aspetta.»
«Ragazzo, sono arrivati i cavalli di posta?» chiese Rodolphe. «Sì,
signor Rodolphe; stanno cambiandoli.»
E il garzone se n’andò.
La signora Georges, il parroco e la gente della fattoria cono-
scevano il protettore di Fleur-de-Marie solo col nome di signor
Rodolphe.
La discrezione di Murph era straordinaria; come nei discorsi a
quattr’occhi con Rodolphe vedeva il momento opportuno per chiamarlo
mio signore, così in presenza di estranei aveva cura di chiamarlo
sempre solo signor Rodolphe.
«Mi sono dimenticato di avvertirvi, cara signora Georges» disse
Rodolphe dirigendosi verso la casa, «che Marie è, mi pare, ammalata
di petto; le privazioni, la miseria le hanno intaccato la salute.
Stamattina, visto alla luce del giorno, il suo pallore mi ha
colpito, nonostante le sue guance fossero di rosa vivo; anche i suoi
occhi m’è sembrato avessero qualche luccichio febbrile. Avrà bisogno
di molte cure.»
«Contate su di me, signor Rodolphe. Ma, grazie a Dio, non c’è niente
di grave. A quell’età, in campagna... all’aria pura, con un po’ di
riposo, di tranquillità, si rimetterà presto.»
«Me lo auguro; ma non importa: non mi fido dei vostri medici di
campagna... dirò a Murph di condurre qui un dottore esperto, lui ci
indicherà la cura migliore da seguire. Devo ricevere spesso notizie
di Marie. Fra qualche tempo, quando sarà ben riposata e ben
tranquilla, penseremo anche al suo avvenire. Forse sarebbe meglio
per lei restare sempre con voi... se il suo carattere e la sua
condotta non vi dispiaceranno.»
«Sarebbe mio desiderio, signor Rodolphe; ella prenderebbe il posto
di quel figlio che piango tutti i giorni.»
Mentre Rodolphe e la signora Georges s’avvicinavano alla fattoria,
Murph e Marie giungevano da un’altra parte.
Marie era un po’ accaldata dalla passeggiata.
Rodolphe fece notare alla signora Georges la colorazione degli
zigomi della fanciulla, colori vivi, circoscritti, che staccavano
decisamente sul biancore delicato del suo colorito.
Il buon gentiluomo lasciò il braccio della Goualeuse e, un po’
confuso, disse a Rodolphe in un orecchio:
«Questa ragazza mi ha stregato; adesso non so più chi m’interessi di
più fra lei e la signora Georges. Sono stato una bestia selvatica e
feroce.»
«Non ti strapperai i capelli per questo, vecchio Murph» disse
Rodolphe sorridendo e stringendogli la mano.
La signora Georges, appoggiatasi al braccio di Marie, entrò nel
salottino a pianterreno dove aspettava il parroco Laporte.
Murph andò a controllare i preparativi per la partenza.
La signora Georges, Marie, Rodolphe e il parroco restarono soli.
Semplice, ma molto confortevole, il salottino era tutto tappezzato e
arredato con tela di calicò, come il resto della casa, tale e quale,
d’altronde, era stata descritta da Rodolphe alla Goualeuse.
Un grosso tappeto copriva il pavimento, un bel fuoco ardeva nel
focolare e due enormi mazzi di margherite diffondevano nella stanza,
da due vasi di cristallo, una leggera fragranza.
Attraverso le persiane chiuse per metà, si vedevano il prato, il
ruscello e al di là la collinetta piantata a castagni.
Il parroco Laporte, seduto vicino al caminetto, aveva ottant’anni
passati; da subito dopo la rivoluzione, aveva cura di quella povera
parrocchia.
Niente si poteva trovare di più venerabile, di più dolcemente
imponente del suo volto senile, scavato e un po’ sofferente,
incorniciato da lunghi capelli bianchi che gli cadevano sul collo
della veste rattoppata in più di un punto; perché il curato
preferiva, diceva,
vestire due o tre bambini di roba che li riparasse dal freddo,
anziché fare il damerino, cioè portare le vesti meno di due o tre
anni.
Il buon parroco era così vecchio, così vecchio che le mani gli
tremavano sempre; c’era qualcosa di commovente in quel movimento:
tanto che, quando durante una discussione le alzava, si sarebbe
pensato che stesse benedicendo.
Rodolphe osservava Marie con attenzione.
Se non l’avesse conosciuta così bene o meglio se non l’avesse capita
così bene, si sarebbe forse stupito di vederla avvicinarsi al
parroco con una certa qual serena devozione.
La stupenda religiosità istintiva di Marie gli diceva che il peccato
finisce là dove cominciano il pentimento e l’espiazione.
«Signor parroco» disse rispettosamente Rodolphe «la signora Georges
acconsente volentieri a prendersi cura di questa fanciulla per cui
invoco la vostra bontà.»
«Ne ha diritto, signore, come tutti quelli che vengono a noi. La
clemenza di Dio è infinita, cara figliola... ve l’ha dimostrato col
non abbandonarvi... nelle dolorosissime prove... So tutto.» E prese
fra le sue sante mani tremanti la mano di Marie. «L’uomo generoso
che v’ha salvata ha realizzato la parola della Scrittura: Il Signore
è vicino a quelli che l’invocano; compirà i desideri di quelli che
lo temono; ascolterà le loro grida e li salverà. Ora, guadagnatevi
la sua misericordia con la vostra condotta; mi troverete sempre
pronto a incoraggiarvi e a sostenervi... nella dritta via in cui
siete entrata. Avrete nella signora Georges un esempio quotidiano,
in me un consigliere vigilante. Il Signore compirà l’opera.»
«E io, padre, lo pregherò per quelli che hanno avuto pietà di me e
che mi hanno ricondotta a lui» disse la Goualeuse.
E si lasciò cadere in ginocchio davanti al prete.
L’emozione, grandissima, era soffocata dai singhiozzi. La signora
Georges, Rodolphe, il parroco... erano profondamente toccati.
«Alzatevi, buona figliola» disse il parroco, «presto otterrete...
l’assoluzione dei grandi errori di cui voi siete stata vittima più
che colpevole; perché, per parlare ancora col profeta: Il Signore
sorregge quelli che stanno per cadere e rialza tutti quelli che sono
oppressi.»
«Addio, Marie» le disse Rodolphe porgendole una crocetta d’oro,
detta alla Jeannette, attaccata a un nastro di velluto nero. Poi
aggiunse: «Conservate questa crocetta in mio ricordo; vi ho fatto
incidere, questa mattina, la data della vostra liberazione... della
vostra redenzione. Tornerò presto a trovarvi.»
Marie portò la croce alle labbra.
In quel momento Murph aprì la porta del salotto.
«Signor Rodolphe, la carrozza è pronta.»
«Addio, padre. Addio, buona signora Georges... Vi raccoman-
do vostra figlia. Addio anche a voi, Marie.»
Il venerando prete, appoggiato al braccio della signora
Georges e della Goualeuse, che facevano da bastone ai suoi passi
vacillanti, uscì dal salotto per veder partire Rodolphe. Gli ultimi
raggi del sole cadevano tiepidi sul triste e pietoso gruppo.
Un vecchio prete, incarnazione della carità, del perdono, della
speranza eterna.
Una donna, provata da tutti i dolori che possono capitare a una
sposa, a una madre.
Una fanciulla, uscita allora dall’infanzia e che la miseria e
l’infame ossessione del delitto avevano spinto giù per la china del
vizio.
Rodolphe salì in carrozza; Murph gli si sedette a fianco. I cavalli
partirono al galoppo.
XV L’APPUNTAMENTO
Il giorno dopo avere affidato la Goualeuse alle cure della signora
Georges, Rodolphe, sempre vestito da operaio, si trovava a
mezzogiorno in punto sulla porta della taverna del Panier Fleuri,
situato nei pressi della barriera di Bercy.
La sera prima, alle dieci, lo Chourineur s’era fatto trovare
puntuale all’appuntamento che gli aveva dato Rodolphe. Vedremo dal
seguito del racconto quale fu il risultato di quell’appuntamento.
Era dunque mezzogiorno. Pioveva a dirotto. La Senna, gonfiata da
piogge quasi continue, era notevolmente cresciuta e inondava parte
della banchina.
Di tanto in tanto Rodolphe guardava con impazienza in direzione
della barriera di Bercy; finalmente vide spuntare lontano un
ombrello con sotto un uomo e una donna in cui riconobbe il Maître
d’école e la Chouette.
I due personaggi erano completamente trasformati: il brigante aveva
lasciato a casa i brutti vestiti e quella sua aria feroce di bruto;
portava una lunga prefettizia di castorino verde e un cappello
rotondo; aveva una cravatta e una camicia bianchissime. Se non fosse
stato per l’orrenda faccia mutilata e il fulvo balenare
dello sguardo sempre ardente e mobile, l’incedere regolare e sicuro
avrebbe indotto a prendere il nostro uomo per un pacifico borghese.
La guercia, vestita a festa anche lei, portava una cuffia bianca, un
grande scialle di borra di seta, a disegno cachemire, e aveva in
mano una larga sporta.
Intanto aveva smesso di piovere; Rodolphe, passato il primo momento
di repulsione, andò incontro all’infame coppia.
Il Maître d’école aveva sostituito il gergo della bettola con un
linguaggio quasi ricercato che faceva un effetto tanto più
disgustoso in quanto, rivelando una certa istruzione, faceva
contrasto con quelle sue scelleratezze di sanguinario.
Quando Rodolphe fu vicino, il Maître d’école lo salutò
profondamente; la Chouette fece una riverenza.
«Signore... vostro servo umilissimo...» disse il Maître. «I miei
omaggi, e un grandissimo piacere di fare... o meglio di rifare la
vostra conoscenza... giacché l’altro ieri mi avete fatto la grazia
di regalarmi due pugni che avrebbero ammazzato un rinoceronte. Ma
non è il momento di parlare di ciò: è stato uno scherzo da parte
vostra, ne sono sicuro... un semplice scherzo. Non pensiamoci più...
grossi interessi ci affratellano. Ieri sera, alle undici, ho visto,
alla bettola, lo Chourineur; gli ho dato appuntamento per stamattina
in questo posto, nel caso che avesse voluto collaborare con noi; ma
pare che non ne voglia sapere.»
«Voi accettate, allora!»
«Se voi voleste, signor... Il vostro nome?»
«Rodolphe.»
«Signor Rodolphe... si potrebbe entrare al Panier Fleuri... né
io né la signora abbiamo ancora pranzato... Potremmo parlare dei
nostri affarucci mettendo qualcosa sotto i denti.»
«Volentieri.»
«Possiamo parlare anche camminando.»
«Non per voler far rimproveri, ma voi e lo Chourineur dove-
te un risarcimento a me e a mia moglie... Ci avete fatto perdere più
di duemila franchi. La Chouette aveva un appuntamento nei pressi di
Saint-Ouen con un signore alto, vestito a lutto, che l’altra sera
era venuto a cercarvi alla bettola; ci aveva promesso duemila
franchi se vi facevamo qualcosa... Lo Chourineur mi ha un po’
spiegato come stavano le cose... Ma, a proposito, Finette» disse il
brigante «va’ al Panier Fleuri a cercare un posto appartato e a
ordinare il pranzo: costolette, un pezzo di vitello, insalata e due
ottime bottiglie di Beaune: ti raggiungeremo fra poco.»
La Chouette, che non aveva staccato un solo momento gli occhi da
Rodolphe, se ne andò, dopo aver scambiato un’occhiata con il Maître.
Questi riprese:
«Vi dicevo dunque, signor Rodolphe, che lo Chourineur mi aveva
istruito di quella proposta di duemila franchi.»
«Che cosa significa istruire?»
«È vero... questo linguaggio è un po’ dotto per voi; volevo dire che
lo Chourineur, grosso modo, mi aveva informato di ciò che l’uomo in
lutto voleva si facesse a voi, dietro compenso dei duemila franchi.»
«Bene, bene...»
«Non tanto, giovanotto; perché lo Chourineur, incontrata la Chouette
nei pressi di Saint-Ouen, non l’ha lasciata un minuto, non appena ha
visto arrivare l’uomo in lutto; cosicché questi non ha osato
avvicinarsi. Così, sono duemila franchi che dovete farci
riguadagnare, senza contare i cinquecento franchi del portafogli che
dovevamo rendere, ma che però non avremmo restituito, perché, dopo
averli esaminati, i documenti ci sono sembrati valere molto di più
di cinquecento franchi.»
«Allora ci sono dentro cose di grande valore?»
«Ci sono documenti che mi sono parsi molto interessanti, benché i
più siano scritti in inglese; e li ho qua» disse il brigante
battendo la mano sulla tasca laterale della prefettizia.
Rodolphe fu contentissimo di sapere che il Maestro aveva ancora i
documenti presi la sera precedente a Tom; quei documenti erano per
lui di somma importanza. Le istruzioni date allo Chourineur non
avevano avuto altro scopo che di impedire a Tom di avvicinarsi alla
Chouette; il brigante allora avrebbe tenuto il portafogli, e
Rodolphe sperava così di venirne in possesso.
«Queste carte saranno come il cacio davanti al topo; giacché ho
trovato l’indirizzo del signore in lutto, e, in un modo o
nell’altro, lo rivedrò.»
«Se volete, possiamo combinare l’affare; se il nostro colpo riesce,
vi compero i documenti, io conosco quell’uomo; poi servono più a me
che a voi.»
«Vedremo... ma ritorniamo pure a bomba.»
«Ordunque, avevo proposto un bellissimo affare allo Chourineur; sul
principio ha accettato, ma poi si è ricreduto.»
«Ha sempre avuto strane idee...»
«Ma rifiutando, m’ha osservato...»
«Vi ha fatto osservare...»
«Accidenti... sapete tutto sulla grammatica.»
«Sono maestro di scuola.»
«Mi ha fatto osservare che se lui non mangiava pane rosso, non
voleva per questo impedire agli altri di assaggiarlo; e che voi
avreste potuto darmi una mano.»
«E potrei sapere, se non sono indiscreto, perché ieri mattina avete
dato appuntamento allo Chourineur proprio a Saint-Ouen,
procurandogli l’occasione di incontrare la Chouette? Era un po’
imbarazzato quando gli ho chiesto spiegazioni a questo proposito.»
Rodolphe si morse impercettibilmente le labbra, e rispose alzando le
spalle:
«Lo credo bene, gli avevo detto le cose solo per metà... capirete...
non sapendo se era proprio deciso.»
«Era più prudente...»
«Tanto più prudente in quanto avevo il piede in due staffe.» «Bah!»
«Certo.»
«Siete un uomo pieno di preoccupazioni... Avevate dunque
dato appuntamento allo Chourineur a Saint-Ouen per...» Rodolphe,
dopo un momento di esitazione, ebbe la fortuna di trovare una storia
così verosimile da coprire la balordaggine dello
Chourineur; quindi riprese:
«Ecco l’affare... Vi propongo un ottimo colpo, perché il pa-
drone della casa in questione è in campagna... tutta la mia paura è
che ritorni. Per essere sicuro, mi dico: c’è una sola cosa da
fare...» «Assicurarvi che il detto signore fosse veramente in
campagna.» «Esatto... Parto allora per Pierrefitte dove ho una casa
di cam-
pagna... ho mia cugina che è domestica lì... capite!» «Perfettamente
giovanotto. Ebbene?»
«Mia cugina mi ha detto che il padrone sarebbe ritornato a Pa-
rigi soltanto dopodomani...»
«Dopodomani?»
«Sì.»
«Benissimo. Ma ritornando alla mia domanda di prima... per-
ché dare appuntamento allo Chourineur a Saint-Ouen?»
«Non siete intelligente... Quanto c’è da Pierrefitte a Saint-
Ouen?»
«Una lega circa.»
«E da Saint-Ouen a Parigi?»
«Altrettanto.»
«Ebbene? Se non avessi trovato nessuno a Pierrefitte, cioè se
la casa fosse stata deserta... anche lì c’era un bel colpo da
fare...
meno bello che a Parigi, ma passabile. Andavo a Saint-Ouen a
prendere lo Chourineur che mi aspettava. Ritornavamo a Pierrefitte
per una scorciatoia che conosco; e...»
«Capisco. Se, invece, il colpo era per Parigi?...»
«Raggiungevamo la barriera dell’Étoile passando per la strada della
Révolte e di lì all’allée des Veuves...»
«Non c’è che un passo... è semplicissimo... A Saint-Ouen eravate a
cavallo tra le due operazioni... il piano era molto ingegnoso.
Adesso mi spiego la presenza dello Chourineur a Saint-Ouen...
Dicevamo dunque che nella casa dell’allée des Veuves non ci sarà
nessuno fino a dopodomani...»
«Nessuno... tranne il portiere.»
«Chiaro... Ed è un affare vantaggioso?»
«Mia cugina m’ha detto che nello studio del padrone ci sono
sessantamila franchi d’oro.»
«E voi conoscete la casa?»
«Come le mie tasche... mia cugina è lì da un anno... e, a forza di
sentirla parlare delle somme che il padrone ritira dalla banca per
investirle diversamente, m’è venuta quest’idea... Siccome il
portiere è un forzuto, ne avevo parlato allo Chourineur... dopo
molte esitazioni aveva accettato... ma poi s’è tirato indietro. Del
resto, non è capace di vendere un amico.»
«Sì, c’è del buono in lui... Ma eccoci arrivati. Non so se anche a
voi succede come a me, ma l’aria del mattino mi ha messo
appetito...»
La Chouette era sulla soglia dell’osteria.
«Di qui» disse, «di qui... ho ordinato da mangiare.» Rodolphe voleva
far passare il brigante davanti a sé; aveva le
sue buone ragioni... ma il Maître d’école si schermì con tale
insistenza che Rodolphe passò per primo.
Prima di sedersi a tavola il maestro picchiò leggermente con le
nocche sui tramezzi per assicurarsi della loro grossezza e della
loro sonorità.
«Non avremo bisogno di parlare a voce troppo bassa» disse, «il
tramezzo è abbastanza grosso. Ci faremo portare tutto in una volta
così la nostra conversazione non verrà disturbata.»
Una cameriera servì il pranzo.
Prima che la porta fosse chiusa, Rodolphe vide Murph, il carbonaio,
che, tutto serio, stava seduto a tavola in una saletta attigua. La
stanza dove si svolgeva la scena che descriveremo era lunga, stretta
e prendeva luce da una sola finestra che guardava sulla
strada e che era di fronte alla porta.
La Chouette voltava le spalle alla finestra, il Maître d’école era a
un lato della tavola, Rodolphe all’altro lato.
Uscita la cameriera, il brigante si alzò, prese le posate e andò a
porsi accanto a Rodolphe, in modo da nascondergli la porta.
«Così parleremo meglio» disse, «e non avremo bisogno di alzare tanto
la voce...»
«E poi volete stare fra me e la porta per impedirmi di uscire...»
rispose freddamente Rodolphe.
Il Maître d’école fece di sì con un cenno della testa; poi, tratto
per metà dalla tasca laterale della prefettizia un lungo stiletto
con lama tonda e grossa come una grossa piuma d’oca, con un manico
di legno che spariva sotto le sue dita pelose:
«Lo vedete?»
«Sì.»
«A buon intenditor...»
E, aggrottando le sopracciglia con un movimento che gli in-
crespò la fronte larga e piatta come quella di una tigre, fece un
gesto significativo.
«E non sottovalutatemi. Ho affilato io il pugnale di mio marito»
aggiunse la Chouette.
Rodolphe, con sorprendente disinvoltura, mise una mano sotto il
camiciotto, tirò fuori una pistola a due canne, la mostrò e poi se
la rimise in tasca.
«Siamo fatti per intenderci» disse il brigante, «però voi non
m’avete capito... Se per ipotesi venissero ad arrestarmi, sia che
voi mi abbiate teso o no una trappola... vi fredderei!»
E gettò uno sguardo feroce a Rodolphe.
«Io intanto, furfante, gli salto addosso, per darti una mano»
esclamò la Chouette.
Rodolphe non rispose, alzò le spalle, si versò un bicchiere di vino
e bevve.
Il Maître d’école fu colpito da tanto sangue freddo.
«Lo dicevo solo per avvertirvi.»
«Bene, bene! rimettetevi in tasca il vostro gingillo, qui non
ci sono polli da scannare. Sono un vecchio gallo e ho buoni speroni,
vecchio mio» disse Rodolphe. «Parliamo un po’ di affari adesso...»
«Parliamo di affari. Ma non parlate male del mio gingillo. Non fa
rumore, non disturba nessuno...»
«E fa lavoretti puliti, vero furfante?» aggiunse la Chouette.
«A proposito» disse Rodolphe alla Chouette, «è vero che conoscete i
genitori della Goualeuse?»
«Mio marito ha messo nel portafogli del signore in lutto due lettere
che ne parlano... Ma quella piccola pettegola non le vedrà...
Piuttosto le caverò gli occhi con queste mie mani... Oh! se la
incontro di nuovo nella bettola, la concio io per le feste...»
«Ma insomma, Finette, noi parliamo, parliamo e gli affari non vanno
avanti.»
«Si può parlare davanti a lei?» domandò Rodolphe.
«Con la massima sicurezza; è una donna fidata e potrà esserci di
grande aiuto perché sa fare il palo, avere informazioni, ricettare,
vendere, ecc.; ha tutte le qualità di un’ottima donna di casa...
Cara la mia Finette!» aggiunse il malfattore, tendendo la mano
all’orribile vecchia, «non avete idea dei servizi che mi ha reso...
Ma togliti lo scialle, Finette, altrimenti, uscendo, potresti
prendere freddo... Mettilo sulla sedia vicino alla sporta...»
La Chouette si liberò dello scialle.
Nonostante la presenza di spirito e la padronanza di sé, Rodolphe
non poté reprimere il proprio stupore nel vedere, attaccata
all’anello d’argento di una grossa catenella di similoro, che la
vecchia portava al collo, una piccola medaglia di lapislazzuli,
identica in tutto e per tutto, stando alla descrizione avuta, a
quella che il figlio della signora Georges aveva quando sparì.
Dinanzi a tale scoperta, un pensiero improvviso balenò alla mente di
Rodolphe; a detta dello Chourineur, il Maître d’école, benché
fossero sei mesi che era evaso dalla galera, era riuscito a rendere
vane tutte le ricerche della polizia, sfigurandosi la faccia... e da
sei mesi appunto, il marito della signora Georges era scappato dalla
galera, senza che si sapesse dove fosse finito.
La strana coincidenza indusse Rodolphe a pensare che il Maître
d’école poteva essere benissimo il marito di quell’infelice.
Quel miserabile era appartenuto a una classe agiata... e il Maître
usava un linguaggio scelto.
Un ricordo ne richiama un altro: Rodolphe infatti ricordò che un
giorno la signora Georges gli aveva descritto col tremito nella voce
l’arresto del marito e aveva anche accennato alla disperata
resistenza opposta da quel mostro, che era stato sul punto di
liberarsi, grazie alla forza erculea...
Se il brigante era il marito della signora Georges, doveva sapere
che cosa era successo al figlio. Inoltre il Maître d’école s’era
tenuto i documenti relativi alla nascita della Goualeuse e li aveva
messi nel portafogli che aveva rubato allo straniero conosciuto col
nome di Tom.
Rodolphe aveva quindi nuovi motivi per non desistere dai suoi piani.
Fortunatamente la sua inquietudine non fu notata dal brigante che
era tutto intento a servire la Chouette.
Rodolphe disse alla guercia:
«Accidenti!... avete una gran bella collana...»
«Bella e per niente cara...» rispose ridendo la vecchia. «È oro
falso, ma prima o poi mio marito me ne darà una vera...» «Dipenderà
dal signore, Finette... se faremo un buon affare,
stai pur certa.»
«È straordinario come sia imitato bene» continuò Rodolphe.
«E che cos’è... quella cosetta azzurra all’estremità?»
«È un regalo di mio marito, aspetto però che mi doni un oro-
logio... vero malandrino?»
Rodolphe capiva che i suoi sospetti non erano infondati.
Aspettava con ansia la risposta del Maître d’école. Questi fra un
boccone e l’altro rispose:
«E anche se avrai l’orologio, dovrai tenere quella medaglia,
Finette... è un talismano... porta fortuna.»
«Un talismano?» domandò Rodolphe con indifferenza. «Voi credete ai
talismani? E dove diavolo l’avete trovato quello lì?... Datemi un
po’ l’indirizzo della fabbrica.»
«Non se ne fanno più, caro signore, la bottega è chiusa... Così
com’è, questo gioiello risale alla più remota antichità... a tre
generazioni. Ci tengo molto, è una tradizione di famiglia» aggiunse
con un orribile sorriso. «Per questo l’ho dato a Finette... perché
le porti fortuna nelle imprese in cui lei mi fa da spalla con grande
abilità... La vedrete all’opera, la vedrete... se faremo assieme
qualche operazione commerciale... ma tornando a noi... avete dunque
detto che nell’allée des Veuves...»
«Al numero 17 c’è una casa abitata da un riccone... si chiama...
signor...»
«Non sarò tanto indiscreto da chiedervene il nome... Stando a quel
che avete detto, ci sono 60.000 franchi d’oro nel suo studio.»
«60.000 franchi d’oro!» esclamò la Chouette.
Rodolphe fece di sì con la testa.
«E conoscete le varie parti della casa?» domandò il Maître
d’école.
«Alla perfezione.»
«E l’entrata è difficile?»
«Un muro di sette piedi dalla parte dell’allée des Veuves, un
giardino, le finestre sullo stesso piano del giardino, la casa non
ha che un pianterreno.»
«E c’è solo un portiere a fare la guardia a quel tesoro?»
«Sì.»
«E quale sarebbe, giovanotto, il vostro piano d’attacco?» do-
mandò il Maître d’école con indifferenza.
«Semplicissimo... scavalcare il muro, scassinare la porta della
casa o forzare le imposte dal di fuori.»
«E se il portiere si sveglia?» chiese il Maître d’école, fissando
Rodolphe.
«Peggio per lui...» rispose questi, con un gesto significativo.
«Ebbene, vi va?»
«Voi capite bene che non posso rispondervi prima di aver esami-
nato tutto da solo, o meglio con l’aiuto di mia moglie; ma se quanto
avete detto è esatto, mi sembra che convenga farlo subito...
stasera.»
E il brigante puntò gli occhi su Rodolphe.
«Stasera... impossibile.» rispose questi con freddezza. «Perché,
visto che il padrone non torna che dopodomani?» «Sì, ma io stasera
non posso...»
«Davvero? Ebbene io non posso domani.»
«Per che motivo?»
«Per lo stesso motivo per cui voi non potete stasera...» disse il
brigante sogghignando.
Dopo avere riflettuto un secondo, Rodolphe riprese: «Ebbene,
d’accordo... vada per questa sera. Dove ci troviamo?» «Trovarci? Noi
non ci lasceremo» disse il Maître d’école. «Come?»
«Perché lasciarci? se il cielo schiarisce un po’, andremo a fare
un giretto fino all’allée des Veuves e daremo così un’occhiata;
vedrete come sa lavorare mia moglie. Ciò fatto, andremo a farci una
partita a picchetto e a mangiare un boccone in una cantina degli
Champs-Elysées... che conosco... e che è vicina al fiume; e poiché
l’allée des Veuves diventa presto deserta, quando saranno le dieci
ci potremo mettere in strada.»
«Io vi raggiungerò alle nove.»
«Volete o non volete fare l’affare con noi?»
«Sì che voglio.»
«Ebbene, non dovete lasciarci prima di questa sera... altri-
menti...» «Altrimenti?»
«Potrei pensare che volete tendermi un tranello e che appunto per
questo volete andarvene...»
«Se proprio volessi tendervi un tranello... che cosa mi impedirebbe
di tendervelo questa sera?»
«Tutto... Non vi aspettavate che vi proponessi subito l’affare. E se
resterete con noi, non potrete avvertire nessuno...»
«Non vi fidate di me?»
«Per niente... ma siccome ci può essere qualcosa di vero in quello
che mi avete detto e vale la pena rischiare per la metà di
sessantamila franchi... voglio sì tentare; ma o questa sera o mai
più... se non si farà, saprò come regolarmi con voi... e vi servirò
a mia volta... un giorno o l’altro una mia specialità...»
«E io vi restituirò la gentilezza... siatene certo.»
«Smettetela con queste sciocchezze!» disse la Chouette. «Io la penso
come il mio malandrino: o questa sera o niente.»
Rodolphe era in una crudele incertezza: se si fosse lasciato
scappare il Maître d’école, una simile occasione non l’avrebbe
certamente più avuta; se il furfante, messo già sul chi vive, fosse
stato riconosciuto, arrestato e ricondotto in galera, avrebbe
portato con sé i segreti che a Rodolphe premeva di conoscere.
Sperando nel caso, nella propria abilità e nel proprio coraggio si
decise a dire al Maître d’école:
«Sta bene, fino a questa sera non ci lasceremo.»
«Allora contate pure su di me... Ma ecco, adesso sono quasi le
due... Da qui all’allée des Veuves c’è un bel pezzo di strada; piove
forte; paghiamo il conto, e prendiamo una carrozza.»
«Se prendiamo una carrozza, potrò prima fumare un sigaro.»
«Sicuro» rispose il Maître d’école, «a Finette non dà fastidio
l’odore del tabacco.»
«Allora vado a comprarmi qualche sigaro» disse Rodolphe alzandosi.
«Non scomodatevi» replicò il Maître d’école trattenendolo, «andrà
Finette...»
Rodolphe si rimise a sedere.
Il Maître d’école aveva indovinato il suo proposito. La Chouette
uscì.
«Che brava donna, ho io, vero?» disse lo scellerato, «è così
compiacente! si butterebbe nel fuoco per me.»
«A proposito di fuoco, qui, accidenti, non fa niente caldo» disse
Rodolphe mettendosi le mani sotto il camiciotto.
Allora, senza cessare per questo di discorrere col Maître d’école,
prese una matita e un pezzo di carta nella tasca del panciotto,
e, senza farsi vedere, scrisse in fretta alcune parole, avendo
l’accortezza di scrivere le lettere ben staccate per non sovrapporle
l’una all’altra, dal momento che scriveva alla cieca sotto il
camiciotto.
Ora quel biglietto, sfuggito all’accortezza del Maître d’ecole,
bisognava farlo recapitare.
Rodolphe si alzò, si avvicinò alla finestra, e si mise a
canticchiare fra i denti accompagnandosi sui vetri.
Il Maître d’école andò a guardare dalla finestra, e disse con
indifferenza a Rodolphe:
«Che motivo state suonando?»
«Sto suonando... Tu n’auras pas ma rose.»
«È un motivetto molto carino... Sono venuto solamente a vede-
re quanti passanti avrebbe fatto voltare.»
«Non ho simili pretese.»
«Vi sbagliate, giovanotto; perché voi state tamburellando mol-
to forte sui vetri. Ma, adesso che ci penso... può darsi che il
guardiano della casa dell’allée des Veuves sia un pezzo d’uomo
risoluto... se recalcitra... voi avete solo una pistola... che fa
troppo rumore, mentre un gingillo come questo» (e fece vedere a
Rodolphe il manico del suo pugnale) «non fa rumore... non disturba
nessuno...»
«Vorreste forse ucciderlo?...» esclamò Rodolphe. «Se avete di queste
idee... non parliamone più... non s’è fatto ancora niente... non
contate su di me...»
«Ma se si sveglia?»
«Scapperemo...»
«Meno male, non avevo capito bene; è meglio mettersi d’ac-
cordo su tutto... prima... Così si tratterà di un semplice furto con
scalata e scasso...»
«Solo questo.»
«D’accordo così...»
«E poiché non ti lascerò un secondo» pensò Rodolphe, «non ti
permetterò certo di spargere sangue.»
XVI
I PREPARATIVI
La Chouette entrò nella saletta con i sigari.
«Mi pare che non piova più» disse Rodolphe accendendosi un
sigaro; «se andassimo noi a prendere la carrozza?... ci potremmo
sgranchire le gambe.»
«Come, non piove?» rispose il Maître d’école «ma siete cieco?...
Credete che io voglia far prendere un raffreddore a Finette? esporre
al pericolo una vita così preziosa... e rovinarle quel bello scialle
nuovo?»
«Hai ragione, vecchio mio, fa un tempo cane!»
«Bene, adesso viene la cameriera... le diamo qualcosa e le diciamo
di andare a cercare una carrozza» replicò Rodolphe.
«È la cosa più giudiziosa che potevate dire, giovanotto. Potremo
così andare a far quattro passi dalle parti dell’allée des Veuves.»
La cameriera entrò. Rodolphe le diede cento soldi.
«No, signore... così non va, non permetterò mai...» esclamò il
Maître d’école.
«Via! una volta per ciascuno.»
«Allora mi sottometto... ma a condizione di offrirvi subito qualcosa
in un localino degli Champs-Elysées... che conosco... un posto
incantevole.»
«Bene... bene... accetto.»
Pagato il conto uscirono. Rodolphe voleva stare per ultimo, per
essere cortese con la Chouette, ma il Maître d’école non glielo
permise, anzi gli tenne subito dietro, per poter controllare ogni
suo più piccolo movimento.
L’oste vendeva anche vino. In mezzo ai tanti avventori, c’era un
carbonaio, con una faccia nera e con un largo cappello calato fin
sugli occhi, che, quando comparvero i nostri tre personaggi, era
andato al banco per pagare la propria consumazione.
Nonostante l’attento vigilare del Maître d’école e della guercia,
Rodolphe, che precedeva l’orribile coppia, riuscì a scambiare una
rapida e impercettibile occhiata con Murph.
Visto che lo sportello della carrozza era aperto, Rodolphe si fermò,
deciso questa volta a salire per ultimo; perché il carbonaio gli si
era avvicinato senza farsi notare.
La Chouette, infatti, salì per prima, anche se dopo un’infinità di
complimenti; Rodolphe fu costretto a seguirla, perché aveva sentito
il Maître sussurrargli all’orecchio:
«Volete proprio spingermi a non fidarmi per niente di voi?»
Dopo che Rodolphe fu salito, il carbonaio si fece sulla porta della
bettola fischiando, e guardò Rodolphe con stupore e inquietudine.
«Dove volete andare, signore?» domandò il vetturino. Rodolphe
rispose ad alta voce:
«All’allée des...»
«Des Acacias, nel bois de Boulogne» gridò il Maître d’école per
interromperlo; poi aggiunse: «E sarete pagato bene, vetturino.»
Lo sportello si chiuse.
«Perché diamine volevate dire davanti a quei curiosi dove andavamo?»
riprese il Maître. «Perché domani venga scoperto tutto, un indizio
così può rovinarci! Ah, giovanotto, giovanotto siete di
un’imprudenza più unica che rara!»
Quando la carrozza cominciò a muoversi, Rodolphe rispose:
«È vero, non ci avevo pensato. Però adesso, col sigaro, vi
affumicherò come le aringhe. Se aprissimo un finestrino?»
E Rodolphe, senza aspettare risposta, apri il finestrino e buttò al
di fuori il pezzettino di carta pieghettato su cui aveva rapidamente
scritto a matita qualche parola senza farsi vedere.
Il Maître d’école fu così bravo che riuscí a scorgere sul volto di
Rodolphe, che non aveva fatto una grinza, una fuggevole espressione
di trionfo perché, sportosi dal finestrino, si mise a gridare al
vetturino:
«Fermate... Fermate! c’è qualcuno dietro alla carrozza.»
Rodolphe ebbe paura; ciononostante unì le sue grida a quelle del
compagno.
La carrozza si fermò. Il cocchiere salì in piedi sulla cassetta,
guardò e disse:
«No, no, signore, non c’è nessuno.»
«Caspita! Voglio assicurarmene» rispose il Maître d’école saltando
giù dalla carrozza.
Non vide nessuno, non s’accorse di niente. La carrozza aveva fatto
ancora qualche metro dal punto in cui Rodolphe aveva gettato il
biglietto.
Il Maître d’école credette di essersi sbagliato.
«Forse riderete» disse risalendo in carrozza, «ma non so, m’era
parso che qualcuno ci seguisse.»
In quel momento la carrozza imboccò una traversa.
Appena la carrozza sparì, Murph, che non l’aveva lasciata un istante
cogli occhi e che aveva visto la manovra di Rodolphe, accorse e
raccolse il bigliettino che era andato a ficcarsi in una fessura del
selciato.
Dopo un quarto d’ora, il Maître d’école disse al vetturino:
«Veramente, vetturino, noi abbiamo cambiato idea: place de la
Madeleine.»
«Non meravigliatevi, giovanotto; da questa piazza si può andare in
mille altri posti. Se dovessimo avere delle noie, la deposizione del
vetturino non servirebbe a niente.»
Proprio nel momento in cui la carrozza si avvicinava alla barriera,
un uomo di alta statura, con una lunga prefettizia bigia, con un
cappello calcato fin sugli occhi e che sembrava molto scuro di
faccia, sfrecciò sulla strada, curvo sul collo di un magnifico
cavallo da caccia che correva a velocità straordinaria.
«A bel cavallo, buon cavaliere!» disse Rodolphe sporgendosi dal
finestrino e seguendo Murph con lo sguardo.
«Che razza di velocità quel cavallo... Avete visto?»
«Per la verità è passato così veloce» disse il Maître d’école, «che
non l’ho nemmeno visto.»
Rodolphe dissimulò perfettamente la sua gioia: Murph aveva decifrato
i geroglifici del biglietto. Il Maître d’école, da parte sua, ormai
sicuro che la carrozza non era stata seguita, si tranquillizzò, e
volendo imitare la Chouette che sonnecchiava o, meglio, che faceva
finta di sonnecchiare, disse a Rodolphe:
«Scusate, giovanotto, ma il traballare della carrozza mi fa sempre
uno strano effetto: mi fa addormentare come un bambino...» Il
malvivente, con la scusa del finto sonno, si proponeva di stu-
diare la faccia di Rodolphe per coglierne le eventuali espressioni.
Rodolphe, fiutato il pericolo, rispose:
«Mi sono alzato presto; anch’io ho sonno, farò quindi come
voi...»
E chiuse gli occhi.
Ma il Maître d’école e la Chouette, respirando rumorosamen-
te e russando all’unisono, riuscirono così bene a darla a intendere
a Rodolphe che questi, credendoli immersi nel sonno, aprì piano
piano le palpebre.
Il Maître d’école e la Chouette, nonostante il russare sonoro che
facevano, avevano gli occhi aperti, e appoggiando o piegando in
maniera particolare le dita sul palmo delle loro rispettive mani, si
scambiavano segni misteriosi.
Improvvisamente quel linguaggio cifrato cessò. Il brigante,
accortosi, da qualcosa di impercettibile, che Rodolphe non dormiva,
disse con una risata:
«Ah! ah! compare, voi non vi fidate degli amici, eh?»
«Non dovreste meravigliarvi voi che russate con gli occhi aperti.»
«Per me è diverso, giovanotto, io sono sonnambulo.»
La carrozza si fermò in place de la Madeleine.
In quel momento la pioggia era cessata; ma le nuvole, spinte
da un vento violento, erano così nere e così basse che sembrava
fosse già notte.
Rodolphe, la Chouette e il Maître d’école si diressero verso il
Cours-la-Reine.
«M’è venuta un’idea, giovanotto, che non è niente male» disse il
brigante.
«E quale?»
«Quella di assicurarmi se è vero tutto ciò che mi avete detto
sull’interno della casa dell’allée des Veuves.»
«Vorreste andarci adesso con un pretesto qualsiasi? si farebbero
nascere dei sospetti...»
«Non sono mica così stupido; ma una donna come Finette non la
contate?»
La Chouette s’impettì.
«La vedete, giovanotto, sembra il cavallo di un trombettiere quando
sente suonare la carica.»
«Volete mandarla in avanscoperta?»
«Appunto.»
«Allée des Veuves, n. 17, marito mio?» domandò la Chouette
impaziente. «Non aver paura, ho un occhio solo, ma è buono.» «La
sentite, giovanotto, la sentite? non vede l’ora di essere
già lì.»
«L’idea non mi pare cattiva, purché riesca a entrare.» «Tienimi
l’ombrello, furfante... Fra mezz’ora sarò di ritorno e
vedrai quello che so far io» esclamò la Chouette.
«Un momento, Finette! andiamo prima al Coeur Saignant
che è a due passi da qui. Se c’è Tortillard,8 te lo prendi e te lo
porti con te; starà fuori della porta a fare il palo, mentre tu
sarai dentro.»
«Hai ragione: è furbo come una volpe: non ha ancora dieci anni, ed è
stato lui l’altro giorno a...»
Un segno del Maître d’école interruppe la Chouette.
«Che cos’è il Coeur Saignant? È una strana insegna per un locale»
disse Rodolphe.
«Dovreste dirlo al taverniere.» «Come si chiama?»
«Il padrone del Coeur Saignant?» «Sì.»
«Lui non domanda il nome ai suoi avventori.»
«Ma tuttavia...»
«Chiamatelo come volete, Pierre, Thomas, Cristophe o Bar-
nabé, vi risponderà sempre. Ma eccoci arrivati e proprio in tem8
Sciancatello
po, perché ricomincia a piovere, e sentite un po’ come rumoreggia il
fiume! sembra un torrente! Ancora due giorni di pioggia, e l’acqua
oltrepasserà le arcate del ponte.»
«Avete detto che siamo arrivati... Dove diavolo è questa taverna?
Non vedo case qui!»
«Certo, se guardate intorno.» «E dove volete che guardi?» «Ai vostri
piedi.»
«Ai miei piedi?»
«Sì.»
«Dove?»
«Là... Non vedete il tetto? Fate attenzione, ci state camminan-
do sopra.»
Infatti Rodolphe era arrivato, senza tuttavia averla vista, a una
di quelle taverne sotterranee che anni addietro si potevano trovare
qua e là lungo gli Champs-Elysées e specialmente vicino al
Cours-la-Reine.
Una scala scavata nella terra umida e grassa portava giù in una
specie di larga fossa; contro uno dei lati, che scendevano a picco,
s’appoggiava una catapecchia bassa, lurida, screpolata; il tetto,
coperto di tegole fitte di muschio, era leggermente al di sopra del
livello della strada in cui si trovava Rodolphe; dopo la catapecchia
venivano due o tre baracche di assi tarlate, che servivano da
cantina, da rimessa e da conigliera.
Un andito strettissimo attraversava la fossa per tutta la sua
lunghezza e conduceva dalla scala alla porta della casa; lo spazio
restante spariva sotto un graticolato che copriva due file di rozzi
tavoli con le gambe piantate nel suolo.
Il vento faceva orribilmente stridere sui cardini una vecchia targa
di bandone; sotto la ruggine che la ricopriva si poteva ancora
distinguere un cuore rosso trafitto da una freccia. L’insegna
oscillava in cima a un palo, piantato all’entrata dell’antro, vero
covo umano.
Una nebbia umida e spessa s’era aggiunta alla pioggia; la notte era
prossima.
«Che ne dite, giovanotto, di questo palazzo?» chiese il Maître
d’école.
«Con quindici giorni di pioggia... ci sarà l’umidità di uno stagno,
potremo fare buona pesca... Forza, entriamo.»
«Un momento; devo sapere se c’è il padrone. Attenzione.»
E il brigante, sbattendo con forza la lingua contro il palato, fece
uno strano verso, una specie di ruggito gutturale, sonoro e
prolungato, che si potrebbe esprimere così:
«Prrrrr!!»
Gli rispose un grido simile che uscì dal profondo della topaia.
«C’è» disse il Maître d’école. «Scusate, giovanotto, preceden-
za alle signore, lasciate passare la Chouette, io verrò dopo di voi.
State attento a non cadere, perché si scivola.»
XVII
IL COEUR SAIGNANT
Il proprietario del Coeur Saignant, dopo aver risposto al segnale
del Maître d’école, ebbe l’attenzione d’aspettare gli ospiti sulla
porta.
Questo personaggio non era altri che Bras-Rouge, cioè colui che
Rodolphe era andato a cercare nella Cité e che non conosceva ancora
con il suo vero nome o meglio con il soprannome che gli davano di
solito.
Piccolo e fragile, debole e gracile, il nostro uomo poteva avere sì
e no cinquant’anni. Nella faccia aveva qualcosa della faina e del
topo insieme; il naso aguzzo, il mento sfuggente, gli zigomi ossuti,
gli occhietti neri, vivaci, penetranti gli davano un’inimitabile
espressione di astuzia, di malizia e d’intelligenza. Una vecchia
parrucca bionda, o per meglio dire gialla come il suo colorito di
bilioso, gli ricopriva il capo, lasciando però fuori i capelli
brizzolati della nuca. Indossava una giacca corta, mentre davanti
aveva uno di quei lunghi grembiuli neri che portano di solito i
garzoni degli osti.
I nostri tre personaggi non avevano fatto a tempo a scendere
l’ultimo gradino della scala, che un piccolo ragazzetto di dieci
anni al massimo, zoppicante, deforme, con un viso sveglio, anche se
segnato dalla malattia, s’avvicinò a Bras-Rouge a cui assomigliava
talmente che non si poteva non prenderlo per suo figlio.
Aveva lo stesso sguardo acuto e furbo; la fronte del ragazzo era
mezzo coperta da una selva di capelli giallicci, duri e ispidi come
setole. Un paio di calzoni marroni e un camiciotto grigio, stretto
alla vita da una cintura di cuoio, era tutto quanto aveva indosso
Tortillard, che era chiamato così a causa della sua infermità; egli
stava a fianco del padre, ritto sulla gamba sana come un airone in
riva a una palude.
«Ecco appunto il ragazzino. Finette, il tempo incalza, la notte sta
venendo, bisogna approfittare del chiaro.»
«Hai ragione, vecchio mio, adesso chiedo il ragazzo al padre.»
«Buongiorno, amico» disse Bras-Rouge, rivolgendosi al Maître d’école
con una vocina aspra e acuta; «in che cosa posso servirti?» «Puoi
servirmi prestando tuo figlio a mia moglie per un quarto d’ora; ha
perduto qui vicino una cosa, e così la aiuterà a cer-
care.»
Bras-Rouge strizzò l’occhio, come segno d’intesa col Maître
d’école, e disse al figlio:
«Tortillard, segui la signora.»
L’orribile bambino attratto dalla bruttezza e dall’espressione
cattiva della Chouette, come altri si lasciano prendere dall’aspetto
benevolo di una persona, corse zoppicando a dare la mano alla
guercia.
«Vieni, tesorino bello! Ecco, un bambino così» disse Finette, «vi
corre subito incontro! Non è come la piccola Pégriotte che sembrava
presa dalla nausea ogni volta che mi veniva vicino, quella pitocca!»
«Su, muoviti, Finette, apri l’occhio e stai all’erta. Io ti aspetto
qui.»
«Non la farò lunga. Fammi strada, Tortillard!»
E la guercia e Tortillard salirono la viscida scala.
«Finette, prenditi l’ombrello» gridò il brigante.
«Mi farebbe ingombro, vecchio mio» rispose la vecchia, che
sparì subito dopo tra le nebbie portate dal crepuscolo, e in mezzo
ai lugubri mormorii del vento che scuoteva i rami neri e spogli dei
grandi olmi degli Champs Elysées.
«Entriamo» disse Rodolphe.
Dovette chinarsi per passare sotto la porta della taverna che si
divideva in due sale. In una c’erano un banco e un biliardo in
pessimo stato; nell’altra c’erano qualche tavolo e qualche sedia da
giardino, un tempo dipinte di verde. Due strette finestre, con i
vetri incrinati e coperti di ragnatele, rischiaravano a stento due
stanze dai muri verdastri che l’umidità aveva ricoperto di salnitro.
Bastò che Rodolphe stesse solo un momento perché Bras-Rouge e il
Maître d’école potessero scambiarsi rapidamente qualche parola e
qualche segno misterioso.
«Volete bere vino o acquavite mentre aspettiamo Finette?» disse il
Maître.
«No, non ho sete.»
«Come volete. Io mi berrò un bicchiere di acquavite» riprese il
brigante. E andò a sedersi a uno dei tavolini verdi dell’altra
saletta.
L’antro era talmente immerso nell’oscurità, che era impossibile
vedere, in un angolo della seconda saletta, l’apertura di una di
quelle cantine a cui si accede attraverso una botola a due battenti,
di cui uno resta sempre spalancato per esigenze di servizio.
Il Maître d’école si sedette a un tavolo vicinissimo a quel buco
nero e profondo, in modo da voltargli le spalle e nasconderlo così
agli occhi di Rodolphe.
Rodolphe, dal canto suo, guardava dalla finestra, per darsi un
contegno e nascondere la propria preoccupazione. L’avere visto Murph
che correva in fretta verso l’allée des Veuves, lo inquietava un
po’; temeva che il fedele servitore non avesse ben capito il
significato del suo biglietto forzatamente laconico, su cui non
c’era scritto che questo: «Per questa sera alle dieci.»
Decisissimo a non andare all’allée des Veuves prima di quell’ora, e
a non lasciare il Maître d’école fino a quel momento, egli tuttavia
aveva paura di perdere un’occasione così propizia di impadronirsi
dei segreti che aveva tanto interesse a conoscere. Sebbene fosse
molto forte e armato bene, doveva giocare d’astuzia con un assassino
così temibile e capace di tutto.
Occorre dirlo? il carattere di Rodolphe, bizzarro, avido di emozioni
forti e violente, era tale che trovava un certo fascino terribile
nelle ansie a cui era in preda e nei contrattempi che venivano a
complicare il piano progettato la sera prima con il fedele Murph e
con lo Chourineur.
Ciononostante, per non farsi capire, andò a sedersi al tavolo del
Maître d’école e chiese un bicchiere di vino.
Bras-Rouge, dopo aver scambiato a bassa voce qualche parola col
brigante, s’era messo a considerare Rodolphe con una curiosità piena
d’ironia e di diffidenza.
«Giovanotto» disse il Maître, «io credo che le otto potrebbero
essere un’ora buona per andare a fare visita a coloro che vogliamo
vedere, se mia moglie ci dirà che sono in casa.»
«Sarebbe troppo presto arrivare con due ore di anticipo» disse
Rodolphe, «disturberemo.»
«Credete?»
«Ne sono sicuro.»
«Bah! fra amici non si fanno complimenti.»
«Io li conosco; vi ripeto che non bisogna andarci prima del-
le dieci.»
«Come siete testardo, giovanotto!»
«Sono di quest’idea, e che il diavolo mi porti se mi muovo da
qui prima delle dieci!»
«Non preoccupatevi, io non chiudo mai prima di mezzanotte» disse
Bras-Rouge con la sua voce acuta. «Anzi è proprio quella l’ora in
cui arrivano i miei migliori clienti, e i vicini non si lamentano
del rumore che si fa qui.»
«Bisogna per forza fare tutto ciò che volete, giovanotto» riprese il
Maître. «Sta bene, per quella visita partiremo alle dieci.» «Ecco la
Chouette!» disse Bras-Rouge e rispose subito a un richiamo simile a
quello che aveva lanciato il maestro prima di
scendere nell’osteria sotterranea.
Qualche minuto dopo, la Chouette entrò nella sala del biliardo. «Ci
siamo, vecchio mio, siamo a cavallo!» gridò la guercia en-
trando.
Bras-Rouge si ritirò silenziosamente senza chiedere notizie di
Tortillard che probabilmente non si aspettava di rivedere.
I vestiti della vecchia grondavano acqua; ciononostante ella
andò a sedersi di fronte a Rodolphe e al brigante. «Ebbene?» disse
il Maître d’école.
«Questo giovanotto fino ad ora ha detto la verità.» «Avete visto!»
esclamò Rodolphe.
«Lasciate che la Chouette si spieghi, giovanotto. Dunque, Finette,
raccontaci.»
«Prima di andare al n. 17 ho lasciato di guardia Tortillard dentro
un buco. Era ancora chiaro. Ho suonato a una porticina secondaria,
con i cardini esterni, una gattaiola di due pollici, insomma niente
d’importante. Suono, viene ad aprire il portinaio: un uomo grande e
grosso, sulla cinquantina, un buon diavolo con la faccia
addormentata, favoriti rossi, falcati come un quarto di luna, senza
capelli... Prima di suonare, mi ero tolta la cuffia e me l’ero messa
in tasca per farmi passare per una vicina. Appena vedo il guardiano,
mi metto a piagnucolare con quanto fiato ho in corpo e a gridare che
ho perduto la mia cocorita Cocotte, una bestiola che adoro. Dico che
abito in avenue de Marboeuf e che sto inseguendo Cocotte di giardino
in giardino. Alla fine supplico il signore di lasciarmi cercare la
mia bestiola.»
«Eh!» disse il Maître d’école gonfio d’orgoglio e di soddisfazione
mostrando la Finette, «che donna!»
«Bravissima» disse Rodolphe; «ma dopo?»
«Il portinaio mi fa entrare per cercare la bestiola e io sono in
giardino che chiamo Cocotte, Cocotte! e intanto guardo per aria,
frugo con lo sguardo ogni angolo per esaminare tutto con cura... Sui
muri» riprese la vecchia che voleva continuare a descrivere la casa,
«sui muri, tutto un graticolato, una vera scala; vicino allo
spigolo sinistro del muro, un pino fatto come una scala a pioli,
anche una donna incinta potrebbe calarsi giù di lì. La casa ha un
pianterreno, il solo piano che ci sia, con sei finestre e una
cantina con quattro sfiatatoi senza inferriate. Le finestre del
pianterreno hanno due imposte tenute chiuse in basso da un
saliscendi, in alto da un nottolino; forzarne la base, tirare il fil
di ferro...»
«Tac...» disse il Maître, «ed è aperto.»
La Chouette continuò:
«La porta d’ingresso a vetri con due battenti.»
«E questo a titolo indicativo» disse il brigante.
«È esatto, è proprio come se si fosse là» disse Rodolphe.
«A sinistra» proseguì la Chouette, «vicino al cortile, un pozzo;
nel caso in cui non si potesse battere in ritirata scappando dalla
porta, la corda potrebbe venir utile, perché lì non ci sono ferri
che sporgono dai muri... Entrando in casa, poi...»
«Sei entrata in casa? È entrata in casa, giovanotto!» disse il
Maître d’école con orgoglio.
«Certo che ci sono entrata. Poiché non avevo trovato Cocotte, finsi
di avere gridato tanto da sentirmi senza fiato; ho chiesto al
portinaio il permesso di sedermi sullo scalino della porta; il buon
uomo mi ha fatto entrare, mi ha offerto un bicchiere di acqua e
vino. Solo un bicchiere di acqua, gli ho detto, solo un bicchiere
d’acqua, buon signore. Allora mi ha fatto entrare nell’anticamera...
tappeti dappertutto: ottima precauzione, non si sente né il rumore
dei passi né quello dei cocci di vetro che cadono, nel caso che si
dovesse spaccare una finestra; a destra e a sinistra, porte con
maniglie a becco e serrature con stanghette a scatto. Basta
soffiarci sopra perché si aprano... In fondo, una grossa porta,
chiusa a chiave; aria di forziere... si sentiva puzza di denaro!...
avevo la cera nella sporta...»
«Aveva la cera, giovanotto... non si muove mai senza la cera!...»
disse il brigante.
La Chouette continuò:
«Dovevo avvicinarmi alla porta che mandava un odorino di denaro.
Allora, ho fatto finta che mi prendesse un accesso di tosse così
forte da dovermi appoggiare al muro. Sentendomi tossire, il
portinaio ha detto: “Vado a prendervi un pezzo di zucchero”. Deve
aver cercato un cucchiaio, perché ho sentito tintinnare
l’argenteria... argenteria nella stanza a destra... ricordati,
furfante. Insomma, sempre tossendo e gemendo, ero riuscita ad
avvicinarmi alla porta in fondo... Avevo la cera chiusa in pugno...
mi sono appoggiata sulla serratura facendo finta di niente. Ecco
l’impronta. Se non servirà oggi, potrà venir buona un’altra volta.»
E la Chouette diede al brigante un pezzo di cera gialla sulla quale
si poteva vedere stampata un’impronta perfetta.
«Quindi adesso ci dovete dire se si tratta proprio della stanza dove
c’è il forziere» disse la Chouette.
«Esatto! il denaro è lì» rispose Rodolphe.
E dentro di sé pensò: «Quindi Murph s’è lasciato abbindolare da
questa vecchia megera? È probabile; aspetta di essere assalito per
le dieci... per quell’ora avrà preso tutte le precauzioni che
doveva.»
«Ma il denaro non è tutto là!» continuò la Chouette il cui occhio
verde scintillava. «Sempre con la scusa di cercare Cocotte, mi sono
avvicinata alle finestre e ho visto in una stanza, a sinistra della
porta, sopra uno scrittoio dei sacchi pieni di scudi... Li ho visti
come adesso vedo te, vecchio mio... A dir poco saranno stati una
dozzina.»
«Dov’è Tortillard?» chiese a un tratto il Maître d’école.
«È sempre nel suo buco... a due passi dalla porta del giardino...
Vede al buio come i gatti. Al numero 17 c’è una sola entrata; quando
saremo lì, ci saprà dire se qualcuno è entrato.»
«Bene.»
Appena pronunciate queste parole, il Maître d’école si gettò
inaspettatamente su Rodolphe, lo afferrò alla gola e lo gettò nella
cantina che s’apriva dietro la tavola.
L’assalto fu così repentino, così inatteso e così vigoroso, da non
poter essere né previsto né evitato da Rodolphe.
La Chouette, che non aveva capito subito com’era andata a finire la
brevissima lotta, gettò un urlo di spavento.
Quando cessò il rumore che aveva fatto il corpo di Rodolphe
rotolando giù per i gradini, il Maître d’école, che conosceva a
menadito il sotterraneo della casa, scese lentamente nella cantina
con tanto di orecchi drizzati.
«Furfante... non ti fidare!...» gridò la guercia affacciandosi sulla
botola. «Tira fuori il pugnale!...»
Il brigante non rispose e sparì.
Dapprima non si sentì nulla; ma dopo qualche istante, il rumore
sordo di una porta arrugginita che strideva sui cardini risuonò per
i sotterranei della cantina, poi tornò il silenzio.
L’oscurità era completa.
La Chouette frugò nella sporta, sfregò un fiammifero e accese un
pezzo di candela che diffuse un fioco chiarore nella lugubre stanza.
In quel momento apparve nel vano della botola la faccia mostruosa
del Maître d’école.
La Chouette non poté trattenere un grido di orrore davanti a quella
faccia pallida, piena di cicatrici, mutilata, orribile, con gli
occhi fosforescenti, che sembrava strisciasse per terra, in mezzo
alle tenebre... fitte nonostante la luce della candela.
Rimessasi dallo spavento, la vecchia disse con una specie di macabro
scherno:
«Devi essere proprio brutto, furfante, se hai fatto paura... anche a
me!»
«Presto, presto all’allée des Veuves» disse il brigante sprangando
la botola con una sbarra di ferro; «fra un’ora sarebbe forse troppo
tardi! Se è un tranello, non è ancora preparato... se non è un
tranello, faremo il colpo da soli.»
XVIII
IL SOTTERRANEO
Sotto il colpo della terribile caduta, Rodolphe era rimasto svenuto,
immobile, in fondo alla scala della cantina.
Il Maître d’école l’aveva trascinato prima fino all’ingresso di
un’altra cantina molto più profonda, poi lo aveva buttato giù e
chiuso dentro con una grossa porta ferrata; quindi aveva raggiunto
la Chouette, per andare con lei a fare la rapina, forse un omicidio,
nell’allée des Veuves.
Dopo circa un’ora, Rodolphe riprese a poco a poco i sensi.
Era steso per terra nella più profonda oscurità; tastò con le mani
intorno a sé e toccò alcuni scalini di pietra. Sentendo ai piedi una
netta sensazione di bagnato allungò la mano... Era una pozza
d’acqua.
Con uno sforzo violento riuscì a tirarsi su e a sedersi sul primo
gradino della scala; lo stordimento gli andava sparendo, fece
qualche movimento. Fortunatamente, nessun arto s’era fratturato.
Stette in ascolto... non sentì niente... niente se non una specie di
gorgoglio sordo, debole, ma continuo.
Dapprima non ne indovinò la causa.
Via via che la mente gli si snebbiava, riconnetteva, se pur con
lentezza, le circostanze dell’attacco improvviso di cui era stato
vittima... Mentre stava lì intento a raccogliere tutti i ricordi,
ebbe ai piedi una nuova sensazione di bagnato: si abbassò, tastò;
aveva l’acqua alla caviglia.
E nel cupo silenzio che lo circondava, sentì ancor più distintamente
il gorgoglio sordo, debole, continuo.
Questa volta comprese: l’acqua invadeva la cantina... La Senna era
terribilmente gonfia, e il sotterraneo era al livello del fiume...
Il pericolo fece tornare completamente in sé Rodolphe: salì
l’umida scala in un lampo. Ma arrivato in cima urtò contro una
porta; invano tentò di scuoterla, essa rimase immobile sui cardini
di ferro.
In quella situazione disperata, il suo primo pensiero fu per Murph.
«Se non sta in guardia, quel mostro lo ucciderà... e sarò stato io»
gridò, «io ad avergli procurato la morte!... Povero Murph!...» A
questo triste pensiero Rodolphe sentì le forze centuplicar-
glisi: puntellandosi sui piedi e inarcando le reni, fece sforzi
inauditi contro la porta... ma non riuscì a spostarla di un
millimetro.
Sperando di trovare una leva nella cantina, ridiscese: sul penultimo
scalino, due o tre corpi rotondi, elastici, gli passarono sotto i
piedi fuggendo: erano sorci che l’acqua cacciava dalle tane.
Rodolphe, nonostante l’acqua gli arrivasse a metà gamba, percorse la
cantina in lungo e in largo, non trovò nulla. Risalì lentamente la
scala, in preda a una cupa disperazione.
Contò i gradini: erano tredici; tre erano già sott’acqua.
Tredici! numero fatale!... In certe situazioni, nemmeno gli spiriti
più tetragoni vanno esenti da idee superstiziose; quel numero era di
cattivo auspicio. Gli tornò alla mente il pensiero della probabile
fine di Murph. Invano cercò la fessura che c’è di solito tra il
suolo e la porta perché questa, gonfiatasi con l’umidità, non aveva
lasciato interstizi tra sé e il terreno umido e grasso.
Rodolphe si mise a urlare con rabbia, sperando di poter essere udito
dagli ospiti dell’osteria; e poi stette in ascolto.
Non si sentì niente, niente se non il gorgoglio sordo, debole,
continuo dell’acqua che saliva, saliva, saliva.
Alla fine si sedette sfiduciato con la schiena appoggiata alla
porta; e pianse l’amico, che forse in quel momento stava
dibattendosi sotto il coltello di un assassino.
Molto amaramente allora si pentì dell’audacia e dell’imprudenza che
erano alla base dei suoi gesti generosi; ricordava con strazio le
mille prove di fedeltà fornitegli da Murph che, ricco e onorato,
aveva lasciato la moglie, l’adorato figlio, e le occupazioni più
care per seguire e aiutare Rodolphe nella coraggiosa ma insolita
espiazione che questi si era imposto.
L’acqua continuava a salire... all’asciutto, non vi erano ormai che
cinque scalini. Messosi in piedi vicino alla porta, Rodolphe toccava
con la testa la volta della cantina... Avrebbe potuto calco-
lare quanto tempo sarebbe durata la sua agonia. La morte sarebbe
stata lenta, silenziosa, atroce.
Si ricordò della pistola che aveva con sé. Con un colpo di pistola
nella serratura forse avrebbe potuto abbattere la porta e lui
l’avrebbe fatto anche a rischio di venire colpito dalla pallottola
di rimbalzo. Invece niente!... niente!... nella caduta, l’arma gli
era scivolata di tasca oppure gli era stata portata via dal Maître
d’école.
Senza i suoi timori per Murph, Rodolphe avrebbe aspettato
serenamente la morte... aveva vissuto tanto... era stato
ardentemente amato... aveva fatto del bene, avrebbe voluto farne
ancora di più, e Dio questo lo sapeva! Non gli sfuggì parola contro
il verdetto da cui veniva colpito, anzi riconobbe in quella sua fine
la giusta punizione di una colpa gravissima non ancora espiata; i
suoi pensieri a contatto con la morte si elevavano, si nobilitavano.
Un nuovo supplizio venne a mettere alla prova la rassegnazione di
Rodolphe.
I sorci, snidati dall’acqua, non trovando via d’uscita, erano saliti
di gradino in gradino. Poiché difficilmente avrebbero potuto salire
su per un muro o una porta, andarono ad arrampicarsi su per i
vestiti di Rodolphe. Quando se li sentì strisciare addosso, ne provò
un disgusto e un orrore indicibili... Tentò di cacciarli, ma si
trovò le mani insanguinate per certi morsi acuti e freddi; e nella
caduta, la camicia e la giacca gli si erano aperte davanti, si sentì
quindi sul petto nudo le loro gelide zampette e i loro corpi
villosi. Quelle bestie immonde, se le staccava dagli abiti e poi le
scaraventava lontano; ma esse ritornavano a nuoto.
Rodolphe gridò ancora, ma nessuno lo sentì... Fra poco non avrebbe
più potuto gridare: l’acqua gli era arrivata al collo, presto gli
sarebbe arrivata alla bocca.
L’aria respinta nel poco spazio rimasto cominciava a mancare.
Rodolphe avvertì i primi sintomi dell’asfissia; le arterie delle
tempie gli pulsavano violentemente, aveva le vertigini, stava per
morire. Rivolse un ultimo pensiero a Murph e innalzò l’anima a
Dio... non perché lo strappasse dal pericolo, ma perché accettasse
le sue sofferenze.
Nel momento supremo della morte, sul punto di abdicare non solo a
tutto ciò che rende una vita felice, brillante, invidiata, ma anche
a un titolo quasi regale, a un potere sovrano... costretto a
rinunciare a un’impresa che, soddisfacendo le sue due passioni
innate, l’amore del bene e l’odio per i malvagi, poteva servigli un
giorno per la remissione dei peccati; pronto a morire di morte
atroce... Rodolphe non si lasciò affatto prendere da quei moti di
rabbia, di ribellione impotente, che spingono gli spiriti deboli ad
accusare e a maledire gli uomini, il destino e Dio.
No: finché restò lucido, Rodolphe affrontò il suo destino con
umiltà, con dignità... Quando, vicino all’agonia, le idee gli si
annebbiarono e in lui non rimase che il solo istinto di
conservazione, lo si sarebbe potuto veder lottare fisicamente, se
così si può dire, non moralmente contro la morte.
Si sentiva inghiottire nel gorgo vorticoso e pauroso delle
vertigini: l’acqua gli ribolliva alle orecchie; gli sembrava di
girare rapidamente su se stesso; l’ultimo barlume di ragione stava
per spegnersi in lui, allorché udì dei passi precipitosi e un suono
di voci vicino alla porta della cantina.
Le forze che lo stavano lasciando gli ritornarono con la speranza;
grazie a un grandissimo sforzo mentale riuscì ad afferrare queste
parole, le ultime che udì e comprese:
«Lo vedi, non c’è nessuno.»
«Perdio, è vero...» rispose tristemente la voce dello Chourineur. E
i passi si allontanarono.
Rodolphe, ormai spossato, si lasciò scivolare lungo la scala, perché
proprio non ce la faceva più a stare in piedi.
A un tratto la porta del sotterraneo si aprì bruscamente dal di
fuori; l’acqua che c’era dentro straripò come se si fosse aperta la
chiusa di un fiume... e lo Chourineur poté afferrare per le braccia
Rodolphe che, mezzo annegato, tentava ancora di aggrapparsi
convulsamente alla porta.
XIX L’INFERMIERE
Strappato da morte sicura dallo Chourineur, e trasportato in quella
casa dell’allée des Veuves che la Chouette aveva esplorato prima del
tentativo del Maître d’école, Rodolphe riposa ora in una stanza
confortevole; un gran fuoco brucia nel caminetto, una lampada da
sopra il cassettone in cui si trova diffonde nella stanza una vivida
luce; il letto di Rodolphe, circondato da grosse tende di damasco
verde, è immerso nella penombra.
Un negro di media statura, con sopracciglia e capelli bianchi, che
veste con ricercatezza e porta un nastro arancione e verde
all’occhiello dell’abito blu, tiene nella mano sinistra un orologio
d’oro con mostrino che consulta attentamente, mentre con la destra
conta i battiti del polso di Rodolphe.
Il negro è mesto, pensieroso e guarda Rodolphe che dorme con
l’espressione della più tenera sollecitudine.
Lo Chourineur, vestito di stracci, sporco di fango, se ne sta
immobile ai piedi del letto, con le braccia penzoloni e le mani
intrecciate; la barba rossa che porta è lunga, la folta capigliatura
color stoppa, scompigliata e molle d’acqua; il viso grosso e duro,
bruciato dal sole; eppure da quella scorza ruvida e aspra trapela
un’ineffabile espressione di ansia e di pietà... Osa appena
respirare, solleva con precauzione il largo petto; preoccupato dal
fare silenzioso del dottore negro, e temendo un esito increscioso,
si arrischia a esprimere sottovoce questa riflessione filosofica
sempre continuando a fissare Rodolphe:
«A vederlo così debole, chi direbbe che è stato lui a scaricarmi
addosso così spavaldamente quei colpi finali!... Non ci metterà
molto a recuperare le forze... vero, signor dottore? Parola mia,
preferirei che tamburellasse sulla mia schiena con le poche forze
che ha..., così si scuoterebbe... vero, dottore?»
Il negro gli rispose con un breve segno della mano.
Lo Chourineur ammutolì.
«La pozione?» disse il negro.
E subito lo Chourineur, che aveva rispettosamente lasciato le
scarpe chiodate alla porta, andò verso il cassettone camminando il
più leggermente possibile sulla punta dei piedi; ma fece il tutto
con tali contorcimenti di gambe, con tali oscillazioni di braccia,
con tali inarcamenti di schiena che in tutt’altra occasione questi
suoi movimenti sarebbero parsi molto ridicoli.
Sembrava che il povero diavolo volesse far poggiare tutta la sua
mole su quella parte di sé che era sollevata da terra; cosa che era
ben lungi, nonostante per terra ci fosse un tappeto, dal fare sì che
il pavimento non gemesse sotto la pesante corporatura dello
Chourineur. Purtroppo, preso com’era dall’impazienza di rendersi
utile e dal timore di lasciarsi sfuggire di mano la fiala di vetro
trasparente che con tanta cura stava portando, la strinse talmente
nella sua grande mano, che il collo del flacone finì col rompersi
mentre la pozione andò a inondare il tappeto.
Davanti a un tal disastro, lo Chourineur si fermò di botto con una
delle sue grosse gambe sollevata a mezz’aria, gli alluci
nervosamente contratti e si mise a guardare, con aria confusa, ora
il dottore, ora il collo della fiala che gli era rimasto in mano.
«Buono a nulla che non siete altro!» esclamò il negro spazientito.
«Pezzo d’imbecille!» disse a se stesso lo Chourineur.
«Ah!» riprese il seguace d’Esculapio dopo aver gettato uno sguardo
sul cassettone, «per fortuna vi siete sbagliato, volevo l’altra
boccetta...»
«Quella piccola, rossa?» disse pianissimo lo sventurato infermiere.
«Sì... c’è solo quella.»
Lo Chourineur, girando sui talloni secondo una vecchia abitudine
militare, frantumò i cocci della boccetta: piedi più delicati si
sarebbero crudelmente feriti; l’ex scaricatore invece, in
conseguenza del suo mestiere, aveva ai piedi un paio di sandali
naturali, duri come gli zoccoli di un cavallo.
«Attento che vi fate male!» gli disse il medico.
Lo Chourineur non prestò la minima attenzione alla raccomandazione.
Appunto perché tutto preoccupato della nuova missione che doveva
condurre felicemente in porto se voleva far dimenticare il
precedente malanno, sarebbe stato bello vedere con che delicatezza,
con che leggerezza, con che attenzione egli allargò le grosse dita
per prendere il fragile flacone... Una farfalla non avrebbe lasciato
un atomo della dorata polvere delle sue ali fra il pollice e
l’indice dello Chourineur.
Il dottore negro rabbrividì al pensiero che un nuovo malanno sarebbe
potuto succedere per eccessiva precauzione. Fortunatamente si evitò
anche questo scoglio.
Lo Chourineur, prima di arrivare al letto, finì di frantumare con i
piedi quello che restava dell’altra boccetta.
«Ma, disgraziato, volete proprio rovinarvi i piedi?» disse il
dottore a bassa voce.
Lo Chourineur lo guardò tutto sorpreso.
«Eh, rovinarmi i piedi con che cosa, signor dottore?»
«È la seconda volta che passate sui vetri.»
«Se è solo per questo, non fateci caso... Ho la pianta dei pie-
di rivestita di legno.»
«Un cucchiaino!» disse il dottore.
Lo Chourineur per portare ciò che il dottore gli aveva ordi-
nato ricominciò le sue evoluzioni da silfo.
Dopo alcuni cucchiai di pozione, Rodolphe rinvenne e mos-
se debolmente le mani.
«Bene: bene! sta scuotendosi dal torpore» disse il medico.
«Il salasso l’ha sollevato, presto sarà fuori pericolo.»
«Salvo! Bene! Benissimo!» gridò lo Chourineur in un impe-
to di gioia.
«Ma state un po’ buono!»
«Sì, signor dottore.»
«Il polso sta diventando regolare... Benissimo!... benis-
simo!»
«Signor dottore, e il povero amico del signor Rodolphe.» «Diavolo!
quando saprà! Per fortuna che...»
«Zitto!»
«Sì, signor dottore.»
«Ma, signor...»
«Su sedetevi; mi dà fastidio vedervi sempre intorno, e poi mi
distraggo. Andiamo, sedetevi!»
«Signor dottore, io sono sporco come un pezzo di legno che
venga tolto dal fodero e scaricato, sporcherei i mobili.»
«Allora sedetevi per terra.»
«Sporcherei il tappeto.»
«Fate come volete; ma, in nome del cielo, state fermo» disse
il dottore spazientito; e, sprofondando in una poltrona, appoggiò la
testa sulle mani.
Dopo un momento di profonda meditazione, lo Chourineur, più per
obbedire al dottore che per riposarsi, prese con grandissimo
riguardo una sedia; e, gonfio di soddisfazione, la rovesciò in modo
che lo schienale poggiasse sul tappeto, con la chiara intenzione di
sedersi educatamente e modestamente sulle gambe anteriori, in modo
da non sporcare niente... cosa che fece con la massima delicatezza.
Purtroppo lo Chourineur non conosceva bene i princìpi della leva e
dell’equilibrio dei corpi: la sedia si ribaltò; il poveretto col
gesto istintivo di mettere le braccia in avanti rovesciò un tavolino
su cui c’erano un vassoio, una tazza e una teiera.
La rovinosa caduta del tavolino fece sussultare sulla poltrona il
dottore negro che alzò subito la testa.
Rodolphe, destatosi di soprassalto, si rizzò a sedere, si guardò
ansiosamente intorno e, riordinate le idee, esclamò:
«Murph! dov’è Murph?»
«Vostra Altezza stia tranquillo» disse rispettosamente il negro, «ci
sono molte speranze.»
«È ferito?» chiese Rodolphe.
«Ahimè! sì, mio signore.»
«Dov’è?... voglio vederlo.»
E Rodolphe tentò di alzarsi, ma ricadde vinto dal dolore che
gli procuravano le contusioni di cui sentiva adesso il contraccolpo.
«Portatemi subito da Murph dal momento che non posso camminare!»
esclamò.
«Mio signore, Murph sta riposando... Sarebbe pericoloso adesso
procurargli una forte emozione.»
«Ah! voi m’ingannate! è morto... È morto assassinato!... E sono
stato io... io a causarne la morte!» gridò Rodolphe con voce
straziata, alzando le mani al cielo.
«Signore, voi sapete che non sono capace di mentire... Vi assicuro
sul mio onore che il signor Murph è vivo... ferito gravemente, è
vero, ma con la certezza quasi di guarire.»
«Mi dite questo per prepararmi a qualche brutta notizia. È in
condizioni disperate.»
«Mio signore...»
«Ne sono sicuro... voi m’ingannate... Voglio essere portato da
lui... Vedere un amico fa sempre bene...»
«Mio signore, torno ad assicurarvi sul mio onore che, a meno che non
sopravvenga qualche complicazione, il che è molto improbabile, il
signor Murph entrerà presto in convalescenza.»
«Davvero, davvero, buon David?»
«Davvero, mio signore.»
«Statemi a sentire, voi sapete quanto io vi tenga in consi-
derazione; da quando fate parte della mia casa, avete sempre avuto
la mia fiducia... non ho mai dubitato della vostra straordinaria
bravura, ma, per l’amore del cielo, se è necessario un consulto...»
«Mio signore, è stato il mio primo pensiero. Per il momento un
consulto è del tutto inutile, dovete credermi... e poi, d’altro
canto, non ho voluto far entrare qui nessun estraneo, prima di
sapere se i vostri ordini di ieri...»
«Ma come è stato?» disse Rodolphe interrompendo il negro; «chi mi ha
tirato fuori dal sotterraneo in cui stavo per annegare?... Ricordo
confusamente di aver sentito la voce dello Chourineur; è vero?»
«No! no! il buon uomo vi racconterà tutto perché ha fatto tutto
lui.»
«Ma dov’è? dov’è?»
Il dottore cercò con gli occhi l’infermiere improvvisato, il quale,
per la vergogna d’essere caduto, era andato a nascondersi dietro le
cortine del letto.
«Eccolo» disse il medico, «è imbarazzato.»
«Su, vieni avanti, caro amico!» disse Rodolphe porgendo la mano al
suo salvatore.
XX
IL RACCONTO DELLO CHOURINEUR
L’imbarazzo dello Chourineur era tanto più grande, in quanto aveva
sentito il medico negro chiamare più volte Rodolphe mio signore.
«Su, avvicinati... dammi la mano!» disse Rodolphe.
«Scusate, signore... no, volevo dire mio signore... cioè...»
«Chiamami signor Rodolphe, come prima... preferisco.»
«E anch’io sarò meno impacciato... Ma scusatemi, perché la
mia mano... quest’oggi ha fatto tante cose.»
E tese timidamente la destra nera e callosa. Rodolphe gliela
strinse cordialmente.
«Su, siediti e raccontami tutto... Come hai fatto a scoprire il
sotterraneo?... Ma, adesso che ci penso, e il Maître d’école?»
«È al sicuro» disse il dottore negro.
«Legati come due trecciuole di tabacco..., lui e la Chouette...
Dato il bel muso che hanno, ormai dovran provare ripugnanza l’uno
dell’altra.»
«E il povero Murph! Dio mio, ci penso solo adesso! David, dove è
stato colpito?»
«Al fianco destro, mio signore... fortunatamente verso l’ultima
costa asternale.»
«Oh! mi vendicherò in maniera terribile, terribile!... David, conto
su di voi.»
«Mio signore, voi sapete bene che vi appartengo anima e corpo»
rispose freddamente il negro.
«Ma come hai fatto, caro amico, ad arrivare in tempo?» disse
Rodolphe allo Chourineur.
«Se volete, mio sign... no, signor Rodolphe, se volete comincerò dal
principio.»
«Va bene; ti ascolto.»
«Vi ricordate che ieri sera, tornando dalla campagna dove eravate
andato con la povera Goualeuse, mi avete detto: “Vedi se ti riesce
di trovare il Maître d’école nella Cité; digli che c’è un bel colpo
da fare e che tu non vuoi immischiartene; ma che se vuole prendere
il tuo posto, basta che venga domani (cioè stamattina) alla barriera
di Bercy, nei pressi del Panier-Fleuri, per parlare con chi ha
preparato il furto”.»
«Benissimo!»
«Vi lascio e corro alla Cité... Vado dall’ostessa: del Maître
nemmeno l’ombra; faccio la rue Saint-Eloi, la rue aux Fèves, la
rue della Vieille-Draperie... nessuno... Finalmente lo becco con
quella baldracca della Chouette, sulla piazza di Notre-Dame, da un
sartuccio, rivenditore, ricettatore, ladro; volevano rimettersi a
nuovo con il denaro rubato a quel signore alto, vestito a lutto, che
voleva farvi non so che cosa; stavano comperando abiti d’occasione.
La Chouette stava discutendo sul prezzo di uno scialle rosso...
Brutto mostro!... Io dico tutto al Maître d’école: lui mi dice che
ci sta, e che andrà all’appuntamento. Bene! Stamattina, obbedendo ai
vostri ordini di ieri, corro qui a darvi la risposta... Voi mi dite:
“Ragazzo, ritorna domattina prima che faccia chiaro, passerai la
giornata in casa, e la sera, vedrai qualcosa che merita...”. È
quanto m’avete detto; ma io capisco tutto. E mi dico: “È un trucco
per agganciare il Maître d’école con la scusa di un colpo da fare
domani e combinargli invece uno scherzetto... È un vero
delinquente... Ha assassinato il mercante di buoi... Ne sono...”»
«E il mio torto è stato quello di non averti detto tutto, ragazzo...
Forse questa brutta disgrazia non sarebbe capitata.»
«Era cosa che riguardava voi, signor Rodolphe; io da parte mia
dovevo servirvi... perché in fondo... non so come mai, ve l’ho già
detto, mi sento per voi la fedeltà di un cane; insomma... basta...
Dunque mi dico: la festa è per domani, oggi sono in vacanza; il
signor Rodolphe mi ha pagato le due giornate che ho perduto, e con
un anticipo anche su altre due, infatti sono tre giorni che non mi
faccio vedere dal padrone e, non essendo milionario, il lavoro... è
il mio pane. E mi dico ancora: vedi, in fondo, il signor Rodolphe mi
paga il mio tempo, quindi il mio tempo gli appartiene, lo occuperò
per lui. E mi viene quest’idea: Il Maître d’école è furbo, fiuterà
il tranello. Il signor Rodolphe quasi certamente gli proporrà
l’affare per domani, ma il malandrino è capace di venire in giornata
a ronzare da queste parti per fare una ricognizione, e se poi non si
fida del signor Rodolphe è anche capace di portare con sé un altro
ladro o di dire: A domani, e di fare invece il colpo oggi per conto
suo.»
«Avevi indovinato... è andata proprio così... E la Provvidenza ha
voluto che io ti dovessi la vita!»
«È strano, signor Rodolphe, ma da quando vi conosco mi capitano
certe cose che credo vengano combinate lassù! e poi mi vengono certe
idee che non mi erano mai passate per la testa, prima del giorno in
cui mi avete detto: “Ragazzo, hai un cuore e un onore tu”. Un cuore!
un onore! perdinci! parole così vi smuovono qualcosa nello stomaco.
Via, signor Rodolphe, quando si è abituati a sentirsi gridare al
lupo, al cane idrofobo! allorché si ha solo l’intenzione di
avvicinare la brava gente...»
«Così, da un po’ di giorni la pensi diversamente?»
«Certo, signor Rodolphe. Sentite, mi dicevo ancora: Adesso, se
conoscessi qualcuno che avesse fatto una cattiva azione, perché
beveva o per ira, insomma una cosa qualsiasi... be’, gli direi:
Amico, hai fatto una brutta azione, d’accordo... Ma non è tutto; non
per nulla il buon Dio mette assieme la gente che annega, che si
brucia e che muore di fame; quindi se guadagni quaranta soldi mi
farai la cortesia di darne venti ai vecchi o ai bambini poveri;
insomma a coloro che, più disgraziati di te, non hanno due braccia
per guadagnarsi da vivere... e soprattutto non dimenticare, amico,
che se c’è qualcuno da salvare sarà ora affar tuo dovessi pure
rimetterci sicuramente la pelle!!! Grazie a ciò, e a patto che tu
non ricominci a fare sciocchezze, potrai sempre contare sul mio
aiuto... Ma scusate, signor Rodolphe, io chiacchiero... voi invece
siete curioso di sapere...»
«No; mi piace sentirti parlare così. E poi, non vorrei mai che
arrivasse il momento in cui mi dirai come è successo il brutto
incidente di cui è stato vittima Murph... Ero convinto di poter
restare sempre attaccato alle falde del Maître d’école, di riuscire
a non lasciarlo solo neppure un secondo durante quella disgraziata
impresa... Allora avrebbe potuto uccidermi cento volte... prima di
toccare Murph. Ahimè! La sorte ha deciso diversamente... Vai avanti,
ragazzo.»
«Volendo dunque, signor Rodolphe, impegnare il mio tempo per voi, mi
son detto: Devo andar a imboscarmi in qualche posto in modo che
possa vedere il recinto e la porta del giardino che è il solo
ingresso... Se trovo un bell’angolino... piove, il giorno starò lì e
anche la notte, e domattina sarò già sul posto... Finito di dirmi
così, battono le due, a Batignolles, dove ero andato a mangiare un
boccone, dopo avervi lasciato, signor Rodolphe... Torno agli
Champs-Elysées... Cerco un angolo dove nascondermi... Cosa vedo? una
piccola bettola a dieci passi dal vostro portone... Mi metto nella
saletta del pianterreno, vicino alla finestra, chiedo un litro e un
po’ di noci e dico che aspetto amici... un gobbo e una donna alta,
per far sembrare la cosa più naturale. Mi sistemo ed ecco che mi
metto a esaminare il vostro portone... Pioveva, un diluvio; non
passava nessuno, veniva la notte...»
«Ma» disse Rodolphe, interrompendo lo Chourineur, «perché non sei
andato a casa mia?»
«Voi mi avete detto di ritornare l’indomani mattina, signor
Rodolphe... Non ho osato venir prima. Poteva sembrare che io volessi
fare il grazioso, il leccapiedi, come dicono i soldati. Dopo
tutto io so quello che sono, un ex forzato; e quando uno come voi mi
tratta come mi trattate voi, signor Rodolphe... si deve andare a
trovarlo solo quando vi dice: Vieni! Allora sì che se vedessi un
ragno sul colletto del vostro vestito, ve lo toglierei e lo
schiaccerei senza chiedervi permesso... Capite?... Ero dunque alla
finestra dell’osteria, intento a rompermi le noci e a bermi il
vinello, quando vedo sbucare dalla nebbia la Chouette e il
marmocchio di Bras-Rouge, Tortillard.»
«Bras-Rouge! allora è lui il padrone della bettola sotterranea degli
Champs-Elysées?» gridò Rodolphe.
«Sì, signor Rodolphe, non lo sapevate?»
«No, credevo che stesse nella Cité...»
«Sta anche lì... sta dappertutto, Bras-Rouge... È un briccone di
tre cotte, lui, con quella sua parrucca gialla e il naso
appuntito!... Insomma, quando vedo sbucare la Chouette e Tortillard,
mi dico: Bene, c’è aria di guai! Infatti, Tortillard si rimpiatta in
un fosso del viale, di fronte a casa vostra, come se volesse
ripararsi dalla pioggia, fa la talpa... La Chouette, invece, si
toglie la cuffia e se la mette in tasca, poi suona alla porta. Quel
povero vostro amico, il signor Murph, viene ad aprirle; ed eccola
che si sbraccia e corre su e giù per il giardino. Io, in cuor mio,
avevo rinunciato a capire che cosa fosse venuta a fare la
Chouette... Alla fine esce, si rimette la cuffia, dice due parole a
Tortillard che rientra nel suo buco; e poi se la svigna... Io mi
dico: Un momento!... non facciamo confusione: Tortillard è venuto
con la Chouette, quindi il Maître e il signor Rodolphe sono da
Bras-Rouge. La Chouette è venuta a spiare nella casa, vuol dire che
faranno il colpo stasera. Se fanno il colpo stasera, il signor
Rodolphe che crede si debba fare domani si trova allora nei guai. Se
il signor Rodolphe è nei guai, io allora devo andare da Bras-Rouge a
vedere di che si tratta; sì, ma se nel frattempo arriva il Maître...
giusto. Allora, tanto peggio, entro in casa e dico a Murph: Non
fidatevi. Sì, ma quel pezzente di Tortillard è vicino alla porta, mi
sentirà suonare, mi vedrà e avvertirà la Chouette; e se la Chouette
ritorna..., tutto sarà rovinato... tanto più che forse il signor
Rodolphe ha combinato in qualche altro modo per questa sera...
Diamine! i sì e i no mi turbinavano nella testa... Ero instupidito,
non capivo più niente... non sapevo cosa fare; mi dico: Adesso esco;
forse, all’aria fresca, mi schiarirò le idee. Esco... ed ecco
l’idea: mi levo il camiciotto e la cravatta, vado al fosso dove c’è
Tortillard, lo prendo per gli stracci; ha un bel scalciare,
graffiare, piagnucolare, lui... lo avvolgo nel camiciotto come in un
sacco, a un’estremità faccio un nodo con le ma-
niche, all’altra con la cravatta, quel tanto per farlo respirare; mi
metto l’involto sotto il braccio, vedo lì vicino un orto recintato;
butto Tortillard in mezzo alle carote; grugniva sordamente come un
porcellino da latte, ma a due passi di distanza nessuno l’avrebbe
sentito... Me la batto, era ora, mi arrampico su un grande albero
del viale, proprio dirimpetto alla vostra porta, sopra al fosso dove
prima c’era Tortillard. Dieci minuti dopo sento dei passi; pioveva
sempre. Era così scuro... così scuro che il diavolo si sarebbe
pestato la coda... Sto in ascolto; era la Chouette, “Tortillard!...
Tortillard!...” chiamò sottovoce. Sì, cerca pure il tuo Tortillard!
“Piove, il monello si sarà stancato di aspettare” disse il Maître,
bestemmiando. “Se lo prendo, lo scortico vivo.” “Furfante, vuoi
vedere” riprese la Chouette, “che forse sarà venuto in cerca di noi
per avvertirci di qualche cosa? Se fosse una trappola!... l’altro
voleva fare il colpo solo alle dieci.” “Appunto per questo” risponde
il Maître: “sono appena le sette. Tu hai visto il denaro... Chi non
risica non rosica; dammi la tenaglia e lo scalpello.”»
«E quegli strumenti?» domandò Rodolphe.
«Venivano dalla casa di Bras-Rouge; oh, ha una casa ben fornita. In
un momento forzano la porta. “Fermati lì” dice il Maître alla
Chouette; “stai attenta e grida se senti qualcosa.” “Infila il
coltello in un occhiello del panciotto, se vuoi averlo subito a
portata di mano” dice la guercia. E il Maître d’école entra nel
giardino. Mi dico subito: il signor Rodolphe non c’è; in questo
momento o è morto o è vivo, non posso fare nulla per lui, ma gli
amici dei nostri amici sono nostri... Oh! no; scusate, mio signore!»
«Su, su. E allora?»
«Mi dico: Il Maître è capace di assassinare l’amico del signor
Rodolphe, che non se l’aspetta. E qui prima di tutto fa caldo. Salto
giù dall’albero, piombo sulla Chouette; la stordisco con due
pugni... speciali... cade senza dire ah... Entro nel giardino...
Diamine, signor Rodolphe!... era troppo tardi...»
«Povero Murph!!...»
«Sentendo qualche rumore alla porta, doveva essere uscito dal
vestibolo; stava rotolando col Maître sulla scala d’ingresso; benché
già ferito, continuava a tener duro, senza chiamare aiuto. Un gran
buon uomo! È come un buon cane: morde ma non abbaia, mi dico... e mi
butto a casaccio su tutti e due, afferro il Maître per una gamba,
era il solo pezzo disponibile al momento. “Evviva! sono io! lo
Chourineur! Facciamo a metà, signor Murph!” “Ah! brigante! ma da
dove salti fuori?” mi urla il Maître, stordito da ciò. “Curioso eh?”
gli rispondo, attanagliandogli una gamba con
le mie ginocchia e afferrandogli un braccio, era quello del pugnale,
quello buono. “E... Rodolphe?” mi grida il signor Murph, sempre
aiutandomi.»
«Bravo, straordinario uomo!» mormorò Rodolphe dolorosamente.
«“Non ne so niente” rispondo. “Quel furfante forse l’ha ucciso.” E
raddoppio i colpi sul Maître, che cercava di farmi il solletico col
coltello; ma avevo appoggiato il petto sul suo braccio, aveva libero
solo il polso. “Allora siete solo soletto?” chiedo a Murph, mentre
continuavamo a batterci con il Maître. “C’è gente qui vicino, ma
anche se gridassi non mi sentirebbero.” “È lontano?” “Ci sono dieci
minuti di strada.” “Chiamiamo aiuto, se passa qualcuno, verrà ad
aiutarci.” “No; dal momento che l’abbiamo preso, dobbiamo tenerlo
qui... Ma mi sento debole... sono ferito” mi dice Murph. “Forza,
allora!! correte a cercare aiuto, se ne avete il tempo. Cercherò di
tenerlo fermo; toglietegli il coltello e aiutatemi solo a montargli
sopra; anche se è due volte più forte di me quando l’avrò preso
bene, me la vedo io.” Il Maître d’école non diceva nulla, lo si
sentiva sbuffare come un bue; ma, accidenti!!! quanti sforzi. Il
signor Murph non era riuscito a strappare l’arma all’uomo, e questi,
per giunta, stringeva come una morsa. Finalmente, appoggiandomi con
tutto il peso del corpo sul suo braccio destro, gli passo le mani
dietro il collo e le congiungo... come se lo volessi abbracciare.
Poterlo prendere così è sempre stato il mio sogno; allora dico al
signor Murph: “Sbrigatevi... vi aspetto. Se avete qualcuno che vi
avanza fate raccogliere la Chouette da dietro la porta del giardino,
l’ho stordita.” Resto solo col Maître. Sapeva cosa lo aspettava.»
«Non lo sapeva!... e neanche tu, amico» disse Rodolphe con un’aria
cupa e atteggiando il viso a quell’espressione dura, quasi feroce,
di cui abbiamo già parlato. Stupito, lo Chourineur disse a Rodolphe:
«Credevo che il Maître d’école sospettasse quello che lo aspettava;
perché, diavolo, non per vantarmi... ma c’è stato un momeno in cui
me la sono vista brutta. Eravamo metà per terra e metà sull’ultimo
gradino della scala d’ingresso... Avevo le braccia intorno al collo
del Maître... guancia a guancia. Lo sentivo digrignare i denti. Era
buio... continuava a piovere, e la lampada lasciata nel vestibolo ci
dava un po’ di luce. Gli avevo preso una gamba fra le mie.
Nonostante questo, con quelle sue potenti reni ci sollevava tutti e
due a un piede da terra. Voleva mordermi ma non ci riusciva. Non mi
ero mai sentito così forte. Il cuore mi batteva,
ma nel punto giusto. Mi dicevo: Sono come uno che si è gettato su un
cane idrofobo per impedirgli di mordere la gente. “Lasciami scappare
e non ti farò niente” mi disse il Maître. “Ah! sei anche vigliacco!”
risposi io di rimando; “il tuo coraggio allora sta tutto nella tua
forza? Non avresti osato uccidere e derubare il mercante di buoi di
Poissy, se solo fosse stato forte come me, eh!” “No,” mi disse, “ma
ti ucciderò come lui.” E dicendo questo, s’inarcò e nello stesso
tempo puntò le gambe a terra con tale potenza che mi gettò di lato;
ma avevo sempre le mani incrociate dietro la sua testa, e il suo
braccio destro sotto di me. Una volta avute le gambe libere, ha
saputo servirsene benissimo. Così ha preso slancio. Mi ha mezzo
rovesciato. Se non avessi tenuto ferma la mano col pugnale, sarei
stato un uomo finito. In quel momento, il mio polso sinistro non ha
retto più; sono stato costretto ad aprire le dita. Cominciava ad
andar male. Mi dico: Io sono sotto, lui è sopra sono spacciato. Non
importa; preferisco il mio al suo posto... il signor Rodolphe m’ha
detto che ho un cuore e un onore. Sento che è così. A questo punto
dei miei pensieri scorgo la Chouette ritta sulla scala... con il suo
occhio rotondo e lo scialle rosso. Perdio! credevo fosse un incubo.
“Finette!” le grida il Maître d’école, “mi sono lasciato cadere il
coltello; raccoglilo... là... sotto di lui... e colpiscilo sulla
schiena, in mezzo alle spalle.” “Aspetta, aspetta, furfante, che mi
raccapezzi...” Ed ecco la Chouette che gira... che gira attorno a
noi da quell’uccellaccio del malaugurio che è. Alla fine scorge il
pugnale... fa per prenderlo. Io che ero bocconi, le do una tal
pedata nello stomaco che la mando a gambe all’aria; ma lei si alza e
insiste. Non ne potevo più; stavo ancora aggrappato al Maître; ma mi
dava da sotto certi pugni sulla mascella, che stavo per mollare
tutto. Cominciavo a non capire più niente... quando vedo tre o
quattro giovanottoni armati che scendono la scala... e... il signor
Murph, pallidissimo, che si regge a fatica appoggiandosi al signor
dottore. Il Maître e la Chouette sono presi e legati. Ma non era
finita qui. Adesso volevo il signor Rodolphe. Salto addosso alla
Chouette, mi ricordo del dente della povera Goualeuse, le afferro un
braccio e torcendoglielo le dico: “Dov’è il signor Rodolphe?”. Lei
resiste. Al secondo strattone, mi grida: “Nella cantina di
Bras-Rouge, al Coeur Saignant”. Bene. Passando voglio andare a
riprendere Tortillard tra le carote; tanta era la mia strada.
Guardo... c’era solo il mio camiciotto. L’aveva rosicchiato coi
denti. Arrivo al Coeur Saignant, afferro Bras-Rouge per la gola.
“Dov’è il giovane che quest’oggi è venuto qui col Maître d’école?”
“Non stringermi così forte, adesso te lo dico: hanno voluto fargli
uno scherzo, l’hanno rinchiuso nella cantina; andiamo ad aprirgli.”
Scendiamo... nessuno. “Sarà uscito mentre ero voltato” disse
Bras-Rouge; “vedi che non c’è nessuno.”
Me ne stavo andando tutto afflitto, quando al lume della lanterna
scorgo un’altra porta. Corro lì, tiro verso di me, e mi prendo sulla
zucca, diciamo così, una enorme catinellata d’acqua. Vedo le vostre
povere braccia in aria. Vi ripesco, vi metto in schiena e vi porto
qui, dato che non c’era nessuno da mandare a cercare una carrozza.
Ecco, signor Rodolphe, questo è tutto, e posso dire modestamente di
essere oltremodo contento...»
«Ragazzo, ti devo la vita... è un debito... che soddisferò, sta’ pur
certo, con ogni mezzo... tu hai tanto buon cuore... che sono sicuro
condividerai in questo momento con me il sentimento da cui sono
animato... da un lato sono terribilmente inquieto per l’amico che tu
hai salvato dando prova di grande coraggio, dall’altro nutro un
feroce bisogno di vendetta contro colui che per poco non vi ha
ucciso tutti e due.»
«Vi capisco, signor Rodolphe... piombarvi addosso alle spalle,
gettarvi in una cantina e portarvi svenuto in un sotterraneo per
farvi annegare, mi sembra che basti per dare al Maître quel che si
merita... mi ha confessato di aver ucciso il mercante di buoi. Io
non sono una spia, ma, corpo di un diavolo, questa volta andrei
molto volentieri a cercare una guardia per fare arrestare quel
brigante!»
«David, volete andare a chiedere notizie di Murph?» disse Rodolphe,
senza rispondere allo Chourineur. «Poi tornate qui.»
Il negro uscì.
«Ragazzo, sai dov’è il Maître d’école?»
«In uno stanzino assieme alla Chouette. Volete mandare a
chiamare una guardia, signor Rodolphe?» «No...»
«Lo lascerete andare? Ah, signor Rodolphe non siate generoso con
tipi così. Sono sempre del parere che quello lì è un cane
arrabbiato. Pensate un po’ ai passanti!»
«Sta’ tranquillo, non morderà più nessuno...» «Volete rinchiuderlo
allora in qualche posto?» «No! fra mezz’ora uscirà di qui.»
«Il Maître d’école?»
«Sì...»
«Senza le guardie?»
«Sì...»
«Come! uscirà di qua libero?»
«Libero...»
«E da solo?»
«Sì, da solo...»
«Ma andrà?...»
«Dove vorrà» disse Rodolphe, interrompendo lo Chourineur e
abbozzando un sorriso che lo spaventò...
Il negro tornò.
«Ebbene! David... e Murph?»
«Dorme, mio signore» rispose tristemente il dottore. «Conti-
nua a respirare affannosamente...»
«È ancora in pericolo?»
«Il suo stato... è molto grave, mio signore... Tuttavia... dobbia-
mo sperare...»
«Oh, Murph! vendetta!... vendetta!...» gridò Rodolphe con un
furore freddo e concentrato. Poi aggiunse: «David... una parola...»
E parlò sottovoce all’orecchio del negro. Questi trasalì.
«Esitate?» gli disse Rodolphe. «Eppure vi ho parlato spesso di
questa idea... È venuto il momento di porla in esecuzione...»
«Non esito, mio signore... Io approvo l’idea... essa implica una
vera e propria riforma penale degna di esser esaminata dai grandi
criminalisti, perché questa pena sarebbe nello stesso tempo...
semplice... terribile... e giusta... In casi come questi può essere
inflitta. Senza contare i delitti che hanno meritato al brigante la
galera a vita... ha commesso tre delitti... il mercante di buoi...
Murph... e voi, quindi è un atto di giustizia...»
«E avrà anche davanti a sé l’orizzonte sconfinato del pentimento...»
aggiunse Rodolphe. «Bene, David... voi mi capite...»
«Noi collaboriamo alla stessa opera... mio signore... Dopo un
momento di silenzio, Rodolphe aggiunse:
«David, gli basteranno, per dopo, cinquemila franchi?» «Certamente,
signore.»
«Ragazzo» disse Rodolphe allo Chourineur che aveva spalan-
cato tanto d’occhi, «devo dire due parole al signore. Vai intanto
nella stanza qui accanto... su una scrivania troverai un grande
portafoglio rosso; prendi cinque biglietti da mille franchi e
portameli...»
«E per chi sono i cinquemila franchi?» esclamò senza volerlo lo
Chourineur.
«Per il Maître d’école... a proposito, di’ anche che lo conducano
qui...»
XXI
LA PUNIZIONE
La scena si svolge in un salone tappezzato di rosso e sfarzosamente
illuminato.
Rodolphe indossa una lunga vestaglia da camera di velluto nero, che
gli impallidisce ancora di più il volto, e siede a un tavolo coperto
da un tappeto. Sul tavolo si vedono due portafogli, quello che il
Maître ha rubato a Tom nella Cité e quello che appartiene al
brigante; la collana di similoro della Chouette, con la medaglietta
di lapislazzuli, il coltello ancora insanguinato con cui il Maître
d’école aveva colpito Murph, le tenaglie che erano servite a forzare
la porta, e infine i cinque biglietti da mille franchi che lo
Chourineur era andato a prendere nella stanza vicina.
A un lato del tavolo è seduto il dottore negro, dall’altro lo
Chourineur.
Il Maître d’école, strettamente legato, impossibilitato a fare
qualsiasi movimento, è su una poltrona a rotelle in mezzo al salone.
Le persone che hanno portato il Maître d’école si sono ritirate.
Rodolphe, il dottore, lo Chourineur e l’assassino restano soli.
Rodolphe non è adirato: è calmo, triste, raccolto; si prepara a
compiere un rito solenne e grandioso.
Il dottore è meditabondo.
Lo Chourineur prova un vago timore; non può staccare gli oc-
chi dal volto di Rodolphe.
Il Maître d’école è livido... ha paura...
Un arresto legale gli sarebbe sembrato meno spaventoso, da-
vanti a un tribunale normale non avrebbe perso la sua sfrontatezza;
ma qui, tutto quello che lo circonda lo sbalordisce, lo spaventa; è
in potere di Rodolphe, di un artigiano, come egli credeva, capace di
tradirlo o di cedere al momento del delitto, e che ha voluto
sacrificare ai propri sospetti e alla speranza di avere da solo il
bottino del furto...
E in quel momento Rodolphe gli appare terribile e imponente come una
statua della giustizia.
Fuori regna il più profondo silenzio. Si ode solo il rumore della
pioggia che cade... che cade dal tetto sul selciato.
Rodolphe si rivolge al Maître d’école:
«Scappato dalla galera di Rochefort dove eravate stato condannato a
vita... per falso, furto e omicidio... Siete Anselme Duresnel...»
«È falso; provatelo!» disse il Maître d’école con voce alterata,
girando intorno il suo sguardo truce e inquieto.
«Come!» gridò lo Chourineur, «non eravamo insieme a Rochefort?»
Rodolphe fece un segno allo Chourineur e questi tacque. Rodolphe
continuò:
«Voi siete Anselme Duresnel... fra poco lo dimostreremo... ave-
te assassinato e derubato un mercante di bestiame sulla strada di
Poissy.»
«È falso!»
«Lo proveremo fra poco.»
Il brigante guardò Rodolphe con stupore.
«Questa notte vi siete introdotto qui per rubare e avete pugna-
lato il padrone di casa...»
«Siete stato voi a propormi il furto» disse il Maître d’école
ripren-
dendo un po’ di sicurezza; «sono stato attaccato... e mi sono
difeso.» «L’uomo che avete colpito non vi ha attaccato... non era
armato! Io vi ho proposto il furto... è vero... Fra poco vi dirò
quale era il mio scopo. La sera prima, dopo aver spogliato un uomo e
una donna nella Cité, dopo aver rubato loro questo portafogli qui
per mille
franchi vi siete offerto per uccidermi!...»
«L’ho sentito io!» gridò lo Chourineur.
Il Maître d’école gli lanciò un feroce sguardo di odio. Rodolphe
riprese:
«Come vedete, per fare il male non avevate bisogno di essere
tentato da me!...»
«Voi non siete un giudice istruttore, quindi non vi risponde-
rò più...»
«Ecco perché vi ho proposto il furto. Sapevo che eravate evaso
dalla galera... conoscevate i genitori di un’infelice a cui la
Chouette, vostra complice, aveva procurato tanti guai... Volevo
attirarvi qui con la prospettiva di un furto, la sola prospettiva
capace di sedurvi; una volta in mio potere, vi avrei lasciato
l’alternativa, o di essere consegnato alla giustizia che vi avrebbe
fatto pagare con la morte l’uccisione del mercante di buoi...»
«È falso! non sono stato io.»
«O di lasciarmi l’incarico di portarvi fuori di Francia, in un luogo
di reclusione a vita, a patto però che mi aveste dato le
informazioni che volevo. Eravate condannato all’ergastolo, avevate
infranto il divieto di essere a piede libero.
Impadronendomi di voi, mettendovi in condizione di non nuocere più,
rendevo un servizio alla società e, con le vostre ri-
velazioni, avrei avuto forse la possibilità di restituire alla
famiglia una povera creatura più disgraziata che colpevole. Tale era
dapprima il mio progetto; non era legale; ma voi, con l’evasione e
con nuovi delitti, siete fuori della legge... Ieri, grazie a una
provvidenziale rivelazione, sono venuto a sapere il vostro vero
nome...»
«È falso! non mi chiamo Duresnel.»
Rodolphe prese sul tavolo la collana della Chouette, e, mostrando al
Maître la medaglietta di lapislazzuli:
«Sacrilego!» gli gridò con voce minacciosa. «Avete profanato questa
sacra reliquia dandola a una infame creatura... tre volte sacra!...
perché vostro figlio l’aveva avuta in dono dalla madre e questa da
sua madre!»
Il Maître d’école, sorpreso dalla nuova scoperta, abbassò il capo
senza rispondere.
«Ieri ho saputo che quindici anni fa avevate tolto vostro figlio a
sua madre, e che voi solo conoscevate il segreto della sua
esistenza; questo nuovo misfatto è stato un motivo in più per
impadronirmi di voi; senza parlare poi di quello che mi tocca
personalmente... ma non è di questo che mi vendico... Questa notte
avete ancora una volta sparso del sangue senza che ci sia stata una
provocazione. L’uomo che avete pugnalato vi era venuto incontro con
fiducia, ben lungi dal sospettare in voi la sete di sangue che
avete. Vi ha chiesto che cosa desideravate. “La borsa e la vita!” e
l’avete trafitto con una pugnalata.»
«Così ha raccontato il signor Murph quando gli ho portato i primi
soccorsi» disse il dottore.
«È falso, ha mentito.»
«Murph non mente mai» disse Rodolphe freddamente. «Per i vostri
delitti ci vuole una pena esemplare. Per rubare vi siete introdotto
a mano armata in questo giardino, avete pugnalato un uomo. Avete
commesso un altro delitto... Morrete qui... Per pietà verso vostra
moglie e vostro figlio vi si risparmierà l’onta del patibolo...
Diremo che siete stato ucciso in un assalto a mano armata...
Preparatevi... le armi sono cariche.»
Il volto di Rodolphe era implacabile...
Il Maître d’école aveva notato in una stanza attigua due uomini
armati di fucile... Si sapeva ormai il suo nome; pensò infatti che
volessero sbarazzarsi di lui per non portare alla luce i suoi ultimi
delitti e per salvare così la sua famiglia da questa nuova infamia.
Come i suoi pari, il nostro uomo era vigliacco quanto feroce.
Credendo che fosse giunta la sua ultima ora, cominciò a
tremare convulsamente; gli si sbiancarono le labbra; con voce
soffocata gridò:
«Pietà!»
«Nessuna pietà per voi» disse Rodolphe. «Se non vi bruciamo le
cervella qui, il patibolo vi attende...»
«Preferisco il patibolo... Almeno vivrò ancora due o tre mesi... Non
è lo stesso per voi, dal momento che dopo sarò punito!... Pietà!...
pietà!...»
«Ma vostra moglie... ma vostro figlio... portano il vostro nome...»
«Il mio nome è già disonorato... Quand’anche dovessi vivere solo
otto giorni in più, pietà!...»
«Non ha nemmeno quel disprezzo della vita che si trova a volte nei
più grandi criminali!» disse Rodolphe disgustato.
«D’altra parte la Legge proibisce di farsi giustizia da sé» riprese
il Maître d’école con sicurezza.
«La legge!» gridò Rodolphe, «la legge!... Proprio voi avete il
coraggio di invocare la legge, voi che da vent’anni vivete in
pugnace e aperta rottura con la società?»
Il brigante abbassò la testa senza rispondere, poi disse con tono
umile:
«Lasciatemi almeno vivere, per pietà!»
«Mi direte dov’è vostro figlio?»
«Sì, sì... vi dirò tutto quello che so di lui.»
«Mi direte chi sono i genitori di quella giovanetta che, da
bambina, è stata torturata dalla Chouette?»
«Nel mio portafogli ci sono certi documenti che vi indiche-
ranno la pista da seguire. Pare che sua madre sia una gran signora.»
«Dov’è vostro figlio?»
«Non mi ucciderete?»
«Prima dicci tutto...»
«Però quando saprete...» disse il Maître d’école esitando. «L’hai
ucciso!»
«No, no, l’ho affidato a un complice che, dopo il mio arresto, è
riuscito a scappare.»
«Che ne ha fatto?»
«L’ha allevato; gli ha inculcato gli insegnamenti necessari per
entrare nel commercio, con lo scopo di servirsene e... Ma il seguito
non lo racconterò, a meno che non mi promettiate di non uccidermi.»
«Delle condizioni, miserabile!»
«Ebbene! no, no; ma pietà; fatemi arrestare soltanto per il delitto
di oggi; non parlate dell’altro. Lasciatemi la possibilità di
salvarmi la pelle.»
«Vuoi vivere?»
«Oh! sì, sì; chissà? Non si può mai sapere quello che può succedere»
disse involontariamente il brigante. Pensava già alla possibilità di
un’altra evasione. «Vuoi vivere ad ogni costo... vivere?»
«Sì, vivere... anche attaccato a una catena! per un mese, per otto
giorni... Oh! non voglio morire adesso subito...»
«Confessa i tuoi delitti e vivrai.»
«Vivrò! oh, davvero? vivrò?»
«Ascolta, per pietà verso tua moglie e tuo figlio, voglio darti
un saggio consiglio: muori oggi, muori...»
«Oh! no, no, non ritirate la vostra promessa, lasciatemi vive-
re, l’esistenza più atroce, più spaventosa, non è nulla di fronte
alla morte.»
«Vuoi vivere?»
«Oh! sì, sì...»
«Lo vuoi proprio?»
«Oh! non me ne pentirò mai.»
«E di tuo figlio, che ne hai fatto?»
«Quel mio amico di cui vi dicevo, gli ha fatto imparare la con-
tabilità per metterlo in qualche casa bancaria perché potesse
informarci... riguardo a qualche aspetto. Noi due c’eravamo messi
d’accordo. Da Rochefort, dove aspettavo di evadere, dirigevo il
piano di quell’impresa e corrispondevo col complice per messaggi
cifrati.»
«Quest’uomo mi spaventa!» esclamò Rodolphe rabbrividendo; «ci sono
certi delitti che non sospettavo. Confessa... confessa... perché
volevi far entrare tuo figlio da un banchiere?»
«Per... voi capite bene... essendo d’accordo con noi... senza darlo
a vedere... ispirare fiducia al banchiere... secondarci... e...»
«Oh! Dio mio! suo figlio!» esclamò Rodolphe stupito e addolorato
insieme, prendendosi la testa fra le mani.
«Ma non si trattava che di falsi!» esclamò il brigante; «inoltre
quando abbiamo spiegato a mio figlio ciò che volevamo da lui, si è
indignato... Dopo una scenata violenta con la persona che l’aveva
allevato per i nostri fini, è sparito... Sono passati ormai diciotto
mesi... Da allora non si è saputo più niente di lui... nel mio
portafogli troverete un documento dove sono indicati tutti i
tentativi che ha fatto quella persona per trovarlo, prima che
denunciasse l’associazione; ma qui a Parigi abbiamo perso le tracce.
L’ultima
casa dove ha abitato era in rue du Temple, al n. 14, sotto il nome
di François Germain; nel mio portafoglio potrete trovare anche
questo indirizzo... Vedete, ho detto tutto, tutto... Mantenete la
vostra promessa, fatemi arrestare solo per il furto di questa sera.»
«E il mercante di bestiame di Poissy?»
«È impossibile che lo scoprano, non ci sono prove. A voi lo confesso
volentieri per dimostrare la mia buona volontà; ma davanti al
giudice negherei...»
«Lo confessi allora?»
«Ero in miseria, non sapevo come campare... È stata la Chouette a
consigliarmi... Adesso mi pento... potete constatarlo, dato che
confesso... Ah, se foste tanto generoso da non consegnarmi alla
giustizia, vi darei la mia parola d’onore di non ricominciare.»
«Vivrai... e non ti consegnerò alla giustizia.»
«Mi perdonate?» esclamò il Maître d’école non credendo alle proprie
orecchie; «mi perdonate?»
«Ti giudico... e ti punisco!» gridò Rodolphe con voce tonante. «Non
ti consegno alla giustizia, perché andresti in galera o sul
patibolo, non è quello che ti ci vuole... no, non è quello che ti ci
vuole... In galera! per tornare a dominare quella massa con la forza
e la malvagità! per tornare a soddisfare il tuo istinto di
oppressore brutale!... per essere aborrito, temuto da tutti; perché
il delinquente ha un suo orgoglio, e tu, nella tua mostruosità, sei
contento!... In galera! no, no: il tuo corpo di acciaio sfida le
fatiche della galera e il bastone degli aguzzini. E poi le catene si
possono rompere, i muri sfondare, i bastioni scalare; e un giorno o
l’altro potresti ancora, infrangendo la legge, trovarti a piè libero
e azzannare ancora la gente come una belva furiosa, lasciando sul
tuo passaggio i segni della rapina e del delitto... perché nulla può
sfuggire alla tua forza erculea e al tuo coltello; e questo non deve
accadere... no, non deve accadere! Poiché in galera torneresti a
spezzare la catena... che fare per garantire la società contro la
tua furia? Consegnarti al boia?»
«Allora volete la mia morte?» gridò il Maître d’école, «la mia
morte?»
«La tua morte! non sperarlo... sei così vigliacco, la temi tanto...
la morte... che mai la crederesti imminente! Con il tuo attaccamento
alla vita, con il tuo ostinato sperare, riusciresti a sfuggire alle
angosce della sua terribile venuta! Speranza sciocca, insensata!...
non importa... essa riuscirebbe a nasconderti l’orribile espiazione
del supplizio a cui non crederesti che sotto la scure del boia! E
allora, abbrutito dal terrore, non saresti più che una mas-
sa inerte, insensibile che verrebbe offerta in olocausto in mano
delle tue vittime... Non è possibile... potresti credere fino
all’ultimo di salvarti... Tu, mostro... sperare? Come! la speranza
sarebbe venuta a portare entro i muri della tua cella le sue dolci e
consolanti visioni.., finché la morte non ti avrà velato la
pupilla?... Suvvia!... il vecchio Satana si divertirebbe troppo!...
Se non ti penti... non voglio che tu speri in questa vita, io...»
«Ma che cosa ho fatto a quest’uomo?... chi è? che cosa vuole da me?
dove sono?...» gridò il Maître d’école quasi in delirio.
Rodolphe continuò:
«Se invece tu affrontassi la morte con spavalderia non dovresti
neppure in questo caso essere condotto al supplizio... Per te il
patibolo sarebbe la macabra scena in cui, come tanti altri, faresti
sfoggio della tua ferocia... dove, senza darti pensiero della tua
vita sciagurata, ti danneresti l’anima con un’ultima bestemmia!...
Nemmeno questo ti ci vuole... Non è bello che la gente veda un
condannato scherzare con la mannaia, schernire il boia e spegnere
con una sghignazzata la scintilla divina che il Creatore ha messo in
noi... La salvezza di un’anima è una cosa sacrosanta. Ogni delitto
può essere espiato e riscattato, ha detto il Salvatore, ma da chi
cerca sinceramente espiazione e pentimento. È troppo breve il passo
dal tribunale al patibolo. Non devi morire così.»
Il Maître d’école era annientato... Per la prima volta nella sua
vita ci fu qualcosa che gli fece più paura della morte... Quel
timore imprecisato era orribile...
Il dottore negro e lo Chourineur guardavano Rodolphe con angoscia,
ascoltavano fremendo la sua voce sonora, tagliente, implacabile come
la lama di una scure; sentivano i loro cuori stringersi
dolorosamente.
Rodolphe continuò:
«Anselme Duresnel, non andrai in galera... non morirai...» «Ma che
volete da me? è proprio l’inferno che vi manda?» «Ascolta...» disse
Rodolphe alzandosi con aria solenne e dando
al suo gesto un’autorità minacciosa: «Hai usato la tua forza per
uccidere... io paralizzerò la tua forza... I più forti tremavano
davanti a te... tu tremerai davanti ai più deboli... Assassino...
Hai gettato alcune creature di Dio nella notte eterna... le tenebre
dell’eternità cominceranno per te in questa vita... oggi... fra
poco... La punizione insomma sarà pari ai tuoi delitti... Ma»
aggiunse Rodolphe, con addolorata pietà, «questa spaventosa
punizione non ti toglierà almeno l’orizzonte sconfinato
dell’espiazione... Sarei un criminale pari tuo, se, punendoti,
soddisfacessi solo la mia sete di vendetta,
per quanto giusta fosse... Lungi dall’essere sterile come la
morte... la punizione dovrà essere feconda; lungi dal dannarti...
potrà redimerti... Se, onde porti nell’impossibilità di nuocere...
ti privo per sempre delle bellezze della natura... se ti precipito
in una notte impenetrabile... solo... con il ricordo dei tuoi
misfatti... lo faccio affinché tu non smetta mai di contemplarne
l’enormità... Sì... isolato per sempre dal mondo esteriore, sarai
costretto a guardare in te... e allora spero che la tua fronte,
bollata dall’infamia, arrossirà di vergogna... che il tuo animo reso
insensibile dalla ferocia... intaccato dal delitto... s’intenerirà
per pietà... ogni tua parola è una bestemmia... ogni tua parola sarà
una preghiera... Sei audace e crudele perché sei forte... sarai
dolce e umile perché sarai debole... Il tuo cuore è chiuso al
pentimento... un giorno piangerai le tue vittime... Hai avvilito
l’intelligenza che Dio ti aveva dato facendola diventare istinto di
rapina e di delitto... da uomo sei diventato bestia selvatica... un
giorno la tua intelligenza sarà ritemprata dal rimorso, nobilitata
dall’espiazione... Tu non hai rispettato nemmeno quello che
rispettano le bestie feroci... la loro femmina e i loro piccoli...
Dopo una lunga vita consacrata alla redenzione dei tuoi delitti, la
tua ultima preghiera sarà per supplicare Dio di concederti
l’insperata felicità di morire tra tua moglie e tuo figlio.»
Dicendo queste ultime parole la voce di Rodolphe s’era fatta mesta e
commossa.
Il Maître d’école non aveva quasi più paura... Pensò che Rodolphe
prima di fargli la morale avesse voluto spaventarlo. Tranquillizzato
quasi dal tono pacato del suo giudice, il brigante, diventato tanto
più insolente in quanto era meno spaventato, disse alla fine d’una
grassa risata:
«Oh bella! risolviamo sciarade o siamo a catechismo qui?...»
Il negro guardò Rodolphe con inquietudine; si aspettava uno scoppio
di furore da parte sua.
Ma non fu così... il giovane scosse la testa con un’ineffabile
espressione di tristezza, e disse al dottore:
«David, fate pure... Se sbaglio, che Dio punisca me solo!...»
E Rodolphe si nascose il viso tra le mani...
Alle parole «David, fate pure», il negro suonò.
Entrarono due uomini vestiti di nero. Il dottore, con un segno,
mostrò loro la porta di uno stanzino laterale.
I due uomini vi spinsero dentro la poltrona dove il Maître
d’école era legato in modo da non poter fare nessun movimento. La
testa era tenuta ferma allo schienale da una fascia che gli
circondava il collo e le spalle.
«Legategli la fronte alla poltrona con un fazzoletto e poi
imbavagliatelo» disse David, senza entrare nello stanzino.
«Volete sgozzarmi, adesso?... pietà!...» disse il Maître d’école
«pietà!... e...»
E seguì poi un mormorio confuso.
I due uomini riapparvero... Il dottore fece un segno ed essi
uscirono.
«Mio signore?...» disse ancora una volta il negro a Rodolphe con
aria interrogativa.
«Fate» rispose Rodolphe senza muoversi.
David entrò a passi lenti nello stanzino.
«Signor Rodolphe, ho paura» disse lo Chourineur pallidissi-
mo e tutto tremante. «Signor Rodolphe, dite qualcosa... ho paura...
sto forse sognando? Ma che cosa sta facendo mai il negro al Maître
d’école? Signor Rodolphe, non si sente niente... Ho ancora più
paura.»
David uscì dallo stanzino; era pallido come possono esserlo i negri.
Aveva le labbra bianche.
Suonò.
I due uomini riapparvero.
«Riportate qui la poltrona.»
Ricondussero il Maître d’école.
«Levategli il bavaglio.»
Glielo tolsero.
«Volete mettermi alla tortura, allora?...» gridò il Maître più
con ira che con dolore. «Perché vi siete divertito a pungermi gli
occhi così?... Mi avete fatto male... Avete spento le luci anche qui
come nello stanzino perché volete torturarmi ancora al buio?...»
Seguì un istante di spaventoso silenzio.
«Siete cieco...» disse finalmente David con voce rotta.
«Non è vero! Non è possibile! Avete fatto buio apposta!...» gri-
dò il brigante, facendo sforzi violenti sulla poltrona.
«Scioglietelo, che si alzi, che cammini» disse Rodolphe.
I due uomini sciolsero i legami.
Il Maître d’école si alzò bruscamente, fece un passo con le
mani tese davanti a sé, poi ricadde sulla poltrona con le braccia
alzate al cielo.
«David, dategli il portafogli» disse Rodolphe.
Il negro mise nelle mani tremanti del Maître d’école un piccolo
portafogli.
«In questo portafogli c’è denaro sufficiente per pagarti una
casetta... e comperarti da mangiare... fino alla fine dei tuoi
giorni
in qualche posto solitario. Adesso sei libero... vattene... e
pentiti... il Signore è misericordioso!»
«Cieco!» ripeté il Maître d’école senza far caso al portafogli che
aveva in mano.
«Aprite le porte... che se ne vada!» disse Rodolphe. Le porte furono
aperte con gran rumore.
«Cieco! cieco! cieco!!!» ripeté il brigante annientato.
«Dio mio! è proprio vero!»
«Sei libero, hai il denaro, vattene!»
«Ma non posso andarmene! Come volete che faccia? non ci
vedo più!!!» gridò, disperato. «Ma è un delitto spaventoso abusare
della propria forza per...»
«È un delitto spaventoso abusare della propria forza!» ripeté con
tono solenne Rodolphe interrompendolo.
«E tu, che cosa hai fatto della tua forza?»
«Oh! la morte... Sì, avrei preferito la morte!» gridò il Maître
d’école. «Essere alla mercé di tutti, aver paura di tutto! Ora anche
un fanciullo potrebbe picchiarmi! Che fare? Dio mio, Dio mio! che
fare?»
«Hai il denaro.»
«Me lo ruberanno!» disse il brigante.
«Te lo ruberanno! Le senti queste parole... che dici con paura,
tu che hai rubato? Vattene.»
«Per l’amor di Dio» disse il Maître d’école supplichevole, «che
qualcuno mi guidi! Come farò per la strada?... Ah! uccidetemi!
guardate, uccidetemi! ve lo chiedo per pietà... uccidetemi!»
«No, un giorno ti dovrai pentire.»
«Mai, mai mi pentirò!» gridò il Maestro con rabbia. «Oh! mi
vendicherò! sì... mi vendicherò!...»
E, digrignando i denti dalla rabbia, si alzò dalla poltrona,
minacciando con i pugni chiusi.
Ma al primo passo, inciampò.
«No, no, non potrò mai!... ed essere ancora così forte! Ah, come
sono disgraziato... Nessuno ha pietà di me, nessuno.»
E pianse.
È impossibile descrivere la paura, lo stupore dello Chourineur
durante quella scena terribile: la sua faccia selvaggia e rude
esprimeva la compassione. A un certo momento si avvicinò a Rodolphe
e gli disse sottovoce:
«Signor Rodolphe, questo forse se l’è meritato... era un brigante
famigerato! poco fa ha tentato anche di uccidermi; ma adesso è
cieco, piange. Sì, insomma, mi fa pena... non sa come fare per
uscire di
qui. Per la strada, potrebbero schiacciarlo. Permettetemi di
accompagnarlo in qualche posto dove almeno possa stare tranquillo!»
«Va bene...» disse Rodolphe, commosso da tanta generosità, prendendo
la mano allo Chourineur; «va’ pure...»
Lo Chourineur si avvicinò al Maître d’école e gli mise una mano
sulla spalla.
Il malandrino trasalì.
«Chi mi tocca?» disse con voce sorda.
«Io...»
«Io, chi?»
«Lo Chourineur.»
«Vieni a vendicarti anche tu, vero?»
«Non sei capace di uscire!... aggrappati al mio braccio... ti gui-
derò io.» «Tu! tu!»
«Sì, mi fai pena... adesso; vieni!»
«Vuoi tendermi un tranello?»
«Sai bene che non sono un vigliacco... non approfitterei mai
della tua disgrazia. Su, andiamo, è quasi giorno.»
«È giorno!!! ah, io non vedrò mai più quando sarà giorno!»
esclamò il Maître d’école.
Rodolphe, non potendo più sopportare quello spettacolo, se
ne andò bruscamente, seguito da David, dopo aver fatto segno ai due
domestici di ritirarsi.
Lo Chourineur e il Maître d’école rimasero soli.
«È vero che ci sono i soldi nel portafogli che mi hanno dato?» disse
l’assassino, dopo un lungo silenzio.
«Sì, ci ho messo io stesso cinquemila franchi. Con una somma così
potrai andare a pensione da qualche parte, in qualche angolo, in
campagna, per il resto dei tuoi giorni... oppure vuoi che ti
accompagni dall’ostessa?»
«No, mi deruberebbe.»
«Da Bras-Rouge?»
«Mi darebbe il veleno per derubarmi!»
«E allora dove vuoi che ti accompagni?»
«Non so. Tu, Chourineur, non sei un ladro. Ecco, nascondimi
bene il portafogli nella giacca, perché se la Chouette lo vedesse,
me lo porterebbe via.»
«La Chouette? L’hanno portata all’ospedale Beaujon. Questa notte,
nella lotta contro voi due, le ho deformato una gamba.»
«Ma che cosa sarà di me? Dio mio! che cosa ne sarà di me adesso che
ho questa tela nera lì, sempre davanti a me! E se su
questa tela nera vedessi apparire le facce pallide e smorte di
coloro...»
Sussultò:
«L’uomo di questa notte è morto?» chiese con voce sorda allo
Chourineur.
«No.»
«Meglio così!»
E il brigante restò per un po’ silenzioso, poi a un tratto escla-
mò tremante di rabbia:
«Sei proprio tu, Chourineur che mi sei costato questo! Ma-
scalzone... se non c’eri tu ammazzavo l’uomo e portavo via il
denaro. Se sono cieco, è colpa tua! sì, è colpa tua!»
«Non ci pensare più, non è salutare per te. Su, vieni sì o no?...
sono stanco, ho voglia di dormire. Oggi ci siamo divertiti
abbastanza. Domani torno alla mia solita vita. Ti porterò dove
vorrai, poi andrò a dormire.»
«Ma io non so dove andare. Nella mia stanza... non oso... dovrei
dire...»
«Ebbene! ascolta: vuoi venire per un giorno o due nella mia
stamberga? Potrei forse trovare moltissima gente onesta che, non
sapendo chi sei, ti prenderà a pensione in casa propria, come un
infermo... Guarda... c’è proprio un uomo del porto Saint-Nicolas che
conosco, la cui madre abita a Saint-Mandé; una degna donna, non
troppo fortunata. Lei forse potrebbe prendersi cura di te... E
allora vieni sì o no?»
«Di te, Chourineur, c’è da fidarsi. Non ho paura di venire a casa
tua col denaro. Non hai mai rubato, tu... tu non sei cattivo, sei
generoso.»
«Va bene, su, basta con questi epitaffi.»
«Ti sono riconoscente, Chourineur, del fatto che vuoi farmi del
bene. Non hai né odio né rancore, tu...» disse il brigante
umilmente, «vali molto più di me.»
«Perdio! lo credo bene; il signor Rodolphe mi ha detto che ho un
cuore.»
«Ma chi è quell’uomo? Non è un uomo,» gridò il Maître d’école in
preda a un nuovo accesso di disperato furore, «è un carnefice! un
mostro!»
Lo Chourineur alzò le spalle e disse: «Andiamo?»
«Andiamo a casa tua, vero, Chourineur?»
«Sì.»
«Mi giuri che non mi serbi rancore per questa notte, me lo
giuri?»
«Sì.»
«E sei sicuro che non sia morto... l’uomo?»
«Ne sono sicuro.»
«Sarà sempre uno di meno» disse l’assassino con voce sorda. E
appoggiandosi al braccio dello Chourineur, uscì dalla casa
dell’allée des Veuves.
PARTE SECONDA
I L’ÎLE-ADAM
Era passato un mese dagli avvenimenti che abbiamo descritto.
Trasporteremo il lettore nella cittadina dell’Île-Adam che sorge in
una posizione incantevole, sulle rive dell’Oise, al limite di una
foresta.
I fatterelli diventano in provincia avvenimenti. Per questo gli
sfaccendati dell’Île-Adam che quella mattina bighellonavano sulla
piazza della chiesa, erano molto curiosi di sapere quando sarebbe
arrivato il compratore della più bella macelleria della città, che
la proprietaria, la vedova Dumont, aveva da poco ceduto.
Il compratore doveva essere sicuramente ricco: perché aveva fatto
dipingere e preparare splendidamente la bottega. Gli operai vi
avevano lavorato giorno e notte per tre settimane. Una bella
inferriata di bronzo dorato occupava tutto il vano della porta della
macelleria e la proteggeva senza ostacolare la circolazione
dell’aria. Ai lati dell’inferriata c’erano due larghe colonne, con
in cima due grosse teste di toro con le corna d’oro; le colonne
sorreggevano la grande cornice destinata a ricevere l’insegna della
bottega. Il resto della casa, che era a un solo piano, era stato
dipinto di un color pietra; le persiane, di un grigio chiaro. I
lavori erano terminati, mancava solo che si esponesse l’insegna,
cosa attesa con impazienza dagli sfaccendati, desiderosissimi di
conoscere il nome del successore della vedova.
Finalmente, gli operai portarono un grande cartello dove i curiosi
poterono leggere scritto a caratteri d’oro su fondo nero:
«Macelleria Francoeur».
L’informazione non soddisfece che parzialmente la curiosità degli
sfaccendati dell’Île-Adam. Chi era il signor Francoeur? Uno dei più
curiosi andò a informarsi dal garzone della macelleria, un ragazzo
con la faccia allegra e aperta che stava premurosamente dando gli
ultimi ritocchi alla vetrina.
Il ragazzo, alle domande, rispose dicendo di non conoscere ancora il
signor Francoeur, suo padrone, perché la macelleria era stata
acquistata per procura; ma il garzone era sicuro che il padrone
avrebbe fatto di tutto per accattivarsi come clienti i signori
abitanti dell’Île-Adam.
Questo piccolo complimento buttato lì con squisita cordialità e il
bell’aspetto della bottega disposero favorevolmente i curiosi verso
il signor Francoeur; alcuni anzi promisero subito al garzone di
diventare clienti della macelleria.
La casa aveva una porta carraia che dava sulla rue de l’Eglise.
Due ore dopo l’apertura della macelleria, un carrettino nuovo
fiammante, tirato da un bravo e robusto cavallo percheron, entrò nel
cortile della macelleria; ne discesero due uomini.
Uno era Murph, completamente guarito dalla ferita, anche se ancora
pallido; l’altro era lo Chourineur.
Col rischio di ripetere una frase convenzionale, diremo che sotto i
vestiti che portava, il frequentatore delle bettole della Cité era
quasi irriconoscibile, tanto e tale è il potere dell’abito.
Il volto aveva subìto lo stesso cambiamento: con gli stracci lo
Chourineur aveva deposto quella sua aria selvaggia, brutale e
turbolenta; a vederlo camminare con le mani nelle tasche della lunga
e grossa prefettizia di castorino color nocciola, col mento rasato
di fresco nascosto entro una sciarpa bianca ricamata agli angoli, lo
si sarebbe preso per l’uomo più tranquillo di questo mondo.
Murph attaccò la cavezza del cavallo a un anello di ferro infisso
nel muro e fece segno allo Chourineur di seguirlo; entrarono in una
stanzuccia bassa, con mobili in noce, che faceva da retrobottega; le
due finestre che c’erano davano sul cortile dove il cavallo
scalpitava impaziente. Murph sembrava a casa propria; infatti aprì
un armadio, tirò fuori una bottiglia di acquavite con un bicchiere,
poi disse allo Chourineur:
«Poiché stamane, ragazzo, fa molto freddo, penso che berrete
volentieri un po’ d’acquavite.»
«Se non vi dispiace, signor Murph... non berrò.»
«Non volete?»
«No, sono troppo contento e la gioia mette calore. Con ciò,
quando dico contento... forse.»
«Come mai?»
«Ieri siete venuto a cercarmi al porto di Saint-Nicolas, dove
scaricavo legna con lena per scaldarmi. Non vi vedevo dalla notte...
in cui il negro dai capelli bianchi aveva accecato il Maître
d’école. Era la prima cosa che non fosse lui a rubare, è vero... ma
insomma... accidenti, ero sconvolto. E il signor Rodolphe, che
faccia! lui che sembrava tanto buono, in quel momento mi ha fatto
paura.»
«Bene, bene... e dopo?»
«Dopo voi m’avete detto: “Buongiorno, Chourineur”. “Buongiorno
signor Murph. Eccovi in piedi!... meglio così, diavolo!... meglio
così. E il signor Rodolphe?” “È stato costretto a partire qualche
giorno dopo l’affare dell’allée des Veuves e si è dimenticato di
voi, ragazzo.” “Ebbene, signor Murph”, vi rispondo io, “che il
signor Rodolphe mi abbia dimenticato, vero... mi dispiace molto.”»
«Volevo dire, amico, che si era dimenticato di ricompensare i vostri
servigi; ma se ne ricorderà sempre.»
«Così, signor Murph, quelle parole mi hanno subito rincuorato.
Accidenti! io certo non lo dimenticherò mai!... Mi ha detto che ho
un cuore e un onore... insomma basta.»
«Purtroppo, ragazzo, sua signoria è partito senza lasciare
disposizioni nei vostri riguardi; io possiedo solo quello che mi dà
sua signoria: non posso ripagare come vorrei... quello che vi devo
per parte mia.»
«Via, signor Murph, voi volete scherzare.»
«Ma perché diamine non siete più ritornato all’allée des Veuves dopo
quella brutta notte? Sua signoria si sarebbe ricordato di voi prima
di partire.»
«Insomma... il signor Rodolphe non mi ha fatto cercare. Ho creduto
che non avesse più bisogno di me.»
«Ma dovevate pur pensare che sentisse almeno il bisogno di mostrarvi
la sua riconoscenza.»
«Dal momento che, signor Murph, mi avete detto che il signor
Rodolphe non si è dimenticato di me!»
«Va bene, su, non parliamone più. Solo che ho faticato molto per
trovarvi... Non andate più dall’ostessa?»
«No.»
«Come mai?»
«Così, idee mie... sciocchezze.»
«Meno male; ma torniamo a quello che stavate dicendo.»
«A che cosa, signor Murph?»
«Mi stavate dicendo: “Sono contento di avervi incontrato; e
ancora, contento... forse”.»
«Adesso mi ricordo, signor Murph. Ieri, quando siete ve-
nuto dove scarico il legname, mi avete detto: “Ragazzo, io non
sono ricco, ma posso farvi avere un posto dove faticherete meno che
al porto, e che vi farà guadagnare quattro franchi al giorno”.
Quattro franchi al giorno... benissimo! Non potevo crederci: una
paga da sottufficiale! Vi rispondo: “Ci sto, signor Murph”. “Ma” voi
mi dite, “non dovete vestire come un pezzente, perché potreste
spaventare i signori che vi presenterò.” Io vi rispondo: “Non ho
altro da mettermi”. Voi mi dite: “Venite al Temple”. Io vi seguo;
scelgo quello che comare Hubart ha di più fiammante, mi anticipate i
soldi per pagare, e, in un quarto d’ora, sono agghindato come un
proprietario o come un dentista. Ho appuntamento con voi alla porta
per questa mattina all’alba; all’appuntamento vi trovo con il vostro
carrettino, e ora eccoci qui.»
«Or bene, che cosa c’è di brutto in tutto questo?»
«C’è che... a esser ben messi, vedete signor Murph, ci si rovina, e
quando poi tornerò a rimettermi il vecchio camiciotto e gli stracci,
mi farà uno strano effetto. E poi... guadagnare quattro franchi al
giorno, io che ne guadagno due... così a un tratto, per giunta... mi
sa che è troppo bello e che non può durare; e preferirei dormire per
tutta la vita sul brutto pagliericcio della mia stamberga, piuttosto
che dormire cinque o sei notti in un buon letto. Sono fatto così,
io.»
«Non è del tutto sbagliato. Ma meglio di tutto sarebbe dormire
sempre in un buon letto.»
«Chiaro, è meglio avere pane finché si vuole piuttosto che crepare
di fame. Ah, questa poi! c’è una macelleria qui?» disse lo
Chourineur, che aveva sentito il garzone battere la mannaia e visto
i quarti di manzo attraverso le tende.
«Sì, buon uomo; appartiene a un mio amico. Volete che diamo
un’occhiata intanto che il cavallo riprende fiato?»
«Oh sì, volentieri; mi ricorda quand’ero giovane... solo che allora
il mio macello era Montfaucon e il mio bestiame da macello i vecchi
ronzini. È strano, se avessi avuto i mezzi, quello del macellaio è
un mestiere che comunque mi sarebbe piaciuto molto! Andarsene su un
buon puledrino a comprar bestie alla fiera, ritornare a casa propria
accanto al fuoco, scaldarsi se si ha freddo, asciugarsi se si è
bagnati e trovare la propria brava donna, una buona grassona fresca
e gioviale, con una nidiata di bambini che vi frugano nelle tasche
per vedere se avete portato loro qualcosa. E la mattina, nel
mattatoio, abbrancare un bue per le corna... specialmente quando è
cattivo, dio d’un dio!... bisogna che sia cattivo... attaccarlo
all’anello, abbatterlo, squartar-
lo, pulirlo... Caspita, sarebbe stata la mia più grande ambizione,
come per la Goualeuse quand’era piccola mangiare lo zucchero
d’orzo... A proposito, signor Murph... quando non ho più visto la
povera ragazza tornare dall’ostessa, ho pensato che il signor
Rodolphe l’avesse portata via di lì. Ecco, questa sì che è una buona
azione, signor Murph. Povera ragazza! lei non voleva fare del
male... Era così giovane! e poi... l’abitudine... Insomma il signor
Rodolphe ha fatto bene.»
«Sono d’accordo con voi. Ma volete venire a visitare la bottega,
mentre aspettiamo che il cavallo prenda fiato?»
Lo Chourineur e Murph entrarono nella bottega, poi andarono a vedere
la stalla dove erano rinchiusi tre magnifici buoi e una ventina di
montoni; poi la scuderia, la rimessa, il mattatoio, i magazzini e
gli annessi della casa, che era tenuta con cura e pulizia, indizi di
ordine e di benessere.
Quando ebbero visto tutto, fuorché il piano superiore:
«Dovete ammettere» disse Murph, «che il mio amico è un uomo molto
fortunato. La casa e la bottega sono sue, senza contare il migliaio
di scudi circolante necessario al suo commercio; inoltre, trentotto
anni, forte come un toro, una salute di ferro, ed entusiasta del suo
mestiere. Quando va alla fiera a comperare le bestie, ne fa le veci
il bravo e onesto ragazzo che avete visto prima. Non è vero che il
mio amico è molto fortunato?»
«Ah, certo, signor Murph. Ma che volete? ci sono i fortunati e gli
sfortunati; quando penso che fra poco guadagnerò quattro franchi al
giorno, e che c’è gente che ne guadagna la metà, o meno...»
«Volete salire a vedere il resto della casa?»
«Volentieri, signor Murph.»
«Il signore che deve assumervi si trova proprio di sopra.» «Il
signore che deve assumermi?»
«Sì.»
«Oh bella, perché poi non me l’avete detto prima?»
«Ve lo spiegherò dopo.»
«Un momento» disse lo Chourineur triste e imbarazza-
to, prendendo Murph per un braccio; «sentite, devo dirvi una cosa...
che il signor Rodolphe forse non vi ha detto... ma che io non devo
nascondere al padrone che vuole assumermi... perché se questo non
gli va, tanto vale che sia subito anziché dopo.»
«Cosa volete dire?» «Voglio dire...»
II
LA RICOMPENSA
«Evviva! sono maledettamente contento di ritrovarvi, signor
Rodolphe, o meglio mio signore» esclamò lo Chourineur.
Provava una vera gioia nel rivedere Rodolphe; perché i cuori
generosi si affezionano sia in virtù dei servigi che fanno che in
virtù di quelli che son fatti loro.
«Buongiorno, ragazzo; anch’io sono felice di vedervi.»
«Che burlone il signor Murph! aveva detto che eravate partito. Ma
state a sentire, mio signore...»
«Chiamatemi signor Rodolphe, mi piace di più.»
«Ebbene, signor Rodolphe, scusate se non son più venuto da voi dopo
la notte del Maître d’école... Adesso capisco che ho fatto una
sgarberia; ma insomma, non me ne vorrete, vero?»
«Vi scuso» disse Rodolphe sorridendo. Poi aggiunse:
«Murph vi ha fatto vedere la casa?»
«Sì, signor Rodolphe; bella abitazione, bella bottega; cose da
ricchi, fatte con cura. A proposito di ricchi, fra poco, signor
Rodolphe, lo diventerò anch’io: il signor Murph mi fa guadagnare
quattro franchi al giorno... quattro franchi!»
«Ho qualcosa di meglio da proporvi, ragazzo.»
«Oh! di meglio... senza volervi contraddire, è difficile.» «Quattro
franchi al giorno!»
«Vi dico che ho da proporvi di meglio: perché la casa, quanto
c’è in essa, la bottega e i mille scudi che sono in questo
portafogli, è tutta roba vostra.»
Lo Chourineur sorrise stupidamente, strinse convulsamente le
ginocchia prendendo in mezzo e schiacciando il peloso cappello di
castoro, e finì col non capire niente di quello che Rodolphe gli
diceva, sebbene le parole di quest’ultimo fossero molto chiare.
Poi Rodolphe riprese con benevolenza:
«Capisco la vostra sorpresa; ma vi ripeto che questa casa e questo
denaro sono vostri, sono di vostra proprietà.»
Lo Chourineur diventò di fuoco, si passò la mano callosa sulla
fronte madida di sudore e balbettò con voce alterata:
«Oh, cioè... cioè..., mia proprietà...»
«Sì, proprietà vostra dal momento che io vi faccio dono di tutto.
Capite! vi faccio dono di tutto, a voi...»
Lo Chourineur si agitò sulla sedia, si grattò la testa, tossì,
abbassò gli occhi e non rispose. Si sentiva sfuggire il filo delle
idee. Capiva perfettamente quello che gli diceva Rodolphe e appunto
per questo non poteva credere alle proprie orecchie. Fra la profonda
miseria, la degradazione in cui era sempre vissuto e la posizione
che gli assicurava Rodolphe, c’era un abisso che non poteva essere
colmato nemmeno dal servizio che egli aveva reso a Rodolphe.
In attesa del momento in cui il suo protetto avrebbe aperto gli
occhi, Rodolphe stava a godersi deliziosamente quello stupore, quel
beato stordimento.
Notava, con una mescolanza di gioia e d’amarezza indicibili, che in
certi uomini l’abitudine alla sofferenza e alla sventura è tale, che
la loro ragione si rifiuta d’ammettere la possibilità di un avvenire
che costituirebbe per molti un’esistenza assai poco allettante.
«Certo» egli pensava, «se mai l’uomo ha rapito, sull’esempio di
Prometeo, qualche scintilla alla divinità, è nei momenti in cui fa
(ci sia perdonata questa bestemmia!) quello che la Provvidenza
dovrebbe fare di tanto in tanto per edificare il mondo: provare ai
buoni e ai cattivi che c’è ricompensa per gli uni, punizione per gli
altri.»
Dopo aver gioito ancora un po’ del beato inebetimento dello
Chourineur, Rodolphe continuò:
«Trovate che quel che vi do vada molto al di là delle vostre
speranze?»
«Mio signore!» disse lo Chourineur alzandosi bruscamente, «voi mi
offrite questa casa con molto denaro... per tentarmi; ma io non
posso.»
«Che cosa non potete?» chiese Rodolphe stupito.
Lo Chourineur si animò in volto, la sua vergogna cessò, disse con
fermezza:
«Lo so che non mi offrite tanto denaro per spingermi a rubare.
D’altronde, non ho mai rubato in vita mia... Forse, è per
uccidere... ma ne ho già abbastanza del sogno del sergente!»
aggiunse lo Chourineur con voce cupa.
«Ah, questi infelici!» esclamò Rodolphe con amarezza. «La
compassione che si ha per loro è veramente un fatto così insolito
che non si possa vedere la generosità se non alla luce di fini
criminosi?»
Poi si rivolse alla Chourineur e gli disse con voce piena di
dolcezza:
«Voi mi giudicate male... vi ingannate, non esigerò nulla da voi che
non sia cosa onesta. Quello che vi do, ve lo do perché lo meritate.»
«Io!» esclamò lo Chourineur ripreso da nuovo stupore, «lo merito, e
come mai?»
«Ve lo dirò subito: senza nozione del bene e del male, abbandonato
ai vostri istinti selvaggi, rinchiuso per quindici anni in galera in
compagnia dei peggiori scellerati, pungolato dalla miseria e dalla
fame, costretto dalla vostra stessa infamia e dalla riprovazione
della gente onesta a frequentare la feccia dei malfattori, non solo
siete rimasto integro, ma anche il rimorso del vostro delitto è
sopravvissuto all’espiazione che la giustizia umana vi aveva
imposto.»
Questo linguaggio semplice e nobile fu una nuova fonte di meraviglia
per lo Chourineur. Egli guardava Rodolphe con un rispetto misto a
timore e riconoscenza. Ma non poteva ancora arrendersi all’evidenza.
«Ma come, signor Rodolphe, perché mi avete bastonato, perché,
credendovi un operaio dato che parlavate il gergo come pochi lo
parlano, vi ho raccontato la mia vita fra un bicchiere e l’altro, e
perché dopo di ciò non vi ho lasciato annegare... Voi, come mai?
Insomma, io... una casa... i soldi... io come un signore... Sentite,
signor Rodolphe, vi ripeto che non è possibile.»
«Credendomi uno dei vostri, mi avete raccontato la vostra vita con
naturalezza, senza fingere, senza nascondere ciò che c’era stato in
essa di colpevole e di generoso. Vi ho giudicato... giudicato bene,
e mi piace ricompensarvi.»
«Ma, signor Rodolphe, non può essere. No, insomma ci sono dei poveri
operai che sono stati onesti per tutta la vita, e che...»
«Lo so, e per parecchi di questi ho fatto forse più di quanto faccio
per voi. Ma se colui che resta onesto in mezzo alla gente onesta da
cui è stimato merita interessamento e appoggio, interessamento e
appoggio merita anche colui che, sebbene lontano dalla gente onesta,
riesce a mantenersi tale in mezzo agli scellerati più abominevoli
della terra. D’altra parte, non è tutto: voi m’avete salvato la vita
e l’avete salvata anche a Murph, il mio più caro amico. Quello che
faccio per voi mi è stato quindi dettato tanto dalla riconoscenza
personale quanto dal desiderio di togliere dal fango una natura
buona e forte che si era smarrita ma non perduta... E non è ancora
tutto.»
«Che cos’ho fatto ancora, signor Rodolphe?»
Rodolphe gli prese cordialmente la mano e gli disse:
«Mosso a pietà da un uomo che poco prima aveva tentato di uc-
cidervi, gli avete offerto il vostro aiuto; gli avete perfino dato
asilo nella vostra povera abitazione, al n. 9 dell’impasse
Notre-Dame.»
«Sapevate dove abitavo, signor Rodolphe?»
«Se voi dimenticate i servigi resi, io no che non li dimentico.
Quando siete uscito da casa mia vi ho fatto seguire; vi hanno visto
entrare a casa vostra con il Maître d’école.»
«Ma se il signor Murph mi aveva detto che voi, signor Rodolphe, non
sapevate dove stavo.»
«Volevo tentare un’ultima prova su di voi, volevo sapere se la
vostra generosità era disinteressata. Infatti, dopo la vostra
generosa azione, siete ritornato al pesante lavoro di ogni giorno
senza chiedere nulla, senza sperare nulla, senza nemmeno una parola
d’amarezza per l’apparente ingratitudine con cui avevo misconosciuto
i vostri servigi; e quando ieri Murph vi ha offerto un’occupazione
un po’ meglio retribuita del vostro lavoro abituale, avete accettato
con gioia, con riconoscenza.»
«Sentite, signor Rodolphe, in quanto a questo, quattro franchi al
giorno sono sempre quattro franchi al giorno. In quanto ai servizi
che vi ho reso, spetta piuttosto a me esservene grato.»
«E perché mai?»
«Sì, sì, signor Rodolphe» aggiunse con aria triste, «mi sono tornate
in mente certe cose... perché, da quando vi conosco e mi avete detto
quelle due parole: “Hai ancora un CUORE e un ONORE”, è sorprendente
quante riflessioni faccio. È proprio strano che due parole, due sole
parole facciano tanto. Ma, in fondo, seminate due piccoli chicchi di
grano da nulla nella terra e dopo un po’ spunteranno due belle
spighe.»
Il paragone, giusto e poetico quasi, colpì Rodolphe. Infatti, due
parole, ma due parole potenti e magiche per chi sa capirle, avevano
fatto germogliare quasi all’improvviso gli istinti buoni e generosi
che in germe esistevano in quella forte natura.
«Vedete, mio signore» riprese lo Chourineur, «ho salvato voi, signor
Rodolphe, e in parte il signor Murph, è vero, ma potrei salvarne
centinaia, migliaia, che non riuscirei a restituire alla vita
coloro...»
E lo Chourineur abbassò la testa incupito.
«Il vostro rimorso è salutare, ma una buona azione conta sempre.»
«E poi, in ciò che avete detto al Maître d’école a proposito degli
assassini, c’erano cose che potevano andare per me, sia in male che
in bene.»
Per distogliere lo Chourineur dal corso dei suoi pensieri, Rodolphe
gli disse:
«Siete stato voi a sistemare il Maître d’école a Saint-Mandé?»
«Sì, signor Rodolphe... Mi aveva fatto cambiare i suoi biglietti di
banca e comperare una cintura che gli ho cucito addosso... e dentro
ci ho messo il conquibus, e tanti saluti! Adesso è in pensione a
trenta soldi al giorno, in casa di ottima gente che per giunta ha
piacere a tenerselo.»
«Dovrete farmi un altro favore, ragazzo.»
«Dite, signor Rodolphe.»
«Fra qualche giorno andrete a trovarlo... con questo documen-
to: esso gli dà diritto ad avere un posto a vita dai Bons-Pauvres.
Versando quattromila cinquecento franchi e presentando detto
documento sarà tenuto lì a vita: siamo già d’accordo ed è tutto in
regola. Ho pensato che questa è la soluzione migliore. Così, per il
resto dei suoi giorni, si sarà assicurato il vitto e l’alloggio, e
dovrà solo pensare a pentirsi. Mi dispiace di non avergli procurato
subito questa ammissione, al posto di una somma che può essere
dissipata o rubata; ma m’ispirava un tale orrore che come prima cosa
desideravo sbarazzarmi della sua presenza. Gli farete dunque
quest’offerta e lo condurrete all’ospedale. Se per caso non vuole,
vedremo di trovare qualche altra via di uscita. D’accordo allora,
andrete a trovarlo!»
«Con piacere, signor Rodolphe, vi farei questo favore, come lo
chiamate voi, ma non so se sarò libero. Il signor Murph mi ha fatto
assumere da un signore per quattro franchi al giorno.»
Rodolphe guardò stupito lo Chourineur.
«Come! E la vostra bottega? e la vostra casa?»
«Via, signor Rodolphe, non prendetevi gioco di un povero dia-
volo. Vi siete già divertito abbastanza a mettermi alla prova, come
avete detto. La storia della casa e della bottega è un motivetto
cantato sulla stessa aria. Vi siete detto: “vediamo se quell’animale
dello Chourineur sarà tanto citrullo da immaginarsi che...” Basta,
basta, signor Rodolphe. Siete un burlone... chiuso!»
«Ma come! non vi ho spiegato poco fa che...»
«Per dare un colore alla cosa... trucco vecchio... a dir la verità,
avevo un po’ abboccato. Bisognava essere gonzi!»
«Ma, ragazzo, siete pazzo!»
«No, no, mio signore. Sentite, parlatemi del signor Murph. Quattro
franchi al giorno, sebbene sia già una cosa maledettamente
incredibile, è però a rigor di logica concepibile, ma una casa, una
bottega, un mucchio di denaro, che razza di commedia! Perdio, che
razza di commedia!»
E si mise a ridere in modo rumoroso e sincero. «Ma ancora una
volta...»
«Sentite, mio signore, devo ammettere che sulle prime ci sono
cascato; e questo quando mi sono detto: “Il signor Rodolphe è un
uomo come non ce ne sono molti, forse ha qualcosa da mandare a
prendere dal diavolo, mi dà la commissione, e vuole ungere un po’ le
ruote perché non mi lasci spaventare dall’odore di bruciaticcio.” Ma
poi mi sono detto che avevo torto di pensare così di voi, e in quel
preciso istante mi sono accorto che stavate scherzando; perché se
fossi stato tanto sciocco da credere che mi deste tutta una fortuna
per niente, immediatamente voi, mio signore, mi avreste detto: “Eh,
povero Chourineur, mi fai pena... sei tocco, a volte?”.»
Rodolphe trovò che cominciava a essere un po’ difficile convincere
lo Chourineur. Perciò gli si rivolse con tono grave e sostenuto,
quasi severo:
«Non scherzo mai con la riconoscenza e con l’attenzione che mi
ispira una nobile condotta... Ve l’ho già detto, questa casa e
questo denaro sono vostri, ve ne faccio dono io. E, poiché esitate a
credermi, e mi costringete a farvi un giuramento, vi giuro sul mio
onore che tutto questo vi appartiene e ve lo do per le ragioni che
vi ho già detto.»
Dal tono sicuro e dignitoso di Rodolphe e dall’espressione seria del
suo volto, lo Chourineur non ebbe più dubbi. Per qualche istante
guardò Rodolphe in silenzio, poi gli disse senza enfasi e con voce
profondamente commossa:
«Vi credo, mio signore, e vi ringrazio molto. Un povero uomo come me
non sa dire belle frasi. Ancora una volta, ecco, vi ringrazio. Tutto
quello che posso dirvi, vedete, è che non rifiuterò mai di
soccorrere gli infelici, perché la fame e la miseria sono ostesse
del tipo di quelle che hanno adescato la Goualeuse, e perché quando
si è nel fango, non tutti hanno forza sufficiente per tirarsene
fuori.»
«Non potevate farmi ringraziamento migliore, ragazzo... voi mi
capite. Troverete in questo scrittoio i documenti relativi a questa
proprietà, acquistata per voi con il nome di Francoeur.»
«Francoeur?»
«Voi non avete un nome e io vi do questo. È di buon auspicio. Sono
sicuro che lo onorerete.»
«Ve lo prometto, mio signore.»
«Coraggio, ragazzo. Voi potete aiutarmi in una buona opera.» «Io,
mio signore?»
«Voi; agli occhi del mondo sarete un esempio salutare e viven-
te. La fortunata posizione a cui vi innalza la Provvidenza servirà a
dimostrare che la gente caduta in basso può ancora risollevarsi
e sperare purché si penta e conservi in fondo all’animo qualche
preziosa qualità. Coloro che hanno errato, cercheranno di diventare
migliori se vi vedranno contento di essere stato onesto, coraggioso,
disinteressato dopo aver commesso un delitto che avete scontato con
una punizione così terribile. Voglio che si sappia tutto del vostro
passato. Prima o poi lo si verrebbe a conoscere; tanto vale
prevenire la scoperta. Fra poco andremo assieme a trovare il sindaco
di questo comune; mi sono informato su di lui; si tratta di un uomo
degno di collaborare con me nella mia opera. Gli dirò come mi chiamo
e garantirò per voi; e per stabilire fin da ora un legame onorevole
fra voi e le due persone che rappresentano moralmente la società del
posto, verserò, garantendola per due anni, una somma mensile di
mille franchi da destinarsi ai poveri; detta somma vi verrà spedita
ogni mese e voi assieme al sindaco e al parroco deciderete l’uso da
farne. Se uno di loro avesse ancora qualche scrupolo a mettersi in
rapporto con voi, questo scrupolo dovrebbe sparire davanti alle
esigenze della carità. Una volta assicurate queste relazioni, sarà
compito vostro meritarvi la stima di tali degne persone e voi non
mancherete di farlo.»
«Mio signore, capisco. Non a me, Chourineur, voi fate tutto questo
bene, ma agli infelici che, come me, si sono trovati in mezzo al
dolore e in mezzo al male, e ne sono usciti, come dite voi, con un
cuore e un onore. Con rispetto parlando, è come nell’esercito:
quando tutto un battaglione ha combattuto fino allo stremo, non si
può decorare tutti, non ci sono che quattro croci per cinquecento
coraggiosi; ma quelli che non hanno la medaglia si dicono: bene,
l’avrò un’altra volta, e la prossima volta combattono ancora più
accanitamente.»
Rodolphe ascoltava con piacere il suo protetto. Aveva restituito a
quell’uomo la stima in se stesso; l’aveva riabilitato ai suoi propri
occhi; l’aveva, per così dire, reso consapevole del proprio valore e
così facendo gli aveva destato quasi istantaneamente nel cuore e
nella mente pensieri pieni di sentimento, di dignità, oseremmo dire
quasi di delicatezza.
«Ciò che mi avete detto, Francoeur» riprese Rodolphe, «è stata una
nuova dimostrazione della vostra riconoscenza, ve ne sono grato.»
«Meglio così, mio signore, perché se ci fosse un’altra maniera per
dimostrarvela sarei molto imbarazzato.»
«Adesso andiamo a visitare la vostra casa; il vecchio Murph si è già
preso questo piacere e ora voglio prendermelo anch’io.»
Rodolphe e lo Chourineur scesero.
Appena entrati nel cortile, il garzone si rivolse alla Chourineur e
gli disse rispettosamente:
«Poiché voi siete il padrone, signor Francoeur, vengo a dirvi che ci
sono molti clienti. Mancano le costolette e i cosciotti,
bisognerebbe ammazzare subito uno o due montoni.»
«Perbacco!» disse Rodolphe allo Chourineur, «ecco una buona
occasione per dimostrare la vostra bravura... e io voglio essere il
primo ad averne un saggio... l’aria fresca mi ha messo appetito, con
piacere assaggerò le vostre costolette, sebbene temo siano un po’
dure.»
«Siete troppo buono, signor Rodolphe» disse lo Chourineur diventato
allegro; «mi lusingate; farò del mio meglio.»
«Padrone, devo portare due montoni al macello?» disse il garzone.
«Sì, porta anche un coltello ben affilato che abbia la costola
solida e il filo non troppo sottile.»
«Ho qualcosa che fa appunto al caso vostro, padrone, state
tranquillo... con questo ci si potrebbe far la barba. Tenete.»
«Cospetto! signor Rodolphe» disse lo Chourineur togliendosi in
fretta e furia la prefettizia e rimboccandosi le maniche della
camicia mettendo così a nudo due braccia da atleta. «Questo mi
ricorda la giovinezza e il macello; vedrete come taglierò là
dentro... dio d’un dio, vorrei già essere lì dentro! Il coltello,
ragazzo, il coltello! Oh, bene... sei un intenditore. Questa sì che
è una lama! Chi ne vuole?... Cospettaccio! con un coltello simile mi
mangerei un toro infuriato.»
E lo Chourineur brandì il coltello. Gli occhi cominciarono a
iniettarglisi di sangue; il bruto riprendeva il sopravvento;
l’istinto, l’appetito sanguinario ricomparivano in tutta la loro
tremenda potenza.
Il mattatoio era nel cortile.
Era una stanza a volta, scura, lastricata di pietre, che riceveva
luce da una stretta apertura posta in alto.
Il garzone trascinò un montone fino alla porta.
«Devo legarlo all’anello, padrone?»
«Attaccarlo, diavolo!... E queste ginocchia? Sta’ tranquillo che
le mie ginocchia lo stringeranno come una morsa. Dammi la bestia, e
ritorna in bottega.»
Il garzone se ne andò.
Rodolphe restò solo con lo Chourineur; lo esaminava di proposito,
quasi con ansia.
«Su, all’opera!» gli disse.
«Farò in un lampo, perdio! Vedrete come maneggio il coltello. Mi
bruciano le mani... mi ronzano le orecchie... Le tempie mi bat-
tono come quando stavo per vedere rosso... Vieni qui, tu... eh!
Madelon, che ti scanno!»
E dimenticandosi subito di Rodolphe, afferrò la pecora senza sforzo,
con uno sguardo carico di lampi selvaggi, poi con un balzo entrò nel
mattatoio ed era pieno di gioia feroce.
Lo si sarebbe detto un lupo che rintana con la preda in bocca.
Rodolphe lo seguì, quindi si appoggiò a uno stipite della porta che
chiuse.
Il mattatoio era nell’ombra; un vivido raggio di luce cadeva
perpendicolarmente sullo Chourineur, illuminandone alla maniera di
Rembrandt la rozza faccia, i capelli biondo chiaro e i favoriti
rossi. Piegato in due e con in bocca il lungo coltello balenante
nella penombra, teneva stretta la pecora tra le ginocchia. Quando
l’ebbe sistemata come voleva lui, la prese per la testa, le fece
allungare il collo e la scannò.
Non appena la lama penetrò, la pecora mandò un piccolo belato dolce
e lamentoso, volse lo sguardo morente verso lo Chourineur, e due
fiotti di sangue schizzarono in volto all’uccisore.
Quel grido, quello sguardo, quel sangue di cui grondava fecero una
tremenda impressione a quell’uomo. Il coltello gli cadde di mano, la
faccia coperta di sangue gli diventò livida, contratta, orrenda;
sbarrò gli occhi, gli si rizzarono i capelli; poi, mettendosi
improvvisamente a indietreggiare inorridito, gridò con voce
soffocata:
«Ah! il sergente! il sergente!»
Rodolphe gli corse vicino.
«Ritorna in te, ragazzo mio.»
«Là... là... il sergente...» ripeté lo Chourineur indietreggiando
passo passo, con l’occhio fisso e torvo e indicando col dito un
fantasma invisibile. Poi, lanciato un grido spaventoso, come se lo
spettro l’avesse toccato, si precipitò in fondo al mattatoio,
nell’angolo più buio, e lì si gettò con la faccia, con il petto e
con le braccia contro il muro, come se avesse voluto buttarlo giù
per sfuggire a un’orribile visione, continuando a ripetere con voce
sorda e convulsa:
«Oh! il sergente!... il sergente!... il sergente!...»
III
LA PARTENZA
Nonostante le cure di Murph e Rodolphe che faticarono non poco a
calmarlo, lo Chourineur ritornò completamente in sé solo dopo una
lunga crisi.
Era solo con Rodolphe in una stanza del primo piano della
macelleria.
«Mio signore, disse un po’ avvilito, siete stato tanto buono con
me... ma ecco, vedete, preferirei essere mille volte più disgraziato
di quello che sono stato finora piuttosto che accettare il mestiere
che mi offrite...»
«Pensateci... comunque.»
«Ecco, mio signore... quando ho udito il grido di quella povera
bestia che non si difendeva... quando ho sentito il sangue
schizzarmi in faccia... un sangue caldo... che sembrava vivo... Oh!
voi non sapete che cosa sia... allora ho rivisto il mio sogno... il
sergente... e quei poveri soldati che squartavo... che non si
difendevano, e che morendo mi guardavano con aria così dolce... così
dolce... che pareva mi compiangessero!... Oh! mio signore! c’è da
impazzire!...»
E l’infelice si prese nervosamente la testa fra le mani.
«Su, calmatevi.»
«Scusatemi, mio signore, ma adesso la vista del sangue... di
un coltello... non potrei sopportarla... In ogni momento mi
ritornerebbero i sogni che ho cominciato a dimenticare... Avere ogni
giorno le mani o i piedi nel sangue... scannate delle povere
bestie... che non si difendono... oh! no, no, non potrei...
Preferirei essere cieco come il Maître d’école, piuttosto che essere
costretto a fare questo mestiere.»
È impossibile descrivere l’energia del gesto, della voce, della
faccia dello Chourineur mentre diceva queste parole.
Rodolphe si sentiva profondamente commosso. Era soddisfatto che la
vista del sangue avesse prodotto un simile effetto sul suo protetto.
Per un momento nello Chourineur, la bestia selvaggia, l’istinto
sanguinario avevano avuto il sopravvento sull’uomo; ma il rimorso
aveva avuto la meglio sull’istinto. Così era bello; questa era una
grande lezione.
Rodolphe, sia detto a suo elogio, non aveva disperato di questa
reazione da parte dello Chourineur. La sua volontà, non il caso,
aveva preparato la scena del macello.
«Perdonate, mio signore» disse timidamente lo Chourineur,
«contraccambio molto male la vostra bontà verso di me... ma...»
«Anzi... voi appagate i miei desideri... Tuttavia, lo confesso, non
ero sicuro di trovare in voi questa sacra esaltazione del rimorso.»
«Come, mio signore?»
«Ascoltate» disse Rodolphe, «ecco qual era stata la mia idea: avevo
scelto per voi il mestiere di macellaio perché era il mestiere a cui
vi portavano il vostro gusto e il vostro istinto...»
«Ahimè, mio signore, è vero... A parte quello che sapete, sarebbe
stata la mia felicità... lo dicevo proprio poco fa al signor Murph.»
«Lo sapevo... perciò se, caro e sincero Francoeur, aveste accettato
l’offerta che vi facevo... e voi potevate farlo senza perdere la mia
stima, tutto quanto è qui vi sarebbe appartenuto e io avrei estinto
un debito sacrosanto... vi tiravo fuori da una situazione penosa,
facevo di voi un buono, edificante e salutare esempio... e
continuavo a interessarmi al vostro avvenire. Se, invece, la vista
del sangue che vi apprestavate a versare con indifferenza vi
ricordava il vostro delitto, se una ripugnanza automatica mi provava
che il rimorso continuava a covarvi in fondo all’anima, le mie mire
intorno a voi cambiavano; perché il mestiere che vi offrivo
sarebbe diventato per voi un supplizio quotidiano...»
«Oh è verissimo! signor Rodolphe, un supplizio tremendo.» «Adesso,
ecco quello che vi propongo. Sono convinto che voi
accetterete, infatti ho agito con questa convinzione. Una persona
che possiede molte terre in Algeria mi ha ceduto per voi (rimane
solo da firmare l’atto) una grande fattoria destinata
all’allevamento del bestiame. Le terre della fattoria sono
fertilissime e coltivate. Ma conoscendo il vostro coraggio e il
bisogno che avete di darne delle prove, non vi nascondo che ho
comperato tali terre a questa condizione, pur trovandosi esse alle
propaggini dell’Atlante, cioè sugli avamposti, ed esposte ai
frequenti attacchi degli arabi... lì bisogna essere tanto buon
soldato almeno quanto buon coltivatore; la fattoria è nello stesso
tempo un fortino e viceversa. L’uomo che amministra la tenuta in
assenza del proprietario vi metterà al corrente di tutto, dicono che
sia onesto e fidato; lo terrete con voi finché vi sarà necessario.
Una volta stabilitovi laggiù, non solo potrete migliorare la vostra
condizione col lavoro e con una condotta intelligente, ma col vostro
coraggio potrete anche rendere veri e propri servigi alla nazione. I
coloni si addestrano alle armi. L’estensione della vostra proprietà,
il numero dei dipendenti vi assicureranno il comando di un
contingente abbastanza ragguardevole di armati. Disciplinato ed
elettrizzato dal vostro coraggio, esso potrebbe essere di
grandissima utilità e protezione per i proprietari delle campagne.
Ho fatto questa scelta, ve lo ripeto, nonostante il pericolo, o
meglio a causa del pericolo, perché volevo utilizzare la vostra
naturale intrepidezza; perché, pur avendo espiato e quasi riscattato
un grande delitto, la
vostra riabilitazione sarà più nobile, più completa, più eroica se
essa si compirà in mezzo ai pericoli di un paese ribelle piuttosto
che nel pacifico trantran di una cittadina. Non vi ho offerto subito
quest’ultima situazione, perché era più probabile che l’altra vi
avrebbe soddisfatto; questa d’altra parte è così pericolosa che non
volevo esporvi senza avervi lasciato prima questa scelta... Ma siete
ancora in tempo, se questa sistemazione non vi piace, ditemelo
francamente, cercheremo qualcos’altro... altrimenti domani sarà
tutto firmato; vi consegnerò i documenti della vostra proprietà... e
andrete ad Algeri con una persona designata dall’ex proprietario
della fattoria per immettervi nel possesso dei beni... Vi sono
dovuti i fitti di due anni; li riscuoterete al vostro arrivo. La
terra rende tremila franchi; lavorate, fate migliorie, siate attivo,
attento e vi sarà facile migliorare la vostra condizione e quella
dei coloni che sarete in grado di aiutare; poiché sono sicuro che vi
mostrerete sempre generoso e caritatevole; vi ricorderete che essere
ricco vuol dire donare molto... Sebbene lontano da voi, non vi
perderò di vista. Non dimenticherò mai che io e il mio miglior amico
vi dobbiamo la vita. L’unica prova d’affetto e di gratitudine che vi
chiedo è d’imparare presto a leggere e a scrivere affinché possiate
una volta alla settimana informarmi di quello che fate e rivolgervi
direttamente a me nel caso vi occorressero consigli e appoggi.»
È superfluo descrivere le effusioni di gioia dello Chourineur. Il
lettore ne conosce abbastanza bene il carattere e le inclinazioni
per capire che per lui non c’era proposta migliore di quella.
L’indomani, infatti, lo Chourineur partiva per Algeri.
IV RICERCHE
La casa che Rodolphe aveva nell’allée des Veuves non era la sua
residenza abituale. Egli abitava in uno dei più grandi palazzi del
faubourg Saint-Germain, sito in fondo alla rue Plumet.
Per evitare gli onori dovuti al suo altissimo grado, fin dal suo
arrivo a Parigi aveva mantenuto l’incognito: infatti il suo
incaricato d’affari alla Corte di Francia aveva annunciato che il
suo signore avrebbe fatto le visite ufficiali indispensabili sotto
il nome e il titolo di conte di Duren.
In virtù di questa consuetudine, non infrequente nelle Corti del
Nord, un principe può viaggiare con grande libertà e spensieratezza
evitando gli inconvenienti di un fastidioso protocollo.
Nonostante l’incognito, Rodolphe, come gli si addiceva, aveva un
alto tenore di vita. Introdurremo il lettore nel palazzo della rue
Plumet, il giorno dopo la partenza dello Chourineur per l’Algeria.
Erano appena suonate le dieci del mattino.
In una vasta stanza a pianterreno che precedeva lo studio di
Rodolphe, Murph, seduto a una scrivania, stava sigillando un mucchio
di dispacci.
Un usciere in livrea nera, con al collo una collana d’argento, aprì
i due battenti della porta dell’anticamera e annunciò:
«Sua eccellenza il barone di Graün!»
Murph, senza interrompere il lavoro, salutò il barone con un gesto
insieme cordiale e familiare.
«Signor incaricato d’affari...» disse sorridendo, «abbiate la
compiacenza di scaldarvi un po’, tra un momento sono da voi.»
«Sir Walter Murph, segretario privato di Sua Altezza Serenissima...
attenderò i vostri ordini» rispose allegramente il signore di Graün;
e per scherzo fece un profondo e rispettoso inchino davanti al bravo
gentiluomo.
Il barone aveva circa cinquant’anni, capelli grigi e radi,
leggermente incipriati e arricciati. Il mento un po’ sporgente
spariva quasi interamente dietro un’alta cravatta di mussolina
inamidatissima e di un biancore abbagliante. Aveva un viso fine, un
fare distinto e sotto i cristalli degli occhiali d’oro brillava uno
sguardo malizioso e penetrante. Sebbene fossero le dieci del
mattino, il signor di Graün indossava un vestito scuro: l’etichetta
lo esigeva; all’occhiello portava un nastro con righe di vari
colori. Posò il cappello su una poltrona e si accostò al caminetto
mentre Murph continuava il suo lavoro.
«Caro Murph, sicuramente Sua Altezza ha vegliato parte della notte,
dal momento che la corrispondenza è numerosa, a quanto pare.»
«Monsignore è andato a dormire questa mattina alle sei. Fra l’altro
ha scritto una lettera di otto pagine al gran maresciallo e me ne ha
dettata un’altra non meno lunga per il capo del Consiglio Supremo.»
«Devo aspettare che Sua Altezza si alzi per comunicargli le
informazioni che ho portato?»
«No, caro barone... Sua signoria ha dato ordine di non essere
svegliato prima delle due o delle tre del pomeriggio; vuole che
entro stamattina facciate partire questi dispacci con un corriere
speciale, senza aspettare lunedì. Dovete comunicare a me le in-
formazioni che avete raccolto e io dovrò informare sua signoria al
risveglio: questi sono gli ordini.»
«Bene! Credo che Sua Altezza sarà soddisfatta di quello che devo
fargli sapere. Ma, caro Murph, spero che l’invio del corriere non
sia di cattivo augurio. Gli ultimi dispacci che ho avuto l’onore di
trasmettere a Sua Altezza...»
«Dicevano che tutto andava per il meglio laggiù, e proprio perché
sua signoria ci tiene a esprimere il più presto possibile la sua
soddisfazione al capo supremo e al gran maresciallo vuole che
spediate la posta oggi stesso.»
«In questo riconosco Sua Altezza... Se si trattasse di un
rimprovero, non si affretterebbe tanto; del resto c’è perfetta
unanimità per quel che concerne la sicura e abile amministrazione
dei nostri governanti ad interim. È molto semplice» aggiunse il
barone sorridendo; «l’orologio era eccellente e perfettamente
regolato dal nostro signore, si trattava solo di caricarlo
puntualmente perché continuasse ad andare avanti senza mutamenti e
incertezze indicando ogni giorno l’impiego di ogni ora e di ogni
individuo. L’ordine in un governo può solo generare fiducia e
tranquillità nel popolo; questo spiega le buone notizie che mi
date.»
«E qui, caro barone, nulla di nuovo? non si è saputo niente?... Le
nostre misteriose avventure...»
«Nessuno ne sa nulla. Dopo l’arrivo di sua signoria a Parigi, le
poche persone dalle quali si era fatto ricevere si sono abituate a
vederlo molto raramente; credono che gli piaccia molto la vita
ritirata e che faccia frequenti gite nei dintorni di Parigi. Sua
Altezza è stato saggio a sbarazzarsi per qualche tempo del
ciambellano e dell’aiutante di campo che aveva condotto con sé dalla
Germania.»
«E che sarebbero stati per noi testimoni molto importuni.»
«E così, all’infuori della contessa Sarah Mac-Grégor, di suo
fratello Tom Seyton di Halsburg e di Karl, la loro anima dannata,
nessuno è informato dei travestimenti di Sua Altezza; ora, né la
contessa, né suo fratello, né Karl hanno interesse a tradire questo
segreto.»
«Ah, caro barone» disse Murph sorridendo, «che sfortuna che quella
maledetta contessa sia rimasta vedova proprio adesso!»
«Non si era maritata nel 1827 o nel 1828?»
«Nel 1827, poco tempo dopo la morte di quella povera bambina che
adesso avrebbe sedici o diciassette anni... e che sua signoria
piange ancora ogni giorno, senza però parlarne mai.»
«Rimpianti tanto più comprensibili, in quanto Sua Altezza non ha
avuto figli dal suo matrimonio.»
«Perciò vedete, caro barone, sono riuscito a capire che a parte la
pietà che gli ispira la povera Goualeuse, l’interesse di sua
signoria per quell’infelice creatura deriva soprattutto dal fatto
che la figlia così amaramente pianta da lui (fermo restando l’odio
per la contessa sua madre) avrebbe adesso la stessa età.»
«È una vera fatalità che quella Sarah, di cui ci si credeva liberati
per sempre, sia rimasta libera proprio diciotto mesi dopo che Sua
Altezza ha perduto un modello di moglie, dopo pochi anni di
matrimonio. Sono sicuro che la contessa si creda favorita dalla
sorte per via di questa doppia vedovanza.»
«E le sue folli speranze risorgono più vive che mai; tuttavia ella
sa che sua signoria le corrisponde la più profonda avversione,
d’altra parte meritata. Non è stata lei la causa di... Ah! barone»
disse Murph senza finire la frase «quella donna è funesta... Voglia
Iddio che ella non ci rechi nuove sventure!»
«Che cosa si può temere da lei, caro Murph? Tempo addietro ella ha
avuto su sua signoria l’influenza che esercita sempre una donna
abile e intrigante su un uomo che ama per la prima volta e che
soprattutto si trova nelle circostanze che sapete; ma questa
influenza è svanita dopo la scoperta delle indegne manovre di quella
creatura e soprattutto per via del ricordo lasciato dall’avvenimento
spaventoso provocato da lei.»
«Più piano, caro di Graün, più piano» disse Murph. «Ahimè! siamo in
quel mese sinistro e ci avviciniamo a quella data non meno sinistra
del 13 gennaio; questo terribile anniversario mi fa sempre temere
per sua signoria.»
«Tuttavia, se con l’espiazione ci si può far perdonare una grande
colpa, perché Sua Altezza non dev’essere assolto?»
«Di grazia, caro di Graün non parliamo di ciò; ne sarei rattristato
per tutto il giorno.»
«Dunque vi dicevo che ormai le mire della contessa Sarah sono
assurde: la morte della bambina, di cui parlavate poco fa, ha
spezzato l’ultimo legame che poteva ancora tenere stretto sua
signoria a quella donna; è pazza se persiste nelle sue speranze.»
«Sì, ma è una pazzia pericolosa. E il fratello, come sapete,
condivide le idee ambiziose e ostinate di lei, quantunque adesso
come adesso questa bella coppia abbia tante ragioni per disperare
quante ne aveva di sperare diciotto anni fa.»
«Ah, e quante disgrazie non causò allora anche quel diabolico prete
Polidori con la sua criminosa compiacenza!»
«A proposito, mi hanno detto che da un anno o due a questa parte
vive in città, sicuramente nella miseria più nera, o dedito a
qualche losca attività.»
«Che caduta per un uomo di tanto sapere, di tanto ingegno, di tanta
intelligenza!»
«Ma anche di una così odiosa perversità... Voglia il cielo che non
incontri la contessa! L’unione di questi due demoni sarebbe
pericolosissima.»
«Vi ripeto, caro Murph, che l’interesse stesso della contessa, per
quanto irragionevole sia la sua ambizione, le impedirà in ogni caso
di approfittare dell’inclinazione all’avventura di sua signoria per
macchinare una qualche brutta azione.»
«Lo spero anch’io; eppure solo per caso è andata in fumo non so più
quale proposta, certo ignobile, che quella donna voleva fare al
Maître d’école, l’orribile criminale, che adesso, nell’impossibilità
di nuocere a chicchessia, vive, ignorato, forse sulla via di
pentirsi, presso alcuni onesti contadini del paesello di SaintMandé.
Ahimè! sono convinto che, proprio per vendicarsi di me con
quell’assassino, sua signoria, a causa della punizione terribile che
gli ha inflitto, ha rischiato di mettersi in una posizione
gravissima.»
«Grave! no, no, caro Murph; perché insomma la questione è tutta qui:
un forzato evaso, un noto criminale, s’introduce in casa vostra e vi
prende a pugnalate; per legittima difesa voi potete o ucciderlo o
mandarlo al patibolo; in tutti e due i casi lo scellerato deve
morire; ora, invece di ucciderlo o di darlo in mano al boia, mettete
il mostro nell’impossibilità di nuocere alla società mediante una
punizione terribile, sì, ma anche meritata. Chi potrebbe accusarvi?
Credete che la giustizia si costituirà parte civile contro di voi a
difesa di un simile bandito? E voi siete forse da condannare per
aver fatto meno di quanto la legge vi permetteva di fare, per avere
solamene privato della vista uno che potevate uccidere restando
nella piena legalità? Come mai, per difendere la mia vita o per
vendicarmi d’un flagrante adulterio, la società mi riconosce il
diritto di vita e di morte sul mio simile, diritto illimitato,
incontrollabile, inappellabile, che mi rende giudice e carnefice, e
non potrò modificare a mio piacimento la pena capitale che avrei
potuto infliggere impunemente? e soprattutto... soprattutto quando
si tratta del brigante in questione? Perché il problema è tutto qui.
Lascio da parte il nostro grado di principe sovrano in seno alla
Confederazione germanica. So che in diritto ciò non ha nessun
valore; ma in realtà ci sono sempre certe im-
munità forzate; d’altra parte supponete che si intenti un processo
contro sua signoria, quanti episodi di generosità deporrebbero a suo
favore! quante opere di carità e di beneficenza sarebbero allora
rivelate! Stando così le cose, immaginatevi inoltre questa strana
causa davanti a un tribunale, che cosa pensate che succederebbe?»
«Sua signoria me l’ha sempre detto: accetterebbe l’accusa e non
approfitterebbe affatto delle immunità che gli potrebbe assicurare
la sua posizione. Ma chi divulgherebbe il triste avvenimento? Voi
conoscete la fidatissima discrezione di David e dei quattro
servitori ungheresi della casa dell’allée des Veuves. Lo Chourineur,
che sua signoria ha ricompensato, non ha fatto parola del supplizio
inflitto al Maître d’école, per paura di compromettersi. Prima della
partenza per Algeri mi ha giurato di mantenere il silenzio su questo
argomento. Il brigante stesso, dal canto suo, sa che andare a
sporgere querela vuol dire offrire la propria testa al boia.»
«Infine, né sua signoria, né voi, né io parleremo, non è vero? Caro
Murph, il nostro segreto non sarà certo custodito peggio per il
fatto che sono in parecchi a conoscerlo. Per male che vada, ci
sarebbe da temere solo qualche contrarietà; e poi verrebbero alla
luce a proposito di questa strana causa cose così grandi e così
nobili che una tale accusa, lo ripeto, sarebbe un trionfo per Sua
Altezza.»
«Mi avete completamente tranquillizzato. Ma mi avete detto di avere
con voi le informazioni prese dalle lettere trovate addosso al
Maestro e dalle dichiarazioni rilasciate dalla Chouette durante la
sua degenza in ospedale, da dove è uscita qualche giorno fa,
completamente guarita dalla sua frattura alla gamba.»
«Ecco le informazioni» disse il barone levandosi di tasca un foglio.
«Sono relative alle ricerche sulla nascita della giovinetta chiamata
la Goualeuse, e sul luogo di attuale residenza di François Germain,
figlio del Maître d’école.»
«Volete leggermi gli appunti, caro di Graün? So che intenzioni ha
sua signoria, vedremo se queste informazioni sono sufficienti. Siete
sempre soddisfatto del vostro agente?»
«È un uomo prezioso, pieno d’intelligenza, di abilità e di
discrezione. A volte sono perfino costretto a moderare il suo zelo,
perché, come sapete, Sua Altezza riserva per sé certi particolari
rivelatori.»
«E continua a ignorare la parte di sua signoria in tutto questo?»
«Completamente. La mia posizione di diplomatico è un ottimo pretesto
per le indagini di cui mi occupo. Il signor Badinot (così si
chiama il nostro uomo) sa destreggiarsi molto bene e ha conoscenze
segrete e no in quasi tutte le classi della società; un tempo
procuratore legale, anche se poi è stato costretto a vendere la
propria carica per appropriazione indebita, ha sempre avuto
informazioni precise sulla sorte e sulla condizione dei suoi vecchi
clienti; ci sono parecchi segreti che conosce e che si gloria
sfrontatamente d’avere venduto; arricchitosi due o tre volte e
rovinatosi con gli affari, troppo conosciuto per tentare nuove
speculazioni, ridotto a vivere alla giornata ricorrendo a un mucchio
d’espedienti più o meno leciti, quest’uomo è una specie di Figaro
abbastanza originale come parlatore. Finché c’è di mezzo il suo
interesse, egli appartiene anima e corpo a chi lo paga, non ha
convenienza a ingannarci; d’altra parte io lo faccio sorvegliare e
lui non lo sa; non abbiamo quindi nessun motivo per non fidarci di
lui.»
«Del resto le informazioni precedentemente forniteci erano molto
esatte.»
«Ha una certa onestà, ma a modo suo, e vi assicuro, caro Murph, che
il signor Badinot è l’originale prototipo di una di quelle esistenze
misteriose che si trovano e che sono possibili solo a Parigi.
Divertirebbe molto Sua Altezza se non si sapesse che non ci deve
essere nessun rapporto tra lui e Sua Altezza.»
«Si potrebbe aumentare la paga del signor Badinot; la ritenete
necessaria questa gratifica?»
«Cinquecento franchi al mese più le piccole spese... che ammontano
pressappoco alla stessa cifra, mi sembrano sufficienti; lui pare
contento: in seguito vedremo.»
«E non si vergogna del mestiere che fa?»
«Vergognarsi, lui? anzi se ne vanta, eccome; e quando mi porta i
suoi rapporti non manca mai di assumere una certa aria non dico
diplomatica... ma importante; perché il briccone fa finta di credere
che si tratti d’affari di Stato, e di essere sbalordito del fatto
che possano esistere misteriose relazioni tra gli interessi più
svariati e il destino degli imperi. Sì, qualche volta ha la
sfacciataggine di dirmi: “Quante complicazioni nel governo di uno
Stato che sono ignote al profano! Eppure chi direbbe che gli appunti
che vi consegno, signor barone, hanno sicuramente la loro importanza
negli affari dell’Europa!”.»
«Via, i bricconi cercano di ingannarci sulla loro bassezza; è una
cosa che fa sempre piacere alle persone oneste. Ma questi appunti,
caro barone?»
«Eccoli, quasi interamente redatti seguendo il rapporto del signor
Badinot.»
«Vi ascolto.»
Il signor di Graün lesse quanto segue:
NOTE RELATIVE A FLEUR-DE-MARIE
All’inizio dell’anno 1827, un uomo chiamato Pierre Tournemine,
attualmente detenuto nella galera di Rochefort per reato di falso,
ha proposto alla Gervais, detta Chouette, di allevare una bambina di
cinque o sei anni, promettendole come salario la somma di mille
franchi, che venne pagata una volta sola.
«Ahimè! caro barone» disse Murph interrompendo il signor di Graün,
«... 1827... è proprio in quell’anno che monsignore ha appreso la
morte dell’infelice bambina che egli piange con tanto strazio... Per
questo motivo e per molti altri, quell’anno è stato funesto al
nostro signore.»
«Gli anni felici sono rari, caro Murph. Ma proseguiamo:
Ad affare concluso la bambina restò con quella donna per due anni
alla fine dei quali è fuggita non potendo sopportare oltre i
maltrattamenti della donna. La Chouette non ne aveva più sentito
parlare per molti anni quando l’ha rivista per la prima volta circa
sei settimane fa, in una osteria della Cité. La bambina, diventata
ormai una fanciulla, aveva allora il soprannome di Goualeuse. Pochi
giorni dopo quell’incontro, il suddetto Tournemine, che il Maître
d’école ha conosciuto nella galera di Rochefort, aveva fatto
consegnare a Bras-Rouge (corrispondente misterioso e abituale dei
forzati detenuti in galera o di quelli in libertà) una lettera
dettagliata che riguardava la bambina un tempo affidata alla
Gervais, detta Chouette.
Da questa lettera e dalle dichiarazioni della Chouette, risulta che
una certa signora Séraphin, governante di un notaio di nome Jacques
Ferrand, aveva, nel 1827, incaricato Tournemine di trovarle una
donna che, per la somma di 1000 franchi, acconsentisse a prendersi
cura di una bambina di cinque o sei anni, che si voleva abbandonare,
come abbiamo già detto sopra.
La Chouette accettò la proposta.
Lo scopo di Tournemine, mandando queste informazioni a BrasRouge,
era di mettere quest’ultimo in grado di far ricattare la signora
Séraphin da una terza persona, minacciandola di divulgare il fatto,
peraltro già da tempo dimenticato. Tournemine assicurava che la
signora Séraphin agiva per conto di personaggi sconosciuti.
Bras-Rouge aveva consegnato la lettera alla Chouette, che da qualche
tempo era diventata la complice dei delitti del Maître d’école; così
si spiega come mai questo documento si trovasse nelle mani del
brigante, e come mai, al momento del suo incontro con la Goualeuse
al Lapin Blanc, la Chouette, per tormentare Fleurde-Marie, le abbia
detto: “Abbiamo trovato i tuoi genitori ma tu non li conoscerai”.
L’importante era di sapere se la lettera di Tournemine relativa alla
bambina tempo addietro affidata da lui alla Chouette diceva la
verità.
Abbiamo preso informazioni sulla signora Séraphin e sul notaio
Jacques Ferrand.
Esistono tutti e due.
Il notaio abita in rue du Sentier, al n. 41; passa per un uomo
devoto e austero, per lo meno va molto in chiesa; nella pratica
degli affari è di una regolarità eccessiva che viene tacciata di
rigidezza; ha ottima clientela; vive con una parsimonia che confina
con l’avarizia; ha sempre come governante la signora Séraphin.
Il signor Jacques Ferrand, che era molto povero, si è comperato la
carica con 550.000 franchi; questa somma gli è stata fornita dietro
buona garanzia dal signor Charles Robert, ufficiale superiore dello
stato maggiore della guardia nazionale di Parigi, giovane
bellissimo, molto alla moda in una certa società. Divide col notaio
i proventi dello studio, che si valutano sui 50.000 franchi e,
beninteso, non s’immischia affatto nelle faccende notarili. Alcuni
maldicenti sostengono che, in seguito a fortunate speculazioni o a
colpi in Borsa tentati di concerto col signor Charles Robert, il
notaio adesso sarebbe in grado di rimborsare il prezzo del suo
studio; ma la reputazione del signor Jacques Ferrand è così solida
che tutti sono d’accordo nel considerare queste voci orribili
calunnie. Parrebbe cosa sicura che la signora Séraphin, governante
di quel sant’uomo, potrà fornire notizie preziose circa la nascita
della Goualeuse.»
«Benissimo! caro barone» disse Murph; «c’è qualcosa di vero nelle
dichiarazioni di questo Tournemine. Forse troveremo dal notaio i
mezzi per scoprire i genitori della sventurata fanciulla. Avete ora
notizie altrettanto buone del figlio del Maître d’école?»
«Meno precise, forse... ma abbastanza interessanti.»
«Il vostro signor Badinot è proprio un vero tesoro.»
«Come avete potuto vedere, quel Bras-Rouge è l’anima di tut-
to questo. Il signor Badinot, che deve avere qualche relazione con
la polizia, ce l’aveva segnalato come l’intermediario di parecchi
forzati in occasione delle prime ricerche da parte di sua signoria
per ritrovare il figlio della signora Georges Duresnel, moglie
infelice di quel mostro del Maître d’école.»
«È vero; e andando a cercare Bras-Rouge in quel suo stambugio della
Cité, sito in rue aux Fèves, n. 13, sua signoria ha incontrato lo
Chourineur e la Goualeuse. È fuor di dubbio che Sua Altezza aveva
voluto approfittare di quell’occasione per visitare gli orribili
covi pensando di poter trovare qualche infelice da trarre dal fango.
I suoi presentimenti non l’hanno ingannato; ma a prezzo di quali
pericoli, Dio mio!»
«Pericoli che voi, caro Murph, avete coraggiosamente condiviso...»
«Non sono per questo il carbonaio ordinario di Sua Altezza?» rispose
sorridendo il gentiluomo.
«Dite piuttosto l’intrepida guardia del corpo, nobile amico. Ma
parlare del vostro coraggio e della vostra fedeltà vuol dire
ripetersi. Continuo quindi il mio rapporto... Ecco gli appunti
relativi a François Germain, figlio della signora Georges e del
Maître d’école, altrimenti detto Duresnel.»
V
LE INFORMAZIONI SU FRANÇOIS GERMAIN
Il signor di Graün continuò:
«Circa diciotto mesi fa, un giovane di nome François Germain, arrivò
a Parigi da Nantes, dov’era impiegato nella filiale bancaria Noël e
C.
Risulta dalla confessione del Maître d’école e da parecchie lettere
trovategli addosso che lo scellerato a cui egli aveva affidato il
proprio figlio per pervertirlo, in modo da impiegarlo un giorno in
azioni criminali, svelò l’orribile trama al giovane, proponendogli
apertamente di assecondare un tentativo di furto e di falso che si
voleva commettere a pregiudizio della casa Noël e C. dove lavorava
François Germain.
Quest’ultimo respinse con indignazione l’offerta; ma non volendo
denunciare l’uomo che lo aveva allevato, con una lettera anonima
informò il suo principale del genere di complotto che si stava
tramando, e lasciò segretamente Nantes per sfuggire a coloro che
avevano tentato di fare di lui lo strumento e il complice dei loro
delitti.
Quei miserabili, saputo della partenza di Germain, andarono a
Parigi, si abboccarono con Bras-Rouge e si misero alla ricerca del
figlio del Maître d’école, certo con brutte intenzioni perché il
giovane era a conoscenza dei loro progetti. Dopo lunghe e numerose
ricerche, riuscirono a scoprire dove abitava; era troppo tardi:
infatti Germain, avendo pochi giorni prima incontrato colui che
aveva cercato di corromperlo, cambiò improvvisamente casa, perché
aveva intuito il motivo che aveva condotto quell’uomo a Parigi. In
tal modo il figlio del Maître d’école riuscì a sfuggire ancora una
volta ai suoi persecutori.
Circa sei settimane fa, però, costoro riuscirono a sapere che egli
abitava in rue du Temple, al n. 17. Una sera, rientrando a casa, per
poco non cadde vittima di un agguato (il Maître d’école aveva tenuto
nascosto il fatto a sua signoria).
Germain indovinò da dove veniva il colpo, lasciò la rue du Temple, e
di nuovo non si seppe più nulla del suo luogo di residenza. Le
ricerche erano arrivate a questo punto quando il Maître d’école
venne punito dei suoi delitti.
E a questo punto anche le ricerche sono state riprese per ordine di
sua signoria.
Eccone il risultato:
François Germain ha abitato circa tre mesi nella casa di rue du
Temple, n. 17, casa d’altra parte stranissima dati i costumi e le
professioni della maggior parte di coloro che vi abitano. Germain
era molto benvoluto per il suo carattere allegro, servizievole e
aperto. Sebbene si dicesse che vivesse con introiti o con salari
molto bassi, ciò nonostante egli aveva prodigato le cure più
amorevoli a una famiglia di bisognosi che abita nelle soffitte della
casa. Invano abbiamo chiesto informazioni in rue du Temple sulla
nuova abitazione di François Germain e sul mestiere che faceva; si
suppone che fosse impiegato in qualche ufficio o casa commerciale,
perché usciva la mattina e tornava a casa la sera verso le dieci.
La sola persona che sappia con certezza dove attualmente abiti il
giovane è un’inquilina della casa del Temple; si tratta di una
giovane e graziosa sartina, di nome Rigolette, che sembrava essere
intima amica di Germain. Occupa una stanza vicina a quella dove
alloggiava Germain. La stanza, rimasta vuota per la partenza del
giovane, adesso è da affittare. Proprio col pretesto di affittarla
ci siamo procurati ulteriori informazioni.»
«Rigolette?» disse a un tratto Murph che da qualche istante sembrava
essere meditabondo, «Rigolette? conosco questo nome!»
«Come! sir Walter Murph» riprese sorridendo il barone, «come, voi,
nobile e rispettabile padre di famiglia, conoscete delle sartine?...
Come, il nome di una certa Rigolette non vi è nuovo! Oh! oh!»
«Diamine! mio signore mi ha messo nella condizione di avere delle
conoscenze così bizzarre che non dovreste meravigliarvi di questa,
barone. Ma, aspettate un po’... Sì, adesso... mi ricordo benissimo:
mio signore, raccontandomi la storia della Goualeuse, non ha potuto
fare a meno di ridere al sentir pronunziare il nome grottesco di
Rigolette. Se ben ricordo, era quello di un’amica di prigione della
povera Fleur-de-Marie.»
«Ebbene, adesso, la signorina Rigolette può esserci di grandissimo
aiuto. Termino il mio rapporto:
Forse ci converrebbe prendere in affitto la camera libera della casa
della rue do Temple. Non c’era l’ordine di andare più a fondo nelle
ricerche; ma da alcune parole sfuggite alla portinaia si può dedurre
che non solo è possibile trovare in quella casa informazioni sicure
sul figlio del Maître d’école tramite questa Rigolette, ma che lì in
quella casa sua signoria potrebbe anche venire a conoscenza di
costumi, di attività e soprattutto miserie di cui non sospetta certo
l’esistenza.»
VI
IL MARCHESE D’HARVILLE
«Così avete visto, caro Murph» disse il signor di Graün, subito dopo
la lettura del rapporto, che consegnò al gentiluomo «che, stando
alle nostre informazioni, dobbiamo cercare le tracce dei genitori
della Goualeuse dal notaio Jacques Ferrand e che dobbiamo domandare
alla signorina Rigolette dove abita adesso François Germain. È già
molto, mi pare, sapere dove cercare... quello che si cerca.»
«Certo, barone; inoltre sono sicuro che sua signoria raccoglierà
nella casa in questione un’abbondante messe di osservazioni. Ma non
è tutto ancora: avete preso informazioni sul marchese d’Harville?»
«Sì, e per quel che riguarda la questione denaro almeno, i timori di
Sua Altezza sono infondati. Il signor Badinot afferma, e credo che
sia ben informato, che la ricchezza del marchese non è mai stata
così consistente e così bene amministrata.»
«Dopo aver cercato inutilmente la causa della profonda tristezza che
minava il signor d’Harville, sua signoria aveva pensato che forse il
marchese si trovava in difficoltà finanziarie: nel qual caso gli
sarebbe venuto in aiuto con la misteriosa delicatezza che ben gli
conoscete... ma dal momento che le sue congetture si sono rivelate
sbagliate, dovrà rinunciare a trovare la chiave dell’enigma, il che
gli farà molto... dispiacere in quanto è molto affezionato al signor
d’Harville.»
«È risaputo che Sua Altezza non ha mai dimenticato quanto Suo padre
deve al padre del marchese. Sapete, caro Murph, che nel 1815, al
tempo del rimaneggiamento degli Stati della Confederazione
germanica, il padre di Sua Altezza correva il grosso rischio di
essere eliminato, a causa del noto attaccamento a Napoleone? In
quell’occasione la buon’anima del vecchio marchese d’Harville rese
immensi favori al padre del nostro signore, grazie all’amicizia di
cui lo onorava l’imperatore Alessandro, amicizia che risaliva
all’epoca in cui il marchese era emigrato in Russia e che, invocata
da lui, incise non poco sulle decisioni del congresso dove erano sul
tappeto gli interessi dei principi della Confederazione germanica.»
«E guardate un po’, barone, come spesso nobili azioni si legano fra
di loro: nel ’92 il padre del marchese venne esiliato; trovò in
Germania presso il padre di sua signoria la più calda ospitalità;
dopo un soggiorno di tre anni nella nostra Corte, parte per la
Russia dove si guadagna il favore dello zar per cui diventa a sua
volta utilissimo al principe che un tempo l’aveva così degnamente
accolto.»
«Non è proprio nel 1815, durante il soggiorno del vecchio marchese
d’Harville presso il granduca allora reggente, che è cominciata
l’amicizia di sua signoria col giovane d’Harville?»
«Sì, tutti e due hanno conservato il più bel ricordo di quel periodo
felice della loro giovinezza. Non è tutto: monsignore si sente così
profondamente debitore alla memoria dell’uomo la cui amicizia è
stata di tanto aiuto per suo padre, che la sua benevolenza si
estende a tutti coloro che appartengono alla famiglia d’Harville...
Infatti alla sua parentela coi d’Harville, più che alle sue sventure
e alle sue buone qualità, la povera signora Georges deve i continui
atti di bontà di Sua Altezza.»
«La signora Georges! la moglie di Duresnel! il forzato
soprannominato Maître d’école?» esclamò il barone.
«Sì, la madre di quel François Germain che cerchiamo e che
troveremo, spero...»
«È parente del signor d’Harville?»
«Era cugina e intima amica di sua madre. Il vecchio marchese aveva
per la signora Georges la più sincera amicizia.»
«Ma come mai, caro Murph, la famiglia d’Harville le ha lasciato
sposare quel mostro di Duresnel?»
«Il padre di quella poveretta, il signor di Lagny, intendente della
Languedoc prima della Rivoluzione, era un ricco possidente che
sfuggì alla proscrizione. Quando, dopo quel tremendo periodo,
vennero i primi giorni di calma, pensò di maritare la figlia. Si
presentò Duresnel; apparteneva a un’ottima famiglia parlamentare;
era ricco; nascondeva le sue perverse inclinazioni dietro la
facciata; sposò così la signorina di Lagny. Per un po’ dissimulò i
suoi vizi, ma poi essi si manifestarono; scialacquatore, giocatore
sfrenato, dedito alla crapula più abbietta, rese la moglie infelice.
Costei non si lagnò, si tenne per sé le proprie pene, e dopo la
morte di suo padre si ritirò in un podere che fece fruttare per
distrarsi. Ben presto il marito si mangiò col gioco e le
dissolutezze il patrimonio comune; la proprietà fu venduta. Allora
lei si portò via il figlio e andò a raggiungere una sua parente, la
marchesa d’Harville, alla quale era affezionata come a una sorella.
Duresnel, dopo aver divorato il suo patrimonio e quello della
moglie, si trovò ridotto a vivere di espedienti; finché per ultimo
ricorse al delitto, divenne falsario, ladro, assassino, fu
condannato alla galera a vita, rubò il figlio alla moglie per
affidarlo a uno sciagurato del suo stampo. Il resto lo sapete.»
«Ma come ha fatto monsignore a ritrovare la signora Duresnel?»
«Quando Duresnel fu gettato in galera, la moglie, ridotta alla
miseria più nera, prese il nome di Georges.»
«Non si è mai rivolta, neppure in questa terribile situazione, alla
sua migliore amica e parente, la marchesa d’Harville?»
«La marchesa era morta prima della condanna di Duresnel, e poi, per
l’invincibile vergogna che provava, la signora Georges non ha mai
osato presentarsi alla sua famiglia, che certo avrebbe avuto per lei
i riguardi che meritavano tante sventure. Tuttavia... una sola
volta, spinta all’estremo dalla miseria e dalla malattia... si
rivolse a implorare l’aiuto del signore d’Harville, il figlio della
sua migliore amica... Così la incontrò sua signoria.»
«E come?»
«Un giorno egli andava a trovare il signor d’Harville; qualche passo
avanti a lui camminava una povera donna, vestita miseramente,
pallida, sofferente, abbattuta. Arrivata alla porta del palazzo
d’Harville, prima di bussare, esitò a lungo, poi fece un bru-
sco movimento e ritornò sui suoi passi, come se le fosse mancato il
coraggio. Stupito, sua signoria seguì la donna vivamente interessato
dalla sua espressione dolce e dolorosa. La donna entrò in una casa
di aspetto inquietante. Sua signoria prese informazioni su di lei:
furono ottime. Ella lavorava per vivere, ma le mancavano sia il
lavoro che la salute: era ridotta alla più squallida miseria.
L’indomani andai da lei con sua signoria. Arrivammo in tempo per non
lasciarla morire di fame.»
«Dopo una lunga malattia durante la quale le furono prodigate tutte
le cure, la signora Georges, come atto di riconoscenza, raccontò la
sua vita a sua signoria, di cui non sapeva ancora né come si
chiamasse né chi fosse, gli raccontò, dicevo, la sua vita, la
condanna di Duresnel, e il rapimento del figlio.»
«In tal modo Sua Altezza venne a sapere che la signora Georges
apparteneva alla famiglia d’Harville?»
«Sì e, dopo questa spiegazione, sua signoria che andava apprezzando
sempre di più le qualità della signora Georges, la convinse a
lasciare Parigi, e la mise nella fattoria di Bouqueval dove ora
abita assieme alla Goualeuse. In quel calmo ritiro trovò, non dico
la felicità, ma certo la tranquillità e poté distogliere il pensiero
dai suoi dispiaceri amministrando quella fattoria... Sia per
riguardo alla dolorosa suscettibilità della signora Georges, sia
perché non gli piace rendere noti i propri benefici, sua signoria ha
lasciato ignorare al signor d’Harville che egli aveva tratto la sua
parente da una miseria spaventosa.»
«Adesso capisco perché sua signoria si è doppiamente interessato per
scoprire le tracce del figlio di quell’infelice.»
«Da ciò potete anche rendervi conto, caro barone, di come Sua
Altezza sia affezionato a tutta quella famiglia e di come gli
dispiaccia vedere rattristato il giovane marchese, lui che ha tanti
motivi per essere felice.»
«Infatti, che cosa manca al signor d’Harville? Ha tutto, nascita,
ricchezza, spirito, giovinezza; sua moglie è affascinante, bella e
onesta...»
«È vero, e sua signoria ha pensato alle informazioni di cui abbiamo
appena parlato solo dopo aver cercato invano di capire la causa
della profonda malinconia del signor d’Harville; questi s’è mostrato
molto commosso della bontà di Sua Altezza, ma ha mantenuto il più
completo riserbo sul motivo della sua tristezza. Che sia forse una
pena d’amore?»
«Eppure lo dicono innamoratissimo di sua moglie e lei non gli dà
nessun motivo per ingelosirlo. La incontro spesso in società:
è molto corteggiata, come avviene sempre per una donna giovane e
affascinante, ma la sua reputazione non ha mai dato adito a
sospetti.»
«Sì, il marchese si vanta sempre molto di sua moglie... Ha avuto
solo con lei una piccolissima discussione a proposito della contessa
Sarah Mac-Grégor!»
«La vede allora?»
«Per una malauguratissima combinazione, il padre del marchese
d’Harville ha conosciuto, diciassette o diciotto anni fa, Sarah
Seyton di Halsbury e suo fratello Tom, al tempo del loro soggiorno a
Parigi, quando erano sotto la protezione dell’ambasciatore
d’Inghilterra. Sentendo che i due fratelli si recavano in Germania,
il vecchio marchese diede loro una lettera di presentazione per il
padre di sua signoria, col quale era sempre in corrispondenza.
Ahimè! caro di Graün, forse se non ci fosse stata quella
raccomandazione molti guai non sarebbero accaduti, perché sua
signoria non avrebbe certo conosciuto quella donna. Infine, quando
la contessa Sarah è ritornata qui, avendo saputo dell’amicizia di
Sua Altezza per il marchese, s’è fatta presentare a palazzo
d’Harville, con la speranza di incontrarvi sua signoria; perché lei
nell’inseguirlo ci mette lo stesso accanimento che mette lui nello
sfuggirla.»
«Travestirsi da uomo per inseguire Sua Altezza perfino nella
Cité!... Solo lei può avere idee simili.»
«Forse sperava in questo modo di commuovere sua signoria e di
costringerlo a un colloquio, colloquio che egli ha sempre evitato e
rifiutato. Per tornare alla signora d’Harville, il marito, a cui sua
signoria aveva parlato di Sarah come doveva, ha consigliato alla
moglie di vederla il meno possibile; ma la giovane marchesa, sedotta
dalle moine della contessa, si è un po’ ribellata al parere del
signor d’Harville. Ne è nato qualche piccolo screzio, che però non
può certo essere la causa della nera disperazione del marchese.»
«Ah! le donne... le donne! caro Murph; mi dispiace molto che la
signora d’Harville sia in relazione con Sarah... La giovane e
graziosa marchesa ha tutto da perdere a frequentare una creatura
così diabolica.»
«A proposito di creature diaboliche» disse Murph «ecco un dispaccio
relativo a Cecily, l’indegna sposa del nobile David.»
«Detto fra noi, caro Murph, l’audace meticcia si sarebbe ben
meritata il terribile castigo che suo marito, il caro dottor negro,
ha inflitto al Maître d’école per ordine di sua signoria. Anche lei
ha fatto scorrere il sangue e la sua corruzione è spaventosa.»
«E nonostante ciò è così bella e seducente! Un’anima perversa sotto
apparenze aggraziate mi fa sempre doppiamente orrore.» «Sotto questo
aspetto, Cecily è doppiamente odiosa; ma spero che questo dispaccio
annulli gli ultimi ordini dati da sua signoria
riguardo a quella sciagurata.»
«Al contrario... barone.»
«Sua signoria vuol sempre che la si aiuti a fuggire dalla fortez-
za dove è stata condannata a restare per tutta la vita?» «Sì.»
«E che il suo presunto rapitore la porti in Francia? A Parigi?»
«Sì, e anche di più... questo dispaccio ordina di affrettare il più
possibile l’evasione di Cecily e di farla partire subito in modo che
arrivi qui al più tardi fra quindici giorni.»
«Non mi ci raccapezzo più... aveva fatto sempre tanto orrore a sua
signoria!...»
«E gliene fa ancora di più, se veramente può fargliene di più.»
«E ciononostante se la fa venire vicino! Del resto sarà sempre
facile come ha pensato Sua Altezza ottenere l’estradizione, se non
farà quello che egli si aspetta da lei. Si ordina al figlio del
carceriere della fortezza di Gerolstein di rapire la donna facendo
finta di esserne innamorato; gli si concedono tutte le facilitazioni
necessarie per mettere in atto un tale progetto. Infinitamente
felice di fuggire, la meticcia segue il suo presunto rapitore e
arriva a Parigi; bene, ma continua a restare sotto il peso della
condanna; si tratta pur sempre di un’evasa, e non appena sua
signoria lo vorrà, io ho tutti i mezzi per chiedere e ottenere la
sua estradizione.»
«Se son rose fioriranno, caro di Graün, perciò vi pregherei, stando
all’ordine di sua signoria, di scrivere alla nostra cancelleria per
chiedere, tramite corriere, una copia legalizzata dell’atto di
matrimonio di David; perché si è sposato al palazzo ducale, in
qualità di ufficiale della casa di sua signoria.»
«Se facciamo partire la lettera col corriere di oggi, avremo
quest’atto fra otto giorni al massimo.»
«Quando David ha saputo da sua signoria del prossimo arrivo di
Cecily, è rimasto di sasso; poi ha esclamato: “Spero che sua Altezza
non mi obblighi a vedere quel mostro!” “State tranquillo” ha
risposto sua signoria, “non la vedrete... ma ho bisogno di lei per
certi scopi.” David s’è sentito liberato da un peso enorme. Eppure
sono sicuro che si sono ridestati in lui ricordi molto dolorosi.»
«Povero negro!... è capace di amarla ancora. Dicono che sia ancora
tanto bella!»
«Affascinante... troppo affascinante... Ci vorrebbe l’occhio
implacabile di un creolo per scoprire il sangue misto
nell’impercettibile sfumatura bruna che si nota appena appena nella
corona delle rosee unghie della meticcia; le nostre fresche bellezze
del Nord non hanno un colorito così trasparente, una pelle così
chiara, dei capelli di un castano così dorato.»
«Ero in Francia quando sua signoria è ritornato dall’America,
portando con sé David e Cecily; so solo che, da allora, quell’uomo
straordinario è legato a Sua Altezza dalla più calda riconoscenza,
ma non ho mai saputo in seguito a quali vicende fosse passato al
servizio del nostro signore, e come mai avesse sposato Cecily, che
ho visto per la prima volta circa un anno dopo il suo matrimonio; e
Dio sa lo scandalo che suscitava già!...»
«Posso informarvi esattamente di quello che desiderate sapere, caro
barone; accompagnavo sua signoria in quel viaggio in America, da
dove ha portato via David e la meticcia strappandoli alla sorte più
terribile.»
«Siete molto buono, caro Murph, vi ascolto» disse il barone.
VII
LA STORIA DI DAVID E DI CECILY
«Il signor Willis, ricco piantatore americano della Florida» disse
Murph «aveva scoperto in un suo giovane schiavo negro, chiamato
David, addetto all’infermeria della piantagione, una spiccatissima
intelligenza, una sollecitudine profonda e attenta per i poveri
malati, ai quali prodigava con amore le cure prescritte dai medici,
e infine una vocazione così singolare per lo studio della botanica
applicata alla medicina che, senza nessuna istruzione, egli aveva
composto con le dovute classificazioni una sorta di Flora
riguardante la piantagione e i dintorni. La tenuta del signor Willis
era situata in riva al mare e distava quindici o venti leghe dalla
città più vicina; a causa delle grandi distanze e delle scomodità
delle vie di comunicazione, i medici del paese, peraltro molto
ignoranti, si muovevano difficilmente. Per poter rimediare a questo
inconveniente così grave in un paese soggetto a violente epidemie, e
avere sempre a portata di mano un medico abile, il colono ebbe
l’idea di mandare David in Francia a imparare la chirurgia e la
medicina. Entusiasta dell’offerta, il giovane negro partì per
Parigi; il piantatore gli pagò gli studi e, dopo otto anni di
intensissimo lavoro, David, promosso medico con il massimo
dei voti, ritornò in America per mettere la sua scienza a
disposizione del padrone.»
«David, mettendo piede in Francia, avrebbe dovuto considerarsi
libero ed emancipato di fatto e di diritto.»
«David, uomo di rara lealtà, aveva promesso al signor Willis di
ritornare e ritornò. Inoltre lui non considerava per così dire “sua”
un’istruzione acquisita con il denaro del padrone. E infine sperava
di poter addolcire spiritualmente e materialmente le sofferenze
degli schiavi, suoi ex compagni. Si riprometteva di essere non solo
il loro medico, ma anche il loro sostegno, il loro difensore presso
il colono.»
«Infatti bisogna essere dotati di un’onestà senza pari e di un
sacrosanto amore per il prossimo per ritornare da un padrone, dopo
un soggiorno di otto anni a Parigi... a contatto con la gioventù più
democratica d’Europa.»
«Da questo particolare... potete giudicare l’uomo. Eccolo dunque in
Florida, e, bisogna dirlo, trattato con stima e bontà dal signor
Willis, che mangia alla stessa tavola, che abita sotto lo stesso
tetto; d’altra parte, il colono, stupido, cattivo, sensuale,
dispotico come sono certi creoli, si credette molto generoso perché
dava a David seicento franchi di salario. Dopo alcuni mesi un
terribile tifo colpisce il podere; il signor Willis è tra le
vittime, ma viene immediatamente guarito dalle cure del bravissimo
David. Su trenta negri gravemente ammalati, ne muoiono solo due. Il
signor Willis, entusiasta dei servigi di David, gli aumenta il
salario a 1200 franchi; il medico negro si riteneva l’uomo più
felice di questa terra, i suoi confratelli lo consideravano la loro
provvidenza; attraverso grandissime difficoltà era riuscito a
ottenere dal padrone qualche miglioramento alla loro condizione,
sperava di più per il futuro, intanto moraleggiava, consolava quella
povera gente, li esortava alla rassegnazione, parlava loro di Dio
che veglia sui negri come sui bianchi, di un altro mondo, abitato
non più da padroni e da schiavi, ma da buoni e da cattivi; di
un’altra vita... eterna, dove gli uni non erano più bestiame e roba
degli altri, ma dove le vittime di questa terra erano così felici
che in cielo pregavano per i loro carnefici... Che dico? A quegli
infelici che, contrariamente agli altri uomini, contano con gioia
amara i passi che ogni giorno di più li avvicinano alla tomba... a
quegli infelici le cui speranze puntavano sul nulla eterno, David
fece sperare una libertà eterna; allora le catene parvero loro meno
pesanti, i lavori meno faticosi. David era il loro idolo. Passò così
circa un anno. Fra le più belle schiave della piantagione, spiccava
una me-
ticcia di quindici anni, di nome Cecily. Il signor Willis come un
sultano s’incapricciò di quella ragazza; per la prima volta in vita
sua forse ottenne un rifiuto, urtò in una tenace resistenza. Cecily
amava... amava David che, durante l’ultima epidemia, l’aveva curata
con abnegazione ammirevole e salvata; in seguito, l’amore, un amore
castissimo, estinse questo debito di riconoscenza. David non era
così poco raffinato da render nota la sua felicità prima del giorno
in cui avrebbe potuto sposare Cecily; aspettava che lei compisse
sedici anni. Il signor Willis, ignorando il reciproco affetto dei
due, aveva messo superbamente gli occhi addosso alla bella meticcia;
costei andò tutta in lacrime a raccontare a David gli attacchi
brutali a cui a stento era riuscita a sfuggire. Il negro,
tranquillizzatala, va immediatamente a chiederla in sposa al signor
Willis.»
«Perdiana! caro Murph, credo purtroppo d’avere indovinato la
risposta del sultano americano... Rifiutò?»
«Rifiutò. Gli piaceva, disse, quella ragazza; in vita sua non aveva
mai sopportato lo sprezzo di una schiava: voleva quella, l’avrebbe
avuta. David avrebbe scelto un’altra sposa o un’altra amante di suo
gusto. Nella tenuta c’erano almeno dieci mulatte o meticce belle
quanto Cecily. David parlò di quel suo amore, che Cecily
contraccambiava da molto tempo; il piantatore alzò le spalle. David
insisté: fu inutile. Il creolo ebbe la sfacciataggine di dirgli che
sarebbe stato un cattivo esempio vedere un padrone cedere davanti a
uno schiavo, e che egli non avrebbe dato un simile esempio per
soddisfare un capriccio di David. Questi lo supplicò, il padrone si
spazientì; David, non volendo abbassarsi di più, parlò con tono
fermo dei servigi che rendeva e del suo disinteressamento; infatti
si accontentava di un magro salario. Il signor Willis, inviperito,
gli rispose con disprezzo che per essere uno schiavo era trattato
infinitamente bene. A quelle parole l’indignazione di David
scoppiò... Per la prima volta parlò da uomo reso edotto dei suoi
diritti da una permanenza di otto anni in Francia. Il signor Willis,
furioso, lo trattò da schiavo ribelle, minacciò di metterlo alla
catena. David si lasciò andare allora a un discorso amaro e
violento... Due ore dopo, attaccato a un palo, veniva straziato
dalle frustate, mentre sotto i suoi occhi Cecily veniva trascinata
nel serraglio del piantatore.»
«Il comportamento del piantatore era stupido e spaventoso... Era una
crudeltà assurda... dopo tutto aveva bisogno di quell’uomo...»
«Tanto bisogno, che quel giorno stesso un po’ per la gran bile che
si era presa, un po’ per l’ubriacatura con cui quel bruto ogni
sera cercava di stordirsi, contrasse una gravissima infiammazione i
cui sintomi si manifestarono con la rapidità tipica di quelle
affezioni: il piantatore si mette a letto con una febbre orribile...
Manda un corriere a cercare un medico; ma il medico non può essere
alla piantagione prima di trentasei ore...»
«La circostanza sembra veramente provvidenziale... una svolta del
destino che quell’uomo si era meritata...»
«Il male progrediva spaventosamente... solo David poteva salvare il
colono; ma Willis, diffidente come tutti gli scellerati, temeva che
il negro, per vendicarsi, lo avvelenasse con una pozione... perché
dopo essere stato frustato con le verghe, David era stato gettato in
prigione... Infine, spaventato dai progressi della malattia,
abbattuto dalla sofferenza, constatato che, morto per morto, la sua
ultima possibilità risiedeva nella generosità dello schiavo, dopo
terribili esitazioni fece liberare David.»
«E David salvò il piantatore?»
«Per cinque giorni e cinque notti lo vegliò come avrebbe fatto con
suo padre, lottò contro la malattia passo a passo con una bravura e
un’abilità sorprendenti; finì quindi col trionfare sul male, con
grande sorpresa del medico che era stato chiamato e che arrivò solo
al secondo giorno.»
«E quando ritornò in salute... il colono?»
«Non volendo umiliarsi davanti allo schiavo che in ogni momento
l’avrebbe schiacciato con tutto il peso della sua ammirevole
generosità, il colono, con un sacrificio enorme, giunse ad assumere
nel suo possedimento il medico che era stato chiamato e David fu
rimesso in prigione.»
«È orribile! ma non mi stupisco: David sarebbe stato un rimorso
vivente per quell’uomo.»
«Quella barbara decisione non era solo dettata dalla vendetta e
dalla gelosia. I negri del signor Willis volevano bene a David con
tutto l’ardore della riconoscenza: egli era il dottore delle loro
anime e dei loro corpi. Sapevano quante cure aveva prodigato al
colono quando questi si era ammalato... Così, scossi, per fortuna,
dalla stupida apatia a cui di solito la schiavitù riduce gli
individui, quegli infelici palesarono non senza vivacità la loro
indignazione o meglio il loro dolore, quando videro David straziato
dalle frustate. Il signor Willis, esasperato, credette di scoprire
in questa manifestazione i germi di una rivolta... Vista l’influenza
che David aveva sugli schiavi, pensò che sarebbe stato capace di
mettersi in seguito alla testa di una sommossa, e di vendicarsi in
quell’occasione dell’odiosa ingratitudine del padrone... Questo
timore as-
surdo offrì al colono il destro per far subire a David altre
angherie e per metterlo nell’impossibilità di compiere i sinistri
disegni di cui lo sospettava.»
«Visto nella prospettiva di un terrore selvaggio... questo
comportamento sembra meno stupido, sebbene feroce.»
«Noi arriviamo in America poco dopo questi avvenimenti. Sua signoria
aveva noleggiato un brigantino danese a Saint-Thomas; visitavamo in
incognito tutti i possedi menti coloniali del litorale americano che
costeggiavamo. Il signor Willis ci accolse magnificamente. La sera
del giorno dopo il nostro arrivo, finito di bere, il signor Willis,
un po’ perché sotto i fumi del vino e un po’ per cinica spavalderia,
ci raccontò, inframmezzandola di facezie spaventose, la storia di
David e di Cecily; dimenticavo di dirvi che il padrone per punire la
povera Cecily del suo rifiuto iniziale aveva sbattuto in prigione
anche lei. Mentre ascoltava il terribile racconto, Sua Altezza aveva
creduto che Willis esagerasse le cose o che fosse ubriaco... Willis
era sì ubriaco, ma non esagerava. Per dissipare l’incredulità di sua
signoria, il colono si alzò da tavola e comandò a uno schiavo di
prendere una lanterna e di guidarci alla prigione dove si trovava
David.»
«Ebbene?»
«In vita mia non ho mai visto uno spettacolo così straziante.
Smunti, macilenti, mezzo nudi, piagati, con le catene attorno alla
vita, David e la povera ragazza uno a un lato della cella, l’altra
al lato opposto, sembravano due spettri. Il chiarore della lanterna
rendeva ancora più lugubre la scena. Al vederci David non disse una
parola; il suo sguardo aveva una spaventosa fissità. Il colono
allora gli disse con crudele ironia:
“Ebbene, dottore, come stai?... Tu che sei così bravo!... salvati un
po’!...”.
Il negro rispose con una parola e un gesto sublimi; alzò lentamente
il braccio e con l’indice teso verso il soffitto disse in tono
solenne senza guardare il colono:
“Dio!”
E tacque.
“Dio?” riprese il piantatore scoppiando a ridere: “di’ un po’ a
Dio di venirti a strappare dalle mie mani! Lo sfido!”...
Quindi, ubriaco e fuori di sé dalla rabbia, alzò i pugni al cielo
e bestemmiando gridò:
“Sì, sfido Dio a portarmi via gli schiavi prima che debbano
morire!... Se non lo fa, nego la sua esistenza!”» «Era un pazzo
furioso!»
«Fummo profondamente disgustati... sua signoria non proferì parola.
Usciamo dalla prigione... Quell’antro, come anche il podere, si
trovava sulla riva del mare. Ritorniamo a bordo del nostro
brigantino, ormeggiato lì a due passi. All’una di notte, quando
tutta la casa era immersa nel sonno più profondo, monsignore scende
a terra con otto uomini ben armati, va dritto alla prigione, porta
via David e Cecily.
Le due vittime furono trasportate a bordo senza che nessuno si
accorgesse della nostra spedizione; poi sua signoria e io ci
rechiamo alla casa del piantatore.
Strana cosa! quegli uomini torturano i loro schiavi e non prendono
contro di loro nessuna precauzione: dormono con le porte e le
finestre aperte. Arriviamo senza alcuna difficoltà nella camera da
letto del piantatore, rischiarata all’interno da una lanterna.
Questi si rizza a sedere, con la testa ancora annebbiata dai fumi
del vino.
“Questa sera avete sfidato Dio a portarvi via i due schiavi prima
che dovessero morire? Egli ve li porta via” incominciò sua signoria.
Poi, presa la borsa che io avevo in mano e che conteneva 25.000
franchi d’oro, gliela gettò sul letto dicendo: “Questo vi ripagherà
della perdita dei due schiavi. Alla vostra violenza che uccide, io
oppongo una violenza che salva, Dio giudicherà!...”. E ce ne andiamo
lasciando il signor Willis stupefatto, immobile, come sotto
l’effetto di un sogno. Alcuni minuti dopo, avevamo raggiunto il
brigantino e dato le vele al vento.»
«Mi sembra, caro Murph, che Sua Altezza sia stato troppo generoso
nel pagare a quel miserabile i due schiavi; perché, a rigor di
logica, David non gli apparteneva più.»
«Avevamo pressappoco calcolato quanto erano costati gli otto anni di
studi di quest’ultimo, poi come minimo avevamo triplicato il valore
che lui e Cecily potevano avere come semplici schiavi. Ci eravamo
comportati contrariamente al diritto delle genti, lo so; ma se
aveste visto in che triste condizione si trovavano quegli infelici
che erano quasi in agonia, se aveste sentito la sacrilega sfida
gettata in faccia a Dio da quell’uomo ubriaco di vino e di ferocia,
avreste capito perché sua signoria abbia voluto, come egli disse in
quella occasione, “fare un po’ la parte della Provvidenza”.»
«Il fatto può essere impugnato e giustificato quanto la punizione
inflitta al Maître d’école, nobile gentiluomo. E l’avventura non
ebbe a ogni modo qualche conseguenza?»
«Non ne poteva avere nessuna. Il brigantino batteva bandiera danese,
l’incognito di Sua Altezza era strettamente mantenuto; passavamo per
ricchi inglesi. Poi se avesse tentato di sporgere querela, a chi
avrebbe rivolto le sue proteste il signor Willis? In effetti, lui
stesso ci aveva detto, e il medico di sua signoria lo mise a
verbale, che i due schiavi non sarebbero vissuti più di otto giorni
in quell’orribile prigione. Ci fu bisogno di grandissime cure per
strappare Cecily a morte quasi sicura. Finalmente ritornarono in
vita. Da allora, David è rimasto alle dipendenze di sua signoria
come medico e ha per lui il più profondo attaccamento.»
«Va da sé che, arrivati in Europa, David e Cecily si sposarono.»
«Quel matrimonio, che pareva dovesse essere tanto felice, fu
celebrato nella cappella del palazzo di sua signoria; ma, trovatasi
a godere, grazie a un completo cambiamento, di una posizione
insperata, Cecily dimenticò tutto quello che David aveva sofferto
per lei e ciò che ella stessa aveva sofferto per lui, e
vergognandosi, in quel nuovo mondo, di essere la sposa di un negro,
si lasciò sedurre da un uomo spaventosamente depravato, commettendo
così il suo primo sbaglio. Pareva che l’innata perversità di quella
disgraziata, fino ad allora rimasta assopita, non avesse aspettato
che quello spunto pericoloso per destarsi con impressionante furore.
Dopo due anni di matrimonio, David, che in egual misura nutriva per
lei fiducia e amore, venne a sapere tutte quelle infamie: fu un
fulmine a ciel sereno che lo strappò dalla sua cieca e profonda
sicurezza.»
«Dicono che volesse uccidere la moglie.»
«Sì, ma, dietro le insistenze di sua signoria, consentì che ella
venisse rinchiusa per tutta la vita in una fortezza.»
«Ed è la prigione che sua signoria ha or ora aperto... con vostro
grande stupore e anche mio, non ve lo nascondo, caro barone.»
«Francamente, la decisione di sua signoria mi stupisce, tanto più
che il comandante della fortezza ha più volte avvertito Sua Altezza
che quella donna non si poteva domare; niente era riuscito a piegare
quel carattere audace, incallito dal vizio e, ciononostante, sua
signoria insiste per farla venire qui. A che scopo? per quale
ragione?»
«Ecco, caro barone, quello che anch’io come voi non riesco a capire.
Ma si sta facendo tardi. Sua Altezza desidera che il vostro corriere
parta il più presto possibile per Gerolstein.»
«Prima delle due sarà già in cammino. Così, caro Murph... a
stasera!»
«A stasera?»
«Avete dimenticato che all’ambasciata di *** c’è un gran ballo, e
che Sua Altezza ci andrà?»
«Giusto; da quando non ci sono più il colonnello Warner e il conte
d’Harneim, dimentico sempre che faccio le funzioni di ciambellano e
di aiutante di campo.»
«Ma a proposito, quando ritornano il conte e il colonnello?
Dovrebbero aver già finito le loro rispettive missioni.»
«Sapete che sua signoria li tiene lontani il più possibile, per
essere più solo e più libero. In quanto alla missione che Sua
Altezza ha affidato loro mandandoli uno ad Avignone, l’altro a
Strasburgo per sbarazzarsi con eleganza della loro presenza, ve ne
parlerò il giorno in cui saremo tutti e due di cattivo umore; perché
io sfiderei l’ipocondriaco più recidivo a non scoppiare a ridere,
non solo quando ve ne parlerò, ma anche quando vi farò leggere certi
passaggi dei dispacci di quei degni gentiluomini, che prendono le
loro pseudo-missioni con incredibile serietà.»
«Francamente non ho mai capito perché Sua Altezza avesse preso al
suo servizio il colonnello e il conte.»
«Come! il colonnello Warner non è forse il più bell’esemplare di
militare? In tutta la Confederazione germanica ci sono forse figure
più belle, baffi più belli, portamenti più marziali di quelli che ha
lui? E quando è fasciato, bardato, imbrigliato, impennacchiato,
esiste forse animale più scalpitante, più glorioso, più fiero, più
bello... di lui?»
«È vero; però questo tipo di bellezza non gli permette di avere
l’aria eccessivamente intelligente.»
«Ebbene! sua signoria dice che, grazie al colonnello, si è abituato
a trovare sopportabile la gente più pesante. Prima di concedere
certe noiosissime udienze, si chiude in una stanza con il
colonnello, vi resta una mezz’oretta, esce che è tutto spavaldo,
tutto baldanzoso e pronto a sfidare la noia in persona.»
«Come il soldato romano che, prima di una marcia forzata, calzava
sandali di piombo, cosicché, quando se li levava, trovava ogni
fatica leggera. Capisco adesso l’utilità del colonnello. Ma il conte
d’Harneim?»
«È anche lui molto utile a sua signoria: con al fianco quel vecchio
e vuoto balocco, sempre brillante e sonoro, con sotto gli occhi
quella bolla di sapone così piena... di niente, così stupendamente
iridescente, che rappresenta il lato teatrale e puerile del potere
sovrano, sua signoria sente ancora più vivamente la vanità di quella
sterile pomposità e spesso, per contrasto, la presenza del vacuo e
corrusco ciambellano gli ha ispirato le idee più serie e più utili.»
«Del resto, siamo giusti, caro Murph, ditemi per piacere, in quale
corte si può trovare un modello così perfetto di ciambellano? Chi
conosce meglio dell’eccellente Harneim le innumerevoli regole e
tradizioni dell’etichetta? Chi più di lui sa portare con maggiore
solennità una croce di smalto al collo e con maggiore maestosità una
chiave d’oro sulla schiena?»
«A proposito, barone, sua signoria sostiene che la schiena di un
ciambellano ha una fisionomia tutta particolare: esprime, dice lui,
ribellione e costrizione insieme, cosa penosa a vedersi; perché, oh
dolore, il ciambellano porta l’insegna della sua carica proprio
sulla schiena; e, secondo sua signoria, il nobile Harneim dà sempre
l’impressione di volersi presentare camminando all’indietro, perché
si giudichi subito la sua importanza.»
«Fatto sta che al centro delle meditazioni del conte si trova l’idea
fissa di sapere per quale fatale escogitazione la chiave del
ciambellano sia stata messa dietro la schiena; perché, come egli
dice molto giustamente, con una specie di doloroso corruccio: “Che
diavolo! non si apre mica la porta con la schiena!”.»
«Barone, il corriere, il corriere!» disse Murph mostrando l’orologio
al barone.
«Maledetto uomo che mi fa parlare! è colpa vostra. Porgete i miei
rispetti a Sua Altezza» disse il signor di Graün correndo a
prendersi il cappello; «e a questa sera, caro Murph.»
«A questa sera, caro barone; un po’ tardi, perché sono sicuro che
sua signoria vorrà visitare oggi stesso la misteriosa casa della rue
du Temple.»
VIII
LA CASA DELLA RUE DU TEMPLE
Per utilizzare le informazioni che il barone di Graün aveva raccolto
sulla Goualeuse e su Germain, figlio del Maître d’école, Rodolphe
doveva andare in rue du Temple e dal notaio Jacques Ferrand.
Da quest’ultimo, per cercare di ottenere dalla signora Séraphin
qualche indicazione sulla famiglia di Fleur-de-Marie.
Nella casa della rue du Temple, dove di recente aveva abitato
Germain, per cercare di scoprire, tramite la signorina Rigolette,
dove si nascondeva il giovane; compito assai difficile, in quanto la
sartina sospettava forse che il figlio del Maître d’école avesse
tutto l’interesse a non fare saper niente del suo nuovo domicilio.
Prendendo in affitto, nella casa della rue du Temple, la stanza
occupata non molto tempo prima da Germain, Rodolphe facilitava le
sue indagini e si metteva in condizione di osservare da vicino a
quali classi appartenevano gli inquilini di quella casa.
Lo stesso giorno del colloquio fra il barone di Graün e Murph, in
una triste giornata d’inverno, Rodolphe si recò, verso le tre, nella
rue du Temple.
Situata al centro di un popoloso quartiere di mercanti, la casa non
aveva niente di particolare nell’aspetto; constava di un pianterreno
occupato da un venditore di liquori, di quattro piani e, in cima, di
una serie di soffitte.
Uno stretto e oscuro androne conduceva a un cortiletto o piuttosto a
una specie di feritoia larga cinque o sei piedi e completamente
priva d’aria e di luce, ricettacolo infetto di tutte le immondizie
che piovevano dai piani superiori della casa, dalle finestre senza
vetri che si aprivano al di sopra del lavandino di ogni
pianerottolo.
Ai piedi di una scala umida e nera, un chiarore rossastro indicava
la portineria; una portineria annerita dal fumo di una lampada,
necessaria per illuminare anche in pieno giorno quell’antro oscuro
dove seguiremo Rodolphe vestito all’incirca come un commesso in
tenuta da lavoro.
Portava un pastrano di colore incerto, un cappello un tantino
sformato, una cravatta rossa, un ombrello e degli enormi zoccoli non
rigidi. Per rendere più illusorio il suo travestimento, Rodolphe
aveva sotto il braccio un grande rotolo di stoffe avvolto con cura.
Entrò dal portinaio per domandargli di vedere la stanza non
occupata.
Una lampada, dietro un globo di vetro pieno d’acqua, che fa da
rifrattore, illumina la portineria. In fondo, si scorge un letto con
sopra una trapunta fatta d’un’infinità di pezzi di stoffa di ogni
tipo e di ogni colore; a sinistra, un cassettone di noce sul cui
marmo stanno per ornamento:
un piccolo san Giovanni di cera con la parrucca bionda, che porta
una pecora bianca, il tutto messo sotto una campana di vetro
trapunto di stelle, le cui fessure sono state ingegnosamente tappate
con strisce di carta blu.
Due candelieri di vecchio metallo placcato, arrugginito dal tempo, e
recanti, al posto delle candele, delle arance luccicanti,
sicuramente portate da poco alla portinaia come regalo del primo
dell’anno.
Due scatole di cui una di paglia multicolore e l’altra coperta di
conchigliette: i due oggetti artistici puzzano lontano un miglio di
penitenziario o di galera. (Speriamo, per la moralità del portinaio
della rue du Temple, che il presente non sia stato un omaggio
dell’autore.)
Infine fra le due scatole, sotto un globo da orologio, si può
ammirare un paio di stivaletti alla Suvarov, di marocchino rosso,
veri e propri stivali da bambola, ma lavorati, cuciti, rifiniti con
cura e con arte.
Questo capolavoro, come dicevano i vecchi artigiani, il tremendo
odore di cuoio rancido, i fantasiosi arabeschi disegnati sui muri e
l’innumerevole quantità di scarpe vecchie dimostravano abbastanza
chiaramente che il portinaio di quella casa aveva lavorato sul nuovo
prima di scendere a riparare scarpe vecchie.
Quando Rodolphe si avventurò in quel bugigattolo, il signor Pipelet,
il portinaio, momentaneamente assente, era sostituito dalla signora
Pipelet.
Costei stava vicino a una stufa di ghisa che si trovava al centro
dello stanzino e pareva intenta ad ascoltare gravemente il canto
della pentola (è l’espressione consacrata).
L’Hogarth francese, Henri Monnier, ha immortalato così bene lo
stereotipo della portinaia, che ci accontenteremo di invitare il
lettore che voglia farsi un’idea della signora Pipelet a richiamare
alla mente l’immagine della più brutta, più rugosa, più bitorzoluta,
più sordida, più cenciosa, più ringhiosa, più velenosa delle
portinaie immortalate dall’eminente artista.
Il solo particolare che ci permettiamo di aggiungere a questo tipo,
che ciononostante non cessa di essere straordinariamente reale, è un
bizzarro copricapo rappresentato da una parrucca à la Titus;
parrucca che in origine era bionda, ma su cui la patina del tempo
aveva depositato un mucchio di toni rossi e giallastri, marroni e
fulvi, che smaltavano, per così dire, una selva inestricabile di
ciocche dure, rigide, irte e aggrovigliate. La signora Pipelet non
abbandonava mai quell’unico ed eterno ornamento del suo capo
sessagenario.
Alla vista di Rodolphe, la portinaia pronunziò con voce arrogante le
parole di rito:
«Dove andate?»
«Se non sbaglio, signora, in questa casa avete libera una stanza con
studio?» domandò Rodolphe calcando la voce sulla parola «signora»,
cosa che lusingò non poco la signora Pipelet. Per questo rispose
meno aspramente:
«Abbiamo una stanza libera al quarto piano, ma non si può vederla...
Alfred è fuori...»
«Vostro figlio, immagino, signora? E ritornerà presto?»
«No, signore, non è mio figlio, è mio marito!... Perché poi Pipelet
non potrebbe chiamarsi Alfred?»
«Ne ha tutto il diritto; ma, se permettete, aspetterò un momento che
torni: ci terrei ad avere la stanza: il quartiere e la strada mi
vanno bene; la casa mi piace, perché sembra tenuta molto bene.
Tuttavia, prima di visitare l’alloggio che desidero occupare, vorrei
sapere se voi, signora, potreste incaricarvi di rigovernare. Di
solito ne incarico sempre i portieri quando, naturalmente, sono
disposti ad accettare.»
La proposta, fatta in termini così lusinghieri: quel «portiera!»...
conquistò completamente la signora Pipelet che rispose:
«Ma certo, signore... rigovernerò io... anzi ne sarò onorata, e con
sei franchi al mese, sarete servito come un principe.»
«Vada per i sei franchi. Signora... il vostro nome?»
«Pomone-Fortunée, Anastasie Pipelet.»
«Ebbene, signora Pipelet, sono d’accordo sul compenso di
sei franchi da dare a voi. E se la camera mi piace... qual è il
prezzo?»
«Col salottino, 150 franchi, signore; non un baiocco di meno... Il
principale affittuario è un cane... un cane che caverebbe un pelo da
un uovo.»
«E si chiama?»
«Signor Bras-Rouge.»
Questo nome con tutti i ricordi che suscitava fece sussultare
Rodolphe.
«Come avete detto che si chiama, signora Pipelet, l’inquilino
che subaffitta?»
«Ebbene... signor Bras-Rouge.»
«E abita?»
«Al n. 13 della rue aux Fèves; ha anche un caffè nei sotterranei
degli Champs-Elysées.»
Non c’era più alcun dubbio, si trattava della stessa persona...
Quella coincidenza parve strana a Rodolphe.
«Se il signor Bras-Rouge è l’inquilino che subaffitta» disse
«chi è il padrone della casa?»
«Il signor Bourdon; ma io ho avuto a che fare solo col signor
Bras-Rouge.»
Volendo accattivarsi la fiducia della portinaia, Rodolphe ripre-
se a dire:
«Sentite, cara signora Pipelet, sono un po’ stanco; il freddo mi ha
intirizzito... fatemi il piacere di andare nella liquoreria del
pianterreno, e di portarmi una bottiglia di rosolio con due
bicchieri... anzi con tre bicchieri, perché fra poco tornerà vostro
marito».
E diede cento soldi alla donna.
«Ah, questa poi, signore, allora volete essere adorato fin dal primo
momento?» esclamò la portinaia il cui naso bitorzoluto parve
bruciato dal fuoco di una cupidigia sfrenata.
«Sì, signora Pipelet, voglio essere adorato.»
«Mi piace, mi piace; ma porterò solo due bicchieri, io e Alfred
beviamo sempre nello stesso bicchiere. Povero caro, le donne, con
tutte le loro cose, lo ingolosiscono tanto!!!»
«Su, signora Pipelet, aspetteremo Alfred.»
«Ma se viene qualcuno... badate voi alla portineria?»
«State tranquilla.»
La vecchia uscì.
Una volta solo, Rodolphe si mise a riflettere sulla strana cir-
costanza che lo metteva di nuovo sulle tracce di Bras-Rouge; lo
stupì in particolare il fatto che François Germain avesse potuto
restare per tre mesi di seguito in quella casa, senza venire
scoperto dai complici del Maître d’école che erano in relazione con
Bras-Rouge.
In quel momento il postino picchiò sui vetri della portineria,
sporse il braccio e tese due lettere dicendo: «Tre soldi!»
«Sei soldi, visto che le lettere sono due» disse Rodolphe. «Una è
affrancata» rispose il postino.
Dopo aver pagato, Rodolphe prese le due lettere e le guardò
dapprima svogliatamente; ma immediatamente dopo le due lettere gli
sembrarono degne di essere esaminate con attenzione.
Una delle due, quella indirizzata alla signora Pipelet, esalava,
attraverso la busta di carta satinata, un forte odore di sacchetto
profumato in pelle di Spagna; sul sigillo di ceralacca rossa, si
vedevano le due iniziali C.R., sormontate da un elmo e appoggiate al
supporto stellato di una croce della Legion d’onore; l’indirizzo era
stato scritto con mano ferma. La presunzione nobiliare di quel casco
e di quella croce fece sorridere Rodolphe e lo riconfermò nell’idea
che la lettera non era stata scritta da una donna.
Ma chi era il corrispondente profumato e blasonato... della signora
Pipelet?
L’altra lettera, di comune carta grigia, chiusa con un’ostia per
sigillare piena di colpi di spillo, era per il signor Bradamanti, il
chirurgo dentista.
L’indirizzo, per non far riconoscere la calligrafia, chiaramente
contraffatta, era stato scritto tutto a lettere maiuscole.
Fosse presentimento, o capriccio della sua fantasia, o realtà, fatto
si è che quella lettera sembrò triste a Rodolphe. Notò, in un punto
dove la carta era un po’ sgualcita, che alcune lettere
dell’indirizzo erano semicancellate.
V’era caduta sopra una lacrima.
La signora Pipelet ritornò con la bottiglia di rosolio e i due
bicchieri.
«L’ho fatta lunga, vero signore? ma quando si è nella bottega di
padron Joseph, non c’è verso di saltarne fuori. Ah, quel vecchio
indiavolato!... Lo credereste, con l’età che ho, viene ancora a
raccontarmi porcherie.»
«Diavolo!... se Alfred lo sapesse?»
«Non parlatemene, mi viene male al solo pensarci. Alfred è geloso
come un beduino; eppure padron Joseph lo fa per ridere, senza
cattive intenzioni.»
«Il postino ha portato due lettere» disse Rodolphe.
«Ah, mio Dio... scusate, signore... l’avete pagato?»
«Sì.»
«Siete troppo gentile. Allora i soldi li tratterrò dagli spiccioli
che vi devo rendere... Quant’è?»
«Tre soldi» rispose Rodolphe sorridendo della curiosa manie-
ra di rimborsarlo adottata dalla signora Pipelet.
«Come! tre soldi?... Sono sei, ci sono due lettere.»
«Potrei abusare della vostra fiducia, facendovi trattenere sugli
spiccioli che mi dovete sei soldi anziché tre; ma non ne sono
capace, signora Pipelet... una delle due lettere, quella diretta a
voi, è affrancata. E, senza essere indiscreto, vi farò osservare che
avete un corrispondente i cui bigliettini amorosi profumano
terribilmente.»
«Vediamo un po’» disse la portinaia, prendendo la lettera satinata.
«È vero, sì... ha tutta l’aria di un bigliettino amoroso! capite,
signore, un bigliettino amoroso! Ah, bella questa!... ma chi è quel
monellaccio che ha osato?...»
«E se Alfred fosse stato qui, signora Pipelet?»
«Non ditemelo, altrimenti vi svengo fra le braccia!»
«Non lo dirò più, signora Pipelet!»
«Ma come sono stupida... ma sì» disse la portinaia alzando le
spalle... «so... so... è del comandante... Ah, che spavento ho
preso! Ma questo non m’impedirà di fare i conti: vediamo un po’,
sono tre soldi per l’altra lettera, vero? Dunque dicevamo: quindici
soldi di rosolio più tre soldi che mi trattengo per la lettera,
fanno diciotto;
diciotto e due, venti, più quattro franchi fanno cento soldi; patti
chiari, amicizia lunga.»
«E questi sono venti soldi per voi, signora Pipelet; avete un modo
così incredibile di rimborsare i prestiti che vi vengono fatti, che
voglio incoraggiarvi.»
«Venti soldi! mi date venti soldi!... e perché?» esclamò la signora
Pipelet allarmata e nello stesso tempo stupita da questo gesto di
favolosa generosità.
«Sarà un acconto sulla caparra, se prendo la stanza.»
«Se è così, accetto; ma avviserò Alfred.»
«Certo; ma ecco l’altra lettera: è indirizzata al signor César Bra-
damanti.»
«Ah, sì... il dentista del terzo piano... vado a metterla subito
nel-
lo stivale delle lettere.»
Rodolphe credette di aver capito male, invece vide la signora Pi-
pelet gettare gravemente la lettera in un vecchio stivale a tromba,
accanto al muro.
Rodolphe la guardava con meraviglia.
«Come?» le disse «mettete la lettera...»
«Sì, signore, la metto nello stivale delle lettere... In questa ma-
niera, niente va perduto: quando gli inquilini rientrano, Alfred e
io scuotiamo lo stivale, facciamo la cernita, e ciascuno ha la sua
posta.» «La vostra casa è così ben organizzata, che ho sempre più
voglia di abitarvi; soprattutto sono rimasto stupito dallo stivale
del-
le lettere.»
«Dio mio, è semplicissimo» replicò modestamente la signora Pi-
pelet: «Alfred aveva questo vecchio stivale scompagnato; tanto
valeva metterlo a disposizione degli inquilini.»
Ciò detto, la portinaia aveva aperto la lettera indirizzata a lei e
s’era messa a rigirarla in tutti i sensi; dopo qualche momento
d’imbarazzo disse a Rodolphe:
«Alfred s’incarica sempre di leggermi le lettere, perché io non so
farlo. Signore, sareste tanto gentile... di essere per me quello che
è Alfred?»
«Leggervi la lettera? volentieri» disse Rodolphe curiosissimo di
conoscere il corrispondente della signora Pipelet.
E lesse quanto segue sulla lettera satinata dove in un angolo si
potevano scorgere il casco, le iniziali C.R., il supporto araldico e
la croce d’onore:
Domani venerdì, alle undici, accendete un gran fuoco nelle due
stanze, pulite bene gli specchi e togliete le tele da sopra tutti i
mobili, facendo bene attenzione di non scrostare la doratura se
spolverate.
Se per caso verso l’una arrivasse una carrozza con una signora che
chiede di me chiamandomi signor Charles, e io non fossi giunto,
fatela salire nell’appartamento, portate giù la chiave che mi
consegnerete quando verrò.
Nonostante il tenore poco accademico del biglietto, Rodolphe capì
perfettamente di che si trattava, e disse alla portinaia:
«Chi abita al primo piano?»
La vecchia si posò sul labbro cascante un dito giallo e grinzoso,
rispondendo con una risatina maligna: «Acqua in bocca... sono
intrighi amorosi.»
«Ve lo domando, cara signora Pipelet... perché prima di alloggiare
in una casa... si desidera sapere...»
«È naturale... dimmi con chi vai... e ti dirò chi sei, vero?» «Stavo
proprio per dirvelo.»
«Del resto posso ben dirvi quello che so su questa faccenda,
non è una cosa lunga... Circa sei settimane fa, è venuto qui un
tappezziere, ha esaminato il primo piano, che era da affittare, ci
ha chiesto il prezzo e, il giorno dopo, è tornato in compagnia di un
bel giovanotto biondo, con baffetti neri, croce d’onore, e ben
vestito. Il tappezziere lo chiamava... comandante.»
«È un militare?»
«Militare?» rispose la signora Pipelet alzando le spalle «via, è
come se Alfred si fregiasse del titolo di portiere.»
«Come sarebbe a dire?»
«È semplicemente della guardia nazionale, nello Stato maggiore; il
tappezziere lo chiamava comandante tanto per leccarlo... così come
Alfred si sente leccato da chi lo chiama portiere. Infine quando il
comandante (lo conosciamo solo con questo nome) ebbe visto ogni
cosa, disse al tappezziere: “Va bene, mi piace, accomodate tutto e
parlate col padrone”.»
«“Sì, comandante” ha detto l’altro...
E il giorno dopo il tappezziere in presenza di Bras-Rouge ha firmato
il contratto col suo proprio nome di tappezziere, gli ha pagato sei
mesi anticipati, perché sembra che il giovanotto voglia restare in
incognito. Subito dopo, sono venuti gli operai a demolire tutto il
primo piano; hanno portato divani, tende di seta, specchi dorati,
mobili magnifici; insomma una casa bella come un caffè dei
boulevards! E dappertutto gran tappeti così grossi e così morbidi
che sembra di camminare su pellicce di animale...
Quando tutto fu a posto, il comandante è venuto a vedere il lavoro,
ha detto ad Alfred: “Potete incaricarvi di tenere in ordine questo
appartamento, in cui non verrò molto spesso, di fare fuoco di tanto
in tanto, e di apparecchiarlo quando io ve lo farò sapere per
posta?” “Sì, comandante” gli ha detto quel ruffiano di Alfred. “E
quanto mi prendete?” “Venti franchi al mese, comandante.” “Venti
franchi! portinaio, voi volete scherzare!” Ed ecco quel gran signore
che si mette a discutere sul prezzo come uno spilorcio, per fregare
la povera gente. Vedete, per uno o due miseri pezzi da cento soldi,
quando ha fatto spese pazze per un appartamento in cui non viene
neanche a abitare! Infine, a forza di lottare, siamo riusciti a
ottenere dodici franchi. Dodici franchi! Vedete un po’ voi se non
sono sudati!... Va’ là, comandante dei miei stivali! Che differenza
da voi, signore» aggiunse affabilmente la portinaia volgendosi a
Rodolphe, «voi non vi fate chiamare comandante, non avete l’aria di
essere chissà chi, eppure avete accettato subito il prezzo di sei
franchi.»
«È poi ritornato quel giovanotto?»
«State a sentire la cosa buffissima; pare che le donne lo facciano
sospirare, questo comandante. Ha scritto già tre volte, come oggi,
di accendere il fuoco, di mettere tutto a posto perché sarebbe
venuta una signora. Ma sì! Aspetta che vengano!»
«Non è venuto nessuno?»
«State a sentire. La prima volta, il comandante è arrivato
raggiante, canticchiando fra i denti e dandosi un sacco di arie; ha
aspettato due ore buone... nessuno; noi, mio marito e io,
aspettavamo spiando che ripassasse davanti alla portineria per
vedere la sua faccia e per stuzzicarlo. “Comandante, non è venuto
nessuno, nemmeno l’ombra di una mezza signora” gli dico. “Bene,
bene!” mi risponde furioso e pieno di vergogna, e se ne va in fretta
e furia, mangiandosi le unghie dalla rabbia. La seconda volta, prima
del suo arrivo, un messo porta un biglietto indirizzato al signor
Charles; io sospetto che anche questa volta tutto sia andato
all’aria; quando il comandante arriva, mio marito e io ci stiamo
facendo delle matte risate: “Comandante”, dico, portandomi il dorso
della mano sinistra alla parrucca, come una vera soldatessa, “c’è
una lettera per voi; anche oggi sembra che ci siano contrordini!”.
Egli mi guarda con occhio sprezzante, apre la lettera, la legge,
diventa rosso come un gambero; poi ci dice, facendo finta di non
essere contrariato: “Lo sapevo che non sarebbe venuta: io sono
venuto per raccomandarvi di sorvegliare tutto per bene”. Non era
vero; ce lo aveva detto per non far vedere che lo prende-
vano per il naso; dopo di che, se ne va dimenandosi e canticchiando
a denti stretti; ma va’ là che era irritato per benino... Ben ti
sta! Ben ti sta, comandante dei miei stivali! questo ti insegnerà a
dare solo dodici franchi al mese per le pulizie del tuo
appartamento.»
«E la terza volta?»
«Ah, la terza volta ho creduto proprio che fosse la volta buona. Il
comandante arriva tutto in ghingheri; gli occhi gli schizzavano
fuori dalle orbite da tanto sembrava contento e sicuro del fatto
suo. Bellissimo giovanotto, comunque... e ben vestito e profumava
come lo zibetto... sembrava sospeso per aria da tanto era gonfio...
Prende la chiave e prima di salire ci dice con aria beffarda e
altezzosa quasi per vendicarsi delle volte scorse: “Avvertite la
signora che la porta è socchiusa...”. Bene! mio marito e io eravamo
così curiosi di vedere la donnetta, quantunque non ci sperassimo
molto, che usciamo dalla portineria per metterci in agguato sulla
soglia dell’androne. Questa volta, però, si ferma davanti a casa
nostra una piccola carrozza blu con le tendine abbassate. “Bene! è
lei” dico ad Alfred... “Andiamo dentro per non spaventarla.” Il
vetturino apre lo sportello. Allora vediamo una piccola signora con
un manicotto sulle ginocchia e un velo nero sulla faccia, senza
contare il fazzoletto che aveva in bocca, perché sembrava piangesse;
ma quando la predella fu abbassata, la signora, invece di scendere,
dice due parole al vetturino, che, tutto sbalordito, richiude lo
sportello.»
«Scese la signora?»
«No, signore; si rigettò nel fondo della carrozza coprendosi gli
occhi con le mani. Io mi precipito in strada e prima che il
cocchiere si rimetta a cassetta, gli grido: “Ehi, buon uomo, ve ne
andate già?” “Sì” mi dice. “E dove?” gli chiedo. “Da dove sono
venuto.” “E da dove venite?” “Dalla rue Saint-Dominique, all’angolo
della rue Belle-Chasse.”»
A quelle parole, Rodolphe sussultò.
Uno dei suoi migliori amici, il marchese d’Harville, che da qualche
tempo era oppresso da una profonda malinconia, come abbiamo già
detto, abitava in rue Saint-Dominique all’angolo della rue
Belle-Chasse.
Era forse la marchesa d’Harville ad avere rischiato così la sua
rovina? E il marito non sospettava la cattiva condotta della moglie?
la cattiva condotta della moglie... unica causa forse della
tristezza da cui il marchese sembrava posseduto.
Questi erano i dubbi che assillavano la mente di Rodolphe. Egli,
però, che conosceva gli amici intimi della marchesa, non si
ricordava di aver mai visto uno che assomigliasse al comandante. La
signora in questione, dopo tutto, poteva benissimo avere preso la
carrozza in quel posto, senza per questo abitare in quella strada.
Rodolphe non aveva nessuna prova che fosse la marchesa. Gli
restarono tuttavia certi tormentosi sospetti.
Le sue inquietudini e la sua aria assorta non erano sfuggite alla
portinaia.
«Ohè, signore! a cosa pensate?» gli disse.
«Mi sto chiedendo la ragione per cui quella donna che era giunta
fino alla porta... abbia cambiato idea...»
«Che volete, signore, un’idea improvvisa, la paura, la
superstizione. Noi, povere donne, siamo così deboli, così
vigliacche» disse l’orribile portinaia con aria timida e crucciata.
«Chissà quante volte, credo, avrei dovuto prendere slancio se
anch’io, come quella signora, avessi dovuto partire di nascosto per
andare a fare le corna ad Alfred. Mai, nemmeno per sogno! Povero
caro! Non c’è uomo sulla terra, che possa farmi tradire Alfred.»
«Vi credo, signora Pipelet... Ma la giovane signora...»
«Non so se fosse giovane; non siamo riusciti a vederle nemmeno la
punta del naso. Fatto sta che com’era venuta, così se n’è andata
alla chetichella. Se ci avessero dato dieci franchi, Alfred e io non
saremmo stati tanto contenti.»
«Perché?»
«Pensando alla faccia che avrebbe fatto il comandante, ci sarebbe
stato sicuramente da crepare dal ridere. Come prima cosa, invece di
andare subito a dirgli che la signora se n’era tornata indietro, lo
lasciamo aspettare e stare sulle spine per un’ora buona. Poi salgo:
ai miei poveri piedi avevo un paio di pedule di vivagno; arrivo alla
porta che era socchiusa. La spingo, cigola; la scala è buia come un
forno e anche l’entrata dell’appartamento. Ecco che appena entro, il
comandante mi prende tra le braccia dicendomi in tono lezioso: “Dio,
come sei arrivata tardi angelo mio!”»
Nonostante la gravità dei pensieri da cui era preso, Rodolphe non
poté fare a meno di ridere, soprattutto al ricontemplare la
grottesca parrucca e l’orribile faccia rugosa e bitorzoluta di colei
che era stata l’eroina di quel ridicolo equivoco.
La signora Pipelet riprese poi facendo certe strane boccacce che la
mostravano ancora più repellente:
«Eh, eh, eh! questa è bella! Ma sentite il seguito. Io non rispondo,
trattengo il respiro, lo lascio fare... ma a un tratto ecco che quel
villano mi respinge schifato come se avesse toccato un ragno e si
mette a gridare: “Ma chi diavolo è?” “Sono io, coman-
dante, la signora Pipelet, la portinaia, quindi dovreste tenere a
posto le mani, non prendermi per la vita, né chiamarmi angelo e
dirmi che son venuta tardi. E se ci fosse stato Alfred?” “Che
volete?” mi urla furioso. “Comandante, la damina è arrivata adesso
con una carrozza.” “Ebbene, fatela salire; ma siete stupida, non vi
avevo detto di farla salire?” “Lo lascio dire.” “Sì, comandante, è
vero, m’avete detto di farla salire.” “E allora?” “Allora, la
damina...” “Ma parlate, dunque.” “Allora la damina è tornata
indietro.” “Certo, avrete detto o fatto qualche sciocchezza!” grida
ancora più furioso. “No comandante, la damina non è scesa dalla
carrozza: quando il vetturino ha aperto lo sportello, lei gli ha
detto di riportarla nel punto dove era salita.” “La carrozza non
dev’essere lontana!” grida il comandante, correndo verso la porta.
“Eh sì! è più di un’ora che è andata via” gli rispondo. “Un’ora!
un’ora! E perché avete tardato tanto ad avvisarmi?” mi urla
infuriandosi ancora di più. “Caspita... perché avevamo paura che vi
dispiacesse troppo di essere rimasto a bocca asciutta anche questa
volta.” Beccati questa! dico fra me e me, bellimbusto che non sei
altro, e questo perché t’è venuta la nausea quando m’hai toccata.
“Uscite di qui, fate e dite solo sciocchezze!” grida con rabbia,
sgualcendosi la vestaglia alla tartara e gettando a terra il
berretto alla greca di velluto con ricami d’oro... Bel berretto,
comunque... E la vestaglia! accecava; il comandante brillava come
una lucciola...»
«E poi tanto lui che la signora non sono più tornati?»
«No, ma la storia non è ancora finita» disse la signora Pipelet.
IX
I TRE PIANI
«Ecco la fine della storia» continuò la signora Pipelet. «Scendo in
fretta da Alfred. In portineria c’erano, per la precisione, la
portinaia del n. 19 e l’ostricaia che ha il posteggio davanti alla
porta della liquoreria; racconto come il comandante mi aveva preso
per la vita e chiamato angelo. E giù risate! e Alfred, sebbene sia
molto malin..., sì, malinconico, come dice lui, sebbene sia
diventato molto malinconico dopo il periodo degli scherzi escogitati
da quel mostro di Cabrion.»
Rodolphe guardò stupito la portinaia.
«Sì, un giorno, quando saremo più amici, vi racconterò questa
storia. Fatto è insomma che Alfred, nonostante la sua malin-
conia, si mette a chiamarmi angelo. In quel momento il comandante
esce dal suo appartamento e chiude la porta per andarsene; ma,
sentendoci ridere, non ha più il coraggio di scendere, perché teme
che lo prendiamo in giro, e lui doveva per forza passare davanti
alla portineria. Noi intuiamo tutto, ed ecco che l’ostricaia, con la
sua vociona, si mette a gridare: “Pipelet, angelo mio, come sei
arrivata tardi!”. Allora il comandante torna nella sua stanza e
chiude la porta sbattendola con fracasso, da vero collerico quale
egli è, perché quell’uomo dev’essere collerico come una tigre... ha
la punta del naso bianca... Insomma, avrà aperto e chiuso la porta
più di dieci volte, per sentire se c’era ancora gente giù in
portineria. Ce n’era sempre, noi non ci muovevamo. Alla fine,
vedendo che restavamo sempre lì, prende il coraggio a due mani,
scende come una furia, mi butta la chiave senza dire niente e se ne
va tutto infuriato, inseguito dalle nostre risate, mentre
l’ostricaia continuava a dire: “Come sei arrivata tardi, angelo
mio!”»
«Ma così andavate incontro al rischio che il comandante non vi desse
più da preparare la stanza.»
«Ah sì, proprio? non ne avrebbe avuto il coraggio. Noi lo avevamo in
pugno. Sapevamo dove abitava la sua bella; se ci avesse detto
qualcosa, lo avremmo minacciato di far sapere a tutti la tresca. E
poi per i suoi luridi dodici franchi, chi si sarebbe incaricato di
mettergli a posto l’appartamento! Una donna di fuori? le avremmo
reso la vita ben dura, a quella! Va’ là, brutto spilorcio! Insomma,
signore, voi non ci crederete, ma ha avuto la meschinità di guardare
alla sua legna e di fissarci il numero di ceppi da far ardere in sua
attesa. È sicuramente un arricchito, uno venuto su dal niente. Ha
una testa da signore e un corpo da pezzente, spende da una parte e
lesina dall’altra. A parte questo, io non gli voglio male; ma mi
diverte un mondo vedere che la sua bella lo prende per il naso.
Scommetto che domani sarà ancora la stessa cosa. Avviserò
l’ostricaia, che anche l’altra volta era qui; ci divertiremo. Quando
la damina verrà, la vedremo e vedremo anche se è una biondina o una
brunetta, e se è bella. E pensare, signore, che dietro a tutto ciò,
c’è un babbeo di marito! È buffissimo, non vi pare? Ma questo
riguarda il pover’uomo. Insomma, domani vedremo la damina, e
nonostante il velo, dovrà pur passare a capo chino se non vorrà che
sappiamo di che colore siano i suoi occhi. Costei è un’altra
doppiamente svergognata, come si dice al mio paese; va a casa di un
uomo e fa finta di avere paura. Ma scusate, vado a togliere la
pentola dal fuoco: ha finito di bollire. Perché la pappa bisogna
mangiarla, È un po’ di trippa, Alfred diventerà un
tantino più allegro, perché, come lui stesso dice: “Per la trippa
tradirei la Francia...”, la sua bella Francia!... caro il mio
vecchio.» Mentre la signora Pipelet era intenta a quella faccenda di
casa,
Rodolphe si lasciava andare a tristi riflessioni.
La donna in questione (che fosse o no la marchesa d’Harville)
aveva senza dubbio esitato, lottato a lungo prima di concedere il
primo e quindi il secondo appuntamento; ma, spaventata poi dalle
conseguenze della sua imprudenza, anziché mantenere la pericolosa
promessa, si era lasciata vincere da un salutare rimorso.
Infine, spinta da un’attrazione irresistibile, giunge, sebbene in
lacrime e straziata da mille timori, fin sulla soglia della casa; ma
sul punto di perdersi per sempre, presta orecchio alla voce del
dovere: ed evita ancora una volta di disonorarsi.
E per chi poi si esponeva a tanto rischio e a tanta ignominia!
Rodolphe conosceva il mondo e il cuore umano; dal breve e rapido
schizzo fattogli con brutale ingenuità dalla portinaia, riuscì a
immaginare con sufficiente precisione il carattere del comandante.
Si trattava in fondo di un uomo così stupidamente orgoglioso da
sentirsi fiero quando gli veniva attribuito un grado del tutto
insignificante da un punto di vista militare; un uomo che aveva
tanto poco tatto da non intuire l’importanza di serbare strettamente
l’incognito, per poter avvolgere nel più impenetrabile mistero le
colpevoli iniziative di una donna che rischiava tutto per lui; un
uomo, infine, così sciocco e spilorcio da non comprendere che, per
risparmiare qualche luigi, esponeva la sua amante allo scherno
insolente e ignobile della gente di quella casa!
Così, l’indomani, spinta da una forza invincibile, ma cosciente
dell’immensità del suo sbaglio, quella misera donna che, alle
terribili angosce di cui soffre, può opporre solo la sua cieca
fiducia nella discrezione e nell’onore dell’uomo a cui ella concede
qualcosa che è più importante della sua stessa vita, verrà
all’appuntamento, palpitante, smarrita; e dovrà sopportare gli
sguardi curiosi e sfrontati di certa gente e sentire forse le loro
ignobili facezie.
Che vergogna! che lezione! che triste risveglio per una donna
disorientata, che fino ad allora si sarebbe cullata nelle più belle,
nelle più poetiche illusioni d’amore!
E l’uomo per il quale ella affronta tanta vergogna, tanto rischio è
toccato almeno dalle strazianti angosce che egli provoca?
No...
Povera donna! la passione la rende cieca e la spinge un’ultima volta
sull’orlo del baratro. Basta un atto di coraggio per salvarla
dalla colpa. Cosa proverà quell’uomo al pensiero di una lotta così
dolorosa e santa?
Proverà dispetto, collera, rabbia, pensando che si è scomodato tre
volte per niente, e che la sua sciocca fatuità è gravemente
compromessa... agli occhi del suo portinaio...
Infine, ultimo segno di enorme e pacchiana indelicatezza, quell’uomo
ha dato a vedere di esprimersi in modo tale, di vestirsi in modo
tale, in occasione di quel suo primo appuntamento, che non può non
far morire di confusione e di vergogna una donna già schiacciata dal
peso della confusione e della vergogna.
Oh, pensava Rodolphe, che terribile insegnamento per quella donna
(che spero di non conoscere) se avesse potuto sentire in che modo
disgustoso si era parlato di un’azione, senza dubbio colpevole, ma
che le costava tanto amore, tante lacrime, tante paure e tanti
rimorsi!
E poi, pensando che la marchesa d’Harville poteva essere la triste
eroina di quella avventura, Rodolphe si domandava per quale
aberrazione, per quale fatalità il signor d’Harville, un uomo
giovane, pieno di spirito, di affetto, di generosità, e soprattutto
teneramente innamorato della moglie, potesse essere sacrificato a un
altro uomo sciocco, avaro, egoista e ridicolo. La marchesa si era,
allora, innamorata solo del fisico di un uomo, che si diceva fosse
molto bello?
Rodolphe, tuttavia, sapeva la marchesa d’Harville donna di cuore, di
spirito, di buon gusto, e dotata di carattere nobilissimo; non era
mai corsa una neppur minima diceria sulla sua reputazione. Dove
aveva conosciuto quell’uomo? Rodolphe la vedeva di frequente, e non
si ricordava di avere incontrato a palazzo d’Harville qualcuno che
gli ricordasse il comandante. Dopo matura riflessione, finì quasi
col persuadersi che non si trattava della marchesa.
La signora Pipelet, sbrigate le faccende di cucina, riprese la
conversazione con Rodolphe.
«Chi abita al secondo piano?» chiese alla portinaia.
«Comare Burette, una donna bravissima a fare le carte. Vi legge
nella mano come in un libro. Ci sono persone molto per bene che
vengono da lei per farsi predire la sorte... e il denaro lo prende a
mucchi più grossi di lei. Comunque quello della chiromante non è il
suo solo mestiere.»
«Cos’altro fa?»
«Tiene, diciamo così, un monte privato.» «Come?»
«Ve lo dico perché siete un giovanotto e perché così vorrete ancora
di più diventare nostro inquilino.»
«Perché?»
«Una semplice supposizione: fra poco ci saranno i giorni grassi, il
periodo in cui pullulano le donne mascherate, gli scaricatori, i
turchi e i selvaggi; un periodo in cui anche i più bravi si trovano
qualche volta senza quattrini... Ebbene, fa sempre comodo avere in
casa quel che ci vuole, invece di dover correre dalla zia, cosa che
è anche più umiliante, perché ci si va a veduta e saputa di tutta la
circoscrizione.»
«Da vostra zia? Allora presta su pegno?»
«Come, non sapete? Via, via, burlone!... Fate lo gnorri alla vostra
età!»
«Io faccio lo gnorri! Per che cosa, signora Pipelet?» «Chiedendomi
se è mia zia che presta su pegno.»
«Perché...»
«Perché tutti i giovani che abbiano l’età della ragione sanno
che andare dalla zia vuol dire andare a portare qualcosa al monte di
pietà.»
«Ah, capisco... l’inquilina del secondo piano presta su pegno?»
«Andiamo, signor sornione, certo che presta su pegno, e a miglior
prezzo del monte vero e proprio... E poi, non è affatto complicato;
non si è ingombrati da un mucchio di scartoffie, di polizze, di
cifre... per niente, per niente. Per esempio: si porta a comare
Burette una camicia che vale cinque franchi: lei vi presta dieci
soldi, dopo otto giorni dovrete portargliene venti, altrimenti si
tiene la camicia. È semplice, no? Sempre conti tondi! Anche un
bambino capirebbe.»
«È chiarissimo infatti: ma credevo che fosse proibito prestare così
su pegno.»
«Ah, ah, ah» fece la signora Pipelet, sbellicandosi dalle risa,
«allora venite dalla campagna, giovanotto?... Scusate, vi parlo come
se fossi vostra madre e voi mio figlio.»
«Siete molto buona.»
«Certo che è proibito prestare su pegno; ma se si facesse solo
quello che è permesso, dite un po’, si resterebbe molto spesso a
braccia conserte. Comare Burette non scrive, non dà ricevute, non ci
sono prove contro di lei, se ne infischia della polizia. È
stranissima la roba che le portano. Non potreste immaginare in
cambio di cosa presta alle volte. L’ho vista prestare in cambio di
un pappagallo grigio che bestemmiava proprio come un ossesso, quel
mascalzone.»
«Su un pappagallo? Ma quanto?...»
«Aspettate un po’... era uno in particolare: era il pappagallo della
vedova di un postino, la signora d’Herbelot, che abita qui vicino,
in rue Saint-Avoye; si sapeva che al pappagallo ci teneva come alla
sua vita; comare Burette le dice: “Vi presto dieci franchi sul
pappagallo; ma se entro otto giorni, a mezzogiorno, non ho i miei
venti franchi...”»
«I suoi dieci franchi.»
«Con gli interessi venivano venti franchi giusti; sempre
arrotondati. “Se non ho i venti franchi, con le spese di nutrimento,
do a Loreto una insalatina di prezzemolo condita con l’arsenico.”
Eh, conosceva bene la sua cliente. Con questo espediente, comare
Burette di lì a sette giorni ha avuto i suoi venti franchi, e la
signora d’Herbelot s’è portata via quella brutta bestia, che durante
tutto il giorno non faceva che ripetere parolacce, con grande
vergogna da parte di Alfred, che ha un pudore esagerato. È
chiarissimo, suo padre era prete... durante la rivoluzione, come
sapete... ci sono stati preti che hanno sposato delle monache.»
«Suppongo che comare Burette non abbia altri mestieri.»
«Non ne ha altri, se così vi piace. Tuttavia non so bene che razza
di traffici faccia qualche volta in una stanzetta dove non entra
nessuno, tranne il signor Bras-Rouge e una vecchia guercia, chiamata
la Chouette.»
Rodolphe guardò stupito la portinaia.
Costei, notata la sorpresa del futuro inquilino, disse: «Chouette è
uno strano nome, vero?»
«Sì; e viene spesso qui questa donna?»
«Sono sei settimane che non si fa viva; ma ieri l’altro l’abbiamo
vista; zoppicava un po’.»
«E che cosa viene a fare dalla chiromante?»
«È ben questo che non so, almeno per quanto riguarda i traffici
nella stanzetta di cui vi ho parlato e in cui possono entrare
solamente la Chouette, il signor Bras-Rouge e comare Burette; ho
notato però che in quei giorni la guercia ha sempre un pacco nella
sporta mentre il signor Bras-Rouge il suo se lo nasconde sotto il
mantello, e che poi escono senza niente.»
«E che cosa contengono quei pacchi?»
«Non so proprio niente di niente, so solo che con quella roba fanno
un qualche intruglio infernale; perché passando sulla scala si sente
odore come di zolfo, carbone e stagno fuso; e poi li si sente
soffiare, soffiare, soffiare... come fabbri. Di certo comare Burette
armeggia con qualcosa che ha a che fare con la stregoneria e la ma-
gia... così almeno mi ha detto il signor César Bradamanti,
l’inquilino del terzo piano. È un tipo singolare, il signor César!
Dico tipo singolare, ma si tratta di un italiano, che parla francese
bene come voi e me, anche se con un forte accento; ma non importa, è
uno che ha studiato, che conosce le persone semplici, e che vi
toglie i denti non per denaro, ma per prestigio. Sì, signore, per
puro prestigio. Se voi aveste sei denti guasti, e lo dice lui stesso
a chi vuole ascoltarlo, vi toglierebbe i primi cinque per niente ma
il sesto ve lo farebbe pagare. Non è colpa sua se avete anche il
sesto dente.»
«È generoso!»
«E, inoltre, vende un’acqua buonissima che impedisce la caduta dei
capelli, guarisce il mal d’occhi, i calli ai piedi, la debolezza di
stomaco, e uccide i topi senza arsenico.»
«Quest’acqua guarisce la debolezza di stomaco?»
«La stessa acqua.»
«E uccide anche i topi?»
«Non se ne salva uno, perché ciò che giova all’uomo nuoce
agli animali.»
«Giusto, signora Pipelet, non ci avevo pensato.»
«Che sia un’acqua buonissima ne sono prova le piante che il si-
gnor César ha raccolto sulle montagne del Libano, in zone abitate da
non so che razza d’americani, da dove ha portato anche un cavallo
che sembra una tigre; è bianchissimo, picchiettato di macchie
rosso-brune. Vedete, non so che cosa si darebbe per vedere il signor
César Bradamanti in groppa alla sua bestia, con il suo vestito a
risvolti gialli e il cappello con il pennacchio; perché, con
rispetto parlando, con quella sua barbona rossa sembra Giuda
Iscariota. Da un mese ha preso al suo servizio il figlio del signor
Bras-Rouge, Tortillard, e l’ha vestito, diciamo così, da trovatore,
con un tocco nero, un collettino e una giacchetta color albicocca;
batte il tamburo per attirare i clienti intorno al signor César
senza dire che il piccolo governa il cavallo tigrato del dentista.»
«Mi pare che il figlio dell’inquilino che subaffitta abbia un
impiego molto modesto.»
«Il padre dice di volergli rendere la vita dura a quel ragazzo;
altrimenti finirebbe sulla forca. Per la verità, è uno scimmiotto
dispettosissimo... e cattivo, ha combinato più di uno scherzetto a
quel povero signor Bradamanti, il quale è un galantuomo coi fiocchi.
Siccome ha guarito Alfred dai reumatismi, lo abbiamo a cuore.
Eppure, signore, ci sono persone così snaturate da... ma no, c’è da
far rizzare i capelli. Alfred dice che, se fosse vero, sarebbe un
crimine da scontare in galera.»
«E quale?»
«Ah, non oso, non oserò mai.»
«Non parliamone più.»
«Perché... sul mio onore di dama onesta, dire certe cose a un
giovanotto...»
«Non parliamone più, signora Pipelet.»
«In fondo, poiché sarete nostro inquilino, è meglio che sappiate
che sono tutte menzogne. Voi potete benissimo fare amicizia e stare
in compagnia del signor Bradamanti; se aveste creduto a quelle voci,
non avreste forse voluto saperne di fare la sua conoscenza.»
«Parlate, vi ascolto.»
«Dicono che quando... a volte una fanciulla ha fatto una
sciocchezza... capite... vero? e ne teme le conseguenze...»
«Ebbene?»
«Ecco, adesso non ho più il coraggio di... E cioè?»
«No; del resto sono sciocchezze... Dite pure.»
«Menzogne.»
«Dite pure.»
«Sono le male lingue.»
«Ma allora?»
«Certe persone che sono gelose del cavallo tigrato del signor
César.»
«Finalmente; ma insomma cosa dicono?»
«Mi vergogno.»
«Ma che rapporto c’è tra una fanciulla che ha commesso un
errore e il ciarlatano?»
«Non dico con ciò che sia vero!»
«Ma, in nome del cielo, che cos’è?» gridò Rodolphe spazienti-
to dalle strane reticenze della signora Pipelet.
«Sentite, giovanotto, giuratemi sul vostro onore che non lo di-
rete a nessuno.»
«Quando saprò di cosa di tratta, deciderò se farvi o no questo
giuramento.»
«Se ve lo dico, non lo faccio per i sei franchi, né per il
rosolio...» «Bene, bene.»
«Ma per la fiducia che mi ispirate.»
«D’accordo.»
«E per aiutare il povero signor Bradamanti, discolpandolo.» «La
vostra intenzione è ottima, non ne dubito, e allora?»
«Si dice dunque... ma che non esca dalla portineria, mi rac-
comando.»
«Certo; si dice dunque...»
«Uffa, non me la sento neanche questa volta. Sentite, ve lo dirò in
un orecchio, mi farà meno effetto... Avete visto come sono bambina,
eh?»
E la vecchia sussurrò qualcosa all’orecchio di Rodolphe che sussultò
dallo spavento.
«Oh, ma è spaventoso!» esclamò alzandosi automaticamente e
guardandosi intorno quasi con terrore, come se quella casa fosse
stata maledetta. «Dio mio, Dio mio!» mormorò a mezza voce con
doloroso stupore «allora non sono impossibili delitti così
spaventosi! E questa orribile vecchia che è rimasta quasi
indifferente all’atroce rivelazione che m’ha fatto!»
La portinaia, non avendo sentito quello che aveva detto Rodolphe,
riprese a parlare senza per questo cessare di accudire alle faccende
di casa.
«Non è vero che sono un mucchio di maldicenze?»
Come! Un uomo che ha guarito Alfred dai reumatismi, un uomo che ha
portato un cavallo tigrato dal Libano, un uomo che vi propone di
cavarvi gratis cinque denti su sei, un uomo in possesso di titoli di
studio ottenuti in ogni parte d’Europa, e che paga l’affitto
puntualmente. Ebbene! sì..: la morte piuttosto che credere a simili
cose!
Mentre la signora Pipelet sfogava la sua indignazione contro i
calunniatori, Rodolphe si ricordava della lettera indirizzata a quel
ciarlatano, lettera scritta su carta comune e con una calligrafia
contraffatta, mezzo cancellata dai segni di una lacrima.
Nella lacrima e nella lettera misteriosa indirizzata a quell’uomo,
Rodolphe scorse un dramma...
Un dramma terribile.
Un segreto presentimento gli diceva che le orribili dicerie che
correvano sull’italiano non erano infondate.
«Oh, ecco Alfred» esclamò la portinaia; «anche lui vi dirà che non
possono essere che le male lingue ad accusare di atrocità il signor
César Bradamanti, che l’ha guarito dai reumatismi.»
X
IL SIGNOR PIPELET
Va detto al lettore che tali fatti si svolgevano nel 1838.
Il signor Pipelet entrò nella portineria con aria grave e imponente;
aveva circa sessant’anni, un naso enorme, una pinguedine di tutto
rispetto, e una rubiconda facciona sagomata come quel-
la degli schiaccianoci a forma di uomini di Norimberga. La strana
maschera era sormontata da un cappello a rocchetto, a larghe tese,
diventato rossiccio per l’uso.
Alfred, che non lasciava quel cappello più di quanto sua moglie non
lasciasse la stravagante parrucca, si pavoneggiava nel suo vecchio
vestito verde a falde immense, con risvolti diventati, per così
dire, color piombo per via della sporcizia che li faceva apparire
qua e là di un grigio lustro. Con il cappello largo e il vestito
verde non privi di una certa solennità, il signor Pipelet s’era
tenuto indosso il modesto emblema del suo mestiere: un grembiule di
cuoio disegnava un triangolo rosso sopra un lungo panciotto
multicolore come la trapunta della signora Pipelet.
Il saluto che il portinaio fece a Rodolphe non mancò di una certa
affabilità; ma, ahimè, il suo sorriso era pieno d’amarezza.
In esso si poteva intuire quell’espressione di profonda malinconia
di cui la signora Pipelet aveva parlato con Rodolphe.
«Alfred, il signore vuole prendere a pigione la stanzetta con
salottino del quarto piano» disse la signora Pipelet presentando
Rodolphe ad Alfred «e ti abbiamo aspettato per bere insieme il
bicchiere di rosolio che ha ordinato.»
Questo gesto di gentilezza da parte di Rodolphe ispirò subito
fiducia al signor Pipelet; il portinaio portò la mano alla falda del
cappello e disse con una voce di basso degna di un cantore di
cattedrale:
«Vedrete, signore, che non sarete scontento di noi come portinai e
che noi non saremo scontenti di voi come inquilino; ogni simile ama
il suo simile.»
Ma il signor Pipelet s’interruppe subito per dire con aria
preoccupata a Rodolphe:
«A meno, signore, che non siate un pittore.»
«No, sono un commesso di bottega.»
«Allora, signore, vi presento i miei umili omaggi. E mi con-
gratulo con la natura per non avervi fatto nascere simile a quei
mostri d’artisti.»
«Gli artisti... dei mostri?» domandò Rodolphe.
Il signor Pipelet, invece di rispondere, levò le mani verso il
soffitto della portineria ed emise una specie di gemito corrucciato.
«Sono stati i pittori ad avere avvelenato la vita ad Alfred. Sono
loro la causa di quella malinconia di cui vi parlavo» sussurrò la
signora Pipelet a Rodolphe. Poi disse ad alta voce con tono
carezzevole: «Andiamo, Alfred, sii ragionevole, non pensare a quel
mascalzone... starai male, non potrai mangiare.»
«No, sarò forte e ragionevole» rispose il signor Pipelet con dignità
triste e rassegnata. «Mi ha fatto molto male: per molto tempo è
stato il mio persecutore, il mio carnefice; ma adesso lo disprezzo.
I pittori» aggiunse voltandosi verso Rodolphe «ah, signore, sono la
peste, l’inferno e la rovina di una casa.»
«Avete alloggiato un pittore?»
«Ahimè, sì, signore, ne abbiamo avuto uno» disse il signor Pipelet
con amarezza «e per giunta un pittore che si chiamava Cabrion!»
A quel ricordo, nonostante la sua calma apparente, il portinaio
strinse i pugni con gesto convulso.
«È stato lui l’ultimo inquilino della stanza che voglio prendere
io?» domandò Rodolphe.
«No, no, l’ultimo inquilino era un bravo e degno giovane di nome
Germain; ma prima di lui c’era Cabrion. Ah, signore, dopo che
Cabrion è partito, c’è mancato poco che non impazzissi, che non
diventassi ebete.»
«Vi è talmente dispiaciuto?» domandò Rodolphe.
«Dispiacermi di Cabrion!» continuò il portinaio stupito,
«dispiacermi di Cabrion! Ma immaginatevi, signore, che il signor
Bras-Rouge gli ha pagato due mesi d’affitto per farlo sloggiare da
qui; perché eravamo stati tanto malaccorti da fargli un contratto
d’affitto. Che razza di tipaccio! Voi non potete immaginarvi,
signore, i brutti tiri che ha giocato a noi e agli inquilini. Tanto
per dirvene una, vi assicuro che non c’è strumento a fiato di cui
non si sia bassamente servito per torturare gli inquilini! Sì,
signore, dal corno da caccia al serpentone, signore! Ha approfittato
di tutto, spingendo la villania fino a fare appositamente una nota
stonata e tenerla lunga per ore intere. C’era da impazzire. Si sono
fatte più di venti proteste all’inquilino che subaffitta, il signor
Bras-Rouge, perché scacciasse quel mascalzone. Finalmente la
spuntarono pagandogli due mesi d’affitto... Buffo, vero? Un
inquilino a cui si pagano due mesi d’affitto; ma gliene avremmo
pagati anche tre pur di potercelo levare di torno. Se ne va... Ma
credete forse che sia finita con Cabrion? State a sentire!
L’indomani, alle undici di sera, io ero già a letto. Pan, pan, pan!
Tiro la corda. Qualcuno entra in portineria. “Buonasera, portinaio”
dice una voce, “volete darmi per favore una ciocca dei vostri
capelli?” Mia moglie mi dice: “È qualcuno che ha sbagliato porta!”.
Allora rispondo allo sconosciuto: “Non è qui; vedete alla porta a
fianco”. “Ma non è il numero 17? Il portinaio non si chiama
Pipelet?” risponde la voce “Sì, dico io, mi chiamo Pipelet.”
“Ebbene, amico Pipelet, sono
venuto a chiedervi una ciocca di capelli per conto di Cabrion; è
un’idea sua, ci tiene e la vuole.”»
Il signor Pipelet guardò Rodolphe, scosse la testa e incrociò le
braccia assumendo una posa scultorea.
«Capite, signore? A me, suo mortale nemico, a me che aveva ricoperto
d’oltraggi, veniva sfacciatamente a chiedere una ciocca di capelli,
un favore che le signore a volte rifiutano perfino ai loro amanti!»
«Almeno fosse stato un buon inquilino come il signor Germain,
codesto Cabrion!» soggiunse Rodolphe con imperturbabile sangue
freddo.
«Fosse stato pure un buon inquilino, non gli avrei dato comunque
quella ciocca» disse con sussiego l’uomo dal cappello a rocchetto;
«la cosa non rientra né nei miei principi, né nelle mie abitudini;
ma sarebbe stato mio dovere, mio obbligo, rifiutargliela con le
dovute maniere.»
«E non basta» disse la portinaia; «figuratevi che da quel giorno
quel maledetto Cabrion aveva sguinzagliato una massa di imbrattatele
che venivano qui uno dietro l’altro di mattina, di sera, di notte,
in ogni ora a chiedere ad Alfred una ciocca di capelli, sempre per
Cabrion!»
«Immaginatevi se avrei ceduto!» disse il signor Pipelet con aria
decisa, «piuttosto mi sarei fatto tagliare la testa, signore! Dopo
tre o quattro mesi di insistenza da parte loro, e di resistenza da
parte mia, la mia costanza ha avuto il sopravvento sulla caparbietà
di quei miserabili. Si sono accorti che avevano a che fare con una
sbarra di ferro, e sono stati costretti a rinunciare alle loro
insolenti pretese. Ma, ciononostante, signore, io sono stato colpito
qui.» Alfred portò la mano al cuore. «Se avessi commesso qualche
orribile delitto, non avrei avuto un sonno più agitato. A ogni
momento, mi svegliavo di soprassalto, perché mi pareva di sentire la
voce di quel dannato Cabrion. Diffidavo di tutti: in ognuno vedevo
un nemico; perdevo la mia allegria. Non potevo vedere un viso
estraneo affacciarsi alla finestra della portineria senza fremere
perché subito mi veniva l’idea che forse era qualcuno della banda di
Cabrion. E ancora adesso, signore, sono sospettoso, arcigno, cupo,
aspro come un delinquente... quando faccio anche la più piccola
conoscenza, ho sempre paura di sbottonarmi, perché credo di
riconoscervi qualcuno della banda di Cabrion; non ho più voglia di
niente.»
A questo punto la signora Pipelet si portò l’indice all’occhio
sinistro come per asciugare una lacrima e con la testa fece un segno
affermativo.
«Insomma» continuò Alfred con tono sempre più lamentoso, «mi chiudo
in me stesso e così vedo scorrere il fiume della vita. Non ho avuto
ragione, signore, di dirvi che quell’infernale Cabrion mi ha
avvelenato l’esistenza?»
E il signor Pipelet, sentendosi il cappello a rocchetto schiacciato
dal peso di quella immensa sventura, emise un profondo sospiro.
«Adesso capisco perché non vi piacciono i pittori» disse Rodolphe;
«meno male che il signor Germain, di cui m’avete detto, non era come
il signor Cabrion!»
«Oh, certo, signore; quello sì che era un giovanotto buono e bravo,
schietto come l’oro, servizievole e per niente superbo, e allegro,
ma di un’allegria buona che non faceva male a nessuno, non era
insolente e beffardo come quel Cabrion, che Dio lo fulmini!»
«Su calmatevi, caro signor Pipelet, non pronunciate quel nome. E
adesso chi è il proprietario tanto fortunato da avere quella perla
degli inquilini che è il signor Germain?»
«Vattelapesca... nessuno sa e saprà dove abita adesso il signor
Germain. Quando dico nessuno... tranne la signorina Rigolette.»
«E chi è questa signorina Rigolette?» domandò Rodolphe.
«Un’inquilina del quarto piano, una lavorante» rispose la signora
Pipelet. «Ecco un’altra perla, una che paga l’affitto in anticipo, e
tanto pulitina nella sua stanzetta, e così gentile con tutti, e così
allegra... un vero uccello del buon Dio, tanto è graziosa e gaia,
inoltre lavora come un piccolo castoro e alle volte guadagna anche
due franchi al giorno, ma con quanta fatica, Dio mio!»
«Ma come mai la signorina Rigolette è la sola che sappia dove abiti
il signor Germain?»
«Quando ha lasciato la casa» continuò la signora Pipelet «ci ha
detto: “Nessuno mi scriverà; ma se per caso arrivasse qualche
lettera consegnatela alla signorina Rigolette”. E di lei poteva ben
fidarsi, quand’anche la lettera fosse stata assicurata; vero,
Alfred?»
«Fatto sta che non ci sarebbe niente da dire sul conto della
signorina Rigolette» disse severamente il portinaio «se lei non
avesse avuto la debolezza di lasciarsi abbindolare da quell’infame
Cabrion.»
«In quanto a ciò, Alfred» soggiunse la portinaia «sai bene che non è
colpa della signorina Rigolette, dipende dai locali; perché è stata
la stessa cosa col commesso viaggiatore che occupava la stanza di
Cabrion, come, dopo quella buonalana del pittore, è stato il signor
Germain a far le moine; lo ripeto, non può essere altrimenti,
dipende dai locali.»
«Così gli inquilini della stanza che voglio prendere in affitto sono
stati costretti a fare la corte alla signorina Rigolette?»
«Costretti, signore; adesso vi spiego. Si è vicini con la signorina
Rigolette, le due stanze si toccano; ebbene, fra giovani... c’è un
lume da accendere, un po’ di braci da chiedere in prestito, oppure
un po’ d’acqua. Oh, in quanto all’acqua, si può stare sicuri che non
ne manca mai dalla signorina Rigolette, ne ha sempre: è l’unico
lusso, è un vero anatroccolo. Appena ha un momento libero, si mette
subito a lavare le finestre, il focolare. Per questo è sempre tanto
pulito da lei!... vedrete.»
«Così il signor Germain, tenuto conto dei locali, è stato, come voi
avete detto, un buon vicino per la signorina Rigolette?»
«Sì, signore, ed è il caso di dire che erano nati l’uno per l’altra.
Così carini, così giovani, era un piacere vederli scendere le scale
la domenica, il solo giorno libero che avevano, poveri ragazzi! Lei
bene agghindata, con una graziosa cuffietta e con un bel vestitino
da venticinque soldi al metro, se l’era fatto lei, eppure le stava
così bene che sembrava una reginetta; lui, vestito da perfetto
moscardino!»
«E da quando ha lasciato questa casa, il signor Germain non ha più
rivisto la signorina Rigolette?»
«No, signore, a meno che non sia di domenica, perché gli altri
giorni la signorina Rigolette non ha tempo di pensare agli
spasimanti, via, si alza alle cinque o alle sei, e lavora fino alle
dieci, qualche volta fino alle undici di sera; non esce mai di
stanza, tranne la mattina quando va a comperare le provviste per sé
e per i due canarini che ha, e in tutti e tre non è che mangino
molto! Di che cosa si accontentano? Due soldi di latte, un po’ di
pane, un po’ di centocchio, d’insalata, di miglio, e molta acqua
bella e pulita; eppure tutti e tre, la piccola e i due uccelli,
cicalano e cinguettano, che è un vero piacere!... Inoltre, buona e
per niente avara, nei limiti del possibile, delle sue ore di sonno e
delle sue cure, perché, pur lavorando a volte più di dodici ore al
giorno, riesce appena a guadagnarsi di che vivere... Per esempio,
per parecchie notti la signorina Rigolette con il signor Germain ha
vegliato i bambini di quei disgraziati delle soffitte, che il signor
Bras-Rouge butterà sulla strada tra non più di tre o quattro
giorni!»
«C’è una famiglia povera qui?»
«Povera, signore! Dio d’un Dio! lo credo bene. Cinque bambini in
tenera età, la madre ammalata, quasi moribonda, la nonna mezzo
scema; e per nutrire questa gente un uomo che non mangia quanto
basta e che sfacchina come un negro; è un operaio che
sa il fatto suo! Tre ore di sonno su ventiquattro, ecco tutto ciò
che ha, e chissà che razza di sonno anche! quando si è svegliati da
bambini che gridano “Pane!”, da una donna malata che geme sul
pagliericcio, o da una vecchia scema che a volte si mette a urlare
come una lupa... anche per la fame, perché di giudizio ne ha quanto
una bestia. Quando ha tanta fame, la si sente urlare nelle scale.»
«Oh, è spaventoso!» esclamò Rodolphe; «e nessuno li aiuta?»
«Diavolo, signore, fra poveri si fa quel che si può. Da quando, per
sbrigargli le faccende, ho i dodici franchi al mese del comandante,
faccio il lesso una volta alla settimana e quei disgraziati lassù
hanno un po’ di brodo. La signorina Rigolette ruba le ore al sonno
e, caspita, la luce non le viene gratis quando deve fare, con i
ritagli di stoffa che ha, camiciole e cuffiette per i bambini... Il
povero signor Germain, che peraltro non era molto ben messo neppure
lui, faceva finta di ricevere di tanto in tanto da casa qualche
bottiglia di buon vino, e Morel (così si chiama l’operaio) ne beveva
uno o due bei bicchierotti che lo scaldavano un po’ e gli
rimettevano l’anima in corpo.»
«E il ciarlatano non ha fatto niente per questa povera gente?»
«Il signor Bradamanti?» chiese il portinaio; «mi ha guarito da un
reumatismo, è vero, perciò lo venero; ma quel giorno ho detto alla
mia sposa: “Anastasie, il signor Bradamanti... Uhm! uhm!” vero che
te l’ho detto, Anastasie?»
«Sì, me l’hai detto, ma gli piace ridere, a quell’uomo! ridere
almeno a modo suo, senza aprire la bocca.»
«Che cosa ha fatto?»
«Ecco, signore... Quando gli ho parlato della miseria dei Morel, per
via del fatto che si era lamentato che la vecchia scema aveva urlato
per la fame tutta la notte impedendogli così di dormire, mi ha
detto: “Dato che sono così poveri, se hanno dei denti da levare,
toglierò loro gratis anche il sesto e darò loro una bottiglia della
mia acqua a metà prezzo”.»
«Ebbene» disse il signor Pipelet, «sebbene mi abbia guarito dai
reumatismi, sostengo che è una facezia indecente. E ne dice sempre
di simili... e almeno fossero solo indecenti!»
«Alfred, pensa che è un italiano e forse nel suo Paese usano
scherzare così.»
«Decisamente, signora Pipelet» disse Rodolphe «ho una brutta
opinione di quest’uomo e quindi, seguendo il vostro consiglio, non
stringerò amicizia né starò in sua compagnia... Ma quella donna che
presta su pegno, è stata più caritatevole?»
«Oh, alla stregua del signor Bradamanti» rispose la portinaia; «ha
fatto loro dei prestiti sui poveri stracci che possedevano... Tutto
è passato nelle sue mani, fino all’ultimo materasso... C’era poco da
scegliere, non ne hanno mai avuti due.»
«E adesso li aiuta?»
«Chi, comare Burette? Sì, davvero! nel suo campo è avara quanto il
suo amante nel proprio; perché, dovete sapere che il signor
Bras-Rouge e comare Burette...» aggiunse la portinaia con
un’occhiatina e con una scrollata di capo pieni di malignità.
«Davvero!» disse Rodolphe.
«Proprio vero... verissimo!... E, credetemi, le estati di San
Martino sono calde come le altre, vero, vecchio mio?»
Il signor Pipelet rispose semplicemente scuotendo malinconicamente
il cappello a rocchetto.
Da quando la signora Pipelet gli aveva parlato del suo sentimento di
carità verso i disgraziati delle soffitte, Rodolphe la vedeva meno
ripugnante.
«E che mestiere fa quel povero uomo?»
«È tagliatore di pietre false; viene pagato in base al lavoro che fa
e lavora tanto, tanto che ha finito col deformarsi; lo vedrete...
Dopo tutto, un uomo è un uomo e non può fare l’impossibile, vero? E
quando bisogna dare la pappa a una famiglia di sette persone, lui
escluso, non è come bere un uovo! Senza contare che la figlia
maggiore lo aiuta con quello che può, anche se non è molto.»
«E quanti anni ha la figlia?»
«Diciassette anni, è bella, bella... come il sole; fa la cameriera
da un vecchio avaro, tanto ricco da comperare Parigi, un notaio, il
signor Jacques Ferrand.»
«Il signor Jacques Ferrand!» disse Rodolphe stupito da questo nuovo
incontro perché proprio da questo notaio, o perlomeno dalla sua
governante, egli doveva avere le informazioni relative alla
Goualeuse. «Jacques Ferrand, un signore che abita in rue du
Sentier?» chiese poi.
«Esatto!... lo conoscete?»
«È il notaio della casa commerciale da cui dipendo.» «Ebbene, allora
saprete che è un notissimo strozzino, ma, per
la verità, onesto e devoto... ogni domenica a messa e al vespro, si
confessa e fa la comunione a Pasqua; se fa bisboccia, la fa solo coi
preti, poi beve acqua benedetta, mangia pane benedetto... un
sant’uomo, insomma! la cassa di risparmio della povera gente che gli
affida le proprie economie! ma, caspita, avaro e duro con gli
altri come con se stesso. Sono diciotto mesi che quella povera
Louise, figlia del tagliatore, fa la cameriera da lui. È buona come
un agnello e lavora come un cavallo. Là lei fa tutto e prende
diciotto franchi di salario, non un soldo di più; si tiene sei
franchi al mese per mantenersi e dà il resto alla famiglia: e lo dà
ogni mese, ma quando con questo ci devono vivere sette persone...!»
«Ma il padre non lavora tanto?»
«Se lavora? È un uomo che in vita sua non è mai stato bevuto, è un
uomo a posto, è buono come un Cristo; come ricompensa domanderebbe
al buon Dio una sola cosa, far durare il giorno quarantotto ore, per
poter guadagnare un po’ di più per i suoi marmocchi.»
«Il lavoro gli rende pochissimo, allora?»
«È stato infermo per tre mesi e per questo è rimasto indietro; sua
moglie s’è rovinata la salute per curarlo, e, adesso, è moribonda;
durante questi tre mesi hanno dovuto vivere con i dodici franchi di
Louise, con quello che hanno preso a prestito da comare Burette e,
in più, con qualche scudo che ha prestato loro la sensale di pietre
false per la quale egli lavora. Ma otto persone! questo è il punto e
se vedeste il loro buco!... Ma sentite, signore, non parliamone più,
il nostro pranzo è pronto e, solo al pensare alla loro soffitta, mi
si ribalta lo stomaco. Meno male che il signor Bras-Rouge ce li
leverà di torno. Se dico meno male, non è per cattiveria, mi pare.
Ma dal momento che quei poveri Morel devono essere disgraziati e noi
non possiamo farci niente, tanto vale che siano disgraziati altrove.
È una pena di meno.»
«Ma dove andranno se saranno cacciati da qui?»
«Perdiana, non lo so.»
«E quanto può guadagnare al giorno quel povero operaio?» «Se non
fosse costretto a curare la madre, la moglie e i bam-
bini, potrebbe guadagnare benissimo quattro o cinque franchi, perché
ce la mette tutta; ma, siccome perde tre quarti del suo tempo a fare
le faccende di casa, è tanto se guadagna quaranta soldi.»
«È pochissimo infatti. Poveretti!»
«Sì, poveretti! è la parola giusta. Ma ci sono tanti altri poveretti
per cui, dal momento che non possiamo farci niente, dobbiamo
metterci il cuore in pace, vero, Alfred? Ma a proposito di mettersi
il cuore in pace, il rosolio può dirci qualcosa!»
«A essere sinceri, signora Pipelet, ciò che m’avete raccontato m’ha
dato una stretta al cuore; bevete pure alla mia salute con il signor
Pipelet.»
«Siete molto buono, signore» disse il portinaio; «ma volete ancora
vedere la stanza in alto?»
«Volentieri; se mi piace vi darò la caparra.»
Il portinaio uscì dal suo antro. Rodolphe gli si mise dietro.
XI
I QUATTRO PIANI
La scala umida e buia sembrava ancora più oscura in quella triste
giornata d’inverno.
La porta di ogni appartamento di questa casa offriva all’occhio
dell’osservatore, diciamo così, un suo volto particolare.
Così la porta dell’alloggio in cui abitava il comandante era stata
da poco dipinta con un colore marrone striato da venature simili a
quelle del palissandro; una maniglia di rame dorato brillava sulla
serratura e un bel cordone per campanello con fiocco di seta rossa
contrastava con l’antico luridume dei muri.
La porta del secondo piano, dove abitava l’indovina che prestava su
pegno, aveva un aspetto ancora più singolare: un gufo impagliato,
uccello simbolico e cabalistico per eccellenza, era stato inchiodato
con le zampe e con le ali sopra l’architrave; uno spioncino a
graticolato di fil di ferro, permetteva di vedere i visitatori che
volevano entrare.
Anche la porta della stanza del ciarlatano italiano, che si
sospettava esercitasse un orribile mestiere, dava nell’occhio per la
sua stranezza.
Il suo nome era stato composto con denti di cavallo infissi in una
specie di quadro di legno nero, attaccato alla porta.
Invece di terminare con la classica zampa di lepre o con il classico
piede di capriolo, il cordone del campanello era attaccato
all’avambraccio e alla mano di una scimmia mummificata.
Quel braccio disseccato e quella manina dalle cinque dita che si
prolungavano in falangi coronate da unghie erano orribili a vedersi.
La si sarebbe presa per la mano di un bambino. Proprio nel momento
in cui passava davanti a quella porta dall’aspetto sinistro,
Rodolphe credette di udire qualche singhiozzo soffocato; poi, a un
tratto, un grido doloroso, convulso, orribile, un grido che pareva
uscito dal fondo delle viscere, risuonò nel silenzio della casa.
Rodolphe trasalì.
Corse alla porta con la rapidità del pensiero e suonò con violenza.
«Che vi prende signore?» disse con stupore il portinaio. «Quel
grido» rispose Rodolphe «l’avete udito?»
«Sì, signore. Sarà stato di sicuro qualche cliente a cui il signor
César Bradamanti ha strappato un dente, forse due.»
La spiegazione, pur essendo verosimile, non soddisfece Ro-
dolphe.
Il terribile grido che aveva udito poco prima non gli sembrava
solo la manifestazione di un dolore fisico; ma anche, se così si può
dire, un grido di dolore morale.
Il colpo di campanello era stato di straordinaria violenza. Dapprima
nessuno rispose.
Numerose porte si chiusero una dopo l’altra; poi dietro il ve-
tro di un occhio di bue che si trovava vicino alla porta, e su cui
Rodolphe aveva incollato automaticamente gli occhi, apparve
vagamente una faccia scarna, di pallore cadaverico; una selva di
capelli rossi e grigi incorniciava un orribile viso, che terminava
con una lunga barba dello stesso colore della capigliatura.
La visione durò un secondo e poi scomparve. Rodolphe restò
pietrificato.
Durante la breve apparizione, ebbe l’impressione d’avere già visto i
lineamenti caratteristici di quell’uomo.
Gli occhi verdi e brillanti come l’acqua marina sotto le grosse
sopracciglie fulve e irte, il pallore livido, il naso sottile,
prominente, aquilino, e le cui narici bizzarramente dilatate e
incavate lasciavano vedere una parte del setto nasale, gli
ricordavano in modo sorprendente un certo abate Polidori, il cui
nome era stato maledetto da Murph, nel colloquio col barone di
Graün.
Sebbene fossero sedici o diciassette anni che non vedeva l’abate
Polidori, pure Rodolphe, per cento ragioni, non poteva averlo
dimenticato; ciò però che disorientava i suoi ricordi, ciò che lo
faceva dubitare dell’identità dei due personaggi, era rappresentato
dal fatto che il prete che egli credeva d’avere ritrovato sotto le
vesti di quel ciarlatano con barba e capelli rossi era invece molto
bruno.
D’altra parte (sempre supponendo che i suoi sospetti fossero
fondati) non meravigliandosi di vedere un uomo investito di un
carattere sacro, un uomo di cui conosceva la superba intelligenza,
il vasto sapere, l’alto ingegno, toccare il fondo della
degradazione, dell’infamia forse, Rodolphe dimostrava di sapere che
quell’alto ingegno, quella superba intelligenza, quel vasto sapere,
si sposavano a una perversità così profonda, a un tipo di vita così
sregolato, a tendenze così da crapulone e, in special modo, a un
tale cinismo furfantesco e atroce disprezzo degli uomini e delle
cose, che quest’uomo, ridotto a una meritata miseria, non poteva,
diremo quasi non doveva, non ricorrere ai mezzi più infamanti e
trovare in essi una specie di amara e sacrilega soddisfazione al
vedersi, lui, che era dotato di eccezionali qualità intellettuali,
lui, investito di un carattere sacro, esercitare il vile mestiere di
ciarlatano senza pudori.
Ma torniamo a dire che Rodolphe, pur avendo lasciato il prete che
era un uomo maturo e pur pensando che questi dovesse avere gli anni
del ciarlatano, dubitava dell’identità dei due personaggi perché fra
di loro c’erano alcune differenze per niente trascurabili;
cionononstante chiese al signor Pipelet:
«È da molto che il signor Bradamanti abita in questa casa?».
«Da circa un anno, signore. Sì, proprio, ha cominciato con l’affitto
di gennaio. È un inquilino puntuale; mi ha guarito da un brutto
reumatismo... Ma come vi dicevo poco fa, ha un difetto: prende
troppo in giro, nei suoi discorsi non rispetta nulla.»
«Come mai?»
«Insomma, signore» disse gravemente il signor Pipelet, «io non sono
un modello di virtù, ma c’è riso e riso.»
«È molto allegro allora?»
«Non è che sia allegro; anzi sembra un cadavere; ma non ride mai con
la bocca... Ride sempre con le parole; per lui non c’è né padre né
madre, né Dio né diavolo, scherza su tutto, perfino sulla sua acqua,
signore, perfino sulla sua acqua! Ma, non vi nascondo che quegli
scherzi a volte mi mettono paura, mi fanno venire la pelle d’oca.
Quando viene in portineria e resta lì un quarto d’ora a parlare
senza tanti pudori delle donne mezze nude dei vari paesi selvaggi
che ha percorso e quando poi mi ritrovo da solo a solo con
Anastasie, ebbene, signore, io so che da trentasette anni sono
assieme a lei e mi sono fatto un dovere di volerle bene... ebbene,
mi sembra di volerle meno bene. Voi riderete, ma qualche volta
anche, dopo che il signor César mi ha parlato dei festini ai quali
assisteva per vedere i principi provare i denti che egli aveva messo
loro, ebbene, mi sembra che i miei bocconi si facciano amari e non
ho più fame. Insomma mi piace il mio mestiere e mi sento onorato.
Avrei potuto essere un calzolaio come i tanti ambiziosi che ci sono,
ma credo di essere egualmente utile risuolando scarpe vecchie. Ecco,
signore, ci sono giorni in cui quel demonio del signor César, con i
suoi scherni, mi fa rimpiangere di non esse-
re stivalaio, parola mia d’onore! e poi insomma... ha un modo di
parlare delle selvagge che ha conosciuto... Vedete, signore, ve lo
ripeto, io non sono un modello di virtù, ma a volte, accipicchia,
divento rosso» aggiunse il signor Pipelet con il tono indignato di
un uomo casto.
«E la signora Pipelet tollera tutto ciò?»
«Anastasie va pazza per gli uomini spiritosi, e il signor César,
nonostante la sua brutta specie, è senza dubbio spiritosissimo, così
lei gli perdona tutto.»
«Vostra moglie mi ha anche parlato di certi orribili rumori...» «Ve
ne ha parlato?...»
«Non preoccupatevi, sono discreto io.»
«Ebbene, signore, io non credo a questa voce e non ci crederò
mai, eppure non posso fare a meno di pensarci, e quando ci penso
aumenta lo strano effetto che producono su di me le facezie del
signor Bradamanti. Insomma, signore, vi dico francamente che odio il
signor Cabrion... è un odio che porterò con me nella tomba. Eppure,
a volte mi sembra di preferire gli ignobili scherzi che egli aveva
la sfrontatezza di fare in questa casa, ai frizzi che snocciola il
signor César con quella sua aria di canzonatore serioso e con quel
suo stringere le labbra in modo sgraziato, cosa che mi ricorda
sempre l’agonia di mio zio Rousselot che, quando rantolava,
stringeva le labbra proprio come il signor Bradamanti.»
Le poche parole che il signor Pipelet aveva detto a proposito
dell’ironia continua che il ciarlatano usava parlando di tutto e di
tutti e con cui riusciva a dissipare le gioie anche più modeste in
virtù di quel suo amaro schernire, riconfermarono Rodolphe nei suoi
primi sospetti; infatti il Prete, quando deponeva la maschera
d’ipocrita, aveva sempre ostentato lo scetticismo più audace e più
rivoltante.
Più che mai deciso a chiarire i suoi dubbi, dato che la presenza di
quel prete nella casa poteva dargli incomodo, e sempre più incline a
interpretare a tinte fosche il terribile grido da cui era stato
tanto impressionato, Rodolphe seguì il portinaio al piano superiore,
dove si trovava la stanza che intendeva prendere in affitto.
L’abitazione della signorina Rigolette era facilmente riconoscibile
grazie all’impronta piena di galanteria lasciatavi dal pittore,
mortale nemico del signor Pipelet.
Una mezza dozzina di amorini paffuti, dipinti con grande
disinvoltura e con molto spirito come nei quadri di Watteau, erano
tutti intorno a una specie di cartoccio, e portavano
allegoricamente, chi un ditale, chi un paio di forbici, chi un ferro
da stiro e
chi un piccolo specchio da toeletta; in mezzo al cartoccio, su
sfondo blu chiaro, si poteva leggere scritto in lettere rosa:
Signorina Rigolette, sarta. Il tutto era incorniciato da una
ghirlanda di fiori che si stagliava sullo sfondo verde chiaro della
porta.
Anche il grazioso pannello contrastava in modo impressionante con il
sozzume della scala.
Col rischio di riaprirgli le piaghe sanguinanti, Rodolphe indicò ad
Alfred la porta della signorina Rigolette e gli disse:
«Questo è senz’altro opera del signor Cabrion?».
«Si, signore, si è permesso di rovinare la pittura della porta con
questi scarabocchi indecenti di bambini tutti nudi, che egli chiama
amorini. Se non fosse stato per le suppliche della signorina
Rigolette e la debolezza del signor Bras-Rouge, avrei raschiato via
tutto, anche la tavolozza con cui quel mostro ha ostruito la porta
della vostra stanza.»
Infatti, una tavolozza carica di colori, che sembrava sospesa a un
chiodo, era dipinta sulla porta dando l’illusione ottica di essere
vera.
Rodolphe entrò col portinaio in una stanza abbastanza spaziosa,
preceduta da un salottino e rischiarata da due finestre che davano
sulla rue du Temple; alcuni schizzi fantasiosi, dipinti sulla
seconda porta dal signor Cabrion, erano stati gelosamente conservati
dal signor Germain.
Rodolphe fissò subito la stanza perché aveva troppi motivi per
abitare in quella casa; quindi in tutta modestia diede quaranta
soldi al portinaio e gli disse:
«La stanza mi va benissimo, eccovi la caparra; domani farò portare i
mobili. Non è necessario, vero, che veda l’inquilino che subaffitta,
il signor Bras-Rouge?»
«No, signore, lui viene qui solo di tanto in tanto, a meno che non
ci siano di mezzo gli intrighi con la Burette... Si deve trattare
sempre e direttamente con me; vi chiederò solo come vi chiamate.»
«Rodolphe.»
«Rodolphe... come?»
«Rodophe semplicemente, signor Pipelet.»
«La cosa cambia allora, signore; non ho insistito per curiosità:
i nomi e le volontà sono all’insegna della libertà.»
«Sentite un po’, signor Pipelet, che debba andare a chiedere domani
ai Morel se posso essere loro utile in qualche cosa, visto che anche
il mio predecessore, il signor Germain, li ha aiutati se-
condo le sue possibilità?»
«Sì, signore, potete farlo; è vero che non servirà a gran che, dal
momento che saranno mandati via; ma ciò non mancherà di farli
contenti.»
Poi, come illuminato da un’idea improvvisa, il signor Pipelet guardò
l’inquilino con aria furba e maliziosa ed esclamò:
«Capisco, capisco; è un pretesto per diventare buon vicino della
graziosa vicina della stanza a fianco.»
«Ci conto molto.»
«Non c’è niente di male, signore, è di uso; vi dirò di più, sono
sicuro che la signorina Rigolette ha sentito che si sta guardando la
stanza e che adesso sta spiando per vederci scendere. Darò apposta
un bel colpo per girare la chiave; aprite bene gli occhi quando
passate sul pianerottolo.»
Infatti Rodolphe s’accorse che la porta così graziosamente ornata di
amorini alla Watteau era socchiusa, e così poté distinguere
vagamente, attraverso la stretta apertura, la punta di un bel nasino
rosato e un grande occhio nero vivace e curioso; ma non appena
cominciò a rallentare il passo, la porta si chiuse bruscamente...»
«Ve lo dicevo io che faceva la posta!» disse il portinaio; poi
soggiunse: «Scusate, signore!... vado nel mio piccolo osservatorio.»
«Che cos’è?»
«In cima a questa scala, c’è un pianerottolo su cui si affaccia la
porta della soffitta dei Morel, e dietro a un soppalco c’è un buco
nero dove io metto la roba vecchia. Siccome il muro è pienissimo di
fessure, quando sono nel mio buco vedo da loro e li sento come se
fossi dentro. Non che li spii, Dio me ne guardi! Ma insomma qualche
volta vengo a vederli così come andrei a un melodramma a tinte
fosche. E quando scendo in portineria, mi sembra di essere in una
reggia. Ma, sentite, signore, se volete, prima che se ne vadano... È
triste, ma è strano; infatti, quando vi vedono, sono come dei
selvaggi, sono imbarazzati.»
«Siete molto buono, signor Pipelet, un altro giorno, domani forse,
approfitterò della vostra offerta.»
«Come volete, signore; ma io devo salire al mio osservatorio perché
ho bisogno di un pezzo di bazzana. Se intanto, signore, volete
scendere, io vi raggiungerò fra poco.»
E il signor Pipelet cominciò sulla scala che portava alla soffitta,
un’ascensione alquanto pericolosa per la sua età. Rodolphe, data
un’ultima occhiata alla porta della signorina Rigolette, stava
riflettendo sul fatto che la ragazza, vecchia conoscenza della po-
vera Goualeuse, doveva senz’altro sapere dove si nascondeva il
figlio del Maître d’école, quando udì uscire qualcuno dalla casa del
ciarlatano che era al piano di sotto; riconobbe il passo leggero di
una donna e il fruscio di una veste di seta. Per discrezione
Rodolphe si fermò e restò immobile un momento.»
Quando non sentì più nulla, cominciò a scendere.
Sugli ultimi gradini del secondo piano, trovò un fazzoletto che
raccolse; di certo apparteneva alla persona che era uscita dalla
casa del ciarlatano.
Rodolphe si avvicinò a una delle finestrelle da cui prendeva luce il
pianerottolo e vide che si trattava di un fazzoletto ornato di
bellissimi merletti; in uno degli angoli erano state ricamate una L
e una N e sopra a esse una corona ducale.
Il fazzoletto era letteralmente inzuppato di lacrime.
Il primo pensiero di Rodolphe fu quello di correre a portare il
fazzoletto alla persona che l’aveva perduto; ma capì che, in quella
circostanza, il suo gesto poteva forse sembrare dettato da una
curiosità che avrebbe dato fastidio; se lo tenne e così si trovò,
senza volerlo, sulle tracce di una misteriosa e certo sinistra
avventura.
Entrato in portineria, disse alla portinaia:
«Avete visto passare una donna?»
«Sì, signore. Ma si tratta di una bella signora, alta e sottile,
con un velo nero. Veniva dalla stanza del signor César. Tortillard è
andato a cercarle una carrozza che lei ha preso proprio adesso. Non
capisco come mai quel furfantello sia andato a sedersi dietro la
carrozza, forse per vedere dove va la signora; perché lui è curioso
come una gazza e vispo come un furetto, nonostante il piede storto.»
Ciò, pensò Rodolphe, vuol dire che il ciarlatano, supponendo che sia
stato lui a dare l’ordine a Tortillard di seguire la sconosciuta,
non sa probabilmente né come si chiami né dove abiti.
«Allora, vi piace la stanza, signore?» chiese la portinaia.
«Sì, mi piace molto; ho deciso, domani farò portare i mobili.» «Dio
vi benedica, signore, di esser passato davanti alla nostra
porta, avremo un buon inquilino di più. Mi sa che siete un buon
ragazzo, Pipelet vi si affezionerà subito. Lo farete ridere come
faceva il signor Germain, che aveva sempre qualcosa di buffo da
dirgli; perché ha bisogno di ridere, quel pover’uomo: perciò penso
che prima di un mese diventerete amici.»
«Via, signora Pipelet, voi volete lusingarmi.»
«Nient’affatto; ciò che dico, lo dico col cuore sulle labbra. E se
sarete gentile con Alfred, ve ne sarò riconoscente: vedrete come
sarà in ordine la vostra stanza; mi sento un leone per le pulizie; e
se alla domenica vorrete mangiare in casa, vi preparerò certe cose
che vi leccherete le dita.»
«D’accordo, signora Pipelet, vi occuperete voi della mia stanza;
domani saranno portati i mobili e io verrò a sorvegliarne la
sistemazione.»
Rodolphe uscì.
I risultati della visita alla casa della rue du Temple erano stati
abbastanza buoni, sia in vista della soluzione del mistero che
voleva scoprire, sia per quanto concerneva l’encomiabile curiosità
che gli dava il destro di fare il bene e impedire il male.
Questi erano i risultati:
La signorina Rigolette doveva sapere senz’altro dove abitava in quel
momento François Germain, figlio del Maître d’école.
Una giovane donna, che, da alcuni indizi, sembrava purtroppo essere
la marchesa d’Harville, aveva dato per il giorno successivo un nuovo
appuntamento al comandante, appuntamento che l’avrebbe forse
rovinata per sempre.
E Rodolphe aveva mille ragioni per interessarsi tanto al signor
d’Harville, la cui tranquillità e il cui onore sembravano così
crudelmente compromessi.
Un onesto e laborioso artigiano, oppresso dalla miseria più nera,
stava per essere gettato con la famiglia sul lastrico da BrasRouge.
Infine Rodolphe, senza volerlo, aveva scoperto alcuni indizi di una
avventura di cui il ciarlatano César Bradamanti (forse l’abate
Polidori) e una donna, che apparteneva certo al bel mondo, erano i
principali attori.
Inoltre la Chouette, uscita da poco dall’ospedale dov’era entrata
dopo l’avventura dell’allée des Veuves, intratteneva relazioni
sospette con una indovina e usuraia, la signora Burette, che abitava
al secondo piano della casa.
Raccolte le varie informazioni, Rodolphe ritornò a casa dove decise
di rimandare al giorno seguente la visita al notaio Jacques Ferrand.
La sera stessa, come sappiamo, Rodolphe doveva recarsi
all’ambasciata di *** per un grande ballo.
Anziché accompagnare il nostro eroe nella nuova avventura, getteremo
prima un’occhiata retrospettiva su due personaggi importanti di
questa storia, e precisamente su Tom e Sarah.
XII
TOM E SARAH
Sarah Seyton, vedova del conte Mac-Grégor, aveva all’incirca
trentasette o trentotto anni; apparteneva a un’ottima famiglia
scozzese, essendo il padre baronetto e gentiluomo di campagna.
Sarah, donna di perfetta bellezza, aveva lasciato la Scozia con il
fratello Tom Seyton di Halsbury all’età di diciassette anni, quando
rimase orfana.
La nutrice, una vecchia montanara scozzese, con le sue assurde
predizioni, aveva esaltato, quasi fino alla follia, i due vizi
capitali di Sarah, l’orgoglio e l’ambizione, promettendole, con
implacabile continuità, i più alti destini... perché non dirlo? un
destino da sovrana.
La giovane scozzese si era arresa all’evidenza delle predizioni
della nutrice, e si ripeteva senza tregua, per corroborare la sua
sete d’ambizione, che una chiromante aveva predetto una corona anche
alla bella ed eccellente creola che sedette un giorno sul trono di
Francia, e che fu regina in virtù della sua grazia e della sua
bontà, come altre lo sono per la loro grandezza e maestà.
E, cosa strana, Tom Seyton, superstizioso come la sorella, ne aveva
incoraggiato le folli speranze e aveva deciso di consacrare la
propria vita alla realizzazione del sogno di Sarah, un sogno tanto
splendido quanto insensato.
Tuttavia sia il fratello che la sorella non erano tanto ciechi da
credere in tutto e per tutto alla predizione della montanara e da
non prendere in considerazione i regni secondari e i principati per
puntare decisamente a un trono di primo piano; no, purché la bella
scozzese si fosse cinta un giorno l’altera fronte di una corona
regale, l’orgogliosa coppia avrebbe chiuso gli occhi sull’importanza
dei domini posti sotto quella corona.
Aiutandosi con l’Almanacco di Gotha dell’anno di grazia 1819, Tom
Seyton, in procinto di lasciare la Scozia, fece una specie di tavola
sinottica per ordine di età di tutti i re e tutti i principi europei
non ancora sposati.
Sebbene molto assurda, l’ambizione dei due fratelli non ricorreva a
mezzi disonesti; Tom doveva solamente aiutare a ordire la ragnatela
del matrimonio in cui Sarah sperava di far cadere una qualsiasi
testa coronata. Tom doveva essere complice in tutte le astuzie, in
tutti gli intrighi che avrebbero potuto portare a un tale risultato;
piuttosto che vedere nella sorella l’amante di
un principe, lui l’avrebbe uccisa, anche esistendo la certezza di un
matrimonio riparatore.
L’inventario matrimoniale che risultò dalle ricerche di Tom e di
Sarah nell’Almanacco di Gotha fu soddisfacente.
Soprattutto la Confederazione germanica forniva un grande
contingente di giovani sovrani presuntivi. Sarah era protestante;
Tom sapeva della facilità con cui i tedeschi contraevano il
matrimonio detto della mano sinistra, matrimonio legittimo del
resto, a cui però per quanto riguardava la sorella si sarebbe
rassegnato solo in extremis. Tutti e due d’accordo decisero di
cominciare la caccia in Germania.
Se un tale progetto potrà sembrare irrealizzabile e tali speranze
assurde, teniamo a precisare che un’ambizione sfrenata, alimentata
per giunta dalla superstizione, raramente può vantarsi di essere
ragionevole nelle sue mire e di tentare il tentabile; tuttavia se si
tengono presenti alcuni fatti di cronaca contemporanea, dagli
augusti e rispettabili matrimoni morganatici fra sovrani e suddite
giù giù fino all’avventurosa relazione di miss Penelope col principe
di Capua, non si potrà negare una qualche probabilità di successo ai
sogni di Tom e Sarah.
Aggiungeremo che, in lei, la stupenda bellezza si accoppiava a una
rara disposizione per le più svariate cose d’ingegno e a una forza
di seduzione tanto più pericolosa in quanto oltre ad avere un’anima
arida e insensibile, uno spirito scaltro e cattivo, una grande
ipocrisia, un carattere testardo e risoluto, essa possedeva tutti i
crismi di una natura generosa, ardente e passionale.
La sua costituzione fisica era infida e traeva in inganno quanto
quella morale.
I grandi occhi neri, ora scintillanti ora languidi, sotto le
sopracciglia d’ebano, potevano fingere benissimo il fuoco della
voluttà; eppure mai le brucianti aspirazioni dell’amore avrebbero
potuto fare palpitare quel suo cuore di ghiaccio; mai
l’imprevedibilità del cuore o dei sensi avrebbe potuto scombinare
gli implacabili calcoli di quella donna scaltra, egoista e
ambiziosa.
Arrivata sul continente, Sarah, dietro consiglio del fratello,
decise, prima cimentarsi nell’impresa, di fermarsi a Parigi, dove
intendeva raffinare la propria educazione, e rendere più elastica la
propria rigidezza di donna inglese, frequentando una società
elegante, piacevole e che godesse di una discreta libertà.
Sarah fu introdotta nel più bello e nel più gran mondo, grazie ad
alcune lettere di raccomandazione e alla benevola protezione della
signora ambasciatrice d’Inghilterra e del vecchio marchese
d’Harville, che aveva conosciuto in Inghilterra il padre di Tom e di
Sarah.
Le persone false, fredde, calcolatrici, assimilano con straordinaria
prontezza il linguaggio e le maniere più opposte al loro carattere:
in esse tutto è esteriorità, semplice apparenza, vernice, scorza;
non appena vengono capite, scoperte, sono perdute; per questo quel
certo istinto di conservazione di cui sono dotate le rende più che
ogni altro atte alla finzione. Esse si truccano e si mascherano con
la sveltezza e l’abilità di un attore consumato.
Con ciò vogliamo dire che dopo essere rimasta sei mesi a Parigi,
Sarah, grazie alla vivacità pungente del suo spirito, al fascino
della sua persona, all’ingenuità delle sue civetterie e all’aperta
provocazione del suo sguardo casto e passionale a un tempo, avrebbe
potuto competere con la parigina più parigina del mondo.
Trovandola sufficientemente armata, Tom partì con la sorella per la
Germania, provvisto di ottime lettere di presentazione.
Il primo Stato della Confederazione germanica che si trovava
sull’itinerario di Sarah era il granducato di Gerolstein, nome con
cui era indicato nel diplomatico e infallibile Almanacco di Gotha
dell’anno 1819.
GENEALOGIA DEI SOVRANI D’EUROPA E DELLE LORO FAMIGLIE
GEROLSTEIN
Granduca: Maximilien Rodolphe, nato il 10 dicembre del 1764. Succede
al padre Charles-Frédérik-Rodolphe, il 21 aprile del 1785. – Vedovo,
nel gennaio del 1808, di Luise, figlia del principe JeanAuguste di
Burglen.
Figlio: Gustave-Rodolphe, nato il 17 aprile del 1803. Madre:
Granduchessa Judith, ereditiera, vedova del granduca
CharlesFrédérik-Rodolphe, il 21 aprile del 1785.
Tom aveva avuto il buon senso di scrivere, prima di tutto, sulla
lista i principi più giovani che desiderava come cognati, perché
pensava che i più giovani si lasciano più facilmente sedurre degli
uomini maturi. D’altra parte, come abbiamo detto, Tom e Sarah erano
stati particolarmente raccomandati al granduca che regnava in
Gerolstein dal vecchio marchese d’Harville, infatuato anche lui come
tutti gli altri di Sarah, di cui non si saziava di ammirare la
bellezza, la grazia e il carattere squisito.
Inutile dire che l’erede presuntivo del granducato di Gerolstein era
Gustave-Rodolphe; il quale Rodolphe aveva appena diciotto anni
quando Tom e Sarah furono presentati a suo padre.
L’arrivo della giovane scozzese fu un avvenimento in quella piccola
corte tedesca, tranquilla, semplice, seria e per così dire
patriarcale. Il granduca, un uomo buonissimo, governava i suoi Stati
con la fermezza di un saggio e la bontà di un padre; non v’era
niente di più materialmente e moralmente felice di quel principato.
La popolazione seria e operosa, parca e pia, incarnava il tipo
ideale del carattere tedesco.
Quella brava gente godeva di una felicità così piena, era così
soddisfatta della propria condizione, che il granduca grazie al suo
illuminato potere non aveva avuto nessun bisogno di tenerla lontana
dalla mania delle innovazioni costituzionali.
Quanto alle scoperte moderne, alle invenzioni pratiche che potevano
essere di salutare influenza per il benessere e la moralizzazione
del popolo, il granduca si teneva al corrente e le applicava di
continuo; infatti i suoi inviati presso le varie potenze d’Europa
non avevano, per così dire, altra missione che di tenere informato
il loro padrone di tutti i progressi della scienza dal punto di
vista del bene pubblico e dell’utilità pratica.
Abbiamo detto che il granduca provava affetto e riconoscenza per il
vecchio marchese d’Harville che nel 1815 gli aveva reso immensi
servigi; così, grazie alla raccomandazione di quest’ultimo, Tom e
Sarah Seyton di Halsbury furono accolti alla corte di Gerolstein con
un riguardo e una bontà tutti particolari.
Quindici giorni dopo il suo arrivo, Sarah, dotata com’era di un
grande spirito di osservazione, aveva potuto facilmente rendersi
conto della fermezza, lealtà, schiettezza del granduca; prima di
sedurre il figlio, cosa che avrebbe sicuramente fatto, aveva avuto
l’astuzia di assicurarsi delle disposizioni del padre. Costui
sembrava amare così follemente il figlio Rodolphe che per un momento
Sarah lo credette capace di acconsentire a un matrimonio con una
persona di rango inferiore piuttosto che vedere l’amato figlio
eternamente infelice. Ma la scozzese non tardò a convincersi che un
padre così tenero non sarebbe mai venuto meno a certi princìpi, a
certe idee sui doveri dei principi.
Non era orgoglio da parte sua; ma coscienza, ragione, dignità.
Ora, un uomo di tempra così energica, che è tanto più affettuoso e
buono, quanto più è risoluto e fermo, non concede mai nulla di
quello che riguarda la propria coscienza, la propria ragione e la
propria dignità.
Di fronte a ostacoli così difficili da superare, Sarah fu sul punto
di rinunciare alla sua impresa, ma considerato che, in compenso,
Rodolphe era giovanissimo e che ognuno ne vantava la dolcezza, la
bontà, il carattere timido e sognatore a un tempo, dedusse che il
giovane principe era debole e indeciso; quindi non desisté dal suo
progetto e dalle sue speranze.
In tale occasione, il suo comportamento e quello di suo fratello
furono un capolavoro di scaltrezza.
La giovane donna seppe accattivarsi gli animi di tutti, e,
soprattutto, di quelle persone che avrebbero potuto essere gelose o
invidiose delle sue qualità; si velò con modestia e semplicità
facendo così dimenticare la propria bellezza e le proprie grazie. In
breve diventò l’idolo non solo del granduca, ma anche di sua madre,
la granduchessa Judith, che, nonostante o per i suoi novant’anni,
amava follemente tutto ciò che poteva essere giovane e leggiadro.
Parecchie volte Tom e Sarah parlarono di partire. Il sovrano di
Gerolstein non vi acconsentì mai; anzi, per legare a sé
definitivamente i due fratelli, pregò, da una parte, il baronetto
Tom Seyton di Halsbury di accettare la carica vacante di primo
scudiero, e dall’altra supplicò Sarah di non lasciare la
granduchessa che ormai non poteva più stare senza di lei.
Dopo lunghe esitazioni, contro cui si combatté con implacabile
insistenza, Tom e Sarah accettarono le brillanti proposte e si
stabilirono alla corte di Gerolstein, dove erano giunti da due mesi.
Sarah, che aveva una notevole sensibilità in materia di musica e che
sapeva che la granduchessa preferiva i vecchi maestri, e in
particolare Gluck, si fece mandare l’opera dell’illustre musicista,
e così la vecchia principessa fu conquistata dall’instancabile
compiacenza di lei e dal modo delizioso con cui cantava le vecchie
arie, così belle, semplici ed espressive.
Tom, da parte sua, seppe rendersi utilissimo nella carica che il
granduca gli aveva dato. Lo scozzese conosceva i cavalli alla
perfezione; era molto ordinato e assai energico: in breve riuscì a
trasformare quasi completamente il servizio delle scuderie del
granduca, servizio che per l’incuria e l’abitudine non aveva quasi
più organizzazione alcuna.
I due fratelli non tardarono molto a essere benvoluti, festeggiati,
vezzeggiati alla corte. Dalla preferenza del padrone dipendono le
preferenze degli inferiori. Sarah, d’altra parte, aveva bisogno, per
i suoi progetti futuri, di tali e tanti punti d’appoggio
che non poteva non servirsi della sua abilità in fatto di seduzione
per farsi degli alleati. Mentre la sua ipocrisia, nascosta dietro le
più attraenti apparenze, non aveva difficoltà a ingannare la buona
fede della maggior parte di quei tedeschi, l’eccessiva benevolenza
del granduca veniva coronata dal generale affetto.
Ecco quindi la nostra coppia stabilita alla corte di Gerolstein,
perfettamente e onorevolmente sistemata senza che mai si sia parlato
di Rodolphe. Una fortunata combinazione volle che quest’ultimo,
pochi giorni dopo l’arrivo di Sarah, partisse con un aiutante di
campo e col fedele Murph per andare a passare in rivista certe
truppe.
Questa assenza riuscì doppiamente propizia alle mire di Sarah,
poiché le permise di intrecciare con tutta comodità i principali
fili della trama che voleva ordire, senza venire disturbata dalla
presenza del principe, la cui ammirazione troppo evidente non
avrebbe mancato di suscitare i timori del granduca.
Anzi, essendo il figlio assente, il granduca, purtroppo, non diede
peso al fatto di avere ammesso alla sua presenza una giovane donna
dotata di rara bellezza e di spirito affascinante, che in ogni
momento del giorno si sarebbe trovata a tu per tu con Rodolphe.
Sarah, dentro di sé, restò insensibile a un’accoglienza così
commovente, così generosa e alla nobile fiducia dimostrata da coloro
che l’avevano introdotta nell’intimità della famiglia reale.
Né la ragazza né il fratello desistettero dai loro malvagi progetti;
erano consapevoli di essere venuti a portare lo scompiglio e
l’affanno in una Corte quieta e tranquilla. Calcolavano con
freddezza i probabili risultati delle crudeli discordie che
avrebbero suscitato tra un padre e un figlio legati fino ad allora
da tanto affetto.
XIII
SIR WALTER MURPH E L’ABATE POLIDORI
Rodolphe nella sua infanzia era stato di costituzione fragilissima.
Il padre a un certo momento fece questo ragionamento, bizzarro in
apparenza, ma in realtà giustissimo:
«I gentiluomini di campagna inglesi generalmente sono noti per la
loro salute di ferro. È un vantaggio, questo, che dipende in gran
parte dalla loro educazione fisica: semplice, rude, rustica, essa li
irrobustisce. Rodolphe esce dalle mani delle donne; ha un
temperamento delicato; forse, abituandolo a vivere come il figlio di
un fattore inglese (però con qualche riserva), riuscirò a farlo
diventare di costituzione robusta.»
Il granduca allora fece cercare in Inghilterra un uomo degno e
capace di condurre questo tipo di educazione fisica; per questa
importante missione la scelta cadde su sir Walter Murph, magnifico
esemplare di gentiluomo delle campagne dello Yorkshire. Egli fece
prendere al principino una direzione che rispondeva perfettamente ai
desideri del granduca.
Per parecchi anni Murph e il suo allievo abitarono in un’incantevole
fattoria circondata da campi e da boschi che si trovava a qualche
lega dalla città di Gerolstein, in un sito pittoresco e salubre.
Rodolphe, una volta lontano dall’etichetta di Corte, poté dedicarsi
con Murph a lavori di campagna adatti alla sua età e condurre la
vita sobria, virile e regolare dei campi, avendo per divertimenti e
distrazioni esercizi violenti come la lotta, il pugilato,
l’equitazione e la caccia.
All’aria pura dei prati, in mezzo a boschi e montagne, il giovane
principe sembrò trasformarsi, crebbe vigoroso come una giovane
quercia; il pallore da malaticcio che aveva fece posto ai colori
della salute; sebbene snello e asciutto, vinse le più dure fatiche;
la destrezza, l’energia, il coraggio compensavano la forza muscolare
che gli mancava tanto che giunse presto a lottare e a vincere con
ragazzi più vecchi di lui; allora aveva quindici o sedici anni
circa.
Della preferenza data all’educazione fisica avrebbe risentito la sua
educazione scientifica: Rodolphe sapeva pochissime cose; il
granduca, però, pensava giustamente che non si poteva richiedere
niente alla mente se questa non era sorretta da una robusta
costituzione fisica; solo così, pur essendo state tardivamente
fecondate dall’istruzione, le facoltà intellettuali possono dare
rapidi risultati.
Il buon Walter Murph non era colto; poté quindi dare a Rodolphe solo
qualche rudimento; nessuno, però, meglio di lui poteva instillare
nel cervello del suo allievo la nozione di ciò che era giusto,
leale, generoso e alimentare l’odio per ciò che era meschino, vile,
miserabile.
Odio e ammirazione che erano di natura energica e salutare e che si
radicarono profondamente nell’animo di Rodolphe; in seguito questi
princìpi diventarono il bersaglio della violenta furia delle
passioni, ma essa non riuscì mai a sradicarli dal suo cuore. Il
fulmine colpisce, solca e abbatte un albero anche se solidamente
e profondamente piantato, ma le sue radici continuano a ribollire di
linfa e, subito dopo, mille verdi ramoscelli rigermogliano da quel
tronco che sembrava senza vita.
Murph diede a Rodolphe, se così si può dire, la salute del corpo e
quella dell’anima; lo fece diventare robusto, agile e coraggioso,
ben disposto verso tutto ciò che era buono e bene, ostile a tutto
ciò che era cattivo e malvagio.
Assolto così in modo ammirevole il proprio compito, il gentiluomo
dovette lasciare la Germania per qualche tempo, con grande
dispiacere di Rodolphe che l’amava teneramente, perché chiamato in
Inghilterra da importanti questioni d’interesse.
Murph si sarebbe definitivamente stabilito a Gerolstein con la
famiglia solo dopo avere sistemato le sue faccende. Sperava di non
dovere restare assente più di un anno.
Rassicurato sulla salute del figlio, il granduca pensò seriamente a
farlo istruire.
Un certo abate César Polidori, celebre filologo, medico quotato,
storico erudito, uomo versato nello studio delle scienze esatte e
fisiche, ebbe l’incarico di coltivare e di fecondare il vergine ma
fertile terreno, così ben preparato da Murph.
Questa volta la scelta del granduca fu molto infelice, o meglio fu
crudelmente ingannato nel suo spirito religioso dalla persona che
gli presentò e gli fece accettare un prete cattolico come precettore
di un principe protestante. L’innovazione sembrò a molti un grosso
errore, carico di funesti presagi per l’educazione di Rodolphe.
Il caso, o meglio l’infamia del prete, si incaricò di dimostrare la
veridicità di parte delle tristi predizioni.
Empio, disonesto, ipocrita, imbevuto di sprezzo sacrilego per tutto
quello che vi è di più sacro al mondo, pieno di astuzia e di
furbizia, dissimulava l’immoralità più pericolosa, lo scetticismo
più pauroso sotto la scorza di uomo austero e devoto, ostentava una
pelosa umiltà cristiana per nascondere la sua insinuante elasticità,
così come dimostrava una benevola espansività e un candido ottimismo
per celare la perfidia della sua piaggeria interessata; proprio
perché conosceva profondamente gli uomini, o meglio perché
dell’umanità aveva conosciuto solo le cose peggiori e gli istinti
più bassi, l’abate Polidori era il più detestabile mentore che si
potesse dare a un giovane.
Rodolphe, che aveva provato un enorme dispiacere al momento di
abbandonare la vita indipendente e movimentata condotta fino ad
allora con Murph, per andare a impallidire sui libri e sot-
tomettersi alle formalità d’etichetta vigenti alla corte del padre,
cominciò col prendere in odio il prete.
Era naturale che fosse così.
Prima di lasciare il suo allievo, il buon Murph l’aveva paragonato,
e non a torto, a un puledro selvaggio, elegante e focoso, che veniva
allontanato dalle belle praterie dove scorrazzava libero e giocoso,
per andare a imparare a sottostare al morso, obbedire agli speroni,
e a moderare e utilizzare forze che fino ad allora aveva impiegato
solo per correre e per saltare a suo capriccio.
Rodolphe cominciò col confessare al prete di non sentirsi nessuna
vocazione per lo studio e di avere prima di tutto bisogno di
esercitare le braccia e le gambe, di respirare l’aria dei campi, di
correre per i boschi e su per le montagne, perché diceva che,
secondo lui, un buon fucile e un buon cavallo erano preferibili ai
più bei libri del mondo.
Il prete rispose all’allievo che infatti non c’era niente di più
fastidioso dello studio, ma che niente era più grossolano dei
piaceri che egli preferiva allo studio, piaceri in tutto degni di
uno stupido fittavolo tedesco. E il prete giù a fare una descrizione
così buffa, così ironica dell’esistenza semplice dei campi, che per
la prima volta Rodolphe si vergognò di avere avuto quella felice
esperienza; allora ebbe l’ingenuità di chiedere al prete come poteva
passare il tempo uno a cui non piacevano né lo studio né la caccia
né la vita libera dei campi.
Il prete si limitò a rispondere che glielo avrebbe insegnato più
avanti. I disegni del prete, da un altro punto di vista però, erano
ambiziosi come quelli di Sarah.
Sebbene il granducato di Gerolstein fosse solo uno Stato secondario,
il prete aveva vagheggiato, facendo di Rodolphe un principe
fannullone, di poter esserne un giorno il Richelieu.
In principio, dunque, cercò di accattivarsi la simpatia dell’allievo
e di essere compiacente ed esageratamente riguardoso per fargli
dimenticare Murph. Siccome Rodolphe continuava ad avere antipatia
per i libri, il prete non svelò al granduca la ripugnanza che il
giovane principe aveva per lo studio, anzi ne vantò l’assiduità e i
sorprendenti progressi; e con alcune interrogazioni che sembravano
perfettamente improvvisate e che, invece, aveva prima preparato con
Rodolphe riuscì a far perseverare il granduca (che, per la verità,
non ne capiva gran che) nella sua cecità e nella sua fiducia.
A poco a poco l’avversione che il prete, in un primo momento, aveva
ispirato a Rodolphe, mutò in aperta familiarità, sentimento
diversissimo dal serio attaccamento che nutriva per Murph.
A poco a poco Rodolphe si trovò legato al prete (sebbene per cause
innocenti) in virtù di quella sorta di solidarietà che unisce due
complici. Prima o poi però sarebbe arrivato a disprezzare un uomo
dell’età e del carattere di quel prete che sfacciatamente ricorreva
alla menzogna per scusare la pigrizia del suo allievo.
Il prete lo sapeva.
Ma sapeva anche che se, all’inizio, una persona non prova disgusto
per gli esseri corrotti e non li rifugge, finisce, poi, suo malgrado
e senza accorgersene, coll’abituarsi al loro spirito, il più delle
volte contagioso, e un po’ alla volta arriva anche a non vergognarsi
e a non indignarsi quando sente schernire e condannare quello che
prima venerava.
Il prete, del resto, era troppo furbo per attaccare direttamente
certe nobili convinzioni di Rodolphe, frutto dell’educazione di
Murph. Dopo avere bersagliato e deriso gli stupidi passatempi
dell’infanzia del suo allievo, il prete, deposta in parte la
maschera di uomo austero, ne aveva stuzzicato la curiosità con
accenni velati all’esistenza beata che conducevano certi principi
del passato: infine, cedendo alle istanze di Rodolphe, il prete,
dopo innumerevoli precauzioni e dopo avere lanciato più di una
frecciata contro la rigida etichetta della Corte granducale, aveva
eccitato la fantasia del giovane principe, raccontandogli in modo
esagerato e a vivaci colori i piaceri e le galanterie che avevano
reso illustri i regni di Luigi XIV, del Reggente e soprattutto di
Luigi XV, il prediletto di César Polidori.
Davanti a quel disgraziato ragazzo che lo ascoltava con funesta
avidità, egli affermava che spesso le voluttà, anche le più smodate,
non corrompevano un principe che fosse dotato, anzi lo rendevano
clemente e generoso, per il motivo che niente più della felicità
induce le anime grandi alla benevolenza e alla bontà.
Luigi XV il Beneamato era una prova indiscutibile di quanto
sosteneva.
E poi, diceva il prete, quanti grandi uomini dei tempi antichi e
moderni non avevano sacrificato con generosità al più raffinato
epicureismo!!! da Alcibiade a Maurice de Saxe, da Antonio al gran
Condé da Cesare fino a Vendôme!
Discussioni come questa non potevano non provocare effetti deleteri
su un’anima giovane, ardente e vergine; inoltre il prete traduceva
senza reticenze per il suo allievo quelle odi d’Orazio in cui si
esaltava il fascino irresistibile di una vita molle e deliziosa
interamente consacrata all’amore e alle squisite gioie dei sensi.
Tuttavia, per non far apparire le insidie celate in
quelle teorie e per soddisfare a ciò che vi era di essenzialmente
generoso nel carattere di Rodolphe, il prete lo cullava di tanto in
tanto nelle più avvincenti utopie. A sentir lui, un principe con
l’uso intelligente della voluttà, avrebbe potuto trovare nel piacere
un mezzo per migliorare gli uomini, nella felicità un mezzo per
moralizzarli, e condurre i più increduli alla fede religiosa,
incitandoli a essere grati al Creatore, che sul piano materiale
aveva prodigato all’uomo una quantità inesauribile di piaceri.
Godere di tutto e in ogni momento voleva dire, secondo il prete,
glorificare Dio nella sua magnificenza e nell’eternità dei suoi
doni.
Tali teorie portarono i loro frutti.
In una Corte abitudinaria e virtuosa, avvezza, sull’esempio del
sovrano, ai piaceri onesti, alle distrazioni innocenti, Rodolphe,
grazie agli insegnamenti del prete, si era messo a sognare le folli
notti di Versailles, le orge di Choisy, le violente voluttà del
Parcaux-Cerfs e, per contrasto, di tanto in tanto anche qualche
amore romanzesco.
Il prete si era anche affrettato a dimostrare a Rodolphe che, sul
piano militare, un principe della Confederazione germanica poteva
solo inviare il proprio contingente di truppe alla Dieta.
D’altra parte, lo spirito del tempo non era più per la guerra.
Lasciar scorrere deliziosamente e pigramente i propri giorni in
mezzo alle donne e al lusso raffinato, smaltire volta per volta
l’ebbrezza dei piaceri sensuali nella confortante distensione che
viene dall’arte, cercare a volte nella caccia, non come un Nemrod
selvaggio, ma da intelligente epicureo, quelle fatiche passeggere
che rendono ancora più desiderabili l’indolenza e la pigrizia, tale
era, secondo il prete, la sola vita possibile per un principe che
(per colmo di felicità!) avesse trovato un primo ministro capace di
accollarsi coraggiosamente la pesante e fastidiosa responsabilità
degli affari di Stato.
Rodolphe, lasciandosi andare a supposizioni che non avevano nulla di
criminale dal momento che non uscivano dal cerchio delle
probabilità, si proponeva, quando Dio avesse chiamato a sé il
granduca suo padre, di darsi alla vita che l’abate Polidori gli
aveva descritto a tinte calde e vivaci, e di prendere il prete come
primo ministro.
Ripetiamo che Rodolphe amava teneramente il padre, e l’avrebbe
rimpianto profondamente, anche se, morto lui, egli avrebbe potuto
fare il Sardanapalo in miniatura. Inutile dire che
il giovane principe manteneva il più grande segreto sulle ignobili
speranze che gli fermentavano dentro.
Sapendo che gli eroi prediletti dal granduca erano Gustavo Adolfo,
Carlo XII e il grande Federico (Maximilien Rodolphe aveva l’onore di
essere strettamente imparentato con la casa reale del Brandeburgo),
Rodolphe pensava, non a torto, che suo padre, che professava una
profonda ammirazione per quei re-capitani sempre con tanto di
stivali e di speroni, sempre indaffarati con cavalli e con guerre,
lo avrebbe considerato come perduto se lo avesse creduto capace e
desideroso di eliminare dalla corte la tradizionale austerità
teutonica per introdurvi i facili e licenziosi costumi della
Reggenza. Un anno, diciotto mesi trascorsero così; pur avendo
annunciato il suo arrivo imminente, Murph non era ancora tornato.
Superato il primo momento di ripugnanza per la bassa ossequiosità
del prete, Rodolphe pensò ad approfittare degli insegnamenti
scientifici del suo precettore, e finì coll’acquisire se non una
conoscenza vastissima, per lo meno delle nozioni generali che,
accompagnandosi a un’intelligenza naturale pronta e vivace, gli
permettevano di sembrare molto più istruito di quel che fosse in
realtà e di fare grandissimo onore all’insegnamento del prete.
Murph ritornò dall’Inghilterra con la famiglia e pianse di gioia
nell’abbracciare il suo ex allievo.
Dopo qualche giorno, il nobile gentiluomo non era ancora riuscito a
capire la ragione di un cambiamento che lo rattristava
profondamente, anzi ebbe l’occasione, quando gli ricordò la loro
dura vita di campagna, di notare che Rodolphe era stato freddo,
riservato e quasi ironico.
Sicuro, da una parte, della naturale bontà d’animo di Rodolphe,
messo dall’altra sul chi va là da un segreto presentimento, Murph lo
credette momentaneamente pervertito dalla perniciosa influenza
dell’abate Polidori che, d’istinto, egli aveva preso a detestare e
che si riprometteva di osservare attentamente.
Dal canto suo, il prete, vivamente contrariato dal ritorno di Murph,
di cui temeva la lealtà, il buon senso e l’acuto spirito
d’osservazione, concepì un solo pensiero, quello di screditare il
gentiluomo agli occhi di Rodolphe.
Proprio in quest’epoca, Tom e Sarah furono presentati e accolti alla
corte di Gerolstein con i più grandi onori.
Qualche tempo prima del loro arrivo, Rodolphe era partito con un
aiutante di campo e con Murph per andare a ispezionare le truppe di
alcune guarnigioni. Dal momento che il viaggio
era di carattere esclusivamente militare, il granduca aveva creduto
opportuno non farci andare anche il prete. Al prete rincrebbe
moltissimo di vedere Murph riassumere per qualche giorno presso il
giovane principe le sue funzioni d’un tempo.
Il gentiluomo contava molto su quest’occasione per conoscere
chiaramente il motivo per cui Rodolphe si fosse raffreddato. Questi,
purtroppo, esperto già nell’arte della simulazione, giudicando
pericoloso che il mentore di un tempo venisse a scoprire i suoi
piani futuri, fu con lui di una cordialità meravigliosa, finse di
rimpiangere molto il periodo della sua prima giovinezza e i suoi
rustici piaceri e, così facendo, finì col tranquillizzarlo quasi del
tutto.
Diciamo quasi del tutto, perché ci sono amici che sono dotati di un
fiuto straordinario. Nonostante le prove d’affetto che gli
testimoniava il giovane principe, Murph intuiva che c’era un segreto
fra loro due; invano cercò di chiarire i propri sospetti; i suoi
tentativi fallirono davanti alla precoce doppiezza di Rodolphe.
Nel periodo del viaggio, il prete intanto non era rimasto ozioso.
Gli intriganti si indovinano l’un l’altro o si riconoscono da certi
segni misteriosi, che permettono loro di osservarsi fino al momento
in cui i loro rispettivi interessi non li spingono o all’alleanza o
all’ostilità dichiarata.
Qualche giorno dopo essersi stabilito con Sarah alla corte del
granduca, Tom aveva già legato con l’abate Polidori. Il prete
ammetteva in cuor suo, cosa questa di infame cinismo, di possedere
un’innata affinità quasi involontaria con gli impostori e i malvagi;
così, si diceva, pur non avendo intuito lo scopo preciso a cui
miravano Tom e Sarah, si era sentito attratto verso di loro da una
simpatia troppo viva per non sospettare in loro qualche disegno
diabolico.
Alcune domande di Tom Seyton sul carattere e i precedenti di
Rodolphe, domande a cui un uomo meno astuto del prete non avrebbe
dato nessuna importanza, gettarono improvvisamente luce sulle mire
del fratello e della sorella; solo che il prete non credette che la
giovane scozzese avesse delle mire al tempo stesso oneste e
ambiziose.
L’arrivo dell’affascinante fanciulla parve al prete un colpo di
fortuna. Rodolphe aveva l’immaginazione accesa da fantasie amorose;
Sarah doveva essere l’incantevole realtà che avrebbe incarnato tanti
sogni meravigliosi; perché, pensava il prete, prima di giungere a
fare una scelta dei piaceri e a passare da una voluttà
all’altra, si comincia quasi sempre con un amore unico e romanzesco.
Luigi XIV e Luigi XV forse sono stati fedeli solo a Marie Mancini e
a Rosette d’Arey.
Secondo il prete, lo stesso doveva accadere a Rodolphe e alla bella
scozzese. Costei avrebbe certamente esercitato una grandissima
influenza su un cuore vinto dall’incanto affascinante del primo
amore. Dirigere, sfruttare questa influenza, e servirsene per
rovinare Murph per sempre, ecco quale fu il piano del prete.
Da uomo abile, fece in modo che i due ambiziosi capissero, senza
possibilità di equivoci, che avrebbero dovuto fare i conti con lui,
essendo egli il solo responsabile presso il granduca della vita
privata del giovane principe.
E non era tutto, bisognava stare in guardia contro l’ex precettore
di quest’ultimo che adesso lo stava accompagnando in un’ispezione
militare; un uomo rude, grossolano, imbevuto di pregiudizi assurdi,
che una volta aveva un grande ascendente sull’animo di Rodolphe, e
la cui curiosità poteva diventare pericolosa; un uomo che invece di
scusare e comprendere i folli e piacevoli errori di un giovane si
sarebbe sentito in dovere di denunciarli alla severa autorità del
granduca.
Tom e Sarah capirono al volo, sebbene al prete non avessero detto
niente dei loro segreti disegni. Quando Rodolphe e Murph tornarono,
i tre, spinti da comuni interessi, avevano tacitamente formato una
lega contro il nobiluomo, loro più temibile avversario.
XIV
IL PRIMO AMORE
Accadde ciò che doveva accadere.
Rodolphe, al suo ritorno, si innamorò pazzamente di Sarah
che vedeva ogni giorno. Dopo un po’, lei gli confessò di ricambiare
il suo amore, anche se aveva previsto che avrebbe procurato loro
tanti dolori. Non avrebbero mai potuto essere felici: li divideva
una distanza troppo grande. Perciò raccomandò a Rodolphe la più
assoluta discrezione, per timore di suscitare i sospetti del
granduca, che sarebbe stato inesorabile e che li avrebbe privati
della loro unica felicità, quella di vedersi ogni giorno.
Rodolphe promise di controllarsi e di nascondere il proprio amore.
La scozzese, da parte sua, era troppo ambiziosa, troppo sicura di se
stessa, per compromettersi e tradirsi agli occhi della
corte. Anche il giovane principe sentiva il bisogno di dissimulare;
e imitò la prudenza di Sarah. Per qualche tempo questo segreto
d’amore fu perfettamente custodito.
Quando i due fratelli si accorsero che la sfrenata passione di
Rodolphe era giunta al suo parossismo e che la sua esaltazione
aumentava sempre di più e si faceva ogni giorno sempre più difficile
da controllare, decisero di sferrare il gran colpo prima che essa,
scoppiando, compromettesse ogni cosa.
Poiché una tale confidenza, di natura d’altronde specificamente
morale, veniva giustificata dalla mansione del prete, Tom gli
accennò vagamente alla necessità di un matrimonio fra Rodolphe e
Sarah; altrimenti, aveva aggiunto in tutta sincerità, lui e sua
sorella sarebbero immediatamente partiti da Gerolstein; Sarah
contraccambiava l’amore del principe, ma preferiva la morte al
disonore, e poteva essere solo la moglie di Sua Altezza.
Queste pretese riempirono il prete di stupore; non avrebbe mai
creduto Sarah così audace e ambiziosa. Un tale matrimonio, pieno di
innumerevoli difficoltà, di ogni sorta di pericoli, parve
impossibile al prete; egli disse con franchezza a Tom le ragioni per
cui il granduca non avrebbe mai acconsentito a una tale unione.
Tom ascoltò le ragioni, ne riconobbe l’importanza, ma propose come
mezzo termine che poteva mettere a posto tutto, un matrimonio
segreto, con tutti i crismi, che doveva essere svelato solo dopo la
morte del duca regnante.
Sarah era di antica e nobile famiglia; una simile unione non mancava
certo di precedenti. Tom concedeva al prete e, per conseguenza, al
principe otto giorni per decidere: sua sorella non avrebbe
sopportato oltre le crudeli angosce dell’incertezza; se doveva
rinunciare all’amore di Rodolphe, l’avrebbe fatto immediatamente con
feroce fermezza.
Per motivare l’improvvisa partenza che ne sarebbe allora seguita,
Tom diceva di avere, per ogni eventualità, mandato a un suo amico
inglese una lettera che doveva essere spedita in Germania dalla
posta di Londra; nella lettera si sarebbe parlato di motivi tanto
forti da giustificare la partenza, di modo che Tom e Sarah potessero
dirsi assolutamente costretti a lasciare, per qualche tempo, la
corte del granduca.
Anche questa volta, grazie alla cattiva opinione che aveva
dell’umanità, il prete indovinò la verità.
Siccome vedeva sempre un secondo fine anche nei sentimenti più
onesti, quando seppe che Sarah voleva legittimare con il matrimonio
il suo amore, egli scorse in tutto ciò una prova non di
virtù, ma di ambizione: a stento avrebbe creduto a un amore
disinteressato anche se la ragazza avesse sacrificato il suo onore a
Rodolphe, cosa di cui l’aveva creduta capace, perché supponeva che
lei avesse l’intenzione di essere l’amante del suo allievo. Secondo
i princìpi del prete, speculare, tirare in ballo il dovere, voleva
dire non amare. «Debole e freddo amore» diceva, «quello che si
preoccupa del cielo e della terra!»
Sicuro di non sbagliarsi sulle mire di Sarah, il prete restò
perplesso. Dopo tutto, il desiderio espresso da Tom in nome della
sorella era dei più onorevoli. Che cosa richiedeva in fondo? o una
separazione o una legittima unione.
Nonostante il suo cinismo, il prete non avrebbe avuto il coraggio,
in presenza di Tom, di esprimere il proprio stupore circa i
giustissimi motivi che sembravano regolare la condotta di
quest’ultimo, e dirgli crudamente che era stata tutta un’abile
manovra quella che lui e la sorella avevano ideato per costringere
il principe a un matrimonio svantaggioso.
Il prete aveva tre partiti a cui appigliarsi:
Avvertire il granduca del complotto matrimoniale,
Aprire gli occhi a Rodolphe sulle manovre di Tom e Sarah, Farsi
complice di quel matrimonio.
Ma:
Avvertire il granduca voleva dire alienarsi per sempre l’erede
presuntivo della corona.
Rivelare a Rodolphe le mire interessate di Sarah voleva dire
esporsi a essere accolto come si è accolti da un innamorato quando
gli si disprezzi l’oggetto amato; e poi che terribile colpo per la
vanità o per il cuore del principe!... rivelargli che si voleva
sposare proprio e solo la sua posizione di sovrano; e infine, caso
strano, lui, prete, avrebbe avuto il coraggio di mettersi a
biasimare la condotta di una ragazza che voleva mantenersi pura e
accordare i diritti dell’amante solo al marito?
Se invece si prestava a quel matrimonio, il principe e la moglie
sarebbero stati legati al prete da uno stretto vincolo di
riconoscenza, o per lo meno dalla solidarietà di un’azione
compromettente.
Certo tutto poteva venire scoperto e allora si sarebbe esposto alla
collera del granduca; ma il matrimonio ormai sarebbe stato concluso,
l’unione sarebbe stata valida e, una volta passata la tempesta, il
futuro sovrano di Gerolstein si sarebbe trovato tanto più legato
all’abate, quanti più rischi quest’ultimo aveva corso per servirlo.
Dopo matura riflessione, il prete si decise ad assecondare Sarah;
con una certa riserva però di cui parleremo più avanti.
La passione di Rodolphe era arrivata al culmine; ferocemente
esasperato dalla costrizione e dalle arti dell’abilissima Sarah, che
pareva soffrisse ancora più di lui delle difficoltà insormontabili
che l’onore e il dovere elevavano contro la loro felicità, ancora
qualche giorno e il giovane principe si sarebbe tradito.
Si pensi che era il primo amore, un amore ardente e semplice pieno
di sincerità e di passione; per provocarlo Sarah aveva fatto uso dei
mezzi più diabolici, della civetteria più raffinata. No, mai le
vergini emozioni di un giovane pieno di cuore, di fantasia e di
fuoco furono così a lungo e con tanta sapienza stuzzicate; mai donna
fu più dannosamente attraente di Sarah. Alternativamente scherzosa e
triste, casta e passionale, pudica e provocante: i suoi grandi occhi
neri languidi e ardenti accesero nell’animo agitato di Rodolphe una
fiamma eterna.
Quando il prete gli pose l’alternativa o di non vedere più la
conturbante fanciulla o di possederla in seguito a un matrimonio
segreto, Rodolphe saltò al collo del prete, lo chiamò salvatore,
amico, padre. Se lì ci fossero stati una chiesa e un celebrante il
giovane principe si sarebbe sposato subito.
Il prete volle, e aveva le sue ragioni, incaricarsi di tutto. Trovò
un prete e dei testimoni; e lo sposalizio (le cui formalità furono
scrupolosamente controllate e verificate da Tom) fu celebrato
segretamente durante una breve assenza del granduca, che era stato
chiamato a una riunione della Dieta germanica.
Le predizioni della montanara scozzese si erano realizzate: Sarah
sposava l’erede di una corona.
Il possesso non smorzò l’ardore di Rodolphe, ma fece in modo però
che diventasse più circospetto, e calmasse quella violenza che
avrebbe potuto compromettere il segreto della sua passione per
Sarah. La giovane coppia, protetta da Tom e dal prete, s’intese così
bene, furono tanto riservati nelle loro relazioni che nessuno riuscì
ad accorgersene.
Durante i primi tre mesi di matrimonio, Rodolphe fu il più felice
degli uomini; quando, passato il primo periodo di fuoco, si mise a
esaminare a mente fredda la sua situazione, non gli dispiacque di
essersi legato a Sarah indissolubilmente; rinunciò senza rimpianti a
quella vita galante, voluttuosa e lasciva che aveva dapprima così
ardentemente sognato per il futuro e fece con Sarah i più bei
progetti del mondo per il loro futuro regno.
Visto alla luce di queste remote ipotesi, quel ruolo di primo
ministro, che il prete aveva segretamente vagheggiato per sé,
perdeva consistenza: Sarah si riservava le funzioni di governante;
troppo orgogliosa per non ambire al potere e al dominio, essa
sperava di regnare al posto di Rodolphe.
Ma un avvenimento impazientemente aspettato da Sarah portò la
tempesta in quella calma.
Stava per diventare madre.
Allora la donna ebbe esigenze del tutto nuove che spaventarono
Rodolphe; tutta in lacrime gli dichiarò, ipocritamente, di non poter
più sopportare la situazione in cui era costretta a vivere,
situazione che la gravidanza rendeva ancora più penosa.
In questo frangente, ella proponeva a Rodolphe di decidersi a
confessare tutto al granduca: anche lui come la granduchessa madre
si era affezionato sempre più a Sarah. Certo, aveva aggiunto costei,
dapprima si sarebbe indignato, sarebbe andato in collera; ma amava
così teneramente e così ciecamente il figlio; aveva per lei, Sarah,
tanto affetto che l’ira paterna presto si sarebbe calmata e lei
avrebbe preso alla corte il posto che le spettava, se così si può
dire, a maggior ragione adesso che stava per dare un figlio
all’erede presuntivo del granduca.
Una pretesa come questa spaventò immensamente Rodolphe: Rodolphe
conosceva il profondo affetto che il padre aveva per lui, ma
conosceva anche di che rigidi principi era il granduca per ciò che
riguardava i doveri di un principe.
A tutte le obiezioni Sarah rispondeva invariabilmente:
«Sono vostra moglie davanti a Dio e davanti agli uomini. Fra poco
non potrò più nascondere la mia gravidanza; non voglio arrossire di
una posizione di cui, anzi, sono molto fiera e di cui posso vantarmi
ad alta voce.»
Con la paternità, Rodolphe era diventato ancora più tenero con
Sarah. Preso in mezzo fra il desiderio di venire incontro alle
esigenze della moglie e il timore per la collera del padre, viveva
in una terribile alternativa. Tom era dalla parte della sorella.
Il matrimonio è indissolubile, diceva al serenissimo cognato. Il
granduca può esiliarvi dalla corte con vostra moglie, nient’altro.
Ora, egli vi vuole troppo bene per prendere un tale provvedimento;
preferirà tollerare ciò che non è riuscito a impedire.
Questi ragionamenti, giustissimi del resto, non riuscivano a far
tacere le ansie di Rodolphe. Nel frattempo Tom fu incaricato dal
granduca di andare in Austria a visitare un certo numero
d’allevamenti di cavalli. L’incarico che egli non poteva rifiutare,
doveva impegnarlo per quindici giorni al massimo; partì che era
terribilmente preoccupato perché si trattava di un momento molto
critico per la sorella.
La sorella, dal canto suo, fu al tempo stesso dispiaciuta e
soddisfatta della partenza del fratello; perdeva l’ausilio dei suoi
consigli, ma, nel caso in cui tutto fosse stato scoperto, egli si
sarebbe salvato dalla collera del granduca.
Sarah avrebbe dovuto informare Tom giorno per giorno sugli sviluppi
di un affare così importante per loro. Per corrispondere con più
sicurezza e con più segretezza, s’accordarono sul linguaggio cifrato
da usare.
Basta una precauzione come questa per dimostrare che Sarah doveva
parlare con il fratello di ben altro che del suo amore per Rodolphe.
Infatti il cuore di ghiaccio di una donna così egoista, fredda e
ambiziosa, non poteva sciogliersi al fuoco di quella passione
amorosa di cui era stata causa.
La maternità, anziché addolcire quel suo animo di bronzo, divenne
tra le sue mani un’arma in più da usare contro Rodolphe. La
giovinezza, il folle amore, l’inesperienza di un principe quasi
fanciullo, così perfidamente attirato in una situazione
inestricabile, la interessavano appena; nelle sue segrete confidenze
con Tom, ella diventava sprezzante e pungente quando si lamentava
della debolezza di quell’adolescente che tremava davanti al più
paterno dei principi tedeschi, che sarebbe vissuto moltissimo!
Insomma, la corrispondenza tra il fratello e la sorella svelava
chiaramente il loro egoismo interessato, i loro calcoli ambiziosi,
la loro impazienza quasi omicida, e metteva a nudo l’intreccio di
una trama tenebrosa che era giunta al culmine col matrimonio di
Rodolphe.
Parecchie signore la guardavano meravigliate e bisbigliavano con le
vicine.
La granduchessa Judith, nonostante i suoi novant’anni, aveva udito
fine e vista buona: si accorse di quel confabulare. Fece cenno a una
damigella del suo seguito di andare da lei e così venne a sapere che
tutti trovavano la signorina Sarah Seyton di Halsbury meno snella e
meno slanciata del solito.
La vecchia principessa adorava la sua giovane protetta; della virtù
di lei avrebbe risposto davanti a Dio. Indignata dalla malignità dei
pettegolezzi, si limitò ad alzare le spalle e a chiamare ad alta
voce da in fondo al salone dov’era seduta:
«Cara Sarah, venite un po’ qui!» Sarah si alzò.
Le toccò attraversare il circolo per arrivare fino alla principessa,
che era in buonissima fede e che, facendo attraversare la sala a
Sarah, voleva confondere i calunniatori e dimostrare loro senza
possibilità d’equivoci che la figura della sua protetta non aveva
perduto né la sua grazia né la sua snellezza.
Ahimè! la nemica più perfida non avrebbe potuto immaginare cosa
peggiore di quello che immaginò l’ottima principessa, obbedendo al
desiderio di difendere la sua protetta.
La giovane andò da lei. Ci volle tutto il rispetto che quelle dame
avevano per la granduchessa per frenare i mormorii di sorpresa e
d’indignazione che potevano sorgere allorché la giovane attraversò
il circolo.
Anche le persone meno perspicaci si accorsero di ciò che Sarah non
voleva tenere più a lungo nascosto anche se la sua gravidanza poteva
essere tenuta nascosta ancora per un po’; ma la donna, ambiziosa
com’era, aveva risparmiato questo scandalo, per costringere Rodolphe
a rivelare il matrimonio.
La granduchessa, non arrendendosi ancora all’evidenza, disse
sottovoce a Sarah:
«Cara ragazza, oggi siete vestita molto male. Voi che avete una vita
da stringere con due dita, oggi sembrate un’altra...»
Narreremo in seguito le conseguenze di quella scoperta, che fu
all’origine di grandi e terribili avvenimenti. Ma fin da adesso
diremo ciò che il lettore ha certo già indovinato e cioè che la
Goualeuse, che Fleur-de-Marie era il frutto di quell’infelice
matrimonio, insomma era la figlia di Sarah e di Rodolphe che tutti e
due credevano morta.
Il lettore non avrà dimenticato che Rodolphe, dopo aver visitato la
casa della rue du Temple, era rientrato in casa sua e che la sera
stessa doveva recarsi a un ballo dato dall’ambasciatore di ***.
Proprio in questa festa seguiremo Sua Altezza il granduca regnante
di Gerolstein, Gustave Rodolphe, che viaggiava in Francia col nome
di conte di Duren.
XV
IL BALLO
Alle undici di sera, uno svizzero in livrea di gala aprì la porta di
un palazzo della rue Plumet per lasciare uscire una magnifica
berlina celeste tirata da due superbi cavalli grigi, forti e
muscolosi; a cassetta, sopra una larga coperta a frange di seta,
stava sedu-
to un enorme cocchiere reso ancora più enorme da un pastrano blu
imbottito di pelliccia, con un bavero da mantellina di martora,
impunturato d’argento e guarnito di alamari; dietro alla carrozza un
gigantesco lacchè incipriato, con una livrea azzurra, color
giunchiglia e argento, stava accanto a un cacciatore con baffi
enormi, gallonato come un tamburo maggiore, il cui cappello a larghe
tese ricamato era seminascosto da un ciuffo di piume gialle e
azzurre.
Internamente, la carrozza era foderata di raso e illuminata dalla
viva luce dei lampioni; dentro, sulla destra si poteva vedere
Rodolphe con alla sua sinistra il barone di Graün e davanti il
fedele Murph.
Per deferenza verso il sovrano, rappresentato dall’ambasciatore
presso cui egli era invitato, Rodolphe portava sul vestito solo la
placca diamantata dell’ordine di ***.
Sir Walter Murph portava al collo il nastro arancione con la croce
di smalto di gran commendatore dell’Aquila d’Oro di Gerolstein; il
barone di Graün era decorato delle stesse insegne. Diremo, a titolo
informativo, che un’innumerevole quantità di croci di ogni Paese
ciondolavano da una catena d’oro posta fra i due primi occhielli del
suo vestito.
«Sono molto contento» disse Rodolphe, «delle buone notizie che la
signora Georges mi dà della mia povera protetta della fattoria di
Bouqueval; le cure di David hanno fatto prodigi. A parte la
tristezza, l’infelice fanciulla va molto meglio. A proposito della
Goualeuse, ammettete, sir Walter Murph» soggiunse Rodolphe
sorridendo, «che se una delle vostre equivoche conoscenze della
Cité, vedesse il coraggioso carbonaio così travestito, non
crederebbe ai suoi occhi dalla meraviglia.»
«Ma penso, mio signore, che Vostra Altezza provocherebbe la stessa
sorpresa se andasse questa sera in rue du Temple, a fare una visita
amichevole alla signora Pipelet, coll’intento di portare un po’
d’allegria nella malinconia di quel povero signor Alfred, che chiede
solo di diventarvi amico, come ha detto l’esimia portinaia a Vostra
Altezza.»
«Il mio signore ci ha descritto così bene Alfred con quel suo
maestoso abito verde, quella sua aria dottorale e quel suo
inseparabile cappello a rocchetto» disse il barone, «che mi sembra
già di vederlo troneggiare nella fumosa penombra della sua
portineria. Del resto, oso sperare che Vostra Altezza sia rimasta
soddisfatta delle informazioni del mio agente segreto. La casa della
rue du Temple ha corrisposto completamente all’attesa di vostra
signoria?»
«Sì» disse Rodolphe; «anzi, ho trovato più di quanto mi aspettassi.»
Poi stette un momento in triste silenzio, ma per dissipare il
doloroso disagio che gli procuravano i suoi timori circa la marchesa
d’Harville, riprese con tono più allegro: «Sarà anche una puerilità,
non dico di no, ma io personalmente trovo qualcosa di eccitante in
questi contrasti: un giorno pittore di ventagli e mi metto a tavola
in una taverna della rue aux Fèves; stamane, commesso di negozio e
offro un bicchiere di rosolio alla signora Pipelet; e stasera uno
dei privilegiati, che regnano per grazia di Dio su questo mondo.
L’uomo che aveva quaranta scudi diceva le mie rendite proprio come
un milionario» soggiunse Rodolphe a mo’ di parentesi e d’allusione
alla scarsa estensione dei suoi domini.
«Però molti milionari, mio signore, non hanno certo il raro e
ammirevole buon senso dell’uomo che aveva quaranta scudi» disse il
barone.
«Ah, caro di Graün, siete troppo buono, mille volte buono, voi mi
confondete» rispose Rodolphe fingendosi estasiato e insieme
imbarazzato, mentre il barone guardava Murph come chi si accorga
troppo tardi di avere detto una sciocchezza.
«In realtà» riprese Rodolphe con imperturbabile serietà, «non so,
caro di Graün, come ricompensare la buona opinione che siete così
cortese di avere per me, e soprattutto non so come contraccambiare.»
«Mio signore, ve ne supplico, risparmiatevi questa fatica» disse il
barone, che per un istante aveva dimenticato che Rodolphe aveva
l’abitudine di rispondere con frecciate feroci alle adulazioni che
egli odiava.
«Ma come, barone, non voglio essere in debito con voi: questo è
tutto quello che, purtroppo, posso offrirvi per il momento: lo giuro
sul mio onore che non vi si può dare più di vent’anni. Antinoo non
ha lineamenti incantevoli come i vostri.»
«Ah, mio signore, pietà!»
«Guardate un po’, Murph, l’Apollo del Belvedere non ha forme più
snelle, più eleganti e più giovanili!»
«Mio signore, era da molto che non mi succedeva.»
«E il mantello di porpora, come gli sta bene!»
«Mio signore, riparerò!»
«E il cerchio d’oro che trattiene, senza nasconderli, i riccioli
della bella capigliatura nera che gli ondeggia sul collo divino.»
«Ah, mio signore, pietà, pietà, mi pento» disse l’infelice
diplomatico con buffa espressione di disperazione. (Non si
dimentichi che aveva cinquant’anni, capelli grigi, increspati e
incipriati,
una grande cravatta bianca, un viso magro e un paio di occhiali
d’oro.)
«Buon Dio, Murph, gli manca solo una faretra sulle spalle e un arco
in mano per assomigliare al vincitore del serpente Pitone!»
«Chiedo scusa per lui, mio signore, non schiacciatelo sotto il peso
della mitologia» disse ridendo il gentiluomo «garantisco io a Vostra
Altezza che per un bel pezzo non si azzarderà più a formulare
adulazioni, dato che nel nuovo vocabolario di Gerolstein la parola
verità si traduce così.»
«Come! anche tu, vecchio Murph? adesso osi...»
«Mio signore, il povero di Graün mi fa pena: desidero dividere con
lui la punizione.»
«Signor carbonaio ordinario, questa è una fedeltà all’amicizia che
vi fa onore. Ma, scherzi a parte, caro Graün, come mai avete
dimenticato che tollero l’adulazione solo in bocca a d’Harneim e ai
suoi simili? perché, siamo giusti; loro non sanno dire altro: è il
colore del loro piumaggio; ma un uomo del vostro gusto e del vostro
spirito, vergogna, barone!»
«Ebbene, mio signore» disse risolutamente il barone, «c’è molto
orgoglio, Vostra Altezza mi perdoni, nella sua avversione per la
lode!»
«Bene, barone, preferisco così! spiegatevi.»
«Ebbene, mio signore, è proprio come se una bella donna dicesse a un
suo ammiratore: Dio mio, so di essere affascinante; che me lo
riconfermiate è perfettamente inutile e fastidioso. A che scopo
affermare l’evidenza? Nessuno va per le strade a gridare: il sole fa
luce!»
«Diventiamo più sottili, barone, e più audaci: perciò per apportare
una variazione al vostro tormento, vi dirò che il diabolico abate
Polidori non avrebbe trovato di meglio per dissimulare il veleno
dell’adulazione.»
«Mio signore, non parlo più.»
«Così Vostra Altezza» disse Murph questa volta senza scherzare, «è
sicuro adesso di avere riconosciuto il prete nelle vesti del
ciarlatano?»
«Ne sono sicuro, visto che dalle informazioni avute si sa che da un
pezzo egli vive a Parigi.»
«Mi ero dimenticato, o meglio avevo omesso di parlarvene, mio
signore» disse Murph con tristezza, «perché so quanto il ricordo di
quel prete sia odioso a Vostra Altezza.»
Rodolphe si rannuvolò di nuovo in volto; e, sprofondandosi in tristi
pensieri, restò silenzioso fino a quando la carrozza non entrò nel
cortile dell’ambasciata.
Tutte le finestre dell’immenso palazzo erano illuminate e brillavano
nella notte fonda; una fila di lacchè in livrea di gala partiva dal
peristilio e dalle anticamere e arrivava ai saloni d’attesa, dove
aspettavano i camerieri: era un fastoso lusso regale.
Il conte *** e la contessa *** si erano preoccupati di restare nel
primo salone da ricevimento fino all’arrivo di Rodolphe. Questi non
tardò a entrare, seguito da Murph e dal signore di Graün.
Rodolphe aveva allora trentasei anni; ma, sebbene s’approssimasse al
declinare della vita, grazie alla perfetta regolarità dei lineamenti
che, come abbiamo già detto, erano forse troppo belli per un uomo, e
all’aria di affabile dignità che derivava da tutta la sua persona,
egli sarebbe stato comunque molto interessante, anche se questi
pregi non fossero stati messi in evidenza dalla magnificenza del suo
augusto rango.
Quando fece la sua apparizione nel primo salone dell’ambasciata, non
sembrava più lui: scomparsa l’aria da chiassone, scomparsa la
condotta accorta e audace del pittore di ventagli che aveva vinto lo
Chourineur; scomparso il commesso mordace che partecipava in modo
così gaio alle disgrazie della signora Pipelet...
Era un principe nel senso più nobile della parola. Rodolphe tiene la
testa ritta, immobile; ha capelli castani, naturalmente ondulati,
che gli incorniciano la fronte larga, nobile e aperta e uno sguardo
pieno di dolcezza e di dignità; quando con la bonaria arguzia che
gli è naturale, si volge a parlare con qualcuno, un sorriso pieno di
fascino e di signorilità gli fa mettere in mostra denti di smalto,
resi ancora più smaglianti dall’ombra dei suoi baffetti; un paio di
favoriti scuri gli scendono fino al mento un po’ sporgente e con
fossetta, incorniciando l’ovale perfetto d’un pallido viso.
Rodolphe veste con molta semplicità. Ha la cravatta e il panciotto
bianchi; un vestito blu, abbottonato fin sopra il collo e con una
placca di diamanti appuntata sul lato sinistro, lo rende fine,
elegante e snello; però il suo atteggiamento ha qualcosa di maschio
e di energico che viene a correggere quanto c’è forse di troppo
bello in tutta la sua leggiadra persona.
Rodolphe si faceva vedere così poco in società, che la sua presenza
non poteva non provocare una certa sensazione, grazie anche ai suoi
tratti principeschi; tutti gli sguardi si fissarono su di lui,
quando apparve nel primo salone dell’ambasciata, accompagnato da
Murph e dal barone di Graün, che lo seguivano a qualche passo di
distanza!
Un addetto all’ambasciata, incaricato di sorvegliare il suo arrivo,
corse subito ad avvertire la contessa ***; costei assieme al marito
si fece incontro a Rodolphe, dicendogli:
«Non so come esprimere a Vostra Altezza tutta la mia riconoscenza
per il favore con cui oggi si degna di onorarci.»
«Sapete, signora ambasciatrice, che mi sta molto a cuore la vostra
compagnia e che mi fa molto piacere poter esprimere al signor
ambasciatore tutta la mia amicizia; infatti, signor conte, noi siamo
amici di vecchia data.»
«Vostra Altezza è troppo buona a volersi ricordare di noi e così ci
dà un altro motivo per non dimenticare mai i suoi favori.» «Vi
assicuro, signor conte, che non è colpa mia se certi ricordi mi sono
sempre presenti; ho la fortuna di serbare memoria solo di
ciò che mi è molto gradevole.»
«Ma Vostra Altezza ha una memoria eccezionale» disse sorri-
dendo la contessa di***.
«Vero, signora? Così, quando saranno trascorsi molti anni,
spero di avere il piacere di ricordarvi questo giorno, nonché il
buon gusto e l’estrema eleganza che presiedono a questo ballo...
Perché, a essere sinceri, ve lo dico sottovoce, voi sola siete
capace di dare delle feste.»
«Mio signore!...»
«E non è tutto; mi sapete dire, signor ambasciatore, perché qui le
donne mi sembrano sempre più belle che altrove?»
«Perché Vostra Altezza infonde in esse la benevolenza di cui ci
onora.»
«Permettetemi, signor conte, di non essere del vostro parere; credo
che ciò dipenda assolutamente dalla signora ambasciatrice.»
«Potrebbe avere Vostra Altezza la bontà di spiegarmi questo
prodigio?» disse la contessa sorridendo.
«Ma è semplicissimo, signora: voi sapete accogliere tutte queste
belle signore con un’urbanità così ineccepibile, con una grazia così
squisita, a ognuna di loro sapete dire cose così carine e
lusinghiere che quelle che non le meritano affatto... che non
meritano affatto un elogio così gentile» disse Rodolphe sorridendo
maliziosamente, «sono tanto più felici al sentirsi apprezzate da
voi, mentre quelle che le meritano non lo sono meno. Sono piccole
soddisfazioni che illuminano ogni volto; la felicità rende attraenti
le meno carine, ed ecco perché, signora contessa, le donne da voi
sembrano sempre più belle che altrove. Sono sicuro che il signor
ambasciatore la pensa come me.»
«Vostra Altezza ha trovato ragioni troppo consistenti perché non
debba piegarmi a pensarla allo stesso modo.»
«E io, mio signore» disse la contessa di *** «col rischio di
diventare graziosa come le belle signore che non meritano affatto...
affatto i complimenti che si fanno loro, accetto la lusinghiera
spiegazione di Vostra Altezza con la stessa gratitudine e lo stesso
piacere con cui si accetterebbe una verità.»
«Per convincervi, signora, che non c’è niente di più vero, facciamo
in modo di poter osservare quali effetti produce su un volto un
complimento.»
«Ah! mio signore, sarebbe un trucco orribile» disse ridendo la
contessa di ***.
«Bene, signora ambasciatrice, rinuncio al mio progetto, ma a una
condizione, che mi permettiate di offrirvi un po’ il mio braccio. Mi
hanno parlato di un giardino fiorito, una cosa veramente favolosa
per il mese di gennaio... Sareste tanto gentile da condurmi in
questa meraviglia da Mille e una notte?»
«Con grandissimo piacere, mio signore; ma a Vostra Altezza hanno
fatto una descrizione esagerata. D’altra parte, adesso giudicherà
lei stesso, a meno che non si lasci ingannare dalla sua solita
indulgenza.»
Rodolphe diede il braccio all’ambasciatrice e passò con lei negli
altri saloni, mentre il conte di *** s’intratteneva con il barone di
Graün e Murph, che conosceva da molto tempo.
XVI
IL GIARDINO D’INVERNO
Infatti non v’era nulla di più fiabesco, di più degno delle Mille e
una notte del giardino di cui Rodolphe aveva fatto menzione con la
contessa di ***.
Immaginatevi uno spiazzo lungo quaranta tese e largo trenta che
mette capo a una lunga e splendida galleria: una gabbia di vetro
sottilissimo, con soffitto a volta, e alta circa cinquanta piedi, ha
per base quel parallelogramma: le pareti, rivestite di un’infinità
di specchi, sui quali si incrociano le piccole losanghe verdi di un
graticolato di giunchi intrecciati molto stretti, fanno pensare a un
pergolato che lasci passare la luce grazie alla riflessione di
questa sugli specchi; una spalliera di aranci, grossi come quelli
delle Tuileries, e di camelie della stessa grossezza, i primi
carichi di frutti lucenti come tante mele d’oro sul verde lucido
delle foglie,
le seconde smaltate di fiori porpora, bianchi e rosa, ricopre come
una tappezzeria tutta la superficie delle pareti.
Questo è il recinto del giardino.
Dei vialetti con il fondo che è un magnifico mosaico di pezzetti di
conchiglie e tanto larghi da permettere a due o tre persone di
passeggiare fianco a fianco, girano attorno a cinque o sei boschetti
d’alberi e d’arbusti d’India o dei tropici, piantati in buche
profonde piene di terra di brughiera.
È impossibile descrivere l’effetto che produce in pieno inverno, e
per così dire, al centro d’una festa da ballo, questa lussureggiante
e splendida vegetazione esotica.
Qui enormi banani che raggiungono quasi i vetri della volta, e
mescolano le larghe palme di color verde lucido alle foglie
lanceolate delle grandi magnolie, alcune già cariche di grossi e
magnifici fiori odorosi: stami dorati spuntano dal loro calice a
forma di campana, porpora di fuori e argentato dentro; più avanti,
palme, datteri del Levante, latanie rosse, fichi d’India, tutte
piante robuste, perenni e frondose, che s’aggiungono al verde dei
boschetti: verde crudo, lucido e brillante come quello di tutti i
vegetali tropicali, i quali sembrano avere ricevuto il loro
splendore dallo smeraldo, tanto sono scintillanti e metallici i
colori di cui si tingono le loro foglie spesse, carnose e lucide.
Su per i graticolati, per gli aranci, in mezzo ai boschetti,
formando fra un albero e l’altro qui ghirlande di foglie e di fiori,
là spirali, più lontano viluppi inestricabili, corrono, serpeggiano,
si arrampicano fino in cima alla volta a vetri innumerevoli piante
sarmentose; le granadiglie alate, le passiflore dai grandi fiori
color porpora striati d’azzurro e terminanti con un pappo viola cupo
ricadono dalla cima della volta a forma di colossali ghirlande, e
danno la sensazione di voler risalire in alto gettando i delicati
viticci sui rami dei giganteschi aloè.
Altrove una begonia d’India, dai lunghi calici color giallo zolfo e
dalle foglie leggere, s’attorciglia a una stapelia dai fiori bianchi
e carnosi che diffondono un soave profumo; le due liane
intrecciandosi, con la loro frangia verde carica di campanule d’oro
e d’argento fanno da festone alle immense foglie vellutate di un
fico d’India.
Più lontano, infine, si ergono e poi ricadono dando origine a una
multicolore cascata vegetale, una quantità infinita di steli di
asclepiadi nelle cui ombrelle ci sono quindici o venti fiori
stellati che risultano essere così fitti e così lucidi da sembrare
mazzi di fiori di smalto rosa in mezzo a foglioline di porcellana
verde.
Ai bordi dei boschetti, le eriche del Capo, i tulipani, i narcisi di
Costantinopoli, i giacinti di Persia, i ciclamini, le iris formano
una specie di tappeto naturale dove tutti i colori e tutte le
sfumature si confondono in modo meraviglioso.
A illuminare il giardino ci sono, seminascoste qua e là tra le
foglie, delle lanterne cinesi di seta trasparente alcune, azzurre e
altre di un color rosa pallidissimo.
È impossibile dare un’immagine della luce dolce e misteriosa,
risultante dall’accostamento di questi due colori; chiarore magico,
fantastico, che aveva la limpidezza azzurrognola di una bella notte
d’estate venata di rosa dai riflessi vermigli di un’aurora boreale.
A questa immensa serra, più in giù di due o tre piedi, portava una
lunga galleria tutta barbagli di oro, di specchi, di cristalli e di
luci. Una luce sfavillante che faceva, per così dire, da cornice
alla penombra in cui si intuivano le sagome degli alti alberi del
giardino d’inverno, che si poteva scorgere attraverso il largo
spiraglio lasciato da due grandi tende di velluto cremisi.
Pareva quasi una gigantesca finestra aperta su qualche bel paesaggio
asiatico nel crepuscolo di una notte serena.
Vista dal fondo del giardino, dove sotto una cupola di foglie e di
fiori erano stati sistemati enormi divani, la galleria faceva
contrasto con la tiepida penombra della serra.
In lontananza, si vedeva come una nube luminosa e dorata, nella
quale scintillavano e sfavillavano, vibrante ricamo, i colori vari e
splendenti dei vestiti delle signore e i luccichii prismatici delle
pietre preziose e dei diamanti.
Le note dell’orchestra, smorzate dalla distanza e dal sordo e
allegro echeggiare della galleria, andavano a morire melodiosamente
tra il fogliame immobile degli alti alberi esotici.
Senza volerlo, tutti parlavano sottovoce in giardino; si sentiva
appena il rumore leggero dei passi e il fruscio dei vestiti di raso;
da quell’aria tiepida e lieve, anche se satura dei soavi profumi
delle piante aromatiche, e da quella musica vaga e lontana veniva un
senso di dolce e molle abbandono a cui nessuno resisteva.
Due amanti, felici, perché innamorati da poco, avidi d’amore, di
armonia e di profumi, non avrebbero potuto trovare, se si fossero
messi a sedere in qualche angolo ombroso di questo Eden, cornice più
incantevole al fuoco iniziale della loro passione; poiché, ahimè,
bastano uno o due mesi di tranquilla e sicura felicità per
trasformare malauguratamente due amanti in due sposi indifferenti!
Giunto nel fantastico giardino d’inverno, Rodolphe non poté
trattenere un’esclamazione di stupore e:
«In verità, signora» disse all’ambasciatrice, «non mi sarei mai
immaginato una simile meraviglia. Non si tratta solo di gran lusso e
di gusto squisito messi insieme ma anche di poesia in atto; invece
di scrivere come un poeta o di dipingere come un grande pittore, voi
create ciò che essi a stento riuscirebbero a sognare.»
«Vostra Altezza è infinitamente buono.»
«Dovete ammettere con tutta sincerità che chi riuscisse a riprodurre
fedelmente questo quadro meraviglioso in tutta la bellezza dei suoi
colori e dei suoi contrasti, e cioè i barbagli tumultuosi di laggiù
e questo delizioso luogo di ritiro, dovete ammettere signora che
costui, pittore o poeta che sia, farebbe opera magnifica al solo
imitare la vostra.»
«Le lodi che l’indulgenza detta a Vostra Altezza sono tanto più
pericolose in quanto non si può fare a meno di esserne affascinati e
di provare, nostro malgrado, un grandissimo piacere al sentirsele
dire. Ma guardate un po’, monsignore, quella bellissima donna!
Vostra Altezza deve convenire, almeno, che la marchesa d’Harville è
bella dappertutto. È di una grazia irresistibile. E risalta ancor di
piu accanto alla severa bellezza di colei che l’accompagna.»
La contessa Sarah Mac-Grégor e la marchesa d’Harville stavano
facendo in quel momento i pochi gradini che dalla galleria
immettevano nel giardino d’inverno.
XVII L’APPUNTAMENTO
Le lodi dell’ambasciatrice all’indirizzo della signora d’Harville
non erano esagerate.
Niente ci aiuterebbe a farci un’idea di un viso incantevole come il
suo, che aveva allora tutto lo splendore di una bellezza delicata,
bellezza tanto più straordinaria in quanto esaltata non dalla
regolarità dei lineamenti ma dal fascino indefinibile del volto
della marchesa, il quale si velava, per così dire, di una dolce e
tenue espressione di bontà.
Insistiamo su quest’ultima parola, perché, di solito, quello che
spicca in una giovane donna di vent’anni come la signora d’Harville
non è tanto la bontà quanto la bellezza, il fascino, l’intelligenza
e l’eleganza. Per questo ci si sentiva attratti dallo strano
contrasto esistente fra questa ineffabile dolcezza e il successo che
aveva la signora d’Harville, senza contare che essa riuniva in sé i
vantaggi della nascita, del nome e della ricchezza.
Cercheremo di far comprendere a pieno il nostro pensiero.
Benché troppo nobile, troppo dotata per avere la civetteria di
ricercare i complimenti, tuttavia la signora d’Harville, quando se
li sentiva fare, si mostrava benevola e riconoscente come una che
pensasse di non meritarseli del tutto; non ne andava fiera, ma era
felice; indifferente ai complimenti e incline alla benevolenza,
sapeva distinguere perfettamente l’adulazione dalla simpatia.
Aveva uno spirito moderato, fine e malizioso a volte senza essere
cattivo, a cui ricorreva per dire qualche innocua facezia su quella
gente che, piena di se stessa, si preoccupa solo di attirare
l’attenzione e di mettere continuamente in evidenza una faccia
illuminata da una insulsa felicità e tumida di sciocco orgoglio...
«Gente» diceva scherzosamente la signora d’Harville, «che per tutta
la vita dà l’impressione di ballare da sola davanti a uno specchio
invisibile, a cui sorride con compiacenza.»
Invece un carattere timido, riservato e insieme un po’ austero aveva
la certezza di suscitare l’interesse della signora d’Harville.
Questi brevi cenni ci aiuteranno a capire la bellezza della
marchesa.
Aveva una pelle di smagliante purezza, e un incarnato freschissimo;
lunghi capelli riccioluti di color castano chiari le sfioravano le
spalle tonde, sode e levigate come un bel marmo bianco.
Difficilmente si potrebbe descrivere l’angelica bellezza dei suoi
grandi occhi grigi, frangiati di lunghe ciglia nere. La bocca
vermiglia, di straordinaria bellezza, stava a bellissimi occhi come
l’ineffabile voce conturbante stava allo sguardo dolce e
melanconico. Non diremo niente né della perfetta figura né della
squisita signorilità che contraddistinguevano la sua persona.
Portava un vestito di crespo bianco, guarnito di vere camelie rosa e
di foglie dello stesso arbusto in mezzo a cui gli sparsi diamanti
brillavano come tante gocce di scintillante rugiada; sulla fronte
bianca e pura portava con grazia una corona fatta con gli stessi
fiori.
Il tipo di bellezza della contessa Sarah Mac-Grégor faceva spiccare
ancora di più la marchesa d’Harville.
Sarah aveva circa trentacinque anni, ma ne dimostrava solo trenta.
Niente fa bene al corpo quanto il freddo egoismo; il gelo ci
mantiene più freschi...
Ci sono anime aride, dure e refrattarie alle emozioni che fiaccano
il cuore e segano il volto, sulle quali si ripercuotono solo le
umiliazioni dell’orgoglio o le sconfitte di un’ambizione frustata;
amarezze queste che incidono pochissimo sul fisico.
Lo stato di conservazione di Sarah provava quanto stiamo sostenendo.
A parte la leggera pinguedine, che conferiva alla sua figura più
alta ma meno snella di quella della signora d’Harville, una grazia
eccitante, Sarah splendeva tutta di giovinezza; pochi sguardi
potevano sfuggire al fuoco incantatore dei suoi occhi neri e
ardenti; le labbra umide e rosse (ingannatrici solo per metà)
esprimevano la risolutezza e la sensualità. Sulle tempie e sul collo
si vedeva il ricamo azzurrognolo delle vene spiccare sulla
bianchezza lattea della pelle fine, e trasparente.
La contessa Mac-Grégor portava un vestito di marezzo giallo paglia
sotto una tunica dello stesso colore; una semplice corona di foglie
di pirus, verde smeraldo, le cingeva il capo e s’intonava
perfettamente con le due bande di capelli neri come l’inchiostro,
divisi sulla fronte, e con un naso aquilino, dalle narici larghe.
Era una pettinatura severa che conferiva una patina d’antico al
profilo autoritario e passionale di quella donna.
Quante persone, scorgendo nel proprio volto i segni di una vocazione
irresistibile, si sono lasciate trarre in inganno dalle proprie
fattezze. C’è chi si vede molto bellicoso e fa la guerra, chi si
vede rimatore e fa rime, chi cospiratore e cospira, chi politico e
si dà alla politica, chi predicatore e si dà alle prediche. Sarah si
vedeva, non a torto, molto regale; era logico quindi che accettasse
le predizioni, in parte avveratesi, della montanara scozzese, e
continuasse a credere in un destino regale.
In quell’istante, Sarah e la marchesa entravano nel giardino
d’inverno e vi scorgevano Rodolphe; ma si poteva pensare che il
principe non le avesse viste dal momento che, quando giunsero le due
donne, si trovava alla svolta di un viale.
«Il principe è così occupato con l’ambasciatrice che non si è
accorto di noi...» disse la signora d’Harville a Sarah.
«Non credo, cara Clémence» rispose la contessa che era in intima
amicizia con la signora d’Harville; «anzi, il principe ci ha viste
benissimo; ma gli ho fatto paura... Continua a tenermi il broncio.»
«Capisco sempre meno la sua ostinazione nell’evitarvi: spesso gli ho
rimproverato di comportarsi stranamente con voi... una sua vecchia
amica. “La contessa Sarah e io siamo mortali nemici” m’ha risposto
scherzando; “ho giurato di non parlarle più; e per privarmi” ha
aggiunto, “della piacevole compagnia di una perso-
na come lei bisogna che questo giuramento sia molto sacro per me.”
Perciò, cara Sarah, per quanto strana mi sia sembrata la risposta,
sono proprio stata costretta ad accontentarmi.»1
«Tuttavia, posso assicurarvi che la causa di questa mortale
inimicizia, semischerzosa e semiseria, è cosa di pochissimo conto.
Se non ci fosse di mezzo una terza persona, vi avrei confidato il
gran segreto molto tempo fa... Ma che avete, cara? mi sembrate
preoccupata.»
«Non è niente... prima, nella galleria, faceva così caldo, che m’è
venuta un po’ d’emicrania; sediamoci un momento qui... mi passerà...
spero.»
«Avete ragione; guardate, qui c’è un angolo molto buio; qui sarete
al sicuro da coloro che si affliggeranno della vostra assenza...»
aggiunse Sarah con un sorriso, appoggiando la voce sulle ultime
parole.
Tutte e due si sedettero su un divano.
«Ho detto coloro che si affliggeranno della vostra assenza, cara
Clémence... Non mi siete grata di essere stata discreta?»
La giovane donna arrossì leggermente, abbassò la testa e non
rispose.
«Come siete poco ragionevole!» le disse Sarah in tono di dolce
rimprovero. «Cara bambina, non avete fiducia in me? Bambina certo:
ormai ho un’età che posso chiamarvi figlia.»
«Io non aver fiducia in voi!» disse tristemente la marchesa a Sarah;
«non vi ho detto, anzi, quello che non avrei dovuto confessare
nemmeno a me stessa?»
«Certo. Ebbene! su... parliamo di lui; avete dunque deciso di farlo
morire dalla disperazione?»
«Ah!» esclamò spaventata la signora d’Harville, «che dite mai?»
«Non lo conoscete ancora, povera cara... È un uomo così duro e
insensibile, che per lui la vita è ben poca cosa. È sempre stato
infelice... e si direbbe quasi che vi divertiate a farlo soffrire
ancora!»
«Mio Dio, lo pensate davvero?»
«Senza volerlo, forse, ma è così... Oh, se sapeste come sono
sensibili e facili ad affliggersi coloro che sono stati colpiti da
una pesante disgrazia! per esempio, poco fa, ho visto due grosse
lacrime brillare nei suoi occhi.»
1 L’amore di Rodolphe per Sarah, e gli avvenimenti che erano seguiti
a questo amore, erano completamente ignorati a Parigi, essendo
trascorsi più di diciassette o diciotto anni, e avendo sia Rodolphe
che Sarah interesse a tenerli nascosti.
«Davvero?»
«Certo... E tutto ciò a un ballo e col rischio di subire l’onta del
ridicolo, se ci si fosse accorti di quella triste pena. Non sapete
che bisogna essere molto innamorati per soffrire così... e per non
pensare soprattutto a nascondere alla gente che si soffre così!...»
«Di grazia, non parlatemene» riprese la signora d’Harville con voce
alterata; «mi fate troppo male... Conosco anche troppo bene questo
genere di sofferenza dolce e rassegnata... Ahimè! A rovinarmi è
stata la pietà che egli ha suscitato in me...» disse la signora
d’Harville involontariamente.
Ma Sarah mostrando di non avere capito l’importanza di queste
parole, continuò:
«Che esagerazione!... rovinata per essere in rapporti di semplice
galanteria con un uomo che è tanto discreto e riservato da non
volere essere presentato a vostro marito per timore di
compromettervi! Il signor Charles Robert non è forse un uomo pieno
d’onore, di delicatezza, di cuore? Se lo difendo tanto
calorosamente, lo faccio soprattutto perché l’avete visto e
conosciuto a casa mia e perché per voi ha rispetto e devozione.»
«Non ho mai dubitato delle sue nobili qualità... voi m’avete detto
sempre tanto bene di lui!... Ma, e voi lo sapete, sono state
soprattutto le sue disgrazie a rendermelo interessante.»
«Ed egli merita e giustifica il vostro interesse! Confessatelo. E
poi d’altra parte un viso così stupendo non può non essere
l’immagine dell’anima! Con la sua alta e bella figura, mi ricorda
gli eroi dei tempi cavallereschi. Una volta l’ho visto in uniforme:
era impossibile avere un portamento più nobile. Certo che se la
nobiltà fosse proporzionale ai meriti e alla bellezza del volto,
invece di essere semplicemente il signor Charles Robert, egli
dovrebbe essere duca e pari. Non potrebbe rappresentare forse molto
bene uno dei più illustri nomi di Francia?»
«Voi sapete che la nobiltà di nascita ha poca importanza per me, voi
che qualche volta mi rimproverate di essere una repubblicana» disse
sorridendo la signora d’Harville.
«Certo, anch’io, come voi, ho sempre pensato che il signor Charles
Robert non avesse bisogno di titoli per essere amato; e poi che
talento! che voce deliziosa! Quanto ci ha aiutato per i concerti
privati che tenevamo alla mattina! vi ricordate? La prima volta che
avete cantato assieme il duetto, che espressione ci metteva! che
emozione!»
«Sentite, vi prego» disse la signora d’Harville dopo un lungo
silenzio, «cambiamo argomento.»
«Perché?»
«Mi sono profondamente rattristata quando poco fa avete parlato
della sua disperazione.»
«Siate sicura che dinanzi a un dolore violento un carattere
impulsivo come il suo può cercare nella morte un termine a...»
«Oh! ve ne prego, tacete! tacete!» disse la signora d’Harville
interrompendo Sarah, «è una cosa che m’è già venuta in mente...»
Poi, dopo un lungo silenzio, la marchesa disse:
«Ve lo ripeto, parliamo d’altro... del vostro nemico mortale»
soggiunse con ostentata allegria; «parliamo del principe che non
vedo da molto. Sapete che è sempre affascinante, anche se è quasi
re? Per quanto io sia repubblicana, credo che ci siano pochi uomini
piacevoli come lui.»
Sarah, gettato di sfuggita uno sguardo scrutatore e sospettoso sulla
signora d’Harville, riprese allegramente:
«Confessate, cara Cléménce, che siete molto capricciosa. Ho notato
che per il principe avete avuto, cosa strana, momenti d’ammirazione
e di ripugnanza; qualche mese fa, quando è arrivato qui, eravate
talmente infatuata di lui che, per dirla fra noi... ero un po’ in
ansia per la tranquillità del vostro cuore.»
«Ma, grazie a voi» disse la signora d’Harville sorridendo, «la mia
ammirazione non è stata di lunga durata; avete fatto così bene la
parte della nemica mortale, m’avete rivelato certe cose sul
principe... che, confesso, l’avversione s’è sostituita a quella
infatuazione che vi faceva temere per la tranquillità del mio cuore:
tranquillità che il vostro nemico, del resto, non si sognava nemmeno
di turbare; infatti, qualche tempo prima delle vostre rivelazioni,
il principe, pur continuando a vedere in privato mio marito, aveva
quasi del tutto cessato di onorarmi delle sue visite.»
«A proposito! vostro marito è qui questa sera?» disse Sarah.
«No, non aveva voglia di uscire» rispose imbarazzata la signora
d’Harville.
«Mi sembra che si faccia vedere sempre meno in società, vero?»
«Sì... a volte preferisce restare a casa.»
La marchesa era visibilmente imbarazzata; Sarah se ne accorse, però
continuò lo stesso il discorso:
«L’ultima volta che l’ho visto, mi è sembrato più pallido del
solito».
«Sì... era un po’ indisposto...»
«Sentite, cara Clémence, volete che vi parli francamente?» «Vi
prego...»
«Quando si parla di vostro marito, vi prende spesso una strana
angoscia.»
«Io... ma che sciocchezza!»
«Quando si parla di lui, la vostra faccia, vostro malgrado, esprime
qualche volta... Dio mio! come posso dirvelo?...» e Sarah appoggiò
la voce sulle seguenti parole, con l’aria di voler leggere fino in
fondo al cuore di Clémence: «Sì, la vostra faccia esprime una specie
di mal frenata ripugnanza...»
La signora d’Harville fece una faccia impenetrabile e sostenne lo
sguardo inquisitore di Sarah: ciononostante, Sarah colse un leggero
tremito nervoso, quasi impercettibile, sul labbro inferiore della
giovane donna.
Non volendo spingere più avanti le investigazioni e soprattutto non
volendo suscitare il sospetto nell’amica, la contessa si affrettò ad
aggiungere con l’intento di distogliere l’attenzione della marchesa:
«Sì, una mal frenata ripugnanza, come quella che ispira di solito un
burbero geloso...»
A queste parole, il leggero moto convulso del labbro della marchesa
d’Harville cessò; liberata da un peso enorme, ella rispose:
«Ma no, il signor d’Harville non è né burbero, né geloso...».
Poi a un tratto esclamò, trovando così un pretesto per troncare una
conversazione che le pesava: «Ah, mio Dio, ecco quell’insopportabile
del duca di Lucenay, un amico di mio marito... Almeno non ci
vedesse! Da dove salta fuori? Lo credevo a mille miglia da qui!»
«Infatti si diceva che fosse partito per un viaggio di uno o due
anni in Oriente; sono solo cinque mesi che ha lasciato Parigi.
L’improvviso ritorno avrà sicuramente contrariato la duchessa di
Lucenay, anche se il duca non dà affatto fastidio» disse Sarah con
un sorriso cattivo. «Del resto non sarà la sola ad avere maledetto
un ritorno che non ci voleva... Il signor di Saint-Remy sarà
altrettanto dispiaciuto.»
«Non siate maldicente, cara Sarah, dite che un tale ritorno sarà
spiacevole... per tutti. Il signor di Lucenay è tanto antipatico che
potete benissimo generalizzare il vostro rimprovero.»
«Maldicente! no di certo; non sono che un’eco. Si dice anche che
quel principe degli eleganti, che col suo fasto sbalordiva tutta
Parigi, e che è il signor di Saint-Remy, sia quasi in rovina,
sebbene stia conducendo un tenore di vita di poco inferiore a quello
di prima; è vero che la signora di Lucenay è immensamente ricca...»
«Ah, che orrore...»
«Vi ripeto che sono solo un’eco... Ah, mio Dio! il duca ci ha viste.
Sta venendo, bisogna rassegnarci, che disgrazia; non conosco niente
al mondo di più insopportabile di quest’uomo; il più delle volte fa
così poco buona compagnia, ride così forte per le sue stupidaggini,
è così rumoroso che stordisce; se ci tenete alla vostra boccetta e
al vostro ventaglio, dovete difenderli coi denti, perché ha anche il
difetto di rompere tutto quello che tocca e di farlo con l’aria più
gioconda e soddisfatta di questo mondo.»
Appartenente a una delle più illustri casate di Francia, giovane,
con un viso che senza quel naso grottesco e smisurato sarebbe stato
anche bello, il signor di Lucenay accoppiava ai pregi di una
turbolenza e una irrequietezza continue quelli di urlare e ridere
così forte, di fare spesso discorsi di così cattivo gusto, di avere
negli atteggiamenti una disinvoltura così audace e imprevedibile,
che bisognava tenere sempre presente il suo nome per non essere
stupiti di trovarlo nella società più distinta di Parigi e per
capire come si tollerassero in lui il gesto e la parola eccentrici,
a cui del resto l’abitudine aveva assicurato una specie di
prescrizione o d’impunità. Lo si evitava come un appestato, anche se
aveva un certo spirito che spuntava qua e là nei fiumi di parole che
versava. Era uno di quei giustizieri, fra le cui mani ci si augura
di veder cadere la gente ridicola e odiosa.
La signora di Lucenay, una delle donne più piacevoli e più alla moda
di Parigi, nonostante i trent’anni suonati, aveva fatto spesso
parlare di sé; la sua frivolezza però trovava in un certo senso una
giustificazione nelle insopportabili stranezze del signor di
Lucenay.
L’ultima pennellata a un carattere così irritante è data dalla
facondia e dal cinismo inaudito con cui si divertiva ad attribuirvi
indisposizioni grottesche o infermità impossibili o assurde, di cui
vi commiserava a voce alta davanti a un’infinità di gente. D’altra
parte era uomo di fegato e non aveva paura di affrontare le
conseguenze dei suoi brutti scherzi, tant’è vero che aveva dato o
ricevuto numerosi colpi di spada, senza per questo correggersi.
Ora, detto questo, faremo risuonare alle orecchie del lettore la
voce aspra e acuta del signor di Lucenay, che appena scorse da
lontano la signora d’Harville e Sarah, si mise a gridare:
«Bene! Bene! che cosa è questa roba? che vedo? Come! è mai possibile
che la più bella signora del ballo debba restare in disparte?
Bisogna proprio venire dagli antipodi per mettere fine a un tale
scandalo? Sentite, marchesa, se continuate a sottrarvi
all’ammirazione generale, mi metto a gridare come un ossesso,
mi metto a gridare alla sparizione della perla più brillante della
festa!»
E, come conclusione al discorso, il signor di Lucenay si lasciò
cadere supino su un divano accanto alla marchesa; dopo di che,
accavallate le gambe, si prese un piede in mano.
«Come mai, signore, siete già di ritorno da Costantinopoli?» disse
la signora d’Harville scostandosi spazientita.
«Sono già sicuro che state dicendo quello che ha pensato mia moglie;
infatti questa sera che ho fatto il mio rientro in società non ha
voluto accompagnarmi. Uno ritorna per fare una sorpresa agli amici e
guardate un po’ come viene accolto!»
«Si capisce; vi era così facile essere simpatico restando laggiù...»
disse la signora d’Harville con un mezzo sorriso.
«Cioè restando lontano, vero? È un orrore, è un’infamia!» si mise a
gridare il signore di Lucenay togliendosi dalla posizione a
cavalcioni e battendo sul cappello come su un tamburello.
«Per l’amor del cielo, signor di Lucenay, calmatevi e non gridate
così forte, altrimenti saremo costrette ad andare via da questo
posto» disse stizzita la signora d’Harville.
«Andare via da questo posto! forse per offrirmi il vostro braccio e
andare a fare un giro in galleria?»
«Con voi? no di certo. Sentite, vi prego, non toccate questi fiori;
di grazia lasciate anche questo ventaglio, finirete col romperlo,
come il vostro solito...»
«Se è solo per questo, ne ho rotto più d’uno! in particolare uno
cinese, magnifico, che la signora di Vaudémont aveva dato a mia
moglie.»
Tranquillizzate le due donne con tali parole, il signor di Lucenay
aveva incominciato a tormentare e a tirare verso di sé con piccole
scosse un viluppo di rampicanti. Finì a un certo momento con lo
staccarle dall’albero a cui erano attaccate, e il duca se ne trovò,
per così dire, incoronato.
Fu allora uno scoppio di risate così stridule, così matte, così
sonore, che la signora d’Harville sarebbe fuggita via da una persona
tanto fastidiosa e importuna, se non avesse scorto il signor Charles
Robert (colui che la signora Pipelet chiamava comandante) giungere
dall’altra estremità del viale. La giovane donna, temendo di dare
l’impressione di andargli incontro, restò vicino al signor di
Lucenay.
«Dite un po’, signora Mac-Grégor, non sembravo il dio Pan, una
naiade, un silvano, un selvaggio con tutte quelle foglie?» chiese il
signor di Lucenay rivolgendosi a Sarah, accanto alla qua-
le a un tratto era andato a sdraiarsi. «A proposito di selvaggio
devo raccontarvi una storia terribilmente indecente... Immaginatevi
che a Otaiti...»
«Signor duca!» gli disse Sarah con tono glaciale.
«Bene, no, non vi racconterò la mia storia; la tengo in serbo per la
signora di Fonbonne che sta venendo.»
Era una donna grossa e piccola di cinquant’anni, molto pretenziosa e
ridicola, con un mento che le toccava il petto, una donna che
mostrava sempre il bianco dei suoi grandi occhi quando parlava della
sua anima, dei languori della sua anima, dei bisogni della sua
anima, delle aspirazioni della sua anima. Quella sera aveva in testa
un orribile turbante color rame con un vivaio di disegni verdi.
«La tengo per la signora di Fonbonne» gridò il duca.
«Di che si tratta, signor duca?» disse la signora di Fonbonne e
incominciò subito a fare vezzi, a tubare e a fare la svenevole, come
si suole dire.
«Si tratta, signora, di una storia terribilmente sconveniente,
indecente e scollacciata.»
«Ah, Dio mio! E chi oserebbe? chi si permetterebbe?»
«Io, signora; perfino un vecchio Chamboran arrossirebbe. Ma i vostri
gusti li conosco... Sentite un po’...»
«Signore!...»
«Ebbene, no, non vi racconterò la mia storia, in fondo, perché, dopo
tutto, voi che vi vestite sempre così bene, con tanto buon gusto,
con tanta eleganza, questa sera avete un turbante che, parola mia
d’onore, assomiglia, permettetemi di dirvelo, a una vecchia tortiera
incrostata di verderame.»
E il duca si mise a ridere.
«Se siete ritornato dall’Oriente per ricominciare le vostre stupide
facezie, cosa che si tollera perché siete mezzo matto» rispose
irritata la donna, «si finirà col dispiacersi molto del vostro
ritorno, signore.»
E si allontanò maestosamente.
«Tenetemi, tenetemi che non vada a portare via il cappello a quella
sporca schizzinosa» disse il signor di Lucenay, «ma la rispetto, è
orfana... Ah ah! ah!...» e giù a ridere di nuovo. «To’! il signor
Charles Robert!» continuò il signor di Lucenay. «L’ho incontrato
alle acque termali dei Pirenei... È un magnifico ragazzo, canta come
un cigno. Vedrete, marchesa, come lo metterò in imbarazzo. Volete
che ve lo presenti?»
«State buono e lasciateci in pace» disse Sarah.
Mentre il signor Charles Robert avanzava lentamente, fingendo di
ammirare i fiori della serra, il signor di Lucenay riuscito intanto,
dopo varie manovre, a impadronirsi della boccetta di Sarah, stava
armeggiando, in silenzio, col tappo del prezioso flacone.
Il signor Charles Robert continuava ad avanzare; statura alta e ben
proporzionata, lineamenti perfetti, modo di vestire elegantissimo;
tuttavia aveva un viso e un portamento che mancavano di fascino, di
grazia e di distinzione; un’andatura rigida e impacciata, due mani e
due piedi grossi e volgari. Quando scorse la signora d’Harville,
sull’insignificante regolarità dei suoi lineamenti si stese
improvvisamente un velo di profonda malinconia, una malinconia che
per essere vera era arrivata troppo improvvisamente; tuttavia, la
maschera era perfetta. Il signor Robert sembrava così
spaventosamente infelice, così realmente afflitto quando si avvicinò
alla signora d’Harville, che costei non poté fare a meno di pensare
alle sinistre parole di Sarah a proposito degli eccessi a cui poteva
essere spinto dalla disperazione.
«Eh! buongiorno, caro signore!» gli disse il signor di Lucenay
fermandolo al varco, «dopo il nostro incontro ai bagni non ho più
avuto il piacere di vedervi. Ma che avete mai? Sembrate così
sofferente!»
Il signor Charles Robert, gettato un lungo sguardo malinconico sulla
signora d’Harville, pronunciò la sua risposta al duca con voce
accentuatamente lamentosa:
«Infatti, signore, sto male.»
«Dio mio, Dio mio, allora non potete guarire della vostra pituita?»
chiese serio e preoccupato il signor di Lucenay.
La domanda era così ridicola e assurda che per un momento il signor
Charles restò stupefatto, sbalordito; subito dopo però la collera
gli incendiò il viso e:
«Poiché vi preoccupate tanto della mia salute» disse con voce ferma
e tagliente al signor di Lucenay, «spero che domani verrete a
chiedere mie notizie!»
«Come, caro signore?... ma certo, manderò...» disse il duca
altezzosamente.
Il signor Charles Robert accennò un saluto e si allontanò.
«Il bello è che lui la pituita ce l’ha tanto quanto il Gran Turco»
disse il signor di Lucenay stendendosi di nuovo vicino a Sarah, «a
meno che non abbia indovinato senza volerlo. Dite un po’, signora
Mac-Grégor, secondo voi quel signore dà o no l’impressione di avere
la pituita?»
Sarah voltò bruscamente le spalle al signor di Lucenay senza
peraltro rispondergli.
La scena si era svolta molto rapidamente.
Sarah aveva fatto fatica a trattenere una risata.
La signora d’Harville, invece, aveva terribilmente soffer-
to pensando alla tremenda situazione in cui viene a trovarsi un uomo
che si vede apostrofato in modo così ridicolo davanti alla donna
amata; aveva paura che potesse seguirne un duello; allora, obbedendo
a un sentimento di irresistibile pietà, si alzò bruscamente,
s’attaccò al braccio di Sarah, raggiunse il signor Charles Robert
che non stava più in sé dalla collera, e passandogli vicino, gli
disse sottovoce:
«Domani, all’una... verrò...».
Poi, ritornata nella galleria con la contessa, lasciò la festa.
XVIII
COME SEI ARRIVATA TARDI, ANGELO MIO!
Rodolphe, recandosi a quella festa, oltre a ottemperare a un dovere
di cortesia, intendeva anche cercare di scoprire se i suoi timori
fossero fondati, e se la signora d’Harville fosse realmente l’eroina
del racconto della signora Pipelet.
Dopo aver lasciato il giardino d’inverno con la contessa di ***,
invano Rodolphe era passato da un salone all’altro, con la speranza
di incontrare la signora d’Harville da sola. Ritornò alla serra;
stava scendendo la scala, quando, fermatosi un momento sul primo
gradino, si trovò ad assistere alla rapida scena che intercorse fra
la signora d’Harville e il signor Charles Robert dopo l’abominevole
frizzo del duca di Lucenay. Rodolphe colse un significativo scambio
di occhiate. Un segreto presentimento gli diceva che quel bel
giovanotto alto doveva essere il comandante. Per accertarsene,
ritornò nella galleria.
Stava per cominciare un valzer; dopo qualche minuto, scorse il
signor Charles Robert in piedi, nel vano di una porta. Sembrava
soddisfatto: primo della risposta data al signor di Lucenay (il
signor Charles Robert, nonostante i suoi lati ridicoli, era molto
coraggioso), secondo dell’appuntamento del giorno successivo datogli
dalla signora d’Harville, sicurissimo che questa volta non sarebbe
mancata.
Rodolphe andò da Murph.
«Vedi quel giovanotto biondo in mezzo a quel gruppo laggiù?»
«Quel signore alto che sembra così soddisfatto di sé? Sì, mio
signore, lo vedo.»
«Cerca di andargli vicino ma tanto vicino da potergli dire piano
queste parole senza farti vedere e in modo che solo lui le senta:
“Come sei arrivata tardi, angelo mio!”.»
Il gentiluomo guardò stupito Rodolphe.
«Sul serio, mio signore?»
«Sul serio. Se a queste parole lui si gira, cerca di avere quel me-
raviglioso sangue freddo che spesso ho ammirato in te, in modo da
non far individuare a quel signore chi abbia parlato.»
«Non ci capisco niente, mio signore; ma obbedisco.»
Il bravo Murph, prima che il valzer finisse, era già andato a
mettersi alle spalle del signor Charles Robert.
Rodolphe, già in ottima posizione per non perdere nessun particolare
dell’esperimento, aveva seguito attentamente Murph con lo sguardo;
di lì a un secondo, Charles Robert, sconcertato, si girò
bruscamente.
Il gentiluomo non batté ciglio, restò impassibile; fatto sta che
quell’uomo alto e calvo, con quella figura maestosa e severa,
sarebbe stata l’ultima persona a poter essere sospettata di avere
pronunciato quelle parole che ricordavano al comandante lo
spiacevole equivoco di cui la signora Pipelet era stata la
protagonista.
Finito il valzer, Murph ritornò da Rodolphe.
«Ebbene, mio signore, il giovanotto s’è girato come se l’avessi
morso. Allora sono parole magiche?»
«Sono proprio parole magiche, caro Murph; mi hanno fatto scoprire
ciò che volevo.»
A Rodolphe non restava altro che compiangere la signora d’Harville
per un errore tanto più pericoloso in quanto egli presentiva
vagamente che Sarah ne era la complice o la confidente. A quella
scoperta provò una fitta dolorosa; non ebbe più dubbi circa la causa
dei dispiaceri del signor d’Harville a cui voleva molto bene:
sicuramente erano dovuti alla gelosia; sua moglie, piena di
bellissime qualità, si sacrificava a un uomo che non meritava. In
possesso di un segreto scoperto per caso, e di cui era incapace di
abusare, Rodolphe si vedeva condannato ad assistere, come uno
spettatore impassibile, alla rovina di una giovane donna perché non
poteva proprio fare niente per illuminare la signora, la quale,
d’altra parte, aveva ceduto ai ciechi istinti della passione.
A distoglierlo da queste riflessioni fu il barone di Graün.
«Se Vostra Altezza vuole concedermi un breve colloquio in quel
salottino in fondo, dove non c’è nessuno, avrò l’onore di far-
le un rendiconto delle informazioni che mi ha ordinato di prendere.»
Rodolphe seguì il signor di Graün...
«La sola duchessa al cui nome possono riferirsi le iniziali N e L è
la duchessa di Lucenay, nata Noirmont» disse il barone «stasera non
è qui. Ho appena visto suo marito, il signor di Lucenay, partito
cinque mesi fa per un viaggio in Oriente che doveva durare più di un
anno; lui invece è ritornato improvvisamente due o tre giorni fa.»
Il lettore ricorderà che, durante la visita alla casa della rue du
Temple, Rodolphe aveva trovato sul pianerottolo dell’appartamento
del ciarlatano César Bradamanti un fazzoletto inzuppato di lacrime,
con un prezioso merletto e con in un angolo le lettere N e L
sormontate da una corona ducale. Benché all’oscuro di queste
circostanze, il signor di Graün, dietro ordine di Rodolphe, aveva
preso informazioni sui nomi delle duchesse attualmente a Parigi, e,
così facendo, aveva ottenuto le notizie di cui abbiamo appena
parlato.
A Rodolphe fu tutto chiaro.
Pur non avendo alcun motivo per interessarsi alla signora di
Lucenay, Rodolphe non poté reprimere un sussulto al pensiero che se
veramente era andata dal ciarlatano, quel miserabile, che non era
altri che l’abate Polidori, conoscendo il nome della donna, fatta
seguire da Tortillard, avrebbe potuto, con conseguenze paurose,
abusare del terribile segreto che metteva la duchessa alla sua
mercé.
«Il caso, mio signore, è molto strano a volte» riprese il signor di
Graün.
«Cosa vuoi dire?»
«Mentre il signor di Grangeneuve mi informava sul signore e sulla
signora di Lucenay, aggiungendo maliziosamente che il ritorno
imprevisto del signor di Lucenay aveva dovuto contrariare non poco
la duchessa e il visconte di Saint-Remy, il giovane più bello e più
elegante di Parigi, il signor ambasciatore è venuto a chiedermi,
essendo il visconte presente alla festa, se pensavo che Vostra
Altezza avrebbe permesso che gli venisse presentato; è da pochissimo
che è entrato a far parte della legazione di Gerolstein, e
un’occasione come questa per porgere i suoi omaggi a Vostra Altezza
lo farebbe felicissimo.»
Rodolphe ebbe un moto d’impazienza e:
«Questa è una cosa» disse, «che non mi piace affatto... ma non posso
rifiutare... Su, dite al conte di *** di presentarmi il signor di
Saint-Remy.»
Nonostante il cattivo umore, Rodolphe conosceva troppo bene il suo
mestiere di principe per non mostrarsi affabile anche in
quest’occasione. D’altra parte, passando il signor di SaintRemy per
essere l’amante della duchessa di Lucenay, la curiosità di Rodolphe
ne veniva stuzzicata.
Il visconte di Saint-Remy si avvicinò accompagnato dal conte di ***.
Il signor di Saint-Remy era un affascinante giovanotto di
venticinque anni, sottile, snello, molto distinto, molto bello di
viso; era molto bruno di pelle, di quel bruno vellutato, trasparente
e ambrato, che caratterizza i quadri di Murillo; aveva capelli neri,
con riflessi blu, separati da una riga dalla parte sinistra, capelli
che, lisci sulla fronte, gli si arricciavano attorno al viso,
lasciandogli sì e no scoperto il lobo incolore delle orecchie; le
sue pupille risaltavano sul globo dell’occhio, che, invece di essere
bianco, si tingeva di quel colore leggermente azzurrato che
conferisce allo sguardo degli indiani un’espressione tanto
affascinante. Un capriccio della natura l’aveva dotato di un bel
paio di baffi mentre il mento e le guance erano imberbi come quelli
di un giovinetto e lisci come quelli di una ragazza; per civetteria
portava molto basso un fazzoletto da collo di raso nero, che
lasciava vedere l’elegante attaccatura del collo, degna di un
giovane flautista dell’antichità.
Le lunghe pieghe del fazzoletto erano tenute assieme soltanto da una
perla, perla di inestimabile valore data la grossezza, la purezza
dalla forma e lo splendore così vivo che neanche un opale avrebbe
avuto un luccichio tanto forte e cangiante. Di gusto perfetto, il
vestito del signore di Saint-Remy s’intonava come pochi altri con un
gioiello di meravigliosa semplicità come quello.
Non si sarebbe mai potuto dimenticare l’aspetto e la persona del
signor di Saint-Remy, tanto egli era al di sopra della normale
eleganza.
La sua carrozza e i suoi cavalli erano di gran lusso; era grande e
buon giocatore e il totale segnato sul registro delle scommesse sui
cavalli ammontava più o meno a due o tremila luigi all’anno. Si
parlava della sua casa in rue de Chaillot come di un modello di
sontuosa eleganza; dopo aver mangiato, ci si metteva a giocare
accanitamente e a lui, durante il gioco, capitava spesso di perdere
somme considerevoli, cosa che faceva con la noncuranza di un ospite
cortese, eppure si aveva la sicurezza che da molto tempo il
patrimonio del visconte era in dissesto.
Per spiegare le sue incomprensibili prodigalità, gli invidiosi o i
maligni parlavano, come aveva fatto Sarah, dei molti beni della
duchessa di Lucenay; ma dimenticavano che, a parte la bassezza
dell’insinuazione, era naturale che il signor di Lucenay esercitasse
un controllo sulla fortuna della moglie, mentre il signor di
SaintRemy spendeva al minimo 50.000 scudi o 200.000 franchi all’ano.
Altri parlavano di imprudenza da parte degli usurai, dato che il
signor di Saint-Remy non aspettava più eredità. Altri, infine,
dicevano che era troppo fortunato alle corse, e andava sussurrando
di allenatori e di fantini corrotti da lui per fare perdere i
cavalli contro i quali aveva scommesso molto denaro... ma la maggior
parte della gente dell’alta società si preoccupava ben poco dei
mezzi a cui ricorreva il signor di Saint-Remy per sopperire al suo
fasto.
Egli apparteneva per nascita al più bello e più gran mondo; era
allegro, coraggioso, spiritoso, gioviale, di buona pasta;
organizzava ottime mangiate con gli amici e poi accettava tutte le
scommesse che gli venivano proposte. Cos’altro gli mancava?
Le donne lo adoravano; era difficile poter enumerare tutti gli
svariati trionfi che aveva avuto; era giovane e bello, in ogni
occasione galante e generoso come può esserlo un uomo con le donne
di mondo; infine, l’ammirazione era tale che anche il mistero che
circondava la sorgente di Pattolo dove egli attingeva a piene mani,
aveva finito col gettare sulla sua vita un certo fascino arcano; si
diceva sorridendo con noncuranza: «Quel diavolo di Saint-Remy deve
avere trovato la pietra filosofale!».
Al sentire che era entrato a far parte della legazione francese
presso il granduca di Gerolstein, alcuni avevano pensato che il
signor di Saint-Remy avesse deciso di ritirarsi onorevolmente.
Il conte di ***, presentandogli il signor di Saint-Remy, si rivolse
a Rodolphe così:
«Ho l’onore di presentare a Vostra Altezza il signor visconte di
Saint-Remy, della legazione di Gerolstein.»
Il visconte fece un profondo saluto e disse a Rodolphe:
«Si degnerà Vostra Altezza di scusare l’impazienza che ho avuto nel
venirle a porgere i miei omaggi? Forse ho avuto troppa fretta di
godere di un onore che considero tanto grande.»
«Sarò felicissimo, signore, di rivedervi a Gerolstein... Contate di
andarci presto?»
«La presenza di Vostra Altezza a Parigi mi rende meno sollecito a
partire.»
«La vita tranquilla delle corti tedesche vi stupirà, signore,
abituato come siete alla vita di Parigi.»
«Non so se oso troppo, garantendo a Vostra Altezza che la
benevolenza di cui si è degnata di darmi prova e che spero forse
vorrà concedermi a lungo, basta da sola a non farmi rimpiangere
Parigi.»
«Non dipenderà da me, signore, se cambierete idea durante il periodo
che passerete a Gerolstein.»
E Rodolphe con un leggero inchino del capo fece capire al signor di
Saint-Remy che la presentazione era terminata.
Il visconte rispose con un profondo saluto e si ritirò.
Rodolphe era molto fisionomista, e soggetto a simpatie o ad
antipatie quasi sempre giustificate. Dopo le poche parole scambiate
con il signor di Saint-Remy, senza potersene spiegare la ragione,
provò per lui una specie di antipatia istintiva. Aveva notato che
nel suo sguardo c’era qualcosa di perfido e di astuto e sul suo
volto un’espressione equivoca.
Ritroveremo il signor di Saint-Remy in circostanze che
contrasteranno terribilmente con la brillante posizione che aveva
quando fu presentato a Rodolphe; si potrà così giudicare la
veridicità dei presentimenti di quest’ultimo.
Finita la presentazione, Rodolphe si mise a pensare alle strane
combinazioni del caso, e fra una riflessione e l’altra arrivò al
giardino d’inverno. Era giunta l’ora di cena e i saloni si andavano
svuotando; il posto più appartato della serra si trovava dietro un
gruppo di alberi, all’angolo di due muri quasi del tutto coperti da
un enorme banano, carico di rampicanti; vicino al frondoso albero
era stata lasciata semiaperta la porticina di servizio, nascosta da
un graticolato, che si apriva in un lungo corridoio comunicante col
salone dei rinfreschi.
Lì andò a sedersi Rodolphe, dietro una gran cortina di verde. Era da
qualche momento immerso in una profonda meditazione, quando una voce
ben nota, pronunciando il suo nome, lo fece sussultare.
Sarah stava parlando in inglese col fratello Tom dal lato opposto
del boschetto dietro al quale si trovava Rodolphe. Tom era vestito
di nero. Sebbene più vecchio di Sarah di qualche anno, aveva i
capelli quasi bianchi, un viso che rivelava una volontà implacabile
e ostinata, un accento secco e tagliente, uno sguardo cupo e una
voce profonda. Una grande amarezza o un grande odio dovevano rodere
quell’uomo.
Rodolphe si mise a seguire con attenzione il dialogo che segue:
«La marchesa è andata un momento al ballo del barone di Nerval; per
fortuna se n’è andata senza poter parlare a Rodolphe, che la
cercava; perché continuo ad avere paura dell’influenza che egli ha
su di lei, influenza che ho faticato tanto a combattere e a
distruggere in parte. Finalmente questa rivale, che, in cuor mio, ho
sempre temuto e che in seguito avrebbe potuto ostacolare i miei
progetti... questa rivale domani sarà rovinata... Ascoltatemi, Tom,
è una cosa molto importante...»
«Vi sbagliate: Rodolphe non ha mai pensato alla marchesa.»
«È il momento di darvi qualche spiegazione a questo proposito...
Sono successe molte cose durante il vostro ultimo viaggio... e
siccome è necessario agire prima di quanto pensassi... questa sera
stessa, quando usciremo di qui, questo colloquio è necessario...
fortunatamente, siamo soli.»
«Vi ascolto.»
«Sono sicura che la marchesa, prima di avere visto Rodolphe, non ha
mai amato nessuno... Non so perché ella provi un’invincibile
ripugnanza per il marito che l’adora, invece. È un mistero che ho
cercato di svelare invano. Rodolphe con la sua presenza aveva
suscitato nel cuore di Clémence mille emozioni nuove. Questo amore
fu soffocato sul nascere da certe terribili rivelazioni sul
principe. Ma nella marchesa s’era destato il bisogno d’amare;
incontrando, a casa mia, il signor Charles Robert, è stata colpita
dalla sua bellezza, colpita come quando si vede un quadro; purtroppo
la sciocchezza di quest’uomo è pari alla sua bellezza, e tuttavia
nel suo sguardo c’è un non so che di conturbante. Ne esaltai la
grandezza d’animo e i pregi del carattere. Conoscevo la bontà
istintiva della signora d’Harville; le dipinsi allora il signor
Robert come una vittima delle disgrazie più interessanti, a lui
raccomandai di essere sempre mortalmente triste, di non fare altro
che sospirare e lamentarsi e prima di ogni altra cosa di parlare
poco. Ha seguito i miei consigli. Grazie al suo talento di cantante,
al suo viso, e soprattutto al suo sembiante inguaribilmente triste è
riuscito quasi a conquistarsi l’affetto della signora d’Harville,
che l’ha così distolta da quel bisogno d’amare che s’era destato in
lei alla sola vista di Rodolphe. Capite, adesso?»
«Perfettamente; continuate.»
«Soltanto da me la signora d’Harville e Robert si vedevano da sola a
solo; due volte la settimana, la mattina facevamo della musica in
tre. Il bel tenebroso sospirava, diceva alcune paroline dolci
sottovoce; fece scivolare due o tre biglietti. Temevo meno le sue
parole che la sua prosa; ma una donna è sempre indulgente quando
riceve le prime dichiarazioni; quelle del mio protetto non ebbero
cattivo esito; per lui l’importante era ottenere un appuntamento. La
marchesina aveva più princìpi che amore, o meglio non aveva tanto
amore da dimenticare i suoi princìpi... Aveva
sempre in fondo al cuore, senza che se ne accorgesse, il ricordo di
Rodolphe che vegliava, per così dire, su di lei e combatteva quella
debole inclinazione per il signor Charles Robert... inclinazione
molto più fittizia che reale... ma alimentata dal vivo interesse per
le immaginarie disgrazie del signor Charles Robert, e dagli elogi
continui e smaccati che facevo di quell’Apollo senza cervello. Alla
fine, Clémence, vinta dall’espressione di profonda disperazione del
suo infelice adoratore, un giorno si decise a concedergli l’agognato
appuntamento.»
«Eravate diventata la sua confidente?»
«Mi aveva confessato il suo affetto per Charles Robert, tutto qui.
Io, dal canto mio, non feci niente per sapere di più; mi avrebbe
dato fastidio... Ma lui, pazzo di felicità o meglio d’orgoglio, mi
confidò la sua felicità, trascurando di dirmi tuttavia il giorno e
il luogo dell’appuntamento.»
«E come l’avete saputo?»
«Diedi l’ordine a Karl di andare, la mattina presto del giorno dopo
e del giorno successivo a questo, ad appostarsi vicino alla porta
del signor Robert per seguirlo. Il secondo giorno, verso mezzodì, il
nostro innamorato prese la strada di un quartiere sperduto, una
certa rue du Temple... Scese davanti a una casa molto brutta; restò
lì un’ora e mezzo circa, poi se ne andò. Karl aspettò a lungo per
vedere se usciva qualcuno dopo il signor Robert. Non uscì nessuno:
la marchesa non aveva mantenuto la promessa. Lo seppi l’indomani dal
corrucciato e deluso innamorato. Gli consigliai una doppia dose di
disperazione. Clémence fu di nuovo toccata; altro appuntamento, ma
inutile come il primo. Tuttavia l’ultima volta ella arrivò fino
sulla porta: era un progresso. È chiaro come questa donna stia
lottando... E perché? Perché, e qui sta la ragione del mio odio,
ella ha sicuramente conservato in fondo al cuore, senza forse
rendersene conto, un pensiero segreto per Rodolphe che così pare la
stia proteggendo. Come se non bastasse, questa sera, la marchesa ha
dato al Robert un appuntamento per domani; sono sicura che questa
volta ci andrà. Il duca di Lucenay ha così villanamente
ridicolizzato il povero giovane, che la marchesa, sconvolta
dall’umiliazione subita dal suo innamorato, ha finito col
concedergli per pietà ciò che altrimenti forse non avrebbe mai
concesso. Questa volta, ve lo ripeto, manterrà la promessa.»
«Qual è il vostro piano?»
«La marchesa non sta obbedendo tanto all’amore quanto a una sorta di
impulso pietoso e caritatevole; Charles Robert non
è certo fatto per capire la delicatezza del sentimento che, questa
sera, ha suggerito alla marchesa una tale decisione e lui domani
vorrà approfittare dell’appuntamento e invece sarà odiato da
Clémence che si sente costretta a un passo così compromettente non
dall’entusiasmo e dalla passione ma dalla pietà. Insomma, sono
sicura che va da lui per compiere un coraggioso atto di carità, ma
perfettamente calma e sicura di non dimenticare un solo istante i
suoi doveri. Charles Robert non se ne renderà conto e la marchesa ne
sarà allora schifata; una volta distrutta questa illusione, ricadrà
sotto l’influenza del ricordo di Rodolphe che sicuramente continua a
covarle in fondo al cuore.»
«E allora?»
«Ebbene, voglio che si comprometta una volta per tutte agli occhi di
Rodolphe. Sono sicura che, prima o poi, Rodolphe avrebbe tradito
l’amicizia del signor d’Harville, corrispondendo all’amore di
Clémence; quando però la saprà macchiata di una colpa di cui egli
non è stato l’oggetto, comincerà ad aborrirla; è un delitto
imperdonabile per un uomo. E per farla finita s’appiglierà al
pretesto del suo affetto per il signor d’Harville, per non rivedere
mai più una donna che ha così indegnamente tradito un amico tanto
caro.»
«Volete quindi avvertire il marito?»
«Sì, stasera stessa, se non avete nulla in contrario. Da quel che
m’ha detto Clémence, questi ha dei vaghi sospetti ma non sa di chi.
È mezzanotte, andiamocene; voi vi fermerete al primo caffè che
troviamo, scriverete al signor d’Harville che, all’una di domani,
sua moglie si recherà in rue du Temple, al n. 17, per un convegno
d’amore. È geloso: sorprenderà Clémence; il resto lo potete
indovinare!»
«È un’azione abominevole» disse il gentiluomo con freddezza. «Avete
degli scrupoli, Tom?»
«Fra poco farò quanto m’avete detto; ma vi ripeto che è una
azione abominevole.»
«Comunque non vi tirate indietro?»
«No... questa sera il signor d’Harville saprà tutto. E... ma... mi
sembra che ci sia qualcuno là, dietro gli alberi» disse a un tratto
Tom sottovoce dopo avere interrotto il discorso. «Mi è parso di
sentire un rumore.»
«Andate a vedere» disse Sarah preoccupata.
Tom si alzò, fece il giro del boschetto ma non trovò nessuno.
Rodolphe aveva appena fatto in tempo a infilare la porticina di
cui abbiamo parlato.
«Mi sono sbagliato» disse Tom al ritorno, «non c’era nessuno.»
«È quello che mi sembrava...»
«Ascoltate, Sarah, io, contrariamente a quanto pensate voi, non
credo che quella donna potrà essere d’ostacolo all’attuazione del
vostro progetto; Rodolphe ha certi princìpi a cui non verrà meno. La
giovinetta piuttosto, che lui, camuffato da operaio, ha condotto,
sei settimane fa, alla fattoria; una creatura di cui si piglia tanta
cura, alla quale fa dare un’educazione di prim’ordine, e che è già
andato a trovare parecchie volte, questa sì può suscitare timori più
seri. Non sappiamo esattamente chi sia, pur sapendo che viene da una
classe oscura della società. Ma la rara bellezza di cui si dice che
sia dotata, il fatto che Rodolphe si sia travestito per condurla in
quel paese, il sempre maggiore interesse che ha per lei, tutto porta
a pensare che questo suo affetto non sia di poca importanza. Perciò
ho prevenuto i vostri desideri. Per eliminare quest’altro ostacolo,
più reale, credo, sono stato costretto ad agire con la massima
prudenza per avere notizie precise della fattoria e delle abitudini
della giovanetta... Queste notizie adesso le so; è venuto il momento
d’agire. Ho incontrato per caso quell’orribile vecchia che si era
tenuta il mio indirizzo. Le amicizie che ha con la gente della
specie del brigante che ci ha attaccati quando abbiamo fatto
quell’incursione nella Cité, ci potranno essere di grande aiuto.
Tutto è stato previsto... non ci sarà alcuna prova contro di noi...
E del resto, se la giovane, come sembra, appartiene al ceto degli
artigiani, non esiterà fra le nostre offerte e la sorte brillante
che può anche sognare, perché il principe ha mantenuto il più
stretto incognito. Domani finalmente la questione sarà risolta,
altrimenti... si vedrà...»
«Una volta eliminati questi due ostacoli... Tom... allora il nostro
grande progetto...»
«Ci sono ancora molte difficoltà, ma può riuscire.»
«Ammettete che ci sarà una probabilità di più, se lo metteremo in
atto quando Rodolphe sarà colpito e dalla condotta scandalosa della
signora d’Harville e dalla sparizione della giovanetta, a cui
s’interessa tanto.»
«Lo credo... Ma se anche quest’ultima speranza cadrà... allora sarò
libero...» disse Tom guardando Sarah con aria cupa.
«Sarete libero!...»
«Non potrete più contare su quelle preghiere che, per due volte,
m’hanno fatto recedere, contro la mia volontà, dalla vendetta!» Poi,
indicando con lo sguardo il lutto e i guanti neri che
calzava, Tom aggiunse sorridendo con aria sinistra: «Lo aspetto
sempre... Sapete bene che porto questo lutto da sedici anni... e che
me lo toglierò solo se...».
Sarah fece, suo malgrado, una smorfia di paura e si affrettò a
interrompere il fratello dicendogli con ansia:
«Vi dico che sarete libero... Tom... allora la profonda fiducia che
mi ha sostenuto fino ad adesso in circostanze così diverse, profonda
perché m’ha dato prove che vanno al di là delle umane previsioni...
mi abbandonerà del tutto. Ma prima farò il possibile per eliminare
qualsiasi ostacolo per quanto piccolo possa apparirmi... Il successo
dipende spesso dalle cause più piccole... Forse troverò ostacoli di
poco conto sul mio cammino, adesso che sono vicina alla meta; voglio
avere il campo libero, li distruggerò. I miei mezzi sono odiosi,
d’accordo!... Ma io sono stata forse risparmiata?» esclamò Sarah
alzando involontariamente la voce.
«Silenzio! Stanno tornando dalla cena» disse Tom.
«Dal momento che credete sia utile avvertire il marchese d’Harville
dell’appuntamento di domani, dobbiamo andarcene subito... è tardi.»
«L’importanza dell’avvertimento sarà dimostrata dall’ora in cui lo
riceverà.»
Tom e Sarah, allora, abbandonarono la casa dell’ambasciatore.
XIX
GLI APPUNTAMENTI
Volendo a ogni costo avvertire la signora d’Harville del pericolo
che correva, Rodolphe era dovuto partire dall’ambasciata quando il
colloquio fra Tom e Sarah era ancora a metà, cosa, questa, che non
gli consentì di venire a conoscenza del complotto ordito contro
Fleur-de-Marie e dell’imminente pericolo che la minacciava.
Nonostante la buona volontà, Rodolphe, purtroppo, non riuscì come
sperava a salvare la marchesa.
La signora d’Harville, infatti, avrebbe dovuto, per convenienza,
fare una puntatina dalla signora di Nerval; invece, poiché il
turbamento a cui era in preda l’aveva costretta ad abbandonare
l’idea di andare a una seconda festa, ritornò a casa.
Fu un contrattempo che mandò tutto all’aria.
Anche il signor di Graün, come quasi tutti gli amici della contessa
***, era stato invitato dalla signora di Nerval. Rodolphe al-
lora si prese il barone, lo accompagnò in tutta fretta alla festa e
gli ordinò di vedere se al ballo c’era la signora d’Harville e, se
c’era, di avvertirla che quella stessa sera il principe si sarebbe
trovato, senza la carrozza, davanti al palazzo d’Harville per dirle
cose di estrema importanza, e che poi si sarebbe avvicinato alla
carrozza di lei e le avrebbe parlato attraverso lo sportello mentre
i suoi servitori sarebbero stati intenti ad aprire il portone.
Dopo aver perduto tanto tempo per vedere se alla festa c’era la
signora d’Harville, il barone ritornò... Non c’era stata.
Rodolphe era disperato; molto acutamente aveva pensato che la prima
cosa da fare era avvertire la marchesa del tradimento ordito contro
di lei; solo così la delazione di Sarah, che non era riuscito a
impedire, sarebbe passata per un’indegna calunnia... Ormai era
troppo tardi... all’una di notte il marchese aveva già l’infame
lettera.
L’indomani mattina, il signor d’Harville passeggiava lentamente
nella sua camera da letto, arredata con elegante semplicità e ornata
solo di una panoplia d’armi moderne e di uno scaffale pieno di
libri.
Dal letto, non disfatto, pendeva una trapunta di seta che era stata
fatta a pezzi; una sedia e un tavolino d’ebano a gambe tortili erano
stati rovesciati vicino al caminetto, sparsi qua e là sul tappeto
c’erano i cocci di un bicchiere di cristallo, qualche candela mezzo
pestata e un candeliere a due bracci che era stato fatto rotolare
lontano.
La stanza sembrava essere stata teatro di una lotta violenta.
Il signor d’Harville aveva circa trent’anni, un volto energico e
caratteristico, un’espressione che, simpatica e dolce di solito, in
quel momento era invece contratta, pallida e violacea; portava gli
abiti del giorno prima; aveva il collo nudo, il panciotto aperto; la
camicia, strappata, pareva macchiata qua e là di sangue; i capelli
bruni, che di solito erano arricciati, gli ricadevano, ora, irti e
arruffati sulla fronte illividita.
Dopo aver camminato a lungo, con le braccia conserte, la testa
bassa, lo sguardo immobile e acceso, il signor d’Harville si fermò
bruscamente davanti al caminetto che aveva lasciato morire
nonostante la gran gelata della notte. Prese la lettera che stava
sul marmo del caminetto e la rilesse divorandola con gli occhi, alla
pallida luce di quel giorno d’inverno:
«Domani, all’una, vostra moglie si recherà in rue du Temple, al n.
17, per un convegno amoroso. Seguitela e saprete tutto... Sposo
fortunato!»
Quando leggeva quelle parole, lette e rilette ormai tante volte...
sembrava che le sue labbra, livide dal freddo, compitassero
convulsamente il funesto biglietto sillaba per sillaba.
In quel momento la porta si aprì ed entrò un cameriere.
Era un servitore, ormai vecchio, con capelli grigi e una faccia
buona e onesta.
Il marchese volse bruscamente la testa senza cambiare posizione e
senza preoccuparsi di nascondere la lettera. «Che cosa vuoi?» disse
duramente al domestico. Costui, invece di rispondere, stava a
contemplare con doloroso stupore il disordine della stanza; poi,
squadrato attentamente il padrone, esclamò:
«Avete del sangue sulla camicia... Dio mio, Dio mio, signore vi
siete ferito! Eravate solo, perché non mi avete suonato come al
solito quando avete sentito i...?»
«Vattene!»
«Ma, signor marchese, non vedete che il fuoco è spento, si muore dal
freddo qui, non dovreste, soprattutto dopo il vostro...»
«Vuoi star zitto? lasciami!»
«Ma, signor marchese» continuò il cameriere tutto tremante, «avete
dato ordine al signor Doublet di essere qui per le dieci e mezzo di
oggi; sono le dieci e mezzo e lui è qui col notaio.»
«Giusto» disse amaramente il marchese riacquistando la calma.
«Quando si è ricchi, bisogna pensare agli affari. È così bella la
ricchezza!...»
Poi aggiunse:
«Fai passare il signor Doublet nel mio studio.»
«C’è già, signor marchese.»
«Dammi qualcosa per vestirmi. Verrò subito.»
«Ma, signor marchese...»
«Fai quello che ti dico, Joseph» disse il signor d’Harville con
tono più dolce. Poi aggiunse:
«Siete già stati da mia moglie?»
«Credo che la signora marchesa non abbia ancora suonato.» «Appena
suona, fammi avvisare.»
«Sì, signor marchese.»
«Di’ a Philippe che venga ad aiutarti: non ce la faresti da solo.»
«Ma, signore, aspettate che faccia prima un po’ d’ordine» ri-
spose tristemente Joseph. «Se vedessero questo disordine, chissà che
cosa penserebbero sia capitato questa notte al signor marchese.»
«E se vedessero... sarebbe spaventoso, vero?» riprese il signor
d’Harville con amaro sarcasmo.
«Ah, signore» disse Joseph, «grazie a Dio, nessuno sospetta...»
«Nessuno?... No, nessuno!» rispose il marchese con aria cupa. Mentre
Joseph si dava da fare per mettere un po’ d’ordine nel-
la stanza, il signor d’Harville andò dritto alla panoplia a cui
abbiamo accennato, restò alcuni minuti a esaminare con attenzione le
armi di cui era composta, quindi con un gesto di sinistra
soddisfazione si rivolse a Joseph dicendogli:
«Sono sicuro che ti sei dimenticato di far pulire i fucili che sono
lassù nella cassetta dei miei arnesi di caccia.»
«Il signor marchese non mi ha detto nulla...» rispose Joseph
stupito.
«No, ma ti sei dimenticato.»
«Le assicuro, signor marchese...»
«Devono essere sempre belli lucidi!»
«È solo un mese che siamo andati a ritirarli dall’armaiolo.» «Non
importa; intanto che mi vesto, vai a prendermi la casset-
ta, domani o dopo andrò forse a caccia quindi voglio prima esaminare
i fucili.»
«Li porterò giù subito.»
Appena la stanza fu un po’ in ordine, venne ad aiutare Joseph un
secondo cameriere.
Quando fu pronto, il marchese andò nello studio dove era atteso dal
signor Doublet, suo amministratore, e da uno scrivano.
«Ecco, signor marchese, l’atto che siamo venuti a leggervi» disse
l’amministratore, «c’è solo da firmare.»
«L’avete letto voi, signor Doublet?»
«Sì, signor marchese.»
«Allora, basta... ci metto la firma.»
Dopo la firma del marchese lo scrivano se ne andò.
«Con questo acquisto, signor marchese» disse il signor Dou-
blet con aria trionfante, «il vostro reddito in terreni belli e
buoni non è al di sotto di 126.000 franchi tondi, tondi. Sapete che
non è da tutti, signor marchese, avere un reddito in terre di
126.000 franchi?»
«Sono un uomo felice, vero signor Doublet? 126.000 franchi di
reddito in terre! non può esserci una felicità pari alla mia.»
«Senza contare il portafogli del signor marchese... senza
contare...»
«Certo, e senza contare... tante altre fortune!»
«Sia lodato Iddio, signor marchese, che a voi non manca niente:
giovinezza, ricchezza, bontà, salute... tutte le fortune messe
assieme, insomma; e fra le tante» disse il signor Doublet con un
gar-
bato sorriso, «anzi prima di tutte, metto quella di essere lo sposo
della signora marchesa e di avere una bambina deliziosa come un
cherubino.»
Il signor d’Harville gettò uno sguardo feroce sull’amministratore.
Impossibile descrivere l’espressione di selvaggia ironia con cui
egli disse al signor Doublet, battendogli familiarmente sulla
spalla:
«Con 126.000 franchi di rendita in terreni e una moglie come la
mia... e una bambina che assomiglia a un cherubino... non c’è più
niente che possa desiderare, vero?»
«Eh, eh, signor marchese» rispose ingenuamente l’amministratore,
«c’è da desiderare di vivere il più a lungo possibile, per maritare
la signorina vostra figlia e diventare nonno. Poter diventare nonno
è la cosa che io auguro al signor marchese e alla signora marchesa
nonna e poi bisnonna.»
«Bravo il mio buon Doublet, che pensa a Filemone e Bauci. Ha sempre
la parola pronta, lui.»
«Il signor marchese è troppo buono. Avete altro da ordinarmi?»
«Nient’altro! Ah, sì invece. Quanto avete in cassa?»
«19.300 e rotti per la normale amministrazione, oltre al denaro
depositato in banca.»
«In mattinata dovete portarmi 10.000 franchi in oro, e consegnateli
a Joseph, se io non ci sono.»
«In mattinata?»
«Sì, in mattinata.»
«Fra un’ora i soldi saranno qui. Il signor marchese non ha
nient’altro da dirmi?»
«No, signor Doublet.»
«126.000 franchi di rendita tondi tondi!» ripeté l’amministra-
tore andandosene. «Questo è un bel giorno per me; avevo così paura
che ci sfuggisse una fattoria come questa, che fa al caso nostro!...
Servo vostro, signor marchese.»
«Arrivederci, signor Doublet.»
Appena l’amministratore fu uscito, il signor d’Harville si lasciò
cadere su una poltrona; appoggiò i gomiti sullo scrittoio e si prese
la testa tra le mani.
Era la prima volta, questa, da quando aveva ricevuto la fatale
lettera di Sarah, che poteva piangere.
«Oh» diceva, «crudele ironia del destino che m’ha fatto ricco!...
Cosa mettere ora in questa cornice d’oro? La mia vergogna,
l’infamia di Clémence!... infamia che, se farò uno scandalo, non
risparmierà forse neppure mia figlia... Questo scandalo... devo
decidermi a farlo, oppure devo aver pietà di...»
Poi si alzò con l’occhio lucido, strinse nervosamente i denti e
gridò con voce sorda:
«No, no! sangue, sangue! solo il tragico può salvare dal ridicolo!
Adesso capisco la sua ripugnanza;... che meschina!».
Ma a un tratto si fermò come colpito da un pensiero improvviso, per
riprendere poi con voce sorda:
«La sua ripugnanza... oh, so bene da che cosa deriva: le faccio
orrore, paura!».
E dopo un lungo silenzio:
«Ma è colpa mia? Deve ingannarmi per ciò? Non odio, ma pietà io
merito!» riprese animandosi sempre di più. «No, no, sangue!... tutti
e due, tutti e due!... giacché ella avrà sicuramente detto ogni cosa
all’ALTRO.»
A questo pensiero, il marchese s’infuriò ancora di più. Strinse i
pugni e li alzò al cielo; poi si passò sugli occhi una mano che era
di fuoco, ma costretto dalla servitù a mostrarsi calmo, atteggiò il
volto ad apparente tranquillità e ritornò nella sua camera da letto:
vi trovò Joseph.
«E allora, i fucili?»
«Eccoli, signor marchese: sono in uno stato perfetto.» «Adesso vedrò
io. Mia moglie ha suonato?»
«Non so, signor marchese.»
«Vai a informarti.»
Il cameriere uscì.
Subito il signor d’Harville tirò fuori dalla cassetta dei fucili una
fiaschetta di polvere, alcune pallottole e qualche capsula; poi
richiuse la cassetta e si tenne la chiave. S’avvicinò quindi alla
panoplia, prese un paio di pistole di Manton di media grandezza, le
caricò, e se le fece scivolare nelle tasche del lungo soprabito da
mattina.
In quel momento Joseph rientrò.
«Signore, la signora marchesa è in piedi.»
«La signora d’Harville non ha chiesto la carrozza?»
«No, signor marchese; al cocchiere che era venuto a prendere
ordini per la mattina, la signorina Juliette ha detto in mia
presenza che la signora, siccome il tempo non era umido, sarebbe
uscita a piedi... sempre che dovesse uscire.»
«Benissimo. Ah, dimenticavo: a caccia andrò domani o dopodomani. Di’
a Williams che vada a dare un’occhiata in mattinata al piccolo
calesse verde; hai capito?»
«Sì, signor marchese. Volete il bastone da passeggio?»
«No. C’è un posteggio di carrozze pubbliche qui vicino?» «Sì,
vicinissimo, all’angolo della rue de Lille.»
Dopo un momento di esitazione e di silenzio, il marchese ri-
prese:
«Va’ a domandare alla signorina Juliette se si può vedere la si-
gnora d’Harville.» Joseph uscì.
«In fondo... è uno spettacolo come un altro. Sì, voglio andare da
lei e osservare la perfida maschera di smorfiosetta dietro la quale
l’infame nasconde il sogno dell’adulterio di poco dopo; ascolterò la
sua bocca bugiarda mentre leggerò il delitto nel suo cuore già
colpevole. Sì, è strano... vedere come vi guarda, vi parla e vi
risponde una donna che, poco dopo, coprirà il vostro nome di
ridicolo insozzandolo con macchie così orribili che ci vogliono
fiumi di sangue per lavarle. Pazzo che non sono altro! lei mi
guarderà come sempre, col sorriso sulle labbra e con un viso da
innocente! Mi guarderà come guarda sua figlia quando la bacia sulla
fronte e le dice di pregare Iddio. Lo sguardo... lo specchio
dell’anima (e alzò le spalle con disprezzo)! più è dolce e pudico e
più è falso e corrotto! Lei ne è una prova... e io ci sono cascato
come uno stupido. Che rabbia! chissà con che freddezza e con che
sprezzo insolente mi avrà guardato attraverso quel suo specchio
impostore, quando prima di andare a trovare l’altro... le davo
innumerevoli prove di stima e di affetto... le parlavo come a una
giovane madre casta e seria, in cui avevo riposto tutte le speranze
della mia vita. No! no!» gridò il signor d’Harville in preda a un
nuovo accesso di collera, «no! non la vedrò, non voglio vederla... e
nemmeno mia figlia... mi tradirei, comprometterei la mia vendetta.»
Uscito dalla sua stanza, anziché passare dalla signora d’Harville si
limitò a dire alla cameriera della marchesa:
«Riferirete alla signora d’Harville che stamattina avrei voluto
parlarle, ma adesso sono costretto a uscire un momento; se per caso
volesse pranzare con me, ditele che sarò di ritorno verso
mezzogiorno; altrimenti che non si preoccupi per me.»
«Se le faccio sapere che fra poco sarò di ritorno, ella si crederà
molto più libera» pensò il signor d’Harville. E andò al posteggio di
carrozze pubbliche vicino a casa sua.
«Vetturino, a ore!»
«Sì, signore, sono le undici e mezzo. Dove andiamo?»
«In rue de Belle-Chasse, all’angolo della rue Saint-Domini-
que, aspetterai sotto il muro di un giardino che si trova là...»
«Sì, signore.»
Il signor d’Harville abbassò le tendine. Dopo un po’ la carrozza
arrivò quasi dirimpetto alla casa del marchese. Da quel punto,
poteva vedere chiunque fosse uscito da casa sua.
L’appuntamento dato dalla moglie era per l’una; stette ad aspettare
con gli occhi ardentemente puntati sulla porta di casa sua.
Preso nel vortice di una collera paurosa gli sembrava che il tempo
scorresse con incredibile rapidità.
Suonava mezzogiorno a Saint-Thomas-d’Aquin, quando la porta del
palazzo d’Harville si aprì lentamente e la marchesa uscì. «Già!...
Ah, che delicatezza! Ha paura di far aspettare l’al-
tro!...» si disse il marchese con feroce ironia.
Il freddo era pungente, il selciato asciutto.
Clémence aveva un cappello nero, con sopra un velo di blonda
dello stesso colore, e un soprabito di seta color uva passa; un
immenso scialle di cachemire blu scuro le arrivava fino all’orlo
merlettato della gonna che con gesto garbato alzò leggermente prima
di attraversare la strada.
Così facendo, scoprì, fino alla caviglia, un piedino snello e ben
tornito, magnificamente calzato di uno stivaletto di raso turco.
Cosa strana nonostante le terribili idee che lo sconvolgevano, il
signor d’Harville sentì in quel momento che mai come allora il piede
di sua moglie gli era sembrato più bello e grazioso. Quella vista lo
esasperò; sentì sulla carne i morsi acuti della gelosia sensuale...
vide l’altro, in ginocchio, portare con ebbrezza alle labbra quel
piede grazioso. In un batter d’occhio tutte le ardenti follie
dell’amore, dell’amore appassionato, gli si presentarono alla mente
a caratteri di fuoco.
E allora, per la prima volta in vita sua, sentì al cuore un dolore
fisico terribile, una fitta intensa, lancinante, penetrante, che gli
strappò un grido sordo. Fino ad allora era stata la sua anima a
soffrire, perché fino ad allora aveva pensato solo al carattere
sacro dei doveri calpestati.
Quello che provò fu così crudele che fece fatica a non far sentire
il tremito nella voce quando, alzata un po’ la tendina, disse al
vetturino:
«Vedi quella signora con lo scialle blu e col cappello nero che
cammina rasente al muro?»
«Sì, signore.»
«Vai al passo, e seguila... Se va al posteggio delle carrozze
pubbliche dove sono salito io, fermati, e poi mettiti a seguire la
carrozza che prende.»
«Sì, signore... Bene, bene mi piace, c’è da divertirsi!»
Infatti la signora d’Harville era andata al posteggio ed era salita
in una carrozza.
Il vetturino del signor d’Harville si apprestò a seguirla. Le due
carrozze a un certo momento si mossero. Dopo un po’, il cocchiere
del marchese prese la strada della chiesa di Saint-Thomasd’Aquin, e
subito dopo vi si fermò.
«Ebbene! che fai?» disse il marchese, stupito.
«Signore, la donna è entrata in chiesa... Corbezzoli!... bella gamba
a ogni modo... Mi diverto moltissimo.»
Il signor d’Harville era agitato da mille pensieri contrastanti;
dapprima credette che sua moglie, accortasi di essere seguita,
avesse voluto far perdere le tracce. Poi pensò che la lettera
ricevuta potesse essere forse un’infame calunnia... Se era
colpevole, perché simulava una falsa devozione? Era una beffa
sacrilega!
Per un momento il signor d’Harville ebbe un barlume di speranza, al
considerare il gran contrasto che c’era fra quella falsa devozione e
la colpa di cui accusava la moglie.
Ma il conforto di quella illusione non durò molto. Il vetturino si
chinò per dirgli:
«Signore, la donna risale in carrozza».
«Seguila...»
«Sì, signore! Molto divertente! Molto divertente!...»
La carrozza passò i lungosenna, il Palazzo Municipale, la rue
Saint-Avoye e quindi arrivò nella rue du Temple.
«Signore» disse il vetturino, voltandosi verso il signor d’Har-
ville, «il collega si è fermato al n. 17, noi siamo al 13, dobbiamo
fermarci anche noi?»
«Sì!...»
«Signore, la donna è entrata nell’androne del n. 17.»
«Aprimi lo sportello.»
«Sì, signore...»
Qualche minuto dopo, il signor d’Harville penetrava nell’an-
drone in cui poco prima era entrata sua moglie.
XX
UN ANGELO
La signora d’Harville entrò nella casa.
Richiamati dalla curiosità, la signora Pipelet, Alfred e l’ostri-
caia si erano raggruppati sull’usciolo della portineria.
La scala era così buia che chi veniva dal di fuori non poteva
distinguerla; la marchesa, costretta a rivolgersi alla signora
Pipelet, le disse con voce alterata, quasi fioca:
«Il signor Charles... signora?»
«Il signor... chi?» ripeté la vecchia, fingendo di non aver capito,
per dare tempo al marito e all’ostricaia di osservare bene il volto
dell’infelice donna, coperto da un velo.
«Chiedo di... il signor Charles... signora» ripeté Clémence con voce
tremante e abbassando la testa per cercare di sottrarsi agli sguardi
che la fissavano con insolente curiosità.
«Ah, il signor Charles! Via... parlate così piano che non si
capisce... Ebbene, buona signora, dato che andate dal signor
Charles, bel giovanotto, perdiana... sempre dritto, la porta di
faccia.»
La marchesa, confusa, mise i piedi sul primo gradino.
«Eh, eh, eh» aggiunse la vecchia sogghignando, «pare che sia proprio
per oggi. Viva la baldoria! e via!»
«Questo non toglie che il comandante sia un amatore» riprese
l’ostricaia, «non è certo una mummia, la sua bella...»
Se non fosse stata costretta a ripassare davanti alla portineria in
cui c’era quel gruppo di persone, la signora d’Harville, che stava
morendo dalla vergogna e dallo spavento, sarebbe ridiscesa
all’istante. Fece un ultimo sforzo e arrivò sul pianerottolo.
Quale non fu il suo stupore!... Si trovò a faccia a faccia con
Rodolphe, il quale, mettendole in mano una borsa, le disse
precipitosamente:
«Vostro marito sa tutto e vi segue...»
In quel momento si sentì la voce aspra della signora Pipelet
gridare:
«Dove andate, signore?»
«È lui!» disse Rodolphe; e aggiunse rapidamente spingendo, per così
dire, la signora d’Harville verso la scala del secondo piano:
«Salite al quinto piano; siete venuta a soccorrere una famiglia di
disgraziati; si chiamano Morel!...»
«Signore, dovrete passare sul mio corpo se non mi dite, prima di
salire, dove andate!» gridò la signora Pipelet sbarrando il
passaggio al signor d’Harville.
Questi, avendo visto, da in fondo al viale, sua moglie parlare alla
portinaia, s’era fermato anche lui un momento. «Sono con la
signora... che è entrata poco fa» disse il marchese.
«Allora è un’altra cosa, passate pure.»
Avendo sentito uno strano rumore, il signor Charles Robert schiuse
un tantino la porta della stanza; Rodolphe entrò bruscamente dal
comandante e si chiuse dentro nel momento in cui il signor
d’Harville arrivava sul pianerottolo. Rodolphe, temendo, nonostante
l’oscurità, di poter essere riconosciuto dal marchese, aveva colto
questa insperata occasione per sfuggirgli.
Il signor Charles Robert, magnificamente vestito di una vestaglia da
camera a fioroni e con in testa un berretto alla greca di velluto
ricamato, rimase stupefatto alla vista di Rodolphe che, la sera
prima, all’ambasciata non aveva veduto e che in questo momento aveva
indosso abiti più che modesti.
«Signore, che significa?»
«Silenzio!» disse Rodolphe a voce bassa e con così grave espressione
di angoscia che il signor Charles Robert tacque.
Nel silenzio della scala si udì un rumore violento come di un corpo
che cade e ruzzola giù per parecchi gradini.
«Quel disgraziato l’ha uccisa!» esclamò Rodolphe.
«Uccisa!... chi? Ma cosa succede qui?» disse piano Charles Robert
impallidendo.
Rodolphe scostò un poco la porta senza rispondere. Vide Tortillard
che zoppiconi scendeva in fretta le scale: aveva in mano la borsa di
seta rossa che lui stesso aveva prima dato alla signora d’Harville.
Tortillard scomparve.
Si udirono i passi leggeri della signora d’Harville e quelli più
gravi del consorte che continuava a seguirla nei piani superiori.
Tranquillizzatosi un po’ pur non capendo come mai quella borsa fosse
giunta tra le mani di Tortillard, Rodolphe disse al signor Robert:
«Non muovetevi, siete stato sul punto di compromettere tutto...»
«Ma insomma» riprese il signor Robert stizzito e spazientito,
«volete dirmi che cosa significa tutto questo? Chi siete voi, e con
quale diritto?...»
«Significa, signore, che il signor d’Harville sa tutto, che ha
seguito la moglie fino alla vostra porta e che adesso la sta
seguendo là in alto.»
«Ah, Dio mio, Dio mio!» esclamò spaventato Charles Robert
congiungendo le mani. «Ma che cosa va a fare lassù?»
«Non vi interessa; non muovetevi finché la portinaia non vi avrà
avvertito.»
Lasciato il signor Robert tra stupito e spaventato, Rodolphe scese
in portineria.
«Ehi, sentite un po’» disse raggiante la signora Pipelet, «affari
seri, affari seri, c’è un signore che pedina la signora. Sarà
senz’altro il marito, il cornuto; ho intuito subito tutto, l’ho
fatto salire. Adesso si pesterà col comandante, la cosa farà molto
chiasso, faranno la coda per venire a vedere la casa come sono
andati al n. 36 dove era stato commesso un delitto.»
«Cara signora Pipelet, volete farmi un gran favore?» E Rodolphe mise
cinque luigi nella mano della portinaia. «Quando la Signora
scenderà... domandatele come vanno i poveri Morel; ditele che fa
un’opera buona ad aiutarli così come aveva promesso di fare quando è
venuta a prendere informazioni su di loro.»
La signora Pipelet guardava con stupore il denaro di Rodolphe.
«Come... signore, questo oro... è per me?... e la signora non è,
allora, nella stanza del comandante?»
«Il signore che la rincorre è il marito. Avvertita in tempo, la
povera donna è potuta andare dai Morel a cui finge di portare aiuti;
capite?»
«Se capisco! Devo aiutarvi a darla a bere al marito.
La cosa mi calza come un guanto!... Eh, eh, eh! pare quasi quasi che
non abbia fatto altro mestiere in vita mia... sentite!...»
A questo punto si vide nella penombra della portineria rizzarsi
bruscamente il cappello a rocchetto del signor Pipelet.
«Anastasie» disse gravemente Alfred, «non c’è niente sulla faccia
della terra che tu rispetti, sei come il signor César Bradamanti;
certe cose non si devono mai disprezzare, neppure quando si è nella
più deliziosa intimità...»
«Via, via, vecchio mio, non fare il pudico e gli occhi di bue... non
vedi che scherzo. Non sai forse che nessuno al mondo può vantarsi
di... Be’, basta... Sono gentile perché voglio accattivarmi il
nostro nuovo inquilino che è così buono.» Poi volgendosi a Rodolphe:
«Adesso mi vedrete lavorare!... volete restare là nell’angolo,
dietro la tenda?... Ecco, stanno arrivando.»
Rodolphe si nascose in fretta.
Il signore e la signora d’Harville stavano scendendo. Il marchese
dava il braccio alla moglie.
Quando giunsero dinanzi alla portineria, si poté vedere sul volto
del signor d’Harville una profonda felicità, mista a stupore e
confusione.
Clémence era pallida ma tranquilla.
«Ebbene, buona signora!...» disse la signora Pipelet uscendo dalla
portineria, «li avete visti quei poveri Morel? M’immagino che vi
avranno spezzato il cuore. Ah, Dio mio, la vostra è un’azione
buonissima... Ve l’avevo detto che erano terribilmente disgraziati
l’ultima volta, quando siete venuta a prendere informazioni! Siate
certa, signora, che non farete mai troppo per gente così onesta...
vero, Alfred?»
Alfred, la cui esagerata discrezione e la cui dirittura naturale si
rivoltavano all’idea d’entrare in un complotto anticoniugale,
rispose negativamente con un vago grugnito.
La signora Pipelet riprese:
«Alfred ha i suoi crampi al piloro, per questo non si fa capire;
altrimenti vi direbbe, anche lui, che quella povera gente pregherà
certamente il buon Dio per voi, buona signora.»
Il signor d’Harville guardava la moglie con ammirazione e ripeteva:
«Un angelo! un angelo! Oh, che calunnia!»
«Un angelo! avete ragione, signore, e per giunta un buon angelo di
Dio!»
«Andiamo mio caro» disse la signora d’Harville che soffriva
orribilmente per il riserbo forzato che s’era imposta non appena era
entrata in quella casa; si sentiva allo stremo delle forze.
«Andiamo» ripeté il marchese.
E uscendo dal portone le disse:
«Clémence, ho un gran bisogno di perdono e di pietà!...».
«E chi non ne ha bisogno?» rispose la giovane donna con un
sospiro.
Rodolphe uscì dal nascondiglio, profondamente turbato da
quella scena di terrore, carica di comicità e di volgarità,
scioglimento bizzarro d’un dramma misterioso che aveva destato tante
passioni contrastanti.
«Ebbene» disse la signora Pipelet, «mi pare di averlo corbellato per
benino, quel cornuto. Adesso metterà la moglie sotto una campana di
vetro... Pover’uomo... I vostri mobili, signor Rodolphe, non sono
ancora stati portati.»
«Me ne occuperò subito... Ora potete avvertire il comandante che può
scendere...»
«Va bene... Eh, che commedia!... a quanto pare, ha preso
l’appartamento per niente... Ben gli sta... per quei suoi luridi
dodici franchi al mese.»
Rodolphe uscì.
«Senti un po’, Alfred» disse la signora Pipelet, «è la volta del
comandante, ora... Adesso mi faccio qualche matta risata!»
E salì dal signor Charles Robert. Suonò; le fu aperto. «Comandante,»
e Anastasie si portò militarmente il dorso della mano alla parrucca,
«sono venuta a liberarvi... Moglie e marito sono partiti, una a
braccetto dell’altro in barba a voi e sotto il vostro naso. Non fa
niente, l’avete scampata bella... grazie al signor Rodolphe;
dovreste accendergli una candela come a un santo!...»
«Chi è il signor Rodolphe, quel tipo sottile con i baffetti?» «In
persona.»
«Chi è quell’uomo?»
«Quell’uomo...» rispose corrucciata la signora Pipelet, «vale
quanto un altro, anzi altri due! È un commesso viaggiatore, nostro
inquilino, che ha una sola stanza e che non lesina, lui... mi ha
dato sei franchi perché gli sbrighi le faccende; sei franchi e
subito... anche! sei franchi senza fiatare.»
«Bene... bene... tenete, ecco la chiave.»
«Dobbiamo fare fuoco per domani, comandante?»
«No!»
«E per dopodomani?»
«No! no!»
«Ehi, comandante, vi ricordate? Ve l’avevo detto che sareste
rimasto a bocca asciutta».
Il signor Charles Robert gettò una sguardo sprezzante sulla
portinaia e uscì senza essere riuscito a capire come mai un commesso
viaggiatore fosse stato a conoscenza dell’appuntamento che aveva con
la marchesa d’Harville.
Uscendo, incontrò nell’androne Tortillard che veniva avanti
zoppiconi.
«Sei qui, bel mobile» gli disse la signora Pipelet.
«È venuta a cercarmi la guercia?» domandò il ragazzo alla portinaia,
invece di rispondere.
«La Chouette? no, brutto schifoso. Perché poi dovrebbe venire a
cercarti?»
«To’, per portarmi in campagna» rispose Tortillard dondolandosi
sulla porta della portineria.
«E il tuo padrone?»
«Mio padre ha chiesto al signor Bradamanti di lasciarmi libero per
quest’oggi... per andare in campagna... in campagna... campagna...»
salmodiò il figlio di Bras-Rouge canticchiando e tamburellando sui
vetri della portineria.
«Vuoi finirla, disgraziato?... mi rompi i vetri! Ah, ecco una
carrozza.»
«Ah, bene! È la Chouette» disse il ragazzo; «che bellezza viaggiare
in carrozza!»
Infatti, attraverso il finestrino, si vide disegnarsi, sullo sfondo
rosso della tendina opposta, il profilo glabro e terreo della
guercia.
Fece un cenno a Tortillard e questi accorse.
Il vetturino gli aprì lo sportello ed egli salì nella carrozza. La
Chouette non era sola.
Nell’altro canto della carrozza, avvolto in un vecchio pastra-
no con il collo foderato di pelo, con il volto mezzo nascosto da un
berretto di seta nero calato sopra gli occhi... c’era il Maître
d’école.
Le palpebre rosse lasciavano intravedere, diciamo così, due occhi
bianchi, immobili, senza pupille, che rendevano ancora più
spaventoso quel suo viso imbastito che il freddo venava di livide e
violacee cicatrici.
«Forza, marmocchio, coricati sopra i piedi del mio uomo, così glieli
terrai caldi» disse la guercia a Tortillard che s’accovacciò tra le
gambe del Maître d’école e quelle della Chouette.
«E ora» disse il vetturino, «dritti alla fattoria di Bouqueval!
vero, Chouette? Vedrai se so portare o no una carrozza.»
«E soprattutto lancia il cavallo» disse il Maître d’école. «Stai
tranquillo, orbo mio, correrà fino alla scorciatoia.» «Vuoi che ti
dia un consiglio?» disse il Maître d’école. «Quale?» rispose il
vetturino.
«Vola quando passi davanti agli agenti della barriera; potrebbero
riconoscerti, per molto tempo hai ronzato nei pressi delle
barriere.»
«Terrò gli occhi aperti» rispose l’altro salendo a cassetta.
Abbiamo riportato questo dialogo per dimostrare che il vetturino
improvvisato era un brigante, un degno compagno quindi del Maître
d’école.
La carrozza partì dalla rue du Temple,
Due ore dopo, verso il calar della notte, la carrozza che portava il
Maître d’école, la Chouette e Tortillard si fermò davanti a una
croce di legno vicino alla quale si dipanava una strada bassa e
deserta che portava alla fattoria di Bouqueval, dove la Goualeuse si
trovava sotto la protezione della signora Georges.
XXI L’IDILLIO
Suonavano le cinque alla chiesa del paesello di Bouqueval; il freddo
era tagliente, il cielo chiaro; il sole calava lentamente dietro i
grandi boschi spogli che fanno da corona alle alture di Ecouen,
tingendo di porpora l’orizzonte e gettando raggi pallidi e obliqui
sulle vaste pianure invetrate dal gelo.
Sempre, in ogni stagione, i campi hanno qualche aspetto che incanta.
Una volta è l’abbagliante neve a cambiare la campagna in immensi
paesaggi d’alabastro che spiegano i loro immacolati splendori sotto
un cielo grigio rosa.
Allora il fittavolo solitario, scalato il colle o percorsa la valle,
rientra e certe volte è già l’imbrunire: cavallo, mantello,
cappello, tutto è coperto di neve; aspro è il freddo, glaciale è la
tramontana, cupa è la notte che avanza; ma laggiù, laggiù, fra gli
alberi nudi, le finestrelle della fattoria sono allegramente
illuminate; l’alto camino di mattoni innalza al cielo una grossa
colonna di fumo che dice al fittavolo che lo si sta aspettando:
fuoco scoppiettante, parca cena; poi, dopo le chiacchiere della
veglia, notte calda e tranquilla mentre fuori il vento impazza e i
cani delle fattorie sparse per la pianura abbaiano e si rispondono
da lontano.
Un’altra volta è la brina a sospendere agli alberi le sue girandole
di cristallo che scintillano al sole d’inverno con i riflessi
adamantini del prisma; il terreno arativo umido e grasso è segnato
da lunghi solchi dove ripara la fulva lepre e dove corrono
allegramente le grigie pernici.
Di tanto in tanto si sente il tintinnare monotono della campanella
dell’ariete più grosso di un grande gregge di montoni arrampicati
qua e là su per i pendii verdi ed erbosi delle strade incassate;
mentre, ben avvolto nella sua mantella grigia a strisce nere, il
pastore, seduto ai piedi di un albero, intreccia un paniere di
vimini e canta.
Alle volte la scena si anima: l’eco rimanda, attutiti, il suono del
corno e le grida della muta; un daino spaventato esce a un tratto
dal limite della foresta, balza nella pianura fuggendo atterrito e
va a perdersi all’orizzonte in mezzo ad altri boschi.
Le trombe e l’abbaiare si avvicinano; cani bianchi e arancione
escono a loro volta dalla fustaia; corrono sulla terra bruna,
corrono sugli incolti maggesi; col naso incollato sulla pista,
seguono, gridando, le tracce del daino. Dietro a essi vengono i
cacciato-
ri, vestiti di rosso, curvi sul collo dei loro veloci cavalli,
incitando con grande strepito la muta! Un fragoroso turbinio che
passa come un fulmine; il rumore scema e a poco a poco tutto rientra
nel silenzio; cani, cavalli, cacciatori spariscono lontano nel bosco
dove s’è rifugiato il daino.
Allora risorge la calma, allora il profondo silenzio delle grandi
pianure, la pace dei grandi orizzonti sono rotti solo dal canto
monotono del pastore.
Scene e siti campestri di questo genere abbondavano nei dintorni del
paese di Bouqueval, situato, nonostante non fosse molto lontano da
Parigi, in una specie di deserto a cui si poteva arrivare solo
attraverso scorciatoie.
Nascosta, d’estate, in mezzo agli alberi, come un nido tra le
foglie, la fattoria dove s’era ritirata la Goualeuse appariva
allora, mancandole questa cortina di verde, nuda e cruda.
Il ruscello, ghiacciato per il freddo, sembrava un nastro d’argento
srotolato alla bell’e meglio in mezzo ai prati, dove, dirigendosi
lentamente verso la stalla, stavano pascolando le belle mucche. Al
richiamo dell’imminente sera, stormi di colombi calavano uno dopo
l’altro sulla cima aguzza della colombaia; i noci immensi che,
d’estate, riparavano con la loro ombra il cortile e i fabbricati
della fattoria, e che adesso erano senza foglie, mettevano a nudo i
tetti di tegole e di paglia, resi vellutati da muschio color
smeraldo.
Una carretta carica, trainata da tre cavalli robusti, tozzi, dalla
folta criniera, dal mantello lucido, con collari blu muniti di
campani e di fiocchi di lana rossa, portava covoni di grano che
provenivano da una delle biche della campagna. La carretta giungeva
in cortile passando per una porta carraia, mentre un numeroso gregge
di montoni s’accalcava a una delle entrate laterali.
Uomini e bestie non vedevano l’ora di essere al riparo dal freddo
della notte e di gustare il ristoro del sonno; i cavalli avevano
nitrito allegramente alla vista della scuderia, i montoni avevano
belato mentre stavano ad assediare il caldo ovile, i coltivatori
avevano gettato un’occhiata affamata attraverso le finestre della
cucina del pianterreno, dove si stava preparando una cena
pantagruelica.
Nella fattoria regnavano un ordine insolito, grandissimo, una
pulizia scrupolosa, straordinaria.
Invece di essere coperti di fango secco, buttati qua e là ed esposti
alle intemperie delle stagioni, gli erpici, gli aratri, i rulli e
gli altri attrezzi aratori, alcuni dei quali erano di recente inven-
zione, stavano allineati, puliti e verniciati sotto una grande
tettoia dove i carrettieri andavano a sistemare anche i finimenti
dei loro cavalli; vasto, pulito, alberato con gusto, cosparso di
sabbia, il cortile non aveva quei mucchi di letame, quelle pozze
d’acqua stagnante che deturpano le più belle tenute della Beauce e
della Brie; il pollaio, chiuso da una rete metallica verde, riparava
e accoglieva tutta la razza pennuta che, la sera, rientrava passando
attraverso una porticina che apriva sui campi.
Senza insistere troppo sui particolari, diremo che a ragione la
fattoria passava nel paese per essere una fattoria modello in tutto
e per tutto, fatto che si doveva attribuire sia all’ordine
instaurato, al prestigio della coltivazione e alla bontà dei
raccolti, sia alla felice situazione e alla moralità del numeroso
personale che lavorava quelle terre.
Fra poco diremo i motivi di questa fortunata superiorità; intanto
condurremo il lettore davanti alla porticina a graticcio del pollaio
che, con la rustica eleganza dei suoi posatoi, delle sue stie e del
suo canaletto incassato fra sassi di roccia dove incessantemente
scorreva un’acqua fresca e limpida, accuratamente sgombrata
d’inverno dai ghiaccioli che potevano ostruirne il corso, non era da
meno della fattoria.
D’improvviso fra gli alati abitanti del pollaio fu come la
rivoluzione: le galline scesero dai posatoi schiamazzando, i
tacchini gorgogliarono, le faraone squittirono, i colombi
abbandonarono il cocuzzolo della colombaia e piombarono sulla sabbia
tubando.
L’arrivo di Fleur-de-Marie era la causa di tutta questa frenetica
gioia.
Greuze o Watteau non avrebbero potuto mai immaginare un modello più
incantevole, se le guance della povera Goualeuse fossero state più
piene e più vermiglie; eppure, nonostante il pallore, nonostante
l’ovale affilato del volto, l’espressione del suo viso, l’insieme
della sua persona, la grazia delle sue attitudini sarebbero stati
ancora degni di mettere alla prova il pennello dei grandi pittori
nominati.
La cuffietta rotonda di Fleur-de-Marie le lasciava libere la fronte
e le bande di capelli biondi; come quasi tutte le contadine dei
dintorni di Parigi, sopra la cuffia di cui si vedevano sempre il
cocuzzolo e le frange, portava schiacciato, e tenuto, dietro la
testa, da due spilli, un largo fazzoletto d’indiana rossa le cui
estremità svolazzanti le ricadevano disinvoltamente sulle spalle;
copricapo delizioso e pittoresco che la Svizzera e l’Italia
dovrebbero invidiarci.
Uno scialletto di batista bianca, incrociato sul petto, era mezzo
nascosto dalla pettorina lunga e larga del suo grembiale di tela
bigia; un corpino di panno blu con maniche strette le disegnava la
vita fine e spiccava sulla grossa gonna di fustagno grigio a strisce
scure; un paio di calze bianchissime e un paio di scarpe con coturni
nascoste dentro a zoccoletti neri, con sul collo del piede un
quadrato di pelle d’agnello, completavano questo costume di rustica
semplicità a cui il fascino naturale di Fleur-de-Marie conferiva una
grazia straordinaria.
Dal grembiale che teneva alzato con una mano per i due angoli,
attingeva il grano a manciate e lo distribuiva alla moltitudine
alata da cui era circondata.
Un bel colombo di bianchezza argentata, con becco e piedi di
porpora, più audace e più cordiale dei compagni, dopo aver
volteggiato per un po’ attorno a Fleur-de-Marie, le si posò alla
fine sulla spalla.
La ragazza, per niente nuova a maniere poco complimentose, non cessò
di gettare il grano a larghe mani; anzi, volgendo il dolce viso dal
profilo incantevole, alzò un po’ la testa e porse sorridendo le
rosee labbra al roseo beccuccio dell’amico.
Gli ultimi raggi del sole morente gettavano un pallido riflesso
d’oro sulla semplice scena.
XXII
LE INQUIETUDINI
Mentre la Goualeuse era intenta a queste occupazioni di campagna, la
signora Georges e il padre Laporte, parroco di Bouqueval, seduti
accanto al fuoco nel salottino della fattoria, parlavano di
Fleur-de-Marie, che era sempre al centro delle loro conversazioni.
Il vecchio parroco, pensoso, raccolto, con la testa bassa e i gomiti
appoggiati sopra le ginocchia, si riscaldava le mani tremanti
stendendole con movimento meccanico verso il fuoco del camino.
La signora Georges, intenta a un lavoro di cucito, guardava di tanto
in tanto il parroco da cui sembrava aspettare una risposta.
Dopo un momento di silenzio:
«Avete ragione, signora Georges, bisognerà avvertire Rodolphe; se
verrà interrogata, Marie è così riconoscente con lui, il suo
benefattore, che forse gli confesserà ciò che tiene nascosto a
noi...»
«Non è vero, signor parroco? quindi stasera stessa gli scriverò
all’indirizzo che m’ha dato, des Veuves...»
«Povera figliola!» riprese il parroco; «dovrebbe sentirsi così
felice. Da quale pena può essere afflitta ora come ora?»
«Niente può distorglierla da quella tristezza, signor parroco...
neppure l’applicazione che mette nello studio...»
«Ha fatto progressi veramente straordinari nel po’ di tempo che ci
occupiamo della sua educazione.»
«Vero, signor parroco? Imparare a leggere e a scrivere quasi
correntemente e sapere far di conto tanto da potermi aiutare a
tenere la contabilità della fattoria! E poi la cara bambina mi
obbedisce così prontamente in tutto e per tutto che mi commuove e mi
stupisce insieme. Non si è forse, quasi mio malgrado, stancata tanto
da mettermi in pensiero per la sua salute?»
«Meno male che il medico negro ci ha tranquillizzati circa le
conseguenze di quella tosse leggera che ci faceva paura.»
«È così buono quel signor David! si è così interessato a lei! Dio
mio, come tutti quelli che la conoscono. Qui tutti le vogliono bene
e la rispettano. Non c’è da stupirsi, dal momento che, date le
nobili e magnanime concezioni del signor Rodolphe, quelli che
lavorano alla fattoria sono il fior fiore della gente del paese. Ma
anche gli esseri più rozzi e più apatici subirebbero il fascino di
quella dolcezza angelica e timida che sembra chiedere sempre pietà.
Sventurata fanciulla, come se fosse lei la colpevole!»
Dopo essere stato per un po’ meditabondo, il prete riprese:
«Non m’avete detto che la tristezza di Marie risaliva per così dire
al periodo in cui la signora Dubreuil, fittavola del signor duca di
Lucenay ad Arnouville, è venuta qui per la festa d’Ognissanti?»
«Sì, signor parroco, mi pare d’averlo notato, eppure la signora
Dubreuil, e specialmente sua figlia Claire, modello di candore e di
bontà, hanno subìto come tutti il fascino di Marie; tutte e due le
danno giornalmente un mucchio di prove d’amicizia; dovete sapere che
la domenica i nostri amici d’Arnouville vengono da noi oppure noi
andiamo da loro. Orbene sembra quasi che la nostra cara fanciulla, a
ogni visita, s’immelanconisca sempre di più, nonostante Claire le
voglia già bene come a una sorella.»
«In verità, signora Georges, si tratta di uno strano mistero. Quale
sarà la causa di questa pena occulta? Ella dovrebbe sentirsi felice!
Tra la sua vita presente e quella passata c’è la stessa differenza
che passa tra l’inferno e il paradiso. Non si potrebbe accusarla
d’ingratitudine.»
«Lei! santo Dio!... lei... così amabilmente riconoscente per le
premure di cui la circondiamo! lei che ha sempre mostrato
un’istintiva delicatezza così straordinaria! Che cosa non fa la
povera ragazza per guadagnarsi, diciamo così, la vita! non cerca
forse di ripagare con tutto quello che fa l’ospitalità che le viene
data? E non basta; eccettuata la domenica, in cui esigo che si vesta
con un po’ di cura per venire in chiesa con me, ha deciso di portare
vestiti semplici come quelli delle ragazze di campagna e,
ciononostante, ci sono in lei una distinzione, una grazia così
naturali che neanche con tali vestiti cessa d’essere incantevole,
vero signor parroco?»
«Ah, com’è facile riconoscere in ciò l’orgoglio materno!» disse il
vecchio prete sorridendo.
A quelle parole gli occhi della signora Georges si riempirono di
lacrime: pensava al figlio.
Il prete, indovinata la causa di quell’emozione, le disse:
«Coraggio! Dio v’ha mandato questa povera figliola per aiutarvi ad
aspettare il momento in cui ritroverete vostro figlio. E poi un
sacro vincolo vi legherà presto a Marie: una madrina, quando ha
capito bene la sua missione, è come una madre. Rodolphe, dal canto
suo le ha dato, per così dire, la vita dell’anima traendola
dall’abisso... ha compiuto in anticipo i suoi doveri di padrino».
«Non trovate che sia ormai pronta a ricevere quel sacramento che
certamente non ha ancora ricevuto?»
«Fra poco, quando ritornerò con lei alla casa parrocchiale,
l’avvertirò che la cerimonia avrà luogo probabilmente fra quindici
giorni.»
«Forse, signor parroco, celebrerete un giorno un’altra cerimonia
altrettanto bella e importante...»
«Che cosa volete dire?»
«Perché, essendo amata quanto merita e avendo scelto un uomo bravo e
onesto, Marie non dovrebbe sposarsi?»
Il prete scosse tristemente la testa e rispose:
«Sposarla! Non pensate, signora Georges, che la realtà delle cose ci
costringerà a dire tutto a chi volesse sposare Marie... E quale
uomo, pur garantendo noi due per lei, affronterebbe il passato che
ha insozzato i giovani anni di questa sventurata fanciulla! Nessuno
vorrebbe saperne di lei».
«Ma il signor Rodolphe è così generoso! Farebbe per la sua protetta
più di quanto non abbia fatto fino ad ora... Una dote...»
«Ahimè!» disse il prete interrompendo la signora Georges, «guai a
Marie se chi dovrà sposarla metterà a tacere gli scrupo-
li per sola cupidigia! Le toccherebbe il destino più tormentoso:
subito dopo una tale unione verrebbero le crudeli recriminazioni.»
«Avete ragione, signor parroco, sarebbe una cosa orribile. Ah, che
brutto destino le è stato riservato!»
«Ha grandi colpe da espiare» disse gravemente il prete.
«Dio mio, signor parroco, lasciata in balìa di se stessa tanto
giovane, senza mezzi, senza appoggi, senza possedere quasi la
nozione del bene e del male, spinta, suo malgrado, sulla strada del
vizio, come poteva non cedere?»
«Avrebbe dovuto essere sorretta e illuminata da un certo buon senso
morale; e poi ha cercato di sfuggire al suo orribile destino? Sono
dunque così poche a Parigi le anime caritatevoli?»
«No, certo; ma dove cercarle? Prima di scoprirne una, chissà quanti
rifiuti, quanta indifferenza! E poi, per Marie, non si trattava di
una elemosina passeggera, ma di un aiuto continuo che la mettesse in
grado di guadagnarsi onorevolmente la vita... Certo, molte madri
avrebbero avuto pietà di lei, ma bisognava avere la fortuna di
incontrarle. Ah, credetemi, io so cos’è la miseria... A meno di un
caso miracoloso simile a quello che, ahimè troppo tardi, ha portato
Rodolphe a conoscere Marie; a meno, dico di uno di questi casi, gli
infelici, le cui richieste vengono quasi sempre brutalmente respinte
subito, finiscono col credere che la pietà è qualcosa d’introvabile,
e incalzati dalla fame... dalla fame così imperiosa finiscono col
buttarsi spesso nel vizio per cercare gli aiuti che non sperano di
ottenere dalla compassione.»
In quel momento la Goualeuse entrò nel salotto.
«Da dove venite, figliola?» le chiese premurosa la signora Georges.
«Dal frutteto, signora, dopo essere stata al pollaio e averne chiuso
le porticine. I frutti sono conservati molto bene salvo qualcuno che
ho levato.»
«Perché, Marie, non avete detto a Claudine di fare questo lavoro? Vi
sarete stancata ancora.»
«No, no, signora, mi piace tanto il mio frutteto, il profumo dei
frutti maturi è così buono!»
«Un giorno, signor parroco, dovreste visitare il frutteto di Marie»
disse la signora Georges. «Non vi immaginate neanche con quanto buon
gusto l’ha sistemato: ogni specie di frutti è separata da un festone
di vite e i frutti a loro volta sono divisi in scompartimenti
bordati di muschio.»
«Oh, signor parroco, sono sicura che sarete contento» disse
ingenuamente la Goualeuse. «Vedrete che bell’effetto fa il muschio
attorno alle mele rosse, alle belle pere color oro. Ci sono
soprattutto le mele appiole che sono così carine, che hanno certi
colori bianchi e rosa così graziosi che sembrano testoline di
cherubini in un nido di muschio verde» aggiunse la ragazza con
l’esaltazione di un artista per la propria opera.
Il parroco guardò sorridendo la signora Georges e disse a
Fleur-de-Marie:
«Ho già visto e ammirato la cascina a cui voi figliola
sovrintendete; anche l’amministratrice più severa ne avrebbe
invidia; uno di questi giorni andrò ad ammirare il vostro frutteto,
le belle mele rosse, le belle pere color oro e sopratutto le piccole
mele-cherubino nel loro letto di muschio. Ma ecco che fra poco il
sole tramonterà, avrete appena il tempo di condurmi alla casa
parrocchiale e di ritornare qui prima di notte... Prendete,
figliola, la vostra mantellina e partiamo... Ma adesso che ci penso,
il freddo è veramente troppo pungente; restate pure, mi farò
accompagnare da qualcuno della fattoria.»
«Ah, signor parroco, la rendereste infelice» disse la signora
Georges, «è tanto contenta di potervi riaccompagnare così ogni
sera!»
«Signor parroco» aggiunse la Goualeuse alzando verso il prete i
timidi e grandi occhi blu, «potrei pensare che non siete contento di
me, se non mi permetteste di accompagnarvi come faccio di solito.»
«Io? figliola... presto, presto, prendetevi allora la mantellina e
copritevi per bene.»
Fleur-de-Marie si buttò in fretta sulle spalle una specie di
pelliccia con un cappuccio di grosso panno di lana biancastra
bordato da un nastro di velluto nero e offrì il braccio al prete.
«Meno male» disse questi, «che la strada è tutt’altro che piena di
pericoli...»
«Siccome oggi è un po’ più tardi degli altri giorni» riprese la
signora Georges, «volete, Marie, che qualcuno della fattoria venga
con voi?»
«Mi crederebbero una paurosa...» rispose Marie sorridendo; «non c’è
neanche un quarto d’ora di strada da qui alla casa parrocchiale,
sarò di ritorno prima di notte.»
«Non insisto, perché mai, grazie a Dio, si è sentito parlare di
vagabondi nel paese.»
«Altrimenti non accetterei il braccio di questa cara figliola» disse
il prete, «nonostante esso mi sia di grande aiuto.»
Il prete se ne andò subito dalla fattoria appoggiandosi al braccio
di Fleur-de-Marie che regolava il proprio passo leggero
sull’incedere lento e faticoso del vecchio.
Dopo un po’ il prete e la Goualeuse arrivarono nei pressi della
strada incassata dove erano imboscati il Maître d’école, la Chouette
e Tortillard.
PARTE TERZA
I L’AGGUATO
La chiesa e la casa parrocchiale di Bouqueval sorgevano a mezza
costa in un castagneto, da cui si dominava il paese.
Fleur-de-Marie e il prete presero un sentiero tortuoso che portava
alla casa parrocchiale, attraversando la strada bassa che tagliava
diagonalmente la collina.
La Chouette, il Maître e Tortillard, nascosti in un’anfrattuosità di
questa strada, videro il prete e Fleur-de-Marie scendere nel burrone
e uscirne per una salita alquanto ripida. Il volto della ragazza era
nascosto sotto il cappuccio della mantellina, così che la vecchia
non riconobbe quella che era stata la sua vittima.
«Zitto, compare!» disse la vecchia al Maître, «la ragazzetta e il
prete hanno appena passato la strada incassata; stando alla
descrizione che ci ha dato il signore in lutto, si tratta proprio di
lei: vestito da contadina, statura media, sottana a righe scure,
mantellina di lana con il bordo nero. Accompagna tutti i giorni il
prete alla sua casetta e poi torna indietro sola. Quando, al
ritorno, giungerà in fondo alla strada, bisognerà saltarle addosso,
prenderla e portarla nella carrozza.»
«E se chiama aiuto?» rispose il Maître, «la sentiranno dalla
fattoria dal momento che, come avete detto, da qui se ne vedono i
fabbricati, perché avete occhi buoni... voi altri» aggiunse con voce
sorda.
«Certo che i fabbricati sono molto vicini» disse Tortillard. «Un
momento fa mi sono arrampicato fino in cima al pendio strisciando
sul ventre. Ho sentito un carrettiere che parlava ai cavalli in quel
cortile laggiù.»
«Allora ecco quello che dobbiamo fare» riprese il Maître d’école
dopo un momento di silenzio: «Tortillard starà di guardia all’inizio
del sentiero. Quando vedrà spuntare da lontano la piccola, le andrà
incontro gridando che è figlio di una povera vecchia che si è fatta
male cadendo nella strada bassa e supplicherà la ragazza di
aiutarlo.»
«Ho capito, furfante. La povera vecchia sarà la Chouette. Ottima
idea. Vecchio mio, hai sempre una gran testa, tu! E dopo, che cosa
faccio?»
«Ti imboscherai per bene nella strada bassa dalla parte dove
Barbillon aspetta con la carrozza... io mi nasconderò vicino. Quando
Tortillard ti avrà portato la piccola in mezzo al burrone, non
piangere più, piombale addosso, con una mano afferrale il collo e
con l’altra tappale la bocca per impedirle di gridare...»
«Lo so, furfante... come per la donna del canale Saint-Martin,
quando l’abbiamo fatta annegare dopo averle rubato la negresse1 che
portava sotto il braccio; lo stesso scherzetto, vero?»
«Sì, sempre lo stesso... Mentre tu terrai ferma la piccola,
Tortillard correrà da me; tutti e tre insieme avvolgiamo la ragazza
nel mio mantello, la portiamo nella carrozza di Barbillon e di lì
via alla spianata di Saint-Denis, dove ci aspetta l’uomo in lutto.»
«Questa sì che è una cosa ben fatta! Senti, per me, sei unico. Se
potessi, ti farei scoppiare un fuoco d’artificio sulla testa e ti
illuminerei come i vetri colorati della festa di Saint Charlot,
patrono dei boia. Ascolta un po’ queste cose, marmocchio, se vuoi
diventare un bravo criminale, impara da lui che è una gran testa;
questo è un uomo!...» disse orgogliosamente la Chouette a
Tortillard.
Poi rivolgendosi al Maître d’école:
«A proposito, tu non sai: Barbillon ha una paura matta di essere
condannato a morte.»
«Perché?»
«Tempo fa ha ucciso in una lite il marito di una lattaia che ogni
mattina veniva dalla campagna in un carrettino tirato da un asino,
per vendere latte nella Cité, all’angolo della rue de la
VieilleDraperie vicino alla bettola del Lapin Blanc.»
Il figlio di Bras-Rouge, non capendo il loro gergo, ascoltava la
Chouette con una specie di curiosità delusa.
«Ti piacerebbe, eh, marmocchio, sapere quello che diciamo!»
«Caspita! mi piacerebbe sì...»
«Se farai il bravo, ti insegnerò il nostro gergo. Presto avrai l’età
in cui potrà servirti. Sei contento, bello?»
«Lo credo bene! E poi mi piacerebbe restare con voi piutto-
sto che con quel vecchio mascalzone di ciarlatano a pestare le sue
droghe e a strigliare il suo cavallo. Se sapessi dove nasconde quel
suo veleno per gli uomini, gliene metterei un po’ nella minestra per
non essere più costretto a faticare per lui.»
1 Negresse: cassettina ricoperta di tela cerata nera.
La Chouette scoppiò a ridere e disse al Tortillard attirandolo a sé:
«Vieni subito a dare un bacetto alla mamma, tesoruccio. Come sei
carino...! Ma come fai a sapere che il tuo padrone ha un veleno per
gli uomini?».
«Be’! gliel’ho sentito dire un giorno che ero nascosto nel
ripostiglio scuro della stanza dove mette le bottiglie, le macchine
d’acciaio e dove armeggia con i vasetti...»
«Che cosa gli hai sentito dire?»
«L’ho sentito dire a un signore mentre gli dava un po’ di polvere in
una carta: “Basta prenderla tre volte per andare a riposare sotto
terra... senza che si sappia come e perché e senza che resti alcuna
traccia...”»
«E chi era questo signore?» domandò il Maître.
«Un uomo giovane e bello che aveva baffi neri e un viso grazioso
come quello di una signora... È ritornato un’altra volta; ma questa
volta, quando se n’è andato, l’ho seguito per ordine del signor
Bradamanti per sapere dove alloggiava. Il signore è entrato in una
bella casa di rue de Chaillot. Il padrone mi aveva detto: “Segui
quel signore dovunque vada e aspettalo alla porta; se esce, continua
a seguirlo finché non esce più da dove è entrato, questo proverà che
egli abita lì; allora, mio caro Tortillard, fatti in quattro per
saperne il nome... se no, io, ti torcerò ben bene le orecchie”.»
«Ebbene?»
«Ebbene! mi sono fatto in quattro e ho saputo il nome del bel
signore.»
«E come hai fatto?» domandò il Maître d’école.
«Be’... non sono mica scemo io, sono andato dal portiere della casa
di rue de Chaillot, da dove il signore non usciva più; un portiere
incipriato con addosso un bel vestito scuro gallonato d’argento...
Gli ho detto così: “Caro signore, sono venuto a prendermi i soldi
che il padrone di qui mi ha promesso per avergli ritrovato e
riportato il cane, una bestiola nera che si chiama Trompette; prova
ne sia che questo signore che è bruno, ha baffi neri, una
prefettizia biancastra e calzoni blu chiaro, mi ha detto di abitare
in rue de Chaillot al n. 11 e di chiamarsi Dupont”.»
«“Il signore di cui parli è il mio padrone ed è il signor visconte
di Saint-Remy: se qui c’è un cane, questo sei tu, monellaccio;
perciò fila via prima che ti strigli, ti insegno io a volermi
spillare cento soldi” mi rispose il portiere, accompagnando queste
parole con una gran pedata... A ogni modo» riprese filosoficamente
Tortillard, «sapevo il nome del bel signore dai baffi neri che
veniva a prendere dal mio padrone il veleno per gli uomini; si
chiama visconte di Saint-Remy, my, my, di Saint-Remy» aggiunse il
figlio di Bras-Rouge, canticchiando, come il suo solito, le ultime
parole.
«Sei proprio da mangiare, ragazzaccio!» disse la Chouette,
abbracciando Tortillard; «come è furbo! Vedi, meriteresti che fossi
tua madre, briccone!»
Queste parole fecero una particolare impressione sullo zoppetto; la
sua faccia cattiva, beffarda e furba, diventò improvvisamente
triste; sembrò prendere sul serio le espansioni materne della
Chouette e rispose:
«E anch’io vi voglio molto bene, perché il primo giorno in cui siete
venuta a prendermi al Coeur Saignant da mio padre, mi avete
baciato... Dopo la morte di mia madre, solo voi mi avete
accarezzato, tutti mi bastonano o mi cacciano come un cane rognoso,
tutti perfino la portinaia, comare Pipelet.»
«Vecchia stracciona, proprio lei fa la difficile» disse la Chouette
prendendo un’aria indignata a cui Tortillard credette, «respingere
l’affetto di un ragazzo come questo!...»
E la guercia abbracciò di nuovo Tortillard con affezione grottesca.
Il figlio di Bras-Rouge, profondamente toccato da questa nuova prova
d’affetto, rispose con espansione e gridò con riconoscenza:
«Ordinate, vedrete come vi obbedirò bene... come vi servirò!...»
«Davvero? Ebbene, non avrai da pentirtene.»
«Oh come vorrei restare con voi!»
«Prima fai il bravo, poi vedremo; tu vecchio mio, non devi la-
sciarci soli noi due.»
«No» disse il Maître d’école, «tu mi guiderai come un pove-
ro cieco, dirai che sei mio figlio; ci introdurremo nelle case; e lì
un macello!» aggiunse l’assassino con collera, «e con l’aiuto della
Chouette, faremo ancora buoni colpi; mostrerò io a quel demonio di
Rodolphe... che mi ha accecato, che non sono ancora finito. Mi ha
tolto la vista, ma non è riuscito a togliermi il pensiero del male;
io sarò il cervello, Tortillard gli occhi e tu Chouette la mano;
m’aiuterai eh?»
«Sai che ti seguirei anche sulla forca, furfante! Non sono forse
corsa subito al tuo paese, da quegli stupidi dei tuoi compaesani,
dicendo che ero tua moglie, quando, appena uscita dall’ospedale, ho
saputo che avevi mandato dall’ostessa quel semplicione di
Saint-Mandé a chiedere di me?»
Le parole della guercia destarono nella mente del Maître d’école un
brutto ricordo. Allora, cambiando bruscamente tono e linguaggio con
la Chouette, gridò con voce piena d’ira:
«Sì, mi annoiavo, mi sentivo troppo solo in mezzo a tutta quella
brava gente; dopo un mese non potevo più resistere... avevo paura...
Allora mi è venuta l’idea di farti chiamare. E mal me ne incolse!»
aggiunse con un tono che andava inasprendosi sempre più, «l’indomani
del tuo arrivo non mi restava più neanche un soldo del denaro che
m’ero fatto dare da quel demonio dell’allée des Veuves. Sì... mentre
dormivo, mi hanno rubato la cintura piena d’oro che avevo... Solo tu
potevi fare il colpo: per questo adesso sono in tua balìa... Ecco,
ogni volta che penso a questo fatto non capisco perché non debba
ucciderti sul posto... vecchia ladra!».
E fece un passo in direzione della vecchia.
«Guai a voi se toccate la Chouette!» gridò Tortillard.
«Vi schiaccerò tutti e due, brutte vipere che non siete altro!»
rispose il brigante con rabbia. E sentendo che il figlio di
BrasRouge gli parlava da vicino, gli allungò a caso un pugno così
violento che, se l’avesse preso, l’avrebbe ammazzato.
Tortillard, per vendicarsi e per vendicare nello stesso tempo la
Chouette, raccolse un sasso, mirò al Maître d’école e lo colpì sulla
fronte.
Il colpo non fu pericoloso, ma il dolore fu molto forte. Il brigante
si alzò furioso, terribile come un toro ferito; avanzò a caso di
qualche passo, ma inciampò.
«Pericolo!» gridò la Chouette sbellicandosi dalle risate.
Nonostante il delitto la legasse a quel mostro, ella aveva parecchie
ragioni per considerare con una specie di gioia feroce
l’annientamento di un uomo una volta così temibile e così vanitoso
della sua forza atletica.
La vecchia giustificava così, a suo modo, la terribile massima di La
Rochefoucauld: che «nella disgrazia dei nostri migliori amici, c’è
sempre qualcosa che ci fa piacere.»
Il ragazzaccio dai capelli gialli e dalla faccia di faina divideva
l’ilarità della vecchia. Bastò che il Maître d’école inciampasse
un’altra volta perché gridasse:
«Apri un po’ l’occhio, vecchio mio, aprilo, su!... Stai andando
storto, non vedi che cammini a zig zag... Non ci vedi bene?... Cerca
di pulire meglio le lenti degli occhiali!»
Nell’impossibilità di prendere il ragazzo, il nostro erculeo
delinquente si fermò, batté il piede con rabbia, si portò le enormi
mani pelose agli occhi e mandò un ruggito rauco come quello di una
tigre che avesse la museruola.
«Vecchio, hai la tosse!» disse il figlio di Bras-Rouge. «Tieni, ecco
un po’ della nota liquirizia; me l’ha data un gendarme, non devi per
questo fare lo schizzinoso!»
E raccolse una manciata di sabbia fine che gettò in faccia
all’assassino.
Colpito in viso dalla sventagliata di ghiaia, il Maître d’école ebbe
a soffrire più per questo nuovo insulto che per la sassata; difatti
le livide cicatrici impallidirono, egli distese le braccia come in
un moto d’indicibile disperazione poi, alzando al cielo l’orribile
faccia, gridò con voce profondamente supplichevole:
«Dio mio, Dio mio, Dio mio!»
In un uomo macchiatosi di tutti i delitti e davanti al quale fino a
poco tempo prima tremavano i briganti più audaci, questo appello
involontario alla misericordia divina aveva qualcosa di
soprannaturale.
«Ah! ah! ah! il malandrino che si sbraccia» gridò la Chouette,
sghignazzando. «Stai farneticando, vecchio mio, dovresti chiamare il
diavolo in tuo aiuto.»
«Ma un coltello almeno che mi uccida!... un coltello!!! dal momento
che tutti mi abbandonano...» gridò il miserabile mordendosi i pugni
con furia selvaggia.
«Un coltello? ne hai uno in tasca, malandrino, e ben affilato. Il
vecchietto della rue du Roule e il mercante di buoi hanno dovuto
raccontarne di belle alle talpe.»
Il Maître d’école, vistosi spinto al suicidio, cambiò discorso e
riprese allora con voce fiacca e sorda:
«Lo Chourineur sì che era buono, non mi ha derubato, ha avuto pietà
di me».
«Perché mi hai detto di avere rubato il tuo oro?» disse la Chouette,
trattenendo a stento la voglia di ridere.
«Nessuno, all’infuori di te, è entrato nella mia camera» rispose il
brigante; «sono stato derubato la notte del tuo arrivo, di chi vuoi
che sospetti? I contadini non facevano queste cose.»
«Perché poi i contadini non dovrebbero rubare come gli altri? perché
bevono latte e vanno a far l’erba per i loro conigli?»
«Insomma, sta di fatto che io sono stato derubato.»
«È colpa della tua Chouette? O bella, pensaci un po’! Se tu mi
avessi sospettata, credi che sarei restata con te dopo il colpo? Sei
scemo! Certo che t’avrei rubato il denaro, se avessi potuto; ma ti
assicuro che, appena finito il denaro, sarei ritornata, perché, no-
nostante i tuoi occhi bianchi, tu mi piaci lo stesso, brigante! Vai,
sii un po’ gentile, non digrignare i dentini altrimenti finirai col
rovinarteli.»
«Sembra che rompa le noci!» disse Tortillard.
«Ah! ah! ah! ha ragione il ragazzino. Su, calmati, vecchio mio, e
lascialo ridere, è giovane, lui! Ma tu non sei giusto, confessalo;
quando quel beccamorto del signore in lutto mi ha detto: “Ci sono
mille franchi per voi se riuscite a rapire la ragazza che vive nella
fattoria di Bouqueval e a portarla in un punto della spianata di
Saint-Denis che vi indicherò”; rispondi, malandrino, non ti ho forse
proposto subito di essere del colpo, invece di scegliere qualcuno
che avesse dei buoni occhi? Chiamiamola pure un’elemosina quella che
ti faccio. Perché, tranne che per tenere ferma la piccola mentre io
con Tortillard l’avvolgo nel mantello, tu non servirai ad altro,
sarai un po’ come la quinta ruota di un omnibus. Ma, non importa, a
parte il fatto che ti avrei derubato se avessi potuto, mi piace
farti del bene. Voglio che tu debba tutto alla tua amata Chouette: è
la mia tattica!! Daremo 200 franchi a Barbillon per aver guidato la
carrozza e per esser venuto qui una volta con un domestico del
signore in lutto a vedere il posto in cui dovevamo nasconderci e
aspettare la piccola... e con gli ottocento franchi che resteranno
per noi due soli, faremo bisboccia. Che cosa ne dici? Ebbene! sei
ancora arrabbiato con la tua vecchia?»
«Chi mi assicura che, a colpo fatto, mi darai qualcosa?» disse il
brigante con cupa diffidenza.
«Potrei anche non darti niente del tutto, è vero, perché, vecchio
mio, sei in mio potere, come una volta la Goualeuse. Bisogna quindi
che tu faccia quello che voglio io in attesa che il diavolo non ti
porti via, eh! eh! eh!... Ebbene malandrino, tieni ancora il broncio
alla tua Chouette?» aggiunse la guercia battendo sulla spalla del
brigante che continuava a essere cupo e silenzioso.
«Hai ragione» disse con un sospiro di rabbia concentrata «è il mio
destino. Io! io! alla mercé di un ragazzetto e di una donna che una
volta avrei ucciso con un soffio! Oh! Se non avessi così paura della
morte!» disse e ricadde a sedere sul ciglio della scarpata.
«Non essere vigliacco adesso! non essere vigliacco!» continuò la
Chouette con disprezzo. «Parlaci subito della tua coscienza, così
sarà più divertente. Senti, se non ne hai il coraggio, prendo il
volo e così ti pianto.»
«E non potermi vendicare dell’uomo che, accecandomi così, mi ha
messo nell’orribile situazione in cui mi trovo e da cui non
uscirò mai!» gridò il Maître d’école in un accesso di rabbia. «Oh!
ho tanta paura della morte! sì... ho tanta paura; ma se mi venissero
a dire: “Quell’uomo te lo metteremo fra le braccia... fra le
braccia... poi vi getteremo giù per un burrone”; io direi:
“Gettatemi pure... sì; perché sarei sicuro di arrivare in fondo
senza averlo lasciato.” E mentre rotoliamo assieme, gli morderei il
viso, la gola, il cuore, lo ucciderei a furia di morsi, insomma! un
coltello non potrebbe far di meglio!»
«Finalmente, furfante, ecco come mi piaci. Stai tranquillo... lo
ritroveremo quel pezzente di Rodolphe e con lui anche lo Chourineur.
Dopo essere uscita dall’ospedale, sono andata a gironzolare
nell’allée des Veuves... era tutto chiuso. Ma ho detto al signore in
lutto: “Tempo fa, voi volevate pagarci per combinare qualcosa contro
quel mostro del signor Rodolphe; dopo l’affare della ragazza, per
cui ci teniamo pronti, non si potrebbe organizzare un colpo contro
di lui?”. “Forse...” mi ha risposto. Capisci, furfante? Forse...
Coraggio, vecchio mio; ci verrà la nausea di Rodolphe; te lo dico
io, ci verrà la nausea!»
«Davvero, non mi abbandonerai?» disse il brigante alla Chouette con
tono sottomesso e sospettoso a un tempo. «Se tu mi abbandonassi
adesso, che ne sarebbe di me?»
«Questo è vero. Senti un po’, come sarebbe divertente se io e
Tortillard ce la svignassimo con la carrozza e ti lasciassimo qui,
in mezzo ai campi, di notte, al freddo, che sarà senz’altro
pungente! Sarebbe uno spettacolo divertente, eh, brigante?»
A questa minaccia, il Maître d’école ebbe un fremito; si avvicinò
alla Chouette e le disse tremando:
«No, no, non puoi farlo, Chouette... e neppure tu, Tortillard...
sarebbe una cosa troppo crudele.»
«Ah! ah! ah! troppo crudele... com’è ingenuo. E il vecchietto della
rue du Roule! e il mercante di buoi! e la donna del canale
Saint-Martin! e il signore dell’allée des Veuves! credi che il tuo
coltellaccio abbia fatto loro delle carezze? Perché, poi, non
potremmo, a nostra volta, farti uno scherzetto?»
«Ebbene, lo confesso» disse cupamente il Maître d’école «sì ho avuto
torto a sospettare di te, ho avuto torto anche a voler picchiare
Tortillard: ti chiedo scusa, capito... e anche a te Tortillard...
sì, vi chiedo scusa a tutti e due.»
«Voglio che tu chieda scusa in ginocchio per aver voluto picchiare
la Chouette» disse Tortillard.
«Briccone di un monellaccio! sei uno spasso» disse la Chouette
ridendo; «eppure mi ha fatto venire voglia di vedere che faccia fa-
rai, vecchio mio. Su, in ginocchio, come se dovessi parlare d’amore
alla tua Chouette; sbrigati o ti piantiamo; e t’avverto che fra
mezz’ora sarà notte.»
«Notte o giorno, tanto è la stessa cosa per lui!» disse Tortillard
beffardo. «Questo signore tiene sempre le imposte chiuse, ha paura
di rovinarsi la carnagione.»
«Eccomi in ginocchio. Ti chiedo scusa, Chouette... e anche a te,
Tortillard. Ebbene, siete contenti?» disse il brigante
inginocchiandosi in mezzo alla strada. «Adesso non mi abbandonerete,
vero?»
Lo strano gruppo, incorniciato fra i pendii del burrone, illuminato
dai chiarori rossastri del crepuscolo, era orribile a vedersi. In
mezzo alla strada, il Maître d’école, supplichevole, tendeva verso
la guercia le mani potenti; una capigliatura folta e selvaggia gli
scendeva, come una criniera, sulla fronte livida; le palpebre rosse,
smisuratamente aperte per la paura, lasciavano vedere per metà le
pupille immobili, spente, vitree, morte... Lo sguardo
di un cadavere.
Le spalle formidabili si curvavano umilmente. Il nostro erco-
le era costretto a inginocchiarsi tremante ai piedi di una vecchia e
di un ragazzo.
La guercia, avvolta in uno scialle di tartano rosso, con la testa
coperta da un cappello di tulle nero, da cui uscivano alcune ciocche
grigie, sovrastava il Maître d’école di tutta la statura. Il viso
ossuto, scuro, rugoso, terreo della vecchia dal naso adunco
esprimeva una gioia insultante e feroce; l’occhio ferino brillava
come un carbone ardente; il ghigno sinistro che le increspava le
labbra adombrate da lunghi peli lasciava intravedere tre o quattro
grossi denti gialli e senza gengive.
Tortillard, vestito di un camiciotto stretto alla vita da una
cintura di cuoio, stava ritto su un piede solo, appoggiandosi a un
braccio della Chouette per tenersi in equilibrio.
La faccia di questo ragazzo, malaticcio, furbo e pallido come i suoi
capelli, esprimeva in quel momento una cattiveria beffarda e
diabolica.
L’ombra allungata sulla china del burrone non faceva che raddoppiare
l’orrore della scena, avvolta in parte nella ormai crescente
oscurità.
«Ma promettetemi almeno di non abbandonarmi!...» ripeté il Maître
d’école, impaurito dal silenzio della Chouette e di Tortillard che
godevano del suo spavento. «Siete andati via?» aggiunse l’assassino
sporgendosi per ascoltare e stendendo macchinalmente le braccia.
«No, no, vecchio mio, non siamo andati via; non aver paura.
Abbandonarti? piuttosto morire! Per tranquillizzarti, ti dirò una
volta per sempre il perché non ti abbandonerò mai. Stammi bene a
sentire: m’è sempre piaciuto moltissimo avere qualcuno a cui far
sentire le mie unghie... animali o persone. Prima della Pégriotte
(se il diavolo almeno me la riportasse! perché ho sempre la mia
idea... di passarle il vetriolo sulla faccia), prima della Pégriotte
avevo un ragazzino che è morto mentre lo torturavo; per questo sono
stata sei anni in prigione; in quegli anni sono diventata l’incubo
degli uccelli: li allevavo per spennarli vivi, ma ci rimettevo
perché morivano subito. Uscita di prigione, ho avuto tra le grinfie
la Goualeuse; ma la bricconcella è fuggita quando ancora potevo
divertirmi sulle sue carni. Dopo ho avuto un cane che ha patito
quanto lei; ho finito col tagliargli due zampe, una davanti e una di
dietro: era costretto a un’andatura così buffa che mi faceva ridere,
ma ridere fino a scoppiare.»
«La stessa cosa voglio farla a un cane di mia conoscenza che mi ha
morso» disse Tortillard.
«Quando ti ho incontrato, vecchio mio» continuò la Chouette, «stavo
torturando un gatto... Orbene! adesso sarai tu il mio gatto, il mio
cane, il mio uccello, la mia Pégriotte; tu sarai... l’animale da
torturare, insomma... Capisci, vecchio mio? invece di un uccello o
di un bambino da tormentare, diciamo pure anche di un lupo o una
tigre, avere te è più bello.»
«Vecchia strega» gridò il Maître d’école gonfiandosi di rabbia. «E
via; ecco che fai ancora il broncio alla tua vecchia!» «Ebbene!
lasciala, sei padrone di farlo. Mica ti giudico un tra-
ditore per questo...»
«Sì, la porta è aperta, vai a occhi chiusi e sempre diritto!» disse
Tortillard, scoppiando in una risata.
«Oh morire!... morire!...» gridò il Maître d’ecole, torcendosi
le braccia.
«Ti ripeti, vecchio mio, questo l’hai già detto, Tu, morire!
scherzi, sei solido come il Pont-Neuf, lascia stare, va’, vivrai per
fare la felicità della tua Chouette. Di tanto in tanto ti farò
soffrire perché io ci godo a farti soffrire, d’altronde dovrai pur
guadagnarti il pane che ti darò; ma se starai buono, potrai
partecipare a qualche bel colpo, come fai oggi, e ad altri di
migliori in cui potrai essere utile; sarai insomma il mio cane
fedele. Quando ti dirò: portalo qui, tu lo porterai; mordi, tu
morderai. Dopo di che, devo dirti, vecchio mio, che non intendo
obbligarti con la forza; se al posto della vita che ti propongo,
preferisci vivere di
rendita, scarrozzare con una bella donnina, essere insignito della
croce della Legione d’onore, avere la bella carica di giudice,
vederci bene anziché essere cieco, non fare complimenti; è facile,
non hai che da dirlo, ti serviremo il tutto ben caldo... non è vero
Tortillard?»
«Caldissimo, bollentissimo, subitissimo!» rispose il figlio di
Bras-Rouge con una sghignazzata. Ma, chinandosi improvvisamente
verso terra, disse sottovoce:
«Sento dei passi, qualcuno sta venendo per il sentiero,
nascondiamoci... Non è la ragazza perché viene dalla stessa parte da
cui è giunta lei...»
Infatti, una contadina robusta, ben piantata, seguita da un grosso
cane da pagliaio e con sulla testa un cesto coperto, apparve dopo
alcuni istanti, attraversò il vallone e prese il sentiero che
stavano percorrendo il prete e la Goualeuse.
Ora noi andremo a raggiungere questi due personaggi e lasceremo i
tre complici in agguato sulla strada bassa.
II
LA CASA PARROCCHIALE
Le ultime luci del sole si spegnevano lentamente dietro la macchia
imponente del castello d’Ecouen e dei boschi che lo circondavano;
tutto d’intorno si stendevano a perdita d’occhio vaste pianure
segnate da solchi profondi, invetriate dal gelo... immensa
solitudine in cui il casale di Bouqueval aveva tutta l’apparenza di
un’oasi.
Il cielo, perfettamente sereno, era venato verso ponente di lunghi
strascichi di porpora, indizio inequivocabile di freddo e di vento;
i toni, dapprima di un rosso vivo, diventavano viola a mano a mano
che il crepuscolo invadeva l’atmosfera.
Una luna falcata, fine, piccola come mezzo anello d’argento,
cominciava a brillare piano piano in un isolotto d’ombra e
d’azzurro.
Il silenzio era alto, l’ora solenne.
Il prete si fermò un momento in cima alla collina per godersi la
vista della bella serata.
Dopo qualche istante di raccoglimento, stese una mano tremante verso
il profondo orizzonte mezzo velato dalle nebbioline della sera, e
disse a Fleur-de-Marie che camminava pensierosa accanto a lui:
«Guardate, fanciulla, l’immensità sconfinata... non s’ode un rumore
di sorta... mi sembra che il silenzio e l’infinito ci diano quasi
un’idea dell’eternità... Vi dico questo, Marie, perché voi siete
sensibile alle bellezze della creazione. Spesso mi sono commosso
davanti all’ammirazione religiosa che esse vi ispiravano, a voi...
che ne siete stata per tanto tempo privata. Non vi sentite presa
anche voi come me dalla calma maestosa che regna in quest’ora?»
La Goualeuse non disse nulla.
Stupito, il prete la guardò; piangeva.
«Che cosa avete, figliola?»
«Padre, sono molto infelice!»
«Infelice? voi... in questo momento infelice?»
«So che non ho il diritto di lamentarmi della mia sorte, dopo
tutto quello che è stato fatto per me... eppure...» «Eppure?»
«Ah, padre, perdonate le mie pene; esse forse offendono i miei
benefattori...»
«Ascoltate, Marie, noi vi abbiamo domandato spesso il motivo della
tristezza che a volte vi angoscia e che arreca alla vostra seconda
madre tante inquietudini... Voi avete evitato di risponderci; noi
abbiamo rispettato il vostro segreto anche se ci addolora il non
poter alleviare le vostre pene.»
«Ahimè! padre, non so dirvi quello che mi succede. Poco fa anch’io,
come voi, mi sono sentita commossa alla vista di questa serata calma
e triste... il cuore mi si è spezzato... e ho pianto...»
«Ma che cosa avete, Marie? Sapete benissimo quanto siete
benvoluta... Via, confessatemi tutto. D’altronde posso dirvi questo;
si avvicina il giorno in cui la signora Georges e il signor Rodolphe
vi presenteranno al fonte battesimale, prendendo davanti a Dio
l’impegno di proteggervi per sempre.»
«Il signor Rodolphe? lui... che mi ha salvata!» esclamò
Fleurde-Marie congiungendo le mani; «si sarebbe degnato di darmi
questa nuova prova di affetto! Oh, sentite, non vi nasconderò più
niente, ho paura di sembrare troppo ingrata.»
«Ingrata! e come?»
«Perché voi possiate capire, dovrò parlarvi dei primi giorni in cui
sono venuta alla fattoria.»
«Vi ascolto; parleremo camminando.»
«Sarete indulgente, non è vero padre? Quello che sto per dirvi forse
è molto brutto.»
«Il Signore vi ha dato una prova della sua misericordia. Fatevi
coraggio.»
«Quando, venendo qui, ho saputo che non avrei più lasciato la
fattoria e la signora Georges» disse Fleur-de-Marie, dopo un istante
di raccoglimento, «ho creduto di fare un bel sogno. Dapprima mi
sentivo come stordita dalla felicità; in ogni momento pensavo al
signor Rodolphe. Molto spesso, quand’ero sola, alzavo mio malgrado
gli occhi al cielo come per cercare lui e per ringraziarlo.
Insomma... lo confesso padre, pensavo più a lui che a Dio; perché
lui aveva fatto per me quello che solo Dio avrebbe potuto fare. Ero
felice... felice come qualcuno che è sfuggito per sempre a un grande
pericolo. Voi e la signora Georges, eravate così buoni con me, che
mi credevo più da compiangere che da biasimare.»
Il prete guardò sorpreso la Goualeuse; ella continuò: «A poco a poco
mi sono abituata a questa vita così dolce: non avevo più paura,
svegliandomi, di ritrovarmi in casa dell’ostessa; avevo la
sensazione di dormire i miei sonni in tutta tranquillità; la mia
unica gioia era aiutare la signora Georges nei suoi lavori, studiare
le lezioni che voi, padre, mi davate... e anche approfittare delle
vostre esortazioni. Esclusi i pochi momenti in cui provavo una gran
vergogna pensando al mio passato, io mi credevo uguale agli altri,
perché tutti erano buoni con me, quando un giorno...»
A questo punto i singhiozzi interruppero Fleur-de-Marie. «Via,
calmatevi, povera figliola, coraggio! e continuate.»
La Goualeuse, asciugandosi gli occhi, riprese:
«Ricorderete, padre, che ai Santi, la signora Dubreuil, fatto-
ressa del duca di Lucenay a Arnouville, era venuta con la figlia a
passare alcuni giorni da noi.»
«Certo, e vi ho visto con piacere fare conoscenza con Clara
Dubreuil; ella possiede ottime qualità.»
«È un angelo, padre... un angelo... Quando seppi che doveva restare
alcuni giorni alla fattoria, fui contentissima, pensavo solo al
momento in cui avrei visto questa compagna tanto desiderata. Infine
ella arrivò. Ero nella mia camera; dovevo dividerla con lei, avevo
fatto del mio meglio per abbellirla; mi fecero chiamare. Entrai in
salotto, il cuore mi batteva; la signora Georges, mostrandomi una
graziosa ragazza, che aveva un’aria dolce, semplice e buona mi
disse: “Marie, ecco un’amica per voi”. “E spero che voi e mia figlia
diventerete presto come due sorelle” aggiunse la signora Dubreuil.
Quando la madre ebbe finito di dire queste parole, la signorina
Clara corse ad abbracciarmi... Allora, padre» disse Fleur-de-Marie
piangendo «non so che cosa, a un tratto, mi sia successo... ma
quando sentii il viso puro e fresco di Clara appoggiarsi sulla mia
guancia sciupata, la guancia mi si è arroventata di
vergogna... di rimorso, mi sono ricordata di quello che ero...
Io!... io, ricevere le carezze di una persona così onesta! Oh! mi
sembrava un inganno... un’ipocrisia indegna...»
«Ma, figliola...»
«Ah, padre» gridò Fleur-de-Marie interrompendo il prete con uno
slancio di dolorosa esaltazione, «quando il signor Rodolphe mi ha
portata via dalla Cité, avevo già più o meno coscienza della mia
degradazione... Ma, credetemi padre, l’educazione, i consigli, gli
esempi che ho ricevuto dalla signora Georges e da voi, illuminandomi
improvvisamente l’anima, mi hanno fatto, ahimè, capire che avevo più
peccato che sofferto!... Prima che venisse la signorina Clara,
quando mi assalivano questi pensieri, mi stordivo cercando di fare
contenta la signora Georges e anche voi padre. Quando arrossivo del
mio passato, ero sola con me stessa. La vista invece di quella mia
coetanea, così graziosa, così virtuosa, mi ha fatto pensare alla
distanza che ci sarebbe sempre stata tra me e lei... Per la prima
volta ho sentito che ci sono ferite che niente può guarire... Da
quel giorno, questo pensiero non mi ha più lasciato... Pur non
volendo, ci ritorno su continuamente: da quel giorno insomma non ho
più avuto un momento di requie.»
La Goualeuse si asciugò gli occhi pieni di lacrime.
Dopo averla guardata qualche istante con indulgente tenerezza, il
prete riprese:
«Riflettete un po’, figliola, la signora Georges ha voluto scegliere
voi come amica della signorina Dubreuil, perché, grazie alla vostra
buona condotta, vi sapeva degna di questa amicizia. I rimproveri che
vi fate si ritorcono quasi contro la vostra seconda madre.»
«Lo so, padre, senza dubbio avevo torto; ma non potevo vincere la
vergogna e la paura che avevo... Non è tutto... Mi ci vuole coraggio
per finire...»
«Continuate, Marie; per ora gli scrupoli, o meglio i rimorsi che
avete avuto, testimoniano in favore della vostra bontà d’animo.»
«Una volta che Clara si stabilì alla fattoria, fui presa da una
tristezza intensa come la felicità che avevo creduto in un primo
momento di provare davanti alla piacevole prospettiva di avere
un’amica della mia età; lei, al contrario, era tutta allegra. Le era
stato preparato un letto nella mia camera. La prima sera, prima di
coricarsi, mi baciò e mi disse che mi voleva già bene e che le
piacevo molto; mi chiese di chiamarla Clara e lei mi avrebbe
chiamato Marie. Poi, prima di mettersi a pregare, mi disse che, se
acconsentivo a ricordarla nelle mie preghiere, anche lei mi avrebbe
ricordato nelle sue. Non osavo dirle di no. Dopo aver parlato ancora
un po’, si addormentò; io invece non ero andata a letto; mi
avvicinai a lei; mi venivano le lacrime agli occhi al guardare quel
volto d’angelo; e poi, al pensiero che dormiva nella mia stessa
stanza... con me, che ero stata vista nella bettola con ladri e
assassini... tremavo come se avessi fatto una cattiva azione, mi
prendevano indefinibili paure... pensavo che un giorno Dio mi
avrebbe punito... Mi coricai, feci sogni spaventosi, rividi le
figure sinistre che avevo quasi dimenticato, lo Chourineur, il
Maître d’école, la Chouette, quella guercia che mi aveva torturato
quand’ero piccola. Oh! che notte!... Dio mio! che notte! che sogni!»
disse la Goualeuse fremendo ancora a quel ricordo.
«Povera Marie!» riprese il prete commosso; «perché non mi avete
fatto prima queste tristi confidenze! vi avrei tranquillizzata... Ma
continuate.»
«Mi ero addormentata molto tardi; la signorina Clara venne a
baciarmi e così mi svegliò. Per vincere quella che lei chiamava la
mia freddezza e provarmi la sua amicizia, volle confidarmi un
segreto; a diciott’anni doveva sposarsi con il figlio di un fattore
di Goussainville, un ragazzo che amava teneramente: il loro
matrimonio era una cosa che le rispettive famiglie avevano deciso
molto tempo prima. Poi mi raccontò in poche parole la sua vita
passata... vita semplice, calma, felice: non aveva mai lasciato la
madre, non l’avrebbe mai lasciata; perché il fidanzato doveva
dividere la direzione della fattoria con il signor Dubreuil.
“Adesso, Marie” mi disse, “mi conoscete come se foste mia sorella;
raccontatemi un po’ la vostra vita...” A quelle parole credetti di
morire dalla vergogna... arrossii, balbettai. Non sapevo che cosa la
signora Georges avesse detto di me; avevo paura di farla passare per
bugiarda. Risposi limitandomi a dire che, orfana e allevata da
persone severe, non ero stata molto felice da bambina e che la mia
felicità risaliva al soggiorno presso la signora Georges. Allora,
Clara, interessata più che incuriosita, mi domandò dov’ero
cresciuta: in città o in campagna? come si chiamava mio padre? Mi
domandò in particolare se ricordavo di avere visto qualche volta mia
madre. Ognuna delle sue domande mi imbarazzava e mi angustiava;
perché, per risponderle, dovevo mentire e voi, padre, mi avete
insegnato che la bugia è un peccato... Ma Clara non immaginò che
potevo ingannarla. Attribuendo la mia incertezza nelle risposte
all’amarezza che mi procuravano i ricordi di una triste infanzia, mi
compianse con una bontà che mi straziò. Oh padre! non saprete mai le
pene che ho sofferto durante il primo
colloquio! quanto mi costasse non dire una parola che non fosse
ipocrita e falsa!...»
«Povera sventurata; possa la collera di Dio abbattersi su coloro che
vi hanno spinto sull’ignobile via della perdizione e che per questo
vi costringeranno forse a subire per tutta la vita le inesorabili
conseguenze della prima colpa!»
«Oh! sì, padre, sono stati ben malvagi» riprese amaramente
Fleur-de-Marie, «perché la mia vergogna è incancellabile. Ma non è
tutto; a mano a mano che Clara mi parlava della felicità che
l’attendeva, del matrimonio, della calda vita di famiglia, non
potevo fare a meno di paragonare la mia sorte alla sua; perché,
nonostante le infinite gentilezze di cui sono oggetto, il mio sarà
sempre un destino miserabile; voi e la signora Georges, facendomi
conoscere la virtù, mi avete fatto conoscere anche la profondità
della mia passata abiezione; nulla potrà impedirmi di essere stata
il rifiuto di ciò che vi è di più spregevole al mondo. Ahimè! poiché
la conoscenza del bene e del male doveva essermi così funesta,
perché non sono stata abbandonata al mio infelice destino!»
«Oh! Marie, Marie!»
«Non è vero, padre... è molto brutto quello che dico? Ahimè! È
quanto non osavo confessarvi... Sì, a volte sono tanta ingrata da
non riconoscere le gentilezze che mi vengono prodigate, da dirmi: se
nessuno mi avesse strappato alla mia ignobile vita, ebbene, la
miseria, le botte avrebbero fatto molto presto a uccidermi; almeno
sarei morta senza avere conosciuto una purezza che rimpiangerò
sempre.»
«Ahimè, Marie, è inevitabile! Qualsiasi natura, anche la più
favorita da Dio, resta segnata per sempre da un marchio
incancellabile qualora sia rimasta un solo giorno nel fango da cui
voi siete stata tolta... Così grande è l’equanimità della giustizia
divina!»
«Allora è proprio vero, padre» esclamò dolorosamente Fleurde-Marie,
«dovrò disperare fino alla morte!»
«No, voi non dovete sperare di poter strappare dal libro della
vostra vita questa pagina sconfortante» disse il prete con voce
triste e grave, «ma dovete sperare nell’infinita misericordia
dell’Onnipotente. Su questa terra, per voi, povera figliuola,
lacrime, rimorsi, espiazione, ma un giorno lassù» aggiunse, puntando
una mano verso il firmamento che cominciava a riempirsi di stelle,
«lassù, perdono, felicità eterna!»
«Pietà... pietà, mio Dio! sono così giovane... e chissà forse quanto
tempo dovrò vivere ancora!...» disse la Goualeuse con voce
straziata, lasciandosi cadere in ginocchio ai piedi del prete.
Il prete stava ritto in cima alla collina che si trovava nelle
vicinanze della casa parrocchiale; la tonaca nera, la faccia
venerabile, incorniciata da lunghi capelli bianchi e tenuamente
rischiarata dagli ultimi chiarori del crepuscolo si stagliavano su
un orizzonte che era di una trasparenza e di una limpidezza
indefinibili: oro pallido a ponente, zaffiro a levante.
Il prete alzava al cielo una mano tremante mentre l’altra
l’abbandonava a Fleur-de-Marie, che la bagnava di lacrime.
Proprio in quel momento il cappuccio della mantellina grigia ricadde
sulle spalle della ragazza; solo allora si poté vedere il profilo
incantevole di lei, i deliziosi occhi supplicanti immersi in un
bagno di lacrime... la stupenda bianchezza del collo, dove si poteva
notare l’attaccatura dei serici capelli biondi.
Era una scena semplice e solenne che faceva contrasto e che
coincideva stranamente con l’ignobile scena che si svolgeva quasi
nello stesso momento fra il Maître d’école e la Chouette nella
misteriosa strada bassa.
Nascosto nell’ombra di un oscuro burrone, assalito da vili terrori,
un orribile assassino che stava pagando il fio dei delitti commessi
si era, anch’egli, inginocchiato... ma davanti a una complice,
un’arpia beffarda, vendicativa che lo tormentava senza pietà e lo
spingeva a nuovi delitti... la sua complice... causa prima dei mali
di Fleur-de-Marie.
Di Fleur-de-Marie torturata da un rimorso incessante.
Si poteva capire benissimo perché fosse portata a esagerare la
propria pena. Fin dall’infanzia si era trovata in mezzo a esseri
depravati, malvagi, infami; poi, uscita di prigione, era andata a
finire nella tana dell’ostessa, una prigione non meno orribile; si
aggiunga che, all’infuori dei cortili del carcere e delle strade
cavernose della Cité, ella non aveva visto nient’altro;
evidentemente quell’infelice ragazza non poteva che essere vissuta
nella più profonda ignoranza del bene e del bello, cosa che l’aveva
resa estranea sia ai sentimenti nobili e religiosi che ai magnifici
splendori della natura.
Ed ecco che improvvisamente ella abbandona l’infetta cloaca per un
incantevole ritiro in campagna, la turpe vita per dividere
un’esistenza felice e tranquilla con gli esseri più virtuosi, più
teneri, più disposti ad aver compassione delle sue disgrazie.
Infine quanto c’è di più bello nell’uomo e nel creato si rivela di
colpo e in un solo momento alla sua anima attonita. Davanti a questo
spettacolo grandioso, il suo spirito si eleva, la sua intelligenza
si sviluppa, i suoi nobili istinti si destano... E proprio per-
ché lo spirito si è elevato, l’intelligenza sviluppata, i nobili
istinti destati... essa diventata cosciente della degradazione di un
tempo, prova pensando al passato un doloroso e incurabile orrore,
capisce ahimè che ci sono sozzure, così dice lei, che non si lavano
mai...
«Me infelice!» diceva la Goualeuse disperata, «ormai la coscienza
del male e il ricordo del passato macchieranno d’infamia tutta la
mia vita, anche se essa, padre, dovesse essere lunga e pura come la
vostra... Me infelice!»
«Voi beata, invece, Marie, voi a cui il Signore concede rimorsi così
salutari anche se pieni di amarezza! Essi mettono in luce la
sensibilità religiosa della vostra anima! Tanti altri, di animo meno
nobile, al vostro posto non ci avrebbero messo molto a dimenticare
il passato per pensare solo a godersi la felicità presente! Un’anima
delicata come la vostra soffre per cose per cui il volgare non
proverebbe nessun dolore! Ma lassù sarà tenuto conto di ogni vostra
sofferenza. Credetemi, Dio vi ha lasciato un momento sulla via del
male solo per riservarvi la gloria del pentimento e la ricompensa
eterna dovuta all’espiazione! Non ha detto lui stesso: “Coloro che
fanno il bene senza lottare e che vengono a me col sorriso sulle
labbra, sono i miei eletti; ma coloro che, feriti nella lotta,
vengono a me ricoperti di sangue e di lividi, sono gli eletti fra
gli eletti!...”. Coraggio dunque, figliola!... sostegno, appoggio,
consigli, non vi mancherà niente... Io sono molto vecchio ma la
signora Georges, ma il signor Rodolphe hanno ancora molti anni
davanti... il signor Rodolphe soprattutto... che ha per voi tanto
interesse... che contribuisce ai vostri progressi con quella sua
chiaroveggenza così premurosa... sentite, Marie, sentite, credete
che potrebbe dispiacervi di averlo incontrato?»
La Goualeuse stava per rispondere quando fu interrotta dalla
contadina di cui abbiamo parlato sopra, la quale aveva raggiunto il
prete e la ragazza, seguendo la loro stessa strada. Era una delle
donne che serviva alla fattoria.
«Mi scusi, signor parroco» disse al prete, «ma la signora Georges mi
ha detto di portare questo cesto di frutta alla canonica e di
riaccompagnare poi la signorina Marie, perché sta facendo notte; ma
ho preso Turc con me» disse la domestica accarezzando un enorme cane
dei Pirenei che avrebbe potuto sostenere una lotta con un orso. «È
meglio essere prudenti, anche se in paese è molto difficile fare
brutti incontri.»
«Avete ragione, Claudine; d’altra parte, eccoci arrivati alla
canonica; ringrazierete per me la signora Georges.»
Poi il prete si rivolse alla Goualeuse e le disse con tono grave e a
bassa voce:
«Domani dovrò andare alla conferenza della diocesi; comunque sarò di
ritorno verso le cinque. Se volete venire, figliola, io vi aspetterò
in canonica. Capisco, dal vostro stato d’animo, che avete ancora
bisogno di parlare a lungo con me».
«Vi ringrazio, padre» rispose Fleur-de-Marie; «visto che voi volete
farmi questa bontà, domani verrò.»
«Ma eccoci giunti alla porta del giardino» disse il prete; «lasciate
lì il cesto, Claudine, poi la mia governante verrà a prenderlo.
Accompagnate Marie a casa senza fermarvi; perché è quasi scesa la
notte e il freddo aumenta. A domani, Marie, alle cinque!»
«A domani, padre.»
Il prete entrò nel suo giardino.
La Goualeuse e Claudine, seguite da Turc, ripresero il cammi-
no della fattoria.
III L’INCONTRO
La notte era scesa, chiara e fredda.
Seguendo il piano del Maître d’école, la Chouette s’era por-
tata assieme al brigante in quel punto della strada bassa che era
più lontano dal sentiero ma più vicino all’incrocio dove aspettava
Barbillon con la carrozza.
Tortillard, che era andato ad appostarsi, stava a spiare il ritorno
di Fleur-de-Marie che, come sappiamo, doveva attirare nel tranello
supplicandola di aiutarlo a soccorrere una povera vecchia.
Il figlio di Bras-Rouge aveva fatto solo pochi passi fuori dal
burrone come per andare in avanscoperta quando, tendendo l’orecchio,
sentì da lontano la Goualeuse parlare alla contadina che
l’accompagnava.
La Goualeuse non era sola, il piano quindi era fallito.
Tortillard discese in fretta nel burrone e corse ad avvertire la
Chouette.
«C’è qualcuno con la ragazza» disse a voce bassa nonostante
l’affanno.
«Che vada alla forca, quella cialtrona!» gridò la Chouette
furibonda.
«Con chi è?» domandò il Maître d’école.
«Senza dubbio con la contadina che poco fa è passata per il
sentiero, seguita da un grosso cane. Ho riconosciuto la voce di una
donna» disse Tortillard; «ecco... sentite... il rumore degli
zoccoli?...»
Infatti nel silenzio della notte, le suole di legno risuonavano in
lontananza sul terreno indurito dal gelo.
«Sono in due... Posso occuparmi io della piccola col mantello
grigio; ma l’altra! come fare? Il furfante non ci vede... e
Tortillard è troppo debole per tenere a bada la compagna, che il
diavolo la strangoli! Come fare?» ripeté la Chouette.
«Sì, non sono forte; ma, se volete, mi getterò sulle gambe della
contadina che ha il cane, mi ci attaccherò con le mani e con i
denti: non mollerò la presa, no!... Nel frattempo voi trascinerete
via la piccola... voi, Chouette.»
«E se gridano, se fanno resistenza, le sentiranno alla fattoria»
riprese la guercia, «e giungeranno in tempo per dar loro manforte
prima che abbiamo raggiunto la carrozza di Barbillon... Non è poi
tanto facile trascinare via una donna che si dibatte!»
«E hanno anche un grosso cane con loro!» disse Tortillard.
«Oh! Oh! se fosse solo per questo, gli spaccherei il grugno con una
scarpata a quel loro cane» disse la Chouette.
«Si avvicinano» riprese Tortillard tendendo di nuovo l’orecchio al
rumore ancora lontano dei passi, «stanno per scendere nel burrone.»
«Ma di’ un po’ qualcosa, furfante» disse la Chouette al Maître
d’école; «che cosa ci consigliano le tue meningi?... Sei diventato
muto?»
«Per quest’oggi niente da fare» rispose il brigante.
«E i mille franchi del signore in lutto» esclamò la Chouette, «hanno
da andare in fumo? Neanche per idea!... Il tuo coltello! il tuo
coltello! furfante... a scanso di fastidi ucciderò la compagna;
quanto alla piccola, io e Tortillard non avremo difficoltà a
imbavagliarla.»
«Ma l’uomo in lutto non vuole che si uccida...»
«Ebbene! questo delitto glielo metteremo in conto come extra; dovrà
comunque pagarci dal momento che è nostro complice.»
«Eccole!... scendono» disse Tortillard a bassa voce.
«Il tuo coltello, vecchio mio!» esclamò la Chouette anche lei a
bassa voce.
«Oh! no, Chouette...» esclamò spaventato Tortillard stendendo le
braccia verso la Chouette, «è troppo... ucciderla... oh! no, no!»
«Il coltello! ti ho detto...» ripeté piano la Chouette, senza badare
alle suppliche di Tortillard e incominciando precipitosamente a
togliersi le scarpe. «Mi tolgo le scarpe» aggiunse, «per poter
camminare a passi felpati, arrivare alle loro spalle e sorprenderle;
è già scuro, ma la piccola si riconoscerà lo stesso dalla
mantellina, l’altra invece sarà la mia vittima.»
«No!» disse il brigante, «oggi è inutile; c’è sempre tempo domani.»
«Hai paura, fifone!» disse la Chouette con feroce disprezzo...
«Non ho paura» rispose il Maître d’école: «ma puoi fallire il colpo
e mandare così tutto a monte.»
Il cane che accompagnava la contadina, fiutata la presenza di
persone in agguato nella strada bassa, si fermò di colpo e si mise a
ringhiare rabbiosamente tanto che i ripetuti richiami di
Fleurde-Marie restarono vani.
«Lo senti, il cane? Eccole... il tuo coltello, presto... o
altrimenti!...» esclamò la Chouette minacciosa.
«Vieni un po’ a prendertelo... di forza!» disse il Maître d’école.
«Non c’è più niente da fare! è troppo tardi!» esclamò la Chouette
dopo essere stata per un momento attentamente in ascolto, «sono
passate... Questa me la pagherai! sai, pendaglio da forca!» aggiunse
furiosa mostrando i pugni al complice, «mille franchi perduti per
colpa tua!»
«Ne guadagneremo, invece, mille, duemila, forse tremila» replicò il
Maître d’école con tono autoritario. «Ascoltami, Chouette» aggiunse,
«e vedrai se non ho avuto ragione a non darti il coltello... Adesso
tu vai da Barbillon... prendetevi la carrozza e recatevi là dove
abbiamo appuntamento col signore in lutto... gli direte che oggi non
c’è stato niente da fare, ma che domani sarà cosa fatta...»
«E tu?» mormorò la Chouette, non ancora rabbonita. «Continua a
seguirmi: la piccola ogni sera viene ad accompagnare il prete da
sola; per caso oggi ha incontrato qualcuno; domani probabilmente
avremo più fortuna: allora domani tu ritorni a quest’ora,
all’incrocio, con Barbillon e la carrozza.»
«Ma tu? Ma tu?»
«Tortillard mi condurrà alla fattoria dove si trova la ragazza; dirà
che ci siamo smarriti, che io sono suo padre, un povero fabbro che
ha perso accidentalmente la vista; che andavamo a Louvres da un
nostro parente che ci poteva aiutare un po’, e che per aver voluto
prendere una scorciatoia ci siamo perduti in mezzo ai campi.
Chiederemo di poter passare la notte alla fatto-
ria, in un angolo della stalla. Di solito vien detto di sì. I
contadini ci crederanno e ci daranno da dormire. Tortillard
esaminerà per bene le porte, le finestre, le uscite della casa:
quando incombe il pagamento del fitto, questa gente, chi più chi
meno, ha sempre del denaro in casa. Lo so bene» aggiunse con
amarezza, «perché anch’io ho avuto un po’ di terre. Siamo nella
prima quindicina di gennaio... è il momento buono, è il periodo di
scadenza delle rate trimestrali... La fattoria si trova, avete
detto, in un luogo isolato; una volta conosciute le porte d’entrata
e d’uscita, potremo ritornarci con gli amici: è un colpo da
organizzare...»
«Il solito cervello, e che acume!» disse la Chouette raddolcita;
«continua pure, furfante.»
«Domani mattina, al momento di lasciare la fattoria, simulerò un
dolore per cui non potrò camminare. Se non mi credono, mostrerò loro
la ferita che mi è rimasta dopo aver spezzato l’anello della catena
di forzato, e che mi fa ancora male. Dirò che è una bruciatura che
mi sono fatto sul lavoro con una sbarra di ferro arroventato; mi
crederanno sicuramente. Così resterò alla fattoria parte della
giornata, in modo che Tortillard possa esaminare tutto con comodo e
per bene... La sera, quando la piccola uscirà, come al solito, con
il prete, dirò di stare meglio e di essere in grado di andarmene. Io
e Tortillard seguiremo la ragazza da lontano, e verremo ad
aspettarla qui, fuori del burrone. Quando ci rivedrà, non avrà paura
perché ci conosce già; la fermeremo... io e Tortillard... e quando
sarà a portata del mio braccio, m’arrangio io; lei è messa a posto e
i mille franchi sono nostri. E non è tutto... dopo due o tre giorni
potremo affidare l’affare della fattoria a Barbillon o ad altri e
poi, se ci sarà qualcosa, la spartiremo con loro, poiché siamo noi
ad aver preparato il furto.»
«Sai, anche senza occhi, sei unico» disse la Chouette baciando il
Maître d’école. «Ma se per caso domani sera la piccola non
riaccompagna il prete?»
«Si ritenterà dopodomani, è uno di quei piatti che vanno mangiati
freddi e lentamente; comunque saranno spese in più da segnare sul
conto del signore in lutto; e poi, una volta alla fattoria, sarò in
grado di giudicare, stando a quello che sentirò dire, se il nostro
piano ci dà la possibilità di rapire la piccola; altrimenti ne
prepareremo un altro.»
«Bene, vecchio mio! È geniale il tuo piano! Senti un po’ furfante,
quando sarai completamente paralizzato dovrai diventare consulente
di ladri; guadagnerai quanto un avvocato. Forza, bacia la tua
Chouette, e muoviti... i contadini qui vanno a letto con
le galline. Io scappo da Barbillon; domani alle quattro saremo alla
croce del bivio con lui e la carrozza, a meno che, nel frattempo,
non lo arrestino per aver fatto fuori il marito della lattaia...
quella della rue de la Vieille-Draperie. Ma se non sarà lui, sarà un
altro, dato che la finta carrozza è del signore in lutto che se ne è
già servito. Un quarto d’ora dopo il nostro arrivo al bivio, verrò
qui ad aspettarti.»
«D’accordo... A domani, Chouette.»
«Che stupida, dimenticavo di dare la cera a Tortillard, nel caso che
ci sia qualche impronta da prendere alla fattoria! Tieni, ma poi sei
capace di usarla, cocco mio?» disse la guercia dando un pezzo di
cera a Tortillard.
«Sì, sì, via; papà me l’ha insegnato. Per lui ho preso l’impronta
della serratura della cassetta di ferro che quel ciarlatano del mio
padrone tiene in uno stanzino buio.»
«Meno male; e non dimenticarti, se vuoi che la cera non resti
attaccata, di scaldarla ben bene con le mani e poi di bagnarla.»
«Lo so, lo so!» rispose Tortillard. «Ma, non vedete che faccio tutto
quello che mi dite, e lo faccio... perché voi, Chouette, mi volete
un tantino di bene, non è vero?
«Se ti voglio bene!... Ti voglio bene come se ti avessi avuto dal
defunto Napoleone il Grande!!!» disse la Chouette, abbracciando
Tortillard che si sentì eccessivamente lusingato da questo paragone
imperiale. «A domani, malandrino.»
«A domani» replicò il Maître d’école. La Chouette andò a raggiungere
la carrozza.
Il Maître d’école e Tortillard uscirono dalla strada bassa e si
avviarono dalla parte della fattoria; la luce che brillava alle
finestre serviva loro da guida.
Strana fatalità che riavvicinava così Anselme Duresnel alla moglie,
la moglie che non aveva più rivisto dopo la condanna ai lavori
forzati.
IV
LA VEGLIA
Niente è più piacevole alla vista della cucina di una grande
fattoria, all’ora di cena, soprattutto d’inverno. Niente può
richiamare di più la calma e il benessere della vita di campagna.
L’interno della cucina della fattoria di Bouqueval avrebbe potuto
costituire benissimo una prova di ciò che sosteniamo.
L’immenso camino, alto sei piedi e largo otto, assomigliava a una
grande bocca di pietra spalancata su una fornace; nel nero focolare
ardeva un vero rogo di faggi e querce. L’enorme braciere mandava
luce e calore in ogni angolo della cucina, e rendeva inutile la luce
di una lampada sospesa alla trave maestra che attraversava il
soffitto.
Grandi pignatte e casseruole di rame nativo allineate su mensole
scintillavano tanto erano pulite; un secchio antico dello stesso
metallo brillava come uno specchio ardente vicino a una madia di
noce, accuratamente lucidata, da dove veniva un appetitoso profumo
di pane fresco. Una tavola lunga, massiccia, coperta da una tovaglia
di grossa tela estremamente pulita, occupava il centro della sala;
ogni commensale aveva al suo posto uno di quei piatti di maiolica
che sono scuri all’esterno e bianchi all’interno, e posate di ferro
lucido come l’argento.
In mezzo alla tavola, una grande zuppiera piena di minestra di
verdura fumava come un vulcano e copriva col saporoso vapore un
enorme piatto di crauti con prosciutto e un altro piatto non meno
enorme di stufato di montone con patate; infine un quarto di vitello
arrosto, tra due file d’insalata invernale e con ai lati
rispettivamente due cesti di mele e due di formaggi, completava la
simmetrica abbondanza di questo pasto. Tre o quattro brocche di
sidro spumante, tre o quattro pagnotte di pane bigio, grandi come
macine da mulino, erano lì a disposizione dei contadini.
Un vecchio cane da pastore, un grifone scuro, quasi sdentato,
emerito decano della razza canina della fattoria, s’era guadagnato,
grazie alla veneranda età e ai servigi resi, il permesso di restare
vicino al fuoco. Approfittando con discrezione e modestia di questo
privilegio, esso allungava il muso sulle zampe anteriori, e si
metteva poi a seguire con occhio attento le varie evoluzioni
culinarie che precedevano la cena.
Il vecchissimo cane rispondeva al nome un po’ bucolico di Lysandre.
Forse i pasti delle persone di questa fattoria, sebbene molto
semplici, potranno sembrare un po’ lauti; ma la signora Georges
(d’accordo in questo con le idee di Rodolphe) faceva il possibile
per migliorare le condizioni dei servitori, scelti esclusivamente
fra i più onesti e laboriosi del paese. Erano generosamente pagati,
le loro condizioni erano diventate buonissime, invidiabilissime;
perciò entrare come massaro alla fattoria di Bouqueval era un po’ il
sogno di tutti i bravi contadini della contrada: innocente ambizione
che teneva desta in loro un’emulazione tanto più lodevole in
quanto volgeva a profitto dei padroni che servivano; poiché nessuno
che non producesse ottime referenze poteva ottenere uno dei posti
vacanti alla fattoria.
Rodolphe creava così su piccolissima scala una specie di fattoria
modello, destinata non solo al miglioramento del bestiame e dei
procedimenti d’aratura, ma soprattutto al miglioramento degli
uomini, e raggiungeva lo scopo esortando gli uomini a essere probi,
attivi, intelligenti.
Dopo aver terminato i preparativi per la cena e aver messo sulla
tavola un grande boccale di vino vecchio destinato ad accompagnare
la frutta, la cuoca della fattoria andò a suonare la campana.
Al gioioso richiamo, contadini, garzoni di fattoria, mungitrici,
allevatrici di polli, in numero di dodici o di quindici, entrarono
allegramente nella cucina. Gli uomini avevano l’aria virile e leale,
le donne erano avvenenti e robuste, le ragazze vivaci e gaie, non
c’era viso che non fosse sereno e che non esprimesse buonumore,
tranquillità e soddisfazione; tutti si apprestavano con innocente
voluttà a fare onore al pasto che si erano meritatamente guadagnati
con le dure fatiche della giornata.
A capotavola si mise un vecchio contadino con capelli bianchi, viso
leale, sguardo franco e aperto, sorriso un po’ ironico; il vero tipo
del contadino di buon senso, di quegli uomini decisi e giusti,
precisi e lucidi, rustici e scaltri, che puzzano lontano un miglio
di spirito gallico.
Il vecchio Châtelain (così si chiamava quel Nestore) lavorava alla
fattoria fin dall’infanzia; per questo aveva l’incarico di capo
contadino. Quando Rodolphe aveva acquistato la fattoria, il vecchio
servitore gli era stato giustamente raccomandato; egli lo tenne e lo
investì, sotto gli ordini della signora Georges, di una specie di
sovrintendenza ai lavori di coltivazione. Il vecchio Châtelain,
grazie all’età, al sapere, all’esperienza, esercitava sul personale
della fattoria una grande influenza.
I contadini presero posto.
Dopo aver recitato a voce alta il Benedicite, il vecchio Châtelain,
obbedendo a un’antica consuetudine religiosa, tracciò con la punta
del coltello una croce su uno dei pani, e ne tagliò un pezzo che
rappresentava la parte della Vergine o la parte del povero; versò
poi un bicchiere di vino sempre recitando la stessa invocazione e
mise il tutto su un piatto che fu devotamente posto al centro della
tavola. In quel momento i cani da guardia proruppero in un abbaiare
furioso; il vecchio Lysandre rispose loro con un sordo grugnito,
alzò il labbro e mostrò due o tre canini ancora degni di rispetto.
«C’è qualcuno sotto il muro del cortile» disse il vecchio Châtelain.
Aveva appena finito di dire queste parole, che la campana
dell’entrata principale suonò.
«Chi può essere, così tardi?» disse il vecchio agricoltore «sono
rientrati tutti... Va’ un po’ a vedere, René.»
Jean-René, uno dei giovani garzoni, lasciò cadere con rincrescimento
nel piatto un’enorme cucchiaiata di minestra fumante sulla quale
soffiava con una forza da far inquietare Eolo, e uscì dalla cucina.
«È la prima volta, dopo molto tempo, che la signora Georges e la
signorina Marie non vengono a sedersi vicino al fuoco per assistere
alla nostra cena» osservò il vecchio Châtelain, «nonostante la gran
fame, mangerò con meno appetito.»
«La signora Georges è salita nella camera della signorina Marie,
perché, dopo avere accompagnato il signor parroco, si è sentita un
po’ male e si è messa a letto» rispose Claudine, la robusta ragazza
che era andata a prendere la Goualeuse alla casa parrocchiale e che,
così facendo, aveva sventato, senza saperlo, i sinistri disegni
della Chouette.
«La nostra buona signorina è soltanto indisposta... non è mica
malata, vero?» domandò il vecchio agricoltore con una punta
d’inquietudine.
«No, no, grazie a Dio, zio Châtelain: la signora Georges ha detto
che non è niente» riprese Claudine; «altrimenti avrebbero mandato a
chiamare a Parigi il signor David, quel medico negro... che ha già
curato la signorina Marie quando è stata ammalata. Eppure un medico
negro fa sempre una certa impressione! Se fosse per me, non avrei
fiducia. Un medico bianco, passi... è un cristiano.»
«Non vi ricordate che il signor David ha guarito la signorina Marie
che, i primi tempi, era in uno stato di prostrazione?»
«Sì, zio Châtelain.»
«Ebbene?»
«Non fa niente, un medico negro ha qualcosa che fa paura.» «Non vi
ricordate che egli ha fatto tornare in piedi la vecchia
Anique che da tre anni non poteva nemmeno scendere dal letto per via
di quella ferita alle gambe che aveva?»
«Sì, sì, zio Châtelain.»
«Ebbene! figliola?»
«Sì, zio Châtelain; ma un medico negro... immaginatevelo un
po’... tutto nero, tutto nero...»
«Stammi a sentire, figliola: di che colore è Musette, la tua
giovenca?»
«Bianca, zio Châtelain, bianca come un cigno, e fa molto latte;
questo posso dirlo con sicurezza, senza rischio di mentire.»
«E Rosette, la tua giovenca?»
«Nera come un corvo, zio Châtelain; anch’essa fa molto latte,
bisogna essere giusti con tutti.»
«E il latte di questa tua giovenca nera, di che colore è?»
«Ma... bianco, zio Châtelain... è molto semplice, bianco come la
neve.»
«Buono e bianco come quello di Musette?»
«Ma sì, zio Châtelain,»
«Anche se Rosette è nera?»
«Anche se Rosette è nera... Che cosa c’entra che la mucca sia
nera, rossa o bianca?»
«Non c’entra niente?»
«Assolutamente niente, zio Châtelain.»
«Orbene, figliola, perché non ammetti che un medico negro
valga quanto un medico bianco?»
«Caspita... zio Châtelain, io alludevo alla pelle, disse la ra-
gazza dopo un momento di profonda meditazione. Ma effettivamente,
poiché Rosette la nera fa latte bianco come Musette la bianca, la
pelle non c’entra.»
Le riflessioni fisiognomiche di Claudine sulla differenza della
razza bianca e nera furono interrotte dal ritorno di Jean-René, che
si soffiava sulle dita con la stessa forza con cui aveva soffiato
sulla minestra.
«Oh, che freddo! che freddo fa questa notte... gela da spaccare le
pietre» disse entrando; «con un tempo simile, si sta meglio dentro
che fuori. Che freddo!»
«Gelo portato da vento di levante sarà aspro e lungo; questo,
ragazzo, devi saperlo. Ma chi ha suonato?» chiese il decano dei
contadini.
«Un povero cieco e un ragazzetto che lo guida, zio Châtelain.»
V L’OSPITALITÀ
«Cosa vuole, questo cieco?» domandò il vecchio Châtelain a
Jean-René.
«Il pover’uomo e suo figlio si sono smarriti perché hanno voluto
prendere una scorciatoia per andare a Louvres; siccome fa un freddo
cane ed è notte fonda, poiché il cielo è coperto, il cieco e suo
figlio chiedono di pernottare alla fattoria, in un angolo della
stalla.»
«La signora Georges è tanto buona da non rifiutare mai l’ospitalità
a un infelice; dirà sicuramente che si dia da dormire a questi
poveretti... ma bisogna avvertirla. Claudine, vai tu ad avvertirla.»
Claudine sparì.
«Dove aspetta il buon uomo?» domandò il vecchio Châtelain. «Nel
fienile piccolo.»
«Perché l’hai portato nel fienile?»
«Se il cieco e suo figlio fossero rimasti nel cortile, i cani se li
sa-
rebbero mangiati vivi. Sì zio Châtelain, avevo un bel dire: “Buono,
Médor qui, Turc... giù, Sultan!...”. Non li ho mai visti così
scatenati. Eppure alla fattoria non si insegna ai cani a saltare
addosso ai poveri come si fa in tanti altri posti...»
«Figlioli, credo che questa sera la parte del povero dovremo proprio
darla a qualcuno... stringetevi un tantino... Bene! Mettiamo ancora
due coperti, uno per il cieco l’altro per il figlio; sono sicuro che
la signora Georges permetterà loro di passare la notte qui.»
«È strano, tuttavia, che i cani siano così furiosi» si disse
JeanRené; «Turc, soprattutto, che Claudine ha portato con sé quando
è andata questa sera alla casa parrocchiale... sembrava un
ossesso... Quando, tanto per calmarlo, l’ho lasciato, ho sentito che
gli si era rizzato il pelo della schiena... sembrava quello di un
porcospino. Cosa pensate di questo fatto, eh, zio Châtelain, voi che
sapete tutto?»
«Io dico, ragazzo, io che so tutto, che le bestie ne sanno più di
me... Questo autunno quando ci fu quell’uragano che aveva
trasformato il ruscello in torrente, e io me ne tornavo che era
notte fonda, con i miei cavalli da fatica montato su un vecchio
roano, che il diavolo mi porti se avrei potuto sapere dov’era il
punto guadabile, dal momento che ci si vedeva come in un forno!...
Ebbene! ho mollato le briglie e il vecchio roano ha trovato da solo
quello che noi tutti non avremmo certo trovato... Chi gli ha fatto
trovare il punto guadabile?»
«Sì, zio Châtelain, chi glielo ha fatto trovare, al vecchio roano?»
«Colui che ha insegnato alle rondini a costruire il nido sui tetti,
e alle cutrettole a costruire il nido nei canneti, ragazzo... Eb-
bene, Claudine» disse il vecchio oracolo alla ragazza che entrava in
quel momento con sotto il braccio due paia di lenzuola belle
bianche, che profumavano di salvia e di verbena, «ebbene, la signora
Georges ha lasciato che il cieco e il figlio cenino e dormano qui,
vero?»
«Queste sono le lenzuola per preparare loro i letti nella cameretta
in fondo al corridoio» disse Claudine.
«Su, Jean-René, va’ a chiamarli... E tu, figliola, accosta al fuoco
due seggiole, così si scalderanno un po’ prima di mettersi a
tavola... perché il freddo è pungente questa sera.»
Si sentì ancora l’abbaiare furioso dei cani e la voce di Jean-René
che cercava di calmarli.
La porta della cucina si aprì bruscamente: il Maître d’école e
Tortillard entrarono precipitosamente come se avessero avuto
qualcuno che li inseguiva.
«Tenete un po’ a bada i vostri cani» esclamò il Maître d’école,
spaventato; «è mancato poco che ci mordessero.»
«Mi hanno fatto uno strappo sul camiciotto» disse Tortillard ancora
pallido per la paura.
«Mi dispiace, buon uomo» disse Jean-René chiudendo la porta; «ma non
ho mai visto i nostri cani così cattivi... Deve essere il freddo che
li irrita... Non possono avere altre ragioni; forse vogliono mordere
per scaldarsi!»
«Eccone un altro, adesso» disse il contadino fermando il vecchio
Lysandre nel momento in cui stava per avventarsi sui nuovi arrivati,
ringhiando minacciosamente. «Ha sentito gli altri cani abbaiare
furiosamente e vuol fare come loro... Vuoi andare subito a cuccia,
vecchio selvaggio... a cuccia...»
E il vecchio Châtelain accompagnò le parole con un calcio eloquente;
tanto che Lysandre andò a riprendersi, senza per questo cessare di
ringhiare, il posto prediletto accanto al fuoco.
Il Maître d’école e Tortillard erano ancora sulla porta della
cucina; avevano paura d’entrarci.
Avvolto in un mantello blu con il collo di pelliccia, il cappello
calcato su un berretto scuro che gli nascondeva quasi interamente la
fronte, il brigante teneva per mano Tortillard, il quale gli si
stringeva contro guardando con diffidenza i contadini; la lealtà di
quei visi sconcertava e quasi impauriva il figlio di Bras-Rouge.
Anche i malvagi hanno le loro simpatie e le loro antipatie.
La faccia del Maître d’école era così ributtante, che i contadini,
presi chi da disgusto chi da terrore, rimasero per un istante
esterrefatti. Quest’impressione non sfuggì a Tortillard; la paura
che notò nei contadini lo tranquillizzò, si sentì fiero dello
spavento che incuteva il compagno. Subito dopo la prima impressione,
il vecchio Châtelain, che pensava solo ad adempiere i doveri
dell’ospitalità, disse al Maître d’école:
«Buon uomo, venite vicino al fuoco; prima vi scalderete, poi
cenerete con noi, dal momento che siete arrivato proprio mentre
stavamo andando a tavola. Guardate, sedetevi là. Ma dove ho la
testa!» aggiunse il vecchio Châtelain; «non devo rivolgermi a voi ma
a vostro figlio, dato che voi, disgraziatamente, siete cieco. Su,
ragazzo, conduci tuo padre vicino al focolare.»
«Sì, buon signore» rispose Tortillard con tono nasale, mellifluo e
ipocrita; «che il buon Dio ve ne renda merito... ! Seguimi, povero
papà, seguimi... stai attento.» E il ragazzo guidò i passi del
furfante.
Tutti e due andarono vicino al focolare.
Dapprima Lysandre ringhiò sordamente: ma, un istante dopo avere
fiutato il Maître d’école, emise quella specie di lugubre ululato
che fa dire comunemente che i cani urlano a morte.
“Diavolo!” disse fra sé il Maître d’école. “Fiutano proprio il
sangue, queste maledette bestie? Avevo questi calzoni la notte
dell’assassinio del mercante di buoi...”
“Eppure è strano” disse a voce bassa Jean-René, “che il vecchio
Lysandre continui a fiutare quel buon uomo e poi si metta urlare a
morte!”
Accadde allora una cosa strana.
Gli ululati di Lysandre erano così acuti, così lamentosi che gli
altri cani non ebbero difficoltà a sentirli (una sola finestra
divideva il cortile della fattoria dalla cucina), e subito, secondo
le abitudini della razza canina, incominciarono tutti a far eco ai
guaiti lamentosi.
Benché non molto superstiziosi, i massari si guardarono a vicenda
quasi con terrore.
Infatti era strano quello che stava succedendo.
Un uomo che non avevano potuto considerare senza inorridire entrava
nella fattoria. In quel preciso momento i cani della fattoria, che
fino ad allora erano rimasti tranquilli, diventavano furiosi e
incominciavano a lanciare quegli ululati sinistri che, secondo la
credenza popolare, sono forieri di morte.
Il brigante stesso, pur essendo un duro e un mostro d’audacia, non
poté non trasalire nel momento in cui sentì le urla luttuose e
funeree... che scoppiavano al suo arrivo, contro di lui...
assassino.
Soltanto Tortillard, scettico, sfrontato come tutti i ragazzi di
Parigi, corrotto per così dire fin da quando poppava, rimase
indifferente all’insegnamento morale di quella scena. Ormai al
sicuro dai morsi dei cani, il nostro cinico mostriciattolo
s’infischiò di ciò che angosciava gli abitanti della fattoria e che
faceva rabbrividire anche il Maître d’école.
Passato il primo momento di stupore, Jean-René uscì, e poco dopo si
sentì lo schioccare della sua frusta; i lugubri presentimenti di
Turc, Sultan e Médor cessarono. A poco a poco le facce rattristate
dei contadini si rasserenarono. Dopo un po’ cominciarono a provare
più compassione che ribrezzo per la spaventosa bruttezza del Maître
d’école; si mostrarono dispiaciuti della disgrazia del piccolo
zoppo, gli trovarono una faccia furba e molto interessante e
approvarono caldamente le cure premurose che prodigava al padre.
L’appetito, che un momento prima i contadini avevano perso, si fece
sentire ancora di più e per un po’ si sentì solo il rumore delle
posate.
Benché tutti intenti a divorare i loro semplici cibi, uomini e donne
s’intenerivano al notare le attenzioni del ragazzo per il cieco,
vicino al quale egli stava seduto. Tortillard gli preparava i
bocconi, gli tagliava il pane, gli versava da bere con cura tutta
filiale.
Questo era il dritto della medaglia, il rovescio era ben diverso.
Se Tortillard, dietro l’esempio della Chouette che andava fiero in
tal modo di imitare e a cui voleva bene quasi con dedizione, provava
un feroce piacere a tormentare il Maître d’école, questo era da
attribuirsi in parte alla sua crudeltà in parte allo spirito di
emulazione tipico della sua età. Come era possibile che un ragazzo
così perverso sentisse il bisogno di essere amato? Come mai
l’affetto insincero della guercia poteva renderlo felice? Come mai,
infine, poteva commuoversi al lontano ricordo delle carezze materne?
Si trattava ancora una volta di una di quelle frequenti e numerose
anomalie che, di tanto in tanto, vengono a incrinare la compatta
uniformità del vizio.
Abbiamo già detto che Tortillard, così debole, provava, al pari
della Chouette, un piacere indicibile ad avere, come propria
vittima, una tigre con la museruola... perciò al momento di sedersi
a tavola con i contadini, gli balenò la trista idea di volere
costringere il Maître d’école a sopportare le sue cattive maniere
senza battere ciglio, cosa che gli avrebbe procurato un piacere
sottilissimo.
Ripagò così tutte le visibili attenzioni che aveva prodigato al
finto padre con altrettanti calci allungati sotto il tavolo e
diretti
in particolar modo a una vecchia ferita del Maître d’école; questi
infatti, come molti detenuti, aveva una larga escoriazione sulla
gamba, là dove poggiava l’anello della catena di forzato.
Per nascondere il proprio dolore a ogni colpo di Tortillard, il
brigante dovette fare appello a un coraggio tanto più stoico, in
quanto il nostro piccolo mostro, per mettere la propria vittima in
una situazione ancora più difficile, sceglieva per i suoi attacchi
il momento in cui il Maître d’école o beveva o parlava.
Tuttavia quest’ultimo non smentì la sua fama d’impassibile, anzi
contenne meravigliosamente la collera e il dolore perché pensava (e
il figlio di Bras-Rouge ci aveva fatto conto) che, per la buona
riuscita dei suoi progetti, sarebbe stato molto pericoloso far
sospettare quello che succedeva sotto la tavola.
«Prendi, povero papà, ecco una noce bell’e pulita» disse Tortillard,
mettendo nel piatto del Maître d’école uno di quei frutti che aveva
accuratamente tirato fuori dal mallo.
«Bravo, figliolo,» disse il vecchio Châtelain; poi, rivolgendosi al
brigante: «certo, buon uomo, siete davvero da compiangere; ma avete
un figlio tanto buono... che sarà un po’ un sollievo per voi.»
«Sì, sì, la mia disgrazia è grande; e senza la tenerezza del mio
caro figliolo... io...»
Il Maître d’école non poté trattenere un grido acuto. Questa volta
il figlio di Bras-Rouge aveva centrato in pieno la ferita; il dolore
fu insopportabile.
«Dio mio!... che cos’hai povero papà?» esclamò Tortillard con voce
lacrimosa e, alzatosi, si gettò al collo del Maître d’école.
Il Maître d’école ebbe subito un moto di collera e di rabbia;
avrebbe voluto soffocare lo zoppetto fra le braccia erculee, si
limitò invece a stringerlo così violentemente contro il petto, che
il ragazzo, sentendosi mancare il respiro, lasciò andare un gemito
sordo.
Ma, poi, pensando che non poteva fare a meno di Tortillard, il
Maître d’école si trattenne e lo respinse sulla sedia.
In tutto ciò i contadini non videro che uno scambio di effusioni
paterne e filiali: il pallore e l’affanno di Tortillard, li
attribuirono ai buoni sentimenti di quel figliolo.
«Che cosa avete, buon uomo?» domandò il vecchio Châtelain. «Il grido
di poco fa ha fatto impallidire vostro figlio... Povero piccolo...
Guardate, può appena respirare!»
«Non è niente» rispose il Maître d’école che aveva riacquistato
intanto il suo sangue freddo. «È una conseguenza del mio
mestiere di fabbro ferraio; tempo fa m’è caduta sulle gambe una
sbarra di ferro incandescente che stavo lavorando col martello, e mi
sono fatto una bruciatura così profonda che non si è ancora
cicatrizzata... Poco fa ho urtato contro la gamba della tavola, e
non ho potuto trattenere un grido di dolore.»
«Povero papà!» disse Tortillard, rimessosi dallo spavento e gettando
uno sguardo diabolico al Maître d’école, «povero papà! eppure è
vero, buona gente, non hanno mai potuto guarirgli la gamba ahimè!
no, mai! Oh, vorrei tanto avere io il suo male, perché lui non ne
soffra più, povero babbo...»
Le donne guardarono intenerite Tortillard.
«Ebbene, buon uomo» riprese il vecchio Châtelain, «è una vera
sfortuna che non siate venuto alla fattoria tre settimane fa, invece
di venire questa sera.»
«Perché?»
«Perché abbiamo avuto qui, per alcuni giorni, un dottore di Parigi
che ha un rimedio eccellente per le malattie alle gambe. Una buona
vecchia del paese da tre anni non poteva più camminare; il dottore
le ha messo un po’ del suo unguento sulle ferite... Adesso, corre
come il vento e si ripromette, non appena possibile, di andare a
piedi fino a Parigi, all’allée des Veuves per ringraziare il suo
salvatore... Da qui c’è un bel pezzo di strada, non trovate? Ma che
cosa avete? ancora quella maledetta ferita?»
Il nome di allée des Veuves richiamava alla memoria del Maître
d’école ricordi così terribili, che egli non aveva potuto fare a
meno di trasalire e di contrarre i muscoli dell’orribile volto.
«Sì» rispose ricomponendosi, «ancora una fitta...»
«Papà caro, stai tranquillo, stasera ti farò dei buoni impacchi alla
gamba,» disse Tortillard.
«Povero piccolo!» disse Claudine, «come vuol bene a suo padre!»
«È un vero peccato» riprese il vecchio Châtelain rivolgendosi al
Maître d’école, «che quel medico esimio non sia qui ma, tutto
considerato, la sua carità è pari alla sua bravura; quando ritornate
a Parigi, fatevi condurre da vostro figlio a casa sua, egli vi
guarirà, ne sono sicuro; il suo indirizzo è facile da ricordare:
allée des Veuves, n. 17. Se dimenticate il numero... non fa niente,
in quei paraggi non ci sono molti medici e soprattutto medici
negri... perché, pensate un po’, l’ottimo dottor David è negro.»
Il volto del Maître d’école era talmente fitto di cicatrici, che non
ci si poté accorgere del suo pallore.
Eppure egli impallidì... impallidì spaventosamente al sentire
dapprima il numero della casa di Rodolphe, e poi al sentir parlare
di David... il dottore negro...
Di quel negro che, per ordine di Rodolphe, gli aveva inflitto un
supplizio spaventoso, di cui subiva in ogni momento le terribili
conseguenze.
La giornata era funesta per il Maître d’école.
La mattina, aveva sopportato le torture della Chouette e del figlio
di Bras-Rouge; arrivato alla fattoria, i cani fiutano in lui
l’assassino, urlano a morte e vogliono morderlo; infine il destino
lo porta in una casa dove, qualche giorno prima, si trovava il suo
carnefice.
Prese a una a una, queste circostanze avrebbero potuto volta per
volta suscitare nel brigante rabbia o spavento, ma, susseguendosi
una dietro l’altra nello spazio di poche ore, gli infersero un colpo
violento.
Per la prima volta in vita sua provò una specie di terrore
superstizioso... si domandò se il destino non fosse il solo artefice
di coincidenze così strane.
Il vecchio Châtelain, non essendosi accorto del pallore del Maître
d’école, riprese:
«Del resto, buon uomo, quando ve ne andrete, daremo l’indirizzo del
dottore a vostro figlio, e sarà un vero piacere per il signor David
avere la possibilità di essere utile a qualcuno: è così buono, così
buono! peccato che abbia sempre un’aria così triste... Ma, su,
beviamo un bicchiere alla salute del vostro futuro salvatore.»
«Grazie, non ho più sete» disse il Maître d’école con aria cupa.
«Su bevi, papà caro, bevi un po’, farà bene... al tuo povero
stomaco» aggiunse Tortillard, mettendo il bicchiere tra le mani del
cieco.
«No, no, non voglio più bere,» rispose quest’ultimo.
«Non è mica sidro quello che vi ho versato, ma vino vecchio» disse
il contadino. «Vino come questo non lo bevono tutti i signorotti.
Perbacco! Questa non è una fattoria come tante altre. Cosa ne dite
della nostra mensa?»
«È molto buona» rispose macchinalmente il Maître d’école sempre più
assorto in cupi pensieri.
«Ebbene! ogni giorno è così: buon lavoro e buon mangiare; buona
coscienza e buon letto; ecco la nostra vita in due parole: siamo in
sette coltivatori e, modestamente, facciamo il lavoro di
quattordici, ma siamo pagati come se fossimo quattordici. Ai
semplici contadini, 150 scudi all’anno; alle mungitrici e alle
ragazze di fattoria, 60 scudi! e un quinto dei prodotti della
fattoria da dividere fra noi. Perbacco! è chiaro che noi la terra
non la lasciamo riposare un attimo, perché più la vecchia nutrice
produce, più noi ricaviamo.»
«Il vostro padrone non deve certo arricchirsi se vi favorisce così»
osservò il Maître d’école.
«Il nostro padrone!... Oh! ma non è mica un padrone come gli altri.
S’arricchisce in un modo ch’è tutto suo.»
«Cosa volete dire?» domandò il cieco, che desiderava impegnarsi in
una conversazione per sfuggire alle idee nere che lo tormentavano;
«il vostro padrone allora è un uomo straordinario?»
«Straordinario in tutto, buon uomo; ma vedete voi, qui, siete
arrivato per caso, perché il paese è lontano da tutte le strade
maestre. Certo non ritornerete più qui; non dovete lasciarlo senza
sapere almeno chi è il nostro padrone e quello che ha fatto per
questa fattoria; in poche parole ve lo dirò, a patto però che lo
ripetiate a tutti... vedrete, sono cose che fanno piacere sia a chi
le dice sia a chi le sente.»
«Vi ascolto» replicò il Maître d’école.
VI
UNA FATTORIA MODELLO
«E non sarete dispiaciuto di avermi ascoltato» disse il vecchio
Châtelain al Maître d’école. «Figuratevi che un giorno il nostro
padrone s’è detto, “Sono molto ricco, va bene; ma, poiché questo non
è che mi faccia mangiare di più, perché non far mangiare coloro che
non mangiano affatto e far mangiare meglio la brava gente che non
mangia abbastanza?... Sì, sì, l’idea mi va, presto all’opera!”. E il
nostro padrone s’è messo all’opera. Ha comperato questa fattoria,
che allora non era molto sfruttata e aveva soltanto due aratri; io
lo so bene, sono nato qui. Il nostro padrone ha aumentato le terre,
saprete subito il perché. Alla direzione della fattoria mise una
brava donna, rispettabile quanto disgraziata, lui sceglie sempre
così, e le ha detto:
“Questa casa sarà come la casa del buon Dio, aperta ai buoni, chiusa
ai cattivi; gli accattoni infingardi ne saranno scacciati, ma si
farà l’elemosina del lavoro a coloro che hanno buona volontà:
quest’elemosina non umilia chi la accetta e dà profitto a chi la fa:
il ricco che non la fa è un cattivo ricco”. È il nostro padrone che
l’ha
detto; e in verità, ha ragione, ma egli non parla solo bene, agisce
anche. Una volta c’era una strada diretta da qui a Ecouen che
accorciava il percorso di una buona lega; ma, perbacco, era così
rovinata che non ci si poteva più passare, era la rovina dei cavalli
e delle carrozze; alcune prestazioni di lavoro e un po’ di denaro
forniti da ognuno dei fattori del paese avrebbero rimesso a posto la
strada; ma più si aveva voglia di vedere la strada a posto, più si
torceva il naso quando si trattava di fornire il denaro e il lavoro.
Stando così le cose, il nostro padrone disse: “La strada sarà fatta;
ma, siccome quelli che potrebbero contribuirvi non vi
contribuiscono, siccome è una strada quasi di lusso, un giorno
gioverà a coloro che hanno cavalli e carrozze; ma dapprima gioverà a
quelli che hanno solo un paio di braccia, un po’ di buona volontà e
sono senza lavoro.” Così, per esempio, un giovanotto robusto bussa
alla porta della fattoria dicendo: “Ho fame e sono senza lavoro”.
“Ragazzo, ecco una buona minestra, una zappa e una pala; poi sarete
condotto sulla strada di Ecouen, fate ogni giorno due tese di
acciottolato, ogni sera avrete 40 soldi, una tesa 20 soldi, mezza
tesa 10 soldi, altrimenti niente.” “Io, all’imbrunire, di ritorno
dai campi, ispezionerò la strada e controllerò quello che ciascuno
ha fatto.”»
«E se si pensa che ci sono stati due ingrati così furfanti da
mangiare la minestra e da rubare la zappa e la pala!» disse JeanRené
con indignazione, «si perderebbe la voglia di fare il bene.»
«È vero» dissero alcuni contadini.
«Suvvia, ragazzi!» riprese il vecchio Châtelain. «Allora... non si
farebbero più piantagioni né semine perché ci sono i bruchi, i
punteruoli e altre brutte bestiole che divorano le foglie o che
mangiano il grano? No, no, si distruggono i parassiti; il buon Dio,
che non è avaro, fa spuntare nuovi germogli, nuove spighe, il danno
è riparato e non ci si accorge nemmeno che gli insetti nocivi sono
passati di lì. Non è vero, buon uomo?» disse il vecchio contadino al
Maître d’école.
«Certo, certo» replicò costui, che da un po’ di tempo sembrava
assorto in profonde meditazioni.
«In quanto alle donne e ai bambini, c’è lavoro anche per loro e
adeguato alle loro forze» aggiunse il vecchio Châtelain.
«E nonostante ciò» disse Claudine, la mungitrice, «la strada non va
avanti in fretta.»
«Caspita, figliola, questo dimostra che, per fortuna, in paese la
brava gente non è senza lavoro.»
«Ma a un infermo, a me, per esempio» disse a un tratto il Maître
d’école, «mi si farebbe la carità di un posto in un angolo
della fattoria, di un tozzo di pane e di un tetto, per il poco tempo
che mi resta da vivere? Oh, se mi venisse fatta questa carità,
passerei, buona gente, tutta la mia vita a ringraziare il vostro
padrone.»
In quel momento il brigante parlava sinceramente. Non che si
pentisse dei delitti; ma l’esistenza quieta e felice di quei
contadini lo attirava tanto più, in quanto pensava al terribile
avvenire che gli riservava la Chouette: avvenire che egli era stato
ben lungi dal prevedere, e che gli faceva rimpiangere ancora più
d’essersi unito di nuovo alla sua complice e di avere così perduto
per sempre la possibilità di vivere con la brava gente presso la
quale lo Chourineur l’aveva sistemato.
Il vecchio Châtelain guardò il Maître d’école con stupore.
«Ma pover’uomo, non credevo che foste del tutto privo di mezzi.»
«Ahimè! Dio, sì... ho perduto la vista in un incidente sul lavoro.
Vado a Louvres a chiedere aiuto a un lontano parente; ma, sapete, a
volte gli uomini sono tanto egoisti, tanto duri...» disse il Maître
d’école.
«Oh non c’è egoismo che tenga» replicò il vecchio Châtelain; «un
bravo e onesto operaio pari vostro, infelice come siete, con un
ragazzo tanto affettuoso e buono, muoverebbe a pietà i sassi. Ma il
padrone presso il quale lavoravate prima dell’incidente non fa
niente per voi?»
«È morto» rispose il Maître d’école dopo un momento di esitazione;
«ed era l’unico protettore che avevo.»
«Ma, all’ospedale dei ciechi?»
«Non ho ancora l’età per entrarci.»
«Pover’uomo! siete veramente disgraziato!»
«Se non trovo a Louvres l’aiuto che spero, ebbene pensate che
il vostro padrone che, pur non conoscendolo, stimo già, avrà pietà
di me?»
«Purtroppo, vedete, la fattoria non è un ospedale. Di solito si
permette a chi ha qualche infermità di passare un giorno o una notte
alla fattoria, poi si dà loro qualcosa, e che il buon Dio li aiuti!»
«Quindi non c’è speranza che il vostro padrone s’interessi alla mia
triste sorte?» continuò il brigante con un sospiro di
rincrescimento.
«Io, buon uomo, vi dico quello che generalmente si fa; ma il nostro
padrone è così buono, così generoso, che è capace di tutto.»
«Credete?» esclamò il Maître. «Potrebbe darsi che egli mi lasci
vivere qui in un angolo? Ne sarei così contento!»
«Vi ripeto che il nostro padrone è capace di tutto. Se ci dice di
tenervi alla fattoria, non dovreste nascondervi in un angolo;
sareste trattato come noi!... come oggi. Vostro figlio avrebbe un
lavoro adeguato alle sue forze; i buoni consigli e i buoni esempi
non gli mancherebbero; il nostro venerabile parroco lo istruirebbe
assieme agli altri ragazzi del paese, e crescerebbe, come si dice,
in bene. Ma, vedete, bisognerebbe che domani mattina si parlasse
chiaramente di questa faccenda con la Notre-Dame-deBon-Secours.»
«Chi è?» chiese il Maître d’école.
«Chiamiamo così la nostra padrona. Se si interessa a voi, potete
stare tranquillo. In fatto di carità, il nostro padrone non sa
rifiutarle niente.»
«Oh, allora le parlerò, le parlerò!» esclamò il Maître d’école,
lieto di potersi così sottrarre alla tirannia della Chouette.
Dinanzi a questa prospettiva, rimase tutt’altro che indifferente,
invece, Tortillard, che non si sentiva per niente disposto ad
approfittare delle offerte del vecchio contadino, e a crescere in
bene sotto gli auspici di un santo prete. Il figlio di Bras-Rouge
non aveva molta inclinazione per la vita rustica né tantomeno
sentimenti bucolici; d’altra parte, fedele alle tradizioni della
Chouette, avrebbe visto con vivo dispiacere il Maître d’école
sottrarsi al loro comune dispotismo; voleva perciò richiamare alla
realtà il brigante che si smarriva già fra le verdi illusioni della
campagna.
«Oh, sì» ripeté il Maître d’école, «parlerò a
Notre-Dame-deBon-Secours... ella avrà pietà di me... e...»
A questo punto Tortillard diede, senza farsi notare, una gran pedata
che colpì il Maître d’école nel punto giusto.
Per la sofferenza il bandito s’interruppe, lasciando a metà la
frase, poi ripeté con un sussulto di dolore:
«Sì, spero che questa buona signora avrà pietà di me.»
«Povero babbo» disse allora Tortillard «tu non tieni affatto conto
della signora Chouette, quella mia buona zia, che ti vuol tanto
bene. Povera zia Chouette!... oh! vedrai che non ti abbandonerà
certo così! Tu sai che sarebbe capace di venire qui col signor
Barbillon, nostro cugino, per riaverti.»
«Il buon uomo è apparentato con i pesci e gli uccelli» disse pian
piano Jean-René con tono pieno di malizia e dando una gomitata a
Claudine, la sua vicina.
«Sei proprio senza cuore! ridere di questi disgraziati» rispose a
bassa voce la ragazza, dando a sua volta a Jean-René una gomitata da
rompergli tre costole.
«È una vostra parente la signora Chouette?» domandò il contadino al
Maître d’école.
«Sì, è una nostra parente» rispose quest’ultimo in preda a cupa
tristezza.
Egli temeva, nel caso trovasse insperatamente asilo alla fattoria,
che la guercia, malvagia com’era, venisse a denunciarlo; temeva
inoltre che i suoi cosiddetti parenti che Tortillard aveva tirato in
ballo facessero sospettare qualcosa per via dei loro strani nomi; ma
quanto a ciò, i suoi timori risultarono infondati; solo Jean-René
prese lo spunto per sussurrare all’orecchio di Claudine una facezia
che, peraltro, non fu molto bene accetta.
«Andate a trovare questa parente a Louvres?» chiese il vecchio
Châtelain.
«Sì» rispose il brigante, «ma credo che mio figlio si sbagli se fa
troppo assegnamento su di lei.»
«Oh! povero papà, non mi sbaglio... no... La zia Chouette è così
buona!... Lo sai bene anche tu che è stata lei a mandarti l’acqua
con cui ti faccio gli impacchi alla gamba... e a spiegarci l’uso che
se ne deve fare... È stata lei a dirmi: “Fai per il tuo povero papà
tutto quello che io stessa farei, e avrai la benedizione del buon
Dio...” Oh, la zia Chouette... ti vuol bene, ma ti vuol tanto bene
che...»
«Va bene, va bene,» disse il Maître d’école interrompendo
Tortillard, «comunque questo non vuol dire che domani mattina non
parlerò alla buona signora del posto... e che non implorerò perché
ella intervenga a mio favore presso il rispettabile proprietario di
questa fattoria ma» aggiunse per cambiare discorso e metter fine ai
pericolosi discorsi di Tortillard, «ma, a proposito del
proprietario, avevate promesso di dirmi quello che c’è di speciale
nell’organizzazione di questa fattoria.»
«Ve l’ho promesso» disse il vecchio Châtelain, «e manterrò la
promessa. Il nostro padrone, dopo aver istituito quella che chiama
l’elemosina del lavoro, si è detto: ci sono riconoscimenti e premi
per chi vuole migliorare le razze dei cavalli e del bestiame o vuole
perfezionare gli aratri e gli altri numerosi attrezzi... Credo
proprio che sarebbe tempo di pensare un po’ anche a rendere migliori
gli uomini... Belle bestie, va bene; ma rendere buona la gente
sarebbe ancora meglio, anche se la cosa è più difficile. Tanta biada
ed erba fitta, acqua fresca e aria pura, governo continuo
e stalla pronta, cavalli e bestiame cresceranno benissimo e vi
daranno soddisfazione; ma per gli uomini è tutta un’altra cosa:
l’uomo non cresce in virtù come il bue in grossezza. I pascoli
giovano, perché l’erba, riuscendo saporita al palato del bue, piace
e nello stesso tempo fa ingrassare; ebbene, penso che l’uomo metterà
a profitto i buoni consigli, solo se riuscirà a fare in modo che,
seguendoli, egli ci trovi il suo tornaconto...»
«Come il bue ci trova il suo mangiando l’erba buona, vero, zio
Châtelain?»
«Proprio così, ragazzo.»
«Ma zio Châtelain» disse un altro contadino, «non si parlava tempo
fa di un tipo di fattoria dove alcuni giovani ladri che, furti a
parte, erano stati comunque molto onesti, imparavano a coltivare i
campi e si vedevano trattare come principi?»
«È vero, figlioli; c’è del buono in questa iniziativa, è umano e
caritatevole sperare sempre anche nei malvagi; ma dobbiamo far
sperare anche i buoni. Se qualche giovane, onesto e laborioso, che
sia ben piantato e che abbia voglia di far bene e di imparare, si
presentasse a questa fattoria di ex ladri, si sentirebbe dire:
“Giovanotto, non hai mai rubato, mai fatto il vagabondo?”. “Mai.”
“Ebbene, qui non c’è posto per te.”»
«È proprio vero quello che avete detto, zio Châtelain» osservò
Jean-René. «Non si fa per la gente onesta ciò che, invece, si fa per
i furfanti; si rendono migliori le bestie e non gli uomini.»
«Proprio per dare l’esempio, figliolo, e porre rimedio a ciò, il
padrone, come sto dicendo al nostro buon uomo, ha istituito questa
fattoria... “So” ha detto “che lassù i buoni saranno ricompensati;
ma lassù... perbacco! è troppo in alto, è troppo lontano; e alcuni
(bisogna compatirli, figlioli) non hanno la vista e il fiato
sufficienti per arrivare fin là; e poi dove troverebbero il tempo
per guardare lassù? Il giorno, dall’alba al tramonto, chini sulla
terra, la vangano e la rivangano per un padrone; la notte, dormono
sfiniti sul loro giaciglio... La domenica, vanno all’osteria e
s’ubriacano per dimenticare le fatiche di ieri e di domani. Queste
fatiche, inoltre, non portano loro alcun frutto, poveretti! Dopo una
faticosa giornata, il loro pane è forse meno nero, il loro letto
meno duro, il loro bambino meno gracile, la loro moglie meno esausta
a forza di nutrirlo?... nutrirlo!... lei che non mangia quanto
dovrebbe! No, no, no!... Certo, figlioli, so anche troppo bene che
il loro pane, anche se nero, è sempre pane; che il loro giaciglio è
duro, ma è un letto; i loro bambini sono gracili, è vero, ma vivono.
Questi disgraziati forse sopporterebbero in tutta allegria la loro
sor-
te se sapessero che tutti sono come loro. Ma, quando è giorno di
mercato, vanno in città o in paese e lì vedono pane bianco, morbidi
e grossi materassi, bambini in fiore come rose di maggio, e così
pieni da gettare i dolci ai cani. Perbacco!... allora, quando
ritornano alla capanna di terra, al pane nero, al giaciglio, questi
poveretti si dicono, vedendo com’è ammalato, magro, affamato il
figlioletto a cui ben volentieri avrebbero voluto portare uno di
quei dolci che i bambini dei ricchi gettavano ai cani: ‘dal momento
che ci devono essere i ricchi e i poveri, perché non siamo noi i
ricchi? È una cosa ingiusta... Perché non si fa a turno?’. Quello
che pensano, figlioli, non è sbagliato... e non serve certo ad
alleggerire il loro giogo; eppure questo giogo duro e pesante, che a
volte scortica e schianta, devono portarlo senza posa e senza mai
speranza di riposo... e anche senza mai speranza di conoscere un
giorno, dico un giorno solo, la felicità che dà l’agiatezza... Una
vita tutta così, caspita! sembra lunga... lunga come un giorno di
pioggia e senza un piccolo raggio di sole. Allora si va al lavoro
tristi e avviliti. Si finisce, come la maggior parte dei salariati,
col dirsi: ‘A cosa serve lavorare meglio e di più? che le spighe
siano gonfie o vuote, per noi è lo stesso! Perché impegnarsi tanto
da crepare? Restiamo onesti quanto basta; il male viene punito,
allora non facciamo del male; il bene non trova ricompense; allora
non facciamo neppure del bene... Limitiamoci a mostrare la qualità
delle brave bestie da soma: pazienza, forza e docilità...’. Questi
pensieri non sono salutari, figlioli; dall’indifferenza alla
scioperataggine non c’è che un passo, e dalla scioperataggine al
vizio il passo è ancora più breve... Purtroppo quelli che non sono
né buoni né cattivi, e che quindi non fanno né bene né male,
costituiscono la stragrande maggioranza; proprio questi” s’è detto
il nostro padrone, “dobbiamo rendere migliori, né più né meno che se
fossero cavalli, buoi o pecore... Facciamo in modo che abbiano
interesse a essere attivi, saggi, laboriosi, istruiti e ligi al
dovere... dimostriamo loro che, diventando migliori, diventeranno
materialmente più felici... tutti ci guadagneranno... Perché i buoni
consigli non riescano inutili, facciamo pregustare loro, quaggiù,
come dire, un po’ di quella felicità che spetta ai giusti lassù...”
Fissato il piano, il padrone ha fatto sapere nei dintorni che gli
occorrevano sei coltivatori e altrettante donne o ragazze; ma voleva
scegliere questa gente fra i migliori elementi del paese, tenendo
conto delle informazioni che avrebbe avuto dai sindaci, dai parroci
e da altri. Avremmo dovuto percepire, come infatti percepiamo, un
salario quasi principesco, avere un vitto migliore
di quello dei signori e dividerci fra noi lavoratori un quinto dei
prodotti; dovevamo rimanere alla fattoria per due anni, lasciare poi
il nostro posto ad altri agricoltori, scelti con lo stesso criterio;
dopo cinque anni, avremmo potuto ripresentarci nel caso che ci
fossero stati posti vacanti... Perciò, una volta impiantata la
fattoria, coltivatori e braccianti dei dintorni si dicono:
“Mostriamoci attivi, onesti, laboriosi, facciamoci notare per la
buona condotta, e potremo avere un giorno un posto alla fattoria di
Bouqueval; e qui, per due anni, vivremo come in un paradiso; ci
perfezioneremo nel nostro mestiere; ci metteremo da parte un bel
gruzzolo, e per di più, quando usciremo dalla fattoria, faranno a
gara per assumerci, dal momento che per entrare alla fattoria ci
vuole un attestato di buona condotta”.»
«Io sono già stato assunto alla fattoria d’Arnouville, dal signor
Dubreuil» disse Jean-René.
«E io sono impegnato per Gonesse» aggiunse un altro contadino.
«Vedete bene, buon uomo, che tutti ci guadagnano: i fattori dei
dintorni ci guadagnano doppiamente: da noi, fra uomini e donne, ci
sono solo dodici posti disponibili, ma, nella regione, ci saranno
press’a poco cinquanta elementi che sono degni di occupare questi
posti; ora quelli che non otterranno i posti saranno comunque dei
buoni elementi, no? e, come si dice, i resti sono o rimangono sempre
buoni; perché, se non si ha fortuna la prima volta, si spera di
averla la seconda; tutto sommato, aumenta il numero della brava
gente. Vedete... con rispetto parlando, quando un cavallo o un
qualsiasi animale vince un premio di velocità, di forza o di
bellezza, si sa che in vista di questo premio vengono preparati
cento concorrenti. Ma i concorrenti che non lo vincono, non sono,
per questo, meno belli e meno bravi... Eh? vi dicevo io, buon uomo,
che la nostra fattoria non è una fattoria qualunque e che il nostro
padrone non è un padrone qualunque?»
«Oh! no, certo...» esclamò il Maître d’école, «e più la sua bontà,
la sua generosità mi sembrano grandi, più io spero avrà compassione
della mia triste sorte. Un uomo che fa del bene con tanta nobiltà e
con tanta intelligenza non sta lì a contare le opere buone che
compie.»
«Al contrario, egli le conta, buon uomo» disse il vecchio Châtelain;
«ma per potersi vantare di una buona azione in più; mi sa tanto che
ci rivedremo sicuramente alla fattoria, e che non sarà l’ultima
volta che vi siederete a questa tavola!»
«Davvero? Guardate, ci spero mio malgrado... Oh! se sapeste come
sono contento e già pieno di riconoscenza!» esclamò il Maître
d’école.
«Non ne dubito, è tanto buono il nostro padrone!»
«Ma che sappia almeno il suo nome e anche quello di
NotreDame-de-Bon-Secours» replicò prontamente il Maître, «che fin
d’ora possa almeno benedirne i santi nomi.»
«Capisco la vostra impazienza» disse il contadino. «Oh! caspita, vi
aspettate forse nomi altisonanti? Ah sì proprio! sono nomi semplici
e soavi come quelli dei santi. Notre-Dame-de-Bon-Secours si chiama
signora Georges... il nostro padrone, signor Rodolphe.»
“Mia moglie!... il mio carnefice!...” mormorò il brigante, fulminato
dalla rivelazione.
VII
LA NOTTE
Rodolphe!!! La signora Georges!!!
Il Maître d’école non poteva credersi vittima di una fortuita
identità di nomi; prima di condannarlo al terribile supplizio,
Rodolphe gli aveva detto di nutrire per la signora Georges un vivo
interesse. Infine, la recente visita del negro David alla fattoria
era la dimostrazione che non si sbagliava.
Riconobbe la mano della provvidenza e della fatalità in quest’ultimo
incontro che gli faceva sfumare le speranze riposte nella generosità
del proprietario della fattoria.
Il suo primo impulso fu quello di fuggire.
Rodolphe gli incuteva un terrore invincibile; forse in quel momento
era alla fattoria... Riavutosi dallo stupore, l’assassino si alzò da
tavola, prese per mano Tortillard, e si mise a gridare come un
forsennato:
«Andiamocene via... Guidami... usciamo di qui.»
I contadini si guardarono meravigliati.
«Andarvene... adesso! Non dovete neppure pensarci, buon
uomo» disse il vecchio Châtelain. «Ma dico! che cosa vi prende?
siete matto?»
Tortillard, sfruttando abilmente l’opportunità del momento, trasse
un profondo sospiro, e si portò l’indice alla fronte nel tentativo
di dare a intendere ai contadini che il presunto genitore non fosse
molto sano di mente.
Il vecchio agricoltore gli rispose facendo segno d’aver capito e di
esserne addolorato.
«Vieni, vieni, usciamo!» ripeté il Maître d’école cercando di
trascinare il ragazzo.
Ma Tortillard, deciso più che mai a non lasciare il calduccio della
casa per inoltrarsi nella campagna con quel gelo, disse con voce
mesta:
«Dio mio! povero papà, ti è ripreso l’attacco? Calmati, non andare
fuori con questa gelida notte... ti farebbe male... vedi, preferirei
darti il dispiacere di disobbedirti piuttosto che portarti fuori a
quest’ora». Poi rivolgendosi agli agricoltori: «Vero, brava gente,
che mi aiuterete a non fare uscire il mio povero babbo?».
«Sì, sì, sta’ tranquillo, figliolo» disse il vecchio Châtelain, «non
lasceremo uscire tuo padre... Sarà quindi costretto a dormire alla
fattoria!»
«Voi non potete costringermi a stare qui!» gridò il Maître d’école;
«e poi, d’altra parte, sarei di disturbo al vostro padrone... il
signor Rodolphe... Mi avete detto che la fattoria non è un ospedale.
Allora, ve lo dico ancora una volta, lasciatemi uscire...»
«Di disturbo al nostro padrone! state tranquillo. Purtroppo non vive
alla fattoria e non ci viene quanto vorremmo noi... Ma se ci fosse,
non gli dareste sicuramente fastidio. Questa casa, è vero, non è un
ospedale, ma vi ho detto che i poveri disgraziati come voi possono
passarci un giorno e una notte.»
«Non c’è il vostro padrone questa sera?» domandò il Maître d’école
con voce più ferma.
«No; verrà, come al solito, fra cinque o sei giorni. Come vedete, i
vostri timori non hanno senso. È quasi sicuro che la nostra buona
signora non scenderà stasera, altrimenti avrebbe potuto
tranquillizzarvi. Non ha forse fatto dire che vi venga preparato un
letto alla fattoria? Del resto, se non la vedrete questa sera, le
parlerete domani prima di partire... Le rivolgerete la vostra
piccola supplica perché inviti il nostro padrone a interessarsi alla
vostra sorte e a tenervi quindi alla fattoria...»
«No, no!» disse il brigante terrorizzato «ho cambiato idea... mio
figlio ha ragione: quella mia parente di Louvres avrà pietà di me...
Andrò a trovarla.»
«Come volete» disse il vecchio Châtelain compiacente, credendo di
avere a che fare con un uomo che non aveva il cervello completamente
a posto. «Partirete domattina. Quanto a rimettervi in cammino
stasera con questo povero piccolo, non pensateci neppure; faremo le
cose come si deve.»
Il Maître d’école, pur sapendo che Rodolphe non si trovava a
Bouqueval, era ben lungi dal tranquillizzarsi. Benché
spaventosamente sfigurato, aveva paura che sua moglie, che poteva
scendere da un momento all’altro, riuscisse lo stesso a
riconoscerlo; nel qual caso era convinto che lo avrebbe denunciato e
fatto arrestare: infatti aveva sempre pensato che Rodolphe avesse
voluto infliggergli una punizione così terribile per soddisfare
l’odio e la sete di vendetta della signora Georges.
Ma il brigante non poteva lasciare la fattoria; era alla mercé di
Tortillard. Allora si rassegnò; e, per evitare che sua moglie
potesse sorprenderlo, disse al contadino:
«Dal momento che mi avete assicurato che non sarò di disturbo né al
padrone né alla signora... accetto l’ospitalità che mi offrite; ma
siccome sono molto stanco, andrò a dormire, se permettete; domattina
vorrei ripartire alle prime luci del giorno.»
«Oh, domani mattina, quando vorrete! qui siamo mattinieri; e, per
evitare che sbagliate ancora, vi condurremo sulla strada giusta.»
«Se volete, andrò io ad accompagnare il poveretto fino in fondo alla
strada, dato che ho avuto l’ordine dalla signora di prendermi,
domani, il carrettino per andare a ritirare dal notaio di
Villiers-le-Bel le borse del denaro.»
«Accompagnerai il povero cieco alla sua strada, ma ci andrai con le
tue gambe» disse il vecchio Châtelain. «La signora ha cambiato idea;
ha pensato, ben a ragione, che non valeva la pena avere anzi tempo
alla fattoria tanto denaro; lunedì prossimo avrai tutto il tempo che
vuoi per andare a Villiers-le-Bel; intanto il denaro sta meglio dal
notaio che qui.»
«La signora sa meglio di me quello che deve fare, ma perché questa
paura d’avere qui il denaro, zio Châtelain?»
«Nessuna paura, ragazzo, grazie a Dio! Ma, a ogni modo, preferirei
avere qui cento sacchi di grano piuttosto che dieci sacchi di
scudi... Su» riprese il vecchio Châtelain rivolgendosi al brigante e
a Tortillard «venite, buon uomo, e tu, piccolo, seguimi» aggiunse
prendendo una delle candele accese. Poi fece strada ai due ospiti
per condurli a una cameretta del pianterreno, dove arrivarono dopo
aver attraversato un lungo corridoio, su cui si affacciavano
parecchie porte.
Il contadino posò il lume su una tavola e disse al Maître d’école:
«Ecco la vostra stanza: che il Signore vi conceda una buona notte,
buon uomo! Tu invece, ragazzo, che sei giovane, dormirai senz’altro
bene».
Il brigante sedette cupo e pensoso sulla sponda del letto vicino al
quale l’aveva accompagnato Tortillard.
Questi, fatto un cenno con la testa al vecchio contadino che stava
per andarsene, uscì nel corridoio.
«Cosa vuoi, figliolo?» gli domandò il vecchio Châtelain.
«Dio mio! buon signore, io sono proprio disgraziato! certe volte, la
notte, il mio povero babbo è preso da attacchi, una specie di
convulsioni; io da solo non posso soccorrerlo: se mi trovassi nella
necessità di chiamare aiuto, sarei sentito da qui?»
«Povero piccolo!» disse il contadino impietosito «stai tranquillo...
vedi quella porta, vicino alle scale?»
«Sì, buon signore, la vedo.»
«Ebbene lì dorme uno dei giovani della fattoria dovrai solo
svegliarlo, la chiave è sulla porta, verrà ad aiutarti a soccorrere
tuo padre.»
«Ahimè, signore, se mio padre venisse preso dalle convulsioni, non
so se io e lui riusciremmo a tenerlo fermo. Non potreste venire
anche voi, voi che siete così buono... così buono?»
«Io, figliolo, dormo, con gli altri agricoltori in una parte della
casa che si trova in fondo al cortile. Ma non preoccuparti,
Jean-René è forte, potrebbe prendere un toro per le corna e
sbatterlo per terra. D’altra parte, se avrete bisogno di qualcuno
per aiutarvi, egli può andare a chiamare la vecchia cuoca, che dorme
al primo piano vicino alla signora e alla signorina... inoltre, la
nostra buona cuoca è così accorta che, all’occorrenza, può fare
anche da infermiera.»
«Oh, grazie, grazie! buon signore, pregherò Iddio per voi, perché è
stata una grande carità da parte vostra avere avuto compassione del
mio povero babbo.»
«Bene, figliolo... Be’, buona notte; speriamo che tu non abbia
bisogno di nessuno per tenere tuo padre. Ritorna dentro, forse ti
sta aspettando.»
«Corro da lui... Buona notte, signore.»
«Che Dio ti protegga, figliolo.»
E il vecchio si allontanò.
Lo zoppetto aspettò giusto il tempo che il contadino voltas-
se le spalle per fargli quel gesto oltremodo insultante e derisorio
che è tipico dei monelli di Parigi: gesto che consiste nel battersi
varie volte la nuca con il palmo della mano sinistra, e nello
stendere in avanti a ogni battuta il braccio destro con la mano
bella spalancata.
Con un’astuzia diabolica il pericoloso ragazzo era riuscito ad avere
una parte delle informazioni che gli occorrevano per asse-
condare i loschi progetti della Chouette e del Maître d’école.
Sapeva già che la parte della casa dove avrebbe dormito era abitata
soltanto dalla signora Georges, da Fleur-de-Marie, da una vecchia
cuoca e da un giovane della fattoria.
Tortillard rientrò nella stanza che divideva col Maître d’école, ma
si guardò bene dall’avvicinarglisi. Il Maître d’école, dal canto
suo, appena lo sentì entrare gli disse a bassa voce:
«Da dove vieni, mascalzone?».
«Siete molto curioso, senza occhi.»
«Oh, ti farò pagare tutto quello che mi hai fatto soffrire e sop-
portare questa sera, maledetto ragazzo!» gridò il Maître d’école; e,
balzato in piedi, andò a tastoni per la stanza alla ricerca di
Tortillard, appoggiandosi di tanto in tanto al muro per orientarsi.
«Ti strangolerò, sì, vipera velenosa!...»
«Povero papà... Allora siamo molto allegri stasera se abbiamo voglia
di giocare a mosca cieca con l’amato figlioletto?» disse Tortillard
sghignazzando e sfuggendo con grande facilità agli inseguimenti del
Maître d’école.
Questi, dopo un primo momento di cieco furore, dovette ben presto
rinunciare, come sempre, a prendere il figlio di Bras-Rouge.
Ormai era costretto a subire le continue sfrontatezze del piccolo
fino al momento in cui avrebbe potuto vendicarsi senza correre
rischi di sorta; ecco che cosa indusse il brigante a gettarsi sul
letto e a reprimere, fra una bestemmia e l’altra, l’impotente
collera.
«Povero papà... hai mal di denti... perché bestemmi così? Cosa
direbbe il signor parroco se ti sentisse?... ti farebbe fare
penitenza...»
«Bene! bene!» riprese con voce soffocata e sorda il brigante dopo un
lungo silenzio, «prendimi in giro, approfitta della mia disgrazia...
vigliacco che non sei altro!... è bello, sì! è generoso.»
«Oh, cosa vi salta in mente! generoso! Che faccia tosta!» esclamò
Tortillard scoppiando a ridere, «scusate!... come se voi quando
avevate tutti e due gli occhi buoni aveste usato tanti riguardi con
tutti quelli che avete picchiato... così a chi tocca tocca.»
«Ma a te... io non ho mai fatto del male... perché mi tormenti
così?»
«Prima di tutto perché avete insultato la Chouette... E quando penso
poi che il signore voleva concedersi il lusso di restare qui facendo
il carino con i contadini... Il signore voleva forse fare una cura
di latte d’asina?»
«Mascalzone che non sei altro! se avessi avuto la possibilità di
restare alla fattoria, che il fulmine ora la incenerisca!, le tue
insolenze me l’avrebbero quasi impedito.»
«Voi restare qui! Questa è buona! La signora Chouette chi avrebbe
avuto come vittima? io, forse? Grazie tante, ho avuto la mia parte!»
«Mostriciattolo infame!»
«Mostriciattolo! ecco, ragione di più; sono d’accordo con la zia
Chouette, non c’è nulla di più divertente del farvi arrabbiare a
morte, voi che potreste uccidermi con un pugno... se foste debole,
non sarebbe più tanto bello... Eravate così buffo, questa sera, a
cena... Dio d’un Dio! mi sono goduto uno spettacolo tutto per me...
un vero parco dei divertimenti! A ogni pedata che vi davo di
nascosto, la collera vi faceva montare il sangue alla testa e gli
occhi bianchi vi si cerchiavano di rosso; ci mancava solo un po’ di
blu nel mezzo e sarebbero stati tricolori... due belle coccarde da
poliziotto!»
«Su, via, ti piace scherzare, sei allegro... eh! sei giovane; non me
la prendo» disse il Maître d’école con tono affettuoso e spigliato,
sperando di impietosire Tortillard; «ma invece di star lì a
prendermi in giro, faresti meglio a ricordare quello che ti ha detto
la tua amata Chouette; dovresti controllare tutto e prendere le
impronte. Hai sentito? Parlavano di una grossa somma di denaro che
lunedì avranno qui... Ritorneremo alla fattoria con gli amici e
faremo un bel colpo. Sì, sono stato piuttosto stupido a chiedere di
restare qui... dopo otto giorni avrei avuto una bella barba di
questi bonaccioni di contadini... non è vero, ragazzo?» disse il
brigante nell’intento di accattivarsi Tortillard.
«Vi assicuro che mi avreste fatto pena!» rispose il figlio di
Bras-Rouge sghignazzando.
«Sì, sì, c’è un bel colpo da fare qui... E quand’anche non ci fosse
niente da rubare, tornerò in questa casa con la Chouette per
vendicarmi» disse il brigante con voce piena di collera e di odio;
«perché sono sicuro che è stata mia moglie ad aizzarmi contro quel
diavolo di Rodolphe: e lui, accecandomi, non mi ha forse messo alla
mercé di tutti... della Chouette, di un monello come te?... Ebbene,
poiché non posso vendicarmi con lui... mi vendicherò con mia
moglie!... Sì, lei pagherà per tutti, dovessi pure dare fuoco a
questa casa ed esserne sepolto sotto le macerie... Oh, vorrei...
vorrei!...»
«Vorreste averla, eh vecchio, vostra moglie? E pensare che è a dieci
passi da voi... è proprio seccante questa cosa! Se volessi,
potrei condurvi alla porta della sua stanza... perché io so dov’è la
sua stanza... lo so, lo so, lo so» aggiunse canticchiando, come il
suo solito, Tortillard.
«Sai dov’è la sua stanza!» esclamò il Maître d’école con gioia
feroce, «lo sai?...»
«Vi state scoprendo» disse Tortillard; «vi farò dare spettacolo
facendovi star ritto sulle zampe posteriori, come ci sta un cane
quando gli si mostra un osso... Attento, vecchio Azor!»
«Sai davvero dov’è la stanza di mia moglie?» ripeté il brigante
voltandosi verso il punto da cui sentiva venire la voce di
Tortillard.
«Sì, lo so; e il più bello è che, nell’ala della casa in cui ci
troviamo noi, dorme un solo giovane della fattoria; so dov’è la sua
porta, la chiave è su: crac! un giro, ed è chiuso dentro... Su,
sulle zampe, vecchio Azor!»
«Chi te l’ha detto?» gridò il brigante alzandosi involontariamente.
«Bravo, Azor... Nella stanza accanto a quella di vostra moglie,
dorme una vecchia cuoca... un altro giro di chiave, e siamo padroni
della casa, padroni di vostra moglie e della ragazza con la
mantellina grigia che dovevamo rapire... Adesso, qua la zampa,
vecchio Azor, fate il vostro numero per il padrone! subito!»
«Non è vero, non è vero... Come hai fatto a saperlo?»
«Sono zoppo, ma non scemo... Poco fa mi è venuta l’idea di dire a
quel vecchio barbogio di contadino che certe notti avete le
convulsioni, e gli ho chiesto dove avrei potuto trovare aiuto se vi
fosse venuto l’attacco... Allora mi ha risposto che, se stavate
male, avrei potuto svegliare il giovane e la cuoca, e mi ha mostrato
dove dormivano... uno giù, l’altra su... al primo piano, vicino a
vostra moglie, vostra moglie, vostra moglie!...»
E Tortillard prese a ripetere il suo monotono canto. Dopo una lunga
pausa, il Maître d’école riprese con voce pacata e improntata
insieme a sincera e terribile risolutezza:
«Stammi a sentire... Ne ho abbastanza della vita... Poco fa...
ebbene! sì, lo confesso... ho avuto qualche speranza, ora, però, la
mia sorte mi sembra ancora più brutta... La prigione, i lavori
forzati, la ghigliottina, non sono niente in confronto a tutto
quello che sopporto da questa mattina... e questo dovrò sopportarlo
sempre... Guidami alla stanza di mia moglie; ho con me il
coltello... la ucciderò... dopo mi uccideranno, non importa...
l’odio mi soffoca... mi vendicherò... sarà un sollievo per me...
Quello che sto soffrendo è troppo, è troppo! per me che facevo
tremare tutto
e tutti. Ecco, vedi... se tu sapessi come sto soffrendo avresti
pietà di me... Da un momento a questa parte mi sembra che la testa
stia per scoppiarmi... il sangue mi pulsa da rompere le vene... il
cervello è intasato».
«Un raffreddore di testa, vecchio? ho capito... Starnutite... vi
libererete...» disse Tortillard scoppiando ancora una volta a
ridere. «Volete una presa di tabacco?»
E battendo sul dorso della mano destra chiusa a pugno, come se
avesse battuto sul coperchio di una tabacchiera, si mise a
canticchiare:
Ho un buon tabacco nella tabacchiera: Ho un buon tabacco e non te ne
darò.
«Oh, Dio mio, Dio mio! vogliono farmi impazzire!» gridò il brigante,
seriamente sconvolto da una specie di eretismo di vendetta
sanguinaria, ardente, implacabile che non poteva appagare.
La potenza e l’impotenza di quel mostro erano pari. Immaginatevi un
lupo affamato, furioso, idrofobo che, dopo essere stato
continuamente stuzzicato attraverso le sbarre della gabbia, da un
ragazzo, senta a due passi di distanza la vittima che potrebbe
soddisfare la sua fame e insieme la sua rabbia.
L’ultimo scherno di Tortillard fece quasi perdere la testa al
brigante.
In mancanza di una vittima, volle, accecato com’era dal furore,
spargere il proprio sangue... il sangue lo soffocava.
Il proposito di uccidersi durò un istante, se avesse avuto in mano
una pistola carica, non avrebbe esitato. Si frugò nelle tasche, tirò
fuori un lungo coltello, l’aprì, alzò il braccio per colpirsi... Ma
per quanto rapido, ogni movimento era stato preceduto nel tempo
dalla riflessione, dalla paura, dall’istinto di conservazione.
Mancatogli il coraggio, l’assassino lasciò ricadere il braccio sulle
ginocchia.
Tortillard aveva seguito attentamente ogni movimento; quando vide,
però, che la tragica velleità del Maître d’école aveva avuto uno
scioglimento incruento, non poté trattenersi dall’esclamare con una
sghignazzata:
«Un duello, ragazzo!... spennate le anitre...».
Il Maître d’école, temendo che un nuovo e inutile accesso di collera
gli facesse perdere la ragione, fece finta di non sentire
quest’altro insulto di Tortillard, che mirava a schernire con tanta
insolenza la vigliaccheria dell’assassino davanti al suicidio. No-
nostante non sperasse più di sfuggire, per vendetta del destino, a
quella che egli chiamava la crudeltà di quel maledetto ragazzo,
tuttavia il brigante volle fare con il figlio di Bras-Rouge un
ultimo tentativo e toccare questa volta la corda della cupidigia.
«Oh» gli disse con voce quasi supplichevole, «conducimi alla stanza
di mia moglie; prenderai tutto quello che c’è, e poi fuggirai; mi
lascerai solo... griderai all’assassino, se vuoi! Mi arresteranno,
mi uccideranno sul posto... tanto meglio!... morirò vendicato, visto
che non ho il coraggio di farla finita... Oh! conducimi...
conducimi; lì da lei ci saranno senz’altro oro e gioielli: ti dico
che potrai prendere tutto... per te solo... mi senti?... per te
solo... io ti domando solo di accompagnarmi alla sua porta vicino a
lei.»
«Sì... sento bene; volete che vi accompagni alla sua porta... e poi
al suo letto... e poi che vi dica dove colpire, e poi che vi guidi
il braccio, vero? Volete insomma che io sia il manico del vostro
coltello!... vecchio mostro!» replicò Tortillard con un’espressione
di disprezzo, di collera e di orrore che, per la prima volta, in
quel giorno, rese seria la faccia da faina, fino ad allora beffarda
e sfrontata. «Sentite... mi lascerei uccidere piuttosto che condurvi
da vostra moglie.»
«Non vuoi?»
Il figlio di Bras-Rouge non rispose.
A piedi nudi, per non far rumore, si avvicinò al Maître d’éco-
le, che, seduto sul letto, teneva sempre il coltellaccio in mano;
poi, con un’abilità e una sveltezza prodigiose, gli portò via l’arma
e balzò dall’altra parte della stanza.
«Il coltello! il coltello!» gridò il brigante stendendo le braccia.
«No, perché domattina sareste capace di chiedere di parlare con
vostra moglie e di gettarvi su di lei per ucciderla... dal momento
che come avete detto ne avete abbastanza della vita e che siete
tanto vigliacco da non avere il coraggio di uccidervi con le vostre
mani...»
«Difende mia moglie contro di me, adesso!» gridò il bandito, la cui
mente cominciava ad annebbiarsi. «Ma è proprio un demonio questo
mostriciattolo! Non capisco più niente. Perché la difende?»
«Per farti dispetto...» disse Tortillard; e riassunse la maschera
del motteggiatore sfrontato.
«Ah! è così!» mormorò il Maître d’école, completamente fuori di sé,
«ebbene! appiccherò il fuoco alla casa... bruceremo tutti!...
tutti!... preferisco questa fornace a quell’altra... La candela?...
la candela?...»
«Ah, ah, ah!» esclamò Tortillard scoppiando di nuovo a ridere; «se
non ti avessero spento le tue candele... a te e per sempre...
vedresti che la nostra è spenta da un’ora.»
E Tortillard a canticchiare:
La mia candela è morta Non ho più fuoco...
Il Maître d’école emise un gemito sordo, stese le braccia, cadde
lungo disteso sul pavimento con la faccia verso terra, e restò
immobile: era un colpo apoplettico.
«Ho capito, vecchio!» disse Tortillard, «è una finta per farmi
venire vicino a te e per appiopparmi così un ceffone... Quando sarai
stanco di fare il morto sul pavimento ti alzerai.»
E il figlio di Bras-Rouge, deciso a non addormentarsi per paura che
il Maître d’école, andando a tentoni, lo sorprendesse, restò a
sedere sulla sedia, e da seduto fissava i suoi occhi attenti sul
brigante, che non credeva affatto in pericolo di vita ma che era
convinto, invece, gli tendesse un tranello.
Per far qualcosa di piacevole, Tortillard, tratto di tasca con fare
misterioso un sacchetto di seta rossa, si mise a contare con
lentezza, saettandole di occhiate cupide e giubilanti, le
diciassette monete d’oro che c’erano dentro.
Ecco da dove provenivano le ricchezze mal guadagnate di Tortillard.
Abbiamo già narrato come, in occasione del fatale appuntamento
accordato al comandante, la signora d’Harville stesse per essere
sorpresa dal marito. Rodolphe, porgendole un sacchetto, aveva detto
alla giovane donna di salire al quinto piano dai Morel, con il
pretesto di portar loro un po’ di denaro. La signora d’Harville
saliva rapidamente la scala con il sacchetto in mano, quando
Tortillard, che scendeva dalla casa del ciarlatano, adocchiatolo,
passò vicino alla marchesa e, fingendo di cadere, la urtò, ma,
nell’urto, le portò via il sacchetto. La signora d’Harville, benché
sconvolta, si era affrettata, sentendo avvicinarsi il marito, a
salire al quinto piano, senza poter denunciare l’audace furto dello
zoppetto.
Dopo aver contato e ricontato il suo oro, Tortillard, constatato che
nella fattoria tutto era tranquillo, uscì dalla stanza e, scalzo,
con tanto di orecchi drizzati e la mano che faceva da paralume alla
candela, andò a prendere le impronte delle quattro porte che davano
sul corridoio, pronto a dire, se lo sorprendevano fuori della
stanza, che stava cercando aiuto per il padre.
Al ritorno, Tortillard trovò il Maître d’école ancora steso per
terra... Un po’ inquieto, tese l’orecchio, sentì il brigante
respirare liberamente: pensava che il trucco sarebbe durato
all’infinito.
«Sempre lo stesso giochetto, eh, vecchio!» gli disse.
Per un caso il Maître d’école aveva evitato una congestione
cerebrale che poteva sicuramente farlo morire. La caduta,
provvidenziale, gli aveva causato un’abbondante emorragia nasale.
Poi era caduto in una specie di torpore febbrile, a metà tra il
sonno e il delirio; e allora fece un sogno strano, un sogno
spaventoso!...
VIII
IL SOGNO
Questo è il sogno del Maître d’école.
Rivede Rodolphe nella casa dell’allée des Veuves.
Niente è cambiato nel salone dove il brigante ha subito l’orri-
bile supplizio.
Rodolphe è seduto dietro il tavolo dove si trovano i documen-
ti del Maître d’école e la medaglia di lapislazzuli che ha dato alla
Chouette.
Il viso di Rodolphe è grave e triste.
In piedi, alla sua destra, ha il negro David, impassibile,
silenzioso; alla sua sinistra ha lo Chourineur; guarda la scena con
aria spaventata.
Il Maître d’école non è più cieco, ci vede, anche se attraverso il
velo di sangue che gli riempie le cavità orbitali.
Tutti gli oggetti li vede tinti di rosso.
Come gli uccelli da preda si librano immobili nell’aria sopra la
vittima che, prima di divorare, magnetizzano, così una civetta
mostruosa, che ha come testa l’orribile viso della guercia, si libra
sopra il Maître d’école... Lui si sente continuamente addosso
l’occhio rotondo, fiammeggiante verdastro di lei.
Uno sguardo implacabile che lo opprime come un peso enorme sul
petto.
Come colui che, abituatosi all’oscurità, finisce col distinguere
oggetti dapprima invisibili, così il Maître d’école si accorge a un
certo momento che un immenso lago di sangue lo separa dal tavolo a
cui siede Rodolphe.
L’inflessibile giudice, lo Chourineur e il negro a poco a poco
assumono proporzioni colossali... I tre fantasmi diventano tanto
grandi da raggiungere i fregi del soffitto, i quali si spostano
verso l’alto in maniera proporzionale.
Il lago di sangue è calmo, uniforme come uno specchio rosso.
In esso il Maître d’école vede riflettersi la sua orribile immagine.
Ma ben presto le acque si agitano e si gonfiano; l’immagine
sparisce.
Dalla superficie agitata esalano vapori mefitici da palude, una
nebbia livida, della lividezza delle labbra dei trapassati.
Ma a mano a mano che la nebbia sale, sale... le figure di Rodolphe,
dello Chourineur e del negro continuano a crescere, a crescere
smisuratamente, tanto da sovrastare sempre le funeste esalazioni.
In mezzo al vapore il Maître d’école vede apparire pallidi spettri,
svolgersi scene di delitti che egli perpetra...
In questo miraggio fantastico, vede dapprima un vecchietto con la
testa pelata: porta una prefettizia scura e una visiera di seta
verde; è in una stanza con pareti scrostate, intento a contare e a
mettere in ordine mucchietti di monete d’oro alla luce di una
lampada.
Attraverso la finestra, rischiarata da un’anemica luna, che imbianca
le cime di alcuni grandi alberi agitati dal vento, il Maître d’école
si vede dall’esterno... con l’orribile viso incollato ai vetri.
Ogni più piccolo movimento del vecchietto è seguito con occhi di
fiamma... poi spacca il vetro, apre la finestra, con un salto è
sopra la vittima e gli pianta un lungo coltello nella schiena.
L’azione è così rapida, il colpo è così immediato, così sicuro, che
il cadavere del vecchio resta seduto sulla sedia...
L’assassino vuole togliere il coltello dal morto. Non può...
Raddoppia gli sforzi...
Invano.
Allora decide di lasciare lì il coltello.
Impossibile.
La mano dell’assassino non si stacca dal manico del pugnale,
come la lama del pugnale non si stacca dal cadavere
dell’assassinato.
L’assassino sente allora uno sbattere confuso di speroni e di
sciabole sul pavimento di una stanza vicina.
Per cercare di scappare, decide di portare con sé il misero corpo
del vecchio, da cui non può tirar via né il coltello, né la mano...
Non ci riesce.
Il piccolo cadavere pesa come una tonnellata di piombo.
Nonostante le spalle erculee e gli sforzi disperati, non riesce
nemmeno a smuovere l’enorme peso.
Ancora più vicino sente risuonare i passi e strascicare le
sciabole...
La chiave gira nella toppa. La porta si apre...
La visione sparisce...
E allora la civetta, sbattendo le ali, grida:
«È il vecchio riccone della rue du Roule... Il tuo primo assassi-
nio... assassinio... assassinio...»
Oscuratosi un momento, il vapore che copre il lago di sangue
ridiventa trasparente e fa vedere un altro spettro...
Il giorno sta spuntando, la nebbia è fitta e scura... Un uomo,
vestito come vestono i mercanti di bestiame, è steso sul ciglio di
una strada maestra, morto. Dalla terra calpestata, dall’erba
strappata, si capisce che la vittima ha opposto una resistenza
dispera-
ta...
Il cadavere ha sul petto cinque ferite che sanguinano ancora...
È morto, eppure fischia ai suoi cani, chiama aiuto, gridando: «A me!
A me!...»
Ma fischia, ma chiama dalle cinque larghe piaghe i cui margini
spalancati si muovono come labbra di bocca che parli...
Cinque richiami, cinque fischi simultanei, che il cadavere manda
dalla bocca delle sue ferite, orribili a udirsi...
A questo punto, la civetta agita le ali e contraffà i funerei gemiti
della vittima, poi esplode in cinque risate, stridenti e selvagge
come quelle dei pazzi, e grida:
«Il mercante di buoi di Poissy... Assassino!... Assassino!...
Assassino!...»
Echi sotterranei ripetono, in lontananza, le risate sinistre della
civetta, che sembra vadano poi a perdersi nelle viscere della terra.
A questo rumore, due grossi cani neri come l’ebano, e con occhi
ardenti come tizzoni sempre fissi sul Maître d’école, cominciano ad
abbaiare e a girare... a girare... a girargli intorno con rapidità
vertiginosa.
Quasi lo toccano, e i loro latrati sono così lontani che sembrano
venire trascinati dal vento del mattino.
A poco a poco gli spettri impallidiscono, si dileguano come ombre e
s’inabissano nel livido vapore che continua a salire.
Una nuova zaffata di vapore ricopre la superficie del lago di
sangue, sovrapponendovisi.
È una specie di foschia verdastra, trasparente; sembra quasi la
sezione verticale di un canale pieno d’acqua.
Dapprima si vede il fondo del canale coperto da una melma densa,
abitata da innumerevoli rettili che di solito a occhio nudo non si
notano, ma che, ingranditi come si potrebbero vedere al microscopio,
assumono aspetti mostruosi, proporzioni enormi rispetto alla loro
grandezza reale.
Non è più melma, è una massa compatta, viva, brulicante, un viluppo
inestricabile che formicola e pullula, così unito, così coerente,
che, sotto la sua spinta, il livello di questa melma o meglio di
questo banco d’immondi animali si solleva e s’increspa in maniera
misteriosa e inavvertibile.
Sopra vi scorre lentamente, lentamente, un’acqua melmosa, densa,
morta, che trasporta nel suo pigro corso le immondizie che lì
vengono continuamente scaricate dalle fogne di una grande città,
avanzi di ogni specie, carogne di animali...
Improvvisamente il Maître d’école sente il tonfo di un corpo che
cade pesantemente in acqua.
Urtata dal tuffo improvviso, l’acqua schizza in faccia al Maître
d’école...
Attraverso le innumerevoli bolle d’aria che arrivano alla
superficie, vede sprofondare una donna che si dibatte... che si
dibatte...
E, insieme alla Chouette, vede se stesso fuggire precipitosamente
dalle rive del canale Saint-Martin, con in mano una grande cassa
avvolta nella tela nera.
Ciononostante, assiste fino in fondo all’agonia della vittima che
lui e la Chouette hanno appena gettato nel canale.
Dopo la prima immersione, vede la donna risalire a fior d’acqua e
agitare scompostamente le braccia come uno che non sa nuotare e che
tenta invano di salvarsi.
Poi ode un forte urlo.
L’urlo, disperato, di morte, è rotto dal rumore sordo, brusco di una
involontaria bevuta... e la donna va una seconda volta sott’acqua.
La civetta, che continua a librarsi immobile, contraffà il rantolo
convulso dell’annegata, come prima ha contraffatto i gemiti del
mercante di buoi.
Fra le sinistre risate, la civetta ripete:
«Glu... glu... glu...»
Gli echi sotterranei ne ripetono i gridi.
Andata sott’acqua ancora una volta, la donna soffoca e fa, suo
malgrado, un violento tentativo di aspirare; ma invece di aria,
aspira ancora una volta acqua...
Allora la testa cade all’indietro, il viso si congestiona, diventa
paonazzo, il collo illividisce e si gonfia, le braccia si
irrigidiscono, e, in un’ultima convulsione, l’agonizzante agita i
piedi immersi nella melma.
Allora una cortina di fanghiglia nerastra la avvolge e risale poi
con lei alla superficie.
L’annegata non ha fatto in tempo a esalare l’ultimo respiro che già
è avvolta da una miriade di rettili microscopici, orribile e vorace
fauna della melma...
Il cadavere galleggia un istante, oscilla ancora un po’, poi
s’inabissa lentamente, orizzontalmente, con la testa un po’ più in
alto dei piedi, e comincia a seguire sott’acqua la corrente del
canale.
Talvolta il cadavere gira su se stesso, e si trova faccia a faccia
col Maître d’école; lo spettro, allora, lo guarda fisso con due
grandi occhi glauchi, vitrei, opachi... le labbra violacee si
muovono...
Il Maître d’école è lontano dall’annegata, eppure ella gli mormora
all’orecchio... «glu... glu... glu...» e lo strano verso si
accompagna al particolare rumore che fa un recipiente quando, prima
d’andare a fondo, si riempie d’acqua.
La civetta ripete «glu... glu... glu...» sbattendo le ali, e grida:
«La donna del canale Saint-Martin!... Assassino... Assassino!...
Assassino!... »
Le rispondono gli echi sotterranei... ma, invece di perdersi a poco
a poco nelle viscere della terra, rimbombano sempre di più e
sembrano sempre più vicini.
Al Maître d’école sembra di sentire le risate risuonare da un polo
all’altro.
La visione dell’annegata sparisce.
Il lago di sangue, oltre il quale il Maître d’école continua a
vedere Rodolphe, diventa di un nero bronzeo; poi diventa rosso e si
trasforma subito in un magma liquido simile a metallo in fusione;
poi il lago di fuoco si alza, sale... sale... verso il cielo come
un’enorme tromba marina.
Poco dopo esso è un orizzonte incandescente come ferro arroventato.
Quest’immenso, infinito orizzonte, abbaglia e brucia nello stesso
tempo lo sguardo del Maître d’école: inchiodato al suo posto, non
può distogliere lo sguardo.
Allora, su questo sfondo di lava infuocata, dal cui riverbero è
accecato, egli vede passare e ripassare a uno a uno gli spettri neri
e giganteschi delle sue vittime.
«La lanterna magica del rimorso!... del rimorso!... del rimorso!...»
grida la civetta sbattendo le ali e ridendo fragorosamente.
Nonostante le tremende sofferenze che prova in quel suo incessante
contemplare, il Maître d’école continua a tenere gli occhi fissi
sugli spettri che si muovono nell’alone infuocato.
Egli prova allora qualcosa di spaventoso.
Attraverso tutta una gamma d’indicibili sofferenze, sente, a forza
di guardare l’immenso focolare, le pupille, che hanno preso il posto
del sangue che gli riempiva le orbite, diventare calde, brucianti,
fondersi nel magma infuocato, fumare e infine calcinarsi nelle loro
cavità come in due crogioli di ferro rovente.
Dopo aver visto e sentito, in virtù di una prodigiosa facoltà, tutte
le trasformazioni che hanno subìto le sue pupille prima di ridursi
in cenere, ricade nelle tenebre della sua precedente cecità.
Ma ecco che improvvisamente le insopportabili sofferenze si calmano
come per incanto.
Un soffio pieno di fragranze e di deliziosa freschezza è passato
sulle sue orbite ancora di fuoco.
Il soffio è uno squisito impasto dei profumi primaverili che mandano
i fiori campestri irrorati di rugiada.
Il Maître d’école sente attorno un leggero mormorio simile a quello
che fa la brezza quando accarezza le foglie, simile a quello che fa
un ruscello di acqua fresca quando scorre e gorgoglia nel suo letto
di ciottoli e di muschio.
Migliaia di uccelli cantano di tanto in tanto le più melodiose
fantasie; non appena finiscono, il Maître d’école sente salire al
cielo con un leggero fremito canzoni strane, sconosciute, canzoni
per così dire alate, cantate da voci infantili di angelica purezza.
È preso a poco a poco da un senso di benessere morale, d’abbandono,
di languore indefinibile.
Effusione del cuore, rapimento dello spirito, folgorazione
dell’anima di cui nessuna impressione fisica, per quanto inebriante,
potrebbe dare una idea!
Il Maître d’école si sente dolcemente librare in una sfera luminosa,
eterea: gli sembra d’innalzarsi incommensurabilmente al di sopra del
mondo.
Dopo avere goduto per un po’ di questa indicibile felicità, si
ritrova nel tenebroso abisso dei suoi abituali pensieri.
Sta sempre sognando, ma ora è soltanto il brigante imbavagliato che
bestemmia e si danna in accessi di impotente furore.
Una voce rimbomba, sonora, solenne. È la voce di Rodolphe!
Il Maître d’école ha un fremito di spavento; ha la vaga coscienza di
sognare, ma il terrore che incute Rodolphe è tanto grande che, pur
facendo tutti gli sforzi possibili, non riesce a sottrarsi alla
nuova visione.
La voce parla... egli ascolta.
La voce di Rodolphe non è adirata; è piena di tristezza, di
compassione.
«Povero sciagurato» dice al Maître, «l’ora del pentimento non è
ancora suonata per voi. Dio solo sa quando suonerà. I vostri delitti
non sono ancora completamente puniti. Avete sofferto, non avete
espiato; il destino prosegue nella sua opera di alta giustizia. I
vostri complici sono diventati i vostri carnefici; una donna, un
bambino vi danno ordini, vi torturano...
Infliggendovi un castigo terribile come i vostri delitti. Ve l’avevo
detto... ve l’avevo detto! ricordate le mie parole: “Tu hai usato la
tua forza per uccidere... io paralizzerò la tua forza... I più
forti, i più feroci tremavano davanti a te... tu tremerai davanti ai
più deboli!”.
Avete lasciato l’oscuro rifugio dove potevate condurre una vita di
pentimento e d’espiazione...
Avete avuto paura del silenzio e della solitudine...
Poco fa per un momento avete invidiato la vita tranquilla dei
contadini di questa fattoria; ma era troppo tardi... troppo tardi!
Benché quasi inerme, vi confondete con un’orda di scellerati e di
assassini, e, per paura, non avete voluto più restare oltre presso
la brava gente che vi aveva sistemato.
Avete voluto stordirvi con nuovi misfatti... Avete gettato una sfida
feroce a colui che aveva voluto impedirvi di fare del male ai vostri
simili, e questa sfida criminale è risultata vana. Benché audace,
scellerato, forte, non avete potuto rompere le vostre catene. La
sete di sangue che vi arde dentro... non potete soddisfarla... Poco
fa, preso da uno spaventoso e sanguinario furore, avreste voluto
uccidere vostra moglie; ella è qui, sotto il vostro stesso tetto;
dorme e non può difendersi; voi avete un coltello e la sua stanza è
a due passi; nessun ostacolo vi sbarra la strada, se volete arrivare
fino a lei; niente può sottrarla al vostro furore... solo la vostra
impotenza!
Il sogno di poco fa e quello che state facendo ora potrebbero
esservi di grande insegnamento, potrebbero salvarvi... Le immagini
misteriose del sogno che avete fatto hanno un significato
profondo...
Il lago di sangue in cui avete visto apparire le vostre vittime...
rappresenta il sangue che avete versato. La lava ardente che ha
preso il suo posto... rappresenta il bruciante rimorso che avrebbe
dovuto consumarvi, perché Dio, un giorno, potesse essere toccato dai
vostri quotidiani tormenti, chiamarvi a sé... e farvi gustare le
dolcezze ineffabili del perdono. Ma non sarà così. No! no! ogni
avvertimento sarà inutile; anziché pentirvi, rimpiangerete ogni
giorno, con orribili bestemmie, il tempo in cui commettevate i
delitti... Ahimè! dalla lotta continua fra la vostra ardente sete di
sangue e l’impossibilità di placarla, fra la vostra inclinazione
all’oppressione feroce e la necessità di stare sottomesso a esseri
deboli e crudeli, verrà a voi una sorte così brutta, così
spaventosa!... Oh! povero miserabile!»
La voce di Rodolphe si alterò.
E stette zitto un momento, come se l’emozione e lo sgomento gli
avessero impedito di continuare.
Il Maître d’école si sentì rizzare i capelli in testa. Qual era il
destino che muoveva a pietà perfino il suo carnefice?
«Il destino che vi attende è così terribile» riprese Rodolphe, «che
Dio, in qualità di giudice inesorabile e onnipotente, vorrebbe fare
espiare a voi solo i delitti di tutti gli uomini, perché è il
supplizio più spaventoso che si possa immaginare. Voi, voi infelice!
la fatalità vuole che conosciate la terribile punizione che vi
aspetta, e vuole che l’accettiate senza opporvi! Che l’avvenire vi
sia svelato!»
Il Maître d’école credette di avere riacquistato la vista.
Aprì gli occhi... vide...
Ma quello che vide gli procurò uno spavento tale, che si la-
sciò sfuggire un grido acuto e si svegliò di soprassalto dal sogno
spaventoso.
IX
LA LETTERA
All’orologio della fattoria di Bouqueval suonavano le nove quando la
signora Georges entrò pian piano nella stanza di Fleur-deMarie.
La ragazza aveva il sonno così leggero che si svegliò quasi subito.
Un vivido sole invernale filtrava attraverso le persiane e le tende
di calicò foderato di stoffa rosa, diffondendo una luce vermiglia
nella stanza e facendo prendere al volto pallido e dolce della
Goualeuse i colori che le mancavano.
«Ebbene, fanciulla» disse la signora Georges sedendo sul letto della
ragazza e baciandola in fronte, «come state?»
«Meglio, signora... vi ringrazio.»
«Stamattina non vi hanno svegliata presto?»
«No, signora.»
«Meglio così. Il povero cieco e il figlio che abbiamo ospitato
questa notte hanno voluto lasciare la fattoria all’alba; temevo che
il rumore che hanno fatto aprendo le porte vi avesse svegliato.»
«Poveretti! perché sono partiti così presto?»
«Non lo so; ieri sera quando vi ho lasciata che eravate un po’ più
calma, sono scesa in cucina per vederli; ma tutti e due si erano
sentiti così stanchi da chiedere il permesso di ritirarsi. Il
vecchio Châtelain mi ha detto che il cieco non doveva essere tanto
sano di mente; e tutta la nostra gente è stata colpita dalle pietose
attenzioni che il figlio prodigava al padre infelice. Ma, sono
sicura, Marie, che avete avuto un po’ di febbre; non voglio che
prendiate freddo oggi: non uscirete dal salotto.»
«Scusatemi, signora; stasera, alle cinque, devo andare in canonica;
il signor parroco mi aspetta.»
«Sarebbe un’imprudenza; avete sicuramente trascorso una brutta
notte. Avete gli occhi stanchi, avete dormito male.»
«È vero... ho fatto altri sogni orribili. Ho rivisto in sogno la
donna che mi ha tormentato quand’ero piccola; mi sono svegliata di
soprassalto, tutta spaventata. È una debolezza ridicola di cui mi
vergogno.»
«Io invece sono preoccupata di questa vostra debolezza perché vi fa
soffrire, povera piccola!» disse la signora Georges con inquieta
tenerezza, vedendo gli occhi della Goualeuse riempirsi di lacrime.
Costei, gettatasi al collo della madre adottiva, nascose il viso sul
seno di lei.
«Dio mio! che cosa avete, Marie, mi spaventate.»
«Siete così buona con me, signora, che mi rimprovero di non avervi
confidato quello che ho confidato al signor parroco; domani vi dirà
tutto lui: mi costerebbe troppo rifare la confessione.»
«Su, su, figliola, siate ragionevole; sono sicura che non ci sarà
niente di biasimevole nel gran segreto che avete confidato al nostro
buon parroco. Non piangete così, mi fate stare male.»
«Scusate, signora; non so perché, da due giorni a questa parte, mi
pare che il cuore quasi mi si spezzi... Mio malgrado, gli occhi mi
si riempiono di lacrime... Ho cupi presentimenti... Sento che mi
succederà qualche disgrazia.»
«Marie, Marie... vi sgriderò se vi lascerete prendere così da
terrori immaginari. Non bastano le preoccupazioni reali che
abbiamo?»
«Avete ragione, signora; ho torto, cercherò di superare questa mia
debolezza... Se sapeste, Dio mio! quanto mi rimprovero di non essere
sempre gaia, sorridente, felice... come dovrei esserlo! Ahimè! la
mia tristezza deve sembrarvi ingratitudine!»
La signora Georges stava per tranquillizzare la Goualeuse, quando
Claudine, dopo aver bussato, entrò.
«Che cosa volete, Claudine?»
«Signora, si tratta di Pierre che è arrivato da Arnouville col
calesse della signora Dubreuil; ha portato questa lettera per voi,
dice che è molto urgente.»
La signora Georges lesse ad alta voce quanto segue:
Mia cara signora Georges, mi fareste un favore enorme e mi
togliereste da una grossa difficoltà, venendo subito alla fattoria;
Pierre vi condurrà e vi riporterà indietro questo pomeriggio. Non so
proprio dove sbattere la testa. Il signor Dubreuil è a Pontoise per
la vendita della lana; sono ricorsa quindi a voi e a Marie. Clara
bacia la sua buona sorellina e l’aspetta con impazienza. Cercate di
venire alle undici, per il pranzo.
La vostra cara amica. Signora Dubreuil.
«Di cosa può trattarsi?» disse la signora Georges a Fleur-deMarie.
«Fortunatamente il tono della lettera della signora Dubreuil fa
pensare che non ci sia niente di grave...»
«Verrò con voi, signora?» domandò la Goualeuse.
«Forse non è prudente, perché fa molto freddo. Ma dopo tutto»
riprese la signora Georges, «sarà una distrazione; se sarete
coperta, la corsetta non può farvi che bene...»
«Ma, signora» disse la Goualeuse, soprappensiero, «stasera il signor
parroco mi aspetta, alle cinque, in canonica.»
«Avete ragione; saremo di ritorno per le cinque, ve lo prometto.»
«Oh, grazie, signora; sono così contenta di rivedere la signorina
Clara...»
«Ancora!» disse la signora Georges in tono di dolce rimprovero,
«signorina Clara!... Lei dice “signorina Marie”, parlando di voi?»
«No, signora...» rispose la Goualeuse, chinando gli occhi. «Il fatto
è che io... io...»
«Voi! siete una bambina crudele che non pensa ad altro che a
tormentarsi; avete già dimenticato le promesse che m’avevate fatto
poco fa. Svelta, vestitevi, e in maniera adatta. Potremo essere ad
Arnouville prima delle undici.»
Quindi, mentre usciva con Claudine, la signora Georges le disse:
«Avverti Pierre che ci attenda ancora un po’. Saremo pronte fra
qualche minuto».
X
IL RICONOSCIMENTO
Una mezz’ora dopo questa conversazione, la signora Georges e
Fleur-de-Marie salivano su uno di quei grandi calessi di cui si
servono i ricchi fattori dei dintorni parigini. In breve, la
vettura, cui era attaccato un vigoroso cavallo da tiro guidato da
Pierre, procedette a passo spedito per il sentiero erboso che
conduce da Bouqueval ad Arnouville...
Le vaste costruzioni e le numerose dipendenze della fattoria gestita
dal signor Dubreuil testimoniavano l’importanza di quella magnifica
proprietà che la signorina Césarine de Noirmont aveva portato in
dote al signor duca di Lucenay.
Lo schiocco ripetuto della frusta di Pierre avvertì la signora
Dubreuil che Fleur-de-Marie e la signora Georges stavano arrivando,
e così, scendendo dalla vettura, esse trovarono una gioiosa
accoglienza da parte della fattoressa e di sua figlia.
La signora Dubreuil aveva circa cinquant’anni; la sua fisionomia era
dolce e affabile; i lineamenti della figlia, una bella brunetta con
gli occhi azzurri e le fresche gote arrossate, emanavano bontà e
candore.
Con sua grande sorpresa, quando Clara le saltò al collo, la
Goualeuse vide che l’amica era vestita come lei, alla paesana,
invece di indossare le sue vesti abituali.
«Come? anche voi, Clara, vi siete travestita da campagnola?» disse
la signora Georges, baciando la fanciulla.
«È possibile che non imiti in tutto sua sorella Marie?» disse la
signora Dubreuil. «Ella non ha avuto pace finché non ha ottenuto il
suo casacchino di panno, la sua sottana di fustagno, proprio come la
vostra Marie... Ma si tratta veramente di capricci da ragazzine,
povera signora Georges!» aggiunse la signora Dubreuil sospirando;
«venite che vi dico tutti i grattacapi che ho.»
Entrata nel salottino con la madre e la signora Georges, Clara si
sedette vicino a Fleur-de-Marie, le diede il posto migliore vicino
al fuoco, la circondò di mille attenzioni, prese le mani
dell’amica fra le sue per accertarsi che non fossero fredde, la
baciò un’altra volta e, chiamandola sorellina cattiva, le rivolse a
bassa voce amichevoli rimproveri per via dei lunghi intervalli che
correvano tra una sua visita e l’altra.
Solo tenendo presente il colloquio della Goualeuse con il prete, si
potrà capire con quale umiltà, mista a felicità e a timore insieme,
ella abbia dovuto ricevere queste tenere e innocenti carezze.
«Che cosa vi succede allora? cara signora Dubreuil» disse la signora
Georges, «in che cosa posso esservi utile?»
«Dio mio! in molte cose. Vi spiego subito. Penso che non saprete che
la fattoria appartiene alla signora duchessa di Lucenay. Noi
trattiamo direttamente con lei... senza passare attraverso
l’amministratore del duca.»
«Effettivamente ignoravo questo particolare.»
«Capirete subito perché ve l’ho detto... Noi paghiamo gli affitti
alla signora duchessa o alla sua prima dama di compagnia, la signora
Simon. La duchessa è così buona, così buona, anche se un po’
impulsiva, che è un vero piacere avere a che fare con lei; io e mio
marito ci butteremmo nel fuoco pur di farle un favore... Caspita! si
capisce benissimo: l’ho vista bambina quando veniva qui con suo
padre, il defunto signor principe di Noirmont... Anche ultimamente
ci ha chiesto sei mesi d’affitto in anticipo... 40.000 franchi mica
si trovano per strada, come si suol dire... ma avevamo questa somma
da parte, la dote della nostra Clara, e dall’oggi al domani la
signora duchessa ha avuto il suo denaro in bei luigi d’oro. Queste
grandi dame hanno tanto bisogno di lusso! Tuttavia, solo da un anno
a questa parte la signora duchessa riscuote puntualmente gli affitti
alle scadenze; prima invece sembrava non avesse mai bisogno di
denaro... Ma adesso è molto cambiata!»
«Fino ad ora, cara signora Dubreuil, non vedo ancora in che cosa io
posso esservi utile.»
«Ora ci arrivo, ora ci arrivo: ho detto queste cose per farvi sapere
che la signora duchessa ha la massima fiducia di noi... Senza
contare che a dodici o tredici anni lei, col padre che faceva da
padrino, ha tenuto a battesimo Clara... che lei ha sempre
coccolato... Ieri sera dunque, un corriere viene a portarmi questa
lettera da parte della signora duchessa:
Cara signora Dubreuil è assolutamente necessario che il villino del
frutteto sia in condizione di essere abitato dopodomani sera: fate
trasportare tutti i mobili necessari, tappeti, tende, ecc., ecc.
Insomma che non manchi nulla e che soprattutto sia il più possibile
confortevole.
Confortevole! avete sentito signora Georges; ed è anche
sottolineato» disse la signora Dubreuil guardando l’amica con aria
insieme pensierosa e preoccupata; poi continuò:
Tenete il fuoco acceso notte e giorno nel villino per togliere
l’umidità, dato che da molto tempo non è abitato. Trattate la
persona che verrà a starci come trattereste me; una lettera che
detta persona vi consegnerà vi farà sapere quanto mi aspetto dal
vostro zelo sempre così premuroso. Ci conto ancora una volta, senza
timore di approfittarne; so quanto siete buona e fedele... Addio,
cara signora Dubreuil. Baciate la mia graziosa figlioccia, e
credetemi vostra affezionata
Noirmont de Lucenay.
P.S. La persona in questione arriverà dopodomani in serata.
Soprattutto non dimenticate, ve ne prego, di rendere il villino più
confortevole che potete.
Vedete; ancora quella maledetta parola sottolineata» disse la
signora Dubreuil rimettendosi in tasca la lettera della duchessa di
Lucenay.
«Ebbene! niente di più semplice» replicò la signora Georges.
«Come niente di più semplice!... Non avete capito allora? la signora
duchessa vuole soprattutto che il villino sia il più possibile
confortevole; ecco perché vi ho pregato di venire. Clara e io ci
siamo scervellate per sapere che cosa volesse dire confortevole, e
non ci siamo riuscite... e sì che Clara è stata in collegio a
Villiersle-Bel, e ha vinto in storia e geografia non so più quanti
premi... ebbene, non è servito a niente; sul significato di quella
parola barocca ne sa quanto me; dev’essere una parola che si usa
alla corte o fra la gente del gran mondo... Comunque voi capite
quanto tutto ciò sia imbarazzante: la signora duchessa vuole
soprattutto che il villino sia confortevole, sottolinea la parola,
la ripete due volte e noi non sappiamo che significato abbia!»
«Grazie a Dio, posso darvi una spiegazione del gran mistero» disse
la signora Georges sorridendo; «confortevole, in questo caso,
significa un appartamento comodo, ben messo, senza spifferi, ben
riscaldato; un’abitazione, insomma, dove ci sia tutto il necessario
e anche il superfluo...»
«Oh! Dio mio! capisco; ma allora sono ancora più preoccupata!»
«Come mai?»
«La signora duchessa parla di tappeti, di mobili e di molti
eccetera, ma qui non abbiamo tappeti, i nostri sono mobili molto
comuni; e poi non si sa neppure se la persona che deve venire sia un
signore o una signora, e tutto deve essere pronto per domani sera...
Come fare? qui non abbiamo niente di ciò che occorre. A dire il
vero, signora Georges, c’è da perderci la testa.»
«Ma, mamma» disse Clara, «potresti prendere i mobili che sono nella
mia stanza, così, mentre aspetto che venga ammobiliata di nuovo,
andrei a Bouqueval a passare tre o quattro giorni con Marie.»
«La tua stanza! la tua stanza! figliola, credi che sia abbastanza
bella?» disse la signora Dubreuil alzando le spalle, «credi che sia
abbastanza... abbastanza confortevole? come dice la signora
duchessa... Dio mio! Dio mio! dove vanno a trovarle certe parole!»
«Il villino di solito non è abitato?» domandò la signora Georges.
«No; è quella casetta bianca e isolata che si trova in mezzo al
frutteto. Quando il signor principe l’ha fatta costruire, la
duchessa era ancora signorina; lì andavano a riposarsi lei e suo
padre quando venivano alla fattoria. Ci sono tre belle stanzette e
in fondo al giardino una cascina svizzera dove, da bambina, la
signora duchessa si divertiva a giocare alla lattaia: dopo il
matrimonio l’abbiamo vista alla fattoria solo due volte e ogni volta
ha trascorso qualche ora nel villino. La prima volta, sei mesi fa, è
venuta a cavallo con...»
Poi, come se la presenza di Fleur-de-Marie e di Clara le avesse
impedito di continuare, la signora Dubreuil riprese:
«Io parlo, parlo, ma le chiacchiere non servono a togliermi dai
pasticci... Aiutatemi, buona signora Georges, aiutatemi vi prego!».
«Vediamo, adesso com’è ammobiliato il villino?»
«Non c’è quasi nulla; nella stanza principale, una stuoia di paglia
sul pavimento, un canapè di giunchi, alcune poltrone anch’esse di
giunchi, un tavolo, qualche sedia, ecco tutto. Come vedete, tra
tutto questo e l’essere confortevole ci corre una bella differenza.»
«Ebbene, ecco quello che farei io al vostro posto: sono le undici,
manderei a Parigi qualcuno che sia sveglio.»
«Il nostro sorvegliante, non c’è nessuno che sia più svelto di lui.»
«Benissimo... in due ore al massimo è a Parigi; va da un
tappezziere, uno qualunque, della Chaussée d’Antin; gli consegna la
lista che vi farò non appena avrò visto quello che manca nel
villino, e gli dirà che, costi quel che costi...»
«Oh, certo... purché la signora duchessa rimanga soddisfatta, non
baderò a spese...»
«Gli dirà che, costi quel che costi, bisogna che quanto è segnato
sulla lista sia qui entro stasera o stanotte, e che si trovino qui
anche tre o quattro giovani della bottega per mettere tutto a
posto.»
«Potranno venire con la carrozza di Gonesse che parte alle otto di
sera da Parigi.»
«E poiché si tratta solo di trasportare mobili, inchiodare tappeti e
metter su le tende, tutto può essere facilmente pronto per domani
sera.»
«Oh! buona signora Georges, sapeste da quale difficoltà mi avete
tolta!... Non avrei mai pensato a tutte queste cose... Siete la mia
provvidenza... Abbiate la bontà di farmi la lista di quello che
occorre perché il villino sia...»
«Confortevole?... sì, senz’altro.»
«Ah, Dio mio! un’altra difficoltà!... Non sappiamo se verrà un
signore o una signora. Nella lettera, la signora duchessa dice: “Una
persona”; è un problema!...»
«Fate come se aspettaste una donna, cara signora Dubreuil; se sarà
un uomo, si troverà meglio.»
«Avete ragione... sempre ragione...»
Una ragazza della fattoria venne ad annunciare che il pranzo era in
tavola.
«Verremo fra poco» disse la signora Georges; «ma, mentre io scriverò
la lista di quello che occorre, fate prendere le misure di altezza e
larghezza delle tre stanze, perché tende e tappeti possano essere
preparati prima.»
«Bene, bene... vado a dire il tutto al mio sorvegliante.»
«Signora» riprese la ragazza, «c’è anche quella lattaia di Stains:
le sue masserizie sono in un carrettino tirato da un asino!
Caspita... è poca roba, la casa che ha!»
«Povera donna...» disse la signora Dubreuil con interesse. «Ma chi è
questa donna?» domandò la signora Georges. «Una contadina di Stains
che, per guadagnarsi un po’ da vi-
vere, andava ogni mattina a Parigi a vendere il latte delle quattro
mucche che aveva. Il marito era maniscalco; un giorno che aveva
bisogno di comperare del ferro, accompagna la moglie e resta
d’accordo di andare a riprenderla all’angolo della strada dove
abitualmente lei vendeva il latte. Purtroppo la lattaia era andata a
finire, sembra, in un brutto quartiere; di ritorno, il marito la
trova alle prese con certi tipacci ubriachi che avevano fatto la
cattiveria di rovesciarle il latte nel rigagnolo. Il fabbro cerca di
far loro intendere ragione, viene malmenato; si difende, e nella
rissa riceve una coltellata che lo stende a terra morto stecchito.»
«Ah! che orrore!...» esclamò la signora Georges. «Ed è stato
arrestato l’assassino?»
«No, purtroppo; nella confusione è scappato; la povera vedova
assicura di poterlo riconoscere senza fallo, perché l’ha visto
svariate volte con altri che sono suoi compagni e che bazzicano di
solito in quel quartiere; ma finora tutte le ricerche per scoprirlo
sono state vane; a farla breve, dopo la morte del marito, la lattaia
è stata costretta, per pagare i vari debiti, a vendere le mucche e
quel po’ di terra che possedeva; il fittavolo del castello di Stains
mi ha raccomandato questa brava donna presentandomela come una
creatura eccezionale, tanto onesta quanto disgraziata, poiché ha tre
figli di cui il più vecchio ha appena dodici anni; c’era un posto
vacante, gliel’ho dato, e adesso viene a stabilirsi alla fattoria.»
«Una tale bontà da parte vostra non mi stupisce, cara signora
Dubreuil.»
«Senti, Clara» riprese la fittavola, «vuoi andare a sistemare quella
brava donna nel suo alloggio, mentre io vado ad avvertire il
sorvegliante di prepararsi per andare a Parigi?»
«Sì, mamma; Marie verrà con me.»
«Certo; potete forse fare a meno l’una dell’altra?» disse la
fittavola.
«E io» replicò la signora Georges, sedendosi a un tavolo, «comincerò
la lista per non perdere tempo, perché dobbiamo essere di ritorno a
Bouqueval per le quattro.»
«Per le quattro?... avete fretta, allora?» disse la signora
Dubreuil.
«Sì, Marie deve trovarsi in canonica alle cinque.»
«Oh, se si tratta del buon parroco Laporte... è un sacrosanto
appuntamento» disse la signora Dubreuil. «Darò gli ordini in
conseguenza... Queste due bambine hanno tante... tante cose da
dirsi. Si deve lasciare loro il tempo di parlarsi.»
«Partiamo alle tre allora? mia cara signora Dubreuil.»
«D’accordo... Ma lasciate che vi ringrazi ancora!... è stata una
buona idea quella di pregarvi di venire ad aiutarmi!» disse la
signora Dubreuil. «Su, Clara; su, Marie!...»
Visto che la signora Georges si metteva a scrivere, la signora
Dubreuil uscì e andò da una parte, mentre le due ragazze andarono da
un’altra seguite dalla servetta che aveva annunciato l’arrivo della
lattaia di Stains.
«Dov’è la povera donna?» domandò Clara.
«È con i figli, il carretto e l’asino nel cortile dei fienili,
signorina.» «Vedrai, Marie, che povera donna» disse Clara, prendendo
a
braccetto la Goualeuse; «com’è pallida e che aria triste le danno
quelle sue gramaglie di vedova! L’ultima volta che è venuta a
trovare mia madre mi ha fatto una gran pena; parlando del marito
piangeva calde lacrime, e poi improvvisamente cessava di piangere,
ed era presa da crisi di furore contro l’assassino. Allora... aveva
uno sguardo così cattivo che mi faceva paura; ma, in fondo, il suo
risentimento è naturalissimo!... che disgrazia per lei!... Quanti
infelici ci sono!... vero, Marie?»
«Oh! sì, sì... certo...» rispose la Goualeuse, sospirando con aria
assente. «C’è gente assai infelice, avete ragione, signorina...»
«Rieccola!» esclamò Clara battendo il piede per terra, irritata e
spazientita, «mi dai ancora del voi... e mi chiami signorina; ma sei
arrabbiata con me, Marie?»
«Io! Per l’amor di Dio!!!»
«Ebbene, perché, allora, mi dai del voi?... Lo sai, mia madre e la
signora Georges ti hanno già sgridato per questo. Ti avverto, ti
farò sgridare ancora: peggio per te...»
«Scusa, Clara, ero distratta...»
«Distratta... quando mi rivedi dopo più di otto lunghi giorni di
lontananza?» disse Clara con tristezza. «Distratta... sarebbe già
molto grave; ma no, no, non è questo: ecco, vedi, Marie... finirò
col credere che sei superba.»
Fleur-de-Marie diventò pallida come una morta e non rispose...
Alla sua vista, una donna che portava il lutto vedovile aveva
gettato un grido di collera e d’orrore.
Era la lattaia dalla quale la Goualeuse, quando alloggiava nella
bettola, andava ogni mattina a comperarsi il latte.
XI
LA LATTAIA
La scena che ci accingiamo a raccontare si svolgeva in un cortile
della fattoria, alla presenza dei contadini e delle contadine che
ritornavano dal lavoro per consumare il pasto di mezzogiorno.
Sotto una tettoia, si vedeva un asino attaccato a un carrettino che
conteneva la misera e rustica mobilia della vedova; un ragazzetto di
dodici anni cominciava a scaricare il carretto facendosi aiutare da
due bambini.
La lattaia, tutta vestita di nero, era una donna di circa
quarant’anni, dalla faccia rude, virile e risoluta; aveva le
palpebre arrossate dalle recenti lacrime. Scorgendo Fleur-de-Marie,
dapprima gettò un grido di spavento; ma subito dopo il dolore,
l’indignazione, la collera le fecero contrarre i muscoli del viso;
si precipitò sulla Goualeuse, la prese brutalmente per un braccio, e
la mostrò alla gente della fattoria, gridando:
«Ecco una delle sciagurate che conosce l’assassino del mio povero
marito... Cento volte l’ho vista parlare con quel brigante; quando
vendevo latte all’angolo della strada della Vieille-Draperie, veniva
ogni mattina a comperarsene un soldo; essa saprà di certo chi è quel
delinquente che ha commesso il delitto; come tutte quelle del suo
stampo, anche lei è della cricca di quei banditi... Oh! non mi
sfuggirai, mascalzona che non sei altro!» gridò la lattaia
esasperata da infondati sospetti; e prese anche l’altro braccio di
Fleur-de-Marie, che, tremante, smarrita, voleva fuggire.
Clara, disorientata dall’improvvisa aggressione, non era riuscita
ancora a dire una parola; ma visto la vedova afferrare
selvaggiamente Fleur-de-Marie, le si rivolse gridando:
«Ma siete pazza!... il dolore vi acceca... vi sbagliate!...».
«Mi sbaglio!...» replicò la contadina con amara ironia, «mi sbaglio!
Oh no! non mi sbaglio... Guardate come è diventata pallida
miserabile!... come batte i denti!... La giustizia ti costringerà a
parlare; verrai con me dal sindaco... hai capito?... Oh, non
sognarti di far resistenza... sono forte... piuttosto ti ci
porto...»
«Insolente che non siete altro!» gridò Clara esasperata, «uscite di
qui... Osare di mancar di rispetto in questa maniera alla mia amica,
a mia sorella!»
«Vostra sorella... signorina, suvvia!... voi, voi siete pazza!»
rispose sgarbatamente la vedova. «Vostra sorella!... una donna di
strada che per sei mesi ho visto trascinarsi su e giù per la Cité!»
A tali parole, scoppiò tra i contadini un sordo mormorio contro
Fleur-de-Marie; essi naturalmente prendevano le parti della lattaia,
che era della loro classe e la cui disgrazia li aveva toccati.
I tre bambini, sentendo che la madre alzava la voce, le corsero
vicino e la circondarono piangendo, senza sapere di che cosa si
trattasse. La vista dei tre poveri piccoli, anch’essi vestiti a
lutto,
rinfrescò nei contadini la simpatia che ispirava la vedova e nello
stesso tempo l’indignazione contro Fleur-de-Marie.
Clara, spaventata da quelle dimostrazioni quasi minacciose, si
rivolse alla gente della fattoria con voce rotta: «Fate uscire
questa donna di qui; vi ripeto che il dolore l’ha accecata. Marie,
Marie, perdono! Dio mio, questa pazza non sa quello che dice...»
La Goualeuse, pallida, con la testa bassa per evitare gli sguardi di
tutti, restava muta, annientata, inerte e non faceva alcun movimento
per liberarsi dalla stretta vigorosa della robusta lattaia.
Clara, attribuendo l’abbattimento dell’amica alla paura che essa
aveva dovuto provare dinanzi a un simile spettacolo, ritornò a dire
ai contadini:
«Avete sentito allora? vi ordino di scacciare questa donna... Dal
momento che continua ancora a insultare, per punirla dell’insolenza,
le toglierò il posto che mia madre le aveva promesso qui; non deve
mai più rimettere piede nella fattoria.»
I contadini rimasero tutti immobili, sordi agli ordini di Clara;
anzi uno di loro osò dire:
«Perbacco... signorina, se è una donna di strada e conosce
l’assassino del marito di questa povera donna... deve andare dal
sindaco per dare spiegazioni...».
«Vi ripeto che non entrerete mai più nella fattoria» disse Clara
alla lattaia, «a meno che non domandiate subito perdono alla
signorina Marie delle vostre villanie.»
«Voi mi cacciate, signorina!... sia» rispose la vedova con amarezza.
«Su, poveri orfanelli» aggiunse abbracciando i bambini, «ricaricate
il carretto, andremo a guadagnarci il pane in qualche altro posto,
il buon Dio avrà pietà di noi; ma almeno, andandocene, condurremo
dal sindaco questa sciagurata che sarà per forza costretta a
denunciare l’assassino del mio povero marito... dato che conosce
tutta la banda... Perché siete ricca signorina» riprese la vedova
guardando insolentemente Clara, «e perché avete delle amiche di quel
genere... non dovete per questo... essere così dura con la povera
gente!»
«È vero» disse un agricoltore, «la lattaia ha ragione...» «Povera
donna!»
«È nel suo diritto...»
«Le hanno ammazzato il marito... non deve forse prendersi
una soddisfazione?»
«Non si può proibirle di cercare a tutti i costi di scoprire i bri-
ganti che hanno commesso il delitto.» «È un’ingiustizia mandarla
via.»
«È colpa sua, se l’amica della signorina Clara è... una donna di
strada?»
«Non si mette alla porta una donna onesta.. una madre di famiglia...
per colpa di una simile sciagurata!»
E i mormorii diventavano minacciosi, quando Clara esclamò: «Dio sia
lodato... ecco mia madre...»
La signora Dubreuil, infatti, uscita dal villino, stava in quel
momento attraversando il cortile.
«Ebbene, Clara! ebbene, Marie!» disse la fittavola prima an-
cora d’essere giunta vicina al gruppo, «venite a mangiare? Su,
ragazze, è già tardi!»
«Mamma» gridò Clara, «difendete mia sorella dagli insulti di quella
donna» e mostrò la vedova; «per favore, mandatela via da qui. Se
aveste sentito tutte le insolenze che ha osato dire a Marie...»
«Come avrebbe osato?»
«Sì, mamma... Guardate, povera sorellina come sta tremando... può
appena reggersi... Ah! che vergogna che una simile scena si svolga
in casa nostra... Marie, perdonaci, te ne supplico!»
«Ma che cosa vuol dire tutto questo?» domandò la signora Dubreuil
guardandosi intorno con inquietudine dopo avere notato
l’abbattimento della Goualeuse.
«La signora sarà giusta, lei... sicuramente...» mormorarono i
contadini.
«Ecco la signora Dubreuil; sarai tu a essere messa alla porta» disse
la vedova a Fleur-de-Marie.
«È vero, allora!» esclamò la signora Dubreuil rivolta alla lattaia,
che teneva sempre Fleur-de-Marie per un braccio, «osate parlare in
questa maniera all’amica di mia figlia! È così che ricambiate la mia
bontà? Volete lasciare in pace questa giovane!»
«Io vi rispetto, signora, e vi sono grata della vostra bontà» disse
la vedova lasciando il braccio di Fleur-de-Marie; «ma prima di
accusarmi e di cacciarmi da casa vostra con i miei bambini,
interrogate questa sciagurata. Forse non avrà la faccia tosta di
negare che la conosco e che anche lei mi conosce.»
«Dio mio, Marie, sentite quello che dice questa donna?» domandò la
signora Dubreuil al colmo dello stupore.
«Ti chiami Goualeuse, sì o no?» disse la lattaia a Marie.
«Sì» rispose l’infelice a voce bassa, con aria costernata e senza
guardare la signora Dubreuil; ! «sì, mi chiamavano così...»
«Ah, vedete!» gridarono i contadini con collera, «confessa!
confessa!...»
«Confessa... ma che cosa? che cosa confessa?» esclamò la signora
Dubreuil, mezzo spaventata dalla confessione di Fleur-deMarie.
«Lasciatela rispondere, signora» replicò la vedova, «vi confesserà
anche di avere abitato in una casa malfamata della rue aux Fèves,
nella Cité, dove le vendevo ogni mattina un soldo di latte; e vi
confesserà anche di avere spesso parlato di me all’assassino del mio
povero marito. Oh, lei lo conosce bene, ne sono sicura... un giovane
pallido che fumava sempre e che portava un berretto, un camiciotto e
capelli lunghi; lei deve sapere come si chiama... non è vero?
rispondi, miserabile!» gridò la lattaia.
«Avrò parlato con l’assassino di vostro marito perché nella Cité,
purtroppo, di assassini ce n’è più d’uno» disse Fleur-de-Marie con
un filo di voce, «ma non so chi vogliate intendere.»
«Come... che cosa dice?» esclamò la signora Dubreuil spaventata. «Ha
parlato con assassini...»
«Donne come lei conoscono solo questo...» rispose la vedova.
Sbalordita da una rivelazione così inaspettata, e resa poi sicura
dalle ultime parole di Fleur-de-Marie, la signora Dubreuil, che
d’improvviso aveva capito tutto, indietreggiò con disgusto e orrore,
attirò a sé violentemente e bruscamente la figlia Clara, che si era
avvicinata alla Goualeuse per sorreggerla, e gridò:
«Ah! che orrore! Clara, fa’ attenzione! Non avvicinarti a quella
sciagurata... Ma come mai la signora Georges ha potuto accoglierla
in casa? Come ha osato presentarmela, e permettere che mia figlia...
Dio mio! Ma è orribile! Quasi, quasi non credo ai miei occhi! Ma no,
no, la signora Georges è incapace di simili bassezze! sarà stata
ingannata come noi. Altrimenti... oh! sarebbe un’infamia da parte
sua!»
Clara, straziata e spaventata dalla scena crudele, credeva di
sognare. Nel suo ignaro candore, non capiva le terribili accuse
rivolte all’amica; il cuore le si spezzò, gli occhi le si riempirono
di lacrime al vedere la Goualeuse sconvolta, muta, accasciata come
una criminale davanti ai giudici.
«Vieni, vieni, figlia mia» disse la signora Dubreuil a Clara; poi
volgendosi a Fleur-de-Marie: «E voi, miserabile creatura, sarete
punita dal buon Dio per la vostra infame ipocrisia. Permettere che
mia figlia., un angelo di virtù, vi chiami amica, sorella...
amica!... sorella!... voi, rifiuto di ciò che vi è di più vile al
mondo! che sfrontatezza! Osare di venire tra la gente onesta, quando
meritate senz’altro di andare a raggiungere le vostre simili in
prigione!»
«Sì, sì» gridarono i contadini; «deve andare in prigione; conosce
l’assassino.»
«Forse è anche la sua complice!»
«Vedi che c’è una giustizia divina!» disse la vedova mostrando i
pugni a Fleur-de-Marie.
«In quanto a voi, brava donna» disse la signora Dubreuil alla
lattaia, «avrete il vostro posto e sarete in più ripagata del
servizio che mi avete reso smascherando questa sciagurata.»
«Meno male! la nostra padrona è giusta, lei...» mormorarono i
contadini.
«Vieni, Clara» riprese la fittavola, «la signora Georges ci darà una
spiegazione del suo comportamento, altrimenti non vorrò più
rivederla in vita mia; perché si è comportata con noi in maniera
indegna, a meno che non sia stata ingannata anche lei.»
«Ma, madre mia, guardate la povera Marie...»
«Che sprofondi pure dalla vergogna, se vuole, meglio così! È degna
di disprezzo... Non voglio che tu resti nemmeno un momento vicino a
lei. È una di quelle donne con cui una fanciulla come te si disonora
anche solo se le rivolge la parola.»
«Dio mio! Dio mio! mamma» disse Clara resistendo alla madre che
voleva trascinarla via, «non so cosa ci sia sotto... Marie, forse,
può essere colpevole, dal momento che lo dite voi; ma, guardate, si
sente mancare; abbiate pietà di lei almeno.»
«Oh, voi, signorina Clara, siete buona, voi mi perdonate. Mio
malgrado, credetemi, vi ho ingannato. Me lo sono rimproverato
spesso» disse Fleur-de-Marie gettando sulla sua protettrice uno
sguardo di infinita riconoscenza.
«Ma, madre mia, siete proprio senza pietà?» gridò Clara con voce
straziante.
«Pietà per lei? Via! Se non fosse per la signora Georges che ce ne
libererà, caccerei dalla fattoria questa miserabile, come se fosse
un’appestata» rispose duramente la signora Dubreuil. E trascinò via
la figlia che, volgendosi un’ultima volta verso la Goualeuse, gridò:
«Marie, sorella mia! non so di che cosa ti accusano, ma sono sicura
che non sei colpevole, e ti voglio sempre bene».
«Sta’ zitta, sta’ zitta!» disse la signora Dubreuil alla figlia
mettendole una mano sulla bocca, «sta’ zitta; meno male che tutti
hanno visto che tu, dopo l’infame rivelazione, non sei rimasta un
solo momento accanto a questa donna perduta, non è vero, amici?»
«Sì, sì, signora» disse un contadino, «abbiamo visto che la
signorina Clara non è rimasta nemmeno un momento con quella
donna, che sicuramente è una ladra, dato che ha amici tra gli
assassini.»
La signora Dubreuil trascinò via Clara.
La Goualeuse restò sola in mezzo al gruppo minaccioso da cui era
circondata.
Nonostante i rimproveri ricevuti, Fleur-de-Marie aveva visto nella
presenza della signora Dubreuil e in quella di Clara una garanzia
contro le conseguenze che potevano derivare da questa scena; ma dopo
la partenza delle due donne, vistasi alla mercé dei contadini, si
sentì mancare; dovette appoggiarsi al parapetto del grande
abbeveratoio dei cavalli della fattoria.
Atteggiamento di doloroso abbandono, quello dell’infelice ragazza.
Parole e attitudini più che mai minacciose, quelle dei contadini che
la circondavano.
Piegata sulla vera di pietra, con la testa bassa, nascosta fra le
mani, il collo e il seno nascosti dalle due cocche del fazzoletto di
tela rossa che le ricopriva il berrettino rotondo, la Goualeuse,
immobile, era l’immagine vivente del dolore e della rassegnazione.
A qualche passo da lei, la vedova dell’assassinato, trionfante e
ancora più inasprita contro Fleur-de-Marie dalle imprecazioni della
signora Dubreuil, mostrava la ragazza ai figli e ai contadini con
gesti carichi di odio e di disprezzo.
La gente della fattoria, riunita in cerchio, non nascondeva i
sentimenti ostili da cui era animata; le loro facce forti e comuni
esprimevano insieme l’indignazione, l’ira e una specie di brutale e
insultante ironia; le più furiose, le più accanite, erano le donne.
La fine bellezza di Fleur-de-Marie era la causa principale del loro
accanimento.
Uomini e donne non potevano perdonare a Fleur-de-Marie di avere fino
ad allora trattato con i loro padroni da pari a pari.
Inoltre, c’erano alcuni contadini d’Arnouville che, non avendo
potuto ottenere alla fattoria di Bouqueval uno di quei posti tanto
ambiti nel paese per via del fatto che non avevano presentato ottime
referenze, nutrivano contro la signora Georges un sordo
risentimento, risentimento che doveva ripercuotersi su
Fleur-deMarie.
Le immediate reazioni della gente semplice sono sempre estreme...
Eccellenti o detestabili.
Ma diventano pericolosissime quando un gruppo crede che le sue
brutalità siano giustificate dai torti reali o apparenti da
parte di coloro che sono oggetto del suo odio o della sua
indignazione.
Sembrava che Goualeuse contagiasse con la sua sola presenza i
contadini di quella fattoria, perché, in fondo, nessuno di loro
forse aveva un qualche motivo plausibile per ostentare una feroce
avversione nei riguardi della ragazza; il loro pudore si rivoltava,
se pensavano a che classe aveva appartenuto quella sciagurata che,
oltre tutto, confessava di avere spesso parlato con assassini. Che
cosa occorreva di più per esaltare la collera dei contadini, che
l’esempio della signora Dubreuil aveva rinfocolato ancora di più?
«Bisogna portarla dal sindaco» gridò uno.
«Sì, sì; e se non vorrà camminare, la spingeremo.»
«E ha il coraggio di vestirsi come noi, oneste ragazze di campa-
gna, quella lì» aggiunse una delle più brutte sudicione della
fattoria. «Con la sua aria da santerellina» replicò un’altra, «si
rischie-
rebbe di darle la comunione senza confessarla.»
«E non aveva forse la faccia tosta di andare a messa?»
«Che svergognata!... perché non fare la comunione subito?» «E per di
più doveva frequentare i padroni!»
«Come se noi fossimo troppo poco per lei!»
«Per fortuna che tutti i nodi vengono al pettine.»
«Oh, dovrai pur parlare e denunciare l’assassino!» disse la ve-
dova. «Siete tutti della stessa banda... Non sono nemmeno tanto
sicura di non averti visto con loro quel giorno. Via, via, è inutile
piagnucolare adesso che ti abbiamo scoperto. Mostraci la tua bella
faccia!»
E la vedova, afferrate con gesto brutale le mani della giovane,
gliele strappò via dal viso bagnato di lacrime.
Dapprima la Goualeuse si sentì sprofondare dalla vergogna, poi,
invece, prese a tremare di paura al trovarsi sola e alla mercé di
quei forsennati; infine, congiunte le mani e girati verso la lattaia
due occhi supplichevoli e timorosi, le disse con voce dolce:
«Dio mio, signora, son due mesi che vivo alla fattoria di
Bouqueval... non posso, dunque, essere stata presente alla disgrazia
di cui parlate, e...».
La timida voce di Fleur-de-Marie fu coperta da grida furiose:
«Portiamola dal sindaco... lì darà spiegazioni.»
«Su in marcia, bellezza!»
E siccome il gruppo, avvicinandosi, la minacciava sempre
più da vicino, la Goualeuse aveva incrociato automaticamente le mani
e, spaventata, si era messa a guardare a destra e a sinistra come
per implorare aiuto.
«Oh» riprese la lattaia, «guardati pure intorno, la signorina Clara
non è più qui a difenderti; non potrai sfuggirci.»
«Ahimè, signora» disse la fanciulla tutta tremante, «non voglio
sfuggirvi; non chiedo di meglio che rispondere a ciò che mi si
chiederà... se questo vi sarà utile... Ma che male ho fatto a tutta
questa gente che mi circonda e mi minaccia?...»
«Ci hai fatto che hai avuto la sfrontatezza di andare con i nostri
padroni, quando noi, che valiamo cento volte più di te, non ci
andiamo... Ecco quello che ci hai fatto.»
«E poi, perché hai permesso che questa povera vedova venisse
cacciata da qui con i suoi figli?» disse un altro.
«Non sono stata io, è stata la signorina Clara a volere...»
«Non seccarci» riprese il contadino interrompendola «non solo non
hai chiesto grazia per lei, ma eri contenta che venisse privata del
suo pane!»
«No, no, non ha chiesto grazia!»
«Com’è cattiva d’animo!»
«Una povera vedova... madre di tre figli!»
«Non ho chiesto grazia» disse Fleur-de-Marie, «perché non
avevo neppure la forza di dire una parola...»
«Ma per parlare con gli assassini, ce l’avevi la forza!»
Come generalmente succede nei tumulti di massa, quei conta-
dini, più stupidi che cattivi, si irritavano, si eccitavano, si
esaltavano al suono delle loro stesse parole, e si animavano in
ragione delle ingiurie e delle minacce che riversavano sulla loro
vittima.
Così le masse, quasi senza accorgersene, giungono a volte, dopo un
graduale processo di esaltazione, a compiere gli atti più ingiusti e
feroci.
Il cerchio dei contadini si stringeva sempre più minaccioso attorno
a Fleur-de-Marie; tutti parlavano e gesticolavano; la vedova del
fabbro era fuori di sé.
Poiché a separarla dal profondo abbeveratoio c’era solo il parapetto
su cui s’era appoggiata, la Goualeuse pensò con paura che volessero
gettarla in acqua; per questo stese verso di loro le mani in atto
supplichevole e si mise a gridare:
«Ma, Dio mio, che volete da me? Per carità, non fatemi del
male!...».
E siccome la lattaia, sempre gesticolando, le si era avvicinata
tanto da puntarle quasi i suoi due pugni sul viso, Fleur-de-Marie
era indietreggiata tutta spaurita e aveva esclamato:
«Vi prego, signora, non avvicinatevi così; mi farete cadere in
acqua».
Le parole di Fleur-de-Marie suggerirono a quei bifolchi un’idea
crudele. Con lo scopo di fare solo uno di quegli scherzi da
contadini per cui spesso restate sul posto mezzo morto, uno dei più
arrabbiati gridò:
«Un tuffo!... facciamole fare un tuffo!»
«Sì... sì... In acqua! in acqua!»
Si udirono scoppi di risa e frenetici battimani.
«Ma sì un bel tuffo!... Non morirà mica.»
«Così imparerà a mescolarsi con la gente onesta!»
«Sì... sì... in acqua!»
«Proprio questa mattina è stato rotto il ghiaccio.»
«La ragazza di strada si ricorderà della brava gente della fatto-
ria di Arnouville!»
Sentendo grida così disumane e scherni così atroci e conside-
rando l’esasperazione e la stupida collera di tutte quelle persone
che venivano avanti per sollevarla, Fleur-de-Marie si vide morta.
Alle prime paure era presto seguita una specie di amara sod-
disfazione: l’avvenire intravisto era a tinte così fosche che
mentalmente ringraziò il cielo di mettere fine alle sue sofferenze;
non si lamentò più, si lasciò scivolare in ginocchio, incrociò
religiosamente le mani sul petto, chiuse gli occhi e attese in
preghiera.
Sorpresi dall’atteggiamento e dalla muta rassegnazione della
Goualeuse, i contadini esitarono un momento a compiere il loro
feroce progetto; ma, rimproverati per la loro debolezza dalle donne
del gruppo, ricominciarono a vociferare per incitarsi a mandare a
effetto il loro triste disegno.
Due dei più furiosi stavano per afferrare Fleur-de-Marie, quando una
voce rotta, vibrante, gridò loro:
«Fermatevi!».
In quel momento la signora Georges, che si era fatta largo in mezzo
alla folla, arrivava vicino alla Goualeuse, ancora in ginocchio, e
le diceva, nell’atto di prenderla fra le braccia e rialzarla da
terra:
«Alzati, figliola!... alzati, figlia diletta! ci si inginocchia solo
davanti a Dio».
L’espressione e l’atteggiamento della signora Georges furono così
fermamente risoluti, che la folla indietreggiò ammutolita.
Per l’indignazione, il volto solitamente pallido della signora
Georges s’era vivamente acceso. Gettò sugli agricoltori uno sguardo
fermo e disse loro con voce alta e minacciosa:
«Disgraziati!... non vi vergognate di lasciarvi andare a simili
violenze contro una povera fanciulla!...».
«È una...»
«È mia figlia!» gridò la signora Georges interrompendo un contadino.
«Il parroco Laporte, che tutti benedicono e venerano, le vuol bene e
la protegge, e coloro che egli stima devono essere rispettati da
tutti.»
Quelle semplici parole suscitarono rispetto nei contadini.
Il parroco di Bouqueval era considerato dal paese un santo; parecchi
contadini non ignoravano l’interesse che egli aveva per la
Goualeuse. Tuttavia si sentì correre ancora qualche sordo brusio; la
signora Georges, afferratone il senso, gridò:
«Anche se questa povera ragazza fosse l’ultima delle creature, fosse
abbandonata da tutti, voi non vi siete resi per questo meno odiosi
con la vostra condotta nei suoi riguardi. Di che cosa volete
punirla? E d’altra parte, con che diritto? Che cosa vi autorizza a
questo? La forza? Come sono vili e meschini quegli uomini che
infieriscono contro una fanciulla indifesa! Vieni, Marie, vieni,
figliola diletta, ritorniamo a casa; là, almeno, tutti ti conoscono
e ti vogliono bene...»
La signora Georges prese il braccio di Fleur-de-Marie: i contadini,
sconcertati dalla palese ferocità della loro condotta, si scostarono
rispettosamente.
Soltanto la vedova si fece avanti per dire risolutamente alla
signora Georges:
«La ragazza non uscirà di qui, se prima non verrà dal sindaco a fare
la sua deposizione sull’assassinio del mio povero marito».
«Buona donna» disse la signora Georges facendosi forza «mia figlia
non ha nessuna deposizione da fare qui; in seguito, se la giustizia
crederà opportuno invocare la sua testimonianza, la faranno
chiamare, e io l’accompagnerò... Prima di allora nessuno ha il
diritto di interrogarla.»
«Ma, signora... vi dico...»
La signora Georges interruppe la lattaia rispondendole severamente:
«Solo la disgrazia di cui siete stata vittima può giustificare
quanto avete fatto; un giorno vi pentirete delle violenze che avete
così imprudentemente suscitato. La signorina Marie abita con me,
alla fattoria di Bouqueval, informatene il giudice che ha accolto la
vostra prima dichiarazione, noi rimarremo in attesa di suoi ordini».
La vedova non seppe rispondere nulla a quelle sagge parole; si
sedette sul parapetto dell’abbeveratoio e si mise ad abbracciare i
figli piangendo amaramente.
Alcuni minuti dopo quella scena, Pierre portò il calessino; la
signora Georges e Fleur-de-Marie vi salirono per ritornare a
Bouqueval.
Passando davanti alla casa della fittavola di Arnouville, la
Goualeuse scorse Clara: da una persiana socchiusa dietro alla quale,
seminascosta, stava piangendo, fece a Fleur-de-Marie un segno
d’addio col fazzoletto.
XII CONSOLAZIONI
«Ah, signora! che vergogna per me! che dolore per voi!» disse
Fleur-de-Marie alla madre adottiva, quando si trovò sola con lei nel
salottino della fattoria di Bouqueval. «Voi vi siete certo
arrabbiata per sempre con la signora Dubreuil, e tutto per colpa
mia. Oh, i miei presentimenti!... Dio mi ha così punito di avere
ingannato quella signora e sua figlia... sono stata motivo di
discordia tra voi e la vostra amica...»
«La mia amica... è un’ottima donna, figliola cara, ma è una
debole... Del resto, siccome è di cuore buonissimo, sono sicura che
domani le dispiacerà di essersi oggi stoltamente arrabbiata...»
«Ahimè, signora, non crediate che voglia accusare voi per
giustificare lei, Dio mio!... Ma la vostra bontà per me non vi fa
forse vedere bene le cose... Mettetevi al posto della signora
Dubreuil... Venire a sapere che l’amica della sua amata figlia...
era... ciò che io ero... dite, si può biasimare la sua indignazione
di madre?»
Purtroppo la signora Georges non seppe rispondere nulla alla domanda
di Fleur-de-Marie, la quale continuò, esaltandosi:
«Domani tutto il paese saprà la scena umiliante che ho subìto
davanti agli occhi di tutti. Non è per me che ho paura; ma chissà se
adesso la reputazione di Clara... non sarà per sempre macchiata...
avermi chiamata amica, sorella! Avrei dovuto seguire il mio primo
impulso... resistere all’inclinazione che mi attirava verso la
signorina Dubreuil... e col rischio anche di diventarle antipatica,
sottrarmi all’amicizia che mi offriva... Ma ho dimenticato la
distanza che mi separava da lei... Così, vedete, ne sono stata
punita, oh, crudelmente punita... perché forse ho arrecato un danno
irreparabile a una giovanetta tanto virtuosa e buona...»
«Figliola» disse la signora Georges dopo avere riflettuto un
momento, «avete torto a farvi dei rimproveri così dolorosi: il
vostro passato è pieno di colpe... sì, pienissimo di colpe... Ma vi
sem-
bra niente l’aver meritato col vostro pentimento la protezione del
nostro venerabile parroco? Non è stato forse sotto i suoi e i miei
auspici che siete stata presentata alla signora Dubreuil? non sono
bastate forse le vostre sole qualità a ispirarle l’affetto che vi
aveva spontaneamente offerto?... Non è stata lei a chiedervi di
chiamare Clara vostra sorella? E poi, in fondo come le ho detto poco
fa, dato che non volevo e non dovevo nasconderle nulla, potevo io,
certa com’ero del vostro pentimento, divulgare il vostro passato,
rendendo così più difficile la vostra riabilitazione... impossibile?
forse, spingendovi alla disperazione ed esponendovi al disprezzo di
persone, che, disgraziate e in balìa di se stesse quanto lo siete
stata voi, non avrebbero forse conservato, come voi, un fondo di
onore e di virtù? La rivelazione di quella donna è stata incresciosa
e funesta; ma dovevo io, informandola, sacrificare la vostra
tranquillità futura a una eventualità quasi improbabile?»
«Ah, signora, la prova della falsità della mia ignobile situazione
sta proprio nel fatto che voi per affetto verso di me avete avuto
ragione a nasconderle il mio passato, mentre la madre di Clara ha
ragione, da parte sua, a disprezzarmi in nome di quel passato; a
disprezzarmi... come tutti ormai mi disprezzeranno, perché la scena
della fattoria di Arnouville sarà divulgata e si saprà tutto... Oh,
morirò di vergogna... non potrò più sopportare gli sguardi di
nessuno!»
«Nemmeno i miei? Povera figliola!» disse la signora Georges in un
pianto dirotto, stringendosi al petto Fleur-de-Marie «in me
tuttavia, troverete sempre l’affetto e l’abnegazione di una madre...
Su, coraggio, Marie! rendetevi conto del vostro pentimento. Qui
siete circondata da amici; ebbene, questa casa sarà il vostro
mondo... Noi preverremo la rivelazione che vi fa tanta paura: il
nostro buon parroco riunirà la gente della fattoria, che già vi è
tanto affezionata; dirà loro la verità sul vostro passato... E
credetemi, figliola, la sua parola ha una tale autorità, che la
rivelazione vi renderà ancora più degna della carità altrui.»
«Vi credo, signora, e io mi rassegnerò; nel colloquio di ieri, il
signor parroco mi aveva annunciato dolorose espiazioni: esse stanno
cominciando e non devo stupirmene. Mi ha detto inoltre che si
sarebbe tenuto conto delle mie sofferenze... Lo spero... Ma poiché
in queste prove sarò sorretta da voi e da lui, non dovrò più
lamentarmi.»
«Del resto lo vedrete fra poco, mai come adesso i suoi consigli vi
sarebbero stati d’aiuto... Sono già le quattro e mezzo; preparatevi
ad andare alla canonica, figliola cara... io scriverò al si-
gnor Rodolphe per fargli sapere ciò che è successo alla fattoria di
Arnouville... un corriere andrà a portargli la lettera... poi verrò
a raggiungervi dal nostro buon parroco... è necessario che parliamo
tutti e tre insieme.»
Poco dopo, la Goualeuse usciva dalla fattoria; ma per recarsi alla
canonica doveva seguire quella strada incassata in cui il giorno
prima la vecchia, il Maître d’école e Tortillard avevano deciso di
trovarsi.
XIII RIFLESSIONE
Come si è potuto vedere dai suoi colloqui con la signora Georges e
col parroco di Bouqueval, Fleur-de-Marie aveva così nobilmente
tratto profitto dei consigli dei suoi benefattori, aveva talmente
assimilato i loro princìpi, che l’idea del suo abietto passato
l’abbatteva ogni giorno di più. Purtroppo anche il suo spirito si
era sviluppato via via che le sue ottime qualità naturali venivano
fecondate da quella sana atmosfera morale in cui viveva.
Se avesse avuto un’intelligenza meno acuta, una sensibilità meno
squisita, un’immaginazione meno vivace, Fleur-de-Marie si sarebbe
facilmente consolata.
Ella si era pentita, un santo prete l’aveva perdonata; in mezzo alle
dolcezze della vita rustica che divideva con la signora Georges,
avrebbe potuto dimenticare gli orrori della Cité; e per finire si
sarebbe affidata senza timori all’amicizia di cui le dava prova la
signorina Dubreuil, e non perché avesse dimenticato le colpe
commesse, ma perché aveva cieca fiducia nella parola di coloro che
stimava moltissimo.
Essi le dicevano: «Adesso la vostra buona condotta vi ha reso uguale
alla gente onesta»; e lei non avrebbe più visto alcuna differenza
fra sé e la gente onesta.
La scena dolorosa della fattoria d’Arnouville l’avrebbe
profondamente rattristata, ma ella non avrebbe, per così dire,
previsto, anticipato quella scena, versando lacrime amare, provando
vaghi rimorsi alla vista di Clara che dormiva, innocente e pura,
nella stessa camera di lei, ex pensionante dell’ostessa.
Povera ragazza!... ella stessa si era molte volte fatta segno, nel
silenzio delle sue lunghe insonnie, di recriminazioni molto più
amare di quelle di cui era stata fatta oggetto da parte della gente
della fattoria!
Ciò che uccideva lentamente Fleur-de-Marie era l’analisi, era la
continua disamina di ciò che si rimproverava; era soprattutto il
costante rapporto esistente fra l’avvenire impostole da un passato
incancellabile e l’avvenire che essa avrebbe potuto sognare senza
quel passato.
Lo spirito di analisi, di disamina e di comparazione è quasi sempre
una qualità inerente a un’intelligenza superiore. Nelle anime altere
e orgogliose, questo spirito conduce al dubbio e alla rivolta contro
gli altri.
Nelle anime timide e delicate, invece, questo spirito conduce al
dubbio e alla rivolta contro se stessi.
I primi vengono condannati, ma essi si assolvono.
I secondi vengono assolti, ma essi si condannano.
Il parroco di Bouqueval, nonostante la sua santità, e la signo-
ra Georges, nonostante le sue virtù, o meglio tutti e due a causa
delle loro virtù e della loro santità, non potevano immaginarsi
quanto soffrisse la Goualeuse, da quando la sua anima, liberata dai
peccati, poté contemplare in tutta la sua profondità l’abisso in cui
era precipitata.
Essi non sapevano che gli atroci ricordi della Goualeuse avevano
quasi la stessa forza e la stessa potenza della realtà; non sapevano
che la giovane aveva una sensibilità eccezionale, un’immaginazione
sognante e poetica e una grande e dolorosa impressionabilità; non
sapevano che non passava giorno in cui la giovane non ricordasse e
non provasse, con sofferenza mista a disgusto e spavento, le
ignobili colpe della sua esistenza passata.
Si pensi a una ragazza di sedici anni, candida e pura, che è
consapevole del suo candore e della sua purezza, spinta da una forza
diabolica nell’infame taverna dell’ostessa e completamente in balìa
di quella megera!... Tale era in Fleur-de-Marie l’effetto che
produceva il passato sul presente.
Riusciremo noi a capire, così, il risentimento retrospettivo, o
piuttosto il contraccolpo morale di cui la Goualeuse soffriva tanto
crudelmente da rimpiangere, più spesso di quanto non avesse osato
confessare al parroco, di non essere morta soffocata nel fango.
Se si riflette un poco e se si ha un po’ d’esperienza della vita,
non si considererà un paradosso ciò che diremo fra poco:
Fleur-de-Marie era degna di essere aiutata e compatita, non solo
perché non aveva mai amato, ma anche perché i suoi sensi erano
restati addormentati e freddi. Se è vero che molto spes-
so, in donne dotate forse di minor delicatezza di Fleur-de-Marie, si
manifestano, dopo il matrimonio, certe repulsioni di fronte
all’amore che durano a lungo, perché stupirsi se questa disgraziata,
ubriacata dall’ostessa e gettata a sedici anni in mezzo al branco di
belve che infestavano la Cité, ha provato solo orrore e spavento ed
è uscita moralmente pura da quella cloaca?...
Le sincere confidenze fatte da Clara Dubreuil sul puro amore che
aveva per il giovane fattore che doveva sposare avevano rattristato
Fleur-de-Marie; anche lei sentiva che avrebbe potuto amare
profondamente, che avrebbe potuto provare tutto ciò che nell’amore è
devoto, nobile, puro e grande; eppure non le era più permesso di
ispirare o di provare un tale sentimento; perché se avesse amato,
avrebbe scelto in ragione dell’elevatezza della sua anima, e più la
scelta sarebbe stata degna di lei, più lei si sarebbe creduta
indegna.
XIV
LA STRADA INCASSATA
Il sole stava calando dietro all’orizzonte; la pianura era deserta e
silenziosa.
Fleur-de-Marie si stava dirigendo verso l’imbocco della strada
incassata che doveva prendere per andare alla canonica, quando vide
uscire dal burrone un ragazzetto zoppo, con un camiciotto grigio e
un berretto azzurro; sembrava in lacrime, comunque non appena scorse
la Goualeuse, le corse incontro.
«Oh, buona signora, abbiate pietà di me, vi prego!» gridò,
congiungendo le mani con aria supplichevole.
«Che cosa vuoi? Che hai, ragazzo?» domandò la Goualeuse interessata.
«Ahimè, buona signora, la mia povera nonna, che è molto vecchia,
molto vecchia, è caduta laggiù, mentre stava scendendo il fosso; si
è fatta molto male... ho paura che si sia rotta una gamba... E io
sono troppo debole per aiutarla ad alzarsi... Dio mio, aiutatemi,
altrimenti non so come farò! Povera nonna! forse sta per morire!»
La Goualeuse, toccata dal dolore dello zoppetto, esclamò:
«Nemmeno io sono molto forte, ragazzo, ma forse potrò aiutarti a
soccorrere tua nonna... Su, presto, andiamo da lei... io vivo in
quella fattoria laggiù... se non riusciremo a trasportare la povera
vecchia fin laggiù, la manderò a prendere».
«Oh, buona signora, che Dio vi benedica... Di qui... a due passi,
nella strada incassata, come vi ho detto; è caduta scendendo la
scarpata.»
«Voi non siete di qui, allora?» domandò la Goualeuse seguendo
Tortillard, che il lettore avrà senz’altro già riconosciuto.
«No, buona signora, veniamo da Ecouen.»
«E dove stavate andando?»
«Da un buon parroco che sta sulla collina lassù...» disse il fi-
glio di Bras-Rouge, per non destare ombra di sospetto in
Fleurde-Marie.
«Forse dal parroco Laporte?»
«Sì, buona signora, dal parroco Laporte; la mia povera nonna lo
conosce molto bene, molto bene...»
«Stavo andando proprio da lui; che combinazione!» disse
Fleur-de-Marie, inoltrandosi sempre più nella strada incassata.
«Nonnina! eccomi, eccomi!... Abbi pazienza, ti porto aiuto!» gridò
Tortillard per avvertire il Maître d’école e la Chouette di tenersi
pronti a balzare sulla vittima.
«Tua nonna è caduta lontano da qui?» domandò la Goualeuse.
«No, buona signora, è caduta dietro quel grande albero laggiù, dove
la strada fa una svolta, a venti passi da qui.»
Improvvisamente Tortillard si fermò.
Il galoppo di un cavallo risuonò nel silenzio della prateria.
“Ancora tutto a monte” pensò Tortillard.
A qualche tesa dal luogo in cui si trovavano il figlio di Bras-
Rouge e la Goualeuse, la strada faceva una curva a gomito.
Sulla curva apparve un cavaliere che, quando fu vicino alla ra-
gazza, si fermò.
Si sentì allora il trotto di un altro cavallo, e di lì a poco,
arrivò
un domestico con prefettizia scura e bottoni d’argento, calzoni di
pelle bianca e stivali a tromba. Dietro la schiena aveva il bagaglio
del padrone, legato stretto da una cintura di cuoio rosso.
Il padrone, che aveva solo una pesante prefettizia color bronzo e un
paio di pantaloni grigio chiaro, montava con grazia perfetta un
cavallo baio, purosangue, di singolare bellezza; nonostante la lunga
corsa appena fatta, non c’era traccia di sudore sulla splendida
lucentezza del suo mantello dai riflessi d’oro.
Il cavallo dello stalliere, che si fermò a qualche passo dal
padrone, era anch’esso molto bello e di razza.
In quel cavaliere, dal volto bruno e affascinante, Tortillard
riconobbe il visconte di Saint-Remy, che si supponeva fosse l’amante
della duchessa di Lucenay.
«Bella fanciulla» disse il visconte alla Goualeuse, dalla cui
bellezza era stato colpito, «sareste tanto cortese da indicarmi la
strada per Arnouville?»
Marie, abbassati gli occhi davanti allo sguardo spavaldo e
penetrante del giovane, rispose:
«Il primo sentiero a destra, signore, dopo la strada incassata: il
sentiero immette in un viale di ciliegi che porta direttamente ad
Arnouville.»
«Mille grazie, bella fanciulla... Mi avete informato meglio della
vecchia che ho trovato a pochi passi da qui, stesa ai piedi di un
albero; dalla sua bocca non ho potuto cavare che gemiti.»
«La mia povera nonna!...» mormorò Tortillard con voce addolorata.
«Ancora una cosa» riprese il signor di Saint-Remy rivolgendosi alla
Goualeuse, «potreste dirmi se è difficile trovare, ad Arnouville, la
fattoria del signor Dubreuil?»
La Goualeuse non poté fare a meno di trasalire a quelle parole che
le ricordavano la penosa scenata della mattina; ella rispose:
«Il viale che dovrete prendere per arrivare ad Arnouville è
fiancheggiato dai fabbricati della fattoria, signore.»
«Ancora grazie, bella fanciulla!» disse il signore di SaintRemy. E
partì al galoppo, seguito dal domestico.
Parlando con Fleur-de-Marie il visconte si era un po’ rasserenato in
volto; appena fu solo, però, ripiombò nella sua profonda
inquietudine e s’incupì.
Fleur-de-Marie, ricordandosi della persona sconosciuta per la quale,
su ordine della signora di Lucenay, era stato preparato in fretta e
furia il villino della fattoria d’Arnouville, non poté dubitare che
non si trattasse di quel giovane e bel cavaliere.
Il galoppo dei cavalli scosse per qualche tempo ancora la terra
indurita dal gelo; poi s’allontanò, cessò...
Tutto ridivenne silenzioso.
Tortillard trasse un respiro di sollievo.
Per tranquillizzare e avvertire i complici, uno dei quali, il
Maître d’école, s’era sottratto alla vista dei due cavalieri, il
figlio di Bras-Rouge si mise a gridare:
«Nonna!... sono da te... con una buona signora che viene in tuo
aiuto!...».
«Presto, presto, ragazzo! quel signore a cavallo ci ha fatto perdere
tempo» disse la Goualeuse affrettando il passo e dirigendosi verso
la curva della strada incassata.
Ma appena vi arrivò, la Chouette, che stava nascosta, disse
sottovoce:
«Forza, furfante!»
E balzata sulla Goualeuse, con una mano l’afferrò per il collo
mentre con l’altra le tappò la bocca; Tortillard intanto s’era
gettato sulle gambe della ragazza e vi si era attaccato per
impedirle di muovere i piedi.
La scena si era svolta con tanta rapidità, che la Chouette non aveva
avuto neppure il tempo di esaminare la Goualeuse in volto; ma per
riconoscere la sua antica vittima, alla vecchia bastarono i pochi
istanti che impiego il Maître d’école a uscire dal buco in cui si
era rannicchiato e a portarsi sul posto, brancicando col mantello in
mano.
«La Pégriotte!...» esclamò stupefatta; poi aggiunse con gioia
feroce: «Ancora tu!... Ah, è il diavolo che ti manda... È tuo
destino di ricadermi sempre tra le grinfie!... Ho il mio vetriolo
nella carrozza... questa volta ci farò passare sopra il tuo bel
musetto... perché mi dà i nervi quella tua faccia da verginella... A
te, vecchio mio!... bada che non ti morda, e tienila ben salda
mentre noi l’impacchettiamo...»
Il Maître d’école afferrò la Goualeuse con le sue mani potenti; e
prima che avesse potuto gettare un grido, la Chouette le buttò il
mantello sulla testa e l’avvolse strettamente.
In un attimo, Fleur-de-Marie, fu legata, imbavagliata e messa
nell’impossibilità di fare movimenti o di chiamare aiuto.
«E ora, furfante, a te il pacco...» disse la Chouette. «Eh, eh,
eh... solo che non è pesante come il pacco della donna annegata nel
canale Saint-Martin... vero, vecchio mio?» E poiché il brigante
aveva avuto un sussulto a quelle parole che gli ricordavano lo
spaventoso sogno della notte, la guercia continuò: «Oh bella! che
hai, furfante?... Si direbbe che tremi... È da stamattina che ogni
tanto ti metti a battere i denti come se avessi la febbre, e allora
guardi per aria come se cercassi qualcosa.»
«Bel fannullone!... sta a guardare le mosche che volano» disse
Tortillard.
«Via, presto, filiamo, vecchio mio! imballa la Pégriotte...
finalmente!» aggiunse la Chouette al vedere il brigante che prendeva
Fleur-de-Marie in braccio come si prende un bimbo addormentato.
«Presto alla carrozza, presto!»
«E me, chi mi accompagna...?» chiese il Maître d’école con voce
sorda, stringendo il morbido e lieve fardello fra le braccia
erculee.
«Che vecchio tutta testa! non gli sfugge niente» disse la Chouette
la quale, aperto lo scialle, si tolse da attorno all’ossuto collo un
fazzoletto rosso che attorcigliò tutto per bene e disse al Maître
d’école:
«Apri il gargarozzo, prendi tra i dentini il capo del fazzoletto e
stringi bene... Tortillard terrà in mano l’altro capo, non dovrai
far altro che seguirlo... A buon cieco buon cane. Qua, marmocchio!».
Lo zoppetto fece un salto, emise sottovoce un suono vago che voleva
essere una specie di grottesco latrato, prese in mano un capo del
fazzoletto e così si pose a guida del Maître d’école, mentre la
Chouette affrettava il passo per andare ad avvertire il Barbillon.
Non stiamo a descrivere il terrore di Fleur-de-Marie quando si vide
in potere della Chouette e del Maître d’école. La ragazza non poté
opporre la minima resistenza perché si sentì subito mancare.
Alcuni minuti dopo, la Goualeuse era già bell’e messa nella carrozza
condotta da Barbillon; sebbene fosse buio, le tendine della vettura
erano state accuratamente abbassate, e i tre complici si diressero,
con la loro vittima quasi in agonia, verso la spianata di
Saint-Denis, dove Tom li attendeva.
XV CLÉMENCE D’HARVILLE
Il lettore ci scuserà se abbiamo lasciato una nostra eroina in una
situazione così critica, situazione di cui diremo più avanti lo
scioglimento.
Le molteplici vicende di questa storia, ahimè troppo composita nella
sua unità, ci costringono a passare incessantemente da un
personaggio all’altro, per fare, per quanto ci è possibile, avanzare
e progredire la trama generale dell’opera (ammesso che ci sia una
trama in quest’opera, difficile quanto coscienziosa e imparziale).
Prima, dunque, seguiremo alcuni dei protagonisti di questa storia in
quelle soffitte dove trema di freddo e di fame la povera gente
timida, rassegnata, proba e laboriosa;
In quelle prigioni di uomini e donne, prigioni a volte civettuole e
fiorite, a volte nere e funeree, ma sempre grandi scuole di
perdizione, atmosfera nauseabonda e viziata, dove l’innocente
intristisce e avvizzisce... cupi covi del peccato, dove chi en-
tra puro, quasi sempre esce corrotto, nonostante tutte le
avvertenze;...
In quegli ospedali dove il povero, trattato a volte con commovente
umanità, rimpiange di tanto in tanto il solitario giaciglio che
inzuppava del gelido sudore di febbre;...
In quegli asili misteriosi dove la ragazza sedotta e abbandonata dà
alla luce, inondandolo di lacrime amare, il figlio che non rivedrà
più;...
In quei luoghi terribili dove la follia, commovente, grottesca,
stupida, orribile o feroce, prende solo aspetti paurosi...
dall’idiota tranquillo che ride del triste riso che fa piangere...
fino all’ossesso che ruggisce come una belva e si arrampica su per
le inferriate della cella.
Dobbiamo infine esplorare...
Ma a cosa serve questa lunghissima enumerazione? Non stiamo correndo
il rischio di spaventare il lettore? ci ha già concesso la grazia di
seguirci in luoghi molto strani; adesso però esiterà, prima di
accompagnarci in nuove peregrinazioni.
Detto ciò, proseguiamo.
Il lettore ricorderà che, il giorno precedente a quello in cui sono
accaduti i fatti che abbiamo raccontato (il rapimento della
Goualeuse, per opera della Chouette), Rodolphe aveva salvato la
signora d’Harville da un pericolo imminente, pericolo da attribuirsi
alla gelosia di Sarah, la quale aveva avvertito il signor d’Harville
dell’appuntamento così imprudentemente accordato dalla marchesa al
signor Charles Robert.
Rodolphe era uscito dalla casa della rue du Temple profondamente
commosso dalla scena a cui aveva assistito ed era poi subito
ritornato al suo palazzo, dove aveva rimandato all’indomani la
visita che contava di fare alla signorina Rigolette e alla famiglia
dei disgraziati artigiani di cui abbiamo parlato; quanto a questi,
egli li credeva per qualche tempo al sicuro dalla miseria, grazie al
denaro che aveva dato per loro alla marchesa, al fine di rendere più
verosimile agli occhi del signor d’Harville la sua presunta visita
di carità. Purtroppo Rodolphe non sapeva che Tortillard si era
impadronito di quel borsellino; noi, invece, abbiamo già detto con
quanta audacia Tortillard avesse commesso quel furto.
Verso le quattro, il principe ricevette la seguente lettera...
L’aveva portata una donna anziana che se n’era andata senza
attendere la risposta.
Mio signore,
Vi devo più che la vita, vorrei esprimervi oggi stesso la mia
profonda gratitudine. Domani forse la vergogna mi toglierebbe la
forza di parlare... Se poteste farmi l’onore di venire stasera da
me, terminereste questa giornata come l’avete cominciata, signore,
con un’azione generosa.
D’Orbigny-D’Harville
P.S. Non prendetevi il disturbo di rispondermi, starò in casa tutta
la sera.
Nonostante la contentezza per aver reso un enorme favore alla
signora d’Harville, a Rodolphe, comunque, dispiaceva quella specie
di forzata intimità che una tale circostanza aveva fatto nascere
improvvisamente fra lui e la marchesa.
Profondamente colpito dalle qualità spirituali e dall’attraente
bellezza di Clémence ma incapace di tradire l’amicizia del signor
d’Harville, Rodolphe, dopo un mese di frequenza assidua, aveva quasi
rinunciato a vederla perché si era accorto d’avere per lei una
simpatia troppo spiccata.
Perciò ricordava con emozione il colloquio che aveva sorpreso
all’ambasciata di *** fra Tom e Sarah... Costei, per motivare il
proprio odio e la propria gelosia, aveva affermato, non senza
ragione, che la signora d’Harville provava, quasi a sua insaputa, un
sincero affetto per Rodolphe. Sarah era troppo sagace, troppo fine,
troppo buona conoscitrice del cuore umano per non aver capito che
Clémence si era creduta trascurata, disdegnata forse da un uomo che
aveva prodotto su di lei una profonda impressione; che Clémence,
solo perché aveva obbedito al suo risentimento e all’insistenza
ossessiva di una perfida amica, aveva potuto interessarsi, quasi
senza aspettarselo, alle disgrazie immaginarie del signor Charles
Robert; senza peraltro dimenticare completamente Rodolphe.
Altre donne, fedeli al ricordo dell’uomo da cui siano state
particolarmente colpite, sarebbero rimaste indifferenti agli sguardi
del comandante. Clémence d’Harville fu dunque doppiamente colpevole
pur tenendo conto che aveva subìto il fascino dell’infelicità altrui
e che si era salvata da un irreparabile errore in virtù soprattutto
del suo vivo senso del dovere e del ricordo forse del principe,
ricordo salutare, che vegliava in fondo al suo cuore.
Al pensiero del suo colloquio con la signora d’Harville, Rodolphe si
sentiva in preda a mille contraddizioni. Deciso, nono-
stante tutto, a resistere all’inclinazione che lo spingeva verso di
lei, da una parte si considerava fortunato di poterla disamare,
rimproverandole la scelta poco felice del signor Charles Robert,
dall’altra, invece, gli dispiaceva amaramente di veder cadere
l’alone di cui l’aveva fino ad allora circondata.
Anche Clémence d’Harville aspettava quel colloquio con ansia; due
sentimenti predominavano in lei, ed erano una dolorosa confusione
quando pensava a Rodolphe... e una profonda avversione quando
pensava al signor Charles Robert.
Erano molte le ragioni alla base di quell’avversione, di quell’odio.
Una donna rischia la propria tranquillità, il proprio onore per un
uomo, ma non gli perdona mai di averla messa in una situazione
umiliante o ridicola.
Difatti quando la signora d’Harville si vide esposta al sarcasmo e
agli sguardi insultanti della signora Pipelet, per poco non si sentì
morire dalla vergogna.
E non era tutto.
Quando Rodolphe l’avvisò del pericolo che correva, Clémence era
salita al quinto piano; la posizione della scala però era tale che,
salendo, essa scorse il signor Charles Robert, con la sgargiante
vestaglia da camera, nel momento in cui questi, riconosciuto il
passo leggero della donna che stava aspettando, aveva aperto un po’
la porta con sulle labbra il sorriso luminoso del conquistatore...
L’insolente ed eloquente fatuità dell’abbigliamento del comandante
fece capire alla marchesa quale cantonata avesse preso nei riguardi
di quell’uomo. Spinta dalla sua bontà d’animo e dalla sua generosità
a un passo che avrebbe potuto rovinarla, aveva concesso
quell’appuntamento, non per amore, ma solo per compassione, e
precisamente per consolare il signor Charles Robert della parte
ridicola che il cattivo gusto del duca di Lucenay gli aveva fatto
fare davanti a lei all’ambasciata di ***.
Ci si immagini dunque l’umiliazione e il disgusto della signora
d’Harville, alla vista del signor Charles Robert... vestito da
trionfatore!...
Suonavano le nove all’orologio del salotto dove si trattava
abitualmente la signora d’Harville.
I negozianti di moda e i padroni di ristorante avevano fatto
talmente spreco di stile Luigi XV e di stile rinascimento che la
marchesa, donna di molto gusto, aveva bandito dal suo appartamento
quel genere di lusso diventato tanto volgare, relegandolo nella
parte del palazzo d’Harville riservata ai grandi ricevimenti.
Non c’era nulla di più elegante e di più fine dell’arredamento del
salotto dove la marchesa aspettava Rodolphe.
La tappezzeria e le tende senza pendagli e drappeggi erano di stoffa
indiana color paglia; su quello sfondo luminoso erano stati
disegnati con ricami di seta opaca, dello stesso colore, fantasiosi
arabeschi di gusto incantevole. Le finestre erano completamente
nascoste da doppie tende ricamate a punto d’Alençon.
Sulle porte, in legno rosa, c’erano modanature d’argento dorato
lavorato con arte che in ogni pannello incorniciavano un medaglione
ovale in porcellana di Sèvres di circa un piede di diametro, in cui
erano raffigurati uccelli e fiori di una finitezza e di una bellezza
stupende. Anche le cornici degli specchi e i tondini della
tappezzeria erano di legno rosa e avevano gli stessi ornamenti in
argento dorato.
Il fregio del caminetto, di marmo bianco, e le due cariatidi di
classica e squisita fattura si dovevano al magistrale cesello di
Marochetti, il quale, da quell’eminente artista che era, aveva
acconsentito a scolpire il delizioso capolavoro, ricordandosi che
anche Benvenuto Cellini non disdegnava di modellare brocche e
armature.
Due candelabri e due candelieri di argento dorato, preziosamente
lavorati da Gouttière, s’accompagnavano a una pendola, blocco
quadrato di lapislazzuli, costruito su uno zoccolo di diaspro
orientale e sormontato da una larga e magnifica coppa d’oro
smaltata, impreziosita di perle e di rubini, che doveva senz’altro
appartenere all’epoca d’oro del rinascimento fiorentino.
A dare l’ultimo tocco a questo insieme magnifico c’erano numerosi e
notevoli quadri di media grandezza di scuola veneziana. Grazie a una
speciale innovazione, il salotto era tenuemente rischiarato da una
lampada il cui globo di cristallo smerigliato spariva per metà sotto
un ciuffo di fiori naturali contenuti in una profonda e immensa
coppa giapponese azzurra, porpora e oro, sospesa al soffitto, come
un lampadario, da tre grossi bracci d’argento dorato, attorno ai
quali s’avviticchiavano i verdi steli di numerose piante rampicanti;
alcuni ramoscelli flessibili e carichi di fiori uscivano dalla coppa
e, ricadendo, formavano come una bella e fresca frangia di verde
sulla porcellana smaltata d’oro, di por-
pora e d’azzurro.
Insistiamo su questi particolari, certo non molto importanti,
per dare un’idea dell’innato buon gusto della signora d’Harville
(segno quasi sempre sicuro di persona colta) e perché certe
irrivelate miserie, certe segrete disgrazie sembrano ancora più
dolo-
rose quando contrastano con tutto ciò che il mondo crede renda la
vita felice e invidiata.
Sprofondata in una grande poltrona interamente coperta di stoffa
color paglia come gli altri mobili, Clémence d’Harville stava a capo
scoperto, indossava un accollato vestito di velluto nero, su cui si
notava il meraviglioso ricamo a punto d’Inghilterra del largo
colletto e dei polsini tondi, il quale ricamo impediva al nero del
velluto di staccare troppo crudamente sull’incantevole bianchezza
delle mani e del collo.
Più si avvicinava il momento del colloquio con Rodolphe, più
aumentava l’emozione della marchesa. A un certo momento, però, tra
la confusione si fecero largo delle idee ben precise: dopo lunga
riflessione, decise di confidare a Rodolphe un grande... un crudele
segreto, nella speranza di guadagnare, parlando con tutta
franchezza, una stima di cui era tanto desiderosa.
Rianimata dalla riconoscenza, la sua istintiva simpatia per Rodolphe
si stava ridestando con nuova forza. Uno di quei presentimenti che
di rado ingannano i cuori amanti le diceva che non era stato solo un
caso quello che aveva spinto il principe a giungere in un momento
così opportuno a salvarla, e che se lui da alcuni mesi aveva cessato
di vederla aveva forse obbedito a un sentimento diverso
dall’antipatia. Un vago istinto aveva anche fatto sorgere nella
mente di Clémence dei dubbi sulla sincerità dell’affetto di Sarah.
Poco dopo un cameriere bussò leggermente, entrò e disse a Clémence:
«È disposta la signora marchesa a ricevere la signora Asthon e
madamigella?»
«Ma certo, come al solito...» rispose la signora d’Harville. E sua
figlia entrò lentamente nel salotto.
Era una bambina di quattro anni, che avrebbe avuto un viso
incantevole se non fosse stato di un pallore da persona malaticcia,
e di estrema magrezza. La signora Asthon, la sua governante, la
teneva per mano; Claire (così si chiamava la bambina), nonostante la
sua debolezza, corse subito verso la madre tendendole le braccia.
Due trecce di capelli bruni, tenute assieme da due nastri color
ciliegia annodati al di sopra delle tempie, le scendevano dalle due
parti del viso; era di salute tanto cagionevole, che era costretta a
portare un piccolo soprabito di seta scura al posto di quei bei
vestitini di mussolina bianca, guarniti di nastrini simili a quelli
dei capelli, e tanto scollati da poter mettere in mostra quelle
braccette rosa e quelle spalle fresche e morbide che sono così belle
nei bambini sani.
I grandi occhi neri della bambina sembravano enormi, tanto aveva le
guance scavate. Nonostante il suo pallore, Claire ebbe un luminoso
sorriso pieno di finezza e di grazia non appena fu sulle ginocchia
della madre, che la abbracciò con una sorta di malinconica e
appassionata tenerezza.
«Com’è stata in queste ultime ore, signora Asthon?» domandò la
signora d’Harville alla governante.
«Abbastanza bene, signora marchesa, sebbene per un momento abbia
avuto paura...»
«Ancora!» esclamò Clémencé stringendo la figlia al petto con un moto
involontario di paura.
«Per fortuna, signora, mi sono sbagliata» disse la governante;
«l’attacco non ha avuto luogo, e la signorina Claire s’è calmata; ha
avuto solo un mancamento... Questo pomeriggio ha dormito poco; ma
adesso non ha voluto andare a dormire senza prima venire a dare un
bacio alla signora marchesa.»
«Povero angioletto caro!» disse la signora d’Harville coprendo la
figlia di baci.
Costei le stava restituendo le carezze con gioia infantile, quando
un cameriere spalancò i battenti della porta del salotto e annunciò:
«Sua Altezza Serenissima signore il granduca di Gerolstein!»
Claire s’era messa in piedi sulle ginocchia della madre, le aveva
gettato le braccia al collo e la stava stringendo forte. Alla vista
di Rodolphe, Clémence arrossì, depose dolcemente la figlia sul
tappeto, fece segno alla signora Asthon di portar via la bambina, e
si alzò.
«Permettetemi, signora» disse Rodolphe, sorridendo dopo aver
rispettosamente salutato la marchesa, «di rifare la conoscenza con
una mia vecchia e piccola amica, che temo non si ricordi più di me.»
E, chinandosi un po’, porse la mano a Claire.
Costei dapprima lo fissò con due grandi occhi neri pieni di
curiosità; poi, riconosciutolo, gli fece un grazioso cenno col capo
e gli mandò un bacio sulla punta delle scarne dita.
«Figlia mia, hai riconosciuto sua signoria?» domando Clémence a
Claire. Costei rispose di sì con la testa, e mandò un altro bacio a
Rodolphe.
«Sembra che sia migliorata dall’ultima volta che l’ho vista» disse
premurosamente Rodolphe rivolgendosi a Clémence.
«Va un po’ meglio, mio signore, sebbene sia sempre sofferente.
La marchesa e il principe erano quasi contenti di dovere alla
presenza di Claire una dilazione di cinque minuti al loro prossimo
colloquio perché, al pensiero di esso, sia l’una che l’altro si
sentivano in imbarazzo; ma la governante, con molta discrezione,
portò via la bambina e Rodolphe e Clémence rimasero soli.
XVI
LA CONFESSIONE
La poltrona della signora d’Harville si trovava a destra del
caminetto, al quale Rodolphe, rimasto in piedi, stava leggermente
appoggiato.
Mai come adesso Clémence era stata tanto colpita dall’armonia dei
lineamenti nobili e fini del principe; mai la sua voce le era
sembrata così dolce e vibrante.
Avendo capito quanto dovesse essere penoso per la marchesa iniziare
la conversazione, Rodolphe prese la parola per primo:
«Signora, siete stata vittima di un indegno tradimento: una vile
delazione da parte della contessa Sarah Mac-Grégor per poco non vi
ha rovinata.»
«Allora è vero, mio signore?» esclamò Clémence. «I miei
presentimenti dunque non m’ingannavano... E in che modo Vostra
Altezza è riuscita a sapere?...»
«Ieri, per caso, al ballo della contessa ***, ho scoperto il segreto
di quest’infamia. Ero seduto in un angolo del giardino d’inverno.
Non sapendo che un gruppo di alberi mi separava da loro e mi
permetteva di sentirli, la contessa Sarah e suo fratello vennero a
discutere vicino a me dei loro progetti e del tranello che vi
avrebbero teso. Volendo avvertirvi del pericolo da cui eravate
minacciata, corsi subito al ballo della signora di Nerval, credendo
di trovarvi: ma voi non c’eravate stata. Scrivervi a casa questa
mattina voleva dire rischiare di far cadere la mia lettera nelle
mani del marchese, che doveva già avere dei sospetti. Ho preferito
venire ad aspettarvi in rue du Temple, per sventare il tradimento
della contessa Sarah. Mi perdonate, vero, di parlarvi così a lungo
di un argomento che deve esservi certo spiacevole? Se non avessi
ricevuto la lettera che avete avuto la bontà di scrivermi... non vi
avrei mai parlato di tutto ciò in vita mia...»
Dopo un momento di silenzio, la signora d’Harville disse a Rodolphe:
«Io non ho che un mezzo, mio signore, per provarvi la mia
riconoscenza... farvi una confessione che non ho fatto a nessuno.
Una confessione che non mi giustificherà certo ai vostri occhi, ma
che vi farà forse considerare la mia condotta meno colpevole.»
«Francamente, signora» disse Rodolphe sorridendo, «la mia posizione
verso di voi è molto imbarazzante...»
Clémence, colpita dal tono quasi scanzonato di Rodolphe, lo guardò
con meraviglia.
«Come, mio signore?»
«Grazie a una circostanza che voi certo indovinerete, sono stato
costretto a fare... un po’ la parte del parente anziano in
un’avventura che, una volta ch’eravate sfuggita all’odioso tranello
della contessa Sarah, non avrebbe meritato d’essere presa con tanta
gravità... Ma» aggiunse Rodolphe con una sfumatura di affettuosa e
dolce serietà, «vostro marito è quasi un fratello per me; mio padre
nutriva per suo padre riconoscenza e affetto. Con tutta serietà
dunque mi congratulo con voi per aver ridato a vostro marito
tranquillità e fiducia.»
«E anche perché onorate il signor d’Harville della vostra amicizia,
mio signore, ci tengo a dirvi tutta la verità... e su una scelta che
vi deve sembrare infelice com’è realmente... e sulla mia condotta,
che offende colui che Vostra Altezza chiama quasi un fratello.»
«Signora, sarò sempre felice e fiero della più piccola prova di
fiducia da parte vostra. Tuttavia, permettetemi di dirvi, a
proposito della scelta a cui avete fatto allusione, che so che avete
ceduto a un sentimento di sincera pietà e all’insistenza ossessiva
della contessa Sarah Mac-Grégor, che aveva le sue ragioni per
volervi rovinare... So inoltre che avete esitato non poco prima di
risolvervi a un passo di cui adesso vi affliggete tanto.»
Clémence guardò il principe sorpresa.
«Ne siete stupita? Vi dirò il mio segreto un altro giorno, perché
non abbiate a prendermi per un mago» rispose Rodolphe sorridendo.
«Vostro marito piuttosto è del tutto tranquillo, ora?»
«Sì, mio signore» disse Clémence abbassando gli occhi confusa; «e vi
confesso che soffro a sentirlo chiedermi perdono di avermi
sospettato e a vederlo estasiato del modesto silenzio fatto sulle
mie opere di beneficenza.»
«È felice nella sua illusione, non fatevene quindi una colpa, anzi
continuate a mantenerlo nel suo dolce errore... Se non mi fosse
proibito di parlare alla leggera di quest’avventura, e se non si
trattasse di voi, signora... direi che una donna non è mai così
affascinante con suo marito come quando ha qualche torto da
nascondere. Non si ha idea di quante disarmanti moine può ispirare
una coscienza sporca, non si riesce a immaginare quanti fiori
meravigliosi la perfidia può far spesso sbocciare... Quando ero
giovane» aggiunse Rodolphe sorridendo, «provavo sempre, quasi mio
malgrado, una vaga diffidenza in presenza di certi slanci di
tenerezza; e siccome da parte mia mi sentivo in vantaggio solo
quando avevo qualcosa da farmi perdonare, appena qualcuna mi
dimostrava quell’infida tenerezza che io avevo in mente di
sfruttare, ero sicurissimo che il nostro perfetto accordo...
nascondeva una reciproca infedeltà.»
La signora d’Harville si stupiva sempre più al sentire che Rodolphe
stava scherzando su un’avventura che avrebbe potuto avere per lei
conseguenze tanto terribili; ma intuìto subito che il principe, con
quel tono di ostentata leggerezza, cercava di sminuire l’importanza
del servigio resole, fu profondamente commossa da quella delicatezza
e:
«Capisco» gli disse, «la vostra generosità, mio signore... A voi
adesso è permesso scherzare e fingere d’aver dimenticato il pericolo
da cui m’avete strappata... Ma quello che devo dirvi è così grave,
così triste, è così in stretta relazione con i fatti di questa
mattina, e i vostri consigli possono essermi così utili che vi
supplico di ricordarvi che m’avete salvato l’onore e la vita... sì,
mio signore, la vita... Mio marito era armato; me l’ha confessato
nell’esaltazione del pentimento: voleva uccidermi!...»
«Buon Dio!» esclamò Rodolphe, profondamente turbato. «Era suo
diritto» soggiunse amaramente la signora d’Harville. «Vi scongiuro,
signora» replicò Rodolphe molto seriamente
questa volta, «credetemi, sono incapace di restare indifferente a
ciò che vi riguarda; poco fa ho scherzato perché non volevo far
indugiare il vostro pensiero su questa triste mattinata, che ha
dovuto provocare in voi tanto e tale sconcerto. Adesso, signora, vi
ascolto in religioso silenzio, visto che mi avete fatto la grazia di
dirmi che i miei consigli possono esservi utili a qualcosa.»
«Oh, molto utili, mio signore! Ma prima di chiederveli, permettetemi
di dirvi due parole su un passato che ignorate... sugli anni che
hanno preceduto il mio matrimonio con il signore d’Harville.»
Rodolphe s’inchinò e Clémence continuò:
«A sedici anni perdetti mia madre» disse senza poter trattenere una
lacrima. «Non vi sto a dire quanto l’adoravo; immaginatevi, mio
signore, un ideale di bontà sulla terra; il grandissimo
affetto che aveva per me era d’enorme conforto nelle amarezze...
Poco socievole, di salute delicata, molto sedentaria di natura, il
suo più gran piacere era stato quello di potersi occupare da sola
della mia istruzione: infatti grazie alla sua seria e nutrita
cultura poteva benissimo compiere meglio di qualsiasi altro il
compito che si era imposta...
Immaginatevi, mio signore, il mio e il suo stupore, quando a sedici
anni, nel periodo finale della mia educazione, mio padre, col
pretesto della salute cagionevole di mia madre, ci annunciò che una
giovane vedova molto distinta, resa degna di aiuto dalle grandi
disgrazie, avrebbe avuto l’incarico di finire ciò che mia madre
aveva cominciato... Mia madre oppose subito un rifiuto al volere di
mio padre. Io stessa lo supplicai di non mettere fra me e mia madre
un’estranea; egli fu inesorabile, e i nostri pianti non valsero a
nulla. La signora Roland, vedova di un colonnello morto in India,
diceva lei, venne ad abitare con noi, e fu incaricata di farmi da
istitutrice.»
«Come! quella Roland che vostro padre sposò quasi subito dopo il
vostro matrimonio?»
«Sì, mio signore.»
«Era molto bella?»
«Mediocremente graziosa, mio signore.»
«Assai spiritosa allora?»
«Era solo ipocrita e astuta, nient’altro. Aveva circa venticinque
anni, capelli d’un biondo slavato, ciglia quasi bianche, grandi
occhi rotondi di un azzurro chiaro; era scialba e smorfiosa in
volto, perfida fino alla crudeltà di carattere anche se
apparentemente premurosa fino a strisciare.»
«E la sua istruzione?»
«Completamente nulla, mio signore. Non riesco a rendermi conto come
mai mio padre, fino ad allora così schiavo delle convenienze, non
avesse pensato che quella donna con la sua ignoranza avrebbe fatto
scoppiare uno scandalo e scoprire così il vero motivo della sua
presenza in casa nostra. Mia madre gli fece osservare che la signora
Roland era un pozzo d’ignoranza; egli le rispose con un tono che non
ammetteva repliche che, colta o no, la povera vedova avrebbe
conservato a casa sua il posto che le aveva dato. Lo seppi più
tardi: da quel momento la mia povera mamma capì tutto, e ne fu
profondamente addolorata, non tanto, credo, per l’infedeltà di mio
padre, quanto per lo scompiglio che una tale relazione avrebbe
potuto portare in casa e per gli effetti che avrebbe potuto avere su
di me.»
«Ma, in fondo, anche dal punto di vista della sua folle passione, mi
sembra che vostro padre facesse un calcolo sbagliato, introducendo
quella donna in casa sua.»
«Vi stupireste ancora di più, mio signore, se sapeste che mio padre
è l’uomo più formale e rigido che io abbia conosciuto; per spingerlo
a passare sopra a ogni convenienza, ci voleva proprio la
determinante influenza della signora Roland, influenza tanto più
forte, in quanto si nascondeva sotto le apparenze d’una violenta
passione di lei per lui.»
«Ma quanti anni aveva allora vostro padre?»
«Circa sessanta.»
«E credeva all’amore della giovane donna?»
«Mio padre era stato uno degli uomini più alla moda del suo
tempo; la signora Roland, obbedendo al suo fiuto o ai consigli di
qualche furbo...»
«Consigli! e chi poteva consigliarla?»
«Ve lo dirò fra poco, mio signore. Avendo intuito che in vecchiaia
un uomo fortunato in amore desidera essere adulato sulla sua
bellezza in quanto quelle lodi gli ricordano il periodo più bello
della sua vita, la donna, lo credereste mio signore?, andava
decantando la bellezza stupenda del viso di mio padre, l’inimitabile
eleganza nel portamento e nel vestire; e lui aveva sessant’anni...
Tutti apprezzano la sua intelligenza, eppure è stato tanto cieco da
cadere in un tranello così evidente. Ecco la sola spiegazione della
passata e presente influenza di quella donna su di lui. Vedete, mio
signore, nonostante le gravi preoccupazioni, non posso fare a meno
di sorridere quando rammento d’aver sentito la signora Roland prima
del mio matrimonio dire spesso e sostenere che quella che lei
chiamava la “vera maturità” era la più bella età della vita. È
chiaro che la vera maturità cominciava solo verso i cinquantacinque
o sessant’anni.»
«L’età di vostro padre?»
«Per l’appunto, mio signore. Solo allora, diceva la signora Roland,
lo spirito e l’esperienza avevano acquistato il loro pieno sviluppo;
solo allora un uomo di ottima posizione poteva godere di tutta la
considerazione alla quale poteva aspirare; solo allora anche
l’insieme dei suoi lineamenti e la buona grazia delle sue maniere
potevano raggiungere la più alta perfezione, perché in quel periodo
della vita c’è sul volto come uno squisito e soprannaturale impasto
di beata serenità e di dolce gravità. Infine, un’ombra di
malinconia, dovuta alle delusioni che porta sempre l’esperienza,
dava l’ultimo tocco al fascino irresistibile della “vera maturi-
tà”; fascino che potevano apprezzare, aggiungeva subito la signora
Roland, solo le donne di spirito e di cuore che hanno il buon gusto
di accogliere con una spallucciata la splendida ma stravolta
giovinezza di quegli storditelli di quarant’anni, il cui carattere
non offre nessuna sicurezza e i cui lineamenti, di insignificante
giovanilità, non sono ancora poetizzati da quella maestosa
espressione che è segno di profonda conoscenza della vita.»
Rodolphe non poté non sorridere al notare la frizzante ironia con
cui la signora d’Harville aveva fatto il ritratto della matrigna.
«C’è una cosa che non perdono mai alla gente ridicola» disse
alla marchesa.
«Che cosa, mio signore?»
«Di essere malvagi... il che impedisce di ridere tranquillamen-
te di loro.»
«Forse è un calcolo» disse Clémence.
«Ne sono abbastanza convinto, ed è un peccato; infatti, se
potessi, per esempio, passare sopra al gran male che la signora
Roland per forza di cose vi ha fatto, troverei molto divertente
l’invenzione della “vera maturità” in opposizione con la folle
giovinezza di quei farfallini di quarant’anni, che, a detta della
donna, sembrano essere appena “usciti di tutela”, come avrebbero
detto i nostri nonni.»
«Credo, comunque, che mio padre sia felice delle illusioni in cui
adesso lo culla la mia matrigna.»
«E certamente, ora come ora, sarà già punita della sua falsità e
subirà le conseguenze del suo finto amore appassionato; vostro padre
l’ha presa in parola e la circonda d’amore e di solitudine. Ora,
permettetemi di dirvelo, la vita della vostra matrigna deve essere
insopportabile tanto quanto quella di vostro padre deve essere
felice: immaginatevi un po’ la superba gioia di un uomo di
sessant’anni, abituato al successo, che si crede ancora così
appassionatamente amato da una donna da farle desiderare di vivere
con lui in completo isolamento.»
«Quindi, mio signore, dal momento che mio padre è felice, forse non
dovrei lamentarmi della signora Roland, ma il suo odioso
comportamento verso mia madre... ma la parte troppo grande che ha
avuto, per mia sventura, nel mio matrimonio, sono la causa del mio
odio» disse la signora d’Harville, dopo un momento di esitazione.
Rodolphe la guardò sorpreso.
«Il signore d’Harville è vostro amico, mio signore,» riprese
Clémence con voce ferma. «Conosco la gravità delle parole che ho
detto... poi mi direte se sono giuste. Ma torniamo alla signora
Roland, che intanto aveva preso a farmi da istitutrice, nonostante
la sua scontata inettitudine. Mia madre ebbe, a questo proposito,
con mio padre una penosa discussione in cui gli fece sapere che il
minimo che poteva fare per protestare contro l’intollerabile
posizione di quella donna era di non presentarsi più a tavola; a
meno che la signora Roland non avesse immediatamente abbandonato la
casa. Mia madre era la dolcezza, la bontà in persona; ma diventava
di un’indomabile fermezza quando si trattava della sua dignità
personale. Mio padre fu inflessibile ed ella mantenne la sua
promessa; e da quel momento lei e io vivemmo completamente ritirate
nel suo appartamento. Da allora mio padre si mostrò freddo con me
tanto quanto con mia madre, mentre la signora Roland faceva quasi
ufficialmente gli onori di casa, sempre in qualità di mia
istitutrice.»
«A quali eccessi non sono spinte da una folle passione anche le
persone più ragguardevoli! E poi ci si inorgoglisce molto di più
quando ci vengono lodati i pregi o le qualità che non abbiamo o che
non abbiamo più, che non quando ci vengono lodati quelli che
abbiamo. Dimostrare a un uomo di sessant’anni che ne ha solo trenta,
è l’abbiccì dell’adulatore... e più l’adulazione è smaccata, più ha
successo... Ahimè! noialtri principi lo sappiamo anche troppo bene.»
«A proposito di adulazione voi, mio signore, siete stato oggetto di
molti esperimenti...»
«Sotto quest’aspetto, vostro padre è stato trattato da re... Vostra
madre, però, ha dovuto soffrire atrocemente.»
«Più per me che per sé, mio signore, perché ella pensava
all’avvenire... la sua salute, delicatissima già di per sé, si
indebolì ancora di più e così cadde gravemente ammalata; fatalità
volle che il medico di casa, il signor Sorbier, morisse; mia madre
che aveva una grande fiducia in lui ne provò vivo dispiacere. La
signora Roland aveva come medico e amico un dottore italiano, di
grande valore, diceva lei; mio padre, illuso, andò qualche volta a
consultarlo, si trovò bene e lo propose a mia madre, che, ahimè, lo
prese, e fu lui a curarla durante l’ultima malattia...» A quelle
parole gli occhi della signora d’Harville si riempirono di lacrime.
«Mi vergogno a confessarvi questa debolezza, mio signore» aggiunse
poi, «ma per il solo fatto che era stato consigliato a mio padre
dalla signora Roland, quel medico m’aveva ispirato (allora senza
alcun motivo) un’antipatia immediata; e vidi con una specie di
timore mia madre concedergli la sua fiducia: eppure quanto a sapere,
il dottor Polidori...»
«Come avete detto, signora?» esclamò Rodolphe.
«Che avete, mio signore?» disse Clémence, stupita dall’espressione
del volto di Rodolphe.
«Ma no» disse il principe come parlando a se stesso, «mi sbaglio...
tutto ciò si è svolto cinque o sei anni fa, mentre mi hanno detto
che Polidori è stato a Parigi solo due anni fa sotto falso nome... è
lui che ho visto ieri... quel ciarlatano Bradamanti. Eppure... due
medici con lo stesso nome, che strana coincidenza!... Signora,
ditemi qualcosa sul dottor Polidori» chiese Rodolphe alla signora
d’Harville, che lo guardava con crescente stupore, «che età aveva
quell’italiano?»
«Ma, cinquant’anni circa.»
«E la figura... il volto?»
«Sinistri... Non dimenticherò mai i suoi occhi verde chiaro... il
naso adunco come il becco di un’aquila.»
«È lui!... è proprio lui!...» esclamò Rodolphe. «E voi credete,
signora, che il dottor Polidori sia ancora a Parigi?» chiese
Rodolphe alla signora d’Harville.
«Non so, mio signore. Ha lasciato Parigi circa un anno dopo il
matrimonio di mio padre; una mia amica di cui quell’italiano era
medico curante a quel tempo la signora di Lucenay...»
«La duchessa di Lucenay!» esclamò Rodolphe.
«Sì, mio signore... Perché tanto stupore?»
«Permettetemi di tacervene la causa... ma, cosa vi diceva allora
la signora di Lucenay di quell’uomo?»
«Che dopo la sua partenza da Parigi le scriveva spesso delle
lettere molto spiritose sui Paesi che visitava; infatti ha viaggiato
molto... Adesso... mi ricordo che circa un mese fa, quando chiesi
alla signora di Lucenay se continuava a ricevere notizie dal signor
Polidori, ella mi rispose, con un certo imbarazzo, che da un pezzo
non si sentiva più parlare di lui, che non si sapeva cosa gli fosse
successo e che alcuni, anzi, lo credevano morto.»
«È strano» disse Rodolphe, ricordandosi della visita della signora
di Lucenay al signor Bradamanti.
«Conoscete quell’uomo, mio signore?»
«Sì, per mia disgrazia... Ma, vi prego, continuate il vostro
racconto; poi vi dirò chi è questo Polidori...»
«Come? il medico...»
«Dite piuttosto un uomo macchiatosi dei più orribili delitti.»
«Delitti!...» esclamò la signora d’Harville spaventata; «ha
commesso dei delitti, quest’uomo... amico della signora Roland e
medico di mia madre! e mia madre è morta fra le sue mani dopo
qualche giorno di malattia!... Ah, mio signore, voi mi
spaventate!... mi dite troppo o non abbastanza!...»
«Senza voler accusare quest’uomo di un altro delitto, e la vostra
matrigna di una spaventosa complicità, vi dico solo che dovete forse
ringraziare Dio che vostro padre, dopo il matrimonio con la signora
Roland, non abbia avuto bisogno dei consulti del Polidori...»
«O mio Dio!» esclamò la marchesa con voce straziante, «i miei
presentimenti non erano sbagliati, allora!»
«I vostri presentimenti?»
«Sì... poco fa vi ho parlato dell’avversione che ho avuto per quel
medico, essendo egli stato introdotto a casa nostra dalla signora
Roland, ma non vi ho detto tutto, mio signore...»
«Come?»
«Temevo di accusare un innocente, di dar troppo ascolto alla voce
delle mie amarezze. Ma adesso vi dirò tutto, mio signore. Mia madre
era ammalata da cinque giorni: l’avevo sempre assistita io. Una sera
andai a respirare l’aria del giardino sulla terrazza della nostra
casa. Dopo un quarto d’ora rientrai passando per un lungo e oscuro
corridoio. Lo stretto spiraglio di luce che usciva dalla porta
dell’appartamento della signora Roland mi permise di veder uscire il
signor Polidori. Era accompagnato dalla signora. Io ero nell’ombra
ed essi non potevano vedermi. La signora Roland gli disse pianissimo
alcune parole che non riuscii a capire. Il medico rispose dicendo a
voce alta questa sola parola: “Dopodomani”. E siccome la signora
Roland continuava a parlargli a voce bassa, egli aveva ripreso a
dire in maniera strana: “Dopodomani, vi ho detto, dopodomani...”.»
«Cosa significavano quelle parole?»
«Cosa significavano, mio signore? Il mercoledì sera, il signor
Polidori aveva detto: “Dopodomani...”. Il venerdì... mia madre era
morta!”»
«Oh, è terribile!...»
«Quando mi misi a riflettere sul fatto, mi tornò alla mente quella
parola, “dopodomani”, che sembrava aver predetto l’epoca della morte
di mia madre; credetti che il signor Polidori, essendosi reso conto
del poco tempo che restava ancora a mia madre da vivere, fosse
andato di filato ad avvertire la signora Roland... la signora
Roland, che aveva tanti motivi per rallegrarsi di quella morte. Era
bastata questa sola cosa per farmi aborrire quell’uomo e quella
donna... Ma non avrei mai osato supporre... Oh, no, no, nemmeno
adesso posso credere a un simile delitto!»
«La vostra povera madre è stata curata solo dal Polidori?»
«Il giorno prima che ella morisse, quell’uomo aveva portato a
consulto un suo collega. Stando a quanto mi disse in seguito mio
padre, il collega di Polidori aveva trovato mia madre gravissima...
Dopo il funesto avvenimento, fui condotta presso una mia parente che
aveva sempre voluto bene a mia madre. Passando sopra al ritegno che
doveva imporle la mia età, la mia parente mi fece vedere senza tanti
riguardi tutte le ragioni che avevo per odiare la signora Roland e
mi illuminò sulle mire ambiziose che quella donna doveva già da
allora concepire.
La rivelazione mi costernò; solo allora capii quanto mia madre
avesse dovuto soffrire. Quando rividi mio padre, mi si spezzò il
cuore: era venuto a prendermi per condurmi in Normandia dove
dovevamo passare i primi tempi del nostro lutto. Durante il viaggio,
pianse molto e mi disse che solo io potevo aiutarlo a sopportare
quel colpo terribile. Gli risposi con affetto che anche a me restava
solo lui dopo la perdita della mia adorata madre. Dopo avermi
parlato un po’ dell’imbarazzo in cui si sarebbe trovato se fosse
stato costretto a lasciarmi sola durante le assenze che i suoi
affari lo costringevano a fare di tanto in tanto, mi fece sapere,
come se fosse stata la cosa più naturale di questo mondo che, per
sua e mia fortuna, la signora Roland acconsentiva a prendere la
direzione della casa e a farmi da guida e da amica.
Lo stupore, il dolore e l’indignazione mi lasciarono senza parole;
piansi in silenzio. Mio padre mi domandò il motivo del mio pianto;
io dissi, con troppa amarezza lo ammetto, che non avrei mai abitato
sotto lo stesso tetto con la signora Roland, perché la disprezzavo e
la odiavo per tutti i dispiaceri che aveva procurato alla mia povera
mamma. Rimase calmo, attaccò quella che egli chiamava la mia
fanciullaggine, e mi disse freddamente che la sua decisione era
irremovibile e che io dovevo sottomettermi.
Lo supplicai che mi permettesse di ritirarmi al Sacré-Coeur dove
avevo alcune amiche e dove sarei restata fino al momento in cui
avrebbe ritenuto opportuno maritarmi. Mi fece osservare che era
finita l’epoca in cui ci si maritava stando dietro la grata di un
convento; che la mia fretta di lasciarlo l’avrebbe molto addolorato,
se non avesse scorto nelle mie parole un’esaltazione giustificabile,
ma poco sensata, che presto sarebbe senz’altro scomparsa; poi mi
chiamò testa pazza e mi baciò sulla fronte.
Ahimè! Fatto sta che dovetti sottomettermi. Immaginatevi, mio
signore, il mio dolore! vivere ogni giorno con una donna che ero lì
lì per accusare della morte di mia madre... Prevedevo le sce-
nate più feroci fra me e mio padre, perché nessuna considerazione
poteva impedirmi di dimostrare la mia antipatia per la signora
Roland. Mi sembrava così di poter vendicare mia madre, mentre la più
piccola parola d’affetto detta a quella donna mi sarebbe sembrata un
enorme sacrilegio.»
«Mio Dio, come dovette costarvi una simile esistenza... ero ben
lungi dal pe