Eugène Sue
I MISTERI DI PARIGI
PARTE PRIMA
I
LA BETTOLA
Un tapis-franc, nel gergo dei ladri e degli assassini, è un’osteria
o una bettola della peggior specie.
Un pregiudicato che, in quella ignobile lingua, si chiama orco, o
una donna, anch’essa pregiudicata, che si chiama orchessa,
gestiscono di solito queste taverne, frequentate dalla feccia della
popolazione parigina: vi si trovano a bizzeffe ex forzati,
truffatori, ladri, assassini.
Quando viene commesso un delitto, la polizia getta, per così dire,
la sua rete dentro questa melma; quasi sempre vi prende i colpevoli.
Il lettore capisce da questo inizio che dovrà assistere a scene
sinistre; se vorrà, potrà penetrare in regioni orribili,
sconosciute; individui repellenti, spaventosi, pulluleranno in
queste immonde cloache come i rettili negli stagni.
Tutti hanno letto le pagine stupende nelle quali Cooper, il Walter
Scott americano, ha descritto i feroci costumi dei selvaggi, la loro
lingua pittoresca, poetica, le mille astuzie con le quali sfuggono
ai loro nemici o li inseguono.
Abbiamo temuto per i coloni e per gli abitanti delle città al
pensiero che così vicino a loro vivessero e s’aggirassero queste
tribù barbare tanto lontane dalla civiltà per via delle loro
abitudini sanguinarie.
Noi cercheremo di far passare davanti agli occhi del lettore alcuni
episodi della vita di altri barbari, lontani dalla civiltà come lo
sono i popoli selvaggi descrittici così bene da Cooper.
I barbari che intendiamo sono proprio in mezzo a noi; possiamo
trovarci gomito a gomito con loro, avventurandoci nei covi in cui
vivono, in cui si raccolgono per concertare il delitto, la rapina,
per spartire infine il bottino dei loro misfatti.
Questi uomini hanno costumi propri, donne proprie, una lingua
propria, una lingua misteriosa, piena di immagini funeste, di
metafore gocciolanti sangue.
Come i selvaggi, infine, questa gente suole chiamarsi con soprannomi
mutuati dalla propria energia, dalla propria crudeltà, da certe doti
o da certe deformità fisiche.
Noi affrontiamo con duplice timore alcune scene del nostro racconto.
Temiamo innanzitutto di essere accusati di ricercare episodi
repellenti e, ammessa pure questa licenza, di essere considerati
inferiori al compito che comporta la riproduzione fedele, vigorosa,
audace di questi costumi eccentrici.
Nello scrivere questi passi che non sono lontani dall’impressionare
anche noi, non abbiamo potuto non sentire una stretta al cuore...
non oseremmo dire una dolorosa ansietà... per paura di venire
tacciati di ridicola pretesa.
Al pensiero che forse i nostri lettori avrebbero provato la stessa
sensazione, ci siamo chiesti se fosse necessario fermarci o
continuare per la strada che prendevamo, se simili scene dovessero
essere fatte scorrere davanti agli occhi del lettore.
Non siamo riusciti a liberarci dal dubbio: se non fossimo stati
spinti dall’imperiosa esigenza della narrazione, rimpiangeremmo
d’aver preso, come soggetto della descrizione del racconto che
leggeremo, un ambiente così detestabile. Tuttavia noi facciamo
assegnamento su quella specie di timida curiosità che suscitano
talvolta gli spettacoli terribili.
Inoltre crediamo alla potenza dei contrasti.
Dal punto di vista artistico, forse non è male riprodurre certi
caratteri, certe esistenze, certe figure i cui colori cupi,
energici, forse anche crudi, faranno da contrappeso a scene di
tutt’altro genere.
Il lettore, prevenuto dell’escursione che gli proponiamo
d’intraprendere fra gli indigeni della razza infernale che gremisce
le prigioni, la colonia penale, e il cui sangue tinge di rosso i
patiboli... il lettore acconsentirà forse a seguirci. Senza dubbio
questa investigazione sarà per lui una novità; affrettiamoci
dapprima ad avvertirlo che, se in un primo tempo i suoi piedi
poggeranno sull’ultimo gradino della scala sociale, a mano a mano
che il racconto procederà l’atmosfera si purificherà sempre di più.
Il 13 dicembre del 1858, in una serata piovosa e fredda, un uomo di
statura atletica, con addosso un logoro camiciotto, attraversò il
pont-au-Change e s’addentrò nella Cité, labirinto di vie oscure,
strette, tortuose che va dal palazzo di Giustizia fino a NotreDame.
Il quartiere del palazzo di Giustizia, assai circoscritto, alquanto
sorvegliato, serve nondimeno da asilo e da luogo d’appuntamento per
i malfattori di Parigi. Non è strano, o meglio fatale, che
un’irresistibile attrazione faccia sempre gravitare questi criminali
attorno al temibile tribunale che li condanna alla prigione, ai
lavori forzati, al patibolo?
Quella notte, dunque, il vento s’infilava con violenza nelle orrende
viuzze del lugubre quartiere; la luce pallida, vacillante, dei
lampioni investiti dalla tramontana si rifletteva sul rigagnolo
d’acqua nerastra che scorreva in mezzo ai selciati fangosi.
Le case color fango avevano rade finestre con gli infissi tarlati e
quasi senza vetri. Androni neri, infetti, conducevano a scale ancora
più nere, più infette, e così perpendicolari che chi avesse voluto
salirvi avrebbe dovuto aiutarsi con una corda fissata con ganci di
ferro ai muri alti e umidi.
Il pianterreno di alcune case era occupato da banchetti di carbonai,
di trippai, o di rivenditori di carni di bassa macellazione.
Nonostante lo scarso valore di questi generi di consumo, la vetrina
di quasi tutte le miserabili botteghe era protetta da un’inferriata,
talmente i venditori temevano l’audacia dei ladri del quartiere.
Il nostro uomo, entrando nella rue aux Fèves, situata al centro
della Cité, rallentò di molto l’andatura: si sentiva a casa sua.
La notte era fonda, l’acqua cadeva a torrenti, forti raffiche di
vento e di pioggia frustavano i muri.
Lontano, all’orologio del palazzo di Giustizia, rintoccavano le
dieci.
Alcune donne imboscate sotto portici a volta, oscuri, profondi come
caverne, cantavano a mezza voce qualche arietta popolare.
Una di queste creature doveva senza dubbio essere conosciuta dal
nostro uomo; perché, fermandosi bruscamente davanti a lei, l’afferrò
per un braccio.
«Buonasera, Chourineur.»
Quest’uomo, un pregiudicato, era stato soprannominato così nella
colonia penale.
«Sei tu, Goualeuse?» disse l’uomo in camiciotto «adesso mi paghi
l’eau d’aff, o ti faccio ballare senza musica!»
«Non ho soldi», rispose la donna tremando; poiché quell’uomo
incuteva un grande terrore nel quartiere.
«Se sei all’asciutto, la padrona della bettola ti farà credito per i
tuoi begli occhi.»
«Dio mio! le devo già il nolo dei vestiti che porto...»
«Ah! osi fare obiezioni?» esclamò lo Chourineur.
E diede nell’ombra e a caso un pugno così violento alla disgraziata,
ch’ella mandò un acuto grido di dolore.
«Questo non è ancora niente, ragazza! è un piccolo avvertimento...»
Subito dopo aver pronunciato queste parole, il brigante sbottò in
una spaventosa bestemmia:
«Ho un braccio bucato; mi hai graffiato con le forbici».
E, furioso, si lanciò all’inseguimento della Goualeuse nel nero
androne.
«Non avvicinarti, o ti cavo i fanali con le forbici» disse con
tono deciso. «Non t’avevo fatto niente, perché mi hai picchiata?»
«Te lo dico subito» esclamò il bandito, senza cessare di avanzare
nell’oscurità.
«Ah! t’ho presa! e adesso ti faccio ballare io!» aggiunse afferrando
con le sue larghe e forti mani il polso sottile e fragile di lei.
«Ballerai tu invece!» disse una voce maschia.
«Un uomo! Sei tu, Bras-Rouge? rispondi dunque e non stringere così
forte... sono nell’androne di casa tua, non puoi essere che tu...»
«Non sono Bras-Rouge» rispose la voce.
«Bene, poiché non si tratta di un amico, spanderemo del rosso»
esclamò lo Chourineur. «Ma di chi è allora la zampetta che ho qui
tra le mani?»
«È sorella di quest’altra.»
Sotto la pelle delicata e morbida della mano che venne ad afferrarlo
bruscamente alla gola, lo Chourineur sentì tendersi nervi e muscoli
d’acciaio.
La Goualeuse, rifugiatasi in fondo all’androne, aveva fatto
lestamente alcuni gradini: si fermò un momento e si rivolse
all’ignoto difensore esclamando:
«Oh! grazie, signore, d’aver preso le mie parti. Lo Chourineur m’ha
picchiata perché non volevo pagargli da bere. Io ho reagito, ma non
ho potuto fargli molto male con le mie piccole forbici. Ora sono
fuori pericolo, lasciatelo; state attento, perché avete a che fare
con lo Chourineur.»
Il terrore che incuteva quell’uomo era grandissimo.
«Ma voi non mi ascoltate, allora? Vi dico che è lo Chourineur!»
ripeté la Goualeuse.
«E io sono un tipo che non ha fifa» rispose lo sconosciuto. Poi
tutto tacque.
Si sentì per qualche secondo il rumore di una lotta accanita. «Ma
allora vuoi che ti accoppi?» esclamò il bandito facendo
uno sforzo violento per liberarsi del suo avversario che trovava di
una forza straordinaria. «Bene, bene, pagherai per la Goualeuse e
per te» aggiunse digrignando i denti.
«Pagare a pugni contanti, sì» rispose lo sconosciuto.
«Se non mi molli il collo, ti mangio il naso» mormorò lo Chourineur
con voce strozzata.
«Ho il naso troppo piccolo, amico, e tu non ci vedi molto bene!»
«Allora vieni sotto il lampione.»
«Vieni» rispose lo sconosciuto, «ci guarderemo nel bianco degli
occhi.»
E buttandosi contro lo Chourineur, che teneva sempre per il collo,
lo fece indietreggiare fino alla porta dell’androne e lo spinse
violentemente sulla strada illuminata a malapena dalla fioca luce
del lampione.
Il bandito incespicò; ma, riprendendosi subito, si gettò infuriato
contro lo sconosciuto la cui corporatura agile e slanciata non
sembrava nascondere la forza straordinaria di cui dava prova.
Lo Chourineur, benché di costituzione atletica e di grandissima
abilità in un tipo di pugilato chiamato volgarmente la savate,
trovò, come si dice, il suo maestro.
Lo sconosciuto gli agganciò la gamba (con una specie di sgambetto)
mostrando meravigliosa abilità, e lo fece cadere due volte.
Non volendo riconoscere la superiorità dell’avversario, lo
Chourineur ritornò alla carica con ruggiti di rabbia.
Allora il difensore della Goualeuse, cambiando bruscamente tecnica,
fece piovere sulla testa del bandito una gragnuola di colpi così
efficaci che sembravano assestati con un guanto di ferro.
Questi colpi, degni dell’invidia e dell’ammirazione di Jack Turner,
uno dei più famosi pugili di Londra, non erano d’altronde
contemplati nei regolamenti della savate, perciò lo Chourineur ne fu
doppiamente stordito; per la terza volta il brigante cadde come un
bue sul selciato mormorando:
«Mi hai tolto tutta la polvere di dosso.»
«Non finitelo, se si arrende, abbiate pietà di lui!» disse la
Goualeuse, che durante la rissa s’era arrischiata sulla soglia
dell’androne della casa di Bras-Rouge. Poi, presa da stupore,
aggiunse: «Ma chi siete voi? A parte il Maître d’école, non c’è
nessuno, dalla rue Saint-Eloi fino a Notre-Dame, che sia in grado di
battere lo Chourineur. Vi ringrazio molto, signore; ahimè, senza di
voi egli mi avrebbe ucciso.»
Lo sconosciuto, invece di rispondere alla donna, stava ad ascoltarne
attentamente la voce.
Mai timbro più dolce, più fresco, più argentino era giunto alle sue
orecchie; cercò di vedere in volto la Goualeuse; non poté riuscirvi,
la notte era troppo buia, la luce del lampione era troppo debole.
Dopo essere stato qualche minuto immobile, lo Chourineur mosse le
gambe, le braccia, e infine si pose a sedere.
«State attento!» gridò la Goualeuse, rifugiandosi di nuovo
nell’androne e tirando il suo protettore per un braccio, «state
attento, forse vuole vendicarsi!»
«Stai tranquilla, ragazza! se ne vuole ancora, ho di che
accontentarlo.»
Il brigante udì quelle parole.
«Ho la zucca a pezzi» disse allo sconosciuto. «Per oggi ne ho
abbastanza, non ho più voglia; un’altra volta forse, se ti ritrovo.»
«Non sei contento? ti lamenti?» esclamò lo sconosciuto con tono
minaccioso. «Mi sono comportato da vigliacco?»
«No, no, non mi lamento; sei un giovanotto che ha del fegato»
rispose il brigante con tono burbero, ma con quella sorta di stima
piena di rispetto che la forza fisica ispira sempre alla gente di
quella specie. «Mi hai vinto; e nessuno, eccetto il Maître d’école,
che si mangerebbe tre Alcidi per colazione, nessuno fino a questo
momento può vantarsi d’avermi messo i piedi in testa.»
«Bene; e poi?»
«Poi?... ho trovato il mio maestro, ecco tutto. Tu troverai il tuo
un giorno o l’altro, prima o poi... tutti trovano il loro... In
mancanza di uomini c’è sempre Dio, come dicono i preti. Una cosa è
sicura: ora che hai messo sotto i piedi lo Chourineur, puoi fare
tutto quello che vuoi nella Cité. Tutte le sgualdrine saranno tue
schiave: osti e ostesse non oseranno rifiutare di farti credito. Ma
insomma chi sei?... parli il nostro gergo come non ho mai sentito!
4 Mi hai vinto.
Se sei ladro, non sono l’uomo che fa per te. Io ho dato coltellate,
è vero; perché, quando il sangue mi monta alla testa, vedo rosso, e
devo colpire... ma ho pagato il fio delle mie coltellate con
quindici anni di galera. Ho scontato la pena, non devo niente ai
giudici, e non ho mai rubato; domandalo alla Goualeuse.»
«È vero, non è un ladro» disse questa.
«Allora andiamo a bere un bicchiere d’acquavite, così mi conoscerai»
disse lo sconosciuto, «andiamo, da buoni amici.»
«È gentile da parte tua... Sei il mio maestro, lo riconosco, sai
adoperare molto bene le mani... C’è stata soprattutto la gragnuola
di colpi alla fine... Capperi! come mi grandinavano sulla testa! non
ho mai visto niente di simile... che fuoco di fila! picchiavi come
un martello. È un gioco nuovo... bisognerà che me lo insegni.»
«Ricomincerò quando vorrai.»
«Eh! non con me, almeno; eh! non con me. Ho ancora il capogiro. Ma
allora tu conosci Bras-Rouge, dal momento che ti trovavi
nell’androne di casa sua?»
«Bras-Rouge!» disse lo sconosciuto sorpreso dalla domanda; «non so
che cosa tu voglia dire. Senza dubbio, Bras-Rouge non è il solo ad
abitare in questa casa.»
«Sì, invece, amico... Bras-Rouge ha i suoi motivi per non volere
vicini» rispose lo Chourineur sorridendo con espressione singolare.
«Ebbene, meglio per lui» riprese lo sconosciuto, che sembrava non
volere continuare la conversazione su questo argomento. «Non conosco
né Bras-Rouge né Bras-Noir; pioveva, ero entrato un momento
nell’androne per mettermi al coperto: volevi picchiare questa povera
ragazza, io t’ho battuto, tutto qui.»
«Giusto; d’altronde i tuoi affari non mi riguardano; tutti quelli
che hanno bisogno di Bras-Rouge non vanno a gridarlo sui tetti. Non
parliamone più.» Poi, rivolgendosi alla Goualeuse: «Per me, sei una
brava ragazza; t’ho dato una scoppola e tu m’hai ripagato con un
colpo di forbici, era nel gioco; ma è stato gentile da parte tua non
avermi aizzato contro questo mastino, quando non ne potevo più.
Vieni a bere con noi! paga il signore. A proposito, amico» disse
allo sconosciuto, «invece d’andare a bere proporrei di cenare al
Lapin Blanc: è una bettola.»
«D’accordo, pago la cena. Vuoi venire, Goualeuse?» disse lo
sconosciuto.
«Oh! Avevo molta fame» rispose; «ma la vista delle batterie mi dà la
nausea, mi toglie l’appetito.»
«Su! su! ti verrà mangiando» disse lo Chourineur «e la cucina del
Lapin Blanc è molto buona.»
I tre personaggi, allora, in perfetto accordo, si avviarono verso la
taverna.
Durante la lotta tra lo Chourineur e lo sconosciuto, un carbonaio di
statura colossale, imboscato in un altro androne, aveva osservato
con ansietà le fasi del combattimento, senza tuttavia, come abbiamo
visto, prestare il più piccolo aiuto a uno o all’altro dei due
avversari.
Quando lo sconosciuto, lo Chourineur e la Goualeuse si diressero
verso la taverna, il carbonaio si mise a seguirli.
Il bandito e la Goualeuse entrarono per primi nella bettola; lo
sconosciuto stava seguendoli, quando il carbonaio gli si avvicinò e
gli disse a bassa voce in inglese e con tono di rispettosa
rimostranza:
«Signore, state molto attento!»
Lo sconosciuto fece spallucce e raggiunse i compagni.
Il carbonaio non si allontanò dalla porta della bettola; porgen-
do attentamente orecchio, guardava di tanto in tanto attraverso un
buchetto praticato nel grosso strato di bianco di Spagna che in
genere si spalma sulla parte interna dei vetri di tali covi.
II L’OSTESSA
La bettola del Lapin Blanc si trova verso la metà della rue aux
Fèves. La taverna occupa il pianterreno di una grande casa la cui
facciata dispone di due finestre dette a ghigliottina.
Sopra la porta di un oscuro androne a volta oscilla una lanterna
oblunga sul cui vetro incrinato sta scritta in lettere rosse questa
parola: «Alloggi».
Lo Chourineur, lo sconosciuto e la Goualeuse entrarono nella
taverna.
È una sala ampia e bassa, dal soffitto affumicato percorso da travi
nere, rischiarata dalla luce rossastra di una lampada difettosa. Sui
muri, ridipinti a calce, sono stati incisi qua e là disegni osceni o
sentenze in gergo.
Il suolo battuto, impregnato di salnitro, è ricoperto di fango; una
bracciata di paglia è disposta, come un tappeto, ai piedi del banco
dell’ostessa, situato a destra della porta e sotto la lampada.
A ogni lato della sala ci sono sei tavoli; essi hanno un’estremità
incastrata nel muro, come le panche a cui s’accompagnano. In fondo,
una porta conduce in cucina; a destra, vicino al banco, c’è
un’uscita sul corridoio che conduce ai tuguri dove si dorme la notte
per tre soldi.
Ora, qualche parola sull’ostessa e sui suoi ospiti.
L’ostessa si chiama comare Ponisse; la sua triplice professione
consiste nel dare alloggio, nel gestire la bettola e nel noleggiare
vestiti ai miserabili che pullulano per queste vie immonde.
L’ostessa ha circa quarant’anni. È grande, robusta, corpulenta,
accesa in volto, con un po’ di barba. La voce rauca, virile, le
braccia grosse, le mani larghe fanno pensare a una forza non comune;
porta sopra la cuffia un vecchio fazzoletto rosso e giallo; uno
scialle di pelo di coniglio le si incrocia sul petto e le si annoda
dietro la schiena: il suo vestito di lana verde non riesce a
privarci della vista di due zoccoli neri bruciacchiati in più di un
posto da uno scaldino; inoltre l’ostessa ha una faccia abbronzata,
infiammata dall’uso eccessivo di liquori forti.
Il banco, piombato, è pieno di grandi boccali in legno cerchiati di
ferro e di varie misure di stagno; su una mensoletta attaccata al
muro si scorgono parecchi flaconi di vetro sagomati in maniera da
rappresentare la figura in piedi dell’imperatore.
Queste bottiglie contengono bevande adulterate di color rosa e
verde, conosciute col nome di Parfait Amour e di Consolation.
Infine un grosso gatto nero dalle pupille gialle, accovacciato
vicino all’ostessa, sembra il genio familiare di questo luogo.
Per un contrasto che sembrerebbe impossibile se non si sapesse che
l’animo umano è un abisso insondabile... un ramo di ulivo benedetto,
che l’ostessa aveva comperato in chiesa a Pasqua, era posto dietro
la cassa d’un vecchio orologio a cucù.
Due figure sinistre, con la barba ispida, vestite quasi di stracci,
cominciavano allora un boccale di vino che era stato servito loro, e
parlavano a voce bassa con aria inquieta.
Uno di loro in particolare, pallidissimo, quasi livido, si calcava
spesso fin sopra gli occhi il vecchio berretto greco che aveva in
testa; teneva la mano sinistra quasi sempre nascosta, avendo cura,
per quanto possibile, di dissimularla quando era obbligato a
servirsene.
Più in là stava a tavola un giovane di appena sedici anni, imberbe,
emaciato, scavato, terreo, con lo sguardo spento: aveva lunghi
capelli neri che gli svolazzavano attorno al collo; questo
adolescente, ritratto del vizio precoce, fumava una corta pipa
bianca.
Con la schiena appoggiata al muro, con le mani nelle tasche del
camiciotto, con le gambe stese sulla panca, si levava la pipa di
bocca solo per portare alle labbra la bottiglia di acquavite che
aveva davanti.
Gli altri clienti della bettola, uomini o donne, non offrivano
niente di notevole, i loro volti erano feroci o inebetiti, la loro
allegria volgare o licenziosa, il loro silenzio cupo o stupido.
Questi erano gli ospiti della bettola quando lo sconosciuto, lo
Chourineur e la Goualeuse vi entrarono.
I tre ultimi personaggi hanno una parte troppo importante in questo
nostro racconto, le loro figure spiccano troppo sulle altre perché
le si debba trascurare.
Lo Chourineur, un uomo di grande statura e di costituzione atletica,
ha capelli d’un biondo pallido che dà sul bianco, sopracciglia folte
ed enormi favoriti d’un rosso acceso.
Il sole, la miseria, le dure fatiche dei lavori forzati gli hanno
dato quell’abbronzatura di color scuro, olivastro, per così dire,
tipico dei galeotti.
Nonostante il terribile soprannome, quest’uomo ha un volto in cui
traspare più una sorta di audacia brutale che la ferocia; quantunque
la parte posteriore del suo cranio, singolarmente sviluppata,
indichi il predominare in lui degli appetiti sanguinari e carnali.
Lo Chourineur indossa un vecchio camiciotto blu, un paio di
pantaloni di velluto frusto un tempo verde, di cui non si riesce a
distinguere il colore sotto il notevole strato di fango che li
ricopre.
Per una strana anomalia, i lineamenti della Goualeuse offrono un
esempio di quei tipi angelici e candidi che conservano la loro
idealità anche in mezzo alla depravazione, come se la creatura fosse
incapace di cancellare con i suoi peccati l’alta impronta che Dio ha
stampato sul volto di qualche essere privilegiato.
La Goualeuse aveva sedici anni e mezzo.
Una fronte purissima, bianchissima sovrastava un volto d’un ovale
perfetto.
Una frangia di ciglia, così lunghe da arricciarsi un poco, velava
per metà due grandi occhi azzurri. La peluria della prima giovinezza
vellutava due gote tonde e vermiglie. I dolcissimi tratti che
disegnavano la piccola bocca purpurea, il naso fine e dritto, il
mento con la fossetta erano adorabili. Dalle tempie morbide come il
raso scendevano due trecce d’un magnifico biondo cinerino che
s’ingrossavano all’altezza delle guance, risalivano dietro
l’orecchio di cui si vedeva il lobo di roseo avorio e scomparivano
poi sotto le pieghe strette d’un grande fazzoletto di cotonina a
quadri blu, annodato, come si dice comunemente, en marmotte.
Al collo, che era d’una bellezza e di una bianchezza folgoranti,
portava un giro di coralli. Sotto il vestito di lana scura, troppo
largo, si poteva intuire un corpo sottile, flessuoso e affusolato
come un giunco. Un vecchio scialletto color arancio, a frange verdi,
le s’incrociava sul petto.
La Goualeuse aveva colpito con la dolcezza della voce il suo ignoto
difensore. Infatti la sua voce soave, vibrante, melodiosa, aveva
un’attrattiva così irresistibile sull’orda di scellerati e di donne
perdute in mezzo ai quali viveva la ragazza che questi la
supplicavano spesso di cantare, la ascoltavano rapiti, e avevano
finito col soprannominarla la cantante.
La Goualeuse aveva ricevuto un altro soprannome, dovuto forse al
candore verginale dei suoi lineamenti...
La chiamavano anche Fleur-de-Marie, parole che in gergo significano
la Vergine.
Chi sa se potremo far capire al lettore la strana impressione che
abbiamo provato quando in seno a questa lingua infame in cui le
parole che significano rapina, sangue, assassinio sono ancora più
orribili e spaventose delle cose orribili e spaventose che esse
esprimono, quando, dunque, abbiamo colto in questa metafora, una
poesia così soave, così teneramente devota: Fleur-deMarie.
Non pare quasi di vedere un bel giglio che innalzi il biancore
odoroso del suo calice immacolato in mezzo a una carneficina?
Contrasto bizzarro, caso stranissimo! gli inventori di questa lingua
spaventosa hanno attinto alla sfera della poesia sacra! il casto
pensiero che volevano esprimere si è arricchito d’un fascino nuovo!
Queste riflessioni facendoci pensare agli altri contrasti che spesso
rompono l’orribile monotonia delle esistenze più criminali, non ci
spingono a credere che anche le anime più tenebrose sono ancora
attraversate di tanto in tanto dalla vivida luce di certi princìpi
morali, religiosi, per così dire innati? Lo scellerato tutto d’un
pezzo è un fenomeno rarissimo.
Il difensore della Goualeuse (daremo a questo sconosciuto il nome di
Rodolphe) dimostrava un’età tra i trenta e i trentasei anni; la sua
statura, media, snella, perfettamente proporzionata, non dava a
vedere la forza sorprendente che aveva appena dimostrato nella lotta
con l’atletico Chourineur.
Sarebbe stato difficile attribuire un carattere preciso al volto di
Rodolphe; vi si leggevano i contrasti più strani.
I lineamenti erano regolari e belli, troppo belli forse per un uomo.
Il colorito d’un pallore delicato, i grandi occhi d’un bruno
arancione, quasi sempre mezzo chiusi e circondati da una leggera
aureola azzurra, la molle andatura, lo sguardo distratto, il sorriso
ironico sembravano denunciare un uomo vissuto la cui costituzione
fisica fosse non diciamo rovinata, ma indebolita dalle raffinate
dissolutezze d’una vita opulenta.
Eppure, con la sua mano elegante e bianca, Rodolphe aveva appena
atterrato uno dei banditi più robusti, più temuti di quel quartiere
di banditi.
Noi diciamo raffinate dissolutezze perché l’ubriachezza che dà un
vino generoso è completamente diversa da quella che dà una schifosa
bevanda sofisticata; perché insomma, agli occhi d’un osservatore, le
dissolutezze hanno sintomi diversi come hanno natura e specie
differenti.
Certe pieghe della fronte di Rodolphe rivelavano il pensatore
profondo, l’uomo essenzialmente contemplativo... eppure i contorni
decisi della bocca, l’accennare della testa alle volte imperioso e
sicuro denunciavano allora l’uomo d’azione, la cui forza fisica, la
cui audacia esercitano sempre un irresistibile ascendente sulla
folla.
Spesso il suo sguardo si caricava di una triste malinconia, e allora
una indulgente commiserazione e una pietà commossa si dipingevano
sul suo viso. Altre volte, invece, lo sguardo di Rodolphe diventava
duro, cattivo; il suo volto esprimeva tanto sdegno e tanta crudeltà
da far credere che egli fosse incapace di un qualche sentimento di
tenerezza.
Il seguito del racconto mostrerà con che ordine i fatti e le idee
destavano in lui passioni così contrarie.
Nella lotta con lo Chourineur, Rodolphe non aveva provato né collera
né odio contro un avversario indegno di lui. Sicuro della sua forza,
della sua abilità, della sua agilità, non poteva avere che un
disprezzo beffardo per quella specie di bestione che aveva
atterrato.
Per completare il ritratto di Rodolphe diremo che i suoi capelli
castano chiari avevano le stesse sfumature delle sue sopracciglia
nobilmente arcuate e dei suoi baffetti fini e morbidi come la seta;
il suo mento, un po’ lungo, era accuratamente sbarbato.
Peraltro le maniere e la lingua che ostentava con straordinaria
disinvoltura lo rendevano molto simile agli ospiti della bettola.
Al collo, slanciato, modellato con la stessa eleganza di quello del
Bacco indiano, portava un fazzoletto nero annodato senza cura, e le
cui estremità ricadevano sul colletto di un camiciotto blu le cui
macchie biancastre dimostravano quanto fosse consumato. Le sue
grosse scarpe erano munite di una doppia fila di chiodi. Infine,
niente, eccetto le mani che erano di insolita signorilità, lo
distingueva materialmente dagli ospiti della bettola; mentre il suo
fare risoluto, e, per così dire, di serena audacia lo poneva a una
enorme distanza da loro.
Entrando nella bettola, lo Chourineur, posando una delle sue larghe
mani pelose sulla spalla di Rodolphe, gridò:
«Salute al maestro dello Chourineur!... Sì, amici, questo giovanotto
me le ha suonate... Lo dico per i pivelli che avessero voglia di
farsi spezzare le reni o spaccare la testa, compreso il Maître
d’école che, questa volta, troverà pane per i suoi denti... Ve lo
giuro, parola d’onore.»
A queste parole, tutti, dall’ostessa all’ultimo dei clienti della
bettola, guardarono il vincitore dello Chourineur con timoroso
rispetto.
Alcuni spostarono bicchieri e boccali verso un’estremità della
tavola a cui erano seduti, premurosi di fare posto a Rodolphe nel
caso che egli avesse voluto mettersi accanto a loro; altri
s’avvicinarono allo Chourineur per domandargli a voce bassa alcuni
particolari su questo sconosciuto che faceva il suo debutto in
società con una vittoria così clamorosa.
L’ostessa, infine, aveva rivolto a Rodolphe uno dei suoi più
graziosi sorrisi.
Cosa inaudita, ineffabile, favolosa nei fasti del Lapin Blanc, essa
si era alzata da dietro il banco per andare a ricevere ordini da
Rodolphe e per sapere che cosa dovesse servire alla compagnia,
riguardo che l’ostessa non aveva mai avuto neppure per il famigerato
Maître d’école, lo scellerato terribile che faceva tremare lo stesso
Chourineur.
Uno dei due individui sinistri che abbiamo prima descritto (quello
che, pallidissimo, nascondeva la mano sinistra e si calcava sempre
il berretto greco sulla fronte) si chinò verso l’ostessa, che
asciugava con cura la tavola di Rodolphe, e le disse, con voce
rauca:
«Il Maestro è venuto quest’oggi?» «No» disse comare Ponisse.
«E ieri?»
«Ieri sì.»
«Con la nuova donna?»
«Ma insomma! Vuoi farmi passare per una spia, con le tue sciocche
domande? Pensi che vada a denunciare i miei clienti?» disse
l’ostessa con voce brutale.
«Ho un appuntamento questa sera col Maestro» ripeté il brigante,
«dobbiamo sbrigare assieme degli affari.»
«Chissà che bella roba saranno i vostri affari, genia d’assassini
che non siete altro!»
«Assassini!» ripeté il brigante irritato, «siamo noi, gli assassini,
che ti diamo da vivere!»
«Ma insomma! vuoi o non vuoi lasciarmi in pace!» gridò l’ostessa
minacciosa, alzando sull’interlocutore il boccale che aveva in mano.
L’uomo ritornò al posto, brontolando.
Fleur-de-Marie, entrando nella taverna dietro allo Chourineur,
scambiò un amichevole cenno di testa con l’adolescente sciupato in
volto.
Lo Chourineur gridò a quest’ultimo:
«Eh! Barbillon, ti scoli sempre acquavite?»
«Sempre! Preferisco non mangiare e avere le ciabatte piutto-
sto che stare senza acquavite nel gargarozzo e senza tabacco nella
pipa» rispose il giovane con voce rotta, senza cambiare posizione e
lanciando enormi boccate di fumo.
«Buonasera, comare Ponisse» disse la Goualeuse.
«Buonasera, Fleur-de-Marie» rispose l’ostessa avvicinandosi alla
ragazza per scrutare i vestiti che la disgraziata portava e che le
aveva dato a nolo. Dopo averla esaminata, le disse con una sorta di
burbera soddisfazione:
«È un piacere darti a nolo della roba, a te... tu sei pulita come
una gattina... io non avrei prestato questo grazioso scialle arancio
a delle canaglie come la Tourneuse o la Tête-de-Mort. Ma per questo
t’ho educata io quando sei uscita di prigione... e bisogna essere
giusti, non c’è persona migliore di te in tutta la Cité.»
La Goualeuse abbassò la testa e non sembrò per niente fiera degli
elogi dell’ostessa.
«To’!» disse Rodolphe, «avete l’ulivo benedetto sull’orologio a
cucù, comare?»
E mostrò col dito il sacro ramoscello posto dietro al vecchio
orologio.
«Ebbene, bisogna pur vivere da cristiani!» rispose ingenuamente
l’orribile donna.
Poi, rivolgendosi a Fleur-de-Marie, aggiunse:
«Senti un po’, Goualeuse, ci farai sentire una delle tue canzoni?»
«Dopo mangiato, comare Ponisse» disse lo Chourineur.
«Che cosa vi porto, brav’uomo?» disse l’ostessa a Rodolphe da cui
voleva farsi benvolere e di cui forse voleva avere l’appoggio in
caso di necessità.
«Chiedetelo allo Chourineur, comare; lui mangia; io pago.»
«Ebbene!» disse l’ostessa volgendosi al bandito, «che cosa vuoi da
mangiare, brutto cane?»
«Due litri di vino da dodici soldi, tre croste di pane molto tenero
e un arlequin»5 disse lo Chourineur, dopo aver meditato un istante
sulla composizione di questo menu.
«Vedo che non hai cessato d’essere un gran bevitore e che gli
arlequins ti piacciono sempre.»
«Ebbene! ora, Goualeuse, hai fame?» disse lo Chourineur. «No,
Chourineur.»
«Vuoi qualcos’altro invece di un arlequin, ragazza?» disse Ro-
dolphe.
«Oh! no... la fame mi è passata...»
«Ma guardalo pure il mio maestro... ragazza» disse lo Chouri-
neur sfoderando una grande risata e indicando con uno sguardo
Rodolphe. «Hai paura di sbirciarlo?»
La Goualeuse arrossì e abbassò gli occhi senza rispondere.
Dopo qualche istante, l’ostessa andò di persona a portare sulla
tavola di Rodolphe un grande boccale di vino, un pane, e un arlequin
che risparmieremo di descrivere al lettore ma che lo Chourineur
sembrò trovare perfettamente di suo gusto, perché gridò:
«Che piatto! Dio d’un Dio!... che piatto! È come un omnibus! Ce n’è
per tutti i gusti, per quelli che mangiano di grasso e per quelli
che mangiano di magro, per quelli a cui piace lo zucchero e per
quelli a cui piace il pepe... Cosce di pollo, code di pesce, ossi di
costoletta, croste di pasticcio, fritto, formaggio, verdure, teste
di beccaccia, biscotto e insalata. Ma mangia, su, Goualeuse... Hai
fatto bisboccia quest’oggi?»
«Bisboccia! sì, proprio. Ho preso stamattina, come il solito, un
soldo di latte e un soldo di pane.»
L’ingresso d’un nuovo personaggio nell’osteria fece interrompere
tutti i discorsi e alzare tutte le teste.
5 L’arlequin è un piatto di carne, pesce, e di tutti gli avanzi di
tavola dei domestici delle famiglie abbienti. Siamo obbligati a
insistere su questi particolari, per quanto rivoltanti, perché
contribuiscono a illuminarci sugli strani costumi di questa gente.
Era un uomo di mezza età, agile e robusto, con giacca e berretto,
perfettamente al corrente delle usanze della bettola; per chiedere
da mangiare, ricorse alla lingua familiare a quella gente.
Benché lo straniero non fosse un cliente abituale della bettola,
dopo un secondo nessuno gli badò più: era giudicato.
Per riconoscere i loro simili, i banditi, come la gente per bene,
hanno un occhio infallibile.
Il nuovo arrivato si era messo in modo da poter osservare i due
individui sinistri dei quali uno, poco prima, aveva chiesto del
Maestro. Li teneva sempre sott’occhio; ma questi, data la loro
posizione, non potevano accorgersi di essere oggetto di
sorveglianza.
Le conversazioni, interrotte un momento prima, ripresero il loro
corso.
Nonostante la sua audacia, lo Chourineur mostrava una sorta di
deferenza per Rodolphe; non osava dargli del tu.
Quest’uomo non rispettava le leggi, rispettava però la forza...
«Credetemi!» disse a Rodolphe, «benché mi abbiate fatto ballare,
nondimeno sono contento di avervi incontrato.»
«Perché ti piace l’arlequin?»
«Prima di tutto... e poi perché non vedo l’ora di vedervi azzannare
il Maestro, lui che mi ha sempre bastonato... vederlo a sua volta
bastonato... come mi divertirò.»
«Ma come! credi che per divertirti io salterò addosso al Maestro
come un mastino?»
«No, ma vi salterà addosso lui, non appena sentirà dire che siete
più forte» rispose lo Chourineur fregandosi le mani.
«Ho ancora in serbo tanto contante da dare anche a lui la sua
parte!» disse con noncuranza Rodolphe; poi riprese: «Sentite, fa un
tempo da lupi... se domandassimo un boccale d’acquavite con
zucchero, forse alla Goualeuse verrebbe la voglia di cantare...»
«La cosa mi piace» disse lo Chourineur.
«E per fare conoscenza, ci racconteremo la nostra storia» aggiunse
Rodolphe.
«Sono l’Albino» disse lo Chourineur, «ex forzato, scaricatore di
legname fluitato al quai Saint-Paul, pieno di freddo d’inverno,
abbrustolito d’estate, ecco il mio ritratto» disse il commensale di
Rodolphe facendo il saluto militare con la mano sinistra. «Ma dico»
aggiunse, «e voi, maestro, è la prima volta che vi si vede nella
Cité... Non è per rimproverarvelo, ma ci siete entrato passando
spavaldamente sulla mia testa e picchiandomi come
una pelle di tamburo. Perdinci, che scarica... soprattutto la
gragnuola finale... Ritorno sempre sullo stesso punto, che stile
perfetto!... Ma il vostro mestiere non è certo quello di picchiare
lo Chourineur.»
«Faccio il pittore di ventagli! e mi chiamo Rodolphe.»
«Pittore di ventagli! È per questo allora che avete le mani così
bianche» disse lo Chourineur. «Non importa, se tutti i vostri
colleghi sono come voi, penso che non si debba essere debolucci per
fare quel mestiere... Ma dal momento che siete operaio, e senza
dubbio un onesto operaio... perché venite in una bettola dove non ci
sono che ladri, assassini o ex forzati come me, e che non possono
andare altrove?»
«Vengo qui, perché mi piace la buona compagnia.»
«Uhm!... Uhm!...» disse lo Chourineur scuotendo la testa dubbioso.
«Vi ho trovato nell’androne di Bras-Rouge; insomma... insomma...
basta... Dite di non conoscerlo?»
«Hai intenzione di seccarmi ancora per molto con questo tuo
Bras-Rouge? Che vada all’inferno... se la cosa piace a Lucifero!...»
«Sentite, maestro, voi forse non vi fidate di me e avete ragione...
Ma se vorrete vi racconterò la mia storia... a condizione che
m’insegniate a dare quei colpi che sono stati la girandola finale
del sacco di legnate che ho ricevuto.»
«Ci sto, Chourineur, mi racconterai la tua storia... e anche la
Goualeuse racconterà la sua.»
«Va bene» riprese lo Chourineur... «fa un tempo da non lasciare un
cane di fuori... ci divertiremo... vuoi, Goualeuse?»
«Certo che lo voglio; ma non sarà una cosa lunga» disse la
Goualeuse.
«E voi ci racconterete la vostra, amico Rodolphe?» aggiunse lo
Chourineur.
«Sì, comincerò...»
«Pittore di ventagli» disse la Goualeuse, «è un mestiere molto
carino.»
«Eh! quanto guadagnate facendo questo lavoro?» disse lo Chourineur.
«Mi pagano un tanto al ventaglio» rispose Rodolphe; «nelle giornate
buone arrivo fino a quattro franchi, qualche volta fino a cinque, ma
d’estate, perché i giorni sono lunghi.»
«E andate spesso in giro, briccone?»
«Sì, fintanto che ho denaro! prima di tutto pago sei soldi alla
notte per la mia cameretta.»
«Scusate, mio signore... avete una camera a sei soldi, voi!» disse
lo Chourineur portando la mano al berretto...
L’espressione mio signore, detta ironicamente dallo Chourineur, fece
impercettibilmente sorridere Rodolphe, che riprese:
«Oh! mi piacciono le comodità e la pulizia.»
«Ecco un pari di Francia! un banchiere! un ricco!» esclamò lo
Chourineur, «ha una camera a sei soldi.»
«Inoltre» continuò Rodolphe, «quattro soldi di tabacco, e fa dieci,
quattro soldi per fare colazione alla mattina, quattordici; quindici
soldi per pranzare; uno o due soldi di acquavite, e fa all’incirca
trenta soldi al giorno. Non ho bisogno di lavorare tutta la
settimana; nel tempo che mi resta faccio bisboccia.»
«E la vostra famiglia?» disse la Goualeuse.
«Il colera se l’è inghiottita» riprese Rodolphe.
«Che cosa facevano i vostri genitori?» domandò la Goualeuse.
«Rigattieri sotto i portici delle Halles, negozianti di roba
vecchia.»
«E quanto avete preso vendendo la loro merce?» disse lo
Chourineur.
«Ero troppo giovane, è stato il mio tutore a venderla; quando
sono diventato maggiorenne, gli sono rimasto debitore di trenta
franchi... Ecco la mia eredità.»
«E il vostro padrone di adesso?» domandò lo Chourineur.
«Il mio padrone si chiama Borel, rue des Bourdonnais, stupido... ma
brutale; ... ladro... ma avaro; piuttosto che dare la paga agli
operai preferisce farsi cavare gli occhi. Ecco i suoi connotati; se
si smarrisce, bisogna lasciare che si perda, non bisogna ricondurlo
alla sua fabbrica. Sono stato garzone da lui dall’età di quindici
anni; ho avuto la fortuna di non andare a fare il militare; abito in
rue de la Juiverie, al quarto piano sul davanti; mi chiamo Rodolphe
Durand... Ecco la mia storia.»
«Ora, tocca a te, Goualeuse» disse lo Chourineur «la mia storia la
tengo in serbo per la fine.»
III
STORIA DELLA GOUALEUSE
«Cominciamo pure dall’inizio» disse lo Chourineur. «Sì... i tuoi
genitori?» riprese Rodolphe.
«Non li conosco» disse la Goualeuse.
«Ah! bella!» fece lo Chourineur.
«Mai visti; nata sotto un cavolo, come si dice ai bambini.» «To’, è
strano, Goualeuse!... siamo della stessa famiglia...» «Anche tu,
Chourineur?»
«Orfanello abbandonato su un marciapiede di Parigi, proprio
come te, ragazza.»
«E chi t’ha allevata, Goualeuse?» domandò Rodolphe.
«Non so... Risalendo il più lontano possibile nel tempo, mi ricordo
che vivevo, credo fra i sette e gli otto anni, con una vecchia orba
d’un occhio chiamata Chouette... perché aveva un naso adunco, un
occhio verde e rotondo che la rendevano simile a una civetta senza
un occhio.»
«Ah!... ah!... ah!... Me la immagino la Chouette!» esclamò lo
Chourineur ridendo.
«La guercia» riprese la Goualeuse, «mi faceva vendere, la sera, lo
zucchero d’orzo sul Pont-Neuf; un espediente per chiedere
l’elemosina... Quando rientrando non portavo a casa almeno dieci
soldi, mi picchiava invece di darmi da mangiare.»
«Capisco, ragazza» disse lo Chourineur, «una pedata per companatico,
scapaccioni per contorno.»
«Oh! Dio mio, sì...»
«E sei sicura che questa donna non fosse tua madre?» domandò
Rodolphe.
«Ne sono sicura, la Chouette me l’ha tanto rimproverato di non avere
né padre né madre; mi diceva sempre d’avermi raccolta dalla strada.»
«Così» riprese lo Chourineur, «invece di mangiare dovevi ballare,
quando non facevi un incasso di dieci soldi?»
«Ci bevevo sopra un bicchiere d’acqua, e andavo a battere i denti
sopra un pagliericcio steso per terra e in cui la guercia aveva
fatto un buco per ficcarmici... Vedete, si crede che la paglia sia
calda; ebbene, ci si sbaglia.»
«La paglia» esclamò lo Chourineur, «hai ragione, ragazza, è una vera
ghiacciaia; il letame sarebbe cento volte meglio! ma si fa gli
schizzinosi, si dice: è volgare... è già stato usato!»
La facezia fece sorridere la Goualeuse che continuò:
«La mattina del giorno dopo la guercia mi dava per colazione la
stessa razione di botte che mi aveva dato per cena, e io me ne
andavo a Montfaucon in cerca di lombrichi che dovevano servire da
esca ai pesci; perché di giorno la Chouette aveva una bottega di
canne da pesca sotto il ponte Notre-Dame... Per una bambina di sette
anni che muore di fame e di freddo, c’è molta strada... dalla rue de
la Mortellerie a Montfaucon.»
«Il camminare t’ha fatto crescere dritta come una canna, ragazza!
non devi lamentartene» disse lo Chourineur battendo l’acciarino per
accendersi la pipa.
«Insomma, ritornavo sfinita con una cesta piena di lombrichi.
Allora, verso mezzogiorno, la Chouette mi dava un bel pezzo di pane,
e mi mangiavo anche la mollica, ve lo giuro.»
«Il digiunare t’ha fatto un vitino di vespa, ragazza; non devi
lamentartene» disse lo Chourineur aspirando rumorosamente alcune
boccate di fumo. «Ma che cosa avete, amico? no, voglio dire maestro
Rodolphe? Avete una espressione tutta così... Perché questa giovine
ha dovuto soffrire? Vedi... tutti abbiamo dovuto soffrire!»
«Oh! scommetto proprio, Chourineur, che non sei stato infelice come
me» disse la Goualeuse.
«Io, Goualeuse!... Ma pensa allora, ragazza, che sei stata una
regina rispetto a me! Tu almeno, quand’eri piccola, dormivi sulla
paglia e mangiavi pane... Io invece passavo le notti, nella migliore
delle ipotesi, nelle fornaci di gesso di Clichy, da vero vagabondo,
e mi rifocillavo con le foglie dei cavoli che trovavo sul ciglio
della strada; ma, il più delle volte, siccome c’era troppo da
camminare per arrivare alle fornaci di Clichy, dato che la gran fame
mi tagliava le gambe, mi coricavo sotto le grosse pietre del
Louvre... e d’inverno avevo le lenzuola bianche... quando nevicava.»
«Vedi, un uomo è molto più resistente; ma una povera ragazzina»
disse la Goualeuse; «senza contare che ero piccola come uno
scricciolo.»
«Ma ti ricordi di queste cose, tu?»
«Lo credo bene; quando la Chouette mi picchiava, cadevo sempre al
primo colpo; allora lei mi metteva sotto i piedi gridando: “Questa
piccola pezzente! non ha un briciolo di forza; non è neppure capace
di resistere a due scappellotti”. E poi mi chiamava Pégriotte; non
ho avuto altro nome; è stato il mio battesimo.»
«Come me che ho avuto il battesimo dei cani randagi; mi chiamavano
cosa... coso... o Albino. È strano come noi ci assomigliamo,
ragazza» disse lo Chourineur.
«È vero» disse la Goualeuse, che si rivolgeva quasi sempre a
quest’uomo; provando, suo malgrado, una sorta di vergogna in
presenza di Rodolphe, osava appena alzare gli occhi, benché questi
sembrasse appartenere al genere di gente che era solita frequentare.
«E dopo essere stata in cerca di lombrichi per la Chouette, che cosa
facevi?» domandò lo Chourineur.
«La guercia mi faceva chiedere la carità vicino a lei fino a notte;
perché la sera lei andava a vendere fritture sul Pont-Neuf! Certo! a
quell’ora il mio pezzo di pane era molto lontano; ma se
disgraziatamente chiedevo da mangiare alla Chouette, lei mi
picchiava dicendo: “Portami i dieci soldi d’elemosina, Pégriotte, e
avrai da mangiare!”. Allora io, siccome avevo fame e le botte mi
facevano male, piangevo tutte le lacrime dei miei occhi. La vecchia
mi passava attorno al collo la mia piccola cassetta di zucchero
d’orzo, e mi piantava sul Pont-Neuf. Quanti singhiozzi! e come
tremavo di freddo e di fame!...»
«Sempre come te, ragazza» disse lo Chourineur, interrompendo la
Goualeuse «chi lo crederebbe... eppure la fame fa tremare quanto il
freddo.»
«Insomma, io restavo sul Pont-Neuf fino alle undici di sera col mio
arnese di zucchero d’orzo intorno al collo e piangendo tanto. Al
vedermi piangere... i passanti spesso si commovevano, e qualche
volta arrivavano a darmi fino a dieci, a quindici soldi che io
portavo alla Chouette.»
«Brutta serata per uno scricciolo!»
«Ma ecco che la guercia che vedeva la cosa...»
«Con un occhio» disse lo Chourineur ridendo.
«Con un occhio, se vuoi, dato che ne aveva uno solo; ma ecco
che la guercia prende l’abitudine di darmi sempre le botte prima di
lasciarmi di sentinella sul Pont-Neuf, per farmi piangere davanti ai
passanti e aumentare così il mio incasso.»
«Non era poi così stupida!»
«Sì, tu credi, Chourineur? Io ho finito col fare il callo alle
botte; vedevo che la Chouette andava in bestia quando non piangevo;
allora, per vendicarmi, più lei mi faceva male, più io ridevo; e la
sera, invece di singhiozzare vendendo le mie pasticche di zucchero
d’orzo, cantavo come un usignolo, benché non ne avessi molta
voglia... di cantare.»
«Senti un po’... le pasticche di zucchero d’orzo... quelle sì
dovevano farti gola, povera Goualeuse.»
«Oh! lo credo bene, Chourineur; ma non ne avevo mai assaggiate; era
un mio desiderio... ed è stato questo desiderio a perdermi, adesso
ti dico come. Un giorno, tornando dalla ricerca dei lombrichi, ero
stata picchiata e derubata del mio cesto da alcuni monelli. Rientro,
sapevo che cosa mi aspettava; mi busco la mia dose di botte e niente
pane. La sera, prima che andassi sul ponte, la guercia, furiosa
perché la volta precedente non avevo venduto, invece di picchiarmi
come il suo solito per farmi piangere,
mi tortura a sangue strappandomi i capelli dalle tempie, che è il
punto più sensibile.»
«Canaglia! questo è troppo!» esclamò il bandito battendo il pugno
sul tavolo e aggrottando la fronte. «Picchiare una bambina, passi...
ma torturarla, è troppo!»
Rodolphe aveva ascoltato con attenzione il racconto di
Fleurde-Marie; guardò stupito lo Chourineur; era stato colpito da
questo baleno di sensibilità.
«Ma che cos’hai, Chourineur?» gli disse.
«Che cos’ho! che cos’ho! Come! questo non è niente per voi? Quel
mostro della Chouette che tortura una bambina. Allora voi siete duro
come i vostri pugni!»
«Continua, ragazza» disse Rodolphe alla Goualeuse, senza rispondere
all’interpellanza dello Chourineur.
«Dunque vi dicevo che la Chouette mi torturava per farmi piangere;
io mi impunto; per farla arrabbiare, mi metto a ridere e me ne vado
sul ponte con il mio zucchero d’orzo. La guercia stava davanti alla
padella... Di tanto in tanto, mi mostrava i pugni. Allora, invece di
piangere, cantavo più forte; per giunta avevo una fame, una fame!
Erano sei mesi che portavo pasticche di zucchero d’orzo, e non ne
avevo assaggiato neppure una... Credetemi! Quel giorno, non ci
resisto... Spinta dalla fame e dalla voglia di fare arrabbiare la
Chouette, mi prendo una pasticca e me la mangio.»
«Brava, ragazza!»
«Ne mangio due.»
«Brava! bravissima!!!»
«Perdinci! com’erano buone, ma ecco una venditrice di aranci
che si mette a gridare alla guercia: “Ohè, Chouette... la Pégriotte
ti mangia la merce!”»
«Oh! diavolo la cosa si mette male... la cosa si mette male» disse
lo Chourineur particolarmente interessato. «Povero topolino! Chissà
come tremavi di paura quando la Chouette s’è accorta del fatto, eh!»
«Come te la sei cavata, povera Goualeuse?» disse Rodolphe che
dimostrava lo stesso interesse dello Chourineur.
«Ah! perbacco! è stata dura; ma la cosa divertente» aggiunse la
Goualeuse, «era che la guercia, pur schiattando di rabbia al vedermi
mangiare le sue pasticche, non poteva lasciare la padella perché la
frittura stava cuocendo.»
«Ah!... ah!... ah!... è vero. Ecco una circostanza difficile»
esclamò lo Chourineur ridendo da smascellarsi.
Dopo aver partecipato all’ilarità del bandito, Fleur-de-Marie
riprese:
«Parola d’onore! pensando alle botte che m’aspettavano, mi dico:
“Tanto peggio! che ne mangi una o tre tanto sarò comunque
picchiata”. Prendo una terza pasticca e, prima di mangiarla, siccome
la Chouette da lontano mi minacciava ancora, con la sua grande
forchetta di ferro,... vi giuro che è la verità, le mostro la
pasticca, e gliela mangio sotto gli occhi.»
«Brava! ragazza!... così si spiega il colpo di forbici di poco fa...
Via... via, te l’ho detto che hai del coraggio. Ma la Chouette
t’avrà scorticata viva dopo quel tiro?»
«Venduta la frittura, viene da me... Avevo raccolto tre soldi
d’elemosina e avevo mangiato per sei. Quando la guercia m’ha presa
per mano per portarmi via, ho creduto di cadere sul posto, tanta era
la paura... me ne ricordo come se fosse ora... perché si era proprio
verso capodanno. Sai, ci sono sempre botteghe di giocattoli sul
Pont-Neuf; tutta la sera m’ero sentita gli occhi pieni di luce...
solo per aver guardato tutte quelle belle bambole, tutti quei bei
mobili piccoli... ci pensi, per una bambina...»
«E tu, Goualeuse, non avevi mai avuto qualche giocattolo?» disse lo
Chourineur.
«Io! sei stupido, allora... Chi avrebbe dovuto darmelo? Insomma, la
serata finisce! benché in pieno inverno, avevo addosso solo uno
straccetto di vestito di tela, senza calze, senza camicia, con
zoccoli ai piedi! non c’era pericolo che morissi dal caldo, ti pare?
Ebbene, quando la guercia m’ha preso la mano, mi sono sciolta tutta
in sudore. Quello che più mi spaventava era che la Chouette, per
tutta la strada, non faceva che brontolare fra i denti, invece di
bestemmiare, di strepitare... Ma non mi mollava, e mi faceva
camminare così in fretta, così in fretta che, con le mie gambette,
ero costretta a correre per tenerle dietro. Correndo, avevo perso
uno zoccolo; avevo paura di dirglielo; nonostante un piede scalzo,
le tenni dietro lo stesso... All’arrivo, avevo il piede tutto
insanguinato.»
«Brutta vecchia infame!» esclamò lo Chourineur picchiando di nuovo
con collera sul tavolo; «mi fa uno strano effetto pensare a una
bambina che cammina dietro a quella ladra di vecchia, con il suo
piedino tutto sanguinante.»
«Abitavamo in una soffitta della rue de la Mortellerie; vicino
all’androne c’era un venditore di liquori: la Chouette vi entrò. Lì
si fece dare al banco un quarto d’acquavite.»
«Capperi! se lo bevessi, mi ubriacherei da non reggermi.»
«Era la razione della guercia; la ragione per cui andava a letto che
era sempre ubriaca fradicia. Per questo forse mi picchiava tanto.
Insomma, saliamo: io, te lo giuro, non andavo certo a una festa.
Arriviamo: la Chouette chiude a doppia mandata; mi getto alle sue
ginocchia domandando a più non posso perdono d’aver mangiato le sue
pasticche. Lei non risponde e io la sento camminare nella camera e
borbottare: “Dunque, che cosa farò questa sera, a questa Pégriotte,
a questa ladra di zucchero d’orzo?... Vediamo un po’, che cosa le
farò allora?”. E si fermava per guardarmi stralunando l’occhio
verde. Io ero sempre in ginocchio. Tutt’a un tratto, la vecchia va
verso un’asse e prende un paio di tenaglie.»
«Le tenaglie!» esclamò lo Chourineur. «Sì, le tenaglie.»
«E per cosa fare?»
«Per picchiarti?» disse Rodolphe.
«Per tormentarti?» disse lo Chourineur. «Ah molto, sì!»
«Per strapparti i capelli?»
«Non avete capito: rinunciate a indovinare?»
«Rinuncio.»
«Rinunciamo.»
«Ebbene, era per strapparmi un dente!»
Lo Chourineur tirò una tale bestemmia e la fece seguire da tali
imprecazioni che tutti gli ospiti della bettola si girarono stupiti.
«Ebbene, che cosa hai mai?» disse la Goualeuse.
«Che cosa ho?... ho che se avessi quella vecchia fra le mani, la
ucciderei... Dov’è? Dimmelo. Dov’è? Se la trovo, la faccio fuori.» E
gli occhi del bandito s’iniettarono di sangue.
Rodolphe aveva condiviso l’orrore dello Chourineur per la
crudeltà della guercia; ma si chiedeva per quale fenomeno un
assassino andasse su tutte le furie al sentir raccontare che una
vecchia malvagia aveva voluto, per cattiveria, strappare un dente a
una bambina.
Noi crediamo possibile, anzi probabile, un tale sentimento di pietà
anche in una natura feroce.
«E quella vecchia miserabile te l’ha strappato il dente, povera
piccola?» domandò Rodolphe.
6 Preghiamo i lettori che trovassero esagerata questa crudeltà di
ricordarsi le condanne pronunciate quasi quotidianamente contro
esseri feroci che picchiano e feriscono bambini: e tra tali ignobili
seviziatori non mancano padri e madri.
«Me l’ha strappato, eccome!... e non al primo colpo anche! Dio mio!
come ci ha lavorato! Mi teneva la testa fra le ginocchia come in una
morsa. Alla fine, un po’ con le tenaglie un po’ con le dita, m’ha
estratto il dente; e poi m’ha detto, sicuramente per spaventarmi:
“Adesso, ogni giorno te ne strapperò uno alla stessa maniera,
Pégriotte; e quando non avrai più denti, ti butterò in acqua: sarai
mangiata dai pesci; essi si vendicheranno di te perché sei andata in
cerca di lombrichi per farli abboccare”. Mi ricordo di ciò perché
non mi sembrava giusto... Ecco, come se fosse per fare un piacere a
me che andavo in cerca di lombrichi!»
«Ah! che farabutta! rompere, strappare i denti a una povera
bambina!» esclamò lo Chourineur con rinnovato furore.
«Ebbene, poi? Via, non si vede niente adesso!» disse la Goualeuse.
E sorridendo dischiuse le rosee labbra, mostrando due file di
dentini bianchi come perle.
Indifferenza, dimenticanza, generosità istintiva da parte di questa
disgraziata creatura? Rodolphe notò che nel suo racconto non c’era
stata una sola parola d’odio contro la donna feroce che l’aveva
torturata.
«Ebbene, poi, che cosa hai fatto?» riprese lo Chourineur.
«Credetemi, questo mi era bastato. Il giorno successivo, invece di
andare in cerca di lombrichi, sono fuggita dalle parti del Pantheon.
Ho camminato tutto il giorno in quei paraggi, tanto avevo paura
della Chouette. Sarei andata in capo al mondo piuttosto che ricadere
tra le sue grinfie.
Siccome mi trovavo in quartieri sperduti, non avevo incontrato
nessuno a cui domandare l’elemosina, e poi non ne avrei avuto il
coraggio. Durante la notte, avevo dormito in un magazzino, sotto
cataste di legna. Ero grande come un topo; passando sotto una
vecchia porta, mi ero nascosta in mezzo a un mucchio di scorze. Ero
divorata dalla fame: cercai di masticare un po’ di corteccia
d’albero per ingannare la gran fame, ma non potevo; mi riuscì di
mordere solo un po’ una corteccia di betulla; era più tenera. Dopo
di che, mi sono addormentata. All’alba, sentendo dei rumori, mi sono
nascosta ancora meglio sotto una pila di legna. Faceva quasi caldo,
come in una cantina. Se avessi avuto da mangiare, non avrei passato
nessun inverno meglio di così.»
«Come me quando ero in una fornace di gesso.»
«Non osavo uscire dal magazzino, pensavo che la Chouette mi cercasse
dappertutto per strapparmi i denti e per buttarmi in
pasto ai pesci e che avrebbe potuto prendermi facilmente se mi fossi
mossa di lì.»
«Senti, non parlarmi più di quella vecchia farabutta, mi fai montare
il sangue alla testa!»
«Alla fine del secondo giorno, avevo masticato ancora un po’ di
corteccia di betulla e cominciavo ad addormentarmi quando sento
abbaiare un grosso cane. Mi sveglio di soprassalto. Ascolto... Il
cane s’avvicinava alla pila di legna senza cessar d’abbaiare. Ecco
una nuova circostanza che mi mette paura; meno male che il cane, non
so perché, non osava avanzare... ma tu riderai, Chourineur.»
«Con te c’è sempre da ridere... sei una brava ragazza, lo stesso.
Ecco, vedi, adesso, credimi, mi dispiace d’averti picchiata.»
«Perché non avresti dovuto picchiarmi? Non ho nessuno che mi
difenda...»
«E io?» disse Rodolphe.
«Voi siete molto buono, signor Rodolphe, ma lo Chourineur non sapeva
che voi sareste stato lì... e neppure io.»
«Non fa niente, sostengo quanto ho detto... mi dispiace d’averti
picchiata» riprese lo Chourineur.
«Continua la storia, ragazza» riprese Rodolphe.
«Ero rannicchiata sotto la pila di legna quando sento un cane
abbaiare. Mentre il cane latrava, un vocione si mette a dire: “Il
cane abbaia! c’è qualcuno nascosto nel magazzino”. “Sono i ladri”
riprende un’altra voce... E “Dalli! dalli!” eccoli che aizzano il
cane incitandolo: “Prendilo! prendilo!”.
Il cane si precipita su di me; ho paura d’essere morsa, e mi metto a
gridare con tutte le forze. “Senti!” disse la voce, “sembrano quasi
le grida d’un bambino...”. Richiamano il cane e vanno a prendere una
lanterna; esco dal mio buco, e mi trovo di fronte un omone e un
ragazzo in camiciotto. “Che cosa fai nel mio magazzino, ladruncola?”
mi dice l’omone bruscamente.
“Buon signore, non mangio da due giorni; sono sfuggita alla Chouette
che m’ha strappato un dente e voleva darmi in pasto ai pesci; non
sapendo dove dormire, sono passata disotto alla vostra porta, ho
dormito la notte fra le vostre scorze, sotto le vostre pile di
legna, credendo di non fare male a nessuno.”
Ecco il padrone che si mette a dire al giovane: “Questa non la bevo,
è una piccola ladra, viene a rubarmi la legna”.»
«Ah! brutta canaglia! vecchio rimbambito!» esclamò lo Chourineur.
«Rubargli la legna; e avevi otto anni.»
«Era una sciocchezza... perché il giovane gli risponde: “Rubarvi la
legna, padrone? e come potrebbe? Non è grande neppure
come il più piccolo dei vostri ceppi”. “Hai ragione” disse il
mercante di legna; “ma se non è venuta per conto suo, è lo stesso. I
ladri fanno tutti così, mandano i bambini a spiare e a nascondersi
per aprire la porta agli altri. Bisogna portarla in commissariato.”»
«Ah! che bestia quel mercante di legna...»
«Mi portano in commissariato. Vuoto il sacco; mi accusano di
vagabondaggio; mi mandano in prigione; sono citata dinanzi al
tribunale correzionale; condannata, sempre come vagabonda, a restare
fino a sedici anni in una casa di correzione. Ringrazio
infinitamente i giudici della loro bontà... Perdinci!... ci pensi,
in prigione... avevo da mangiare; non ero picchiata, era un paradiso
rispetto alla soffitta della Chouette. Inoltre, in prigione, ho
imparato a cucire. Il guaio è che non facevo niente e andavo di qua
e di là; mi piaceva più cantare che lavorare, soprattutto quando
c’era il sole... Oh! quando nel cortile della prigione il tempo era
bellissimo, non potevo fare a meno di cantare... e allora... com’è
strano!... a forza di cantare, mi sembrava di non essere più una
carcerata.»
«Vuoi dire, ragazza, che sei un vero usignolo di nascita» disse
Rodolphe sorridendo.
«Siete molto gentile, signor Rodolphe; da allora sono stata chiamata
Goualeuse invece di Pégriotte. Finalmente compio sedici anni, esco
dal carcere. Ecco che alla porta ti trovo la padrona della bettola
con due o tre vecchie che venivano di tanto in tanto a visitare le
mie amiche di prigione e che mi dicevano sempre che, il giorno in
cui sarei uscita, avrebbero avuto un lavoro da darmi.»
«Ah! bene, bene, capisco» disse lo Chourineur.
«“Stelluccia cara, bell’angelo, bella bambina” mi dissero l’ostessa
e le vecchie “... volete venire a stare da noi? vi daremo bei
vestiti, e voi dovrete solo divertirvi”.»
«Capisci bene, Chourineur, che non si può restare in prigione otto
anni senza imparare a capire al volo ciò che uno vuole dire. Quelle
vecchie ruffiane, le mando a quel paese. Mi dico: “So cucire bene,
ho trecento franchi in tasca, una giovinezza...”»
«E un’avvenente giovinezza... ragazza!» disse lo Chourineur.
«Sono otto anni che sto in prigione, mi godo un po’ la vita, non
faccio male a nessuno; il lavoro me lo cercherò quando non avrò più
denaro... E comincio a spendere i trecento franchi. È stato il mio
grande sbaglio» aggiunse Fleur-de-Marie con un sospiro; «avrei
dovuto, prima di tutto, assicurarmi un lavoro... ma non avevo
nessuno con cui consigliarmi... Insomma, quel che è stato è stato...
Mi metto allora a spendere il denaro. Dapprima compero tanti fiori
da riempirmi tutta la stanza; mi piacciono tanto i fiori!
e poi mi compero un vestito, un bello scialle e vado a farmi
cavalcate sull’asino al bois de Boulogne e a Saint-Germain.»
«Assieme a un moroso, ragazza?» disse lo Chourineur.
«No, credetemi: mi piaceva farmi bella per me. Facevo le gite con
un’amica di prigione che era stata ai Trovatelli, una ragazza molto
buona; la chiamavamo Rigolette perché rideva sempre.»
«Rigolette, Rigolette! non la conosco» disse lo Chourineur, dando
l’impressione di rovistare fra i ricordi.
«Credo bene che tu non la conosca! È onestissima, Rigolette; è
un’operaia molto brava; ora guadagna almeno venticinque soldi al
giorno; ha una sua casetta... Perciò ho avuto sempre paura d’andarla
a trovare. Insomma, a forza di spendere il denaro, m’erano rimasti
solo quarantatré franchi.»
«Dovevi comperarti dei gioielli con quei soldi» disse lo Chourineur.
«Vi assicuro che ho fatto di meglio... Avevo come lavandaia una
donna chiamata la Lorraine, una pecorella del buon Dio; allora era
in stato di avanzata gravidanza, eppure sempre con i piedi e le mani
nell’acqua del lavatoio. Ci pensi? Non potendo più lavorare, aveva
chiesto d’entrare alla Bourbe; non c’era più posto, non l’hanno
accettata, non guadagnava più niente. È sul punto di partorire e non
ha neppure i soldi per pagarsi un letto. Fortunatamente, una sera,
incontrò per caso all’angolo del ponte Notre-Dame la moglie di
Goubin, che da quattro giorni si nascondeva nella cantina di una
casa che si stava demolendo dietro l’Hôtel-Dieu.»
«Eh! ma perché la moglie di Goubin stava nascosta di giorno?»
«Per non farsi prendere dal marito che voleva ucciderla! Usciva solo
di notte per andare a comperarsi il pane. Così aveva incontrato la
povera Lorraine che non sapeva più dove sbattere, perché s’aspettava
da un momento all’altro di partorire... Impietosita, la moglie di
Goubin l’aveva portata nella cantina in cui si nascondeva. Erano
comunque quattro mura.»
«Aspetta un po’! aspetta un po’, la moglie di Goubin è Helmina?»
disse lo Chourineur.
«Sì, una brava ragazza» rispose la Goualeuse... «una sarta che aveva
lavorato per me e per la Rigolette... Diavolo, ha fatto il
possibile, ha diviso la cantina, la paglia, il pane con la Lorraine,
che sta per partorire un povero bambino; e neanche una coperta, solo
paglia!... A tale vista la moglie di Goubin non resiste; col rischio
di farsi ammazzare dal marito che la cercava dappertutto, affronta
la luce del sole, esce dalla cantina e viene a trovarmi. Sapeva che
avevo ancora un po’ di denaro e che non ero cattiva; stavo
proprio salendo in una carrozza con Rigolette; volevamo finire i
quarantatré franchi, farci portare in campagna, nei campi... mi
piacciono tanto i campi! gli alberi... i prati... Ma, oh, quando
Helmina mi racconta la disgrazia della Lorraine, mando via la
carrozza, corro a casa a prendere tutta la biancheria che avevo, il
materasso, la coperta, carico il tutto sulle spalle di un facchino,
e corro alla cantina con la moglie di Goubin... Ah! aveste visto
com’era contenta, la povera Lorraine! Io ed Helmina l’abbiamo
assistita tutta la notte; dopo il parto, l’ho aiutata con il resto
del denaro finché fu in condizione di ritornare al lavatoio. Ora si
guadagna da vivere; ma non posso riuscire a farle avere il conto
della mia biancheria! Capisco che vuole sdebitarsi in questo modo!
Prima di tutto... se continuerà ancora, non mi servirò più di
lei...» disse la Goualeuse gravemente.
«E la moglie di Goubin?» chiese lo Chourineur.
«Come! Non lo sai?» disse la Goualeuse.
«No; che cosa?»
«Ah! povera disgraziata!... non è sfuggita a Goubin! tre col-
tellate nella schiena! Gli avevano detto che s’aggirava dalle parti
dell’Hôtel-Dieu; e una sera in cui lei era uscita per andare a
prendere il latte per la Lorraine, lui l’ha uccisa.»
«Per questo è stato condannato a morte, per questo corre voce che
sarà giustiziato fra otto giorni?» domandò Chourineur.
«Proprio così» disse la Goualeuse.
«E dopo aver dato i soldi alla Lorraine, che cosa hai fatto,
ragazza?» disse Rodolphe.
«Perdinci, allora ho cercato un lavoro. Sapevo cucire benissimo;
avevo coraggio, non ero impacciata; entro in una bottega di
biancheria della rue Saint-Martin. Per non ingannare nessuno, dico
di essere uscita di prigione da due mesi e d’aver voglia di
lavorare; mi indicano la porta. Chiedo un lavoro da portare a casa;
per aver chiesto di portare via solo una camicia, mi dicono se ho
voglia di prendere in giro la gente. Mentre me ne ritornavo triste,
triste... ho incontrato l’ostessa e una delle vecchie che mi stavano
alle costole dal giorno della mia liberazione... Non sapevo più con
che cosa vivere!... M’hanno portata via... m’hanno fatto bere
acquavite!... Ed ecco...»
«Capisco» disse lo Chourineur; «adesso ti conosco come se fossi tua
madre e ti avessi tenuta sempre in grembo. Ebbene! questa, credo, è
la confessione.»
«Abbiamo l’impressione che ti sia dispiaciuto, ragazza, d’averci
raccontato la tua vita» disse Rodolphe.
«Il fatto è che mi fa male guardarmi indietro così; è la prima
volta, dalla mia infanzia, che mi capita di ricordare queste cose
tutte insieme... e non c’è da stare allegri... non è vero,
Chourineur?»
«Certo» rispose questi con ironia, «rimpiangi forse di non avere
fatto la sguattera in una gargotta, o la domestica di vecchi
signori, con l’incarico di curare i loro figli?»
«Ad ogni modo... dev’essere molto bello essere onesti...» disse la
Goualeuse con un sospiro.
«Onesta! oh! che storia!...» esclamò il bandito con una sonora
risata. «Onesta!... e perché non vergine, semplicemente, per onorare
il padre e la madre che non conosci?»
Il volto della ragazza aveva perduto da qualche momento
l’espressione d’indifferenza che lo caratterizzava. Disse allo
Chourineur:
«Senti, Chourineur, io non sono una piagnucolona. Mio padre e mia
madre mi hanno abbandonato su un marciapiede, come un cagnolino che
sia di troppo; non serbo loro rancore; senza dubbio non avevano
neppure loro da vivere! Questo non vuol dire, vedi, Chourineur, che
non ci siano persone più felici di me.»
«Tu? ma che cosa ti manca dunque? Sei splendida come una Venere; non
hai neanche diciassette anni; canti come un usignolo; sembri una
vergine, hai nome Fleur-de-Marie, e ti lamenti! Ma che cosa dirai
allora quando avrai uno scaldino sotto i piedi, e una parrucca
grigia, così come la nostra ostessa!»
«Oh! non arriverò mai a quell’età.»
«Forse hai il brevetto d’invenzione per non invecchiare?» «No, ma
non avrò una vita così lunga! ho già una brutta tosse!» «Ah! bene!
ti vedo già in una cassa da morto. Non fare la stupida... via!»
«Ti passano spesso per la mente queste idee, Goualeuse?» disse
Rodolphe.
«Alle volte... Sentite, signor Rodolphe, voi forse capite queste
cose: la mattina, quando vado a comperare il mio soldo di latte
dalla lattaia all’angolo della rue de la Vieille-Draperie e la vedo
partire sul suo carrettino trainato da un asino, la invidio
tantissimo, via... Mi dico: lei va in campagna, all’aria buona,
nella sua casa, dalla sua famiglia... e io invece devo ritornare
sola soletta nella topaia dell’ostessa dove non ci si vede neppure a
mezzogiorno.»
«Ebbene! fa’ l’onesta, ragazza, recita pure la tua farsa... fa’
l’onesta!» disse lo Chourineur.
«Onesta! Dio mio! e come vuoi dunque che possa fare l’onesta? I
vestiti che porto sono dell’ostessa; le devo la camera e il vitto...
non posso muovermi di qui... mi farebbe arrestare per ladra... Io le
appartengo tutta... Bisogna che mi sdebiti...»
A queste ultime orribili parole, la sventurata non poté fare a meno
di rabbrividire.
«Allora resta come sei, e non paragonarti più a una campagnola»
disse lo Chourineur. «Stai diventando matta? Ma pensa un po’ che tu
fai una vita movimentata nella capitale, mentre la lattaia deve
preparare la pappa ai marmocchi, mungere le mucche, andare a far
erba per i conigli, e prendersi un carico di legnate dal marito che
torna a casa dall’osteria. Ecco, questa è una vita, fra le altre,
che può vantarsi di essere... lusinghiera!»
«Da bere, Chourineur» disse bruscamente la Goualeuse dopo un
silenzio piuttosto lungo; e tese il bicchiere. «No, niente vino,
acquavite... è più forte» disse in tono dolce, scostando il boccale
di vino che lo Chourineur avvicinava al bicchiere di lei.
«Acquavite! finalmente! ecco come mi piaci, ragazza, così senza
incertezze!» disse quest’uomo senza capire il moto impulsivo della
ragazza e senza far caso alla lacrima tremolante che le era spuntata
sul ciglio.
«Peccato che l’acquavite sia così cattiva da bere... perché scaccia
i pensieri...» riprese Fleur-de-Marie riposando il bicchiere sulla
tavola dopo aver bevuto con disgustata ripugnanza.
Rodolphe aveva ascoltato il racconto triste e semplice della
Goualeuse con crescente interesse.
La miseria, la mancanza di una famiglia, più che le cattive
inclinazioni, avevano spinto la povera ragazza alla perdizione.
IV
STORIA DELLO CHOURINEUR
Il lettore non avrà dimenticato che due degli ospiti della bettola
erano attentamente osservati da un terzo personaggio arrivato da
poco nella taverna.
Uno di questi due uomini, abbiamo detto, portava un berretto greco,
nascondeva sempre la mano sinistra, e aveva chiesto con insistenza
all’ostessa se il Maître d’école non fosse ancora venuto.
Durante il racconto della Goualeuse, che non potevano sentire, i due
uomini s’erano più volte parlati a voce bassa, guardando verso la
porta con ansietà.
Quello che portava il berretto greco disse al compagno:
«Il Maître d’école non viene; purché l’amico non l’abbia ucciso per
rubargli la sua parte di bottino.»
«Sarebbe una rovina per noi che abbiamo preparato il furto» riprese
l’altro.
Il nuovo arrivato, l’uomo cioè che osservava i due individui, era
troppo lontano per poter cogliere le loro ultime parole; dopo aver
più volte consultato con grandissima abilità un pezzetto di carta
nascosto nella fodera del cappello, parve soddisfatto degli
accertamenti, si alzò da tavola e disse all’ostessa che sonnecchiava
sopra il banco, con i piedi sullo scaldino e con il gattone nero
sulle ginocchia:
«Senti un po’, comare Ponisse, io ritorno subito; stai attenta al
mio boccale e al mio piatto... perché non bisogna fidarsi dei
beoni.»
«Vai tranquillo, amico» rispose comare Ponisse, «che se il piatto e
il boccale sono vuoti, nessuno te li tocca.»
L’uomo si mise a ridere alla facezia dell’ostessa e scomparve senza
che la sua partenza venisse notata.
Nel momento in cui questi aprì la porta per uscire, Rodolphe scorse
sulla strada il carbonaio dalla faccia nera e dalla statura
colossale di cui abbiamo parlato; prima che la porta si richiudesse,
Rodolphe ebbe il tempo di far vedere con un gesto d’impazienza
quanto gli desse fastidio la vigilanza del carbonaio e il suo
eventuale aiuto; ma quest’ultimo, pur tenendo conto del disappunto
di Rodolphe, restò nelle vicinanze della bettola.
Nonostante il bicchiere d’acquavite, la Goualeuse non aveva
ritrovato la sua allegria; sotto l’azione dell’alcolico, il viso le
diventava, invece, sempre più triste: con la schiena appoggiata al
muro, la testa china sul petto, i grandi occhi blu erranti
macchinalmente intorno, la sventurata creatura sembrava in preda ai
più cupi pensieri.
Due o tre volte Fleur-de-Marie, incontrando lo sguardo fisso di
Rodolphe, aveva distolto gli occhi; non si rendeva conto
dell’impressione che provocava in lei questo sconosciuto.
Imbarazzata, oppressa dalla presenza di lui, si rimproverava di
mostrarsi così poco riconoscente con colui che l’aveva strappata
dalle mani dello Chourineur; si rammaricava quasi d’avere raccontato
così sinceramente la sua vita davanti a Rodolphe.
Lo Chourineur, invece, era molto allegro; da solo aveva divorato
l’arlequin; il vino e l’acquavite lo rendevano molto comunicativo;
l’onta d’aver trovato il suo maestro, come diceva, era svanita
davanti al comportamento generoso di Rodolphe a cui egli attribuiva,
d’altronde, una così grande superiorità che la sua umiliazione aveva
fatto posto a un sentimento che era un impasto di ammirazione,
timore e rispetto.
L’assenza in lui di ogni sorta di rancore, la selvaggia schiettezza
con cui confessava d’avere ucciso e di essere stato giustamente
punito, l’orgoglio feroce con cui sosteneva di non avere mai rubato
dimostravano almeno che, nonostante i delitti commessi, lo
Chourineur non era un criminale completamente incallito.
Questo particolare non era sfuggito alla sagacia di Rodolphe il
quale aspettava con curiosità il racconto dello Chourineur.
L’ambizione dell’uomo è così insaziabile, così strana nelle sue
infinite pretese che, ora, Rodolphe desiderava essere faccia a
faccia col Maître d’école, il terribile brigante, che aveva quasi
detronizzato. Quindi, per ingannare l’impazienza, indusse lo
Chourineur a raccontare le sue avventure.
«Forza... ragazzo» gli disse, «ti ascoltiamo.»
Lo Chourineur vuotò il bicchiere e cominciò così:
«Tu almeno, povera Goualeuse, sei stata allevata dalla Chouette, che
il diavolo se la porti! hai avuto un alloggio fino al giorno in cui
ti hanno imprigionata per vagabondaggio... Io, invece, ricordo di
non aver mai dormito in ciò che si dice un letto prima di diciannove
anni... la bella età in cui sono andato soldato.»
«Hai fatto il soldato, Chourineur?» disse Rodolphe.
«Tre anni; ma ve lo racconterò dopo. Le pietre del Louvre, le
fornaci di gesso di Clichy e le cave di Montrouge, ecco gli alberghi
della mia gioventù. Vedete, avevo una casa a Parigi e una in
campagna, tutto qui.»
«E che mestiere facevi?»
«Vi giuro, maestro... vedo come attraverso una nebbia i vagabondaggi
della mia infanzia assieme a un vecchio straccivendolo che mi
caricava di botte con un rampone. Dev’essere vero perché tutte le
volte che mi è capitato d’incontrare uno straccivendolo mi veniva
voglia di saltargli addosso: segno che essi probabilmente mi avevano
picchiato nella mia infanzia. Il mio primo mestiere è stato quello
di aiutare gli squartatori a scannare i cavalli a Montfaucon...
Avevo dieci o dodici anni. Quando ho cominciato a uccidere quei
poveri e vecchi animali, mi faceva una certa impressione; dopo un
mese, non ci pensavo più; anzi il mestiere mi piaceva. Non c’era
nessuno che avesse coltelli affilati e arrotati come il mio... Mi
veniva voglia di servirmene... Dopo aver scannate le bestie
assegnatemi, mi mettevano fra le mani, come compenso del mio lavoro,
un pezzo di culaccio di cavallo morto di malattia, perché quelli che
venivano uccisi si vendevano agli imbroglioni del quartiere
dell’École-de-Médecine, che li spacciavano per carne di bue, di
montone, di vitello, per selvaggina, secondo i gusti della gente...
Ah! ma quando avevo avuto il mio pezzo di carne di cavallo mi pareva
perlomeno d’essere un re! Filavo alla mia fornace di gesso, come un
lupo nella sua tana; e lì, con il permesso dei fornaciai, lo
arrostivo accuratamente sulle braci. Quando i fornaciai non
lavoravano, andavo a raccogliere della legna secca a Romainville,
battevo l’acciarino, mi preparavo l’arrosto a un angolo delle mura
del macello. Diavolo! era al sangue e quasi crudo: ma in questa
maniera non mangiavo sempre la stessa cosa.»
«E il tuo nome? Come ti chiamavi?» disse Rodolphe.
«Avevo i capelli più biondicci di adesso, avevo sempre gli occhi
arrossati; per questo fatto mi chiamavano l’Albino. Gli albini sono
conigli bianchi e hanno gli occhi rossi» aggiunse gravemente lo
Chourineur, aprendo una parentesi fisiologica.
«E i tuoi genitori, la tua famiglia?»
«I miei genitori? stanno allo stesso numero di quelli della
Goualeuse... il mio luogo di nascita? il primo angolo d’una via
qualsiasi, il marciapiede sinistro o il marciapiede destro a seconda
che si discenda o si risalga il corso del rigagnolo.»
«Hai maledetto tuo padre e tua madre d’averti abbandonato?»
«Bel guadagno ci avrei fatto!... Comunque, mi hanno fatto un brutto
scherzo mettendomi al mondo... Non me ne lamenterei se m’avessero
fatto almeno come Dio dovrebbe fare i pezzenti, cioè senza che
debbano soffrire il freddo, la fame, la sete; non gli sarebbe
costato niente, e ai pezzenti non sarebbe costato poi tanto essere
onesti.»
«Hai avuto fame, hai avuto freddo, e non hai rubato, Chourineur?»
«No! eppure sono stato in grande miseria, via... Sono stato a
digiuno qualche volta per due giorni di seguito e più di quanto
dovessi... Ebbene non ho rubato.»
«Per paura della prigione?»
«Oh! che stupidaggine!» disse lo Chourineur, alzando le spalle e
ridendo da smascellarsi. «Non avrei rubato un po’ di pane per paura
di avere il pane?... Onesto, crepavo di fame; ladro, mi avrebbero
dato da mangiare in prigione... No, non ho rubato perché...
perché... insomma perché non mi andava l’idea di rubare.»
Questa risposta veramente bella, e di cui lo Chourineur non comprese
la portata, stupì profondamente Rodolphe.
Capì che il povero che restava onesto in mezzo alle più crudeli
privazioni era doppiamente rispettabile, perché la punizione del
delitto poteva diventare per lui una garanzia di sussistenza.
Rodolphe tese la mano a questo disgraziato selvaggio della civiltà,
che la miseria non aveva completamente perduto.
Lo Chourineur guardò il suo anfitrione con stupore, quasi con
rispetto; osò appena toccare la mano che gli si offriva. Presentì
che fra lui e Rodolphe c’era un abisso.
«Bene, bene!» gli disse Rodolphe, «hai ancora un cuore e un
onore...»
«Credetemi, non so niente» disse lo Chourineur tutto commosso; «ma
le parole che m’avete detto adesso... vedete... non avevo provato
mai qualcosa di simile... Una cosa è sicura, ed è... e i pugni
scaricatimi addosso verso la fine.. che erano così bene assestati e
che avrebbero potuto continuare fino a domani, mentre invece voi mi
pagate da mangiare... e mi dite certe cose... Insomma basta, potete
contare sullo Chourineur per la vita e per la morte.»
Rodolphe riprese, più freddamente, non volendo far trasparire
l’emozione che sentiva:
«Sei rimasto per molto tempo aiuto squartatore?»
«Certo... Dapprima lo scannare quei poveri e vecchi animali mi
disgustava... poi mi divertiva; ma quando sono arrivato verso i
sedici anni e ho cambiato la voce, allora uccidere è diventato per
me una smania, una passione! Non avevo voglia di bere né di
mangiare... pensavo solo a questa cosa!... Bisognava vedermi durante
il lavoro: all’infuori d’un vecchio paio di pantaloni di tela, non
avevo altro addosso. Quando, col mio affilatissimo coltellaccio in
mano, avevo attorno (modestia a parte) fino a quindici, fino a venti
cavalli che facevano la coda per aspettare il loro turno; diavolo!!!
quando cominciavo a scannarli, non so più che cosa mi prendesse...
ero come una furia; le orecchie mi fischiavano! vedevo rosso, tutto
rosso e colpivo... e colpivo... e colpivo finché il coltello non mi
cadeva di mano! Perbacco!!! come godevo! Se fossi stato milionario
avrei pagato per fare quel mestiere.»
«Da lì ti sarà venuta l’abitudine d’ammazzare» disse Rodolphe.
«Può darsi; ma intanto la mia smania, io avevo passato i sedici
anni, ha finito col diventare così forte che, una volta cominciato a
colpire, diventavo come un pazzo, e guastavo il lavoro... Sì,
rovinavo le pelli a forza di dare coltellate a casaccio. Alla fine
m’hanno sbattuto fuori dal macello. Ho cercato di trovare lavoro
presso i macellai: m’è sempre piaciuto il loro mestiere. Ah, sì!
hanno fatto i superbi! m’hanno disprezzato come avrebbero fatto i
calzolai con
i ciabattini. Stando così le cose e d’altronde la smania di scannare
essendomi passata con i sedici anni, ho cercato un lavoro altrove...
e non l’ho trovato subito; allora ho digiunato più d’una volta. Alla
fine mi sono messo a lavorare nelle cave di Montrouge. Ma dopo due
anni mi ero bell’e scocciato d’arrampicarmi sempre come uno
scoiattolo in cima a grandi ruote per tirar su le pietre, per un
salario di venti soldi al giorno. Ero grande e forte, mi sono
arruolato in un reggimento. Hanno voluto sapere il mio nome, la mia
età, vedere i miei documenti. Il mio nome? Albino; la mia età?
guardatemi la barba; i miei documenti? ecco il certificato
rilasciatomi dal padrone delle cave. Potevo essere un ottimo
granatiere, m’hanno arruolato.»
«Con la tua forza, col tuo coraggio e con la tua smania di scannare,
se ci fosse stata la guerra, in quel tempo, saresti forse diventato
ufficiale.»
«Perbacco! a chi lo dite. Squartando gli inglesi o i prussiani avrei
provato un piacere ben diverso da quello che avevo scannando le
rozze... Ma il brutto era che non c’era la guerra e che c’era,
invece, la disciplina. Un garzone si prova a dare un carico di
legnate al padrone, bene: se è più debole, se le prende; se è più
forte, le dà; viene licenziato, qualche volta schiaffato in
gattabuia, non succede diversamente. Nell’esercito è un altro paio
di maniche. Un giorno un sergente mi spinge per farmi obbedire più
rapidamente; aveva ragione, perché io facevo il lavativo; io mi
scoccio, faccio il restio; lui mi spinge, io lo spingo; lui mi
prende per il collo, e io gli appioppo un cazzotto. Mi saltano
addosso; allora mi ritorna la smania, il sangue mi monta alla testa,
vedo rosso... avevo il coltello in mano, ero di servizio alle
cucine, e via! Comincio a colpire... a colpire... come al mattatoio.
Uccido il sergente, ferisco due soldati!... un vero macello! undici
coltellate per loro tre soli, sì, undici!... tanto sangue, tanto
sangue come all’ammazzatoio!»
Il brigante abbassò la testa incupito, sconvolto, e restò un secondo
silenzioso.
«A che cosa pensi, Chourineur?» disse Rodolphe osservandolo con
interesse.
«A niente, a niente» rispose bruscamente. Poi riprese con feroce
indifferenza: «Alla fine mi afferrano e mi sbattono sul tavolaccio e
sono condannato a morte.»
«Sei fuggito allora?»
«No, ma sono rimasto quindici anni in prigione invece di essere
giustiziato. Ho dimenticato di dirvi che al reggimento avevo
ripescato due amici che stavano per annegare nella Senna; eravamo di
stanza a Melun. Un’altra volta, adesso riderete e direte che sono
uno che può vivere nell’acqua e nel fuoco, che sono un salvatore di
uomini e di donne! un’altra volta che eravamo di stanza a Rouen, una
città tutta case di legno, vere casette, scoppia un incendio in un
quartiere; le case bruciavano come fiammiferi; mi si comanda di
spegnere l’incendio; arriviamo sul posto; gridano che c’è una
vecchia che non può uscire da una stanza che cominciava a bruciare:
corro lì. Diavolo! sì, faceva un caldo che mi ricordava le fornaci
di gesso nei giorni di sole; alla fine salvo la vecchia. Il mio
avvocato ha mosso tanto le mani e la lingua che è riuscito a farmi
commutare la pena; invece di salire sulla forca, mi sono fatto
quindici anni di galera. Quando ho capito che non sarei stato
ucciso, il mio primo impulso è stato quello di scaraventarmi contro
quel ciarlatano del mio avvocato per strangolarlo. Voi, maestro, le
capite queste cose?»
«Ti dispiaceva vedere la tua pena commutata?»
«Sì... per chi maneggia il coltello, ci vuole la mannaia del boia,
per chi ruba, le catene ai piedi! a ciascuno la sua pena. Ma
costringervi a vivere, quando avete ucciso, sentite, i giudici non
sanno che cosa si prova i primi tempi.»
«Hai avuto rimorsi allora, Chourineur?»
«Rimorsi! No, perché ho scontato la mia condanna» rispose il
selvaggio; «ma una volta, non passava quasi notte che non vedessi,
come in un incubo, il sergente e i soldati che avevo squartato, cioè
non erano soli» aggiunse il brigante con una sorta di terrore;
«erano decine, centinaia, migliaia che aspettavano il loro turno in
una specie di ammazzatoio come i cavalli che scannavo a Montfaucon.
Allora vedevo rosso, e cominciavo a menar colpi... a menar colpi
contro quegli uomini come una volta sui cavalli. Ma più soldati
uccidevo, più ne sorgevano. E morendo essi mi fissavano con uno
sguardo così dolce, così dolce che io mi pentivo maledettamente di
averli uccisi; ma non potevo frenarmi. Non era tutto... io non ho
mai avuto fratelli, eppure mi pareva che tutti quelli che ammazzavo
fossero miei fratelli... e dei fratelli per cui mi sarei buttato nel
fuoco. Alla fine, quando non ne potevo più, mi svegliavo che ero in
un bagno di sudore freddo come la neve.»
«Era un brutto sogno, Chourineur.»
«Oh! sì, certo. Ebbene! i primi tempi che ero in prigione, ogni
notte l’avevo... questo sogno. Sentite, c’era da diventare pazzi o
idrofobi. Per questo ho cercato per due volte di togliermi la vita,
una volta inghiottendo un po’ di verderame, un’altra volta tentando
di strozzarmi con una catena; ma io sono forte come un toro. Il
verderame m’ha fatto venire sete e nient’altro. Il giro di catena
attorno al collo è stato per me come una naturale cravatta di color
turchino.
Dopo di che fui ripreso dal tran tran della vita, gli incubi si sono
diradati, e ho seguito gli altri.»
«Avevi però buoni maestri per imparare a rubare.»
«Sì, ma non era di mio gusto. Gli altri galeotti mi prendevano in
giro a questo proposito, ma io li caricavo di colpi di catena. È
così che ho conosciuto il Maestro... di questi, però, rispetto i
cazzotti! egli mi ha somministrato la sua dose di pugni come avete
fatto voi poc’anzi.»
«Allora è un ex forzato?»
«O meglio era un forzato a vita, ma s’è liberato da sé.»
«È evaso? perché non lo denunciano?»
«Non sarò io a denunciarlo, comunque, potrebbe sembrare che
avessi paura di lui.»
«Come mai la polizia non l’ha scoperto? Avrà senz’altro i suoi
connotati.»
«I suoi connotati! Ah sì, proprio! da un pezzo ha fatto sparire
quelli che Dio gli aveva dato. Solo il diavolo ora potrebbe
riconoscere il Maestro.»
«Come ha fatto?»
«Ha cominciato coll’accorciarsi il naso che aveva lungo un palmo;
dopo di che s’è passato il vetriolo sul viso.»
«Dici sul serio?»
«Se stasera viene, lo vedrete; aveva un gran naso da pappagallo, ora
è camuso... come la morte, senza contare che ha labbra grosse come
un pugno, e una faccia olivastra imbastita come la giacca d’un
cenciaiolo.»
«A tal punto è irriconoscibile!»
«Da sei mesi è scappato da Rochefort, eppure i poliziotti l’avranno
incontrato centinaia di volte senza riconoscerlo.»
«Perché era ai lavori forzati?»
«Perché era stato falsario, ladro e assassino. Lo chiamano il
Maestro perché ha una bellissima scrittura ed è molto istruito.»
«Ed è temuto?»
«Non lo sarà più quando l’avrete picchiato come avete fatto con me.»
«Che cosa fa per campare?»
«Dicono che si vanta d’aver ucciso e derubato, tre settimane fa, un
mercante di buoi sulla strada di Poissy.»
«Prima o poi verrà arrestato.»
«Bisognerà, per fare questo, essere più di due, perché sotto il
camiciotto porta sempre due pistole cariche e un pugnale. Il boia
l’aspetta, può morire una volta sola. Per salvarsi ucciderà tutto
quello che potrà uccidere. Oh! non ne fa mistero; e, siccome è più
forte di noi due messi assieme, si faticherà a immobilizzarlo.» «Che
cosa hai fatto, Chourineur, appena uscito dai lavori for-
zati?»
«Sono andato a offrirmi come scaricatore al padrone del quai
Saint-Paul, e lì mi guadagno tuttora da vivere.»
«Ma, siccome, dopo tutto, non sei un ladro, perché vivi nel-
la Cité?»
«E dove volete che viva? Chi vorrebbe bazzicare con un pre-
giudicato? E poi io mi annoio a stare da solo; mi piace la
compagnia, e qui vivo con i miei simili. Qualche volta faccio
baruffa... Nella Cité mi temono come il fuoco, e il commissario non
ha niente da dirmi, salvo per le scazzottate che mi valgono qualche
volta ventiquattr’ore di guardina.»
«E quanto guadagni al giorno?»
«Trentacinque soldi. Tirerò avanti finché avrò forza; quando non ne
avrò più, mi prenderò un rampone e una cesta di vimini come il
vecchio straccivendolo che vedo nei ricordi incerti della mia
infanzia.»
«Nonostante tutto questo non sei infelice?»
«Ce ne sono che stanno peggio di me, sicuro; senza il sogno del
sergente e dei soldati scorticati, sogno che ho ancora spesso,
potrei tranquillamente crepare come uno qualsiasi sul ciglio d’una
strada o all’ospedale; ma questo sogno... Sentite... perdinci! non
mi piace pensare a questo» disse lo Chourineur.
E svuotò su un angolo della tavola il fornello della pipa.
La Goualeuse aveva ascoltato lo Chourineur con distrazione, sembrava
assorta in una dolorosa fantasticheria.
Anche Rodolphe era pensoso.
I due racconti che aveva ascoltato gli avevano suscitato nuovi
pensieri.
Un tragico incidente fece ripiombare i tre personaggi nell’ambiente
in cui si trovavano.
V
L’A R R E S T O
L’uomo che era uscito un momento, dopo avere raccomandato
all’ostessa il suo boccale e il suo piatto, ritornò subito,
accompagnato da un nuovo personaggio, con spalle larghe e faccia
energica.
«Che combinazione averti incontrato qui, Borel!» disse, «vieni pure
avanti che andiamo a bere un bicchiere di vino.»
Lo Chourineur allora si rivolse sottovoce a Rodolphe e alla
Goualeuse, indicando il nuovo arrivato:
«C’è aria di tempesta... è un poliziotto. State attenti!»
Il bandito che portava il berretto greco calcato fin sopra le
orecchie e che aveva più volte chiesto del Maître d’école lanciò una
rapida occhiata all’altro; capitisi, i due banditi si alzarono
simultaneamente da tavola e si diressero verso la porta; ma i due
agenti si gettarono su di loro emettendo un grido particolare.
Seguì una lotta terribile.
La porta della taverna si aprì; altri agenti si riversarono nella
sala, e in quel momento si videro balenare da fuori i fucili dei
gendarmi.
Approfittando del tumulto, il carbonaio di cui abbiamo parlato s’era
spinto fin sulla soglia della bettola e, incontrando per caso lo
sguardo di Rodolphe, s’era portato alle labbra l’indice della mano
destra.
Rodolphe, con un gesto rapido e imperioso, gli ordinò d’andare via;
poi riprese a osservare quello che succedeva nella taverna.
L’uomo dal berretto greco urlava rabbiosamente; benché mezzo disteso
sulla tavola, faceva sforzi così disperati che a malapena tre uomini
riuscivano a tenerlo fermo.
Annientato, incupito, col volto livido, con le labbra smorte, con la
mascella inferiore pendente e convulsamente agitata, l’altro bandito
non fece alcuna resistenza; offrì spontaneamente le mani alle
manette.
L’ostessa, seduta dietro il banco, restava impassibile con le mani
nelle tasche del grembiule, essendo abituata a simili scene.
«Ma che cosa hanno fatto questi due uomini, signor Borel?» domandò a
quell’agente che conosceva.
«Ieri hanno ucciso una vecchia della rue Saint-Christophe, per
potere svaligiare la sua casa. Prima di morire, la povera donna ha
detto d’aver morso una mano a uno dei due assassini. Li tenevamo
d’occhio questi due delinquenti. Il mio collega è venuto poco fa ad
assicurarsi della loro identità, ed eccoli beccati.»
«Meno male che m’hanno pagato in anticipo la consumazione» disse
l’ostessa. «E voi, volete prendere qualcosa, signor Borel? un
bicchiere di Parfait-Amour, di Consolation?»
«Grazie, comare Ponisse; bisogna che sbatta dentro questi briganti.
Vedete che uno sta ancora scalciando!...»
Infatti, il delinquente col berretto greco si stava dibattendo
rabbiosamente. Quando si trattò di cacciarlo nella carrozza che
aspettava sulla strada, oppose una tale resistenza che bisognò
immobilizzarlo e trasportarlo a braccia.
Il complice, invece, in preda a un tremito nervoso, poteva appena
reggersi in piedi: muoveva le labbra livide come se stesse
parlando... Gettarono quella massa inerte nella carrozza.
«Eh! comare Ponisse» disse l’agente, «non fidatevi di BrasRouge; lui
è astuto, potrebbe compromettervi.»
«Bras-Rouge! è da settimane che non lo vedo nel quartiere, signor
Borel.»
«È sempre così, quando è in un posto... mica si fa vedere, voi lo
sapete bene... Ma attenta a non tenere o prendere in consegna
qualche pacco o qualche involto per conto suo; sarebbe
ricettazione.»
«State tranquillo, signor Borel, ho paura di Bras-Rouge come del
diavolo. Non si sa mai da dove venga né dove vada. L’ultima volta
che l’ho visto, m’ha detto che arrivava dalla Germania.»
«Insomma io vi avverto... state attenta.»
Prima di lasciare la bettola, l’agente guardò con attenzione gli
altri clienti e, visto lo Chourineur, gli disse con tono quasi
affettuoso: «Ehi, buona-lana! è un pezzo che non si sente parlare di
te!
Non hai fatto più a cazzotti? Fai il bravino allora?»
«Sono buono come un angelo; voi sapete che spacco la faccia
solo a quelli che me lo domandano.»
«Ci mancherebbe altro, che fossi tu a provocare, forte come sei.»
«Eppure costui è il mio maestro, signor Borel» disse lo Chou-
rineur posando la mano sulla spalla di Rodolphe.
«To’! questo non lo conosco» disse l’agente esaminando Ro-
dolphe.
«E non avremo mai occasione di conoscerci, camerata» rispo-
se Rodolphe.
«Ve lo auguro, ragazzo» disse l’agente. Poi, rivolgendosi
all’ostessa:
«Buonasera, comare Ponisse: la vostra bettola è una vera trap-
pola per sorci, è il terzo delinquente che ci pizzico».
«E spero che non sarà neppure l’ultimo, signor Borel; sempre al
vostro servizio...» disse con grazia l’ostessa inchinandosi rispet-
tosamente.
Partito il poliziotto, il giovane dalla faccia terrea che alternava
il fumo con l’acquavite, ricaricò la pipa; poi disse con voce rauca
allo Chourineur:
«Non hai riconosciuto il tipo col berretto greco? è l’uomo della
Boulotte, è il Vélu. Quando ho visto entrare gli agenti, mi sono
detto: “C’è sotto qualcosa; per questo il Vélu teneva sempre
nascosta la mano sotto il tavolo”.»
«Comunque, il Maître d’école è stato fortunato a non essersi trovato
qui» riprese l’ostessa. «Il tipo col berretto greco ha chiesto più
volte di lui perché hanno degli affari insieme... Ma io non
denuncerò mai i miei clienti. Se li arrestano, bene... ognuno fa il
suo mestiere... ma io non li vendo... To’, quando si parla del
lupo...» aggiunse l’ostessa proprio nell’attimo in cui un uomo e una
donna entravano nell’osteria; «ecco appunto il Maestro con sua
moglie.»
Un fremito di terrore percorse gli ospiti della bettola.
Lo stesso Rodolphe non poté evitare, nonostante la naturale
intrepidezza, una certa emozione alla vista del terribile brigante
che contemplò per qualche secondo con curiosità mista a orrore.
Lo Chourineur aveva detto la verità, il Maître d’école si era
spaventosamente mutilato.
Non si poteva immaginare cosa più terrificante del volto di questo
brigante.
La faccia era solcata in tutte le direzioni da cicatrici livide e
profonde; le labbra, tumefatte dall’azione corrosiva del vetriolo;
le cartilagini, del naso tagliate; le narici, sostituite da due
buchi informi. Gli occhi grigi, chiarissimi, microscopici, tondi
tondi, sprizzavano ferocia; la fronte, schiacciata come quella di
una tigre, era quasi nascosta da un berretto di pelle con pelo lungo
e rossiccio... si sarebbe pensato alla criniera d’un mostro.
Il Maestro non era alto più di cinque piedi e due o tre pollici; la
testa, smisuratamente grossa, s’incassava tra due spalle larghe,
alte, potenti, carnose che si notavano anche sotto le pieghe
svolazzanti del camiciotto di tela grezza; aveva le braccia lunghe,
muscolose; le mani corte, grosse e pelose fin sopra le dita; le
gambe erano un po’ arcuate, ma i polpacci enormi denunciavano una
forza atletica.
Insomma, quest’uomo incarnava l’esagerazione di ciò che c’è di
corto, di massiccio, di tozzo nel tipo alla Ercole Farnese.
Dobbiamo rinunciare a dipingere l’espressione di ferocia che
scoppiava su questa maschera spaventosa, in quegli occhi inquieti,
mobili, ardenti come quelli di una fiera.
La donna che accompagnava il Maestro era vecchia, portava un
discreto abito scuro, uno scialle a quadri rossi e neri e una cuffia
bianca.
Rodolphe la vedeva di profilo; l’occhio verde e tondo, il naso
adunco, le labbra sottili, il mento sporgente, il volto astuto e
malvagio gli rammentarono la Chouette.
Stava per dire la sua impressione alla Goualeuse quando, levando gli
occhi sulla ragazza, la vide impallidire; ciononostante essa
continuava a guardare con muto terrore la scostante amica del
Maestro; infine, afferrando con mano tremante il braccio di
Rodolphe, gli disse sottovoce:
«La Chouette! Dio mio! la Chouette... la guercia!»
A questo punto il Maestro, dopo aver scambiato qualche parola con
uno degli avventori della bettola, avanzò lentamente verso la tavola
dove stavano Rodolphe, la Goualeuse e lo Chourineur.
Poi, rivolgendosi a Fleur-de-Marie, con voce rauca e cavernosa come
il ruggito d’una tigre:
«Ehi! senti un po’, bella bionda, lascia ’sti due bei musi e vieni
subito con me...»
La Goualeuse non rispose parola, ma s’avvicinò ancor più a Rodolphe,
tremante di paura.
«E io... io non farò la gelosa» disse l’orribile Chouette, ridendo a
crepapelle.
Non aveva ancora riconosciuto nella Goualeuse la Pégriotte, la sua
vittima.
«Ehi, piccola, mi hai sentito?» disse il mostro avvicinandosi. «Se
non ti muovi, ti cavo un occhio tanto per appaiarti alla Chouette.
Tu, coi baffi,» (queste parole erano dirette a Rodolphe), «se non mi
butti la bionda sopra la tavola... ti spacco...»
«Dio mio, Dio mio! difendetemi» gridò la Goualeuse a Rodolphe,
congiungendo le mani. Poi, pensando che lo mandava incontro a un
grosso pericolo, aggiunse a bassa voce: «No, no, non muovetevi,
signor Rodolphe; quando mi verrà vicino, griderò aiuto, e l’ostessa
prenderà sicuramente le mie parti se non vorrà far nascere un
tafferuglio che potrebbe attirare la polizia.»
«Sta’ tranquilla, ragazza» disse Rodolphe, guardando intrepidamente
il Maestro. «Tu sei con me, non muoverti; e siccome questo lurido
bestione fa schifo a te come a me, adesso lo butto fuori sulla
strada...»
«Tu?» disse il Maître d’école.
«Io!!!» rispose Rodolphe.
E, nonostante la Goualeuse lo tirasse giù, si alzò da tavola. Alla
vista terribile del volto di Rodolphe, il Maestro fece un
passo indietro.
Anche Fleur-de-Marie e lo Chourineur furono colpiti dall’espressione
carica di cattiveria, di rabbia diabolica che, in quel momento,
contrasse la nobile figura del loro amico; era diventato
irriconoscibile. Nella zuffa con lo Chourineur, Rodolphe s’era
mostrato sprezzante e beffardo; di fronte al Maestro, invece,
sembrava posseduto da un odio feroce; le pupille, dilatate per la
collera, mandavano strani bagliori.
Certi sguardi hanno una potenza magnetica irresistibile; dicono che
certi famosi duellisti attribuiscano i loro ferali successi
all’azione affascinatrice del loro sguardo, uno sguardo che
demoralizza, che abbatte gli avversari.
Rodolphe aveva il dono di queste implacabili occhiate fisse,
penetranti, che atterriscono e che non possono essere evitate da
coloro che ossessionano... È uno sguardo che li sconvolge, li
domina; lo sentono quasi come un fatto fisico che ricercano, loro
malgrado... sono incapaci di distogliere gli occhi.
Il Maestro trasalì, fece un altro passo indietro, e, non più sicuro
ora della sua forza prodigiosa, cercò sotto il camiciotto il manico
del pugnale.
Un fatto sanguinoso sarebbe forse successo nella bettola, se la
Chouette, afferrando il Maestro per un braccio, non fosse
intervenuta:
«Un momento... un momento... malandrino, fammi dire una parola...
poi ti farai un boccone di questi due bei musi, tanto non ti
sfuggiranno.»
Il Maestro guardò la guercia con stupore.
Da qualche momento la Chouette stava osservando Fleur-deMarie con
crescente attenzione tentando di mettere insieme i ricordi.
Alla fine non ebbe più alcun dubbio: riconobbe la Goualeuse.
«Com’è possibile!» esclamò stupita la guercia congiungendo le mani,
«è la Pégriotte, la ladra di pasticche. Ma da dove salti fuori? è il
diavolo che ti manda!» aggiunse mostrando i pugni alla ragazza. «Non
puoi sottrarti alle mie grinfie! Stai tranquilla che se non ti
strappo più i denti, ti farò spremere tutte le lacrime degli occhi.
Ah! vedrai come t’arrabbi! non sai allora? io conosco i tuoi
genitori: il Maestro ha conosciuto in galera l’uomo che t’ha
consegnata a me quand’eri piccina... Gli ha detto il nome di tua
madre... Sono ricchi i tuoi genitori...»
«I miei genitori! Li conoscete?...» esclamò Fleur-de-Marie.
«Sì, mio marito sa il nome di tua madre... ma gli strapperò la
lingua piuttosto che permettergli di dirtelo. Anche ieri ha visto
l’uomo che ti ha portata nel mio tugurio perché nessuno pagava più
sua moglie che ti aveva tenuto a balia... perché premevi ben poco a
tua madre, avrebbe preferito saperti morta, sicuro... Ma non
importa, se tu sapessi ora il suo nome, potresti ricattarla per
benino, non ti pare piccola bastarda?... L’uomo di cui ti parlo è in
possesso di documenti... sì, Pégriotte, ha alcune lettere di tua
madre... e se non se ne serve, ha le sue ragioni... Eh! sei
arrabbiata... piangi, Pégriotte... Ebbene, no, tua madre non la
conoscerai... Non la conoscerai.»
«Preferisco che mi creda morta...» disse Fleur-de-Marie,
asciugandosi gli occhi.
Rodolphe, dimenticato il Maître d’école, s’era messo ad ascoltare
con attenzione e interesse il racconto della Chouette.
Nel frattempo il brigante, non più sotto l’influsso dello sguardo di
Rodolphe, aveva ripreso coraggio; non poteva credere che un giovane
di media e slanciata statura fosse in grado di misurarsi con lui;
sicuro ora della sua forza erculea, s’avvicinò al difensore della
Goualeuse e disse seccamente alla Chouette:
«Basta con le chiacchiere... Voglio squadrare questo bel tomo e
sfondargli il muso... perché la bella bionda mi trovi più carino di
lui.»
Con un balzo Rodolphe saltò la tavola.
«State attenti ai miei piatti!» gridò ripetutamente l’ostessa.
Il Maître d’école si mise in guardia, portando le mani in avanti
e il busto all’indietro, piantandosi solidamente sui lombi e
puntellandosi, per così dire, su una delle sue enormi gambe... che
sembrava un pilastro.
Nel momento in cui Rodolphe gli si lanciava addosso, la porta della
bettola si aprì violentemente; il carbonaio di cui abbiamo parlato,
un uomo alto circa sei piedi, entrò a precipizio nella sala,
allontanò senza riguardi il Maestro, s’avvicinò a Rodolphe, e in
inglese gli disse a un orecchio:
«Signore, Tom e Sarah... sono in fondo alla strada.»
A quelle misteriose parole, Rodolphe ebbe un gesto di collera e,
gettato un luigi sul banco dell’ostessa, corse verso la porta.
Il Maître d’école tentò di sbarrare la strada a Rodolphe; ma questi,
voltandosi, gli appioppò in piena faccia due pugni così violenti che
il toro, rintronato, vacillò e cadde rovinosamente sopra un tavolo.
«Evviva! questi sono i pugni che ho ricevuto io alla fine» gridò lo
Chourineur. «Ancora qualcuna di queste lezioni, e avrò imparato...»
Ritornato in sé dopo alcuni secondi, il Maître d’école si lanciò
all’inseguimento di Rodolphe.
Quest’ultimo, assieme al carbonaio, era scomparso nel dedalo oscuro
delle vie della Cité; era impossibile raggiungerlo.
Poco dopo che il Maître d’école era tornato nella bettola schiumante
di rabbia, due uomini, accorsi in fretta dalla parte opposta a
quella per cui era andato Rodolphe, si precipitarono nella taverna;
ansimavano come se avessero fatto una lunga corsa.
Entrando, si preoccuparono prima di tutto di rovistare con lo
sguardo ogni angolo della taverna.
«Maledizione!» disse uno dei due, «ci è sfuggito ancora!...»
«Pazienza!... i giorni hanno ventiquattro ore, e la vita è lunga»
rispose l’altro.
I nuovi arrivati parlavano tutti e due inglese.
VI
TOM E SARAH
Si vedeva che i due ultimi personaggi entrati nella bettola
appartenevano a un ceto molto più elevato di quello dei clienti
della taverna.
Uno dei due era alto e slanciato; aveva i capelli quasi bianchi, le
sopracciglia e i favoriti neri, una faccia bruna e magra, segnata da
un’espressione energica e severa. Sul cappello portava, in segno di
lutto, una fascia nera; indossava una lunga finanziera scura che si
abbottonava fin sul collo; portava, sopra gli aderenti calzoni
grigi, un paio di stivali detti un tempo alla Suvarov.
L’amico, di statura molto bassa, bello anche se pallido, vestiva a
lutto.
I lunghi capelli, le sopracciglia e gli occhi bruno scuri facevano
risaltare il languido pallore del volto; il portamento, la statura,
la finezza dei lineamenti dimostravano apertamente che questo
personaggio era una donna travestita da uomo.
«Tom, chiedete da bere e interrogate un po’ questa gente» disse
Sarah, sempre in inglese.
«Sì, Sarah» rispose l’uomo dai capelli bianchi e dalle sopracciglie
nere.
Poi, sedutosi a un tavolo mentre Sarah si asciugava la fronte, disse
all’ostessa in un buonissimo francese quasi senza accento:
«Signora, fateci, per favore, portare qualcosa da bere.»
L’arrivo di questi due personaggi alla bettola aveva destato un vivo
interesse; i loro vestiti, i loro modi davano a vedere che essi non
avevano mai frequentato locali di questo genere. Dalla loro
espressione inquieta e preoccupata, si capiva che erano venuti nel
quartiere per motivi importanti.
Lo Chourineur, il Maître d’école e la Chouette li guardavano con
avida curiosità.
La Goualeuse, spaventata dalla presenza della Chouette e impaurita
dalle minacce del Maître d’école che voleva condurla con sé,
approfittò della disattenzione dei due delinquenti per portarsi
verso la porta rimasta socchiusa e uscire dalla taverna.
Lo Chourineur e il Maître d’école non avevano, nessun interesse a
prendersi ancora a cazzotti.
Sorpresa dall’arrivo di ospiti così insoliti, l’ostessa partecipava
alla curiosità generale. Tom, spazientitosi, le chiese una seconda
volta:
«Abbiamo ordinato qualcosa da bere, signora; abbiate la gentilezza
di servirci.»
Comare Ponisse, lusingata dal complimento, si alzò da dietro il
banco e andò ad appoggiarsi con tutta la grazia che poteva avere sul
tavolo di Tom, e gli disse:
«Volete un litro di vino o una bottiglia sigillata?».
«Portateci una bottiglia di vino, due bicchieri e un po’ d’acqua.»
L’ostessa servì; Tom le gettò cento soldi, e, lasciatole il resto
che lei voleva restituirgli:
«Tenete pure, ostessa, e venite a bere un bicchiere di vino
con noi.»
«Siete molto gentile, signore» disse comare Ponisse guardan-
do Tom più con stupore che con riconoscenza.
«Ma, dite un po’» riprese quest’ultimo «noi avevamo dato ap-
puntamento a un nostro amico in una taverna di questa strada; forse
ci siamo sbagliati.»
«Questo è il Lapin Blanc, per servirvi, signore.»
«È proprio questo» rispose Tom facendo un cenno d’intesa a Sarah.
«Sì, proprio al Lapin Blanc doveva aspettarci.»
«Di Lapin Blanc ce n’è uno solo in questa strada» disse
orgogliosamente l’ostessa. «Ma com’era questo vostro amico?»
«Alto e magro, capelli e baffi castano chiari» rispose Tom.
«Aspettate un po’, aspettate un po’, è il tipo di poco fa; un
carbonaio di statura colossale è venuto a chiamarlo, e sono andati
via insieme.»
«Sono loro» disse Tom.
«Ed erano soli qui?» chiese Sarah.
«Veramente, il carbonaio c’è stato per un solo momento, mentre
l’altro vostro amico ha cenato qui con la Goualeuse e lo
Chourineur»; e così dicendo l’ostessa indicò con uno sguardo quel
commensale di Rodolphe che era rimasto nella taverna.
Tom e Sarah si girarono dalla parte dello Chourineur.
Dopo un breve esame dello Chourineur, Sarah disse in inglese al
compagno:
«Conoscete quell’uomo?»
«No. Karl aveva perduto le tracce di Rodolphe all’inizio di queste
vie oscure. Accortosi che Murph s’aggirava nelle vicinanze della
bettola, travestito da carbonaio, e che spesso andava a incollare
gli occhi ai vetri di questa, ha subodorato qualcosa ed è venuto
quindi ad avvertirci.»
Durante questo dialogo, svoltosi sottovoce e in lingua straniera, il
Maestro diceva in un orecchio alla Chouette guardando Tom e Sarah:
«Lo spilungone ha scucito cento soldi all’ostessa. Presto è
mezzanotte; piove, tira vento: quando saranno usciti, ci metteremo a
seguirli; stordirò il tipo magro e gli soffierò il denaro. È con una
donna, non oserà fiatare.»
«Se la piccola chiama aiuto, ho il mio vetriolo in tasca, le
spaccherò la bottiglia sulla faccia» disse la guercia; «si deve
sempre dar da bere ai bambini perché non gridino.» Poi aggiunse:
«Senti un po’, furfante, la prossima volta che incontriamo la
Pégriotte, dobbiamo portarla via di forza. Una volta che sarà con
noi, le sfregheremo il muso con il vetriolo, così non farà più la
superba con quel suo grazioso visino...»
«Senti, Chouette, finirò con lo sposarti» disse il Maître d’école
«non c’è nessuno che ti superi in abilità e coraggio... La notte del
mercante di buoi, t’ho giudicata... mi sono detto: “Questa sarà mia
moglie: lavorerà meglio di un uomo”.»
Dopo aver riflettuto un momento, Sarah disse a Tom indicandogli lo
Chourineur:
«Se chiedessimo a quell’uomo di Rodolphe, forse potremmo sapere che
cosa l’ha condotto qui.»
«Proviamo» rispose Tom. Poi, rivolgendosi allo Chourineur: «Sentite,
buon uomo, noi dovevamo trovarci in questa taverna con un nostro
amico; egli ha cenato con voi qui dentro; dal momento che lo
conoscete, diteci se sapete dove è andato.»
«Io lo conosco perché due ore fa ha preso le difese della Goualeuse
e m’ha picchiato di santa ragione.»
«E prima d’allora non l’avevate mai visto?»
«Mai... Ci siamo incontrati nell’andito della casa di BrasRouge.»
«Ostessa! una bottiglia sigillata, e del migliore» gridò Tom.
I bicchieri di Tom e Sarah erano ancora pieni perché essi s’erano
limitati a intingervi le labbra; comare Ponisse, invece, certamente
per fare onore alla propria cantina, ne aveva già vuotati parecchi.
«E portatela sul tavolo di questo signore se si compiace di
permetterlo» aggiunse Tom andando con Sarah accanto allo Chourineur,
stupito e lusingato a un tempo da questa cortesia.
Il Maître d’école e la Chouette continuavano sempre a parlare
sottovoce dei loro sinistri progetti.
Dopo che la bottiglia fu portata, e che Tom e Sarah si sedettero a
tavola con lo Chourineur e con l’ostessa che aveva ritenuto
superfluo un secondo invito, il colloquio riprese:
«Ci dicevate dunque, buon uomo, d’aver incontrato il nostro amico
Rodolphe nella casa di Bras-Rouge?» disse Tom brindando con lo
Chourineur.
«Sì, signore» rispose questi vuotando rapidamente il bicchiere.
«È un nome strano codesto... Bras-Rouge! Che fa questo BrasRouge?»
«Fa passare la roba» rispose con noncuranza lo Chourineur; poi
aggiunse: «Questo sì che è un vino eccellente, comare Ponisse!»
«Per questo, buon uomo, non vi lascio mai il bicchiere vuoto»
riprese Tom versando di nuovo da bere allo Chourineur.
«Alla vostra salute» disse questi, «e a quella del vostro
amichetto... insomma basta... Se mia zia fosse un uomo, sarebbe mio
zio, come dice il proverbio... Via, burlone, mi capisco io!»
Sarah arrossì impercettibilmente.
Tom riprese:
«Non ho ben capito quello che m’avete detto su Bras-Rouge.
Sicuro che Rodolphe uscisse dalla casa di BrasRouge?»
«Vi ho detto che Bras-Rouge faceva passare la roba.»
Tom guardò sorpreso lo Chourineur.
«Che cosa vuol dire far passare la... come avete detto?»
«Far passare la roba, insomma fare contrabbando. Mi sa che
voi non spiccicate?»
«Buon uomo, non vi capisco più.»
«Io vi dico: Non parlate allora il nostro gergo come il signor
Rodolphe.»
«Gergo?» disse Tom guardando Sarah con aria stupita.
«Andiamo, voi siete dei semplici... Rodolphe, invece, lui sì che è
un ottimo amico; nonostante faccia il pittore di ventagli, darebbe
lezioni di gergo anche a me... Orbene, dal momento che non parlate
questa bella lingua, vi dico in buon francese che BrasRouge fa il
contrabbandiere; dicendo questo non faccio la spia... perché lui non
ne fa mistero, anzi se ne vanta in presenza dei gabellotti; ma
Bras-Rouge è astuto, inutile cercarlo e volerlo prendere.»
«E che cosa andava a fare Rodolphe in casa di quest’uomo?» chiese
Sarah.
«Credetemi signore... o signora, come volete, non ne so
assolutamente niente, e quel che dico è vero come il bicchiere di
vino che ho davanti. Stasera volevo picchiare la Goualeuse; avevo
torto: è una brava ragazza; lei s’inoltra nell’androne della casa di
Bras-Rouge, io la inseguo... faceva buio come all’inferno; invece di
raggiungere la Goualeuse, incappo in padron Rodolphe, che mi dà una
buona batosta, e con colpi duri... oh! sì... c’erano soprattutto i
pugni finali... capperi! com’erano bene aggiustati! m’ha promesso
d’insegnarmeli.»
«E che uomo è Bras-Rouge?» domandò Tom. «Che tipo di merci vende?»
«Bras-Rouge? diavolo! vende tutto quello che è proibito vendere, fa
tutto quello che è proibito fare. Ecco il suo mestiere e la sua
merce. Non è vero, comare Ponisse?»
«Oh! è uno scaltro» rispose l’ostessa.
«E mette bellamente i gabellotti nel sacco» riprese lo Chourineur.
«Più di venti volte hanno fatto incursioni nella sua casetta, non
hanno mai trovato niente, eppure quando esce di casa è quasi sempre
carico di involti.»
«È furbo!» disse l’ostessa; «dicono che in casa sua c’è un
nascondiglio che comunica con un pozzo che conduce alle catacombe.»
«Eppure non hanno mai trovato il suo nascondiglio; si dovrebbe
demolirgli la casetta per scoprirlo» disse lo Chourineur.
«E che numero ha di casa Bras-Rouge?»
«Il 13 della rue aux Fèves: Bras-Rouge spacciatore di tutto ciò che
si vuole... È conosciuto nella Cité» disse lo Chourineur.
«Voglio segnarmi quest’indirizzo sul taccuino; se non troveremo
Rodolphe, andremo da Bras-Rouge per cercare di avere qualche
informazione» riprese Tom. E scrisse il nome e il numero della
strada del contrabbandiere.
«Voi, da parte vostra, potete vantarvi d’avere, in padron Rodolphe,
un amico sicuro...» disse lo Chourineur «e buon figliolo... Se non
interveniva il carbonaio, stava per venire alle mani col Maestro che
è laggiù in quel canto con la Chouette... Per tutti i diavoli! se
non mi tengo la stritolo, quella vecchia fattucchiera, quando penso
a quello che ha fatto alla Goualeuse... Ma pazienza... un pugno si
può sempre dare, come dice quell’altro.»
«Rodolphe vi ha picchiato? lo odierete!» disse Sarah.
«Io odiare un uomo che è così? neanche per idea! Effettivamente è
una cosa buffa... vedete, il Maître d’école mi ha picchiato, eppure
non sapete come mi piacerebbe vederlo strangolato... Il signor
Rodolphe m’ha picchiato e anche più duramente... è il contrario
invece: gli voglio bene. Insomma credo che mi butterei nel fuoco per
lui, e lo conosco appena da questa sera.»
«Lo dite, buon uomo, perché siamo suoi amici.»
«No, perdio! no, ve lo giuro!... Vedete, egli ha dalla sua i pugni
finali... di cui non va assolutamente fiero: non c’è da dire... è un
maestro perfetto... E poi vi dice certe parole... certe cose che vi
rimettono l’anima in corpo; poi infine, quando vi guarda... c’è nei
suoi occhi un non so che... Sentite, io sono stato soldato..., con
un capo come lui... vedete, si conquisterebbero la luna e le
stelle.»
Tom e Sarah si guardarono in silenzio.
«Questa straordinaria potenza magnetica ce l’ha sempre allora e
dovunque vada?» disse amaramente Sarah.
«Sì... finché non avremo rotto l’incanto» riprese Tom.
«Sì, e, qualunque cosa succeda, dobbiamo farlo, dobbiamo farlo»
disse Sarah passandosi una mano sulla fronte come per cacciare un
triste ricordo.
Al palazzo municipale suonò la mezzanotte.
La lampada della taverna non gettava più che un incerto chiarore.
All’infuori dello Chourineur e dei due commensali, del Maestro e
della Chouette, tutti i clienti della bettola, chi prima chi poi,
s’erano ritirati.
Il Maître d’école disse piano alla Chouette:
«Andremo a nasconderci nell’androne di fronte e, quando vedremo
uscire le due vittime, ci metteremo a seguirle. Se vanno a sinistra,
li aspettiamo dietro l’angolo della rue Saint-Eloi; se vanno a
destra, li aspettiamo dietro le macerie della casa in demolizione,
dalla parte della tripperia; lì vicino c’è un gran buco; so io che
cosa fare.»
E il Maître d’école e la Chouette si diressero verso la porta.
«Non mangiate proprio niente questa sera?» disse loro l’ostessa.
«No, comare Ponisse... eravamo entrati per metterci al riparo»
rispose il Maestro. E uscì seguito dalla Chouette.
VII
O LA BORSA O LA VITA
Al rumore che fece la porta richiudendosi, Tom e Sarah si scossero
dalle loro fantasticherie; si alzarono e ringraziarono lo Chourineur
delle informazioni avute: questi ispirava loro meno fiducia dopo che
aveva espresso volgarmente sì ma anche sinceramente quella sua
brutale ammirazione per Rodolphe.
Nel momento in cui uscì lo Chourineur, il vento infuriava con
maggiore violenza e la pioggia cadeva a torrenti.
Il Maître d’école e la Chouette, in agguato nell’androne dirimpetto
alla bettola, videro lo Chourineur prendere per la strada in cui si
trovava la casa mezzo demolita. Dopo un po’ il rumore dei suoi
passi, un po’ appesantiti dalle frequenti libagioni della serata, si
perdette in mezzo ai sibili del vento e allo scrosciare della
pioggia che sferzava le muraglie.
Nonostante la bufera, Tom e Sarah uscirono dalla taverna e presero
per una direzione opposta a quella dello Chourineur.
«Sono perduti» disse piano il Maître d’école alla Chouette; «stappa
il vetriolo: attenta!»
«Leviamoci le scarpe, non ci sentiranno quando cammineremo alle loro
spalle» disse la Chouette.
«Hai ragione, Chouette, sempre ragione, io non ci avrei mai pensato;
facciamo il passo felpato.»
L’orribile coppia si scalzò e scivolò poi nell’ombra, rasente alle
case...
Grazie a questo stratagemma, i passi della Chouette e del Maître
d’école fecero così poco rumore che i due poterono seguire Tom e
Sarah talmente vicino da toccarli quasi senza che questi li
udissero.
«Meno male che la nostra carrozza si trova all’angolo della strada»
disse Tom; «perché la pioggia ci sta inzuppando. Avete freddo,
Sarah?»
«Forse sapremo qualcosa dal contrabbandiere, da questo Bras-Rouge»
rispose Sarah pensosa senza badare alla domanda di Tom.
D’un tratto questi si fermò.
Non erano molto lontani dal punto scelto dal Maître d’école per
commettere il delitto.
«Ho sbagliato strada» disse Tom, «bisognava girare a sinistra appena
usciti dalla bettola; dobbiamo passare davanti a una casa mezzo
demolita per trovare la carrozza. Torniamo indietro.»
Il Maître d’école e la Chouette si gettarono nell’ombra di un vano,
contro una porta, per non essere visti da Tom e Sarah che li
sfiorarono quasi col gomito.
«Veramente preferisco che vadano dalla parte delle macerie» disse
piano il Maestro; «se il signore fa resistenza... so io che cosa
fare.»
Tom e Sarah intanto, dopo essere ripassati davanti alla bettola,
arrivarono vicino alla casa in rovina.
Era una catapecchia mezzo demolita i cui scantinati senza soffitto
formavano una specie di precipizio; in quel punto la strada si
allargava.
Il Maître d’école balzò fuori col vigore e l’agilità d’una tigre;
con una delle sue larghe mani afferrò Tom per il collo e gli disse:
«I denari, o ti butto nella buca.»
E spingendo indietro Tom, gli fece perdere l’equilibrio; con una
mano lo tenne per così dire sospeso sul precipizio, mentre l’altra
strinse il braccio di Sarah come in una morsa.
Prima che Tom avesse fatto il minimo movimento, la Chouette lo aveva
spogliato di tutto con straordinaria abilità.
Sarah non mandò un grido né cercò di difendersi; si limitò a dire
con voce calma:
«Date loro la vostra borsa, Tom.» Poi si rivolse al brigante: «Non
grideremo, ma non fateci del male.»
La Chouette, dopo avere scrupolosamente frugato nelle tasche delle
vittime dell’agguato, disse a Sarah:
«Vediamo un po’ se hai qualche anello alle dita. Niente» continuò la
vecchia brontolando. «Non hai proprio nessuno che ti dia qualche
anello?... che miserabile!»
Il proverbiale sangue freddo di Tom non si smentì neppure in un
frangente folgorante e imprevedibile come quello.
«Volete fare un buon affare? Il mio portafogli contiene documenti
che a voi non serviranno; portatemeli, e domani vi darò venticinque
luigi» disse Tom al Maître d’école, la cui mano già stringeva con
meno forza.
«Sì, per farci cadere in un tranello!» rispose il brigante. «Forza,
fila via e senza voltarti indietro. Puoi dirti fortunato d’essertela
cavata a così buon mercato.»
«Un momento» interloquì la Chouette; «se farà il bravo, avrà il
portafogli; il mezzo c’è.» Poi, rivolgendosi a Tom: «Conoscete la
spianata di Saint-Denis?»
«Sì.»
«Sapete dov’è Saint-Ouen?»
«Sì.»
«Dirimpetto a Saint-Ouen, in fondo alla strada della Révolte,
c’è un tratto di aperta campagna; guardando attraverso i campi, si
riesce a vedere in lontananza; trovatevi lì domani mattina da solo;
portate il denaro, io ci sarò con il portafogli, non si fa niente
per niente, e ve lo restituirò.»
«Ma ti farà pizzicare, Chouette!»
«Mica sono così stupida! non può farlo... si vede troppo in
lontananza; io ho un occhio solo... ma è buono; se il signore verrà
con qualcuno, non troverà più nessuno, avrò tagliato la corda.»
Un’idea s’affacciò d’improvviso alla mente di Sarah:
«Vuoi guadagnarti un po’ di soldi?» disse al brigante. «Certamente.»
«Hai visto nella bettola da cui siamo usciti, perché adesso ti ri-
conosco, hai visto l’uomo che il carbonaio è venuto a chiamare?» «Il
magro con i baffi? Sì, stavo mangiandomi un pezzo di quel bel muso;
ma non me n’ha dato il tempo... Mi ha stordito con due pugni e m’ha
buttato sopra un tavolo... è la prima volta che mi ca-
pita... Oh! ma mi vendicherò!»
«Ebbene! si tratta di lui» disse Sarah.
«Di lui?» esclamò il Maestro. «Datemi mille franchi e ve lo
accoppo...»
«Sarah!» gridò Tom spaventato.
«Miserabile! Non si parla di ucciderlo...» rispose Sarah al
Maître d’école.
«Di che cosa allora?»
«Andate domani alla spianata di Saint-Denis, lì troverete il
mio compagno» riprese; «vedrete che sarà solo; egli vi dirà ciò che
dovete fare. Non mille franchi, ma duemila ve ne darò... se
riuscirete.»
«Furfante» disse piano la Chouette al Maître d’école, «c’è da
guadagnare un po’ di soldi; è gente ricca che vuole preparare un
agguato a un nemico; il nemico è quel pezzente che tu volevi
sfondare... Bisogna andarci; ci andrò io al tuo posto... Duemila
baiocchi! marito mio, vale la pena.»
«Ebbene! ci verrà mia moglie» disse il Maître d’école; «le direte
che cosa c’è da fare, e poi vedremo.»
«Bene, domani all’una.»
«All’una.»
«Nella spianata di Saint-Denis.»
«Nella spianata di Saint-Denis.»
«Tra Saint-Ouen e la via della Révolte, in fondo alla strada.»
«D’accordo.»
«E io vi porterò il portafogli.»
«E voi avrete i cinquecento franchi promessi, e un acconto
sull’altro affare se combineremo.»
«Ora voi andate a destra, noi a sinistra; non seguiteci, se no...» E
il Maestro con la Chouette s’allontanò lestamente.
«Il demonio ci è venuto in aiuto» disse Sarah; «quel bandito
può esserci utile.»
«Sarah, ora ho paura...» rispose Tom.
«Io non ho paura. Anzi ho qualche speranza. Ma, venite, veni-
te, adesso mi ritrovo; la carrozza non deve essere lontana.»
E i due personaggi si diressero a grandi passi verso la piazza
di Notre-Dame.
Un testimone aveva assistito, non visto, alla scena.
Si trattava dello Chourineur che si era rimpiattato tra le mace-
rie per mettersi al riparo dalla pioggia.
La proposta fatta da Sarah al brigante circa Rodolphe destò
un vivo interesse nello Chourineur; sbigottito dal pericolo che
sovrastava il suo nuovo amico, provò grande rincrescimento per non
poterlo aiutare. L’odio che aveva per il Maître d’école e la
Chouette ebbe forse parte in quel buon sentimento.
Lo Chourineur decise di informare Rodolphe del pericolo a cui andava
incontro; ma come fare? Aveva già dimenticato l’indirizzo del
sedicente pittore di ventagli. Forse Rodolphe non sarebbe più
ritornato alla bettola; come ritrovarlo?
Queste erano le sue riflessioni quando, dopo averli macchinalmente
seguiti, lo Chourineur vide Tom e Sarah salire in una carrozza che
li aspettava sulla piazza di Notre-Dame.
La carrozza partì.
Lo Chourineur ebbe subito un’idea luminosa; salì dietro la carrozza.
All’una di notte la carrozza si fermò nel boulevard de
l’Observatoire; Tom e Sarah scesero e infilarono poi una delle
viuzze che sboccano in quel punto.
La notte era buia; tanto che lo Chourineur non riuscì a individuare
un solo punto di riferimento che, il giorno successivo, potesse
fargli riconoscere esattamente il posto in cui si trovava.
Allora, da sagace selvaggio qual era, si trasse di tasca il coltello
e fece un taglio largo e profondo in uno degli alberi vicino ai
quali s’era fermata la carrozza. Dopo di che s’incamminò verso casa;
se n’era notevolmente allontanato.
Per la prima volta, dopo molto tempo, lo Chourineur assaporò, nel
tugurio dove abitava, un sonno profondo, per la prima volta, dopo
molto tempo, non fu turbato dell’orribile visione del mattatoio dei
sergenti, come diceva nel suo brutale linguaggio.
VIII
LA PASSEGGIATA
Alla sera in cui erano avvenuti i fatti che abbiamo descritto era
seguito un bel mattino di sole, un radioso sole autunnale che
brillava al centro d’un cielo terso; la bufera della notte era
passata. Benché sempre all’ombra per via delle case alte, l’equivoco
quartiere in cui il nostro lettore ci ha accompagnati sembrava meno
orribile, visto alla luce d’un bel giorno.
Tanto perché non temeva più d’incontrare le due persone che aveva
evitato la sera precedente quanto perché voleva farlo, Rodolphe,
verso le undici del mattino, imboccò la rue aux Fèves, e si diresse
verso la bettola.
Era sempre vestito da operaio, ma si notava nel suo abbigliamento
una certa ricercatezza; il camiciotto nuovo, aperto davanti, metteva
in mostra una camicia di lana rossa munita di una lunga fila di
bottoni d’argento; il colletto di un’altra camicia di tela bianca
poggiava con le punte sul fazzoletto di seta nera annodato senza
cura attorno al collo; da sotto il berretto rigido di velluto
cilestrino, con visiera verniciata, uscivano alcune ciocche di
capelli castani; un paio di stivali lucidati alla perfezione avevano
preso il posto degli scarponi chiodati della sera precedente e
mettevano in evidenza un piede ben fatto, che sembrava tanto più
piccolo in quanto usciva da un paio di pantaloni larghi di velluto
color oliva.
Il vestito si adattava benissimo all’elegante portamento di
Rodolphe, raro impasto di grazia, di agilità e di forza.
I nostri abiti sono così brutti che non perdiamo niente a lasciarli,
anche per i vestiti più volgari.
L’ostessa stava rilassandosi sulla porta della taverna quando
Rodolphe le si parò davanti:
«Serva vostra, giovanotto! Siete venuto a prendervi il resto dei
venti franchi?» disse con una certa deferenza, non osando finge-
re d’avere dimenticato che la sera prima il vincitore dello
Chourineur le aveva gettato sul banco un luigi; «vi vengono
diciassette lire e dieci soldi... Non è tutto... Ieri è venuta gente
a chiedere di voi: un signore alto, ben vestito; aveva ai piedi un
paio di stivali alla Suvarov come un tamburo maggiore in borghese,
ed era a braccetto di una donnetta travestita da uomo. Hanno bevuto
una bottiglia sigillata con lo Chourineur.»
«Ah! hanno bevuto con lo Chourineur! E che cosa gli hanno detto?»
«Veramente non hanno bevuto, non hanno fatto che intingere le labbra
nei bicchieri; e...»
«Voglio sapere quello che hanno detto allo Chourineur!»
«Hanno parlato di tante cose, di Bras-Rouge, della pioggia e del bel
tempo.»
«Conoscono Bras-Rouge?»
«Al contrario, lo Chourineur ha spiegato loro chi era... e come era
stato suonato da voi.»
«Va bene, non si tratta di questo.»
«Volete il resto?»
«Sì... e condurrò la Goualeuse a passare la giornata in cam-
pagna.»
«Oh! questo è impossibile, ragazzo.»
«Perché?»
«Ci mancherebbe altro che non tornasse più. I panni che ha
indosso sono miei, senza contare che mi deve duecentoventi franchi,
se vuole saldare il conto del vitto e dell’alloggio da quando l’ho
presa in casa con me; se non fosse onesta com’è, non la lascerei
andare oltre l’angolo della strada, come minimo.»
«La Goualeuse ti deve duecentoventi franchi?»
«Duecentoventi franchi e dieci soldi. Ma che cosa v’importa,
ragazzo? Si direbbe quasi che vogliate pagarli! Fate pure il
milord!»
«Tieni» disse Rodolphe, gettando undici luigi sul banco
dell’ostessa. «Ora dimmi quanto valgono i cenci che le noleggi.»
La vecchia, sbalordita, esaminava i luigi, uno dopo l’altro, con
aria dubbiosa e diffidente.
«Ehi, credi che ti dia soldi falsi? Manda a cambiare quest’oro, e
finiamola. Quanto valgono i cenci che noleggi a quella disgraziata?»
L’ostessa, divisa tra il desiderio di fare un buon affare, lo
stupore di vedere un operaio possedere tanto denaro, il timore
d’essere ingannata e la speranza di guadagnare ancora di più, stette
un momento in silenzio, poi riprese:
«I suoi vestiti valgono almeno... cento franchi».
«Quegli stracci! Via! Ti tieni il resto di ieri e ti do ancora un
luigi, e basta. Farmi ricattare da te vuol dire privare i poveri
delle elemosine a cui hanno diritto.»
«Ebbene, ragazzo, mi tengo i vestiti: la Goualeuse non uscirà di
qui: posso vendere la mia roba a chi voglio.»
«Che Lucifero ti bruci come ti meriti! Ecco il tuo denaro, vammi a
chiamare la Goualeuse.»
L’ostessa intascò i soldi, pensando che l’operaio avesse rubato o
ereditato; poi gli disse con un ignobile sorriso: «Perché, figliolo,
non andate voi stesso a chiamare la Goualeuse!... le farebbe
piacere... dato che, parola di comare Ponisse, ieri vi sbirciava con
occhio dolce!»
«Va’ a chiamarla e dille che la porto in campagna... nient’altro.
Che non sappia, soprattutto, che ti ho pagato il suo debito.»
«Ma perché?»
«Che t’importa?»
«Be’, poco male, preferisco che si creda ancora in mio potere.»
«Vuoi star zitta? Vuoi andare?...»
«Oh! che brutte maniere! Compiango coloro a cui voi ne vole-
te... Sì, sì, ci vado... ci vado...»
«E l’ostessa andò.»
Dopo qualche minuto, fu di ritorno.
«La Goualeuse non voleva credermi; è diventata bordò quan-
do ha sentito che eravate qui... Ma quando le ho detto che le davo
il permesso di passare la giornata in campagna, ho creduto che
impazzisse; per la prima volta in vita sua le è venuta voglia di
saltarmi al collo.»
«Era la gioia di lasciarti.»
In quel momento entrò Fleur-de-Marie, vestita come la sera
precedente: abito di lana scura, scialle color arancione annodato
dietro la schiena, cuffia a quadri rossi da cui uscivano due grosse
trecce di capelli biondi. Riconosciuto Rodolphe, arrossì e chinò gli
occhi confusa.
«Volete venire con me, figliola, a passare la giornata in campagna?»
disse Rodolphe.
«Molto volentieri, signor Rodolphe» rispose la Goualeuse, «dal
momento che la signora me lo permette.»
«Te lo permetto, cara gattina, per la tua buona condotta... che dà
lustro... Su, vieni a darmi un bacio.»
E la megera porse a Fleur-de-Marie la guancia color rame. La
ragazza, vincendo la ripugnanza, accostò la fronte alle lab-
bra dell’ostessa; ma con una violenta gomitata Rodolphe spinse la
vecchia contro il banco, prese a braccetto Fleur-de-Marie e uscì
dalla taverna inseguito dalle maledizioni di comare Ponisse.
«State attento, signor Rodolphe» disse la Goualeuse, «l’ostessa è
capace di tirarvi dietro qualcosa, è così cattiva!»
«State tranquilla, figliola. Ma che cosa avete? Mi sembrate
imbarazzata... triste? Vi dispiace venire con me?»
«Al contrario... ma... ma voi mi tenete per un braccio.» «Ebbene?»
«Voi siete un operaio... qualcuno potrebbe andare a dire al vo-
stro padrone d’averci visti assieme... potreste avere qualche
dispiacere per causa mia. I padroni non vogliono che i loro operai
siano traviati.»
E la Goualeuse si staccò dolcemente dal braccio di Rodolphe,
aggiungendo:
«Andate avanti solo... fino alla barriera io starò dietro a voi.
Quando saremo in campagna, vi ritornerò vicino.»
«Non temete» disse Rodolphe, commosso da tale delicatezza e,
rimettendosi a braccetto di Fleur-de-Marie: «Il mio padrone non
abita nel quartiere e poi, adesso, andiamo a prendere una carrozza
sul quai aux Fleurs.»
«Come volete, signor Rodolphe; ve lo dicevo perché non vi dovesse
capitare qualche guaio...»
«Vi credo e ve ne sono grato. Ma, ditelo apertamente, vi fa lo
stesso se andiamo in un posto qualsiasi della campagna?»
«È lo stesso, signor Rodolphe, purché sia in campagna... È così
bello... fa così bene respirare aria pura! Sapete che sono cinque
mesi che non vado al di là del mercato dei Fiori? Tenendo presente
che l’ostessa mi permetteva di uscire dalla Cité perché si fidava di
me.»
«E quando andavate al mercato, comperavate fiori?»
«Oh, no; non avevo soldi; andavo solamente a guardarli, a respirare
il loro profumo... Durante la mezz’ora che l’ostessa mi permetteva
di trascorrere davanti ai fiorai, nei giorni di mercato, mi sentivo
così contenta che dimenticavo ogni cosa.»
«E ritornando dall’ostessa... per quelle brutte strade?»
«Ritornavo più triste di quanto non fossi partita... e ringoiavo le
lacrime per non essere picchiata! Vedete... al mercato... ciò che
invidiavo, invidiavo tanto, erano le piccole operaie tutte pulitine
che se n’andavano contente contente, con un bel vaso di fiori fra le
braccia.»
«Sono sicuro che se aveste avuto uno o due fiori sul davanzale della
vostra finestra, essi vi avrebbero tenuto compagnia!»
«È proprio vero quello che avete detto, signor Rodolphe!
Immaginatevi che l’ostessa, il giorno del suo compleanno, m’aveva
regalato una piantina di rose. Se sapeste com’ero felice! non mi
annoiavo più, no! Non facevo che guardare la mia piantina... mi
divertivo a contarne le foglie, i fiori... Ma l’aria della Cité è
così cattiva, in capo a due giorni è incominciato a ingiallire.
Allora... ma non mi prenderete in giro, signor Rodolphe?»
«No, no, continuate.»
«Ebbene, allora ho chiesto all’ostessa il permesso di uscire con la
mia piantina di rose e di andare a portarla a passeggio... sì...
come se avessi portato a passeggio un bambino. La conducevo con me
al mercato, pensavo che essere in mezzo agli altri fiori, dentro
quell’aria buona, fresca e profumata gli facesse bene; immergevo le
sue povere foglie appassite nella bella acqua della fontana, e poi,
per asciugarla, la lasciavo un buon quarto d’ora al sole... Cara
piccola rosa, di sole non ne vedeva mai nella Cité, perché nella
nostra strada non scende mai al di sotto dei tetti... Alla fine
rientravo... Orbene, vi assicuro, signor Rodolphe, che, senza quelle
passeggiate, la mia piantina di rose forse non sarebbe vissuto i
dieci giorni in più che è vissuta.»
«Vi credo; ma quand’è morta, è stata una grande perdita per voi?»
«Ho pianto, è stato un vero dolore... E, sentite, signor Rodolphe,
dal momento che capite quelli a cui piacciono i fiori, posso
senz’altro dirvi una cosa. Ebbene, sentivo anche una certa
riconoscenza... di... Ah, questa volta riderete sicuramente di
me...»
«No, no! mi piacciono... adoro i fiori; così capisco tutte le follie
che essi ci fanno fare o ci ispirano.»
«Ebbene, le ero riconoscente, alla povera piantina, del fatto che mi
faceva la gentilezza di mettere fiori... benché... insomma...
nonostante quel che fossi.»
E la Goualeuse abbassò la testa e s’imporporò di vergogna...
«Infelice figliola! con questa coscienza della vostra orribile
situazione, avete dovuto spesso...»
«Avere voglia di finirla, non è vero, signor Rodolphe?» disse la
Goualeuse interrompendo il compagno; «oh, sì, certo, più d’una volta
dal parapetto ho guardato la Senna... ma dopo guardavo i fiori, il
sole... Allora mi dicevo: Il fiume sarà sempre qui; non ho neppure
diciassette anni... chi sa?»
«Quando avete detto Chi sa?... avevate qualche speranza?» «Sì...»
«E che cosa speravate?»
«Non so... speravo... sì, speravo quasi contro la mia volontà
stessa... In quei momenti mi sembrava di non meritarmi la mia sorte,
mi sembrava che ci fosse qualcosa di buono in me. Mi dicevo: Sono
stata tormentata molto; ma, almeno, non ho mai fatto del male a
nessuno... Se avessi avuto qualcuno con cui consigliarmi, non sarei
al punto in cui sono!... Allora questo pensiero mi scacciava un po’
di tristezza... Devo aggiungere però che queste idee m’erano venute
in seguito alla morte della mia piantina di rose» soggiunse la
Goualeuse con un’aria solenne che fece sorridere Rodolphe.
«Sempre il solito grande dolore...»
«Sì, vedete, eccolo.»
E la Goualeuse trasse di tasca un piccolo involto di rametti
sminuzzati con cura, chiuso da un nastrino rosa.
«L’avete conservato?»
«Lo credo bene... è tutto quanto possiedo al mondo.» «Come! non
avete niente di vostro?»
«Niente...»
«Ma quel vezzo di coralli?»
«È dell’ostessa.»
«Come! voi non possedete un vestito, una cuffia, un fazzo-
letto?»
«No, niente... niente... se non i rami secchi della mia povera
piantina. Per questo ci tengo tanto...»
A ogni parola della Goualeuse, Rodolphe si stupiva sempre
più; non poteva capire quella spaventosa schiavitù, quella orribile
cessione del proprio corpo e della propria anima per quattro sordide
mura, qualche straccio e un vitto disgustoso.7
Rodolphe e la Goualeuse arrivarono intanto al quai aux Fleurs: c’era
una carrozza che aspettava: Rodolphe fece salire la Goualeuse; poi
salì anche lui, dopo di che disse al vetturino:
«A Saint-Denis; ti dirò poi la strada che dovrai prendere.»
La carrozza partì; il sole era radioso, il cielo senza nubi ma il
freddo pizzicava un po’; dai finestrini aperti entrava un’aria
pungente e fresca.
7 Se ci è permesso entrare in particolari che ci ripugnano,
dimostreremo che questa schiavitù esiste, che le leggi di polizia
sono fatte in modo tale che una sventurata creatura gettata in
questo abisso d’infamia, spesso per colpa dei suoi stessi parenti, è
per sempre condannata a restarci; vani sono i pentimenti e i
rimorsi, le è materialmente impossibile uscire da quel fango. (Si
legga a questo proposito la preziosa opera del dottor
Parent-Duchâtelet, filosofo e grande benefattore.)
«To’! una pelliccia da donna!» disse la Goualeuse accortasi di
essere seduta su qualcosa di soffice che non aveva visto.
«Sì, è per voi, figliola: ve l’ho portata per paura che prendiate
freddo; copritevi per bene.»
La poveretta, poco avvezza a simili attenzioni, guardò attonita
Rodolphe.
Quella certa soggezione che quest’ultimo le ispirava diventava
ancora più forte, quasi una vaga tristezza di cui lei non si rendeva
conto.
«Dio mio, signor Rodolphe, come siete buono voi! io mi vergogno!»
«Perché sono buono?»
«No; ma... mi pare che ora non parliate più come ieri, che siate
tutto diverso...»
«Vediamo, Fleur-de-Marie, che cosa vi piace di più che io sia il
Rodolphe di ieri o il Rodolphe di oggi?»
«Mi piacete molto di più come adesso... Eppure ieri mi sembrava
d’essere più una pari vostra...»
Poi, riprendendosi subito, aggiunse, per paura d’avere umiliato
Rodolphe:
«Quando dico una pari vostra... signor Rodolphe, so bene che questo
non può essere...»
«C’è una cosa che mi stupisce in voi, Fleur-de-Marie.»
«Che cosa, signor Rodolphe?»
«Sembra che abbiate dimenticato quello che la Chouette ieri
vi ha detto riguardo ai vostri genitori... che essa conosceva vostra
madre...»
«Oh, non l’ho dimenticato... ci ho pensato per tutta la notte... e
ho pianto molto... ma sono sicura che non è vero... la guercia avrà
inventato quella storia per farmi stare male...»
«Può darsi che la Chouette sia più informata di quanto non crediate;
se fosse così, non sareste contenta di ritrovare vostra madre?»
«Ahimè, signor Rodolphe! se mia madre non mi ha mai voluto bene... a
che giova che la ritrovi?... Ella non vorrà neppure vedermi... Se mi
ha voluto bene... quale onta le farei subire!... Forse ne morrebbe.»
«Se vostra madre, Fleur-de-Marie, vi ha amato, ella vi compiangerà,
vi perdonerà, continuerà ad amarvi... Se, invece, vi ha
abbandonato... nel vedere di quale terribile destino siete alla
mercé, per essere stata abbandonata da lei... la sua onta sarà la
vostra vendetta.»
«A che serve vendicarsi? e, poi, se mi vendicassi, mi pare di non
dover più avere il diritto di sentirmi infelice... E spesso sono
consolata da questo pensiero...»
«Forse avete ragione... Non parliamone più...»
In quel momento la carrozza arrivava nei pressi di Saint-Ouen, alla
confluenza della strada di Saint-Denise di quella della Révolte.
Nonostante la monotonia del paesaggio, Fleur-de-Marie fu presa da
tale gioia al vedere i campi, come diceva lei, che, dimenticati i
tristi pensieri che le aveva suscitato in mente il ricordo della
Chouette, s’illuminò in viso. Si sporse dal finestrino, batté le
mani
e gridò:
«Signor Rodolphe, che piacere!... l’erba! i campi! Se voleste per-
mettermi di scendere... fa così bello!... Mi piacerebbe tanto
correre in mezzo a quei prati...»
«Corriamo, figliola... Ferma, vetturino!» «Come! anche voi, signor
Rodolphe?» «Anch’io... fa piacere anche a me.» «Che gioia! signor
Rodolphe!!»
E Rodolphe e la Goualeuse si presero per mano e si misero a correre
a più non posso in una larga sezione di guaime tardivo, falciato da
poco.
Ridire i salti, le piccole grida gioiose, l’enorme contentezza di
Fleur-de-Marie, sarebbe impossibile. Povera gazzella da molto
prigioniera, ella aspirava con ebbrezza l’aria libera. Andava,
veniva, si fermava, ripartiva con slancio infaticabile.
Alla vista dei numerosi cespi di margheritine e dei pochi bottoni
d’oro risparmiati dalle prime brinate, non poté trattenere altre
esclamazioni di piacere; di quei fiorellini non ne restò uno nel
prato, ella lo spigolò tutto.
Dopo avere così corso in mezzo ai campi, stancatasi presto perché
mancava di esercizio, la ragazza si fermò e, per riprendere fiato,
andò a sedersi sul tronco di un albero che si trovava vicino
all’orlo di un fosso profondo.
Il colorito trasparente e bianco di Fleur-de-Marie, solitamente un
po’ pallido, prendeva le sfumature dei colori più vivi. I grandi
occhi azzurri le brillavano dolcemente; la bocca vermiglia,
ansimante, mostrava due fili di perle umide; il seno le palpitava
sotto il vecchio scialletto arancio; si metteva una delle mani sul
cuore per comprimere le pulsazioni, mentre con l’altra porgeva a
Rodolphe il mazzetto di fiori di campo che aveva raccolto.
Espressione di pura e innocente gioia, più di ogni altra
affascinante, quella che raggiava sul candido volto di
Fleur-de-Marie.
Quando fu in grado di parlare, disse a Rodolphe con voce intonata a
felicità profonda e a riconoscenza quasi religiosa:
«Com’è buono il buon Dio a darci un giorno così bello!»
Rodolphe si sentì venire le lacrime agli occhi davanti a quella
povera creatura abbandonata, disprezzata, perduta, senza tetto e
senza mangiare, che, con un grido, diceva al Creatore la sua
felicità e la sua infinita gratitudine, perché lei godeva d’un
raggio di sole, della vista di un prato.
Rodolphe fu distolto dalla sua meditazione da un fatto imprevisto.
IX
LA SORPRESA
Abbiamo detto prima che la Goualeuse s’era seduta sul tronco di un
albero che si trovava vicino all’orlo d’un fosso profondo.
A un tratto un uomo, rizzatosi sul fondo del fosso, si scosse di
dosso lo strato di foglie sotto cui s’era nascosto, e dette in una
scrosciante risata.
La Goualeuse si girò gettando un grido di terrore.
Era lo Chourineur.
«Non aver paura, ragazza» disse lo Chourineur al vedere che
la fanciulla, per paura, s’era rifugiata dal suo compagno. «Questo
sì che è un bell’incontro, non ve l’aspettavate, eh, maestro
Rodolphe? e neppure io...»
Poi aggiunse in tono serio: «Ecco, padrone... vedete, si dica pure
quel che si vuole... ma c’è qualcosa nell’aria... lassù... al di
sopra delle nostre teste. Dio è furbo, ho quasi l’impressione che
dica agli uomini: Vai dove ti mando... visto che vi ha mandato qui,
cosa che è maledettamente sorprendente!»
«Che fai qui?» disse Rodolphe al colmo dello stupore.
«Vi faccio da angelo custode, maestro... Ma, diavolo, che bello
scherzo quello di trovarvi proprio nelle vicinanze della mia casa di
campagna... Sentite, c’è qualcosa; decisamente c’è qualcosa.»
«Ma, si può sapere che fai qui?»
«Lo saprete fra poco, datemi solo il tempo di salire in cima alla
carrozza che farò funzionare da osservatorio. E lo Chourineur corse
alla carrozza ferma non molto lontano, frugò l’immensa pianura con
occhiate da lince e ritornò lestamente a raggiungere Rodolphe.»
«Vuoi spiegarmi che cosa significa tutto questo?»
«Pazienza, pazienza, maestro! Ancora una parola. Che ora è?»
«Mezzogiorno e mezzo» rispose Rodolphe consultando il suo orologio.
«Bene... abbiamo tempo. La Chouette sarà qui solo fra mezz’ora.»
«La Chouette!» esclamarono insieme Rodolphe e la ragazza.
«Sì, la Chouette. Ecco, padrone, in due parole la storia: ieri,
quando avete lasciato la bettola, è venuto...»
«... un uomo di statura alta con una donna vestita da uomo: hanno
chiesto di me, questo lo so. E poi?»
«Poi m’hanno pagato da bere e hanno voluto farmi parlare sul conto
vostro. Io non ho voluto dire niente... visto che non mi avete
comunicato nient’altro se non le batoste che avete avuto la
gentilezza... non sapevo nient’altro dei vostri segreti. Poi anche
se avessi saputo qualcosa, sarebbe stato lo stesso. Sono con voi,
maestro Rodolphe, per la vita e per la morte. Che il diavolo mi
porti se so perché mi sento per voi, chiamiamolo pure l’attaccamento
di un mastino per il suo padrone; ma non importa, così è. È una cosa
più forte di me, non ci penso più... riguarda voi, arrangiatevi.»
«Ti ringrazio, ragazzo, ma continua.»
«Il signore alto e la donnetta vestita da uomo, vedendo che non
riuscivano a tirarmi niente di bocca, sono usciti dalla taverna, e
io dopo di loro; loro dalla parte del palazzo di Giustizia, io dalla
parte di Notre-Dame. Arrivato in fondo alla via, comincio ad
accorgermi che l’acqua veniva giù come le noci... un diluvio!
Vicinissimo c’era una casa in demolizione. Mi dico: “Se il temporale
durerà per tanto tempo, qui dormirò bene come nella mia cameretta”.
Mi lascio andare giù in una specie di cantina dove stavo però al
coperto; una vecchia trave mi fa da letto, un calcinaccio da
cuscino, e in un batter d’occhio mi sento come nel letto di un re.»
«E dopo, dopo?»
«Noi, mastro Rodolphe, avevamo bevuto assieme; io avevo bevuto
ancora con il tipo alto e la donnetta vestita da uomo: per dirvi che
avevo la testa un po’ pesante... inoltre non c’è niente che mi culli
come il rumore della pioggia che cade. Comincio dunque a
sonnecchiare. Non era, credo, da molto che sonnecchiavo quando vengo
svegliato di soprassalto da un rumore: era il Maître d’école che
discorreva, diciamo pure amichevolmente, con un altro. Ascolto...
diavolo! che sento? la voce del tipo alto che era venuto nella
bettola con la donnetta vestita da uomo!»
«Discorrevano col Maestro e la Chouette?» disse Rodolphe stupefatto.
«Con il Maître d’école e la Chouette. Parlavano di trovarsi
l’indomani.»
«Oggi!» disse Rodolphe.
«All’una.»
«Fra un istante!»
«Alla confluenza della strada di Saint-Denis e quella della
Révolte.» «Qui!»
«Sì, mastro Rodolphe, proprio qui!»
«Il Maître d’école! guardatevene, signor Rodolphe!...» esclamò
Fleur-de-Marie.
«Calmati, ragazza... lui non deve venire... ma solo la Chouette.»
«Come ha potuto, quest’uomo, fare la conoscenza di quei due
miserabili?» chiese Rodolphe.
«Non ne so niente, credetemi. Forse, maestro, mi sarò svegliato solo
alla fine della cosa; perché il tipo alto parlava di riavere il
portafogli che la Chouette deve riportargli... in cambio di
cinquecento franchi. C’è da credere che il Maître d’école avesse
cominciato col derubarli e che solo poi si saranno messi a parlare
da buoni amici.»
«È strano!»
«Dio mio! ho paura per voi, signor Rodolphe» disse Fleur-deMarie.
«Mastro Rodolphe non è un bambino, ragazza; ma, come hai detto tu,
ci potrebbero essere guai in vista per lui, e allora eccomi qua.»
«Continua, ragazzo.»
«Il tipo alto e la donna hanno promesso duemila franchi al Maître
d’école, per farvi... non so più che cosa. La Chouette fra poco
verrà qui a riportare il portafogli e a sapere di che cosa si
tratta, per andare a riferirlo al Maître d’école che si incaricherà
del resto.»
Fleur-de-Marie trasalì.
Rodolphe sorrise sdegnosamente.
«2000 franchi per farvi qualcosa, mastro Rodolphe! la cosa mi
ha fatto pensare (senza riferimenti) a quando io, letto in un
affisso “500 soldi di ricompensa per chi riporta un cane smarrito”,
mi dico dentro di me con tutta modestia: “Se tu, animale, ti
smarrissi, nessuno darebbe neppure 100 soldi per riaverti”. Duemila
franchi per farvi qualcosa! Ma chi siete voi?»
«Te lo dirò fra poco.»
«Basta, mastro... Appena sentita la proposta fatta alla Chouette, mi
dico: devo sapere dove abitano i ricconi che vogliono sguinzagliare
il Maestro alle calcagna del signor Rodolphe; può venire utile.
Quando si sono allontanati, esco dalle macerie, li seguo a passi
felpati; il tipo alto e la donnetta raggiungono una carrozza in
piazza Notre-Dame; loro salgono dentro, io dietro, e arriviamo nel
boulevard de l’Observatoire. Faceva buio come in un forno, non si
poteva vedere niente; faccio un taglio in un albero per potermi
ritrovare il giorno dopo.»
«Benissimo, ragazzo.»
«Stamattina ci sono ritornato. A dieci passi dall’albero ho visto
una viuzza sbarrata da un cancello; nel fango della viuzza, tracce
piccole e tracce grandi; in fondo alla viuzza una casa... il nido
del tipo grande e della donnetta dev’essere quello.»
«Grazie, amico... m’hai reso, senza saperlo, un grande servizio.»
«Scusate, mastro Rodolphe, io lo sapevo, per questo l’ho fatto.»
«Lo so, ragazzo, e vorrei poter ricompensare il servizio che m’hai
reso non ringraziandoti solamente; purtroppo non sono che un povero
diavolo d’operaio... benché si voglia spendere, come hai detto,
duemila franchi per farmi qualcosa. Ti spiegherò tutto.»
«Bene, se non vi dispiace, altrimenti per me è lo stesso. Si trama
qualcosa contro di voi, io mi oppongo... il resto non mi riguarda.»
«Intuisco che cosa vogliono. Stammi a sentire: ho un segreto per
tagliare l’avorio dei ventagli a macchina; ma questo segreto non
appartiene a me solo; aspetto il mio socio per mettere in pratica
questo procedimento, e sicuramente vogliono a ogni costo
impossessarsi del modello della macchina che ho in casa: perché c’è
da guadagnare molto denaro con questa scoperta.»
«Il tipo alto e la donnetta sono allora?...»
«Fabbricanti dai quali ho lavorato, e ai quali non ho voluto dare il
mio segreto.»
La spiegazione sembrò soddisfacente allo Chourineur la cui
intelligenza non era molto sviluppata; per cui continuò:
«Ora capisco... Guardate un po’ che canaglie! e non hanno neppure il
coraggio di fare i loro misfatti da soli. Ma, per finirla, ecco che
cosa mi son detto stamattina: “So l’ora dell’appuntamento tra la
Chouette e il tipo alto, andrò ad aspettarli, ho buone gambe; il mio
padrone aspetterà, tanto peggio...” Arrivo qui; vedo quel buco, vado
a prendermi una bracciata di letame laggiù,
mi nascondo tutto fino alla punta del naso, e aspetto la Chouette.
Ma ecco che voi ruzzate nella pianura e la povera Goualeuse va a
sedersi proprio ai margini del mio parco; allora, ve lo giuro, ho
voluto farvi uno scherzetto e mi sono messo a gridare come un
ossesso uscendo da sotto la mia lettiera.»
«Che cosa intendi fare adesso?»
«Aspettare la Chouette che, sicuramente, arriverà per prima; cercare
di sentire ciò che dirà al tipo alto perché questo può esservi
utile. Nel campo non c’è che quel tronco d’albero; da sopra il
tronco si vede tutta la spianata, è quasi fatto apposta per
sedervici. Il luogo dell’appuntamento è a quattro passi,
all’incrocio delle strade; c’è da scommettere che verranno a sedersi
qui. Se non ci verranno, se non potrò sentire niente... quando si
saranno separati, balzo sulla Chouette, sarà sempre lo stesso; le do
quello che le devo per il dente della Goualeuse, e le torco il collo
finché non avrà detto il nome dei genitori della povera ragazza...
Che cosa dite della mia idea, mastro Rodolphe?»
«C’è del buono, ragazzo; ma si deve modificare qualcosa nel tuo
piano.»
«Oh, Chourineur, non procuratevi guai per causa mia. Se picchierete
la Chouette, il Maître d’école...»
«Basta, ragazza. La Chouette mi dovrà passare per le mani. Capperi!
rincarerò la dose proprio perché ha il Maître d’école come
difensore.»
«Ascolta, ragazzo, ho un mezzo migliore per vendicare la Goualeuse
delle cattiverie della Chouette. Te lo dirò poi. Per intanto» disse
Rodolphe scostandosi di qualche passo dalla Goualeuse e abbassando
la voce, «per intanto vuoi farmi veramente un piacere?»
«Dite, mastro Rodolphe.»
«La Chouette ti conosce?»
«L’ho vista ieri per la prima volta alla bettola.»
«Ecco che cosa dovrai fare. Prima di tutto ti nasconderai; ma
quando la vedrai vicino a questo punto, uscirai dalla buca...» «Per
torcerle il collo?...»
«No... un’altra volta! oggi devi solamente impedirle di parlare
con il tipo alto. Questi, vedendo qualcuno con lei, non oserà
avvicinarsi. Se si avvicina, non lasciare un minuto la vecchia...
egli non potrà farle le sue proposte in tua presenza.»
«Se l’uomo mi trova curioso, me la vedo io con lui; tanto non è né
il Maître d’école né padron Rodolphe.»
«Conosco quel signore, non se la prenderà con te.»
«Sta bene. Seguirò la Chouette come un’ombra. L’uomo non dirà parola
che non sentirò, e così finirà per andarsene...»
«Se si daranno un altro appuntamento, lo saprai perché non li
lascerai mai. D’altra parte la tua presenza sarà sufficiente a far
allontanare quel signore.»
«Bene, bene. Dopo, do una strizzata alla Chouette... Ci tengo a
questo.»
«Non ancora. La guercia sa che tu non sei ladro?»
«No; a meno che il Maître d’école non le abbia detto che il rubare
non è una mia abitudine.»
«Se glielo ha detto, fingerai d’aver cambiato parere.»
«Io?»
«Tu!»
«Diavolo! signor Rodolphe. Ma dite un po’... hum! hum! mi va
poco, questa storia.»
«Lo farai solo se vorrai. Vedrai che non ti propongo un’azio-
ne infame...»
«Oh, per questo sono tranquillo.»
«E hai ragione.»
«Dite, maestro... obbedirò.»
«Quando l’uomo si sarà allontanato, cercherai di circuire la
Chouette.»
«Io? quella vecchia pezzente... Preferirei battermi col Maître
d’école. Non so neppure come farò a non saltarle addosso.» «Allora
rovineresti tutto.»
«Ma allora che cosa devo fare?»
«La Chouette sarà furiosa d’avere perso i soldi; tu cercherai di
calmarla dicendole che c’è da fare un bel colpo; che sei qui per
aspettare il tuo complice e che se il Maître d’école ci sta, c’è da
guadagnare molto denaro.»
«To’... to’...»
«Dopo averla fatta aspettare un’ora, le dirai: “Il mio amico non
viene, rimandiamo a un altro giorno...” e prenderai appuntamento con
la Chouette e il Maître d’école... di buon’ora. Capisci?»
«Capisco.»
«E stasera, ti troverai, verso le dieci, all’angolo degli
ChampsElysées e l’allée des Veuves; io ti raggiungerò lì e ti dirò
il resto.» «Se si tratta d’una trappola, state attento! il Maître
d’école è furbo... Voi l’avete picchiato: al minimo sospetto, è
capace di uc-
cidervi.»
«Sta’ tranquillo.»
«Capperi! è uno scherzo... ma fate pure di me quello che volete. Non
è difficile pensare che c’è una lavata di testa in vista per il
Maître d’école e la Chouette. Eppure... ancora una parola, signor
Rodolphe.»
«Parla.»
«Non già che io vi creda capace di tendere un tranello al Maître
d’école per farlo pizzicare dalla polizia. È un manigoldo
matricolato che merita cento volte la morte; ma farlo arrestare...
non me la sento.»
«E neppure io, ragazzo. Ma ho un conto da regolare con lui e la
Chouette, dal momento che complottano con gente che me ne vuole, e
noi due da soli ci riusciremo se mi dai una mano.»
«Oh sì, allora ci sto perché il maschio non è meglio della femmina.»
«E se riusciremo» disse Rodolphe con un tono serio, quasi solenne,
che fece impressione sullo Chourineur, «potrai esserne fiero come
quando hai salvato dal fuoco e dall’acqua l’uomo e la donna che ti
devono la vita!»
«Come dite certe cose voi, mastro Rodolphe! Non vi ho mai visto
quello sguardo... Ma presto, presto» esclama lo Chourineur, «vedo
laggiù, laggiù un punto bianco: dev’essere la cuffia della Chouette.
Partite, io mi rimetto nella buca.»
«E stasera, alle dieci...»
«All’angolo dell’allée des Veuves e degli Champs-Elysées,
d’accordo.»
Fleur-de-Marie non aveva sentito quest’ultima parte del colloquio
fra lo Chourineur e Rodolphe. Ella risalì in carrozza con il suo
compagno di viaggio.
X
LA FATTORIA
Dopo il colloquio con lo Chourineur, Rodolphe rimase per qualche
istante meditabondo e pensieroso.
Fleur-de-Marie, non osando turbare il silenzio del suo compagno, lo
guardava mestamente.
Rodolphe alla fine alzò il capo e le disse con un dolce sorriso:
«A che cosa pensate, figliola? L’incontro con lo Chourineur non vi è
piaciuto, vero? Eravamo così allegri prima!»
«Al contrario; è stato un bene per noi, signor Rodolphe, dal momento
che lo Chourineur potrà venirvi in aiuto.»
«Quest’uomo non passava per essere, fra gli avventori della bettola,
uno che avesse ancora qualche buon sentimento?»
«Non lo so, signor Rodolphe... Prima del fatto di ieri, l’avevo
visto spesso, ma parlato assieme poche volte... Lo ritenevo cattivo
come gli altri...»
«Non pensiamo più a tutto questo, piccola Fleur-de-Marie. Se vi
facessi rattristare, ne avrei rimorso, proprio io che volevo farvi
passare una bella giornata.»
«Oh, come sono contenta! da un pezzo non andavo fuori Parigi!»
«Da quando facevate le gite in carrozza con Rigolette.»
«Dio mio, sì... signor Rodolphe. Eravamo in primavera... ma anche
adesso mi fa tanto piacere, anche se siamo quasi in inverno. Che bel
sole c’è!... guardate un po’ quelle nuvolette rosa laggiù...
laggiù... e quella collina!... con quelle casette bianche in mezzo
agli alberi... Quante foglie ci sono ancora! È una cosa
straordinaria per il mese di novembre, non è vero, signor Rodolphe?
A Parigi, invece, le foglie cadono così presto... E laggiù quel volo
di piccioni... ecco adesso vanno a posarsi sul tetto di un mulino...
In campagna non ci si stanca mai di guardare, tutto è così bello.»
«È un piacere vedere quanto siate sensibile, Fleur-de-Marie, a
quelle piccole cose che sono l’essenziale dello spettacolo
affascinante della campagna.»
«E laggiù quel fuoco di stoppie in mezzo alle terre coltivate e quel
filo di fumo bianco che sale al cielo... e quell’aratro con i suoi
due bravi cavalli grigi... Se fossi un uomo, mi piacerebbe tanto
fare il contadino!... Stare in mezzo a una pianura immersa nel
silenzio, essere dietro all’aratro... vedere, con un tempo come oggi
per esempio, lontano lontano i grandi boschi!... subito vi verrebbe
la voglia di cantare quelle canzoni un po’ tristi che vi fanno
salire le lacrime agli occhi... come Genoveffa di Brabante.
Conoscete la canzone Genoveffa di Brabante, signor Rodolphe?»
«No, figliola; ma se volete, me la canterete quando saremo arrivati
alla fattoria.»
«Che bello! andiamo in una fattoria, signor Rodolphe?»
«Sì, in una fattoria tenuta dalla mia balia, una degna e buona donna
che mi ha allevato.»
«E potremo avere un po’ di latte?» esclamò la Goualeuse battendo le
mani.
«Via! un po’ di latte... una panna squisita, per piacere, e un burro
che la fittavola farà davanti ai nostri occhi, e uova freschissime.»
«Che andremo a scovare noi stessi?»
«Certo...»
«E andremo a vedere le mucche nella stalla?»
«Se volete.»
«E andremo anche nella cascina?»
«Anche nella cascina.»
«E a vedere la colombaia?»
«E a vedere la colombaia.»
«Ah, sentite, signor Rodolphe, quasi quasi non ci credo...
Come mi divertirò! Che bella giornata!... che bella giornata!»
esclamò la ragazza tutta contenta.
Poi, in seguito a un brusco cambiamento di pensiero, l’infelice
ragazza all’idea che, dopo quelle ore di libertà trascorse in
campagna, sarebbe dovuta rientrare nel suo infetto tugurio, si prese
la testa fra le mani e scoppiò in lacrime.
«Che cosa avete, Fleur-de-Marie, che cosa vi tormenta?» le chiese
Rodolphe stupito.
«Niente... niente, signor Rodolphe.» E si asciugò gli occhi
sforzandosi di sorridere. «Scusatemi, se mi rattristo... non fateci
caso... non ho niente, ve lo giuro... era un’idea... fra poco sarò
allegra...»
«Ma eravate così contenta poco fa.»
«Per questo...» rispose ingenuamente Fleur-de-Marie alzando su
Rodolphe gli occhi ancora umidi di lacrime.
A quelle parole Rodolphe s’illuminò; indovinò ogni cosa.
Per distogliere la ragazza dai cupi pensieri, le disse con tono
scherzoso:
«Scommetto che pensavate alla vostra piantina di rose! vi dispiace,
ne sono sicuro, di non poterla far partecipare alla nostra visita
alla fattoria... Povera piantina! sareste stata capace di farle
mangiare anche un po’ di panna!!»
La facezia fece sorridere la Goualeuse; a poco a poco la leggera
nube di tristezza svanì dalla sua mente; e allora decise di godersi
il presente e di non preoccuparsi dell’avvenire.
La carrozza era arrivata intanto nei pressi di Saint-Denis; da
lontano si vedeva l’alta guglia della chiesa.
«Oh, che bel campanile!» esclamò la Goualeuse.
«È il campanile della bellissima chiesa di Saint-Denis... Volete
visitarla? possiamo far fermare la carrozza.»
La Goualeuse abbassò gli occhi.
«Da quando sto con l’ostessa, non sono mai entrata in una chiesa;
avevo paura. In prigione, invece, mi piaceva tanto cantare
a messa! e al Corpus Domini preparavamo dei mazzi di fiori così
belli per l’altare!»
«Ma Dio è buono e misericordioso: perché avere paura di pregarlo, di
entrare in una chiesa?»
«Oh, no, no... signor Rodolphe... sarebbe quasi un’empietà. Non
basta che offenda il buon Dio in altra maniera?»
Dopo un momento di silenzio, Rodolphe disse alla Goualeuse: «Finora
non avete amato nessuno?»
«Nessuno, signor Rodolphe.»
«Perché?»
«Avete visto le persone che frequentano la bettola... E poi, per
amare, bisogna essere onesti.»
«Come?»
«Dipendere solo da se stessi... potere... Ma sentite, signor
Rodolphe, se per voi fa lo stesso, vi prego, non parliamo di queste
cose...»
«Bene, Fleur-de-Marie, parliamo d’altro... Ma che avete da guardarmi
così? avete ancora i begli occhi pieni di lacrime. C’è qualcosa che
vi ha addolorato?»
«Oh, no, al contrario; ma voi siete così buono con me che ho voglia
di piangere... e poi non mi date più del tu... e poi, infine, si
direbbe quasi che voi m’abbiate accompagnata in campagna solo per
fare piacere a me tanto sembrate contento di vedermi felice. Non
contento d’avermi difesa ieri... oggi mi fate passare assieme a voi
una simile giornata...»
«Veramente siete contenta?»
«Per molto tempo non dimenticherò questi attimi di felicità.» «È
cosa così rara, la felicità!»
«Sì, molto rara...»
«Io, credetemi, in mancanza d’altro, mi diverto qualche volta
a sognare ciò che vorrei avere, a dirmi: ecco che cosa desidererei
essere... E voi, Fleur-de-Marie, non fate qualche volta dei sogni
così, dei castelli in aria?»
«Sì, una volta, in prigione; prima di andare a stare dall’ostessa,
passavo la mia vita a fare sogni e a cantare; ma poi più di rado...
E voi, signor Rodolphe, che cosa vorreste?»
«Io vorrei essere ricco, molto ricco... avere domestici, carrozze,
un palazzo, frequentare il bel mondo, andare tutti i giorni a
teatro. E voi, Fleur-de-Marie?»
«Io non sarei così difficile: i soldi per pagare l’ostessa, un po’
di denaro fintanto che non avrò trovato un lavoro, una bella stanza
linda e pulita da dove poter vedere qualche albero mentre lavoro.»
«Molti fiori sulla vostra finestra?»
«Oh, certo... Abitare in campagna, se fosse possibile, tutto qui...»
«Una stanzetta, un lavoro, è proprio l’indispensabile; ma quando si
esprimono solo desideri, si può anche permettersi il superfluo...
Voi non vorreste avere carrozze, diamanti e bei vestiti?»
«Io non vorrei tanto... La mia libertà, vivere in campagna, ed
essere sicura di non morire all’ospedale... oh, questo
soprattutto... non morire all’ospedale! Sentite, signor Rodolphe,
spesso mi viene in mente questa idea... è terribile!»
«Ahimè! noi, povera gente...»
«Non lo dico... per la miseria... Ma dopo... quando siamo morti...»
«Ebbene?»
«Voi non sapete allora, signor Rodolphe, che cosa fanno di voi
dopo?»
«No...»
«Avevo conosciuto una ragazza in prigione... è morta all’ospedale...
il suo corpo è stato dato ai chirurghi...» mormorò l’infelice,
rabbrividendo.
«Ah, è orribile!!! Perché, povera figliola, avete sempre così
dolorosi pensieri?...»
«Vi stupisce, vero, signor Rodolphe, che io abbia vergogna... per
quando sarò morta... Ahimè, Dio mio... mi è rimasto solo questo.»
Queste dolorose e amare parole colpirono Rodolphe.
Egli si prese la testa fra le mani fremendo: pensava alla fatalità
che si era accanita contro Fleur-de-Marie... pensava alla madre di
quella povera creatura... Sua madre... Ella era felice, ricca,
onorata, forse...
Onorata... ricca... felice... e la sua figliola, che ella aveva
atrocemente sacrificato all’ignominia, aveva lasciato la soffitta
della Chouette per la prigione, la prigione per la tana
dell’ostessa; da cui ella poteva andare a finire i suoi giorni sul
giaciglio di un ospedale... e dopo morta...
La povera Goualeuse, notata l’aria cupa del compagno, si rattristò e
poi disse a Rodolphe:
«Scusatemi, signor Rodolphe, non dovrei avere simili idee... Mi
portate con voi perché sia allegra, e invece vi parlo di cose tanto
tristi... tanto tristi! Dio mio, non so come sia, ma lo faccio mio
malgrado... Non sono mai stata così felice come oggi; eppure in ogni
momento mi salgono le lacrime agli occhi. Dite, signor Rodolphe, non
me ne volete? D’altronde... vedete... la tristezza se
ne va... come è venuta... molto in fretta. Ecco adesso... non ci
penso già più... sarò ragionevole... Ecco, signor Rodolphe...
guardatemi gli occhi.»
E Fleur-de-Marie, dopo avere chiuso gli occhi due o tre volte per
scacciare un’ultima lacrima ribelle, li spalancò... li spalancò, e
guardò Rodolphe con affascinante candore.
«Fleur-de-Marie, vi prego, non sforzatevi... Siate allegra, se avete
voglia di essere allegra... triste, se vi va di essere triste. Dio
mio, anch’io che vi parlo, alle volte ho, come voi, qualche idea
nera... e soffrirei moltissimo se dovessi fingere una gioia che non
sento.»
«Veramente, signor Rodolphe, qualche volta siete triste anche voi?»
«Sicuro; il mio avvenire non è certo migliore del vostro... Sono
senza padre e senza madre... se un giorno mi ammalo, come vivere?
Spendo giorno per giorno quello che guadagno.»
«È uno sbaglio, vedete... un grande sbaglio, signor Rodolphe» disse
la Goualeuse con tono di grave rimostranza che fece sorridere
Rodolphe, «dovreste depositarlo in una cassa di risparmio... Io, il
mio triste destino è dipeso tutto dal fatto che non ho risparmiato
il denaro che avevo. Con duecento franchi, un operaio non ha bisogno
di nessuno, non è mai in difficoltà... e spesso sono proprio le
angustie a dare cattivi consigli.»
«Queste parole sono molto sagge, molto sensate, cara piccola
risparmiatrice. Ma duecento franchi... come mettere insieme duecento
franchi?»
«Ma è semplicissimo, signor Rodolphe: facciamo un po’ i calcoli;
vedrete... Alle volte riuscite a guadagnare anche cinque franchi al
giorno, vero?»
«Sì, quando lavoro.»
«Si deve lavorare tutti i giorni. E un lavoro tanto brutto? Un bel
mestiere come il vostro... Pittore di ventagli... ma dovrebbe essere
un piacere per voi... Vedete, signor Rodolphe, non siete
ragionevole!» soggiunse la Goualeuse con tono severo. «Un operaio
può vivere, e vivere benissimo, con tre franchi; vi restano dunque
quaranta soldi, alla fine del mese sessanta franchi risparmiati...
Sessanta franchi al mese... ma è una bella somma!»
«Sì; ma è così bello andare in giro, non fare niente!»
«Signor Rodolphe, torno a ripetervelo, ragionate come un bambino...»
«Ebbene, sarò ragionevole, piccola brontolona; mi suggerite delle
buone idee... Non avevo pensato a questo.»
«Veramente?» disse la ragazza battendo le mani con gioia. «Se
sapeste come mi fate contenta!... Risparmierete quaranta soldi al
giorno! davvero?»
«Va bene... risparmierò quaranta soldi al giorno» disse Rodolphe
sorridendo suo malgrado.
«Davvero? davvero?»
«Ve lo prometto...»
«Vedrete come sarete fiero dei primi risparmi che avrete fat-
to... E poi non è tutto qui... se mi promettete di non
arrabbiarvi...» «Sono tanto cattivo?»
«No, certo... ma non so se devo...»
«Dovrete dirmi tutto, Fleur-de-Marie...»
«Ebbene, insomma voi che... questo si vede, non meritate il mestiere
che fate... come mai frequentate certe taverne come quella
dell’ostessa?»
«Se non fossi venuto nella bettola, oggi, Fleur-de-Marie, non avrei
avuto il piacere di venire in campagna con voi.»
«È verissimo, ma non c’entra, signor Rodolphe. Vedete, io sono
contentissima di questa giornata, eppure rinuncerei ben volentieri a
passarne un’altra uguale, se questo dovesse in qualche modo
danneggiarvi...»
«Al contrario, dal momento che m’avete dato buoni consigli sul
risparmio.»
«E li seguirete?»
«Ve l’ho promesso, parola d’onore. Risparmierò al minimo quaranta
soldi al giorno...»
XI
I CASTELLI IN ARIA
Proprio in quel momento la carrozza passava per Sarcelles; allora
Rodolphe disse al vetturino:
«Prendi la prima strada a destra e poi, attraversato Villiers-leBel,
a sinistra, sempre dritto.»
Quindi si rivolse alla Goualeuse:
«Ora, Fleur-de-Marie, che siete contenta di me, possiamo, come
dicevamo poco fa, divertirci a fare dei castelli in aria. Non costa
molto, non potete rimproverarmi tali spese.»
«No... Vediamo, fate prima il vostro.»
«Prima... il vostro, Fleur-de-Marie.»
«Vediamo se indovinate i miei gusti, signor Rodolphe.»
«Tentiamo... sto immaginando che questa strada... dico questa perché
siamo qui...»
«Giusto, non dobbiamo andare a cercare tanto lontano.»
«Sto immaginando dunque che questa strada ci porti in un paese
lontano, lontano dalla strada maestra.»
«Sì, si sta molto più tranquilli.»
«È situato a mezza costa ed è pieno di alberi.»
«Vicinissimo c’è un ruscello.»
«Proprio... un ruscello. In fondo al paese si vede una bella fat-
toria; la casa ha da una parte un frutteto, dall’altra un bel
giardino pieno di fiori.»
«Mi pare d’esserci, signor Rodolphe.»
«Al pianterreno una gran cucina per la servitù e una sala da pranzo
per la fittavola.»
«La casa ha le persiane verdi... fanno così allegria, vero, signor
Rodolphe?»
«Le persiane verdi... certo... non c’è niente che faccia più
allegria delle persiane verdi. Naturalmente la fittavola sarebbe
vostra zia.»
«Naturalmente... e sarebbe una donna buonissima.» «Eccezionale: vi
vorrebbe bene come una madre...»
«Cara zia! dev’essere così bello essere amati da qualcuno!» «E le
vorreste bene anche voi?»
«Oh!» esclamò Fleur-de-Marie congiungendo le mani e alzan-
do gli occhi con un’espressione d’intraducibile felicità; «oh, sì
che le vorrei bene; e poi la aiuterei a lavorare, a cucire, a
mettere a posto la biancheria, a lavare, a sistemare la frutta per
l’inverno, insomma in tutte le faccende di casa l’aiuterei... Non
avrebbe mai occasione di dirmi che sono pigra, ve l’assicuro!... La
mattina...»
«Aspettate un po’, Fleur-de-Marie... come siete impaziente!... che
finisca almeno di dipingervi la casa.»
«Forza, forza, signor pittore, si vede che siete abituato a fare i
bei paesaggi sui ventagli» disse Fleur-de-Marie ridendo.
«Piccola chiacchierona... lasciatemi finire la casa...»
«È vero, sono chiacchierona; ma è così divertente! Vi ascolto,
signor Rodolphe, finite pure la casa della fittavola.»
«La vostra stanza è al primo piano.»
«La mia stanza! che gioia! Vediamo la mia stanza, vediamo.» E la
ragazza si strinse contro Rodolphe spalancando due occhi
pieni di curiosità.
«La vostra stanza ha due finestre che si aprono sul giardino
pieno di fiori e su un prato al cui limite scorre il ruscello.
Dall’al-
tra parte del ruscello c’è una collinetta coperta di antichi
castagni tra i quali si vede spuntare il campanile della chiesa.»
«Com’è bello!... com’è bello, signor Rodolphe! Mi viene voglia di
essere in quel posto!»
«Tre o quattro belle mucche pascolano nel prato che una siepe di
biancospino divide dal giardino.»
«E dalla mia finestra io vedo le mucche?»
«Esatto.»
«Ce n’è una che sarà la mia prediletta; vero, signor Ro-
dolphe? le farò un bel collare con un campanaccio, e la abituerò a
venir a mangiare nella mia mano.»
«E lo farà. Essa è giovanissima, bianchissima; si chiama Musette.»
«Ah, che bel nome! come mi piace, la cara Musette!»
«Finiamo la vostra stanza, Fleur-de-Marie; essa è tappezzata di una
bella tela azzurra e ha le tende dello stesso colore; un grande
roseto e un enorme caprifoglio ricoprono il muro esterno della
fattoria da quella parte e circondano le vostre finestre cosicché
ogni mattina basterà che allunghiate la mano per cogliere un bel
mazzetto di rose e di caprifoglio.»
«Ah, signor Rodolphe, che bravo pittore siete!»
«Ecco ora come passate la vostra giornata.»
«Vediamo la mia giornata.»
«La vostra buona zia viene a svegliarvi con un tenero bacio
sulla fronte; vi porta una tazza di latte bollente, perché siete
malata di petto, povera figliola! Vi alzate; andate a fare un giro
per la fattoria, a vedere Musette, i polli, i colombi, vostri amici,
i fiori del giardino. Alle nove arriva il vostro maestro.»
«Il mio maestro?»
«Capite da voi che dovrete imparare a leggere, a scrivere e a far di
conto per potere aiutare vostra zia a tenere la contabilità.»
«Giusto, signor Rodolphe, non ci pensavo... devo proprio imparare a
scrivere per aiutare mia zia» disse gravemente la povera ragazza che
era così presa dalla ridente prospettiva di quella vita tranquilla
che già le sembrava reale.
«Dopo le lezioni, lavate la biancheria della casa, o vi ricamate una
cuffietta alla campagnola. Verso le due, fate esercizi di
calligrafia, e poi andate con vostra zia a fare una bella
passeggiata, a vedere, d’estate, i mietitori, in autunno, gli
aratori; vi stancate per bene e ritornate con un gran mazzetto
d’erba di campo che voi stessa avete raccolto per la vostra cara
Musette.»
«Perché ritorniamo passando per il prato, vero, signor Rodolphe?»
«Certo; c’è un ponte di legno sul ruscello. Quando ritornate, sono
ormai le sei o le sette; verso quell’ora un bel fuoco allegro
fiammeggia nella grande cucina della fattoria; voi andate a
riscaldarvi e a discorrere un momentino con i bravi contadini che
sono rientrati dal lavoro per cenare. Poi consumate il pasto della
sera con vostra zia. Qualche volta a tavola con voi c’è o il parroco
o qualche amico di famiglia. Dopo cena, vi mettete a leggere o a
lavorare mentre vostra zia fa una partita a carte. Alle dieci, dopo
che la zia vi ha dato il bacio della buona notte, andate nella
vostra stanza; e l’indomani mattina ricominciate di nuovo...»
«Si potrebbe vivere cent’anni così, signor Rodolphe, senza rischio
di annoiarsi neppure un po’...»
«Ma questo non è niente. E le domeniche! e i giorni di festa!» «E in
quei giorni, signor Rodolphe?»
«Vi fate bella, vi mettete un bel vestito alla campagnola, con
una graziosa cuffia che vi sta a meraviglia; salite in una carretta
di giunchi vicino a vostra zia e a Jacques per andare alla messa
grande del paese; poi, d’estate, andate a vedere, sempre in
compagnia di vostra zia, tutte le feste che si daranno nelle
parrocchie vicine. Voi siete così gentile, così dolce, così brava
donna di casa, vostra zia vi vuole tanto bene, il parroco dà di voi
informazioni così favorevoli che tutti i figli dei fittavoli dei
dintorni vogliono farvi ballare perché i matrimoni nascono sempre
così... Quindi, a poco a poco, cominciate a mettere gli occhi su
uno... e...»
Rodolphe, sorpreso dal silenzio della Goualeuse, si volse a
guardarla.
La povera ragazza soffocava a stento i singhiozzi.
Le parole di Rodolphe le avevano fatto per un po’ dimenticare il
presente, ma il sogno di una vita dolce e piacevole le aveva fatto
per contrasto tornare alla mente il ricordo della sua esistenza di
peccato.
«Che avete, Fleur-de-Marie?»
«Ah, signor Rodolphe, senza volerlo, m’avete fatto stare molto
male... ho creduto per un istante al vostro paradiso...»
«Ma, figliola cara, questo paradiso esiste... ecco, guardate...
Ferma, vetturino!»
La carrozza si fermò.
La Goualeuse alzò automaticamente la testa. Era in cima a una
collinetta.
Quali non furono la sua meraviglia, il suo stupore.
Il paesello che sorgeva a mezza costa, la fattoria, il prato, le
belle mucche, il ruscello, il castagneto, la chiesa sullo sfondo, la
visione le stava sotto gli occhi... non mancava niente, c’era
perfino Musette, la bella giovenca bianca, futura prediletta della
Goualeuse.
Un bel sole di novembre illuminava il dolce paesaggio... I castagni
ancora coperti di foglie gialle e rossicce si stagliavano contro
l’azzurro del cielo.
«Ebbene, che ne dite, Fleur-de-Marie? Sono o no un buon pittore?»
chiese Rodolphe sorridendo.
La Goualeuse lo guardò sorpresa e inquieta insieme. Le sembrava
quasi qualcosa di soprannaturale.
«Com’è possibile, signor Rodolphe?... Ma, Dio mio, non è un sogno?
Ho quasi paura... Come! quello che m’avete detto...»
«Chiarissimo, figliola... La fittavola è la mia balia, io sono stato
allevato qui... Stamattina prestissimo le ho scritto che sarei
venuto a farle visita: dipingevo la realtà al naturale.»
«Ah, è vero, signor Rodolphe!» disse la Goualeuse con un profondo
sospiro.
XII
LA FATTORIA
La fattoria in cui Rodolphe aveva portato Fleur-de-Marie era situata
al limite del paese di Bouqueval, una parrocchietta isolata,
sconosciuta, sperduta nella campagna, e lontana due leghe circa da
Ecouen.
Il vetturino, seguendo le indicazioni di Rodolphe, prese una
scorciatoia che sbucava in un lungo viale fiancheggiato da ciliegi e
da meli. La carrozza procedeva senza far rumore sopra un tappeto di
erbetta fine e ordinata simile a quella che cresce di solito nella
maggior parte delle strade locali.
Fleur-de-Marie, silenziosa, triste, restava, nonostante reagisse,
sotto la dolorosa impressione che Rodolphe si rimproverava d’averle
suscitato.
Dopo un po’ la carrozza passò davanti al cancello del cortile della
fattoria, continuò poi per un viale di fitti carpini e quindi si
fermò di fronte a un piccolo portico in legno rustico mezzo nascosto
da un grosso ceppo di vite a cui l’aria d’autunno aveva venato di
rosso le foglie.
«Eccoci arrivati, Fleur-de-Marie» disse Rodolphe, «siete contenta?»
«Sì, signor Rodolphe... ma ora ho l’impressione di dover provare
vergogna dinanzi alla fittavola; non avrei mai il coraggio di
guardarla...»
«Perché, figliola?»
«Avete ragione, signor Rodolphe, lei non mi conosce.»
E la Goualeuse represse un sospiro.
Sicuramente la carrozza doveva essere stata avvistata e l’arrivo
di Rodolphe atteso.
Quando il cocchiere aprì lo sportello, una donna di cin-
quant’anni circa, vestita come le ricche fittavole dei dintorni di
Parigi, con un volto mesto e dolce a un tempo, comparve sotto il
portico e si fece incontro a Rodolphe con rispettosa premura.
La Goualeuse diventò di porpora e, dopo un momento di esitazione,
scese dalla carrozza.
«Buon giorno, buona signora Georges...» disse Rodolphe alla
fittavola; «come vedete, sono puntuale...»
Poi, voltosi al vetturino e messogli qualche soldo in mano: «Puoi
tornartene a Parigi.»
Il vetturino, un ometto tozzo, con un cappello calcato fin so-
pra gli occhi, con la faccia quasi interamente nascosta dal bavero
foderato di pelo del suo pastrano, intascò il denaro senza proferir
parola, risalì a cassetta, frustò il cavallo e scomparve rapidamente
nel frondoso viale.
«Dopo un viaggio così lungo, questo musone di cocchiere ha ancora
tanta fretta di andarsene...» pensò subito Rodolphe. «Bah! sono
appena le due; vorrà essere di ritorno a Parigi tanto presto da
poter mettere a profitto il resto della giornata.»
E finì col non attribuire nessuna importanza alla prima idea.
Fleur-de-Marie si avvicinò a Rodolphe, inquieta, turbata, quasi
allarmata e gli disse sottovoce in modo da non farsi sentire dalla
signora Georges:
«Dio mio, signor Rodolphe, scusate... Mandate via la carrozza... Ma
la ostessa, ahimè!... devo ritornare da lei questa sera..,
altrimenti mi riterrà una ladra. I miei vestiti appartengono a
lei... e io le devo...»
«Calmatevi, figliola, tocca a me chiedervi scusa.»
«Scusa! e di cosa?»
«Di non avervi detto prima che non siete più indebitata con
l’ostessa e che potevate smettere questi orrendi vestiti per
indossarne degli altri, quelli che vi darà adesso la buona signora
Georges. Ne ha qualcuno che è press’a poco della vostra taglia e che
vi presterà molto volentieri. Vedete, ha già cominciato la sua parte
di zia.»
Fleur-de-Marie credeva di sognare; guardava ora Rodolphe ora la
fittavola perché non poteva credere a quello che sentivano i suoi
orecchi.
«Come» disse con voce palpitante d’emozione, «non ritornerò più a
Parigi? potrò restare qui? la signora me lo permetterà?... potrebbe
essere possibile il castello in aria di poco fa?»
«Era questa fattoria... eccolo realizzato.»
«No, no, sarebbe troppo bello, troppa felicità.»
«Di felicità non se ne ha mai troppa, Fleur-de-Marie.»
«Ah, per pietà, signor Rodolphe, non ingannatemi, mi fareb-
be molto male.»
«Figliola cara, credetemi» disse Rodolphe, con un tono di voce
affettuoso, sì, ma anche un po’ sostenuto che Fleur-de-Marie non gli
conosceva ancora; «sì, se vi piace, potete fin da oggi vivere,
assieme alla signora Georges, la vita tranquilla che poco fa vi ha
incantato. Benché non sia vostra zia, la signora Georges, non appena
vi avrà conosciuta, avrà per voi le più tenere cure; anzi agli occhi
della gente della fattoria passerete per sua nipote; questa piccola
menzogna darà più decoro alla vostra posizione. Torno a ripetervi,
Fleur-de-Marie, che, se vorrete, potrete realizzare il sogno di
poc’anzi. Non appena sarete vestita da piccola fittavola» aggiunse
Rodolphe sorridendo, «vi condurremo a vedere la vostra futura
prediletta, Musette, la giovenchetta bianca che aspetta il collare
che le avete promesso. Andremo anche a dare un’occhiata ai colombi,
vostri amici, e poi alla cascina; insomma percorreremo in lungo e in
largo la fattoria; ci tengo a mantenere la promessa.»
Fleur-de-Marie congiunse le mani con forza. Sorpresa, gioia,
riconoscenza, rispetto le si dipinsero in volto: gli occhi le
s’inondarono di lacrime:
«Signor Rodolphe» esclamò, «dovete essere un angelo mandato dal buon
Dio per fare tanto bene agli infelici e per liberarli dalla vergogna
e dalla miseria.»
«Figliola cara» rispose Rodolphe con un sorriso di profonda
malinconia e d’indicibile bontà, «benché molto giovane, ho già
sofferto in vita mia; questo vi spiega la compassione che provo per
quelli che soffrono. Fleur-de-Marie, o meglio Marie, andate con la
signora Georges. Sì, Marie, che vi chiamino ormai con questo nome,
dolce e bello come voi. Non partirò senza prima aver parlato ancora
assieme a voi e vi lascerò contentissimo di sapervi felice.»
Fleur-de-Marie come risposta si avvicinò a Rodolphe, piegò le
ginocchia, gli prese la mano e se la portò rispettosamente alle
labbra con un gesto pieno di grazia e di modestia.
Poi si allontanò con la signora Georges che era stata a guardarla
con profonda commozione.
XIII
MURPH E RODOLPHE
Rodolphe si diresse verso il cortile della fattoria e vi trovò
l’uomo dall’alta statura che, la sera prima, travestito da
carbonaio, era andato ad avvertirlo dell’arrivo di Tom e Sarah.
Murph, tale è il nome del personaggio, aveva circa cinquant’anni,
una testa quasi completamente calva su cui risaltavano due ciuffetti
riccioluti d’un biondo vivo, al di sopra di ciascuna delle tempie,
argentati da qualche ciocca bianca; aveva un viso largo, colorito,
che era completamente rasato, due favoriti cortissimi, d’un biondo
acceso, che si fermavano all’altezza dell’orecchio e si curvavano, a
guisa d’uncino, sopra le guance paffute. Nonostante l’età e la
grossezza, Murph era agile e robusto. Benché flemmatico, aveva un
volto affabile ed energico a un tempo; portava una cravatta bianca,
un grande giubbetto, un lungo abito a larghe falde, un paio di
pantaloni, d’un grigio verdastro, fatti con una stoffa uguale a
quella delle ghette con bottoni di madreperla, le quali ghette, non
arrivando fino alle giarrettiere, lasciavano emergere i calzettoni
da viaggio di lana grezza.
Il modo di vestire e l’aspetto virile di Murph richiamavano alla
mente l’immagine perfetta di ciò che gli inglesi chiamano il
gentiluomo di campagna. Affrettiamoci a precisare che Murph era
inglese, gentiluomo (squire), ma non gentiluomo di campagna.
Nel momento in cui Rodolphe arrivò nel cortile, Murph stava
rimettendo in una borsa, che si trovava in un calessino da viaggio,
un paio di pistole che aveva allora accuratamente pulito.
«Che diamine vuoi fare con le pistole?» gli domandò Rodolphe.
«So io, signore» rispose Murph scendendo dal predellino. «Fatevi gli
affari vostri, io faccio i miei.»
«Per che ora saranno pronti i cavalli?»
«Sul cader della notte, secondo i vostri ordini.»
«Sei arrivato stamattina?»
«Alle otto. La signora Georges ha avuto il tempo di prepara-
re ogni cosa.»
«Sei un po’ di cattivo umore... Non sei contento di me?» «Anche
troppo, signore... anche troppo. Un giorno o l’altro...
insomma il pericolo... è la vostra vita.»
«Ti conviene parlare solamente! Se ti lasciassi fare, tutti i rischi
sarebbero per te, e...»
«E se faceste il bene senza mettere a rischio la vostra vita, che
gran male ci sarebbe, signore?»
«E dove sarebbe il gran piacere, signor Murph?»
«Voi» disse il gentiluomo alzando le spalle, «voi in quei locali!»
«Oh, siete tutti così, voialtri, John Bull, con i vostri scrupoli da
aristocratici che vi fanno credere che i grandi signori siano di
natura superiore alla vostra, poveri montoni, fieri dei vostri
beccai!!!»
«Se foste inglese, signore, capireste... Chi onora è onorato.
D’altronde, anche se fossi turco, cinese, americano, penserei lo
stesso che avete sbagliato a esporvi così. Ieri sera, in quella
orribile strada della Cité, in cui ci siamo recati per snidare
BrasRouge, che l’inferno se lo prenda, c’è voluto tutto il timore
che ho d’irritarvi, di disobbedirvi, per trattenermi dal correre a
darvi man forte contro il furfante che avete trovato nell’androne di
quel tugurio.»
«Vale a dire, signor Murph, che voi dubitate della mia forza e del
mio coraggio!»
«Purtroppo mille volte m’avete messo in condizione di non dubitare
né dell’una né dell’altro. Grazie a Dio Crabb di Ramsgate vi ha
insegnato a boxare, che Lacour di Parigi vi ha insegnato il bastone,
la savate, e, per curiosità vostra, il gergo; che il celebre
Bertrand v’ha insegnato a tirare di scherma e che voi nelle prove
contro tali professori avete spesso avuto la meglio. Con la pistola
colpite una rondine al volo, avete muscoli d’acciaio; benché esile e
snello, sareste capace di vincermi con la stessa facilità con cui un
cavallo da corsa vincerebbe una rozza... Questo è vero.»
Rodolphe, dopo avere ascoltato con compiacenza l’enumerazione delle
sue doti di gladiatore, riprese sorridendo:
«Ebbene, di che cosa hai paura, allora?»
«Affermo, signore, che non è dignitoso da parte vostra offrire il
collo al primo mascalzone che viene. Non dico questo per il disdoro
che deriva a un onorato gentiluomo di mia conoscenza a sporcarsi il
viso con il carbone finendo così col sembrare un demonio; voi sapete
bene che, a dispetto dei miei capelli grigi, della mia pinguedine,
della mia gravità, io mi trasformerei in un funambolo se con questo
potessi esservi utile; ma sostengo quanto ho detto prima.»
«Oh, lo so, vecchio Murph, che, quando ti sei fisso un’idea in
quella tua testa di ferro e hai fatto attecchire la fedeltà in quel
tuo cuore franco e valoroso, il diavolo consumerebbe denti e unghie
prima di grattartele via.»
«Sono lusingato, signore; state meditando qualche...»
«Non preoccuparti.»
«Qualche follia, signore.»
«Caro Murph, hai scelto male il momento per farmi la predica.»
«Perché?»
«Sono in uno dei miei migliori momenti di soddisfazione e di
felicità... sono qui...»
«In un posto in cui avete fatto tanto bene?»
«In un rifugio contro le omelie, è il mio Temple-Bar...»
«Se è così, dove volete che vi prenda, signore?»
«Signor Murph, voi mi lusingate, volete impedirmi di fare
follie.»
«Mio signore, ci sono follie per le quali sono indulgente.» «Le
follie di denaro?»
«Si, perché, dopo tutto, con quasi due milioni di rendita...» «Si è
spesso e volentieri in difficoltà, caro Murph.»
«A chi lo dite, mio signore?»
«Eppure ci sono piaceri così vivi, così puri, così profondi che
costano tanto poco. Che vi è di paragonabile a quello che ho provato
poco fa quando quella povera creatura si è veduta al sicuro qui e
nella sua riconoscenza m’ha baciato la mano? Non è tutto; la mia
felicità durerà a lungo; domani, domani l’altro, per molti giorni
insomma, potrò pensare con delizia a ciò che proverà la povera
ragazza quando si sveglierà ogni mattina in questo asilo tranquillo,
accanto all’ottima signora Georges che l’amerà teneramente; perché
l’infelice simpatizza subito con l’infelice.»
«Oh, quanto alla signora Georges, mai beneficio è stato meglio
collocato. Nobile, coraggiosa donna!... un angelo di virtù, un
angelo! Io mi commuovo raramente, e dinanzi alle disgrazie della
signora Georges mi sono commosso... Ma la vostra nuova protetta!...
ecco, non parliamo più di ciò, signore.»
«Perché, Murph?»
«Mio signore, voi fate sempre quello che vi pare.»
«Io faccio quello che è giusto» rispose Rodolphe un po’ spa-
zientito.
«Quello che è giusto... secondo voi.»
«Quello che è giusto davanti a Dio e davanti alla mia coscien-
za» aggiunse Rodolphe severamente.
«Vedete, mio signore, noi non c’intendiamo. Ve lo dico per la
seconda volta, non parliamone più!»
«E io ti ordino di parlare!» disse Rodolphe imperiosamente.
«Non mi sono mai esposto a dovermi sentire ordinare di tacere; spero
non vorrete comandarmi di parlare» rispose Murph con alterigia.
«Signor Murph!!!» gridò Rodolphe sempre più irritato.
«Mio signore!...»
«Lo sapete, mio signore, che a me non piacciono le reticenze.» «Non
posso non avere reticenze» disse bruscamente Murph. «Sappiate,
signore, che se mi abbasso sino a essere familiare con
voi, lo faccio perché voi vi innalziate fino a essere franco con
me.» Impossibile descrivere l’espressione di somma alterigia che
ebbe Rodolphe nel pronunciare queste parole.
«Mio signore, ho cinquant’anni, sono gentiluomo; non dovete
parlarmi in questa maniera.» «Tacete!»
«Mio signore!»
«Tacete!»
«Mio signore, non è bello costringere un uomo di cuore a ram-
mentarvi i servigi resi.»
«I tuoi servigi? non te li pago in tutti i modi forse?»
Si deve dire che Rodolphe non aveva dato a queste crudeli e
umilianti parole un significato tale da far passare Murph per un
mercenario; purtroppo questi le interpretò in tale maniera. Diventò
rosso dalla vergogna, si portò alla fronte spaziosa i pugni stretti
in atto di dolorosa indignazione; poi, al vedere il volto di
Rodolphe contratto, alterato dalla selvaggia e violenta collera,
cambiò improvvisamente, represse un sospiro, guardò il giovane con
pietosa commiserazione e gli disse con voce commossa:
«Ritornate in voi, mio signore; non siate irragionevole.»
Queste parole esasperarono l’irritazione di Rodolphe; nello sguardo
gli passò un lampo feroce; le labbra gli si sbiancarono e subito
gridò, avanzando verso Murph con gesto minaccioso:
«Osi ancora!...»
Murph si trasse indietro rispondendo con impeto quasi suo malgrado:
«Mio signore, mio signore, RICORDATEVI DEL 13 GENNAIO!»
Questa frase produsse un effetto magico su Rodolphe. Il viso,
contratto dalla collera, gli si ricompose.
Fissò in volto Murph, abbassò la testa; poi, dopo un momento di
silenzio, mormorò con voce alterata:
«Ah mio signore, come siete crudele... eppure io credevo!... e anche
voi!... voi!...»
Rodolphe non poté continuare perché la voce gli si spense; si lasciò
cadere su una panchina e si prese la testa fra le mani.
«Mio signore» disse Murph addolorato, «mio buon signore,
perdonatemi, perdonate al vostro vecchio e fedele Murph! Ho parlato
così solo perché ci sono stato spinto e perché, ahimè, temevo, non
per me ma per voi, le conseguenze del vostro sdegno... non l’ho
fatto per cattiveria o per muovervi rimprovero, l’ho fatto un po’
mio malgrado e un po’ per compassione. Mio signore, ho avuto torto a
essere suscettibile... Dio mio! chi può conoscere il vostro
carattere se non io, io che non vi ho mai abbandonato da quando
eravate bambino! Di grazia, dite che mi perdonate d’avervi
rammentato quel giorno funesto.»
Rodolphe alzò la testa; era pallidissimo. Poi con tono dolce e
triste disse al compagno:
«Basta, basta, vecchio amico, ti ringrazio d’avere stroncato con una
parola il mio sdegno funesto; io non ti chiedo scusa, io, delle
atrocità che t’ho detto; sai bene però che tra il cuore e le labbra
ci corre molto, come dice la brava gente da noi. Sono stato pazzo,
non parliamone più.»
«Ahimè, ecco adesso sarete triste per molto tempo... Come sono
infelice!... Io non desidero altro che potervi distogliere dai
vostri cupi pensieri e invece, con la mia sciocca suscettibilità, vi
faccio ripiombare dentro. Maledizione! a che cosa serve essere
onesto e avere i capelli grigi se non a sopportare con pazienza i
rimproveri che non si meritano!»
«Ma no» proseguì Murph, con uno slancio che sapeva di comico perché
contrastava con la sua flemma abituale, «ma no, ho assolutamente
bisogno di sentirmi lodare giorno per giorno, di sentirmi dire:
Signor Murph, siete il modello dei servitori; signor Murph, non c’è
fedeltà eguale alla vostra; signor Murph, siete un uomo
meraviglioso; signor Murph! diavolo, accidenti! oh, oh! com’è bello,
il signor Murph! bravo Murph!!! Su, vecchio pappagallo, fatti
grattare un po’ la testa grigia!!!»
Poi, ricordandosi delle affettuose parole che Rodolphe gli aveva
detto all’inizio della conversazione, si lasciò prendere da un nuovo
slancio di ridicola esagerazione:
«Ma lui mi aveva chiamato buono, vecchio, fedele Murph!... E io che
mi comporto come un cafone per una facezia non intenzionale! alla
mia età... Maledizione!... c’è da strapparsi i capelli».
E il bravo gentiluomo si portò le mani alle tempie.
Quando Murph diceva queste parole e faceva questo gesto, voleva dire
che egli aveva toccato l’apice della disperazione. Per sfortuna o
per fortuna sua, Murph era quasi completamente calvo, cosa che
rendeva innocuo questo suo attacco alla capigliatura e con suo
grande e sentito dispiacere; perché quando il bravo gentiluomo
accompagnava le parole col gesto, cioè quando, nervoso, posava le
dita sulla testa calva, superficie lucida e levigata come una lastra
di marmo, ci restava male, si vergognava della presunzione avuta e
finiva col considerarsi un millantatore, un fanfarone. Per
allontanare ogni sospetto di furfanteria da Murph va detto subito
che egli aveva posseduto la più folta, la più bionda capigliatura
che mai avesse ornato testa di gentiluomo dello Yorkshire.
Di solito Rodolphe si divertiva a notare il disappunto che veniva a
Murph dai capelli; ma questa volta egli era preso da gravi e
dolorosi pensieri. Ciononostante, per non acuire il dispiacere del
compagno, gli sorrise con dolcezza e gli disse:
«Ascoltami, buon Murph: prima hai mostrato di lodare senza riserve
il bene che ho fatto alla signora Georges...»
«Mio signore...»
«E di stupirti del mio interessamento per quella povera ragazza
perduta.»
«Mio signore, di grazia... Ho avuto torto... ho avuto torto...»
«No... Ti capisco, le apparenze hanno potuto ingannarti... Ma,
siccome tu sai tutto quello che faccio... siccome con tanta fedeltà
come con tanto coraggio mi aiuti nel compito che mi sono proposto...
è mio dovere, o se preferisci, è mio dovere per riconoscenza verso
di te, dimostrarti che non mi comporto alla leggera...»
«Lo so, signore.»
«Tu conosci le mie idee a proposito del bene che l’uomo può fare.
Soccorrere gli infelici meritevoli che si lamentano, è bene.
Interessarsi a coloro che lottano con dignità, con energia e venire
loro in aiuto, qualche volta a loro insaputa... prevenire in tempo
la miseria o la tentazione che conducono al delitto... è meglio.
Riabilitare ai loro propri occhi, rendere del tutto onesti e buoni
coloro che hanno conservato intatto un qualche nobile sentimento in
mezzo al disprezzo da cui sono bollati, alla miseria da cui sono
divorati, alla corruzione da cui sono circondati, e per fare questo
affrontare prima se stessi e poi il contatto con quella miseria, con
quella corruzione, con quel fango... è meglio ancora. Perseguitare
con odio feroce, con implacabili vendette il vizio, l’infamia, il
delitto, che striscino nel fango o che troneggino sulle sete, è un
atto di giustizia... Ma soccorrere ciecamente una miseria meritata,
ma degradare la carità e la pietà, ma prostituire questi puri e
spirituali conforti della mia anima ferita... prostituirli per
esseri indegni, infami, sarebbe orribile, un’empietà, un sacrilegio.
Sarebbe come far dubitare di Dio. Invece colui che fa la carità deve
far credere in Dio.»
«Mio signore, non volevo dire che voi avevate mal collocato i vostri
benefici.»
«Ancora una parola, vecchio amico. La signora Georges e la povera
ragazza che le ho affidato sono partite da due punti opposti per
precipitare nella stessa voragine... la disgrazia. Una, felice,
ricca, ammirata, onorata, colma di ogni virtù, ha visto la sua
esistenza infamata, infranta, annientata da uno scellerato ipocrita
a cui i ciechi genitori l’avevano data in sposa... Lo dico con
gioia, senza di me l’infelice sarebbe morta nella miseria e nel
bisogno; perché, per la vergogna, non aveva il coraggio di
rivolgersi a nessuno.»
«Ah, mio signore, quando siamo arrivati in quella soffitta, che
squallida miseria! era terribile... terribile!... e quando dopo la
lunga malattia, s’è, per così dire, svegliata qui, in questa casa
così calma, che sorpresa! quanta riconoscenza! Avete ragione, mio
signore, il veder soccorrere tali infelici ci fa credere in Dio.»
«E soccorrerli vuol dire onorare Dio; lo riconosco, niente è più
celestiale della virtù serena e meditata, niente è più rispettabile
di una donna come la signora Georges che, allevata da una buona e
santa madre nell’intelligente osservanza di tutti i doveri, non ne
ha mai trascurato nessuno... nessuno! e ha affrontato con coraggio
le prove più terribili. Ma anche trarre dal fango una di quelle rare
creature con cui Dio si è compiaciuto di essere generoso non vuol
forse dire onorarlo in ciò che ha di più divino? Non merita anche
lei pietà, aiuto, rispetto... sì, rispetto, l’infelice fanciulla
che, abbandonata al suo solo istinto, che, torturata, imprigionata,
vilipesa, insozzata, ha santamente conservato in fondo al proprio
cuore i sacri germogli che Dio le aveva dato? Se tu l’avessi
sentita, quella povera creatura... alla prima parola benevola che le
ho detto, alla prima parola buona e amica che s’è sentita dire, come
i più begli impulsi, i gusti più puri, i pensieri più delicati, più
poetici si sono destati in massa nella sua anima innocente, come in
primavera i mille fiori selvatici dei prati si aprono alla più
pallida spina di sole... senza saperlo! Nel dialogo di un’ora col
povero operaio che ero io, ho scoperto in Fleur-de-Marie tesori di
bontà, di grazia, di saggezza, sì, di saggezza, vecchio Murph. Un
sorriso
m’è venuto alle labbra, una lacrima sul ciglio degli occhi, quando,
con il suo grazioso parlare, m’ha dimostrato che, per essere fuori
dal bisogno e dalle tentazioni, dovevo risparmiare quaranta soldi al
giorno. Povera piccola, com’era seria e compresa quando me l’ha
detto! provava una soddisfazione così deliziosa nel darmi un buon
consiglio, una gioia così dolce a sentirmi dire che l’avrei
seguito!... Ero commosso... oh, commosso fino alle lacrime, te l’ho
già detto... E mi si accusa d’essere indifferente, duro,
inflessibile... oh, no, no, grazie a Dio! qualche volta sento ancora
il cuore battermi ardente e generoso... Ma anche tu, vecchio amico,
ti sei intenerito... Via, Fleur-de-Marie non sarà gelosa della
signora Georges, tu ti interesserai anche della sua sorte.»
«Sì, mio signore... il particolare di farvi risparmiare quaranta
soldi al giorno... credendovi un operaio... invece di spingervi a
spendere per lei... questo particolare mi commuove più di quanto
forse avrebbe dovuto.»
«E quando penso che questa ragazza ha una madre ricca, onorata,
dicono, che l’ha malvagiamente abbandonata... Oh, se è vero... lo
saprò, spero... e ti dirò come. Oh, se è vero! guai... guai a quella
donna! dovrà subire un’espiazione terribile... Murph, Murph... non
mi sono mai sentito acceso da un odio così implacabile come quando
ho pensato a quella donna che non conosco. Tu lo sai, Murph... lo
sai... certe vendette mi sono molto care... certe sofferenze
preziosissime... sono assetatissimo di certe lacrime!»
«Ahimè, mio signore» disse Murph colpito dall’espressione
d’infernale cattiveria che si disegnava sul volto di Rodolphe mentre
diceva queste parole, «lo so, quelli che meritano aiuto e
compassione hanno spesso detto di voi: “È proprio un angelo!”.
Quelli che meritano disprezzo e odio hanno gridato, maledicendovi,
nella loro disperazione: “È proprio il demonio!»
«Taci, ecco la signora Georges e Marie... Fai preparare ogni cosa
per la nostra partenza; dobbiamo essere a Parigi di buon’ora.»
XIV L’ADDIO
Marie (ormai daremo questo nome alla Goualeuse), grazie alle cure
della signora Georges, non era più riconoscibile.
Una bella cuffia tonda alla campagnola e due folte bande di capelli
biondi incorniciavano il virgineo volto della fanciulla. Un ampio
scialletto di mussolina bianca le s’incrociava sul petto e
spariva per metà sotto la pettorina a quadri di un grembiulino di
taffetà cangiante, i cui riflessi blu e rosa brillavano sul fondo
scuro di un vestito marrone che sembrava essere stato fatto
appositamente per Marie.
Il volto era profondamente raccolto; certe felicità gettano lo
spirito in un’indicibile tristezza, in una santa malinconia.
Rodolphe non si sorprese della gravità di Marie, se la aspettava. Se
fosse stata allegra ed espansiva, egli se ne sarebbe fatto un’idea
meno alta.
Rodolphe, dimostrando così un grandissimo tatto, non le fece nessun
complimento anche se la bellezza di Marie splendeva del più puro
fulgore.
Egli sentiva che c’era qualcosa di solenne, di augusto nel riscatto
di un’anima strappata al peccato.
Sul volto serio e rassegnato della signora Georges si vedevano i
segni di diuturne sofferenze e di profondi dolori; essa guardava
Marie con un affetto e con una compassione quasi materni, talmente
riuscivano simpatiche la grazia e la dolcezza della fanciulla.
«Ecco la mia figliola... che viene a ringraziarvi della vostra
bontà, signor Rodolphe» disse la signora Georges presentando Marie a
Rodolphe.
Alla parola «mia figliola», la Goualeuse volse lentamente i grandi
occhi verso la sua protettrice e la contemplò per qualche istante
con una espressione d’inesprimibile riconoscenza.
«Cara signora Georges, vi ringrazio per Marie; è degna delle vostre
tenere cure... e le meriterà sempre.»
«Signor Rodolphe» disse Marie con voce tremante, «voi capite...
vero, se non trovo niente da dirvi?»
«La vostra emozione mi dice tutto, Marie...»
«Oh, sa che è soprannaturale la felicità che le è toccata» disse la
signora Georges, intenerita. «Il suo primo impulso, entrando nella
mia stanza, è stato quello di buttarsi in ginocchio davanti al
crocefisso.»
«Perché ora, signor Rodolphe, grazie a voi... non ho paura di
pregare...» disse Marie guardando l’amico.
Murph si girò subito di scatto: la flemma d’inglese, la dignità di
gentiluomo non gli permettevano di lasciar vedere come fosse toccato
dalle semplici parole di Marie.
Rodolphe disse alla fanciulla:
«Figliola, avrei da parlare con la signora Georges... Il mio amico
Murph vi condurrà a visitare la fattoria... e vi farà fare co-
noscenza con i vostri futuri protetti... noi vi raggiungeremo fra
poco... Ebbene, Murph... Murph, mi senti?»
Il buon gentiluomo stava ancora con le spalle girate e fingeva di
soffiarsi il naso con un rumore, con un fragore enormi; si rimise il
fazzoletto in tasca, si calò il cappello sugli occhi e si girò quel
tanto che gli permettesse di offrire il braccio a Marie.
Murph aveva manovrato così abilmente che né Rodolphe né la signora
Georges poterono vederlo in volto. Presa sotto braccio la ragazza,
si diresse rapidamente verso il fabbricato della fattoria,
camminando così in fretta che, per stargli dietro, la Goualeuse
dovette correre, come da bambina correva dietro alla Chouette.
«Ebbene, signora Georges, cosa pensate di Marie?» chiese Rodolphe.
«Signor Rodolphe, ve l’ho detto: appena entrata nella mia stanza...
visto il crocefisso, è corsa a mettersi in ginocchio... È
impossibile dirvi quanto c’era di spontaneo, di istintivamente
religioso in quel movimento. Ho capito all’istante che la sua anima
non si era degradata. E poi, signor Rodolphe, la sua riconoscenza
per voi non ha niente di esagerato, di enfatico; anzi è molto
sincera. Ancora qualcosa che vi dimostrerà come è forte in lei
l’istinto religioso; le ho detto: “Sarete rimasta stupita, contenta
quando Rodolphe vi ha annunciato che sareste restata qui ormai...
Chissà che grande impressione ne avrete avuto!”. “Oh, sì” m’ha
risposto; “quando il signor Rodolphe me l’ha detto, non so che cosa
mi sia improvvisamente successo; ma ho provato quella beata
felicità, quel sacro rispetto che avevo quando entravo in una
chiesa... quando potevo entrarci” ha aggiunto, “perché, signora,
dovete sapere...”. Non l’ho fatta finire perché l’avevo vista
arrossire di vergogna. “So, figlia mia... e vi chiamerò sempre
figlia... se volete... so che avete sofferto molto: ma Dio benedice
coloro che lo amano e coloro che lo temono... quelli che sono stati
infelici e quelli che si pentono...”»
«Bene, cara signora Georges, sono doppiamente contento di ciò che ho
fatto. Vi occuperete della povera ragazza... Non avete che da
seminare per raccogliere; avete indovinato, una natura eccellente.»
«Inoltre, signor Rodolphe, m’ha colpito il fatto che non abbia
chiesto nessuna informazione sul conto vostro benché la sua
curiosità debba essere stata molto stuzzicata. Impressionata da
questo riserbo pieno di delicatezza, ho voluto sapere se ne fosse
cosciente. Le ho detto; “Sarete molto curiosa di sapere chi sia il
vostro misterioso benefattore”. “Lo so” mi rispose con incantevole
candore, “si chiama mio benefattore.”»
«Così, le vorrete bene, allora? Santissima donna, la sua compagnia
vi sarà dolce... Almeno occuperà il vostro cuore...»
«Sì, mi occuperò di lei come mi sarei occupata di lui» rispose la
signora Georges con voce straziata.
Rodolphe le prese una mano.
«Forza, forza, non vi scoraggiate ancora... Se le nostre ricerche
sono state finora inutili, chi sa che un giorno...»
La signora Georges scosse tristemente la testa e disse con amarezza:
«Il mio povero figlio avrebbe vent’anni adesso...»
«Dite pure che ha vent’anni.»
«Che Dio vi ascolti e vi esaudisca, signor Rodolphe!»
«Mi esaudirà... lo spero... Ieri ero andato (ma inutilmente) in
cerca di un certo furfante soprannominato Bras-Rouge che poteva
forse, m’era stato detto, darmi informazioni su vostro figlio.
Uscendo dalla casa di Bras-Rouge, dopo una rissa, ho incontrato
questa povera ragazza...»
«Ahimè! meglio così!... l’ottima risoluzione che avevate preso per
me vi ha messo almeno sulla pista di una nuova disgrazia, signor
Rodolphe.»
«Da molto tempo d’altronde avevo intenzione di esplorare un po’
queste classi di miserabili... quasi sicuro che c’era ancora qualche
anima da togliere al vecchio Satana che mi diverto spesso ad
avversare» aggiunse Rodolphe sorridendo «e a cui di tanto in tanto
strappo di bocca i bocconi migliori.» Poi riprese con tono più
serio: «Da Rochefort non avete alcuna notizia?»
«Nessuna» rispose la signora Georges a bassa voce e con un sussulto.
«Meglio così! quel mostro avrà trovato la morte tra i banchi di
melme mentre cercava di evadere. I suoi connotati sono abbastanza
diffusi; dal momento che sono state... fatte tutte le ricerche
possibili per scoprirlo dev’essere un criminale molto pericoloso; e
da sei mesi circa è uscito dall’erg...»
Al momento di pronunciare l’orribile parola Rodolphe si fermò.
«Dall’ergastolo! oh, ditelo... dall’ergastolo!» esclamò la povera
donna inorridita con voce quasi rotta. «Il padre di mio figlio!...
Ah, se lo sventurato ragazzo vive ancora... se, come me, non ha
cambiato nome, che vergogna!... che vergogna! E questo non è niente
ancora... Suo padre forse ha mantenuto la promessa terribile. Ah,
signor Rodolphe, perdonatemi; ma, nonostante i vostri benefici, io
sono ancora tanto infelice!»
«Calmatevi, mia cara.»
«Alle volte sono presa da terribili spaventi. Immagino che mio
marito sia fuggito senza danno da Rochefort; che mi cerchi per
uccidermi come forse ha già fatto col nostro bambino. Ma insomma,
che ne ha fatto di lui? che ne ha fatto di lui?»
«In questo mistero la mia mente è come nelle tenebre della morte»
disse Rodolphe soprappensiero. «A quale scopo questo miserabile ha
portato via vostro figlio, quando, quindici anni fa, come m’avete
detto, ha tentato di passare in un Paese straniero? Un bambino di
quell’età non poteva che rendergli difficile la fuga.»
«Ahimè, signor Rodolphe, quando mio marito» (la sventurata
rabbrividì nel pronunciare quella parola), «fermato alla frontiera,
è stato ricondotto a Parigi e gettato nella prigione in cui, con un
permesso, ho potuto vederlo m’ha detto queste terribili parole:
“T’ho portato via il figlio perché tu gli vuoi bene e perché così ho
un modo per costringerti a mandarmi denaro di cui godrà o non
godrà... dipende da me. Che viva o che muoia poco t’importa; ma se
vivrà, sarà in buone mani: berrai l’onta del figlio come hai bevuto
quella del padre”. Ahimè! un mese dopo, mio marito era condannato ai
lavori forzati a vita. Dopo le istanze, le preghiere di cui erano
piene le mie lettere, tutto è stato inutile; non ho potuto sapere
niente sulla sorte del bambino... Ah, signor Rodolphe, dov’è ora mio
figlio? Mi ritornano sempre alla mente le terribili parole: “Berrai
l’onta del figlio come hai bevuto quella del padre!”.»
«Ma sarebbe stata un’atrocità incomprensibile; perché rovinare,
corrompere il povero bambino? perché soprattutto portarlo via?»
«Ve l’ho detto, signor Rodolphe, per costringermi a mandargli
denaro; benché mi avesse spremuta, mi restavano ancora alla fine
poche risorse che andarono perdute così. Nonostante la sua
scelleratezza, non potevo credere che egli non adoperasse almeno una
parte di tale somma per fare allevare lo sventurato bambino.»
«Ma vostro figlio non aveva qualche segno, qualche indizio che lo
potesse far riconoscere?»
«Nessuno se non quello di cui vi ho parlato, signor Rodolphe: una
medaglietta di lapislazzuli attaccata a una catenina d’argento che
portava al collo. Questa reliquia, benedetta dal Santo Padre, era di
mia madre; lei l’aveva portata da piccola e la venerava molto.
L’avevo portata anch’io; l’avevo messa al collo di mio figlio!
Ahimè! come talismano ha perduto il suo potere.»
«Chi sa, povera madre? Dio è onnipotente.»
«La Provvidenza mi ha messo sulla vostra strada, signor Rodolphe.»
«Troppo tardi, buona signora Georges, troppo tardi. Forse vi avrei
risparmiato i dolori di tanti anni.»
«Ah, signor Rodolphe, m’avete fatto tanto bene voi.»
«E come? Ho comperato la fattoria. Nel tempo in cui stavate bene,
voi facevate abilmente valere la vostra roba; avete consentito a
farmi da amministratore; grazie alle vostre cure preziose, alla
vostra intelligente attività, la fattoria mi rende...»
«Vi rende, signore?» disse la signora Georges interrompendo
Rodolphe; «non sono forse io a pagare il fitto del buon parroco
Laporte? e tale somma non è forse distribuita da lui, per vostro
ordine, in elemosine?»
«Ebbene, è una cosa bellissima. Ma, avete fatto avvertire il buon
parroco del mio arrivo, vero? Ci tengo a raccomandargli la mia
protetta. Ha ricevuto la mia lettera?»
«Il signor Murph gliel’ha portata subito stamattina.»
«Nella lettera raccontavo brevemente al buon parroco la storia della
povera ragazza. Non ero sicuro di poter venire quest’oggi; in tal
caso sarebbe stato Murph ad accompagnare qui Marie.»
Un garzone di fattoria interruppe la conversazione che si svolgeva
in giardino.
«Signore, il signor parroco vi aspetta.»
«Ragazzo, sono arrivati i cavalli di posta?» chiese Rodolphe. «Sì,
signor Rodolphe; stanno cambiandoli.»
E il garzone se n’andò.
La signora Georges, il parroco e la gente della fattoria cono-
scevano il protettore di Fleur-de-Marie solo col nome di signor
Rodolphe.
La discrezione di Murph era straordinaria; come nei discorsi a
quattr’occhi con Rodolphe vedeva il momento opportuno per chiamarlo
mio signore, così in presenza di estranei aveva cura di chiamarlo
sempre solo signor Rodolphe.
«Mi sono dimenticato di avvertirvi, cara signora Georges» disse
Rodolphe dirigendosi verso la casa, «che Marie è, mi pare, ammalata
di petto; le privazioni, la miseria le hanno intaccato la salute.
Stamattina, visto alla luce del giorno, il suo pallore mi ha
colpito, nonostante le sue guance fossero di rosa vivo; anche i suoi
occhi m’è sembrato avessero qualche luccichio febbrile. Avrà bisogno
di molte cure.»
«Contate su di me, signor Rodolphe. Ma, grazie a Dio, non c’è niente
di grave. A quell’età, in campagna... all’aria pura, con un po’ di
riposo, di tranquillità, si rimetterà presto.»
«Me lo auguro; ma non importa: non mi fido dei vostri medici di
campagna... dirò a Murph di condurre qui un dottore esperto, lui ci
indicherà la cura migliore da seguire. Devo ricevere spesso notizie
di Marie. Fra qualche tempo, quando sarà ben riposata e ben
tranquilla, penseremo anche al suo avvenire. Forse sarebbe meglio
per lei restare sempre con voi... se il suo carattere e la sua
condotta non vi dispiaceranno.»
«Sarebbe mio desiderio, signor Rodolphe; ella prenderebbe il posto
di quel figlio che piango tutti i giorni.»
Mentre Rodolphe e la signora Georges s’avvicinavano alla fattoria,
Murph e Marie giungevano da un’altra parte.
Marie era un po’ accaldata dalla passeggiata.
Rodolphe fece notare alla signora Georges la colorazione degli
zigomi della fanciulla, colori vivi, circoscritti, che staccavano
decisamente sul biancore delicato del suo colorito.
Il buon gentiluomo lasciò il braccio della Goualeuse e, un po’
confuso, disse a Rodolphe in un orecchio:
«Questa ragazza mi ha stregato; adesso non so più chi m’interessi di
più fra lei e la signora Georges. Sono stato una bestia selvatica e
feroce.»
«Non ti strapperai i capelli per questo, vecchio Murph» disse
Rodolphe sorridendo e stringendogli la mano.
La signora Georges, appoggiatasi al braccio di Marie, entrò nel
salottino a pianterreno dove aspettava il parroco Laporte.
Murph andò a controllare i preparativi per la partenza.
La signora Georges, Marie, Rodolphe e il parroco restarono soli.
Semplice, ma molto confortevole, il salottino era tutto tappezzato e
arredato con tela di calicò, come il resto della casa, tale e quale,
d’altronde, era stata descritta da Rodolphe alla Goualeuse.
Un grosso tappeto copriva il pavimento, un bel fuoco ardeva nel
focolare e due enormi mazzi di margherite diffondevano nella stanza,
da due vasi di cristallo, una leggera fragranza.
Attraverso le persiane chiuse per metà, si vedevano il prato, il
ruscello e al di là la collinetta piantata a castagni.
Il parroco Laporte, seduto vicino al caminetto, aveva ottant’anni
passati; da subito dopo la rivoluzione, aveva cura di quella povera
parrocchia.
Niente si poteva trovare di più venerabile, di più dolcemente
imponente del suo volto senile, scavato e un po’ sofferente,
incorniciato da lunghi capelli bianchi che gli cadevano sul collo
della veste rattoppata in più di un punto; perché il curato
preferiva, diceva,
vestire due o tre bambini di roba che li riparasse dal freddo,
anziché fare il damerino, cioè portare le vesti meno di due o tre
anni.
Il buon parroco era così vecchio, così vecchio che le mani gli
tremavano sempre; c’era qualcosa di commovente in quel movimento:
tanto che, quando durante una discussione le alzava, si sarebbe
pensato che stesse benedicendo.
Rodolphe osservava Marie con attenzione.
Se non l’avesse conosciuta così bene o meglio se non l’avesse capita
così bene, si sarebbe forse stupito di vederla avvicinarsi al
parroco con una certa qual serena devozione.
La stupenda religiosità istintiva di Marie gli diceva che il peccato
finisce là dove cominciano il pentimento e l’espiazione.
«Signor parroco» disse rispettosamente Rodolphe «la signora Georges
acconsente volentieri a prendersi cura di questa fanciulla per cui
invoco la vostra bontà.»
«Ne ha diritto, signore, come tutti quelli che vengono a noi. La
clemenza di Dio è infinita, cara figliola... ve l’ha dimostrato col
non abbandonarvi... nelle dolorosissime prove... So tutto.» E prese
fra le sue sante mani tremanti la mano di Marie. «L’uomo generoso
che v’ha salvata ha realizzato la parola della Scrittura: Il Signore
è vicino a quelli che l’invocano; compirà i desideri di quelli che
lo temono; ascolterà le loro grida e li salverà. Ora, guadagnatevi
la sua misericordia con la vostra condotta; mi troverete sempre
pronto a incoraggiarvi e a sostenervi... nella dritta via in cui
siete entrata. Avrete nella signora Georges un esempio quotidiano,
in me un consigliere vigilante. Il Signore compirà l’opera.»
«E io, padre, lo pregherò per quelli che hanno avuto pietà di me e
che mi hanno ricondotta a lui» disse la Goualeuse.
E si lasciò cadere in ginocchio davanti al prete.
L’emozione, grandissima, era soffocata dai singhiozzi. La signora
Georges, Rodolphe, il parroco... erano profondamente toccati.
«Alzatevi, buona figliola» disse il parroco, «presto otterrete...
l’assoluzione dei grandi errori di cui voi siete stata vittima più
che colpevole; perché, per parlare ancora col profeta: Il Signore
sorregge quelli che stanno per cadere e rialza tutti quelli che sono
oppressi.»
«Addio, Marie» le disse Rodolphe porgendole una crocetta d’oro,
detta alla Jeannette, attaccata a un nastro di velluto nero. Poi
aggiunse: «Conservate questa crocetta in mio ricordo; vi ho fatto
incidere, questa mattina, la data della vostra liberazione... della
vostra redenzione. Tornerò presto a trovarvi.»
Marie portò la croce alle labbra.
In quel momento Murph aprì la porta del salotto.
«Signor Rodolphe, la carrozza è pronta.»
«Addio, padre. Addio, buona signora Georges... Vi raccoman-
do vostra figlia. Addio anche a voi, Marie.»
Il venerando prete, appoggiato al braccio della signora
Georges e della Goualeuse, che facevano da bastone ai suoi passi
vacillanti, uscì dal salotto per veder partire Rodolphe. Gli ultimi
raggi del sole cadevano tiepidi sul triste e pietoso gruppo.
Un vecchio prete, incarnazione della carità, del perdono, della
speranza eterna.
Una donna, provata da tutti i dolori che possono capitare a una
sposa, a una madre.
Una fanciulla, uscita allora dall’infanzia e che la miseria e
l’infame ossessione del delitto avevano spinto giù per la china del
vizio.
Rodolphe salì in carrozza; Murph gli si sedette a fianco. I cavalli
partirono al galoppo.
XV L’APPUNTAMENTO
Il giorno dopo avere affidato la Goualeuse alle cure della signora
Georges, Rodolphe, sempre vestito da operaio, si trovava a
mezzogiorno in punto sulla porta della taverna del Panier Fleuri,
situato nei pressi della barriera di Bercy.
La sera prima, alle dieci, lo Chourineur s’era fatto trovare
puntuale all’appuntamento che gli aveva dato Rodolphe. Vedremo dal
seguito del racconto quale fu il risultato di quell’appuntamento.
Era dunque mezzogiorno. Pioveva a dirotto. La Senna, gonfiata da
piogge quasi continue, era notevolmente cresciuta e inondava parte
della banchina.
Di tanto in tanto Rodolphe guardava con impazienza in direzione
della barriera di Bercy; finalmente vide spuntare lontano un
ombrello con sotto un uomo e una donna in cui riconobbe il Maître
d’école e la Chouette.
I due personaggi erano completamente trasformati: il brigante aveva
lasciato a casa i brutti vestiti e quella sua aria feroce di bruto;
portava una lunga prefettizia di castorino verde e un cappello
rotondo; aveva una cravatta e una camicia bianchissime. Se non fosse
stato per l’orrenda faccia mutilata e il fulvo balenare
dello sguardo sempre ardente e mobile, l’incedere regolare e sicuro
avrebbe indotto a prendere il nostro uomo per un pacifico borghese.
La guercia, vestita a festa anche lei, portava una cuffia bianca, un
grande scialle di borra di seta, a disegno cachemire, e aveva in
mano una larga sporta.
Intanto aveva smesso di piovere; Rodolphe, passato il primo momento
di repulsione, andò incontro all’infame coppia.
Il Maître d’école aveva sostituito il gergo della bettola con un
linguaggio quasi ricercato che faceva un effetto tanto più
disgustoso in quanto, rivelando una certa istruzione, faceva
contrasto con quelle sue scelleratezze di sanguinario.
Quando Rodolphe fu vicino, il Maître d’école lo salutò
profondamente; la Chouette fece una riverenza.
«Signore... vostro servo umilissimo...» disse il Maître. «I miei
omaggi, e un grandissimo piacere di fare... o meglio di rifare la
vostra conoscenza... giacché l’altro ieri mi avete fatto la grazia
di regalarmi due pugni che avrebbero ammazzato un rinoceronte. Ma
non è il momento di parlare di ciò: è stato uno scherzo da parte
vostra, ne sono sicuro... un semplice scherzo. Non pensiamoci più...
grossi interessi ci affratellano. Ieri sera, alle undici, ho visto,
alla bettola, lo Chourineur; gli ho dato appuntamento per stamattina
in questo posto, nel caso che avesse voluto collaborare con noi; ma
pare che non ne voglia sapere.»
«Voi accettate, allora!»
«Se voi voleste, signor... Il vostro nome?»
«Rodolphe.»
«Signor Rodolphe... si potrebbe entrare al Panier Fleuri... né
io né la signora abbiamo ancora pranzato... Potremmo parlare dei
nostri affarucci mettendo qualcosa sotto i denti.»
«Volentieri.»
«Possiamo parlare anche camminando.»
«Non per voler far rimproveri, ma voi e lo Chourineur dove-
te un risarcimento a me e a mia moglie... Ci avete fatto perdere più
di duemila franchi. La Chouette aveva un appuntamento nei pressi di
Saint-Ouen con un signore alto, vestito a lutto, che l’altra sera
era venuto a cercarvi alla bettola; ci aveva promesso duemila
franchi se vi facevamo qualcosa... Lo Chourineur mi ha un po’
spiegato come stavano le cose... Ma, a proposito, Finette» disse il
brigante «va’ al Panier Fleuri a cercare un posto appartato e a
ordinare il pranzo: costolette, un pezzo di vitello, insalata e due
ottime bottiglie di Beaune: ti raggiungeremo fra poco.»
La Chouette, che non aveva staccato un solo momento gli occhi da
Rodolphe, se ne andò, dopo aver scambiato un’occhiata con il Maître.
Questi riprese:
«Vi dicevo dunque, signor Rodolphe, che lo Chourineur mi aveva
istruito di quella proposta di duemila franchi.»
«Che cosa significa istruire?»
«È vero... questo linguaggio è un po’ dotto per voi; volevo dire che
lo Chourineur, grosso modo, mi aveva informato di ciò che l’uomo in
lutto voleva si facesse a voi, dietro compenso dei duemila franchi.»
«Bene, bene...»
«Non tanto, giovanotto; perché lo Chourineur, incontrata la Chouette
nei pressi di Saint-Ouen, non l’ha lasciata un minuto, non appena ha
visto arrivare l’uomo in lutto; cosicché questi non ha osato
avvicinarsi. Così, sono duemila franchi che dovete farci
riguadagnare, senza contare i cinquecento franchi del portafogli che
dovevamo rendere, ma che però non avremmo restituito, perché, dopo
averli esaminati, i documenti ci sono sembrati valere molto di più
di cinquecento franchi.»
«Allora ci sono dentro cose di grande valore?»
«Ci sono documenti che mi sono parsi molto interessanti, benché i
più siano scritti in inglese; e li ho qua» disse il brigante
battendo la mano sulla tasca laterale della prefettizia.
Rodolphe fu contentissimo di sapere che il Maestro aveva ancora i
documenti presi la sera precedente a Tom; quei documenti erano per
lui di somma importanza. Le istruzioni date allo Chourineur non
avevano avuto altro scopo che di impedire a Tom di avvicinarsi alla
Chouette; il brigante allora avrebbe tenuto il portafogli, e
Rodolphe sperava così di venirne in possesso.
«Queste carte saranno come il cacio davanti al topo; giacché ho
trovato l’indirizzo del signore in lutto, e, in un modo o
nell’altro, lo rivedrò.»
«Se volete, possiamo combinare l’affare; se il nostro colpo riesce,
vi compero i documenti, io conosco quell’uomo; poi servono più a me
che a voi.»
«Vedremo... ma ritorniamo pure a bomba.»
«Ordunque, avevo proposto un bellissimo affare allo Chourineur; sul
principio ha accettato, ma poi si è ricreduto.»
«Ha sempre avuto strane idee...»
«Ma rifiutando, m’ha osservato...»
«Vi ha fatto osservare...»
«Accidenti... sapete tutto sulla grammatica.»
«Sono maestro di scuola.»
«Mi ha fatto osservare che se lui non mangiava pane rosso, non
voleva per questo impedire agli altri di assaggiarlo; e che voi
avreste potuto darmi una mano.»
«E potrei sapere, se non sono indiscreto, perché ieri mattina avete
dato appuntamento allo Chourineur proprio a Saint-Ouen,
procurandogli l’occasione di incontrare la Chouette? Era un po’
imbarazzato quando gli ho chiesto spiegazioni a questo proposito.»
Rodolphe si morse impercettibilmente le labbra, e rispose alzando le
spalle:
«Lo credo bene, gli avevo detto le cose solo per metà... capirete...
non sapendo se era proprio deciso.»
«Era più prudente...»
«Tanto più prudente in quanto avevo il piede in due staffe.» «Bah!»
«Certo.»
«Siete un uomo pieno di preoccupazioni... Avevate dunque
dato appuntamento allo Chourineur a Saint-Ouen per...» Rodolphe,
dopo un momento di esitazione, ebbe la fortuna di trovare una storia
così verosimile da coprire la balordaggine dello
Chourineur; quindi riprese:
«Ecco l’affare... Vi propongo un ottimo colpo, perché il pa-
drone della casa in questione è in campagna... tutta la mia paura è
che ritorni. Per essere sicuro, mi dico: c’è una sola cosa da
fare...» «Assicurarvi che il detto signore fosse veramente in
campagna.» «Esatto... Parto allora per Pierrefitte dove ho una casa
di cam-
pagna... ho mia cugina che è domestica lì... capite!» «Perfettamente
giovanotto. Ebbene?»
«Mia cugina mi ha detto che il padrone sarebbe ritornato a Pa-
rigi soltanto dopodomani...»
«Dopodomani?»
«Sì.»
«Benissimo. Ma ritornando alla mia domanda di prima... per-
ché dare appuntamento allo Chourineur a Saint-Ouen?»
«Non siete intelligente... Quanto c’è da Pierrefitte a Saint-
Ouen?»
«Una lega circa.»
«E da Saint-Ouen a Parigi?»
«Altrettanto.»
«Ebbene? Se non avessi trovato nessuno a Pierrefitte, cioè se
la casa fosse stata deserta... anche lì c’era un bel colpo da
fare...
meno bello che a Parigi, ma passabile. Andavo a Saint-Ouen a
prendere lo Chourineur che mi aspettava. Ritornavamo a Pierrefitte
per una scorciatoia che conosco; e...»
«Capisco. Se, invece, il colpo era per Parigi?...»
«Raggiungevamo la barriera dell’Étoile passando per la strada della
Révolte e di lì all’allée des Veuves...»
«Non c’è che un passo... è semplicissimo... A Saint-Ouen eravate a
cavallo tra le due operazioni... il piano era molto ingegnoso.
Adesso mi spiego la presenza dello Chourineur a Saint-Ouen...
Dicevamo dunque che nella casa dell’allée des Veuves non ci sarà
nessuno fino a dopodomani...»
«Nessuno... tranne il portiere.»
«Chiaro... Ed è un affare vantaggioso?»
«Mia cugina m’ha detto che nello studio del padrone ci sono
sessantamila franchi d’oro.»
«E voi conoscete la casa?»
«Come le mie tasche... mia cugina è lì da un anno... e, a forza di
sentirla parlare delle somme che il padrone ritira dalla banca per
investirle diversamente, m’è venuta quest’idea... Siccome il
portiere è un forzuto, ne avevo parlato allo Chourineur... dopo
molte esitazioni aveva accettato... ma poi s’è tirato indietro. Del
resto, non è capace di vendere un amico.»
«Sì, c’è del buono in lui... Ma eccoci arrivati. Non so se anche a
voi succede come a me, ma l’aria del mattino mi ha messo
appetito...»
La Chouette era sulla soglia dell’osteria.
«Di qui» disse, «di qui... ho ordinato da mangiare.» Rodolphe voleva
far passare il brigante davanti a sé; aveva le
sue buone ragioni... ma il Maître d’école si schermì con tale
insistenza che Rodolphe passò per primo.
Prima di sedersi a tavola il maestro picchiò leggermente con le
nocche sui tramezzi per assicurarsi della loro grossezza e della
loro sonorità.
«Non avremo bisogno di parlare a voce troppo bassa» disse, «il
tramezzo è abbastanza grosso. Ci faremo portare tutto in una volta
così la nostra conversazione non verrà disturbata.»
Una cameriera servì il pranzo.
Prima che la porta fosse chiusa, Rodolphe vide Murph, il carbonaio,
che, tutto serio, stava seduto a tavola in una saletta attigua. La
stanza dove si svolgeva la scena che descriveremo era lunga, stretta
e prendeva luce da una sola finestra che guardava sulla
strada e che era di fronte alla porta.
La Chouette voltava le spalle alla finestra, il Maître d’école era a
un lato della tavola, Rodolphe all’altro lato.
Uscita la cameriera, il brigante si alzò, prese le posate e andò a
porsi accanto a Rodolphe, in modo da nascondergli la porta.
«Così parleremo meglio» disse, «e non avremo bisogno di alzare tanto
la voce...»
«E poi volete stare fra me e la porta per impedirmi di uscire...»
rispose freddamente Rodolphe.
Il Maître d’école fece di sì con un cenno della testa; poi, tratto
per metà dalla tasca laterale della prefettizia un lungo stiletto
con lama tonda e grossa come una grossa piuma d’oca, con un manico
di legno che spariva sotto le sue dita pelose:
«Lo vedete?»
«Sì.»
«A buon intenditor...»
E, aggrottando le sopracciglia con un movimento che gli in-
crespò la fronte larga e piatta come quella di una tigre, fece un
gesto significativo.
«E non sottovalutatemi. Ho affilato io il pugnale di mio marito»
aggiunse la Chouette.
Rodolphe, con sorprendente disinvoltura, mise una mano sotto il
camiciotto, tirò fuori una pistola a due canne, la mostrò e poi se
la rimise in tasca.
«Siamo fatti per intenderci» disse il brigante, «però voi non
m’avete capito... Se per ipotesi venissero ad arrestarmi, sia che
voi mi abbiate teso o no una trappola... vi fredderei!»
E gettò uno sguardo feroce a Rodolphe.
«Io intanto, furfante, gli salto addosso, per darti una mano»
esclamò la Chouette.
Rodolphe non rispose, alzò le spalle, si versò un bicchiere di vino
e bevve.
Il Maître d’école fu colpito da tanto sangue freddo.
«Lo dicevo solo per avvertirvi.»
«Bene, bene! rimettetevi in tasca il vostro gingillo, qui non
ci sono polli da scannare. Sono un vecchio gallo e ho buoni speroni,
vecchio mio» disse Rodolphe. «Parliamo un po’ di affari adesso...»
«Parliamo di affari. Ma non parlate male del mio gingillo. Non fa
rumore, non disturba nessuno...»
«E fa lavoretti puliti, vero furfante?» aggiunse la Chouette.
«A proposito» disse Rodolphe alla Chouette, «è vero che conoscete i
genitori della Goualeuse?»
«Mio marito ha messo nel portafogli del signore in lutto due lettere
che ne parlano... Ma quella piccola pettegola non le vedrà...
Piuttosto le caverò gli occhi con queste mie mani... Oh! se la
incontro di nuovo nella bettola, la concio io per le feste...»
«Ma insomma, Finette, noi parliamo, parliamo e gli affari non vanno
avanti.»
«Si può parlare davanti a lei?» domandò Rodolphe.
«Con la massima sicurezza; è una donna fidata e potrà esserci di
grande aiuto perché sa fare il palo, avere informazioni, ricettare,
vendere, ecc.; ha tutte le qualità di un’ottima donna di casa...
Cara la mia Finette!» aggiunse il malfattore, tendendo la mano
all’orribile vecchia, «non avete idea dei servizi che mi ha reso...
Ma togliti lo scialle, Finette, altrimenti, uscendo, potresti
prendere freddo... Mettilo sulla sedia vicino alla sporta...»
La Chouette si liberò dello scialle.
Nonostante la presenza di spirito e la padronanza di sé, Rodolphe
non poté reprimere il proprio stupore nel vedere, attaccata
all’anello d’argento di una grossa catenella di similoro, che la
vecchia portava al collo, una piccola medaglia di lapislazzuli,
identica in tutto e per tutto, stando alla descrizione avuta, a
quella che il figlio della signora Georges aveva quando sparì.
Dinanzi a tale scoperta, un pensiero improvviso balenò alla mente di
Rodolphe; a detta dello Chourineur, il Maître d’école, benché
fossero sei mesi che era evaso dalla galera, era riuscito a rendere
vane tutte le ricerche della polizia, sfigurandosi la faccia... e da
sei mesi appunto, il marito della signora Georges era scappato dalla
galera, senza che si sapesse dove fosse finito.
La strana coincidenza indusse Rodolphe a pensare che il Maître
d’école poteva essere benissimo il marito di quell’infelice.
Quel miserabile era appartenuto a una classe agiata... e il Maître
usava un linguaggio scelto.
Un ricordo ne richiama un altro: Rodolphe infatti ricordò che un
giorno la signora Georges gli aveva descritto col tremito nella voce
l’arresto del marito e aveva anche accennato alla disperata
resistenza opposta da quel mostro, che era stato sul punto di
liberarsi, grazie alla forza erculea...
Se il brigante era il marito della signora Georges, doveva sapere
che cosa era successo al figlio. Inoltre il Maître d’école s’era
tenuto i documenti relativi alla nascita della Goualeuse e li aveva
messi nel portafogli che aveva rubato allo straniero conosciuto col
nome di Tom.
Rodolphe aveva quindi nuovi motivi per non desistere dai suoi piani.
Fortunatamente la sua inquietudine non fu notata dal brigante che
era tutto intento a servire la Chouette.
Rodolphe disse alla guercia:
«Accidenti!... avete una gran bella collana...»
«Bella e per niente cara...» rispose ridendo la vecchia. «È oro
falso, ma prima o poi mio marito me ne darà una vera...» «Dipenderà
dal signore, Finette... se faremo un buon affare,
stai pur certa.»
«È straordinario come sia imitato bene» continuò Rodolphe.
«E che cos’è... quella cosetta azzurra all’estremità?»
«È un regalo di mio marito, aspetto però che mi doni un oro-
logio... vero malandrino?»
Rodolphe capiva che i suoi sospetti non erano infondati.
Aspettava con ansia la risposta del Maître d’école. Questi fra un
boccone e l’altro rispose:
«E anche se avrai l’orologio, dovrai tenere quella medaglia,
Finette... è un talismano... porta fortuna.»
«Un talismano?» domandò Rodolphe con indifferenza. «Voi credete ai
talismani? E dove diavolo l’avete trovato quello lì?... Datemi un
po’ l’indirizzo della fabbrica.»
«Non se ne fanno più, caro signore, la bottega è chiusa... Così
com’è, questo gioiello risale alla più remota antichità... a tre
generazioni. Ci tengo molto, è una tradizione di famiglia» aggiunse
con un orribile sorriso. «Per questo l’ho dato a Finette... perché
le porti fortuna nelle imprese in cui lei mi fa da spalla con grande
abilità... La vedrete all’opera, la vedrete... se faremo assieme
qualche operazione commerciale... ma tornando a noi... avete dunque
detto che nell’allée des Veuves...»
«Al numero 17 c’è una casa abitata da un riccone... si chiama...
signor...»
«Non sarò tanto indiscreto da chiedervene il nome... Stando a quel
che avete detto, ci sono 60.000 franchi d’oro nel suo studio.»
«60.000 franchi d’oro!» esclamò la Chouette.
Rodolphe fece di sì con la testa.
«E conoscete le varie parti della casa?» domandò il Maître
d’école.
«Alla perfezione.»
«E l’entrata è difficile?»
«Un muro di sette piedi dalla parte dell’allée des Veuves, un
giardino, le finestre sullo stesso piano del giardino, la casa non
ha che un pianterreno.»
«E c’è solo un portiere a fare la guardia a quel tesoro?»
«Sì.»
«E quale sarebbe, giovanotto, il vostro piano d’attacco?» do-
mandò il Maître d’école con indifferenza.
«Semplicissimo... scavalcare il muro, scassinare la porta della
casa o forzare le imposte dal di fuori.»
«E se il portiere si sveglia?» chiese il Maître d’école, fissando
Rodolphe.
«Peggio per lui...» rispose questi, con un gesto significativo.
«Ebbene, vi va?»
«Voi capite bene che non posso rispondervi prima di aver esami-
nato tutto da solo, o meglio con l’aiuto di mia moglie; ma se quanto
avete detto è esatto, mi sembra che convenga farlo subito...
stasera.»
E il brigante puntò gli occhi su Rodolphe.
«Stasera... impossibile.» rispose questi con freddezza. «Perché,
visto che il padrone non torna che dopodomani?» «Sì, ma io stasera
non posso...»
«Davvero? Ebbene io non posso domani.»
«Per che motivo?»
«Per lo stesso motivo per cui voi non potete stasera...» disse il
brigante sogghignando.
Dopo avere riflettuto un secondo, Rodolphe riprese: «Ebbene,
d’accordo... vada per questa sera. Dove ci troviamo?» «Trovarci? Noi
non ci lasceremo» disse il Maître d’école. «Come?»
«Perché lasciarci? se il cielo schiarisce un po’, andremo a fare
un giretto fino all’allée des Veuves e daremo così un’occhiata;
vedrete come sa lavorare mia moglie. Ciò fatto, andremo a farci una
partita a picchetto e a mangiare un boccone in una cantina degli
Champs-Elysées... che conosco... e che è vicina al fiume; e poiché
l’allée des Veuves diventa presto deserta, quando saranno le dieci
ci potremo mettere in strada.»
«Io vi raggiungerò alle nove.»
«Volete o non volete fare l’affare con noi?»
«Sì che voglio.»
«Ebbene, non dovete lasciarci prima di questa sera... altri-
menti...» «Altrimenti?»
«Potrei pensare che volete tendermi un tranello e che appunto per
questo volete andarvene...»
«Se proprio volessi tendervi un tranello... che cosa mi impedirebbe
di tendervelo questa sera?»
«Tutto... Non vi aspettavate che vi proponessi subito l’affare. E se
resterete con noi, non potrete avvertire nessuno...»
«Non vi fidate di me?»
«Per niente... ma siccome ci può essere qualcosa di vero in quello
che mi avete detto e vale la pena rischiare per la metà di
sessantamila franchi... voglio sì tentare; ma o questa sera o mai
più... se non si farà, saprò come regolarmi con voi... e vi servirò
a mia volta... un giorno o l’altro una mia specialità...»
«E io vi restituirò la gentilezza... siatene certo.»
«Smettetela con queste sciocchezze!» disse la Chouette. «Io la penso
come il mio malandrino: o questa sera o niente.»
Rodolphe era in una crudele incertezza: se si fosse lasciato
scappare il Maître d’école, una simile occasione non l’avrebbe
certamente più avuta; se il furfante, messo già sul chi vive, fosse
stato riconosciuto, arrestato e ricondotto in galera, avrebbe
portato con sé i segreti che a Rodolphe premeva di conoscere.
Sperando nel caso, nella propria abilità e nel proprio coraggio si
decise a dire al Maître d’école:
«Sta bene, fino a questa sera non ci lasceremo.»
«Allora contate pure su di me... Ma ecco, adesso sono quasi le
due... Da qui all’allée des Veuves c’è un bel pezzo di strada; piove
forte; paghiamo il conto, e prendiamo una carrozza.»
«Se prendiamo una carrozza, potrò prima fumare un sigaro.»
«Sicuro» rispose il Maître d’école, «a Finette non dà fastidio
l’odore del tabacco.»
«Allora vado a comprarmi qualche sigaro» disse Rodolphe alzandosi.
«Non scomodatevi» replicò il Maître d’école trattenendolo, «andrà
Finette...»
Rodolphe si rimise a sedere.
Il Maître d’école aveva indovinato il suo proposito. La Chouette
uscì.
«Che brava donna, ho io, vero?» disse lo scellerato, «è così
compiacente! si butterebbe nel fuoco per me.»
«A proposito di fuoco, qui, accidenti, non fa niente caldo» disse
Rodolphe mettendosi le mani sotto il camiciotto.
Allora, senza cessare per questo di discorrere col Maître d’école,
prese una matita e un pezzo di carta nella tasca del panciotto,
e, senza farsi vedere, scrisse in fretta alcune parole, avendo
l’accortezza di scrivere le lettere ben staccate per non sovrapporle
l’una all’altra, dal momento che scriveva alla cieca sotto il
camiciotto.
Ora quel biglietto, sfuggito all’accortezza del Maître d’ecole,
bisognava farlo recapitare.
Rodolphe si alzò, si avvicinò alla finestra, e si mise a
canticchiare fra i denti accompagnandosi sui vetri.
Il Maître d’école andò a guardare dalla finestra, e disse con
indifferenza a Rodolphe:
«Che motivo state suonando?»
«Sto suonando... Tu n’auras pas ma rose.»
«È un motivetto molto carino... Sono venuto solamente a vede-
re quanti passanti avrebbe fatto voltare.»
«Non ho simili pretese.»
«Vi sbagliate, giovanotto; perché voi state tamburellando mol-
to forte sui vetri. Ma, adesso che ci penso... può darsi che il
guardiano della casa dell’allée des Veuves sia un pezzo d’uomo
risoluto... se recalcitra... voi avete solo una pistola... che fa
troppo rumore, mentre un gingillo come questo» (e fece vedere a
Rodolphe il manico del suo pugnale) «non fa rumore... non disturba
nessuno...»
«Vorreste forse ucciderlo?...» esclamò Rodolphe. «Se avete di queste
idee... non parliamone più... non s’è fatto ancora niente... non
contate su di me...»
«Ma se si sveglia?»
«Scapperemo...»
«Meno male, non avevo capito bene; è meglio mettersi d’ac-
cordo su tutto... prima... Così si tratterà di un semplice furto con
scalata e scasso...»
«Solo questo.»
«D’accordo così...»
«E poiché non ti lascerò un secondo» pensò Rodolphe, «non ti
permetterò certo di spargere sangue.»
XVI
I PREPARATIVI
La Chouette entrò nella saletta con i sigari.
«Mi pare che non piova più» disse Rodolphe accendendosi un
sigaro; «se andassimo noi a prendere la carrozza?... ci potremmo
sgranchire le gambe.»
«Come, non piove?» rispose il Maître d’école «ma siete cieco?...
Credete che io voglia far prendere un raffreddore a Finette? esporre
al pericolo una vita così preziosa... e rovinarle quel bello scialle
nuovo?»
«Hai ragione, vecchio mio, fa un tempo cane!»
«Bene, adesso viene la cameriera... le diamo qualcosa e le diciamo
di andare a cercare una carrozza» replicò Rodolphe.
«È la cosa più giudiziosa che potevate dire, giovanotto. Potremo
così andare a far quattro passi dalle parti dell’allée des Veuves.»
La cameriera entrò. Rodolphe le diede cento soldi.
«No, signore... così non va, non permetterò mai...» esclamò il
Maître d’école.
«Via! una volta per ciascuno.»
«Allora mi sottometto... ma a condizione di offrirvi subito qualcosa
in un localino degli Champs-Elysées... che conosco... un posto
incantevole.»
«Bene... bene... accetto.»
Pagato il conto uscirono. Rodolphe voleva stare per ultimo, per
essere cortese con la Chouette, ma il Maître d’école non glielo
permise, anzi gli tenne subito dietro, per poter controllare ogni
suo più piccolo movimento.
L’oste vendeva anche vino. In mezzo ai tanti avventori, c’era un
carbonaio, con una faccia nera e con un largo cappello calato fin
sugli occhi, che, quando comparvero i nostri tre personaggi, era
andato al banco per pagare la propria consumazione.
Nonostante l’attento vigilare del Maître d’école e della guercia,
Rodolphe, che precedeva l’orribile coppia, riuscì a scambiare una
rapida e impercettibile occhiata con Murph.
Visto che lo sportello della carrozza era aperto, Rodolphe si fermò,
deciso questa volta a salire per ultimo; perché il carbonaio gli si
era avvicinato senza farsi notare.
La Chouette, infatti, salì per prima, anche se dopo un’infinità di
complimenti; Rodolphe fu costretto a seguirla, perché aveva sentito
il Maître sussurrargli all’orecchio:
«Volete proprio spingermi a non fidarmi per niente di voi?»
Dopo che Rodolphe fu salito, il carbonaio si fece sulla porta della
bettola fischiando, e guardò Rodolphe con stupore e inquietudine.
«Dove volete andare, signore?» domandò il vetturino. Rodolphe
rispose ad alta voce:
«All’allée des...»
«Des Acacias, nel bois de Boulogne» gridò il Maître d’école per
interromperlo; poi aggiunse: «E sarete pagato bene, vetturino.»
Lo sportello si chiuse.
«Perché diamine volevate dire davanti a quei curiosi dove andavamo?»
riprese il Maître. «Perché domani venga scoperto tutto, un indizio
così può rovinarci! Ah, giovanotto, giovanotto siete di
un’imprudenza più unica che rara!»
Quando la carrozza cominciò a muoversi, Rodolphe rispose:
«È vero, non ci avevo pensato. Però adesso, col sigaro, vi
affumicherò come le aringhe. Se aprissimo un finestrino?»
E Rodolphe, senza aspettare risposta, apri il finestrino e buttò al
di fuori il pezzettino di carta pieghettato su cui aveva rapidamente
scritto a matita qualche parola senza farsi vedere.
Il Maître d’école fu così bravo che riuscí a scorgere sul volto di
Rodolphe, che non aveva fatto una grinza, una fuggevole espressione
di trionfo perché, sportosi dal finestrino, si mise a gridare al
vetturino:
«Fermate... Fermate! c’è qualcuno dietro alla carrozza.»
Rodolphe ebbe paura; ciononostante unì le sue grida a quelle del
compagno.
La carrozza si fermò. Il cocchiere salì in piedi sulla cassetta,
guardò e disse:
«No, no, signore, non c’è nessuno.»
«Caspita! Voglio assicurarmene» rispose il Maître d’école saltando
giù dalla carrozza.
Non vide nessuno, non s’accorse di niente. La carrozza aveva fatto
ancora qualche metro dal punto in cui Rodolphe aveva gettato il
biglietto.
Il Maître d’école credette di essersi sbagliato.
«Forse riderete» disse risalendo in carrozza, «ma non so, m’era
parso che qualcuno ci seguisse.»
In quel momento la carrozza imboccò una traversa.
Appena la carrozza sparì, Murph, che non l’aveva lasciata un istante
cogli occhi e che aveva visto la manovra di Rodolphe, accorse e
raccolse il bigliettino che era andato a ficcarsi in una fessura del
selciato.
Dopo un quarto d’ora, il Maître d’école disse al vetturino:
«Veramente, vetturino, noi abbiamo cambiato idea: place de la
Madeleine.»
«Non meravigliatevi, giovanotto; da questa piazza si può andare in
mille altri posti. Se dovessimo avere delle noie, la deposizione del
vetturino non servirebbe a niente.»
Proprio nel momento in cui la carrozza si avvicinava alla barriera,
un uomo di alta statura, con una lunga prefettizia bigia, con un
cappello calcato fin sugli occhi e che sembrava molto scuro di
faccia, sfrecciò sulla strada, curvo sul collo di un magnifico
cavallo da caccia che correva a velocità straordinaria.
«A bel cavallo, buon cavaliere!» disse Rodolphe sporgendosi dal
finestrino e seguendo Murph con lo sguardo.
«Che razza di velocità quel cavallo... Avete visto?»
«Per la verità è passato così veloce» disse il Maître d’école, «che
non l’ho nemmeno visto.»
Rodolphe dissimulò perfettamente la sua gioia: Murph aveva decifrato
i geroglifici del biglietto. Il Maître d’école, da parte sua, ormai
sicuro che la carrozza non era stata seguita, si tranquillizzò, e
volendo imitare la Chouette che sonnecchiava o, meglio, che faceva
finta di sonnecchiare, disse a Rodolphe:
«Scusate, giovanotto, ma il traballare della carrozza mi fa sempre
uno strano effetto: mi fa addormentare come un bambino...» Il
malvivente, con la scusa del finto sonno, si proponeva di stu-
diare la faccia di Rodolphe per coglierne le eventuali espressioni.
Rodolphe, fiutato il pericolo, rispose:
«Mi sono alzato presto; anch’io ho sonno, farò quindi come
voi...»
E chiuse gli occhi.
Ma il Maître d’école e la Chouette, respirando rumorosamen-
te e russando all’unisono, riuscirono così bene a darla a intendere
a Rodolphe che questi, credendoli immersi nel sonno, aprì piano
piano le palpebre.
Il Maître d’école e la Chouette, nonostante il russare sonoro che
facevano, avevano gli occhi aperti, e appoggiando o piegando in
maniera particolare le dita sul palmo delle loro rispettive mani, si
scambiavano segni misteriosi.
Improvvisamente quel linguaggio cifrato cessò. Il brigante,
accortosi, da qualcosa di impercettibile, che Rodolphe non dormiva,
disse con una risata:
«Ah! ah! compare, voi non vi fidate degli amici, eh?»
«Non dovreste meravigliarvi voi che russate con gli occhi aperti.»
«Per me è diverso, giovanotto, io sono sonnambulo.»
La carrozza si fermò in place de la Madeleine.
In quel momento la pioggia era cessata; ma le nuvole, spinte
da un vento violento, erano così nere e così basse che sembrava
fosse già notte.
Rodolphe, la Chouette e il Maître d’école si diressero verso il
Cours-la-Reine.
«M’è venuta un’idea, giovanotto, che non è niente male» disse il
brigante.
«E quale?»
«Quella di assicurarmi se è vero tutto ciò che mi avete detto
sull’interno della casa dell’allée des Veuves.»
«Vorreste andarci adesso con un pretesto qualsiasi? si farebbero
nascere dei sospetti...»
«Non sono mica così stupido; ma una donna come Finette non la
contate?»
La Chouette s’impettì.
«La vedete, giovanotto, sembra il cavallo di un trombettiere quando
sente suonare la carica.»
«Volete mandarla in avanscoperta?»
«Appunto.»
«Allée des Veuves, n. 17, marito mio?» domandò la Chouette
impaziente. «Non aver paura, ho un occhio solo, ma è buono.» «La
sentite, giovanotto, la sentite? non vede l’ora di essere
già lì.»
«L’idea non mi pare cattiva, purché riesca a entrare.» «Tienimi
l’ombrello, furfante... Fra mezz’ora sarò di ritorno e
vedrai quello che so far io» esclamò la Chouette.
«Un momento, Finette! andiamo prima al Coeur Saignant
che è a due passi da qui. Se c’è Tortillard,8 te lo prendi e te lo
porti con te; starà fuori della porta a fare il palo, mentre tu
sarai dentro.»
«Hai ragione: è furbo come una volpe: non ha ancora dieci anni, ed è
stato lui l’altro giorno a...»
Un segno del Maître d’école interruppe la Chouette.
«Che cos’è il Coeur Saignant? È una strana insegna per un locale»
disse Rodolphe.
«Dovreste dirlo al taverniere.» «Come si chiama?»
«Il padrone del Coeur Saignant?» «Sì.»
«Lui non domanda il nome ai suoi avventori.»
«Ma tuttavia...»
«Chiamatelo come volete, Pierre, Thomas, Cristophe o Bar-
nabé, vi risponderà sempre. Ma eccoci arrivati e proprio in tem8
Sciancatello
po, perché ricomincia a piovere, e sentite un po’ come rumoreggia il
fiume! sembra un torrente! Ancora due giorni di pioggia, e l’acqua
oltrepasserà le arcate del ponte.»
«Avete detto che siamo arrivati... Dove diavolo è questa taverna?
Non vedo case qui!»
«Certo, se guardate intorno.» «E dove volete che guardi?» «Ai vostri
piedi.»
«Ai miei piedi?»
«Sì.»
«Dove?»
«Là... Non vedete il tetto? Fate attenzione, ci state camminan-
do sopra.»
Infatti Rodolphe era arrivato, senza tuttavia averla vista, a una
di quelle taverne sotterranee che anni addietro si potevano trovare
qua e là lungo gli Champs-Elysées e specialmente vicino al
Cours-la-Reine.
Una scala scavata nella terra umida e grassa portava giù in una
specie di larga fossa; contro uno dei lati, che scendevano a picco,
s’appoggiava una catapecchia bassa, lurida, screpolata; il tetto,
coperto di tegole fitte di muschio, era leggermente al di sopra del
livello della strada in cui si trovava Rodolphe; dopo la catapecchia
venivano due o tre baracche di assi tarlate, che servivano da
cantina, da rimessa e da conigliera.
Un andito strettissimo attraversava la fossa per tutta la sua
lunghezza e conduceva dalla scala alla porta della casa; lo spazio
restante spariva sotto un graticolato che copriva due file di rozzi
tavoli con le gambe piantate nel suolo.
Il vento faceva orribilmente stridere sui cardini una vecchia targa
di bandone; sotto la ruggine che la ricopriva si poteva ancora
distinguere un cuore rosso trafitto da una freccia. L’insegna
oscillava in cima a un palo, piantato all’entrata dell’antro, vero
covo umano.
Una nebbia umida e spessa s’era aggiunta alla pioggia; la notte era
prossima.
«Che ne dite, giovanotto, di questo palazzo?» chiese il Maître
d’école.
«Con quindici giorni di pioggia... ci sarà l’umidità di uno stagno,
potremo fare buona pesca... Forza, entriamo.»
«Un momento; devo sapere se c’è il padrone. Attenzione.»
E il brigante, sbattendo con forza la lingua contro il palato, fece
uno strano verso, una specie di ruggito gutturale, sonoro e
prolungato, che si potrebbe esprimere così:
«Prrrrr!!»
Gli rispose un grido simile che uscì dal profondo della topaia.
«C’è» disse il Maître d’école. «Scusate, giovanotto, preceden-
za alle signore, lasciate passare la Chouette, io verrò dopo di voi.
State attento a non cadere, perché si scivola.»
XVII
IL COEUR SAIGNANT
Il proprietario del Coeur Saignant, dopo aver risposto al segnale
del Maître d’école, ebbe l’attenzione d’aspettare gli ospiti sulla
porta.
Questo personaggio non era altri che Bras-Rouge, cioè colui che
Rodolphe era andato a cercare nella Cité e che non conosceva ancora
con il suo vero nome o meglio con il soprannome che gli davano di
solito.
Piccolo e fragile, debole e gracile, il nostro uomo poteva avere sì
e no cinquant’anni. Nella faccia aveva qualcosa della faina e del
topo insieme; il naso aguzzo, il mento sfuggente, gli zigomi ossuti,
gli occhietti neri, vivaci, penetranti gli davano un’inimitabile
espressione di astuzia, di malizia e d’intelligenza. Una vecchia
parrucca bionda, o per meglio dire gialla come il suo colorito di
bilioso, gli ricopriva il capo, lasciando però fuori i capelli
brizzolati della nuca. Indossava una giacca corta, mentre davanti
aveva uno di quei lunghi grembiuli neri che portano di solito i
garzoni degli osti.
I nostri tre personaggi non avevano fatto a tempo a scendere
l’ultimo gradino della scala, che un piccolo ragazzetto di dieci
anni al massimo, zoppicante, deforme, con un viso sveglio, anche se
segnato dalla malattia, s’avvicinò a Bras-Rouge a cui assomigliava
talmente che non si poteva non prenderlo per suo figlio.
Aveva lo stesso sguardo acuto e furbo; la fronte del ragazzo era
mezzo coperta da una selva di capelli giallicci, duri e ispidi come
setole. Un paio di calzoni marroni e un camiciotto grigio, stretto
alla vita da una cintura di cuoio, era tutto quanto aveva indosso
Tortillard, che era chiamato così a causa della sua infermità; egli
stava a fianco del padre, ritto sulla gamba sana come un airone in
riva a una palude.
«Ecco appunto il ragazzino. Finette, il tempo incalza, la notte sta
venendo, bisogna approfittare del chiaro.»
«Hai ragione, vecchio mio, adesso chiedo il ragazzo al padre.»
«Buongiorno, amico» disse Bras-Rouge, rivolgendosi al Maître d’école
con una vocina aspra e acuta; «in che cosa posso servirti?» «Puoi
servirmi prestando tuo figlio a mia moglie per un quarto d’ora; ha
perduto qui vicino una cosa, e così la aiuterà a cer-
care.»
Bras-Rouge strizzò l’occhio, come segno d’intesa col Maître
d’école, e disse al figlio:
«Tortillard, segui la signora.»
L’orribile bambino attratto dalla bruttezza e dall’espressione
cattiva della Chouette, come altri si lasciano prendere dall’aspetto
benevolo di una persona, corse zoppicando a dare la mano alla
guercia.
«Vieni, tesorino bello! Ecco, un bambino così» disse Finette, «vi
corre subito incontro! Non è come la piccola Pégriotte che sembrava
presa dalla nausea ogni volta che mi veniva vicino, quella pitocca!»
«Su, muoviti, Finette, apri l’occhio e stai all’erta. Io ti aspetto
qui.»
«Non la farò lunga. Fammi strada, Tortillard!»
E la guercia e Tortillard salirono la viscida scala.
«Finette, prenditi l’ombrello» gridò il brigante.
«Mi farebbe ingombro, vecchio mio» rispose la vecchia, che
sparì subito dopo tra le nebbie portate dal crepuscolo, e in mezzo
ai lugubri mormorii del vento che scuoteva i rami neri e spogli dei
grandi olmi degli Champs Elysées.
«Entriamo» disse Rodolphe.
Dovette chinarsi per passare sotto la porta della taverna che si
divideva in due sale. In una c’erano un banco e un biliardo in
pessimo stato; nell’altra c’erano qualche tavolo e qualche sedia da
giardino, un tempo dipinte di verde. Due strette finestre, con i
vetri incrinati e coperti di ragnatele, rischiaravano a stento due
stanze dai muri verdastri che l’umidità aveva ricoperto di salnitro.
Bastò che Rodolphe stesse solo un momento perché Bras-Rouge e il
Maître d’école potessero scambiarsi rapidamente qualche parola e
qualche segno misterioso.
«Volete bere vino o acquavite mentre aspettiamo Finette?» disse il
Maître.
«No, non ho sete.»
«Come volete. Io mi berrò un bicchiere di acquavite» riprese il
brigante. E andò a sedersi a uno dei tavolini verdi dell’altra
saletta.
L’antro era talmente immerso nell’oscurità, che era impossibile
vedere, in un angolo della seconda saletta, l’apertura di una di
quelle cantine a cui si accede attraverso una botola a due battenti,
di cui uno resta sempre spalancato per esigenze di servizio.
Il Maître d’école si sedette a un tavolo vicinissimo a quel buco
nero e profondo, in modo da voltargli le spalle e nasconderlo così
agli occhi di Rodolphe.
Rodolphe, dal canto suo, guardava dalla finestra, per darsi un
contegno e nascondere la propria preoccupazione. L’avere visto Murph
che correva in fretta verso l’allée des Veuves, lo inquietava un
po’; temeva che il fedele servitore non avesse ben capito il
significato del suo biglietto forzatamente laconico, su cui non
c’era scritto che questo: «Per questa sera alle dieci.»
Decisissimo a non andare all’allée des Veuves prima di quell’ora, e
a non lasciare il Maître d’école fino a quel momento, egli tuttavia
aveva paura di perdere un’occasione così propizia di impadronirsi
dei segreti che aveva tanto interesse a conoscere. Sebbene fosse
molto forte e armato bene, doveva giocare d’astuzia con un assassino
così temibile e capace di tutto.
Occorre dirlo? il carattere di Rodolphe, bizzarro, avido di emozioni
forti e violente, era tale che trovava un certo fascino terribile
nelle ansie a cui era in preda e nei contrattempi che venivano a
complicare il piano progettato la sera prima con il fedele Murph e
con lo Chourineur.
Ciononostante, per non farsi capire, andò a sedersi al tavolo del
Maître d’école e chiese un bicchiere di vino.
Bras-Rouge, dopo aver scambiato a bassa voce qualche parola col
brigante, s’era messo a considerare Rodolphe con una curiosità piena
d’ironia e di diffidenza.
«Giovanotto» disse il Maître, «io credo che le otto potrebbero
essere un’ora buona per andare a fare visita a coloro che vogliamo
vedere, se mia moglie ci dirà che sono in casa.»
«Sarebbe troppo presto arrivare con due ore di anticipo» disse
Rodolphe, «disturberemo.»
«Credete?»
«Ne sono sicuro.»
«Bah! fra amici non si fanno complimenti.»
«Io li conosco; vi ripeto che non bisogna andarci prima del-
le dieci.»
«Come siete testardo, giovanotto!»
«Sono di quest’idea, e che il diavolo mi porti se mi muovo da
qui prima delle dieci!»
«Non preoccupatevi, io non chiudo mai prima di mezzanotte» disse
Bras-Rouge con la sua voce acuta. «Anzi è proprio quella l’ora in
cui arrivano i miei migliori clienti, e i vicini non si lamentano
del rumore che si fa qui.»
«Bisogna per forza fare tutto ciò che volete, giovanotto» riprese il
Maître. «Sta bene, per quella visita partiremo alle dieci.» «Ecco la
Chouette!» disse Bras-Rouge e rispose subito a un richiamo simile a
quello che aveva lanciato il maestro prima di
scendere nell’osteria sotterranea.
Qualche minuto dopo, la Chouette entrò nella sala del biliardo. «Ci
siamo, vecchio mio, siamo a cavallo!» gridò la guercia en-
trando.
Bras-Rouge si ritirò silenziosamente senza chiedere notizie di
Tortillard che probabilmente non si aspettava di rivedere.
I vestiti della vecchia grondavano acqua; ciononostante ella
andò a sedersi di fronte a Rodolphe e al brigante. «Ebbene?» disse
il Maître d’école.
«Questo giovanotto fino ad ora ha detto la verità.» «Avete visto!»
esclamò Rodolphe.
«Lasciate che la Chouette si spieghi, giovanotto. Dunque, Finette,
raccontaci.»
«Prima di andare al n. 17 ho lasciato di guardia Tortillard dentro
un buco. Era ancora chiaro. Ho suonato a una porticina secondaria,
con i cardini esterni, una gattaiola di due pollici, insomma niente
d’importante. Suono, viene ad aprire il portinaio: un uomo grande e
grosso, sulla cinquantina, un buon diavolo con la faccia
addormentata, favoriti rossi, falcati come un quarto di luna, senza
capelli... Prima di suonare, mi ero tolta la cuffia e me l’ero messa
in tasca per farmi passare per una vicina. Appena vedo il guardiano,
mi metto a piagnucolare con quanto fiato ho in corpo e a gridare che
ho perduto la mia cocorita Cocotte, una bestiola che adoro. Dico che
abito in avenue de Marboeuf e che sto inseguendo Cocotte di giardino
in giardino. Alla fine supplico il signore di lasciarmi cercare la
mia bestiola.»
«Eh!» disse il Maître d’école gonfio d’orgoglio e di soddisfazione
mostrando la Finette, «che donna!»
«Bravissima» disse Rodolphe; «ma dopo?»
«Il portinaio mi fa entrare per cercare la bestiola e io sono in
giardino che chiamo Cocotte, Cocotte! e intanto guardo per aria,
frugo con lo sguardo ogni angolo per esaminare tutto con cura... Sui
muri» riprese la vecchia che voleva continuare a descrivere la casa,
«sui muri, tutto un graticolato, una vera scala; vicino allo
spigolo sinistro del muro, un pino fatto come una scala a pioli,
anche una donna incinta potrebbe calarsi giù di lì. La casa ha un
pianterreno, il solo piano che ci sia, con sei finestre e una
cantina con quattro sfiatatoi senza inferriate. Le finestre del
pianterreno hanno due imposte tenute chiuse in basso da un
saliscendi, in alto da un nottolino; forzarne la base, tirare il fil
di ferro...»
«Tac...» disse il Maître, «ed è aperto.»
La Chouette continuò:
«La porta d’ingresso a vetri con due battenti.»
«E questo a titolo indicativo» disse il brigante.
«È esatto, è proprio come se si fosse là» disse Rodolphe.
«A sinistra» proseguì la Chouette, «vicino al cortile, un pozzo;
nel caso in cui non si potesse battere in ritirata scappando dalla
porta, la corda potrebbe venir utile, perché lì non ci sono ferri
che sporgono dai muri... Entrando in casa, poi...»
«Sei entrata in casa? È entrata in casa, giovanotto!» disse il
Maître d’école con orgoglio.
«Certo che ci sono entrata. Poiché non avevo trovato Cocotte, finsi
di avere gridato tanto da sentirmi senza fiato; ho chiesto al
portinaio il permesso di sedermi sullo scalino della porta; il buon
uomo mi ha fatto entrare, mi ha offerto un bicchiere di acqua e
vino. Solo un bicchiere di acqua, gli ho detto, solo un bicchiere
d’acqua, buon signore. Allora mi ha fatto entrare nell’anticamera...
tappeti dappertutto: ottima precauzione, non si sente né il rumore
dei passi né quello dei cocci di vetro che cadono, nel caso che si
dovesse spaccare una finestra; a destra e a sinistra, porte con
maniglie a becco e serrature con stanghette a scatto. Basta
soffiarci sopra perché si aprano... In fondo, una grossa porta,
chiusa a chiave; aria di forziere... si sentiva puzza di denaro!...
avevo la cera nella sporta...»
«Aveva la cera, giovanotto... non si muove mai senza la cera!...»
disse il brigante.
La Chouette continuò:
«Dovevo avvicinarmi alla porta che mandava un odorino di denaro.
Allora, ho fatto finta che mi prendesse un accesso di tosse così
forte da dovermi appoggiare al muro. Sentendomi tossire, il
portinaio ha detto: “Vado a prendervi un pezzo di zucchero”. Deve
aver cercato un cucchiaio, perché ho sentito tintinnare
l’argenteria... argenteria nella stanza a destra... ricordati,
furfante. Insomma, sempre tossendo e gemendo, ero riuscita ad
avvicinarmi alla porta in fondo... Avevo la cera chiusa in pugno...
mi sono appoggiata sulla serratura facendo finta di niente. Ecco
l’impronta. Se non servirà oggi, potrà venir buona un’altra volta.»
E la Chouette diede al brigante un pezzo di cera gialla sulla quale
si poteva vedere stampata un’impronta perfetta.
«Quindi adesso ci dovete dire se si tratta proprio della stanza dove
c’è il forziere» disse la Chouette.
«Esatto! il denaro è lì» rispose Rodolphe.
E dentro di sé pensò: «Quindi Murph s’è lasciato abbindolare da
questa vecchia megera? È probabile; aspetta di essere assalito per
le dieci... per quell’ora avrà preso tutte le precauzioni che
doveva.»
«Ma il denaro non è tutto là!» continuò la Chouette il cui occhio
verde scintillava. «Sempre con la scusa di cercare Cocotte, mi sono
avvicinata alle finestre e ho visto in una stanza, a sinistra della
porta, sopra uno scrittoio dei sacchi pieni di scudi... Li ho visti
come adesso vedo te, vecchio mio... A dir poco saranno stati una
dozzina.»
«Dov’è Tortillard?» chiese a un tratto il Maître d’école.
«È sempre nel suo buco... a due passi dalla porta del giardino...
Vede al buio come i gatti. Al numero 17 c’è una sola entrata; quando
saremo lì, ci saprà dire se qualcuno è entrato.»
«Bene.»
Appena pronunciate queste parole, il Maître d’école si gettò
inaspettatamente su Rodolphe, lo afferrò alla gola e lo gettò nella
cantina che s’apriva dietro la tavola.
L’assalto fu così repentino, così inatteso e così vigoroso, da non
poter essere né previsto né evitato da Rodolphe.
La Chouette, che non aveva capito subito com’era andata a finire la
brevissima lotta, gettò un urlo di spavento.
Quando cessò il rumore che aveva fatto il corpo di Rodolphe
rotolando giù per i gradini, il Maître d’école, che conosceva a
menadito il sotterraneo della casa, scese lentamente nella cantina
con tanto di orecchi drizzati.
«Furfante... non ti fidare!...» gridò la guercia affacciandosi sulla
botola. «Tira fuori il pugnale!...»
Il brigante non rispose e sparì.
Dapprima non si sentì nulla; ma dopo qualche istante, il rumore
sordo di una porta arrugginita che strideva sui cardini risuonò per
i sotterranei della cantina, poi tornò il silenzio.
L’oscurità era completa.
La Chouette frugò nella sporta, sfregò un fiammifero e accese un
pezzo di candela che diffuse un fioco chiarore nella lugubre stanza.
In quel momento apparve nel vano della botola la faccia mostruosa
del Maître d’école.
La Chouette non poté trattenere un grido di orrore davanti a quella
faccia pallida, piena di cicatrici, mutilata, orribile, con gli
occhi fosforescenti, che sembrava strisciasse per terra, in mezzo
alle tenebre... fitte nonostante la luce della candela.
Rimessasi dallo spavento, la vecchia disse con una specie di macabro
scherno:
«Devi essere proprio brutto, furfante, se hai fatto paura... anche a
me!»
«Presto, presto all’allée des Veuves» disse il brigante sprangando
la botola con una sbarra di ferro; «fra un’ora sarebbe forse troppo
tardi! Se è un tranello, non è ancora preparato... se non è un
tranello, faremo il colpo da soli.»
XVIII
IL SOTTERRANEO
Sotto il colpo della terribile caduta, Rodolphe era rimasto svenuto,
immobile, in fondo alla scala della cantina.
Il Maître d’école l’aveva trascinato prima fino all’ingresso di
un’altra cantina molto più profonda, poi lo aveva buttato giù e
chiuso dentro con una grossa porta ferrata; quindi aveva raggiunto
la Chouette, per andare con lei a fare la rapina, forse un omicidio,
nell’allée des Veuves.
Dopo circa un’ora, Rodolphe riprese a poco a poco i sensi.
Era steso per terra nella più profonda oscurità; tastò con le mani
intorno a sé e toccò alcuni scalini di pietra. Sentendo ai piedi una
netta sensazione di bagnato allungò la mano... Era una pozza
d’acqua.
Con uno sforzo violento riuscì a tirarsi su e a sedersi sul primo
gradino della scala; lo stordimento gli andava sparendo, fece
qualche movimento. Fortunatamente, nessun arto s’era fratturato.
Stette in ascolto... non sentì niente... niente se non una specie di
gorgoglio sordo, debole, ma continuo.
Dapprima non ne indovinò la causa.
Via via che la mente gli si snebbiava, riconnetteva, se pur con
lentezza, le circostanze dell’attacco improvviso di cui era stato
vittima... Mentre stava lì intento a raccogliere tutti i ricordi,
ebbe ai piedi una nuova sensazione di bagnato: si abbassò, tastò;
aveva l’acqua alla caviglia.
E nel cupo silenzio che lo circondava, sentì ancor più distintamente
il gorgoglio sordo, debole, continuo.
Questa volta comprese: l’acqua invadeva la cantina... La Senna era
terribilmente gonfia, e il sotterraneo era al livello del fiume...
Il pericolo fece tornare completamente in sé Rodolphe: salì
l’umida scala in un lampo. Ma arrivato in cima urtò contro una
porta; invano tentò di scuoterla, essa rimase immobile sui cardini
di ferro.
In quella situazione disperata, il suo primo pensiero fu per Murph.
«Se non sta in guardia, quel mostro lo ucciderà... e sarò stato io»
gridò, «io ad avergli procurato la morte!... Povero Murph!...» A
questo triste pensiero Rodolphe sentì le forze centuplicar-
glisi: puntellandosi sui piedi e inarcando le reni, fece sforzi
inauditi contro la porta... ma non riuscì a spostarla di un
millimetro.
Sperando di trovare una leva nella cantina, ridiscese: sul penultimo
scalino, due o tre corpi rotondi, elastici, gli passarono sotto i
piedi fuggendo: erano sorci che l’acqua cacciava dalle tane.
Rodolphe, nonostante l’acqua gli arrivasse a metà gamba, percorse la
cantina in lungo e in largo, non trovò nulla. Risalì lentamente la
scala, in preda a una cupa disperazione.
Contò i gradini: erano tredici; tre erano già sott’acqua.
Tredici! numero fatale!... In certe situazioni, nemmeno gli spiriti
più tetragoni vanno esenti da idee superstiziose; quel numero era di
cattivo auspicio. Gli tornò alla mente il pensiero della probabile
fine di Murph. Invano cercò la fessura che c’è di solito tra il
suolo e la porta perché questa, gonfiatasi con l’umidità, non aveva
lasciato interstizi tra sé e il terreno umido e grasso.
Rodolphe si mise a urlare con rabbia, sperando di poter essere udito
dagli ospiti dell’osteria; e poi stette in ascolto.
Non si sentì niente, niente se non il gorgoglio sordo, debole,
continuo dell’acqua che saliva, saliva, saliva.
Alla fine si sedette sfiduciato con la schiena appoggiata alla
porta; e pianse l’amico, che forse in quel momento stava
dibattendosi sotto il coltello di un assassino.
Molto amaramente allora si pentì dell’audacia e dell’imprudenza che
erano alla base dei suoi gesti generosi; ricordava con strazio le
mille prove di fedeltà fornitegli da Murph che, ricco e onorato,
aveva lasciato la moglie, l’adorato figlio, e le occupazioni più
care per seguire e aiutare Rodolphe nella coraggiosa ma insolita
espiazione che questi si era imposto.
L’acqua continuava a salire... all’asciutto, non vi erano ormai che
cinque scalini. Messosi in piedi vicino alla porta, Rodolphe toccava
con la testa la volta della cantina... Avrebbe potuto calco-
lare quanto tempo sarebbe durata la sua agonia. La morte sarebbe
stata lenta, silenziosa, atroce.
Si ricordò della pistola che aveva con sé. Con un colpo di pistola
nella serratura forse avrebbe potuto abbattere la porta e lui
l’avrebbe fatto anche a rischio di venire colpito dalla pallottola
di rimbalzo. Invece niente!... niente!... nella caduta, l’arma gli
era scivolata di tasca oppure gli era stata portata via dal Maître
d’école.
Senza i suoi timori per Murph, Rodolphe avrebbe aspettato
serenamente la morte... aveva vissuto tanto... era stato
ardentemente amato... aveva fatto del bene, avrebbe voluto farne
ancora di più, e Dio questo lo sapeva! Non gli sfuggì parola contro
il verdetto da cui veniva colpito, anzi riconobbe in quella sua fine
la giusta punizione di una colpa gravissima non ancora espiata; i
suoi pensieri a contatto con la morte si elevavano, si nobilitavano.
Un nuovo supplizio venne a mettere alla prova la rassegnazione di
Rodolphe.
I sorci, snidati dall’acqua, non trovando via d’uscita, erano saliti
di gradino in gradino. Poiché difficilmente avrebbero potuto salire
su per un muro o una porta, andarono ad arrampicarsi su per i
vestiti di Rodolphe. Quando se li sentì strisciare addosso, ne provò
un disgusto e un orrore indicibili... Tentò di cacciarli, ma si
trovò le mani insanguinate per certi morsi acuti e freddi; e nella
caduta, la camicia e la giacca gli si erano aperte davanti, si sentì
quindi sul petto nudo le loro gelide zampette e i loro corpi
villosi. Quelle bestie immonde, se le staccava dagli abiti e poi le
scaraventava lontano; ma esse ritornavano a nuoto.
Rodolphe gridò ancora, ma nessuno lo sentì... Fra poco non avrebbe
più potuto gridare: l’acqua gli era arrivata al collo, presto gli
sarebbe arrivata alla bocca.
L’aria respinta nel poco spazio rimasto cominciava a mancare.
Rodolphe avvertì i primi sintomi dell’asfissia; le arterie delle
tempie gli pulsavano violentemente, aveva le vertigini, stava per
morire. Rivolse un ultimo pensiero a Murph e innalzò l’anima a
Dio... non perché lo strappasse dal pericolo, ma perché accettasse
le sue sofferenze.
Nel momento supremo della morte, sul punto di abdicare non solo a
tutto ciò che rende una vita felice, brillante, invidiata, ma anche
a un titolo quasi regale, a un potere sovrano... costretto a
rinunciare a un’impresa che, soddisfacendo le sue due passioni
innate, l’amore del bene e l’odio per i malvagi, poteva servigli un
giorno per la remissione dei peccati; pronto a morire di morte
atroce... Rodolphe non si lasciò affatto prendere da quei moti di
rabbia, di ribellione impotente, che spingono gli spiriti deboli ad
accusare e a maledire gli uomini, il destino e Dio.
No: finché restò lucido, Rodolphe affrontò il suo destino con
umiltà, con dignità... Quando, vicino all’agonia, le idee gli si
annebbiarono e in lui non rimase che il solo istinto di
conservazione, lo si sarebbe potuto veder lottare fisicamente, se
così si può dire, non moralmente contro la morte.
Si sentiva inghiottire nel gorgo vorticoso e pauroso delle
vertigini: l’acqua gli ribolliva alle orecchie; gli sembrava di
girare rapidamente su se stesso; l’ultimo barlume di ragione stava
per spegnersi in lui, allorché udì dei passi precipitosi e un suono
di voci vicino alla porta della cantina.
Le forze che lo stavano lasciando gli ritornarono con la speranza;
grazie a un grandissimo sforzo mentale riuscì ad afferrare queste
parole, le ultime che udì e comprese:
«Lo vedi, non c’è nessuno.»
«Perdio, è vero...» rispose tristemente la voce dello Chourineur. E
i passi si allontanarono.
Rodolphe, ormai spossato, si lasciò scivolare lungo la scala, perché
proprio non ce la faceva più a stare in piedi.
A un tratto la porta del sotterraneo si aprì bruscamente dal di
fuori; l’acqua che c’era dentro straripò come se si fosse aperta la
chiusa di un fiume... e lo Chourineur poté afferrare per le braccia
Rodolphe che, mezzo annegato, tentava ancora di aggrapparsi
convulsamente alla porta.
XIX L’INFERMIERE
Strappato da morte sicura dallo Chourineur, e trasportato in quella
casa dell’allée des Veuves che la Chouette aveva esplorato prima del
tentativo del Maître d’école, Rodolphe riposa ora in una stanza
confortevole; un gran fuoco brucia nel caminetto, una lampada da
sopra il cassettone in cui si trova diffonde nella stanza una vivida
luce; il letto di Rodolphe, circondato da grosse tende di damasco
verde, è immerso nella penombra.
Un negro di media statura, con sopracciglia e capelli bianchi, che
veste con ricercatezza e porta un nastro arancione e verde
all’occhiello dell’abito blu, tiene nella mano sinistra un orologio
d’oro con mostrino che consulta attentamente, mentre con la destra
conta i battiti del polso di Rodolphe.
Il negro è mesto, pensieroso e guarda Rodolphe che dorme con
l’espressione della più tenera sollecitudine.
Lo Chourineur, vestito di stracci, sporco di fango, se ne sta
immobile ai piedi del letto, con le braccia penzoloni e le mani
intrecciate; la barba rossa che porta è lunga, la folta capigliatura
color stoppa, scompigliata e molle d’acqua; il viso grosso e duro,
bruciato dal sole; eppure da quella scorza ruvida e aspra trapela
un’ineffabile espressione di ansia e di pietà... Osa appena
respirare, solleva con precauzione il largo petto; preoccupato dal
fare silenzioso del dottore negro, e temendo un esito increscioso,
si arrischia a esprimere sottovoce questa riflessione filosofica
sempre continuando a fissare Rodolphe:
«A vederlo così debole, chi direbbe che è stato lui a scaricarmi
addosso così spavaldamente quei colpi finali!... Non ci metterà
molto a recuperare le forze... vero, signor dottore? Parola mia,
preferirei che tamburellasse sulla mia schiena con le poche forze
che ha..., così si scuoterebbe... vero, dottore?»
Il negro gli rispose con un breve segno della mano.
Lo Chourineur ammutolì.
«La pozione?» disse il negro.
E subito lo Chourineur, che aveva rispettosamente lasciato le
scarpe chiodate alla porta, andò verso il cassettone camminando il
più leggermente possibile sulla punta dei piedi; ma fece il tutto
con tali contorcimenti di gambe, con tali oscillazioni di braccia,
con tali inarcamenti di schiena che in tutt’altra occasione questi
suoi movimenti sarebbero parsi molto ridicoli.
Sembrava che il povero diavolo volesse far poggiare tutta la sua
mole su quella parte di sé che era sollevata da terra; cosa che era
ben lungi, nonostante per terra ci fosse un tappeto, dal fare sì che
il pavimento non gemesse sotto la pesante corporatura dello
Chourineur. Purtroppo, preso com’era dall’impazienza di rendersi
utile e dal timore di lasciarsi sfuggire di mano la fiala di vetro
trasparente che con tanta cura stava portando, la strinse talmente
nella sua grande mano, che il collo del flacone finì col rompersi
mentre la pozione andò a inondare il tappeto.
Davanti a un tal disastro, lo Chourineur si fermò di botto con una
delle sue grosse gambe sollevata a mezz’aria, gli alluci
nervosamente contratti e si mise a guardare, con aria confusa, ora
il dottore, ora il collo della fiala che gli era rimasto in mano.
«Buono a nulla che non siete altro!» esclamò il negro spazientito.
«Pezzo d’imbecille!» disse a se stesso lo Chourineur.
«Ah!» riprese il seguace d’Esculapio dopo aver gettato uno sguardo
sul cassettone, «per fortuna vi siete sbagliato, volevo l’altra
boccetta...»
«Quella piccola, rossa?» disse pianissimo lo sventurato infermiere.
«Sì... c’è solo quella.»
Lo Chourineur, girando sui talloni secondo una vecchia abitudine
militare, frantumò i cocci della boccetta: piedi più delicati si
sarebbero crudelmente feriti; l’ex scaricatore invece, in
conseguenza del suo mestiere, aveva ai piedi un paio di sandali
naturali, duri come gli zoccoli di un cavallo.
«Attento che vi fate male!» gli disse il medico.
Lo Chourineur non prestò la minima attenzione alla raccomandazione.
Appunto perché tutto preoccupato della nuova missione che doveva
condurre felicemente in porto se voleva far dimenticare il
precedente malanno, sarebbe stato bello vedere con che delicatezza,
con che leggerezza, con che attenzione egli allargò le grosse dita
per prendere il fragile flacone... Una farfalla non avrebbe lasciato
un atomo della dorata polvere delle sue ali fra il pollice e
l’indice dello Chourineur.
Il dottore negro rabbrividì al pensiero che un nuovo malanno sarebbe
potuto succedere per eccessiva precauzione. Fortunatamente si evitò
anche questo scoglio.
Lo Chourineur, prima di arrivare al letto, finì di frantumare con i
piedi quello che restava dell’altra boccetta.
«Ma, disgraziato, volete proprio rovinarvi i piedi?» disse il
dottore a bassa voce.
Lo Chourineur lo guardò tutto sorpreso.
«Eh, rovinarmi i piedi con che cosa, signor dottore?»
«È la seconda volta che passate sui vetri.»
«Se è solo per questo, non fateci caso... Ho la pianta dei pie-
di rivestita di legno.»
«Un cucchiaino!» disse il dottore.
Lo Chourineur per portare ciò che il dottore gli aveva ordi-
nato ricominciò le sue evoluzioni da silfo.
Dopo alcuni cucchiai di pozione, Rodolphe rinvenne e mos-
se debolmente le mani.
«Bene: bene! sta scuotendosi dal torpore» disse il medico.
«Il salasso l’ha sollevato, presto sarà fuori pericolo.»
«Salvo! Bene! Benissimo!» gridò lo Chourineur in un impe-
to di gioia.
«Ma state un po’ buono!»
«Sì, signor dottore.»
«Il polso sta diventando regolare... Benissimo!... benis-
simo!»
«Signor dottore, e il povero amico del signor Rodolphe.» «Diavolo!
quando saprà! Per fortuna che...»
«Zitto!»
«Sì, signor dottore.»
«Ma, signor...»
«Su sedetevi; mi dà fastidio vedervi sempre intorno, e poi mi
distraggo. Andiamo, sedetevi!»
«Signor dottore, io sono sporco come un pezzo di legno che
venga tolto dal fodero e scaricato, sporcherei i mobili.»
«Allora sedetevi per terra.»
«Sporcherei il tappeto.»
«Fate come volete; ma, in nome del cielo, state fermo» disse
il dottore spazientito; e, sprofondando in una poltrona, appoggiò la
testa sulle mani.
Dopo un momento di profonda meditazione, lo Chourineur, più per
obbedire al dottore che per riposarsi, prese con grandissimo
riguardo una sedia; e, gonfio di soddisfazione, la rovesciò in modo
che lo schienale poggiasse sul tappeto, con la chiara intenzione di
sedersi educatamente e modestamente sulle gambe anteriori, in modo
da non sporcare niente... cosa che fece con la massima delicatezza.
Purtroppo lo Chourineur non conosceva bene i princìpi della leva e
dell’equilibrio dei corpi: la sedia si ribaltò; il poveretto col
gesto istintivo di mettere le braccia in avanti rovesciò un tavolino
su cui c’erano un vassoio, una tazza e una teiera.
La rovinosa caduta del tavolino fece sussultare sulla poltrona il
dottore negro che alzò subito la testa.
Rodolphe, destatosi di soprassalto, si rizzò a sedere, si guardò
ansiosamente intorno e, riordinate le idee, esclamò:
«Murph! dov’è Murph?»
«Vostra Altezza stia tranquillo» disse rispettosamente il negro, «ci
sono molte speranze.»
«È ferito?» chiese Rodolphe.
«Ahimè! sì, mio signore.»
«Dov’è?... voglio vederlo.»
E Rodolphe tentò di alzarsi, ma ricadde vinto dal dolore che
gli procuravano le contusioni di cui sentiva adesso il contraccolpo.
«Portatemi subito da Murph dal momento che non posso camminare!»
esclamò.
«Mio signore, Murph sta riposando... Sarebbe pericoloso adesso
procurargli una forte emozione.»
«Ah! voi m’ingannate! è morto... È morto assassinato!... E sono
stato io... io a causarne la morte!» gridò Rodolphe con voce
straziata, alzando le mani al cielo.
«Signore, voi sapete che non sono capace di mentire... Vi assicuro
sul mio onore che il signor Murph è vivo... ferito gravemente, è
vero, ma con la certezza quasi di guarire.»
«Mi dite questo per prepararmi a qualche brutta notizia. È in
condizioni disperate.»
«Mio signore...»
«Ne sono sicuro... voi m’ingannate... Voglio essere portato da
lui... Vedere un amico fa sempre bene...»
«Mio signore, torno ad assicurarvi sul mio onore che, a meno che non
sopravvenga qualche complicazione, il che è molto improbabile, il
signor Murph entrerà presto in convalescenza.»
«Davvero, davvero, buon David?»
«Davvero, mio signore.»
«Statemi a sentire, voi sapete quanto io vi tenga in consi-
derazione; da quando fate parte della mia casa, avete sempre avuto
la mia fiducia... non ho mai dubitato della vostra straordinaria
bravura, ma, per l’amore del cielo, se è necessario un consulto...»
«Mio signore, è stato il mio primo pensiero. Per il momento un
consulto è del tutto inutile, dovete credermi... e poi, d’altro
canto, non ho voluto far entrare qui nessun estraneo, prima di
sapere se i vostri ordini di ieri...»
«Ma come è stato?» disse Rodolphe interrompendo il negro; «chi mi ha
tirato fuori dal sotterraneo in cui stavo per annegare?... Ricordo
confusamente di aver sentito la voce dello Chourineur; è vero?»
«No! no! il buon uomo vi racconterà tutto perché ha fatto tutto
lui.»
«Ma dov’è? dov’è?»
Il dottore cercò con gli occhi l’infermiere improvvisato, il quale,
per la vergogna d’essere caduto, era andato a nascondersi dietro le
cortine del letto.
«Eccolo» disse il medico, «è imbarazzato.»
«Su, vieni avanti, caro amico!» disse Rodolphe porgendo la mano al
suo salvatore.
XX
IL RACCONTO DELLO CHOURINEUR
L’imbarazzo dello Chourineur era tanto più grande, in quanto aveva
sentito il medico negro chiamare più volte Rodolphe mio signore.
«Su, avvicinati... dammi la mano!» disse Rodolphe.
«Scusate, signore... no, volevo dire mio signore... cioè...»
«Chiamami signor Rodolphe, come prima... preferisco.»
«E anch’io sarò meno impacciato... Ma scusatemi, perché la
mia mano... quest’oggi ha fatto tante cose.»
E tese timidamente la destra nera e callosa. Rodolphe gliela
strinse cordialmente.
«Su, siediti e raccontami tutto... Come hai fatto a scoprire il
sotterraneo?... Ma, adesso che ci penso, e il Maître d’école?»
«È al sicuro» disse il dottore negro.
«Legati come due trecciuole di tabacco..., lui e la Chouette...
Dato il bel muso che hanno, ormai dovran provare ripugnanza l’uno
dell’altra.»
«E il povero Murph! Dio mio, ci penso solo adesso! David, dove è
stato colpito?»
«Al fianco destro, mio signore... fortunatamente verso l’ultima
costa asternale.»
«Oh! mi vendicherò in maniera terribile, terribile!... David, conto
su di voi.»
«Mio signore, voi sapete bene che vi appartengo anima e corpo»
rispose freddamente il negro.
«Ma come hai fatto, caro amico, ad arrivare in tempo?» disse
Rodolphe allo Chourineur.
«Se volete, mio sign... no, signor Rodolphe, se volete comincerò dal
principio.»
«Va bene; ti ascolto.»
«Vi ricordate che ieri sera, tornando dalla campagna dove eravate
andato con la povera Goualeuse, mi avete detto: “Vedi se ti riesce
di trovare il Maître d’école nella Cité; digli che c’è un bel colpo
da fare e che tu non vuoi immischiartene; ma che se vuole prendere
il tuo posto, basta che venga domani (cioè stamattina) alla barriera
di Bercy, nei pressi del Panier-Fleuri, per parlare con chi ha
preparato il furto”.»
«Benissimo!»
«Vi lascio e corro alla Cité... Vado dall’ostessa: del Maître
nemmeno l’ombra; faccio la rue Saint-Eloi, la rue aux Fèves, la
rue della Vieille-Draperie... nessuno... Finalmente lo becco con
quella baldracca della Chouette, sulla piazza di Notre-Dame, da un
sartuccio, rivenditore, ricettatore, ladro; volevano rimettersi a
nuovo con il denaro rubato a quel signore alto, vestito a lutto, che
voleva farvi non so che cosa; stavano comperando abiti d’occasione.
La Chouette stava discutendo sul prezzo di uno scialle rosso...
Brutto mostro!... Io dico tutto al Maître d’école: lui mi dice che
ci sta, e che andrà all’appuntamento. Bene! Stamattina, obbedendo ai
vostri ordini di ieri, corro qui a darvi la risposta... Voi mi dite:
“Ragazzo, ritorna domattina prima che faccia chiaro, passerai la
giornata in casa, e la sera, vedrai qualcosa che merita...”. È
quanto m’avete detto; ma io capisco tutto. E mi dico: “È un trucco
per agganciare il Maître d’école con la scusa di un colpo da fare
domani e combinargli invece uno scherzetto... È un vero
delinquente... Ha assassinato il mercante di buoi... Ne sono...”»
«E il mio torto è stato quello di non averti detto tutto, ragazzo...
Forse questa brutta disgrazia non sarebbe capitata.»
«Era cosa che riguardava voi, signor Rodolphe; io da parte mia
dovevo servirvi... perché in fondo... non so come mai, ve l’ho già
detto, mi sento per voi la fedeltà di un cane; insomma... basta...
Dunque mi dico: la festa è per domani, oggi sono in vacanza; il
signor Rodolphe mi ha pagato le due giornate che ho perduto, e con
un anticipo anche su altre due, infatti sono tre giorni che non mi
faccio vedere dal padrone e, non essendo milionario, il lavoro... è
il mio pane. E mi dico ancora: vedi, in fondo, il signor Rodolphe mi
paga il mio tempo, quindi il mio tempo gli appartiene, lo occuperò
per lui. E mi viene quest’idea: Il Maître d’école è furbo, fiuterà
il tranello. Il signor Rodolphe quasi certamente gli proporrà
l’affare per domani, ma il malandrino è capace di venire in giornata
a ronzare da queste parti per fare una ricognizione, e se poi non si
fida del signor Rodolphe è anche capace di portare con sé un altro
ladro o di dire: A domani, e di fare invece il colpo oggi per conto
suo.»
«Avevi indovinato... è andata proprio così... E la Provvidenza ha
voluto che io ti dovessi la vita!»
«È strano, signor Rodolphe, ma da quando vi conosco mi capitano
certe cose che credo vengano combinate lassù! e poi mi vengono certe
idee che non mi erano mai passate per la testa, prima del giorno in
cui mi avete detto: “Ragazzo, hai un cuore e un onore tu”. Un cuore!
un onore! perdinci! parole così vi smuovono qualcosa nello stomaco.
Via, signor Rodolphe, quando si è abituati a sentirsi gridare al
lupo, al cane idrofobo! allorché si ha solo l’intenzione di
avvicinare la brava gente...»
«Così, da un po’ di giorni la pensi diversamente?»
«Certo, signor Rodolphe. Sentite, mi dicevo ancora: Adesso, se
conoscessi qualcuno che avesse fatto una cattiva azione, perché
beveva o per ira, insomma una cosa qualsiasi... be’, gli direi:
Amico, hai fatto una brutta azione, d’accordo... Ma non è tutto; non
per nulla il buon Dio mette assieme la gente che annega, che si
brucia e che muore di fame; quindi se guadagni quaranta soldi mi
farai la cortesia di darne venti ai vecchi o ai bambini poveri;
insomma a coloro che, più disgraziati di te, non hanno due braccia
per guadagnarsi da vivere... e soprattutto non dimenticare, amico,
che se c’è qualcuno da salvare sarà ora affar tuo dovessi pure
rimetterci sicuramente la pelle!!! Grazie a ciò, e a patto che tu
non ricominci a fare sciocchezze, potrai sempre contare sul mio
aiuto... Ma scusate, signor Rodolphe, io chiacchiero... voi invece
siete curioso di sapere...»
«No; mi piace sentirti parlare così. E poi, non vorrei mai che
arrivasse il momento in cui mi dirai come è successo il brutto
incidente di cui è stato vittima Murph... Ero convinto di poter
restare sempre attaccato alle falde del Maître d’école, di riuscire
a non lasciarlo solo neppure un secondo durante quella disgraziata
impresa... Allora avrebbe potuto uccidermi cento volte... prima di
toccare Murph. Ahimè! La sorte ha deciso diversamente... Vai avanti,
ragazzo.»
«Volendo dunque, signor Rodolphe, impegnare il mio tempo per voi, mi
son detto: Devo andar a imboscarmi in qualche posto in modo che
possa vedere il recinto e la porta del giardino che è il solo
ingresso... Se trovo un bell’angolino... piove, il giorno starò lì e
anche la notte, e domattina sarò già sul posto... Finito di dirmi
così, battono le due, a Batignolles, dove ero andato a mangiare un
boccone, dopo avervi lasciato, signor Rodolphe... Torno agli
Champs-Elysées... Cerco un angolo dove nascondermi... Cosa vedo? una
piccola bettola a dieci passi dal vostro portone... Mi metto nella
saletta del pianterreno, vicino alla finestra, chiedo un litro e un
po’ di noci e dico che aspetto amici... un gobbo e una donna alta,
per far sembrare la cosa più naturale. Mi sistemo ed ecco che mi
metto a esaminare il vostro portone... Pioveva, un diluvio; non
passava nessuno, veniva la notte...»
«Ma» disse Rodolphe, interrompendo lo Chourineur, «perché non sei
andato a casa mia?»
«Voi mi avete detto di ritornare l’indomani mattina, signor
Rodolphe... Non ho osato venir prima. Poteva sembrare che io volessi
fare il grazioso, il leccapiedi, come dicono i soldati. Dopo
tutto io so quello che sono, un ex forzato; e quando uno come voi mi
tratta come mi trattate voi, signor Rodolphe... si deve andare a
trovarlo solo quando vi dice: Vieni! Allora sì che se vedessi un
ragno sul colletto del vostro vestito, ve lo toglierei e lo
schiaccerei senza chiedervi permesso... Capite?... Ero dunque alla
finestra dell’osteria, intento a rompermi le noci e a bermi il
vinello, quando vedo sbucare dalla nebbia la Chouette e il
marmocchio di Bras-Rouge, Tortillard.»
«Bras-Rouge! allora è lui il padrone della bettola sotterranea degli
Champs-Elysées?» gridò Rodolphe.
«Sì, signor Rodolphe, non lo sapevate?»
«No, credevo che stesse nella Cité...»
«Sta anche lì... sta dappertutto, Bras-Rouge... È un briccone di
tre cotte, lui, con quella sua parrucca gialla e il naso
appuntito!... Insomma, quando vedo sbucare la Chouette e Tortillard,
mi dico: Bene, c’è aria di guai! Infatti, Tortillard si rimpiatta in
un fosso del viale, di fronte a casa vostra, come se volesse
ripararsi dalla pioggia, fa la talpa... La Chouette, invece, si
toglie la cuffia e se la mette in tasca, poi suona alla porta. Quel
povero vostro amico, il signor Murph, viene ad aprirle; ed eccola
che si sbraccia e corre su e giù per il giardino. Io, in cuor mio,
avevo rinunciato a capire che cosa fosse venuta a fare la
Chouette... Alla fine esce, si rimette la cuffia, dice due parole a
Tortillard che rientra nel suo buco; e poi se la svigna... Io mi
dico: Un momento!... non facciamo confusione: Tortillard è venuto
con la Chouette, quindi il Maître e il signor Rodolphe sono da
Bras-Rouge. La Chouette è venuta a spiare nella casa, vuol dire che
faranno il colpo stasera. Se fanno il colpo stasera, il signor
Rodolphe che crede si debba fare domani si trova allora nei guai. Se
il signor Rodolphe è nei guai, io allora devo andare da Bras-Rouge a
vedere di che si tratta; sì, ma se nel frattempo arriva il Maître...
giusto. Allora, tanto peggio, entro in casa e dico a Murph: Non
fidatevi. Sì, ma quel pezzente di Tortillard è vicino alla porta, mi
sentirà suonare, mi vedrà e avvertirà la Chouette; e se la Chouette
ritorna..., tutto sarà rovinato... tanto più che forse il signor
Rodolphe ha combinato in qualche altro modo per questa sera...
Diamine! i sì e i no mi turbinavano nella testa... Ero instupidito,
non capivo più niente... non sapevo cosa fare; mi dico: Adesso esco;
forse, all’aria fresca, mi schiarirò le idee. Esco... ed ecco
l’idea: mi levo il camiciotto e la cravatta, vado al fosso dove c’è
Tortillard, lo prendo per gli stracci; ha un bel scalciare,
graffiare, piagnucolare, lui... lo avvolgo nel camiciotto come in un
sacco, a un’estremità faccio un nodo con le ma-
niche, all’altra con la cravatta, quel tanto per farlo respirare; mi
metto l’involto sotto il braccio, vedo lì vicino un orto recintato;
butto Tortillard in mezzo alle carote; grugniva sordamente come un
porcellino da latte, ma a due passi di distanza nessuno l’avrebbe
sentito... Me la batto, era ora, mi arrampico su un grande albero
del viale, proprio dirimpetto alla vostra porta, sopra al fosso dove
prima c’era Tortillard. Dieci minuti dopo sento dei passi; pioveva
sempre. Era così scuro... così scuro che il diavolo si sarebbe
pestato la coda... Sto in ascolto; era la Chouette, “Tortillard!...
Tortillard!...” chiamò sottovoce. Sì, cerca pure il tuo Tortillard!
“Piove, il monello si sarà stancato di aspettare” disse il Maître,
bestemmiando. “Se lo prendo, lo scortico vivo.” “Furfante, vuoi
vedere” riprese la Chouette, “che forse sarà venuto in cerca di noi
per avvertirci di qualche cosa? Se fosse una trappola!... l’altro
voleva fare il colpo solo alle dieci.” “Appunto per questo” risponde
il Maître: “sono appena le sette. Tu hai visto il denaro... Chi non
risica non rosica; dammi la tenaglia e lo scalpello.”»
«E quegli strumenti?» domandò Rodolphe.
«Venivano dalla casa di Bras-Rouge; oh, ha una casa ben fornita. In
un momento forzano la porta. “Fermati lì” dice il Maître alla
Chouette; “stai attenta e grida se senti qualcosa.” “Infila il
coltello in un occhiello del panciotto, se vuoi averlo subito a
portata di mano” dice la guercia. E il Maître d’école entra nel
giardino. Mi dico subito: il signor Rodolphe non c’è; in questo
momento o è morto o è vivo, non posso fare nulla per lui, ma gli
amici dei nostri amici sono nostri... Oh! no; scusate, mio signore!»
«Su, su. E allora?»
«Mi dico: Il Maître è capace di assassinare l’amico del signor
Rodolphe, che non se l’aspetta. E qui prima di tutto fa caldo. Salto
giù dall’albero, piombo sulla Chouette; la stordisco con due
pugni... speciali... cade senza dire ah... Entro nel giardino...
Diamine, signor Rodolphe!... era troppo tardi...»
«Povero Murph!!...»
«Sentendo qualche rumore alla porta, doveva essere uscito dal
vestibolo; stava rotolando col Maître sulla scala d’ingresso; benché
già ferito, continuava a tener duro, senza chiamare aiuto. Un gran
buon uomo! È come un buon cane: morde ma non abbaia, mi dico... e mi
butto a casaccio su tutti e due, afferro il Maître per una gamba,
era il solo pezzo disponibile al momento. “Evviva! sono io! lo
Chourineur! Facciamo a metà, signor Murph!” “Ah! brigante! ma da
dove salti fuori?” mi urla il Maître, stordito da ciò. “Curioso eh?”
gli rispondo, attanagliandogli una gamba con
le mie ginocchia e afferrandogli un braccio, era quello del pugnale,
quello buono. “E... Rodolphe?” mi grida il signor Murph, sempre
aiutandomi.»
«Bravo, straordinario uomo!» mormorò Rodolphe dolorosamente.
«“Non ne so niente” rispondo. “Quel furfante forse l’ha ucciso.” E
raddoppio i colpi sul Maître, che cercava di farmi il solletico col
coltello; ma avevo appoggiato il petto sul suo braccio, aveva libero
solo il polso. “Allora siete solo soletto?” chiedo a Murph, mentre
continuavamo a batterci con il Maître. “C’è gente qui vicino, ma
anche se gridassi non mi sentirebbero.” “È lontano?” “Ci sono dieci
minuti di strada.” “Chiamiamo aiuto, se passa qualcuno, verrà ad
aiutarci.” “No; dal momento che l’abbiamo preso, dobbiamo tenerlo
qui... Ma mi sento debole... sono ferito” mi dice Murph. “Forza,
allora!! correte a cercare aiuto, se ne avete il tempo. Cercherò di
tenerlo fermo; toglietegli il coltello e aiutatemi solo a montargli
sopra; anche se è due volte più forte di me quando l’avrò preso
bene, me la vedo io.” Il Maître d’école non diceva nulla, lo si
sentiva sbuffare come un bue; ma, accidenti!!! quanti sforzi. Il
signor Murph non era riuscito a strappare l’arma all’uomo, e questi,
per giunta, stringeva come una morsa. Finalmente, appoggiandomi con
tutto il peso del corpo sul suo braccio destro, gli passo le mani
dietro il collo e le congiungo... come se lo volessi abbracciare.
Poterlo prendere così è sempre stato il mio sogno; allora dico al
signor Murph: “Sbrigatevi... vi aspetto. Se avete qualcuno che vi
avanza fate raccogliere la Chouette da dietro la porta del giardino,
l’ho stordita.” Resto solo col Maître. Sapeva cosa lo aspettava.»
«Non lo sapeva!... e neanche tu, amico» disse Rodolphe con un’aria
cupa e atteggiando il viso a quell’espressione dura, quasi feroce,
di cui abbiamo già parlato. Stupito, lo Chourineur disse a Rodolphe:
«Credevo che il Maître d’école sospettasse quello che lo aspettava;
perché, diavolo, non per vantarmi... ma c’è stato un momeno in cui
me la sono vista brutta. Eravamo metà per terra e metà sull’ultimo
gradino della scala d’ingresso... Avevo le braccia intorno al collo
del Maître... guancia a guancia. Lo sentivo digrignare i denti. Era
buio... continuava a piovere, e la lampada lasciata nel vestibolo ci
dava un po’ di luce. Gli avevo preso una gamba fra le mie.
Nonostante questo, con quelle sue potenti reni ci sollevava tutti e
due a un piede da terra. Voleva mordermi ma non ci riusciva. Non mi
ero mai sentito così forte. Il cuore mi batteva,
ma nel punto giusto. Mi dicevo: Sono come uno che si è gettato su un
cane idrofobo per impedirgli di mordere la gente. “Lasciami scappare
e non ti farò niente” mi disse il Maître. “Ah! sei anche vigliacco!”
risposi io di rimando; “il tuo coraggio allora sta tutto nella tua
forza? Non avresti osato uccidere e derubare il mercante di buoi di
Poissy, se solo fosse stato forte come me, eh!” “No,” mi disse, “ma
ti ucciderò come lui.” E dicendo questo, s’inarcò e nello stesso
tempo puntò le gambe a terra con tale potenza che mi gettò di lato;
ma avevo sempre le mani incrociate dietro la sua testa, e il suo
braccio destro sotto di me. Una volta avute le gambe libere, ha
saputo servirsene benissimo. Così ha preso slancio. Mi ha mezzo
rovesciato. Se non avessi tenuto ferma la mano col pugnale, sarei
stato un uomo finito. In quel momento, il mio polso sinistro non ha
retto più; sono stato costretto ad aprire le dita. Cominciava ad
andar male. Mi dico: Io sono sotto, lui è sopra sono spacciato. Non
importa; preferisco il mio al suo posto... il signor Rodolphe m’ha
detto che ho un cuore e un onore. Sento che è così. A questo punto
dei miei pensieri scorgo la Chouette ritta sulla scala... con il suo
occhio rotondo e lo scialle rosso. Perdio! credevo fosse un incubo.
“Finette!” le grida il Maître d’école, “mi sono lasciato cadere il
coltello; raccoglilo... là... sotto di lui... e colpiscilo sulla
schiena, in mezzo alle spalle.” “Aspetta, aspetta, furfante, che mi
raccapezzi...” Ed ecco la Chouette che gira... che gira attorno a
noi da quell’uccellaccio del malaugurio che è. Alla fine scorge il
pugnale... fa per prenderlo. Io che ero bocconi, le do una tal
pedata nello stomaco che la mando a gambe all’aria; ma lei si alza e
insiste. Non ne potevo più; stavo ancora aggrappato al Maître; ma mi
dava da sotto certi pugni sulla mascella, che stavo per mollare
tutto. Cominciavo a non capire più niente... quando vedo tre o
quattro giovanottoni armati che scendono la scala... e... il signor
Murph, pallidissimo, che si regge a fatica appoggiandosi al signor
dottore. Il Maître e la Chouette sono presi e legati. Ma non era
finita qui. Adesso volevo il signor Rodolphe. Salto addosso alla
Chouette, mi ricordo del dente della povera Goualeuse, le afferro un
braccio e torcendoglielo le dico: “Dov’è il signor Rodolphe?”. Lei
resiste. Al secondo strattone, mi grida: “Nella cantina di
Bras-Rouge, al Coeur Saignant”. Bene. Passando voglio andare a
riprendere Tortillard tra le carote; tanta era la mia strada.
Guardo... c’era solo il mio camiciotto. L’aveva rosicchiato coi
denti. Arrivo al Coeur Saignant, afferro Bras-Rouge per la gola.
“Dov’è il giovane che quest’oggi è venuto qui col Maître d’école?”
“Non stringermi così forte, adesso te lo dico: hanno voluto fargli
uno scherzo, l’hanno rinchiuso nella cantina; andiamo ad aprirgli.”
Scendiamo... nessuno. “Sarà uscito mentre ero voltato” disse
Bras-Rouge; “vedi che non c’è nessuno.”
Me ne stavo andando tutto afflitto, quando al lume della lanterna
scorgo un’altra porta. Corro lì, tiro verso di me, e mi prendo sulla
zucca, diciamo così, una enorme catinellata d’acqua. Vedo le vostre
povere braccia in aria. Vi ripesco, vi metto in schiena e vi porto
qui, dato che non c’era nessuno da mandare a cercare una carrozza.
Ecco, signor Rodolphe, questo è tutto, e posso dire modestamente di
essere oltremodo contento...»
«Ragazzo, ti devo la vita... è un debito... che soddisferò, sta’ pur
certo, con ogni mezzo... tu hai tanto buon cuore... che sono sicuro
condividerai in questo momento con me il sentimento da cui sono
animato... da un lato sono terribilmente inquieto per l’amico che tu
hai salvato dando prova di grande coraggio, dall’altro nutro un
feroce bisogno di vendetta contro colui che per poco non vi ha
ucciso tutti e due.»
«Vi capisco, signor Rodolphe... piombarvi addosso alle spalle,
gettarvi in una cantina e portarvi svenuto in un sotterraneo per
farvi annegare, mi sembra che basti per dare al Maître quel che si
merita... mi ha confessato di aver ucciso il mercante di buoi. Io
non sono una spia, ma, corpo di un diavolo, questa volta andrei
molto volentieri a cercare una guardia per fare arrestare quel
brigante!»
«David, volete andare a chiedere notizie di Murph?» disse Rodolphe,
senza rispondere allo Chourineur. «Poi tornate qui.»
Il negro uscì.
«Ragazzo, sai dov’è il Maître d’école?»
«In uno stanzino assieme alla Chouette. Volete mandare a
chiamare una guardia, signor Rodolphe?» «No...»
«Lo lascerete andare? Ah, signor Rodolphe non siate generoso con
tipi così. Sono sempre del parere che quello lì è un cane
arrabbiato. Pensate un po’ ai passanti!»
«Sta’ tranquillo, non morderà più nessuno...» «Volete rinchiuderlo
allora in qualche posto?» «No! fra mezz’ora uscirà di qui.»
«Il Maître d’école?»
«Sì...»
«Senza le guardie?»
«Sì...»
«Come! uscirà di qua libero?»
«Libero...»
«E da solo?»
«Sì, da solo...»
«Ma andrà?...»
«Dove vorrà» disse Rodolphe, interrompendo lo Chourineur e
abbozzando un sorriso che lo spaventò...
Il negro tornò.
«Ebbene! David... e Murph?»
«Dorme, mio signore» rispose tristemente il dottore. «Conti-
nua a respirare affannosamente...»
«È ancora in pericolo?»
«Il suo stato... è molto grave, mio signore... Tuttavia... dobbia-
mo sperare...»
«Oh, Murph! vendetta!... vendetta!...» gridò Rodolphe con un
furore freddo e concentrato. Poi aggiunse: «David... una parola...»
E parlò sottovoce all’orecchio del negro. Questi trasalì.
«Esitate?» gli disse Rodolphe. «Eppure vi ho parlato spesso di
questa idea... È venuto il momento di porla in esecuzione...»
«Non esito, mio signore... Io approvo l’idea... essa implica una
vera e propria riforma penale degna di esser esaminata dai grandi
criminalisti, perché questa pena sarebbe nello stesso tempo...
semplice... terribile... e giusta... In casi come questi può essere
inflitta. Senza contare i delitti che hanno meritato al brigante la
galera a vita... ha commesso tre delitti... il mercante di buoi...
Murph... e voi, quindi è un atto di giustizia...»
«E avrà anche davanti a sé l’orizzonte sconfinato del pentimento...»
aggiunse Rodolphe. «Bene, David... voi mi capite...»
«Noi collaboriamo alla stessa opera... mio signore... Dopo un
momento di silenzio, Rodolphe aggiunse:
«David, gli basteranno, per dopo, cinquemila franchi?» «Certamente,
signore.»
«Ragazzo» disse Rodolphe allo Chourineur che aveva spalan-
cato tanto d’occhi, «devo dire due parole al signore. Vai intanto
nella stanza qui accanto... su una scrivania troverai un grande
portafoglio rosso; prendi cinque biglietti da mille franchi e
portameli...»
«E per chi sono i cinquemila franchi?» esclamò senza volerlo lo
Chourineur.
«Per il Maître d’école... a proposito, di’ anche che lo conducano
qui...»
XXI
LA PUNIZIONE
La scena si svolge in un salone tappezzato di rosso e sfarzosamente
illuminato.
Rodolphe indossa una lunga vestaglia da camera di velluto nero, che
gli impallidisce ancora di più il volto, e siede a un tavolo coperto
da un tappeto. Sul tavolo si vedono due portafogli, quello che il
Maître ha rubato a Tom nella Cité e quello che appartiene al
brigante; la collana di similoro della Chouette, con la medaglietta
di lapislazzuli, il coltello ancora insanguinato con cui il Maître
d’école aveva colpito Murph, le tenaglie che erano servite a forzare
la porta, e infine i cinque biglietti da mille franchi che lo
Chourineur era andato a prendere nella stanza vicina.
A un lato del tavolo è seduto il dottore negro, dall’altro lo
Chourineur.
Il Maître d’école, strettamente legato, impossibilitato a fare
qualsiasi movimento, è su una poltrona a rotelle in mezzo al salone.
Le persone che hanno portato il Maître d’école si sono ritirate.
Rodolphe, il dottore, lo Chourineur e l’assassino restano soli.
Rodolphe non è adirato: è calmo, triste, raccolto; si prepara a
compiere un rito solenne e grandioso.
Il dottore è meditabondo.
Lo Chourineur prova un vago timore; non può staccare gli oc-
chi dal volto di Rodolphe.
Il Maître d’école è livido... ha paura...
Un arresto legale gli sarebbe sembrato meno spaventoso, da-
vanti a un tribunale normale non avrebbe perso la sua sfrontatezza;
ma qui, tutto quello che lo circonda lo sbalordisce, lo spaventa; è
in potere di Rodolphe, di un artigiano, come egli credeva, capace di
tradirlo o di cedere al momento del delitto, e che ha voluto
sacrificare ai propri sospetti e alla speranza di avere da solo il
bottino del furto...
E in quel momento Rodolphe gli appare terribile e imponente come una
statua della giustizia.
Fuori regna il più profondo silenzio. Si ode solo il rumore della
pioggia che cade... che cade dal tetto sul selciato.
Rodolphe si rivolge al Maître d’école:
«Scappato dalla galera di Rochefort dove eravate stato condannato a
vita... per falso, furto e omicidio... Siete Anselme Duresnel...»
«È falso; provatelo!» disse il Maître d’école con voce alterata,
girando intorno il suo sguardo truce e inquieto.
«Come!» gridò lo Chourineur, «non eravamo insieme a Rochefort?»
Rodolphe fece un segno allo Chourineur e questi tacque. Rodolphe
continuò:
«Voi siete Anselme Duresnel... fra poco lo dimostreremo... ave-
te assassinato e derubato un mercante di bestiame sulla strada di
Poissy.»
«È falso!»
«Lo proveremo fra poco.»
Il brigante guardò Rodolphe con stupore.
«Questa notte vi siete introdotto qui per rubare e avete pugna-
lato il padrone di casa...»
«Siete stato voi a propormi il furto» disse il Maître d’école
ripren-
dendo un po’ di sicurezza; «sono stato attaccato... e mi sono
difeso.» «L’uomo che avete colpito non vi ha attaccato... non era
armato! Io vi ho proposto il furto... è vero... Fra poco vi dirò
quale era il mio scopo. La sera prima, dopo aver spogliato un uomo e
una donna nella Cité, dopo aver rubato loro questo portafogli qui
per mille
franchi vi siete offerto per uccidermi!...»
«L’ho sentito io!» gridò lo Chourineur.
Il Maître d’école gli lanciò un feroce sguardo di odio. Rodolphe
riprese:
«Come vedete, per fare il male non avevate bisogno di essere
tentato da me!...»
«Voi non siete un giudice istruttore, quindi non vi risponde-
rò più...»
«Ecco perché vi ho proposto il furto. Sapevo che eravate evaso
dalla galera... conoscevate i genitori di un’infelice a cui la
Chouette, vostra complice, aveva procurato tanti guai... Volevo
attirarvi qui con la prospettiva di un furto, la sola prospettiva
capace di sedurvi; una volta in mio potere, vi avrei lasciato
l’alternativa, o di essere consegnato alla giustizia che vi avrebbe
fatto pagare con la morte l’uccisione del mercante di buoi...»
«È falso! non sono stato io.»
«O di lasciarmi l’incarico di portarvi fuori di Francia, in un luogo
di reclusione a vita, a patto però che mi aveste dato le
informazioni che volevo. Eravate condannato all’ergastolo, avevate
infranto il divieto di essere a piede libero.
Impadronendomi di voi, mettendovi in condizione di non nuocere più,
rendevo un servizio alla società e, con le vostre ri-
velazioni, avrei avuto forse la possibilità di restituire alla
famiglia una povera creatura più disgraziata che colpevole. Tale era
dapprima il mio progetto; non era legale; ma voi, con l’evasione e
con nuovi delitti, siete fuori della legge... Ieri, grazie a una
provvidenziale rivelazione, sono venuto a sapere il vostro vero
nome...»
«È falso! non mi chiamo Duresnel.»
Rodolphe prese sul tavolo la collana della Chouette, e, mostrando al
Maître la medaglietta di lapislazzuli:
«Sacrilego!» gli gridò con voce minacciosa. «Avete profanato questa
sacra reliquia dandola a una infame creatura... tre volte sacra!...
perché vostro figlio l’aveva avuta in dono dalla madre e questa da
sua madre!»
Il Maître d’école, sorpreso dalla nuova scoperta, abbassò il capo
senza rispondere.
«Ieri ho saputo che quindici anni fa avevate tolto vostro figlio a
sua madre, e che voi solo conoscevate il segreto della sua
esistenza; questo nuovo misfatto è stato un motivo in più per
impadronirmi di voi; senza parlare poi di quello che mi tocca
personalmente... ma non è di questo che mi vendico... Questa notte
avete ancora una volta sparso del sangue senza che ci sia stata una
provocazione. L’uomo che avete pugnalato vi era venuto incontro con
fiducia, ben lungi dal sospettare in voi la sete di sangue che
avete. Vi ha chiesto che cosa desideravate. “La borsa e la vita!” e
l’avete trafitto con una pugnalata.»
«Così ha raccontato il signor Murph quando gli ho portato i primi
soccorsi» disse il dottore.
«È falso, ha mentito.»
«Murph non mente mai» disse Rodolphe freddamente. «Per i vostri
delitti ci vuole una pena esemplare. Per rubare vi siete introdotto
a mano armata in questo giardino, avete pugnalato un uomo. Avete
commesso un altro delitto... Morrete qui... Per pietà verso vostra
moglie e vostro figlio vi si risparmierà l’onta del patibolo...
Diremo che siete stato ucciso in un assalto a mano armata...
Preparatevi... le armi sono cariche.»
Il volto di Rodolphe era implacabile...
Il Maître d’école aveva notato in una stanza attigua due uomini
armati di fucile... Si sapeva ormai il suo nome; pensò infatti che
volessero sbarazzarsi di lui per non portare alla luce i suoi ultimi
delitti e per salvare così la sua famiglia da questa nuova infamia.
Come i suoi pari, il nostro uomo era vigliacco quanto feroce.
Credendo che fosse giunta la sua ultima ora, cominciò a
tremare convulsamente; gli si sbiancarono le labbra; con voce
soffocata gridò:
«Pietà!»
«Nessuna pietà per voi» disse Rodolphe. «Se non vi bruciamo le
cervella qui, il patibolo vi attende...»
«Preferisco il patibolo... Almeno vivrò ancora due o tre mesi... Non
è lo stesso per voi, dal momento che dopo sarò punito!... Pietà!...
pietà!...»
«Ma vostra moglie... ma vostro figlio... portano il vostro nome...»
«Il mio nome è già disonorato... Quand’anche dovessi vivere solo
otto giorni in più, pietà!...»
«Non ha nemmeno quel disprezzo della vita che si trova a volte nei
più grandi criminali!» disse Rodolphe disgustato.
«D’altra parte la Legge proibisce di farsi giustizia da sé» riprese
il Maître d’école con sicurezza.
«La legge!» gridò Rodolphe, «la legge!... Proprio voi avete il
coraggio di invocare la legge, voi che da vent’anni vivete in
pugnace e aperta rottura con la società?»
Il brigante abbassò la testa senza rispondere, poi disse con tono
umile:
«Lasciatemi almeno vivere, per pietà!»
«Mi direte dov’è vostro figlio?»
«Sì, sì... vi dirò tutto quello che so di lui.»
«Mi direte chi sono i genitori di quella giovanetta che, da
bambina, è stata torturata dalla Chouette?»
«Nel mio portafogli ci sono certi documenti che vi indiche-
ranno la pista da seguire. Pare che sua madre sia una gran signora.»
«Dov’è vostro figlio?»
«Non mi ucciderete?»
«Prima dicci tutto...»
«Però quando saprete...» disse il Maître d’école esitando. «L’hai
ucciso!»
«No, no, l’ho affidato a un complice che, dopo il mio arresto, è
riuscito a scappare.»
«Che ne ha fatto?»
«L’ha allevato; gli ha inculcato gli insegnamenti necessari per
entrare nel commercio, con lo scopo di servirsene e... Ma il seguito
non lo racconterò, a meno che non mi promettiate di non uccidermi.»
«Delle condizioni, miserabile!»
«Ebbene! no, no; ma pietà; fatemi arrestare soltanto per il delitto
di oggi; non parlate dell’altro. Lasciatemi la possibilità di
salvarmi la pelle.»
«Vuoi vivere?»
«Oh! sì, sì; chissà? Non si può mai sapere quello che può succedere»
disse involontariamente il brigante. Pensava già alla possibilità di
un’altra evasione. «Vuoi vivere ad ogni costo... vivere?»
«Sì, vivere... anche attaccato a una catena! per un mese, per otto
giorni... Oh! non voglio morire adesso subito...»
«Confessa i tuoi delitti e vivrai.»
«Vivrò! oh, davvero? vivrò?»
«Ascolta, per pietà verso tua moglie e tuo figlio, voglio darti
un saggio consiglio: muori oggi, muori...»
«Oh! no, no, non ritirate la vostra promessa, lasciatemi vive-
re, l’esistenza più atroce, più spaventosa, non è nulla di fronte
alla morte.»
«Vuoi vivere?»
«Oh! sì, sì...»
«Lo vuoi proprio?»
«Oh! non me ne pentirò mai.»
«E di tuo figlio, che ne hai fatto?»
«Quel mio amico di cui vi dicevo, gli ha fatto imparare la con-
tabilità per metterlo in qualche casa bancaria perché potesse
informarci... riguardo a qualche aspetto. Noi due c’eravamo messi
d’accordo. Da Rochefort, dove aspettavo di evadere, dirigevo il
piano di quell’impresa e corrispondevo col complice per messaggi
cifrati.»
«Quest’uomo mi spaventa!» esclamò Rodolphe rabbrividendo; «ci sono
certi delitti che non sospettavo. Confessa... confessa... perché
volevi far entrare tuo figlio da un banchiere?»
«Per... voi capite bene... essendo d’accordo con noi... senza darlo
a vedere... ispirare fiducia al banchiere... secondarci... e...»
«Oh! Dio mio! suo figlio!» esclamò Rodolphe stupito e addolorato
insieme, prendendosi la testa fra le mani.
«Ma non si trattava che di falsi!» esclamò il brigante; «inoltre
quando abbiamo spiegato a mio figlio ciò che volevamo da lui, si è
indignato... Dopo una scenata violenta con la persona che l’aveva
allevato per i nostri fini, è sparito... Sono passati ormai diciotto
mesi... Da allora non si è saputo più niente di lui... nel mio
portafogli troverete un documento dove sono indicati tutti i
tentativi che ha fatto quella persona per trovarlo, prima che
denunciasse l’associazione; ma qui a Parigi abbiamo perso le tracce.
L’ultima
casa dove ha abitato era in rue du Temple, al n. 14, sotto il nome
di François Germain; nel mio portafoglio potrete trovare anche
questo indirizzo... Vedete, ho detto tutto, tutto... Mantenete la
vostra promessa, fatemi arrestare solo per il furto di questa sera.»
«E il mercante di bestiame di Poissy?»
«È impossibile che lo scoprano, non ci sono prove. A voi lo confesso
volentieri per dimostrare la mia buona volontà; ma davanti al
giudice negherei...»
«Lo confessi allora?»
«Ero in miseria, non sapevo come campare... È stata la Chouette a
consigliarmi... Adesso mi pento... potete constatarlo, dato che
confesso... Ah, se foste tanto generoso da non consegnarmi alla
giustizia, vi darei la mia parola d’onore di non ricominciare.»
«Vivrai... e non ti consegnerò alla giustizia.»
«Mi perdonate?» esclamò il Maître d’école non credendo alle proprie
orecchie; «mi perdonate?»
«Ti giudico... e ti punisco!» gridò Rodolphe con voce tonante. «Non
ti consegno alla giustizia, perché andresti in galera o sul
patibolo, non è quello che ti ci vuole... no, non è quello che ti ci
vuole... In galera! per tornare a dominare quella massa con la forza
e la malvagità! per tornare a soddisfare il tuo istinto di
oppressore brutale!... per essere aborrito, temuto da tutti; perché
il delinquente ha un suo orgoglio, e tu, nella tua mostruosità, sei
contento!... In galera! no, no: il tuo corpo di acciaio sfida le
fatiche della galera e il bastone degli aguzzini. E poi le catene si
possono rompere, i muri sfondare, i bastioni scalare; e un giorno o
l’altro potresti ancora, infrangendo la legge, trovarti a piè libero
e azzannare ancora la gente come una belva furiosa, lasciando sul
tuo passaggio i segni della rapina e del delitto... perché nulla può
sfuggire alla tua forza erculea e al tuo coltello; e questo non deve
accadere... no, non deve accadere! Poiché in galera torneresti a
spezzare la catena... che fare per garantire la società contro la
tua furia? Consegnarti al boia?»
«Allora volete la mia morte?» gridò il Maître d’école, «la mia
morte?»
«La tua morte! non sperarlo... sei così vigliacco, la temi tanto...
la morte... che mai la crederesti imminente! Con il tuo attaccamento
alla vita, con il tuo ostinato sperare, riusciresti a sfuggire alle
angosce della sua terribile venuta! Speranza sciocca, insensata!...
non importa... essa riuscirebbe a nasconderti l’orribile espiazione
del supplizio a cui non crederesti che sotto la scure del boia! E
allora, abbrutito dal terrore, non saresti più che una mas-
sa inerte, insensibile che verrebbe offerta in olocausto in mano
delle tue vittime... Non è possibile... potresti credere fino
all’ultimo di salvarti... Tu, mostro... sperare? Come! la speranza
sarebbe venuta a portare entro i muri della tua cella le sue dolci e
consolanti visioni.., finché la morte non ti avrà velato la
pupilla?... Suvvia!... il vecchio Satana si divertirebbe troppo!...
Se non ti penti... non voglio che tu speri in questa vita, io...»
«Ma che cosa ho fatto a quest’uomo?... chi è? che cosa vuole da me?
dove sono?...» gridò il Maître d’école quasi in delirio.
Rodolphe continuò:
«Se invece tu affrontassi la morte con spavalderia non dovresti
neppure in questo caso essere condotto al supplizio... Per te il
patibolo sarebbe la macabra scena in cui, come tanti altri, faresti
sfoggio della tua ferocia... dove, senza darti pensiero della tua
vita sciagurata, ti danneresti l’anima con un’ultima bestemmia!...
Nemmeno questo ti ci vuole... Non è bello che la gente veda un
condannato scherzare con la mannaia, schernire il boia e spegnere
con una sghignazzata la scintilla divina che il Creatore ha messo in
noi... La salvezza di un’anima è una cosa sacrosanta. Ogni delitto
può essere espiato e riscattato, ha detto il Salvatore, ma da chi
cerca sinceramente espiazione e pentimento. È troppo breve il passo
dal tribunale al patibolo. Non devi morire così.»
Il Maître d’école era annientato... Per la prima volta nella sua
vita ci fu qualcosa che gli fece più paura della morte... Quel
timore imprecisato era orribile...
Il dottore negro e lo Chourineur guardavano Rodolphe con angoscia,
ascoltavano fremendo la sua voce sonora, tagliente, implacabile come
la lama di una scure; sentivano i loro cuori stringersi
dolorosamente.
Rodolphe continuò:
«Anselme Duresnel, non andrai in galera... non morirai...» «Ma che
volete da me? è proprio l’inferno che vi manda?» «Ascolta...» disse
Rodolphe alzandosi con aria solenne e dando
al suo gesto un’autorità minacciosa: «Hai usato la tua forza per
uccidere... io paralizzerò la tua forza... I più forti tremavano
davanti a te... tu tremerai davanti ai più deboli... Assassino...
Hai gettato alcune creature di Dio nella notte eterna... le tenebre
dell’eternità cominceranno per te in questa vita... oggi... fra
poco... La punizione insomma sarà pari ai tuoi delitti... Ma»
aggiunse Rodolphe, con addolorata pietà, «questa spaventosa
punizione non ti toglierà almeno l’orizzonte sconfinato
dell’espiazione... Sarei un criminale pari tuo, se, punendoti,
soddisfacessi solo la mia sete di vendetta,
per quanto giusta fosse... Lungi dall’essere sterile come la
morte... la punizione dovrà essere feconda; lungi dal dannarti...
potrà redimerti... Se, onde porti nell’impossibilità di nuocere...
ti privo per sempre delle bellezze della natura... se ti precipito
in una notte impenetrabile... solo... con il ricordo dei tuoi
misfatti... lo faccio affinché tu non smetta mai di contemplarne
l’enormità... Sì... isolato per sempre dal mondo esteriore, sarai
costretto a guardare in te... e allora spero che la tua fronte,
bollata dall’infamia, arrossirà di vergogna... che il tuo animo reso
insensibile dalla ferocia... intaccato dal delitto... s’intenerirà
per pietà... ogni tua parola è una bestemmia... ogni tua parola sarà
una preghiera... Sei audace e crudele perché sei forte... sarai
dolce e umile perché sarai debole... Il tuo cuore è chiuso al
pentimento... un giorno piangerai le tue vittime... Hai avvilito
l’intelligenza che Dio ti aveva dato facendola diventare istinto di
rapina e di delitto... da uomo sei diventato bestia selvatica... un
giorno la tua intelligenza sarà ritemprata dal rimorso, nobilitata
dall’espiazione... Tu non hai rispettato nemmeno quello che
rispettano le bestie feroci... la loro femmina e i loro piccoli...
Dopo una lunga vita consacrata alla redenzione dei tuoi delitti, la
tua ultima preghiera sarà per supplicare Dio di concederti
l’insperata felicità di morire tra tua moglie e tuo figlio.»
Dicendo queste ultime parole la voce di Rodolphe s’era fatta mesta e
commossa.
Il Maître d’école non aveva quasi più paura... Pensò che Rodolphe
prima di fargli la morale avesse voluto spaventarlo. Tranquillizzato
quasi dal tono pacato del suo giudice, il brigante, diventato tanto
più insolente in quanto era meno spaventato, disse alla fine d’una
grassa risata:
«Oh bella! risolviamo sciarade o siamo a catechismo qui?...»
Il negro guardò Rodolphe con inquietudine; si aspettava uno scoppio
di furore da parte sua.
Ma non fu così... il giovane scosse la testa con un’ineffabile
espressione di tristezza, e disse al dottore:
«David, fate pure... Se sbaglio, che Dio punisca me solo!...»
E Rodolphe si nascose il viso tra le mani...
Alle parole «David, fate pure», il negro suonò.
Entrarono due uomini vestiti di nero. Il dottore, con un segno,
mostrò loro la porta di uno stanzino laterale.
I due uomini vi spinsero dentro la poltrona dove il Maître
d’école era legato in modo da non poter fare nessun movimento. La
testa era tenuta ferma allo schienale da una fascia che gli
circondava il collo e le spalle.
«Legategli la fronte alla poltrona con un fazzoletto e poi
imbavagliatelo» disse David, senza entrare nello stanzino.
«Volete sgozzarmi, adesso?... pietà!...» disse il Maître d’école
«pietà!... e...»
E seguì poi un mormorio confuso.
I due uomini riapparvero... Il dottore fece un segno ed essi
uscirono.
«Mio signore?...» disse ancora una volta il negro a Rodolphe con
aria interrogativa.
«Fate» rispose Rodolphe senza muoversi.
David entrò a passi lenti nello stanzino.
«Signor Rodolphe, ho paura» disse lo Chourineur pallidissi-
mo e tutto tremante. «Signor Rodolphe, dite qualcosa... ho paura...
sto forse sognando? Ma che cosa sta facendo mai il negro al Maître
d’école? Signor Rodolphe, non si sente niente... Ho ancora più
paura.»
David uscì dallo stanzino; era pallido come possono esserlo i negri.
Aveva le labbra bianche.
Suonò.
I due uomini riapparvero.
«Riportate qui la poltrona.»
Ricondussero il Maître d’école.
«Levategli il bavaglio.»
Glielo tolsero.
«Volete mettermi alla tortura, allora?...» gridò il Maître più
con ira che con dolore. «Perché vi siete divertito a pungermi gli
occhi così?... Mi avete fatto male... Avete spento le luci anche qui
come nello stanzino perché volete torturarmi ancora al buio?...»
Seguì un istante di spaventoso silenzio.
«Siete cieco...» disse finalmente David con voce rotta.
«Non è vero! Non è possibile! Avete fatto buio apposta!...» gri-
dò il brigante, facendo sforzi violenti sulla poltrona.
«Scioglietelo, che si alzi, che cammini» disse Rodolphe.
I due uomini sciolsero i legami.
Il Maître d’école si alzò bruscamente, fece un passo con le
mani tese davanti a sé, poi ricadde sulla poltrona con le braccia
alzate al cielo.
«David, dategli il portafogli» disse Rodolphe.
Il negro mise nelle mani tremanti del Maître d’école un piccolo
portafogli.
«In questo portafogli c’è denaro sufficiente per pagarti una
casetta... e comperarti da mangiare... fino alla fine dei tuoi
giorni
in qualche posto solitario. Adesso sei libero... vattene... e
pentiti... il Signore è misericordioso!»
«Cieco!» ripeté il Maître d’école senza far caso al portafogli che
aveva in mano.
«Aprite le porte... che se ne vada!» disse Rodolphe. Le porte furono
aperte con gran rumore.
«Cieco! cieco! cieco!!!» ripeté il brigante annientato.
«Dio mio! è proprio vero!»
«Sei libero, hai il denaro, vattene!»
«Ma non posso andarmene! Come volete che faccia? non ci
vedo più!!!» gridò, disperato. «Ma è un delitto spaventoso abusare
della propria forza per...»
«È un delitto spaventoso abusare della propria forza!» ripeté con
tono solenne Rodolphe interrompendolo.
«E tu, che cosa hai fatto della tua forza?»
«Oh! la morte... Sì, avrei preferito la morte!» gridò il Maître
d’école. «Essere alla mercé di tutti, aver paura di tutto! Ora anche
un fanciullo potrebbe picchiarmi! Che fare? Dio mio, Dio mio! che
fare?»
«Hai il denaro.»
«Me lo ruberanno!» disse il brigante.
«Te lo ruberanno! Le senti queste parole... che dici con paura,
tu che hai rubato? Vattene.»
«Per l’amor di Dio» disse il Maître d’école supplichevole, «che
qualcuno mi guidi! Come farò per la strada?... Ah! uccidetemi!
guardate, uccidetemi! ve lo chiedo per pietà... uccidetemi!»
«No, un giorno ti dovrai pentire.»
«Mai, mai mi pentirò!» gridò il Maestro con rabbia. «Oh! mi
vendicherò! sì... mi vendicherò!...»
E, digrignando i denti dalla rabbia, si alzò dalla poltrona,
minacciando con i pugni chiusi.
Ma al primo passo, inciampò.
«No, no, non potrò mai!... ed essere ancora così forte! Ah, come
sono disgraziato... Nessuno ha pietà di me, nessuno.»
E pianse.
È impossibile descrivere la paura, lo stupore dello Chourineur
durante quella scena terribile: la sua faccia selvaggia e rude
esprimeva la compassione. A un certo momento si avvicinò a Rodolphe
e gli disse sottovoce:
«Signor Rodolphe, questo forse se l’è meritato... era un brigante
famigerato! poco fa ha tentato anche di uccidermi; ma adesso è
cieco, piange. Sì, insomma, mi fa pena... non sa come fare per
uscire di
qui. Per la strada, potrebbero schiacciarlo. Permettetemi di
accompagnarlo in qualche posto dove almeno possa stare tranquillo!»
«Va bene...» disse Rodolphe, commosso da tanta generosità, prendendo
la mano allo Chourineur; «va’ pure...»
Lo Chourineur si avvicinò al Maître d’école e gli mise una mano
sulla spalla.
Il malandrino trasalì.
«Chi mi tocca?» disse con voce sorda.
«Io...»
«Io, chi?»
«Lo Chourineur.»
«Vieni a vendicarti anche tu, vero?»
«Non sei capace di uscire!... aggrappati al mio braccio... ti gui-
derò io.» «Tu! tu!»
«Sì, mi fai pena... adesso; vieni!»
«Vuoi tendermi un tranello?»
«Sai bene che non sono un vigliacco... non approfitterei mai
della tua disgrazia. Su, andiamo, è quasi giorno.»
«È giorno!!! ah, io non vedrò mai più quando sarà giorno!»
esclamò il Maître d’école.
Rodolphe, non potendo più sopportare quello spettacolo, se
ne andò bruscamente, seguito da David, dopo aver fatto segno ai due
domestici di ritirarsi.
Lo Chourineur e il Maître d’école rimasero soli.
«È vero che ci sono i soldi nel portafogli che mi hanno dato?» disse
l’assassino, dopo un lungo silenzio.
«Sì, ci ho messo io stesso cinquemila franchi. Con una somma così
potrai andare a pensione da qualche parte, in qualche angolo, in
campagna, per il resto dei tuoi giorni... oppure vuoi che ti
accompagni dall’ostessa?»
«No, mi deruberebbe.»
«Da Bras-Rouge?»
«Mi darebbe il veleno per derubarmi!»
«E allora dove vuoi che ti accompagni?»
«Non so. Tu, Chourineur, non sei un ladro. Ecco, nascondimi
bene il portafogli nella giacca, perché se la Chouette lo vedesse,
me lo porterebbe via.»
«La Chouette? L’hanno portata all’ospedale Beaujon. Questa notte,
nella lotta contro voi due, le ho deformato una gamba.»
«Ma che cosa sarà di me? Dio mio! che cosa ne sarà di me adesso che
ho questa tela nera lì, sempre davanti a me! E se su
questa tela nera vedessi apparire le facce pallide e smorte di
coloro...»
Sussultò:
«L’uomo di questa notte è morto?» chiese con voce sorda allo
Chourineur.
«No.»
«Meglio così!»
E il brigante restò per un po’ silenzioso, poi a un tratto escla-
mò tremante di rabbia:
«Sei proprio tu, Chourineur che mi sei costato questo! Ma-
scalzone... se non c’eri tu ammazzavo l’uomo e portavo via il
denaro. Se sono cieco, è colpa tua! sì, è colpa tua!»
«Non ci pensare più, non è salutare per te. Su, vieni sì o no?...
sono stanco, ho voglia di dormire. Oggi ci siamo divertiti
abbastanza. Domani torno alla mia solita vita. Ti porterò dove
vorrai, poi andrò a dormire.»
«Ma io non so dove andare. Nella mia stanza... non oso... dovrei
dire...»
«Ebbene! ascolta: vuoi venire per un giorno o due nella mia
stamberga? Potrei forse trovare moltissima gente onesta che, non
sapendo chi sei, ti prenderà a pensione in casa propria, come un
infermo... Guarda... c’è proprio un uomo del porto Saint-Nicolas che
conosco, la cui madre abita a Saint-Mandé; una degna donna, non
troppo fortunata. Lei forse potrebbe prendersi cura di te... E
allora vieni sì o no?»
«Di te, Chourineur, c’è da fidarsi. Non ho paura di venire a casa
tua col denaro. Non hai mai rubato, tu... tu non sei cattivo, sei
generoso.»
«Va bene, su, basta con questi epitaffi.»
«Ti sono riconoscente, Chourineur, del fatto che vuoi farmi del
bene. Non hai né odio né rancore, tu...» disse il brigante
umilmente, «vali molto più di me.»
«Perdio! lo credo bene; il signor Rodolphe mi ha detto che ho un
cuore.»
«Ma chi è quell’uomo? Non è un uomo,» gridò il Maître d’école in
preda a un nuovo accesso di disperato furore, «è un carnefice! un
mostro!»
Lo Chourineur alzò le spalle e disse: «Andiamo?»
«Andiamo a casa tua, vero, Chourineur?»
«Sì.»
«Mi giuri che non mi serbi rancore per questa notte, me lo
giuri?»
«Sì.»
«E sei sicuro che non sia morto... l’uomo?»
«Ne sono sicuro.»
«Sarà sempre uno di meno» disse l’assassino con voce sorda. E
appoggiandosi al braccio dello Chourineur, uscì dalla casa
dell’allée des Veuves.
PARTE SECONDA
I L’ÎLE-ADAM
Era passato un mese dagli avvenimenti che abbiamo descritto.
Trasporteremo il lettore nella cittadina dell’Île-Adam che sorge in
una posizione incantevole, sulle rive dell’Oise, al limite di una
foresta.
I fatterelli diventano in provincia avvenimenti. Per questo gli
sfaccendati dell’Île-Adam che quella mattina bighellonavano sulla
piazza della chiesa, erano molto curiosi di sapere quando sarebbe
arrivato il compratore della più bella macelleria della città, che
la proprietaria, la vedova Dumont, aveva da poco ceduto.
Il compratore doveva essere sicuramente ricco: perché aveva fatto
dipingere e preparare splendidamente la bottega. Gli operai vi
avevano lavorato giorno e notte per tre settimane. Una bella
inferriata di bronzo dorato occupava tutto il vano della porta della
macelleria e la proteggeva senza ostacolare la circolazione
dell’aria. Ai lati dell’inferriata c’erano due larghe colonne, con
in cima due grosse teste di toro con le corna d’oro; le colonne
sorreggevano la grande cornice destinata a ricevere l’insegna della
bottega. Il resto della casa, che era a un solo piano, era stato
dipinto di un color pietra; le persiane, di un grigio chiaro. I
lavori erano terminati, mancava solo che si esponesse l’insegna,
cosa attesa con impazienza dagli sfaccendati, desiderosissimi di
conoscere il nome del successore della vedova.
Finalmente, gli operai portarono un grande cartello dove i curiosi
poterono leggere scritto a caratteri d’oro su fondo nero:
«Macelleria Francoeur».
L’informazione non soddisfece che parzialmente la curiosità degli
sfaccendati dell’Île-Adam. Chi era il signor Francoeur? Uno dei più
curiosi andò a informarsi dal garzone della macelleria, un ragazzo
con la faccia allegra e aperta che stava premurosamente dando gli
ultimi ritocchi alla vetrina.
Il ragazzo, alle domande, rispose dicendo di non conoscere ancora il
signor Francoeur, suo padrone, perché la macelleria era stata
acquistata per procura; ma il garzone era sicuro che il padrone
avrebbe fatto di tutto per accattivarsi come clienti i signori
abitanti dell’Île-Adam.
Questo piccolo complimento buttato lì con squisita cordialità e il
bell’aspetto della bottega disposero favorevolmente i curiosi verso
il signor Francoeur; alcuni anzi promisero subito al garzone di
diventare clienti della macelleria.
La casa aveva una porta carraia che dava sulla rue de l’Eglise.
Due ore dopo l’apertura della macelleria, un carrettino nuovo
fiammante, tirato da un bravo e robusto cavallo percheron, entrò nel
cortile della macelleria; ne discesero due uomini.
Uno era Murph, completamente guarito dalla ferita, anche se ancora
pallido; l’altro era lo Chourineur.
Col rischio di ripetere una frase convenzionale, diremo che sotto i
vestiti che portava, il frequentatore delle bettole della Cité era
quasi irriconoscibile, tanto e tale è il potere dell’abito.
Il volto aveva subìto lo stesso cambiamento: con gli stracci lo
Chourineur aveva deposto quella sua aria selvaggia, brutale e
turbolenta; a vederlo camminare con le mani nelle tasche della lunga
e grossa prefettizia di castorino color nocciola, col mento rasato
di fresco nascosto entro una sciarpa bianca ricamata agli angoli, lo
si sarebbe preso per l’uomo più tranquillo di questo mondo.
Murph attaccò la cavezza del cavallo a un anello di ferro infisso
nel muro e fece segno allo Chourineur di seguirlo; entrarono in una
stanzuccia bassa, con mobili in noce, che faceva da retrobottega; le
due finestre che c’erano davano sul cortile dove il cavallo
scalpitava impaziente. Murph sembrava a casa propria; infatti aprì
un armadio, tirò fuori una bottiglia di acquavite con un bicchiere,
poi disse allo Chourineur:
«Poiché stamane, ragazzo, fa molto freddo, penso che berrete
volentieri un po’ d’acquavite.»
«Se non vi dispiace, signor Murph... non berrò.»
«Non volete?»
«No, sono troppo contento e la gioia mette calore. Con ciò,
quando dico contento... forse.»
«Come mai?»
«Ieri siete venuto a cercarmi al porto di Saint-Nicolas, dove
scaricavo legna con lena per scaldarmi. Non vi vedevo dalla notte...
in cui il negro dai capelli bianchi aveva accecato il Maître
d’école. Era la prima cosa che non fosse lui a rubare, è vero... ma
insomma... accidenti, ero sconvolto. E il signor Rodolphe, che
faccia! lui che sembrava tanto buono, in quel momento mi ha fatto
paura.»
«Bene, bene... e dopo?»
«Dopo voi m’avete detto: “Buongiorno, Chourineur”. “Buongiorno
signor Murph. Eccovi in piedi!... meglio così, diavolo!... meglio
così. E il signor Rodolphe?” “È stato costretto a partire qualche
giorno dopo l’affare dell’allée des Veuves e si è dimenticato di
voi, ragazzo.” “Ebbene, signor Murph”, vi rispondo io, “che il
signor Rodolphe mi abbia dimenticato, vero... mi dispiace molto.”»
«Volevo dire, amico, che si era dimenticato di ricompensare i vostri
servigi; ma se ne ricorderà sempre.»
«Così, signor Murph, quelle parole mi hanno subito rincuorato.
Accidenti! io certo non lo dimenticherò mai!... Mi ha detto che ho
un cuore e un onore... insomma basta.»
«Purtroppo, ragazzo, sua signoria è partito senza lasciare
disposizioni nei vostri riguardi; io possiedo solo quello che mi dà
sua signoria: non posso ripagare come vorrei... quello che vi devo
per parte mia.»
«Via, signor Murph, voi volete scherzare.»
«Ma perché diamine non siete più ritornato all’allée des Veuves dopo
quella brutta notte? Sua signoria si sarebbe ricordato di voi prima
di partire.»
«Insomma... il signor Rodolphe non mi ha fatto cercare. Ho creduto
che non avesse più bisogno di me.»
«Ma dovevate pur pensare che sentisse almeno il bisogno di mostrarvi
la sua riconoscenza.»
«Dal momento che, signor Murph, mi avete detto che il signor
Rodolphe non si è dimenticato di me!»
«Va bene, su, non parliamone più. Solo che ho faticato molto per
trovarvi... Non andate più dall’ostessa?»
«No.»
«Come mai?»
«Così, idee mie... sciocchezze.»
«Meno male; ma torniamo a quello che stavate dicendo.»
«A che cosa, signor Murph?»
«Mi stavate dicendo: “Sono contento di avervi incontrato; e
ancora, contento... forse”.»
«Adesso mi ricordo, signor Murph. Ieri, quando siete ve-
nuto dove scarico il legname, mi avete detto: “Ragazzo, io non
sono ricco, ma posso farvi avere un posto dove faticherete meno che
al porto, e che vi farà guadagnare quattro franchi al giorno”.
Quattro franchi al giorno... benissimo! Non potevo crederci: una
paga da sottufficiale! Vi rispondo: “Ci sto, signor Murph”. “Ma” voi
mi dite, “non dovete vestire come un pezzente, perché potreste
spaventare i signori che vi presenterò.” Io vi rispondo: “Non ho
altro da mettermi”. Voi mi dite: “Venite al Temple”. Io vi seguo;
scelgo quello che comare Hubart ha di più fiammante, mi anticipate i
soldi per pagare, e, in un quarto d’ora, sono agghindato come un
proprietario o come un dentista. Ho appuntamento con voi alla porta
per questa mattina all’alba; all’appuntamento vi trovo con il vostro
carrettino, e ora eccoci qui.»
«Or bene, che cosa c’è di brutto in tutto questo?»
«C’è che... a esser ben messi, vedete signor Murph, ci si rovina, e
quando poi tornerò a rimettermi il vecchio camiciotto e gli stracci,
mi farà uno strano effetto. E poi... guadagnare quattro franchi al
giorno, io che ne guadagno due... così a un tratto, per giunta... mi
sa che è troppo bello e che non può durare; e preferirei dormire per
tutta la vita sul brutto pagliericcio della mia stamberga, piuttosto
che dormire cinque o sei notti in un buon letto. Sono fatto così,
io.»
«Non è del tutto sbagliato. Ma meglio di tutto sarebbe dormire
sempre in un buon letto.»
«Chiaro, è meglio avere pane finché si vuole piuttosto che crepare
di fame. Ah, questa poi! c’è una macelleria qui?» disse lo
Chourineur, che aveva sentito il garzone battere la mannaia e visto
i quarti di manzo attraverso le tende.
«Sì, buon uomo; appartiene a un mio amico. Volete che diamo
un’occhiata intanto che il cavallo riprende fiato?»
«Oh sì, volentieri; mi ricorda quand’ero giovane... solo che allora
il mio macello era Montfaucon e il mio bestiame da macello i vecchi
ronzini. È strano, se avessi avuto i mezzi, quello del macellaio è
un mestiere che comunque mi sarebbe piaciuto molto! Andarsene su un
buon puledrino a comprar bestie alla fiera, ritornare a casa propria
accanto al fuoco, scaldarsi se si ha freddo, asciugarsi se si è
bagnati e trovare la propria brava donna, una buona grassona fresca
e gioviale, con una nidiata di bambini che vi frugano nelle tasche
per vedere se avete portato loro qualcosa. E la mattina, nel
mattatoio, abbrancare un bue per le corna... specialmente quando è
cattivo, dio d’un dio!... bisogna che sia cattivo... attaccarlo
all’anello, abbatterlo, squartar-
lo, pulirlo... Caspita, sarebbe stata la mia più grande ambizione,
come per la Goualeuse quand’era piccola mangiare lo zucchero
d’orzo... A proposito, signor Murph... quando non ho più visto la
povera ragazza tornare dall’ostessa, ho pensato che il signor
Rodolphe l’avesse portata via di lì. Ecco, questa sì che è una buona
azione, signor Murph. Povera ragazza! lei non voleva fare del
male... Era così giovane! e poi... l’abitudine... Insomma il signor
Rodolphe ha fatto bene.»
«Sono d’accordo con voi. Ma volete venire a visitare la bottega,
mentre aspettiamo che il cavallo prenda fiato?»
Lo Chourineur e Murph entrarono nella bottega, poi andarono a vedere
la stalla dove erano rinchiusi tre magnifici buoi e una ventina di
montoni; poi la scuderia, la rimessa, il mattatoio, i magazzini e
gli annessi della casa, che era tenuta con cura e pulizia, indizi di
ordine e di benessere.
Quando ebbero visto tutto, fuorché il piano superiore:
«Dovete ammettere» disse Murph, «che il mio amico è un uomo molto
fortunato. La casa e la bottega sono sue, senza contare il migliaio
di scudi circolante necessario al suo commercio; inoltre, trentotto
anni, forte come un toro, una salute di ferro, ed entusiasta del suo
mestiere. Quando va alla fiera a comperare le bestie, ne fa le veci
il bravo e onesto ragazzo che avete visto prima. Non è vero che il
mio amico è molto fortunato?»
«Ah, certo, signor Murph. Ma che volete? ci sono i fortunati e gli
sfortunati; quando penso che fra poco guadagnerò quattro franchi al
giorno, e che c’è gente che ne guadagna la metà, o meno...»
«Volete salire a vedere il resto della casa?»
«Volentieri, signor Murph.»
«Il signore che deve assumervi si trova proprio di sopra.» «Il
signore che deve assumermi?»
«Sì.»
«Oh bella, perché poi non me l’avete detto prima?»
«Ve lo spiegherò dopo.»
«Un momento» disse lo Chourineur triste e imbarazza-
to, prendendo Murph per un braccio; «sentite, devo dirvi una cosa...
che il signor Rodolphe forse non vi ha detto... ma che io non devo
nascondere al padrone che vuole assumermi... perché se questo non
gli va, tanto vale che sia subito anziché dopo.»
«Cosa volete dire?» «Voglio dire...»
II
LA RICOMPENSA
«Evviva! sono maledettamente contento di ritrovarvi, signor
Rodolphe, o meglio mio signore» esclamò lo Chourineur.
Provava una vera gioia nel rivedere Rodolphe; perché i cuori
generosi si affezionano sia in virtù dei servigi che fanno che in
virtù di quelli che son fatti loro.
«Buongiorno, ragazzo; anch’io sono felice di vedervi.»
«Che burlone il signor Murph! aveva detto che eravate partito. Ma
state a sentire, mio signore...»
«Chiamatemi signor Rodolphe, mi piace di più.»
«Ebbene, signor Rodolphe, scusate se non son più venuto da voi dopo
la notte del Maître d’école... Adesso capisco che ho fatto una
sgarberia; ma insomma, non me ne vorrete, vero?»
«Vi scuso» disse Rodolphe sorridendo. Poi aggiunse:
«Murph vi ha fatto vedere la casa?»
«Sì, signor Rodolphe; bella abitazione, bella bottega; cose da
ricchi, fatte con cura. A proposito di ricchi, fra poco, signor
Rodolphe, lo diventerò anch’io: il signor Murph mi fa guadagnare
quattro franchi al giorno... quattro franchi!»
«Ho qualcosa di meglio da proporvi, ragazzo.»
«Oh! di meglio... senza volervi contraddire, è difficile.» «Quattro
franchi al giorno!»
«Vi dico che ho da proporvi di meglio: perché la casa, quanto
c’è in essa, la bottega e i mille scudi che sono in questo
portafogli, è tutta roba vostra.»
Lo Chourineur sorrise stupidamente, strinse convulsamente le
ginocchia prendendo in mezzo e schiacciando il peloso cappello di
castoro, e finì col non capire niente di quello che Rodolphe gli
diceva, sebbene le parole di quest’ultimo fossero molto chiare.
Poi Rodolphe riprese con benevolenza:
«Capisco la vostra sorpresa; ma vi ripeto che questa casa e questo
denaro sono vostri, sono di vostra proprietà.»
Lo Chourineur diventò di fuoco, si passò la mano callosa sulla
fronte madida di sudore e balbettò con voce alterata:
«Oh, cioè... cioè..., mia proprietà...»
«Sì, proprietà vostra dal momento che io vi faccio dono di tutto.
Capite! vi faccio dono di tutto, a voi...»
Lo Chourineur si agitò sulla sedia, si grattò la testa, tossì,
abbassò gli occhi e non rispose. Si sentiva sfuggire il filo delle
idee. Capiva perfettamente quello che gli diceva Rodolphe e appunto
per questo non poteva credere alle proprie orecchie. Fra la profonda
miseria, la degradazione in cui era sempre vissuto e la posizione
che gli assicurava Rodolphe, c’era un abisso che non poteva essere
colmato nemmeno dal servizio che egli aveva reso a Rodolphe.
In attesa del momento in cui il suo protetto avrebbe aperto gli
occhi, Rodolphe stava a godersi deliziosamente quello stupore, quel
beato stordimento.
Notava, con una mescolanza di gioia e d’amarezza indicibili, che in
certi uomini l’abitudine alla sofferenza e alla sventura è tale, che
la loro ragione si rifiuta d’ammettere la possibilità di un avvenire
che costituirebbe per molti un’esistenza assai poco allettante.
«Certo» egli pensava, «se mai l’uomo ha rapito, sull’esempio di
Prometeo, qualche scintilla alla divinità, è nei momenti in cui fa
(ci sia perdonata questa bestemmia!) quello che la Provvidenza
dovrebbe fare di tanto in tanto per edificare il mondo: provare ai
buoni e ai cattivi che c’è ricompensa per gli uni, punizione per gli
altri.»
Dopo aver gioito ancora un po’ del beato inebetimento dello
Chourineur, Rodolphe continuò:
«Trovate che quel che vi do vada molto al di là delle vostre
speranze?»
«Mio signore!» disse lo Chourineur alzandosi bruscamente, «voi mi
offrite questa casa con molto denaro... per tentarmi; ma io non
posso.»
«Che cosa non potete?» chiese Rodolphe stupito.
Lo Chourineur si animò in volto, la sua vergogna cessò, disse con
fermezza:
«Lo so che non mi offrite tanto denaro per spingermi a rubare.
D’altronde, non ho mai rubato in vita mia... Forse, è per
uccidere... ma ne ho già abbastanza del sogno del sergente!»
aggiunse lo Chourineur con voce cupa.
«Ah, questi infelici!» esclamò Rodolphe con amarezza. «La
compassione che si ha per loro è veramente un fatto così insolito
che non si possa vedere la generosità se non alla luce di fini
criminosi?»
Poi si rivolse alla Chourineur e gli disse con voce piena di
dolcezza:
«Voi mi giudicate male... vi ingannate, non esigerò nulla da voi che
non sia cosa onesta. Quello che vi do, ve lo do perché lo meritate.»
«Io!» esclamò lo Chourineur ripreso da nuovo stupore, «lo merito, e
come mai?»
«Ve lo dirò subito: senza nozione del bene e del male, abbandonato
ai vostri istinti selvaggi, rinchiuso per quindici anni in galera in
compagnia dei peggiori scellerati, pungolato dalla miseria e dalla
fame, costretto dalla vostra stessa infamia e dalla riprovazione
della gente onesta a frequentare la feccia dei malfattori, non solo
siete rimasto integro, ma anche il rimorso del vostro delitto è
sopravvissuto all’espiazione che la giustizia umana vi aveva
imposto.»
Questo linguaggio semplice e nobile fu una nuova fonte di meraviglia
per lo Chourineur. Egli guardava Rodolphe con un rispetto misto a
timore e riconoscenza. Ma non poteva ancora arrendersi all’evidenza.
«Ma come, signor Rodolphe, perché mi avete bastonato, perché,
credendovi un operaio dato che parlavate il gergo come pochi lo
parlano, vi ho raccontato la mia vita fra un bicchiere e l’altro, e
perché dopo di ciò non vi ho lasciato annegare... Voi, come mai?
Insomma, io... una casa... i soldi... io come un signore... Sentite,
signor Rodolphe, vi ripeto che non è possibile.»
«Credendomi uno dei vostri, mi avete raccontato la vostra vita con
naturalezza, senza fingere, senza nascondere ciò che c’era stato in
essa di colpevole e di generoso. Vi ho giudicato... giudicato bene,
e mi piace ricompensarvi.»
«Ma, signor Rodolphe, non può essere. No, insomma ci sono dei poveri
operai che sono stati onesti per tutta la vita, e che...»
«Lo so, e per parecchi di questi ho fatto forse più di quanto faccio
per voi. Ma se colui che resta onesto in mezzo alla gente onesta da
cui è stimato merita interessamento e appoggio, interessamento e
appoggio merita anche colui che, sebbene lontano dalla gente onesta,
riesce a mantenersi tale in mezzo agli scellerati più abominevoli
della terra. D’altra parte, non è tutto: voi m’avete salvato la vita
e l’avete salvata anche a Murph, il mio più caro amico. Quello che
faccio per voi mi è stato quindi dettato tanto dalla riconoscenza
personale quanto dal desiderio di togliere dal fango una natura
buona e forte che si era smarrita ma non perduta... E non è ancora
tutto.»
«Che cos’ho fatto ancora, signor Rodolphe?»
Rodolphe gli prese cordialmente la mano e gli disse:
«Mosso a pietà da un uomo che poco prima aveva tentato di uc-
cidervi, gli avete offerto il vostro aiuto; gli avete perfino dato
asilo nella vostra povera abitazione, al n. 9 dell’impasse
Notre-Dame.»
«Sapevate dove abitavo, signor Rodolphe?»
«Se voi dimenticate i servigi resi, io no che non li dimentico.
Quando siete uscito da casa mia vi ho fatto seguire; vi hanno visto
entrare a casa vostra con il Maître d’école.»
«Ma se il signor Murph mi aveva detto che voi, signor Rodolphe, non
sapevate dove stavo.»
«Volevo tentare un’ultima prova su di voi, volevo sapere se la
vostra generosità era disinteressata. Infatti, dopo la vostra
generosa azione, siete ritornato al pesante lavoro di ogni giorno
senza chiedere nulla, senza sperare nulla, senza nemmeno una parola
d’amarezza per l’apparente ingratitudine con cui avevo misconosciuto
i vostri servigi; e quando ieri Murph vi ha offerto un’occupazione
un po’ meglio retribuita del vostro lavoro abituale, avete accettato
con gioia, con riconoscenza.»
«Sentite, signor Rodolphe, in quanto a questo, quattro franchi al
giorno sono sempre quattro franchi al giorno. In quanto ai servizi
che vi ho reso, spetta piuttosto a me esservene grato.»
«E perché mai?»
«Sì, sì, signor Rodolphe» aggiunse con aria triste, «mi sono tornate
in mente certe cose... perché, da quando vi conosco e mi avete detto
quelle due parole: “Hai ancora un CUORE e un ONORE”, è sorprendente
quante riflessioni faccio. È proprio strano che due parole, due sole
parole facciano tanto. Ma, in fondo, seminate due piccoli chicchi di
grano da nulla nella terra e dopo un po’ spunteranno due belle
spighe.»
Il paragone, giusto e poetico quasi, colpì Rodolphe. Infatti, due
parole, ma due parole potenti e magiche per chi sa capirle, avevano
fatto germogliare quasi all’improvviso gli istinti buoni e generosi
che in germe esistevano in quella forte natura.
«Vedete, mio signore» riprese lo Chourineur, «ho salvato voi, signor
Rodolphe, e in parte il signor Murph, è vero, ma potrei salvarne
centinaia, migliaia, che non riuscirei a restituire alla vita
coloro...»
E lo Chourineur abbassò la testa incupito.
«Il vostro rimorso è salutare, ma una buona azione conta sempre.»
«E poi, in ciò che avete detto al Maître d’école a proposito degli
assassini, c’erano cose che potevano andare per me, sia in male che
in bene.»
Per distogliere lo Chourineur dal corso dei suoi pensieri, Rodolphe
gli disse:
«Siete stato voi a sistemare il Maître d’école a Saint-Mandé?»
«Sì, signor Rodolphe... Mi aveva fatto cambiare i suoi biglietti di
banca e comperare una cintura che gli ho cucito addosso... e dentro
ci ho messo il conquibus, e tanti saluti! Adesso è in pensione a
trenta soldi al giorno, in casa di ottima gente che per giunta ha
piacere a tenerselo.»
«Dovrete farmi un altro favore, ragazzo.»
«Dite, signor Rodolphe.»
«Fra qualche giorno andrete a trovarlo... con questo documen-
to: esso gli dà diritto ad avere un posto a vita dai Bons-Pauvres.
Versando quattromila cinquecento franchi e presentando detto
documento sarà tenuto lì a vita: siamo già d’accordo ed è tutto in
regola. Ho pensato che questa è la soluzione migliore. Così, per il
resto dei suoi giorni, si sarà assicurato il vitto e l’alloggio, e
dovrà solo pensare a pentirsi. Mi dispiace di non avergli procurato
subito questa ammissione, al posto di una somma che può essere
dissipata o rubata; ma m’ispirava un tale orrore che come prima cosa
desideravo sbarazzarmi della sua presenza. Gli farete dunque
quest’offerta e lo condurrete all’ospedale. Se per caso non vuole,
vedremo di trovare qualche altra via di uscita. D’accordo allora,
andrete a trovarlo!»
«Con piacere, signor Rodolphe, vi farei questo favore, come lo
chiamate voi, ma non so se sarò libero. Il signor Murph mi ha fatto
assumere da un signore per quattro franchi al giorno.»
Rodolphe guardò stupito lo Chourineur.
«Come! E la vostra bottega? e la vostra casa?»
«Via, signor Rodolphe, non prendetevi gioco di un povero dia-
volo. Vi siete già divertito abbastanza a mettermi alla prova, come
avete detto. La storia della casa e della bottega è un motivetto
cantato sulla stessa aria. Vi siete detto: “vediamo se quell’animale
dello Chourineur sarà tanto citrullo da immaginarsi che...” Basta,
basta, signor Rodolphe. Siete un burlone... chiuso!»
«Ma come! non vi ho spiegato poco fa che...»
«Per dare un colore alla cosa... trucco vecchio... a dir la verità,
avevo un po’ abboccato. Bisognava essere gonzi!»
«Ma, ragazzo, siete pazzo!»
«No, no, mio signore. Sentite, parlatemi del signor Murph. Quattro
franchi al giorno, sebbene sia già una cosa maledettamente
incredibile, è però a rigor di logica concepibile, ma una casa, una
bottega, un mucchio di denaro, che razza di commedia! Perdio, che
razza di commedia!»
E si mise a ridere in modo rumoroso e sincero. «Ma ancora una
volta...»
«Sentite, mio signore, devo ammettere che sulle prime ci sono
cascato; e questo quando mi sono detto: “Il signor Rodolphe è un
uomo come non ce ne sono molti, forse ha qualcosa da mandare a
prendere dal diavolo, mi dà la commissione, e vuole ungere un po’ le
ruote perché non mi lasci spaventare dall’odore di bruciaticcio.” Ma
poi mi sono detto che avevo torto di pensare così di voi, e in quel
preciso istante mi sono accorto che stavate scherzando; perché se
fossi stato tanto sciocco da credere che mi deste tutta una fortuna
per niente, immediatamente voi, mio signore, mi avreste detto: “Eh,
povero Chourineur, mi fai pena... sei tocco, a volte?”.»
Rodolphe trovò che cominciava a essere un po’ difficile convincere
lo Chourineur. Perciò gli si rivolse con tono grave e sostenuto,
quasi severo:
«Non scherzo mai con la riconoscenza e con l’attenzione che mi
ispira una nobile condotta... Ve l’ho già detto, questa casa e
questo denaro sono vostri, ve ne faccio dono io. E, poiché esitate a
credermi, e mi costringete a farvi un giuramento, vi giuro sul mio
onore che tutto questo vi appartiene e ve lo do per le ragioni che
vi ho già detto.»
Dal tono sicuro e dignitoso di Rodolphe e dall’espressione seria del
suo volto, lo Chourineur non ebbe più dubbi. Per qualche istante
guardò Rodolphe in silenzio, poi gli disse senza enfasi e con voce
profondamente commossa:
«Vi credo, mio signore, e vi ringrazio molto. Un povero uomo come me
non sa dire belle frasi. Ancora una volta, ecco, vi ringrazio. Tutto
quello che posso dirvi, vedete, è che non rifiuterò mai di
soccorrere gli infelici, perché la fame e la miseria sono ostesse
del tipo di quelle che hanno adescato la Goualeuse, e perché quando
si è nel fango, non tutti hanno forza sufficiente per tirarsene
fuori.»
«Non potevate farmi ringraziamento migliore, ragazzo... voi mi
capite. Troverete in questo scrittoio i documenti relativi a questa
proprietà, acquistata per voi con il nome di Francoeur.»
«Francoeur?»
«Voi non avete un nome e io vi do questo. È di buon auspicio. Sono
sicuro che lo onorerete.»
«Ve lo prometto, mio signore.»
«Coraggio, ragazzo. Voi potete aiutarmi in una buona opera.» «Io,
mio signore?»
«Voi; agli occhi del mondo sarete un esempio salutare e viven-
te. La fortunata posizione a cui vi innalza la Provvidenza servirà a
dimostrare che la gente caduta in basso può ancora risollevarsi
e sperare purché si penta e conservi in fondo all’animo qualche
preziosa qualità. Coloro che hanno errato, cercheranno di diventare
migliori se vi vedranno contento di essere stato onesto, coraggioso,
disinteressato dopo aver commesso un delitto che avete scontato con
una punizione così terribile. Voglio che si sappia tutto del vostro
passato. Prima o poi lo si verrebbe a conoscere; tanto vale
prevenire la scoperta. Fra poco andremo assieme a trovare il sindaco
di questo comune; mi sono informato su di lui; si tratta di un uomo
degno di collaborare con me nella mia opera. Gli dirò come mi chiamo
e garantirò per voi; e per stabilire fin da ora un legame onorevole
fra voi e le due persone che rappresentano moralmente la società del
posto, verserò, garantendola per due anni, una somma mensile di
mille franchi da destinarsi ai poveri; detta somma vi verrà spedita
ogni mese e voi assieme al sindaco e al parroco deciderete l’uso da
farne. Se uno di loro avesse ancora qualche scrupolo a mettersi in
rapporto con voi, questo scrupolo dovrebbe sparire davanti alle
esigenze della carità. Una volta assicurate queste relazioni, sarà
compito vostro meritarvi la stima di tali degne persone e voi non
mancherete di farlo.»
«Mio signore, capisco. Non a me, Chourineur, voi fate tutto questo
bene, ma agli infelici che, come me, si sono trovati in mezzo al
dolore e in mezzo al male, e ne sono usciti, come dite voi, con un
cuore e un onore. Con rispetto parlando, è come nell’esercito:
quando tutto un battaglione ha combattuto fino allo stremo, non si
può decorare tutti, non ci sono che quattro croci per cinquecento
coraggiosi; ma quelli che non hanno la medaglia si dicono: bene,
l’avrò un’altra volta, e la prossima volta combattono ancora più
accanitamente.»
Rodolphe ascoltava con piacere il suo protetto. Aveva restituito a
quell’uomo la stima in se stesso; l’aveva riabilitato ai suoi propri
occhi; l’aveva, per così dire, reso consapevole del proprio valore e
così facendo gli aveva destato quasi istantaneamente nel cuore e
nella mente pensieri pieni di sentimento, di dignità, oseremmo dire
quasi di delicatezza.
«Ciò che mi avete detto, Francoeur» riprese Rodolphe, «è stata una
nuova dimostrazione della vostra riconoscenza, ve ne sono grato.»
«Meglio così, mio signore, perché se ci fosse un’altra maniera per
dimostrarvela sarei molto imbarazzato.»
«Adesso andiamo a visitare la vostra casa; il vecchio Murph si è già
preso questo piacere e ora voglio prendermelo anch’io.»
Rodolphe e lo Chourineur scesero.
Appena entrati nel cortile, il garzone si rivolse alla Chourineur e
gli disse rispettosamente:
«Poiché voi siete il padrone, signor Francoeur, vengo a dirvi che ci
sono molti clienti. Mancano le costolette e i cosciotti,
bisognerebbe ammazzare subito uno o due montoni.»
«Perbacco!» disse Rodolphe allo Chourineur, «ecco una buona
occasione per dimostrare la vostra bravura... e io voglio essere il
primo ad averne un saggio... l’aria fresca mi ha messo appetito, con
piacere assaggerò le vostre costolette, sebbene temo siano un po’
dure.»
«Siete troppo buono, signor Rodolphe» disse lo Chourineur diventato
allegro; «mi lusingate; farò del mio meglio.»
«Padrone, devo portare due montoni al macello?» disse il garzone.
«Sì, porta anche un coltello ben affilato che abbia la costola
solida e il filo non troppo sottile.»
«Ho qualcosa che fa appunto al caso vostro, padrone, state
tranquillo... con questo ci si potrebbe far la barba. Tenete.»
«Cospetto! signor Rodolphe» disse lo Chourineur togliendosi in
fretta e furia la prefettizia e rimboccandosi le maniche della
camicia mettendo così a nudo due braccia da atleta. «Questo mi
ricorda la giovinezza e il macello; vedrete come taglierò là
dentro... dio d’un dio, vorrei già essere lì dentro! Il coltello,
ragazzo, il coltello! Oh, bene... sei un intenditore. Questa sì che
è una lama! Chi ne vuole?... Cospettaccio! con un coltello simile mi
mangerei un toro infuriato.»
E lo Chourineur brandì il coltello. Gli occhi cominciarono a
iniettarglisi di sangue; il bruto riprendeva il sopravvento;
l’istinto, l’appetito sanguinario ricomparivano in tutta la loro
tremenda potenza.
Il mattatoio era nel cortile.
Era una stanza a volta, scura, lastricata di pietre, che riceveva
luce da una stretta apertura posta in alto.
Il garzone trascinò un montone fino alla porta.
«Devo legarlo all’anello, padrone?»
«Attaccarlo, diavolo!... E queste ginocchia? Sta’ tranquillo che
le mie ginocchia lo stringeranno come una morsa. Dammi la bestia, e
ritorna in bottega.»
Il garzone se ne andò.
Rodolphe restò solo con lo Chourineur; lo esaminava di proposito,
quasi con ansia.
«Su, all’opera!» gli disse.
«Farò in un lampo, perdio! Vedrete come maneggio il coltello. Mi
bruciano le mani... mi ronzano le orecchie... Le tempie mi bat-
tono come quando stavo per vedere rosso... Vieni qui, tu... eh!
Madelon, che ti scanno!»
E dimenticandosi subito di Rodolphe, afferrò la pecora senza sforzo,
con uno sguardo carico di lampi selvaggi, poi con un balzo entrò nel
mattatoio ed era pieno di gioia feroce.
Lo si sarebbe detto un lupo che rintana con la preda in bocca.
Rodolphe lo seguì, quindi si appoggiò a uno stipite della porta che
chiuse.
Il mattatoio era nell’ombra; un vivido raggio di luce cadeva
perpendicolarmente sullo Chourineur, illuminandone alla maniera di
Rembrandt la rozza faccia, i capelli biondo chiaro e i favoriti
rossi. Piegato in due e con in bocca il lungo coltello balenante
nella penombra, teneva stretta la pecora tra le ginocchia. Quando
l’ebbe sistemata come voleva lui, la prese per la testa, le fece
allungare il collo e la scannò.
Non appena la lama penetrò, la pecora mandò un piccolo belato dolce
e lamentoso, volse lo sguardo morente verso lo Chourineur, e due
fiotti di sangue schizzarono in volto all’uccisore.
Quel grido, quello sguardo, quel sangue di cui grondava fecero una
tremenda impressione a quell’uomo. Il coltello gli cadde di mano, la
faccia coperta di sangue gli diventò livida, contratta, orrenda;
sbarrò gli occhi, gli si rizzarono i capelli; poi, mettendosi
improvvisamente a indietreggiare inorridito, gridò con voce
soffocata:
«Ah! il sergente! il sergente!»
Rodolphe gli corse vicino.
«Ritorna in te, ragazzo mio.»
«Là... là... il sergente...» ripeté lo Chourineur indietreggiando
passo passo, con l’occhio fisso e torvo e indicando col dito un
fantasma invisibile. Poi, lanciato un grido spaventoso, come se lo
spettro l’avesse toccato, si precipitò in fondo al mattatoio,
nell’angolo più buio, e lì si gettò con la faccia, con il petto e
con le braccia contro il muro, come se avesse voluto buttarlo giù
per sfuggire a un’orribile visione, continuando a ripetere con voce
sorda e convulsa:
«Oh! il sergente!... il sergente!... il sergente!...»
III
LA PARTENZA
Nonostante le cure di Murph e Rodolphe che faticarono non poco a
calmarlo, lo Chourineur ritornò completamente in sé solo dopo una
lunga crisi.
Era solo con Rodolphe in una stanza del primo piano della
macelleria.
«Mio signore, disse un po’ avvilito, siete stato tanto buono con
me... ma ecco, vedete, preferirei essere mille volte più disgraziato
di quello che sono stato finora piuttosto che accettare il mestiere
che mi offrite...»
«Pensateci... comunque.»
«Ecco, mio signore... quando ho udito il grido di quella povera
bestia che non si difendeva... quando ho sentito il sangue
schizzarmi in faccia... un sangue caldo... che sembrava vivo... Oh!
voi non sapete che cosa sia... allora ho rivisto il mio sogno... il
sergente... e quei poveri soldati che squartavo... che non si
difendevano, e che morendo mi guardavano con aria così dolce... così
dolce... che pareva mi compiangessero!... Oh! mio signore! c’è da
impazzire!...»
E l’infelice si prese nervosamente la testa fra le mani.
«Su, calmatevi.»
«Scusatemi, mio signore, ma adesso la vista del sangue... di
un coltello... non potrei sopportarla... In ogni momento mi
ritornerebbero i sogni che ho cominciato a dimenticare... Avere ogni
giorno le mani o i piedi nel sangue... scannate delle povere
bestie... che non si difendono... oh! no, no, non potrei...
Preferirei essere cieco come il Maître d’école, piuttosto che essere
costretto a fare questo mestiere.»
È impossibile descrivere l’energia del gesto, della voce, della
faccia dello Chourineur mentre diceva queste parole.
Rodolphe si sentiva profondamente commosso. Era soddisfatto che la
vista del sangue avesse prodotto un simile effetto sul suo protetto.
Per un momento nello Chourineur, la bestia selvaggia, l’istinto
sanguinario avevano avuto il sopravvento sull’uomo; ma il rimorso
aveva avuto la meglio sull’istinto. Così era bello; questa era una
grande lezione.
Rodolphe, sia detto a suo elogio, non aveva disperato di questa
reazione da parte dello Chourineur. La sua volontà, non il caso,
aveva preparato la scena del macello.
«Perdonate, mio signore» disse timidamente lo Chourineur,
«contraccambio molto male la vostra bontà verso di me... ma...»
«Anzi... voi appagate i miei desideri... Tuttavia, lo confesso, non
ero sicuro di trovare in voi questa sacra esaltazione del rimorso.»
«Come, mio signore?»
«Ascoltate» disse Rodolphe, «ecco qual era stata la mia idea: avevo
scelto per voi il mestiere di macellaio perché era il mestiere a cui
vi portavano il vostro gusto e il vostro istinto...»
«Ahimè, mio signore, è vero... A parte quello che sapete, sarebbe
stata la mia felicità... lo dicevo proprio poco fa al signor Murph.»
«Lo sapevo... perciò se, caro e sincero Francoeur, aveste accettato
l’offerta che vi facevo... e voi potevate farlo senza perdere la mia
stima, tutto quanto è qui vi sarebbe appartenuto e io avrei estinto
un debito sacrosanto... vi tiravo fuori da una situazione penosa,
facevo di voi un buono, edificante e salutare esempio... e
continuavo a interessarmi al vostro avvenire. Se, invece, la vista
del sangue che vi apprestavate a versare con indifferenza vi
ricordava il vostro delitto, se una ripugnanza automatica mi provava
che il rimorso continuava a covarvi in fondo all’anima, le mie mire
intorno a voi cambiavano; perché il mestiere che vi offrivo
sarebbe diventato per voi un supplizio quotidiano...»
«Oh è verissimo! signor Rodolphe, un supplizio tremendo.» «Adesso,
ecco quello che vi propongo. Sono convinto che voi
accetterete, infatti ho agito con questa convinzione. Una persona
che possiede molte terre in Algeria mi ha ceduto per voi (rimane
solo da firmare l’atto) una grande fattoria destinata
all’allevamento del bestiame. Le terre della fattoria sono
fertilissime e coltivate. Ma conoscendo il vostro coraggio e il
bisogno che avete di darne delle prove, non vi nascondo che ho
comperato tali terre a questa condizione, pur trovandosi esse alle
propaggini dell’Atlante, cioè sugli avamposti, ed esposte ai
frequenti attacchi degli arabi... lì bisogna essere tanto buon
soldato almeno quanto buon coltivatore; la fattoria è nello stesso
tempo un fortino e viceversa. L’uomo che amministra la tenuta in
assenza del proprietario vi metterà al corrente di tutto, dicono che
sia onesto e fidato; lo terrete con voi finché vi sarà necessario.
Una volta stabilitovi laggiù, non solo potrete migliorare la vostra
condizione col lavoro e con una condotta intelligente, ma col vostro
coraggio potrete anche rendere veri e propri servigi alla nazione. I
coloni si addestrano alle armi. L’estensione della vostra proprietà,
il numero dei dipendenti vi assicureranno il comando di un
contingente abbastanza ragguardevole di armati. Disciplinato ed
elettrizzato dal vostro coraggio, esso potrebbe essere di
grandissima utilità e protezione per i proprietari delle campagne.
Ho fatto questa scelta, ve lo ripeto, nonostante il pericolo, o
meglio a causa del pericolo, perché volevo utilizzare la vostra
naturale intrepidezza; perché, pur avendo espiato e quasi riscattato
un grande delitto, la
vostra riabilitazione sarà più nobile, più completa, più eroica se
essa si compirà in mezzo ai pericoli di un paese ribelle piuttosto
che nel pacifico trantran di una cittadina. Non vi ho offerto subito
quest’ultima situazione, perché era più probabile che l’altra vi
avrebbe soddisfatto; questa d’altra parte è così pericolosa che non
volevo esporvi senza avervi lasciato prima questa scelta... Ma siete
ancora in tempo, se questa sistemazione non vi piace, ditemelo
francamente, cercheremo qualcos’altro... altrimenti domani sarà
tutto firmato; vi consegnerò i documenti della vostra proprietà... e
andrete ad Algeri con una persona designata dall’ex proprietario
della fattoria per immettervi nel possesso dei beni... Vi sono
dovuti i fitti di due anni; li riscuoterete al vostro arrivo. La
terra rende tremila franchi; lavorate, fate migliorie, siate attivo,
attento e vi sarà facile migliorare la vostra condizione e quella
dei coloni che sarete in grado di aiutare; poiché sono sicuro che vi
mostrerete sempre generoso e caritatevole; vi ricorderete che essere
ricco vuol dire donare molto... Sebbene lontano da voi, non vi
perderò di vista. Non dimenticherò mai che io e il mio miglior amico
vi dobbiamo la vita. L’unica prova d’affetto e di gratitudine che vi
chiedo è d’imparare presto a leggere e a scrivere affinché possiate
una volta alla settimana informarmi di quello che fate e rivolgervi
direttamente a me nel caso vi occorressero consigli e appoggi.»
È superfluo descrivere le effusioni di gioia dello Chourineur. Il
lettore ne conosce abbastanza bene il carattere e le inclinazioni
per capire che per lui non c’era proposta migliore di quella.
L’indomani, infatti, lo Chourineur partiva per Algeri.
IV RICERCHE
La casa che Rodolphe aveva nell’allée des Veuves non era la sua
residenza abituale. Egli abitava in uno dei più grandi palazzi del
faubourg Saint-Germain, sito in fondo alla rue Plumet.
Per evitare gli onori dovuti al suo altissimo grado, fin dal suo
arrivo a Parigi aveva mantenuto l’incognito: infatti il suo
incaricato d’affari alla Corte di Francia aveva annunciato che il
suo signore avrebbe fatto le visite ufficiali indispensabili sotto
il nome e il titolo di conte di Duren.
In virtù di questa consuetudine, non infrequente nelle Corti del
Nord, un principe può viaggiare con grande libertà e spensieratezza
evitando gli inconvenienti di un fastidioso protocollo.
Nonostante l’incognito, Rodolphe, come gli si addiceva, aveva un
alto tenore di vita. Introdurremo il lettore nel palazzo della rue
Plumet, il giorno dopo la partenza dello Chourineur per l’Algeria.
Erano appena suonate le dieci del mattino.
In una vasta stanza a pianterreno che precedeva lo studio di
Rodolphe, Murph, seduto a una scrivania, stava sigillando un mucchio
di dispacci.
Un usciere in livrea nera, con al collo una collana d’argento, aprì
i due battenti della porta dell’anticamera e annunciò:
«Sua eccellenza il barone di Graün!»
Murph, senza interrompere il lavoro, salutò il barone con un gesto
insieme cordiale e familiare.
«Signor incaricato d’affari...» disse sorridendo, «abbiate la
compiacenza di scaldarvi un po’, tra un momento sono da voi.»
«Sir Walter Murph, segretario privato di Sua Altezza Serenissima...
attenderò i vostri ordini» rispose allegramente il signore di Graün;
e per scherzo fece un profondo e rispettoso inchino davanti al bravo
gentiluomo.
Il barone aveva circa cinquant’anni, capelli grigi e radi,
leggermente incipriati e arricciati. Il mento un po’ sporgente
spariva quasi interamente dietro un’alta cravatta di mussolina
inamidatissima e di un biancore abbagliante. Aveva un viso fine, un
fare distinto e sotto i cristalli degli occhiali d’oro brillava uno
sguardo malizioso e penetrante. Sebbene fossero le dieci del
mattino, il signor di Graün indossava un vestito scuro: l’etichetta
lo esigeva; all’occhiello portava un nastro con righe di vari
colori. Posò il cappello su una poltrona e si accostò al caminetto
mentre Murph continuava il suo lavoro.
«Caro Murph, sicuramente Sua Altezza ha vegliato parte della notte,
dal momento che la corrispondenza è numerosa, a quanto pare.»
«Monsignore è andato a dormire questa mattina alle sei. Fra l’altro
ha scritto una lettera di otto pagine al gran maresciallo e me ne ha
dettata un’altra non meno lunga per il capo del Consiglio Supremo.»
«Devo aspettare che Sua Altezza si alzi per comunicargli le
informazioni che ho portato?»
«No, caro barone... Sua signoria ha dato ordine di non essere
svegliato prima delle due o delle tre del pomeriggio; vuole che
entro stamattina facciate partire questi dispacci con un corriere
speciale, senza aspettare lunedì. Dovete comunicare a me le in-
formazioni che avete raccolto e io dovrò informare sua signoria al
risveglio: questi sono gli ordini.»
«Bene! Credo che Sua Altezza sarà soddisfatta di quello che devo
fargli sapere. Ma, caro Murph, spero che l’invio del corriere non
sia di cattivo augurio. Gli ultimi dispacci che ho avuto l’onore di
trasmettere a Sua Altezza...»
«Dicevano che tutto andava per il meglio laggiù, e proprio perché
sua signoria ci tiene a esprimere il più presto possibile la sua
soddisfazione al capo supremo e al gran maresciallo vuole che
spediate la posta oggi stesso.»
«In questo riconosco Sua Altezza... Se si trattasse di un
rimprovero, non si affretterebbe tanto; del resto c’è perfetta
unanimità per quel che concerne la sicura e abile amministrazione
dei nostri governanti ad interim. È molto semplice» aggiunse il
barone sorridendo; «l’orologio era eccellente e perfettamente
regolato dal nostro signore, si trattava solo di caricarlo
puntualmente perché continuasse ad andare avanti senza mutamenti e
incertezze indicando ogni giorno l’impiego di ogni ora e di ogni
individuo. L’ordine in un governo può solo generare fiducia e
tranquillità nel popolo; questo spiega le buone notizie che mi
date.»
«E qui, caro barone, nulla di nuovo? non si è saputo niente?... Le
nostre misteriose avventure...»
«Nessuno ne sa nulla. Dopo l’arrivo di sua signoria a Parigi, le
poche persone dalle quali si era fatto ricevere si sono abituate a
vederlo molto raramente; credono che gli piaccia molto la vita
ritirata e che faccia frequenti gite nei dintorni di Parigi. Sua
Altezza è stato saggio a sbarazzarsi per qualche tempo del
ciambellano e dell’aiutante di campo che aveva condotto con sé dalla
Germania.»
«E che sarebbero stati per noi testimoni molto importuni.»
«E così, all’infuori della contessa Sarah Mac-Grégor, di suo
fratello Tom Seyton di Halsburg e di Karl, la loro anima dannata,
nessuno è informato dei travestimenti di Sua Altezza; ora, né la
contessa, né suo fratello, né Karl hanno interesse a tradire questo
segreto.»
«Ah, caro barone» disse Murph sorridendo, «che sfortuna che quella
maledetta contessa sia rimasta vedova proprio adesso!»
«Non si era maritata nel 1827 o nel 1828?»
«Nel 1827, poco tempo dopo la morte di quella povera bambina che
adesso avrebbe sedici o diciassette anni... e che sua signoria
piange ancora ogni giorno, senza però parlarne mai.»
«Rimpianti tanto più comprensibili, in quanto Sua Altezza non ha
avuto figli dal suo matrimonio.»
«Perciò vedete, caro barone, sono riuscito a capire che a parte la
pietà che gli ispira la povera Goualeuse, l’interesse di sua
signoria per quell’infelice creatura deriva soprattutto dal fatto
che la figlia così amaramente pianta da lui (fermo restando l’odio
per la contessa sua madre) avrebbe adesso la stessa età.»
«È una vera fatalità che quella Sarah, di cui ci si credeva liberati
per sempre, sia rimasta libera proprio diciotto mesi dopo che Sua
Altezza ha perduto un modello di moglie, dopo pochi anni di
matrimonio. Sono sicuro che la contessa si creda favorita dalla
sorte per via di questa doppia vedovanza.»
«E le sue folli speranze risorgono più vive che mai; tuttavia ella
sa che sua signoria le corrisponde la più profonda avversione,
d’altra parte meritata. Non è stata lei la causa di... Ah! barone»
disse Murph senza finire la frase «quella donna è funesta... Voglia
Iddio che ella non ci rechi nuove sventure!»
«Che cosa si può temere da lei, caro Murph? Tempo addietro ella ha
avuto su sua signoria l’influenza che esercita sempre una donna
abile e intrigante su un uomo che ama per la prima volta e che
soprattutto si trova nelle circostanze che sapete; ma questa
influenza è svanita dopo la scoperta delle indegne manovre di quella
creatura e soprattutto per via del ricordo lasciato dall’avvenimento
spaventoso provocato da lei.»
«Più piano, caro di Graün, più piano» disse Murph. «Ahimè! siamo in
quel mese sinistro e ci avviciniamo a quella data non meno sinistra
del 13 gennaio; questo terribile anniversario mi fa sempre temere
per sua signoria.»
«Tuttavia, se con l’espiazione ci si può far perdonare una grande
colpa, perché Sua Altezza non dev’essere assolto?»
«Di grazia, caro di Graün non parliamo di ciò; ne sarei rattristato
per tutto il giorno.»
«Dunque vi dicevo che ormai le mire della contessa Sarah sono
assurde: la morte della bambina, di cui parlavate poco fa, ha
spezzato l’ultimo legame che poteva ancora tenere stretto sua
signoria a quella donna; è pazza se persiste nelle sue speranze.»
«Sì, ma è una pazzia pericolosa. E il fratello, come sapete,
condivide le idee ambiziose e ostinate di lei, quantunque adesso
come adesso questa bella coppia abbia tante ragioni per disperare
quante ne aveva di sperare diciotto anni fa.»
«Ah, e quante disgrazie non causò allora anche quel diabolico prete
Polidori con la sua criminosa compiacenza!»
«A proposito, mi hanno detto che da un anno o due a questa parte
vive in città, sicuramente nella miseria più nera, o dedito a
qualche losca attività.»
«Che caduta per un uomo di tanto sapere, di tanto ingegno, di tanta
intelligenza!»
«Ma anche di una così odiosa perversità... Voglia il cielo che non
incontri la contessa! L’unione di questi due demoni sarebbe
pericolosissima.»
«Vi ripeto, caro Murph, che l’interesse stesso della contessa, per
quanto irragionevole sia la sua ambizione, le impedirà in ogni caso
di approfittare dell’inclinazione all’avventura di sua signoria per
macchinare una qualche brutta azione.»
«Lo spero anch’io; eppure solo per caso è andata in fumo non so più
quale proposta, certo ignobile, che quella donna voleva fare al
Maître d’école, l’orribile criminale, che adesso, nell’impossibilità
di nuocere a chicchessia, vive, ignorato, forse sulla via di
pentirsi, presso alcuni onesti contadini del paesello di SaintMandé.
Ahimè! sono convinto che, proprio per vendicarsi di me con
quell’assassino, sua signoria, a causa della punizione terribile che
gli ha inflitto, ha rischiato di mettersi in una posizione
gravissima.»
«Grave! no, no, caro Murph; perché insomma la questione è tutta qui:
un forzato evaso, un noto criminale, s’introduce in casa vostra e vi
prende a pugnalate; per legittima difesa voi potete o ucciderlo o
mandarlo al patibolo; in tutti e due i casi lo scellerato deve
morire; ora, invece di ucciderlo o di darlo in mano al boia, mettete
il mostro nell’impossibilità di nuocere alla società mediante una
punizione terribile, sì, ma anche meritata. Chi potrebbe accusarvi?
Credete che la giustizia si costituirà parte civile contro di voi a
difesa di un simile bandito? E voi siete forse da condannare per
aver fatto meno di quanto la legge vi permetteva di fare, per avere
solamene privato della vista uno che potevate uccidere restando
nella piena legalità? Come mai, per difendere la mia vita o per
vendicarmi d’un flagrante adulterio, la società mi riconosce il
diritto di vita e di morte sul mio simile, diritto illimitato,
incontrollabile, inappellabile, che mi rende giudice e carnefice, e
non potrò modificare a mio piacimento la pena capitale che avrei
potuto infliggere impunemente? e soprattutto... soprattutto quando
si tratta del brigante in questione? Perché il problema è tutto qui.
Lascio da parte il nostro grado di principe sovrano in seno alla
Confederazione germanica. So che in diritto ciò non ha nessun
valore; ma in realtà ci sono sempre certe im-
munità forzate; d’altra parte supponete che si intenti un processo
contro sua signoria, quanti episodi di generosità deporrebbero a suo
favore! quante opere di carità e di beneficenza sarebbero allora
rivelate! Stando così le cose, immaginatevi inoltre questa strana
causa davanti a un tribunale, che cosa pensate che succederebbe?»
«Sua signoria me l’ha sempre detto: accetterebbe l’accusa e non
approfitterebbe affatto delle immunità che gli potrebbe assicurare
la sua posizione. Ma chi divulgherebbe il triste avvenimento? Voi
conoscete la fidatissima discrezione di David e dei quattro
servitori ungheresi della casa dell’allée des Veuves. Lo Chourineur,
che sua signoria ha ricompensato, non ha fatto parola del supplizio
inflitto al Maître d’école, per paura di compromettersi. Prima della
partenza per Algeri mi ha giurato di mantenere il silenzio su questo
argomento. Il brigante stesso, dal canto suo, sa che andare a
sporgere querela vuol dire offrire la propria testa al boia.»
«Infine, né sua signoria, né voi, né io parleremo, non è vero? Caro
Murph, il nostro segreto non sarà certo custodito peggio per il
fatto che sono in parecchi a conoscerlo. Per male che vada, ci
sarebbe da temere solo qualche contrarietà; e poi verrebbero alla
luce a proposito di questa strana causa cose così grandi e così
nobili che una tale accusa, lo ripeto, sarebbe un trionfo per Sua
Altezza.»
«Mi avete completamente tranquillizzato. Ma mi avete detto di avere
con voi le informazioni prese dalle lettere trovate addosso al
Maestro e dalle dichiarazioni rilasciate dalla Chouette durante la
sua degenza in ospedale, da dove è uscita qualche giorno fa,
completamente guarita dalla sua frattura alla gamba.»
«Ecco le informazioni» disse il barone levandosi di tasca un foglio.
«Sono relative alle ricerche sulla nascita della giovinetta chiamata
la Goualeuse, e sul luogo di attuale residenza di François Germain,
figlio del Maître d’école.»
«Volete leggermi gli appunti, caro di Graün? So che intenzioni ha
sua signoria, vedremo se queste informazioni sono sufficienti. Siete
sempre soddisfatto del vostro agente?»
«È un uomo prezioso, pieno d’intelligenza, di abilità e di
discrezione. A volte sono perfino costretto a moderare il suo zelo,
perché, come sapete, Sua Altezza riserva per sé certi particolari
rivelatori.»
«E continua a ignorare la parte di sua signoria in tutto questo?»
«Completamente. La mia posizione di diplomatico è un ottimo pretesto
per le indagini di cui mi occupo. Il signor Badinot (così si
chiama il nostro uomo) sa destreggiarsi molto bene e ha conoscenze
segrete e no in quasi tutte le classi della società; un tempo
procuratore legale, anche se poi è stato costretto a vendere la
propria carica per appropriazione indebita, ha sempre avuto
informazioni precise sulla sorte e sulla condizione dei suoi vecchi
clienti; ci sono parecchi segreti che conosce e che si gloria
sfrontatamente d’avere venduto; arricchitosi due o tre volte e
rovinatosi con gli affari, troppo conosciuto per tentare nuove
speculazioni, ridotto a vivere alla giornata ricorrendo a un mucchio
d’espedienti più o meno leciti, quest’uomo è una specie di Figaro
abbastanza originale come parlatore. Finché c’è di mezzo il suo
interesse, egli appartiene anima e corpo a chi lo paga, non ha
convenienza a ingannarci; d’altra parte io lo faccio sorvegliare e
lui non lo sa; non abbiamo quindi nessun motivo per non fidarci di
lui.»
«Del resto le informazioni precedentemente forniteci erano molto
esatte.»
«Ha una certa onestà, ma a modo suo, e vi assicuro, caro Murph, che
il signor Badinot è l’originale prototipo di una di quelle esistenze
misteriose che si trovano e che sono possibili solo a Parigi.
Divertirebbe molto Sua Altezza se non si sapesse che non ci deve
essere nessun rapporto tra lui e Sua Altezza.»
«Si potrebbe aumentare la paga del signor Badinot; la ritenete
necessaria questa gratifica?»
«Cinquecento franchi al mese più le piccole spese... che ammontano
pressappoco alla stessa cifra, mi sembrano sufficienti; lui pare
contento: in seguito vedremo.»
«E non si vergogna del mestiere che fa?»
«Vergognarsi, lui? anzi se ne vanta, eccome; e quando mi porta i
suoi rapporti non manca mai di assumere una certa aria non dico
diplomatica... ma importante; perché il briccone fa finta di credere
che si tratti d’affari di Stato, e di essere sbalordito del fatto
che possano esistere misteriose relazioni tra gli interessi più
svariati e il destino degli imperi. Sì, qualche volta ha la
sfacciataggine di dirmi: “Quante complicazioni nel governo di uno
Stato che sono ignote al profano! Eppure chi direbbe che gli appunti
che vi consegno, signor barone, hanno sicuramente la loro importanza
negli affari dell’Europa!”.»
«Via, i bricconi cercano di ingannarci sulla loro bassezza; è una
cosa che fa sempre piacere alle persone oneste. Ma questi appunti,
caro barone?»
«Eccoli, quasi interamente redatti seguendo il rapporto del signor
Badinot.»
«Vi ascolto.»
Il signor di Graün lesse quanto segue:
NOTE RELATIVE A FLEUR-DE-MARIE
All’inizio dell’anno 1827, un uomo chiamato Pierre Tournemine,
attualmente detenuto nella galera di Rochefort per reato di falso,
ha proposto alla Gervais, detta Chouette, di allevare una bambina di
cinque o sei anni, promettendole come salario la somma di mille
franchi, che venne pagata una volta sola.
«Ahimè! caro barone» disse Murph interrompendo il signor di Graün,
«... 1827... è proprio in quell’anno che monsignore ha appreso la
morte dell’infelice bambina che egli piange con tanto strazio... Per
questo motivo e per molti altri, quell’anno è stato funesto al
nostro signore.»
«Gli anni felici sono rari, caro Murph. Ma proseguiamo:
Ad affare concluso la bambina restò con quella donna per due anni
alla fine dei quali è fuggita non potendo sopportare oltre i
maltrattamenti della donna. La Chouette non ne aveva più sentito
parlare per molti anni quando l’ha rivista per la prima volta circa
sei settimane fa, in una osteria della Cité. La bambina, diventata
ormai una fanciulla, aveva allora il soprannome di Goualeuse. Pochi
giorni dopo quell’incontro, il suddetto Tournemine, che il Maître
d’école ha conosciuto nella galera di Rochefort, aveva fatto
consegnare a Bras-Rouge (corrispondente misterioso e abituale dei
forzati detenuti in galera o di quelli in libertà) una lettera
dettagliata che riguardava la bambina un tempo affidata alla
Gervais, detta Chouette.
Da questa lettera e dalle dichiarazioni della Chouette, risulta che
una certa signora Séraphin, governante di un notaio di nome Jacques
Ferrand, aveva, nel 1827, incaricato Tournemine di trovarle una
donna che, per la somma di 1000 franchi, acconsentisse a prendersi
cura di una bambina di cinque o sei anni, che si voleva abbandonare,
come abbiamo già detto sopra.
La Chouette accettò la proposta.
Lo scopo di Tournemine, mandando queste informazioni a BrasRouge,
era di mettere quest’ultimo in grado di far ricattare la signora
Séraphin da una terza persona, minacciandola di divulgare il fatto,
peraltro già da tempo dimenticato. Tournemine assicurava che la
signora Séraphin agiva per conto di personaggi sconosciuti.
Bras-Rouge aveva consegnato la lettera alla Chouette, che da qualche
tempo era diventata la complice dei delitti del Maître d’école; così
si spiega come mai questo documento si trovasse nelle mani del
brigante, e come mai, al momento del suo incontro con la Goualeuse
al Lapin Blanc, la Chouette, per tormentare Fleurde-Marie, le abbia
detto: “Abbiamo trovato i tuoi genitori ma tu non li conoscerai”.
L’importante era di sapere se la lettera di Tournemine relativa alla
bambina tempo addietro affidata da lui alla Chouette diceva la
verità.
Abbiamo preso informazioni sulla signora Séraphin e sul notaio
Jacques Ferrand.
Esistono tutti e due.
Il notaio abita in rue du Sentier, al n. 41; passa per un uomo
devoto e austero, per lo meno va molto in chiesa; nella pratica
degli affari è di una regolarità eccessiva che viene tacciata di
rigidezza; ha ottima clientela; vive con una parsimonia che confina
con l’avarizia; ha sempre come governante la signora Séraphin.
Il signor Jacques Ferrand, che era molto povero, si è comperato la
carica con 550.000 franchi; questa somma gli è stata fornita dietro
buona garanzia dal signor Charles Robert, ufficiale superiore dello
stato maggiore della guardia nazionale di Parigi, giovane
bellissimo, molto alla moda in una certa società. Divide col notaio
i proventi dello studio, che si valutano sui 50.000 franchi e,
beninteso, non s’immischia affatto nelle faccende notarili. Alcuni
maldicenti sostengono che, in seguito a fortunate speculazioni o a
colpi in Borsa tentati di concerto col signor Charles Robert, il
notaio adesso sarebbe in grado di rimborsare il prezzo del suo
studio; ma la reputazione del signor Jacques Ferrand è così solida
che tutti sono d’accordo nel considerare queste voci orribili
calunnie. Parrebbe cosa sicura che la signora Séraphin, governante
di quel sant’uomo, potrà fornire notizie preziose circa la nascita
della Goualeuse.»
«Benissimo! caro barone» disse Murph; «c’è qualcosa di vero nelle
dichiarazioni di questo Tournemine. Forse troveremo dal notaio i
mezzi per scoprire i genitori della sventurata fanciulla. Avete ora
notizie altrettanto buone del figlio del Maître d’école?»
«Meno precise, forse... ma abbastanza interessanti.»
«Il vostro signor Badinot è proprio un vero tesoro.»
«Come avete potuto vedere, quel Bras-Rouge è l’anima di tut-
to questo. Il signor Badinot, che deve avere qualche relazione con
la polizia, ce l’aveva segnalato come l’intermediario di parecchi
forzati in occasione delle prime ricerche da parte di sua signoria
per ritrovare il figlio della signora Georges Duresnel, moglie
infelice di quel mostro del Maître d’école.»
«È vero; e andando a cercare Bras-Rouge in quel suo stambugio della
Cité, sito in rue aux Fèves, n. 13, sua signoria ha incontrato lo
Chourineur e la Goualeuse. È fuor di dubbio che Sua Altezza aveva
voluto approfittare di quell’occasione per visitare gli orribili
covi pensando di poter trovare qualche infelice da trarre dal fango.
I suoi presentimenti non l’hanno ingannato; ma a prezzo di quali
pericoli, Dio mio!»
«Pericoli che voi, caro Murph, avete coraggiosamente condiviso...»
«Non sono per questo il carbonaio ordinario di Sua Altezza?» rispose
sorridendo il gentiluomo.
«Dite piuttosto l’intrepida guardia del corpo, nobile amico. Ma
parlare del vostro coraggio e della vostra fedeltà vuol dire
ripetersi. Continuo quindi il mio rapporto... Ecco gli appunti
relativi a François Germain, figlio della signora Georges e del
Maître d’école, altrimenti detto Duresnel.»
V
LE INFORMAZIONI SU FRANÇOIS GERMAIN
Il signor di Graün continuò:
«Circa diciotto mesi fa, un giovane di nome François Germain, arrivò
a Parigi da Nantes, dov’era impiegato nella filiale bancaria Noël e
C.
Risulta dalla confessione del Maître d’école e da parecchie lettere
trovategli addosso che lo scellerato a cui egli aveva affidato il
proprio figlio per pervertirlo, in modo da impiegarlo un giorno in
azioni criminali, svelò l’orribile trama al giovane, proponendogli
apertamente di assecondare un tentativo di furto e di falso che si
voleva commettere a pregiudizio della casa Noël e C. dove lavorava
François Germain.
Quest’ultimo respinse con indignazione l’offerta; ma non volendo
denunciare l’uomo che lo aveva allevato, con una lettera anonima
informò il suo principale del genere di complotto che si stava
tramando, e lasciò segretamente Nantes per sfuggire a coloro che
avevano tentato di fare di lui lo strumento e il complice dei loro
delitti.
Quei miserabili, saputo della partenza di Germain, andarono a
Parigi, si abboccarono con Bras-Rouge e si misero alla ricerca del
figlio del Maître d’école, certo con brutte intenzioni perché il
giovane era a conoscenza dei loro progetti. Dopo lunghe e numerose
ricerche, riuscirono a scoprire dove abitava; era troppo tardi:
infatti Germain, avendo pochi giorni prima incontrato colui che
aveva cercato di corromperlo, cambiò improvvisamente casa, perché
aveva intuito il motivo che aveva condotto quell’uomo a Parigi. In
tal modo il figlio del Maître d’école riuscì a sfuggire ancora una
volta ai suoi persecutori.
Circa sei settimane fa, però, costoro riuscirono a sapere che egli
abitava in rue du Temple, al n. 17. Una sera, rientrando a casa, per
poco non cadde vittima di un agguato (il Maître d’école aveva tenuto
nascosto il fatto a sua signoria).
Germain indovinò da dove veniva il colpo, lasciò la rue du Temple, e
di nuovo non si seppe più nulla del suo luogo di residenza. Le
ricerche erano arrivate a questo punto quando il Maître d’école
venne punito dei suoi delitti.
E a questo punto anche le ricerche sono state riprese per ordine di
sua signoria.
Eccone il risultato:
François Germain ha abitato circa tre mesi nella casa di rue du
Temple, n. 17, casa d’altra parte stranissima dati i costumi e le
professioni della maggior parte di coloro che vi abitano. Germain
era molto benvoluto per il suo carattere allegro, servizievole e
aperto. Sebbene si dicesse che vivesse con introiti o con salari
molto bassi, ciò nonostante egli aveva prodigato le cure più
amorevoli a una famiglia di bisognosi che abita nelle soffitte della
casa. Invano abbiamo chiesto informazioni in rue du Temple sulla
nuova abitazione di François Germain e sul mestiere che faceva; si
suppone che fosse impiegato in qualche ufficio o casa commerciale,
perché usciva la mattina e tornava a casa la sera verso le dieci.
La sola persona che sappia con certezza dove attualmente abiti il
giovane è un’inquilina della casa del Temple; si tratta di una
giovane e graziosa sartina, di nome Rigolette, che sembrava essere
intima amica di Germain. Occupa una stanza vicina a quella dove
alloggiava Germain. La stanza, rimasta vuota per la partenza del
giovane, adesso è da affittare. Proprio col pretesto di affittarla
ci siamo procurati ulteriori informazioni.»
«Rigolette?» disse a un tratto Murph che da qualche istante sembrava
essere meditabondo, «Rigolette? conosco questo nome!»
«Come! sir Walter Murph» riprese sorridendo il barone, «come, voi,
nobile e rispettabile padre di famiglia, conoscete delle sartine?...
Come, il nome di una certa Rigolette non vi è nuovo! Oh! oh!»
«Diamine! mio signore mi ha messo nella condizione di avere delle
conoscenze così bizzarre che non dovreste meravigliarvi di questa,
barone. Ma, aspettate un po’... Sì, adesso... mi ricordo benissimo:
mio signore, raccontandomi la storia della Goualeuse, non ha potuto
fare a meno di ridere al sentir pronunziare il nome grottesco di
Rigolette. Se ben ricordo, era quello di un’amica di prigione della
povera Fleur-de-Marie.»
«Ebbene, adesso, la signorina Rigolette può esserci di grandissimo
aiuto. Termino il mio rapporto:
Forse ci converrebbe prendere in affitto la camera libera della casa
della rue do Temple. Non c’era l’ordine di andare più a fondo nelle
ricerche; ma da alcune parole sfuggite alla portinaia si può dedurre
che non solo è possibile trovare in quella casa informazioni sicure
sul figlio del Maître d’école tramite questa Rigolette, ma che lì in
quella casa sua signoria potrebbe anche venire a conoscenza di
costumi, di attività e soprattutto miserie di cui non sospetta certo
l’esistenza.»
VI
IL MARCHESE D’HARVILLE
«Così avete visto, caro Murph» disse il signor di Graün, subito dopo
la lettura del rapporto, che consegnò al gentiluomo «che, stando
alle nostre informazioni, dobbiamo cercare le tracce dei genitori
della Goualeuse dal notaio Jacques Ferrand e che dobbiamo domandare
alla signorina Rigolette dove abita adesso François Germain. È già
molto, mi pare, sapere dove cercare... quello che si cerca.»
«Certo, barone; inoltre sono sicuro che sua signoria raccoglierà
nella casa in questione un’abbondante messe di osservazioni. Ma non
è tutto ancora: avete preso informazioni sul marchese d’Harville?»
«Sì, e per quel che riguarda la questione denaro almeno, i timori di
Sua Altezza sono infondati. Il signor Badinot afferma, e credo che
sia ben informato, che la ricchezza del marchese non è mai stata
così consistente e così bene amministrata.»
«Dopo aver cercato inutilmente la causa della profonda tristezza che
minava il signor d’Harville, sua signoria aveva pensato che forse il
marchese si trovava in difficoltà finanziarie: nel qual caso gli
sarebbe venuto in aiuto con la misteriosa delicatezza che ben gli
conoscete... ma dal momento che le sue congetture si sono rivelate
sbagliate, dovrà rinunciare a trovare la chiave dell’enigma, il che
gli farà molto... dispiacere in quanto è molto affezionato al signor
d’Harville.»
«È risaputo che Sua Altezza non ha mai dimenticato quanto Suo padre
deve al padre del marchese. Sapete, caro Murph, che nel 1815, al
tempo del rimaneggiamento degli Stati della Confederazione
germanica, il padre di Sua Altezza correva il grosso rischio di
essere eliminato, a causa del noto attaccamento a Napoleone? In
quell’occasione la buon’anima del vecchio marchese d’Harville rese
immensi favori al padre del nostro signore, grazie all’amicizia di
cui lo onorava l’imperatore Alessandro, amicizia che risaliva
all’epoca in cui il marchese era emigrato in Russia e che, invocata
da lui, incise non poco sulle decisioni del congresso dove erano sul
tappeto gli interessi dei principi della Confederazione germanica.»
«E guardate un po’, barone, come spesso nobili azioni si legano fra
di loro: nel ’92 il padre del marchese venne esiliato; trovò in
Germania presso il padre di sua signoria la più calda ospitalità;
dopo un soggiorno di tre anni nella nostra Corte, parte per la
Russia dove si guadagna il favore dello zar per cui diventa a sua
volta utilissimo al principe che un tempo l’aveva così degnamente
accolto.»
«Non è proprio nel 1815, durante il soggiorno del vecchio marchese
d’Harville presso il granduca allora reggente, che è cominciata
l’amicizia di sua signoria col giovane d’Harville?»
«Sì, tutti e due hanno conservato il più bel ricordo di quel periodo
felice della loro giovinezza. Non è tutto: monsignore si sente così
profondamente debitore alla memoria dell’uomo la cui amicizia è
stata di tanto aiuto per suo padre, che la sua benevolenza si
estende a tutti coloro che appartengono alla famiglia d’Harville...
Infatti alla sua parentela coi d’Harville, più che alle sue sventure
e alle sue buone qualità, la povera signora Georges deve i continui
atti di bontà di Sua Altezza.»
«La signora Georges! la moglie di Duresnel! il forzato
soprannominato Maître d’école?» esclamò il barone.
«Sì, la madre di quel François Germain che cerchiamo e che
troveremo, spero...»
«È parente del signor d’Harville?»
«Era cugina e intima amica di sua madre. Il vecchio marchese aveva
per la signora Georges la più sincera amicizia.»
«Ma come mai, caro Murph, la famiglia d’Harville le ha lasciato
sposare quel mostro di Duresnel?»
«Il padre di quella poveretta, il signor di Lagny, intendente della
Languedoc prima della Rivoluzione, era un ricco possidente che
sfuggì alla proscrizione. Quando, dopo quel tremendo periodo,
vennero i primi giorni di calma, pensò di maritare la figlia. Si
presentò Duresnel; apparteneva a un’ottima famiglia parlamentare;
era ricco; nascondeva le sue perverse inclinazioni dietro la
facciata; sposò così la signorina di Lagny. Per un po’ dissimulò i
suoi vizi, ma poi essi si manifestarono; scialacquatore, giocatore
sfrenato, dedito alla crapula più abbietta, rese la moglie infelice.
Costei non si lagnò, si tenne per sé le proprie pene, e dopo la
morte di suo padre si ritirò in un podere che fece fruttare per
distrarsi. Ben presto il marito si mangiò col gioco e le
dissolutezze il patrimonio comune; la proprietà fu venduta. Allora
lei si portò via il figlio e andò a raggiungere una sua parente, la
marchesa d’Harville, alla quale era affezionata come a una sorella.
Duresnel, dopo aver divorato il suo patrimonio e quello della
moglie, si trovò ridotto a vivere di espedienti; finché per ultimo
ricorse al delitto, divenne falsario, ladro, assassino, fu
condannato alla galera a vita, rubò il figlio alla moglie per
affidarlo a uno sciagurato del suo stampo. Il resto lo sapete.»
«Ma come ha fatto monsignore a ritrovare la signora Duresnel?»
«Quando Duresnel fu gettato in galera, la moglie, ridotta alla
miseria più nera, prese il nome di Georges.»
«Non si è mai rivolta, neppure in questa terribile situazione, alla
sua migliore amica e parente, la marchesa d’Harville?»
«La marchesa era morta prima della condanna di Duresnel, e poi, per
l’invincibile vergogna che provava, la signora Georges non ha mai
osato presentarsi alla sua famiglia, che certo avrebbe avuto per lei
i riguardi che meritavano tante sventure. Tuttavia... una sola
volta, spinta all’estremo dalla miseria e dalla malattia... si
rivolse a implorare l’aiuto del signore d’Harville, il figlio della
sua migliore amica... Così la incontrò sua signoria.»
«E come?»
«Un giorno egli andava a trovare il signor d’Harville; qualche passo
avanti a lui camminava una povera donna, vestita miseramente,
pallida, sofferente, abbattuta. Arrivata alla porta del palazzo
d’Harville, prima di bussare, esitò a lungo, poi fece un bru-
sco movimento e ritornò sui suoi passi, come se le fosse mancato il
coraggio. Stupito, sua signoria seguì la donna vivamente interessato
dalla sua espressione dolce e dolorosa. La donna entrò in una casa
di aspetto inquietante. Sua signoria prese informazioni su di lei:
furono ottime. Ella lavorava per vivere, ma le mancavano sia il
lavoro che la salute: era ridotta alla più squallida miseria.
L’indomani andai da lei con sua signoria. Arrivammo in tempo per non
lasciarla morire di fame.»
«Dopo una lunga malattia durante la quale le furono prodigate tutte
le cure, la signora Georges, come atto di riconoscenza, raccontò la
sua vita a sua signoria, di cui non sapeva ancora né come si
chiamasse né chi fosse, gli raccontò, dicevo, la sua vita, la
condanna di Duresnel, e il rapimento del figlio.»
«In tal modo Sua Altezza venne a sapere che la signora Georges
apparteneva alla famiglia d’Harville?»
«Sì e, dopo questa spiegazione, sua signoria che andava apprezzando
sempre di più le qualità della signora Georges, la convinse a
lasciare Parigi, e la mise nella fattoria di Bouqueval dove ora
abita assieme alla Goualeuse. In quel calmo ritiro trovò, non dico
la felicità, ma certo la tranquillità e poté distogliere il pensiero
dai suoi dispiaceri amministrando quella fattoria... Sia per
riguardo alla dolorosa suscettibilità della signora Georges, sia
perché non gli piace rendere noti i propri benefici, sua signoria ha
lasciato ignorare al signor d’Harville che egli aveva tratto la sua
parente da una miseria spaventosa.»
«Adesso capisco perché sua signoria si è doppiamente interessato per
scoprire le tracce del figlio di quell’infelice.»
«Da ciò potete anche rendervi conto, caro barone, di come Sua
Altezza sia affezionato a tutta quella famiglia e di come gli
dispiaccia vedere rattristato il giovane marchese, lui che ha tanti
motivi per essere felice.»
«Infatti, che cosa manca al signor d’Harville? Ha tutto, nascita,
ricchezza, spirito, giovinezza; sua moglie è affascinante, bella e
onesta...»
«È vero, e sua signoria ha pensato alle informazioni di cui abbiamo
appena parlato solo dopo aver cercato invano di capire la causa
della profonda malinconia del signor d’Harville; questi s’è mostrato
molto commosso della bontà di Sua Altezza, ma ha mantenuto il più
completo riserbo sul motivo della sua tristezza. Che sia forse una
pena d’amore?»
«Eppure lo dicono innamoratissimo di sua moglie e lei non gli dà
nessun motivo per ingelosirlo. La incontro spesso in società:
è molto corteggiata, come avviene sempre per una donna giovane e
affascinante, ma la sua reputazione non ha mai dato adito a
sospetti.»
«Sì, il marchese si vanta sempre molto di sua moglie... Ha avuto
solo con lei una piccolissima discussione a proposito della contessa
Sarah Mac-Grégor!»
«La vede allora?»
«Per una malauguratissima combinazione, il padre del marchese
d’Harville ha conosciuto, diciassette o diciotto anni fa, Sarah
Seyton di Halsbury e suo fratello Tom, al tempo del loro soggiorno a
Parigi, quando erano sotto la protezione dell’ambasciatore
d’Inghilterra. Sentendo che i due fratelli si recavano in Germania,
il vecchio marchese diede loro una lettera di presentazione per il
padre di sua signoria, col quale era sempre in corrispondenza.
Ahimè! caro di Graün, forse se non ci fosse stata quella
raccomandazione molti guai non sarebbero accaduti, perché sua
signoria non avrebbe certo conosciuto quella donna. Infine, quando
la contessa Sarah è ritornata qui, avendo saputo dell’amicizia di
Sua Altezza per il marchese, s’è fatta presentare a palazzo
d’Harville, con la speranza di incontrarvi sua signoria; perché lei
nell’inseguirlo ci mette lo stesso accanimento che mette lui nello
sfuggirla.»
«Travestirsi da uomo per inseguire Sua Altezza perfino nella
Cité!... Solo lei può avere idee simili.»
«Forse sperava in questo modo di commuovere sua signoria e di
costringerlo a un colloquio, colloquio che egli ha sempre evitato e
rifiutato. Per tornare alla signora d’Harville, il marito, a cui sua
signoria aveva parlato di Sarah come doveva, ha consigliato alla
moglie di vederla il meno possibile; ma la giovane marchesa, sedotta
dalle moine della contessa, si è un po’ ribellata al parere del
signor d’Harville. Ne è nato qualche piccolo screzio, che però non
può certo essere la causa della nera disperazione del marchese.»
«Ah! le donne... le donne! caro Murph; mi dispiace molto che la
signora d’Harville sia in relazione con Sarah... La giovane e
graziosa marchesa ha tutto da perdere a frequentare una creatura
così diabolica.»
«A proposito di creature diaboliche» disse Murph «ecco un dispaccio
relativo a Cecily, l’indegna sposa del nobile David.»
«Detto fra noi, caro Murph, l’audace meticcia si sarebbe ben
meritata il terribile castigo che suo marito, il caro dottor negro,
ha inflitto al Maître d’école per ordine di sua signoria. Anche lei
ha fatto scorrere il sangue e la sua corruzione è spaventosa.»
«E nonostante ciò è così bella e seducente! Un’anima perversa sotto
apparenze aggraziate mi fa sempre doppiamente orrore.» «Sotto questo
aspetto, Cecily è doppiamente odiosa; ma spero che questo dispaccio
annulli gli ultimi ordini dati da sua signoria
riguardo a quella sciagurata.»
«Al contrario... barone.»
«Sua signoria vuol sempre che la si aiuti a fuggire dalla fortez-
za dove è stata condannata a restare per tutta la vita?» «Sì.»
«E che il suo presunto rapitore la porti in Francia? A Parigi?»
«Sì, e anche di più... questo dispaccio ordina di affrettare il più
possibile l’evasione di Cecily e di farla partire subito in modo che
arrivi qui al più tardi fra quindici giorni.»
«Non mi ci raccapezzo più... aveva fatto sempre tanto orrore a sua
signoria!...»
«E gliene fa ancora di più, se veramente può fargliene di più.»
«E ciononostante se la fa venire vicino! Del resto sarà sempre
facile come ha pensato Sua Altezza ottenere l’estradizione, se non
farà quello che egli si aspetta da lei. Si ordina al figlio del
carceriere della fortezza di Gerolstein di rapire la donna facendo
finta di esserne innamorato; gli si concedono tutte le facilitazioni
necessarie per mettere in atto un tale progetto. Infinitamente
felice di fuggire, la meticcia segue il suo presunto rapitore e
arriva a Parigi; bene, ma continua a restare sotto il peso della
condanna; si tratta pur sempre di un’evasa, e non appena sua
signoria lo vorrà, io ho tutti i mezzi per chiedere e ottenere la
sua estradizione.»
«Se son rose fioriranno, caro di Graün, perciò vi pregherei, stando
all’ordine di sua signoria, di scrivere alla nostra cancelleria per
chiedere, tramite corriere, una copia legalizzata dell’atto di
matrimonio di David; perché si è sposato al palazzo ducale, in
qualità di ufficiale della casa di sua signoria.»
«Se facciamo partire la lettera col corriere di oggi, avremo
quest’atto fra otto giorni al massimo.»
«Quando David ha saputo da sua signoria del prossimo arrivo di
Cecily, è rimasto di sasso; poi ha esclamato: “Spero che sua Altezza
non mi obblighi a vedere quel mostro!” “State tranquillo” ha
risposto sua signoria, “non la vedrete... ma ho bisogno di lei per
certi scopi.” David s’è sentito liberato da un peso enorme. Eppure
sono sicuro che si sono ridestati in lui ricordi molto dolorosi.»
«Povero negro!... è capace di amarla ancora. Dicono che sia ancora
tanto bella!»
«Affascinante... troppo affascinante... Ci vorrebbe l’occhio
implacabile di un creolo per scoprire il sangue misto
nell’impercettibile sfumatura bruna che si nota appena appena nella
corona delle rosee unghie della meticcia; le nostre fresche bellezze
del Nord non hanno un colorito così trasparente, una pelle così
chiara, dei capelli di un castano così dorato.»
«Ero in Francia quando sua signoria è ritornato dall’America,
portando con sé David e Cecily; so solo che, da allora, quell’uomo
straordinario è legato a Sua Altezza dalla più calda riconoscenza,
ma non ho mai saputo in seguito a quali vicende fosse passato al
servizio del nostro signore, e come mai avesse sposato Cecily, che
ho visto per la prima volta circa un anno dopo il suo matrimonio; e
Dio sa lo scandalo che suscitava già!...»
«Posso informarvi esattamente di quello che desiderate sapere, caro
barone; accompagnavo sua signoria in quel viaggio in America, da
dove ha portato via David e la meticcia strappandoli alla sorte più
terribile.»
«Siete molto buono, caro Murph, vi ascolto» disse il barone.
VII
LA STORIA DI DAVID E DI CECILY
«Il signor Willis, ricco piantatore americano della Florida» disse
Murph «aveva scoperto in un suo giovane schiavo negro, chiamato
David, addetto all’infermeria della piantagione, una spiccatissima
intelligenza, una sollecitudine profonda e attenta per i poveri
malati, ai quali prodigava con amore le cure prescritte dai medici,
e infine una vocazione così singolare per lo studio della botanica
applicata alla medicina che, senza nessuna istruzione, egli aveva
composto con le dovute classificazioni una sorta di Flora
riguardante la piantagione e i dintorni. La tenuta del signor Willis
era situata in riva al mare e distava quindici o venti leghe dalla
città più vicina; a causa delle grandi distanze e delle scomodità
delle vie di comunicazione, i medici del paese, peraltro molto
ignoranti, si muovevano difficilmente. Per poter rimediare a questo
inconveniente così grave in un paese soggetto a violente epidemie, e
avere sempre a portata di mano un medico abile, il colono ebbe
l’idea di mandare David in Francia a imparare la chirurgia e la
medicina. Entusiasta dell’offerta, il giovane negro partì per
Parigi; il piantatore gli pagò gli studi e, dopo otto anni di
intensissimo lavoro, David, promosso medico con il massimo
dei voti, ritornò in America per mettere la sua scienza a
disposizione del padrone.»
«David, mettendo piede in Francia, avrebbe dovuto considerarsi
libero ed emancipato di fatto e di diritto.»
«David, uomo di rara lealtà, aveva promesso al signor Willis di
ritornare e ritornò. Inoltre lui non considerava per così dire “sua”
un’istruzione acquisita con il denaro del padrone. E infine sperava
di poter addolcire spiritualmente e materialmente le sofferenze
degli schiavi, suoi ex compagni. Si riprometteva di essere non solo
il loro medico, ma anche il loro sostegno, il loro difensore presso
il colono.»
«Infatti bisogna essere dotati di un’onestà senza pari e di un
sacrosanto amore per il prossimo per ritornare da un padrone, dopo
un soggiorno di otto anni a Parigi... a contatto con la gioventù più
democratica d’Europa.»
«Da questo particolare... potete giudicare l’uomo. Eccolo dunque in
Florida, e, bisogna dirlo, trattato con stima e bontà dal signor
Willis, che mangia alla stessa tavola, che abita sotto lo stesso
tetto; d’altra parte, il colono, stupido, cattivo, sensuale,
dispotico come sono certi creoli, si credette molto generoso perché
dava a David seicento franchi di salario. Dopo alcuni mesi un
terribile tifo colpisce il podere; il signor Willis è tra le
vittime, ma viene immediatamente guarito dalle cure del bravissimo
David. Su trenta negri gravemente ammalati, ne muoiono solo due. Il
signor Willis, entusiasta dei servigi di David, gli aumenta il
salario a 1200 franchi; il medico negro si riteneva l’uomo più
felice di questa terra, i suoi confratelli lo consideravano la loro
provvidenza; attraverso grandissime difficoltà era riuscito a
ottenere dal padrone qualche miglioramento alla loro condizione,
sperava di più per il futuro, intanto moraleggiava, consolava quella
povera gente, li esortava alla rassegnazione, parlava loro di Dio
che veglia sui negri come sui bianchi, di un altro mondo, abitato
non più da padroni e da schiavi, ma da buoni e da cattivi; di
un’altra vita... eterna, dove gli uni non erano più bestiame e roba
degli altri, ma dove le vittime di questa terra erano così felici
che in cielo pregavano per i loro carnefici... Che dico? A quegli
infelici che, contrariamente agli altri uomini, contano con gioia
amara i passi che ogni giorno di più li avvicinano alla tomba... a
quegli infelici le cui speranze puntavano sul nulla eterno, David
fece sperare una libertà eterna; allora le catene parvero loro meno
pesanti, i lavori meno faticosi. David era il loro idolo. Passò così
circa un anno. Fra le più belle schiave della piantagione, spiccava
una me-
ticcia di quindici anni, di nome Cecily. Il signor Willis come un
sultano s’incapricciò di quella ragazza; per la prima volta in vita
sua forse ottenne un rifiuto, urtò in una tenace resistenza. Cecily
amava... amava David che, durante l’ultima epidemia, l’aveva curata
con abnegazione ammirevole e salvata; in seguito, l’amore, un amore
castissimo, estinse questo debito di riconoscenza. David non era
così poco raffinato da render nota la sua felicità prima del giorno
in cui avrebbe potuto sposare Cecily; aspettava che lei compisse
sedici anni. Il signor Willis, ignorando il reciproco affetto dei
due, aveva messo superbamente gli occhi addosso alla bella meticcia;
costei andò tutta in lacrime a raccontare a David gli attacchi
brutali a cui a stento era riuscita a sfuggire. Il negro,
tranquillizzatala, va immediatamente a chiederla in sposa al signor
Willis.»
«Perdiana! caro Murph, credo purtroppo d’avere indovinato la
risposta del sultano americano... Rifiutò?»
«Rifiutò. Gli piaceva, disse, quella ragazza; in vita sua non aveva
mai sopportato lo sprezzo di una schiava: voleva quella, l’avrebbe
avuta. David avrebbe scelto un’altra sposa o un’altra amante di suo
gusto. Nella tenuta c’erano almeno dieci mulatte o meticce belle
quanto Cecily. David parlò di quel suo amore, che Cecily
contraccambiava da molto tempo; il piantatore alzò le spalle. David
insisté: fu inutile. Il creolo ebbe la sfacciataggine di dirgli che
sarebbe stato un cattivo esempio vedere un padrone cedere davanti a
uno schiavo, e che egli non avrebbe dato un simile esempio per
soddisfare un capriccio di David. Questi lo supplicò, il padrone si
spazientì; David, non volendo abbassarsi di più, parlò con tono
fermo dei servigi che rendeva e del suo disinteressamento; infatti
si accontentava di un magro salario. Il signor Willis, inviperito,
gli rispose con disprezzo che per essere uno schiavo era trattato
infinitamente bene. A quelle parole l’indignazione di David
scoppiò... Per la prima volta parlò da uomo reso edotto dei suoi
diritti da una permanenza di otto anni in Francia. Il signor Willis,
furioso, lo trattò da schiavo ribelle, minacciò di metterlo alla
catena. David si lasciò andare allora a un discorso amaro e
violento... Due ore dopo, attaccato a un palo, veniva straziato
dalle frustate, mentre sotto i suoi occhi Cecily veniva trascinata
nel serraglio del piantatore.»
«Il comportamento del piantatore era stupido e spaventoso... Era una
crudeltà assurda... dopo tutto aveva bisogno di quell’uomo...»
«Tanto bisogno, che quel giorno stesso un po’ per la gran bile che
si era presa, un po’ per l’ubriacatura con cui quel bruto ogni
sera cercava di stordirsi, contrasse una gravissima infiammazione i
cui sintomi si manifestarono con la rapidità tipica di quelle
affezioni: il piantatore si mette a letto con una febbre orribile...
Manda un corriere a cercare un medico; ma il medico non può essere
alla piantagione prima di trentasei ore...»
«La circostanza sembra veramente provvidenziale... una svolta del
destino che quell’uomo si era meritata...»
«Il male progrediva spaventosamente... solo David poteva salvare il
colono; ma Willis, diffidente come tutti gli scellerati, temeva che
il negro, per vendicarsi, lo avvelenasse con una pozione... perché
dopo essere stato frustato con le verghe, David era stato gettato in
prigione... Infine, spaventato dai progressi della malattia,
abbattuto dalla sofferenza, constatato che, morto per morto, la sua
ultima possibilità risiedeva nella generosità dello schiavo, dopo
terribili esitazioni fece liberare David.»
«E David salvò il piantatore?»
«Per cinque giorni e cinque notti lo vegliò come avrebbe fatto con
suo padre, lottò contro la malattia passo a passo con una bravura e
un’abilità sorprendenti; finì quindi col trionfare sul male, con
grande sorpresa del medico che era stato chiamato e che arrivò solo
al secondo giorno.»
«E quando ritornò in salute... il colono?»
«Non volendo umiliarsi davanti allo schiavo che in ogni momento
l’avrebbe schiacciato con tutto il peso della sua ammirevole
generosità, il colono, con un sacrificio enorme, giunse ad assumere
nel suo possedimento il medico che era stato chiamato e David fu
rimesso in prigione.»
«È orribile! ma non mi stupisco: David sarebbe stato un rimorso
vivente per quell’uomo.»
«Quella barbara decisione non era solo dettata dalla vendetta e
dalla gelosia. I negri del signor Willis volevano bene a David con
tutto l’ardore della riconoscenza: egli era il dottore delle loro
anime e dei loro corpi. Sapevano quante cure aveva prodigato al
colono quando questi si era ammalato... Così, scossi, per fortuna,
dalla stupida apatia a cui di solito la schiavitù riduce gli
individui, quegli infelici palesarono non senza vivacità la loro
indignazione o meglio il loro dolore, quando videro David straziato
dalle frustate. Il signor Willis, esasperato, credette di scoprire
in questa manifestazione i germi di una rivolta... Vista l’influenza
che David aveva sugli schiavi, pensò che sarebbe stato capace di
mettersi in seguito alla testa di una sommossa, e di vendicarsi in
quell’occasione dell’odiosa ingratitudine del padrone... Questo
timore as-
surdo offrì al colono il destro per far subire a David altre
angherie e per metterlo nell’impossibilità di compiere i sinistri
disegni di cui lo sospettava.»
«Visto nella prospettiva di un terrore selvaggio... questo
comportamento sembra meno stupido, sebbene feroce.»
«Noi arriviamo in America poco dopo questi avvenimenti. Sua signoria
aveva noleggiato un brigantino danese a Saint-Thomas; visitavamo in
incognito tutti i possedi menti coloniali del litorale americano che
costeggiavamo. Il signor Willis ci accolse magnificamente. La sera
del giorno dopo il nostro arrivo, finito di bere, il signor Willis,
un po’ perché sotto i fumi del vino e un po’ per cinica spavalderia,
ci raccontò, inframmezzandola di facezie spaventose, la storia di
David e di Cecily; dimenticavo di dirvi che il padrone per punire la
povera Cecily del suo rifiuto iniziale aveva sbattuto in prigione
anche lei. Mentre ascoltava il terribile racconto, Sua Altezza aveva
creduto che Willis esagerasse le cose o che fosse ubriaco... Willis
era sì ubriaco, ma non esagerava. Per dissipare l’incredulità di sua
signoria, il colono si alzò da tavola e comandò a uno schiavo di
prendere una lanterna e di guidarci alla prigione dove si trovava
David.»
«Ebbene?»
«In vita mia non ho mai visto uno spettacolo così straziante.
Smunti, macilenti, mezzo nudi, piagati, con le catene attorno alla
vita, David e la povera ragazza uno a un lato della cella, l’altra
al lato opposto, sembravano due spettri. Il chiarore della lanterna
rendeva ancora più lugubre la scena. Al vederci David non disse una
parola; il suo sguardo aveva una spaventosa fissità. Il colono
allora gli disse con crudele ironia:
“Ebbene, dottore, come stai?... Tu che sei così bravo!... salvati un
po’!...”.
Il negro rispose con una parola e un gesto sublimi; alzò lentamente
il braccio e con l’indice teso verso il soffitto disse in tono
solenne senza guardare il colono:
“Dio!”
E tacque.
“Dio?” riprese il piantatore scoppiando a ridere: “di’ un po’ a
Dio di venirti a strappare dalle mie mani! Lo sfido!”...
Quindi, ubriaco e fuori di sé dalla rabbia, alzò i pugni al cielo
e bestemmiando gridò:
“Sì, sfido Dio a portarmi via gli schiavi prima che debbano
morire!... Se non lo fa, nego la sua esistenza!”» «Era un pazzo
furioso!»
«Fummo profondamente disgustati... sua signoria non proferì parola.
Usciamo dalla prigione... Quell’antro, come anche il podere, si
trovava sulla riva del mare. Ritorniamo a bordo del nostro
brigantino, ormeggiato lì a due passi. All’una di notte, quando
tutta la casa era immersa nel sonno più profondo, monsignore scende
a terra con otto uomini ben armati, va dritto alla prigione, porta
via David e Cecily.
Le due vittime furono trasportate a bordo senza che nessuno si
accorgesse della nostra spedizione; poi sua signoria e io ci
rechiamo alla casa del piantatore.
Strana cosa! quegli uomini torturano i loro schiavi e non prendono
contro di loro nessuna precauzione: dormono con le porte e le
finestre aperte. Arriviamo senza alcuna difficoltà nella camera da
letto del piantatore, rischiarata all’interno da una lanterna.
Questi si rizza a sedere, con la testa ancora annebbiata dai fumi
del vino.
“Questa sera avete sfidato Dio a portarvi via i due schiavi prima
che dovessero morire? Egli ve li porta via” incominciò sua signoria.
Poi, presa la borsa che io avevo in mano e che conteneva 25.000
franchi d’oro, gliela gettò sul letto dicendo: “Questo vi ripagherà
della perdita dei due schiavi. Alla vostra violenza che uccide, io
oppongo una violenza che salva, Dio giudicherà!...”. E ce ne andiamo
lasciando il signor Willis stupefatto, immobile, come sotto
l’effetto di un sogno. Alcuni minuti dopo, avevamo raggiunto il
brigantino e dato le vele al vento.»
«Mi sembra, caro Murph, che Sua Altezza sia stato troppo generoso
nel pagare a quel miserabile i due schiavi; perché, a rigor di
logica, David non gli apparteneva più.»
«Avevamo pressappoco calcolato quanto erano costati gli otto anni di
studi di quest’ultimo, poi come minimo avevamo triplicato il valore
che lui e Cecily potevano avere come semplici schiavi. Ci eravamo
comportati contrariamente al diritto delle genti, lo so; ma se
aveste visto in che triste condizione si trovavano quegli infelici
che erano quasi in agonia, se aveste sentito la sacrilega sfida
gettata in faccia a Dio da quell’uomo ubriaco di vino e di ferocia,
avreste capito perché sua signoria abbia voluto, come egli disse in
quella occasione, “fare un po’ la parte della Provvidenza”.»
«Il fatto può essere impugnato e giustificato quanto la punizione
inflitta al Maître d’école, nobile gentiluomo. E l’avventura non
ebbe a ogni modo qualche conseguenza?»
«Non ne poteva avere nessuna. Il brigantino batteva bandiera danese,
l’incognito di Sua Altezza era strettamente mantenuto; passavamo per
ricchi inglesi. Poi se avesse tentato di sporgere querela, a chi
avrebbe rivolto le sue proteste il signor Willis? In effetti, lui
stesso ci aveva detto, e il medico di sua signoria lo mise a
verbale, che i due schiavi non sarebbero vissuti più di otto giorni
in quell’orribile prigione. Ci fu bisogno di grandissime cure per
strappare Cecily a morte quasi sicura. Finalmente ritornarono in
vita. Da allora, David è rimasto alle dipendenze di sua signoria
come medico e ha per lui il più profondo attaccamento.»
«Va da sé che, arrivati in Europa, David e Cecily si sposarono.»
«Quel matrimonio, che pareva dovesse essere tanto felice, fu
celebrato nella cappella del palazzo di sua signoria; ma, trovatasi
a godere, grazie a un completo cambiamento, di una posizione
insperata, Cecily dimenticò tutto quello che David aveva sofferto
per lei e ciò che ella stessa aveva sofferto per lui, e
vergognandosi, in quel nuovo mondo, di essere la sposa di un negro,
si lasciò sedurre da un uomo spaventosamente depravato, commettendo
così il suo primo sbaglio. Pareva che l’innata perversità di quella
disgraziata, fino ad allora rimasta assopita, non avesse aspettato
che quello spunto pericoloso per destarsi con impressionante furore.
Dopo due anni di matrimonio, David, che in egual misura nutriva per
lei fiducia e amore, venne a sapere tutte quelle infamie: fu un
fulmine a ciel sereno che lo strappò dalla sua cieca e profonda
sicurezza.»
«Dicono che volesse uccidere la moglie.»
«Sì, ma, dietro le insistenze di sua signoria, consentì che ella
venisse rinchiusa per tutta la vita in una fortezza.»
«Ed è la prigione che sua signoria ha or ora aperto... con vostro
grande stupore e anche mio, non ve lo nascondo, caro barone.»
«Francamente, la decisione di sua signoria mi stupisce, tanto più
che il comandante della fortezza ha più volte avvertito Sua Altezza
che quella donna non si poteva domare; niente era riuscito a piegare
quel carattere audace, incallito dal vizio e, ciononostante, sua
signoria insiste per farla venire qui. A che scopo? per quale
ragione?»
«Ecco, caro barone, quello che anch’io come voi non riesco a capire.
Ma si sta facendo tardi. Sua Altezza desidera che il vostro corriere
parta il più presto possibile per Gerolstein.»
«Prima delle due sarà già in cammino. Così, caro Murph... a
stasera!»
«A stasera?»
«Avete dimenticato che all’ambasciata di *** c’è un gran ballo, e
che Sua Altezza ci andrà?»
«Giusto; da quando non ci sono più il colonnello Warner e il conte
d’Harneim, dimentico sempre che faccio le funzioni di ciambellano e
di aiutante di campo.»
«Ma a proposito, quando ritornano il conte e il colonnello?
Dovrebbero aver già finito le loro rispettive missioni.»
«Sapete che sua signoria li tiene lontani il più possibile, per
essere più solo e più libero. In quanto alla missione che Sua
Altezza ha affidato loro mandandoli uno ad Avignone, l’altro a
Strasburgo per sbarazzarsi con eleganza della loro presenza, ve ne
parlerò il giorno in cui saremo tutti e due di cattivo umore; perché
io sfiderei l’ipocondriaco più recidivo a non scoppiare a ridere,
non solo quando ve ne parlerò, ma anche quando vi farò leggere certi
passaggi dei dispacci di quei degni gentiluomini, che prendono le
loro pseudo-missioni con incredibile serietà.»
«Francamente non ho mai capito perché Sua Altezza avesse preso al
suo servizio il colonnello e il conte.»
«Come! il colonnello Warner non è forse il più bell’esemplare di
militare? In tutta la Confederazione germanica ci sono forse figure
più belle, baffi più belli, portamenti più marziali di quelli che ha
lui? E quando è fasciato, bardato, imbrigliato, impennacchiato,
esiste forse animale più scalpitante, più glorioso, più fiero, più
bello... di lui?»
«È vero; però questo tipo di bellezza non gli permette di avere
l’aria eccessivamente intelligente.»
«Ebbene! sua signoria dice che, grazie al colonnello, si è abituato
a trovare sopportabile la gente più pesante. Prima di concedere
certe noiosissime udienze, si chiude in una stanza con il
colonnello, vi resta una mezz’oretta, esce che è tutto spavaldo,
tutto baldanzoso e pronto a sfidare la noia in persona.»
«Come il soldato romano che, prima di una marcia forzata, calzava
sandali di piombo, cosicché, quando se li levava, trovava ogni
fatica leggera. Capisco adesso l’utilità del colonnello. Ma il conte
d’Harneim?»
«È anche lui molto utile a sua signoria: con al fianco quel vecchio
e vuoto balocco, sempre brillante e sonoro, con sotto gli occhi
quella bolla di sapone così piena... di niente, così stupendamente
iridescente, che rappresenta il lato teatrale e puerile del potere
sovrano, sua signoria sente ancora più vivamente la vanità di quella
sterile pomposità e spesso, per contrasto, la presenza del vacuo e
corrusco ciambellano gli ha ispirato le idee più serie e più utili.»
«Del resto, siamo giusti, caro Murph, ditemi per piacere, in quale
corte si può trovare un modello così perfetto di ciambellano? Chi
conosce meglio dell’eccellente Harneim le innumerevoli regole e
tradizioni dell’etichetta? Chi più di lui sa portare con maggiore
solennità una croce di smalto al collo e con maggiore maestosità una
chiave d’oro sulla schiena?»
«A proposito, barone, sua signoria sostiene che la schiena di un
ciambellano ha una fisionomia tutta particolare: esprime, dice lui,
ribellione e costrizione insieme, cosa penosa a vedersi; perché, oh
dolore, il ciambellano porta l’insegna della sua carica proprio
sulla schiena; e, secondo sua signoria, il nobile Harneim dà sempre
l’impressione di volersi presentare camminando all’indietro, perché
si giudichi subito la sua importanza.»
«Fatto sta che al centro delle meditazioni del conte si trova l’idea
fissa di sapere per quale fatale escogitazione la chiave del
ciambellano sia stata messa dietro la schiena; perché, come egli
dice molto giustamente, con una specie di doloroso corruccio: “Che
diavolo! non si apre mica la porta con la schiena!”.»
«Barone, il corriere, il corriere!» disse Murph mostrando l’orologio
al barone.
«Maledetto uomo che mi fa parlare! è colpa vostra. Porgete i miei
rispetti a Sua Altezza» disse il signor di Graün correndo a
prendersi il cappello; «e a questa sera, caro Murph.»
«A questa sera, caro barone; un po’ tardi, perché sono sicuro che
sua signoria vorrà visitare oggi stesso la misteriosa casa della rue
du Temple.»
VIII
LA CASA DELLA RUE DU TEMPLE
Per utilizzare le informazioni che il barone di Graün aveva raccolto
sulla Goualeuse e su Germain, figlio del Maître d’école, Rodolphe
doveva andare in rue du Temple e dal notaio Jacques Ferrand.
Da quest’ultimo, per cercare di ottenere dalla signora Séraphin
qualche indicazione sulla famiglia di Fleur-de-Marie.
Nella casa della rue du Temple, dove di recente aveva abitato
Germain, per cercare di scoprire, tramite la signorina Rigolette,
dove si nascondeva il giovane; compito assai difficile, in quanto la
sartina sospettava forse che il figlio del Maître d’école avesse
tutto l’interesse a non fare saper niente del suo nuovo domicilio.
Prendendo in affitto, nella casa della rue du Temple, la stanza
occupata non molto tempo prima da Germain, Rodolphe facilitava le
sue indagini e si metteva in condizione di osservare da vicino a
quali classi appartenevano gli inquilini di quella casa.
Lo stesso giorno del colloquio fra il barone di Graün e Murph, in
una triste giornata d’inverno, Rodolphe si recò, verso le tre, nella
rue du Temple.
Situata al centro di un popoloso quartiere di mercanti, la casa non
aveva niente di particolare nell’aspetto; constava di un pianterreno
occupato da un venditore di liquori, di quattro piani e, in cima, di
una serie di soffitte.
Uno stretto e oscuro androne conduceva a un cortiletto o piuttosto a
una specie di feritoia larga cinque o sei piedi e completamente
priva d’aria e di luce, ricettacolo infetto di tutte le immondizie
che piovevano dai piani superiori della casa, dalle finestre senza
vetri che si aprivano al di sopra del lavandino di ogni
pianerottolo.
Ai piedi di una scala umida e nera, un chiarore rossastro indicava
la portineria; una portineria annerita dal fumo di una lampada,
necessaria per illuminare anche in pieno giorno quell’antro oscuro
dove seguiremo Rodolphe vestito all’incirca come un commesso in
tenuta da lavoro.
Portava un pastrano di colore incerto, un cappello un tantino
sformato, una cravatta rossa, un ombrello e degli enormi zoccoli non
rigidi. Per rendere più illusorio il suo travestimento, Rodolphe
aveva sotto il braccio un grande rotolo di stoffe avvolto con cura.
Entrò dal portinaio per domandargli di vedere la stanza non
occupata.
Una lampada, dietro un globo di vetro pieno d’acqua, che fa da
rifrattore, illumina la portineria. In fondo, si scorge un letto con
sopra una trapunta fatta d’un’infinità di pezzi di stoffa di ogni
tipo e di ogni colore; a sinistra, un cassettone di noce sul cui
marmo stanno per ornamento:
un piccolo san Giovanni di cera con la parrucca bionda, che porta
una pecora bianca, il tutto messo sotto una campana di vetro
trapunto di stelle, le cui fessure sono state ingegnosamente tappate
con strisce di carta blu.
Due candelieri di vecchio metallo placcato, arrugginito dal tempo, e
recanti, al posto delle candele, delle arance luccicanti,
sicuramente portate da poco alla portinaia come regalo del primo
dell’anno.
Due scatole di cui una di paglia multicolore e l’altra coperta di
conchigliette: i due oggetti artistici puzzano lontano un miglio di
penitenziario o di galera. (Speriamo, per la moralità del portinaio
della rue du Temple, che il presente non sia stato un omaggio
dell’autore.)
Infine fra le due scatole, sotto un globo da orologio, si può
ammirare un paio di stivaletti alla Suvarov, di marocchino rosso,
veri e propri stivali da bambola, ma lavorati, cuciti, rifiniti con
cura e con arte.
Questo capolavoro, come dicevano i vecchi artigiani, il tremendo
odore di cuoio rancido, i fantasiosi arabeschi disegnati sui muri e
l’innumerevole quantità di scarpe vecchie dimostravano abbastanza
chiaramente che il portinaio di quella casa aveva lavorato sul nuovo
prima di scendere a riparare scarpe vecchie.
Quando Rodolphe si avventurò in quel bugigattolo, il signor Pipelet,
il portinaio, momentaneamente assente, era sostituito dalla signora
Pipelet.
Costei stava vicino a una stufa di ghisa che si trovava al centro
dello stanzino e pareva intenta ad ascoltare gravemente il canto
della pentola (è l’espressione consacrata).
L’Hogarth francese, Henri Monnier, ha immortalato così bene lo
stereotipo della portinaia, che ci accontenteremo di invitare il
lettore che voglia farsi un’idea della signora Pipelet a richiamare
alla mente l’immagine della più brutta, più rugosa, più bitorzoluta,
più sordida, più cenciosa, più ringhiosa, più velenosa delle
portinaie immortalate dall’eminente artista.
Il solo particolare che ci permettiamo di aggiungere a questo tipo,
che ciononostante non cessa di essere straordinariamente reale, è un
bizzarro copricapo rappresentato da una parrucca à la Titus;
parrucca che in origine era bionda, ma su cui la patina del tempo
aveva depositato un mucchio di toni rossi e giallastri, marroni e
fulvi, che smaltavano, per così dire, una selva inestricabile di
ciocche dure, rigide, irte e aggrovigliate. La signora Pipelet non
abbandonava mai quell’unico ed eterno ornamento del suo capo
sessagenario.
Alla vista di Rodolphe, la portinaia pronunziò con voce arrogante le
parole di rito:
«Dove andate?»
«Se non sbaglio, signora, in questa casa avete libera una stanza con
studio?» domandò Rodolphe calcando la voce sulla parola «signora»,
cosa che lusingò non poco la signora Pipelet. Per questo rispose
meno aspramente:
«Abbiamo una stanza libera al quarto piano, ma non si può vederla...
Alfred è fuori...»
«Vostro figlio, immagino, signora? E ritornerà presto?»
«No, signore, non è mio figlio, è mio marito!... Perché poi Pipelet
non potrebbe chiamarsi Alfred?»
«Ne ha tutto il diritto; ma, se permettete, aspetterò un momento che
torni: ci terrei ad avere la stanza: il quartiere e la strada mi
vanno bene; la casa mi piace, perché sembra tenuta molto bene.
Tuttavia, prima di visitare l’alloggio che desidero occupare, vorrei
sapere se voi, signora, potreste incaricarvi di rigovernare. Di
solito ne incarico sempre i portieri quando, naturalmente, sono
disposti ad accettare.»
La proposta, fatta in termini così lusinghieri: quel «portiera!»...
conquistò completamente la signora Pipelet che rispose:
«Ma certo, signore... rigovernerò io... anzi ne sarò onorata, e con
sei franchi al mese, sarete servito come un principe.»
«Vada per i sei franchi. Signora... il vostro nome?»
«Pomone-Fortunée, Anastasie Pipelet.»
«Ebbene, signora Pipelet, sono d’accordo sul compenso di
sei franchi da dare a voi. E se la camera mi piace... qual è il
prezzo?»
«Col salottino, 150 franchi, signore; non un baiocco di meno... Il
principale affittuario è un cane... un cane che caverebbe un pelo da
un uovo.»
«E si chiama?»
«Signor Bras-Rouge.»
Questo nome con tutti i ricordi che suscitava fece sussultare
Rodolphe.
«Come avete detto che si chiama, signora Pipelet, l’inquilino
che subaffitta?»
«Ebbene... signor Bras-Rouge.»
«E abita?»
«Al n. 13 della rue aux Fèves; ha anche un caffè nei sotterranei
degli Champs-Elysées.»
Non c’era più alcun dubbio, si trattava della stessa persona...
Quella coincidenza parve strana a Rodolphe.
«Se il signor Bras-Rouge è l’inquilino che subaffitta» disse
«chi è il padrone della casa?»
«Il signor Bourdon; ma io ho avuto a che fare solo col signor
Bras-Rouge.»
Volendo accattivarsi la fiducia della portinaia, Rodolphe ripre-
se a dire:
«Sentite, cara signora Pipelet, sono un po’ stanco; il freddo mi ha
intirizzito... fatemi il piacere di andare nella liquoreria del
pianterreno, e di portarmi una bottiglia di rosolio con due
bicchieri... anzi con tre bicchieri, perché fra poco tornerà vostro
marito».
E diede cento soldi alla donna.
«Ah, questa poi, signore, allora volete essere adorato fin dal primo
momento?» esclamò la portinaia il cui naso bitorzoluto parve
bruciato dal fuoco di una cupidigia sfrenata.
«Sì, signora Pipelet, voglio essere adorato.»
«Mi piace, mi piace; ma porterò solo due bicchieri, io e Alfred
beviamo sempre nello stesso bicchiere. Povero caro, le donne, con
tutte le loro cose, lo ingolosiscono tanto!!!»
«Su, signora Pipelet, aspetteremo Alfred.»
«Ma se viene qualcuno... badate voi alla portineria?»
«State tranquilla.»
La vecchia uscì.
Una volta solo, Rodolphe si mise a riflettere sulla strana cir-
costanza che lo metteva di nuovo sulle tracce di Bras-Rouge; lo
stupì in particolare il fatto che François Germain avesse potuto
restare per tre mesi di seguito in quella casa, senza venire
scoperto dai complici del Maître d’école che erano in relazione con
Bras-Rouge.
In quel momento il postino picchiò sui vetri della portineria,
sporse il braccio e tese due lettere dicendo: «Tre soldi!»
«Sei soldi, visto che le lettere sono due» disse Rodolphe. «Una è
affrancata» rispose il postino.
Dopo aver pagato, Rodolphe prese le due lettere e le guardò
dapprima svogliatamente; ma immediatamente dopo le due lettere gli
sembrarono degne di essere esaminate con attenzione.
Una delle due, quella indirizzata alla signora Pipelet, esalava,
attraverso la busta di carta satinata, un forte odore di sacchetto
profumato in pelle di Spagna; sul sigillo di ceralacca rossa, si
vedevano le due iniziali C.R., sormontate da un elmo e appoggiate al
supporto stellato di una croce della Legion d’onore; l’indirizzo era
stato scritto con mano ferma. La presunzione nobiliare di quel casco
e di quella croce fece sorridere Rodolphe e lo riconfermò nell’idea
che la lettera non era stata scritta da una donna.
Ma chi era il corrispondente profumato e blasonato... della signora
Pipelet?
L’altra lettera, di comune carta grigia, chiusa con un’ostia per
sigillare piena di colpi di spillo, era per il signor Bradamanti, il
chirurgo dentista.
L’indirizzo, per non far riconoscere la calligrafia, chiaramente
contraffatta, era stato scritto tutto a lettere maiuscole.
Fosse presentimento, o capriccio della sua fantasia, o realtà, fatto
si è che quella lettera sembrò triste a Rodolphe. Notò, in un punto
dove la carta era un po’ sgualcita, che alcune lettere
dell’indirizzo erano semicancellate.
V’era caduta sopra una lacrima.
La signora Pipelet ritornò con la bottiglia di rosolio e i due
bicchieri.
«L’ho fatta lunga, vero signore? ma quando si è nella bottega di
padron Joseph, non c’è verso di saltarne fuori. Ah, quel vecchio
indiavolato!... Lo credereste, con l’età che ho, viene ancora a
raccontarmi porcherie.»
«Diavolo!... se Alfred lo sapesse?»
«Non parlatemene, mi viene male al solo pensarci. Alfred è geloso
come un beduino; eppure padron Joseph lo fa per ridere, senza
cattive intenzioni.»
«Il postino ha portato due lettere» disse Rodolphe.
«Ah, mio Dio... scusate, signore... l’avete pagato?»
«Sì.»
«Siete troppo gentile. Allora i soldi li tratterrò dagli spiccioli
che vi devo rendere... Quant’è?»
«Tre soldi» rispose Rodolphe sorridendo della curiosa manie-
ra di rimborsarlo adottata dalla signora Pipelet.
«Come! tre soldi?... Sono sei, ci sono due lettere.»
«Potrei abusare della vostra fiducia, facendovi trattenere sugli
spiccioli che mi dovete sei soldi anziché tre; ma non ne sono
capace, signora Pipelet... una delle due lettere, quella diretta a
voi, è affrancata. E, senza essere indiscreto, vi farò osservare che
avete un corrispondente i cui bigliettini amorosi profumano
terribilmente.»
«Vediamo un po’» disse la portinaia, prendendo la lettera satinata.
«È vero, sì... ha tutta l’aria di un bigliettino amoroso! capite,
signore, un bigliettino amoroso! Ah, bella questa!... ma chi è quel
monellaccio che ha osato?...»
«E se Alfred fosse stato qui, signora Pipelet?»
«Non ditemelo, altrimenti vi svengo fra le braccia!»
«Non lo dirò più, signora Pipelet!»
«Ma come sono stupida... ma sì» disse la portinaia alzando le
spalle... «so... so... è del comandante... Ah, che spavento ho
preso! Ma questo non m’impedirà di fare i conti: vediamo un po’,
sono tre soldi per l’altra lettera, vero? Dunque dicevamo: quindici
soldi di rosolio più tre soldi che mi trattengo per la lettera,
fanno diciotto;
diciotto e due, venti, più quattro franchi fanno cento soldi; patti
chiari, amicizia lunga.»
«E questi sono venti soldi per voi, signora Pipelet; avete un modo
così incredibile di rimborsare i prestiti che vi vengono fatti, che
voglio incoraggiarvi.»
«Venti soldi! mi date venti soldi!... e perché?» esclamò la signora
Pipelet allarmata e nello stesso tempo stupita da questo gesto di
favolosa generosità.
«Sarà un acconto sulla caparra, se prendo la stanza.»
«Se è così, accetto; ma avviserò Alfred.»
«Certo; ma ecco l’altra lettera: è indirizzata al signor César Bra-
damanti.»
«Ah, sì... il dentista del terzo piano... vado a metterla subito
nel-
lo stivale delle lettere.»
Rodolphe credette di aver capito male, invece vide la signora Pi-
pelet gettare gravemente la lettera in un vecchio stivale a tromba,
accanto al muro.
Rodolphe la guardava con meraviglia.
«Come?» le disse «mettete la lettera...»
«Sì, signore, la metto nello stivale delle lettere... In questa ma-
niera, niente va perduto: quando gli inquilini rientrano, Alfred e
io scuotiamo lo stivale, facciamo la cernita, e ciascuno ha la sua
posta.» «La vostra casa è così ben organizzata, che ho sempre più
voglia di abitarvi; soprattutto sono rimasto stupito dallo stivale
del-
le lettere.»
«Dio mio, è semplicissimo» replicò modestamente la signora Pi-
pelet: «Alfred aveva questo vecchio stivale scompagnato; tanto
valeva metterlo a disposizione degli inquilini.»
Ciò detto, la portinaia aveva aperto la lettera indirizzata a lei e
s’era messa a rigirarla in tutti i sensi; dopo qualche momento
d’imbarazzo disse a Rodolphe:
«Alfred s’incarica sempre di leggermi le lettere, perché io non so
farlo. Signore, sareste tanto gentile... di essere per me quello che
è Alfred?»
«Leggervi la lettera? volentieri» disse Rodolphe curiosissimo di
conoscere il corrispondente della signora Pipelet.
E lesse quanto segue sulla lettera satinata dove in un angolo si
potevano scorgere il casco, le iniziali C.R., il supporto araldico e
la croce d’onore:
Domani venerdì, alle undici, accendete un gran fuoco nelle due
stanze, pulite bene gli specchi e togliete le tele da sopra tutti i
mobili, facendo bene attenzione di non scrostare la doratura se
spolverate.
Se per caso verso l’una arrivasse una carrozza con una signora che
chiede di me chiamandomi signor Charles, e io non fossi giunto,
fatela salire nell’appartamento, portate giù la chiave che mi
consegnerete quando verrò.
Nonostante il tenore poco accademico del biglietto, Rodolphe capì
perfettamente di che si trattava, e disse alla portinaia:
«Chi abita al primo piano?»
La vecchia si posò sul labbro cascante un dito giallo e grinzoso,
rispondendo con una risatina maligna: «Acqua in bocca... sono
intrighi amorosi.»
«Ve lo domando, cara signora Pipelet... perché prima di alloggiare
in una casa... si desidera sapere...»
«È naturale... dimmi con chi vai... e ti dirò chi sei, vero?» «Stavo
proprio per dirvelo.»
«Del resto posso ben dirvi quello che so su questa faccenda,
non è una cosa lunga... Circa sei settimane fa, è venuto qui un
tappezziere, ha esaminato il primo piano, che era da affittare, ci
ha chiesto il prezzo e, il giorno dopo, è tornato in compagnia di un
bel giovanotto biondo, con baffetti neri, croce d’onore, e ben
vestito. Il tappezziere lo chiamava... comandante.»
«È un militare?»
«Militare?» rispose la signora Pipelet alzando le spalle «via, è
come se Alfred si fregiasse del titolo di portiere.»
«Come sarebbe a dire?»
«È semplicemente della guardia nazionale, nello Stato maggiore; il
tappezziere lo chiamava comandante tanto per leccarlo... così come
Alfred si sente leccato da chi lo chiama portiere. Infine quando il
comandante (lo conosciamo solo con questo nome) ebbe visto ogni
cosa, disse al tappezziere: “Va bene, mi piace, accomodate tutto e
parlate col padrone”.»
«“Sì, comandante” ha detto l’altro...
E il giorno dopo il tappezziere in presenza di Bras-Rouge ha firmato
il contratto col suo proprio nome di tappezziere, gli ha pagato sei
mesi anticipati, perché sembra che il giovanotto voglia restare in
incognito. Subito dopo, sono venuti gli operai a demolire tutto il
primo piano; hanno portato divani, tende di seta, specchi dorati,
mobili magnifici; insomma una casa bella come un caffè dei
boulevards! E dappertutto gran tappeti così grossi e così morbidi
che sembra di camminare su pellicce di animale...
Quando tutto fu a posto, il comandante è venuto a vedere il lavoro,
ha detto ad Alfred: “Potete incaricarvi di tenere in ordine questo
appartamento, in cui non verrò molto spesso, di fare fuoco di tanto
in tanto, e di apparecchiarlo quando io ve lo farò sapere per
posta?” “Sì, comandante” gli ha detto quel ruffiano di Alfred. “E
quanto mi prendete?” “Venti franchi al mese, comandante.” “Venti
franchi! portinaio, voi volete scherzare!” Ed ecco quel gran signore
che si mette a discutere sul prezzo come uno spilorcio, per fregare
la povera gente. Vedete, per uno o due miseri pezzi da cento soldi,
quando ha fatto spese pazze per un appartamento in cui non viene
neanche a abitare! Infine, a forza di lottare, siamo riusciti a
ottenere dodici franchi. Dodici franchi! Vedete un po’ voi se non
sono sudati!... Va’ là, comandante dei miei stivali! Che differenza
da voi, signore» aggiunse affabilmente la portinaia volgendosi a
Rodolphe, «voi non vi fate chiamare comandante, non avete l’aria di
essere chissà chi, eppure avete accettato subito il prezzo di sei
franchi.»
«È poi ritornato quel giovanotto?»
«State a sentire la cosa buffissima; pare che le donne lo facciano
sospirare, questo comandante. Ha scritto già tre volte, come oggi,
di accendere il fuoco, di mettere tutto a posto perché sarebbe
venuta una signora. Ma sì! Aspetta che vengano!»
«Non è venuto nessuno?»
«State a sentire. La prima volta, il comandante è arrivato
raggiante, canticchiando fra i denti e dandosi un sacco di arie; ha
aspettato due ore buone... nessuno; noi, mio marito e io,
aspettavamo spiando che ripassasse davanti alla portineria per
vedere la sua faccia e per stuzzicarlo. “Comandante, non è venuto
nessuno, nemmeno l’ombra di una mezza signora” gli dico. “Bene,
bene!” mi risponde furioso e pieno di vergogna, e se ne va in fretta
e furia, mangiandosi le unghie dalla rabbia. La seconda volta, prima
del suo arrivo, un messo porta un biglietto indirizzato al signor
Charles; io sospetto che anche questa volta tutto sia andato
all’aria; quando il comandante arriva, mio marito e io ci stiamo
facendo delle matte risate: “Comandante”, dico, portandomi il dorso
della mano sinistra alla parrucca, come una vera soldatessa, “c’è
una lettera per voi; anche oggi sembra che ci siano contrordini!”.
Egli mi guarda con occhio sprezzante, apre la lettera, la legge,
diventa rosso come un gambero; poi ci dice, facendo finta di non
essere contrariato: “Lo sapevo che non sarebbe venuta: io sono
venuto per raccomandarvi di sorvegliare tutto per bene”. Non era
vero; ce lo aveva detto per non far vedere che lo prende-
vano per il naso; dopo di che, se ne va dimenandosi e canticchiando
a denti stretti; ma va’ là che era irritato per benino... Ben ti
sta! Ben ti sta, comandante dei miei stivali! questo ti insegnerà a
dare solo dodici franchi al mese per le pulizie del tuo
appartamento.»
«E la terza volta?»
«Ah, la terza volta ho creduto proprio che fosse la volta buona. Il
comandante arriva tutto in ghingheri; gli occhi gli schizzavano
fuori dalle orbite da tanto sembrava contento e sicuro del fatto
suo. Bellissimo giovanotto, comunque... e ben vestito e profumava
come lo zibetto... sembrava sospeso per aria da tanto era gonfio...
Prende la chiave e prima di salire ci dice con aria beffarda e
altezzosa quasi per vendicarsi delle volte scorse: “Avvertite la
signora che la porta è socchiusa...”. Bene! mio marito e io eravamo
così curiosi di vedere la donnetta, quantunque non ci sperassimo
molto, che usciamo dalla portineria per metterci in agguato sulla
soglia dell’androne. Questa volta, però, si ferma davanti a casa
nostra una piccola carrozza blu con le tendine abbassate. “Bene! è
lei” dico ad Alfred... “Andiamo dentro per non spaventarla.” Il
vetturino apre lo sportello. Allora vediamo una piccola signora con
un manicotto sulle ginocchia e un velo nero sulla faccia, senza
contare il fazzoletto che aveva in bocca, perché sembrava piangesse;
ma quando la predella fu abbassata, la signora, invece di scendere,
dice due parole al vetturino, che, tutto sbalordito, richiude lo
sportello.»
«Scese la signora?»
«No, signore; si rigettò nel fondo della carrozza coprendosi gli
occhi con le mani. Io mi precipito in strada e prima che il
cocchiere si rimetta a cassetta, gli grido: “Ehi, buon uomo, ve ne
andate già?” “Sì” mi dice. “E dove?” gli chiedo. “Da dove sono
venuto.” “E da dove venite?” “Dalla rue Saint-Dominique, all’angolo
della rue Belle-Chasse.”»
A quelle parole, Rodolphe sussultò.
Uno dei suoi migliori amici, il marchese d’Harville, che da qualche
tempo era oppresso da una profonda malinconia, come abbiamo già
detto, abitava in rue Saint-Dominique all’angolo della rue
Belle-Chasse.
Era forse la marchesa d’Harville ad avere rischiato così la sua
rovina? E il marito non sospettava la cattiva condotta della moglie?
la cattiva condotta della moglie... unica causa forse della
tristezza da cui il marchese sembrava posseduto.
Questi erano i dubbi che assillavano la mente di Rodolphe. Egli,
però, che conosceva gli amici intimi della marchesa, non si
ricordava di aver mai visto uno che assomigliasse al comandante. La
signora in questione, dopo tutto, poteva benissimo avere preso la
carrozza in quel posto, senza per questo abitare in quella strada.
Rodolphe non aveva nessuna prova che fosse la marchesa. Gli
restarono tuttavia certi tormentosi sospetti.
Le sue inquietudini e la sua aria assorta non erano sfuggite alla
portinaia.
«Ohè, signore! a cosa pensate?» gli disse.
«Mi sto chiedendo la ragione per cui quella donna che era giunta
fino alla porta... abbia cambiato idea...»
«Che volete, signore, un’idea improvvisa, la paura, la
superstizione. Noi, povere donne, siamo così deboli, così
vigliacche» disse l’orribile portinaia con aria timida e crucciata.
«Chissà quante volte, credo, avrei dovuto prendere slancio se
anch’io, come quella signora, avessi dovuto partire di nascosto per
andare a fare le corna ad Alfred. Mai, nemmeno per sogno! Povero
caro! Non c’è uomo sulla terra, che possa farmi tradire Alfred.»
«Vi credo, signora Pipelet... Ma la giovane signora...»
«Non so se fosse giovane; non siamo riusciti a vederle nemmeno la
punta del naso. Fatto sta che com’era venuta, così se n’è andata
alla chetichella. Se ci avessero dato dieci franchi, Alfred e io non
saremmo stati tanto contenti.»
«Perché?»
«Pensando alla faccia che avrebbe fatto il comandante, ci sarebbe
stato sicuramente da crepare dal ridere. Come prima cosa, invece di
andare subito a dirgli che la signora se n’era tornata indietro, lo
lasciamo aspettare e stare sulle spine per un’ora buona. Poi salgo:
ai miei poveri piedi avevo un paio di pedule di vivagno; arrivo alla
porta che era socchiusa. La spingo, cigola; la scala è buia come un
forno e anche l’entrata dell’appartamento. Ecco che appena entro, il
comandante mi prende tra le braccia dicendomi in tono lezioso: “Dio,
come sei arrivata tardi angelo mio!”»
Nonostante la gravità dei pensieri da cui era preso, Rodolphe non
poté fare a meno di ridere, soprattutto al ricontemplare la
grottesca parrucca e l’orribile faccia rugosa e bitorzoluta di colei
che era stata l’eroina di quel ridicolo equivoco.
La signora Pipelet riprese poi facendo certe strane boccacce che la
mostravano ancora più repellente:
«Eh, eh, eh! questa è bella! Ma sentite il seguito. Io non rispondo,
trattengo il respiro, lo lascio fare... ma a un tratto ecco che quel
villano mi respinge schifato come se avesse toccato un ragno e si
mette a gridare: “Ma chi diavolo è?” “Sono io, coman-
dante, la signora Pipelet, la portinaia, quindi dovreste tenere a
posto le mani, non prendermi per la vita, né chiamarmi angelo e
dirmi che son venuta tardi. E se ci fosse stato Alfred?” “Che
volete?” mi urla furioso. “Comandante, la damina è arrivata adesso
con una carrozza.” “Ebbene, fatela salire; ma siete stupida, non vi
avevo detto di farla salire?” “Lo lascio dire.” “Sì, comandante, è
vero, m’avete detto di farla salire.” “E allora?” “Allora, la
damina...” “Ma parlate, dunque.” “Allora la damina è tornata
indietro.” “Certo, avrete detto o fatto qualche sciocchezza!” grida
ancora più furioso. “No comandante, la damina non è scesa dalla
carrozza: quando il vetturino ha aperto lo sportello, lei gli ha
detto di riportarla nel punto dove era salita.” “La carrozza non
dev’essere lontana!” grida il comandante, correndo verso la porta.
“Eh sì! è più di un’ora che è andata via” gli rispondo. “Un’ora!
un’ora! E perché avete tardato tanto ad avvisarmi?” mi urla
infuriandosi ancora di più. “Caspita... perché avevamo paura che vi
dispiacesse troppo di essere rimasto a bocca asciutta anche questa
volta.” Beccati questa! dico fra me e me, bellimbusto che non sei
altro, e questo perché t’è venuta la nausea quando m’hai toccata.
“Uscite di qui, fate e dite solo sciocchezze!” grida con rabbia,
sgualcendosi la vestaglia alla tartara e gettando a terra il
berretto alla greca di velluto con ricami d’oro... Bel berretto,
comunque... E la vestaglia! accecava; il comandante brillava come
una lucciola...»
«E poi tanto lui che la signora non sono più tornati?»
«No, ma la storia non è ancora finita» disse la signora Pipelet.
IX
I TRE PIANI
«Ecco la fine della storia» continuò la signora Pipelet. «Scendo in
fretta da Alfred. In portineria c’erano, per la precisione, la
portinaia del n. 19 e l’ostricaia che ha il posteggio davanti alla
porta della liquoreria; racconto come il comandante mi aveva preso
per la vita e chiamato angelo. E giù risate! e Alfred, sebbene sia
molto malin..., sì, malinconico, come dice lui, sebbene sia
diventato molto malinconico dopo il periodo degli scherzi escogitati
da quel mostro di Cabrion.»
Rodolphe guardò stupito la portinaia.
«Sì, un giorno, quando saremo più amici, vi racconterò questa
storia. Fatto è insomma che Alfred, nonostante la sua malin-
conia, si mette a chiamarmi angelo. In quel momento il comandante
esce dal suo appartamento e chiude la porta per andarsene; ma,
sentendoci ridere, non ha più il coraggio di scendere, perché teme
che lo prendiamo in giro, e lui doveva per forza passare davanti
alla portineria. Noi intuiamo tutto, ed ecco che l’ostricaia, con la
sua vociona, si mette a gridare: “Pipelet, angelo mio, come sei
arrivata tardi!”. Allora il comandante torna nella sua stanza e
chiude la porta sbattendola con fracasso, da vero collerico quale
egli è, perché quell’uomo dev’essere collerico come una tigre... ha
la punta del naso bianca... Insomma, avrà aperto e chiuso la porta
più di dieci volte, per sentire se c’era ancora gente giù in
portineria. Ce n’era sempre, noi non ci muovevamo. Alla fine,
vedendo che restavamo sempre lì, prende il coraggio a due mani,
scende come una furia, mi butta la chiave senza dire niente e se ne
va tutto infuriato, inseguito dalle nostre risate, mentre
l’ostricaia continuava a dire: “Come sei arrivata tardi, angelo
mio!”»
«Ma così andavate incontro al rischio che il comandante non vi desse
più da preparare la stanza.»
«Ah sì, proprio? non ne avrebbe avuto il coraggio. Noi lo avevamo in
pugno. Sapevamo dove abitava la sua bella; se ci avesse detto
qualcosa, lo avremmo minacciato di far sapere a tutti la tresca. E
poi per i suoi luridi dodici franchi, chi si sarebbe incaricato di
mettergli a posto l’appartamento! Una donna di fuori? le avremmo
reso la vita ben dura, a quella! Va’ là, brutto spilorcio! Insomma,
signore, voi non ci crederete, ma ha avuto la meschinità di guardare
alla sua legna e di fissarci il numero di ceppi da far ardere in sua
attesa. È sicuramente un arricchito, uno venuto su dal niente. Ha
una testa da signore e un corpo da pezzente, spende da una parte e
lesina dall’altra. A parte questo, io non gli voglio male; ma mi
diverte un mondo vedere che la sua bella lo prende per il naso.
Scommetto che domani sarà ancora la stessa cosa. Avviserò
l’ostricaia, che anche l’altra volta era qui; ci divertiremo. Quando
la damina verrà, la vedremo e vedremo anche se è una biondina o una
brunetta, e se è bella. E pensare, signore, che dietro a tutto ciò,
c’è un babbeo di marito! È buffissimo, non vi pare? Ma questo
riguarda il pover’uomo. Insomma, domani vedremo la damina, e
nonostante il velo, dovrà pur passare a capo chino se non vorrà che
sappiamo di che colore siano i suoi occhi. Costei è un’altra
doppiamente svergognata, come si dice al mio paese; va a casa di un
uomo e fa finta di avere paura. Ma scusate, vado a togliere la
pentola dal fuoco: ha finito di bollire. Perché la pappa bisogna
mangiarla, È un po’ di trippa, Alfred diventerà un
tantino più allegro, perché, come lui stesso dice: “Per la trippa
tradirei la Francia...”, la sua bella Francia!... caro il mio
vecchio.» Mentre la signora Pipelet era intenta a quella faccenda di
casa,
Rodolphe si lasciava andare a tristi riflessioni.
La donna in questione (che fosse o no la marchesa d’Harville)
aveva senza dubbio esitato, lottato a lungo prima di concedere il
primo e quindi il secondo appuntamento; ma, spaventata poi dalle
conseguenze della sua imprudenza, anziché mantenere la pericolosa
promessa, si era lasciata vincere da un salutare rimorso.
Infine, spinta da un’attrazione irresistibile, giunge, sebbene in
lacrime e straziata da mille timori, fin sulla soglia della casa; ma
sul punto di perdersi per sempre, presta orecchio alla voce del
dovere: ed evita ancora una volta di disonorarsi.
E per chi poi si esponeva a tanto rischio e a tanta ignominia!
Rodolphe conosceva il mondo e il cuore umano; dal breve e rapido
schizzo fattogli con brutale ingenuità dalla portinaia, riuscì a
immaginare con sufficiente precisione il carattere del comandante.
Si trattava in fondo di un uomo così stupidamente orgoglioso da
sentirsi fiero quando gli veniva attribuito un grado del tutto
insignificante da un punto di vista militare; un uomo che aveva
tanto poco tatto da non intuire l’importanza di serbare strettamente
l’incognito, per poter avvolgere nel più impenetrabile mistero le
colpevoli iniziative di una donna che rischiava tutto per lui; un
uomo, infine, così sciocco e spilorcio da non comprendere che, per
risparmiare qualche luigi, esponeva la sua amante allo scherno
insolente e ignobile della gente di quella casa!
Così, l’indomani, spinta da una forza invincibile, ma cosciente
dell’immensità del suo sbaglio, quella misera donna che, alle
terribili angosce di cui soffre, può opporre solo la sua cieca
fiducia nella discrezione e nell’onore dell’uomo a cui ella concede
qualcosa che è più importante della sua stessa vita, verrà
all’appuntamento, palpitante, smarrita; e dovrà sopportare gli
sguardi curiosi e sfrontati di certa gente e sentire forse le loro
ignobili facezie.
Che vergogna! che lezione! che triste risveglio per una donna
disorientata, che fino ad allora si sarebbe cullata nelle più belle,
nelle più poetiche illusioni d’amore!
E l’uomo per il quale ella affronta tanta vergogna, tanto rischio è
toccato almeno dalle strazianti angosce che egli provoca?
No...
Povera donna! la passione la rende cieca e la spinge un’ultima volta
sull’orlo del baratro. Basta un atto di coraggio per salvarla
dalla colpa. Cosa proverà quell’uomo al pensiero di una lotta così
dolorosa e santa?
Proverà dispetto, collera, rabbia, pensando che si è scomodato tre
volte per niente, e che la sua sciocca fatuità è gravemente
compromessa... agli occhi del suo portinaio...
Infine, ultimo segno di enorme e pacchiana indelicatezza, quell’uomo
ha dato a vedere di esprimersi in modo tale, di vestirsi in modo
tale, in occasione di quel suo primo appuntamento, che non può non
far morire di confusione e di vergogna una donna già schiacciata dal
peso della confusione e della vergogna.
Oh, pensava Rodolphe, che terribile insegnamento per quella donna
(che spero di non conoscere) se avesse potuto sentire in che modo
disgustoso si era parlato di un’azione, senza dubbio colpevole, ma
che le costava tanto amore, tante lacrime, tante paure e tanti
rimorsi!
E poi, pensando che la marchesa d’Harville poteva essere la triste
eroina di quella avventura, Rodolphe si domandava per quale
aberrazione, per quale fatalità il signor d’Harville, un uomo
giovane, pieno di spirito, di affetto, di generosità, e soprattutto
teneramente innamorato della moglie, potesse essere sacrificato a un
altro uomo sciocco, avaro, egoista e ridicolo. La marchesa si era,
allora, innamorata solo del fisico di un uomo, che si diceva fosse
molto bello?
Rodolphe, tuttavia, sapeva la marchesa d’Harville donna di cuore, di
spirito, di buon gusto, e dotata di carattere nobilissimo; non era
mai corsa una neppur minima diceria sulla sua reputazione. Dove
aveva conosciuto quell’uomo? Rodolphe la vedeva di frequente, e non
si ricordava di avere incontrato a palazzo d’Harville qualcuno che
gli ricordasse il comandante. Dopo matura riflessione, finì quasi
col persuadersi che non si trattava della marchesa.
La signora Pipelet, sbrigate le faccende di cucina, riprese la
conversazione con Rodolphe.
«Chi abita al secondo piano?» chiese alla portinaia.
«Comare Burette, una donna bravissima a fare le carte. Vi legge
nella mano come in un libro. Ci sono persone molto per bene che
vengono da lei per farsi predire la sorte... e il denaro lo prende a
mucchi più grossi di lei. Comunque quello della chiromante non è il
suo solo mestiere.»
«Cos’altro fa?»
«Tiene, diciamo così, un monte privato.» «Come?»
«Ve lo dico perché siete un giovanotto e perché così vorrete ancora
di più diventare nostro inquilino.»
«Perché?»
«Una semplice supposizione: fra poco ci saranno i giorni grassi, il
periodo in cui pullulano le donne mascherate, gli scaricatori, i
turchi e i selvaggi; un periodo in cui anche i più bravi si trovano
qualche volta senza quattrini... Ebbene, fa sempre comodo avere in
casa quel che ci vuole, invece di dover correre dalla zia, cosa che
è anche più umiliante, perché ci si va a veduta e saputa di tutta la
circoscrizione.»
«Da vostra zia? Allora presta su pegno?»
«Come, non sapete? Via, via, burlone!... Fate lo gnorri alla vostra
età!»
«Io faccio lo gnorri! Per che cosa, signora Pipelet?» «Chiedendomi
se è mia zia che presta su pegno.»
«Perché...»
«Perché tutti i giovani che abbiano l’età della ragione sanno
che andare dalla zia vuol dire andare a portare qualcosa al monte di
pietà.»
«Ah, capisco... l’inquilina del secondo piano presta su pegno?»
«Andiamo, signor sornione, certo che presta su pegno, e a miglior
prezzo del monte vero e proprio... E poi, non è affatto complicato;
non si è ingombrati da un mucchio di scartoffie, di polizze, di
cifre... per niente, per niente. Per esempio: si porta a comare
Burette una camicia che vale cinque franchi: lei vi presta dieci
soldi, dopo otto giorni dovrete portargliene venti, altrimenti si
tiene la camicia. È semplice, no? Sempre conti tondi! Anche un
bambino capirebbe.»
«È chiarissimo infatti: ma credevo che fosse proibito prestare così
su pegno.»
«Ah, ah, ah» fece la signora Pipelet, sbellicandosi dalle risa,
«allora venite dalla campagna, giovanotto?... Scusate, vi parlo come
se fossi vostra madre e voi mio figlio.»
«Siete molto buona.»
«Certo che è proibito prestare su pegno; ma se si facesse solo
quello che è permesso, dite un po’, si resterebbe molto spesso a
braccia conserte. Comare Burette non scrive, non dà ricevute, non ci
sono prove contro di lei, se ne infischia della polizia. È
stranissima la roba che le portano. Non potreste immaginare in
cambio di cosa presta alle volte. L’ho vista prestare in cambio di
un pappagallo grigio che bestemmiava proprio come un ossesso, quel
mascalzone.»
«Su un pappagallo? Ma quanto?...»
«Aspettate un po’... era uno in particolare: era il pappagallo della
vedova di un postino, la signora d’Herbelot, che abita qui vicino,
in rue Saint-Avoye; si sapeva che al pappagallo ci teneva come alla
sua vita; comare Burette le dice: “Vi presto dieci franchi sul
pappagallo; ma se entro otto giorni, a mezzogiorno, non ho i miei
venti franchi...”»
«I suoi dieci franchi.»
«Con gli interessi venivano venti franchi giusti; sempre
arrotondati. “Se non ho i venti franchi, con le spese di nutrimento,
do a Loreto una insalatina di prezzemolo condita con l’arsenico.”
Eh, conosceva bene la sua cliente. Con questo espediente, comare
Burette di lì a sette giorni ha avuto i suoi venti franchi, e la
signora d’Herbelot s’è portata via quella brutta bestia, che durante
tutto il giorno non faceva che ripetere parolacce, con grande
vergogna da parte di Alfred, che ha un pudore esagerato. È
chiarissimo, suo padre era prete... durante la rivoluzione, come
sapete... ci sono stati preti che hanno sposato delle monache.»
«Suppongo che comare Burette non abbia altri mestieri.»
«Non ne ha altri, se così vi piace. Tuttavia non so bene che razza
di traffici faccia qualche volta in una stanzetta dove non entra
nessuno, tranne il signor Bras-Rouge e una vecchia guercia, chiamata
la Chouette.»
Rodolphe guardò stupito la portinaia.
Costei, notata la sorpresa del futuro inquilino, disse: «Chouette è
uno strano nome, vero?»
«Sì; e viene spesso qui questa donna?»
«Sono sei settimane che non si fa viva; ma ieri l’altro l’abbiamo
vista; zoppicava un po’.»
«E che cosa viene a fare dalla chiromante?»
«È ben questo che non so, almeno per quanto riguarda i traffici
nella stanzetta di cui vi ho parlato e in cui possono entrare
solamente la Chouette, il signor Bras-Rouge e comare Burette; ho
notato però che in quei giorni la guercia ha sempre un pacco nella
sporta mentre il signor Bras-Rouge il suo se lo nasconde sotto il
mantello, e che poi escono senza niente.»
«E che cosa contengono quei pacchi?»
«Non so proprio niente di niente, so solo che con quella roba fanno
un qualche intruglio infernale; perché passando sulla scala si sente
odore come di zolfo, carbone e stagno fuso; e poi li si sente
soffiare, soffiare, soffiare... come fabbri. Di certo comare Burette
armeggia con qualcosa che ha a che fare con la stregoneria e la ma-
gia... così almeno mi ha detto il signor César Bradamanti,
l’inquilino del terzo piano. È un tipo singolare, il signor César!
Dico tipo singolare, ma si tratta di un italiano, che parla francese
bene come voi e me, anche se con un forte accento; ma non importa, è
uno che ha studiato, che conosce le persone semplici, e che vi
toglie i denti non per denaro, ma per prestigio. Sì, signore, per
puro prestigio. Se voi aveste sei denti guasti, e lo dice lui stesso
a chi vuole ascoltarlo, vi toglierebbe i primi cinque per niente ma
il sesto ve lo farebbe pagare. Non è colpa sua se avete anche il
sesto dente.»
«È generoso!»
«E, inoltre, vende un’acqua buonissima che impedisce la caduta dei
capelli, guarisce il mal d’occhi, i calli ai piedi, la debolezza di
stomaco, e uccide i topi senza arsenico.»
«Quest’acqua guarisce la debolezza di stomaco?»
«La stessa acqua.»
«E uccide anche i topi?»
«Non se ne salva uno, perché ciò che giova all’uomo nuoce
agli animali.»
«Giusto, signora Pipelet, non ci avevo pensato.»
«Che sia un’acqua buonissima ne sono prova le piante che il si-
gnor César ha raccolto sulle montagne del Libano, in zone abitate da
non so che razza d’americani, da dove ha portato anche un cavallo
che sembra una tigre; è bianchissimo, picchiettato di macchie
rosso-brune. Vedete, non so che cosa si darebbe per vedere il signor
César Bradamanti in groppa alla sua bestia, con il suo vestito a
risvolti gialli e il cappello con il pennacchio; perché, con
rispetto parlando, con quella sua barbona rossa sembra Giuda
Iscariota. Da un mese ha preso al suo servizio il figlio del signor
Bras-Rouge, Tortillard, e l’ha vestito, diciamo così, da trovatore,
con un tocco nero, un collettino e una giacchetta color albicocca;
batte il tamburo per attirare i clienti intorno al signor César
senza dire che il piccolo governa il cavallo tigrato del dentista.»
«Mi pare che il figlio dell’inquilino che subaffitta abbia un
impiego molto modesto.»
«Il padre dice di volergli rendere la vita dura a quel ragazzo;
altrimenti finirebbe sulla forca. Per la verità, è uno scimmiotto
dispettosissimo... e cattivo, ha combinato più di uno scherzetto a
quel povero signor Bradamanti, il quale è un galantuomo coi fiocchi.
Siccome ha guarito Alfred dai reumatismi, lo abbiamo a cuore.
Eppure, signore, ci sono persone così snaturate da... ma no, c’è da
far rizzare i capelli. Alfred dice che, se fosse vero, sarebbe un
crimine da scontare in galera.»
«E quale?»
«Ah, non oso, non oserò mai.»
«Non parliamone più.»
«Perché... sul mio onore di dama onesta, dire certe cose a un
giovanotto...»
«Non parliamone più, signora Pipelet.»
«In fondo, poiché sarete nostro inquilino, è meglio che sappiate
che sono tutte menzogne. Voi potete benissimo fare amicizia e stare
in compagnia del signor Bradamanti; se aveste creduto a quelle voci,
non avreste forse voluto saperne di fare la sua conoscenza.»
«Parlate, vi ascolto.»
«Dicono che quando... a volte una fanciulla ha fatto una
sciocchezza... capite... vero? e ne teme le conseguenze...»
«Ebbene?»
«Ecco, adesso non ho più il coraggio di... E cioè?»
«No; del resto sono sciocchezze... Dite pure.»
«Menzogne.»
«Dite pure.»
«Sono le male lingue.»
«Ma allora?»
«Certe persone che sono gelose del cavallo tigrato del signor
César.»
«Finalmente; ma insomma cosa dicono?»
«Mi vergogno.»
«Ma che rapporto c’è tra una fanciulla che ha commesso un
errore e il ciarlatano?»
«Non dico con ciò che sia vero!»
«Ma, in nome del cielo, che cos’è?» gridò Rodolphe spazienti-
to dalle strane reticenze della signora Pipelet.
«Sentite, giovanotto, giuratemi sul vostro onore che non lo di-
rete a nessuno.»
«Quando saprò di cosa di tratta, deciderò se farvi o no questo
giuramento.»
«Se ve lo dico, non lo faccio per i sei franchi, né per il
rosolio...» «Bene, bene.»
«Ma per la fiducia che mi ispirate.»
«D’accordo.»
«E per aiutare il povero signor Bradamanti, discolpandolo.» «La
vostra intenzione è ottima, non ne dubito, e allora?»
«Si dice dunque... ma che non esca dalla portineria, mi rac-
comando.»
«Certo; si dice dunque...»
«Uffa, non me la sento neanche questa volta. Sentite, ve lo dirò in
un orecchio, mi farà meno effetto... Avete visto come sono bambina,
eh?»
E la vecchia sussurrò qualcosa all’orecchio di Rodolphe che sussultò
dallo spavento.
«Oh, ma è spaventoso!» esclamò alzandosi automaticamente e
guardandosi intorno quasi con terrore, come se quella casa fosse
stata maledetta. «Dio mio, Dio mio!» mormorò a mezza voce con
doloroso stupore «allora non sono impossibili delitti così
spaventosi! E questa orribile vecchia che è rimasta quasi
indifferente all’atroce rivelazione che m’ha fatto!»
La portinaia, non avendo sentito quello che aveva detto Rodolphe,
riprese a parlare senza per questo cessare di accudire alle faccende
di casa.
«Non è vero che sono un mucchio di maldicenze?»
Come! Un uomo che ha guarito Alfred dai reumatismi, un uomo che ha
portato un cavallo tigrato dal Libano, un uomo che vi propone di
cavarvi gratis cinque denti su sei, un uomo in possesso di titoli di
studio ottenuti in ogni parte d’Europa, e che paga l’affitto
puntualmente. Ebbene! sì..: la morte piuttosto che credere a simili
cose!
Mentre la signora Pipelet sfogava la sua indignazione contro i
calunniatori, Rodolphe si ricordava della lettera indirizzata a quel
ciarlatano, lettera scritta su carta comune e con una calligrafia
contraffatta, mezzo cancellata dai segni di una lacrima.
Nella lacrima e nella lettera misteriosa indirizzata a quell’uomo,
Rodolphe scorse un dramma...
Un dramma terribile.
Un segreto presentimento gli diceva che le orribili dicerie che
correvano sull’italiano non erano infondate.
«Oh, ecco Alfred» esclamò la portinaia; «anche lui vi dirà che non
possono essere che le male lingue ad accusare di atrocità il signor
César Bradamanti, che l’ha guarito dai reumatismi.»
X
IL SIGNOR PIPELET
Va detto al lettore che tali fatti si svolgevano nel 1838.
Il signor Pipelet entrò nella portineria con aria grave e imponente;
aveva circa sessant’anni, un naso enorme, una pinguedine di tutto
rispetto, e una rubiconda facciona sagomata come quel-
la degli schiaccianoci a forma di uomini di Norimberga. La strana
maschera era sormontata da un cappello a rocchetto, a larghe tese,
diventato rossiccio per l’uso.
Alfred, che non lasciava quel cappello più di quanto sua moglie non
lasciasse la stravagante parrucca, si pavoneggiava nel suo vecchio
vestito verde a falde immense, con risvolti diventati, per così
dire, color piombo per via della sporcizia che li faceva apparire
qua e là di un grigio lustro. Con il cappello largo e il vestito
verde non privi di una certa solennità, il signor Pipelet s’era
tenuto indosso il modesto emblema del suo mestiere: un grembiule di
cuoio disegnava un triangolo rosso sopra un lungo panciotto
multicolore come la trapunta della signora Pipelet.
Il saluto che il portinaio fece a Rodolphe non mancò di una certa
affabilità; ma, ahimè, il suo sorriso era pieno d’amarezza.
In esso si poteva intuire quell’espressione di profonda malinconia
di cui la signora Pipelet aveva parlato con Rodolphe.
«Alfred, il signore vuole prendere a pigione la stanzetta con
salottino del quarto piano» disse la signora Pipelet presentando
Rodolphe ad Alfred «e ti abbiamo aspettato per bere insieme il
bicchiere di rosolio che ha ordinato.»
Questo gesto di gentilezza da parte di Rodolphe ispirò subito
fiducia al signor Pipelet; il portinaio portò la mano alla falda del
cappello e disse con una voce di basso degna di un cantore di
cattedrale:
«Vedrete, signore, che non sarete scontento di noi come portinai e
che noi non saremo scontenti di voi come inquilino; ogni simile ama
il suo simile.»
Ma il signor Pipelet s’interruppe subito per dire con aria
preoccupata a Rodolphe:
«A meno, signore, che non siate un pittore.»
«No, sono un commesso di bottega.»
«Allora, signore, vi presento i miei umili omaggi. E mi con-
gratulo con la natura per non avervi fatto nascere simile a quei
mostri d’artisti.»
«Gli artisti... dei mostri?» domandò Rodolphe.
Il signor Pipelet, invece di rispondere, levò le mani verso il
soffitto della portineria ed emise una specie di gemito corrucciato.
«Sono stati i pittori ad avere avvelenato la vita ad Alfred. Sono
loro la causa di quella malinconia di cui vi parlavo» sussurrò la
signora Pipelet a Rodolphe. Poi disse ad alta voce con tono
carezzevole: «Andiamo, Alfred, sii ragionevole, non pensare a quel
mascalzone... starai male, non potrai mangiare.»
«No, sarò forte e ragionevole» rispose il signor Pipelet con dignità
triste e rassegnata. «Mi ha fatto molto male: per molto tempo è
stato il mio persecutore, il mio carnefice; ma adesso lo disprezzo.
I pittori» aggiunse voltandosi verso Rodolphe «ah, signore, sono la
peste, l’inferno e la rovina di una casa.»
«Avete alloggiato un pittore?»
«Ahimè, sì, signore, ne abbiamo avuto uno» disse il signor Pipelet
con amarezza «e per giunta un pittore che si chiamava Cabrion!»
A quel ricordo, nonostante la sua calma apparente, il portinaio
strinse i pugni con gesto convulso.
«È stato lui l’ultimo inquilino della stanza che voglio prendere
io?» domandò Rodolphe.
«No, no, l’ultimo inquilino era un bravo e degno giovane di nome
Germain; ma prima di lui c’era Cabrion. Ah, signore, dopo che
Cabrion è partito, c’è mancato poco che non impazzissi, che non
diventassi ebete.»
«Vi è talmente dispiaciuto?» domandò Rodolphe.
«Dispiacermi di Cabrion!» continuò il portinaio stupito,
«dispiacermi di Cabrion! Ma immaginatevi, signore, che il signor
Bras-Rouge gli ha pagato due mesi d’affitto per farlo sloggiare da
qui; perché eravamo stati tanto malaccorti da fargli un contratto
d’affitto. Che razza di tipaccio! Voi non potete immaginarvi,
signore, i brutti tiri che ha giocato a noi e agli inquilini. Tanto
per dirvene una, vi assicuro che non c’è strumento a fiato di cui
non si sia bassamente servito per torturare gli inquilini! Sì,
signore, dal corno da caccia al serpentone, signore! Ha approfittato
di tutto, spingendo la villania fino a fare appositamente una nota
stonata e tenerla lunga per ore intere. C’era da impazzire. Si sono
fatte più di venti proteste all’inquilino che subaffitta, il signor
Bras-Rouge, perché scacciasse quel mascalzone. Finalmente la
spuntarono pagandogli due mesi d’affitto... Buffo, vero? Un
inquilino a cui si pagano due mesi d’affitto; ma gliene avremmo
pagati anche tre pur di potercelo levare di torno. Se ne va... Ma
credete forse che sia finita con Cabrion? State a sentire!
L’indomani, alle undici di sera, io ero già a letto. Pan, pan, pan!
Tiro la corda. Qualcuno entra in portineria. “Buonasera, portinaio”
dice una voce, “volete darmi per favore una ciocca dei vostri
capelli?” Mia moglie mi dice: “È qualcuno che ha sbagliato porta!”.
Allora rispondo allo sconosciuto: “Non è qui; vedete alla porta a
fianco”. “Ma non è il numero 17? Il portinaio non si chiama
Pipelet?” risponde la voce “Sì, dico io, mi chiamo Pipelet.”
“Ebbene, amico Pipelet, sono
venuto a chiedervi una ciocca di capelli per conto di Cabrion; è
un’idea sua, ci tiene e la vuole.”»
Il signor Pipelet guardò Rodolphe, scosse la testa e incrociò le
braccia assumendo una posa scultorea.
«Capite, signore? A me, suo mortale nemico, a me che aveva ricoperto
d’oltraggi, veniva sfacciatamente a chiedere una ciocca di capelli,
un favore che le signore a volte rifiutano perfino ai loro amanti!»
«Almeno fosse stato un buon inquilino come il signor Germain,
codesto Cabrion!» soggiunse Rodolphe con imperturbabile sangue
freddo.
«Fosse stato pure un buon inquilino, non gli avrei dato comunque
quella ciocca» disse con sussiego l’uomo dal cappello a rocchetto;
«la cosa non rientra né nei miei principi, né nelle mie abitudini;
ma sarebbe stato mio dovere, mio obbligo, rifiutargliela con le
dovute maniere.»
«E non basta» disse la portinaia; «figuratevi che da quel giorno
quel maledetto Cabrion aveva sguinzagliato una massa di imbrattatele
che venivano qui uno dietro l’altro di mattina, di sera, di notte,
in ogni ora a chiedere ad Alfred una ciocca di capelli, sempre per
Cabrion!»
«Immaginatevi se avrei ceduto!» disse il signor Pipelet con aria
decisa, «piuttosto mi sarei fatto tagliare la testa, signore! Dopo
tre o quattro mesi di insistenza da parte loro, e di resistenza da
parte mia, la mia costanza ha avuto il sopravvento sulla caparbietà
di quei miserabili. Si sono accorti che avevano a che fare con una
sbarra di ferro, e sono stati costretti a rinunciare alle loro
insolenti pretese. Ma, ciononostante, signore, io sono stato colpito
qui.» Alfred portò la mano al cuore. «Se avessi commesso qualche
orribile delitto, non avrei avuto un sonno più agitato. A ogni
momento, mi svegliavo di soprassalto, perché mi pareva di sentire la
voce di quel dannato Cabrion. Diffidavo di tutti: in ognuno vedevo
un nemico; perdevo la mia allegria. Non potevo vedere un viso
estraneo affacciarsi alla finestra della portineria senza fremere
perché subito mi veniva l’idea che forse era qualcuno della banda di
Cabrion. E ancora adesso, signore, sono sospettoso, arcigno, cupo,
aspro come un delinquente... quando faccio anche la più piccola
conoscenza, ho sempre paura di sbottonarmi, perché credo di
riconoscervi qualcuno della banda di Cabrion; non ho più voglia di
niente.»
A questo punto la signora Pipelet si portò l’indice all’occhio
sinistro come per asciugare una lacrima e con la testa fece un segno
affermativo.
«Insomma» continuò Alfred con tono sempre più lamentoso, «mi chiudo
in me stesso e così vedo scorrere il fiume della vita. Non ho avuto
ragione, signore, di dirvi che quell’infernale Cabrion mi ha
avvelenato l’esistenza?»
E il signor Pipelet, sentendosi il cappello a rocchetto schiacciato
dal peso di quella immensa sventura, emise un profondo sospiro.
«Adesso capisco perché non vi piacciono i pittori» disse Rodolphe;
«meno male che il signor Germain, di cui m’avete detto, non era come
il signor Cabrion!»
«Oh, certo, signore; quello sì che era un giovanotto buono e bravo,
schietto come l’oro, servizievole e per niente superbo, e allegro,
ma di un’allegria buona che non faceva male a nessuno, non era
insolente e beffardo come quel Cabrion, che Dio lo fulmini!»
«Su calmatevi, caro signor Pipelet, non pronunciate quel nome. E
adesso chi è il proprietario tanto fortunato da avere quella perla
degli inquilini che è il signor Germain?»
«Vattelapesca... nessuno sa e saprà dove abita adesso il signor
Germain. Quando dico nessuno... tranne la signorina Rigolette.»
«E chi è questa signorina Rigolette?» domandò Rodolphe.
«Un’inquilina del quarto piano, una lavorante» rispose la signora
Pipelet. «Ecco un’altra perla, una che paga l’affitto in anticipo, e
tanto pulitina nella sua stanzetta, e così gentile con tutti, e così
allegra... un vero uccello del buon Dio, tanto è graziosa e gaia,
inoltre lavora come un piccolo castoro e alle volte guadagna anche
due franchi al giorno, ma con quanta fatica, Dio mio!»
«Ma come mai la signorina Rigolette è la sola che sappia dove abiti
il signor Germain?»
«Quando ha lasciato la casa» continuò la signora Pipelet «ci ha
detto: “Nessuno mi scriverà; ma se per caso arrivasse qualche
lettera consegnatela alla signorina Rigolette”. E di lei poteva ben
fidarsi, quand’anche la lettera fosse stata assicurata; vero,
Alfred?»
«Fatto sta che non ci sarebbe niente da dire sul conto della
signorina Rigolette» disse severamente il portinaio «se lei non
avesse avuto la debolezza di lasciarsi abbindolare da quell’infame
Cabrion.»
«In quanto a ciò, Alfred» soggiunse la portinaia «sai bene che non è
colpa della signorina Rigolette, dipende dai locali; perché è stata
la stessa cosa col commesso viaggiatore che occupava la stanza di
Cabrion, come, dopo quella buonalana del pittore, è stato il signor
Germain a far le moine; lo ripeto, non può essere altrimenti,
dipende dai locali.»
«Così gli inquilini della stanza che voglio prendere in affitto sono
stati costretti a fare la corte alla signorina Rigolette?»
«Costretti, signore; adesso vi spiego. Si è vicini con la signorina
Rigolette, le due stanze si toccano; ebbene, fra giovani... c’è un
lume da accendere, un po’ di braci da chiedere in prestito, oppure
un po’ d’acqua. Oh, in quanto all’acqua, si può stare sicuri che non
ne manca mai dalla signorina Rigolette, ne ha sempre: è l’unico
lusso, è un vero anatroccolo. Appena ha un momento libero, si mette
subito a lavare le finestre, il focolare. Per questo è sempre tanto
pulito da lei!... vedrete.»
«Così il signor Germain, tenuto conto dei locali, è stato, come voi
avete detto, un buon vicino per la signorina Rigolette?»
«Sì, signore, ed è il caso di dire che erano nati l’uno per l’altra.
Così carini, così giovani, era un piacere vederli scendere le scale
la domenica, il solo giorno libero che avevano, poveri ragazzi! Lei
bene agghindata, con una graziosa cuffietta e con un bel vestitino
da venticinque soldi al metro, se l’era fatto lei, eppure le stava
così bene che sembrava una reginetta; lui, vestito da perfetto
moscardino!»
«E da quando ha lasciato questa casa, il signor Germain non ha più
rivisto la signorina Rigolette?»
«No, signore, a meno che non sia di domenica, perché gli altri
giorni la signorina Rigolette non ha tempo di pensare agli
spasimanti, via, si alza alle cinque o alle sei, e lavora fino alle
dieci, qualche volta fino alle undici di sera; non esce mai di
stanza, tranne la mattina quando va a comperare le provviste per sé
e per i due canarini che ha, e in tutti e tre non è che mangino
molto! Di che cosa si accontentano? Due soldi di latte, un po’ di
pane, un po’ di centocchio, d’insalata, di miglio, e molta acqua
bella e pulita; eppure tutti e tre, la piccola e i due uccelli,
cicalano e cinguettano, che è un vero piacere!... Inoltre, buona e
per niente avara, nei limiti del possibile, delle sue ore di sonno e
delle sue cure, perché, pur lavorando a volte più di dodici ore al
giorno, riesce appena a guadagnarsi di che vivere... Per esempio,
per parecchie notti la signorina Rigolette con il signor Germain ha
vegliato i bambini di quei disgraziati delle soffitte, che il signor
Bras-Rouge butterà sulla strada tra non più di tre o quattro
giorni!»
«C’è una famiglia povera qui?»
«Povera, signore! Dio d’un Dio! lo credo bene. Cinque bambini in
tenera età, la madre ammalata, quasi moribonda, la nonna mezzo
scema; e per nutrire questa gente un uomo che non mangia quanto
basta e che sfacchina come un negro; è un operaio che
sa il fatto suo! Tre ore di sonno su ventiquattro, ecco tutto ciò
che ha, e chissà che razza di sonno anche! quando si è svegliati da
bambini che gridano “Pane!”, da una donna malata che geme sul
pagliericcio, o da una vecchia scema che a volte si mette a urlare
come una lupa... anche per la fame, perché di giudizio ne ha quanto
una bestia. Quando ha tanta fame, la si sente urlare nelle scale.»
«Oh, è spaventoso!» esclamò Rodolphe; «e nessuno li aiuta?»
«Diavolo, signore, fra poveri si fa quel che si può. Da quando, per
sbrigargli le faccende, ho i dodici franchi al mese del comandante,
faccio il lesso una volta alla settimana e quei disgraziati lassù
hanno un po’ di brodo. La signorina Rigolette ruba le ore al sonno
e, caspita, la luce non le viene gratis quando deve fare, con i
ritagli di stoffa che ha, camiciole e cuffiette per i bambini... Il
povero signor Germain, che peraltro non era molto ben messo neppure
lui, faceva finta di ricevere di tanto in tanto da casa qualche
bottiglia di buon vino, e Morel (così si chiama l’operaio) ne beveva
uno o due bei bicchierotti che lo scaldavano un po’ e gli
rimettevano l’anima in corpo.»
«E il ciarlatano non ha fatto niente per questa povera gente?»
«Il signor Bradamanti?» chiese il portinaio; «mi ha guarito da un
reumatismo, è vero, perciò lo venero; ma quel giorno ho detto alla
mia sposa: “Anastasie, il signor Bradamanti... Uhm! uhm!” vero che
te l’ho detto, Anastasie?»
«Sì, me l’hai detto, ma gli piace ridere, a quell’uomo! ridere
almeno a modo suo, senza aprire la bocca.»
«Che cosa ha fatto?»
«Ecco, signore... Quando gli ho parlato della miseria dei Morel, per
via del fatto che si era lamentato che la vecchia scema aveva urlato
per la fame tutta la notte impedendogli così di dormire, mi ha
detto: “Dato che sono così poveri, se hanno dei denti da levare,
toglierò loro gratis anche il sesto e darò loro una bottiglia della
mia acqua a metà prezzo”.»
«Ebbene» disse il signor Pipelet, «sebbene mi abbia guarito dai
reumatismi, sostengo che è una facezia indecente. E ne dice sempre
di simili... e almeno fossero solo indecenti!»
«Alfred, pensa che è un italiano e forse nel suo Paese usano
scherzare così.»
«Decisamente, signora Pipelet» disse Rodolphe «ho una brutta
opinione di quest’uomo e quindi, seguendo il vostro consiglio, non
stringerò amicizia né starò in sua compagnia... Ma quella donna che
presta su pegno, è stata più caritatevole?»
«Oh, alla stregua del signor Bradamanti» rispose la portinaia; «ha
fatto loro dei prestiti sui poveri stracci che possedevano... Tutto
è passato nelle sue mani, fino all’ultimo materasso... C’era poco da
scegliere, non ne hanno mai avuti due.»
«E adesso li aiuta?»
«Chi, comare Burette? Sì, davvero! nel suo campo è avara quanto il
suo amante nel proprio; perché, dovete sapere che il signor
Bras-Rouge e comare Burette...» aggiunse la portinaia con
un’occhiatina e con una scrollata di capo pieni di malignità.
«Davvero!» disse Rodolphe.
«Proprio vero... verissimo!... E, credetemi, le estati di San
Martino sono calde come le altre, vero, vecchio mio?»
Il signor Pipelet rispose semplicemente scuotendo malinconicamente
il cappello a rocchetto.
Da quando la signora Pipelet gli aveva parlato del suo sentimento di
carità verso i disgraziati delle soffitte, Rodolphe la vedeva meno
ripugnante.
«E che mestiere fa quel povero uomo?»
«È tagliatore di pietre false; viene pagato in base al lavoro che fa
e lavora tanto, tanto che ha finito col deformarsi; lo vedrete...
Dopo tutto, un uomo è un uomo e non può fare l’impossibile, vero? E
quando bisogna dare la pappa a una famiglia di sette persone, lui
escluso, non è come bere un uovo! Senza contare che la figlia
maggiore lo aiuta con quello che può, anche se non è molto.»
«E quanti anni ha la figlia?»
«Diciassette anni, è bella, bella... come il sole; fa la cameriera
da un vecchio avaro, tanto ricco da comperare Parigi, un notaio, il
signor Jacques Ferrand.»
«Il signor Jacques Ferrand!» disse Rodolphe stupito da questo nuovo
incontro perché proprio da questo notaio, o perlomeno dalla sua
governante, egli doveva avere le informazioni relative alla
Goualeuse. «Jacques Ferrand, un signore che abita in rue du
Sentier?» chiese poi.
«Esatto!... lo conoscete?»
«È il notaio della casa commerciale da cui dipendo.» «Ebbene, allora
saprete che è un notissimo strozzino, ma, per
la verità, onesto e devoto... ogni domenica a messa e al vespro, si
confessa e fa la comunione a Pasqua; se fa bisboccia, la fa solo coi
preti, poi beve acqua benedetta, mangia pane benedetto... un
sant’uomo, insomma! la cassa di risparmio della povera gente che gli
affida le proprie economie! ma, caspita, avaro e duro con gli
altri come con se stesso. Sono diciotto mesi che quella povera
Louise, figlia del tagliatore, fa la cameriera da lui. È buona come
un agnello e lavora come un cavallo. Là lei fa tutto e prende
diciotto franchi di salario, non un soldo di più; si tiene sei
franchi al mese per mantenersi e dà il resto alla famiglia: e lo dà
ogni mese, ma quando con questo ci devono vivere sette persone...!»
«Ma il padre non lavora tanto?»
«Se lavora? È un uomo che in vita sua non è mai stato bevuto, è un
uomo a posto, è buono come un Cristo; come ricompensa domanderebbe
al buon Dio una sola cosa, far durare il giorno quarantotto ore, per
poter guadagnare un po’ di più per i suoi marmocchi.»
«Il lavoro gli rende pochissimo, allora?»
«È stato infermo per tre mesi e per questo è rimasto indietro; sua
moglie s’è rovinata la salute per curarlo, e, adesso, è moribonda;
durante questi tre mesi hanno dovuto vivere con i dodici franchi di
Louise, con quello che hanno preso a prestito da comare Burette e,
in più, con qualche scudo che ha prestato loro la sensale di pietre
false per la quale egli lavora. Ma otto persone! questo è il punto e
se vedeste il loro buco!... Ma sentite, signore, non parliamone più,
il nostro pranzo è pronto e, solo al pensare alla loro soffitta, mi
si ribalta lo stomaco. Meno male che il signor Bras-Rouge ce li
leverà di torno. Se dico meno male, non è per cattiveria, mi pare.
Ma dal momento che quei poveri Morel devono essere disgraziati e noi
non possiamo farci niente, tanto vale che siano disgraziati altrove.
È una pena di meno.»
«Ma dove andranno se saranno cacciati da qui?»
«Perdiana, non lo so.»
«E quanto può guadagnare al giorno quel povero operaio?» «Se non
fosse costretto a curare la madre, la moglie e i bam-
bini, potrebbe guadagnare benissimo quattro o cinque franchi, perché
ce la mette tutta; ma, siccome perde tre quarti del suo tempo a fare
le faccende di casa, è tanto se guadagna quaranta soldi.»
«È pochissimo infatti. Poveretti!»
«Sì, poveretti! è la parola giusta. Ma ci sono tanti altri poveretti
per cui, dal momento che non possiamo farci niente, dobbiamo
metterci il cuore in pace, vero, Alfred? Ma a proposito di mettersi
il cuore in pace, il rosolio può dirci qualcosa!»
«A essere sinceri, signora Pipelet, ciò che m’avete raccontato m’ha
dato una stretta al cuore; bevete pure alla mia salute con il signor
Pipelet.»
«Siete molto buono, signore» disse il portinaio; «ma volete ancora
vedere la stanza in alto?»
«Volentieri; se mi piace vi darò la caparra.»
Il portinaio uscì dal suo antro. Rodolphe gli si mise dietro.
XI
I QUATTRO PIANI
La scala umida e buia sembrava ancora più oscura in quella triste
giornata d’inverno.
La porta di ogni appartamento di questa casa offriva all’occhio
dell’osservatore, diciamo così, un suo volto particolare.
Così la porta dell’alloggio in cui abitava il comandante era stata
da poco dipinta con un colore marrone striato da venature simili a
quelle del palissandro; una maniglia di rame dorato brillava sulla
serratura e un bel cordone per campanello con fiocco di seta rossa
contrastava con l’antico luridume dei muri.
La porta del secondo piano, dove abitava l’indovina che prestava su
pegno, aveva un aspetto ancora più singolare: un gufo impagliato,
uccello simbolico e cabalistico per eccellenza, era stato inchiodato
con le zampe e con le ali sopra l’architrave; uno spioncino a
graticolato di fil di ferro, permetteva di vedere i visitatori che
volevano entrare.
Anche la porta della stanza del ciarlatano italiano, che si
sospettava esercitasse un orribile mestiere, dava nell’occhio per la
sua stranezza.
Il suo nome era stato composto con denti di cavallo infissi in una
specie di quadro di legno nero, attaccato alla porta.
Invece di terminare con la classica zampa di lepre o con il classico
piede di capriolo, il cordone del campanello era attaccato
all’avambraccio e alla mano di una scimmia mummificata.
Quel braccio disseccato e quella manina dalle cinque dita che si
prolungavano in falangi coronate da unghie erano orribili a vedersi.
La si sarebbe presa per la mano di un bambino. Proprio nel momento
in cui passava davanti a quella porta dall’aspetto sinistro,
Rodolphe credette di udire qualche singhiozzo soffocato; poi, a un
tratto, un grido doloroso, convulso, orribile, un grido che pareva
uscito dal fondo delle viscere, risuonò nel silenzio della casa.
Rodolphe trasalì.
Corse alla porta con la rapidità del pensiero e suonò con violenza.
«Che vi prende signore?» disse con stupore il portinaio. «Quel
grido» rispose Rodolphe «l’avete udito?»
«Sì, signore. Sarà stato di sicuro qualche cliente a cui il signor
César Bradamanti ha strappato un dente, forse due.»
La spiegazione, pur essendo verosimile, non soddisfece Ro-
dolphe.
Il terribile grido che aveva udito poco prima non gli sembrava
solo la manifestazione di un dolore fisico; ma anche, se così si può
dire, un grido di dolore morale.
Il colpo di campanello era stato di straordinaria violenza. Dapprima
nessuno rispose.
Numerose porte si chiusero una dopo l’altra; poi dietro il ve-
tro di un occhio di bue che si trovava vicino alla porta, e su cui
Rodolphe aveva incollato automaticamente gli occhi, apparve
vagamente una faccia scarna, di pallore cadaverico; una selva di
capelli rossi e grigi incorniciava un orribile viso, che terminava
con una lunga barba dello stesso colore della capigliatura.
La visione durò un secondo e poi scomparve. Rodolphe restò
pietrificato.
Durante la breve apparizione, ebbe l’impressione d’avere già visto i
lineamenti caratteristici di quell’uomo.
Gli occhi verdi e brillanti come l’acqua marina sotto le grosse
sopracciglie fulve e irte, il pallore livido, il naso sottile,
prominente, aquilino, e le cui narici bizzarramente dilatate e
incavate lasciavano vedere una parte del setto nasale, gli
ricordavano in modo sorprendente un certo abate Polidori, il cui
nome era stato maledetto da Murph, nel colloquio col barone di
Graün.
Sebbene fossero sedici o diciassette anni che non vedeva l’abate
Polidori, pure Rodolphe, per cento ragioni, non poteva averlo
dimenticato; ciò però che disorientava i suoi ricordi, ciò che lo
faceva dubitare dell’identità dei due personaggi, era rappresentato
dal fatto che il prete che egli credeva d’avere ritrovato sotto le
vesti di quel ciarlatano con barba e capelli rossi era invece molto
bruno.
D’altra parte (sempre supponendo che i suoi sospetti fossero
fondati) non meravigliandosi di vedere un uomo investito di un
carattere sacro, un uomo di cui conosceva la superba intelligenza,
il vasto sapere, l’alto ingegno, toccare il fondo della
degradazione, dell’infamia forse, Rodolphe dimostrava di sapere che
quell’alto ingegno, quella superba intelligenza, quel vasto sapere,
si sposavano a una perversità così profonda, a un tipo di vita così
sregolato, a tendenze così da crapulone e, in special modo, a un
tale cinismo furfantesco e atroce disprezzo degli uomini e delle
cose, che quest’uomo, ridotto a una meritata miseria, non poteva,
diremo quasi non doveva, non ricorrere ai mezzi più infamanti e
trovare in essi una specie di amara e sacrilega soddisfazione al
vedersi, lui, che era dotato di eccezionali qualità intellettuali,
lui, investito di un carattere sacro, esercitare il vile mestiere di
ciarlatano senza pudori.
Ma torniamo a dire che Rodolphe, pur avendo lasciato il prete che
era un uomo maturo e pur pensando che questi dovesse avere gli anni
del ciarlatano, dubitava dell’identità dei due personaggi perché fra
di loro c’erano alcune differenze per niente trascurabili;
cionononstante chiese al signor Pipelet:
«È da molto che il signor Bradamanti abita in questa casa?».
«Da circa un anno, signore. Sì, proprio, ha cominciato con l’affitto
di gennaio. È un inquilino puntuale; mi ha guarito da un brutto
reumatismo... Ma come vi dicevo poco fa, ha un difetto: prende
troppo in giro, nei suoi discorsi non rispetta nulla.»
«Come mai?»
«Insomma, signore» disse gravemente il signor Pipelet, «io non sono
un modello di virtù, ma c’è riso e riso.»
«È molto allegro allora?»
«Non è che sia allegro; anzi sembra un cadavere; ma non ride mai con
la bocca... Ride sempre con le parole; per lui non c’è né padre né
madre, né Dio né diavolo, scherza su tutto, perfino sulla sua acqua,
signore, perfino sulla sua acqua! Ma, non vi nascondo che quegli
scherzi a volte mi mettono paura, mi fanno venire la pelle d’oca.
Quando viene in portineria e resta lì un quarto d’ora a parlare
senza tanti pudori delle donne mezze nude dei vari paesi selvaggi
che ha percorso e quando poi mi ritrovo da solo a solo con
Anastasie, ebbene, signore, io so che da trentasette anni sono
assieme a lei e mi sono fatto un dovere di volerle bene... ebbene,
mi sembra di volerle meno bene. Voi riderete, ma qualche volta
anche, dopo che il signor César mi ha parlato dei festini ai quali
assisteva per vedere i principi provare i denti che egli aveva messo
loro, ebbene, mi sembra che i miei bocconi si facciano amari e non
ho più fame. Insomma mi piace il mio mestiere e mi sento onorato.
Avrei potuto essere un calzolaio come i tanti ambiziosi che ci sono,
ma credo di essere egualmente utile risuolando scarpe vecchie. Ecco,
signore, ci sono giorni in cui quel demonio del signor César, con i
suoi scherni, mi fa rimpiangere di non esse-
re stivalaio, parola mia d’onore! e poi insomma... ha un modo di
parlare delle selvagge che ha conosciuto... Vedete, signore, ve lo
ripeto, io non sono un modello di virtù, ma a volte, accipicchia,
divento rosso» aggiunse il signor Pipelet con il tono indignato di
un uomo casto.
«E la signora Pipelet tollera tutto ciò?»
«Anastasie va pazza per gli uomini spiritosi, e il signor César,
nonostante la sua brutta specie, è senza dubbio spiritosissimo, così
lei gli perdona tutto.»
«Vostra moglie mi ha anche parlato di certi orribili rumori...» «Ve
ne ha parlato?...»
«Non preoccupatevi, sono discreto io.»
«Ebbene, signore, io non credo a questa voce e non ci crederò
mai, eppure non posso fare a meno di pensarci, e quando ci penso
aumenta lo strano effetto che producono su di me le facezie del
signor Bradamanti. Insomma, signore, vi dico francamente che odio il
signor Cabrion... è un odio che porterò con me nella tomba. Eppure,
a volte mi sembra di preferire gli ignobili scherzi che egli aveva
la sfrontatezza di fare in questa casa, ai frizzi che snocciola il
signor César con quella sua aria di canzonatore serioso e con quel
suo stringere le labbra in modo sgraziato, cosa che mi ricorda
sempre l’agonia di mio zio Rousselot che, quando rantolava,
stringeva le labbra proprio come il signor Bradamanti.»
Le poche parole che il signor Pipelet aveva detto a proposito
dell’ironia continua che il ciarlatano usava parlando di tutto e di
tutti e con cui riusciva a dissipare le gioie anche più modeste in
virtù di quel suo amaro schernire, riconfermarono Rodolphe nei suoi
primi sospetti; infatti il Prete, quando deponeva la maschera
d’ipocrita, aveva sempre ostentato lo scetticismo più audace e più
rivoltante.
Più che mai deciso a chiarire i suoi dubbi, dato che la presenza di
quel prete nella casa poteva dargli incomodo, e sempre più incline a
interpretare a tinte fosche il terribile grido da cui era stato
tanto impressionato, Rodolphe seguì il portinaio al piano superiore,
dove si trovava la stanza che intendeva prendere in affitto.
L’abitazione della signorina Rigolette era facilmente riconoscibile
grazie all’impronta piena di galanteria lasciatavi dal pittore,
mortale nemico del signor Pipelet.
Una mezza dozzina di amorini paffuti, dipinti con grande
disinvoltura e con molto spirito come nei quadri di Watteau, erano
tutti intorno a una specie di cartoccio, e portavano
allegoricamente, chi un ditale, chi un paio di forbici, chi un ferro
da stiro e
chi un piccolo specchio da toeletta; in mezzo al cartoccio, su
sfondo blu chiaro, si poteva leggere scritto in lettere rosa:
Signorina Rigolette, sarta. Il tutto era incorniciato da una
ghirlanda di fiori che si stagliava sullo sfondo verde chiaro della
porta.
Anche il grazioso pannello contrastava in modo impressionante con il
sozzume della scala.
Col rischio di riaprirgli le piaghe sanguinanti, Rodolphe indicò ad
Alfred la porta della signorina Rigolette e gli disse:
«Questo è senz’altro opera del signor Cabrion?».
«Si, signore, si è permesso di rovinare la pittura della porta con
questi scarabocchi indecenti di bambini tutti nudi, che egli chiama
amorini. Se non fosse stato per le suppliche della signorina
Rigolette e la debolezza del signor Bras-Rouge, avrei raschiato via
tutto, anche la tavolozza con cui quel mostro ha ostruito la porta
della vostra stanza.»
Infatti, una tavolozza carica di colori, che sembrava sospesa a un
chiodo, era dipinta sulla porta dando l’illusione ottica di essere
vera.
Rodolphe entrò col portinaio in una stanza abbastanza spaziosa,
preceduta da un salottino e rischiarata da due finestre che davano
sulla rue du Temple; alcuni schizzi fantasiosi, dipinti sulla
seconda porta dal signor Cabrion, erano stati gelosamente conservati
dal signor Germain.
Rodolphe fissò subito la stanza perché aveva troppi motivi per
abitare in quella casa; quindi in tutta modestia diede quaranta
soldi al portinaio e gli disse:
«La stanza mi va benissimo, eccovi la caparra; domani farò portare i
mobili. Non è necessario, vero, che veda l’inquilino che subaffitta,
il signor Bras-Rouge?»
«No, signore, lui viene qui solo di tanto in tanto, a meno che non
ci siano di mezzo gli intrighi con la Burette... Si deve trattare
sempre e direttamente con me; vi chiederò solo come vi chiamate.»
«Rodolphe.»
«Rodolphe... come?»
«Rodophe semplicemente, signor Pipelet.»
«La cosa cambia allora, signore; non ho insistito per curiosità:
i nomi e le volontà sono all’insegna della libertà.»
«Sentite un po’, signor Pipelet, che debba andare a chiedere domani
ai Morel se posso essere loro utile in qualche cosa, visto che anche
il mio predecessore, il signor Germain, li ha aiutati se-
condo le sue possibilità?»
«Sì, signore, potete farlo; è vero che non servirà a gran che, dal
momento che saranno mandati via; ma ciò non mancherà di farli
contenti.»
Poi, come illuminato da un’idea improvvisa, il signor Pipelet guardò
l’inquilino con aria furba e maliziosa ed esclamò:
«Capisco, capisco; è un pretesto per diventare buon vicino della
graziosa vicina della stanza a fianco.»
«Ci conto molto.»
«Non c’è niente di male, signore, è di uso; vi dirò di più, sono
sicuro che la signorina Rigolette ha sentito che si sta guardando la
stanza e che adesso sta spiando per vederci scendere. Darò apposta
un bel colpo per girare la chiave; aprite bene gli occhi quando
passate sul pianerottolo.»
Infatti Rodolphe s’accorse che la porta così graziosamente ornata di
amorini alla Watteau era socchiusa, e così poté distinguere
vagamente, attraverso la stretta apertura, la punta di un bel nasino
rosato e un grande occhio nero vivace e curioso; ma non appena
cominciò a rallentare il passo, la porta si chiuse bruscamente...»
«Ve lo dicevo io che faceva la posta!» disse il portinaio; poi
soggiunse: «Scusate, signore!... vado nel mio piccolo osservatorio.»
«Che cos’è?»
«In cima a questa scala, c’è un pianerottolo su cui si affaccia la
porta della soffitta dei Morel, e dietro a un soppalco c’è un buco
nero dove io metto la roba vecchia. Siccome il muro è pienissimo di
fessure, quando sono nel mio buco vedo da loro e li sento come se
fossi dentro. Non che li spii, Dio me ne guardi! Ma insomma qualche
volta vengo a vederli così come andrei a un melodramma a tinte
fosche. E quando scendo in portineria, mi sembra di essere in una
reggia. Ma, sentite, signore, se volete, prima che se ne vadano... È
triste, ma è strano; infatti, quando vi vedono, sono come dei
selvaggi, sono imbarazzati.»
«Siete molto buono, signor Pipelet, un altro giorno, domani forse,
approfitterò della vostra offerta.»
«Come volete, signore; ma io devo salire al mio osservatorio perché
ho bisogno di un pezzo di bazzana. Se intanto, signore, volete
scendere, io vi raggiungerò fra poco.»
E il signor Pipelet cominciò sulla scala che portava alla soffitta,
un’ascensione alquanto pericolosa per la sua età. Rodolphe, data
un’ultima occhiata alla porta della signorina Rigolette, stava
riflettendo sul fatto che la ragazza, vecchia conoscenza della po-
vera Goualeuse, doveva senz’altro sapere dove si nascondeva il
figlio del Maître d’école, quando udì uscire qualcuno dalla casa del
ciarlatano che era al piano di sotto; riconobbe il passo leggero di
una donna e il fruscio di una veste di seta. Per discrezione
Rodolphe si fermò e restò immobile un momento.»
Quando non sentì più nulla, cominciò a scendere.
Sugli ultimi gradini del secondo piano, trovò un fazzoletto che
raccolse; di certo apparteneva alla persona che era uscita dalla
casa del ciarlatano.
Rodolphe si avvicinò a una delle finestrelle da cui prendeva luce il
pianerottolo e vide che si trattava di un fazzoletto ornato di
bellissimi merletti; in uno degli angoli erano state ricamate una L
e una N e sopra a esse una corona ducale.
Il fazzoletto era letteralmente inzuppato di lacrime.
Il primo pensiero di Rodolphe fu quello di correre a portare il
fazzoletto alla persona che l’aveva perduto; ma capì che, in quella
circostanza, il suo gesto poteva forse sembrare dettato da una
curiosità che avrebbe dato fastidio; se lo tenne e così si trovò,
senza volerlo, sulle tracce di una misteriosa e certo sinistra
avventura.
Entrato in portineria, disse alla portinaia:
«Avete visto passare una donna?»
«Sì, signore. Ma si tratta di una bella signora, alta e sottile,
con un velo nero. Veniva dalla stanza del signor César. Tortillard è
andato a cercarle una carrozza che lei ha preso proprio adesso. Non
capisco come mai quel furfantello sia andato a sedersi dietro la
carrozza, forse per vedere dove va la signora; perché lui è curioso
come una gazza e vispo come un furetto, nonostante il piede storto.»
Ciò, pensò Rodolphe, vuol dire che il ciarlatano, supponendo che sia
stato lui a dare l’ordine a Tortillard di seguire la sconosciuta,
non sa probabilmente né come si chiami né dove abiti.
«Allora, vi piace la stanza, signore?» chiese la portinaia.
«Sì, mi piace molto; ho deciso, domani farò portare i mobili.» «Dio
vi benedica, signore, di esser passato davanti alla nostra
porta, avremo un buon inquilino di più. Mi sa che siete un buon
ragazzo, Pipelet vi si affezionerà subito. Lo farete ridere come
faceva il signor Germain, che aveva sempre qualcosa di buffo da
dirgli; perché ha bisogno di ridere, quel pover’uomo: perciò penso
che prima di un mese diventerete amici.»
«Via, signora Pipelet, voi volete lusingarmi.»
«Nient’affatto; ciò che dico, lo dico col cuore sulle labbra. E se
sarete gentile con Alfred, ve ne sarò riconoscente: vedrete come
sarà in ordine la vostra stanza; mi sento un leone per le pulizie; e
se alla domenica vorrete mangiare in casa, vi preparerò certe cose
che vi leccherete le dita.»
«D’accordo, signora Pipelet, vi occuperete voi della mia stanza;
domani saranno portati i mobili e io verrò a sorvegliarne la
sistemazione.»
Rodolphe uscì.
I risultati della visita alla casa della rue du Temple erano stati
abbastanza buoni, sia in vista della soluzione del mistero che
voleva scoprire, sia per quanto concerneva l’encomiabile curiosità
che gli dava il destro di fare il bene e impedire il male.
Questi erano i risultati:
La signorina Rigolette doveva sapere senz’altro dove abitava in quel
momento François Germain, figlio del Maître d’école.
Una giovane donna, che, da alcuni indizi, sembrava purtroppo essere
la marchesa d’Harville, aveva dato per il giorno successivo un nuovo
appuntamento al comandante, appuntamento che l’avrebbe forse
rovinata per sempre.
E Rodolphe aveva mille ragioni per interessarsi tanto al signor
d’Harville, la cui tranquillità e il cui onore sembravano così
crudelmente compromessi.
Un onesto e laborioso artigiano, oppresso dalla miseria più nera,
stava per essere gettato con la famiglia sul lastrico da BrasRouge.
Infine Rodolphe, senza volerlo, aveva scoperto alcuni indizi di una
avventura di cui il ciarlatano César Bradamanti (forse l’abate
Polidori) e una donna, che apparteneva certo al bel mondo, erano i
principali attori.
Inoltre la Chouette, uscita da poco dall’ospedale dov’era entrata
dopo l’avventura dell’allée des Veuves, intratteneva relazioni
sospette con una indovina e usuraia, la signora Burette, che abitava
al secondo piano della casa.
Raccolte le varie informazioni, Rodolphe ritornò a casa dove decise
di rimandare al giorno seguente la visita al notaio Jacques Ferrand.
La sera stessa, come sappiamo, Rodolphe doveva recarsi
all’ambasciata di *** per un grande ballo.
Anziché accompagnare il nostro eroe nella nuova avventura, getteremo
prima un’occhiata retrospettiva su due personaggi importanti di
questa storia, e precisamente su Tom e Sarah.
XII
TOM E SARAH
Sarah Seyton, vedova del conte Mac-Grégor, aveva all’incirca
trentasette o trentotto anni; apparteneva a un’ottima famiglia
scozzese, essendo il padre baronetto e gentiluomo di campagna.
Sarah, donna di perfetta bellezza, aveva lasciato la Scozia con il
fratello Tom Seyton di Halsbury all’età di diciassette anni, quando
rimase orfana.
La nutrice, una vecchia montanara scozzese, con le sue assurde
predizioni, aveva esaltato, quasi fino alla follia, i due vizi
capitali di Sarah, l’orgoglio e l’ambizione, promettendole, con
implacabile continuità, i più alti destini... perché non dirlo? un
destino da sovrana.
La giovane scozzese si era arresa all’evidenza delle predizioni
della nutrice, e si ripeteva senza tregua, per corroborare la sua
sete d’ambizione, che una chiromante aveva predetto una corona anche
alla bella ed eccellente creola che sedette un giorno sul trono di
Francia, e che fu regina in virtù della sua grazia e della sua
bontà, come altre lo sono per la loro grandezza e maestà.
E, cosa strana, Tom Seyton, superstizioso come la sorella, ne aveva
incoraggiato le folli speranze e aveva deciso di consacrare la
propria vita alla realizzazione del sogno di Sarah, un sogno tanto
splendido quanto insensato.
Tuttavia sia il fratello che la sorella non erano tanto ciechi da
credere in tutto e per tutto alla predizione della montanara e da
non prendere in considerazione i regni secondari e i principati per
puntare decisamente a un trono di primo piano; no, purché la bella
scozzese si fosse cinta un giorno l’altera fronte di una corona
regale, l’orgogliosa coppia avrebbe chiuso gli occhi sull’importanza
dei domini posti sotto quella corona.
Aiutandosi con l’Almanacco di Gotha dell’anno di grazia 1819, Tom
Seyton, in procinto di lasciare la Scozia, fece una specie di tavola
sinottica per ordine di età di tutti i re e tutti i principi europei
non ancora sposati.
Sebbene molto assurda, l’ambizione dei due fratelli non ricorreva a
mezzi disonesti; Tom doveva solamente aiutare a ordire la ragnatela
del matrimonio in cui Sarah sperava di far cadere una qualsiasi
testa coronata. Tom doveva essere complice in tutte le astuzie, in
tutti gli intrighi che avrebbero potuto portare a un tale risultato;
piuttosto che vedere nella sorella l’amante di
un principe, lui l’avrebbe uccisa, anche esistendo la certezza di un
matrimonio riparatore.
L’inventario matrimoniale che risultò dalle ricerche di Tom e di
Sarah nell’Almanacco di Gotha fu soddisfacente.
Soprattutto la Confederazione germanica forniva un grande
contingente di giovani sovrani presuntivi. Sarah era protestante;
Tom sapeva della facilità con cui i tedeschi contraevano il
matrimonio detto della mano sinistra, matrimonio legittimo del
resto, a cui però per quanto riguardava la sorella si sarebbe
rassegnato solo in extremis. Tutti e due d’accordo decisero di
cominciare la caccia in Germania.
Se un tale progetto potrà sembrare irrealizzabile e tali speranze
assurde, teniamo a precisare che un’ambizione sfrenata, alimentata
per giunta dalla superstizione, raramente può vantarsi di essere
ragionevole nelle sue mire e di tentare il tentabile; tuttavia se si
tengono presenti alcuni fatti di cronaca contemporanea, dagli
augusti e rispettabili matrimoni morganatici fra sovrani e suddite
giù giù fino all’avventurosa relazione di miss Penelope col principe
di Capua, non si potrà negare una qualche probabilità di successo ai
sogni di Tom e Sarah.
Aggiungeremo che, in lei, la stupenda bellezza si accoppiava a una
rara disposizione per le più svariate cose d’ingegno e a una forza
di seduzione tanto più pericolosa in quanto oltre ad avere un’anima
arida e insensibile, uno spirito scaltro e cattivo, una grande
ipocrisia, un carattere testardo e risoluto, essa possedeva tutti i
crismi di una natura generosa, ardente e passionale.
La sua costituzione fisica era infida e traeva in inganno quanto
quella morale.
I grandi occhi neri, ora scintillanti ora languidi, sotto le
sopracciglia d’ebano, potevano fingere benissimo il fuoco della
voluttà; eppure mai le brucianti aspirazioni dell’amore avrebbero
potuto fare palpitare quel suo cuore di ghiaccio; mai
l’imprevedibilità del cuore o dei sensi avrebbe potuto scombinare
gli implacabili calcoli di quella donna scaltra, egoista e
ambiziosa.
Arrivata sul continente, Sarah, dietro consiglio del fratello,
decise, prima cimentarsi nell’impresa, di fermarsi a Parigi, dove
intendeva raffinare la propria educazione, e rendere più elastica la
propria rigidezza di donna inglese, frequentando una società
elegante, piacevole e che godesse di una discreta libertà.
Sarah fu introdotta nel più bello e nel più gran mondo, grazie ad
alcune lettere di raccomandazione e alla benevola protezione della
signora ambasciatrice d’Inghilterra e del vecchio marchese
d’Harville, che aveva conosciuto in Inghilterra il padre di Tom e di
Sarah.
Le persone false, fredde, calcolatrici, assimilano con straordinaria
prontezza il linguaggio e le maniere più opposte al loro carattere:
in esse tutto è esteriorità, semplice apparenza, vernice, scorza;
non appena vengono capite, scoperte, sono perdute; per questo quel
certo istinto di conservazione di cui sono dotate le rende più che
ogni altro atte alla finzione. Esse si truccano e si mascherano con
la sveltezza e l’abilità di un attore consumato.
Con ciò vogliamo dire che dopo essere rimasta sei mesi a Parigi,
Sarah, grazie alla vivacità pungente del suo spirito, al fascino
della sua persona, all’ingenuità delle sue civetterie e all’aperta
provocazione del suo sguardo casto e passionale a un tempo, avrebbe
potuto competere con la parigina più parigina del mondo.
Trovandola sufficientemente armata, Tom partì con la sorella per la
Germania, provvisto di ottime lettere di presentazione.
Il primo Stato della Confederazione germanica che si trovava
sull’itinerario di Sarah era il granducato di Gerolstein, nome con
cui era indicato nel diplomatico e infallibile Almanacco di Gotha
dell’anno 1819.
GENEALOGIA DEI SOVRANI D’EUROPA E DELLE LORO FAMIGLIE
GEROLSTEIN
Granduca: Maximilien Rodolphe, nato il 10 dicembre del 1764. Succede
al padre Charles-Frédérik-Rodolphe, il 21 aprile del 1785. – Vedovo,
nel gennaio del 1808, di Luise, figlia del principe JeanAuguste di
Burglen.
Figlio: Gustave-Rodolphe, nato il 17 aprile del 1803. Madre:
Granduchessa Judith, ereditiera, vedova del granduca
CharlesFrédérik-Rodolphe, il 21 aprile del 1785.
Tom aveva avuto il buon senso di scrivere, prima di tutto, sulla
lista i principi più giovani che desiderava come cognati, perché
pensava che i più giovani si lasciano più facilmente sedurre degli
uomini maturi. D’altra parte, come abbiamo detto, Tom e Sarah erano
stati particolarmente raccomandati al granduca che regnava in
Gerolstein dal vecchio marchese d’Harville, infatuato anche lui come
tutti gli altri di Sarah, di cui non si saziava di ammirare la
bellezza, la grazia e il carattere squisito.
Inutile dire che l’erede presuntivo del granducato di Gerolstein era
Gustave-Rodolphe; il quale Rodolphe aveva appena diciotto anni
quando Tom e Sarah furono presentati a suo padre.
L’arrivo della giovane scozzese fu un avvenimento in quella piccola
corte tedesca, tranquilla, semplice, seria e per così dire
patriarcale. Il granduca, un uomo buonissimo, governava i suoi Stati
con la fermezza di un saggio e la bontà di un padre; non v’era
niente di più materialmente e moralmente felice di quel principato.
La popolazione seria e operosa, parca e pia, incarnava il tipo
ideale del carattere tedesco.
Quella brava gente godeva di una felicità così piena, era così
soddisfatta della propria condizione, che il granduca grazie al suo
illuminato potere non aveva avuto nessun bisogno di tenerla lontana
dalla mania delle innovazioni costituzionali.
Quanto alle scoperte moderne, alle invenzioni pratiche che potevano
essere di salutare influenza per il benessere e la moralizzazione
del popolo, il granduca si teneva al corrente e le applicava di
continuo; infatti i suoi inviati presso le varie potenze d’Europa
non avevano, per così dire, altra missione che di tenere informato
il loro padrone di tutti i progressi della scienza dal punto di
vista del bene pubblico e dell’utilità pratica.
Abbiamo detto che il granduca provava affetto e riconoscenza per il
vecchio marchese d’Harville che nel 1815 gli aveva reso immensi
servigi; così, grazie alla raccomandazione di quest’ultimo, Tom e
Sarah Seyton di Halsbury furono accolti alla corte di Gerolstein con
un riguardo e una bontà tutti particolari.
Quindici giorni dopo il suo arrivo, Sarah, dotata com’era di un
grande spirito di osservazione, aveva potuto facilmente rendersi
conto della fermezza, lealtà, schiettezza del granduca; prima di
sedurre il figlio, cosa che avrebbe sicuramente fatto, aveva avuto
l’astuzia di assicurarsi delle disposizioni del padre. Costui
sembrava amare così follemente il figlio Rodolphe che per un momento
Sarah lo credette capace di acconsentire a un matrimonio con una
persona di rango inferiore piuttosto che vedere l’amato figlio
eternamente infelice. Ma la scozzese non tardò a convincersi che un
padre così tenero non sarebbe mai venuto meno a certi princìpi, a
certe idee sui doveri dei principi.
Non era orgoglio da parte sua; ma coscienza, ragione, dignità.
Ora, un uomo di tempra così energica, che è tanto più affettuoso e
buono, quanto più è risoluto e fermo, non concede mai nulla di
quello che riguarda la propria coscienza, la propria ragione e la
propria dignità.
Di fronte a ostacoli così difficili da superare, Sarah fu sul punto
di rinunciare alla sua impresa, ma considerato che, in compenso,
Rodolphe era giovanissimo e che ognuno ne vantava la dolcezza, la
bontà, il carattere timido e sognatore a un tempo, dedusse che il
giovane principe era debole e indeciso; quindi non desisté dal suo
progetto e dalle sue speranze.
In tale occasione, il suo comportamento e quello di suo fratello
furono un capolavoro di scaltrezza.
La giovane donna seppe accattivarsi gli animi di tutti, e,
soprattutto, di quelle persone che avrebbero potuto essere gelose o
invidiose delle sue qualità; si velò con modestia e semplicità
facendo così dimenticare la propria bellezza e le proprie grazie. In
breve diventò l’idolo non solo del granduca, ma anche di sua madre,
la granduchessa Judith, che, nonostante o per i suoi novant’anni,
amava follemente tutto ciò che poteva essere giovane e leggiadro.
Parecchie volte Tom e Sarah parlarono di partire. Il sovrano di
Gerolstein non vi acconsentì mai; anzi, per legare a sé
definitivamente i due fratelli, pregò, da una parte, il baronetto
Tom Seyton di Halsbury di accettare la carica vacante di primo
scudiero, e dall’altra supplicò Sarah di non lasciare la
granduchessa che ormai non poteva più stare senza di lei.
Dopo lunghe esitazioni, contro cui si combatté con implacabile
insistenza, Tom e Sarah accettarono le brillanti proposte e si
stabilirono alla corte di Gerolstein, dove erano giunti da due mesi.
Sarah, che aveva una notevole sensibilità in materia di musica e che
sapeva che la granduchessa preferiva i vecchi maestri, e in
particolare Gluck, si fece mandare l’opera dell’illustre musicista,
e così la vecchia principessa fu conquistata dall’instancabile
compiacenza di lei e dal modo delizioso con cui cantava le vecchie
arie, così belle, semplici ed espressive.
Tom, da parte sua, seppe rendersi utilissimo nella carica che il
granduca gli aveva dato. Lo scozzese conosceva i cavalli alla
perfezione; era molto ordinato e assai energico: in breve riuscì a
trasformare quasi completamente il servizio delle scuderie del
granduca, servizio che per l’incuria e l’abitudine non aveva quasi
più organizzazione alcuna.
I due fratelli non tardarono molto a essere benvoluti, festeggiati,
vezzeggiati alla corte. Dalla preferenza del padrone dipendono le
preferenze degli inferiori. Sarah, d’altra parte, aveva bisogno, per
i suoi progetti futuri, di tali e tanti punti d’appoggio
che non poteva non servirsi della sua abilità in fatto di seduzione
per farsi degli alleati. Mentre la sua ipocrisia, nascosta dietro le
più attraenti apparenze, non aveva difficoltà a ingannare la buona
fede della maggior parte di quei tedeschi, l’eccessiva benevolenza
del granduca veniva coronata dal generale affetto.
Ecco quindi la nostra coppia stabilita alla corte di Gerolstein,
perfettamente e onorevolmente sistemata senza che mai si sia parlato
di Rodolphe. Una fortunata combinazione volle che quest’ultimo,
pochi giorni dopo l’arrivo di Sarah, partisse con un aiutante di
campo e col fedele Murph per andare a passare in rivista certe
truppe.
Questa assenza riuscì doppiamente propizia alle mire di Sarah,
poiché le permise di intrecciare con tutta comodità i principali
fili della trama che voleva ordire, senza venire disturbata dalla
presenza del principe, la cui ammirazione troppo evidente non
avrebbe mancato di suscitare i timori del granduca.
Anzi, essendo il figlio assente, il granduca, purtroppo, non diede
peso al fatto di avere ammesso alla sua presenza una giovane donna
dotata di rara bellezza e di spirito affascinante, che in ogni
momento del giorno si sarebbe trovata a tu per tu con Rodolphe.
Sarah, dentro di sé, restò insensibile a un’accoglienza così
commovente, così generosa e alla nobile fiducia dimostrata da coloro
che l’avevano introdotta nell’intimità della famiglia reale.
Né la ragazza né il fratello desistettero dai loro malvagi progetti;
erano consapevoli di essere venuti a portare lo scompiglio e
l’affanno in una Corte quieta e tranquilla. Calcolavano con
freddezza i probabili risultati delle crudeli discordie che
avrebbero suscitato tra un padre e un figlio legati fino ad allora
da tanto affetto.
XIII
SIR WALTER MURPH E L’ABATE POLIDORI
Rodolphe nella sua infanzia era stato di costituzione fragilissima.
Il padre a un certo momento fece questo ragionamento, bizzarro in
apparenza, ma in realtà giustissimo:
«I gentiluomini di campagna inglesi generalmente sono noti per la
loro salute di ferro. È un vantaggio, questo, che dipende in gran
parte dalla loro educazione fisica: semplice, rude, rustica, essa li
irrobustisce. Rodolphe esce dalle mani delle donne; ha un
temperamento delicato; forse, abituandolo a vivere come il figlio di
un fattore inglese (però con qualche riserva), riuscirò a farlo
diventare di costituzione robusta.»
Il granduca allora fece cercare in Inghilterra un uomo degno e
capace di condurre questo tipo di educazione fisica; per questa
importante missione la scelta cadde su sir Walter Murph, magnifico
esemplare di gentiluomo delle campagne dello Yorkshire. Egli fece
prendere al principino una direzione che rispondeva perfettamente ai
desideri del granduca.
Per parecchi anni Murph e il suo allievo abitarono in un’incantevole
fattoria circondata da campi e da boschi che si trovava a qualche
lega dalla città di Gerolstein, in un sito pittoresco e salubre.
Rodolphe, una volta lontano dall’etichetta di Corte, poté dedicarsi
con Murph a lavori di campagna adatti alla sua età e condurre la
vita sobria, virile e regolare dei campi, avendo per divertimenti e
distrazioni esercizi violenti come la lotta, il pugilato,
l’equitazione e la caccia.
All’aria pura dei prati, in mezzo a boschi e montagne, il giovane
principe sembrò trasformarsi, crebbe vigoroso come una giovane
quercia; il pallore da malaticcio che aveva fece posto ai colori
della salute; sebbene snello e asciutto, vinse le più dure fatiche;
la destrezza, l’energia, il coraggio compensavano la forza muscolare
che gli mancava tanto che giunse presto a lottare e a vincere con
ragazzi più vecchi di lui; allora aveva quindici o sedici anni
circa.
Della preferenza data all’educazione fisica avrebbe risentito la sua
educazione scientifica: Rodolphe sapeva pochissime cose; il
granduca, però, pensava giustamente che non si poteva richiedere
niente alla mente se questa non era sorretta da una robusta
costituzione fisica; solo così, pur essendo state tardivamente
fecondate dall’istruzione, le facoltà intellettuali possono dare
rapidi risultati.
Il buon Walter Murph non era colto; poté quindi dare a Rodolphe solo
qualche rudimento; nessuno, però, meglio di lui poteva instillare
nel cervello del suo allievo la nozione di ciò che era giusto,
leale, generoso e alimentare l’odio per ciò che era meschino, vile,
miserabile.
Odio e ammirazione che erano di natura energica e salutare e che si
radicarono profondamente nell’animo di Rodolphe; in seguito questi
princìpi diventarono il bersaglio della violenta furia delle
passioni, ma essa non riuscì mai a sradicarli dal suo cuore. Il
fulmine colpisce, solca e abbatte un albero anche se solidamente
e profondamente piantato, ma le sue radici continuano a ribollire di
linfa e, subito dopo, mille verdi ramoscelli rigermogliano da quel
tronco che sembrava senza vita.
Murph diede a Rodolphe, se così si può dire, la salute del corpo e
quella dell’anima; lo fece diventare robusto, agile e coraggioso,
ben disposto verso tutto ciò che era buono e bene, ostile a tutto
ciò che era cattivo e malvagio.
Assolto così in modo ammirevole il proprio compito, il gentiluomo
dovette lasciare la Germania per qualche tempo, con grande
dispiacere di Rodolphe che l’amava teneramente, perché chiamato in
Inghilterra da importanti questioni d’interesse.
Murph si sarebbe definitivamente stabilito a Gerolstein con la
famiglia solo dopo avere sistemato le sue faccende. Sperava di non
dovere restare assente più di un anno.
Rassicurato sulla salute del figlio, il granduca pensò seriamente a
farlo istruire.
Un certo abate César Polidori, celebre filologo, medico quotato,
storico erudito, uomo versato nello studio delle scienze esatte e
fisiche, ebbe l’incarico di coltivare e di fecondare il vergine ma
fertile terreno, così ben preparato da Murph.
Questa volta la scelta del granduca fu molto infelice, o meglio fu
crudelmente ingannato nel suo spirito religioso dalla persona che
gli presentò e gli fece accettare un prete cattolico come precettore
di un principe protestante. L’innovazione sembrò a molti un grosso
errore, carico di funesti presagi per l’educazione di Rodolphe.
Il caso, o meglio l’infamia del prete, si incaricò di dimostrare la
veridicità di parte delle tristi predizioni.
Empio, disonesto, ipocrita, imbevuto di sprezzo sacrilego per tutto
quello che vi è di più sacro al mondo, pieno di astuzia e di
furbizia, dissimulava l’immoralità più pericolosa, lo scetticismo
più pauroso sotto la scorza di uomo austero e devoto, ostentava una
pelosa umiltà cristiana per nascondere la sua insinuante elasticità,
così come dimostrava una benevola espansività e un candido ottimismo
per celare la perfidia della sua piaggeria interessata; proprio
perché conosceva profondamente gli uomini, o meglio perché
dell’umanità aveva conosciuto solo le cose peggiori e gli istinti
più bassi, l’abate Polidori era il più detestabile mentore che si
potesse dare a un giovane.
Rodolphe, che aveva provato un enorme dispiacere al momento di
abbandonare la vita indipendente e movimentata condotta fino ad
allora con Murph, per andare a impallidire sui libri e sot-
tomettersi alle formalità d’etichetta vigenti alla corte del padre,
cominciò col prendere in odio il prete.
Era naturale che fosse così.
Prima di lasciare il suo allievo, il buon Murph l’aveva paragonato,
e non a torto, a un puledro selvaggio, elegante e focoso, che veniva
allontanato dalle belle praterie dove scorrazzava libero e giocoso,
per andare a imparare a sottostare al morso, obbedire agli speroni,
e a moderare e utilizzare forze che fino ad allora aveva impiegato
solo per correre e per saltare a suo capriccio.
Rodolphe cominciò col confessare al prete di non sentirsi nessuna
vocazione per lo studio e di avere prima di tutto bisogno di
esercitare le braccia e le gambe, di respirare l’aria dei campi, di
correre per i boschi e su per le montagne, perché diceva che,
secondo lui, un buon fucile e un buon cavallo erano preferibili ai
più bei libri del mondo.
Il prete rispose all’allievo che infatti non c’era niente di più
fastidioso dello studio, ma che niente era più grossolano dei
piaceri che egli preferiva allo studio, piaceri in tutto degni di
uno stupido fittavolo tedesco. E il prete giù a fare una descrizione
così buffa, così ironica dell’esistenza semplice dei campi, che per
la prima volta Rodolphe si vergognò di avere avuto quella felice
esperienza; allora ebbe l’ingenuità di chiedere al prete come poteva
passare il tempo uno a cui non piacevano né lo studio né la caccia
né la vita libera dei campi.
Il prete si limitò a rispondere che glielo avrebbe insegnato più
avanti. I disegni del prete, da un altro punto di vista però, erano
ambiziosi come quelli di Sarah.
Sebbene il granducato di Gerolstein fosse solo uno Stato secondario,
il prete aveva vagheggiato, facendo di Rodolphe un principe
fannullone, di poter esserne un giorno il Richelieu.
In principio, dunque, cercò di accattivarsi la simpatia dell’allievo
e di essere compiacente ed esageratamente riguardoso per fargli
dimenticare Murph. Siccome Rodolphe continuava ad avere antipatia
per i libri, il prete non svelò al granduca la ripugnanza che il
giovane principe aveva per lo studio, anzi ne vantò l’assiduità e i
sorprendenti progressi; e con alcune interrogazioni che sembravano
perfettamente improvvisate e che, invece, aveva prima preparato con
Rodolphe riuscì a far perseverare il granduca (che, per la verità,
non ne capiva gran che) nella sua cecità e nella sua fiducia.
A poco a poco l’avversione che il prete, in un primo momento, aveva
ispirato a Rodolphe, mutò in aperta familiarità, sentimento
diversissimo dal serio attaccamento che nutriva per Murph.
A poco a poco Rodolphe si trovò legato al prete (sebbene per cause
innocenti) in virtù di quella sorta di solidarietà che unisce due
complici. Prima o poi però sarebbe arrivato a disprezzare un uomo
dell’età e del carattere di quel prete che sfacciatamente ricorreva
alla menzogna per scusare la pigrizia del suo allievo.
Il prete lo sapeva.
Ma sapeva anche che se, all’inizio, una persona non prova disgusto
per gli esseri corrotti e non li rifugge, finisce, poi, suo malgrado
e senza accorgersene, coll’abituarsi al loro spirito, il più delle
volte contagioso, e un po’ alla volta arriva anche a non vergognarsi
e a non indignarsi quando sente schernire e condannare quello che
prima venerava.
Il prete, del resto, era troppo furbo per attaccare direttamente
certe nobili convinzioni di Rodolphe, frutto dell’educazione di
Murph. Dopo avere bersagliato e deriso gli stupidi passatempi
dell’infanzia del suo allievo, il prete, deposta in parte la
maschera di uomo austero, ne aveva stuzzicato la curiosità con
accenni velati all’esistenza beata che conducevano certi principi
del passato: infine, cedendo alle istanze di Rodolphe, il prete,
dopo innumerevoli precauzioni e dopo avere lanciato più di una
frecciata contro la rigida etichetta della Corte granducale, aveva
eccitato la fantasia del giovane principe, raccontandogli in modo
esagerato e a vivaci colori i piaceri e le galanterie che avevano
reso illustri i regni di Luigi XIV, del Reggente e soprattutto di
Luigi XV, il prediletto di César Polidori.
Davanti a quel disgraziato ragazzo che lo ascoltava con funesta
avidità, egli affermava che spesso le voluttà, anche le più smodate,
non corrompevano un principe che fosse dotato, anzi lo rendevano
clemente e generoso, per il motivo che niente più della felicità
induce le anime grandi alla benevolenza e alla bontà.
Luigi XV il Beneamato era una prova indiscutibile di quanto
sosteneva.
E poi, diceva il prete, quanti grandi uomini dei tempi antichi e
moderni non avevano sacrificato con generosità al più raffinato
epicureismo!!! da Alcibiade a Maurice de Saxe, da Antonio al gran
Condé da Cesare fino a Vendôme!
Discussioni come questa non potevano non provocare effetti deleteri
su un’anima giovane, ardente e vergine; inoltre il prete traduceva
senza reticenze per il suo allievo quelle odi d’Orazio in cui si
esaltava il fascino irresistibile di una vita molle e deliziosa
interamente consacrata all’amore e alle squisite gioie dei sensi.
Tuttavia, per non far apparire le insidie celate in
quelle teorie e per soddisfare a ciò che vi era di essenzialmente
generoso nel carattere di Rodolphe, il prete lo cullava di tanto in
tanto nelle più avvincenti utopie. A sentir lui, un principe con
l’uso intelligente della voluttà, avrebbe potuto trovare nel piacere
un mezzo per migliorare gli uomini, nella felicità un mezzo per
moralizzarli, e condurre i più increduli alla fede religiosa,
incitandoli a essere grati al Creatore, che sul piano materiale
aveva prodigato all’uomo una quantità inesauribile di piaceri.
Godere di tutto e in ogni momento voleva dire, secondo il prete,
glorificare Dio nella sua magnificenza e nell’eternità dei suoi
doni.
Tali teorie portarono i loro frutti.
In una Corte abitudinaria e virtuosa, avvezza, sull’esempio del
sovrano, ai piaceri onesti, alle distrazioni innocenti, Rodolphe,
grazie agli insegnamenti del prete, si era messo a sognare le folli
notti di Versailles, le orge di Choisy, le violente voluttà del
Parcaux-Cerfs e, per contrasto, di tanto in tanto anche qualche
amore romanzesco.
Il prete si era anche affrettato a dimostrare a Rodolphe che, sul
piano militare, un principe della Confederazione germanica poteva
solo inviare il proprio contingente di truppe alla Dieta.
D’altra parte, lo spirito del tempo non era più per la guerra.
Lasciar scorrere deliziosamente e pigramente i propri giorni in
mezzo alle donne e al lusso raffinato, smaltire volta per volta
l’ebbrezza dei piaceri sensuali nella confortante distensione che
viene dall’arte, cercare a volte nella caccia, non come un Nemrod
selvaggio, ma da intelligente epicureo, quelle fatiche passeggere
che rendono ancora più desiderabili l’indolenza e la pigrizia, tale
era, secondo il prete, la sola vita possibile per un principe che
(per colmo di felicità!) avesse trovato un primo ministro capace di
accollarsi coraggiosamente la pesante e fastidiosa responsabilità
degli affari di Stato.
Rodolphe, lasciandosi andare a supposizioni che non avevano nulla di
criminale dal momento che non uscivano dal cerchio delle
probabilità, si proponeva, quando Dio avesse chiamato a sé il
granduca suo padre, di darsi alla vita che l’abate Polidori gli
aveva descritto a tinte calde e vivaci, e di prendere il prete come
primo ministro.
Ripetiamo che Rodolphe amava teneramente il padre, e l’avrebbe
rimpianto profondamente, anche se, morto lui, egli avrebbe potuto
fare il Sardanapalo in miniatura. Inutile dire che
il giovane principe manteneva il più grande segreto sulle ignobili
speranze che gli fermentavano dentro.
Sapendo che gli eroi prediletti dal granduca erano Gustavo Adolfo,
Carlo XII e il grande Federico (Maximilien Rodolphe aveva l’onore di
essere strettamente imparentato con la casa reale del Brandeburgo),
Rodolphe pensava, non a torto, che suo padre, che professava una
profonda ammirazione per quei re-capitani sempre con tanto di
stivali e di speroni, sempre indaffarati con cavalli e con guerre,
lo avrebbe considerato come perduto se lo avesse creduto capace e
desideroso di eliminare dalla corte la tradizionale austerità
teutonica per introdurvi i facili e licenziosi costumi della
Reggenza. Un anno, diciotto mesi trascorsero così; pur avendo
annunciato il suo arrivo imminente, Murph non era ancora tornato.
Superato il primo momento di ripugnanza per la bassa ossequiosità
del prete, Rodolphe pensò ad approfittare degli insegnamenti
scientifici del suo precettore, e finì coll’acquisire se non una
conoscenza vastissima, per lo meno delle nozioni generali che,
accompagnandosi a un’intelligenza naturale pronta e vivace, gli
permettevano di sembrare molto più istruito di quel che fosse in
realtà e di fare grandissimo onore all’insegnamento del prete.
Murph ritornò dall’Inghilterra con la famiglia e pianse di gioia
nell’abbracciare il suo ex allievo.
Dopo qualche giorno, il nobile gentiluomo non era ancora riuscito a
capire la ragione di un cambiamento che lo rattristava
profondamente, anzi ebbe l’occasione, quando gli ricordò la loro
dura vita di campagna, di notare che Rodolphe era stato freddo,
riservato e quasi ironico.
Sicuro, da una parte, della naturale bontà d’animo di Rodolphe,
messo dall’altra sul chi va là da un segreto presentimento, Murph lo
credette momentaneamente pervertito dalla perniciosa influenza
dell’abate Polidori che, d’istinto, egli aveva preso a detestare e
che si riprometteva di osservare attentamente.
Dal canto suo, il prete, vivamente contrariato dal ritorno di Murph,
di cui temeva la lealtà, il buon senso e l’acuto spirito
d’osservazione, concepì un solo pensiero, quello di screditare il
gentiluomo agli occhi di Rodolphe.
Proprio in quest’epoca, Tom e Sarah furono presentati e accolti alla
corte di Gerolstein con i più grandi onori.
Qualche tempo prima del loro arrivo, Rodolphe era partito con un
aiutante di campo e con Murph per andare a ispezionare le truppe di
alcune guarnigioni. Dal momento che il viaggio
era di carattere esclusivamente militare, il granduca aveva creduto
opportuno non farci andare anche il prete. Al prete rincrebbe
moltissimo di vedere Murph riassumere per qualche giorno presso il
giovane principe le sue funzioni d’un tempo.
Il gentiluomo contava molto su quest’occasione per conoscere
chiaramente il motivo per cui Rodolphe si fosse raffreddato. Questi,
purtroppo, esperto già nell’arte della simulazione, giudicando
pericoloso che il mentore di un tempo venisse a scoprire i suoi
piani futuri, fu con lui di una cordialità meravigliosa, finse di
rimpiangere molto il periodo della sua prima giovinezza e i suoi
rustici piaceri e, così facendo, finì col tranquillizzarlo quasi del
tutto.
Diciamo quasi del tutto, perché ci sono amici che sono dotati di un
fiuto straordinario. Nonostante le prove d’affetto che gli
testimoniava il giovane principe, Murph intuiva che c’era un segreto
fra loro due; invano cercò di chiarire i propri sospetti; i suoi
tentativi fallirono davanti alla precoce doppiezza di Rodolphe.
Nel periodo del viaggio, il prete intanto non era rimasto ozioso.
Gli intriganti si indovinano l’un l’altro o si riconoscono da certi
segni misteriosi, che permettono loro di osservarsi fino al momento
in cui i loro rispettivi interessi non li spingono o all’alleanza o
all’ostilità dichiarata.
Qualche giorno dopo essersi stabilito con Sarah alla corte del
granduca, Tom aveva già legato con l’abate Polidori. Il prete
ammetteva in cuor suo, cosa questa di infame cinismo, di possedere
un’innata affinità quasi involontaria con gli impostori e i malvagi;
così, si diceva, pur non avendo intuito lo scopo preciso a cui
miravano Tom e Sarah, si era sentito attratto verso di loro da una
simpatia troppo viva per non sospettare in loro qualche disegno
diabolico.
Alcune domande di Tom Seyton sul carattere e i precedenti di
Rodolphe, domande a cui un uomo meno astuto del prete non avrebbe
dato nessuna importanza, gettarono improvvisamente luce sulle mire
del fratello e della sorella; solo che il prete non credette che la
giovane scozzese avesse delle mire al tempo stesso oneste e
ambiziose.
L’arrivo dell’affascinante fanciulla parve al prete un colpo di
fortuna. Rodolphe aveva l’immaginazione accesa da fantasie amorose;
Sarah doveva essere l’incantevole realtà che avrebbe incarnato tanti
sogni meravigliosi; perché, pensava il prete, prima di giungere a
fare una scelta dei piaceri e a passare da una voluttà
all’altra, si comincia quasi sempre con un amore unico e romanzesco.
Luigi XIV e Luigi XV forse sono stati fedeli solo a Marie Mancini e
a Rosette d’Arey.
Secondo il prete, lo stesso doveva accadere a Rodolphe e alla bella
scozzese. Costei avrebbe certamente esercitato una grandissima
influenza su un cuore vinto dall’incanto affascinante del primo
amore. Dirigere, sfruttare questa influenza, e servirsene per
rovinare Murph per sempre, ecco quale fu il piano del prete.
Da uomo abile, fece in modo che i due ambiziosi capissero, senza
possibilità di equivoci, che avrebbero dovuto fare i conti con lui,
essendo egli il solo responsabile presso il granduca della vita
privata del giovane principe.
E non era tutto, bisognava stare in guardia contro l’ex precettore
di quest’ultimo che adesso lo stava accompagnando in un’ispezione
militare; un uomo rude, grossolano, imbevuto di pregiudizi assurdi,
che una volta aveva un grande ascendente sull’animo di Rodolphe, e
la cui curiosità poteva diventare pericolosa; un uomo che invece di
scusare e comprendere i folli e piacevoli errori di un giovane si
sarebbe sentito in dovere di denunciarli alla severa autorità del
granduca.
Tom e Sarah capirono al volo, sebbene al prete non avessero detto
niente dei loro segreti disegni. Quando Rodolphe e Murph tornarono,
i tre, spinti da comuni interessi, avevano tacitamente formato una
lega contro il nobiluomo, loro più temibile avversario.
XIV
IL PRIMO AMORE
Accadde ciò che doveva accadere.
Rodolphe, al suo ritorno, si innamorò pazzamente di Sarah
che vedeva ogni giorno. Dopo un po’, lei gli confessò di ricambiare
il suo amore, anche se aveva previsto che avrebbe procurato loro
tanti dolori. Non avrebbero mai potuto essere felici: li divideva
una distanza troppo grande. Perciò raccomandò a Rodolphe la più
assoluta discrezione, per timore di suscitare i sospetti del
granduca, che sarebbe stato inesorabile e che li avrebbe privati
della loro unica felicità, quella di vedersi ogni giorno.
Rodolphe promise di controllarsi e di nascondere il proprio amore.
La scozzese, da parte sua, era troppo ambiziosa, troppo sicura di se
stessa, per compromettersi e tradirsi agli occhi della
corte. Anche il giovane principe sentiva il bisogno di dissimulare;
e imitò la prudenza di Sarah. Per qualche tempo questo segreto
d’amore fu perfettamente custodito.
Quando i due fratelli si accorsero che la sfrenata passione di
Rodolphe era giunta al suo parossismo e che la sua esaltazione
aumentava sempre di più e si faceva ogni giorno sempre più difficile
da controllare, decisero di sferrare il gran colpo prima che essa,
scoppiando, compromettesse ogni cosa.
Poiché una tale confidenza, di natura d’altronde specificamente
morale, veniva giustificata dalla mansione del prete, Tom gli
accennò vagamente alla necessità di un matrimonio fra Rodolphe e
Sarah; altrimenti, aveva aggiunto in tutta sincerità, lui e sua
sorella sarebbero immediatamente partiti da Gerolstein; Sarah
contraccambiava l’amore del principe, ma preferiva la morte al
disonore, e poteva essere solo la moglie di Sua Altezza.
Queste pretese riempirono il prete di stupore; non avrebbe mai
creduto Sarah così audace e ambiziosa. Un tale matrimonio, pieno di
innumerevoli difficoltà, di ogni sorta di pericoli, parve
impossibile al prete; egli disse con franchezza a Tom le ragioni per
cui il granduca non avrebbe mai acconsentito a una tale unione.
Tom ascoltò le ragioni, ne riconobbe l’importanza, ma propose come
mezzo termine che poteva mettere a posto tutto, un matrimonio
segreto, con tutti i crismi, che doveva essere svelato solo dopo la
morte del duca regnante.
Sarah era di antica e nobile famiglia; una simile unione non mancava
certo di precedenti. Tom concedeva al prete e, per conseguenza, al
principe otto giorni per decidere: sua sorella non avrebbe
sopportato oltre le crudeli angosce dell’incertezza; se doveva
rinunciare all’amore di Rodolphe, l’avrebbe fatto immediatamente con
feroce fermezza.
Per motivare l’improvvisa partenza che ne sarebbe allora seguita,
Tom diceva di avere, per ogni eventualità, mandato a un suo amico
inglese una lettera che doveva essere spedita in Germania dalla
posta di Londra; nella lettera si sarebbe parlato di motivi tanto
forti da giustificare la partenza, di modo che Tom e Sarah potessero
dirsi assolutamente costretti a lasciare, per qualche tempo, la
corte del granduca.
Anche questa volta, grazie alla cattiva opinione che aveva
dell’umanità, il prete indovinò la verità.
Siccome vedeva sempre un secondo fine anche nei sentimenti più
onesti, quando seppe che Sarah voleva legittimare con il matrimonio
il suo amore, egli scorse in tutto ciò una prova non di
virtù, ma di ambizione: a stento avrebbe creduto a un amore
disinteressato anche se la ragazza avesse sacrificato il suo onore a
Rodolphe, cosa di cui l’aveva creduta capace, perché supponeva che
lei avesse l’intenzione di essere l’amante del suo allievo. Secondo
i princìpi del prete, speculare, tirare in ballo il dovere, voleva
dire non amare. «Debole e freddo amore» diceva, «quello che si
preoccupa del cielo e della terra!»
Sicuro di non sbagliarsi sulle mire di Sarah, il prete restò
perplesso. Dopo tutto, il desiderio espresso da Tom in nome della
sorella era dei più onorevoli. Che cosa richiedeva in fondo? o una
separazione o una legittima unione.
Nonostante il suo cinismo, il prete non avrebbe avuto il coraggio,
in presenza di Tom, di esprimere il proprio stupore circa i
giustissimi motivi che sembravano regolare la condotta di
quest’ultimo, e dirgli crudamente che era stata tutta un’abile
manovra quella che lui e la sorella avevano ideato per costringere
il principe a un matrimonio svantaggioso.
Il prete aveva tre partiti a cui appigliarsi:
Avvertire il granduca del complotto matrimoniale,
Aprire gli occhi a Rodolphe sulle manovre di Tom e Sarah, Farsi
complice di quel matrimonio.
Ma:
Avvertire il granduca voleva dire alienarsi per sempre l’erede
presuntivo della corona.
Rivelare a Rodolphe le mire interessate di Sarah voleva dire
esporsi a essere accolto come si è accolti da un innamorato quando
gli si disprezzi l’oggetto amato; e poi che terribile colpo per la
vanità o per il cuore del principe!... rivelargli che si voleva
sposare proprio e solo la sua posizione di sovrano; e infine, caso
strano, lui, prete, avrebbe avuto il coraggio di mettersi a
biasimare la condotta di una ragazza che voleva mantenersi pura e
accordare i diritti dell’amante solo al marito?
Se invece si prestava a quel matrimonio, il principe e la moglie
sarebbero stati legati al prete da uno stretto vincolo di
riconoscenza, o per lo meno dalla solidarietà di un’azione
compromettente.
Certo tutto poteva venire scoperto e allora si sarebbe esposto alla
collera del granduca; ma il matrimonio ormai sarebbe stato concluso,
l’unione sarebbe stata valida e, una volta passata la tempesta, il
futuro sovrano di Gerolstein si sarebbe trovato tanto più legato
all’abate, quanti più rischi quest’ultimo aveva corso per servirlo.
Dopo matura riflessione, il prete si decise ad assecondare Sarah;
con una certa riserva però di cui parleremo più avanti.
La passione di Rodolphe era arrivata al culmine; ferocemente
esasperato dalla costrizione e dalle arti dell’abilissima Sarah, che
pareva soffrisse ancora più di lui delle difficoltà insormontabili
che l’onore e il dovere elevavano contro la loro felicità, ancora
qualche giorno e il giovane principe si sarebbe tradito.
Si pensi che era il primo amore, un amore ardente e semplice pieno
di sincerità e di passione; per provocarlo Sarah aveva fatto uso dei
mezzi più diabolici, della civetteria più raffinata. No, mai le
vergini emozioni di un giovane pieno di cuore, di fantasia e di
fuoco furono così a lungo e con tanta sapienza stuzzicate; mai donna
fu più dannosamente attraente di Sarah. Alternativamente scherzosa e
triste, casta e passionale, pudica e provocante: i suoi grandi occhi
neri languidi e ardenti accesero nell’animo agitato di Rodolphe una
fiamma eterna.
Quando il prete gli pose l’alternativa o di non vedere più la
conturbante fanciulla o di possederla in seguito a un matrimonio
segreto, Rodolphe saltò al collo del prete, lo chiamò salvatore,
amico, padre. Se lì ci fossero stati una chiesa e un celebrante il
giovane principe si sarebbe sposato subito.
Il prete volle, e aveva le sue ragioni, incaricarsi di tutto. Trovò
un prete e dei testimoni; e lo sposalizio (le cui formalità furono
scrupolosamente controllate e verificate da Tom) fu celebrato
segretamente durante una breve assenza del granduca, che era stato
chiamato a una riunione della Dieta germanica.
Le predizioni della montanara scozzese si erano realizzate: Sarah
sposava l’erede di una corona.
Il possesso non smorzò l’ardore di Rodolphe, ma fece in modo però
che diventasse più circospetto, e calmasse quella violenza che
avrebbe potuto compromettere il segreto della sua passione per
Sarah. La giovane coppia, protetta da Tom e dal prete, s’intese così
bene, furono tanto riservati nelle loro relazioni che nessuno riuscì
ad accorgersene.
Durante i primi tre mesi di matrimonio, Rodolphe fu il più felice
degli uomini; quando, passato il primo periodo di fuoco, si mise a
esaminare a mente fredda la sua situazione, non gli dispiacque di
essersi legato a Sarah indissolubilmente; rinunciò senza rimpianti a
quella vita galante, voluttuosa e lasciva che aveva dapprima così
ardentemente sognato per il futuro e fece con Sarah i più bei
progetti del mondo per il loro futuro regno.
Visto alla luce di queste remote ipotesi, quel ruolo di primo
ministro, che il prete aveva segretamente vagheggiato per sé,
perdeva consistenza: Sarah si riservava le funzioni di governante;
troppo orgogliosa per non ambire al potere e al dominio, essa
sperava di regnare al posto di Rodolphe.
Ma un avvenimento impazientemente aspettato da Sarah portò la
tempesta in quella calma.
Stava per diventare madre.
Allora la donna ebbe esigenze del tutto nuove che spaventarono
Rodolphe; tutta in lacrime gli dichiarò, ipocritamente, di non poter
più sopportare la situazione in cui era costretta a vivere,
situazione che la gravidanza rendeva ancora più penosa.
In questo frangente, ella proponeva a Rodolphe di decidersi a
confessare tutto al granduca: anche lui come la granduchessa madre
si era affezionato sempre più a Sarah. Certo, aveva aggiunto costei,
dapprima si sarebbe indignato, sarebbe andato in collera; ma amava
così teneramente e così ciecamente il figlio; aveva per lei, Sarah,
tanto affetto che l’ira paterna presto si sarebbe calmata e lei
avrebbe preso alla corte il posto che le spettava, se così si può
dire, a maggior ragione adesso che stava per dare un figlio
all’erede presuntivo del granduca.
Una pretesa come questa spaventò immensamente Rodolphe: Rodolphe
conosceva il profondo affetto che il padre aveva per lui, ma
conosceva anche di che rigidi principi era il granduca per ciò che
riguardava i doveri di un principe.
A tutte le obiezioni Sarah rispondeva invariabilmente:
«Sono vostra moglie davanti a Dio e davanti agli uomini. Fra poco
non potrò più nascondere la mia gravidanza; non voglio arrossire di
una posizione di cui, anzi, sono molto fiera e di cui posso vantarmi
ad alta voce.»
Con la paternità, Rodolphe era diventato ancora più tenero con
Sarah. Preso in mezzo fra il desiderio di venire incontro alle
esigenze della moglie e il timore per la collera del padre, viveva
in una terribile alternativa. Tom era dalla parte della sorella.
Il matrimonio è indissolubile, diceva al serenissimo cognato. Il
granduca può esiliarvi dalla corte con vostra moglie, nient’altro.
Ora, egli vi vuole troppo bene per prendere un tale provvedimento;
preferirà tollerare ciò che non è riuscito a impedire.
Questi ragionamenti, giustissimi del resto, non riuscivano a far
tacere le ansie di Rodolphe. Nel frattempo Tom fu incaricato dal
granduca di andare in Austria a visitare un certo numero
d’allevamenti di cavalli. L’incarico che egli non poteva rifiutare,
doveva impegnarlo per quindici giorni al massimo; partì che era
terribilmente preoccupato perché si trattava di un momento molto
critico per la sorella.
La sorella, dal canto suo, fu al tempo stesso dispiaciuta e
soddisfatta della partenza del fratello; perdeva l’ausilio dei suoi
consigli, ma, nel caso in cui tutto fosse stato scoperto, egli si
sarebbe salvato dalla collera del granduca.
Sarah avrebbe dovuto informare Tom giorno per giorno sugli sviluppi
di un affare così importante per loro. Per corrispondere con più
sicurezza e con più segretezza, s’accordarono sul linguaggio cifrato
da usare.
Basta una precauzione come questa per dimostrare che Sarah doveva
parlare con il fratello di ben altro che del suo amore per Rodolphe.
Infatti il cuore di ghiaccio di una donna così egoista, fredda e
ambiziosa, non poteva sciogliersi al fuoco di quella passione
amorosa di cui era stata causa.
La maternità, anziché addolcire quel suo animo di bronzo, divenne
tra le sue mani un’arma in più da usare contro Rodolphe. La
giovinezza, il folle amore, l’inesperienza di un principe quasi
fanciullo, così perfidamente attirato in una situazione
inestricabile, la interessavano appena; nelle sue segrete confidenze
con Tom, ella diventava sprezzante e pungente quando si lamentava
della debolezza di quell’adolescente che tremava davanti al più
paterno dei principi tedeschi, che sarebbe vissuto moltissimo!
Insomma, la corrispondenza tra il fratello e la sorella svelava
chiaramente il loro egoismo interessato, i loro calcoli ambiziosi,
la loro impazienza quasi omicida, e metteva a nudo l’intreccio di
una trama tenebrosa che era giunta al culmine col matrimonio di
Rodolphe.
Parecchie signore la guardavano meravigliate e bisbigliavano con le
vicine.
La granduchessa Judith, nonostante i suoi novant’anni, aveva udito
fine e vista buona: si accorse di quel confabulare. Fece cenno a una
damigella del suo seguito di andare da lei e così venne a sapere che
tutti trovavano la signorina Sarah Seyton di Halsbury meno snella e
meno slanciata del solito.
La vecchia principessa adorava la sua giovane protetta; della virtù
di lei avrebbe risposto davanti a Dio. Indignata dalla malignità dei
pettegolezzi, si limitò ad alzare le spalle e a chiamare ad alta
voce da in fondo al salone dov’era seduta:
«Cara Sarah, venite un po’ qui!» Sarah si alzò.
Le toccò attraversare il circolo per arrivare fino alla principessa,
che era in buonissima fede e che, facendo attraversare la sala a
Sarah, voleva confondere i calunniatori e dimostrare loro senza
possibilità d’equivoci che la figura della sua protetta non aveva
perduto né la sua grazia né la sua snellezza.
Ahimè! la nemica più perfida non avrebbe potuto immaginare cosa
peggiore di quello che immaginò l’ottima principessa, obbedendo al
desiderio di difendere la sua protetta.
La giovane andò da lei. Ci volle tutto il rispetto che quelle dame
avevano per la granduchessa per frenare i mormorii di sorpresa e
d’indignazione che potevano sorgere allorché la giovane attraversò
il circolo.
Anche le persone meno perspicaci si accorsero di ciò che Sarah non
voleva tenere più a lungo nascosto anche se la sua gravidanza poteva
essere tenuta nascosta ancora per un po’; ma la donna, ambiziosa
com’era, aveva risparmiato questo scandalo, per costringere Rodolphe
a rivelare il matrimonio.
La granduchessa, non arrendendosi ancora all’evidenza, disse
sottovoce a Sarah:
«Cara ragazza, oggi siete vestita molto male. Voi che avete una vita
da stringere con due dita, oggi sembrate un’altra...»
Narreremo in seguito le conseguenze di quella scoperta, che fu
all’origine di grandi e terribili avvenimenti. Ma fin da adesso
diremo ciò che il lettore ha certo già indovinato e cioè che la
Goualeuse, che Fleur-de-Marie era il frutto di quell’infelice
matrimonio, insomma era la figlia di Sarah e di Rodolphe che tutti e
due credevano morta.
Il lettore non avrà dimenticato che Rodolphe, dopo aver visitato la
casa della rue du Temple, era rientrato in casa sua e che la sera
stessa doveva recarsi a un ballo dato dall’ambasciatore di ***.
Proprio in questa festa seguiremo Sua Altezza il granduca regnante
di Gerolstein, Gustave Rodolphe, che viaggiava in Francia col nome
di conte di Duren.
XV
IL BALLO
Alle undici di sera, uno svizzero in livrea di gala aprì la porta di
un palazzo della rue Plumet per lasciare uscire una magnifica
berlina celeste tirata da due superbi cavalli grigi, forti e
muscolosi; a cassetta, sopra una larga coperta a frange di seta,
stava sedu-
to un enorme cocchiere reso ancora più enorme da un pastrano blu
imbottito di pelliccia, con un bavero da mantellina di martora,
impunturato d’argento e guarnito di alamari; dietro alla carrozza un
gigantesco lacchè incipriato, con una livrea azzurra, color
giunchiglia e argento, stava accanto a un cacciatore con baffi
enormi, gallonato come un tamburo maggiore, il cui cappello a larghe
tese ricamato era seminascosto da un ciuffo di piume gialle e
azzurre.
Internamente, la carrozza era foderata di raso e illuminata dalla
viva luce dei lampioni; dentro, sulla destra si poteva vedere
Rodolphe con alla sua sinistra il barone di Graün e davanti il
fedele Murph.
Per deferenza verso il sovrano, rappresentato dall’ambasciatore
presso cui egli era invitato, Rodolphe portava sul vestito solo la
placca diamantata dell’ordine di ***.
Sir Walter Murph portava al collo il nastro arancione con la croce
di smalto di gran commendatore dell’Aquila d’Oro di Gerolstein; il
barone di Graün era decorato delle stesse insegne. Diremo, a titolo
informativo, che un’innumerevole quantità di croci di ogni Paese
ciondolavano da una catena d’oro posta fra i due primi occhielli del
suo vestito.
«Sono molto contento» disse Rodolphe, «delle buone notizie che la
signora Georges mi dà della mia povera protetta della fattoria di
Bouqueval; le cure di David hanno fatto prodigi. A parte la
tristezza, l’infelice fanciulla va molto meglio. A proposito della
Goualeuse, ammettete, sir Walter Murph» soggiunse Rodolphe
sorridendo, «che se una delle vostre equivoche conoscenze della
Cité, vedesse il coraggioso carbonaio così travestito, non
crederebbe ai suoi occhi dalla meraviglia.»
«Ma penso, mio signore, che Vostra Altezza provocherebbe la stessa
sorpresa se andasse questa sera in rue du Temple, a fare una visita
amichevole alla signora Pipelet, coll’intento di portare un po’
d’allegria nella malinconia di quel povero signor Alfred, che chiede
solo di diventarvi amico, come ha detto l’esimia portinaia a Vostra
Altezza.»
«Il mio signore ci ha descritto così bene Alfred con quel suo
maestoso abito verde, quella sua aria dottorale e quel suo
inseparabile cappello a rocchetto» disse il barone, «che mi sembra
già di vederlo troneggiare nella fumosa penombra della sua
portineria. Del resto, oso sperare che Vostra Altezza sia rimasta
soddisfatta delle informazioni del mio agente segreto. La casa della
rue du Temple ha corrisposto completamente all’attesa di vostra
signoria?»
«Sì» disse Rodolphe; «anzi, ho trovato più di quanto mi aspettassi.»
Poi stette un momento in triste silenzio, ma per dissipare il
doloroso disagio che gli procuravano i suoi timori circa la marchesa
d’Harville, riprese con tono più allegro: «Sarà anche una puerilità,
non dico di no, ma io personalmente trovo qualcosa di eccitante in
questi contrasti: un giorno pittore di ventagli e mi metto a tavola
in una taverna della rue aux Fèves; stamane, commesso di negozio e
offro un bicchiere di rosolio alla signora Pipelet; e stasera uno
dei privilegiati, che regnano per grazia di Dio su questo mondo.
L’uomo che aveva quaranta scudi diceva le mie rendite proprio come
un milionario» soggiunse Rodolphe a mo’ di parentesi e d’allusione
alla scarsa estensione dei suoi domini.
«Però molti milionari, mio signore, non hanno certo il raro e
ammirevole buon senso dell’uomo che aveva quaranta scudi» disse il
barone.
«Ah, caro di Graün, siete troppo buono, mille volte buono, voi mi
confondete» rispose Rodolphe fingendosi estasiato e insieme
imbarazzato, mentre il barone guardava Murph come chi si accorga
troppo tardi di avere detto una sciocchezza.
«In realtà» riprese Rodolphe con imperturbabile serietà, «non so,
caro di Graün, come ricompensare la buona opinione che siete così
cortese di avere per me, e soprattutto non so come contraccambiare.»
«Mio signore, ve ne supplico, risparmiatevi questa fatica» disse il
barone, che per un istante aveva dimenticato che Rodolphe aveva
l’abitudine di rispondere con frecciate feroci alle adulazioni che
egli odiava.
«Ma come, barone, non voglio essere in debito con voi: questo è
tutto quello che, purtroppo, posso offrirvi per il momento: lo giuro
sul mio onore che non vi si può dare più di vent’anni. Antinoo non
ha lineamenti incantevoli come i vostri.»
«Ah, mio signore, pietà!»
«Guardate un po’, Murph, l’Apollo del Belvedere non ha forme più
snelle, più eleganti e più giovanili!»
«Mio signore, era da molto che non mi succedeva.»
«E il mantello di porpora, come gli sta bene!»
«Mio signore, riparerò!»
«E il cerchio d’oro che trattiene, senza nasconderli, i riccioli
della bella capigliatura nera che gli ondeggia sul collo divino.»
«Ah, mio signore, pietà, pietà, mi pento» disse l’infelice
diplomatico con buffa espressione di disperazione. (Non si
dimentichi che aveva cinquant’anni, capelli grigi, increspati e
incipriati,
una grande cravatta bianca, un viso magro e un paio di occhiali
d’oro.)
«Buon Dio, Murph, gli manca solo una faretra sulle spalle e un arco
in mano per assomigliare al vincitore del serpente Pitone!»
«Chiedo scusa per lui, mio signore, non schiacciatelo sotto il peso
della mitologia» disse ridendo il gentiluomo «garantisco io a Vostra
Altezza che per un bel pezzo non si azzarderà più a formulare
adulazioni, dato che nel nuovo vocabolario di Gerolstein la parola
verità si traduce così.»
«Come! anche tu, vecchio Murph? adesso osi...»
«Mio signore, il povero di Graün mi fa pena: desidero dividere con
lui la punizione.»
«Signor carbonaio ordinario, questa è una fedeltà all’amicizia che
vi fa onore. Ma, scherzi a parte, caro Graün, come mai avete
dimenticato che tollero l’adulazione solo in bocca a d’Harneim e ai
suoi simili? perché, siamo giusti; loro non sanno dire altro: è il
colore del loro piumaggio; ma un uomo del vostro gusto e del vostro
spirito, vergogna, barone!»
«Ebbene, mio signore» disse risolutamente il barone, «c’è molto
orgoglio, Vostra Altezza mi perdoni, nella sua avversione per la
lode!»
«Bene, barone, preferisco così! spiegatevi.»
«Ebbene, mio signore, è proprio come se una bella donna dicesse a un
suo ammiratore: Dio mio, so di essere affascinante; che me lo
riconfermiate è perfettamente inutile e fastidioso. A che scopo
affermare l’evidenza? Nessuno va per le strade a gridare: il sole fa
luce!»
«Diventiamo più sottili, barone, e più audaci: perciò per apportare
una variazione al vostro tormento, vi dirò che il diabolico abate
Polidori non avrebbe trovato di meglio per dissimulare il veleno
dell’adulazione.»
«Mio signore, non parlo più.»
«Così Vostra Altezza» disse Murph questa volta senza scherzare, «è
sicuro adesso di avere riconosciuto il prete nelle vesti del
ciarlatano?»
«Ne sono sicuro, visto che dalle informazioni avute si sa che da un
pezzo egli vive a Parigi.»
«Mi ero dimenticato, o meglio avevo omesso di parlarvene, mio
signore» disse Murph con tristezza, «perché so quanto il ricordo di
quel prete sia odioso a Vostra Altezza.»
Rodolphe si rannuvolò di nuovo in volto; e, sprofondandosi in tristi
pensieri, restò silenzioso fino a quando la carrozza non entrò nel
cortile dell’ambasciata.
Tutte le finestre dell’immenso palazzo erano illuminate e brillavano
nella notte fonda; una fila di lacchè in livrea di gala partiva dal
peristilio e dalle anticamere e arrivava ai saloni d’attesa, dove
aspettavano i camerieri: era un fastoso lusso regale.
Il conte *** e la contessa *** si erano preoccupati di restare nel
primo salone da ricevimento fino all’arrivo di Rodolphe. Questi non
tardò a entrare, seguito da Murph e dal signore di Graün.
Rodolphe aveva allora trentasei anni; ma, sebbene s’approssimasse al
declinare della vita, grazie alla perfetta regolarità dei lineamenti
che, come abbiamo già detto, erano forse troppo belli per un uomo, e
all’aria di affabile dignità che derivava da tutta la sua persona,
egli sarebbe stato comunque molto interessante, anche se questi
pregi non fossero stati messi in evidenza dalla magnificenza del suo
augusto rango.
Quando fece la sua apparizione nel primo salone dell’ambasciata, non
sembrava più lui: scomparsa l’aria da chiassone, scomparsa la
condotta accorta e audace del pittore di ventagli che aveva vinto lo
Chourineur; scomparso il commesso mordace che partecipava in modo
così gaio alle disgrazie della signora Pipelet...
Era un principe nel senso più nobile della parola. Rodolphe tiene la
testa ritta, immobile; ha capelli castani, naturalmente ondulati,
che gli incorniciano la fronte larga, nobile e aperta e uno sguardo
pieno di dolcezza e di dignità; quando con la bonaria arguzia che
gli è naturale, si volge a parlare con qualcuno, un sorriso pieno di
fascino e di signorilità gli fa mettere in mostra denti di smalto,
resi ancora più smaglianti dall’ombra dei suoi baffetti; un paio di
favoriti scuri gli scendono fino al mento un po’ sporgente e con
fossetta, incorniciando l’ovale perfetto d’un pallido viso.
Rodolphe veste con molta semplicità. Ha la cravatta e il panciotto
bianchi; un vestito blu, abbottonato fin sopra il collo e con una
placca di diamanti appuntata sul lato sinistro, lo rende fine,
elegante e snello; però il suo atteggiamento ha qualcosa di maschio
e di energico che viene a correggere quanto c’è forse di troppo
bello in tutta la sua leggiadra persona.
Rodolphe si faceva vedere così poco in società, che la sua presenza
non poteva non provocare una certa sensazione, grazie anche ai suoi
tratti principeschi; tutti gli sguardi si fissarono su di lui,
quando apparve nel primo salone dell’ambasciata, accompagnato da
Murph e dal barone di Graün, che lo seguivano a qualche passo di
distanza!
Un addetto all’ambasciata, incaricato di sorvegliare il suo arrivo,
corse subito ad avvertire la contessa ***; costei assieme al marito
si fece incontro a Rodolphe, dicendogli:
«Non so come esprimere a Vostra Altezza tutta la mia riconoscenza
per il favore con cui oggi si degna di onorarci.»
«Sapete, signora ambasciatrice, che mi sta molto a cuore la vostra
compagnia e che mi fa molto piacere poter esprimere al signor
ambasciatore tutta la mia amicizia; infatti, signor conte, noi siamo
amici di vecchia data.»
«Vostra Altezza è troppo buona a volersi ricordare di noi e così ci
dà un altro motivo per non dimenticare mai i suoi favori.» «Vi
assicuro, signor conte, che non è colpa mia se certi ricordi mi sono
sempre presenti; ho la fortuna di serbare memoria solo di
ciò che mi è molto gradevole.»
«Ma Vostra Altezza ha una memoria eccezionale» disse sorri-
dendo la contessa di***.
«Vero, signora? Così, quando saranno trascorsi molti anni,
spero di avere il piacere di ricordarvi questo giorno, nonché il
buon gusto e l’estrema eleganza che presiedono a questo ballo...
Perché, a essere sinceri, ve lo dico sottovoce, voi sola siete
capace di dare delle feste.»
«Mio signore!...»
«E non è tutto; mi sapete dire, signor ambasciatore, perché qui le
donne mi sembrano sempre più belle che altrove?»
«Perché Vostra Altezza infonde in esse la benevolenza di cui ci
onora.»
«Permettetemi, signor conte, di non essere del vostro parere; credo
che ciò dipenda assolutamente dalla signora ambasciatrice.»
«Potrebbe avere Vostra Altezza la bontà di spiegarmi questo
prodigio?» disse la contessa sorridendo.
«Ma è semplicissimo, signora: voi sapete accogliere tutte queste
belle signore con un’urbanità così ineccepibile, con una grazia così
squisita, a ognuna di loro sapete dire cose così carine e
lusinghiere che quelle che non le meritano affatto... che non
meritano affatto un elogio così gentile» disse Rodolphe sorridendo
maliziosamente, «sono tanto più felici al sentirsi apprezzate da
voi, mentre quelle che le meritano non lo sono meno. Sono piccole
soddisfazioni che illuminano ogni volto; la felicità rende attraenti
le meno carine, ed ecco perché, signora contessa, le donne da voi
sembrano sempre più belle che altrove. Sono sicuro che il signor
ambasciatore la pensa come me.»
«Vostra Altezza ha trovato ragioni troppo consistenti perché non
debba piegarmi a pensarla allo stesso modo.»
«E io, mio signore» disse la contessa di *** «col rischio di
diventare graziosa come le belle signore che non meritano affatto...
affatto i complimenti che si fanno loro, accetto la lusinghiera
spiegazione di Vostra Altezza con la stessa gratitudine e lo stesso
piacere con cui si accetterebbe una verità.»
«Per convincervi, signora, che non c’è niente di più vero, facciamo
in modo di poter osservare quali effetti produce su un volto un
complimento.»
«Ah! mio signore, sarebbe un trucco orribile» disse ridendo la
contessa di ***.
«Bene, signora ambasciatrice, rinuncio al mio progetto, ma a una
condizione, che mi permettiate di offrirvi un po’ il mio braccio. Mi
hanno parlato di un giardino fiorito, una cosa veramente favolosa
per il mese di gennaio... Sareste tanto gentile da condurmi in
questa meraviglia da Mille e una notte?»
«Con grandissimo piacere, mio signore; ma a Vostra Altezza hanno
fatto una descrizione esagerata. D’altra parte, adesso giudicherà
lei stesso, a meno che non si lasci ingannare dalla sua solita
indulgenza.»
Rodolphe diede il braccio all’ambasciatrice e passò con lei negli
altri saloni, mentre il conte di *** s’intratteneva con il barone di
Graün e Murph, che conosceva da molto tempo.
XVI
IL GIARDINO D’INVERNO
Infatti non v’era nulla di più fiabesco, di più degno delle Mille e
una notte del giardino di cui Rodolphe aveva fatto menzione con la
contessa di ***.
Immaginatevi uno spiazzo lungo quaranta tese e largo trenta che
mette capo a una lunga e splendida galleria: una gabbia di vetro
sottilissimo, con soffitto a volta, e alta circa cinquanta piedi, ha
per base quel parallelogramma: le pareti, rivestite di un’infinità
di specchi, sui quali si incrociano le piccole losanghe verdi di un
graticolato di giunchi intrecciati molto stretti, fanno pensare a un
pergolato che lasci passare la luce grazie alla riflessione di
questa sugli specchi; una spalliera di aranci, grossi come quelli
delle Tuileries, e di camelie della stessa grossezza, i primi
carichi di frutti lucenti come tante mele d’oro sul verde lucido
delle foglie,
le seconde smaltate di fiori porpora, bianchi e rosa, ricopre come
una tappezzeria tutta la superficie delle pareti.
Questo è il recinto del giardino.
Dei vialetti con il fondo che è un magnifico mosaico di pezzetti di
conchiglie e tanto larghi da permettere a due o tre persone di
passeggiare fianco a fianco, girano attorno a cinque o sei boschetti
d’alberi e d’arbusti d’India o dei tropici, piantati in buche
profonde piene di terra di brughiera.
È impossibile descrivere l’effetto che produce in pieno inverno, e
per così dire, al centro d’una festa da ballo, questa lussureggiante
e splendida vegetazione esotica.
Qui enormi banani che raggiungono quasi i vetri della volta, e
mescolano le larghe palme di color verde lucido alle foglie
lanceolate delle grandi magnolie, alcune già cariche di grossi e
magnifici fiori odorosi: stami dorati spuntano dal loro calice a
forma di campana, porpora di fuori e argentato dentro; più avanti,
palme, datteri del Levante, latanie rosse, fichi d’India, tutte
piante robuste, perenni e frondose, che s’aggiungono al verde dei
boschetti: verde crudo, lucido e brillante come quello di tutti i
vegetali tropicali, i quali sembrano avere ricevuto il loro
splendore dallo smeraldo, tanto sono scintillanti e metallici i
colori di cui si tingono le loro foglie spesse, carnose e lucide.
Su per i graticolati, per gli aranci, in mezzo ai boschetti,
formando fra un albero e l’altro qui ghirlande di foglie e di fiori,
là spirali, più lontano viluppi inestricabili, corrono, serpeggiano,
si arrampicano fino in cima alla volta a vetri innumerevoli piante
sarmentose; le granadiglie alate, le passiflore dai grandi fiori
color porpora striati d’azzurro e terminanti con un pappo viola cupo
ricadono dalla cima della volta a forma di colossali ghirlande, e
danno la sensazione di voler risalire in alto gettando i delicati
viticci sui rami dei giganteschi aloè.
Altrove una begonia d’India, dai lunghi calici color giallo zolfo e
dalle foglie leggere, s’attorciglia a una stapelia dai fiori bianchi
e carnosi che diffondono un soave profumo; le due liane
intrecciandosi, con la loro frangia verde carica di campanule d’oro
e d’argento fanno da festone alle immense foglie vellutate di un
fico d’India.
Più lontano, infine, si ergono e poi ricadono dando origine a una
multicolore cascata vegetale, una quantità infinita di steli di
asclepiadi nelle cui ombrelle ci sono quindici o venti fiori
stellati che risultano essere così fitti e così lucidi da sembrare
mazzi di fiori di smalto rosa in mezzo a foglioline di porcellana
verde.
Ai bordi dei boschetti, le eriche del Capo, i tulipani, i narcisi di
Costantinopoli, i giacinti di Persia, i ciclamini, le iris formano
una specie di tappeto naturale dove tutti i colori e tutte le
sfumature si confondono in modo meraviglioso.
A illuminare il giardino ci sono, seminascoste qua e là tra le
foglie, delle lanterne cinesi di seta trasparente alcune, azzurre e
altre di un color rosa pallidissimo.
È impossibile dare un’immagine della luce dolce e misteriosa,
risultante dall’accostamento di questi due colori; chiarore magico,
fantastico, che aveva la limpidezza azzurrognola di una bella notte
d’estate venata di rosa dai riflessi vermigli di un’aurora boreale.
A questa immensa serra, più in giù di due o tre piedi, portava una
lunga galleria tutta barbagli di oro, di specchi, di cristalli e di
luci. Una luce sfavillante che faceva, per così dire, da cornice
alla penombra in cui si intuivano le sagome degli alti alberi del
giardino d’inverno, che si poteva scorgere attraverso il largo
spiraglio lasciato da due grandi tende di velluto cremisi.
Pareva quasi una gigantesca finestra aperta su qualche bel paesaggio
asiatico nel crepuscolo di una notte serena.
Vista dal fondo del giardino, dove sotto una cupola di foglie e di
fiori erano stati sistemati enormi divani, la galleria faceva
contrasto con la tiepida penombra della serra.
In lontananza, si vedeva come una nube luminosa e dorata, nella
quale scintillavano e sfavillavano, vibrante ricamo, i colori vari e
splendenti dei vestiti delle signore e i luccichii prismatici delle
pietre preziose e dei diamanti.
Le note dell’orchestra, smorzate dalla distanza e dal sordo e
allegro echeggiare della galleria, andavano a morire melodiosamente
tra il fogliame immobile degli alti alberi esotici.
Senza volerlo, tutti parlavano sottovoce in giardino; si sentiva
appena il rumore leggero dei passi e il fruscio dei vestiti di raso;
da quell’aria tiepida e lieve, anche se satura dei soavi profumi
delle piante aromatiche, e da quella musica vaga e lontana veniva un
senso di dolce e molle abbandono a cui nessuno resisteva.
Due amanti, felici, perché innamorati da poco, avidi d’amore, di
armonia e di profumi, non avrebbero potuto trovare, se si fossero
messi a sedere in qualche angolo ombroso di questo Eden, cornice più
incantevole al fuoco iniziale della loro passione; poiché, ahimè,
bastano uno o due mesi di tranquilla e sicura felicità per
trasformare malauguratamente due amanti in due sposi indifferenti!
Giunto nel fantastico giardino d’inverno, Rodolphe non poté
trattenere un’esclamazione di stupore e:
«In verità, signora» disse all’ambasciatrice, «non mi sarei mai
immaginato una simile meraviglia. Non si tratta solo di gran lusso e
di gusto squisito messi insieme ma anche di poesia in atto; invece
di scrivere come un poeta o di dipingere come un grande pittore, voi
create ciò che essi a stento riuscirebbero a sognare.»
«Vostra Altezza è infinitamente buono.»
«Dovete ammettere con tutta sincerità che chi riuscisse a riprodurre
fedelmente questo quadro meraviglioso in tutta la bellezza dei suoi
colori e dei suoi contrasti, e cioè i barbagli tumultuosi di laggiù
e questo delizioso luogo di ritiro, dovete ammettere signora che
costui, pittore o poeta che sia, farebbe opera magnifica al solo
imitare la vostra.»
«Le lodi che l’indulgenza detta a Vostra Altezza sono tanto più
pericolose in quanto non si può fare a meno di esserne affascinati e
di provare, nostro malgrado, un grandissimo piacere al sentirsele
dire. Ma guardate un po’, monsignore, quella bellissima donna!
Vostra Altezza deve convenire, almeno, che la marchesa d’Harville è
bella dappertutto. È di una grazia irresistibile. E risalta ancor di
piu accanto alla severa bellezza di colei che l’accompagna.»
La contessa Sarah Mac-Grégor e la marchesa d’Harville stavano
facendo in quel momento i pochi gradini che dalla galleria
immettevano nel giardino d’inverno.
XVII L’APPUNTAMENTO
Le lodi dell’ambasciatrice all’indirizzo della signora d’Harville
non erano esagerate.
Niente ci aiuterebbe a farci un’idea di un viso incantevole come il
suo, che aveva allora tutto lo splendore di una bellezza delicata,
bellezza tanto più straordinaria in quanto esaltata non dalla
regolarità dei lineamenti ma dal fascino indefinibile del volto
della marchesa, il quale si velava, per così dire, di una dolce e
tenue espressione di bontà.
Insistiamo su quest’ultima parola, perché, di solito, quello che
spicca in una giovane donna di vent’anni come la signora d’Harville
non è tanto la bontà quanto la bellezza, il fascino, l’intelligenza
e l’eleganza. Per questo ci si sentiva attratti dallo strano
contrasto esistente fra questa ineffabile dolcezza e il successo che
aveva la signora d’Harville, senza contare che essa riuniva in sé i
vantaggi della nascita, del nome e della ricchezza.
Cercheremo di far comprendere a pieno il nostro pensiero.
Benché troppo nobile, troppo dotata per avere la civetteria di
ricercare i complimenti, tuttavia la signora d’Harville, quando se
li sentiva fare, si mostrava benevola e riconoscente come una che
pensasse di non meritarseli del tutto; non ne andava fiera, ma era
felice; indifferente ai complimenti e incline alla benevolenza,
sapeva distinguere perfettamente l’adulazione dalla simpatia.
Aveva uno spirito moderato, fine e malizioso a volte senza essere
cattivo, a cui ricorreva per dire qualche innocua facezia su quella
gente che, piena di se stessa, si preoccupa solo di attirare
l’attenzione e di mettere continuamente in evidenza una faccia
illuminata da una insulsa felicità e tumida di sciocco orgoglio...
«Gente» diceva scherzosamente la signora d’Harville, «che per tutta
la vita dà l’impressione di ballare da sola davanti a uno specchio
invisibile, a cui sorride con compiacenza.»
Invece un carattere timido, riservato e insieme un po’ austero aveva
la certezza di suscitare l’interesse della signora d’Harville.
Questi brevi cenni ci aiuteranno a capire la bellezza della
marchesa.
Aveva una pelle di smagliante purezza, e un incarnato freschissimo;
lunghi capelli riccioluti di color castano chiari le sfioravano le
spalle tonde, sode e levigate come un bel marmo bianco.
Difficilmente si potrebbe descrivere l’angelica bellezza dei suoi
grandi occhi grigi, frangiati di lunghe ciglia nere. La bocca
vermiglia, di straordinaria bellezza, stava a bellissimi occhi come
l’ineffabile voce conturbante stava allo sguardo dolce e
melanconico. Non diremo niente né della perfetta figura né della
squisita signorilità che contraddistinguevano la sua persona.
Portava un vestito di crespo bianco, guarnito di vere camelie rosa e
di foglie dello stesso arbusto in mezzo a cui gli sparsi diamanti
brillavano come tante gocce di scintillante rugiada; sulla fronte
bianca e pura portava con grazia una corona fatta con gli stessi
fiori.
Il tipo di bellezza della contessa Sarah Mac-Grégor faceva spiccare
ancora di più la marchesa d’Harville.
Sarah aveva circa trentacinque anni, ma ne dimostrava solo trenta.
Niente fa bene al corpo quanto il freddo egoismo; il gelo ci
mantiene più freschi...
Ci sono anime aride, dure e refrattarie alle emozioni che fiaccano
il cuore e segano il volto, sulle quali si ripercuotono solo le
umiliazioni dell’orgoglio o le sconfitte di un’ambizione frustata;
amarezze queste che incidono pochissimo sul fisico.
Lo stato di conservazione di Sarah provava quanto stiamo sostenendo.
A parte la leggera pinguedine, che conferiva alla sua figura più
alta ma meno snella di quella della signora d’Harville, una grazia
eccitante, Sarah splendeva tutta di giovinezza; pochi sguardi
potevano sfuggire al fuoco incantatore dei suoi occhi neri e
ardenti; le labbra umide e rosse (ingannatrici solo per metà)
esprimevano la risolutezza e la sensualità. Sulle tempie e sul collo
si vedeva il ricamo azzurrognolo delle vene spiccare sulla
bianchezza lattea della pelle fine, e trasparente.
La contessa Mac-Grégor portava un vestito di marezzo giallo paglia
sotto una tunica dello stesso colore; una semplice corona di foglie
di pirus, verde smeraldo, le cingeva il capo e s’intonava
perfettamente con le due bande di capelli neri come l’inchiostro,
divisi sulla fronte, e con un naso aquilino, dalle narici larghe.
Era una pettinatura severa che conferiva una patina d’antico al
profilo autoritario e passionale di quella donna.
Quante persone, scorgendo nel proprio volto i segni di una vocazione
irresistibile, si sono lasciate trarre in inganno dalle proprie
fattezze. C’è chi si vede molto bellicoso e fa la guerra, chi si
vede rimatore e fa rime, chi cospiratore e cospira, chi politico e
si dà alla politica, chi predicatore e si dà alle prediche. Sarah si
vedeva, non a torto, molto regale; era logico quindi che accettasse
le predizioni, in parte avveratesi, della montanara scozzese, e
continuasse a credere in un destino regale.
In quell’istante, Sarah e la marchesa entravano nel giardino
d’inverno e vi scorgevano Rodolphe; ma si poteva pensare che il
principe non le avesse viste dal momento che, quando giunsero le due
donne, si trovava alla svolta di un viale.
«Il principe è così occupato con l’ambasciatrice che non si è
accorto di noi...» disse la signora d’Harville a Sarah.
«Non credo, cara Clémence» rispose la contessa che era in intima
amicizia con la signora d’Harville; «anzi, il principe ci ha viste
benissimo; ma gli ho fatto paura... Continua a tenermi il broncio.»
«Capisco sempre meno la sua ostinazione nell’evitarvi: spesso gli ho
rimproverato di comportarsi stranamente con voi... una sua vecchia
amica. “La contessa Sarah e io siamo mortali nemici” m’ha risposto
scherzando; “ho giurato di non parlarle più; e per privarmi” ha
aggiunto, “della piacevole compagnia di una perso-
na come lei bisogna che questo giuramento sia molto sacro per me.”
Perciò, cara Sarah, per quanto strana mi sia sembrata la risposta,
sono proprio stata costretta ad accontentarmi.»1
«Tuttavia, posso assicurarvi che la causa di questa mortale
inimicizia, semischerzosa e semiseria, è cosa di pochissimo conto.
Se non ci fosse di mezzo una terza persona, vi avrei confidato il
gran segreto molto tempo fa... Ma che avete, cara? mi sembrate
preoccupata.»
«Non è niente... prima, nella galleria, faceva così caldo, che m’è
venuta un po’ d’emicrania; sediamoci un momento qui... mi passerà...
spero.»
«Avete ragione; guardate, qui c’è un angolo molto buio; qui sarete
al sicuro da coloro che si affliggeranno della vostra assenza...»
aggiunse Sarah con un sorriso, appoggiando la voce sulle ultime
parole.
Tutte e due si sedettero su un divano.
«Ho detto coloro che si affliggeranno della vostra assenza, cara
Clémence... Non mi siete grata di essere stata discreta?»
La giovane donna arrossì leggermente, abbassò la testa e non
rispose.
«Come siete poco ragionevole!» le disse Sarah in tono di dolce
rimprovero. «Cara bambina, non avete fiducia in me? Bambina certo:
ormai ho un’età che posso chiamarvi figlia.»
«Io non aver fiducia in voi!» disse tristemente la marchesa a Sarah;
«non vi ho detto, anzi, quello che non avrei dovuto confessare
nemmeno a me stessa?»
«Certo. Ebbene! su... parliamo di lui; avete dunque deciso di farlo
morire dalla disperazione?»
«Ah!» esclamò spaventata la signora d’Harville, «che dite mai?»
«Non lo conoscete ancora, povera cara... È un uomo così duro e
insensibile, che per lui la vita è ben poca cosa. È sempre stato
infelice... e si direbbe quasi che vi divertiate a farlo soffrire
ancora!»
«Mio Dio, lo pensate davvero?»
«Senza volerlo, forse, ma è così... Oh, se sapeste come sono
sensibili e facili ad affliggersi coloro che sono stati colpiti da
una pesante disgrazia! per esempio, poco fa, ho visto due grosse
lacrime brillare nei suoi occhi.»
1 L’amore di Rodolphe per Sarah, e gli avvenimenti che erano seguiti
a questo amore, erano completamente ignorati a Parigi, essendo
trascorsi più di diciassette o diciotto anni, e avendo sia Rodolphe
che Sarah interesse a tenerli nascosti.
«Davvero?»
«Certo... E tutto ciò a un ballo e col rischio di subire l’onta del
ridicolo, se ci si fosse accorti di quella triste pena. Non sapete
che bisogna essere molto innamorati per soffrire così... e per non
pensare soprattutto a nascondere alla gente che si soffre così!...»
«Di grazia, non parlatemene» riprese la signora d’Harville con voce
alterata; «mi fate troppo male... Conosco anche troppo bene questo
genere di sofferenza dolce e rassegnata... Ahimè! A rovinarmi è
stata la pietà che egli ha suscitato in me...» disse la signora
d’Harville involontariamente.
Ma Sarah mostrando di non avere capito l’importanza di queste
parole, continuò:
«Che esagerazione!... rovinata per essere in rapporti di semplice
galanteria con un uomo che è tanto discreto e riservato da non
volere essere presentato a vostro marito per timore di
compromettervi! Il signor Charles Robert non è forse un uomo pieno
d’onore, di delicatezza, di cuore? Se lo difendo tanto
calorosamente, lo faccio soprattutto perché l’avete visto e
conosciuto a casa mia e perché per voi ha rispetto e devozione.»
«Non ho mai dubitato delle sue nobili qualità... voi m’avete detto
sempre tanto bene di lui!... Ma, e voi lo sapete, sono state
soprattutto le sue disgrazie a rendermelo interessante.»
«Ed egli merita e giustifica il vostro interesse! Confessatelo. E
poi d’altra parte un viso così stupendo non può non essere
l’immagine dell’anima! Con la sua alta e bella figura, mi ricorda
gli eroi dei tempi cavallereschi. Una volta l’ho visto in uniforme:
era impossibile avere un portamento più nobile. Certo che se la
nobiltà fosse proporzionale ai meriti e alla bellezza del volto,
invece di essere semplicemente il signor Charles Robert, egli
dovrebbe essere duca e pari. Non potrebbe rappresentare forse molto
bene uno dei più illustri nomi di Francia?»
«Voi sapete che la nobiltà di nascita ha poca importanza per me, voi
che qualche volta mi rimproverate di essere una repubblicana» disse
sorridendo la signora d’Harville.
«Certo, anch’io, come voi, ho sempre pensato che il signor Charles
Robert non avesse bisogno di titoli per essere amato; e poi che
talento! che voce deliziosa! Quanto ci ha aiutato per i concerti
privati che tenevamo alla mattina! vi ricordate? La prima volta che
avete cantato assieme il duetto, che espressione ci metteva! che
emozione!»
«Sentite, vi prego» disse la signora d’Harville dopo un lungo
silenzio, «cambiamo argomento.»
«Perché?»
«Mi sono profondamente rattristata quando poco fa avete parlato
della sua disperazione.»
«Siate sicura che dinanzi a un dolore violento un carattere
impulsivo come il suo può cercare nella morte un termine a...»
«Oh! ve ne prego, tacete! tacete!» disse la signora d’Harville
interrompendo Sarah, «è una cosa che m’è già venuta in mente...»
Poi, dopo un lungo silenzio, la marchesa disse:
«Ve lo ripeto, parliamo d’altro... del vostro nemico mortale»
soggiunse con ostentata allegria; «parliamo del principe che non
vedo da molto. Sapete che è sempre affascinante, anche se è quasi
re? Per quanto io sia repubblicana, credo che ci siano pochi uomini
piacevoli come lui.»
Sarah, gettato di sfuggita uno sguardo scrutatore e sospettoso sulla
signora d’Harville, riprese allegramente:
«Confessate, cara Cléménce, che siete molto capricciosa. Ho notato
che per il principe avete avuto, cosa strana, momenti d’ammirazione
e di ripugnanza; qualche mese fa, quando è arrivato qui, eravate
talmente infatuata di lui che, per dirla fra noi... ero un po’ in
ansia per la tranquillità del vostro cuore.»
«Ma, grazie a voi» disse la signora d’Harville sorridendo, «la mia
ammirazione non è stata di lunga durata; avete fatto così bene la
parte della nemica mortale, m’avete rivelato certe cose sul
principe... che, confesso, l’avversione s’è sostituita a quella
infatuazione che vi faceva temere per la tranquillità del mio cuore:
tranquillità che il vostro nemico, del resto, non si sognava nemmeno
di turbare; infatti, qualche tempo prima delle vostre rivelazioni,
il principe, pur continuando a vedere in privato mio marito, aveva
quasi del tutto cessato di onorarmi delle sue visite.»
«A proposito! vostro marito è qui questa sera?» disse Sarah.
«No, non aveva voglia di uscire» rispose imbarazzata la signora
d’Harville.
«Mi sembra che si faccia vedere sempre meno in società, vero?»
«Sì... a volte preferisce restare a casa.»
La marchesa era visibilmente imbarazzata; Sarah se ne accorse, però
continuò lo stesso il discorso:
«L’ultima volta che l’ho visto, mi è sembrato più pallido del
solito».
«Sì... era un po’ indisposto...»
«Sentite, cara Clémence, volete che vi parli francamente?» «Vi
prego...»
«Quando si parla di vostro marito, vi prende spesso una strana
angoscia.»
«Io... ma che sciocchezza!»
«Quando si parla di lui, la vostra faccia, vostro malgrado, esprime
qualche volta... Dio mio! come posso dirvelo?...» e Sarah appoggiò
la voce sulle seguenti parole, con l’aria di voler leggere fino in
fondo al cuore di Clémence: «Sì, la vostra faccia esprime una specie
di mal frenata ripugnanza...»
La signora d’Harville fece una faccia impenetrabile e sostenne lo
sguardo inquisitore di Sarah: ciononostante, Sarah colse un leggero
tremito nervoso, quasi impercettibile, sul labbro inferiore della
giovane donna.
Non volendo spingere più avanti le investigazioni e soprattutto non
volendo suscitare il sospetto nell’amica, la contessa si affrettò ad
aggiungere con l’intento di distogliere l’attenzione della marchesa:
«Sì, una mal frenata ripugnanza, come quella che ispira di solito un
burbero geloso...»
A queste parole, il leggero moto convulso del labbro della marchesa
d’Harville cessò; liberata da un peso enorme, ella rispose:
«Ma no, il signor d’Harville non è né burbero, né geloso...».
Poi a un tratto esclamò, trovando così un pretesto per troncare una
conversazione che le pesava: «Ah, mio Dio, ecco quell’insopportabile
del duca di Lucenay, un amico di mio marito... Almeno non ci
vedesse! Da dove salta fuori? Lo credevo a mille miglia da qui!»
«Infatti si diceva che fosse partito per un viaggio di uno o due
anni in Oriente; sono solo cinque mesi che ha lasciato Parigi.
L’improvviso ritorno avrà sicuramente contrariato la duchessa di
Lucenay, anche se il duca non dà affatto fastidio» disse Sarah con
un sorriso cattivo. «Del resto non sarà la sola ad avere maledetto
un ritorno che non ci voleva... Il signor di Saint-Remy sarà
altrettanto dispiaciuto.»
«Non siate maldicente, cara Sarah, dite che un tale ritorno sarà
spiacevole... per tutti. Il signor di Lucenay è tanto antipatico che
potete benissimo generalizzare il vostro rimprovero.»
«Maldicente! no di certo; non sono che un’eco. Si dice anche che
quel principe degli eleganti, che col suo fasto sbalordiva tutta
Parigi, e che è il signor di Saint-Remy, sia quasi in rovina,
sebbene stia conducendo un tenore di vita di poco inferiore a quello
di prima; è vero che la signora di Lucenay è immensamente ricca...»
«Ah, che orrore...»
«Vi ripeto che sono solo un’eco... Ah, mio Dio! il duca ci ha viste.
Sta venendo, bisogna rassegnarci, che disgrazia; non conosco niente
al mondo di più insopportabile di quest’uomo; il più delle volte fa
così poco buona compagnia, ride così forte per le sue stupidaggini,
è così rumoroso che stordisce; se ci tenete alla vostra boccetta e
al vostro ventaglio, dovete difenderli coi denti, perché ha anche il
difetto di rompere tutto quello che tocca e di farlo con l’aria più
gioconda e soddisfatta di questo mondo.»
Appartenente a una delle più illustri casate di Francia, giovane,
con un viso che senza quel naso grottesco e smisurato sarebbe stato
anche bello, il signor di Lucenay accoppiava ai pregi di una
turbolenza e una irrequietezza continue quelli di urlare e ridere
così forte, di fare spesso discorsi di così cattivo gusto, di avere
negli atteggiamenti una disinvoltura così audace e imprevedibile,
che bisognava tenere sempre presente il suo nome per non essere
stupiti di trovarlo nella società più distinta di Parigi e per
capire come si tollerassero in lui il gesto e la parola eccentrici,
a cui del resto l’abitudine aveva assicurato una specie di
prescrizione o d’impunità. Lo si evitava come un appestato, anche se
aveva un certo spirito che spuntava qua e là nei fiumi di parole che
versava. Era uno di quei giustizieri, fra le cui mani ci si augura
di veder cadere la gente ridicola e odiosa.
La signora di Lucenay, una delle donne più piacevoli e più alla moda
di Parigi, nonostante i trent’anni suonati, aveva fatto spesso
parlare di sé; la sua frivolezza però trovava in un certo senso una
giustificazione nelle insopportabili stranezze del signor di
Lucenay.
L’ultima pennellata a un carattere così irritante è data dalla
facondia e dal cinismo inaudito con cui si divertiva ad attribuirvi
indisposizioni grottesche o infermità impossibili o assurde, di cui
vi commiserava a voce alta davanti a un’infinità di gente. D’altra
parte era uomo di fegato e non aveva paura di affrontare le
conseguenze dei suoi brutti scherzi, tant’è vero che aveva dato o
ricevuto numerosi colpi di spada, senza per questo correggersi.
Ora, detto questo, faremo risuonare alle orecchie del lettore la
voce aspra e acuta del signor di Lucenay, che appena scorse da
lontano la signora d’Harville e Sarah, si mise a gridare:
«Bene! Bene! che cosa è questa roba? che vedo? Come! è mai possibile
che la più bella signora del ballo debba restare in disparte?
Bisogna proprio venire dagli antipodi per mettere fine a un tale
scandalo? Sentite, marchesa, se continuate a sottrarvi
all’ammirazione generale, mi metto a gridare come un ossesso,
mi metto a gridare alla sparizione della perla più brillante della
festa!»
E, come conclusione al discorso, il signor di Lucenay si lasciò
cadere supino su un divano accanto alla marchesa; dopo di che,
accavallate le gambe, si prese un piede in mano.
«Come mai, signore, siete già di ritorno da Costantinopoli?» disse
la signora d’Harville scostandosi spazientita.
«Sono già sicuro che state dicendo quello che ha pensato mia moglie;
infatti questa sera che ho fatto il mio rientro in società non ha
voluto accompagnarmi. Uno ritorna per fare una sorpresa agli amici e
guardate un po’ come viene accolto!»
«Si capisce; vi era così facile essere simpatico restando laggiù...»
disse la signora d’Harville con un mezzo sorriso.
«Cioè restando lontano, vero? È un orrore, è un’infamia!» si mise a
gridare il signore di Lucenay togliendosi dalla posizione a
cavalcioni e battendo sul cappello come su un tamburello.
«Per l’amor del cielo, signor di Lucenay, calmatevi e non gridate
così forte, altrimenti saremo costrette ad andare via da questo
posto» disse stizzita la signora d’Harville.
«Andare via da questo posto! forse per offrirmi il vostro braccio e
andare a fare un giro in galleria?»
«Con voi? no di certo. Sentite, vi prego, non toccate questi fiori;
di grazia lasciate anche questo ventaglio, finirete col romperlo,
come il vostro solito...»
«Se è solo per questo, ne ho rotto più d’uno! in particolare uno
cinese, magnifico, che la signora di Vaudémont aveva dato a mia
moglie.»
Tranquillizzate le due donne con tali parole, il signor di Lucenay
aveva incominciato a tormentare e a tirare verso di sé con piccole
scosse un viluppo di rampicanti. Finì a un certo momento con lo
staccarle dall’albero a cui erano attaccate, e il duca se ne trovò,
per così dire, incoronato.
Fu allora uno scoppio di risate così stridule, così matte, così
sonore, che la signora d’Harville sarebbe fuggita via da una persona
tanto fastidiosa e importuna, se non avesse scorto il signor Charles
Robert (colui che la signora Pipelet chiamava comandante) giungere
dall’altra estremità del viale. La giovane donna, temendo di dare
l’impressione di andargli incontro, restò vicino al signor di
Lucenay.
«Dite un po’, signora Mac-Grégor, non sembravo il dio Pan, una
naiade, un silvano, un selvaggio con tutte quelle foglie?» chiese il
signor di Lucenay rivolgendosi a Sarah, accanto alla qua-
le a un tratto era andato a sdraiarsi. «A proposito di selvaggio
devo raccontarvi una storia terribilmente indecente... Immaginatevi
che a Otaiti...»
«Signor duca!» gli disse Sarah con tono glaciale.
«Bene, no, non vi racconterò la mia storia; la tengo in serbo per la
signora di Fonbonne che sta venendo.»
Era una donna grossa e piccola di cinquant’anni, molto pretenziosa e
ridicola, con un mento che le toccava il petto, una donna che
mostrava sempre il bianco dei suoi grandi occhi quando parlava della
sua anima, dei languori della sua anima, dei bisogni della sua
anima, delle aspirazioni della sua anima. Quella sera aveva in testa
un orribile turbante color rame con un vivaio di disegni verdi.
«La tengo per la signora di Fonbonne» gridò il duca.
«Di che si tratta, signor duca?» disse la signora di Fonbonne e
incominciò subito a fare vezzi, a tubare e a fare la svenevole, come
si suole dire.
«Si tratta, signora, di una storia terribilmente sconveniente,
indecente e scollacciata.»
«Ah, Dio mio! E chi oserebbe? chi si permetterebbe?»
«Io, signora; perfino un vecchio Chamboran arrossirebbe. Ma i vostri
gusti li conosco... Sentite un po’...»
«Signore!...»
«Ebbene, no, non vi racconterò la mia storia, in fondo, perché, dopo
tutto, voi che vi vestite sempre così bene, con tanto buon gusto,
con tanta eleganza, questa sera avete un turbante che, parola mia
d’onore, assomiglia, permettetemi di dirvelo, a una vecchia tortiera
incrostata di verderame.»
E il duca si mise a ridere.
«Se siete ritornato dall’Oriente per ricominciare le vostre stupide
facezie, cosa che si tollera perché siete mezzo matto» rispose
irritata la donna, «si finirà col dispiacersi molto del vostro
ritorno, signore.»
E si allontanò maestosamente.
«Tenetemi, tenetemi che non vada a portare via il cappello a quella
sporca schizzinosa» disse il signor di Lucenay, «ma la rispetto, è
orfana... Ah ah! ah!...» e giù a ridere di nuovo. «To’! il signor
Charles Robert!» continuò il signor di Lucenay. «L’ho incontrato
alle acque termali dei Pirenei... È un magnifico ragazzo, canta come
un cigno. Vedrete, marchesa, come lo metterò in imbarazzo. Volete
che ve lo presenti?»
«State buono e lasciateci in pace» disse Sarah.
Mentre il signor Charles Robert avanzava lentamente, fingendo di
ammirare i fiori della serra, il signor di Lucenay riuscito intanto,
dopo varie manovre, a impadronirsi della boccetta di Sarah, stava
armeggiando, in silenzio, col tappo del prezioso flacone.
Il signor Charles Robert continuava ad avanzare; statura alta e ben
proporzionata, lineamenti perfetti, modo di vestire elegantissimo;
tuttavia aveva un viso e un portamento che mancavano di fascino, di
grazia e di distinzione; un’andatura rigida e impacciata, due mani e
due piedi grossi e volgari. Quando scorse la signora d’Harville,
sull’insignificante regolarità dei suoi lineamenti si stese
improvvisamente un velo di profonda malinconia, una malinconia che
per essere vera era arrivata troppo improvvisamente; tuttavia, la
maschera era perfetta. Il signor Robert sembrava così
spaventosamente infelice, così realmente afflitto quando si avvicinò
alla signora d’Harville, che costei non poté fare a meno di pensare
alle sinistre parole di Sarah a proposito degli eccessi a cui poteva
essere spinto dalla disperazione.
«Eh! buongiorno, caro signore!» gli disse il signor di Lucenay
fermandolo al varco, «dopo il nostro incontro ai bagni non ho più
avuto il piacere di vedervi. Ma che avete mai? Sembrate così
sofferente!»
Il signor Charles Robert, gettato un lungo sguardo malinconico sulla
signora d’Harville, pronunciò la sua risposta al duca con voce
accentuatamente lamentosa:
«Infatti, signore, sto male.»
«Dio mio, Dio mio, allora non potete guarire della vostra pituita?»
chiese serio e preoccupato il signor di Lucenay.
La domanda era così ridicola e assurda che per un momento il signor
Charles restò stupefatto, sbalordito; subito dopo però la collera
gli incendiò il viso e:
«Poiché vi preoccupate tanto della mia salute» disse con voce ferma
e tagliente al signor di Lucenay, «spero che domani verrete a
chiedere mie notizie!»
«Come, caro signore?... ma certo, manderò...» disse il duca
altezzosamente.
Il signor Charles Robert accennò un saluto e si allontanò.
«Il bello è che lui la pituita ce l’ha tanto quanto il Gran Turco»
disse il signor di Lucenay stendendosi di nuovo vicino a Sarah, «a
meno che non abbia indovinato senza volerlo. Dite un po’, signora
Mac-Grégor, secondo voi quel signore dà o no l’impressione di avere
la pituita?»
Sarah voltò bruscamente le spalle al signor di Lucenay senza
peraltro rispondergli.
La scena si era svolta molto rapidamente.
Sarah aveva fatto fatica a trattenere una risata.
La signora d’Harville, invece, aveva terribilmente soffer-
to pensando alla tremenda situazione in cui viene a trovarsi un uomo
che si vede apostrofato in modo così ridicolo davanti alla donna
amata; aveva paura che potesse seguirne un duello; allora, obbedendo
a un sentimento di irresistibile pietà, si alzò bruscamente,
s’attaccò al braccio di Sarah, raggiunse il signor Charles Robert
che non stava più in sé dalla collera, e passandogli vicino, gli
disse sottovoce:
«Domani, all’una... verrò...».
Poi, ritornata nella galleria con la contessa, lasciò la festa.
XVIII
COME SEI ARRIVATA TARDI, ANGELO MIO!
Rodolphe, recandosi a quella festa, oltre a ottemperare a un dovere
di cortesia, intendeva anche cercare di scoprire se i suoi timori
fossero fondati, e se la signora d’Harville fosse realmente l’eroina
del racconto della signora Pipelet.
Dopo aver lasciato il giardino d’inverno con la contessa di ***,
invano Rodolphe era passato da un salone all’altro, con la speranza
di incontrare la signora d’Harville da sola. Ritornò alla serra;
stava scendendo la scala, quando, fermatosi un momento sul primo
gradino, si trovò ad assistere alla rapida scena che intercorse fra
la signora d’Harville e il signor Charles Robert dopo l’abominevole
frizzo del duca di Lucenay. Rodolphe colse un significativo scambio
di occhiate. Un segreto presentimento gli diceva che quel bel
giovanotto alto doveva essere il comandante. Per accertarsene,
ritornò nella galleria.
Stava per cominciare un valzer; dopo qualche minuto, scorse il
signor Charles Robert in piedi, nel vano di una porta. Sembrava
soddisfatto: primo della risposta data al signor di Lucenay (il
signor Charles Robert, nonostante i suoi lati ridicoli, era molto
coraggioso), secondo dell’appuntamento del giorno successivo datogli
dalla signora d’Harville, sicurissimo che questa volta non sarebbe
mancata.
Rodolphe andò da Murph.
«Vedi quel giovanotto biondo in mezzo a quel gruppo laggiù?»
«Quel signore alto che sembra così soddisfatto di sé? Sì, mio
signore, lo vedo.»
«Cerca di andargli vicino ma tanto vicino da potergli dire piano
queste parole senza farti vedere e in modo che solo lui le senta:
“Come sei arrivata tardi, angelo mio!”.»
Il gentiluomo guardò stupito Rodolphe.
«Sul serio, mio signore?»
«Sul serio. Se a queste parole lui si gira, cerca di avere quel me-
raviglioso sangue freddo che spesso ho ammirato in te, in modo da
non far individuare a quel signore chi abbia parlato.»
«Non ci capisco niente, mio signore; ma obbedisco.»
Il bravo Murph, prima che il valzer finisse, era già andato a
mettersi alle spalle del signor Charles Robert.
Rodolphe, già in ottima posizione per non perdere nessun particolare
dell’esperimento, aveva seguito attentamente Murph con lo sguardo;
di lì a un secondo, Charles Robert, sconcertato, si girò
bruscamente.
Il gentiluomo non batté ciglio, restò impassibile; fatto sta che
quell’uomo alto e calvo, con quella figura maestosa e severa,
sarebbe stata l’ultima persona a poter essere sospettata di avere
pronunciato quelle parole che ricordavano al comandante lo
spiacevole equivoco di cui la signora Pipelet era stata la
protagonista.
Finito il valzer, Murph ritornò da Rodolphe.
«Ebbene, mio signore, il giovanotto s’è girato come se l’avessi
morso. Allora sono parole magiche?»
«Sono proprio parole magiche, caro Murph; mi hanno fatto scoprire
ciò che volevo.»
A Rodolphe non restava altro che compiangere la signora d’Harville
per un errore tanto più pericoloso in quanto egli presentiva
vagamente che Sarah ne era la complice o la confidente. A quella
scoperta provò una fitta dolorosa; non ebbe più dubbi circa la causa
dei dispiaceri del signor d’Harville a cui voleva molto bene:
sicuramente erano dovuti alla gelosia; sua moglie, piena di
bellissime qualità, si sacrificava a un uomo che non meritava. In
possesso di un segreto scoperto per caso, e di cui era incapace di
abusare, Rodolphe si vedeva condannato ad assistere, come uno
spettatore impassibile, alla rovina di una giovane donna perché non
poteva proprio fare niente per illuminare la signora, la quale,
d’altra parte, aveva ceduto ai ciechi istinti della passione.
A distoglierlo da queste riflessioni fu il barone di Graün.
«Se Vostra Altezza vuole concedermi un breve colloquio in quel
salottino in fondo, dove non c’è nessuno, avrò l’onore di far-
le un rendiconto delle informazioni che mi ha ordinato di prendere.»
Rodolphe seguì il signor di Graün...
«La sola duchessa al cui nome possono riferirsi le iniziali N e L è
la duchessa di Lucenay, nata Noirmont» disse il barone «stasera non
è qui. Ho appena visto suo marito, il signor di Lucenay, partito
cinque mesi fa per un viaggio in Oriente che doveva durare più di un
anno; lui invece è ritornato improvvisamente due o tre giorni fa.»
Il lettore ricorderà che, durante la visita alla casa della rue du
Temple, Rodolphe aveva trovato sul pianerottolo dell’appartamento
del ciarlatano César Bradamanti un fazzoletto inzuppato di lacrime,
con un prezioso merletto e con in un angolo le lettere N e L
sormontate da una corona ducale. Benché all’oscuro di queste
circostanze, il signor di Graün, dietro ordine di Rodolphe, aveva
preso informazioni sui nomi delle duchesse attualmente a Parigi, e,
così facendo, aveva ottenuto le notizie di cui abbiamo appena
parlato.
A Rodolphe fu tutto chiaro.
Pur non avendo alcun motivo per interessarsi alla signora di
Lucenay, Rodolphe non poté reprimere un sussulto al pensiero che se
veramente era andata dal ciarlatano, quel miserabile, che non era
altri che l’abate Polidori, conoscendo il nome della donna, fatta
seguire da Tortillard, avrebbe potuto, con conseguenze paurose,
abusare del terribile segreto che metteva la duchessa alla sua
mercé.
«Il caso, mio signore, è molto strano a volte» riprese il signor di
Graün.
«Cosa vuoi dire?»
«Mentre il signor di Grangeneuve mi informava sul signore e sulla
signora di Lucenay, aggiungendo maliziosamente che il ritorno
imprevisto del signor di Lucenay aveva dovuto contrariare non poco
la duchessa e il visconte di Saint-Remy, il giovane più bello e più
elegante di Parigi, il signor ambasciatore è venuto a chiedermi,
essendo il visconte presente alla festa, se pensavo che Vostra
Altezza avrebbe permesso che gli venisse presentato; è da pochissimo
che è entrato a far parte della legazione di Gerolstein, e
un’occasione come questa per porgere i suoi omaggi a Vostra Altezza
lo farebbe felicissimo.»
Rodolphe ebbe un moto d’impazienza e:
«Questa è una cosa» disse, «che non mi piace affatto... ma non posso
rifiutare... Su, dite al conte di *** di presentarmi il signor di
Saint-Remy.»
Nonostante il cattivo umore, Rodolphe conosceva troppo bene il suo
mestiere di principe per non mostrarsi affabile anche in
quest’occasione. D’altra parte, passando il signor di SaintRemy per
essere l’amante della duchessa di Lucenay, la curiosità di Rodolphe
ne veniva stuzzicata.
Il visconte di Saint-Remy si avvicinò accompagnato dal conte di ***.
Il signor di Saint-Remy era un affascinante giovanotto di
venticinque anni, sottile, snello, molto distinto, molto bello di
viso; era molto bruno di pelle, di quel bruno vellutato, trasparente
e ambrato, che caratterizza i quadri di Murillo; aveva capelli neri,
con riflessi blu, separati da una riga dalla parte sinistra, capelli
che, lisci sulla fronte, gli si arricciavano attorno al viso,
lasciandogli sì e no scoperto il lobo incolore delle orecchie; le
sue pupille risaltavano sul globo dell’occhio, che, invece di essere
bianco, si tingeva di quel colore leggermente azzurrato che
conferisce allo sguardo degli indiani un’espressione tanto
affascinante. Un capriccio della natura l’aveva dotato di un bel
paio di baffi mentre il mento e le guance erano imberbi come quelli
di un giovinetto e lisci come quelli di una ragazza; per civetteria
portava molto basso un fazzoletto da collo di raso nero, che
lasciava vedere l’elegante attaccatura del collo, degna di un
giovane flautista dell’antichità.
Le lunghe pieghe del fazzoletto erano tenute assieme soltanto da una
perla, perla di inestimabile valore data la grossezza, la purezza
dalla forma e lo splendore così vivo che neanche un opale avrebbe
avuto un luccichio tanto forte e cangiante. Di gusto perfetto, il
vestito del signore di Saint-Remy s’intonava come pochi altri con un
gioiello di meravigliosa semplicità come quello.
Non si sarebbe mai potuto dimenticare l’aspetto e la persona del
signor di Saint-Remy, tanto egli era al di sopra della normale
eleganza.
La sua carrozza e i suoi cavalli erano di gran lusso; era grande e
buon giocatore e il totale segnato sul registro delle scommesse sui
cavalli ammontava più o meno a due o tremila luigi all’anno. Si
parlava della sua casa in rue de Chaillot come di un modello di
sontuosa eleganza; dopo aver mangiato, ci si metteva a giocare
accanitamente e a lui, durante il gioco, capitava spesso di perdere
somme considerevoli, cosa che faceva con la noncuranza di un ospite
cortese, eppure si aveva la sicurezza che da molto tempo il
patrimonio del visconte era in dissesto.
Per spiegare le sue incomprensibili prodigalità, gli invidiosi o i
maligni parlavano, come aveva fatto Sarah, dei molti beni della
duchessa di Lucenay; ma dimenticavano che, a parte la bassezza
dell’insinuazione, era naturale che il signor di Lucenay esercitasse
un controllo sulla fortuna della moglie, mentre il signor di
SaintRemy spendeva al minimo 50.000 scudi o 200.000 franchi all’ano.
Altri parlavano di imprudenza da parte degli usurai, dato che il
signor di Saint-Remy non aspettava più eredità. Altri, infine,
dicevano che era troppo fortunato alle corse, e andava sussurrando
di allenatori e di fantini corrotti da lui per fare perdere i
cavalli contro i quali aveva scommesso molto denaro... ma la maggior
parte della gente dell’alta società si preoccupava ben poco dei
mezzi a cui ricorreva il signor di Saint-Remy per sopperire al suo
fasto.
Egli apparteneva per nascita al più bello e più gran mondo; era
allegro, coraggioso, spiritoso, gioviale, di buona pasta;
organizzava ottime mangiate con gli amici e poi accettava tutte le
scommesse che gli venivano proposte. Cos’altro gli mancava?
Le donne lo adoravano; era difficile poter enumerare tutti gli
svariati trionfi che aveva avuto; era giovane e bello, in ogni
occasione galante e generoso come può esserlo un uomo con le donne
di mondo; infine, l’ammirazione era tale che anche il mistero che
circondava la sorgente di Pattolo dove egli attingeva a piene mani,
aveva finito col gettare sulla sua vita un certo fascino arcano; si
diceva sorridendo con noncuranza: «Quel diavolo di Saint-Remy deve
avere trovato la pietra filosofale!».
Al sentire che era entrato a far parte della legazione francese
presso il granduca di Gerolstein, alcuni avevano pensato che il
signor di Saint-Remy avesse deciso di ritirarsi onorevolmente.
Il conte di ***, presentandogli il signor di Saint-Remy, si rivolse
a Rodolphe così:
«Ho l’onore di presentare a Vostra Altezza il signor visconte di
Saint-Remy, della legazione di Gerolstein.»
Il visconte fece un profondo saluto e disse a Rodolphe:
«Si degnerà Vostra Altezza di scusare l’impazienza che ho avuto nel
venirle a porgere i miei omaggi? Forse ho avuto troppa fretta di
godere di un onore che considero tanto grande.»
«Sarò felicissimo, signore, di rivedervi a Gerolstein... Contate di
andarci presto?»
«La presenza di Vostra Altezza a Parigi mi rende meno sollecito a
partire.»
«La vita tranquilla delle corti tedesche vi stupirà, signore,
abituato come siete alla vita di Parigi.»
«Non so se oso troppo, garantendo a Vostra Altezza che la
benevolenza di cui si è degnata di darmi prova e che spero forse
vorrà concedermi a lungo, basta da sola a non farmi rimpiangere
Parigi.»
«Non dipenderà da me, signore, se cambierete idea durante il periodo
che passerete a Gerolstein.»
E Rodolphe con un leggero inchino del capo fece capire al signor di
Saint-Remy che la presentazione era terminata.
Il visconte rispose con un profondo saluto e si ritirò.
Rodolphe era molto fisionomista, e soggetto a simpatie o ad
antipatie quasi sempre giustificate. Dopo le poche parole scambiate
con il signor di Saint-Remy, senza potersene spiegare la ragione,
provò per lui una specie di antipatia istintiva. Aveva notato che
nel suo sguardo c’era qualcosa di perfido e di astuto e sul suo
volto un’espressione equivoca.
Ritroveremo il signor di Saint-Remy in circostanze che
contrasteranno terribilmente con la brillante posizione che aveva
quando fu presentato a Rodolphe; si potrà così giudicare la
veridicità dei presentimenti di quest’ultimo.
Finita la presentazione, Rodolphe si mise a pensare alle strane
combinazioni del caso, e fra una riflessione e l’altra arrivò al
giardino d’inverno. Era giunta l’ora di cena e i saloni si andavano
svuotando; il posto più appartato della serra si trovava dietro un
gruppo di alberi, all’angolo di due muri quasi del tutto coperti da
un enorme banano, carico di rampicanti; vicino al frondoso albero
era stata lasciata semiaperta la porticina di servizio, nascosta da
un graticolato, che si apriva in un lungo corridoio comunicante col
salone dei rinfreschi.
Lì andò a sedersi Rodolphe, dietro una gran cortina di verde. Era da
qualche momento immerso in una profonda meditazione, quando una voce
ben nota, pronunciando il suo nome, lo fece sussultare.
Sarah stava parlando in inglese col fratello Tom dal lato opposto
del boschetto dietro al quale si trovava Rodolphe. Tom era vestito
di nero. Sebbene più vecchio di Sarah di qualche anno, aveva i
capelli quasi bianchi, un viso che rivelava una volontà implacabile
e ostinata, un accento secco e tagliente, uno sguardo cupo e una
voce profonda. Una grande amarezza o un grande odio dovevano rodere
quell’uomo.
Rodolphe si mise a seguire con attenzione il dialogo che segue:
«La marchesa è andata un momento al ballo del barone di Nerval; per
fortuna se n’è andata senza poter parlare a Rodolphe, che la
cercava; perché continuo ad avere paura dell’influenza che egli ha
su di lei, influenza che ho faticato tanto a combattere e a
distruggere in parte. Finalmente questa rivale, che, in cuor mio, ho
sempre temuto e che in seguito avrebbe potuto ostacolare i miei
progetti... questa rivale domani sarà rovinata... Ascoltatemi, Tom,
è una cosa molto importante...»
«Vi sbagliate: Rodolphe non ha mai pensato alla marchesa.»
«È il momento di darvi qualche spiegazione a questo proposito...
Sono successe molte cose durante il vostro ultimo viaggio... e
siccome è necessario agire prima di quanto pensassi... questa sera
stessa, quando usciremo di qui, questo colloquio è necessario...
fortunatamente, siamo soli.»
«Vi ascolto.»
«Sono sicura che la marchesa, prima di avere visto Rodolphe, non ha
mai amato nessuno... Non so perché ella provi un’invincibile
ripugnanza per il marito che l’adora, invece. È un mistero che ho
cercato di svelare invano. Rodolphe con la sua presenza aveva
suscitato nel cuore di Clémence mille emozioni nuove. Questo amore
fu soffocato sul nascere da certe terribili rivelazioni sul
principe. Ma nella marchesa s’era destato il bisogno d’amare;
incontrando, a casa mia, il signor Charles Robert, è stata colpita
dalla sua bellezza, colpita come quando si vede un quadro; purtroppo
la sciocchezza di quest’uomo è pari alla sua bellezza, e tuttavia
nel suo sguardo c’è un non so che di conturbante. Ne esaltai la
grandezza d’animo e i pregi del carattere. Conoscevo la bontà
istintiva della signora d’Harville; le dipinsi allora il signor
Robert come una vittima delle disgrazie più interessanti, a lui
raccomandai di essere sempre mortalmente triste, di non fare altro
che sospirare e lamentarsi e prima di ogni altra cosa di parlare
poco. Ha seguito i miei consigli. Grazie al suo talento di cantante,
al suo viso, e soprattutto al suo sembiante inguaribilmente triste è
riuscito quasi a conquistarsi l’affetto della signora d’Harville,
che l’ha così distolta da quel bisogno d’amare che s’era destato in
lei alla sola vista di Rodolphe. Capite, adesso?»
«Perfettamente; continuate.»
«Soltanto da me la signora d’Harville e Robert si vedevano da sola a
solo; due volte la settimana, la mattina facevamo della musica in
tre. Il bel tenebroso sospirava, diceva alcune paroline dolci
sottovoce; fece scivolare due o tre biglietti. Temevo meno le sue
parole che la sua prosa; ma una donna è sempre indulgente quando
riceve le prime dichiarazioni; quelle del mio protetto non ebbero
cattivo esito; per lui l’importante era ottenere un appuntamento. La
marchesina aveva più princìpi che amore, o meglio non aveva tanto
amore da dimenticare i suoi princìpi... Aveva
sempre in fondo al cuore, senza che se ne accorgesse, il ricordo di
Rodolphe che vegliava, per così dire, su di lei e combatteva quella
debole inclinazione per il signor Charles Robert... inclinazione
molto più fittizia che reale... ma alimentata dal vivo interesse per
le immaginarie disgrazie del signor Charles Robert, e dagli elogi
continui e smaccati che facevo di quell’Apollo senza cervello. Alla
fine, Clémence, vinta dall’espressione di profonda disperazione del
suo infelice adoratore, un giorno si decise a concedergli l’agognato
appuntamento.»
«Eravate diventata la sua confidente?»
«Mi aveva confessato il suo affetto per Charles Robert, tutto qui.
Io, dal canto mio, non feci niente per sapere di più; mi avrebbe
dato fastidio... Ma lui, pazzo di felicità o meglio d’orgoglio, mi
confidò la sua felicità, trascurando di dirmi tuttavia il giorno e
il luogo dell’appuntamento.»
«E come l’avete saputo?»
«Diedi l’ordine a Karl di andare, la mattina presto del giorno dopo
e del giorno successivo a questo, ad appostarsi vicino alla porta
del signor Robert per seguirlo. Il secondo giorno, verso mezzodì, il
nostro innamorato prese la strada di un quartiere sperduto, una
certa rue du Temple... Scese davanti a una casa molto brutta; restò
lì un’ora e mezzo circa, poi se ne andò. Karl aspettò a lungo per
vedere se usciva qualcuno dopo il signor Robert. Non uscì nessuno:
la marchesa non aveva mantenuto la promessa. Lo seppi l’indomani dal
corrucciato e deluso innamorato. Gli consigliai una doppia dose di
disperazione. Clémence fu di nuovo toccata; altro appuntamento, ma
inutile come il primo. Tuttavia l’ultima volta ella arrivò fino
sulla porta: era un progresso. È chiaro come questa donna stia
lottando... E perché? Perché, e qui sta la ragione del mio odio,
ella ha sicuramente conservato in fondo al cuore, senza forse
rendersene conto, un pensiero segreto per Rodolphe che così pare la
stia proteggendo. Come se non bastasse, questa sera, la marchesa ha
dato al Robert un appuntamento per domani; sono sicura che questa
volta ci andrà. Il duca di Lucenay ha così villanamente
ridicolizzato il povero giovane, che la marchesa, sconvolta
dall’umiliazione subita dal suo innamorato, ha finito col
concedergli per pietà ciò che altrimenti forse non avrebbe mai
concesso. Questa volta, ve lo ripeto, manterrà la promessa.»
«Qual è il vostro piano?»
«La marchesa non sta obbedendo tanto all’amore quanto a una sorta di
impulso pietoso e caritatevole; Charles Robert non
è certo fatto per capire la delicatezza del sentimento che, questa
sera, ha suggerito alla marchesa una tale decisione e lui domani
vorrà approfittare dell’appuntamento e invece sarà odiato da
Clémence che si sente costretta a un passo così compromettente non
dall’entusiasmo e dalla passione ma dalla pietà. Insomma, sono
sicura che va da lui per compiere un coraggioso atto di carità, ma
perfettamente calma e sicura di non dimenticare un solo istante i
suoi doveri. Charles Robert non se ne renderà conto e la marchesa ne
sarà allora schifata; una volta distrutta questa illusione, ricadrà
sotto l’influenza del ricordo di Rodolphe che sicuramente continua a
covarle in fondo al cuore.»
«E allora?»
«Ebbene, voglio che si comprometta una volta per tutte agli occhi di
Rodolphe. Sono sicura che, prima o poi, Rodolphe avrebbe tradito
l’amicizia del signor d’Harville, corrispondendo all’amore di
Clémence; quando però la saprà macchiata di una colpa di cui egli
non è stato l’oggetto, comincerà ad aborrirla; è un delitto
imperdonabile per un uomo. E per farla finita s’appiglierà al
pretesto del suo affetto per il signor d’Harville, per non rivedere
mai più una donna che ha così indegnamente tradito un amico tanto
caro.»
«Volete quindi avvertire il marito?»
«Sì, stasera stessa, se non avete nulla in contrario. Da quel che
m’ha detto Clémence, questi ha dei vaghi sospetti ma non sa di chi.
È mezzanotte, andiamocene; voi vi fermerete al primo caffè che
troviamo, scriverete al signor d’Harville che, all’una di domani,
sua moglie si recherà in rue du Temple, al n. 17, per un convegno
d’amore. È geloso: sorprenderà Clémence; il resto lo potete
indovinare!»
«È un’azione abominevole» disse il gentiluomo con freddezza. «Avete
degli scrupoli, Tom?»
«Fra poco farò quanto m’avete detto; ma vi ripeto che è una
azione abominevole.»
«Comunque non vi tirate indietro?»
«No... questa sera il signor d’Harville saprà tutto. E... ma... mi
sembra che ci sia qualcuno là, dietro gli alberi» disse a un tratto
Tom sottovoce dopo avere interrotto il discorso. «Mi è parso di
sentire un rumore.»
«Andate a vedere» disse Sarah preoccupata.
Tom si alzò, fece il giro del boschetto ma non trovò nessuno.
Rodolphe aveva appena fatto in tempo a infilare la porticina di
cui abbiamo parlato.
«Mi sono sbagliato» disse Tom al ritorno, «non c’era nessuno.»
«È quello che mi sembrava...»
«Ascoltate, Sarah, io, contrariamente a quanto pensate voi, non
credo che quella donna potrà essere d’ostacolo all’attuazione del
vostro progetto; Rodolphe ha certi princìpi a cui non verrà meno. La
giovinetta piuttosto, che lui, camuffato da operaio, ha condotto,
sei settimane fa, alla fattoria; una creatura di cui si piglia tanta
cura, alla quale fa dare un’educazione di prim’ordine, e che è già
andato a trovare parecchie volte, questa sì può suscitare timori più
seri. Non sappiamo esattamente chi sia, pur sapendo che viene da una
classe oscura della società. Ma la rara bellezza di cui si dice che
sia dotata, il fatto che Rodolphe si sia travestito per condurla in
quel paese, il sempre maggiore interesse che ha per lei, tutto porta
a pensare che questo suo affetto non sia di poca importanza. Perciò
ho prevenuto i vostri desideri. Per eliminare quest’altro ostacolo,
più reale, credo, sono stato costretto ad agire con la massima
prudenza per avere notizie precise della fattoria e delle abitudini
della giovanetta... Queste notizie adesso le so; è venuto il momento
d’agire. Ho incontrato per caso quell’orribile vecchia che si era
tenuta il mio indirizzo. Le amicizie che ha con la gente della
specie del brigante che ci ha attaccati quando abbiamo fatto
quell’incursione nella Cité, ci potranno essere di grande aiuto.
Tutto è stato previsto... non ci sarà alcuna prova contro di noi...
E del resto, se la giovane, come sembra, appartiene al ceto degli
artigiani, non esiterà fra le nostre offerte e la sorte brillante
che può anche sognare, perché il principe ha mantenuto il più
stretto incognito. Domani finalmente la questione sarà risolta,
altrimenti... si vedrà...»
«Una volta eliminati questi due ostacoli... Tom... allora il nostro
grande progetto...»
«Ci sono ancora molte difficoltà, ma può riuscire.»
«Ammettete che ci sarà una probabilità di più, se lo metteremo in
atto quando Rodolphe sarà colpito e dalla condotta scandalosa della
signora d’Harville e dalla sparizione della giovanetta, a cui
s’interessa tanto.»
«Lo credo... Ma se anche quest’ultima speranza cadrà... allora sarò
libero...» disse Tom guardando Sarah con aria cupa.
«Sarete libero!...»
«Non potrete più contare su quelle preghiere che, per due volte,
m’hanno fatto recedere, contro la mia volontà, dalla vendetta!» Poi,
indicando con lo sguardo il lutto e i guanti neri che
calzava, Tom aggiunse sorridendo con aria sinistra: «Lo aspetto
sempre... Sapete bene che porto questo lutto da sedici anni... e che
me lo toglierò solo se...».
Sarah fece, suo malgrado, una smorfia di paura e si affrettò a
interrompere il fratello dicendogli con ansia:
«Vi dico che sarete libero... Tom... allora la profonda fiducia che
mi ha sostenuto fino ad adesso in circostanze così diverse, profonda
perché m’ha dato prove che vanno al di là delle umane previsioni...
mi abbandonerà del tutto. Ma prima farò il possibile per eliminare
qualsiasi ostacolo per quanto piccolo possa apparirmi... Il successo
dipende spesso dalle cause più piccole... Forse troverò ostacoli di
poco conto sul mio cammino, adesso che sono vicina alla meta; voglio
avere il campo libero, li distruggerò. I miei mezzi sono odiosi,
d’accordo!... Ma io sono stata forse risparmiata?» esclamò Sarah
alzando involontariamente la voce.
«Silenzio! Stanno tornando dalla cena» disse Tom.
«Dal momento che credete sia utile avvertire il marchese d’Harville
dell’appuntamento di domani, dobbiamo andarcene subito... è tardi.»
«L’importanza dell’avvertimento sarà dimostrata dall’ora in cui lo
riceverà.»
Tom e Sarah, allora, abbandonarono la casa dell’ambasciatore.
XIX
GLI APPUNTAMENTI
Volendo a ogni costo avvertire la signora d’Harville del pericolo
che correva, Rodolphe era dovuto partire dall’ambasciata quando il
colloquio fra Tom e Sarah era ancora a metà, cosa, questa, che non
gli consentì di venire a conoscenza del complotto ordito contro
Fleur-de-Marie e dell’imminente pericolo che la minacciava.
Nonostante la buona volontà, Rodolphe, purtroppo, non riuscì come
sperava a salvare la marchesa.
La signora d’Harville, infatti, avrebbe dovuto, per convenienza,
fare una puntatina dalla signora di Nerval; invece, poiché il
turbamento a cui era in preda l’aveva costretta ad abbandonare
l’idea di andare a una seconda festa, ritornò a casa.
Fu un contrattempo che mandò tutto all’aria.
Anche il signor di Graün, come quasi tutti gli amici della contessa
***, era stato invitato dalla signora di Nerval. Rodolphe al-
lora si prese il barone, lo accompagnò in tutta fretta alla festa e
gli ordinò di vedere se al ballo c’era la signora d’Harville e, se
c’era, di avvertirla che quella stessa sera il principe si sarebbe
trovato, senza la carrozza, davanti al palazzo d’Harville per dirle
cose di estrema importanza, e che poi si sarebbe avvicinato alla
carrozza di lei e le avrebbe parlato attraverso lo sportello mentre
i suoi servitori sarebbero stati intenti ad aprire il portone.
Dopo aver perduto tanto tempo per vedere se alla festa c’era la
signora d’Harville, il barone ritornò... Non c’era stata.
Rodolphe era disperato; molto acutamente aveva pensato che la prima
cosa da fare era avvertire la marchesa del tradimento ordito contro
di lei; solo così la delazione di Sarah, che non era riuscito a
impedire, sarebbe passata per un’indegna calunnia... Ormai era
troppo tardi... all’una di notte il marchese aveva già l’infame
lettera.
L’indomani mattina, il signor d’Harville passeggiava lentamente
nella sua camera da letto, arredata con elegante semplicità e ornata
solo di una panoplia d’armi moderne e di uno scaffale pieno di
libri.
Dal letto, non disfatto, pendeva una trapunta di seta che era stata
fatta a pezzi; una sedia e un tavolino d’ebano a gambe tortili erano
stati rovesciati vicino al caminetto, sparsi qua e là sul tappeto
c’erano i cocci di un bicchiere di cristallo, qualche candela mezzo
pestata e un candeliere a due bracci che era stato fatto rotolare
lontano.
La stanza sembrava essere stata teatro di una lotta violenta.
Il signor d’Harville aveva circa trent’anni, un volto energico e
caratteristico, un’espressione che, simpatica e dolce di solito, in
quel momento era invece contratta, pallida e violacea; portava gli
abiti del giorno prima; aveva il collo nudo, il panciotto aperto; la
camicia, strappata, pareva macchiata qua e là di sangue; i capelli
bruni, che di solito erano arricciati, gli ricadevano, ora, irti e
arruffati sulla fronte illividita.
Dopo aver camminato a lungo, con le braccia conserte, la testa
bassa, lo sguardo immobile e acceso, il signor d’Harville si fermò
bruscamente davanti al caminetto che aveva lasciato morire
nonostante la gran gelata della notte. Prese la lettera che stava
sul marmo del caminetto e la rilesse divorandola con gli occhi, alla
pallida luce di quel giorno d’inverno:
«Domani, all’una, vostra moglie si recherà in rue du Temple, al n.
17, per un convegno amoroso. Seguitela e saprete tutto... Sposo
fortunato!»
Quando leggeva quelle parole, lette e rilette ormai tante volte...
sembrava che le sue labbra, livide dal freddo, compitassero
convulsamente il funesto biglietto sillaba per sillaba.
In quel momento la porta si aprì ed entrò un cameriere.
Era un servitore, ormai vecchio, con capelli grigi e una faccia
buona e onesta.
Il marchese volse bruscamente la testa senza cambiare posizione e
senza preoccuparsi di nascondere la lettera. «Che cosa vuoi?» disse
duramente al domestico. Costui, invece di rispondere, stava a
contemplare con doloroso stupore il disordine della stanza; poi,
squadrato attentamente il padrone, esclamò:
«Avete del sangue sulla camicia... Dio mio, Dio mio, signore vi
siete ferito! Eravate solo, perché non mi avete suonato come al
solito quando avete sentito i...?»
«Vattene!»
«Ma, signor marchese, non vedete che il fuoco è spento, si muore dal
freddo qui, non dovreste, soprattutto dopo il vostro...»
«Vuoi star zitto? lasciami!»
«Ma, signor marchese» continuò il cameriere tutto tremante, «avete
dato ordine al signor Doublet di essere qui per le dieci e mezzo di
oggi; sono le dieci e mezzo e lui è qui col notaio.»
«Giusto» disse amaramente il marchese riacquistando la calma.
«Quando si è ricchi, bisogna pensare agli affari. È così bella la
ricchezza!...»
Poi aggiunse:
«Fai passare il signor Doublet nel mio studio.»
«C’è già, signor marchese.»
«Dammi qualcosa per vestirmi. Verrò subito.»
«Ma, signor marchese...»
«Fai quello che ti dico, Joseph» disse il signor d’Harville con
tono più dolce. Poi aggiunse:
«Siete già stati da mia moglie?»
«Credo che la signora marchesa non abbia ancora suonato.» «Appena
suona, fammi avvisare.»
«Sì, signor marchese.»
«Di’ a Philippe che venga ad aiutarti: non ce la faresti da solo.»
«Ma, signore, aspettate che faccia prima un po’ d’ordine» ri-
spose tristemente Joseph. «Se vedessero questo disordine, chissà che
cosa penserebbero sia capitato questa notte al signor marchese.»
«E se vedessero... sarebbe spaventoso, vero?» riprese il signor
d’Harville con amaro sarcasmo.
«Ah, signore» disse Joseph, «grazie a Dio, nessuno sospetta...»
«Nessuno?... No, nessuno!» rispose il marchese con aria cupa. Mentre
Joseph si dava da fare per mettere un po’ d’ordine nel-
la stanza, il signor d’Harville andò dritto alla panoplia a cui
abbiamo accennato, restò alcuni minuti a esaminare con attenzione le
armi di cui era composta, quindi con un gesto di sinistra
soddisfazione si rivolse a Joseph dicendogli:
«Sono sicuro che ti sei dimenticato di far pulire i fucili che sono
lassù nella cassetta dei miei arnesi di caccia.»
«Il signor marchese non mi ha detto nulla...» rispose Joseph
stupito.
«No, ma ti sei dimenticato.»
«Le assicuro, signor marchese...»
«Devono essere sempre belli lucidi!»
«È solo un mese che siamo andati a ritirarli dall’armaiolo.» «Non
importa; intanto che mi vesto, vai a prendermi la casset-
ta, domani o dopo andrò forse a caccia quindi voglio prima esaminare
i fucili.»
«Li porterò giù subito.»
Appena la stanza fu un po’ in ordine, venne ad aiutare Joseph un
secondo cameriere.
Quando fu pronto, il marchese andò nello studio dove era atteso dal
signor Doublet, suo amministratore, e da uno scrivano.
«Ecco, signor marchese, l’atto che siamo venuti a leggervi» disse
l’amministratore, «c’è solo da firmare.»
«L’avete letto voi, signor Doublet?»
«Sì, signor marchese.»
«Allora, basta... ci metto la firma.»
Dopo la firma del marchese lo scrivano se ne andò.
«Con questo acquisto, signor marchese» disse il signor Dou-
blet con aria trionfante, «il vostro reddito in terreni belli e
buoni non è al di sotto di 126.000 franchi tondi, tondi. Sapete che
non è da tutti, signor marchese, avere un reddito in terre di
126.000 franchi?»
«Sono un uomo felice, vero signor Doublet? 126.000 franchi di
reddito in terre! non può esserci una felicità pari alla mia.»
«Senza contare il portafogli del signor marchese... senza
contare...»
«Certo, e senza contare... tante altre fortune!»
«Sia lodato Iddio, signor marchese, che a voi non manca niente:
giovinezza, ricchezza, bontà, salute... tutte le fortune messe
assieme, insomma; e fra le tante» disse il signor Doublet con un
gar-
bato sorriso, «anzi prima di tutte, metto quella di essere lo sposo
della signora marchesa e di avere una bambina deliziosa come un
cherubino.»
Il signor d’Harville gettò uno sguardo feroce sull’amministratore.
Impossibile descrivere l’espressione di selvaggia ironia con cui
egli disse al signor Doublet, battendogli familiarmente sulla
spalla:
«Con 126.000 franchi di rendita in terreni e una moglie come la
mia... e una bambina che assomiglia a un cherubino... non c’è più
niente che possa desiderare, vero?»
«Eh, eh, signor marchese» rispose ingenuamente l’amministratore,
«c’è da desiderare di vivere il più a lungo possibile, per maritare
la signorina vostra figlia e diventare nonno. Poter diventare nonno
è la cosa che io auguro al signor marchese e alla signora marchesa
nonna e poi bisnonna.»
«Bravo il mio buon Doublet, che pensa a Filemone e Bauci. Ha sempre
la parola pronta, lui.»
«Il signor marchese è troppo buono. Avete altro da ordinarmi?»
«Nient’altro! Ah, sì invece. Quanto avete in cassa?»
«19.300 e rotti per la normale amministrazione, oltre al denaro
depositato in banca.»
«In mattinata dovete portarmi 10.000 franchi in oro, e consegnateli
a Joseph, se io non ci sono.»
«In mattinata?»
«Sì, in mattinata.»
«Fra un’ora i soldi saranno qui. Il signor marchese non ha
nient’altro da dirmi?»
«No, signor Doublet.»
«126.000 franchi di rendita tondi tondi!» ripeté l’amministra-
tore andandosene. «Questo è un bel giorno per me; avevo così paura
che ci sfuggisse una fattoria come questa, che fa al caso nostro!...
Servo vostro, signor marchese.»
«Arrivederci, signor Doublet.»
Appena l’amministratore fu uscito, il signor d’Harville si lasciò
cadere su una poltrona; appoggiò i gomiti sullo scrittoio e si prese
la testa tra le mani.
Era la prima volta, questa, da quando aveva ricevuto la fatale
lettera di Sarah, che poteva piangere.
«Oh» diceva, «crudele ironia del destino che m’ha fatto ricco!...
Cosa mettere ora in questa cornice d’oro? La mia vergogna,
l’infamia di Clémence!... infamia che, se farò uno scandalo, non
risparmierà forse neppure mia figlia... Questo scandalo... devo
decidermi a farlo, oppure devo aver pietà di...»
Poi si alzò con l’occhio lucido, strinse nervosamente i denti e
gridò con voce sorda:
«No, no! sangue, sangue! solo il tragico può salvare dal ridicolo!
Adesso capisco la sua ripugnanza;... che meschina!».
Ma a un tratto si fermò come colpito da un pensiero improvviso, per
riprendere poi con voce sorda:
«La sua ripugnanza... oh, so bene da che cosa deriva: le faccio
orrore, paura!».
E dopo un lungo silenzio:
«Ma è colpa mia? Deve ingannarmi per ciò? Non odio, ma pietà io
merito!» riprese animandosi sempre di più. «No, no, sangue!... tutti
e due, tutti e due!... giacché ella avrà sicuramente detto ogni cosa
all’ALTRO.»
A questo pensiero, il marchese s’infuriò ancora di più. Strinse i
pugni e li alzò al cielo; poi si passò sugli occhi una mano che era
di fuoco, ma costretto dalla servitù a mostrarsi calmo, atteggiò il
volto ad apparente tranquillità e ritornò nella sua camera da letto:
vi trovò Joseph.
«E allora, i fucili?»
«Eccoli, signor marchese: sono in uno stato perfetto.» «Adesso vedrò
io. Mia moglie ha suonato?»
«Non so, signor marchese.»
«Vai a informarti.»
Il cameriere uscì.
Subito il signor d’Harville tirò fuori dalla cassetta dei fucili una
fiaschetta di polvere, alcune pallottole e qualche capsula; poi
richiuse la cassetta e si tenne la chiave. S’avvicinò quindi alla
panoplia, prese un paio di pistole di Manton di media grandezza, le
caricò, e se le fece scivolare nelle tasche del lungo soprabito da
mattina.
In quel momento Joseph rientrò.
«Signore, la signora marchesa è in piedi.»
«La signora d’Harville non ha chiesto la carrozza?»
«No, signor marchese; al cocchiere che era venuto a prendere
ordini per la mattina, la signorina Juliette ha detto in mia
presenza che la signora, siccome il tempo non era umido, sarebbe
uscita a piedi... sempre che dovesse uscire.»
«Benissimo. Ah, dimenticavo: a caccia andrò domani o dopodomani. Di’
a Williams che vada a dare un’occhiata in mattinata al piccolo
calesse verde; hai capito?»
«Sì, signor marchese. Volete il bastone da passeggio?»
«No. C’è un posteggio di carrozze pubbliche qui vicino?» «Sì,
vicinissimo, all’angolo della rue de Lille.»
Dopo un momento di esitazione e di silenzio, il marchese ri-
prese:
«Va’ a domandare alla signorina Juliette se si può vedere la si-
gnora d’Harville.» Joseph uscì.
«In fondo... è uno spettacolo come un altro. Sì, voglio andare da
lei e osservare la perfida maschera di smorfiosetta dietro la quale
l’infame nasconde il sogno dell’adulterio di poco dopo; ascolterò la
sua bocca bugiarda mentre leggerò il delitto nel suo cuore già
colpevole. Sì, è strano... vedere come vi guarda, vi parla e vi
risponde una donna che, poco dopo, coprirà il vostro nome di
ridicolo insozzandolo con macchie così orribili che ci vogliono
fiumi di sangue per lavarle. Pazzo che non sono altro! lei mi
guarderà come sempre, col sorriso sulle labbra e con un viso da
innocente! Mi guarderà come guarda sua figlia quando la bacia sulla
fronte e le dice di pregare Iddio. Lo sguardo... lo specchio
dell’anima (e alzò le spalle con disprezzo)! più è dolce e pudico e
più è falso e corrotto! Lei ne è una prova... e io ci sono cascato
come uno stupido. Che rabbia! chissà con che freddezza e con che
sprezzo insolente mi avrà guardato attraverso quel suo specchio
impostore, quando prima di andare a trovare l’altro... le davo
innumerevoli prove di stima e di affetto... le parlavo come a una
giovane madre casta e seria, in cui avevo riposto tutte le speranze
della mia vita. No! no!» gridò il signor d’Harville in preda a un
nuovo accesso di collera, «no! non la vedrò, non voglio vederla... e
nemmeno mia figlia... mi tradirei, comprometterei la mia vendetta.»
Uscito dalla sua stanza, anziché passare dalla signora d’Harville si
limitò a dire alla cameriera della marchesa:
«Riferirete alla signora d’Harville che stamattina avrei voluto
parlarle, ma adesso sono costretto a uscire un momento; se per caso
volesse pranzare con me, ditele che sarò di ritorno verso
mezzogiorno; altrimenti che non si preoccupi per me.»
«Se le faccio sapere che fra poco sarò di ritorno, ella si crederà
molto più libera» pensò il signor d’Harville. E andò al posteggio di
carrozze pubbliche vicino a casa sua.
«Vetturino, a ore!»
«Sì, signore, sono le undici e mezzo. Dove andiamo?»
«In rue de Belle-Chasse, all’angolo della rue Saint-Domini-
que, aspetterai sotto il muro di un giardino che si trova là...»
«Sì, signore.»
Il signor d’Harville abbassò le tendine. Dopo un po’ la carrozza
arrivò quasi dirimpetto alla casa del marchese. Da quel punto,
poteva vedere chiunque fosse uscito da casa sua.
L’appuntamento dato dalla moglie era per l’una; stette ad aspettare
con gli occhi ardentemente puntati sulla porta di casa sua.
Preso nel vortice di una collera paurosa gli sembrava che il tempo
scorresse con incredibile rapidità.
Suonava mezzogiorno a Saint-Thomas-d’Aquin, quando la porta del
palazzo d’Harville si aprì lentamente e la marchesa uscì. «Già!...
Ah, che delicatezza! Ha paura di far aspettare l’al-
tro!...» si disse il marchese con feroce ironia.
Il freddo era pungente, il selciato asciutto.
Clémence aveva un cappello nero, con sopra un velo di blonda
dello stesso colore, e un soprabito di seta color uva passa; un
immenso scialle di cachemire blu scuro le arrivava fino all’orlo
merlettato della gonna che con gesto garbato alzò leggermente prima
di attraversare la strada.
Così facendo, scoprì, fino alla caviglia, un piedino snello e ben
tornito, magnificamente calzato di uno stivaletto di raso turco.
Cosa strana nonostante le terribili idee che lo sconvolgevano, il
signor d’Harville sentì in quel momento che mai come allora il piede
di sua moglie gli era sembrato più bello e grazioso. Quella vista lo
esasperò; sentì sulla carne i morsi acuti della gelosia sensuale...
vide l’altro, in ginocchio, portare con ebbrezza alle labbra quel
piede grazioso. In un batter d’occhio tutte le ardenti follie
dell’amore, dell’amore appassionato, gli si presentarono alla mente
a caratteri di fuoco.
E allora, per la prima volta in vita sua, sentì al cuore un dolore
fisico terribile, una fitta intensa, lancinante, penetrante, che gli
strappò un grido sordo. Fino ad allora era stata la sua anima a
soffrire, perché fino ad allora aveva pensato solo al carattere
sacro dei doveri calpestati.
Quello che provò fu così crudele che fece fatica a non far sentire
il tremito nella voce quando, alzata un po’ la tendina, disse al
vetturino:
«Vedi quella signora con lo scialle blu e col cappello nero che
cammina rasente al muro?»
«Sì, signore.»
«Vai al passo, e seguila... Se va al posteggio delle carrozze
pubbliche dove sono salito io, fermati, e poi mettiti a seguire la
carrozza che prende.»
«Sì, signore... Bene, bene mi piace, c’è da divertirsi!»
Infatti la signora d’Harville era andata al posteggio ed era salita
in una carrozza.
Il vetturino del signor d’Harville si apprestò a seguirla. Le due
carrozze a un certo momento si mossero. Dopo un po’, il cocchiere
del marchese prese la strada della chiesa di Saint-Thomasd’Aquin, e
subito dopo vi si fermò.
«Ebbene! che fai?» disse il marchese, stupito.
«Signore, la donna è entrata in chiesa... Corbezzoli!... bella gamba
a ogni modo... Mi diverto moltissimo.»
Il signor d’Harville era agitato da mille pensieri contrastanti;
dapprima credette che sua moglie, accortasi di essere seguita,
avesse voluto far perdere le tracce. Poi pensò che la lettera
ricevuta potesse essere forse un’infame calunnia... Se era
colpevole, perché simulava una falsa devozione? Era una beffa
sacrilega!
Per un momento il signor d’Harville ebbe un barlume di speranza, al
considerare il gran contrasto che c’era fra quella falsa devozione e
la colpa di cui accusava la moglie.
Ma il conforto di quella illusione non durò molto. Il vetturino si
chinò per dirgli:
«Signore, la donna risale in carrozza».
«Seguila...»
«Sì, signore! Molto divertente! Molto divertente!...»
La carrozza passò i lungosenna, il Palazzo Municipale, la rue
Saint-Avoye e quindi arrivò nella rue du Temple.
«Signore» disse il vetturino, voltandosi verso il signor d’Har-
ville, «il collega si è fermato al n. 17, noi siamo al 13, dobbiamo
fermarci anche noi?»
«Sì!...»
«Signore, la donna è entrata nell’androne del n. 17.»
«Aprimi lo sportello.»
«Sì, signore...»
Qualche minuto dopo, il signor d’Harville penetrava nell’an-
drone in cui poco prima era entrata sua moglie.
XX
UN ANGELO
La signora d’Harville entrò nella casa.
Richiamati dalla curiosità, la signora Pipelet, Alfred e l’ostri-
caia si erano raggruppati sull’usciolo della portineria.
La scala era così buia che chi veniva dal di fuori non poteva
distinguerla; la marchesa, costretta a rivolgersi alla signora
Pipelet, le disse con voce alterata, quasi fioca:
«Il signor Charles... signora?»
«Il signor... chi?» ripeté la vecchia, fingendo di non aver capito,
per dare tempo al marito e all’ostricaia di osservare bene il volto
dell’infelice donna, coperto da un velo.
«Chiedo di... il signor Charles... signora» ripeté Clémence con voce
tremante e abbassando la testa per cercare di sottrarsi agli sguardi
che la fissavano con insolente curiosità.
«Ah, il signor Charles! Via... parlate così piano che non si
capisce... Ebbene, buona signora, dato che andate dal signor
Charles, bel giovanotto, perdiana... sempre dritto, la porta di
faccia.»
La marchesa, confusa, mise i piedi sul primo gradino.
«Eh, eh, eh» aggiunse la vecchia sogghignando, «pare che sia proprio
per oggi. Viva la baldoria! e via!»
«Questo non toglie che il comandante sia un amatore» riprese
l’ostricaia, «non è certo una mummia, la sua bella...»
Se non fosse stata costretta a ripassare davanti alla portineria in
cui c’era quel gruppo di persone, la signora d’Harville, che stava
morendo dalla vergogna e dallo spavento, sarebbe ridiscesa
all’istante. Fece un ultimo sforzo e arrivò sul pianerottolo.
Quale non fu il suo stupore!... Si trovò a faccia a faccia con
Rodolphe, il quale, mettendole in mano una borsa, le disse
precipitosamente:
«Vostro marito sa tutto e vi segue...»
In quel momento si sentì la voce aspra della signora Pipelet
gridare:
«Dove andate, signore?»
«È lui!» disse Rodolphe; e aggiunse rapidamente spingendo, per così
dire, la signora d’Harville verso la scala del secondo piano:
«Salite al quinto piano; siete venuta a soccorrere una famiglia di
disgraziati; si chiamano Morel!...»
«Signore, dovrete passare sul mio corpo se non mi dite, prima di
salire, dove andate!» gridò la signora Pipelet sbarrando il
passaggio al signor d’Harville.
Questi, avendo visto, da in fondo al viale, sua moglie parlare alla
portinaia, s’era fermato anche lui un momento. «Sono con la
signora... che è entrata poco fa» disse il marchese.
«Allora è un’altra cosa, passate pure.»
Avendo sentito uno strano rumore, il signor Charles Robert schiuse
un tantino la porta della stanza; Rodolphe entrò bruscamente dal
comandante e si chiuse dentro nel momento in cui il signor
d’Harville arrivava sul pianerottolo. Rodolphe, temendo, nonostante
l’oscurità, di poter essere riconosciuto dal marchese, aveva colto
questa insperata occasione per sfuggirgli.
Il signor Charles Robert, magnificamente vestito di una vestaglia da
camera a fioroni e con in testa un berretto alla greca di velluto
ricamato, rimase stupefatto alla vista di Rodolphe che, la sera
prima, all’ambasciata non aveva veduto e che in questo momento aveva
indosso abiti più che modesti.
«Signore, che significa?»
«Silenzio!» disse Rodolphe a voce bassa e con così grave espressione
di angoscia che il signor Charles Robert tacque.
Nel silenzio della scala si udì un rumore violento come di un corpo
che cade e ruzzola giù per parecchi gradini.
«Quel disgraziato l’ha uccisa!» esclamò Rodolphe.
«Uccisa!... chi? Ma cosa succede qui?» disse piano Charles Robert
impallidendo.
Rodolphe scostò un poco la porta senza rispondere. Vide Tortillard
che zoppiconi scendeva in fretta le scale: aveva in mano la borsa di
seta rossa che lui stesso aveva prima dato alla signora d’Harville.
Tortillard scomparve.
Si udirono i passi leggeri della signora d’Harville e quelli più
gravi del consorte che continuava a seguirla nei piani superiori.
Tranquillizzatosi un po’ pur non capendo come mai quella borsa fosse
giunta tra le mani di Tortillard, Rodolphe disse al signor Robert:
«Non muovetevi, siete stato sul punto di compromettere tutto...»
«Ma insomma» riprese il signor Robert stizzito e spazientito,
«volete dirmi che cosa significa tutto questo? Chi siete voi, e con
quale diritto?...»
«Significa, signore, che il signor d’Harville sa tutto, che ha
seguito la moglie fino alla vostra porta e che adesso la sta
seguendo là in alto.»
«Ah, Dio mio, Dio mio!» esclamò spaventato Charles Robert
congiungendo le mani. «Ma che cosa va a fare lassù?»
«Non vi interessa; non muovetevi finché la portinaia non vi avrà
avvertito.»
Lasciato il signor Robert tra stupito e spaventato, Rodolphe scese
in portineria.
«Ehi, sentite un po’» disse raggiante la signora Pipelet, «affari
seri, affari seri, c’è un signore che pedina la signora. Sarà
senz’altro il marito, il cornuto; ho intuito subito tutto, l’ho
fatto salire. Adesso si pesterà col comandante, la cosa farà molto
chiasso, faranno la coda per venire a vedere la casa come sono
andati al n. 36 dove era stato commesso un delitto.»
«Cara signora Pipelet, volete farmi un gran favore?» E Rodolphe mise
cinque luigi nella mano della portinaia. «Quando la Signora
scenderà... domandatele come vanno i poveri Morel; ditele che fa
un’opera buona ad aiutarli così come aveva promesso di fare quando è
venuta a prendere informazioni su di loro.»
La signora Pipelet guardava con stupore il denaro di Rodolphe.
«Come... signore, questo oro... è per me?... e la signora non è,
allora, nella stanza del comandante?»
«Il signore che la rincorre è il marito. Avvertita in tempo, la
povera donna è potuta andare dai Morel a cui finge di portare aiuti;
capite?»
«Se capisco! Devo aiutarvi a darla a bere al marito.
La cosa mi calza come un guanto!... Eh, eh, eh! pare quasi quasi che
non abbia fatto altro mestiere in vita mia... sentite!...»
A questo punto si vide nella penombra della portineria rizzarsi
bruscamente il cappello a rocchetto del signor Pipelet.
«Anastasie» disse gravemente Alfred, «non c’è niente sulla faccia
della terra che tu rispetti, sei come il signor César Bradamanti;
certe cose non si devono mai disprezzare, neppure quando si è nella
più deliziosa intimità...»
«Via, via, vecchio mio, non fare il pudico e gli occhi di bue... non
vedi che scherzo. Non sai forse che nessuno al mondo può vantarsi
di... Be’, basta... Sono gentile perché voglio accattivarmi il
nostro nuovo inquilino che è così buono.» Poi volgendosi a Rodolphe:
«Adesso mi vedrete lavorare!... volete restare là nell’angolo,
dietro la tenda?... Ecco, stanno arrivando.»
Rodolphe si nascose in fretta.
Il signore e la signora d’Harville stavano scendendo. Il marchese
dava il braccio alla moglie.
Quando giunsero dinanzi alla portineria, si poté vedere sul volto
del signor d’Harville una profonda felicità, mista a stupore e
confusione.
Clémence era pallida ma tranquilla.
«Ebbene, buona signora!...» disse la signora Pipelet uscendo dalla
portineria, «li avete visti quei poveri Morel? M’immagino che vi
avranno spezzato il cuore. Ah, Dio mio, la vostra è un’azione
buonissima... Ve l’avevo detto che erano terribilmente disgraziati
l’ultima volta, quando siete venuta a prendere informazioni! Siate
certa, signora, che non farete mai troppo per gente così onesta...
vero, Alfred?»
Alfred, la cui esagerata discrezione e la cui dirittura naturale si
rivoltavano all’idea d’entrare in un complotto anticoniugale,
rispose negativamente con un vago grugnito.
La signora Pipelet riprese:
«Alfred ha i suoi crampi al piloro, per questo non si fa capire;
altrimenti vi direbbe, anche lui, che quella povera gente pregherà
certamente il buon Dio per voi, buona signora.»
Il signor d’Harville guardava la moglie con ammirazione e ripeteva:
«Un angelo! un angelo! Oh, che calunnia!»
«Un angelo! avete ragione, signore, e per giunta un buon angelo di
Dio!»
«Andiamo mio caro» disse la signora d’Harville che soffriva
orribilmente per il riserbo forzato che s’era imposta non appena era
entrata in quella casa; si sentiva allo stremo delle forze.
«Andiamo» ripeté il marchese.
E uscendo dal portone le disse:
«Clémence, ho un gran bisogno di perdono e di pietà!...».
«E chi non ne ha bisogno?» rispose la giovane donna con un
sospiro.
Rodolphe uscì dal nascondiglio, profondamente turbato da
quella scena di terrore, carica di comicità e di volgarità,
scioglimento bizzarro d’un dramma misterioso che aveva destato tante
passioni contrastanti.
«Ebbene» disse la signora Pipelet, «mi pare di averlo corbellato per
benino, quel cornuto. Adesso metterà la moglie sotto una campana di
vetro... Pover’uomo... I vostri mobili, signor Rodolphe, non sono
ancora stati portati.»
«Me ne occuperò subito... Ora potete avvertire il comandante che può
scendere...»
«Va bene... Eh, che commedia!... a quanto pare, ha preso
l’appartamento per niente... Ben gli sta... per quei suoi luridi
dodici franchi al mese.»
Rodolphe uscì.
«Senti un po’, Alfred» disse la signora Pipelet, «è la volta del
comandante, ora... Adesso mi faccio qualche matta risata!»
E salì dal signor Charles Robert. Suonò; le fu aperto. «Comandante,»
e Anastasie si portò militarmente il dorso della mano alla parrucca,
«sono venuta a liberarvi... Moglie e marito sono partiti, una a
braccetto dell’altro in barba a voi e sotto il vostro naso. Non fa
niente, l’avete scampata bella... grazie al signor Rodolphe;
dovreste accendergli una candela come a un santo!...»
«Chi è il signor Rodolphe, quel tipo sottile con i baffetti?» «In
persona.»
«Chi è quell’uomo?»
«Quell’uomo...» rispose corrucciata la signora Pipelet, «vale
quanto un altro, anzi altri due! È un commesso viaggiatore, nostro
inquilino, che ha una sola stanza e che non lesina, lui... mi ha
dato sei franchi perché gli sbrighi le faccende; sei franchi e
subito... anche! sei franchi senza fiatare.»
«Bene... bene... tenete, ecco la chiave.»
«Dobbiamo fare fuoco per domani, comandante?»
«No!»
«E per dopodomani?»
«No! no!»
«Ehi, comandante, vi ricordate? Ve l’avevo detto che sareste
rimasto a bocca asciutta».
Il signor Charles Robert gettò una sguardo sprezzante sulla
portinaia e uscì senza essere riuscito a capire come mai un commesso
viaggiatore fosse stato a conoscenza dell’appuntamento che aveva con
la marchesa d’Harville.
Uscendo, incontrò nell’androne Tortillard che veniva avanti
zoppiconi.
«Sei qui, bel mobile» gli disse la signora Pipelet.
«È venuta a cercarmi la guercia?» domandò il ragazzo alla portinaia,
invece di rispondere.
«La Chouette? no, brutto schifoso. Perché poi dovrebbe venire a
cercarti?»
«To’, per portarmi in campagna» rispose Tortillard dondolandosi
sulla porta della portineria.
«E il tuo padrone?»
«Mio padre ha chiesto al signor Bradamanti di lasciarmi libero per
quest’oggi... per andare in campagna... in campagna... campagna...»
salmodiò il figlio di Bras-Rouge canticchiando e tamburellando sui
vetri della portineria.
«Vuoi finirla, disgraziato?... mi rompi i vetri! Ah, ecco una
carrozza.»
«Ah, bene! È la Chouette» disse il ragazzo; «che bellezza viaggiare
in carrozza!»
Infatti, attraverso il finestrino, si vide disegnarsi, sullo sfondo
rosso della tendina opposta, il profilo glabro e terreo della
guercia.
Fece un cenno a Tortillard e questi accorse.
Il vetturino gli aprì lo sportello ed egli salì nella carrozza. La
Chouette non era sola.
Nell’altro canto della carrozza, avvolto in un vecchio pastra-
no con il collo foderato di pelo, con il volto mezzo nascosto da un
berretto di seta nero calato sopra gli occhi... c’era il Maître
d’école.
Le palpebre rosse lasciavano intravedere, diciamo così, due occhi
bianchi, immobili, senza pupille, che rendevano ancora più
spaventoso quel suo viso imbastito che il freddo venava di livide e
violacee cicatrici.
«Forza, marmocchio, coricati sopra i piedi del mio uomo, così glieli
terrai caldi» disse la guercia a Tortillard che s’accovacciò tra le
gambe del Maître d’école e quelle della Chouette.
«E ora» disse il vetturino, «dritti alla fattoria di Bouqueval!
vero, Chouette? Vedrai se so portare o no una carrozza.»
«E soprattutto lancia il cavallo» disse il Maître d’école. «Stai
tranquillo, orbo mio, correrà fino alla scorciatoia.» «Vuoi che ti
dia un consiglio?» disse il Maître d’école. «Quale?» rispose il
vetturino.
«Vola quando passi davanti agli agenti della barriera; potrebbero
riconoscerti, per molto tempo hai ronzato nei pressi delle
barriere.»
«Terrò gli occhi aperti» rispose l’altro salendo a cassetta.
Abbiamo riportato questo dialogo per dimostrare che il vetturino
improvvisato era un brigante, un degno compagno quindi del Maître
d’école.
La carrozza partì dalla rue du Temple,
Due ore dopo, verso il calar della notte, la carrozza che portava il
Maître d’école, la Chouette e Tortillard si fermò davanti a una
croce di legno vicino alla quale si dipanava una strada bassa e
deserta che portava alla fattoria di Bouqueval, dove la Goualeuse si
trovava sotto la protezione della signora Georges.
XXI L’IDILLIO
Suonavano le cinque alla chiesa del paesello di Bouqueval; il freddo
era tagliente, il cielo chiaro; il sole calava lentamente dietro i
grandi boschi spogli che fanno da corona alle alture di Ecouen,
tingendo di porpora l’orizzonte e gettando raggi pallidi e obliqui
sulle vaste pianure invetrate dal gelo.
Sempre, in ogni stagione, i campi hanno qualche aspetto che incanta.
Una volta è l’abbagliante neve a cambiare la campagna in immensi
paesaggi d’alabastro che spiegano i loro immacolati splendori sotto
un cielo grigio rosa.
Allora il fittavolo solitario, scalato il colle o percorsa la valle,
rientra e certe volte è già l’imbrunire: cavallo, mantello,
cappello, tutto è coperto di neve; aspro è il freddo, glaciale è la
tramontana, cupa è la notte che avanza; ma laggiù, laggiù, fra gli
alberi nudi, le finestrelle della fattoria sono allegramente
illuminate; l’alto camino di mattoni innalza al cielo una grossa
colonna di fumo che dice al fittavolo che lo si sta aspettando:
fuoco scoppiettante, parca cena; poi, dopo le chiacchiere della
veglia, notte calda e tranquilla mentre fuori il vento impazza e i
cani delle fattorie sparse per la pianura abbaiano e si rispondono
da lontano.
Un’altra volta è la brina a sospendere agli alberi le sue girandole
di cristallo che scintillano al sole d’inverno con i riflessi
adamantini del prisma; il terreno arativo umido e grasso è segnato
da lunghi solchi dove ripara la fulva lepre e dove corrono
allegramente le grigie pernici.
Di tanto in tanto si sente il tintinnare monotono della campanella
dell’ariete più grosso di un grande gregge di montoni arrampicati
qua e là su per i pendii verdi ed erbosi delle strade incassate;
mentre, ben avvolto nella sua mantella grigia a strisce nere, il
pastore, seduto ai piedi di un albero, intreccia un paniere di
vimini e canta.
Alle volte la scena si anima: l’eco rimanda, attutiti, il suono del
corno e le grida della muta; un daino spaventato esce a un tratto
dal limite della foresta, balza nella pianura fuggendo atterrito e
va a perdersi all’orizzonte in mezzo ad altri boschi.
Le trombe e l’abbaiare si avvicinano; cani bianchi e arancione
escono a loro volta dalla fustaia; corrono sulla terra bruna,
corrono sugli incolti maggesi; col naso incollato sulla pista,
seguono, gridando, le tracce del daino. Dietro a essi vengono i
cacciato-
ri, vestiti di rosso, curvi sul collo dei loro veloci cavalli,
incitando con grande strepito la muta! Un fragoroso turbinio che
passa come un fulmine; il rumore scema e a poco a poco tutto rientra
nel silenzio; cani, cavalli, cacciatori spariscono lontano nel bosco
dove s’è rifugiato il daino.
Allora risorge la calma, allora il profondo silenzio delle grandi
pianure, la pace dei grandi orizzonti sono rotti solo dal canto
monotono del pastore.
Scene e siti campestri di questo genere abbondavano nei dintorni del
paese di Bouqueval, situato, nonostante non fosse molto lontano da
Parigi, in una specie di deserto a cui si poteva arrivare solo
attraverso scorciatoie.
Nascosta, d’estate, in mezzo agli alberi, come un nido tra le
foglie, la fattoria dove s’era ritirata la Goualeuse appariva
allora, mancandole questa cortina di verde, nuda e cruda.
Il ruscello, ghiacciato per il freddo, sembrava un nastro d’argento
srotolato alla bell’e meglio in mezzo ai prati, dove, dirigendosi
lentamente verso la stalla, stavano pascolando le belle mucche. Al
richiamo dell’imminente sera, stormi di colombi calavano uno dopo
l’altro sulla cima aguzza della colombaia; i noci immensi che,
d’estate, riparavano con la loro ombra il cortile e i fabbricati
della fattoria, e che adesso erano senza foglie, mettevano a nudo i
tetti di tegole e di paglia, resi vellutati da muschio color
smeraldo.
Una carretta carica, trainata da tre cavalli robusti, tozzi, dalla
folta criniera, dal mantello lucido, con collari blu muniti di
campani e di fiocchi di lana rossa, portava covoni di grano che
provenivano da una delle biche della campagna. La carretta giungeva
in cortile passando per una porta carraia, mentre un numeroso gregge
di montoni s’accalcava a una delle entrate laterali.
Uomini e bestie non vedevano l’ora di essere al riparo dal freddo
della notte e di gustare il ristoro del sonno; i cavalli avevano
nitrito allegramente alla vista della scuderia, i montoni avevano
belato mentre stavano ad assediare il caldo ovile, i coltivatori
avevano gettato un’occhiata affamata attraverso le finestre della
cucina del pianterreno, dove si stava preparando una cena
pantagruelica.
Nella fattoria regnavano un ordine insolito, grandissimo, una
pulizia scrupolosa, straordinaria.
Invece di essere coperti di fango secco, buttati qua e là ed esposti
alle intemperie delle stagioni, gli erpici, gli aratri, i rulli e
gli altri attrezzi aratori, alcuni dei quali erano di recente inven-
zione, stavano allineati, puliti e verniciati sotto una grande
tettoia dove i carrettieri andavano a sistemare anche i finimenti
dei loro cavalli; vasto, pulito, alberato con gusto, cosparso di
sabbia, il cortile non aveva quei mucchi di letame, quelle pozze
d’acqua stagnante che deturpano le più belle tenute della Beauce e
della Brie; il pollaio, chiuso da una rete metallica verde, riparava
e accoglieva tutta la razza pennuta che, la sera, rientrava passando
attraverso una porticina che apriva sui campi.
Senza insistere troppo sui particolari, diremo che a ragione la
fattoria passava nel paese per essere una fattoria modello in tutto
e per tutto, fatto che si doveva attribuire sia all’ordine
instaurato, al prestigio della coltivazione e alla bontà dei
raccolti, sia alla felice situazione e alla moralità del numeroso
personale che lavorava quelle terre.
Fra poco diremo i motivi di questa fortunata superiorità; intanto
condurremo il lettore davanti alla porticina a graticcio del pollaio
che, con la rustica eleganza dei suoi posatoi, delle sue stie e del
suo canaletto incassato fra sassi di roccia dove incessantemente
scorreva un’acqua fresca e limpida, accuratamente sgombrata
d’inverno dai ghiaccioli che potevano ostruirne il corso, non era da
meno della fattoria.
D’improvviso fra gli alati abitanti del pollaio fu come la
rivoluzione: le galline scesero dai posatoi schiamazzando, i
tacchini gorgogliarono, le faraone squittirono, i colombi
abbandonarono il cocuzzolo della colombaia e piombarono sulla sabbia
tubando.
L’arrivo di Fleur-de-Marie era la causa di tutta questa frenetica
gioia.
Greuze o Watteau non avrebbero potuto mai immaginare un modello più
incantevole, se le guance della povera Goualeuse fossero state più
piene e più vermiglie; eppure, nonostante il pallore, nonostante
l’ovale affilato del volto, l’espressione del suo viso, l’insieme
della sua persona, la grazia delle sue attitudini sarebbero stati
ancora degni di mettere alla prova il pennello dei grandi pittori
nominati.
La cuffietta rotonda di Fleur-de-Marie le lasciava libere la fronte
e le bande di capelli biondi; come quasi tutte le contadine dei
dintorni di Parigi, sopra la cuffia di cui si vedevano sempre il
cocuzzolo e le frange, portava schiacciato, e tenuto, dietro la
testa, da due spilli, un largo fazzoletto d’indiana rossa le cui
estremità svolazzanti le ricadevano disinvoltamente sulle spalle;
copricapo delizioso e pittoresco che la Svizzera e l’Italia
dovrebbero invidiarci.
Uno scialletto di batista bianca, incrociato sul petto, era mezzo
nascosto dalla pettorina lunga e larga del suo grembiale di tela
bigia; un corpino di panno blu con maniche strette le disegnava la
vita fine e spiccava sulla grossa gonna di fustagno grigio a strisce
scure; un paio di calze bianchissime e un paio di scarpe con coturni
nascoste dentro a zoccoletti neri, con sul collo del piede un
quadrato di pelle d’agnello, completavano questo costume di rustica
semplicità a cui il fascino naturale di Fleur-de-Marie conferiva una
grazia straordinaria.
Dal grembiale che teneva alzato con una mano per i due angoli,
attingeva il grano a manciate e lo distribuiva alla moltitudine
alata da cui era circondata.
Un bel colombo di bianchezza argentata, con becco e piedi di
porpora, più audace e più cordiale dei compagni, dopo aver
volteggiato per un po’ attorno a Fleur-de-Marie, le si posò alla
fine sulla spalla.
La ragazza, per niente nuova a maniere poco complimentose, non cessò
di gettare il grano a larghe mani; anzi, volgendo il dolce viso dal
profilo incantevole, alzò un po’ la testa e porse sorridendo le
rosee labbra al roseo beccuccio dell’amico.
Gli ultimi raggi del sole morente gettavano un pallido riflesso
d’oro sulla semplice scena.
XXII
LE INQUIETUDINI
Mentre la Goualeuse era intenta a queste occupazioni di campagna, la
signora Georges e il padre Laporte, parroco di Bouqueval, seduti
accanto al fuoco nel salottino della fattoria, parlavano di
Fleur-de-Marie, che era sempre al centro delle loro conversazioni.
Il vecchio parroco, pensoso, raccolto, con la testa bassa e i gomiti
appoggiati sopra le ginocchia, si riscaldava le mani tremanti
stendendole con movimento meccanico verso il fuoco del camino.
La signora Georges, intenta a un lavoro di cucito, guardava di tanto
in tanto il parroco da cui sembrava aspettare una risposta.
Dopo un momento di silenzio:
«Avete ragione, signora Georges, bisognerà avvertire Rodolphe; se
verrà interrogata, Marie è così riconoscente con lui, il suo
benefattore, che forse gli confesserà ciò che tiene nascosto a
noi...»
«Non è vero, signor parroco? quindi stasera stessa gli scriverò
all’indirizzo che m’ha dato, des Veuves...»
«Povera figliola!» riprese il parroco; «dovrebbe sentirsi così
felice. Da quale pena può essere afflitta ora come ora?»
«Niente può distorglierla da quella tristezza, signor parroco...
neppure l’applicazione che mette nello studio...»
«Ha fatto progressi veramente straordinari nel po’ di tempo che ci
occupiamo della sua educazione.»
«Vero, signor parroco? Imparare a leggere e a scrivere quasi
correntemente e sapere far di conto tanto da potermi aiutare a
tenere la contabilità della fattoria! E poi la cara bambina mi
obbedisce così prontamente in tutto e per tutto che mi commuove e mi
stupisce insieme. Non si è forse, quasi mio malgrado, stancata tanto
da mettermi in pensiero per la sua salute?»
«Meno male che il medico negro ci ha tranquillizzati circa le
conseguenze di quella tosse leggera che ci faceva paura.»
«È così buono quel signor David! si è così interessato a lei! Dio
mio, come tutti quelli che la conoscono. Qui tutti le vogliono bene
e la rispettano. Non c’è da stupirsi, dal momento che, date le
nobili e magnanime concezioni del signor Rodolphe, quelli che
lavorano alla fattoria sono il fior fiore della gente del paese. Ma
anche gli esseri più rozzi e più apatici subirebbero il fascino di
quella dolcezza angelica e timida che sembra chiedere sempre pietà.
Sventurata fanciulla, come se fosse lei la colpevole!»
Dopo essere stato per un po’ meditabondo, il prete riprese:
«Non m’avete detto che la tristezza di Marie risaliva per così dire
al periodo in cui la signora Dubreuil, fittavola del signor duca di
Lucenay ad Arnouville, è venuta qui per la festa d’Ognissanti?»
«Sì, signor parroco, mi pare d’averlo notato, eppure la signora
Dubreuil, e specialmente sua figlia Claire, modello di candore e di
bontà, hanno subìto come tutti il fascino di Marie; tutte e due le
danno giornalmente un mucchio di prove d’amicizia; dovete sapere che
la domenica i nostri amici d’Arnouville vengono da noi oppure noi
andiamo da loro. Orbene sembra quasi che la nostra cara fanciulla, a
ogni visita, s’immelanconisca sempre di più, nonostante Claire le
voglia già bene come a una sorella.»
«In verità, signora Georges, si tratta di uno strano mistero. Quale
sarà la causa di questa pena occulta? Ella dovrebbe sentirsi felice!
Tra la sua vita presente e quella passata c’è la stessa differenza
che passa tra l’inferno e il paradiso. Non si potrebbe accusarla
d’ingratitudine.»
«Lei! santo Dio!... lei... così amabilmente riconoscente per le
premure di cui la circondiamo! lei che ha sempre mostrato
un’istintiva delicatezza così straordinaria! Che cosa non fa la
povera ragazza per guadagnarsi, diciamo così, la vita! non cerca
forse di ripagare con tutto quello che fa l’ospitalità che le viene
data? E non basta; eccettuata la domenica, in cui esigo che si vesta
con un po’ di cura per venire in chiesa con me, ha deciso di portare
vestiti semplici come quelli delle ragazze di campagna e,
ciononostante, ci sono in lei una distinzione, una grazia così
naturali che neanche con tali vestiti cessa d’essere incantevole,
vero signor parroco?»
«Ah, com’è facile riconoscere in ciò l’orgoglio materno!» disse il
vecchio prete sorridendo.
A quelle parole gli occhi della signora Georges si riempirono di
lacrime: pensava al figlio.
Il prete, indovinata la causa di quell’emozione, le disse:
«Coraggio! Dio v’ha mandato questa povera figliola per aiutarvi ad
aspettare il momento in cui ritroverete vostro figlio. E poi un
sacro vincolo vi legherà presto a Marie: una madrina, quando ha
capito bene la sua missione, è come una madre. Rodolphe, dal canto
suo le ha dato, per così dire, la vita dell’anima traendola
dall’abisso... ha compiuto in anticipo i suoi doveri di padrino».
«Non trovate che sia ormai pronta a ricevere quel sacramento che
certamente non ha ancora ricevuto?»
«Fra poco, quando ritornerò con lei alla casa parrocchiale,
l’avvertirò che la cerimonia avrà luogo probabilmente fra quindici
giorni.»
«Forse, signor parroco, celebrerete un giorno un’altra cerimonia
altrettanto bella e importante...»
«Che cosa volete dire?»
«Perché, essendo amata quanto merita e avendo scelto un uomo bravo e
onesto, Marie non dovrebbe sposarsi?»
Il prete scosse tristemente la testa e rispose:
«Sposarla! Non pensate, signora Georges, che la realtà delle cose ci
costringerà a dire tutto a chi volesse sposare Marie... E quale
uomo, pur garantendo noi due per lei, affronterebbe il passato che
ha insozzato i giovani anni di questa sventurata fanciulla! Nessuno
vorrebbe saperne di lei».
«Ma il signor Rodolphe è così generoso! Farebbe per la sua protetta
più di quanto non abbia fatto fino ad ora... Una dote...»
«Ahimè!» disse il prete interrompendo la signora Georges, «guai a
Marie se chi dovrà sposarla metterà a tacere gli scrupo-
li per sola cupidigia! Le toccherebbe il destino più tormentoso:
subito dopo una tale unione verrebbero le crudeli recriminazioni.»
«Avete ragione, signor parroco, sarebbe una cosa orribile. Ah, che
brutto destino le è stato riservato!»
«Ha grandi colpe da espiare» disse gravemente il prete.
«Dio mio, signor parroco, lasciata in balìa di se stessa tanto
giovane, senza mezzi, senza appoggi, senza possedere quasi la
nozione del bene e del male, spinta, suo malgrado, sulla strada del
vizio, come poteva non cedere?»
«Avrebbe dovuto essere sorretta e illuminata da un certo buon senso
morale; e poi ha cercato di sfuggire al suo orribile destino? Sono
dunque così poche a Parigi le anime caritatevoli?»
«No, certo; ma dove cercarle? Prima di scoprirne una, chissà quanti
rifiuti, quanta indifferenza! E poi, per Marie, non si trattava di
una elemosina passeggera, ma di un aiuto continuo che la mettesse in
grado di guadagnarsi onorevolmente la vita... Certo, molte madri
avrebbero avuto pietà di lei, ma bisognava avere la fortuna di
incontrarle. Ah, credetemi, io so cos’è la miseria... A meno di un
caso miracoloso simile a quello che, ahimè troppo tardi, ha portato
Rodolphe a conoscere Marie; a meno, dico di uno di questi casi, gli
infelici, le cui richieste vengono quasi sempre brutalmente respinte
subito, finiscono col credere che la pietà è qualcosa d’introvabile,
e incalzati dalla fame... dalla fame così imperiosa finiscono col
buttarsi spesso nel vizio per cercare gli aiuti che non sperano di
ottenere dalla compassione.»
In quel momento la Goualeuse entrò nel salotto.
«Da dove venite, figliola?» le chiese premurosa la signora Georges.
«Dal frutteto, signora, dopo essere stata al pollaio e averne chiuso
le porticine. I frutti sono conservati molto bene salvo qualcuno che
ho levato.»
«Perché, Marie, non avete detto a Claudine di fare questo lavoro? Vi
sarete stancata ancora.»
«No, no, signora, mi piace tanto il mio frutteto, il profumo dei
frutti maturi è così buono!»
«Un giorno, signor parroco, dovreste visitare il frutteto di Marie»
disse la signora Georges. «Non vi immaginate neanche con quanto buon
gusto l’ha sistemato: ogni specie di frutti è separata da un festone
di vite e i frutti a loro volta sono divisi in scompartimenti
bordati di muschio.»
«Oh, signor parroco, sono sicura che sarete contento» disse
ingenuamente la Goualeuse. «Vedrete che bell’effetto fa il muschio
attorno alle mele rosse, alle belle pere color oro. Ci sono
soprattutto le mele appiole che sono così carine, che hanno certi
colori bianchi e rosa così graziosi che sembrano testoline di
cherubini in un nido di muschio verde» aggiunse la ragazza con
l’esaltazione di un artista per la propria opera.
Il parroco guardò sorridendo la signora Georges e disse a
Fleur-de-Marie:
«Ho già visto e ammirato la cascina a cui voi figliola
sovrintendete; anche l’amministratrice più severa ne avrebbe
invidia; uno di questi giorni andrò ad ammirare il vostro frutteto,
le belle mele rosse, le belle pere color oro e sopratutto le piccole
mele-cherubino nel loro letto di muschio. Ma ecco che fra poco il
sole tramonterà, avrete appena il tempo di condurmi alla casa
parrocchiale e di ritornare qui prima di notte... Prendete,
figliola, la vostra mantellina e partiamo... Ma adesso che ci penso,
il freddo è veramente troppo pungente; restate pure, mi farò
accompagnare da qualcuno della fattoria.»
«Ah, signor parroco, la rendereste infelice» disse la signora
Georges, «è tanto contenta di potervi riaccompagnare così ogni
sera!»
«Signor parroco» aggiunse la Goualeuse alzando verso il prete i
timidi e grandi occhi blu, «potrei pensare che non siete contento di
me, se non mi permetteste di accompagnarvi come faccio di solito.»
«Io? figliola... presto, presto, prendetevi allora la mantellina e
copritevi per bene.»
Fleur-de-Marie si buttò in fretta sulle spalle una specie di
pelliccia con un cappuccio di grosso panno di lana biancastra
bordato da un nastro di velluto nero e offrì il braccio al prete.
«Meno male» disse questi, «che la strada è tutt’altro che piena di
pericoli...»
«Siccome oggi è un po’ più tardi degli altri giorni» riprese la
signora Georges, «volete, Marie, che qualcuno della fattoria venga
con voi?»
«Mi crederebbero una paurosa...» rispose Marie sorridendo; «non c’è
neanche un quarto d’ora di strada da qui alla casa parrocchiale,
sarò di ritorno prima di notte.»
«Non insisto, perché mai, grazie a Dio, si è sentito parlare di
vagabondi nel paese.»
«Altrimenti non accetterei il braccio di questa cara figliola» disse
il prete, «nonostante esso mi sia di grande aiuto.»
Il prete se ne andò subito dalla fattoria appoggiandosi al braccio
di Fleur-de-Marie che regolava il proprio passo leggero
sull’incedere lento e faticoso del vecchio.
Dopo un po’ il prete e la Goualeuse arrivarono nei pressi della
strada incassata dove erano imboscati il Maître d’école, la Chouette
e Tortillard.
PARTE TERZA
I L’AGGUATO
La chiesa e la casa parrocchiale di Bouqueval sorgevano a mezza
costa in un castagneto, da cui si dominava il paese.
Fleur-de-Marie e il prete presero un sentiero tortuoso che portava
alla casa parrocchiale, attraversando la strada bassa che tagliava
diagonalmente la collina.
La Chouette, il Maître e Tortillard, nascosti in un’anfrattuosità di
questa strada, videro il prete e Fleur-de-Marie scendere nel burrone
e uscirne per una salita alquanto ripida. Il volto della ragazza era
nascosto sotto il cappuccio della mantellina, così che la vecchia
non riconobbe quella che era stata la sua vittima.
«Zitto, compare!» disse la vecchia al Maître, «la ragazzetta e il
prete hanno appena passato la strada incassata; stando alla
descrizione che ci ha dato il signore in lutto, si tratta proprio di
lei: vestito da contadina, statura media, sottana a righe scure,
mantellina di lana con il bordo nero. Accompagna tutti i giorni il
prete alla sua casetta e poi torna indietro sola. Quando, al
ritorno, giungerà in fondo alla strada, bisognerà saltarle addosso,
prenderla e portarla nella carrozza.»
«E se chiama aiuto?» rispose il Maître, «la sentiranno dalla
fattoria dal momento che, come avete detto, da qui se ne vedono i
fabbricati, perché avete occhi buoni... voi altri» aggiunse con voce
sorda.
«Certo che i fabbricati sono molto vicini» disse Tortillard. «Un
momento fa mi sono arrampicato fino in cima al pendio strisciando
sul ventre. Ho sentito un carrettiere che parlava ai cavalli in quel
cortile laggiù.»
«Allora ecco quello che dobbiamo fare» riprese il Maître d’école
dopo un momento di silenzio: «Tortillard starà di guardia all’inizio
del sentiero. Quando vedrà spuntare da lontano la piccola, le andrà
incontro gridando che è figlio di una povera vecchia che si è fatta
male cadendo nella strada bassa e supplicherà la ragazza di
aiutarlo.»
«Ho capito, furfante. La povera vecchia sarà la Chouette. Ottima
idea. Vecchio mio, hai sempre una gran testa, tu! E dopo, che cosa
faccio?»
«Ti imboscherai per bene nella strada bassa dalla parte dove
Barbillon aspetta con la carrozza... io mi nasconderò vicino. Quando
Tortillard ti avrà portato la piccola in mezzo al burrone, non
piangere più, piombale addosso, con una mano afferrale il collo e
con l’altra tappale la bocca per impedirle di gridare...»
«Lo so, furfante... come per la donna del canale Saint-Martin,
quando l’abbiamo fatta annegare dopo averle rubato la negresse1 che
portava sotto il braccio; lo stesso scherzetto, vero?»
«Sì, sempre lo stesso... Mentre tu terrai ferma la piccola,
Tortillard correrà da me; tutti e tre insieme avvolgiamo la ragazza
nel mio mantello, la portiamo nella carrozza di Barbillon e di lì
via alla spianata di Saint-Denis, dove ci aspetta l’uomo in lutto.»
«Questa sì che è una cosa ben fatta! Senti, per me, sei unico. Se
potessi, ti farei scoppiare un fuoco d’artificio sulla testa e ti
illuminerei come i vetri colorati della festa di Saint Charlot,
patrono dei boia. Ascolta un po’ queste cose, marmocchio, se vuoi
diventare un bravo criminale, impara da lui che è una gran testa;
questo è un uomo!...» disse orgogliosamente la Chouette a
Tortillard.
Poi rivolgendosi al Maître d’école:
«A proposito, tu non sai: Barbillon ha una paura matta di essere
condannato a morte.»
«Perché?»
«Tempo fa ha ucciso in una lite il marito di una lattaia che ogni
mattina veniva dalla campagna in un carrettino tirato da un asino,
per vendere latte nella Cité, all’angolo della rue de la
VieilleDraperie vicino alla bettola del Lapin Blanc.»
Il figlio di Bras-Rouge, non capendo il loro gergo, ascoltava la
Chouette con una specie di curiosità delusa.
«Ti piacerebbe, eh, marmocchio, sapere quello che diciamo!»
«Caspita! mi piacerebbe sì...»
«Se farai il bravo, ti insegnerò il nostro gergo. Presto avrai l’età
in cui potrà servirti. Sei contento, bello?»
«Lo credo bene! E poi mi piacerebbe restare con voi piutto-
sto che con quel vecchio mascalzone di ciarlatano a pestare le sue
droghe e a strigliare il suo cavallo. Se sapessi dove nasconde quel
suo veleno per gli uomini, gliene metterei un po’ nella minestra per
non essere più costretto a faticare per lui.»
1 Negresse: cassettina ricoperta di tela cerata nera.
La Chouette scoppiò a ridere e disse al Tortillard attirandolo a sé:
«Vieni subito a dare un bacetto alla mamma, tesoruccio. Come sei
carino...! Ma come fai a sapere che il tuo padrone ha un veleno per
gli uomini?».
«Be’! gliel’ho sentito dire un giorno che ero nascosto nel
ripostiglio scuro della stanza dove mette le bottiglie, le macchine
d’acciaio e dove armeggia con i vasetti...»
«Che cosa gli hai sentito dire?»
«L’ho sentito dire a un signore mentre gli dava un po’ di polvere in
una carta: “Basta prenderla tre volte per andare a riposare sotto
terra... senza che si sappia come e perché e senza che resti alcuna
traccia...”»
«E chi era questo signore?» domandò il Maître.
«Un uomo giovane e bello che aveva baffi neri e un viso grazioso
come quello di una signora... È ritornato un’altra volta; ma questa
volta, quando se n’è andato, l’ho seguito per ordine del signor
Bradamanti per sapere dove alloggiava. Il signore è entrato in una
bella casa di rue de Chaillot. Il padrone mi aveva detto: “Segui
quel signore dovunque vada e aspettalo alla porta; se esce, continua
a seguirlo finché non esce più da dove è entrato, questo proverà che
egli abita lì; allora, mio caro Tortillard, fatti in quattro per
saperne il nome... se no, io, ti torcerò ben bene le orecchie”.»
«Ebbene?»
«Ebbene! mi sono fatto in quattro e ho saputo il nome del bel
signore.»
«E come hai fatto?» domandò il Maître d’école.
«Be’... non sono mica scemo io, sono andato dal portiere della casa
di rue de Chaillot, da dove il signore non usciva più; un portiere
incipriato con addosso un bel vestito scuro gallonato d’argento...
Gli ho detto così: “Caro signore, sono venuto a prendermi i soldi
che il padrone di qui mi ha promesso per avergli ritrovato e
riportato il cane, una bestiola nera che si chiama Trompette; prova
ne sia che questo signore che è bruno, ha baffi neri, una
prefettizia biancastra e calzoni blu chiaro, mi ha detto di abitare
in rue de Chaillot al n. 11 e di chiamarsi Dupont”.»
«“Il signore di cui parli è il mio padrone ed è il signor visconte
di Saint-Remy: se qui c’è un cane, questo sei tu, monellaccio;
perciò fila via prima che ti strigli, ti insegno io a volermi
spillare cento soldi” mi rispose il portiere, accompagnando queste
parole con una gran pedata... A ogni modo» riprese filosoficamente
Tortillard, «sapevo il nome del bel signore dai baffi neri che
veniva a prendere dal mio padrone il veleno per gli uomini; si
chiama visconte di Saint-Remy, my, my, di Saint-Remy» aggiunse il
figlio di Bras-Rouge, canticchiando, come il suo solito, le ultime
parole.
«Sei proprio da mangiare, ragazzaccio!» disse la Chouette,
abbracciando Tortillard; «come è furbo! Vedi, meriteresti che fossi
tua madre, briccone!»
Queste parole fecero una particolare impressione sullo zoppetto; la
sua faccia cattiva, beffarda e furba, diventò improvvisamente
triste; sembrò prendere sul serio le espansioni materne della
Chouette e rispose:
«E anch’io vi voglio molto bene, perché il primo giorno in cui siete
venuta a prendermi al Coeur Saignant da mio padre, mi avete
baciato... Dopo la morte di mia madre, solo voi mi avete
accarezzato, tutti mi bastonano o mi cacciano come un cane rognoso,
tutti perfino la portinaia, comare Pipelet.»
«Vecchia stracciona, proprio lei fa la difficile» disse la Chouette
prendendo un’aria indignata a cui Tortillard credette, «respingere
l’affetto di un ragazzo come questo!...»
E la guercia abbracciò di nuovo Tortillard con affezione grottesca.
Il figlio di Bras-Rouge, profondamente toccato da questa nuova prova
d’affetto, rispose con espansione e gridò con riconoscenza:
«Ordinate, vedrete come vi obbedirò bene... come vi servirò!...»
«Davvero? Ebbene, non avrai da pentirtene.»
«Oh come vorrei restare con voi!»
«Prima fai il bravo, poi vedremo; tu vecchio mio, non devi la-
sciarci soli noi due.»
«No» disse il Maître d’école, «tu mi guiderai come un pove-
ro cieco, dirai che sei mio figlio; ci introdurremo nelle case; e lì
un macello!» aggiunse l’assassino con collera, «e con l’aiuto della
Chouette, faremo ancora buoni colpi; mostrerò io a quel demonio di
Rodolphe... che mi ha accecato, che non sono ancora finito. Mi ha
tolto la vista, ma non è riuscito a togliermi il pensiero del male;
io sarò il cervello, Tortillard gli occhi e tu Chouette la mano;
m’aiuterai eh?»
«Sai che ti seguirei anche sulla forca, furfante! Non sono forse
corsa subito al tuo paese, da quegli stupidi dei tuoi compaesani,
dicendo che ero tua moglie, quando, appena uscita dall’ospedale, ho
saputo che avevi mandato dall’ostessa quel semplicione di
Saint-Mandé a chiedere di me?»
Le parole della guercia destarono nella mente del Maître d’école un
brutto ricordo. Allora, cambiando bruscamente tono e linguaggio con
la Chouette, gridò con voce piena d’ira:
«Sì, mi annoiavo, mi sentivo troppo solo in mezzo a tutta quella
brava gente; dopo un mese non potevo più resistere... avevo paura...
Allora mi è venuta l’idea di farti chiamare. E mal me ne incolse!»
aggiunse con un tono che andava inasprendosi sempre più, «l’indomani
del tuo arrivo non mi restava più neanche un soldo del denaro che
m’ero fatto dare da quel demonio dell’allée des Veuves. Sì... mentre
dormivo, mi hanno rubato la cintura piena d’oro che avevo... Solo tu
potevi fare il colpo: per questo adesso sono in tua balìa... Ecco,
ogni volta che penso a questo fatto non capisco perché non debba
ucciderti sul posto... vecchia ladra!».
E fece un passo in direzione della vecchia.
«Guai a voi se toccate la Chouette!» gridò Tortillard.
«Vi schiaccerò tutti e due, brutte vipere che non siete altro!»
rispose il brigante con rabbia. E sentendo che il figlio di
BrasRouge gli parlava da vicino, gli allungò a caso un pugno così
violento che, se l’avesse preso, l’avrebbe ammazzato.
Tortillard, per vendicarsi e per vendicare nello stesso tempo la
Chouette, raccolse un sasso, mirò al Maître d’école e lo colpì sulla
fronte.
Il colpo non fu pericoloso, ma il dolore fu molto forte. Il brigante
si alzò furioso, terribile come un toro ferito; avanzò a caso di
qualche passo, ma inciampò.
«Pericolo!» gridò la Chouette sbellicandosi dalle risate.
Nonostante il delitto la legasse a quel mostro, ella aveva parecchie
ragioni per considerare con una specie di gioia feroce
l’annientamento di un uomo una volta così temibile e così vanitoso
della sua forza atletica.
La vecchia giustificava così, a suo modo, la terribile massima di La
Rochefoucauld: che «nella disgrazia dei nostri migliori amici, c’è
sempre qualcosa che ci fa piacere.»
Il ragazzaccio dai capelli gialli e dalla faccia di faina divideva
l’ilarità della vecchia. Bastò che il Maître d’école inciampasse
un’altra volta perché gridasse:
«Apri un po’ l’occhio, vecchio mio, aprilo, su!... Stai andando
storto, non vedi che cammini a zig zag... Non ci vedi bene?... Cerca
di pulire meglio le lenti degli occhiali!»
Nell’impossibilità di prendere il ragazzo, il nostro erculeo
delinquente si fermò, batté il piede con rabbia, si portò le enormi
mani pelose agli occhi e mandò un ruggito rauco come quello di una
tigre che avesse la museruola.
«Vecchio, hai la tosse!» disse il figlio di Bras-Rouge. «Tieni, ecco
un po’ della nota liquirizia; me l’ha data un gendarme, non devi per
questo fare lo schizzinoso!»
E raccolse una manciata di sabbia fine che gettò in faccia
all’assassino.
Colpito in viso dalla sventagliata di ghiaia, il Maître d’école ebbe
a soffrire più per questo nuovo insulto che per la sassata; difatti
le livide cicatrici impallidirono, egli distese le braccia come in
un moto d’indicibile disperazione poi, alzando al cielo l’orribile
faccia, gridò con voce profondamente supplichevole:
«Dio mio, Dio mio, Dio mio!»
In un uomo macchiatosi di tutti i delitti e davanti al quale fino a
poco tempo prima tremavano i briganti più audaci, questo appello
involontario alla misericordia divina aveva qualcosa di
soprannaturale.
«Ah! ah! ah! il malandrino che si sbraccia» gridò la Chouette,
sghignazzando. «Stai farneticando, vecchio mio, dovresti chiamare il
diavolo in tuo aiuto.»
«Ma un coltello almeno che mi uccida!... un coltello!!! dal momento
che tutti mi abbandonano...» gridò il miserabile mordendosi i pugni
con furia selvaggia.
«Un coltello? ne hai uno in tasca, malandrino, e ben affilato. Il
vecchietto della rue du Roule e il mercante di buoi hanno dovuto
raccontarne di belle alle talpe.»
Il Maître d’école, vistosi spinto al suicidio, cambiò discorso e
riprese allora con voce fiacca e sorda:
«Lo Chourineur sì che era buono, non mi ha derubato, ha avuto pietà
di me».
«Perché mi hai detto di avere rubato il tuo oro?» disse la Chouette,
trattenendo a stento la voglia di ridere.
«Nessuno, all’infuori di te, è entrato nella mia camera» rispose il
brigante; «sono stato derubato la notte del tuo arrivo, di chi vuoi
che sospetti? I contadini non facevano queste cose.»
«Perché poi i contadini non dovrebbero rubare come gli altri? perché
bevono latte e vanno a far l’erba per i loro conigli?»
«Insomma, sta di fatto che io sono stato derubato.»
«È colpa della tua Chouette? O bella, pensaci un po’! Se tu mi
avessi sospettata, credi che sarei restata con te dopo il colpo? Sei
scemo! Certo che t’avrei rubato il denaro, se avessi potuto; ma ti
assicuro che, appena finito il denaro, sarei ritornata, perché, no-
nostante i tuoi occhi bianchi, tu mi piaci lo stesso, brigante! Vai,
sii un po’ gentile, non digrignare i dentini altrimenti finirai col
rovinarteli.»
«Sembra che rompa le noci!» disse Tortillard.
«Ah! ah! ah! ha ragione il ragazzino. Su, calmati, vecchio mio, e
lascialo ridere, è giovane, lui! Ma tu non sei giusto, confessalo;
quando quel beccamorto del signore in lutto mi ha detto: “Ci sono
mille franchi per voi se riuscite a rapire la ragazza che vive nella
fattoria di Bouqueval e a portarla in un punto della spianata di
Saint-Denis che vi indicherò”; rispondi, malandrino, non ti ho forse
proposto subito di essere del colpo, invece di scegliere qualcuno
che avesse dei buoni occhi? Chiamiamola pure un’elemosina quella che
ti faccio. Perché, tranne che per tenere ferma la piccola mentre io
con Tortillard l’avvolgo nel mantello, tu non servirai ad altro,
sarai un po’ come la quinta ruota di un omnibus. Ma, non importa, a
parte il fatto che ti avrei derubato se avessi potuto, mi piace
farti del bene. Voglio che tu debba tutto alla tua amata Chouette: è
la mia tattica!! Daremo 200 franchi a Barbillon per aver guidato la
carrozza e per esser venuto qui una volta con un domestico del
signore in lutto a vedere il posto in cui dovevamo nasconderci e
aspettare la piccola... e con gli ottocento franchi che resteranno
per noi due soli, faremo bisboccia. Che cosa ne dici? Ebbene! sei
ancora arrabbiato con la tua vecchia?»
«Chi mi assicura che, a colpo fatto, mi darai qualcosa?» disse il
brigante con cupa diffidenza.
«Potrei anche non darti niente del tutto, è vero, perché, vecchio
mio, sei in mio potere, come una volta la Goualeuse. Bisogna quindi
che tu faccia quello che voglio io in attesa che il diavolo non ti
porti via, eh! eh! eh!... Ebbene malandrino, tieni ancora il broncio
alla tua Chouette?» aggiunse la guercia battendo sulla spalla del
brigante che continuava a essere cupo e silenzioso.
«Hai ragione» disse con un sospiro di rabbia concentrata «è il mio
destino. Io! io! alla mercé di un ragazzetto e di una donna che una
volta avrei ucciso con un soffio! Oh! Se non avessi così paura della
morte!» disse e ricadde a sedere sul ciglio della scarpata.
«Non essere vigliacco adesso! non essere vigliacco!» continuò la
Chouette con disprezzo. «Parlaci subito della tua coscienza, così
sarà più divertente. Senti, se non ne hai il coraggio, prendo il
volo e così ti pianto.»
«E non potermi vendicare dell’uomo che, accecandomi così, mi ha
messo nell’orribile situazione in cui mi trovo e da cui non
uscirò mai!» gridò il Maître d’école in un accesso di rabbia. «Oh!
ho tanta paura della morte! sì... ho tanta paura; ma se mi venissero
a dire: “Quell’uomo te lo metteremo fra le braccia... fra le
braccia... poi vi getteremo giù per un burrone”; io direi:
“Gettatemi pure... sì; perché sarei sicuro di arrivare in fondo
senza averlo lasciato.” E mentre rotoliamo assieme, gli morderei il
viso, la gola, il cuore, lo ucciderei a furia di morsi, insomma! un
coltello non potrebbe far di meglio!»
«Finalmente, furfante, ecco come mi piaci. Stai tranquillo... lo
ritroveremo quel pezzente di Rodolphe e con lui anche lo Chourineur.
Dopo essere uscita dall’ospedale, sono andata a gironzolare
nell’allée des Veuves... era tutto chiuso. Ma ho detto al signore in
lutto: “Tempo fa, voi volevate pagarci per combinare qualcosa contro
quel mostro del signor Rodolphe; dopo l’affare della ragazza, per
cui ci teniamo pronti, non si potrebbe organizzare un colpo contro
di lui?”. “Forse...” mi ha risposto. Capisci, furfante? Forse...
Coraggio, vecchio mio; ci verrà la nausea di Rodolphe; te lo dico
io, ci verrà la nausea!»
«Davvero, non mi abbandonerai?» disse il brigante alla Chouette con
tono sottomesso e sospettoso a un tempo. «Se tu mi abbandonassi
adesso, che ne sarebbe di me?»
«Questo è vero. Senti un po’, come sarebbe divertente se io e
Tortillard ce la svignassimo con la carrozza e ti lasciassimo qui,
in mezzo ai campi, di notte, al freddo, che sarà senz’altro
pungente! Sarebbe uno spettacolo divertente, eh, brigante?»
A questa minaccia, il Maître d’école ebbe un fremito; si avvicinò
alla Chouette e le disse tremando:
«No, no, non puoi farlo, Chouette... e neppure tu, Tortillard...
sarebbe una cosa troppo crudele.»
«Ah! ah! ah! troppo crudele... com’è ingenuo. E il vecchietto della
rue du Roule! e il mercante di buoi! e la donna del canale
Saint-Martin! e il signore dell’allée des Veuves! credi che il tuo
coltellaccio abbia fatto loro delle carezze? Perché, poi, non
potremmo, a nostra volta, farti uno scherzetto?»
«Ebbene, lo confesso» disse cupamente il Maître d’école «sì ho avuto
torto a sospettare di te, ho avuto torto anche a voler picchiare
Tortillard: ti chiedo scusa, capito... e anche a te Tortillard...
sì, vi chiedo scusa a tutti e due.»
«Voglio che tu chieda scusa in ginocchio per aver voluto picchiare
la Chouette» disse Tortillard.
«Briccone di un monellaccio! sei uno spasso» disse la Chouette
ridendo; «eppure mi ha fatto venire voglia di vedere che faccia fa-
rai, vecchio mio. Su, in ginocchio, come se dovessi parlare d’amore
alla tua Chouette; sbrigati o ti piantiamo; e t’avverto che fra
mezz’ora sarà notte.»
«Notte o giorno, tanto è la stessa cosa per lui!» disse Tortillard
beffardo. «Questo signore tiene sempre le imposte chiuse, ha paura
di rovinarsi la carnagione.»
«Eccomi in ginocchio. Ti chiedo scusa, Chouette... e anche a te,
Tortillard. Ebbene, siete contenti?» disse il brigante
inginocchiandosi in mezzo alla strada. «Adesso non mi abbandonerete,
vero?»
Lo strano gruppo, incorniciato fra i pendii del burrone, illuminato
dai chiarori rossastri del crepuscolo, era orribile a vedersi. In
mezzo alla strada, il Maître d’école, supplichevole, tendeva verso
la guercia le mani potenti; una capigliatura folta e selvaggia gli
scendeva, come una criniera, sulla fronte livida; le palpebre rosse,
smisuratamente aperte per la paura, lasciavano vedere per metà le
pupille immobili, spente, vitree, morte... Lo sguardo
di un cadavere.
Le spalle formidabili si curvavano umilmente. Il nostro erco-
le era costretto a inginocchiarsi tremante ai piedi di una vecchia e
di un ragazzo.
La guercia, avvolta in uno scialle di tartano rosso, con la testa
coperta da un cappello di tulle nero, da cui uscivano alcune ciocche
grigie, sovrastava il Maître d’école di tutta la statura. Il viso
ossuto, scuro, rugoso, terreo della vecchia dal naso adunco
esprimeva una gioia insultante e feroce; l’occhio ferino brillava
come un carbone ardente; il ghigno sinistro che le increspava le
labbra adombrate da lunghi peli lasciava intravedere tre o quattro
grossi denti gialli e senza gengive.
Tortillard, vestito di un camiciotto stretto alla vita da una
cintura di cuoio, stava ritto su un piede solo, appoggiandosi a un
braccio della Chouette per tenersi in equilibrio.
La faccia di questo ragazzo, malaticcio, furbo e pallido come i suoi
capelli, esprimeva in quel momento una cattiveria beffarda e
diabolica.
L’ombra allungata sulla china del burrone non faceva che raddoppiare
l’orrore della scena, avvolta in parte nella ormai crescente
oscurità.
«Ma promettetemi almeno di non abbandonarmi!...» ripeté il Maître
d’école, impaurito dal silenzio della Chouette e di Tortillard che
godevano del suo spavento. «Siete andati via?» aggiunse l’assassino
sporgendosi per ascoltare e stendendo macchinalmente le braccia.
«No, no, vecchio mio, non siamo andati via; non aver paura.
Abbandonarti? piuttosto morire! Per tranquillizzarti, ti dirò una
volta per sempre il perché non ti abbandonerò mai. Stammi bene a
sentire: m’è sempre piaciuto moltissimo avere qualcuno a cui far
sentire le mie unghie... animali o persone. Prima della Pégriotte
(se il diavolo almeno me la riportasse! perché ho sempre la mia
idea... di passarle il vetriolo sulla faccia), prima della Pégriotte
avevo un ragazzino che è morto mentre lo torturavo; per questo sono
stata sei anni in prigione; in quegli anni sono diventata l’incubo
degli uccelli: li allevavo per spennarli vivi, ma ci rimettevo
perché morivano subito. Uscita di prigione, ho avuto tra le grinfie
la Goualeuse; ma la bricconcella è fuggita quando ancora potevo
divertirmi sulle sue carni. Dopo ho avuto un cane che ha patito
quanto lei; ho finito col tagliargli due zampe, una davanti e una di
dietro: era costretto a un’andatura così buffa che mi faceva ridere,
ma ridere fino a scoppiare.»
«La stessa cosa voglio farla a un cane di mia conoscenza che mi ha
morso» disse Tortillard.
«Quando ti ho incontrato, vecchio mio» continuò la Chouette, «stavo
torturando un gatto... Orbene! adesso sarai tu il mio gatto, il mio
cane, il mio uccello, la mia Pégriotte; tu sarai... l’animale da
torturare, insomma... Capisci, vecchio mio? invece di un uccello o
di un bambino da tormentare, diciamo pure anche di un lupo o una
tigre, avere te è più bello.»
«Vecchia strega» gridò il Maître d’école gonfiandosi di rabbia. «E
via; ecco che fai ancora il broncio alla tua vecchia!» «Ebbene!
lasciala, sei padrone di farlo. Mica ti giudico un tra-
ditore per questo...»
«Sì, la porta è aperta, vai a occhi chiusi e sempre diritto!» disse
Tortillard, scoppiando in una risata.
«Oh morire!... morire!...» gridò il Maître d’ecole, torcendosi
le braccia.
«Ti ripeti, vecchio mio, questo l’hai già detto, Tu, morire!
scherzi, sei solido come il Pont-Neuf, lascia stare, va’, vivrai per
fare la felicità della tua Chouette. Di tanto in tanto ti farò
soffrire perché io ci godo a farti soffrire, d’altronde dovrai pur
guadagnarti il pane che ti darò; ma se starai buono, potrai
partecipare a qualche bel colpo, come fai oggi, e ad altri di
migliori in cui potrai essere utile; sarai insomma il mio cane
fedele. Quando ti dirò: portalo qui, tu lo porterai; mordi, tu
morderai. Dopo di che, devo dirti, vecchio mio, che non intendo
obbligarti con la forza; se al posto della vita che ti propongo,
preferisci vivere di
rendita, scarrozzare con una bella donnina, essere insignito della
croce della Legione d’onore, avere la bella carica di giudice,
vederci bene anziché essere cieco, non fare complimenti; è facile,
non hai che da dirlo, ti serviremo il tutto ben caldo... non è vero
Tortillard?»
«Caldissimo, bollentissimo, subitissimo!» rispose il figlio di
Bras-Rouge con una sghignazzata. Ma, chinandosi improvvisamente
verso terra, disse sottovoce:
«Sento dei passi, qualcuno sta venendo per il sentiero,
nascondiamoci... Non è la ragazza perché viene dalla stessa parte da
cui è giunta lei...»
Infatti, una contadina robusta, ben piantata, seguita da un grosso
cane da pagliaio e con sulla testa un cesto coperto, apparve dopo
alcuni istanti, attraversò il vallone e prese il sentiero che
stavano percorrendo il prete e la Goualeuse.
Ora noi andremo a raggiungere questi due personaggi e lasceremo i
tre complici in agguato sulla strada bassa.
II
LA CASA PARROCCHIALE
Le ultime luci del sole si spegnevano lentamente dietro la macchia
imponente del castello d’Ecouen e dei boschi che lo circondavano;
tutto d’intorno si stendevano a perdita d’occhio vaste pianure
segnate da solchi profondi, invetriate dal gelo... immensa
solitudine in cui il casale di Bouqueval aveva tutta l’apparenza di
un’oasi.
Il cielo, perfettamente sereno, era venato verso ponente di lunghi
strascichi di porpora, indizio inequivocabile di freddo e di vento;
i toni, dapprima di un rosso vivo, diventavano viola a mano a mano
che il crepuscolo invadeva l’atmosfera.
Una luna falcata, fine, piccola come mezzo anello d’argento,
cominciava a brillare piano piano in un isolotto d’ombra e
d’azzurro.
Il silenzio era alto, l’ora solenne.
Il prete si fermò un momento in cima alla collina per godersi la
vista della bella serata.
Dopo qualche istante di raccoglimento, stese una mano tremante verso
il profondo orizzonte mezzo velato dalle nebbioline della sera, e
disse a Fleur-de-Marie che camminava pensierosa accanto a lui:
«Guardate, fanciulla, l’immensità sconfinata... non s’ode un rumore
di sorta... mi sembra che il silenzio e l’infinito ci diano quasi
un’idea dell’eternità... Vi dico questo, Marie, perché voi siete
sensibile alle bellezze della creazione. Spesso mi sono commosso
davanti all’ammirazione religiosa che esse vi ispiravano, a voi...
che ne siete stata per tanto tempo privata. Non vi sentite presa
anche voi come me dalla calma maestosa che regna in quest’ora?»
La Goualeuse non disse nulla.
Stupito, il prete la guardò; piangeva.
«Che cosa avete, figliola?»
«Padre, sono molto infelice!»
«Infelice? voi... in questo momento infelice?»
«So che non ho il diritto di lamentarmi della mia sorte, dopo
tutto quello che è stato fatto per me... eppure...» «Eppure?»
«Ah, padre, perdonate le mie pene; esse forse offendono i miei
benefattori...»
«Ascoltate, Marie, noi vi abbiamo domandato spesso il motivo della
tristezza che a volte vi angoscia e che arreca alla vostra seconda
madre tante inquietudini... Voi avete evitato di risponderci; noi
abbiamo rispettato il vostro segreto anche se ci addolora il non
poter alleviare le vostre pene.»
«Ahimè! padre, non so dirvi quello che mi succede. Poco fa anch’io,
come voi, mi sono sentita commossa alla vista di questa serata calma
e triste... il cuore mi si è spezzato... e ho pianto...»
«Ma che cosa avete, Marie? Sapete benissimo quanto siete
benvoluta... Via, confessatemi tutto. D’altronde posso dirvi questo;
si avvicina il giorno in cui la signora Georges e il signor Rodolphe
vi presenteranno al fonte battesimale, prendendo davanti a Dio
l’impegno di proteggervi per sempre.»
«Il signor Rodolphe? lui... che mi ha salvata!» esclamò
Fleurde-Marie congiungendo le mani; «si sarebbe degnato di darmi
questa nuova prova di affetto! Oh, sentite, non vi nasconderò più
niente, ho paura di sembrare troppo ingrata.»
«Ingrata! e come?»
«Perché voi possiate capire, dovrò parlarvi dei primi giorni in cui
sono venuta alla fattoria.»
«Vi ascolto; parleremo camminando.»
«Sarete indulgente, non è vero padre? Quello che sto per dirvi forse
è molto brutto.»
«Il Signore vi ha dato una prova della sua misericordia. Fatevi
coraggio.»
«Quando, venendo qui, ho saputo che non avrei più lasciato la
fattoria e la signora Georges» disse Fleur-de-Marie, dopo un istante
di raccoglimento, «ho creduto di fare un bel sogno. Dapprima mi
sentivo come stordita dalla felicità; in ogni momento pensavo al
signor Rodolphe. Molto spesso, quand’ero sola, alzavo mio malgrado
gli occhi al cielo come per cercare lui e per ringraziarlo.
Insomma... lo confesso padre, pensavo più a lui che a Dio; perché
lui aveva fatto per me quello che solo Dio avrebbe potuto fare. Ero
felice... felice come qualcuno che è sfuggito per sempre a un grande
pericolo. Voi e la signora Georges, eravate così buoni con me, che
mi credevo più da compiangere che da biasimare.»
Il prete guardò sorpreso la Goualeuse; ella continuò: «A poco a poco
mi sono abituata a questa vita così dolce: non avevo più paura,
svegliandomi, di ritrovarmi in casa dell’ostessa; avevo la
sensazione di dormire i miei sonni in tutta tranquillità; la mia
unica gioia era aiutare la signora Georges nei suoi lavori, studiare
le lezioni che voi, padre, mi davate... e anche approfittare delle
vostre esortazioni. Esclusi i pochi momenti in cui provavo una gran
vergogna pensando al mio passato, io mi credevo uguale agli altri,
perché tutti erano buoni con me, quando un giorno...»
A questo punto i singhiozzi interruppero Fleur-de-Marie. «Via,
calmatevi, povera figliola, coraggio! e continuate.»
La Goualeuse, asciugandosi gli occhi, riprese:
«Ricorderete, padre, che ai Santi, la signora Dubreuil, fatto-
ressa del duca di Lucenay a Arnouville, era venuta con la figlia a
passare alcuni giorni da noi.»
«Certo, e vi ho visto con piacere fare conoscenza con Clara
Dubreuil; ella possiede ottime qualità.»
«È un angelo, padre... un angelo... Quando seppi che doveva restare
alcuni giorni alla fattoria, fui contentissima, pensavo solo al
momento in cui avrei visto questa compagna tanto desiderata. Infine
ella arrivò. Ero nella mia camera; dovevo dividerla con lei, avevo
fatto del mio meglio per abbellirla; mi fecero chiamare. Entrai in
salotto, il cuore mi batteva; la signora Georges, mostrandomi una
graziosa ragazza, che aveva un’aria dolce, semplice e buona mi
disse: “Marie, ecco un’amica per voi”. “E spero che voi e mia figlia
diventerete presto come due sorelle” aggiunse la signora Dubreuil.
Quando la madre ebbe finito di dire queste parole, la signorina
Clara corse ad abbracciarmi... Allora, padre» disse Fleur-de-Marie
piangendo «non so che cosa, a un tratto, mi sia successo... ma
quando sentii il viso puro e fresco di Clara appoggiarsi sulla mia
guancia sciupata, la guancia mi si è arroventata di
vergogna... di rimorso, mi sono ricordata di quello che ero...
Io!... io, ricevere le carezze di una persona così onesta! Oh! mi
sembrava un inganno... un’ipocrisia indegna...»
«Ma, figliola...»
«Ah, padre» gridò Fleur-de-Marie interrompendo il prete con uno
slancio di dolorosa esaltazione, «quando il signor Rodolphe mi ha
portata via dalla Cité, avevo già più o meno coscienza della mia
degradazione... Ma, credetemi padre, l’educazione, i consigli, gli
esempi che ho ricevuto dalla signora Georges e da voi, illuminandomi
improvvisamente l’anima, mi hanno fatto, ahimè, capire che avevo più
peccato che sofferto!... Prima che venisse la signorina Clara,
quando mi assalivano questi pensieri, mi stordivo cercando di fare
contenta la signora Georges e anche voi padre. Quando arrossivo del
mio passato, ero sola con me stessa. La vista invece di quella mia
coetanea, così graziosa, così virtuosa, mi ha fatto pensare alla
distanza che ci sarebbe sempre stata tra me e lei... Per la prima
volta ho sentito che ci sono ferite che niente può guarire... Da
quel giorno, questo pensiero non mi ha più lasciato... Pur non
volendo, ci ritorno su continuamente: da quel giorno insomma non ho
più avuto un momento di requie.»
La Goualeuse si asciugò gli occhi pieni di lacrime.
Dopo averla guardata qualche istante con indulgente tenerezza, il
prete riprese:
«Riflettete un po’, figliola, la signora Georges ha voluto scegliere
voi come amica della signorina Dubreuil, perché, grazie alla vostra
buona condotta, vi sapeva degna di questa amicizia. I rimproveri che
vi fate si ritorcono quasi contro la vostra seconda madre.»
«Lo so, padre, senza dubbio avevo torto; ma non potevo vincere la
vergogna e la paura che avevo... Non è tutto... Mi ci vuole coraggio
per finire...»
«Continuate, Marie; per ora gli scrupoli, o meglio i rimorsi che
avete avuto, testimoniano in favore della vostra bontà d’animo.»
«Una volta che Clara si stabilì alla fattoria, fui presa da una
tristezza intensa come la felicità che avevo creduto in un primo
momento di provare davanti alla piacevole prospettiva di avere
un’amica della mia età; lei, al contrario, era tutta allegra. Le era
stato preparato un letto nella mia camera. La prima sera, prima di
coricarsi, mi baciò e mi disse che mi voleva già bene e che le
piacevo molto; mi chiese di chiamarla Clara e lei mi avrebbe
chiamato Marie. Poi, prima di mettersi a pregare, mi disse che, se
acconsentivo a ricordarla nelle mie preghiere, anche lei mi avrebbe
ricordato nelle sue. Non osavo dirle di no. Dopo aver parlato ancora
un po’, si addormentò; io invece non ero andata a letto; mi
avvicinai a lei; mi venivano le lacrime agli occhi al guardare quel
volto d’angelo; e poi, al pensiero che dormiva nella mia stessa
stanza... con me, che ero stata vista nella bettola con ladri e
assassini... tremavo come se avessi fatto una cattiva azione, mi
prendevano indefinibili paure... pensavo che un giorno Dio mi
avrebbe punito... Mi coricai, feci sogni spaventosi, rividi le
figure sinistre che avevo quasi dimenticato, lo Chourineur, il
Maître d’école, la Chouette, quella guercia che mi aveva torturato
quand’ero piccola. Oh! che notte!... Dio mio! che notte! che sogni!»
disse la Goualeuse fremendo ancora a quel ricordo.
«Povera Marie!» riprese il prete commosso; «perché non mi avete
fatto prima queste tristi confidenze! vi avrei tranquillizzata... Ma
continuate.»
«Mi ero addormentata molto tardi; la signorina Clara venne a
baciarmi e così mi svegliò. Per vincere quella che lei chiamava la
mia freddezza e provarmi la sua amicizia, volle confidarmi un
segreto; a diciott’anni doveva sposarsi con il figlio di un fattore
di Goussainville, un ragazzo che amava teneramente: il loro
matrimonio era una cosa che le rispettive famiglie avevano deciso
molto tempo prima. Poi mi raccontò in poche parole la sua vita
passata... vita semplice, calma, felice: non aveva mai lasciato la
madre, non l’avrebbe mai lasciata; perché il fidanzato doveva
dividere la direzione della fattoria con il signor Dubreuil.
“Adesso, Marie” mi disse, “mi conoscete come se foste mia sorella;
raccontatemi un po’ la vostra vita...” A quelle parole credetti di
morire dalla vergogna... arrossii, balbettai. Non sapevo che cosa la
signora Georges avesse detto di me; avevo paura di farla passare per
bugiarda. Risposi limitandomi a dire che, orfana e allevata da
persone severe, non ero stata molto felice da bambina e che la mia
felicità risaliva al soggiorno presso la signora Georges. Allora,
Clara, interessata più che incuriosita, mi domandò dov’ero
cresciuta: in città o in campagna? come si chiamava mio padre? Mi
domandò in particolare se ricordavo di avere visto qualche volta mia
madre. Ognuna delle sue domande mi imbarazzava e mi angustiava;
perché, per risponderle, dovevo mentire e voi, padre, mi avete
insegnato che la bugia è un peccato... Ma Clara non immaginò che
potevo ingannarla. Attribuendo la mia incertezza nelle risposte
all’amarezza che mi procuravano i ricordi di una triste infanzia, mi
compianse con una bontà che mi straziò. Oh padre! non saprete mai le
pene che ho sofferto durante il primo
colloquio! quanto mi costasse non dire una parola che non fosse
ipocrita e falsa!...»
«Povera sventurata; possa la collera di Dio abbattersi su coloro che
vi hanno spinto sull’ignobile via della perdizione e che per questo
vi costringeranno forse a subire per tutta la vita le inesorabili
conseguenze della prima colpa!»
«Oh! sì, padre, sono stati ben malvagi» riprese amaramente
Fleur-de-Marie, «perché la mia vergogna è incancellabile. Ma non è
tutto; a mano a mano che Clara mi parlava della felicità che
l’attendeva, del matrimonio, della calda vita di famiglia, non
potevo fare a meno di paragonare la mia sorte alla sua; perché,
nonostante le infinite gentilezze di cui sono oggetto, il mio sarà
sempre un destino miserabile; voi e la signora Georges, facendomi
conoscere la virtù, mi avete fatto conoscere anche la profondità
della mia passata abiezione; nulla potrà impedirmi di essere stata
il rifiuto di ciò che vi è di più spregevole al mondo. Ahimè! poiché
la conoscenza del bene e del male doveva essermi così funesta,
perché non sono stata abbandonata al mio infelice destino!»
«Oh! Marie, Marie!»
«Non è vero, padre... è molto brutto quello che dico? Ahimè! È
quanto non osavo confessarvi... Sì, a volte sono tanta ingrata da
non riconoscere le gentilezze che mi vengono prodigate, da dirmi: se
nessuno mi avesse strappato alla mia ignobile vita, ebbene, la
miseria, le botte avrebbero fatto molto presto a uccidermi; almeno
sarei morta senza avere conosciuto una purezza che rimpiangerò
sempre.»
«Ahimè, Marie, è inevitabile! Qualsiasi natura, anche la più
favorita da Dio, resta segnata per sempre da un marchio
incancellabile qualora sia rimasta un solo giorno nel fango da cui
voi siete stata tolta... Così grande è l’equanimità della giustizia
divina!»
«Allora è proprio vero, padre» esclamò dolorosamente Fleurde-Marie,
«dovrò disperare fino alla morte!»
«No, voi non dovete sperare di poter strappare dal libro della
vostra vita questa pagina sconfortante» disse il prete con voce
triste e grave, «ma dovete sperare nell’infinita misericordia
dell’Onnipotente. Su questa terra, per voi, povera figliuola,
lacrime, rimorsi, espiazione, ma un giorno lassù» aggiunse, puntando
una mano verso il firmamento che cominciava a riempirsi di stelle,
«lassù, perdono, felicità eterna!»
«Pietà... pietà, mio Dio! sono così giovane... e chissà forse quanto
tempo dovrò vivere ancora!...» disse la Goualeuse con voce
straziata, lasciandosi cadere in ginocchio ai piedi del prete.
Il prete stava ritto in cima alla collina che si trovava nelle
vicinanze della casa parrocchiale; la tonaca nera, la faccia
venerabile, incorniciata da lunghi capelli bianchi e tenuamente
rischiarata dagli ultimi chiarori del crepuscolo si stagliavano su
un orizzonte che era di una trasparenza e di una limpidezza
indefinibili: oro pallido a ponente, zaffiro a levante.
Il prete alzava al cielo una mano tremante mentre l’altra
l’abbandonava a Fleur-de-Marie, che la bagnava di lacrime.
Proprio in quel momento il cappuccio della mantellina grigia ricadde
sulle spalle della ragazza; solo allora si poté vedere il profilo
incantevole di lei, i deliziosi occhi supplicanti immersi in un
bagno di lacrime... la stupenda bianchezza del collo, dove si poteva
notare l’attaccatura dei serici capelli biondi.
Era una scena semplice e solenne che faceva contrasto e che
coincideva stranamente con l’ignobile scena che si svolgeva quasi
nello stesso momento fra il Maître d’école e la Chouette nella
misteriosa strada bassa.
Nascosto nell’ombra di un oscuro burrone, assalito da vili terrori,
un orribile assassino che stava pagando il fio dei delitti commessi
si era, anch’egli, inginocchiato... ma davanti a una complice,
un’arpia beffarda, vendicativa che lo tormentava senza pietà e lo
spingeva a nuovi delitti... la sua complice... causa prima dei mali
di Fleur-de-Marie.
Di Fleur-de-Marie torturata da un rimorso incessante.
Si poteva capire benissimo perché fosse portata a esagerare la
propria pena. Fin dall’infanzia si era trovata in mezzo a esseri
depravati, malvagi, infami; poi, uscita di prigione, era andata a
finire nella tana dell’ostessa, una prigione non meno orribile; si
aggiunga che, all’infuori dei cortili del carcere e delle strade
cavernose della Cité, ella non aveva visto nient’altro;
evidentemente quell’infelice ragazza non poteva che essere vissuta
nella più profonda ignoranza del bene e del bello, cosa che l’aveva
resa estranea sia ai sentimenti nobili e religiosi che ai magnifici
splendori della natura.
Ed ecco che improvvisamente ella abbandona l’infetta cloaca per un
incantevole ritiro in campagna, la turpe vita per dividere
un’esistenza felice e tranquilla con gli esseri più virtuosi, più
teneri, più disposti ad aver compassione delle sue disgrazie.
Infine quanto c’è di più bello nell’uomo e nel creato si rivela di
colpo e in un solo momento alla sua anima attonita. Davanti a questo
spettacolo grandioso, il suo spirito si eleva, la sua intelligenza
si sviluppa, i suoi nobili istinti si destano... E proprio per-
ché lo spirito si è elevato, l’intelligenza sviluppata, i nobili
istinti destati... essa diventata cosciente della degradazione di un
tempo, prova pensando al passato un doloroso e incurabile orrore,
capisce ahimè che ci sono sozzure, così dice lei, che non si lavano
mai...
«Me infelice!» diceva la Goualeuse disperata, «ormai la coscienza
del male e il ricordo del passato macchieranno d’infamia tutta la
mia vita, anche se essa, padre, dovesse essere lunga e pura come la
vostra... Me infelice!»
«Voi beata, invece, Marie, voi a cui il Signore concede rimorsi così
salutari anche se pieni di amarezza! Essi mettono in luce la
sensibilità religiosa della vostra anima! Tanti altri, di animo meno
nobile, al vostro posto non ci avrebbero messo molto a dimenticare
il passato per pensare solo a godersi la felicità presente! Un’anima
delicata come la vostra soffre per cose per cui il volgare non
proverebbe nessun dolore! Ma lassù sarà tenuto conto di ogni vostra
sofferenza. Credetemi, Dio vi ha lasciato un momento sulla via del
male solo per riservarvi la gloria del pentimento e la ricompensa
eterna dovuta all’espiazione! Non ha detto lui stesso: “Coloro che
fanno il bene senza lottare e che vengono a me col sorriso sulle
labbra, sono i miei eletti; ma coloro che, feriti nella lotta,
vengono a me ricoperti di sangue e di lividi, sono gli eletti fra
gli eletti!...”. Coraggio dunque, figliola!... sostegno, appoggio,
consigli, non vi mancherà niente... Io sono molto vecchio ma la
signora Georges, ma il signor Rodolphe hanno ancora molti anni
davanti... il signor Rodolphe soprattutto... che ha per voi tanto
interesse... che contribuisce ai vostri progressi con quella sua
chiaroveggenza così premurosa... sentite, Marie, sentite, credete
che potrebbe dispiacervi di averlo incontrato?»
La Goualeuse stava per rispondere quando fu interrotta dalla
contadina di cui abbiamo parlato sopra, la quale aveva raggiunto il
prete e la ragazza, seguendo la loro stessa strada. Era una delle
donne che serviva alla fattoria.
«Mi scusi, signor parroco» disse al prete, «ma la signora Georges mi
ha detto di portare questo cesto di frutta alla canonica e di
riaccompagnare poi la signorina Marie, perché sta facendo notte; ma
ho preso Turc con me» disse la domestica accarezzando un enorme cane
dei Pirenei che avrebbe potuto sostenere una lotta con un orso. «È
meglio essere prudenti, anche se in paese è molto difficile fare
brutti incontri.»
«Avete ragione, Claudine; d’altra parte, eccoci arrivati alla
canonica; ringrazierete per me la signora Georges.»
Poi il prete si rivolse alla Goualeuse e le disse con tono grave e a
bassa voce:
«Domani dovrò andare alla conferenza della diocesi; comunque sarò di
ritorno verso le cinque. Se volete venire, figliola, io vi aspetterò
in canonica. Capisco, dal vostro stato d’animo, che avete ancora
bisogno di parlare a lungo con me».
«Vi ringrazio, padre» rispose Fleur-de-Marie; «visto che voi volete
farmi questa bontà, domani verrò.»
«Ma eccoci giunti alla porta del giardino» disse il prete; «lasciate
lì il cesto, Claudine, poi la mia governante verrà a prenderlo.
Accompagnate Marie a casa senza fermarvi; perché è quasi scesa la
notte e il freddo aumenta. A domani, Marie, alle cinque!»
«A domani, padre.»
Il prete entrò nel suo giardino.
La Goualeuse e Claudine, seguite da Turc, ripresero il cammi-
no della fattoria.
III L’INCONTRO
La notte era scesa, chiara e fredda.
Seguendo il piano del Maître d’école, la Chouette s’era por-
tata assieme al brigante in quel punto della strada bassa che era
più lontano dal sentiero ma più vicino all’incrocio dove aspettava
Barbillon con la carrozza.
Tortillard, che era andato ad appostarsi, stava a spiare il ritorno
di Fleur-de-Marie che, come sappiamo, doveva attirare nel tranello
supplicandola di aiutarlo a soccorrere una povera vecchia.
Il figlio di Bras-Rouge aveva fatto solo pochi passi fuori dal
burrone come per andare in avanscoperta quando, tendendo l’orecchio,
sentì da lontano la Goualeuse parlare alla contadina che
l’accompagnava.
La Goualeuse non era sola, il piano quindi era fallito.
Tortillard discese in fretta nel burrone e corse ad avvertire la
Chouette.
«C’è qualcuno con la ragazza» disse a voce bassa nonostante
l’affanno.
«Che vada alla forca, quella cialtrona!» gridò la Chouette
furibonda.
«Con chi è?» domandò il Maître d’école.
«Senza dubbio con la contadina che poco fa è passata per il
sentiero, seguita da un grosso cane. Ho riconosciuto la voce di una
donna» disse Tortillard; «ecco... sentite... il rumore degli
zoccoli?...»
Infatti nel silenzio della notte, le suole di legno risuonavano in
lontananza sul terreno indurito dal gelo.
«Sono in due... Posso occuparmi io della piccola col mantello
grigio; ma l’altra! come fare? Il furfante non ci vede... e
Tortillard è troppo debole per tenere a bada la compagna, che il
diavolo la strangoli! Come fare?» ripeté la Chouette.
«Sì, non sono forte; ma, se volete, mi getterò sulle gambe della
contadina che ha il cane, mi ci attaccherò con le mani e con i
denti: non mollerò la presa, no!... Nel frattempo voi trascinerete
via la piccola... voi, Chouette.»
«E se gridano, se fanno resistenza, le sentiranno alla fattoria»
riprese la guercia, «e giungeranno in tempo per dar loro manforte
prima che abbiamo raggiunto la carrozza di Barbillon... Non è poi
tanto facile trascinare via una donna che si dibatte!»
«E hanno anche un grosso cane con loro!» disse Tortillard.
«Oh! Oh! se fosse solo per questo, gli spaccherei il grugno con una
scarpata a quel loro cane» disse la Chouette.
«Si avvicinano» riprese Tortillard tendendo di nuovo l’orecchio al
rumore ancora lontano dei passi, «stanno per scendere nel burrone.»
«Ma di’ un po’ qualcosa, furfante» disse la Chouette al Maître
d’école; «che cosa ci consigliano le tue meningi?... Sei diventato
muto?»
«Per quest’oggi niente da fare» rispose il brigante.
«E i mille franchi del signore in lutto» esclamò la Chouette, «hanno
da andare in fumo? Neanche per idea!... Il tuo coltello! il tuo
coltello! furfante... a scanso di fastidi ucciderò la compagna;
quanto alla piccola, io e Tortillard non avremo difficoltà a
imbavagliarla.»
«Ma l’uomo in lutto non vuole che si uccida...»
«Ebbene! questo delitto glielo metteremo in conto come extra; dovrà
comunque pagarci dal momento che è nostro complice.»
«Eccole!... scendono» disse Tortillard a bassa voce.
«Il tuo coltello, vecchio mio!» esclamò la Chouette anche lei a
bassa voce.
«Oh! no, Chouette...» esclamò spaventato Tortillard stendendo le
braccia verso la Chouette, «è troppo... ucciderla... oh! no, no!»
«Il coltello! ti ho detto...» ripeté piano la Chouette, senza badare
alle suppliche di Tortillard e incominciando precipitosamente a
togliersi le scarpe. «Mi tolgo le scarpe» aggiunse, «per poter
camminare a passi felpati, arrivare alle loro spalle e sorprenderle;
è già scuro, ma la piccola si riconoscerà lo stesso dalla
mantellina, l’altra invece sarà la mia vittima.»
«No!» disse il brigante, «oggi è inutile; c’è sempre tempo domani.»
«Hai paura, fifone!» disse la Chouette con feroce disprezzo...
«Non ho paura» rispose il Maître d’école: «ma puoi fallire il colpo
e mandare così tutto a monte.»
Il cane che accompagnava la contadina, fiutata la presenza di
persone in agguato nella strada bassa, si fermò di colpo e si mise a
ringhiare rabbiosamente tanto che i ripetuti richiami di
Fleurde-Marie restarono vani.
«Lo senti, il cane? Eccole... il tuo coltello, presto... o
altrimenti!...» esclamò la Chouette minacciosa.
«Vieni un po’ a prendertelo... di forza!» disse il Maître d’école.
«Non c’è più niente da fare! è troppo tardi!» esclamò la Chouette
dopo essere stata per un momento attentamente in ascolto, «sono
passate... Questa me la pagherai! sai, pendaglio da forca!» aggiunse
furiosa mostrando i pugni al complice, «mille franchi perduti per
colpa tua!»
«Ne guadagneremo, invece, mille, duemila, forse tremila» replicò il
Maître d’école con tono autoritario. «Ascoltami, Chouette» aggiunse,
«e vedrai se non ho avuto ragione a non darti il coltello... Adesso
tu vai da Barbillon... prendetevi la carrozza e recatevi là dove
abbiamo appuntamento col signore in lutto... gli direte che oggi non
c’è stato niente da fare, ma che domani sarà cosa fatta...»
«E tu?» mormorò la Chouette, non ancora rabbonita. «Continua a
seguirmi: la piccola ogni sera viene ad accompagnare il prete da
sola; per caso oggi ha incontrato qualcuno; domani probabilmente
avremo più fortuna: allora domani tu ritorni a quest’ora,
all’incrocio, con Barbillon e la carrozza.»
«Ma tu? Ma tu?»
«Tortillard mi condurrà alla fattoria dove si trova la ragazza; dirà
che ci siamo smarriti, che io sono suo padre, un povero fabbro che
ha perso accidentalmente la vista; che andavamo a Louvres da un
nostro parente che ci poteva aiutare un po’, e che per aver voluto
prendere una scorciatoia ci siamo perduti in mezzo ai campi.
Chiederemo di poter passare la notte alla fatto-
ria, in un angolo della stalla. Di solito vien detto di sì. I
contadini ci crederanno e ci daranno da dormire. Tortillard
esaminerà per bene le porte, le finestre, le uscite della casa:
quando incombe il pagamento del fitto, questa gente, chi più chi
meno, ha sempre del denaro in casa. Lo so bene» aggiunse con
amarezza, «perché anch’io ho avuto un po’ di terre. Siamo nella
prima quindicina di gennaio... è il momento buono, è il periodo di
scadenza delle rate trimestrali... La fattoria si trova, avete
detto, in un luogo isolato; una volta conosciute le porte d’entrata
e d’uscita, potremo ritornarci con gli amici: è un colpo da
organizzare...»
«Il solito cervello, e che acume!» disse la Chouette raddolcita;
«continua pure, furfante.»
«Domani mattina, al momento di lasciare la fattoria, simulerò un
dolore per cui non potrò camminare. Se non mi credono, mostrerò loro
la ferita che mi è rimasta dopo aver spezzato l’anello della catena
di forzato, e che mi fa ancora male. Dirò che è una bruciatura che
mi sono fatto sul lavoro con una sbarra di ferro arroventato; mi
crederanno sicuramente. Così resterò alla fattoria parte della
giornata, in modo che Tortillard possa esaminare tutto con comodo e
per bene... La sera, quando la piccola uscirà, come al solito, con
il prete, dirò di stare meglio e di essere in grado di andarmene. Io
e Tortillard seguiremo la ragazza da lontano, e verremo ad
aspettarla qui, fuori del burrone. Quando ci rivedrà, non avrà paura
perché ci conosce già; la fermeremo... io e Tortillard... e quando
sarà a portata del mio braccio, m’arrangio io; lei è messa a posto e
i mille franchi sono nostri. E non è tutto... dopo due o tre giorni
potremo affidare l’affare della fattoria a Barbillon o ad altri e
poi, se ci sarà qualcosa, la spartiremo con loro, poiché siamo noi
ad aver preparato il furto.»
«Sai, anche senza occhi, sei unico» disse la Chouette baciando il
Maître d’école. «Ma se per caso domani sera la piccola non
riaccompagna il prete?»
«Si ritenterà dopodomani, è uno di quei piatti che vanno mangiati
freddi e lentamente; comunque saranno spese in più da segnare sul
conto del signore in lutto; e poi, una volta alla fattoria, sarò in
grado di giudicare, stando a quello che sentirò dire, se il nostro
piano ci dà la possibilità di rapire la piccola; altrimenti ne
prepareremo un altro.»
«Bene, vecchio mio! È geniale il tuo piano! Senti un po’ furfante,
quando sarai completamente paralizzato dovrai diventare consulente
di ladri; guadagnerai quanto un avvocato. Forza, bacia la tua
Chouette, e muoviti... i contadini qui vanno a letto con
le galline. Io scappo da Barbillon; domani alle quattro saremo alla
croce del bivio con lui e la carrozza, a meno che, nel frattempo,
non lo arrestino per aver fatto fuori il marito della lattaia...
quella della rue de la Vieille-Draperie. Ma se non sarà lui, sarà un
altro, dato che la finta carrozza è del signore in lutto che se ne è
già servito. Un quarto d’ora dopo il nostro arrivo al bivio, verrò
qui ad aspettarti.»
«D’accordo... A domani, Chouette.»
«Che stupida, dimenticavo di dare la cera a Tortillard, nel caso che
ci sia qualche impronta da prendere alla fattoria! Tieni, ma poi sei
capace di usarla, cocco mio?» disse la guercia dando un pezzo di
cera a Tortillard.
«Sì, sì, via; papà me l’ha insegnato. Per lui ho preso l’impronta
della serratura della cassetta di ferro che quel ciarlatano del mio
padrone tiene in uno stanzino buio.»
«Meno male; e non dimenticarti, se vuoi che la cera non resti
attaccata, di scaldarla ben bene con le mani e poi di bagnarla.»
«Lo so, lo so!» rispose Tortillard. «Ma, non vedete che faccio tutto
quello che mi dite, e lo faccio... perché voi, Chouette, mi volete
un tantino di bene, non è vero?
«Se ti voglio bene!... Ti voglio bene come se ti avessi avuto dal
defunto Napoleone il Grande!!!» disse la Chouette, abbracciando
Tortillard che si sentì eccessivamente lusingato da questo paragone
imperiale. «A domani, malandrino.»
«A domani» replicò il Maître d’école. La Chouette andò a raggiungere
la carrozza.
Il Maître d’école e Tortillard uscirono dalla strada bassa e si
avviarono dalla parte della fattoria; la luce che brillava alle
finestre serviva loro da guida.
Strana fatalità che riavvicinava così Anselme Duresnel alla moglie,
la moglie che non aveva più rivisto dopo la condanna ai lavori
forzati.
IV
LA VEGLIA
Niente è più piacevole alla vista della cucina di una grande
fattoria, all’ora di cena, soprattutto d’inverno. Niente può
richiamare di più la calma e il benessere della vita di campagna.
L’interno della cucina della fattoria di Bouqueval avrebbe potuto
costituire benissimo una prova di ciò che sosteniamo.
L’immenso camino, alto sei piedi e largo otto, assomigliava a una
grande bocca di pietra spalancata su una fornace; nel nero focolare
ardeva un vero rogo di faggi e querce. L’enorme braciere mandava
luce e calore in ogni angolo della cucina, e rendeva inutile la luce
di una lampada sospesa alla trave maestra che attraversava il
soffitto.
Grandi pignatte e casseruole di rame nativo allineate su mensole
scintillavano tanto erano pulite; un secchio antico dello stesso
metallo brillava come uno specchio ardente vicino a una madia di
noce, accuratamente lucidata, da dove veniva un appetitoso profumo
di pane fresco. Una tavola lunga, massiccia, coperta da una tovaglia
di grossa tela estremamente pulita, occupava il centro della sala;
ogni commensale aveva al suo posto uno di quei piatti di maiolica
che sono scuri all’esterno e bianchi all’interno, e posate di ferro
lucido come l’argento.
In mezzo alla tavola, una grande zuppiera piena di minestra di
verdura fumava come un vulcano e copriva col saporoso vapore un
enorme piatto di crauti con prosciutto e un altro piatto non meno
enorme di stufato di montone con patate; infine un quarto di vitello
arrosto, tra due file d’insalata invernale e con ai lati
rispettivamente due cesti di mele e due di formaggi, completava la
simmetrica abbondanza di questo pasto. Tre o quattro brocche di
sidro spumante, tre o quattro pagnotte di pane bigio, grandi come
macine da mulino, erano lì a disposizione dei contadini.
Un vecchio cane da pastore, un grifone scuro, quasi sdentato,
emerito decano della razza canina della fattoria, s’era guadagnato,
grazie alla veneranda età e ai servigi resi, il permesso di restare
vicino al fuoco. Approfittando con discrezione e modestia di questo
privilegio, esso allungava il muso sulle zampe anteriori, e si
metteva poi a seguire con occhio attento le varie evoluzioni
culinarie che precedevano la cena.
Il vecchissimo cane rispondeva al nome un po’ bucolico di Lysandre.
Forse i pasti delle persone di questa fattoria, sebbene molto
semplici, potranno sembrare un po’ lauti; ma la signora Georges
(d’accordo in questo con le idee di Rodolphe) faceva il possibile
per migliorare le condizioni dei servitori, scelti esclusivamente
fra i più onesti e laboriosi del paese. Erano generosamente pagati,
le loro condizioni erano diventate buonissime, invidiabilissime;
perciò entrare come massaro alla fattoria di Bouqueval era un po’ il
sogno di tutti i bravi contadini della contrada: innocente ambizione
che teneva desta in loro un’emulazione tanto più lodevole in
quanto volgeva a profitto dei padroni che servivano; poiché nessuno
che non producesse ottime referenze poteva ottenere uno dei posti
vacanti alla fattoria.
Rodolphe creava così su piccolissima scala una specie di fattoria
modello, destinata non solo al miglioramento del bestiame e dei
procedimenti d’aratura, ma soprattutto al miglioramento degli
uomini, e raggiungeva lo scopo esortando gli uomini a essere probi,
attivi, intelligenti.
Dopo aver terminato i preparativi per la cena e aver messo sulla
tavola un grande boccale di vino vecchio destinato ad accompagnare
la frutta, la cuoca della fattoria andò a suonare la campana.
Al gioioso richiamo, contadini, garzoni di fattoria, mungitrici,
allevatrici di polli, in numero di dodici o di quindici, entrarono
allegramente nella cucina. Gli uomini avevano l’aria virile e leale,
le donne erano avvenenti e robuste, le ragazze vivaci e gaie, non
c’era viso che non fosse sereno e che non esprimesse buonumore,
tranquillità e soddisfazione; tutti si apprestavano con innocente
voluttà a fare onore al pasto che si erano meritatamente guadagnati
con le dure fatiche della giornata.
A capotavola si mise un vecchio contadino con capelli bianchi, viso
leale, sguardo franco e aperto, sorriso un po’ ironico; il vero tipo
del contadino di buon senso, di quegli uomini decisi e giusti,
precisi e lucidi, rustici e scaltri, che puzzano lontano un miglio
di spirito gallico.
Il vecchio Châtelain (così si chiamava quel Nestore) lavorava alla
fattoria fin dall’infanzia; per questo aveva l’incarico di capo
contadino. Quando Rodolphe aveva acquistato la fattoria, il vecchio
servitore gli era stato giustamente raccomandato; egli lo tenne e lo
investì, sotto gli ordini della signora Georges, di una specie di
sovrintendenza ai lavori di coltivazione. Il vecchio Châtelain,
grazie all’età, al sapere, all’esperienza, esercitava sul personale
della fattoria una grande influenza.
I contadini presero posto.
Dopo aver recitato a voce alta il Benedicite, il vecchio Châtelain,
obbedendo a un’antica consuetudine religiosa, tracciò con la punta
del coltello una croce su uno dei pani, e ne tagliò un pezzo che
rappresentava la parte della Vergine o la parte del povero; versò
poi un bicchiere di vino sempre recitando la stessa invocazione e
mise il tutto su un piatto che fu devotamente posto al centro della
tavola. In quel momento i cani da guardia proruppero in un abbaiare
furioso; il vecchio Lysandre rispose loro con un sordo grugnito,
alzò il labbro e mostrò due o tre canini ancora degni di rispetto.
«C’è qualcuno sotto il muro del cortile» disse il vecchio Châtelain.
Aveva appena finito di dire queste parole, che la campana
dell’entrata principale suonò.
«Chi può essere, così tardi?» disse il vecchio agricoltore «sono
rientrati tutti... Va’ un po’ a vedere, René.»
Jean-René, uno dei giovani garzoni, lasciò cadere con rincrescimento
nel piatto un’enorme cucchiaiata di minestra fumante sulla quale
soffiava con una forza da far inquietare Eolo, e uscì dalla cucina.
«È la prima volta, dopo molto tempo, che la signora Georges e la
signorina Marie non vengono a sedersi vicino al fuoco per assistere
alla nostra cena» osservò il vecchio Châtelain, «nonostante la gran
fame, mangerò con meno appetito.»
«La signora Georges è salita nella camera della signorina Marie,
perché, dopo avere accompagnato il signor parroco, si è sentita un
po’ male e si è messa a letto» rispose Claudine, la robusta ragazza
che era andata a prendere la Goualeuse alla casa parrocchiale e che,
così facendo, aveva sventato, senza saperlo, i sinistri disegni
della Chouette.
«La nostra buona signorina è soltanto indisposta... non è mica
malata, vero?» domandò il vecchio agricoltore con una punta
d’inquietudine.
«No, no, grazie a Dio, zio Châtelain: la signora Georges ha detto
che non è niente» riprese Claudine; «altrimenti avrebbero mandato a
chiamare a Parigi il signor David, quel medico negro... che ha già
curato la signorina Marie quando è stata ammalata. Eppure un medico
negro fa sempre una certa impressione! Se fosse per me, non avrei
fiducia. Un medico bianco, passi... è un cristiano.»
«Non vi ricordate che il signor David ha guarito la signorina Marie
che, i primi tempi, era in uno stato di prostrazione?»
«Sì, zio Châtelain.»
«Ebbene?»
«Non fa niente, un medico negro ha qualcosa che fa paura.» «Non vi
ricordate che egli ha fatto tornare in piedi la vecchia
Anique che da tre anni non poteva nemmeno scendere dal letto per via
di quella ferita alle gambe che aveva?»
«Sì, sì, zio Châtelain.»
«Ebbene! figliola?»
«Sì, zio Châtelain; ma un medico negro... immaginatevelo un
po’... tutto nero, tutto nero...»
«Stammi a sentire, figliola: di che colore è Musette, la tua
giovenca?»
«Bianca, zio Châtelain, bianca come un cigno, e fa molto latte;
questo posso dirlo con sicurezza, senza rischio di mentire.»
«E Rosette, la tua giovenca?»
«Nera come un corvo, zio Châtelain; anch’essa fa molto latte,
bisogna essere giusti con tutti.»
«E il latte di questa tua giovenca nera, di che colore è?»
«Ma... bianco, zio Châtelain... è molto semplice, bianco come la
neve.»
«Buono e bianco come quello di Musette?»
«Ma sì, zio Châtelain,»
«Anche se Rosette è nera?»
«Anche se Rosette è nera... Che cosa c’entra che la mucca sia
nera, rossa o bianca?»
«Non c’entra niente?»
«Assolutamente niente, zio Châtelain.»
«Orbene, figliola, perché non ammetti che un medico negro
valga quanto un medico bianco?»
«Caspita... zio Châtelain, io alludevo alla pelle, disse la ra-
gazza dopo un momento di profonda meditazione. Ma effettivamente,
poiché Rosette la nera fa latte bianco come Musette la bianca, la
pelle non c’entra.»
Le riflessioni fisiognomiche di Claudine sulla differenza della
razza bianca e nera furono interrotte dal ritorno di Jean-René, che
si soffiava sulle dita con la stessa forza con cui aveva soffiato
sulla minestra.
«Oh, che freddo! che freddo fa questa notte... gela da spaccare le
pietre» disse entrando; «con un tempo simile, si sta meglio dentro
che fuori. Che freddo!»
«Gelo portato da vento di levante sarà aspro e lungo; questo,
ragazzo, devi saperlo. Ma chi ha suonato?» chiese il decano dei
contadini.
«Un povero cieco e un ragazzetto che lo guida, zio Châtelain.»
V L’OSPITALITÀ
«Cosa vuole, questo cieco?» domandò il vecchio Châtelain a
Jean-René.
«Il pover’uomo e suo figlio si sono smarriti perché hanno voluto
prendere una scorciatoia per andare a Louvres; siccome fa un freddo
cane ed è notte fonda, poiché il cielo è coperto, il cieco e suo
figlio chiedono di pernottare alla fattoria, in un angolo della
stalla.»
«La signora Georges è tanto buona da non rifiutare mai l’ospitalità
a un infelice; dirà sicuramente che si dia da dormire a questi
poveretti... ma bisogna avvertirla. Claudine, vai tu ad avvertirla.»
Claudine sparì.
«Dove aspetta il buon uomo?» domandò il vecchio Châtelain. «Nel
fienile piccolo.»
«Perché l’hai portato nel fienile?»
«Se il cieco e suo figlio fossero rimasti nel cortile, i cani se li
sa-
rebbero mangiati vivi. Sì zio Châtelain, avevo un bel dire: “Buono,
Médor qui, Turc... giù, Sultan!...”. Non li ho mai visti così
scatenati. Eppure alla fattoria non si insegna ai cani a saltare
addosso ai poveri come si fa in tanti altri posti...»
«Figlioli, credo che questa sera la parte del povero dovremo proprio
darla a qualcuno... stringetevi un tantino... Bene! Mettiamo ancora
due coperti, uno per il cieco l’altro per il figlio; sono sicuro che
la signora Georges permetterà loro di passare la notte qui.»
«È strano, tuttavia, che i cani siano così furiosi» si disse
JeanRené; «Turc, soprattutto, che Claudine ha portato con sé quando
è andata questa sera alla casa parrocchiale... sembrava un
ossesso... Quando, tanto per calmarlo, l’ho lasciato, ho sentito che
gli si era rizzato il pelo della schiena... sembrava quello di un
porcospino. Cosa pensate di questo fatto, eh, zio Châtelain, voi che
sapete tutto?»
«Io dico, ragazzo, io che so tutto, che le bestie ne sanno più di
me... Questo autunno quando ci fu quell’uragano che aveva
trasformato il ruscello in torrente, e io me ne tornavo che era
notte fonda, con i miei cavalli da fatica montato su un vecchio
roano, che il diavolo mi porti se avrei potuto sapere dov’era il
punto guadabile, dal momento che ci si vedeva come in un forno!...
Ebbene! ho mollato le briglie e il vecchio roano ha trovato da solo
quello che noi tutti non avremmo certo trovato... Chi gli ha fatto
trovare il punto guadabile?»
«Sì, zio Châtelain, chi glielo ha fatto trovare, al vecchio roano?»
«Colui che ha insegnato alle rondini a costruire il nido sui tetti,
e alle cutrettole a costruire il nido nei canneti, ragazzo... Eb-
bene, Claudine» disse il vecchio oracolo alla ragazza che entrava in
quel momento con sotto il braccio due paia di lenzuola belle
bianche, che profumavano di salvia e di verbena, «ebbene, la signora
Georges ha lasciato che il cieco e il figlio cenino e dormano qui,
vero?»
«Queste sono le lenzuola per preparare loro i letti nella cameretta
in fondo al corridoio» disse Claudine.
«Su, Jean-René, va’ a chiamarli... E tu, figliola, accosta al fuoco
due seggiole, così si scalderanno un po’ prima di mettersi a
tavola... perché il freddo è pungente questa sera.»
Si sentì ancora l’abbaiare furioso dei cani e la voce di Jean-René
che cercava di calmarli.
La porta della cucina si aprì bruscamente: il Maître d’école e
Tortillard entrarono precipitosamente come se avessero avuto
qualcuno che li inseguiva.
«Tenete un po’ a bada i vostri cani» esclamò il Maître d’école,
spaventato; «è mancato poco che ci mordessero.»
«Mi hanno fatto uno strappo sul camiciotto» disse Tortillard ancora
pallido per la paura.
«Mi dispiace, buon uomo» disse Jean-René chiudendo la porta; «ma non
ho mai visto i nostri cani così cattivi... Deve essere il freddo che
li irrita... Non possono avere altre ragioni; forse vogliono mordere
per scaldarsi!»
«Eccone un altro, adesso» disse il contadino fermando il vecchio
Lysandre nel momento in cui stava per avventarsi sui nuovi arrivati,
ringhiando minacciosamente. «Ha sentito gli altri cani abbaiare
furiosamente e vuol fare come loro... Vuoi andare subito a cuccia,
vecchio selvaggio... a cuccia...»
E il vecchio Châtelain accompagnò le parole con un calcio eloquente;
tanto che Lysandre andò a riprendersi, senza per questo cessare di
ringhiare, il posto prediletto accanto al fuoco.
Il Maître d’école e Tortillard erano ancora sulla porta della
cucina; avevano paura d’entrarci.
Avvolto in un mantello blu con il collo di pelliccia, il cappello
calcato su un berretto scuro che gli nascondeva quasi interamente la
fronte, il brigante teneva per mano Tortillard, il quale gli si
stringeva contro guardando con diffidenza i contadini; la lealtà di
quei visi sconcertava e quasi impauriva il figlio di Bras-Rouge.
Anche i malvagi hanno le loro simpatie e le loro antipatie.
La faccia del Maître d’école era così ributtante, che i contadini,
presi chi da disgusto chi da terrore, rimasero per un istante
esterrefatti. Quest’impressione non sfuggì a Tortillard; la paura
che notò nei contadini lo tranquillizzò, si sentì fiero dello
spavento che incuteva il compagno. Subito dopo la prima impressione,
il vecchio Châtelain, che pensava solo ad adempiere i doveri
dell’ospitalità, disse al Maître d’école:
«Buon uomo, venite vicino al fuoco; prima vi scalderete, poi
cenerete con noi, dal momento che siete arrivato proprio mentre
stavamo andando a tavola. Guardate, sedetevi là. Ma dove ho la
testa!» aggiunse il vecchio Châtelain; «non devo rivolgermi a voi ma
a vostro figlio, dato che voi, disgraziatamente, siete cieco. Su,
ragazzo, conduci tuo padre vicino al focolare.»
«Sì, buon signore» rispose Tortillard con tono nasale, mellifluo e
ipocrita; «che il buon Dio ve ne renda merito... ! Seguimi, povero
papà, seguimi... stai attento.» E il ragazzo guidò i passi del
furfante.
Tutti e due andarono vicino al focolare.
Dapprima Lysandre ringhiò sordamente: ma, un istante dopo avere
fiutato il Maître d’école, emise quella specie di lugubre ululato
che fa dire comunemente che i cani urlano a morte.
“Diavolo!” disse fra sé il Maître d’école. “Fiutano proprio il
sangue, queste maledette bestie? Avevo questi calzoni la notte
dell’assassinio del mercante di buoi...”
“Eppure è strano” disse a voce bassa Jean-René, “che il vecchio
Lysandre continui a fiutare quel buon uomo e poi si metta urlare a
morte!”
Accadde allora una cosa strana.
Gli ululati di Lysandre erano così acuti, così lamentosi che gli
altri cani non ebbero difficoltà a sentirli (una sola finestra
divideva il cortile della fattoria dalla cucina), e subito, secondo
le abitudini della razza canina, incominciarono tutti a far eco ai
guaiti lamentosi.
Benché non molto superstiziosi, i massari si guardarono a vicenda
quasi con terrore.
Infatti era strano quello che stava succedendo.
Un uomo che non avevano potuto considerare senza inorridire entrava
nella fattoria. In quel preciso momento i cani della fattoria, che
fino ad allora erano rimasti tranquilli, diventavano furiosi e
incominciavano a lanciare quegli ululati sinistri che, secondo la
credenza popolare, sono forieri di morte.
Il brigante stesso, pur essendo un duro e un mostro d’audacia, non
poté non trasalire nel momento in cui sentì le urla luttuose e
funeree... che scoppiavano al suo arrivo, contro di lui...
assassino.
Soltanto Tortillard, scettico, sfrontato come tutti i ragazzi di
Parigi, corrotto per così dire fin da quando poppava, rimase
indifferente all’insegnamento morale di quella scena. Ormai al
sicuro dai morsi dei cani, il nostro cinico mostriciattolo
s’infischiò di ciò che angosciava gli abitanti della fattoria e che
faceva rabbrividire anche il Maître d’école.
Passato il primo momento di stupore, Jean-René uscì, e poco dopo si
sentì lo schioccare della sua frusta; i lugubri presentimenti di
Turc, Sultan e Médor cessarono. A poco a poco le facce rattristate
dei contadini si rasserenarono. Dopo un po’ cominciarono a provare
più compassione che ribrezzo per la spaventosa bruttezza del Maître
d’école; si mostrarono dispiaciuti della disgrazia del piccolo
zoppo, gli trovarono una faccia furba e molto interessante e
approvarono caldamente le cure premurose che prodigava al padre.
L’appetito, che un momento prima i contadini avevano perso, si fece
sentire ancora di più e per un po’ si sentì solo il rumore delle
posate.
Benché tutti intenti a divorare i loro semplici cibi, uomini e donne
s’intenerivano al notare le attenzioni del ragazzo per il cieco,
vicino al quale egli stava seduto. Tortillard gli preparava i
bocconi, gli tagliava il pane, gli versava da bere con cura tutta
filiale.
Questo era il dritto della medaglia, il rovescio era ben diverso.
Se Tortillard, dietro l’esempio della Chouette che andava fiero in
tal modo di imitare e a cui voleva bene quasi con dedizione, provava
un feroce piacere a tormentare il Maître d’école, questo era da
attribuirsi in parte alla sua crudeltà in parte allo spirito di
emulazione tipico della sua età. Come era possibile che un ragazzo
così perverso sentisse il bisogno di essere amato? Come mai
l’affetto insincero della guercia poteva renderlo felice? Come mai,
infine, poteva commuoversi al lontano ricordo delle carezze materne?
Si trattava ancora una volta di una di quelle frequenti e numerose
anomalie che, di tanto in tanto, vengono a incrinare la compatta
uniformità del vizio.
Abbiamo già detto che Tortillard, così debole, provava, al pari
della Chouette, un piacere indicibile ad avere, come propria
vittima, una tigre con la museruola... perciò al momento di sedersi
a tavola con i contadini, gli balenò la trista idea di volere
costringere il Maître d’école a sopportare le sue cattive maniere
senza battere ciglio, cosa che gli avrebbe procurato un piacere
sottilissimo.
Ripagò così tutte le visibili attenzioni che aveva prodigato al
finto padre con altrettanti calci allungati sotto il tavolo e
diretti
in particolar modo a una vecchia ferita del Maître d’école; questi
infatti, come molti detenuti, aveva una larga escoriazione sulla
gamba, là dove poggiava l’anello della catena di forzato.
Per nascondere il proprio dolore a ogni colpo di Tortillard, il
brigante dovette fare appello a un coraggio tanto più stoico, in
quanto il nostro piccolo mostro, per mettere la propria vittima in
una situazione ancora più difficile, sceglieva per i suoi attacchi
il momento in cui il Maître d’école o beveva o parlava.
Tuttavia quest’ultimo non smentì la sua fama d’impassibile, anzi
contenne meravigliosamente la collera e il dolore perché pensava (e
il figlio di Bras-Rouge ci aveva fatto conto) che, per la buona
riuscita dei suoi progetti, sarebbe stato molto pericoloso far
sospettare quello che succedeva sotto la tavola.
«Prendi, povero papà, ecco una noce bell’e pulita» disse Tortillard,
mettendo nel piatto del Maître d’école uno di quei frutti che aveva
accuratamente tirato fuori dal mallo.
«Bravo, figliolo,» disse il vecchio Châtelain; poi, rivolgendosi al
brigante: «certo, buon uomo, siete davvero da compiangere; ma avete
un figlio tanto buono... che sarà un po’ un sollievo per voi.»
«Sì, sì, la mia disgrazia è grande; e senza la tenerezza del mio
caro figliolo... io...»
Il Maître d’école non poté trattenere un grido acuto. Questa volta
il figlio di Bras-Rouge aveva centrato in pieno la ferita; il dolore
fu insopportabile.
«Dio mio!... che cos’hai povero papà?» esclamò Tortillard con voce
lacrimosa e, alzatosi, si gettò al collo del Maître d’école.
Il Maître d’école ebbe subito un moto di collera e di rabbia;
avrebbe voluto soffocare lo zoppetto fra le braccia erculee, si
limitò invece a stringerlo così violentemente contro il petto, che
il ragazzo, sentendosi mancare il respiro, lasciò andare un gemito
sordo.
Ma, poi, pensando che non poteva fare a meno di Tortillard, il
Maître d’école si trattenne e lo respinse sulla sedia.
In tutto ciò i contadini non videro che uno scambio di effusioni
paterne e filiali: il pallore e l’affanno di Tortillard, li
attribuirono ai buoni sentimenti di quel figliolo.
«Che cosa avete, buon uomo?» domandò il vecchio Châtelain. «Il grido
di poco fa ha fatto impallidire vostro figlio... Povero piccolo...
Guardate, può appena respirare!»
«Non è niente» rispose il Maître d’école che aveva riacquistato
intanto il suo sangue freddo. «È una conseguenza del mio
mestiere di fabbro ferraio; tempo fa m’è caduta sulle gambe una
sbarra di ferro incandescente che stavo lavorando col martello, e mi
sono fatto una bruciatura così profonda che non si è ancora
cicatrizzata... Poco fa ho urtato contro la gamba della tavola, e
non ho potuto trattenere un grido di dolore.»
«Povero papà!» disse Tortillard, rimessosi dallo spavento e gettando
uno sguardo diabolico al Maître d’école, «povero papà! eppure è
vero, buona gente, non hanno mai potuto guarirgli la gamba ahimè!
no, mai! Oh, vorrei tanto avere io il suo male, perché lui non ne
soffra più, povero babbo...»
Le donne guardarono intenerite Tortillard.
«Ebbene, buon uomo» riprese il vecchio Châtelain, «è una vera
sfortuna che non siate venuto alla fattoria tre settimane fa, invece
di venire questa sera.»
«Perché?»
«Perché abbiamo avuto qui, per alcuni giorni, un dottore di Parigi
che ha un rimedio eccellente per le malattie alle gambe. Una buona
vecchia del paese da tre anni non poteva più camminare; il dottore
le ha messo un po’ del suo unguento sulle ferite... Adesso, corre
come il vento e si ripromette, non appena possibile, di andare a
piedi fino a Parigi, all’allée des Veuves per ringraziare il suo
salvatore... Da qui c’è un bel pezzo di strada, non trovate? Ma che
cosa avete? ancora quella maledetta ferita?»
Il nome di allée des Veuves richiamava alla memoria del Maître
d’école ricordi così terribili, che egli non aveva potuto fare a
meno di trasalire e di contrarre i muscoli dell’orribile volto.
«Sì» rispose ricomponendosi, «ancora una fitta...»
«Papà caro, stai tranquillo, stasera ti farò dei buoni impacchi alla
gamba,» disse Tortillard.
«Povero piccolo!» disse Claudine, «come vuol bene a suo padre!»
«È un vero peccato» riprese il vecchio Châtelain rivolgendosi al
Maître d’école, «che quel medico esimio non sia qui ma, tutto
considerato, la sua carità è pari alla sua bravura; quando ritornate
a Parigi, fatevi condurre da vostro figlio a casa sua, egli vi
guarirà, ne sono sicuro; il suo indirizzo è facile da ricordare:
allée des Veuves, n. 17. Se dimenticate il numero... non fa niente,
in quei paraggi non ci sono molti medici e soprattutto medici
negri... perché, pensate un po’, l’ottimo dottor David è negro.»
Il volto del Maître d’école era talmente fitto di cicatrici, che non
ci si poté accorgere del suo pallore.
Eppure egli impallidì... impallidì spaventosamente al sentire
dapprima il numero della casa di Rodolphe, e poi al sentir parlare
di David... il dottore negro...
Di quel negro che, per ordine di Rodolphe, gli aveva inflitto un
supplizio spaventoso, di cui subiva in ogni momento le terribili
conseguenze.
La giornata era funesta per il Maître d’école.
La mattina, aveva sopportato le torture della Chouette e del figlio
di Bras-Rouge; arrivato alla fattoria, i cani fiutano in lui
l’assassino, urlano a morte e vogliono morderlo; infine il destino
lo porta in una casa dove, qualche giorno prima, si trovava il suo
carnefice.
Prese a una a una, queste circostanze avrebbero potuto volta per
volta suscitare nel brigante rabbia o spavento, ma, susseguendosi
una dietro l’altra nello spazio di poche ore, gli infersero un colpo
violento.
Per la prima volta in vita sua provò una specie di terrore
superstizioso... si domandò se il destino non fosse il solo artefice
di coincidenze così strane.
Il vecchio Châtelain, non essendosi accorto del pallore del Maître
d’école, riprese:
«Del resto, buon uomo, quando ve ne andrete, daremo l’indirizzo del
dottore a vostro figlio, e sarà un vero piacere per il signor David
avere la possibilità di essere utile a qualcuno: è così buono, così
buono! peccato che abbia sempre un’aria così triste... Ma, su,
beviamo un bicchiere alla salute del vostro futuro salvatore.»
«Grazie, non ho più sete» disse il Maître d’école con aria cupa.
«Su bevi, papà caro, bevi un po’, farà bene... al tuo povero
stomaco» aggiunse Tortillard, mettendo il bicchiere tra le mani del
cieco.
«No, no, non voglio più bere,» rispose quest’ultimo.
«Non è mica sidro quello che vi ho versato, ma vino vecchio» disse
il contadino. «Vino come questo non lo bevono tutti i signorotti.
Perbacco! Questa non è una fattoria come tante altre. Cosa ne dite
della nostra mensa?»
«È molto buona» rispose macchinalmente il Maître d’école sempre più
assorto in cupi pensieri.
«Ebbene! ogni giorno è così: buon lavoro e buon mangiare; buona
coscienza e buon letto; ecco la nostra vita in due parole: siamo in
sette coltivatori e, modestamente, facciamo il lavoro di
quattordici, ma siamo pagati come se fossimo quattordici. Ai
semplici contadini, 150 scudi all’anno; alle mungitrici e alle
ragazze di fattoria, 60 scudi! e un quinto dei prodotti della
fattoria da dividere fra noi. Perbacco! è chiaro che noi la terra
non la lasciamo riposare un attimo, perché più la vecchia nutrice
produce, più noi ricaviamo.»
«Il vostro padrone non deve certo arricchirsi se vi favorisce così»
osservò il Maître d’école.
«Il nostro padrone!... Oh! ma non è mica un padrone come gli altri.
S’arricchisce in un modo ch’è tutto suo.»
«Cosa volete dire?» domandò il cieco, che desiderava impegnarsi in
una conversazione per sfuggire alle idee nere che lo tormentavano;
«il vostro padrone allora è un uomo straordinario?»
«Straordinario in tutto, buon uomo; ma vedete voi, qui, siete
arrivato per caso, perché il paese è lontano da tutte le strade
maestre. Certo non ritornerete più qui; non dovete lasciarlo senza
sapere almeno chi è il nostro padrone e quello che ha fatto per
questa fattoria; in poche parole ve lo dirò, a patto però che lo
ripetiate a tutti... vedrete, sono cose che fanno piacere sia a chi
le dice sia a chi le sente.»
«Vi ascolto» replicò il Maître d’école.
VI
UNA FATTORIA MODELLO
«E non sarete dispiaciuto di avermi ascoltato» disse il vecchio
Châtelain al Maître d’école. «Figuratevi che un giorno il nostro
padrone s’è detto, “Sono molto ricco, va bene; ma, poiché questo non
è che mi faccia mangiare di più, perché non far mangiare coloro che
non mangiano affatto e far mangiare meglio la brava gente che non
mangia abbastanza?... Sì, sì, l’idea mi va, presto all’opera!”. E il
nostro padrone s’è messo all’opera. Ha comperato questa fattoria,
che allora non era molto sfruttata e aveva soltanto due aratri; io
lo so bene, sono nato qui. Il nostro padrone ha aumentato le terre,
saprete subito il perché. Alla direzione della fattoria mise una
brava donna, rispettabile quanto disgraziata, lui sceglie sempre
così, e le ha detto:
“Questa casa sarà come la casa del buon Dio, aperta ai buoni, chiusa
ai cattivi; gli accattoni infingardi ne saranno scacciati, ma si
farà l’elemosina del lavoro a coloro che hanno buona volontà:
quest’elemosina non umilia chi la accetta e dà profitto a chi la fa:
il ricco che non la fa è un cattivo ricco”. È il nostro padrone che
l’ha
detto; e in verità, ha ragione, ma egli non parla solo bene, agisce
anche. Una volta c’era una strada diretta da qui a Ecouen che
accorciava il percorso di una buona lega; ma, perbacco, era così
rovinata che non ci si poteva più passare, era la rovina dei cavalli
e delle carrozze; alcune prestazioni di lavoro e un po’ di denaro
forniti da ognuno dei fattori del paese avrebbero rimesso a posto la
strada; ma più si aveva voglia di vedere la strada a posto, più si
torceva il naso quando si trattava di fornire il denaro e il lavoro.
Stando così le cose, il nostro padrone disse: “La strada sarà fatta;
ma, siccome quelli che potrebbero contribuirvi non vi
contribuiscono, siccome è una strada quasi di lusso, un giorno
gioverà a coloro che hanno cavalli e carrozze; ma dapprima gioverà a
quelli che hanno solo un paio di braccia, un po’ di buona volontà e
sono senza lavoro.” Così, per esempio, un giovanotto robusto bussa
alla porta della fattoria dicendo: “Ho fame e sono senza lavoro”.
“Ragazzo, ecco una buona minestra, una zappa e una pala; poi sarete
condotto sulla strada di Ecouen, fate ogni giorno due tese di
acciottolato, ogni sera avrete 40 soldi, una tesa 20 soldi, mezza
tesa 10 soldi, altrimenti niente.” “Io, all’imbrunire, di ritorno
dai campi, ispezionerò la strada e controllerò quello che ciascuno
ha fatto.”»
«E se si pensa che ci sono stati due ingrati così furfanti da
mangiare la minestra e da rubare la zappa e la pala!» disse JeanRené
con indignazione, «si perderebbe la voglia di fare il bene.»
«È vero» dissero alcuni contadini.
«Suvvia, ragazzi!» riprese il vecchio Châtelain. «Allora... non si
farebbero più piantagioni né semine perché ci sono i bruchi, i
punteruoli e altre brutte bestiole che divorano le foglie o che
mangiano il grano? No, no, si distruggono i parassiti; il buon Dio,
che non è avaro, fa spuntare nuovi germogli, nuove spighe, il danno
è riparato e non ci si accorge nemmeno che gli insetti nocivi sono
passati di lì. Non è vero, buon uomo?» disse il vecchio contadino al
Maître d’école.
«Certo, certo» replicò costui, che da un po’ di tempo sembrava
assorto in profonde meditazioni.
«In quanto alle donne e ai bambini, c’è lavoro anche per loro e
adeguato alle loro forze» aggiunse il vecchio Châtelain.
«E nonostante ciò» disse Claudine, la mungitrice, «la strada non va
avanti in fretta.»
«Caspita, figliola, questo dimostra che, per fortuna, in paese la
brava gente non è senza lavoro.»
«Ma a un infermo, a me, per esempio» disse a un tratto il Maître
d’école, «mi si farebbe la carità di un posto in un angolo
della fattoria, di un tozzo di pane e di un tetto, per il poco tempo
che mi resta da vivere? Oh, se mi venisse fatta questa carità,
passerei, buona gente, tutta la mia vita a ringraziare il vostro
padrone.»
In quel momento il brigante parlava sinceramente. Non che si
pentisse dei delitti; ma l’esistenza quieta e felice di quei
contadini lo attirava tanto più, in quanto pensava al terribile
avvenire che gli riservava la Chouette: avvenire che egli era stato
ben lungi dal prevedere, e che gli faceva rimpiangere ancora più
d’essersi unito di nuovo alla sua complice e di avere così perduto
per sempre la possibilità di vivere con la brava gente presso la
quale lo Chourineur l’aveva sistemato.
Il vecchio Châtelain guardò il Maître d’école con stupore.
«Ma pover’uomo, non credevo che foste del tutto privo di mezzi.»
«Ahimè! Dio, sì... ho perduto la vista in un incidente sul lavoro.
Vado a Louvres a chiedere aiuto a un lontano parente; ma, sapete, a
volte gli uomini sono tanto egoisti, tanto duri...» disse il Maître
d’école.
«Oh non c’è egoismo che tenga» replicò il vecchio Châtelain; «un
bravo e onesto operaio pari vostro, infelice come siete, con un
ragazzo tanto affettuoso e buono, muoverebbe a pietà i sassi. Ma il
padrone presso il quale lavoravate prima dell’incidente non fa
niente per voi?»
«È morto» rispose il Maître d’école dopo un momento di esitazione;
«ed era l’unico protettore che avevo.»
«Ma, all’ospedale dei ciechi?»
«Non ho ancora l’età per entrarci.»
«Pover’uomo! siete veramente disgraziato!»
«Se non trovo a Louvres l’aiuto che spero, ebbene pensate che
il vostro padrone che, pur non conoscendolo, stimo già, avrà pietà
di me?»
«Purtroppo, vedete, la fattoria non è un ospedale. Di solito si
permette a chi ha qualche infermità di passare un giorno o una notte
alla fattoria, poi si dà loro qualcosa, e che il buon Dio li aiuti!»
«Quindi non c’è speranza che il vostro padrone s’interessi alla mia
triste sorte?» continuò il brigante con un sospiro di
rincrescimento.
«Io, buon uomo, vi dico quello che generalmente si fa; ma il nostro
padrone è così buono, così generoso, che è capace di tutto.»
«Credete?» esclamò il Maître. «Potrebbe darsi che egli mi lasci
vivere qui in un angolo? Ne sarei così contento!»
«Vi ripeto che il nostro padrone è capace di tutto. Se ci dice di
tenervi alla fattoria, non dovreste nascondervi in un angolo;
sareste trattato come noi!... come oggi. Vostro figlio avrebbe un
lavoro adeguato alle sue forze; i buoni consigli e i buoni esempi
non gli mancherebbero; il nostro venerabile parroco lo istruirebbe
assieme agli altri ragazzi del paese, e crescerebbe, come si dice,
in bene. Ma, vedete, bisognerebbe che domani mattina si parlasse
chiaramente di questa faccenda con la Notre-Dame-deBon-Secours.»
«Chi è?» chiese il Maître d’école.
«Chiamiamo così la nostra padrona. Se si interessa a voi, potete
stare tranquillo. In fatto di carità, il nostro padrone non sa
rifiutarle niente.»
«Oh, allora le parlerò, le parlerò!» esclamò il Maître d’école,
lieto di potersi così sottrarre alla tirannia della Chouette.
Dinanzi a questa prospettiva, rimase tutt’altro che indifferente,
invece, Tortillard, che non si sentiva per niente disposto ad
approfittare delle offerte del vecchio contadino, e a crescere in
bene sotto gli auspici di un santo prete. Il figlio di Bras-Rouge
non aveva molta inclinazione per la vita rustica né tantomeno
sentimenti bucolici; d’altra parte, fedele alle tradizioni della
Chouette, avrebbe visto con vivo dispiacere il Maître d’école
sottrarsi al loro comune dispotismo; voleva perciò richiamare alla
realtà il brigante che si smarriva già fra le verdi illusioni della
campagna.
«Oh, sì» ripeté il Maître d’école, «parlerò a
Notre-Dame-deBon-Secours... ella avrà pietà di me... e...»
A questo punto Tortillard diede, senza farsi notare, una gran pedata
che colpì il Maître d’école nel punto giusto.
Per la sofferenza il bandito s’interruppe, lasciando a metà la
frase, poi ripeté con un sussulto di dolore:
«Sì, spero che questa buona signora avrà pietà di me.»
«Povero babbo» disse allora Tortillard «tu non tieni affatto conto
della signora Chouette, quella mia buona zia, che ti vuol tanto
bene. Povera zia Chouette!... oh! vedrai che non ti abbandonerà
certo così! Tu sai che sarebbe capace di venire qui col signor
Barbillon, nostro cugino, per riaverti.»
«Il buon uomo è apparentato con i pesci e gli uccelli» disse pian
piano Jean-René con tono pieno di malizia e dando una gomitata a
Claudine, la sua vicina.
«Sei proprio senza cuore! ridere di questi disgraziati» rispose a
bassa voce la ragazza, dando a sua volta a Jean-René una gomitata da
rompergli tre costole.
«È una vostra parente la signora Chouette?» domandò il contadino al
Maître d’école.
«Sì, è una nostra parente» rispose quest’ultimo in preda a cupa
tristezza.
Egli temeva, nel caso trovasse insperatamente asilo alla fattoria,
che la guercia, malvagia com’era, venisse a denunciarlo; temeva
inoltre che i suoi cosiddetti parenti che Tortillard aveva tirato in
ballo facessero sospettare qualcosa per via dei loro strani nomi; ma
quanto a ciò, i suoi timori risultarono infondati; solo Jean-René
prese lo spunto per sussurrare all’orecchio di Claudine una facezia
che, peraltro, non fu molto bene accetta.
«Andate a trovare questa parente a Louvres?» chiese il vecchio
Châtelain.
«Sì» rispose il brigante, «ma credo che mio figlio si sbagli se fa
troppo assegnamento su di lei.»
«Oh! povero papà, non mi sbaglio... no... La zia Chouette è così
buona!... Lo sai bene anche tu che è stata lei a mandarti l’acqua
con cui ti faccio gli impacchi alla gamba... e a spiegarci l’uso che
se ne deve fare... È stata lei a dirmi: “Fai per il tuo povero papà
tutto quello che io stessa farei, e avrai la benedizione del buon
Dio...” Oh, la zia Chouette... ti vuol bene, ma ti vuol tanto bene
che...»
«Va bene, va bene,» disse il Maître d’école interrompendo
Tortillard, «comunque questo non vuol dire che domani mattina non
parlerò alla buona signora del posto... e che non implorerò perché
ella intervenga a mio favore presso il rispettabile proprietario di
questa fattoria ma» aggiunse per cambiare discorso e metter fine ai
pericolosi discorsi di Tortillard, «ma, a proposito del
proprietario, avevate promesso di dirmi quello che c’è di speciale
nell’organizzazione di questa fattoria.»
«Ve l’ho promesso» disse il vecchio Châtelain, «e manterrò la
promessa. Il nostro padrone, dopo aver istituito quella che chiama
l’elemosina del lavoro, si è detto: ci sono riconoscimenti e premi
per chi vuole migliorare le razze dei cavalli e del bestiame o vuole
perfezionare gli aratri e gli altri numerosi attrezzi... Credo
proprio che sarebbe tempo di pensare un po’ anche a rendere migliori
gli uomini... Belle bestie, va bene; ma rendere buona la gente
sarebbe ancora meglio, anche se la cosa è più difficile. Tanta biada
ed erba fitta, acqua fresca e aria pura, governo continuo
e stalla pronta, cavalli e bestiame cresceranno benissimo e vi
daranno soddisfazione; ma per gli uomini è tutta un’altra cosa:
l’uomo non cresce in virtù come il bue in grossezza. I pascoli
giovano, perché l’erba, riuscendo saporita al palato del bue, piace
e nello stesso tempo fa ingrassare; ebbene, penso che l’uomo metterà
a profitto i buoni consigli, solo se riuscirà a fare in modo che,
seguendoli, egli ci trovi il suo tornaconto...»
«Come il bue ci trova il suo mangiando l’erba buona, vero, zio
Châtelain?»
«Proprio così, ragazzo.»
«Ma zio Châtelain» disse un altro contadino, «non si parlava tempo
fa di un tipo di fattoria dove alcuni giovani ladri che, furti a
parte, erano stati comunque molto onesti, imparavano a coltivare i
campi e si vedevano trattare come principi?»
«È vero, figlioli; c’è del buono in questa iniziativa, è umano e
caritatevole sperare sempre anche nei malvagi; ma dobbiamo far
sperare anche i buoni. Se qualche giovane, onesto e laborioso, che
sia ben piantato e che abbia voglia di far bene e di imparare, si
presentasse a questa fattoria di ex ladri, si sentirebbe dire:
“Giovanotto, non hai mai rubato, mai fatto il vagabondo?”. “Mai.”
“Ebbene, qui non c’è posto per te.”»
«È proprio vero quello che avete detto, zio Châtelain» osservò
Jean-René. «Non si fa per la gente onesta ciò che, invece, si fa per
i furfanti; si rendono migliori le bestie e non gli uomini.»
«Proprio per dare l’esempio, figliolo, e porre rimedio a ciò, il
padrone, come sto dicendo al nostro buon uomo, ha istituito questa
fattoria... “So” ha detto “che lassù i buoni saranno ricompensati;
ma lassù... perbacco! è troppo in alto, è troppo lontano; e alcuni
(bisogna compatirli, figlioli) non hanno la vista e il fiato
sufficienti per arrivare fin là; e poi dove troverebbero il tempo
per guardare lassù? Il giorno, dall’alba al tramonto, chini sulla
terra, la vangano e la rivangano per un padrone; la notte, dormono
sfiniti sul loro giaciglio... La domenica, vanno all’osteria e
s’ubriacano per dimenticare le fatiche di ieri e di domani. Queste
fatiche, inoltre, non portano loro alcun frutto, poveretti! Dopo una
faticosa giornata, il loro pane è forse meno nero, il loro letto
meno duro, il loro bambino meno gracile, la loro moglie meno esausta
a forza di nutrirlo?... nutrirlo!... lei che non mangia quanto
dovrebbe! No, no, no!... Certo, figlioli, so anche troppo bene che
il loro pane, anche se nero, è sempre pane; che il loro giaciglio è
duro, ma è un letto; i loro bambini sono gracili, è vero, ma vivono.
Questi disgraziati forse sopporterebbero in tutta allegria la loro
sor-
te se sapessero che tutti sono come loro. Ma, quando è giorno di
mercato, vanno in città o in paese e lì vedono pane bianco, morbidi
e grossi materassi, bambini in fiore come rose di maggio, e così
pieni da gettare i dolci ai cani. Perbacco!... allora, quando
ritornano alla capanna di terra, al pane nero, al giaciglio, questi
poveretti si dicono, vedendo com’è ammalato, magro, affamato il
figlioletto a cui ben volentieri avrebbero voluto portare uno di
quei dolci che i bambini dei ricchi gettavano ai cani: ‘dal momento
che ci devono essere i ricchi e i poveri, perché non siamo noi i
ricchi? È una cosa ingiusta... Perché non si fa a turno?’. Quello
che pensano, figlioli, non è sbagliato... e non serve certo ad
alleggerire il loro giogo; eppure questo giogo duro e pesante, che a
volte scortica e schianta, devono portarlo senza posa e senza mai
speranza di riposo... e anche senza mai speranza di conoscere un
giorno, dico un giorno solo, la felicità che dà l’agiatezza... Una
vita tutta così, caspita! sembra lunga... lunga come un giorno di
pioggia e senza un piccolo raggio di sole. Allora si va al lavoro
tristi e avviliti. Si finisce, come la maggior parte dei salariati,
col dirsi: ‘A cosa serve lavorare meglio e di più? che le spighe
siano gonfie o vuote, per noi è lo stesso! Perché impegnarsi tanto
da crepare? Restiamo onesti quanto basta; il male viene punito,
allora non facciamo del male; il bene non trova ricompense; allora
non facciamo neppure del bene... Limitiamoci a mostrare la qualità
delle brave bestie da soma: pazienza, forza e docilità...’. Questi
pensieri non sono salutari, figlioli; dall’indifferenza alla
scioperataggine non c’è che un passo, e dalla scioperataggine al
vizio il passo è ancora più breve... Purtroppo quelli che non sono
né buoni né cattivi, e che quindi non fanno né bene né male,
costituiscono la stragrande maggioranza; proprio questi” s’è detto
il nostro padrone, “dobbiamo rendere migliori, né più né meno che se
fossero cavalli, buoi o pecore... Facciamo in modo che abbiano
interesse a essere attivi, saggi, laboriosi, istruiti e ligi al
dovere... dimostriamo loro che, diventando migliori, diventeranno
materialmente più felici... tutti ci guadagneranno... Perché i buoni
consigli non riescano inutili, facciamo pregustare loro, quaggiù,
come dire, un po’ di quella felicità che spetta ai giusti lassù...”
Fissato il piano, il padrone ha fatto sapere nei dintorni che gli
occorrevano sei coltivatori e altrettante donne o ragazze; ma voleva
scegliere questa gente fra i migliori elementi del paese, tenendo
conto delle informazioni che avrebbe avuto dai sindaci, dai parroci
e da altri. Avremmo dovuto percepire, come infatti percepiamo, un
salario quasi principesco, avere un vitto migliore
di quello dei signori e dividerci fra noi lavoratori un quinto dei
prodotti; dovevamo rimanere alla fattoria per due anni, lasciare poi
il nostro posto ad altri agricoltori, scelti con lo stesso criterio;
dopo cinque anni, avremmo potuto ripresentarci nel caso che ci
fossero stati posti vacanti... Perciò, una volta impiantata la
fattoria, coltivatori e braccianti dei dintorni si dicono:
“Mostriamoci attivi, onesti, laboriosi, facciamoci notare per la
buona condotta, e potremo avere un giorno un posto alla fattoria di
Bouqueval; e qui, per due anni, vivremo come in un paradiso; ci
perfezioneremo nel nostro mestiere; ci metteremo da parte un bel
gruzzolo, e per di più, quando usciremo dalla fattoria, faranno a
gara per assumerci, dal momento che per entrare alla fattoria ci
vuole un attestato di buona condotta”.»
«Io sono già stato assunto alla fattoria d’Arnouville, dal signor
Dubreuil» disse Jean-René.
«E io sono impegnato per Gonesse» aggiunse un altro contadino.
«Vedete bene, buon uomo, che tutti ci guadagnano: i fattori dei
dintorni ci guadagnano doppiamente: da noi, fra uomini e donne, ci
sono solo dodici posti disponibili, ma, nella regione, ci saranno
press’a poco cinquanta elementi che sono degni di occupare questi
posti; ora quelli che non otterranno i posti saranno comunque dei
buoni elementi, no? e, come si dice, i resti sono o rimangono sempre
buoni; perché, se non si ha fortuna la prima volta, si spera di
averla la seconda; tutto sommato, aumenta il numero della brava
gente. Vedete... con rispetto parlando, quando un cavallo o un
qualsiasi animale vince un premio di velocità, di forza o di
bellezza, si sa che in vista di questo premio vengono preparati
cento concorrenti. Ma i concorrenti che non lo vincono, non sono,
per questo, meno belli e meno bravi... Eh? vi dicevo io, buon uomo,
che la nostra fattoria non è una fattoria qualunque e che il nostro
padrone non è un padrone qualunque?»
«Oh! no, certo...» esclamò il Maître d’école, «e più la sua bontà,
la sua generosità mi sembrano grandi, più io spero avrà compassione
della mia triste sorte. Un uomo che fa del bene con tanta nobiltà e
con tanta intelligenza non sta lì a contare le opere buone che
compie.»
«Al contrario, egli le conta, buon uomo» disse il vecchio Châtelain;
«ma per potersi vantare di una buona azione in più; mi sa tanto che
ci rivedremo sicuramente alla fattoria, e che non sarà l’ultima
volta che vi siederete a questa tavola!»
«Davvero? Guardate, ci spero mio malgrado... Oh! se sapeste come
sono contento e già pieno di riconoscenza!» esclamò il Maître
d’école.
«Non ne dubito, è tanto buono il nostro padrone!»
«Ma che sappia almeno il suo nome e anche quello di
NotreDame-de-Bon-Secours» replicò prontamente il Maître, «che fin
d’ora possa almeno benedirne i santi nomi.»
«Capisco la vostra impazienza» disse il contadino. «Oh! caspita, vi
aspettate forse nomi altisonanti? Ah sì proprio! sono nomi semplici
e soavi come quelli dei santi. Notre-Dame-de-Bon-Secours si chiama
signora Georges... il nostro padrone, signor Rodolphe.»
“Mia moglie!... il mio carnefice!...” mormorò il brigante, fulminato
dalla rivelazione.
VII
LA NOTTE
Rodolphe!!! La signora Georges!!!
Il Maître d’école non poteva credersi vittima di una fortuita
identità di nomi; prima di condannarlo al terribile supplizio,
Rodolphe gli aveva detto di nutrire per la signora Georges un vivo
interesse. Infine, la recente visita del negro David alla fattoria
era la dimostrazione che non si sbagliava.
Riconobbe la mano della provvidenza e della fatalità in quest’ultimo
incontro che gli faceva sfumare le speranze riposte nella generosità
del proprietario della fattoria.
Il suo primo impulso fu quello di fuggire.
Rodolphe gli incuteva un terrore invincibile; forse in quel momento
era alla fattoria... Riavutosi dallo stupore, l’assassino si alzò da
tavola, prese per mano Tortillard, e si mise a gridare come un
forsennato:
«Andiamocene via... Guidami... usciamo di qui.»
I contadini si guardarono meravigliati.
«Andarvene... adesso! Non dovete neppure pensarci, buon
uomo» disse il vecchio Châtelain. «Ma dico! che cosa vi prende?
siete matto?»
Tortillard, sfruttando abilmente l’opportunità del momento, trasse
un profondo sospiro, e si portò l’indice alla fronte nel tentativo
di dare a intendere ai contadini che il presunto genitore non fosse
molto sano di mente.
Il vecchio agricoltore gli rispose facendo segno d’aver capito e di
esserne addolorato.
«Vieni, vieni, usciamo!» ripeté il Maître d’école cercando di
trascinare il ragazzo.
Ma Tortillard, deciso più che mai a non lasciare il calduccio della
casa per inoltrarsi nella campagna con quel gelo, disse con voce
mesta:
«Dio mio! povero papà, ti è ripreso l’attacco? Calmati, non andare
fuori con questa gelida notte... ti farebbe male... vedi, preferirei
darti il dispiacere di disobbedirti piuttosto che portarti fuori a
quest’ora». Poi rivolgendosi agli agricoltori: «Vero, brava gente,
che mi aiuterete a non fare uscire il mio povero babbo?».
«Sì, sì, sta’ tranquillo, figliolo» disse il vecchio Châtelain, «non
lasceremo uscire tuo padre... Sarà quindi costretto a dormire alla
fattoria!»
«Voi non potete costringermi a stare qui!» gridò il Maître d’école;
«e poi, d’altra parte, sarei di disturbo al vostro padrone... il
signor Rodolphe... Mi avete detto che la fattoria non è un ospedale.
Allora, ve lo dico ancora una volta, lasciatemi uscire...»
«Di disturbo al nostro padrone! state tranquillo. Purtroppo non vive
alla fattoria e non ci viene quanto vorremmo noi... Ma se ci fosse,
non gli dareste sicuramente fastidio. Questa casa, è vero, non è un
ospedale, ma vi ho detto che i poveri disgraziati come voi possono
passarci un giorno e una notte.»
«Non c’è il vostro padrone questa sera?» domandò il Maître d’école
con voce più ferma.
«No; verrà, come al solito, fra cinque o sei giorni. Come vedete, i
vostri timori non hanno senso. È quasi sicuro che la nostra buona
signora non scenderà stasera, altrimenti avrebbe potuto
tranquillizzarvi. Non ha forse fatto dire che vi venga preparato un
letto alla fattoria? Del resto, se non la vedrete questa sera, le
parlerete domani prima di partire... Le rivolgerete la vostra
piccola supplica perché inviti il nostro padrone a interessarsi alla
vostra sorte e a tenervi quindi alla fattoria...»
«No, no!» disse il brigante terrorizzato «ho cambiato idea... mio
figlio ha ragione: quella mia parente di Louvres avrà pietà di me...
Andrò a trovarla.»
«Come volete» disse il vecchio Châtelain compiacente, credendo di
avere a che fare con un uomo che non aveva il cervello completamente
a posto. «Partirete domattina. Quanto a rimettervi in cammino
stasera con questo povero piccolo, non pensateci neppure; faremo le
cose come si deve.»
Il Maître d’école, pur sapendo che Rodolphe non si trovava a
Bouqueval, era ben lungi dal tranquillizzarsi. Benché
spaventosamente sfigurato, aveva paura che sua moglie, che poteva
scendere da un momento all’altro, riuscisse lo stesso a
riconoscerlo; nel qual caso era convinto che lo avrebbe denunciato e
fatto arrestare: infatti aveva sempre pensato che Rodolphe avesse
voluto infliggergli una punizione così terribile per soddisfare
l’odio e la sete di vendetta della signora Georges.
Ma il brigante non poteva lasciare la fattoria; era alla mercé di
Tortillard. Allora si rassegnò; e, per evitare che sua moglie
potesse sorprenderlo, disse al contadino:
«Dal momento che mi avete assicurato che non sarò di disturbo né al
padrone né alla signora... accetto l’ospitalità che mi offrite; ma
siccome sono molto stanco, andrò a dormire, se permettete; domattina
vorrei ripartire alle prime luci del giorno.»
«Oh, domani mattina, quando vorrete! qui siamo mattinieri; e, per
evitare che sbagliate ancora, vi condurremo sulla strada giusta.»
«Se volete, andrò io ad accompagnare il poveretto fino in fondo alla
strada, dato che ho avuto l’ordine dalla signora di prendermi,
domani, il carrettino per andare a ritirare dal notaio di
Villiers-le-Bel le borse del denaro.»
«Accompagnerai il povero cieco alla sua strada, ma ci andrai con le
tue gambe» disse il vecchio Châtelain. «La signora ha cambiato idea;
ha pensato, ben a ragione, che non valeva la pena avere anzi tempo
alla fattoria tanto denaro; lunedì prossimo avrai tutto il tempo che
vuoi per andare a Villiers-le-Bel; intanto il denaro sta meglio dal
notaio che qui.»
«La signora sa meglio di me quello che deve fare, ma perché questa
paura d’avere qui il denaro, zio Châtelain?»
«Nessuna paura, ragazzo, grazie a Dio! Ma, a ogni modo, preferirei
avere qui cento sacchi di grano piuttosto che dieci sacchi di
scudi... Su» riprese il vecchio Châtelain rivolgendosi al brigante e
a Tortillard «venite, buon uomo, e tu, piccolo, seguimi» aggiunse
prendendo una delle candele accese. Poi fece strada ai due ospiti
per condurli a una cameretta del pianterreno, dove arrivarono dopo
aver attraversato un lungo corridoio, su cui si affacciavano
parecchie porte.
Il contadino posò il lume su una tavola e disse al Maître d’école:
«Ecco la vostra stanza: che il Signore vi conceda una buona notte,
buon uomo! Tu invece, ragazzo, che sei giovane, dormirai senz’altro
bene».
Il brigante sedette cupo e pensoso sulla sponda del letto vicino al
quale l’aveva accompagnato Tortillard.
Questi, fatto un cenno con la testa al vecchio contadino che stava
per andarsene, uscì nel corridoio.
«Cosa vuoi, figliolo?» gli domandò il vecchio Châtelain.
«Dio mio! buon signore, io sono proprio disgraziato! certe volte, la
notte, il mio povero babbo è preso da attacchi, una specie di
convulsioni; io da solo non posso soccorrerlo: se mi trovassi nella
necessità di chiamare aiuto, sarei sentito da qui?»
«Povero piccolo!» disse il contadino impietosito «stai tranquillo...
vedi quella porta, vicino alle scale?»
«Sì, buon signore, la vedo.»
«Ebbene lì dorme uno dei giovani della fattoria dovrai solo
svegliarlo, la chiave è sulla porta, verrà ad aiutarti a soccorrere
tuo padre.»
«Ahimè, signore, se mio padre venisse preso dalle convulsioni, non
so se io e lui riusciremmo a tenerlo fermo. Non potreste venire
anche voi, voi che siete così buono... così buono?»
«Io, figliolo, dormo, con gli altri agricoltori in una parte della
casa che si trova in fondo al cortile. Ma non preoccuparti,
Jean-René è forte, potrebbe prendere un toro per le corna e
sbatterlo per terra. D’altra parte, se avrete bisogno di qualcuno
per aiutarvi, egli può andare a chiamare la vecchia cuoca, che dorme
al primo piano vicino alla signora e alla signorina... inoltre, la
nostra buona cuoca è così accorta che, all’occorrenza, può fare
anche da infermiera.»
«Oh, grazie, grazie! buon signore, pregherò Iddio per voi, perché è
stata una grande carità da parte vostra avere avuto compassione del
mio povero babbo.»
«Bene, figliolo... Be’, buona notte; speriamo che tu non abbia
bisogno di nessuno per tenere tuo padre. Ritorna dentro, forse ti
sta aspettando.»
«Corro da lui... Buona notte, signore.»
«Che Dio ti protegga, figliolo.»
E il vecchio si allontanò.
Lo zoppetto aspettò giusto il tempo che il contadino voltas-
se le spalle per fargli quel gesto oltremodo insultante e derisorio
che è tipico dei monelli di Parigi: gesto che consiste nel battersi
varie volte la nuca con il palmo della mano sinistra, e nello
stendere in avanti a ogni battuta il braccio destro con la mano
bella spalancata.
Con un’astuzia diabolica il pericoloso ragazzo era riuscito ad avere
una parte delle informazioni che gli occorrevano per asse-
condare i loschi progetti della Chouette e del Maître d’école.
Sapeva già che la parte della casa dove avrebbe dormito era abitata
soltanto dalla signora Georges, da Fleur-de-Marie, da una vecchia
cuoca e da un giovane della fattoria.
Tortillard rientrò nella stanza che divideva col Maître d’école, ma
si guardò bene dall’avvicinarglisi. Il Maître d’école, dal canto
suo, appena lo sentì entrare gli disse a bassa voce:
«Da dove vieni, mascalzone?».
«Siete molto curioso, senza occhi.»
«Oh, ti farò pagare tutto quello che mi hai fatto soffrire e sop-
portare questa sera, maledetto ragazzo!» gridò il Maître d’école; e,
balzato in piedi, andò a tastoni per la stanza alla ricerca di
Tortillard, appoggiandosi di tanto in tanto al muro per orientarsi.
«Ti strangolerò, sì, vipera velenosa!...»
«Povero papà... Allora siamo molto allegri stasera se abbiamo voglia
di giocare a mosca cieca con l’amato figlioletto?» disse Tortillard
sghignazzando e sfuggendo con grande facilità agli inseguimenti del
Maître d’école.
Questi, dopo un primo momento di cieco furore, dovette ben presto
rinunciare, come sempre, a prendere il figlio di Bras-Rouge.
Ormai era costretto a subire le continue sfrontatezze del piccolo
fino al momento in cui avrebbe potuto vendicarsi senza correre
rischi di sorta; ecco che cosa indusse il brigante a gettarsi sul
letto e a reprimere, fra una bestemmia e l’altra, l’impotente
collera.
«Povero papà... hai mal di denti... perché bestemmi così? Cosa
direbbe il signor parroco se ti sentisse?... ti farebbe fare
penitenza...»
«Bene! bene!» riprese con voce soffocata e sorda il brigante dopo un
lungo silenzio, «prendimi in giro, approfitta della mia disgrazia...
vigliacco che non sei altro!... è bello, sì! è generoso.»
«Oh, cosa vi salta in mente! generoso! Che faccia tosta!» esclamò
Tortillard scoppiando a ridere, «scusate!... come se voi quando
avevate tutti e due gli occhi buoni aveste usato tanti riguardi con
tutti quelli che avete picchiato... così a chi tocca tocca.»
«Ma a te... io non ho mai fatto del male... perché mi tormenti
così?»
«Prima di tutto perché avete insultato la Chouette... E quando penso
poi che il signore voleva concedersi il lusso di restare qui facendo
il carino con i contadini... Il signore voleva forse fare una cura
di latte d’asina?»
«Mascalzone che non sei altro! se avessi avuto la possibilità di
restare alla fattoria, che il fulmine ora la incenerisca!, le tue
insolenze me l’avrebbero quasi impedito.»
«Voi restare qui! Questa è buona! La signora Chouette chi avrebbe
avuto come vittima? io, forse? Grazie tante, ho avuto la mia parte!»
«Mostriciattolo infame!»
«Mostriciattolo! ecco, ragione di più; sono d’accordo con la zia
Chouette, non c’è nulla di più divertente del farvi arrabbiare a
morte, voi che potreste uccidermi con un pugno... se foste debole,
non sarebbe più tanto bello... Eravate così buffo, questa sera, a
cena... Dio d’un Dio! mi sono goduto uno spettacolo tutto per me...
un vero parco dei divertimenti! A ogni pedata che vi davo di
nascosto, la collera vi faceva montare il sangue alla testa e gli
occhi bianchi vi si cerchiavano di rosso; ci mancava solo un po’ di
blu nel mezzo e sarebbero stati tricolori... due belle coccarde da
poliziotto!»
«Su, via, ti piace scherzare, sei allegro... eh! sei giovane; non me
la prendo» disse il Maître d’école con tono affettuoso e spigliato,
sperando di impietosire Tortillard; «ma invece di star lì a
prendermi in giro, faresti meglio a ricordare quello che ti ha detto
la tua amata Chouette; dovresti controllare tutto e prendere le
impronte. Hai sentito? Parlavano di una grossa somma di denaro che
lunedì avranno qui... Ritorneremo alla fattoria con gli amici e
faremo un bel colpo. Sì, sono stato piuttosto stupido a chiedere di
restare qui... dopo otto giorni avrei avuto una bella barba di
questi bonaccioni di contadini... non è vero, ragazzo?» disse il
brigante nell’intento di accattivarsi Tortillard.
«Vi assicuro che mi avreste fatto pena!» rispose il figlio di
Bras-Rouge sghignazzando.
«Sì, sì, c’è un bel colpo da fare qui... E quand’anche non ci fosse
niente da rubare, tornerò in questa casa con la Chouette per
vendicarmi» disse il brigante con voce piena di collera e di odio;
«perché sono sicuro che è stata mia moglie ad aizzarmi contro quel
diavolo di Rodolphe: e lui, accecandomi, non mi ha forse messo alla
mercé di tutti... della Chouette, di un monello come te?... Ebbene,
poiché non posso vendicarmi con lui... mi vendicherò con mia
moglie!... Sì, lei pagherà per tutti, dovessi pure dare fuoco a
questa casa ed esserne sepolto sotto le macerie... Oh, vorrei...
vorrei!...»
«Vorreste averla, eh vecchio, vostra moglie? E pensare che è a dieci
passi da voi... è proprio seccante questa cosa! Se volessi,
potrei condurvi alla porta della sua stanza... perché io so dov’è la
sua stanza... lo so, lo so, lo so» aggiunse canticchiando, come il
suo solito, Tortillard.
«Sai dov’è la sua stanza!» esclamò il Maître d’école con gioia
feroce, «lo sai?...»
«Vi state scoprendo» disse Tortillard; «vi farò dare spettacolo
facendovi star ritto sulle zampe posteriori, come ci sta un cane
quando gli si mostra un osso... Attento, vecchio Azor!»
«Sai davvero dov’è la stanza di mia moglie?» ripeté il brigante
voltandosi verso il punto da cui sentiva venire la voce di
Tortillard.
«Sì, lo so; e il più bello è che, nell’ala della casa in cui ci
troviamo noi, dorme un solo giovane della fattoria; so dov’è la sua
porta, la chiave è su: crac! un giro, ed è chiuso dentro... Su,
sulle zampe, vecchio Azor!»
«Chi te l’ha detto?» gridò il brigante alzandosi involontariamente.
«Bravo, Azor... Nella stanza accanto a quella di vostra moglie,
dorme una vecchia cuoca... un altro giro di chiave, e siamo padroni
della casa, padroni di vostra moglie e della ragazza con la
mantellina grigia che dovevamo rapire... Adesso, qua la zampa,
vecchio Azor, fate il vostro numero per il padrone! subito!»
«Non è vero, non è vero... Come hai fatto a saperlo?»
«Sono zoppo, ma non scemo... Poco fa mi è venuta l’idea di dire a
quel vecchio barbogio di contadino che certe notti avete le
convulsioni, e gli ho chiesto dove avrei potuto trovare aiuto se vi
fosse venuto l’attacco... Allora mi ha risposto che, se stavate
male, avrei potuto svegliare il giovane e la cuoca, e mi ha mostrato
dove dormivano... uno giù, l’altra su... al primo piano, vicino a
vostra moglie, vostra moglie, vostra moglie!...»
E Tortillard prese a ripetere il suo monotono canto. Dopo una lunga
pausa, il Maître d’école riprese con voce pacata e improntata
insieme a sincera e terribile risolutezza:
«Stammi a sentire... Ne ho abbastanza della vita... Poco fa...
ebbene! sì, lo confesso... ho avuto qualche speranza, ora, però, la
mia sorte mi sembra ancora più brutta... La prigione, i lavori
forzati, la ghigliottina, non sono niente in confronto a tutto
quello che sopporto da questa mattina... e questo dovrò sopportarlo
sempre... Guidami alla stanza di mia moglie; ho con me il
coltello... la ucciderò... dopo mi uccideranno, non importa...
l’odio mi soffoca... mi vendicherò... sarà un sollievo per me...
Quello che sto soffrendo è troppo, è troppo! per me che facevo
tremare tutto
e tutti. Ecco, vedi... se tu sapessi come sto soffrendo avresti
pietà di me... Da un momento a questa parte mi sembra che la testa
stia per scoppiarmi... il sangue mi pulsa da rompere le vene... il
cervello è intasato».
«Un raffreddore di testa, vecchio? ho capito... Starnutite... vi
libererete...» disse Tortillard scoppiando ancora una volta a
ridere. «Volete una presa di tabacco?»
E battendo sul dorso della mano destra chiusa a pugno, come se
avesse battuto sul coperchio di una tabacchiera, si mise a
canticchiare:
Ho un buon tabacco nella tabacchiera: Ho un buon tabacco e non te ne
darò.
«Oh, Dio mio, Dio mio! vogliono farmi impazzire!» gridò il brigante,
seriamente sconvolto da una specie di eretismo di vendetta
sanguinaria, ardente, implacabile che non poteva appagare.
La potenza e l’impotenza di quel mostro erano pari. Immaginatevi un
lupo affamato, furioso, idrofobo che, dopo essere stato
continuamente stuzzicato attraverso le sbarre della gabbia, da un
ragazzo, senta a due passi di distanza la vittima che potrebbe
soddisfare la sua fame e insieme la sua rabbia.
L’ultimo scherno di Tortillard fece quasi perdere la testa al
brigante.
In mancanza di una vittima, volle, accecato com’era dal furore,
spargere il proprio sangue... il sangue lo soffocava.
Il proposito di uccidersi durò un istante, se avesse avuto in mano
una pistola carica, non avrebbe esitato. Si frugò nelle tasche, tirò
fuori un lungo coltello, l’aprì, alzò il braccio per colpirsi... Ma
per quanto rapido, ogni movimento era stato preceduto nel tempo
dalla riflessione, dalla paura, dall’istinto di conservazione.
Mancatogli il coraggio, l’assassino lasciò ricadere il braccio sulle
ginocchia.
Tortillard aveva seguito attentamente ogni movimento; quando vide,
però, che la tragica velleità del Maître d’école aveva avuto uno
scioglimento incruento, non poté trattenersi dall’esclamare con una
sghignazzata:
«Un duello, ragazzo!... spennate le anitre...».
Il Maître d’école, temendo che un nuovo e inutile accesso di collera
gli facesse perdere la ragione, fece finta di non sentire
quest’altro insulto di Tortillard, che mirava a schernire con tanta
insolenza la vigliaccheria dell’assassino davanti al suicidio. No-
nostante non sperasse più di sfuggire, per vendetta del destino, a
quella che egli chiamava la crudeltà di quel maledetto ragazzo,
tuttavia il brigante volle fare con il figlio di Bras-Rouge un
ultimo tentativo e toccare questa volta la corda della cupidigia.
«Oh» gli disse con voce quasi supplichevole, «conducimi alla stanza
di mia moglie; prenderai tutto quello che c’è, e poi fuggirai; mi
lascerai solo... griderai all’assassino, se vuoi! Mi arresteranno,
mi uccideranno sul posto... tanto meglio!... morirò vendicato, visto
che non ho il coraggio di farla finita... Oh! conducimi...
conducimi; lì da lei ci saranno senz’altro oro e gioielli: ti dico
che potrai prendere tutto... per te solo... mi senti?... per te
solo... io ti domando solo di accompagnarmi alla sua porta vicino a
lei.»
«Sì... sento bene; volete che vi accompagni alla sua porta... e poi
al suo letto... e poi che vi dica dove colpire, e poi che vi guidi
il braccio, vero? Volete insomma che io sia il manico del vostro
coltello!... vecchio mostro!» replicò Tortillard con un’espressione
di disprezzo, di collera e di orrore che, per la prima volta, in
quel giorno, rese seria la faccia da faina, fino ad allora beffarda
e sfrontata. «Sentite... mi lascerei uccidere piuttosto che condurvi
da vostra moglie.»
«Non vuoi?»
Il figlio di Bras-Rouge non rispose.
A piedi nudi, per non far rumore, si avvicinò al Maître d’éco-
le, che, seduto sul letto, teneva sempre il coltellaccio in mano;
poi, con un’abilità e una sveltezza prodigiose, gli portò via l’arma
e balzò dall’altra parte della stanza.
«Il coltello! il coltello!» gridò il brigante stendendo le braccia.
«No, perché domattina sareste capace di chiedere di parlare con
vostra moglie e di gettarvi su di lei per ucciderla... dal momento
che come avete detto ne avete abbastanza della vita e che siete
tanto vigliacco da non avere il coraggio di uccidervi con le vostre
mani...»
«Difende mia moglie contro di me, adesso!» gridò il bandito, la cui
mente cominciava ad annebbiarsi. «Ma è proprio un demonio questo
mostriciattolo! Non capisco più niente. Perché la difende?»
«Per farti dispetto...» disse Tortillard; e riassunse la maschera
del motteggiatore sfrontato.
«Ah! è così!» mormorò il Maître d’école, completamente fuori di sé,
«ebbene! appiccherò il fuoco alla casa... bruceremo tutti!...
tutti!... preferisco questa fornace a quell’altra... La candela?...
la candela?...»
«Ah, ah, ah!» esclamò Tortillard scoppiando di nuovo a ridere; «se
non ti avessero spento le tue candele... a te e per sempre...
vedresti che la nostra è spenta da un’ora.»
E Tortillard a canticchiare:
La mia candela è morta Non ho più fuoco...
Il Maître d’école emise un gemito sordo, stese le braccia, cadde
lungo disteso sul pavimento con la faccia verso terra, e restò
immobile: era un colpo apoplettico.
«Ho capito, vecchio!» disse Tortillard, «è una finta per farmi
venire vicino a te e per appiopparmi così un ceffone... Quando sarai
stanco di fare il morto sul pavimento ti alzerai.»
E il figlio di Bras-Rouge, deciso a non addormentarsi per paura che
il Maître d’école, andando a tentoni, lo sorprendesse, restò a
sedere sulla sedia, e da seduto fissava i suoi occhi attenti sul
brigante, che non credeva affatto in pericolo di vita ma che era
convinto, invece, gli tendesse un tranello.
Per far qualcosa di piacevole, Tortillard, tratto di tasca con fare
misterioso un sacchetto di seta rossa, si mise a contare con
lentezza, saettandole di occhiate cupide e giubilanti, le
diciassette monete d’oro che c’erano dentro.
Ecco da dove provenivano le ricchezze mal guadagnate di Tortillard.
Abbiamo già narrato come, in occasione del fatale appuntamento
accordato al comandante, la signora d’Harville stesse per essere
sorpresa dal marito. Rodolphe, porgendole un sacchetto, aveva detto
alla giovane donna di salire al quinto piano dai Morel, con il
pretesto di portar loro un po’ di denaro. La signora d’Harville
saliva rapidamente la scala con il sacchetto in mano, quando
Tortillard, che scendeva dalla casa del ciarlatano, adocchiatolo,
passò vicino alla marchesa e, fingendo di cadere, la urtò, ma,
nell’urto, le portò via il sacchetto. La signora d’Harville, benché
sconvolta, si era affrettata, sentendo avvicinarsi il marito, a
salire al quinto piano, senza poter denunciare l’audace furto dello
zoppetto.
Dopo aver contato e ricontato il suo oro, Tortillard, constatato che
nella fattoria tutto era tranquillo, uscì dalla stanza e, scalzo,
con tanto di orecchi drizzati e la mano che faceva da paralume alla
candela, andò a prendere le impronte delle quattro porte che davano
sul corridoio, pronto a dire, se lo sorprendevano fuori della
stanza, che stava cercando aiuto per il padre.
Al ritorno, Tortillard trovò il Maître d’école ancora steso per
terra... Un po’ inquieto, tese l’orecchio, sentì il brigante
respirare liberamente: pensava che il trucco sarebbe durato
all’infinito.
«Sempre lo stesso giochetto, eh, vecchio!» gli disse.
Per un caso il Maître d’école aveva evitato una congestione
cerebrale che poteva sicuramente farlo morire. La caduta,
provvidenziale, gli aveva causato un’abbondante emorragia nasale.
Poi era caduto in una specie di torpore febbrile, a metà tra il
sonno e il delirio; e allora fece un sogno strano, un sogno
spaventoso!...
VIII
IL SOGNO
Questo è il sogno del Maître d’école.
Rivede Rodolphe nella casa dell’allée des Veuves.
Niente è cambiato nel salone dove il brigante ha subito l’orri-
bile supplizio.
Rodolphe è seduto dietro il tavolo dove si trovano i documen-
ti del Maître d’école e la medaglia di lapislazzuli che ha dato alla
Chouette.
Il viso di Rodolphe è grave e triste.
In piedi, alla sua destra, ha il negro David, impassibile,
silenzioso; alla sua sinistra ha lo Chourineur; guarda la scena con
aria spaventata.
Il Maître d’école non è più cieco, ci vede, anche se attraverso il
velo di sangue che gli riempie le cavità orbitali.
Tutti gli oggetti li vede tinti di rosso.
Come gli uccelli da preda si librano immobili nell’aria sopra la
vittima che, prima di divorare, magnetizzano, così una civetta
mostruosa, che ha come testa l’orribile viso della guercia, si libra
sopra il Maître d’école... Lui si sente continuamente addosso
l’occhio rotondo, fiammeggiante verdastro di lei.
Uno sguardo implacabile che lo opprime come un peso enorme sul
petto.
Come colui che, abituatosi all’oscurità, finisce col distinguere
oggetti dapprima invisibili, così il Maître d’école si accorge a un
certo momento che un immenso lago di sangue lo separa dal tavolo a
cui siede Rodolphe.
L’inflessibile giudice, lo Chourineur e il negro a poco a poco
assumono proporzioni colossali... I tre fantasmi diventano tanto
grandi da raggiungere i fregi del soffitto, i quali si spostano
verso l’alto in maniera proporzionale.
Il lago di sangue è calmo, uniforme come uno specchio rosso.
In esso il Maître d’école vede riflettersi la sua orribile immagine.
Ma ben presto le acque si agitano e si gonfiano; l’immagine
sparisce.
Dalla superficie agitata esalano vapori mefitici da palude, una
nebbia livida, della lividezza delle labbra dei trapassati.
Ma a mano a mano che la nebbia sale, sale... le figure di Rodolphe,
dello Chourineur e del negro continuano a crescere, a crescere
smisuratamente, tanto da sovrastare sempre le funeste esalazioni.
In mezzo al vapore il Maître d’école vede apparire pallidi spettri,
svolgersi scene di delitti che egli perpetra...
In questo miraggio fantastico, vede dapprima un vecchietto con la
testa pelata: porta una prefettizia scura e una visiera di seta
verde; è in una stanza con pareti scrostate, intento a contare e a
mettere in ordine mucchietti di monete d’oro alla luce di una
lampada.
Attraverso la finestra, rischiarata da un’anemica luna, che imbianca
le cime di alcuni grandi alberi agitati dal vento, il Maître d’école
si vede dall’esterno... con l’orribile viso incollato ai vetri.
Ogni più piccolo movimento del vecchietto è seguito con occhi di
fiamma... poi spacca il vetro, apre la finestra, con un salto è
sopra la vittima e gli pianta un lungo coltello nella schiena.
L’azione è così rapida, il colpo è così immediato, così sicuro, che
il cadavere del vecchio resta seduto sulla sedia...
L’assassino vuole togliere il coltello dal morto. Non può...
Raddoppia gli sforzi...
Invano.
Allora decide di lasciare lì il coltello.
Impossibile.
La mano dell’assassino non si stacca dal manico del pugnale,
come la lama del pugnale non si stacca dal cadavere
dell’assassinato.
L’assassino sente allora uno sbattere confuso di speroni e di
sciabole sul pavimento di una stanza vicina.
Per cercare di scappare, decide di portare con sé il misero corpo
del vecchio, da cui non può tirar via né il coltello, né la mano...
Non ci riesce.
Il piccolo cadavere pesa come una tonnellata di piombo.
Nonostante le spalle erculee e gli sforzi disperati, non riesce
nemmeno a smuovere l’enorme peso.
Ancora più vicino sente risuonare i passi e strascicare le
sciabole...
La chiave gira nella toppa. La porta si apre...
La visione sparisce...
E allora la civetta, sbattendo le ali, grida:
«È il vecchio riccone della rue du Roule... Il tuo primo assassi-
nio... assassinio... assassinio...»
Oscuratosi un momento, il vapore che copre il lago di sangue
ridiventa trasparente e fa vedere un altro spettro...
Il giorno sta spuntando, la nebbia è fitta e scura... Un uomo,
vestito come vestono i mercanti di bestiame, è steso sul ciglio di
una strada maestra, morto. Dalla terra calpestata, dall’erba
strappata, si capisce che la vittima ha opposto una resistenza
dispera-
ta...
Il cadavere ha sul petto cinque ferite che sanguinano ancora...
È morto, eppure fischia ai suoi cani, chiama aiuto, gridando: «A me!
A me!...»
Ma fischia, ma chiama dalle cinque larghe piaghe i cui margini
spalancati si muovono come labbra di bocca che parli...
Cinque richiami, cinque fischi simultanei, che il cadavere manda
dalla bocca delle sue ferite, orribili a udirsi...
A questo punto, la civetta agita le ali e contraffà i funerei gemiti
della vittima, poi esplode in cinque risate, stridenti e selvagge
come quelle dei pazzi, e grida:
«Il mercante di buoi di Poissy... Assassino!... Assassino!...
Assassino!...»
Echi sotterranei ripetono, in lontananza, le risate sinistre della
civetta, che sembra vadano poi a perdersi nelle viscere della terra.
A questo rumore, due grossi cani neri come l’ebano, e con occhi
ardenti come tizzoni sempre fissi sul Maître d’école, cominciano ad
abbaiare e a girare... a girare... a girargli intorno con rapidità
vertiginosa.
Quasi lo toccano, e i loro latrati sono così lontani che sembrano
venire trascinati dal vento del mattino.
A poco a poco gli spettri impallidiscono, si dileguano come ombre e
s’inabissano nel livido vapore che continua a salire.
Una nuova zaffata di vapore ricopre la superficie del lago di
sangue, sovrapponendovisi.
È una specie di foschia verdastra, trasparente; sembra quasi la
sezione verticale di un canale pieno d’acqua.
Dapprima si vede il fondo del canale coperto da una melma densa,
abitata da innumerevoli rettili che di solito a occhio nudo non si
notano, ma che, ingranditi come si potrebbero vedere al microscopio,
assumono aspetti mostruosi, proporzioni enormi rispetto alla loro
grandezza reale.
Non è più melma, è una massa compatta, viva, brulicante, un viluppo
inestricabile che formicola e pullula, così unito, così coerente,
che, sotto la sua spinta, il livello di questa melma o meglio di
questo banco d’immondi animali si solleva e s’increspa in maniera
misteriosa e inavvertibile.
Sopra vi scorre lentamente, lentamente, un’acqua melmosa, densa,
morta, che trasporta nel suo pigro corso le immondizie che lì
vengono continuamente scaricate dalle fogne di una grande città,
avanzi di ogni specie, carogne di animali...
Improvvisamente il Maître d’école sente il tonfo di un corpo che
cade pesantemente in acqua.
Urtata dal tuffo improvviso, l’acqua schizza in faccia al Maître
d’école...
Attraverso le innumerevoli bolle d’aria che arrivano alla
superficie, vede sprofondare una donna che si dibatte... che si
dibatte...
E, insieme alla Chouette, vede se stesso fuggire precipitosamente
dalle rive del canale Saint-Martin, con in mano una grande cassa
avvolta nella tela nera.
Ciononostante, assiste fino in fondo all’agonia della vittima che
lui e la Chouette hanno appena gettato nel canale.
Dopo la prima immersione, vede la donna risalire a fior d’acqua e
agitare scompostamente le braccia come uno che non sa nuotare e che
tenta invano di salvarsi.
Poi ode un forte urlo.
L’urlo, disperato, di morte, è rotto dal rumore sordo, brusco di una
involontaria bevuta... e la donna va una seconda volta sott’acqua.
La civetta, che continua a librarsi immobile, contraffà il rantolo
convulso dell’annegata, come prima ha contraffatto i gemiti del
mercante di buoi.
Fra le sinistre risate, la civetta ripete:
«Glu... glu... glu...»
Gli echi sotterranei ne ripetono i gridi.
Andata sott’acqua ancora una volta, la donna soffoca e fa, suo
malgrado, un violento tentativo di aspirare; ma invece di aria,
aspira ancora una volta acqua...
Allora la testa cade all’indietro, il viso si congestiona, diventa
paonazzo, il collo illividisce e si gonfia, le braccia si
irrigidiscono, e, in un’ultima convulsione, l’agonizzante agita i
piedi immersi nella melma.
Allora una cortina di fanghiglia nerastra la avvolge e risale poi
con lei alla superficie.
L’annegata non ha fatto in tempo a esalare l’ultimo respiro che già
è avvolta da una miriade di rettili microscopici, orribile e vorace
fauna della melma...
Il cadavere galleggia un istante, oscilla ancora un po’, poi
s’inabissa lentamente, orizzontalmente, con la testa un po’ più in
alto dei piedi, e comincia a seguire sott’acqua la corrente del
canale.
Talvolta il cadavere gira su se stesso, e si trova faccia a faccia
col Maître d’école; lo spettro, allora, lo guarda fisso con due
grandi occhi glauchi, vitrei, opachi... le labbra violacee si
muovono...
Il Maître d’école è lontano dall’annegata, eppure ella gli mormora
all’orecchio... «glu... glu... glu...» e lo strano verso si
accompagna al particolare rumore che fa un recipiente quando, prima
d’andare a fondo, si riempie d’acqua.
La civetta ripete «glu... glu... glu...» sbattendo le ali, e grida:
«La donna del canale Saint-Martin!... Assassino... Assassino!...
Assassino!... »
Le rispondono gli echi sotterranei... ma, invece di perdersi a poco
a poco nelle viscere della terra, rimbombano sempre di più e
sembrano sempre più vicini.
Al Maître d’école sembra di sentire le risate risuonare da un polo
all’altro.
La visione dell’annegata sparisce.
Il lago di sangue, oltre il quale il Maître d’école continua a
vedere Rodolphe, diventa di un nero bronzeo; poi diventa rosso e si
trasforma subito in un magma liquido simile a metallo in fusione;
poi il lago di fuoco si alza, sale... sale... verso il cielo come
un’enorme tromba marina.
Poco dopo esso è un orizzonte incandescente come ferro arroventato.
Quest’immenso, infinito orizzonte, abbaglia e brucia nello stesso
tempo lo sguardo del Maître d’école: inchiodato al suo posto, non
può distogliere lo sguardo.
Allora, su questo sfondo di lava infuocata, dal cui riverbero è
accecato, egli vede passare e ripassare a uno a uno gli spettri neri
e giganteschi delle sue vittime.
«La lanterna magica del rimorso!... del rimorso!... del rimorso!...»
grida la civetta sbattendo le ali e ridendo fragorosamente.
Nonostante le tremende sofferenze che prova in quel suo incessante
contemplare, il Maître d’école continua a tenere gli occhi fissi
sugli spettri che si muovono nell’alone infuocato.
Egli prova allora qualcosa di spaventoso.
Attraverso tutta una gamma d’indicibili sofferenze, sente, a forza
di guardare l’immenso focolare, le pupille, che hanno preso il posto
del sangue che gli riempiva le orbite, diventare calde, brucianti,
fondersi nel magma infuocato, fumare e infine calcinarsi nelle loro
cavità come in due crogioli di ferro rovente.
Dopo aver visto e sentito, in virtù di una prodigiosa facoltà, tutte
le trasformazioni che hanno subìto le sue pupille prima di ridursi
in cenere, ricade nelle tenebre della sua precedente cecità.
Ma ecco che improvvisamente le insopportabili sofferenze si calmano
come per incanto.
Un soffio pieno di fragranze e di deliziosa freschezza è passato
sulle sue orbite ancora di fuoco.
Il soffio è uno squisito impasto dei profumi primaverili che mandano
i fiori campestri irrorati di rugiada.
Il Maître d’école sente attorno un leggero mormorio simile a quello
che fa la brezza quando accarezza le foglie, simile a quello che fa
un ruscello di acqua fresca quando scorre e gorgoglia nel suo letto
di ciottoli e di muschio.
Migliaia di uccelli cantano di tanto in tanto le più melodiose
fantasie; non appena finiscono, il Maître d’école sente salire al
cielo con un leggero fremito canzoni strane, sconosciute, canzoni
per così dire alate, cantate da voci infantili di angelica purezza.
È preso a poco a poco da un senso di benessere morale, d’abbandono,
di languore indefinibile.
Effusione del cuore, rapimento dello spirito, folgorazione
dell’anima di cui nessuna impressione fisica, per quanto inebriante,
potrebbe dare una idea!
Il Maître d’école si sente dolcemente librare in una sfera luminosa,
eterea: gli sembra d’innalzarsi incommensurabilmente al di sopra del
mondo.
Dopo avere goduto per un po’ di questa indicibile felicità, si
ritrova nel tenebroso abisso dei suoi abituali pensieri.
Sta sempre sognando, ma ora è soltanto il brigante imbavagliato che
bestemmia e si danna in accessi di impotente furore.
Una voce rimbomba, sonora, solenne. È la voce di Rodolphe!
Il Maître d’école ha un fremito di spavento; ha la vaga coscienza di
sognare, ma il terrore che incute Rodolphe è tanto grande che, pur
facendo tutti gli sforzi possibili, non riesce a sottrarsi alla
nuova visione.
La voce parla... egli ascolta.
La voce di Rodolphe non è adirata; è piena di tristezza, di
compassione.
«Povero sciagurato» dice al Maître, «l’ora del pentimento non è
ancora suonata per voi. Dio solo sa quando suonerà. I vostri delitti
non sono ancora completamente puniti. Avete sofferto, non avete
espiato; il destino prosegue nella sua opera di alta giustizia. I
vostri complici sono diventati i vostri carnefici; una donna, un
bambino vi danno ordini, vi torturano...
Infliggendovi un castigo terribile come i vostri delitti. Ve l’avevo
detto... ve l’avevo detto! ricordate le mie parole: “Tu hai usato la
tua forza per uccidere... io paralizzerò la tua forza... I più
forti, i più feroci tremavano davanti a te... tu tremerai davanti ai
più deboli!”.
Avete lasciato l’oscuro rifugio dove potevate condurre una vita di
pentimento e d’espiazione...
Avete avuto paura del silenzio e della solitudine...
Poco fa per un momento avete invidiato la vita tranquilla dei
contadini di questa fattoria; ma era troppo tardi... troppo tardi!
Benché quasi inerme, vi confondete con un’orda di scellerati e di
assassini, e, per paura, non avete voluto più restare oltre presso
la brava gente che vi aveva sistemato.
Avete voluto stordirvi con nuovi misfatti... Avete gettato una sfida
feroce a colui che aveva voluto impedirvi di fare del male ai vostri
simili, e questa sfida criminale è risultata vana. Benché audace,
scellerato, forte, non avete potuto rompere le vostre catene. La
sete di sangue che vi arde dentro... non potete soddisfarla... Poco
fa, preso da uno spaventoso e sanguinario furore, avreste voluto
uccidere vostra moglie; ella è qui, sotto il vostro stesso tetto;
dorme e non può difendersi; voi avete un coltello e la sua stanza è
a due passi; nessun ostacolo vi sbarra la strada, se volete arrivare
fino a lei; niente può sottrarla al vostro furore... solo la vostra
impotenza!
Il sogno di poco fa e quello che state facendo ora potrebbero
esservi di grande insegnamento, potrebbero salvarvi... Le immagini
misteriose del sogno che avete fatto hanno un significato
profondo...
Il lago di sangue in cui avete visto apparire le vostre vittime...
rappresenta il sangue che avete versato. La lava ardente che ha
preso il suo posto... rappresenta il bruciante rimorso che avrebbe
dovuto consumarvi, perché Dio, un giorno, potesse essere toccato dai
vostri quotidiani tormenti, chiamarvi a sé... e farvi gustare le
dolcezze ineffabili del perdono. Ma non sarà così. No! no! ogni
avvertimento sarà inutile; anziché pentirvi, rimpiangerete ogni
giorno, con orribili bestemmie, il tempo in cui commettevate i
delitti... Ahimè! dalla lotta continua fra la vostra ardente sete di
sangue e l’impossibilità di placarla, fra la vostra inclinazione
all’oppressione feroce e la necessità di stare sottomesso a esseri
deboli e crudeli, verrà a voi una sorte così brutta, così
spaventosa!... Oh! povero miserabile!»
La voce di Rodolphe si alterò.
E stette zitto un momento, come se l’emozione e lo sgomento gli
avessero impedito di continuare.
Il Maître d’école si sentì rizzare i capelli in testa. Qual era il
destino che muoveva a pietà perfino il suo carnefice?
«Il destino che vi attende è così terribile» riprese Rodolphe, «che
Dio, in qualità di giudice inesorabile e onnipotente, vorrebbe fare
espiare a voi solo i delitti di tutti gli uomini, perché è il
supplizio più spaventoso che si possa immaginare. Voi, voi infelice!
la fatalità vuole che conosciate la terribile punizione che vi
aspetta, e vuole che l’accettiate senza opporvi! Che l’avvenire vi
sia svelato!»
Il Maître d’école credette di avere riacquistato la vista.
Aprì gli occhi... vide...
Ma quello che vide gli procurò uno spavento tale, che si la-
sciò sfuggire un grido acuto e si svegliò di soprassalto dal sogno
spaventoso.
IX
LA LETTERA
All’orologio della fattoria di Bouqueval suonavano le nove quando la
signora Georges entrò pian piano nella stanza di Fleur-deMarie.
La ragazza aveva il sonno così leggero che si svegliò quasi subito.
Un vivido sole invernale filtrava attraverso le persiane e le tende
di calicò foderato di stoffa rosa, diffondendo una luce vermiglia
nella stanza e facendo prendere al volto pallido e dolce della
Goualeuse i colori che le mancavano.
«Ebbene, fanciulla» disse la signora Georges sedendo sul letto della
ragazza e baciandola in fronte, «come state?»
«Meglio, signora... vi ringrazio.»
«Stamattina non vi hanno svegliata presto?»
«No, signora.»
«Meglio così. Il povero cieco e il figlio che abbiamo ospitato
questa notte hanno voluto lasciare la fattoria all’alba; temevo che
il rumore che hanno fatto aprendo le porte vi avesse svegliato.»
«Poveretti! perché sono partiti così presto?»
«Non lo so; ieri sera quando vi ho lasciata che eravate un po’ più
calma, sono scesa in cucina per vederli; ma tutti e due si erano
sentiti così stanchi da chiedere il permesso di ritirarsi. Il
vecchio Châtelain mi ha detto che il cieco non doveva essere tanto
sano di mente; e tutta la nostra gente è stata colpita dalle pietose
attenzioni che il figlio prodigava al padre infelice. Ma, sono
sicura, Marie, che avete avuto un po’ di febbre; non voglio che
prendiate freddo oggi: non uscirete dal salotto.»
«Scusatemi, signora; stasera, alle cinque, devo andare in canonica;
il signor parroco mi aspetta.»
«Sarebbe un’imprudenza; avete sicuramente trascorso una brutta
notte. Avete gli occhi stanchi, avete dormito male.»
«È vero... ho fatto altri sogni orribili. Ho rivisto in sogno la
donna che mi ha tormentato quand’ero piccola; mi sono svegliata di
soprassalto, tutta spaventata. È una debolezza ridicola di cui mi
vergogno.»
«Io invece sono preoccupata di questa vostra debolezza perché vi fa
soffrire, povera piccola!» disse la signora Georges con inquieta
tenerezza, vedendo gli occhi della Goualeuse riempirsi di lacrime.
Costei, gettatasi al collo della madre adottiva, nascose il viso sul
seno di lei.
«Dio mio! che cosa avete, Marie, mi spaventate.»
«Siete così buona con me, signora, che mi rimprovero di non avervi
confidato quello che ho confidato al signor parroco; domani vi dirà
tutto lui: mi costerebbe troppo rifare la confessione.»
«Su, su, figliola, siate ragionevole; sono sicura che non ci sarà
niente di biasimevole nel gran segreto che avete confidato al nostro
buon parroco. Non piangete così, mi fate stare male.»
«Scusate, signora; non so perché, da due giorni a questa parte, mi
pare che il cuore quasi mi si spezzi... Mio malgrado, gli occhi mi
si riempiono di lacrime... Ho cupi presentimenti... Sento che mi
succederà qualche disgrazia.»
«Marie, Marie... vi sgriderò se vi lascerete prendere così da
terrori immaginari. Non bastano le preoccupazioni reali che
abbiamo?»
«Avete ragione, signora; ho torto, cercherò di superare questa mia
debolezza... Se sapeste, Dio mio! quanto mi rimprovero di non essere
sempre gaia, sorridente, felice... come dovrei esserlo! Ahimè! la
mia tristezza deve sembrarvi ingratitudine!»
La signora Georges stava per tranquillizzare la Goualeuse, quando
Claudine, dopo aver bussato, entrò.
«Che cosa volete, Claudine?»
«Signora, si tratta di Pierre che è arrivato da Arnouville col
calesse della signora Dubreuil; ha portato questa lettera per voi,
dice che è molto urgente.»
La signora Georges lesse ad alta voce quanto segue:
Mia cara signora Georges, mi fareste un favore enorme e mi
togliereste da una grossa difficoltà, venendo subito alla fattoria;
Pierre vi condurrà e vi riporterà indietro questo pomeriggio. Non so
proprio dove sbattere la testa. Il signor Dubreuil è a Pontoise per
la vendita della lana; sono ricorsa quindi a voi e a Marie. Clara
bacia la sua buona sorellina e l’aspetta con impazienza. Cercate di
venire alle undici, per il pranzo.
La vostra cara amica. Signora Dubreuil.
«Di cosa può trattarsi?» disse la signora Georges a Fleur-deMarie.
«Fortunatamente il tono della lettera della signora Dubreuil fa
pensare che non ci sia niente di grave...»
«Verrò con voi, signora?» domandò la Goualeuse.
«Forse non è prudente, perché fa molto freddo. Ma dopo tutto»
riprese la signora Georges, «sarà una distrazione; se sarete
coperta, la corsetta non può farvi che bene...»
«Ma, signora» disse la Goualeuse, soprappensiero, «stasera il signor
parroco mi aspetta, alle cinque, in canonica.»
«Avete ragione; saremo di ritorno per le cinque, ve lo prometto.»
«Oh, grazie, signora; sono così contenta di rivedere la signorina
Clara...»
«Ancora!» disse la signora Georges in tono di dolce rimprovero,
«signorina Clara!... Lei dice “signorina Marie”, parlando di voi?»
«No, signora...» rispose la Goualeuse, chinando gli occhi. «Il fatto
è che io... io...»
«Voi! siete una bambina crudele che non pensa ad altro che a
tormentarsi; avete già dimenticato le promesse che m’avevate fatto
poco fa. Svelta, vestitevi, e in maniera adatta. Potremo essere ad
Arnouville prima delle undici.»
Quindi, mentre usciva con Claudine, la signora Georges le disse:
«Avverti Pierre che ci attenda ancora un po’. Saremo pronte fra
qualche minuto».
X
IL RICONOSCIMENTO
Una mezz’ora dopo questa conversazione, la signora Georges e
Fleur-de-Marie salivano su uno di quei grandi calessi di cui si
servono i ricchi fattori dei dintorni parigini. In breve, la
vettura, cui era attaccato un vigoroso cavallo da tiro guidato da
Pierre, procedette a passo spedito per il sentiero erboso che
conduce da Bouqueval ad Arnouville...
Le vaste costruzioni e le numerose dipendenze della fattoria gestita
dal signor Dubreuil testimoniavano l’importanza di quella magnifica
proprietà che la signorina Césarine de Noirmont aveva portato in
dote al signor duca di Lucenay.
Lo schiocco ripetuto della frusta di Pierre avvertì la signora
Dubreuil che Fleur-de-Marie e la signora Georges stavano arrivando,
e così, scendendo dalla vettura, esse trovarono una gioiosa
accoglienza da parte della fattoressa e di sua figlia.
La signora Dubreuil aveva circa cinquant’anni; la sua fisionomia era
dolce e affabile; i lineamenti della figlia, una bella brunetta con
gli occhi azzurri e le fresche gote arrossate, emanavano bontà e
candore.
Con sua grande sorpresa, quando Clara le saltò al collo, la
Goualeuse vide che l’amica era vestita come lei, alla paesana,
invece di indossare le sue vesti abituali.
«Come? anche voi, Clara, vi siete travestita da campagnola?» disse
la signora Georges, baciando la fanciulla.
«È possibile che non imiti in tutto sua sorella Marie?» disse la
signora Dubreuil. «Ella non ha avuto pace finché non ha ottenuto il
suo casacchino di panno, la sua sottana di fustagno, proprio come la
vostra Marie... Ma si tratta veramente di capricci da ragazzine,
povera signora Georges!» aggiunse la signora Dubreuil sospirando;
«venite che vi dico tutti i grattacapi che ho.»
Entrata nel salottino con la madre e la signora Georges, Clara si
sedette vicino a Fleur-de-Marie, le diede il posto migliore vicino
al fuoco, la circondò di mille attenzioni, prese le mani
dell’amica fra le sue per accertarsi che non fossero fredde, la
baciò un’altra volta e, chiamandola sorellina cattiva, le rivolse a
bassa voce amichevoli rimproveri per via dei lunghi intervalli che
correvano tra una sua visita e l’altra.
Solo tenendo presente il colloquio della Goualeuse con il prete, si
potrà capire con quale umiltà, mista a felicità e a timore insieme,
ella abbia dovuto ricevere queste tenere e innocenti carezze.
«Che cosa vi succede allora? cara signora Dubreuil» disse la signora
Georges, «in che cosa posso esservi utile?»
«Dio mio! in molte cose. Vi spiego subito. Penso che non saprete che
la fattoria appartiene alla signora duchessa di Lucenay. Noi
trattiamo direttamente con lei... senza passare attraverso
l’amministratore del duca.»
«Effettivamente ignoravo questo particolare.»
«Capirete subito perché ve l’ho detto... Noi paghiamo gli affitti
alla signora duchessa o alla sua prima dama di compagnia, la signora
Simon. La duchessa è così buona, così buona, anche se un po’
impulsiva, che è un vero piacere avere a che fare con lei; io e mio
marito ci butteremmo nel fuoco pur di farle un favore... Caspita! si
capisce benissimo: l’ho vista bambina quando veniva qui con suo
padre, il defunto signor principe di Noirmont... Anche ultimamente
ci ha chiesto sei mesi d’affitto in anticipo... 40.000 franchi mica
si trovano per strada, come si suol dire... ma avevamo questa somma
da parte, la dote della nostra Clara, e dall’oggi al domani la
signora duchessa ha avuto il suo denaro in bei luigi d’oro. Queste
grandi dame hanno tanto bisogno di lusso! Tuttavia, solo da un anno
a questa parte la signora duchessa riscuote puntualmente gli affitti
alle scadenze; prima invece sembrava non avesse mai bisogno di
denaro... Ma adesso è molto cambiata!»
«Fino ad ora, cara signora Dubreuil, non vedo ancora in che cosa io
posso esservi utile.»
«Ora ci arrivo, ora ci arrivo: ho detto queste cose per farvi sapere
che la signora duchessa ha la massima fiducia di noi... Senza
contare che a dodici o tredici anni lei, col padre che faceva da
padrino, ha tenuto a battesimo Clara... che lei ha sempre
coccolato... Ieri sera dunque, un corriere viene a portarmi questa
lettera da parte della signora duchessa:
Cara signora Dubreuil è assolutamente necessario che il villino del
frutteto sia in condizione di essere abitato dopodomani sera: fate
trasportare tutti i mobili necessari, tappeti, tende, ecc., ecc.
Insomma che non manchi nulla e che soprattutto sia il più possibile
confortevole.
Confortevole! avete sentito signora Georges; ed è anche
sottolineato» disse la signora Dubreuil guardando l’amica con aria
insieme pensierosa e preoccupata; poi continuò:
Tenete il fuoco acceso notte e giorno nel villino per togliere
l’umidità, dato che da molto tempo non è abitato. Trattate la
persona che verrà a starci come trattereste me; una lettera che
detta persona vi consegnerà vi farà sapere quanto mi aspetto dal
vostro zelo sempre così premuroso. Ci conto ancora una volta, senza
timore di approfittarne; so quanto siete buona e fedele... Addio,
cara signora Dubreuil. Baciate la mia graziosa figlioccia, e
credetemi vostra affezionata
Noirmont de Lucenay.
P.S. La persona in questione arriverà dopodomani in serata.
Soprattutto non dimenticate, ve ne prego, di rendere il villino più
confortevole che potete.
Vedete; ancora quella maledetta parola sottolineata» disse la
signora Dubreuil rimettendosi in tasca la lettera della duchessa di
Lucenay.
«Ebbene! niente di più semplice» replicò la signora Georges.
«Come niente di più semplice!... Non avete capito allora? la signora
duchessa vuole soprattutto che il villino sia il più possibile
confortevole; ecco perché vi ho pregato di venire. Clara e io ci
siamo scervellate per sapere che cosa volesse dire confortevole, e
non ci siamo riuscite... e sì che Clara è stata in collegio a
Villiersle-Bel, e ha vinto in storia e geografia non so più quanti
premi... ebbene, non è servito a niente; sul significato di quella
parola barocca ne sa quanto me; dev’essere una parola che si usa
alla corte o fra la gente del gran mondo... Comunque voi capite
quanto tutto ciò sia imbarazzante: la signora duchessa vuole
soprattutto che il villino sia confortevole, sottolinea la parola,
la ripete due volte e noi non sappiamo che significato abbia!»
«Grazie a Dio, posso darvi una spiegazione del gran mistero» disse
la signora Georges sorridendo; «confortevole, in questo caso,
significa un appartamento comodo, ben messo, senza spifferi, ben
riscaldato; un’abitazione, insomma, dove ci sia tutto il necessario
e anche il superfluo...»
«Oh! Dio mio! capisco; ma allora sono ancora più preoccupata!»
«Come mai?»
«La signora duchessa parla di tappeti, di mobili e di molti
eccetera, ma qui non abbiamo tappeti, i nostri sono mobili molto
comuni; e poi non si sa neppure se la persona che deve venire sia un
signore o una signora, e tutto deve essere pronto per domani sera...
Come fare? qui non abbiamo niente di ciò che occorre. A dire il
vero, signora Georges, c’è da perderci la testa.»
«Ma, mamma» disse Clara, «potresti prendere i mobili che sono nella
mia stanza, così, mentre aspetto che venga ammobiliata di nuovo,
andrei a Bouqueval a passare tre o quattro giorni con Marie.»
«La tua stanza! la tua stanza! figliola, credi che sia abbastanza
bella?» disse la signora Dubreuil alzando le spalle, «credi che sia
abbastanza... abbastanza confortevole? come dice la signora
duchessa... Dio mio! Dio mio! dove vanno a trovarle certe parole!»
«Il villino di solito non è abitato?» domandò la signora Georges.
«No; è quella casetta bianca e isolata che si trova in mezzo al
frutteto. Quando il signor principe l’ha fatta costruire, la
duchessa era ancora signorina; lì andavano a riposarsi lei e suo
padre quando venivano alla fattoria. Ci sono tre belle stanzette e
in fondo al giardino una cascina svizzera dove, da bambina, la
signora duchessa si divertiva a giocare alla lattaia: dopo il
matrimonio l’abbiamo vista alla fattoria solo due volte e ogni volta
ha trascorso qualche ora nel villino. La prima volta, sei mesi fa, è
venuta a cavallo con...»
Poi, come se la presenza di Fleur-de-Marie e di Clara le avesse
impedito di continuare, la signora Dubreuil riprese:
«Io parlo, parlo, ma le chiacchiere non servono a togliermi dai
pasticci... Aiutatemi, buona signora Georges, aiutatemi vi prego!».
«Vediamo, adesso com’è ammobiliato il villino?»
«Non c’è quasi nulla; nella stanza principale, una stuoia di paglia
sul pavimento, un canapè di giunchi, alcune poltrone anch’esse di
giunchi, un tavolo, qualche sedia, ecco tutto. Come vedete, tra
tutto questo e l’essere confortevole ci corre una bella differenza.»
«Ebbene, ecco quello che farei io al vostro posto: sono le undici,
manderei a Parigi qualcuno che sia sveglio.»
«Il nostro sorvegliante, non c’è nessuno che sia più svelto di lui.»
«Benissimo... in due ore al massimo è a Parigi; va da un
tappezziere, uno qualunque, della Chaussée d’Antin; gli consegna la
lista che vi farò non appena avrò visto quello che manca nel
villino, e gli dirà che, costi quel che costi...»
«Oh, certo... purché la signora duchessa rimanga soddisfatta, non
baderò a spese...»
«Gli dirà che, costi quel che costi, bisogna che quanto è segnato
sulla lista sia qui entro stasera o stanotte, e che si trovino qui
anche tre o quattro giovani della bottega per mettere tutto a
posto.»
«Potranno venire con la carrozza di Gonesse che parte alle otto di
sera da Parigi.»
«E poiché si tratta solo di trasportare mobili, inchiodare tappeti e
metter su le tende, tutto può essere facilmente pronto per domani
sera.»
«Oh! buona signora Georges, sapeste da quale difficoltà mi avete
tolta!... Non avrei mai pensato a tutte queste cose... Siete la mia
provvidenza... Abbiate la bontà di farmi la lista di quello che
occorre perché il villino sia...»
«Confortevole?... sì, senz’altro.»
«Ah, Dio mio! un’altra difficoltà!... Non sappiamo se verrà un
signore o una signora. Nella lettera, la signora duchessa dice: “Una
persona”; è un problema!...»
«Fate come se aspettaste una donna, cara signora Dubreuil; se sarà
un uomo, si troverà meglio.»
«Avete ragione... sempre ragione...»
Una ragazza della fattoria venne ad annunciare che il pranzo era in
tavola.
«Verremo fra poco» disse la signora Georges; «ma, mentre io scriverò
la lista di quello che occorre, fate prendere le misure di altezza e
larghezza delle tre stanze, perché tende e tappeti possano essere
preparati prima.»
«Bene, bene... vado a dire il tutto al mio sorvegliante.»
«Signora» riprese la ragazza, «c’è anche quella lattaia di Stains:
le sue masserizie sono in un carrettino tirato da un asino!
Caspita... è poca roba, la casa che ha!»
«Povera donna...» disse la signora Dubreuil con interesse. «Ma chi è
questa donna?» domandò la signora Georges. «Una contadina di Stains
che, per guadagnarsi un po’ da vi-
vere, andava ogni mattina a Parigi a vendere il latte delle quattro
mucche che aveva. Il marito era maniscalco; un giorno che aveva
bisogno di comperare del ferro, accompagna la moglie e resta
d’accordo di andare a riprenderla all’angolo della strada dove
abitualmente lei vendeva il latte. Purtroppo la lattaia era andata a
finire, sembra, in un brutto quartiere; di ritorno, il marito la
trova alle prese con certi tipacci ubriachi che avevano fatto la
cattiveria di rovesciarle il latte nel rigagnolo. Il fabbro cerca di
far loro intendere ragione, viene malmenato; si difende, e nella
rissa riceve una coltellata che lo stende a terra morto stecchito.»
«Ah! che orrore!...» esclamò la signora Georges. «Ed è stato
arrestato l’assassino?»
«No, purtroppo; nella confusione è scappato; la povera vedova
assicura di poterlo riconoscere senza fallo, perché l’ha visto
svariate volte con altri che sono suoi compagni e che bazzicano di
solito in quel quartiere; ma finora tutte le ricerche per scoprirlo
sono state vane; a farla breve, dopo la morte del marito, la lattaia
è stata costretta, per pagare i vari debiti, a vendere le mucche e
quel po’ di terra che possedeva; il fittavolo del castello di Stains
mi ha raccomandato questa brava donna presentandomela come una
creatura eccezionale, tanto onesta quanto disgraziata, poiché ha tre
figli di cui il più vecchio ha appena dodici anni; c’era un posto
vacante, gliel’ho dato, e adesso viene a stabilirsi alla fattoria.»
«Una tale bontà da parte vostra non mi stupisce, cara signora
Dubreuil.»
«Senti, Clara» riprese la fittavola, «vuoi andare a sistemare quella
brava donna nel suo alloggio, mentre io vado ad avvertire il
sorvegliante di prepararsi per andare a Parigi?»
«Sì, mamma; Marie verrà con me.»
«Certo; potete forse fare a meno l’una dell’altra?» disse la
fittavola.
«E io» replicò la signora Georges, sedendosi a un tavolo, «comincerò
la lista per non perdere tempo, perché dobbiamo essere di ritorno a
Bouqueval per le quattro.»
«Per le quattro?... avete fretta, allora?» disse la signora
Dubreuil.
«Sì, Marie deve trovarsi in canonica alle cinque.»
«Oh, se si tratta del buon parroco Laporte... è un sacrosanto
appuntamento» disse la signora Dubreuil. «Darò gli ordini in
conseguenza... Queste due bambine hanno tante... tante cose da
dirsi. Si deve lasciare loro il tempo di parlarsi.»
«Partiamo alle tre allora? mia cara signora Dubreuil.»
«D’accordo... Ma lasciate che vi ringrazi ancora!... è stata una
buona idea quella di pregarvi di venire ad aiutarmi!» disse la
signora Dubreuil. «Su, Clara; su, Marie!...»
Visto che la signora Georges si metteva a scrivere, la signora
Dubreuil uscì e andò da una parte, mentre le due ragazze andarono da
un’altra seguite dalla servetta che aveva annunciato l’arrivo della
lattaia di Stains.
«Dov’è la povera donna?» domandò Clara.
«È con i figli, il carretto e l’asino nel cortile dei fienili,
signorina.» «Vedrai, Marie, che povera donna» disse Clara, prendendo
a
braccetto la Goualeuse; «com’è pallida e che aria triste le danno
quelle sue gramaglie di vedova! L’ultima volta che è venuta a
trovare mia madre mi ha fatto una gran pena; parlando del marito
piangeva calde lacrime, e poi improvvisamente cessava di piangere,
ed era presa da crisi di furore contro l’assassino. Allora... aveva
uno sguardo così cattivo che mi faceva paura; ma, in fondo, il suo
risentimento è naturalissimo!... che disgrazia per lei!... Quanti
infelici ci sono!... vero, Marie?»
«Oh! sì, sì... certo...» rispose la Goualeuse, sospirando con aria
assente. «C’è gente assai infelice, avete ragione, signorina...»
«Rieccola!» esclamò Clara battendo il piede per terra, irritata e
spazientita, «mi dai ancora del voi... e mi chiami signorina; ma sei
arrabbiata con me, Marie?»
«Io! Per l’amor di Dio!!!»
«Ebbene, perché, allora, mi dai del voi?... Lo sai, mia madre e la
signora Georges ti hanno già sgridato per questo. Ti avverto, ti
farò sgridare ancora: peggio per te...»
«Scusa, Clara, ero distratta...»
«Distratta... quando mi rivedi dopo più di otto lunghi giorni di
lontananza?» disse Clara con tristezza. «Distratta... sarebbe già
molto grave; ma no, no, non è questo: ecco, vedi, Marie... finirò
col credere che sei superba.»
Fleur-de-Marie diventò pallida come una morta e non rispose...
Alla sua vista, una donna che portava il lutto vedovile aveva
gettato un grido di collera e d’orrore.
Era la lattaia dalla quale la Goualeuse, quando alloggiava nella
bettola, andava ogni mattina a comperarsi il latte.
XI
LA LATTAIA
La scena che ci accingiamo a raccontare si svolgeva in un cortile
della fattoria, alla presenza dei contadini e delle contadine che
ritornavano dal lavoro per consumare il pasto di mezzogiorno.
Sotto una tettoia, si vedeva un asino attaccato a un carrettino che
conteneva la misera e rustica mobilia della vedova; un ragazzetto di
dodici anni cominciava a scaricare il carretto facendosi aiutare da
due bambini.
La lattaia, tutta vestita di nero, era una donna di circa
quarant’anni, dalla faccia rude, virile e risoluta; aveva le
palpebre arrossate dalle recenti lacrime. Scorgendo Fleur-de-Marie,
dapprima gettò un grido di spavento; ma subito dopo il dolore,
l’indignazione, la collera le fecero contrarre i muscoli del viso;
si precipitò sulla Goualeuse, la prese brutalmente per un braccio, e
la mostrò alla gente della fattoria, gridando:
«Ecco una delle sciagurate che conosce l’assassino del mio povero
marito... Cento volte l’ho vista parlare con quel brigante; quando
vendevo latte all’angolo della strada della Vieille-Draperie, veniva
ogni mattina a comperarsene un soldo; essa saprà di certo chi è quel
delinquente che ha commesso il delitto; come tutte quelle del suo
stampo, anche lei è della cricca di quei banditi... Oh! non mi
sfuggirai, mascalzona che non sei altro!» gridò la lattaia
esasperata da infondati sospetti; e prese anche l’altro braccio di
Fleur-de-Marie, che, tremante, smarrita, voleva fuggire.
Clara, disorientata dall’improvvisa aggressione, non era riuscita
ancora a dire una parola; ma visto la vedova afferrare
selvaggiamente Fleur-de-Marie, le si rivolse gridando:
«Ma siete pazza!... il dolore vi acceca... vi sbagliate!...».
«Mi sbaglio!...» replicò la contadina con amara ironia, «mi sbaglio!
Oh no! non mi sbaglio... Guardate come è diventata pallida
miserabile!... come batte i denti!... La giustizia ti costringerà a
parlare; verrai con me dal sindaco... hai capito?... Oh, non
sognarti di far resistenza... sono forte... piuttosto ti ci
porto...»
«Insolente che non siete altro!» gridò Clara esasperata, «uscite di
qui... Osare di mancar di rispetto in questa maniera alla mia amica,
a mia sorella!»
«Vostra sorella... signorina, suvvia!... voi, voi siete pazza!»
rispose sgarbatamente la vedova. «Vostra sorella!... una donna di
strada che per sei mesi ho visto trascinarsi su e giù per la Cité!»
A tali parole, scoppiò tra i contadini un sordo mormorio contro
Fleur-de-Marie; essi naturalmente prendevano le parti della lattaia,
che era della loro classe e la cui disgrazia li aveva toccati.
I tre bambini, sentendo che la madre alzava la voce, le corsero
vicino e la circondarono piangendo, senza sapere di che cosa si
trattasse. La vista dei tre poveri piccoli, anch’essi vestiti a
lutto,
rinfrescò nei contadini la simpatia che ispirava la vedova e nello
stesso tempo l’indignazione contro Fleur-de-Marie.
Clara, spaventata da quelle dimostrazioni quasi minacciose, si
rivolse alla gente della fattoria con voce rotta: «Fate uscire
questa donna di qui; vi ripeto che il dolore l’ha accecata. Marie,
Marie, perdono! Dio mio, questa pazza non sa quello che dice...»
La Goualeuse, pallida, con la testa bassa per evitare gli sguardi di
tutti, restava muta, annientata, inerte e non faceva alcun movimento
per liberarsi dalla stretta vigorosa della robusta lattaia.
Clara, attribuendo l’abbattimento dell’amica alla paura che essa
aveva dovuto provare dinanzi a un simile spettacolo, ritornò a dire
ai contadini:
«Avete sentito allora? vi ordino di scacciare questa donna... Dal
momento che continua ancora a insultare, per punirla dell’insolenza,
le toglierò il posto che mia madre le aveva promesso qui; non deve
mai più rimettere piede nella fattoria.»
I contadini rimasero tutti immobili, sordi agli ordini di Clara;
anzi uno di loro osò dire:
«Perbacco... signorina, se è una donna di strada e conosce
l’assassino del marito di questa povera donna... deve andare dal
sindaco per dare spiegazioni...».
«Vi ripeto che non entrerete mai più nella fattoria» disse Clara
alla lattaia, «a meno che non domandiate subito perdono alla
signorina Marie delle vostre villanie.»
«Voi mi cacciate, signorina!... sia» rispose la vedova con amarezza.
«Su, poveri orfanelli» aggiunse abbracciando i bambini, «ricaricate
il carretto, andremo a guadagnarci il pane in qualche altro posto,
il buon Dio avrà pietà di noi; ma almeno, andandocene, condurremo
dal sindaco questa sciagurata che sarà per forza costretta a
denunciare l’assassino del mio povero marito... dato che conosce
tutta la banda... Perché siete ricca signorina» riprese la vedova
guardando insolentemente Clara, «e perché avete delle amiche di quel
genere... non dovete per questo... essere così dura con la povera
gente!»
«È vero» disse un agricoltore, «la lattaia ha ragione...» «Povera
donna!»
«È nel suo diritto...»
«Le hanno ammazzato il marito... non deve forse prendersi
una soddisfazione?»
«Non si può proibirle di cercare a tutti i costi di scoprire i bri-
ganti che hanno commesso il delitto.» «È un’ingiustizia mandarla
via.»
«È colpa sua, se l’amica della signorina Clara è... una donna di
strada?»
«Non si mette alla porta una donna onesta.. una madre di famiglia...
per colpa di una simile sciagurata!»
E i mormorii diventavano minacciosi, quando Clara esclamò: «Dio sia
lodato... ecco mia madre...»
La signora Dubreuil, infatti, uscita dal villino, stava in quel
momento attraversando il cortile.
«Ebbene, Clara! ebbene, Marie!» disse la fittavola prima an-
cora d’essere giunta vicina al gruppo, «venite a mangiare? Su,
ragazze, è già tardi!»
«Mamma» gridò Clara, «difendete mia sorella dagli insulti di quella
donna» e mostrò la vedova; «per favore, mandatela via da qui. Se
aveste sentito tutte le insolenze che ha osato dire a Marie...»
«Come avrebbe osato?»
«Sì, mamma... Guardate, povera sorellina come sta tremando... può
appena reggersi... Ah! che vergogna che una simile scena si svolga
in casa nostra... Marie, perdonaci, te ne supplico!»
«Ma che cosa vuol dire tutto questo?» domandò la signora Dubreuil
guardandosi intorno con inquietudine dopo avere notato
l’abbattimento della Goualeuse.
«La signora sarà giusta, lei... sicuramente...» mormorarono i
contadini.
«Ecco la signora Dubreuil; sarai tu a essere messa alla porta» disse
la vedova a Fleur-de-Marie.
«È vero, allora!» esclamò la signora Dubreuil rivolta alla lattaia,
che teneva sempre Fleur-de-Marie per un braccio, «osate parlare in
questa maniera all’amica di mia figlia! È così che ricambiate la mia
bontà? Volete lasciare in pace questa giovane!»
«Io vi rispetto, signora, e vi sono grata della vostra bontà» disse
la vedova lasciando il braccio di Fleur-de-Marie; «ma prima di
accusarmi e di cacciarmi da casa vostra con i miei bambini,
interrogate questa sciagurata. Forse non avrà la faccia tosta di
negare che la conosco e che anche lei mi conosce.»
«Dio mio, Marie, sentite quello che dice questa donna?» domandò la
signora Dubreuil al colmo dello stupore.
«Ti chiami Goualeuse, sì o no?» disse la lattaia a Marie.
«Sì» rispose l’infelice a voce bassa, con aria costernata e senza
guardare la signora Dubreuil; ! «sì, mi chiamavano così...»
«Ah, vedete!» gridarono i contadini con collera, «confessa!
confessa!...»
«Confessa... ma che cosa? che cosa confessa?» esclamò la signora
Dubreuil, mezzo spaventata dalla confessione di Fleur-deMarie.
«Lasciatela rispondere, signora» replicò la vedova, «vi confesserà
anche di avere abitato in una casa malfamata della rue aux Fèves,
nella Cité, dove le vendevo ogni mattina un soldo di latte; e vi
confesserà anche di avere spesso parlato di me all’assassino del mio
povero marito. Oh, lei lo conosce bene, ne sono sicura... un giovane
pallido che fumava sempre e che portava un berretto, un camiciotto e
capelli lunghi; lei deve sapere come si chiama... non è vero?
rispondi, miserabile!» gridò la lattaia.
«Avrò parlato con l’assassino di vostro marito perché nella Cité,
purtroppo, di assassini ce n’è più d’uno» disse Fleur-de-Marie con
un filo di voce, «ma non so chi vogliate intendere.»
«Come... che cosa dice?» esclamò la signora Dubreuil spaventata. «Ha
parlato con assassini...»
«Donne come lei conoscono solo questo...» rispose la vedova.
Sbalordita da una rivelazione così inaspettata, e resa poi sicura
dalle ultime parole di Fleur-de-Marie, la signora Dubreuil, che
d’improvviso aveva capito tutto, indietreggiò con disgusto e orrore,
attirò a sé violentemente e bruscamente la figlia Clara, che si era
avvicinata alla Goualeuse per sorreggerla, e gridò:
«Ah! che orrore! Clara, fa’ attenzione! Non avvicinarti a quella
sciagurata... Ma come mai la signora Georges ha potuto accoglierla
in casa? Come ha osato presentarmela, e permettere che mia figlia...
Dio mio! Ma è orribile! Quasi, quasi non credo ai miei occhi! Ma no,
no, la signora Georges è incapace di simili bassezze! sarà stata
ingannata come noi. Altrimenti... oh! sarebbe un’infamia da parte
sua!»
Clara, straziata e spaventata dalla scena crudele, credeva di
sognare. Nel suo ignaro candore, non capiva le terribili accuse
rivolte all’amica; il cuore le si spezzò, gli occhi le si riempirono
di lacrime al vedere la Goualeuse sconvolta, muta, accasciata come
una criminale davanti ai giudici.
«Vieni, vieni, figlia mia» disse la signora Dubreuil a Clara; poi
volgendosi a Fleur-de-Marie: «E voi, miserabile creatura, sarete
punita dal buon Dio per la vostra infame ipocrisia. Permettere che
mia figlia., un angelo di virtù, vi chiami amica, sorella...
amica!... sorella!... voi, rifiuto di ciò che vi è di più vile al
mondo! che sfrontatezza! Osare di venire tra la gente onesta, quando
meritate senz’altro di andare a raggiungere le vostre simili in
prigione!»
«Sì, sì» gridarono i contadini; «deve andare in prigione; conosce
l’assassino.»
«Forse è anche la sua complice!»
«Vedi che c’è una giustizia divina!» disse la vedova mostrando i
pugni a Fleur-de-Marie.
«In quanto a voi, brava donna» disse la signora Dubreuil alla
lattaia, «avrete il vostro posto e sarete in più ripagata del
servizio che mi avete reso smascherando questa sciagurata.»
«Meno male! la nostra padrona è giusta, lei...» mormorarono i
contadini.
«Vieni, Clara» riprese la fittavola, «la signora Georges ci darà una
spiegazione del suo comportamento, altrimenti non vorrò più
rivederla in vita mia; perché si è comportata con noi in maniera
indegna, a meno che non sia stata ingannata anche lei.»
«Ma, madre mia, guardate la povera Marie...»
«Che sprofondi pure dalla vergogna, se vuole, meglio così! È degna
di disprezzo... Non voglio che tu resti nemmeno un momento vicino a
lei. È una di quelle donne con cui una fanciulla come te si disonora
anche solo se le rivolge la parola.»
«Dio mio! Dio mio! mamma» disse Clara resistendo alla madre che
voleva trascinarla via, «non so cosa ci sia sotto... Marie, forse,
può essere colpevole, dal momento che lo dite voi; ma, guardate, si
sente mancare; abbiate pietà di lei almeno.»
«Oh, voi, signorina Clara, siete buona, voi mi perdonate. Mio
malgrado, credetemi, vi ho ingannato. Me lo sono rimproverato
spesso» disse Fleur-de-Marie gettando sulla sua protettrice uno
sguardo di infinita riconoscenza.
«Ma, madre mia, siete proprio senza pietà?» gridò Clara con voce
straziante.
«Pietà per lei? Via! Se non fosse per la signora Georges che ce ne
libererà, caccerei dalla fattoria questa miserabile, come se fosse
un’appestata» rispose duramente la signora Dubreuil. E trascinò via
la figlia che, volgendosi un’ultima volta verso la Goualeuse, gridò:
«Marie, sorella mia! non so di che cosa ti accusano, ma sono sicura
che non sei colpevole, e ti voglio sempre bene».
«Sta’ zitta, sta’ zitta!» disse la signora Dubreuil alla figlia
mettendole una mano sulla bocca, «sta’ zitta; meno male che tutti
hanno visto che tu, dopo l’infame rivelazione, non sei rimasta un
solo momento accanto a questa donna perduta, non è vero, amici?»
«Sì, sì, signora» disse un contadino, «abbiamo visto che la
signorina Clara non è rimasta nemmeno un momento con quella
donna, che sicuramente è una ladra, dato che ha amici tra gli
assassini.»
La signora Dubreuil trascinò via Clara.
La Goualeuse restò sola in mezzo al gruppo minaccioso da cui era
circondata.
Nonostante i rimproveri ricevuti, Fleur-de-Marie aveva visto nella
presenza della signora Dubreuil e in quella di Clara una garanzia
contro le conseguenze che potevano derivare da questa scena; ma dopo
la partenza delle due donne, vistasi alla mercé dei contadini, si
sentì mancare; dovette appoggiarsi al parapetto del grande
abbeveratoio dei cavalli della fattoria.
Atteggiamento di doloroso abbandono, quello dell’infelice ragazza.
Parole e attitudini più che mai minacciose, quelle dei contadini che
la circondavano.
Piegata sulla vera di pietra, con la testa bassa, nascosta fra le
mani, il collo e il seno nascosti dalle due cocche del fazzoletto di
tela rossa che le ricopriva il berrettino rotondo, la Goualeuse,
immobile, era l’immagine vivente del dolore e della rassegnazione.
A qualche passo da lei, la vedova dell’assassinato, trionfante e
ancora più inasprita contro Fleur-de-Marie dalle imprecazioni della
signora Dubreuil, mostrava la ragazza ai figli e ai contadini con
gesti carichi di odio e di disprezzo.
La gente della fattoria, riunita in cerchio, non nascondeva i
sentimenti ostili da cui era animata; le loro facce forti e comuni
esprimevano insieme l’indignazione, l’ira e una specie di brutale e
insultante ironia; le più furiose, le più accanite, erano le donne.
La fine bellezza di Fleur-de-Marie era la causa principale del loro
accanimento.
Uomini e donne non potevano perdonare a Fleur-de-Marie di avere fino
ad allora trattato con i loro padroni da pari a pari.
Inoltre, c’erano alcuni contadini d’Arnouville che, non avendo
potuto ottenere alla fattoria di Bouqueval uno di quei posti tanto
ambiti nel paese per via del fatto che non avevano presentato ottime
referenze, nutrivano contro la signora Georges un sordo
risentimento, risentimento che doveva ripercuotersi su
Fleur-deMarie.
Le immediate reazioni della gente semplice sono sempre estreme...
Eccellenti o detestabili.
Ma diventano pericolosissime quando un gruppo crede che le sue
brutalità siano giustificate dai torti reali o apparenti da
parte di coloro che sono oggetto del suo odio o della sua
indignazione.
Sembrava che Goualeuse contagiasse con la sua sola presenza i
contadini di quella fattoria, perché, in fondo, nessuno di loro
forse aveva un qualche motivo plausibile per ostentare una feroce
avversione nei riguardi della ragazza; il loro pudore si rivoltava,
se pensavano a che classe aveva appartenuto quella sciagurata che,
oltre tutto, confessava di avere spesso parlato con assassini. Che
cosa occorreva di più per esaltare la collera dei contadini, che
l’esempio della signora Dubreuil aveva rinfocolato ancora di più?
«Bisogna portarla dal sindaco» gridò uno.
«Sì, sì; e se non vorrà camminare, la spingeremo.»
«E ha il coraggio di vestirsi come noi, oneste ragazze di campa-
gna, quella lì» aggiunse una delle più brutte sudicione della
fattoria. «Con la sua aria da santerellina» replicò un’altra, «si
rischie-
rebbe di darle la comunione senza confessarla.»
«E non aveva forse la faccia tosta di andare a messa?»
«Che svergognata!... perché non fare la comunione subito?» «E per di
più doveva frequentare i padroni!»
«Come se noi fossimo troppo poco per lei!»
«Per fortuna che tutti i nodi vengono al pettine.»
«Oh, dovrai pur parlare e denunciare l’assassino!» disse la ve-
dova. «Siete tutti della stessa banda... Non sono nemmeno tanto
sicura di non averti visto con loro quel giorno. Via, via, è inutile
piagnucolare adesso che ti abbiamo scoperto. Mostraci la tua bella
faccia!»
E la vedova, afferrate con gesto brutale le mani della giovane,
gliele strappò via dal viso bagnato di lacrime.
Dapprima la Goualeuse si sentì sprofondare dalla vergogna, poi,
invece, prese a tremare di paura al trovarsi sola e alla mercé di
quei forsennati; infine, congiunte le mani e girati verso la lattaia
due occhi supplichevoli e timorosi, le disse con voce dolce:
«Dio mio, signora, son due mesi che vivo alla fattoria di
Bouqueval... non posso, dunque, essere stata presente alla disgrazia
di cui parlate, e...».
La timida voce di Fleur-de-Marie fu coperta da grida furiose:
«Portiamola dal sindaco... lì darà spiegazioni.»
«Su in marcia, bellezza!»
E siccome il gruppo, avvicinandosi, la minacciava sempre
più da vicino, la Goualeuse aveva incrociato automaticamente le mani
e, spaventata, si era messa a guardare a destra e a sinistra come
per implorare aiuto.
«Oh» riprese la lattaia, «guardati pure intorno, la signorina Clara
non è più qui a difenderti; non potrai sfuggirci.»
«Ahimè, signora» disse la fanciulla tutta tremante, «non voglio
sfuggirvi; non chiedo di meglio che rispondere a ciò che mi si
chiederà... se questo vi sarà utile... Ma che male ho fatto a tutta
questa gente che mi circonda e mi minaccia?...»
«Ci hai fatto che hai avuto la sfrontatezza di andare con i nostri
padroni, quando noi, che valiamo cento volte più di te, non ci
andiamo... Ecco quello che ci hai fatto.»
«E poi, perché hai permesso che questa povera vedova venisse
cacciata da qui con i suoi figli?» disse un altro.
«Non sono stata io, è stata la signorina Clara a volere...»
«Non seccarci» riprese il contadino interrompendola «non solo non
hai chiesto grazia per lei, ma eri contenta che venisse privata del
suo pane!»
«No, no, non ha chiesto grazia!»
«Com’è cattiva d’animo!»
«Una povera vedova... madre di tre figli!»
«Non ho chiesto grazia» disse Fleur-de-Marie, «perché non
avevo neppure la forza di dire una parola...»
«Ma per parlare con gli assassini, ce l’avevi la forza!»
Come generalmente succede nei tumulti di massa, quei conta-
dini, più stupidi che cattivi, si irritavano, si eccitavano, si
esaltavano al suono delle loro stesse parole, e si animavano in
ragione delle ingiurie e delle minacce che riversavano sulla loro
vittima.
Così le masse, quasi senza accorgersene, giungono a volte, dopo un
graduale processo di esaltazione, a compiere gli atti più ingiusti e
feroci.
Il cerchio dei contadini si stringeva sempre più minaccioso attorno
a Fleur-de-Marie; tutti parlavano e gesticolavano; la vedova del
fabbro era fuori di sé.
Poiché a separarla dal profondo abbeveratoio c’era solo il parapetto
su cui s’era appoggiata, la Goualeuse pensò con paura che volessero
gettarla in acqua; per questo stese verso di loro le mani in atto
supplichevole e si mise a gridare:
«Ma, Dio mio, che volete da me? Per carità, non fatemi del
male!...».
E siccome la lattaia, sempre gesticolando, le si era avvicinata
tanto da puntarle quasi i suoi due pugni sul viso, Fleur-de-Marie
era indietreggiata tutta spaurita e aveva esclamato:
«Vi prego, signora, non avvicinatevi così; mi farete cadere in
acqua».
Le parole di Fleur-de-Marie suggerirono a quei bifolchi un’idea
crudele. Con lo scopo di fare solo uno di quegli scherzi da
contadini per cui spesso restate sul posto mezzo morto, uno dei più
arrabbiati gridò:
«Un tuffo!... facciamole fare un tuffo!»
«Sì... sì... In acqua! in acqua!»
Si udirono scoppi di risa e frenetici battimani.
«Ma sì un bel tuffo!... Non morirà mica.»
«Così imparerà a mescolarsi con la gente onesta!»
«Sì... sì... in acqua!»
«Proprio questa mattina è stato rotto il ghiaccio.»
«La ragazza di strada si ricorderà della brava gente della fatto-
ria di Arnouville!»
Sentendo grida così disumane e scherni così atroci e conside-
rando l’esasperazione e la stupida collera di tutte quelle persone
che venivano avanti per sollevarla, Fleur-de-Marie si vide morta.
Alle prime paure era presto seguita una specie di amara sod-
disfazione: l’avvenire intravisto era a tinte così fosche che
mentalmente ringraziò il cielo di mettere fine alle sue sofferenze;
non si lamentò più, si lasciò scivolare in ginocchio, incrociò
religiosamente le mani sul petto, chiuse gli occhi e attese in
preghiera.
Sorpresi dall’atteggiamento e dalla muta rassegnazione della
Goualeuse, i contadini esitarono un momento a compiere il loro
feroce progetto; ma, rimproverati per la loro debolezza dalle donne
del gruppo, ricominciarono a vociferare per incitarsi a mandare a
effetto il loro triste disegno.
Due dei più furiosi stavano per afferrare Fleur-de-Marie, quando una
voce rotta, vibrante, gridò loro:
«Fermatevi!».
In quel momento la signora Georges, che si era fatta largo in mezzo
alla folla, arrivava vicino alla Goualeuse, ancora in ginocchio, e
le diceva, nell’atto di prenderla fra le braccia e rialzarla da
terra:
«Alzati, figliola!... alzati, figlia diletta! ci si inginocchia solo
davanti a Dio».
L’espressione e l’atteggiamento della signora Georges furono così
fermamente risoluti, che la folla indietreggiò ammutolita.
Per l’indignazione, il volto solitamente pallido della signora
Georges s’era vivamente acceso. Gettò sugli agricoltori uno sguardo
fermo e disse loro con voce alta e minacciosa:
«Disgraziati!... non vi vergognate di lasciarvi andare a simili
violenze contro una povera fanciulla!...».
«È una...»
«È mia figlia!» gridò la signora Georges interrompendo un contadino.
«Il parroco Laporte, che tutti benedicono e venerano, le vuol bene e
la protegge, e coloro che egli stima devono essere rispettati da
tutti.»
Quelle semplici parole suscitarono rispetto nei contadini.
Il parroco di Bouqueval era considerato dal paese un santo; parecchi
contadini non ignoravano l’interesse che egli aveva per la
Goualeuse. Tuttavia si sentì correre ancora qualche sordo brusio; la
signora Georges, afferratone il senso, gridò:
«Anche se questa povera ragazza fosse l’ultima delle creature, fosse
abbandonata da tutti, voi non vi siete resi per questo meno odiosi
con la vostra condotta nei suoi riguardi. Di che cosa volete
punirla? E d’altra parte, con che diritto? Che cosa vi autorizza a
questo? La forza? Come sono vili e meschini quegli uomini che
infieriscono contro una fanciulla indifesa! Vieni, Marie, vieni,
figliola diletta, ritorniamo a casa; là, almeno, tutti ti conoscono
e ti vogliono bene...»
La signora Georges prese il braccio di Fleur-de-Marie: i contadini,
sconcertati dalla palese ferocità della loro condotta, si scostarono
rispettosamente.
Soltanto la vedova si fece avanti per dire risolutamente alla
signora Georges:
«La ragazza non uscirà di qui, se prima non verrà dal sindaco a fare
la sua deposizione sull’assassinio del mio povero marito».
«Buona donna» disse la signora Georges facendosi forza «mia figlia
non ha nessuna deposizione da fare qui; in seguito, se la giustizia
crederà opportuno invocare la sua testimonianza, la faranno
chiamare, e io l’accompagnerò... Prima di allora nessuno ha il
diritto di interrogarla.»
«Ma, signora... vi dico...»
La signora Georges interruppe la lattaia rispondendole severamente:
«Solo la disgrazia di cui siete stata vittima può giustificare
quanto avete fatto; un giorno vi pentirete delle violenze che avete
così imprudentemente suscitato. La signorina Marie abita con me,
alla fattoria di Bouqueval, informatene il giudice che ha accolto la
vostra prima dichiarazione, noi rimarremo in attesa di suoi ordini».
La vedova non seppe rispondere nulla a quelle sagge parole; si
sedette sul parapetto dell’abbeveratoio e si mise ad abbracciare i
figli piangendo amaramente.
Alcuni minuti dopo quella scena, Pierre portò il calessino; la
signora Georges e Fleur-de-Marie vi salirono per ritornare a
Bouqueval.
Passando davanti alla casa della fittavola di Arnouville, la
Goualeuse scorse Clara: da una persiana socchiusa dietro alla quale,
seminascosta, stava piangendo, fece a Fleur-de-Marie un segno
d’addio col fazzoletto.
XII CONSOLAZIONI
«Ah, signora! che vergogna per me! che dolore per voi!» disse
Fleur-de-Marie alla madre adottiva, quando si trovò sola con lei nel
salottino della fattoria di Bouqueval. «Voi vi siete certo
arrabbiata per sempre con la signora Dubreuil, e tutto per colpa
mia. Oh, i miei presentimenti!... Dio mi ha così punito di avere
ingannato quella signora e sua figlia... sono stata motivo di
discordia tra voi e la vostra amica...»
«La mia amica... è un’ottima donna, figliola cara, ma è una
debole... Del resto, siccome è di cuore buonissimo, sono sicura che
domani le dispiacerà di essersi oggi stoltamente arrabbiata...»
«Ahimè, signora, non crediate che voglia accusare voi per
giustificare lei, Dio mio!... Ma la vostra bontà per me non vi fa
forse vedere bene le cose... Mettetevi al posto della signora
Dubreuil... Venire a sapere che l’amica della sua amata figlia...
era... ciò che io ero... dite, si può biasimare la sua indignazione
di madre?»
Purtroppo la signora Georges non seppe rispondere nulla alla domanda
di Fleur-de-Marie, la quale continuò, esaltandosi:
«Domani tutto il paese saprà la scena umiliante che ho subìto
davanti agli occhi di tutti. Non è per me che ho paura; ma chissà se
adesso la reputazione di Clara... non sarà per sempre macchiata...
avermi chiamata amica, sorella! Avrei dovuto seguire il mio primo
impulso... resistere all’inclinazione che mi attirava verso la
signorina Dubreuil... e col rischio anche di diventarle antipatica,
sottrarmi all’amicizia che mi offriva... Ma ho dimenticato la
distanza che mi separava da lei... Così, vedete, ne sono stata
punita, oh, crudelmente punita... perché forse ho arrecato un danno
irreparabile a una giovanetta tanto virtuosa e buona...»
«Figliola» disse la signora Georges dopo avere riflettuto un
momento, «avete torto a farvi dei rimproveri così dolorosi: il
vostro passato è pieno di colpe... sì, pienissimo di colpe... Ma vi
sem-
bra niente l’aver meritato col vostro pentimento la protezione del
nostro venerabile parroco? Non è stato forse sotto i suoi e i miei
auspici che siete stata presentata alla signora Dubreuil? non sono
bastate forse le vostre sole qualità a ispirarle l’affetto che vi
aveva spontaneamente offerto?... Non è stata lei a chiedervi di
chiamare Clara vostra sorella? E poi, in fondo come le ho detto poco
fa, dato che non volevo e non dovevo nasconderle nulla, potevo io,
certa com’ero del vostro pentimento, divulgare il vostro passato,
rendendo così più difficile la vostra riabilitazione... impossibile?
forse, spingendovi alla disperazione ed esponendovi al disprezzo di
persone, che, disgraziate e in balìa di se stesse quanto lo siete
stata voi, non avrebbero forse conservato, come voi, un fondo di
onore e di virtù? La rivelazione di quella donna è stata incresciosa
e funesta; ma dovevo io, informandola, sacrificare la vostra
tranquillità futura a una eventualità quasi improbabile?»
«Ah, signora, la prova della falsità della mia ignobile situazione
sta proprio nel fatto che voi per affetto verso di me avete avuto
ragione a nasconderle il mio passato, mentre la madre di Clara ha
ragione, da parte sua, a disprezzarmi in nome di quel passato; a
disprezzarmi... come tutti ormai mi disprezzeranno, perché la scena
della fattoria di Arnouville sarà divulgata e si saprà tutto... Oh,
morirò di vergogna... non potrò più sopportare gli sguardi di
nessuno!»
«Nemmeno i miei? Povera figliola!» disse la signora Georges in un
pianto dirotto, stringendosi al petto Fleur-de-Marie «in me
tuttavia, troverete sempre l’affetto e l’abnegazione di una madre...
Su, coraggio, Marie! rendetevi conto del vostro pentimento. Qui
siete circondata da amici; ebbene, questa casa sarà il vostro
mondo... Noi preverremo la rivelazione che vi fa tanta paura: il
nostro buon parroco riunirà la gente della fattoria, che già vi è
tanto affezionata; dirà loro la verità sul vostro passato... E
credetemi, figliola, la sua parola ha una tale autorità, che la
rivelazione vi renderà ancora più degna della carità altrui.»
«Vi credo, signora, e io mi rassegnerò; nel colloquio di ieri, il
signor parroco mi aveva annunciato dolorose espiazioni: esse stanno
cominciando e non devo stupirmene. Mi ha detto inoltre che si
sarebbe tenuto conto delle mie sofferenze... Lo spero... Ma poiché
in queste prove sarò sorretta da voi e da lui, non dovrò più
lamentarmi.»
«Del resto lo vedrete fra poco, mai come adesso i suoi consigli vi
sarebbero stati d’aiuto... Sono già le quattro e mezzo; preparatevi
ad andare alla canonica, figliola cara... io scriverò al si-
gnor Rodolphe per fargli sapere ciò che è successo alla fattoria di
Arnouville... un corriere andrà a portargli la lettera... poi verrò
a raggiungervi dal nostro buon parroco... è necessario che parliamo
tutti e tre insieme.»
Poco dopo, la Goualeuse usciva dalla fattoria; ma per recarsi alla
canonica doveva seguire quella strada incassata in cui il giorno
prima la vecchia, il Maître d’école e Tortillard avevano deciso di
trovarsi.
XIII RIFLESSIONE
Come si è potuto vedere dai suoi colloqui con la signora Georges e
col parroco di Bouqueval, Fleur-de-Marie aveva così nobilmente
tratto profitto dei consigli dei suoi benefattori, aveva talmente
assimilato i loro princìpi, che l’idea del suo abietto passato
l’abbatteva ogni giorno di più. Purtroppo anche il suo spirito si
era sviluppato via via che le sue ottime qualità naturali venivano
fecondate da quella sana atmosfera morale in cui viveva.
Se avesse avuto un’intelligenza meno acuta, una sensibilità meno
squisita, un’immaginazione meno vivace, Fleur-de-Marie si sarebbe
facilmente consolata.
Ella si era pentita, un santo prete l’aveva perdonata; in mezzo alle
dolcezze della vita rustica che divideva con la signora Georges,
avrebbe potuto dimenticare gli orrori della Cité; e per finire si
sarebbe affidata senza timori all’amicizia di cui le dava prova la
signorina Dubreuil, e non perché avesse dimenticato le colpe
commesse, ma perché aveva cieca fiducia nella parola di coloro che
stimava moltissimo.
Essi le dicevano: «Adesso la vostra buona condotta vi ha reso uguale
alla gente onesta»; e lei non avrebbe più visto alcuna differenza
fra sé e la gente onesta.
La scena dolorosa della fattoria d’Arnouville l’avrebbe
profondamente rattristata, ma ella non avrebbe, per così dire,
previsto, anticipato quella scena, versando lacrime amare, provando
vaghi rimorsi alla vista di Clara che dormiva, innocente e pura,
nella stessa camera di lei, ex pensionante dell’ostessa.
Povera ragazza!... ella stessa si era molte volte fatta segno, nel
silenzio delle sue lunghe insonnie, di recriminazioni molto più
amare di quelle di cui era stata fatta oggetto da parte della gente
della fattoria!
Ciò che uccideva lentamente Fleur-de-Marie era l’analisi, era la
continua disamina di ciò che si rimproverava; era soprattutto il
costante rapporto esistente fra l’avvenire impostole da un passato
incancellabile e l’avvenire che essa avrebbe potuto sognare senza
quel passato.
Lo spirito di analisi, di disamina e di comparazione è quasi sempre
una qualità inerente a un’intelligenza superiore. Nelle anime altere
e orgogliose, questo spirito conduce al dubbio e alla rivolta contro
gli altri.
Nelle anime timide e delicate, invece, questo spirito conduce al
dubbio e alla rivolta contro se stessi.
I primi vengono condannati, ma essi si assolvono.
I secondi vengono assolti, ma essi si condannano.
Il parroco di Bouqueval, nonostante la sua santità, e la signo-
ra Georges, nonostante le sue virtù, o meglio tutti e due a causa
delle loro virtù e della loro santità, non potevano immaginarsi
quanto soffrisse la Goualeuse, da quando la sua anima, liberata dai
peccati, poté contemplare in tutta la sua profondità l’abisso in cui
era precipitata.
Essi non sapevano che gli atroci ricordi della Goualeuse avevano
quasi la stessa forza e la stessa potenza della realtà; non sapevano
che la giovane aveva una sensibilità eccezionale, un’immaginazione
sognante e poetica e una grande e dolorosa impressionabilità; non
sapevano che non passava giorno in cui la giovane non ricordasse e
non provasse, con sofferenza mista a disgusto e spavento, le
ignobili colpe della sua esistenza passata.
Si pensi a una ragazza di sedici anni, candida e pura, che è
consapevole del suo candore e della sua purezza, spinta da una forza
diabolica nell’infame taverna dell’ostessa e completamente in balìa
di quella megera!... Tale era in Fleur-de-Marie l’effetto che
produceva il passato sul presente.
Riusciremo noi a capire, così, il risentimento retrospettivo, o
piuttosto il contraccolpo morale di cui la Goualeuse soffriva tanto
crudelmente da rimpiangere, più spesso di quanto non avesse osato
confessare al parroco, di non essere morta soffocata nel fango.
Se si riflette un poco e se si ha un po’ d’esperienza della vita,
non si considererà un paradosso ciò che diremo fra poco:
Fleur-de-Marie era degna di essere aiutata e compatita, non solo
perché non aveva mai amato, ma anche perché i suoi sensi erano
restati addormentati e freddi. Se è vero che molto spes-
so, in donne dotate forse di minor delicatezza di Fleur-de-Marie, si
manifestano, dopo il matrimonio, certe repulsioni di fronte
all’amore che durano a lungo, perché stupirsi se questa disgraziata,
ubriacata dall’ostessa e gettata a sedici anni in mezzo al branco di
belve che infestavano la Cité, ha provato solo orrore e spavento ed
è uscita moralmente pura da quella cloaca?...
Le sincere confidenze fatte da Clara Dubreuil sul puro amore che
aveva per il giovane fattore che doveva sposare avevano rattristato
Fleur-de-Marie; anche lei sentiva che avrebbe potuto amare
profondamente, che avrebbe potuto provare tutto ciò che nell’amore è
devoto, nobile, puro e grande; eppure non le era più permesso di
ispirare o di provare un tale sentimento; perché se avesse amato,
avrebbe scelto in ragione dell’elevatezza della sua anima, e più la
scelta sarebbe stata degna di lei, più lei si sarebbe creduta
indegna.
XIV
LA STRADA INCASSATA
Il sole stava calando dietro all’orizzonte; la pianura era deserta e
silenziosa.
Fleur-de-Marie si stava dirigendo verso l’imbocco della strada
incassata che doveva prendere per andare alla canonica, quando vide
uscire dal burrone un ragazzetto zoppo, con un camiciotto grigio e
un berretto azzurro; sembrava in lacrime, comunque non appena scorse
la Goualeuse, le corse incontro.
«Oh, buona signora, abbiate pietà di me, vi prego!» gridò,
congiungendo le mani con aria supplichevole.
«Che cosa vuoi? Che hai, ragazzo?» domandò la Goualeuse interessata.
«Ahimè, buona signora, la mia povera nonna, che è molto vecchia,
molto vecchia, è caduta laggiù, mentre stava scendendo il fosso; si
è fatta molto male... ho paura che si sia rotta una gamba... E io
sono troppo debole per aiutarla ad alzarsi... Dio mio, aiutatemi,
altrimenti non so come farò! Povera nonna! forse sta per morire!»
La Goualeuse, toccata dal dolore dello zoppetto, esclamò:
«Nemmeno io sono molto forte, ragazzo, ma forse potrò aiutarti a
soccorrere tua nonna... Su, presto, andiamo da lei... io vivo in
quella fattoria laggiù... se non riusciremo a trasportare la povera
vecchia fin laggiù, la manderò a prendere».
«Oh, buona signora, che Dio vi benedica... Di qui... a due passi,
nella strada incassata, come vi ho detto; è caduta scendendo la
scarpata.»
«Voi non siete di qui, allora?» domandò la Goualeuse seguendo
Tortillard, che il lettore avrà senz’altro già riconosciuto.
«No, buona signora, veniamo da Ecouen.»
«E dove stavate andando?»
«Da un buon parroco che sta sulla collina lassù...» disse il fi-
glio di Bras-Rouge, per non destare ombra di sospetto in
Fleurde-Marie.
«Forse dal parroco Laporte?»
«Sì, buona signora, dal parroco Laporte; la mia povera nonna lo
conosce molto bene, molto bene...»
«Stavo andando proprio da lui; che combinazione!» disse
Fleur-de-Marie, inoltrandosi sempre più nella strada incassata.
«Nonnina! eccomi, eccomi!... Abbi pazienza, ti porto aiuto!» gridò
Tortillard per avvertire il Maître d’école e la Chouette di tenersi
pronti a balzare sulla vittima.
«Tua nonna è caduta lontano da qui?» domandò la Goualeuse.
«No, buona signora, è caduta dietro quel grande albero laggiù, dove
la strada fa una svolta, a venti passi da qui.»
Improvvisamente Tortillard si fermò.
Il galoppo di un cavallo risuonò nel silenzio della prateria.
“Ancora tutto a monte” pensò Tortillard.
A qualche tesa dal luogo in cui si trovavano il figlio di Bras-
Rouge e la Goualeuse, la strada faceva una curva a gomito.
Sulla curva apparve un cavaliere che, quando fu vicino alla ra-
gazza, si fermò.
Si sentì allora il trotto di un altro cavallo, e di lì a poco,
arrivò
un domestico con prefettizia scura e bottoni d’argento, calzoni di
pelle bianca e stivali a tromba. Dietro la schiena aveva il bagaglio
del padrone, legato stretto da una cintura di cuoio rosso.
Il padrone, che aveva solo una pesante prefettizia color bronzo e un
paio di pantaloni grigio chiaro, montava con grazia perfetta un
cavallo baio, purosangue, di singolare bellezza; nonostante la lunga
corsa appena fatta, non c’era traccia di sudore sulla splendida
lucentezza del suo mantello dai riflessi d’oro.
Il cavallo dello stalliere, che si fermò a qualche passo dal
padrone, era anch’esso molto bello e di razza.
In quel cavaliere, dal volto bruno e affascinante, Tortillard
riconobbe il visconte di Saint-Remy, che si supponeva fosse l’amante
della duchessa di Lucenay.
«Bella fanciulla» disse il visconte alla Goualeuse, dalla cui
bellezza era stato colpito, «sareste tanto cortese da indicarmi la
strada per Arnouville?»
Marie, abbassati gli occhi davanti allo sguardo spavaldo e
penetrante del giovane, rispose:
«Il primo sentiero a destra, signore, dopo la strada incassata: il
sentiero immette in un viale di ciliegi che porta direttamente ad
Arnouville.»
«Mille grazie, bella fanciulla... Mi avete informato meglio della
vecchia che ho trovato a pochi passi da qui, stesa ai piedi di un
albero; dalla sua bocca non ho potuto cavare che gemiti.»
«La mia povera nonna!...» mormorò Tortillard con voce addolorata.
«Ancora una cosa» riprese il signor di Saint-Remy rivolgendosi alla
Goualeuse, «potreste dirmi se è difficile trovare, ad Arnouville, la
fattoria del signor Dubreuil?»
La Goualeuse non poté fare a meno di trasalire a quelle parole che
le ricordavano la penosa scenata della mattina; ella rispose:
«Il viale che dovrete prendere per arrivare ad Arnouville è
fiancheggiato dai fabbricati della fattoria, signore.»
«Ancora grazie, bella fanciulla!» disse il signore di SaintRemy. E
partì al galoppo, seguito dal domestico.
Parlando con Fleur-de-Marie il visconte si era un po’ rasserenato in
volto; appena fu solo, però, ripiombò nella sua profonda
inquietudine e s’incupì.
Fleur-de-Marie, ricordandosi della persona sconosciuta per la quale,
su ordine della signora di Lucenay, era stato preparato in fretta e
furia il villino della fattoria d’Arnouville, non poté dubitare che
non si trattasse di quel giovane e bel cavaliere.
Il galoppo dei cavalli scosse per qualche tempo ancora la terra
indurita dal gelo; poi s’allontanò, cessò...
Tutto ridivenne silenzioso.
Tortillard trasse un respiro di sollievo.
Per tranquillizzare e avvertire i complici, uno dei quali, il
Maître d’école, s’era sottratto alla vista dei due cavalieri, il
figlio di Bras-Rouge si mise a gridare:
«Nonna!... sono da te... con una buona signora che viene in tuo
aiuto!...».
«Presto, presto, ragazzo! quel signore a cavallo ci ha fatto perdere
tempo» disse la Goualeuse affrettando il passo e dirigendosi verso
la curva della strada incassata.
Ma appena vi arrivò, la Chouette, che stava nascosta, disse
sottovoce:
«Forza, furfante!»
E balzata sulla Goualeuse, con una mano l’afferrò per il collo
mentre con l’altra le tappò la bocca; Tortillard intanto s’era
gettato sulle gambe della ragazza e vi si era attaccato per
impedirle di muovere i piedi.
La scena si era svolta con tanta rapidità, che la Chouette non aveva
avuto neppure il tempo di esaminare la Goualeuse in volto; ma per
riconoscere la sua antica vittima, alla vecchia bastarono i pochi
istanti che impiego il Maître d’école a uscire dal buco in cui si
era rannicchiato e a portarsi sul posto, brancicando col mantello in
mano.
«La Pégriotte!...» esclamò stupefatta; poi aggiunse con gioia
feroce: «Ancora tu!... Ah, è il diavolo che ti manda... È tuo
destino di ricadermi sempre tra le grinfie!... Ho il mio vetriolo
nella carrozza... questa volta ci farò passare sopra il tuo bel
musetto... perché mi dà i nervi quella tua faccia da verginella... A
te, vecchio mio!... bada che non ti morda, e tienila ben salda
mentre noi l’impacchettiamo...»
Il Maître d’école afferrò la Goualeuse con le sue mani potenti; e
prima che avesse potuto gettare un grido, la Chouette le buttò il
mantello sulla testa e l’avvolse strettamente.
In un attimo, Fleur-de-Marie, fu legata, imbavagliata e messa
nell’impossibilità di fare movimenti o di chiamare aiuto.
«E ora, furfante, a te il pacco...» disse la Chouette. «Eh, eh,
eh... solo che non è pesante come il pacco della donna annegata nel
canale Saint-Martin... vero, vecchio mio?» E poiché il brigante
aveva avuto un sussulto a quelle parole che gli ricordavano lo
spaventoso sogno della notte, la guercia continuò: «Oh bella! che
hai, furfante?... Si direbbe che tremi... È da stamattina che ogni
tanto ti metti a battere i denti come se avessi la febbre, e allora
guardi per aria come se cercassi qualcosa.»
«Bel fannullone!... sta a guardare le mosche che volano» disse
Tortillard.
«Via, presto, filiamo, vecchio mio! imballa la Pégriotte...
finalmente!» aggiunse la Chouette al vedere il brigante che prendeva
Fleur-de-Marie in braccio come si prende un bimbo addormentato.
«Presto alla carrozza, presto!»
«E me, chi mi accompagna...?» chiese il Maître d’école con voce
sorda, stringendo il morbido e lieve fardello fra le braccia
erculee.
«Che vecchio tutta testa! non gli sfugge niente» disse la Chouette
la quale, aperto lo scialle, si tolse da attorno all’ossuto collo un
fazzoletto rosso che attorcigliò tutto per bene e disse al Maître
d’école:
«Apri il gargarozzo, prendi tra i dentini il capo del fazzoletto e
stringi bene... Tortillard terrà in mano l’altro capo, non dovrai
far altro che seguirlo... A buon cieco buon cane. Qua, marmocchio!».
Lo zoppetto fece un salto, emise sottovoce un suono vago che voleva
essere una specie di grottesco latrato, prese in mano un capo del
fazzoletto e così si pose a guida del Maître d’école, mentre la
Chouette affrettava il passo per andare ad avvertire il Barbillon.
Non stiamo a descrivere il terrore di Fleur-de-Marie quando si vide
in potere della Chouette e del Maître d’école. La ragazza non poté
opporre la minima resistenza perché si sentì subito mancare.
Alcuni minuti dopo, la Goualeuse era già bell’e messa nella carrozza
condotta da Barbillon; sebbene fosse buio, le tendine della vettura
erano state accuratamente abbassate, e i tre complici si diressero,
con la loro vittima quasi in agonia, verso la spianata di
Saint-Denis, dove Tom li attendeva.
XV CLÉMENCE D’HARVILLE
Il lettore ci scuserà se abbiamo lasciato una nostra eroina in una
situazione così critica, situazione di cui diremo più avanti lo
scioglimento.
Le molteplici vicende di questa storia, ahimè troppo composita nella
sua unità, ci costringono a passare incessantemente da un
personaggio all’altro, per fare, per quanto ci è possibile, avanzare
e progredire la trama generale dell’opera (ammesso che ci sia una
trama in quest’opera, difficile quanto coscienziosa e imparziale).
Prima, dunque, seguiremo alcuni dei protagonisti di questa storia in
quelle soffitte dove trema di freddo e di fame la povera gente
timida, rassegnata, proba e laboriosa;
In quelle prigioni di uomini e donne, prigioni a volte civettuole e
fiorite, a volte nere e funeree, ma sempre grandi scuole di
perdizione, atmosfera nauseabonda e viziata, dove l’innocente
intristisce e avvizzisce... cupi covi del peccato, dove chi en-
tra puro, quasi sempre esce corrotto, nonostante tutte le
avvertenze;...
In quegli ospedali dove il povero, trattato a volte con commovente
umanità, rimpiange di tanto in tanto il solitario giaciglio che
inzuppava del gelido sudore di febbre;...
In quegli asili misteriosi dove la ragazza sedotta e abbandonata dà
alla luce, inondandolo di lacrime amare, il figlio che non rivedrà
più;...
In quei luoghi terribili dove la follia, commovente, grottesca,
stupida, orribile o feroce, prende solo aspetti paurosi...
dall’idiota tranquillo che ride del triste riso che fa piangere...
fino all’ossesso che ruggisce come una belva e si arrampica su per
le inferriate della cella.
Dobbiamo infine esplorare...
Ma a cosa serve questa lunghissima enumerazione? Non stiamo correndo
il rischio di spaventare il lettore? ci ha già concesso la grazia di
seguirci in luoghi molto strani; adesso però esiterà, prima di
accompagnarci in nuove peregrinazioni.
Detto ciò, proseguiamo.
Il lettore ricorderà che, il giorno precedente a quello in cui sono
accaduti i fatti che abbiamo raccontato (il rapimento della
Goualeuse, per opera della Chouette), Rodolphe aveva salvato la
signora d’Harville da un pericolo imminente, pericolo da attribuirsi
alla gelosia di Sarah, la quale aveva avvertito il signor d’Harville
dell’appuntamento così imprudentemente accordato dalla marchesa al
signor Charles Robert.
Rodolphe era uscito dalla casa della rue du Temple profondamente
commosso dalla scena a cui aveva assistito ed era poi subito
ritornato al suo palazzo, dove aveva rimandato all’indomani la
visita che contava di fare alla signorina Rigolette e alla famiglia
dei disgraziati artigiani di cui abbiamo parlato; quanto a questi,
egli li credeva per qualche tempo al sicuro dalla miseria, grazie al
denaro che aveva dato per loro alla marchesa, al fine di rendere più
verosimile agli occhi del signor d’Harville la sua presunta visita
di carità. Purtroppo Rodolphe non sapeva che Tortillard si era
impadronito di quel borsellino; noi, invece, abbiamo già detto con
quanta audacia Tortillard avesse commesso quel furto.
Verso le quattro, il principe ricevette la seguente lettera...
L’aveva portata una donna anziana che se n’era andata senza
attendere la risposta.
Mio signore,
Vi devo più che la vita, vorrei esprimervi oggi stesso la mia
profonda gratitudine. Domani forse la vergogna mi toglierebbe la
forza di parlare... Se poteste farmi l’onore di venire stasera da
me, terminereste questa giornata come l’avete cominciata, signore,
con un’azione generosa.
D’Orbigny-D’Harville
P.S. Non prendetevi il disturbo di rispondermi, starò in casa tutta
la sera.
Nonostante la contentezza per aver reso un enorme favore alla
signora d’Harville, a Rodolphe, comunque, dispiaceva quella specie
di forzata intimità che una tale circostanza aveva fatto nascere
improvvisamente fra lui e la marchesa.
Profondamente colpito dalle qualità spirituali e dall’attraente
bellezza di Clémence ma incapace di tradire l’amicizia del signor
d’Harville, Rodolphe, dopo un mese di frequenza assidua, aveva quasi
rinunciato a vederla perché si era accorto d’avere per lei una
simpatia troppo spiccata.
Perciò ricordava con emozione il colloquio che aveva sorpreso
all’ambasciata di *** fra Tom e Sarah... Costei, per motivare il
proprio odio e la propria gelosia, aveva affermato, non senza
ragione, che la signora d’Harville provava, quasi a sua insaputa, un
sincero affetto per Rodolphe. Sarah era troppo sagace, troppo fine,
troppo buona conoscitrice del cuore umano per non aver capito che
Clémence si era creduta trascurata, disdegnata forse da un uomo che
aveva prodotto su di lei una profonda impressione; che Clémence,
solo perché aveva obbedito al suo risentimento e all’insistenza
ossessiva di una perfida amica, aveva potuto interessarsi, quasi
senza aspettarselo, alle disgrazie immaginarie del signor Charles
Robert; senza peraltro dimenticare completamente Rodolphe.
Altre donne, fedeli al ricordo dell’uomo da cui siano state
particolarmente colpite, sarebbero rimaste indifferenti agli sguardi
del comandante. Clémence d’Harville fu dunque doppiamente colpevole
pur tenendo conto che aveva subìto il fascino dell’infelicità altrui
e che si era salvata da un irreparabile errore in virtù soprattutto
del suo vivo senso del dovere e del ricordo forse del principe,
ricordo salutare, che vegliava in fondo al suo cuore.
Al pensiero del suo colloquio con la signora d’Harville, Rodolphe si
sentiva in preda a mille contraddizioni. Deciso, nono-
stante tutto, a resistere all’inclinazione che lo spingeva verso di
lei, da una parte si considerava fortunato di poterla disamare,
rimproverandole la scelta poco felice del signor Charles Robert,
dall’altra, invece, gli dispiaceva amaramente di veder cadere
l’alone di cui l’aveva fino ad allora circondata.
Anche Clémence d’Harville aspettava quel colloquio con ansia; due
sentimenti predominavano in lei, ed erano una dolorosa confusione
quando pensava a Rodolphe... e una profonda avversione quando
pensava al signor Charles Robert.
Erano molte le ragioni alla base di quell’avversione, di quell’odio.
Una donna rischia la propria tranquillità, il proprio onore per un
uomo, ma non gli perdona mai di averla messa in una situazione
umiliante o ridicola.
Difatti quando la signora d’Harville si vide esposta al sarcasmo e
agli sguardi insultanti della signora Pipelet, per poco non si sentì
morire dalla vergogna.
E non era tutto.
Quando Rodolphe l’avvisò del pericolo che correva, Clémence era
salita al quinto piano; la posizione della scala però era tale che,
salendo, essa scorse il signor Charles Robert, con la sgargiante
vestaglia da camera, nel momento in cui questi, riconosciuto il
passo leggero della donna che stava aspettando, aveva aperto un po’
la porta con sulle labbra il sorriso luminoso del conquistatore...
L’insolente ed eloquente fatuità dell’abbigliamento del comandante
fece capire alla marchesa quale cantonata avesse preso nei riguardi
di quell’uomo. Spinta dalla sua bontà d’animo e dalla sua generosità
a un passo che avrebbe potuto rovinarla, aveva concesso
quell’appuntamento, non per amore, ma solo per compassione, e
precisamente per consolare il signor Charles Robert della parte
ridicola che il cattivo gusto del duca di Lucenay gli aveva fatto
fare davanti a lei all’ambasciata di ***.
Ci si immagini dunque l’umiliazione e il disgusto della signora
d’Harville, alla vista del signor Charles Robert... vestito da
trionfatore!...
Suonavano le nove all’orologio del salotto dove si trattava
abitualmente la signora d’Harville.
I negozianti di moda e i padroni di ristorante avevano fatto
talmente spreco di stile Luigi XV e di stile rinascimento che la
marchesa, donna di molto gusto, aveva bandito dal suo appartamento
quel genere di lusso diventato tanto volgare, relegandolo nella
parte del palazzo d’Harville riservata ai grandi ricevimenti.
Non c’era nulla di più elegante e di più fine dell’arredamento del
salotto dove la marchesa aspettava Rodolphe.
La tappezzeria e le tende senza pendagli e drappeggi erano di stoffa
indiana color paglia; su quello sfondo luminoso erano stati
disegnati con ricami di seta opaca, dello stesso colore, fantasiosi
arabeschi di gusto incantevole. Le finestre erano completamente
nascoste da doppie tende ricamate a punto d’Alençon.
Sulle porte, in legno rosa, c’erano modanature d’argento dorato
lavorato con arte che in ogni pannello incorniciavano un medaglione
ovale in porcellana di Sèvres di circa un piede di diametro, in cui
erano raffigurati uccelli e fiori di una finitezza e di una bellezza
stupende. Anche le cornici degli specchi e i tondini della
tappezzeria erano di legno rosa e avevano gli stessi ornamenti in
argento dorato.
Il fregio del caminetto, di marmo bianco, e le due cariatidi di
classica e squisita fattura si dovevano al magistrale cesello di
Marochetti, il quale, da quell’eminente artista che era, aveva
acconsentito a scolpire il delizioso capolavoro, ricordandosi che
anche Benvenuto Cellini non disdegnava di modellare brocche e
armature.
Due candelabri e due candelieri di argento dorato, preziosamente
lavorati da Gouttière, s’accompagnavano a una pendola, blocco
quadrato di lapislazzuli, costruito su uno zoccolo di diaspro
orientale e sormontato da una larga e magnifica coppa d’oro
smaltata, impreziosita di perle e di rubini, che doveva senz’altro
appartenere all’epoca d’oro del rinascimento fiorentino.
A dare l’ultimo tocco a questo insieme magnifico c’erano numerosi e
notevoli quadri di media grandezza di scuola veneziana. Grazie a una
speciale innovazione, il salotto era tenuemente rischiarato da una
lampada il cui globo di cristallo smerigliato spariva per metà sotto
un ciuffo di fiori naturali contenuti in una profonda e immensa
coppa giapponese azzurra, porpora e oro, sospesa al soffitto, come
un lampadario, da tre grossi bracci d’argento dorato, attorno ai
quali s’avviticchiavano i verdi steli di numerose piante rampicanti;
alcuni ramoscelli flessibili e carichi di fiori uscivano dalla coppa
e, ricadendo, formavano come una bella e fresca frangia di verde
sulla porcellana smaltata d’oro, di por-
pora e d’azzurro.
Insistiamo su questi particolari, certo non molto importanti,
per dare un’idea dell’innato buon gusto della signora d’Harville
(segno quasi sempre sicuro di persona colta) e perché certe
irrivelate miserie, certe segrete disgrazie sembrano ancora più
dolo-
rose quando contrastano con tutto ciò che il mondo crede renda la
vita felice e invidiata.
Sprofondata in una grande poltrona interamente coperta di stoffa
color paglia come gli altri mobili, Clémence d’Harville stava a capo
scoperto, indossava un accollato vestito di velluto nero, su cui si
notava il meraviglioso ricamo a punto d’Inghilterra del largo
colletto e dei polsini tondi, il quale ricamo impediva al nero del
velluto di staccare troppo crudamente sull’incantevole bianchezza
delle mani e del collo.
Più si avvicinava il momento del colloquio con Rodolphe, più
aumentava l’emozione della marchesa. A un certo momento, però, tra
la confusione si fecero largo delle idee ben precise: dopo lunga
riflessione, decise di confidare a Rodolphe un grande... un crudele
segreto, nella speranza di guadagnare, parlando con tutta
franchezza, una stima di cui era tanto desiderosa.
Rianimata dalla riconoscenza, la sua istintiva simpatia per Rodolphe
si stava ridestando con nuova forza. Uno di quei presentimenti che
di rado ingannano i cuori amanti le diceva che non era stato solo un
caso quello che aveva spinto il principe a giungere in un momento
così opportuno a salvarla, e che se lui da alcuni mesi aveva cessato
di vederla aveva forse obbedito a un sentimento diverso
dall’antipatia. Un vago istinto aveva anche fatto sorgere nella
mente di Clémence dei dubbi sulla sincerità dell’affetto di Sarah.
Poco dopo un cameriere bussò leggermente, entrò e disse a Clémence:
«È disposta la signora marchesa a ricevere la signora Asthon e
madamigella?»
«Ma certo, come al solito...» rispose la signora d’Harville. E sua
figlia entrò lentamente nel salotto.
Era una bambina di quattro anni, che avrebbe avuto un viso
incantevole se non fosse stato di un pallore da persona malaticcia,
e di estrema magrezza. La signora Asthon, la sua governante, la
teneva per mano; Claire (così si chiamava la bambina), nonostante la
sua debolezza, corse subito verso la madre tendendole le braccia.
Due trecce di capelli bruni, tenute assieme da due nastri color
ciliegia annodati al di sopra delle tempie, le scendevano dalle due
parti del viso; era di salute tanto cagionevole, che era costretta a
portare un piccolo soprabito di seta scura al posto di quei bei
vestitini di mussolina bianca, guarniti di nastrini simili a quelli
dei capelli, e tanto scollati da poter mettere in mostra quelle
braccette rosa e quelle spalle fresche e morbide che sono così belle
nei bambini sani.
I grandi occhi neri della bambina sembravano enormi, tanto aveva le
guance scavate. Nonostante il suo pallore, Claire ebbe un luminoso
sorriso pieno di finezza e di grazia non appena fu sulle ginocchia
della madre, che la abbracciò con una sorta di malinconica e
appassionata tenerezza.
«Com’è stata in queste ultime ore, signora Asthon?» domandò la
signora d’Harville alla governante.
«Abbastanza bene, signora marchesa, sebbene per un momento abbia
avuto paura...»
«Ancora!» esclamò Clémencé stringendo la figlia al petto con un moto
involontario di paura.
«Per fortuna, signora, mi sono sbagliata» disse la governante;
«l’attacco non ha avuto luogo, e la signorina Claire s’è calmata; ha
avuto solo un mancamento... Questo pomeriggio ha dormito poco; ma
adesso non ha voluto andare a dormire senza prima venire a dare un
bacio alla signora marchesa.»
«Povero angioletto caro!» disse la signora d’Harville coprendo la
figlia di baci.
Costei le stava restituendo le carezze con gioia infantile, quando
un cameriere spalancò i battenti della porta del salotto e annunciò:
«Sua Altezza Serenissima signore il granduca di Gerolstein!»
Claire s’era messa in piedi sulle ginocchia della madre, le aveva
gettato le braccia al collo e la stava stringendo forte. Alla vista
di Rodolphe, Clémence arrossì, depose dolcemente la figlia sul
tappeto, fece segno alla signora Asthon di portar via la bambina, e
si alzò.
«Permettetemi, signora» disse Rodolphe, sorridendo dopo aver
rispettosamente salutato la marchesa, «di rifare la conoscenza con
una mia vecchia e piccola amica, che temo non si ricordi più di me.»
E, chinandosi un po’, porse la mano a Claire.
Costei dapprima lo fissò con due grandi occhi neri pieni di
curiosità; poi, riconosciutolo, gli fece un grazioso cenno col capo
e gli mandò un bacio sulla punta delle scarne dita.
«Figlia mia, hai riconosciuto sua signoria?» domando Clémence a
Claire. Costei rispose di sì con la testa, e mandò un altro bacio a
Rodolphe.
«Sembra che sia migliorata dall’ultima volta che l’ho vista» disse
premurosamente Rodolphe rivolgendosi a Clémence.
«Va un po’ meglio, mio signore, sebbene sia sempre sofferente.
La marchesa e il principe erano quasi contenti di dovere alla
presenza di Claire una dilazione di cinque minuti al loro prossimo
colloquio perché, al pensiero di esso, sia l’una che l’altro si
sentivano in imbarazzo; ma la governante, con molta discrezione,
portò via la bambina e Rodolphe e Clémence rimasero soli.
XVI
LA CONFESSIONE
La poltrona della signora d’Harville si trovava a destra del
caminetto, al quale Rodolphe, rimasto in piedi, stava leggermente
appoggiato.
Mai come adesso Clémence era stata tanto colpita dall’armonia dei
lineamenti nobili e fini del principe; mai la sua voce le era
sembrata così dolce e vibrante.
Avendo capito quanto dovesse essere penoso per la marchesa iniziare
la conversazione, Rodolphe prese la parola per primo:
«Signora, siete stata vittima di un indegno tradimento: una vile
delazione da parte della contessa Sarah Mac-Grégor per poco non vi
ha rovinata.»
«Allora è vero, mio signore?» esclamò Clémence. «I miei
presentimenti dunque non m’ingannavano... E in che modo Vostra
Altezza è riuscita a sapere?...»
«Ieri, per caso, al ballo della contessa ***, ho scoperto il segreto
di quest’infamia. Ero seduto in un angolo del giardino d’inverno.
Non sapendo che un gruppo di alberi mi separava da loro e mi
permetteva di sentirli, la contessa Sarah e suo fratello vennero a
discutere vicino a me dei loro progetti e del tranello che vi
avrebbero teso. Volendo avvertirvi del pericolo da cui eravate
minacciata, corsi subito al ballo della signora di Nerval, credendo
di trovarvi: ma voi non c’eravate stata. Scrivervi a casa questa
mattina voleva dire rischiare di far cadere la mia lettera nelle
mani del marchese, che doveva già avere dei sospetti. Ho preferito
venire ad aspettarvi in rue du Temple, per sventare il tradimento
della contessa Sarah. Mi perdonate, vero, di parlarvi così a lungo
di un argomento che deve esservi certo spiacevole? Se non avessi
ricevuto la lettera che avete avuto la bontà di scrivermi... non vi
avrei mai parlato di tutto ciò in vita mia...»
Dopo un momento di silenzio, la signora d’Harville disse a Rodolphe:
«Io non ho che un mezzo, mio signore, per provarvi la mia
riconoscenza... farvi una confessione che non ho fatto a nessuno.
Una confessione che non mi giustificherà certo ai vostri occhi, ma
che vi farà forse considerare la mia condotta meno colpevole.»
«Francamente, signora» disse Rodolphe sorridendo, «la mia posizione
verso di voi è molto imbarazzante...»
Clémence, colpita dal tono quasi scanzonato di Rodolphe, lo guardò
con meraviglia.
«Come, mio signore?»
«Grazie a una circostanza che voi certo indovinerete, sono stato
costretto a fare... un po’ la parte del parente anziano in
un’avventura che, una volta ch’eravate sfuggita all’odioso tranello
della contessa Sarah, non avrebbe meritato d’essere presa con tanta
gravità... Ma» aggiunse Rodolphe con una sfumatura di affettuosa e
dolce serietà, «vostro marito è quasi un fratello per me; mio padre
nutriva per suo padre riconoscenza e affetto. Con tutta serietà
dunque mi congratulo con voi per aver ridato a vostro marito
tranquillità e fiducia.»
«E anche perché onorate il signor d’Harville della vostra amicizia,
mio signore, ci tengo a dirvi tutta la verità... e su una scelta che
vi deve sembrare infelice com’è realmente... e sulla mia condotta,
che offende colui che Vostra Altezza chiama quasi un fratello.»
«Signora, sarò sempre felice e fiero della più piccola prova di
fiducia da parte vostra. Tuttavia, permettetemi di dirvi, a
proposito della scelta a cui avete fatto allusione, che so che avete
ceduto a un sentimento di sincera pietà e all’insistenza ossessiva
della contessa Sarah Mac-Grégor, che aveva le sue ragioni per
volervi rovinare... So inoltre che avete esitato non poco prima di
risolvervi a un passo di cui adesso vi affliggete tanto.»
Clémence guardò il principe sorpresa.
«Ne siete stupita? Vi dirò il mio segreto un altro giorno, perché
non abbiate a prendermi per un mago» rispose Rodolphe sorridendo.
«Vostro marito piuttosto è del tutto tranquillo, ora?»
«Sì, mio signore» disse Clémence abbassando gli occhi confusa; «e vi
confesso che soffro a sentirlo chiedermi perdono di avermi
sospettato e a vederlo estasiato del modesto silenzio fatto sulle
mie opere di beneficenza.»
«È felice nella sua illusione, non fatevene quindi una colpa, anzi
continuate a mantenerlo nel suo dolce errore... Se non mi fosse
proibito di parlare alla leggera di quest’avventura, e se non si
trattasse di voi, signora... direi che una donna non è mai così
affascinante con suo marito come quando ha qualche torto da
nascondere. Non si ha idea di quante disarmanti moine può ispirare
una coscienza sporca, non si riesce a immaginare quanti fiori
meravigliosi la perfidia può far spesso sbocciare... Quando ero
giovane» aggiunse Rodolphe sorridendo, «provavo sempre, quasi mio
malgrado, una vaga diffidenza in presenza di certi slanci di
tenerezza; e siccome da parte mia mi sentivo in vantaggio solo
quando avevo qualcosa da farmi perdonare, appena qualcuna mi
dimostrava quell’infida tenerezza che io avevo in mente di
sfruttare, ero sicurissimo che il nostro perfetto accordo...
nascondeva una reciproca infedeltà.»
La signora d’Harville si stupiva sempre più al sentire che Rodolphe
stava scherzando su un’avventura che avrebbe potuto avere per lei
conseguenze tanto terribili; ma intuìto subito che il principe, con
quel tono di ostentata leggerezza, cercava di sminuire l’importanza
del servigio resole, fu profondamente commossa da quella delicatezza
e:
«Capisco» gli disse, «la vostra generosità, mio signore... A voi
adesso è permesso scherzare e fingere d’aver dimenticato il pericolo
da cui m’avete strappata... Ma quello che devo dirvi è così grave,
così triste, è così in stretta relazione con i fatti di questa
mattina, e i vostri consigli possono essermi così utili che vi
supplico di ricordarvi che m’avete salvato l’onore e la vita... sì,
mio signore, la vita... Mio marito era armato; me l’ha confessato
nell’esaltazione del pentimento: voleva uccidermi!...»
«Buon Dio!» esclamò Rodolphe, profondamente turbato. «Era suo
diritto» soggiunse amaramente la signora d’Harville. «Vi scongiuro,
signora» replicò Rodolphe molto seriamente
questa volta, «credetemi, sono incapace di restare indifferente a
ciò che vi riguarda; poco fa ho scherzato perché non volevo far
indugiare il vostro pensiero su questa triste mattinata, che ha
dovuto provocare in voi tanto e tale sconcerto. Adesso, signora, vi
ascolto in religioso silenzio, visto che mi avete fatto la grazia di
dirmi che i miei consigli possono esservi utili a qualcosa.»
«Oh, molto utili, mio signore! Ma prima di chiederveli, permettetemi
di dirvi due parole su un passato che ignorate... sugli anni che
hanno preceduto il mio matrimonio con il signore d’Harville.»
Rodolphe s’inchinò e Clémence continuò:
«A sedici anni perdetti mia madre» disse senza poter trattenere una
lacrima. «Non vi sto a dire quanto l’adoravo; immaginatevi, mio
signore, un ideale di bontà sulla terra; il grandissimo
affetto che aveva per me era d’enorme conforto nelle amarezze...
Poco socievole, di salute delicata, molto sedentaria di natura, il
suo più gran piacere era stato quello di potersi occupare da sola
della mia istruzione: infatti grazie alla sua seria e nutrita
cultura poteva benissimo compiere meglio di qualsiasi altro il
compito che si era imposta...
Immaginatevi, mio signore, il mio e il suo stupore, quando a sedici
anni, nel periodo finale della mia educazione, mio padre, col
pretesto della salute cagionevole di mia madre, ci annunciò che una
giovane vedova molto distinta, resa degna di aiuto dalle grandi
disgrazie, avrebbe avuto l’incarico di finire ciò che mia madre
aveva cominciato... Mia madre oppose subito un rifiuto al volere di
mio padre. Io stessa lo supplicai di non mettere fra me e mia madre
un’estranea; egli fu inesorabile, e i nostri pianti non valsero a
nulla. La signora Roland, vedova di un colonnello morto in India,
diceva lei, venne ad abitare con noi, e fu incaricata di farmi da
istitutrice.»
«Come! quella Roland che vostro padre sposò quasi subito dopo il
vostro matrimonio?»
«Sì, mio signore.»
«Era molto bella?»
«Mediocremente graziosa, mio signore.»
«Assai spiritosa allora?»
«Era solo ipocrita e astuta, nient’altro. Aveva circa venticinque
anni, capelli d’un biondo slavato, ciglia quasi bianche, grandi
occhi rotondi di un azzurro chiaro; era scialba e smorfiosa in
volto, perfida fino alla crudeltà di carattere anche se
apparentemente premurosa fino a strisciare.»
«E la sua istruzione?»
«Completamente nulla, mio signore. Non riesco a rendermi conto come
mai mio padre, fino ad allora così schiavo delle convenienze, non
avesse pensato che quella donna con la sua ignoranza avrebbe fatto
scoppiare uno scandalo e scoprire così il vero motivo della sua
presenza in casa nostra. Mia madre gli fece osservare che la signora
Roland era un pozzo d’ignoranza; egli le rispose con un tono che non
ammetteva repliche che, colta o no, la povera vedova avrebbe
conservato a casa sua il posto che le aveva dato. Lo seppi più
tardi: da quel momento la mia povera mamma capì tutto, e ne fu
profondamente addolorata, non tanto, credo, per l’infedeltà di mio
padre, quanto per lo scompiglio che una tale relazione avrebbe
potuto portare in casa e per gli effetti che avrebbe potuto avere su
di me.»
«Ma, in fondo, anche dal punto di vista della sua folle passione, mi
sembra che vostro padre facesse un calcolo sbagliato, introducendo
quella donna in casa sua.»
«Vi stupireste ancora di più, mio signore, se sapeste che mio padre
è l’uomo più formale e rigido che io abbia conosciuto; per spingerlo
a passare sopra a ogni convenienza, ci voleva proprio la
determinante influenza della signora Roland, influenza tanto più
forte, in quanto si nascondeva sotto le apparenze d’una violenta
passione di lei per lui.»
«Ma quanti anni aveva allora vostro padre?»
«Circa sessanta.»
«E credeva all’amore della giovane donna?»
«Mio padre era stato uno degli uomini più alla moda del suo
tempo; la signora Roland, obbedendo al suo fiuto o ai consigli di
qualche furbo...»
«Consigli! e chi poteva consigliarla?»
«Ve lo dirò fra poco, mio signore. Avendo intuito che in vecchiaia
un uomo fortunato in amore desidera essere adulato sulla sua
bellezza in quanto quelle lodi gli ricordano il periodo più bello
della sua vita, la donna, lo credereste mio signore?, andava
decantando la bellezza stupenda del viso di mio padre, l’inimitabile
eleganza nel portamento e nel vestire; e lui aveva sessant’anni...
Tutti apprezzano la sua intelligenza, eppure è stato tanto cieco da
cadere in un tranello così evidente. Ecco la sola spiegazione della
passata e presente influenza di quella donna su di lui. Vedete, mio
signore, nonostante le gravi preoccupazioni, non posso fare a meno
di sorridere quando rammento d’aver sentito la signora Roland prima
del mio matrimonio dire spesso e sostenere che quella che lei
chiamava la “vera maturità” era la più bella età della vita. È
chiaro che la vera maturità cominciava solo verso i cinquantacinque
o sessant’anni.»
«L’età di vostro padre?»
«Per l’appunto, mio signore. Solo allora, diceva la signora Roland,
lo spirito e l’esperienza avevano acquistato il loro pieno sviluppo;
solo allora un uomo di ottima posizione poteva godere di tutta la
considerazione alla quale poteva aspirare; solo allora anche
l’insieme dei suoi lineamenti e la buona grazia delle sue maniere
potevano raggiungere la più alta perfezione, perché in quel periodo
della vita c’è sul volto come uno squisito e soprannaturale impasto
di beata serenità e di dolce gravità. Infine, un’ombra di
malinconia, dovuta alle delusioni che porta sempre l’esperienza,
dava l’ultimo tocco al fascino irresistibile della “vera maturi-
tà”; fascino che potevano apprezzare, aggiungeva subito la signora
Roland, solo le donne di spirito e di cuore che hanno il buon gusto
di accogliere con una spallucciata la splendida ma stravolta
giovinezza di quegli storditelli di quarant’anni, il cui carattere
non offre nessuna sicurezza e i cui lineamenti, di insignificante
giovanilità, non sono ancora poetizzati da quella maestosa
espressione che è segno di profonda conoscenza della vita.»
Rodolphe non poté non sorridere al notare la frizzante ironia con
cui la signora d’Harville aveva fatto il ritratto della matrigna.
«C’è una cosa che non perdono mai alla gente ridicola» disse
alla marchesa.
«Che cosa, mio signore?»
«Di essere malvagi... il che impedisce di ridere tranquillamen-
te di loro.»
«Forse è un calcolo» disse Clémence.
«Ne sono abbastanza convinto, ed è un peccato; infatti, se
potessi, per esempio, passare sopra al gran male che la signora
Roland per forza di cose vi ha fatto, troverei molto divertente
l’invenzione della “vera maturità” in opposizione con la folle
giovinezza di quei farfallini di quarant’anni, che, a detta della
donna, sembrano essere appena “usciti di tutela”, come avrebbero
detto i nostri nonni.»
«Credo, comunque, che mio padre sia felice delle illusioni in cui
adesso lo culla la mia matrigna.»
«E certamente, ora come ora, sarà già punita della sua falsità e
subirà le conseguenze del suo finto amore appassionato; vostro padre
l’ha presa in parola e la circonda d’amore e di solitudine. Ora,
permettetemi di dirvelo, la vita della vostra matrigna deve essere
insopportabile tanto quanto quella di vostro padre deve essere
felice: immaginatevi un po’ la superba gioia di un uomo di
sessant’anni, abituato al successo, che si crede ancora così
appassionatamente amato da una donna da farle desiderare di vivere
con lui in completo isolamento.»
«Quindi, mio signore, dal momento che mio padre è felice, forse non
dovrei lamentarmi della signora Roland, ma il suo odioso
comportamento verso mia madre... ma la parte troppo grande che ha
avuto, per mia sventura, nel mio matrimonio, sono la causa del mio
odio» disse la signora d’Harville, dopo un momento di esitazione.
Rodolphe la guardò sorpreso.
«Il signore d’Harville è vostro amico, mio signore,» riprese
Clémence con voce ferma. «Conosco la gravità delle parole che ho
detto... poi mi direte se sono giuste. Ma torniamo alla signora
Roland, che intanto aveva preso a farmi da istitutrice, nonostante
la sua scontata inettitudine. Mia madre ebbe, a questo proposito,
con mio padre una penosa discussione in cui gli fece sapere che il
minimo che poteva fare per protestare contro l’intollerabile
posizione di quella donna era di non presentarsi più a tavola; a
meno che la signora Roland non avesse immediatamente abbandonato la
casa. Mia madre era la dolcezza, la bontà in persona; ma diventava
di un’indomabile fermezza quando si trattava della sua dignità
personale. Mio padre fu inflessibile ed ella mantenne la sua
promessa; e da quel momento lei e io vivemmo completamente ritirate
nel suo appartamento. Da allora mio padre si mostrò freddo con me
tanto quanto con mia madre, mentre la signora Roland faceva quasi
ufficialmente gli onori di casa, sempre in qualità di mia
istitutrice.»
«A quali eccessi non sono spinte da una folle passione anche le
persone più ragguardevoli! E poi ci si inorgoglisce molto di più
quando ci vengono lodati i pregi o le qualità che non abbiamo o che
non abbiamo più, che non quando ci vengono lodati quelli che
abbiamo. Dimostrare a un uomo di sessant’anni che ne ha solo trenta,
è l’abbiccì dell’adulatore... e più l’adulazione è smaccata, più ha
successo... Ahimè! noialtri principi lo sappiamo anche troppo bene.»
«A proposito di adulazione voi, mio signore, siete stato oggetto di
molti esperimenti...»
«Sotto quest’aspetto, vostro padre è stato trattato da re... Vostra
madre, però, ha dovuto soffrire atrocemente.»
«Più per me che per sé, mio signore, perché ella pensava
all’avvenire... la sua salute, delicatissima già di per sé, si
indebolì ancora di più e così cadde gravemente ammalata; fatalità
volle che il medico di casa, il signor Sorbier, morisse; mia madre
che aveva una grande fiducia in lui ne provò vivo dispiacere. La
signora Roland aveva come medico e amico un dottore italiano, di
grande valore, diceva lei; mio padre, illuso, andò qualche volta a
consultarlo, si trovò bene e lo propose a mia madre, che, ahimè, lo
prese, e fu lui a curarla durante l’ultima malattia...» A quelle
parole gli occhi della signora d’Harville si riempirono di lacrime.
«Mi vergogno a confessarvi questa debolezza, mio signore» aggiunse
poi, «ma per il solo fatto che era stato consigliato a mio padre
dalla signora Roland, quel medico m’aveva ispirato (allora senza
alcun motivo) un’antipatia immediata; e vidi con una specie di
timore mia madre concedergli la sua fiducia: eppure quanto a sapere,
il dottor Polidori...»
«Come avete detto, signora?» esclamò Rodolphe.
«Che avete, mio signore?» disse Clémence, stupita dall’espressione
del volto di Rodolphe.
«Ma no» disse il principe come parlando a se stesso, «mi sbaglio...
tutto ciò si è svolto cinque o sei anni fa, mentre mi hanno detto
che Polidori è stato a Parigi solo due anni fa sotto falso nome... è
lui che ho visto ieri... quel ciarlatano Bradamanti. Eppure... due
medici con lo stesso nome, che strana coincidenza!... Signora,
ditemi qualcosa sul dottor Polidori» chiese Rodolphe alla signora
d’Harville, che lo guardava con crescente stupore, «che età aveva
quell’italiano?»
«Ma, cinquant’anni circa.»
«E la figura... il volto?»
«Sinistri... Non dimenticherò mai i suoi occhi verde chiaro... il
naso adunco come il becco di un’aquila.»
«È lui!... è proprio lui!...» esclamò Rodolphe. «E voi credete,
signora, che il dottor Polidori sia ancora a Parigi?» chiese
Rodolphe alla signora d’Harville.
«Non so, mio signore. Ha lasciato Parigi circa un anno dopo il
matrimonio di mio padre; una mia amica di cui quell’italiano era
medico curante a quel tempo la signora di Lucenay...»
«La duchessa di Lucenay!» esclamò Rodolphe.
«Sì, mio signore... Perché tanto stupore?»
«Permettetemi di tacervene la causa... ma, cosa vi diceva allora
la signora di Lucenay di quell’uomo?»
«Che dopo la sua partenza da Parigi le scriveva spesso delle
lettere molto spiritose sui Paesi che visitava; infatti ha viaggiato
molto... Adesso... mi ricordo che circa un mese fa, quando chiesi
alla signora di Lucenay se continuava a ricevere notizie dal signor
Polidori, ella mi rispose, con un certo imbarazzo, che da un pezzo
non si sentiva più parlare di lui, che non si sapeva cosa gli fosse
successo e che alcuni, anzi, lo credevano morto.»
«È strano» disse Rodolphe, ricordandosi della visita della signora
di Lucenay al signor Bradamanti.
«Conoscete quell’uomo, mio signore?»
«Sì, per mia disgrazia... Ma, vi prego, continuate il vostro
racconto; poi vi dirò chi è questo Polidori...»
«Come? il medico...»
«Dite piuttosto un uomo macchiatosi dei più orribili delitti.»
«Delitti!...» esclamò la signora d’Harville spaventata; «ha
commesso dei delitti, quest’uomo... amico della signora Roland e
medico di mia madre! e mia madre è morta fra le sue mani dopo
qualche giorno di malattia!... Ah, mio signore, voi mi
spaventate!... mi dite troppo o non abbastanza!...»
«Senza voler accusare quest’uomo di un altro delitto, e la vostra
matrigna di una spaventosa complicità, vi dico solo che dovete forse
ringraziare Dio che vostro padre, dopo il matrimonio con la signora
Roland, non abbia avuto bisogno dei consulti del Polidori...»
«O mio Dio!» esclamò la marchesa con voce straziante, «i miei
presentimenti non erano sbagliati, allora!»
«I vostri presentimenti?»
«Sì... poco fa vi ho parlato dell’avversione che ho avuto per quel
medico, essendo egli stato introdotto a casa nostra dalla signora
Roland, ma non vi ho detto tutto, mio signore...»
«Come?»
«Temevo di accusare un innocente, di dar troppo ascolto alla voce
delle mie amarezze. Ma adesso vi dirò tutto, mio signore. Mia madre
era ammalata da cinque giorni: l’avevo sempre assistita io. Una sera
andai a respirare l’aria del giardino sulla terrazza della nostra
casa. Dopo un quarto d’ora rientrai passando per un lungo e oscuro
corridoio. Lo stretto spiraglio di luce che usciva dalla porta
dell’appartamento della signora Roland mi permise di veder uscire il
signor Polidori. Era accompagnato dalla signora. Io ero nell’ombra
ed essi non potevano vedermi. La signora Roland gli disse pianissimo
alcune parole che non riuscii a capire. Il medico rispose dicendo a
voce alta questa sola parola: “Dopodomani”. E siccome la signora
Roland continuava a parlargli a voce bassa, egli aveva ripreso a
dire in maniera strana: “Dopodomani, vi ho detto, dopodomani...”.»
«Cosa significavano quelle parole?»
«Cosa significavano, mio signore? Il mercoledì sera, il signor
Polidori aveva detto: “Dopodomani...”. Il venerdì... mia madre era
morta!”»
«Oh, è terribile!...»
«Quando mi misi a riflettere sul fatto, mi tornò alla mente quella
parola, “dopodomani”, che sembrava aver predetto l’epoca della morte
di mia madre; credetti che il signor Polidori, essendosi reso conto
del poco tempo che restava ancora a mia madre da vivere, fosse
andato di filato ad avvertire la signora Roland... la signora
Roland, che aveva tanti motivi per rallegrarsi di quella morte. Era
bastata questa sola cosa per farmi aborrire quell’uomo e quella
donna... Ma non avrei mai osato supporre... Oh, no, no, nemmeno
adesso posso credere a un simile delitto!»
«La vostra povera madre è stata curata solo dal Polidori?»
«Il giorno prima che ella morisse, quell’uomo aveva portato a
consulto un suo collega. Stando a quanto mi disse in seguito mio
padre, il collega di Polidori aveva trovato mia madre gravissima...
Dopo il funesto avvenimento, fui condotta presso una mia parente che
aveva sempre voluto bene a mia madre. Passando sopra al ritegno che
doveva imporle la mia età, la mia parente mi fece vedere senza tanti
riguardi tutte le ragioni che avevo per odiare la signora Roland e
mi illuminò sulle mire ambiziose che quella donna doveva già da
allora concepire.
La rivelazione mi costernò; solo allora capii quanto mia madre
avesse dovuto soffrire. Quando rividi mio padre, mi si spezzò il
cuore: era venuto a prendermi per condurmi in Normandia dove
dovevamo passare i primi tempi del nostro lutto. Durante il viaggio,
pianse molto e mi disse che solo io potevo aiutarlo a sopportare
quel colpo terribile. Gli risposi con affetto che anche a me restava
solo lui dopo la perdita della mia adorata madre. Dopo avermi
parlato un po’ dell’imbarazzo in cui si sarebbe trovato se fosse
stato costretto a lasciarmi sola durante le assenze che i suoi
affari lo costringevano a fare di tanto in tanto, mi fece sapere,
come se fosse stata la cosa più naturale di questo mondo che, per
sua e mia fortuna, la signora Roland acconsentiva a prendere la
direzione della casa e a farmi da guida e da amica.
Lo stupore, il dolore e l’indignazione mi lasciarono senza parole;
piansi in silenzio. Mio padre mi domandò il motivo del mio pianto;
io dissi, con troppa amarezza lo ammetto, che non avrei mai abitato
sotto lo stesso tetto con la signora Roland, perché la disprezzavo e
la odiavo per tutti i dispiaceri che aveva procurato alla mia povera
mamma. Rimase calmo, attaccò quella che egli chiamava la mia
fanciullaggine, e mi disse freddamente che la sua decisione era
irremovibile e che io dovevo sottomettermi.
Lo supplicai che mi permettesse di ritirarmi al Sacré-Coeur dove
avevo alcune amiche e dove sarei restata fino al momento in cui
avrebbe ritenuto opportuno maritarmi. Mi fece osservare che era
finita l’epoca in cui ci si maritava stando dietro la grata di un
convento; che la mia fretta di lasciarlo l’avrebbe molto addolorato,
se non avesse scorto nelle mie parole un’esaltazione giustificabile,
ma poco sensata, che presto sarebbe senz’altro scomparsa; poi mi
chiamò testa pazza e mi baciò sulla fronte.
Ahimè! Fatto sta che dovetti sottomettermi. Immaginatevi, mio
signore, il mio dolore! vivere ogni giorno con una donna che ero lì
lì per accusare della morte di mia madre... Prevedevo le sce-
nate più feroci fra me e mio padre, perché nessuna considerazione
poteva impedirmi di dimostrare la mia antipatia per la signora
Roland. Mi sembrava così di poter vendicare mia madre, mentre la più
piccola parola d’affetto detta a quella donna mi sarebbe sembrata un
enorme sacrilegio.»
«Mio Dio, come dovette costarvi una simile esistenza... ero ben
lungi dal pensare che voi aveste già tanto sofferto al tempo in cui
mi concedevate il piacere di vedervi più spesso! Nessuna vostra
parola mi ha mai fatto sospettare...»
«Allora, mio signore, non dovevo scusarmi di un imperdonabile
errore... Vi parlo tanto di quel periodo della mia vita, per farvi
capire in che situazione ero quando mi sono maritata... e spiegarvi
perché, nonostante un avvertimento che avrebbe dovuto aprirmi gli
occhi, ho sposato il signor d’Harville.
Arrivati ad Aubiers (è il nome della proprietà di mio padre), la
prima persona che ci venne incontro fu la signora Roland. Era andata
a stabilirsi in quella proprietà il giorno della morte di mia madre.
Nonostante la sua aria di affettata umiltà, non era riuscita a
dissimulare un certo sorriso di trionfo. Non dimenticherò mai lo
sguardo ironico e maligno che mi diede al mio arrivo; sembrava mi
dicesse: “Qui io sono a casa mia, siete voi l’estranea”. Ma mi
aspettava un nuovo dolore: fosse mancanza di tatto, fosse cinica
impudenza, fatto sta che quella donna occupava l’appartamento di mia
madre. M’indignai e mi lamentai con mio padre di una simile
indecenza; mi rispose severamente che non avrei dovuto
meravigliarmene in quanto sarebbe stato necessario che mi abituassi
a considerare e a rispettare la signora Roland come una seconda
madre. Gli risposi che avrebbe voluto dire profanare quel sacro nome
e con sua grande collera non persi nessuna occasione per dimostrare
la mia antipatia alla signora Roland; parecchie volte si arrabbiò e
mi rimproverò duramente davanti a quella donna. Mi rimproverava
l’ingratitudine e la freddezza che avevo per l’angelo consolatore
inviatoci dalla Provvidenza. “Vi prego, padre mio, non fatemi
entrare nei vostri discorsi” gli dissi un giorno. Egli allora mi
trattò molto male; la signora Roland, con la sua voce mielosa,
intercedette in mio favore, ma fu una mossa ipocrita. “Siate
indulgente con Clémence” diceva; “il dolore per l’ottima persona che
noi tutti piangiamo è così naturale, così lodevole, che bisogna
tenerne conto ed essere comprensivi anche quando si arrabbia.”
“Ecco” diceva mio padre al colmo dell’ammirazione e m’indicava
intanto la signora Roland, “la sentite! non è forse abbastanza
buona, abbastanza generosa? La vostra sola risposta sarebbe di
abbracciarla.” “È inutile, padre mio; la signora mi odia... e io
odio lei.” “Ah Clémence! mi fate molto male, ma vi perdono” aggiunse
la signora Roland alzando gli occhi al cielo. “Amica mia! nobile
amica!” esclamò mio padre con voce commossa, “calmatevi, ve ne
scongiuro: abbiate pietà per riguardo a me, almeno, di una pazza
tanto furiosa da misconoscere i vostri meriti.” Poi fulminandomi con
lo sguardo gridò:
“Guai a voi, se osate ancora offendere la più bella anima che vi sia
al mondo: fatele immediatamente le vostre scuse”. “Mia madre mi vede
e mi sente... e non mi perdonerebbe mai una tale vigliaccheria”
risposi a mio padre; uscii e lo lasciai lì a consolare la signora
Roland e ad asciugarne le finte lacrime... Scusate, mio signore, se
indugio in queste puerilità, ma esse solo possono darvi un’idea
della vita che conducevo allora.»
«Mi sembra proprio di assistere a certe scenate di famiglia così
tristemente e umanamente vere... In quante famiglie hanno dovuto
ripetersi, e quante volte dovranno ripetersi ancora!... Niente di
più meschino e tuttavia di più abile del comportamento della signora
Roland; data la semplicità dei mezzi sleali adoperati, una tale
condotta può essere adottata da tante intelligenze mediocri...
Inoltre era vostro padre a essere cieco, non quella donna abile; ma
come era presentata al vicinato la signora Roland?»
«Come mia istitutrice e sua amica... e la si accettava così.»
«È superfluo chiedervi se anche lui viveva nell’isolamento!» «Tranne
qualche rara visita, dovuta a rapporti di vicinato e
d’affari, noi non vedevamo nessuno; mio padre, causa la passione da
cui era completamente dominato e le esigenze della signora Roland,
dopo soli tre mesi, smise il lutto, col pretesto che il lutto... si
portava nel cuore... La sua freddezza verso di me aumentò sempre di
più, giunse a una tale indifferenza da lasciarmi una libertà
inconcepibile per una ragazza della mia età. Io lo vedevo all’ora di
pranzo: poi ritornava nelle sue stanze con la signora Roland, che
gli faceva da segretaria nella corrispondenza d’affari; poi usciva
con lei in carrozza o a piedi, e rientrava solo un’ora prima della
cena... La signora Roland si faceva bella per sembrare ancor più
giovane; mio padre si vestiva con una ricercatezza esagerata per la
sua età; a volte, dopo cena, egli riceveva la gente che non poteva
fare a meno di ricevere; poi, fino alle dieci, faceva una partita a
tric-trac con la signora Roland, quindi le dava il braccio e
l’accompagnava alla camera di mia madre, le baciava rispettosamente
la mano e si ritirava. Io, da parte mia, potevo disporre come volevo
della mia giornata, montare a cavallo seguita da un domestico,
o fare a mio piacimento lunghe passeggiate per i boschi che
circondavano il castello; a volte, vinta dalla tristezza, non andavo
a pranzo e mio padre non se ne preoccupava affatto...»
«Che strana dimenticanza!... che abbandono!...»
«Poi, avendo incontrato più volte di seguito un nostro vicino nei
boschi dove di solito andavo a cavalcare, rinunciai alle passeggiate
e non uscii più dal parco.»
«Ma come si comportava quella donna quando voi eravate sola con
lei?»
«Sia l’una che l’altra, evitavamo, per quanto possibile, di
incontrarci. Una sola volta, alludendo a qualche frase aspra che le
avevo rivolto il giorno prima, mi disse freddamente: “State attenta,
se volete mettervi contro di me, sarete annientata”. “Come mia
madre?” le risposi; “peccato, signora, che il signor Polidori non
sia qui per dirvi che sarà per... dopodomani.” Tali parole fecero
sulla signora Roland una profonda impressione che però superò
subito. Adesso che so, grazie a voi, mio signore, chi è il dottor
Polidori, e di cosa è capace, il terrore che mostrò la signora
Roland sentendomi dire quelle misteriose parole forse potrebbe
essere una conferma degli orribili sospetti... Ma no... no, non
posso crederci... Avrei troppa paura se pensassi che mio padre
adesso può essere alla mercé di quella donna.»
«E cosa vi rispose quando le ricordaste le parole del Polidori?»
«Dapprima arrossì; poi, superato il primo turbamento, mi domandò
freddamente che cosa intendessi dire. “Quando sarete sola, signora,
interrogatevi, vedrete che troverete da sola una risposta.” Poco
tempo dopo ci fu una scenata che decise, per così dire, del mio
destino. Fra i tanti quadri che ornavano il salotto dove ci
riunivamo la sera, c’era un ritratto di mia madre. Un giorno mi
accorsi che era sparito. Due nostri vicini avevano pranzato da noi:
uno di essi, il signor Dorval, notaio del paese, aveva sempre avuto
la più grande venerazione per mia madre. Entrata in salotto, chiesi
a mio padre: “Dov’è il ritratto di mia madre?”. “La vista di quel
quadro mi addolorava troppo” rispose con imbarazzo mio padre
accennandomi con un’occhiata gli estranei che assistevano al nostro
colloquio. “Ma mi volete dire, padre mio, dov’è adesso il ritratto?”
Lui si volse alla signora Roland, la interrogò con lo sguardo e le
chiese con impazienza: “Dov’è stato messo il ritratto?”. “Nello
stanzone dei mobili” rispose lei, gettandomi questa volta
un’occhiata di sfida, perché credeva che la presenza dei vicini
m’avrebbe impedito di risponderle. “Capisco, signora” le dissi
freddamente, “come lo sguardo di mia madre dovesse es-
servi di gran peso; ma non era una buona ragione per relegare in
soffitta il ritratto di una donna che, quando eravate una pezzente,
vi ha fatto la carità di permettervi di venire a vivere nella sua
casa.”»
«Benissimo!» esclamò Rodolphe. «Per schiacciarla era il disprezzo
che ci voleva.»
«“Signorina!”» gridò mio padre. «“Ammetterete, a ogni modo” gli
dissi interrompendolo, “che una persona che ha la viltà d’insultare
la memoria di una donna che le ha fatto l’elemosina merita solo odio
e disprezzo.” Per un momento mio padre restò esterrefatto; per la
vergogna e la collera la signora Roland diventò rossa di fuoco; i
vicini imbarazzatissimi abbassarono gli occhi e rimasero in
silenzio. “Signorina!” riprese mio padre, “voi avete dimenticato che
la signora era amica di vostra madre; avete dimenticato che la
signora ha vegliato e veglia ancora sulla vostra educazione con
materna sollecitudine... avete dimenticato infine che io ho per lei
la stima più alta... E poiché vi siete permessa di fare una scenata
così scandalosa davanti a questi signori, vi dirò che è ingrato e
vile colui che, dimentico delle premure più delicate, osa
rinfacciare una nobile disgrazia a una persona che merita aiuto e
rispetto.” “Non mi permetterò di discutere la questione con voi,
padre mio” dissi con voce sottomessa. “Forse sarò più fortunata io,
signorina!” esclamò la signora Roland, trascinata questa volta dalla
collera al di là dei limiti della sua abituale prudenza. “Forse mi
farete la grazia non di discutere” ella continuò, “ma di ammettere
che non posso essere riconoscente a vostra madre, perché a me non è
restato che il ricordo dell’avversione che ella m’ha sempre
dimostrato; infatti proprio contro la sua volontà ho...”, “Ah,
signora” le dissi interrompendola, “per rispetto verso mio padre e
per delicatezza verso voi stessa, dispensatevi da certe infami
rivelazioni, mi fareste rimpiangere di avervi esposta a una
confessione tanto umiliante...” “Come! signorina!...” esclamò lei,
fuori di sé dalla collera, “osate dire...” “Dico, signora” ripresi
io interrompendola ancora, “dico che mia madre, degnandosi di
lasciarvi vivere a casa sua invece di cacciarvi com’era suo diritto,
ha voluto provarvi, col suo disprezzo, che se vi sopportava lo
faceva perché vi era stata costretta.”»
«Di bene in meglio» esclamò Rodolphe. «Così non ha più avuto vie di
scampo. E quella donna?...»
«La signora Roland con un mezzo molto volgare, ma molto comodo, pose
fine alla discussione gridando: “Dio mio, Dio mio!” e svenne.
L’incidente offrì il destro ai due testimoni della scenata di
uscire col pretesto di andare in cerca di aiuto; io li imitai, mio
padre invece restò per prodigare immediatamente alla signora Roland
le cure del caso.»
«Chissà com’era in collera vostro padre quando l’avete rivisto!»
«La mattina dopo venne da me, e mi disse: “Affinché in futuro non si
ripetano scenate come quella di ieri, vi avverto che appena sarà
spirato il termine di rigore per il mio e il vostro lutto, sposerò
la signora Roland. Fin da ora quindi dovrete trattarla con il
rispetto e i riguardi che spettano a... mia moglie... Per
particolari ragioni, è necessario che vi maritiate prima di me; la
fortuna di vostra madre ammonta a più di un milione e sarà la vostra
dote. Da oggi mi adopererò attivamente per assicurarvi un’unione
conveniente dando corso ad alcune proposte che mi sono state fatte a
vostro riguardo. L’accanimento che mostrate, nonostante le mie
preghiere, contro una persona che mi è tanto cara, è una prova del
vostro affetto per me. La signora Roland disdegna questi attacchi,
io poi, non sopporterò mai che davanti a degli estranei e in casa
mia si ripetano simili scandali. D’ora in poi non entrerete o non
resterete in salotto se non quando la signora Roland e io saremo
soli”.
Dopo quell’ultimo colloquio, vissi ancora più isolata. Vedevo mio
padre solo durante le ore dei pasti, che si svolgevano in un cupo
silenzio. La mia vita era così triste, che aspettavo con impazienza
che mio padre mi proponesse un matrimonio qualsiasi per accettare.
La signora Roland, avendo rinunciato a dir male di mia madre, si
vendicava sottoponendomi a un continuo supplizio: per esasperarmi si
serviva ostentatamente delle mille cose che erano appartenute a mia
madre: la sua poltrona, il suo telaio da tessere, i libri della sua
biblioteca privata, giù, giù fino alla ventola che avevo ricamato
per lei, nel cui centro si vedevano le sue iniziali. Quella donna
profanava tutto...»
«Oh, immagino l’orrore che dovevano provocare in voi quelle
profanazioni.»
«E poi la solitudine inasprisce ancora di più il dolore...»
«E non avevate nessuno... nessuno con cui sfogarvi?» «Nessuno...
Tuttavia ricevetti una commovente prova di bene-
volenza che avrebbe dovuto illuminarmi sull’avvenire: delle due
persone presenti alla scenata in cui avevo trattato così aspramente
la signora Roland, una era il signor Dorval, vecchio e onesto
notaio, a cui mia madre aveva reso alcuni favori per una sua nipote.
Dopo il divieto di mio padre, non scendevo mai in salotto quando
c’erano degli estranei... dunque non avevo più rivisto il signor
Dorval, quando un giorno, con mio grande stupore, egli venne con
aria misteriosa a cercarmi in un viale del parco, dove di solito
facevo le mie passeggiate. “Signorina” mi disse, “temo di essere
sorpreso dal signor conte; leggete questa lettera, poi bruciatela,
si tratta di una cosa molto importante per voi.” E sparì.
Nella lettera si diceva che volevano maritarmi al marchese
d’Harville; il partito sembrava raccomandabile sotto tutti i punti
di vista, mi assicuravano delle buone qualità del signor d’Harville:
era giovane, forte, ricco, di notevole intelligenza e di
bell’aspetto; eppure le famiglie delle due giovinette che il signor
d’Harville avrebbe dovuto sposare avevano bruscamente rinunciato al
progetto di matrimonio. Il notaio non sapeva spiegarmi il motivo di
quella rinuncia, ma aveva ritenuto fosse suo dovere informarmene
senza credere tuttavia che un tale motivo portasse pregiudizio al
signor d’Harville. Le due signorine in questione erano figlie, una
del signor di Beauregard, pari di Francia, l’altra di lord Boltrop.
Il signor Dorval mi faceva questa confidenza, perché mio padre,
impazientissimo com’era di concludere il mio matrimonio, sembrava
non avesse dato molta importanza alle circostanze riferitemi.»
«Ricordo, infatti» disse Rodolphe, dopo avere riflettuto un momento,
«che vostro marito, mi aveva scritto, un anno dopo, per comunicarmi
che i due progetti di matrimonio erano andati a monte poco prima
delle nozze per questioni d’interesse.»
La signora d’Harville fece un amaro sorriso e rispose:
«Fra poco saprete la verità, signore... Dopo avere letto la lettera
del vecchio notaio, diventai subito curiosa e inquieta. Chi era il
signor d’Harville? Mio padre non me ne aveva mai parlato. Cercai
invano nei miei ricordi; non ricordavo affatto quel nome. Poco dopo,
la signora Roland, con mio grande stupore, partì per Parigi. Il suo
viaggio avrebbe dovuto durare otto giorni al massimo; mio padre
comunque provò un grande dispiacere per quella temporanea
separazione; il suo carattere s’inasprì e lui divenne ancora più
freddo con me. Un giorno in cui gli avevo chiesto come stesse,
giunse ai punto di rispondermi: “Sto male ed è colpa vostra”. “Colpa
mia, padre?” “Certo. Voi sapete come io sia abituato alla signora
Roland, e questa donna ammirevole che avete oltraggiato fa nel
vostro interesse un viaggio che la terrà lontana da me.” Questo
indizio d’interesse da parte della signora Roland mi spaventò:
intuii vagamente che si trattava del mio matrimonio. Lascio
immaginare a voi, mio signore, la gioia di mio padre al ritorno
della mia futura matrigna. L’indomani mi fece chiamare;
con lui c’era anche la signora Roland. “È da un pezzo” mi disse,
“che penso di accasarvi. Il vostro lutto finirà fra un mese. Domani
arriverà qui il marchese d’Harville, giovane molto distinto, molto
ricco e con tutti i mezzi per assicurarvi la felicità. Egli vi ha
vista in società; desidera vivamente sposarvi; quanto alle questioni
d’interesse, è tutto in regola. Dipenderà dunque da voi maritarvi
prima di sei settimane. Se invece, per un capriccio che voglio
escludere, respingerete un tale e insperato partito, io mi sposerò
ugualmente, come è mia intenzione, appena spirato il termine del
lutto. In tal caso, devo dirvi... che la vostra presenza in casa mia
mi può essere gradita solo se mi promettete di avere per mia moglie
l’affetto e il rispetto che si merita.” “Vi capisco, padre mio. Se
non sposo il signor d’Harville, voi vi mariterete comunque; e
allora, né voi né... la signora avrete nulla in contrario se mi
ritiro al Sacré-Coeur.” “Va bene” mi rispose freddamente.»
«Ah, non era più debolezza quella, ma crudeltà!...» esclamò
Rodolphe.
«Sapete, mio signore, che cosa mi ha impedito di serbare a mio padre
il minimo rancore? Un certo presentimento mi diceva che un giorno,
ahimè, avrebbe pagato molto cara la sua cieca passione per la
signora Roland... Ma, grazie a Dio, quel giorno non è ancora
giunto.»
«E non gli diceste nulla di quello che il vecchio notaio vi aveva
fatto sapere a proposito dei due matrimoni mandati bruscamente a
monte dalle famiglie con le quali il signor d’Harville avrebbe
dovuto imparentarsi?»
«Sì, signore... Quello stesso giorno pregai mio padre di concedermi
un momento per parlare da solo a solo con lui. “Non ho segreti per
la signora Roland, potete quindi parlare davanti a lei” mi rispose.
Io stetti zitta. Poi riprese con tono severo: “Vi ripeto che non ho
segreti per la signora Roland... Potete quindi parlare chiaramente”.
“Se permettete, padre mio, aspetterò che siate solo.” La signora
Roland si alzò bruscamente e uscì. “Siete soddisfatta ora?...” mi
disse. “Su, parlate.” “Padre mio, non ho niente in contrario al
matrimonio che mi avete proposto, solo ho sentito che il signor
d’Harville è stato due volte sul punto di maritarsi...” “Sì, sì”
riprese lui interrompendomi, “so di cosa si tratta. Quei matrimoni
sono andati a monte per questioni d’interesse, dalle quali,
tuttavia, il buon nome del signor d’Harville è uscito indenne. Se
non avete altre obiezioni da fare, allora potete considerarvi
maritata... e felicemente maritata, dato che io voglio solo la
vostra felicità.”»
«La signora Roland dovette essere contentissima del vostro
matrimonio!»
«Contenta? Sì, mio signore» disse Clémence con amarezza. «Oh, molto
contenta!... infatti quel matrimonio era stato opera sua. Era stata
lei a suggerire l’idea a mio padre... Ella sapeva il vero motivo per
cui erano andati all’aria i primi due tentativi di matrimonio del
signor d’Harville... ecco perché ci teneva tanto a farmelo sposare.»
«Ma a che scopo?»
«Voleva vendicarsi di me, condannandomi a una sorte orribile.»
«Ma vostro padre...»
«Ingannato dalla signora Roland, credeva realmente che fossero state
solo delle questioni d’interesse a far fallire i progetti del signor
d’Harville.»
«Che orribile trama!... Ma il motivo misterioso?»
«Fra poco ve lo dirò, mio signore. Il signor d’Harville arrivò a
Aubiers; le sue maniere, il suo spirito, la sua fisionomia mi
piacquero. Sembrava buono, il suo carattere era dolce e un po’
triste. In lui notai un contrasto che mi stupì e al tempo stesso mi
sedusse: era colto, molto ricco e di famiglia ragguardevole; eppure
il volto, di solito energico e risoluto, esprimeva a volte una certa
timidezza direi quasi timorosa, un certo abbattimento e una certa
sfiducia in se stesso, che mi commuovevano molto. Mi piaceva inoltre
la grande bontà con cui trattava un vecchio cameriere che lo aveva
allevato e che voleva fosse il solo a curarlo. Qualche tempo dopo il
suo arrivo, il signor d’Harville rimase chiuso nelle sue stanze per
due giorni; mio padre volle vederlo... Ma il vecchio domestico vi si
oppose adducendo come pretesto che il suo padrone aveva un’emicrania
così forte da non poter assolutamente ricevere nessuno. Quando il
signor d’Harville ricomparve, lo trovai pallidissimo e molto
cambiato... Poi, ogni volta che gli parlavo di quella indisposizione
passeggera, lui cominciava a dare segni d’impazienza e di
disappunto... Più conoscevo il signor d’Harville, più scoprivo in
lui dei lati che mi erano simpatici. Aveva tante ragioni per essere
felice, che gli ero grata di non vantarsi affatto della sua
fortuna... Una volta stabilita la data delle nozze, notai che non
gli sfuggiva un’occasione per prevenire le mie più piccole volontà
sui nostri futuri progetti. Se qualche volta gli chiedevo la causa
della sua malinconia, mi parlava di sua madre, di suo padre, e
diceva che sarebbero stati fieri e felici di vederlo sposato a una
donna che amava. Sarei stata cattiva se non avessi ammesso che
c’erano
vantaggi molto lusinghieri per me... Il signor d’Harville indovinò
in che rapporti fossi vissuta con la signora Roland e con mio padre,
sebbene quest’ultimo, dal momento che al mio matrimonio sarebbe
seguito immediatamente il suo, fosse ridiventato molto affettuoso
con me. In parecchie occasioni, il signor d’Harville mi fece capire,
con molto tatto e delicatezza, che forse mi amava di più proprio a
causa dei miei passati dispiaceri... A questo proposito mi sentii in
dovere di avvisarlo che mio padre pensava di sposarsi nuovamente; e
quando gli accennai al fatto che questo matrimonio avrebbe inciso
sulla mia dote, egli non mi lasciò finire e fu una prova di
altissimo disinteressamento; e pensai, allora, che le famiglie con
cui era stato sul punto di imparentarsi, dovevano essere state molto
meschine, se avevano avuto gravi difficoltà d’interesse con lui.»
«L’ho sempre conosciuto così, io» disse Rodolphe, «pieno di
generosità, di dedizione, di delicatezza... Ma non gli avete mai
parlato dei due matrimoni andati a vuoto?»
«Vi confesso, mio signore, che, vedendolo così leale, buono,
parecchie volte mi venne alle labbra questa domanda... ma poi,
proprio per paura di ferire la sua lealtà e la sua bontà, non osai
affrontare un tale argomento. Più si avvicinava il giorno delle
nostre nozze, più il signor d’Harville diceva di essere felice...
Tuttavia per due o tre volte lo vidi afflitto da cupa tristezza...
Un giorno, fra l’altro, vidi brillare una lacrima nei suoi occhi che
mi fissavano: pareva angosciato, sembrava quasi che volesse
confidarmi un segreto importante ma che non avesse il coraggio di
farlo... Mi ricordai dei due matrimoni falliti... Lo confesso, ebbi
paura... Un oscuro presentimento mi diceva che c’era forse in ballo
la felicità di tutta la mia vita... ma era un così grande tormento
per me restare in casa di mio padre, che vinsi le mie paure...»
«E il signor d’Harville non vi confidò nulla?»
«Nulla... Quando gli chiedevo la causa della sua malinconia, mi
rispondeva: “Perdonatemi, ma ho la felicità triste...”. Il tono
dolce con cui pronunciò quelle parole mi tranquillizzò un poco... E
poi, come osare... diffidare del suo passato in modo così
oltraggioso proprio quando i suoi occhi erano bagnati di lacrime?
«I testimoni del signor d’Harville, il signor di Lucenay e il signor
di Saint-Remy, arrivarono a Aubiers alcuni giorni prima del mio
matrimonio; solo i miei parenti più stretti furono invitati. Subito
dopo la cerimonia dovevamo partire per Parigi... Non ero innamorata
del signor d’Harville, ma mi era simpatico e io lo stimavo per il
suo carattere. Se non fosse stato per i fatti che accaddero
dopo quella nostra fatale unione, è fuori dubbio che mi sarebbe
diventato più caro.»
A quelle parole la signora d’Harville sbiancò in volto, pareva
avesse perduto l’abituale risolutezza. Poi continuò:
«Subito dopo la cerimonia, mio padre mi strinse teneramente al
petto. Anche la signora Roland mi abbracciò; non ho potuto, davanti
a tutta la gente, fare in modo di sottrarmi a quel nuovo gesto
ipocrita; con la sua mano magra e bianca strinse la mia così forte
da farmi male, e nello stesso momento mi sussurrò all’orecchio con
voce perfida e melliflua una frase che non dimenticherò mai:
“Pensate qualche volta anche a me adesso che siete felice, perché
sono stata io a combinare il vostro matrimonio”. Ahimè, com’ero
lontana allora dal capire il vero senso di quelle parole. Il
matrimonio era stato celebrato alle undici; subito dopo eravamo in
carrozza... assieme a una mia cameriera e al vecchio domestico del
signor d’Harville; andammo così forte che non saranno state neppure
le dieci di sera quando arrivammo a Parigi.
Il silenzio e la malinconia del signor d’Harville mi avrebbero
colpita, se non avessi saputo che aveva, come soleva dire lui, la
felicità triste. Anch’io del resto ero dolorosamente commossa:
ritornavo a Parigi per la prima volta, dopo la morte di mia madre; e
poi la casa di mio padre, quantunque non avessi nessuna ragione di
rimpiangerla, in fondo era casa mia... e la lasciavo per una casa
dove tutto mi sarebbe stato nuovo e sconosciuto, dove sarei arrivata
sola con mio marito, un uomo che conoscevo solo da sei settimane, e
che fino al giorno prima non mi avrebbe detto una sola parola che
non fosse improntata a rispetto formale. Forse non si tiene
abbastanza conto del timore che ci incute il brusco cambiamento di
tono e di maniere a cui sono soggetti anche gli uomini educati non
appena apparteniamo loro... Non pensano che una giovane donna non
può in poche ore dimenticare la sua timidezza e i suoi scrupoli di
giovinetta.»
«Nulla mi è mai sembrato più barbaro e più selvaggio dell’usanza di
portar via brutalmente una giovane donna come fosse una preda,
mentre il matrimonio dovrebbe essere, invece, la consacrazione del
diritto di servirsi di tutte le risorse dell’amore e di tutta la
tenerezza più ardente e seducente per farsi amare.»
«Potete quindi capire, mio signore, lo strazio e il vago timore che
avevo dentro quando ritornai a Parigi, la città in cui solo un anno
prima era morta mia madre. Giungemmo a palazzo d’Harville.»
La giovane donna era ancora più emozionata, le sue guance
diventarono di fuoco e:
«Eppure bisogna» aggiunse con voce straziante, «che sappiate
tutto... altrimenti... potrei sembrarvi troppo spregevole...
Ebbene!...» continuò con disperata fermezza, «fui condotta
nell’appartamento riservatomi... Mi lasciarono sola... Lì mi
raggiunse il signor d’Harville... Nonostante le sue proteste
d’affetto, io morivo di paura... i singhiozzi mi soffocavano... ero
sua... Dovetti rassegnarmi... Ma a un tratto mio marito lancia un
urlo terribile, mi prende un braccio e me lo stringe così forte da
spezzarmelo... cerco invano di liberarmi da quella morsa di ferro...
invano imploro pietà... egli non m’ode più... il viso gli si contrae
in convulsioni spaventose... gli occhi gli girano nelle orbite con
una rapidità sorprendente, la bocca gli si torce e si riempie di
bava sanguinante, la sua mano continua a stringermi... Faccio uno
sforzo disperato... alla fine le sue dita si rattrappiscono e quindi
mi lasciano libero il braccio... e svengo, mentre il signor
d’Harville si dibatte nel parossismo di quell’orribile attacco...
Ecco la mia notte di nozze, mio signore... Ecco la vendetta della
signora Roland!...»
«Povera donna!» disse Rodolphe angosciato, «capisco... un
epilettico... Ah, è terribile!...»
«E non è tutto...» soggiunse Clémence, con voce rotta. «Oh, che sia
maledetta per sempre... quella notte fatale!... Mia figlia... quel
povero angioletto ha ereditato quella tremenda malattia!»
«Anche vostra figlia ? Ora capisco! quel suo pallore... quella sua
debolezza!»
«Appunto... Dio mio! Appunto, e i medici dicono che il male sia
incurabile!!! perché è ereditario...»
E la signora d’Harville si nascose il volto tra le mani; la dolorosa
rivelazione l’aveva abbattuta e lei non aveva più il coraggio di
dire una parola.
Anche Rodolphe restò silenzioso.
La sua mente indietreggiava spaventata davanti ai terribili misteri
di quella notte di nozze... La vedeva, quella giovane, già triste
perché tornava nella città dov’era morta sua madre, arrivare in
quella casa sconosciuta, sola con un uomo per cui provava stima e
interesse ma non amore, per cui non provava nulla di ciò che infonde
un dolce turbamento, nulla di ciò che inebria, nulla di ciò che fa
sì che una donna presa nell’ebbrezza di una passione legittima e
condivisa possa dimenticare i suoi scrupoli di castità.
No, no; tremante di una paura piena di pudori, Clémence arriva lì...
triste, fredda, con il cuore spezzato, il viso rosso di vergo-
gna, gli occhi pieni di lacrime... Ella si rassegna... e poi, invece
di sentirsi dire parole piene di riconoscenza, d’amore e di
tenerezza, che possano consolarla della felicità che ha dato... vede
rotolare ai suoi piedi un uomo stravolto, che si torce, sbava,
ruggisce in preda alle tremende convulsioni di una delle più
terribili malattie da cui l’uomo sia incurabilmente colpito!
E non basta... Sua figlia... povero e innocente angioletto, anche
lei è colpita alla nascita...
Queste tristi e dolorose confidenze suscitavano in Rodolphe amare
riflessioni.
“Tale è la legge di quaggiù” pensava fra sé e sé: “una ragazza bella
e pura, leale e fiduciosa, vittima di un funesto inganno, accoppia
il suo destino a quello di un uomo colpito da una malattia
spaventosa, fatale eredità che egli è costretto a trasmettere ai
figli: l’infelice donna scopre l’orribile mistero: che cosa può
fare? Niente...”
Niente se non piangere e soffrire, niente se non cercare di superare
il proprio disgusto e il proprio terrore... niente se non passare i
suoi giorni fra infinite angosce e spaventi... niente se non
cercare, forse, colpevoli consolazioni al di fuori dell’esistenza
che le è data.
Ancora una volta, pensava Rodolphe, queste strane leggi costringono
a relazioni vergognose, dannose per l’umanità...
A proposito di queste leggi, sembra sempre che gli animali siano
superiori all’uomo grazie alle cure di cui sono oggetto, ai
miglioramenti che si promuovono, alla protezione che li circonda,
alle precauzioni che vengono prese...
Infatti comperate un animale qualsiasi: se una malattia prevista
dalla legge si manifesta in lui dopo l’acquisto... la vendita non è
più valida... Fatto sta che è un’infamia, un delitto di lesa
società, condannare un uomo a tenere un animale che di tanto in
tanto è bolso, ha il rantolo o zoppica! Ma è uno scandalo, ma è un
delitto, ma è una mostruosità senza pari! Immaginatevi dover tenere,
ma tenere per sempre, finché vivono, un mulo che è bolso, un cavallo
che ha il rantolo, un asino che zoppica! Quali spaventose
conseguenze non ne possono derivare al benessere dell’umanità
intera!... E allora non c’è mercato che tenga, parola che valga,
contratto che impegni... La legge onnipotente viene a sciogliere
tutto ciò che era stipulato.
Ma che si tratti di una creatura fatta a immagine di Dio, che si
tratti di una giovane che, credendo candidamente nella lealtà di un
uomo, si unisce a lui e, al risveglio, si ritrova moglie di un
epilettico, di un disgraziato colpito da una malattia terribile le
cui conseguenze fisiche e morali sono spaventose, una malattia che
può far sorgere il disordine e l’odio in una famiglia, perpetuare un
male tremendo, intaccare generazioni...
Oh, questa legge così inesorabile verso gli animali che zoppicano,
che hanno il rantolo o che sono bolsi; questa legge così
meravigliosamente previdente, che impedisce a un cavallo tarato di
essere adatto alla riproduzione... questa legge si guarderà bene dal
liberare la vittima di una simile unione...
Tali vincoli sono sacri... indissolubili; spezzarli sarebbe
offendere Dio e gli uomini.
“In realtà” pensava Rodolphe “l’uomo è a volte di un’umiltà
infamantissima, di un orgoglio ed egoismo esecrabilissimi, si mette
al di sotto delle bestie, facendole oggetto di precauzioni che
rifiuta a se stesso; e impone, consacra e perpetua le sue più
pericolose malattie invocando l’immutabilità delle leggi divine e
umane.”
XVII
LA CARITÀ
Rodolphe, pur biasimando molto il signor d’Harville, si ripromise di
scusarlo agli occhi di Clémence, anche se era convinto che il
marchese, stando alle tristi rivelazioni di quest’ultima, si fosse
per sempre alienato il cuore di lei.
Tra un’idea e l’altra, Rodolphe giunse a pensare quanto segue:
“Per dovere mi sono allontanato da una donna che amavo... e che
forse aveva già un debole per me. Un po’ per solitudine
sentimentale, un po’ per pietà, ha rischiato di perdere l’onore, la
vita per uno sciocco che ella credeva infelice. Se invece di
allontanarmi da lei, l’avessi circondata di attenzioni, di amore e
di gentilezze, sarei stato attento a evitare che il suo buon nome
venisse disonorato e che il marito potesse sospettare qualcosa;
mentre adesso ella è un po’ vittima di quel fatuo signor Charles
Robert, che temo sarà tanto più indiscreto proprio perché ha poche
ragioni di esserlo.
E poi, chissà se ora, nonostante i pericoli corsi, la signora
d’Harville si sente ancora sentimentalmente sola? Un ritorno a suo
marito è ormai impossibile... Giovane, bella, corteggiata e con un
carattere sensibile verso chi soffre... per lei, quanti pericoli!
quanti scogli! E per il signor d’Harville, quante angosce,
quante sofferenze! Geloso e nello stesso tempo innamorato della
moglie, la quale non può vincere la ripugnanza e la paura che lui le
ha ispirato la fatale prima notte di matrimonio... che razza di
destino è il suo!”.
Quella rivelazione era costata tanto a Clémence che, per evitare lo
sguardo di Rodolphe, s’era presa la fronte tra le mani e intanto gli
occhi le si inumidivano di lacrime e le guance le si arrossavano
dalla vergogna.
«Ah, adesso capisco» riprese Rodolphe, dopo una lunga pausa, «la
causa della tristezza del signor d’Harville, tristezza che non
riuscivo a spiegarmi... Capisco il suo rammarico...»
«Il suo rammarico!» esclamò Clémence, «dite piuttosto il suo
rimorso, mio signore... se mai ha avuto rimorsi... perché nessun
delitto è mai stato meditato con maggiore freddezza.»
«Un delitto signora?»
«E che cos’è se non un delitto, mio signore, legare a sé, con
vincoli indissolubili, una fanciulla che crede nella vostra lealtà,
quando sapete di essere affetto da una malattia che spaventa e fa
inorridire? E che cos’è se non un delitto condannare
irrimediabilmente allo stesso male una povera bambina?... Che cosa
ha spinto il signor d’Harville a fare due vittime? Una passione
cieca e insensata?... No, egli ha trovato di suo piacimento la mia
casata, la mia ricchezza e la mia persona... ha voluto fare un
matrimonio di convenienza, perché, certo, era stanco della vita da
scapolo.»
«Signora... un po’ di pietà, almeno...»
«Un po’ di pietà!... Sapete chi merita la mia pietà? mia figlia...
povera vittima di questo odioso matrimonio, quante notti e quanti
giorni ho passato accanto a lei; quante lacrime amare m’hanno
strappato le sue sofferenze!...»
«Ma suo padre... soffriva degli stessi immeritati dolori.»
«Ma proprio suo padre l’ha condannata a un’infanzia piena di
malanni, a una triste giovinezza e, se vivrà, a una vita di
solitudine e di sofferenza; perché non si sposerà. Oh no, le voglio
troppo bene per rischiare di farla piangere un giorno sul figlio
inevitabilmente colpito anche lui, come io piango su di lei... Ho
sofferto troppo di questo inganno per rendermi colpevole o complice
di un altro inganno!»
«Oh, avevate ragione, la vendetta della vostra matrigna è stata
tremenda... Pazienza... Forse verrà la volta in cui anche voi sarete
vendicata...» disse Rodolphe, dopo avere riflettuto un momento.
«Cosa volete dire, mio signore?» gli chiese Clémence, sorpresa
dall’inflessione della sua voce.
«Ho quasi sempre avuto... la gioia di vedere puniti, oh, puniti
crudelmente, i malvagi che ho conosciuto» aggiunse con un accento
che fece trasalire Clémence. «Ma cosa vi disse vostro marito, il
giorno seguente la disgraziata notte?»
«Mi confessò, con inconcepibile candore, che le famiglie con cui
doveva imparentarsi avevano scoperto da che malattia era affetto e
mandato a monte i progetti di matrimonio... Così, dopo essere stato
respinto due volte... ha ancora oh, è terribile!... ecco, invece,
una di quelle persone che la società definisce un gentiluomo nobile
e probo!»
«Voi, sempre tanto buona, ora siete crudele!...»
«Sono crudele, perché fui indegnamente ingannata; il signor
d’Harville sapeva che ero buona, perché non ha fatto lealmente
appello alla mia bontà, dicendomi tutta la verità?»
«Gli avreste detto di no...»
«Questo lo condanna, mio signore; se avesse avuto questo timore,
sarebbe stato un infame tranello.»
«Ma vi amava!»
«Anche amandomi non avrebbe dovuto sacrificarmi al suo egoismo!...
Dio mio! ero così tormentata, avevo tanta fretta di lasciare la casa
di mio padre, che forse, se fosse stato sincero e m’avesse parlato
della particolare riprovazione da cui era stato colpito e
dell’isolamento a cui lo condannava un terribile e fatale destino,
m’avrebbe toccata e commossa comunque... Sì, vedendolo così leale e
infelice, forse non avrei avuto il coraggio di dirgli di no; e, se
avessi preso il sacrosanto impegno di subire le conseguenze del mio
sacrificio, avrei coraggiosamente mantenuto la mia promessa. Ma
voler forzare il mio affetto e la mia pietà per costringermi a
dipendere subito da lui; esigere questo affetto e questa pietà, in
nome dei miei doveri di moglie, lui che ha tradito i suoi doveri di
uomo onesto è follia e viltà a un tempo!... Adesso, mio signore,
pensate un po’ alla mia vita! pensate alle mie crudeli delusioni!
Avevo fiducia nella lealtà del signor d’Harville ed egli m’ha
indegnamente ingannata... Ero stata sedotta dalla sua sconsolata e
timida malinconia; e quella malinconia che egli diceva provenire da
sacri ricordi, era solo la consapevolezza della sua incurabile
malattia...»
«Ma insomma, vi fosse pure estraneo e nemico, egli dovrebbe farvi
pena con le sue sofferenze: il vostro cuore è nobile e generoso!»
«Ma posso io lenire, quelle sofferenze? Potesse almeno la mia voce
essere udita, si potesse almeno rispondere con uno sguardo
riconoscente al mio sguardo pietoso!... E invece no... Oh, voi non
sapete, mio signore, quanto vi è di spaventoso in quelle crisi in
cui l’uomo si dibatte con furia selvaggia, non vede nulla, non ode
nulla, non sente nulla, per cadere poi, passato l’attacco, in una
specie di ombroso abbattimento. Quando mia figlia subisce uno di
quegli attacchi, non posso far altro che desolarmi; con il cuore a
pezzi, bacio piangendo quelle povere braccine rattrappite dalle
convulsioni che la uccidono... Ma è mia figlia... è mia figlia!... e
quando la vedo soffrire così, maledico mille volte di più suo padre.
Quando i dolori della mia bambina si calmano, si calma anche
l’irritazione contro mio marito; allora... sì, allora lo compiango,
perché sono buona e alla ripugnanza si sostituisce un sentimento di
dolorosa pietà... Ma insomma, mi sono sposata a diciassette anni per
trovarmi dinanzi solo questa alternativa di odio e di compassione
sofferta, per piangere su una bambina disgraziata che forse non
riuscirò nemmeno a conservare? E a proposito di mia figlia,
permettete, mio signore, di prevenire un rimprovero che certamente
merito e che forse non avete il coraggio di farmi. Ella è così
bisognosa d’affetto che da sola avrebbe potuto bastare a riempire il
mio cuore, perché le voglio un bene immenso; ma in questo amore
straziante sono presenti tante amarezze e tante paure per
l’avvenire, che il mio affetto per lei non va mai al di là delle
lacrime. Vicino a lei, il mio cuore è continuamente straziato,
torturato, disperato; perché sono impotente davanti ai suoi mali che
dicono essere inguaribili. Ebbene! per uscire da questa atmosfera
angosciosa e sinistra, avevo sognato un affetto nella cui dolcezza
mi sarei rifugiata, riposata... Ahimè! mi sono ingannata,
stupidamente ingannata, lo confesso, e così precipito di nuovo
nell’esistenza dolorosa che mio marito m’ha dato. Dite, mio signore,
era questa la vita che avevo il diritto di aspettarmi? Allora sono
io l’unica colpevole degli errori che il signor d’Harville voleva
farmi pagare stamane a prezzo della mia vita? Sono errori grandi, lo
so, tanto più grandi in quanto ho da vergognarmi della mia scelta.
Per mia fortuna, mio signore, ciò che avete saputo dal colloquio fra
la contessa Sarah e il fratello a proposito del signor Charles
Robert mi risparmia la pena di un’altra confessione... Ma spero
almeno che adesso vi possa sembrare degna di una pietà pari al
biasimo, e che voi sarete tanto buono da consigliarmi nell’atroce
situazione in cui mi trovo.»
«Signora, non posso dirvi quanto mi abbia turbato il vostro
racconto; dalla morte di vostra madre fino alla nascita di vostra
figlia, quante pene subìte, quante angosce nascoste!... Voi così
brillante, ammirata e invidiata!...»
«Oh, credetemi, mio signore, quando si soffre di certe disgrazie, è
terribile sentirsi dire: “Com’è felice!...”.»
«Non c’è niente di più stupido, vero? Eppure, voi non siete la sola
a dover soffrire del crudele contrasto esistente fra ciò che è e ciò
che appare.»
«Come, mio signore?»
«Agli occhi di tutti, vostro marito deve sembrare ancora più felice
di voi, dal momento che gli appartenete... Eppure non è anche lui da
compiangere? C’è forse al mondo una vita più atroce della sua?
Certo, i suoi torti verso di voi sono grandi... Ma ne è atrocemente
punito! Vi ama come meritate di esserlo... e sa che per lui voi
potete provare solo un’invincibile ripugnanza... E nella sua bambina
sofferente, malaticcia, vede un continuo rimprovero. E non basta,
c’è anche la gelosia a torturarlo...»
«E cosa posso farci, mio signore? non dargli il diritto di essere
geloso? va bene. Ma se il mio cuore non apparterrà a nessuno, vorrà
dire che sarà suo? Egli sa benissimo che non sarà così. Dopo la
terribile scena che vi ho raccontato, cominciammo a vivere separati;
ma, in presenza degli altri, ho per lui i riguardi che esigono le
convenienze... e, all’infuori di voi, non ho fatto parola con
nessuno del triste segreto.»
«E vi assicuro signora, che se il favore che vi ho fatto meritasse
una ricompensa, mi riterrei cento volte pagato dalla vostra fiducia.
Ma poiché avete la bontà di chiedermi dei consigli e mi concedete di
parlarvi francamente...»
«Oh, ve ne supplico mio signore...»
«Lasciate che vi dica che, se non farete buon uso di una delle
vostre più pregevoli qualità, sprecherete grandi piaceri, che non
solo potrebbero soddisfare le esigenze del vostro cuore, ma anche
distrarvi dagli affanni domestici, e rispondere inoltre a quella
necessità di emozioni vive e forti, e oserei dire (perdonatemi la
brutta opinione che ho delle donne) al gusto innato per il mistero e
per l’intrigo che in esse è tanto forte.»
«Cosa volete dire, mio signore?»
«Voglio dire che se voleste divertirvi a fare il bene, non vi
sarebbe per voi cosa più piacevole e più interessante.»
La signora d’Harville guardò Rodolphe, stupita.
«Non vi dico» continuò, «di inviare con noncuranza, quasi con
disdegno, una ricca elemosina a degli infelici che non conoscete, e
che, spesso, non meritano i vostri benefici. Ma se vi divertiste,
come faccio io, di tanto in tanto, a interpretare la parte della
Provvidenza, vi accorgereste che spesso certe opere buone sono
avvincenti come un romanzo.»
«Certo, mio signore, non avevo mai pensato che vi fosse una maniera
divertente di fare la carità» disse Clémence sorridendo a sua volta.
«È una scoperta da attribuirsi all’orrore che ho per tutto ciò che è
noioso: orrore suscitatomi soprattutto dalle conferenze politiche
con i miei ministri. Ma per tornare alla nostra beneficenza
divertente, io non ho, per mia sventura, il pregio, come certe
persone disinteressate, di affidare ad altri l’incarico di fare
l’elemosina per conto mio. Se si trattasse semplicemente di mandare
un mio ciambellano a portare qualche centinaio di luigi a ogni
circondario di Parigi, confesso, con mia gran vergogna, che non
proverei molta soddisfazione; invece fare il bene come intendo io è
la cosa più divertente di questo mondo. Insisto su questa parola,
perché per me riassume in sé... tutto ciò che piace, affascina e
avvince... E in verità, signora, se voleste diventare una complice
in qualche tenebroso intrigo di questo tipo, vedreste, ve lo ripeto,
che, a parte la nobiltà dell’azione, spesso non vi è nulla di più
curioso, più avvincente, più interessante... e qualche volta anche
di più divertente di queste avventure a scopo di carità... E poi
quanti sotterfugi per nascondere i benefici fatti!... quante
precauzioni da prendere per non farsi riconoscere!... quante
emozioni di fronte alla povera e buona gente che piange di gioia al
solo vedervi!... Dio mio! è un po’ come la faccia oscurata di un
amante geloso o infedele, perché gli amanti possono solo essere
gelosi o infedeli... Vedete, le emozioni di cui vi parlo
corrispondono pressappoco a quelle che avete provato stamane andando
in rue du Temple... Vestita molto semplicemente per non essere
notata, uscireste di casa col cuore palpitante, salireste inquieta
in una modesta carrozza di cui abbassereste le tendine per non farvi
vedere, e poi vi guardereste a destra e a sinistra, per paura di
essere scoperta, prima di entrare furtivamente in qualche casa di
misero aspetto... proprio come questa mattina, vi dico... La sola
differenza è che stamattina voi vi siete detta: “Se mi scoprono,
sono perduta”; e che adesso invece vi direste: “Se mi scoprono sarò
benedetta!”. Ma siccome la modestia è una delle vostre più belle
qualità, voi usereste gli espedienti più perfidi e più diabolici per
non essere benedetta.»
«Ah, mio signore» esclamò commossa la signora d’Harville, «siete la
mia salvezza! Non posso dirvi le idee nuove, le consolanti speranze
che le vostre parole hanno fatto nascere in me. Avete detto bene,
occupare il proprio cuore e la propria mente a farsi
adorare da quelli che soffrono, è come amare... Che dico!... è più
che amare... Quando paragono l’esistenza che mi avete fatto
intravedere a quella che mi avrebbe procurato un disonorante errore,
i rimproveri che mi faccio sono ancora più amari...»
«Ne sarei desolato» rispose Rodolphe sorridendo, «perché sarebbe mio
desiderio aiutarvi a dimenticare il passato, e provarvi soltanto che
la scelta delle distrazioni è varia... I mezzi del bene e del male
spesso sono quasi gli stessi... solo che il fine è diverso...
Insomma, se il bene è attraente e divertente come il male, perché
preferire quest’ultimo? Sentite, vi faccio un paragone molto banale.
Perché molte donne prendono per amanti uomini che non valgono quanto
i loro rispettivi mariti? Perché tutto il fascino dell’amore risiede
nell’allettante attrattiva del frutto proibito... Confessate che se
si togliessero da questo amore le paure, le angosce, le difficoltà e
i pericoli, non resterebbe nulla o ben poca cosa, cioè l’amante
nella sua più cruda semplicità; insomma, sarebbe sempre più o meno
l’avventura di quell’uomo che interrogato: “Perché non sposate la
vostra amante adesso che è vedova?” rispondeva: “Ahimè; ci ho
pensato molto, ma allora non saprei più dove andare a passare le mie
serate”.»
«È proprio un po’ così, mio signore» disse la signora d’Harville
sorridendo.
«Ebbene, se trovassi il modo di farvi provare le paure, le angosce e
le inquietudini che vi allettano e se potessi utilizzare la vostra
naturale inclinazione per il mistero e le avventure, la vostra
predisposizione alla dissimulazione e all’astuzia (è quasi mio
malgrado, vedete, se viene sempre a galla l’esecrabile opinione che
ho delle donne)» aggiunse allegramente Rodolphe, «credete che
riuscirei a cambiare in atti generosi le imperiose e implacabili
tendenze che, se ben dirette, sono eccellenti e funeste, se mal
indirizzate?... Su, dite, volete che ci mettiamo noi due soli a
tramare macchinazioni a scopo benefico, bricconate a scopo di carità
che trovino la loro vittima, come sempre, nella buonissima gente?
Avremmo i nostri appuntamenti, la nostra corrispondenza, i nostri
segreti... e soprattutto riusciremmo a sfuggire alla sorveglianza
del marchese; poiché la visita che stamattina avete fatto ai Morel
deve averlo messo sul chi va là. Insomma, se voleste, noi saremmo...
in un intrigo bell’e buono.»
«Accetto, mio signore, con gioia e gratitudine questa tenebrosa
associazione» disse Clémence contenta. «E, per dare inizio al nostro
romanzo, domani ritornerò da quegli sventurati ai quali questa
mattina ho potuto portare il conforto di qualche parola;
perché, approfittando del mio turbamento e della mia paura, un
ragazzetto zoppo mi aveva strappato di mano il borsellino
consegnatomi da voi. Ah, mio signore» aggiunse Clémence, e dal suo
volto sparì la dolce espressione di gioia che per un momento l’aveva
rincuorata, «se sapeste che miseria!... che terribile spettacolo!
No, no... non credevo che potessero esistere tali miserie!... E mi
lamento!... e accuso il mio destino!»
Rodolphe, per non far vedere alla signora d’Harville quanto l’avesse
commosso quel suo ripiegamento su se stessa, prova inequivocabile
della sua bontà d’animo, riprese il discorso con tono allegro:
«Se volete, escluderò i Morel dalla nostra società; lasciate pure
che m’incarichi io di quella povera gente, e promettetemi piuttosto
di non tornare più in quella triste casa... perché ci abito io...»
«Voi, mio signore?... Volete scherzare!...»
«Dico sul serio... è un piccolo alloggio, certo... 200 franchi
all’anno: più sei franchi al mese per le faccende, generosamente
concessi alla signora Pipelet, l’orribile e vecchia portinaia che
conoscete. Aggiungete che ho per vicina la più graziosa sartina del
quartiere del Temple, la signorina Rigolette; dovete ammettere che,
per un commesso di bottega che guadagna 1800 franchi all’anno (mi
faccio passare per un commesso), non c’è male.»
«La vostra presenza... tanto inaspettata in quella fatale casa, è
una prova, mio signore, che state parlando seriamente... certo
sarete lì per qualche azione generosa. Ma allora che opere di
beneficenza riservate a me? Quale parte mi assegnerete?»
«Quella di angelo consolatore e, perdonate la brutta parola, di
demone abile e astuto... perché ci sono ferite delicate e dolorose
che solo la mano di una donna può curare e guarire; e ci sono anche
sventure di gente così fiera, ombrosa e taciturna, che ci vuole una
rara penetrazione per scoprirle, e un fascino irresistibile per
accattivarsi la loro fiducia.»
«E quando potrò mettere in opera il senso psicologico e l’abilità
che mi attribuite?» domandò con impazienza la signora d’Harville.
«Tra non molto, spero, avrete da fare una conquista degna di voi; ma
sarà necessario che ricorriate a virtù machiavelliche.»
«E quale sarà il giorno in cui mi confiderete il gran segreto?»
«Vedete... siamo già agli appuntamenti... potrete ricevermi fra
quattro giorni?»
«Così tardi!...» rispose candidamente Clémence.
«E il mistero? e le convenienze? Pensate che, se ci credessero
complici, diffiderebbero di noi; ma probabilmente avrò bisogno di
scrivervi. Chi è la donna anziana che mi ha portato il vostro
biglietto questa sera?»
«Una vecchia cameriera di mia madre: la sicurezza e la discrezione
in persona.»
«A lei allora indirizzerò le mie lettere e lei ve le consegnerà. Se
avrete la bontà di rispondermi, questo è l’indirizzo: Al signor
Rodolphe, rue Plumet. E fate in modo che sia la vostra cameriera a
imbucare le lettere alla posta.»
«Quando uscirò per la mia solita passeggiata a piedi, andrò io
stessa, mio signore, a imbucarle...»
«Uscite spesso sola e a piedi?»
«Quando è bello, quasi ogni giorno.»
«Benissimo! è una cosa che tutte le donne dovrebbero abi-
tuarsi a fare fin dai primi tempi del loro matrimonio... Con
buoni... o cattivi fini quest’uso, comunque, esiste... È un
precedente, come dicono gli avvocati; in seguito poi tali
passeggiate non potranno mai prestarsi a equivoche
interpretazioni... Se fossi stato donna (e, a dirla fra noi, temo
che sarei stata molto caritatevole e insieme molto frivola), il
giorno dopo il mio matrimonio, avrei incominciato a fare con l’aria
più innocente di questo mondo le cose più misteriose... ad assumere
candidamente le apparenze più compromettenti... sempre per stabilire
il precedente menzionato prima, con lo scopo di potere un giorno
rendere visita ai miei poveri... o al mio amante.»
«Ma questa sì che è una perfidia tremenda, mio signore!» disse
sorridendo la signora d’Harville.
«Per vostra fortuna, signora, voi non siete mai stata in grado di
capire la saggezza e l’umiltà di certe previsioni...»
La signora d’Harville smise di sorridere, abbassò gli occhi, arrossì
e disse con tristezza:
«Non siete generoso, mio signore!...».
«Vi capisco, signora... Ma mettiamo in chiaro, una volta per tutte,
la vostra posizione nei confronti del signor Charles Robert. Un
giorno, una vostra amica vi mostra uno di quei mendicanti pietosi
che stralunano languidamente gli occhi e suonano il clarinetto con
aria disperata per impietosire i passanti. È un poveretto, vi dice
l’amica, ha per lo meno sette bambini, una moglie cieca, sorda,
muta, ecc. ecc. Ah, che disgraziato, dite voi facendogli
caritatevolmente l’elemosina, e ogni volta che lo incontrate, appena
il mendicante vi scorge, comincia a fare gli occhi supplichevo-
li, a trarre dal clarinetto suoni lamentevoli, e la vostra elemosina
intanto cade nella sua bisaccia. Un giorno, dopo aver provato per
quel povero il massimo della pietà, merito dell’amica che
malvagiamente approfittava della vostra bontà, voi vi rassegnate a
fare l’opera pia di andare a trovare quello sventurato sul luogo
della sua miseria... Voi arrivate; ahimè, niente più clarinetto
malinconico, niente più sguardi pietosi e imploranti, ma un tipo
vivace, giovanile e gagliardo, che attacca una canzonetta da
cabaret... Ed ecco che subito il disprezzo succede alla pietà...
perché avete preso un falso poveretto per un vero poveretto, né più
né meno. Non è forse così?...»
Lo strano apologo fece sorridere la signora d’Harville, la quale
rispose a Rodolphe:
«Per quanto possa essere accettabile una tale giustificazione, mio
signore, mi sembra un po’ troppo facile».
«Dopo tutto, avete commesso solo una nobile e generosa imprudenza...
Non dovete avere rimorsi perché avete tante possibilità per
ripararla... Ma, questa sera, potrò vedere il signor d’Harville?»
«No, mio signore... il fatto di stamattina l’ha così sconvolto
che... sta poco bene adesso» rispose la marchesa sottovoce.
«Ah, capisco...» rispose tristemente Rodolphe. «Suvvia, coraggio!
Alle vostre aspirazioni mancava un fine, a voi una distrazione dalle
pene di cui mi avete parlato... Fatemi sperare che questa
distrazione la troverete nel futuro che vi ho proposto... Allora la
vostra anima sarà così piena di dolci consolazioni, che non ci sarà
più posto per i rancori contro vostro marito. Proverete per lui un
po’ dell’affetto che avete per la vostra povera bambina... E quanto
a quest’angioletto, adesso che so la causa del suo male, oserei
quasi dirvi di sperare un po’...»
«Credete che sia possibile, mio signore? e come?» esclamò Clémence
congiungendo le mani in segno di riconoscenza.
«Ho per medico personale un uomo poco conosciuto ma molto bravo; è
stato a lungo in America; ricordo che mi ha parlato di due o tre
cure ordinate ad alcuni schiavi affetti da questo male tremendo, che
risultarono quasi miracolose.»
«Oh, mio signore, sarebbe possibile...»
«Cercate, però, di non farvi grandi illusioni: la delusione sarebbe
troppo crudele... limitiamoci a non disperare del tutto.»
Clémence d’Harville aveva gettato sull’augusto volto di Rodolphe uno
sguardo carico d’ineffabile riconoscenza. Era quasi un re... colui
che la consolava con tanto tatto, con tanta grazia e bontà.
Ella si chiese come mai avesse potuto interessarsi del signor
Charles Robert.
L’idea le diventò insopportabile.
«Come vi sono debitrice, mio signore!» disse la marchesa commossa.
«Voi mi date coraggio, mi fate, mio malgrado, sperare per mia figlia
e intravedere un nuovo avvenire che potrebbe essere una
consolazione, e anche un piacere e un merito... Avevo forse torto di
scrivervi che, se aveste acconsentito a venire qui questa sera,
avreste terminato la giornata come l’avevate cominciata... cioè con
una buona azione?...»
«Aggiungete pure, signora, che è una di quelle buone azioni che
piacciono a me e al mio egoismo, attraenti, divertenti e
affascinanti» disse Rodolphe alzandosi, perché la pendola del
salotto aveva appena battuto le undici e mezzo.
«Addio, mio signore, non dimenticatevi di farmi subito avere notizie
della povera gente della rue du Temple.»
«La vedrò domattina... perché non sapevo, purtroppo, che lo zoppetto
vi avesse portato via il borsellino; quindi quei disgraziati si
troveranno forse in estremo bisogno. Fra quattro giorni, cercate di
non dimenticarlo, verrò a mettervi al corrente della parte che avete
così volentieri accettato. Solo che, io comunque vi avverto, forse
vi sarà necessario un travestimento.»
«Un travestimento! oh, che gioia! e di che tipo, mio signore?» «Non
posso ancora dirvelo... Ve ne lascerò la scelta.»
Ritornando a casa, il principe si sentiva abbastanza soddisfatto
dell’esito del colloquio avuto con la signora d’Harville. Si era
stabilito di:
Impegnare in un’opera generosa la mente e il cuore della giovane
donna, che sentiva per il marito un’invincibile ripugnanza; destare
in lei tale romanzesca curiosità, tale interesse per un mistero che
esulasse dall’amore, da soddisfare le esigenze della sua
immaginazione, della sua anima, e preservarla così da un nuovo
amore;
Oppure anche:
Ispirare in Clémence d’Harville una passione così profonda e
inguaribile e al tempo stesso così nobile e pura, che ella, incapace
ormai di provare un amore meno sublime, non potesse più
compromettere la tranquillità del signor d’Harville, che Rodolphe
amava quanto un fratello.
XVIII MISERIA
Il lettore, con ogni probabilità, non avrà dimenticato la famiglia
di disgraziati che con il suo capo, un intagliatore di pietre
preziose, che risponde al nome di Morel, abita nella soffitta della
casa della rue du Temple.
Ora lo condurremo nella loro misera abitazione. Sono le cinque di
mattina.
Fuori il silenzio è profondo, la notte fonda e gelida; nevica.
Su una piccola tavola quadrata, tra due pezzetti di legno c’è una
candela la cui luce, gialla e anemica, riesce sì e no a trafiggere
la fitta oscurità della soffitta; bugigattolo piccolo e basso,
costituito per due terzi da un tetto che s’incontra col pavimento
formando uno strettissimo angolo acuto. Il soffitto, quindi, non è
altro che il disotto verdastro delle tegole.
I tramezzi intonacati di gesso annerito dal tempo e pieni di crepe
sono fatti di assi tarlate; in una di queste c’è una porta
sgangherata che dà sulla scala.
Sul pavimento, di colore indefinibile, lurido e scivoloso, ci sono,
sparsi qua e là, fili di paglia fradicia, stracci sudici e certi
grandi ossi che i poveri acquistano dai più infimi rivenditori di
carne guasta per rosicchiarne le cartilagini che vi sono ancora
attaccate...2
Una così spaventosa incuria è segno generalmente o di vita
sregolata, o di miseria rispettabile sì, ma così gravosa e desolante
che l’uomo ne viene annientato e degradato, e finisce col non avere
più né la forza né la volontà né il bisogno di trarsi da quel fango:
egli ci vive dentro, come una bestia nella tana.
Di giorno, il tugurio prende luce da un abbaino stretto e oblungo,
aperto nella parte inclinata del tetto, e fornito di un’invetriata
che si apre e si chiude per mezzo di una catena.
Verso l’ora che abbiamo detto, sull’abbaino c’era un grosso strato
di neve.
La candela, messa quasi al centro della soffitta, sul banco di
lavoro, disegna in quel punto una zona di luce fioca che digrada giù
giù fino a perdersi nell’ombra in cui è immersa quella topaia, ombra
in cui si intuiscono i vaghi contorni di qualcosa di biancastro.
Sul banco, massiccia tavola quadrata di quercia grezza malamente
squadrata, imbrattata di grasso e di sego, ci sono diamanti
2 Nei quartieri popolosi non è infrequente trovare rivenditori di
vitelli nati morti, di bestie morte di malattia, ecc.
e rubini di grossezza e di luccichio meravigliosi che baluginano,
scintillano e sfavillano.
Morel era intagliatore di pietre vere e non di pietre false, come
egli diceva, e come si credeva nella casa della rue du Temple...
Grazie a quest’innocente bugia, le pietre che gli venivano
consegnate erano considerate di così poco valore, che poteva
tenersele in casa senza timore di venir derubato.
Tanta ricchezza in mezzo a tanta miseria ci dispensa dal parlare
della probità di Morel...
Seduto su uno sgabello senza spalliera, sfinito dalla stanchezza,
dal freddo e dal sonno, dopo una lunga notte d’inverno passata a
lavorare, il lapidario ha reclinato sul banco la testa stordita e
lasciato cadere le braccia intorpidite; adesso è lì con la fronte
appoggiata su una larga mola, posta orizzontalmente sulla tavola,
che viene azionata tramite una rotella a mano; accanto sono sparsi
altri arnesi tra cui una sega di fine acciaio. L’artigiano, di cui
si distingue solo la testa calva circondata di capelli grigi, ha
indosso, sulla nuda pelle, una vecchia giacca scura a maglia, un
paio di vecchi pantaloni di tela; un paio di pedule di cimosa, tutte
rotte, gli ricoprono sì e no i lividi piedi poggiati sul pavimento.
Nella soffitta il freddo è così intenso e penetrante, che
l’artigiano, nonostante quella certa sonnolenza che dà l’estrema
stanchezza, è percorso in tutto il corpo da brividi.
A giudicare dalla lunghezza e dalla carbonizzazione dello stoppino
della candela, sembra che Morel stia dormendo già da qualche tempo.
Si ode solo il suo respiro affannoso; solo il suo, perché gli altri
sei abitanti della soffitta non dormono...
Sì, in questa stretta soffitta vivono sette persone... Cinque
bambini, di cui il più piccolo ha quattro anni e il più grande solo
dodici.
E poi c’è la madre inferma.
E ancora la madre della loro madre, una ottuagenaria ebete. Il
freddo dev’essere molto aspro, se il calore naturale di cinque
persone ammucchiate in uno spazio così ristretto non riesce a
intiepidire questa atmosfera ghiacciata; fatto si è anche che quei
sette corpi, da quello del bambino più piccolo a quello della nonna,
essendo deboli, gracili, infreddoliti e sfiniti, non possono
liberare calorie, direbbe uno scienziato.
Eccettuato il padre di famiglia che si è un momento assopito, perché
allo stremo delle forze, nessuno dorme nella soffitta; no, perché il
freddo, la fame, la malattia fanno tenere gli occhi aperti, anzi
spalancati.
Non si può immaginare quanto sia difficile e prezioso, per un
povero, dormire un sonno profondo e salutare, nel quale possa
ristorare le proprie forze e dimenticare i propri mali. Dopo una di
queste notti riposanti, egli si sveglia così vivace, fresco e
disposto anche alle più dure fatiche, che perfino i meno religiosi,
nel senso cattolico della parola, si sorprendono ad avere un vago
sentimento di gratitudine, se non proprio verso Dio, almeno verso...
il sonno; e chi benedice l’effetto, benedice la causa.
L’accostamento fra la spaventosa miseria dell’artigiano e il valore
delle pietre preziose che gli vengono consegnate dà luogo a uno di
quei contrasti che rattristano e nello stesso tempo innalzano lo
spirito.
Quest’uomo ha continuamente sotto gli occhi lo straziante spettacolo
delle sofferenze dei suoi; essi assommano in sé tutte le sventure,
dalla fame alla follia, eppure egli non tocca quelle pietre, anche
se una sola basterebbe a strappare la moglie e i figli dalla morte
lenta a cui li condannano le privazioni.
Fatto sta che egli compie il suo dovere, il suo semplice dovere di
onest’uomo; ma perché un tale dovere è semplice, è forse cosa meno
grande e bella l’adempierlo? D’altra parte possono le condizioni in
cui si compie il proprio dovere, renderne la pratica meno
apprezzabile?
E poi un artigiano, che resti povero e onesto pur avendo in casa un
simile tesoro, non rappresenta forse l’immensa e stragrande
maggioranza di quegli uomini che, sebbene per sempre condannati alle
privazioni, continuano a essere tranquilli, pazienti e laboriosi, e
a sentirsi sgombri da odio, rammarico e invidia dinanzi alla
magnificenza dei ricchi!
E poi non è bello e consolante pensare che non la forza o il
terrore, ma il senso morale basta da solo a incanalare questa
tremenda fiumana del popolo che, se straripasse, potrebbe
inghiottire l’intera società, facendosi gioco delle sue leggi e
della sua forza, come il mare in tempesta si fa gioco delle dighe e
degli argini?
Non simpatizziamo allora, con tutte le forze della nostra anima e
del nostro spirito, con questa gente generosa che chiede un po’ di
posto al sole in cambio di tanta sventura, tanto coraggio e tanta
rassegnazione?
Ritorniamo al nostro quadro, ahimè troppo reale, di spaventosa
miseria, quadro che cercheremo di descrivere nella sua agghiacciante
crudezza.
Il lapidario possiede solo uno striminzito materasso e un pezzo di
coperta; cose di proprietà ormai della vecchia idiota la quale, nel
suo stupido e selvaggio egoismo, non vuole dividere il giaciglio con
nessuno.
All’inizio dell’inverno ella era diventata furiosa tanto che ci
mancò poco non strangolasse il figlio minore che era stato messo a
dormire vicino a lei, una bimbetta cioè di quattro anni che, essendo
malata di tisi, soffriva troppo freddo sul pagliericcio dove dormiva
con i fratellini e le sorelline.
Fra poco spiegheremo il perché di questo fatto non infrequente
presso la povera gente. In confronto a essa, le bestie ricevono un
trattamento da re: a esse infatti viene cambiato lo strame.
Ecco lo spettacolo complessivo che offre la soffitta dell’artigiano,
quando l’occhio riesce a scrutare la penombra dove va a morire il
fioco chiarore della candela.
Sul pavimento, accostato al muro di sostegno, meno umido degli
altri, c’è il materasso dove riposa la vecchia idiota.
Siccome non può sopportare nulla in testa, ha capelli bianchi
tagliati cortissimi, che perciò rendono più evidente la forma del
cranio e la piattezza della fronte; folte sopracciglia grigie
ombreggiano due profonde orbite dove balena uno sguardo selvaggio;
le guance sono scavate, livide, increspate da mille rughe, e si
incollano agli zigomi e agli angoli sporgenti della mascella; è
coricata su un fianco e raggomitolata su se stessa tanto da toccarsi
quasi le ginocchia col mento; sta tremando sotto una coperta di lana
grigia che è troppo piccola perché lei possa avvolgersi tutta; per
questo si vedono spuntare fuori due gambe scarne e l’orlo della
vecchia sottana a brandelli che ha indosso. Dal giaciglio si
diffonde un gran fetore.
Poco lontano dal capezzale della nonna è stato steso, parallelamente
al muro, anche il pagliericcio che serve da letto ai cinque bambini.
Ed ecco come:
Hanno preso il telo, a ogni capo di esso hanno fatto un taglio, nel
senso della lunghezza, poi hanno introdotto i bambini in una paglia
umida e nauseabonda; quindi ne risulta che la tela che li avvolge
serve loro da lenzuolo e da coperta.
Ci sono cinque bambini che tremano; due femminucce di cui una
gravemente ammalata, da una parte, e tre maschietti dall’altra.
Sia questi che quelle sono a letto vestiti, se si possono chiamare
vestiti dei miserabili stracci.
Sulle loro facce pallide, anemiche e ammalate scendono folte
capigliature bionde, opache, arruffate, irte che la madre non fa
tagliare perché essi così si riparano un po’ dal freddo. Uno dei
ragazzi, a forza di tirarsi fin sopra al mento il telo del
pagliericcio per coprirsi meglio, ha le dita intirizzite; l’altro,
per paura di prendere freddo alle mani, tiene il telo fra i denti
che battono l’uno con l’altro; il terzo si stringe contro i
fratelli.
La femminuccia più piccola, quella cioè minata dalla tisi, appoggia
languidamente la povera faccina bluastra e ormai malata sul petto
ghiacciato della sorella, di cinque anni, che la veglia con ansiosa
sollecitudine e cerca invano di riscaldarla stringendosela fra le
braccia.
In fondo al tugurio, su un altro pagliericcio che fa un angolo a
squadra con quello dei bambini, giace distesa la moglie
dell’artigiano, stremata da una febbre lenta e da una dolorosa
infermità, che da parecchi mesi non le permette di alzarsi.
Madeleine Morel ha trentasei anni. Un vecchio fazzoletto di cotonina
azzurra, stretto intorno alla fronte un po’ bassa, fa risaltare
ancora di più il pallore bilioso del viso ossuto. Ha gli occhi
infossati, cerchiati, spenti e le labbra esangui e piene di
screpolature sanguinanti.
Il volto segnato dalla tristezza e dall’avvilimento e i lineamenti
insignificanti rivelano uno di quei caratteri dolci, ma senza
vivacità e senza energia, che, invece di lottare contro la sorte
avversa, si piegano, si accasciano e si lamentano.
Debole, inerte e limitata, era rimasta onesta perché suo marito era
onesto; abbandonata a se stessa, le disgrazie avrebbero potuta
spingerla al male e al disonore. Pur amando i figli e il marito, non
aveva né il coraggio né la forza di fare a meno di lamentarsi
amaramente delle loro comuni disgrazie. Spesso l’intagliatore di
pietre preziose era costretto a interrompere il lavoro con cui
intendeva sostenere da solo il peso della famiglia per andare a
calmare e consolare la povera inferma.
Affinché si riscaldasse un po’, Morel aveva steso sopra il brutto e
sbrindellato lenzuolo di telaccia bigia che ricopriva la moglie
alcuni stracci così vecchi e rappezzati, che l’usuraia non aveva
voluto prenderseli.
Un fornello, un tegame e una pentola di terracotta sbreccata, due o
tre tazze screpolate sparse qua e là sul pavimento, un mastello, una
tavola da lavare e una grande brocca di arenaria che si trova sotto
lo spiovente del tetto, vicino alla porta sgangherata, scossa
continuamente dal vento, è tutto quanto possiede questa povera
famiglia.
Il triste spettacolo è illuminato dalla candela, la cui fiamma,
agitata dal vento che sibilando filtra dagli interstizi delle
tegole, si piega ora dalla parte di questo squallore proiettandovi
una luce pallida e tremolante, ora dalla parte del banco dove
sonnecchia il lapidario e dove i diamanti e i rubini, macchia
luminosa, sprigionano mille fuochi, mille scintille.
D’istinto, gli occhi di quegli sventurati s’erano fissati sul
lapidario, loro sola speranza, loro unica risorsa; stavano tutti in
silenzio ed erano tutti svegli, dalla nonna al bambino più piccolo.
Il vederlo senza fare niente e stremato dal pesante lavoro era un
assillo per il loro istintivo egoismo.
La madre pensava ai figli.
I figli pensavano a se stessi.
Solo la vecchia idiota pareva non pensare a nulla.
A un tratto, però, ella si rizzò a sedere, incrociò sul petto sche-
letrico le lunghe braccia magre e gialle come il bosso, guardò il
lume sbattendo gli occhi, poi si alzò lentamente, trascinandosi
dietro, come un sudario, il suo pezzo di coperta.
Era altissima, con una testa pelata che sembrava smisuratamente
piccola e un labbro inferiore, grosso e cascante, agitato da un
tremito spasmodico: quell’orrida maschera era un classico esempio di
ebetismo bestiale.
La vecchia avanzò quatta quatta verso il banco, come un bambino che
stia per commettere una bricconata.
Quando fu vicina alla candela, accostò alla fiamma le mani tremanti;
erano due mani così magre che, vicino alla fiamma, avevano come una
specie di livida trasparenza.
Dal suo giaciglio, Madeleine Morel aveva seguito ogni più piccolo
movimento della vecchia; questa, intanto, continuando a riscaldarsi
alla fiamma della candela, aveva chinato il capo e stava fissa a
contemplare con sguardo idiota i riflessi cangianti dei rubini e dei
diamanti che brillavano sulla tavola.
Assorta in quella contemplazione, la vecchia ebete non badò più a
tenere le mani a giusta distanza dalla fiamma: si scottò e gettò un
urlo rauco.
A quel grido, Morel si svegliò e alzò bruscamente la testa.
Aveva quarant’anni, un viso schietto, intelligente e dolce, ma
avvizzito e scavato dalla miseria; una barba grigia di parecchie
settimane gli copriva la parte inferiore del volto butterato, mentre
la fronte, già intaccata dalla calvizie, era percorsa da rughe
precoci e gli occhi erano gonfi e rossi per il lavoro notturno.
Per un fenomeno facilmente riscontrabile negli operai di
costituzione debole, condannati a un lavoro sedentario che li
costringe a mantenere tutto il giorno quasi sempre la stessa
posizione, il suo corpo, già gracile di per sé, era diventato
deforme. Costretto a stare sempre chino sul suo banco e a piegarsi
dalla parte destra, per poter far funzionare la mola, l’intagliatore
quasi pietrificato, irrigidito in quella posizione da dodici a
quindici ore al giorno, si era incurvato e storto tutto da un lato.
Si aggiunga che il braccio destro, dovendo tenere in continuo
movimento la mola, si era notevolmente sviluppato, mentre il braccio
sinistro e la mano sinistra, dovendo rimanere sempre appoggiati sul
banco con la precisa funzione di tenere i diamanti in modo tale che
presentassero le faccette all’azione della mola, erano ridotti a uno
stato di magrezza e di deperimento spaventosi; due gracili gambe,
quasi inesistenti per totale mancanza di esercizio, faticavano non
poco a reggere un corpo stremato, in cui tutta la sostanza, tutta la
vitalità, tutta la forza, sembravano essersi concentrate in una sola
parte, quella cioè che era continuamente esercitata dal lavoro.
Tanto che Morel soleva dire con dolorosa rassegnazione:
«Più che per me, io mangio per rinforzare il braccio che fa girare
la mola».
Svegliato di soprassalto, il lapidario si trovò a faccia a faccia
con la vecchia scema.
«Cos’avete? cosa volete, mamma?» le disse Morel; temendo poi, di
svegliare la famiglia che credeva addormentata, aggiunse con un tono
di voce più basso: «Andate a letto, mamma. Non fate rumore,
Madeleine e i bambini dormono.»
«Io non dormo, cerco di riscaldare Adèle» disse la maggiore delle
bambine.
«Non posso dormire, ho troppa fame» disse a sua volta uno dei
bambini; «ieri sera non toccava a me, ma ai miei fratelli cenare
dalla signorina Rigolette.»
«Poveri bambini!» disse Morel abbattuto, «credevo che dormiste,
almeno.»
«Morel, mi è tornata la febbre e ho molta sete» disse la moglie,
«avrei voluto chiederti un po’ d’acqua, ma temevo di svegliarti.»
«Subito» rispose l’operaio; «ma prima devo far tornare a let-
to tua madre. Su, lasciate stare le pietre» disse alla vecchia che
voleva impadronirsi di un grosso rubino che aveva attratto
maggiormente la sua attenzione. «Su andate a letto, mamma!» ripeté.
«Quella, quella» rispose la vecchia idiota, indicando la pietra
preziosa che voleva.
«Non fatemi arrabbiare» disse Morel facendo la voce grossa, per
spaventare la suocera di cui respinse dolcemente la mano.
«Mio Dio, mio Dio! Morel, ho tanta sete» mormorò Madeleine. «Su,
vieni a portarmi da bere!»
«Ma come vuoi che faccia in queste condizioni? Non posso certo
lasciare che tua madre tocchi le mie pietre, perché mi perda un
altro diamante, come è successo un anno fa; e Dio solo sa... Dio
solo sa quel che ci costa quel diamante e quello che forse ci
costerà ancora.»
E il lapidario, oscuratosi in volto, si portò una mano alla fronte;
poi aggiunse rivolgendosi a uno dei figli:
«Félix, vai a portare da bere alla mamma, visto che non dormi.» «No,
no, prenderà freddo, aspetto» riprese Madeleine. «Fuori non avrò
certo più freddo che dentro il saccone» disse
il bambino alzandosi.
«Su, dunque, volete finirla!» gridò Morel e fece la voce minac-
ciosa per mandar via la vecchia ebete, la quale non voleva affatto
allontanarsi dal banco, e si ostinava per giunta a volersi
impadronire di una pietra preziosa.
«Mamma, l’acqua della brocca è gelata» gridò Félix.
«Rompi il ghiaccio allora» disse Madeleine.
«Non posso, è troppo grosso.»
«Morel, rompi il ghiaccio della brocca» disse Madeleine, con
voce lamentosa e impaziente; «visto che non c’è altro da bere, che
possa almeno bere un po’ d’acqua. Tu mi fai morire di sete.» «Oh,
mio Dio, mio Dio! abbi pazienza! Ma come vuoi che
faccia? tua madre continua a restare qui» gridò il povero
intagliatore.
Non riusciva a sbarazzarsi della vecchia che, irritata per la
resistenza che incontrava, cominciava a mandare qualche rabbioso
brontolio.
«Chiamala» disse Morel alla moglie, «a volte ti ascolta.»
«Mamma, andate a letto; se state buona, vi darò un po’ di caffè dato
che vi piace tanto.»
«Quello, quello» continuò l’idiota cercando questa volta di
impadronirsi del rubino che voleva avere.
Morel la respinse con delicatezza, ma invano.
«Dio buono! Sai che non la finirà più, se non le farai paura con la
frusta,» esclamò Madeleine; «è l’unico mezzo per farla stare buona.»
«È quel che ci vuole: anche se pazza non mi piace, comunque,
minacciare una vecchia con la frusta» disse Morel.
Poi, voltosi alla vecchia che teneva ferma con una mano perché
cercava di morderlo, le gridò con la voce più terribile che avesse
in gola:
«Attenta che prendo la frusta, se non andate subito a letto!». Anche
questa minaccia non valse a nulla.
Allora andò al banco, prese la frusta, la fece schioccare con
forza, e:
«A letto subito, a letto!» gridò minacciosamente alla vec-
chia.
Allo schioccare sonoro che fece la frusta, la vecchia s’allontanò
bruscamente, poi si fermò, borbottò qualcosa fra i denti e gettò uno
sguardo rabbioso sul genero.
«A letto, a letto!» ripeté costui avanzando e facendo schioccare di
nuovo la frusta.
La scema, allora, tornò lentamente al giaciglio camminando
all’indietro e mostrando i pugni al genero.
Il lapidario che desiderava porre fine all’atroce spettacolo per
potere portare da bere alla moglie, fece ancora una volta schioccare
la frusta molto vicino alla vecchia senza peraltro colpirla, e
ripeté con voce minacciosa:
«A letto, subito!».
La vecchia, spaventata, cominciò a urlare terribilmente e non smise
neppure quando, gettatasi entro il saccone, vi si rannicchiò come un
cane nel suo canile.
I bambini che si erano impauriti all’idea che il padre avesse
colpito la vecchia, gli gridarono piangendo:
«Non picchiare la nonna, non picchiarla!»
È impossibile descrivere l’effetto sinistro di una scena come questa
che si svolgeva nel cuore della notte accompagnandosi alle grida
supplichevoli dei bambini, alle urla furiose della pazza e ai
lamenti dolorosi della moglie del lapidario.
XIX
IL DEBITO
Non era la prima volta che Morel assisteva a scene raccapriccianti
come quella che abbiamo descritto; eppure, questa volta, gettata la
frusta sul banco, gridò in una crisi di disperazione:
«Oh, che vita! che vita!!!».
«È colpa mia, se mia madre è idiota?» disse Madeleine piangendo.
«È mia allora?» rispose Morel. «Che cosa chiedo io se non di
ammazzarmi di lavoro per tutti voi? E lavoro giorno e notte; non mi
lamento perché, finché avrò le forze, andrò avanti; ma certo non
posso fare il mio mestiere e badare nello stesso tempo a una pazza,
a un’ammalata e ai bambini! No, in fondo il cielo non è giusto! no,
non è giusto! troppa miseria e c’è un uomo solo!» disse il lapidario
con voce straziante.
Si lasciò cadere pesantemente sullo sgabello, prendendosi la testa
fra le mani.
«Se non hanno voluto prendere mia madre all’ospedale, perché non
l’hanno trovata abbastanza pazza, cosa posso farci io?» disse
Madeleine con un tono di voce strascicato, lamentoso e triste.
«D’altra parte a che cosa serve lamentarsi per cose a cui non si può
porre rimedio?»
«A nulla» rispose l’artigiano e si asciugò gli occhi umidi di
lacrime; «a nulla... hai ragione. Ma quando tutto va male, si perde
facilmente il controllo di sé.»
«Oh, mio Dio, mio Dio! quanta sete! sono piena di brividi e ardo
dalla febbre» disse Madeleine.
«Aspetta, adesso ti porto da bere.»
Morel andò a prendere la brocca sotto il tetto. Dopo aver rotto con
una certa difficoltà il ghiaccio che si era formato sull’acqua, con
un po’ di quel liquido gelato riempì un bicchiere, quindi ritornò al
giaciglio della moglie, che impaziente aveva steso le mani verso di
lui.
Ma dopo aver riflettuto un attimo, le disse:
«No, è troppo fredda; se hai la febbre, ti fa male».
«Mi fa male? Meglio, dammela subito allora» riprese Made-
leine con amarezza; «finirà prima, ti sbarazzerai di me e così avrai
solo da badare alla pazza e ai bambini. La malata non ci sarà più.»
«Perché mi parli così, Madeleine? Lo sai che non lo merito» disse
tristemente Morel. «Non farmi ancora più male, è già tanto se ho
ancora la forza e il cervello per lavorare; non ho la testa molto a
posto e se anche l’avessi, la cosa non durerebbe molto; e se così
fosse, che ne sarebbe di voi tutti? Io parlo per voi; se fosse solo
per me, non avrei problemi per il domani. Grazie a Dio, il
fiume c’è per tutti.»
«Povero Morel!» disse Madeleine intenerita; «è vero, ho avuto
torto ad arrabbiarmi, non dovevo dirti che avrei voluto liberarti
della mia presenza. Non volermene, la mia intenzione era buona;
sì, perché io non posso fare niente né per te né per i bambini. Da
sedici mesi sono malata... Oh, Dio! quanta sete; ti prego, dammi da
bere.»
«Subito; prima tento di scaldare un poco il bicchiere con il calore
delle mani.»
«Come sei buono! e io che, in cambio, ti dico cattiverie!»
«Povera moglie mia, stai soffrendo e la sofferenza ti inasprisce.
Dimmi pure quello che vuoi, ma non dirmi che vuoi liberarmi della
tua presenza.»
«Ma a cosa ti servo?»
«A che cosa ci servono i figli?»
«A sovraccaricarti di lavoro.»
«Certo! intanto è per voialtri che io trovo la forza di lavorare a
volte anche ventiquattr’ore al giorno, a tal punto che sono
diventato deforme e storpio. Credi forse che, se non ci foste voi,
farei questo lavoro per me solo? Oh, no, la vita non è abbastanza
bella, e io la farei finita con essa.»
«Proprio come me» riprese Madeleine; «se non fosse per i bambini,
già da molto t’avrei detto: “Morel, tu ne hai abbastanza, e anch’io;
il tempo per mettere del carbone in un fornello e darvi fuoco, e ci
si può infischiare della miseria... Ma i bambini... i bambini...”»
«Vedi, dunque, che servono a qualcosa» disse Morel con grande
naturalezza. «Su, tieni, bevi, ma a piccoli sorsi perché è ancora
molto fredda.»
«Oh, grazie, Morel» disse Madeleine bevendo avidamente. «Basta,
basta...»
«Era troppo fredda; i brividi diventano più forti» disse Made-
leine, e gli restituì il bicchiere.
«Dio mio, Dio mio! te l’avevo detto, adesso stai male...» «Non ho
più nemmeno la forza di tremare. Mi sembra di avere
piantati addosso tanti ghiaccioli, ecco tutto...»
Morel si tolse la giacca e la mise sui piedi della moglie, restan-
do a torso nudo. Il poveretto non aveva nemmeno un pezzo di camicia.
«Adesso, Morel, ti gelerai!»
«Se fra un po’ avrò troppo freddo, me la rimetterò un istante.»
«Povero marito!... ah, hai proprio ragione, il cielo non è giusto.
Che cosa abbiamo fatto per essere così disgraziati, mentre altri...»
«Tutti hanno la loro croce, tanto i grandi che i piccoli.»
«Sì, anche i grandi hanno la loro croce, ma non stanno a sto-
maco vuoto e non battono i denti dal freddo. Sapessi come mi fa
male pensare che, con uno di quei diamanti che tu levighi, noi e i
nostri figli potremmo vivere comodamente. E a loro, a cosa servono
quei diamanti?»
«Se si dovesse solo dire: a cosa serve questo o a cosa serve quello?
chissà dove si andrebbe a finire. Sarebbe come se tu ti dicessi: a
cosa serve a quel signore, che la signora Pipelet chiama il
comandante, aver preso in affitto e ammobiliato tutto il primo piano
della casa, quando non ci va mai? A cosa serve averci dentro bei
materassi e belle coperte se alloggia altrove?»
«È vero. Lì c’è quanto basta per vestire più di una famiglia povera
come noi... senza contare che la signora Pipelet riscalda tutti i
giorni per evitare che l’umidità rovini i mobili. Tanto caldo per
niente, mentre noi e i bambini geliamo! Certo tu dirai: noi non
siamo mica dei mobili. Oh, i ricchi sono così insensibili!»
«Non più degli altri, Madeleine. Vedi, non sanno cosa sia la
miseria. Nascono felici, vivono felici, muoiono felici: perché
dovrebbero pensare a noi? E poi, ti dico... non sanno... Come
potrebbero farsi un’idea delle privazioni altrui? Se hanno molta
fame, sono doppiamente contenti perché non fanno altro che mangiare
di più. Se fa freddo, niente di meglio, perché per loro il freddo è
una bella gelata: semplicissimo. Se escono a piedi, quando rientrano
vanno a scaldarsi vicino a un bel caminetto e, con il freddo, il
fuoco diventa più desiderabile; non possono quindi compiangerci
tanto, dato che a loro la fame e il freddo fanno piacere. Vedi, essi
non sanno, non sanno!... Al loro posto, faremmo così anche noi.»
«I poveri quindi sono migliori di tutti loro, visto che si aiutano a
vicenda! La buona signorina Rigolette, che tante volte ha assistito
me o i bambini durante la malattia, ha portato con sé Jérôme e
Pierre per dividere con loro la sua cena. E la sua cena è ben poca
cosa: una tazza di latte e un po’ di pane. Alla sua età non manca
l’appetito; sicuramente se ne sarà privata lei.»
«Povera ragazza! Sì, è molto buona. E perché? perché sa cos’è la
sofferenza. E io insisto a dirti: se i ricchi sapessero! se i ricchi
sapessero!»
«E la piccola signora che l’altro ieri è venuta a chiederci tutta
sconvolta se avevamo bisogno di qualcosa, adesso sa che cos’è la
povera gente... eppure non è tornata.»
«Forse tornerà; nonostante l’aria spaventata che aveva, mi è
sembrata molto buona e per bene.»
«Oh, per te, basta che uno sia ricco perché abbia sempre ragione.
Sembra quasi che i ricchi siano fatti di una pasta diversa dalla
nostra.»
«Non dire così» rispose Morel con dolcezza; «dico anzi che anche
loro hanno dei difetti; e noi abbiamo i nostri.»
«Il guaio è che non sappiano... Il guaio è che ci siano per esempio
un mucchio di agenti per scoprire i mascalzoni che commettono dei
delitti, e che non ci sia invece nessun agente per scoprire gli
operai onesti che sono carichi di figli e che, trovandosi nella più
nera miseria, possono a volte cadere in tentazione per non avere
ricevuto in tempo un po’ di aiuto. È giusto punire il male, ma forse
sarebbe meglio prevenirlo. Tu ti sei mantenuto onesto fino a
cinquant’anni; ma l’estrema miseria e la fame ti spingono al male,
ed ecco un farabutto di più; mentre se avessero saputo... Ma a che
pro stare lì a pensarci?... Il mondo è così. Io sono una povera
disperata, quindi parlo così; se fossi ricca, parlerei di feste e di
piaceri.»
«Be’, come stai, povera moglie mia?»
«Sempre lo stesso... Non mi sento più le gambe. Ma tu hai freddo;
riprenditi la giacca, e spegni la candela che si sta consumando per
niente; è giorno ormai.»
Infatti un pallido chiarore filtrava faticosamente attraverso la
neve che copriva il vetro dell’abbaino, nell’interno del
bugigattolo, diffondendovi una luce triste che lo rendeva ancora più
squallido. Almeno una buona parte di quella miseria era avvolta
nell’ombra della notte.
«Aspetterò che faccia più chiaro per rimettermi a lavorare» disse il
lapidario sedendosi sulla sponda del pagliericcio della moglie e
prendendosi la testa tra le mani.
Dopo qualche minuto di silenzio, Madeleine gli disse:
«Quand’è che la signora Mathieu verrà a prendere le pietre preziose
che stai lavorando?».
«Questa mattina. Mi resta solo da levigare la faccetta di un
diamante falso.»
«Un diamante falso!... tu che tagli solo quelli veri, nonostante in
questa casa si creda il contrario!»
«Come! non sai?... Hai ragione, tu dormivi quando l’altro giorno è
venuta la signora Mathieu. Ella mi ha dato dieci diamanti falsi,
cioè dieci pietre del Reno perché le tagliassi proprio della stessa
grossezza e della stessa forma dell’egual numero di diamanti veri
che mi ha portato, e che adesso sono lì assieme ai rubini. Non ho
mai visto diamanti di più bell’acqua; quei dieci diamanti valgono
sicuramente più di 60.000 franchi.»
«E perché te ne fa fare delle imitazioni?»
«Sono di una gran signora, una duchessa credo, che ha incaricato il
gioielliere Baudoin di venderle la collana e di fargliene,
in cambio, una falsa. La signora Mathieu, che è la sensale di pietre
preziose del signor Baudoin, mi ha riferito la cosa all’atto di
consegnarmi le pietre vere, ordinandomi di dare alle false lo stesso
taglio e la stessa forma; la signora Mathieu ha incaricato altri
quattro tagliatori per fare il lavoro, perché ce ne saranno quaranta
o cinquanta da tagliare. Il lavoro doveva essere pronto per
stamattina e io da solo non potevo farcela; il signor Baudoin, poi,
deve avere il tempo di montare le pietre false. La signora Mathieu
ha detto che spesso le signore fanno sostituire di nascosto i loro
diamanti con pietre del Reno.»
«Allora le pietre false non si distinguono da quelle vere; però alle
grandi dame che si mettono quegli aggeggi per farsi belle non
verrebbe mai in mente di sacrificare un diamante per aiutare della
povera gente come noi!»
«Povera moglie mia! sii ragionevole, il dolore ti rende ingiusta.
Chi sa che noi Morel siamo della povera gente?»
«Oh, che uomo, che uomo! Se ti facessero a pezzi, risponderesti
ancora con un grazie.»
Morel alzò le spalle con compassione.
«Quanto ti darà la signora Mathieu questa mattina?» «Niente, perché
mi ha già dato un anticipo di 120 franchi.» «Niente! Ma gli ultimi
venti soldi li abbiamo finiti ieri.»
«Sì» disse Morel con aria abbattuta.
«E come faremo, allora?»
«Non so.»
«E il fornaio non vuole più farci credito...»
«No, infatti ieri sera mi sono fatto prestare un quarto di pane
dalla signora Pipelet.»
«E comare Burette non potrebbe prestarci qualcosa?»
«Farci un prestito! Ora che ha in pegno tutta la nostra roba,
su che cosa potrebbe farci credito?... sui nostri figli?» disse
Morel con un amaro sorriso.
«Ma mia madre, tu e i bambini, ieri non avete mangiato una libbra e
mezzo di pane in tutto! Non potete morire di fame. Anche questa è
colpa tua: quest’anno non hai voluto iscriverti all’ente di
assistenza.»
«Vi si possono iscrivere solo i poveri che hanno dei mobili, e noi
non ne abbiamo più; ci considerano come se fossimo in una camera
ammobiliata. La stessa cosa succede se si vuole essere ammessi
all’ospedale dei poveri; bisogna che i bambini abbiano almeno una
camiciola, e i nostri invece hanno solo degli stracci addosso; e
poi, prima di essere iscritto all’ente di assistenza, sarei
dovuto andare su e giù almeno venti volte, visto che non abbiamo
raccomandazioni. E la cosa mi avrebbe fatto perdere più tempo di
quanto valesse la pena.»
«Ma come faremo, allora?»
«Forse, la signora che è venuta ieri si ricorderà di noi.»
«Sì, contaci. Ma la signora Mathieu potrebbe però prestarti
cento soldi... lavori per lei da dieci anni; non può lasciare in una
situazione così disperata un onesto operaio e con una famiglia sulle
spalle, per giunta.»
«Non credo che possa prestarci qualcosa. Ha già fatto molto,
anticipandomi un po’ alla volta centoventi franchi: è una grossa
somma per lei. Non è detto che sia ricca, perché, essendo sensale di
diamanti, ha qualche volta nella borsa un valore di 50.000 franchi.
Quando arriva a guadagnare cento franchi al mese è contentissima, ma
ha gente a carico, nonché due nipotine da allevare. Vedi, cento
soldi per lei sono come cento soldi per noi, e ci sono dei momenti
in cui uno non li ha, lo sai anche tu. Avendomi già anticipato
tanto, lei non può certo togliersi il pane di bocca né toglierlo ai
suoi.»
«Ecco che cosa vuol dire lavorare per i sensali, anziché per i
grandi gioiellieri; a volte essi non vanno tanto per il sottile. Ma
tu ti lasci sempre mangiare la zuppa in testa, è colpa tua.»
«Colpa mia!» esclamò lo sventurato, esasperato dall’ingiusto
rimprovero; «è tua madre, sì o no, la causa di tutti i nostri guai?
Se non ci fosse stato da pagare il diamante che ha perduto, ci
saremmo avvantaggiati, avremmo i soldi del lavoro che faccio,
avremmo i 1100 franchi presi dalla cassa di risparmio assieme ai
1300 prestatici da quel Jacques Ferrand, che Dio lo stramaledica.»
«Ti ostini ancora a non chiedergli niente, a quello là. È vero che è
tanto avaro, che forse non servirebbe a niente; comunque, è sempre
meglio tentare.»
«A lui! a lui! rivolgermi a lui» gridò Morel; «preferirei piuttosto
farmi cuocere a fuoco lento. Senti, non parlarmi più di quell’uomo
se non vuoi farmi ammattire.»
Subito dopo queste parole, la fisionomia del lapidario, di solito
dolce e rassegnata, assunse una cupa ed energica espressione, mentre
il pallido viso gli si imporporava leggermente; a un tratto si alzò
dal giaciglio dov’era seduto, e si mise a camminare nervosamente su
e giù per la soffitta. Nonostante l’aspetto gracile e deforme, in
quel momento Morel era tutto pieno di una nobile indignazione.
«Io non sono cattivo» esclamò; «in vita mia non ho mai fatto del
male a nessuno, eppure, vedi, a quel maledetto notaio,3 oh, gli
auguro tutto il male che ha fatto a me.» Poi, portatosi le mani alla
fronte, mormorò tristemente: «Dio mio! come ho potuto meritare
questa mala sorte che condanna me e tutta la famiglia a essere, con
mani e piedi legati, in potere di quell’ipocrita! Come può avere il
diritto di usare la sua ricchezza per corrompere, rovinare e
angosciare coloro che vuole corrompere, rovinare e angosciare?»
«Sì, sì» disse Madeleine, «scatenati pure contro di lui; bel
guadagno ne avrai quando ti sarai fatto mettere in prigione, cosa
che può fare da un giorno all’altro per via di quella cambiale di
1300 franchi, per la quale ha ottenuto che ti condannino. Sei come
un uccello con la zampetta legata e lui ha il filo in mano. Io lo
detesto come te, quel notaio; ma poiché ci tiene in pugno, bisogna
pure...»
«Lasciare disonorare nostra figlia, è così, vero?» gridò il
lapidario con voce tremante.
«Dio mio! non gridare, i bambini sono svegli... ti sentono.»
«Be’, be’, meglio così!» rispose Morel con brutale ironia «sarà un
bell’esempio per le due bambine, saranno preparate; manca solo che
al notaio venga voglia anche di loro! Non siamo nelle sue mani, come
continui a dire tu? Su, ripeti ancora che può farci mettere in
prigione; su parla chiaro... Dobbiamo lasciargli le nostre figlie,
eh?»
E lo sventurato terminò l’imprecazione con uno scoppio di
singhiozzi; quel bravo e onest’uomo non poteva continuare ancora in
quell’amaro sarcasmo.
«O bambini miei!» esclamò tra le lacrime, «poveri bambini miei!
Louise mia! mia buona e bella Louise!... troppo bella, troppo
bella!... Anche da ciò derivano le nostre disgrazie. Se non fosse
stata così bella, quell’uomo non si sarebbe offerto di prestarmi il
denaro. Io sono onesto e lavoratore, il gioielliere m’avrebbe dato
tempo e adesso non avrei obblighi con quel vecchio mostro, né lui
approfitterebbe del favore fattoci per tentare di disonorare mia
figlia; neppure un giorno di più l’avrei lasciata a casa sua. Ma non
c’è niente da fare, non c’è niente da fare, sono in suo potere. Oh,
la miseria! quanti bocconi amari fa inghiottire la miseria!»
3 Ricordiamo al lettore che Fleur-de-Marie, affidata in un primo
momento al notaio Jacques Ferrand, era stata abbandonata dalla
governante di costui alla Chouette, la quale avrebbe dovuto
prendersi cura della bambina dietro compenso di mille franchi.
«Ma allora come fare? egli ha detto a Louise: “Se te ne vai, faccio
mettere tuo padre in prigione”.»
«Già le dà del tu come all’ultima delle donne.»
«Se fosse solo questo, ci faremmo una ragione; ma se lei se ne va,
il notaio ti farà arrestare, e allora, mentre tu sarai in prigione,
cosa ne sarà di me, sola, con i bambini e mia madre? Quand’anche
Louise trovasse un altro posto e guadagnasse venti franchi al mese,
potrebbero sei persone vivere con questi soldi?»
«Sì, e proprio per vivere, forse, lasciamo che Louise venga
disonorata.»
«Tu esageri sempre; il notaio le sta attorno, è vero... ce l’ha
detto lei, ma è onesta, lo sai.»
«Oh, sì, è onesta, laboriosa e buona!... Quando ci ha visto in
difficoltà per via della tua malattia, ha voluto cercarsi un posto
per non restare a carico e non ti dico, no, quanto m’è costato!...
Lei serva... maltrattata, umiliata!... lei di temperamento così
superbo, tanto che per ridere... ti ricordi? allora ridevamo, la
chiamavamo la Principessa, perché diceva sempre che, a forza di
pulirlo, avrebbe fatto del nostro bugigattolo un palazzo... Cara
figliola, sarebbe stato un lusso tenermela in casa, anche se avessi
dovuto lavorare di notte... Anche perché, quando vedevo la sua dolce
faccina rosa e i suoi begli occhi scuri davanti a me, vicino al mio
banco, e la sentivo cantare, il lavoro non mi sembrava più faticoso!
Povera Louise, tanto brava e tanto allegra anche... Perfino tua
madre faceva ciò che lei voleva!... Caspita, anche quando ci
parlava, ci guardava, non potevamo non essere d’accordo con lei... E
te, come ti curava! come ti divertiva! e non si occupava mai
abbastanza dei suoi fratelli e sorelle!... Trovava il tempo per fare
tutto. E così, con Louise, che era tutta la nostra felicità...
abbiamo perso tutto.»
«Senti, Morel, non farmici pensare... mi spezzi il cuore» disse
Madeleine, piangendo a calde lacrime.
«E pensare che forse quel vecchio mostro... Ecco, vedi... se ci
penso mi dà di volta il cervello... Mi vien la voglia di andare lì a
ucciderlo e poi di uccidermi.»
«E che ne sarebbe di noi? E poi, ti torno a dire che sei esagerato.
Il notaio forse potrà aver detto qualcosa a Louise così per
scherzare... D’altra parte, va a messa tutte le domeniche ed è molto
con i preti... Molta gente dice che il denaro messo da lui è più
sicuro che alla cassa di risparmio.»
«E con ciò, cosa si vuol dimostrare? che è ricco e ipocrita... io
conosco bene Louise... è onesta... Sì, ma ci vuole bene come po-
chi sanno volere bene: la nostra miseria le fa sanguinare il cuore.
Sa che, senza di me, morireste tutti di fame; e se il notaio l’ha
minacciata di farmi mettere in prigione... la poveretta sarà forse
stata capace di... Oh! la mia testa!... c’è da impazzire!»
«Dio mio! Se fosse successo così, il notaio le avrebbe dato denaro,
fatto regali e, certo, ella non avrebbe tenuto tutto per sé, ma
avrebbe dato qualcosa anche a noi.»
«Taci... non capisco come tu possa pensare a certe cose... Louise
accettare... Louise...»
«Ma non per lei... per noi...»
«Taci... ti ripeto, taci!... mi fai rabbrividire... Senza di me...
non so cosa ne sarebbe stato di te... e dei miei figli con le idee
che hai in testa.»
«Che cosa ho detto di male?»
«Niente.»
«Ebbene! perché hai paura che...?»
Il lapidario si spazientì e interruppe la moglie dicendo:
«Ho paura, perché ho notato che da tre mesi a questa par-
te... quando Louise viene qui, ogni volta che mi bacia, diventa
rossa.»
«Dal piacere di vederti.»
«O dalla vergogna... diventa ogni giorno più triste...»
«Perché ci vede sempre più in miseria. E poi, quando le parlo
del notaio, dice che adesso non la minaccia più di farti mettere in
prigione.»
«Già, ma a che prezzo non la minaccia più? non lo dice e intanto
diventa rossa quando mi bacia... Oh, Dio mio! farebbe già molto male
quel padrone che dicesse a una povera e onesta ragazza, che è alle
sue dipendenze: “Cedi o ti mando via; e quando verranno a prendere
informazioni su di te, dirò che sei un tipo poco raccomandabile, per
non farti trovare un altro posto...”. Ma dirle: “Cedi, o faccio
mettere in prigione tuo padre!” dirle così quando sa che tutta una
famiglia vive col lavoro del padre, oh, è cento volte più
delittuoso!»
«E pensare che, con uno dei diamanti che sono lì sul tuo banco,
potresti rimborsare il notaio, far venire via nostra figlia da casa
sua, e tenerla qui con noi...» disse lentamente Madeleine.
«A cosa serve che tu mi ripeta cento volte la stessa cosa?... Certo
che, se fossi ricco, non sarei povero» rispose Morel accorato e
spazientito.
In lui la probità era talmente connaturata, e per così dire
consustanziale, che non poteva nemmeno lontanamente pensare che
la moglie, abbattuta e inasprita dalla sventura, volesse tentare la
sua irreprensibile onestà con qualche inconfessato secondo fine.
Poi continuò con amarezza:
«Bisogna rassegnarsi. Beati coloro che possono avere vicino i propri
figli per difenderli dalle insidie; ma una ragazza del popolo chi la
difende? nessuno... Se è in età di guadagnare qualcosa, la mattina
se ne va al laboratorio e rientra la sera; intanto la madre lavora
da una parte e il padre dall’altra. Il tempo è la nostra ricchezza,
ed è così duro guadagnarci un pezzo di pane che non ci resta il
tempo di sorvegliare i nostri figli; e poi si impreca contro la
cattiva condotta delle ragazze povere... come se i genitori avessero
i mezzi per tenerle a casa, o il tempo di sorvegliarle quando sono
fuori... Gli stenti non sono nulla in confronto al dispiacere che si
prova quando si deve lasciare la moglie, il figlio, il padre... Per
noi soprattutto, che siamo povera gente, la vita di famiglia
potrebbe essere di giovamento e di conforto... E, invece, appena i
nostri figli hanno l’età della ragione, siamo costretti a
separarcene!».
In quel momento bussarono con violenza all’uscio della soffitta.
XX
IL MANDATO DI CATTURA
Stupito... il lapidario si alzò e andò ad aprire... Due uomini
entrarono nella soffitta.
Uno era alto, magro, con un’orribile faccia bitorzoluta e folti
favoriti neri che incominciavano a imbiancare; aveva in mano un
grosso bastone piombato, in testa un cappellaccio sformato e addosso
un lungo soprabito verde inzaccherato, abbottonato molto stretto.
Dal colletto di velluto nero un po’ sdrucito veniva fuori un collo
lungo, rosso e pelato come quello di un avvoltoio... Il nome di
quest’uomo era Malicorne.
L’altro era più piccolo, rosso, grosso, panciuto e con una faccia
non meno losca; vestiva con una specie di sfarzo grottesco. Portava
una camicia non proprio pulita con pieghe tenute assieme da bottoni
brillantati, mentre attraverso lo sparato di un cappotto di un panno
grigio ingiallito si vedeva zigzagare su un panciotto scozzese di
stoffa sbiadita una lunga catena d’oro... Costui, invece, si
chiamava Bourdin.
«Oh! che puzza di miseria e di morte c’è qui;» disse Malicorne
fermandosi sulla soglia.
«Certo che non c’è profumo di museo qui dentro! Bei clienti!»
ribatté Bourdin con un gesto di disgusto e disprezzo; poi si
avvicinò all’artigiano che lo guardava sorpreso e indignato.
Dall’uscio socchiuso fece capolino il viso cattivo, scaltro e
curioso di Tortillard che, senza farsi notare, aveva seguito i due
sconosciuti per venire a guardare, ascoltare e spiare.
«Cosa volete?» disse seccamente il lapidario, indignato dalla
villania dei due uomini.
«Jérôme Morel?» rispose chiedendo Bourdin. «Sono io.»
«Lapidario di mestiere?»
«Sono io.»
«Sicuro?»
«Vi ripeto che sono io... Mi fate perdere la pazienza... che
volete?... spiegatevi o uscite!»
«Quanta gentilezza!... grazie!... ehi, Malicorne» riprese l’uomo
voltandosi verso il collega, «non c’è lusso... qui... non è come a
casa del visconte di Saint-Remy.»
«Già... ma quando c’è lusso, si trova la porta chiusa... come
l’abbiamo trovata in rue de Chaillot. Il tipo se l’era squagliata il
giorno prima... e alla svelta anche, mentre la gentaglia come questa
resta attaccata alla sua topaia.»
«Per forza; questi non vedono l’ora di essere messi dentro per avere
da mangiare.»
«Il creditore dev’essere proprio scemo; la cosa gli costerà più di
quanto valga... sono affari suoi, comunque.»
«Sentite» disse Morel indignato, «se non foste ubriachi come
sembrate, mi avreste già fatto andare in bestia... Uscite subito da
casa mia!»
«Ah, ah! è straordinario, lo storpio!» esclamò Bourdin con
un’allusione ingiuriosa alla figura sciancata del tagliatore. «Hai
sentito, Malicorne, ha avuto la faccia tosta di chiamare casa sua un
tugurio dove io non ci lascerei nemmeno il mio cane...»
«Mio Dio! mio Dio!» esclamò Madeleine che per lo spavento non era
riuscita ancora a dire una parola, «chiama aiuto... possono essere
dei mascalzoni... Stai attento ai diamanti...»
Infatti, vedendo che i due loschi figuri s’avvicinavano sempre di
più al banco dove si trovano le pietre preziose e temendo qualche
brutto colpo, Morel corse al tavolo e coprì i diamanti con le mani.
Tortillard, non avendo cessato di stare in agguato e in ascolto,
aveva potuto carpire le parole di Madeleine e notare la reazione che
aveva avuto l’artigiano alle parole della moglie e:
«Guarda... guarda... guarda...» si disse, «dicevano che era
tagliatore di pietre false; ma se le pietre fossero false, non
avrebbe paura di essere derubato... Buono a sapersi: allora comare
Mathieu, che viene spesso qui, è sensale di roba buona... Quindi
sono veri i diamanti che ha nella sporta... Buono a sapersi; lo dirò
alla Chouette, alla Chouette» disse il figlio di Bras-Rouge
canticchiando.
«Se non uscite subito da qui, chiamo una guardia» disse Morel.
I bambini, impauriti, cominciarono a piangere; la vecchia ebete
intanto s’era rizzata a sedere...
«Se c’è qualcuno che ha il diritto di chiamare le guardie... siamo
noi... chiaro, signor storpio?» disse Bourdin.
«Visto che le guardie devono darci man forte per portarvi via, nel
caso che voi facciate resistenza» aggiunse Malicorne. «Non abbiamo
il giudice conciliatore con noi, è vero; ma se ci tenete tanto alla
sua compagnia, ve lo serviremo tiepido ancora del letto, o meglio
bello caldo e bollente... Bourdin, va’ a chiamarlo.»
«In prigione... io?» gridò Morel sorpreso.
«Sì... a Clichy.»
«A Clichy?» ripeté l’artigiano sconvolto.
«Che capoccia dura ha questo qua!» disse Malicorne.
«In prigione per debiti... preferite così?» riprese Bourdin. «Voi...
voi... sareste... come... il notaio... Ah, Dio mio!»
E l’operaio si lasciò cadere sullo sgabello pallido come un morto e
restò lì senza avere la forza di articolare una parola.
«Siamo due guardie e siamo qui per portarvi via, ammesso che ne
siamo capaci... avete capito adesso, compare?»
«Morel... la cambiale del padrone di Louise!... Siamo perduti!»
gridò Madeleine con voce straziante.
«Ecco il mandato di cattura» disse Malicorne, tirando fuori dal
portafoglio un atto bollato.
E si mise subito a leggere: la prima parte dell’istanza fu letta,
come era d’uso, con voce salmodiante e pronuncia quasi
inintelligibile, mentre la seconda, ahimè, anche troppo
significativa per l’artigiano, fu letta a voce chiara e distinta:
Giudicando in ultima istanza, il tribunale condanna il signor Jérôme
Morel a pagare al negoziante Pierre Petit-Jean4 con tutte
4 L’astuto notaio, non potendo ricorrere al suo nome per perseguire
il povero Morel, gli aveva fatto firmare quella che si chiama una
cambiale in bianco, e poi l’aveva fatta riempire da un terzo.
le conseguenze di legge e anche con l’arresto, la somma di
milletrecento franchi con gli interessi a decorrere dal giorno del
protesto, e lo condanna inoltre alle spese.
Fatto e giudicato in Parigi, il 13 settembre 1838.
«E Louise, allora? e Louise?» gridò Morel quasi fuori di sé, non
curandosi di afferrare il senso oscuro di quelle parole, «dov’è? Se
il notaio mi fa imprigionare, vuol dire allora che lei se n’è
andata?... Mio Dio, Louise! Che ne sarà di lei?»
«Chi è questa Louise?» chiese Bourdin.
«Lascialo stare» replicò brutalmente Malicorne, «non vedi che sta
dando i numeri? Su, coraggio» disse poi, avvicinandosi a Morel, «su,
per fila sinist... avanti, march... muoviamoci; ho bisogno di
prendere aria, qua dentro si asfissia.»
«Morel, non andarci. Difenditi!» gridò Madeleine fuori di sé.
«Ammazzali, quei mascalzoni. Oh, come sei vigliacco!... Non farti
portar via! non abbandonarci!»
«Signora, fate come se foste a casa vostra» disse Bourdin con tono
sardonico. «Ma se vostro marito mi mette le mani addosso, con un
pugno ve lo stendo.»
Morel, che pensava solo a Louise, non udiva quello che dicevano
intorno a lui. Ma a un tratto esclamò, atteggiando il volto a gioia
amara:
«Louise, allora, ha lasciato la casa del notaio... Andrò in prigione
volentieri...» Poi gettò uno sguardo attorno e aggiunse: «E mia
moglie... e sua madre... e i miei bambini... chi darà loro da
mangiare? Non mi daranno certo da tagliare pietre preziose in
prigione... penseranno che io sia dentro per disonestà... Ma allora
il notaio vuole proprio la morte dei miei, di noi tutti?».
«Vogliamo o non vogliamo finirla?» disse Bourdin, «alla fine uno si
secca... Vestitevi e filiamo.»
«Buoni signori, scusatemi per quello che vi ho detto poco fa!» gridò
Madeleine dal suo giaciglio. «Non potete avere il coraggio di
portare via Morel... che ne sarà di me, dei miei bambini e di mia
madre che è pazza? ecco, guardatela... là accovacciata sul
materasso! è pazza, buoni signori... è pazza...»
«La vecchia rapata?»
«To’, è vero, è rapata» disse Malicorne; «credevo che avesse una
cuffia bianca...»
«Bambini, gettatevi ai piedi di questi buoni signori» gridò
Madeleine, che voleva fare un ultimo tentativo per commuovere i
due funzionari; «pregateli di non portare via vostro padre... il
nostro solo sostegno.»
I bambini, sordi agli ordini della madre, continuavano a piangere
spaventati e non accennavano a uscire dal loro giaciglio.
Per via dell’insolito baccano e della presenza dei due sconosciuti
funzionari, l’idiota s’era rincantucciata contro il muro e aveva
cominciato a gettare sordi ululati.
Sembrava che Morel fosse estraneo a quanto gli succedeva attorno; il
colpo era così terribile e inaspettato, le conseguenze dell’arresto
gli sembravano talmente spaventose, che non poteva crederci... Le
forze, già deboli per tutte le privazioni subite, adesso gli
venivano meno; ed egli restava lì, seduto sullo sgabello, pallido e
torvo, piegato su se stesso, con le braccia penzoloni e la testa
ciondoloni sul petto...
«Ma insomma, fulmini e tuoni!... quando finirà questa storia?» gridò
Malicorne. «Credete che siamo qui per divertirci? Sbrigatevi, se no
vi prendo io.»
E il funzionario prese Morel per le spalle e lo scosse brutalmente.
Le minacce, e quest’ultimo gesto, portarono al colmo la paura dei
bambini; subito i tre maschietti si precipitarono mezzo nudi fuori
dal pagliericcio, e andarono a gettarsi ai piedi delle guardie
supplicando con le mani congiunte e gridando con voce straziante:
«Pietà, non uccidete il nostro babbo!...».
Al vedere quei poveri bambini che tremavano per il freddo e per la
paura, Bourdin, nonostante la congenita durezza e l’abitudine che
aveva a simili scene, si sentì quasi commosso. Il collega non solo
restò insensibile, ma respinse brutalmente dalle sue gambe le
braccia dei bambini che volevano abbracciargliele per supplicarlo.
«Su, via, marmocchi!... Che mestieraccio il nostro, se si dovesse
sempre fare con pezzenti come questi!...»
Lo spettacolo fu reso ancora più raccapricciante da un orribile
episodio. A un tratto si udì gridare la più grande delle bambine che
era rimasta sul pagliericcio con la sorella ammalata:
«Mamma, mamma, non so che cosa ha... Adèle... È fredda! Continua a
guardarmi... ma non respira più...»
La povera tisica era spirata dolcemente, senza un lamento, con lo
sguardo sempre fisso sulla sorella che amava teneramente...
È impossibile ridire il grido che gettò la moglie del lapidario a
quella terribile rivelazione; aveva capito al volo.
Fu un grido angoscioso, convulso, strappato dal più profondo delle
viscere di una madre.
«Mia sorella sembra morta! mio Dio, mio Dio! ho paura!» gridò la
bambina precipitandosi fuori dal giaciglio e per lo spavento andò a
rifugiarsi tra le braccia della madre.
Costei, pur sapendo di avere due gambe quasi paralizzate che non
potevano sorreggerla, fece uno sforzo violento per alzarsi e correre
accanto alla figlia morta; ma, mancandole le forze, cadde per terra
gettando un ultimo grido di disperazione.
Il grido riecheggiò nel cuore di Morel e lo scosse dal suo torpore;
con un balzo fu accanto al pagliericcio, e ne trasse fuori il corpo
della sua bambina di quattro anni...
Era morta davvero.
Il freddo e la miseria ne avevano affrettato la fine... comunque, il
suo male, frutto della miseria, era mortale.
Le sue povere e piccole membra erano già gelide e stecchite...
PARTE QUARTA
I LOUISE
Morel, con i capelli irti per la disperazione e per lo spavento, era
rimasto immobile con la morticina fra le braccia. La contemplava con
due occhi rossi sbarrati ma senza lacrime.
«Morel, Morel... dammi Adèle!» gridava la sventurata madre tendendo
le braccia verso il marito. «Non è vero... no, non è morta... vedrai
che adesso la riscaldo...»
Siccome il lapidario non voleva staccarsi dal corpo della figlia, i
due funzionari si avvicinarono a Morel per fargli fretta. La vecchia
scema, allora, incuriosita, smise di urlare; si alzò quindi dal
giaciglio, si avvicinò lentamente e giunta vicino a Morel poggiò
l’orribile faccia inebetita sulle spalle di lui... poi per qualche
istante la nonna stette a contemplare il cadavere della nipotina...
Sul suo volto c’era sempre quella solita espressione di selvaggia
stupidità; di lì a un po’ l’idiota emise una specie di mugolio
cavernoso e rauco come quello di una bestia affamata: poi, ritornò
al giaciglio e vi si gettò sopra gridando:
«Fame! fame!»
«Guardate, signori, guardate la mia povera bambina di quattro anni,
Adèle... Adèle si chiama. Pensare che ieri sera mi ha baciato; e
questa mattina... Ecco! voi mi direte che, comunque, è una bocca in
meno da sfamare, e che sono fortunato, vero?» disse l’artigiano con
aria truce.
La catena delle numerose disgrazie aveva finito coll’intaccargli la
ragione.
«Morel, voglio mia figlia; dammela!» gridò Madeleine.
«È giusto, tocca a te» rispose il lapidario e andò a posare la
bambina tra le braccia della moglie.
Poi si nascose il volto tra le mani e cominciò a gemere. Madeleine,
non meno sconvolta del marito, si mise a covare con uno sguardo
carico di feroce gelosia il corpo della figlia che aveva nascosto
nella paglia del giaciglio: gli altri figlioli stavano inginocchiati
intorno e singhiozzavano.
Passato il primo momento di commozione per la morte della bambina,
le guardie si lasciarono riprendere dalla loro solita brutale
crudeltà.
«Su, amico» disse Malicorne, «vostra figlia è morta, è una
disgrazia; ma siamo tutti mortali; non possiamo farci nulla e
nemmeno voi... Dovete seguirci; abbiamo ancora un altro individuo da
pizzicare; oggi la selvaggina è abbondante.»
Morel non lo udiva.
Completamente immerso in pensieri di morte, l’artigiano si stava
dicendo con voce sorda e agitata:
«Bisognerà pur seppellire la mia bambina... vegliarla... qui...
finché non verranno a prenderla... Seppellirla! ma con che cosa? non
abbiamo nulla... E la cassa da morto?... Chi ci farà credito? Oh,
una cassa piccola, piccola... per una bambina di quattro anni... non
costerà molto e poi niente carro funebre... la si prende sotto il
braccio Ah, ah, ah» aggiunse scoppiando in una macabra risata, «come
sono fortunato... avrebbe potuto morire a diciott’anni, all’età di
Louise, ma allora non avrei trovato chi mi facesse credito per una
cassa grande...»
«Ma dico, un momento! questo qui è capace di perdere la testa» disse
Bourdin a Malicorne; «guarda che occhi ha... fa paura... Andiamo,
forza!... e la vecchia scema che urla per la fame!... Che
famiglia!...»
«Comunque bisogna finirla... È vero che la tariffa per l’arresto di
questo miserabile è di 76 franchi e 75 centesimi, ma noi ci rifaremo
con le spese, e la porteremo, come è giusto, a 240 o 250 franchi.
Tanto paga il creditore...»
«Di’ piuttosto che il creditore avanza: sarà, infatti, il tipo qui a
pagare le spese... proprio lui si prenderà questa batosta.»
«Prima che quello lì possa pagare 2500 franchi al suo creditore con
interessi, spese e tutto ne passerà dell’acqua...»
«Intanto qui fa un freddo cane» disse uno dei due funzionari
soffiandosi sulle dita. «Impacchettiamolo e facciamola finita;
piagnucolerà per strada... È colpa nostra, se gli è crepata la
figlia?...»
«Quando si è miserabili come loro, non si fanno bambini!»
«Così imparerà!» aggiunse Malicorne; quindi mise una mano sulla
spalla di Morel e gli disse: «Su, coraggio, amico, non abbiamo tempo
da perdere; visto che non potete pagare, in prigione, via!»
«Il signor Morel in prigione!» esclamò in quel momento una voce
giovanile e argentina. E subito entrò nella soffitta una ragazza:
era bruna, fresca, rosea e senza cuffia in testa.
«Ah, signorina Rigolette» disse piangendo uno dei bambini, «voi che
siete così buona, salvate il nostro babbo; vogliono portarlo in
prigione e la nostra sorellina è morta...»
«Adèle è morta!» esclamò la ragazza, e i suoi grandi occhi neri e
scintillanti si velarono di lacrime. «Vostro padre in prigione! non
è possibile...»
E rimase a guardare perplessa ora il lapidario, ora la moglie di
lui, ora gli agenti.
Bourdin si avvicinò a Rigolette.
«Bella ragazza, voi che siete calma, fate intendere ragione a questo
galantuomo; gli è morta la figlia, d’accordo! a ogni modo deve
venire con noi a Clichy... in prigione per debiti: noi siamo
guardie...»
«È vero allora?» esclamò la ragazza.
«Verissimo! la madre ha a letto con sé la piccola; non si può
prendergliela; questo serve a distrarla... Il padre dovrebbe
approfittarne per venire via.»
«Dio mio! Dio mio, che disgrazia!» esclamò Rigolette, «che
disgrazia! come fare?»
«Pagare o andare in prigione, non c’è via di mezzo; voi avete da
prestare loro due o tre biglietti da mille?» chiese Malicorne con
tono beffardo; «se li avete, passate dalla vostra cassa e fatevi
scucire i baiocchi, noi non chiediamo di meglio.»
«Oh è terribile» esclamò Rigolette indignata... «Come si può
scherzare davanti a una simile disgrazia!»
«Bene, senza scherzi» riprese l’altro funzionario, «se volete essere
utile a qualcosa, fate in modo che la moglie non veda che portiamo
via suo marito. Risparmierete a tutti e due un brutto quarto d’ora.»
Per quanto brutale, era un buon consiglio; Rigolette, per seguirlo,
si avvicinò a Madeleine. Costei era così stravolta dalla
disperazione che non diede a vedere d’essersi accorta che la ragazza
s’era inginocchiata vicino al giaciglio coi bambini.
Morel s’era un po’ riavuto dal suo smarrimento, ma era ripiombato in
penosissime riflessioni; poté contemplare con più calma quanto fosse
orribile la sua situazione. Per arrivare a tanto, il notaio doveva
essere spietato; quanto ai funzionari, essi facevano solo il loro
mestiere.
L’artigiano si rassegnò.
«E allora, vogliamo o non vogliamo andare una buona volta?» disse
Bourdin.
«Non posso lasciare qui i diamanti; mia moglie è mezzo pazza» disse
Morel mostrando i diamanti sul banco. «La sensale per
cui lavoro verrà a prenderseli in mattinata o in giornata al
massimo, hanno un valore considerevole.»
«Bene» disse Tortillard che era sempre stato a spiare dalla porta
socchiusa, «bene, bene, bene, lo faremo sapere alla Chouette.»
«Datemi tempo fino a domani» continuò Morel, «in modo che
possa consegnare i diamanti.»
«Impossibile! e finiamola una volta per sempre!»
«Ma se lascio qui i diamanti, c’è il rischio che vadano per-
duti.»
«Portateli con voi. Di sotto abbiamo una carrozza, che paghe-
rete voi con le spese. Andremo a casa della vostra sensale: se lei
non c’è, li depositerete alla cancelleria di Clichy; saranno sicuri
come in banca... Su, spicciamoci; dobbiamo svignarcela senza essere
visti da vostra moglie e dai vostri figli.»
«Datemi tempo fino a domani, in modo che possa seppellire la mia
creatura!» supplicò ancora Morel con voce rotta dalle lacrime che
tratteneva a stento.
«Il funerale vi affliggerebbe ancora di più» aggiunse Malicorne.
«No!... abbiamo già perso un’ora qui...»
«Ah, sì... mi affliggerebbe» disse Morel con amarezza. «Avete
proprio tanta paura di rattristare la gente, voi... Allora,
un’ultima parola.»
«Sentiamo, perdio! sbrigatevi intanto!...» disse Malicorne con
brutale impazienza.
«Quando avete ricevuto l’ordine di arrestarmi?»
«Il mandato di cattura è stato emesso quattro mesi fa, ma solo ieri
il nostro usciere ha ricevuto dal notaio l’ordine di metterlo in
atto...»
«Solo ieri?... perché cosi tardi?...»
«Che ne so io?... Su, prendete la vostra roba!»
«Ieri!... e Louise non s’è fatta ancora viva: dove sarà? che ne
è di lei?» disse il tagliatore mentre tirava fuori da sotto il banco
una scatola di cartone piena di bambagia, perché doveva metterci
dentro le pietre preziose. «Ma non pensiamoci... Avrò tempo di
pensarci in prigione.»
«Forza, sbrigatevi a fare il vostro pacchetto e vestitevi!»
«Non ho pacchi da fare, ho solo da portar via questi diamanti per
consegnarli in cancelleria.»
«Vestitevi, allora!...»
«Ho solo questi vestiti.»
«Volete uscire con questi stracci?» disse Bourdin.
«Vi vergognerete certo di me?» disse il tagliatore con amarezza.
«No, dato che andremo con la vostra carrozza» rispose Malicorne.
«Papà, la mamma ti chiama» disse uno dei bambini.
«Ascoltate» disse rapidamente e a voce bassa Morel rivolgendosi a
uno dei funzionari, «non siate disumano... concedetemi un’ultima
grazia. Non ho il coraggio di salutare mia moglie e i miei figli, mi
si spezzerebbe il cuore... se si accorgono che mi portate via, mi
correranno dietro. Vorrei evitare questo fatto. Vi supplico, ditemi
ad alta voce che ritornerete fra tre o quattro giorni e fingete di
andarvene... aspettatemi poi al piano di sotto... fra cinque minuti
sarò da voi... cosi eviterò gli addii, non ce la farei altrimenti,
ve l’assicuro... Diventerei pazzo... per poco prima non lo sono
diventato.»
«Trucco vecchio!... volete farmi uno scherzetto!...» disse Malicorne
«volete squagliarvela, eh, vecchio burlone.»
«Oh, Dio mio!... Dio mio!» esclamò Morel sdegnato e addolorato.
«Non credo che conti balle» disse sottovoce Bourdin al collega;
«facciamo come vuole lui, altrimenti non usciremo più da qui;
d’altra parte io resterò qui fuori della porta... la soffitta non ha
altre uscite, non può scapparci.»
«Va bene, ma che i fulmini lo inceneriscano!... che scocciatura, che
scocciatura!...» Poi si rivolse a Morel e disse piano:
«D’accordo, vi aspettiamo al quarto piano... fate la vostra parte e
sbrighiamoci».
«Vi ringrazio» rispose Morel.
«Va bene» riprese Bourdin più forte, guardando l’artigiano con aria
d’intesa, «visto che è cosi e ci promettete di pagare, vi lasciamo:
ritorneremo fra cinque o sei giorni... ma allora dovete essere
puntuale!»
«Sì, signori, per allora spero di poter pagare» rispose Morel. I
funzionari uscirono.
Quando vide venire verso la porta della soffitta le due guardie,
Tortillard, per non farsi sorprendere, era sparito giù per le scale.
«Signora Morel, avete sentito?» disse Rigolette, rivolgendosi alla
moglie del lapidario coll’intento di strapparla alla sua lugubre
contemplazione, «lasciano in pace vostro marito; quei due uo-
mini sono usciti.»
«Mamma, hai sentito? non portano più via il babbo» riprese il
maggiore dei maschi.
«Morel! senti, senti... Prendi uno dei diamanti grossi, nessuno se
n’accorgerà e noi saremo salvi» mormorò Madeleine ormai in delirio.
«La nostra piccola Adèle non avrà più freddo, non sarà più morta...»
Il lapidario, intanto, era sgattaiolato fuori approfittando di un
momento in cui i suoi erano tutti distratti.
La guardia lo aspettava fuori, su una specie di pianerottolo dove il
tetto della casa faceva da soffitto.
Sul pianerottolo s’apriva la porta di un solaio che faceva come da
prolungamento alla soffitta dei Morel, e in cui il signor Pipelet
metteva le sue riserve di cuoio. Inoltre (l’abbiamo già detto), il
bravo portiere chiamava quel bugigattolo «il palco del melodramma»
perché attraverso un buco praticato nel tramezzo, fra due assi, egli
poteva qualche volta assistere alle tristi scene che si svolgevano
dai Morel.
La porta del solaio fece pensare al funzionario, che l’aveva notata,
che il prigioniero aveva forse sperato di approfittare di
quell’uscita per sfuggire o per nascondersi.
«Su! in marcia bel tomo» disse posando un piede sul primo gradino
della scala; e fece segno al tagliatore di seguirlo.
«Ancora un minuto, di grazia!» disse Morel.
E s’inginocchiò; poi, congiunte le mani e incollato l’occhio a una
fessura della porta, gettò un ultimo sguardo sulla sua famiglia
mentre con voce bassa, straziante e carica di pianto diceva:
«Addio, povere creature mie... addio! povera moglie mia... addio!».
«Ma dico, quando la finirete con queste lagne?» disse brutalmente
Bourdin, «Malicorne ha ragione, che scocciatura, che scocciatura!»
Morel si alzò; stava per seguire il funzionario quando per la tromba
delle scale risuonarono queste parole:
«Papà! papà!»
«Louise!» gridò il tagliatore, levando le mani al cielo. «Potrò
almeno baciarti prima di andarmene!»
«Grazie a Dio, arrivo in tempo!...» disse la voce che si stava
avvicinando sempre di più.
E si sentì la ragazza correre affannosamente su per le scale.
«State tranquilla, figliola» disse un’altra voce che veniva da più
basso ed era una voce aspra e ansimante, «se sarà necessario mi
nasconderò nell’atrio con la mia scopa e il mio vecchietto, e quei
mascalzoni non usciranno di qui se prima non avrete parlato loro!»
Il lettore avrà senz’altro riconosciuto il timbro della voce della
signora Pipelet, che, poco agile com’era, veniva dietro a Louise con
passo lento.
Un minuto dopo, la figlia del lapidario era tra le braccia del
padre.
«Sei tu, Louise! mia buona Louise» diceva Morel con le lacrime agli
occhi. «Ma come sei pallida! Dio mio, che hai?»
«Nulla, nulla...» rispose Louise balbettando. «Ho corso tanto!...
Ecco il denaro...»
«Come?»
«Sei libero!»
«Allora sapevi?...»
«Sì, sì... Prendete, signore, ecco il denaro» disse la ragazza
dando un rotolo di denaro a Malicorne.
«Ma quel denaro, Louise, quel denaro?...»
«Ti dirò tutto... stai tranquillo... Andiamo a tranquillizzare la
mamma!»
«Aspetta un momento» gridò Morel mettendosi davanti alla
porta: aveva pensato che Louise non sapeva che la sorellina era
morta. «Aspetta, prima devo parlarti... Ma quel denaro...»
«Un momento» disse Malicorne dopo aver finito di contare le monete
d’oro che intanto s’era messo in tasca. «64, 65; fanno 1300 franchi.
Avete solo questo, mammina?»
«Ma non devi solo 1300 franchi?» disse Louise, stupefatta,
volgendosi al padre.
«Sì» rispose Morel.
«Un momento» continuò il funzionario; «la cambiale è di 1300 franchi
d’accordo; la cambiale quindi è pagata, ma, le spese?... senza
l’arresto, c’è già una somma di 1140 franchi da pagare.»
«Oh, Dio mio, Dio mio!» esclamò Louise «credevo che fossero solo
1300 franchi. In seguito signore, vi darò il resto... questo a ogni
modo è un acconto abbastanza, grosso... vero, papà?»
«In, seguito... d’accordo!... quando avrete portato il denaro in
cancelleria, rilasceremo vostro padre... Su, andiamo!...»
«Lo portate via?»
«E alla svelta... È un acconto... che paghi il resto e sarà
libero... Va’ avanti, Bourdin, e via, in cammino!...»
«Pietà!... pietà!...» gridò Louise.
«Oh, che barba! ecco che ricominciano i piagnistei; parola mia
d’onore, voi ci fareste sudare anche in pieno inverno!» disse
brutalmente il funzionario. Poi si rivolse a Morel: «Se non vi
incam-
minate subito, vi prendo per il collo e vi faccio scendere le scale
di filato: è seccante, ma che ci posso fare.»
«Oh, povero papà... e io che credevo di salvarlo almeno!» disse
Louise, accasciata.
«No... No... Dio non è giusto!» esclamò il lapidario con voce
disperata, pestando i piedi con rabbia.
«Dio è giusto invece... non cessa mai d’avere pietà della brava
gente onesta che soffre» disse una voce dolce e vibrante.
E in quel momento Rodolphe apparve sull’uscio del bugigattolo, da
dove aveva assistito, non visto, alle scene che abbiamo appena
descritto.
Era pallido e profondamente commosso.
A quell’improvvisa apparizione, i funzionari fecero un passo
indietro, mentre Morel e la figlia guardavano sbalorditi lo
sconosciuto.
Rodolphe intanto aveva tirato fuori dalla tasca del panciotto un
pacchetto di banconote piegate in due e ne aveva dato tre a
Malicorne dicendo:
«Questi sono 2500 franchi; restituite alla ragazza il denaro che vi
ha dato.»
Sempre più stupito, il funzionario prese le banconote con mano
incerta, le esaminò scrupolosamente, le rigirò e infine se le mise
in tasca. Ma allo stupore e allo spavento subentrò subito l’abituale
diffidenza; e allora egli squadrò Rodolphe e gli disse:
«Sono proprio buone le vostre banconote; come mai avete con voi
tanto denaro? È vostro, almeno?» aggiunse.
Rodolphe aveva vestiti molto modesti e poi era tutto impolverato
perché era stato nel solaio del signor Pipelet.
«Ti ho detto di restituire il denaro alla ragazza» rispose Rodolphe
con voce secca e tagliente.
«Ti ho detto!!... e perché mai mi dai del tu?...» esclamò il
funzionario, avanzando minacciosamente verso Rodolphe.
«Il denaro!... il denaro!...» disse il principe afferrando Malicorne
per un polso e stringendoglielo così forte che questi, non potendo
nulla contro quella morsa di ferro, dovette piegarsi a gridare:
«Ah, mi fate male... lasciatemi!...»
«Restituisci il denaro!... Sei stato pagato, quindi vattene... senza
dire insolenze, altrimenti ti butto giù per le scale.»
«Ebbene, ecco il denaro!» disse Malicorne restituendo il rotolo alla
ragazza, «ma non datemi del tu e non fatemi del male, perché siete
più forte di me...»
«È vero... chi siete voi per darvi tante arie?» disse Bourdin,
riparandosi dietro le spalle del collega, «chi siete?»
«Chi è, brutti screanzati?... è il mio inquilino... il principe
degli inquilini, maleducati che non siete altro!» gridò la signora
Pipelet, che apparve infine tutta ansimante e con in testa la solita
parrucca bionda à la Titus. La portinaia aveva in mano un tegame di
terraglia, pieno di minestra fumante di cui voleva fare carità ai
Morel.
«Che cosa vuole questa vecchia faina?» disse Bourdin.
«Badate che se ve la prendete col mio fisico, vi salto addosso e vi
mordo» esclamò la signora Pipelet; «e poi, il mio inquilino, il
principe degli inquilini, vi sbatterà giù dalle scale, come ha
detto... e io vi spazzerò come un mucchio d’immondizia, tanto non
siete altro, voi.»
«Questa vecchia è capace di sollevare tutta la casa contro di noi.
Ci hanno pagati, abbiamo avuto il nostro, battiamocela allora!»
disse Bourdin a Malicorne.
«Eccovi i documenti» disse quest’ultimo, e gettò l’incartamento ai
piedi di Morel.
«Raccoglilo!... Sei pagato per essere onesto» disse Rodolphe e,
afferrato vigorosamente il funzionario, gli indicò l’incartamento.
Capendo da quest’altra presa vigorosa che non avrebbe potuto
misurarsi con un simile avversario, la guardia si abbassò
brontolando, raccolse i documenti e li consegnò a Morel, che li
prese
macchinalmente.
Costui credeva di sognare.
«E voi, con la forza da scaricatore che avete, badate di non ca-
dere nelle nostre mani!» disse Malicorne.
E, dopo aver mostrato i pugni a Rodolphe, fece un balzo di
dieci gradini, seguito dal suo complice, che si guardava indietro
terrorizzato.
La signora Pipelet volle allora vendicare Rodolphe delle minacce
fattegli dal funzionario; guardando il suo tegame con aria ispirata,
aveva gridato con tono da melodramma: «I debiti dei Morel sono stati
pagati... ora avranno da mangiare; non hanno più bisogno della mia
brodaglia; attenzione là sotto!!»
E sportasi dalla ringhiera, vuotò il contenuto della pentola sulla
schiena dei due funzionari, che proprio allora stavano arrivando al
primo piano.
«E giù... dunque!» aggiunse la portinaia, «eccoveli bagnati e
molli... come una zuppa... come due zuppe... Eh, eh; eh! è il caso
di dirlo...»
«Per mille diavoli!» gridò Malicorne, che era stato investito
dall’abituale preparato della signora Pipelet, «state attenta
lassù... lurida vecchia.»
«Alfred!» urlò di rimando la signora Pipelet, e la sua voce era così
aspra che avrebbe rotto i timpani a un sordo, «Alfred! picchia quei
due, vecchietto mio! hanno fatto i selvaggi con la tua Stasie
(Anastasie). Quei due indecenti... mi hanno fatto di tutto...
prendili a scopate... Di’ all’ostricaia e al liquorista di
aiutarti... A voi, a voi, a voi; al gatto, al gatto! Al ladro!...
Prendili, prendili, prendili!... Brrrrrr... uh... uh...
Picchiali!... vecchietto mio!!! bum, bum!!»
E, come coronamento alle formidabili onomatopee che erano state
accompagnate da frenetici trepestii, la signora Pipelet, trasportata
sull’ala della vittoria, aveva gettato giù dall’alto delle scale il
suo tegame di maiolica, il quale andò a rompersi al suolo con enorme
fragore e con grande spavento dei funzionari che, storditi da quelle
grida terribili, stavano scendendo gli ultimi gradini a quattro a
quattro.
«E giù dunque» gridò Anastasie ridendo a crepapelle e assumendo con
le braccia conserte il classico atteggiamento di trionfo.
Mentre la signora Pipelet si accaniva contro i due funzionari con
ingiurie e schiamazzi, Morel s’era gettato ai piedi di Rodolphe.
«Ah, signore, voi ci avete salvato la vita!... A chi dobbiamo questo
insperato aiuto?...»
«A Dio; come avete visto, non abbandona mai la brava gente.»
II RIGOLETTE
Louise, la figlia del lapidario, era molto bella, bella di una
bellezza severa. Era alta e snella, con lineamenti severi e regolari
da Giunone e con un corpo signorile e slanciato da Diana
cacciatrice. Nonostante la carnagione scura, le mani rosse e ruvide,
di forma bellissima peraltro anche se incallite dai lavori
domestici, nonostante i poveri vestiti, la ragazza aveva
quell’aspetto pieno di nobiltà, che l’artigiano, nella sua
ammirazione di padre per la figlia, soleva chiamare un’aria da
principessa.
Rinunceremo a descrivere le manifestazioni di riconoscenza, stupore
e felicità di quella famiglia al vedersi strappata in modo
così improvviso a una sorte spaventosa. Ci fu anzi un momento di
subitanea euforia che fece dimenticare la morte della bambina. Solo
Rodolphe però aveva notato l’estremo pallore di Louise e l’oscuro
assillo da cui sembrava angosciata, nonostante la libera-
zione di suo padre.
Per tranquillizzare del tutto i Morel sul loro avvenire e per
dare del suo nobile gesto una spiegazione che non compromettesse il
suo anonimato, Rodolphe condusse il lapidario sul pianerottolo e,
mentre Rigolette preparava Louise a ricevere la notizia della morte
della sorellina, gli disse:
«L’altro ieri mattina, è venuta da voi una giovane signora, vero?».
«Sì, signore, e mi è sembrata molto addolorata dello stato in cui ci
ha trovato.»
«Dopo Dio, dovete ringraziare lei, non me...»
«Davvero, signore?... quella signora...»
«È la vostra benefattrice. Sono andato spesso a casa sua a por-
tarle delle stoffe; e quando son venuto qui per prendere in affitto
una stanza al quarto piano, ho saputo dalla portinaia della vostra
triste situazione... Conoscendo la generosità di quella signora,
sono corso da lei... e ieri l’altro lei era già qui, per rendersi
conto con i suoi propri occhi dell’entità della vostra miseria; ne è
stata dolorosamente colpita; ma, siccome la vostra miseria poteva
essere il risultato di una cattiva condotta, mi ha incaricato di
prendere io stesso, e il più presto possibile, delle informazioni
sul vostro conto, volendo ella beneficiarvi in proporzione alla
vostra probità.»
«Che buona, buonissima signora! Avevo proprio ragione di dire...»
«Di dire a Madeleine: Se i ricchi sapessero! vero?»
«Come fate a sapere, signore, il nome di mia moglie?... chi vi ha
detto che...»
«Dalle sei di questa mattina,» rispose Rodolphe interrompendo Morel,
«sono nascosto nel solaio vicino alla vostra soffitta.»
«Voi... signore?»
«E ho sentito tutto, tutto, onesto ed eccellentissimo uomo!» «Dio
mio!... ma come mai eravate là?»
«In bene o in male, nessuno meglio di voi stesso poteva infor-
marmi, ho voluto vedere e sentire tutto, a vostra insaputa. Il
portiere mi aveva parlato di quello stanzino, anzi voleva cedermelo
per farne una legnaia. Stamane gli ho chiesto di visitarlo: ci sono
rimasto un’ora, e ho potuto convincermi che non c’è persona più
proba, più nobile e più coraggiosa nella rassegnazione di voi.»
«Dio mio, signore, non ho un gran merito; sono nato così e non
potrei fare diversamente.»
«Lo so: per questo vi apprezzo, ma non vi lodo... Stavo per uscire
da quel bugigattolo per liberarvi dalle guardie quando ho sentito la
voce di vostra figlia. Volevo lasciarle la soddisfazione di
salvarvi... Purtroppo, le guardie, con la loro rapacità, hanno
privato la povera Louise di questa bella soddisfazione; allora sono
venuto fuori. Proprio ieri avevo ricevuto del denaro che mi
spettava, così sono stato in grado di fare un anticipo alla vostra
benefattrice pagandovi quel disgraziato debito. Ma voi vi siete
comportato, pur in estrema miseria, in modo così onesto e degno che
il nostro interessamento non si fermerà qui, in quanto voi non lo
demeritate. Posso, a nome del vostro angelo salvatore, garantire a
voi e ai vostri un avvenire felice e tranquillo...»
«Possibile?... Ma diteci almeno il suo nome, signore! il nome, di
quest’angelo del cielo, di quest’angelo salvatore, come l’avete
chiamato voi!»
«Si, è un angelo... E avevate ragione a dire che tanto i grandi
quanto i piccoli hanno la loro croce.»
«È una signora infelice?»
«E chi non ha dispiaceri?... Ma non c’è nessun motivo perché io non
ve ne dica il nome... La signora si chiama...»
Però s’interruppe subito perché aveva pensato che la signora Pipelet
sapeva che la signora d’Harville era venuta nella casa a cercare il
comandante; quindi, per evitare pettegolezzi e indiscrezioni da
parte della portinaia, disse, dopo un attimo di silenzio:
«Vi dirò il nome della signora... ma a una condizione...». «Oh, dite
pure, signore!...»
«A condizione che non lo diciate a nessuno... capito? a nes-
suno...»
«Oh, ve lo giuro... Ma non si potrebbe almeno ringraziarla,
questa provvidenziale benefattrice degli sventurati?»
«Lo chiederò alla signora d’Harville, sono sicuro che non dirà
di no.»
«Come si chiama?»
«Marchesa d’Harville.»
«Oh, non dimenticherò mai questo nome. Sarà la mia santa...
il mio idolo. Quando penso che, grazie a lei, mia moglie e i miei
figli sono salvi!... Salvi! non tutti... non tutti... la povera e
piccola Adèle non la rivedremo più!... Ohimè! Dio mio, bisogna
comunque dire che un giorno o l’altro l’avremmo perduta, perché
ormai era condannata...»
E il lapidario si asciugò gli occhi.
«Quanto agli estremi uffici da rendere alla povera bambina, se
volete dar retta a me... ecco ciò che dovete fare... La mia stanza
per adesso è ancora libera; è grande, sana e ariosa; c’è già un
letto, potete portarci dentro tutto ciò che vi occorre perché
possiate viverci con la famiglia, sperando che nel frattempo la
signora d’Harville trovi qualcosa di meglio per sistemarvi. Il corpo
della vostra bambina può restare nella soffitta, dove questa notte
sarà vegliato e custodito, come si conviene, da un prete. Pregherò
io il signor Pipelet di soddisfare a questo triste ufficio.»
«Ma, signore, privarvi della vostra stanza!... non è il caso. Ora
che siamo tranquilli, che non ho più paura di andare in prigione...
il mio buco mi sembrerà un palazzo, soprattutto se ci resta la mia
Louise... per badare a tutto come in passato...»
«La vostra Louise non vi lascerà più. Dicevate che sarebbe stato un
lusso per voi averla sempre vicina... sarà qualcosa di più... sarà
la vostra ricompensa...»
«Dio mio, signore, è possibile? mi sembra un sogno non sono mai
stato devoto, ma un tale colpo di fortuna... un intervento così
provvidenziale... farebbe credere a chiunque!...»
«Credete in ogni caso... che cosa rischiate?»
«È vero» rispose candidamente Morel; «che cosa si rischia?» «Se il
dolore di un padre potesse essere compensabile, direi che
vi è stata tolta una figlia, ma che l’altra vi è stata restituita.»
«È giusto, signore. Adesso avremo la nostra Louise.» «Accettate la
mia stanza, vero? altrimenti come fare per la triste
veglia funebre?... Pensate a vostra moglie, che è già scossa...
lasciarla per ventiquattro ore con uno spettacolo così triste sotto
gli occhi!» «Voi pensate a tutto! a tutto!... Come siete buono,
signore!»
«Dovete ringraziare il vostro angelo benefattore; sono ispirato
dalla sua bontà. Io vi dico quello che vi direbbe lei, sono sicuro
che mi approverebbe... Così accettate, siamo d’accordo. Ora, ditemi,
questo Jacques Ferrand?...»
Morel si oscurò in volto.
«Questo Jacques Ferrand» riprese Rodolphe, «è proprio quello che fa
il notaio e abita in rue du Sentier?»
«Sì, signore. Lo conoscete?»
Poi, ripreso dai timori che aveva per la figlia Louise, Morel
esclamò:
«Dato che lo conoscete, signore ditemi... ditemi... non ho ragione
di prendermela con lui?... e chissà... se mia figlia... la mia
Louise...».
E si nascose il volto tra le mani senza finire la frase.
Rodolphe aveva capito il perché di quei timori.
«Quanto ha fatto il notaio» disse, «dovrebbe rassicurarvi: è
fuori discussione che vi ha fatto arrestare per vendicarsi dei
rifiuti da parte di vostra figlia; comunque ho motivo di credere che
sia uomo poco raccomandabile. Se le cose stanno così» disse Rodolphe
dopo un momento di silenzio, «abbiamo fiducia nella Provvidenza,
vedrete che lo punirà.»
«È molto ricco, signore, e poi è un grandissimo ipocrita.»
«Voi eravate poverissimo e disperato! e vi ha abbandonato la
Provvidenza?»
«Oh no, signore gran Dio!... non crediate che dica così per
ingratitudine.»
«Un angelo salvatore è venuto da voi... un giorno forse un
vendicatore inesorabile farà giustizia del notaio... se è
colpevole.»
In quel momento Rigolette uscì dalla soffitta; si stava asciugando
gli occhi.
Rodolphe allora le disse:
«Vero, vicina, che il signor Morel farà bene ad andare con tutta la
famiglia nella mia stanza, in attesa che la sua benefattrice, della
quale sono mandatario, non gli trovi un’abitazione più decente?»
Rigolette guardò Rodolphe, stupita.
«Come, signore, sareste tanto generoso?...»
«Sì, ma a una condizione... che dipende da voi, vicina...» «Oh, per
quanto dipende da me...»
«Ho da mettere a posto certi conti molto urgenti per il mio pa-
drone... verranno a prenderli tra poco... ho le carte giù. Mi
permettereste, in qualità di mia vicina, di fare questo lavoro da
voi... in un angolo del vostro tavolino... mentre voi fate il
vostro? io non vi disturberei, mentre i Morel con l’aiuto dei
Pipelet potrebbero sistemarsi subito da me.»
«Oh, se è solo per questo, signore, volentieri; fra vicini bisogna
aiutarsi. E voi, con quello che fate per i Morel, siete il primo a
darne l’esempio. A vostra disposizione, signore.»
«Chiamatemi vicino, altrimenti mi mettete in imbarazzo e mi
costringete a non accettare» disse Rodolphe sorridendo.
«Va bene! Posso chiamarvi vicino senza problemi, visto che lo
siete.»
«Papà, la mamma chiede di te... vieni, vieni!» disse uno dei ragazzi
che intanto era uscito dalla soffitta.
«Andate, caro signor Morel; quando qui sarà tutto pronto, vi farò
avvertire.»
Il lapidario entrò a precipizio nella soffitta.
«Adesso, vicina» disse Rodolphe a Rigolette, «devo chiedervi un
altro favore.»
«Se posso, con tutto il cuore, vicino.»
«Sono sicuro che siete un’ottima donna di casa; ora si tratterebbe
di comperare subito quanto occorre per vestire i Morel, farli
dormire e sistemarli nella mia stanza, dove ieri ho fatto portare i
miei mobili, roba da scapolo (e non è pesante). Come si potrebbe
fare per procurare subito tutto quello che voglio per i Morel?»
Rigolette rifletté un momento e poi rispose:
«In meno di due ore avrete tutto, bei vestiti già fatti, puliti, che
tengono caldo, della bella biancheria di bucato per tutta la
famiglia, due lettini per i bambini e uno per la nonna, insomma
tutto quello che occorre... ma, certo, ci vorrà molto, molto
denaro».
«Quanto?»
«Oh! al minimo... al minimo cinque o seicento franchi...»
«In tutto?»
«Ahimè! sì... vedete, ci vuole tanto denaro!» disse Rigolette
sgranando gli occhi e scuotendo il capo.
«E avremmo tutto ciò?...»
«In meno di due ore!»
«Ma allora siete proprio una fata, vicina?»
«Dio mio, no; è presto fatto... Il Temple è a due passi da qui, e
là potete trovare tutto ciò che vi serve.» «Il Temple?»
«Sì, il Temple.»
«Che cos’è?»
«Non conoscete il Temple, vicino?»
«No, vicina.»
«Eppure, è lì che la gente come voi e me va a comprare i mobili
e i vestiti, quando vuole risparmiare. È molto meno caro di altri
posti e ha anche roba buona...»
«Davvero?»
«Davvero; guardate per esempio... quanto avete pagato la vostra
prefettizia?»
«Non lo so esattamente.»
«Come, vicino, non sapete quanto vi è costata la prefettizia?» «Vi
dirò in confidenza, vicina» disse Rodolphe sorridendo,
«che io devo... Allora, capite... non posso sapere...»
«Ah, vicino, mi sa che voi non abbiate molto ordine.» «Ahimè! no,
vicina.»
«Dovete correggervi di questo difetto se volete che siamo amici, e
credo che lo saremo, sembrate così buono voi! Vedrete che non vi
dispiacerà avermi per vicina. Voi mi aiuterete... io aggiusterò...
si è vicini per questo. Avrò cura della vostra biancheria, e voi mi
darete una mano per dare la cera alla mia stanza. Io mi alzo presto
la mattina e così vi sveglierò perché non arriviate tardi al
negozio. Vi batterò sulla parete finché non mi avrete detto:
“Buongiorno, vicina!”»
«D’accordo, mi sveglierete, avrete cura della mia biancheria, e io
darò la cera alla vostra stanza.»
«E sarete ordinato?»
«Certo.»
«E quando avrete dei vestiti da comperare, andrete al Temple;
infatti, eccovi un esempio: la prefettizia vi sarà costata ottanta
franchi, suppongo; ebbene, al Temple, l’avreste avuta per trenta
franchi.»
«Ma è magnifico! Così, credete che con cinque o seicento franchi
quei poveri Morel?...»
«Saranno riforniti di tutto, benissimo e di roba che dura
moltissimo.»
«Un’idea, vicina!...»
«Sentiamo l’idea!»
«Vi intendete di oggetti casalinghi?»
«Sì, un poco» disse Rigolette con un po’ di fatuità.
«Datemi il braccio, e andiamo al Temple ad acquistare dei ve-
stiti per i Morel; vi va?»
«Oh! che gioia! povera gente; ma e il denaro?»
«Ne ho io.»
«Cinquecento franchi?»
«La benefattrice dei Morel mi ha dato carta bianca, e non
guarderà a spese per far stare bene quella brava gente. E se anche
in qualche altro posto c’è roba migliore che al Temple...»
«In nessun altro posto si trova roba migliore, e poi c’è di tutto e
bell’e pronto: vestitini per bambini, vestiti per la madre.»
«Andiamo al Temple, allora, vicina.»
«Ah, Dio mio, ma...»
«Che cosa c’è?»
«Niente... il fatto è che, vedete... il tempo per me... è la mia
ric-
chezza; sono già rimasta indietro andando su e giù ad assistere la
povera signora Morel; e capite, un’ora da una parte, un’ora
dall’altra, a poco a poco fanno una giornata e una giornata sono
trenta soldi; e anche se un giorno non si guadagna niente, bisogna
vive-
re comunque... ma, bah!... non importa... mi rifarò lavorando di
notte... e poi, in fondo, i divertimenti sono rari, e per me questo
è un divertimento... mi parrà di essere ricca... ricca, ricca, e che
sia mio il denaro con cui compero tutte quelle belle cose per i
poveri Morel... Bene, vediamo, il tempo di mettermi lo scialle e la
cuffia e sono da voi, vicino.»
«Se avete solo questo da fare... volete che intanto porti le mie
carte da voi?»
«Volentieri, così vedrete la mia stanza» disse Rigolette con
orgoglio, «visto che ho già sbrigato le faccende, il che prova che
io sono mattiniera; se voi invece siete dormiglione e poltrone...
peggio per voi, sarò una cattiva vicina.»
E, leggera come un uccello, Rigolette scese la scala, seguita da
Rodolphe che andava nella sua stanza a togliersi la polvere presa
nel granaio del signor Pipelet.
Diremo più avanti perché Rodolphe non fosse stato ancora avvertito
del rapimento di Fleur-de-Marie che era avvenuto il giorno prima
alla fattoria di Bouqueval, e perché non fosse andato a trovare i
Morel l’indomani del suo colloquio con la signora d’Harville.
Ricorderemo inoltre al lettore che Rigolette era l’unica a conoscere
il nuovo indirizzo di François Germain, figlio della signora
Georges, e che Rodolphe aveva molto interesse a scoprire un segreto
così importante.
Andando al Temple con la sartina, egli voleva accattivarsene la
fiducia e distrarsi dai tristi pensieri che aveva suscitato in lui
la morte della figlia dell’artigiano.
La bambina per cui Rodolphe si affliggeva così amaramente doveva
essere morta pressappoco a quell’età...
E infatti, proprio a quell’età, Fleur-de-Marie era stata affidata
alla Chouette dalla governante del notaio Jacques Ferrand. Diremo in
seguito con che scopo e in quali circostanze.
Rodolphe, per darsi un tono, entrò nella stanza di Rigolette con un
enorme pacco di fogli.
Rigolette aveva pressappoco l’età della Goualeuse, di cui era stata
compagna di prigione.
Fra le due ragazze c’era la stessa differenza che corre fra il riso
e il pianto;
Fra l’allegra spensieratezza e il melanconico fantasticare;
Fra l’imprevidenza più esagerata e la cupa, incessante
preoccupazione dell’avvenire;
Fra un’indole delicata, squisita, elevata, poetica, dolorosamente
sensibile, inguaribilmente rosa dal rimorso, e un’indole gaia,
vivace, felice, mutevole, pratica, impulsiva anche se buona e
gentile.
Infatti, ben lungi dall’essere egoista, Rigolette considerava come
suoi i dispiaceri degli altri; quando simpatizzava con qualcuno, lo
faceva con tutte le forze, si dava anima e corpo a chi soffriva ma,
una volta girati i tacchi, come si suol dire, non ci pensava più.
Succedeva spesso che passasse dalle gran risate al pianto sincero, e
al contrario dal pianto al riso.
Da vera figlia di Parigi, Rigolette preferiva la confusione alla
calma, il moto al riposo, lo strimpellare rumoroso dell’orchestra
dei balli della Chartreuse e del Colisée al dolce mormorio del
vento, delle acque e delle foglie;
Il tumulto assordante delle strade di Parigi, alla solitudine dei
campi...
I bagliori dei fuochi d’artificio, l’aprirsi della girandola finale,
il chiasso delle feste, a una bella notte serena piena di stelle,
d’ombra e di silenzio.
Ahimè, sì, la brava ragazza preferiva il nero fango delle vie della
capitale al verde dei prati in fiore, i selciati fangosi o
incandescenti al muschio fresco o vellutato dei sentieri di bosco
odorosi di violette, la polvere soffocante delle barriere o dei
viali ai campi ondeggianti di spighe d’oro e smaltati dallo
scarlatto dei papaveri selvatici e dall’azzurro dei fiordalisi...
Rigolette usciva dalla sua stanza solo alla domenica e la mattina
dei giorni di lavoro, per fare le provviste di centocchio, di latte
e di miglio per sé e i due uccellini, come diceva la signora
Pipelet; ella, comunque, viveva a Parigi per Parigi. Sarebbe stata
disperata se fosse vissuta in un altro posto che non fosse stato la
capitale.
Altro fatto singolare; nonostante il suo gusto per i divertimenti
parigini, nonostante la libertà o meglio nonostante fosse in balìa
di se stessa, essendo sola al mondo... nonostante le toccasse fare
incredibili economie anche nelle più piccole spese per poter vivere
con circa trenta soldi al giorno, nonostante avesse la più
provocante, la più birichina e la più adorabile figurina di questo
mondo, Rigolette non sceglieva mai i suoi morosi (non diciamo i suoi
amanti: più avanti si vedrà che le chiacchiere della signora
Pipelet, a proposito dei vicini della sartina, si dovranno
considerare calunnie o indiscrezioni); Rigolette, dicevamo,
sceglieva i morosi tra la gente della sua classe, cioè, sceglieva
solo i suoi vicini, perché la necessità di pagare l’affitto
comportava un’uguaglianza che era tutt’altro che chimerica.
Un celebre artista pieno di soldi, una specie di moderno Raffaello
di cui Cabrion era il Giulio Romano aveva visto un ritratto di
Rigolette; si trattava di uno studio dal vero, in cui il pittore non
l’aveva certo adulata. Colpito dai lineamenti della ragazza, il
maestro dichiarò all’allievo che doveva avere poetizzato e
idealizzato il suo modello. Cabrion, fiero della bella vicina,
propose al maestro di fargliela vedere come oggetto d’arte, una
domenica al ballo dell’Ermitage. Il Raffaello, invaghitosi di quel
viso incantevole, aveva fatto tutti i tentativi possibili e
immaginabili per soppiantare il suo Giulio Romano. Ricorse alle
offerte più seducenti e più splendide, ma la sartina le rifiutò
eroicamente mentre, la domenica, se un vicino le offriva un modesto
pranzo al Méridien (taverna rinomata del boulevard du Temple) e un
posto in galleria alla Gaité o all’Ambigu, lei accettava
immediatamente senza tanti complimenti.
Questo tipo di amicizie non solo risultavano molto compromettenti,
ma potevano anche far dubitare della virtù di Rigolette. Non ci
dilungheremo su questo argomento, faremo solo no-
tare che in certe simpatie ci sono segreti e abissi impenetrabili.
Alcune parole sull’aspetto di Rigolette e poi faremo entrare
Rodolphe nella stanza della sua vicina.
Rigolette aveva solo diciott’anni, una statura media, anzi pic-
cola, ma con una linea così graziosa, con sinuosità così fini, con
rotondità così cariche di voluttà... che rispondeva così bene a
quella sua andatura agile e modesta a un tempo che, per essere
perfetta, non le mancava niente; con un pollice in più, tutta quella
grazia avrebbe perso non poco; il movimento dei piedini sempre
impeccabilmente calzati di stivaletti di cachemire nero con suola un
po’ grossa richiamava alla mente l’andatura vivace, civettuola e
modesta della quaglia o della cutrettola. Dava l’impressione, più
che di camminare, di scivolare rapida sul selciato, di sfiorarne la
superficie.
Era l’andatura caratteristica delle sartine, un’andatura agile,
provocante e insieme un po’ inquieta che è senz’altro da attribuirsi
a tre motivi:
Al piacere di essere trovate carine;
Alla paura di tradurre un’eventuale ammirazione... con una mimica
troppo espressiva;
Alla costante preoccupazione di non perdere molto tempo negli
spostamenti.
Rodolphe, che fino ad allora aveva visto Rigolette nell’oscurità
della soffitta dei Morel e del pianerottolo, rimase incantato quan-
do, dopo essere entrato senza far rumore in una stanza rischiarata
da due grandi finestre, s’accorse dell’incantevole freschezza della
ragazza. Restò per un momento immobile e in estasi davanti al quadro
delizioso che aveva sotto gli occhi.
In piedi, davanti allo specchio sopra il caminetto, Rigolette stava
annodandosi sotto il mento i nastri di una cuffietta di tulle, tutta
ricamata e ornata di una piccola guarnizione impuntita a una
fettuccia color ciliegia: la cuffia, perché di apertura molto
stretta e perché messa molto indietro, lasciava allo scoperto due
larghe e folte bande di capelli lisci e lucidi come l’ambra, che
ricoprivano buona parte della fronte; le sopracciglia, che
sembravano disegnate con l’inchiostro, si inarcavano fini e sottili
sopra due grandi occhi neri svegli e maliziosi; le guance sode e
piene avevano un incarnato freschissimo, fresco alla vista, fresco
al tatto come una pesca vermiglia impregnata della fredda rugiada
del mattino.
Aveva un nasino all’insù, birichino, sfrontato che avrebbe fatto la
gioia di una Lisette o di una Marton; una bocca un po’ grande, con
labbra umide e rosee e con dentini bianchi e stretti a forma di
perla, che rideva e insieme prendeva in giro; delle tre fossette che
conferivano una grazia ribelle al volto, due erano sulle guance e la
terza sul mento, non lontana da un neo, piccola e assassina mosca
d’ebano a un angolo della bocca.
Tra il colletto guarnito, molto basso, e il fondo della cuffietta
increspata dal nastro color ciliegia, sorgeva una selva di bei
capelli intrecciati e pettinati all’insù con tanta accuratezza che,
su quel collo delizioso, la radice aveva lo stacco e la nerezza che
avrebbe avuto se fosse stato dipinto sull’avorio.
Sotto il vestito di merino color uva passa, con il di dietro liscio
e le maniche strette, che Rigolette s’era fatta con tanto amore, si
nascondeva un corpo così sottile e slanciato che la ragazza, non
avendone bisogno, non si metteva mai il busto!... per economia.
Questa particolarità era messa in luce dalla morbidezza e dalla
disinvoltura insolite che si avvertivano anche nei movimenti più
impercettibili delle spalle e del corpetto, cosa che richiamava alla
mente l’andatura sinuosa e ondeggiante di una gatta.
Solo pensando a un vestito attillato che aderisce alle forme rotonde
e levigate del marmo si capirà come Rigolette potesse fare a meno
dell’accessorio d’abbigliamento che sappiamo. Alla vita, da potersi
tenere fra due mani, portava, sopra un grembialino di levantina
verde cupo, una cintura.
Sicura di essere sola, dal momento che Rodolphe continuava a restare
sulla porta immobile e non visto, Rigolette, passatosi sui
capelli il palmo di una mano bianca graziosa e ben curata, aveva
messo uno dei due piedini sopra una sedia, e subito s’era curvata
per allacciarsi lo stivaletto.
Questa operazione, che si fa di solito quando si è soli, non aveva
potuto compiersi senza che gli occhi indiscreti di Rodolphe
vedessero una calza di cotone bianco come la neve, e una mezza gamba
di una linea e di una purezza ineccepibili.
Dalla descrizione particolareggiata che abbiamo fatto
dell’abbigliamento della sartina, non si può non capire che ella si
era messa la sua più bella cuffia e il suo più bel grembiule per far
onore al suo vicino in vista della loro visita al Temple.
Trovava molto di suo gradimento il sedicente commesso di negozio:
aveva un volto fiero, maschio e buono a un tempo, che le piaceva
tantissimo; e poi si era dimostrato così compassionevole con i
Morel, aveva ceduto loro la sua stanza con tale generosità che,
grazie a questa prova di bontà e grazie forse anche alla bellezza
del suo viso, Rodolphe aveva fatto, senza rendersene conto, passi da
gigante nella fiducia della crestaia.
Questa, ligia alle idee di praticità dedotte dall’intimità forzata e
dagli obblighi reciproci imposti da un rapporto di vicinato, s’era
dichiarata decisamente contenta che un vicino, quale Rodolphe, fosse
venuto a succedere al commesso viaggiatore, a Cabrion e a François
Germain: infatti cominciava a pensare che la stanza accanto era
stata senza nessuno per troppo tempo, ma soprattutto temeva che
venisse a occuparla qualcuno che non fosse di suo gradimento.
Rodolphe, intanto, approfittava del fatto che non era visto per
gettare un’occhiata curiosa in quell’abitazione che riteneva
superiore alle lodi intessute dalla signora Pipelet sull’eccezionale
pulizia del modesto mobilio di Rigolette.
Niente di più allegro, di meglio ordinato di quella povera
cameretta.
Le pareti erano ricoperte da una carta grigia a fiorami verdi; il
pavimento, dipinto di un bel rosso, splendeva come uno specchio. Una
stufa in maiolica bianca aveva preso posto nel caminetto in cui era
stata simmetricamente sistemata una piccola provvista di pezzi di
legna tagliati così corti e sottili che, senza esagerare, ogni pezzo
poteva essere paragonato a un enorme fiammifero.
Sul caminetto di pietra che sembrava di marmo grigio, erano posti a
scopo ornamentale due comuni vasi da fiori dipinti d’un bel verde
smeraldo e sempre pieni, in primavera, di fiori semplici sì, ma
odorosi; una piccola cornice con un orologio d’argento che fun-
zionava da pendola; a un’estremità brillava un candeliere d’ottone
lucido come l’oro, con in cima un mozzicone di candela; all’altra
estremità brillava, con non minore intensità, una di quelle lampade
che constano di un cilindro e di un riflettore in ottone montato su
un’asta d’acciaio e su un piede di piombo. Sopra il caminetto c’era
un grande specchio quadrato entro una cornice di legno nero.
Delle tende di calicò verde e grigie, con sul bordo un gallone di
lana, tagliate, lavorate, guarnite da Rigolette che si era anche
incaricata di metterle sugli anneriti listelli di ferro, adornavano
le finestre e il letto ricoperto da trapunta di tessuto uguale; nei
due armadi a vetri dipinti di bianco che si aprivano ai due lati
dell’alcova ci dovevano essere gli utensili, il fornello portatile,
il secchio, le scope, ecc. ecc., giacché, in fondo, nessuno di
questi oggetti poteva deturpare l’aspetto civettuolo della stanza.
Un cassettone d’un bel legno di noce pieno di venature e molto
lucido, quattro sedie dello stesso legno, una grande tavola per
stirare e lavorare con sopra una di quelle coperte di lana verde che
si vedono nelle capanne dei contadini, una poltrona di paglia
accompagnata a uno sgabello, dove di solito stava seduta la sartina:
tutto qui il modesto mobilio.
E per finire, c’era, nel vano di una delle due finestre, la gabbia
con i due canarini, i fedeli commensali di Rigolette.
Con uno di quegli espedienti ingegnosi che possono avere solo i
poveri, Rigolette aveva collocato la gabbia entro una grande cassa
di legno dell’altezza di un piede; la cassa, che veniva chiamata il
giardino degli uccellini, era stata messa sopra una tavola e
riempita di zollette piene di muschio d’inverno e piene di erbetta e
fiorellini d’estate.
Rodolphe ammirava attento e curioso la stanza: solo adesso poteva
capire, nella ragazza, quella sua carica di buon umore.
Lo immaginava già, quel silenzio rallegrato dal cinguettio degli
uccelli e dal canto di Rigolette: d’estate ella doveva lavorare
accanto alla finestra aperta, con la vista mezzo impedita da una
verdeggiante cortina di rosei piselli odorosi, di cappuccine
arancione e di convolvoli bianchi e azzurri; d’inverno, invece,
doveva vegliare accanto alla stufetta, alla tenue luce della
lampada.
Poi, la domenica, si distoglieva da quella vita di fatica con una
bella e buona giornata di divertimenti in compagnia di un vicino,
giovane, allegro, innamorato come lei... (Rodolphe in quel momento
non aveva nessun motivo di credere che la sartina fosse virtuosa.)
Il lunedì, riprendeva i suoi lavori pensando ai piaceri passati e ai
piaceri futuri. Fu allora che Rodolphe comprese la poesia di quei
ritornelli volgari su Lisette e la sua stanzetta, su quei folli
amori che si annidano allegramente in qualche soffitta; perché
questa poesia che abbellisce tutto, che di un tugurio di povera
gente fa un felice nido d’innamorati, non è nient’altro che la
ridente, fresca e verde giovinezza... e nessuno meglio di Rigolette
poteva rappresentare questa adorabile divinità.
Rodolphe stava così riflettendo, quando, buttato per caso l’occhio
sulla porta, vi scorse un gran catenaccio...
Un catenaccio che non avrebbe stonato sulla porta di una prigione.
Il chiavistello lo fece riflettere...
Poteva avere due significati, due usi ben diversi:
Chiudere la porta agli innamorati...
Chiudere la porta dietro gli innamorati...
Dalla prima ipotesi venivano distrutte da cima a fondo le as-
serzioni della signora Pipelet.
Dalla seconda venivano confermate.
Rodolphe, di supposizione in supposizione, era giunto a que-
sto punto, quando Rigolette, voltandosi, lo scorse, e, senza cambiar
posizione, gli disse:
«Oh bella, vicino, eravate qui allora?»
III VICINO E VICINA
Allacciato lo stivaletto, la bella gamba era sparita sotto le ampie
pieghe del vestito color uva passa, quando Rigolette riprese:
«Ah, eravate qui, signor sornione?...»
«Ero qui... che guardavo in silenzio.»
«E che cosa guardavate... vicino?»
«La vostra graziosa stanzetta... qui dentro, infatti, state quasi
come una principessa, vicina...»
«Caspita! Vedete, qui, sta tutto il mio lusso; non esco mai, al-
meno che stia bene in casa...»
«Ma che belle tende avete, sono al colmo dello stupore!... e
questo cassettone bello come quelli in mogano... Dovete averne speso
di danaro sopra!»
«Non parlatemene!... Quando sono uscita di prigione avevo circa 425
franchi;... ci son voluti quasi tutti...»
«Uscendo di prigione! Voi?...»
«Sì... è una storia lunga! Non penserete certo che io fossi in
prigione per aver fatto qualcosa di male!»
«No di certo... ma come mai?»
«Dopo il colera, mi sono trovata al mondo sola, soletta. Avevo circa
dieci anni...»
«Ma prima, chi si era preso cura di voi?»
«Oh, della buonissima gente!... ma poi sono morti di colera...» (a
questo punto i grandi occhi neri di Rigolette si inumidirono). «Il
poco che possedevano fu venduto per pagare qualche debituccio, e io
rimasi sola, senza nessuno che volesse raccogliermi: non sapendo
cosa fare, sono andata a un corpo di guardia che si trovava di
fronte a casa nostra, e ho detto alla sentinella: “Signor soldato, i
miei genitori sono morti e non so dove andare: cosa devo fare?”.
Subito dopo è arrivato un ufficiale che mi ha fatta portare dal
commissario; e il commissario mi ha fatto mettere in prigione per
vagabondaggio, e ne sono uscita a sedici anni.»
«E i vostri genitori?»
«Non so chi sia stato mio padre e quanto a mia madre che mi aveva
tolta dai trovatelli, dove prima era stata costretta a mettermi,
l’ho perduta che avevo sei anni. La brava gente, di cui vi ho
parlato, abitava nella nostra casa; non avevano bambini: vedendo che
ero orfana, mi presero con sé.»
«E che cosa facevano, come vivevano?»
«Papà Crétu, lo chiamavo così, faceva l’imbianchino, e sua moglie la
ricamatrice...»
«Erano almeno operai agiati?»
«Come in tutte le famiglie: dico famiglie, ma essi non erano
sposati, anche se si dicevano marito e moglie. C’erano alti e bassi:
un giorno che il lavoro rendeva, nell’abbondanza, un giorno che non
rendeva, nelle ristrettezze; ma ciò non impediva ai due di essere
contenti di tutto e sempre allegri (a quel ricordo il volto di
Rigolette si rasserenò). In tutto il quartiere non c’era una coppia
simile: sempre in moto, cantavano sempre, e buoni per giunta oltre
ogni dire: quello che era loro, era degli altri. Mamma Crétu era una
donna grassa e gioviale di trent’anni, pulita come un soldo,
guizzante come un’anguilla, allegra come un fringuello. Suo marito
era un buontempone senza pari: aveva un naso grande, una bocca
grande, era sempre con un cappello di carta in testa, e aveva una
faccia così buffa, ma così buffa, che non lo si poteva guardare
senza ridere. Quando, dopo il lavoro, ritornava a casa, non faceva
altro che cantare, far boccacce e sgambettare come un bambino; mi
faceva ballare e saltare sulle sue ginocchia e gioca-
va con me come se fosse stato un mio coetaneo; e sua moglie mi
viziava che era un piacere! Tutti e due volevano solo che fossi di
buonumore; e, grazie a Dio, il buonumore non mi mancava proprio. Per
questo mi hanno battezzata Rigolette, e il nome mi è rimasto. Quanto
all’allegria, essi mi davano l’esempio: non li ho mai visti tristi.
Se qualche volta mi facevano dei rimproveri, la moglie diceva al
marito: “Senti, Crétu, sei stupido, ma mi fai troppo ridere!”.
Oppure lui diceva alla moglie: “Su, taci, Ramonette (non so perché
la chiamasse Ramonette), taci, mi fai male, sei troppo buffa!...”. E
io ridevo al vederli ridere... Ecco come sono stata allevata, e come
essi mi hanno formato il carattere... Spero di averne tratto
profitto!»
«Magnifico, vicina! Così fra loro mai nessuna lite?»
«Mai e poi mai!... La domenica, il lunedì e a volte anche il
martedì, facevano, come dicevano di solito, baldoria e allora mi
portavano sempre con loro. Papà Crétu era un ottimo operaio: quando
aveva voglia di lavorare, poteva guadagnare quattrini a palate; e
così sua moglie. Appena avevano quanto bastava per passare la
domenica e il lunedì e per vivere alla meno peggio gli altri giorni,
erano contenti. Se poi malauguratamente non avevano un lavoro, erano
contenti lo stesso... Mi ricordo che quando vivevano di pane e
acqua, papà Crétu prendeva dalla sua biblioteca...»
«Aveva una biblioteca?»
«Chiamava così uno scaffale dove metteva le raccolte di tutte le
canzoni nuove... Le comperava e se le imparava tutte. Quando,
dunque, c’era solo del pane in casa, egli prendeva dalla sua
biblioteca un vecchio libro di cucina e ci diceva: “Vediamo un po’,
cosa possiamo mangiare quest’oggi? questo, quello?...” e ci leggeva
il titolo di un mucchio di roba buona. Ciascuno sceglieva il suo
piatto; papà Crétu prendeva una casseruola vuota, e, con le smorfie
e gli scherzi più buffi di questo mondo, faceva finta di mettere nel
tegame tutto ciò che occorreva per fare un buon intingolo; poi
fingeva di versarlo in un piatto anch’esso vuoto, che metteva sulla
tavola sempre con delle boccacce tali che ci tenevamo i fianchi dal
ridere; poi, riprendeva il suo libro e, mentre ci leggeva, per
esempio, la ricetta di una buona fricassea di pollo che avevamo
scelto, e che ci faceva venire l’acquolina in bocca... ci mangiavamo
il nostro pane... con la sua lettura, ridendo come pazzi.»
«E aveva debiti questa coppia di allegroni?»
«Mai avuti! finché c’era denaro, si faceva baldoria; quando non ce
n’era più, si pranzava “in acquerello” come diceva papà Crétu, per
via del suo mestiere.»
«E all’avvenire, ci pensava?»
«Bella questa! l’avvenire per noi era la domenica e il lunedì.
D’estate li passavamo alle barriere; d’inverno nei sobborghi.»
«Perché non si maritavano quei due, dato che stavano tanto bene
assieme e facevano baldoria così di frequente?»
«Una volta un loro amico gliel’ha chiesto e c’ero io presente.» «E
allora?»
«Hanno risposto: “Se un giorno avremo dei bambini, allora
senz’altro! ma, per noi due, stiamo bene così... Perché costringerci
a fare ciò che già facciamo volentieri? Sarebbero delle spese, e non
abbiamo denaro in più”. Ma, sentite un po’» riprese Rigolette, «come
chiacchiero. Quando il discorso cade su quella brava gente che è
stata tanto buona con me, non posso fare a meno di parlarne a lungo.
Sentite, vicino, fatemi la gentilezza di prendermi lo scialle che è
sul letto e di appuntarmelo qui, sotto il colletto della camicetta,
con questo spillone, e poi scendiamo subito perché ci vorrà del
tempo per scegliere quello che volete comperare per quei poveri
Morel.»
Rodolphe obbedì premurosamente agli ordini di Rigolette; prese sul
letto un gran scialle di tartano color scuro con larghe strisce
rosse, e lo posò con cura sulle belle spalle di Rigolette.
«Adesso, vicino, alzate un po’ il colletto, puntate bene il vestito
e lo scialle insieme, conficcate lo spillo, e soprattutto badate a
non pungervi.»
Per eseguire questi ordini, Rodolphe dovette quasi toccare l’eburneo
collo di Rigolette dove si disegnava così chiara e netta
l’attaccatura dei capelli d’ebano.
C’era poca luce; Rodolphe si avvicinò... molto... certo troppo,
perché la sartina gettò un gridolino di spavento.
Non sapremmo dire la causa di quel grido.
Era stata la punta dello spillone? o la bocca di Rodolphe che aveva
sfiorato quel collo bianco, fresco e levigato? Il fatto è che
Rigolette si volse di scatto e gridò con aria un po’ scherzosa e un
po’ seria, che fece quasi rimpiangere a Rodolphe di essersi preso
quell’innocente libertà:
«Vicino, non vi chiederò mai più di appuntarmi lo scialle».
«Scusate, vicina,... sono così maldestro.»
«Al contrario, signore, è proprio questo di cui mi lagno... Su,
datemi il braccio: ma fate il bravo se no litigheremo!»
«Avete ragione, vicina, ma non è colpa mia... Il vostro grazioso
collo era così bianco, che ho avuto una specie di giramento di te-
sta... Ho abbassato il capo, mio malgrado... e...»
«Bene, bene! in futuro starò attenta a non darvi simili giramenti di
testa» disse Rigolette minacciandolo col dito; poi chiuse la porta.
«Ecco, vicino, tenete la chiave; è così pesante che mi romperebbe la
tasca... sembra proprio una pistola.»
E giù a ridere.
Rodolphe si caricò (è la parola) di un’enorme chiave che avrebbe
potuto degnamente figurare su uno di quei piatti simbolici che i
vinti vanno umilmente a offrire ai vincitori di una città.
Sebbene Rodolphe si credesse abbastanza cambiato dagli anni,
tuttavia, per non essere riconosciuto da Polidori, prima di passare
davanti alla porta del ciarlatano, si alzò il bavero del soprabito.
«Vicino, non dimenticatevi di avvertire il signor Pipelet, che sarà
portata roba da mettere nella vostra stanza» disse Rigolette. «Avete
ragione, vicina; entriamo un momento in portineria.»
Il signor Pipelet, col suo eterno cappello a rocchetto in testa, e
vestito come sempre con l’abito verde, stava gravemente seduto
davanti al suo deschetto pieno di pezzi di cuoio e di resti di
scarpe di ogni tipo; ed era intento a risuolare uno stivale con la
serietà coscienziosa che metteva in ogni cosa. Anastasie non c’era.
«Bene, signor Pipelet» gli disse Rigolette, «ci sono novità! grazie
al mio vicino, i poveri Morel sono fuori dai guai... E pensare che
stavano per portare in prigione quel disgraziato operaio! Oh, quelle
guardie sono dei veri aguzzini.»
«E degli scostumati, signorina» aggiunse il signor Pipelet con voce
corrucciata e gesticolando con lo stivale in riparazione in cui
aveva introdotto la mano e il braccio sinistro. «No, non ho paura di
ripeterlo davanti a Dio e agli uomini che sono degli scostumati.
Hanno approfittato dell’oscurità delle scale per tentare di mettere
le loro indecenti mani addosso alla mia sposa! Udendo le grida del
suo pudore offeso, ho ceduto, mio malgrado, alle impulsività del mio
carattere. Non lo nascondo, il mio primo moto è stato di rimanere
immobile e di diventare rosso dalla vergogna, pensando agli odiosi
attentati di cui Anastasie era stata vittima... e prova ne è stata
il suo sconvolgimento, poiché, quasi in delirio, ha gettato il
tegame di maiolica giù dalla scala. In quel momento, quei brutti
libertini sono passati davanti alla portineria...»
«Li avrete inseguiti, spero, signor Pipelet?» disse Rigolette che
riusciva a stento a stare seria.
«Ci avevo pensato» rispose il signor Pipelet con un profondo
sospiro, «ma quando ho capito che avrei dovuto affrontare i loro
sguardi, e forse anche i loro discorsi licenziosi, ho avuto
ripugnanza, sono uscito dai gangheri. Non sono più cattivo degli
altri, ma quando quegli svergognati sono passati davanti alla
portineria, ho sentito il sangue raggelarmi e non ho potuto fare a
meno di mettermi le mani sugli occhi, per non vedere quegli sporchi
mascalzoni! Ma non mi sono stupito, doveva succedermi qualcosa di
brutto oggi, dato che questa notte ho sognato quel mostro di
Cabrion!»
Rigolette sorrise, e il rumore dei sospiri del signor Pipelet si
confuse con le martellate che dava sulla suola del vecchio stivale.
Dai discorsi di Alfred, si poteva capire che Anastasie si era
eccessivamente vantata, imitando, a suo modo, le arti della
civetteria di quelle donne che, per ravvivare l’ardore dei loro
mariti o dei loro amanti, dicono di essere sempre pericolosamente
cor-
teggiate.
«Vicino» disse pianissimo Rigolette a Rodolphe, «lasciate cre-
dere a quel povero Pipelet che hanno stuzzicato sua moglie: in cuor
suo ne è lusingato.» E infatti, non volendo distruggere l’illusione
in cui il signor Pipelet si cullava, Rodolphe disse:
«Avete fatto bene a prendere il partito delle persone intelligenti,
caro signor Pipelet, cioè quello del disprezzo. Del resto, la virtù
della signora Pipelet è al disopra di ogni sospetto».
«La sua virtù, signore... la sua virtù!» e Alfred ricominciò a
gesticolare con lo stivale infilato nel braccio, «ci scommetto
l’osso del collo! La gloria del grande Napoleone... e la virtù di
Anastasie... ne posso rispondere come del mio onore, signore!»
«E avete ragione, signor Pipelet. Ma non pensate più a quelle
miserabili guardie; vi pregherei, adesso, di farmi un piacere.»
«Siamo nati per aiutarci a vicenda» replicò Pipelet in tono
sentenzioso e malinconico; «a maggior ragione quando si tratta di un
buon pigionante come il signore.»
«Si tratterebbe di far portare in camera mia le varie cose che
saranno qui fra poco. Sono per i Morel.»
«State tranquillo, signore, starò attento io.
«Poi» riprese tristemente Rodolphe, «bisognerebbe trovare un prete
che vegli la bambina che è morta stanotte, andare a dichiarare la
sua morte, e, nello stesso tempo, ordinare un funerale decente.
Questo è il denaro... non fate economia: il benefattore di Morel, di
cui io sono solo il mandatario, vuole che tutto sia fatto per bene.»
«Fidatevi di me, signore, Anastasie è andata a comperare da
mangiare; appena ritornerà, le farò fare la guardia, e io mi
occuperò delle vostre commissioni.»
In quel momento, un uomo così intabarrato che gli si scorgevano
appena gli occhi, senza avvicinarsi troppo alla portineria e
rimanendo il più possibile nell’ombra, domandò se la signora
Burette, venditrice di roba d’occasione, era in casa.
«Venite da Saint-Denis?» gli chiese il signor Pipelet con aria
d’intesa.
«Sì, in un’ora e un quarto.»
«Va bene, allora salite.»
L’uomo dal mantello sparì rapidamente su per la scala.
«Che vuol dire?» chiese Rodolphe al signor Pipelet.
«Stanno trafficando qualcosa da comare Burette... è un andiri-
vieni continuo. Stamane mi ha detto: “Dovrete domandare a tutti
quelli che chiedono di me: ‘Venite da Saint-Denis?’
“Quelli che vi risponderanno: ‘Sì, in un’ora e un quarto’ li
lascerete salire... gli altri no”.»
«È una vera parola d’ordine!» disse Rodolphe, alquanto incuriosito.
«Proprio così, signore. E infatti mi sono detto fra me e me: Stanno
combinando qualcosa da comare Burette. Senza contare che Tortillard,
un tipetto losco, uno zoppetto che lavora dal signor Bradamanti, è
tornato questa notte alle due, con una vecchia guercia che chiamano
la Chouette. Costei è rimasta fino alle quattro da comare Burette,
mentre giù al portone la aspettava una carrozza. Da dove veniva la
guercia? Che veniva a fare qui la guercia a un’ora così insolita?
Queste sono le domande che mi son posto senza poter trovare una
risposta» aggiunse il signor Pipelet con gravità.
«E la donna che voi chiamate la Chouette è ripartita in carrozza
alle quattro?» chiese Rodolphe.
«Sì, signore; tornerà certamente fra poco: infatti comare Burette mi
ha detto che la guercia non c’entrava con la consegna.»
Rodolphe pensò, non a torto, che la Chouette stesse macchinando
qualche nuovo colpo: ma, ahimè, egli era ben lungi dall’immaginare
quanto quella nuova trama lo toccasse da vicino.
«Allora, siamo d’accordo, caro signor Pipelet, non dimenticatevi
quello che vi ho raccomandato per i Morel; e pregate inoltre vostra
moglie di far portar loro un buon pasto dal miglior oste del
vicinato.»
«Non preoccupatevi» disse il signor Pipelet: «appena ritornerà mia
moglie, andrò in municipio, in chiesa, e dal trattore... in chiesa
per il morto... dal trattore per i vivi...» aggiunse filosoficamente
e poeticamente il signor Pipelet. «Sarà fatto, signore... sarà
fatto.»
Sulla porta dell’androne, Rodolphe e Rigolette s’imbatterono in
Anastasie, che tornava dal mercato, con un pesante cesto di
provviste.
«Alla buon’ora!» esclamò la portinaia gettando sui due vicini uno
sguardo significativo e malizioso; «eccovi già a braccetto... Va
bene!... La faccenda si riscalda!... Già!... bisogna pur che i
giovani se la spassino!... a bella ragazza bel ragazzo... viva
l’amore! e allegri, su!»
E la vecchia sparì nell’oscurità dell’androne gridando:
«Alfred! non piangere, vecchio mio... ecco la tua Anastasie che ti
porta i dolcetti, golosone!».
Rodolphe uscì dalla casa della rue du Temple con a braccetto
Rigolette.
IV
IL BILANCIO DI RIGOLETTE
Alla neve della notte era successo un vento freddissimo cosicché il
selciato, di solito fangoso, era quasi asciutto. Rigolette e
Rodolphe si diressero verso l’immenso e strano bazar che chiamano il
Temple. La ragazza si appoggiava senza tante cerimonie al braccio di
Rodolphe e, per niente intimidita, parlava con lui come se fossero
stati vecchi amici.
«Com’è buffa, quella signora Pipelet, con i suoi commenti!» disse la
sartina a Rodolphe.
«Io, cara vicina, trovo che ha ragione.»
«Perché?»
«Ha detto: “I giovani devono spassarsela... viva l’amore, e sta-
te allegri!”.» «E allora?»
«È proprio come la penso io...»
«Cioè?»
«Vorrei passare la mia giovinezza con voi... poter gridare viva
l’amore... e andare dove mi porterete voi.»
«Ci credo... non siete difficile!»
«Che male ci sarebbe?... siamo vicini.»
«Se non fossimo vicini, non uscirei certo con voi così...» «Ditemi
dunque di sperare!»
«Di sperare cosa?» «Che mi amerete.» «Ma io vi amo già.»
«Davvero?»
«È molto semplice, voi siete buono e allegro. Sebbene siate povero
anche voi, fate quel che potete per quei poveri Morel, facendo
interessare gente ricca alla loro disgrazia; avete una faccia che mi
piace molto, una bella figura: il che è sempre piacevole e
lusinghiero per me, che vi do il braccio e che ve lo darò spesso.
Credo che basti per amarvi.»
Poi, interrompendosi per ridere a crepapelle, Rigolette esclamò:
«Guardate... guardate... quella grassona con le sue vecchie scarpe
di pelo; pare trascinata da due gatti senza coda».
E giù a ridere.
«Preferisco guardare voi, vicina; sono così felice di pensare che mi
amate già.»
«Ve lo dico perché è vero... Se non mi piaceste, ve lo direi... Non
ho mai avuto da rimproverarmi di aver ingannato qualcuno o di essere
stata una civetta. Quando qualcuno mi piace, lo dico subito...»
Poi, interrompendosi un’altra volta per fermarsi davanti a un
negozio, la sartina esclamò:
«Oh, guardate che bella pendola e come sono belli quei due vasi!
Avevo già messo da parte, nel mio salvadanaio, tre franchi e dieci
soldi per comperarne una uguale! In cinque o sei anni avrei potuto
riuscirci».
«Fate dei risparmi, vicina? e quanto guadagnate?...»
«Come minimo trenta soldi al giorno, a volte quaranta; ma faccio
conto solo su trenta, è più prudente, e regolo le mie spese su
quella somma» disse Rigolette con aria d’importanza come se si fosse
trattato dell’equilibrio finanziario di un bilancio enorme.
«Ma come fate a vivere con trenta soldi al giorno?»
«Il conto è presto fatto... Volete che ve lo faccia, vicino? Voi mi
sembrate uno spendaccione, così vi servirà d’esempio.»
«Sentiamo, vicina.»
«Trenta soldi al giorno fanno quarantacinque franchi al mese, vero?»
«Sì.»
«Da questi devo togliere dodici franchi per l’affitto e ventitré
franchi per mangiare.»
«Ventitré franchi per mangiare?...»
«Dio mio, sì, è così! Ammettete che per uno scricciolo come me... è
molto!... cosa volete, non mi privo di niente io.»
«Sentite, la golosetta...»
«Ah, in quella somma è compreso anche il cibo per i miei
uccellini...»
«Certo che se con questo ci vivete in tre, è meno esagerato. Ma cosa
spendete al giorno?... sempre a titolo informativo.»
«State a sentire: per una libbra di pane sono quattro soldi, più due
soldi di latte che fanno sei; quattro soldi di verdura d’inverno, o
di frutta e insalata d’estate; adoro l’insalata, perché, come tutta
la verdura, si prepara presto e senza sporcarsi le mani; e sono già
dieci soldi; più tre soldi per il burro, l’olio e l’aceto per il
condimento e fanno tredici! Un secchio di bell’acqua chiara, oh, mi
riservo questo lusso, e sono già quindici soldi se non vi
dispiace... Aggiungete due o tre soldi alla settimana di semi di
canapa e di centocchio per farne dono ai miei uccelli, che di solito
mangiano un po’ di mollica di pane e qualche goccia di latte, e sono
ventidue o ventitré franchi al mese, né più né meno.»
«E non mangiate mai carne?»
«Sì, proprio... la carne!... costa dai dieci ai dodici soldi alla
libbra; non posso certo pensarci! E poi si sente puzzo di fritto, di
lesso mentre invece il latte e la verdura son subito pronti. Per
esempio, un piatto di cui vado pazza, che è facile e che faccio alla
perfezione...»
«Sentiamo il piatto...»
«Metto qualche bella patata gialla nel forno della stufa; quando è
cotta, la pesto con un po’ di burro e un po’ di latte... un pizzico
di sale... è un manicaretto divino... Se farete il bravo, ve lo farò
assaggiare...»
«Fatto con le vostre manine, sarà senz’altro buonissimo. Ma, su,
facciamo i conti, vicina... Ci sono già ventitré franchi per il
mangiare, più dodici franchi di affitto fanno trentacinque franchi
al mese...»
«Per arrivare ai quarantacinque o cinquanta franchi che guadagno, mi
restano dieci o quindici franchi per la legna e l’olio d’inverno,
per mantenermi e per il bucato... cioè per il sapone; giacché,
eccettuate le lenzuola, faccio il bucato da sola... è un altro
lusso... una stiratrice di biancheria fine mi costerebbe un occhio
della testa... mentre io stiro benissimo, e me la cavo... Durante i
mesi invernali, consumo un sacco e mezzo di legna... e spendo
quattro o cinque soldi al giorno per la lampada... che fanno ottanta
franchi all’anno per il riscaldamento e la luce.»
«Per cui è tanto se vi restano cento franchi per mantenervi.»
«Sì, ed è su questo denaro che avevo risparmiato tre franchi e dieci
soldi.»
«Ma i vestiti, le scarpe e questa bella cuffietta?»
«Le cuffie, le metto solo quando esco, e non mi mandano in rovina,
perché le faccio da me; a casa, mi accontento dei miei capelli...
Quanto ai vestiti e agli stivaletti... non c’è forse il Temple?»
«Ah sì...quel benedetto Temple... Ebbene, là trovate...»
«Vestiti belli e resistenti. Figuratevi che le gran signore hanno
l’abitudine di dare i loro vestiti smessi alle cameriere... Quando
dico smessi... vuol dire che li hanno portati un mese o due e solo
in carrozza... e le cameriere vanno a venderli al Temple... quasi
per niente... Così, per esempio, io ho addosso un vestito di merino
color uva passa che ho comperato per quindici franchi, mentre,
forse, ne era costato sessanta: è stato portato poco: l’ho adattato
alla mia figura... e spero che mi faccia bella.»
«Siete voi a renderlo bello, vicina... Ma, grazie al Temple, adesso
comincio a capire come vi possano bastare cento franchi all’anno per
mantenervi.»
«Vero? Ci sono bellissimi vestiti estivi per cinque o sei franchi,
stivaletti come questi che ho addosso, quasi nuovi, per due o tre
franchi. Guardate, non si direbbe che siano stati fatti per me?»
disse Rigolette, che si fermò a mostrare la punta del suo bel
piedino assai ben calzato.
«È vero, il piede è molto grazioso; ma non vi deve essere facile
trovare scarpe che vi vadano bene... Non ditemi adesso che al Temple
vendono scarpe per bambini...»
«Siete un adulatore, vicino; ma dovete ammettere che una ragazza
sola, giudiziosa, può vivere con trenta franchi al giorno! Devo dire
anche che i 425 franchi che avevo quando sono uscita di prigione mi
hanno fatto molto comodo per sistemarmi. Quando mi hanno visto nella
mia stanzetta, hanno avuto una buona impressione e mi hanno dato
lavoro a casa; ma ho dovuto aspettare molto prima di trovare un
lavoro; per fortuna, avevo messo da parte tanto denaro da poter
vivere per tre mesi senza contare sul lavoro.»
«Sapete, vicina, che nonostante quella vostra aria un po’ svanita,
siete molto assennata e ordinata?»
«Caspita, quando si è soli al mondo e non si vuole aver obblighi con
nessuno, bisogna pur arrangiarsi e costruirsi un nido, come si
dice.»
«E il vostro nido è bellissimo.»
«Vero? in fondo non mi manca niente: ho un alloggio più bello di
quanto dovrei; ho degli uccellini; d’estate, sempre almeno due vasi
di fiori sul caminetto, senza contare le cassette della finestra
e della gabbia; eppure, come vi dicevo, avevo già tre franchi e
dieci soldi nel mio salvadanaio, per poter riuscire ad avere un
giorno una pendola e due candelabri da mettere sul caminetto.»
«E cosa ne è stato di quei risparmi?»
«Dio mio, negli ultimi tempi, ho visto quei poveri Morel così in
cattive condizioni, ma così in cattive condizioni che ho pensato: va
contro il buon senso tenere tre stupidi pezzi da venti soldi a
poltrire in un salvadanaio, quando vicino a voi delle persone oneste
muoiono di fame!... Allora ho prestato i miei tre franchi ai Morel.
Quando dico prestato... era per non umiliarli, perché glieli avrei
regalati con tutto il cuore.»
«Adesso che avranno tutte le loro comodità, voi, vicina, sarete
rimborsata.»
«È vero, e io non dirò di no... sarà sempre un fondo per comperare
la pendola e i due candelabri... È il mio sogno!»
«E poi, in fin dei conti, bisogna sempre pensare al futuro.» «Al
futuro?»
«Se vi ammalaste, per esempio...»
«Ammalarmi... io?»
Rigolette si mise a ridere vivacissimamente.
E rise così forte, che un omone che camminava davanti a lei con un
cane sotto il braccio si voltò sbalordito, credendo che ci si
burlasse di lui.
Rigolette, senza cessare di ridere, gli fece una mezza riverenza
accompagnata da una smorfia così biricchina, che Rodolphe non poté
fare a meno di partecipare all’ilarità della compagna.
L’omone continuò la sua strada brontolando.
«Ehi, vicina!... siete pazza?» disse Rodolphe, ridiventando serio.
«È anche colpa vostra...»
«Colpa mia?»
«Sì, mi dite certe sciocchezze...»
«Perché vi ho detto che potreste ammalarvi?»
«Ammalarmi, io?»
E giù a ridere ancora.
«E perché no?»
«Ho la faccia da ammalarmi, io?»
«Certo non ho mai visto una faccia più fresca e colorita.»
«E allora... perché volete che mi ammali?»
«Come?»
«A diciotto anni, con la vita che conduco... è mai possibile?
Mi alzo alle cinque, sia d’inverno che d’estate, vado a dormire
alle dieci o alle undici; mangio secondo il mio appetito, che non è
grande, a dir la verità; non soffro il freddo, lavoro tutto il
giorno, canto come un’allodola e dormo come una marmotta, ho il
cuore leggero, allegro e contento; sono sicura di non restare mai
senza lavoro, perché mai volete che mi ammali?... sarebbe troppo
buffo...»
Altre sonore risate.
Rodolphe, colpito da quella cieca e felice fiducia nell’avvenire, si
rimproverò di aver rischiato di turbarla... Pensava con una specie
di terrore che una malattia di un mese poteva distruggere quella
ridente e tranquilla esistenza.
La profonda fiducia che Rigolette aveva nel suo coraggio e nei suoi
diciott’anni... i suoi unici beni... sembrò a Rodolphe degna di
sacrosanto rispetto...
Da parte della ragazza... non erano leggerezza e incoscienza; ma
fiducia istintiva nella misericordia e nella giustizia divine, che
non potevano abbandonare una creatura buona e laboriosa, una povera
ragazza il cui solo torto era di contare sulla giovinezza e sulla
salute che aveva avuto da Dio...
In primavera, si preoccupano forse del cupo inverno gli uccelli che,
gioiosi e cinguettanti, sfiorano con agile ala le erbe rosate o
fendono l’aria tiepida e azzurrata?
«Così» disse Rodolphe alla sartina, «non desiderate nient’altro,
voi?»
«Niente...»
«Proprio niente?...»
«No... Cioè, intendiamoci, la mia pendola con i candelabri...
e l’avrò... non so quando... ma mi sono messa in testa di averla, e
l’avrò, dovessi pure lavorare di notte...»
«E a parte questo?...»
«Non desidero altro... almeno da oggi.»
«Perché?»
«Perché l’altroieri desideravo un vicino che mi piacesse per
fare con lui, come ho sempre fatto, buona compagnia... per fargli
piccoli favori e perché lui, a sua volta, ne facesse a me.»
«Siamo già d’accordo, vicina; voi vi occuperete della mia
biancheria, e io darò la cera alla vostra stanza... senza contare
che mi sveglierete presto, battendo sul muro.»
«E voi credete che basti?»
«Che c’è ancora?»
«Ah, bella! Non finisce qui. La domenica non dovete, per
caso, portarmi a passeggiare alle barriere e sui viali? È il solo
giorno di libertà che abbia.»
«Va bene, d’estate andremo in campagna.»
«No, detesto la campagna; a me piace solo Parigi. Però, tempo
addietro, ho fatto qualche scampagnata a Saint-Gerrnain con una mia
compagna di prigione, che chiamavano Goualeuse, perché cantava
sempre; una ragazza molto buona!»
«E che ne è stato di lei?»
«Non so; ella spendeva il denaro della prigione e sembrava che non
si divertisse molto; era sempre triste, ma dolce e caritatevole...
Quando uscivamo insieme, non avevo ancora lavoro; appena ne ebbi
uno, non mi sono più mossa da casa; le ho dato il mio indirizzo, ma
non è venuta a trovarmi; certo, avrà anche lei il suo mestiere...
Questo per dirvi, vicino, che amo Parigi più di ogni altra cosa.
Così, quando potrete, la domenica, se non avrete denaro, mi
porterete a vedere i bei negozi nelle passeggiate pubbliche, mi
divertirò lo stesso. Ma state tranquillo, nelle nostre gitarelle, vi
farò fare bella figura... Vedrete come sarò graziosa con il bel
vestito turchino di levantina che metto alla domenica! mi sta che è
un amore; poi mi metto una cuffietta piena di merletti, con nastri
arancione, che fa un figurone sui miei capelli neri; poi stivaletti
di raso turco che mi sono fatta fare su misura... e un bello scialle
di buona seta, imitazione cachemire. Vedrete, vicino, si volteranno
più di una volta per strada vedendoci passare. Gli uomini diranno:
“Ma, perbacco, com’è bellina, quella piccola!”. E le donne da parte
loro diranno: “Ma che bella figura ha quel giovanotto alto e
snello... Ha l’aria molto distinta... e i baffetti neri gli stanno
molto bene...” E io sarò d’accordo con quelle signore, perché adoro
i baffi... purtroppo il signor Germain non li portava per via
dell’ufficio. Il signor Cabrion li aveva, ma erano rossi come il suo
barbone, e a me non piacciono i barboni; e poi faceva il monellaccio
per la strada e tormentava troppo il povero signor Pipelet. Per
esempio, il signor Giraudeau (il vicino che c’era prima del signor
Cabrion) si comportava bene, ma era strabico. In principio ero
piuttosto imbarazzata, perché sembrava sempre che guardasse qualcuno
vicino a me e, senza pensarci, io mi voltavo per vedere chi fosse.»
Un altro scroscio di risa.
Rodolphe ascoltava incuriosito quel cicaleccio e si stava
domandando, già per la terza o quarta volta, che cosa dovesse
pensare della virtù di Rigolette.
C’erano momenti in cui la libertà di linguaggio della sartina e il
ricordo del grosso chiavistello quasi quasi gli facevano credere che
ella amasse i vicini come fratelli o compagni, e che la si-
gnora Pipelet l’avesse calunniata, e altri momenti in cui sorrideva
di questi suoi sintomi di credulità, perché pensava che era poco
probabile che una ragazza così giovane e così in balìa di se stessa
potesse essere sfuggita agli adescamenti dei vari Giraudeau, Cabrion
e Germain. Tuttavia, la franchezza e la straordinaria fiducia di
Rigolette facevano nascere in lui dei dubbi.
«È una cosa incantevole, vicina, che vogliate occupare così le mie
domeniche» riprese allegramente Rodolphe; «non preoccupatevi, faremo
molte belle gite.»
«Un momento, signor spendaccione, terrò io la cassa, vi avverto.
D’estate, potremo mangiare bene... dico bene!... con tre franchi,
alla Chartreuse o all’Ermitage Montmartre e farci anche una mezza
dozzina di contraddanze o di valzer, e qualche giro sulla giostra a
cavalli... adoro montare a cavallo... vi costerà in tutto cento
soldi, non un quattrino di più... Sapete ballare il valzer?»
«Sì, molto bene.»
«Alla buon’ora! Il signor Cabrion mi pestava sempre i piedi, e poi,
per scherzare, gettava in terra dei petardi, di modo che alla
Chartreuse non ci hanno più voluti.»
E giù a ridere.
«State pur tranquilla, vi assicuro che, per quel che riguarda i
petardi, io sono molto serio; ma cosa faremo d’inverno?»
«D’inverno, poiché si ha meno fame, pranzeremo benissimo con
quaranta soldi, e ci resteranno tre franchi per il teatro, giacché
non voglio che spendiate più di cento soldi: è già abbastanza caro;
tanto, da solo, spendereste pressappoco lo stesso al caffè o al
biliardo in compagnia di gentaglia che puzza di tabacco lontano un
miglio. Non è forse meglio passare in allegria la giornata con
un’amichetta, una buona ragazza, ridanciana, che, per di più,
troverà il modo di farvi risparmiare qualche soldo, facendovi l’orlo
alle cravatte e occupandosi delle vostre faccende?»
«Ma certo che è un guadagno, vicina. Ma, se gli amici mi vedranno a
braccetto della mia amichetta?»
«Be’, penseranno: se la sta spassando, quel diavolo di Rodolphe!»
«Sapete il mio nome?»
«Quando ho saputo che la stanza vicina era affittata, ho chiesto a
chi.»
«E i miei amici diranno: “È molto fortunato quel Rodolphe!...” E mi
invidieranno.»
«Meglio così!»
«Mi crederanno felice.»
«Meglio così!... meglio così!...»
«E se non sono più felice di quanto possa sembrare?»
«Che cosa v’importa, dal momento che gli altri lo credono?...
Gli uomini si accontentano di questo.»
«Ma la vostra reputazione?»
Rigolette scoppiò a ridere.
«La reputazione di una sartina! Chi crede più a queste sto-
rie? Se avessi padre o madre, fratello o sorella, mi preoccuperei
per loro delle chiacchiere della gente... Ma sono sola e quindi è
affar mio.»
«Ma a me dispiacerà molto.»
«Che cosa?»
«Passare per un uomo felice, mentre invece vi amerei... pres-
sappoco come voi pranzavate a casa di papà Crétu... “mangiando pane
asciutto durante la lettura di un libro di cucina...”»
«Bah, vi ci abituerete: sarò con voi così dolce, così riconoscente e
vi darò così poco disturbo, che penserete che, dopo tutto, è meglio
passare la domenica con me che con un amico... Se sarete libero, la
sera, durante la settimana, e se ciò non vi darà noia, verrete a
passare la serata da me e approfitterete così del mio fuoco e del
mio lume; prenderete a prestito dei romanzi e me li leggerete.
Meglio così che andare a perdere il vostro denaro al biliardo; se
invece lavorerete fino a tardi in negozio o se preferirete andare al
caffè, allora verrete a darmi la buona notte quando rientrerete, se
sarò ancora sveglia; se, invece, dormirò, il mattino dopo vi darò io
il buon giorno battendo sul muro per svegliarvi... Il signor
Germain, l’ultimo mio vicino, passava tutte le sere così con me e
non si lamentava!... Mi ha letto tutto Walter Scott... Com’era
divertente! A volte, alla domenica, quando era brutto tempo, invece
di uscire e andare a teatro, egli andava a comperare qualcosa per
fare un bel pranzetto in camera mia, e poi leggevamo... Mi divertivo
quasi come ad andare a teatro. Questo per dirvi che non è difficile
andare d’accordo con me, faccio tutto quello che gli altri vogliono.
E poi voi che parlavate di malattie, se per caso ve ne capitasse
qualcuna... io sono una vera suora infermiera...! provate a
chiederlo ai Morel... Eh, signor Rodolphe, non sapete quanto siete
fortunato... È un vero terno al lotto avermi come vicina.»
«È vero, ho sempre avuto fortuna; ma, a proposito del signor
Germain, dov’è adesso?»
«A Parigi, credo.»
«Non l’avete più visto?»
«No, da quando ha cambiato casa non è più tornato da me.»
«Ma dove abita? E cosa fa?»
«Perché tutte queste domande vicino?»
«Perché sono geloso di lui» disse Rodolphe sorridendo, «e
vorrei...»
«Geloso!!!» E Rigolette scoppiò a ridere. «Non c’è nessun mo-
tivo, su... Povero ragazzo!...»
«Sul serio, vicina, m’interesserebbe molto sapere dove potrei
trovare il signor Germain; voi sapete dove abita; e, modestia a
parte, non dovrete credermi capace di abusare del segreto che vi
domando... Ve lo giuro nel suo interesse...»
«Vicino, io sono sinceramente convinta che possiate voler molto bene
al signor Germain, ma lui mi ha fatto promettere di non dire a
nessuno dove abita... e se non lo dico a voi, vuol dire che non
posso proprio dirlo... Non dovete prendervela per questo... Se mi
aveste confidato voi un segreto, sareste contento, vero, di come
agisco?»
«Ma...»
«Niente ma, vicino; ve lo dico una volta per tutte, non parliamone
più... Ho fatto una promessa e la manterrò, e, qualsiasi cosa
diciate, vi risponderò sempre la stessa cosa.»
Nonostante la sua sventatezza e la sua leggerezza, la ragazza
accentuò le ultime parole con tanta risolutezza, che Rodolphe
comprese, con suo grande dispiacere, che forse non avrebbe ottenuto
da lei niente di quello che voleva sapere. Gli ripugnava di usare
l’astuzia per approfittare della fiducia di Rigolette; decise quindi
di attendere e riprese allegramente:
«Non parliamone più, vicina! Accidenti! mantenete così bene i
segreti degli altri, che non mi stupisco più se nascondete i
vostri».
«Dei segreti, io? Vorrei proprio averne, dev’essere divertente.»
«Come! non avete nemmeno un piccolo segreto sentimentale?»
«Un segreto sentimentale?»
«Insomma... non avete mai amato?» disse Rodolphe guardando fisso
Rigolette, per cercare di scoprire la verità.
«Come! mai amato... E il signor Giraudeau? e il signor Cabrion? e il
signor Germain? e voi allora?»
«Li avete amati più di me?... in maniera diversa da come amate me?»
«Oh no! forse meno, perché ho dovuto abituarmi agli occhi strabici
del signor Giraudeau, alla barba rossa e agli scherzi del signor
Cabrion, e alla tristezza del signor Germain, infatti era
molto triste quel povero ragazzo. Voi, invece, mi siete piaciuto
subito...»
«Sentite, vicina, se non vi arrabbiate, vi parlerò... da vero
amico...»
«Su... su... non me la prendo io... E poi siete così buono che non
sareste capace, ne sono sicura, di dirmi qualcosa che mi
dispiaccia...»
«Certo... Ma sentite, ditemi francamente, se avete mai avuto qualche
amante!»
«Amante!... Oh bella! e ne ho forse il tempo?»
«Cosa c’entra il tempo?»
«Cosa c’entra?! ma il tempo è tutto... Prima di tutto sarei ge-
losa come una tigre, e avrei continuamente dei patemi d’animo;
ebbene, guadagno forse tanto denaro da poter perdere due o tre ore
al giorno a piangere e a disperarmi? e se mi tradisse... quante
lacrime, quanti dispiaceri!... Ah, sì, diavolo!... chissà come
resterei indietro col lavoro!»
«Ma non tutti gli amanti sono infedeli, né tutti fanno piangere la
loro amante.»
«Se fosse troppo gentile, sarebbe ancora peggio. Non potrei vivere
un momento senza di lui... e siccome dovrebbe certo stare tutto il
giorno in ufficio, in laboratorio o in negozio, io sarei un’anima in
pena; penserei a un’infinità di cose... mi immaginerei che altre lo
amano... che egli è con queste altre... E se mi lasciasse!...
pensate un po’ voi... e che ne so io di quello che potrebbe
succedere? Quel che è certo è che il mio lavoro ne risentirebbe... e
allora, che ne sarebbe di me? È già tanto se, tranquilla come sono,
posso tenermi al passo lavorando dodici o quindici ore al giorno...
Immaginatevi dunque se perdessi tre o quattro giorni alla settimana,
a tormentarmi... come potrei recuperare quel tempo?...
Impossibile!... dovrei mettermi al servizio di qualcuno?... Oh,
questo no!... amo troppo la mia libertà...»
«La vostra libertà?»
«Sì, potrei entrare come prima lavorante dalla sarta per cui
lavoro... avrei 400 franchi più vitto e alloggio...»
«E non accettate?»
«No di certo; dipenderei dagli altri; invece, per quanto povera sia
la mia casa, essa è casa mia, almeno non devo niente a nessuno...
Sono coraggiosa, generosa: sana e allegra... e ho un buon vicino
come voi: cosa voglio di più?»
«E non avete mai pensato a maritarvi?»
«Maritarmi!... solo posso maritarmi che con un povero come me.
Guardate quei disgraziati dei Morel... ecco dove si arriva...
mentre, invece, quando uno ha da pensare solo a sé, se la cava
sempre...»
«Così non fate mai sogni, castelli in aria?»
«Sì, sogno le cose da mettere sul caminetto... tolto questo, cosa
volete che desideri?»
«Ma se un parente vi lasciasse una piccola fortuna... supponiamo,
1200 franchi di rendita a voi che vivete con 500 franchi?»
«Caspita! potrebbe essere un bene, o un male.»
«Un male?»
«Così come sono, per me va bene: so la vita che conduco, non
so quella che condurrei se fossi ricca. Vedete, vicino, quando, dopo
una giornata di lavoro, la sera vado a dormire e il mio lume è
spento e al chiarore delle braci rimaste nella stufa vedo la mia
camera tutta pulita, le tende, il cassettone, le sedie, gli uccelli,
l’orologio, la tavola piena delle stoffe che mi hanno dato e penso:
In fondo tutto questo è mio e lo devo a me sola... credetemi
vicino... questi pensieri mi cullano dolcemente, eh sì!... e a volte
mi addormento piena di orgoglio e sempre contenta. Be’... se dovessi
quello che ho al denaro di un vecchio parente... sono sicura che non
sarei così contenta... Ma eccoci al Temple, guardate se non è un
magnifico colpo d’occhio!»
V
IL TEMPLE
Sebbene Rodolphe non condividesse la grande ammirazione che
Rigolette aveva dimostrato alla vista del Temple, ciò nonostante fu
colpito dal singolare aspetto di quell’enorme bazar, con tanto di
quartieri e di strade.
A metà circa della rue du Temple, poco lontano da una fontana che è
sull’angolo di una grande piazza, si vede un immenso parallelogramma
in legno con un tetto di ardesia.
È il Temple.
Delimitato a sinistra dalla rue Petit-Thouars e a destra dalla rue
Percée, esso termina in una vasta costruzione circolare, una
colossale rotonda, circondata da un porticato.
Una lunga strada, che taglia il parallelogramma nel mezzo e nel
senso della lunghezza, lo divide in due parti uguali; e queste, a
loro volta, sono tagliate e suddivise all’infinito da una moltitu-
dine di viuzze laterali e trasversali che si incrociano in ogni
senso, e che il tetto dell’edificio ripara dalla pioggia.
In quel bazar non c’è posto, in genere, per le mercanzie nuove; ma
il più piccolo ritaglio di qualsiasi stoffa, il più piccolo pezzo di
ferro, di rame, di ghisa o d’acciaio trova venditori e compratori.
Lì ci sono negozianti di pezze di stoffa di ogni colore, di ogni
sfumatura, di ogni qualità, di ogni età, che diventeranno le toppe
da mettere agli abiti bucati o stracciati.
Ci sono negozi dove si scoprono montagne di ciabatte scalcagnate,
contorte, lacere, cose senza nome, senza forma, e senza colore, fra
cui si notano qua e là alcune suole fossili, grosse un dito,
costellate di chiodi come porte di prigione, dure come zoccoli di
cavallo: veri scheletri di scarpe, in cui tutte le saldature sono
state divorate dal tempo, e tutto è ammuffito, indurito, bucato,
corroso; eppure tutto si compera: ci sono negozianti che vivono con
questo lavoro.
Ci sono rivenditori di fettucce, nastri, passamanerie, cordoni,
frange di seta, di cotone, o di filo, ricavati da vecchie tende
completamente fuori uso.
Altri si sono dati al commercio di cappelli da donna: rivendono i
cappelli che arrivano al negozio nei sacchi delle rivenditrici, dopo
le più strane peregrinazioni, le trasformazioni più violente, le
decolorazioni più incredibili. Perché le merci non occupino troppo
posto in un negozio di solito grande come una enorme scatola, i
cappelli vengono piegati bene in due, schiacciati, accatastati e
pigiati uno sopra l’altro; se si esclude la salamoia, è proprio lo
stesso procedimento seguito per la conservazione delle aringhe; ci
si può immaginare quindi quante cose stiano, così stivate, in uno
spazio di quattro piedi quadrati.
Quando si presenta il compratore, si tolgono quegli stracci dalla
grande pressione a cui sono sottoposti; la rivenditrice dà con
disinvoltura un colpetto nel fondo della calotta per rialzarla,
tende l’ala appoggiandosi sul ginocchio, e voi avete sotto gli occhi
quell’aggeggio bizzarro e fantastico, che vi richiama confusamente
alla memoria i copricapi favolosi, tipici delle maschere, delle zie
delle comparse o delle governanti dei teatri di provincia.
Più avanti, sotto l’insegna del Goût du Jour, sotto gli archi della
rotonda che sorge in fondo alla larga strada che divide il Temple in
due parti, sono appese, come ex voto, miriadi di vestiti dai colori,
dalle fogge e dalle forme ancora più incredibili e stravaganti di
quelle dei vecchi cappelli da donna.
Si trovano marsine grigie di lino, spavaldamente abbellite da tre
file di bottoni di ottone alla ussara, e ornate da un collettino di
pelliccia di pelo di volpe.
Soprabiti che in origine erano verde bottiglia ma che il tempo ha
reso verde pistacchio, filettati di un cordoncino nero e rinfrescati
da una fodera scozzese blu e gialla, di vistosissimo effetto.
Abiti detti una volta a coda di rondine, color mogano, con un gran
collo di felpa, e ornati di bottoni un tempo argentati, ma ora di un
rosso ramato.
Vi si notano anche polacche marrone, con il colletto di pelle di
gatto, e guarnite di alamari e di finimenti rifilacciati di cotone
nero; più in là ci sono vestaglie fatte a regola d’arte con vecchi
pastrani a cui è stato tolto il triplice bavero, e che internamente
sono state foderate di pezzi di cotonina stampata; quelle in
condizioni migliori sono di color blu o verde sporco, e hanno toppe
di tutti i colori, ricami a punto pieno, fodere di stoffa rossa con
rosoni arancio e colletti e paramani di tessuto uguale; un cordene,
che non è altro che un vecchio tirante di campanello in lana
ritorta, fa da cintura a quelle eleganti vesti da camera, in cui
Robert Macaire si sarebbe beatamente e boriosamente sentito a suo
agio.
Ricorderemo solo, a titolo informativo, un’infinità di vestiti da
Frontin più o meno ambigui, più o meno barbari, in mezzo a cui si
ritrovava qua e là qualche autentica livrea reale o principesca che
le più svariate rivoluzioni avevano trascinato dal palazzo agli
oscuri portici della rotonda del Temple.
La sezione delle scarpe vecchie, dei vecchi cappelli e dei vecchi
abiti ridicoli rappresenta l’aspetto grottesco del bazar; è il regno
degli stracci preziosamente ornati e trasformati; ma si deve
ammettere, o meglio dichiarare, che l’enorme emporio è di
grandissima utilità per le classi povere o poco agiate. Là esse
acquistano, a prezzo molto basso, roba bellissima e ancora in buono
stato la cui svalutazione è per così dire immaginaria.
Un lato del Temple, quello occupato dalla roba per le camere da
letto, era pieno di pile di coperte, di lenzuola, di materassi, di
cuscini. Più in là c’erano tappeti, tende e utensili da cucina di
ogni tipo; altrove vestiti, scarpe, cappelli per tutte le condizioni
e tutte le età. Oggetti, che essendo generalmente molto puliti, non
suscitano per niente ribrezzo.
Per chi non abbia visto il Temple, è difficile immaginare quanto
poco tempo e quanto poco denaro ci vogliano per riempire un carretto
con quel che occorre alla completa sistemazione di due o tre
famiglie che manchino di tutto.
Rodolphe rimase colpito dal fare premuroso, cortese e gioviale con
cui i rivenditori, in piedi davanti alle loro botteghe, richiamavano
l’attenzione dei passanti; si comportavano con una specie di
rispettosa familiarità che sembrava appartenere a un’altra epoca.
Rodolphe era a braccetto di Rigolette. Appena imboccò il grande
corridoio dove si trovavano i mercanti degli oggetti da camera da
letto fu fatto bersaglio delle offerte più seducenti.
«Signore, su, venite a vedere i miei materassi, sono quasi nuovi; ve
ne scucirò un angolo e vi farò vedere l’imbottitura; sembra lana
d’agnello tanto è soffice e bianca!»
«Signorina, ho bellissime lenzuola di tela; sono meglio che se
fossero nuove perché hanno perso la loro rigidezza; sono morbide
come un guanto; forti come una maglia d’acciaio.»
«Begli sposini, su, compratemi qualche coperta; guardate come sono
soffici, calde e leggere; sembrano di piuma, sono state rimesse a
nuovo ma non saranno state usate nemmeno venti volte; su, bella
signora, convincete vostro marito, fatevi mia cliente e vi arrederò
la casa e con poco... vi troverete contenti e ritornerete senz’altro
da comare Bouvard, c’è tutto da me... Ieri, ho avuto un’ottima
occasione... vedrete... entrate!... vedere non costa niente.»
«Vicina» disse Rodolphe a Rigolette, «andiamo un po’ da quella
grassona... Ci ha preso per due sposini, l’idea mi piace... ho
deciso per la sua bottega.»
«Vada per la grassona!» disse Rigolette, «anche a me piace la sua
faccia!»
La sartina e il compagno entrarono da comare Bouvard. Per un
sentimento di magnanimità che forse si può trovare solo al Temple,
le concorrenti di comare Bouvard non protestarono davanti alla
preferenza accordatale; una vicina, anzi, spinse la generosità al
punto di dire:
«Meglio che sia comare Bouvard piuttosto che un’altra ad avere una
tale cuccagna; lei ha famiglia ed è la decana e l’onore del Temple».
Era impossibile, d’altra parte, avere una faccia più simpatica, più
schietta e più allegra di quella della decana del Temple.
«Guardate, bella signora» disse a Rigolette che esaminava i vari
oggetti con occhio da intenditrice, «ecco l’occasione di cui vi
parlavo: due forniture di accessori per letto, quasi nuovi. Se per
caso volete una scrivania, eccone una» e comare Bouvard la indicò
con un gesto, «l’ho avuta assieme all’altra roba. Sebbene io di
solito non comperi mobili, non ho potuto fare a meno di prenderla:
le perso-
ne che mi hanno dato il tutto mi parevano tanto miserabili! Povera
signora!... ed era soprattutto la vendita di quest’anticaglia che le
spezzava il cuore... sarà stato un mobile di famiglia...»
Intanto, mentre la rivenditrice trattava con Rigolette sul prezzo
delle varie merci, Rodolphe esaminava attentamente il mobile che
comare Bouvard gli aveva mostrato.
Era uno di quei vecchi scrittoi, in legno rosa, di forma quasi
triangolare, con un pannello davanti che, calato e sorretto da due
lunghe cerniere di ottone, serve da scrivania. In mezzo al pannello,
tra gli intarsi multicolori, Rodolphe notò una cifra in ebano,
composta da una M e da una F intrecciate e sormontate da una corona
di conte. Secondo lui, l’antico possessore di quel mobile doveva
appartenere all’alta società. S’incuriosì: osservò lo scrittoio con
attenzione: stava guardando i cassetti aprendoli uno dopo l’altro,
quando incontrò qualche difficoltà ad aprire l’ultimo; mentre
indagava sul motivo, vide, incastrato fra i regoli e il fondo
mobile, un foglio di carta che non esitò a prendere.
Mentre Rigolette continuava le sue compere da comare Bouvard,
Rodolphe esaminava con curiosità il foglio scoperto.
Dalle molte cancellature che c’erano sopra, si poteva dedurre che
fosse la minuta di una lettera non terminata.
Rodolphe comunque riuscì a leggere, seppure con grande difficoltà,
quanto segue:
Signore
Credetemi, solo la più terribile sventura poteva spingermi al passo
che mi accingo a fare presso di voi. Alla base dei miei scrupoli non
c’è un orgoglio inopportuno, ma l’assoluta mancanza di meriti per il
favore che audacemente vi chiedo. Il vedere mia figlia ridotta, come
me, alla più orribile miseria mi fa superare ogni imbarazzo. Vi dirò
solo alcune parole sulla causa delle sciagure che mi hanno colpito.
Dopo la morte di mio marito, mi restava una fortuna di trecentomila
franchi che mio fratello aveva affidato al notaio Jacques Ferrand.
Ad Angers, dove mi ero ritirata con mia figlia, ricevevo, tramite
mio fratello, gli interessi di quella somma. Voi sapete, signore, la
tragedia che mise fine ai suoi giorni; rovinato, a quanto pare, da
segrete ma sfortunate speculazioni, egli si è ucciso otto mesi fa.
Poco prima del funesto avvenimento, ricevetti da lui alcune righe
disperate. Mi diceva che, quando le avrei lette, egli sarebbe già
morto. Terminava la lettera avvertendomi che non possedeva nessun
documento relativo alla somma consegnata, a mio
nome, al signor Jacques Ferrand; anche se costui non aveva
l’abitudine di rilasciare ricevute, essendo egli l’onestà e la
devozione in persona, sarebbe bastato comunque che mi fossi
presentata da lui perché la faccenda venisse sistemata come si
doveva.
Appena mi fu possibile pensare ad altro che alla spaventosa morte di
mio fratello, andai a Parigi, dove non conoscevo altri che voi,
signore, e indirettamente per giunta, tramite cioè le vostre
relazioni con mio marito. Come vi ho già detto, la somma affidata al
signor Jacques Ferrand costituiva tutta la mia fortuna, mio fratello
poi ogni sei mesi mi mandava gli interessi di quel denaro: era ormai
passato più di un anno dall’ultimo pagamento quando mi presentai dal
signor Jacques Ferrand per chiedergli la mia somma; ne avevo un
grandissimo bisogno.
Non ebbi tempo di dirgli chi ero che, senza rispetto per il mio
dolore, si mise ad accusare mio fratello di essersi fatto prestare
da lui duemila franchi che non poteva più riavere essendo egli
morto, e aggiunse che non solo il suo suicidio era un delitto
davanti a Dio e davanti agli uomini, ma anche un vero e proprio
furto di cui egli era stato vittima.
Quell’odioso linguaggio m’indignò, la chiara onestà di mio fratello
era nota a tutti; è vero che, a mia insaputa e a insaputa degli
amici, aveva perduto tutta la sua fortuna in rischiose speculazioni;
ma era morto con una reputazione intatta, compianto da tutti e senza
aver lasciato nessun debito tranne quello del notaio. Risposi al
signor Ferrand che lo autorizzavo su due piedi a prendersi dai
trecentomila franchi di cui era depositario i duemila che gli doveva
mio fratello. A queste parole mi guardò sbalordito, e mi chiese di
quali trecentomila franchi intendessi parlare.
“Di quelli che mio fratello ha depositato da voi, signore, diciotto
mesi fa e di cui fino ad ora mi avete fatto avere, per suo tramite,
gli interessi” gli dissi, non capendo io il valore di quella sua
strana domanda.
Il notaio alzò le spalle, abbozzò un sorriso di compassione, come se
io avessi detto la cosa per scherzo, e mi rispose che mio fratello
non solo non gli aveva affidato soldi, ma si era anche fatto
prestare duemila franchi.
Non so descrivervi lo spavento che provai a quelle parole.
“Ma allora cosa è successo del mio denaro?” esclamai. “Io e mia
figlia abbiamo solo questa risorsa: se questa ci è tolta, restiamo
nella più grande miseria. Cosa sarà di noi?”
“Non ne so nulla” rispose freddamente il notaio. “È probabile che
vostro fratello, invece di depositare quella somma da me, come vi
ha detto, se la sia mangiata con le disgraziate speculazioni che
faceva all’insaputa di tutti.”
“È falso! È un’infamia, signore” gridai. “Mio fratello era la lealtà
in persona. Non si sarebbe mai sognato di spogliare me e mia figlia,
anzi si sarebbe sacrificato per noi. Non aveva mai voluto maritarsi
per lasciare quello che possedeva a mia figlia.”
“Osereste dunque insinuare, signora, che io sono capace di dire di
non aver ricevuto in consegna nessun deposito?” mi chiese il notaio,
e il suo sdegno mi parve tanto sincero e giustificato, che gli
risposi:
“No, certo, signore; la vostra reputazione di uomo integro è nota a
tutti; non posso, comunque, accusare mio fratello di aver abusato
così indegnamente della vostra fiducia”.
“Su quali prove vi basate per farmi questo reclamo?” mi chiese
Ferrand.
“Su nessuna, signore. Diciotto mesi fa, mio fratello, prendendosi la
briga di occuparsi dei miei affari, mi ha scritto: ‘Ho un buonissimo
impiego al 6%; mandami la tua procura perché possa vendere i tuoi
titoli: depositerò i trecentomila franchi, che completerò io stesso,
dal notaio Jacques Ferrand’. Ho mandato la procura a mio fratello;
pochi giorni dopo mi ha annunciato che il mio denaro era stato
depositato da voi, e che voi non gli avevate rilasciato nessuna
ricevuta; sei mesi dopo, mi fece avere gli interessi maturati.”
“Ma, signora, non avete, per caso, qualche sua lettera che tratti di
questo argomento?”
“No, signore. Esse parlavano solo di affari; quindi non le ho
conservate.”
“Purtroppo, signora, non ci posso far nulla” mi rispose il notaio.
“Se la mia probità non fosse al di sopra di ogni sospetto e di ogni
dubbio, vi direi: I tribunali sono aperti; fatemi causa: starà ai
giudici scegliere tra la parola di un uomo rispettabile, che da
trent’anni gode della stima della gente per bene, e le dichiarazioni
postume di un uomo che dopo essersi rovinato con le più pazze
avventure, ha trovato scampo nel suicidio... Insomma vi direi:
muovetemi pure causa se ne avete il coraggio, e la memoria di vostro
fratello sarà disonorata. Ma credo che abbiate abbastanza buon senso
per rassegnarvi a una disgrazia certo molto grande, ma in cui io non
c’entro.”
“Insomma, signore, io sono una madre! non c’è il mio denaro, a me e
a mia figlia non restano altro che un po’ di mobili. Venduti questi,
saremo in miseria, signore, nella più squallida miseria!”
“Siete stata ingannata, è una vera disgrazia; ma io non ci posso far
niente” mi rispose il notaio. “Vi ripeto signora, che vostro
fratello vi ha ingannato. Se non sapete a chi credere, se a me o a
vostro fratello, fatemi causa: i tribunali decideranno.”
Uscii dalla casa del notaio con la morte nel cuore. Cosa mi restava
da fare in quel frangente? Senza documenti per provare la validità
della mia causa, convinta dell’ineccepibile onestà di mio fratello,
confusa dalla sicurezza del signor Ferrand, non avendo nessuno a cui
rivolgermi per chiedere consigli (allora voi eravate in viaggio),
sapendo che ci voleva denaro per consultare un avvocato, e volendo
conservare preziosamente il poco che mi restava, non osai intentare
un processo. Fu allora...
La lettera si fermava qui: infatti numerose cancellature rendevano
indecifrabili le poche righe che rimanevano; e, per finire, in un
angolo della pagina, in basso, Rodolphe scorse questa specie di
promemoria: Scrivere alla signora duchessa di Lucenay.
Rodolphe, dopo aver letto quel frammento di lettera, rimase un po’
pensieroso.
Sebbene la nuova infamia di cui veniva accusato Jacques Ferrand non
fosse provata, egli si era mostrato così spietato con il povero
Morel, così infame con sua figlia Louise, che non c’era da
meravigliarsi se un tale mascalzone, dietro il paravento di una
sicura impunità, aveva negato di aver ricevuto il deposito in
questione.
Quella madre che reclamava la sua fortuna, sparita in circostanze
così strane, doveva essere abituata all’agiatezza. Rovinate da un
improvviso rovescio di fortuna, senza conoscere nessuno a Parigi,
diceva la minuta della lettera, come potevano vivere le due donne
che non avevano forse niente e si trovavano sole in un’immensa
città?
Sappiamo che Rodolphe aveva promesso, senza pensarci, di affidare
qualche intrigo alla signora d’Harville e un ruolo da ricoprire in
qualche opera buona di là da venire, sicuro com’era di trovare,
prima del prossimo appuntamento con la marchesa, una qualche
sventura da alleviare.
Capì che il caso lo aveva messo sulle tracce di un nobile
infortunio, che avrebbe potuto, secondo quanto aveva progettato,
impegnare il cuore e la mente della signora d’Harville.
La minuta della lettera che aveva ancora fra le mani, e che certo
non doveva essere stata ancora inviata alla persona di cui si
implorava l’aiuto, lasciava trapelare i segni di un carattere fiero
e ras-
segnato che difficilmente si sarebbe piegato ad accettare l’offerta
di una elemosina. Quindi quante precauzioni, quanti stratagemmi,
quanta delicatezza e abilità per non far riconoscere le generose
persone da cui viene l’aiuto o per farlo accettare!
E quanta abilità, poi, per introdursi in casa di quella donna al
fine di giudicare se meritava veramente l’interesse che avrebbe
potuto anche suscitare! Rodolphe ci vedeva dentro un’infinità di
emozioni nuove, strane, avvincenti che, come egli aveva promesso,
dovevano singolarmente divertire la signora d’Harville.
«Be’, marito» disse allegramente Rigolette a Rodolphe, «cos’è quel
fogliaccio che avete in mano?»
«Mogliettina» rispose Rodolphe, «siete molto curiosa! Ve lo dirò
dopo. Avete terminato i vostri acquisti?»
«Certo, e i vostri protetti saranno sistemati come re. Adesso c’è da
pagare; la signora Bouvard ci è venuta incontro, bisogna
riconoscerlo.»
«Mogliettina, un’idea! se, mentre io pago, voi sceglieste degli
abiti per la signora Morel e per i suoi bambini! io non mi intendo
di simili acquisti. Dite che portino tutto qui: si farà un solo
viaggio, e quei poveretti avranno tutto in una volta.»
«Avete sempre ragione. Aspettatemi, non starò via molto. Conosco due
rivenditrici da cui mi servo di solito; da loro troverò tutto quanto
occorre.»
E Rigolette uscì.
Ma si volse per dire:
«Signora Bouvard, vi affido mio marito, non fategli gli occhi di
triglia, mi raccomando». E, detto questo, sparì.
VI
LA SCOPERTA
«Bisogna ammettere, caro signore» disse comare Bouvard a Rodolphe
dopo che Rigolette se ne fu andata, «che avete proprio una brava
donnetta di casa. Accidenti!... sa far bene i suoi acquisti; e poi è
così carina! bianca e rossa, con due begli occhioni neri e i capelli
dello stesso colore... è raro!...»
«Vero, signora Bouvard, che è affascinante, e che io sono un marito
fortunato.»
«Marito fortunato come lei è moglie fortunata... sono sicura.» «Non
vi sbagliate: ma, ditemi, quanto vi devo?»
«La vostra mogliettina ha voluto strapparmi, senza cedere, 330
franchi per tutto. Com’è vero Dio, io non ci guadagno che 15
franchi, perché non ho comperato questa roba così a buon mercato
come avrei potuto... ma non avevo il coraggio di discutere sul
prezzo... le persone che me l’hanno venduta sembravano così
miserabili!»
«Davvero? ma sono le stesse che vi hanno venduto anche questo
piccolo scrittoio?»
«Sì, signore... mi si spezza il cuore al solo pensarci! Immaginatevi
che ieri l’altro è capitata qui una signora ancora giovane e bella,
ma così pallida e magra, che faceva pena a vederla... e noialtre ce
ne intendiamo. Sebbene fosse, come si dice, tutta in ghingheri,
aveva un vecchio scialle nero di lana tutto consumato, un vestito di
aleppina nera tutto logoro, un cappello di paglia in gennaio (la
signora era in lutto) che mostravano trattarsi di qualcuno che noi
chiamiamo una donna ricca in miseria, infatti sono sicura che è una
signora molto ammodo: poi, diventando tutta rossa, mi domanda se
voglio comperare l’occorrente per due letti e un vecchio scrittoio;
le rispondo che se voglio vendere devo comperare, che se la sua roba
mi andava bene l’avrei comperata, a patto che me l’avesse prima
fatta vedere. Mi prega allora di andare a casa sua, non lontano da
qui, di là della strada, in una casa sulla riva del canale
Saint-Martin. Affido la bottega a mia nipote e vado con la signora.
Arriviamo in una casa di povera gente, come si dice, proprio in
fondo al cortile; saliamo al quarto piano, la signora bussa e ci
viene ad aprire una ragazzetta di quattordici anni: anch’essa era in
lutto, pallida e magra; ma, nonostante ciò, bella come il sole...
così bella che restai estasiata.»
«E chi era la bella ragazza?»
«Era la figlia della signora in lutto... Nonostante il freddo aveva
addosso solo un misero vestito di cotonina nera a pois bianchi e uno
scialletto da lutto tutto logoro.»
«E l’abitazione era molto povera?»
«Immaginatevi, signore, due stanze pulitissime, ma nude e gelide da
far venire i brividi; un caminetto dove non si vedeva ombra di
cenere: non ci si doveva far fuoco da molto tempo. Il mobilio era
costituito da due letti, due sedie, un cassettone, un vecchio baule
e lo scrittoio; sul baule un pacco avvolto in un fazzoletto... Nel
pacchetto c’era tutto quanto sarebbe rimasto alla madre e alla
figlia, dopo aver venduto i mobili. Il padrone di casa, come disse
il portinaio che era salito con noi, si accontentava, per quel che
doveva avere, dei fusti dei due letti, delle sedie, del baule e
della tavola... A un certo punto, la signora mi pregò molto
cortesemente di stimare i materassi, le lenzuola, le tende e le
coperte. Da quella donna onesta che sono, signore, sebbene il mio
mestiere sia di comperare a buon prezzo e di vendere caro, quando ho
visto la povera signorina con gli occhi pieni di lacrime, e la madre
che, nonostante tutto il suo sangue freddo, sembrava piangere in
cuor suo, ho stimato tutta quella roba solo quindici franchi meno
del valore reale, ve lo giuro. E, inoltre, per far loro un favore,
ho acconsentito a prendere questo piccolo scrittoio, quantunque non
c’entri con le merci che vendo...»
«Ve lo compero io, signora Bouvard...»
«Meglio così, signore, chissà quanto tempo avrei dovuto tenermelo...
Me lo sono preso solo per fare un piacere a quella povera signora.
Le dissi dunque il prezzo che avrei offerto per quella roba... Mi
aspettavo che stesse lì a contrattare, che volesse di più... Nemmeno
per sogno! Anche da questo capii che era una signora molto distinta;
una donna ricca in miseria, signore, proprio così! Le dico dunque:
“È tanto”. Lei mi risponde: “Va bene. Torniamo nel vostro negozio,
mi darete lì il denaro, tanto non devo più tornare in questa casa”.
Poi disse alla figlia che piangeva seduta sul baule: “Claire, prendi
il fagotto...” (mi ricordo bene, l’ha chiamata Claire). La fanciulla
si alza; ma passando vicino allo scrittoio, si butta in ginocchio e
si mette a singhiozzare. “Coraggio, figliola, ci stanno guardando”
le disse la madre sottovoce, ma io la sentii ugualmente. Capite,
signore, povere ma orgogliose. Quando la signora mi ha dato la
chiave dello scrittoio, ho visto una lacrima anche nei suoi occhi
arrossati; sembrava che il cuore le si volesse spezzare al separarsi
da quel vecchio mobile, ma cercava di mantenersi calma e dignitosa
davanti agli estranei. Infine ha avvertito il portinaio che sarei
venuta a ritirare tutto quello che il padrone di casa non avesse
tenuto per sé, e siamo ritornate qui. La signorina dava il braccio
alla madre, e portava l’involto che conteneva tutto quello che
possedevano. Io contai loro il denaro, 315 franchi, e non le ho più
riviste.»
«Ma come si chiamavano?»
«Non lo so; la signora mi aveva venduto i mobili in presenza del
portinaio, per cui non avevo bisogno di sapere il loro nome...
quello che vendeva era proprio suo.»
«Ma non sapete il loro nuovo indirizzo?»
«Non so nemmeno questo.»
«Quelli della casa in cui abitavano lo sapranno!»
«No, signore. Quando ci sono ritornata, per prendere gli oggetti, il
portinaio mi ha detto riferendosi alle due donne: “Erano persone
molto tranquille, rispettabili e disgraziate! purché non succeda
loro qualcosa di brutto! Esteriormente sembravano calme; ma sono
sicuro che, dentro di loro, erano disperate”. “E adesso dove
andranno ad abitare?” gli chiedo io. “Non lo so proprio, mi
risponde; se ne sono andate senza dirmelo... certo che qui non
ritorneranno più.”»
Le speranze che per un momento Rodolphe aveva nutrito, sfumarono.
Come scoprire quelle due donne sventurate, avendo come unici indizi
il nome della ragazza, Claire e l’abbozzo di lettera che sappiamo,
in fondo al quale erano scritte le parole: Scrivere alla signora di
Lucenay?
La sola esigua speranza di potersi mettere sulle tracce di quelle
disgraziate dipendeva quindi dalla signora di Lucenay che, per
fortuna, era nel novero delle amiche della signora D’Harville.
«Ecco, signora, tenete», disse Rodolphe alla rivenditrice,
porgendole un biglietto da 500 franchi.
«Adesso vi do il resto, signore...»
«Dove potremo trovare un carretto per trasportare tutta la roba?»
«Se non abitate lontano, vi basterà un carrettino a mano... c’è
quello di Jèrôme, qui vicino: è il mio galoppino fisso... Qual è il
vostro indirizzo, signore?»
«Rue du Temple, n. 17»
«Rue du Temple, n. 17?... Oh, bene, bene lo conosco benissimo!»
«Ci siete già stata in quella casa?»
«Parecchie volte... prima per comperare stracci da una che abita lì
e presta su pegno... certo non fa un bel mestiere... ma non sono
affari miei... lei vende, io compro, e siamo pari... e poi, un’altra
volta, saranno quasi sei settimane fa, ci sono ritornata per il
mobilio di un giovanotto del quarto piano che doveva cambiar casa.»
«Forse il signor François Germain?» esclamò Rodolphe. «Proprio lui!
lo conoscete?»
«Molto bene; purtroppo non ha lasciato in rue du Temple il
suo nuovo indirizzo, e non so più dove pescarlo.»
«Se è solo per questo, posso aiutarvi io.»
«Sapete dove abita?»
«Non esattamente, ma so dove potreste trovarlo di sicuro.» «E dove?»
«Dal notaio per cui lavora.»
«Un notaio?»
«Sì, che abita in rue du Sentier.»
«Il signor Jacques Ferrand!» esclamò Rodolphe.
«Proprio lui, un sant’uomo; nel suo studio c’è un crocefisso e
del legno benedetto; sembra di essere in sacrestia.»
«Ma come avete fatto a sapere che il signor Germain lavora da
quel notaio?»
«Ecco... quel giovanotto è venuto a propormi di comperare in
blocco i suoi pochi mobili. Anche questa volta, sebbene il mobilio
non sia il mio genere, l’ho comperato tutto e poi l’ho rivenduto qui
in bottega; poiché il giovanotto aveva bisogno, ho voluto fargli un
piacere. Bene... gli compero il mobilio da scapolo... Bene... gli do
i soldi... bene... Doveva essere stato contento di me, perché, dopo
quindici giorni, ritorna per comperare l’occorrente per un letto.
Aveva con sé un carrettino e un galoppino: si imballa il tutto...
bene... ma al momento di pagare si accorge di aver dimenticato il
portamonete. Aveva la faccia di un giovane tanto onesto che gli
dissi: “Portate via la roba lo stesso, passerò io da casa vostra a
prendere i soldi”. “Benissimo” mi disse, “ma non sono mai a casa;
venite domani in rue du Sentier dove si trova il notaio Jacques
Ferrand dal quale lavoro e vi pagherò.” Il giorno dopo sono andata e
ho preso i soldi; quello che mi sembra strano è che abbia venduto i
suoi mobili per comperarne degli altri, quindici giorni dopo.»
A Rodolphe parve di aver intuito e, in effetti intuì, il motivo di
quella stranezza: Germain voleva far perdere le sue tracce ai
miserabili che lo perseguitavano. Doveva avere avuto paura di
rischiare, sgomberando, di lasciar loro qualche indizio sulla sua
nuova abitazione; quindi per evitare questo pericolo, aveva
preferito vendere i suoi mobili per comperarne poi degli altri.
Pensò alla felicità che avrebbe provato la signora Georges nel
rivedere il figlio così a lungo e inutilmente cercato e fremette di
gioia.
In quel momento Rigolette ritornò, con gli occhi allegri e il
sorriso sulle labbra.
«Eh, ve lo dicevo io!» ella esclamò, «non mi sono sbagliata...
avremo speso in tutto 640 franchi, e i Morel saranno sistemati come
principi... Guardate, guardate... ecco i mercanti che arrivano...
come sono carichi! Non mancherà nulla a quella famiglia, c’è tutto
quello che occorre, dalla graticola alle due casseruole stagnate da
poco e alla caffettiera... Ho pensato: Dato che si vo-
gliono fare le cose in grande, facciamo le cose in grande!... E per
tutto abbiamo perso sì e no tre ore... ma su, presto, pagate,
vicino, e andiamocene... È quasi mezzogiorno, il mio ago dovrà
andare ben veloce se vorrò ricuperare la mattinata.
Rodolphe pagò e uscì dal Temple con Rigolette.
VII L’APPARIZIONE
La sartina e il compagno erano nell’androne quando furono investiti
dalla signora Pipelet che correva, stravolta, disorientata e
spaventata...
«Mio Dio!» disse Rigolette; «che avete, signora Pipelet? dove
correte in questo stato?»
«Siete voi, signorina Rigolette!» esclamò Anastasie, «è il buon Dio
che vi manda... aiutatemi a salvare Alfred...»
«Cosa dite?»
«Il mio caro vecchio è svenuto, abbiate pietà di noi!... correte a
prendermi due soldi di assenzio del più forte dal liquorista... è
l’unico rimedio per lui quando ha male... al piloro... forse si
rimetterà; siate buona, non ditemi di no, così io potrò tornare da
lui. Non capisco più niente.»
Rigolette lasciò il braccio di Rodolphe e corse dal liquorista,
«Ma che cosa è successo, signora Pipelet?» disse Rodolphe mettendosi
dietro alla portinaia, che s’era diretta verso la portineria.
«Se lo sapessi, caro signore! Ero uscita per andare in municipio, in
chiesa e in trattoria, per non far fare queste camminate ad
Alfred... Rientro... e cosa vi vedo? il mio adorato vecchietto con
le gambe per aria. Ecco, signor Rodolphe» disse Anastasie aprendo la
porta del suo antro, «guardate se non c’è da morire di crepacuore!»
Triste spettacolo!... Sempre col suo cappello a rocchetto in testa,
anzi più in testa che mai, giacché (a giudicare da uno strappo
trasversale) lo scolorito copricapo doveva essergli stato
violentemente calcato fin sopra gli occhi, il signor Pipelet stava
seduto per terra con le spalle contro le gambe del letto.
Alfred stava per rinvenire perché già cominciava a muovere un po’ le
mani, come se avesse voluto respingere qualcuno o qualcosa; poi
cercò di sbarazzarsi dalla improvvisata visiera che aveva.
«Sgambetta!... è buon segno!... sta tornando in sé!...» gridò la
portinaia. Si chinò e gli gridò alle orecchie: «Che cos’hai, Al-
fred?... Sono io, la tua Stasie... Come ti senti?... Adesso ti
porteranno un po’ d’assenzio che ti rimetterà in sesto». Poi con una
voce in falsetto delle più carezzevoli soggiunse: «Eh, l’hanno
sfregiato, assassinato, questo povero tesoro della sua mamma!».
Alfred trasse un profondo sospiro e si lasciò sfuggire come in un
gemito la fatidica parola:
«CABRION!!!».
E le sue mani frementi parvero voler respingere di nuovo una
spaventosa visione.
«Cabrion! ancora quel mascalzone del pittore!» esclamò la signora
Pipelet. «Alfred se l’è sognato tutta la notte, tanto che sono tutta
piena di calci. Quel mostro è il suo incubo! Non solo gli ha
avvelenato i giorni, ma gli avvelena anche le notti; lo perseguita
anche nel sonno; sì, signore, come se Alfred fosse un malfattore e
quel maledetto Cabrion, che il diavolo se lo porti, fosse il suo
implacabile rimorso.»
Rodolphe pensò a qualche nuovo tiro dell’ex vicino di Rigolette e
sorrise con discrezione.
«Alfred... rispondimi, non stare lì senza parlare, mi fai paura»
disse la signora Pipelet; «su, svegliati... Perché vai a pensare a
quel farabutto!... sai bene che, quando ci pensi, ti fa lo stesso
effetto dei cavoli... ti prende al piloro e ti fa mancare il
respiro.»
«Cabrion!» ripeté il signor Pipelet, togliendosi a fatica il
cappello calcato fin sopra gli occhi, e sgranando attorno occhiate
stravolte.
In quel mentre entrò Rigolette con una bottiglietta di assenzio.
«Grazie, signorina; siete molto gentile!» disse la vecchia; poi
aggiunse: «Ecco, vecchio mio, butta giù questo, ti rimetterà in
sesto.»
E Anastasie s’avvicinò premurosamente e gli accostò alle labbra la
boccetta d’assenzio per fargliela trangugiare.
La coraggiosa resistenza di Alfred fu vana perché la moglie,
approfittando della debolezza della vittima, gli afferrò la testa,
gliela tenne ferma con una mano salda e lo costrinse a bere
l’assenzio dopo avergli infilato fra i denti il collo della
bottiglietta; fatto ciò, gettò un grido di trionfo:
«E giù dunque! eccoti sulle zampe, tesoro!»
Infatti Alfred, dopo essersi asciugato la bocca con il dorso della
mano, aprì gli occhi, si mise in piedi e:
«L’avete visto?» chiese con una faccia ancora spaventata. «Chi?»
«Se n’è andato?»
«Ma chi, Alfred?»
«Cabrion!»
«Ha avuto il coraggio...!» gridò la portinaia.
Il signor Pipelet, senza parole come la statua del commendato-
re, abbassò, simile a uno spettro, due volte la testa in segno
d’affermazione.
«Il signor Cabrion?» chiese Rigolette frenando a stento una gran
voglia di ridere.
«Quel mostro s’è scatenato con Alfred!» esclamò la signora Pipelet.
«Oh, se ci fossi stata io con la mia scopa... gliela avrei fatta
ingoiare almeno fino al manico. Ma, Alfred, parla, su, raccontaci la
disgrazia!»
Il signor Pipelet con la mano fece segno di voler parlare.
Si fece un religioso silenzio, mentre l’uomo dal cappello a
rocchetto cominciava a dire con voce profondamente alterata:
«Mia moglie mi aveva appena lasciato per non gravarmi della fatica
di andare, come m’aveva ordinato il signore (e s’inchinò davanti a
Rodolphe), in municipio, in chiesa e in trattoria.»
«Il mio caro vecchietto aveva avuto incubi tutta la notte; ho
preferito evitargli una fatica» disse Anastasie.
«Quell’incubo era un avvertimento del cielo» continuò religiosamente
il portinaio. «Avevo visto in sogno Cabrion... avrei dovuto soffrire
a causa di Cabrion: la giornata era cominciata con un attentato alla
virtù di mia moglie...»
«Alfred... Alfred... taci, su! mi metti in imbarazzo, così, davanti
a tutti...» disse la signora Pipelet con smorfie, sospiri e un
pudico sbatter di palpebre.
«Credevo di aver pagato lo scotto con la funesta giornata in cui
sono venuti quei malfattori lussuriosi» riprese il signor Pipelet
«quando... oh, Dio, Dio!»
«Su, Alfred, coraggio!»
«Ne avrò» rispose eroicamente il signor Pipelet; «ne ho proprio
bisogno... Ne avrò... Dunque ero lì seduto tranquillamente davanti
al mio tavolino, che pensavo al cambiamento che volevo fare nella
tomaia di uno stivale che mi avevano dato da riparare... quando
sento un rumore... un fruscio ai vetri della portineria... Fu un
presentimento... un avvertimento del cielo?... ebbi una stretta al
cuore; alzai la testa... e, attraverso il vetro, vidi... vidi...»
«Cabrion!!!» gridò Anastasie congiungendo le mani.
«Cabrion!» ripeté cupamente il signor Pipelet. «La sua orrenda
faccia era là, incollata alla finestra a fissarmi con i suoi occhi
da gatto... che dico?... da tigre!... proprio come nel sogno...
Tentai di parlare, ma la lingua mi si era incollata al palato;
cercai di alzarmi, ma ero incollato alla sedia... Lo stivale mi
cadde di mano, e come in tutti i momenti critici e importanti della
mia vita... restai completamente immobile... Allora la chiave girò
nella toppa, la porta si aprì e Cabrion entrò!»
«È entrato!... che sfacciataggine!» fece eco la signora Pipelet,
spaventata quanto il marito da quel terribile fatto.
«Entrò lentamente» riprese Alfred; «si fermò un momento sulla porta
come per affascinarmi con il suo sguardo atroce... poi venne verso
di me, e intanto si fermava a ogni passo e mi trafiggeva con lo
sguardo, senza dire una parola, diritto, silenzioso, minaccioso come
un fantasma!...»
«Mi vengono i brividi giù per la schiena» disse Anastasie.
«Io continuavo a restare immobile, seduto sulla sedia... Cabrion
continuava a venire avanti lentamente... soggiogandomi con lo
sguardo, come fa il serpente con un uccello... pur facendomi schifo,
io lo fissavo quasi mio malgrado. Mi arriva vicino... Non riesco a
sopportare oltre il suo aspetto rivoltante... era più forte di me...
non resisto più... chiudo gli occhi... Allora, mi sento le sue mani
sul cappello; lo prende dall’alto, me lo toglie lentamente dalla
testa... e mi lascia a capo scoperto! Mi sentivo già girare la
testa, mi mancava il respiro... le orecchie mi ronzavano... ero
sempre più incollato al mio sgabello, e chiudevo gli occhi sempre
più forte. Ed ecco che Cabrion si china, mi prende la testa, che ho
il diritto di chiamare, o meglio che avevo il diritto di chiamare
veneranda prima del suo attentato... mi prende dunque la testa tra
le mani fredde come quelle di un mostro... e sulla mia fronte
imperlata di sudore freddo egli depone... un bacio vergognoso!
impudico!!!»
Anastasie levò le braccia al cielo.
«Il mio più mortale nemico, venirmi a baciare la fronte!...
costringermi a subire le sue disgustose carezze, dopo avermi
atrocemente perseguitato perché voleva qualche ciuffo dei miei
capelli!... una tale mostruosità mi paralizzò e mi diede molto da
pensare... Cabrion approfittò del mio stupore per rimettermi il
cappello in testa, e per calcarmelo con un pugno fin sopra gli
occhi, come avete visto. Aveva passato la misura; mi sentii
sconvolgere da quest’ultimo oltraggio, tutto mi girava intorno e
svenni, ma prima di svenire lo vidi, sotto l’ala del cappello,
uscire dalla portineria tranquillamente, lentamente come era
entrato.»
Poi, quasi fosse spossato dalla narrazione, il signor Pipelet si
lasciò cadere sulla sedia con le mani levate al cielo in atto di
silenziosa imprecazione.
Rigolette uscì di corsa, non ce la faceva più, soffocava dalla
voglia di ridere, non sarebbe riuscita a resistere oltre. Anche
Rodolphe aveva faticato a mantenersi serio.
A un tratto si sentirono nella strada i caratteristici schiamazzi
che fa una massa di gente al suo sopraggiungere; fuori del portone
si stava creando un gran baccano; dopo un po’, si sentì picchiare
alla porta con il calcio del fucile.
VIII
L’A R R E S T O
«Dio mio, signor Rodolphe» gridò Rigolette che era accorsa pallida e
tremante, «c’è un commissario di polizia con le guardie!»
«La giustizia divina veglia su di me!» disse il signor Pipelet in
uno slancio di religiosa riconoscenza; «vengono ad arrestare
Cabrion... Ma per sfortuna è troppo tardi!»
Di lì a un po’ entrò nella portineria un commissario di polizia,
facilmente riconoscibile dalla fascia che si intravedeva sotto il
vestito nero; era un uomo dignitoso con una faccia grave e severa.
«Signor commissario, è troppo tardi, il malfattore è scappato» disse
sconsolato il signor Pipelet; «ma posso darvi i connotati... Sorriso
atroce, occhi spavaldi... maniere...»
«Di chi state parlando?» chiese il magistrato.
«Di Cabrion, signor commissario... Ma andando un po’ di fretta forse
si farebbe ancora in tempo a raggiungerlo» riprese il signor
Pipelet.
«Non so chi sia questo Cabrion» disse il magistrato spazientito;
«abita in questa casa il detto Jerôme Morel, di professione
lapidario?»
«Sì, commissario» rispose la Pipelet mettendosi sull’attenti.
«Conducetemi da lui.»
«Morel il lapidario!» riprese la portinaia al colmo della sor-
presa, «ma se è una pecorella di Dio! è incapace di...»
«Jerôme Morel abita qui, si o no?»
«Sì, signor commissario, in una soffitta con la sua famiglia...»
«Conducetemi dunque in quella soffitta.»
Poi il magistrato si rivolse all’uomo che lo accompagnava e gli
disse:
«Di’ alle due guardie municipali di aspettare giù e di non lasciare
l’androne. Manda Justin a cercare una carrozza.»
L’uomo si allontanò per eseguire gli ordini.
«Ora» riprese il magistrato rivolgendosi al signor Pipelet,
«conducetemi dai Morel.»
«Se per lei è lo stesso, signor commissario, vi accompagno io,
invece di Alfred, che sta male per via di Cabrion... che gli sta sul
piloro come i cavoli.»
«Voi o vostro marito fa lo stesso, andiamo!»
E, preceduto dalla signora Pipelet, cominciò a salire le scale; ma
subito si fermò vedendo che Rodolphe e Rigolette venivano dietro.
«Chi siete? cosa volete?» chiese loro.
«Sono i due inquilini del quarto piano» disse la signora Pipelet.
«Scusate, mio signore! non credevo foste della casa» disse a
Rodolphe.
Questi, presagendo bene dalle maniere gentili del commissario, gli
disse:
«Signore, troverete una famiglia disperata; non so quale nuova
disgrazia minacci questo povero operaio che già questa notte è stato
colpito da una disgrazia... gli è morta una figlia, una bambina
minata dalla tisi... sotto i suoi occhi... morta di freddo e di
fame...»
«Possibile?»
«È la verità, signor commissario» disse la signora Pipelet. «Questo
signore che vi parla è il principe degli inquilini; lui ha soccorso
il povero Morel e l’ha salvato dalla prigione; se non fosse stato
per lui, tutta la famiglia del lapidario sarebbe morta di fame.»
Il commissario guardava Rodolphe con sorpresa e interesse.
«Niente di più semplice, signore» riprese costui; «una persona molto
caritatevole venuta a conoscenza della deplorevole quanto immeritata
situazione di Morel, dell’onestà e probità del quale posso farmi
garante, mi ha incaricato di pagare la cambiale per cui le guardie
erano venute ad arrestare il povero operaio e a togliere così a una
famiglia numerosa l’unico sostegno.»
Il magistrato restò a sua volta colpito dalla nobile fisionomia e
dalle maniere distinte di Rodolphe, e:
«Non dubito» rispose, «della probità di Morel: solo mi dispiace di
dover compiere un penoso incarico davanti a voi, signore, che vi
interessate tanto a quella famiglia.»
«Cosa volete dire, signore?»
«Dall’aiuto che avete dato ai Morel e dalle vostre parole, capisco
che, signore, voi siete un galantuomo. E poiché, d’altra parte, non
ho nessun motivo per tenervi celato il nome della persona che è
oggetto del mandato, vi dirò che si tratta dell’arresto di Louise
Morel, la figlia del lapidario.»
Rodolphe corse subito col pensiero al rotolo di denaro che la
ragazza aveva dato alle guardie.
«Dio! e di che cosa è accusata?»
«Lei, lei!... oh, povero padre!»
«Stando a quanto m’avete detto, signore, penso che, date le tri-
sti circostanze in cui è venuto a trovarsi il lapidario, questo sarà
un altro colpo terribile per lui... Purtroppo devo obbedire agli
ordini ricevuti.»
«Ma si tratta solo di una semplice accusa?» esclamò Rodolphe. «E ci
sono le prove?...»
«Non posso dire di più a questo proposito... La giustizia è stata
messa sulle tracce del delitto, o meglio di questa accusa, dalle
dichiarazioni di un uomo rispettabile sotto tutti i punti di
vista... il padrone di Louise Morel.»
«Il notaio Jacques Ferrand?» disse Rodolphe sdegnato.
«Sì, signore... Ma perché questa indignazione?»
«Jacques Ferrand è un miserabile, signore!»
«Vedo, signore, e ne sono dispiaciuto, che non conoscete l’uo-
mo di cui state parlando; il signor Jacques Ferrand è la persona più
rispettabile di questo mondo, una persona di indubbia onestà.»
«Vi ripeto, signore, che quel notaio è un miserabile... Ha voluto
far imprigionare Morel perché la figlia respingeva le sue infami
proposte. Se contro Louise c’è solo la denuncia di un tale uomo...
dovete ammettere, signore, che una tale denuncia merita poco
credito.»
«Non sta a me, signore, né mi si addice discutere il valore delle
dichiarazioni del signor Jacques Ferrand» disse freddamente il
magistrato; «la cosa riguarda la giustizia, decideranno i tribunali:
quanto a me, io faccio il mio dovere, perché ho avuto l’ordine di
arrestare Louise Morel.»
«Avete ragione, signore, mi dispiace che un impeto di collera, forse
legittima, mi abbia sconvolto tanto da non farmi considerare che
questo non era né il luogo né il momento per intavolare una simile
discussione. Permettetemi ancora una parola; nella soffitta è
rimasto solo il cadavere della figlia che Morel ha perdu-
to, la famiglia, invece, è nella mia stanza; l’ho offerta per
risparmiare loro il triste spettacolo della morticina; il lapidario
e la figlia li troverete nella mia stanza. Ve ne scongiuro, signore,
siate umano, usate maniere gentili, non arrestate Louise in presenza
di quegli sventurati; sono or ora usciti da una terribile sorte.
Morel è stato talmente scosso questa notte, che la sua ragione non
resisterebbe; sua moglie è gravemente ammalata, un colpo simile la
ucciderebbe.»
«Signore, ho sempre eseguito gli ordini con tutti i riguardi
possibili, agirò così anche in questa circostanza.»
«Mi permettete, signore, di chiedervi una grazia? Ecco quello che vi
propongo: la ragazza che è insieme alla portinaia occupa la stanza
vicino alla mia; sono sicuro che la metterà a vostra disposizione;
potreste prima far chiamare Louise, poi, se sarà necessario, Morel,
perché la figlia gli dica addio... Così risparmierete a una povera
donna ammalata e inferma una scena penosa.»
«Se si può fare così... signore... volentieri.»
La conversazione che abbiamo riportato si era svolta sottovoce,
mentre Rigolette e la signora Pipelet si tenevano riguardosamente a
vari gradini di distanza dal commissario e da Rodolphe: costui scese
poi vicino alla sartina che, per la presenza del commissario, era
tutta tremante, e le disse:
«Mia buona vicina, vi chiedo un altro favore: dovreste lasciarmi
disporre della vostra stanza per un’ora.»
«Come volete signor Rodolphe... Avete voi la mia chiave. Dio mio,
che cosa sta succedendo?»
«Fra poco ve lo dirò; e non è tutto: dovreste essere tanto buona da
ritornare al Temple ad avvertire che portino fra un’ora quello che
abbiamo comperato...»
«Molto volentieri, signor Rodolphe: ma sta succedendo qualche altra
disgrazia ai Morel?»
«Ahimè sì! sta succedendo loro qualcosa di molto triste. Presto,
purtroppo, lo saprete.»
«Io corro al Temple... Dio mio! e io che credevo che, per merito
vostro, i Morel fossero fuori dei guai!...» disse la sartina; e
scese rapidamente le scale.
Rodolphe aveva voluto soprattutto risparmiare a Rigolette il triste
spettacolo dell’arresto di Louise.
«Signor commissario» disse la signora Pipelet, «dal momento che vi
fa da guida il principe degli inquilini, posso ritornare da Alfred?
Sono preoccupata per mio marito; poco fa ha faticato non poco a
rimettersi dal malore causatogli da Cabrion.»
«Andate pure...» disse il magistrato; e restò solo con Rodolphe.
I due, a un certo momento, arrivarono sul pianerottolo del quarto
piano dirimpetto alla camera dove provvisoriamente si erano
stabiliti il lapidario e la famiglia.
A un tratto la porta si aprì.
Apparve Louise, pallida e piangente.
«Addio, addio, papà!» gridò la ragazza, «tornerò, ma adesso
devo andarmene.»
«Louise, figliola, stammi a sentire» replicò Morel dietro la fi-
glia che cercava di trattenere.
Alla vista di Rodolphe e del commissario, Louise e il lapidario
s’immobilizzarono.
«Ah, signore voi che siete il nostro salvatore» disse l’artigiano
riconoscendo Rodolphe, «aiutatemi a trattenere Louise. Non so che
cos’abbia, mi fa paura; vuole andarsene. Vero, signore, che non deve
più ritornare dal suo padrone? Non è vero che mi avete detto:
“Louise non vi lascerà più, questa sarà la vostra ricompensa?”. Oh,
vi confesso che davanti a questa sacrosanta promessa, ho avuto un
momento in cui ho dimenticato perfino la morte della mia povera
Adèle; perciò non voglio più essere separato da te, Louise, mai!
mai!»
Rodolphe si sentì il cuore a pezzi e senza la forza di dire una sola
parola.
Il commissario chiese severamente a Louise: «Vi chiamate Louise
Morel?».
«Sì, signore» rispose la ragazza sbigottita.
Rodolphe, intanto, aveva aperto la porta della stanza di Rigolette.
«Voi siete Jerôme Morel, suo padre?» aggiunse il magistrato
rivolgendosi al lapidario.
«Sì... signore... ma...»
«Entrate lì con vostra figlia.»
E il magistrato indicò la stanza di Rigolette, dove Rodolphe
era già entrato.
Rassicurati dalla presenza di quest’ultimo, il lapidario e Louise
obbedirono stupiti e sconvolti al commissario; questi chiuse la
porta e disse un po’ turbato a Morel:
«So quanto siete onesto e disgraziato; mi dispiace quindi
informarvi... che in nome della legge sono venuto ad arrestare
vostra figlia.»
«Mi hanno scoperto... sono perduta!» esclamò Louise spaventata,
gettandosi tra le braccia del padre.
«Ma cosa dici?... cosa dici?» riprese Morel stupefatto. «Sei
pazza... perché perduta?... Arrestarti... perché arrestarti?... chi
può venire ad arrestarti?...»
«Io... in nome della legge!» e il commissario mostrò la fascia.
«Oh, povera me!... povera me!...» gridò Louise cadendo in ginocchio.
«Come! in nome della legge?» disse l’artigiano la cui ragione,
violentemente turbata da questo nuovo colpo, cominciava a cedere;
«perché arrestare mia figlia in nome della legge?... rispondo io di
Louise; è la mia figliola, la mia brava figliola... vero, Louise?
Come! arrestarti, quando il nostro buon angelo ti ha restituita a
noi per consolarci della morte della piccola Adèle? Via, non è
possibile!... E poi, signor commissario, con rispetto parlando, solo
i delinquenti vengono arrestati, capite?... E Louise, mia figlia,
non è una delinquente. Vedi, bambina, questo signore sicuramente si
sbaglia... Mi chiamo Morel; e c’è più di un Morel... tu ti chiami
Louise e c’è più di una Louise... e così, capite signor commissario,
c’è un errore!»
«Purtroppo, non c’è nessun errore!... Louise Morel, salutate vostro
padre.»
«Mi rapite la figlia, voi!...» gridò l’operaio accecato dal dolore,
andando minaccioso verso il magistrato.
Rodolphe trattenne il lapidario per un braccio e gli disse:
«Calmatevi, abbiate speranza; vostra figlia vi sarà restituita... la
sua innocenza verrà dimostrata: sono sicuro che non è colpevole.»
«Colpevole di cosa?... Non può essere colpevole di niente...
Metterei la mano sul fuoco che...» Poi, ricordandosi del denaro che
Louise aveva portato per pagare la cambiale, Morel esclamò: «Ma,
Louise, il denaro!... il denaro di questa mattina?»
E guardò la figlia in modo terribile. Louise capì.
«Io rubare!» gridò, e il rossore sulle guance di lei, il giusto
sdegno, la voce e il gesto fatto tranquillizzarono il lapidario.
«Ne ero certo!» esclamò. «Vedete, signor commissario... Ella nega e
in vita sua non ha mai mentito, ve lo giuro... Chiedete a tutti
quelli che la conoscono, diranno anche loro come me. Lei, mentire!
ah, sì proprio!... è troppo orgogliosa per far ciò; d’altra parte la
cambiale è stata pagata dal nostro benefattore... Non ha nessuna
intenzione di tenersi quel denaro; voleva restituirlo subito alla
persona che glielo ha prestato, dandole l’ordine di non parlare...
vero, Louise?»
«Ma vostra figlia non è accusata di aver rubato» disse il
magistrato.
«Ma, mio Dio, di che cosa la si accusa allora? Io, suo padre, vi
giuro che non può essere che innocente, qualunque sia la cosa di cui
viene accusata; e io, in vita mia, non ho mai mentito.»
«Ma a cosa serve conoscere il tipo d’accusa?» gli disse Rodolphe,
commosso da quelle sofferenze «l’innocenza di Louise verrà
riconosciuta; la persona che si interessa così caldamente a voi
proteggerà vostra figlia... Su, coraggio... anche questa volta la
Provvidenza non vi abbandonerà. Date un bacio a vostra figlia,
tanto, presto la rivedrete...»
«Signor commissario» gridò Morel, senza badare a Rodolphe, «non si
toglie una figlia al padre senza dirgli almeno di che cosa la si
accusa! Voglio sapere tutto... Louise, vuoi o non vuoi parlare?»
«Vostra figlia è accusata di infanticidio» disse il magistrato.
«Io... io... non capisco... io vi...»
E Morel, costernato, balbettò alcune parole sconclusionate. «Vostra
figlia è accusata di aver ucciso il suo bambino» riprese
il commissario profondamente turbato, «ma non è ancora provato che
abbia commesso un tale delitto.»
«Oh no, non è vero, signore, non è vero!» gridò Louise balzando
impetuosamente in piedi. «Vi giuro che era già morto! Non respirava
più... era ghiacciato... ho perduto la testa... ecco il mio
delitto... Ma che io abbia ucciso la mia creatura, oh no, mai!...»
«La tua creatura, disgraziata!» esclamò Morel, alzando le mani su
Louise, come se con quel gesto e con quella terribile imprecazione
avesse voluto annientarla.
«Pietà, papà! pietà!...» gridò la ragazza.
Dopo un momento di terribile silenzio, Morel riprese con calma
ancora più terribile...
«Signor commissario, conducete via questa ragazza... questa non è
mia figlia...»
Il lapidario fece l’atto di uscire, ma Louise gli si gettò ai piedi
e gli abbracciò le ginocchia; poi rovesciò la testa all’indietro, e
si mise a gridare con voce supplice e rotta dal dolore:
«Papà! ascoltatemi almeno... ascoltatemi!»
«Signor commissario, su, portatela via, ve la lascio» diceva il
lapidario facendo tutti gli sforzi possibili per liberarsi dalla
stretta di Louise.
«Ascoltatela» gli disse Rodolphe trattenendolo, «non siate spietato
ora.»
«Lei!!! Dio mio!... Lei!!» ripeteva Morel portandosi le mani alla
fronte, «lei disonorata!... oh, sciagurata!... sciagurata!»
«E se si fosse disonorata per salvarvi?...» gli disse Rodolphe
sottovoce.
Morel, a queste parole, si sentì come fulminato; guardò la figlia
piangente che continuava a restare inginocchiata ai suoi piedi; poi,
lanciatole un’indescrivibile occhiata interrogativa, con voce cupa e
arrotando i denti per la rabbia:
«Il notaio?» esclamò.
Louise ebbe subito la risposta sulle labbra... Stava per parlare,
ma, riflettendo meglio, si trattenne, chinò il capo e restò in
silenzio.
«Ma no, egli voleva farmi imprigionare questa mattina» sbottò a dire
Morel, «quindi non è lui... Oh, meglio così!... meglio così!... non
c’è niente che scusi il suo errore, io non c’entro con la sua
colpa... potrò maledirla... senza rimorsi!...»
«No, no! non mi maledite, papà!... a voi, dirò tutto... a voi solo;
e vedrete... vedrete se non merito il vostro perdono...»
«Abbiate pietà, ascoltatela!» gli disse Rodolphe.
«Che cosa mi dirà? la sua onta?... fra poco la sapranno tutti;
aspetterò...»
«Signore!...» esclamò Louise rivolgendosi al magistrato, «per
carità, lasciatemi dire una o due parole a mio padre... prima di
lasciarlo forse per sempre... E a voi pure, nostro salvatore,
parlerò... ma solo davanti a voi e a mio padre.»
«Va bene» rispose il magistrato.
«Non siate dunque insensibile! Non negate quest’ultimo conforto a
vostra figlia!» disse Rodolphe a Morel. «Se credete di potermi
essere grato per i favori che ho invocato per voi, ascoltatemi,
esaudite la preghiera di vostra figlia.»
Morel ebbe un momento di truce e cupo silenzio, poi rispose:
«Andiamo!...»
«Ma... dove andiamo?...» chiese Rodolphe, «la vostra famiglia è qui
accanto...»
«Dove andiamo?» esclamò il lapidario con amara ironia, «dove
andiamo? Lassù... lassù... nella soffitta... accanto al corpo di mia
figlia... È proprio il luogo adatto per la confessione... vero?
Andiamo... vedremo se Louise oserà mentire davanti al cadavere di
sua sorella. Andiamo!»
E Morel uscì precipitosamente, senza guardare Louise, sconvolto.
«Signore» disse sottovoce il commissario a Rodolphe, «per carità,
nell’interesse di quel povero padre, cercate di rendere più breve
possibile il colloquio. Avevate ragione a dire che il suo sen-
no non avrebbe retto. Poco fa ha avuto, così almeno m’è parso, uno
sguardo da pazzo...»
«Ahimè, signore, anch’io come voi temo una nuova e terribile
sventura; cercherò di rendere meno straziante l’addio.»
E Rodolphe raggiunse il lapidario e sua figlia.
Per quanto strana e lugubre, la decisione di Morel era stata più che
altro dettata dalla disposizione dei locali; siccome il magistrato
aveva acconsentito ad attendere la conclusione di quel colloquio
nella camera di Rigolette e la famiglia Morel occupava la stanza di
Rodolphe, non restava altro che la soffitta.
E proprio in quel macabro bugigattolo andarono Louise, suo padre e
Rodolphe.
IX
LA CONFESSIONE
Spettacolo fosco e doloroso!
Al centro della soffitta, tale e quale l’abbiamo descritta noi, gia-
ceva, sul pagliericcio della vecchia scema, coperto da un pezzo di
lenzuolo, il corpo della bambina morta la mattina.
La scarsa ma vivida luce che filtrava dallo stretto abbaino
produceva chiazze d’ombra dai contorni precisi.
Rodolphe stava in piedi, con le spalle appoggiate al muro; era
affranto e turbato.
Morel era seduto sull’orlo del suo banco; aveva la testa china, le
mani penzoloni e uno sguardo sbarrato e truce, puntato fisso sul
materasso dove era stata deposta la salma della piccola Adèle.
A quella vista la collera e lo sdegno del lapidario caddero
lasciando posto a una tristezza e a un’amarezza inesprimibili; era
come svuotato della sua energia, quel nuovo colpo l’aveva abbattuto.
Louise, mortalmente pallida, si sentiva mancare; la rivelazione che
doveva fare la sgomentava. Si arrischiò, comunque, a prendere
tremando la mano del padre, quella povera mano scarna, deformata dal
troppo lavoro.
Morel non ritrasse la mano; fu allora che la figlia scoppiò in
singhiozzi e cominciò a ricoprirgliela di baci; e la mano cedeva a
poco a poco e le premeva sempre sulle labbra. La collera di Morel
era cessata; alla fine le lacrime troppo a lungo represse ruppero
gli argini.
«Babbo, se sapeste!» esclamò Louise, «se sapeste come sono da
compiangere!»
«Oh, questo sarà il tormento di tutta la mia vita Louise, di tutta
la mia vita» rispose piangendo il lapidario. «Tu, Dio mio! tu in
prigione... sul banco dei criminali... tu, così fiera quando avevi
il diritto di essere fiera... No!» riprese in un nuovo accesso di
disperato dolore, «no! avrei preferito vederti sotto la coltre
funebre accanto alla tua povera sorella...»
«Anch’io avrei voluto esserci» rispose Louise.
«Taci, povera figlia, mi fai male... Ho avuto torto di dirti così;
sono stato eccessivo... Su, parla, ma in nome di Dio, non mentire...
Dimmi tutta la verità, qualunque essa sia... che la senta da te...
mi sembrerà meno crudele... Parla, su! Abbiamo i minuti contati; da
basso, ti aspettano. Oh, che triste... che triste addio, giusto
cielo!»
«Babbo, vi dirò tutto...» riprese Louise armandosi di coraggio; «ma
promettetemi, e me lo prometta anche il nostro salvatore, di non
dire niente a nessuno... a nessuno... Se sapesse che ho parlato,
vedete... Oh» aggiunse con un brivido di spavento, «sareste
perduti... perduti come me... perché voi non conoscete la potenza e
la ferocia di quell’uomo!»
«Di quale uomo?»
«Del mio padrone...»
«Il notaio?»
«Sì...» disse Louise sottovoce e guardandosi intorno, come se
avesse avuto paura di essere sentita.
«Tranquillizzatevi» riprese Rodolphe «anche se quell’uomo è
crudele e potente, non importa, noi lo combatteremo! Del resto se
rivelassi quello che fra poco ci direte, lo farei solo per il vostro
interesse o per quello di vostro padre.»
«E anch’io, Louise, se parlassi, sarebbe per cercare di salvarti. Ma
cosa ha fatto ancora quello scellerato?»
«E non è tutto» disse Louise dopo un momento di riflessione, «nella
storia che racconterò dovrò parlare di uno che mi ha fatto un gran
favore... che è stato pieno di bontà per mio padre e per la mia
famiglia; questa persona era impiegata dal signor Ferrand quando
entrai in quella casa e mi ha fatto giurare di non dire mai il suo
nome a nessuno.»
Rodolphe, pensando che si trattasse di Germain, chiese a Louise:
«Se intendete parlare di François Germain... state tranquilla, io e
vostro padre sapremo conservare bene il segreto.»
Louise guardò Rodolphe sorpresa. «Lo conoscete?» gli chiese.
«Come! quel buono, quell’ottimo giovane che ha abitato qui per tre
mesi, era impiegato dal notaio quando tu sei entrata in
quella casa?» disse Morel. «Ma se la prima volta che l’hai visto
qui, sembrava che tu non lo conoscessi?...»
«Ci eravamo messi d’accordo, babbo; aveva seri motivi per non far
sapere che lavorava dal signor Ferrand. Sono stata io a indicargli
la stanza del quarto piano che era da affittare perché ero sicura
che, per voi, sarebbe stato un buon vicino...»
«Ma» chiese Rodolphe, «chi, allora, ha messo vostra figlia dal
notaio?»
«Quando mia moglie si ammalò, dissi alla signora Burette, l’usuraia
che abita qui, che Louise voleva andare a servizio per aiutarci.
Conoscendo la governante del notaio, la Burette mi aveva dato per
lei una lettera di raccomandazione in cui le diceva che era un
ottimo elemento. Maledetta... maledetta lettera!... è stata la causa
di tutti i nostri mali... Insomma, signore, ecco come mia figlia è
entrata dal notaio.»
«Sebbene io sia a conoscenza di alcuni fra i tanti fatti che sono
all’origine dell’odio del signor Ferrand per vostro padre» disse
Rodolphe a Louise, «vi prego di raccontarmi in poche parole quello
che è avvenuto fra voi e il notaio, da quando siete al suo
servizio... ciò potrà servire alla vostra difesa.»
«Nei primi tempi del mio servizio presso il signor Ferrand»
incominciò Louise, «non ho mai avuto da lamentarmi di lui. Avevo
molto lavoro, la governante mi maltrattava spesso, la casa era
triste, ma sopportavo tutto con pazienza: il lavoro è lavoro;
altrove ci sarebbero stati altri inconvenienti. Il signor Ferrand
aveva una faccia austera, andava sempre a messa e spesso riceveva
preti; io non diffidavo di lui. In principio, mi guardava poco e mi
parlava con asprezza, specie in presenza di estranei.
A parte il portinaio che stava nell’ala della casa che dà sulla
strada, dove c’è lo studio, in casa non c’era altra servitù che la
signora Séraphin, cioè la governante, e io. Il padiglione che
occupavamo era una grande casa isolata, tra il cortile e il
giardino. La mia stanza era in alto. Molto spesso, la sera, avevo
paura di stare in cucina, che è sotterranea, o nella mia stanza. Di
notte, qualche volta mi sembrava di sentire strani rumori sordi nel
piano sotto al mio, dove non abitava nessuno, e dove di giorno
andava spesso il signor Germain a lavorare; in quel piano c’erano
due finestre murate, e una porta, spessissima, rinforzata da
spranghe di ferro. La governante mi aveva detto che lì c’era la
cassa del signor Ferrand.
Una sera, avevo vegliato fino a tardi per finire certe rappezzature
urgenti; stavo per andare a letto, quando sentii alcuni passi
leggeri nel piccolo corridoio in fondo al quale si trovava la mia
stanza; i passi si fermarono davanti alla mia stanza; dapprima
pensai che fosse la governante; ma, poiché non era entrato nessuno,
ebbi paura; non osai muovermi, stetti in ascolto, non sentii alcun
rumore, eppure ero sicura che c’era qualcuno dietro la mia porta;
chiesi due volte chi fosse... ma non rispose nessuno. Sempre più
impaurita, sbarrai col mio cassettone la porta che non aveva né
serratura, né chiavistello. Stetti ancora in ascolto, ma non si
sentì più nulla; dopo una mezz’ora che mi sembrò interminabile, mi
gettai sul letto; passai la notte tranquillamente. L’indomani
raccontai alla governante lo spavento che avevo provato la notte e
le chiesi se poteva far mettere il catenaccio al mio uscio, che non
aveva serratura; mi rispose che avevo sognato e che d’altra parte
per il catenaccio dovevo rivolgermi al signor Ferrand. Alla mia
richiesta questi rispose alzando le spalle, e affermando che ero
pazza; non osai più parlarne.
Poco tempo dopo accadde la disgrazia del diamante. Mio padre,
disperato, non sapeva come fare. Confidai la mia pena alla signora
Séraphin, che mi rispose: “Il signore è così caritatevole che
potrebbe forse fare qualcosa per vostro padre”. La sera stessa,
mentre servivo in tavola, il signor Ferrand mi disse bruscamente:
“Tuo padre ha bisogno di 1300 franchi; va questa sera stessa a
dirgli che passi domani dal mio studio per avere il denaro. È un
brav’uomo, merita che ci si interessi a lui”. Di fronte a un tale
atto di bontà, non potei trattenere le lacrime; non sapevo come
ringraziare il mio padrone; egli mi disse con la sua solita
asprezza: “Va bene, va bene, quello che faccio è molto semplice...”.
La sera, finite le faccende, andai a dare la bella notizia a mio
padre, e l’indomani...»
«Io avevo 1300 franchi in cambio di una cambiale in bianco che
sarebbe scaduta dopo tre mesi, ma che accettai comunque» disse
Morel; «anch’io, come Louise, piansi per riconoscenza; lo chiamai
mio benefattore... mio salvatore. Oh, dovette essere molto malvagio
se riuscì a distruggere la riconoscenza e la venerazione che mi
aveva ispirato...»
«Ma non aveste nessun sospetto dinanzi alla cambiale in bianco che
egli ebbe la precauzione di farvi firmare, cambiale a scadenza così
prossima che voi certo non sareste riuscito a pagare?» gli chiese
Rodolphe.
«No, signore; pensai che il notaio avesse voluto cautelarsi e
nient’altro; del resto mi disse che poteva benissimo aspettare due
anni prima di riavere quella somma; solo, che ogni tre mesi avrei
dovuto, per maggior regolarità, rinnovare la cambiale; tuttavia,
alla scadenza, essa mi arrivò a casa, ma io non la pagai; egli
ottenne quindi sentenza contro di me a nome di un terzo; ma mi mandò
a dire di non preoccuparmi... che era stato uno sbaglio
dell’usciere.»
«In questo modo voleva avervi in suo potere» disse Rodolphe.
«Ahimè! sì, signore, perché fu da quella sentenza che egli cominciò
a... Ma continua tu, Louise, continua tu... Non capisco più niente,
la testa mi gira... mi sento mancare... mi sembra di diventare
pazzo!... È troppo... è troppo!...»
Rodolphe calmò il lapidario... Louise proseguì:
«Diventai più premurosa, per ricambiare in qualche modo i favori dal
signor Ferrand per noi; la governante allora iniziò a detestarmi: si
divertiva a tormentarmi, a mettermi in torto non riferendomi gli
ordini che il signor Ferrand le dava per me; io soffrivo di quei
dispetti, avrei preferito cambiare posto; ma l’impegno di mio padre
con il mio padrone non mi permetteva di andarmene. Da tre mesi ormai
il signor Ferrand ci aveva prestato quel denaro; egli continuava a
trattarmi sempre duramente davanti alla signora Séraphin; eppure
alle volte mi dava di sfuggita certe occhiate che mi mettevano in
imbarazzo e, se arrossivo, lui abbozzava un sorriso.»
«Capite, signore? stava ottenendo contro di me un mandato
d’arresto.»
«Una sera» continuò Louise, «contro il suo solito la governante
esce; gli scrivani se ne vanno; essi non abitavano nella casa. Il
signor Ferrand manda il portinaio a fare una commissione, e io resto
sola in casa col padrone; stavo lavorando nell’anticamera: mi suona
il campanello. Entro nella sua camera da letto: era in piedi davanti
al caminetto. Mi avvicino a lui, si volge improvvisamente e mi
prende tra le braccia... aveva la faccia rossa come sangue, gli
occhi gli scintillavano. Ebbi una paura terribile, uno spavento per
cui sulle prime non riuscii a fare alcun movimento; ma poi cominciai
a dibattermi tanto che finii per sfuggirgli anche se mi teneva
forte. Mi rifugiai nell’anticamera, ne chiusi la porta e
dall’interno la tenni tirata con tutte le mie forze; la chiave era
dalla sua parte.»
«Lo vedete, signore, lo vedete» disse Morel a Rodolphe, «così si
comporta quel bel benefattore.»
«Ma, dopo alcuni istanti, la porta cedette sotto i suoi sforzi»
proseguì Louise, «e meno male che, trovandomi vicino al lume, ebbi
il tempo di spegnerlo. L’anticamera era lontana dalla stanza
dov’egli stava e dove all’improvviso si trovò al buio; mi chiamò, io
non risposi; allora mi disse con una voce che tremava per la
collera: “Se cerchi di scappare, tuo padre andrà in prigione per i
1300 franchi che mi deve e che non può pagarmi”. Lo supplicai di
avere pietà di me, gli promisi di fare tutto il possibile per
servirlo bene e per ripagargli i favori fattimi, ma gli dissi chiaro
e tondo che per nulla al mondo mi sarei disonorata.»
«Sono proprio parole di Louise, queste» disse Morel, «della mia
Louise quando aveva il diritto di essere fiera. Ma come?... Be’,
continua, continua...»
«Mi trovavo sempre al buio; dopo un momento, sento chiudere l’uscio
dell’anticamera, che il mio padrone aveva trovato a tastoni. Ero
ormai in suo potere; lui corse in camera sua e dopo un po’ è di
ritorno con un lume. Ho paura di descrivervi, babbo, la lotta che
dovetti nuovamente sostenere, le sue minacce, i suoi inseguimenti
attraverso le stanze; per fortuna, la disperazione, la paura, la
collera mi diedero forza; la mia resistenza lo rendeva furioso, era
fuori di sé. Mi maltrattò, mi percosse; avevo la faccia
insanguinata...»
«Dio mio, Dio mio!» gridò il lapidario levando le mani al cielo;
«eppure questi sono delitti e non c’è punizione per un mostro
simile... non ce n’è...»
«Forse sì» disse Rodolphe, che sembrava immerso in profondi
pensieri; poi rivolgendosi a Louise: «Coraggio! diteci tutto.»
«La lotta durava ormai da molto tempo; le forze cominciavano già a
venirmi meno quando il portinaio, che era rientrato, suonò due
volte: voleva avvertire che c’era una lettera. Temendo che il
portinaio venisse a portarla lui se non andavo io a prenderla, il
signor Ferrand mi disse: “Vattene... Se dici una sola parola, tuo
padre è perduto; se cerchi di andartene da questa casa, sarà perduto
ugualmente, se vengono a chiedere informazioni su di te, farò in
modo che tu non possa trovare un altro posto, lasciando capire,
senza dirlo esplicitamente, che mi hai derubato. Inoltre dirò che
sei una pessima serva...” Il giorno dopo questo fatto, corsi giù a
dire tutto a mio padre. Egli avrebbe voluto che io lasciassi subito
quella casa... ma la prigione era là... Inoltre quel poco che
guadagnavo era divenuto indispensabile alla nostra famiglia dopo la
malattia di mia madre... E le cattive informazioni che il signor
Ferrand minacciava di dare su di me mi avrebbero impedito forse per
molto tempo di trovare lavoro altrove.»
«Sì» disse Morel, con cupa amarezza, «abbiamo avuto la
vigliaccheria, l’egoismo di lasciare che nostra figlia ritornasse
là... Oh, ve lo dicevo io, la miseria... la miseria... quante
infamie non fa commettere!...»
«Ahimè, papà, non avete forse cercato in tutti i modi di procurarvi
quei 1300 franchi? Essendo una cosa impossibile, ho dovuto
rassegnarmi.»
«Su, su prosegui... Noi siamo stati i tuoi complici; noi siamo più
colpevoli di te della disgrazia che t’è successa» disse il lapidario
nascondendosi il volto fra le mani.
«Quando rividi il padrone» riprese Louise, «egli continuò a essere
con me aspro e duro come prima dell’episodio di cui vi ho parlato;
non mi fece parola del passato; la governante continuò a
tormentarmi; mi dava solo lo stretto necessario per sfamarmi,
chiudeva il pane sotto chiave, a volte, per cattiveria, sporcava
davanti a me gli avanzi del pasto che mi lasciavano, perché lei
mangiava quasi sempre col signor Ferrand. La notte, era tanto se
riuscivo a chiudere occhio; temevo a ogni momento che il notaio
entrasse nella mia stanza, dato che non potevo chiudermici dentro;
mi aveva fatto togliere il cassettone con cui mi sbarravo la porta;
mi restavano solo una sedia, un tavolino e il mio baule. Con ciò
cercavo di barricarmi come potevo e andavo a letto vestita... Per
qualche tempo mi lasciò in pace, non mi guardava nemmeno. Io
cominciavo a sentirmi un po’ tranquilla, perché credevo che non
pensasse più a me. Una domenica mi diede il permesso di uscire;
andai a dare la buona notizia a mio padre e a mia madre: eravamo
tutti molto contenti!... Fino a questo punto, papà, sapevate
tutto... Quello che mi rimane da dirvi...» e la voce di Louise ebbe
un tremito... «è spaventoso... ve l’ho sempre tenuto nascosto.»
«Oh, ero sicuro... sicurissimo... che mi nascondevi qualcosa»
esclamò Morel quasi fuori di sé e con uno strano cambiamento
d’espressione che meravigliò Rodolphe. «Il tuo pallore, il tuo
viso... avrebbero dovuto illuminarmi. Cento volte ho detto a tua
madre... ma, no, no, no! mi diceva per tranquillizzarmi... Eccola!
Eccola! per non restare in miseria, lasciare la nostra creatura da
quel mostro!... E dove va ora nostra figlia? sul banco dei
criminali... Lì sta bene! Ah! ma... insomma... chissà?... in
realtà... perché si è poveri... sì... ma gli altri?... bah... bah...
gli altri...» Poi fermandosi come per raccogliere le idee che gli
sfuggivano, Morel si batté la fronte ed esclamò: «Oh, non so più
quel che dico... la testa mi fa un male tremendo... mi sembra... di
essere ubriaco...»
E si prese il volto fra le mani.
Rodolphe cercò di non mostrare a Louise la sua preoccupazione
dinanzi al farneticare del lapidario; poi disse gravemente:
«Morel, siete ingiusto; non per sé, ma per la madre, per i bambini e
per voi stesso, la vostra povera moglie temeva le funeste
conseguenze che sarebbero derivate se Louise fosse fuggita dalla
casa del notaio... Non si deve accusare nessuno... Che tutte le
vostre maledizioni e tutto il vostro odio ricadano su un solo
uomo... su quel mostro di ipocrisia, che poneva una ragazza tra il
disonore e la rovina... forse la morte di suo padre e della sua
famiglia; su quel padrone tanto scellerato da abusare del suo potere
di padrone... Ma pazienza, ve l’ho detto, la Provvidenza riserva al
delinquente vendette imprevedibili e spaventose.»
Il discorso di Rodolphe sulla vendetta della Provvidenza era
improntato a tale sicurezza e convinzione, che Louise guardò il suo
benefattore con sorpresa, quasi con timore.
«Continuate, figliola» riprese Rodolphe rivolgendosi a Louise, «non
nascondeteci niente... tutto questo è più importante di quanto
crediate.»
«Cominciavo dunque a sentirmi un po’ tranquilla» disse Louise,
«quando una sera il signor Ferrand e la governante uscirono ognuno
per proprio conto. Non restarono in casa a cenare e io rimasi sola;
mi avevano lasciato, come al solito, la mia razione d’acqua, di pane
e di vino e avevano chiuso a chiave le credenze. Finite le faccende,
mangiai un poco, e poi, avendo paura di stare tutta sola nelle
stanze, andai in camera mia, dopo aver acceso il lume del signor
Ferrand. Quando la sera usciva, non bisognava mai aspettarlo. Mi
misi a cucire, e a poco a poco fui colta dal sonno, cosa che, di
solito, non mi è mai capitata... Ah, papà!» s’interuppe Louise tutta
timorosa, «voi non mi crederete... mi accuserete di mentire...
eppure, sul corpo della mia povera sorellina, vi giuro che vi dico
la verità...»
«Spiegatevi» disse Rodolphe.
«Ahimè, signore! da sette mesi cerco, senza riuscirci, di spiegare a
me stessa il mistero di quella notte orribile; ho cercato di svelare
il mistero, ma per poco non ne sono uscita pazza.»
«Dio mio, Dio mio! che ci dirà mai?» esclamò il lapidario,
scuotendosi da quella specie di torpore bruto da cui, durante il
racconto, si lasciava di tanto in tanto prendere.
«Mi ero dunque, contrariamente al solito, assopita sulla sedia...»
riprese Louise. «Questa è l’ultima cosa che ricordo... Prima che,
prima che... oh, papà, perdono... Vi giuro però che non sono
colpevole...»
«Ti credo! ti credo! ma parla.»
«Non so da quanto tempo stessi dormendo quando mi svegliai, sempre
nella mia camera, ma a letto, accanto al signor Ferrand,
disonorata.»
«Menti, menti!» gridò il lapidario furibondo. «Confessa che hai
ceduto alla violenza, alla paura di vedermi trascinare in prigione,
ma non mentire così!»
«Babbo, vi giuro...»
«Menti, menti!... Perché allora, il notaio avrebbe cercato di farmi
imprigionare, se gli avevi ceduto?»
«Ceduto, oh, no, papà! il mio sonno era stato così profondo che ero
come morta... Questo vi sembrerà strano, impossibile... Dio mio, lo
so, perché nemmeno adesso riesco ancora a capirlo.»
«Io invece, ho capito tutto» disse Rodolphe interrompendo Louise,
«mancava solo questo delitto a quell’uomo. Non accusate di menzogna
vostra figlia, Morel... Ditemi, Louise, quando prima di salire in
camera vostra avete cenato, non avete notato qualche strano sapore
in quello che avete bevuto? Cercate di ricordarvi bene questa
circostanza.»
Dopo un momento di riflessione, Louise rispose:
«Infatti, ricordo che l’acqua mista a vino lasciatami come al solito
dalla signora Séraphin aveva un gusto un po’ amaro; ma, allora, non
ci feci troppo caso perché qualche volta la governante si divertiva
a mettermi sale e pepe nelle bevande.»
«E quel giorno la bevanda vi è sembrata amara?»
«Sì, signore, ma non tanto da non farmela bere; ho pensato che il
vino fosse inacidito.»
Morel, con l’occhio fisso, un po’ torvo, ascoltava le domande di
Rodolphe e le risposte di Louise senza dar segno di capirne il
valore.
«Prima di addormentarvi sulla sedia, non vi siete sentita la testa
pesante, le gambe intorpidite?»
«Sì, signore; le tempie mi battevano forte, avevo dei brividi, stavo
male.»
«Oh, che miserabile!» gridò Rodolphe. «Sapete, Morel, cosa ha fatto
bere quell’uomo a vostra figlia?»
L’artigiano guardò Rodolphe senza rispondergli.
«La governante, sua complice, aveva messo nella bevanda di Louise un
narcotico, oppio senza dubbio; le forze e la mente di vostra figlia
sono state paralizzate per alcune ore; uscendo da quella specie di
letargo, essa era disonorata!...»
«Ah!» esclamò Louise, «adesso capisco la mia disgrazia. Vedete,
papà, che sono meno colpevole di quanto sembri. Papà, papà,
rispondetemi!»
Lo sguardo del lapidario era spaventosamente sbarrato. Un uomo
onesto e semplice come lui non poteva capire una così
grande perversità. Riusciva sì e no a capire quella orribile
rivelazione.
E poi, bisogna dirlo, da qualche istante aveva perso la ragione e,
di conseguenza, la chiarezza di idee: era caduto in quella zona
vuota del pensiero che sta all’intelligenza come la notte sta alla
vista... inequivocabile sintomo di alienazione mentale.
Eppure Morel, a un certo momento, disse precipitosamente con voce
sorda e secca:
«Ah sì! male, male, malissimo.»
E ripiombò nella sua apatia.
Rodolphe lo guardò preoccupato; s’accorse che lo sventurato,
per l’indignazione, aveva perso ogni energia come dopo i grandi
dolori vengono a mancare le lacrime.
Per poter porre fine il più presto possibile a quel penoso
colloquio, Rodolphe disse a Louise:
«Coraggio, figliola, cercate di svelarci fino in fondo questa trama
di orrori.»
«Ahimè, signore, quello che avete sentito fino a qui non è ancora
niente. Vedendomi accanto al signor Ferrand, gettai un grido di
spavento. Cercai di fuggire, ma lui mi trattenne con la forza; mi
sentivo ancora così debole, così intorpidita, sicuramente per via di
quel narcotico che mi avete detto voi, che non riuscii a sfuggirgli
dalle mani. “Perché scappare adesso” mi disse il signor Ferrand con
un’aria stupita che mi confuse. “Perché fai i capricci? Non sono qui
col tuo consenso?” “Ah signore, siete un infame” gridai, “avete
approfittato del mio sonno per rovinarmi! Mio padre lo saprà”. Il
mio padrone scoppiò a ridere. “Ho approfittato del tuo sonno, io! ma
tu scherzi? A chi puoi far credere una simile menzogna? sono le
quattro del mattino. Sono qui dalle dieci di ieri sera; hai dormito
moltissimo e profondamente. Confessa piuttosto che ho approfittato
solo della tua buona volontà. Su, non essere così capricciosa,
altrimenti non andremo d’accordo. Tuo padre è in mio potere; non hai
più ragione ormai per respingermi; cerca di essere docile, così
diventeremo buoni amici: altrimenti, bada a te.” “Dirò tutto a mio
padre”, gridai “saprà vendicarmi. C’è la giustizia.” Il signor
Ferrand mi guardò sorpreso. “Ma allora sei decisamente pazza! E che
cosa dirai a tuo padre? Che ti ha fatto comodo ricevermi qui? Fai
come credi... vedrai come ti accoglierà.” “Dio mio! è vero. Sapete
benissimo che siete qui mio malgrado.” “Tuo malgrado? Avresti la
sfrontatezza di ammettere una simile menzogna, di parlare di
violenza! Vuoi una prova della tua castità? Avevo ordinato a
Germain, il mio cassiere, di tornare
ieri sera alle dieci, per finire un lavoro urgente; ha lavorato fino
all’una di notte nella stanza sotto a questa. Avrebbe certo sentito
le tue grida, il rumore di una lotta simile a quella che ho fatto
dabbasso con te, cattiva, nel periodo in cui non eri ragionevole
come oggi. Bene, chiedilo domani al signor Germain, lui ti dirà la
verità e cioè che questa notte la casa è rimasta nella più assoluta
tranquillità.”»
«Oh, aveva preso tutte le precauzioni per assicurarsi l’impunità»
disse Rodolphe.
«Sì, signore, infatti ero costernata. Non riuscivo a trovare niente
da obiettare a quanto mi aveva detto quell’uomo. Non sapendo che mi
aveva fatto prendere un narcotico, non riuscivo a spiegare nemmeno a
me stessa come mai avessi dormito tanto. Le apparenze erano contro
di me. Se avessi sporto denuncia sarei stata accusata da tutti;
doveva essere così, dal momento che quella orribile notte era anche
per me un mistero impenetrabile.»
X
IL DELITTO
Rodolphe fu disorientato dalla spaventosa ipocrisia del signor
Ferrand.
«Così» egli disse a Louise, «non avete osato rivelare a vostro padre
l’odioso attentato del notaio?»
«No, signore; mi avrebbe senz’altro creduta complice del signor
Ferrand; e poi temevo che mio padre, nella sua collera, dimenticasse
che la sua libertà e l’esistenza della nostra famiglia dipendevano
sempre dal mio padrone.»
«E certo» riprese Rodolphe, per evitare ormai a Louise una penosa
confessione, «cedendo al timore di rovinare vostro padre,
conseguenza inevitabile dei vostri rifiuti, avete continuato a
essere la vittima di quel miserabile?»
Louise arrossì e abbassò gli occhi.
«Ma in seguito si comportò meno brutalmente con voi?» «No, signore;
anzi, per non destare sospetti quando per caso
aveva a pranzo il parroco di Bonne-Nouvelle e il suo cappellano, il
padrone mi rivolgeva aspri rimproveri in loro presenza; pregava il
signor parroco di farmi qualche predica; diceva che prima o poi mi
sarei perduta, che avevo maniere troppo libere con gli scrivani, che
ero una fannullona, che mi teneva per carità verso
mio padre, un onesto padre di famiglia a cui aveva fatto dei favori.
Esclusi i favori a mio padre, tutto il resto era falso. Gli scrivani
non li vedevo mai, perché lavoravano in una parte della casa
separata dalla nostra.»
«E quando eravate sola col signor Ferrand, come spiegava la sua
condotta nei vostri riguardi davanti al prete?»
«Mi assicurava che scherzava. Ma il parroco prendeva quelle accuse
sul serio; mi diceva severamente che dovevo essere doppiamente
viziosa se mi dannavo restando in una santa casa in cui avevo
continuamente sotto gli occhi esempi di religiosità. Io non sapevo
cosa rispondere, arrossivo, abbassavo la testa; così facendo, il mio
silenzio e la mia confusione si ritorcevano contro di me; la vita mi
era così faticosa che fui molte volte sul punto di farla finita: ma
pensavo all’aiuto che davo a mio padre, a mia madre, ai miei
fratelli e alle mie sorelle, e allora mi rassegnavo; dalla mia
degradazione avevo un conforto: mio padre almeno non era in
prigione. Ma una nuova sventura si abbatté su di me, la maternità...
Mi vidi completamente rovinata. Non so perché presentii che, se il
signor Ferrand fosse venuto a conoscenza di un fatto che avrebbe
dovuto renderlo meno crudele verso di me, avrebbe aumentato i suoi
maltrattamenti; ero ben lontana, comunque, dal supporre quello che
mi aspettava.»
Morel, riavutosi dalla sua momentanea aberrazione, si guardò intorno
stupito, si passò la mano sulla fronte, raccolse le idee e disse
alla figlia:
«Credo di aver avuto un momento di assenza; la stanchezza, il
dolore... Cosa stai dicendo?»
«Quando il signor Ferrand venne a sapere che ero incinta...»
Il lapidario fece un gesto disperato; Rodolphe lo tranquillizzò con
uno sguardo.
«Va bene, ascolterò fino alla fine» disse Morel.
Louise proseguì:
«Chiesi al signor Ferrand come avrei potuto non far sapere
la mia onta e le conseguenze di una colpa di cui egli era l’autore.
Ahimè, forse non mi crederete, papà...»
«E allora?»
«Si arrabbiò e fece finta di mostrarsi sorpreso e di non capire e mi
interruppe chiedendomi se ero pazza. Io, spaventata, gridai: “Ma,
Dio mio, che volete che faccia ora? se non avete pietà di me,
abbiate almeno pietà della vostra creatura”. “Che orrore!” gridò il
signor Ferrand alzando le mani al cielo. “Come osi, sciagurata,
accusarmi di essere tanto corrotto da abbassarmi a una don-
na della tua specie!... Hai la faccia tosta di incolparmi delle
conseguenze della tua dissolutezza, io che ti ho ripetuto cento
volte davanti ai più rispettabili testimoni che ti saresti perduta,
brutta sgualdrina! Esci subito da casa mia... sei licenziata.”»
Rodolphe e Morel erano sgomenti, atterriti da una così diabolica
ipocrisia.
«Oh, confesso» disse Rodolphe, «che ha superato il limite delle più
orribili previsioni.»
Morel non disse nulla; gli occhi gli si spalancarono in maniera
spaventosa mentre uno spasimo convulso gli contraeva la faccia;
scese dal banco dove stava seduto, aprì con forza un cassetto, vi
prese una grossa lima molto lunga e appuntita, con un manico di
legno, e si slanciò verso la porta.
Rodolphe, intuitane l’intenzione, lo prese per un braccio e lo
fermò.
«Morel, dove andate? Volete rovinarvi?»
«Badate!» gridò l’artigiano furioso mentre intanto si dibatteva,
«farò due delitti, invece di uno.»
E l’insensato minacciò Rodolphe.
«Ma, babbo, è il nostro salvatore!» gridò Louise.
«Macché! ci prende in giro! vuole salvare il notaio!» rispose
Morel completamente fuori di sé, divincolandosi.
Ma Rodolphe, dopo un secondo, l’aveva bell’e disarmato, stan-
do attento però a non fargli male; quindi aprì la porta e gettò la
lima giù per la scala.
«Babbo, è il nostro benefattore! hai alzato la mano su di lui, su,
ritorna in te!»
A queste parole Morel ritornò in sé; si nascose il viso tra le mani,
e cadde senza dire niente ai piedi di Rodolphe.
«Alzatevi, padre infelice» riprese Rodolphe con bontà. «Pazienza...
pazienza... capisco il vostro furore, prendo parte anch’io al vostro
odio; ma nell’interesse stesso della vostra vendetta, non rovinate
tutto...»
«Dio, Dio!» esclamò il lapidario alzandosi. «Ma cosa può fare la
giustizia... la legge... contro ciò? Poveri come siamo! Quando
andremo in tribunale ad accusare quell’uomo ricco, potente,
rispettato, ci rideranno in faccia, ah! ah! ah!» E cominciò a ridere
convulsamente. «E avranno ragione... Che prove avremo? Sì, che
prove? Non ci crederanno. Così vi dico che ho fiducia solo
nell’imparzialità del coltello...»
«Tacete, Morel, il dolore vi fa perdere la testa» gli disse
mestamente Rodolphe. «Lasciate parlare vostra figlia... I minuti
sono
preziosi... Il commissario la aspetta e bisogna ch’io sappia
tutto... tutto... vi dico... Continuate, figliola.»
Morel si lasciò ricadere sul suo sgabello.
«Signore, inutile dirvi le mie lacrime, le mie preghiere; ero
disperata. Il fatto era successo alle dieci di mattina nello studio
del signor Ferrand e proprio quel giorno il parroco doveva venire a
pranzare da lui. Entrò proprio nel momento in cui il padrone mi
stava subissando di rimproveri e di oltraggi... Parve molto
contrariato della presenza del prete.»
«E allora cosa disse?»
«Prese subito una risoluzione; indicandomi al prete esclamò:
“Ebbene, signor parroco, lo dicevo io che questa sciagurata si
sarebbe rovinata... È perduta... perduta per sempre; mi ha
confessato adesso la sua colpa e la sua onta... pregandomi di
salvarla. E pensare che per pietà ho tenuto in casa una simile
miserabile!” “Come” mi disse il prete sdegnato, “nonostante i
salutari consigli che il vostro padrone vi ha dato molte volte in
mia presenza... Vi siete avvilita a tal segno! Oh, è un peccato
imperdonabile... Amico mio, dopo i favori fatti a questa sciagurata
e alla sua famiglia la pietà sarebbe debolezza... Siate inesorabile”
disse il prete, vittima come gli altri dell’ipocrisia del signor
Ferrand.»
«E voi in quel momento non avete smascherato quel mascalzone?» disse
Rodolphe.
«Dio mio, signore, ero terrorizzata, non capivo più niente, non
osavo dire una parola; eppure cercai di parlare, di difendermi. “Ma,
signore” gridai... “Non una parola di più, indegna creatura” mi
disse il signor Ferrand interrompendomi. “Hai sentito il signor
parroco... la pietà, sarebbe debolezza... Fra un’ora dovrai lasciare
la casa!” Poi, senza lasciarmi il tempo di rispondere, condusse il
prete in un’altra stanza.
Dopo che il signor Ferrand se ne fu andato» proseguì Louise, «rimasi
alcuni momenti come in delirio; mi vedevo scacciata da casa sua,
senza possibilità di trovare un altro posto a causa dello stato in
cui ero e delle cattive informazioni che il padrone avrebbe
divulgato sul mio conto; ed ero inoltre sicura che, furibondo,
avrebbe fatto imprigionare mio padre; non sapevo cosa fare. Andai a
rifugiarmi nella mia stanza.
Due ore dopo, venne il signor Ferrand: “Hai fatto fagotto?” mi
chiese. “Pietà” gli dissi gettandomi ai suoi piedi, “non scacciatemi
da casa vostra nello stato in cui sono. Che ne sarà di me? Non potrò
trovare posto da nessun’altra parte!” “Meglio così, Dio ti punirà
della tua dissolutezza e delle tue menzogne.” “Osate dire
che mento?” gridai indignata. “Osate sostenere che non siete stato
voi ad avermi rovinata?” “Svergognata, esci subito da casa mia,
visto che insisti nelle tue menzogne” gridò con voce terribile. “E
per punirti, domani farò mettere in prigione tuo padre.” “Ebbene,
no, no” gli dissi spaventata, “non vi accuserò più, signore... ve lo
prometto, ma non scacciatemi... Abbiate pietà di mio padre; quel
poco che guadagno qui è di aiuto alla mia famiglia... Tenetemi a
casa vostra... non dirò niente... farò in modo che nessuno si
accorga di niente, e quando non potrò più tenere nascosto il triste
stato in cui sono, ebbene, allora mi potrete licenziare.”
Dopo altre suppliche da parte mia, il signor Ferrand acconsentì a
tenermi in casa. Io considerai ciò come una grazia, tanto la mia
sorte era orribile. Ma durante i cinque mesi che seguirono questo
terribile avvenimento, fui molto maltrattata. Solo il signor
Germain, che vedevo raramente, qualche volta mi chiedeva con bontà
come stavo con le mie pene; ma avevo vergogna di confidarmi con
lui.»
«Non è pressappoco in quel periodo che venne ad abitare qui?»
«Sì, signore, cercava una camera dalle parti della rue du Temple o
dell’Arsenal; visto che in questa casa se ne affittava una, gli
indicai la stanza che ora occupate voi, signore; gli piacque. Due
mesi fa, prima di andarsene, mi pregò di non dire qui il suo nuovo
indirizzo; dal signor Ferrand, comunque, lo si sapeva.»
Rodolphe aveva chiaramente capito che Germain doveva comportarsi
così se voleva sfuggire alle persecuzioni di cui era stato fatto
segno.
«E non avete mai pensato di confidarvi con Germain?» chiese a
Louise.
«No, signore; anch’egli era vittima dell’ipocrisia del signor
Ferrand; diceva che il padrone era duro ed esigente; ma lo
considerava l’uomo più onesto del mondo.»
«E Germain quando abitava qui non aveva sentito qualche volta vostro
padre accusare il notaio di aver tentato di sedurvi?»
«Mio padre non parlava mai delle sue preoccupazioni davanti a
estranei: d’altra parte, in quel periodo, io ingannavo le sue
inquietudini; lo rassicuravo dicendogli che il signor Ferrand non
pensava più a me... Ohimè, povero babbo, adesso mi perdonerete
quelle menzogne. Le dicevo solo per tranquillizzarvi, lo capite,
vero?»
Morel non rispose; con la fronte appoggiata alle braccia che teneva
incrociate sul banco, stava singhiozzando.
Rodolphe fece segno a Louise di non rivolgere più la parola a suo
padre. Ed ella proseguì:
«Passai quei cinque mesi in lacrime e in continue angosce. A forza
di precauzioni ero riuscita a nascondere a tutti il mio stato; ma
non potevo sperare di riuscirci anche nei due mesi che precedevano
il termine fatale... L’avvenire mi spaventava sempre più; il signor
Ferrand mi aveva detto chiaramente di non volermi più tenere in casa
sua... mi sarebbero così venuti a mancare anche quegli scarsi mezzi
con cui aiutavo la mia famiglia a campare. Maledetta, scacciata da
mio padre, poiché, dopo le menzogne che gli avevo detto per
rassicurarlo, mi avrebbe creduto la complice e non la vittima del
signor Ferrand... che cosa avrei potuto fare? dove rifugiarmi, dove
andare... nella situazione in cui ero? Mi venne allora un’idea
criminosa. Per fortuna non ebbi il coraggio di metterla in atto...
vi faccio questa confessione, signore, perché non voglio nascondervi
nulla, neanche quello che mi potrebbe nuocere, e anche perché voglio
mostrarvi a quali estremi mi aveva spinto la crudeltà del signor
Ferrand. Se avessi ceduto a un pensiero funesto, non sarebbe egli
stato complice del mio delitto?»
Dopo un momento di silenzio Louise riprese a fatica, e con un
tremito nella voce:
«Avevo sentito dire dalla portinaia che in questa casa abitava un
ciarlatano... e...».
Ma non poté continuare.
Rodolphe si ricordò allora di aver ricevuto dal postino, mentre era
rimasto in portineria ad aspettare la signora Pipelet che era
uscita, una lettera di carta comune scritta con caratteri
contraffatti, sulla quale aveva notato tracce di qualche lacrima.
«E voi gli avete scritto, povera ragazza... tre giorni fa!...
Avevate pianto su quella lettera e avevate contraffatto la
calligrafia.»
Louise guardò Rodolphe con spavento...
«Come lo sapete, signore?...»
«Non temete. Ero solo nello stanzino della signora Pipelet
quando hanno portato quella lettera, e così, per caso, l’ho
notata...»
«Ebbene, sì, signore. In quella lettera senza firma scrivevo al
signor Bradamanti che, non osando andare a casa sua, lo pregavo di
trovarsi la sera, vicino al Château-d’Eau... Avevo perso la testa.
Volevo chiedergli qualcuno dei suoi orribili consigli... Uscii dalla
casa del padrone con l’intenzione di incontrarlo; ma, dopo un
istante, ritornai in me e subito capii che razza di delitto stavo
per commettere... Non andai all’appuntamento e ritornai a casa.
Quella sera stessa ebbe luogo una scenata le cui conseguenze hanno
determinato la mia ultima sventura.
Il signor Ferrand credeva che sarei stata fuori due ore invece io
ritornai dopo pochissimo tempo. Passando davanti alla porticina del
giardino, vidi, con mio grande stupore, che era socchiusa: entrai di
lì e andai a portare la chiave nello studio del signor Ferrand, dove
la mettevano di solito. Questa stanza era adiacente alla sua camera
da letto, il luogo più appartato della casa; qui egli concedeva le
sue udienze segrete, mentre gli affari di ordinaria amministrazione
li trattava nel suo ufficio. Fra poco capirete, signore, perché vi
do tutti questi particolari: io conoscevo molto bene la casa per
cui, dopo aver attraversato la sala da pranzo che era illuminata,
entrai nel salotto al buio e poi nello studio adiacente alla camera
da letto del padrone. Proprio nel momento in cui stavo per posare la
chiave sul tavolo, si aprì la porta della camera da letto. Appena il
padrone mi scorse, cosa che fu possibile grazie alla luce della
lampada che ardeva nella sua camera, chiuse bruscamente la porta in
faccia a una persona che non riuscii a vedere; poi si avventò su di
me e mi prese per il collo come se avesse voluto strozzarmi, e mi
disse a voce bassa... furibondo e al tempo stesso spaventato: “Stavi
spiando, origliavi alla porta! che cosa hai udito?... Rispondi!
rispondi! o ti strozzo”. Ma improvvisamente cambiò idea e senza
neppure darmi il tempo di dire una parola, mi spinse nella sala da
pranzo: la dispensa era aperta; mi ci gettò dentro brutalmente e poi
chiuse.»
«E non avete sentito niente della conversazione?»
«No, signore, se avessi saputo che era in camera sua con qualcuno,
mi sarei ben guardata dall’entrare nello studio; era proibito anche
per la signora Séraphin.»
«E quando siete uscita dalla dispensa, cosa vi ha detto?»
«Venne a liberarmi la governante; quella sera non rividi il signor
Ferrand. L’improvvisa emozione e la paura che avevo provato mi
fecero star molto male. L’indomani, mentre scendevo, incontrai il
signor Ferrand; rabbrividii pensando alle minacce del giorno prima:
ma quale non fu la mia sorpresa! Egli mi disse quasi con calma: “Sai
bene che non voglio che nessuno entri nel mio studio quando ho gente
in camera mia; ma è inutile che continui a sgridarti, tanto ormai
non resterai qui per molto”. E ritornò nello studio.
Quel tono pacato, dopo la violenza della sera prima, mi spaventò.
Continuai le mie faccende, come al solito, e andai a mettere in
ordine la sua camera da letto... Avevo sofferto molto durante
la notte: mi sentivo debole e abbattuta. Nel mettere a posto alcuni
vestiti in uno stanzino buio che era vicino all’alcova, mi prese un
forte capogiro... sentii che stavo per svenire... Cadendo, cercai
automaticamente di aggrapparmi a un pastrano che era appeso al muro,
ma quello mi cadde addosso coprendomi quasi del tutto.
Quando tornai in me, la porta a vetri dello stanzino vicino
all’alcova era chiusa... udii la voce del signor Ferrand... Stava
parlando a voce alta... Mi ricordai del fatto del giorno prima,
quindi non feci alcun movimento; se lo avessi fatto, avrei dovuto
considerarmi morta; ero sicura che, se il padrone avesse aperto la
porta del guardaroba, non mi avrebbe scorta nascosta com’ero. Se mi
avesse scoperto, come avrei potuto fargli credere a quella
coincidenza quasi incredibile? Trattenni quindi il respiro e così,
quasi mio malgrado, udii la fine di un colloquio che doveva essere
cominciato da un pezzo.»
XI
IL COLLOQUIO
«E chi era che parlava col notaio nella camera da letto?» chiese
Rodolphe a Louise.
«Non lo so, signore, non era una voce che conoscevo.»
«E che cosa dicevano?»
«La conversazione doveva essere incominciata da un po’ di
tempo, perché io udii solo questo: “Niente di più semplice” diceva
la voce sconosciuta; “un certo Bras-Rouge, contrabbandiere
dichiarato, mi ha messo, per l’affare di cui vi parlavo poco fa, in
relazione con una famiglia di pirati d’acqua dolce che abita
all’estremità di una isoletta vicino ad Asnières: sono i peggiori
banditi di questo mondo; il padre e il nonno furono ghigliottinati,
due figli sono in galera a vita; ma alla madre restano tre maschi e
due femmine, uno più scellerato dell’altro. Si dice che per poter
rubare di notte su tutte e due le rive della Senna, essi scendano a
volte in barca fino a Bercy. È gente capace di uccidere il primo
venuto per uno scudo; ma noi non abbiamo bisogno di loro, basta che
diano ospitalità alla vostra signora di provincia. I Martial (così
si chiamano i miei pirati) passeranno ai suoi occhi per una onesta
famiglia di pescatori. Io andrò da parte vostra a fare due o tre
visite alla signora; le ordinerò certe pozioni... e in capo a otto
giorni farà conoscenza con il cimitero di Asnières. Nei paesi, i
decessi passano come una lettera alla posta, mentre a Parigi si va
troppo per il sottile. Ditemi, piuttosto, quando avete intenzione di
mandare la vostra provinciale alla isola di Asnières, in modo che io
abbia il tempo di avvertire i Martial di quello che debbono fare?”
“Arriverà qui domani e dopodomani sarà da loro” riprese il signor
Ferrand, “e io l’avvertirò che riceverà le visite di un certo dottor
Vincent che le prescriverà alcune cure da parte mia.” “Vada per il
nome di Vincent” disse la voce, “un nome o l’altro per me è lo
stesso...”»
«Che cos’è quest’altro infame e delittuoso mistero?» chiese Rodolphe
sempre più stupito.
«Altro! no, signore; vedrete che è legato a un delitto che voi
conoscete già» ribatté Louise e continuò. «Sentii muoversi le sedie;
il colloquio era terminato. “Non vi domando di tenere il segreto”
disse il signor Ferrand; “io vi tengo in pugno come voi tenete me
d’altronde.” “Ragione per cui possiamo aiutarci ma non mai nuocerci”
rispose la voce. “Guardate il mio zelo! ho ricevuto la vostra
lettera ieri alle dieci di sera e stamane sono già da voi.
Arrivederci, complice, non dimenticate l’isola di Asnières, il
pescatore Martial e il dottor Vincent. Con queste tre magiche
parole, la vostra provinciale ne avrà sì e no per otto giorni.”
“Aspettate” disse il signor Ferrand, “che vada a togliere il
chiavistello di sicurezza che avevo messo sulla porta del mio
gabinetto e che vada a vedere che non ci sia nessuno nell’anticamera
in modo che voi possiate uscire dal vialetto del giardino per cui
siete entrato...” Il signor Ferrand uscì un momento, poi ritornò, e
finalmente lo udii allontanarsi con la persona di cui avevo sentito
la voce... Non potete, signore, immaginarvi il terrore che ho avuto
per tutta la durata di quel colloquio e la disperazione per essere
venuta a conoscenza, quasi mio malgrado, di un simile segreto. Due
ore dopo quella conversazione, la signora Séraphin venne a cercarmi
nella mia stanza dove ero salita, tutta tremante, e più ammalata che
mai. “Il signore chiede di voi” mi disse la governante; “siete più
fortunata di quanto non meritiate; su, scendete. Siete molto
pallida, ma ciò che vi dirà, vi farà venire un bel colorito.”
Seguii la signora Séraphin; il signor Ferrand era nel suo gabinetto.
Appena lo vidi, ebbi un brivido; tuttavia aveva una faccia meno
cattiva del solito: mi guardò a lungo fissamente come se avesse
voluto leggermi nel pensiero. Abbassai gli occhi. “Mi sembrate molto
ammalata” mi disse. “Sì, signore” gli risposi, stupita che non mi
desse del tu come il suo solito. “È naturale” aggiunse, “è la
conseguenza del vostro stato e degli sforzi che avete fatto per
tenerlo nascosto; ma, nonostante le bugie, la vostra cattiva con-
dotta e la vostra indiscrezione di ieri” riprese con voce più dolce,
“mi fate pena; fra qualche giorno non potrete più nascondere la
vostra gravidanza... Sebbene io vi abbia trattata come meritavate
davanti al prete della parrocchia, un simile fatto sarebbe una
vergogna per una casa come la mia; inoltre i vostri sarebbero
disperati... quindi acconsento, in questa circostanza, a venirvi in
aiuto.” “Oh, signore” esclamai, “queste buone parole da parte vostra
mi fanno dimenticare tutto.” “Dimenticare che cosa?” mi domandò con
durezza. “Nulla, nulla... scusate, signore” risposi subito, per
timore di irritarlo e credendo che fosse ben disposto verso di me.
“Ascoltatemi, dunque” proseguì; oggi andrete da vostro padre, gli
direte che vi mando per due o tre mesi in campagna a custodire una
casa che ho comperato; durante la vostra assenza, gli farò pervenire
il vostro salario. Domani lascerete Parigi; vi darò una lettera di
raccomandazione per la signora Martial, madre di una onesta famiglia
di pescatori che abita vicino ad Asnières. Dovete limitarvi a dire
che venite dalla provincia, senza dare altre spiegazioni. Saprete
più tardi lo scopo di questa raccomandazione, che faccio solo nel
vostro interesse. La signora Martial vi terrà come una figlia; un
mio amico medico, il dottor Vincent, verrà a prodigarvi le cure che
faranno al vostro caso... Vedete quanto sono buono con voi!”»
«Che orribile tranello!» esclamò Rodolphe. «Adesso capisco tutto.
Sicuro che il giorno prima aveste scoperto un segreto terribile per
lui, voleva disfarsi di voi. Doveva avere qualche interesse a
ingannare il suo complice, dicendogli solo che eravate una signora
di provincia. Ma quale non fu il vostro spavento a quella proposta!»
«Fu un colpo tremendo; ne fui sconvolta. Non potevo rispondere;
guardavo spaventata il signor Ferrand, non mi sentivo più la testa.
Stavo forse per rischiare la vita dicendogli che la mattina avevo
sentito la sua conversazione quando per fortuna mi ricordai dei
pericoli a cui mi avrebbe esposto una simile confessione. “Non mi
avete capito dunque?” mi chiese spazientito. “No... signore... Ma”
gli dissi tremando “avrei preferito non andare in campagna.” “Perché
mai? Lì, dove vi mando, sarete trattata benissimo.” “No, no, non ci
andrò; preferisco restare a Parigi, non allontanarmi dalla mia
famiglia; preferisco confessare tutto, morire di vergogna se
occorre.” “Non vuoi?” disse il signor Ferrand riuscendo a trattenere
ancora una volta la collera e guardandomi attentamente. “Perché hai
cambiato improvvisamente idea? Poco fa stavi accettando...” Capii
che, se intuiva tutto, ero perduta; gli
risposi che non volevo lasciare Parigi e la mia famiglia. “Ma la
disonorerai, la tua famiglia, miserabile!” gridò; e, andando su
tutte le furie mi prese per un braccio e mi scosse così
violentemente da farmi cadere. “Ti do tempo fino a domani!” gridò;
“domani uscirai da qui o per andare dai Martial o per andare a dire
a tuo padre che ti ho scacciata; quello stesso giorno, egli sarà
messo in prigione.”
Restai sola, stesa a terra, perché non avevo la forza di rialzarmi.
La signora Seraphin era accorsa udendo il padrone gridare; con il
suo aiuto potei raggiungere la mia camera nonostante mi sentissi
mancare a ogni passo che facevo. Appena entrai mi gettai sul letto e
ci restai fino a notte. Le numerose scosse subìte mi avevano inferto
un colpo terribile; verso l’una di notte mi presero dolori atroci;
capii allora che stavo per dare alla luce, prima del termine, una
infelice creatura.»
«Perché non chiamaste qualcuno a soccorrervi?»
«Oh, non ne ho avuto il coraggio. Il signor Ferrand voleva disfarsi
di me; avrebbe sicuramente mandato a chiamare il signor Vincent che
mi avrebbe ucciso a casa del mio padrone, invece che dai Martial...
oppure il signor Ferrand mi avrebbe soffocato per dire poi che ero
morta di parto. Ohimè, signore, queste paure forse erano
esagerate... ma in quel momento ne fui completamente sopraffatta ed
è stato ciò a provocare la disgrazia; se fosse avvenuto altrimenti,
avrei sopportato la vergogna, e adesso non sarei accusata di aver
ucciso il mio bambino. Invece non invocai aiuto, anzi, per timore
che mi sentissero gridare dal dolore, morsi le lenzuola. Infine,
dopo atroci sofferenze, sola e al buio, diedi alla luce una povera
creatura la cui morte fu sicuramente causata dal parto prematuro.
Non l’ho uccisa io... oh no! e se in quella notte terribile ebbi un
momento di gioia, di gioia amara, fu quando strinsi la mia creatura
tra le braccia...»
E la voce di Louise morì tra i singhiozzi.
L’apatia e la cupa indifferenza con cui Morel aveva ascoltato il
racconto della figlia atterrirono Rodolphe.
Tuttavia, vedendo che Louise piangeva, il lapidario che teneva
sempre i gomiti sul banco e le tempie appoggiate alle mani guardò
fisso Louise e disse:
«Piange... piange... ma perché piange?» Poi riprese dopo un momento
di esitazione: «Ah, sì... so, so... il notaio... Prosegui, mia
povera Louise... sei mia figlia... ti voglio sempre bene... poco
fa... non ti riconoscevo più... le mie lacrime erano ancora scure.
Oh, Dio mio, Dio mio! La mia testa... mi fa tanto male.»
«Vedete, papà, che non sono colpevole, vero?»
«Sì... sì.»
«È una grande disgrazia... Ma avevo così paura del notaio!» «Il
notaio... oh, ti credo... è così malvagio, così malvagio!...» «Mi
perdonate adesso?»
«Sì...»
«Davvero?»
«Sì... davvero... Oh, ti voglio sempre bene... su... quantunque...
non possa... dire... vedi... perché... Oh, la mia testa...»
Louise guardò Rodolphe sgomenta.
«Soffre, lasciate che si calmi un poco. Continuate.»
Louise guardò due o tre volte Morel con inquietudine, poi ri-
prese:
«Mi stringevo al petto la mia creatura... mi stupivo di non sen-
tirla respirare; ma pensavo: il respiro di un bambino così
piccolo... si sente appena... e poi mi sembrava anche molto
freddo... non potevo procurarmi un lume; non me lo lasciavano mai...
Aspettai che facesse chiaro, intanto cercai di riscaldarlo come
meglio potevo; ma mi sembrava sempre più gelato. Pensavo: fa un tale
gelo che sarà il freddo ad averlo così intirizzito.
Quando fece chiaro, portai il mio piccino alla finestra... lo
guardai... era gelido... stecchito... avvicinai la mia bocca alla
sua per sentire se respirava... gli misi una mano sul cuore... non
batteva... la mia creatura era morta!...»
E Louise proruppe in lacrime.
«Oh, in quel momento» continuò la ragazza, «avvenne in me qualcosa
di indicibile. Del resto ho un ricordo confuso, come di un sogno;
erano disperazione, terrore, rabbia, ma in special modo ero invasa
da un’altra paura; non temevo più che il signor Ferrand mi
strozzasse; temevo piuttosto che mi accusassero di aver ucciso il
bambino se l’avessero trovato morto vicino a me. Allora ebbi un solo
pensiero, nascondere il suo corpo alla vista di tutti; così nessuno
avrebbe saputo la mia colpa e io non avrei più dovuto temere la
collera di mio padre, anzi, sarei sfuggita alla vendetta del signor
Ferrand perché dopo il parto avrei potuto trovare un posto altrove e
continuare a guadagnare per aiutare la mia famiglia.
Ahimè, signore, queste sono le ragioni che mi hanno spinto a non
dire nulla e a nascondere il corpo del mio bambino alla vista di
tutti. Certo, ho avuto torto, ma nella situazione in cui ero,
perseguitata da tutti, rotta dalla sofferenza, quasi in delirio, non
pensavo a quello andavo incontro se mi avessero scoperto.»
«Che torture!... che torture!...» disse Rodolphe avvilito.
«Faceva sempre più chiaro» continuò Louise, «mi restava ancora poco
tempo prima che la casa si svegliasse...
Non ebbi più incertezze; avvolsi la mia creatura come meglio potei;
scesi piano, piano; andai in fondo al giardino dove volevo fare un
buco per seppellirla, ma la notte aveva gelato e la terra era troppo
dura. Allora nascosi il corpicino in fondo a una specie di cantina
dove, d’inverno, non entrava nessuno; lo coprii con una cassa da
fiori vuota e ritornai nella mia stanza senza che nessuno mi vedesse
uscire.
Però, signore, di tutto quello che vi ho detto ho solo un ricordo
confuso, ancora adesso non so spiegarmi come abbia potuto, debole
com’ero, avere il coraggio e la forza di fare tutto ciò. Alle nove,
la signora Séraphin venne a vedere perché non mi ero ancora alzata;
le dissi che stavo molto male, e la supplicai di lasciarmi a letto
tutto il giorno perché, avendomi il signor Ferrand licenziata, il
giorno dopo me ne sarei andata.
Un’ora dopo venne lo stesso notaio. “State peggio eh! sono le
conseguenze della vostra ostinazione” mi disse; “se aveste
approfittato della mia bontà, oggi sareste già con delle brave
persone, che si sarebbero prese cura di voi; ma non sarò tanto
disumano da lasciarvi senza assistenza nello stato in cui siete;
questa sera vi manderò il dottor Vincent.”
A quella minaccia ebbi un brivido di paura. Risposi al signor
Ferrand che accettavo l’offerta e che il giorno prima non avrei
dovuto rifiutarla; ma essendo io ancora troppo debole per partire,
aggiunsi che sarei andata dai Martial due giorni dopo e che quindi
era inutile far venire il dottor Vincent. Volevo solo guadagnare
tempo. Ero decisissima a lasciare la casa e ad andare due giorni
dopo da mio padre: speravo che, così facendo, egli non avrebbe
saputo niente. Rassicurato della mia promessa, il signor Ferrand fu
quasi affettuoso con me e, per la prima volta in vita sua, mi
raccomandò alle premure della signora Séraphin.
Passai la giornata in ansie mortali, tremando perché temevo che da
un momento all’altro potesse venire scoperto il corpo della mia
creatura. Desideravo solo una cosa, che cessasse il freddo in modo
che, non essendo più il terreno tanto duro, mi fosse possibile fare
una buca... Cadde un po’ di neve... cominciai a sperare... restai
tutto il giorno a letto.
La sera aspettai che tutti fossero addormentati; ebbi la forza di
alzarmi, di andare nella legnaia a prendere un’accetta per spaccar
la legna con cui scavare una fossa nel terreno coperto di
neve... Dopo fatiche incredibili, ci riuscii... Allora presi il
corpicino, lo misi nella cassetta di fiori, e, prima di seppellirlo,
ci piansi sopra un poco. Non sapevo la preghiera dei morti, dissi un
pater e un’ave, perché il buon Dio lo accogliesse in paradiso...
Chissà se avrei avuto il coraggio di ricoprire di terra quella
specie di bara che gli avevo fatto... Una madre... seppellire il suo
bambino!... Finalmente ci riuscii. Oh, quanto m’è costato, Dio mio!
Rimisi la neve sopra la terra, perché nessuno si accorgesse... Avevo
fatto tutto al chiaro di luna.
Quando ebbi finito, non me la sentivo più di andarmene... Povero
piccino, nella terra fredda... sotto la neve... Sebbene fosse
morto... mi sembrava che dovesse sentire freddo... Infine, ritornai
nella mia stanza... e mi coricai con una febbre fortissima. La
mattina dopo, il signor Ferrand mandò a chiedere come stavo; risposi
che mi sentivo un po’ meglio e che il giorno dopo sarei senz’altro
stata in grado di partire per la campagna. Rimasi tutto il giorno a
letto per riprendere un po’ di forze. Verso sera, mi alzai e scesi
in cucina per riscaldarmi. Vi restai sola, fino a tardi. Poi andai
in giardino a dire un’ultima preghiera. Mentre ritornavo in camera
mia, incontrai il signor Germain sul pianerottolo del gabinetto dove
a volte lavorava; era pallidissimo... mi disse in fretta, mettendomi
in mano un rotolo: “Domattina arresteranno vostro padre per una
cambiale di 1300 franchi, egli non può pagarla... ecco il danaro...
appena sarà giorno, correte da lui... Solo da oggi comincio a
conoscere il signor Ferrand... è uno scellerato... ma lo
smaschererò... Ma non dite che avete ricevuto da me questo
danaro...” E il signor Germain, senza lasciarmi neppure il tempo di
ringraziarlo, scese le scale di corsa.»
XII
LA PAZZIA
«Stamane» continuò Louise, «prima che qualcuno fosse alzato in casa
del signor Ferrand, sono venuta qui col danaro che mi aveva dato il
signor Germain per salvare mio padre; ma la somma non bastava e,
senza la vostra generosità, non avrei potuto liberarlo dalle mani
delle guardie...
Probabilmente, dopo che me ne sono andata dalla casa del signor
Ferrand, saranno saliti nella mia camera e avranno trovato tracce
che li avranno aiutati a scoprire tutto... Ah, signore, un ultimo
favore» disse Louise tirando fuori dalla tasca il rotolo
di denaro; «non potreste far consegnare questo denaro al signor
Germain?... Gli avevo promesso di non dire a nessuno che era
impiegato dal signor Ferrand; ma dato che voi lo sapevate già, non
sono stata indelicata... Adesso, signore, ve lo ripeto... Davanti a
Dio che mi sente... non ho detto una parola che non fosse vera...
Non ho cercato di diminuire i miei torti e...»
Ma Louise s’interruppe bruscamente e gridò spaventata: «Signore!
Guardate mio padre... guardatelo... che cosa avrà mai?»
Morel aveva ascoltato l’ultima parte del racconto con cupa
indifferenza; Rodolphe l’aveva attribuita all’abbattimento in cui
era lo sventurato. Dopo sconvolgimenti così violenti, e così vicini
nel tempo, le sue lacrime, pensava Rodolphe, avevano dovuto
esaurirsi e la sua sensibilità affievolirsi; non doveva essergli
rimasta nemmeno la forza di indignarsi.
Ma Rodolphe si ingannava.
Come la fiamma di una candela che sta per spegnersi ora cala e ora
si ravviva, così la ragione di Morel, già tanto scossa, aveva per un
po’ vacillato, gettato qua e là gli ultimi sprazzi di lucidità e
poi, improvvisamente, si era oscurata.
Il lapidario era rimasto completamente estraneo a quel che si diceva
e a quello che succedeva intorno a lui, ed era diventato pazzo.
Sebbene la sua mola fosse dall’altro lato del banco ed egli non
avesse in mano né diamanti né arnesi, l’artigiano stava riproducendo
con impegno e attenzione le varie operazioni del suo lavoro abituale
con l’aiuto di strumenti immaginari.
La pantomima era accompagnata da quella specie di rumore che fa la
lingua battendo contro il palato, rumore che voleva essere
un’imitazione di quello prodotto dal movimento rotatorio della mola.
«Ma, signore» riprese Louise con crescente spavento, «guardate mio
padre!»
Poi si avvicinò all’artigiano e gli disse:
«Padre!... padre!...»
Morel rivolse alla figlia uno di quegli sguardi torbidi, vaghi,
distratti, vuoti, tipici degli alienati...
Senza interrompere la sua pantomima da pazzo, egli rispose
piano, con voce dolce e triste:
«Devo mille e trecento franchi al notaio... il prezzo del san-
gue di Louise... Bisognerà lavorare, lavorare, lavorare! Oh,
pagherò, pagherò, pagherò...»
«Dio mio, ma non è possibile... non può durare!... Non è del tutto
pazzo, vero?» gridò Louise con voce straziante. «Tornerà in sé... è
solo un momento di smarrimento.»
«Morel!... amico!» gli disse Rodolphe. «Noi siamo qui... Vostra
figlia è qui vicino a voi, ed è innocente...»
«Mille e trecento franchi!» disse il lapidario senza guardare
Rodolphe: e continuò a fingere di lavorare.
«Babbo...» disse Louise gettandosi ai piedi del padre e
stringendogli le mani con le sue, «sono io, Louise!»
«Mille e trecento franchi!...» ripeté sforzandosi di liberarsi dagli
abbracci della figlia. «Mille e trecento franchi... altrimenti»
soggiunse a voce bassa come per fare una confidenza, «altrimenti...
Louise sarà ghigliottinata...»
E di nuovo si mise a fingere di girare la mola.
Louise gettò un grido terribile.
«È pazzo!» gridò, «è pazzo!... e io... io ne ho colpa... Oh, Dio
mio, Dio mio! però non è colpa mia... non volevo fare del male... è
stato quel mostro!...»
«Su, coraggio, povera ragazza, coraggio!» disse Rodolphe, «abbiate
fiducia... questa pazzia sarà una cosa passeggera. Vostro padre...
ha sofferto troppo; il peso delle numerose disgrazie che si sono
succedute una dopo l’altra era superiore alle forze di un uomo. Gli
si è annebbiata la mente, ma si riprenderà.»
«Ma che ne sarà di mia madre... di mia nonna... dei miei fratelli...
e delle mie sorelle?» gridò Louise, «adesso che sono senza me e mio
padre... Moriranno dunque di fame, di miseria e di disperazione!»
«Ci sono io!... State tranquilla, a loro non mancherà niente...
Coraggio, vi dico; la vostra rivelazione provocherà la punizione di
un grande criminale. Voi mi avete convinto della vostra innocenza, e
io sono sicuro che essa sarà riconosciuta, proclamata.»
«Ah, signore... vedete... il disonore, la follia, la morte... ecco i
mali che ha causato quell’uomo! e non si può far nulla contro di
lui! nulla!... Ah, ci mancava questo per completare tutti i miei
guai!»
«Anzi, che questo invece vi aiuti a sopportarli.»
«Cosa volete dire, signore?»
«Siate certa che voi, vostro padre e i vostri sarete vendicati.»
«Vendicati...»
«Sì! E io vi giuro» rispose Rodolphe con aria solenne, «vi giu-
ro che, una volta riconosciuti i suoi delitti, quell’uomo sconterà
atrocemente il disonore, la follia e la morte che ha provocato. Se
la legge si dimostrerà impotente contro di lui, se la sua astuzia e
la sua abilità saranno pari ai suoi misfatti, allora, alla sua
astuzia opporremo l’astuzia, ai suoi misfatti i misfatti, i quali
saranno per lui come il supplizio giusto e vendicatore inflitto al
colpevole da una mano inesorabile, per un delitto vergognoso e
segreto.»
«Ah, signore, che Dio vi ascolti, non mi vorrei vendicare, ma mio
padre diventato pazzo... mio figlio morto appena nato...»
Poi facendo un ultimo sforzo per trarre Morel dalla follia, Louise
gridò ancora:
«Addio papà! Mi portano in prigione... non ti vedrò più! È la tua
Louise che ti saluta. Babbo, babbo, babbo!»
Nulla rispose a quel richiami strazianti.
Nulla risuonò in quella povera testa sconvolta... nulla.
Le corde paterne, sempre le ultime a spezzarsi, non vibra-
rono...
La porta della soffitta si aprì.
Entrò il commissario.
«Ho i minuti contati ormai, signore» disse a Rodolphe. «Mi
dispiace, ma devo dirvi che non posso lasciar durare più a lungo
questo colloquio.»
«Il colloquio è terminato» disse amaramente Rodolphe additando il
lapidario. «Louise non ha più nulla da dire al padre... ed egli non
ha più nulla da sentire dalla figlia... è pazzo!»
«Santo Iddio! era quello che temevo... Oh, è terribile!» esclamò il
magistrato.
E subito si avvicinò a Morel: dopo un brevissimo esame si convinse
della dolorosa realtà.
«Ah, signore» disse tristemente a Rodolphe, «stavo già augurandomi
sinceramente che l’innocenza di questa ragazza fosse riconosciuta!
Ma, dopo una simile disgrazia, non mi limiterò agli auspici no, no;
dirò che questa famiglia è così onesta e sventurata; dirò l’ultimo
colpo terribile da cui è stata colpita e siate certo che i giudici
avranno una ragione di più per trovare innocente l’accusata.»
«Bene, bene signore» disse Rodolphe; «agendo così, voi non
esercitate una funzione... ma un sacerdozio.»
«Credetemi signore, la nostra missione è quasi sempre così penosa,
che con gioia e gratitudine ci interessiamo a ciò che è buono e
onesto.»
«Ancora una parola, signore. Le rivelazioni fatte da Louise Morel mi
hanno chiaramente provato la sua innocenza. Potreste,
comunque, dirmi in quale modo il suo supposto delitto è stato
scoperto o meglio denunciato?»
«Questa mattina la governante al servizio del notaio Ferrand è
venuta a dichiararmi che, dopo la frettolosa partenza di Louise
Morel, che sapeva incinta di sette mesi, essa era salita nella
camera della ragazza e vi aveva trovato le tracce di un parto
clandestino. Dopo aver guardato un po’, alcune impronte sulla neve
avevano portato alla scoperta del corpo di un neonato, sotterrato
nel giardino.
Dopo la dichiarazione di quella donna, sono andato in rue du
Sentier, dove ho trovato il signor Jacques Ferrand indignato che un
simile scandalo fosse successo a casa sua.
Anche il parroco della chiesa di Bonne-Nouvelle, che il notaio aveva
mandato a chiamare, mi ha dichiarato che la figlia di Morel aveva
confessato la colpa in sua presenza, un giorno in cui, a questo
proposito, essa aveva implorato l’indulgenza e la pietà del suo
padrone; e che, inoltre, egli aveva spesso sentito il signor Ferrand
dare a Louise Morel i più severi avvertimenti per evitare che un
giorno o l’altro si disonorasse; “purtroppo la cosa è successa”,
aggiunse il prete. Lo sdegno del signor Ferrand» riprese il
magistrato «mi parve così legittimo che non potei non condividerlo.
Mi disse che Louise Morel si era certamente rifugiata da suo padre.
Venni qui subito e poiché il delitto era flagrante ho dovuto
procedere a un arresto immediato.»
Rodolphe si tenne calmo al sentir parlare dello sdegno del signor
Ferrand. Disse al commissario:
«Signore, vi ringrazio infinitamente della vostra cortesia e
dell’appoggio che sarete tanto buono da dare a Louise; farò portare
questo disgraziato e la madre di sua moglie in un manicomio.»
Poi si rivolse a Louise, che, sempre inginocchiata vicino al padre,
cercava invano di riportarlo alla lucidità:
«Figliola, rassegnatevi ad andarvene senza salutare vostra madre...
risparmiatele lo strazio di un addio... State tranquilla, ormai alla
vostra famiglia non mancherà più nulla; troveremo una donna che
curerà vostra madre e si occuperà dei vostri fratelli e sorelle
sotto la sorveglianza della vostra buona vicina, la signorina
Rigolette. Quanto a vostro padre, si farà di tutto perché la sua
guarigione sia pronta e completa... Coraggio, e sappiate che la
brava gente è spesso messa a dura prova dalla sventura, ma da queste
lotte essa esce sempre più pura, più forte, più stimata».
Due ore dopo l’arresto di Louise, David, su ordine di Rodolphe,
condusse il lapidario e la vecchia demente a Charenton dove dovevano
essere tenuti in custodia e ricevere cure particolari.
Morel lasciò la casa della rue du Temple senza opporre resistenza;
indifferente ormai a tutto, andò dove lo portavano; la sua follia
era tranquilla, inoffensiva e triste.
La nonna aveva fame: le mostrarono pane e carne, ed essa seguì il
pane e la carne.
Le pietre preziose del lapidario furono affidate alla moglie ma lo
stesso giorno la signora Mathieu, la sensale, andò a prendersele.
Purtroppo la donna fu seguita e spiata da Tortillard, che era venuto
a conoscenza del reale valore delle cosiddette pietre false durante
il colloquio che aveva ascoltato quando le guardie erano andate ad
arrestare Morel... Il figlio di Bras-Rouge volle assicurarsi che la
commissionaria abitasse in boulevard Saint-Denis al n. 11.
Rigolette, con molta delicatezza, disse a Madeleine Morel
dell’attacco di pazzia del lapidario e dell’arresto di Louise.
Madeleine dapprima pianse molto, si disperò e gridò pazzamente; poi,
passato il primo momento di dolore, la povera donna, da debole e
leggera creatura qual era, si lasciò a poco a poco consolare dal
fatto che i suoi bambini e lei stessa cominciavano a godere di quel
benessere che dovevano al loro benefattore.
Quanto a Rodolphe, egli meditava sulle rivelazioni di Louise e le
sue riflessioni erano amare.
“Niente è più comune” pensava “di questa corruzione a cui la serva è
stata costretta con più o meno violenza da parte del padrone: ora
ricorrendo al terrore e al fattore sorpresa; ora sfruttando
l’inevitabilità di rapporti che implica la professione di serva.
Questa depravazione su comando che il ricco impone al povero, e che,
per soddisfare se stessa, si fa beffe dell’inviolabilità tutelare
del focolare domestico, questa depravazione, sempre deplorevole
anche quando è volontariamente accettata, diventa spaventosa,
orribile, quando è imposta.
È il brutale e disgustoso asservimento, è l’ignobile e barbara
schiavitù di una creatura che, per terrore, risponde ai desideri del
padrone con le lacrime, ai suoi baci con fremiti di ripugnanza e di
paura.
“E poi” pensava ancora Rodolphe, “per la donna che conseguenze!
quasi sempre la degradazione, la miseria, la prostituzione, il
furto, e perfino l’infanticidio!
Su questo argomento poi le leggi sono strane!
Ogni complice di un delitto è colpevole di quel delitto.
Ogni ricettatore è equiparabile a un ladro.
Ciò è giusto.
Ma che un uomo, per non saper cosa fare, seduca una ragazza
innocente e pura, la renda madre, la abbandoni, la lasci disonorata,
senza aiuti, disperata e la spinga all’infanticidio, delitto che
essa deve pagare con la vita...
Quell’uomo sarà considerato suo complice?
Ma suvvia!
Che cos’è questo? Niente, meno di niente, un amoretto... il ca-
priccio di un giorno per un visino grazioso... e il gioco è fatto...
Sotto un’altra!
Anzi, per quanto poco beffardo e originale possa essere quest’uomo,
tutto sommato è il miglior ragazzo di questo mondo, può andare a
vedere la sua vittima alla sbarra degli imputati.
Se per caso è citato come testimone, può divertirsi a dire a quella
gente curiosissima di far ghigliottinare la ragazza il più presto
possibile, per la maggior gloria della pubblica morale.
‘Ho qualcosa d’importante da rivelare alla giustizia.’ ‘Parlate.’
‘Signori giurati, questa infelice era virtuosa e pura, è vero...
L’ho sedotta, è sempre vero...
Le ho fatto fare un figlio, è vero anche questo...
Dopo di che, siccome è bionda, l’ho dimenticata completamente per
un’altra che è bruna, è ancora più vero.
Ma, in questo, mi sono avvalso di un diritto imprescrittibile, di un
sacrosanto diritto, riconosciutomi e concessomi dalla società...’
Fatto sta che questo ragazzo è nel suo pieno diritto, si diranno a
bassa voce i giurati. Non c’è una legge che proibisca di far fare un
figlio a una ragazza bionda e poi di abbandonarla per una ragazza
bruna. Il giovanotto è semplicemente un gaudente...
‘Ora, signori giurati, questa disgraziata afferma di aver ucciso il
suo bambino... o per meglio dire nostro figlio...
Perché l’ho abbandonata...
Perché, essendo sola e nella più nera miseria, si è spaventata, ha
perso la testa. E perché? Perché, diceva, avendo da curare e da
nutrire il suo bambino, le era impossibile andare ancora a lavorare
al laboratorio e guadagnarsi da vivere per sé e per il frutto del
nostro amore.
Ma, permettetemi di dirlo, signori giurati, queste, per me, sono
magre scuse.
Non poteva la signorina andare a partorire alla Bourbe... se c’era
posto?
Non poteva la signorina, al momento critico, andare per esempio dal
commissario del suo quartiere per fargli la dichiarazione del suo
disonore, in modo da poter avere l’autorizzazione di mettere il suo
bambino dai Trovatelli?
Infine non poteva, la signorina, mentre le mettevo le corna con
un’altra amante che aspettavo al caffè, cavarsela in maniera meno
selvaggia?
Perché devo dire, signori giurati, che trovo troppo comodo e poco
riguardoso questo modo di sbarazzarsi del risultato di parecchi
momenti d’errore e di piacere, e di sfuggire così alle
preoccupazioni del futuro.
Che diavolo! ma per una ragazza non si tratta solo di perdere
l’onore, di sfidare il disprezzo e l’infamia, e di portare in grembo
un figlio illegittimo per nove mesi... ma si deve anche allevarlo,
questo bambino, curarlo, nutrirlo, dargli un mestiere, farne insomma
un uomo onesto come suo padre, o una brava ragazza e non dissoluta
come sua madre... Perché, in fondo, la maternità ha sacri doveri,
che diavolo! e le miserabili che ne calpestano i sacri doveri, sono
madri snaturate che meritano un castigo terribile che serva
d’esempio...
In base alla qual cosa, signori giurati, consegnate senza pensarci
tanto la scellerata al boia e agirete cittadini virtuosi,
imparziali, decisi e illuminati... Dixi!’
‘Questo signore esamina la questione da un punto di vista
strettamente morale’ dirà con aria paterna qualche fabbricante di
maglierie arricchito o qualche vecchio usuraio travestito da capo
dei giurati; ‘perdio, ha fatto quello che noi tutti avremmo fatto al
suo posto, perché è molto graziosa la biondina, anche se è un po’
palliduccia... Il giovanotto, come dice Joconde, ha corteggiato la
bruna e la bionda; non c’è nessuna legge che lo proibisca. Quanto
alla povera ragazza, dopo tutto, è colpa sua! Perché non si è
difesa? Non avrebbe dovuto commettere un delitto... un... delitto
mostruoso che fa... che fa... arrossire la società... da cima a
fondo.’
E il fabbricante di maglieria arricchito o l’usuraio avranno
ragione, perfettamente ragione.
In base a che cosa questo signore potrà essere incriminato? Di che
complicità diretta o indiretta, morale o materiale lo si potrà
accusare? Il fortunato mascalzone ha sedotto una bella ragazza, poi
l’ha piantata in asso, lui lo ammette; quale legge proibisce queste
cose?
La società, in simili casi, non dice forse come quel padre di non so
più quale racconto spinto:
‘Badate alle vostre galline, il mio gallo è libero di scorrazzare...
me ne lavo le mani!’.
Ma un povero miserabile, che, pur sapendolo, acquisti per bisogno,
per stupidità, necessità o ignoranza delle leggi, che neppure sa
leggere, uno straccio che proviene da un furto... viene messo in
galera per vent’anni come ricettatore, se il ladro è stato
condannato a vent’anni di galera.
È un ragionamento logico, potente.
Senza ricettatori non ci sarebbero ladri.
Senza ladri niente ricettatori.
No... niente maggior pietà... anzi, minor pietà... per colui che
istiga al male rispetto a colui che lo fa!
Che la più piccola complicità sia quindi punita con una con-
danna terribile!...
Bene... è, questa, un’idea crudele e feconda, spiccatamente
morale.
Dobbiamo inchinarci davanti alla società che ha dettato una
tale legge... ma dobbiamo ricordarci che questa società, così
implacabile con le più piccole complicità a delitti contro le cose,
è fatta in modo tale che se un uomo semplice e ingenuo cercasse di
provare che c’è almeno solidarietà morale, complicità materiale fra
il seduttore incostante e la ragazza sedotta e abbandonata sarebbe
preso per un visionario.
E se quest’uomo semplice cercasse di dimostrare che senza il
padre... forse non ci sarebbe neanche il figlio, la società
griderebbe all’atrocità, alla follia.
E avrebbe ragione, sempre ragione... perché, dopo tutto, se questo
signore fosse capace di dire cose così belle ai giurati, per poco
che gli piacciano le emozioni violente, potrebbe anche andare
tranquillamente a vedere tagliare la testa alla sua amante, che
viene giustiziata per quel reato d’infanticidio di cui egli è
complice, diciamo meglio... l’autore, in virtù del fatto che l’ha
lasciata in balìa di se stessa.
E questo delizioso ruolo di protettore, riservato alla parte
maschile della società per certe marachelle che hanno a che fare col
piccolo dio dell’amore, non dimostra forse che i francesi
sacrificano ancora alle Grazie ed è ancora il popolo più galante del
mondo?”
XIII JACQUES FERRAND
Mentre accadevano i fatti che stiamo raccontando, c’era a un capo
della rue du Sentier un lungo muro pieno di crepe, con in cima uno
strato di calcina e irto di cocci di bottiglia; il muro, da quella
parte, delimitava il giardino del notaio Jacques Ferrand per poi
terminare in un fabbricato di un solo piano, sovrastato da solai,
che s’affacciava sulla strada.
Due larghi stemmi di rame dorato, insegne dell’ufficio notarile,
ornavano un portone tarlato di cui non si riusciva a distinguere
l’originario colore tanto era il fango che l’incrostava.
La porta introduceva in un porticato con a destra l’abitazione di un
vecchio portinaio mezzo sordo che era per il corpo dei sarti ciò che
il signor Pipelet era per quello dei calzolai; e a sinistra, invece,
una stalla che faceva da cantina, lavatoio, legnaia e da abitazione
a una nascente colonia di conigli, che erano stati sistemati in una
mangiatoia dal portinaio stesso il quale, per distrarsi dalle pene
di una recente vedovanza, s’era dato all’allevamento di animali
domestici.
Accanto alla portineria si apriva l’accesso a una scala tortuosa,
stretta e buia che portava allo studio, come diceva ai clienti una
mano dipinta in nero con l’indice in direzione della scritta
seguente anch’essa dipinta in nero sul muro: «Lo studio è al primo
piano.»
Dalla parte di un grande cortile lastricato, invaso dalle erbacce,
si potevano vedere rimesse non occupate; da un’altra parte un
cancello di ferro arrugginito che delimitava il giardino; in fondo,
la palazzina abitata solo dal notaio.
Una scaletta di otto o dieci gradini sconnessi, non fissati al
suolo, pieni di muschio, verdastri e consunti dal tempo, portava
alla palazzina, quadrata, composta di una cucina, di vari annessi
sotterranei, di un pianterreno, di un primo piano e di uno stanzino
sotto il tetto in cui aveva abitato Louise.
La stessa palazzina appariva in rovina; i muri, infatti, erano
solcati da crepe profonde, le finestre e le persiane, un tempo
dipinte di grigio, con gli anni erano diventate quasi nere; le sei
finestre del primo piano che davano sul cortile non avevano tende;
sui vetri si era depositata una specie di ruggine grassa e opaca;
solo dietro le finestre del pianterreno, quelle più pulite, si
riuscivano a scorgere tende di cotonina stinta a rosoni rossi.
Dalla parte del giardino la palazzina aveva quattro finestre di cui
due murate.
Il giardino, pieno com’era di piante parassite, tradiva lo stato
d’abbandono in cui era stato lasciato; non c’era ombra di aiuole o
di arbusti; si vedevano un boschetto di elmi, cinque o sei grossi
alberi verdi, un po’ di acacie e di sambuchi e qualche erbetta rada
e gialla, rovinata dal muschio e dal sole estivo, vialetti di terra
argillosa ingombri di rovi; in fondo, una serra mezzo intanata, e
all’orizzonte le muraglie grigie e nude delle case intermedie, con
qua e là qualche finestra chiusa da sbarre di ferro come quelle di
una prigione; questo è lo squallido quadro del giardino e
dell’abitazione del notaio.
A questa apparenza, o meglio a questa realtà, il signor Ferrand dava
molta importanza.
Agli occhi del popolino, la trascuratezza di un benestante passa
sempre per disinteresse, e la sporcizia per austerità.
Accostando il lussuoso tenore di vita di alcuni notai e gli
splendidi guardaroba delle loro signore alla casa tetra del signor
Jacques Ferrand e al suo sprezzo per l’eleganza, la ricercatezza e
il fasto, i clienti provavano una specie di rispetto o meglio di
cieca fiducia per quell’uomo, il quale, per la numerosa clientela e
per la ricchezza che gli venivano attribuite, avrebbe potuto dire
come e più di un suo collega: «Il mio equipaggio, la mia folla, la
mia campagna (sic); il mio giorno all’Opéra (sic) ecc.» e che viveva
nella stretta economia; perciò depositi, investimenti, fidecommessi,
insomma tutte quelle cose rese possibili dalla più indiscussa
integrità da una parte e dalla buona fede più clamorosa dall’altra,
affluivano dal signor Ferrand.
Vivendo modestamente, come faceva, il notaio seguiva la sua
inclinazione... Detestava la gente, il lusso, i piaceri a caro
prezzo; se fosse stato diverso, avrebbe sacrificato senza esitare le
sue più spiccate inclinazioni all’apparenza che gli interessava
prendere...
Diremo ora qualche cosa sul carattere di questo uomo. Apparteneva
alla grande famiglia degli avari.
Quasi sempre l’avaro è visto sotto una luce ridicola o grotte-
sca; i peggiori non vanno più in là dell’egoismo o della durezza. La
maggior parte aumenta la propria ricchezza facendo economie; alcuni,
un numero ristretto, si spingono fino a prestare al 30%; solo i più
decisi hanno il coraggio di misurare con lo sguardo l’abisso degli
aggiotaggi... ma è difficilissimo che un avaro, per acquistare altre
ricchezze, arrivi fino al delitto, fino all’assassinio.
E si capisce. L’avarizia è soprattutto una passione negativa,
passiva.
L’avaro, nei suoi continui calcoli, pensa più ad arricchirsi senza
spendere descrivendo attorno a sé il cerchio sempre più piccolo
dello stretto necessario, anziché pensare ad arricchirsi a spese
degli altri: è, prima di tutto, un martire dello spirito di
conservazione.
Debole, timido, astuto, diffidente, soprattutto prudente e
circospetto, mai offensivo, indifferente ai mali del prossimo,
l’avaro almeno non causerà questi mali; egli è soprattutto l’uomo
della sicurezza, del positivo, o meglio egli è avaro perché crede
solo al fatto, al denaro che ha in cassa.
Le speculazioni, i prestiti, anche i più sicuri, lo tentano poco,
perché in essi c’è sempre il rischio di una perdita per quanto
improbabile, e allora preferisce sacrificare gli interessi piuttosto
che esporre il capitale.
Un uomo così timorato e insieme sprezzatore delle eventualità avrà
raramente la selvaggia energia dello scellerato che rischia la
galera o la vita per impadronirsi di una fortuna.
Il verbo rischiare è bandito dal vocabolario degli avari.
Da questo punto di vista, Jacques Ferrand, a nostro parere, era una
curiosa eccezione, forse una varietà nella specie degli avari.
Infatti Jacques Ferrand rischiava, e molto.
Egli faceva assegnamento sulla sua astuzia, che era immensa, sulla
sua ipocrisia, che era profonda, sulla sua mente, che era elastica e
feconda, sulla sua audacia, che era diabolica, per assicurarsi
l’impunità per i suoi già numerosi delitti.
Jacques Ferrand era una doppia eccezione.
Ci sono persone avventurose ed energiche che non indietreggiano
davanti a nessun delitto per procurarsi il denaro, ma esse, di
solito, sono pungolate da focose passioni: il gioco, il lusso, la
tavola, la lussuria.
Jacques Ferrand non conosceva nessuno di questi bisogni violenti,
disordinati; anzi era astuto e paziente come un falsario, crudele e
deciso come un assassino, sobrio e regolare come Arpagone.
Una sola passione, o meglio un solo appetito, ma vergognoso,
ignobile, quasi feroce nella sua bestialità, lo esaltava fino alla
frenesia.
Era la lussuria.
La lussuria della bestia; la lussuria del lupo o della tigre. Quando
questo fermento acre e impuro gli agitava il sangue,
egli si sentiva salire alla faccia violente vampate e aveva la mente
offuscata da bollori carnali; era il momento in cui, dimentico del-
la sua accorta prudenza, diventava, come abbiamo detto, tigre o
lupo; prova ne siano le prime violenze contro Louise.
Il narcotico, la spaventata ipocrisia con cui aveva negato il suo
delitto rientravano, più che la violenza manifesta, nel suo stile,
se così lo si può chiamare.
Desiderio bestiale, ardore brutale, feroce disprezzo: queste le
diverse fasi dell’amore in quest’uomo.
Cioè, come è dimostrato dalla sua condotta con Louise, la
delicatezza, la bontà, la generosità gli erano del tutto
sconosciute. Il prestito di mille e trecento franchi fatto a Morel,
con grossi interessi, era per Ferrand un tranello, un mezzo per
opprimere e un buon affare. Era sicuro dell’onestà del lapidario,
quindi sapeva che prima o poi sarebbe stato rimborsato; tuttavia
bisognava proprio che la bellezza di Louise avesse prodotto su di
lui una profonda impressione perché egli si privasse di una somma
già investita con prospettive di lucro.
A parte questa debolezza, per il resto Jacques Ferrand non vedeva
che il danaro.
Amava il denaro per se stesso. Non per i piaceri che procurava; era
uno stoico.
E non già per i piaceri che poteva procurare; non era tanto poeta da
goderselo razionalmente come fanno certi avari. In quanto a ciò che
gli apparteneva, egli amava il possesso per il possesso. In quanto a
ciò che apparteneva agli altri, quando si trattava per esempio di
restituire il grosso deposito che gli era stato lealmente affidato
solo perché era onesto, egli provava lo stesso strazio, la stessa
disperazione che provava l’orefice Cardillac quando si separava da
un insieme di preziosi che lui, col suo gusto squisito, aveva
trasformato in capolavoro artistico.
Fatto sta che anche la reputazione di indubbia onestà di cui godeva
il notaio era un capolavoro artistico... e che un deposito era per
lui un gioiello del quale poteva privarsi solo con tremendo
dispiacere.
Quante premure, quanta astuzia, quanti stratagemmi, quanta abilità,
quanta arte in breve, per attirare quella somma nella sua cassaforte
e coronare così l’inattaccabile reputazione di onoratezza nella
quale i più preziosi contrassegni di fiducia venivano, per così
dire, a incastonarsi come le perle e i diamanti nell’oro dei diademi
di Cardillac!
Si dice che più il celebre orefice si perfezionava, più attribuiva
valore alle sue opere tanto da considerare, con l’animo straziato
dal dolore, proprio l’ultima della serie come il suo vero
capolavoro.
Più Jacques Ferrand si perfezionava nel delitto, più attribuiva
valore alle dimostrazioni sonanti e traboccanti che gli venivano
fatte... cosicché anche per lui il suo vero capolavoro aveva finito
con l’essere l’ultimo misfatto che commetteva.
Vedremo in seguito con quali mezzi, veramente prodigiosi, e con
quanti calcoli e macchinazioni egli riusciva a impossessarsi
impunemente di numerose e notevoli somme.
La vita segreta e misteriosa che conduceva gli dava le continue e
terribili emozioni che il gioco dà al giocatore.
Contro la ricchezza di tutti, Jacques Ferrand metteva come posta la
sua ipocrisia, la sua audacia, la sua testa... e camminava sul
velluto, per così dire; infatti, esclusi i colpi della giustizia
umana, che egli definiva volgarmente ed energicamente come una
«tegola che poteva cadergli in testa», perdere voleva dire per lui
non guadagnare; inoltre possedeva un’indole così criminale da avere
lo spiccato cinismo di vedere un guadagno continuo nella stima
sconfinata, nella fiducia illimitata che ispirava, non solo alla
folla dei suoi clienti ricchi, ma anche alla piccola borghesia e
agli operai del suo quartiere.
Un gran numero di costoro affidava a lui il denaro, pensando: «Non è
caritatevole, è vero; è bigotto, purtroppo; ma è più sicuro del
governo e delle casse di risparmio.»
Nonostante la sua grande abilità, anch’egli era incorso in due di
quegli errori in cui cadono sempre anche i criminali più furbi. Le
circostanze lo avevano costretto ad associarsi a due complici; fu un
errore enorme, come egli ebbe a dire; un errore, però, a cui in
parte riparò: nessuno dei due complici, se non voleva rovinarsi,
poteva rovinarlo; e i due complici, infatti, non avrebbero tratto,
da questo caso limite, altro profitto che di denunciare alla
pubblica vendetta se stessi e il notaio.
Da questo lato, dunque, era abbastanza tranquillo. D’altra
parte, avendo le migliori intenzioni di continuare nel delitto, gli
inconvenienti della complicità erano compensati dall’aiuto che egli
a volte riceveva nei suoi intenti criminosi.
Diremo adesso alcune parole sull’aspetto fisico del signor Ferrand,
e poi introdurremo il lettore nel suo studio, dove ritroveremo i
personaggi principali di questa storia.
Il signor Ferrand aveva cinquant’anni, ma ne dimostrava quaranta;
era di statura media, largo di spalle anche se un po’ curvo,
robusto, quadrato, tarchiato, rosso e peloso come un orso.
Aveva i capelli schiacciati contro le tempie, una fronte spaziosa
per la calvizie, le sopracciglia leggermente segnate e un colorito
da bilioso che scompariva quasi del tutto sotto un’innumerevole
quantità di lentiggini; quando, però, era agitato da una forte
emozione, quella sua maschera terrea e rossastra si iniettava di
sangue e diventava livida.
Aveva la faccia schiacciata come un teschio, per usare una
definizione popolare, un naso rincagnato e schifiltoso, due labbra
così sottili e sfuggenti che la bocca pareva un taglio nel viso; e
quando sorrideva con aria cattiva e sinistra, gli si vedeva la punta
dei denti, quasi tutti neri e guasti. Aveva un viso pallido, rasato
fino alle tempie, dotato di un’espressione austera e beata a un
tempo, impassibile e rigida, fredda e meditabonda, due occhietti
neri, vivi, penetranti e mobili dietro le lenti verdi degli
occhialoni.
Jacques Ferrand aveva un’ottima vista, però da dietro le lenti
poteva, vantaggio immenso, osservare senza essere osservato; sapeva
quanto, a volte, un’occhiata può essere significativa.
Nonostante la sua incrollabile audacia, solo due o tre volte in vita
sua aveva incontrato certi sguardi, potenti, magnetici, davanti ai
quali era stato costretto ad abbassare lo sguardo; ora, in certi
frangenti, è funesto abbassare gli occhi davanti all’uomo che vi
interroga, vi accusa o vi giudica.
Le lenti spesse del signor Ferrand erano quindi una specie di
trincea fortificata da cui egli osservava attentamente le più
piccole mosse del nemico... infatti tutti erano nemici del notaio,
perché tutti erano più o meno sue vittime, anche gli accusatori, non
essendo essi che vittime illuminate o ribelli.
Nel vestire ostentava una trascuratezza che confinava con la
sporcizia, o meglio era sordido per natura; il viso rasato ogni due
o tre giorni, il cranio sporco e grinzoso, le unghie appiattite e
cerchiate di nero, l’odore di caprone, il vecchio soprabito liso, i
capelli unti, le cravatte spiegazzate, le nere calze di lana, le
scarpe grosse, tutte cose che venivano considerate dai suoi clienti
indizio sicuro di virtù e che conferivano al notaio una cert’aria di
distacco dal mondo e un profumo di filosofia pratica da cui si
lasciavano sedurre.
A quale inclinazione, a quale passione, a quale debolezza, si
chiedeva la gente, il notaio avrebbe sacrificato la fiducia che
tutti gli dimostravano?... Guadagnava circa 60.000 franchi all’anno,
e la sua famiglia era costituita solo da una serva e da una
governante; il suo unico piacere era di andare ogni domenica a messa
e al vespro; non conosceva una musica paragonabile al canto grave
dell’organo, né società mondana che valesse una serata passa-
ta, dopo un pasto frugale, tranquillamente accanto al fuoco col
prete della sua parrocchia. E come se non bastasse, egli riponeva la
sua gioia nella probità, il suo orgoglio nell’onore, la sua felicità
nella religione.
Questo è il giudizio che i contemporanei del signor Ferrand davano
di questo strano fior di galantuomo.
XIV
LO STUDIO
Lo studio del signor Ferrand assomigliava a tutti gli studi, i suoi
scrivani a tutti gli scrivani. Vi si arrivava passando attraverso
un’anticamera con quattro sedie antiquate. Nello studio propriamente
detto, con tutto attorno casellari pieni delle cartelle contenenti
gli incartamenti dei clienti del signor Ferrand, c’erano cinque
giovani, curvi sui leggii di legno nero che scribacchiavano,
ridevano, parlavano senza posa.
Una sala d’aspetto, piena anch’essa di cartelle, in cui di solito
stava il primo scrivano, poi un’altra stanza vuota, che, per maggior
segretezza, separava lo studio del notaio dalla sala d’aspetto; ecco
il quadro d’insieme di questo deposito di ogni sorta di documenti.
Erano appena suonate le due a un vecchio orologio a cucù situato tra
le due finestre dello studio, e tra gli scrivani regnava una grande
agitazione. Da alcuni brani della loro conversazione si potrà capire
il motivo di tale scompiglio.
«Certo» diceva uno di questi giovani, «che se qualcuno fosse venuto
a dirmi che François Germain era un ladro, gli avrei risposto: Siete
un bugiardo.»
«Anch’io!...»
«Anch’io!...»
«A me ha fatto tanta impressione vederlo arrestare e portar
via dalle guardie, che non ho potuto far colazione... Ma, in
compenso, mi sono risparmiato di mangiare quella porcheria che fa la
Séraphin.»
«17.000 franchi, sono una somma!»
«Una bella somma!»
«E dire che da quindici mesi che è cassiere, non è mai mancato
un centesimo dalla cassa del padrone!»
«Io trovo che il padrone ha fatto male a far arrestare Germain,
dato che il povero ragazzo giurava e spergiurava di aver preso solo
1300 franchi in oro.»
«Tanto più che quei 1300 franchi li aveva portati questa mattina per
rimetterli in cassa nel momento in cui il padrone aveva mandato a
chiamare le guardie.»
«Il brutto delle persone di grande probità, come il padrone, è che
sono spietati.»
«Questo non c’entra, perché bisogna pensarci due volte prima di
perdere un povero giovane che fino a ora si è comportato bene.»
«Il signor Ferrand dice che deve servire da esempio.»
«Esempio di che cosa? Un esempio simile non serve a coloro che sono
onesti, e coloro che non lo sono sanno bene che, se rubano,
rischiano di essere scoperti.»
«Certo che la casa è un buon cliente per il commissario.» «Cosa vuoi
dire?»
«Caspita! questa mattina la povera Louise... adesso Germain.» «A me
la faccenda di Germain non sembra chiara...»
«Ma se ha confessato!»
«Ha confessato, sì, ma di aver preso 1300 franchi; ha sostenuto,
però come un ossesso di non aver preso 15.000 franchi in biglietti
di banca e i 700 franchi che mancavano dalla cassa.»
«Se confessa una cosa, perché poi non dovrebbe confessare anche
l’altra?»
«È vero; si è puniti per 1500 franchi come per 15.000.»
«Sì, ma i 15.000 franchi uno se li tiene e, quando esce di prigione,
ha un bel fondo, potrebbe pensare un farabutto.»
«Mica stupido!»
«Avete un bel dire e fare voi, secondo me c’è qualcosa sotto.» «E
Germain che difendeva sempre il padrone quando lo chia-
mavano gesuita!»
«È proprio vero. “Perché il padrone non avrebbe il diritto di
andare a messa” ci diceva; “voi avete pure il diritto di non
andarci.”
Oh, ecco Chalamel che viene di corsa chissà come se ne stupirà!»
«Di cosa, di cosa, vecchi miei? C’è qualcosa di nuovo su quella
povera Louise?»
«Lo sapresti, bighellone, se non fossi restato così tanto in giro.»
«Oh, sentiteli! credete forse che ci vogliano quattro passi per
andare da qui alla rue de Chaillot?»
«Oh, male!... male!...»
«E allora, questo straordinario visconte di Saint-Remy?»
«Non è ancora venuto?»
«No.»
«Oh bella, aveva la carrozza pronta e mi ha fatto dire dal ca-
meriere che sarebbe venuto subito, ma mi sembra di cattivo umore, ha
detto il domestico... Ah, signori, quello sì che è un bel
palazzotto!... un lusso bestiale... sembra una di quelle abitazioni
dei signori di una volta... di cui si parla in Faublas. Oh,
Faublas!... ecco il mio eroe il mio modello!» disse Chalamel posando
l’ombrello e togliendosi le soprascarpe.
«Sfido io allora che ha debiti e minacce di arresti, quel visconte.»
«Una raccomandata di 34.000 franchi che l’usciere ha mandato qui,
perché devono venire a pagare allo studio; il creditore preferisce
così, non so perché.»
«Bisogna che quel bel visconte adesso sia in grado di pagare, visto
che è tornato ieri sera dalla campagna, dove era nascosto da tre
giorni per sfuggire alle guardie.»
«Ma come mai non hanno ancora pignorato casa sua?»
«Non è mica scemo lui! La casa non è sua, il mobilio è intestato al
cameriere, che, si dice, gli affitta i mobili, così i cavalli e le
carrozze sono intestati al cocchiere, che dice di dare a nolo al
visconte per un tanto al mese magnifici equipaggi. Ah, è un furbo,
il signore di Saint-Remy. Ma cosa stavate dicendo? Che novità ci
sono ancora?»
«Immaginati che, due ore fa, il padrone entra qui furibondo e grida:
“Non c’è Germain?” “No, signore.” “Ebbene, quel miserabile ieri sera
mi ha rubato 17.000 franchi” ribatte lui.»
«Germain... rubare... via!»
«Vedrai.»
«“Come, signore! Ne siete sicuro? Non è possibile” esclamia-
mo noi.
“Vi dico, signori, che ieri avevo messo nel cassetto della scriva-
nia dove lavora quindici biglietti da mille più 2000 franchi in oro
in uno scatolino: è sparito tutto.” In quel momento ecco il vecchio
Marriton, il portinaio, che arriva dicendo: “Signore, stanno
arrivando le guardie”.
«E Germain?»
«Aspetta... Il padrone dice al portinaio: “Appena verrà il signor
Germain, mandamelo nello studio senza dirgli niente... voglio
confonderlo davanti a tutti voi, signori” aggiunge il padrone. Di lì
a un quarto d’ora, il povero Germain arriva come se niente fosse; la
Séraphin ci aveva appena portato il suo intruglio: saluta
il padrone e ci dà il buongiorno tranquillamente. “Germain, non fate
colazione?” gli dice il signor Ferrand. “No, signore; grazie, non ho
fame.” “Siete arrivato in ritardo!” “Sì, signore... ho dovuto andare
a Belleville stamane.” “Sicuramente per nascondere il denaro che mi
avete rubato!” grida il signor Ferrand con voce terribile.»
«E Germain?...»
«Il povero ragazzo diventa pallido come un morto e risponde subito
balbettando; “Signore, ve ne supplico, non rovinatemi...”»
«Aveva rubato?»
«Ma aspetta, Chalamel. “Non rovinatemi!” dice Germain al padrone.
“Dunque, sciagurato, confessate?” “Sì, signore... ecco il denaro che
manca. Credevo di poterlo rimettere al suo posto questa mattina
prima che voi vi alzaste: sfortunatamente una persona che aveva una
piccola somma mia e che credevo di trovare ieri sera a casa sua era
invece a Belleville da due giorni, e ho dovuto andarci stamane. Per
questo ho tardato... Pietà, signore, non rovinatemi! Ero sicuro di
poter rimettere al suo posto questa mattina il denaro preso! Ecco i
1300 franchi in oro.” “Come, 1300 franchi!” grida il signor Ferrand.
“Altro che 1300 franchi! Voi mi avete rubato nello scrittoio della
stanza del primo piano i quindici biglietti da mille franchi che
erano nel portafoglio verde più 2000 franchi in oro.” “Io!... io
no!” risponde il povero Germain, sconvolto. “Ho preso 1300 franchi
in oro... non un soldo di più. Non ho veduto nessun portafoglio nel
cassetto, non c’erano che 2000. franchi in una scatola.” “Oh, infame
bugiardo!...” ribatte il padrone. “Avete rubato 1300 franchi quindi
potete averne rubati anche di più; la giustizia deciderà... Oh, sarò
implacabile per un così orribile abuso di fiducia. Servirà da
esempio...” Insomma, caro Chalamel, in quel momento arrivano le
guardie col segretario del commissario per stendere il verbale;
prendono Germain e via!»
«Ma come è possibile? Germain, la perla dei galantuomini!» «Anche a
noi è parso molto strano.»
«Però bisogna riconoscere una cosa: Germain era un po’ ma-
niaco; per esempio, non voleva mai dire a nessuno dove abitava.»
«Questo è vero.»
«Faceva sempre il misterioso.»
«Non sono buone ragioni per dire che ha rubato 17.000
franchi...» «Certo.»
«Facevo solo un’osservazione.»
«Oh, questa sì che è bella!... è come se mi avessero dato un pugno
in testa... Germain... Germain che pareva così onesto... a cui si
poteva dare la comunione senza confessione!»
«Pareva quasi che avesse avuto un presentimento della sua
disgrazia...»
«Perché?»
«Da un po’ di tempo aveva qualcosa che lo tormentava.» «Era forse a
proposito di Louise?»
«Di Louise?»
«Però io ripeto solo ciò che ha detto stamane la Séraphin.» «Che
cosa?»
«Che era l’amante di Louise... e il padre del bambino...»
«Oh, che razza di gattamorta!»
«Senti, senti, senti!»
«Oh, bah!»
«Non è vero!»
«E tu come fai a saperlo, Chalamel?»
«Quindici giorni fa, Germain mi ha detto, in confidenza, che
era innamorato pazzo, ma pazzo, pazzo di una operaia, onestissima,
che aveva conosciuto in una casa dove aveva abitato. E, parlandomi
di lei, aveva le lacrime agli occhi.»
«Ehi Chalamel, Chalamel questa è roba vecchia!»
«Dice che Faublas è il suo eroe, ed è tanto ingenuo, tanto sciocco,
tanto credulone da non capire che si può essere innamorati di una e
essere l’amante di un’altra.»
«E io ti dico che Germain parlava seriamente...»
In quella entrò nello studio il capo scrivano.
«Ebbene, Chalamel» disse costui, «avete fatto tutte le com-
missioni?»
«Sì, signor Dubois, sono stato dal signor di Saint-Remy che fra
poco sarà qui per pagare.»
«E dalla contessa Mac-Grégor?»
«Anche... ecco la risposta.»
«E dalla contessa d’Orbigny?»
«Sì: essa ringrazia molto il padrone. È arrivata ieri dalla Nor-
mandia... non si aspettava di aver così presto una risposta: questa
è la sua lettera. Sono passato anche dall’amministratore del
marchese d’Harville, siccome l’aveva chiesto lui, per le spese del
contratto che sono andato a far firmare l’altro giorno.»
«Gli avrete detto, spero, che non era una cosa urgente.»
«Sì; ma l’amministratore ha voluto pagare lo stesso. Ecco il denaro.
Ah, dimenticavo questo biglietto che era giù dal portinaio,
con scritte sopra a matita alcune parole (non del portinaio); l’ha
lasciato un signore che aveva chiesto del padrone.»
«WALTER MURPH» lesse il primo scrivano e più sotto scritto a matita:
ritornerà alle tre per affari importanti. Non conosco questo nome.»
«Ah, dimenticavo anche questo» continuò Chalamel, «il signor Badinot
ha detto che andava bene e che, comunque faccia il signor Ferrand,
andrà sempre bene.»
«Non ha dato una risposta per iscritto?»
«No, signore, ha detto che non aveva tempo.»
«Benissimo.»
«Anche il signor Charles Robert verrà in giornata a parlare
col padrone; dicono che ieri si sia battuto in duello col duca di
Lucenay.»
«È ferito?»
«Non credo, me l’avrebbero detto a casa sua.»
«To’, si sta fermando una carrozza...»
«Oh, che bei cavalli! come sono focosi!»
«E quel gran cocchiere inglese, con la parrucca bianca, la li-
vrea scura gallonata d’argento e le spalline da colonnello!»
«Sarà senz’altro un ambasciatore.»
«È un domestico in livrea di cacciatore; ne ha d’argento ad-
dosso!»
«E che po’ po’ di baffi!»
«È la carrozza del visconte di Saint-Remy» disse Chalamel. «Se ha
stile? grazie tante!»
Poco dopo, il signor di Saint-Remy faceva il suo ingresso nel-
lo studio.
XV
IL SIGNOR DI SAINT-REMY
Noi abbiamo già descritto la bella figura, l’eleganza squisita del
signor di Saint-Remy, che proprio il giorno prima era partito dalla
fattoria di Arnouville (proprietà della duchessa di Lucenay), dove
si era recato per sfuggire alle ricerche delle guardie Malicorne e
Bourdin.
Il signor di Saint-Remy entrò d’impeto nello studio, col cappello in
testa, superbo e sprezzante, chiudendo un poco gli occhi, e
domandando con grande impertinenza, senza guardare in faccia
nessuno:
«Dov’è il notaio?»
«Il signor Ferrand lavora nel suo studio» rispose il primo scrivano,
«abbiate la bontà di attendere un momento, signore, perché possa
ricevervi...»
«Come aspettare?»
«Ma, signore...»
«Non c’è ma che tenga, signore; andate a dirgli che c’è il signor
di Saint-Remy... Mi fa specie che questo notaio mi faccia fare
l’anticamera... Che puzza di bruciato qui dentro!»
«Se volete passare nella stanza accanto, signore» disse il primo
scrivano, «intanto vado subito ad avvertire il signor Ferrand.»
Il signor di Saint-Remy alzò le spalle e seguì il primo scrivano.
Dopo un quarto d’ora che gli sembrò interminabile e che mutò la sua
stizza in collera, il signor di Saint-Remy fu introdotto nel
gabinetto del notaio.
Singolarissimo contrasto quello esistente fra questi due uomini
tutti e due grandi fisionomisti e abituati di solito a intuire fin
dalla prima occhiata con chi avevano a che fare.
Il signor di Saint-Remy vedeva Jacques Ferrand per la prima volta.
Fu colpito dal pallore di quella faccia, rigida e impassibile, da
quello sguardo affilato dietro due enormi occhiali verdi, e da
quella testa che scompariva per metà sotto un vecchio berretto di
seta nera.
Il notaio stava seduto su una poltrona di cuoio, davanti alla
scrivania e accanto a un caminetto scrostato, pieno di cenere, dove
fumigavano due tizzoni anneriti. Attaccate alle finestre per mezzo
di sbarrette di ferro c’erano delle tende che, nascondendo i vetri
più bassi, spandevano nello studio, già di per sé cupo, una luce
livida e sinistra. Qualche casellario in legno nero, pieno di
cartelle etichettate, qualche sedia ricoperta di velluto di Utrecht
giallo, una pendola di mogano, un ammattonato giallognolo, umido e
freddo, un soffitto solcato da crepe e inghirlandato di ragnatele,
tale era il sancta sanctorum del signor Jacques Ferrand.
Il visconte non aveva ancora fatto due passi in quello studio, non
aveva ancora detto una parola, che il notaio, che lo conosceva di
fama, lo odiava già. Prima di tutto, vedeva in lui, per così dire,
un rivale in furfanterie; e poi, per il fatto stesso che il signor
Ferrand, sapendosi brutto e repellente, detestava negli altri
l’eleganza, la grazia e la giovinezza soprattutto quando questi
pregi si accompagnavano a un fare insolente.
Il notaio ostentava di solito maniere brusche quasi grossolane con i
clienti, i quali, proprio per quelle sue maniere da contadino
danubiano, avevano finito con lo stimarlo ancora di più. Si
ripromise di essere doppiamente brutale con il signor di Saint-Remy.
Anche costui conosceva Jacques Ferrand solo di fama; si aspettava,
quindi, di trovare un buon diavolo di notaio un tantino ridicolo,
ridicolo perché il visconte, gli uomini di proverbiale onestà di cui
si diceva che Jacques Ferrand fosse il prototipo, se li immaginava
sempre un po’ stupidi.
L’attitudine e la fisionomia del notaio, invece, imposero al
visconte una specie di indefinibile risentimento, un misto di timore
e di odio, sebbene non avesse nessuna seria ragione di temerlo o di
odiarlo. Per questo il signor di Saint-Remy, da uomo risoluto quale
era, accentuò ancor più la sua insolenza e la sua fatuità abituali.
Ferrand si era tenuto il berretto in testa e il visconte si tenne il
cappello; non appena poi fu sulla porta, gridò, con voce acuta e
tagliente:
«È pazzesco, perdio, che voi, signore, mi incomodiate a venir qui,
invece di mandare a prendere a casa mia il denaro delle cambiali che
ho firmate a quel Badinot, e per le quali quel mascalzone è ricorso
a vie legali... È vero che mi avete fatto dire che avete una
comunicazione importante da farmi... e sia... ma allora non avreste
dovuto farmi correre il rischio di aspettare un quarto d’ora nella
vostra anticamera: non è educato, signore.»
Il signor Ferrand restò impassibile, anzi volle portare a termine il
conto che stava facendo; asciugata accuratamente la penna sulla
spugna intrisa d’acqua che era tutta attorno al suo sbreccato
calamaio di maiolica, alzò verso il visconte un viso gelido e terreo
e un naso camuso, cavalcato da un paio di occhiali.
Sembrava quasi un teschio con al posto delle orbite due grosse
immobili pupille glauche e verdi.
Dopo aver considerato un momento in silenzio il visconte, il notaio
gli disse bruscamente con voce secca: «Dov’è il denaro?»
Una tale freddezza esasperò il signor di Saint-Remy. Lui... lui,
l’idolo delle donne, lui così invidiato dagli uomini, lui il modello
della migliore società di Parigi, il terribile duellista produrre
quel po’ po’ di effetto su quel miserabile notaio! c’era da
indignarsi; sebbene l’uomo con cui era a quattr’occhi non fosse
altri che Jacques Ferrand, punto nel suo intimo orgoglio si ribellò.
«Dove sono le cambiali?» ribatté in modo altrettanto secco.
Come risposta il notaio picchiò su un grosso portafoglio che gli era
accanto con un polpastrello di una di quelle sue dita coperte di
peli rossicci e duri come il ferro.
Deciso a essere altrettanto laconico, il visconte, tutto fremente di
collera, trasse dalla tasca del soprabito un piccolo portamonete
di cuoio di Russia chiuso da fermagli d’oro, ne tolse quaranta
biglietti da mille franchi, e li mostrò al notaio.
«Quanto?» chiese costui.
«40.000 franchi.»
«Date qua...»
«Tenete, e facciamola finita, signore; tenetevi, da buon notaio
quanto vi spetta e consegnatemi le cambiali» disse il visconte e
gettò con stizza sul tavolo il pacchetto di banconote.
Il notaio le prese, andò alla finestra per esaminarle, le girò e le
rigirò a una a una con un’attenzione così scrupolosa, e, per così
dire, così insultante nei riguardi del signor di Saint-Remy che
questi impallidì dalla rabbia.
Come se avesse intuito i pensieri che agitavano il visconte, il
notaio scosse la testa, si volse un poco verso di lui e gli disse
con accento indefinibile:
«Ne sono state viste...»
Il signor di Saint-Remy rimase un momento interdetto, poi riprese
seccamente:
«Che cosa?»
«Banconote false» rispose il notaio, continuando a esaminare
attentamente quelle che aveva in mano.
«A che proposito fate questa osservazione, signore?»
Il signor Ferrand si fermò un momento, guardò fisso il visconte
attraverso gli occhiali, poi, alzando impercettibilmente le spalle,
si rimise a esaminare i biglietti senza dire una parola.
«Perdio, signor notaio, sappiate che quando interrogo mi si
risponde!» gridò il signor di Saint-Remy irritato dalla calma di
Jacques Ferrand.
«Queste sono buone...» disse il notaio ritornando verso la sua
scrivania, dove prese un piccolo fascio di carte bollate, cui erano
accluse due cambiali. Quindi mise un biglietto da mille franchi e
tre gruzzoli da cento franchi ciascuno sull’incartamento relativo al
credito e disse al signor di Saint-Remy, indicandogli col dito il
denaro e le cambiali...:
«Ecco quello che vi viene di resto dei 40.000 franchi; il mio
cliente mi ha incaricato di riscuotere le spese.»
Il visconte che a mala pena era riuscito a tenersi calmo mentre
Jacques Ferrand faceva i conti, invece di rispondergli e di prendere
il resto, gridò con voce tremante di collera:
«Vi chiedo, signore, perché mi avete detto a proposito dei biglietti
di banca che ne sono stati visti di falsi?»
«Perché?»
«Sì.»
«Perché vi ho fatto chiamare qui per una faccenda di
falsificazione.»
E gli occhiali verdi del notaio si puntarono sul visconte.
«E cosa ho a che fare io con questa faccenda di falsificazione?»
Dopo un momento di silenzio, il signor Ferrand disse al vi-
sconte, con aria triste e severa:
«Signore, vi rendete conto della funzione che ha un notaio?» «Il
conto e la funzione sono molto chiari, signore, poco fa ave-
vo 40.000 franchi e adesso me ne restano 1300...»
«Siete molto spiritoso, signore... Allora vi dirò io che un nota-
io è per le cose materiali ciò che un confessore è per le
spirituali... Grazie alla professione, viene spesso a conoscenza di
ignobili segreti.»
«E dopo, signore?»
«Spesso è costretto ad aver rapporti con mascalzoni...»
«E allora, signore?»
«Egli deve, per quanto gli è possibile, evitare a un nome ono-
rato di venire trascinato nel fango.»
«Cosa c’entro io con tutto questo?»
«Vostro padre vi ha lasciato un nome onorato che voi disono-
rate continuamente, signore!...»
«Come osate dire?»
«Se non fosse per l’interesse che il vostro nome ispira alla gen-
te dabbene, invece di essere chiamato qui davanti a me, sareste ora
davanti al giudice istruttore.»
«Non vi capisco.»
«Due mesi fa avete scontato, per mezzo di un agente di cambio, una
cambiale di 58.000 franchi, con la firma della casa Meulaert e C. di
Amburgo, a favore di un certo William Smith, e pagabile entro tre
mesi presso il signor Grimaldi, banchiere a Parigi.»
«Ebbene?»
«La cambiale è falsa.»
«Non è vero...»
«La cambiale è falsa!... la casa Meulaert non ha mai avuto a
che fare con William Smith, non lo conoscono nemmeno.» «Com’è
possibile!» esclamò il signor di Saint-Remy sorpreso e indignato:
«ma allora sono stato orribilmente ingannato, signo-
re... perché ho riscosso quel titolo in denaro contante.» «Da chi?»
«Dal signor William Smith in persona, la casa Meulaert è così
nota... e io stesso conoscevo così bene l’onestà del signor William
Smith, che ho accettato la cambiale in cambio della somma che mi
doveva.»
«William Smith non è mai esistito..., è un personaggio
immaginario...»
«Signore, voi m’insultate!»
«La sua firma è falsa e fasulla, come tutto il resto.»
Vi dico, signore, che il signor William Smith esiste; certamen-
te sarò stato vittima di un’orribile truffa.»
«Povero giovane!»
«Spiegatevi.»
«In poche parole, l’attuale depositario della cambiale è con-
vinto che siate stato voi ad aver fatto la falsificazione...»
«Signore!...»
«Dice di averne le prove; ieri l’altro è venuto qui a pregarmi
di farvi chiamare perché voleva rendervi la cambiale falsa... per
mezzo di una transazione... Fino a qui tutto è legale; ma adesso non
lo è più, e ve ne parlo solo a titolo informativo: egli chiede
100.000 franchi... in scudi... oggi stesso; altrimenti domani, a
mezzogiorno, la cambiale falsa sarà depositata nell’ufficio del
procuratore del re.»
«È un’indegnità!»
«Peggio, un’assurdità... Voi siete rovinato... eravate perseguibile
causa una somma che ora mi avete pagato, in grazia di non so quale
profitto... ecco quanto ho dichiarato al terzo portatore... Ma
questi mi ha risposto... che una certa gran dama molto ricca avrebbe
pensato a trarvi dai guai...»
«Basta, signore!... basta!...»
«Un’altra indegnità, un’altra assurdità! d’accordo.»
«Ma insomma che cosa si vuole da me?»
«Si vuole iniquamente approfittare di un’azione iniqua. Ho ac-
consentito a farvi conoscere questa proposta, pur condannandola come
un uomo onesto deve condannarla. Adesso tocca a voi. Se siete
colpevole, dovrete scegliere fra la corte d’assise e il prezzo del
riscatto che vi viene imposto... La mia richiesta è del tutto
ufficiosa e non m’immischierò più in un affare così sporco. Il terzo
portatore della cambiale si chiama Petit-Jean ed è negoziante in
oli; abita sulla riva della Senna, quai de Billy, al n. 10.
Vedetevela con lui. Siete degni l’uno dell’altro... se siete
falsario, come egli afferma.»
Il signor di Saint-Remy era entrato da Jacques Ferrand con aria
insolente e con la testa alta. Sebbene nella sua vita avesse
commesso qualche azione riprovevole, gli restavano tuttavia un
certo orgoglio di famiglia e quell’istintivo coraggio che non si era
mai smentito. All’inizio del colloquio, si era limitato a prendere
in giro il notaio perché lo considerava un avversario indegno di sé.
Ma quando Jacques Ferrand ebbe a parlare di falsificazione... il
visconte si sentì schiacciare. Toccava a lui ora sentirsi dominato
dal notaio.
Se non fosse stato per la perfetta padronanza di sé che aveva, non
avrebbe potuto nascondere la terribile impressione che gli causò
questa inattesa rivelazione, che poteva avere per lui conseguenze
incalcolabili, conseguenze che neppure il notaio poteva sospettare.
Dopo un momento di silenzio e di riflessione, decise di rassegnarsi,
lui così orgoglioso, suscettibile, millantatore e pieno di sé, a
implorare quell’uomo rozzo, che aveva tenuto con lui il severo
linguaggio della probità.
«Signore, vi ringrazio della prova di fiducia che mi avete dato;
sono dispiaciuto della durezza delle mie parole di poco fa» disse il
signor di Saint-Remy con cordialità.
«Non intendo affatto aiutare voi» rispose brutalmente il notaio.
«Vostro padre era l’onore in carne e ossa, non mi sarebbe piaciuto
sentire il suo nome alla corte d’assise: ecco tutto.»
«Vi ripeto, signore, che sono incapace dell’infamia di cui sono
stato accusato.»
«Lo direte al signor Petit-Jean.»
«Ma ammetto che l’assenza del signor Smith, che ha indegnamente
abusato della mia buona fede...»
«Infame Smith!»
«L’assenza del signor Smith mi ha messo in un bel pasticcio; io sono
innocente, e, se sarò accusato, lo dimostrerò; una simile accusa,
comunque, non può non lasciare un marchio su un galantuomo.»
«E allora?»
«Fatemi la grazia di usare la somma che vi ho appena versato per
soddisfare in parte la persona che ha tra le mani la cambiale.»
«Quel denaro appartiene al mio cliente, è sacro!» «Ma fra due o tre
giorni ve lo rimborserò.»
«Non potrete.»
«Ne ho i mezzi, invece.»
«Nessuno... dimostrabili almeno. Il mobilio e i cavalli non vi
appartengono più, dite voi... ma la cosa puzza di vergognosa
fraudolenza.»
«Siete molto crudele, signore. Ma, pur ammettendo tutto questo, io
potrei far denaro con ogni cosa in un momento così disperato. Solo
che, siccome mi è impossibile procurarmi entro domani a mezzogiorno
100.000 franchi, vi scongiuro di usare il denaro che vi ho appena
dato per ritirare quella maledetta cambiale, oppure... voi che siete
così ricco... anticipatemi voi questa somma per non lasciarmi in un
simile pasticcio...»
«Io, garantire 100.000 franchi per voi? Oh bella!»
«Signore, ve ne supplico... in nome di mio padre... di cui mi avete
parlato... siate tanto buono da...»
«Sono buono solo con quelli che lo meritano» disse aspramente il
notaio, «odio i truffatori, e non mi dispiace affatto vedere uno di
quei bei giovanottelli senza legge, empi e dissoluti, messo alla
berlina per servire d’esempio agli altri... Ma, signor visconte,
sento i vostri cavalli scalpitare di fuori» disse il notaio
mostrando con un sorriso la punta dei suoi denti neri.
In quel momento bussarono alla porta del gabinetto. «Chi è?» chiese
Jacques Ferrand.
«La signora contessa d’Orbigny» disse il primo scrivano. «Pregatela
di aspettare un momento.»
«È la matrigna della marchesa d’Harville!» esclamò il signore di
Saint-Remy.
«Sì, signore, ha un appuntamento con me, quindi servo vostro...»
«Non una parola di quello che abbiamo detto, signore!» disse il
signor di Saint-Remy con aria minacciosa.
«Vi ho detto, signore, che un notaio è come un confessore.» Jacques
Ferrand suonò; lo scrivano apparve.
«Fate entrare la signora d’Orbigny.» Poi, rivolgendosi al vi-
sconte, gli disse: «Signore, prendete: questi 1300 franchi saranno
pur sempre un acconto per il signor Petit-Jean.»
La signora d’Orbigny (già signora Roland) entrò proprio nel momento
in cui il signor di Saint-Remy stava uscendo con la faccia contratta
dalla rabbia di essersi inutilmente umiliato davanti al notaio.
«Oh, buongiorno, signore di Saint-Remy» gli disse la signora
d’Orbigny; «quanto tempo che non vi vedo...»
«Infatti signora, dal matrimonio di d’Harville, in cui ho fatto da
testimone, non ho più avuto l’onore di incontrarvi» disse il signore
di Saint-Remy facendo un inchino e prendendo subito un’espressione
affabile e sorridente. «Da allora, siete sempre rimasta in
Normandia?»
«Purtroppo sì! Il signore d’Orbigny ora può vivere solo in
campagna... e quello che piace a lui, piace a me... Così, vedete,
sono una vera provinciale: dopo il matrimonio della mia cara
figliastra con l’ottimo signor d’Harville non sono più venuta a
Parigi... Lo vedete spesso?»
«D’Harville è diventato molto selvaggio e molto malinconico. Lo si
incontra raramente in società» disse il signor di Saint-Remy con una
sfumatura d’impazienza, giacché conversare con quella donna gli era
insopportabile, un po’ perché non era il momento adatto e un po’
perché il notaio sembrava divertirsi molto. Ma la matrigna della
signora d’Harville, felice d’aver incontrato un damerino, non era
tipo da lasciare tanto facilmente la sua preda:
«E la mia cara figliastra» proseguì, «non sarà, spero, selvaggia
come il marito?»
«La signora d’Harville è sempre molto alla moda e sempre molto
corteggiata, come si addice a una bella donna; ma, signora, temo di
approfittare del vostro tempo... e...»
«Ma no, affatto, ve l’assicuro. È stata una fortuna per me aver
incontrato il non plus ultra dell’eleganza, il principe della moda;
in dieci minuti sarò informata di quanto è accaduto a Parigi proprio
come se non avessi mai lasciato la città... E il caro signor di
Lucenay, che assieme a voi ha fatto da testimone al matrimonio del
signor d’Harville?»
«Più originale che mai: parte per l’Oriente e ritorna giusto in
tempo per ricevere ieri mattina un colpo di spada, una cosa da poco
del resto.»
«Povero duca! E sua moglie sempre bella e incantevole?»
«Sapete, signora, che ho l’onore di essere uno dei suoi migliori
amici, quindi la mia opinione a questo riguardo potrebbe essere
sospetta... Signora, al vostro ritorno ad Aubiers abbiate la
compiacenza di ricordarmi al signor d’Orbigny.»
«Vi assicuro che si commuoverà se gli dirò che vi ricordate di lui;
infatti lui s’informa spesso di voi, dei vostri successi... Dice
sempre che gli ricordate il duca di Lauzun.»
«Il paragone basta da solo per essere tutto un elogio anche se, per
mia sfortuna, in esso c’è più benevolenza che verità. Addio,
signora, giacché non posso sperare che possiate concedermi l’onore
di ricevermi prima della vostra partenza.»
«Sarei desolata se vi disturbaste a venire da me... mi sono
accampata per alcuni giorni in un palazzetto ammobiliato, ma se
quest’estate o quest’autunno, dovendo andare in qualche castello
alla moda dove le donne galanti fanno a gara per ricevervi, passa-
ste dalle nostre parti... concedeteci qualche giorno solo per vedere
il contrasto o per potervi riposare in casa di poveri campagnoli
della chiassosa vita di castello così mondana e folle... perché è
sempre festa dove andate voi!...»
«Signora...»
«Non c’è bisogno di dirvi quanto saremo felici io e il signor
d’Orbigny di ricevervi. Ma addio signore, temo che il burbero
benefico si stia spazientendo delle nostre chiacchiere.»
«Tutt’al contrario, signora, tutt’al contrario» disse Ferrand con un
tono che raddoppiò la collera che il signor di Saint-Remy si sentiva
dentro.
«Ammetterete che il signor Ferrand è un uomo terribile» riprese la
signora d’Orbigny facendo la svampita. «Ma badate; poiché per vostra
fortuna si occupa dei vostri affari, vi rimprovererà maledettamente
da quell’uomo implacabile che è. Ma che dico?... anzi... un damerino
come voi... avere il signor Ferrand per notaio... ma è una notevole
garanzia; infatti è risaputo che lui non lascia mai fare follie ai
suoi clienti, altrimenti restituisce loro i conti... Oh, mica vuol
essere il notaio di tutti lui.» Poi rivolgendosi a Jacques Ferrand:
«Sapete, signor puritano, che avete fatto proprio una magnifica
conversione... far mettere la testa a posto a quello che è
l’elegante per antonomasia, il principe della moda!»
«Si tratta proprio di una conversione, signora... il signor visconte
esce dal mio studio molto diverso da come è entrato.»
«Quando vi dico che fate miracoli!... non c’è da meravigliarsi che
voi siate un santo.»
«Oh, signora, voi mi lusingate» disse Jacques Ferrand con
compunzione.
Il signor di Saint-Remy salutò con un profondo inchino la signora
d’Orbigny; poi, prima di andarsene, cercò un’ultima volta di
impietosire il notaio dicendogli con un fare disinvolto che lasciava
tuttavia indovinare un’ansia profonda:
«Caro signor Ferrand, avete quindi deciso di non concedermi quanto
vi ho chiesto?»
«Qualche follia forse?... Siate inesorabile caro il mio signor
puritano» esclamò la signora d’Orbigny ridendo.
«La sentite, signore, non posso certo contrariare una così bella
signora...»
«Caro signor Ferrand, parliamo seriamente... di cose serie... e voi
sapete che quella cosa... è molto seria... Veramente non volete?»
chiese il visconte con mal celata angoscia.
Il notaio fu tanto crudele da far finta di esitare. Per il signor di
Saint-Remy fu un barlume di speranza.
«Come, il nostro uomo di ferro cede?» disse ridendo la matrigna
della signora d’Harville, «anche voi subite il suo fascino
irresistibile...»
«A dire il vero, signora, ero sul punto di cedere come voi avete
detto; ma mi avete fatto arrossire della mia debolezza» proseguì il
signor Ferrand. Poi, rivolgendosi al visconte gli disse con
un’espressione di cui costui comprese tutto il significato: «Via,
seriamente (e appoggiò la voce su questa parola) impossibile... Non
permetterò che per capriccio voi facciate una simile balordaggine...
Signor visconte, io mi considero il tutore dei miei clienti; non ho
altra famiglia e se lasciassi far loro delle balordaggini, dovrei
considerarmi loro complice.»
«Oh, il puritano! Sentite il puritano!» disse la signora d’Orbigny.
«Del resto, andate dal signor Petit-Jean; sono sicuro che la penserà
assolutamente come me; e come me, vi dirà... no!»
Il signor di Saint-Remy uscì disperato.
Dopo un momento di riflessione disse: «È necessario.» Poi al
domestico in livrea di caccia che gli teneva aperta la portiera
della carrozza, disse:
«A palazzo Lucenay.»
Mentre il signor di Saint-Remy se ne va dalla duchessa, faremo
assistere i nostri lettori al colloquio tra il signor Ferrand e la
matrigna della signora d’Harville.
XVI
IL TESTAMENTO
Il lettore, forse, non si ricorderà più il ritratto che la signora
d’Harville aveva fatto della matrigna.
Noi ci limiteremo a ripetere che la signora d’Orbigny è una donna
piccola, bionda, sottile, con ciglia quasi bianche, e tondi occhi di
un azzurro pallido; ha la voce mielata, lo sguardo ipocrita, i modi
insinuanti e insidiosi. Guardando bene, si scopre nella sua
fisionomia un che di falso e di perfido unitamente a qualcosa di
crudele e sornione.
«Che uomo affascinante il signor di Saint-Remy!» disse la signora
d’Orbigny a Jacques Ferrand quando il visconte fu uscito.
«Molto affascinante. Ma, signora, parliamo d’affari... m’avete
scritto dalla Normandia che volevate consultarmi su gravi questioni
d’interessi...»
«Non siete forse sempre stato il mio consigliere fin da quando il
buon dottor Polidori mi ha indirizzato a voi?... A proposito, avete
sue notizie?» chiese la signora d’Orbigny con perfetta indifferenza.
«Da quando se n’è andato da Parigi, non mi ha scritto neppure una
volta» rispose con altrettanta indifferenza il notaio.
Avvertiamo il lettore che i nostri due personaggi si mentivano
sfrontatamente. Il notaio aveva visto recentemente Polidori (uno dei
suoi due complici) e gli aveva proposto di andare ad Asnières dai
Martial, pirati d’acqua dolce di cui parleremo più avanti, e di
assumere il nome di dottor Vincent, aggiungiamo noi, allo scopo di
avvelenare Louise Morel.
Invece, la matrigna della signora d’Harville era venuta a Parigi per
avere un abboccamento segreto con quello scellerato che si
nascondeva da molto tempo, come sappiamo già, sotto il nome di César
Bradamanti.
«Ma non si tratta dell’ottimo dottore» continuò la matrigna della
signora d’Harville; «vedete, sono molto inquieta; mio marito è
indisposto e si sta indebolendo ogni giorno di più. Anche se non mi
dà gravi preoccupazioni, il suo stato di salute, comunque, mi
assilla... o meglio lo assilla» disse la signora d’Orbigny
asciugandosi gli occhi di pianto.
«Di cosa si tratta?»
«Parla continuamente di ultime disposizioni... di testamento...»
A questo punto la signora d’Orbigny si nascose il viso nel
fazzoletto e restò così per alcuni minuti.
«Certo, è una cosa triste» disse il notaio, «ma questa precauzione
non ha in sé nulla di male... Ma quali sarebbero, signora, le
intenzioni del signor d’Orbigny?»
«Mio Dio, che ne so?... Immaginatevi se io lo lascio continuare,
quando comincia a parlare di questo.»
«Ma, insomma, non vi ha detto niente di positivo su questo
argomento?»
«Credo» proseguì la signora d’Orbigny con l’aria più disinteressata
di questo mondo, «credo che non solo voglia darmi tutto quello che
la legge gli permette di darmi... ma... Oh, sentite non parliamo di
questo...»
«E di che cosa siete venuta a parlare?»
«Ahimè! avete ragione, uomo implacabile! devo, mio malgrado,
ritornare al triste argomento che mi ha spinto qui da voi. Ebbene,
il signor d’Orbigny è giunto con la sua bontà fino al punto di
voler... snaturare una parte del suo patrimonio e farmi dono... di
una somma considerevole.»
«Ma la figlia, la figlia?» disse severamente il signor Ferrand.
«Debbo dirvi che un anno fa il signor d’Harville mi ha incaricato
dei suoi affari. Proprio ultimamente gli ho fatto comperare un
magnifico terreno. Voi conoscete il mio rigore in fatto d’affari;
m’importa poco che il signor d’Harville sia mio cliente; quella che
io sostengo è la causa della giustizia; se vostro marito vorrà
prendere nei riguardi di sua figlia, la signora d’Harville, una
decisione che non mi sembra conveniente... Vi dico chiaramente che
potete fare a meno di contare sulla mia opera: la mia linea di
condotta è sempre stata netta e diritta.»
«Anche la mia! Per questo sto sempre lì a ripetere a mio marito le
stesse cose che voi adesso mi avete detto: “Vostra figlia ha grandi
torti con voi, senz’altro; ma non è una buona ragione per
diseredarla”.»
«Così va bene. E lui che cosa risponde?»
«Risponde: “Lascerò a mia figlia 25.000 franchi di rendita. In fondo
essa ha avuto più di un milione da sua madre e suo marito è molto
ricco; non posso quindi lasciare il resto a voi, dolce amica mia,
mio unico sostegno, solo conforto alla mia vecchiaia, mio angelo
custode?”. Vi ripeto queste parole anche troppo lusinghiere»,
continuò la signora d’Orbigny con un sospiro di modestia, «per farvi
vedere quanto sia stato buono con me il signor d’Orbigny; ma,
nonostante ciò, ho sempre rifiutato le sue offerte. Appunto per
questo mi ha pregato di venirvi a trovare.»
«Ma io non conosco il signor d’Orbigny.»
«Ma lui, come tutti, conosce la vostra lealtà.»
«Ma come mai vi ha indirizzato a me?»
«Per tagliar corto con i miei rifiuti e con i miei scrupoli, mi ha
detto: “Non vi propongo di consultare il mio notaio perché potreste
crederlo troppo soggetto a me; mi rimetterò quindi completamente
alla decisione di un uomo la cui rigidezza e probità sono
proverbiali, cioè al signor Jacques Ferrand. Se ritiene che la
vostra bontà possa venire compromessa dalla vostra adesione alle mie
proposte, non ne parleremo più; altrimenti vi rassegnerete”.
“Acconsento” dissi al signor d’Orbigny, ed ecco come siete diventato
il nostro arbitro. “Se approva” aggiunse mio marito, “gli manderò la
procura per realizzare a mio nome i fondi di rendita e
di portafoglio; terrà in deposito questa somma e così voi, mia
tenera amica, avrete almeno un’esistenza degna di voi.”»
Mai forse come in quel momento il signor Ferrand sentì l’utilità dei
suoi occhiali. Se non ci fossero stati questi, la signora d’Orbigny
sarebbe stata sicuramente colpita dallo scintillio che ebbe lo
sguardo del notaio, i cui occhi si erano illuminati al sentir
parlare di deposito.
Nonostante ciò, rispose in tono burbero:
«Ma che seccatura... è già la decima o dodicesima volta che mi
prendono come arbitro... sempre col pretesto della mia onestà...
hanno solo quella parola in bocca... la mia onestà! La mia
onestà!... bel vantaggio... non mi procura che grane... e fastidi.»
«Caro signor Ferrand... non prendetevela. Scrivete piuttosto al
signor d’Orbigny; sta aspettando la vostra lettera, per concedervi
pieni poteri... per realizzare quella somma...»
«Quanto, pressappoco?...»
«Mi ha parlato, se non sbaglio, di 4 o 500.000 franchi.»
«La somma è meno considerevole di quel che credessi; dopo
tutto, voi vi siete sacrificata per il signor d’Orbigny... Sua
figlia è ricca... voi non possedete niente... posso dunque
approvare, credo che possiate accettare senza scrupoli...»
«Davvero?... credete proprio?» disse la signora d’Orbigny, vittima
come tanti altri della proverbiale rettitudine del notaio, non
essendo stata disingannata a quel riguardo da Polidori.
«Potete accettare» ripeté Ferrand.
«Accetterò» disse la signora d’Orbigny con un sospiro.
Il primo scrivano bussò alla porta.
«Chi è?» chiese Ferrand.
«La contessa Mac-Grégor.»
«Fate aspettare un momento.»
«Così vi lascio, caro signor Ferrand» disse la signora d’Orbigny,
«scrivete a mio marito... visto che lo vuole, e domani vi manderà la
procura...»
«Va bene, scriverò...»
«Addio, mio buono ed eccellente consigliere!»
«Ah voi, gente del gran mondo, non sapete quanto sia poco pia-
cevole incaricarsi di simili depositi, la responsabilità che ci pesa
addosso. Vi assicuro che non c’è cosa peggiore di questa buona
reputazione di uomo onesto, che vi procura solo grane!»
«È l’ammirazione della gente perbene!»
«Grazie a Dio, che non quaggiù, ma lassù si trova la ricompensa a
cui aspiro!», disse devotamente Ferrand.
Alla signora d’Orbigny successe Sarah Mac-Grégor.
XVII
LA CONTESSA MAC-GRÉGOR
Sarah entrò nella stanza del notaio con la calma e la sicurezza
abituali. Jacques Ferrand non la conosceva e ignorava lo scopo della
sua visita; stette ancora più in guardia del solito con la speranza
di fare un’altra vittima... Nel considerare attentamente la contessa
notò, a dispetto dell’impassibilità di quella donna dalla fronte di
marmo, un leggero inarcarsi delle sopracciglia, segno, secondo
Ferrand, di malcelato imbarazzo.
Il notaio si alzò dalla poltrona, porse una sedia a Sarah e le
disse:
«Signora, avete chiesto un appuntamento con me per oggi; ieri sono
stato occupatissimo tanto che solo stamane ho potuto rispondervi: vi
prego di scusarmi.»
«Desideravo vedervi, signore... per un affare della massima
importanza... La vostra reputazione di uomo onesto, buono e cortese
mi fa bene sperare del passo che tento presso di voi...»
Il notaio s’inchinò leggermente dalla sedia.
«So che la vostra discrezione è a tutta prova...»
«È mio dovere, signora.»
«Signore, voi siete un uomo rigoroso e incorruttibile.»
«Sì, signora.»
«Però, se vi dicessero: Signore, da voi dipende di restituire la
vita... più della vita... la ragione, a una madre infelice, avreste
il coraggio di rispondere con un rifiuto?»
«Siate più precisa, signora, e vi risponderò.»
«Circa quattordici anni fa, alla fine del mese di dicembre del 1824,
un uomo, ancor giovane, vestito a lutto... è venuto a proporvi di
accettare la somma di 150.000 franchi, somma che era stata versata a
fondo perduto intestandola a una bambina di tre anni, i cui genitori
desideravano non essere conosciuti.»
«Proseguite, signora!» disse il notaio, per evitare di rispondere
con un’affermazione.
«Voi avete acconsentito ad accettare un tale deposito e ad
assicurare alla bambina una rendita vitalizia di 8000 franchi; la
metà di questa somma doveva essere capitalizzata a suo profitto fino
alla sua maggiore età; l’altra metà dovevate pagarla alla persona
che si sarebbe presa cura della bambina.»
«E poi, signora?»
«Dopo tre anni» disse Sarah, senza riuscire a dominare una certa
emozione, «il 28 novembre 1827, quella bambina morì.»
«Signora, prima di continuare nella conversazione, vi chiedo che
interesse avete in questo affare.»
«La madre di quella bambina è... mia sorella, signore.1 Ho con me,
per dimostrare quanto sto dicendo, l’atto di morte della povera
piccina, le lettere della persona che s’è presa cura di lei,
l’obbligazione di un vostro cliente, presso il quale avevate
depositato i 50.000 scudi.»
«Vediamo i documenti, signora.»
Alquanto stupita di non essere creduta sulla parola, Sarah trasse da
un portafoglio vari documenti e li consegnò al notaio che li esaminò
attentamente.
«Ebbene, signora, cosa volete? L’atto di morte è in piena regola, e
i 50.000 scudi sono rimasti al mio cliente, il signor Petit-Jean,
per la morte della bambina: è uno dei casi caratteristici dei
vitalizi, e io l’avevo fatto notare alla persona che mi aveva
incaricato di questo affare. Quanto agli utili, sono stati da me
puntualmente pagati fino a che visse la bambina.»
«Vi siete comportato in modo ineccepibile in questa circostanza,
signore; devo riconoscerlo e compiacermene. Anche la donna a cui fu
affidata la bambina ha diritto alla nostra gratitudine perché ebbe
grandissima cura della mia povera nipotina.»
«È vero, signora; e sono stato così soddisfatto della condotta di
quella donna che, vedendola senza impiego, dopo la morte di quella
bambina, la presi al mio servizio e da allora è ancora con me.»
«La signora Séraphin è al vostro servizio, signore?»
«Da quattordici anni, come governante. E devo dire solo bene di
lei.»
«Quand’è così, signore, essa potrà esserci di grande aiuto se...
voi... vorrete accogliere una preghiera che vi sembrerà strana,
forse anche... poco onesta, a prima vista, ma quando saprete per
quale scopo...»
«Una preghiera poco onesta, signora! Non ve ne credo capace così
come io non sarei capace di ascoltarla.»
«So, signore, che voi siete l’ultima persona al mondo alla quale si
dovrebbe rivolgere una simile preghiera; ma ripongo tutta la
1 Crediamo inutile ricordare al lettore che la bambina di cui si
parla è Fleur-de-Marie, figlia di Rodolphe e di Sarah, e che costei
sta parlando di un’ipotetica sorella, dicendo quindi una bugia che,
come vedremo, servirà ai suoi progetti. Anche Sarah, del resto, come
Rodolphe, era convinta della morte della bambina.
mia speranza... la mia sola speranza nella vostra pietà. Comunque,
posso contare sulla vostra segretezza?»
«Sì, signora.»
«Allora vado avanti. La morte della povera bambina ha gettato la
madre in una grandissima desolazione, e il suo dolore, anche oggi,
dopo quattordici anni, non è meno profondo di allora tanto che, dopo
aver temuto per la sua vita, oggi temiamo per il suo senno.»
«Povera madre!» disse il signor Ferrand con un sospiro.
«Oh sì, signore, madre sventurata; all’epoca in cui perdette la
figlia, ella avrebbe potuto arrossire della nascita di lei, adesso
invece le circostanze sono tali che, se la sua creatura vivesse
ancora, avrebbe potuto essere legittimata e mia sorella andare
superba e non abbandonarla mai più. Perciò, essendoci fra gli altri
dolori anche questo continuo rimpianto, noi temiamo da un momento
all’altro che perda la ragione.»
«Purtroppo, non c’è nulla da fare.»
«E invece sì, signore.»
«Come signora?»
«Supponete che qualcuno vada a dire alla povera madre: “Vo-
stra figlia è stata creduta morta, ma non è così; la donna che ebbe
cura di lei quando era bambina, potrebbe asserirlo”.»
«Sarebbe una menzogna crudele, signora... perché illudere ancora
quella povera madre?»
«Ma se non fosse una menzogna, signore? o meglio, se questa
supposizione potesse avverarsi?»
«Con un miracolo? se per ottenerlo occorresse solo unire le mie
preghiere alle vostre, lo farei con tutto il cuore... credetelo,
signora... Purtroppo l’atto di morte parla chiaro.»
«Dio mio, lo so, signore, la bambina è morta; eppure, se voi
voleste, ci potrebbe essere un rimedio alla disgrazia.»
«Vuol essere un enigma, signora?»
«Parlerò più chiaro... Se mia sorella ritrova per caso la figlia,
non solo torna lei stessa a rivivere, ma è anche sicura di sposare
il padre della bambina, libero oggi come lei. Mia nipote è morta a
sei anni. I genitori non hanno di lei alcun ricordo, essendone ella
stata separata fin dalla più tenera età... Immaginatevi che si trovi
una giovinetta di diciassette anni, mia nipote adesso avrebbe
quell’età... una ragazza come ce ne sono tante, abbandonate dai
genitori... e che si vada a dire a mia sorella: “Ecco vostra figlia;
siete stata ingannata: gravi interessi vollero che venisse fatta
passare per morta. La donna che l’ha allevata e un notaio degno di
fiducia potrebbero affermare e dimostrare che è proprio lei...”»
Dopo aver lasciato parlare la contessa senza interromperla, Jacques
Ferrand balzò in piedi indignato, e gridò: «Basta!... basta!...
signora! Tutto questo è un’infamia!»
«Signore!»
«Osare proporre a me... a me... una sostituzione di prole...
l’annullamento di un atto di morte... un’azione criminale insomma! È
la prima volta in vita mia che subisco un simile affronto... e non
l’ho certo meritato, Dio mio... voi lo sapete!»
«Ma, signore, tutto questo a chi porterebbe danno? Mia sorella e la
persona che essa desidera sposare sono vedovi e senza figli... tutti
e due rimpiangono amaramente la figlia perduta. Ingannarli...
sarebbe farli ritornare a vivere, renderli felici... sarebbe
assicurare una splendida vita a una povera ragazza abbandonata...
sarebbe quindi un’azione sublime e generosa e non un delitto.»
«In verità» esclamò il notaio con crescente indignazione, «sono
stupito da come anche i progetti più esecrabili possano prendere le
più belle apparenze!»
«Ma, signore, riflettete...»
«Vi ripeto, signora, che tutto ciò è un’infamia... È vergognoso che
una signora come voi trami simili mostruosità... alle quali, spero,
vostra sorella sarà estranea...»
«Signore...»
«Basta, signora, basta!... non sono gentile io... sarei tanto
brutale da dirvi la cruda verità...»
Sarah, lanciata sul notaio una di quelle sue occhiate cupe,
penetranti e quasi taglienti, gli disse freddamente:
«Vi rifiutate?»
«Non insultatemi di nuovo, signora!...»
«Badate!...»
«Siamo alle minacce?...»
«Sì alle minacce... E per provarvi che non sono state fatte a
vanvera, sappiate come prima cosa che non ho nessuna sorella.»
«Come, signora?...»
«Sono io la madre della bambina...»
«Voi?...»
«Io!... Avevo preso una via indiretta per arrivare al mio scopo,
inventando una storia per far leva sulla vostra pietà... Ma voi
siete senza pietà... Io mi lascio cadere la maschera...Volete la
guerra... va bene, e guerra sia!...»
«Guerra? perché mi rifiuto di associarmi a un complotto criminoso!
che spudoratezza!...»
«Ascoltatemi, signore... la vostra reputazione di onest’uomo è
totale... pubblica e immensa...»
«Perché è meritata... Quindi bisogna aver perso la testa per venirmi
a fare delle proposte come le vostre!...»
«Ma io so meglio di chiunque altro quanto poco ci si debba fidare
della nomea di cui gode una puntigliosa virtù, dietro la quale si
nascondono la dissolutezza nelle donne, la furfanteria negli
uomini...»
«Osereste dire, signora...»
«Fin dall’inizio del nostro colloquio non so perché... dubito che
voi meritiate la stima e la considerazione di cui godete.»
«Davvero, signora? questo dubbio fa onore alla vostra perspicacia.»
«Vi pare? Il mio dubbio è basato su dei nonnulla... sull’istinto, su
certi inspiegabili presentimenti... comunque, raramente le mie
previsioni sono andate a vuoto.»
«Finiamola, signora.»
«Ma prima di farvi sapere quanto ho deciso... comincio col dirvi
che, in confidenza, io sono convinta della morte della mia povera
figliola... Ma non importa, dirò che non è morta: si possono
sostenere anche le cause più inverosimili... La vostra attuale
situazione deve avervi creato intorno molti invidiosi, per i quali
sarà un colpo di fortuna l’occasione di attaccarvi... e io gliela
fornirò...»
«Voi?»
«Io, attaccandovi con qualche pretesto assurdo, su una irregolarità
nell’atto di morte, supponiamo... non so. Sosterrò che mia figlia
non è morta. Poiché ho tutto l’interesse a far credere che è ancora
viva; anche se perderò il processo, la faccenda, comunque, farà
grande scalpore. Una madre che reclama la sua creatura, suscita
sempre pietà; avrò dalla mia parte quelli che sono invidiosi di voi,
i vostri nemici e tutti i cuori sensibili e romantici.»
«È una pazzia, un’infamia! Per quale scopo avrei fatto passare per
morta vostra figlia, se non lo era?»
«È vero, il movente è difficile da trovare: ma per fortuna ci sono
gli avvocati!... Ma adesso che ci penso, ecco un ottimo movente:
volendo dividere col vostro cliente la somma intestata a quella
povera bambina... l’avete fatta sparire...»
Il notaio alzò le spalle senza fare una grinza in volto.
«Se fossi stato tanto criminale da far questo, invece di farla
sparire, l’avrei uccisa!»
Sarah ebbe un sussulto, restò un momento silenziosa poi riprese con
amarezza:
«Per un sant’uomo come voi, questa è proprio una bella pensata!...
Ho forse colpito tirando a casaccio?... Ciò mi dà da pensare... e ci
penserò... un’ultima cosa... Vedete come sono fatta io... spazzo via
senza pietà tutto quello che incontro sulla mia strada... pensateci
bene... domani dovete aver deciso... Voi potete fare senza rischi
ciò che vi chiedo... il padre di mia figlia, nella sua gioia, non
discuterà sulla possibilità di una tale resurrezione, se le nostre
bugie saranno combinate con tale bravura da renderlo felice. Del
resto non ha altra prova della morte della nostra creatura
all’infuori di ciò che gli scrissi io quattordici anni fa; mi sarà
facile persuaderlo che l’ho ingannato, perché allora nutrivo un
giustificato rancore contro di lui... Gli dirò che, nel mio dolore,
avevo deciso di spezzare con lui anche l’ultimo legame che ci univa
l’una all’altro. Voi, quindi, non sarete affatto compromesso: dovete
solo confermare... uomo irreprensibile, confermare che tutto è stato
concertato tempo fa fra voi, me e la signora Séraphin, e tutti vi
crederanno. Quanto ai 50.000 scudi intestati a mia figlia, è cosa
che riguarda me sola; resteranno proprietà del vostro cliente il
quale, però, deve ignorare completamente la faccenda; infine
stabiliremo la vostra ricompensa...»
Jacques Ferrand riuscì a conservare la sua calma, nonostante tutti i
rischi che comportava per lui una così strana situazione.
La contessa, nonostante credesse che la figlia fosse realmente
morta, veniva a proporre al notaio di far passare per viva la
bambina che, quattordici anni prima, egli aveva fatto passare per
morta.
Egli era troppo furbo, e conosceva anche troppo bene i pericoli in
mezzo a cui si trovava, per non comprendere il valore delle minacce
di Sarah.
La reputazione del notaio era come un edificio che, pur mirabilmente
e perfettamente costruito, aveva le sue fondamenta sulla sabbia. La
gente si distacca con la stessa facilità con cui si incapriccia
perché le piace prendersi il diritto di calpestare colui che poco
prima portava alle stelle. Come prevedere le conseguenze del primo
attacco portato alla reputazione di Jacques Ferrand? Per quanto
insensato e audace, un simile attacco poteva destare sospetti...
Il notaio era stato spaventato dalla perspicacia e dalla durezza di
Sarah. Questa madre non aveva avuto un briciolo di tenerezza per la
figlia; sembrava che considerasse la morte di lei come la perdita di
un mezzo d’azione. Gente così persegue i propri progetti e le
proprie vendette senza cedere nulla alla pietà.
Con l’intento di guadagnare tempo e correre quindi ai ripari,
Ferrand disse freddamente a Sarah:
«Voi mi avete dato tempo fino a domani a mezzogiorno, signora; sono
io invece a darvi tempo fino a dopodomani per rinunciare a un
progetto di cui non sospettate tutta la gravità. Se, nel frattempo,
non avrò ricevuto una lettera in cui voi mi fate sapere di aver
abbandonato questo folle e colpevole disegno, imparerete a vostre
spese che la giustizia sa proteggere le persone dabbene che si
rifiutano di essere complici di atti indegni colpendo i fautori di
scellerati intrighi».
«Ciò vuol dire, signore, che mi chiedete un giorno di più per
riflettere sulle mie proposte? Buon segno, ve lo concedo...
Dopodomani, a quest’ora, ritornerò qui, e allora fra noi sarà... la
pace... o la guerra, ve lo ripeto... ma una guerra accanita, senza
mercé e senza misericordia.»
E Sarah uscì.
“Si mette bene”, pensò. “Quella miserabile ragazza di cui Rodolphe
si è incapricciato e che ha mandato alla fattoria di Bouqueval,
senza dubbio per farsene poi un’amante, non è più da temere...
grazie alla guercia che me l’ha tolta di torno...
Rodolphe, con la sua astuzia, ha salvato la signora d’Harville dal
tranello nel quale volevo farla cadere; ma è impossibile che sfugga
alla nuova trama che sto ordendo: sarà dunque perduta per sempre per
Rodolphe.
Questi, allora, sarà triste, scoraggiato, senza affetti e in uno
stato d’animo tale da non chiedere di meglio che lasciarsi ingannare
da una menzogna a cui, con l’aiuto del notaio, posso dare tutte le
apparenze della realtà. E il notaio mi aiuterà perché gli ho messo
paura. Non avrò difficoltà a trovare un’orfanella povera e bisognosa
che istruirò per farle fare la parte della nostra bambina così
amaramente rimpianta da Rodolphe. Conosco la grandezza e la
generosità del suo cuore. Per dare un nome e un rango a colei che
egli crederà la nostra figlia infelice e abbandonata, riallaccerà
con me quel vincolo che credevo indissolubile. Le previsioni della
mia nutrice finalmente si realizzeranno, mentre io raggiungerò
questa volta lo scopo ultimo della mia vita... una corona!”
Sarah era appena uscita dalla casa del notaio che ci entrò il signor
Charles Robert, dopo essere sceso da un elegantissimo calessino: si
diresse, come fosse di casa, verso il gabinetto di Jacques Ferrand.
XVIII
IL SIGNOR CHARLES ROBERT
Il comandante, come lo chiamava la signora Pipelet, entrò senza
tante cerimonie e trovò il notaio di cattivo umore come quello che
tormenta un atrabiliare e si sentì domandare brutalmente:
«Riservo i pomeriggi ai miei clienti... quindi, se volete parlarmi,
venite di mattina.»
«Mio caro tabellione (era una facezia del signor Robert) si tratta
di un affare importante... prima di tutto, e poi volevo rassicurarvi
sui timori che potevate avere...»
«Che timori?»
«Non avete saputo allora?»
«Che cosa?»
«Del mio duello.»
«Del vostro duello?»
«Con il duca di Lucenay. Come, non lo sapete?»
«No.»
«Oh bella!»
«E perché questo duello?»
«Per una cosa molto grave che doveva essere lavata col sangue.
Figuratevi che in pieno ricevimento il signor di Lucenay si è
permesso di dirmi in faccia all’ambasciata che... avevo la pituita!»
«Cosa avevate?»
«La pituita, caro notaio; una malattia che deve essere
ridicolissima!»
«E vi siete battuto per questo?»
«E per che diavolo volete che ci si batta? Credete che si possa
sentirsi dire... a sangue freddo... che si ha la pituita e per di
più davanti a una donna affascinante!... davanti a una marchesina...
che... Insomma, basta... non si poteva lasciar andare.»
«Certo.»
«Noialtri militari, voi capite... siamo sempre con la mano sulla
spada. Ieri l’altro i miei padrini sono andati a mettersi d’accordo
con quelli del duca. Avevo posto la questione molto chiaramente... o
un duello o una ritrattazione.»
«Una ritrattazione... di che cosa?»
«Della pituita, perdio! della pituita che egli si era preso la
libertà di attribuirmi!»
Il notaio si strinse nelle spalle.
«Da parte loro, i padrini del duca dicevano: “Noi conosciamo la
rispettabilità del signor Charles Robert; ma il signor di Lucenay
non può, non vuole e non deve ritrattare” “Così, signori”
replicarono i miei padrini, “il signor di Lucenay si ostina a
sostenere che il signor Charles Robert ha la pituita.” “Sì, signori;
ma con questo non intende intaccare la reputazione del signor
Robert.” “Che ritratti allora.” “No, signori; il signor di Lucenay
riconosce che il signor Robert è un galantuomo; ma sostiene che ha
la pituita.” Vedete che non c’era modo di accomodare una faccenda
così grave...»
«Nessuno... Vi avevano insultato su ciò che un uomo ha di più
rispettabile.»
«Vero? Così ci si mette d’accordo sul giorno, l’ora e il luogo
d’incontro; e ieri mattina, a Vincennes, tutto s’è risolto nel
migliore dei modi; ho dato un leggero colpo di spada al braccio del
duca di Lucenay; i padrini hanno dichiarato l’onore soddisfatto.
Allora il duca ha detto ad alta voce: “Dapprima io non indietreggio
mai davanti a una questione; dopo invece è un’altra cosa; è dunque
mio dovere e cosa che si confà alla mia dignità dire che avevo
falsamente accusato il signor Charles Robert di avere la pituita.
Signori, non solo riconosco che il mio leale avversario non ha la
pituita, ma affermo anche che non potrà mai averla...”. Poi il duca
mi ha teso cordialmente la mano dicendomi: “Siete soddisfatto?”.
“Amici per la vita e per la morte!” gli ho risposto. E questo glielo
dovevo... perché il duca ha fatto le cose perfettamente... avrebbe
potuto non dirmi niente o limitarsi a dichiarare che non avevo la
pituita... Ma affermare che non l’avrei avuta mai, è stata una cosa
delicatissima da parte sua.»
«Ecco quello che chiamo coraggio ben impiegato!... Ma cosa volete?»
«Caro protocollista (altra facezia del signor Robert) si tratta di
qualcosa di molto importante per me. Ricordate che vi ho aiutato a
pagare il vostro ufficio anticipandovi 350.000 franchi, e che
allora, in seguito ad accordi avevamo stabilito che solo
avvertendovi tre mesi prima io avrei potuto riscuotere dalla vostra
cassa... il deposito di cui state pagando gli interessi...»
«E allora?»
«Ebbene!» disse il signor Robert con imbarazzo, «io... non... ma...
è che...»
«Cosa?»
«Capite, è un puro e semplice capriccio... L’idea di diventare
proprietario terriero, caro notaio.»
«Spiegatevi! non fatemi perdere la pazienza!»
«A farla breve, mi hanno offerto certe terre e se non vi dispiace...
vorrei, o meglio desidererei riavere il mio deposito... e sono
venuto ad avvisarvi, secondo i patti...»
«Ah, ah!»
«Non vi arrabbierete, spero!»
«Perché dovrei arrabbiarmi?»
«Perché potreste credere...»
«Potrei credere?»
«Che faccio da eco alle voci che circolano...»
«Che voci?»
«No, niente, sciocchezze...»
«Su, parlate...»
«Non c’è ragione che si facciano su di voi stupide chiacchiere...»
«Che chiacchiere?»
«Non c’è una parola di vero in tutto questo... ma i maligni van-
no dicendo che vi siete trovato senza volere impegnato in cattivi
affari. Puri pettegolezzi, s’intende. Come quando hanno detto che io
e voi giocavamo in borsa insieme. Quelle voci sono finite presto...
infatti vorrei che diventassimo capre se...»
«Così credete che il vostro denaro non sia più al sicuro nelle mie
mani?»
«Ma no, ma no!... ma mi piacerebbe altrettanto averlo nelle mie
mani...»
«Aspettate un momento...»
Il signor Ferrand chiuse il cassetto della scrivania e si alzò.
«Dove andate, caro protocollista?»
«A prendere qualcosa che vi convinca della verità delle voci
che corrono sul cattivo andamento dei miei affari» rispose
ironicamente il notaio.
E, infilata la porta che dava su una scaletta segreta che gli
permetteva di recarsi nella palazzina di fondo senza passare dallo
studio, egli scomparve.
Il notaio era appena uscito quando il primo scrivano bussò.
«Entrate» disse Charles Robert.
«Il signor Ferrand non c’è?»
«No, caro tribunalista (altra facezia del signor Robert).»
«C’è una signora velata che vuole parlare subito al padrone
per un affare molto urgente...»
«Buon tribunalista, quando fra poco ritornerà il padrone glie-
lo dirò. È una signora bella?»
«Bisognerebbe essere maghi per indovinarlo; ha un velo nero
a maglie così fitte che non si riesce a vederla in viso...»
«Bene, bene! la guarderò io quando uscirò! Avvertirò il signor
Ferrand appena verrà.» Lo scrivano uscì.
«Dove diavolo è andato il notaio?» si domandò il signor Charles
Robert «certo a cercare i conti di cassa... Dopo tutto... eh via!...
Forse le malelingue che mettono in giro quei discorsi... le persone
dabbene come Jacques Ferrand hanno contro tanti invidiosi!... Ma non
importa, preferisco avere i miei soldi... comprerò il castello di
cui mi hanno parlato... Ha torrette gotiche del tempo di Luigi XIV,
stile rinascimento... quanto vi è di più rococò... avrò così una
certa aria signorile tutta moderna... non sarà come il mio amore per
quella bigotta della signora d’Harville... Come mi ha preso per il
naso!... Dio mio! Come mi ha preso per il naso... Oh, no, non mi
sono rifatto delle spese... come dice quella stupida portinaia della
rue du Temple, con la parrucca da ragazzetto... Quello scherzo lì mi
è costato per lo meno 1000 scudi. È vero che mi restano i mobili...
e che posso compromettere la marchesa... Ma ecco il notaio.»
Il signor Ferrand rientrò con in mano alcuni fogli che consegnò al
signor Charles Robert.
«Ecco» gli disse, «300.000 franchi in buoni del tesoro... Fra
qualche giorno regoleremo i nostri conti d’interesse... Fatemi una
ricevuta...»
«Come!...» esclamò stupefatto il signor Robert. «Suvvia, non
crederete che...»
«Io non credo niente...»
«Ma...»
«La ricevuta!...»
«Caro protocollista!...»
«Scrivete e andate a dire a quelli che vi parlano del cattivo an-
damento dei miei affari, in quale modo io risponda ai sospetti.» «Il
fatto è, che appena si saprà la cosa, il vostro credito si
consoliderà ancora di più; ma, davvero, riprendetevi il denaro, in
questo momento non mi serve; vi dicevo solo che ne avrei avuto
bisogno fra tre mesi.»
«Signor Charles Robert, non mi si sospetta due volte.»
«Siete arrabbiato?»
«La ricevuta!»
«Va bene, pezzo di ferro!» disse Charles Robert.
Poi, mentre scriveva la ricevuta, soggiunse:
«C’è una signora velata che vuol parlarvi subito, subito, per
una cosa urgentissima... non vedo l’ora di passarle davanti per
guardarla bene... Ecco la vostra ricevuta: va bene?»
«Benissimo! e adesso andatevene per questa scaletta.» «Ma la
signora?»
«Lo faccio appunto perché non la vediate.»
E il notaio chiamò il primo scrivano e gli disse:
«Fate entrare la signora... Addio, signor Robert.»
«Su... bisogna rinunciare a vederla. Restiamo buoni amici...
Credete che...»
«Va bene, va bene! addio...»
E il notaio chiuse la porta alle spalle del signor Charles Ro-
bert.
Dopo alcuni istanti il primo scrivano fece entrare la duches-
sa di Lucenay, vestita molto modestamente, avvolta in un grande
scialle e col volto nascosto da un fitto velo di merletto nero,
sopra un cappello di moire dello stesso colore.
XIX
LA SIGNORA DI LUCENAY
La signora di Lucenay, molto turbata, si avvicinò lentamente allo
scrittoio del notaio che fece qualche passo verso di lei.
«Chi siete, signora... e cosa desiderate da me?» chiese
sgarbatamente il signor Ferrand, che, già inquieto per le minacce di
Sarah, si era ancor più inasprito per gli offensivi sospetti del
signor Charles Robert. Inoltre la duchessa era vestita così
modestamente che non aveva nessuna ragione per trattarla bene. E
siccome essa esitava a rispondere, egli aggiunse sempre con
asprezza:
«Insomma, signora, volete spiegarvi?»
«Signore...» rispose lei con voce alterata, cercando di nascondere
il volto fra le pieghe del velo, «signore... posso confidarvi un
segreto della massima importanza?...»
«Mi si può confidare tutto, signora; ma bisogna che sappia e veda
con chi sto parlando.»
«Signore... questo, forse, non è necessario... So che voi siete
l’onore, la lealtà in persona...»
«Al fatto, signora... al fatto, ho gente che mi sta aspettando. Chi
siete?»
«Poco importa il mio nome, signore... uno... dei... miei amici...
dei miei parenti, è appena uscito dal vostro studio.»
«Il suo nome?»
«Il signor Florestan de Saint-Remy.»
«Ah» fece il notaio; e, gettato sulla contessa uno sguardo at-
tento e inquisitore, proseguì: «Ebbene, signora?»
«Il signor di Saint-Remy... mi ha detto tutto... signore...»
«Che vi ha detto, signora?»
«Tutto!...»
«Ma che cosa?»
«Dio mio, signore; voi lo sapete bene.»
«So molte cose sul signor di Saint-Remy.»
«Ahimè, signore, una cosa terribile!...»
«So molte cose terribili sul signor di Saint-Remy...»
«Ah, signore, me l’aveva detto che voi siete senza pietà...» «Per i
truffatori e i falsificatori come lui... sì, sono senza pietà.
Se quel Saint-Remy è vostro parente, invece di riconoscerlo,
dovreste vergognarvene! Se siete venuta a piagnucolare per
intenerirmi, perdete il vostro tempo, e fate anche un brutto
mestiere per una donna onesta... se lo siete...»
Questa brutale insolenza fece ribollire l’orgoglio e il sangue
patrizio della duchessa. Si rizzò, gettò indietro il velo e, con lo
sguardo imperioso e la voce ferma, disse:
«Signore... sono la duchessa di Lucenay...»
La donna assunse quindi un’aria così maestosa e il suo aspetto si
fece così severo, che il notaio, soggiogato, affascinato, dallo
stupore fece un passo indietro, si tolse involontariamente il
berretto che aveva in testa e fece un profondo inchino.
Infatti non v’era nulla di più grazioso e di più altero del viso e
della figura della signora di Lucenay; essa aveva trent’anni suonati
e una faccia pallida e un po’ stanca; ma aveva grandi occhi bruni,
scintillanti e arditi, magnifici capelli neri, il naso sottile e
arcuato, le labbra rosse e sprezzanti, una splendida carnagione, i
denti bianchissimi, la figura alta e sottile, flessuosa e piena di
nobiltà, “un incedere da dea sulle nubi”, come dice l’immortale
Saint-Simon.
Con un po’ di cipria e con gli ampi vestiti del diciottesimo secolo,
la signora di Lucenay avrebbe potuto rappresentare, sia dal punto di
vista fisico che morale, una di quelle duchesse libertine della
Reggenza che erano solite porre tanta audacia e insieme tanta
sventatezza e deliziosa tenerezza nei loro numerosi amori, e
accusarsi di tanto in tanto dei loro errori con tale franchezza e
ingenuità che i più grandi moralisti dicevano sorridendo: “Certo è
leggera, colpevole; ma è così buona, così affascinante! ama i suoi
amanti con tanto affetto, passione... e fedeltà... finché li ama...
che non si può serbarle rancore. Dopo tutto, essa danna solo se
stessa e fa felice tanta gente!”.
A parte la cipria e i guardinfanti, la signora di Lucenay era
anch’essa così quando non era oppressa da dolorosi pensieri.
Era entrata dal notaio come una timida borghesuccia...
improvvisamente si era mostrata gran dama altera e sdegnata. Mai in
vita sua Jacques Ferrand aveva incontrato una donna di bellezza così
insolente e di portamento così nobile e ardito.
Il viso un po’ stanco della duchessa, i suoi begli occhi contornati
da un impercettibile alone azzurro, le narici rosa, molto dilatate,
rivelavano una di quelle nature ardenti che gli uomini non platonici
amano con ebbrezza e trasporto. Sebbene vecchio, brutto, ignobile e
sordido, anche Jacques Ferrand come chiunque altro sapeva apprezzare
il genere di bellezza della signora di Lucenay.
L’odio e la rabbia contro il signor di Saint-Remy aumentavano in
proporzione all’ammirazione che suscitava in lui la bella e fiera
amante del visconte; Jacques Ferrand, che si sentiva bruciare dentro
dai più svariati bollori, si chiedeva con rabbia come mai quel
falsario di Saint-Remy, che egli aveva quasi costretto a
inginocchiarsi davanti a sé minacciandolo di processo, avesse
ispirato a quella gran dama un tale amore, da essere capace di
spingerla a un’azione che poteva rovinarla. A quel pensiero, il
notaio sentì rinascere in sé l’audacia un momento prima paralizzata.
L’odio, l’invidia e una specie di risentimento feroce e bruciante
gli riattizzarono nello sguardo, sulla fronte e sulle guance, il
fuoco delle più vergognose, delle più obbrobriose passioni.
Vedendo la signora di Lucenay in procinto di cominciare una
conversazione delicata, egli si aspettava da parte di lei preamboli
e discorsi posati.
Quale non fu il suo stupore! Gli parlò invece con sicurezza e
alterigia, come se si fosse trattato della cosa più naturale di
questo mondo, e come se, davanti a un uomo dello stampo del notaio,
non si fosse preoccupata del riserbo e delle convenienze che
certamente avrebbe mantenuto con persone del suo rango.
Le basse insolenze del notaio, pungendola sul vivo, avevano
costretto la signora di Lucenay ad abbandonare il ruolo di donna
umile e implorante che prima aveva faticato non poco ad assumere;
una volta rimessasi nella sua pelle, ritenne un fatto umiliante per
sé il dover acconsentire anche alla minima reticenza davanti a
quello scribacchino di documenti.
Spiritosa, caritatevole e generosa, piena di bontà, di attaccamento
e di onore, nonostante tutti i difetti che aveva, ma figlia di una
donna che, con la sua disgustosa immoralità, aveva trovato modo di
prostituire perfino il nobile e sacrosanto infortunio
dell’emigrazione, la signora di Lucenay, coll’istintivo disprezzo
che aveva per certe razze, avrebbe potuto dire come
quell’imperatrice romana che faceva il bagno davanti a uno schiavo:
«Questo non è un uomo.»
«Signor notaio» disse risolutamente la duchessa a Jacques Ferrand,
«il signor di Saint-Remy è un mio amico; mi ha parlato delle
difficoltà in cui si trova a causa della duplice mascalzonata di cui
è rimasto vittima... Col denaro si aggiusta tutto: quanto ci vuole
per metter fine a queste miserabili contese?...»
Jacques Ferrand era rimasto sbalordito dal modo spavaldo e risoluto
con cui la duchessa aveva affrontato l’argomento.
«Chiedono 100.000 franchi!» rispose in tono brusco dopo aver
superato il suo stupore.
«Avrete i vostri 100.000 franchi... e rimanderete subito quelle
maledette carte al signor di Saint-Remy.»
«Dove sono i 100.000 franchi, signora duchessa?»
«Non ho forse detto che li avrete, signore?»
«Occorrono domani prima di mezzogiorno, signora; altrimen-
ti sarà sporta denunzia di falsificazione.»
«Ebbene, datemi la somma e io ne terrò conto; quanto a voi,
vi pagherò bene...»
«Ma, signora, è impossibile...»
«Non mi direte, credo, che un notaio come voi non è capace di
trovare 100.000 franchi da un giorno all’altro.» «E con che
garanzie, signora?»
«Cosa vuol dire? Spiegatevi.»
«Chi risponderà di questa somma?»
«Io.»
«Ma... signora...»
«È proprio necessario che vi dica che a quattro leghe da Parigi
ho una tenuta che frutta 80.000 franchi all’anno... Penso che possa
bastare per ciò che voi chiamate le garanzie!»
«Sì, signora, mediante iscrizione ipotecaria.»
«Cosa vuol dire quest’altra parola? di certo qualche formalità...
Fate pure, signore, fate pure...»
«Ci vogliono quindici giorni perché un atto così possa essere
redatto e poi occorre il consenso di vostro marito, signora.»
«Ma quella terra è mia, solo mia» disse la duchessa spazientita.
«Non fa niente, signora; voi siete sotto la potestà di vostro
marito, e gli atti ipotecari sono molto lunghi e minuziosi.»
«Ma, ve lo torno a dire, signore, non vorrete farmi credere che sia
tanto difficile trovare 100.000 franchi in due ore.»
«Allora, signora rivolgetevi al vostro notaio, ai vostri
amministratori. Per me è impossibile.»
«Ho le mie ragioni, signore, per tenere segreta la cosa» disse la
signora di Lucenay con alterigia. «Voi conoscete i furfanti che
vogliono mungere il signor di Saint-Remy: per questo mi rivolgo a
voi...»
«La vostra fiducia mi onora infinitamente, signora, ma non posso
fare ciò che mi chiedete.»
«Non avete la somma?»
«Ho molto di più di quella somma in biglietti di banca e in oro
bell’e buono giù nella mia cassa.»
«Oh, quante parole!...volete la mia firma?... ve la do e finiamola.»
«Ammettendo, signora, che voi siate la signora di Lucenay...»
«Venite fra un’ora a palazzo Lucenay, signore. Firmerò a casa mia
quello che devo firmare.»
«Firmerà anche il signor duca?»
«Non capisco, signore...»
«Signora, la vostra sola firma è senza valore per me.»
Jacques Ferrand provava una gioia indicibile davanti alla do-
lorosa impazienza della duchessa che, dietro quella apparenza di
calma sprezzante, stava soffrendo penosamente.
In quel momento era senza mezzi. Il giorno prima, il suo gioielliere
le aveva anticipato una somma considerevole su quei gioielli, che in
parte erano stati affidati a Morel, il lapidario. Questa somma era
servita a pagare le cambiali del signor di Saint-Remy e a tener
tranquillo qualche altro creditore; il signor Dubreuil, il fattore
di Arnouville, aveva pagato in anticipo il fitto di un’annata, e,
d’altra parte, mancava il tempo. La signora di Lucenay aveva a
Parigi due amici a cui avrebbe potuto ricorrere in una simile
circostanza, ma per il momento erano assenti. Ai suoi occhi il
visconte non era colpevole della falsificazione; egli aveva detto
che era stato vittima di due furfanti e lei gli aveva creduto; ma la
sua posizione non era per questo meno grave. Lui accusato, messo in
prigione!... e se si fosse dato alla fuga, il suo nome non sarebbe
stato per questo meno disonorato da un simile sospetto!
A quegli orribili pensieri, la signora di Lucenay rabbrividiva di
paura... Ella l’amava ciecamente; era un uomo miserabile, ma anche
pieno di attrattiva; la passione della duchessa per lui era una di
quelle passioni sfrenate che le donne del suo carattere e della sua
mentalità provano di solito quando è passato il fiore della
giovinezza, e arriva l’età matura.
Jacques Ferrand stava attentamente a spiare ogni più lieve movimento
del viso della signora di Lucenay, che gli sembrava sempre più bella
e attraente. La sua intima ammirazione diventava sempre più ardente,
nonostante l’odio di cui era carica; intanto provava una crudele
soddisfazione a tormentare coi suoi rifiuti quella donna, che per
lui poteva nutrire solo disgusto e disprezzo.
Costei fremeva alla sola idea di dover dire al notaio una parola che
potesse assomigliare a una preghiera: tuttavia, riconosciuta
l’inutilità di altri tentativi, si era decisa a rivolgersi a lui,
essendo il solo che potesse salvare il signor di Saint-Remy. Quindi
proseguì:
«Signore, poiché possedete la somma che vi chiedo, e che, dopo
tutto, vi basta la mia garanzia, perché me la negate?»
«Perché gli uomini hanno i loro capricci come le donne.»
«Ma qual è questo capriccio che vi fa agire contro il vostro
interesse? perché, vi ripeto, signore, che potete fissare voi stesso
le condizioni... e qualunque esse siano, io le accetto!»
«Siete disposta ad accettare tutte le condizioni, signora?» disse il
notaio con una strana faccia.
«Tutte... 2, 3, 4000 franchi di più, se volete; perché, vedete, ve
lo dico» aggiunse con franchezza e con un tono quasi affettuoso,
«siete la mia unica salvezza, signore! voi... Non riuscirei a
trovare da altri quello che vi chiedo per domani... e bisogna...
capite!... bisogna assolutamente. Così, vi ripeto che io accetto
qualunque condizione mettiate per questo favore... tutto sarà
possibile... tutto...»
Il respiro del notaio diventava affannoso, le tempie gli pulsavano e
la faccia gli si arrossava; meno male che c’erano le lenti degli
occhiali a nascondere l’impura fiamma delle sue pupille; sulle sue
idee generalmente chiare e lucide si era stesa come una nube di
fuoco; era andato fuori di senno. Il suo ignobile turbamento lo
spinse a interpretare le ultime parole della contessa in modo
indegno: attraverso la nebbia dei suoi pensieri gli parve di vedere
nella contessa una donna ardita, come ce n’erano nell’antica corte
francese, una donna spinta alla disperazione dal timore di vedere
disonorato colui che amava, e capace forse dei più obbrobriosi
sacrifici pur di salvarlo. Era più da sciocchi che da bruti pensare
così: ma, come già sappiamo, a volte Jacques Ferrand diventava tigre
o lupo e allora la bestia aveva la meglio sull’uomo.
Egli si alzò bruscamente e si avvicinò alla signora di Lucenay.
Costei, sbigottita, si alzò anche lei e lo guardò attonita. «Tutto
sarà possibile!» esclamò con voce tremante e rotta av-
vicinandosi ancora di più alla duchessa. «Ebbene vi presterò
la somma a una condizione, a una sola condizione... e vi giuro
che...» Ma non riuscì a terminare la dichiarazione.
Fu una di quelle strane contraddizioni che caratterizzano la natura
umana. Alla vista della faccia del signor Ferrand così
spaventosamente arrossata, e dinanzi alle idee strane e ridicole
suscitate nella sua mente dalle pretese amorose del notaio, la
signora di Lucenay, che le aveva indovinate, scoppiò, a dispetto
della sua inquietudine e della sua angoscia, in una risata così
schietta, decisa e sonora che il notaio indietreggiò stupefatto...
Poi, senza lasciarle il tempo di dire una parola, la duchessa
cedette completamente a un’ilarità che andava via via crescendo, si
abbassò nuovamente il velo e, fra uno scroscio e l’altro, disse al
notaio che era stravolto dall’odio, dalla rabbia e dal furore:
«A essere sincera preferisco domandare questo favore al signor di
Lucenay.»
Poi uscì, ridendo e ridendo tanto forte, che anche con la porta
dello studio chiusa, il notaio continuava a udirla.
Jacques Ferrand tornò in sé solo per maledire amaramente la sua
imprudenza. Però, a poco a poco si rassicurò pensando che, dopo
tutto, la duchessa non poteva parlare dell’avventura senza
compromettersi gravemente.
Comunque, era stata una brutta giornata per lui. Stava immerso in
cupi pensieri quando la porticina segreta del suo studio si riaprì,
ed entrò la signora Séraphin tutta sconvolta.
«Ah, Ferrand!» gridò congiungendo le mani, «avevate ragione a dire
che forse un giorno saremmo stati rovinati se l’avessimo lasciata
vivere!...»
«Chi?»
«Quella maledetta bambina.»
«Come?»
«Una guercia che io non conoscevo e alla quale Tournemine
aveva consegnato la piccola per togliercela d’attorno, quattordici
anni fa, quando l’abbiamo fatta passare per morta... Oh, Dio mio!
chi se lo sarebbe immaginato!...»
«Su parla!... Su parla!...»
«La donna guercia è venuta qui poco fa... era giù... Mi ha detto di
sapere che sono stata io ad averle consegnato la piccola.»
«Maledizione! chi gliel’avrà detto? Tournemine è in galera...»
«Io ho negato tutto, e le ho detto che era una bugiarda. Ma niente
da fare! essa mi ha detto di aver ritrovato quella bambina, ormai
diventata grande; che sa dov’è, e che dipende da lei far sapere
tutto... e denunciarci...»
«Ma allora, oggi l’inferno s’è scatenato contro di me!» gridò il
notaio con uno scatto di rabbia che lo rese spaventoso.
«Dio mio! Cosa si può dire a quella donna, cosa le si può promettere
per farla tacere?»
«Che tipo è?»
«Siccome la trattavo da pezzente, ha scosso la sua sporta e ho
sentito tintinnare: c’era denaro dentro.»
«E sa dov’è adesso la ragazza?»
«Dice di saperlo.»
«Ed è la figlia della contessa Mac-Grégor» pensò il notaio con
stupore. «E poco fa mi offriva tanto per dire che sua figlia non era
morta!... E invece è viva... potrei ridargliela!... Sì, ma il falso
atto di morte! Se fanno un’inchiesta, sono perduto! Questo delitto
può metterli sulla buona strada e allora scoprono anche gli altri.»
Dopo un momento di silenzio, egli disse alla signora Séraphin:
«Quella guercia sa dov’è la ragazza?»
«Sì.»
«E ritornerà?»
«Domani.»
«Scrivi a Polidori di venire da me questa sera alle nove.» «Volete
disfarvi della ragazza... e della vecchia?... Sarebbe
troppo in una sola volta, Ferrand!»
«Ti dico di scrivere a Polidori di trovarsi qui, questa sera alle
nove!»
La sera di quello stesso giorno, Rodolphe disse a Murph che non era
riuscito invece a farsi ricevere dal notaio:
«Che di Graün faccia partire subito un corriere... bisogna che
Cecily sia a Parigi fra sei giorni...»
«Ancora quell’infernale creatura? L’esecrabile moglie del povero
David, bella quanto infame!... A cosa servirà signore?...»
«A cosa servirà, sir Walter Murph!... Fra un mese lo chiederete al
notaio Jacques Ferrand.»
XX
LA DELAZIONE
Il giorno in cui Fleur-de-Marie era stata rapita dalla Chouette e
dal Maître d’école, verso le dieci di sera era arrivato alla
fattoria di Bouqueval un uomo a cavallo. Aveva detto che veniva da
parte del signor Rodolphe, a tranquillizzare la signora Georges
della
sparizione della sua giovane protetta e ad assicurarle che sarebbe
stata ricondotta da un giorno all’altro. Per varie ragioni, molto
importanti, aggiungeva quell’uomo, il signor Rodolphe pregava la
signora Georges, in caso avesse qualcosa da chiedergli, di non
scrivergli a Parigi, ma di consegnare la lettera al messo, che si
sarebbe incaricato poi del recapito.
Quest’uomo era un emissario di Sarah.
Con questo stratagemma, essa aveva tenuto tranquilla la signora
Georges e ritardato così di qualche giorno il momento in cui Rodophe
avrebbe appreso del rapimento della Goualeuse.
Nel frattempo, Sarah sperava di costringere il notaio Jacques
Ferrand a favorire l’iniquo proposito (la sostituzione di ragazza)
che già conosciamo.
E non era tutto...
Sarah, ispirandole questi gravi timori, voleva sbarazzarsi anche
della signora d’Harville, che se non fosse stato per l’accortezza di
Rodolphe, a quest’ora sarebbe stata bell’e rovinata.
Il giorno seguente a quello in cui il marchese aveva seguito la
moglie nella casa della rue du Temple, Tom vi si era recato anche
lui; aveva fatto facilmente chiacchierare la signora Pipelet ed era
venuto a sapere che una giovane signora, sul punto di essere
sorpresa dal marito, era stata salvata, grazie all’accortezza di un
inquilino della casa di nome Rodolphe.
Saputo ciò, Sarah, non possedendo nessuna prova materiale degli
appuntamenti dati da Clémence a Charles Robert, concepì un altro
piano scellerato: consisteva nel mandare la seguente lettera anonima
al signor d’Harville per spingerlo a una rottura completa con
Rodolphe o almeno per insospettirlo tanto da indurlo a proibire una
buona volta a sua moglie di ricevere il principe.
Questo il tenore della lettera.
Siete stato indegnamente giocato; l’altro giorno vostra moglie,
avvertita che voi la inseguivate, ha inventato il falso pretesto
dell’opera di beneficenza: essa andava invece a un appuntamento con
un augusto personaggio che, con il nome di Rodolphe, ha preso in
affitto nella casa della rue du Temple una camera al quarto piano.
Se dubitate di questi fatti, perché vi sembrano strani, andate in
rue du Temple al n. 17, informatevi, descrivete i lineamenti
dell’augusto personaggio in questione, e vi convincerete facilmente
di essere il marito più credulone e più bonario che sia mai stato
regalmente ingannato. Tenete conto di questo avverti-
mento... altrimenti si potrebbe credere che siate troppo... amico
del principe.
Il biglietto fu impostato da Sarah verso le cinque del giorno in cui
aveva avuto luogo il suo colloquio col notaio.
La sera dello stesso giorno, dopo aver raccomandato al signor di
Graün di affrettare il più possibile l’arrivo di Cecily a Parigi,
Rodolphe uscì per andare a far visita all’ambasciatore di ***; poi
doveva passare dalla signora di Harville per dirle che aveva trovato
un intrigo a fine caritatevole degno di lei.
Trasporteremo il lettore in casa della signora d’Harville.
Si vedrà, dalla seguente conversazione, come la giovane donna,
mostrandosi generosa e pietosa verso il marito che fino ad allora
aveva trattato con estrema freddezza, avesse già cominciato a
seguire i nobili consigli di Rodolphe.
Il marchese e la moglie si stavano alzando da tavola: la scena si
svolgeva nel salottino che conosciamo. Clémence aveva sul volto una
dolce espressione d’affetto mentre il signor d’Harville sembrava
meno triste del solito.
Diciamo subito che il marchese non aveva ancora ricevuto la nuova e
infame lettera di Sarah.
«Cosa fate questa sera?» chiese involontariamente alla moglie. «Io
non uscirò... E voi che fate?»
«Non so...» egli rispose con un sospiro; «la gente mi è diventata
insopportabile... passerò questa sera... come tante altre... da
solo.» «Perché solo, se io non esco.»
Il signor d’Harville guardò la moglie sorpreso.
«Sì certo... ma...»
«E allora?»
«So che spesso vi piace la solitudine quando non andate in
società...»
«Sì, ma siccome sono molto capricciosa» disse Clémence sorridendo,
«oggi mi piacerebbe molto dividere la mia solitudine con voi... se
vi fa piacere.»
«Davvero!» esclamò il signor d’Harville commosso. «Come siete stata
buona a essere venuta incontro a un desiderio che non osavo
manifestare!»
«Sapete, amico mio, che il vostro stupore mi sembra quasi un
rimprovero?»
«Un rimprovero? Oh, no, no; ma dopo i miei ingiusti e crudeli
sospetti dell’altro giorno, confesso che trovarvi così buona è una
sorpresa per me, ma una graditissima sorpresa.»
«Dimentichiamo il passato» disse lei con un sorriso di angelica
dolcezza.
«Clémence, lo potrete mai!» rispose lui con tristezza, «ho osato
sospettare di voi... Dirvi a quali follie mi avrebbe spinto una
cieca gelosia... Ma già, che cos’è questo di fronte ad altri miei
torti più grandi, più irreparabili?»
«Dimentichiamo il passato, vi dico» ripeté Clémence mal celando una
struggente emozione.
«Come?... potreste dimenticare anche quel passato?»
«Lo spero...»
«È possibile? Clémence... sareste tanto generosa! Ma no, no,
non posso credere a una simile felicità; ci avevo rinunciato per
sempre.»
«Avete torto, lo vedete.»
«Dio che cambiamento! è un sogno?... Oh, ditemi che non mi sto
sbagliando...»
«No... non vi state sbagliando...»
«Difatti, il vostro sguardo è meno freddo... la vostra voce un po’
alterata. Oh, dite! è proprio vero?... non sono vittima di
un’illusione?»
«No... perché anch’io ho bisogno di perdono...»
«Voi?»
«Sì, tanto! Non sono stata dura verso di voi, forse anche cru-
dele? Perché non ho pensato che avreste avuto bisogno di un raro
coraggio e di una virtù sovrumana, per agire diversamente da come
avete agito? Solo, infelice... come resistere al desiderio di
cercare qualche conforto in un matrimonio che vi fosse piaciuto?...
Ohimè! quando si soffre, si è così portati a credere all’altrui
generosità... e il vostro sbaglio è stato di aver avuto fiducia fino
ad ora della mia... Ebbene! d’ora in poi cercherò di darvi ragione.»
«Oh, parlate... parlate ancora» disse il signor d’Harville con le
mani giunte, quasi in estasi.
«Le nostre esistenze sono ormai legate l’una all’altra... Farò di
tutto per rendervi la vita meno amara.»
«Dio mio!... Dio mio!... Clémence, siete voi che parlate?»
«Vi prego, non meravigliatevi così... Mi fate soffrire... è un’amara
censura della mia condotta passata... E chi potrebbe commiserarvi,
chi porgervi una mano amica e soccorritrice... se non io?... Mi è
venuta una buona ispirazione, ho riflettuto sul passato, sul futuro.
Ho riconosciuto i miei torti e ho trovato, credo, il mezzo per
rimediarvi...»
«I vostri torti, povera moglie mia?»
«Sì; all’indomani del mio matrimonio dovevo fare appello alla vostra
lealtà e chiedervi chiaramente la separazione...»
«Ah, Clémence!... pietà!... pietà!...»
«Ma dal momento che avevo accettato la situazione, avrei dovuto
sublimarla con l’affetto, invece di essere per voi un incessante
rimprovero con la mia altera e silenziosa freddezza. Avrei dovuto
cercare di consolarvi di un terribile male, pensare solo alla vostra
sventura. A poco a poco, mi sarei affezionata alla mia opera pia; e
proprio in virtù delle premure e forse dei sacrifici che mi sarebbe
costata, la vostra riconoscenza mi sarebbe bastata come ricompensa e
allora... Ma, Dio mio, che avete?... piangete?»
«Sì piango... piango di gioia: voi non sapete quante emozioni
suscitano in me le vostre parole... Oh, Clémence! Lasciatemi
piangere. Mai, prima d’ora, avevo capito fino a che punto sono stato
colpevole ad aver voluto legarvi alla mia esistenza!»
«E io non mi sono mai sentita più decisa al perdono. Le dolci
lacrime che state versando mi fanno intravedere una felicità che non
conoscevo. Coraggio dunque, amico mio! coraggio! In mancanza di una
vita radiosa e fortunata, cerchiamo la nostra soddisfazione nel
compimento dei gravi obblighi che ci impone la sorte. Siamo
indulgenti l’una con l’altro; se ci sentiamo vacillare, guardiamo la
culla della nostra bambina, concentriamo su di lei tutto il nostro
affetto, e avremo ancora qualche sacra gioia malinconica.»
«Un angelo... è un angelo!...» gridò il signor d’Harville
congiungendo le mani e contemplando la moglie con appassionata
ammirazione. «Oh, voi, Clémence non sapete il bene e il male che mi
state facendo! Non sapete che le vostre più dure parole di una
volta, che i vostri più aspri rimproveri, ahimè, meritati non mi
hanno angosciato tanto quanto questa vostra adorabile dolcezza,
questa vostra sublime rassegnazione... Eppure, mio malgrado, mi fate
rinascere alla speranza. Voi non sapete quale avvenire voi mi
invogliate a intravedere...»
«E potete avere piena e cieca fiducia in quello che vi dico, Albert.
Questa decisione io la prendo fermamente; non verrò mai meno, ve lo
giuro. In seguito potrò anche darvi altre garanzie sulla mia
promessa...»
«Garanzie?» esclamò il signor d’Harville sempre più esaltato da una
felicità così inaspettata, «garanzie! ne ho forse bisogno! Il vostro
sguardo, il vostro accento, quella divina espressione di bontà che
vi fa ancora più bella, i palpiti e gli slanci del mio cuore, tutto
questo non prova che dite il vero? Ma voi sapete, Clémence,
che l’uomo è insaziabile nei suoi desideri» aggiunse il marchese
avvicinandosi alla sedia della moglie. «Le vostre umili e commoventi
parole mi danno coraggio, l’audacia di sperare... di sperare il
paradiso, sì, di sperare ciò che ancora ieri consideravo un folle
sogno!»
«Di grazia, spiegatevi!...» disse Clémence resa un po’ inquieta
dall’appassionato linguaggio del marito.
«Ebbene sì!...» egli esclamò prendendo una mano alla moglie, «sì, a
forza di tenerezza, di premure, di amore... capite, Clémence!... a
forza d’amore... spero di farmi amare da voi!... Non di un affetto
debole e tiepido... ma ardente, come il mio... Oh, voi non conoscete
questa mia passione!... Non osavo nemmeno parlarvene... eravate
sempre così gelida verso di me;... mai una parola di bontà... mai
una di quelle parole... che poco fa mi hanno fatto piangere... che
adesso mi ubriacano di felicità... E questa gioia, io la merito, non
vi ho forse sempre tanto amata? Ho sofferto tanto senza dirvelo e
questa era l’angoscia che mi divorava!... Sì, il mio odio per la
gente... il mio carattere aspro e taciturno, era questo...
Figuratevi dunque... avere nella propria casa una donna adorabile e
adorata, che è vostra; una donna che si desidera con tutto lo
slancio di un amore inespresso... Ed essere condannato per sempre a
veglie tormentose e solitarie... Oh, voi non sapete nulla delle mie
lacrime di disperazione, delle mie crisi da pazzo! Vi assicuro che
vi avrebbero commossa... avete subodorato le mie torture, vero?...
ne avrete pietà... La vostra ineffabile bellezza e le vostre grazie
incantatrici non saranno più la mia felicità e insieme il mio
supplizio quotidiano... Sì, questo tesoro che considero il mio bene
più prezioso, questo tesoro che mi appartiene e che non possedevo...
questo tesoro fra poco sarà mio... Sì, il mio cuore, la mia gioia,
la mia ebbrezza, tutto me lo dice... non è vero, amica mia... mia
tenera amica?»
E così dicendo, il signor d’Harville copriva di baci appassionati le
mani della moglie.
Seppur addolorata per l’abbaglio preso dal marito, Clémence non poté
fare a meno di reprimere un moto di ripugnanza e quasi di paura e di
ritirare bruscamente la mano.
Il suo viso tradì troppo chiaramente ciò che stava provando perché
il signor d’Harville potesse illudersi ancora.
Fu un colpo terribile per lui.
Il suo volto si contrasse in un’espressione straziante; la signora
d’Harville gli ridiede in fretta la mano ed esclamò:
«Albert, ve lo giuro, sarò per voi la più devota amica, la più
tenera sorella... ma niente di più... Scusate, scusate... se le mie
parole
andando al di là delle mie intenzioni vi hanno dato speranze che io
non potrò mai realizzare!»
«Mai?...» gridò il signor d’Harville fissando sulla moglie due occhi
supplichevoli e pieni di disperazione.
«Mai!...» rispose Clémence.
Bastarono quella sola parola e il tono con cui la giovane donna
l’aveva pronunciata per far capire che si trattava di una decisione
irrevocabile.
Ricondotta, sotto l’influsso di Rodolphe, a nobili intenzioni,
Clémence era fermamente decisa a circondare il signor d’Harville
delle più affettuose attenzioni; ma per lui non sentiva amore.
Un’impressione più forte della paura, del disprezzo, e dell’odio
aveva definitivamente allontanato Clémence dal marito...
Era una ripugnanza... invincibile.
Dopo un momento di doloroso silenzio, il signor d’Harville si passò
le dita sugli occhi umidi e disse alla moglie con grande amarezza:
«Scusate... se mi sono sbagliato... scusatemi se mi sono lasciato
prendere da una così folle speranza...»
Poi, dopo un altro momento di silenzio, riprese:
«Ah, come sono disgraziato!...»
«Amico mio» gli disse dolcemente Clémence, «non vorrei far-
vi dei rimproveri; ma... non vi sembra niente essere per voi la più
affettuosa sorella? Voi dovrete alla mia tenera amicizia premure che
l’amore non potrebbe darvi... Sperate... sperate in giorni
migliori... Fino ad ora mi avete trovato quasi indifferente alle
vostre sofferenze, adesso vedrete invece come saprò aiutarvi e quali
consolazioni troverete nel mio affetto.»
Entrò in quella un cameriere che disse a Clémence:
«Sua Altezza, signore granduca di Gerolstein chiede di essere
ricevuto dalla signora marchesa.»
Clémence interrogò il marito con lo sguardo.
Il signor d’Harville si ricompose un po’ poi disse alla moglie: «Ma
certamente.»
Il cameriere uscì.
«Scusate, mio caro» riprese Clémence, «ma non avevo detto di
non far passare nessuno... del resto è un pezzo che non vedete il
principe; sarà felice di trovarvi qui.»
«Anche a me farà molto piacere vederlo» disse il signor d’Harville.
«Comunque, devo confessare che in questo momento sono così turbato
che avrei preferito ricevere la sua visita un altro giorno...»
«Capisco... Ma ormai come si può fare?... Eccolo...»
In quello stesso momento veniva annunciato Rodolphe. «Sono
felicissimo, signora, di avere il piacere di vedervi» disse
Rodolphe; «sono doppiamente felice perché ho la fortuna d’incontrare
anche voi, caro Albert» aggiunse rivolgendosi al marchese e gli
strinse cordialmente la mano.
«A dire il vero, signore, da molto tempo non ho l’onore di
presentarvi i miei omaggi.»
«E di chi è la colpa, signor invisibile? L’ultima volta che sono
venuto qui a riverire la signora d’Harville, ho chiesto di voi ma
eravate fuori. Sono più di tre settimane che non vi fate vivo con
me; molto male...»
«Non abbiate pietà, signore» disse Clémence sorridendo; «il signor
d’Harville è tanto più colpevole in quanto ha per Vostra Altezza la
più profonda amicizia e in quanto, con la sua negligenza, potrebbe
farne dubitare.»
«Ebbene, signora, guardate come sono vanitoso: qualunque cosa possa
fare d’Harville, non potrò mai dubitare del suo affetto; veramente
non dovrei parlare così... per non incoraggiarlo a fingere ancora
l’indifferenza.»
«Vi assicuro, signore, che soltanto circostanze impreviste mi hanno
impedito di approfittare più spesso dei favori che mi concedete...»
«Per dirla fra noi, caro Albert, vi credo un po’ troppo platonico in
fatto di amicizia; sicuro di essere amato, non vi preoccupate di
dare o ricevere prove di affetto.»
In quel momento entrò un cameriere a portare una lettera al
marchese: fu un’infrazione d’etichetta che contrariò un po’ la
signora d’Harville.
Era la lettera anonima in cui Sarah accusava il principe di essere
l’amante della signora d’Harville. Per deferenza verso il principe,
il marchese respinse con la mano il vassoio d’argento che il
domestico gli aveva porto e gli disse piano:
«Più tardi... più tardi...»
«Caro Albert» disse Rodolphe con voce affettuosa, «non fate
complimenti per me!»
«Signore...»
«Col permesso della signora d’Harville vi prego di leggere quella
lettera...»
«Vi assicuro, signore, che non ho nessuna fretta...» «Su, Albert,
leggete quella lettera!»
«Ma... signore...»
«Vi prego... lo voglio...»
«Poiché Vostra Altezza lo esige...» disse il marchese prendendo la
lettera dal vassoio...»
«Certo, esigo che mi trattiate da amico.» Poi Rodolphe, voltosi alla
marchesa mentre il signor d’Harville apriva la lettera fatale di cui
Rodolphe stesso non poteva immaginare il contenuto, disse
sorridendo:
«Che trionfo per voi, signora, riuscite sempre a piegare una volontà
così ostinata!»
Il signor d’Harville si avvicinò a uno dei candelabri del caminetto
e aprì la lettera di Sarah.
PARTE QUINTA
I
I CONSIGLI
Rodolphe e Clémence parlavano tra loro mentre il signor d’Harville
era intento a leggere e rileggere la lettera di Sarah.
Il volto del marchese restò impassibile; su una mano, però, aveva un
tremito nervoso quasi invisibile; dopo un momento di esitazione, si
mise il biglietto nella tasca del panciotto.
«A rischio di passare di nuovo per un incivile» disse con un sorriso
a Rodolphe, «vi chiederò il permesso, signore, di andare a
rispondere a questa lettera... più importante di quanto a tutta
prima potessi pensare...»
«Vi rivedrò questa sera?»
«Non credo di poter avere questo onore, signore. Spero che Vostra
Altezza vorrà scusarmi.»
«Che uomo sfuggente!» disse allegramente Rodolphe. «Signora, non
cercherete di trattenerlo?»
«Non oso tentare ciò che Vostra Altezza ha tentato invano.»
«Sul serio, caro Albert, fate in modo di ritornare qui con noi,
appena avrete scritto la lettera... se no, concedetemi qualche
momento una mattina... Ho tante cose da dirvi.»
«Vostra Altezza mi onora» disse il marchese facendo un profondo
inchino.
E se ne andò lasciando Clémence con il principe.
«Vostro marito è preoccupato» disse Rodolphe alla marchesa, «il suo
sorriso mi è sembrato forzato...»
«Quando Vostra Altezza è arrivato, il signor d’Harville era molto
agitato: ha fatto un grande sforzo per non farsi capire.»
«Sono forse capitato in un brutto momento?
«No, signore. Anzi, mi avete evitato la fine di un penoso
colloquio.»
«Come mai?»
«Ho detto al signor d’Harville la nuova condotta che ero decisa a
seguire nei suoi riguardi... promettendogli appoggio e conforto.»
«Sarà stato felice!»
«Dapprima lo è stato come me; infatti le sue lacrime, la sua gioia
mi hanno procurato un’emozione che non aveva mai provato... Una
volta credevo di riuscire a vendicarmi con un rimprovero o un
sarcasmo... Triste vendetta! il mio dispiacere poi era ancora più
grande... Mentre poco fa... che differenza! Avevo chiesto a mio
marito se sarebbe uscito e lui mi aveva risposto tristemente che
avrebbe passato la serata da solo, come soleva fare spesso. Quando
mi sono offerta di rimanere con lui... se aveste visto il suo
stupore, signore! Come il suo volto, sempre cupo, è diventato
radioso... Ah, avevate ragione... non v’è nulla di più piacevole del
procurare questi attimi di gioia!...»
«Ma come mai queste prove di bontà da parte vostra hanno determinato
il penoso colloquio di cui parlavate?»
«Ahimè, signore» disse Clémence arrossendo, «alle speranze che io
avevo fatto nascere in lui perché potevo realizzarle... ne sono
successe nel signor d’Harville altre di più tenere... che io mi ero
guardata bene dal provocare, poiché non potrò mai soddisfarle...»
«Capisco... vi ama così teneramente.»
«Come dapprima ero stata commossa dalla sua gratitudine... così poi,
quando il suo linguaggio s’era fatto appassionato, mi sono sentita
raggelare e spaventare... Infine, si era tanto esaltato da venire a
porre le labbra sulla mia mano... mi ha colto allora un freddo
mortale e non ho potuto nascondere lo spavento... gli ho dato un
colpo tremendo... manifestandogli così l’invincibile ripugnanza che
mi viene dal suo amore... Mi dispiace... così almeno il signor
d’Harville si sarà convinto che, sebbene io mi sia riavvicinata a
lui, non deve aspettarsi da me se non la più tenera amicizia...»
«Lo compiango... senza potervi biasimare d’altronde. Certe
ripugnanze sono, per così dire, sacre... Povero Albert, così buono,
così leale comunque!!! di cuore tanto generoso, di animo tanto
ardente! Se sapeste per quanto tempo mi sono preoccupato della
tristezza che lo tormentava, sebbene non ne conoscessi la causa...
Lasciamo fare al tempo e alla ragione. A poco a poco egli
riconoscerà il valore dell’affetto che gli avete offerto e si
rassegnerà come fino ad ora è rimasto rassegnato e senza avere per
giunta le dolci consolazioni offertegli da voi...»
«E che non gli mancheranno mai, ve lo giuro, signore.»
«Adesso pensiamo ad altre sventure. Vi avevo promesso una buona
azione che avesse tutto il fascino d’un romanzo in atto... vengo a
mantenere la mia promessa.»
«Già, signore? che gioia!»
«Ah, che bella idea ho avuto di prendere in affitto la cameretta
della rue du Temple, di cui vi ho parlato... Non immaginate di certo
tutto quello che vi ho trovato di strano e di interessante!... Prima
di tutto i vostri protetti della soffitta godono delle comodità che
aveva annunciato loro la vostra presenza. Però hanno ancora dure
prove da affrontare! ma non voglio rattristarvi... Un giorno saprete
quanti orribili guai possono colpire una sola famiglia...»
«Chissà quanta riconoscenza hanno per voi!»
«Benedicono il vostro nome, signora...»
«Li avete soccorsi a nome mio, signore!»
«Per rendere loro più dolce l’elemosina... Del resto non ho fatto
altro che dar consistenza alle vostre promesse.»
«Oh, andrò a disingannarli... dirò loro tutto quello che vi de-
vono.»
«Non fatelo! sapete che ho una camera in quella casa; dovete
stare attenta alle eventuali vigliaccherie da parte dei vostri
ignoti nemici... o dei miei... e poi i Morel per il momento sono a
posto... Pensiamo piuttosto al nostro intrigo. Si tratta di una
povera madre e di sua figlia, che una volta erano ricche, ma che
adesso un furto infame ha condannato a una terribile situazione.»
«Povere donne!... e dove abitano, signore?»
«Non lo so.»
«Ma come mai avete saputo della loro miseria?»
«Ieri vado al Temple... Sapete che cos’è il Temple, signora mar-
chesa?»
«No, signore.»
«È un bazar molto divertente da vedersi; andavo dunque a fare
delle compere con la mia vicina del quarto piano...» «La vostra
vicina?»
«Non ho una camera in rue du Temple?» «L’avevo dimenticato,
signore...»
«Questa vicina è un’incantevole sartina; si chiama Rigolette, ride
sempre, e non ha mai avuto amanti.»
«Quanta virtù... per una sartina!»
«Non è affatto per virtù che fa la brava, ma perché, dice lei, non
ha il tempo d’innamorarsi; l’amore le porterebbe via troppo tempo,
dato che deve lavorare dodici o quindici ore al giorno per
guadagnare venticinque soldi coi quali vivere!...»
«Può vivere con così poco?»
«Eccome! si concede anche il lusso di avere due uccellini, che
mangiano più di lei; la sua cameretta è pulitissima e
graziosissima.»
«Vivere con venticinque soldi al giorno! è un miracolo!...»
«Un vero miracolo di ordine, di lavoro, di economia e di filosofia
spicciola, ve lo assicuro. Per questo ve la raccomando: dice di
essere una sarta bravissima... comunque non sareste obbligata a
portare i vestiti se ella ve li facesse...»
«Domani stesso le manderò del lavoro... Povera ragazza!... vivere
con così poco e con una cifra, per così dire, inconcepibile per noi
ricchi tanto che uno dei nostri più piccoli capricci costa cento
volte di più!»
«Vi interesserete dunque alla mia protetta, d’accordo; torniamo però
alla nostra avventura. Ero andato al Temple, con la signorina
Rigolette, per fare alcune compere per quei disgraziati della
soffitta, quando, frugando per caso in un vecchio cassettone in
vendita, ho trovato la brutta copia di una lettera in cui una donna
si lagnava con una terza persona di essere stata ridotta alla
miseria con la figliola, per l’imbroglio di un depositario. Chiesi
alla venditrice da dove venisse quel mobile. Mi rispose che aveva
fatto parte del modesto mobilio di una donna, ancor giovane, che
glielo aveva venduto, perché a corto di mezzi... Madre e figlia, mi
disse la venditrice, essendo state benestanti, sopportavano con
fierezza la loro sventura.»
«E non sapete dove abitano, signore?»
«Disgraziatamente, no... per il momento... Ma ho dato ordine al
signor di Graün di cercare di scoprirlo, e di ricorrere, se ce n’era
bisogno, anche alla polizia. È probabile che, senza niente come
saranno, madre e figlia, siano andate a cercare un rifugio in
qualche misera casa ammobiliata. Se è così, abbiamo buone speranze,
perché i padroni di quelle abitazioni espongono ogni sera i nomi dei
forestieri che sono arrivati durante il giorno.»
«Che strano accavallarsi di circostanze!» disse la signora
d’Harville stupita. «Com’è avvincente la cosa!»
«E non è tutto... In un angolo della lettera rimasta nel mobile,
erano scritte queste parole: Scrivere alla signora di Lucenay.»
«Che fortuna! forse sapremo qualcosa dalla duchessa» esclamò
d’impeto la signora d’Harville. Poi soggiunse con un sospiro: «Ma,
non sapendo il nome di quella donna, come descriverla alla signora
di Lucenay?»
«Bisognerà chiederle se conosce una vedova ancora giovane, dal volto
molto distinto, con una figlia di sedici o diciassette anni che si
chiama Claire... Il nome me lo ricordo.»
«Il nome di mia figlia! Mi pare una ragione di più per aiutare
quelle infelici.»
«Dimenticavo di dirvi che il fratello di questa vedova si è
suicidato alcuni mesi fa.»
«Se la signora di Lucenay conosce questa famiglia» rifletté la
signora d’Harville, «tali indicazioni le sarebbero sufficienti; se
così fosse, la duchessa dovrebbe inoltre essere stata impressionata
dalla morte di quello sventurato. Dio mio, non vedo l’ora di andarla
a trovare! Le scriverò due righe questa sera per essere sicura di
trovarla domani mattina. Chi potranno essere queste signore? Da quel
che sapete su di loro, signore, sembra appartengano a un ceto
sociale alto... E vedersi ridotte a una tale miseria!... Ah, per
loro la miseria dev’essere doppiamente terribile.»
«E tutto ciò per gli imbrogli di un notaio, un abominevole
mascalzone, di cui ho conosciuto già altri misfatti... un certo
Jacques Ferrand.»
«Il notaio di mio marito!» esclamò Clémence, «e anche della mia
matrigna! Ma vi sbagliate, signore; costui è considerato il più
grande galantuomo di questo mondo.»
«Ho le prove del contrario... Ma, vi prego, non dite a nessuno i
miei dubbi o meglio le mie certezze su questo miserabile. È scaltro
quanto è criminale e, per smascherarlo, ho bisogno che creda ancora
per un po’ di tempo alla sua impunità. Sì, è stato lui a spogliare
quella poveretta, negando un deposito che, stando alle apparenze,
gli era stato lasciato dal fratello della vedova.»
«E la somma?»
«Era tutta la loro ricchezza!»
«Oh, è un delitto bell’e buono...»
«Delitti» gridò Rodolphe, «delitti che nulla può giustificare,
né il bisogno, né la passione... Spesso la fame spinge al furto, la
vendetta all’omicidio... Ma questo notaio, già ricco, quest’uomo
rivestito dalla società di un carattere quasi sacerdotale, di un
carattere che ci dispone e obbliga alla fiducia... quest’uomo è
spinto al delitto da una fredda e implacabile cupidigia. L’assassino
vi uccide una sola volta... e presto... con il suo coltello; lui
invece vi uccide lentamente costringendovi a tutte le torture che
comportano la disperazione e la miseria... Per un uomo come Ferrand,
il patrimonio dell’orfano, i denari che il povero ha messo da parte
con tanta fatica... non c’è niente di sacro! Voi gli consegnate una
somma, ne è tentato... e la ruba. Da ricco e felice, la volontà di
quell’uomo vi getta nella miseria e nello squallore!... A forza di
privazioni e di lavoro, vi eravate assicurato il pane e un ricovero
per la vecchiaia... la volontà di quell’uomo priva la vostra
vecchiaia di quel pane e di quel ricovero...
E non è tutto. Pensate alle spaventose conseguenze di quelle
ignobili ruberie. Supponete, signora, che la vedova di cui stiamo
parlando muoia di dolore e di miseria; la figlia, perché giovane e
bella, perché senza amici e senza mezzi, perché abituata agli agi e
incapace, data la sua educazione, di guadagnarsi da vivere si
troverà a dover scegliere tra il disonore e la fame! se si
disorienta e cede... eccola, degradata, disonorata, perduta!... Col
suo furto Jacques Ferrand ha determinato quindi la morte della madre
e la prostituzione della figlia!... ha ucciso il corpo dell’una e
l’anima dell’altra; e questo, ripeto, non in un solo colpo come
fanno gli assassini, ma con lentezza e con crudeltà.»
Clémence non aveva mai sentito Rodolphe parlare con tanta
indignazione e amarezza. Lo stava ad ascoltare in silenzio, colpita
da quell’eloquenza sconsolata che metteva in mostra il suo
grandissimo odio per il male.
«Scusatemi, signora» le disse Rodolphe, dopo alcuni momenti di
silenzio, «non ho potuto frenare il mio sdegno nel pensare alle
terribili sventure che potrebbero succedere alle vostre future
protette... Ah, credetemi, non si esagera mai quando si parla delle
conseguenze che spesso portano con sé la rovina e la fame.»
«Oh, grazie, invece, signore di avere, con le vostre terribili
parole, aumentato, se così posso dire, l’affettuosa compassione che
mi ispira questa madre sventurata. Ahimè! essa soffrirà soprattutto
per la figlia... Oh, è terribile... Ma noi le salveremo, le
tranquillizzeremo sul loro avvenire non è vero, signore? Grazie a
Dio, sono ricca, non quanto vorrei esserlo, ora che vedo come poter
impiegare la ricchezza; e, se occorrerà, mi rivolgerò al signor
d’Harville: lo farò così felice che egli non potrà opporsi a nessuno
dei miei nuovi capricci, e prevedo che ne avrò molti di questo
genere... Le nostre protette hanno un certo orgoglio, mi avete
detto, signore: mi sono ancora più care: l’orgoglio nella sventura è
segno di animo nobile... Io troverò il modo di aiutarle senza che
esse si sentano debitrici dell’aiuto che darò loro... Sarà
difficile... meglio così! Oh, ho già il mio piano; vedrete,
signore... vedrete che non mi mancheranno né l’abilità né la
delicatezza.»
«Prevedo già le macchinazioni più machiavelliche» disse Rodolphe
sorridendo.
«Ma prima bisogna trovarle. Vorrei che fosse già domani! Dopo essere
stata dalla signora di Lucenay, andrò nella casa in cui abitavano,
interrogherò i vicini, cercherò io stessa, chiederò informazioni a
tutti. Mi comprometterò, se sarà necessario! Sarò fiera di ottenere
da me, da me sola, i risultati che desidero... Oh,
ci riuscirò... questa avventura sarà così carica d’emozioni. Povere
donne! Mi sembra di avere per loro ancora più interesse quando penso
a mia figlia.»
Rodolphe, commosso da tale zelo di carità, sorrideva con una certa
malinconia al vedere quella donna di vent’anni, così bella e così
appassionata, che cercava di dimenticare tra nobili distrazioni le
disgrazie familiari che l’angustiavano; gli occhi di Clémence
brillavano di un vivo splendore, le guance le si erano lievemente
colorite, i suoi gesti e i suoi discorsi infervorati le rendevano
ancora più incantevole.
II L’INGANNO
La signora d’Harville si accorse a un certo momento che Rodolphe la
stava contemplando in silenzio. Arrossì, abbassò gli occhi, poi li
rialzò mal celando un delizioso turbamento e gli disse:
«State ridendo della mia esaltazione, signore! Il fatto è che sono
impaziente di gustare le dolci gioie da cui sarà rallegrata la mia
vita, finora triste e inutile. Questa non era certo la sorte che
avevo sognato... C’è un sentimento, una gioia, la più forte di
tutte... che io non conoscerò mai. Sebbene ancora giovanissima, devo
rinunziarvi!...» aggiunse Clémence con un mezzo sospiro. Poi
continuò: «Però, grazie a voi, mio salvatore, sempre grazie a voi,
mi creerò altri interessi: la carità rimpiazzerà l’amore. Devo già
ai vostri consigli emozioni così belle! Le vostre parole, signore,
hanno tanta influenza su di me!... Più medito e approfondisco le
vostre idee, più le trovo giuste e feconde. Poi quando penso che,
non contento di impietosirvi per dispiaceri che dovrebbero lasciarvi
indifferenti, mi date inoltre i consigli più salutari, guidandomi
passo passo nella nuova strada che avete aperto davanti a un cuore
triste e abbattuto... eh, signore, che tesoro di bontà racchiude la
vostra anima! Dove avete attinto una tale sublime pietà?»
«Ho sofferto molto e soffro tuttora... ecco perché conosco il
segreto di molti dolori!»
«Voi, signore, voi infelice!»
«Sì, si direbbe che per prepararmi ad aver pietà di tutte le
sventure, la sorte abbia voluto che io le provassi tutte. Amico, mi
ha colpito nell’amico; amante, mi ha colpito nella prima donna che
ho amato con la cieca fiducia della giovinezza; sposo, mi ha
colpito nella moglie; figlio, mi ha colpito nel padre; padre, mi ha
colpito nel figlio.»
«Credevo, signore, che la granduchessa non vi avesse lasciato
figli.»
«Infatti; ma prima del matrimonio ho avuto una figlia, che morì da
piccola... Ebbene, per quanto strano possa sembrare, la perdita di
quella bambina, che ho visto appena, è il rimpianto di tutta la mia
vita. Più invecchio e più quel dolore diventa grande! sembra che
aumenti in proporzione all’età che dovrebbe avere mia figlia. Essa
avrebbe adesso diciassette anni!»
«E la madre, vive ancora, signore?» chiese Clémence, dopo un momento
di esitazione.
«Oh, non parlatemene» esclamò Rodolphe che si era rabbuiato in volto
al pensiero di Sarah. «La madre è un’indegna creatura, un’anima
indurita dall’egoismo e dall’ambizione. A volte mi chiedo se non sia
stato meglio per mia figlia essere morta piuttosto che esser rimasta
nelle mani della madre.»
Clémence provò una specie di soddisfazione a quel discorso di
Rodolphe.
«Oh, capisco allora» esclamò, «perché dobbiate doppiamente
rimpiangere vostra figlia.»
«L’avrei amata tanto!... E poi mi sembra che nell’amore che noialtri
principi nutriamo per il figlio ci sia sempre una specie d’interesse
per la razza e il nome, una specie di secondo fine politico. Ma una
figlia! una figlia! la si ama solo in quanto tale. Proprio perché
uno ha visto, ahimè, l’umanità sotto l’aspetto più brutto prova
chissà quale delizia a riposarsi nella contemplazione di un’anima
candida e pura! a respirare il suo profumo virginale, a spiare con
inquieto affetto i suoi innocenti palpiti! Neanche la madre più
folle e orgogliosa riesce a provare per la figlia simili trasporti;
essa le assomiglia troppo per apprezzarla abbastanza, per provare
queste dolcezze ineffabili; essa apprezzerà molto di più le maschie
qualità di un figlio audace e valoroso. Perché, in fondo, non
trovate anche voi che ciò che rende più forte l’amore di una madre
per il figlio e l’amore di un padre per la figlia è il fatto che in
queste corrispondenze d’affetto c’è un debole che ha bisogno di
protezione? Il figlio protegge la madre, il padre protegge la
figlia.»
«Oh, è vero, signore.»
«Ma, ahimè, a cosa giova comprendere queste gioie ineffabili, quando
non si potrà mai provarle?» continuò Rodolphe mestamente.
Clémence non poté trattenere una lacrima tanto l’accento di Rodolphe
era stato profondamente straziante.
Rodolphe tacque un momento, poi, quasi arrossendo per l’emozione da
cui s’era lasciato prendere, disse alla signora d’Harville con mesto
sorriso:
«Scusate, signora, i rimpianti e i ricordi mi hanno preso la mano,
mio malgrado; voi mi perdonerete, vero?»
«Non crederete signore, ma io sto prendendo parte ai vostri dolori.
Non ne ho forse il diritto? dato che voi avete preso parte ai miei?
purtroppo il conforto che vi darò sarà inutile...»
«No, no... le dimostrazioni di sollecitudine da parte vostra mi sono
dolci e salutari; è già un sollievo poter dire che si soffre... e
non ve l’avrei mai detto se il nostro colloquio non avesse
risvegliato in me ricordi dolorosi... È una debolezza, ma non posso
sentire parlare di una ragazza senza pensare a quella che ho
perduto...»
«Queste sono inquietudini naturali! Per esempio, signore, dopo che
vi ho visto l’ultima volta, ho accompagnato nelle sue visite alle
prigioni una mia amica che è patronessa dell’opera delle giovani
carcerate di Saint-Lazare; in quella casa sono racchiuse creature
molto colpevoli. Se non fossi madre, le avrei senz’altro giudicate
con maggior severità... mentre invece provo per loro una pietà
dolorosa pensando che forse esse non si sarebbero perdute se, da
piccole, non fossero state lasciate in balìa di se stesse e in
miseria... Non so perché, ma con questi pensieri, mi sembra di amare
mia figlia ancora di più...»
«Su, coraggio» disse Rodolphe con un sorriso malinconico. «Questo
colloquio mi fa stare tranquillo sul vostro conto... Una via di
salvezza vi si è aperta davanti; seguendola supererete, senza
cedere, quegli anni di prove così pericolose per le donne e
soprattutto per una donna dotata come voi. Il vostro merito grande
sarà... avrete ancora da lottare e da soffrire... poiché siete
ancora molto giovane, ma riprenderete forza pensando al bene che
avete fatto... e a quello che vi resta ancora da fare...»
La signora d’Harville proruppe in lacrime.
«Che almeno, signore» disse, «non vengano mai a mancarmi il vostro
appoggio e il vostro consiglio!»
«Da vicino o da lontano, sempre, m’interesserò caldamente a ciò che
vi riguarda... sempre, per quanto possibile, contribuirò alla vostra
felicità... e a quella dell’uomo per il quale nutro la più sincera
amicizia.»
«Oh, grazie di questa promessa, signore» disse Clémence asciugandosi
le lacrime. «Senza il vostro generoso appoggio, non
avrei avuto la forza... lo sento... Ma credetemi, ve lo giuro qui,
compirò coraggiosamente il mio dovere.»
Dopo queste parole, improvvisamente si aprì la porta che c’era
dietro a una tenda.
Clémence gettò un grido e Rodolphe sussultò.
Apparve il signor d’Harville; era pallido, turbato, profondamente
commosso e con gli occhi pieni di lacrime.
Passato il primo momento di stupore, il marchese disse a Rodolphe
porgendogli la lettera di Sarah:
«Signore... ecco l’infame lettera che ho ricevuto poco fa in vostra
presenza... abbiate la bontà di bruciarla dopo averla letta.»
Clémence guardava stupita il marito.
«Oh, è un’infamia!» esclamò Rodolphe sdegnato.
«Ebbene, signore... c’è qualcosa di più vile della viltà di questa
persona anonima... Il mio contegno!»
«Cosa volete dire?»
«Poco fa, invece di mostrarvi apertamente e coraggiosamente
la lettera, ve l’ho nascosta, ho finto la calma mentre la gelosia,
la rabbia e la disperazione mi ribollivano in petto... E non è
tutto... Sapete ciò che ho fatto, signore? Sono andato
vergognosamente a nascondermi dietro quella porta per spiarvi... Sì,
sono stato tanto sciagurato da dubitare della vostra lealtà, del
vostro onore... Oh, l’autore di quella lettera sa a chi la scrive...
Sa quanto io sia debole... Ebbene, signore, dopo aver udito ciò che
ho udito, giacché non ho perso una parola del vostro colloquio, e so
quali interessi vi attirano in rue du Temple... dopo essere stato
tanto meschino e diffidente, da farmi complice della calunniatrice
dando credito all’orribile calunnia... ditemi se non devo chiedervi
in ginocchio perdono e pietà?... E così faccio, signore... e così
faccio, Clémence, perché spero solo nella vostra generosità...»
«Oh Dio mio Albert, che cosa devo perdonarvi?» disse Rodolphe
tendendo le mani al marchese con la più affettuosa cordialità.
«Adesso sapete i nostri segreti, i miei e quelli della signora
d’Harville; e ne sono contento, potrò farvi la paternale quando avrò
tempo. Eccomi forzatamente vostro confidente e, meglio ancora,
confidente della signora d’Harville: vale a dire che adesso sapete
tutto quello che dovete aspettarvi dal suo nobile cuore.»
«E voi, Clémence» chiese mestamente il signor d’Harville alla
moglie, «mi perdonerete anche questo?»
«Sì, ma a patto che mi aiutiate a rendere sicura la vostra
felicità...» Ed essa tese la mano al marito che gliela strinse
commosso.
«A dire il vero, mio caro marchese» esclamò Rodolphe, «i nostri
nemici sono poco furbi! Grazie a loro siamo più amici di prima. Non
avevate mai apprezzato a tal punto vostra moglie, ed ella non vi è
mai stata così attaccata. Ammettete che ci siamo vendicati degli
invidiosi e dei malvagi! In attesa di meglio, è già qualcosa...
Infatti subodoro da dove sia partito il colpo, e non ho l’abitudine
di sopportare con pazienza il male che si fa ai miei amici. Ma è
affar mio. Addio signora, il vostro intrigo è stato scoperto, non
sarete più sola a soccorrere i vostri protetti. Non preoccupatevi,
presto macchineremo qualche nuovo intrigo, e il marchese questa
volta dovrà essere molto in gamba per scoprirlo.»
Dopo aver accompagnato Rodolphe alla carrozza per ringraziarlo
ancora, il marchese rientrò in casa senza rivedere Clémence.
III RIFLESSIONI
Sarebbe difficile descrivere i sentimenti tumultuosi e contrastanti
che agitarono il signor d’Harville, quando fu solo.
Riconosceva con gioia l’indegna falsità dell’accusa fatta contro
Rodolphe e contro Clémence; ma era anche convinto che gli toccava
rinunciare a ogni speranza di essere amato da lei. Più nel suo
colloquio con Rodolphe Clémence si era mostrata rassegnata,
coraggiosa e risoluta al bene, più egli si rimproverava amaramente
di avere, per un colpevole egoismo, incatenato alla sua sorte
quell’infelice donna.
Invece di sentirsi confortato dalla conversazione che aveva
ascoltato di nascosto, sprofondò in una tristezza e in un
abbattimento indicibili.
Per i ricchi dediti all’ozio c’è questo di terribile, che niente li
può distrarre, che niente li può difendere dalla tristezza dei loro
sentimenti. Naturalmente, non essendo mai preoccupati dei bisogni di
là da venire o dalle fatiche quotidiane, diventano facile preda
delle angosce morali.
Potendo possedere ciò che si può acquistare solo a peso d’oro, essi
desiderano e rimpiangono con inaudita violenza ciò che l’oro non può
procurare.
Il dolore del signor d’Harville era disperato perché, dopo tutto,
egli non voleva niente che non fosse giusto e legale:
«Se non l’amore della moglie... almeno il possesso.»
Ora, di fronte agli inesorabili rifiuti di Clémence, egli si
chiedeva se non ci fosse un’amara derisione nelle seguenti parole
della legge:
La moglie appartiene al marito.
A quale potere, a quale autorità ricorrere per vincere quella
freddezza, quella ripugnanza che facevano della sua vita un lungo
supplizio, dal momento che non doveva, non poteva e non voleva amare
che sua moglie?
Gli toccava riconoscere che in questo, come in tanti altri incidenti
della vita coniugale, la semplice volontà dell’uomo o della donna si
sostituiva imperiosamente, inappellabilmente, impetuosamente alla
sovrana volontà della legge.
A quei trasporti di inutile collera succedeva a volte un cupo
abbattimento.
L’avvenire gli gravava addosso pesante, cupo, gelido.
Presagiva che il dolore avrebbe reso ancora più frequenti le crisi
della sua tremenda malattia.
“Oh!” esclamò intenerito e assieme desolato, “è colpa mia!... è
colpa mia! povera donna! io l’ho ingannata... indegnamente
ingannata! Essa può... deve odiarmi... eppure, anche poco fa, mi ha
dato le prove del più tenero affetto. Ma, invece di accontentarsi di
questo, la mia folle passione mi ha fatto perdere la testa, mi sono
mostrato tenero, ho parlato del mio amore... e appena le mie labbra
le hanno sfiorato le mani, essa ha trasalito dallo spavento. E se
avessi avuto ancora qualche dubbio sull’invincibile ripugnanza che
le ispiro, ciò che essa ha detto al principe non mi avrebbe più
lasciato alcuna illusione... Oh, è terribile... terribile!
E con che diritto gli ha confidato l’orribile segreto? è un indegno
tradimento! Con che diritto! Ahimè, col diritto che hanno le vittime
di lamentarsi del loro carnefice. Povera donna, così giovane e piena
d’amore, la cosa più crudele che ha trovato da dire contro
l’orribile esistenza che le ho procurato... è che tale non era la
sorte che aveva sognato, e che era troppo giovane per rinunciare
all’amore! Conosco Clémence... la parola che mi ha dato, che ha dato
al principe, la manterrà ormai: sarà per me la più tenera sorella.
Ebbene... non è una posizione invidiabile?... Ai rapporti freddi e
forzati che esistevano fra di noi, succederanno relazioni dolci e
affettuose, mentre avrebbe potuto trattarmi sempre con gelido
disprezzo, senza ch’io potessi lamentarmene.
Suvvia, mi consolerò accontentandomi di ciò che mi offre. Non sarò
anche troppo fortunato? troppo fortunato! oh, come
sono debole, come sono vigliacco. Non è mia moglie in fin dei conti?
non è mia? proprio mia? La legge non riconosce la mia potestà su di
lei ? Mia moglie resiste... ebbene, ho il diritto di...” Ed egli
s’interruppe con una risata sardonica.
“Oh, sì, la violenza, vero! Adesso la violenza! un’altra infamia. Ma
cosa fare allora? perché io l’amo! l’amo come un pazzo... Amo solo
lei... Voglio solo lei... Voglio il suo amore e non il tiepido
affetto di una sorella. Oh, alla fine, dovrà pure aver pietà... è
così buona e mi vedrà così infelice! Ma no, no! mai! È un’avversione
che una donna non può superare. Il disgusto... sì... il disgusto...
capisci? il disgusto... Devi convincerti che la tua orribile
malattia le farà orrore... sempre... capisci? sempre!” gridò il
signor d’Harville con dolorosa esaltazione.
Dopo un momento di cupo silenzio continuò:
“La lettera anonima, che accusava il principe e mia moglie, parte da
una mano nemica e poco fa, prima di aver udito la conversazione, ho
potuto per un istante sospettarlo! Lui, crederlo capace di un così
vile tradimento! E mia moglie, coinvolgerla negli stessi sospetti!
Oh, la gelosia è inesorabile! Tuttavia non devo illudermi. Se il
principe, che mi ama come l’amico più tenero e generoso spinge
Clémence a impegnare la mente e il cuore in opere di carità, se le
promette appoggio e consigli, vuol dire che lei ha bisogno di
appoggio e di consigli.
In fondo bella, giovane e corteggiata com’è, senza un amore in petto
che possa difenderla, e con la mezza scusante che viene ai suoi
errori dai miei che sono atroci, non può forse cedere?
Altra tortura! Quanto ho sofferto, Dio mio, quando l’ho creduta
colpevole... che terribile agonia! ma no, questo timore è infondato.
Clémence ha giurato di non venir meno ai suoi doveri... e manterrà
la sua promessa... ma a che prezzo, Dio mio, a che prezzo! Poco fa,
quando è tornata a me con parole affettuose, quanto mi ha fatto male
quel suo sorriso dolce, triste, rassegnato! Quanto deve esserle
costato ritornare dal suo carnefice! Povera donna! Com’era bella e
commovente in quel momento! Per la prima volta ho avuto un rimorso
tremendo; perché finora s’è abbastanza vendicata con quella sua
altera freddezza. Oh, povero me!”.
Dopo una lunga notte insonne, densa di amare riflessioni,
l’agitazione del signor d’Harville cessò come per incanto.
Ed egli attese con impazienza che facesse giorno.
IV
PROGETTI PER L’AVVENIRE
Appena fu mattina, il signor d’Harville suonò al cameriere.
Il vecchio Joseph entrando nella camera del padrone, si meravigliò
di sentirlo canticchiare un’arietta da caccia, segno raro ma
sicuro del buonumore del signor d’Harville.
«Ah, signor marchese» disse il fedele servitore tutto conten-
to, «che bella voce avete... peccato che non cantiate più spesso!»
«Davvero, Joseph, ho una bella voce?» disse il signor d’Har-
ville ridendo.
«Se anche il signor marchese avesse una voce rauca come quel-
la di un barbagianni o di una raganella, per me sarebbe sempre una
bella voce.»
«Sta’ zitto, adulatore!»
«Caspita! quando cantate, signor marchese, è segno che siete
contento... e allora la vostra voce mi sembra la più bella musica di
questo mondo...»
«Quand’è così, mio vecchio Joseph, preparati ad aprire ben bene le
lunghe orecchie.»
«Cosa volete dire?»
«Potrai godere ogni giorno di questa bella musica di cui sembri
tanto avido.»
«Sarete allegro ogni giorno, signor marchese?» esclamò Joseph
congiungendo le mani tra lo stupito e il contento.
«Sì, ogni giorno, mio caro Joseph, ogni giorno felice. Sì, niente
più dispiaceri, niente più tristezze. Posso dirlo a te, unico e
fedele confidente delle mie pene... Sono al colmo della felicità...
mia moglie è un angelo di bontà... mi ha chiesto perdono della
passata freddezza, attribuendola, non lo indovini?... alla
gelosia!...»
«Alla gelosia?»
«Sì, assurdi sospetti provocati da lettere anonime...»
«Che infamia!...»
«Capisci... le donne hanno tanto amor proprio... è bastato que-
sto per sentirci lontani; ma, per fortuna, ieri sera ci siamo dati
una chiara spiegazione. Io, naturalmente, l’ho disingannata; non
potrei descriverti la sua gioia... mi ama, oh sì, mi ama! La
freddezza che mi dimostrava, pesava a lei come a me... finalmente la
nostra crudele separazione è cessata... figurati la mia gioia!...»
«Davvero?» esclamò Joseph con gli occhi pieni di lacrime. «È proprio
vero, signor marchese? ora siete completamente felice, perché vi
mancava solo l’amore della signora marchesa... o me-
glio perché la sua freddezza era la sola vostra disgrazia, come
dicevate...»
«E a chi avrei dovuto dirlo, povero Joseph?... Non possedevi tu un
segreto ancora più triste? Ma non parliamo di tristezze... questo è
un giorno troppo bello... Non ti sei accorto che ho pianto?... vedi,
la gioia mi ha sopraffatto... Me l’aspettavo così poco!... come sono
debole, vero?»
«Su, su, signor marchese, potete ben piangere di gioia, avete pianto
abbastanza di dolore. Guardate me! non faccio forse come voi? Care
lacrime! non le darei per dieci anni della mia vita... Ho una sola
paura, cioè di non poter fare a meno di gettarmi ai piedi della
marchesa la prima volta che la vedrò...»
«Vecchio matto, hai perso la testa come il tuo padrone... adesso
anch’io ho un timore...»
«Quale? Dio mio!»
«Che tutto ciò non duri... Sono troppo felice... che cosa mi manca?»
«Niente, niente, signor marchese, assolutamente niente...»
«Appunto per questo. Non mi fido di questa felicità così perfetta,
così completa...»
«Ohimè, se fosse solo per questo... signor marchese; ma no, non ne
ho il coraggio...»
«Ti capisco... ebbene, credo che i tuoi timori siano fuori posto!...
Il cambiamento che mi procura la felicità è così vivo, così profondo
che sono sicuro di essere un po’ guarito!»
«Come mai?»
«Non mi ha ripetuto cento volte il mio medico che spesso basta una
violenta scossa morale per procurare o per guarire quella funesta
malattia... Perché le emozioni felici non potrebbero salvarci?»
«Se voi, signor marchese, la pensate così, sarà così... Così è...
siete guarito! Ma allora è una giornata benedetta questa? Ah, signor
marchese, avete ragione a dire che la signora marchesa è un angelo
sceso dal cielo, e anch’io signore, comincio ad aver paura: forse è
troppa gioia per un sol giorno; ma, adesso che ci penso... se, per
farvi tranquillo ci vuole un piccolo dispiacere, grazie a Dio ho
quello che fa per voi.»
«Come?»
«Un vostro amico ha ricevuto fortunatamente e, vedete come tutto si
combina a puntino, ha ricevuto un opportuno colpo di spada,
leggerissimo, è vero, ma non c’entra; basterà, comunque, per
addolorarvi un po’. Tanto almeno che ci sia, come desiderate,
una piccola ombra in questo giorno troppo bello. È vero che, a
questo proposito, sarebbe meglio che la ferita fosse più grave, ma
bisogna accontentarsi di ciò che si ha.»
«Vuoi smetterla!... ma di chi stai parlando?»
«Del signor duca di Lucenay.»
«È ferito?»
«Una scalfittura al braccio. Il signor duca è venuto ieri a trova-
re il signore, e ha lasciato detto che sarebbe ritornato stamattina
a chiedergli una tazza di tè...»
«Quel povero Lucenay! e perché non me l’hai detto...»
«Ieri sera non ho potuto vedere il signor marchese.»
Dopo aver riflettuto un momento, il signor d’Harville riprese:
«Hai ragione; questo lieve dispiacere soddisferà certamente la
gelosia del destino... Ma mi viene un’idea, ho voglia di
improvvisare questa mattina una colazione da scapoli con tutti gli
amici del signor Lucenay per festeggiare il buon esito del suo
duello. Non aspettandosela, sarà felicissimo di questa riunione.»
«Oh finalmente, signor marchese! Viva l’allegria: dovete recuperare
il tempo perduto... Quanti coperti dovrò dire al maggiordomo di
preparare?»
«Sei persone, nel salottino d’inverno.»
«E gli inviti?»
«Li scrivo subito. Un garzone della scuderia monterà a caval-
lo e li porterà subito; è presto, troverà tutti in casa. Suona il
campanello.»
Joseph suonò.
Il signor d’Harville entrò nel suo studio e scrisse i seguenti
biglietti, senz’altra variante che il nome dell’invitato.
Mio caro ***, questa è una circolare: si tratta di una improvvisata.
Lucenay deve venire stamane a colazione da me; penserà di essere
solo. Fategli la bella sorpresa di unirvi anche voi a me e altri
pochi suoi amici, che io faccio ugualmente avvertire. A mezzogiorno
senza fallo.
A. d’Harville
Entrò un domestico.
«Fate che qualcuno prenda un cavallo e vada a recapitare subito
questi biglietti» disse il signor d’Harville; poi, rivolgendosi a
Joseph: «Scrivi questi indirizzi: Signor visconte di Saint-Remy
(Lucenay non può fare a meno di lui, pensò il signor d’Harville);
Signor di Montville... (uno dei compagni di viaggio del duca);
Lord Douglas (il suo fedele compagno di whist); Barone di Sézannes
(suo amico d’infanzia)... Hai scritto?»
«Sì, signor marchese.»
«Spedite questi biglietti senza perdere un minuto», disse il signor
d’Harville. «Ah, Philippe, pregate il signor Doublet di venire qui
da me che devo parlargli.»
Philippe uscì.
«Ebbene che hai?» chiese il signor d’Harville a Joseph che lo
guardava sbalordito.
«Non ci capisco più niente, signore, non vi ho mai visto così in
vena e allegro. E poi voi, che di solito, siete pallido, avete un
bel colorito e gli occhi vi brillano.»
«La gioia, mio caro Joseph, sempre la gioia... Ah, senti devi darmi
una mano in un complotto... Andrai a informarti dalla signorina
Juliette, quella delle cameriere della signora d’Harville che, se
non sbaglio, ha cura dei suoi gioielli...»
«Sì, signor marchese, è la signorina Juliette che se ne occupa; otto
giorni fa l’ho aiutata a pulirli.»
«Le domanderai il nome e l’indirizzo del gioielliere della sua
padrona... Ma che non dica una parola di tutto questo alla
marchesa!...»
«Ah, capisco, signore... una sorpresa...»
«Vai svelto. Ecco il signor Doublet.»
Mentre entrava l’amministratore, infatti, Joseph usciva.
«Ho l’onore di venire a ricevere gli ordini del signor mar-
chese.»
«Mio caro Doublet, vi farò prender paura» disse il signor
d’Harville ridendo «vi farò cacciare grida disperate.»
«A me, signor marchese?»
«A voi.»
«Farò il possibile per soddisfare il signor marchese.»
«Signor Doublet, sto per spendere molto denaro, moltissimo
denaro.»
«Poco male, signor marchese, possiamo farlo; grazie a Dio,
possiamo farlo.»
«Da un pezzo ho in testa un progetto di certe costruzioni: si
tratterebbe di far costruire una galleria in giardino, nell’ala
destra del palazzo. Dopo aver esitato molto davanti a questa follia,
di cui finora non vi avevo mai fatto parola, adesso mi sono
deciso... Bisogna avvertire oggi il mio architetto perché venga a
parlare con me del progetto... E allora, signor Doublet, non vi fa
gemere questa spesa?»
«Posso assicurare al signor marchese che non gemerò...»
«La galleria sarà riservata alle feste; voglio che sorga come per
incanto: ora, essendo gli incanti molto cari, bisognerà vendere
quindici o ventimila lire di rendite per essere in grado di
sopperire alle spese, poiché voglio che i lavori comincino il più
presto possibile.»
«Ed è giustissimo. Tanto vale godere subito. Mi dicevo sempre: “Al
signor marchese non manca niente se non una qualche passione...
Quella per i fabbricati ha di buono che i fabbricati restano...
Quanto al denaro, che il signor marchese non si preoccupi, grazie a
Dio, se volete, potete togliervelo benissimo questo capriccio della
galleria.”»
Joseph tornò.
«Ecco, signor marchese, l’indirizzo del gioielliere: si chiama
Baudoin,» disse al signor d’Harville.
«Caro Doublet, vi prego di andare da questo gioielliere e di dirgli
di portare qui fra un’ora una collana di diamanti per la quale
spenderò circa 2000 luigi. Per le donne le pietre preziose non sono
mai troppe, adesso poi che ne guarniscono anche i vestiti... vi
metterete d’accordo con lui per il pagamento.»
«Sì, signor marchese. Non gemerò nemmeno per questa spesa. I
diamanti sono come i fabbricati: restano; e poi questa sorpresa farà
certamente piacere alla signora marchesa, senza contare il piacere
che ne avrete voi stesso. Anche l’altro giorno mi pregiavo di dire
che non c’è al mondo esistenza più bella di quella del signor
marchese.»
«Caro il mio Doublet» disse il signor d’Harville sorridendo, «le sue
felicitazioni sono sempre molto opportune...»
«È il loro unico merito, signor marchese, e forse esse ce l’hanno
questo merito, perché vengono dal profondo del cuore. Vado dal
gioielliere» disse il signor Doublet. E uscì.
Appena rimase solo, d’Harville cominciò a passeggiare per la stanza
con le braccia incrociate sul petto, con lo sguardo fisso e assorto
in meditazioni.
La sua fisionomia era improvvisamente cambiata. Non esprimeva più
quella gioia a cui avevano creduto l’amministratore e il vecchio
servitore, ma una risoluzione calma, cupa, fredda.
Dopo aver camminato un po’, si lasciò cadere pesantemente sulla
sedia, come accasciato sotto il peso delle sue pene. Appoggiò i
gomiti sullo scrittoio e si nascose la fronte tra le mani.
Ma dopo un momento, si rialzò bruscamente, si asciugò una lacrima
che aveva bagnato le palpebre arrossate, e disse con sforzo:
«Su, su... coraggio.»
Scrisse allora a varie persone cose di nessuna importanza; ma, in
quelle lettere, fissava o rimandava vari appuntamenti a parecchi
giorni più in là.
Il marchese stava terminando la corrispondenza quando Joseph
ritornò. Era così allegro che, dimenticandosi del dovuto rispetto,
cantarellava anche lui.
«Joseph, avete una gran bella voce» gli disse il padrone sorridendo.
«A dir la verità non m’importa, non ci resisto: ho un canto così
forte dentro che lo devo far sentire anche fuori...»
«Farai portare queste lettere alla posta.»
«Sì, signor marchese, ma dove riceverete i signori che verranno qui
fra poco?»
«Qui, nel mio studio. Dopo colazione fumeranno e da qui l’odore di
tabacco non arriverà certo alla signora d’Harville.»
In quel momento si udì il rumore di una carrozza nel cortile del
palazzo.
«È la signora marchesa che si accinge a uscire; ha chiesto i cavalli
stamane molto presto» disse Joseph.
Corri allora a pregarla di passare qui da me, prima di uscire. «Sì,
signor marchese.»
Appena il domestico se ne fu andato, il signor d’Harville si av-
vicinò a uno specchio e si guardò attentamente.
«Bene, bene» disse con voce sorda, «è così... le guance colori-
te, lo sguardo che luccica... Gioia e febbre... poco importa...
purché gli altri si illudano. Su adesso, un bel sorriso sulle
labbra. Ci sono tanti modi di sorridere. Ma chi potrebbe distinguere
il vero dal falso? chi potrebbe penetrare sotto questa maschera
ingannatrice e dire: “Questo riso nasconde una cupa disperazione,
questa rumorosa allegria nasconde un pensiero di morte?” nessuno...
per fortuna... nessuno... Nessuno? Oh, no... l’amore, non si
sbaglierebbe; il suo istinto lo illuminerebbe. Ma ecco mia moglie...
mia moglie! su... la tua parte, triste istrione.»
Clémence entrò nello studio del signor d’Harville.
«Buongiorno, Albert, caro fratello» gli disse con un accento pieno
di dolcezza e di affetto porgendogli la mano. Poi notata
l’espressione sorridente del viso del marito: «cos’avete, amico mio?
Avete lo sguardo radioso.»
«Quando siete entrata, sorellina mia, stavo pensando a voi...
Inoltre ho appena preso un’ottima decisione...»
«Non mi meraviglia...»
«Quello che è successo ieri, la vostra meravigliosa generosità, il
nobile comportamento del principe, tutto ciò mi ha fatto riflettere
molto, e mi sono convertito alle vostre idee, ma convertito
completamente e rimpiango le mie velleità di rivolta di ieri... che
scuserete almeno per vanità femminile, non è vero?» soggiunse
sorridendo. «Sono sicuro che voi non mi avreste perdonato d’aver
rinunciato tanto facilmente al vostro amore.»
«Che linguaggio! che bel cambiamento!» esclamò la signora
d’Harville. «Ah, ero sicura che, rivolgendomi al vostro cuore e al
vostro buon senso, voi mi avreste capito. Adesso non sono più
inquieta per il nostro avvenire.»
«Nemmeno io, Clémence, ve l’assicuro. Sì, dopo la decisione di
questa notte, quell’avvenire che mi appariva cupo e incerto si è
stranamente schiarito e semplificato.»
«È naturalissimo, amico mio; adesso noi procediamo verso uno stesso
scopo sostenendoci fraternamente. Alla fine della strada ci
ritroveremo quali siamo oggi. Questo nostro sentimento resterà
immutato. Insomma, io voglio che siate felice; e sarà così perché è
una cosa che mi sono messa qui dentro» disse Clémence, posandosi un
dito sulla fronte. «Poi» riprese con uno sguardo dolcissimo e
portandosi la mano al cuore: «No, mi sbaglio, qui... sarà sempre
viva questa buona idea... per voi... e anche per me... e vedrete,
signor fratello, che cosa è l’ostinazione di un cuore fedele.»
«Cara Clémence!» rispose il signor d’Harville frenando a stento
l’emozione.
Poi, dopo un momento di silenzio, egli riprese:
«Vi ho fatto pregare di venir qui prima di andarvene, per avvertirvi
che questa mattina non potrò prendere il tè con voi. Ho gente a
colazione: è una specie di improvvisata per festeggiare l’esito
felice del duello di quel povero Lucenay che, del resto, è stato
ferito molto lievemente dall’avversario.»
La signora d’Harville arrossì pensando alla causa di quel duello:
una facezia che il signor di Lucenay aveva detto al signor Charles
Robert, mentre lei era presente.
Per Clémence fu un ricordo crudele; le faceva tornare alla mente una
cosa di cui si vergognava.
Per sfuggire al patema che le veniva da quel pensiero, disse al
marito:
«Guardate che strana combinazione: il signore di Lucenay viene a
colazione da voi, e io sarò anche indelicata, ma stamattina vado
dalla signora di Lucenay per farmi invitare perché devo par-
lare con lei delle mie due ignote protette. Da lì conto di andare
alla prigione di Saint-Lazare con la signora di Blainval; voi non
conoscete tutte le mie ambizioni: adesso sto armeggiando per entrare
a far parte dell’opera delle giovani detenute.»
«Siete proprio insaziabile» disse il signor d’Harville, sorridendo;
poi aggiunse con una dolorosa emozione che, nonostante i suoi
sforzi, non riuscì a nascondere completamente: «Così, non vi rivedrò
più... per oggi?» si affrettò a dire.
«Vi dispiace che io esca così presto?» gli chiese subito Clémence,
stupita dal tono della sua voce. «Se volete, posso anche andare a
trovare la signora di Lucenay un’altra volta.»
Il marchese era stato sul punto di tradirsi; egli però riprese nel
modo più affettuoso:
«Sì, cara sorellina, il dispiacere che ho al vedervi uscire è pari
all’impazienza che avrò, prima di vedervi tornare. Ecco un difetto
di cui non tenterò mai di correggermi.»
«E fate bene, amico mio; altrimenti ne sarei desolata.»
Un campanello risuonò nel palazzo annunciando una visita. «È
senz’altro uno dei vostri invitati» disse la signora d’Har-
ville. «Io vi lascio. A proposito, cosa fate questa sera? Se non
avete ancora disposto della serata, esigo che mi accompagnate agli
Italiens, forse adesso la musica vi piacerà più di una volta!»
«Mi metto ai vostri ordini col più grande piacere.» «Uscirete
presto, amico mio? Vi rivedrò prima di pranzo?» «Non esco... Mi
troverete qui.»
«Allora, quando ritornerò, verrò a sentire se la vostra cola-
zione da scapoli è stata divertente.»
«Addio, Clémence.»
«Addio, amico mio... a presto!... Vi lascio il campo libero, e vi
auguro mille e mille splendide follie... state allegro!»
E, dopo aver stretto cordialmente la mano al marito, Clémence uscì
da una porta un momento prima che il signor di Lu-
cenay entrasse da un’altra.
«Mi ha augurato mille e mille follie... Mi ha incitato a es-
sere allegro... In quell’addio, in quell’ultimo grido della mia
anima in agonia, in quella parola di suprema ed eterna separazione,
essa ha visto un arrivederci... E se ne va tranquilla e
sorridente... Su... questo fa onore alle mie doti di
dissimulatore... Perbacco, non mi credevo così bravo commediante...
Oh, ecco Lucenay...»
V COLAZIONE DA SCAPOLI
Il signor di Lucenay entrò dal signor d’Harville.
Il duca aveva ricevuto una ferita così lieve che non aveva avuto
neppure bisogno di mettersi il braccio al collo. Aveva la sua solita
faccia canzonatrice e altera, la solita irrequietezza e la solita
irrefrenabile mania di punzecchiare la gente. Nonostante i difetti,
gli scherzi di cattivo gusto e quel naso smisurato che conferiva al
suo viso un non so che di grottesco, il signor di Lucenay tuttavia
non era, come abbiamo già detto, un tipo volgare, e questo lo doveva
a quella specie di innata dignità e di impavida impertinenza che non
lo abbandonava mai.
«Chissà come mi crederete indifferente a ciò che vi riguarda, caro
Henri!» disse il signor d’Harville tendendo la mano al signor di
Lucenay; «ma solo questa mattina sono venuto a sapere della vostra
spiacevole avventura.»
«Spiacevole... via marchese!... ho avuto quel che volevo, come si
dice. Non ho mai riso tanto in vita mia!... Quell’ottimo signor
Robert pareva così solennemente risoluto a non voler ammettere di
avere la pituita... Ma voi non sapete? era questa la causa del
duello. L’altra sera all’ambasciata di *** gli avevo chiesto davanti
a vostra moglie e alla contessa Mac-Grégor come andasse la sua
pituita. Inde irae; perché, a dirla tra noi, mica l’aveva quella
malattia. Ma non importa. Voi capite... Sentirsi dire una cosa
simile davanti a due belle signore è seccante.»
«Cose da pazzi! Non può essere che roba vostra! Ma chi è questo
signor Robert?»
«A dire il vero, non ne so niente. È un signore che ho incontrato ai
bagni; passava davanti a noi nel giardino d’inverno dell’ambasciata
e io l’ho chiamato per fargli questa stupida battuta; egli mi ha
risposto, due giorni dopo, procurandomi molto galantemente una lieve
ferita. Ecco le nostre relazioni. Ma non parliamo più di queste
sciocchezze. Sono venuto a chiedervi una tazza di tè.»
E, dicendo ciò, il signor di Lucenay si gettò lungo disteso su un
sofà; poi, introdotta la punta del suo bastone fra il muro e la
cornice di un dipinto appeso sopra la sua testa, cominciò ad
armeggiare e a far dondolare il quadro.
«Vi aspettavo, caro Henri, e vi ho riservato una sorpresa» disse il
signor d’Harville.
«Oh, bella! e di che tipo?» esclamò il signor di Lucenay facendo
muovere il quadro molto pericolosamente.
«Finirete con lo staccare il quadro e farvelo cadere in testa...»
«È vero perdio! Avete un occhio d’aquila... Ma dite un po’, la
sorpresa?»
«Ho invitato alcuni amici a colazione con noi.»
«Ah, benissimo! questa poi, marchese; bravo, bravissimo,
arcibravissimo!» gridò a squarciagola il signor di Lucenay, menando
gran bastonate sui cuscini del sofà. «E chi ci sarà? Saint-Remy? No,
perché già da alcuni giorni è in campagna; ma che diavolo starà
facendo in campagna in pieno inverno?»
«Siete sicuro che non sia a Parigi?»
«Sicurissimo. Gli avevo scritto che mi facesse da padrino... Ma era
assente; allora ho ripiegato su lord Douglas e Sézannes...»
«Che bella combinazione! anche loro vengono a colazione.»
«Bravo, bravo, bravo!» tornò a gridare il signor di Lucenay. Poi si
esibì in contorsioni e piroette sul sofà e in grida disumane
accompagnate da una serie di salti da pesce tali da far schiattare
d’invidia un saltimbanco.
Le evoluzioni acrobatiche del duca di Lucenay furono interrotte
dall’arrivo del signor di Saint-Remy.
«Non ho avuto bisogno di chiedere se Lucenay era qui» disse il
visconte allegramente. «Lo si sente fin da giù.»
«Come, siete voi, bel silvano di campagna! lupo mannaro!» gridò il
duca stupito, rizzandosi a un tratto; «vi credevamo in campagna.»
«Sono ritornato ieri; poco fa ho ricevuto l’invito di d’Harville e
sono corso qui... felicissimo di questa bella sorpresa.» Il signor
di Saint-Remy tese la mano al signor di Lucenay poi al marchese.
«E io vi sono molto grato della vostra premura, caro SaintRemy, non
è forse naturale? Gli amici di Lucenay non devono rallegrarsi del
felice risultato del duello che, dopo tutto, poteva avere spiacevoli
conseguenze?»
«Ma Saint-Remy» riprese il duca con ostinazione, «che cosa siete
stato a fare in campagna in pieno inverno? La cosa mi incuriosisce.»
«Com’è curioso!» disse il visconte rivolto al signor d’Harville. Poi
rispose al duca: «Voglio disabituarmi a poco a poco a Parigi... dal
momento che presto dovrò andarmene.»
«Ah, sì! che bella idea quella di entrare a far parte della
legazione di Francia a Gerolstein... Via, lasciateci in pace con le
vostre fisime diplomatiche! Voi non ci andrete mai... mia moglie lo
dice e tutti lo ripetono...»
«Vi assicuro che la signora di Lucenay si sbaglia anche lei come gli
altri.»
«Ve l’ha detto davanti a me che è una cosa da pazzi...»
«Ne ho fatte tante in vita mia.»
«Le pazzie in fatto d’eleganza e di amore, come quelle di ro-
vinarvi con le vostre magnificenze da Sardanapalo, sì, le capisco;
ma andare a sotterrarvi in quella specie di buco che è la corte...
di Gerolstein! Guardate un po’ che nobile impulso... Non è una
pazzia, ma una sciocchezza, e voi siete troppo acuto per fare
sciocchezze.»
«Badate caro Lucenay, che dicendo male di quella corte tedesca,
litigherete con d’Harville, che è intimo amico del granduca
regnante; del resto, giorni fa, egli mi ha accolto con moltissimo
garbo all’ambasciata di ***, dove gli sono stato presentato.»
«Davvero caro Henri» disse il signor d’Harville, «se conosceste il
granduca come lo conosco io, capireste come a Saint-Remy non
dispiaccia di andare a passare qualche tempo a Gerolstein.»
«Vi credo, marchese, sebbene dicano che sia maledettamente
originale, il vostro granduca. Ma questo non vuol dire che un
bell’uomo come Saint-Remy, il fior fiore di tutte le delizie, possa
vivere fuori Parigi... solo a Parigi può brillare in tutto il suo
splendore...»
Gli altri invitati del signor d’Harville erano appena arrivati,
quando Joseph entrò e disse piano qualche parola al padrone:
«Signori, permettete?...» disse il marchese... «È il gioielliere di
mia moglie che mi ha portato dei diamanti da scegliere per lei...
una sorpresa. Voi, Lucenay, sapete come vanno queste cose, siamo
mariti all’antica, noialtri...»
«Ah, perdio, se si tratta di sorprese» esclamò il duca, «mia moglie
me ne ha fatta una ieri... e molto bella per di più!!!»
«Qualche splendido regalo?»
«Mi ha chiesto... 100.000 franchi...»
«E voi che siete molto generoso, glieli avete...»
«Prestati!... saranno ipotecati sulla fattoria di Arnouville...
Patti chiari, amicizia lunga... Ma non fa niente... prestare, in due
ore, 100.000 franchi a chiunque ne abbia bisogno, è un gesto gentile
che non capita spesso di fare... non è così, scialacquatore, voi che
vi intendete di prestiti...» disse il duca, scherzando, al signore
di Saint-Remy, senza nemmeno sospettare il valore delle sue parole.
Nonostante la sua audacia, il visconte arrossì leggermente; ma poi
ribatté sfacciatamente:
«100.000 franchi! ma è una somma enorme... Come mai una donna può
avere bisogno di 100.000 franchi?... Noialtri uomini, capisco.»
«A dire il vero, non so cosa voglia fare di quella somma... mia
moglie. Del resto non me ne importa. Forse arretrati di vestiti da
pagare... fornitori esigenti e impazienti; sono affari suoi... E
poi, sapete bene, caro Saint-Remy, che, prestandole il denaro,
sarebbe stato di cattivo gusto, da parte mia, chiederle che cosa
volesse farne...»
«Comunque, è una curiosità tipica di chi presta sapere ciò che si ha
intenzione di fare con i denari che si chiedono loro in prestito...»
disse il visconte ridendo.
«Perbacco, Saint-Remy» disse il signor d’Harville, «voi che avete un
gusto squisito mi aiuterete a scegliere i gioielli che voglio
comperare a mia moglie. La mia scelta dovrà essere coronata dalla
vostra approvazione; le vostre decisioni in fatto di moda dettano
legge...»
Entrò il gioielliere con una gran borsa di pelle in cui c’erano
parecchi cofanetti.
«To’, è il signor Baudoin!» disse il signor di Lucenay.
«I miei ossequi, signor duca.»
«Sono sicuro che a rovinare mia moglie siete voi con il luccichio
delle vostre tentazioni infernali!» disse il signor di Lucenay.
«La signora duchessa quest’inverno si è accontentata di far solo
rimontare i suoi diamanti» disse il gioielliere un po’ imbarazzato.
«Proprio poco fa, prima di venire qui dal marchese, li ho portati
alla signora duchessa.»
Il signor di Saint-Remy sapeva che, per aiutarlo, la signora di
Lucenay, aveva cambiato i gioielli veri con altri falsi; l’incontro
dunque gli spiacque... ma riprese audacemente:
«Come sono curiosi questi mariti! signor Baudoin, non
rispondetegli.»
«Curioso io? no davvero» disse il duca. «È mia moglie a pagare...
può permettersi tutti i capricci... è più ricca di me.»
Mentre parlavano, il signor Baudoin aveva steso sopra uno scrittoio
tante meravigliose collane di rubini e di diamanti.
«Che splendore!... queste pietre sono state tagliate divinamente!»
disse lord Douglas.
«Ahimè, signore!» rispose il gioielliere, «avevo, per questo lavoro,
uno dei migliori lapidari di Parigi; disgrazia vuole che sia
impazzito e, adesso, uno come lui, non lo troverò mai. La mia
sensale ha detto che, con ogni probabilità, è stata la miseria a far
perdere la testa a quel poveretto.»
«La miseria!... E voi affidate dei diamanti a gente in miseria!»
«Certo, signore, e non s’è mai verificato che un lapidario abbia
rubato qualcosa, sebbene il loro mestiere sia faticoso e renda
poco.»
«Quant’è per questa collana?» chiese il signor d’Harville.
«Il signor marchese potrà vedere come le pietre siano di acqua e di
taglio magnifici e quasi tutte della stessa grossezza.»
«Questi sono i preamboli oratori più insidiosi per la vostra borsa»
disse il signor di Saint-Remy ridendo; «preparatevi, caro
d’Harville, a un prezzo esorbitante.»
«Su, signor Baudoin, in tutta coscienza, il prezzo?» disse il signor
d’Harville.
«Non vorrei costringere il signor marchese a discutere sul prezzo...
Il prezzo è di 42.000 franchi.»
«Signori!» esclamò il signor di Lucenay «noialtri mariti ammiriamo
d’Harville in silenzio... Preparare a sua moglie una sorpresa di
42.000 franchi! Diamine! non divulghiamo la cosa, sarebbe un brutto
esempio.»
«Ridete pure, signore» disse gaiamente il marchese. «Sono innamorato
di mia moglie, e non lo nascondo; lo dico e me ne vanto!» «E si
vede» replicò il signor di Saint-Remy; «un regalo simile
dice più di tutte le dichiarazioni di questo mondo.»
«Allora prendo questa collana» disse il signor d’Harville, «purché,
Saint-Remy, l’incassatura di smalto nero vi sembri di buon gu-
sto.»
«Essa fa risaltare ancora di più lo splendore dei diamanti: inol-
tre è disposta a meraviglia!»
«Allora decido per questa collana» disse il signor d’Harville.
«Signor Baudoin, vi accordate col signor Doublet, il mio
amministratore.»
«Il signor Doublet me lo ha già detto, signor marchese» rispose il
gioielliere; e uscì, dopo aver rimesso nella borsa, senza contarli
(tanta era la sua fiducia), gli svariati gioielli che aveva portato,
e che il signor di Saint-Remy aveva maneggiato ed esaminato con
curiosità e a lungo durante la conversazione.
Il signor d’Harville diede la collana a Joseph che stava aspettando
ordini e gli disse sottovoce:
«Per completare la sorpresa bisogna che Juliette metta questi
gioielli fra quelli della sua padrona, ma in modo che ella non se ne
accorga.»
In quel momento il maggiordomo annunciò che la colazione era
servita: gli invitati del marchese passarono nella sala da pranzo e
si misero a tavola.
«Sapete, caro d’Harville» disse il signor di Lucenay, «che questa
casa è una delle più eleganti e meglio ripartite di Parigi?»
«Sì, è abbastanza comoda infatti, ma è piccola... ho intenzione di
far costruire una galleria in giardino. La signora d’Harville vuole
dare qualche festa da ballo, e i nostri saloni non bastano. Poi,
penso che non vi sia niente di più scomodo dell’invadere, per simili
occasioni, gli appartamenti che si occupano abitualmente, e del
doversi spostare di tanto in tanto.»
«Sono dell’opinione di d’Harville» disse il signor di Saint Remy.
«Infatti niente è più meschino e più borghese degli sgomberi imposti
dai balli o dai concerti... Per dare feste veramente belle senza
incomodi, bisogna avere un locale adatto; e poi le vaste e
scintillanti sale destinate ai grandi balli devono avere un aspetto
completamente diverso dai normali salotti. Fra questi due tipi di
appartamenti c’è la stessa differenza che passa fra un affresco
monumentale e i quadretti.»
«Ha ragione» disse d’Harville; «che peccato, signori, che Saint-Remy
non abbia un milione e duecento o un milione e mezzo di rendita!
chissà che meraviglia ci farebbe ammirare!»
«Poiché abbiamo la fortuna di avere un governo rappresentativo»
disse il duca di Lucenay, «lo Stato non potrebbe assegnare ogni anno
a Saint-Remy un milione, e incaricarlo di rappresentare a Parigi il
gusto e l’eleganza francese, in modo da decidere così del gusto e
dell’eleganza dell’Europa... e di tutto il mondo?»
«Approvato!» gridarono in coro.
«E questo milione annuo potrebbe essere una tassa, imponibile a
quegli sporchi strozzini che, proprietari di enormi ricchezze,
fossero inquisiti, imputati e dichiarati di vivere da spilorci»
aggiunse il signor di Lucenay.
«E come tali» proseguì d’Harville, «condannati a pagare le spese
delle magnificenze che dovrebbero sfoggiare.»
«Senza contare, poi, che le funzioni di gran sacerdote, o meglio di
gran maestro dell’eleganza, assegnate a Saint-Remy» riprese Lucenay,
«avrebbero, grazie all’imitazione, una notevole influenza sul gusto
generale.»
«Sarebbe il tipo a cui si vorrebbe assomigliare.»
«È chiaro.»
«E nel tentativo di imitarlo, il gusto si raffinerebbe.»
«In epoca rinascimentale il gusto s’era ovunque raffinato,
perché aveva preso a modello quello degli aristocratici, che era
squisito.»
«Vista la gravità della questione» continuò allegramente d’Harville,
«credo che ci resti solo da indirizzare una petizione alle Camere
per l’istituzione della carica di gran maestro dell’eleganza
francese.»
«E poiché i deputati passano, senza eccezioni, per avere grandiose e
magnifiche idee artistiche, la carica sarà votata all’unanimità.»
«In attesa della decisione che consacri sul piano giuridico la
supremazia che Saint-Remy esercita di fatto» disse il signor
d’Harville, «gli chiederò un parere per la galleria che farò
costruire; perché m’interessano le sue idee sul fasto.»
«I miei deboli lumi sono ai vostri ordini, signor d’Harville.»
«E quando inaugureremo la vostra magnifica opera, mio caro?»
«L’anno prossimo, penso; farò cominciare subito i lavori.» «Siete
formidabile in materia di progetti!»
«E ne ho altri, a dire il vero... Ho in testa un completo cambia-
mento a Val-Richer.»
«La vostra tenuta di Borgogna?»
«Sì; c’è qualcosa di bello da fare, sempre se... Dio mi dà vita...»
«Povero vecchio!...»
«Ma non avete comperato ultimamente una fattoria vicino a
Val-Richer per espandervi?»
«Sì, un buonissimo affare, consigliatomi dal mio notaio.»
«E chi è questo straordinario e prezioso notaio che consiglia
buoni affari?»
«Il signor Jacques Ferrand.»
A quel nome, il signor di Saint-Remy corrugò leggermente la
fronte.
«Ma è poi onesto come dicono?» chiese con indifferenza al si-
gnor d’Harville; e questi si ricordò allora ciò che Rodolphe aveva
raccontato a Clémence sul notaio.
«Jacques Ferrand? che domande! è un nome di un’onestà all’antica,»
disse il signor di Lucenay. «Rispettato e rispettabile.»
«Devotissimo il che non fa mai male.»
«Avarissimo, il che è una garanzia per i clienti.»
«Insomma è uno di quei notai di vecchio stampo, che vi chie-
dono per chi l’avete preso, se osate parlargli di ricevute per il
denaro che gli affidate.»
«Solo per questo, io gli affiderei tutto il mio patrimonio.»
«Ma dove diamine è andato a scovare Saint-Remy i suoi dubbi su un
uomo di proverbiale integrità come lui?»
«Io faccio solo da eco a certe voci che circolano... Del resto, non
ho nessuna ragione per dir male di quest’araba fenice dei notai...
Ma tornando ai vostri progetti, d’Harville, che cosa volete
costruire in Val-Richer? Si dice che il castello sia bellissimo!...»
«Sarete consultato, statene pur certo, caro Saint-Remy, e più presto
di quanto non pensiate, perché mi diverto a far fare quei lavori. Mi
sembra che niente sia seducente dell’avere interessi, che si
scaglionano uno dopo l’altro nel tempo impegnandovi così gli anni
futuri... Oggi questo progetto... fra un anno un altro... Più avanti
una cosa nuova... E aggiungete a tutto ciò, una donna adorabile e
affascinante, che entra per metà in tutti i vostri gusti e in tutti
i vostri progetti, in modo che, davvero, la vita trascorre allora
dolcemente...»
«Sfido io! sì, un vero paradiso in terra.»
«Adesso, signori» disse d’Harville quando la colazione fu terminata,
«se volete andare nel mio studio e fumarvi un sigaro, ne troverete
di eccellenti.»
Tutti si alzarono da tavola ed entrarono nello studio del marchese.
La porta della camera da letto che dava nello studio era aperta.
Come abbiamo detto, due panoplie di armi bellissime costituivano il
solo ornamento di quella stanza.
Il signor di Lucenay si accese un sigaro quindi passò nella camera
dove era andato il marchese.
«Vedete, continuo a essere un amatore d’armi» gli disse d’Harville.
«Infatti, sono proprio meravigliosi questi fucili inglesi e
francesi. A dire il vero, non saprei quale scegliere... Douglas!»
gridò il signor di Lucenay, «venite a vedere se questi fucili non
possono competere con i vostri migliori Manton.»
Lord Douglas, Saint-Remy e altri due invitati entrarono nella camera
del marchese per esaminare le armi.
Il signor d’Harville prese una pistola, la caricò e disse ridendo:
«Ecco, signori, la panacea universale per tutti i mali... per lo
spleen... per la noia...»
E, per scherzo, accostò l’arma alla bocca.
«Oh, io preferirei un altro rimedio» disse SaintRemy; «questo va
bene solo nei casi disperati.»
«Sì, ma è così veloce» continuò d’Harville. «Tac! ed è fatta. Il
pensiero non è così rapido... È davvero meraviglioso.»
«State attento, d’Harville: questi scherzi sono sempre pericolosi.
Fa presto a succedere una disgrazia!» disse il signor di Luce-
nay, vedendo che il marchese avvicinava ancora di più la pistola
alla bocca.
«Perbacco, amico mio, credete che se fosse carica mi arrischierei a
giocare a questo gioco?»
«No, certo, ma è sempre un’imprudenza.»
«Guardate, signori, ecco come si fa: si introduce delicatamente la
canna fra i denti... e poi...»
«Dio mio, quanto siete stupido, d’Harville, quando vi ci mettete!»
disse il signor di Lucenay alzando le spalle.
«Si accosta il dito al grilletto...» continuò d’Harville.
«Come siete bambino... bambino... alla vostra età! Un piccolo
movimento sul grilletto...» disse ancora il marchese, «e si va
diritti all’altro mondo.»
Detto questo, il colpo partì.
Il signor d’Harville si era bruciato le cervella.
Rinunciamo a descrivere lo stupore e lo spavento degli invitati del
signor d’Harville.
L’indomani, si poteva leggere su un giornale:
Ieri, un deplorevole e imprevedibile avvenimento ha gettato lo
scompiglio in tutto il faubourg Saint-Germain. Una di quelle
imprudenze che ogni anno provocano funesti incidenti ha causato una
terribile disgrazia. Ecco i fatti che abbiamo raccolto e di cui
possiamo garantire l’autenticità:
Il signor marchese d’Harville, padrone di un’immensa ricchezza, di
soli ventisei anni, noto per la bontà d’animo, sposato da pochi anni
a una donna che adorava, aveva invitato a colazione alcuni amici.
Dopo essersi alzati da tavola, tutti erano passati nella camera da
letto del signor d’Harville, dove si trovavano molte armi di valore.
Mentre faceva vedere ai suoi invitati alcuni fucili, il signor
d’Harville aveva preso, per scherzo, una pistola che credeva scarica
e se l’era accostata alla bocca... Convinto che la pistola fosse
scarica, aveva premuto il grilletto... il colpo partì... e il
disgraziato giovane cadde a terra morto, con la testa orribilmente
squarciata! Si pensi alla tremenda costernazione degli amici del
signor d’Harville, ai quali un momento prima, egli, pieno di
giovinezza, di gioia e di speranze, stava dicendo tutti i suoi
progetti! Infine, come se tutte le circostanze di questo doloroso
avvenimento avessero contribuito a renderlo ancora più crudele con
penosi contrasti, la mattina stessa, il signor d’Harville, volendo
fare una sorpresa alla moglie, le aveva comperato una collana di
gran valo-
re... E proprio nel momento in cui la vita non gli era mai sembrata
più bella e più sorridente, ecco che cade vittima di uno spaventoso
incidente...
Davanti a una simile disgrazia, tutte le riflessioni diventano
inutili perché gli impenetrabili decreti della Provvidenza non
possono che lasciare senza parole.
Abbiamo riportato l’articolo del giornale, per dimostrare che
l’opinione pubblica aveva attribuito la morte del marito di Clémence
a una fatale e deplorevole imprudenza.
Occorre dire che il signor d’Harville fu il solo a portarsi
gelosamente nella tomba il segreto della sua morte volontaria?...
Sì, volontaria e calcolata, e meditata con una generosità pari solo
al sangue freddo dimostrato, perché Clémence non potesse avere il
più piccolo sospetto sulla vera causa del suicidio.
Così i progetti di cui il signor d’Harville aveva parlato
all’amministratore e ai suoi amici, i trasporti di gioia confidati
al vecchio servitore, la sorpresa preparata la mattina stessa alla
moglie erano tutti tranelli per ingannare la generale credulità.
Come supporre che un uomo che aveva tanti progetti per il futuro, e
che era così desideroso di piacere alla moglie pensasse a uccidersi?
La sua morte fu dunque attribuita, e non poteva essere diversamente,
a un’imprudenza.
La sua decisione poi era stata dettata da un’insanabile
disperazione.
Clémence mostrandosi con il marito affettuosa e tenera come prima
era stata altera e fredda, e riavvicinandosi generosamente a lui,
aveva suscitato nel cuore di lui dolorosi rimorsi.
Allora, vedendola così malinconicamente rassegnata a passare una
lunga vita senza amore accanto a un uomo colpito da una malattia
tremenda e inguaribile, il signor d’Harville, avendo capito dalle
solenni parole di Clémence che questa non avrebbe mai potuto
superare la ripugnanza che egli le ispirava, era stato invaso da una
grande pietà per la moglie e da un grande disgusto di sé e della
vita.
Nell’esasperazione del dolore, s’era detto:
“Non amo, non posso amare che una sola donna al mondo... mia moglie.
La sua condotta, nobile e generosa, aumenterebbe ancora la mia folle
passione, se ciò fosse possibile.
E questa donna, che è mia moglie, non potrà mai appartenermi... Ella
ha il diritto di disprezzarmi, di odiarmi...
Io l’ho, con un infame inganno, incatenata, ancora giovane, alla mia
tremenda sorte...
Me ne pento... Ma cosa posso fare adesso per lei?
Scioglierla dagli odiosi vincoli che il mio egoismo le ha imposto.
Ora, solo la mia morte può spezzare questi vincoli... bisogna dunque
che io mi uccida...”
Ed ecco perché il signor d’Harville aveva compiuto questo grande e
doloroso sacrificio.
Si sarebbe ucciso, il poveretto, se ci fosse stato il divorzio? No!
Avrebbe potuto riparare in parte il male che aveva fatto, met-
tere in libertà sua moglie, permetterle di trovare la felicità in
un’altra unione...
Spesso certi errori sono resi irrimediabili dall’immutabilità
inesorabile della legge o, come in questo caso, possono essere
cancellati solo da un altro delitto.
VI SAINT-LAZARE
Crediamo sia nostro dovere dire, come avvertimento, ai nostri
lettori più scrupolosi che, alla prigione di Saint-Lazare riservata
soprattutto alle ladre e alle prostitute, si recano ogni giorno
molte donne il cui spirito di carità, la cui casa e la cui posizione
sociale sono degne del rispetto di tutti.
Sono donne che, educate fra gli agi della ricchezza, e quindi
giustamente degne di far parte della crema della società, vanno ogni
settimana a passare lunghe ore presso le miserabili prigioniere di
Saint-Lazare. Esse aspettano ansiosamente che in quelle anime
degradate sorga una qualche aspirazione al bene e un qualche
rimpianto per il loro passato colpevole; nel frattempo ne
incoraggiano le tendenze più buone, ne rendono fecondo il pentimento
e, grazie alla potente magia delle tre parole dovere, onore, virtù,
riescono a volte a trarre dal fango una di quelle creature
abbandonate, disonorate, disprezzate.
Abituate alle delicatezze, alla squisita educazione della migliore
società, queste donne lasciano coraggiosamente il palazzo avito e,
dopo aver baciato la virginea fronte delle figlie, pure come gli
angeli del cielo, vanno in tetre prigioni ad affrontare la
grossolana indifferenza e gli orribili discorsi delle ladre e delle
prostitute...
Fedeli alla loro alta missione di moralità, esse scendono
coraggiosamente in quella melma infetta, posano la mano su tutti
quei cuori in cancrena, e quando qualche debole segno di pentimento
fa nutrire loro una qualche speranza di salvarle, esse riescono a
contendere e a strappare a un’irrevocabile perdizione l’anima
malata, di cui, però, esse non hanno mai disperato.
Noi ci rivolgiamo a quelli fra i nostri lettori che sono timorati
per dir loro che non diano ascolto ai propri scrupoli perché, in
fondo, si farà sentire e vedere loro solo quello che sentono e
vedono le stimabili signore, di cui abbiamo già parlato.
Senza voler stabilire un ambizioso parallelo fra la loro missione e
la nostra, potremo per lo meno dire che ci sostiene in quest’opera
lunga, penosa e difficile, la convinzione di avere destato un nobile
sentimento di simpatia per le immeritate sventure della gente proba
e coraggiosa, per i pentimenti sinceri, per l’onestà della gente
semplice e schietta, e di aver ispirato disgusto, avversione, orrore
e un salutare timore per tutto ciò che è completamente impuro e
colpevole.
Noi non abbiamo mai esitato neanche davanti alle scene più
crudamente reali, perché pensiamo che la verità morale è un po’ come
il fuoco, che purifica tutto.
Noi non pretendiamo né di insegnare né di riformare, perché la
nostra parola ha troppo poco valore e la nostra opinione troppo poca
autorità.
La nostra sola speranza è richiamare l’attenzione dei pensatori e
della gente perbene sulle grandi miserie sociali, di cui si può
deplorare, ma non contestare la realtà.
Tuttavia, alcuni, fra la gente felice di questo mondo, disgustati
dalla crudezza delle nostre dolorose descrizioni, hanno gridato
all’esagerazione, all’inverosimiglianza, all’assurdità, per non
avere da compiangere (non diremo da soccorrere) tanti mali.
Ed è comprensibile.
L’egoista danaroso e ben pasciuto vuole prima di tutto digerire
tranquillamente. La vista dei poveri tremanti di freddo e di fame
gli è particolarmente sgradevole; preferisce smaltire la sua
ricchezza e le sue belle mangiate con gli occhi imbambolati davanti
alle lascive visioni di un balletto dell’Opéra.
Invece, la maggior parte della gente ricca o felice ha avuto un
nobile sentimento di compassione per certi mali di cui non
sospettava l’esistenza; e ci furono perfino alcuni grati di aver
indicato loro un modo nuovo per fare la carità.
Ci siamo sentiti potentemente aiutati e incoraggiati da tali
adesioni.
Quest’opera che, senza difficoltà, riconosciamo essere un brutto
libro dal punto di vista letterario, ma non un cattivo libro dal
punto di vista morale; quest’opera, anzi, ci farebbe sentire fieri e
onorati se solo ottenesse, nella sua effimera carriera, l’ultimo dei
risultati che abbiamo enumerati.
Quale ricompensa più gloriosa per noi delle benedizioni di quelle
poche misere famiglie che saranno debitrici di un po’ di bene ai
pensieri che abbiamo suscitato!
In vista della nuova escursione che stiamo proponendo al lettore,
abbiamo fatto questa premessa con la speranza di aver messo a tacere
i suoi scrupoli in modo che egli possa entrare con noi in
Saint-Lazare, immenso edificio dall’aspetto imponente e lugubre,
situato in rue du faubourg Saint-Denis.
Ignara del terribile dramma che aveva per teatro casa sua, la
signora d’Harville si era recata alla prigione, dopo aver ottenuto
dalla signora di Lucenay alcune informazioni sulle due sventurate
donne che erano state ridotte in miseria dalla cupidigia del notaio
Jacques Ferrand.
Poiché la signora di Blainval, una delle patrone dell’opera delle
giovani detenute, quel giorno non aveva potuto accompagnare Clémence
a Saint-Lazare, questa vi si era recata da sola. Fu accolta
gentilmente dal direttore e dalle varie ispettrici, facilmente
riconoscibili dal vestito nero e dal nastro azzurro con medaglione
d’argento che portavano al collo.
Una delle ispettrici, donna matura con volto dolce e grave, restò
sola con la signora d’Harville in un salottino attiguo alla
cancelleria.
Non ci si può immaginare l’umile zelo, l’intelligenza, la carità e
la sagacia di queste venerabili donne che ricoprono le modeste e
oscure funzioni di sorveglianti delle carcerate.
Nulla è più saggio e più pratico delle nozioni di ordine, di lavoro
e di dovere che esse inculcano nelle detenute, con la speranza che
questi insegnamenti restino anche dopo la loro permanenza in
prigione.
Volta per volta indulgenti e rigide, pazienti e severe, ma sempre
giuste e imparziali, continuamente a contatto con le detenute,
queste donne, col passare degli anni, finiscono col conoscere così
bene la fisionomia di quelle disgraziate, che subito, fin dalla
prima occhiata, sanno giudicarle senza sbagliarsi e classificarle
secondo il loro grado di immoralità.
La signora Armand, l’ispettrice che era rimasta sola con la signora
d’Harville, possedeva al massimo grado questa specie di prescienza
che le faceva intuire il carattere delle carcerate, per cui le sue
parole e i suoi giudizi godevano di grande autorità nel
penitenziario.
La signora Armand disse a Clémence:
«Poiché la signora marchesa ha voluto incaricarmi di indicarle le
detenute che a motivo della loro buona condotta o perché
sinceramente pentite potrebbero meritare il suo interesse, credo di
poterle raccomandare una poveretta che suppongo più disgraziata che
colpevole: perché sono convinta, e non mi sbaglio, che per salvare
questa ragazza, una povera bambina di sedici o diciassette anni al
massimo, non sia troppo tardi.»
«E che cosa ha fatto per essere in prigione?»
«È colpevole di essersi trovata agli Champs-Elysées di sera. Siccome
è proibito con pene severissime a quelle come lei di frequentare,
sia di giorno che di notte, certi luoghi pubblici, e gli
Champs-Elysées sono nel novero dei posti vietati, è stata
arrestata.»
«E vi sembra degna di essere aiutata?»
«Non ho mai visto fattezze più regolari, né un’aria di maggior
candore. Immaginatevi, signora marchesa, un volto da vergine. E ciò
che conferiva alla sua fisionomia un’espressione ancora più modesta
era il vestito da contadina dei dintorni di Parigi che aveva addosso
quando arrivò qui.»
«Allora è una ragazza di campagna?»
«No, signora marchesa. Gli ispettori l’hanno riconosciuta: abitava
in un’orribile casa della Cité, dalla quale era assente da due o tre
mesi; ma, poiché non ha chiesto di essere cancellata dai registri
della polizia, rimane soggetta alla vigilanza speciale che l’ha
mandata qui.»
«Ma forse aveva lasciato Parigi per cercare di riabilitarsi!»
«Lo credo anch’io, signora; per questo mi sono subito interessata a
lei. L’ho interrogata sul passato, le ho chiesto se veniva dalla
campagna, e le ho detto di sperare, solo se, come mi sembrava,
avesse avuto intenzione di rimettersi sulla retta via.»
«E cosa ha risposto?»
«Alzando su di me due grandi occhi azzurri melanconici e pieni di
lacrime, mi ha risposto con voce angelicamente soave: “Vi ringrazio,
signora, della vostra bontà, ma non posso dirvi niente del passato;
sono stata arrestata, ero in torto e non me ne lagno.” “Ma da dove
venite? Dove siete stata dopo che ve ne siete andata
dalla Cité? Se siete andata in campagna per cercare un’esistenza
onesta, ditelo, provatelo; faremo scrivere al signor prefetto per
ottenere che veniate liberata; sarete cancellata dal registro della
polizia e le vostre buone iniziative saranno incoraggiate.” “Vi
supplico, signora, non fatemi più domande, non potrei rispondervi”
ella ha soggiunto. “Ma uscendo di qui, non vorrete mica ritornare in
quell’orribile casa!” “Oh, no mai” ha esclamato! “Che farete
allora?” “Dio solo lo sa” mi ha risposto, lasciandosi cadere la
testa sul petto.»
«È molto strano!... E come parla?...»
«Molto bene, signora. Il suo contegno è timido e rispettoso, ma
senza bassezza; dirò di più: nonostante l’estrema dolcezza della sua
voce e del suo sguardo, c’è a volte nella sua voce, nel suo
atteggiamento una specie di severa tristezza che mi confonde. Se
ella non appartenesse alla sciagurata categoria di persone di cui
invece fa parte, si potrebbe pensare che la sua fierezza sia indizio
di un animo che ha coscienza della sua nobiltà.»
«Ma è un romanzo bell’e buono!» esclamò Clémence, estremamente
impressionata, accorgendosi che spesso, come le aveva detto
Rodolphe, era molto divertente fare il bene. «E quali sono i suoi
rapporti con le altre carcerate? Se è dotata della nobiltà d’animo
che voi le attribuite, dovrà soffrire molto in mezzo alle sue
sventurate compagne!»
«Dio mio, signora marchesa, per me che, per mestiere e abitudine,
sto in continua osservazione, quella ragazza è uno stupore continuo.
È qui solo da tre giorni, e ha già una certa influenza sulle altre
detenute.»
«In così poco tempo?»
«Esse sentono per lei non solo interesse, ma anche rispetto.» «Come!
quelle sciagurate...»
«Hanno a volte un istinto particolarmente raffinato per rico-
noscere e intuire anche le nobili qualità delle altre. Solo che esse
spesso prendono a odiare le persone di cui sono costrette ad
ammettere la superiorità.»
«E non odiano quella povera ragazza?»
«Tutt’altro, signora: nessuna di loro la conosceva prima che
entrasse qui. Dapprima sono state colpite dalla sua bellezza; i suoi
lineamenti, benché di rara purezza, sono per così dire velati da un
pallore di persona malaticcia che commuove; e quel suo volto dolce e
malinconico suscitò in esse più interesse che gelosia. E poi è molto
silenziosa, cosa che è stata motivo di stupore per queste creature
che, per la maggior parte, cercano di stordirsi fa-
cendo chiasso, parlando e muovendosi. Infine, sebbene riservata e
dignitosa, si è mostrata piena di compassione, per cui le compagne
non sono state urtate dalla sua freddezza. E non è tutto. Da un mese
c’è qui dentro una tizia indomabile, soprannominata la Louve, tanto
è violenta, audace e bestiale. È una ragazza di vent’anni, alta, dai
modi maschili, con una faccia bella, ma dura. Spesso siamo costretti
a metterla in cella di segregazione per domare la sua turbolenza.
Ieri l’altro appunto è uscita dalla cella, ed era ancora irritata
dal castigo subìto; si era verso l’ora del pasto; la povera ragazza
di cui vi sto parlando non mangiava: a un certo momento disse
mestamente alle sue compagne: “Chi vuole il mio pane?” “Io” rispose
subito la Louve. “Io!” ripeté subito dopo una tale, quasi deforme,
chiamata Mont-Saint-Jean, che serve di scherno e qualche volta,
nostro malgrado, da zimbello alle altre detenute, sebbene sia
incinta di alcuni mesi. La buona fanciulla diede il pane a
quest’ultima e la Louve allora andò su tutte le furie. “Io ti ho
chiesto per prima la tua razione” gridò furibonda “È vero, ma questa
povera donna, essendo incinta, ne ha più bisogno di voi” rispose la
ragazza. La Louve, però, strappò il pane dalle mani della
Mont-Saint-Jean, e cominciò a urlare, agitando il coltello. Siccome
è molto cattiva e molto temuta, nessuno osò prendere partito per la
Goualeuse, sebbene tutte le detenute in cuor loro le dessero
ragione.»
«Come avete detto che si chiama, signora?»
«Goualeuse... è il nome o meglio il soprannome con il quale è stata
portata qui dentro la mia protetta che spero diventerà presto la
vostra protetta, signora marchesa... Quasi tutte hanno soprannomi
del genere.»
«È un soprannome strano, questo!»
«Questo soprannome viene dal loro orribile gergo, perché dicono che
abbia una bellissima voce; e non ho difficoltà a crederlo, perché la
sua voce ha un timbro che incanta, quando parla...»
«E come è riuscita a sottrarsi alla Louve?»
«Questa, divenuta ancora più furiosa dalla calma della Goualeuse, le
corse incontro insultandola e brandendo il coltello; tutte le
carcerate gettarono un urlo di spavento... La Goualeuse fu la sola
che guardò senza timore la terribile donna e le sorrise amaramente,
dicendole con la sua voce angelica: “Oh, uccidetemi, uccidetemi, ne
sono felice... ma non fatemi soffrire troppo!” Queste parole, mi
hanno riferito, furono pronunciate con tanta dolorosa semplicità,
che a quasi tutte le detenute vennero le lacrime agli occhi.»
«Lo credo» disse la signora d’Harville, dolorosamente turbata.
«Meno male» continuò l’ispettrice, «che anche i più malvagi di tanto
in tanto ripiegano verso la bontà. A quelle parole piene di dolorosa
rassegnazione, la Louve si sentì rimescolare fin nel più profondo
del cuore, gettò il coltello per terra e calpestandolo gridò:
“Goualeuse, ho avuto torto a minacciarti perché sono più forte di
te; ma tu non hai avuto paura del mio coltello, sei coraggiosa... Mi
piacciono i coraggiosi; così adesso, se qualcuno volesse farti del
male, ti difenderò io...”»
«Che strano tipo!»
«L’esempio della Louve ha aumentato ancora di più l’influenza della
Goualeuse e, oggi, esempio senza precedenti, quasi nessuna delle
detenute le dà del tu; per la maggior parte la rispettano e si
offrono perfino di farle tutti quei piccoli favori che si possono
fare tra compagne di prigionia. Ho chiesto ad alcune detenute del
suo dormitorio il motivo della deferenza che hanno per lei. “È più
forte di noi” mi hanno risposto, “si vede che non è una come
noialtre.” “Ma chi ve l’ha detto?” “Non ce l’ha detto nessuno, ma si
vede.” “Ma da che cosa?” “Da un’infinità di cose. Ieri, per esempio,
prima di andare a letto si è inginocchiata e ha detto le sue
preghiere: per pregare, come ha detto la Louve, bisogna che ne abbia
il diritto.”»
«Che strana osservazione.»
«Queste povere donne non hanno alcun sentimento religioso tuttavia
non si permetterebbero mai di dire qui qualche parola oscena o
sacrilega; in tutte le nostre sale potrete vedere, signora, delle
specie di altari dove la statua della Vergine è circondata da
offerte e da ornamenti fatti da loro. Ogni domenica si accendono un
gran numero di ceri ex voto. Quelle che vanno nella cappella, si
comportano benissimo; ma di solito la vista dei luoghi sacri fa loro
soggezione e le spaventa. Tornando alla Goualeuse, le sue compagne
mi dicevano ancora: “Si vede subito che non è come noi, dalla sua
faccia dolce; dalla sua mestizia, dal modo di parlare... E poi
insomma” disse bruscamente la Louve che era presente alla
conversazione, “non deve essere delle nostre perché stamane... nel
dormitorio, senza sapere perché, ci vergognavamo di vestirci davanti
a lei...”»
«Che strana delicatezza in mezzo a tanta depravazione!» esclamò la
signora d’Harville.
«Sì, signora, davanti agli uomini e tra loro non sanno che cosa sia
il pudore, invece si sentono contrariate e confuse di essere viste
mezze nude da noi e dalle persone caritatevoli che, come noi,
vengono a visitare le prigioni. Così quel mondo di pudore, che Dio
ha messo in noi, si rivela anche in questi esseri quando vedono le
sole persone che possono rispettare.»
«È consolante, almeno, scoprire che certi buoni sentimenti naturali
sono più forti della depravazione.»
«Certo; infatti queste donne sono capaci di abnegazioni che, se
avessero un fine onesto, sarebbero ammirevoli... C’è un’altra cosa
che è sacra per costoro che non rispettano niente e non temono
niente: la maternità. Esse se ne onorano e se ne rallegrano; non c’è
madre migliore di loro, affrontano tutto pur di tenere presso di sé
la loro creatura; e, per allevarla, s’impongono i più duri
sacrifici; giacché, come esse dicono, quell’esserino è l’unico a non
disprezzarle.»
«Esse hanno chiara coscienza della loro abiezione?»
«Nessuno potrebbe disprezzarle tanto quanto esse disprezzano se
stesse... Alcune di quelle sinceramente pentite considerano la
macchia originale del vizio come qualcosa d’indelebile anche quando
si trovano in una situazione migliore; altre impazziscono, tanto è
fissa e implacabile in loro l’idea della passata abiezione. Così,
signora, non mi meraviglierei se la profonda tristezza della
Goualeuse fosse causata da simili rimorsi.»
«Se è così, dev’essere un supplizio per lei! un rimorso che niente
può placare!»
«Per fortuna, signora, e la cosa fa onore al genere umano, questi
rimorsi sono più frequenti di quanto si creda; la coscienza prende
le sue vendette e non s’addormenta del tutto; o meglio, cosa strana,
a volte pare quasi che l’anima vigili mentre il corpo è assopito. È
una constatazione che ho fatto questa notte a proposito della mia
protetta.»
«Della Goualeuse?»
«Sì, signora.»
«E in che modo?»
«Molto spesso, quando le detenute dormono, vado a fare un
giro nei dormitori... Non potete immaginare, signora... quanto sia
diversa l’espressione del volto di quelle donne, quando dormono.
Molte di loro, che, il giorno prima, avevo visto indifferenti,
canzonatrici, sfrontate e ardite, mi sono apparse completamente
cambiate perché col sonno avevano lasciato cadere dai visi la loro
cinica maschera: perché, ahimè, anche il vizio ha il suo orgoglio.
Oh, signora, quante tristi rivelazioni da quei visi avviliti, mesti
e cupi! quanti palpiti! quanti sospiri d’angoscia involontariamente
strappati da qualche sogno improntato, ne sono certa, a un’ine-
sorabile realtà!... Poco fa, vi ho parlato, signora, della ragazza
soprannominata la Louve, donna indomita e indomabile. Quindici
giorni fa, mi insultò brutalmente davanti a tutte le detenute; io
alzai le spalle, ma la mia indifferenza inasprì la sua collera...
Allora, per essere sicura di offendermi, le saltò in testa di dirmi
non so quali ignobili ingiurie su mia madre... che spesso vedeva
venire qui a farmi visita...»
«Oh, che orrore!»
«Devo ammettere che quell’oltraggio, per quanto insensato, mi fece
male... La Louve se ne accorse ed esultò. La sera stessa, verso
mezzanotte, andai a fare l’ispezione nei dormitori; arrivai vicino
al letto della Louve; solo la mattina dopo doveva essere chiusa in
cella; fui colpita dall’espressione del suo volto, un’espressione
che direi quasi di dolcezza, in rapporto a quella dura e insolente
che aveva di solito; aveva i lineamenti con un certo non so che di
supplichevole, di triste e contrito, le labbra semi aperte, il petto
affannoso; infine, cosa che mi parve incredibile... perché la
credevo impossibile, ecco due lacrime, due lacrimoni venire giù
dagli occhi di quella donna dall’indole ferrea!... Stetti a
contemplarla in silenzio per qualche minuto, quando la sentii dire
queste parole: “Perdono... perdono!... sua madre!...”. Ascoltai più
attentamente, ma tutto quello che potei afferrare del suo mormorio
quasi inintelligibile fu il mio nome... signora Armand...
pronunciato con un sospiro.»
«Si pentiva nel sonno di aver insultato vostra madre...»
«L’ho pensato anch’io... e ciò mi ha reso meno severa. Sono sicura
che ella, essendo presenti le compagne, aveva voluto, atto di
deplorevole vanità, esagerare la sua rozzezza abituale; forse un
buon sentimento la faceva pentire nel sonno.»
«E, l’indomani, mostrò di essere dispiaciuta del contegno del giorno
prima?»
«Nient’affatto; si mostrò come sempre rozza, selvaggia e irascibile.
Tuttavia vi assicuro, signora, che niente più delle osservazioni di
cui vi sto parlando dispone alla pietà. Sono convinta, forse è
un’illusione, che, nel sonno, quelle infelici diventino migliori, o
meglio ritornino a essere loro stesse, con tutti i loro difetti, sì
certo, ma a volte con qualche buon sentimento non più dissimulato
dietro l’ignobile paravento del vizio. Tutto ciò mi ha fatto pensare
che queste donne siano generalmente meno cattive di quello che
vogliono far credere: con questa convinzione, spesso ho raggiunto
risultati che non avrei potuto ottenere se avessi disperato del
tutto di loro.»
La signora d’HarvilIe non sapeva come celare il suo stupore per
tanto buon senso e tanta logica uniti a sentimenti umanitari così
nobili e così pratici in una semplice ispettrice di ragazze
depravate.
«Mio Dio, signora» disse Clémence, «adempite alle vostre tristi
funzioni in modo tale, che esse devono risultarvi interessantissime.
Quante osservazioni, quante strane ricerche, ma soprattutto quanto
bene potete e dovete fare!»
«Il bene è difficile ottenerlo: queste donne restano qui poco tempo,
è dunque difficile agire efficacemente su di loro: bisogna
contentarsi di seminare... con la speranza che qualcuno di quei
buoni semi produca un giorno il suo frutto... A volte questa
speranza si realizza.»
«Ma, signora, vi occorreranno un gran coraggio e una grande virtù
per non tirarvi indietro di fronte a un compito così ingrato e che
vi dà così poche soddisfazioni!»
«La coscienza di compiere un dovere è un sostegno e un
incoraggiamento; poi, a volte, si è ricompensate da fortunate
scoperte: sprazzi luminosi appaiono qua e là in certi cuori che si
sarebbero creduti del tutto tenebrosi.»
«Non vuol dir niente; le donne come voi devono essere molto rare.»
«No, no, ve l’assicuro. Quello che faccio, lo fanno anche altre con
più intelligenza di me e migliori risultati dei miei... Una delle
ispettrici della sezione di Saint-Lazare, destinata alle imputate di
delitti, vi interesserebbe di più... Ella mi ha raccontato stamane
l’arrivo di una ragazza accusata di infanticidio. Non ho mai sentito
una storia più straziante... Il padre di quella disgraziata, un
onesto operaio di professione lapidario, è impazzito dal dolore
quando è venuto a sapere la colpa della figlia; dicono che non ci
sia miseria più nera di quella della sua famiglia, alloggiata in una
lurida soffitta della rue du Temple.»
«La rue du Temple» esclamò la signora d’Harville, stupita, «che nome
ha questo operaio?»
«La figlia si chiama Louise Morel...»
«È proprio quello...»
«La ragazza era a servizio da un uomo rispettabile, il notaio
Jacques Ferrand.»
«Questa famiglia di poveri mi era stata raccomandata» dis-
se Clémence, arrossendo; «ma io ero ben lontana dall’aspettarmi che
fosse stata colpita da una nuova sventura... E Louise Morel?»
«Dice di essere innocente: giura che il suo bambino era morto... e
sembra che dica la verità. Poiché vi interessate alla sua famiglia,
signora marchesa, se foste tanto buona da andarla a trovare, questo
segno di bontà da parte vostra calmerebbe la sua disperazione, che
dicono sia terribile.»
«Andrò senz’altro a trovarla; così avrò qui due protette invece di
una... Louise Morel e la Goualeuse... perché sono profondamente
commossa da tutto ciò che mi avete detto su questa ragazza... Ma che
cosa si può fare per ottenere la sua libertà? Poi le troverei un
posto, penserei io al suo avvenire...»
«Con le conoscenze che avete voi, signora marchesa, vi sarà
facilissimo farla uscire dall’oggi al domani. La cosa dipende
unicamente dalla volontà del prefetto di polizia... la
raccomandazione di una persona ragguardevole sarebbe determinante
presso di lui. Ma mi sono allontanata molto, signora, da quello che
stavo dicendo sul sonno della Goualeuse e su questo particolare devo
confessarvi che non mi stupirei se al doloroso sentimento della sua
passata abiezione si aggiungesse un altro dispiacere... non meno
crudele.»
«Cosa volete dire, signora?»
«Forse mi sbaglio... ma non mi meraviglierei se questa ragazza,
uscita per non so quale circostanza dalla degradazione in cui era
precipitata, avesse provato... provasse forse un amore onesto... che
fosse insieme la sua gioia e il suo tormento...»
«E che cosa vi fa pensare a ciò?»
«L’ostinato silenzio che mantiene sul luogo dove ha trascorso i tre
mesi successivi alla sua partenza dalla Cité mi fa pensare che tema
di essere cercata e richiesta dalle persone presso le quali forse
aveva trovato rifugio!»
«E perché un tale timore?»
«Perché dovrebbe confessare un passato di cui certamente nessuno sa
niente.»
«E infatti, il suo vestito da contadina...»
«Poi un’altra circostanza è venuta a rafforzare i miei sospetti.
Ieri sera, andando a fare il giro d’ispezione nel dormitorio, mi
sono avvicinata al letto della Goualeuse; dormiva profondamente e,
all’opposto delle sue compagne, aveva un viso calmo e sereno; i
capelli biondi, mezzo sciolti sotto la cuffietta, le cadevano a
profusione sul collo e sulle spalle. Aveva le mani giunte e
incrociate sul petto, come se si fosse addormentata pregando...
Stavo contemplando con tenerezza quel viso angelico, quando con voce
sommessa e con accento rispettoso, triste e appassionato a un
tempo... ella pronunciò un nome...
«E quale?»
Dopo un momento di silenzio, la signora Armand proseguì gravemente:
«Sebbene io consideri sacro ciò che si può sapere di qualcuno quando
dorme, voi, signora, mostrate tanto interesse per quella sventurata
che posso confidarvene il segreto... Quel nome era Rodolphe.»
«Rodolphe!» esclamò la signora d’Harville, il cui pensiero corse
subito al principe. Poi riflettendo che, dopo tutto, Sua Altezza il
granduca di Gerolstein non poteva avere alcun rapporto con il
Rodolphe della povera Goualeuse, ella disse all’ispettrice che
sembrava stupita dalla sua esclamazione:
«Signora, questo nome mi ha sorpreso... perché lo ha, per una strana
combinazione, anche un mio parente; comunque, con tutto quello che
mi avete detto, la Goualeuse mi interessa sempre di più... Non
potrei vederla oggi stesso... adesso?»
«Sì, signora; se desiderate, vado subito a chiamarla... Potrei
informarmi anche di Louise Morel, che è in un’altra sezione della
prigione.»
«Ve ne sarei molto grata» disse la signora d’Harville. E rimase
sola.
“È strano” disse tra sé e sé; “non posso spiegarmi la forte
impressione causatami dal nome Rodolphe... Devo essere proprio
pazza! fra lui... e quella donna, che rapporti ci possono essere?”
Poi, dopo un momento di silenzio, la marchesa aggiunse: “Aveva
ragione!... come m’interessa tutto questo!... il cuore e lo spirito
si elevano quando attendono a così nobili occupazioni!... Anch’egli
l’ha detto, sembra quasi di esercitare un po’ il potere della
Provvidenza, soccorrendo coloro che lo meritano... E poi, queste
incursioni in un mondo che noi nemmeno sospettiamo sono così
avvincenti, così divertenti, ed è proprio come si compiace a dire
lui! Quale romanzo potrebbe darmi impressioni così emozionanti ed
eccitare a tal segno la mia curiosità?... Quella povera Goualeuse,
per esempio, da quello che mi è stato detto, m’ispira una grande
pietà; e io mi lascio ciecamente trascinare da questa compassione,
perché l’ispettrice ha troppa esperienza per sbagliarsi sul conto
della nostra protetta... E quell’altra disgraziata... la figlia
dell’artigiano... che il principe ha generosamente soccorso a mio
nome! Povera gente! la loro spaventosa miseria gli è servita di
pretesto per salvarmi... Sono sfuggita alla vergogna, alla morte
forse... grazie a una menzogna; ho rimorso del mio inganno, ma
l’espierò a forza di beneficenza... mi sarà cosa facile... è così
bel-
lo seguire i nobili consigli di Rodolphe!... obbedirgli è un altro
modo per amarlo!... Oh, lo sento e ne sono tutta inebriata... il suo
solo respiro basta ad animare e fecondare la nuova vita che egli mi
ha creato a conforto di quelli che soffrono... provo una gran gioia
a operare come lui, ad avere le sue stesse idee... perché lo amo...
oh, sì lo amo! ed egli non saprà mai niente di questa eterna
passione della mia vita...”
Mentre la signora d’Harville aspetta la Goualeuse, noi condurremo il
lettore fra le carcerate.
VII
LA MONT-SAINT-JEAN
Suonavano le due all’orologio della prigione di Saint-Lazare.
Al freddo di alcuni giorni prima era succeduta una temperatura
dolce, tiepida, quasi primaverile; i raggi del sole si riflettevano
nell’acqua di una grande vasca quadrata di pietra, posta in mezzo a
un cortile pieno di alberi e circondato da alte muraglie nere,
costellate da molte finestre con inferriate; in quel vasto recinto
lastricato, dove le detenute venivano a fare la passeggiata, erano
state qua e là sistemate alcune panche di legno.
Un suono di campana aveva annunciato l’ora della ricreazione;
le carcerate, non appena fu loro aperta una grossa porta sprangata,
vennero fuori rumoreggiando.
Erano donne tutte vestite allo stesso modo, con cuffie nere e lunghi
grembiuli blu di lana, tenuti da una cintura con fibbia di ferro. Lì
dentro c’erano 200 prostitute, condannate per contravvenzione alle
prescrizioni speciali a cui sono sottoposte, contravvenzione che le
mette fuori della legge comune.
A prima vista, il loro aspetto non aveva niente di particolare; un
occhio più attento avrebbe potuto riconoscere su quasi tutti i volti
le stigmate incancellabili del vizio e, in particolare, quelle di
una degradazione dovuta all’ignoranza e alla miseria.
Alla vista di quei capannelli di gente perduta, non si può fare a
meno di pensare con tristezza che molte di loro sono state pure e
oneste, almeno per un po’ di tempo. Facciamo questa riserva perché
gran parte di quelle donne sono state viziate, corrotte e depravate,
non solo fin dalla loro adolescenza, ma anche dalla più tenera
infanzia... fin dalla nascita, se così si può dire, come vedremo più
avanti...
Ci si chiede quindi un po’ incuriositi e un po’ addolorati quale
possa essere stata la catena di cause funeste che ha fatto arrivare
a quel punto quelle povere donne che un tempo conobbero il pudore e
la castità.
Tante e diverse sono le chine che portano a quella cloaca!... Non
tanto il gusto del vizio per il vizio, ma il più delle volte
l’abbandono, il cattivo esempio, la cattiva educazione, la fame
specialmente, spingono tante disgraziate al disonore; infatti solo
le classi povere pagano con la propria anima e il proprio corpo
questo tributo alla civiltà.
Dal correre e dal gridare che fecero le detenute quando si
precipitarono nel cortile ci si poté facilmente accorgere che non
era solo la gioia di uscire dai loro laboratori a renderle così
rumorose. Dopo aver fatto irruzione dall’unica porta che dava sul
cortile, quella massa si ritrasse tutta da una parte e fece un
cerchio intorno a una deforme che subissarono di fischi.
Era, questa, una donnetta che poteva avere dai trentasei ai
quarant’anni, piccola, contratta, sciancata, col collo incassato tra
le spalle, una più alta e una più bassa. Le avevano strappato la
cuffia; aveva capelli di un biondo, o meglio di un giallo slavato,
irti, arruffati, con sfumature grigie, che le ricadevano sulla
fronte bassa da idiota. Aveva addosso un grembiule blu come le altre
carcerate, e teneva sotto il braccio destro un fagottino avvolto in
un brutto fazzoletto a quadretti tutto bucato. Essa cercava col
gomito sinistro di parare i colpi che le davano.
Le fattezze di quella disgraziata erano qualcosa di triste e di
grottesco; aveva una faccia ridicola e orribile, allunga come un
muso, rugosa, scura, sporca, terrea, bucata da due narici e due
occhietti a mandorla iniettati di sangue; ella ora gridava con
rabbia, ora implorava supplicando, ma faceva più ridere con i suoi
pianti che con le sue minacce.
Era lo zimbello delle detenute.
Una cosa, però, avrebbe dovuto salvarla da quei maltrattamenti...
era incinta.
Ma la sua bruttezza, la sua imbecillità e il fatto di essere
considerata una vittima da sacrificare al divertimento generale
rendevano implacabili le persecutrici nonostante, di solito,
avessero rispetto per la maternità.
Fra le nemiche più accanite della Mont-Saint-Jean (così si chiamava
la vittima) si distingueva la Louve.
La Louve era una ragazzotta di vent’anni, agile, dai lineamenti un
po’ maschili, e con una faccia abbastanza regolare; aveva neri
capelli crespi con riflessi rossicci, una carnagione arrossata quasi
infiammata, le labbra carnose adombrate da una leggera peluria nera,
due sopracciglia castane, grosse e folte, che si congiungevano sopra
i grandi occhi fulvi. C’era qualcosa di violento, di feroce, di
bestiale nell’espressione del viso di quella donna; una specie di
sorrisetto beffardo le increspava soprattutto il labbro superiore
nei momenti d’ira, per cui metteva in mostra certi denti bianchi e
radi, cosa che spiegava il soprannome di Louve.
Eppure in quel viso c’erano più audacia e insolenza che crudeltà;
insomma si capiva che era corrotta, più che sostanzialmente
malvagia, e che quindi poteva ancora avere qualche impulso di bontà,
come aveva raccontato l’ispettrice alla signora d’Harville.
«Dio mio! Dio mio! ma che cosa vi ho fatto?» gridava la
MontSaint-Jean dibattendosi in mezzo alle compagne. «Perché vi
accanite contro di me?...»
«Perché ci divertiamo.»
«Perché sei buona solo per essere tormentata...»
«È il tuo destino.»
«Guardati... vedrai che non hai il diritto di lagnarti...» «Sapete
bene, però, che mi lagno solo quando non ne posso
più... sopporto finché mi è possibile.»
«Ebbene ti lasceremo in pace se ci dirai perché ti chiami
Mont-Saint-Jean.»
«Sì, sì, raccontacelo.»
«Eh, ve l’ho detto cento volte: ho amato tempo addietro un
ex soldato, che chiamavano come me perché era stato ferito nella
battaglia di Mont-Saint-Jean... Ho tenuto il suo nome, ecco tutto...
Ora siete contente? quando la smetterete di farmi ripetere sempre le
stesse cose?»
«Bella roba doveva essere il tuo soldato se assomigliava a te!»
«Doveva essere un invalido...»
«Un relitto d’uomo...»
«Quanti occhi di vetro aveva?»
«E nasi di latta?»
«Doveva essere senza gambe e senza braccia, ed essere sordo e
cieco... per venire con te...»
«Sono brutta, un mostro... Lo so. Ditemi pure parolacce, prendetemi
in giro quanto volete... non m’importa, ma non picchiatemi, chiedo
solo questo.»
«Cos’hai in quel vecchio fazzoletto?» chiese la Louve. «Sì... Sì!...
cosa c’è dentro?»
«Fai vedere!»
«Vediamo, vediamo!»
«Oh no, ve ne supplico!...» gridò la poveretta stringendo con tutte
le sue forze tra le mani il fagotto.
«Portiamoglielo via...»
«Sì, prendilo tu, Louve!»
«Dio, mio, quanto siete cattive... su, lasciate stare questa roba...
lasciate stare...»
«Che cos’è?»
«Ebbene, sono le prime robe del corredino per il mio bambi-
no... lo faccio con vecchi stracci che nessuno vuole e che io
raccatto; a voi non importa, vero?»
«Oh, il corredino del piccolo della Mont-Saint-Jean! Dev’essere
proprio buffo!»
«Vediamolo!»
«Il corredino... Il corredino!»
«Avrà preso le misure sul cagnolino della guardiana... di
certo...»
«Prendete il corredino!» gridò la Louve strappando l’involto
dalle mani della Mont-Saint-Jean.
Il fazzoletto, quasi a brandelli, si lacerò e un gran numero di
ritagli di stoffe variopinte e pezzi di vecchia biancheria mezzo
ricuciti volarono nel cortile e furono calpestati dalle carcerate
che raddoppiarono gli schiamazzi e le risate.
«Quanti stracci!»
«Sembra il fondo della gerla di uno straccivendolo!»
«Che campionario di stracci vecchi!»
«Che confusione!...»
«E per cucire tutto questo...»
«Ci vorrà più filo che stoffa...»
«Che bei ricami saranno!»
«Su, prendili adesso i tuoi stracci... Mont-Saint-Jean!»
«Dio mio, bisogna essere senza cuore, bisogna essere senza
cuore!» gridò la poveretta correndo qua e là dietro gli stracci che
cercava di raccogliere, nonostante gli spintoni che riceveva. «Non
ho mai fatto male a nessuno» aggiunse piangendo; «perché mi
lasciassero in pace, mi sono perfino offerta di far loro tutti i
piaceri che volevano, di dar loro metà della mia razione, sebbene io
abbia molta fame; ebbene, no, è lo stesso... Ma che cosa devo fare
per poter stare in pace?... non hanno compassione nemmeno di una
donna incinta! Bisogna essere più feroci delle bestie... Avevo
faticato tanto a raccogliere quei pezzetti di biancheria! Con cosa
volete che faccia il corredino alla mia creatura, se non posso
compe-
rare niente? Che male faccio se raccolgo cose che nessuno vuole,
dato che le buttano via...» Ma a un tratto la Mont-Saint-Jean gridò
con voce piena di speranza: «Oh, poiché siete qui... Goualeuse...
salvatemi... intercedete per me... esse vi ascolteranno sicuramente,
poiché vi vogliono un bene pari all’odio che hanno per me.»
La Goualeuse, essendo l’ultima, stava entrando proprio in quel
momento nel cortile.
Fleur-de-Marie portava il grembiule blu e la cuffia nera delle
detenute; ma anche con quel rozzo vestito era sempre bella.
Tuttavia, dopo il suo rapimento dalla fattoria di Bouqueval
(rapimento di cui spiegheremo più avanti i risultati), i suoi
lineamenti sembravano profondamente alterati; il suo pallore, una
volta leggermente rosato, aveva ora la bianchezza dell’alabastro;
anche l’espressione della sua fisionomia era cambiata! era
improntata a dignità triste.
Fleur-de-Marie aveva capito che accettare con coraggio i dolorosi
sacrifici dell’espiazione voleva in qualche modo dire raggiungere le
vette della propria redenzione.
«Goualeuse, chiedete grazia per me» continuò la Mont-SaintJeàn
implorando la ragazza; «guardate come trascinano per il cortile
tutto quello che avevo raccolto con tanta fatica per cominciare il
corredino della mia creatura... Che gusto ci provano?»
Fleur-de-Marie non disse una parola, ma si mise attivamente a
raccogliere, uno a uno, tutti gli stracci che poté togliere da sotto
i piedi delle detenute.
Una carcerata tratteneva con cattiveria sotto il suo zoccolo una
specie di camiciola grigia di grossa tela. Fleur-de-Marie, sempre
china, alzò su di lei il suo dolcissimo sguardo, e le disse con la
sua voce melodiosa:
«Ve ne prego, lasciatemi prendere questa camicina, in nome della
poveretta che piange...»
La detenuta tirò indietro il piede...
La camicina fu salva come tutti gli altri straccetti che la
Goualeuse conquistò così uno alla volta.
Le restava da recuperare una cuffietta da bambino che due detenute
si stavano contendendo fra una risata e l’altra. Fleur-deMarie disse
loro:
«Su, siate buone... restituitele quella cuffietta...»
«Ah sì!... è per un arlecchino in fasce questa cuffia? è fatta con
un pezzo di stoffa grigia, con punte di fustagno verde e nero e con
una fodera di traliccio.»
Era vero.
La descrizione della cuffietta fu accolta da fischi e risate
interminabili.
«Prendetemi in giro finché volete, ma rendetemela» diceva la
Mont-Saint-Jean, «e non buttatemela nel rigagnolo come il resto...
Scusate, Goualeuse, se vi ho fatto sporcare le mani» aggiunse la
Mont-Saint-Jean con riconoscenza.
«Qua a me la cuffietta d’arlecchino!» disse la Louve e se ne
impadronì e la sventolò in aria come un trofeo.
«Vi prego, datemela» disse la Goualeuse.
«No, se è per renderla alla Mont-Saint-Jean.»
«Certo.»
«Ah, bah! vale proprio la pena... uno straccio simile!» «Proprio
perché la Mont-Saint-Jean ha solo quegli stracci da
mettere alla sua creatura... dovreste avere pietà di lei, Louve»
disse tristemente Fleur-de-Marie, tendendo la mano verso la cuffia.
«Non l’avrete!» riprese brutalmente la Louve; «dobbiamo sempre
cedere con voi, perché siete la più debole?... adesso state un po’
approfittandone!...»
«Che merito ci sarebbe a cedermi... se fossi più forte di voi?...»
disse Fleur-de-Marie abbozzando un sorriso pieno di grazia.
«No, no; volete infinocchiarmi con la vostra dolce vocina... non
l’avrete.»
«Su, Louve, non siate cattiva...»
«Lasciatemi in pace, mi avete stufato...»
«Ve ne prego!...»
«Su, non seccarmi... ho detto no ed è no!» esclamò la Louve
incollerita.
«Abbiate pietà di lei... guardate come piange!»
«Che me ne importa?... peggio per lei! è il nostro zimbello...» «È
vero, è vero... non dovevamo ridarle quei cenci» mormo-
ravano le detenute, trascinate dall’esempio della Louve. «Tanto
peggio per la Mont-Saint-Jean!...»
«Avete ragione, peggio per lei!» disse Fleur-de-Marie con amarezza.
«Ella è la vostra vittima... deve rassegnarsi... i suoi lamenti vi
divertono... le sue lacrime vi fanno ridere... Bisogna pur che
passiate il tempo in qualche modo! anche se l’ammazzaste sul posto,
non dovrebbe dire niente... Avete ragione Louve, è giusto!... questa
povera donna non fa male a nessuno, non può difendersi, è sola
contro tutte... voi la maltrattate... questo è giusto e generoso!»
«Siamo dunque delle vigliacche?» gridò la Louve, trascinata dalla
violenza del suo carattere e dal fatto che non sopportava
di essere contraddetta. «Vuoi rispondere? Siamo delle vigliacche,
eh?» continuò infuriandosi sempre di più.
Cominciò a farsi sentire un vociare minaccioso contro la Goualeuse.
Le detenute, per il risentimento, si avvicinarono a lei e la
circondarono tumultuando, dimenticando o meglio reagendo
all’ascendente che fino ad allora Fleur-de-Marie aveva avuto su di
loro.
«Ci ha chiamato vigliacche!»
«Che diritto ha di rimproverarci?»
«Vale forse più di noi?»
«Siamo state troppo buone con lei.»
«E adesso si dà delle arie.»
«Se ci divertiamo a tormentare la Mont-Saint-Jean, che cosa
ha da ridire lei?»
«Visto che è così, ti picchieremo più di prima, hai capito,
Mont-Saint-Jean?»
«Prenditi questa, tanto per cominciare» disse una dandole un
pugno.
«E se tu, Goualeuse, ti immischierai di cose che non ti riguar-
dano, sarai trattata allo stesso modo.» «Sì,... sì!»
«E non è tutto!» gridò la Louve; «bisogna che la Goualeuse ci chieda
perdono per averci chiamate vigliacche! È vero... se la lasciassimo
fare ci mangerebbe la torta in capo. Siamo state proprio stupide...
a non essercene accorte!»
«Che domandi perdono.»
«In ginocchio.»
«Con tutte e due le ginocchia.»
«O la tratteremo come la Mont-Saint-Jean, la sua protetta.» «In
ginocchio! in ginocchio!»
«Ah, siamo vigliacche!»
«Su, ripetilo, su!»
Fleur-de-Marie non si spaventò di quelle grida furiose. Lasciò
passare la tempesta, poi, quando riuscì a farsi sentire,
volgendo sulle detenute il suo bello sguardo calmo e malinconico,
rispose alla Louve che continuava a gridare:
«Ripeti, se hai coraggio, che siamo delle vigliacche!»
«Voi? No, no, è questa poveretta, a cui avete strappato le camicine,
che avete picchiato, trascinato nel fango: è lei la vigliacca... Non
vedete come piange, come trema al solo guardarvi? Vi torno a dire
che la vigliacca è lei, perché ha paura di voi!»
Fleur-de-Marie era aiutata dal suo istinto. Se avesse invocato la
giustizia, il dovere, per placare l’accanimento stupido e brutale
delle carcerate contro la Mont-Saint-Jean, non sarebbe stata
ascoltata. Ella riuscì a scuoterle perché si rivolse a quel senso di
generosità istintiva che non si spegne mai del tutto nemmeno nella
gente più corrotta.
La Louve e le compagne mormoravano ancora; pure avevano capito,
ammesso di essere vili.
Fleur-de-Marie non cercò di approfittare di quel primo trionfo, e
proseguì:
«La vostra vittima non merita pietà, dite voi; ma, Dio mio, la sua
creatura sì la merita, però! Ahimè, credete che non risenta delle
percosse che date alla madre? Se vi chiede pietà, non lo fa per
sé... ma per il suo bambino! Se vi chiede un po’ di pane, quando ve
ne è avanzato, perché ha più fame del solito, non lo fa per sé... lo
fa per il suo bambino!... Se vi supplica, con le lacrime agli occhi,
di lasciar stare gli stracci che ha faticato tanto a raccogliere...
non lo fa per sé... ma per la sua creatura! Questa povera cuffietta
rappezzata e foderata di traliccio per cui la prendete in giro fa
ridere... forse; ma a me, al solo vederla, fa venire a voglia di
piangere, ve lo confesso... Ridete pure di me e della
Mont-Saint-Jean, se così vi piace.»
Le detenute non risero.
La Louve guardò con una certa mestizia la cuffietta che teneva
ancora in mano.
«Dio mio» continuò Fleur-de-Marie, asciugandosi gli occhi col dorso
della mano bianca e delicata, «so che non siete cattive... e che
tormentate la Mont-Saint-Jean per passatempo, non perché siete
crudeli. Ma vi siete dimenticate che sono in due... lei e il suo
bambino. Se lei lo avesse in braccio, egli la proteggerebbe contro
di voi... Non solo non la picchiereste, per paura di far del male a
quel povero innocente, ma, se egli avesse freddo, dareste alla madre
tutto quanto potreste dare perché lo copra, non è vero, Louve?
«È vero... chi non avrebbe pietà di un bambino?...»
«È molto semplice...»
«Se avesse fame, vi levereste il pane di bocca per lui, non è
vero, Louve?»
«Sì, con tutto il cuore... non sono peggiore delle altre, io.» «E
neppure noi...»
«Un povero innocentino!»
«Chi avrebbe, il coraggio di fargli male?»
«Bisognerebbe essere mostri!»
«Senza cuore!»
«Bestie feroci!»
«Ve lo dicevo io» riprese Fleur-de-Marie, «che non siete cattive;
voi siete buone, il vostro torto è di non pensare che la
MontSaint-Jean, invece di avere un bambino in braccio per
impietosirvi... ce l’ha in grembo... ecco tutto...»
«Ecco tutto» replicò la Louve con esaltazione, «no, non è tutto.
Avete ragione, Goualeuse, di dire che siamo delle vigliacche... e
voi siete stata coraggiosa ad avercelo detto, e siete stata
coraggiosa a non aver avuto paura, dopo avercelo detto. Vedete,
abbiamo un bel dire e fare, abbiamo un bel reagire all’idea che non
siete come noi, poi dobbiamo sempre finire col convenire... Mi
secca, ma è così... Anche poco fa abbiamo avuto torto... e voi siete
stata più coraggiosa di noi...»
«Certo che c’è voluto un bel coraggio alla biondina per dirci in
faccia la verità...»
«Oh, ma quando ci si mettono quei suoi occhi azzurri dolci dolci...»
«Diventano veri leoncini.»
«Povera Mont-Saint-Jean! deve esserle riconoscente!»
«Dopo tutto, ha ragione: quando picchiamo la Mont-Saint-Je-
an, picchiamo il suo bambino.»
«Io non ci avevo pensato.»
«Nemmeno io.»
«Ma la Goualeuse pensa a tutto, lei.»
«Battere un bambino... è terribile!»
«Nessuna di noi ne sarebbe capace.»
Niente è più nobile delle passioni popolari, niente di più im-
provviso, più rapido, del loro passare dal male al bene e dal bene
al male.
Poche parole di Fleur-de-Marie, semplici e commoventi, avevano
operato un cambiamento improvviso a favore della MontSaint-Jean che,
per questo, piangeva di commozione.
Tutti i cuori erano commossi perché, come abbiamo detto, i
sentimenti che riguardano la maternità sono sempre profondi e forti
nelle povere donne di cui stiamo parlando.
A un tratto la Louve, violenta ed eccessiva in ogni cosa, fece della
cuffietta che teneva in mano una specie di borsa, poi si frugò in
tasca e ne cavò fuori venti soldi che gettò nella cuffia, quindi la
presentò alle compagne, gridando:
«Metto venti soldi per comperare la roba con cui fare un corredino
al piccolo della Mont-Saint-Jean. Taglieremo e cuciremo tutto noi
stesse, così la manodopera non le costerà niente...»
«Sì... sì...»
«Va bene!... facciamo una colletta!...»
«Ci sto.»
«Buona idea!»
«Povera donna!»
«È brutta come un mostro... ma è madre come può esserlo
un’altra...»
«La Goualeuse ha ragione, quel mucchio di straccetti fa spre-
mere tutte le lacrime degli occhi.» «Io metto dieci soldi.»
«Io trenta.»
«Io venti.»
«Io, quattro soldi... ho solo questi.»
«Io non ho niente... ma vendo la mia razione di domani per far
crescere il gruzzolo. Chi me la compra?»
«Io» disse la Louve, «metto dieci soldi per te... ma ti terrai la
tua razione, e la Mont-Saint-Jean avrà un corredino da principessa.»
Sarebbe impossibile descrivere la gioia e lo stupore della
Mont-Saint-Jean; il suo brutto viso ridicolo, rigatosi di lacrime,
faceva quasi commuovere; era illuminato dalla gioia e dalla
riconoscenza.
Anche Fleur-de-Marie era felice, quantunque avesse dovuto dire alla
Louve che le aveva messo davanti la cuffietta:
«Non ho denaro... ma lavorerò quanto vorrete...»
«Oh, angelo mio del paradiso» esclamò la Mont-Saint-Jean cadendo ai
piedi della Goualeuse e cercando di prenderle la mano per
baciargliela; «che cosa vi ho fatto per essere tanto caritatevole
con me, e anche a tutte queste donne? Possibile, Dio salvatore!...
Un corredino per la mia creatura, un bel corredino, tutto quanto gli
basta? Chi se lo sarebbe potuto immaginare comunque? impazzirò
sicuramente. Io che, poco fa, ero lo zimbello di tutti. In un
attimo, perché voi avete detto... qualche cosa... con quella cara
vocina da serafino... ecco che le fate passare dal male al bene;
adesso esse mi amano. E anch’io le amo. Sono così buone! avevo torto
di arrabbiarmi. Quanto ero scema, ingiusta e ingrata; tutto quello
che mi facevano era per ridere, non mi volevano mica male, anzi era
per il mio bene, eccone una prova. Oh, adesso anche se mi
ammazzassero qui sul posto, non direi neppure ahi. Ero anche troppo
suscettibile!»
«Abbiamo 88.000 franchi e sette soldi» disse la Louve e mise nella
cuffia l’importo della colletta che prima aveva contato. «Chi
terrà la cassa prima che i soldi vengano impiegati? Non bisogna
darli alla Mont-Saint-Jean perché è troppo scema.»
«Li tenga la Goualeuse» fu gridato all’unanimità.
«Date retta a me» disse Fleur-de-Marie, «pregate l’ispettrice, la
signora Armand, di incaricarsi di tenere la somma e di fare le spese
necessarie al corredino, e poi, chissà? La signora Armand sarà
sensibile alla buona azione che avete fatto e forse chiederà che si
tolga qualche giorno di prigione a quelle che sono state punite...
Ebbene, Louve» aggiunse Fleur-de-Marie, prendendo la compagna a
braccetto, «non vi sentite più contenta adesso di prima, quando
avete gettato in aria i poveri stracci della Mont-Saint-Jean?»
Dapprima la Louve non rispose.
Alla generosa esaltazione che per un momento le aveva animato il
volto, era succeduta una specie di truce diffidenza.
Fleur-de-Marie la guardava con stupore, perché non capiva
l’improvviso cambiamento.
«Goualeuse... venite... devo parlarvi» disse cupa la Louve.
E si staccò bruscamente dal gruppo delle detenute per condurre
Fleur-de-Marie vicino alla vasca con vera di pietra che era in mezzo
al cortile. Vicino c’era una panchina.
Lì si sedettero la Louve e la Goualeuse e così si trovarono un po’
appartate dalle compagne.
VIII
LA LOUVE E LA GOUALEUSE
Noi crediamo fermamente all’influenza di certe persone forti, che
sono tanto simpatiche alle masse e tanto potenti da imporre il bene
o il male.
Alcune sono audaci, impetuose, indomite, ribollono dei cattivi
istinti che hanno acquisito come il mare ribolle di schiuma quando
fa tempesta; ma come tutte le tempeste, anche queste sono furiose
quanto passeggere; a quel funesto ribollire succedono sordi
sentimenti di tristezza e di malessere, per cui anche le condizioni
più miserabili si trovano maggiormente a mal partito. La fine di una
violenza è sempre amara, e il risveglio da un eccesso è sempre
penoso.
La Louve, se vogliamo, può personificare questo tipo di nefasta
influenza.
Altre persone, più rare, perché devono avere il loro istinto di
generosità fecondato dall’intelligenza, e la mente al livello del
cuore,
altre persone, dicevamo, suscitano il bene, come le prime suscitano
il male. Esse penetrano dolcemente negli animi come i tiepidi raggi
del sole penetrando nei corpi vi lasciano il loro calore
vivificatore... come la fresca rugiada di una notte d’estate ristora
la terra arida e ardente.
Fleur-de-Marie, se vogliamo, personifica questo tipo di influenza
benefica.
Un’azione a fin di bene non è brusca come una a fin di male; i suoi
effetti hanno più strascichi. È qualcosa di balsamico, di
ineffabile, che a poco a poco distende, calma, invade i cuori più
incalliti, e fa provare loro una sensazione d’indicibile serenità.
Purtroppo, l’incanto cessa.
Dopo aver intravisto celesti chiarori, le persone perverse ricadono
nelle tenebre della loro solita vita e il ricordo delle soavi
emozioni che per un attimo le avevano sorprese si cancella a poco a
poco. Eppure, a volte, esse cercano confusamente di ricordarle, come
noi tentiamo di ripetere i canti che cullarono la nostra infanzia.
Le detenute, grazie alla buona azione che la Goualeuse aveva loro
suggerito, avevano assaporato la dolcezza passeggera di queste
sensazioni, alle quali aveva partecipato anche la Louve. Ma costei,
per ragioni che diremo poi, doveva restare meno delle altre sotto un
tale benefico influsso.
Nessuna meraviglia se si sente o si vede Fleur-de-Marie, poco prima
così passivamente e dolorosamente rassegnata, agire e parlare con
tali energia e autorità, perché i nobili insegnamenti ricevuti
durante la sua permanenza alla fattoria di Bouqueval avevano
rapidamente fecondato le sue straordinarie qualità.
Fleur-de-Marie aveva capito che non era sufficiente piangere su un
passato irrimediabile, ma che per riabilitarsi bastava fare il bene
o suggerirlo agli altri.
Dunque la Louve si era seduta sulla panchina di legno accanto alla
Goualeuse.
Le due ragazze producevano uno strano contrasto.
Un pallido sole invernale faceva cadere i suoi raggi su di loro; il
cielo era terso pur ricoprendosi qua e là di nuvolette bianche e
fioccose: alcuni uccelli, rallegrati dal tepore dell’aria,
gorgheggiavano sui neri rami dei grandi castagni del cortile; due o
tre passerotti, più audaci degli altri, venivano a bere e a fare il
bagno in un rigagnolo dove scorreva l’acqua che traboccava dalla
vasca; un muschio verde rendeva vellutati i rivestimenti in pietra
della vera; e, fra pietra e pietra, crescevano qua e là alcuni
ciuffi d’erba e alcune piante parietarie risparmiate dal gelo.
La descrizione della vasca della prigione potrà sembrare inutile, ma
non per Fleur-de-Marie alla quale non sfuggiva alcun particolare:
con gli occhi mestamente fissi su quell’angolo di verde e su
quell’acqua limpida dove si rifletteva la mobile bianchezza delle
nuvole che correvano sull’azzurro del cielo, e dove si rinfrangevano
con uno scintillio luminoso i raggi d’oro di un bel sole, essa
pensava sospirando alla magnificenza della natura che amava e
ammirava così poeticamente e di cui era stata ancora privata.
«Che cosa volevate dirmi?» chiese la Goualeuse alla compagna, che,
seduta vicino a lei, restava cupa e silenziosa.
«Bisogna che noi due ci chiariamo» esclamò con durezza la Louve;
«così non può durare.»
«Non vi capisco, Louve.»
«Poco fa, nel cortile, a proposito della Mont-Saint-Jean, mi ero
detta: non voglio più cedere alla Goualeuse; eppure vi ho ceduto di
nuovo...»
«Ma...»
«Ma io vi dico che così non può durare...»
«Che cosa avete contro di me, Louve?»
«Ho... che non sono più io, dopo che siete arrivata qui voi... no,
non ho più coraggio, né forza, né audacia...»
Poi la Louve s’interruppe per rimboccarsi una manica del
grembiule e mostrare alla Goualeuse un braccio bianco, nerboruto e
coperto di una peluria nera, sulla parte anteriore del quale le fece
notare un tatuaggio indelebile che rappresentava un pugnale azzurro
conficcato a metà in un cuore rosso; sotto questo emblema, si
leggevano le parole:
Morte ai vili! Martial P.L.V.1
«Vedete questo?» gridò la Louve.
«Sì... è segno sinistro e mi fa paura» disse la Goualeuse, vol-
gendo lo sguardo altrove.
«Quando Martial, il mio amante, mi ha scritto con un ago ar-
roventato queste parole sul braccio: Morte ai vili! mi credeva
coraggiosa; ma se sapesse come mi comporto da tre giorni in qua, mi
pianterebbe il coltello in corpo come questo pugnale è pian-
1 Per la vita.
tato su, questo cuore... e avrebbe ragione, perché egli ha scritto:
Morte ai vili! e io sono una vile.»
«Ma cosa avete fatto di vile?»
«Tutto...»
«Rimpiangete la buona idea che avete avuto poco fa?»
«Sì...»
«Oh, non vi credo...»
«Vi dico che la rimpiango, perché è una prova del potere che
avete su noi tutte. Non avete sentito la Mont-Saint-Jean, quando s’è
inginocchiata ai vostri piedi... per ringraziarvi?...»
«Che cosa ha detto?»
«Ha detto, parlando di noi, che “in un batter d’occhio ci fate
passare dal male al bene”. L’avrei strozzata quando ha detto così...
perché, per nostra vergogna... era vero. Sì, in un batter d’occhio,
ci fate passare dal bianco al nero: noi vi ascoltiamo, ci lasciamo
vincere dal primo impulso... e voi ci mettete nel sacco come poco
fa...»
«Mettervi nel sacco?... per aver avuto la generosità di aiutare
quella disgraziata!»
«Non si tratta di questo» gridò la Louve furibonda, «il fatto è che
finora non ho piegato il capo davanti a nessuno... Mi chiamo Louve,
e ben a ragione... più di una donna porta i miei segni... e anche
più di un uomo... non sarà mai detto che una ragazzina come voi mi
metta i piedi in testa...»
«Io!... e come?»
«E che ne so io, come?... Arrivate qui... e cominciate con
l’offendermi...»
«Offendervi?...»
«Sì... chiedete chi vuole il vostro pane... per prima vi rispondo:
“Io!”... la Mont-Saint-Jean ve lo chiede dopo... e voi le date la
preferenza... Furibonda per questo, mi avvento su di voi, col
coltello alzato...»
«E io vi dico: “Uccidetemi se volete... ma non fatemi soffrire
troppo”...» proseguì la Goualeuse «... ecco tutto.»
«Ecco tutto?... sì, ecco tutto!... e intanto sono bastate queste
sole parole per farmi cadere il coltello di mano... per spingermi a
chiedervi scusa... a voi che mi avevate offeso... Vi sembra
logico?... Sentite, quando torno in me, mi faccio pietà... E la sera
del vostro arrivo qui, quando vi siete inginocchiata per pregare,
perché, invece di prendervi in giro, e di sobillare tutto il
dormitorio, perché ho detto: “Bisogna lasciarla in pace... Se prega,
vuol dire che ne ha il diritto...”? E l’indomani, perché io e le
altre ci vergognavamo di vestirci davanti a voi?»
«Non lo so... Louve.»
«Davvero!» replicò ironicamente quella donna violenta; «non lo
sapete! Sarà di certo, come a volte dicevamo noi scherzando, perché
siete di una razza diversa dalla nostra. Credete che sia così?»
«Non vi ho mai detto di crederlo.»
«No, voi non lo dite... ma agite come se lo foste.» «Ascoltatemi, vi
prego.»
«No, mi ha fatto troppo male ascoltarvi... guardarvi. Finora
non avevo mai invidiato nessuno; ebbene, due o tre volte mi sono
sorpresa... come devo essere stupida e vile!... mi sono sorpresa a
invidiare la vostra faccia da Madonna, la vostra aria dolce e
mesta... Sì, ho invidiato perfino i vostri capelli biondi e i vostri
occhi azzurri, io che ho sempre detestato le bionde, dato che sono
bruna... Desiderare di assomigliarvi... io, la Louve!... io!... Otto
giorni fa avrei ucciso chi mi avesse detto una cosa simile... eppure
non è che la vostra sorte possa far invidia perché siete triste come
una Maddalena. Ditemi, vi sembra naturale?»
«Come volete che io mi renda conto delle impressioni che provoco in
voi?»
«Oh, sapete sì quello che fate... con quell’aria da santarellina.»
«Ma volete forse attribuirmi qualche losca intenzione?»
«Che ne so io? Proprio perché non ci capisco niente, non mi
fido di voi. E c’è di più: fino adesso ero stata sempre o allegra o
arrabbiata... ma mai pensierosa... e voi mi avete fatto diventare
pensierosa. Sì, avete detto certe parole che mi hanno toccato il
cuore e mi hanno fatto pensare a ogni sorta di cose tristi.»
«Mi dispiace, Louve, di avervi forse rattristata... ma non mi
ricordo di avervi detto...»
«Eh, Dio mio» gridò la Louve interrompendo spazientita e arrabbiata
la compagna «da ciò che fate si è turbati a volte quanto da quello
che dite!... Siete così furba!...»
«Non arrabbiatevi, Louve... spiegatevi...»
«Ieri, nel laboratorio, vi vedevo... avevate la testa e gli occhi
chinati sul lavoro che stavate cucendo; una grossa lacrima vi è
caduta sulla mano... L’avete guardata per un minuto... poi vi siete
portata la mano alle labbra, come per asciugare e baciare insieme
quella lacrima... non è vero?»
«È vero» disse la Goualeuse arrossendo.
«Questo in fondo non è niente... ma in quel momento sembravate così
infelice, così infelice, che mi sono sentita tutta sconvolta e
sottosopra... Dite un po’, credete che sia divertente? Come! sono
sempre stata dura come uno scoglio per le cose che mi riguardano...
nessuno può vantarsi di avermi visto piangere... e solo a guardare
il vostro musino, devo sentirmi piena di vigliaccheria!... Sì,
perché tutte queste sono vigliaccherie: e prova ne sia il fatto che
da tre giorni non oso scrivere a Martial, il mio amante, tanto mi
sento la coscienza sporca... Sì, a frequentarvi, m’infiacchisco,
bisogna che questa storia finisca... ne ho abbastanza; andrebbe a
finir male... io mi conosco... Voglio restare come sono... e non
farmi prendere in giro.»
«E perché vi prenderebbero in giro?»
«Per Dio! perché mi vedrebbero fare l’idiota, io che qui facevo
tremare tutte! No, no, ho vent’anni, sono bella quanto voi nel mio
genere, sono cattiva... tutti mi temono, ed è quel che voglio... Del
resto me ne infischio... Crepi chi dice il contrario!»
«Siete arrabbiata con me, Louve?»
«Sì, voi per me siete una conoscenza sgradita; se continuasse così,
tra quindici giorni invece di chiamarmi la Louve, mi dovrebbero
chiamare... la Brebis.2 Grazie!... non sono tipo che si lasci
castrare così... Martial mi ucciderebbe... Insomma non voglio più
frequentarvi; e per non vedervi più, chiederò che mi cambino di
stanza; se non me lo concederanno, combinerò qualche grosso guaio
per riprendere forza e perché mi mettano in cella fino a quando non
uscirò... Ecco quello che dovevo dirvi, Goualeuse.»
Fleur-de-Marie capì che la Louve, il cui cuore non era completamente
corrotto, si dibatteva, per così dire, contro le più belle
inclinazioni. Queste vaghe aspirazioni verso il bene dovevano essere
state destate nella Louve dalla simpatia, l’istintiva amicizia che
aveva suscitato in lei Fleur-de-Marie. Per fortuna dell’umanità,
rari, ma luminosi esempi provano, lo ripetiamo, che ci sono anime
elette, dotate, quasi a loro insaputa, di una forza d’attrazione
tale da costringere anche gli esseri più riluttanti a entrare nella
loro sfera e a cercare più o meno di diventare simili.
I risultati prodigiosi di certe missioni, di certi apostolati non si
spiegano in altra maniera...
In un certo ambito molto ristretto, questa era la natura dei
rapporti tra Fleur-de-Marie e la Louve; ma costei, per una strana
contraddizione, o meglio in conseguenza del suo carattere
intrattabile e perverso, si difendeva con tutte le forze contro la
salutare influenza da cui si sentiva prendere... come le persone
oneste lottano energicamente contro le influenze cattive.
2 Brebis = pecora; Louve = lupa.
Se si terrà presente che spesso il vizio ha un suo diabolico
orgoglio, non ci si stupirà che la Louve facesse ogni sforzo per
mantenere intatta la sua reputazione di donna indomita e temuta, e
per non diventare come essa diceva, da lupa... pecora.
Tuttavia le esitazioni di quella sventurata, le collere, le lotte,
interrotte di tanto in tanto da slanci generosi, erano sintomi
troppo favorevoli e troppo significativi, perché Fleur-de-Marie
abbandonasse la speranza per un momento concepita.
Sì, presentendo che la Louve non era stata del tutto corrotta, ella
avrebbe voluto salvarla, come era stata salvata lei stessa.
«Il modo migliore per dimostrarmi riconoscente col mio benefattore»
pensava la Goualeuse, «è di dare a quelli che possono ancora capirli
i nobili consigli che egli ha dato a me.»
Fleur-de-Marie prese timidamente la mano alla Louve che la stava a
guardare con cupa diffidenza, e le disse:
«Sono sicura, Louve... che vi interessate a me... non perché siete
vile, ma perché siete generosa. I grandi cuori sono i soli a
commuoversi dinanzi alle sventure altrui.»
«Non c’è né coraggio, né grandezza in ciò» rispose brutalmente la
Louve, «ma vigliaccheria. E poi non voglio che mi diciate che mi
sono commossa, non è vero...»
«Non lo dirò più, Louve; ma poiché siete stata gentile con me...
lascerete che ve ne sia riconoscente, vero?»
«Non me ne importa niente!... Questa sera sarò in un’altra stanza...
o sola in cella, e presto sarò fuori, grazie a Dio!»
«E dove andrete quando sarete fuori?»
«Oh bella!... a casa mia, in rue Pierre Lescot. Ho una stanza con
mobili miei.»
«E Martial...» disse la Goualeuse, che sperava di continuare la
conversazione parlando di un argomento che stava a cuore alla Louve,
«e Martial, sarete contenta di rivederlo?»
«Sì... oh, sì!» rispose con voce appassionata. Al mio arresto lui
era appena uscito di malattia... una febbre che gli è venuta perché
sta sempre sull’acqua... Per diciassette giorni e diciassette notti
non l’ho lasciato un minuto, ho venduto metà delle mie cose per
pagare il medico, le medicine, tutto... Posso esserne fiera, e me ne
vanto... se il mio uomo è vivo, lo deve a me... Anche ieri ho fatto
accendere un cero per lui... Saranno sciocchezze... comunque, a
volte la cosa ha fatto buoni effetti sui convalescenti...»
«E dov’è adesso? e cosa fa?»
«Abita sempre vicino al ponte di Asnières, sulla riva.» «Sulla
riva?»
«Sì, si è stabilito là con la famiglia, in una casa isolata. È
sempre in lotta con i guardapesca, e quando poi è nella sua barca,
con la sua doppietta, è poco consigliabile avvicinarglisi!» disse la
Louve con orgoglio.
«Ma che mestiere fa?»
«Pesca di frodo, la notte; e poi, siccome è coraggioso come un
leone, se c’è un vigliacco che voglia attaccar briga con qualcuno,
se la vede lui... Suo padre ha avuto dei fastidi con la giustizia.
Ha ancora la madre, due sorelle e un fratello... Sarebbe meglio per
lui... non averlo, quel fratello, perché quello scellerato un giorno
o l’altro si farà ghigliottinare... e anche le due sorelle... Ma in
fondo, a noi che importa, il collo è loro.»
«E dove l’avete conosciuto, Martial?»
«A Parigi. Aveva deciso di imparare il mestiere di fabbro ferraio...
un bel mestiere, con sempre attorno fuoco e ferro rovente... e il
pericolo, poi!... un mestiere fatto apposta per lui; ma anche lui,
come me, era una testa matta e non poteva andare d’accordo coi
padroni; allora se n’è ritornato dai suoi, e si è messo a fare il
predone sul fiume. Viene a trovarmi a Parigi e io, di giorno, vado a
trovarlo ad Asnières: è vicinissimo; ma anche se fosse più lontano,
ci andrei lo stesso, a costo di andarci aiutandomi con le ginocchia
e le mani.»
«Sarete ben contenta voi, Louve, di andarvene in campagna!» disse la
Goualeuse con un sospiro; «specialmente se vi piace, come a me,
passeggiare per i campi.»
«Col mio uomo preferirei passeggiare per i boschi o le grandi
foreste.»
«Per le foreste?... Non avreste paura?»
«Paura! ah sì paura! Una lupa ha forse paura? Più la foresta sarebbe
folta e deserta, più mi piacerebbe... Una capanna sperduta dove
abiterei con Martial, che farebbe il bracconiere; andare con lui la
notte a tendere le reti alla selvaggina... e poi, se le guardie
venissero per arrestarci, tirar loro schioppettate, io e il mio
uomo, e nasconderci tra i cespugli, ah, accidenti... come sarebbe
bello!»
«Avete dunque già abitato nei boschi, Louve?» «No, mai.»
«E chi vi ha dato queste idee?»
«Martial.»
«E come?»
«Faceva il bracconiere nella foresta di Rambouillet. Un anno fa, ha
pensato bene di sparare a una guardia, che gli aveva sparato...
disgraziata di una guardia! insomma, questo non è stato provato
in tribunale, ma Martial fu costretto a lasciare il posto... Allora
è venuto a Parigi per imparare il mestiere di fabbro ferraio: così
l’ho conosciuto. Siccome era troppo una testa matta per andare
d’accordo col padrone, ha preferito ritornare ad Asnières vicino ai
suoi e fare il predone sul fiume; è più libero... Ma rimpiange
sempre i boschi e un giorno o l’altro ci ritornerà. A forza di
parlarmi di bracconaggio e di foreste, mi ha ficcato quelle sue idee
in testa... e adesso mi sembra di essere nata per questo. Ma succede
sempre così... quello che vuole il vostro uomo, lo volete anche
voi... Se Martial fosse stato un ladro... sarei stata ladra... Se si
ha un uomo, bisogna essere come lui.»
«E i vostri genitori, Louve, dove sono?» «Cosa ne so io?...»
«È molto che non li vedete?»
«Non so nemmeno se sono vivi o morti.» «Erano dunque cattivi con
voi?»
«Né buoni, né cattivi: avevo, credo, undici anni quando mia madre se
ne andò per i fatti suoi con un soldato. Mio padre, che era
bracciante, si portò nel nostro solaio la sua amante, con i due
figli, uno di sei anni e uno della mia età. Lei vendeva mele col
carrettino. In principio le cose andarono abbastanza bene; ma poi,
mentre lei era fuori col carrettino, veniva da noi un’ostricaia con
la quale mio padre faceva le corna all’altra... che è venuta a
saperlo. Da quella volta, quasi ogni sera scoppiavano in casa
baruffe così rabbiose, che a me e ai due ragazzi con i quali dormivo
venivano i brividi; il nostro alloggio infatti era costituito solo
da una stanza, dove noi bambini avevamo un letto per tre... nella
stessa camera in cui c’erano mio padre e la sua amante. Un giorno,
era il giorno di Santa Maddalena, giorno dell’onomastico di
Madeleine, ecco che lei rimprovera a mio padre di non averle fatto
gli auguri! Una parola tira l’altra, così mio padre finì con lo
spaccarle la testa col manico della scopa. Speravo che fosse finita.
Comare Madeleine cadde come un pezzo di piombo, ma aveva la pelle
dura e anche la testa. Inoltre non gliele risparmiava a mio padre:
una volta l’ha morso così forte alla mano che le è rimasto il pezzo
fra i denti. Bisogna dire, però, che quelle pestate erano un po’
come i giorni dei grandi giochi d’acqua di Versailles; i giorni di
lavoro, le baruffe erano meno spettacolari; c’erano lividi, ma non
sangue...»
«Era cattiva con voi?»
«Comare Madeleine? no, anzi; era soltanto vivace; a parte ciò, una
buona donna... Ma alla fine mio padre ne ebbe abbastanza;
le lasciò i pochi mobili che erano in casa, e non tornò più. Lui era
della Borgogna, c’è da credere che sia tornato laggiù. A quell’epoca
avevo quindici o sedici anni.»
«E siete rimasta con l’ex amante di vostro padre?»
«Dove volevate che andassi? Intanto lei s’era messa con un muratore
che venne a stare a casa nostra. Dei due figli di comare Madeleine,
uno annegò all’île des Cygnes, l’altro si era messo a imparare il
mestiere di falegname.»
«E voi, cosa facevate a casa con quella donna?»
«Tiravo il carretto con lei, facevo la minestra, andavo a portare da
mangiare al suo uomo, e quando egli ritornava ubriaco, il che
succedeva più spesso del solito, aiutavo comare Madeleine a dargli
un sacco di legnate, perché stesse quieto, dato che stavamo tutti in
una stessa camera. Era cattivo come una peste quando era pieno di
vino, voleva ammazzare tutti... Una volta, se non gli avessimo tolto
l’accetta di mano, ci avrebbe assassinate tutte e due. Comare
Madeleine ebbe da parte sua una ferita sulla spalla che sanguinava
da far spavento.»
«E come mai vi è successo... quel che vi è successo?» disse esitando
Fleur-de-Marie.
«Il figlio della Madeleine, il piccolo Charles, che poi affogò
all’île des Cygnes, era stato... con me... verso l’epoca circa in
cui lui, sua madre e suo fratello, erano venuti a stare da noi,
quando eravamo ancora due bambini...! Dopo di lui, il muratore...
per me era lo stesso; ma avevo paura di essere scoperta e di essere
messa alla porta da comare Madeleine. E così fu; siccome lei era una
buona donna, mi disse: “Visto che è così, che hai sedici anni, non
sei capace di far niente, e sei troppo testa matta per andare a
servizio o a imparare un mestiere, verrai con me e ti farò segnare
alla polizia; siccome non hai i genitori, risponderò io di te; sarà
almeno uno stato autorizzato dal governo; non farai altro che
spassartela; io sarò tranquilla su di te e tu non sarai più a mio
carico. Che te ne pare, ragazza mia?” “Avete proprio ragione” le ho
risposto io, “non ci avevo pensato.” Andammo all’ufficio del buon
costume, mi raccomandò in una casa e da allora sono rimasta
schedata. Ho rivisto comare Madeleine un anno fa; siccome stavo
bevendo con il mio uomo, l’ho invitata a bere con noi; ci ha detto
che il muratore era in galera. Poi non l’ho più rivista: non so chi,
ultimamente, mi ha detto che era stata portata all’obitorio tre mesi
fa. Se è vero, mi dispiace, perché era una buona donna, comare
Madeleine... aveva il cuore in mano e tanto fiele come un piccione.»
Fleur-de-Marie, sebbene entrata molto giovane in un’atmosfera
corrotta, aveva in seguito respirato aria così pura che fu
dolorosamente colpita dal terribile racconto della Louve.
E noi abbiamo avuto il triste coraggio di riferire un tale racconto
perché è necessario che si sappia che, per quanto brutto, esso è
mille volte meno terribile d’innumerevoli fatti reali.
Sì, l’ignoranza e la miseria portano spesso le classi povere a
questo genere spaventoso di degradazione umana e sociale.
Sì, ci sono innumerevoli tane dove bambini e adulti, bambine e
bambini, legittimi o bastardi, stanno assieme sullo stesso
pagliericcio, come bestie sullo stesso strame, e hanno continuamente
sotto gli occhi abominevoli esempi di ubriachezza, di violenze, di
dissolutezze e di delitti.
Sì, e anche troppo spesso, l’incesto viene ad aggiungere a questi
orrori un orrore di più.
I ricchi possono avvolgere i loro vizi nell’ombra e nel mistero, e
rispettare la santità del focolare domestico.
Ma gli operai, anche i più onesti, che occupano quasi sempre una
sola stanza con la loro famiglia, sono costretti, per mancanza di
letti e di spazio, a far dormire insieme i loro figli, fratelli e
sorelle, a poca distanza da loro, marito e moglie.
Se si freme già al pensiero delle fatali conseguenze di una tale
situazione a cui quasi sempre si trovano ridotti inevitabilmente gli
operai onesti perché poveri, che sarà mai quando si tratterà di
operai abbrutiti dall’ignoranza e dalla cattiva condotta?
Che spaventosi esempi daranno a quei disgraziati bambini
abbandonati, o meglio stimolati, fin dalla prima adolescenza, a
tutte le più brutte inclinazioni, a tutte le passioni più bestiali!
Potranno forse avere anche solo un’idea di che cosa siano il dovere,
l’onestà, il pudore?
O non saranno anzi estranei alle leggi sociali come i selvaggi del
nuovo mondo?
Povere creature corrotte fin dalla nascita, che spesso vanno a
finire in prigione per via della loro vita randagia e del fatto che
sono in balìa di se stesse e che sono già bollate da quella
terribile e infamante metafora: «Avanzi di galera!!!»
E la metafora dice giusto.
La sinistra predizione quasi sempre si realizza: galera o lupanare,
ogni sesso ha il suo avvenire.
Con questo non è che vogliamo giustificare la dissolutezza.
Ma si paragoni solo la degradazione voluta di una donna che sia
stata religiosamente allevata in seno a una famiglia benestante
e che vi abbia ricevuto solo buonissimi esempi; si paragoni,
dicevamo, questa degradazione a quella della Louve, creatura
allevata per così dire nel vizio, dal vizio e per il vizio, a cui la
prostituzione è stata, non senza ragione, raccomandata come un
mestiere protetto dal governo!
Il che è vero.
C’è un ufficio dove si registra, si certifica, si vidima la
degradazione; un ufficio dove spesso la madre va ad autorizzare la
prostituzione della figlia; il marito quella della moglie.
Questo luogo si chiama «ufficio del buon costume»!!! Non bisogna che
una società abbia un difetto di organizzazione molto grande,
insanabile, per ciò che riguarda le leggi che reggono la condizione
dell’uomo e della donna, perché il potere... il potere..., questa
severa astrazione morale, sia obbligato non solo a tollerare, ma a
regolare, legalizzare, proteggere, per renderla meno pericolosa,
questa vendita del corpo e dell’anima, che, moltiplicatasi a causa
degli sfrenati appetiti di un’immensa popolazione, raggiunge ogni
giorno una cifra incommensurabile!
IX CASTELLI IN ARIA
La Goualeuse, superata l’emozione causatale dalla triste confessione
della compagna, le disse timidamente:
«Ascoltatemi senza arrabbiarvi.»
«Su, dite; mi sembra di aver parlato abbastanza; ma non importa,
poiché sarà l’ultima volta che ci parliamo assieme.»
«Siete contenta, Louve?»
«Di che cosa?»
«Della vita che conducete.»
«Qui, a Saint-Lazare?»
«No, a casa vostra, quando siete libera.» «Sì, sono contenta.»
«Sempre?»
«Sempre.»
«Non vorreste cambiare la vostra sorte con un’altra?»
«Con quale? Non c’è altra sorte per me.»
«Dite un po’, Louve» continuò Fleur-de-Marie dopo un mo-
mento di silenzio, «non vi piace qualche volta fare dei castelli in
aria? ci si diverte tanto quando si è in prigione!»
«Castelli in aria, su che cosa?»
«Su Martial.»
«Sul mio uomo?»
«Sì.»
«A dir la verità, non ne ho mai fatti.»
«Lasciate che ne faccia uno su Martial e su voi?»
«Bah! e a che servirebbe?»
«A far passare il tempo.»
«E va bene! sentiamo questo castello in aria.»
«Supponiamo, per esempio, che per caso, come a volte può
succedere, incontriate una persona che vi dica: rimasta senza padre
e madre, avete avuto un’infanzia circondata da così brutti esempi,
che siete più da compiangere che da biasimare di essere
diventata...»
«Diventata che cosa?»
«Quello che voi e io siamo diventate» rispose la Goualeuse con voce
dolce; e continuò: «Supponete che questa persona vi dica ancora: Voi
amate Martial, egli vi ama; non fate più questa brutta vita; siate
sua moglie, invece di essere sua amante.»
La Louve alzò le spalle.
«Forse che egli mi vorrebbe per moglie?»
«A parte il bracconaggio, non ha commesso altre azioni col-
pevoli, vero?»
«No... fa il bracconiere sui fiumi come lo faceva nei boschi, e fa
bene, i pesci non sono forse come gli uccelli, di chi può prenderli?
Dov’è il segno del proprietario?»
«Ebbene! supponete che, avendo rinunciato al suo pericoloso mestiere
di contrabbandiere, voglia diventare un galantuomo; supponete che
egli ispiri, per la sincerità delle sue buone risoluzioni, discreta
fiducia a un benefattore sconosciuto tanto che questi gli dia un
posto... di guardacaccia, per esempio; a lui che era bracconiere,
penso che piacerebbe; è lo stesso mestiere, ma in bene.»
«Eh già! si vivrebbe sempre nei boschi.»
«E che quel posto gli fosse dato solo a patto che vi sposasse e vi
conducesse con sé.»
«Andarmene con Martial!»
«Sì; dicevate che sareste stata tanto felice di andare ad abitare
insieme in fondo a una foresta! Non vi piacerebbe al posto di una
misera capanna, dove sareste costretti a nascondervi come
malfattori, avere una bella casetta di cui sareste la brava e attiva
padrona?»
«Mi prendete in giro! È mai possibile?»
«Chissà? Il caso? D’altronde è sempre un castello in aria.» «Ah,
così va bene!»
«Dite un po’, Louve, mi sembra già di vedervi sistemata nella
vostra casetta, in piena foresta, con vostro marito e due o tre
figli. I figli! che felicità, vero?»
«Figli del mio uomo?» disse la Louve con passione selvaggia; «oh,
sì! come vorrei loro bene!»
«Come farebbero compagnia alla vostra solitudine! poi, quando
sarebbero più grandicelli, comincerebbero a farvi tanti servizietti;
i più piccoli raccoglierebbero rami secchi per accendere il fuoco,
il più grande andrebbe nelle radure della foresta, a far pascolare
una o due vacche date a vostro marito in premio della sua attività;
giacché, essendo stato bracconiere, sarebbe un ottimo
guardacaccia...»
«È vero... To’, sono divertenti questi castelli in aria! Fatene
ancora, Goualeuse!»
«Sarebbero contenti di vostro marito... il suo padrone vi farebbe
dei favori... un cortile, un giardino; ma, certo, dovreste lavorare
sodo, Louve! e dalla mattina alla sera.»
«Oh, se fosse solo per questo, una volta col mio uomo, il lavoro mi
farebbe meno paura... ho braccia buone io...»
«E avreste modo di impegnarle, ve lo garantisco io... C’è tanto da
fare!... tanto da fare!... governare la stalla, preparare da
mangiare, accomodare i vestiti; un giorno fare il bucato, un altro
giorno cuocere il pane o pulire la casa da cima a fondo, cosicché le
altre guardie della foresta diranno: “Oh, non c’è donna di casa
brava come la moglie di Martial; dalla cantina al granaio c’è una
pulizia prodigiosa... e i bambini sempre così ben tenuti!... Anche
perché la signora Martial si dà tanto da fare...”»
«Sentite un po’, Goualeuse, mi chiamerei signora Martial, vero?...»
continuò la Louve con orgoglio; «signora Martial!...»
«Che sarebbe preferibile a Louve, vero?»
«Certo, mi piacerebbe di più avere il nome del mio uomo, piuttosto
che quello di una bestia... Ma, via!... via!... lupa sono nata... e
lupa morirò...»
«Chissà?... chissà?... non aver paura di una vita dura, ma onesta, è
un buon segno... Così, il lavoro non vi spaventerebbe?...»
«Ah, quanto a questo, no, badare al mio uomo e a tre o quattro
marmocchi, non mi spaventerebbe di certo!»
«E poi non si lavora sempre, ci sono anche i momenti di riposo;
l’inverno, durante la veglia, mentre i bambini dormono, e vostro
marito, fumando la pipa, pulisce le armi o accarezza i cani...
potreste prendervi un po’ di spasso.»
«Oh, sì, spasso... restare con le mani in mano! oh no; preferirei
rattoppare la biancheria di famiglia, la sera, vicino al fuoco; non
è poi una gran fatica... D’inverno, le giornate sono così corte!»
Le parole di Fleur-de-Marie avevano fatto dimenticare alla Louve
sempre più il presente per sognare sempre più dell’avvenire... tanto
interessata quanto lo era stata la Goualeuse quando Rodolphe le
aveva parlato delle dolcezze della vita campestre nella fattoria di
Bouqueval.
La Louve non nascondeva i gusti da selvaggia che le aveva istillato
il suo amante. Fleur-de-Marie, ricordando l’impressione profonda e
salutare che aveva provato alle belle descrizioni di Rodolphe, a
proposito della vita dei campi, voleva tentare lo stesso mezzo per
agire sulla Louve, pensando giustamente che se la sua compagna si
fosse lasciata commuovere dalla descrizione di un’esistenza dura,
povera e solitaria, a tal punto da desiderare ardentemente una vita
così... la donna avrebbe meritato aiuto e pietà.
Felice di vedere che la sua compagna la ascoltava con curiosità, la
Goualeuse proseguì sorridendo:
«E poi, vedete... signora Martial... posso chiamarvi così? Vi
dispiace?»
«Oh no, anzi, mi fa piacere...» Poi la Louve, alzando le spalle,
sorrise e disse: «Che sciocchezze giocare alle signore! siamo
proprio bambine!... Ma non fa niente... continuate... è
divertente... Dicevate dunque?...»
«Dicevo, signora Martial, che se si parla della vostra vita durante
l’inverno, là in fondo al bosco, si pensa subito alla stagione
peggiore.»
«Per me non è la peggiore... Sentire soffiare il vento di notte e
ogni tanto ululare i lupi lontano... lontano... non mi
dispiacerebbe, purché fossi vicina al fuoco con mio marito e i miei
marmocchi, o anche sola, se egli fosse a fare il suo giro
d’ispezione; oh! un fucile non mi fa paura... Se avessi i miei figli
da difendere... sarei coraggiosa... sapete!... la lupa li
custodirebbe bene i suoi lupacchiotti!»
«Oh, vi credo... siete così coraggiosa, voi... ma io, che sono
paurosa, preferisco la primavera all’inverno... Oh, la primavera,
signora Martial, la primavera! quando le foglie inverdiscono e
fioriscono i bei fiori del bosco, che hanno un così buon profumo, un
così buon profumo che l’aria ne è tutta olezzante... Allora i vostri
bambini ruzzerebbero allegramente sull’erba novella; e poi la
foresta sarebbe tanto folta che la vostra casa si scorgerebbe appena
tra il fogliame. Mi sembra già di vederla. Davanti alla porta c’è un
pergolato di viti piantato da vostro marito che adombra il tappeto
d’erbetta dove egli dorme, nelle ore più calde, mentre voi andate e
venite, raccomandando ai bambini di non svegliare il babbo... Non so
se ci avete fatto caso: ma nel cuore dell’estate, verso mezzogiorno,
nei boschi c’è lo stesso silenzio della notte... non si sente né il
fruscio delle foglie, né il canto degli uccelli...»
«È vero» ripeté macchinalmente la Louve, la quale, allontanandosi
sempre più dalla realtà, s’immaginava già di vedere gli incantevoli
quadretti suscitati dall’immaginazione poetica di Fleur-de-Marie che
era così istintivamente innamorata delle bellezze della natura.
Felice della grande attenzione che le prestava la compagna, la
Goualeuse si lasciò trascinare anche lei dall’incanto dei pensieri
che evocava:
«C’è una cosa» proseguì, «che mi piace quanto il silenzio del bosco,
ed è il rumore dei goccioloni della pioggia d’estate quando cadono
sulle foglie; piace anche a voi?»
«Oh, sì... mi piace tanto anche la pioggia d’estate.»
«Vero? quando gli alberi, il muschio, l’erba, tutto è bagnato
d’acqua, che odore di fresco! E avete mai osservato come il sole,
passando attraverso gli alberi, faccia brillare tutte quelle
goccioline d’acqua che pendono dalle foglie dopo l’acquazzone?»
«Sì... ma me ne ricordo perché ora lo dite voi... Oppure, com’è
strano, voi raccontate così bene, Goualeuse, che sembra di vedere
tutto, tutto via via che parlate... e poi, accidenti, non so come
spiegarvelo... ma, quello che dite... ha un buon odore... rinfresca
come la pioggia d’estate di cui stiamo parlando.»
La poesia, come il bene e il bello, è spesso contagiosa. La Louve,
quella donna brutale e feroce, subiva in tutto e per tutto
l’influenza di Fleur-de-Marie.
Costei aggiunse sorridendo:
«Non dobbiamo credere di essere le sole ad amare la pioggia
d’estate. E gli uccelli, allora! come sono contenti, come scuotono
le penne e cinguettano allegramente... ma non più allegramente dei
vostri figlioli... i vostri figlioli liberi, gai e leggeri come
loro. Ecco, sul far della sera, i più piccoli correre attraverso i
boschi incontro al maggiore che riconduce due giovenche dal pascolo!
non ci hanno messo molto a riconoscere da lontano il tintinnare dei
campanelli!...»
«Sapete, Goualeuse, mi sembra già di vedere il più piccolo e il più
ardito, che si fa mettere a cavalcioni sulla schiena di una delle
due vacche mentre il fratello più grande lo tiene fermo...»
«E si direbbe che la povera bestia sappia di portare in groppa un
prezioso fardello, tanto è cauta a camminare... Ma ecco l’ora della
cena: il vostro primogenito, pur guardando pascolare il bestiame, si
è divertito a cogliere per voi un cestino di fragole di bosco,
ancora fresche perché erano state ricoperte da un grosso strato di
violette selvatiche.»
«Fragole e violette... chissà che profumo!... Ma, Dio, Dio!
Goualeuse, dove diavolo andate a pescare queste idee?»
«Nei boschi dove maturano le fragole, dove fioriscono le violette...
basta chinarsi per raccoglierle, signora Martial... Ma parliamo
della casa... è sera, bisogna mungere le due mucche, preparare la
cena sotto la pergola; perché sentite abbaiare i cani di vostro
marito e di lì a poco la voce del loro padrone che, sebbene stanco,
se ne torna cantando... Ma come non aver voglia di cantare, quando,
in una bella sera d’estate, col cuore contento, si guarda la casa
dove vi attendono una buona moglie e due bambini? Vero, signora
Martial?»
«È vero, non si può fare a meno di cantare» disse la Louve,
facendosi sempre più pensierosa.
«A meno che non si pianga di tenerezza» continuò Fleur-deMarie,
commuovendosi anche lei. «E lacrime così sono dolci come canzoni...
E poi, quando è scesa la notte, che piacere restarsene sotto la
pergola a godersi il sereno di quella bella notte... a respirare
l’odore della foresta... a sentire i cicalecci dei bambini... a
guardare le stelle... Allora il cuore è così pieno, così pieno...
che deve sfogarsi con la preghiera... Come non ringraziare colui a
cui si deve il fresco della sera, il profumo del bosco, il dolce
chiarore del cielo stellato?... Dopo il ringraziamento o la
preghiera, si va tranquillamente a dormire fino all’indomani, e poi
si ringrazia ancora il Creatore... perché questa vita, da gente
povera e laboriosa, ma tranquilla e onesta, è quella di ogni
giorno.»
«Di ogni giorno!...» ripeté la Louve, con la testa china, lo sguardo
fisso, il petto affannoso. «Oh è vero! Dio è buono a darci da vivere
felici con così poco...»
«Ora ditemi» riprese dolcemente Fleur-de-Marie, «ditemi, non
dovrebbe essere benedetto come Dio, colui che potrebbe procurarvi
una vita tranquilla e laboriosa come questa, invece della vita
miserabile che conducete tra il fango delle vie di Parigi?»
La parola Parigi richiamò bruscamente la Louve alla realtà. Nel
cuore della donna stava accadendo uno strano fenomeno. Descrizione
ingenua di una condizione umile e dura, questo
semplice racconto, ora rischiarato dal tenue lingueggiare del fo-
colare domestico, ora dorato da qualche vivido raggio di sole, e ora
rinfrescato dalla brezza delle foreste e profumato dall’olezzo dei
fiori selvatici, questo racconto aveva fatto sulla Louve
un’impressione più forte e penetrante di quella che avrebbe fatto
un’esortazione di trascendente moralità.
Sì, a mano a mano che Fleur-de-Marie parlava, la Louve desiderava
essere donna di casa infaticabile, ottima sposa, madre religiosa e
affettuosa.
Ispirare, anche solo per un momento, a una donna violenta, immorale,
disonorata, l’amore della famiglia, il rispetto del dovere, il gusto
del lavoro, la gratitudine verso il Creatore, col prometterle solo
ciò che Dio dà a tutti, il sole del cielo e l’ombra delle foreste...
ciò che l’uomo deve a chi lavora, un tetto e un po’ di pane, non era
un bel trionfo per Fleur-de-Marie?
Il più severo moralista, il più tonante predicatore avrebbero forse
ottenuto di più invocando e minacciando nelle loro predizioni tutte
le vendette umane e tutte le folgori del cielo?
Il corrucciato dolore da cui si sentì presa la Louve ritornando alla
realtà, dopo essersi lasciata trasportare dalla salutare e fino ad
allora sconosciuta fantasticheria, in cui, per la prima volta,
l’aveva immersa Fleur-de-Marie con il suo discorso, stava a
dimostrare l’influenza di quest’ultima sulla sua disgraziata
compagna.
Più il rammarico della Louve era amaro davanti al trascolorare di
quel consolante miraggio nell’orrore della sua posizione, più era
manifesto il trionfo della Goualeuse.
Dopo un momento di silenzio e di riflessione, la Louve rialzò
bruscamente la testa, si passò la mano sul capo, e alzandosi
minacciosa e adirata:
«Vedi... vedi che avevo ragione di diffidare di te e di non volerti
ascoltare... perché sarebbe andata a finire male per me! Perché mi
hai parlato così? per prendermi in giro? per tormentarmi? E questo
perché sono stata tanto scema da dirti che mi sarebbe piaciuto
vivere in mezzo ai boschi con il mio uomo!... Ma chi sei tu?...
Perché mi sconvolgi così?... Non sai quello che hai fatto,
disgraziata! Adesso, mio malgrado, penserò sempre a quella foresta,
a quella casa, a quei bambini, a tutta la felicità che non avrò
mai... mai!... E se non potrò dimenticare quello che mi hai detto,
la mia vita sarà un supplizio, un inferno... per colpa tua... sì,
per colpa tua!»
«Magari! oh, magari!» disse Fleur-de-Marie.
«Dici magari?» esclamò la Louve con uno sguardo minaccioso.
«Sì, magari; perché se la vostra misera vita di adesso vi sembra un
inferno, desidererete quella di cui vi ho parlato.»
«E a cosa serve desiderarla, se non è fatta per me? perché
rammaricarmi di essere una sgualdrina, dato che devo morire
sgualdrina?» gridò la Louve infuriandosi sempre più e stringendo con
la sua mano robusta il piccolo polso di Fleur-de-Marie. «Rispondi...
rispondi! Perché sei venuta a farmi desiderare quello che non potrò
mai avere?»
«Desiderare una vita onesta e laboriosa vuole dire essere degni di
questa vita, ve l’ho detto» replicò Fleur-de-Marie, senza cercare di
togliere la mano.
«Ebbene, e quando ne sarò degna? che cosa si vuol provare? che cosa
ci guadagnerò?»
«Il veder realizzarsi quello che considerate un sogno» disse
Fleur-de-Marie, con tale serietà e convinzione che la Louve,
soggiogata di nuovo, lasciò andare la mano della Goualeuse e restò
lì stupefatta.
«Ascoltatemi, Louve» riprese Fleur-de-Marie, con voce piena di
compassione, «mi credete così cattiva da destare in voi certi
pensieri e certe speranze, se non fossi sicura che, facendovi
arrossire della vostra condizione attuale, vi darò i mezzi per
uscirne?»
«Voi? voi potreste?»
«Io?... no; ma qualcuno che è buono, grande, potente come Dio.»
«Potente come Dio?...»
«Ascoltate ancora, Louve... Tre mesi fa, io ero, come voi, una
povera ragazza perduta... abbandonata. Un giorno, colui di cui vi
sto parlando piangendo di riconoscenza» e Fleur-de-Marie si asciugò
una lacrima, «venne da me; non ha avuto paura, benché io fossi
disonorata e disprezzata, di dirmi parole consolanti... le prime che
io abbia udito!... io gli avevo raccontato le mie sofferenze, le mie
miserie, la mia vergogna, senza nascondergli niente, come voi,
Louve, adesso mi avete raccontato la vostra vita... Dopo avermi
ascoltata con bontà, non mi ha biasimato, mi ha compianto; non ha
rimproverato la mia abiezione, ma mi ha tessuto le lodi
dell’esistenza quieta e pura dei campi.»
«Come voi poco fa...»
«Allora la mia abiezione mi parve tanto più brutta quanto più bello
mi sembrava l’avvenire che egli mi mostrava.»
«Come a me, Dio mio!»
«Sì, e, come voi, io dicevo: Ahimè, a che serve farmi intravedere un
paradiso, se sono condannata all’inferno?... Ma ho avu-
to torto di dispiacermi... perché colui di cui vi parlo è come Dio,
sommamente giusto, sommamente buono, e incapace di far balenare una
falsa speranza davanti agli occhi di una povera creatura che non
pretende né pietà, né felicità, né speranza.»
«E per voi... che cosa ha fatto?»
«Mi ha trattato come una bambina ammalata; io ero, come voi, immersa
in un’aria infetta, mi ha mandato a respirare un’aria pura e sana;
anch’io vivevo in mezzo a esseri repellenti e criminali, egli mi ha
affidato a persone simili a lui... che hanno purificato la mia anima
ed elevato il mio spirito... poiché egli, come Dio, dà una scintilla
della sua intelligenza soprannaturale a tutti quelli che lo amano e
lo rispettano... Sì, Louve, le mie parole vi commuovono, le mie
lacrime fanno scorrere le vostre, perché sono ispirata dal suo
spirito e dal suo pensiero! Vi parlo di un avvenire migliore che
otterrete mediante pentimento, perché posso promettervi
quell’avvenire in suo nome, sebbene in questo momento egli non
sappia niente dell’impegno che mi sono presa! Infine, vi dico:
Sperate!... perché egli ode sempre la voce di quelli che vogliono
diventare migliori... Dio l’ha mandato sulla terra per far credere
nella Provvidenza...»
Mentre parlava così, il volto di Fleur-de-Marie era diventato
raggiante, ispirato; le sue pallide guance si erano leggermente
colorate di rosa, i suoi begli occhi brillavano dolcemente; il suo
volto splendeva di una bellezza così nobile da stupire, tanto che la
Louve, già profondamente turbata da quel colloquio, stette un po’ a
contemplare la compagna con rispettosa ammirazione, poi disse:
«Dio mio!... dove sono? sto forse sognando? non ho mai visto né
sentito niente di simile... non è possibile!... ma voi allora chi
siete? Oh, lo dicevo io che eravate diversa da noi!... Ma allora,
voi che parlate così bene, che potete tanto, che conoscete persone
tanto potenti... come mai siete qui... carcerata con noi?... Ma...
ma... siete qui per tentarci!!! Siete dunque dalla parte del bene...
come il demonio è da quella del male?»
Fleur-de-Marie stava per rispondere, quando la signora Armand venne
a interromperla per condurla dalla signora d’Harville.
La Louve rimase immobile, estatica; l’ispettrice le disse:
«Vedo con piacere che la presenza nella prigione della Goualeuse ha
portato fortuna a voi e alle vostre compagne... So che avete fatto
una colletta per la povera Mont-Saint-Jean; questa è un’azione buona
e caritatevole, Louve. Ne sarà tenuto conto...
Ero sicura che eravate migliore di quanto cercaste di sembrare...
Come ricompensa alla vostra buona azione, credo di potervi
promettete che vi saranno diminuiti di molto i giorni di prigione
che vi restano ancora da fare.»
E la signora Armand si allontanò, seguita da Fleur-de-Marie.
Non c’è da stupirsi per il linguaggio quasi eloquente di
Fleurde-Marie, se si tiene presente che le sue meravigliose qualità
si erano rapidamente sviluppate, grazie all’educazione e agli
insegnamenti ricevuti alla fattoria di Bouqueval.
Inoltre la ragazza si sentiva in particolare forte della propria
esperienza.
I sentimenti che ella aveva destato nel cuore della Louve erano
stati destati in lei da Rodolphe, in circostanze quasi simili.
Sicura di avere scoperto un qualche buon istinto nella compagna,
ella aveva cercato di ricondurla all’onestà, provandole (secondo la
teoria di Rodolphe applicata alla fattoria di Bouqueval) che era nel
suo interesse diventare onesta, e dipingendo la sua riabilitazione a
tinte belle e attraenti...
E, a questo proposito, ripetiamo che si procede in modo incompleto
e, secondo noi, incomprensibile e inefficace, se si vuole ispirare
alle classi povere e ignoranti l’orrore per il male e l’amore per il
bene.
Per far loro abbandonare la via del male, le si minaccia di vendette
umane e divine; continuamente si fa risuonare nelle loro orecchie un
tintinnio sinistro: chiavi di prigione, ferro di gogna, catene di
galera; e infine, in lontananza, in spaventosa penombra, all’estremo
limite del delitto, si fa veder loro la mannaia del boia, che brilla
alla luce delle fiamme eterne...
Lo si vede bene: si inculca senza posa il terrore, in modo terribile
e spaventoso...
A chi fa il male... prigione, infamia, supplizio...
È giusto. Ma a chi fa il bene, la società assegna forse doni
onorifici o insigni benemerenze?
No.
La società incoraggia forse con premi adeguati alla rassegnazione,
all’ordine e all’onestà quella immensa massa di operai, condannati
per sempre al lavoro, alle privazioni e quasi sempre a una profonda
miseria?
No.
Di fronte al patibolo dove sale il grande criminale, c’è forse un
palco dove salga il gran galantuomo?
No.
Simbolo strano e funesto! La Giustizia viene rappresentata cieca,
con in una mano una spada per punire e nell’altra le bilance che
pesano l’accusa e la difesa.
Questa non è l’immagine della giustizia.
È l’immagine della legge, o meglio dell’uomo che assolve o condanna
secondo la sua coscienza.
La GIUSTIZIA dovrebbe tenere in una mano una spada, e nell’altra una
corona; la prima per punire i malvagi, la seconda per premiare i
buoni.
Il popolo vedrebbe allora che, se ci sono punizioni terribili per il
male, vi sono anche splendidi trionfi per il bene; invece è tanto
ingenuo e ha così poco buon senso che adesso cerca invano qualcosa
che corrisponda ai tribunali, alle segrete, alle galere e ai
patiboli.
Il popolo vede una giustizia criminale (sic), composta di uomini
decisi, integri, illuminati, continuamente intenti a scoprire, a
punire gli scellerati.
Non vede una giustizia benefica3 composta di uomini decisi, integri,
illuminati, intenti a cercare, a ricompensare le persone dabbene.
Ogni cosa gli dice: “Trema!...” Nessuna cosa gli dice: “Spera!...”
Ogni cosa lo minaccia... Nessuna cosa lo consola.
Lo Stato spende annualmente parecchi milioni per la sterile
punizione dei delitti. Con questa somma enorme, mantiene carcerati e
carcerieri, galeotti e aguzzini, patiboli e carnefici.
Certo sono cose necessarie.
3 Alcuni giorni dopo aver scritto queste righe, abbiamo riletto il
Memoriale di Sant’Elena, libro immortale che ci sembra un trattato
di filosofia pratica, e abbiamo notato il seguente passaggio che ci
era sfuggito:
«Quindi uno dei miei sogni, (è l’imperatore che parla), compiuti e
liquidati i nostri grandi eventi guerreschi, reduce nell’interno, in
riposo e con tempo libero, sarebbe stato di cercare una dozzina di
buoni e veri filantropi, di quelle brave persone che vivono solo per
il bene ed esistono solo per praticarlo; li avrei sparsi per tutto
l’impero, ed essi avrebbero dovuto percorrerlo di nascosto per
rendere conto di tutto a me. Essi sarebbero stati Le spie della
virtù; avrebbero dovuto venire direttamente da me; sarebbero stati i
miei confessori, i miei direttori spirituali, e le decisioni che
avessi preso con loro sarebbero state le mie buone opere segrete. La
mia più grande occupazione, nel periodo del mio completo riposo,
sarebbe stata, dall’apice del mio potere, impegnarmi a fondo per
migliorare le condizioni di tutta la società; sarei voluto scendere
fino ai godimenti individuali» (Il Memoriale, tomo V, pag. 100,
edizione del 1824).
Ma quanto spende lo Stato per la remunerazione utile e feconda della
gente che fa il bene?
Niente.
E non è tutto.
Dimostreremo, quando il seguito di questo racconto ci porterà
alle prigioni degli uomini, che ci sono tantissimi artigiani, di
indiscussa probità, che soddisferebbero i loro più grandi desideri
se fossero certi di godere un giorno delle condizioni materiali dei
carcerati, i quali sono sempre sicuri di un buon cibo, di un buon
letto, di un buon alloggio!
Eppure, in nome della loro dignità di persone oneste duramente e
lungamente provate, non avrebbero il diritto di pretendere di godere
dello stesso benessere degli scellerati coloro che, come il
lapidario Morel, avessero vissuto per venticinque anni mantenendosi
probi, laboriosi, rassegnati in mezzo alla miseria e alle
tentazioni?
Non meritano che la società si preoccupi di scoprirli e, se non di
premiarli, a gloria dell’umanità, almeno di sostenerli nella via
difficile e faticosa che percorrono coraggiosamente?
Il gran galantuomo, per modesto che sia, si nasconde forse più del
ladro e dell’assassino?... ma questi non sono sempre scoperti dalla
giustizia criminale?
Ahimè! è un’utopia, ma una consolante utopia. Immaginate una società
organizzata in modo tale da avere per così dire i tribunali della
virtù, come ha i tribunali criminali.
Un pubblico ministero che segnali le nobili azioni, e le proponga al
plauso di tutti, come oggi si denunciano i delitti alla vendetta
delle leggi.
Ecco due esempi, due giustizie: si dica quale sarà più ricca
d’insegnamenti, di conseguenze, di risultati positivi:
Un uomo ha ucciso un altro uomo per derubarlo.
All’alba viene eretta tacitamente la ghigliottina in un angolo
nascosto di Parigi, e si taglia la testa all’assassino, davanti alla
feccia del popolo, che ride del giudice, della vittima e del boia.
Questa è l’ultima parola della società.
Questo è il più gran delitto che si possa commettere contro di essa,
questa è la più grande punizione... e questo è l’insegnamento più
terribile, più salutare che essa possa dare al popolo...
L’unico!... perché non c’è nulla che possa servire di contrappeso a
quel ceppo grondante di sangue.
No... la società non ha nessuno spettacolo dolce e benefico da
opporre a quel funebre spettacolo.
Ma continuiamo la nostra utopia...
Non accadrebbe diversamente se quasi ogni giorno il popolo avesse
sotto gli occhi l’esempio di grandi virtù altamente glorificate e
materialmente remunerate dallo Stato?
Non sarebbe continuamente incoraggiato al bene, se vedesse spesso un
tribunale augusto, imponente, venerato, evocare in sua presenza,
davanti a una folla immensa, la lunga vita onesta, abile, laboriosa
di un povero e buon operaio a cui si dicesse:
«Per vent’anni, più di qualunque altro, avete lavorato, sofferto
lottato coraggiosamente contro la sventura; la vostra famiglia è
stata educata da voi, con princìpi di rettitudine e d’onore... per
le vostre grandi virtù vi siete particolarmente distinto: siate
dunque glorificato e premiato. La società vigile, giusta e
onnipotente, la società non lascia mai nell’oblio né il bene né il
male... Paga ciascuno secondo le sue opere... lo Stato vi garantisce
una pensione adeguata ai vostri bisogni. Circondato dalla pubblica
considerazione, terminerete nel riposo e fra gli agi una vita che
deve servire d’insegnamento a tutti... e così sono e saranno sempre
esaltati coloro che, come voi, dimostreranno, per molti anni,
un’ammirevole perseveranza nel bene... e dato prova di grandi e rare
qualità morali... Il vostro esempio inciterà i più a imitarvi... la
speranza allevierà il pesante fardello che la sorte li costringe a
portare per lungo tempo. Animati da un salutare spirito di
emulazione, essi lotteranno con forza per compiere i più difficili
doveri, per essere un giorno distinti fra tutti e premiati come
voi...»
Ora noi chiediamo: quale di questi due spettacoli, tra quello
dell’assassino scannato e quello del galantuomo premiato, agirà sul
popolo in maniera più salutare e feconda?
Certo molte persone delicate s’indigneranno al solo pensiero di
queste ignobili remunerazioni materiali accordate a ciò che vi è al
mondo di più spirituale: la virtù!
Troveranno da opporre a una tale teoria svariate ragioni, più o meno
filosofiche, platoniche, teologiche, ma soprattutto economiche come
per esempio:
«Il bene porta in se stesso la propria ricompensa...
La virtù non ha prezzo...
La soddisfazione della coscienza è la più alta ricompensa.»
E infine questa obiezione gloriosa e indiscutibile:
«La felicità eterna che attende i giusti nell’altra vita deve ba-
stare da sola per incoraggiarli al bene.»
A ciò noi risponderemo che non pare che la società, per terro-
rizzare e colpire i colpevoli, si affidi esclusivamente alla
vendetta divina che li colpirà certamente nell’altra vita.
La società anticipa il giudizio universale con giudizi umani. E in
attesa dell’ora inesorabile degli arcangeli dalle armature di
giacinto, dalle trombe squillanti e dalle spade infuocate, essa si
accontenta modestamente... di gendarmi.
Noi ripetiamo:
«Per spaventare i malvagi, si materializzano, o meglio si riducono a
proporzioni umane, tangibili, visibili, gli effetti anticipati
dell’ira celeste...»
Perché non deve accadere lo stesso per gli effetti della ricompensa
celeste verso i buoni?
Ma lasciamo stare queste utopie, folli, assurde, stupide,
irrealizzabili, come tutte le utopie.
La società sta bene così com’è! Chiedetelo a tutti quelli che, con
le gambe barcollanti, lo sguardo vago, escono schiamazzando da un
allegro banchetto!
X
LA PROTETTRICE
L’ispettrice entrò con la Goualeuse nel salottino dove si trovava
Clémence; il pallido volto della ragazza si era leggermente colorito
dopo la conversazione con la Louve.
«La signora marchesa, ben impressionata dalle informazioni che le ho
date su di voi» disse la signora Armand a Fleur-de-Marie, «desidera
vedervi e forse si degnerà di farvi uscire di qui prima che scada il
termine della vostra pena.»
«Vi ringrazio, signora» rispose timidamente Fleur-de-Marie alla
signora Armand, che la lasciò sola con la marchesa.
Costei, colpita dal candore del viso della sua protetta e dal suo
portamento pieno di grazia e di modestia, non poté fare a meno di
ricordarsi che la Goualeuse, dormendo, aveva pronunciato il nome di
Rodolphe e che l’ispettrice supponeva che la povera carcerata
soffrisse per una segreta pena d’amore.
Sebbene fosse pienamente convinta che non potesse trattarsi del
granduca Rodolphe, Clémence aveva visto che, quanto a bellezza, la
Goualeuse era degna dell’amore di un principe...
Alla vista della sua protettrice, sul cui volto si rifletteva tanta
bontà, Fleur-de-Marie, si sentì attrarre verso di lei da forte
simpatia. «Figliola cara» le disse Clémence, «la signora Armand, pur
lodando molto la dolcezza del vostro carattere e la vostra condotta
esemplare, si lamenta della poca fiducia che avete in lei.»
Fleur-de-Marie chinò il capo senza rispondere.
«I vestiti da contadina che avevate addosso quando siete stata
arrestata, il vostro silenzio riguardo al luogo dove avete abitato
prima di essere condotta qui provano che voi non avete detto certi
fatti...»
«Signora...»
«Io non ho alcun diritto alla vostra confidenza, povera ragazza, e
non vorrei farvi domande indiscrete; solo, mi assicurano che se io
chiedessi di farvi uscire di prigione, mi potrebbero accordare la
grazia. Ora, prima di agire, vorrei parlare con voi dei progetti,
dei mezzi che avete per l’avvenire. Quando sarete libera... farete?
Se, come sono sicura, siete decisa a seguire la retta via in cui vi
siete incamminata, abbiate fiducia in me, e io vi metterò in
condizione di guadagnarvi onestamente da vivere...»
La Goualeuse si commosse fino alle lacrime davanti
all’interessamento di cui le dava prova la signora d’Harville.
Dopo aver esitato un momento, ella disse:
«Signora, vi state degnando di essere così buona e così generosa che
mi sento quasi in dovere di rompere il silenzio che ho mantenuto
fino ad ora sul mio passato... ma ero legata da un giuramento.»
«Un giuramento?»
«Sì, signora, ho giurato di non dire alla giustizia e alle persone
che ci sono in questa prigione in seguito a quali avvenimenti sono
stata condotta qui; ma... se mi faceste, signora, una promessa...»
«Quale?»
«Di mantenere il segreto, io potrei, grazie a voi, signora, senza
per questo venir meno al mio giuramento, tranquillizzare certe
persone rispettabili che, certamente, saranno in pensiero per me.»
«Contate sulla mia segretezza; dirò solo ciò che mi autorizzerete a
dire.»
«Oh, grazie, signora; temevo tanto che il mio silenzio verso i miei
benefattori potesse sembrare ingratitudine!...»
La voce soave di Fleur-de-Marie, il suo linguaggio quasi ricercato
meravigliarono ancora una volta la signora d’Harville.
«Non vi nascondo» disse, «che le vostre maniere, le vostre parole,
tutto mi stupisce moltissimo. Come, con un’educazione che sembra
eccellente, avete potuto...»
«Scendere tanto in basso, vero, signora?» disse la Goualeuse con
amarezza. «Questa educazione, ahimè... l’ho ricevuta poco tempo fa.
Sono debitrice di ciò a un generoso protettore, che come voi,
signora... senza conoscermi... e senza avere nemmeno le informazioni
favorevoli che vi hanno dato, ha avuto pietà di me...»
«E questo protettore chi è?»
«Non lo so, signora.»
«Non lo sapete?»
«Si fa solo conoscere, si dice, per la sua inesauribile bontà; gra-
zie al cielo, mi sono trovata sulla sua strada.»
«E dove l’avete incontrato?»
«Una notte... nella Cité, signora» disse la Goualeuse abbassan-
do gli occhi; «un uomo voleva picchiarmi; il mio sconosciuto
benefattore mi ha coraggiosamente difesa: questo è stato il mio
primo incontro con lui.»
«Era un uomo... del popolo?»
«La prima volta che l’ho visto, era vestito e parlava come uno del
popolo... ma poi...»
«Poi?»
«Da come mi ha parlato, dal profondo rispetto che gli dimostravano
coloro a cui mi aveva affidato, da tutto ho capito che, per
nascondere la sua vera identità, si era travestito come uno di
quegli uomini che frequentano la Cité.»
«Ma con quale scopo?»
«Non so...»
«E il nome di questo misterioso protettore, lo conoscete?» «Oh, sì,
signora» disse la Goualeuse esaltandosi grazie a Dio!
«perché così posso benedirlo continuamente... Il mio salvatore si
chiama Rodolphe, signora...»
Clémence diventò rossa come il fuoco.
«E non ha altro nome?...» chiese a Fleur-de-Marie con una certa
animazione.
«Non lo so, signora... Nella fattoria dove mi aveva mandata, lo
conoscevano solo come Rodolphe.»
«E la sua età?»
«È giovane ancora, signora...»
«E bello?»
«Oh, sì... bello, nobile... come il suo cuore...»
Il tono pieno di riconoscenza e di passione con cui Fleur-de-
Marie pronunciò queste parole causò una sensazione dolorosa alla
signora d’Harville.
Un presentimento inspiegabile e più forte di lei diceva che si
trattava del principe.
Le osservazioni dell’ispettrice erano fondate, pensava Clémence...
la Goualeuse amava Rodolphe... ella aveva pronunciato nel sonno il
suo nome...
In quali strane circostanze si erano incontrati il principe e la
poveretta?
Perché Rodolphe per andare nella Cité si travestiva?
La marchesa non riusciva a trovare una risposta.
Si ricordò soltanto di ciò che Sarah una volta le aveva detto con
malignità e falsità delle supposte stravaganze di Rodolphe e dei
suoi strani amori... E infatti non era strano che egli avesse tratto
dal fango quella creatura d’incantevole bellezza e di eccezionale
intelligenza?...
Clémence aveva ottime qualità; ma era donna e amava profondamente
Rodolphe, sebbene fosse decisa a tener sepolto questo segreto nel
più profondo del cuore...
Senza pensare che poteva trattarsi solo di una di quelle azioni
generose che il principe era solito fare di nascosto, senza pensare
che forse stava confondendo con l’amore un acceso sentimento di
gratitudine, senza pensare infine che, se anche questo sentimento
fosse stato più tenero, Rodolphe avrebbe potuto pure non esserne a
conoscenza, la marchesa ebbe subito un moto di amarezza e di
ingiustizia che non le impedì di considerare la Goualeuse come una
rivale.
Il suo orgoglio si ribellava al dover riconoscere di vergognarsi e
di soffrire, nonostante tutto, di una così abietta rivalità.
Riprese quindi con un tono secco che contrastava crudelmente con
l’affettuosa benevolenza delle sue prime parole:
«E come mai, signorina, il vostro protettore vi lascia in prigione?
Come mai siete qui?»
«Dio mio! signora» disse timidamente Fleur-de-Marie colpita da
quell’improvviso cambiamento di tono, «ho detto forse qualcosa che
abbia potuto dispiacervi?»
«Perché avreste dovuto dispiacermi?» rispose con alterigia la
signora d’Harville.
«Perché mi sembra... che poco fa... mi abbiate parlato con più
bontà, signora...»
«Oh, signorina, dovrò forse pesare ogni parola... penso di avere il
diritto di rivolgervi alcune domande.»
Non aveva fatto a tempo a pronunciare queste parole, che si pentì,
per svariate ragioni, di essere stata così dura.
Prima di tutto per il riapparire della sua naturale generosità, poi
perché pensò che, trattando aspramente la sua rivale, non sarebbe
riuscita a sapere ciò che desiderava.
Infatti la fisionomia della Goualeuse, che era aperta e fiduciosa,
improvvisamente si turbò.
Come la mimosa, al minimo tocco, chiude le foglie delicate e si
piega su se stessa, così Fleur-de-Marie ebbe una dolorosa stretta al
cuore.
Clémence, perché il voltafaccia non sembrasse troppo improvviso e
non destasse sospetti nella sua protetta, soggiunse con dolcezza:
«Vi ripeto che non posso capire come, avendo tanto da encomiare il
vostro benefattore, siate qui in prigione. Come mai, dopo essere
ritornata sulla retta via, vi siete fatta arrestare andando di notte
in un luogo che vi era proibito? Vi confesso che tutto questo mi
sembrava strano... Voi avete parlato di un giuramento che fino ad
ora vi ha costretto al silenzio... ma anche questo giuramento è così
strano!...»
«Ho detto la verità, signora...»
«Ne sono convinta... basta vedervi e ascoltarvi per credervi
incapace di mentire; ma quello che vi è d’incomprensibile nella
vostra situazione aumenta e irrita la mia impaziente curiosità. Solo
a questo dovete attribuire la concitazione delle mie parole di poco
fa... Via... lo ammetto... ho avuto torto; infatti, benché non abbia
altro diritto alla vostra confidenza che il vivo desiderio di
esservi utile, voi vi siete offerta di dirmi ciò che non avete detto
a nessuno e io vi sono molto grata, credetemi, povera ragazza, di
questa prova di fiducia nell’interessamento che ho per voi...
Quindi, vi prometto che manterrò scrupolosamente il vostro segreto,
se me lo confidate... e farò tutto il possibile per giungere allo
scopo che vi proponete.»
Grazie a questo abile trucco, la signora d’Harville riguadagnò la
fiducia della Goualeuse, che per un momento si era insospettita.
Fleur-de-Marie, nel suo candore, si rimproverò perfino d’avere male
interpretato le parole che l’avevano ferita.
«Perdonatemi, signora» disse a Clémence; «ho certamente avuto torto
a non dirvi subito quello che desiderate sapere; ma voi mi avete
chiesto il nome del mio salvatore... e, mio malgrado, non ho potuto
resistere alla gioia di parlarvi di lui...»
«Giusto... questo prova la vostra riconoscenza verso di lui. Ma per
quale circostanza avete lasciato la buona gente presso cui egli vi
aveva messo? Il giuramento di cui m’avete parlato è connesso con
questo fatto?»
«Sì, signora; ma, per mezzo vostro, penso ora di potere, pur non
venendo meno alla mia parola, tranquillizzare i miei benefattori
sulla mia sparizione...»
«Sentiamo, povera figliola, vi ascolto.»
«Circa tre mesi fa, il signor Rodolphe mi aveva messo in una
fattoria situata a quattro o cinque leghe da qui...»
«Vi aveva condotta lui stesso?»
«Sì, signora... mi aveva affidata a una signora buona e
rispettabile... che, in breve, ho preso ad amare come una madre...
Lei e il parroco del paese, dietro raccomandazione del signor
Rodolphe, si sono occupati della mia educazione...»
«E il signor, Rodolphe veniva spesso alla fattoria?»
«No, signora, da quando ci sono stata io è venuto solo tre volte.»
Clémence non poté frenare un fremito di gioia.
«E quando veniva a trovarvi, eravate molto contenta voi, vero?»
«Oh, sì, signora!... ma per me era più che contentezza... era
qualcosa fra la gratitudine, il rispetto e l’ammirazione e anche un
po’ di timore...»
«Timore?»
«Di me per lui... e degli altri per lui... la distanza è così
grande!...»
«Ma... a che classe appartiene?»
«Non so, signora, se appartenga a una classe levata.»
«Avete parlato di distanza che vi è fra lui... e gli altri.»
«Oh, signora... ciò che lo mette al disopra di tutti è la nobiltà
del suo carattere... è la sua inesauribile generosità per coloro che
soffrono... è l’entusiasmo che ispira a tutti... Perfino i malvagi
non possono udire il suo nome senza tremare... è temuto e rispettato
da loro nella stessa misura... Ma scusate, signora, se vi parlo
ancora di lui... dovrei tacere... vi darei un’idea imperfetta di un
uomo che bisogna adorare in silenzio... come poter esprimere a
parole la grandezza di Dio...»
«Questo paragone...»
«È forse un sacrilegio, signora... Ma offendo forse Dio
avvicinandolo a colui che mi ha insegnato la nozione del bene e del
male, colui che mi ha tolto dall’abisso... colui insomma a cui devo
una nuova vita?»
«Non vi biasimo, figliola, capisco tutte queste nobili esagerazioni.
Ma come mai avete abbandonato quella fattoria dove avreste dovuto
trovarvi così bene?»
«Ahimè, signora, non l’ho fatto di mia volontà!»
«Chi vi ci ha costretto?»
«Una sera, pochi giorni fa» disse Fleur-de-Marie, tremando
ancora al ricordo, «mi recavo alla canonica del paesello, quando una
donna malvagia che mi aveva tormentato durante la mia infanzia... e
un uomo, suo complice... imboscato con lei in una stra-
da bassa, si sono gettati su di me, e, dopo avermi imbavagliata, mi
hanno portato via con una carrozza.»
«E a che scopo?»
«Non lo so, signora. I miei rapitori obbedivano, credo, a persone
potenti.»
«Quale fu il seguito di questo rapimento?»
«Appena la carrozza si mosse, la donna cattiva che si chiama
Chouette disse: “Ho il vetriolo con me, ci farò passar sopra il viso
della Goualeuse per sfigurarla”.»
«Che orrore!... povera ragazza... E chi vi ha salvato da quel
pericolo?»
«Il complice della donna... un cieco, chiamato Maître d’école.» «Ha
preso le vostre difese?»
«Sì, signora, in quell’occasione e anche in un’altra. Quella vol-
ta ci fu una lite fra lui e la Chouette... Il Maître d’école,
valendosi della sua forza, la costrinse a gettare fuori dallo
sportello la fiala contenente il vetriolo. Questo è il primo
servigio che mi ha reso, dopo aver contribuito però, al mio
rapimento... La notte era fonda... Dopo un’ora e mezzo, la carrozza
si fermò, credo, sulla strada maestra che attraversa la spianata
Saint-Denis; lì stava ad aspettare un uomo a cavallo... “E allora,
l’avete presa finalmente?” disse. “Sì, l’abbiamo con noi!” rispose
la Chouette, che era furiosa perché non aveva potuto sfigurarmi. “Se
volete sbarazzarvi della piccola c’è un buon mezzo: la stendo per
terra, sulla strada, e le faccio passare sulla testa le ruote della
carrozza... sembrerà che sia stata schiacciata per incidente.”»
«Ma è spaventoso!»
«Ahimè, signora, la Chouette era capace di fare quello che diceva.
Per fortuna l’uomo a cavallo le rispose che non voleva che mi fosse
fatto del male, che bastava tenermi per due mesi chiusa in un luogo
da dove non potessi né uscire, né scrivere a nessuno. Allora la
Chouette propose di condurmi da un certo Bras-Rouge, padrone di una
taverna degli Champs-Elysées. In quella taverna c’erano varie stanze
sotterranee di cui una, disse la Chouette avrebbe potuto fare da
prigione. L’uomo a cavallo accettò questa proposta; poi mi promise
che, dopo essere stata due mesi da BrasRouge, mi avrebbe assicurato
una condizione che non mi avrebbe fatto rimpiangere la fattoria di
Bouqueval.»
«Che strano mistero!»
«Quell’uomo diede del denaro alla Chouette e gliene promise
dell’altro per quando mi avrebbe fatto uscire dalla casa di
BrasRouge, e partì al galoppo col suo cavallo. La nostra carrozza
con-
tinuò la sua strada per Parigi. Poco prima di arrivare alla
barriera, il Maître d’école disse alla Chouette:
«“Vuoi rinchiudere la Goualeuse in una cantina di Bras-Rouge; sai
bene che quelle cantine, essendo vicine al fiume, d’inverno sono
quasi sempre sott’acqua!... Vuoi dunque affogarla?” “Sì” rispose la
Chouette.»
«Ma, Dio mio, cosa avevate fatto a quella donna orribile?»
«Niente, signora, e fin dalla mia infanzia si è sempre accanita
contro di me... Il Maître d’école le rispose: “Non voglio che la
Goualeuse sia annegata, ella non andrà da Bras-Rouge”. La Chouette
restò stupita quanto me, signora, all’udire che quest’uomo voleva
difendermi così. Allora andò su tutte le furie e giurò che mi
avrebbe portata da Bras-Rouge anche se il Maître d’école non voleva.
“Provati a farlo” disse costui, “non mollerò il bracciò della
Goualeuse e se ti avvicini a lei, ti strozzo.” “Ma allora cosa ne
vuoi fare?” gridò la Chouette, “dal momento che deve sparire per due
mesi senza che si sappia dove sia?” “C’è un modo” disse il Maître
d’école, “andremo agli Champs-Elysées; faremo fermare la carrozza a
poca distanza da un corpo di guardia; tu andrai a chiamare
Bras-Rouge alla sua taverna; è mezzanotte, lo troverai e lo porterai
qui. Egli prenderà la Goualeuse e la condurrà al corpo di guardia,
dicendo che è una sgualdrina della Cité trovata a ronzare attorno
alla sua bettola. Siccome le sgualdrine sono condannate a tre mesi
di prigione quando le si sorprende agli Champs-Elysées, e lei è
sempre registrata dalla polizia, sarà arrestata e messa a
Saint-Lazare, dove sarà ben nascosta e custodita come nella cantina
di BrasRouge.” “Ma” ribatté la Chouette, “la Goualeuse non si
lascerà arrestare. Quando sarà al corpo di guardia, dirà che
l’abbiamo rapita e ci denuncerà. E anche supponendo che la mettano
in prigione, scriverà ai suoi protettori e tutto sarà scoperto.”
“No, andrà in carcere senza far resistenza” riprese il Maître
d’école, “e le faremo giurare di non denunciarci a nessuno finché
resterà a Saint-Lazare, e nemmeno dopo. Questo me lo deve, perché
non ho voluto che tu, Chouette, la sfigurassi o la facessi annegare
nelle cantine di BrasRouge. Ma se, dopo aver giurato di non parlare,
facesse la sciocchezza di non mantenere la promessa, metteremo a
ferro e a fuoco la fattoria di Bouqueval.” Poi, rivolgendosi a me,
il Maître d’école aggiunse: “Deciditi; fai il giuramento che ti
chiedo, e te la caverai con due mesi di prigione; altrimenti ti
abbandono alla Chouette che ti condurrà nella cantina di Bras-Rouge
dove sarai annegata. Su, deciditi... So che se fai un giuramento, lo
mantieni”.»
«E voi avete giurato?»
«Ahimè, sì, signora, mi faceva troppa paura essere sfigurata dalla
Chouette o essere annegata da lei in una cantina... mi sembrava una
cosa terribile... Un’altra morte mi sarebbe parsa meno spaventosa;
forse non avrei cercato di sfuggirvi.»
«Che tristi idee alla vostra età!...» disse la signora d’Harville
guardando con stupore la Goualeuse. «Una volta che sarete uscita di
qui e affidata di nuovo ai vostri benefattori, sarete felice? Il
pentimento non basterà a cancellare il vostro passato?»
«Ma il passato si può cancellare? Si può dimenticare? Il pentimento
può forse uccidere la memoria?» esclamò Fleur-de-Marie con tono così
disperato che Clémence ne fu scossa.
«Ma non c’è errore a cui non si possa riparare, povera figliola!»
«E il ricordo delle impurità... signora, non diventa sempre più
terribile man mano che l’anima si purifica e che lo spirito
s’innalza! Ahimè, più salite, e più l’abisso da cui siete uscita, vi
sembra profondo.»
«In questo modo voi avete rinunciato a ogni speranza di
riabilitazione e di perdono.»
«Da parte degli altri... no signora; la vostra cortesia prova che al
rimorso non manca mai l’indulgenza.»
«Siete dunque la sola a essere spietata con voi stessa?»
«Gli altri potranno ignorare, perdonare, dimenticare ciò che sono
stata... io, signora, non potrò mai dimenticarlo...»
«E qualche volta desiderate morire?»
«Qualche volta!» disse la Goualeuse con un amaro sorriso. Poi
soggiunse, dopo un momento di silenzio: «Sì, signora... qualche
volta.»
«Eppure temevate di essere sfigurata da quella orribile donna;
dunque ci tenevate alla vostra bellezza, povera figliola? Ciò vuol
dire che la vita per voi ha ancora qualche attrattiva. Coraggio
dunque, coraggio!...»
«Sarà forse una debolezza pensare questo; ma se fossi bella come voi
avete detto, signora, vorrei morire bella pronunciando il nome del
mio benefattore...»
Gli occhi della signora d’Harville si riempirono di lacrime.
Fleur-de-Marie aveva detto queste ultime parole con tanta
semplicità; il suo viso di angelo pallido e melanconico e il suo
doloroso sorriso si intonavano talmente con le sue parole che non si
poteva dubitare della realtà del suo sinistro desiderio.
La signora d’Harville era dotata di troppa sensibilità per non
capire quanto vi fosse d’inesorabile e di triste in questo pensiero
della Goualeuse:
«Non dimenticherò mai ciò che sono stata...»
Idea fissa, incessante, che doveva dominare, torturare la vita di
Fleur-de-Marie.
Clémence, vergognandosi di aver dubitato per un istante della
generosità sempre disinteressata del principe, si doleva anche di
essersi lasciata trascinare da un moto di gelosia assurda contro la
Goualeuse, che aveva espresso in un impulso di esaltazione la
propria riconoscenza verso il suo protettore.
E, cosa strana, la spiccata ammirazione che la povera prigioniera
provava per Rodolphe aveva forse accresciuto il profondo amore che
Clémence avrebbe dovuto sempre nascondergli.
Per distogliersi da tali pensieri, ella riprese:
«Spero che in futuro sarete meno severa con voi stessa. Ma parliamo
del vostro giuramento: adesso capisco il perché del vostro silenzio.
Non avete voluto accusare quegli scellerati?»
«Sebbene il Maître d’école avesse preso parte al mio rapimento, mi
aveva difesa due volte... avrei temuto di essere ingrata con lui.»
«E voi avete ceduto ai disegni di quei mostri?»
«Sì, signora... ero così spaventata! La Chouette andò a chiamare
Bras-Rouge; questi mi condusse al corpo di guardia, e disse di
avermi presa mentre ronzavo attorno alla sua bettola; io non ho
negato, così sono stata arrestata e messa qui.»
«Ma i vostri amici della fattoria saranno in terribile apprensione!»
«Ahimè, signora! dapprima, terrorizzata com’ero, non avevo pensato
che il mio giuramento mi avrebbe impedito di poterli
tranquillizzare... Adesso ne sono desolata... Ma credo, che senza
venir meno alla parola data, posso pregarvi di scrivere alla signora
Georges, alla fattoria di Bouqueval, di non preoccuparsi di me,
senza dirle però dove io sia, perché ho promesso di tacere...»
«Figliola cara, queste precauzioni saranno inutili, se, per mia
intercessione, vi verrà accordata la grazia. Domani ritornerete alla
fattoria, senza avere per questo tradito il vostro giuramento. Poi
consulterete i vostri benefattori per sapere fino a che punto vi
impegni una promessa estorta con le minacce.»
«Credete, signora... che, grazie alla vostra cortesia... potrò
sperare di uscire presto da qui?»
«Meritate tanto aiuto, che sono certa di riuscirvi. E penso che
domani l’altro andrete voi stessa a rassicurare i vostri
benefattori...» «Dio mio, signora, come ho potuto meritare tanta
gentilezza
da parte vostra? come contraccambiarla?...»
«Continuando a comportarvi come adesso... Mi dispiace soltanto di
non poter far nulla per il vostro avvenire: è una gioia che i vostri
amici si sono tenuti per sé...»
Improvvisamente entrò la signora Armand tutta costernata.
«Signora marchesa» disse a Clémence esitando, «sono desolata
dell’ambasciata che devo farvi.»
«Cosa volete dire, signora?»
«Il signor duca di Lucenay è giù dabbasso... viene da casa vostra,
signora.»
«Dio mio! mi spaventate, cosa è successo?»
«Non lo so, signora; ma il signor di Lucenay dice che deve darvi una
notizia triste e imprevidibile... Ha saputo dalla duchessa sua
moglie che eravate qua ed è venuto subito...»
«Una triste notizia!», disse la signora d’Harville. Poi, a un
tratto, gridò con voce straziante: «Mia figlia... mia figlia...
forse!... Oh, parlate, signora!...»
«Non so niente, signora...»
«Oh! di grazia, di grazia, signora, conducetemi dal signor di
Lucenay!» gridò la signora d’Harville uscendo, tutta stravolta, con
la signora Armand.
«Povera madre!» disse mestamente la Goualeuse, seguendo Clémence con
lo sguardo. «Oh! no... è impossibile!... proprio nel momento in cui
sta mostrandosi così buona con me, deve accaderle una tale
disgrazia!... No, no, lo ripeto, è impossibile.»
XI AMICIZIA PER FORZA
Condurremo il lettore nella casa della rue du Temple, il giorno del
suicidio del signor d’Harville; sono le tre del pomeriggio.
Solo, in portineria, il signor Pipelet, lavoratore instancabile e
coscienzioso, era intento a raccomodare lo stivale che più volte gli
era caduto di mano il giorno dell’ultimo e audace tiro di Cabrion.
Sul volto del portinaio c’erano più abbattimento e malinconia del
solito.
Come un soldato, nell’umiliazione della sconfitta, si passa
tristemente la mano sulle cicatrici delle ferite, così Pipelet
mandava profondi sospiri, interrompeva il lavoro, e faceva scorrere
un dito tremante nello squarcio trasversale del venerando cappello a
rocchetto, fattogli dalla mano insolente di Cabrion.
E al pensiero delle incessanti e inconcepibili persecuzioni da parte
dell’imbrattatele, tutti gli affanni, tutte le inquietudini e tutti
i timori si ridestavano in Alfred.
Il signor Pipelet non aveva idee né troppo vaste né troppo elevate;
la sua immaginazione non era delle più vivaci e poetiche, però aveva
un buon senso solido e logico.
Purtroppo, per naturale conseguenza della sua retta mentalità, il
signor Pipelet, non potendo capire l’eccentrico e pazzesco valore di
ciò che in termini pittorici si chiama caricatura, si sforzava di
trovare motivi ragionevoli, plausibili, alla bizzarra condotta di
Cabrion e, a questo proposito, si poneva un’infinità di insolubili
problemi.
Così, a volte, egli, novello Pascal, si sentiva cogliere dalle
vertigini tanto si sforzava di scandagliare lo smisurato abisso che
sotto i piedi gli aveva scavato il genio infernale del pittore.
Quante volte, messo nell’impossibilità di sfogarsi, era stato
costretto a ripiegarsi su se stesso, per via dello sfrenato
pirronismo della signora Pipelet, la quale, basandosi solo sui fatti
e sdegnando di approfondire le cause, considerava grosso modo
l’inspiegabile condotta di Cabrion verso Alfred un semplice scherzo!
Il signor Pipelet, uomo serio e posato, non poteva ammettere una
simile interpretazione; si lamentava della cecità della moglie; la
sua dignità di uomo si ribellava al pensiero di essere lo zimbello
di un’intenzione così volgare: uno scherzo... Era del tutto convinto
che dietro l’inaudita condotta di Cabrion fosse dissimulato, sotto
frivola apparenza, qualche tenebroso complotto.
Sappiamo che proprio per risolvere questo angoscioso problema l’uomo
dal cappello a rocchetto non cessava mai di dar fondo alla sua
potente dialettica.
«Darei più volentieri la mia testa al boia» diceva quest’uomo
austero al quale bastava toccare un argomento per ingrandirlo
smisuratamente, «darei la mia testa al boia anziché ammettere che
Cabrion si accanisce così ostinatamente contro di me solo per fare
uno stupido scherzo; gli scherzi si fanno per divertire gli
spettatori. Ora, nella sua ultima bravata, quell’essere diabolico
non ha avuto nessuno spettatore; ha agito solo e nell’ombra come
sempre; si è introdotto clandestinamente nella solitudine della
portineria per venirmi a deporre sulla fronte corrucciata un bacio
schifoso, non voleva essere una bravata... nessuno lo vedeva; non
voleva essere un divertimento: le leggi della natura vi si
oppongono; non voleva essere un gesto d’amicizia... io ho al mondo
un solo nemico ed è lui. Si deve dunque ammettere che c’è sotto
un mistero che la mia ragione non può penetrare! Allora a che cosa
mira questo disegno diabolico che, concepito molto tempo fa, dura
con una pertinacia che mi spaventa? Non riesco a capirlo; sono
assillato e consumato dall’impossibilità in cui mi trovo di
sollevare questo velo!»
Queste erano le tristi riflessioni del signor Pipelet nel momento in
cui lo abbiamo presentato al lettore.
L’onesto portinaio stava appunto riaprendosi le piaghe sempre
sanguinanti, passandosi sconsolato una mano sullo squarcio del
cappello, quando una voce acuta, che veniva da uno dei piani
superiori della casa, fece risuonare queste parole nella tromba
sonora delle scale:
«Presto, presto, signor Pipelet... salite, in fretta!»
«Non conosco questa voce» disse Alfred, dopo un momento di attento
ascolto; e lasciò cadere sulle ginocchia l’avambraccio calzato dello
stivale che stava riparando.
«Signor Pipelet, su sbrigatevi!» ripeté la voce facendosi sempre più
insistente.
«Questa voce mi è del tutto sconosciuta. Posso solo affermare che è
maschile e che mi chiama... posso affermare solo questo... Non è una
ragione sufficiente perché io abbandoni la portineria... Lasciarla
sola... disertarla in assenza della mia sposa... mai!», esclamò
Alfred eroicamente, «mai!!!»
«Signor Pipelet» continuò la voce, «salite, su presto... la signora
Pipelet sta male!...»
«Anastasie!...» gridò Alfred alzandosi dalla sedia; poi ricadde a
sedere dicendo fra sé: «Quanto sono sciocco... è impossibile, la mia
sposa è uscita un’ora fa! Sì; ma non può essere rientrata senza che
me ne sia accorto? Sarebbe strano; ma devo dire che potrebbe darsi.»
«Signor Pipelet, salite dunque, ho vostra moglie tra le braccia!»
«Qualcuno ha mia moglie tra le braccia!» disse il signor Pipelet,
alzandosi di scatto.
«Non posso slacciare la signora Pipelet da solo!» aggiunse la voce.
Queste parole ebbero un magico effetto su Alfred: divenne tutto
rosso e tutta la sua castità si rivoltò.
«La voce maschile e sconosciuta parla di slacciare la mia
Anastasie!» gridò; «mi oppongo! lo proibisco!!»
E si precipitò fuori della portineria; ma si fermò sulla soglia.
Il signor Pipelet si trovava in una di quelle situazioni
terribilmente critiche e sommamente drammatiche, sfruttate spesso
dai
poeti. Da un lato il dovere lo tratteneva in portineria; dall’altro
la sua pudica suscettibilità coniugale lo chiamava ai piani
superiori della casa.
In mezzo a così terribili perplessità, la voce proseguì: «Non venite
signor Pipelet?... Peggio per voi... rompo le bretelle e chiudo gli
occhi!...»
La minaccia fece decidere il signor Pipelet.
«Signore...» gridò con voce stentorea, uscendo sconvolto dalla
portineria, «in nome dell’onore, vi scongiuro, signore, di non
rompere niente e di lasciare intatta la mia sposa!... Adesso
salgo...» E Alfred si slanciò nelle tenebre delle scale, lasciando,
nella confusione, la porta della portineria aperta.
Subito dopo che era uscito, ci entrò velocemente un uomo che prese
sulla tavola il martello da ciabattino, saltò sul letto, e, con
quattro puntine, messe prima su ogni angolo di un grosso cartone che
teneva in mano, inchiodò il cartone stesso in fondo all’oscura
alcova di Pipelet e poi sparì.
L’operazione fu condotta con tale rapidità che il portinaio,
ricordandosi quasi nello stesso momento di avere lasciato la
portineria aperta, ridiscese in fretta, chiuse, portò via la chiave
e risalì senza neppure sospettare che qualcuno era entrato da lui.
Dopo questa misura precauzionale, Alfred si slanciò di nuovo in
aiuto di Anastasie gridando con tutte le sue forze:
«Signore, non rompete niente... salgo io... eccomi... raccomando la
mia sposa alla vostra delicatezza!»
Ma il bravo portinaio doveva passare di sorpresa in sorpresa.
Aveva appena salito i primi gradini della scala, che sentì la voce
di Anastasie, non già al piano superiore, ma nell’androne.
La voce di Anastasie più stridula che mai, gridava:
«Alfred! come mai hai lasciato vuota la portineria?... Dove sei,
vecchio girandolone?»
In quel momento il signor Pipelet stava per posare il piede destro
sul pianerottolo del primo piano; restò di sasso, con la testa
girata verso il basso delle scale, la bocca aperta, gli occhi fissi
e il piede alzato.
«Alfred!!!» gridò di nuovo la signora Pipelet.
«Anastasie è giù... quindi non sta certo svenendo!...» disse tra sé
il signor Pipelet, fedele alla sua argomentazione logica e serrata.
«Ma allora... quella voce maschile e sconosciuta che minacciava di
slacciarla, di chi è?... è di un impostore allora?... si prende
crudelmente gioco delle mie preoccupazioni?... Qual è il suo scopo?
Qui sta succedendo qualcosa di strano... A ogni modo: “Fa’ il
tuo dovere, accada quel che accada...” Scenderò prima a rispondere
alla mia sposa, quindi risalirò per far luce su questo mistero e
vedere di chi è la voce.»
Il signor Pipelet scese molto agitato e si trovò faccia a faccia con
la moglie.
«Sei tu?» le disse.
«Sì, sono io; chi vuoi che sia?»
«Sei proprio tu! la vista non m’inganna?»
«Oh bella! perché continui a fare gli occhi da bue? mi guardi
come se mi volessi mangiare...»
«Perché la tua presenza rivela che qui stanno accadendo certe
cose... certe cose...»
«Quali cose?... Su, dammi la chiave della portineria! perché
la lasci vuota? Torno dall’ufficio delle diligenze di Normandia
dov’ero andata in carrozza a portare il bagaglio del signor
Bradamanti; non vuole che si sappia che parte questa sera, e non si
fida di quel bricconcello di Tortillard... e fa bene!»
Così dicendo, la signora Pipelet prese la chiave dalle mani del
marito, aprì la portineria e ci entrò per prima.
La coppia era appena entrata che un tizio scese silenziosamente le
scale, e passò senza farsi vedere, davanti alla portineria.
Era la voce maschile che aveva tanto inquietato Alfred. Il signor
Pipelet si sedette pesantemente sulla sedia e disse alla moglie con
voce rotta:
«Anastasie... mi sento peggio del solito; stanno succedendo qui
certe cose... certe cose...»
«Ecco che farnetichi di nuovo; ma dappertutto succede qualcosa! Che
cosa hai? Sentiamo... oh bella, ma sei tutto bagnato... sei bagnato
fradicio... hai fatto qualche sforzo?... È tutto grondante... il mio
vecchio!»
«Sì, sono grondante... e ne ho ben donde...» e il signor Pipelet si
passò la mano sul viso bagnato di sudore, «perché qui stanno
succedendo cose da far perdere la testa...»
«Ma che cosa c’è ancora? Non puoi mai star fermo... devi sempre
andare in giro come un gatto affamato, invece di restare tranquillo
sul tuo sgabello a badare alla portineria.»
«Anastasie, siete ingiusta... dicendo che vado in giro come un gatto
affamato. Se vado in giro... lo faccio per voi.»
«Per me?»
«Sì... per evitarvi un oltraggio di cui tutti e due avremmo avuto
dolore e vergogna... ho disertato da un posto che considero sacro
come la garitta di una sentinella...»
«Volevano oltraggiare me?»
«Non voi... dato che l’oltraggio di cui vi minacciavano doveva
compiersi lassù, e voi eravate fuori... ma...»
«Che il diavolo mi porti, se capisco qualcosa di quello che mi stai
raccontando! hai proprio perso la bussola?... Senti... finirò col
credere che ogni tanto tu abbia dei vuoti in testa... una
martellata... e questo per colpa di quel mascalzone di Cabrion, che
Dio lo fulmini!... Dopo il suo scherzo dell’altro giorno non ti
riconosco più, sembri rimbambito... ma quell’essere lì sarà sempre
il tuo incubo?»
Subito dopo che Anastasie ebbe pronunciato queste parole, accadde
una cosa stranissima.
Alfred stava seduto, col viso girato dalla parte del letto.
La portineria veniva rischiarata dal pallido chiarore di una
giornata d’inverno e da una lampada. Alla luce incerta, il signor
Pipelet, proprio nel momento in cui la moglie pronunciava il nome di
Cabrion, ebbe la sensazione di veder apparire immobile nell’ombra
dell’alcova la faccia beffarda del pittore.
Era lui con il suo cappello a punta, con i suoi capelli lunghi, con
il suo viso magro, con il suo riso satanico, con la sua barba a
pizzo e con il suo sguardo magnetico...
Per un momento a Pipelet sembrò di sognare; si passò la mano sugli
occhi, credendosi vittima di un’illusione...
Ma non era un’illusione...
Niente di più reale di quella apparizione...
E, cosa spaventosa, non si vedeva il corpo... ma soltanto una te-
sta, il cui colorito risaltava nell’oscurità dell’alcova...
A quella vista il signor Pipelet si buttò all’indietro senza dir
nulla; alzò il braccio destro verso il letto e indicò terrorizzato
la terribile visione con un gesto, tanto che la signora Pipelet si
voltò per cercare di scoprire la causa di quello spavento, che non
tardò
a invadere anche lei, nonostante di solito fosse spavalda.
Ella fece due passi indietro, afferrò con forza la mano di Al-
fred e gridò:
«CABRION!!!»
«Sì...» mormorò il signor Pipelet con voce spenta e cavernosa,
chiudendo gli occhi.
Lo sbalordimento dei due sposi andava tutto a onore del talen-
to dell’artista perché sul cartone egli aveva mirabilmente dipinto
la propria faccia.
Passato il primo momento di stupore, Anastasie, intrepida come una
leonessa, corse al letto, vi salì sopra, e, non senza una
certa paura, strappò il cartone dal muro dove era stato inchiodato.
L’amazzone coronò la prodezza lanciando, come grido di guerra, la
sua esclamazione preferita:
«E giù dunque!...»
Alfred continuava a restare immobile con gli occhi chiusi e le mani
stese in avanti, come aveva sempre fatto nelle situazioni critiche
della sua vita. A indicare la continua violenza delle sue emozioni
interiori c’era solo il tremolio convulso del cappello a rocchetto.
«Apri l’occhio, vecchio mio» disse la signora Pipelet con aria
trionfante, «non è niente... è un dipinto... il ritratto di quello
sciagurato di Cabrion!... ecco, guarda lo sto calpestando!» E
Anastasie, spinta dalla collera, gettò a terra il ritratto e lo
calpestò esclamando: «Se avessi qui in carne e ossa quel mascalzone,
ecco come vorrei conciarlo.» Poi, raccolto il ritratto: «Guarda
adesso, gli ho lasciato un segno... su, guarda!»
Alfred per tutta risposta scosse il capo in segno di negazione
accennando alla moglie di allontanare da lui la detestata immagine.
«Si è mai visto uno sfrontato simile!... E non basta... sotto c’è
scritto in caratteri rossi: Cabrion al suo buon amico Pipelet, per
la vita» disse la portinaia esaminando il cartone alla luce.
«Suo buon amico... per la vita!...» mormorò Alfred. E alzò le mani
al cielo come per chiamarlo a testimone di questa nuova e
oltraggiosa ironia.
«Ma, a proposito, com’è successo?» disse Anastasie; «quel ritratto
non c’era stamane quando ho rifatto il letto, oh, di sicuro... e tu,
hai portato via la chiave, quindi nessuno è potuto entrare durante
la tua assenza. Com’è successo? ripeto, che quel ritratto si trovi
qui?... non sarai stato tu per caso a mettercelo, vecchio adorato?»
La mostruosa ipotesi fece balzare Alfred sulla sedia e gli fece
spalancare due occhi carichi di furore e di minacce.
«Io... io... attaccare nella mia alcova il ritratto di quell’essere
infernale, il quale, non contento di perseguitarmi con la sua odiosa
presenza, mi tormenta anche di notte nei sogni e di giorno con
ritratti! Ma volete proprio farmi diventare pazzo, Anastasie...
pazzo da legare?...»
«Ebbene, cosa ci sarebbe di strano? Se tu, per stare tranquillo,
avessi fatto la pace... con Cabrion durante la mia assenza... che
male ci sarebbe?»
«Io!... la pace con... Oh, Dio mio, l’avete sentita!...»
«E allora... ti avrebbe dato il suo ritratto... come pegno della sua
amicizia... Se è così, dillo pure...»
«Anastasie!...»
«Se fosse così, si dovrebbe dire che sei capriccioso come una bella
donnina.»
«Moglie mia!»
«Ma insomma, devi essere stato proprio tu ad aver attaccato il
quadro!»
«Io!... Oh Dio, Dio!...» «Ma chi è stato allora?» «Voi, signora.»
«Io!...»
«Sì» gridò il signor Pipelet fuori di sé, «siete stata voi; devo
pensare che siate stata voi. Questa mattina, avendo io il letto alle
spalle, non mi sarò accorto di niente.»
«Ma... vecchio mio...»
«Vi dico che dovete essere stata voi... altrimenti dovrò credere che
sia il diavolo... perché non ho lasciato la portineria e quando sono
salito per rispondere alla voce maschile avevo con me la chiave. La
porta era ben chiusa, voi l’avrete aperta... Non negate.»
«Sì, è vero!»
«Confessate dunque?...»
«Confesso che non ci capisco niente... È uno scherzo e anche
ben fatto... bisogna riconoscerlo.»
«Uno scherzo!» gridò il signor Pipelet sdegnato e quasi in de-
lirio. «Ah, siamo alle solite, uno scherzo! Io vi dico che tutto
questo nasconde una orribile trama... C’è qualcosa sotto. È un colpo
organizzato... un complotto. Si ricopre l’abisso con fiori, si tenta
di stordirmi per non farmi vedere il precipizio dove mi si vuole
buttare... Non mi resta che mettermi sotto la protezione della
legge... Meno male che Dio protegge la Francia.»
E Pipelet si diresse verso la porta.
«Ma dove vai, vecchio mio?»
«Dal signor commissario... a sporgere denuncia e a portare
questo ritratto, come prova delle persecuzioni di cui sono vittima.»
«Ma chi denuncerai?»
«Chi denuncerò? Come! il mio nemico più accanito ha trovato il modo,
con procedimenti illegali... di costringermi a vedere il suo
ritratto a casa mia, che dico nel mio letto nuziale, e i magistrati
non mi prenderanno sotto la loro protezione?... Datemi il
ritratto, Anastasie... datemelo... non dalla parte dov’è dipinto...
mi fa male guardarlo! Il traditore non potrà negare... c’è scritto
di suo pugno: Cabrion al suo buon amico Pipelet, per la vita... Per
la vita!... Sì, è proprio per questo... Certo per avere la mia vita
mi perseguita... e finirà per averla... Vivrò in un continuo
terrore; dovrò pensare che quell’essere infernale sia lì, sempre lì,
sotto il pavimento, dentro i muri, sul soffitto! di notte che mi
guarda mentre dormo tra le braccia della mia sposa... di giorno, che
sta in piedi dietro di me, sempre con quel suo sorriso satanico... E
chi mi dice che anche in questo momento non sia qui... nascosto in
qualche luogo, nascosto come un insetto velenoso? Vediamo! ci sei
mostro? ci sei?» gridò il signor Pipelet accompagnando la sua
furibonda imprecazione con un movimento circolare della testa, come
se avesse voluto interrogare con lo sguardo tutti gli angoli della
portineria.
«Ci sono, sì, buon amico!» disse affettuosamente la voce ben nota di
Cabrion.
Le parole sembravano venire dal fondo dell’alcova, grazie a un
semplice trucco da ventriloquo, perché in realtà l’infernale pittore
se ne stava fuori dalla porta della portineria, godendosi tutti i
particolari della scena. Però, dopo aver pronunciato queste parole,
fu tanto prudente da sgusciare via lasciando però, come vedremo più
avanti, qualcosa che sarà un nuovo motivo di collera, di stupore e
di meditazione per la sua vittima.
La signora Pipelet, sempre scettica e coraggiosa, andò a guardare
sotto il letto e a ispezionare gli angoli più dimenticati della
portineria, senza scoprire niente; esplorò l’androne senza essere
più fortunata nelle sue indagini, mentre il signor Pipelet,
accasciato da questo nuovo colpo, s’era lasciato ricadere sulla
sedia in preda al più profondo abbattimento.
«Non è niente Alfred» disse Anastasie, che era sempre molto
coraggiosa, «il furfante era nascosto vicino alla porta e, mentre
noi cercavamo da una parte, lui probabilmente è fuggito dall’altra.
Pazienza! ma un giorno o l’altro lo prenderò, e allora... guai a
lui! gli farò ingoiare il manico della scopa!»
In quel momento la porta si aprì, ed entro nella portineria la
signora Séraphin, la governante del notaio Jacques Ferrand.
«Buongiorno, signora Séraphin» disse la signora Pipelet, che,
volendo nascondere a un’estranea i suoi dispiaceri domestici,
diventò di colpo gentile e garbata; «in che cosa posso esservi
utile?»
«Prima di tutto, ditemi, che cos’è quella nuova insegna che avete
fuori?»
«La nostra nuova insegna?»
«Il piccolo cartello...»
«Un piccolo cartello?»
«Sì, quello nero, a caratteri rossi, che è attaccato sopra al por-
tone.»
«Come! sulla strada?»
«Ma sì, sulla strada, proprio sopra la vostra porta.»
«Cara signora Séraphin, io rinuncio a cercare di capire qualco-
sa; e tu, vecchio mio?»
Alfred restò muto.
«In fondo è un affare che riguarda il signor Pipelet» disse la
signora Séraphin, «me lo spiegherà lui.»
Alfred emise una specie di gemito rauco, inarticolato e agitò il
cappello a rocchetto.
La pantomima voleva dire che Alfred era impossibilitato a
dare spiegazioni, essendo già abbastanza preoccupato da tanti
problemi, uno più insolubile dell’altro.
«Non badategli, signora Séraphin» riprese Anastasie, «Il povero
Alfred ha i suoi soliti crampi al piloro, che lo fanno star male...
Ma che cos’è questo cartello di cui state parlando... forse quello
del liquorista qui vicino?»
«Ma no, ma no; vi dico che è un piccolo cartello attaccato proprio
sopra alla vostra porta.»
«Via, volete scherzare...»
«Niente affatto; l’ho visto entrando, e sopra vi è scritto a grossi
caratteri: “PIPELET E CABRION COMMERCIANO IN AMICIZIA E ALTRO.
Rivolgersi in portineria”.»
«Ah, Dio mio!... c’è scritto questo sul nostro portone! hai sentito
Alfred?»
Il signor Pipelet guardò inebetito la signora Séraphin; non capiva,
non voleva capire.
«C’è questo... sulla strada... su un cartello?» riprese la Pipelet,
confusa da questa nuova audacia.
«Sì, l’ho appena letto. Allora mi sono detta: “Che strano! il signor
Pipelet fa il calzolaio di mestiere, e vuol far sapere ai passanti
con un manifesto che commercia in amicizia con un certo signor
Cabrion... Che cosa vuol dire?... C’è sotto qualcosa... la faccenda
non è chiara. Ma siccome sul cartello c’è scritto anche Rivolgersi
in portineria, la signora Pipelet me lo spiegherà”. Ma guardate
esclamò a un tratto la signora Séraphin interrompendosi, «sembra che
vostro marito stia male... state attenta che cade all’indietro!...»
La signora Pipelet ricevette tra le sue braccia Alfred mezzo
svenuto.
L’ultimo scherzo era stato troppo atroce: l’uomo dal cappello a
rocchetto aveva perso quasi conoscenza, mormorando:
«Che disgraziato! mi ha attaccato su un manifesto pubblico!!»
«Ve lo dicevo io, signora Séraphin, che Alfred ha i suoi soliti
crampi al piloro, senza contare che c’è una canaglia matricolata che
vuol farlo morire a colpi di spillo... Il povero vecchio non ci
resisterà! Per fortuna, c’è qui una goccia d’assenzio, che forse lo
rimetterà in piedi.»
Infatti l’infallibile rimedio della signora Pipelet fece
riacquistare a poco a poco i sensi ad Alfred; ma, ahimè, non si era
ancora ripreso che fu sottoposto a una nuova e crudele prova.
Un individuo di età avanzata, vestito abbastanza bene e dalla faccia
schietta, o meglio tanto da stupido che non si poteva supporgli una
sia pur piccola intenzione di sottintesa ironia, ma nel quale si
poteva riconoscere il vero tipo del gonzo parigino, aprì la parte
mobile della porta a vetri e disse con aria stranamente curiosa:
«Ho visto un cartello qui fuori nell’androne: Pipelet e Cabrion
commerciano in amicizia e altro. Rivolgersi in portineria. Potreste,
per favore, pregiarvi di spiegarmi che cosa vuol dire, voi che siete
il portinaio della casa?»
«Cosa vuol dire?...» gridò Pipelet con voce tonante, dando sfogo al
risentimento da tanto tempo represso, «vuol dire che il signor
Cabrion è un infame impostore, siiignore!...»
Dinanzi a una simile risposta esplosiva e furibonda il gonzo fece un
passo indietro.
Alfred era mezzo fuori della portineria, con il fuoco negli occhi e
le fiamme sul viso per l’esasperazione, e con le mani contratte
stava appoggiato al pannello inferiore della porta, mentre, in
secondo piano, nella penombra della portineria si disegnavano i
vaghi contorni della signora Séraphin e di Anastasie.
«E sappiate, siiignore!» gridò il signor Pipelet, «che non commercio
in niente con quel furfante di Cabrion e tanto meno in amicizia!»
«È vero... e bisogna che siate proprio scemo, sporco cornuto che non
siete altro, per venire a fare una simile domanda!» urlò aspramente
la Pipelet, sporgendo una faccia stizzosa al disopra delle spalle
del marito.
«Signora» disse in tono sentenzioso il gonzo, facendo un altro passo
indietro, «gli affissi sono fatti per essere letti; voi li attac-
cate e io li leggo; è mio diritto, ma voi non siete nel vostro
dicendomi insolenze!»
«Insolente voi... buffone!» replicò Anastasie mostrando i denti.
«Siete una bifolca!»
«Alfred, il tuo pedale, che voglio prendere le misure di questa
bella faccia... per insegnargli a venire a fare lo spiritoso con
l’età che ha... vecchio tanghero!»
«Insulti, quando vi si vengono a chiedere informazioni sul vostro
affisso! non finisce qui, signora!»
«Ma, siiignore...» gridò il povero portinaio.
«Ma, signore» fece eco il gonzo irritato, «fate amicizia quanto vi
pare col vostro signor Cabrion ma, perbacco, non andate a metterlo a
caratteri cubitali sotto il naso dei passanti! E con ciò mi sento in
dovere di avvertirvi che siete un gran villano, e che andrò a
sporgere querela dal commissario.»
E il gonzo se ne andò incollerito.
«Anastasie» disse Pipelet con voce dolente, «non sopravviverò, lo
sento, sono colpito a morte... non ho nessuna speranza di
sfuggirgli. Lo vedi, il mio nome è pubblicamente unito a quello di
quel miserabile. Ha avuto il coraggio di scrivere sul cartello che
commercio con lui in amicizia e la gente ci crederà; io informo...
lo dico... io lo comunico... è mostruoso... è enorme, è un’idea
infernale; ma questa storia deve finire... il vaso è colmo...
bisogna che uno dei due soccomba in questa lotta!»
E il signor Pipelet afferrò il ritratto di Cabrion e si slanciò
verso la porta, segno questo che aveva superato la naturale apatia
prendendo un’energica decisione.
«Dove vai, Alfred?»
«Dal commissario. E intanto toglierò quell’infame cartello; così con
il ritratto e il cartello in mano, potrò gridare al commissario:
“Difendetemi vendicatemi liberatemi da Cabrion!”»
«Ben detto, vecchio mio; muoviti, scuotiti; se non riesci a togliere
il cartello, di’ al liquorista di prestarti la sua scaletta e di
aiutarti. Farabutto di un Cabrion! Oh, se l’avessi tra le mani e se
potessi, lo metterei a friggere nella padella, tanto vorrei vederlo
soffrire. Si, c’è gente che va alla ghigliottina ma lo merita meno
di lui. Che mascalzone! vorrei vederlo in place de Grève, quello
scellerato!»
Alfred, in questa circostanza, diede prova di una longanimità
sublime. Malgrado i suoi gravi rancori contro Cabrion, ebbe la
generosità di manifestare qualche sentimento pietoso verso il
pittore.
«No» disse, «no, quand’anche potessi, non chiederei la sua testa!»
«Io, sì... sì... sì, peggio per lui. E via su!» gridò la feroce
Anastasie.
«No» continuò Alfred, «non voglio sangue, ma ho il diritto di
reclamare l’ergastolo per quell’essere diabolico; così vuole la mia
tranquillità, così ordina la mia salute... la legge non può non
concedermi questa soddisfazione... altrimenti, lascio la Francia...
la mia bella Francia! Ecco che cosa ci guadagneranno.»
E Alfred uscì maestosamente, seppure distrutto dal dolore, dalla
portineria, come una di quelle tragiche vittime dell’antico fato.
XII CECILY
Prima di riferire il colloquio tra la signora Séraphin e la signora
Pipelet, informeremo il lettore del fatto che Anastasie, pur senza
sospettare minimamente la virtù e la religiosità del notaio, aveva
estremamente biasimato la severità dimostrata da lui nei riguardi di
Louise Morel e di Germain. Naturalmente la portinaia aveva coinvolto
nello stesso biasimo anche la signora Séraphin; ma, da abile
politicante, la signora Pipelet, per ragioni che diremo più avanti,
aveva dissimulato la sua avversione per la governante dietro
l’accoglienza più cordiale.
Dopo aver disapprovato per formalità l’infame comportamento di
Cabrion, la signora Séraphin riprese:
«Ma insomma, che ne è dunque del signor Bradamanti (Polidori)? Ieri
sera gli scrivo e niente risposta; stamattina vengo per vederlo,
nessuno... Spero di avere miglior fortuna ora.»
La signora Pipelet finse vivissima contrarietà.
«Oh bella» esclamò, «dovete proprio essere sfortunata!» «Come?»
«Il signor Bradamanti non è ancora rientrato.»
«Che seccatura!»
«Eh, è proprio una seccatura, mia povera signora Séraphin.» «Ho
tanto bisogno di parlargli, io.»
«È come se aveste addosso il malocchio.»
«Tanto più che devo inventare dei pretesti per venire qui: per-
ché se al signor Ferrand venisse mai in mente che conosco un
ciarlatano, lui che è così devoto... così scrupoloso... figuratevi
un po’... che scenate!»
«È come Alfred: è così bigotto, così bigotto che si cruccia di
tutto.»
«E non sapete quando tornerà il signor Bradamanti?»
«Ha un appuntamento per le sei o le sette di sera; e mi ha pregato
di dire alla persona che doveva aspettare di ripassare, nel caso non
fosse ancora rientrato. Ritornate dunque in serata, sarete sicura di
trovarlo.»
E Anastasie aggiunse in cuor suo:
“Contateci proprio: fra un’ora sarà in viaggio per la Normandia”.
«Ritornerò allora questa sera» disse la signora Séraphin con-
trariata. Poi aggiunse: «Avevo un’altra cosa da dirvi, cara signora
Pipelet. Sapete che cosa è successo a quella tipa della Louise, che
tutti credevano onesta?»
«Non parlatemene» rispose la Pipelet alzando al cielo due occhi
compunti, «mi si rizzano i capelli in testa.»
«Lo dico perché non abbiamo più la serva e, se per caso, sentiste
parlare di qualche ragazza buona e brava, lavoratrice e onesta, mi
fareste un piacere se me la mandaste. È così difficile trovare buoni
elementi che bisogna girare di qua e di là per scovarli.»
«State tranquilla, signora Séraphin. Se sento parlare di qualcuna,
vi avvertirò... Anche i buoni impieghi sono rari come i buoni
elementi.»
Poi Anastasie soggiunse sempre in cuor suo:
“Stai fresca che ti mando una povera ragazza perché crepi di fame
nella tua baracca! Il tuo padrone è troppo avaro e troppo cattivo;
denunciare in una sola volta quella disgraziata Louise e quel povero
Germain!”.
«Non ho bisogno di dirvi» riprese la signora Séraphin «quanto sia
tranquilla la nostra casa; una ragazza ha solo guadagnarci a stare
da noi; quanto a Louise, doveva proprio essere un cattivo soggetto
per finire così male, nonostante i buoni e santi consigli che le
dava il signor Ferrand.»
«Certo... Ma fidatevi di me; se sento parlare di una ragazza come
chiedete voi, ve la manderò subito.»
«C’è ancora una cosa» continuò la signora Séraphin: «se fosse
possibile, il signor Ferrand preferirebbe che la serva non avesse
famiglia, perché così, capite, non avendo motivo di uscire,
rischierebbe meno di rovinarsi; di modo che, se per caso si
trovasse, il padrone preferirebbe un’orfanella, penso... prima di
tutto perché sarebbe una buona azione e poi perché, come vi dicevo,
non avendo né relazioni né parenti, non troverebbe nessun pretesto
per uscire. Quella sciagurata Louise è stata una bella lezione per
il signore...
cara signora Pipelet! per questo adesso è così difficile prima di
scegliere una domestica. Un simile scandalo in una casa religiosa
come la nostra... che orrore! Bene, a questa sera; salendo dal
signor Bradamanti, entrerò da comare Burette.»
«A questa sera, signora Séraphin; troverete senz’altro il signor
Bradamanti.»
La signora Séraphin uscì.
«Com’è insistente con quel Bradamanti!» disse la signora Pipelet;
«cosa potrà volere da lui! e lui, come si è ostinato a non volerla
vedere prima di partire per la Normandia! Avevo una gran paura che
la Séraphin non se ne andasse, tanto più che il signor Bradamanti
aspetta la signora che è venuta anche ieri sera. Non ho potuto
vederla bene; ma questa volta cercherò di sbirciare come ho fatto
l’altro giorno con la donnetta di quel comandante da due soldi. Non
ha più rimesso piede qui! Per dargli una lezione gli brucerò la
legna... sì, gliela brucerò tutta la sua legna! specie di
farfallone. Va’ al diavolo con i tuoi miserabili dodici franchi e la
tua vestaglia da lucciola! Ti fosse servita a qualcosa! Ma chi sarà
mai la signora di Bradamanti? Una signora o una del popolo? Vorrei
proprio saperlo, perché sono curiosa come una gazza, non è colpa
mia, il buon Dio mi ha fatta così. S’arrangi! questo è il mio
carattere. To’... un’idea, e luminosa anche, per sapere il nome di
quella signora! Bisognerà che provi. Ma chi sta venendo? Ah, è il
mio principe degli inquilini. Salve, signor Rodolphe» disse la
signora Pipelet mettendosi sul presentat’arm, e portandosi il
rovescio della mano sinistra alla parrucca.
Era infatti Rodolphe; non sapeva ancora della morte del signor
d’Harville.
«Buon giorno, signora Pipelet» disse entrando. «È in casa la
signorina Rigolette? Dovrei parlarle.»
«Lei? e non c’è sempre, quella povera gattina? E il suo lavoro
allora? Si ferma forse mai?...»
«Come sta la moglie di Morel? Si sta riprendendo un po’?»
«Sì, signor Rodolphe. Certo, grazie a voi o al protettore di cui
siete il mandatario, lei e i suoi figli sono così felici, adesso!
Stanno come i pesci nell’acqua: hanno fuoco, aria, buoni letti, buon
cibo, un’infermiera per curarli, senza contare la signorina
Rigolette che, pur lavorando come un castoro, e facendo finta di
niente, non li perde di vista!... e poi è venuto da parte vostra un
medico negro per visitare la moglie di Morel... Eh, eh, eh! sapete,
signor Rodolphe, mi sono detta tra me: “Ah, questa poi, che sia il
medico dei carbonai, quel negretto lì? Può tastar loro il polso
senza spor-
carsi le mani”. Ma che importa, il colore non c’entra; pare che sia
ugualmente un bravo dottore! Ha ordinato alla moglie di Morel una
pozione che l’ha risollevata subito.»
«Povera donna! dev’essere sempre triste, vero?»
«Sì, sì, signor Rodolphe... Cosa volete? avere il marito pazzo e la
sua Louise in prigione. Louise è il suo più grande strazio! per una
famiglia onesta è terribile... E quando penso che poco fa, comare
Séraphin la governante del notaio, è venuta qui a dir male di quella
ragazza! Se non avessi avuto una certa cosa da darle da bere, alla
Séraphin, non gliela avrei fatta passare liscia; ma in quel momento
ho dovuto rigare dritto. E non ha avuto la sfacciataggine di venirmi
a chiedere se conoscevo una ragazza da mettere al posto di Louise,
in casa di quel taccagno di notaio?... Come sono furbi e avari!
Immaginatevi che vogliono un’orfana per serva, se la trovano. Sapete
perché, signor Rodolphe? Dicono che un’orfana, non avendo genitori,
non ha neppure la scusa di uscire per vederli ed è quindi più calma.
Ma non si tratta di questo, è una scusa. La verità è che vorrebbero
una povera ragazza, che non dipendesse da nessuno per poterla
infinocchiare, perché non avendo qualcuno con cui consigliarsi, la
trufferebbero tranquillamente sul salario. Non è così, signor
Rodolphe?»
«Sì... sì...» rispose questi con aria preoccupata.
Sentendo che la signora Séraphin cercava come serva del signor
Ferrand un’orfana che sostituisse Louise, Rodolphe aveva intravisto
in quella circostanza una possibilità quasi sicura per giungere alla
punizione del notaio. Mentre la signora Pipelet parlava, egli
modificava un po’ alla volta la parte che nella sua mente aveva già
assegnato a Cecily, principale strumento del giusto castigo che
voleva infliggere al carnefice di Louise Morel.
«Ero sicura che la pensavate come me» continuò la signora Pipelet,
«sì, lo ripeto, essi vogliono una ragazza senza nessuno, solo per
mangiarle la paga; quindi, meglio morire piuttosto che mandargliene
una. Prima di tutto non ne conosco nessuna... e poi anche se ne
conoscessi, le impedirei di entrare in quella spelonca. Avrei
ragione, vero, signor Rodolphe?»
«Signora Pipelet, volete farmi un gran piacere?»
«Dio Santo! signor Rodolphe... devo buttarmi nel fuoco? devo
arricciarmi la parrucca con l’olio bollente? o preferite che io
morda qualcuno?... parlate, sono tutta vostra... io e il mio cuore
siamo vostri schiavi... escluso che si tratti di fare le corna ad
Alfred.»
«Per questo, potete stare pur tranquilla, signora Pipelet... ecco di
che cosa si tratta... Devo trovare un posto a una giovane orfa-
na... straniera che non è mai venuta a Parigi, e vorrei farla
entrare in casa del signor Ferrand...»
«Non fatemi soffocare!... come! in quella baracca da quel vecchio
avaro?...»
«È pur sempre un posto... Se la ragazza in questione non si troverà
bene, se ne andrà... ma almeno guadagnerà subito da vivere... e io
sarò tranquillo sul suo conto.»
«Accidenti, signor Rodolphe, questo non mi riguarda, io comunque vi
ho avvertito... Se, nonostante tutto trovate che il posto sia
buono... siete padrone voi... E poi, bisogna essere anche giusti con
il notaio: se c’è il contro c’è anche il pro... È avaro come un
cane, cocciuto come un mulo, bigotto come un sacrestano, è vero...
ma è onesto come pochi... Egli dà un magro salario... ma lo paga
puntualissimo... Il cibo è cattivo... ma c’è tutti i giorni. Insomma
è una casa dove si deve lavorare come un cavallo; ma è una casa
noiosissima... dove non c’è pericolo che una ragazza sgarri...
Louise è un’eccezione.»
«Signora Pipelet, voglio confidare un segreto al vostro onore.»
«Parola di Anastasie Pipelet, nata Galimard com’è vero Dio... com’è
vero che Alfred porta solo abiti verdi... sarò muta come un pesce.»
«Non dovrete dir niente al signor Pipelet!...»
«Lo giuro sulla testa del mio vecchio... sempre che il motivo sia
onesto...»
«Brava signora Pipelet!»
«Allora gliene faremo vedere di tutti i colori, non saprà niente di
niente; figuratevi che è innocente e malizioso come un bambino di
sei mesi.»
«Ho fiducia in voi. Ascoltatemi dunque.»
«La cosa resterà fra noi per la vita e per la morte, mio principe
degli inquilini... Su, dite.»
«La ragazza di cui vi sto parlando ha commesso un errore...»
«Lo supponevo!... Se non avessi sposato Alfred a quindici anni, ne
avrei commessi forse una cinquantina... qualche centinaia di quegli
errori! Io, tale quale mi vedete... ero tutta pepe, perdindirindina!
Per fortuna Pipelet mi ha spento con la sua virtù... altrimenti
avrei fatto follie per gli uomini. Questo per dirvi che se la vostra
ragazza ha commesso solo uno di quegli errori... c’è ancora
speranza.»
«Lo credo anch’io. Questa ragazza era serva in Germania, da una mia
parente; il figlio di questa parente è stato complice di
quell’errore; capite?»
«E giù dunque!... capisco... come se l’avessi fatto io lo sbaglio.»
«La madre ha scacciato la serva; ma il giovanotto è stato tanto
pazzo da abbandonare la casa paterna e condurre la ragazza a
Parigi.»
«Cosa volete?... questi giovani...»
«Dopo il colpo di testa sono venute le riflessioni, riflessioni
tanto più sagge in quanto s’erano mangiati il poco denaro che egli
aveva. Il mio giovane parente si è rivolto a me; e io ho
acconsentito a dargli l’occorrente per ritornare da sua madre, ma a
patto che lasciasse qui la ragazza, cui mi sarei incaricato io di
trovare un posto.»
«Io non avrei fatto meglio se fosse stato mio figlio... se Pipelet
si fosse compiaciuto di darmene uno...»
«Sono contento di avere la vostra approvazione; solo che per la
ragazza, non avendo essa conoscenze ed essendo straniera, è molto
difficile trovare un posto... Se voi voleste dire alla signora
Séraphin che un vostro parente, che vive in Germania, ha indirizzato
a voi e raccomandato la ragazza, forse il notaio la prenderebbe a
suo servizio; ne sarei doppiamente contento. Cecily, essendo stata
solo traviata, dovrebbe sicuramente correggersi in una casa austera
come quella del notaio... Soprattutto per questa ragione ci terrei
che la ragazza entrasse dal signor Jacques Ferrand. Inutile dirvi
che presentata da voi... persona così rispettabile...»
«Ah, signor Rodolphe...»
«Così stimabile...»
«Oh, mio principe degli inquilini...»
«Insomma, raccomandata da voi, la ragazza sarebbe subito ac-
cettata dalla signora Séraphin, mentre, invece, presentata da me...»
«Eh, si sa!... è come se io presentassi un giovanotto! Ebbene, ci
sto... la cosa mi va... E giù dunque... sbaragliata la Séraphin!
Meglio così, tanto ho il dente avvelenato con lei; lasciate fare a
me, signor Rodolphe! Le farò vedere le stelle a mezzogiorno: le dirò
che da non so quanto tempo ho una cugina che vive in Germania, una
Galimard; che ho appena saputo che è morta, come pure suo marito, e
che la figliola, orfana, mi verrà a stare sulle spalle da
un giorno all’altro.»
«Benissimo... Accompagnerete voi stessa Cecily dal signor
Ferrand, senza dire altro alla signora Séraphin. Siccome sono
vent’anni che non vedete vostra cugina, direte solo che, dopo la sua
partenza per la Germania, non avete ricevuto da lei nessuna
notizia.»
«Va bene, ma se la ragazza non mastica altro che tedesco?»
«Ella parla perfettamente il francese. Le farò io la lezione. Voi
preoccupatevi solo di raccomandarla caldamente alla signora
Séraphin; o piuttosto, adesso che ci penso, è meglio di no... perché
forse potrebbe sospettare che vogliate forzarle la mano... Sapete, a
volte basta domandare una cosa perché vi sia negata...»
«A chi lo dite!... Proprio per questo ho sempre respinto i
cascamorti... Se non mi avessero chiesto niente... non dico...»
«Succede sempre così... Dunque non fate nessuna proposta alla
signora Séraphin e lasciate che venga da sé... Ditele soltanto che
Cecily è orfana, straniera, giovanissima e bella, che sarà per voi
di gran peso, che non sentite per lei eccessivo affetto, visto che
eravate arrabbiata con vostra cugina e non avete capito perché vi
abbia fatto un simile regalo...»
«Gran Dio! quanto siete furbo!... Ma state tranquillo, noi due
facciamo una bella coppia. Eh, signor Rodolphe, come ci capiamo
bene... noi due!... E quando penso che se foste stato della mia età
nel tempo in cui ero tutta pepe... in coscienza, non so... e voi?»
«Zitta!... Se il signor Pipelet...»
«Ah sì! Pover’uomo, ha proprio in testa queste cose, lui! Non sapete
la nuova infamia di Cabrion?... Ma ve la racconterò dopo... Quanto
alla ragazza, state tranquillo... scommetto che spingerò la Séraphin
a chiedermi di mettere in casa loro la mia parente.»
«Se ci riuscirete, cara signora Pipelet, ci sono 100 franchi per
voi. Io non sono ricco, ma...»
«Volete scherzare, signor Rodolphe? Credete che lo faccia per
interesse? Gran Dio!... è per pura amicizia... 100 franchi!»
«Pensate che se io avessi per molto tempo a carico quella ragazza,
mi costerebbe molto più di questa somma... dopo qualche mese...»
«Dunque, solo per farvi un piacere, prenderò i 100 franchi, signor
Rodolphe; ma è proprio un bel terno al lotto per noi che voi siate
venuto in questa casa. Posso gridarlo in piazza che siete il
principe degli inquilini. To’, una carrozza!... Sarà sicuramente la
donnetta del signor Bradamanti... È venuta anche ieri, ma non sono
riuscita a vederla... Adesso nicchierò un po’ prima di risponderle,
per avere il tempo di esaminarla bene; senza contare che ho trovato
un mezzo per sapere il suo nome... Adesso mi vedrete lavorare... vi
divertirete.»
«No, no, signora Pipelet, non m’interessano il nome e la faccia di
quella signora» disse Rodolphe, rimpiattandosi in fondo alla
portineria.
«Signora!» gridò Anastasie, precipitandosi incontro alla persona che
entrava, «dove andate, signora?»
«Dal signor Bradamanti» disse la signora visibilmente contrariata di
essere fermata.
«Non c’è.»
«È impossibile, ho appuntamento con lui.»
«Non c’è...»
«Vi sbagliate...»
«Non mi sbaglio affatto...» disse la portinaia facendo abili ma-
novre per distinguere il volto della donna. «Il signor Bradamanti è
uscito, proprio uscito, uscitissimo... eccetto che per una
signora...» «Ebbene, sono io... mi fate perdere la pazienza...
lasciatemi
passare.»
«Il vostro nome, signora?... vedrò se è quello della persona che
il signor Bradamanti mi ha detto di lasciare entrare. Se non è il
vostro nome... dovrete passare sul mio corpo prima di poter
salire...»
«Vi ha detto il mio nome?» esclamò la donna sorpresa e inquieta.
«Sì, signora...»
«Che imprudenza!» mormorò la giovane donna. Poi, dopo aver esitato
un momento, ella aggiunse, spazientita e sottovoce come se avesse
temuto di essere sentita: «Ebbene, mi chiamo signora d’Orbigny.»
A quel nome, Rodolphe trasalì.
Era il nome della matrigna della signora d’Harville. Invece di
restare nell’ombra, egli venne avanti e alla luce del giorno non
ebbe difficoltà a conoscere la donna perché Clémence una volta
gliela aveva descritta.
«La signora d’Orbigny?» ripeté la signora Pipelet, «è proprio il
nome che mi ha detto il signor Bradamanti; potete salire, signora.»
La matrigna della signora d’Harville passò rapidamente davanti alla
portinaia.
«E giù dunque!» esclamò la portinaia con aria trionfante, «gabbata
la signora!... so il suo nome, si chiama d’Orbigny... mica brutto il
sistema, eh... signor Rodolphe? Ma cosa avete? siete tutto
pensieroso!»
«È già venuta questa signora a trovare il signor Bradamanti?» chiese
Rodolphe alla portinaia.
«Sì. Ieri sera, non appena se n’è andata, il signor Bradamanti è
uscito subito, forse per andare a fissare il posto nella diligenza
per
quest’oggi; infatti ieri, quando è ritornato, mi ha pregata di
portare il suo baule fino al deposito delle carrozze, perché non si
fidava di quel monellaccio di Tortillard.»
«E dove va il signor Bradamanti? lo sapete?»
«In Normandia... per le strade di Alençon.»
Rodolphe si ricordò che la tenuta di Aubiers, dove abitava il si-
gnor d’Orbigny, si trovava in Normandia.
Non c’era dubbio, il ciarlatano andava dal padre di Clémence,
sicuramente con sinistre intenzioni.
«La partenza del signor Bradamanti manderà su tutte le furie
la Séraphin!» continuò la signora Pipelet. «È rabbiosa di vedere il
signor Bradamanti, che fa di tutto per evitarla; infatti mi ha
raccomandato di non dirle che partiva questa sera alle sei; così,
quando lei ritornerà, si troverà la porta chiusa in faccia!
approfitterò di questo per parlarle della vostra ragazza. A
proposito, come si chiama?... Cice?
«Cecily...»
«Come se si dicesse Cecilie senza la e. Comunque bisognerà che metta
un pezzo di carta nella mia tabacchiera per ricordarmi quel diavolo
di nome... Cici...; Caci... Cecily: ecco, ci sono.»
«Adesso salgo dalla signorina Rigolette» disse Rodolphe alla
Pipelet, uscendo dalla portineria.
«E quando scenderete, signor Rodolphe, non verrete a dare un
salutino al mio povero vecchio? Ha avuto un grosso dispiacere! Vi
racconterà lui...quel mostro di Cabrion ne ha fatta una delle
sue...»
«Prenderò sempre parte alle pene di vostro marito, signora
Pipelet...»
E Rodolphe, molto preoccupato della visita della signora d’Orbigny a
Polidori, salì dalla signorina Rigolette.
XIII
IL PRIMO DISPIACERE DI RIGOLETTE
La stanza di Rigolette brillava da tanto era graziosa e pulita. Il
grosso orologio d’argento del caminetto in una cassettina di sasso
segnava le quattro; essendo cessato il gran freddo, l’economa
operaia non aveva acceso la stufa.
Dalla finestra si scorgeva appena un ritaglio di cielo azzurro tra
una massa irregolare di tetti, di soffitte e di camini che,
all’altro lato della strada, formavano l’orizzonte.
A un tratto un raggio di sole, per così dire sperduto, scivolando
fra due alti muri, era venuto ad accendere di tinte splendenti i
vetri della stanza della giovinetta.
Rigolette lavorava seduta accanto alla finestra. Il dolce
chiaroscuro del suo bel profilo risaltava sulla luminosa trasparenza
del vetro come un cammeo bianco rosato su un fondo vermiglio.
Lucenti riflessi le correvano sulla chioma nera, raccolta sulla
nuca, e spargevano un caldo colore ambrato sull’avorio delle sue
infaticabili manine, che maneggiavano l’ago con incomparabile
agilità.
Le lunghe pieghe del suo vestito nero, sul quale spiccava la
dentellatura del grembiule nero, ricoprivano quasi tutta la sedia
impagliata su cui era seduta; i suoi due piedini, sempre
perfettamente calzati, si appoggiavano all’orlo di uno sgabello che
aveva davanti.
Come un gran signore si diverte a volte a togliersi il capriccio di
rivestire i muri di una capanna con splendide tappezzerie, così per
un istante il sole del tramonto illuminò la cameretta di mille luci
cangianti, ornò di riflessi dorati le tendine di tela grigia e
verde, fece brillare la superficie dei mobili di noce e scintillare
i mattoni del pavimento come rame rosso, imprigionò in un reticolato
d’oro i due uccellini della sartina.
Ma, ahimè, nonostante la gaiezza provocante di quel raggio di sole,
i due canarini, maschio e femmina, svolazzavano inquieti e,
contrariamente al solito, non cantavano.
Perché, contrariamente al solito, Rigolette non cantava. Tutti e tre
cinguettavano solo assieme. Quasi sempre il canto fresco e mattutino
della ragazza dava il la alle canzoni degli uccelli che, più pigri,
non lasciavano il loro nido così di buon’ora.
E allora erano sfide e gare di note chiare, sonore, perlate,
argentine in cui non sempre gli uccelletti erano vincitori.
Rigolette non cantava più... perché, per la prima volta in vita sua,
aveva un dispiacere.
Fino a quel momento era stata angustiata dallo spettacolo della
miseria dei Morel; ma simili scene sono troppo familiari alle classi
povere per procurare loro sentimenti durevoli.
Dopo avere quasi ogni giorno soccorso quei disgraziati per quanto
poteva e pianto sinceramente con loro e per loro, la ragazza si era
sentita commossa e soddisfatta... commossa da quelle disgrazie...
soddisfatta di essere stata pietosa.
Ma questo non era un dispiacere.
Ben presto la naturale allegrezza di Rigolette aveva ripreso il
sopravvento... E poi, non per egoismo, ma per semplice dato
di fatto, stava così bene nella sua cameretta che, quando usciva
dall’orribile abitazione dei Morel, la sua temporanea tristezza si
dissipava da sé.
Questa diversità d’impressioni era così poco viziata dall’interesse
personale che, per un ragionamento di commovente delicatezza, la
sartina considerava quasi un dovere mettersi nei panni di quelli che
erano più disgraziati di lei, per poter godere senza scrupoli di
un’esistenza certo precaria e che si guadagnava completamente con il
lavoro, ma che, in confronto alla spaventosa miseria della famiglia
del lapidario, le sembrava quasi lussuosa.
«Per cantare senza rimorsi, quando si ha vicino della gente così
disgraziata» diceva ingenuamente, «bisogna essere stati per quanto
possibile caritatevoli con loro.»
Prima di rivelare la causa del primo dispiacere di Rigolette noi
desideriamo tranquillizzare il lettore edificandolo completamente
sulla virtù della ragazza.
Ci dispiace usare la parola virtù, parola grave, paurosa, solenne
che porta quasi sempre con sé l’idea di sacrifici dolorosi, di lotte
penose contro le passioni, di austere meditazioni sulla fine delle
cose terrene.
Questa non era la virtù di Rigolette.
Ella non aveva né lottato né meditato.
Ella aveva lavorato, riso e cantato.
La sua onestà, come aveva avuto la sincerità di dire a Ro-
dolphe, dipendeva soprattutto dalla questione tempo... Non aveva
tempo di essere innamorata.
Essendo soprattutto allegra, laboriosa, ordinata, l’ordine, il
lavoro, l’allegria l’avevano, a sua insaputa, difesa, sostenuta,
salvata. Forse si troverà questa morale leggera, facile e comoda; ma
cosa importa la causa, quando sussiste l’effetto?
Cosa importa la direzione delle radici nelle piante, purché il
fiore sbocci puro, splendido e profumato?
A proposito della nostra utopia sugli incoraggiamenti, i soc-
corsi e le ricompense che la società dovrebbe accordare agli
artigiani che si sono distinti per eminenti qualità sociali, abbiamo
detto che uno dei progetti dell’imperatore era lo spionaggio della
virtù.
Supponiamo che il fecondo pensiero del grand’uomo si realizzi!...
Uno di quei filantropi veri, incaricato da lui di ricercare il bene,
ha scoperto Rigolette.
La bella ragazza, pur essendo in balìa di se stessa, senza
consiglieri, senza appoggi, esposta a tutti i pericoli della
povertà, a tutte le seduzioni da cui sono tentate la giovinezza e la
bellezza, è rimasta pura tanto che la sua vita onesta e laboriosa
potrebbe essere ricca d’insegnamenti e servire da esempio.
Non merita forse la ragazza non diciamo una ricompensa, o un
soccorso, ma qualche buona parola di approvazione, di
incoraggiamento, che le dia atto del suo valore, che la elevi ai
propri occhi, che la impegni anche per il futuro?
Sapendo che è seguita da uno sguardo sollecito e protettore nella
difficile via che sta battendo con tanto coraggio e serenità.
Sapendo che se un giorno la mancanza di lavoro o una malattia
minacciassero di rompere l’equilibrio di quella vita povera e
affannosa che si basa tutta sul lavoro e sulla salute, le verrà dato
un piccolo aiuto, essendoselo lei guadagnato coi meriti passati.
Molti grideranno all’impossibilità di una tale sorveglianza di tipo
tutelare che dovrebbe esercitarsi sulle persone particolarmente
degne d’interesse per i loro ottimi trascorsi.
A noi sembra che la società abbia già risolto questo problema.
Non ha forse escogitato la sorveglianza a vita o a tempo determinato
della polizia allo scopo, utilissimo del resto, di controllare
continuamente la condotta delle persone pericolose messe in vista
dai loro pessimi trascorsi?
Perché la società non dovrebbe esercitare anche una sorveglianza di
alta carità morale?
Ma scendiamo dalla sfera delle utopie e torniamo alla causa del
primo dispiacere di Rigolette.
Tranne Germain, giovane schietto e serio, tutti i vicini della
sartina, in un primo momento, avevano preso la sua originale
familiarità, le sue proposte di buon vicinato, per lusinghe molto
significative. Ma in seguito questi signori erano stati costretti a
riconoscere, con stupore e con dispetto, che in Rigolette avrebbero
trovato una cara e allegra compagna per i loro divertimenti
domenicali, una vicina buona e servizievole, ma non un’amante.
La loro sorpresa e il loro dispetto, dapprima molto forti, scemarono
a poco a poco davanti alla gentilezza e alla schiettezza della
sartina; e poi, come ella aveva detto giudiziosamente a Rodolphe, i
suoi vicini erano fieri la domenica di avere a braccio una bella
ragazza che faceva loro onore in tutti i sensi (Rigolette non si
curava delle apparenze), e che costava loro solo la partecipazione
ai modesti divertimenti che venivano impreziositi dalla sua presenza
e dalla sua gentilezza.
D’altra parte la ragazza si contentava di così poco!... nei giorni
di magra le bastava per pranzare bene e mordere allegramente con
tutta la forza dei suoi piccoli denti bianchi un bel pezzo di
schiacciata calda! dopo di che, per divertirsi, le bastava una
passeggiata per i viali o sotto i portici!
Se i nostri lettori sentono un po’ di simpatia per Rigolette, devono
convenire che bisognava essere sciocchi e barbari per negare una
volta alla settimana queste semplici distrazioni a una creatura così
graziosa, la quale, del resto, non avendo il diritto di essere
gelosa, non impediva mai ai suoi cicisbei di consolarsi della sua
rigidezza con altre ragazze meno crudeli di lei!
Solo François Germain non concepì nessuna stolta speranza sulla
familiarità della ragazza; forse per un immediato sentimento o per
una delicatezza interiore, fatto sta che egli intuì, fin dal primo
giorno, tutto ciò che poteva esserci di delizioso nel singolare
cameratismo che gli offriva Rigolette.
Accadde ciò che doveva fatalmente accadere.
Germain si innamorò follemente della vicina, ma non osò far parola
del suo amore.
Ben lungi dall’imitare i suoi predecessori, che, convinti
dell’inutilità dei loro tentativi, si erano consolati con altri
amori, pur continuando ad avere ottime relazioni con la vicina,
Germain era stato molto felice di questa sua intimità con la
ragazza, tanto che passava vicino a lei non solo le domeniche, ma
anche tutte le sere in cui non era occupato. Durante quelle lunghe
ore, Rigolette era stata come sempre allegra e pazzerella, e
Germain, tenero, serio, pieno d’attenzioni e spesso anche un po’
triste.
La tristezza era il solo inconveniente, perché i suoi modi, per se
stessi signorili, non potevano essere paragonati alle ridicole
affettazioni del signor Giraudeau, il commesso viaggiatore, o alla
turbolenta eccentricità di Cabrion; eppure il signor Giraudeau, con
la sua inesauribile loquacità, o il pittore, con la sua ilarità non
meno inesauribile, avevano la meglio su Germain il cui dolce riserbo
metteva un po’ in soggezione la vicina.
Per nessuno dei tre innamorati Rigolette aveva avuto fino ad allora
una spiccata preferenza... Ma, non essendo priva di giudizio, si era
accorta che solo Germain riuniva in sé tutte le qualità per rendere
felice una donna senza grandi pretese.
Adesso che abbiamo narrato questi antefatti diremo perché Rigolette
era triste, e perché né lei né gli uccelletti cantavano.
Il suo viso fresco e rotondo era un po’ impallidito; i suoi grandi
occhi neri, solitamente allegri e brillanti, erano leggermente
cerchiati e velati; i suoi lineamenti tradivano un affaticamento più
grave del solito. Aveva passato gran parte della notte a lavorare.
Di tanto in tanto, essa guardava tristemente una lettera che era
aperta sopra un tavolino, accanto a lei; era una lettera di Germain
del seguente tenore:
Prigione della Conciergerie,
Signorina,
Il luogo da cui vi scrivo vi dirà la gravità della mia disgrazia.
Sono stato messo in prigione per furto... Sono colpevole davanti a
tutti e ho anche il coraggio di scrivervi!
Perché mi sarebbe terribile pensare che anche voi mi consideriate un
essere colpevole e disonorato. Ve ne supplico, non condannatemi
prima di aver letto questa lettera... Se voi mi respingeste...
quest’altro colpo mi butterebbe completamente giù!
Ecco ciò che è accaduto:
Da un po’ di tempo non abitavo più in rue du Temple: ma sapevo dalla
povera Louise che la famiglia Morel, alla quale voi e io ci
interessavamo tanto, era sempre più miserabile. Ahimè, la mia pietà
per quella povera gente mi ha rovinato! Non mi pento, però la mia
sorte è molto crudele!...
Ieri sono rimasto fino a tardi dal signor Ferrand, per certe cose
urgenti. Nella stanza in cui lavoravo c’era una scrivania dove il
padrone chiudeva ogni giorno il mio lavoro. Quella sera, che era
inquieto, agitato, mi disse:
«Non andatevene prima di aver finito questi conti, li metterete
nella scrivania, vi lascio la chiave.» E uscì.
Finito il lavoro, aprii il cassetto per mettercelo dentro; così, per
caso, gettai uno sguardo su una lettera piegata, e vi potei leggere
il nome di Jerôme Morel, il lapidario.
Lo confesso; vedendo che si trattava di quello sventurato, fui tanto
indiscreto da leggere la lettera; seppi così che l’artigiano sarebbe
stato arrestato il giorno dopo per una cambiale di 1300 franchi, a
istanza del signor Jacques Ferrand che lo faceva arrestare sotto
falso nome.
L’avviso era dell’agente d’affari del mio padrone. Conoscevo
abbastanza bene la triste situazione della famiglia Morel per sapere
che razza di batosta sarebbe stata, per questa, la carcerazione del
suo solo sostegno... Fui indignato e desolato a un tempo. Disgrazia
volle che vedessi nello stesso cassetto una scatola aperta con del
denaro: 2000 franchi... In quel momento sentii Louise che sa-
liva le scale. Senza pensare alla gravità della mia azione, volli
approfittare dell’occasione offertami dal caso e presi 1300 franchi.
Aspettai che Louise passasse per metterle il denaro in mano e dirle:
«Domani all’alba vostro padre sarà arrestato per un debito di 1300
franchi; eccoli, salvatelo, ma non dite che avete avuto questa somma
da me... il signor Ferrand è un uomo malvagio!...»
Non occorre dirvi, signorina, che la mia intenzione era buona, e la
mia condotta colpevole; non vi nascondo niente... Adesso, ecco la
mia scusa.
Dopo lunghe economie, ero riuscito a raggranellare la piccola somma
di 1500 franchi che avevo affidato a un banchiere. Otto giorni fa,
egli mi ha fatto dire che, essendo scaduto il termine della sua
obbligazione a mio favore, considerava quel deposito a mia
disposizione nel caso in cui non avessi voluto lasciarglielo.
Possedevo dunque più di quanto avessi preso al notaio: il giorno
dopo avrei potuto prelevare i miei 1500 franchi, ma il cassiere del
banchiere non sarebbe arrivato dal padrone prima di mezzogiorno,
mentre Morel doveva essere arrestato all’alba. Dovevo dunque dare al
lapidario la possibilità di pagare molto presto; altrimenti, sarebbe
stato comunque arrestato e portato via in presenza della moglie,
sventura questa che avrebbe potuto farla morire anche se poi avrei
potuto farlo scarcerare. Inoltre, le spese considerevoli
dell’arresto sarebbero andate a carico del lapidario. Voi capite,
vero, che tutte queste disgrazie non sarebbero successe se io avessi
preso i 1300 franchi, che credevo di poter rimettere la mattina
seguente nella scrivania, prima che il signor Ferrand si accorgesse
di qualcosa. Purtroppo mi sono sbagliato.
Uscii dalla casa del signor Ferrand, senza essere più in preda
all’indignazione e alla pietà che mi avevano spinto ad agire.
Riflettei a quanto fosse pericolosa la mia situazione: mille paure
vennero allora ad assalirmi; conoscevo la severità del notaio; egli
poteva, dopo che me n’ero andato, ritornare a frugare nel cassetto e
accorgersi del furto; perché ai suoi occhi, agli occhi di tutti, è
un furto.
Queste idee mi sconvolsero; sebbene fosse tardi, corsi dal banchiere
e lo supplicai di rendermi subito quella somma. Avrei spiegato in
qualche modo questa richiesta improvvisa; poi sarei ritornato dal
signor Ferrand per restituire il denaro preso.
Il banchiere, per una sfortunata combinazione, era da due giorni a
Belleville in una casa di campagna dove doveva organizzare alcune
piantagioni; aspettai l’alba nella più grande angoscia, e finalmente
giunsi a Belleville. Ma tutto era contro di me: il ban-
chiere era appena ripartito per Parigi; mi precipito lì anch’io e
finalmente ho il mio denaro. Vado dal signor Ferrand, ma tutto era
stato scoperto!
Questa è solo una parte delle mie disgrazie. Adesso il notaio mi
accusa di avergli rubato i 15.000 franchi in biglietti di banca che
erano nel cassetto della scrivania, con 2000 franchi in oro. È
un’accusa indegna, un’infame menzogna! Confesso di essere colpevole
della prima sottrazione; ma quanto alla seconda, vi giuro,
signorina, su ciò che vi è di più sacro al mondo, che sono
innocente. Non ho visto alcun biglietto di banca in quel cassetto:
c’erano solo 2000 franchi in oro, dai quali ho preso i 1300 che
dovevo restituire.
Questa è la verità, signorina: sono sotto il peso di un’accusa
terribile eppure affermo che voi dovete credermi incapace di
mentire... ma mi credete? Ahimè, come mi ha detto il signor Ferrand,
colui che ha rubato una piccola somma può rubarne una più grande e
le sue parole non meritano fede.
Ieri sono stato condotto in un luogo chiamato il deposito della
prefettura della polizia. Non potrei dirvi quello che ho provato,
quando, dopo esser salito su per una scala buia, mi sono trovato
davanti a una porta con sbarre di ferro che fu aperta e poi subito
dopo chiusa dietro di me.
Ero così sconvolto che dapprima non distinsi niente. Sono stato
investito in viso da una folata d’aria calda, nauseabonda; ho
sentito un gran rumore di voci, frammezzate di tanto in tanto da
risate sinistre, da accenti d’ira e da canzoni oscene; restai
immobile vicino alla porta a guardare i mattoni di pietra grigia
della stanza, con la paura di avanzare e di alzare gli occhi perché
pensavo che tutti mi stessero a guardare.
Ma nessuno si occupava di me: non è che un carcerato di più o di
meno faccia qualche effetto su quella gente lì. Infine mi sono
arrischiato ad alzare la testa. Che facce orribili, Dio mio! quanti
vestiti sbrindellati! quanti stracci sporchi di fango! Tutte le
sembianze della miseria e del vizio. Ce n’erano lì 40, 50, seduti,
in piedi, o sdraiati su delle panche incastrate nel muro; vagabondi,
ladri, assassini, insomma tutti quelli che erano stati arrestati
nella notte o nella giornata.
Quando si sono accorti della mia presenza, ho provato una magra
consolazione nel vedere che riconoscevano che non ero come loro.
Alcuni mi guardarono con aria insolente e beffarda; poi si misero a
confabulare tra di loro sottovoce in non so quale linguaggio per me
incomprensibile. Dopo un po’ il più audace ven-
ne a battermi sulla spalla e mi chiese denaro per dare il mio
benvenuto lì.
Ho dato qualche soldo con la speranza di comperarmi un po’ di
tranquillità: ma non era bastato, ne volevano ancora, io però ho
detto di no. Allora in parecchi vennero a circondarmi e mi
scaricarono addosso improperi e minacce. Stavano per scagliarmisi
contro, quando per fortuna arrivò, richiamato dal tumulto, un
guardiano. Essendomi lagnato con lui, egli ordinò che mi
restituissero il denaro che avevo dato, poi mi disse che se avessi
voluto, con una modica somma, sarei potuto passare in quella che qui
chiamano la pistole, cioè che avrei potuto star solo in una cella.
Accettai con riconoscenza e lasciai quei furfanti che continuavano a
farmi minacce per il futuro; perché, essi dicevano, ci saremmo
ritrovati e allora io avrei fatto una brutta fine.
Passai il resto della notte nella cella in cui mi aveva portato il
guardiano.
È da qui che questa mattina vi scrivo, signorina Rigolette. Fra
poco, dopo l’interrogatorio, sarò condotto in un’altra prigione
detta la Force, dove temo di ritrovare parecchi miei compagni del
deposito.
Il guardiano, commosso dal mio dolore e dalle mie lacrime, mi ha
promesso di farvi avere questa lettera, sebbene gli sia stato
severamente proibito di fare simili piaceri.
Signorina Rigolette, attendo un ultimo favore dalla vostra antica
amicizia, sempre che adesso non ve ne vergogniate.
Questa è la mia richiesta nel caso voleste esaudirla:
Con questa lettera riceverete una piccola chiave e due righe per il
portinaio della casa in cui abito del boulevard Saint-Denis n. 11.
L’ho avvertito che voi potete disporre come fossi io stesso delle
mie cose, e che deve obbedire ai vostri ordini. Egli vi condurrà
nella mia camera. Voi sarete tanto buona da aprire la mia scrivania
con la chiave che vi ho mandato; dentro troverete una busta grande
contenente parecchi fogli, che vi prego di conservarmi: uno di
questi è rivolto a voi come potrete vedere dall’indirizzo. Gli altri
furono scritti pensando a voi, in tempi più felici. Non offendetevi;
non avreste dovuto venirne mai a conoscenza. Vi prego inoltre di
prendere quel po’ di denaro che c’è nel mobile e anche la borsetta
di raso che contiene la sciarpa di seta arancione, che voi portavate
nelle nostre ultime passeggiate domenicali e che mi avete dato il
giorno in cui ho lasciato la rue du Temple.
Vorrei anche che, a parte il po’ di biancheria che mi manderete alla
Force, faceste vendere tutti i mobili e le cose che possiedo:
assolto o condannato, sarò comunque infamato e dovrò lasciare
Parigi. Dove andrò? Quali saranno le mie risorse? Dio solo lo sa. La
signora Bouvard, che mi ha già venduto e comperato vari oggetti,
forse potrebbe comperare tutto; è una donna onesta; combinando così,
avreste meno preoccupazioni, perché so quanto sia prezioso il tempo
per voi.
L’affitto l’avevo pagato anticipato, per cui vi prego soltanto di
dare una piccola mancia al portinaio. Scusate, signorina, se vi
secco con tutte queste piccolezze, ma voi siete la sola persona al
mondo alla quale io osi e possa rivolgermi.
Avrei potuto chiedere questi favori a uno degli scrivani del signor
Ferrand, del quale sono abbastanza amico; ma temevo che curiosasse
fra le mie carte di cui alcune, come vi ho detto, riguardano voi e
altre si riferiscono a dolorosi avvenimenti della mia vita. Ah,
credetemi, signorina Rigolette, se mi farete questo favore dovrò
considerarlo come l’ultima prova del vostro passato affetto e come
la mia sola consolazione nella grande disgrazia che mi ha colpito:
spero che non vorrete negarmelo.
Vi chiedo anche il permesso di scrivervi qualche volta... Mi sarebbe
così dolce, così caro poter sfogare in un cuore amico la tristezza
che mi opprime!
Ahimè, sono solo al mondo; nessuno si interessa a me. Questa
solitudine mi era già penosa, immaginatevi adesso!...
Eppure sono onesto... e sono cosciente di non aver mai fatto male a
nessuno, di aver sempre, anche a rischio della vita, dimostrato la
mia avversione per tutto ciò che è male... come potrete constatarlo
dalle carte che potete leggere ma che vi prego di custodire...
Quando dirò questo, chi mi crederà? Il signor Ferrand è rispettato
da tutti, la sua reputazione di onestà è molto solida; egli ha un
giusto rimprovero da farmi... mi schiaccerà... Mi rassegno fin d’ora
alla mia sorte.
E per finire, signorina Rigolette, se voi mi crederete e non mi
disprezzerete, spero mi compiangerete e penserete qualche volta a un
amico sincero. Allora, se vi farò molta... ma molta pena, forse
spingerete la vostra generosità fino a venire un giorno... una
domenica (ahimè quanti ricordi può suscitare una parola!), fino a
venire una domenica ad affrontare il parlatorio della mia prigione.
Ma no, no... rivedervi in un luogo simile, non oserei mai... Eppure,
siete così buona... che...
Sono costretto a interrompere questa lettera e a mandarvela così con
la chiave e due righe per il portinaio scritte in fretta. Il
guardiano viene ad avvertirmi che devo essere condotto davanti al
giu-
dice... Addio, addio, signorina Rigolette... non respingetemi...
spero solo in voi, in voi sola!
François Germain P.S. – Se mi risponderete, indirizzate la lettera
alla prigione del-
la Force.
Si capisce adesso la causa del principale dispiacere di Rigolette.
Il suo buon cuore si era profondamente commosso per quella sventura
di cui non aveva avuto fino ad allora il minimo sospetto. Ella
credeva ciecamente alla veridicità del racconto di Germain, lo
sventurato figlio del Maître d’école.
E non essendo molto severa, le sembrava perfino che il suo ex vicino
esagerasse troppo la sua colpa. Per salvare un disgraziato padre di
famiglia, egli aveva preso del denaro che sapeva di poter
restituire. Quest’azione, agli occhi della sartina, era soltanto
generosa.
Per una di quelle contraddizioni naturali alle donne, e specialmente
alle donne della sua classe, la ragazza che fino ad allora aveva
provato per Germain, come per gli altri vicini, solo un’allegra e
cordiale amicizia, sentì per lui una spiccata preferenza.
Appena seppe che era infelice... ingiustamente accusato e
imprigionato, il ricordo di lui cancellò quello dei suoi vecchi
rivali.
Per Rigolette non era ancora l’amore; era un affetto profondo,
sincero, pieno di compassione e di zelo sicuro: sentimento nuovo per
lei, appunto a causa dell’amarezza che era sopravvenuta nella
sartina.
Questo era lo stato d’animo di Rigolette, quando Rodolphe entrò
nella sua camera, dopo aver educatamente bussato alla porta.
XIV AMICIZIA
«Buongiorno, vicina» disse Rodolphe a Rigolette; «vi disturbo?» «No,
vicino; anzi sono molta contenta di vedervi, perché sono
molto triste.»
«Infatti, siete pallida, sembra che abbiate pianto.»
«Sfido io che ho pianto!... e ne ho ben donde! Povero Ger-
main! Ecco, leggete.» E Rigolette diede a Rodolphe la lettera del
prigioniero. «Se non c’è da avere il cuore spezzato! Voi mi avete
detto d’interessarvi a lui... ecco il momento di provarlo» aggiun-
se, mentre Rodolphe leggeva attentamente. «Ma quel maledetto signor
Ferrand deve avercela proprio con tutti! Prima contro Louise, adesso
contro Germain. Oh, non sono cattiva, ma se a quel notaio della
malora succedesse qualche guaio, ne sarei proprio contenta. Accusare
un ragazzo così onesto di avergli rubato 15.000 franchi! Germain!
lui! la probità in persona!... e poi così serio, così dolce e
triste. Come deve star male, Dio mio, in prigione in mezzo a tutti
quei delinquenti! Ah, signor Rodolphe, da oggi comincio a vedere che
nella vita non è tutto roseo.»
«E cosa pensate di fare, vicina?»
«Cosa voglio fare?... ma tutto quello che Germain mi chiede; il più
presto possibile. Sarei già uscita, se non fosse stato per questo
lavoro urgente che sto finendo e che fra poco porterò in rue
Saint-Honoré, per andare a casa di Germain a cercare le carte di cui
mi parla. Ho cucito quasi tutta la notte per avvantaggiarmi di
qualche ora. Avrò tante cose da fare, oltre il mio lavoro, che
bisogna che mi organizzi. Prima di tutto la signora Morel vorrebbe
che andassi a trovare Louise in prigione. Sarà molto difficile, ma
tenterò... Disgraziatamente non so a chi rivolgermi...»
«A questo ho pensato io.»
«Voi, vicino?»
«Ecco un permesso.»
«Che gioia! E non potreste farmene avere uno anche per vede-
re quel disgraziato Germain?... gli farebbe tanto piacere!» «Vi darò
anche il mezzo di vedere Germain.»
«Oh, grazie, signor Rodolphe.»
«Ma non avete paura di andare in simili luoghi?»
«Oh certo, il cuore mi batterà forte la prima volta... Ma non fa
niente. Quando Germain non era in disgrazia, non lo trovavo sempre
pronto a prevenire tutti i miei desideri, a portarmi a teatro e a
spasso, a leggermi i libri di sera, ad aiutarmi a mettere a posto le
mie cassette di fiori, a dare la cera alla mia camera? Ebbene,
adesso che è nei guai, tocca a me. Una cosina come sono io non può
fare gran che, lo so; ma insomma farò tutto quel che potrò, ci può
contare; vedrà se non sono una buona amica. Sentite, signor
Rodolphe, una cosa mi dispiace, la sua scarsa fiducia. Credere che
io sia capace di disprezzarlo, io! vi domando un po’ perché. Quel
vecchio avaro di notaio l’accusa di aver rubato; cosa me ne
importa?... so bene che non è vero. Anche se la lettera di Germain
non avesse dimostrato in modo chiaro come il sole che egli è
innocente, io non lo avrei certo creduto colpevole; basta vederlo,
conoscerlo per essere sicuri che non è capace di una cattiva
azione. Bisogna essere malvagi come il signor Ferrand per sostenere
simili falsità.»
«Brava la mia vicina! mi piace il vostro sdegno.»
«Oh, sentite, vorrei essere un uomo per andare a trovare quel notaio
e dirgli: “Ah, sostenete che Germain vi ha derubato, ebbene
prendete, questo è per voi, vecchio bugiardo! questi non ve li
ruberà! E pam! pam! pam!” lo picchierei di santa ragione.»
«Avete una giustizia molto spiccia» disse Rodolphe sorridendo della
foga di Rigolette.
«Perché queste sono cose che rivoltano; e, come dice Germain nella
sua lettera, tutti saranno dalla parte del padrone, contro di lui,
perché il padrone è ricco e stimato e Germain è solo un povero
giovane senza protezione, a meno che voi non veniate in suo aiuto,
signor Rodolphe, voi che conoscete persone così caritatevoli. Non si
potrebbe fare qualcosa?»
«Bisogna che aspetti la sentenza. Una volta assolto come io credo,
vi assicuro che gli saranno date molte prove d’interessamento. Ma,
ascoltate, vicina; so per esperienza che si può contare sulla vostra
discrezione.»
«Oh sì, signor Rodolphe, non sono mai stata una chiacchierona.»
«Ebbene! bisogna che nessuno sappia, compreso Germain stesso; che vi
sono amici che vigilano su di lui... perché ha degli amici.»
«Davvero?»
«Amici molto influenti e molto premurosi.»
«Si darebbe tanto coraggio se lo sapesse!»
«Certo; ma forse non sarebbe capace di star zitto. Allora il
signor Ferrand, spaventato, potrebbe insospettirsi e mettersi in
guardia, e, siccome è molto furbo, sarebbe molto difficile coglierlo
in fallo: il che sarebbe increscioso, perché non solo bisogna che
sia riconosciuta l’innocenza di Germain, ma anche che il suo
calunniatore venga smascherato.»
«Capisco, signor Rodolphe.»
«E lo stesso per Louise; vi ho portato appunto questo permesso per
andarla a trovare, affinché la preghiate di non parlare con nessuno
di ciò che ha rivelato a me; ella saprà quello che voglio dire.»
«Questo basta, signor Rodolphe.»
«Insomma, che Louise si guardi bene dal lamentarsi in prigione della
malvagità del suo padrone è molto importante. Ma non dovrà
nascondere niente a un avvocato che andrà da parte mia a
mettersi d’accordo con lei per la difesa: fatele bene tutte queste
raccomandazioni.»
«State tranquillo, vicino, non me ne dimenticherò, ho buona memoria.
Ma io parlo di bontà! voi siete buono e generoso! Appena qualcuno è
nei guai, voi siete subito da lui.»
«Ve l’ho già detto, vicina, io sono un povero commesso di negozio;
ma quando, girovagando qua e là, trovo della brava gente che merita
protezione, ne informo una persona caritatevole che soccorre subito
quella gente perché ha piena fiducia in me. Tutto qui.»
«E dove abitate adesso che avete ceduto la camera ai Morel?»
«Abito... in una camera ammobiliata.»
«Oh, io non potrei sopportarlo! Stare in un posto dove ci sono
stati tutti, è come se tutti fossero stati a casa vostra.»
«Io ci sono solo la notte, e allora...»
«Capisco, è meno brutto. Però come siamo noi, eh, signor Ro-
dolphe. La mia casetta mi rendeva così felice! mi ero creata una
vita così tranquilla che non avrei mai creduto possibile di avere un
dispiacere, eppure vedete!... No, non posso spiegarvi quanto dolore
mi abbia dato il triste caso di Germain. Ho visto i Morel e tanti
altri da compiangere, è vero; ma in fondo la miseria è la miseria,
fra poveri c’è da aspettarsela, non ci si meraviglia, e ci si aiuta
come si può. Oggi tocca a uno, domani all’altro. Quanto a noi
stessi, con un po’ di coraggio e di allegria, ce la caviamo. Ma
vedere un povero giovane, buono e onesto, che è stato vostro amico
per tanto tempo, vederlo accusato di furto e in carcere assieme a
tanti farabutti!... ah, caspita, signor Rodolphe, non posso niente
contro di ciò, è una disgrazia a cui non avrei mai pensato e che mi
sconvolge tutta.»
E gli occhioni di Rigolette si velarono di lacrime.
«Coraggio, coraggio! vi tornerà l’allegria quando il vostro amico
sarà assolto.»
«Oh, bisogna per forza che sia assolto. Basterà leggere ai giudici
la lettera che mi ha scritto; sarà sufficiente, vero, signor
Rodolphe?»
«Infatti questa lettera semplice e commovente ha tutti i crismi
della verità; bisognerà che me ne lasciate fare una copia, verrà
utile alla difesa di Germain.»
«Certo, signor Rodolphe. Se non scrivessi come una gallina,
nonostante le lezioni datemi da quel buon Germain, mi offrirei io di
copiarvela; ma la mia calligrafia è così grossa e storta e poi
faccio tanti, tanti errori!...»
«Vi pregherò solo di darmi l’originale fino a domani.»
«Eccolo, vicino, ma me la terrete bene, vero? Ho bruciato tutti i
biglietti amorosi che il signor Cabrion e il signor Giraudeau mi
scrivevano nel primo periodo della nostra amicizia, con cuori
trafitti e colombe in cima al foglio, quando credevano che io mi
lasciassi incantare dalle loro moine; ma questa povera lettera di
Germain la terrò gelosamente e anche le altre, se me ne scriverà
ancora. Perché, vero, signor Rodolphe, che torna a mio onore se mi
chiede questi piccoli favori?»
«Certo, questo prova che siete la migliore amica che si possa
desiderare. Ma adesso che ci penso, invece di andare sola dal signor
Germain, volete che vi accompagni?»
«Con piacere, vicino. Fra poco sarà notte e preferisco non essere
sola per la strada, di sera; tanto più che devo portare del lavoro
vicino al Palais-Royal. Ma non vi stancherete e non vi annoierete a
venire con me così lontano?»
«Niente affatto... prenderemo una carrozza.»
«Davvero! oh, come mi divertirebbe andare in carrozza se non avessi
questo dispiacere! E deve essere proprio un dispiacere, perché
questa è la prima volta, da quando sono qui, che non canto durante
il giorno. I miei uccelletti sono rimasti interdetti. Povere
bestioline! essi non sanno che cosa sia; due o tre volte papà Crétu
ha cantato per stuzzicarmi; ho tentato di rispondergli; ebbene, dopo
un minuto mi sono messa a piangere. Ramonette ha ricominciato, ma
non ho potuto rispondere neppure a lei.»
«Che strani nomi avete dato ai vostri uccelli, papà Crétu e
Ramonette!»
«Caspita, signor Rodolphe, i miei uccellini sono la gioia della mia
solitudine, sono i miei migliori amici; ho dato loro i nomi di
quelle brave persone che sono state la gioia della mia infanzia e
che sono stati anche i miei migliori amici; senza contare che, per
completare la rassomiglianza, papà Crétu e Ramonette erano gai e
cantavano come gli uccelli del buon Dio.»
«Ah, adesso ricordo che i vostri genitori adottivi si chiamavano
così.»
«Sì, vicino; questi nomi sono ridicoli per quegli uccelli lo so, ma
questi sono affari miei. Sapete che anche da questo argomento ho
potuto constatare che Germain aveva buon cuore.»
«Come mai?»
«Certo: il signor Giraudeau e il signor Cabrion stavano sempre lì a
dire sciocchezze sui nomi degli uccelli: chiamare un canarino Crétu,
via! Il signor Cabrion non se ne dava pace, e ne approfit-
tava per farsi matte risate a non finire. “Se fosse un gallo” diceva
“potreste ancora chiamarlo Crétu. Come il nome della canarina,
Ramonette; assomiglia a Ramona.” Insomma mi fece tanto arrabbiare
che sono stata due domeniche senza voler uscire con lui, per dargli
una lezione, e gli ho detto molto seriamente, che se avesse
ricominciato i suoi scherzi, mi sarei arrabbiata, e non sarei più
uscita con lui.»
«Che eroica risoluzione!»
«Mi è costata, sì, signor Rodolphe, io che aspettavo le uscite
domenicali come il Messia: era uno strazio per me dover restare sola
quando fuori c’era un tempo bellissimo; ma non m’importava,
preferivo sacrificare la domenica, piuttosto che sentire il signor
Cabrion prendere in giro ciò che rispettavo. Certo, però, che se non
fosse stato per l’importanza che davo, avrei preferito dare altri
nomi ai miei due uccelli. Per esempio, c’è un nome per cui sono
sempre andata pazza: Colibrì... Ebbene ci ho rinunciato perché tutti
gli uccelli che avrò li chiamerò Crétu e Ramonette; altrimenti mi
sembrerebbe di sacrificare, di dimenticare i miei buoni genitori
adottivi, vero, signor Rodolphe?»
«Avete ragione, mille ragioni. E Germain non vi prendeva in giro per
quei nomi?»
«No, anzi. Solo la prima volta gli sono sembrati buffi come a tutti
del resto: era naturale; ma quando gliene ho spiegato il motivo,
come del resto l’avevo spiegato anche al signor Cabrion, gli sono
venute le lacrime agli occhi. Da quel giorno mi sono detta: il
signor Germain ha molto buon cuore; l’unico difetto che ha è la sua
tristezza. E vedete, signor Rodolphe, mi ha portato sfortuna
rimproverargli la sua tristezza. Allora non capivo che si potesse
essere tristi, ora lo capisco anche troppo. Ma ecco, ho finito il
mucchio di roba e il lavoro è pronto per essere portato via. Vicino,
volete darmi lo scialle? Non fa tanto freddo da mettermi il
cappotto, vero?»
«Andremo in carrozza e ritorneremo in carrozza.»
«È vero, andremo e ritorneremo più in fretta; sarà tutto tempo
guadagnato.»
«Ma, a proposito, come farete; le visite alla prigione incideranno
sul vostro lavoro?»
«Oh, no, no, ho fatto i miei calcoli. Innanzi tutto ho a mia
disposizione le domeniche; andrò a trovare Louise e Germain in quei
giorni; mi servirà da passeggiata e da distrazione. Poi, durante la
settimana, ritornerò alla prigione una volta o due ancora e ogni
visita mi porterà via tre ore buone, vero? Ebbene per non trovarmi
indietro, lavorerò un’ora di più al giorno, andrò a dor-
mire a mezzanotte invece che alle undici; così guadagnerò benissimo
sette o otto ore alla settimana di cui potrò disporre per andare a
trovare Louise e Germain. Vedete, sono più ricca di quel che sembri»
aggiunse Rigolette, sorridendo.
«E non avete paura di affaticarvi troppo?»
«Bah, mi ci abituerò, ci si abitua a tutto. E poi non durerà mica
per sempre.»
«Ecco il vostro scialle, vicina. Non sarò imprudente come ieri, non
avvicinerò troppo le labbra a questo vostro bel collo.»
«Ah! vicino, ieri era ieri e si poteva scherzare; ma oggi è tutto
diverso. State attento a non pungermi.»
«Oh, lo spillo si è torto!»
«Ebbene, prendetene un altro, là, sul gomitolo. Ah, dimenticavo,
volete farmi un altro favore, vicino?»
«Ai vostri ordini, vicina.»
«Preparatemi una penna con la punta grossa però, perché al mio
ritorno voglio scrivere a quel povero Germain che ho sbrigato le
commissioni che mi ha dato. Avrà la mia lettera domattina presto in
prigione e sarà un bel risveglio per lui.»
«E dove sono le vostre penne?»
«Là sulla tavola, e il temperino è nel cassetto. Aspettate, vi
accenderò una candela, perché comincia a far buio.»
«Andrà bene per tagliare la penna.»
«E poi devo allacciarmi la cuffia.»
Rigolette fece scoppiettare un fiammifero e accese un mozzi-
cone di candela su una piccola bugia tutta lucente.»
«Diavolo, una candela di cera, vicina! che lusso!»
«Per quel che consumo, non mi costa più della candela di
sego, e sporca meno.»
«Non vi costa di più?»
«Dio mio, no, compero questi moccoli di candela un tanto alla
libbra, e mezza libbra mi dura quasi un anno.»
«Ma» disse Rodolphe mentre temperava accuratamente la
penna e mentre la sartina si annodava la cuffia davanti allo
specchio, «non vedo preparativi per il vostro pranzo.»
«Non ho per niente fame. Questa mattina ho preso una tazza di latte,
e ne prenderò un’altra questa sera con un po’ di pane, mi basterà.»
«Ma, senza complimenti, volete venire a mangiare con me, dopo essere
stati a casa di Germain?»
«Vi ringrazio, vicino; ma sono troppo triste; un’altra volta,
volentieri. Ecco m’inviterò il giorno prima della scarcerazione
del povero Germain, e dopo mi accompagnerete a teatro. D’accordo?»
«D’accordo, vicina; vi assicuro che non dimenticherò questo impegno.
Ma oggi non volete?»
«No, signor Rodolphe, sarei una compagna troppo triste, senza
contare che mi porterebbe via troppo tempo. Pensate un po’...
soprattutto adesso non devo fare la poltrona né buttare via un
quarto d’ora.»
«Va bene, rinuncio a questo piacere... per oggi.»
«Prendete il mio pacco, vicino; passate avanti che io devo chiudere
la porta.»
«Ecco una bellissima penna. Adesso, datemi il pacco.»
«Badate a non sciuparlo, è seta, tiene la piega; tenetelo in mano
con delicatezza. Bene, andate avanti, vi farò luce.»
E Rodolphe scese, seguito da Rigolette.
Proprio mentre passavano davanti alla portineria, i due vicini
videro il signor Pipelet che, con le braccia penzoloni, stava
andando loro incontro dal fondo dell’androne; in una mano aveva il
cartello in cui si annunciava al pubblico che egli commerciava in
amicizia con Cabrion e nell’altra il ritratto del dannato pittore.
La disperazione di Alfred era così schiacciante che il mento gli
toccava il petto e non si scorgeva altro che l’immenso cocuzzolo del
suo cappello a rocchetto.
Chi l’avesse visto venire avanti così, a testa bassa, verso Rodolphe
e Rigolette, avrebbe pensato a un ariete o a un bravo campione
bretone che si accingesse al combattimento.
Anastasie si fece subito sulla soglia della portineria e visto il
marito, esclamò:
«Ebbene, vecchio caro, eccoti qua dunque! Cosa ti ha detto il
commissario? Alfred, Alfred! ma stai attento che stai andando a
sbattere contro il mio principe degli inquilini che ti è sotto il
naso. Scusate, signor Rodolphe, quel farabutto di Cabrion lo sta
inebetendo ogni giorno di più. Lo farà diventare sicuramente un
asino, questo caro vecchio!!! Alfred, mi rispondi una buona volta!»
A quella voce, cara al suo cuore, il signor Pipelet alzò la testa:
sul volto aveva una cupa amarezza.
«Che cosa ti ha detto il commissario?» ripeté Anastasie.
«Anastasie, dovremo mettere assieme quel poco che possediamo,
abbracciare gli amici, fare le nostre valigie... e andare via da
Parigi... dalla Francia... dalla mia bella Francia! perché, quel
mostro, ormai sicuro della sua impunità, è capace di persegui-
tarmi dappertutto... per tutta l’estensione dei dipartimenti del
Reno...»
«Come! il commissario?»
«Il commissario!» gridò il signor Pipelet furente, «il
commissario... mi ha riso in faccia...»
«A te... un uomo in età, dall’aria così rispettabile che sembreresti
scemo se non si conoscessero le tue virtù!...»
«Ebbene! nonostante ciò, quando ebbi rispettosamente esposto davanti
a lui il mio mucchio di lagnanze e di querele contro il maledetto
Cabrion... il magistrato, dopo aver guardato ridendo... sì,
ridendo... non ho paura di dirlo, ridendo indecentemente, il
cartello e il ritratto, che avevo portato con me quali capi
d’accusa, il magistrato mi ha risposto:
«Brav’uomo, questo Cabrion è uno stravagante, un burlone cattivo;
non fate caso ai suoi scherzi. Io vi consiglio semplicemente di
riderne perché ce n’è ben donde”.
«“Riderne, siignore!” ho esclamato io, “riderne!... ma il dolore mi
divora... ma quel furfante avvelena la mia esistenza... mi fa
prendere in giro da tutti, mi farà perdere la ragione... Chiedo che
sia rinchiuso, esiliato... almeno dalla mia strada.”
A quelle parole, il commissario ha sorriso e mi ha molto gentilmente
mostrato la porta... Ho compreso il gesto del magistrato... eccomi
qui.»
«Magistrato dei miei stivali!...» gridò la signora Pipelet.
«Tutto è finito, Anastasie... è tutto finito... non c’è più
speranza! Non c’è più giustizia in Francia... sono stato atrocemente
sacrificato!...»
E per esprimere il suo sdegno, il signor Pipelet scaraventò con
tutte le forze il cartello e il quadro in fondo all’androne...
Rodolphe e Rigolette avevano, non visti, riso un po’ della
disperazione del signor Pipelet.
Dopo aver rivolto alcune parole di conforto ad Alfred, che Anastasie
cercava in tutti i modi di calmare, il principe degli inquilini
lasciò la casa della rue du Temple con Rigolette, e tutti e due
partirono in carrozza per la casa di François Germain.
XV
IL TESTAMENTO
François Germain abitava in boulevard Saint-Denis al n. 11. Va detto
subito al lettore, che se ne sarà certamente dimenticato, che
la signora Mathieu, la commissionaria di diamanti della quale
abbiamo parlato a proposito del lapidario Morel, abitava nella
stessa casa di Germain.
Durante il lungo tragitto dalla rue du Temple alla rue SaintHonoré,
dove abitava la sarta a cui Rigolette aveva voluto prima di tutto
portare il lavoro, Rodolphe poté rendersi conto ancora di più
dell’ottimo carattere della ragazza. Come tutte le persone buone e
premurose di natura, ella non era cosciente della delicatezza e
della generosità della sua condotta, anzi le pareva una cosa molto
semplice.
Sarebbe stato facile per Rodolphe assicurare generosamente il
presente e l’avvenire a Rigolette, e metterla così in condizioni di
fare la carità di andare a consolare Louise e Germain, senza che
ella si preoccupasse del tempo che quelle visite rubavano al lavoro,
sua unica risorsa; ma il principe temeva di diminuire il merito
dello zelo della sartina rendendolo troppo facile. Deciso a
ricompensare le qualità straordinariamente belle che aveva scoperto
in lei, voleva seguirla fino alla fine di quella nuova e
interessante prova.
Inutile dire che, se la salute della ragazza avesse dovuto
minimamente risentire del troppo lavoro che ella s’imponeva
coraggiosamente, per dedicare alcune ore della settimana alla figlia
del lapidario e al figlio del Maître d’école, Rodolphe sarebbe
subito intervenuto in soccorso della sua protetta.
Egli provava gioia ed emozione a studiare un carattere così gaio e
poco incline alla tristezza, che anche adesso si illuminava di tanto
in tanto di qualche sprazzo di allegria.
Dopo un’ora circa, la carrozza, di ritorno dalla rue Saint-Honoré,
si fermò in boulevard Saint-Denis, al n. 11, davanti a una casa di
aspetto modesto.
Seguita da Rodolphe, Rigolette andò dal portinaio e gli comunicò le
intenzioni di Germain, senza dimenticare la mancia promessa. Il
figlio del Maître d’école, per la sua gentilezza, si faceva
benvolere da tutti. Il collega del signor Pipelet fu costernato al
sentire che la casa perdeva un inquilino così onesto e tranquillo.
Egli si espresse proprio in questi termini.
La sartina si munì di un lume e raggiunse il suo compagno, dato che
solo più tardi il portinaio sarebbe salito a ricevere le ultime
istruzioni.
La camera di Germain si trovava al quarto piano. Arrivata davanti
alla porta, Rigolette diede a Rodolphe la chiave e gli disse:
«Prendete, vicino... aprite voi; a me trema troppo la mano... Forse
riderete di me; ma, al pensiero che Germain non ritorne-
rà mai più qui... mi sembra quasi di entrare nella camera di un
morto...»
«Siate ragionevole, vicina, cercate di non avere simili idee!»
«Ho torto, ma è più forte di me...» Ed ella si asciugò una lacrima.
Rodolphe, anche se non era commosso come la sua compagna, provò,
però, una penosa impressione entrando in quel modesto stanzino.
Sapendo di quali odiose e continue persecuzioni Germain era stato
oggetto e forse lo era ancora da parte dei complici del Maître
d’école, s’immaginò che il giovane sventurato avesse dovuto passare
ore molto tristi in quella solitudine.
Rigolette posò il lume sul tavolo.
Niente di più semplice dei mobili di quella camera da scapolo,
composta da un lettino, da un cassettone, da una scrivania di noce,
da quattro sedie impagliate e da un tavolo; alle finestre e
nell’alcova c’erano tende di cotone bianco; l’unico ornamento era
costituito da una bottiglia e da un bicchiere sul caminetto.
Dal buco nel letto non disfatto, si poteva dedurre che Germain aveva
dovuto sdraiarsi un poco, tutto vestito, nella notte precedente il
suo arresto.
«Povero ragazzo» disse tristemente Rigolette esaminando con
interesse l’interno della camera, «si vede che non ha più me per
vicina... Tutto è in ordine, ma non disposto con cura; c’è polvere
dappertutto, le tende sono annerite dal fumo, le finestre sono
sporche e il pavimento non è tirato a cera... Ah, che differenza! in
rue du Temple la stanza non era più bella, però era più allegra,
perché ogni cosa era così pulita che brillava, come nella mia
stanza...»
«Inoltre c’eravate voi a dargli consigli.»
«Ma guardate!» esclamò Rigolette indicando il letto. «L’altra notte
non si è neppure coricato tanto era agitato! To’, e questo
fazzoletto che ha lasciato qui, è ancora bagnato di lacrime. Si vede
bene...» Ed ella lo prese aggiungendo: «Germain ha conservato il
fazzoletto da collo di seta arancione che gli ho regalato quando
eravamo felici: e io mi terrò questo fazzoletto in ricordo delle sue
sventure; sono certa che non se la prenderà...»
«Anzi sarà felicissimo di questa prova d’affetto da parte vostra.»
«Adesso pensiamo alle cose serie. Farò un fagotto della biancheria
che troverò nel cassettone e gliela porterò in prigione; domani farò
venire qui comare Bouvard perché s’incarichi del re-
sto... Prima però voglio aprire la scrivania per prendere le carte e
il denaro che Germain mi ha pregato di tenergli.»
«Ma, a proposito» disse Rodolphe, «Louise Morel mi ha restituito
ieri i 1300 franchi in oro che Germain le aveva dato per pagare il
debito del lapidario, ma il debito l’avevo già saldato io; ora l’ho
io quel denaro, ma appartiene a Germain perché lui ha rimborsato il
notaio; quindi adesso ve lo do e lo custodirete voi, insieme al
resto.»
«Come volete, signor Rodolphe, però preferirei non avere presso di
me tutto quel denaro: ci sono tanti ladri in giro ora!... Carte,
quante ne volete... non c’è niente da temere, ma denaro... è
pericoloso...»
«Forse avete ragione, vicina. Volete che mi occupi io di questa
somma? Se Germain ha bisogno di qualcosa, me lo fate sapere subito,
vi lascio il mio indirizzo per potervi mandare quanto vi chiederà.»
«È molto meglio così, vicino; non avrei mai osato pregarvi di farmi
un simile favore; vi affiderò anche il ricavato della vendita dei
mobili. Guardiamo un po’ queste carte» disse la ragazza aprendo i
vari cassetti della scrivania. «Ah, è questo probabilmente. Ecco la
grossa busta... Ah, mio Dio! sentite, signor Rodolphe, che tristi
parole ci sono scritte sopra.»
Ed ella lesse con voce rotta:
Nel caso che morissi di morte violenta o altrimenti, prego la
persona che aprirà questa scrivania di portare questi fogli alla
signorina Rigolette, sarta, al n. 17 della rue du Temple.
«Signor Rodolphe, posso dissigillare la busta?»
«Certo; Germain non vi ha forse detto che tra le carte in essa
contenute c’è una lettera diretta particolarmente a voi?»
La ragazza ruppe il sigillo. Dentro c’erano parecchi scritti; uno di
essi, con l’indirizzo: Alla signorina Rigolette, conteneva queste
parole:
Signorina, quando leggerete questa lettera, io non sarò più... Se,
come temo, morirò di morte violenta cadendo in qualche tranello
simile a quello a cui sono sfuggito ultimamente, alcuni chiarimenti,
raccolti di seguito sotto il titolo, Note sulla mia vita, potranno
fornire indizi contro i miei assassini.
«Ah, signor Rodolphe» disse Rigolette interrompendosi, «non mi
stupisco più che fosse tanto triste! Povero Germain! tormentato
sempre da simili idee!»
«Sì, ha dovuto soffrire molto; ma i suoi giorni più brutti li ha
passati... credetemi.»
«Ahimè, vorrei sperarlo, signor Rodolphe; ma essere in prigione...
accusato di furto.»
«State tranquilla: una volta che sarà riconosciuta la sua innocenza,
invece di ripiombare nella solitudine, troverà degli amici. Prima di
tutto, voi, poi una madre adorata, dalla quale è rimasto separato
fin dall’infanzia.»
«Sua madre? ha ancora la madre?»
«Sì... ella lo credeva perduto. Immaginatevi la sua gioia quando lo
ritroverà, ma assolto dall’indegna accusa fatta contro di lui! Non
avevo forse ragione di dirvi che i suoi giorni più brutti li aveva
passati? Però non parlategli di sua madre. Vi confido questo segreto
perché siete così generosa da interessarvi a Germain, tanto che non
posso non tranquillizzarvi un po’ sulla sua futura sorte.»
«Vi ringrazio, signor Rodolphe, state pure tranquillo, manterrò il
vostro segreto...»
E Rigolette continuò a leggere la lettera di Germain:
Se darete un’occhiata a queste note, signorina, vi convincerete che
sono stato, per tutta la mia vita, molto infelice... tranne nei
momenti trascorsi accanto a voi... Quello che non ho mai osato
dirvi, lo troverete scritto in una specie di promemoria intitolato:
I miei soli giorni di felicità.
Quasi ogni sera, quando vi lasciavo, sfogavo così i dolci pensieri
che mi ispirava il vostro affetto, i soli che addolcissero
l’amarezza della mia vita. Ciò che per voi era amicizia, per me era
amore. Vi ho tenuto nascosto che vi amavo fino a oggi in cui sono
per voi solo un doloroso ricordo. Il mio destino è così disgraziato,
che non vi avrei mai parlato di questo sentimento: esso, sebbene
sincero e profondo, vi avrebbe portato sfortuna.
Mi resta da formulare un ultimo desiderio, e spero che sarete tanto
buona da esaudirlo.
Ho conosciuto l’ammirevole coraggio con cui voi lavorate, e quanto
ordine e quanta economia vi imponete per vivere con quel poco che
guadagnate con tanta fatica; spesso, senza dirvelo, ho pensato con
terrore che una malattia, causata da troppo lavoro, potesse ridurvi
in uno stato che non potevo considerare senza fremere. Mi fa piacere
pensare che posso almeno risparmiarvi in gran parte i tormenti e
forse... le miserie che la vostra spensierata giovinezza
fortunatamente non prevede.
«Che cosa vuol dire, signor Rodolphe?» disse Rigolette stupita.
«Continuate... adesso sentiremo.»
Rigolette riprese:
So con quanto poco vivete e di quale aiuto vi sarebbe, in momenti
difficili, anche una piccola somma. Io sono povero, ma a forza di
economie ho messo da parte e affidato a un banchiere 1500 franchi;
questo è quanto possiedo: col mio testamento che troverete qui, mi
permetto di lasciarveli; accettateli da un amico, da un buon
fratello... che non è più.
«Ah, signor Rodolphe!» disse Rigolette scoppiando in singhiozzi e
dando la lettera al principe, «mi fa troppo male. Quel buon Germain
preoccuparsi così del mio avvenire! ah, che cuore, Dio mio, che
ottimo cuore!»
«Che bravo giovane!» riprese Rodolphe commosso.
«Ma calmatevi, figliola; grazie a Dio, Germain non è morto e questo
testamento sarà servito almeno a manifestarvi quanto vi amasse...
quanto vi ami.»
«E dire, signor Rodolphe» riprese Rigolette, asciugandosi le
lacrime, «che io non l’avevo mai sospettato! Nei primi tempi del
nostro vicinato, il signor Giraudeau e il signor Cabrion mi
parlavano sempre della loro infuocata passione, come essi dicevano;
ma vedendo che ciò non serviva a niente, pian piano avevano smesso
di dirmelo; Germain, invece, non mi aveva mai parlato d’amore;
quando gli ho proposto di essere buoni amici, ha accettato
schiettamente, e poi siamo vissuti come due compagni. Ma sapete...
adesso posso confessarvelo, signor Rodolphe, non mi ero affatto
arrabbiata perché Germain non mi aveva detto come gli altri che mi
amava d’amore...»
«Però... ne eravate meravigliata?»
«Sì, signor Rodolphe, pensavo che fosse la sua tristezza a renderlo
così.»
«E voi gliene volevate un po’... per quella sua tristezza?»
«Era il suo solo difetto» disse candidamente la sartina; «ma ora lo
scuso... anzi mi dispiace di averglielo rimproverato.»
«Prima di tutto perché sapete che disgraziatamente aveva molti
motivi per essere triste, e poi... forse perché adesso siete certa
che, nonostante quella tristezza... vi amava d’amore?» aggiunse
Rodolphe sorridendo.
«Sicuro... essere amata da un così bravo giovane fa piacere non è
vero, signor Rodolphe?»
«E forse un giorno voi corrisponderete a questo amore.»
«Caspita, signor Rodolphe, è una cosa che tenta; quel povero Germain
fa così pena! Io mi metto al suo posto... se al momento in cui mi
vedevo abbandonata, disprezzata da tutti, una persona amica fosse
venuta da me, ancora più affettuosa di quanto io avessi potuto
sperare, sarei stata così felice!» Dopo un momento di silenzio,
Rigolette riprese con un sospiro: «D’altra parte... siamo tutti e
due così poveri che forse non sarebbe molto ragionevole. Via, signor
Rodolphe, non voglio pensare a queste cose, forse mi sbaglio; una
cosa è certa ed è questa: che farò per Germain quello che potrò
finché starà in prigione. Quando sarà libero, ci sarà sempre tempo
di vedere se è amore o amicizia ciò che sento per lui; allora se è
amore... che volete, vicino... sarà amore... Prima di ciò, non
saprei come comportarmi. Ma è tardi, signor Rodolphe; volete
raccogliere questi fogli, mentre io faccio un pacco della
biancheria? Ah, dimenticavo la borsettina con dentro il fazzoletto
arancione che gli ho dato. Sarà sicuramente in questo cassetto. Sì,
eccolo. Oh, guardate com’è bella questa borsettina tutta ricamata!
Povero Germain, l’ha tenuto come una reliquia questo fazzoletto! Mi
ricordo bene l’ultima volta che io me lo sono messo, e quando glielo
ho dato... Era così contento, così contento!...»
In quel momento si sentì bussare alla porta.
«Chi è?» chiese Rodolphe,
«Vorrei parlare con la signora Mathieu» rispose una voce fioca
e roca, con l’accento caratteristico del basso popolo. (La signora
Mathieu era la sensale di diamanti di cui abbiamo parlato).
La voce, dall’accento spiccato, destò qualche vago ricordo nella
mente di Rodolphe. Volle sincerarsene andando lui stesso ad aprire
la porta col lume in mano. Si trovò faccia a faccia con uno dei
frequentatori della bettola dell’ostessa, che riconobbe subito tanto
il vizio aveva fatalmente e profondamente segnato quel volto giovane
e imberbe: era il Barbillon.
Il Barbillon, colui che aveva fatto da finto cocchiere al Maître
d’école e alla Chouette e li aveva condotti sulla strada bassa di
Bouqueval; il Barbillon, l’assassino del marito della disgraziata
lattaia che aveva aizzato contro la Goualeuse gli agricoltori della
fattoria di Arnouville.
O perché aveva dimenticato la fisionomia di Rodolphe, che d’altra
parte aveva visto solo una volta nella bettola dell’ostessa, o
perché non era riuscito a riconoscere il vincitore dello Chourineur
per via del suo nuovo travestimento, lo scellerato non diede segno
di meraviglia al vederlo.
«Cosa volete?» gli disse Rodolphe.
«Ho una lettera per la signora Mathieu... Devo consegnarla a lei»
rispose il Barbillon.
«Non abita qui, provate di fronte.»
«Grazie padrone; mi avevano detto la porta a sinistra, ma mi sono
sbagliato.»
Rodolphe non aveva pensato al nome della sensale di diamanti, perché
Morel l’aveva pronunciato appena una o due volte. Non aveva quindi
nessun motivo per interessarsi della donna dalla quale il Barbillon
andava come messaggero. Tuttavia, sebbene egli ne ignorasse i
delitti, la faccia del furfante era tanto perversa, che Rodolphe
rimase sulla soglia, curioso di vedere la persona a cui il Barbillon
portava la lettera.
Il Barbillon ebbe appena il tempo di bussare alla porta di fronte a
quella di Germain, che questa si aprì e comparve con una candela in
mano la sensale, una donna grassa sulla cinquantina.
«La signora Mathieu?» disse il Barbillon.
«Sono io, ragazzo.»
«Ecco una lettera per voi, aspetto la risposta...»
E il Barbillon fece un passo per entrare dalla sensale; ma co-
stei gli fece segno di non entrare, dissigillò la lettera, sempre
reggendo il candeliere, lesse e rispose con aria soddisfatta:
«Direte che va bene, ragazzo; porterò quello che mi chiedono. Verrò
alla stessa ora dell’altra volta. Tanti saluti... alla signora...»
«Sì, padrona... non dimenticatevi del fattorino...»
«Va’ a dirlo a quelli che ti hanno mandato, sono più ricchi di
me...»
E la commissionaria chiuse la porta.
Rodolphe rientrò nella stanza di Germain, mentre il Barbillon
scendeva frettolosamente le scale.
Il brigante trovò nella via un uomo dalla faccia losca e feroce che
lo aspettava davanti a una bottega.
«Nicolas, vieni a bere un goccio d’acquavite» gli disse il
Barbillon; «la vecchia casca nella rete... verrà dalla Chouette:
comare Martial ci aiuterà a levarle di forza i gioielli, e poi
porteremo via il cadavere con la tua barca.»
«Allora sbrighiamoci; bisogna che sia ad Asnières di buon’ora; ho
paura che mio fratello Martial sospetti qualcosa.»
E i due banditi, dopo questo breve dialogo, si avviarono per la rue
Saint-Denis.
Dopo qualche minuto Rigolette e Rodolphe uscirono dalla casa di
Germain; ripresero la carrozza che li portò in rue du Temple.
La carrozza si fermò.
Nel momento in cui si aprì lo sportello, Rodolphe scorse, al
chiarore del lampione del liquorista, il fedele Murph che lo
aspettava sul portone.
La presenza del gentiluomo era sempre foriera di qualche avvenimento
grave o inaspettato, perché solo lui sapeva dove trovare il
principe.
«Cosa c’è?» gli chiese subito Rodolphe, mentre Rigolette raccoglieva
i vari pacchetti nella carrozza.
«Una grande disgrazia, signore!» «Parla, in nome del cielo!»
«Il signor marchese d’Harville...» «Mi spaventi!»
«Aveva invitato a colazione diversi amici... Tutto era andato
magnificamente... specialmente lui non era mai stato così allegro,
quando una fatale imprudenza...»
«Finisci... finisci su!»
«Scherzando con una pistola che credeva scarica...»
«Si è ferito gravemente?»
«Signore!...»
«Ebbene?»
«Una cosa terribile.»
«Cosa dici?»
«È morto!...»
«D’Harville! oh, è terribile!» esclamò Rodolphe con tono così
straziante che Rigolette, che scendeva allora dalla carrozza con i
suoi pacchetti, gridò:
«Dio mio, cosa avete, signor Rodolphe?»
«Una triste notizia che ho dovuto dare al mio amico, signorina»
disse Murph alla ragazza; il principe infatti, accasciato dal
dolore, non aveva badato a rispondere.
«È una gran disgrazia allora?» chiese Rigolette tutta tremante. «Una
disgrazia terribile» rispose il gentiluomo.
«Oh, è spaventoso!» disse Rodolphe dopo qualche minuto di
silenzio; poi ricordandosi di Rigolette, le disse:
«Scusate, figliola... se non vi accompagno su da voi... Domani...
vi manderò il mio indirizzo e un permesso per entrare nella prigione
di Germain... arrivederci a presto.»
«Ah, signor Rodolphe, credetemi, la disgrazia capitatavi non mi
lascia indifferente... Vi ringrazio di avermi accompagnata... A
presto, vero?»
«Sì, figliola, a presto.»
«Buonasera, signor Rodolphe» aggiunse tristemente Rigolette, che
sparì nell’androne, con tutte le varie cose prese nella stanza di
Germain.
Il principe e Murph giunsero in carrozza a rue Plumet. Rodolphe
scrisse subito a Clémence il seguente biglietto:
Signora,
Ho saputo in questo momento della grave sciagura che vi ha colpito e
che mi ha privato di uno dei miei migliori amici; rinuncio a
descrivervi lo stupore e il dolore che provo.
Però è necessario che io vi parli di cose estranee alla crudele
sciagura... Ho sentito che la vostra matrigna, che doveva essere a
Parigi da alcuni giorni, è ripartita questa sera per la Normandia,
portando con sé Polidori.
Inutile dirvi il pericolo che sta minacciando vostro padre...
Permettetemi di darvi un consiglio che credo salutare. Dopo la
tremenda sventura di questa mattina, tutti capiranno benissimo il
vostro desiderio di lasciare Parigi per qualche tempo... Così,
ascoltatemi, partite subito per Aubiers, in modo da arrivarci, se
non prima della vostra matrigna, almeno contemporaneamente a lei.
State tranquilla, signora: da vicino o da lontano ci sono io a
vigilare su di voi... gli abominevoli piani della vostra matrigna
saranno sventati...
Addio, signora; vi scrivo queste righe in fretta... Mi si spezza il
cuore quando penso a ieri sera, quando l’ho lasciato, lui... sereno
e felice come non era più da tempo.
Credete, signora, alla mia sincera e profonda amicizia.
Rodolphe
Obbediente ai consigli del principe, la signora d’Harville, tre ore
dopo aver ricevuto questa lettera, era in viaggio con la figlia per
la Normandia.
Una carrozza postale partì dal palazzo di Rodolphe, per fare la
stessa strada.
Disgraziatamente, nella confusione creata dal concatenarsi di tanti
avvenimenti e nella fretta della partenza, Clémence aveva
dimenticato di far sapere al principe di aver incontrato
Fleur-deMarie a Saint-Lazare.
Il lettore non avrà forse dimenticato che, il giorno prima, la
Chouette era venuta a minacciare la Séraphin di svelare l’esistenza
della Goualeuse, dicendo di sapere (ed era vero) dove si trovava la
ragazza.
Inoltre il lettore non avrà dimenticato che, dopo un tale colloquio,
il notaio Jacques Ferrand, temendo che si venissero a scoprire i
suoi delittuosi intrighi, aveva ritenuto necessario far sparire la
Goualeuse, la cui esistenza, una volta conosciuta, avrebbe potuto
comprometterlo gravemente.
Aveva dunque fatto scrivere a Bradamanti, uno dei suoi complici, di
andare da lui per ordire un nuovo intrigo di cui Fleur-deMarie
avrebbe dovuto essere la vittima.
Bradamanti, preso dagli affari non meno urgenti della matrigna della
signora d’Harville che, per condurre il ciarlatano dal signor
d’Orbigny, doveva avere qualche sinistro progetto, Bradamanti,
trovando certamente più vantaggioso per lui servire la sua vecchia
amica, non rispose all’invito del notaio e partì per la Normandia
senza vedere la signora Séraphin.
Si addensava la tempesta su Jacques Ferrand. Nello stesso giorno, la
Chouette era andata a reiterare le minacce, e per dimostrare che non
erano vane, aveva dichiarato al notaio che la bambina abbandonata
tempo addietro dalla signora Séraphin si trovava in quel momento
nella prigione di Saint-Lazare, sotto il nome di Goualeuse, e che,
se egli non avesse dato entro tre giorni 10.000 franchi, la ragazza
avrebbe ricevuto certe carte che le avrebbero fatto sapere che, da
piccola, era stata affidata alle cure di Jacques Ferrand.
Come il suo solito, questi negò tutto spudoratamente, e cacciò la
Chouette dandole della bugiarda e sfacciata sebbene fosse convinto
della pericolosa gravità di quelle minacce e ne fosse spaventato.
Grazie alle sue numerose conoscenze, il notaio trovò modo di
assicurarsi (nello stesso giorno del colloquio fra Fleur-de-Marie e
la signora d’Harville) che la Goualeuse si trovava effettivamente
nella prigione di Saint-Lazare e che era talmente nota per la sua
buona condotta che ci si aspettava che da un momento all’altro
venisse scarcerata.
Avute queste informazioni, Jacques Ferrand progettò un piano
infernale; ma si accorse che per effettuarlo gli era più che mai
necessario l’aiuto di Bradamanti; così si spiega l’inutile
insistenza con cui la signora Séraphin voleva vedersi con il
ciarlatano.
Venuto a sapere la sera stessa della partenza di quest’ultimo, il
notaio, che aveva fretta di agire a causa dei suoi timori e
dell’imminenza del pericolo, si ricordò della famiglia Martial, cioè
di quei pirati d’acqua dolce che abitavano vicino al ponte
d’Asnières, presso i quali Bradamanti gli aveva proposto di mandare
Louise Morel per disfarsene senza rischi.
Avendo assoluto bisogno di un complice per effettuare i suoi
sinistri disegni contro Fleur-de-Marie, il notaio prese le più
impensate precauzioni per non essere compromesso nel caso in cui
fosse perpetrato un nuovo delitto, per cui, il giorno dopo la
partenza di Bradamanti per la Normandia, la signora Séraphin si recò
in tutta fretta dai Martial.
XVI
L’ISOLA DEL PREDONE
Le seguenti scene si svolgono nella serata del giorno in cui la
signora Séraphin, seguendo gli ordini del notaio Jacques Ferrand, si
era recata dai Martial, pirati d’acqua dolce, stanziati sulla punta
di un’isoletta della Senna non lontana dal ponte di Asnières.
Papà Martial, morto sulla forca come suo padre, aveva lasciato una
vedova, quattro figli e due figlie...
Il secondo dei figli era già stato condannato alla galera a vita...
Della numerosa famiglia, nell’isola del Predone (nome che i locali
davano a quel covo e noi diremo il perché), restavano:
Mamma Martial.
Tre figli: il maggiore (l’amante della Louve) aveva venticinque
anni; l’altro venti; il più giovane dodici.
Due figlie, una di diciott’anni, la seconda di nove...
Casi di famiglie come questa, che si tramandano una specie di
spaventosa ereditarietà nel delitto, non sono per niente rari.
Dev’essere così.
Lo ripetiamo continuamente: la società pensa a punire, mai a
prevenire il male.
Un criminale è gettato in galera a vita...
Un altro è decapitato...
Questi condannati lasciano qualche figlio piccolo...
La società forse avrà cura degli orfani...
Gli orfani che ha creato lei... colpendo il padre di morte civile
o tagliandogli la testa?
Metterà una salutare tutela al posto di colui che la legge ha di-
chiarato indegno, infame... al posto di colui che la legge ha
ucciso? No... Morta la bestia... il veleno non è più nocivo... dice
la so-
cietà.
E si sbaglia.
Il veleno della corruzione è così sottile, così corrosivo, così
contagioso, che finisce quasi sempre col diventare ereditario; se
combattuto subito, invece, non avrebbe il tempo di diventare
cronico.
Bizzarra contraddizione!...
Se l’autopsia prova che un uomo è morto di malattia ereditaria, si
ricorre alle cure preventive per mettere i suoi discendenti al
sicuro dal morbo di cui è stato vittima...
Lo stesso si faccia nella sfera morale...
Si dimostri pure che un criminale trasmette quasi sempre al figlio
il germe di una malvagità precoce...
Si farà per la salvezza di questa giovane anima ciò che il medico fa
per il corpo quando si tratta di lottare contro una tara ereditaria?
No...
Invece di guarirlo, si lascerà che la cancrena prenda piede finché
il disgraziato non sarà morto...
E allora, come volgarmente si crede che il figlio del boia debba
essere necessariamente boia... così si crederà il figlio di un
delinquente necessariamente delinquente.
E allora si considererà come conseguenza di una ereditarietà,
inesorabile e ineluttabile, la corruzione dovuta invece
all’egoistica noncuranza della società...
Di modo che se l’orfano reso tale dalla legge... resta per caso
laborioso e onesto nonostante i cattivi insegnamenti ricevuti, su di
lui peserà il barbaro pregiudizio della colpa paterna. E,
svantaggiato da una immeritata riprovazione, a stento troverà
lavoro...
Invece di venirgli in aiuto, di salvarlo dallo scoraggiamento, dalla
disperazione e soprattutto dai pericolosi risentimenti contro
l’ingiustizia che a volte spingono anche i caratteri più generosi
alla rivolta, al male... la società dirà:
«Che faccia il male... poi vedremo... Non ci sono forse carcerieri,
aguzzini, carnefici?».
Così, per colui che (cosa rara quanto bella) si mantiene puro,
nonostante i brutti esempi, nessun appoggio, nessun incoraggiamento!
Così, per colui che, vissuto fin dalla nascita in un focolare
domestico abitato solo dalla depravazione, giovanissimo è stato
corrotto, nessuna speranza di guarigione!
«Sì! sì! io lo guarirò quest’orfano che ho fatto» risponde la
società «ma a tempo e luogo... a modo mio... più tardi. Per
estirpare una verruca, per incidere un ascesso... bisogna che siano
maturi.»
Per un criminale bisogna aspettare...
«Prigioni e galere, ecco i miei ospedali... Per i casi inguaribili
c’è la mannaia. Quanto a curare il mio orfanello, ci penserò, vi
dico: ma abbiate pazienza, lasciamo maturare il germe di corruzione
ereditaria che cova in lui, lasciamolo crescere, lasciamo che il
male dilaghi dappertutto.
Pazienza dunque, pazienza. Quando il nostro uomo sarà marcio fino al
cuore, quando trasuderà il delitto da tutti i pori, quando un bel
furto o un bel delitto l’avranno gettato sul banco dell’infamia dove
si è seduto suo padre, oh, allora guariremo l’erede del male... come
abbiamo guarito il donatore.
In galera o sulla forca, il figlio troverà il posto del padre ancora
caldo...»
Sì, in questo caso, la società ragiona così.
Ed essa si stupisce, si sdegna, si spaventa di vedere perpetuarsi
fatalmente di generazione in generazione le tradizioni del furto e
del delitto. Il cupo quadro che descriveremo, cioè i pirati d’acqua
dolce, ha lo scopo di mostrare ciò che può essere in una famiglia
l’ereditarietà del male, quando la società non interviene o
legalmente o ufficiosamente per salvaguardare i disgraziati orfani
della legge dalle terribili conseguenze della condanna del loro
padre.
Il lettore ci perdonerà se abbiamo fatto precedere questo nuovo
episodio da una specie di introduzione.
Ecco perché agiremo così.
Lo scopo morale di questo libro è stato attaccato, durante il corso
della narrazione, con tanto accanimento e, secondo noi, con tanta
ingiustizia che ci permettiamo d’insistere sull’idea seria e onesta
che finora ci ha sostenuto e guidato.
Poiché sono state parecchie le persone serie, d’animo nobile e
delicato cha hanno incoraggiato i nostri tentativi facendoci
pervenire lusinghiere manifestazione d’adesione, noi ci sentiamo in
dovere per questi nostri amici conosciuti e sconosciuti di
rispondere per l’ultima volta alle insensate e ostinate
recriminazioni che, ci è stato detto, sono risuonate perfino in seno
all’assemblea legislativa.
Proclamare l’odiosa immoralità della nostra opera vuol dire, secondo
noi, proclamare implicitamente come odiosamente immorali le teorie
di quelle persone che ci onorano della loro viva simpatia.
A nome di queste simpatie e anche a nome nostro, noi tenteremo di
provare con un esempio, scelto fra i molti, che quest’opera non è
completamente priva di idee generose e pratiche.
L’anno scorso, in una delle prime parti del libro, abbiamo dato il
prospetto di una fattoria modello, creata da Rodolphe per
incoraggiare, istruire e rimunerare gli agricoltori poveri, probi e
laboriosi.
A questo proposito, dicevamo pressappoco così:
«Le persone oneste e disgraziate meritano di essere aiutate tanto
quanto i criminali; eppure sono numerose le organizzazioni destinate
alla protezione dei giovani detenuti o liberati, ma non esiste
nessuna organizzazione che sia stata creata allo scopo di venire in
aiuto ai giovani poveri la cui condotta sia sempre stata
esemplare... per cui è necessario avere commesso un delitto... per
essere idonei a godere del beneficio di quelle istituzioni, d’altra
parte molto meritorie e salutari.»
E a un contadino della fattoria di Bouqueval facevamo dire:
«È umano e caritatevole non disperare mai dei malvagi; ma
bisognerebbe anche far sperare i buoni. Se un ragazzo onesto,
robusto, laborioso e che avesse voglia di far bene e di imparare si
presentasse a quella fattoria di giovani ex ladri, gli
chiederebbero: “Ragazzo, non hai rubato e vagabondato?” “No”
“Ebbene, qui non c’è posto per te.”»
Questa contraddizione aveva colpito persone migliori di noi. Per
merito loro, è stato attuato ciò che noi consideravamo un’utopia.
Sotto la presidenza di uno degli uomini più eminenti e più onorevoli
del nostro tempo, il signor conte Portalis, e sotto l’avveduta
direzione di un vero filantropo dal cuore generoso e dallo spirito
pratico e illuminato, il signor Allier, è appena stata fondata
un’associazione che ha lo scopo di soccorrere i giovani poveri e
onesti del dipartimento della Senna e di impiegarli in aziende
agricole.
Questo solo e semplice fatto basta a mettere in luce la portata
morale della nostra opera.
Siamo molto fieri e felici di esserci incontrati sullo stesso
terreno d’idee, di voti e di speranze con i fondatori di questa
nuova opera di patronato; perché noi siamo fra i più oscuri ma più
convinti propugnatori di queste due grandi verità: che la società ha
il dovere di prevenire il male e di incoraggiare e premiare, per
quanto le è possibile, il bene.
Poiché abbiamo parlato di questa nuova opera di carità, che, in
quanto concepita secondo uno scopo moralmente giusto, eserciterà
senz’altro un’azione salutare e profonda, speriamo che i suoi
fondatori penseranno anche a colmare un’altra
lacuna, tenendo in seguito sotto la loro tutela o estendendo almeno
la loro sollecitudine ai fanciulli il cui padre fosse stato
giustiziato o condannato a una pena infamante che comporti la morte
civile e che, ripetiamo, sono diventati orfani per applicazione
della legge.
E fra questi disgraziati fanciulli, ce ne sono alcuni che, essendo
già degni d’aiuto per via delle loro tendenze e della loro miseria,
meriterebbero anche un’attenzione particolare, proprio in ragione
della anormalità della loro penosa, difficile, pericolosa
situazione.
Sì, penosa, difficile, pericolosa.
Torniamo a dirlo: spesso la famiglia di un condannato, vittima di
crudeli repulsioni, quando chiede lavoro, si vede costretta, per
sfuggire alla generale riprovazione, ad abbandonare i luoghi dove
trova mezzi di sussistenza.
Allora, inaspriti, irritati dall’ingiustizia, già infamati, come i
criminali, da una colpa di cui sono innocenti... qualche volta,
perso ogni mezzo onesto, questi sventurati non saranno lì lì per
cedere anche se si sono conservati onesti?
Se hanno già subito un’influenza quasi inevitabilmente corruttrice,
non si deve per questo cercare di salvarli, quando si è ancora in
tempo?
La presenza di questi orfani per colpa della legge in mezzo agli
altri bambini raccolti dall’organizzazione in oggetto sarebbe
d’altra parte un insegnamento utile per tutti... Essa mostrerebbe
che, se il colpevole è inesorabilmente punito, i suoi non perdono
niente, anzi sono maggiormente stimati se, a forza di coraggio, di
virtù, essi riescono a riabilitare un nome disonorato.
Qualcuno dirà che il legislatore ha voluto rendere il castigo ancora
più terribile, colpendo il padre colpevole nell’avvenire del figlio
innocente.
Ma sarebbe una cosa da barbari, immorale, assurda.
Non è forse invece atto di alta moralità poter provare al popolo:
Che nel male non c’è legame d’ereditarietà;
Che la macchia originale non è incancellabile?
Osiamo sperare che queste riflessioni possano sembrare de-
gne di qualche interesse alla nuova società patrocinante.
Certo, è doloroso pensare che lo Stato non prenda mai l’iniziativa
in tutte queste questioni attuali che toccano sul vivo l’or-
ganizzazione sociale.
E può essere altrimenti?
In una delle ultime sedute legislative, un deputato, colpito, diceva
lui, dalla miseria e dalla sofferenza delle classi povere, ha
proposto, fra gli altri rimedi, «la fondazione di case per invalidi
da destinarsi ai lavoratori.»
Un simile progetto che, pur nella forma, aveva in sé un’idea
filantropica nobile e degna di serio esame perché collegata al
grande problema dell’organizzazione del lavoro, questo progetto,
dicevamo, «è stato accolto da uno scoppio generale d’ilarità.»
Detto ciò, proseguiamo.
Ritorniamo ai pirati d’acqua dolce e all’isola del Predone.
Il capo famiglia Martial, che per primo si era stabilito in
quest’isola pagando un modico affitto, era un predone.
I predoni, come gli scaricatori e i distruttori di zattere, stanno
tutto il giorno immersi nell’acqua fino alla cintola per esercitare
il loro mestiere.
Gli scaricatori sbarcano la legna fluitata.
I distruttori demoliscono i fasci di legname fluitato.
Benché acquatico come gli altri, il mestiere del predone ha
uno scopo diverso.
Il predone, avanzando il più possibile nell’acqua, tira fuori da
sotto il fango, per mezzo di una grande draga, la sabbia del fiume;
poi la raccoglie in grandi secchi di legno, la lavora come un
minerale o come una sabbia aurifera, per cavarne fuori una grande
quantità di particelle metalliche di ogni tipo, ferro, rame, ghisa,
piombo, stagno, provenienti dai resti di un gran numero di utensili.
Spesso i predoni trovano nella sabbia anche frammenti di gioielli
d’oro e d’argento, portati dalla Senna o dalle fogne dove si
scaricano i rigagnoli, buttati nei mucchi di neve o di ghiaccio
formatisi nelle strade e gettati d’inverno nel fiume.
Non sappiamo per quale tradizione o per quale usanza questi
lavoratori, di solito onesti, calmi e laboriosi, siano stati
battezzati con un nome così terribile.
Martial padre, il primo abitante dell’isola, fino ad allora
disabitata, faceva il predone (una brutta eccezione) e appunto per
questo essa fu chiamata l’île du Ravageur da quelli che abitavano
sulle rive del fiume.
L’abitazione dei pirati d’acqua dolce è situata nelle parti
meridionali di questa terra.
Di giorno si legge su un grande cartello che oscilla sopra la porta:
AL RITROVO DEI PREDONI
BUON VINO, BUONA ZUPPA ALLA MARINARA E FRITTURA
Si noleggiano barche per le gite
Come si può vedere il capo della famiglia maledetta aveva affiancato
ai suoi mestieri palesi o segreti quelli di oste, di pescatore e di
noleggiatore di barche.
La vedova del giustiziato continuava a tenere l’osteria: gentaglia,
vagabondi, banditi, saltimbanchi, ciarlatani e ambulanti la
prendevano come meta delle loro scampagnate, la domenica e altri
giorni festivi.
Martial (l’amante della Louve), il primogenito della famiglia, era
il meno colpevole di tutti; ciononostante pescava di frodo e,
all’occorrenza, prendeva come un vero bravo, dietro compenso, la
difesa dei deboli contro i forti.
Un suo fratello, Nicolas, il futuro complice del Barbillon
nell’assassinio della sensale di gioielli, faceva, in apparenza, il
predone, ma in effetti esercitava la pirateria d’acqua dolce sulla
Senna e sulle sue rive.
Infine François, il minore dei figli del giustiziato, portava in
barca i curiosi che volevano andare a zonzo per il fiume.
Di sfuggita ricorderemo anche Ambroise Martial, condannato alla
galera per furto notturno con scasso e tentato omicidio.
La figlia maggiore, soprannominata Calebasse, aiutava la madre a
cucinare e a servire i clienti; sua sorella Amandine, di nove anni,
si occupava anche lei per quanto poteva della casa.
Quella sera, la notte fuori era buia: nuvoloni grigi e opachi
sospinti dal vento lasciavano vedere qua e là, attraverso i loro
squarci bizzarri, un po’ di azzurro cupo scintillante di stelle.
La sagoma dell’isola, contornata di alti pioppi spogli, si stagliava
sulla diafana oscurità del cielo e sulla biancastra trasparenza del
fiume.
La casa, con pareti regolari, è completamente sepolta nell’ombra;
solo le due finestre del pianterreno sono illuminate; dai loro vetri
fiammeggianti vengono certi rossi chiarori che si riflettono come
due lunghe scie di fuoco sulle onde che bagnano il pontile, vicino
all’abitazione.
Le catene delle barche che sono ormeggiate al pontile mandano un
cigolio sinistro che va a unirsi al sibilo che fa il vento tra i
rami dei pioppi e al sordo mugghiare dell’acqua...
Una parte della famiglia è riunita nella cucina della casa. È una
stanza vasta e bassa con di fronte alla porta due finestre, sotto le
quali c’è un lungo forno; a sinistra un gran camino; a destra una
scala che porta al piano superiore; vicino a questa, la porta di una
gran sala piena di tavoli per gli avventori dell’osteria.
La luce di una lampada, rinforzata dalle fiamme del camino, fa
brillare un gran numero di casseruole e altri utensili di rame
appesi alle pareti o sistemati su scaffali assieme a varie
stoviglie; in mezzo alla cucina, una grande tavola.
La vedova del giustiziato è seduta accanto al fuoco con tre figli.
È una donna alta e magra che dimostra circa quarantacinque anni. È
vestita di nero; un fazzoletto nero annodato sul capo le nasconde i
capelli e le circonda la fronte piatta, pallida e già piena di
rughe; ha il naso lungo, diritto e appuntito, gli zigomi sporgenti,
le guance scavate, il viso giallo, smorto e butterato; gli angoli
della bocca, sempre in giù, rendono ancora più dura l’espressione di
questo viso freddo, sinistro, impassibile come una maschera di
marmo. Sopra agli occhi di un azzurro spento ha sopracciglia grigie.
È intenta a cucire, e anche le due figlie.
La maggiore, alta e magra, assomiglia molto alla madre... La stessa
faccia calma, dura e cattiva, il naso sottile, la bocca severa, lo
sguardo incolore... Al suo colorito terreo, giallo come una mela
cotogna, deve il soprannome di Calebasse. Non è vestita a lutto;
indossa un abito marrone; la cuffia di tulle nero lascia scoperte
due bande di capelli radi di un biondo pallido senza lucentezza.
François, il minore dei fratelli Martial, accoccolato su uno
sgabello, sta aggiustando le maglie di un aldret, rete da pesca
devastatrice, severamente proibita sulla Senna.
Nonostante l’abbronzatura, il colorito di questo ragazzo appare
sanissimo; una selva di capelli rossi gli ricopre la testa, ha la
faccia rotonda, le labbra grosse, la fronte sporgente, gli occhi
vivaci e penetranti. Non assomiglia né alla madre né alla sorella
maggiore; ha l’aria sorniona e un po’ spaurita. Di tanto in tanto,
attraverso la specie di criniera che gli ricade sulla fronte, getta
sulla madre qualche occhiata obliqua, piena di diffidenza, o scambia
con Amandine qualche sguardo affettuoso ma anche d’intesa...
Amandine, seduta vicina al fratello, è intenta non a mettere, ma a
togliere la sigla alla biancheria rubata il giorno prima... Ha nove
anni; assomiglia al fratello come la sorella assomiglia alla
madre; ma i suoi lineamenti non sono più regolari di quelli di
François, sono invece più delicati. Il suo colorito, benché
ricoperto di lentiggini, è di stupenda freschezza, ha le labbra
grosse e vermiglie, i capelli rossi, fini, morbidi e lucenti, gli
occhi piccoli di un bell’azzurro dolcissimo.
Quando incontra gli occhi del fratello, Amandine gli mostra con lo
sguardo la porta; a quel segno François risponde con un sospiro,
poi, richiamata l’attenzione della sorella con un rapido gesto, si
mette a contare a una a una dieci maglie della rete col punteruolo.
Ciò, nel linguaggio simbolico dei bambini, vuol dire che il fratello
Martial non ritornerà a casa prima delle dieci.
La vista di quelle due donne silenziose, dall’aria cattiva, e di
quei due poveri bambini, inquieti, muti, spauriti, fa pensare da una
parte a due carnefici e dall’altra a due vittime.
Calebasse, accortasi che Amandine aveva cessato un momento di
lavorare, le disse aspramente:
«Quando finirai di levare la sigla a quella camicia?...»
La bambina abbassò la testa senza rispondere; aiutandosi con le dita
e le forbici finì di togliere i fili di cotone rosso con cui le
lettere erano ricamate sulla tela.
Dopo qualche istante, Amandine si rivolse timidamente alla vedova e
le presentò il lavoro:
«Mamma, ho finito» le disse.
La vedova, senza rispondere, le gettò un altro capo di biancheria.
La bambina, non essendo riuscita a prenderlo al volo, lo lasciò
cadere. La sorella maggiore le diede, con quella sua mano più dura
del legno, un colpo fortissimo sul braccio, gridando:
«Bestiaccia!!!»
Amandine ritornò al suo posto e si rimise a lavorare di gran lena,
dopo aver scambiato col fratello un’occhiata umida di lacrime.
Lo stesso silenzio continuò a regnare nella cucina.
Fuori il vento continuava a gemere e a far muovere l’insegna della
bettola.
Il triste stridore dell’insegna e il sordo gorgogliare di una
pentola messa sul fuoco erano i soli rumori che si sentissero.
I due bambini avevano notato con segreto terrore che la madre non
parlava.
Sebbene fosse per natura silenziosa, la vedova con quel suo mutismo
e con quel suo modo di stringere le labbra dava a vedere
di essere in quelle che essi chiamavano le sue collere bianche, cioè
in preda a una rabbia concentrata.
Il fuoco stava spegnendosi per mancanza di legna.
«François, un pezzo di legno!» disse Calebasse.
Il giovane rammendatore di reti proibite guardò dietro il ca-
minetto e rispose:
«Qui non ce n’è più...»
«Va’ alla legnaia» continuò Calebasse.
François borbottò qualche parola incomprensibile e non si
mosse.
«Ma insomma, François, mi hai sentito?» disse con durezza
Calebasse.
La vedova del giustiziato posò sulle ginocchia un tovagliolo a
cui stava togliendo la sigla e puntò lo sguardo sul figlio.
Questi, pur tenendo la testa bassa, sentì, per così dire, lo sguardo
terribile della madre pesargli addosso... Per paura di in-
contrare quella faccia, il bambino restò immobile.
«Insomma, François sei sordo?» continuò Calebasse furente.
«Mamma... lo vedi...»
Pareva che la sorella maggiore avesse la funzione di accusare i
due bambini e di richiedere la pena che la vedova s’incaricava di
applicare implacabilmente.
Amandine, senza farsi vedere, toccò leggermente il gomito al
fratello per spronarlo tacitamente a obbedire a Calebasse.
François non si mosse.
La sorella maggiore guardò la madre come per chiedere la punizione
del colpevole: la vedova capì.
Con un lungo dito scarno, ella indicò a Calebasse una verga di
salice forte e pieghevole, posta in un angolo del focolare.
Calebasse si chinò all’indietro, prese lo strumento di punizione e
lo passò alla madre.
François, che aveva seguito attentamente ogni movimento della madre,
con un balzo improvviso si mise fuori tiro della terribile verga.
«Vuoi proprio che la mamma ti ammazzi di legnate, delinquente!»
gridò Calebasse.
La vedova, col bastone sempre in mano si mordeva sempre più le
pallide labbra e insieme guardava fisso François senza dire parola.
Dal leggero tremito delle mani di Amandine che teneva la testa
china, e dal rossore che le ricoprì improvvisamente il collo, si
capiva che la bambina, sebbene abituata a tali scenate, era
spaventata da ciò che sarebbe toccato al fratello.
Questi, rifugiatosi in un angolo della cucina, appariva pieno di
paura e di rabbia.
«Bada, la mamma sta per alzarsi e non farai più in tempo.» disse la
sorella maggiore.
«Non m’importa» replicò François impallidendo. «Preferisco essere
picchiato come l’altro giorno... piuttosto che andare nella
legnaia... e di notte... per di più...»
«E perché?» chiese Calebasse spazientita.
«Ho paura nella legnaia... io...» rispose il bambino, rabbrividendo,
suo malgrado.
«Hai paura... imbecille... e di cosa?»
«François scosse il capo senza rispondere.»
«Vuoi parlare?... Di che cosa hai paura?»
«Non so... ma ho paura...»
«Ci sei andato cento volte e anche ieri sera?»
«Adesso non ci voglio più andare...»
«Ecco la mamma che si alza...»
«Tanto peggio!» gridò il bambino, «che mi picchi, che mi am-
mazzi, ma nella legnaia non ci andrò... specialmente... di notte...»
«Ma, insomma, perché?» insisté Calebasse.
«Ebbene, perché...»
«Perché?»
«Perché c’è qualcuno...»
«Qualcuno?»
«Sotterrato lì...» mormorò François tremando.
La vedova del giustiziato, nonostante la sua impassibilità, non
poté fare a meno di reprimere un brusco trasalimento; la figlia fece
lo stesso: sembrava che le due donne fossero state colpite dalla
stessa scossa elettrica.
«C’è qualcuno sotterrato nella legnaia?» ripeté Calebasse alzando le
spalle.
«Sì» disse François così piano che quasi non lo si udì.
«Bugiardo!...» gridò Calebasse.
«E io ti dico che poco tempo fa mettendo in ordine la legna, ho,
visto in un angolo buio della legnaia un osso da morto... veniva
fuori dalla terra umida che è intorno...» replicò François.
«Lo senti, mamma? Quanto è scemo!» disse Calebasse facendo un segno
d’intesa alla vedova, sono gli ossi di castrato che tengo lì per il
bucato.
«Non era un osso di castrato» riprese il bambino terrorizzato,
«erano ossa sotterrate... ossa da morto... un piede che usciva da
terra... l’ho visto bene.»
«E sarai andato subito a raccontare questa bella scoperta a tuo
fratello... al tuo caro amico Martial, vero?» disse Calebasse con
selvaggia ironia.
François non rispose.
«Brutta spia» gridò Calebasse furibonda, «perché è vigliacco come un
coniglio, sarebbe capace di farci ghigliottinare tutti, come è stato
di nostro padre!»
«Visto che mi chiamo spia» gridò François esasperato, «dirò tutto a
mio fratello Martial. Non glielo avevo ancora detto, perché è tanto
che non lo vedo... Ma quando ritornerà questa sera... io...»
Il bambino non ebbe il coraggio di finire. La madre stava andando
verso di lui, calma, implacabile.
Sebbene ella fosse per se stessa un po’ curva, aveva una statura
altissima per essere una donna. Con la mano non occupata dalla verga
afferrò il figlio per il braccio e, nonostante la paura, la
resistenza e le preghiere di lui, lo trascinò con sé e lo costrinse
a salire la scala che era in fondo alla cucina.
Poco dopo si sentirono sopra il soffitto sordi trepestii rotti da
urli e singhiozzi.
Ma dopo qualche momento, cessò ogni rumore. Si sentì sbattere
violentemente la porta.
E la vedova del giustiziato, ridiscese.
Poi, sempre impassibile, rimise al suo posto la verga di salce, si
sedette di nuovo vicino al fuoco e continuò il suo lavoro senza dire
parola.
PARTE SESTA
I
IL PIRATA D’ACQUA DOLCE
Dopo alcuni momenti di silenzio la vedova del giustiziato disse alla
figlia:
«Va’ a prendere la legna; questa notte metteremo in ordine la
legnaia... al ritorno di Nicolas e di Martial.»
«Di Martial? Allora volete dirgli anche che...»
«La legna» disse la vedova interrompendo bruscamente la figlia.
Costei, abituata a subire la ferrea volontà della madre, accese la
lanterna e uscì.
Allorché ella aprì la porta si vide di fuori la notte buia, si udì
il rumoreggiare degli alti pioppi agitati dal vento, lo stridere
delle catene delle barche, i sibili del vento, il mugghiare del
fiume.
Erano rumori molto tetri.
Per tutta la durata della scena, Amandine si era sentita
terribilmente in ansia per la sorte di François che amava
teneramente, ed era rimasta con gli occhi bassi e senza asciugarsi
le lacrime che le cadevano a una a una sulle ginocchia. Nonostante
si sentisse soffocare dai singhiozzi ringoiati cercava di reprimere
persino i battiti del suo cuore palpitante di paura.
Le lacrime le oscuravano la vista. Nella fretta di togliere
l’etichetta a una camicia datale, si era bucata una mano con le
forbici; la ferita sanguinava molto, ma la povera bambina non
pensava tanto al dolore quanto alla punizione che l’attendeva per
aver macchiato col sangue quel capo di biancheria. Per fortuna la
vedova, assorta in profondi pensieri, non s’accorse di niente.
Calebasse rientrò portando un cesto pieno di legna. Allo sguardo
della madre rispose con un cenno della testa in segno di assenso.
Ciò voleva dire che effettivamente sporgeva da terra...
La vedova si morse le labbra e continuò a lavorare; sembrava però
che maneggiasse l’ago con più nervosismo.
Calebasse riattizzò il fuoco; poi guardò se la pentola che cuoceva
su un angolo del focolare stava bollendo, quindi si sedette di nuovo
vicino alla madre.
«Nicolas non viene ancora!» le disse. «Purché la vecchia che questa
mattina gli ha dato appuntamento con un signore mandato da
Bradamanti non l’abbia cacciato in un brutto affare. Aveva un modo
di fare così misterioso! Non ha voluto né dare spiegazioni né dire
come si chiamava, né da dove veniva.»
La vedova alzò le spalle.
«Mamma, credete che ci sia pericolo per Nicolas? Dopo tutto, forse
avete ragione... La vecchia gli chiedeva di trovarsi alle sette di
sera al quai de Billy, di fronte alla stazione e di aspettare lì un
uomo che voleva parlargli e che per farsi riconoscere gli avrebbe
detto, come parola d’ordine, Bradamanti. In fondo non è una cosa
molto pericolosa. Se Nicolas ritarda, vuol dire che ha trovato
qualcosa per strada, come l’altro giorno quella biancheria lì, che
ha sgraffignato sul lavatoio di una lavandaia.» E le indicò uno dei
capi ai quali Amandine stava toglienddo l’etichetta; poi,
rivolgendosi alla bambina: «Che vuol dire sgraffignare?»
«Vuol dire... prendere...» rispose la bambina senza alzare gli
occhi.
«Vuol dire rubare, brutta scema; capisci?... rubare...»
«Sì, sorella...»
«E quando si sa sgraffignare bene come Nicolas, c’è sempre
qualcosa da guadagnare... La biancheria che ha rubato ieri ci ha
rimesso in sesto e ci costerà solo far togliere la sigla, vero...
mamma?» aggiunse Calebasse con una risata che le fece mettere in
mostra i denti radi e gialli come la carnagione che aveva.
La vedova restò fredda a questa battuta.
«A proposito, per rifarci gratis la casa» continuò Calebasse «forse
potremo fornirci da un’altra bottega. Voi sapete che un vecchio è
venuto ad abitare, da qualche giorno, la casa di campagna del signor
Griffon, il medico dell’ospedale di Parigi; è una casa isolata, a
cento passi dalla riva del fiume, dirimpetto alla fornace di gesso.»
La vedova chinò il capo.
«Nicolas diceva ieri che adesso ci sarebbe un buon colpo da fare»
riprese Calebasse. «E io sono venuta a sapere questa mattina che c’è
di sicuro da fare bottino; bisognerà mandare Amandine a ronzare lì
intorno; nessuno la noterà; farà finta di giocare
e guarderà bene dappertutto, quindi verrà a riferirci ciò che ha
visto. Stai attenta a quello che ti dico?» aggiunse aspramente
Calebasse, rivolgendosi ad Amandine.
«Sì, sorella, ci andrò» rispose la bambina tremando.
«Tu dici sempre che farai, ma invece non fai mai, brutta gattamorta!
Quella volta che ti avevo ordinato di prendere cento soldi nella
cassa del droghiere di Asnières, mentre io lo tenevo occupato in un
altro posto della bottega, era facile: chi non si fida di una
bambina? Perché non mi hai obbedito?»
«Sorella... non ne ho avuto il coraggio... non ho osato...»
«L’altro giorno però hai avuto il coraggio di rubare un fazzoletto
nella balla del venditore ambulante che stava vendendo in osteria.
Si è forse accorto di qualcosa, imbecille?»
«Sorella, siete stata voi a costringermi... il fazzoletto era per
voi; e poi non era denaro...»
«E cosa vuol dire?»
«Caspita!... prendere un fazzoletto non è così male come prendere
del denaro.»
«Scommetto che è Martial che ti ha insegnato questo po’ po’ di
virtù, vero?» continuò Calebasse ironica; «vai a raccontargli tutto
al tuo Martial, piccola spia? credi che abbiamo paura che ci mangi
il tuo Martial?...» Poi, rivolgendosi alla vedova, Calebasse
soggiunse: «Vedi, mamma, andrà a finir male lui... vuole dettare
legge qui. Nicolas è furente contro di lui e anch’io. Aizza Amandine
e François contro di noi, contro di te... può durare così?...»
«No...» disse la madre, dura e concisa.
«Soprattutto da quando la sua Louve è a Saint-Lazare ce l’ha con
noi... È colpa nostra, se la sua amica è in prigione? Appena uscirà,
che venga qui... e la servirò... generosamente... anche se fa la
prepotente...»
La vedova, dopo essere rimasta un momento pensierosa, disse alla
figlia:
«Credi che ci sia da fare un bel colpo con il vecchio che abita
nella casa del medico?».
«Sì, mamma...»
«Ma, mi pare un pezzente!»
«Ciò non toglie che sia un nobile.»
«Un nobile?»
«Sì, e ha denaro in saccoccia, sebbene vada e torni ogni giorno
a piedi da qui a Parigi, col suo bastone al posto della carrozza.»
«E che ne sai tu che ha del denaro?»
«Poco fa sono stata all’ufficio postale di Asnières per vedere se
c’era posta da Tolone...»
Quelle parole ricordarono alla vedova del giustiziato che il figlio
era in galera: aggrottò le sopracciglia e soffocò un sospiro.
Calebasse continuò:
«Aspettavo il mio turno quando è entrato il vecchio che abita nella
casa del medico; l’ho subito riconosciuto dalla barba e dai capelli
bianchi, dalla faccia color di bosso e dalle sopracciglia nere. Non
ha la faccia da buono... Nonostante l’età, dev’essere un vecchio
furbo... Ha detto all’impiegata: “Avete lettere da Angers per il
conte di Saint-Remy?” “Sì,” ella ha risposto, “eccone una.” “È per
me,” egli ha detto; “ecco il mio passaporto”. Mentre l’impiegata lo
esaminava, il vecchio, per pagare, ha tirato fuori un borsellino di
seta verde. Nel fondo ho visto luccicare dell’oro attraverso le
maglie; ce erano pezzi grossi come uova... quaranta o cinquanta
luigi al minimo!» esclamò Calebasse, con gli occhi luccicanti di
cupidigia... «eppure veste come un mendicante. È uno di quei vecchi
avari imbottiti di tesori... Su, mamma, sapendo il suo nome ce ne
potremo servire... per entrare in casa sua dopo che Amandine ci avrà
detto se ci sono domestici.»
Un violento abbaiare interruppe Calebasse.
«Ah, i cani urlano» disse; «hanno sentito la barca. Sarà Martial o
Nicolas...»
All’udire il nome di Martial, Amandine assunse in volto
un’espressione di gioia malcelata.
Di lì a poco, mentre fissava con impazienza e inquietudine la porta,
la bambina con gran dispiacere vide entrare Nicolas, il futuro
complice del Barbillon.
La fisionomia di Nicolas Martial era ignobile e feroce; era piccolo,
magro e gracile e non si capiva come potesse esercitare il suo
pericoloso mestiere di delinquente. Purtroppo lo scellerato suppliva
alla mancanza di energia fisica con una selvaggia energia solare.
Sopra il camicione azzurro, Nicolas portava una specie di casacca
senza maniche in pelle di capra, con pelo lungo e scuro. Appena
entrato, egli gettò a terra un pane di rame che aveva portato a
fatica sulle spalle.
«Buona sera e buon bottino, mamma!» esclamò con voce profonda e
roca, dopo aver deposto il carico; «là nella barca ci sono altri
pani così, un fagotto di stracci, e una cassa piena di non so che
cosa; non ho voluto perdere tempo ad aprirla. Forse sarò stato
fregato... vedremo!»
«E l’uomo del quai de Billy?» chiese Calebasse mentre la vedova
guardava il figlio in silenzio.
Questi, per tutta risposta, si ficcò la mano nella tasca dei
pantaloni e la scosse facendo sentire il tintinnio di molte monete.
«Gli hai preso tutto questo?...» esclamò Calebasse.
«No, mi ha dato lui stesso duecento franchi; e me ne darà altri
ottocento quando avrò... ma basta così!... Prima scarichiamo la
barca, poi parleremo... Martial non c’è?»
«No» disse la sorella.
«Meglio così! metteremo via il bottino senza di lui. È bene che non
lo sappia...»
«Hai paura di lui, fifone?» disse con asprezza Calebasse.
«Paura di lui?... io!...» e alzò le spalle; «ho paura che ci
tradisca... ecco tutto. Quanto a temerlo... il mio tagliagole è così
affilato!»
«Oh, quando non c’è... fai il gradasso... ma appena arriva, chiudi
il becco.»
Nicolas si mostrò insensibile a quel rimprovero e disse: «Su,
presto, presto!... alla barca... Mamma, dov’è François? Ci potrebbe
aiutare».
«La mamma gli ha dato una strizzatina e l’ha rinchiuso lassù; deve
andare a letto senza mangiare» disse Calebasse.
«Va bene! ma mandalo subito a darmi una mano a scaricare la barca,
vero, mamma? Se siamo io, lui e Calebasse ci basterà un viaggio per
portare dentro tutto...»
La vedova alzò il dito verso l’alto. Calebasse comprese e andò a
chiamare François.
Il truce volto della signora Martial si era un po’ disteso dopo
l’arrivo di Nicolas che amava più di Calebasse, ma meno del figlio
di Tolone, come diceva... infatti l’amore materno in quella donna
feroce era proporzionale alla perversità dei suoi.
Questa preferenza basta a spiegare la sua antipatia per i due figli
più piccoli, che non rivelavano inclinazioni al male, e il suo odio
profondo per Martial, il figlio maggiore, che, sebbene non
conducesse una vita irreprensibile, poteva passare per un uomo
onestissimo, se lo si paragonava a Nicolas, a Calebasse e al figlio
in galera a Tolone.
«Dove sei andato a sgraffignare questa notte?» chiese la vedova a
Nicolas.
«Ritornando dal quai de Billy, dove ho incontrato il signore con cui
avevo appuntamento questa sera, ho adocchiato vicino al ponte des
Invalides una galeotta ancorata vicino alla banchina.
Era buio; mi sono detto: non c’è luce nella cabina... i marinai sono
a terra... Salterò a bordo... se trovo qualche curioso gli chiederò
un pezzo di corda per aggiustarmi il remo... Entro nella cabina...
nessuno... Allora ho arraffato tutto quel che potevo, vestiti, un
cassone, quattro pani di rame; ho fatto due viaggi, perché la
galeotta era carica di rame e di ferro. Ma ecco François e
Calebasse; presto, alla barca!... Su, fila anche tu, Amandine;
porterai i vestiti... Prima di cacciare... bisogna portare...»
Rimasta sola, la vedova si occupò dei preparativi della cena della
famiglia; mise sulla tavola bicchieri, bottiglie, piatti di maiolica
e posate d’argento.
Stava finendo di apparecchiare, quando entrarono i figli carichi di
roba.
François sembrava schiacciato sotto il peso dei due pani di rame che
portava sulle spalle; Amandine era sparita quasi del tutto sotto il
mucchio di vestiti rubati che teneva sulla testa; infine Nicolas,
aiutato da Calebasse, giunse portando una cassa di legno bianco,
sulla quale aveva messo il quarto pane di rame.
«La cassa, la cassa!... sventriamo la cassa!» gridò Calebasse con
selvaggia impazienza.
I pani di rame furono gettati per terra.
Nicolas si armò del grosso ferro dell’accetta che portava alla
cintura, l’introdusse sotto il coperchio della cassa posta in mezzo
alla cucina, per scardinarla.
Il chiarore rossastro e vacillante del focolare illuminava quella
scena di saccheggio; fuori i sibili del vento si facevano sempre più
impetuosi.
Nicolas vestito di pelle di capra stava accoccolato davanti al baule
per cercare di aprirlo ma bestemmiava orribilmente perché il grosso
coperchio resisteva ai suoi colpi vigorosi.
Con gli occhi sfavillanti di cupidigia, le guance arrossate dal
furore della rapina, Calebasse s’era inginocchiata sulla cassa per
far pressione con tutto il peso del corpo e per dare un punto
d’appoggio più stabile alla leva di Nicolas.
La vedova s’era distesa con tutta la lunghezza del suo corpo sul
tavolo che la separava dal gruppo e si sporgeva anche lei
sull’oggetto rubato, con uno sguardo pieno di febbrile cupidigia.
Infine, cosa crudele e, ahimè, anche troppo umana, i due bimbi la
cui innata bontà spesso aveva avuto la meglio sulla maledetta
influenza di quella tremenda corruzione domestica, i due bimbi,
dimentichi dei loro scrupoli e dei loro timori, avevano ceduto al
fascino di una fatale curiosità...
Stretti l’uno all’altro, con gli occhi scintillanti, il respiro
affannoso, François e Amandine non erano meno desiderosi di
conoscere il contenuto del baule, né meno irritati delle difficoltà
incontrate da Nicolas nell’aprire la cassa.
Finalmente il coperchio saltò in pezzi.
«Ah!...» esclamò con gioia la famiglia all’unisono, seppure
ansimante. E tutti, dalla madre alla bambina, si buttarono, si
precipitarono con ardore selvaggio sulla cassa sfondata. Questa,
spedita di certo da Parigi a un mercante di mode di qualche posto
sul fiume, conteneva una grande quantità di pezze di stoffa per
abiti da donna.
«Nicolas, ti è andata bene!» esclamò Calebasse svolgendo un taglio
di mussola.
«Sì» rispose il brigante, spiegando a sua volta un mazzo di
fazzoletti di seta, «mi sono rifatto delle spese...»
«Levantina... la si venderà come niente» disse la vedova prendendo
anche lei qualcosa dalla cassa.
«La ricettatrice di Bras-Rouge, che abita in rue du Temple, comprerà
le stoffe» aggiunse Nicolas; «e al rame ci penserà papà Micou,
quello che affitta stanze ammobiliate nel quartiere di
Saint-Honoré.»
«Amandine» disse sottovoce François alla sorellina, «che belle
cravatte ci si potrebbe fare con uno dei fazzoletti di seta... che
Nicolas ha in mano!...»
«Anche una bella cuffietta» rispose la bimba incantata.
«Dobbiamo ammettere che sei stato fortunato a montare su quella
galeotta, Nicolas» disse Calebasse. «Tieni, eroe!... ecco ora gli
scialli... ce ne sono tre... vera borra di seta... Guarda,
mamma!...»
«Comare Burette ci darà di tutto 500 franchi» disse la vedova dopo
un attento esame.
«Allora tutto ciò varrà almeno 1500 franchi» disse Nicolas; «ma come
si dice, il ricettatore è come il ladro... Bah, tanto peggio, non so
stiracchiare... anche questa volta sarò tanto scemo da fare quello
che vorranno comare Burette e papà Micou; lui almeno è un amico.»
«Comunque è ladro come gli altri quel barbogio di ferravecchio; ma
quelle canaglie dei ricettatori sanno che si ha bisogno di loro»
riprese Calebasse avvolgendosi in uno scialle, «e se ne
approfittano!»
«Non c’è nient’altro» disse Nicolas, una volta arrivato in fondo
alla cassa.
«Adesso bisogna rimettere tutto dentro» disse la vedova.
«Io mi tengo questo scialle» riprese Calebasse.
«Io mi tengo... io mi tengo...» disse bruscamente Nicolas, «lo
terrai se io te lo do... Prende sempre... lei... la signora poco
complimentosa.»
«Oh bella!... e tu fai a meno... di prendere?»
«Io... gratto rischiando la pelle; mica avrebbero acciuffato te se
mi avessero scoperto sulla galeotta...»
«Ebbene, tienitelo il tuo scialle, me ne frego!» disse aspramente
Calebasse ributtandolo nella cassa.
«Non è per lo scialle... che parlo; non sono tanto avaro da lesinare
su uno scialle: uno più uno meno, comare Burette non cambierà il
prezzo; lei compera in blocco» riprese Nicolas. «Ma invece di dire
che ti prendi lo scialle, non puoi chiedere che te lo dia io?... Su,
su, tienilo pure... Tienilo, ti dico... se no lo butto sul fuoco per
far bollire la pentola.»
Queste parole calmarono la stizza di Calebasse che rabbonita prese
lo scialle.
Nicolas doveva essere in vena di generosità, perché, strappato coi
denti il capo di una pezza di stoffa, ne distaccò due fazzoletti e
li gettò ad Amandine e a François che non avevano mai smesso di
contemplare avidamente la stoffa.
«Ecco per voi, monelli! questo bocconcino vi metterà la voglia di
sgraffignare. L’appetito vien mangiando. Adesso andate a dormire...
devo discorrere con la mamma; vi si porterà da mangiare di sopra.»
I due bambini batterono le mani con gioia e sventolarono con aria di
trionfo i fazzoletti rubati che erano stati donati loro.
«Ebbene, stupidini!» disse Calebasse, «darete ancora ascolto a
Martial? Vi ha mai dato lui dei bei fazzoletti come questi?»
François e Amandine si guardarono, poi abbassarono la testa senza
rispondere.
«Su, parlate» continuò Calebasse con asprezza; «Martial, vi ha mai
fatto regali?»
«Oh, io!... no... non ce n’ha mai fatti» rispose François guardando
con gioia il suo fazzoletto.
Amandine soggiunse sottovoce:
«Nostro fratello Martial non ci fa regali... perché non può...». «Se
rubasse, potrebbe farlo» disse duramente Nicolas; «vero,
François?»
«Sì fratello» rispose François. Poi aggiunse: «Oh, che bel faz-
zoletto!... Che bella cravatta per la domenica!».
«E io che bella cuffietta!» riprese Amandine.
«Senza contare che i figli del fornaciaio schiatteranno d’invidia
vedendovi passare» disse Calebasse, e scrutò i volti dei bambini per
vedere se capivano il valore tendenzioso delle sue parole. L’indegna
ragazza faceva appello alla vanità per soffocare gli ultimi scrupoli
di quei disgraziati. «I figli del fornaciaio» continuò, «sembreranno
pezzenti, creperanno di gelosia; perché voialtri, con i vostri bei
fazzoletti di seta, sembrerete figli di signori.»
«Eh già! è vero» proseguì François; «allora sono ancora più contento
della mia cravatta, se i piccoli del fornaciaio saranno invidiosi
come non so chi... Vero, Amandine?»
«Io, sono contenta di avere la mia bella cuffietta... e basta.»
«Per questo, tu resterai sempre una scema!» disse con disprezzo
Calebasse. Poi preso dalla tavola un po’ di pane e di formaggio, li
diede ai bambini dicendo loro:
«Andate a letto... Ecco la lanterna, attenti al fuoco; spegnetela
prima di addormentarvi.»
«Ah sentite» aggiunse Nicolas, «ricordatevi bene che se fate la
stupidaggine di parlare a Martial della cassa, dei pani di rame e
dei vestiti, ve ne darò tante e poi tante che vi sentirete bruciare
dappertutto; ed è chiaro che vi porterò via i fazzoletti.»
Dopo che i ragazzi se ne furono andati, Nicolas e la sorella
andarono a nascondere i vestiti, il rame e la cassa di stoffe in
fondo a una piccola cantina e cui si accedeva, per alcuni scalini,
dalla cucina, non lontano dal camino.
«Su, mamma, da bere! e di quello buono!...» disse il bandito; «di
quello vecchio e acquavite!... Me la sono ben guadagnata questa
giornata... Servi la cena, Calebasse; Martial rosicchierà gli ossi
che avanzeremo, tanto, vanno bene per lui... Parliamo adesso del
signore del quai de Billy, perché, domani o dopodomani, devo aver
finito con questo affare se voglio intascare il denaro che m’ha
promesso... Adesso, mamma, ti racconto... Ma per tutti i fulmini!!!
da bere... sono io che pago!»
E Nicolas fece tintinnare di nuovo le monete da cento soldi che
aveva in tasca; poi, gettati via il giubbotto di pelle di capra e il
berretto di lana nera, si sedette a tavola davanti a un enorme
piatto con castrato in umido, un pezzo di vitello freddo e
un’insalata.
Quando Calebasse ebbe portato il vino e l’acquavite, la vedova,
sempre impassibile e seria, si sedette a un lato della tavola, con
Nicolas a destra e Calebasse a sinistra; di fronte aveva i posti
vuoti di Martial e dei due bambini.
Il bandito tirò fuori dalla tasca un lungo e largo coltello
catalano, con manico di corno e la lama affilata. Contemplando
l’arma micidiale con una specie di soddisfazione feroce, egli disse
alla vedova:
«Il mio tagliagole non sgarra mai!... Passatemi il pane, mamma!...»
«A proposito di coltello» disse Calebasse, «François s’è accorto del
coso che c’è nella legnaia.»
«Di che cosa?» chiese Nicolas che non aveva capito.
«Ha visto un piede...»
«Dell’uomo?» esclamò Nicolas.
«Sì» disse la vedova mettendo una fetta di carne sul piatto del
figlio.
«Strano!... e sì che la fossa è profonda: ma da quella volta... la
terra si sarà ritirata...»
«Bisognerà gettare tutto nel fiume» disse la vedova.
«È più sicuro» rispose Nicolas.
«Gli si attacca una pietra con un pezzo di catena vecchia da
barche» disse Calebasse...
«Mica scema!...» disse Nicolas versandosi da bere; poi, alzan-
do la bottiglia, si rivolse alla vedova: «Su, mamma, bevete con noi,
vi farà diventare allegra!»
La vedova scosse la testa, ritrasse il bicchiere e chiese al figlio:
«E l’uomo del quai de Billy?»
«Ecco come è andata...» disse Nicolas, continuando a bere e
a mangiare. «Arrivato allo scalo, ho legato la barca e sono salito
sulla riva. Suonavano le sette alla panetteria militare di Chaillot
e non ci si vedeva da qui a lì. Stavo passeggiando su e giù lungo il
parapetto da un quarto d’ora, quando sento camminare piano piano
dietro di me; rallento, un uomo, intabarrato in un mantello, mi si
avvicina tossendo; io mi fermo, lui si ferma... Tutto quel che so
della sua faccia è che il pastrano gli nascondeva il naso e il
cappello gli occhi.»
(Ricorderemo al lettore che il misterioso personaggio era Jacques
Ferrand, il notaio, che, volendo disfarsi di Fleur-de-Marie, aveva,
quella mattina stessa, spedito la Séraphin dai Martial, con la
speranza di farli diventare gli esecutori del suo nuovo delitto.)
«“Bradamanti” mi dice quel signore» riprese Nicolas; «era la parola
d’ordine datami dalla vecchia per essere riconosciuto dal tipo.
“Predone”, rispondo io, come eravamo d’accordo.
“Vi chiamate Martial?” mi dice. “Sì, signore”.
“Questa mattina è venuta una donna nella vostra isola; cosa vi ha
detto?”
“Che dovevate parlarmi da parte del signor Bradamanti.” “Volete
guadagnare denaro?”
“Sì, signore, molto.”
“Avete una barca?”
“Ne abbiamo quattro, signore; è il nostro mestiere; barcaioli e
predoni di padre in figlio, per servirvi.”
“Ecco quel che bisognerebbe fare... se non avete paura...” “Paura...
di cosa, signore?”
“Di veder annegare qualcuno per disgrazia... solo che si tratte-
rebbe di favorire questa disgrazia... Avete capito?”
“Ah, signore, bisogna far bere un tipo dentro la Senna come se fosse
un caso? Va bene... Ma siccome è una pietanza delicata, il
condimento costa caro...”
“Quanto per due?...”
“Per due... ci saranno due persone da far bere nel fiume?” “Sì...”
“500 franchi a testa, signore... non è caro!”
“Vada per 1000 franchi...”
“Pagati anticipati, signore.”
“200 franchi prima, il resto dopo...”
“Non vi fidate di me, signore?”
“No; potreste intascare i 200 franchi senza mantenere i patti.” “E
voi, signore, una volta fatta la cosa, quando vi chiederò gli
800 franchi, potreste rispondermi: ‘Grazie, e buonanotte
suonatori!’.”
“È un rischio, ci state o no? 200 franchi in contanti; e dopodomani
sera, qui alle nove, vi consegnerò gli 800 franchi.”
“E chi vi dirà che avrò fatto bere i due tipi?”
“Lo saprò... questi sono affari miei... d’accordo?”
“D’accordo, signore.”
“Ecco i 200 franchi... Adesso, ascoltatemi: Sareste capace di ri-
conoscere la vecchia che è venuta da voi questa mattina?”
“Sì, signore.”
“Domani, o dopodomani al massimo, la vedrete, verso le quat-
tro del pomeriggio, sulla riva di fronte alla vostra isola, con una
ragazza bionda; la vecchia vi farà un segnale con un fazzoletto.”
“Va bene, signore.”
“Quanto tempo ci vuole per andare dalla riva alla vostra isola?”
“Venti minuti buoni.”
“Le vostre barche sono a fondo piatto?”
“Piatte come una mano, signore.”
“Farete come si deve una specie di sportello largo sul fondo di una
delle barche, in modo che, aprendolo, la barca possa affondare,
quando lo si voglia, in un batter d’occhio... Avete capito?”
“Benissimo, signore; siete furbo, voi! Ho proprio una barca mezzo
marcia; volevo farla a pezzi... servirà per quest’ultimo viaggio.”
“Partite dunque dalla vostra isola con la barca con lo sportello;
fate che qualcuno della vostra famiglia vi venga dietro con una
barca buona. Una volta attraccato, prendete la vecchia e la ragazza
bionda a bordo della barca rotta, e ritornate alla vostra isola; ma,
quando sarete a una certa distanza dalla riva, chinatevi fingendo di
aggiustare qualcosa e intanto aprite lo sportello, poi saltate
sull’altra barca, mentre la vecchia e la ragazza bionda...”
“Bevono nello stesso bicchiere... benissimo, signore!”
“Ma siete sicuro di non venire disturbato? Se capitassero dei
clienti nella vostra osteria?”
“Non abbiate paura, signore. A quell’ora, e specialmente d’inverno,
non ne vengono mai... è una stagione morta per noi; e anche se
venissero, non darebbero fastidio, anzi... sono tutti amici miei.”
“Benissimo! D’altra parte voi non vi compromettete per nulla: si
penserà che la barca sia affondata perché era malridotta, e la
vecchia che ha accompagnato la ragazza sparirà con lei. Infine, per
assicurarvi che si anneghino (sempre per disgrazia), potreste, se
tornassero a galla e cercassero di aggrapparsi alla barca, fingere
di fare tutti gli sforzi per aiutarle, e...”
“E aiutarle... ad andar sotto di nuovo. Bene, signore!”
“Bisognerà anche che la gita venga fatta dopo il tramonto, perché
sia notte fonda quando cadranno in acqua.”
“No, signore; perché, se non ci si vede bene, come si saprà se le
due donne hanno bevuto abbastanza, o se ne vogliono ancora?”
“Giusto... Allora l’incidente avverrà al tramonto.”
“D’accordo, signore. Ma non è che la vecchia sospetterà qualcosa?”
“No. Quando arriverà, lei vi dirà in un orecchio: ‘bisogna annegare
la piccola; un poco prima di affondare la barca, fatemi un segno
perché io mi tenga pronta a salvarmi con voi’. Voi risponderete alla
vecchia in modo da non destare nessun sospetto.”
“In modo da farle credere che sia solo la biondina a dover bere...”
“E invece con la biondina berrà anche lei.”
“È tutto combinato magnificamente, signore.”
“E soprattutto che la vecchia non sospetti di niente!”
“State tranquillo, signore: le andrà giù come il rosolio.” “Allora,
buona fortuna, ragazzo! Se sarò contento, forse mi
servirò ancora di voi.”
“Ai vostri ordini, signore!”
Dopo di che» disse il brigante che era giunto alla fine del suo
racconto, «ho lasciato l’uomo col pastrano, sono ritornato nella mia
barca e, davanti alla galeotta, ho fatto fuori il bottino di poco
fa.»
Il racconto di Nicolas ci ha fatto capire come il notaio intendesse,
con un doppio delitto, sbarazzarsi nello stesso tempo di
Fleur-de-Marie e della Séraphin, facendo cadere quest’ultima nel
tranello che ella credeva preparato solo per la Goualeuse.
Non è necessario ripetere che, temendo giustamente che la Chouette
potesse dire da un momento all’altro a Fleur-de-Marie di essere
stata abbandonata dalla signora Séraphin, Jacques Ferrand aveva
ritenuto di aver tutto l’interesse a far sparire la ragazza, i cui
reclami avrebbero potuto intaccare irrimediabilmente la sua
reputazione e i suoi beni.
In quanto alla signora Séraphin, il notaio, nel sacrificarla, si
sarebbe sbarazzato di uno dei due complici (l’altro era Bradamanti)
che avrebbero potuto rovinarlo, rovinando a dire il vero anche se
stessi; Jacques Ferrand, comunque, pensava che i segreti che lo
riguardavano sarebbero stati conservati meglio nella tomba anziché
dagli interessi personali di costoro.
La vedova del giustiziato e Calebasse avevano ascoltato attentamente
Nicolas, che di tanto in tanto aveva interrotto il racconto per bere
a più non posso. Per questo aveva cominciato a un certo momento a
parlare con particolare foga.
«E questo non è tutto» continuò; «ho avviato un altro affare con la
Chouette e Barbillon di rue aux Fèves. Sarà un bel colpo ed è già
magnificamente combinato; e, se ci va bene, ci sarà da pappare, ve
l’assicuro io. Si tratta di svaligiare una sensale di gioielli che,
a volte, ha perfino 50.000 franchi di pietre preziose nella sua
borsa.»
«50.000 franchi!» esclamarono la madre e la figlia, i cui occhi
scintillarono di cupidigia.
«Sì... nientemeno! Bras-Rouge sarà della partita. Ieri ha già
intrappolato la sensale con una lettera che abbiamo portato io e
Barbillon, in boulevard Saint-Denis. È un grand’uomo, quel
BrasRouge! E dato che ha del suo, ci si può fidare di lui. Per
adescare
la sensale, gli ha già venduto un diamante da 400 franchi. Così lei
verrà tranquillamente, verso sera, nella sua osteria degli
ChampsElysées. Noi saremo nascosti là. Verrà anche Calebasse, starà
a badare alla barca lungo la Senna. Perché se si dovrà imballare la
sensale, viva o morta, ci vorrà una carrozza comodissima e che non
lascia tracce. Che piano! Quel briccone di Bras-Rouge, che testa
ha!»
«Non mi fido mai di Bras-Rouge» disse la vedova.
«Dopo l’affare di Montmartre, tuo fratello Ambroise è andato a
Tolone, mentre Bras-Rouge è stato rilasciato.»
«Perché non c’erano prove contro di lui; è così furbo!... Ma che
possa tradire... mai!»
La vedova scosse la testa, come se non fosse completamente convinta
dell’onestà di Bras-Rouge.
Dopo aver riflettuto un po’, disse:
«Preferisco l’affare del quai de Billy per domani o dopodomani
sera... l’annegamento delle due donne... Ma Martial ci darà
fastidio... come sempre...».
«Il diavolo non se lo porterà mai via?...» gridò Nicolas mezzo
ubriaco, piantando con forza il coltello nella tavola.
«Ho detto alla mamma che ne abbiamo abbastanza, che così non può
durare» riprese Calebasse. «Finché sarà qui lui non si potrà mai
fare niente dei bambini...»
«Vi dico che un giorno o l’altro quel farabutto è capace di
denunciarci!» disse Nicolas. «Vedi, mamma... se mi avessi dato retta
allora...» egli soggiunse guardando la madre con espressione feroce
e significativa, «non se ne parlerebbe più...»
«Ci sono altri mezzi.»
«È il migliore!» disse il furfante.
«Adesso no» rispose la vedova in tono così reciso che Nico-
las tacque, soggiogato dall’influenza della madre, che egli sapeva
non meno colpevole e non meno perversa, ma anche più decisa di lui.
La vedova aggiunse:
«Domattina, egli dovrà lasciare l’isola per sempre».
«Come?» chiesero insieme Calebasse e Nicolas.
«Tra poco rientrerà, cercate di attaccar lite... ma senza pau-
ra, prendetelo di petto... come non avete mai avuto il coraggio di
fare.... venite alle mani, se occorre... È forte... ma voi siete in
due e io vi aiuterò... ma mi raccomando niente coltelli!... niente
sangue... picchiatelo ma non feritelo.»
«E dopo, mamma?» chiese Nicolas.
«Dopo si verrà a una spiegazione... Gli diremo di lasciare l’isola
domani... altrimenti ogni giorno ricomincerà la storia di stasera...
Lo conosco, le liti continue lo disgusterebbero. Finora l’abbiamo
lasciato troppo tranquillo...»
«Ma è testardo come un mulo: è capace di voler restare lo stesso per
i bambini...» disse Calebasse.
«È uno stupido fatto e finito... una baruffa non gli farà certo
paura» disse Nicolas.
«Una... sì» disse la vedova, «ma ogni giorno, ogni giorno... sarebbe
un inferno... alla fine cederà.»
«E se non cedesse?»
«Allora ho un altro mezzo sicuro per costringerlo a partire questa
notte, o domattina al massimo» continuò la vedova con uno strano
sorriso.
«Davvero, mamma?»
«Sì, ma preferirei spaventarlo con le liti; se non riuscissi...
allora l’altro mezzo.»
«E se nemmeno questo mezzo riuscisse?» disse Nicolas,
«Ce n’è un altro che riesce sempre» rispose la vedova.
A un tratto la porta si aprì e Martial entrò.
Fuori c’era un vento così forte che non si erano nemmeno sen-
titi i latrati dei cani annunciare il ritorno del figlio della
vedova del giustiziato.
II
LA MADRE E IL FIGLIO
Martial, che non sapeva nulla dei sinistri disegni della sua
famiglia, entrò lentamente nella cucina.
Qualcosa della singolare esistenza di quest’uomo ce l’ha già detto
la Louve, nel suo colloquio con Fleur-de-Marie.
Benché dotato di buoni sentimenti e incapace di un’azione del tutto
meschina o malvagia, Martial non faceva per questo una vita più
onesta. Pescava di frodo, aveva una forza e un’audacia tali da
incutere ai guardapesca tanto timore che questi avevano finito col
chiudere un occhio sul suo bracconaggio.
Oltre a questo suo mestiere, già assai poco legale, Martial ne
esercitava un altro di molto illecito.
Lottatore temuto da tutti, egli si incaricava volentieri, per troppo
coraggio e spavalderia più che per cupidigia, di vendicare con
scazzottate e bastonate le vittime di avversari di forza su-
periore. E bisogna dire, d’altra parte, che Martial sceglieva molto
giudiziosamente le cause che sosteneva a pugni; generalmente
prendeva le parti del più debole contro il più forte.
L’amante della Louve assomigliava molto a François e ad Amandine;
era di statura media, ma robusto e largo di spalle; aveva capelli
folti e rossi, tagliati a spazzola, che gli formavano cinque punte
sulla fronte spaziosa; la barba fitta torta e ispida, le guance
larghe, il naso sporgente e spiccatamente quadrato, gli occhi
azzurri e arditi conferivano a quel suo viso maschio un’espressione
straordinariamente decisa.
Aveva in testa un vecchio cappello d’incerato; nonostante facesse
freddo, portava addosso, sopra una camicia e un paio di pantaloni di
grosso velluto di cotone tutto consumato, solo uno sdrucito
camiciotto blu. Aveva in mano un bastone nodoso che pose sulla
credenza vicino a lui...
Insieme a Martial era entrato un grosso bassotto con gambe arcuate e
pelo nero macchiettato di rosso fuoco; ma si fermò vicino alla
porta, perché aveva paura di avvicinarsi al fuoco e alla gente già
seduta a tavola, avendo il vecchio Miraud (tale era il nome del
bassotto, vecchio compagno di bracconaggio di Martial) capito, con
l’esperienza, di essere come il suo padrone, non molto simpatico
alla famiglia.
«Dove sono i bambini?»
Queste furono le prime parole di Martial non appena fu seduto a
tavola.
«Sono dove sono» rispose sgarbatamente Calebasse. «Mamma, dove sono
i bambini?» ripeté Martial senza far caso alla risposta della
sorella.
«Sono a letto» ribatté seccamente la vedova.
«Hanno mangiato, mamma?»
«Che cosa importa a te?» gridò brutalmente Nicolas, dopo
aver bevuto un bicchierotto di vino per essere più coraggioso, dato
che il carattere e la forza del fratello gli incutevano molta paura.
Martial, indifferente alle provocazioni di Nicolas e di Calebasse,
ridisse alla madre:
«Non mi piace che i bambini siano già a letto.»
«Peggio per te...» rispose la vedova.
«Sì, peggio per me... perché mi piace averli accanto a me quan-
do mangio.»
«E siccome invece ci seccano, li abbiamo mandati via» rispose
Nicolas. «Se non ti piace così, vatteli a pescare!»
Martial, stupito, guardò fisso il fratello.
Poi, dopo aver riflettuto sull’inutilità di una lite, alzò le
spalle, tagliò un pezzo di pane e si prese una fetta di carne.
Il cane si era avvicinato a Nicolas, ma restava a rispettosa
distanza. Il bandito si irritò della sprezzante noncuranza del
fratello; perciò con la speranza di mandarlo in bestia,
bastonandogli il cane, sferrò una terribile pedata a Miraud; il cane
guaì lamentosamente.
Martial diventò rosso, strinse il coltello che teneva nella mano
irrigidita e batté forte sulla tavola; ma si trattenne ancora e si
limitò a chiamare il cane dicendogli dolcemente:
«Qui, Miraud».
Il bassotto andò ad accucciarsi ai piedi del padrone.
I piani di Nicolas furono scombussolati da tale calma; egli vo-
leva spingere all’estremo il fratello per giungere alla lite.
Aggiunse quindi:
«A me non piacciono i cani... non voglio che il tuo cane resti
qui...»
Per tutta risposta, Martial si versò un bicchiere di vino e se lo
bevve a piccoli sorsi.
La vedova scambiò una rapida occhiata con Nicolas e gli fece
un cenno per incoraggiarlo a continuare le ostilità contro Martial,
sperando, come abbiamo detto, che una lite violenta potesse portare
a una rottura e a una completa separazione.
Nicolas andò a prendere la verga di salice di cui si era servita la
vedova per picchiare François, si portò vicino al bassotto e lo
colpì forte dicendo:
«Fuori di qua, Miraud!».
Fino ad allora Nicolas si era dimostrato sornionamente aggressivo
con Martial, ma non aveva mai osato provocarlo con tanta audacia e
ostinazione.
L’amante della Louve, pensando che si volesse provocarlo per qualche
secondo fine, si dominò ancora di più.
Ai guaiti della sua bestia, percossa da Nicolas, Martial si alzò,
aprì la porta della cucina, mise fuori il bassotto, e ritornò a
mangiare.
Questo incredibile spirito di sopportazione, che contrastava col
carattere abitualmente violento di Martial, confuse gli
aggressori... Questi si guardarono in faccia profondamente stupiti.
Lui, invece, come se fosse stato completamente estraneo a ciò che
succedeva, continuava in silenzio a mangiare di gusto. «Calebasse,
porta via il vino» disse la vedova alla figlia.
Calebasse stava per obbedire prontamente, quando Martial disse:
«Aspetta... non ho finito di cenare...».
«Peggio per te!» disse la vedova togliendo lei stessa la bottiglia.
«Ah!... allora è diverso!» continuò l’amante della Louve.
E, versatosi un gran bicchiere d’acqua, lo vuotò, facendo schioccare
la lingua contro il palato; quindi disse:
«Buona quest’acqua!».
Un tale imperturbabile sangue freddo irritava ancora di più Nicolas,
già esaltato da abbondanti libagioni; eppure non si decideva ancora
ad attaccare direttamente il fratello, conoscendone la forza non
comune; a un tratto esclamò soddisfatto dell’ispirazione che gli era
venuta:
«Hai fatto bene a cedere per il cane, Martial; bisognerà che tu
prenda questa buona abitudine, perché dovrai aspettarti di veder
scacciare a calci la tua amica, come abbiamo fatto con il tuo cane».
«Oh sì... perché se la Louve, una volta scarcerata, avesse la
malaugurata idea di venire nell’isola» disse Calebasse, che aveva
capito l’intenzione di Nicolas, «la schiaffeggerò io a dovere.»
«E io, le farei fare un bel tuffo nella melma del fiume, vicino alla
baracca, in fondo all’isola» aggiunse Nicolas. «E se ritornasse a
galla, la ricaccerei dentro a ciabattate... Quella bagascia...»
L’insulto lanciato contro la Louve che egli amava con passione
selvaggia gettò lo scompiglio nella pacifiche risoluzioni di
Martial: aggrottò le sopracciglia, il sangue gli salì al viso, le
vene della fronte gli si gonfiarono e si tesero come tante corde;
tuttavia, riuscì a dominarsi e a dire a Nicolas con voce leggermente
alterata da una collera repressa:
«Stai attento... se vuoi attaccare lite, questa volta ti do una
passata che manco te l’immagini.»
«Una passata a me?»
«Sì... e peggiore ancora dell’ultima.»
«Come, Nicolas» disse Calebasse ironicamente fingendo stu-
pore «Martial te le ha suonate... Avete sentito, mamma?... Adesso mi
spiego perché Nicolas ha così paura di lui.»
«Me le ha suonate perché mi ha preso a tradimento» esclamò Nicolas
pallido di furore.
«Non è vero, mi avevi attaccato di sorpresa, ma io ti ho conciato
per le feste, poi ho avuto pietà di te; ma che non ti venga in testa
di parlare ancora della mia amica... capisci bene, della mia
amica... perché questa volta niente pietà... porterai i segni per un
pezzo.»
«E se voglio parlare io della Louve?» disse Calebasse...
«Ti darò un paio di scappellotti per avvertimento... se ricomincerai
tornerò ad avvertirti.»
«E se ne parlo io?» disse lentamente la vedova.
«Voi?»
«Sì... io.»
«Voi?» ripeté Martial facendo un grande sforzo per frenarsi,
«voi?»
«Picchieresti anche me, vero?»
«No, ma se parlate della Louve picchierò Nicolas; adesso pen-
sateci... e anche lui.»
«Tu» gridò il bandito furibondo alzando il pericoloso coltello
catalano, «tu picchierai me!!!»
«Nicolas... metti giù il coltello» gridò la vedova alzandosi
prontamente per afferrare il braccio del figlio. Ma questi, ebbro di
vino e di collera, si alzò, respinse rudemente la madre e si gettò
sul fratello.
Martial scattò indietro; prese il grosso bastone nodoso che,
entrando, aveva messo sulla credenza e si mise in guardia.
«Nicolas, giù il coltello!» ripeté la vedova.
«Lasciatelo fare» gridò Calebasse, armandosi della accetta del
fratello.
Nicolas, sempre col suo terribile coltello in mano, aspettava il
momento per gettarsi sul fratello.
«Ti dico» egli gridò, «che te e quella canaglia della Louve, vi farò
fuori tutti e due e comincio subito... Qua, mamma!... Qua,
Calebasse!... ammazziamolo, questa storia dura da troppo tempo!»
E pensando che fosse giunto il momento buono per attaccare il
furfante si gettò sul fratello col coltello alzato.
Martial si scansò abilmente e, da esperto maneggiatore del bastone
qual era, in un lampo lo levò in aria, lo fece sibilare, gli fece
descrivere un specie di numero otto quindi calò un così terribile
colpo sul braccio destro di Nicolas che questi per l’improvviso e
atroce dolore lasciò cadere il coltello.
«Furfante... mi hai rotto il braccio!» gridò prendendosi con la mano
sinistra il braccio destro che penzolava lungo il fianco.
«No, ho sentito che il bastone è rimbalzato...» rispose Martial,
cacciando con una pedata il coltello sotto la credenza.
Poi, approfittando del dolore di Nicolas, lo prese per il collo, lo
spinse violentemente all’indietro, fino alla porta del piccolo
sotterraneo che già conosciamo, l’aprì con una mano e con l’altra vi
gettò e chiuse dentro il fratello che era rimasto disorientato da
quell’attacco improvviso.
Quindi ritornò verso le due donne: prese Calebasse per le spalle e,
nonostante le sue grida, la sua resistenza e un colpo di accetta da
cui restò leggermente ferito alla mano, la chiuse in una stanza
bassa dell’osteria che comunicava con la cucina.
Dopo di che, si rivolse alla vedova, ancora sbalordita da quella
manovra tanto abile quanto inaspettata, dicendole freddamente:
«Adesso, mamma, a noi due...».
«Ebbene, sì... a noi due...» gridò la vedova; e la sua faccia
impassibile si animò, il suo pallido colorito si venò di rosso; le
sue spente pupille si accesero foscamente: la collera e l’odio
conferirono ai suoi lineamenti un’espressione spaventosa: «sì... a
noi due!...» ripeté con voce minacciosa; «aspettavo questo momento,
finalmente potrai sapere che cosa ho in cuore.»
«E anch’io, vi dirò che cosa ho in cuore.»
«Potessi vivere tu anche cent’anni non ti dimenticherai mai di
questa notte...»
«Me ne ricorderò sì!... Mio fratello e mia sorella hanno tentato di
assassinarmi, e voi non avete fatto niente per impedirlo... Ma su...
parlate... che cosa avete contro di me?»
«Che cosa ho?»
«Sì...»
«Dalla morte di tuo padre... non hai commesso che viltà!» «Io?»
«Sì, vigliacco!... Invece di restare con noi per aiutarci, sei scap-
pato a Rambouillet a fare il cacciatore di frodo con quel
rivenditore di selvaggina che hai conosciuto a Bercy.»
«Se fossi restato qui, adesso sarei in galera come Ambroise, o lì lì
per andarci, come Nicolas: non ho voluto essere ladro come
voialtri... per questo mi odiate.»
«E che mestiere fai? Rubavi uccelli, adesso rubi pesci; furto senza
rischi, furto da vile...»
«Il pesce e la selvaggina non appartengono a nessuno; oggi è mio,
domani è tuo, è di chi li sa prendere... io non rubo... Quanto a
essere vile...»
«Picchi a pagamento i più deboli di te.»
«Perché picchiano a loro volta gente ancora più debole di loro.»
«Mestiere da vigliacchi!... mestiere da vigliacchi!...»
«Ce ne sono di più onesti, è vero, ma non spetta a voi dirmelo.»
«E allora perché non li hai fatti quei mestieri onesti, invece di
venir qui a non far niente e a vivere alle mie spalle?»
«Vi do il pesce che prendo e il denaro che ho!... non è molto, ma è
abbastanza... non vi costo niente, io... Ho cercato di fare il
mugnaio, per guadagnare di più... ma quando fin da piccoli si è
andati vagabondando lungo i fiumi e per i boschi, non ci si può più
fermare in un altro posto; è finita... se ne ha per tutta la vita...
E poi...» aggiunse cupo Martial «ho sempre preferito vivere solo,
sull’acqua o in una foresta... Lì nessuno mi fa domande. In altri
posti invece, se chiedono di mio padre, devo rispondere...
ghigliottinato, di mio fratello... forzato, di mia sorella...
ladra!»
«E di tua madre, che dici?» «Dico...»
«Che cosa?»
«Dico che è morta...»
«E fai bene! È proprio così... Ti rinnego, vigliacco! Tuo fratello è
in galera! Tuo nonno e tuo padre sono coraggiosamente finiti sul
patibolo, facendosi beffe del prete e del boia! Invece di
vendicarli, tu tremi!...»
«Vendicarli?»
«Sì, mostrati un vero Martial, sputare sul coltello e sulla casacca
rossa del boia e fare la fine di tuo padre, di tua madre, di tuo
fratello e di tua sorella...»
Martial, per quanto abituato agli accessi della madre, non poté fare
a meno di rabbrividire.
Pronunciando queste ultime parole, la vedova del giustiziato, aveva
preso un’espressione spaventosa.
Continuò quindi con crescente furore:
«Oh, vigliacco, miserabile ancor più che vigliacco! Vuoi essere
onesto!!! Onesto? Non sarai forse sempre disprezzato, respinto, come
figlio di assassino e fratello di forzato? Ma tu, invece di
rimescolarti in corpo la rabbia e la sete di vendetta, la cosa ti
mette la paura addosso! Invece di mordere, scappi; quando hanno
ghigliottinato tuo padre... ci hai lasciati... vigliacco! E sapevi
che non potevamo uscire dall’isola per andare in paese, senza che ci
urlassero dietro e ci prendessero a sassate come cani idrofobi...
Oh, ce la pagheranno, sai! se ce la pagheranno!!!».
«Un uomo, dieci uomini, non mi fanno paura, ma sentirmi urlar dietro
da tutti figlio e fratello di galeotti... ebbene, no, non ho potuto,
ho preferito andarmene a bracconare nei boschi con Pierre, il
rivenditore di selvaggina.»
«Dovevi restarci... nei tuoi boschi.»
«Sono ritornato per quella storia con la guardia e soprattutto per i
bambini... perché, con l’età che hanno, possono essere rovinati dai
cattivi esempi.»
«Che cosa t’importa?»
«Mi importa, perché non voglio che diventino dei miserabili come
Ambroise, Nicolas e Calebasse...»
«Impossibile!»
«Soli con tutti voi lo sarebbero stati senz’altro. M’ero messo a
imparare un mestiere per cercare di guadagnare in modo da prenderli
con me, quei bambini, e far loro lasciare l’isola... ma a Parigi si
sa tutto... ero sempre il figlio di un ghigliottinato... il fratello
di un forzato... dovere fare a pugni ogni giorno... e mi sono
stancato.»
«Ma non ti sei stancato di fare l’onesto... ti riusciva così
bene!... E invece di avere il coraggio di ritornare da noi, per fare
come noi... come faranno i bambini... contro la tua volontà... sì,
contro la tua volontà... tu credi di poterli adescare con le tue
prediche... ma ci siamo noi... François è già dei nostri... o
quasi... un’occasione e sarà della banda...»
«Vi dico di no...»
«Ma sì, vedrai... io me ne intendo. In fondo è corrotto; ma tu gli
fai soggezione... In quanto ad Amandine, quando avrà quindici anni,
farà tutto da sola... Ah, ci hanno preso a sassate! ci hanno
perseguitato come cani idrofobi!... vedranno chi siamo noi di
famiglia... tranne te, vigliacco, perché sei il solo che ci
disonori!»1
1 Questi spaventosi insegnamenti purtroppo non sono esagerati.
Ecco che cosa abbiamo letto nell’ottimo rapporto del signor di
Bretignères sulla colonia penitenziaria di Mettray (seduta del 12
marzo del 1842):
È interessante rilevare lo stato civile dei nostri coloni: 32 figli
naturali, 34 i cui genitori si sono risposati, 51 i cui genitori
sono in prigione, 124 i cui genitori non sono stati perseguiti dalla
giustizia, ma sono caduti nella più profonda miseria.
Queste cifre sono eloquenti e ricche d’insegnamenti: permettono di
risalire dagli effetti alle cause e di sperare di poter arrestare il
progredire di un male la cui origine è così individuata.
Il numero dei genitori criminali fa valutare il tipo di educazione
che avranno ricevuto i bambini sotto la tutela di tali guide. Spinti
al male dai loro padri, i figli hanno ceduto dietro ordine e hanno
creduto di far bene seguendo il loro esempio. Colpiti dalla
giustizia si rassegnano ad andare in prigione e a seguire il destino
della famiglia; in loro non c’è che l’emulazione al vizio e
veramente una scintilla di grazia divina deve esistere in fondo a
queste persone rudi e grossolane se in loro non è sparito ogni germe
di onestà.
«È un peccato...»
«E siccome con noi ti guasteresti... domani uscirai di qui e non
ritornerai mai più...»
Martial guardò la madre, stupito; poi, dopo un breve silenzio, le
disse:
«Avete cercato di attaccar lite a cena per arrivare a questo».
«Sì, per mostrarti ciò che ti aspetta se tu volessi restare qui
contro la nostra volontà: un inferno... capisci?... un inferno!...
ogni giorno baruffe, bastonate, risse; e non saremo soli come questa
sera: avremo degli amici che ci aiuteranno... non ci resisteresti
neppure una settimana...»
«Credete di spaventarmi?»
«Io dico solo quello che ti aspetta...»
«Ma non m’interessa... resto...»
«Resti qui?»
«Sì.»
«Contro la nostra volontà?»
«Contro la volontà di voi, di Calebasse, di Nicolas e di tutti i
farabutti del suo stampo!»
«Oh bella!... mi fai ridere.»
Furono parole queste che, in bocca a quella donna dalla faccia
sinistra e feroce, diventarono orribili.
«Vi dico che resterò qui finché non troverò il mezzo di gua-
dagnarmi da vivere altrove, con i bambini: se fossi solo non avrei
problemi, tornerei nei boschi; ma per causa loro mi ci vorrà più
tempo... per trovare quello che cerco. Intanto resto qua.»
«Ah, sì! Resti... finché non potrai portar via i ragazzi.» «Esatto.»
«Portarli via?»
«Quando dirò loro: Venite, verranno... e di corsa, ve lo assi-
curo.»
La vedova alzò le spalle, e riprese:
«Stai a sentire: poco fa ti ho detto che, anche se tu vivessi per
cent’anni, ti ricorderesti di questa notte; adesso ti spiego il
perché; ma dimmi un po’, sei proprio deciso a non andartene?»
«Sì, sì! mille volte sì!»
«Fra poco, dirai no! mille volte no! Stammi bene a sentire... Sai
che mestiere fa tuo fratello?»
«Me lo immagino, ma non voglio saperlo...» «Lo saprai... ruba...»
«Peggio per lui.»
«E per te...»
«Per me?»
«Egli ruba di notte con scasso, e per questo c’è la galera; noi
nascondiamo la refurtiva; se lo scoprono, siamo condannati alla sua
stessa pena come ricettatori e anche tu; la famiglia sarà presa e i
bambini andranno per le strade dove impareranno il mestiere di tuo
padre e di tuo nonno esattamente come qui.»
«Io, arrestato come ricettatore, come vostro complice! e con che
prove?»
«Non si sa come vivi: vagabondi sull’acqua, hai una cattiva
reputazione, abiti con noi; a chi darai a intendere che non sai
niente dei nostri furti e delle nostre ricettazioni?»
«Dimostrerò il contrario.»
«Diremo che sei nostro complice.»
«Vostro complice! perché?»
«Per ricompensarti di aver voluto restare qui, contro la nostra
volontà.»
«Poco fa, avete cercato di farmi paura in una maniera, adesso in
un’altra; non attacca, dimostrerò di non aver mai rubato. Io resto.»
«Ah, resti! Stai a sentire ancora. Ti ricordi l’anno scorso, quello
che è successo qui la notte di Natale?»
«La notte di Natale?» disse Martial cercando di raccogliere i
ricordi.
«Cerca bene... cerca bene...»
«Non mi ricordo...»
«Non ti ricordi che Bras-Rouge ha portato qui un uomo ben
vestito, che aveva bisogno di nascondersi?...»
«Sì, adesso mi ricordo; io sono andato su a dormire e l’ho la-
sciato a cena con voi... Ha trascorso la notte qui e prima dell’alba
Nicolas l’ha condotto a Saint-Ouen...»
«Sei sicuro che Nicolas l’abbia condotto a Saint-Ouen?» «Me l’avete
detto voi, l’indomani mattina.»
«La notte di Natale, eri dunque qui?»
«Sì... e con questo?»
«Quella notte... quell’uomo che aveva molto denaro con sé è stato
assassinato in questa casa.»
«Lui?... qui?...»
«E derubato... e sotterrato nella legnaia.»
«Non è vero» esclamò Martial, allibendo dal terrore e non vo-
lendo credere a quest’altro delitto dei suoi. «Voi cercate di
spaventarmi. Vi ripeto che non è vero!»
«Chiedi al tuo protetto François che cosa ha visto nella legnaia
questa mattina?»
«François! che cosa ha visto?»
«Un piede di quell’uomo che usciva da sottoterra... Prendi la
lanterna e vai a sincerartene.»
«No» disse Martial, asciugandosi la fronte madida di freddo sudore,
«no, non vi credo... Lo dite per...»
«Per farti sapere che, se stai qui contro la nostra volontà, rischi
a ogni momento di essere arrestato come complice di furto e di
omicidio; tu eri qui la notte di Natale; noi diremo che ci hai
aiutati a commettere il delitto. Come potrai provare il contrario?»
«Dio mio, Dio mio!» disse Martial, nascondendosi il volto tra le
mani.
«E adesso te ne andrai?» disse la vedova con un sorriso sardonico.
Martial era sbigottito: purtroppo non aveva dubbi su quello che gli
aveva detto la madre: la vita vagabonda che conduceva, la convivenza
con una famiglia di criminali, dovevano effettivamente far gravare
su di lui terribili sospetti, sospetti che potevano diventare
certezza agli occhi della giustizia, se sua madre, suo fratello e
sua sorella l’avessero accusato di complicità.
La vedova godeva dinanzi alla costernazione del figlio.
«Hai un mezzo per uscire dai pasticci: denunciaci!»
«Dovrei farlo... ma non lo farò... lo sapete bene.»
«Per questo ti ho detto tutto... adesso te ne andrai?»
Martial cercò di intenerire quella megera dicendole con voce
meno rude:
«Mamma, non vi credo capace di questo delitto...»
«Come vuoi... ma vattene...»
«Me ne andrò a una condizione.»
«Niente condizioni.»
«Metterete i bambini a imparare un mestiere... lontano da
qui... in provincia...»
«Essi resteranno qui...»
«Via, mamma, quando li avrete resi simili a Nicolas, a Calebas-
se, ad Ambroise, a mio padre... a che vi servirà?»
«A fare dei buoni colpi con il loro aiuto... Non siamo mica in
tanti... Calebasse resterà qui con me a tenere l’osteria. Nicolas è
solo: una volta istruiti, François e Amandine lo aiuteranno; anche
loro sono stati presi a sassate da piccoli... devono vendicarsi!...»
«Mamma, volete bene a Calebasse e a Nicolas, vero?»
«E allora?»
«Che i bambini li imitino... che i vostri e i loro delitti venga-
no scoperti...»
«E poi?»
«Finiranno sulla forca come mio padre...»
«E poi, e poi?»
«E non tremate per il loro destino?»
«Il loro destino sarà il mio, né più, né meno... io rubo, loro ru-
bano; io uccido, loro uccidono; chi prenderà la madre, prenderà i
piccoli... non ci lasceremo mai. Se le nostre teste cadranno,
cadranno nella stessa cesta... dove si diranno addio! Non ci
tireremo indietro; di vigliacchi ci sei solo tu nella famiglia, noi
ti cacciamo... vattene!»
«Ma i bambini, i bambini!»
«I bambini diventeranno grandi; ti dico che se non fosse stato per
te, essi sarebbero già formati. François è quasi pronto; quando non
ci sarai più, Amandine recupererà il tempo perduto.»
«Mamma, ve ne supplico, consentite a mandare i bambini a imparare un
mestiere lontano da qui.»
«Quante volte ti devo ripetere che stanno imparando un mestiere
qui!»
La vedova del giustiziato articolò queste ultime parole in maniera
così recisa, che Martial perdette ogni speranza di commuovere
quell’anima di bronzo.
«Visto che è così» egli riprese con tono secco e risoluto,
«ascoltatemi adesso voi, mamma... Io resto.»
«Ah, ah!»
«Non in questa casa... sarei assassinato da Nicolas... o avvelenato
da Calebasse, ma siccome non saprei dove andare ad alloggiare con i
ragazzi, staremo nella baracca in fondo all’isola; la porta è solida
e io la rinforzerò di più... Trincerato là dentro, con il mio
fucile, il bastone e il cane, non avrò paura di nessuno. Domattina
ci porterò i bambini; di giorno verranno con me nella barca o fuori,
di notte dormiranno vicino a me nella capanna; vivremo con la mia
pesca; e questo fino a che non abbia trovato loro un posto... e
troverò...»
«Ah, è così!»
«Né voi, né mio fratello, né Calebasse potrete impedirmi di fare
questo... se scoprono i vostri furti o il vostro delitto mentre io
sono qui nell’isola... tanto peggio, corro il rischio; dirò che sono
ritornato e che sono rimasto per i bambini per evitare che
diventassero dei delinquenti... Sarò giudicato... Ma che il diavolo
mi porti, se lascerò l’isola e se i due bambini resteranno un giorno
di più in questa casa!... Sì, e vi sfido, voi e i vostri, a
scacciarmi dall’isola!»
La vedova conosceva il carattere deciso di Martial; i bambini
amavano il fratello maggiore tanto quanto temevano la madre; ragion
per cui essi lo avrebbero seguito senza esitare quando egli l’avesse
voluto. Quanto a lui, ben armato, risoluto, sempre sul chi va là,
nella sua barca il giorno, chiuso e trincerato nella capanna
dell’isola la notte, non aveva nulla da temere dalle brutte
intenzioni dei suoi famigliari.
Il progetto di Martial poteva dunque essere realizzato sotto tutti i
punti di vista... Ma la vedova aveva molte ragioni per impedirne la
realizzazione...
Prima di tutto c’era il fatto che la vedova, come gli onesti
artigiani considerano a volte una prole numerosa una ricchezza in
virtù dell’aiuto che può venirne loro, lei contava anche su Amandine
e su François per essere aiutata nei suoi delitti.
Poi, quello che ella aveva detto circa il desiderio di vendicare il
marito e il figlio era vero. Certi esseri, nutriti, invecchiati,
incalliti nel delitto, entrano in aperta rivolta, in guerra accanita
contro la società e credono di potersi vendicare con nuovi delitti
della giusta punizione che ha colpito essi stessi e i loro.
E infine i sinistri disegni di Nicolas a danno di Fleur-de-Marie e
poi della sensale potevano essere ostacolati dalla presenza di
Martial. La vedova aveva sperato di giungere a una separazione
immediata tra lei e Martial, sia provocando la lite con Nicolas, sia
dicendogli che, se si ostinava a restare nell’isola, rischiava di
passare per complice dei numerosi delitti.
La vedova, da persona scaltra e perspicace, si accorse di essersi
ingannata e capì che doveva ricorrere all’astuzia per far cadere il
figlio in un agguato sanguinoso... Ella riprese dunque, dopo un
lungo silenzio, con ostentata amarezza:
«Ho capito le tue intenzioni: non ci vuoi denunciare tu, ma farci
denunciare dai ragazzi».
«Io!»
«Adesso loro sanno che qui c’è un uomo sotterrato, sanno che Nicolas
ha rubato... Appena fossero messi in qualche bottega a lavorare,
essi parlerebbero, e saremmo presi, tutti quanti... e anche tu con
noi; ecco quello che succederebbe se ti dessi ascolto, se ti
lasciassi cercare un altro posto per i ragazzi... E hai il coraggio
di dire che non ci vuoi male!... io non ti chiedo di volermi bene;
ma non affrettare il momento della nostra cattura.»
Il tono meno aspro della vedova fece credere a Martial che le sue
minacce avessero prodotto su di lei un effetto salutare; egli cadde
così in un tremendo inganno.
«Conosco i ragazzi» egli continuò, «sono sicuro, che, se
raccomanderò loro di non dire niente, essi non diranno niente... Del
resto in un modo o nell’altro, io sarò sempre con loro, garantirò
quindi io del loro silenzio.»
«E chi ci può garantire delle parole di un bambino... specialmente a
Parigi dove tutti sono così curiosi e chiacchieroni! io li voglio
tenere qui sia perché ci possono aiutare a fare i nostri colpi e sia
perché non possano venderci.»
«Ma non vanno forse qualche volta in paese o a Parigi? chi
impedirebbe loro di parlare... se volessero parlare? Se fossero
lontani di qui, allora sì che quello che potrebbero dire non
costituirebbe nessun pericolo...»
«Lontano da qui? e dove?» disse la vedova guardando fisso il figlio.
«Lasciate che li porti via... per il resto mi arrangio io...» «Come
farai a vivere tu assieme a loro?»
«Il mio ex padrone, il magnano, è un buon uomo; gli dirò
quello che è necessario, e forse mi presterà qualcosa per via dei
bambini; con questo li metterò a imparare un mestiere lontano da
qui. Partiremo fra due giorni e voi non sentirete più parlare di
noi...»
«No; insomma voglio che siano con me, sarò più sicura di loro.»
«Allora domani mi stabilisco in attesa di qualcosa di meglio nella
baracca dell’isola... Sapete che anch’io ho una testa, no?»
«Sì, lo so... Oh, come vorrei vederti lontano da qui! Perché non sei
restato nei tuoi boschi?»
«Vi do l’occasione di sbarazzarvi di me e dei bambini.»
«Lasceresti dunque la Louve che ami tanto?...» disse a un tratto la
vedova.
«Questi sono affari miei: so quel che devo fare, ho le mie idee.»
«Se ti lasciassi andare via con Amandine e François, non
rimettereste mai più piede a Parigi?»
«Neanche tre giorni dopo la nostra partenza e noi saremmo come morti
per voi.»
«Preferisco così piuttosto che averti qui e aver sempre da diffidare
di loro... Su, dato che bisogna rassegnarsi, portali via... e
andatevene il più presto possibile... che io non vi riveda mai
più!...»
«D’accordo!...»
«D’accordo. Ridammi la chiave della cantina che apro a Nicolas.»
«No, resterà lì a smaltire la sbornia; vi darò la chiave domattina.»
«E Calebasse?»
«È un’altra cosa; apritele quando sarò di sopra; mi ripugna ve-
derla.»
«Va’... che il diavolo ti porti!»
«Questa è la vostra buona notte, mamma?»
«Sì...»
«Fortunatamente sarà l’ultima» disse Martial.
«L’ultima» ripeté la vedova.
Il figlio accese una candela, poi, aperta la porta della cucina,
fischiò al cane, che accorse subito tutto festante da fuori, e seguì
il padrone al piano superiore.
«Va’, la pagherai cara!» mormorò la madre mostrando il pugno al
figlio che era salito; «sarai stato tu a volerlo.»
Poi, aiutata da Calebasse che andò a cercare un mazzo di chiavi
false, la vedova aprì la cantina dov’era Nicolas e lo rimise in
libertà.
III
FRANÇOIS E AMANDINE
François e Amandine stavano dormendo in una stanza situata proprio
sopra la cucina, all’estremità di un corridoio sul quale davano
molte altre stanze che servivano da salottini riservati per clienti
dell’osteria.
Dopo aver diviso la loro cena frugale, invece di spegnere il lume,
come aveva ordinato la vedova, i due bambini erano rimasti svegli e
avevano lasciato la porta socchiusa per aspettare che passasse il
fratello Martial, al rientro nella sua stanza.
La lanterna, posta su uno sgabello zoppo, gettava pallidi chiarori
attraverso il suo trasparente involucro di corno.
Muri intonacati di gesso e attraversati da assicelle scure, un
giaciglio per François, un vecchio lettino troppo corto per
Amandine, un mucchio di resti di sedie e di panche rovinate dagli
ospiti turbolenti della taverna dell’isola del Predone: questo era
l’interno dello stanzino.
Amandine, seduta sulla sponda del giaciglio, cercava di aggiustarsi
in testa il fazzoletto rubato, dono del fratello Nicolas.
François, inginocchiato, teneva in mano un pezzo di specchio davanti
alla sorella, che, con la testa mezzo voltata, era intenta ad
allargare il grosso fiocco che aveva fatto, annodando le due cocche
del fazzoletto.
Tutto preso a guardare stupito quella acconciatura, François si
dimenticò per un momento di tenere il pezzo di specchio in modo che
l’immagine della sorella potesse riflettervisi.
«Tieni più alto lo specchio» disse Amandine, «adesso non mi vedo
più... Ecco così... bene... aspetta ancora un momento... ho
finito... Ecco guarda, come sto pettinata così?»
«Oh benissimo, benissimo! Dio, che bel fiocco!... Me ne farai uno
eguale al mio fazzoletto, vero?»
«Sì, subito... ma lasciami passeggiare un pochino. Vai davanti a me
camminando all’indietro e tenendo sempre alto lo specchio... perché
io mi possa vedere mentre cammino...»
François eseguì meglio che poté la difficile operazione, mentre
Amandine tutta soddisfatta andava fiera e con aria trionfale sotto
le cocche e l’enorme fiocco del fazzoletto.
Una tale civetteria, che sarebbe stata innocente e naturale in altre
circostanze, diventava colpevole, essendo fatta con roba proveniente
da un furto di cui i due bambini erano a conoscenza. Altra prova
della spaventosa facilità con cui i bambini, anche di buone qualità,
si corrompono, quasi senza accorgersene, quando vivono continuamente
in un ambiente di delinquenti.
E, d’altra parte, il solo educatore dei due piccoli disgraziati, il
fratello Martial, non era nemmeno lui, come abbiamo già detto,
integerrimo; anche se era incapace di commettere misfatti o
assassini, viveva tuttavia come un vagabondo e conduceva una vita
tutt’altro che regolare. Certo i delitti della sua famiglia lo
indignavano, amava teneramente i due bambini, li difendeva dai
maltrattamenti, cercava di sottrarli alla pericolosa influenza della
sua famiglia; ma non basandosi su insegnamenti di rigorosa e
assoluta moralità, i suoi consigli riuscivano a malapena a
salvaguardare i suoi protetti. Questi si rifiutano di commettere
certe azioni non per onestà, ma per obbedire a Martial che amano, e
per disobbedire alla madre che odiano e temono.
Quanto alle nozioni del bene e del male, essi non ne potevano avere
nessuna, abituati com’erano ad avere sotto gli occhi esempi
detestabili, poiché, come abbiamo già detto, quell’osteria di
campagna, frequentata dalla feccia della plebaglia, era teatro di
spaventose orge e di sfrenate gozzoviglie; e Martial, così nemico
del furto e del delitto, si mostrava abbastanza indifferente a
quegli immondi saturnali.
Tutto questo per dire quanto il senso morale nei due bambini fosse
incerto, precario, vacillante, soprattutto in François, giunto a
quella svolta pericolosa dove l’anima esita e non si decide tra il
bene e il male e può in un solo momento essere salva o rovinata per
sempre...
«Come ti sta bene questo fazzoletto rosso!» riprese François; «com’è
bello! Quando andremo a giocare sulla sabbia davanti alla fornace di
gesso, dovrai metterti così per fare invidia ai figli del fornaciaio
che ci gettano sempre sassi e ci chiamano piccoli ghigliottinati...
Io mi metterò il mio bel fazzoletto rosso e diremo loro: “Comunque,
voi non avete, come noi, due bei fazzoletti di seta!”.»
«Ma dimmi, François» continuò Amandine dopo un momento di silenzio,
«se sapessero che i fazzoletti che abbiamo sono rubati, ci
chiamerebbero ladroncelli...»
«Come se adesso non ci chiamassero ladri!»
«Quando non è vero... non importa... Ma adesso...»
«A noi questi due fazzoletti ce li ha dati Nicolas, non li abbia-
mo rubati.»
«Sì, ma lui li ha presi su una barca e nostro fratello Martial
dice che non bisogna rubare.»
«Ma dato che a rubare è stato Nicolas, noi non c’entriamo.» «Sei
sicuro, François?»
«Sicurissimo...»
«Tuttavia avrei preferito che ce li avesse regalati la persona a
cui appartenevano... E tu, François?»
«Per me è lo stesso... ci sono stati regalati, quindi sono nostri.»
«Ne sei proprio sicuro?»
«Ma sì, sì, non preoccuparti!...»
«Allora... meglio così, non abbiamo fatto niente di ciò che
Martial ci ha proibito e nello stesso tempo abbiamo due bei
fazzoletti.»
«Senti un po’, Amandine, se sapesse che l’altro giorno Calebasse ti
ha fatto prendere quel fazzoletto a quadretti nella balla del
mercante quando questi era con le spalle girate?»
«Oh, François, non farmelo ricordare!» disse la povera bambina i cui
occhi si riempirono di lacrime. «Mio fratello Martial sarebbe capace
di non volerci più bene... capisci... di lasciarci qui soli...»
«Non aver paura... non glielo racconterò mai... Lo dicevo per
scherzo...»
«Oh non scherzare su questo, François; ne ho già sofferto
abbastanza! ma ho dovuto farlo: mia sorella mi ha pizzicato tanto
forte da farmi sanguinare, e poi mi faceva gli occhiacci... certi
occhiacci... Eppure per due volte mi è mancato il coraggio, credevo
che non ne sarei stata capace... Insomma il mercante non si è
accorto di niente e Calebasse si è tenuta il fazzoletto. Ma se mi
avessero presa, François, mi avrebbero messa in prigione...»
«Siccome non ti hanno presa, è come se tu non avessi rubato.» «Lo
credi?»
«Altroché.»
«E in prigione, chissà come si starà male!»
«Oh sì... al contrario...»
«Come, François, al contrario?»
«Senti, ti ricordi lo zoppaccio che abita a Parigi da papà Mi-
cou, il mercante da cui va Nicolas... che a Parigi, nel passage de
la Brasserie, affitta camere ammobiliate?»
«Uno zoppo?»
«Ma sì, quello che è venuto qui verso la fine dell’autunno, da parte
di papà Micou, con un saltimbanco e due donne.»
«Ah, sì, sì, lo zoppaccio che ha speso tanto, tanto denaro?»
«Sfido io, pagava per tutti... Ti ricordi la gita in barca... sono
stato io a portarlo... e che il saltimbanco si era portato
l’organetto per suonare in barca?...»
«E poi la sera, che bel fuoco d’artificio hanno fatto, eh,
François!»
«Lo zoppo non era mica avaro! mi ha dato dieci soldi solo per me!!!
prendeva solo vino sigillato e mangiava pollo a ogni pasto, avrà
speso almeno 80 franchi.»
«Così tanto, François?»
«Oh, sì!...»
«Era dunque molto ricco?»
«Niente affatto... quello che spendeva era denaro che aveva
guadagnato in prigione, da dove era appena uscito.»
«Aveva guadagnato tutto quel denaro in prigione?»
«Sì... diceva che gli restavano ancora 700 franchi: che quan-
do avesse speso tutto... avrebbe fatto un buon colpo... e che se lo
prendevano non gli importava niente, perché sarebbe tornato a
rivedere i simpaticoni della prigione, come disse lui.»
«Allora, François, non aveva paura della prigione?»
«Anzi... egli diceva a Calebasse che lì ha un sacco d’amici, che
sono sempre allegri... che non aveva mai dormito né mangiato meglio
di là... buona carne quattro volte alla settimana, fuoco tutto
l’inverno... e nell’uscire, una bella somma... mentre ci sono tanti
sciocchi operai onesti che crepano di fame e di freddo, per mancanza
di lavoro...»
«François, lo zoppo ha detto proprio così?»
«L’ho sentito bene... perché remavo io in quella barca mentre egli
raccontava la sua storia a Calebasse e alle due donne, che dicevano
che succedeva lo stesso anche nelle prigioni delle donne, da dove
esse erano uscite.»
«Ma allora, François, non dev’essere un gran male rubare, visto che
si sta bene in prigione!»
«Oh Dio, non lo so... qui c’è solo nostro fratello Martial che dice
che è male rubare... forse si sbaglia...»
«Non importa, bisogna credergli, François... ci vuole così bene!»
«Ci vuole bene, sì... quando c’è lui, non c’è pericolo che ci
picchino... Se fosse stato qui questa sera, la mamma non me le
avrebbe suonate... Bestia d’una vecchia! com’è cattiva!... oh, la
odio... la odio tanto... che vorrei essere grande per renderle tutte
le botte che ci ha dato... a te, soprattutto, che sei più debole di
me.»
«Oh François, taci!... mi fa paura sentirti dire che picchieresti
nostra madre!» esclamò la povera piccina e abbracciò con tenerezza
il fratello gettandogli piangente le braccia al collo.
«Ma il fatto è che è vero» continuò François sciogliendosi
dolcemente dalla stretta di Amandine: «perché la mamma e Calebasse
devono sempre accanirsi contro di noi?».
«Non lo so» riprese Amandine asciugandosi gli occhi col dorso della
mano; «saranno tanto ingiuste con noi, forse perché nostro fratello
Ambroise è in galera e nostro padre è stato ghigliottinato...»
«Ma è colpa nostra?»
«Dio mio, no! ma che vuoi?»
«A dir la verità, se dovessi ricevere così, sempre delle botte, alla
fine preferirei rubare come loro... Che cosa mi viene a non rubare?»
«E Martial che direbbe?»
«Oh, se non fosse per lui... da un pezzo avrei detto sì, perché
uno, in fondo, si stanca di essere sempre picchiato; per esempio,
questa sera, la mamma non è mai stata così cattiva... sembrava una
furia... era buio, buio... e lei non diceva una parola... sentivo
solo la sua mano gelata che mi teneva per il collo mentre con
l’altra mi picchiava... e poi mi pareva che le brillassero gli
occhi...»
«Povero François... per aver detto che avevi visto un osso da morto
nella legnaia.»
«Sì, un piede che usciva da sottoterra» disse François,
rabbrividendo dallo spavento; «ne sono sicuro.»
«Ci sarà stato forse un cimitero qui una volta, no?»
«Può darsi... ma allora perché la mamma mi ha detto che mi avrebbe
picchiato ancora di più, se io avessi parlato dell’osso da
morto a mio fratello Martial?... credo piuttosto che sia qualcuno
ammazzato in una rissa e sotterrato lì perché non si sappia.»
«Hai ragione... perché, ti ricordi che tempo fa è mancato poco che
succedesse una simile disgrazia.»
«Quando?»
«Sai, quella volta in cui il Barbillon ha dato una coltellata a
quell’uomo alto, scarno scarno, che si faceva vedere a chi pagava.»
«Ah, sì! lo chiamavano lo scheletro ambulante... la mamma è venuta e
li ha separati... altrimenti il Barbillon forse avrebbe ucciso lo
spilungone! Hai visto come il Barbillon sbavava dalla bocca, e
strabuzzava gli occhi?...»
«Oh! lui non ci pensa su due volte a darvi una coltellata per
niente. È un duro!»
«Così giovane e così cattivo... François!»
«Tortillard è molto più giovane, e sarebbe per lo meno cattivo come
lui, se fosse forte.»
«Oh, sì! è proprio cattivo... L’altro giorno mi ha picchiata perché
non ho voluto giocare con lui.»
«Ti ha picchiata? bene... la prima volta che verrà...» «No, no,
François, l’ho detto per scherzo...» «Davvero?»
«Sì, davvero.»
«Meno male... altrimenti... ma non so come faccia quel monello ad
avere sempre tanto denaro; come dev’essere fortunato! Quella volta
che è venuto qui con la Chouette ci ha mostrato certe monete d’oro
da venti franchi. Con che tono beffardo ci ha detto: “Ne avreste
anche voi se non foste gnocchi!”»
«Gnocchi?»
«Sì, in gergo vuol dire stupidi, imbecilli.»
«Ah, sì, è vero.»
«Quaranta franchi... in oro... quante belle cose potrei com-
prarmi... E tu, Amandine?»
«Oh, anch’io.»
«Che cosa compreresti?»
«Vediamo» disse la bambina abbassando la testa per pensare:
«prima di tutto comprerei un bel giaccone pesante per mio fratello
Martial perché non prenda freddo nella barca.»
«Ma per te?... per te?...»
«Mi piacerebbe un piccolo Gesù di cera con l’agnello e la croce,
come ne aveva domenica quel mercante di figurine di gesso... sai,
sotto il portico della chiesa di Asnières?»
«A proposito, speriamo che qualcuno non vada a dire alla mamma e a
Calebasse di averci visti in chiesa!»
«Ah, sì! lei che ci ha sempre proibito di andarci... Peccato, perché
è bello dentro in chiesa... vero François?»
«Sì... che bei candelieri d’argento!»
«E il ritratto della Madonna... che faccia da buona...»
«E hai visto che belle lampade?... e la bella tovaglia sulla gran
credenza in fondo, dove il prete ha detto messa con quei due vestiti
come lui... che gli davano acqua e vino?»
«Senti un po’ François, ti ricordi l’altr’anno al Corpus Domini
quando da qui abbiamo visto passare sul ponte tutte le bambine della
prima Comunione con il velo bianco?»
«Che bei mazzi di fiori avevano!»
«Come cantavano con voce dolce reggendo i nastri del loro
stendardo!»
«E come splendevano al sole i ricami d’argento dello stendardo!...
chissà quanto costeranno!...»
«Dio mio, com’era bello, eh, François!»
«Eh sì! e i bambini della prima Comunione con i loro fiocchi di raso
bianco attorno al braccio... e i ceri con l’impugnatura di velluto
rosso ricamata d’oro!»
«E anche i bambini avevano il loro stendardo, vero, François? Ah,
Dio mio! anche quel giorno mi hanno picchiata perché avevo chiesto a
nostra madre come mai non andassimo in processione come gli altri
bambini!»
«È stata quella l’occasione in cui lei ci ha proibito di entrare in
chiesa se andavamo in paese o a Parigi; a meno che non fosse per
rubare la cassetta delle elemosine, o nelle tasche dei parrocchiani
mentre ascoltavano la messa, ha aggiunto Calebasse ridendo e
mostrando i suoi dentacci gialli. Brutta carogna!»
«Oh, questo poi no... rubare in una chiesa, mi lascerei uccidere
piuttosto, vero François?»
«Lì o altrove, cosa importa, quando uno è deciso?»
«Oh, non so... ma avrei molta più paura... non potrei mai...» «A
causa dei preti?»
«No... forse a causa di quel ritratto della Madonna, che ha la
faccia così dolce, così buona.»
«Che può farti quel quadro? ti mangerebbe forse?... sciroc-
cona!...»
«È vero... ma insomma non potrei... Non è colpa mia...»
«A proposito di preti, Amandine, ti ricordi di quel giorno... in
cui Nicolas mi diede due schiaffoni, perché mi aveva visto saluta-
re il parroco dalla riva? Vedevo che tutti lo salutavano quindi l’ho
salutato anch’io; non credevo di far male.»
«Sì, ma quella volta, per esempio, nostro fratello Martial disse,
come Nicolas, che non era necessario salutare i preti.»
In quel momento François e Amandine sentirono dei passi nel
corridoio.
Martial, dopo il colloquio con la madre, si sentiva tranquillo
nell’andare in camera sua perché credeva che Nicolas stesse
rinchiuso fino alla mattina dopo.
Visto uno spiraglio di luce filtrare dalla porta socchiusa della
stanza dei ragazzi, Martial entrò da loro.
Tutti e due gli corsero incontro ed egli li abbracciò teneramente.
«Come! non siete ancora a letto, piccoli chiacchieroni?»
«No, fratello, aspettavamo per vedervi entrare in camera vostra e
per darvi la buona notte» disse Amandine.
«E poi avevamo sentito parlar forte giù... come se ci fosse stata
una lite» soggiunse François.
«Sì» disse Martial «ho avuto a che dire con Nicolas... ma non è
niente... Del resto sono contento di trovarvi ancora in piedi,
perché ho da darvi una bella notizia.»
«A noi, fratello!»
«Sareste contenti di andarvene di qui e di venire con me molto
lontano, molto lontano?»
«Oh sì, fratello!»
«Sì, fratello.»
«Ebbene, fra due o tre giorni tutti e tre abbandoneremo
l’isola.»
«Che bellezza!» gridò Amandine battendo le mani di gioia: «E dove
andremo?» chiese François.
«Lo vedrai, curioso... ma non importa, in qualunque luogo an-
dremo dovrai imparare un buon mestiere... che ti metterà in grado di
guadagnarti la vita... sta’ pur certo.»
«Non verrò più a pescare con te, fratello?
«No ragazzo mio, andrai come garzone da un falegname o da un
magnano; sei forte, sei intelligente; con un po’ di coraggio e
lavorando sodo, dopo un anno, potrai guadagnare qualcosa. Ma che
hai?... non mi sembri soddisfatto.»
«Perché... fratello... io...»
«Su, parla.»
«Perché preferirei non lasciarti, restare con te a pescare... ad
aggiustarti le reti piuttosto che imparare un mestiere.»
«Ah sì?»
«Accidenti! star chiusi in una bottega tutto il giorno, è triste...
e poi fare il garzone è una barba...»
Martial alzò le spalle.
«È meglio battere la fiacca, vagabondare e bighellonare, vero?» gli
disse severamente il fratello, «in attesa di diventare un ladro...»
«No, fratello, ma se venissi altrove con te, vorrei solo vivere come
si fa qui, ecco tutto...»
«Sì, bere, mangiare, dormire e divertirti a pescare come un signore,
vero?»
«Preferirei così...»
«È possibile, ma dopo ti piacerebbe qualcos’altro... Senti, mio
povero François, è proprio tempo che io ti porti via da qui; senza
accorgerti, diventerai un mascalzone come gli altri... La mamma
aveva ragione... temo che in te ci sia un fondo di vizio... E a te,
Amandine, non piacerebbe imparare un mestiere?»
«Oh sì, fratello... mi piacerebbe imparare; tutto preferisco
piuttosto che restar qui. Sarei così contenta di venir via con voi e
con François!»
«Ma che cos’hai sulla testa, bambina mia?» disse Martial notando la
trionfale acconciatura di Amandine.
«Un fazzoletto che mi ha dato Nicolas...»
«Me ne ha dato uno anche a me» disse orgogliosamente François.
«E da dove vengono quei fazzoletti? Mi stupirebbe se Nicolas li
avesse comperati per farvi un regalo.»
I due bambini chinarono il capo senza rispondere. Dopo un istante,
François disse con risolutezza:
«Nicolas ce li ha dati; non sappiamo però da dove vengono, vero,
Amandine?».
«No... no... fratello...» aggiunse Amandine balbettando, diventando
tutta rossa, senza il coraggio di alzare gli occhi su Martial.
«Non siate bugiardi...» disse severamente Martial.
«Non diciamo bugie» ribatté arditamente François. «Amandine, bambina
cara... di’ la verità» rispose Martial con
dolcezza.
«Ebbene, a essere veramente sinceri» rispose timidamente
Amandine, «questi bei fazzoletti vengono da una cassa di stoffe che
Nicolas ha portato questa sera con la tua barca...»
«E che ha rubato?»
«Credo di sì, fratello... su una galeotta.»
«Visto, François, che hai detto una bugia?» disse Martial.
Il ragazzo chinò il capo senza rispondere.
«Dammi quel fazzoletto, Amandine; dammi anche il tuo,
François.»
La piccola si levò il fazzoletto, guardò per l’ultima volta il fioc-
co che non si era ancora disfatto, e consegnò il fazzoletto a
Martial, con un sospiro di rimpianto.
François si tolse lentamente di tasca il fazzoletto e, come la
sorella, lo rese a Martial.
«Domani mattina» disse questi, «restituirò i fazzoletti a Nicolas;
voi non avreste dovuto accettarli, bambini miei; approfittare di un
furto è come rubare.»
«Peccato! erano così belli quei fazzoletti» disse François.
«Quando avrai un mestiere e guadagnerai soldi lavorando, potrai
comperartene di uguali. E ora andate a letto perché è tardi...
bambini.»
«Non siete arrabbiato, fratello?» chiese timidamente Amandine.
«No, no, cara bambina, non è colpa vostra... voi vivete con degli
sciagurati e fate ciò che essi fanno senza rendervene conto...
Quando sarete con la gente onesta, vi comporterete come la gente
onesta; e presto ci sarete... o il diavolo mi porterà via... Su,
buona notte.»
«Buona notte, fratello!» Martial baciò i bambini. Questi restarono
soli.
«Che cos’hai François? Hai un’aria triste!» disse Amandine.
«Ecco, mio fratello mi ha preso il bel fazzoletto; e poi non hai
sentito?»
«Che cosa?»
«Vuole portarci via, per farci imparare un mestiere...»
«Non sei contento?»
«Veramente, no...»
«Preferisci restare qui ed essere picchiato ogni giorno?»
«Mi picchiano, sì; ma almeno non lavoro; sto tutto il giorno
in barca a pescare, o a giocare, o a servire i clienti, che a volte
mi danno la mancia, come lo zoppo; è molto più divertente che stare
chiusi dalla mattina alla sera in un laboratorio a lavorare come un
cane.»
«Ma non hai sentito?... Nostro fratello ci ha detto che se restiamo
qui diventiamo cattivi!»
«Oh, cosa vuoi che m’importi?... visto che gli altri ragazzi ci
chiamano già ladri... e figli di ghigliottinati... E poi, lavorare è
una seccatura...»
«Ma qui, fratello, ci picchiano ogni giorno!»
«Ci picchiano perché diamo retta a Martial...»
«È così buono con noi!»
«È buono, è buono... non dico di no... per questo gli voglio
bene... Davanti a lui nessuno osa farci del male... ci porta a
spasso... è vero... ma nient’altro... non ci dà mai niente...»
«Perbacco! non ha niente... ciò che guadagna lo dà alla mamma per il
suo mangiare.»
«Nicolas, invece, ha qualcosa... Certo che se li ascoltassimo, lui e
la mamma non ci renderebbero la vita così dura... ci regalerebbero
delle belle cose come oggi... non diffiderebbero più di noi...
avremmo denaro come Tortillard.»
«Ma, Dio mio, allora dovremmo rubare e questo farebbe soffrire tanto
Martial!»
«Ebbene, peggio per lui!»
«Oh, François!... e poi se ci prendessero, andremmo in prigione.»
«Essere in prigione o essere rinchiuso in una bottega tutto il
giorno... è la stessa cosa... D’altra parte lo zoppo dice che ci si
diverte... in prigione.»
«E non pensi al dolore che daremmo a Martial...? In fondo se è
tornato qui e ci resta, lo fa per noi; se fosse per lui, non si
preoccuperebbe tanto, tornerebbe a fare il bracconiere nei boschi
che gli piacciono tanto.»
«Ebbene! se ci portasse con lui nei boschi» disse François, «sarebbe
meglio di tutto. Starei con lui a cui voglio tanto bene e non farei
un mestiere che mi annoia.»
La conversazione di François e Amandine fu interrotta. Dal di fuori
chiusero la porta a due mandate.
«Ci chiudono dentro!» gridò François.
«Ah, Dio mio... e perché, fratello? Che ci faranno adesso?» «Sarà
forse Martial.»
«Senti... senti... come abbaia il suo cane!...» disse Amandine dopo
aver teso l’orecchio.
Dopo qualche momento, François aggiunse:
«Sembra che battano alla sua porta con un martello... forse vogliono
sfondarla?».
«Sì, sì, il suo cane continua ad abbaiare...»
«Ascolta, François! adesso è come se inchiodassero... qualcosa...
Dio mio, Dio mio! ho paura... Ma che cosa fanno a nostro fratello?
il suo cane urla, adesso.»
«Amandine... non si sente più niente...» riprese François mentre si
avvicinava alla porta.
I due bambini ascoltavano ansiosi col fiato sospeso.
«Escono dalla stanza di mio fratello» disse François sottovoce,
«sento dei passi nel corridoio.»
«Gettiamoci a letto; la mamma ci ucciderebbe se ci trovasse alzati»
disse Amandine terrorizzata...
«No...» ripeté François che stava sempre in ascolto: «sono già
passati davanti alla nostra porta... scendono di corsa le scale...»
«Dio mio Dio mio! che sarà mai?»
«Ah, adesso aprono la porta della cucina...»
«Sei sicuro?»
«Sì, sì... riconosco il rumore...»
«Il cane di Martial continua sempre a urlare» disse Amandine
che stava in ascolto...
A un tratto ella gridò:
«François! nostro fratello ci chiama...».
«Martial?»
«Sì... lo senti? lo senti?»
In effetti, nonostante due grosse porte chiuse, la potente voce
di Martial che chiamava dalla sua camera giunse fino ai due bambini.
«Dio mio, non possiamo andare da lui... siamo chiusi qua dentro»
disse Amandine; se ci chiama, vuol dire che vogliono fargli del
male...»
«Oh!... se potessi impedirlo» gridò risolutamente François «lo farei
anche se dovessero farmi a pezzi...»
«Ma nostro fratello non sa che hanno chiuso la nostra porta a
chiave; crederà che non vogliamo aiutarlo! François, gridagli che
siamo chiusi dentro!»
Questi stava per seguire il consiglio della sorella, quando un colpo
fortissimo scosse la persiana dello stanzino dei ragazzi.
«Vengono dalla finestra per ammazzarci!» gridò Amandine, e, dallo
spavento, ella si gettò sul letto e si nascose la testa fra le mani.
François, sebbene atterrito come la sorella, restò immobile.
Tuttavia nonostante quel colpo violento che abbiamo detto, la
persiana non si aprì: il più profondo silenzio regnava nella casa.
Martial aveva cessato di chiamare i bambini.
François, un po’ rassicurato, si arrischiò, spinto da grande
curiosità, a schiudere un poco la finestra e cercò di guardar fuori
attraverso le stecche della persiana.
«Stai attento fratello!» disse sottovoce Amandine, che sentendo
François aprire la finestra, s’era rizzata a sedere. «Vedi
qualcosa?» soggiunse.
«No... fa troppo buio.» «Non senti niente?»
«No, c’è troppo vento.» «Vieni qui allora... vieni!» «Ah, adesso
vedo qualcosa.» «Cosa?»
«La luce di una lanterna... va e viene.»
«Chi la porta?»
«Vedo solo la fiamma... Ah, si avvicina... stanno parlando.» «Chi
è?»
«Ascolta... ascolta... è Calebasse.»
«Che cosa dice?»
«Dice di tener ferma la scala di legno.»
«Ah, vedi, sarà stato nel prendere la scala che era appoggiata
alla nostra persiana che avranno fatto il rumore di poco fa.» «Non
sento più niente.»
«E che cosa fanno adesso della scala?»
«Non riesco più a vedere...»
«Non senti niente?»
«No...»
«Dio mio François! forse hanno preso la scala per salire su da
nostro fratello Martial... per la finestra!»
«Può darsi.»
«Se tu aprissi un tantino la persiana, per vedere...»
«Non ho coraggio.»
«Solo un pochino.»
«Oh, no, no. Se la mamma se ne accorgesse!»
«È così buio che non c’è pericolo.»
François, sebbene a malincuore, si arrese al desiderio della so-
rella; dischiuse la persiana e guardò:
«Ebbene, fratello?» disse Amandine vincendo la paura e avvi-
cinandosi a François in punta di piedi.
«Al chiarore della lanterna, vedo Calebasse che regge la sca-
la... l’hanno appoggiata alla finestra di Martial.» «E poi?»
«Nicolas sale sulla scala, ha l’ascia in mano, la vedo brillare...»
«Ah, non siete a letto, state a spiarci!» gridò a un tratto la
vedova, rivolgendosi da fuori a François e alla sorella. Mentre
stava per rientrare in cucina aveva visto la luce dalla persiana
semiaperta.
I poveri ragazzi si erano dimenticati di spegnere il lume.
«Adesso salgo» aggiunse la vedova con voce terribile, «salgo a
trovarvi, brutte spie.»
Questi sono i fatti che accadevano nell’isola del Predone, il giorno
prima di quello in cui la signora Séraphin avrebbe dovuto condurvi
Fleur-de-Marie.
IV
UNA CASA CON STANZE AMMOBILIATE
Il passage de la Brasserie, galleria buia e poco conosciuta, sebbene
situata nel centro di Parigi, sbocca da un lato nella rue
Trasversière-Saint-Honoré, dall’altro nella cour Saint-Guillaume.
Verso la metà di questa viuzza, umida, fangosa, buia e triste, dove
il sole non penetra quasi mai, sorgeva una casa con stanze
ammobiliate.
Su un brutto cartello si leggeva: Stanze e stanzini ammobiliati.
Sulla destra di un oscuro androne c’era la porta di un magazzino non
meno oscuro, dove stava di solito il padrone della casa.
Quest’uomo, il cui nome era stato pronunciato varie volte all’isola
del Predone, si chiama Micou: ufficialmente è commerciante di
ferraglia, ma di nascosto compra e ricetta metalli rubati, come
ferro, piombo, rame e stagno.
Dire che papà Micou era in relazione d’affari e legato d’amicizia
con i Martial implica un esauriente giudizio sulla sua moralità. C’è
del resto un fatto singolare e spaventoso: quella sorta
d’affiliazione, di misteriosa comunione che lega fra di loro quasi
tutti i malfattori di Parigi. Le prigioni collettive sono grandi
centri dove affluiscono e da dove rifluiscono le fiumane di
corruzione che invadono a poco a poco la capitale, lasciandovi
informi rot-
tami.
Papà Micou era un omone di cinquant’anni, dal volto losco e
astuto, dal naso bitorzoluto e dalle guance da avvinazzato; ha in
testa un berretto di lontra e addosso un vecchio gabbano verde.
Sopra la stufetta di ghisa, vicino alla quale si sta scaldando, si
può notare, appesa al muro, un’asse con numeri; lì sono appese
appese le chiavi delle camere degli inquilini assenti. I vetri della
vetrina che dà sulla strada sono protetti da grosse sbarre di ferro
e dipinti in maniera che dall’esterno non si possa vedere, e ben a
ragione, quel che accade nella bottega.
Il grande emporio è immerso in una grande oscurità; dai muri neri e
umidi pendono catene arrugginite di ogni grossezza e lunghezza; il
pavimento è quasi interamente ricoperto da mucchi di ferrame e di
ghisa.
L’attenzione dell’affittacamere-rivenditore-ricettatore fu attirata
da tre colpi battuti alla porta in modo speciale.
«Avanti!» gridò.
Uno entrò.
Era Nicolas, il figlio della vedova del giustiziato.
Era pallidissimo, con una faccia che sembrava ancora più tri-
ste di quella del giorno precedente; eppure lo si vedrà fingere una
certa rumorosa allegria durante il dialogo che segue. (La scena si
svolgeva il giorno dopo la lite tra il bandito e il fratello
Martial.)
«Ah, eccoti, bel tomo!» gli disse con cordialità l’affittacamere.
«Sì, papà Micou; sono venuto a combinare un affare con voi.» «Chiudi
la porta, allora... chiudi la porta...»
«È che fuori ho il cane, il carrettino... con la roba.»
«Che cosa mi hai portato? lastre di piombo?»
«No, papà Micou.»
«Non possono essere resti di metallo, batti troppo la fiacca,
adesso; non lavori più... è ferro?»
«No, papà Micou; è rame... quattro pani... ce ne saranno alme-
no centocinquanta libbre, tutto quanto può tirare il mio cane.» «Va’
a prendermelo che lo pesiamo.»
«Dovete aiutarmi, papà Micou; ho male a un braccio.»
E, al ricordo della lotta col fratello Martial, il volto del bandito
espresse a un tempo un sentimento di odio e di gioia feroce, come se
già avesse pienamente soddisfatto la sua vendetta.
«Che cos’hai al braccio, ragazzo?»
«Niente... una storta.»
«Devi mettere un ferro nel fuoco, immergerlo nell’acqua e
quando l’acqua è quasi bollente mettervi dentro il braccio; è un
rimedio da ferravecchi, ma buono.»
«Grazie, papà Micou.»
«Su, andiamo a prendere il rame; ti aiuterò io, fannullone.»
Bastarono due viaggi perché i pani fossero tolti da un carretti-
no tirato da un cane mastino e portati nella bottega.
«Mica male l’idea della carretta!» disse papà Micou mettendo a posto
i piatti di legno delle enormi bilance appese a una trave
del soffitto.
«Sì, quando ho qualcosa da portare, metto il cane e la carretta
nella barca e una volta arrivato a riva, attracco. Una carrozza
forse potrebbe parlare, il mio cane non parla.»
«E come va a casa tua, sempre bene?» chiese il ricettatore pesando
il rame; «sono in buona salute tua madre e tua sorella?»
«Sì, papà Micou.»
«Anche i bambini?»
«Anche i bambini.»
«E vostro nipote André, dov’è?»
«Non parlarmene! Ieri ha fatto bisboccia; è rientrato solo
stamattina portato dal Barbillon e dallo zoppo; adesso è gia in
moto... alle poste centrali in rue Jean Jacques Rousseau.»
«E tuo fratello Martial, sempre selvatico?»
«Per la verità, non ne so niente.»
«Come, non ne sai niente?»
«No» disse Nicolas, ostentando una certa indifferenza: «non
lo vediamo da due giorni... forse sarà ritornato a fare il
bracconiere nei boschi, a meno che la sua barca, che è vecchia
vecchia, non sia colata a picco nel fiume... e lui con...»
«Non te ne dispiace mica, buonalana, perché non potevi vederlo, tuo
fratello!...»
«È vero... così, si hanno certe idee su questo o su quello. Quante
libbre di rame ci sono?»
«Hai l’occhio clinico... 148 libbre, ragazzo.»
«E mi dovete?»
«Per l’esattezza 30 franchi.»
«30 franchi, quando il rame è a 20 soldi la libbra? 30 franchi!»
«Facciamo 35, e non se ne parli più, o ti mando a quel paese
con il rame, il cane e la carretta.»
«Ma, papà Micou, voi mi fregate! non è sensato!»
«Se mi dimostri come hai avuto questo rame, io ti do 15 sol-
di alla libbra.»
«Sempre la solita solfa... Siete tutti uguali, massa di furfanti!
non si può scorticare gli amici così! Ma non basta: se vi prendo un
po’ di merce in baratto, mi farete almeno buona misura?»
«Com’è giusto... Di che cosa hai bisogno? catene, rampini per le tue
barche?»
«No, avrei bisogno di quattro o cinque lastre di latta fortissima,
che mi servono per ricoprire le imposte.»
«Ho quel che ci vuole... di uno spessore di quattro linee... una
pallottola di pistola non le passerebbe.»
«Proprio quel che voglio... proprio!...»
«E di che grandezza?»
«Ma, in tutto da sette o otto piedi quadrati.»
«Bene! di che cosa avresti ancora bisogno?»
«Di tre sbarre di ferro lunghe tre o quattro piedi e due polli-
ci quadrati.»
«Ho fatto a pezzi l’altro giorno un’inferriata di finestra... ti
calzerà come un guanto... E poi?»
«Due cerniere forti e un saliscendi per accomodare e chiudere come
voglio uno sportello di due piedi quadrati.»
«Una botola vorrai dire?»
«No, sportello...»
«Non capisco a che cosa ti possa servire uno sportello.» «Sarà: lo
capisco io.»
«Va bene; non hai che da scegliere... ho un mucchio di cernie-
re. E cos’altro ti occorre ancora?»
«Nient’altro.»
«Non è molto.»
«Preparate subito ogni cosa, papà Micou; la prenderò quando
ripasserò di qua; ho da fare altre commissioni.»
«Con la carretta? Dimmi un po’, burlone, ci ho visto un invol-
to in fondo, è qualche leccornia che hai preso nella credenza
comune, ghiottoncello?»
«Proprio così, papà Micou, però voi non mangiate quelle cose lì. Non
fatemi aspettare la ferramenta, perché devo tornare all’isola prima
di mezzogiorno.»
«Sta’ tranquillo: adesso sono le otto; se non vai lontano, puoi
tornare fra un’ora, per allora tutto sarà pronto, denaro e roba...
Vuoi berti un bicchierino?»
«Sì... me lo merito!...»
Papà Micou prese da un vecchio armadio una bottiglia di acquavite,
un bicchiere crepato, una tazza senza manico e versò.
«Alla vostra, papà Micou!»
«Alla tua, ragazzo, e alle tue signore di casa!»
«Grazie... E va sempre bene, con le vostre camere ammobiliate?»
«Così, così... Ho sempre qualche inquilino per cui temo che mi
capiti qui il commissario... ma pagano in conseguenza.»
«E perché?»
«Come sei scemo! a volte affitto con lo stesso stile con cui com-
pero... a quelli non domando il passaporto come a te non domando la
fattura di vendita.»
«Si capisce!... ma a quelli lì fate pagar caro, mentre da me
comperate a buon mercato.»
«Bisogna pur rifarsi... Ho un cugino che ha una bella casa
ammobiliata in rue Saint-Honoré, anche se sua moglie è una brava
sarta che ha fino a venti lavoranti, o presso di lei o fuori...»
«Dite, vecchio testardo, ce ne devono essere di belline là dentro?»
«Lo credo; ce ne sono due o tre che ho visto qualche volta riportare
il lavoro... Per mille diavoli! come sono carine! Specialmente una
piccola che lavora in casa propria, che ride sempre e che si chiama
Rigolette... Dio d’un Dio, figliolo, peccato non avere vent’anni!»
«Su, papà, spegnetevi o grido al fuoco!»
«Ma è onesta, ragazzo mio... è onesta...»
«Che stupida! be’... dicevate che vostro cugino...»
«Tiene molto bene la sua casa; e siccome è della stessa razza di
quella piccola Rigolette...» «Onesto.»
«Proprio così!»
«Che scemo!»
«Vuole solo inquilini con passaporto o con carte in regola. Ma
se gliene capita qualcuno senza, siccome sa che io non ci bado, lo
manda da me.»
«E pagano in conseguenza.»
«Sempre.»
«Ma sono tutti ladri quelli che non hanno documenti!»
«Eh no! Senti, a proposito, mio cugino mi ha mandato proprio
qualche giorno fa dei clienti... Che il diavolo mi fulmini se ci
capisco qualcosa... Ancora un bicchiere?»
«Vada... il liquido è buono... Alla vostra, papà Micou!»
«Alla tua, ragazzo! Ti dicevo dunque che l’altro giorno mio cugino
mi ha mandato dei clienti di cui non capisco niente. Immaginati, una
madre e una figlia che veramente parevano molto tristi e addolorate;
portavano tutte le loro cose in un fagottino. Ebbene, nonostante
debbano essere gente da poco, dato che non hanno documenti e pagano
ogni quindici giorni... da quando sono qui non si sono mai mosse,
proprio come le marmotte; e non ci vengono mai uomini, figlio mio,
mai uomini... eppure se non fossero così magre e così pallide,
sarebbero due bei pezzi di donne, la figlia, specialmente! Ha al
massimo quindici o sedici anni... è bianca come un coniglio
bianco... con due occhi grandi così... Perdinci che occhi, che
occhi!»
«Ma pigliate ancora fuoco. E che cosa fanno?»
«Ti dico che non ci capisco niente... Devono essere oneste, e
tuttavia non hanno documenti... e inoltre ricevono lettere senza
indirizzo... Devono avere un nome che non si può scrivere.»
«Come mai?»
«Questa mattina hanno mandato mio nipote André all’ufficio del fermo
posta per chiedere una lettera indirizzata alla signora
X. Z. La lettera deve venire dalla Normandia, da un paese chiamato
Aubiers. Lo hanno scritto su un pezzo di carta perché André potesse
richiedere la lettera dando queste indicazioni... Senti, a me mi sa
che non siano gran che, se sono donne che prendono come nome X. Z.
Eppure, mai uomini!»
«Non vi pagheranno.»
«A un vecchio lupo come me non s’insegna a campare. Hanno preso uno
stanzino senza caminetto e glielo faccio pagare 20 franchi alla
quindicina e anticipati. Forse sono ammalate, perché non credo che
abbiano mai acceso un fornello per farsi da mangiare da quando sono
qui. E siamo sempre lì... mai uomini e niente documenti...»
«Se avete solo clienti così, papà Micou...»
«Vanno e vengono; comunque se do alloggio a persone senza
passaporto, lo do anche a gente per bene. Adesso ho due commessi
viaggiatori, un postino, il direttore d’orchestra del caffè dei
ciechi, e una signora che vive di rendita, tutta gente onesta;
basterebbero loro a salvare la reputazione della casa, se il
commissario volesse vedere le cose più da vicino... questi non sono
inquilini notturni, ma da pieno giorno.»
«Quando mai c’è stato il sole nel vostro vicolo, papà Micoù?»
«Spiritoso!... Ancora un sorso?»
«Ma è l’ultimo, perché devo filare... A proposito, Robin lo zop-
po, abita sempre qui?»
«Su, in alto... la porta accanto a quella della madre e della fi-
glia. Sta finendo di mangiarsi il denaro fatto in prigione... credo
che non ne abbia quasi più.»
«State attento! è evaso.»
«Lo so, ma come posso togliermelo di torno? Credo che stia
preparando qualche colpo; il piccolo Tortillard, figlio di
BrasRouge, è venuto qui l’altra sera con Barbillon a cercarlo... Ho
paura che nuoccia ai miei inquilini buoni, quel maledetto Robin;
così, scaduta la sua quindicina, lo butto fuori, dicendogli che la
sua stanza è stata prenotata da un ambasciatore o dal marito della
signora Saint-Ildefonse, quella che vive di rendita.»
«Una riccona?»
«Sicuro! tre camere e uno stanzino sul davanti, nientemeno... con
mobili nuovi, e inoltre una soffitta per la sua serva... 80 franchi
al mese... e pagati anticipati da suo zio, al quale lascia una delle
sue camere come appartamentino, quando viene dalla campagna. Tanto
credo che la sua campagna sia rue Vivienne, rue Saint-Honoré, o i
dintorni di quei posti lì.»
«Ho capito!... Ella vive di rendita perché il vecchio le dà le
rendite.»
«Taci! ecco la sua serva!»
Una donna attempata, con un grembiule bianco di dubbia pulizia,
entrò nella bottega del rivenditore.
«In che cosa posso servirvi, signora Charles?»
«Papà Micou, non c’è vostro nipote?»
«È in giro, è andato alla posta centrale; fra poco tornerà.»
«Il signor Badinot vorrebbe che portasse subito questa lettera
all’indirizzo che c’è scritto sopra; non c’è da aspettare risposta,
ma è urgente.»
«Fra un quarto d’ora sarà recapitata, signora Charles.» «E che si
sbrighi.»
«State tranquilla.»
La serva uscì.
«È la serva di un vostro inquilino, papà Micou?»
«Eh, no, scioccone; è la serva di quella che vive di rendita, la
signora Saint-Ildefonse. Ma il signor Badinot è suo zio; è giunto
ieri dalla campagna» disse l’affittacamere esaminando la lettera;
poi aggiunse, leggendo l’indirizzo: «Vedi che bella relazione!
Quando ti dico che è gente perbene: scrive a un visconte».
«Eh, via!»
«To’, guarda: Al signor visconte di Saint-Remy, rue de Chaillot...
Urgentissimo... Sue proprie mani. Credo che quando si alloggiano
signore che hanno zii che scrivono a dei visconti, si può passar
sopra al passaporto di qualche inquilino dei piani superiori della
casa, no?»
«Lo credo. Allora, a fra poco, papà Micou. Legherò il cane e la
carretta alla vostra porta; quello che ho, andrò a prenderlo a
piedi... Preparatemi la merce e il denaro, che appena vengo, scappo
via.»
«Sta’ tranquillo: quattro lastre di latta da tre piedi quadrati
ciascuna, tre sbarre di ferro di tre piedi e due cerniere per il tuo
sportello. Strano questo sportello; ma non fa niente... ti basta
questo?»
«Sì, e il mio denaro?»
«E il tuo denaro... Ma senti, prima che tu te ne vada, ti devo
dire... da quando sei qua... ti sto osservando...»
«Ebbene?»
«Non so... ma sembra che tu abbia qualcosa.» «Io?»
«Sì.»
«Siete matto... se ho qualcosa... è perché ho fame.»
«Hai fame... hai fame... è possibile, ma si direbbe che tu volessi
sembrare allegro e che in fondo hai qualcosa che ti pizzica e ti
rode... una pulce nella coscienza, come dice quello... e perché ti
pruda, bisogna che ti gratti forte... perché non sei uno stinco di
santo.»
«Vi dico che siete matto, papà Micou» disse Nicolas, sussultando suo
malgrado.
«Vedi, si direbbe che stai tremando.»
«È il braccio che mi fa male.»
«Allora non dimenticare la mia ricetta, ti guarirà.»
«Grazie, papà Micou... a presto.»
E il furfante uscì.
Il ricettatore, dopo aver nascosto i pani di rame dietro il ban-
co, era intento a preparare le varie cose che Nicolas gli aveva
chiesto, quando un nuovo personaggio entrò nel negozio.
Era un uomo sulla cinquantina, dalla fisionomia fine e sagace, con
fedine grigie molto folte e occhiali d’oro; vestiva con
ricercatezza; le larghe maniche del suo soprabito scuro, con
manopole di velluto nero, lasciavano vedere le mani ricoperte da
guanti color paglierino; gli stivali dovevano essere stati puliti la
sera prima con un lucido brillante.
Era il signor Badinot, lo zio di quella che viveva di rendita, la
signora Saint-Ildefonse, la cui posizione sociale faceva l’orgoglio
e la sicurezza di papà Micou.
Il lettore non avrà dimenticato che il signor Badinot, procuratore
espulso dall’ordine dei suoi colleghi, faceva allora il cavaliere
d’industria e l’agente di affari equivoci e che servendo da spia al
barone di Graün, aveva dato al diplomatico parecchie informazioni
precise su molti personaggi di questa storia.
«La signora Charles vi ha dato una lettera da portare?» disse il
signor Badinot all’affittacamere.
«Sì, signore... a momenti sarà qui mio nipote... e andrà subito a
portarla.»
«No, rendetemi quella lettera... ci ho ripensato, andrò io stesso
dal visconte di Saint-Remy» disse il signor Badinot appoggiando di
proposito la voce con fatuità su quell’indirizzo aristocratico.
«Ecco la lettera, signore... avete altri ordini?»
«No, papà Micou» disse il signor Badinot con aria di protezione; «ho
da farvi dei rimproveri.»
«A me, signore?» «Gravissimi rimproveri.»
«Come, signore?»
«Certo... La signora di Saint-Ildefonse paga molto caro il vostro
primo piano; mia nipote è una di quelle inquiline a cui si devono
tutti i riguardi; è venuta con piena fiducia nella vostra casa, non
potendo soffrire il rumore delle carrozze; sperava di trovarvisi
come in campagna.»
«E non è così?... qui è come un casale... Eppure ve ne dovreste
intendere voi che abitate in campagna... qui è un vero casale.» «Un
casale? davvero carino! sì con un continuo fracasso in-
fernale.»
«Eppure è impossibile trovare un’abitazione più tranquilla; so-
pra la signora, c’è il direttore d’orchestra del caffè dei ciechi e
un commesso viaggiatore... più su c’è un altro commesso viaggiatore.
E poi c’è...»
«Non si tratta di queste persone; esse sono molto tranquille, mia
nipote ne conviene; ma al quarto piano c’è uno zoppo che la signora
di Saint-Ildefonse ha incontrato anche ieri ubriaco per le scale;
urlava come un selvaggio; ne è rimasta tutta sconvolta dallo
spavento... Se credete che con simili individui la vostra casa
somigli a un casale...»
«Signore, vi giuro che non aspetto altro che l’occasione per mettere
alla porta quello zoppaccio; se non mi avesse pagato l’ultima
quindicina anticipata, sarebbe già fuori.»
«Non dovevate accettarlo come inquilino.»
«Ma, a parte questo fatto, spero che la signora non abbia da
lamentarsi; c’è un portalettere che è il fiore dei gentiluomini; e
di sopra, accanto alla camera dello zoppo, una donna e sua figlia,
che non si muovono mai, proprio come due marmotte.»
«Vi ripeto che la signora di Saint-Ildefonse si lagna solo dello
zoppo: quel tipo è l’incubo della casa! Vi avverto che se
continuerete a tenerlo, finirà col fare sloggiare tutta la gente per
bene.»
«Lo manderò via, state pur tranquillo... non ci tengo affatto a quel
tipo lì.»
«E fate bene... perché nessuno ci terrebbe alla vostra casa.»
«Il che mi danneggerebbe. Perciò, signore, considerate lo zoppo
bell’e partito, perché deve rimanere qui ancora quattro giorni.» «È
anche troppo: tocca a voi pensarci... alla prossima bravata,
mia nipote lascerà la casa.»
«State tranquillo, signore.»
«Tutto ciò è nel vostro interesse, mio caro. Approfittatene...
perché io ho una parola sola» disse il signor Badinot con aria
protettiva.
Ed egli uscì.
C’è forse bisogno di dire che quella donna e quella fanciulla che
vivevano così solitarie erano le vittime della cupidigia del notaio?
Adesso condurremo il lettore nella misera stanza dove abitano.
V
LE VITTIME DI UN ABUSO DI FIDUCIA
(Quando l’abuso di fiducia viene punito, termine medio della pena:
due mesi di prigione e venticinque franchi di ammenda – Art. 406 e
408 del codice penale.)
Immagini il lettore uno stanzino situato al quarto piano della
triste casa del passage de la Brasserie.
Una debole e pallida luce penetra a fatica in quella stanza angusta,
attraverso una finestrella a una sola imposta, e con tre vetri rotti
e sudici; le pareti sono ricoperte da una carta stracciata, di
colore giallastro; dagli angoli del soffitto, tutto screpolato,
pendono grosse ragnatele. Il pavimento, sbrecciato in più punti,
lascia vedere qua e là le travi e le assi che lo sostengono.
Una tavola di legno bianco, una sedia, un vecchio baule senza
serratura, e una brandina a spalliera di legno con sopra un sottile
materasso, due lenzuola di grossa tela bigia e una vecchia coperta
di lana scura compongono tutta la mobilia di quella camera.
Sulla sedia sta seduta la baronessa di Fermont.
Nel letto riposa la signorina Claire di Fermont (questo era il nome
delle due vittime di Jacques Ferrand).
Possedendo un letto solo, la madre e la figlia erano costrette a
fare a turno per coricarsi e dividere così le ore della notte.
Troppe inquietudini, troppe angosce tormentavano la madre, perché
potesse riuscire qualche volta a prendere sonno; la figlia, però, vi
trovava almeno qualche momento di riposo e d’oblio.
In quel momento stava dormendo.
Niente di più commovente, di più doloroso dello squallore a cui la
cupidigia del notaio aveva ridotto le due donne fino ad allora
abituate alle modeste dolcezze dell’agiatezza, e circondate, nella
loro città natale, dalla considerazione che ispira sempre una
famiglia nota e stimata.
La signora di Fermont ha circa trentasei anni; un viso nobile e
dolce, i cui lineamenti, una volta di notevole bellezza, sono ora
pallidi e tirati; ha capelli neri a bande, divisi sulla fronte e
schiac-
ciati sulle tempie, che si raccolgono a crocchia dietro la nuca; per
i dispiaceri ha già qualche ciocca argentata. Vestita d’un abito a
lutto, qua e là rattoppato, la signora Fermont ha appoggiato la
fronte alla mano e i gomiti sul misero capezzale della figlia, e ora
la sta guardando con indicibile angoscia.
Claire ha solo sedici anni; il dolce e puro profilo del suo viso,
magro come quello della madre, spicca sul grigio delle rozze
lenzuola che ricoprono il suo capezzale, pieno di segatura.
Il colorito della fanciulla ha perduto la sua smagliante freschezza.
Da chiusi i suoi grandi occhi proiettano fin sulle guance scarne una
doppia frangia di ciglia nere. Le sue labbra, un tempo rosee e
tumide, ma adesso smorte e aride, stando dischiuse lasciano vedere
la bianchezza dello smalto dei denti; il contatto con le ruvide
lenzuola e la coperta di lana hanno arrossato in vari punti la pelle
delicata del collo, delle spalle e delle braccia della giovinetta.
Di tanto in tanto ha un leggero trasalimento e allora aggrotta le
sopracciglia sottili e vellutate come se fosse turbata da un sogno
penoso; quel viso già segnato dalle stigmate del male è penoso a
vedersi; vi si scoprono i sinistri sintomi di una malattia che cova
minacciosa.
Ormai da molto tempo la signora di Fermont non ha più lacrime;
l’occhio che tiene fisso sulla figlia è asciutto e infiammato
dall’ardore di una febbre lenta che la sta minando. Come sua figlia,
anche la signora di Fermont si sentiva ogni giorno sempre più debole
e provava quel certo malessere e quella certa spossatezza che sono
segni di malattia grave e latente; ma temendo di spaventare Claire e
non volendo soprattutto, se così si può dire, spaventare se stessa,
ella lottava con tutte le sue forze contro i primi sintomi della
malattia.
Per motivi egualmente generosi, Claire, per non inquietare la madre,
cercava di nascondere le sue sofferenze. Quelle due sventurate,
oltre a essere preda degli stessi dolori, dovevano anche essere
preda degli stessi mali.
Giunge nella sventura un momento supremo in cui l’avvenire si mostra
in veste così terribile, che anche i caratteri più energici, non
osando guardarlo in faccia, chiudono gli occhi e cercano di nutrirsi
di vane illusioni.
Questa era la situazione della signora e della signorina di Fermont.
Descrivere i tormenti di quella donna, per le lunghe ore che stette
a guardare il sonno di sua figlia, pensando al passato, al
presente, all’avvenire, sarebbe dipingere quanto il grande e santo
dolore di una madre può avere di più straziante, di più insensato;
dolci ricordi, sinistri timori, terribili previsioni, amari
rimpianti, angosce mortali, slanci di impotente furore contro
l’autore di tante sventure, suppliche inascoltate, violente
preghiere, e infine... infine, dubbi atroci sull’impotente giustizia
di colui che resta insensibile al grido strappato dalle viscere
materne... a quel sacro grido che deve pur arrivare al cielo: Pietà
per mia figlia!
«Come ha freddo adesso!» diceva la povera madre toccando leggermente
con la gelida mano le gelide braccia della sua creatura, «ha molto
freddo... Un’ora fa, scottava... è la febbre!... per fortuna non sa
di averla!... Dio mio, come ha freddo!... questa coperta è così
sottile poi... metterei il mio vecchio scialle sul letto... ma se lo
tolgo dalla porta dove l’ho attaccato... verranno gli ubriachi di
ieri a guardare dai buchi della serratura o dalle assi sconnesse
degli stipiti...
Dio mio, che cosa orribile!
Se avessi saputo da che gente era abitata... prima di pagare in
anticipo la quindicina... non saremmo rimaste qui... ma non
sapevo... Quando si è senza documenti, non si è accettate nelle
altre case ammobiliate. Chi avrebbe immaginato che ci fosse stato
bisogno di passaporto?... Quando sono partita da Angers con la mia
carrozza... perché non credevo decoroso che mia figlia prendesse una
carrozza pubblica... chi avrebbe creduto...»
Poi, presa da uno scatto di collera, si interruppe:
«Ma che infamia!... Perché il notaio ha voluto spogliarmi, eccomi
ridotta in questo orribile stato e contro di lui non posso
niente!... niente!...
Se... se avessi denaro, potrei sporgere querela; sporgere querela...
per veder trascinare nel fango la memoria del mio buono e nobile
fratello... per sentir dire che si è suicidato dopo aver dilapidato
tutto il mio patrimonio e quello di mia figlia... Querelarlo... per
sentir dire che è stato lui a ridurci alla più squallida miseria...
Oh no! mai, mai!
Eppure... se la memoria di un fratello è sacra... la vita...
l’avvenire di una figlia... sono altrettanto sacri per me... ma io
non ho prove contro il notaio, e sarebbe sollevare un inutile
scandalo...
La cosa terribile... terribile» ella riprese dopo un momento di
silenzio, «è che a volte, inasprita, irritata da una sorte così
atroce, non temo di accusare mio fratello... di dare ragione al
notaio contro di lui... come se, avendo due nomi da maledire,
potessi placare
il mio dolore... e poi mi vergogno delle mie supposizioni ingiuste,
odiose... contro il migliore, il più leale dei fratelli.
Oh! il maledetto notaio, non conosce tutte le tremende conseguenze
del suo furto... Ha pensato di rubare del denaro, e invece tortura
due anime... fa morire a fuoco lento due donne...
Ahimè! non oso dire a mia figlia tutti i timori che mi vengono per
non farla troppo soffrire... ma sto male... ho la febbre.... mi
reggo solo grazie alla mia energia; sento in me i germi della
malattia... forse pericolosa... sì la sento venire... si avvicina...
il petto mi brucia; mi si spezza la testa... Questi sintomi sono più
gravi di quanto non voglia confessare a me stessa... Dio mio... se
mi ammalassi... se morissi...
No, no!» gridò la signora di Fermont con esaltazione, «non voglio...
non voglio morire... Lasciare Claire... a sedici anni... senza
risorse, sola, abbandonata a Parigi... è mai possibile?... No! non
sono malata, dopo tutto... che cosa mi sento? un po’ di calore al
petto, un po’ di pesantezza alla testa; sono le conseguenze dei
dispiaceri, delle veglie, del freddo, dell’inquietudine; chiunque,
al mio posto sentirebbe lo stesso abbattimento... non penso che sia
una cosa seria.
Su, su... niente debolezze... Dio mio! lasciandosi trascinare da
simili idee, e ascoltandosi così ci si ammala realmente... e non
posso proprio permettermelo!... Devo cercare di trovare un lavoro
per me e per Claire, perché quell’uomo che ci dava da colorare
stampe...».
Dopo un momento di silenzio, la signora di Fermont aggiunse con
sdegno:
«Oh, è un’infamia!... pagare quel lavoro col prezzo del disonore di
Claire... toglierci spietatamente questo striminzito mezzo di
sussistenza, perché non ho voluto che la sera mia figlia andasse
sola a lavorare da lui!... Forse troveremo un altro lavoro, cucire o
ricamare... Ma, quando non si conosce nessuno, è così difficile!...
Anche ultimamente, ho tentato invano... Allorché si abita in un
posto come questo, non si ispira fiducia; eppure quando, sarà finito
quel poco che ci rimane, che fare?... che sarà di noi?... non ci
resterà più niente... più niente... sulla terra... nemmeno un
soldo... e pensare che ero ricca!...
Ma non pensiamo a ciò... queste cose mi fanno venire le vertigini...
mi fanno impazzire... Ecco il mio sbaglio, indugiare troppo su
queste idee, invece di cercare di distrarmi... Sarà stato questo
fatto a farmi ammalare... no, no, non sono ammalata... anzi credo di
avere meno febbre» aggiunse la sventurata madre tastandosi lei
stessa il polso.
Ma, ahimè, le pulsazioni frequenti, forti e irregolari che sentì
sotto la pelle secca e fredda non le lasciarono illusioni.
Dopo un momento di cupa e silenziosa disperazione, disse con
amarezza:
«Dio mio, Signore, perché opprimerci così? che male abbiamo mai
fatto? Mia figlia non era un modello di purezza e di pietà? e suo
padre l’onore in persona? Non ho sempre adempiuto coscienziosamente
ai miei doveri di sposa e di madre? Perché permettere che fossimo
vittime di un miserabile?... soprattutto questa povera ragazza!...
Quando penso che, senza il furto di quel notaio, non avrei nessun
timore per la sorte di mia figlia... A quest’ora saremmo a casa
nostra, senza preoccupazioni per il futuro, tristi e infelici solo
per la morte del mio povero fratello; fra due o tre anni, avrei
fatto sposare Claire, e avrei trovato un uomo degno di lei, così
buona, affascinante e bella!... Chi non sarebbe stato felice di
ottenere la sua mano?... Inoltre volevo, riservandomi una piccola
pensione per poter vivere da lei, lasciarle in dote tutto ciò che
possedevo, perlomeno 100.000 scudi... perché avrei potuto mettere da
parte ancora qualcosa; quando una giovinetta bella ed educata come è
la mia adorata figliola porta in dote più di 100.000 scudi...»
Poi, tornando, in virtù di un doloroso contrasto, alla triste realtà
della sua situazione, la signora di Fermont esclamò come presa dal
delirio:
«Ma è impossibile che, perché tale è la volontà del notaio, io debba
assistere impotente allo spettacolo della terribile miseria in cui è
mia figlia... lei che aveva diritto a tanta felicità...
Se le leggi lasciano impunito questo criminale, io non farò lo
stesso; perché, insomma, se la mia sorte mi spinge alla
disperazione, se non trovo il modo di uscire dall’orribile
situazione in cui mi ha gettato con mia figlia quello scellerato,
non so quello che farò... sarei capace di ucciderlo quell’uomo, io.
Dopo, possono fare di me ciò che vogliono... avrò dalla mia parte
tutte le madri...
Sì... ma mia figlia?... mia figlia?
Lasciarla sola, abbandonata, ecco il terrore, ecco perché non voglio
morire... ecco perché non posso uccidere quell’uomo. Che ne sarebbe
di lei? ha sedici anni... è giovane e pura come un angelo... è così
bella!... l’abbandono, la povertà e la fame... tutte queste sventure
messe insieme che pauroso senso di vertigine possono causare in una
fanciulla della sua età... e allora... e allora in quale abisso può
cadere!
Oh, è terribile... più approfondisco questa parola, miseria, e più
scopro cose spaventose.
La miseria... la miseria, cosa atroce per tutti, ma forse ancora più
atroce per coloro che hanno sempre vissuto nell’agiatezza. Ciò che
non posso perdonarmi è che, sotto la minaccia di tanti mali, non
riesca a vincere quel mio sentimento di misero orgoglio.
Bisognerebbe che io vedessi mancare completamente il pane a mia
figlia per rassegnarmi a mendicare... Ah, come sono vile!».
E aggiunse con cupa amarezza:
«Quel notaio mi ha ridotta a chiedere l’elemosina, bisogna quindi
che mi adatti alle necessità della mia situazione; niente più
scrupoli, niente più delicatezze, potevano andar bene una volta;
adesso devo tendere la mano per me e per mia figlia; sì, se non
trovo lavoro... dovrò decidermi a implorare la carità degli altri,
poiché il notaio l’ha voluto.
Anche in ciò, c’è un’arte, un’abilità che si acquista con
l’esperienza; imparerò; è un mestiere come un altro» aggiunse con
una specie di farnetica esaltazione. «Mi sembra di avere tutto
quanto occorre per commuovere... terribili sventure immeritate e una
ragazza di sedici anni... un angelo... sì; ma bisogna sapere,
bisogna avere il coraggio di far valere questi vantaggi... ci
riuscirò.
Dopo tutto, di cosa devo lagnarmi?» esclamò con una risata sinistra.
«La fortuna è precaria, distruttibile... il notaio mi avrà almeno
insegnato un mestiere».
La signora di Fermont restò un momento assorta nei suoi pensieri;
poi riprese con più calma:
«Ho pensato spesso a cercare un impiego: invidio la sorte della
domestica della signora che è al primo piano; se avessi quel posto,
forse potrei col salario provvedere ai bisogni di Claire... forse
con la protezione di quella donna, potrei trovare qualche lavoro per
mia figlia... che resterebbe qui... Così non la lascerei più. Che
fortuna... se si potesse combinare così!... Oh, no, no, sarebbe
troppo bello... sarebbe un sogno!... E poi per prendere quel posto,
bisognerebbe mandar via la serva... e forse la sua vita diventerebbe
difficile come la nostra. Ebbene, peggio per lei, peggio per lei...
hanno avuto scrupoli a spogliare me? Mia figlia prima di tutto.
Vediamo, come introdurmi presso la signora del primo piano. In che
modo far mandar via la sua serva? quel posto sarebbe per noi una
soluzione insperata».
In quel mentre due o tre colpi battuti violentemente alla porta
fecero sussultare la signora di Fermont e svegliare la figlia di
soprassalto.
«Dio mio, mamma, che succede?» esclamò Claire rizzandosi
improvvisamente a sedere; poi gettò automaticamente le braccia al
collo della madre, che, egualmente spaventata, si strinse alla
figlia mentre guardava la porta con terrore.
«Mamma, che cos’è?» ripeté Claire.
«Non lo so, bambina mia... sta’ tranquilla... non è niente... forse
ci portano risposta della posta...»
In quel momento una scarica di pugni violenti scosse la vecchia
porta.
«Chi è?» disse la signora di Fermont con voce tremante.
Una voce abietta, sgraziata, rauca rispose:
«Ma dico, vicine, siete sorde? Ohè... vicine! ohè...».
«Che volete, signore? io non vi conosco» disse la signora di
Fermont cercando di nascondere il turbamento che le faceva tremare
la voce.
«Sono Robin il vostro vicino... datemi fuoco per accendere la pipa
su, via! e più in fretta di così anche!»
«Dio mio! è lo zoppo che è sempre ubriaco» disse piano la madre alla
figlia...
«Allora... mi date questo fuoco, o volete che spacchi tutto?...
corpo di un diavolo!»
«Signore... non ho fuoco...»
«Dovete avere dei fiammiferi... tutti ne hanno... su, aprite...»
«Signore... andatevene...»
«Non volete aprire! Uno... due...»
«Vi prego di andarvene o chiamo qualcuno...»
«Uno... due... tre... Allora spacco tutto! oh!»
E quel miserabile diede una tal pedata che la vecchia serratura
si ruppe e la porta cedette.
Le due donne urlarono di spavento.
La signora di Fermont, nonostante fosse debole, si lanciò con-
tro il bandito mentre stava per entrare nella stanza e gli sbarrò il
passo.
«Signore, è un’infamia, non entrerete!» gridò l’infelice madre,
spingendo con tutte le sue forze contro la porta semiaperta. «Chiamo
aiuto...»
E rabbrividiva alla vista della faccia di quell’uomo avvinazzato.
«E che?» egli riprese, «non ci si fa piaceri fra vicini? se aveste
aperto, non avrei spaccato niente.»
Poi, con l’ostinazione stupida dell’ubriaco, egli soggiunse,
oscillando sulle gambe ineguali:
«Voglio entrare, ed entrerò... e non uscirò di qui finché non avrò
acceso la pipa.»
«Non ho né fuoco né fiammiferi... In nome del cielo andatevene.»
«Non è vero, dite così perché io non veda la piccola che è a letto.
Ieri avete tappato i buchi della porta. È bella e voglio vederla...
State attenta, voi... se non mi lasciate entrare vi spacco il
muso... vi dico che voglio vedere la piccola a letto e accendere la
pipa... oppure rovino tutto e anche voi assieme!...»
«Aiuto, Dio mio!... aiuto!...» gridò la signora di Fermont che sentì
la porta cedere dopo una violenta spallata dello zoppo.
Intimorito dalle grida, fece un passo indietro e mostrò il pugno
alla signora di Fermont dicendole:
«Me la pagherai... Ritornerò stanotte, ti prenderò per la lingua
così non potrai più gridare...».
E lo zoppo, come era chiamato all’isola del Predone, scese le scale,
proferendo terribili minacce.
La signora di Fermont, temendo che tornasse e vedendo la serratura
rotta, spinse la tavola contro la porta, per barricarsi dentro.
Claire era stata talmente sconvolta dall’orribile incidente che
s’era lasciata cadere sul suo lettuccio quasi esanime, in preda a
una crisi di nervi.
La signora di Fermont, dimenticata la paura, corse dalla figlia, la
strinse fra le braccia, le fece bere un po’ d’acqua e, a forza di
premure e carezze, riuscì a rianimarla.
Quando la figlia ebbe ripreso i sensi le disse:
«Stai calma... stai tranquilla... mia povera bambina, l’omaccio se
n’è andato».
Poi la disgraziata madre esclamò con voce carica d’indignazione e di
indicibile dolore:
«Il notaio è la causa prima di tutte le nostre torture!...». Claire
si guardava attorno sgomenta e stupita.
«Stai tranquilla, bambina mia» continuò la signora di Fer-
mont abbracciando teneramente la figlia, «quel miserabile è andato
via.»
«Dio mio, mamma, e se salisse di nuovo? Lo vedi, hai gridato aiuto e
non è venuto nessuno... Oh, te ne supplico, andiamocene da questa
casa... morirò di paura.»
«Come tremi!... Hai la febbre.»
«No, no» disse la ragazza per tranquillizzare la madre, «non è
niente, è la paura, adesso mi passa... E tu, come stai! sentiamo le
tue mani... Dio mio, come scottano! Vedi, sei tu che soffri e vuoi
nascondermelo.»
«Non credere, stavo meglio del solito! a rendermi così è stata la
paura che mi ha fatto prendere quell’uomo; stavo dormendo
profondamente sulla seggiola quando sono stata svegliata assieme a
te...»
«Eppure mamma, i tuoi poveri occhi sono rossi... e infiammati!»
«Ah, capirai, bambina mia, che su una sedia, il sonno è meno
riposante...»
«Davvero, non stai male?»
«No, no, te l’assicuro... E tu?»
«Nemmeno io; sto solo tremando ancora di paura. Ti supplico,
mamma, andiamocene da questa casa.»
«E dove andiamo? Sai quanta fatica abbiamo fatto prima di
trovare questa malaugurata stanza... il fatto è che,
disgraziatamente, siamo senza documenti, e poi abbiamo pagato
quindici giorni d’anticipo, per cui il denaro non ci verrà certo
restituito... e ce ne resta così poco, così poco... che dobbiamo
risparmiare il più possibile.»
«Forse un giorno o l’altro il signore di Saint-Remy ti risponderà.»
«Non lo spero più... È da tanto che gli ho scritto!»
«Non avrà ricevuto la tua lettera... Perché non gli scrivi di nuovo?
Da qui ad Angers non c’è molta distanza e si potrebbe ricevere senza
aspettare tanto una sua risposta.»
«Povera bambina mia, sai quanto mi sia costato...»
«Che cosa perdi? è così buono, nonostante quei suoi modi bruschi!
Non è stato uno dei più vecchi amici di mio padre?... E poi, in
fondo, è nostro parente...»
«Ma è povero anche lui; ha un patrimonio modestissimo... Forse non
ci risponde per evitare il dispiacere di un rifiuto.»
«Ma, mamma, se non avesse ricevuto la lettera?»
«E se l’ha avuta, figliola... due sono le cose: o è lui stesso in
una situazione così brutta da non poterci aiutare... o non ha
nessuna compassione per noi: allora perché esporci a un rifiuto o a
un’umiliazione?»
«Su, coraggio, mamma, ci resta ancora una speranza... forse questa
mattina ci porteranno una buona risposta...»
«Dal signor d’Orbigny?»
«Certo... La lettera di cui avevate fatto, tempo fa, la brutta copia
era così semplice, così commovente... esponeva con tanta na-
turalezza le nostre disgrazie, che egli avrà senz’altro pietà di
noi... Davvero, qualcosa mi dice che avete torto a disperare di
lui.»
«Ha così pochi motivi di interessarsi a noi! È vero che un tempo
conosceva tuo padre e che spesso ho sentito il mio povero fratello
parlare del signor d’Orbigny come di un uomo col quale era stato in
ottimi rapporti, prima che questi lasciasse Parigi per ritirarsi in
Normandia colla giovane moglie.»
«È proprio questo che mi dà qualche speranza; sua moglie essendo
giovane avrà pietà di noi... E poi, in campagna c’è molto che
possiamo fare! Prenderebbe te, penso, come governante, io lavorerei
alla biancheria... Dato che il signor d’Orbigny è ricchissimo e ha
una grande casa, ci troverà senz’altro del lavoro...»
«Sì, ma noi abbiamo così poco diritto perché s’interessi!...» «Siamo
così disgraziate!»
«Questo anzi, per la verità, è un pregio per le persone carita-
tevoli.»
«Speriamo che il signor d’Orbigny e sua moglie lo siano...» «E nel
caso che non potessimo aspettarci niente da lui, vince-
rò ancora una volta la mia inutile vergogna e scriverò alla duchessa
di Lucenay.»
«Quella signora di cui il signor di Saint-Remy ci parlava così
spesso e di cui vantava continuamente il buon cuore e la
generosità?»
«Sì, la figlia del principe di Noirmont. L’ha conosciuta da piccola
e la trattava quasi come una figlia... perché era in stretti
rapporti col principe. La signora di Lucenay deve avere molte
conoscenze, forse potrebbe trovarci un posto.»
«Certo, mamma; capisco comunque il tuo riserbo: non la conosci
affatto, mentre almeno mio padre e il mio povero zio conoscevano un
poco il signor d’Orbigny.»
«Infine, nel caso in cui la signora di Lucenay non potesse far
niente per noi, ricorrerò a un ultimo mezzo.»
«Quale mamma?»
«È una debole... una folle speranza, forse; ma perché non
tentare?... il figlio del signor di Saint-Remy e...»
«Il signor di Saint-Remy ha un figlio?» gridò Claire stupita,
interrompendo la madre.»
«Sì, bambina mia, ha un figlio...»
«Non ne parlava mai... e il figlio non veniva mai ad Angers...»
«Infatti quindici anni fa, per ragioni che tu non puoi conosce-
re, il signor di Saint-Remy lasciò Parigi e da quell’epoca non ha
più rivisto il figlio.»
«Quindici anni senza vedere il padre... È possibile, Dio mio?...»
«Ahimè sì, come vedi... Ti dirò che il figlio del signor di
SaintRemy, essendo molto noto in società, e molto ricco...»
«Molto ricco?... e suo padre è povero?»
«Sembra che tutto il patrimonio del giovane di Saint-Remy provenga
dalla madre...»
«Che vuol dire?... perché lasciò così suo padre?»
«Sembra che questi non abbia voluto accettare niente da lui.»
«Perché?»
«Altra domanda a cui non posso rispondere, mia cara bambi-
na. Ma ho sentito dire dal mio povero fratello che si vantava molto
la generosità di quel giovanotto... giovane e generoso, dev’essere
buono... Quindi se venisse a sapere da me che mio marito era amico
intimo di suo padre, forse potrebbe interessarsi di noi cercandoci
un lavoro o un impiego... conosce un tal numero di personaggi in
vista che gli sarà facile...»
«E poi, si potrebbe forse sapere da lui se il signor di SaintRemy,
suo padre, è partito da Angers prima che gli arrivasse la tua
lettera.»
«Ma, bambina mia, credo che il signor di Saint-Remy abbia rotto i
ponti. Però si può sempre tentare...»
«A meno che il signor d’Orbigny non ci risponda favorevolmente... e
te lo ripeto, non so perché, ma, mio malgrado, ho ancora qualche
speranza.»
«Ma, figlia cara, sono già passati tanti giorni da quando gli ho
scritto esponendogli la causa dei nostri guai, e niente... ancora
niente... Una lettera imbucata prima delle quattro del pomeriggio
arriva ad Aubiers la mattina dopo... Da cinque giorni avremmo dovuto
avere la sua risposta.»
«Forse prima di mettersi a scrivere e darci una risposta, vuole
trovare il modo di esserci utile.»
«Che Dio ti ascolti, bambina mia!»
«Mi sembra molto semplice, mamma... Se non avesse potuto far niente
per noi, te l’avrebbe detto subito.»
«A meno che non voglia far niente...»
«Ah, mamma... possibile? non degnarsi di rispondere e lasciarci
sperare quattro giorni, otto giorni forse... perché quando si è
infelici si spera sempre...»
«Ahimè, bambina mia, a volte si è così indifferenti ai mali che non
si conoscono!»
«Ma la tua lettera...»
«La mia lettera non può dargli un’idea delle nostre inquietudini,
delle nostre quotidiane sofferenze; può dipingergli l’infelicità
della nostra vita, tutti i tipi di umiliazioni subite, la nostra
esistenza in questa orribile casa, lo spavento che abbiamo provato
anche poco fa?... può descrivergli infine il terribile avvenire che
ci attende, se...? Ma, su... bambina mia, non parliamo di ciò... Dio
mio... tu tremi... hai freddo...»
«No, mamma... non badarci; ma, dimmi, supponiamo che ci manchi
tutto, che quel poco denaro restatoci lì in quel baule, venga
speso... è possibile che in una città ricca come Parigi... dobbiamo
morire tutte e due di fame, di miseria... per mancanza di lavoro e
perché uno sciagurato ti ha preso tutto quello che avevi?...»
«Taci, povera figlia mia...»
«Ma, insomma, mamma, è possibile?...»
«Ahimè...»
«Ma, Dio che sa tutto, che può tutto, come può abbandonarci
quando non l’abbiamo mai offeso?»
«Ti supplico, bambina mia, non avere idee così tristi... preferi-
sco vederti sperare, senza tante ragioni forse... Su, consolami
invece con le tue care illusioni; io mi lascio abbattere anche
troppo... lo sai bene...»
«Sì, sì! Speriamo... è meglio. Il nipote del portinaio ritornerà di
sicuro dalla posta con una lettera... ancora una commissione da
pagare col nostro piccolo tesoro... e per colpa mia... Se ieri e
oggi non fossi stata male, saremmo andate noi alla posta, come
l’altro ieri... ma tu non ci sei voluta andare per non lasciarmi
sola.»
«E potevo farlo... figliola cara? Immagina... poco fa... lo
sciagurato che ha sfondato la porta, se tu fossi stata qui sola!»
«Oh, mamma, sta’ zitta... mi viene paura al solo pensarci...» In
quel momento bussarono violentemente alla porta. «Cielo!... sarà
lui!» gridò la signora di Fermont ancora sotto
l’impressione di prima. E spinse con tutte le sue forze il tavolo
contro la porta.
Ma i suoi timori svanirono quando udì la voce di papà Micou.
«Signora, è tornato mio nipote dalla posta... C’è una lettera
diretta a X e Z... viene da lontano... Ci sono otto soldi di porto e
la commissione... in tutto 20 soldi.»
«Mamma... una lettera dalla provincia, siamo salve... sarà il signor
di Saint-Remy o il signor d’Orbigny! Povera mamma, non avrai più da
soffrire, non ti preoccuperai più per me, sarai felice... Dio è
giusto... Dio è buono!...» gridò la fanciulla; e un raggio di
speranza le illuminò il dolce volto incantevole.
«Oh, signore, grazie... date qui... date qui presto!» disse la
signora di Fermont spostando in fretta il tavolo e socchiudendo la
porta.
«20 soldi, signora» disse il ricettatore mostrando la lettera tanto
desiderata.
«Vi pago subito, signore.»
«Ah, ma signora... non c’è fretta... Salgo in soffitta; tra dieci
minuti quando scenderò passerò a prendermi i soldi.»
Il rivenditore consegnò la lettera alla signora di Fermont e sparì.
«La lettera viene dalla Normandia... C’è il timbro di Aubiers... è
del signor d’Orbigny!» esclamò la signora di Fermont esaminando
l’indirizzo: «Alla signora X. Z., fermo posta Parigi».2
«Ebbene, mamma, non avevo ragione?... Dio mio come mi batte il
cuore!...»
«E pensare che la nostra buona o cattiva sorte è qui dentro...»
disse la signora di Fermont con voce alterata mostrando la lettera.
Due volte avvicinò la mano tremante al sigillo per romperlo. Ma non
ne ebbe il coraggio.
Si potrà mai riuscire a descrivere la terribile angoscia da cui
sono presi coloro per i quali, come per la signora di Fermont, una
lettera vuol dire speranza o disperazione?
L’ardente e febbrile emozione del giocatore che rischia le ultime
monete puntando su una carta e che, ansante e con occhi di fuoco,
aspetta il colpo che deciderà della sua rovina o della sua salvezza;
eppure neanche una emozione tanto forte basterebbe a darci un’idea
dell’angoscia che abbiamo detto.
Basta un secondo perché l’animo voli in alto fino alla più radiosa
speranza, o ricada giù in un mortale abbattimento. A seconda che
creda di essere aiutato o respinto, lo sventurato passa
alternativamente attraverso le più violente e contrastanti
sensazioni: indicibili slanci di gioia e riconoscenza verso il cuore
generoso che si è impietosito del suo misero stato; amarezza e
doloroso risentimento contro l’indifferenza di un egoista.
Quando si tratta di sventure meritorie coloro che sono soliti dare
darebbero forse sempre... e coloro che non danno, forse
2 La signora di Fermont, avendo scritto dalla sua ultima abitazione
e non sapendo allora dove sarebbe andata ad alloggiare, aveva
pregato il signor d’Orbigny di scriverle fermo posta; ma, non avendo
passaporto per ritirare la lettera alla posta, aveva messo due
iniziali in quanto per avere la lettera bastava dire le iniziali che
c’erano scritte sopra.
darebbero spesso, se sapessero o se vedessero le cose ineffabili e
terribili che possono suscitare nel cuore di coloro che implorano la
speranza di un benevolo appoggio o la paura di uno sprezzante
rifiuto... la loro volontà insomma.
«Che debolezza!» disse la signora di Fermont con un triste sorriso,
mentre si sedeva sul letto della figlia. «Ti torno a dire, Claire,
che qui dentro c’è la nostra sorte...» E mostrava la lettera. «Ardo
dall’impazienza di conoscerla e non oso... Se è un rifiuto, saremo
sempre a tempo...»
«E se è una promessa d’aiuto, mamma?... Se in questa letterina
troveremo buone parole di conforto e la promessa di un modesto
impiego in casa del signor d’Orbigny per cui noi saremo tranquille
sul nostro futuro, ogni istante perduto non sarà un istante di
felicità perduto?»
«Sì, bambina mia; ma se invece...»
«No, mamma, ti sbagli, ne sono sicura. Quando ti dicevo che il
signor d’Orbigny aveva tardato a risponderti solo per poterti dare
qualche notizia favorevole... Permettimi di vedere la lettera,
mamma; sono sicura di indovinare dalla calligrafia se la notizia è
buona o cattiva... Ecco, adesso ne sono certa» disse Claire
prendendo la lettera; «basta vedere com’è bella, semplice, dritta,
unita questa scrittura, per intuirvi dietro una mano leale e
generosa, abituata ad aiutare quelli che soffrono...»
«Claire, ti supplico, niente folli speranze, altrimenti avrò ancora
meno coraggio di aprire la lettera.»
«Dio mio, buona mamma, io, senza aprirla, posso dirti pressappoco
che cosa c’è scritto; ascoltami: Signora, la vostra sorte e quella
di vostra figlia sono così degne di aiuto che vi prego di venire da
me, qualora voleste incaricarvi della sorveglianza della mia
casa...»
«Di grazia, bambina mia, ti supplico ancora... niente folli
speranze... il risveglio sarebbe terribile... Su, coraggio» disse la
signora di Fermont, prendendo la lettera dalle mani della figlia e
accingendosi a rompere il sigillo.
«Coraggio? per te, sì» disse Claire con un sorriso, presa da uno di
quegli impulsi di fiducia così naturali in una ragazza della sua
età: «io non ne ho bisogno; sono sicura di quello che dico. Senti,
vuoi che apra io la lettera? che la legga?... Da’ qui, paurosa...»
«Sì, preferisco, tieni... Ma no, no, è meglio che sia io.» E la
signora di Fermont ruppe il sigillo mentre il cuore le si stringeva.
La figlia, anch’essa molto emozionata, respirava a fatica,
nonostante l’apparente fiducia.
«Leggi forte, mamma» disse.
«La lettera non è lunga, è della contessa d’Orbigny» disse la
signora di Fermont, dopo aver dato un’occhiata alla firma.
«Meglio così, è buon segno... Visto, mamma, che la buona signora ha
voluto risponderti lei stessa.»
«Vedremo.»
E la signora di Fermont lesse con voce tremante quanto segue:
Signora,
Il signor conte d’Orbigny, molto ammalato da qualche tempo, non ha
potuto rispondervi durante la mia assenza...
«Visto, mamma, che non è stata colpa sua?» «Stai a sentire!»
Arrivata questa mattina da Parigi, mi affretto a scrivervi, dopo
avere parlato della vostra lettera col signor d’Orbigny. Egli
ricorda molto vagamente i rapporti che dite essere esistiti fra lui
e vostro fratello. Quanto al nome di vostro marito, esso non è
sconosciuto al signor d’Orbigny, ma egli non riesce a ricordarsi in
che circostanza l’abbia sentito pronunciare. La cosiddetta truffa di
cui avete accusato con tanta leggerezza il signor Jacques Ferrand,
che abbiamo la fortuna di avere come notaio, è, per il signor
d’Orbigny, un’infame calunnia di cui non avete certo calcolato tutto
il peso. Signora, mio marito, come me, conosce e ammira la chiara
probità dell’uomo rispettabile e devoto che voi avete attaccato così
ciecamente. Con questo voglio dirvi, signora, che il signor
d’Orbigny, pur tenendo conto della triste situazione in cui vi
trovate, e di cui non sta a lui ricercare la vera causa, si vede
nell’impossibilità di aiutarvi.
Vogliate gradire, signora, con l’epressione del più vivo
rincrescimento da parte del signor d’Orbigny, i miei più distinti
saluti.
Contessa d’Orbigny.
La madre e la figlia si guardarono in faccia con stupita mestizia
senza avere la forza di articolare parola.
Papà Micou bussò alla porta e disse:
«Signora, sono qui per il porto e la commissione. Sono 20 soldi.»
«Ah giusto; una così buona notizia merita che spendiamo i sol-
di di due giorni di vitto» disse la signora di Fermont con amaro
sorriso; e, lasciata la lettera sul letto della figlia, andò verso
un vecchio baule senza serratura, si chinò e l’aprì.
«Ci hanno derubate!» gridò la disgraziata donna atterrita; «niente,
più niente» ella aggiunse con voce atona.
E si lasciò cadere sopra il baule.
«Che dite, mamma?... la borsa col denaro...»
Ma la signora di Fermont si alzò di scatto, uscì dalla camera e,
rivolgendosi al rivenditore che era sul pianerottolo:
«Signore» gli disse con gli occhi lucidi e le guance arrossate
dall’indignazione e dallo spavento, «avevo una borsa con del denaro
in quel baule... devono avermela rubata ieri l’altro che sono
rimasta fuori un’ora con mia figlia... Bisogna che quel denaro ven-
ga fuori, capite, voi ne siete responsabile».
«Vi hanno derubata! non è vero; nella mia casa c’è gente one-
sta;» disse con insolenza e brutalità il rivenditore; «dite così per
non pagarmi il porto della lettera e la commissione.»
«Vi dico, signore, che quel denaro era tutto quanto io possedevo, e
me l’hanno rubato; si deve trovare, se no sporgerò denunzia. Oh, non
avrò riguardi per nessuno, non rispetterò niente... vi avverto.»
«Bella roba, proprio voi che non avete nessun documento... andate
pure a fare la vostra denuncia! andateci... subito... vi sfido!»
La povera donna era distrutta.
Non poteva uscire e lasciare la figlia sola, a letto, dopo lo
spavento che la mattina le aveva fatto prendere lo zoppo, e
soprattutto dopo le minacce che le aveva fatto il rivenditore.
Questi continuò:
«Sono storie; voi non avete né borse piene d’argento né borse piene
di oro; non volete pagarmi il porto della lettera, vero? Bene, non
fa niente... quando passerete davanti alla mia porta vi strapperò di
dosso il vecchio scialle nero... è infeltrito ma vale sempre 20
soldi».
«Ah, signore» gridò la signora di Fermont scoppiando in lacrime, «di
grazia, abbiate pietà di noi... quella piccola somma era tutto
quanto io e mia figlia possedevamo; Dio mio, rubata questa, non ci è
rimasto più niente... niente, capite?... niente se non morire di
fame...»
«Che volete che ci faccia, io? Se è vero che vi hanno derubate... e
del denaro per giunta (il che mi sembra strano), ormai sarà bell’e
volato via, il denaro!»
«Dio mio, Dio mio!...»
«Il tipo che ha fatto il colpo non sarà stato certo tanto sciocco da
fare un segno sulle monete e tenersele qui in casa per farsi
pizzicare, se fosse qualcuno della casa, cosa che non credo; perché,
come dicevo anche questa mattina allo zio della signora del primo
piano, qui è un vero e proprio casale; se vi hanno derubate... è una
disgrazia. Anche se farete centomila denunce non ne caverete un
centesimo, non vi servirà a niente... ve lo dico io... credetemi...
Ma che avete?» gridò il rivenditore vedendo vacillare la signora di
Fermont, «che cosa avete?... state diventando pallida!...
guardate!... signorina, vostra madre sta male!...» aggiunse il
rivenditore che era arrivato giusto in tempo per sorreggere la
povera donna che, messa a dura prova da quest’ultima disgrazia,
s’era sentita mancare; quell’energia che, per necessità di cose,
aveva acquistato e che l’aveva sostenuta fino ad allora, non aveva
retto a quest’altra sventura.
«Mamma... Dio mio, che hai?» gridò Claire, sempre a letto.
Il ricettatore, ancora robusto, nonostante i suoi cinquant’anni,
preso da un fugace moto di pietà, accolse la signora di Fermont fra
le braccia, poi, aperta la porta col ginocchio ed entrato nella
stanza, disse:
«Scusate, signorina, se entro mentre voi siete a letto, ma bisogna
pure che io vi porti vostra madre... è svenuta... passerà presto».
Vedendo entrare quell’uomo, Claire gettò un grido di spaven-
to e si nascose meglio che poté sotto le coperte.
Il rivenditore mise a sedere la signora di Fermont sulla se-
dia vicino alla branda e se ne andò, lasciando la porta socchiusa,
avendone lo zoppo rotta la serratura.
Un’ora dopo, nella signora di Fermont si manifestavano i sintomi
della violenta malattia che da molto tempo covava in lei e la
minacciava.
In preda a una febbre fortissima, a un terribile delirio, la
sventurata donna giaceva smarrita e spaventata sul letto della
figlia che, sola e ammalata quasi come la madre, non aveva né denaro
né mezzi e temeva a ogni istante di vedere, entrare il furfante che
alloggiava sullo stesso piano.
VI
LA RUE DE CHAILLOT
Precederemo di alcune ore il signor Badinot che dal passage de la
Brasserie si stava recando in fretta dal visconte di Saint-Remy.
Quest’ultimo, come abbiamo già detto, abitava in rue de Chaillot, e
occupava da solo una graziosa casetta costruita fra un cortile e un
giardino, in un quartiere solitario, anche se molto vi-
cino agli Champs-Elysées, il luogo di passeggio più alla moda di
Parigi.
Inutile enumerare i vantaggi che il signor di Saint-Remy,
soprattutto per lui che era fortunato in amore, traeva dalla scelta
sapiente di quella posizione. Ci limitiamo a dire che una donna
poteva entrare rapidissimamente da lui, attraverso una porticina del
vasto giardino che dava su una stradina completamente deserta che
metteva in comunicazione rue Marbeuf e rue de Chaillot.
Infine per una felice combinazione, in quel vicolo poco frequentato,
c’era l’uscita non molto usata di uno dei più begli stabilimenti di
orticoltura di Parigi; così le misteriose visitatrici del signor di
Saint-Remy, in caso di sorpresa o di incontri improvvisi, avevano un
pretesto bucolico perfettamente plausibile per avventurarsi nel
vicolo fatale.
Esse stavano andando (così potevano dire) a scegliere fiori speciali
da un famoso giardiniere-fiorista rinomato per la bellezza delle sue
serre.
Le belle visitatrici avrebbero meritato solo in parte: il visconte,
largamente dotato delle qualità tipiche di un uomo di gran lusso,
aveva una bellissima serra che per un po’ fiancheggiava il vicolo in
questione; la porticina segreta dava su quel delizioso giardino
d’inverno in fondo al quale c’era un boudoir (ci venga perdonata
l’espressione sorpassata) situato al pianterreno della casa.
Si potrebbe dunque dire, fuori metafora, che la donna che varcava
quella soglia pericolosa per entrare dal signor di Saint-Remy
correva incontro alla propria rovina per un sentiero fiorito;
infatti, soprattutto d’inverno, il bel viale era fiancheggiato da
veri cespugli di magnifici fiori profumati.
La signora di Lucenay, gelosa come ogni donna innamorata, aveva
voluto avere una chiave di quella porticina.
Insistiamo un po’ sul carattere generale di questa singolare
abitazione, perché essa rifletteva, per così dire, una di quelle
esistenze disonorevoli che, fortunatamente, diventano sempre più
rare, ma che devono essere segnalate come una stranezza del nostro
tempo; intendiamo parlare dell’esistenza di certi uomini che sono
per le donne quello che le cortigiane sono per gli uomini;
mancandoci una espressione più appropriata, chiameremo questi
individui, se così si può dire, uomini-cortigiane.
L’interno della casa del signor di Saint-Remy offriva, sotto questo
punto di vista, un aspetto curioso, o meglio la casa era divisa in
due zone ben distinte:
Il pianterreno, dove riceveva le donne.
Il primo piano, dove riceveva i compagni di gioco, di tavola, di
caccia, insomma quelli che si chiamano amici...
Così al pianterreno c’era una stanza da letto tutta oro, specchi,
fiori, rasi e merletti, un salottino da musica dove si vedevano
un’arpa e un pianoforte (il signor di Saint-Remy era un ottimo
musicista), una stanza di quadri e oggetti curiosi, il boudoir che
comunicava con la serra; una sala da pranzo per due persone, con
mensa che veniva imbandita e sparecchiata tramite una ruota; un
bagno, modello perfetto di lusso e di raffinatezza orientali, e
vicino a questo una piccola biblioteca messa insieme seguendo il
catalogo di quella che La Mettrie aveva raccolto per il grande
Federico.
Inutile dire che a ornamento di tutte queste stanze, arredate con
gusto squisito, con una ricercatezza degna di Sardanapalo, c’erano
dei Watteau poco conosciuti, dei Boucher inediti, dei gruppi di
biscuit e di terracotta di Clodion e, su piedistalli di diaspro o di
breccia antica, alcune preziose copie dei più bei gruppi del Museo,
in marmo bianco. E d’estate aggiungete come sfondo le verdi
profondità di un giardino folto, solitario, pieno di fiori, popolato
di uccelli, irrigato da un ruscelletto d’acqua corrente che, prima
di spandersi tra le fresche aiuole, cade dall’alto di una nera rupe
campestre, brilla come una crespa di garza d’argento, e si scioglie
poi come un’onda di madreperla in una vasca d’acqua limpida dove i
bei cigni bianchi si trastullano dolcemente.
E quando veniva la notte tiepida e serena, quanta ombra, quanto
profumo e silenzio nei boschetti odorosi dove il folto fogliame
serviva da baldacchino ai rustici divani fatti di giunchi e di
stuoie indiane!
Durante l’inverno, al contrario, eccettuata la porta di cristallo
che dà sulla serra, tutto era ben chiuso: la seta trasparente delle
tendine, le guarnizioni di merletto delle portiere rendevano la luce
ancora più misteriosa; e sui mobili sembrava che mucchi di piante
esotiche scaturissero da grandi coppe sfavillanti d’oro e di smalto.
In un luogo così appartato, silenzioso, pieno di fiori odorosi, di
quadri voluttuosi, si respirava una specie di atmosfera amorosa,
inebriante, che immergeva l’anima e i sensi in un bruciante
languore...
Infine, a rendere onore a questo tempio che sembrava dedicato
all’antico dio dell’amore o alle nude divinità della Grecia, un uomo
giovane e bello, elegante e distinto, di volta in volta spiritoso e
tenero, romantico e libertino, beffardo e allegro fino alla
pazzia, in certi momenti pieno di fascino e di grazia, ottimo
musicista, dotato di una di quelle voci vibranti, appassionate che
le donne non possono sentire cantare senza provare una profonda
impressione quasi fisica, e infine un uomo soprattutto innamorato...
sempre innamorato... tale era il visconte.
Ad Atene egli sarebbe stato certamente ammirato, esaltato, deificato
al pari di Alcibiade; ai nostri giorni, nel tempo in cui viviamo, il
visconte non era altro che un ignobile falsario, un miserabile
truffatore.
Il primo piano della casa del signor di Saint-Remy aveva, invece,
una fisionomia tutta maschile.
Qui egli riceveva i suoi numerosi amici, tutti peraltro della
migliore società.
Qui niente di civettuolo, di effeminato: mobili semplici e severi;
come unico ornamento, armi e ritratti di cavalli da corsa che
avevano fatto guadagnare al visconte gran parte dei vasi d’oro e
d’argento sopra i mobili; la stanza da fumo e quella da gioco erano
vicine a una bella sala da pranzo, dove le otto persone invitate
(numero di commensali rigorosamente limitato quando si trattava di
un pranzo serio) avevano apprezzato più di una volta l’abilità del
cuoco e la bontà della cantina del visconte, prima di fare con lui
qualche nervosa partita di whist da 5 o 600 luigi o di agitare
rumorosamente i bussolotti di un creps infernale.
Descritti questi due aspetti contrastanti della casa del signor di
Saint-Remy, acconsenta il lettore a seguirci in piani più bassi, a
entrare nel cortile delle rimesse, a salire la scaletta che porta al
bell’appartamento di Edwards Patterson, sovrintendente alle scuderie
del signor di Saint-Remy.
L’illustre coachman aveva invitato a colazione il signor Boyer,
cameriere di fiducia del visconte. Una graziosissima cameriera
inglese aveva portato il tè in una teiera d’argento e poi si era
ritirata, lasciando soli i nostri due personaggi.
Edwards aveva circa quarant’anni; mai cocchiere più abile e più
grosso fece scricchiolare il sedile sotto rotondità più imponenti,
mai bianca parrucca incorniciò faccia più rubiconda e mai nessuno
tenne con maggior grazia nella mano sinistra le quadruplici redini
di un four-inhand; esperto conoscitore di cavalli come Tatarsail di
Londra, essendo stato in gioventù buon allenatore come il vecchio e
celebre Chiffney, il visconte aveva trovato in Edwards, cosa rara,
un ottimo cocchiere e un uomo abilissimo a dirigere l’allenamento
dei cavalli da corsa che aveva avuti per tener fede a delle
scommesse.
Quando non sfoggiava la sua sontuosa livrea scura, guarnita
d’argento sul cuscino blasonato del suo sedile, Edwards somigliava a
un onesto proprietario terriero inglese; proprio sotto questo
aspetto noi lo presenteremo al lettore, aggiungendo però che in quel
suo viso largo e colorito si poteva intuire l’implacabile e
diabolica astuzia di un mercante di cavalli.
Il signor Boyer, l’invitato, cameriere di fiducia del visconte, era
un uomo lungo e magro, con capelli grigi e lisci, fronte calva,
sguardo astuto, volto freddo, discreto e riservato; si esprimeva in
termini scelti, aveva un modo di fare educato, un’infarinatura
letteraria, idee politiche conservatrici, e poteva sostenere con
decoro la parte di primo violino in un quartetto di dilettanti; di
tanto in tanto prendeva, col fare più distinto di questo mondo, una
presa di tabacco da una tabacchiera d’oro guarnita di perle
preziose... poi con grande disinvoltura scuoteva col dorso della
mano, curata come quella del suo padrone, le pieghe della sua
camicia di fine tela d’Olanda.
«Sapete, caro Edwards» disse Boyer, «che la vostra cameriera Betty
cucina alla casalinga mica male?»
«È davvero una brava ragazza» disse Edwards, che parlava
perfettamente il francese; «la porterò con me nella mia casa, sempre
se deciderò di prenderla; a proposito, dato che siamo soli, parliamo
un poco d’affari, caro Boyer; voi ve ne intendete?»
«Sì, un poco» rispose modestamente Boyer fiutando una presa di
tabacco. «Vien naturale di imparare... trattando quelli degli
altri.»
«Ho da chiedervi una cosa molto importante; per questo vi ho pregato
di venire da me a prendere una tazza di tè.»
«Sono a vostra disposizione, caro Edwards.»
«Voi sapete che, oltre ai cavalli da corsa, avevo col signor
visconte un cottimo per il completo mantenimento della sua scuderia,
bestie e personale, cioè otto cavalli e cinque o sei fra mozzi e
staffieri a 24.000 franchi all’anno, compreso il mio salario.»
«Era un compenso ragionevole.»
«Per quattro anni, il signor visconte mi ha pagato puntualmente, ma
verso la metà dell’anno scorso, mi ha detto: “Edwards, vi devo circa
24.000 franchi. Qual è, secondo voi, il prezzo minimo per i miei
cavalli e le mie carrozze?”. “Signor visconte, gli otto cavalli non
possono essere venduti a meno di 3.000 franchi, l’uno sull’altro, e
sono ancora regalati (ed è vero, Boyer; perché la pariglia del
faeton è costata 500 ghinee) sarebbero dunque 24.000 franchi per i
cavalli. Quanto alle carrozze, ve ne sono quattro;
mettiamo 12.000 mila franchi e, con i 24.000 franchi dei cavalli,
fanno 36.000 franchi.” “Ebbene” ha continuato il signor visconte,
“comperatemi il tutto per questo prezzo a patto che per i 12.000
franchi che mi dovete, dopo che sarete rimborsato di quanto avete
anticipato, voi manteniate e lasciate a mia disposizione per sei
mesi cavalli, domestici e carrozze”».
«E voi, Edwards, avete naturalmente accettato? Era un affare d’oro.»
«Certo; tra quindici giorni il semestre è finito, e io entro in
possesso dei cavalli e delle carrozze.»
«Semplicissimo. L’atto è stato steso dal signor Badinot, l’uomo
d’affari del signor visconte. Che bisogno avete dei miei consigli?»
«Che cosa devo fare? vendere i cavalli e le carrozze a causa della
partenza del signor visconte, e si venderanno benissimo, perché egli
è considerato il più grande amatore che ci sia a Parigi, oppure
debbo mettermi a fare il negoziante di cavalli con la mia stalla già
pronta, il che non sarebbe un brutto inizio? Cosa
mi consigliate?»
«Vi consiglio di fare quello che farò io.»
«Come?»
«Mi trovo anch’io nella vostra stessa situazione.»
«Voi?»
«Il signor visconte detesta le spese minute; quando sono entra-
to qui avevo fra risparmi e capitale una sessantina di franchi, ho
fatto le spese della casa come voi quelle della scuderia, e ogni
anno il signor visconte mi ha pagato puntualmente, ma, pressappoco
alla stessa epoca che m’avete detto voi, mi sono trovato uno
scoperto di 20.000 franchi per me, e per i fornitori di 60.000
franchi; allora il signor visconte, per rimborsarmi, m’ha proposto,
come a voi, di vendermi il mobilio della casa, compresa l’argenteria
che è molto bella e compresi certi quadri di valore... per il tutto
è stato fatto il prezzo minimo di 140.000 franchi. C’erano 80.000
franchi da pagare, restavano 60.000 franchi che dovevo impiegare
fino a spenderli tutti per le spese della tavola, i salari della
servitù, ecc., e non per altro: questa era la condizione del
contratto.»
«E su quelle spese voi ci avete guadagnato ancora.»
«Per forza, perché mi ero accordato con i fornitori di pagarli solo
dopo la vendita» disse Boyer, fiutando una grossa presa di tabacco,
«di modo che alla fine di questo mese...»
«Il mobilio è vostro come i cavalli e le carrozze sono miei.»
«Evidentemente il signor visconte, con ciò, è riuscito a vivere
questi ultimi tempi come gli piace vivere... da gran signore, e que-
sto in barba ai creditori; perché, mobili, argenteria, cavalli,
carrozze, tutto era stato pagato in contanti alla sua maggiore età,
ed era diventato proprietà mia e vostra.»
«Così il signor visconte si sarà rovinato?...»
«In cinque anni...»
«E il signor visconte aveva ereditato?...»
«Un milioncino in contanti» disse con aria sprezzante Boyer,
prendendo un’altra presa di tabacco, «e aggiungete a quel milione
circa 200.000 franchi di debito, non c’è male... Volevo dunque
dirvi, mio caro Edwards, che avevo intenzione di affittare questa
casa magnificamente arredata com’è, biancheria, cristalli,
porcellane, argenteria, serra a inglesi; i vostri cari compatrioti
l’avrebbero pagata molto bene.»
«Certo, perché non lo fate?»
«Sì, ma le perdite! è rischioso; così mi sono deciso a vendere i
mobili. Il signor visconte è anche molto noto come intenditore di
mobili preziosi e di oggetti d’arte, ciò che uscirà da casa sua avrà
doppio valore: così penso di realizzare una bella somma. Fate come
me, Edwards, realizzate, realizzate e non rischiate i vostri
guadagni in speculazioni; voi, primo cocchiere del signor visconte
di Saint-Remy tutti faranno a gara per avervi; proprio ieri mi hanno
parlato di un giovanetto spregiudicato, cugino della duchessa di
Lucenay, il giovane duca di Montbrison, che è arrivato dall’Italia
col suo precettore e che vuole metter su casa. 250.000 lire di
rendita... È inoltre sulle soglie della vita. Vent’anni, tutte le
illusioni di un giovane fiducioso, tutta l’ebbrezza dello splendore,
prodigo come un principe... Conosco l’amministratore, e posso dirvi
in confidenza che mi ha già quasi accettato come primo cameriere: mi
protegge, quello sciocco!»
E il signor Boyer alzò le spalle, annusando una presa di tabacco.
«Sperate di soppiantarlo?»
«Diavolo! è un imbecille o un impertinente. Mi mette lì davanti come
se non avesse nulla da temere da me! Dopo due mesi al massimo, sarò
al suo posto.»
«250.000 lire di rendita in terreni?» continuò Edwards
soprappensiero, «e padrone giovane... buona casa davvero...»
«Vi dico che c’è da far bene. Parlerò di voi al mio protettore»
disse il signor Boyer ironicamente. «Entrateci, è un patrimonio che
ha buone radici e al quale ci si può attaccare per un bel po’. Non è
come quel disgraziato milione del signor visconte, una vera palla di
neve: raggio di sole parigino e basta. Io ho visto su-
bito che qui sarei stato uccello di passaggio: peccato, però, perché
questa casa ci faceva onore, e vi assicuro che fino all’ultimo
momento servirò il visconte con la stima e il rispetto che merita.»
«Caro Boyer, io vi ringrazio e accetto la vostra proposta: ma,
adesso che ci penso, se proponessi a quel giovane duca la scuderia
del signor visconte! è provvista di tutto, è conosciuta e ammirata
da tutta Parigi.»
«Giustissimo, potrebbe essere un affare d’oro.»
«Ma perché non proporgli anche voi una casa come questa in cui non
manca niente? che cosa potrebbe trovare di meglio?»
«Perbacco, Edwards, siete un uomo intelligente, non mi stupisco, ma
mi avete dato un’ottima idea; bisogna che ci rivolgiamo al signor
visconte; è un padrone così buono che non ci negherà di parlare al
duca; gli dirà che, dovendo partire per la legazione di Gerolstein,
alla quale è addetto, vuole disfarsi di ogni cosa. Vediamo, 160.000
franchi per tutto l’arredamento della casa, 20.000 franchi per
l’argenteria e i quadri, 50.000 franchi per le scuderie e le
carrozze, fanno 230.000 franchi; è un ottimo affare per un giovane
che vuole avere tutto; dovrebbe spendere tre volte tanto per mettere
insieme qualcosa di così elegante e raffinato come tutta questa
casa. Perché, Edwards, bisogna riconoscerlo, non c’è un altro come
il signor visconte per capire la vita.»
«E i cavalli!»
«E la buona tavola! Godefroi, il cuoco, esce da qui cento volte
migliore di quel che era quando è entrato; il signor visconte gli ha
dato consigli preziosi, e l’ha raffinato moltissimo.»
«E inoltre si dice che il signor visconte sia un magnifico
giocatore!»
«Eccome... quando vince grosse somme è più indifferente di quando
perde... Eppure non ho mai visto nessuno perdere più allegramente.»
«E le donne! Boyer, le donne!! Su questo dovete saperla lunga voi
che siete il solo a entrare negli appartamenti del pianterreno...»
«Ho i miei segreti come voi avete i vostri, caro mio.»
«I miei?»
«Quando il signor visconte vi mandava alle corse, non avevate
anche voi i vostri segreti? Io non voglio attaccare l’onestà dei
fantini dei vostri avversari... Ma insomma certe voci...»
«Zitto, caro Boyer; un gentiluomo non compromette la reputazione di
un fantino avversario che ha avuto la debolezza di ascoltarlo
come...»
«Come un galantuomo non compromette la reputazione di una donna che
sia stata generosa di sé con lui; perciò, mio caro Edwards,
teniamoci i nostri segreti o meglio i segreti del signor visconte.»
«Ma... adesso che farà?»
«Partirà per la Germania con una buona carrozza da viaggio e 7 o
8000 franchi che in un modo o nell’altro cercherà di racimolare. Oh,
non mi preoccupo per il signor visconte; è uno di quegli individui
che cadono sempre in piedi, come si dice...»
«Non ha nessuna eredità in vista?»
«Nessuna, perché suo padre ha un modestissimo patrimonio.» «Suo
padre?...»
«Certo...»
«Il padre del signor visconte non è morto?...»
«Che io sappia, cinque o sei mesi fa era vivo; il signor visconte
gli ha scritto per certe carte di famiglia...»
«Ma qui non viene mai?»
«Ha le sue buone ragioni: da circa quindici anni abita in pro-
vincia, ad Angers.»
«Ma il signor visconte non va a trovarlo?»
«Suo padre?»
«Sì.»
«Mai... mai; oh, non c’è pericolo!»
«Sono forse in rotta?»
«Ciò che sto per dirvi non è un segreto per nessuno, tant’è
vero che me l’ha detto l’ex uomo di fiducia del principe di
Noirmont.»
«Il padre della signora di Lucenay?» disse Edwards con uno sguardo
significativamente maligno di cui il signor Boyer, fedele alle sue
abitudini di riserbo e di discrezione, non sembrò capire il
significato; egli riprese dunque freddamente:
«La duchessa di Lucenay, infatti, è figlia del principe di Noirmont;
il padre del signor visconte era molto amico del principe; la
signora duchessa era allora giovanissima e il vecchio signor di
Saint-Remy, che le voleva molto bene, la trattava come se fosse sua
figlia. Questi particolari li ho saputi da Simon, l’uomo di fiducia
del principe; posso parlarvi senza scrupoli, perché l’avventura che
sto per raccontarvi è stata, tempo fa, la favola di tutta Parigi.
Nonostante i suoi sessant’anni, il padre del signor visconte è un
uomo con un carattere di ferro e un coraggio da leone e di un’onestà
che oserei dire favolosa; non possedeva quasi niente e aveva sposato
per amore la madre del signor visconte, donna mol-
to ricca, della quale era appunto il bel milioncino che noi abbiamo
avuto l’onore di veder squagliarsi».
E il signor Boyer fece un inchino. Edwards lo imitò.
«Il matrimonio fu felicissimo fino al momento in cui il padre del
signor visconte trovò, per caso, dicono, certe dannate lettere che
provavano chiaramente che, durante una sua assenza, tre o quattro
anni dopo il matrimonio, la moglie aveva avuto una debolezza di
cuore per un conte polacco.»
«Tutti così quei polacchi. Quando ero dal marchese di Senneval, la
signora marchesa... una donna indiavolata...»
Il signor Boyer interruppe il compagno.
«Mio caro Edwards, prima di parlare, dovreste conoscere le parentele
delle nostre grandi famiglie; altrimenti potreste correre il rischio
di pentirvene.»
«Perché?»
«La marchesa di Senneval è la sorella del duca di Montbrison, dove
desiderate entrare...»
«Ah, diavolo!»
«Immaginatevi che bella figura avreste fatto se foste andato a
parlare di lei in simili termini davanti a degli invidiosi o a degli
spioni: non sareste rimasto ventiquattro ore in quella casa.»
«Avete ragione, Boyer... cercherò di conoscere le parentele...»
«Dunque continuo... Il padre del signor visconte scoprì, dopo dodici
o quindici anni di matrimonio fino ad allora tranquillo, che aveva
da lagnarsi di un conte polacco. Per disgrazia o per fortuna il
signor visconte era nato nove mesi dopo che suo padre... o piuttosto
che il conte di Saint-Remy era ritornato da quel viaggio fatale, di
modo che non poteva essere certo, nonostante le molte probabilità,
che il signor visconte fosse il frutto dell’adulterio. Comunque, il
signor conte si separò subito dalla moglie, ma non volle toccare un
soldo del patrimonio che ella gli aveva portato in dote e si ritirò
in provincia con i circa 80.000 franchi che costituivano tutto il
suo capitale; ma sentite un po’ che razza di rancore serbava
quell’uomo diabolico. Sebbene egli fosse venuto a sapere
dell’oltraggio dopo quindici anni e sebbene dovesse esserci
prescrizione, il padre del signor visconte, accompagnato da un suo
parente, il signor di Fermont, si buttò all’inseguimento del polacco
seduttore e lo raggiunse a Venezia, dopo averlo cercato per diciotto
mesi in quasi tutte le città d’Europa.»
«Che ostinazione!...»
«Un rancore diabolico, vi dico, mio caro Edwards... A Venezia ci fu
un duello terribile in cui il polacco fu ucciso. Tutto si
era svolto lealmente: ma il padre del visconte mostrò, si dice, una
gioia così feroce nel vedere il polacco ferito a morte che il suo
parente, il signor di Fermont, fu costretto a portarlo via di forza
dal luogo del combattimento... volendo il conte, diceva, vedere il
nemico morire sotto i suoi occhi.»
«Che uomo! che uomo!»
«Il conte poi tornò a Parigi, andò dalla moglie, le disse che aveva
ucciso il polacco e se ne andò. Da allora non ha più rivisto né
moglie né figlio, e poi si è ritirato ad Angers; vive lì, a quel che
si dice, come un lupo mannaro, con ciò che gli resta dei suoi 80.000
franchi, diminuiti di molto, come potete immaginare, dopo i viaggi
fatti per rincorrere il polacco. Ad Angers non vede nessuno, tranne
la moglie e la figlia del suo parente, il signor di Fermont, che è
morto da alcuni anni. Del resto questa famiglia è molto disgraziata,
infatti dicono che il fratello della signora di Fermont si sia
suicidato parecchi mesi fa.»
«E la madre del signor visconte?»
«È molto tempo che l’ha perduta. Per questo il signor visconte, una
volta diventato maggiorenne, ha beneficiato del patrimonio della
madre... Vedete dunque, caro Edwards, che in fatto d’eredità, il
signor visconte non ha niente o quasi niente da aspettarsi dal
padre...»
«Che, del resto, deve detestarlo.»
«Non ha mai voluto vederlo, dopo la scoperta che ho detto, perché è
convinto che sia figlio del polacco.»
La conversazione dei due personaggi fu interrotta da un servitore
gigantesco, accuratamente incipriato, sebbene fossero solo le
undici.
«Signor Boyer, il signor visconte ha suonato due volte» disse il
gigante.
Boyer, visibilmente dispiaciuto di avere mancato al suo servizio, si
alzò precipitosamente e seguì il domestico come se non fosse stato
il proprietario della casa del padrone.
VII
IL CONTE DI SAINT-REMY
Erano passate circa due ore da quando Boyer aveva lasciato Edwards
per andare dal signor di Saint-Remy, che il padre di quest’ultimo
venne a bussare al portone della casa della rue de Chaillot.
Il conte di Saint-Remy era un uomo di statura alta, ancora agile e
robusto, nonostante l’età; aveva una carnagione di un colore quasi
ramato che contrastava stranamente con la fulgida bianchezza della
barba e dei capelli e un paio di folte sopracciglia, restate nere,
che adombravano due occhi penetranti, molto infossati nelle orbite.
Sebbene portasse, per una mania da misantropo, vestiti quasi
sporchi, in tutta la sua persona c’era un non so che di calmo, di
fiero che imponeva rispetto.
La porta della casa del figlio si aprì ed egli entrò.
Un portiere in magnifica livrea scura guarnita d’argento,
perfettamente incipriato e con le calze di seta, apparve sulla
soglia di una bella portineria che assomigliava all’antro fumoso di
Pipelet come il bugigattolo di una rammendatrice assomiglia alla
sontuosa bottega di una merciaia di grido.
«Il signor di Saint-Remy?» chiese secco il conte.
Il portiere, invece di rispondere, stette ad esaminare con
sprezzante meraviglia la barba bianca, il soprabito liso e il
vecchio cappello dello sconosciuto che teneva in mano un grosso
bastone.
«Il signor di Saint-Remy?» ripeté spazientito il conte, seccato
dell’impertinenza con cui lo guardava il portiere.
«Il signor visconte non c’è.»
Ciò detto, il collega del signor Pipelet tirò il cordone, e con
gesto molto significativo invitò lo sconosciuto ad andarsene.
«Aspetterò» disse il conte.
Ed entrò.
«Ehi, amico! non è il modo di entrare nelle case, questo!...» gridò
il portinaio correndo dietro al conte e prendendolo per un braccio.
«Come, villano!» rispose il vecchio con aria minacciosa alzan-
do il bastone, «osi toccarmi!...»
«Farò anche di più se non uscite subito da qui. Vi ho detto che
il signor visconte non c’è, perciò andatevene.»
In quel momento, Boyer, richiamato dal tono alto delle voci,
comparve sulla scalinata.
«Cos’è questo rumore?» chiese.
«Signor Boyer, quest’uomo vuol entrare a tutti i costi, sebbene
gli abbia detto che il signor visconte non c’è.»
«Finiamola!» riprese il conte, rivolgendosi a Boyer, che si era
avvicinato; «voglio vedere mio figlio. Se è uscito lo aspetterò».
Abbiamo già detto che Boyer era al corrente dell’esistenza e della
misantropia del padre del suo padrone; d’altra parte, da buon
fisionomista qual era, non ebbe dubbi di sorta sull’identità
del conte, a cui disse con rispettoso saluto:
«Se il signor conte vuol venire con me, sono ai suoi ordini...».
«Andate avanti» disse il signor di Saint-Remy, che seguì Boyer,
lasciando il portiere sbalordito.
Il conte, sempre preceduto dal domestico, giunse al primo piano,
quindi la sua guida, dopo avergli fatto attraversare lo studio di
Florestan di Saint-Remy (d’ora in poi chiameremo il visconte con il
nome di battesimo per distinguerlo dal padre), lo introdusse nel
salottino attiguo a quella stanza e situato proprio sopra il boudoir
del pianterreno.
«Il signor visconte è dovuto uscire questa mattina» disse Boyer; «se
il signor conte vuol avere la bontà di aspettarlo, non tarderà molto
a tornare.»
E il domestico se ne andò.
Restato solo, il conte si guardò attorno con una certa indifferenza;
ma a un tratto fece un brusco movimento: la faccia gli si alterò,
gli si imporporarono le guance, la collera gli contrasse i
lineamenti.
Aveva scorto il ritratto di sua moglie... della madre di Florestan
di Saint-Remy.
Incrociò le braccia sul petto, chinò il capo come per sfuggire a una
visione, e si mise a camminare a grandi passi.
“È strano!” si diceva; “quella donna è morta; ho ucciso il suo
amante e la mia ferita è aperta e mi fa male come il primo giorno...
la mia sete di vendetta non si è placata, con la mia ostinata
misantropia, mi sono isolato quasi totalmente dal mondo restando
solo col pensiero del mio oltraggio. Sì, perché con la morte del
complice di quella infame, ho vendicato il mio oltraggio, ma non
l’ho cancellato dal mio ricordo.
Oh, lo sento! ciò che rende inguaribile il mio odio è il pensiero
che per quindici anni sono stato ingannato, che per quindici anni ho
circondato di stima, di rispetto, una miserabile che mi aveva
indegnamente ingannato. E ho accanto suo figlio, il figlio della sua
colpa, come se fosse stato mio figlio;... mentre l’avversione che mi
ispira adesso questo Florestan è una prova anche troppo sicura che
egli è il figlio dell’adulterio!
Eppure non ho l’assoluta certezza della sua illegittimità; in fondo,
può darsi che sia mio figlio... questo dubbio a volte mi fa
inorridire...
E se fosse mio figlio! allora l’abbandono in cui l’ho lasciato,
l’avversione che gli ho sempre dimostrato, la mia ostinazione a non
volerlo mai vedere, sarebbero imperdonabili. Ma, dopo tutto, è
ricco, giovane, felice; a che cosa gli sarei servito?... Sì, ma il
suo affetto avrebbe forse mitigato il dolore che mi ha causato sua
madre!”
Dopo un momento di riflessione profonda il conte continuò alzando le
spalle:
“Di nuovo queste supposizioni insensate senza scopo... che
riacutizzano tutte le mie pene! Siamo uomini e cerchiamo di vincere
la sciocca e penosa impressione che ho nel pensare che ora rivedrò
colui che, per dieci anni, ho idolatrato, ho amato come se fosse mio
figlio, lui! lui! il figlio di quell’uomo che ho visto cadere sotto
la mia spada con tanta gioia, di quell’uomo di cui ho visto con
tanto piacere scorrere il sangue! mi hanno impedito di assistere
alla sua agonia... alla sua morte!... Oh non sapevo che cosa volesse
dire essere colpiti così crudelmente come lo sono stato io!... E
poi, pensare che il mio nome, sempre rispettato, onorato, sarà stato
pronunciato tanto spesso con insolenza e derisione... come si
pronuncia il nome di un marito tradito!... Pensare che il mio
nome... il mio nome di cui sono sempre stato così fiero, appartiene
adesso al figlio dell’uomo a cui avrei voluto strappare il cuore!...
Oh, non so come faccio a non impazzire quando ci penso!”.
E il signor di Saint-Remy riprese a camminare nervosamente; poi,
sollevato meccanicamente lo sportello che separava lo studio di
Florestan, ci entrò per fare qualche passo.
Era appena uscito quando una porticina nascosta dalla tappezzeria
s’aprì piano piano e la signora di Lucenay, avvolta in un gran
scialle di cachemire verde, con in testa un cappello di velluto nero
semplicissimo, entrò nel salotto da cui il conte era uscito per un
momento.
Ecco il motivo di questa improvvisa apparizione.
Il giorno prima Florestan di Saint-Remy aveva dato appuntamento alla
duchessa per quella mattina. Costei, possedendo, come abbiamo detto,
una chiave della porticina che dava sul vicolo, era, come al solito,
entrata dalla serra, convinta di trovare Florestan nell’appartamento
del pianterreno; ma non trovandolo, credette che (come succedeva
qualche volta) il visconte fosse occupato nel suo studio... Una
scala segreta conduceva dal boudoir al primo piano. La signora di
Lucenay era salita supponendo che il signor di Saint-Remy avesse
come sempre proibito di entrarvi.
Purtroppo una visita molto minacciosa da parte del signor Badinot
aveva costretto Florestan a uscire in fretta dimenticando
l’appuntamento dato alla signora di Lucenay.
Questa, non vedendo nessuno, stava per entrare nello studio, quando
le tende dello sportello si aprirono, e la duchessa si trovò faccia
a faccia col padre di Florestan.
Ella non poté trattenere un grido di spavento.
«Clotilde!» gridò il conte stupefatto.
Il signor di Saint-Remy, intimamente legato con il conte di
Noirmont, padre della signora di Lucenay, aveva conosciuto la
duchessa da bambina e da ragazza e in quei tempi egli soleva
chiamarla familiarmente col suo nome di battesimo.
La duchessa restò immobile a contemplare stupita quel vecchio dalla
barba bianca e mal vestito, di cui però ricordava confusamente i
lineamenti.
«Voi, Clotilde!» ripeté il conte con accento di doloroso rimprovero,
«voi... qui in casa di mio figlio!...»
Queste parole misero a fuoco i vaghi ricordi della signora di
Lucenay che riconobbe infine il padre di Florestan ed esclamò:
«Signor di Saint-Remy!».
La sua posizione era talmente chiara e inequivocabile che la
duchessa, di cui conosciamo del resto il carattere originale e
deciso, non tentò nemmeno di ricorrere a una bugia per spiegare il
motivo della sua presenza in casa di Florestan; contando
sull’affetto paterno che il conte aveva avuto una volta per lei, gli
tese la mano, e gli disse con quel tono grazioso, cordiale e nello
stesso tempo audace che le era particolare:
«Via... non mi sgridate... siete il mio più vecchio amico; ricordate
che vent’anni fa mi chiamavate la vostra cara Clotilde...».
«Sì... vi chiamavo così... ma...»
«So già ciò che mi direte, conoscete il mio motto: “Quel che è, è,
quel che sarà, sarà!...”»
«Ah, Clotilde!...»
«Risparmiatemi i vostri rimproveri, lasciate che vi dica la mia
gioia di rivedervi; voi mi ricordate tante cose: prima di tutto il
mio povero babbo... poi i miei quindici anni... Ah, quindici anni,
che bell’età!»
«Appunto perché vostro padre era mio amico...»
«Oh sì» riprese la duchessa interrompendo il signor di SaintRemy,
«vi voleva così bene! Vi ricordate, vi chiamava scherzando l’uomo
dai nastri verdi... Voi gli dicevate sempre: “Viziate Clotilde...
state attento”; ed egli vi rispondeva abbracciandomi: “Lo credo che
la vizio e bisogna che continui e che mi sbrighi, perché presto gli
altri me la porteranno via per viziarmela a loro volta”. Che tesoro
di padre! quale amico ho perduto!...» Una lacri-
ma brillò nei begli occhi della signora di Lucenay; poi, porgendo la
mano al signor di Saint-Remy, gli disse con voce commossa: «Davvero,
sono molto, molto contenta di rivedervi; mi fate tornare alla mente
ricordi così preziosi, così cari al mio cuore!...».
Il conte, sebbene conoscesse da molto tempo il carattere originale e
deciso di lei, era confuso dalla disinvoltura con cui Clotilde
accettava quella situazione così delicata: incontrare in casa
dell’amante il padre dell’amante!
«Se siete a Parigi da molto tempo» continuò la signora di Lucenay,
«avete fatto male a non essere venuto prima a trovarmi; avremmo
chiacchierato del passato... perché sapete che comincio a essere
nell’età in cui si ha un grandissimo piacere a dire ai vecchi amici:
“Vi ricordate?”.»
Certo la duchessa non avrebbe parlato con più disinvoltura se avesse
ricevuto una visita a palazzo Lucenay.
Il signor di Saint-Remy non poté fare a meno di dirle con severità:
«Invece di parlare del passato, sarebbe più opportuno parlare del
presente... da un momento all’altro può tornare mio figlio, e...».
«No» disse Clotilde interrompendolo, «ho io la chiave della
porticina della serra, e quando rientra dal portone il suo arrivo
viene sempre annunciato da una lunga scampanellata; a quel segnale
io scomparirò misteriosamente come sono venuta, e vi lascio alla
vostra gioia di rivedere Florestan. Che bella sorpresa sarà per
lui... lo avete abbandonato per tanto tempo... Ecco, sarei io anzi
che avrei da farvi dei rimproveri...»
«A me? a me?»
«Certo... Che guida, che appoggio ha avuto vostro figlio al suo
ingresso in società? e per mille valide ragioni, i consigli di un
padre sono indispensabili... Diciamocelo francamente, avete fatto
malissimo a...»
A questo punto la signora di Lucenay, cedendo alla bizzarria del suo
carattere, non poté fare a meno di interrompere il discorso con una
risata da matta, e di dire al conte:
«Dovete riconoscere che la circostanza è molto strana e che è una
cosa interessante che sia proprio io a fare prediche a voi».
«Infatti, è proprio strano, io però non merito né le vostre prediche
né le vostre lodi; vengo da mio figlio, ma non per lui... Alla sua
età non ha più bisogno dei miei consigli.»
«Che volete dire?»
«Voi dovete sapere per quali ragioni io odio la società e
specialmente Parigi» disse il conte con riluttanza e amarezza. «Ci
sono volute circostanze di estrema importanza per indurmi a lasciare
Angers e soprattutto a venire qui... in questa casa... Ma ho dovuto
vincere ogni mia ripugnanza per poter rivolgermi a tutti coloro che
erano in grado di aiutarmi, informarmi su alcune indagini di grande
importanza per me.»
«Oh, allora» disse la signora di Lucenay con la più affettuosa
premura, «vi prego, disponete pure di me, se posso esservi utile in
qualcosa. Avete bisogno di raccomandazioni? Il signor di Lucenay
deve essersi fatto un certo credito, perché nei giorni in cui io
vado a pranzo da mia zia di Montbrison invita a casa dei deputati: e
queste cose non si fanno senza una qualche ragione: da un tale
inconveniente si potrà trarre sicuramente qualche vantaggio... cioè
una certa influenza su persone che, a quanto si dice, in questo
momento ne hanno molta. Vi ripeto che se possiamo esservi utili,
siamo a vostra disposizione. C’è anche il mio giovane cugino, il
duchino di Montbrison, che è pari ed è in relazione con tutti i
giovani pari. Può forse fare qualcosa? In tal caso, ve lo offro.
Insomma disponete di me e dei miei, sapete che sono un’amica
premurosa e capace!»
«Lo so... e non rifiuto il vostro aiuto... sebbene, però...»
«Suvvia, mio caro Alceste, noi siamo gente di mondo, comportiamoci
dunque come tali; che siamo qui o altrove, poco importa, suppongo,
per la faccenda che vi sta a cuore e che ormai sta molto a cuore
anche a me, perché vi riguarda. Parliamo dunque di questo, e a
lungo... lo esigo...»
Dicendo ciò, la duchessa si avvicinò al caminetto, vi si appoggiò e
allungò sul focolare il più delizioso piedino di questo mondo che
per il momento era gelato.
Con molto tatto, la signora di Lucenay aveva colto l’occasione per
non parlare più del visconte e per affrontare col signor di
Saint-Remy un argomento a cui questi dava grandissima importanza...
Con la madre di Florestan, Clotilde si sarebbe comportata ben
diversamente; con quanta gioia e fierezza le avrebbe detto come le
era caro.
Nonostante il suo rigorismo e la sua durezza, il signor di SaintRemy
subì l’influenza della garbata e spavalda cordialità di quella donna
che aveva visto e amato da bambina, tanto che dimenticò quasi che
parlava all’amante del figlio.
D’altra parte come si può non venire contagiati dall’esempio, quando
l’eroe di una situazione estremamente imbarazzante mo-
stra di non sospettare o di non volere sospettare la difficoltà
della situazione in cui si trova?
«Voi forse ignorate, Clotilde» disse il conte «che da molto abito ad
Angers?»
«No, lo sapevo.»
«Nonostante la specie di isolamento che cercavo, avevo scelto quella
città perché vi abitava un mio parente, il signor di Fermont, che,
al tempo dell’orribile disgrazia che mi è capitata, si è comportato
con me come un fratello. Dopo avermi accompagnato per tutte le città
d’Europa dove speravo d’incontrare... un uomo che volevo uccidere,
mi aveva fatto da padrino in un duello...»
«Sì, un terribile duello; mio padre mi ha detto tutto una volta»
riprese tristemente la signora di Lucenay; «ma, per fortuna,
Florestan non sa niente di quel duello... né della causa che lo ha
provocato...»
«Ho voluto far sì che rispettasse la madre» rispose il conte,
reprimendo un sospiro... poi continuò:
«Dopo pochi anni, il signor di Fermont morì ad Angers, fra le mie
braccia, lasciando una figlia e una moglie, a cui, nonostante la mia
misantropia, dovevo per forza voler bene, perché non vi è niente
sulla terra di più puro di più nobile di queste due persone. Vivevo
solo in un sobborgo isolato della città; ma, quando le mie crisi di
cupa malinconia mi davano un po’ di tregua, andavo dalla signora di
Fermont per parlare con lei e con la figlia di colui che avevamo
perduto. Così come quando era vivo lui, ricorrevo, per ritemprarmi e
calmarmi, a quella sua cara amicizia in cui ormai avevo concentrato
tutti i miei affetti. Il fratello della signora di Fermont, che
abitava a Parigi, si prese cura di tutti gli affari della sorella al
momento della morte del marito e mise presso un notaio i 100.000
scudi circa che costituivano tutto il patrimonio della vedova. Di lì
a poco, un’altra terribile sventura colpì la signora di Fermont: suo
fratello, il signor di Renneville, si suicidò circa otto mesi fa. La
consolai meglio che potei. Calmato un po’ il suo dolore, essa partì
per Parigi per sistemare i suoi affari. Poco tempo dopo, venni a
sapere che per suo ordine si era venduto il modesto mobilio della
casa che aveva preso in affitto ad Angers, e che quella somma doveva
essere impiegata per pagare alcuni debiti lasciati lì da lei.
Preoccupato da questa faccenda, mi informai e seppi all’incirca che
la povera donna e sua figlia si trovavano nella miseria, vittime
senza dubbio di una bancarotta. Se, in simili circostanze, la
signora di Fermont poteva contare su qualcuno,
questi ero io... eppure non ricevetti da lei nessuna notizia.
Proprio perdendo la loro cara amicizia potei valutarne tutto il
pregio. Voi non potete immaginare le mie sofferenze, le mie
inquietudini dopo la partenza della signora di Fermont e della
figlia... Il marito di lei era un fratello per me... dovevo quindi
assolutamente trovarle, sapere perché nella loro disgrazia esse non
si erano rivolte a me, pur essendo io povero; partii per venire qui,
ma lasciai ad Angers una persona che, nel caso si fosse saputo
qualcosa di nuovo, avrebbe dovuto informarmene».
«Ebbene?»
«Anche ieri ho ricevuto una lettera di Angers... non si sa ancora
niente. Arrivato a Parigi, ho incominciato le mie ricerche... Prima
di tutto sono andato alla vecchia abitazione del fratello della
signora di Fermont. Lì mi hanno detto che ella abitava sulla riva
del canale Saint-Martin.»
«E quell’indirizzo?»
«Era stato il suo qualche tempo prima, ma non sapevano quello della
nuova abitazione. E, purtroppo, finora le mie ricerche sono
risultate inutili. Dopo mille vani tentativi, prima di disperare del
tutto, mi sono deciso a venire qui: forse la signora di Fermont che,
per un motivo inspiegabile non mi ha chiesto né aiuto né appoggi,
sarà ricorsa a mio figlio come al figlio del miglior amico di suo
marito. Certo quest’ultima è una speranza poco fondata... Non voglio
trascurare niente per ritrovare quella povera donna e sua figlia.»
Da qualche minuto la signora di Lucenay stava ascoltando il conte
con sempre maggiore attenzione; a un tratto ella disse:
«A dire il vero, sarebbe curioso che si trattasse delle stesse
persone... di cui si interessa la signora d’Harville».
«Che persone?» chiese il conte.
«La vedova di cui mi state parlando è giovane ancora, vero? ha un
viso molto nobile?»
«Certo! ma come sapete...»
«La figlia, bella come un angelo, avrà sì e no sedici anni?» «Sì...
sì...»
«E si chiama Claire?»
«Oh di grazia, ditemi dove sono.»
«Ahimè, non lo so...»
«Non lo sapete?»
«Ecco quanto è accaduto: una signora di mia conoscenza, la
marchesa d’Harville, è venuta da me a chiedermi se conoscevo una
vedova che ha una figlia di nome Claire e il cui fratello si sa-
rebbe suicidato; la signora d’Harville si rivolgeva a me perché
aveva visto queste parole: Scrivere alla signora di Lucenay, scritte
in una minuta di lettera che la sventurata donna aveva rivolto a non
si sa chi per chiedere aiuto.»
«Ella voleva scrivere a voi... e perché?»
«Non lo so... non la conosco, io.»
«Ma sì che vi conosceva!» esclamò il signor di Saint-Remy col-
pito da un’idea improvvisa. «Che dite?»
«Cento volte mi avrà sentito parlare di vostro padre, di voi e della
bontà e generosità del vostro cuore. Nella sua sventura avrà pensato
di ricorrere a voi.»
«Infatti, solo così si può spiegare.»
«E la signora d’Harville in che modo era venuta in possesso di
quella minuta di lettera?»
«Lo ignoro; tutto quello che so è che, senza sapere ancora dove si
fossero rifugiate la povera madre e la figlia, si dava già da fare
per rintracciarle.»
«Allora, Clotilde, conto su di voi perché mi presentiate alla
signora d’Harville: devo vederla oggi stesso.»
«Impossibile! Suo marito è rimasto vittima d’uno spaventoso
incidente; maneggiando un’arma che credeva scarica, si è ucciso.»
«Ah, è orribile!»
«La marchesa è partita immediatamente per andare a passare i primi
tempi del suo lutto presso il padre in Normandia.»
«Clotilde vi scongiuro, scrivetele subito, chiedetele le
informazioni che già ha; poiché si interessa di quelle sventurate,
ditele che non potrà trovare un compagno più attivo di me: il mio
solo desiderio è di ritrovare la vedova del mio amico e di dividere
con lei e la figlia il poco che ho. Sono la mia sola famiglia.»
«Sempre lo stesso, voi, sempre generoso e premuroso! Fidatevi pure
di me, oggi stesso scriverò alla signora d’Harville. Dove dovrò
indirizzare la risposta?»
«Ad Asnières, fermo posta.»
«Che stravaganza! Perché abitare là e non a Parigi?»
«Odio Parigi, a causa dei ricordi che suscita in me» disse il
signor di Saint-Remy con aria cupa; «il mio vecchio medico, il
dottor Griffon, con cui sono ancora in contatto epistolare, possiede
una casetta di campagna sulle rive della Senna vicino ad Asnierès;
siccome d’inverno lui non ci abita, l’ha offerta a me; è come
abitare in un sobborgo di Parigi; io potevo, dopo essermi
dedicato alle mie ricerche, trovare lì l’isolamento che volevo... E
ho accettato.»
«Vi scriverò dunque ad Asnières; posso comunque darvi fin d’ora
un’informazione che vi potrà servire e che devo alla signora
d’Harville... La rovina della signora di Fermont è stata causata
dalla furfanteria del notaio presso il quale era collocato tutto il
patrimonio della vostra parente... Il notaio ha negato il deposito.»
«Che miserabile!... E come si chiama?»
«Jacques Ferrand» disse la duchessa senza poter nascondere una certa
voglia di ridere.
«Siete curiosa, Clotilde! Tutto questo è molto serio e molto triste
e voi ridete!» disse il conte meravigliato e scontento.
Infatti, la signora di Lucenay, ricordando la dichiarazione amorosa
del notaio, non aveva potuto reprimere l’ilarità.
«Scusate, amico mio» ella riprese; «il fatto è che il notaio è un
tipo stravagante... e si raccontano su di lui molte storielle... Ma,
a parte gli scherzi, se la sua reputazione di galantuomo non è
meritata più di quel che non sia la sua fama di sant’uomo
(quest’ultima sono sicura che è indegnamente acquistata), è un gran
farabutto!»
«E abita?»
«In rue du Sentier.»
«Gli farò una visita... Ciò che mi avete detto coinciderebbe
con certi sospetti...»
«Che sospetti?»
«Da alcune informazioni avute sul fratello della mia povera
amica, sarei quasi tentato di credere che quel disgraziato, invece
di suicidarsi... sia stato vittima di un assassinio.»
«Santo Dio! e cosa ve lo farebbe supporre?»
«Parecchie ragioni che sarebbe troppo lungo dire; vi lascio... Non
dimenticate le offerte di aiuto fattemi in vostro nome e in nome del
signor di Lucenay...»
«Come! ve ne andate... senza vedere Florestan?»
«Il colloquio mi sarebbe troppo penoso, dovreste capirlo... Lo
affrontavo solo con la speranza di trovare qui qualche informazione
sulla signora di Fermont, dato che non volevo trascurare niente per
ritrovarla; e ora, addio...»
«Ah, siete implacabile!»
«Non lo sapete?...»
«So che vostro figlio non ha mai avuto più bisogno di adesso
dei vostri consigli...»
«Come? non è ricco, felice?...»
«Sì, ma non conoscete gli uomini. Prodigo ciecamente, perché ha
fiducia ed è generoso in tutto e per tutto e sempre e ovunque gran
signore, temo che approfittino della sua bontà. Se sapeste com’è
nobile il suo cuore! Non ho mai osato fargli la predica sulle sue
spese e sulle sue sregolatezze, prima di tutto perché sono pazza
almeno come lui, e poi... per altre ragioni; ma voi, invece,
potreste...»
La signora di Lucenay non terminò il discorso.
A un tratto si sentì la voce di Florestan di Saint-Remy. Egli entrò
precipitosamente nello studio vicino al salotto; ne chiuse con
impeto la porta e disse con voce alterata a uno che era con lui:
«Ma è impossibile!...».
«Vi ripeto» rispose la voce chiara ed acuta del signor Badinot «vi
ripeto che se no, prima di quattro ore sarete arrestato... Perché se
non ha subito il denaro, il nostro uomo va a presentare la querela
al tavolo del procuratore del re, e voi sapete cosa comporta una
simile FALSIFICAZIONE: la galera, mio povero visconte!...»
VIII
IL COLLOQUIO
È impossibile descrivere lo sguardo che si scambiarono la signora di
Lucenay e il padre di Florestan sentendo queste terribili parole:
per voi... c’è la galera! Il conte divenne livido; si appoggiò allo
schienale di una sedia, perché gli si piegavano le ginocchia.
Il suo nome stimato e rispettato... il suo nome disonorato da un
uomo che egli accusava di essere frutto di un adulterio!
Passato il primo momento di abbattimento, il volto adirato del
vecchio, il gesto minaccioso che fece andando verso lo studio
rivelarono una decisione così spaventosa, che la signora di Lucenay
gli prese la mano, lo fermò e gli disse sottovoce con accento di
profonda convinzione:
«È innocente... ve lo giuro!... Ascoltate in silenzio...».
Il conte si fermò. Voleva credere a ciò che gli aveva detto la
duchessa.
Questa infatti era persuasa della lealtà di Florestan.
Per ottenere nuovi sacrifici da quella donna così ciecamente
generosa, sacrifici che avevano potuto metterlo al sicuro da un
arresto e dai procedimenti penali di Jacques Ferrand, il visconte
aveva detto alla signora di Lucenay che, vittima di un miserabile da
cui aveva ricevuto in pagamento una cambiale falsa, rischia-
va di essere considerato complice del falsificatore, avendo messo
proprio lui in circolazione la cambiale.
La signora di Lucenay sapeva che il visconte era imprudente, prodigo
e disordinato; mai, mai l’avrebbe creduto capace, non dico di una
bassezza o di un’infamia, ma neppure della più leggera mancanza di
delicatezza.
Prestandogli per due volte somme considerevoli in circostanze molto
difficili, aveva voluto rendergli un servizio da amica, poiché il
visconte non accettava mai simili prestiti se non con l’espressa
condizione di sdebitarsene; perché egli diceva di essere creditore
di più del doppio di quel denaro.
Con il suo lusso apparente poteva farlo anche credere. D’altronde la
signora di Lucenay, cedendo all’impulso della sua istintiva bontà,
aveva pensato solo a essere utile a Florestan, e non di accertarsi
se egli poteva o no sdebitarsi con lei. Lui diceva di sì e lei ci
credeva: altrimenti perché avrebbe dovuto chiedere prestiti così
notevoli? Facendosi garante dell’onore di Florestan, supplicando il
conte di ascoltare la conversazione, la duchessa pensava che si
sarebbe trattato dell’abuso di fiducia di cui il visconte diceva di
essere stato vittima e che alla fine egli sarebbe risultato
innocente agli occhi del padre.
«Vi ripeto» riprese Florestan con voce alterata «che quel PetitJean
è un farabutto; mi aveva assicurato di non avere altre cambiali
oltre a quelle che ho ricevuto dalle sue mani ieri sera e tre giorni
fa... E questa, la credevo in circolazione, ma era pagabile solo fra
tre mesi a Londra presso Adams e C.»
«Sì, sì» rispose con tono mordace Badinot, «so, mio caro visconte,
che avete combinato abilmente la faccenda; le vostre falsificazioni
non dovevano essere scoperte che quando sareste stato ben lontano...
Volevate farla a uno più furbo di voi.»
«Eh, è proprio il momento questo di farmi un simile discorso,
disgraziato che non siete altro...» gridò Florestan furibondo; «non
siete stato voi a mettermi in relazione con quello che mi ha
negoziato le cambiali!»
«Suvvia, mio caro aristocratico» rispose freddamente Badinot,
«calma, calma!... Voi imitate perfettamente le firme commerciali;
benissimo, ma non è una buona ragione per trattare i vostri amici
con una familiarità che non mi piace. Se vi arrabbiate ancora... vi
lascio, e arrangiatevi come volete...»
«Credete che sia facile mantenersi calmi in una simile
situazione?... Se ciò che mi dite è vero, se quella querela sarà
presentata oggi al procuratore del re, io sono rovinato...»
«È quello che vi sto dicendo, a meno che... non vi rivolgiate di
nuovo alla vostra bella provvidenza dagli occhi azzurri...»
«Non posso.»
«Allora, rassegnatevi. Peccato, era l’ultima cambiale... e per
miseri 25.000 franchi... andare a Tolone a prendere l’aria del
Sud... è ridicolo, assurdo, stupido! come mai un furbone come voi
può lasciarsi ridurre così?»
«Dio mio, che fare? che fare?... niente di quello che è qui mi
appartiene più, non ho nemmeno 20 luigi.»
«E i vostri amici?»
«Eh, sono già indebitato con tutti quelli che potrebbero farmi dei
prestiti; credete che io sia stato tanto sciocco da aspettare fino a
oggi per rivolgermi a loro?»
«È vero; scusate... sentite, parliamo con calma, è il miglior modo
per arrivare a una soluzione ragionevole. Poco fa io volevo
spiegarvi che avevate incocciato in uno più furbo di voi. Ma voi non
mi avete ascoltato.»
«Su, parlate, se ciò può servire a qualcosa.»
«Ricapitoliamo: due mesi fa voi mi avete detto: “Ho 113.000 franchi
di cambiali a lunga scadenza su diverse case bancarie; caro Badinot,
trovatemi il modo di negoziarle...”.»
«Ebbene!... e poi»
«Aspettate... vi ho chiesto di vedere quei valori. Qualcosa mi
diceva che erano falsi, anche se imitati perfettamente. Non credevo
certo che aveste il bernoccolo della scrittura così sviluppato; ma,
occupandomi io del vostro patrimonio fin da quando non avevate più
un patrimonio, sapevo che eravate completamente rovinato. Avevo
fatto passare l’atto di appartenenza a Boyer e a Edwards dei vostri
cavalli, le vostre carrozze e i mobili del palazzo... per cui non mi
pareva di essere troppo indiscreto se mi stupivo di vedervi in
possesso di valori commerciali così notevoli, no?»
«Risparmiatemi il vostro stupore, e venite al fatto.»
«Eccomi... Ho abbastanza esperienza o paura... per non cercare di
immischiarmi direttamente in affari di questo genere; vi ho quindi
indirizzato a un terzo che, non meno chiaroveggente di me, aveva
sospettato il brutto tiro che volevate giocargli.»
«È impossibile: non mi avrebbe pagato gli effetti se li avesse
creduti falsi.»
«Quanto contante vi diede, per quei 113.000 franchi?» «25.000
franchi in contanti, e il resto in crediti da riscuotere...» «E che
cosa avete ricavato da quei crediti?»
«Niente, lo sapete; erano falsi... egli comunque rischiava sempre
25.000 franchi.»
«Quanto siete giovane, caro visconte! Dovendo ricevere da voi i miei
100 luigi di provvigione se si concludeva l’affare, mi ero ben
guardato dal dire a quella terza persona lo stato reale dei vostri
affari... Egli vi credeva ancora ricco, e soprattutto sapeva che
eravate adorato da una gran signora molto ricca che non vi avrebbe
mai lasciato nei pasticci; era quindi quasi sicuro di recuperare
almeno il suo denaro, per transazione; certo rischiava sì di
perdere, ma aveva anche la probabilità di guadagnare molto, e aveva
calcolato bene; infatti l’altro giorno gli avete già pagato 100.000
franchi belli e sonanti, per ritirare la cambiale falsa di 58.000
franchi, e ieri 30.000 per la seconda... per questa, è vero, si è
accontentato del rimborso effettivo. Come avete fatto poi a
procurarvi i 30.000 franchi di ieri? Che il diavolo mi porti, se lo
so!! perché per queste cose siete unico... Capite bene che in fin
dei conti se Petit-Jean vi farà pagare l’ultima cambiale di 25.000
franchi, avrà ricevuto da voi 155.000 franchi contro i 25.000 che vi
ha dato; ora, avevo ragione di dirvi che avevate scherzato con uno
più furbo di voi.»
«Ma perché mi ha detto che quest’ultima cambiale che presenta oggi
era negoziata?»
«Per non spaventarvi; vi aveva pur detto che, tranne quella di
58.000 franchi, le altre erano in circolazione; una volta pagata la
prima, ieri è venuta la seconda e oggi la terza.»
«Che mascalzone!»
«State dunque a sentire, ognuno per sé, ognuno da sé, come dice il
celebre giurista che è autore della massima e che ammiro molto. Ma
parliamo con calma: questo vi prova che Petit-Jean (e a dirla fra
noi, non mi stupirei che, nonostante la sua sacrosanta reputazione,
Jacques Ferrand facesse parte della speculazione), questo vi prova,
dico, che Petit-Jean, allettato dai vostri precedenti pagamenti,
specula su quest’ultima cambiale, come ha speculato sulle altre,
sicuro com’è che i vostri amici non vi lasceranno tradurre in corte
d’Assise. Tocca a voi vedere se queste amicizie sono state sfruttate
e munte fino al midollo o se resta ancora da spremere qualche goccia
d’oro; perché se fra tre ore non avete i 25.000 franchi, mio nobile
visconte, andate al fresco.»
«Quand’anche non me lo ripeteste continuamente...»
«A forza di sentirmi, forse vi deciderete a tentare di levare
un’ultima penna dall’ala della generosa duchessa...»
«Vi ripeto che non c’è da pensarci... Sarebbe una follia sperare che
in tre ore trovi altri 25.000 franchi, dopo i sacrifici che ha già
fatto.»
«Per fare piacere a voi, beato mortale, si tenta l’impossibile...»
«Eh, ha già tentato l’impossibile... chiedere in prestito 100.000
franchi a suo marito e ottenerli; ma sono miracoli che non succedono
due volte. Su, caro Badinot, finora non avete mai avuto da lagnarvi
di me... sono sempre stato generoso con voi, cercate di ottenere
qualche dilazione da quel furfante di Petit-Jean... Sapete che trovo
sempre il modo di ricompensare chi mi serve; una volta messa a
tacere questa faccenda, prendo un’altra direzione... sarete contento
di me.»
«Petit-Jean è inflessibile tanto quanto voi siete poco ragionevole.»
«Io!...»
«Cercate piuttosto d’interessare anche la vostra generosa amica alla
vostra triste storia... Che diavolo! ditele chiaro e tondo tutta la
verità; non più che siete stato vittima di un falsario, ma che il
falsario siete voi.»
«Non glielo confesserò mai: sarebbe un’inutile umiliazione.»
«Preferite allora che sappia la cosa domani dalla “Gazette des
Tribunaux”?»
«Ho tre ore davanti a me, posso fuggire.»
«E dove andrete, senza denaro? Pensate, invece, che se ritirerete
questa cambiale falsa, vi troverete in una situazione superba,
avrete solo debiti. Su, promettetemi di parlare ancora alla
duchessa. Siete così scaltro! saprete rendervi interessante
nonostante i vostri errori; nella peggiore delle ipotesi, vi stimerà
un po’ meno o non vi stimerà più, ma vi toglierà dai pasticci. Su,
promettetemi di andare a far visita alla vostra bella amica; io
corro da Petit-Jean; m’impegno io a ottenere una dilazione di una o
due ore.»
«Dannazione! bisogna bere il calice della vergogna fino all’ultima
goccia!»
«Su, buona fortuna; siate tenero, appassionato, irresistibile; io
vado da Petit-Jean, starò lì fino alle tre... dopo sarebbe troppo
tardi... l’ufficio del procuratore del re rimane aperto solo fino
alle quattro...»
E il signor Badinot uscì.
Quando la porta fu chiusa, si udì Florestan esclamare
disperatamente:
«Dio mio, Dio mio, Dio mio!».
Durante quel colloquio che rivelò al conte l’infamia del figlio, e
alla signora di Lucenay l’infamia dell’uomo che aveva amato
ciecamente, tutti e due erano rimasti immobili e col fiato sospeso
davanti alla terribile rivelazione. Sarebbe impossibile descrivere
l’eloquente silenzio della scena dolorosa che si svolse fra la
giovane donna e il conte quando non ci furono più dubbi sull’infamia
di Florestan. Stendendo il braccio in direzione della stanza dov’era
il figlio, il vecchio sorrise con amara ironia, gettando uno sguardo
schiacciante sulla signora di Lucenay, con cui sembrava volerle
dire:
«Ecco l’uomo per cui avete affrontato tanta vergogna e fatto tanti
sacrifici! ecco colui che mi rimproverate d’aver abbandonato!...».
La duchessa capì il rimprovero e per un istante abbassò il capo
sotto il peso della vergogna...
La lezione era stata terribile...
Poi, a poco a poco, all’ansia crudele che aveva contratto i
lineamenti della signora di Lucenay successe una specie di altera
indignazione. Gli ingiustificabili errori di quella donna erano
mitigati in parte dalla lealtà del suo amore, dal coraggio del suo
affetto, dalla grandezza della sua generosità, dalla schiettezza del
suo carattere e dalla sua inesorabile avversione per tutto ciò che
era basso e vile.
Ancora troppo giovane e bella e troppo ricercata per provare
l’umiliazione di essere stata sfruttata, questa donna altera e
risoluta, svanito improvvisamente in lei il prestigio dell’amore,
non aveva sentito né odio né collera; subito, senza transizioni, il
suo affetto, fino ad allora così vivo, fu stroncato dal disgusto
mortale e dal gelido disprezzo da cui fu presa; non fu più l’amante
indegnamente ingannata dal suo amante, ma una donna della miglior
società che, scoperto che un uomo della sua compagnia è truffatore e
falsario, lo scaccia da casa.
Ammettendo pure che ci fossero delle attenuanti all’ignominia di
Florestan, la signora di Lucenay non le avrebbe riconosciute;
secondo lei, l’uomo che per vizio, corruzione o debolezza
oltrepassava quei dati limiti dell’onore non poteva esistere; per
lei l’onore era una questione di vita e di morte.
La sola sensazione dolorosa che provò la duchessa fu provocata dal
terribile effetto che quella improvvisa rivelazione aveva prodotto
sul conte, suo vecchio amico.
Da qualche momento egli sembrava non vedere, non sentire niente;
aveva gli occhi fissi, la testa bassa, le braccia penzoloni e
il volto livido; di tanto in tanto un sospiro convulso gli sollevava
il petto.
In un uomo risoluto ed energico come lui, un tale abbattimento
incuteva maggior spavento di un trasporto di collera.
La signora di Lucenay lo guardava con inquietudine.
«Coraggio, amico mio» ella gli disse piano. «Per voi... per me...
per quell’uomo... so quel che mi resta da fare...»
Il vecchio la guardò fisso; poi, come se una violenta emozione lo
avesse strappato al suo torpore, rialzò la testa, tornò minaccioso
come prima e, dimenticando che il figlio poteva sentirlo, esclamò:
«E anch’io, per voi, per me, per quell’uomo, so quel che mi resta da
fare...».
«Chi è là?» chiese Florestan sorpreso.
La signora di Lucenay, per paura di vedersi col visconte, sparì
dalla porticina e scese la scala segreta.
Florestan, dopo aver chiesto di nuovo chi fosse, senza per altro
ricevere risposta, entrò nel salotto. Si trovò solo col conte.
Il vecchio era così miseramente vestito e la lunga barba poi lo
faceva sembrare tanto cambiato, che il figlio che non lo vedeva da
parecchi anni avanzò verso di lui con aria minacciosa, non avendolo
subito riconosciuto.
«Che fate qui?... Chi siete?»
«Sono il marito di quella donna!» riprese il conte indicando il
ritratto della signora di Saint-Remy.
«Padre!» esclamò Florestan indietreggiando atterrito; e riconobbe il
volto del conte, che aveva dimenticato.
Ritto, terribile, con lo sguardo carico d’ira, la fronte rossa per
la collera, i capelli bianchi gettati all’indietro, le braccia
incrociate sul petto, il conte sovrastava, schiacciava il figlio il
quale, da parte sua, teneva la testa abbassata e non osava alzare
gli occhi su di lui.
Tuttavia il signor di Saint-Remy, per un segreto motivo, riuscì con
un grande sforzo a mantenersi calmo e a dissimulare la sua terribile
collera.
«Padre!» mormorò Florestan con voce alterata, «eravate qui?...»
«Ero qui...»
«Avete sentito?...»
«Tutto.»
«Ah» esclamò dolorosamente il visconte nascondendosi il vol-
to tra le mani.
Ci fu un momento di silenzio.
Florestan sulle prime si stupì e si dolse dell’improvvisa
apparizione del padre, ma poi pensò subito, da quell’uomo di molte
risorse qual era, al partito che poteva trarre da quell’incidente.
“Non tutto è perduto” disse fra sé. “La presenza di mio padre è un
colpo di fortuna. Egli sa tutto, non ammetterà che il suo nome venga
disonorato; non è ricco, ma più di 25.000 franchi li avrà
senz’altro. Facciamo un gioco prudente... astuzia, slancio,
emozione... lascio in pace la duchessa e sono salvo!”
Poi, atteggiato il bel volto a un’espressione di penosa
costernazione, spremuta dagli occhi qualche lacrima di pentimento e
preso un tono di voce vibrante e patetico, esclamò, congiungendo le
mani con gesto disperato:
«Ah, padre mio... quanto sono disgraziato!... Rivedervi dopo tanti
anni in un momento simile... Chissà come vi sembrerò colpevole! Ma
degnatevi di ascoltarmi, ve ne supplico; permettete non che mi
giustifichi, ma che vi spieghi la mia condotta... Lo permettete,
padre mio?»
Il signor di Saint-Remy non rispose e non fece una grinza in volto;
sedutosi poi su una poltrona, posò i gomiti sui braccioli, il mento
sul palmo della mano, e stette a contemplare il visconte in
silenzio.
Se Florestan avesse saputo per quali motivi il padre concepisse
contro di lui tanto odio, furore e sete di vendetta, sarebbe rimasto
sbigottito dalla calma apparente del conte e non avrebbe certo
cercato di ingannarlo come si sarebbe potuto fare con un qualsiasi
Geronte.
Ma non sapendo niente dei funesti sospetti che pesavano sulla
legittimità della sua nascita e ignorando la colpa della madre,
Florestan non ebbe alcun dubbio sull’esito positivo del suo inganno,
tanto più che pensava di non dover fare altro che intenerire un
padre, che, misantropo e a un tempo molto fiero del suo nome,
sarebbe stato capace, piuttosto che di lasciarlo disonorare, di
giungere ai più grandi sacrifici.
«Padre mio» riprese timidamente Florestan, «mi permettete di
cercare, non di discolparmi, ma di dirvi in seguito a quali
involontari errori... sono arrivato, quasi mio malgrado, fino ad
azioni... infami... lo confesso...»
Il visconte, avendo interpretato il silenzio del vecchio come un
tacito consenso, continuò:
«Quando ebbi la disgrazia di perdere mia madre... la mia povera
madre che mi aveva tanto amato... non avevo ancora vent’an-
ni... Mi trovai solo... senza aiuti... Padrone di un notevole
patrimonio... abituato al lusso fin dalla mia infanzia... me ne sono
fatto un’abitudine... un bisogno. Non sapendo quanto fosse difficile
guadagnare il denaro, lo spendevo senza misura... Purtroppo... e
dico purtroppo, perché questa è stata la mia rovina, le mie spese,
anche se pazzesche, avevano attirato l’attenzione di tutti per il
modo elegante con cui venivano fatte... Col mio buon gusto superai
persone dieci volte più ricche di me. Questo primo successo mi
inebriò, divenni uomo di lusso come si diventa uomo di guerra, uomo
di stato; sì, ho amato il lusso, non per volgare ostinazione, ma
l’ho amato come un pittore ama la pittura, come il poeta ama la
poesia; e, come ogni artista, ero geloso della mia opera... e la mia
opera era il lusso. Ho sacrificato tutto alla sua perfezione... L’ho
voluto bello, grande, completo, splendidamente armonioso in ogni
cosa... dalla mia scuderia alla mia mensa, dai miei vestiti alla mia
casa... Volevo che la mia vita fosse una lezione di eleganza e di
buon gusto. Come un artista, infine, ero avido degli applausi della
folla e dell’ammirazione delle persone distinte: un successo così
straordinario io ho ottenuto...».
Mentre andava così parlando, Florestan aveva a poco a poco perso la
sua espressione ipocrita; i suoi occhi brillavano ora di una specie
di entusiasmo. Stava dicendo la verità; all’inizio era stato sedotto
da questa maniera poco comune di concepire il lusso.
Il visconte interrogò con lo sguardo la fisionomia del padre; gli
parve un po’ addolcita.
Riprese quindi con crescente esaltazione:
«Oracolo e regolatore della moda, con lodi e biasimo dettavo legge;
ero citato, copiato, vantato, ammirato, e dalla migliore società di
Parigi, cioè dall’Europa, dal mondo... Le donne non furono escluse
dall’esaltazione generale; le più belle si contendevano il piacere
di prendere parte ad alcune feste molto intime che io davo, e
dappertutto e sempre si restava incantati dall’eleganza
incomparabile, dal gusto squisito di quelle feste... che i milionari
non potevano né superare né eguagliare; insomma sono stato quel che
si dice il re della moda... Questa parola vi dice tutto, padre mio,
se riuscite a capirla».
«La capisco... e sono sicuro che in galera inventereste qualche
elegante e raffinata maniera di portare la catena... se ne
introdurrebbe la moda tra i forzati e si chiamerebbe... alla
Saint-Remy» disse il vecchio con sferzante ironia... Poi soggiunse:
«E SaintRemy... è il mio nome!...».
E tacque, continuando a restare con i gomiti sui braccioli della
poltrona e il mento sul palmo della mano. Florestan dovette compiere
un grande sforzo su se stesso per non lasciare vedere quanto quel
sarcasmo l’avesse ferito.
Egli riprese con voce più umile:
«Ahimè, padre mio, non per orgoglio rievoco il ricordo di quei
successi... perché, vi ripeto, è stato questo successo a
rovinarmi... Ricercato, invidiato, lusingato, adulato, non da
parassiti interessati, ma da persone la cui posizione era di gran
lunga superiore alla mia, e sui quali avevo il solo vantaggio
dell’eleganza... che rappresenta per il lusso ciò che il gusto
rappresenta per le arti... ho perso la testa. Non ho più fatto
calcoli: pochi anni sarebbero bastati a farmi dissipare il
patrimonio, non mi importava niente. Potevo io rinunciare a quella
vita febbrile, smagliante, nella quale ai piaceri succedevano i
piaceri, agli spassi gli spassi, alle feste le feste, alle ebbrezze
di ogni genere gli incontri di ogni genere?... Oh, se sapeste, padre
mio, che cosa vuol dire essere additato dappertutto come l’eroe del
giorno... sentire il mormorio che accoglie il vostro ingresso in una
sala... sentire le donne dirsi tra loro: È lui!... eccolo!... Oh, se
sapeste...».
«So» disse il vecchio interrompendo il figlio e senza cambiare
posizione, «so... Sì, l’altro giorno, su una piazza pubblica c’era
una folla; a un tratto si udì un mormorio... simile a quello che vi
accoglie quando entrate in qualche posto, poi gli sguardi,
specialmente quelli delle donne si fissarono su un bellissimo
giovane... come si fissano su di voi... e se lo indicavano l’una
all’altra dicendo: È lui... eccolo... proprio come se si fosse
trattato di voi...»
«Ma quell’uomo, padre mio?»
«Era un falsario, che veniva messo alla berlina.»
«Ah!» esclamò Florestan con tutta la rabbia che aveva in cor-
po; poi, fingendo un profondo dolore, aggiunse: «Padre mio, siete
spietato... cosa volete che vi dica? Non cerco di negare le mie
colpe... Solo voglio spiegarvi la fatale aberrazione che mi ci
trascinò. Ebbene! sì, anche se doveste coprirmi di terribili
sarcasmi, cercherò di andare fino in fondo a questa confessione, di
farvi comprendere l’esaltazione febbrile che mi ha travolto, perché
solo così forse mi potrete compatire... sì, perché si compatisce un
pazzo... e io ero pazzo... A occhi chiusi, mi abbandonavo al
luccichio vorticoso in cui trascinavo con me le donne più
affascinanti e gli uomini più piacenti. Potevo forse trattenermi? è
come dire al poeta che si consuma, e a cui il genio rovina la
salute: Fermatevi nel pieno dell’afflato che vi travolge!... No, non
lo potevo, io!... io!...
abdicare al potere sovrano che esercitavo e ritornare vergognoso,
rovinato, deriso tra la folla anonima; dare la soddisfazione di un
simile trionfo agli invidiosi che, fino ad allora, avevo sfidato,
dominato e schiacciato!... No, no, non lo potevo!... almeno
volontariamente. Venne il giorno fatale, in cui per la prima volta
mi mancò il denaro. Ne fui meravigliato, come se quel giorno non
avesse mai dovuto arrivare. Avevo però sempre i cavalli, le carrozze
e i mobili di questa casa... Pagati i debiti, mi sarebbero rimasti
sì e no 60.000 franchi... Cosa potevo fare con una somma così
misera? Allora, padre mio, feci il primo passo su una via infame...
fino ad allora ero stato onesto... avevo speso solo ciò che era mio;
ma da quel momento cominciai a fare debiti che non avrei potuto
pagare... vendetti tutto quanto possedevo a due miei domestici per
potermi sdebitare con loro e potere, per altri sei mesi, nonostante
i miei creditori, godere di quel lusso che mi ubriacava... Per
soddisfare alle esigenze di gioco e delle mie spese pazzesche,
ricorsi agli usurai; poi, per pagare questi, ai miei amici, e, per
pagare i miei amici, alle mie amanti. Esaurite queste risorse, vi fu
una battuta d’arresto nella mia vita... Da galantuomo ero diventato
truffatore... però non ero ancora diventato un criminale...
Esitai... volli prendere una decisione drastica... avevo constatato
in vari duelli di non temere la morte... tentai di uccidermi!...».
«Ah!... davvero?» disse il conte con tagliente ironia.
«Non mi credete, padre mio?»
«Era troppo presto o troppo tardi!» ribatté il vecchio senza
scomporsi e senza battere ciglio.
Florestan, pensando che il suo progetto di suicidio avesse
commosso il padre, ritenne opportuno rafforzare l’effetto con un
colpo di scena.
Andò ad aprire un mobile, vi prese una boccetta di cristallo
verdastro e, posatala sul tavolo, disse al conte:
«Un ciarlatano italiano mi ha venduto questo veleno...».
«Ed... era per voi... il veleno?» chiese il vecchio restando sempre
con i gomiti appoggiati sulla poltrona.
Florestan capì tutto il significato di una simile domanda. Il suo
volto s’atteggiò a sincera indignazione, giacché in quel momento
stava dicendo la pura verità.
Un giorno gli era venuto il capriccio di uccidersi: capriccio
pazzesco! gli individui della sua specie sono troppo vili per
risolversi con freddezza e senza testimoni alla morte che per un
fatto d’onore non hanno paura di affrontare in duello.
Egli esclamò dunque con l’accento della verità:
«Sono caduto molto in basso... ma non fino a queste punto, padre
mio! Il veleno lo riservavo per me!».
«E avete avuto paura?» fece il conte, senza cambiare posizione.
«Confesso che ho esitato davanti a quella soluzione estrema; le cose
non erano ancora disperate: i miei creditori erano tutti gente ricca
e potevano aspettare... Alla mia età e con le relazioni che avevo
potevo sperare, se non di rimettere in sesto il mio patrimonio,
almeno di assicurarmi una posizione decorosa, indipendente, al posto
del patrimonio che non avevo più... Parecchi miei amici, forse meno
dotati di me, avevano fatto una rapida carriera in diplomazia. Mi
venne una mezza intenzione ambiziosa... Mi bastò decidere perché
subito diventassi addetto alla legazione di Gerolstein...
Disgraziatamente, alcuni giorni dopo la mia nomina, un debito di
gioco contratto con un uomo che mi odiava mi mise in una terribile
situazione... Avevo esaurito le mie ultime risorse... Mi venne
un’idea fatale. Credendomi certo dell’impunità, commisi un’azione
infame... Vedete... padre mio... non vi nascondo niente... confesso
l’ignominia di come mi sono comportato, non cerco nemmeno di
attenuarla... Ora non mi restano che due partiti a cui appigliarmi,
e ad ambedue sono ormai deciso... Il primo è di uccidermi...
lasciando che il disonore ricada sul vostro nome, perché se non pago
entro oggi 25.000 franchi, sporgeranno querela, ci sarà uno scandalo
e, morto o vivo, sarò disonorato. Il secondo è di gettarmi tra le
vostre braccia, padre mio... di dirvi: Salvate vostro figlio,
salvate il vostro nome dall’infamia... e vi giuro di partire domani
per l’Africa, di farmi soldato per cercare la morte o di ritornare
un giorno gloriosamente riabilitato... Ciò che vi dico, padre mio, è
vero... Nella terribile situazione in cui sono, non ho altra
scelta... Decidete... o morirò nella vergogna o, grazie a voi...
vivrò per riparare il mio fallo... Queste, padre mio, non sono
minacce né parole da adolescente... Ho venticinque anni, porto il
vostro nome, ho abbastanza coraggio per uccidermi... o farmi
soldato, dato che non voglio andare in galera...»
Il conte si alzò.
«Non voglio che il mio nome venga disonorato» disse freddamente a
Florestan.
«Ah, padre mio!... mio salvatore» esclamò calorosamente il visconte;
e stava per gettarsi nelle braccia del padre, quando questi, con un
gesto glaciale, stroncò quello slancio.
«L’uomo che ha la cambiale falsa... vi aspetta fino alle tre?» «Sì
padre mio... e sono le due...»
«Andiamo nel vostro studio... datemi da scrivere.»
«Ecco, padre mio.»
Il conte si sedette alla scrivania di Florestan e scrisse con
mano ferma:
M’impegno a pagare questa sera alle ore dieci i 25.000 franchi di
mio figlio.
Conte di Saint-Remy
«Il vostro creditore non mira ad altro che al denaro; nonostante le
sue minacce, sono certo che questo impegno da parte mia gli farà
accettare una nuova dilazione; egli andrà dal banchiere Dupont, in
rue de Richelieu, al n. 7, che gli garantirà la validità di questo
atto.»
«O padre mio!... come mai...»
«Questa sera m’aspetterete... alle dieci vi porterò il denaro...
Fate che il vostro creditore si trovi qui...»
«Sì, padre mio; e dopodomani parto per l’Africa... Vedrete che non
sarò un ingrato!... Allora, forse quando sarò riabilitato,
accetterete i miei ringraziamenti.»
«Voi non mi dovete niente; ho detto che il mio nome non avrebbe
dovuto essere ancora più disonorato, e non lo sarà» disse
semplicemente il signor di Saint-Remy; e, preso il bastone che aveva
posato sulla scrivania, si diresse verso la porta.
«Padre mio, datemi almeno la mano!» supplicò Florestan. «Questa sera
alle dieci» rispose il conte, rifiutando la mano. E se ne andò.
“Salvo!...” esclamò Florestan raggiante. “Salvo!”
Poi, dopo un momento di riflessione, riprese: «Quasi salvo... non fa
niente, è lo stesso... Forse questa sera gli confesserò l’altra
cosa. Ormai è in ballo... non vorrà fermarsi nel mezzo della
faccenda come non permetterà che il suo primo sacrificio diventi
inutile per non volerne fare un secondo... E d’altronde, perché
dirgli?... Chi saprà mai?... se non si scopre niente, il denaro che
mi darà me lo terrò per estinguere quest’ultimo debito... Ce n’ho
messo per commuovere quel diavolo d’uomo!!! I suoi aspri sarcasmi mi
avevano fatto dubitare della sua buona decisione; ma la minaccia di
suicidio, il timore di vedere il suo nome macchiato lo hanno fatto
decidere; quello era il punto debole... Decisamente è meno povero di
quel che sembra. Se possiede un centinaio di migliaia di franchi,
deve averli messi da parte vivendo come vive... Lo ripeto, la sua
venuta è stata una fortuna... Sembra
selvatico, ma in fondo credo che sia un buon uomo... Corriamo
dall’usciere!».
Suonò il campanello. Comparve il signor Boyer.
«Come mai non mi avete avvertito che mio padre era qui? siete di una
negligenza...»
«Per due volte ho tentato di rivolgere la parola al signor visconte
mentre stava rientrando in casa dal giardino col signor Badinot; ma
il signor visconte, forse troppo impegnato nella conversazione col
signor Badinot, mi ha fatto cenno di non interromperlo... E io non
mi sono permesso d’insistere... Sarei desolato se il signor visconte
mi credesse colpevole di trascuratezza...»
«Va bene... Dite a Edwards di farmi subito attaccare Orion, no
Plower al calesse.»
Il signor Boyer s’inchinò rispettosamente.
Nel momento in cui stava per uscire, bussarono alla porta.
Il signor Boyer guardò il visconte con aria interrogativa. «Avanti!»
disse Florestan.
Entrò un altro cameriere, con in mano un piccolo vassoio do-
rato.
Il signor Boyer se ne impadronì con una specie di gelosa pre-
mura, di rispettosa sollecitudine, e lo presentò al visconte. Costui
prese dal vassoio un grosso plico sigillato con ceralac-
ca nera.
I due domestici si ritirarono con discrezione.
Florestan aprì la busta. Essa conteneva 25.000 franchi in buo-
ni del tesoro... senza nessun altro scritto.
“Decisamente” egli esclamò con gioia, “è una giornata fortu-
nata... Sono salvo, questa volta, e del tutto anche... corro dal
gioielliere... e anche... però, forse... No, aspettiamo... non può
avere nessun sospetto su di me... 25.000 franchi stanno bene messi
da parte... Perdio! Sono ben sciocco a dubitare della mia buona
stella... nel momento in cui sembra oscurarsi, non riappare più
fulgida di prima?... Ma da dove viene questo denaro? non conosco la
calligrafia con cui è stato scritto l’indirizzo... vediamo il
sigillo... la cifra... Ma sì, sì..., non mi sbaglio... una N e una
L... è Clotilde!... Ma come ha saputo?... E non una parola... è
strano! Che bella combinazione!... Ah, Dio mio! ora che ci penso...
le avevo dato appuntamento per questa mattina... Le minacce di
Badinot mi hanno sconvolto... Mi sono dimenticato di Clotilde...
dopo avermi aspettato giù se ne sarà andata!... Certamente questo
denaro è un mezzo delicato per farmi capire che teme di essere
trascurata a causa di qualche mia difficoltà finanziaria. Sì, è un
rimprovero
indiretto di non essermi rivolto a lei come sempre... Buona
Clotilde! sempre la stessa!... generosa come una regina! Che peccato
essermi ridotto a questo punto con lei... ancora così bella! A volte
mi dispiace... ma mi sono rivolto a lei solo nei momenti
disperati... Vi sono stato costretto.”
«Il calesse del signor visconte è pronto» venne ad avvertire il
signor Boyer.
«Chi ha portato questa lettera?» gli chiese Florestan.
«Non so, signor visconte.»
«Be’, lo domanderò giù. Ma ditemi, non c’è nessuno al pian-
terreno?» aggiunse il visconte guardando Boyer con aria
significativa.
«Non c’è più nessuno, signor conte.»
«Non mi ero sbagliato» pensò Florestan «Clotilde mi ha aspettato e
poi se n’è andata.»
«Se il signor visconte avesse la bontà di concedermi due minuti»
disse Boyer.
«Parlate, e sbrigatevi.»
«Io ed Edwards abbiamo sentito che il signor duca di Montbrison deve
metter su casa; se il signor visconte volesse essere tanto buono da
proporgli la sua già bell’e arredata e la scuderia con tutto
quanto... sarebbe per me ed Edwards un’ottima occasione per disfarci
di ogni cosa, e forse per il signor visconte una buona occasione per
motivare la vendita.»
«Diamine, avete ragione, Boyer... per me, preferisco questa
soluzione... Andrò da Montbrison e gliene parlerò. Quali sono le
vostre condizioni?»
«Il signor visconte capirà bene... che noi abbiamo cercato di
approfittare il più possibile della sua generosità.»
«E guadagnare sulla vendita; è naturale! Allora... il prezzo?» «In
tutto, 260.000 franchi... signor visconte...»
«Quanto ci guadagnate sopra voi ed Edwards...»
«Circa 40.000 franchi, signor visconte...»
«Benissimo! Del resto meglio così; perché dopo tutto sono contento
di voi... se avessi avuto da fare testamento, a voi e a Edwards,
avrei lasciato una somma così.»
E il visconte uscì per andare prima dal suo creditore, poi dalla
signora di Lucenay, che non immaginava avesse assistito al suo
colloquio con Badinot.
IX
LA PERQUISIZIONE
Il palazzo Lucenay era una di quelle regali abitazioni del sobborgo
Saint-Germain rese grandiose dallo spazio sprecato; una casa moderna
potrebbe essere contenuta benissimo nella tromba della scala vuota
di uno di quei palazzi, e sulla superficie che essi occupano si
potrebbe costruire un intero quartiere.
Verso le nove di sera dello stesso giorno, i due battenti
dell’enorme portone del palazzo si aprirono per lasciar passare un
magnifico calesse che, dopo aver descritto con arte una curva
nell’immenso cortile, si fermò davanti a una larga scalinata coperta
che conduceva a una prima anticamera.
Mentre lo scalpitare che facevano i due cavalli focosi e vigorosi
risuonava sul lastricato, un gigantesco servitore aprì lo sportello
blasonato e dall’elegante carrozza scese velocemente un giovane che
salì non meno velocemente i cinque o sei gradini della scalinata.
Il giovane era il visconte di Saint-Remy.
Dopo essere stato dal suo creditore che, soddisfatto dell’impegno
preso dal padre di Florestan, aveva accordato la dilazione richiesta
e sarebbe andato a prendere il denaro alle dieci di sera, in rue de
Chaillot, il signor di Saint-Remy si era recato dalla signora di
Lucenay per ringraziarla del nuovo favore che le aveva reso; ma dato
che la mattina non si era incontrato con la duchessa, andava da lei
tutto trionfante, sicuro di trovarla in prima sera, ora che di
solito era riservata a lui.
Dalla premura con cui i due domestici dell’anticamera corsero ad
aprire la portiera a vetri appena riconobbero la carrozza di
Florestan, dall’aria di profondo rispetto con cui tutti gli altri
domestici si alzarono istintivamente al passare del visconte e
infine da alcune sottili sfumature, si sarebbe potuto capire che il
visitatore era il secondo, o meglio il vero padrone di casa.
Quando il signor duca di Lucenay rincasava, con l’ombrello in mano e
con ai piedi enormi galosce (detestava uscire di giorno in
carrozza), le evoluzioni dei domestici erano tali e quali e
egualmente rispettose; tuttavia solo un acuto osservatore avrebbe
potuto notare lo stile profondamente diverso dell’accoglienza fatta
al marito e di quella riservata all’amante.
La stessa premura si manifestò nel salone dei camerieri quando
Florestan vi entrò; subito uno di questi lo precedette per andare ad
annunciarlo alla signora di Lucenay.
Mai il visconte era stato più altero, mai si era sentito più
leggero, più sicuro di sé, più conquistatore...
La vittoria che aveva riportato il pomeriggio sul padre, la nuova
prova di affetto datagli dalla signora di Lucenay, la gioia di
essere uscito miracolosamente da una terribile situazione, la
riacquistata fiducia nella sua buona stella conferivano al suo bel
viso un’espressione di audacia e di buon umore che lo rendeva ancora
più seducente; mai insomma si era sentito così in forma.
E aveva ragione.
Mai come ora la sua figura flessuosa e sottile si era eretta in
maniera così spavalda; mai come ora aveva portato la fronte e lo
sguardo così alti; mai il suo orgoglio era stato più deliziosamente
solleticato da questo pensiero: “La grande signora, padrona di
questo palazzo è mia, è ai miei piedi... anche questa mattina era a
casa mia ad aspettare me...”.
Florestan si era lasciato vanitosamente andare a queste riflessioni
nel tempo impiegato ad attraversare i tre o quattro saloni che
precedevano la stanza dove stava di solito la duchessa. E per
completare l’ottima opinione che Florestan aveva di sé, bastò
l’ultima occhiata che il visconte gettò a uno specchio.
Il cameriere aprì i due battenti della porta del salotto e annunciò:
«Il signor visconte di Saint-Remy!».
Non possiamo descrivere quali furono lo stupore e lo sdegno della
duchessa.
Quest’ultima credeva che il conte non avesse nascosto al figlio che
ella aveva sentito tutto...
Abbiamo già detto che, venendo a sapere fino a che punto fosse sceso
Florestan, la signora di Lucenay aveva sentito che il suo amore,
spegnendosi di colpo, si era tramutato in gelido disprezzo.
E abbiamo anche detto che nonostante la sua leggerezza e i suoi
errori, la signora di Lucenay aveva conservato puri e intatti i
sentimenti di rettitudine, di onore, di lealtà cavalleresca,
sentimenti che avevano in lei una forza e un’austerità tutte
maschili. Essa aveva per buone qualità i suoi difetti, per virtù i
suoi vizi: considerando l’amore con la stessa libertà con cui lo
considererebbe un uomo, spingeva oltre, più oltre di un uomo,
l’abnegazione, la generosità, il coraggio e specialmente l’orrore
per ogni meschinità.
La signora di Lucenay, dovendo quella sera andare in società, era,
seppure senza diamanti, vestita con il buon gusto e il lusso
abituali; il magnifico vestito, il vistoso belletto che portava
senza
scrupoli e senza paure da vera signora di corte, fino a sotto le
palpebre, la sua bellezza che risaltava soprattutto alla luce dei
lumi, la sua figura da dea che cammini sulle nuvole rendevano ancora
più affascinante quello stile da gran dama che nessuna donna al
mondo possedeva quanto lei, e che ella spingeva, se era necessario,
fino a una proterva insolenza...
Conosciamo già il carattere altero e risoluto della duchessa:
figuriamoci quindi che sguardo e che faccia avesse quando vide il
visconte andare verso di lei tutto agghindato, sorridente e pieno di
sé per dirle amorevolmente:
«Mia cara Clotilde... quanto siete buona!... quanto...» il visconte
non poté finire la frase.
La duchessa non si era mossa: dai suoi gesti e dalle sue occhiate
traspariva un disprezzo così sereno e spietato... che Florestan si
fermò di scatto...
Non poté dire una parola, né fare un passo.
Non aveva mai visto così la signora di Lucenay. Non poteva credere
che fosse la stessa persona che si era sempre dimostrata dolce,
tenera, appassionatamente sottomessa: infatti nessuno è più umile e
timido di una donna risoluta davanti all’uomo che essa ama e che la
domina.
Passato il primo momento di sorpresa, Florestan si vergognò della
propria debolezza; ma subito l’abituale audacia ebbe in lui il
sopravvento. Fece un passo verso la signora di Lucenay per prenderle
la mano e le disse con la voce più carezzevole che avesse:
«Dio mio! Clotilde, che succede?... Non ti ho mai vista così
bella... eppure...».
«Ah, che sfacciataggine!» gridò la duchessa indietreggiando con tale
disgusto e alterigia che Florestan restò di nuovo confuso e
scoraggiato.
Tuttavia, dopo essersi fatto un po’ d’animo, le disse: «Clotilde,
volete almeno spiegarmi la causa di un cambiamento così improvviso?
Cosa vi ho fatto?... Che cosa volete?».
Senza rispondergli, la signora di Lucenay lo squadrò, come
volgarmente si dice, dalla testa ai piedi, in modo così insultante
che Florestan sentendosi la collera imporporargli il viso esclamò:
«Signora, so che siete abituata a sbrigare in fretta le rotture...
state forse cercando una rottura?».
«Che curiosa pretesa!» disse la signora di Lucenay con una risata
sardonica; «sappiate che quando un servitore mi deruba... non rompo
con lui... lo scaccio...»
«Signora!...»
«Finiamola» disse la duchessa con voce secca e insolente, «la vostra
presenza mi ripugna! Che cosa cercate qui! Non avete avuto il vostro
denaro?»
«Era dunque vero... Avevo indovinato... Quei 25.000 franchi...»
«La vostra ultima cambiale falsa è stata ritirata, vero? l’onore
della vostra famiglia è salvo. Va bene... andatevene...»
«Ah, credete...»
«Mi dispiace molto per quel denaro, avrebbe potuto aiutare tante
persone oneste... ma bisognava pensare alla vergogna di vostro padre
e alla mia.»
«Così, Clotilde, sapete tutto?... Oh, vedete, adesso non mi resta
altro che morire...» esclamò Florestan in tono patetico e disperato.
La duchessa accolse la drammatica esclamazione con un impertinente
scroscio di risa; quindi aggiunse fra una risata e l’altra: «Dio
mio! non avrei mai creduto che l’infamia potesse essere
tanto ridicola!».
«Signora!...» gridò il visconte col volto contratto dall’ira.
Si aprì con molto rumore una porta e una voce annunciò:
«Il signor duca di Montbrison!».
Nonostante il suo sangue freddo, Florestan non riuscì del tut-
to a frenare l’impeto d’ira: un osservatore più attento del duca se
ne sarebbe senz’altro accorto.
Il signor di Montbrison aveva appena diciott’anni.
Si pensi a un bel viso di fanciulla bionda, bianca e rosa, con
labbra vermiglie e mento gentile che siano leggermente ombreggiati
da una prima barba; si aggiungano due grandi occhi scuri ancora un
po’ timidi che anelano solo a diventare vivaci, una figura snella
come quella della duchessa, e si avrà forse un’idea del giovane
duca, del più bel cherubino a cui contessa e damigella abbiano mai
messo cuffietta da donna dopo avere ammirato il candore del suo
eburneo collo.
Il visconte ebbe la debolezza o l’audacia di restare...
«Come siete stato gentile, Conrad, ad avere pensato a me questa
sera!» disse la signora di Lucenay in tono molto affettuoso porgendo
la sua bella mano al duca.
Questi stava per stringere la mano alla cugina, quando Clotilde la
alzò un po’ e gli disse allegramente:
«Su, cugino, baciatela, avete i guanti».
«Scusate... cugina» disse l’adolescente; e appoggiò le labbra sulla
bella mano senza guanto che gli era stata porta.
«Cosa fate stasera, Conrad?» gli chiese la signora di Lucenay
ignorando del tutto Florestan.
«Niente, cugina, quando uscirò andrò al circolo.»
«Niente affatto, voi accompagnerete il signore di Lucenay e me dalla
signora di Senneval, è il giorno in cui riceve; mi ha già chiesto
svariate volte di presentarvi a lei.»
«Cugina, sono felicissimo di mettermi a vostra disposizione.»
«E poi, a essere sincera, non mi piace che abbiate già queste
abitudini e questi gusti da circolo; non vi manca niente per essere
ben accolto e ricercato in società... perciò dovete frequentarla.»
«Sì, cugina.»
«E siccome posso trattarvi quasi come un nipotino, mio caro Conrad,
sono già pronta a essere molto esigente con voi. Siete emancipato, è
vero; ma credo che per un po’ abbiate ancora bisogno di stare sotto
tutela... E dovrete decidervi ad accettare la mia.»
«Con gioia, con piacere, cugina mia» disse il duca con slancio.
È impossibile descrivere la rabbia che rodeva dentro Florestan,
sempre in piedi, appoggiato al caminetto.
Né il duca né Clotilde badavamo a lui. Sapendo quanto fosse
sbrigativa la signora di Lucenay, pensò che ella spingesse l’audacia
e il disprezzo fino a fare la civetta davanti a lui con il signor di
Montbrison.
Non era così: la duchessa provava allora per il cugino un affetto
tutto materno, avendolo quasi visto nascere. Ma il giovane duca era
così bello e si mostrava così felice della calorosa accoglienza
della cugina, che la gelosia o meglio l’orgoglio di Florestan si
inasprì; il suo cuore era diventato il bersaglio dei crudeli morsi
dell’invidia che gli aveva suscitato Conrad di Montbrison che, ricco
e affascinante, entrava così brillantemente in quella vita di
piaceri, di ebbrezze e di feste da cui egli usciva rovinato,
bollato, disprezzato, disonorato.
Il signor di Saint-Remy aveva quel coraggio testardo, se così si può
dire, che, per collera o vanità, spinge ad affrontare un duello; ma,
vile e corrotto com’era, non aveva il coraggio morale che riesce ad
averla vinta sulle cattive inclinazioni o che almeno dà la forza di
sfuggire con morte deliberata all’infamia.
Furibondo per il diabolico disprezzo della duchessa, il signor di
Saint-Remy, convinto di avere trovato un successore nel giovane
duca, decise di competere in insolenza con la signora di Lucenay e,
se era necessario, di attaccare briga con Conrad.
La duchessa, indignata dall’audacia di Florestan, non lo guardava
neppure; e il signor di Montbrison, nella sua premura per la cugina,
passando sopra alle convenienze, non aveva né salutato né rivolto la
parola al signor di Saint-Remy, pur conoscendolo.
Questi andò verso Conrad che gli voltava le spalle, gli toccò piano
il braccio dicendogli con voce secca e ironica:
«Buona sera, signore... scusatemi ma non vi avevo ancora visto».
Il signor di Montbrison, accortosi di essere stato poco educato, si
volse prontamente e disse cordialmente al visconte:
«Signore, sono veramente confuso... ma oso sperare che mia cugina,
che è la causa della mia distrazione, vorrà scusarmi con voi...
e...»
«Conrad» disse la duchessa esasperata dalla sfacciataggine di
Florestan, che si ostinava a restare a casa sua e a sfidarla,
«Conrad, va bene; niente scuse... non ne vale la pena.»
Il signor di Montbrison, credendo che sua cugina gli rimproverasse
per scherzo di fare troppi complimenti, disse allegramente al
visconte diventato pallido d’ira:
«Non insisterò signore... visto che mia cugina me lo proibisce...
Vedete, ha già cominciato con la sua tutela».
«E questa tutela non si fermerà qui... caro il mio signore, siatene
certo. Perciò in previsione di ciò (cosa che sono certo la duchessa
si affretterà a realizzare) in previsione di ciò, dicevo, m’è venuta
l’idea di farvi una proposta...»
«A me, signore?» disse Conrad urtato dal sarcasmo di Florestan.
«Proprio a voi... fra qualche giorno partirò per la legazione di
Gerolstein, alla quale sono addetto... Vorrei, disfarmi della mia
casa con tutto l’arredamento che c’è e della mia scuderia che è in
perfetto ordine; vi andrebbe proprio bene...» E il visconte calcò la
voce sulle ultime parole guardando la signora di Lucenay. «Sarebbe
molto eccitante... vero, signora duchessa?»
«Non vi capisco, signore» disse il signor di Montbrison sempre più
meravigliato.
«Conrad, vi dirò io perché non potete accettare l’offerta fattavi»
disse Clotilde.
«E perché signora duchessa, il signore non può accettare la mia
offerta?»
«Caro Conrad ciò che vi si propone di comperare è già venduto ad
altri... capite... avreste l’inconveniente di essere vittima di una
truffa.»
Florestan si morse le labbra con rabbia. «Badate signora!» egli
esclamò.
«Come? minacciate... qui... signore!» gridò Conrad.
«Via Conrad non dategli retta» disse la signora di Lucenay prendendo
un confetto da una bomboniera con imperturbabile calma; «un uomo
d’onore non deve e non può compromettersi con questo signore. Se
egli ci tiene, vi dirò anche il perché!»
Stava per succedere qualcosa di grave, quando i due battenti della
porta si aprirono di nuovo e il signor di Lucenay entrò sbattendo e
facendo come al solito un mucchio di strepito e di fracasso.
«Come, mia cara, siete già pronta?» disse alla moglie; «ma è
sorprendente!... è un miracolo!... Buona sera, Saint-Remy; buona
sera, Conrad... Ah, sono il più disperato degli uomini... non dormo,
non mangio, sono inebetito, non posso rendermene conto... povero
d’Harville, che disgrazia!»
E il signor di Lucenay, buttatosi su una specie di poltrona con
doppia spalliera, lanciò lontano da sé il cappello con gesto
disperato, accavallò le gambe e, per darsi un contegno, si prese un
piede con la mano, tutte operazioni che accompagnò con esclamazioni
di desolazione.
L’agitazione di Conrad e di Florestan poté così calmarsi senza che
il signor di Lucenay, uomo per niente osservatore, si accorgesse di
nulla.
La signora di Lucenay, non perché fosse imbarazzata, non era il tipo
da imbarazzarsi lei, lo sappiamo, ma perché la presenza di Florestan
le era insopportabile e le ripugnava, disse al duca:
«Quando volete, possiamo andare; così presento Conrad alla signora
di Senneval».
«No, no, no!» si mise a gridare il duca, lasciando andare il piede
per afferrare un cuscino e picchiarvi forte con i pugni, tanto che
Clotilde, spaventata dagli strilli improvvisi del marito, era
balzata dalla sedia.
«Dio mio, signore, che cosa avete?» gli disse, «mi avete fatto
prendere un terribile spavento.»
«No!» ripeté il duca e, buttato via il cuscino, si alzò di scatto e
si mise a camminare gesticolando; «non posso abituarmi all’idea
della morte di quel povero d’Harville; e voi, Saint-Remy?»
«Infatti è una cosa terribile!» disse il visconte che andava
cercando, con tutta la rabbia e l’odio che aveva in corpo, lo
sguardo del signor di Montbrison; ma questi dopo le ultime parole
della cugina, non per mancanza di coraggio, ma per fierezza, evitava
di guardare un uomo così disonorato.
«Di grazia, signore» disse la duchessa al marito, alzandosi, «non
piangete il signor d’Harville con tanto strepito e in modo così
bizzarro... Suonate, vi prego, per chiamare i domestici.»
«Anche questo è vero» disse il signor di Lucenay afferrando il
cordone del campanello; «e dire che tre giorni fa era pieno di vita
e di salute... e oggi che resta di lui? Niente... niente...
niente!!!»
Le tre ultime esclamazioni furono accompagnate da tre scosse così
violente che il cordone del campanello che il duca teneva in mano
sempre gesticolando si staccò dalla molla in alto, cadde su un
candelabro con le candele accese e ne rovesciò due; rovesciandosi,
una delle due candele andò a finire sul caminetto dove ruppe una
bella tazza di porcellana di Sèvres, mentre l’altra rotolò a terra
su un tappeto da focolare d’ermellino che bruciò un momento ma poi
fu spento subito sotto i piedi di Conrad. In quel mentre due
camerieri, richiamati dalle violente scampanellate, accorsero in
fretta e trovarono il signor di Lucenay col cordone in mano, la
duchessa che rideva come una matta per la buffa cascatella di
candele e il signor di Montbrison che stava ridendo assieme alla
cugina.
Solo il signor di Saint-Remy non rideva.
Il signor di Lucenay, abituato a simili incidenti, era rimasto
serissimo; gettò il cordone a uno dei domestici e ordinò:
«La carrozza della signora!».
Clotilde, un po’ più calma, riprese:
«A dire il vero, signore, non c’è nessuno al mondo all’infuori
di voi che possa far ridere di un avvenimento così triste».
«Triste!... Ma dite piuttosto spaventoso... ma dite piuttosto
tremendo. Sentite, da ieri sto cercando quante persone ci sono,
anche nella mia famiglia, che avrei voluto veder morire al posto di
quel povero d’Harville. Mio nipote di Emberval, per esempio, che è
così noioso con quella sua balbuzie; oppure vostra zia Merinville
che parla sempre dei suoi nervi, della sua emicrania e che ogni
giorno in attesa del pranzo si tracanna un intruglio da non dirsi
come se fosse una portinaia!... Ci tenete proprio tanto a vo-
stra zia Merinville?»
«Via, signore, voi siete matto!» disse la duchessa alzando le
spalle.
«Ma è vero» proseguì il duca, «si darebbero venti indifferenti
per un amico... non vi pare, Saint-Remy?» «Certo.»
«È sempre la vecchia storia del sarto. Conrad, la conosci la storia
del sarto?»
«No, cugino.»
«Adesso ti faccio subito capire l’allegoria. Un sarto è condannato a
essere impiccato; era l’unico sarto del paese; cosa fanno allora gli
abitanti? Dicono al giudice: “Signor giudice, abbiamo un sarto solo
e tre calzolai: se per voi è lo stesso impiccare uno dei calzolai al
posto del sarto, due calzolai a noi basterebbero”. Hai capito
l’allegoria, Conrad?»
«Sì cugino.»
«E voi, Saint-Remy?»
«Anch’io.»
«La carrozza della signora duchessa!» disse un domestico. «Oh bella!
ma perché non avete messo i diamanti?» disse a
un tratto il signor di Lucenay; «con questo vestito starebbero
benissimo!»
Saint-Remy sussultò.
«Per una misera volta che andiamo insieme in società» riprese il
duca, «avreste ben potuto farmi l’onore di mettervi i vostri
diamanti. Sono belli i diamanti della duchessa... Li avete visti,
Saint-Remy?»
«Sì... il signore li conosce benissimo» disse Clotilde; poi
aggiunse:
«Datemi il braccio, Conrad...».
Il signor di Lucenay seguì la duchessa con Saint-Remy che non stava
più in sé dalla collera.
«Saint-Remy, non venite con noi dai Senneval?» gli disse il signor
di Lucenay.
«No... impossibile» egli rispose brusco.
«Vedete, Saint-Remy, la signora di Senneval, ecco una persona... che
dico, uno?... due... che sacrificherei volentieri; perché anche suo
marito è sulla mia lista.»
«Che lista?»
«Quella delle persone che mi sarebbe stato indifferente veder
morire, purché d’Harville fosse rimasto vivo.»
Mentre, nel salone d’ingresso, il signor di Montbrison aiutava la
duchessa a indossare il mantello, il signor di Lucenay gli disse:
«Conrad, dato che vieni con noi... ordina al tuo cocchiere di
seguire il nostro... a meno che non veniate anche voi, Saint-Remy,
in tal caso mi darete un passaggio... e vi racconterei un’altra
storia ancora più bella di quella del sarto».
«Vi ringrazio» disse secco Saint-Remy; «ma non posso accompagnarvi.»
«Allora, arrivederci, mio caro... Siete forse arrabbiato con mia
moglie? Sta salendo in carrozza senza dirvi una parola.»
Difatti la duchessa salì con grazia nella carrozza che s’era portata
vicino allo scalone.
«Cugino?...» disse Conrad aspettando per riguardo il signor di
Lucenay.
«Sali! Sali!» disse il duca che si era fermato un momento in cima
alla scalinata per considerare il magnifico tiro di cavalli della
carrozza del visconte.
«Sono i vostri cavalli sauri... Saint-Remy?»
«Sì...»
«E il vostro grosso Edwards... che figura!... Ecco quello che si
chiama un cocchiere di gran casata! Guardate come regge bene i
cavalli!... Bisogna riconoscerlo, solo un tipo come Saint-Remy può
avere le cose migliori.»
«La signora di Lucenay e suo cugino vi aspettano, mio caro» disse il
signor di Saint-Remy con amarezza.
«Perbacco, è vero... come sono villano!... Arrivederci, SaintRemy...
Ah! dimenticavo» disse il duca fermandosi in mezzo alla scalinata,
«domani, se non avete qualcosa di meglio da fare, venite a pranzo da
noi; Lord Dudley mi ha mandato dalla Scozia dei galli cedroni. Non
vi dico cosa siano di mostruoso... D’accordo, vero?»
E il duca raggiunse la moglie e Conrad.
Saint-Remy, restato solo sulla scalinata, vide partire la carrozza.
Venne avanti la sua.
Vi salì gettando uno sguardo di collera, di odio, di disperazio-
ne su quella casa, dove era entrato così spesso da padrone, e che
lasciava così vergognosamente scacciato.
«A casa mia!» disse bruscamente.
«A palazzo!» gridò il servo a Edwards chiudendo lo sportello.
Possiamo immaginare in preda a quali pensieri amari e dispe-
rati fosse Saint-Remy, mentre ritornava a casa sua.
Appena arrivato, Boyer, che lo aspettava nell’atrio, gli disse: «Il
signor conte è di sopra che attende il visconte».
«Va bene...»
«C’è anche un uomo a cui il signor visconte ha dato appunta-
mento per le dieci, il signor Petit-Jean...»
«Bene, bene.»
«Oh che serata!» disse Florestan salendo dal padre, che egli
trovò nel salotto del primo piano, dove si era svolto il colloquio
della mattina.
«Scusate tanto, padre mio, di non essere stato qui al vostro
arrivo... ma io...»
«L’uomo che ha in mano quella cambiale falsa è qui?» disse il conte
interrompendo il figlio.
«Sì, padre mio, è giù.»
«Fatelo salire...»
Florestan suonò; comparve Boyer.
«Dite al signor Petit-Jean di salire.»
«Sì, signor visconte» e Boyer uscì.
«Quanto siete buono, padre mio, di esservi ricordato della vo-
stra promessa.»
«Mi ricordo sempre di quello che prometto...»
«Come vi sono riconoscente!... Come provarvi...»
«Non volevo che il mio nome fosse disonorato... E non lo
sarà...»
«Non lo sarà!... no... e non lo sarà più, ve lo giuro, padre mio...»
Il conte guardò il figlio con aria strana e ripeté:
«No, non lo sarà più!»
Poi aggiunse con aria sardonica:
«Siete indovino?».
«No, ma sono deciso in cuor mio.»
Il padre di Florestan non rispose.
Si mise a passeggiare su e giù per la stanza, con le mani nelle
tasche della prefettizia. Era pallido.
«Il signor Petit-Jean» disse Boyer, introducendo un uomo dalla
faccia losca, sordida e astuta.
«Dov’è la cambiale?» disse il conte.
«Eccola, signore» disse Petit-Jean (il prestanome del notaio Jacques
Ferrand), presentando la cambiale al conte.
«È questa?» disse al figlio, mostrandogli con un cenno la cambiale.
«Sì, padre mio.»
Il conte trasse dal taschino del panciotto venticinque biglietti da
mille franchi, li consegnò al figlio e gli disse:
«Pagate!»
Florestan pagò la cambiale con un profondo sospiro di sollievo.
Il signor Petit-Jean mise accuratamente i biglietti in un vecchio
portafoglio, e salutò.
Il signor di Saint-Remy uscì con lui dal salotto, mentre Florestan
prudentemente faceva a pezzi la cambiale.
«Almeno mi restano i 25.000 franchi di Clotilde. Se non si scopre
niente, è sempre una consolazione. Ma come mi ha trattato!... Che
cosa può avere da dire mio padre a Petit-Jean?»
Il rumore di una serratura che veniva chiusa a doppia mandata fece
trasalire il visconte.
Suo padre rientrò.
Era più pallido di prima.
«Mi sembra di aver sentito chiudere la porta del mio studio.» «Sì,
l’ho chiusa io.»
«Voi, padre mio? E perché?» chiese Florestan stupefatto.
«Ve lo dico subito.»
E il conte si mise in un punto tale che il figlio non potesse pas-
sare dalla scala segreta che portava al pianterreno.
Florestan, inquieto, s’era accorto a un certo momento
dell’espressione sinistra del padre e aveva cominciato a controlla-
re con diffidenza ogni suo movimento.
Senza saperne il perché, provava un vago senso di terrore. «Padre
mio... che avete?»
«Questa mattina, appena m’avete visto, avete avuto un solo
pensiero. Mio padre non lascerà disonorare il suo nome, pagherà...
se riesco a raggirarlo con qualche giusta parola di pentimento.»
«Ah, come potete credere che...»
«Non interrompetemi... Non sono stato tanto ingenuo: in voi non c’è
né vergogna, né rimorso, né dispiacere: siete corrotto anche nel
cuore, non avete mai avuto un sentimento onesto; non avete rubato
finché avete avuto il necessario per soddisfare i vostri capricci;
questa è la probità dei ricchi della vostra specie; poi sono venute
le prime mancanze, le bassezze, poi il delitto, le falsificazioni...
Questo è solo il primo periodo della vostra vita... è bello e puro
in confronto a quello che vi aspetta...»
«Se non cambiassi condotta, lo so; ma cambierò, padre mio, ve l’ho
giurato.»
«Voi non cambierete...»
«Ma...»
«Non cambierete... Cacciato dalla società in cui finora siete
vissuto, diventereste presto colpevole come quei miserabili fra i
quali sarete gettato, ladro inevitabilmente... e se occorre,
assassino. Ecco il vostro avvenire.»
«Assassino!... io!...»
«Sì perché siete vile!»
«Ho avuto dei duelli, e ho provato...»
«Vi dico che siete vile! Avete preferito l’infamia alla morte! Verrà
giorno in cui anteporrete l’impunità dei vostri nuovi delitti alla
vita degli altri. Ciò non può essere, non voglio che sia così.
Arrivo in tempo per salvare almeno d’ora innanzi il mio nome dalla
pubblica infamia. Bisogna farla finita.»
«Come... padre mio... farla finita! Cosa volete dire?» esclamò
Florestan sempre più spaventato dalla terribile espressione e dal
crescente pallore del volto del padre.
A un tratto si udì bussare con violenza alla porta dello studio;
Florestan si mosse per andare ad aprire e mettere così termine allo
spavento che provava, ma il conte, con mano ferrea, lo trattenne.
«Chi ha bussato?» chiese il conte.
«In nome della legge, aprite!... aprite!...» disse una voce. «Dunque
quella falsificazione non era l’ultima?» disse il conte
sottovoce dando al figlio un’occhiata terribile.
«Sì, padre mio... ve lo giuro» disse Florestan cercando invano
di svincolarsi dalla vigorosa stretta del padre.
«In nome della legge... aprite!...» ripeté la voce.
«Cosa volete?» chiese il conte.
«Sono il commissario di polizia; sono venuto a fare una per-
quisizione per un furto di diamanti di cui è accusato il signor di
Saint-Remy... Il gioielliere Baudoin ne ha le prove. Se non aprite,
signore... sarò costretto a far sfondare la porta.»
«Anche ladro! non mi ero sbagliato» disse il conte sottovoce. «Ero
venuto per uccidervi... ho tardato troppo.» «Uccidermi!»
«Troppo disonore sul mio nome; finiamola: ho qui due pisto-
le... uccidetevi subito... se no vi uccido io, e dirò che eravate
disperato e vi siete ucciso per sfuggire alla vergogna.»
E il conte con calma terribile si trasse di tasca una pistola che
porse al figlio con la mano libera dicendogli:
«Su, fatela finita, se non siete un vigliacco!».
Dopo nuovi e inutili sforzi per liberarsi dalla stretta del conte,
il figlio, terrorizzato, si buttò all’indietro, illividendo in
volto. Dallo sguardo terribile, inesorabile del padre, capì che non
poteva aspettarsi da lui nessuna pietà. «Padre mio!» esclamò.
«Bisogna morire!»
«Mi pento!»
«È troppo tardi!... Sentite!... sfondano la porta!» «Espierò le mie
colpe!»
«Stanno per entrare; devo dunque ucciderti io?»
«Pietà!»
«La porta sta per cedere! l’hai voluto tu...»
E il conte appoggiò la bocca dell’arma sul petto di Florestan. Il
rumore che si sentiva fuori stava a indicare infatti che la por-
ta dello studio non avrebbe potuto resistere molto.
Il visconte si vide perduto.
Gli venne in mente un’improvvisa e disperata risoluzione per
cui, cessato di dibattersi contro il padre, gli disse con fermezza e
rassegnazione:
«Avete ragione, padre mio... datemi la pistola. Troppa infamia sul
mio nome, la vita che mi aspetta è orrenda, non vale la pena di
viverla. Datemi quell’arma. Vedrete se sono un vile». E stese la
mano verso la pistola. «Ma, almeno, una parola, una sola parola di
conforto, di pietà, d’addio» disse Florestan.
E le sue labbra tremanti, il suo pallore, la sua faccia sconvolta
tradivano la terribile agitazione di un momento supremo.
“E se fosse mio figlio!” pensò il conte con terrore, esitando a
consegnargli l’arma, “se è mio figlio, devo titubare ancora meno
davanti a questo sacrificio.”
Un prolungato scricchiolio e la porta fu sfondata.
«Padre mio... entrano... oh, ora capisco, la morte è un sollievo...
Grazie... ma almeno datemi la vostra mano e perdonatemi!» Nonostante
la sua durezza, il conte non poté frenare un sussul-
to e non dire con voce commossa:
«Vi perdono».
«Padre mio... eccoli, aprono... andate loro incontro... che alme-
no non vi sospettino... E poi, se entrassero qui, mi impedirebbero
di farla finita... Addio.»
Nella stanza vicina si udirono i passi di varie persone. Florestan
si puntò la canna della pistola al cuore.
Il colpo partì proprio quando il conte, per sottrarsi a quel tre-
mendo spettacolo, aveva volto altrove lo sguardo e si era
precipitato quindi fuori dal salotto, i cui sportelli gli erano
ricaduti alle spalle. Al sentire la detonazione, alla vista del
conte pallido e smarrito, il commissario si fermò sulla soglia e
fece cenno ai suoi agenti
di non andare oltre.
Avvertito da Boyer che il visconte s’era chiuso dentro con il pa-
dre, il magistrato, avendo capito tutto, rispettò quel gran dolore.
«Morto...» esclamò il conte, nascondendosi il volto tra le mani...
«morto!!!» ripeté angosciato. «Era giusto... meglio la mor-
te che l’infamia... però è tremendo!»
«Signore» disse mestamente il commissario, dopo qualche momento di
silenzio, «risparmiatevi uno spettacolo doloroso, uscite da questa
casa... Adesso ho da compiere un dovere molto più penoso di quello
per cui sono venuto qui.»
«Avete ragione, signore» disse il conte di Saint-Remy. «Quanto alla
vittima del furto, ditegli che si presenti dal banchiere Dupont.»
«In rue de Richelieu... è molto conosciuto» rispose il commis-
sario.
«Quanto sono stati stimati i diamanti rubati?»
«Circa 30.000 franchi, signore; tanti almeno ne ha dati a vo-
stro figlio la persona che li ha comperati, e per mezzo della quale
si è scoperto il furto.»
«Pagherò anche questi, signore. Il gioielliere si trovi domani
l’altro dal mio banchiere, mi metterò d’accordo con lui.»
Il commissario fece un inchino.
Il conte se ne andò.
Dopo che questi se ne fu andato, il funzionario, profondamen-
te impressionato da un fatto così improvviso, si diresse lentamente
verso il salotto i cui sportelli erano abbassati.
Le scostò piano piano.
«Nessuno!...» esclamò sbalordito, guardando nel salotto e non
vedendo la minima traccia del tragico avvenimento che aveva dovuto
aver luogo.
Poi, notata la porticina praticata nella tappezzeria, si diresse da
quella parte.
Era chiusa dal lato della scala segreta.
«È stata una finta... sarà fuggito di là!» disse stizzito.
Infatti il visconte, davanti al padre, si era puntato la pistola al
cuore, ma poi aveva abilmente fatto deviare il colpo sotto il
braccio, affrettandosi poi a sparire.
Nonostante le più scrupolose ricerche per tutta la casa, non fu
possibile rintracciare Florestan.
Durante il colloquio fra suo padre e il commissario, egli aveva
rapidamente raggiunto il boudoir, poi la serra, quindi il vicolo
deserto e infine gli Champs-Elysées.
Lo spettacolo della gente ricca così ignobilmente depravata è una
cosa ben triste...
Lo sappiamo.
Anche le classi abbienti, però, mancando di buoni esempi devono
inevitabilmente avere le loro miserie, i loro vizi, i loro delitti.
Niente di più frequente e di più deplorevole delle folli e inutili
prodigalità che abbiamo mostrato, e che sempre portano con sé
rovina, discredito, bassezza o infamia.
È uno spettacolo deplorevole... funesto... come vedere un fiorente
campo di grano stupidamente distrutto da un’orda di bestie feroci.
Certo l’eredità, la proprietà sono e devono essere inviolabili,
sacre...
La ricchezza acquisita o ereditata deve poter splendere impunemente
e magnificamente davanti agli occhi delle classi povere e
sofferenti.
Ancora per molto tempo ci dovranno essere le spaventose sproporzioni
che esistono fra il milionario Saint-Remy e l’artigiano Morel.
Ma proprio perché queste inevitabili differenze sono consacrate e
protette dalla legge, coloro che possiedono tanti beni li devono
usare a scopo morale come coloro che non possedendo altro fanno uso
di onestà, rassegnazione, coraggio e volontà di lavorare.
Dal punto di vista della ragione, del diritto umano e anche
dell’interesse sociale inteso in senso buono, una grande fortuna
potrebbe essere un deposito ereditario dato in consegna a mani
prudenti, sicure, abili, generose, che, se si incaricassero di
spendere una tale fortuna facendola fruttare, potrebbero
fertilizzare, vivificare, migliorare tutto ciò che avesse la buona
sorte di trovarsi nel suo splendido e salutare campo d’azione.
Ce ne sono a volte; ma i casi sono rari.
Quanti giovani come Saint-Remy (a parte il disonore), padroni a
vent’anni di un notevole patrimonio, lo sprecano pazzamente
nell’ozio, nella noia, nel vizio, incapaci di impiegarlo meglio per
sé e per gli altri.
Altri, spaventati dall’instabilità delle cose umane, economizzano in
modo indecente.
Infine coloro, per forza vittime o mascalzoni, che, sapendo che un
patrimonio non sfruttato diminuisce, si abbandonano ai rischi di un
aggiotaggio illecito protetto e incoraggiato dallo Stato.
E come potrebbe essere diversamente?
Chi impartisce questa scienza, questo insegnamento, questi rudimenti
di economia individuale alla gioventù inesperta?
Nessuno.
Il ricco è gettato in mezzo alla società con la sua ricchezza, come
il povero con la sua povertà.
Non ci si preoccupa né del superfluo dell’uno né dei bisogni
dell’altro.
Non si pensa a moralizzare né il ricco né il povero.
Non tocca allo Stato adempiere a questo grande e nobile compito?
Se prendendo finalmente a cuore le miserie, le sofferenze sempre
crescenti dei lavoratori anche se rassegnati... reprimendo una
concorrenza, mortale per tutti, affrontando infine l’attuale
questione dell’organizzazione del lavoro, desse esso stesso il
salutare esempio dell’associazione dei capitali e del lavoro...
Ma di un’associazione onesta, intelligente, imparziale, che
assicurasse il benessere dell’operaio senza nuocere alla ricchezza
della gente facoltosa... e che, stabilendo fra queste due classi
legami di affetto e di riconoscenza, salvaguardasse per sempre la
tranquillità dello Stato...
Come sarebbero feconde le conseguenze di un simile insegnamento
pratico!
Fra i ricchi, chi esiterebbe allora:
Fra i rischi disonesti, disastrosi dell’aggiotaggio.
I godimenti della riluttante avarizia.
Le folli vanità di una rovinosa dilapidazione,
E un vantaggioso e benefico impiego di denaro che favoris-
se il benessere, la moralità, la felicità, la gioia di tante
famiglie?...
X L’ADDIO
... Ho creduto – ho visto – piango... WORDSWORTH
Il giorno successivo alla sera in cui il conte di Saint-Remy era
stato indegnamente burlato dal figlio, una scena commovente si
svolgeva a Saint-Lazare, nell’ora della ricreazione delle detenute.
Quel giorno, mentre le altre detenute passeggiavano, Fleurde-Marie
stava seduta sopra una panchetta vicino alla vasca del cortile, che
ormai veniva chiamata il sedile della Goualeuse: per una specie di
tacita convenzione, le detenute lasciavano libero quel posto che
piaceva a lei, giacché la dolce influenza della Goualeuse su di loro
era aumentata ancora di più.
La Goualeuse preferiva il sedile vicino alla vasca, perché bastava
quel po’ di muschio che ne ricopriva la vera per ricordarle il
verde dei campi, come l’acqua limpida di cui era riempita le
ricordava il ruscello del paese di Bouqueval.
Per il triste sguardo del prigioniero un ciuffo d’erba è un prato...
un fiore è un’aiuola.
Sperando nelle affettuose promesse della signora d’Harville, da due
giorni Fleur-de-Marie era in attesa di lasciare Saint-Lazare.
Sebbene non avesse nessuna ragione di preoccuparsi che continuassero
a rinviare la sua liberazione, la giovinetta era tanto abituata alla
sventura, che non osava quasi sperare di poter essere libera...
Da quando era ritornata fra quelle donne che con la loro presenza e
il loro linguaggio le rinfrescavano a ogni istante il ricordo
indelebile della sua prima vergogna, la tristezza di Fleur-de-Marie
era aumentata ancora di più.
E non era tutto.
Un motivo di turbamento, di angoscia, quasi di spavento era sorto in
lei scaturito dall’appassionata esaltazione della sua gratitudine
per Rodolphe.
Cosa strana! Fleur-de-Marie si preoccupava di scandagliare la
profondità dell’abisso in cui era precipitata solo per misurare la
distanza che la separava da un uomo la cui grandezza le sembrava
sovrumana... da un uomo dotato di un’augusta bontà... e al tempo
stesso di un potere così tremendo contro i malvagi...
Nonostante il rispetto a cui aveva improntato la sua venerazione per
lui, a volte, ahimè, Fleur-de-Marie temeva che la sua venerazione
tenesse celati in sé i segni dell’amore, ma di un amore nascosto
quanto profondo, puro quanto nascosto, disperato quanto puro.
La sventurata fanciulla era convinta di aver ricevuto dal suo cuore
una tale desolata rivelazione solo dopo il colloquio avuto con la
signora d’Harville, la quale nutriva anche lei per Rodolphe una
passione a lui ignota.
Dopo le promesse e la partenza della marchesa, Fleur-de-Marie
avrebbe dovuto essere contentissima di poter rivedere i suoi amici
di Bouqueval, Rodolphe...
Ma non fu così.
Il cuore le si strinse dolorosamente. Le tornavano continuamente
alla mente le aspre parole e gli alteri sguardi inquisitori che le
aveva gettato la signora d’Harville quando lei, povera prigioniera,
aveva avuto slanci d’entusiasmo parlando del suo benefattore.
Con un colpo di straordinaria intuizione, la Goualeuse aveva
compreso così in parte il segreto della signora d’Harville.
“Il calore della mia riconoscenza per il signor Rodolphe ha ferito
quella giovane signora così bella e di così alto rango” pensò
Fleur-de-Marie... “Adesso capisco l’amarezza delle sue parole e lo
sprezzo che c’era in quella sua espressione di gelosia...
Lei! gelosa di me? Deve amarlo allora... Ma lo amo anch’io? il mio
amore deve essere trapelato senza ch’io volessi!...
Amarlo... io, io donna ormai disonorata per sempre come sono,
degradata e miserabile... oh, se fosse vero... sarebbe mille volte
meglio la morte...”
Va detto subito che la povera ragazza, che sembrava destinata a
tutti i martiri, definendo amore il suo sentimento stava esagerando.
Alla profonda gratitudine per Rodolphe si aggiungeva un’involontaria
ammirazione per la grazia, la forza, la bellezza che lo
distinguevano fra tutti; non c’era niente di più puro e di più
immateriale di questa ammirazione; eppure tale ammirazione era viva
e
potente in lei, perché la bellezza fisica è sempre attraente.
E poi infine, la voce del sangue, nonostante fosse spesso negata,
silenziosa, ignara e ignorata, talvolta si faceva sentire; gli
slanci di appassionata tenerezza che trascinavano Fleur-de-Marie
verso Rodolphe e di cui ella si spaventava, perché ignara com’era,
ne snaturava la tendenza, quegli slanci provenivano da misteriose
simpatie,
evidenti sì, ma inesplicabili come la somiglianza dei lineamenti...
Insomma, se Fleur-de-Marie avesse saputo di essere figlia di
Rodolphe, si sarebbe spiegata la forte attrazione che sentiva per
lui; allora, completamente illuminata, avrebbe ammirato senza
scrupoli la bellezza di suo padre.
Da questo si capisce perché Fleur-de-Marie, nonostante do-
vesse aspettarsi da un momento all’altro, in seguito alla promessa
della signora d’Harville, di uscire da Saint-Lazare, fosse tanto
abbattuta.
Fleur-de-Marie stava quindi pensosa e malinconica sul sedile vicino
alla vasca intenta a guardare i giochi di alcuni uccelletti che
venivano sfacciatamente a saltellare sul bordo di pietra. Per un
momento aveva smesso di lavorare a una camiciola, cui aveva fatto
l’orlo.
È necessario dire che quella camiciola faceva parte del corredino
generosamente offerto alla Mont-Saint-Jean dalle detenute, dopo il
generoso intervento di Fleur-de-Marie?
La povera e deforme protetta della Goualeuse era seduta ai suoi
piedi; pur impegnata a finire una cuffietta, di tanto in tanto
gettava sulla sua benefattrice uno sguardo riconoscente, timido e
devoto... lo sguardo del cane per il padrone.
La bellezza, il fascino, l’incantevole dolcezza di Fleur-de-Marie
ispiravano a quella donna disonorata attrazione e rispetto.
C’è sempre qualcosa di sacro, di grande nelle ispirazioni di un
cuore, anche se corrotto, che si apre per la prima volta alla
riconoscenza; e finora nessuno aveva messo la Mont-Saint-Jean in
grado di provare il religioso ardore di un sentimento così nuovo per
lei.
Dopo qualche minuto Fleur-de-Marie si scosse leggermente si asciugò
una lacrima e si rimise a cucire con lena.
«Ma non volete riposarvi durante la ricreazione, mio buon angelo
salvatore?» disse la Mont-Saint-Jean alla Goualeuse.
«Non ho dato denaro per comprare il corredino... devo quindi dare la
mia parte facendo qualche lavoro...» rispose la fanciulla.
«La vostra parte! Dio buono!... ma se non ci foste stata voi, invece
di questa bella tela bianca, di questo fustagno che tiene caldo, per
vestire la mia creatura, avrei solo gli stracci che tutti
trascinavano nel fango del cortile... Sono molto grata alle mie
compagne, sono state molto buone con me... è vero... ma voi? Oh
voi... come posso dirvelo?» aggiunse la povera donna, esitante e
imbarazzata dal pensiero che voleva esprimere. «Vedete» ella
riprese, «quello è il sole, vero? è il sole...»
«Sì, Mont-Saint-Jean... su, vi ascolto» rispose Fleur-de-Marie
chinando il suo bel viso verso l’orrenda faccia della compagna.
«Dio mio, adesso mi prenderete in giro» riprese costei con
tristezza, «vorrei cercare di parlare... ma non so...»
«Dite lo stesso, Mont-Saint-Jean.»
«Che occhi d’angelo avete!» disse la detenuta, contemplando estatica
Fleur-de-Marie, «mi danno coraggio... i vostri dolci occhi...
vediamo, cercherò di dirvi quello che volevo, ecco il sole, non è
vero? è caldo, rallegra la prigione, è bello da vedersi e da
sentirsi vero?»
«Senza dubbio...»
«Ma pensiamo che... questo sole... non si è fatto da sé, e se gli si
è grati, a maggior ragione si deve essere grati...»
«A colui che l’ha creato, vero, Mont-Saint-Jean?... Avete ragione...
e perciò dobbiamo pregarlo, adorarlo... è Dio.»
«Oh, ecco... la mia idea» gridò gioiosamente la carcerata; «è
proprio così; io devo essere riconoscente alle mie compagne; ma voi,
Goualeuse, io devo pregare e adorare, perché da cattive che erano
con me voi le avete rese buone.»
«Dovete ringraziare Dio, Mont-Saint-Jean, non me.»
«Oh! sì, voi, voi... vi vedo qua... mi avete fatto del bene da parte
vostra e da parte delle altre.»
«Ma se sono buona come dite, Mont-Saint-Jean, è Dio che mi ha fatto
così... a lui quindi dovete rendere grazie.»
«Ah, sì... allora va bene... visto che lo dite voi» riprese la
detenuta indecisa; «se a voi fa piacere così... va bene...»
«Sì, povera Mont-Saint-Jean... pregatelo spesso... sarà il miglior
modo per dimostrarmi che mi volete un po’ di bene...»
«Se vi voglio bene, Goualeuse! Dio mio!!! Ma non vi ricordate più di
quello che avete detto alle altre detenute perché non mi
picchiassero? “Non picchiate lei soltanto... ma anche la sua
creatura.” Ebbene!... nello stesso modo non vi voglio bene per me
sola, ma anche per la mia creatura...»
«Grazie, grazie, Mont-Saint-Jean, queste parole mi fanno molto
piacere.»
E Fleur-de-Marie tese commossa la mano alla compagna.
«Che bella manina da fata!... com’è bianca e graziosa!» disse la
Mont-Saint-Jean tirandosi indietro, come se temesse di toccare con
le sue brutte mani rosse e rugose quella mano delicata.
Tuttavia, dopo un momento di esitazione, ella sfiorò rispettosamente
con le labbra la punta delle dita affilate che Fleur-deMarie le
aveva offerto; poi, inginocchiatasi di scatto, si mise a guardarla
fisso come assorta in profondi pensieri.
«Ma venite a sedervi qui vicino a me,» le disse la Goualeuse.
«Oh!... questo mai... mai...»
«Perché?»
«Per rispetto alla disciplina, come diceva il mio bravo corag-
gioso Mont-Saint-Jean; soldati con soldati, ufficiali con ufficiali,
ognuno con i suoi pari.»
«Voi siete matta... non c’è nessuna differenza fra voi e me...»
«Nessuna differenza, Dio buono! Voi dite così ma io vi vedo bella
come una regina; oh, ma che vi importa?... lasciatemi qui, in
ginocchio a guardarvi come poco fa... Diamine... chi sa niente?...
Sebbene io sia un vero mostro, può darsi che il mio bambino vi
assomiglierà... Dicono che qualche volta con uno sguardo... può
succedere...»
Poi, per uno scrupolo di delicatezza che può sembrare impossibile in
una simile donna, la Mont-Saint-Jean, temendo di aver forse umiliato
o ferito Fleur-de-Marie con quel suo strano desiderio, aggiunse
tristemente:
«No, no... l’ho detto per scherzo, Goualeuse, non mi permetterei mai
di guardarvi con quell’intenzione senza che voi lo vo-
gliate... Il mio bambino sarà brutto come me... che m’importa?...
non per questo gli vorrò meno bene; povero disgraziato, non ha
chiesto lui di nascere, come si dice... E se vive... che ne sarà di
lui?» disse con cupo abbattimento. «Ahimè!... sì, che ne sarà di
lui, Dio mio?»
Queste parole fecero sussultare la Goualeuse.
Infatti, cosa sarebbe successo della creatura di quella poveretta,
infamata, degradata, povera e disprezzata?... Che sorte!... che
avvenire?...
«Non pensate a questo, Mont-Saint-Jean» riprese Fleur-deMarie,
«speriamo che il vostro bambino possa trovare sulla strada qualche
persona caritatevole.»
«Oh! vedete, Goualeuse, non si può avere due volte di seguito tanta
fortuna!» disse amaramente la Mont-Saint-Jean, scuotendo la testa:
«io ho incontrato... voi... ed è stata già una bella combinazione...
e, vedete, sia detto senza offesa, avrei preferito che questa
fortuna fosse toccata a mio figlio. Questo augurio... è tutto quello
che gli posso offrire».
«Pregate, pregate... Dio vi esaudirà.»
«Va bene, pregherò, se questo vi fa piacere, Goualeuse, forse mi
porterà fortuna; infatti chi mai avrebbe detto, quando la Louve mi
picchiava o quando ero lo zimbello di tutti, che ci sarebbe stato un
piccolo angelo salvatore, che con la sua vocetta dolce sarebbe stato
più forte di tutti e anche della Louve che è così forte e
cattiva?...»
«Sì, ma la Louve è stata molto buona con voi... quando s’è accorta
che voi eravate molto da compiangere.»
«Oh sì, è vero... per merito vostro, non lo dimenticherò mai... Ma
sentite, Goualeuse, perché mai la Louve, dall’altro giorno, ha
chiesto di cambiare reparto... lei che, nonostante la sua collera,
sembrava che non potesse più restare senza di voi?»
«È un po’ capricciosa...»
«È strano... una donna che è venuta stamane dal reparto della
prigione dov’è ora la Louve, dice che ella è completamente diversa.»
«Come mai?»
«Invece di litigare con tutti e di minacciare tutti è triste...
triste, e va a mettersi negli angoli; se le si parla vi gira la
schiena e non vi risponde... Vederla adesso silenziosa, lei che
gridava sempre, fa meraviglia, vero? E poi quella donna mi ha detto
ancora una cosa ma quanto a questo... non ci credo.»
«Che cosa?»
«Ella dice di aver visto piangere la Louve... impossibile che la
Louve pianga.»
«Povera Louve! per causa mia ha voluto cambiare reparto... l’ho
fatta soffrire senza volere» disse la Goualeuse sospirando.
«Voi, far soffrire qualcuno, mio buon angelo salvatore...»
«In quel momento l’ispettrice Armand entrò nel cortile.» Dopo aver
cercato con gli occhi Fleur-de-Marie, le si avvicinò
contenta e sorridente, dicendole:
«Buone notizie, figliola...»
«Che dite, signora?» esclamò la Goualeuse.
«I vostri amici non vi hanno dimenticata; hanno ottenuto
l’autorizzazione a liberarvi... il direttore ne ha ricevuto or ora
l’avviso.»
«È possibile, signora? oh, che felicità, Dio mio!...»
Dall’emozione Fleur-de-Marie impallidì, si portò la mano al cuore
che le batteva con violenza e ricadde a sedere sulla panchetta.
«Calmatevi, figliola» le disse la signora Armand con bontà, «per
fortuna le agitazioni di questo genere non sono pericolose.»
«Ah, signora, quanto sono riconoscente!...»
«Deve essere stata sicuramente la marchesa d’Harville a ottenere la
vostra libertà... C’è una vecchia signora che ha l’incarico di
condurvi presso certe persone che s’interessano a voi...
Aspettatemi, tornerò subito a prendervi; bisogna che vada in
laboratorio a dire alcune cose.»
Sarebbe difficile dipingere l’espressione di cupa desolazione che
oscurò la faccia alla Mont-Saint-Jean, quando sentì che il suo
angelo salvatore (così ella chiamava la Goualeuse) se ne sarebbe
andato da Saint-Lazare.
Il dolore di quella donna era da attribuirsi più al dispiacere di
vedere andare via il solo essere che le avesse dimostrato un po’
d’affetto che al timore di ridiventare lo zimbello della prigione.
Sempre seduta ai piedi della panchetta, la Mont-Saint-Jean si portò
le mani ai due ciuffi di capelli irti e arruffati che le uscivano
dalla sua vecchia cuffia nera, come per strapparseli; poi, essendo a
quel violento dolore successo l’abbattimento, ella lasciò ricadere
la testa, e restò silenziosa, immobile, con la fronte nascosta tra
le mani, i gomiti appoggiati sulle ginocchia.
Nonostante Fleur-de-Marie fosse contenta di uscire di prigione, il
pensare alla Chouette e al Maître d’école la fece rabbrividire un
istante, essendosi ricordata che quei due mostri le avevano fatto
giurare di non informare i suoi benefattori della sua triste sorte.
Ma questi funesti pensieri furono subito dissipati nella mente di
Fleur-de-Marie dalla speranza di poter presto riveder Bouqueval, la
signora Georges e Rodolphe, a cui voleva raccomandare la Louve e
Martial; le sembrava perfino che l’acceso sentimento che si
rimproverava di nutrire per il suo benefattore, non essendo più
stimolato dal dolore e dalla solitudine, si sarebbe calmato non
appena essa avesse ripreso quella vita rustica che le piaceva tanto
dividere con i buoni e semplici abitanti della fattoria.
Stupita dal silenzio della compagna, silenzio di cui non sospettava
la causa, la Goualeuse le toccò leggermente la spalla, dicendole:
«Mont-Saint-Jean, visto che sono libera... posso esservi utile in
qualcosa?».
Sentendo la mano della Goualeuse, la prigioniera con un sussulto
lasciò ricadere le braccia sulle ginocchia, e volse verso la
giovanetta un viso inondato di lacrime.
Il volto della Mont-Saint-Jean s’atteggiò a così profondo dolore che
la sua bruttezza ne pareva quasi cancellata.
«Dio mio!... che avete?» le disse la Goualeuse; «come piangete!»
«Ve ne andate!» disse piano la poveretta con voce rotta da
singhiozzi; «non avevo mai pensato che da un momento all’altro
avreste potuto andarvene di qui... e che non vi avrei visto più...
più... mai più...»
«Vi assicuro che mi ricorderò sempre della vostra amicizia...
Mont-Saint-Jean.»
«Dio mio, Dio mio!... e dire che già vi volevo tanto bene...
Quand’ero seduta per terra, ai vostri piedi... mi sembrava di essere
al sicuro... di non dover temere più niente. Non lo dico per le
botte che le altre ricominceranno a darmi... ho la schiena dura...
Ma insomma, per me voi eravate la mia buona sorte e poi avreste
portato fortuna al mio bambino, se non altro perché avevate avuto
pietà di me... Eh, è vero; quando si è abituati a essere
maltrattati, si è sensibili più degli altri alla bontà.» Poi, dopo
che i singhiozzi l’avevano interrotta, aggiunse: «Sì, è finita... è
finita... Ma doveva succedere un giorno o l’altro... il mio torto è
di non averci mai pensato... È finita... più niente... più
niente...».
«Su, coraggio, io mi ricorderò di voi, come voi vi ricorderete di
me».
«Oh quanto a questo, anche se mi facessero a pezzi non mi
costringerebbero a rinnegarvi o a dimenticarvi: anche se diventassi
vecchia, vecchia come le strade, avrei sempre davanti agli occhi il
vostro bel viso d’angelo. La prima parola che insegnerò al mio
bambino sarà il vostro nome, dal momento che è merito vostro se non
morirà di freddo...»
«Ascoltatemi, Mont-Saint-Jean» disse Fleur-de-Marie, commossa
dall’affetto di quella poveretta, «non posso promettere niente per
voi... sebbene io conosca certe persone molto caritatevoli; ma per
il vostro bambino... è diverso... esso è innocente di tutto, e le
persone che so io avranno forse la bontà d’incaricarsi di farlo
educare quando voi potrete separarvene...»
«Separarmi dal mio bambino?... mai, oh, mai» esclamò la
Mont-Saint-Jean con esaltazione; «che ne sarebbe di me dopo che ho
contato tanto su di lui?...»
«Ma come potrete educarlo voi? Femmina o maschio, bisogna che sia
onesto, e per questo...»
«Deve mangiare pane onesto, vero, Goualeuse? Certo, è la mia
aspirazione; me lo dico ogni giorno; così, uscendo di prigione, non
rimetterò più piede sotto un ponte... Farò la straccivendola, la
spazzina, ma onesta, questo lo si deve, se non a se stesse,
perlomeno al proprio figlio, quando si ha l’onore di averne uno...»
disse con orgoglio.
«E chi si occuperà del vostro bambino mentre sarete in prigione?»
continuò la Goualeuse; «non sarebbe meglio, se fosse possibile come
spero, mandarlo in campagna, in casa di gente onesta che potrebbe
farne una brava ragazza di fattoria o un bravo coltivatore? Di tanto
in tanto voi potreste venire a trovarlo, e un giorno potreste avere
modo di riavvicinarvi a lui; in campagna si vive con così poco!»
«Ma separarmene, separarmene! io riponevo tutta la mia gioia in lui,
io che non ho niente a cui voler bene.»
«Bisognerà pensare più a lui che a voi, mia povera Mont-SaintJean,
fra due o tre giorni, scriverò alla signora Armand e, se la domanda
che conto di fare a favore del vostro bambino sarà accolta, voi non
dovrete più dire di lui ciò che prima mi ha sgomentato: Ahimè, Dio
mio, che ne sarà di lui?»
A questo punto la conversazione fu interrotta dall’arrivo
dell’ispettrice Armand; era venuta a prendere Fleur-de-Marie.
Dopo essere di nuovo scoppiata in singhiozzi e aver bagnato di
lacrime di disperazione le mani della Goualeuse, la Mont-SaintJean
ricadde sulla panchetta come istupidita, e senza nemmeno pensare
alla promessa che Fleur-de-Marie le aveva fatto per la sua creatura.
«Povera donna!» disse la signora Armand uscendo dal cortile seguita
da Fleur-de-Marie. «La sua gratitudine per voi mi fa avere
un’opinione migliore di lei.»
Sparsasi la notizia della liberazione della Goualeuse, le detenute,
invece di essere invidiose, ne furono molto contente; alcune
andarono a far cerchio attorno a Fleur-de-Marie, per congratularsi
con lei della sua pronta scarcerazione e porgerle un cordiale
saluto.
«Però» disse una di loro; «questa biondina ci ha fatto avere un
momento di bontà... quando abbiamo fatto la colletta per la
Mont-Saint-Jean. Ci si ricorderà di ciò a Saint-Lazare.»
Quando Fleur-de-Marie si fu allontanata dalle carcerate accompagnata
dall’ispettrice, costei le disse:
«Adesso, figliola, andate al guardaroba, depositate i vestiti da
carcerata e ripigliatevi quelli da contadina che, semplici come
sono, vi stanno molto bene. Addio; sarete felice perché lasciando
questa casa dove non tornerete più vi troverete sotto la protezione
di persone raccomandabili. Ma... guardate... non sono ragionevole»
disse la signora Armand i cui occhi si bagnarono di lacrime; «non
posso non dimostrarvi quanto mi fossi già affezionata a voi, povera
fanciulla!». Poi vedendo che anche Fleur-de-Marie stava per
piangere, l’ispettrice aggiunse: «Non me ne vorrete, spero, di
rattristare così la vostra partenza?».
«Ah, signora... non è forse grazie alla vostra raccomandazione che
quella giovane signora, a cui devo la libertà, si è interessata alla
mia sorte?»
«Sì, e sono contenta di ciò che ho fatto; i miei presentimenti non
mi avevano ingannata...»
In quel momento suonò una campana.
«Ecco l’ora del lavoro nei laboratori, bisogna che vada... Addio,
ancora addio, cara figliola!...»
E, commossa quanto Fleur-de-Marie la signora Armand l’abbracciò
teneramente; poi disse a uno degli impiegati della prigione:
«Conducete la signorina al guardaroba».
Un quarto d’ora dopo, Fleur-de-Marie, vestita da contadina come
l’abbiamo vista alla fattoria di Bouqueval, entrava nella stanza
della cancelleria, dove l’aspettava la signora Séraphin.
La governante del notaio Jacques Ferrand era venuta a prendere la
disgraziata ragazza per condurla all’isola del Predone.
XI RICORDI
Jacques Ferrand, con prontezza e abilità, era riuscito a ottenere
che Fleur-de-Marie, cosa che dipendeva da una semplice decisione
amministrativa, venisse liberata.
Avendo saputo dalla Chouette che la Goualeuse era a SaintLazare,
egli si era subito rivolto a un suo cliente, persona rispettabile e
molto influente, e gli aveva detto che da poco era stata portata a
Saint-Lazare una ragazza un tempo traviata ma ora sinceramente
pentita e che questa ragazza correva il rischio, venendo a contatto
con le detenute, di veder vacillare le sue buone decisioni.
Essendogli la ragazza stata raccomandata da persone stimabilissime
che si sarebbero prese cura di lei non appena fosse uscita di
prigione, aveva aggiunto Jacques Ferrand, egli pregava il suo
influente cliente, in nome della morale, della religione e della
futura riabilitazione di quella sventurata, di sollecitarne la
scarcerazione.
Infine, il notaio, per mettersi al sicuro da ogni eventuale ricerca,
aveva supplicato in modo particolarmente caloroso il suo cliente che
non venisse fatto il suo nome in questa buona opera; fu un desiderio
che si attribuì alla filantropica modestia di Jacques Ferrand, uomo
devoto e rispettabile, e che fu scrupolosamente osservato: la
scarcerazione di Fleur-de-Marie venne chiesta e ottenuta col solo
nome del cliente il quale, per colmo di gentilezza, mandò
direttamente a Jacques Ferrand l’ordine di scarcerazione, affinché
egli potesse farlo avere ai protettori della ragazza.
La signora Séraphin, all’atto di consegnare quell’ordine al
direttore della prigione, aveva aggiunto che era stata incaricata di
condurre la Goualeuse dalle persone che si interessavano a lei.
In seguito alle ottime informazioni date dall’ispettrice alla
signora d’Harville su Fleur-de-Marie, nessuno dubitò che costei non
dovesse la libertà all’intervento della marchesa.
La governante del notaio quindi non poteva suscitare nella sua
vittima alcuna diffidenza.
All’occorrenza la signora Séraphin aveva, come si suol dire,
l’aspetto di una buona donna; si doveva essere acuti osservatori per
riuscire a scorgere un non so che di subdolo, di falso, di crudele
nel suo sguardo da bigotta e nel suo sorriso ipocrita.
Nonostante la profonda scelleratezza che l’aveva resa complice e
confidente dei delitti del padrone, la signora Séraphin non poté
non essere colpita dalla conturbante bellezza di quella giovinetta,
che ella aveva consegnato da bambina alla Chouette e che ora
conduceva a morte certa.
«Ebbene, cara signorina» le disse la signora Séraphin con voce
melliflua, «sarete contenta, no, di uscire di prigione?»
«Oh, sì, signora, e certo lo devo alla protezione della signora
d’Harville, che è stata così buona con me...»
«Non vi sbagliate... ma venite... abbiamo fatto un po’ tardi, e
dobbiamo fare molta strada.»
«Andiamo alla fattoria di Bouqueval, dalla signora Georges, vero
signora?» esclamò la Goualeuse.
«Sì... certo... andiamo in campagna... dalla signora Georges» disse
la governante per allontanare ogni sospetto dalla mente di
Fleur-de-Marie, poi aggiunse con un’aria di leggera malizia:
«Ma non è tutto: prima di andare dalla signora Georges vi aspetta
una piccola sorpresa; venite... venite, la carrozza è giù... Che
“oh” sosprirerete uscendo da qui... cara signorina!... su,
andiamo... Serva vostra, signori».
E la signora Séraphin, dopo aver salutato il cancelliere e
l’impiegato, scese insieme con la Goualeuse.
Le due donne erano seguite da un guardiano che doveva far aprire le
porte.
L’ultima di queste era appena stata chiusa, e le due donne si
trovavano sotto il vasto porticato che dà sulla rue du faubourg
Saint-Denis, quando s’imbatterono in una ragazza che doveva essere
stata a fare visita a qualche carcerata.
Era Rigolette, Rigolette sempre svelta e graziosa; una cuffietta
semplicissima, ma quasi nuova e guarnita di nastri color ciliegia
che s’intonavano perfettamente con le sue bande di capelli neri, le
incorniciava il bel musetto; un collettino bianchissimo le stava
ripiegato sul lungo e scuro scialle di tartan. Al braccio aveva una
borsa di paglia; grazie al suo modo di camminare da gattina attenta
e giudiziosa, gli stivaletti con suole grosse che calzava erano di
una pulizia miracolosa, sebbene la povera ragazza venisse, ahimè, da
molto lontano.
«Rigolette!» gridò Fleur-de-Marie riconoscendo la sua ex compagna di
prigione e di passeggiate campestri.
«Goualeuse!» disse a sua volta la sartina.
E le due ragazze si gettarono l’una nelle braccia dell’altra.
Era delizioso il contrasto che offrivano queste due ragazze di
sedici anni, teneramente abbracciate, tutte e due così belle, eppure
così diverse di fisionomia e di bellezza.
Una era bionda, con due grandi occhi azzurri melanconici, con un
profilo di ideale angelica purezza, un po’ pallida e afflitta ed
eterea come quelle adorabili contadine di Greuze, dal colorito così
fresco e trasparente... stupendo impasto di trasognamento, candore e
grazia...
L’altra era bruna, provocante, con le guance rotonde e colorite,
begli occhi neri, un sorriso ingenuo, e un viso di ragazza sveglia,
affascinante immagine di gioventù, di noncuranza e di brio, raro e
commovente esempio di felicità nella povertà, di onestà
nell’abbandono e di allegria nel lavoro.
Dopo la prima effusione di tenerezza, le due ragazze si guardarono
in faccia.
Rigolette era raggiante di gioia per quell’incontro... Fleur-deMarie
confusa...
La sua amica le ricordava i pochi giorni di felicità e di pace che
aveva avuto prima di disonorarsi.
«Sei tu... che piacere!» aveva detto la sartina...
«Dio mio, sì, che bella sorpresa! è un pezzo che non ci vediamo...»
rispose la Goualeuse.
«Ah! adesso non mi stupisco se ti ho rivista dopo sei mesi...»
soggiunse Rigolette che aveva notato i vestiti da contadina della
Goualeuse, «dunque stai in campagna?...»
«Sì... da un po’ di tempo» disse Fleur-de-Marie abbassando gli
occhi...
«E sei venuta come me a trovare qualcuno che è in prigione?»
«Sì... sono venuta... sono venuta a trovare una persona» disse
Fleur-de-Marie balbettando e diventando rossa dalla vergogna.
«E te ne ritorni a casa?... certo lontano da Parigi? cara piccola
Goualeuse sempre così buona: sei sempre la solita, ti riconosco...
Ti ricordi della povera partoriente a cui hai dato il tuo materasso,
la biancheria e quel poco denaro che ti era rimasto, che noi stavamo
per andare a spendere in campagna?... perché anche allora andavi
pazza per la campagna, tu... signorina campagnola.»
«A te invece non piaceva molto, Rigolette: come eri compiacente! ci
venivi per farmi piacere.»
«E anche per me... perché tu, che eri sempre un tantino seria,
diventavi così contenta, allegra e pazzerella appena arrivavi in
mezzo ai campi e ai boschi... che il solo vederti... era un piacere
per me... ma lascia che ti guardi. Come ti sta bene questa bella
cuffietta! come sei bellina così! decisamente... era la tua
vocazione portare la cuffia da contadina, come la mia quella di
portare una cuffia da sartina... Eccoti come ti volevi, sarai
contenta... del
resto non mi meraviglio... quando non ti ho più vista, mi son detta:
Quella buona Goualeuse non è fatta per Parigi, è un vero fiore di
bosco, come dice la canzone, e quei fiori lì non vivono nella
capitale, perché l’aria non è buona per loro... Perciò la Goualeuse
si sarà impiegata presso qualche brava persona di campagna: hai
fatto così, vero?»
«Sì...» disse Fleur-de-Marie arrossendo.
«Però devo farti un rimprovero.»
«A me?...»
«Avresti dovuto avvertirmi... non ci si lascia così da un giorno
all’altro... almeno senza dare notizie.»
«Ho... lasciato Parigi... così in fretta» disse Fleur-de-Marie
sempre più confusa, «che non ho potuto.»
«Oh, non sono mica arrabbiata, sono troppo contenta di rive-
derti... Hai fatto bene ad andare via da Parigi... è così difficile
viverci tranquille; senza contare che una povera ragazza sola come
me e te può andare a finire male senza accorgersi... Quando non c’è
nessuno che ci consigli... si è così indifese... gli uomini vi fanno
sempre tante belle promesse; e poi, diamine, a volte la miseria è
così dura... Di’, ti ricordi della piccola Julie che era così
carina? e di Rosine, quella bionda con gli occhi neri?»
«Sì... me ne ricordo.»
«Ebbene, mia povera Goualeuse, sono state ingannate tutte e due, poi
abbandonate, e da una disgrazia all’altra hanno finito col diventare
di quelle donnacce che vengono messe qua dentro...»
«Ah, Dio mio!» esclamò Fleur-de-Marie che abbassò la testa,
diventando di porpora.
Rigolette, interpretato male il significato dell’esclamazione della
sua amica, riprese:
«Sono colpevoli, degne di disprezzo anche, se vuoi, non dico di no;
ma, vedi, cara Goualeuse, perché abbiamo avuto la fortuna di restare
oneste: tu, perché sei andata a vivere in campagna, a stare con
brava gente; io, perché non avevo tempo da perdere con gli
innamorati... e perché preferivo a loro i miei uccelletti e tutta la
mia gioia era quella di farmi, lavorando, una bella casetta... non
dobbiamo essere troppo severe con le altre; Dio mio, chissà come
l’occasione, i raggiri, la miseria avranno inciso sulla cattiva
condotta di Rosine e di Julie... chissà se al loro posto avremmo
fatto anche noi come loro?».
«Oh» disse amaramente Fleur-de-Marie, «io non le accuso... le
compiango...»
«Su, su, abbiamo fretta, cara signorina» disse la signora Séraphin,
offrendo con impazienza il braccio alla sua vittima.
«Signora, concedetemi ancora qualche minuto; è da tanto che non vedo
la buona Goualeuse» disse Rigolette.
«Ma è tardi, signorina, sono le tre, e noi abbiamo da fare un
viaggio molto lungo» rispose la signora Séraphin molto contrariata
da quell’incontro; poi soggiunse: «Vi do ancora dieci minuti...».
«E tu» riprese Fleur-de-Marie, stringendo le mani all’amica, «hai
sempre un così bel carattere; sei sempre allegra? sempre
contenta?...»
«Fino a qualche giorno fa... ero allegra e contenta, ma adesso...»
«Hai qualche dispiacere?»
«Io? oh bella, tu mi conosci... una buontempona... Non sono
cambiata... ma purtroppo tutti non sono come me... E poiché gli
altri hanno dei dispiaceri, bisogna che ne abbia anch’io.»
«Sempre buona...»
«Che vuoi?... Pensa che vengo qui per una povera ragazza... una
vicina... una pecorella del buon Dio, che accusano ingiustamente e
che è molto infelice; si chiama Louise Morel ed è figlia di un
onesto operaio che è impazzito dal dolore.»
All’udire il nome di Louise Morel, una delle vittime del notaio, la
signora Séraphin sussultò e guardò attentamente Rigolette.
La faccia della sartina le era completamente sconosciuta; ciò
nondimeno da allora in poi la governante prestò molta attenzione
alla conversazione delle due ragazze.
«Povera ragazza!» riprese la Goualeuse, «come sarà contenta di non
essere dimenticata da te nella sventura!»
«E non è tutto, sembra fatto apposta: tu mi vedi qui ma io vengo da
molto lontano... da un’altra prigione... una prigione maschile.»
«Da una prigione maschile, tu?...»
«Ah, Dio mio, sì, ho lì un altro povero conoscente tanto triste...
così guarda la mia borsa (e Rigolette la mostrò) divisa in due
parti, ognuno ha la sua parte: adesso porto a Louise un po’ di
biancheria, e poco fa ho portato qualcosa al povero Germain... il
mio prigioniero si chiama Germain; vedi, non posso pensare a quel
che mi è accaduto con lui senza che mi venga da piangere... è da
stupidi, so che non ne vale la pena, ma insomma io sono così.»
«E perché hai voglia di piangere?»
«Immaginati che Germain è così addolorato di essere stato messo in
mezzo a quella gentaglia della prigione che è depresso, non ha più
voglia di niente, non mangia più e dimagrisce a vista d’occhio... Me
ne accorgo e mi dico: Non ha fame, gli farò un manicaretto che gli
piaceva tanto quando era mio vicino, questo gli stuzzicherà
l’appetito... Dico manicaretto ma intendiamoci, erano semplicemente
delle belle patate gialle schiacciate con un po’ di latte e
zucchero; ne riempio una bella tazza pulita, e gliela porto alla
prigione, dicendogli che l’avevo preparata io, come una volta, ai
bei tempi, capisci; credevo di poter fargli venire un po’ di voglia
di mangiare... oh, sì...»
«Come?»
«Gli è venuta invece voglia di piangere; quando ha riconosciuto la
tazza in cui solevo spesso bere il latte davanti a lui, è scoppiato
in singhiozzi... e per giunta ho finito col fare lo stesso anch’io,
sebbene cercassi di trattenermi. Vedi come sono stata fortunata,
credevo di far bene... di consolarlo, e invece l’ho reso ancora più
triste.»
«Sì, ma quelle lacrime gli saranno state tanto dolci!»
«Va bene, ma avrei voluto consolarlo diversamente; io ti sto
parlando di lui senza dirti chi è; è un mio ex vicino... un ragazzo
onestissimo dolce e timido come una ragazza a cui volevo bene come a
un amico, a un fratello.»
«Oh, allora penso che i suoi dispiaceri siano anche i tuoi.»
«Non è vero? Ma adesso sentirai che cuore ha. Nell’andarmene, gli ho
chiesto, come sempre, se desiderava qualcosa dicendogli ridendo, per
cercare di rallegrarlo un po’, che ero la sua donnetta di servizio e
che sarei stata puntuale e attiva, per non perdere il posto. Allora
lui, cercando di sorridere, mi ha chiesto di portargli un romanzo di
Walter Scott, che una volta mi leggeva di sera mentre io lavoravo;
il romanzo si chiama Ivan... Ivanhoe... sì, proprio così. Mi piaceva
tanto che me lo ha letto due volte... Povero Germain! era così
gentile!»
«Vorrà avere un ricordo di quel tempo felice...»
«Certo, dato che mi ha pregato di andare nella stessa libreria, non
per prendere in prestito, ma per comperare gli stessi volumi che
leggevamo assieme... Sì, comperarli... e figurati che per lui è un
sacrificio, perché è povero come noi.»
«Che ottimo cuore!» disse la Goualeuse tutta commossa.
«Eccoti intenerita come lo ero io... quando mi ha dato questa
commissione, mia buona Goualeuse; ma capisci, più avevo voglia di
piangere, più mi sforzavo di ridere, perché piangere due
volte in una visita fatta per rallegrarlo era troppo... Così, per
nascondere la commozione, mi sono messa a raccontargli le divertenti
storielle di un ebreo, un personaggio di quel romanzo che una volta
ci divertiva tanto... ma più parlavo, più mi guardava con grosse
lacrime agli occhi. Accidenti, mi si spezzava il cuore; avevo un bel
ringoiare le lacrime da un quarto d’ora... ho finito per fare come
lui; quando l’ho lasciato, singhiozzava, per cui mi sono detta,
infuriata della mia sciocchezza: “Se è così che lo consolo e che lo
rallegro, val proprio la pena che io lo venga a trovare, io che mi
propongo sempre di farlo ridere, ci riesco proprio bene!”.»
Al nome di Germain, altra vittima del notaio, la signora Séraphin
stava ancora più attenta di prima.
«E cosa ha fatto questo giovane, per essere in prigione?» chiese
Fleur-de-Marie.
«Lui!» gridò Rigolette, in cui alla tenerezza subentrava
l’indignazione, «è perseguitato da un vecchio mostro di notaio...
che è anche l’accusatore di Louise.»
«Di quella Louise che sei venuta a trovare qui?»
«Sì; faceva la serva dal notaio, e Germain era il suo cassiere...
sarebbe troppo lungo spiegarti di che cosa è stato ingiustamente
accusato il povero ragazzo... Ma una cosa è sicura, che quel
malvagio si accanisce contro questi due disgraziati, che non gli
hanno fatto nessun male... Ma pazienza, ognuno avrà ciò che si
merita...»
Rigolette pronunciò queste ultime parole con un’espressione che
preoccupò la signora Séraphin. E questa, invece di restare estranea
alla conversazione, vi s’intromise e disse a Fleur-de-Marie con voce
sdolcinata:
«Mia cara signorina, è tardi, bisogna andare... ci aspettano.
Capisco che ciò che dice la signorina vi interessi, perché anch’io,
che non conosco né la ragazza né il giovanotto in questione, ne sono
addolorata. Dio mio, è possibile che esistano persone così perverse?
E come si chiama il malvagio notaio che avete detto, signorina?».
Rigolette non aveva nessun motivo per diffidare della signora
Séraphin; tuttavia, ricordandosi che Rodolphe le aveva raccomandato
e imposto il più grande riserbo a proposito della segreta protezione
che avrebbero avuto Germain e Louise, si pentì di essersi lasciata
sfuggire queste parole: Pazienza, ognuno avrà ciò che si merita.
«Lo scellerato si chiama Ferrand, signora» rispose Rigolette e
aggiunse molto accortamente, per riparare la sua piccola impru-
denza: «ed è tanto più colpevole a tormentare Louise e Germain, in
quanto nessuno si interessa di loro... eccetto io, che conto ben
poco.»
«Peccato!» riprese la signora Séraphin, «avevo sperato che fosse il
contrario, quando voi m’avete detto: “Ma pazienza...”. Credevo che
contaste su qualche protettore per aiutare quei due poveretti contro
il perverso notaio.»
«Ahimè, no! signora» aggiunse Rigolette, per stornare completamente
i sospetti della signora Séraphin; «chi sarebbe tanto generoso da
mettersi dalla parte di questi due giovani disgraziati contro un
uomo ricco e potente come quel signor Ferrand?»
«Oh ci sono dei cuori tanto generosi da farlo!» replicò
Fleurde-Marie dopo un momento di riflessione e frenando a stento il
suo entusiasmo; «sì, conosco qualcuno per cui è un dovere proteggere
e difendere quelli che soffrono: costui è caritatevole con le
persone oneste quanto è terribile con i malvagi.»
Rigolette guardò stupita la Goualeuse; e pensando a Rodolphe fu sul
punto di dirle che anche lei conosceva qualcuno che prendeva
coraggiosamente le parti dei deboli contro i forti; ma sempre fedele
alle raccomandazioni del suo vicino (come ella chiamava il
principe), la sartina rispose a Fleur-de-Marie:
«Davvero? conosci qualcuno tanto generoso da venire in aiuto dei
poveri?...».
«Sì... e sebbene io abbia già da rivolgermi alla sua bontà e alla
sua beneficenza per altre persone, sono sicura che se sapesse delle
immeritate sventure di Louise e di Germain... li aiuterebbe e
punirebbe il loro persecutore... perché la sua giustizia e la sua
bontà sono inesauribili come quelle di Dio.»
La signora Séraphin guardò sorpresa la sua vittima.
“Che questa bambinella sia più pericolosa di quel che crediamo?”
pensò; “anche se avessi voluto aver pietà di lei, ciò che ha detto
ha reso inevitabile l’incidente che ce la leverà di torno.”
«Mia cara Goualeuse, dato che hai una così buona conoscenza,
raccomandale, ti prego, la mia Louise e il mio Germain perché
davvero non meritano quello che hanno avuto» disse Rigolette,
pensando che i suoi amici ci avrebbero guadagnato ad avere due
difensori invece di uno.
«Sta’ tranquilla, ti prometto che farò il possibile con il signor
Rodolphe» disse Fleur-de-Marie.
«Il signor Rodolphe!» esclamò Rigolette sbalordita. «Certo» disse la
Goualeuse.
«Il signor Rodolphe!... un commesso viaggiatore?»
«Non so che cosa sia... Ma perché ti meravigli tanto?» «Perché
anch’io conosco un signor Rodolphe.»
«Non può essere lo stesso.»
«Sentiamo: com’è il tuo?»
«Giovane!...»
«Appunto.»
«Una faccia buona e nobile.»
«Esattamente... ma Dio buono! proprio come il mio» disse Ri-
golette più che mai sbalordita, e aggiunse: «È bruno, con i
baffetti?»
«Sì.»
«Poi è alto e sottile... ha una bellissima figura... e l’aria tanto
distinta per essere solo un commesso viaggiatore... è sempre così il
tuo?»
«Certo, è lui» rispose Fleur-de-Marie; «mi stupisce soltanto che tu
lo creda un commesso viaggiatore.»
«Di questo, sono sicura... me l’ha detto lui.» «Lo conosci?»
«Se lo conosco? è mio vicino.»
«Il signor Rodolphe?»
«Ha una camera al quarto piano attigua alla mia.»
«Lui?... lui?...»
«Che cosa c’è di strano? È molto semplice, guadagna solo
1500 o 1800 franchi l’anno; quindi può permettersi solo un alloggio
modesto, sebbene sembra che non sia molto ordinato nelle sue
faccende... non sa nemmeno quanto costano gli abiti che porta... il
mio caro vicino...»
«No... no... non è lo stesso...» disse Fleur-de-Marie, riflettendo.
«Insomma, il tuo è la fenice degli uomini ordinati?»
«Quello di cui ti parlo, vedi, Rigolette» disse Fleur-de-Marie con
entusiasmo, «è onnipotente... il suo nome viene pronunciato con
amore e venerazione... il suo aspetto turba, fa soggezione... e si è
tentati d’inginocchiarglisi davanti tanto è buono e grande...»
«Allora non ci capisco più niente, mia cara Goualeuse; sono
d’accordo con te nel dire che non è lo stesso, perché il mio non è
né onnipotente né fa soggezione, è un caro ragazzo, molto allegro e
non ci si inginocchia davanti a lui; anzi, mi aveva promesso di dare
la cera al pavimento della mia camera, senza contare che mi doveva
portare a spasso la domenica... Vedi che non è un gran signore. Ma a
che penso? Ho sempre in testa le passeggiate!
E Louise e il mio caro Germain! finché stanno in prigione non ci
saranno divertimenti per me.»
Da qualche istante Fleur-de-Marie stava riflettendo profondamente;
si era ricordata improvvisamente che quando nella bettola aveva
parlato per la prima volta con Rodolphe, questi assomigliava ai
frequentatori della taverna e parlava come loro. Non poteva fare la
parte del commesso viaggiatore con Rigolette?
Ma qual era lo scopo di questo travestimento?
La sartina, notando l’aria pensierosa di Fleur-de-Marie, continuò:
«Non occorre che ti scervelli per questo, cara Goualeuse; è facile
sapere se conosciamo lo stesso Rodolphe; quando vedrai il tuo,
parlagli di me; e io, quando vedrò il mio, gli parlerò di te; così
sapremo come regolarci...».
«E dove abiti, Rigolette?»
«In rue du Temple, al n. 17.»
“Curiosa questa e utile a sapersi” disse tra sé la signora Séra-
phin, che aveva attentamente ascoltato la conversazione, “questo
signor Rodolphe, misterioso e potente personaggio, che finge di
essere un commesso, abita in una stanza vicino a quella di questa
sartina che ha l’aria di saperla più lunga di quel che non dica; e
questo difensore degli oppressi abita inoltre come la ragazza nella
casa di Morel e di Bradamanti... Bene, bene; se la sartina e il
finto commesso continuano a immischiarsi in affari che non li
riguardano, sapremo dove trovarli.”
«Quando avrò parlato al signor Rodolphe, ti scriverò» disse la
Goualeuse, «e ti darò il mio indirizzo perché tu possa rispondermi;
ma dimmi di nuovo il tuo, ho paura di dimenticarlo.»
«To’! ho proprio qui uno di quei bigliettini che do alle mie
clienti» e diede a Fleur-de-Marie un foglietto su cui era scritto in
bei caratteri bastardi: Signorina Rigolette, sarta, rue du Temple n.
17, «Sembra stampato, vero?» aggiunse la sartina. «È stato il povero
Germain a scrivermeli, quei bigliettini; era così buono, così
premuroso!... vedi, sembra che lo faccia apposta, ma si direbbe che
da quando è infelice io vada accorgendomi di tutte le sue buone
qualità... e adesso sto sempre a rimproverarmi di aver aspettato
tanto per amarlo...»
«Dunque, lo ami?»
«Ah, mio Dio, sì!... bisogna pure che abbia un pretesto per andare a
trovarlo in prigione... Ammetti che sono un po’ strana come ragazza»
disse Rigolette soffocando un sospiro e ridendo fra le lacrime, come
dice un poeta.
«Sei buona e generosa come sempre» disse Fleur-de-Marie, stringendo
con tenerezza la mano all’amica.
La signora Séraphin che doveva aver saputo abbastanza dal colloquio
delle due ragazze disse bruscamente a Fleur-de-Marie: «Su, su, cara
signorina, andiamo; è tardi, abbiamo già perduto
un quarto d’ora».
«Che brontolona questa vecchia!... non mi piace la sua faccia»
disse piano Rigolette a Fleur-de-Marie. Poi ella riprese ad alta
voce: «Quando verrai a Parigi, cara Goualeuse, non dimenticarti di
me; una tua visita mi farebbe tanto piacere! sarei così contenta di
passare un giorno con te, di mostrarti la mia casetta, la mia
camera, gli uccellini!... ho due uccellini... sono il mio spasso».
«Cercherò di venirti a trovare; comunque ti scriverò senz’altro;
bene, addio Rigolette, addio... Se tu sapessi come sono felice di
averti incontrata!»
«E io... ma spero che non sia l’ultima volta; e poi sono così
curiosa di sapere se il tuo Rodolphe è lo stesso mio... scrivimi
presto a questo proposito te ne prego.»
«Sì, sì,... addio Rigolette.»
«Addio, cara Goualeuse.»
E le due ragazze si abbracciarono teneramente, cercando di
nascondere la loro commozione.
Rigolette entrò in prigione per andare a trovare Louise col
permesso che le aveva fatto avere Rodolphe.
Fleur-de-Marie salì in carrozza con la signora Séraphin, che
ordinò al cocchiere di andare a Batignolles e di fermarsi alla
barriera.
Vicino alla barriera c’era una scorciatoia, molto breve, che portava
quasi direttamente alla riva della Senna non lontano dall’isola del
Predone.
Fleur-de-Marie, non conoscendo Parigi, non aveva potuto accorgersi
che la carrozza stava facendo una strada diversa da quella della
barriera Saint-Denis. Soltanto quando si fermarono a Batignolles,
disse alla signora Séraphin che l’aveva invitata a scendere:
«Signora, mi sembra che questa non sia la strada che porta a
Bouqueval... E poi come faremo ad andare a piedi da qui alla
fattoria?».
«Tutto quello che posso dirvi, cara signorina» riprese con
cordialità la governante, «è che eseguo gli ordini dei vostri
benefattori... e che fareste loro dispiacere se voi non voleste
seguirmi...»
«Oh, signora, non dubitate!» esclamò Fleur-de-Marie; «voi siete
stata mandata da loro, perciò non vi farò nessuna domanda... vi
seguirò ciecamente; ditemi solo se la signora Georges sta bene.»
«Sta benissimo.»
«E il signor Rodolphe?»
«Anch’egli molto bene.»
«Dunque, signora, lo conoscete, ma perché poco fa, quando
parlavo di lui con Rigolette, non avete detto niente?»
«Perché non dovevo dire niente... apparentemente. Ho le mie
istruzioni.»
«Ve le ha date lui?»
«Com’è curiosa la mia signorina! com’è curiosa!» disse riden-
do la governante.
«Avete ragione, signora; scusate le mie domande. Dal momen-
to che cominciamo ad andare a piedi per giungere al posto in cui
dovete portarmi» aggiunse Fleur-de-Marie sorridendo dolcemente,
«saprò presto ciò che desidero sapere.»
«Infatti, cara signorina, in meno di un quarto d’ora ci saremo.»
La governante, sorpassate le ultime case di Batignolles, prese con
Fleur-de-Marie un sentiero erboso, fiancheggiato da grossi noci.
Era una bella giornata tiepida; il cielo era striato di nubi rosse
della luce del tramonto: il sole declinando mandava i suoi raggi
obliqui sulle alture di Colombes, dall’altro lato della Senna.
Avvicinandosi alla riva del fiume, Fleur-de-Marie aveva acquistato
un po’ di colore sulle pallide guance e andava respirando con gioia
l’aria fresca e pura della campagna.
Il suo bel viso esprimeva una tale soddisfazione che la signora
Séraphin le disse:
«Sembrate molto contenta, cara signorina!».
«Oh, sì, signora... fra poco rivedrò la signora Georges, forse anche
il signor Rodolphe... ho certe persone disgraziate da raccomandare
loro... spero siano aiutate... come posso non essere felice. E se
anche fossi triste, la mia tristezza non dovrebbe cessare? E poi
vedete il cielo è così gaio con quelle sue nuvolette rosa! e
l’erba... com’è verde, nonostante la stagione! e laggiù... laggiù...
dietro a quei salici, il fiume... come è grande, Dio mio! vi brilla
il sole sopra, è tutto un barbaglio... sembrano riflessi d’oro...
splendeva così anche poco fa nell’acqua della vasca della
prigione... Dio non si dimentica dei poveri carcerati... dà anche a
loro un raggio di sole» disse Fleur-de-Marie con una specie di
religiosa riconoscenza; poi, spinta dal ricordo della sua prigione
ad apprezzare
ancora di più la gioia di essere libera, essa esclamò con uno
slancio istintivo di allegria:
«Ah, signora... e laggiù, in mezzo al fiume, guardate quell’isoletta
piena di salici e pioppi, con quella casa bianca sulla riva; vicino
all’acqua... come dev’esser bello abitare lì d’estate quando tutti
gli alberi sono coperti di foglie, che silenzio e che refrigerio
deve esserci!».
«Sono proprio contenta che quell’isola vi piaccia» disse la signora
Séraphin con uno strano sorriso.
«Perché, signora?»
«Perché andiamo proprio lì.»
«In quell’isola?»
«Sì, vi sorprende?»
«Un po’, signora.»
«E se trovaste lì i vostri amici?»
«Che dite?»
«I vostri amici radunati per festeggiare la vostra scarcerazio-
ne? sareste ancor più piacevolmente stupita?»
«Possibile! La signora Georges... il signor Rodolphe...»
«Ah, cara signorina, chiacchiero come un bambino... con
quella vostra aria candida mi fareste dire ciò che non dovrei.» «Oh,
li rivedrò... oh, signora come mi batte il cuore!»
«Non correte tanto, capisco la vostra impazienza, ma non rie-
sco a starvi dietro... pazzerella...»
«Scusate, signora, ho tanta fretta d’arrivare...»
«È naturale... non ve ne faccio un rimprovero, anzi...» «Adesso il
sentiero scende, signora, è pericoloso, volete ap-
poggiarvi a me?»
«Non vi dirò di no, cara signorina... visto che siete agile e svel-
ta e io sono vecchia.»
«Appoggiatevi pure, signora, non abbiate paura di stancar-
mi...»
«Grazie, cara signorina, il vostro aiuto non mi sarà inutile, que-
sta discesa è così ripida... oh eccoci finalmente su una bella
strada.» «Ah, signora, è proprio vero, rivedrò la signora Georges?
Non
ci posso credere.»
«Ancora un po’ di pazienza... fra un quarto d’ora... la vedrete
e allora ci crederete!»
«Quello che non riesco a capire» aggiunse Fleur-de-Marie
dopo un momento di riflessione, «è che la signora Georges mi aspetti
lì invece di aspettarmi alla fattoria.»
«Sempre curiosa, questa signorina, sempre curiosa...»
«Come sono indiscreta, vero, signora?» disse Fleur-de-Marie
sorridendo.
«Per questo avrei una gran voglia di dirvi la sorpresa che vi
preparano i vostri amici.»
«Una sorpresa? a me, signora?»
«Su, lasciatemi in pace, piccola birichina, altrimenti mi fareste
parlare contro la mia volontà.»
Lasceremo la signora Séraphin e la sua vittima sulla strada che
porta al fiume.
Le precederemo di poco all’isola del Predone.
XII
IL BATTELLO
“Che! partire già?”
“Partire! non udir più le vostre nobili parole!” No, per il Cielo!
rimango qui, signore...
WOLFGANG sc. II
Nell’oscurità della notte l’isola abitata dai Martial appariva
sinistra; ma, alla chiara luce del giorno, nulla poteva sembrare più
ameno di quel luogo maledetto.
Contornata da salici e da pioppi, coperta quasi completamente da
un’erba folta, tra cui serpeggiavano alcuni viottoli di sabbia
gialla, l’isola vantava un orto con molti alberi da frutto. In mezzo
al frutteto sorgeva il capanno col tetto di paglia dove Martial
voleva ritirarsi con François e Amandine. Da quel lato, l’isola
terminava a punta con una specie di palizzata formata da grossi pali
destinati a impedire che la terra franasse.
Davanti alla casa, vicinissimo all’imbarcadero, c’era un pergolato
rotondo, che durante l’estate doveva sostenere i tralci della vite
vergine e del luppolo, vero chiosco di verde, sotto il quale si
disponevano i tavolini dei bevitori.
A una delle estremità della casa dipinta di bianco e coperta di
tegole, una legnaia con in cima un solaio faceva una piccola ala ad
angolo retto, molto più bassa del fabbricato principale. Quasi sopra
a quest’ala si vedeva una finestra con le imposte guarnite di
piastre di latta e chiuse all’esterno da due sbarre di ferro
trasversali, fissate al muro da grossi arpioni.
Legate ai pali del pontile d’imbarco, c’erano tre barchette che
ondeggiavano.
Nicolas, rannicchiato sul fondo di una di esse, si stava assicurando
che nessun inceppo si potesse opporre all’uso dello sportello
praticatovi.
Calebasse, ritta sopra una panca situata fuori della pergola,
guardava in lontananza nella direzione da cui dovevano venire, per
recarsi all’isola, la signora Séraphin e Fleur-de-Marie.
«Non si vede ancora nessuno, né vecchia né giovane» disse Calebasse
scendendo dalla panca e rivolgendosi a Nicolas. «Sarà come ieri, che
abbiamo aspettato inutilmente. Se quelle donne non arrivano fra
mezz’ora... bisognerà andare; il colpo di Bras-Rouge è migliore, ci
starà aspettando adesso, la sensale deve andare da lui agli
Champs-Elysées alle cinque. Bisogna che arriviamo prima di lei. Così
ci ha detto e ridetto questa mattina la Chouette...»
«Hai ragione» rispose Nicolas uscendo dalla barca.
«Che il diavolo se la porti questa vecchia che ci fa aspettare per
niente! Lo sportello funziona meravigliosamente. Tra i due affari
forse non ce ne resterà nemmeno uno...»
«D’altra parte Bras-Rouge e il Barbillon hanno bisogno di noi... da
soli non possono far niente.»
«È vero; infatti, mentre si farà il colpo, Bras-Rouge dovrà restare
fuori dell’osteria a far la posta, e il Barbillon non è tanto forte
da poter trascinare da solo la sensale nella cantina... la vecchia
scalcerà.»
«Non ci aveva detto la Chouette, scherzando, che teneva il Maître
d’école... in pensione... là in quella cantina?»
«Non in quella. In un’altra che è molto più profonda e che si allaga
quando il fiume ingrossa.»
«Chissà come bestemmierà il Maître d’école! Essere là dentro, solo e
cieco!»
«Anche se ci vedesse, sarebbe la stessa cosa: nel sotterraneo fa
buio come in un forno.»
«Comunque quando avrà finito di cantare, per distrarsi, tutte le
romanze che conosce, il tempo gli deve sembrare ben lungo.»
«La Chouette dice che si diverte a dare la caccia ai topi, e che
laggiù c’è abbondanza di quella selvaggina.»
«Di’ un po’, Nicolas, a proposito di gente che starà annoiandosi e
bestemmiando» riprese Calebasse con un sorriso feroce indicando col
dito la finestra chiusa da lastre di latta, «ce n’è uno che adesso
starà rodendosi il fegato.»
«Bah!... dorme... da stamane non batte più... e il suo cane sta
zitto.
«Forse l’ha scannato per mangiarselo. Dopo due giorni che sono
dentro chissà che razza di fame e di sete avranno.»
«Che si arrangino... Martial può durare ancora un pezzo così, se si
diverte. Quando sarà finito... si dirà che è morto di malattia; il
discorso non farà una grinza.»
«Credi?»
«Certo. Andando stamattina ad Asnières, la mamma ha incontrato papà
Férot, il pescatore; siccome si stupiva di non vedere da due giorni
l’amico Martial, la mamma gli ha detto che non si alzava dal letto
tanto stava male, e che c’erano poche speranze. Papà Férot l’ha
bevuta come il rosolio... lo dirà in giro... e quando succederà il
fatto... sembrerà cosa naturale.»
«Sì, ma intanto è ancora vivo: in questo modo va un po’ per le
lunghe.»
«Che vuoi? non c’era modo di venirne fuori, altrimenti.
Quell’indiavolato di Martial, quando ci si mette, è cattivo come la
peste, e per di più forte come un toro; diffidando lui di noi non
avremmo potuto avvicinarlo senza rischi; mentre una volta inchiodata
bene la sua porta da fuori, che cosa poteva fare? Sulla finestra c’è
l’inferriata.»
«To’!... avrebbe potuto rompere le sbarre... scalcinando il gesso
col suo coltello, e lo avrebbe fatto se io, da in cima alla scala,
non gli avessi tagliuzzato le mani a colpi di accetta tutte le volte
che tentava di cominciare il lavoro.»
«Che sentinella!» disse il brigante sogghignando; «certo ti sarai
divertita!»
«Bisognava pure che ti dessi il tempo di arrivare con la lastra che
eri andato a prendere da papà Micou.»
«Chissà come avrà sbavato... il caro fratello!»
«Digrignava i denti come un ossesso; due o tre volte ha tentato di
respingermi attraverso le sbarre; ma, avendo solo una mano libera,
non poteva lavorare per rompere le sbarre. Era quello che ci
voleva.»
«Per fortuna che non c’è il camino nella sua stanza!»
«E che la porta è solida ed egli ha le dita rovinate... se no
sarebbe capace di bucare il pavimento.»
«E le travi? ci passerebbe in mezzo? No, no, non c’è pericolo che
scappi; le imposte sono ricoperte di latta e chiuse da due spranghe
di ferro; la porta... è inchiodata dal di fuori con quei chiodi da
barche, grossi tre pollici. La sua bara è più solida che se fosse di
quercia o di piombo.»
«Senti un po’: e quando la Louve verrà qui a cercare il suo uomo...
come lo chiama lei?»
«Ebbene! le diremo: “Cerca”.»
«A proposito, sai che se la mamma non avesse rinchiuso quei
manigoldi dei ragazzi, sarebbero stati capaci di rosicchiare la
porta come topi, per liberare Martial? Quel monellaccio di François
è un vero demonio da quando sospetta che abbiamo inscatolato il
fratello maggiore.»
«Giusto loro! li lasceremo nella stanza di sopra durante la nostra
assenza dall’isola? la loro finestra è senza inferriate, possono
scendere giù...»
In quel momento l’attenzione di Calebasse e di Nicolas fu attratta
da grida e singhiozzi che venivano dalla casa.
Essi videro la porta del pianterreno, fino ad allora aperta,
chiudersi violentemente; dopo un minuto apparve tra le inferriate
della cucina la faccia pallida e sinistra della madre Martial.
La vedova del giustiziato, col suo braccio lungo e scarno, fece
cenno ai figli di andare da lei.
«Su, c’è qualche pasticcio; scommetto che è ancora François che si
ribella» disse Nicolas. «Maledetto Martial! senza di lui, quel
monellaccio sarebbe venuto su proprio come si deve. Stai attenta qui
fuori; se vedi venire le due femmine, chiamami.»
Nicolas entrò in casa; Calebasse intanto, salita di nuovo sulla
panca, guardava lontano per vedere se arrivavano la signora Séraphin
e la Goualeuse.
La piccola Amandine, inginocchiata in mezzo alla cucina,
singhiozzava e chiedeva grazia per il fratello François.
Questi, incollerito e minaccioso, si era rincantucciato in un angolo
della cucina brandendo l’accetta di Nicolas, deciso questa volta a
opporre la più disperata resistenza ai voleri della madre.
Sempre impassibile e silenziosa, la vedova, mostrato a Nicolas
l’ingresso della cantina, gli fece cenno di rinchiudervi François.
«Non mi chiuderete là dentro!» gridò risoluto il ragazzo mentre gli
occhi gli brillavano come quelli di un gatto selvatico.
«Voi volete farmi morire di fame, là dentro, con Amandine, come
state facendo con Martial.»
«Mamma... per l’amor di Dio, lasciaci su nella nostra camera come
ieri» supplicò la bambina a mani giunte, «in cantina è troppo buio,
abbiamo tanta paura.»
La vedova guardò spazientita Nicolas, come se avesse voluto
rimproverargli di non aver ancora eseguito il suo ordine; poi con un
altro gesto imperioso, gli indicò François.
Vedendo il fratello avanzare verso di lui, il ragazzo brandì ancor
più disperatamente l’accetta e urlò:
«Se volete chiudermi là dentro, che sia mia madre, mio fratello o
Calebasse... io colpisco con l’accetta e sapete come taglia».
Tanto la vedova che Nicolas erano convinti della necessità di
impedire ai due ragazzi di andare a portare qualche aiuto a Martial,
mentre la casa sarebbe rimasta vuota, e così pure di far sì che non
sapessero niente dei fatti che sarebbero successi; dalla loro
finestra infatti si scorgeva il punto del fiume dove doveva annegare
Fleur-de-Marie.
Ma Nicolas, vile quanto feroce e poco disposto com’era a buscarsi un
colpo della pericolosa accetta di cui era armato il fratello,
esitava ad avvicinarglisi.
La vedova, incollerita dalla titubanza del figlio, lo spinse
bruscamente per la spalla verso François.
Ma Nicolas fece un passo indietro gridando:
«Quando mi avrà ferito, che cosa farò, mamma? Sapete bene che fra
poco avrò bisogno delle mie braccia, e sento ancora il dolore delle
percosse che quel furfante di Martial mi ha dato».
La vedova alzò le spalle con disprezzo e fece un passo verso
François.
«Non avvicinatevi, mamma» gridò furibondo François, «o mi pagherete
tutte le botte che avete dato a me e ad Amandine.»
«Fratello, lasciati piuttosto rinchiudere. Oh, Dio mio, non colpire
la mamma!» gridò Amandine spaventata.
A un tratto Nicolas scorse su una sedia una coperta di lana che era
stata adoperata per stirare; l’afferrò, la spiegò a metà e la buttò
con abilità sulla testa di François in modo che questi, nonostante
gli sforzi, non poté, preso tra le grosse pieghe della coperta,
servirsi della sua arma.
Allora Nicolas si gettò su di lui e, aiutato dalla madre, lo portò
in cantina.
Amandine era rimasta inginocchiata in mezzo alla cucina; appena vide
come s’erano messe le cose per il fratello, si alzò di scatto e,
nonostante il terrore, andò da sola a raggiungerlo nella cantina
buia.
Fratello e sorella furono chiusi dentro, con due giri di chiave.
«È tutta colpa di quel manigoldo di Martial, se i ragazzi si sono
scatenati così contro di noi» esclamò Nicolas.
«Da stamane non si sente più nessun rumore nella sua stanza» disse
la vedova pensierosa, e sussultò; «nessun rumore...»
«Ciò prova, mamma, che avete fatto benissimo a dire, poco fa, a
Férot, il pescatore di Asnières, che Martial da due giorni è a
letto e sta per crepare. Così, quando si dirà la cosa, non ci si
stupirà di niente.»
Dopo un momento di silenzio, e come se avesse voluto sfuggire a un
pensiero penoso, la vedova rispose bruscamente:
«È venuta la Chouette, mentre io ero ad Asnières?».
«Sì, mamma.»
«Perché non si è fermata per accompagnarci da Bras-Rouge?
Non mi fido di lei.»
«Eh, diffidate di tutti, voi, mamma: oggi della Chouette, ieri
di Bras-Rouge.»
«Bras-Rouge è libero, mio figlio è a Tolone e avevano commes-
so lo stesso furto.»
«Quando finirete di ripeterlo?... Bras-Rouge è rimasto libero
perché è un briccone matricolato, ecco tutto. La Chouette non è
rimasta qui perché alle due aveva un appuntamento, vicino
all’Observatoire, con quel signore alto vestito a lutto, per conto
del quale ha rapito quella ragazza di campagna con l’aiuto del
Maître d’école e di Tortillard; tanto è vero che il Barbillon
guidava la carrozza presa a nolo dal signore in lutto per
quell’affare. Su, mamma, come volete che la Chouette ci denunci,
quando lei ci dice i colpi che prepara e i nostri noi non glieli
diciamo? infatti non sa niente del prossimo affogamento. Su, state
tranquilla, mamma, i lupi non si mangiano tra di loro; la giornata
sarà buona; quando penso che la sensale ha spesso venti o trentamila
franchi di diamanti nella sua borsa, e che fra due ore la
sbatteranno dentro al sotterraneo di Bras-Rouge!... Trentamila
franchi di diamanti!... Ci pensate.»
«E mentre noi terremo ferma la sensale, Bras-Rouge resterà fuori
della sua osteria?» disse la vedova con aria sospettosa.
«E dove volete che stia? Se per caso capita qualcuno da lui, non
deve forse rispondere facendo in modo che nessuno si avvicini al
luogo dove noi faremo il nostro lavoro?»
«Nicolas! Nicolas!» gridò a un tratto Calebasse da fuori, «ecco le
due donne.»
«Presto, presto, mamma, il vostro scialle! vi porterò a terra, e
sarà tutto tempo guadagnato» disse Nicolas.
La vedova aveva sostituito al fazzoletto da lutto una cuffia di velo
nero. Ella si avvolse in un gran scialle di tartan a quadretti grigi
e bianchi, chiuse la porta della cucina, nascose la chiave dietro
una delle imposte del pianterreno e seguì il figlio che andava verso
il pontile.
Prima di lasciare l’isola, quasi suo malgrado, ella gettò
un’occhiata alla finestra di Martial, aggrottò le sopracciglia, si
mor-
se le labbra; poi, dopo avere ancora sussultato, mormorò sottovoce:
«È colpa sua, è colpa sua».
«Nicolas, le vedi... laggiù, lungo la montagnola? C’è la contadina
con una signora» gridò Calebasse indicando sulla riva opposta del
fiume la signora Séraphin e Fleur-de-Marie, mentre scendevano per un
sentierino, che girava attorno a una specie di poggio da dove si
dominava una fornace di gesso.
«Aspettiamo il segnale, non facciamo spropositi» disse Nicolas.
«Ma sei cieco? Non riconosci la donna grassa che è venuta l’altro
giorno! Guarda lo scialle arancione! e la contadinella come si
affretta! Quant’è ingenua, quella lì, si vede bene che non sa quello
che l’aspetta.»
«Ah, riconosco la donna grassa. Bene, siamo a cavallo. Mettiamoci
bene d’accordo, Calebasse» disse Nicolas. «Io prenderò la vecchia e
la giovane nella barca con lo sportello; tu verrai dietro con
l’altra rasente rasente, e sta’ attenta a vogare con precisione; in
modo che io possa saltare dentro alla tua barca, quando, aperto lo
sportello, la mia andrà a fondo.»
«Non aver paura, ti pare che sia la prima volta che vogo?»
«Non ho paura di annegarmi, sai che nuoto bene. Ma se non saltassi
in tempo nell’altra barca, le donne, dibattendosi per non affogare,
si potrebbero aggrappare a me e, grazie tante, non ho nessuna voglia
di fare un pieno d’acqua con loro.»
«La vecchia fa segno col fazzoletto» disse Calebasse, «eccole sulla
riva.»
«Su, mamma, montate in barca» disse Nicolas, sciogliendo la barca,
«in questa con lo sportello. Così le due donne non sospetteranno di
niente, E tu, Calebasse, salta nell’altra, dacci dentro con le
braccia, cara mia, voga forte. Ah, to’ prendi il mio gancio,
mettitelo vicino, è appuntito come una lancia, potrà servire, su,
andiamo!» disse il furfante mettendo nella barca di Calebasse un
lungo gancio di ferro con la punta acuminata.
E in pochi minuti le due barche, una condotta da Nicolas, l’altra da
Calebasse, raggiunsero la riva dove la signora Séraphin e
Fleur-de-Marie aspettavano da qualche istente.
Mentre Nicolas legava la barca a un palo, la signora Séraphin gli si
avvicinò e gli disse piano e rapidamente:
«Dite che la signora Georges ci aspetta» poi la governante aggiunse
ad alta voce:
«Siamo un po’ in ritardo, giovanotto?».
«Sì, buona signora; la signora Georges ha chiesto più volte di voi.»
«Lo vedete, mia cara, la signora Georges ci aspetta» disse la
signora Séraphin rivolgendosi a Fleur-de-Marie che, nonostante la
sua fiducia, si era sentita stringere il cuore vedendo le brutte
facce della vedova, di Calebasse e di Nicolas. Ma il nome della
signora Georges la rassicurò; per cui rispose:
«Anch’io sono ansiosa di vedere la signora Georges, per fortuna il
tragitto non è lungo.»
«Come sarà contenta, la buona signora!» disse la Séraphin. Poi
rivolgendosi a Nicolas: «Su, giovanotto, avvicinate un po’ di più la
barca in modo che possiamo montare.» E aggiunse sottovoce: «Bisogna
assolutamente annegare la piccola; se viene a galla, ricacciatela
sotto.»
«Va bene, e voi, non abbiate paura; quando vi farò segno, datemi la
mano. Andrà subito a fondo, sola soletta, tutto è preparato. Voi non
dovete temere di niente» riprese Nicolas sempre sottovoce. Poi, con
feroce indifferenza, senza sentire niente né per la bellezza né per
la giovinezza di Fleur-de-Marie, egli le porse il braccio.
La ragazza si appoggiò leggermente ed entrò nella barca.
«A voi, buona signora» disse Nicolas alla signora Séraphin.
E offrì il braccio anche a lei.
Fosse presentimento, diffidenza o soltanto paura di non sal-
tare fuori in tempo dalla barca dov’erano Nicolas e la Goualeuse
quando questa avrebbe cominciato ad andare a fondo, la governante di
Jacques Ferrand andò un po’ indietro per dire a Nicolas:
«Andrò nella barca di questa signorina».
E salì vicino a Calebasse.
«Va bene» disse Nicolas scambiando con la sorella un’occhia-
ta significativa.
E con la punta del remo diede una forte spinta alla sua barca. La
sorella fece lo stesso non appena la signora Séraphin le si
fu seduta vicino.
Ritta, immobile sulla riva, indifferente a quella scena, la vedo-
va pensierosa e assorta fissava ostinatamente la finestra di Martial
che dalla riva si vedeva attraverso gli alberi.
Intanto le due barche, di cui la prima portava Fleur-de-Marie e
Nicolas, l’altra la signora Séraphin e Calebasse, si allontanarono
lentamente dalla riva.
PARTE SETTIMA
I
FELICITÀ DI RIVEDERSI
Prima d’illuminare il lettore sullo scioglimento del dramma che si
svolgeva nella barca di Martial, torneremo un poco indietro. Pochi
momenti dopo la partenza di Fleur-de-Marie da Saint-Lazare con la
signora Séraphin, anche la Louve era uscita di prigione.
Grazie alle raccomandazioni della signora Armand e del direttore che
voleva premiarla per la sua buona azione nei confronti della
Mont-Saint-Jean, erano stati condonati all’amante di Martial alcuni
giorni di detenzione che le restavano ancora da scontare.
Un cambiamento radicale si era del resto verificato nell’animo di
quella creatura fino ad allora corrotta, abietta, indomita.
Avendo sempre presente nel pensiero il quadro di vita tranquilla,
severa e solitaria prospettatole da Fleur-de-Marie, la Louve aveva
cominciato a provare disgusto per la sua vita passata.
Ritirarsi a vivere in fondo a una foresta con Martial era ormai la
sua unica aspirazione, la sua idea fissa, contro la quale invano
erano insorti tutti i suoi vecchi e bassi istinti da quando,
separatasi dalla Goualeuse, di cui aveva voluto sfuggire la sempre
maggiore influenza, quella strana donna si era rifugiata in un altro
settore di Saint-Lazare.
Per operare questa rapida e sincera conversione, ulteriormente
rafforzata e consolidata dall’impotente contrasto delle perverse
abitudini della sua compagna, Fleur-de-Marie, seguendo l’impulso del
suo candido buon senso, aveva fatto questo ragionamento:
La Louve, creatura violenta e risoluta, ama perdutamente Martial:
ella deve quindi accogliere con gioia la possibilità di sottrarsi
alla vita degradante di cui, per la prima volta, si vergogna, per
dedicarsi interamente a quest’uomo grossolano e selvaggio verso il
quale si sente attratta per comunanza d’indole e di sentire, a
quest’uomo che cerca la solitudine sia per naturale incli-
nazione che per sfuggire alla riprovazione di cui è oggetto la sua
detestabile famiglia.
Aiutata da questi soli elementi attinti da un suo colloquio con la
Louve, Fleur-de-Marie, dando una lodevole direzione all’amore
impetuoso e al carattere ardito di questa creatura, aveva dunque
cambiato in onesta una donna perduta... E infatti, sognare soltanto
di sposare Martial per ritirarsi con lui in mezzo ai boschi a vivere
di lavoro e di privazioni non era forse aspirazione da donna onesta?
Fidando nell’appoggio che Fleur-de-Marie le aveva promesso a nome di
un ignoto benefattore, la Louve veniva dunque a fare questa lodevole
proposta al suo amante, non senza l’amaro timore di un rifiuto,
poiché la Goualeuse, conducendola ad arrossire del passato, le aveva
anche dato coscienza della sua posizione nei confronti di Martial.
Una volta libera, la Louve non ebbe altro pensiero che quello di
rivedere il suo uomo, come diceva lei. Non aveva ricevuto sue
notizie da diversi giorni. Sperando di incontrarlo all’isola del
Predone, e decisa ad aspettarlo qualora non ve lo trovasse, salì su
un calesse pubblico, che pagò generosamente, e si fece portare
rapidamente al ponte di Asnières, che attraversò circa un quarto
d’ora prima che la signora Séraphin e Fleur-de-Marie, che venivano a
piedi dalla dogana, giungessero sulla spiaggia vicino alla fornace
da gesso.
Quando Martial non veniva a prendere la Louve con la sua barca per
portarla all’isola, ella si rivolgeva a un vecchio pescatore, a
tutti noto come papà Férot, che abitava vicino al ponte.
Alle quattro del pomeriggio dunque un calesse si fermò all’imbocco
di una viuzza del villaggio d’Asnières. La Louve dette cinque
franchi al vetturino, balzò giù in un attimo e si diresse a passi
spediti verso la casa di papà Férot il barcaiolo.
La Louve, abbandonata la divisa da carcerata, indossava un vestito
di lana verde scuro, uno scialle rosso a disegni cachemire e una
cuffia di tulle guarnita di nastri; i folti capelli crespi erano
stati appena stirati. Nella foga di rivedere Martial, si era vestita
più con fretta che con cura.
Dopo una separazione così lunga, qualsiasi altra donna avrebbe
sicuramente trovato il tempo di farsi bella per questo primo
incontro; ma la Louve badava poco a queste delicatezze, né ammetteva
simili indugi. Desiderava innanzi tutto vedere il suo uomo quanto
prima; desiderio impetuoso che nasceva non solo da uno di quegli
amori appassionati che talvolta esaltano fino alla frene-
sia chi ne è preda, ma anche dal bisogno di comunicare a Martial la
salutare decisione presa in seguito al suo colloquio con
Fleurde-Marie.
Ben presto la Louve fu alla casa del pescatore.
Seduto davanti alla porta, papà Férot, un vecchio dai capelli
bianchi, accomodava delle reti. Appena lo scorse, da lontano, la
Louve cominciò a gridare:
«La vostra barca... papà Férot... presto... presto!...».
«Ah! siete voi, signorina; buongiorno... Era un pezzo che non vi si
vedeva da queste parti.»
«Sì, ma la vostra barca... presto... e all’isola!...».
«Oh, è proprio una disdetta, mia cara figliola, ma per oggi non è
possibile.»
«Come?»
«Il mio ragazzo ha preso il burchiello per andare con gli altri a
Saint-Ouen. Ci sono le regate, oggi, e non trovereste una barca su
tutta la riva, di qui fino alla stazione...».
«Accidenti!» esclamò la Louve, pestando i piedi e stringendo i
pugni. «Questa non mi ci voleva!»
«Eh, avete ragione, in fede mia... mi dispiace proprio non potervi
portare all’isola... sono sicuro che sta anche peggio...»
«Peggio! chi? Martial?» gridò la Louve, scuotendo papà Férot. «È
malato, Martial?»
«Non lo sapevate?»
«Martial?»
«Sicuro; ma voi mi strappate la giubba. Calmatevi dunque.» «Malato!
E da quando?»
«Da due o tre giorni.»
«Non è vero! Me lo avrebbe scritto.»
«Oh sì! Sta troppo male per scrivere.»
«Troppo male per scrivere! Ma è all’isola? Ne siete sicuro?»
«Ascoltate un attimo... Stamani ho incontrato la vedova
Martial. Di solito, quando la vedo da una parte, io me ne vado
dall’altra, voi mi capite, perché non ci tengo alla sua compagnia;
allora...»
«Ma il mio uomo, il mio uomo, dov’è?»
«Aspettate! Trovandomi a quattr’occhi con sua madre, non ho potuto
evitare di parlarle; ha una faccia così cattiva, che mi incute
sempre un po’ paura; è più forte di me. Sono due giorni che non vedo
il vostro Martial, le dico; è andato forse in città? Ed ecco che mi
guarda con due occhi... due occhi... che m’avrebbero ucciso se
fossero state pistole, come si suol dire.»
«Mi fate morire d’impazienza. E poi? E poi?»
Papà Férot rimase un po’ in silenzio, poi aggiunse:
«Sentite, voi siete una brava ragazza; promettemi di non dir
niente a nessuno e vi racconterò tutto quello che so».
«Del mio uomo?»
«Già... perché, vedete, Martial è un buon figliolo, sebbene ab-
bia una testaccia... sarebbe peccato che gli succedesse qualche
guaio per via di quella vecchia scellerata di sua madre o per quella
canaglia di suo fratello.»
«Ma che cosa succede? Che cosa gli hanno fatto la madre e il
fratello? Dov’è lui, eh? Parlate! Ma parlate, insomma!»
«Oh, eccovi da capo a tirarmi la giubba. Ma lasciatemi dunque! Se
m’interrompete sempre strappandomi i vestiti, non potrò mai finire
il discorso e voi non saprete mai niente.»
«Oh, quanta pazienza ci vuole!» esclamò la Louve battendo i piedi
stizzosamente.
«Non riferirete a nessuno quel che vi racconto?»
«No, no, no!»
«Parola d’onore?»
«Papà Férot, mi farete venire un accidente.»
«Oh! che ragazza! che ragazza! che razza di testa avete! Ma ec-
comi qua. Innanzi tutto devo dirvi che Martial è più in rotta che
mai con la sua famiglia, che se gli giocassero qualche brutto tiro,
non mi stupirei. Per questo mi rincresce di non avere il mio
burchiello, perché se fate assegnamento su quelli dell’isola, vi
sbagliate di grosso. Non saranno certo Nicolas o quella maledetta
Calebasse a portarvici.»
«Lo so bene. Ma cosa vi ha detto la madre del mio uomo? Si è dunque
ammalato nell’isola?»
«Non mi confondete; ecco come vanno le cose: stamani ho detto alla
vedova: “Sono due giorni che non vedo Martial, e la sua barca è
ormeggiata al palo; è in città?”. E quella mi guarda con una faccia
torva: “È ammalato all’isola, e così gravemente che non la
scamperà”. Dico fra me: Com’è possibile? Sono tre giorni che...
Ebbene... che!» esclamò papà Férot interrompendosi. «Ehi! dove
andate? Dove diavolo corre adesso?»
La Louve, ritenendo che la vita di Martial fosse minacciata dagli
abitanti dell’isola, pazza di terrore, spinta dalla rabbia, non
aveva lasciato finire il discorso al pescatore e si era messa a
correre lungo la Senna.
Alcune indicazioni topografiche sono necessarie a questo punto per
capire la scena che seguirà.
L’isola del Predone era più vicina alla riva sinistra che alla
destra, ove si erano imbarcate Fleur-de-Marie e la signora Séraphin.
La Louve si trovava sulla riva sinistra.
Benché non fossero molto scoscese, l’altezza delle terre dell’isola
celava in tutta la sua lunghezza una riva all’altra. Così l’amante
di Martial non aveva potuto vedere imbarcarsi la Goualeuse e la
famiglia di Martial non aveva potuto vedere la Louve che in quello
stesso istante correva lungo la riva opposta.
Ricordiamo infine al lettore che la villa del dottor Griffon, ove
abitava provvisoriamente il conte di Saint-Remy, sorgeva a mezza
costa e vicino alla spiaggia ove giungeva, piena d’angoscia, la
Louve.
Ella passò, senza vederli, accanto a due uomini che, colpiti dalla
sua aria sconvolta, si girarono per seguirla a distanza. Erano il
conte di Saint-Remy e il dottor Griffon.
Il primo impulso della Louve, nell’apprendere il pericolo in cui si
trovava l’amico, era stato quello di correre più in fretta che
poteva verso il luogo in cui lo sapeva in pericolo. Ma, a mano a
mano che s’avvicinava all’isola, pensava alla difficoltà
d’approdarvi. Come le aveva detto il vecchio pescatore, non doveva
contare su barche di estranei, e dei Martial nessuno sarebbe certo
venuto a prenderla.
Rossa, ansimante, con lo sguardo acceso, si fermò dunque davanti
alla punta dell’isola che, formando una curva in quel punto, si
avvicinava abbastanza alla riva.
Attraverso i rami spogli dei salici e dei pioppi, la Louve scorse il
tetto della casa dove forse Martial stava morendo.
A quella vista, con un gemito selvaggio, si levò la cuffia, si
lasciò scivolare la veste in fondo ai piedi e rimasta così in
sottoveste si gettò intrepida nel fiume, vi camminò finché poté, poi
si mise a nuotare vigorosamente verso l’isola.
Era uno spettacolo di selvaggia energia.
A ogni bracciata, la folta e lunga chioma della Louve, scioltasi per
la violenza dei suoi movimenti, le fremeva attorno al capo come una
doppia criniera dai riflessi ramati.
Se non fosse stato per la febbrile fissità del suo sguardo che non
si distoglieva un solo istante dalla casa di Martial e per la
contrazione dei lineamenti del volto che svelavano un’angoscia
terribile, si sarebbe pensato che l’amica del bracconiere giocasse
tra le onde, tanto nuotava con disinvoltura baldanzosamente. Tatuate
in ricordo dell’amante, le sue braccia bianche e nervose, dotate di
vigore eccezionale per una donna, fendevano l’acqua che ricadeva
e rotolava in umide perle sulle sue ampie spalle, sul petto robusto
e saldo che grondava come un busto di marmo mezzo sommerso. A un
tratto, dall’altra parte dell’isola risuonò un grido d’ango-
scia, un grido di agonia disperata, terribile.
La Louve trasalì e si fermò di colpo.
Poi, sorreggendosi a galla con una mano, con l’altra si trasse
indietro la folta chioma di capelli e rimase in ascolto.
Si udì un secondo grido, ma più debole, supplichevole, con-
vulso, spirante.
Poi, di nuovo tutto silenzio.
«Il mio uomo!!!» gridò la Louve riprendendo a nuotare con
furia.
Nel suo turbamento, le era parso di riconoscere la voce di
Martial.
Il conte e il dottore, accanto ai quali la Louve era passata cor-
rendo, non avevano potuto seguirla abbastanza da vicino per opporsi
al suo temerario gesto.
Arrivarono davanti all’isola nel momento in cui si erano sentite
risuonare quelle grida raccapriccianti.
Si fermarono anch’essi, non meno atterriti della Louve. Vedendola
lottare coraggiosamente contro la corrente, esclamarono:
«Quell’infelice annegherà!».
Vani timori.
L’amante di Martial nuotava come una lontra; in poche brac-
ciate, l’intrepida donna fu a riva.
Aveva messo i piedi a terra e, per uscire dall’acqua, afferrava
a uno dei pali che formavano all’estremità dell’isola una specie di
pontile, quando improvvisamente, lungo queste palafitte, ecco
passare lentamente, portato dalla corrente, il corpo di una
giovinetta vestita da contadina; gli abiti la reggevano ancora a
galla.
Aggrapparsi con una mano a un palo e con l’altra afferrare
bruscamente per le vesti il corpo della donna che le passava davanti
fu cosa d’un momento, movimento non meno rapido del pensiero.
Soltanto che la Louve attirò a sé con tale impeto la poveretta che
voleva salvare, che costei scomparve un attimo sott’acqua, sebbene
in quel punto si toccasse il fondo.
Dotata di una forza e di un’abilità non comuni, la Louve sollevò la
Goualeuse (poiché di lei si trattava) ch’ella non aveva ancora
riconosciuto, la prese fra le sue forti braccia come avrebbe preso
una bambina e, fatti ancora alcuni passi nel fiume, la depose infine
sulla riva erbosa dell’isola.
«Coraggio! coraggio!» le urlò il conte di Saint-Remy che, col
dottore, era stato spettatore di quest’ardito salvataggio.
«Attraverseremo il ponte d’Asnières e verremo a darvi aiuto con una
barca.»
Ed entrambi si avviarono solleciti verso il ponte.
Ma le loro parole non arrivarono alla Louve.
Torniamo a dire che dalla riva destra della Senna, ove si trova-
vano ancora Nicolas, Calebasse e la madre dopo il loro abominevole
delitto, non si poteva assolutamente vedere ciò che accadeva dal
lato opposto dell’isola, per il terreno scosceso.
Fleur-de-Marie, tirata violentemente dalla Louve tra i pali
affioranti, era scomparsa un attimo sott’acqua senza più ricomparire
e i suoi assassini si erano convinti che fosse annegata, inghiottita
dalla corrente.
Dopo alcuni minuti la corrente trasportava un altro cadavere, senza
che la Louve lo scorgesse.
Era il corpo della governante del notaio.
E per costei era veramente finita.
Nicolas e Calebasse avevano altrettanto interesse che Jacques
Ferrand a far sparire questa donna, testimone e complice del loro
nuovo delitto, e quindi, quando la barca con Fleur-de-Marie era
affondata, Nicolas, balzando nel burchiello condotto dalla sorella,
e in cui era la signora Séraphin, aveva dato una scossa violenta a
quest’imbarcazione e approfittando del momento in cui la governante
vacillava, l’aveva gettata nel fiume finendola con un colpo
d’arpione.
La Louve ansimante, sfinita, inginocchiata sull’erba accanto a
Fleur-de-Marie riprendeva le forze e osservava intanto i lineamenti
di colei che aveva appena strappato alla morte.
Figuriamoci il suo stupore nel riconoscere la compagna di prigione!
La compagna che aveva avuto sul suo destino una così rapida e
benefica influenza!
Nella sua emozione, la Louve dimenticò per un attimo Martial. «La
Goualeuse!» esclamò.
E, china con tutto il corpo, appoggiata sulle ginocchia e sulle
mani, la testa scarmigliata, gli indumenti fradici, contemplava la
povera fanciulla stesa sull’erba, quasi spirante. Pallida, esanime,
con gli occhi semiaperti e spenti, i bei capelli biondi appiccicati
alle tempie, le labbra livide, le sue piccole mani già irrigidite,
gelide, pareva proprio morta.
«La Goualeuse!» ripeté la Louve. «Che combinazione! io che venivo a
dire al mio uomo il male e il bene ch’ella m’ha fatto con le sue
parole e le sue promesse, la decisione che avevo preso! Povera
piccola, ecco che la ritrovo qui morta! Ma no, no!» esclamò la Louve
avvicinandosi ancor più a Fleur-de-Marie e sentendole uscire dalla
bocca un alito leggerissimo. «No! mio Dio! respira ancora, l’ho
strappata alla morte... Non mi era mai capitato di salvare qualcuno!
Oh, come fa bene questo, come riscalda. Sì, ma il mio uomo, anche
lui bisogna salvare. Forse in questo momento sta spirando. La madre
e il fratello sono capaci d’assassinarlo. Tuttavia non posso
lasciare qui questa povera infelice. La porterò dalla vedova; oh,
dovrà bene soccorrerla e farmi vedere Martial, o spacco tutto,
ammazzo tutti. Non c’è madre, sorella, fratello che possa
trattenermi, quando so che il mio uomo è là!».
Subito alzatasi, la Louve prese Fleur-de-Marie tra le braccia.
Carica di questo lieve fardello, corse verso la casa, sicura che la
vedova e la figlia, per quanto malvagie, non avrebbero rifiutato i
primi soccorsi a Fleur-de-Marie.
Quando l’amante di Martial fu arrivata sul punto più elevato
dell’isola, da cui poteva scorgere le due rive della Senna, Nicolas,
sua madre e Calebasse si erano già allontanati.
Sicuri d’aver portato a termine il loro duplice delitto, si recarono
in tutta fretta da Bras-Rouge.
Nello stesso istante un uomo che, nascosto in uno dei punti più
bassi, celato dalla fornace a gesso, aveva assistito senza essere
scorto alla scena raccapricciante, si dileguava, credendo anch’egli,
come gli assassini, il crimine compiuto.
Quest’uomo era Jacques Ferrand.
Una delle barche di Nicolas, legata a un palo, si cullava sulle
acque del fiume nel punto in cui si erano imbarcate la Goualeuse e
la signora Séraphin.
Jacques Ferrand aveva appena lasciato la fornace da gesso per
tornare a Parigi quando il signor di Saint-Remy e il dottor Griffon
passarono in tutta fretta sul ponte d’Asnières alla volta
dell’isola, che contavano di raggiungere con la barca di Nicolas che
avevano scorta da lontano.
La Louve, con sua grande sorpresa, giunta vicino all’abitazione dei
saccheggiatori, trovò la porta chiusa.
Adagiata Fleur-de-Marie, tuttora svenuta, sotto la pergola, si
avvicinò alla casa. Conosceva la finestra della stanza di Martial e
fu sommamente sorpresa nel vederne gli scuri coperti di strisce di
latta e fermati da due spranghe di ferro.
Indovinando in parte la verità, la Louve cacciò un urlo rauco
terribile e si mise a chiamare con tutte le sue forze:
«Martial! Martial! Nessuna risposta».
Spaventata da questo silenzio, la Louve si mise a girare, a girare
attorno alla casa come una belva che, fiutando e ruggendo, cerchi
l’ingresso della tana ove è rinchiuso il suo maschio.
Di tanto in tanto gridava: «Martial, sei lì? Martial!!!».
E, nella rabbia, scuoteva le spranghe della finestra della cucina,
batteva sul muro, bussava alla porta.
Improvvisamente dall’interno della casa le rispose un rumore sordo.
La Louve trasalì, rimase con l’orecchio teso.
Il rumore cessò.
«Il mio uomo mi ha sentita, devo entrare, a costo di rodere la
porta con i denti.»
E ricominciò a cacciare il suo urlo selvaggio.
Alle sue urla risposero alcuni deboli colpi. Battuti dall’interno
delle imposte di Martial.
«È qui!» gridò la Louve fermandosi di botto sotto la finestra
del suo amante. «È qui! Se occorre, strapperò la latta con le
unghie, ma aprirò queste imposte.»
Così dicendo, adocchiò una lunga scala semi nascosta dietro a uno
degli scuri della stanza a pianterreno; tirando con impeto a sé
questo scuro, la Louve fece cadere la chiave che la vedova aveva
nascosto sul davanzale della finestra.
«Se apre» disse la Louve provando la chiave nella serratura della
porta d’ingresso, «potrò salire alla sua camera. Apre!» esclamò con
gioia, «il mio uomo è salvo!»
Una volta in cucina, la colpirono le grida dei due ragazzi che,
chiusi in cantina e udendo tutto quel rumore, chiamavano aiuto. La
vedova, pensando che in sua assenza nessuno sarebbe ca-
pitato nell’isola o alla casa, si era limitata a chiudere François e
Amandine a doppia mandata, lasciando la chiave nella serratura. I
due ragazzi, liberati dalla Louve, si precipitarono fuori dal-
la cantina.
«Oh, Louve! salvate mio fratello Martial! Vogliono farlo mo-
rire» disse François; «sono due giorni che l’hanno murato nella sua
stanza.»
«Non l’hanno ferito?»
«No... non credo.»
«Arrivo in tempo!» esclamò la Louve, correndo verso la scala;
poi, fatti alcuni gradini, si fermò.
«Mi scordavo della Goualeuse! Amandine, fai subito un po’ di fuoco:
tu e tuo fratello portate qui vicino al camino una povera ragazza
che stava per annegare e che ho salvato. È sotto la pergola.
François, una mazza, un’ascia, un pezzo di ferro, che butto giù la
porta del mio uomo!»
«Là c’è la mazza per spaccare la legna, ma è troppo pesante per voi»
rispose il ragazzo trascinando a fatica un enorme martello.
«Troppo pesante!» esclamò la Louve, e alzò senza alcuno sforzo
quella mazza di ferro che in altre circostanze avrebbe forse a
stento sollevato.
Poi, salendo le scale a due per volta, ripeté ai due bambini:
«Correte a prendere la ragazza e accostatela al fuoco».
In due balzi ella fu in fondo al corridoio, alla porta di Martial.
«Coraggio, ecco la tua Louve!» gridò; e sollevata la mazza a
due mani, con un colpo pieno di furore, scosse la porta.
«È inchiodata di fuori. Leva i chiodi» disse Martial con voce
flebile.
E la Louve, gettatasi ginocchioni nel corridoio, aiutandosi
con la punta della mazza e con le unghie, che si rovinò, e con le
dita che si andava tagliando, riuscì a strappare dal pavimento e
dall’intelaiatura diversi chiodi grossissimi che inchiodavano la
porta.
Alla fine la porta si aprì.
Martial, pallido, con le mani insanguinate, cadde quasi privo di
sensi tra le braccia della Louve.
II
LA LOUVE E MARTIAL
«Ti vedo, finalmente ti ho con me, sei mio...» esclamò la Louve
accogliendo tra le braccia Martial e stringendolo a sé, con un
accento di possesso e di gioia, di selvaggia energia. Poi,
sostenendolo, quasi portandolo, l’aiutò a sedersi su una panca che
era nel corridoio.
Per qualche minuto Martial restò accasciato, stralunato, mentre
cercava di rimettersi dalla violenta scossa che aveva esaurito le
sue già deboli forze.
La Louve salvava il suo amante nel momento in cui, avvilito e
disperato, egli si sentiva morire, non tanto per mancanza di cibo,
quanto per la privazione d’aria che non poteva rinnovarsi
in quella stanzetta senza camino o altra apertura, chiusa
ermeticamente dalla feroce accortezza di Calebasse che aveva tappato
con degli stracci anche le minime fessure della porta e della
finestra.
Palpitante di felicità e insieme d’angoscia, con gli occhi molli di
lacrime, la Louve, in ginocchio, spiava i minimi mutamenti sulla
fisionomia di Martial.
Questi pareva a poco a poco rinascere, respirando a pieni polmoni
l’aria pura e salubre.
Dopo qualche fremito, alzò la testa che si sentiva pesante, sospirò
profondamente e aprì gli occhi.
«Martial, sono io, la tua Louve! Come ti senti?»
«Meglio» rispose con un filo di voce.
«Mio Dio! che vuoi? Un po’ d’acqua, dell’aceto?»
«No, no» riprese Martial, gradatamente meno oppresso. «Aria...
aria, aria e nient’altro.»
La Louve, col rischio di tagliarsi le mani, ruppe quattro vetri
di una finestra che non avrebbe potuto aprire senza spostare una
pesante tavola.
«Adesso respiro, respiro; ho la testa meno confusa» disse Martial,
rinvenendo del tutto.
Poi, quasi si rendesse conto soltanto in quell’istante del servigio
resogli dalla sua amante, esclamò con un’esplosione d’ineffabile
gratitudine:
«Senza di te sarei morto, mia coraggiosa Louve». «Bene, bene... ora,
come ti senti?»
«Sempre meglio.»
«Hai fame?»
«No, sono troppo debole. La cosa peggiore era la mancanza d’aria.
Alla fine soffocavo, soffocavo... era spaventoso.»
«E ora?»
«Rivivo, esco dalla tomba, e questo grazie a te!»
«Ma le mani, queste tue povere mani! questi tagli!... Mio Dio,
cosa ti hanno fatto?»
«Nicolas e Calebasse, non osando attaccarmi faccia a faccia
per la seconda volta, mi avevano murato nella mia stanza per farmici
morire di fame. Ho tentato d’impedire loro d’inchiodare le imposte,
e allora mia sorella mi ha tagliato le mani a colpi d’accetta!»
«Mostri! volevano far credere che eri morto di malattia; tua madre
aveva già sparso la voce che eri in condizioni disperate. Tua madre,
amico mio, tua madre!»
«Non parlarmene» disse Martial amaramente; poi, accorgendosi
soltanto allora delle vesti bagnate e dello strano abbigliamento
della Louve, esclamò:
«Che ti è successo? Hai i capelli grondanti, sei in sottoveste... ed
è tutto fradicio d’acqua!».
«Che importa!! ma tu sei salvo, salvo!»
«Ma spiegami, perché sei tutta bagnata?»
«Ti sapevo in pericolo... non ho trovato una barca...»
«E sei venuta a nuoto?»
«Sì. Ma le tue mani, dammele, che io le baci. Soffri, vero? Mo-
stri! E io non c’ero.»
«Oh, coraggiosa Louve!» fece Martial con entusiasmo, «co-
raggiosa fra tutte le creature coraggiose!»
«Non hai forse scritto qui: Morte ai vili?»
E la Louve gli mostrava il braccio tatuato ove erano scritte
queste parole a caratteri indelebili.
«Intrepida donna! Ma ti ha preso il freddo, tremi.»
«Non è il freddo.»
«È lo stesso... Entra là, prendi il mantello di Calebasse, avvol-
giti con quello.» «Ma...»
«Voglio così!»
In un attimo la Louve si avvoltolò in un mantello a quadri e tornò
indietro.
«Per me... rischiare d’annegarti!» ripeté Martial, guardandola
esaltato.
«Oh, non io, ma una povera ragazza stava per annegare. L’ho salvata
approdando all’isola.»
«Hai salvato anche lei! E dov’è?»
«Giù, con i bambini che si occupano di lei.»
«E chi è questa ragazza?»
«Mio Dio, se tu sapessi che combinazione, che caso fortuna-
to! È una mia compagna di Saint-Lazare, una ragazza veramente
straordinaria, sai.»
«E cioè?»
«Figurati che l’amavo e l’odiavo, perché ella mi aveva messo nello
stesso tempo la morte e la consolazione nell’anima.»
«Lei?»
«Sì, a proposito di te.»
«Di me?»
«Ascolta, Martial...» Poi, interrompendosi, la Louve soggiun-
se, «Ma no, no, non oserò mai.»
«Che cosa dunque?»
«Volevo farti una domanda... Ero venuta per vederti e per questo;
infatti, quando sono partita da Parigi non ti sapevo in pericolo.»
«Ebbene, parla!»
«Non oso più.»
«Tu non osi più, dopo quello che hai fatto per me!» «Appunto.
Parrebbe che mendicassi una ricompensa.» «Mendicare una ricompensa!
Forse che non te la devo? Non
mi hai già curato giorno e notte quand’ero malato, l’anno scorso?»
«E non sei forse il mio uomo?»
«Proprio perché sono il tuo uomo, e lo sarò sempre, mi devi
parlare liberamente.»
«Sempre, Martial?»
«Sempre, com’è vero che mi chiamo Martial. Per me non ci
sarà mai altra donna al mondo che te, vedi, Louve. Che tu sia stata
questo o quello, ebbene, sono cose che riguardano soltanto me... io
ti voglio bene, tu me ne vuoi, ti devo la vita. Soltanto che da
quando tu sei in prigione, io non sono più lo stesso. Ci sono state
delle novità... ho riflettuto e tu non sarai più quello che sei
stata.»
«Cosa vuoi dire?»
«Non voglio più lasciarti, adesso, non voglio neppure lasciare
François e Amandine.»
«Il tuo fratellino e la tua sorellina?»
«Sì. Da oggi devo far loro da padre. Tu capisci, ciò mi impone dei
doveri, mi mette in sesto, sono obbligato a prendermi cura di loro.
Volevano farne dei delinquenti perfetti; per salvarli me li porto
via.»
«E dove?»
«Non lo so, ma lontano da Parigi, questo è certo.»
«E io?»
«Porto anche te.»
«Mi porti con te?» esclamò la Louve piena di stupore e di gioia.
Non poteva credere a tanta felicità. «Non ti lascerò più?»
«No, mia coraggiosa Louve, mai più. Mi aiuterai a educare quei
ragazzi... io ti conosco; quando ti dirò: “Voglio che la mia povera
Amandine sia una ragazza onesta, parlale di conseguen-
za”, so che sarai per lei una buona madre.»
«Oh, grazie, Martial, grazie!»
«Camperemo da onesti operai; stai tranquilla, troveremo da
fare, lavoreremo come negri. Ma almeno quei ragazzi non saranno
canaglie come il padre e la madre, io non mi sentirò più chia-
mare figlio e fratello di ghigliottinati, e infine non passerò più
nelle strade dove sei conosciuta... Ma cos’hai, cos’hai?»
«Martial, ho paura d’impazzire.» «Impazzire?»
«Sì, dalla gioia.»
«Perché?»
«Perché, vedi, è troppo!»
«Troppo che cosa?»
«Quello che tu mi proponi... Oh, no, è troppo. A meno che
l’aver salvato la Goualeuse m’abbia portato fortuna... sì,
dev’essere così.»
«Ma, ancora una volta, che hai?»
«Quello che mi proponi, oh, Martial! Martial!»
«Ebbene?»
«Io venivo a chiedertelo!»
«Di lasciare Parigi?»
«Sì» rispose lei precipitosamente, «di andarcene nei boschi...
dove si potesse avere una casetta linda, dei bambini da amare! Oh,
come li amerei! la Louve come amerebbe i figli del suo uomo! o
piuttosto, se tu lo volessi» diceva tremando la Louve, «invece di
chiamarti il mio uomo... ti chiamerei mio marito... altrimenti non
si avrebbe il posto» si affrettò ad aggiungere con impeto.
Questa volta fu Martial a guardare la Louve con volto stupito, non
riuscendo ad afferrare il senso delle sue parole.
«Di che posto parli?»
«Di un posto di guardacaccia...»
«Per me?»
«Sì...»
«E chi me lo darebbe?»
«I protettori della ragazza che ho salvato.»
«Non mi conoscono neanche!»
«Ma io le ho parlato di te... e lei ci raccomanderà ai suoi pro-
tettori...»
«E come mai le hai parlato di me?»
«E di cosa vuoi che parli?»
«Buona Louve...»
«E poi, sai, in prigione viene la confidenza, e quella ragazzina
era così cara, così dolce, che mi sentii attratta verso di lei senza
neanche rendermene conto. Avevo indovinato subito che non era delle
nostre.»
«Ma chi è dunque?»
«Non ne so niente, non ci capisco niente, ma in vita mia non ho mai
sentito né visto niente di simile; ti legge in cuore come una fata;
quando le ho detto quanto ti amavo, solo per questo si è interessata
a noi... Mi ha fatto vergognare della mia vita passata, e non
dicendomi cose spiacevoli (che tu sai come le avrei prese), ma
parlandomi di una vita laboriosa, dura ma da passare serenamente
accanto a te nell’ambiente che preferisci, in mezzo ai boschi.
Soltanto, nella sua idea, invece di essere bracconiere... tu eri
guardacaccia; invece di essere la tua amante... ero tua moglie, e
poi avevamo dei bei bambini che ti correvano incontro quando, alla
sera, tornavi dal tuo giro d’ispezione con i cani e il fucile in
spalla; si cenava davanti alla porta della nostra capanna, al fresco
della sera, sotto grandi alberi, e ce ne andavamo a dormire
tranquilli, in pace... Che vuoi che ti dica?... era più forte di me
ascoltarla... era come una malìa. Se tu sapessi... parlava così
bene... così bene... che tutto quello che raccontava, mi pareva di
vederlo davanti agli occhi; mi faceva sognare a occhi aperti.»
«Ah, sì! quella sarebbe proprio una bella e onesta vita!» sospirò
Martial. «Benché non sia proprio di animo malvagio, il povero
François ha già bazzicato abbastanza Calebasse e Nicolas per avere
più bisogno dell’aria dei boschi che di quella cittadina... Amandine
ti aiuterebbe nelle faccende; io sarei, come guardacaccia, meglio di
un altro, perché sono stato un bracconiere dei più esperti... Tu mi
faresti da massaia, mia buona Louve, e poi, come tu dicevi con dei
bambini... che ci mancherebbe?... Una volta che ci si è abituati
alla propria foresta, ci si sta benissimo; ci vivremmo cent’anni
senza neanche accorgercene... Ma via, sono pazzo. Ecco, era meglio
non parlarmi di una vita simile... ci si sente pieni di rimpianti e
nient’altro.»
«Ti ho lasciato sfogare... perché tu ripeti quello che io dicevo
alla Goualeuse.»
«E cioè?»
«Sì, ascoltando le sue favole, le dicevo: “Peccato che questi
castelli in aria, come voi li chiamate, Goualeuse, non siano
realizzabili!”. E sai che cosa mi ha risposto, Martial?» disse la
Louve con gli occhi che le brillavano di gioia.
«No.»
«“Martial vi sposi, promettete di vivere entrambi onestamente e
l’impiego che vi fa tanto gola mi impegno io a farglielo ottenere”
mi ha risposto.»
«A me, un posto di guardia?» «Sì... a te...»
«Ma hai ragione tu, è un sogno. Se bastasse sposarti per averlo, mia
cara Louve, lo farei domani, se avessi i mezzi; perché da oggi,
vedi, tu sei mia moglie... proprio mia moglie.»
«Martial!... sono la tua vera moglie?»
«La vera, la sola, e voglio che tu mi chiami tuo marito... è come se
ci avesse sposati il sindaco.»
«Oh! la Goualeuse aveva ragione... è bello dire, mio marito!
Martial... vedrai la tua Louve intenta alle faccende di casa, al
lavoro, la vedrai...»
«Ma quest’impiego... tu credi?...»
«Povera piccola Goualeuse, se ella s’inganna... è per colpa degli
altri; perché lei aveva tutta l’aria di essere certa di quel che mi
diceva... E poi, poco fa, lasciando la prigione l’ispettrice mi ha
detto che i protettori della Goualeuse sono persone altolocate, che
l’avevano fatta uscire oggi; ciò prova che ha dei benefattori
potenti e che sarà in grado di mantenere quello che m’ha promesso.»
«Ah!» fece Martial alzandosi tutto a un tratto, «vorrei sapere dove
abbiamo la testa!»
«Che c’è?»
«Quella ragazza... è giù, forse sta morendo... e invece di
soccorrerla, noi ce ne stiamo qui...»
«Rassicurati, François e Amandine le sono attorno; sarebbero saliti
se ci fosse stato pericolo. Ma hai ragione, andiamola a trovare;
bisogna che tu la veda, la creatura alla quale dovremo forse la
nostra fortuna.»
E Martial, appoggiandosi al braccio della Louve, scese a
pianterreno.
Ma prima d’introdurli in cucina diciamo quel che era accaduto da
quando Fleur-de-Marie era stata affidata alle cure dei due bambini.
III
IL DOTTOR GRIFFON
François e Amandine avevano trasportato Fleur-de-Marie vicino al
fuoco della cucina, quando il signor di Saint-Remy e il dottor
Griffon, arrivati con la barca di Nicolas, entrarono in casa.
Mentre i ragazzi riattizzavano il fuoco gettandovi su delle fascine,
il dottor Griffon prodigava alla ragazza le prime cure.
«L’infelice ha appena diciassette anni!» esclamò il conte
profondamente intenerito. Poi, rivoltosi al dottore: «Ebbene, amico
mio?».
«Si riesce appena a controllarle le pulsazioni; ma stranamente la
pelle del viso, in questo soggetto, non si è fatta livida, come
avviene di solito in seguito all’asfissia per immersione» rispose il
dottore con la massima imperturbabilità, mentre osservava
Fleurde-Marie con aria meditabonda.
Il dottor Griffon era alto, magro, pallido e completamente calvo, a
parte due ciocche rade di capelli neri tirati con cura dietro la
nuca e schiacciati sulle tempie; il suo volto scavato, segnato dalle
fatiche dello studio, era freddo, ma denotava grande intelligenza e
riflessione.
Dotato di vastissime nozioni e di grande esperienza, professionista
abile e famoso, primario in un ospedale pubblico (ove più tardi lo
ritroveremo), il dottor Griffon aveva un solo difetto, e cioè quello
di fare, se così si può dire, completa astrazione dal malato e di
occuparsi solo della malattia: giovane o vecchio, donna o uomo,
ricco o povero, poco gli importava; non pensava ad altro che al caso
clinico, più o meno interessante dal punto di vista scientifico,
offertogli dal soggetto.
Per lui non esistevano che soggetti.
«Che viso delizioso!... come è ancora bella, nonostante il pallore
mortale!» disse il signor di Saint-Remy osservando Fleur-deMarie con
espressione triste. «Avete mai visto delle fattezze più dolci, più
pure, caro dottore? E così giovane... così giovane!...»
«L’età non significa niente» lo interruppe il dottore bruscamente,
«come non vuol dir niente la presenza d’acqua nei polmoni, che un
tempo si credeva mortale... Errore grossolano; i mirabili
esperimenti di Goodwin, del celebre Goodwin, lo hanno del resto
provato.»
«Ma, dottore...»
«Ma è un dato di fatto...» riprese Griffon, tutto preso dall’amore
per la sua arte. «Per riconoscere la presenza di un liquido estraneo
nei polmoni, Goodwin immerse più volte dei cani e dei gatti in
bacinelle piene d’inchiostro per alcuni secondi, tirandoli fuori
vivi e sezionando quelle coraggiose bestiole dopo qualche tempo...
Ebbene, in seguito alla dissezione si convinse che l’inchiostro era
penetrato nei polmoni e che la presenza di questo liquido negli
organi della respirazione non aveva provocato la morte dei
soggetti.»
Il conte conosceva il medico, uomo dall’animo eccellente, ma che la
sfrenata passione per la scienza faceva spesso sembrare duro, quasi
crudele.
«Avete almeno qualche speranza?» gli chiese ansiosamente il signor
di Saint-Remy.
«Le estremità del soggetto sono molto fredde; vi sono poche
speranze.»
«Ah, morire a quell’età! Povera infelice, è ben triste.»
«Pupilla fissa... dilatata...» riprese il dottore impassibile,
sollevando con un dito la palpebra gelata di Fleur-de-Marie.
«Che strano uomo!» esclamò il conte quasi con indignazione, «vi si
potrebbe credere senza pietà, eppure vi ho veduto vegliare al mio
capezzale per delle nottate intere... Se fossi stato vostro fratello
non avreste potuto mostrare maggior devozione.»
Il dottor Griffon, pur continuando a occuparsi di Fleur-deMarie,
rispose al conte senza guardarlo, con la solita flemma
imperturbabile:
«Perbacco, se credete che s’incontri tutti i giorni una febbre
irregolare e così meravigliosamente complicata, così curiosa da
studiare come quella che avevate voi! Era magnifica, amico mio,
magnifica! Torpore, delirio, contrazioni dei tendini, sincopi.
Riuniva i sintomi più disparati, la vostra cara febbre; foste anche,
e questo è raro, rarissimo e quanto mai interessante... foste anche
colpito da uno stato parziale e momentaneo di paralisi, se volete
saperlo... Soltanto per questo la vostra malattia aveva diritto a
tutta la mia attenzione; mi offrivate un magnifico soggetto di
studio; poiché, francamente, mio caro amico, tutto ciò che desidero
al mondo è di incapparmi ancora una volta in una febbre così
bella... ma fortune simili non capitano due volte in una vita.»
Il conte alzò le spalle, infastidito.
In quel momento scese Martial appoggiato al braccio della Louve che,
come sappiamo, si era gettata sopra gli indumenti bagnati un
mantello scozzese di Calebasse...
Colpito dal pallore dell’amante della Louve, notando le sue mani
coperte di sangue rappreso, il conte esclamò:
«Chi è quell’uomo?»
«Mio marito...» rispose la Louve guardando Martial con
un’indescrivibile espressione di felicità e di nobile fierezza.
«Avete una buona e intrepida moglie, signore» disse il conte a
Martial. «L’ho vista salvare quest’infelice ragazza con un raro
coraggio.»
«Oh, sì, è buona e piena d’ardire la mia sposa» rispose Martial,
ponendo l’accento su queste ultime parole e guardando a sua volta la
Louve con tenerezza e passione. «Sì, coraggiosa... giacché ha appena
salvato la vita anche a me.»
«A voi?» chiese il conte, meravigliato.
«Guardate le sue mani... le sue povere mani!» disse la Louve
asciugandosi le lacrime che addolcivano il fiero scintillare dei
suoi occhi.
«Ma è terribile!» gridò il conte. «Quest’infelice ha le mani tutte
tagliate... Guardate, dottore...»
Girando appena la testa e guardando di sfuggita le molte piaghe
fatte da Calebasse alle mani di Martial, il dottor Griffon disse a
quest’ultimo:
«Aprite e chiudete la mano». Martial eseguì il movimento a fatica.
Il medico alzò le spalle, continuò a occuparsi di Fleur-de-Marie e
disse sprezzante, quasi con rammarico:
«Sono ferite che non hanno assolutamente niente di grave. Nessun
tendine leso; fra otto giorni il soggetto potrà servirsi delle
mani».
«Davvero, signore! mio marito non resterà storpiato?» gridò la Louve
con riconoscenza.
Il dottore agitò la testa in segno di diniego.
«E la Goualeuse, signore? Vivrà, non è vero?» chiedeva la Louve.
«Oh, deve vivere, io e mio marito le dobbiamo tanto!...» Poi
volgendosi a Martial, «Poverina... è lei quella di cui ti parlavo...
è lei che sarà forse la causa della nostra felicità; è lei che mi ha
dato l’idea di venirti a dire quel che ho detto. Il caso ha voluto
che la salvassi... e proprio qui!»
«È la nostra provvidenza» disse Martial, colpito dalla bellezza
della Goualeuse. «Che viso angelico! Oh, vivrà, non è vero dottore?»
«Non lo so» ribatté Griffon. «Ma innanzi tutto, può restare qui?
Avrà l’assistenza necessaria?»
«Qui!» gridò la Louve. «Ma qui assassinano!»
«Sta’ zitta, sta’ zitta!» la interruppe Martial.
Il conte e il dottore guardarono la Louve, stupiti.
«La casa dell’isola ha cattiva fama in paese... ciò non mi stu-
pirebbe» bisbigliò sottovoce il medico al signor di Saint-Remy
«Siete dunque stato vittima di qualche violenza?» chiese il
conte a Martial. «Chi vi ha fatto quelle ferite?»
«Non è nulla, signore... ho avuto un alterco, cui è seguita una
baruffa... Ma questa giovane contadina non può restare in questa
casa» soggiunse in tono triste; «neppure io rimango, né mia moglie,
né mio fratello... né questa mia sorella... siamo in procinto di
abbandonare l’isola per non tornarvi mai più.»
«Oh, che bello!» esclamarono i due ragazzi.
«Allora, come si fa?» disse il dottore guardando Fleur-de-Marie.
«Impossibile pensare di trasportare il soggetto a Parigi nello stato
di prostrazione in cui si trova. Ma la mia casa, in effetti, è a due
passi: la mia giardiniera e la sua figliola saranno delle eccellenti
infermiere... Voi, mio caro Saint-Remy, poiché quest’asfissia da
immersione vi interessa, presiederete all’assistenza che le verrà
data, e io verrò a vederla ogni giorno.»
«E voi vi atteggiate a uomo duro, senza pietà!» disse il conte,
«mentre avete il cuore più generoso che ci sia, come lo prova questa
proposta...»
«Se il soggetto soccombe, come può succedere, avremo un’autopsia
interessante che mi darà modo di confermare ancora una volta le
affermazioni di Goodwin.»
«È terribile quello che dite!» esclamò il conte.
«Per chi sa leggervi, il cadavere è un libro in cui si impara a
salvare la vita dei malati» rispose stoicamente il dottor Griffon.
«In definitiva voi fate del bene» soggiunse amaramente il signor di
Saint-Remy, «e questo è l’importante. Che importa la causa, purché
l’effetto sia buono! Povera ragazza, più la guardo e più
m’interessa.»
«E lo merita, signor mio» soggiunse la Louve, avvicinandosi. «La
conoscete?» chiese il conte.
«Se la conosco, signore! È a lei che dovrò la fortuna di tutta
la mia vita; salvandola, non ho fatto per lei quanto lei ha fatto
per me.» E la Louve guardò con amore il marito; infatti, non lo
chiamava più il suo uomo.
«E chi è?» seguitò il conte.
«Un angelo, signore, tutto ciò che vi è di meglio al mondo. Sì, e
sebbene sia vestita da contadina, non v’è una borghese, non una gran
signora che sappia parlare come lei, con quella vocina dolce come
una musica. È una ragazza di nobili sentimenti, sicura, coraggiosa;
e buona!»
«Come mai era caduta in acqua?»
«Non lo so, signore.»
«Ma non è una contadina?» chiese il conte.
«Una contadina? Ma guardate le sue manine bianche, signore.» «È
vero» disse il signor di Saint-Remy; «che mistero singola-
re!... Ma il suo nome, la sua famiglia?»
«Su, muoviamoci» riprese il dottore interrompendo il collo-
quio, «bisogna trasportare il soggetto sulla barca.»
Mezz’ora dopo Fleur-de-Marie, che non aveva ancora ripreso i sensi,
veniva condotta nella casa del medico, coricata su un bel
letto, e su di lei vegliavano maternamente la giardiniera del signor
Griffon e la Louve.
Il dottore promise al signor di Saint-Remy, sempre più interessato
al caso della Goualeuse, di tornare a vederla quella sera stessa.
Martial partì per Parigi con François e Amandine. La Louve non aveva
voluto lasciare Fleur-de-Marie prima di vederla fuori pericolo.
L’Isola del Predone restò deserta.
Ritroveremo tra breve i suoi sinistri abitanti presso Bras-Rouge,
dove devono incontrarsi con la Chouette per l’assassinio della
sensale di diamanti.
Nel frattempo accompagneremo il lettore all’appuntamento che Tom,
fratello di Sarah, aveva dato all’orribile megera, complice del
Maître d’école.
IV
IL RITRATTO
... Metà gatto e metà serpe. WOLFGANG, libro II.
Thomas Seyton, fratello della contessa Sarah Mac-Grégor, passeggiava
impaziente lungo uno dei boulevards vicini all’Osservatorio, quando
vide arrivare la Chouette.
L’orribile vecchia aveva in testa una cuffia bianca e addosso il suo
grande scialle a quadri rossi; la punta di uno stiletto rotondo come
una grossa penna, e molto affilato, avendo trapassato il fondo della
grossa sporta di paglia che portava al braccio, tradiva la presenza
di quest’arma omicida, già appartenuta al Maître d’école,
Thomas Seyton non si accorse che la Chouette era armata.
«Suonano le tre al Luxembourg» disse la vecchia. «Arrivo proprio in
punto... spero.»
«Venite» le rispose Thomas Seyton.
E camminando innanzi a lei, passò in vari luoghi, entrò in un vicolo
deserto situato vicino alla rue Cassini, si fermò a metà circa di
questo stretto passaggio chiuso da un cancelletto girevole, aprì una
porticina, fece cenno alla Chouette di seguirlo e, dopo aver fatto
alcuni passi con lei in un viale folto d’alberi, le disse:
«Aspettate qui».
E scomparve.
«Basta che non mi faccia aspettare troppo a lungo» disse la
Chouette. «Alle cinque devo essere da Bras-Rouge con i Martial per
far fuori la sensale. A proposito, e il mio pugnale? Ah, briccone,
ha il muso alla finestra» soggiunse la vecchia vedendo la punta del
pugnale che usciva tra le trecce di paglia della sua sporta. «Questo
succede a non avergli messo il fodero...»
E levando dalla sporta lo stiletto dal manico di legno, lo mise in
maniera da nasconderlo completamente.
“È il ferro di Fourline” borbottò tra sé. “Non me lo chiedeva,
secondo lui, per uccidere i topi che gli vanno a far visita in
cantina?... Povere bestie!... Non hanno che il vecchio guercio come
loro unico divertimento e compagnia! Anche se lo rosicchiano un
po’... Poiché non voglio che faccia del male a quei topolini, io mi
tengo il pugnale... E poi ne avrò forse bisogno tra poco per la
sensale... 30.000 franchi di diamanti!... una bella quota per tutti!
Sarà una buona giornata... non sarà come l’altro giorno con quel
masnadiero di notaio che mi credevo di ricattare. Avevo voglia di
minacciarlo che se non mi dava dei soldi l’avrei denunciato, giacché
era stata la sua governante a farmi consegnare la Goualeuse da
Tournemine quand’era bambina; niente è valso a mettergli paura. Mi
ha chiamata vecchia bugiarda e mi ha messo alla porta... E va bene!
farò scrivere una lettera anonima a quella gente della fattoria dove
era andata la Pégriotte per informarli che fu il notaio a farla
abbandonare, un tempo... Forse loro conoscono la sua famiglia, e
quando la ragazza uscirà da Saint-Lazare, il piattino sarà bello e
pronto per quel manigoldo di Jacques Ferrand... Viene qualcuno...
Guarda, guarda... è la piccola signora pallida che era travestita da
uomo alla bettola dell’orchessa con il tipo alto di poco fa, gli
stessi che abbiamo derubato Fourline e io tra le rovine, nei pressi
di Notre-Dame” si disse la Chouette vedendo Sarah comparire in fondo
al viale. “Deve trattarsi di qualche altro colpo da preparare;
dev’essere proprio per conto di questa piccola signora che abbiamo
portato via la Goualeuse dalla fattoria. Se paga bene, per questo
nuovo affare, io ci sto volentieri.”
Avvicinandosi alla Chouette, che rivedeva per la prima volta dopo
quella sera alla bettola, il volto di Sarah esprimeva quel
disprezzo, quel disgusto che provano le persone di un certo rango
quando sono costrette ad avere a che fare con i miserabili ch’essi
prendono come strumenti o come complici.
Thomas Seyton, che fino ad allora aveva attivamente assecondato i
criminosi disegni della sorella, pur considerandoli pratica-
mente vani, si era rifiutato di continuare in questo abietto ruolo,
acconsentendo tuttavia a mettere la sorella, per la prima e ultima
volta, in contatto con la Chouette, senza volersi immischiare nelle
nuove macchinazioni che le due avrebbero ordito.
La contessa, non avendo potuto ricondurre a sé Rodolphe troncando i
vincoli o gli affetti che supponeva gli fossero cari, sperava, come
abbiamo già detto, di renderlo vittima di un turpe inganno, il cui
successo poteva trasformare in realtà il sogno di quella donna
ostinata, ambiziosa e crudele.
Si trattava di convincere Rodolphe che la figlia ch’egli aveva avuto
da Sarah non era morta, sostituendo a quella fanciulla un’altra
orfana.
Sappiamo che Jacques Ferrand, essendosi formalmente rifiutato di
prendere parte a questo complotto, nonostante le minacce di Sarah,
si era deciso a far sparire Fleur-de-Marie, per timore sia delle
rivelazioni della Chouette sia dell’ostinata insistenza della
contessa.
Ma costei non rinunciava al suo disegno, quasi certa di corrompere o
d’intimidire il notaio una volta che si fosse procurata una ragazza
che potesse rappresentare la parte che aveva in mente d’affidarle.
Dopo un momento di silenzio, Sarah disse alla Chouette: «Siete
accorta, discreta e decisa?»
«Accorta come una scimmia, decisa come un mastino, muta
come un pesce: ecco la Chouette, così l’ha fatta il diavolo, pronta
a servirvi, se può... e può senz’altro» rispose allegramente la
vecchia. «Penso che sarete rimasta soddisfatta di come vi abbiamo
sistemato la contadinella che ora è al sicuro a Saint-Lazare per un
buon paio di mesi.»
«Non si tratta più di lei, ma di un’altra cosa...».
«Ai vostri ordini, signora! Purché ci siano dei quattrini alla fine
di quel che state per propormi, saremo come due anime in un
nocciolo.»
Sarah non poté reprimere un’espressione di disgusto.
«Voi dovreste conoscere» riprese «della gente del popolo... dei
poveretti, mi capite?»
«Oh, sono più quelli che i milionari... c’è da scegliere, grazie a
Dio; di miseria, a Parigi, abbiamo abbondanza!»
«Avrei bisogno di un’orfana povera e soprattutto che avesse perso i
genitori quand’era molto piccola. Bisognerebbe inoltre che fosse di
aspetto piacevole, di carattere dolce e che non avesse più di
diciassette anni.»
La Chouette guardò attonita Sarah.
«Non dev’essere difficile trovare un’orfana simile» riprese la
contessa. «Ci sono tanti trovatelli.»
«Ah, ma ditemi un po’ signora mia, e la Goualeuse ve la scordate?...
Quella fa proprio al caso vostro!»
«E chi sarebbe questa Goualeuse?»
«Quella giovinetta che siamo andati a portar via da Bouqueval!»
«Non si tratta più di lei, ve l’ho detto!»
«Ma statemi a sentire, vi prego, e soprattutto ricompensatemi del
buon consiglio: volete un’orfana docile come un agnellino, bella
come il sole e che non abbia più di diciassette anni, vero?»
«Proprio così.»
«E allora prendetevi la Goualeuse quando uscirà da Saint-Lazare; è
quel che vi ci vuole, come meglio non poteva essere se ve la
facevano su misura! Aveva circa sei anni quando quel mascalzone di
Jacques Ferrand (dieci anni fa) me la fece dare con mille franchi
per sbarazzarsene... fu proprio Tournemine, adesso in prigione a
Rochefort, che me la portò... dicendomi che doveva essere
indubbiamente una bimba che qualcuno voleva levarsi di torno o far
passare per morta...»
«Jacques Ferrand... avete detto!» esclamò Sarah con una voce così
alterata che la Chouette si trasse indietro stupefatta.
«Il notaio Jacques Ferrand...» riprese Sarah, «vi consegnò quella
bambina... e...»
Non riuscì a finire la frase.
L’emozione era troppo violenta; le mani, tese verso la Chouette,
tremavano convulse; la sorpresa, la gioia le avevano trasformato il
volto.
«Non so che cosa vi emozioni a questo modo, signora mia» riprese la
vecchia. «Comunque è molto semplice... dieci anni fa Tournemine, una
mia vecchia conoscenza, mi disse: “Vuoi prendere una bambina che
qualcuno vuol far sparire? Che muoia o che viva, non ha importanza;
ci sono mille franchi da guadagnare, e farai di lei quel che ti
pare...”.»
«Dieci anni fa!» ripeté Sarah. «Dieci.»
«Una bambina bionda?»
«Sì, una bambina bionda.» «Con gli occhi azzurri?» «Azzurri come due
fiordalisi.» «Ed è lei che alla fattoria...»
«Noi impacchettammo per Saint-Lazare... A dire il vero non me
l’aspettavo di ritrovarla in campagna, quella Pégriotte.»
«Oh, mio Dio! Mio Dio!» proruppe Sarah gettandosi in ginocchio e
alzando le mani e gli occhi al cielo, «le vostre vie sono
imperscrutabili... Io mi prostro davanti alla vostra provvidenza.
Oh! se tanta felicità fosse possibile... ma no, non posso ancora
crederci... sarebbe troppo bello... no!»
Poi, alzatasi improvvisamente, disse alla Chouette che la guardava
interdetta:
«Venite...»
E Sarah fece strada alla Chouette, quasi correndo.
In fondo al viale salì pochi gradini che guidavano alla porta-
finestra di uno studio arredato sontuosamente.
Mentre stava per entrarvi, Sarah le fece segno di restar fuori. Poi
la contessa suonò energicamente. Comparve un domestico. «Non ci sono
per nessuno, e che nessuno entri qui... intesi?
nessuno assolutamente.»
Il domestico uscì.
Sarah, per maggior precauzione, andò a mettere il chiavistello. La
Chouette aveva sentito la raccomandazione fatta al dome-
stico e aveva visto Sarah mettere il catenaccio.
La contessa, girandosi, le disse:
«Entrate, presto... e chiudete la porta». La Chouette entrò. Aprendo
con gesti febbrili un secrétaire, Sarah ne tolse un co-
fanetto d’ebano, lo portò sopra un tavolino in mezzo alla stanza e
fece segno alla Chouette di avvicinarsi.
Il cofanetto aveva diversi piani divisori posti gli uni sopra gli
altri, pieni di gemme magnifiche.
Sarah aveva una tale fretta di arrivare in fondo al piccolo scrigno
che gettava precipitosamente sulla tavola quei ripiani
splendidamente pieni di collane, braccialetti e diademi, i cui
rubini, gli smeraldi e i diamanti brillavano di mille fuochi.
Lo Chouette ne rimase abbagliata...
Era armata, sola con la contessa, chiusa in una stanza, la fuga era
facile, assicurata.
Un’idea diabolica si affacciò alla mente di quel mostro.
Ma per compiere il nuovo misfatto doveva togliere dalla cesta lo
stiletto e avvicinarsi a Sarah senza insospettirla.
Con l’astuzia del puma, che striscia e si avanza a tradimento verso
la sua preda, la vecchia approfittò della disattenzione della
contessa per fare piano piano il giro del tavolino che la separava
dalla sua vittima.
La Chouette aveva già cominciato questa perfida manovra, quando fu
costretta a fermarsi bruscamente.
Sarah tirò fuori un medaglione dal doppio fondo dello scrigno, si
chinò sul tavolo, porgendolo con mano tremante alla Chouette, e le
disse:
«Guardate questo ritratto».
«È la Pégriotte!» gridò la vecchia, colpita dall’estrema
somiglianza. «È la bambina che mi fu consegnata; mi par di vederla
quando me la portò Tournemine... Ecco lì i suoi capelli lunghi e
ricciuti, ch’io le tagliai subito e che vendetti a caro prezzo,
sicuro!»
«La riconoscete, era proprio questa? Ve ne scongiuro, non
m’ingannate, non m’ingannate!»
«Vi assicuro, mia bella signora, che è la Pégriotte, come se
l’avessi qui in carne e ossa» disse la Chouette cercando di
avvicinarsi ancora un po’ a Sarah senza farsene accorgere; «ancora
oggi assomiglia al ritratto... Se la vedeste, ne rimarreste
colpita.»
Sarah non aveva emesso un solo grido di dolore, di sgomento,
nell’apprendere che per dieci anni sua figlia aveva vissuto come una
miserabile, abbandonata...
Neppure un rimorso al pensiero ch’ella stessa l’aveva fatta
fatalmente strappare al quieto asilo ove l’aveva sistemata Rodolphe.
Questa madre snaturata non chiese, come prima cosa, con ter-
ribile ansia, notizie sul passato della figlia.
No; in Sarah l’ambizione aveva soffocato da tempo ogni tene-
rezza materna.
Non era la gioia di ritrovare la figlia che l’emozionava tanto,
ma la speranza fattasi ormai certezza di veder realizzato il sogno
orgoglioso di tutta la sua vita.
Rodolphe si era interessato all’infelice giovinetta, l’aveva
raccolta senza conoscerla; che cosa avrebbe dunque fatto quando
avesse saputo che ella era... SUA FIGLIA!!!
Lui era libero... la contessa, vedova...
Sarah vedeva già brillare la corona di altezza reale.
La Chouette, continuando ad avanzare a passi felpati, era
giunta a una delle estremità della tavola, aveva messo in posizione
verticale il suo pugnale nella sporta, con l’impugnatura a filo
dell’apertura, a portata di mano...
Era ormai a pochi passi dalla contessa.
«Sapete scrivere?» le chiese quest’ultima a un tratto.
«No, signora, non so scrivere» rispose la Chouette per toglier-
si da ogni impaccio.
«Scriverò io sotto vostra dettatura... Ditemi tutto quello che
sapete circa l’abbandono della ragazza.»
E Sarah, sedendosi in una poltrona davanti al tavolo, prese una
penna e fece cenno alla Chouette di avvicinarsi.
Gli occhi della vecchia scintillavano.
Infine era in piedi accanto alla sedia di Sarah. Costei, curva sul
tavolino, si accingeva a scrivere...
«Leggerò a mano a mano ad alta voce» disse la contessa, «e se
sbaglio mi correggerete.»
«D’accordo, signora» rispose la Chouette, attenta a ogni minimo
movimento di Sarah.
Poi fece scivolare la destra nella borsa di paglia per prendere il
pugnale senza essere vista.
La contessa cominciò a scrivere: Dichiaro che...
Ma, interrompendosi e girandosi verso la Chouette, che aveva già la
mano sul manico del suo pugnale, Sarah le chiese:
«In che epoca vi fu consegnata la bambina?».
«Nel febbraio 1827.»
«E da chi?» riprese Sarah, sempre voltata verso la Chouette. «Da
Pierre Tournemine, attualmente in prigione a Roche-
fort... Era stata la signora Séraphin, governante del notaio, a
dargli la bambina.»
La contessa si rimise a scrivere e lesse ad alta voce:
«Dichiaro che nel mese di febbraio 1827, un certo...».
La Chouette aveva tirato fuori il pugnale.
Si stava già raddrizzando per colpire la sua vittima alla schiena...
Ma questa si volse di nuovo.
La Chouette, per non essere scoperta, appoggiò rapidamente la destra
armata nello schienale della poltrona di Sarah, e si chinò su di lei
per rispondere alla nuova domanda.
«Ho dimenticato il nome dell’uomo che vi affidò la bambina» disse la
contessa.
«Pierre Tournemine» rispose la Chouette.
«Pierre Tournemine» ripeté Sarah continuando a scrivere,
«attualmente in prigione a Rochefort mi consegnò una bambina che gli
era stata data dalla governante del...»
La contessa non ebbe il tempo di finire...
La Chouette, liberatasi piano piano della sporta che si era lasciata
cadere ai piedi, si era gettata sulla contessa con furia fulminea;
con la sinistra l’aveva afferrata alla nuca e, abbassatale la faccia
sul tavolino, con la destra le aveva piantato il pugnale fra le
spalle.
Quest’esecrabile crimine fu compiuto così all’improvviso che la
contessa non diede un grido, né un lamento.
Sempre seduta, restò con il busto e il viso ripiegati sul tavolo. La
penna le cadde di mano.
«Lo stesso colpo usato da Fourline col vecchietto della rue du
Roule» disse il mostro. «Eccone un’altra che non parlerà più...
ormai è sistemata.»
E la Chouette, mentre s’affrettava a impadronirsi dei gioielli che
cacciò nella borsa, non s’accorse che la sua vittima respirava
ancora.
Compiuto il furto e l’omicidio, l’orribile vecchia aprì la porta a
vetri, sparì rapidamente nel viale folto d’alberi, uscì dalla
porticina sul vicolo e si portò fuori dell’abitato.
Vicino all’Osservatorio prese una carrozza che la portò da
Bras-Rouge, agli Champs-Elysées. Là, come sappiamo, la vedova
Martial, Nicolas e Calebasse avevano dato appuntamento alla Chouette
per derubare e uccidere la sensale di gioielli.
V
L’AGENTE DI PUBBLICA SICUREZZA
Il lettore conosce già l’osteria del Coeur Saignant, che si trova
agli Champs-Elysées nei pressi di Cours-la-Reine, in uno degli ampi
fossati che alcuni anni addietro si vedevano vicino a questo luogo
di passeggio.
Gli abitanti dell’isola del Predone non erano ancora arrivati.
Dopo la partenza di Bradamanti che aveva accompagnato, come
sappiamo, la matrigna della signora d’Harville in Normandia,
Tortillard era tornato in casa del padre.
Posto di vedetta in cima alla scala, il piccolo sciancato doveva
segnalare l’arrivo dei Martial con un grido convenuto. Bras-Rouge
aveva infatti un colloquio segreto con un agente di pubblica
sicurezza, un certo Narcisse Borel, che ci si ricorderà forse d’aver
incontrato alla bettola dell’ostessa, quando vi si recò per
arrestare due scellerati accusati di omicidio.
Quest’agente, sulla quarantina, vigoroso e robusto, di carnagione
colorita, aveva occhi vivaci e penetranti e il viso completamente
rasato per potersi meglio travestire a seconda delle varie esigenze
delle sue pericolose spedizioni; spesso infatti doveva aggiungere
l’abilità del commediante, nel mutare aspetto, al coraggio e
all’energia del soldato per riuscire ad acciuffare alcuni de-
linquenti con i quali doveva giocare d’astuzia. Narcisse Borel era,
insomma, uno degli strumenti più utili e più attivi di quella
piccola provvidenza chiamata comunemente la Polizia.
Torniamo al colloquio tra Narcisse Borel e Bras-Rouge, colloquio che
pareva molto animato.
«Sì» diceva l’agente, «vi si accusa di approfittare della vostra
posizione ambigua per prendere impunemente parte ai furti di una
banda di malviventi molto pericolosa e per dare su di loro false
informazioni alla polizia... State attento, Bras-Rouge, se
quest’accusa fosse confermata da prove, non vi sarebbe pietà per
voi.»
«Ahimè! lo so che mi si fa quest’accusa, ed è doloroso, mio buon
signor Narcisse» rispose Bras-Rouge dando al suo viso da faina
un’ipocrita espressione di rincrescimento. «Ma spero che oggi,
infine, mi si renderà giustizia e che la mia buona fede sarà
riconosciuta.»
«Vedremo!»
«Come si può diffidare di me? Non ho dato abbastanza prove? Sono
stato io, sì o no, che in passato vi feci cogliere in flagrante
Ambroise Martial, uno dei più pericolosi malfattori di Parigi? E,
come si suol dire, la razza non mente, e quella dei Martial viene
dall’inferno, dove ritornerà, se il buon Dio è giusto.»
«Tutto ciò è molto bello, ma Ambroise sapeva che saremmo andati ad
arrestarlo: se io non fossi andato prima dell’ora da voi indicatami,
quello mi sfuggiva.»
«Signor Narcisse, mi stimereste capace di averlo avvisato
segretamente del vostro arrivo?»
«Io so solo che da quel furfante mi presi una pistolettata a
bruciapelo, che per fortuna mi attraversò soltanto il braccio.»
«Ma diamine, signor Narcisse, è evidente che nel vostro mestiere si
è esposti a simili malintesi...»
«Ah! voi lo chiamate un malinteso!»
«Ma certo! È chiaro infatti che quello scellerato voleva piantarvi
la palla in corpo.»
«Nel braccio, in corpo o nella testa, poco importa; non è di questo
che mi lagno. Ogni mestiere ha i suoi inconvenienti.»
«E le sue soddisfazioni, anche, signor Narcisse, le sue
soddisfazioni! Per esempio quando un uomo in gamba, accorto,
coraggioso come voi... è da un pezzo sulla pista di una nidiata di
furfanti, ch’egli segue di quartiere in quartiere, da un buco
all’altro, con un buon segugio come il vostro servitore Bras-Rouge,
fini-
sce col braccarli e chiuderli in una trappola da dove nessuno può
scappare, confessate, signor Narcisse, che c’è una bella
soddisfazione... un piacere da cacciatore... Senza contare il
servigio che si rende alla giustizia» aggiunse con aria grave il
taverniere del Coeur Saignant.
«Sarei proprio del vostro parere se il segugio fosse fedele, ma ho
paura che non lo sia.»
«Ah! signor Narcisse, voi credete...»
«Io credo che invece di metterci sulla pista giusta vi divertiate a
sviarci e abusiate della fiducia che si ha in voi. Tutti i giorni
promettete di aiutarci a mettere le mani sulla banda... e quel
giorno non viene mai.»
«E se quel giorno fosse oggi, signor Narcisse, come ne sono sicuro;
e se vi faccio prendere Barbillon, Nicolas Martial, la vedova, sua
figlia e la Chouette, che ne dite, sarà questa, sì o no, una buona
retata? Allora diffiderete ancora di me?»
«No, e avreste reso un vero servigio, poiché si hanno contro questa
banda dei forti sospetti, quasi certi, ma disgraziatamente nessuna
prova.»
«E così, un pochino di flagranza, che permettesse di prenderli al
laccio, aiuterebbe di molto a sbrogliare la matassa, eh signor
Narcisse?»
«Indubbiamente... E voi m’assicurate che non c’è stata provocazione
da parte vostra nel colpo che vogliono tentare?»
«No, sul mio onore! è la Chouette che è venuta a propormi di tirare
in casa mia la sensale, quando la guercia infernale ha saputo da mio
figlio che Morel, il lapidario di rue du Temple, lavorava in roba
vera e non falsa, e che la vecchia Mathieu aveva spesso addosso
valori considerevoli... Io ho accettato l’affare, proponendo alla
Chouette di associare a noi i Martial e Barbillon, per mettervi tra
le mani tutta la banda.»
«E il Maître d’école, quell’uomo così pericoloso, forte e feroce,
che era sempre con la Chouette? uno dei frequentatori della
bettola...»
«Il Maître d’école?...» disse Bras-Rouge fingendo stupore.
«Sì, un forzato evaso dalle carceri di Rochefort, un certo Anselme
Duresnel, condannato all’ergastolo. Sappiamo che si è sfigurato per
rendersi irriconoscibile... Non avete alcun indizio su di lui?»
«Nessuno» rispose coraggiosamente Bras-Rouge, che aveva le sue
ragioni per dire questa bugia; il Maître d’école, infatti, in quel
momento era chiuso in una delle cantine dell’osteria.
«V’è motivo di credere che il Maître d’école sia l’autore di nuovi
delitti. Sarebbe una cattura importante...»
«Da sei settimane non si sa più niente di lui.»
«E per questo vi si rimprovera di averne perso le tracce.» «Sempre
rimproveri, signor Narcisse, sempre!»
«Non ne mancano certo i motivi... E il contrabbando?»
«Non mi tocca conoscere gente un po’ di tutte le razze? Sia
contrabbandieri che altri, per mettervi sulla pista... Vi ho
denunciato io quel tubo nel quale venivano introdotti i liquidi, là
fuori della dogana di Trône e che finiva in una casa di via...»
«Lo so, lo so» disse Narcisse interrompendo Bras-Rouge; «ma per uno
che ne denunziate, forse ne fate scappare dieci; e voi continuate
impunemente il vostro traffico... Sono sicuro che mangiate a due
greppie, come si suol dire.»
«Ah! signor Narcisse... sono incapace di un appetito tanto
disonesto.»
«E questo non è tutto. Nella rue du Temple, al 17, abita una certa
Burette, che presta a pegno e che è accusata di essere la vostra
ricettatrice personale, vostra, capite?»
«Che volete che ci faccia, signor Narcisse? si dicono tante cose, la
gente è così cattiva... Torno a ripeterlo, bisogna pure che io
bazzichi con quanti più birboni sia possibile, e che faccia persino
mostra di essere come loro... peggio di loro, per non
insospettirli... ma quanto mi costa imitarli... quanto mi costa...
ci vuole proprio tutto il mio zelo per il servizio, ve l’assicuro,
per adattarmi a questo mestiere...»
«Pover’uomo... vi compatisco con tutta l’anima.»
«Voi ridete, signor Narcisse... Ma se hanno di queste idee, perché
non hanno fatto una perquisizione dalla Burette e da me?»
«Lo sapete bene il perché... per non far scappare quei delinquenti
che da tanto tempo promettete di farci acciuffare.»
«E ve li farò acciuffare, signor Narcisse; fra meno di un’ora
saranno nella rete... e senza molta fatica, poiché vi sono tre
donne: quanto a Barbillon e a Nicolas Martial, quelli sono feroci
come tigri, ma vili come conigli.»
«Tigri o conigli» disse Narcisse aprendo un poco la lunga redingote
e mostrando il calcio di due lunghe pistole che gli uscivano dai
taschini dei pantaloni, «ho qui di che servirli.»
«Farete però bene a prendere con voi due dei vostri uomini, signor
Narcisse, perché quando si vedono messi alle strette, anche i più
vigliacchi a volte diventano belve.»
«Metterò due dei miei nella stanza a pianterreno, accanto a quella
dove farete entrare la sensale; al primo grido, io comparirò a una
porta e i miei due uomini all’altra.»
«Dovete far presto, perché la banda sarà qui da un momento
all’altro, signor Narcisse.»
«E va bene, vado a far appostare i miei uomini. Basta che non sia
per niente anche oggi.»
La conversazione fu interrotta da un fischio particolare, destinato
a far da segnale.
Bras-Rouge si avvicinò a una finestra per vedere chi fosse
annunziato da Tortillard.
«Guardate, ecco che arriva già la Chouette. Ebbene, ora mi credete,
signor Narcisse?»
«È già qualcosa, ma non basta; insomma si vedrà; corro a sistemare i
miei uomini.»
E l’agente di polizia uscì da una porta laterale.
VI
LA CHOUETTE
Il passo precipitoso, l’ardore feroce di una febbre di rapina e di
sangue che ancora animavano la Chouette le avevano imporporato
l’odioso volto; il suo occhio verde brillava di una gioia selvaggia.
Tortillard la seguiva a salti, zoppicando.
Nel momento in cui ella scendeva gli ultimi gradini della scala, il
figlio di Bras-Rouge, per farle uno scherzo maligno, posò il piede
sul lembo della veste della Chouette che strascicava per terra.
Questo brusco intoppo fece inciampare la vecchia che, non potendosi
reggere alla ringhiera, cadde in ginocchio con le mani in avanti,
lasciando così andare la preziosa sporta da cui uscì un braccialetto
d’oro adorno di smeraldi e di perle orientali.
La Chouette, che cadendo si era escoriata un po’ le mani, raccolse
il braccialetto che non era sfuggito all’occhio attento di
Tortillard, si alzò e si avventò furibonda sul piccolo zoppo che le
si avvicinava con aria ipocrita dicendole:
«Mio Dio, avete messo male il piede?»
La Chouette, senza rispondergli, lo prese per i capelli e,
chinandosi all’altezza della sua guancia, lo morse con rabbia, fino
a farlo sanguinare.
Cosa strana, Tortillard, nonostante la sua malvagità, malgrado
l’acuto dolore che provava, non diede un lamento, né un grido...
Si asciugò la guancia insanguinata e, sforzandosi di ridere, disse:
«Un’altra volta preferirei che non mi baciaste tanto forte, cara
Chouette».
«Brutto monellaccio, perché mi hai messo a bella posta il piede sul
vestito? Per farmi cadere, eh?»
«Io? questa poi... vi giuro che non l’ho fatto apposta, mia buona
Chouette. Ma vi pare che il vostro piccolo Tortillard abbia voluto
farvi del male!... vi vuol troppo bene; avete voglia di picchiarlo,
strapazzarlo, morderlo, lui v’è attaccato come un povero cagnolino
al suo padrone» ribatté il ragazzo con voce carezzevole e
sdolcinata.
La Chouette, ingannata dall’ipocrisia di Tortillard, gli credette e
rispose:
«Alla buon’ora! se ti ho morso a torto, varrà per tutte le altre
volte che te lo saresti meritato, canaglia... Animo, viva
l’allegria!... oggi non ho rancori... Dov’è quel briccone di tuo
padre?»
«In casa. Volete che vada a chiamarlo?»
«No. Sono venuti i Martial?»
«Non ancora.»
«Allora faccio in tempo a scendere giù da Fourline; ho da par-
largli, al vecchio senz’occhi...»
«Andate in cantina dal Maître d’école?» chiese Tortillard dis-
simulando appena una gioia diabolica. «Che t’importa?»
«A me?»
«Sì, me lo hai chiesto con un’aria buffa.» «Perché penso a una cosa
buffa.»
«E cioè?»
«Be’, pensavo che gli dovreste almeno portare un mazzo di carte per
svagarlo» riprese Tortillard con aria beffarda; «così varierebbe un
po’... non gioca ad altro che a farsi mordere dai topi! a quel gioco
vince sempre, e alla fine ci si annoia.»
La Chouette si sganasciava dalle risa a questi frizzi, e disse allo
zoppo:
«Che amore di monellaccio... non conosco un moccioso che abbia già
in sé tanto vizio quanto questo briccone... Va’ a prendere una
candela, mi farai lume per scendere da Fourline... e mi aiuterai ad
aprire la porta... sai che da sola non ce la faccio neppure a
smuoverla.»
«Ah, questo no, c’è troppo buio in cantina» fece Tortillard,
scuotendo il capo.
«Come, come! tu che sei cattivo come il demonio, dovresti essere
pauroso?... vorrei vedere anche questa! Su, muoviti, e di’ a tuo
padre che torno subito... che sono con Fourline... che parliamo un
po’ delle pubblicazioni per il nostro matrimonio... ah, ah!» scoppiò
a ridere il mostro. «Via, sbrigati, tu farai da paggetto alle nozze,
e se stai buono, toccherà a te la mia giarrettiera...»
Tortillard andò a cercare un moccolo, di mala grazia. Mentre lo
aspettava, la Chouette, tutta presa dalla sua gioia per il furto ben
riuscito, mise la mano destra nella sporta per toccare un po’ i
preziosi gioielli che v’erano dentro.
Era per nascondere momentaneamente quel tesoro che voleva scendere
nel sotterraneo del Maître d’école e non per godere, com’era solita
fare, dei tormenti della sua nuova vittima.
Diremo tra poco perché, d’accordo con Bras-Rouge, la Chouette avesse
relegato il Maître d’école nello stesso sotterraneo dove quello
scellerato aveva un tempo precipitato Rodolphe.
Tortillard, con un lume in mano, ricomparve alla porta dell’osteria.
La Chouette lo seguì nella stanza a pianterreno, su cui dava la
larga botola a due battenti che conosciamo già.
Il figlio di Bras-Rouge, riparando il lume con il cavo della mano e
precedendo la vecchia, si avviò lentamente giù per la scala di
pietra che scendeva molto ripida fino alla pesante porta del
sotterraneo dove Rodolphe aveva rischiato di morire.
Arrivato in fondo alla scala, Tortillard parve esitare a seguire la
Chouette.
«Insomma!... brutto infingardaccio... fatti avanti» gli gridò questa
girandosi.
«Maledizione! c’è così buio... e poi voi andate così in fretta,
Chouette. Ma insomma, ecco... preferisco tornarmene indietro e
lasciarvi la candela.»
«E la porta della cantina, idiota?... La posso aprire io sola? Vieni
avanti, sì o no?»
«No, ho troppa paura.»
«Se vengo lì, vedi che cosa ti succede...»
«Visto che mi minacciate, io torno su...»
E Tortillard indietreggiò di qualche passo.
«E va bene! senti... sta’ buono» soggiunse la Chouette frenan-
do la propria collera, «ti darò qualcosa...»
«Ora sì che ci siamo!» disse Tortillard avvicinandosi, «parlatemi
così e farete di me quel che vorrete, mamma Chouette.»
«Muoviti allora, perché ho fretta.»
«Sì, ma promettetemi che mi lascerete stuzzicare il Maître d’école.»
«Un’altra volta... oggi non ho tempo.»
«Soltanto un pochino; mi basta farlo smaniare un po’...»
«Un altro giorno... Ti ho detto che oggi devo tornare su subito.»
«Allora perché volete aprire la porta del suo appartamento?» «Questi
sono affari miei. La vuoi finire? I Martial saranno già
su, ho bisogno di parlar con loro... sii gentile e non te ne
pentirai... vieni.»
«Bisogna proprio che vi voglia un gran bene, Chouette! Mi fate fare
tutto quello che volete» disse Tortillard facendosi avanti
lentamente.
La luce incerta, vacillante della candela rischiarava vagamente
l’oscuro corridoio, riflettendo l’ombra dell’odioso ragazzo sui muri
verdastri, screpolati e stillanti umidità.
In fondo a questa specie di corridoio, nella semioscurità, si
distinguevano l’arco bassissimo dell’ingresso al sotterraneo, la
porta massiccia rinforzata da strisce di ferro e, nell’ombra, lo
scialle rosso e la cuffia bianca della Chouette.
Grazie agli sforzi di costei e a quelli di Tortillard, la porta si
aprì, stridendo sui cardini arrugginiti.
Un’ondata di aria umida uscì da quell’antro, nero come la notte.
Il lume, posato in terra, mandava un po’ di luce sui primi gradini
della scala di pietra, ma gli ultimi si perdevano fra le tenebre.
Dalle profondità del sotterraneo uscì un grido, o meglio un
ruggito da bestia feroce.
«Ah, ecco Fourline che dà il buon giorno alla sua mamma»
disse ironicamente la Chouette.
E scese ancora alcuni gradini per nascondere la sua sporta in
qualche ripostiglio.
«Ho fame!» urlò il Maître d’école con voce fremente d’ira.
«Mi si vuol dunque far morire di fame come una bestia arrabbiata!»
«Hai fame, micione?» disse la Chouette con una risata, «ebbene...
succhiati il pollice...»
Si udì il rumore di una catena che veniva tirata violentemente...
Poi un sospiro di collera muta, repressa.
«Buono, buono, ti farai ancora bua alla gamba, come al podere di
Bouqueval, povero vecchio!» aggiunse Tortillard.
«Ha ragione, il ragazzo; stattene un po’ tranquillo, Fourline»
seguitò la vecchia. «L’anello e la catena sono saldi, vecchio orbo,
vengono dalla bottega di papà Micou, che vende solo roba buona. Del
resto è colpa tua; perché ti sei lasciato legare nel sonno? Dopo è
bastato infilarti l’anello e la catena alla gamba e calarti qui...
al fresco... per mantenerti bene, vecchio bellimbusto.»
«È un peccato, ammuffirà» disse Tortillard.
Si udì di nuovo un rumore di catene.
«Eh, eh! Fourline che saltella come un maggiolino legato per
la zampa» disse la vecchia. «Mi par di vederlo...»
«Maggiolino! vola, vola, vola!... Tuo marito è il Maître d’éco-
le!» canterellò Tortillard.
Questa variante aumentò l’ilarità della Chouette.
Dopo aver messo la sua sporta in un buco formatosi nel muro
lungo la scala, si rialzò dicendo: «Vedi, Fourline...».
«Ma come fa a vederci» l’interruppe Tortillard.
«Ha ragione, il ragazzo. Ebbene, senti, Fourline? al ritorno
dalla fattoria, non dovevi essere tanto stupido da impietosirti...
impedendomi di sfigurare la Pégriotte col vetriolo. Come se non
bastasse, mi hai parlato della tua coscienza che si andava facendo
bacchettona. Ho visto che la tua pasta di mascalzone incallito si
andava infrollendo, che tendeva all’onesto... che sarebbe come dire
alla spia... che da un giorno all’altro avresti potuto denunciarci,
vecchio guercio... e allora...»
«Allora il vecchio senz’occhi mangerà la Chouette, perché ha fame»
gridò Tortillard dando alla vecchia una spinta dal dietro con quanta
forza aveva.
La Chouette cascò in avanti, con un’imprecazione terribile.
La si sentì ruzzolare in fondo alla scala di pietra.
«Kis... kis... kis... a te la Chouette, a te... saltale addosso,
vec-
chietto» aggiunse Tortillard.
Poi, levata la sacca di sotto alla pietra, dove l’aveva vista
nascon-
dere dalla vecchia, salì a precipizio la scala urlando con risate
feroci: «Questa spinta è un po’ meglio di quella di poco fa, eh,
Chouette? Questa volta non mi morderai fino a farmi sanguinare. Ah!
cre-
devi che non ti serbassi rancore... grazie tante... sanguino
ancora». «L’ho presa... oh!... l’ho presa...» gridò il Maître
d’école dal fon-
do della cantina.
«Se l’hai presa, facciamo a mezzo, vecchio» disse in tono di
scherno Tortillard.
E si fermò sull’ultimo gradino della scala.
«Aiuto!» gridò la Chouette con voce strozzata.
«Grazie, Tortillard» fece il Maître d’école «grazie!»
E lo si sentì mandare un profondo sospiro di gioia selvaggia. «Ah,
ti perdono il male che m’hai fatto... e per ricompensa... ora
la sentirai cantare la Chouette!!! ascoltala bene... l’uccello di
morte.» «Bravo!... eccomi qua nei primi posti» rispose Tortillard
seden-
dosi in cima alla scala.
VII
IL SOTTERRANEO
Tortillard, seduto sullo scalino più alto, alzò il lume nel
tentativo di rischiarare l’orribile scena che avrebbe avuto luogo
nelle profondità del sotterraneo; ma le tenebre erano troppo
fitte... e una così fioca luce non valse a dissiparle.
Il figlio di Bras-Rouge non poté distinguere nulla.
La lotta tra il Maître d’école e la Chouette era sorda, accanita,
senza una parola né un grido.
Si sentiva soltanto, a tratti, il respiro affannoso che accompagna
sempre gli sforzi violenti, repressi.
Tortillard, seduto sul suo gradino, si mise allora a battere i piedi
con quella cadenza particolare usata dagli spettatori impazienti di
veder cominciare lo spettacolo; poi lanciò quell’urlo familiare ai
frequentatori del loggione nei teatri dei boulevards:
«Ehi! su il sipario... musica... scena...».
«Oh, finalmente potrò tenerti come voglio» mormorava di sotto il
Maître d’école «e adesso...»
Lo interruppe un movimento disperato della Chouette. Ella si
dibatteva con l’energia che infonde il timore della morte.
«Più forte... non si sente» gridò Tortillard.
«Hai voglia di divorarmi la mano, tanto non ti mollo» riprese il
Maître d’école.
Poi, essendo evidentemente riuscito a domare la Chouette, aggiunse:
«Così va bene... Ora, ascolta...»
«Tortillard, chiama tuo padre» gridò la Chouette con voce rotta,
affannosa. «Aiuto! Aiuto!»
«Fuori, fuori la vecchia! Disturba, non fa sentir nulla!» disse il
piccolo sciancato tra scrosci di risa. «Abbasso l’intrigo!»
Le grida della Chouette non potevano giungere di sopra passando
attraverso quei due piani sotterranei.
La disgraziata, accorgendosi che non c’era da sperare in alcun aiuto
da parte del figlio di Bras-Rouge, volle tentare un ultimo mezzo.
«Tortillard, vai a cercare aiuto, e ti do la mia sporta; è piena di
gioielli... è là sotto una pietra.»
«Che generosità! Tante grazie, signora mia... Credi forse che non
l’abbia già la tua borsa? Ecco, senti come tintinna...» fece
Tortillard scuotendola. «Perché, se vuoi che ti vada a chiamar papà,
non mi offri per esempio qui, subito, due soldi di focaccia calda!»
«Abbi pietà di me, e io...»
La Chouette non poté continuare.
Vi fu una nuova pausa di silenzio.
Lo zoppo ricominciò a battere ritmicamente sulla pietra dello
scalino su cui se ne stava rannicchiato, accompagnando il rumore dei
piedi con questa frase ripetuta:
«Ebbene, non cominciamo? Ehi, su il sipario, o rompo tutto!
scena!... musica!»
«Così, Chouette, non potrai più stordirmi con i tuoi strilli»
riprese il Maître d’école, dopo alcuni minuti, durante i quali
riuscì evidentemente a imbavagliare la vecchia. «Tu lo capisci,
vero» seguitò adagio e con voce arrochita «che non voglio finirla
subito. La tortura si ripaga con la tortura! Tu mi hai fatto
soffrire parecchio. Ti devo parlare a lungo prima d’ammazzarti...
sì... a lungo... sarà terribile per te... che agonia, eh?»
«Ehi, vecchio, non fare stupidaggini!» disse Tortillard alzandosi un
po’; «castigala, ma non farle troppo male. Parli d’ammazzarla... ma
non dici mica sul serio, vero? Ci tengo alla mia Chouette. Io te
l’ho prestata, ma tu devi rendermela... non me la sciupare... non
voglio che me la distruggano, la mia Chouette, altrimenti vado a
chiamare papà.»
«Stai tranquillo, avrà solo quel che si merita... una lezione che le
farà bene...» disse il Maître d’école per rassicurare Tortillard,
temendo che il piccolo zoppo andasse a cercare aiuto.
«Oh allora bravo! ecco che comincia lo spettacolo» disse il figlio
di Bras-Rouge, che non credeva che il Maître d’école minacciasse
seriamente di morte l’orribile vecchia.
«Dunque parliamo un po’, Chouette» riprese il Maître d’école con
calma. «Prima di tutto, vedi... da quel sogno al podere di
Bouqueval, che mi ha rimesso sotto gli occhi tutti i nostri delitti,
da quel sogno che per poco non mi fece impazzire... che mi farà
impazzire... perché nella solitudine, nell’isolamento profondo in
cui vivo, tutti i miei pensieri tornano sempre, mio malgrado, a quel
sogno, si è verificato in me uno strano cambiamento...
Sì... ho provato orrore della mia passata ferocia...
Ho cominciato col non lasciarti martirizzare la Goualeuse... e
questo era ancora niente...
Incatenandomi qui in questa cantina, facendomi soffrire il freddo e
la fame, ma liberandomi della tua presenza ossessionante... mi hai
lasciato in balia delle mie agghiaccianti riflessioni.
Oh, tu non sai che cosa voglia dire essere solo... sempre solo...
con un velo nero sugli occhi, come mi disse l’uomo implacabile che
mi ha punito...
È spaventoso, capisci?
Io l’avevo precipitato in questo sotterraneo per ucciderlo... e
questo sotterraneo è ora il luogo del mio supplizio... e forse sarà
la mia tomba...
Te lo ripeto, è spaventoso.
Tutto ciò che quell’uomo mi predisse, si è avverato.
Mi aveva detto: “Hai abusato della tua forza... sarai lo zimbello
del più deboli”. Così è stato.
Mi aveva detto: “D’ora in poi isolato dal mondo esterno, a fac-
cia a faccia con il perpetuo ricordo dei tuoi misfatti, un giorno ti
pentirai di questi misfatti”. E questo giorno è arrivato... la
solitudine mi ha purificato.
Non l’avrei creduto possibile.
Un’altra prova... che sono forse meno scellerato di prima è che
provo una gioia immensa ad averti qua... mostro... non per vendicare
me stesso, ma le nostre vittime. Sì, avrò compiuto un dovere quando,
di mia propria mano, avrò punito la mia complice.
Una voce mi dice che se tu fossi caduta prima in mio potere, molto
sangue... molto sangue non sarebbe sgorgato sotto i tuoi colpi.
Attualmente io provo orrore delle mie uccisioni, eppure... non ti
pare strano? senza timore, con tutta tranquillità, mi accingo a
compiere su di te un assassinio spaventoso e con spaventosa
raffinatezza... di’, di’... mi capisci?»
«Bravo!... ben recitato... vecchio senz’occhi! la faccenda si va
facendo interessante!» gridò Tortillard applaudendo. «Tutto ciò, è
sempre per burla, vero?»
«Sempre per burla» riprese il Maître d’école più tetro che mai.
«Sta’ ferma, Chouette, devo finire di spiegarti come a poco a poco
sono arrivato a pentirmi.
Questa rivelazione ti sarà odiosa, cuore incallito, e ti proverà
anche quanto devo essere spietato nella vendetta che voglio
prendermi su di te in nome delle nostre vittime.
Devo affrettarmi...
La gioia di tenerti qui... mi fa tremar le vene... le tempie mi
martellano... come quando, a forza di pensare al sogno, mi pare
d’impazzire... Forse sto per esser ripreso da una delle mie crisi...
ma avrò il tempo di renderti spaventoso l’avvicinarsi della morte,
costringendoti ad ascoltarmi.»
«Coraggio, Chouette!» urlò Tortillard. «Su, rispondi!... Che, non
sai la tua parte?... Allora di’ al diavolo che ti faccia da
suggeritore, vecchia mia.»
«Oh, hai voglia di dibatterti e di mordermi» riprese il Maître
d’école dopo una nuova pausa, «non mi sfuggirai... Mi hai
rosicchiato le dita fino all’osso... ma se ti muovi ti strappo la
lingua...»
«Continuiamo la nostra chiacchierata.
Trovandomi solo, sempre solo, avvolto dalle tenebre e dal silenzio,
ho cominciato col provare impeti di rabbia, di furore, furore
vano... Per la prima volta persi la testa. Sì, benché desto, rividi
il sogno... ti ricordi? il sogno...
Il vecchietto della rue du Roule... la donna annegata... il
commerciante di bestiame... e tu... che incombevi su quei
fantasmi...
Ti assicuro che tutto ciò è spaventoso.
Io sono cieco... e il mio pensiero prende forma, per rappresentarmi
incessantemente in maniera visibile, quasi tangibile... le sembianze
delle mie vittime.
Anche se non avessi fatto quel sogno orribile, la mia mente, presa
di continuo dal ricordo dei miei passati crimini, sarebbe stata
agitata dalle stesse visioni...
Certo, quando si è privi della vista, le idee ossessionanti si
convertono nel nostro cervello in immagini quasi materiali...
Eppure... talvolta, a forza di contemplarli con terrore
rassegnato... mi pare che quegli spettri minacciosi abbiano pietà di
me... impallidiscono... si ritraggono e spariscono... Allora mi pare
di svegliarmi da un sogno funesto... ma mi sento debole, abbattuto,
sfinito... e, ci credi... oh, come ne riderai, Chouette!...
piango... capisci... Non ridi?... Ma ridi dunque!... ridi!»
La Chouette emise un gemito sordo e soffocato.
«Più forte!» gridò Tortillard, «non si sente.»
«Sì» riprese il Maître d’école «piango, perché soffro... e il fu-
rore è vano. Mi dico: Domani, dopodomani, sempre sarò in preda ai
medesimi accessi di delirio e di desolazione...
Che vita! oh, che vita!
Perché non ho scelto la morte piuttosto ch’esser sepolto vivo in
quest’abisso che mi fa rodere sempre più!
Cieco, solo e prigioniero... che cosa potrebbe distrarmi dai miei
rimorsi? Niente... niente...
Quando i fantasmi cessano per un istante di passare e ripassare
sullo schermo nero ch’io ho davanti agli occhi, ecco altre
torture... i dolorosissimi confronti. Mi dico: Se mi fossi mantenuto
onesto, a quest’ora sarei libero, tranquillo, felice, amato e
rispettato dai miei... invece di essere cieco e incatenato in questa
oscura prigione, alla mercè dei miei complici.
Ahimè! il rimpianto della perduta serenità per colpa di un delitto è
il primo passo verso il pentimento.
E quando al pentimento si aggiunge un’espiazione di una terribile
crudeltà... un’espiazione che cambia la vostra vita in una lunga
veglia popolata di allucinazioni vendicatrici o di riflessioni
disperate... allora forse il perdono degli uomini succede ai rimorsi
e all’espiazione.»
«Attenzione, vecchio» esclamò Tortillard, «che così imiti
Moëssard... È roba vecchia, sfruttata!»
Il Maître d’école non gli diede ascolto.
«Ti stupisce sentirmi parlare così, eh, Chouette? Se avessi
continuato a stordirmi o con altri sanguinosi misfatti o con la
trista cecità mentale della vita del galeotto, in me non si sarebbe
mai operato questo cambiamento salutare, lo so bene...
Ma solo, cieco, consumato da rimorsi che si fanno realtà tangibili,
a che altro pensare?
A nuovi delitti?
E come commetterli?
A un’evasione?
E come tentarla?
E se anche fuggissi... dove potrei andare?... cosa me ne farei
della mia libertà?
No, ormai sono condannato a vivere in una notte eterna fra le
angosce del pentimento e il terrore delle tremende apparizioni che
mi perseguitano...
Qualche volta, tuttavia, un debole raggio di speranza viene a
brillare in mezzo alle mie tenebre... un momento di calma subentra
ai miei tormenti... sì perché talvolta riesco a scongiurare gli
spettri che mi ossessionano, opponendo loro i ricordi di un passato
onesto e tranquillo, ritornando col pensiero ai lontani giorni della
mia giovinezza, della mia infanzia...
Fortunatamente, sai, anche i peggiori scellerati hanno almeno
qualche anno di pace e d’innocenza da contrapporre agli anni di
colpe e di sangue!
Nessuno nasce malvagio...
I più perversi hanno avuto il candore dell’infanzia... hanno
conosciuto le dolci gioie di quella bell’età... E perciò, te lo
ripeto, a volte provo un’amara consolazione dicendomi: “Oggi sono
votato all’esecrazione di tutti, ma vi è stato un tempo in cui mi si
voleva bene, mi si proteggeva, perché ero inoffensivo e buono...”.
Ahimè!... bisogna pure ch’io mi rifugi nel passato... quando
posso... soltanto là trovo un po’ di quiete...»
Nel proferire queste ultime parole, il tono del Maître d’école aveva
perso la sua asprezza; quell’uomo indomito sembrava profondamente
commosso; egli aggiunse:
«Ecco, vedi, la benefica influenza di tali pensieri è tale che si
placa il mio furore... il coraggio... la forza... la volontà mi
mancano per punirti... no, non spetta a me versare il tuo
sangue...».
«Bravo vecchio! Vedi, Chouette, che era tutto uno scherzo!...» gridò
Tortillard applaudendo.
«No, non spetta a me versare il tuo sangue» riprese il Maître
d’école, «sarebbe un assassinio... scusabile forse ma sempre
assassinio, e ne ho abbastanza di tre spettri... e poi, chissà?...
chissà che anche tu ti penta, un giorno.»
E mentre così diceva, il Maître d’école aveva ridato alla Chouette,
senza neanche rendersene conto, un po’ di libertà di movimento.
Ella ne approfittò per impugnare lo stiletto, che s’era infilata nel
busto dopo aver ucciso Sarah, e per vibrare con quest’arma un
violento colpo al bandito, per sbarazzarsene.
Costui lanciò un acuto grido di dolore.
Il feroce ardore dell’odio, del suo desiderio di vendetta, della sua
rabbia, i suoi istinti sanguinari, bruscamente risvegliati ed
esasperati da quell’attacco, esplosero improvvisamente e in questo
terribile impeto di furore egli smarrì completamente la ragione, già
vacillante per tutte le scosse subite.
«Ah, vipera... ho sentito il tuo dente!» esclamò con voce tremante
d’ira mentre stringeva la Chouette che s’era illusa di sfuggirgli;
«strisciavi per il sotterraneo, eh?» continuò sempre più stravolto;
«ma io ti schiaccerò... vipera o civetta... Tu aspettavi sicuramente
l’arrivo dei fantasmi... Sì, giacché le tempie mi martellano, mi
fischiano le orecchie, mi gira la testa... come quando essi devono
venire... Sì, non mi inganno... Oh, eccoli... avanzano dal fondo
delle tenebre... avanzano... Come sono pallidi... e il loro sangue,
come sgorga, rosso e fumante... Ti fanno paura... ti dibatti...
Ebbene! calmati, non li vedrai, i fantasmi... no, non li
vedrai... ho pietà di te... ti accecherò... Sarai come me...
senz’occhi...»
A questo punto il Maître d’école fece una pausa.
La Chouette lanciò un urlo così terribile, che Tortillard,
spaventato, sobbalzò sul suo scalino e si alzò in piedi.
Gli agghiaccianti urli della Chouette parvero portare al parossismo
l’accesso di furore del Maître d’école.
«Canta...» diceva piano «canta, Chouette... canta il tuo canto di
morte... Sei fortunata, non vedi più i tre fantasmi delle nostre
vittime... il vecchietto della rue du Roule... l’annegata... il
commerciante di bestiame... Io sì, li vedo... si avvicinano, mi
toccano... Oh! come sono gelidi... ah!»
L’ultimo sprazzo di ragione dello sciagurato si spense in quel grido
di terrore, in quel grido d’anima dannata.
Da quel momento il Maître d’école non ragionò più; agì ruggendo come
una bestia feroce, ubbidendo soltanto all’istinto selvaggio della
distruzione per la distruzione.
E qualcosa di orribile accadde nelle tenebre della cantina.
Si sentì uno strusciar di piedi precipitoso, interrotto a intervalli
da un rumore sordo, come quello di una scatola cranica che
rimbalzasse sopra un sasso su cui qualcuno tentasse di spezzarla.
Dei gemiti convulsi e uno scroscio di riso infernale accompagnavano
ogni colpo.
Poi si udì un rantolo d’agonia... Poi più nulla.
Nulla tranne lo scalpiccio furioso... nulla tranne i colpi sordi e
rimbalzanti che continuavano.
Di lì a poco un lontano rumore di passi e di voci arrivò sino alle
recondite profondità del sotterraneo... In fondo al passaggio
sotterraneo brillò un gran chiarore.
Tortillard, agghiacciato di paura per la fosca scena cui aveva
assistito senza vederla, scorse diverse persone scendere rapidamente
la scala con dei lumi in mano.
In un momento il sotterraneo fu invaso da diversi agenti di polizia
alla cui testa era Narcisse Borel... alcune guardie municipali
chiudevano il corteo.
Tortillard fu arrestato sui primi scalini del sotterraneo, mentre
aveva ancora in mano la sporta della Chouette.
Narcisse Borel, seguito da due o tre dei suoi, scese nella cantina
del Maître d’école.
Si fermarono tutti colpiti da un orrendo spettacolo.
Incatenato per la gamba a un’enorme pietra posta in mezzo al
sotterraneo, il Maître d’école, orribile, mostruoso, con la criniera
irta, la barba lunga, la bocca schiumante, vestito di stracci
insanguinati, girava come una belva per la sua cella trascinandosi
dietro per i piedi il cadavere della Chouette, la cui testa era
orribilmente mutilata, schiacciata, sfracellata.
Fu necessaria una violenta lotta per strappargli i resti
insanguinati della sua complice e per riuscire ad ammanettarlo.
Dopo una vigorosa resistenza, fu trasportato nella stanza a
pianterreno dell’osteria di Bras-Rouge, una grande stanza oscura
rischiarata da una sola finestra.
Là si trovavano già, con le manette ai polsi e guardati a vista,
Barbillon, Nicolas Martial, sua madre e sua sorella.
Erano stati arrestati nel momento in cui trascinavano dentro la
sensale di diamanti per ucciderla.
Quest’ultima stava riprendendo i sensi in un’altra stanza.
Il Maître d’école, steso a terra e trattenuto a stento da due
agenti, ferito leggermente al braccio dalla Chouette, ma
completamente fuori di senno, soffiava e muggiva come un toro che
stia per essere ammazzato. Di tanto in tanto si rizzava tutto d’un
pezzo con una scossa convulsa.
Barbillon a testa bassa, con la faccia livida, le labbra esangui,
l’occhio fisso e truce, i lunghi capelli neri e lisci che gli
ricadevano sul collo del giubbotto blu strappatosi nella
collutazione, sedeva sopra una panca; i polsi, stretti nelle manette
di ferro, riposavano sulle sue ginocchia.
L’aspetto giovanile di questo sciagurato (aveva appena diciott’anni)
le fattezze regolari del suo viso imberbe, ma già svilito e
degradato, rendevano ancor più deplorabile l’impronta disgustosa
lasciata sulla sua fisionomia dai delitti e dalla vita dissoluta.
Impassibile, egli non proferiva verbo.
Non si riusciva a indovinare se la sua apparente indifferenza fosse
dovuta allo sbigottimento o a una fredda energia: il suo respiro era
frequente; di tanto in tanto, con le due mani impedite, si asciugava
il sudore che gli imperlava la fronte pallida.
Accanto a lui sedeva Calebasse. Aveva perso la cuffia; la chioma
giallastra, stretta alla nuca da un nastro, le pendeva dietro alla
testa in ciocche rade e sottili. Più corrucciata che avvilita, con
le guance incavate e biliose leggermente colorite, ella considerava
con disprezzo l’abbattimento del fratello Nicolas, dirimpetto a lei
su una sedia.
Prevedendo la sorte che l’attendeva, questo delinquente, accasciato
con la testa ciondoloni, le ginocchia che gli tremavano e battevano
l’una contro l’altra, era completamente in preda al
panico. Batteva i denti nervosamente, e si lasciava sfuggire sordi
gemiti.
Sola fra tutti, la Martial, la vedova del giustiziato: in piedi e
appoggiata al muro, non aveva perduto minimamente la sua audacia.
Con la testa alta, si guardava attorno fieramente: la sua maschera
di bronzo non tradiva la benché minima emozione...
Tuttavia, nello scorgere Bras-Rouge, che veniva ricondotto nella
stanza a pianterreno dopo averlo fatto assistere alla minuziosa
perquisizione fatta in tutta la casa dal commissario e dal suo
cancelliere, la vedova non poté fare a meno di mutar espressione; i
suoi occhietti, solitamente spenti, s’illuminarono come quelli di
una vipera indispettita: le labbra serrate le si fecero smorte, le
sue braccia legate s’irrigidirono... Poi, quasi si dolesse di quella
muta manifestazione di collera e di odio impotente, domò la propria
agitazione e tornò di una calma glaciale.
Mentre il commissario, assistito dal suo cancelliere, stendeva il
verbale, Narcisse Borel, fregandosi le mani, dava un’occhiata
compiaciuta all’importante retata che aveva fatto e con la quale
Parigi veniva liberata da una banda di pericolosi criminali; ma,
riconoscendo quanto gli aveva giovato Bras-Rouge in tale spedizione,
non poté trattenersi dal lanciargli un’occhiata espressiva e
riconoscente.
Il padre di Tortillard doveva dividere, sino a dopo il processo, la
prigione e la sorte di coloro che aveva denunciato: come loro aveva
le manette; pareva più intimorito e addolorato di tutti loro; e
contorceva in mille modi il suo muso da faina per dargli
un’espressione disperata, mentre non smetteva di emettere sospiri
accorati. Abbracciava Tortillard come a cercare consolazione in
quelle carezze paterne.
Lo zoppetto si mostrava poco sensibile a simili prove d’affetto; gli
avevano appena comunicato che sarebbe stato trasferito alla prigione
per minorenni fino a nuovo ordine.
«Che disgrazia dover abbandonare il mio adorato figliolo!» esclamava
Bras-Rouge, fingendosi intenerito; «noi due siamo i più infelici,
mamma Martial, perché ci dividono dalle nostre creature.»
La vedova non riuscì a mantenere oltre il suo sangue freddo; sicura
del tradimento di Bras-Rouge, che aveva presentito, gridò:
«Ero sicura che avevi venduto il mio figliolo di Tolone... To’,
Giuda!...» e gli sputò in faccia. «Vendi le nostre teste... e va
bene! si vedranno delle belle morti... morti da veri Martial!»
«Sì, col sorriso sulle labbra andremo incontro alla donna con la
falce» aggiunse Calebasse con esaltazione selvaggia.
La vedova, accennando a Nicolas con un’occhiata colma di sprezzo,
disse alla figlia:
«Quel vigliacco ci disonorerà sul patibolo!»
Dopo poco, la vedova e Calebasse, scortate da due agenti, salivano
su una carrozza dirette a Saint-Lazare.
Barbillon, Nicolas e Bras-Rouge venivano condotti alla Force.
Il Maître d’école venne trasportato alla prigione della
Conciergerie, dove si trovano delle celle destinate a ricevere
provvisoriamente i pazzi.
VIII PRESENTAZIONE
... Il male che i malvagi fanno senza saperlo è spesso più crudele
di quello che vogliono fare.
SCHILLER, Wallenstein, atto II.
Alcuni giorni dopo l’uccisione della signora Séraphin, la morte
della Chouette e l’arresto della banda di malfattori sorpresi
nell’osteria di Bras-Rouge, Rodolphe si recò alla casa di rue du
Temple.
Abbiamo già detto che, volendo giocare d’astuzia con Jacques
Ferrand, scoprire i suoi occulti misfatti, obbligarlo a ripararli e
punirlo in maniera terribile nel caso che, a forza d’astuzia e
d’ipocrisia, quel miserabile riuscisse a sfuggire alla punizione
della legge, Rodolphe aveva fatto venire da una prigione tedesca una
creola meticcia, indegna moglie del negro David.
Giunta il giorno prima, questa creatura, tanto bella quanto
corrotta, tanto affascinante quanto pericolosa, aveva ricevuto
minuziose istruzioni dal barone di Graün.
Abbiamo visto in occasione dell’ultimo incontro di Rodolphe con la
Pipelet che costei molto astutamente aveva proposto Cecily alla
signora Séraphin per sostituire Louise Morel in qualità di cameriera
del notaio e la governante aveva accettato di prendere in
considerazione la sua proposta, promettendo di parlarne a Jacques
Ferrand, cosa che aveva fatto nei termini più favorevoli per Cecily
la mattina stessa in cui ella (la Séraphin) era stata annegata
all’isola del Predone.
Rodolphe veniva dunque a informarsi dell’esito della presentazione
di Cecily.
Con suo grande stupore, entrando nella portineria trovò, benché
fossero le undici del mattino, Pipelet a letto e Anastasie che, in
piedi al suo capezzale, gli portava qualcosa da bere.
Poiché Alfred, con la fronte e gli occhi nascosti sotto un enorme
berretto di cotone, non rispondeva ad Anastasie, quest’ultima ne
dedusse ch’egli dormiva e quindi tirò le cortine del letto.
Girandosi, scorse Rodolphe, e subito si mise, com’era sua abitudine,
sull’attenti, col dorso della mano sinistra alla parrucca.
«Serva vostra, o mio re dei locatari! Mi trovate sconvolta,
stordita, estenuata. Grandi avvenimenti nella casa... senza contare
che Alfred è a letto da ieri.»
«Che cos’ha?»
«C’è da chiederlo?»
«Come sarebbe a dire?»
«Che siamo alle solite. Il mostro si accanisce ogni giorno di
più contro Alfred, lo istupidisce al punto che non so più che
farmene...»
«Ancora Cabrion?»
«Proprio lui.»
«Ma allora è il demonio?»
«Finirò col crederlo, signor Rodolphe; perché quel briccone
indovina sempre i momenti in cui sono fuori... Non faccio in tempo a
girare le spalle che, crac! quello è qui addosso al mio povero
vecchio, che è indifeso come un bambino. Ancora ieri, mentre ero
andata dal signor Ferrand il notaio... Anche a questo proposito ci
sono delle novità.»
«E Cecily?» si affrettò a chiedere Rodolphe. «Sono venuto per
sapere...»
«Un momento, mio re dei locatari, non mi confondete; ho tante, ma
tante cose di dirvi... che mi ci perderò, se mi fate perdere il
filo.»
«Suvvia... vi ascolto...»
«Innanzi tutto, per quel che riguarda la casa, dovete sapere che
ieri sono venuti ad arrestare la Burette.»
«Quella del secondo piano, che prestava su pegno?»
«Proprio lei; pare che ne facesse di mestieri strani, oltre quello
di usuraia! Faceva la ricettatrice, la ladra, l’adescatrice, la
compare, la rigattiera, la raggiratrice, insomma tutto ciò che ha
del losco; il peggio è che il suo vecchio innamorato, il signor
Bras-Rouge, il nostro maggior locatario, è anch’egli arrestato...
Non v’avevo detto che qui, nella casa, è successo un vero
finimondo?»
«Arrestato... anche Bras-Rouge?»
«Sì, nella sua osteria agli Champs-Elysées; hanno messo dentro
persino suo figlio Tortillard, quello zoppetto maligno... Pare che
vi siano stati un mucchio di ammazzamenti; che c’era tutta una banda
di scellerati; che la Chouette, un’amica della Burette, è stata
strozzata, e che se non fossero arrivati in tempo gli sgherri,
assassinavano anche la Mathieu, la sensale di gioielli che faceva
lavorare quel povero Morel... Ce ne sono di novità, eh?»
«Bras-Rouge arrestato! la Chouette morta!» pensò Rodolphe, attonito;
«l’orribile vecchia si è ben meritata questa fine; quella povera
Fleur-de-Marie almeno è vendicata.»
«Questo per quel che riguarda la casa... senza contare la nuova
infamia di Cabrion, del quale ora finirò di raccontarvi tutto...
Vedrete che sfacciataggine! Quando hanno arrestato la Burette, e
abbiamo saputo che anche Bras-Rouge, nostro locatario, era stato
acciuffato, ho detto al mio povero vecchio: “Vai, corri subito dal
proprietario dello stabile e avvisalo che Bras-Rouge è in gabbia”.
Alfred se ne parte. In capo a due ore, mi ritorna... ma in uno
stato... ma in uno stato... bianco come uno straccio e sbuffando
come un toro.»
«Ma perché?»
«Adesso sentirete, signor Rodolphe. Dovete sapete che a dieci passi
di qui c’è un gran muro bianco; il mio vecchio, uscendo di casa,
guarda su quel muro per puro caso; cosa ci vede scritto col carbone
e a caratteri cubitali? Pipelet-Cabrion, i due nomi uniti da una
grande lineetta (è quella lineetta che l’unisce a quello scellerato
che scandalizza di più il mio vecchio). Bene, comincia ad agitarsi;
dieci passi più in là cosa vede sul portone della casa di rue du
Temple? Di nuovo Pipelet-Cabrion, sempre con la lineetta; va
innanzi, e a ogni passo, signor Rodolphe, vede scritti questi
maledetti nomi sui muri delle case, sulle porte, dappertutto
Pipelet-Cabrion. Il mio vecchio cominciava a perdere il lume della
ragione; gli pareva che tutti i passanti lo guardassero; si calcava
il cappello fin sul naso, tanto si vergognava. Imbocca il boulevard
pensando che quel manigoldo di Cabrion abbia limitato le sue
sconcezze alla rue du Temple. Oh sì!... lungo tutto il boulevard, in
ogni punto ove c’era posto per scrivere, sempre Pipelet-Cabrion a
morte!! Infine il pover’uomo è arrivato dal proprietario così
sconvolto, che dopo aver tartagliato, essersi impappinato e aver
borbottato per un quarto d’ora davanti al padrone, questi non ha
capito una sola parola di tutto quello che Alfred era andato a
riferirgli, e lo ha mandato via chiamandolo vecchio imbecille e
dicendogli di mandare me a spie-
gargli la faccenda. Bene! Alfred esce, torna indietro passando per
un’altra strada per evitare i nomi che aveva visto scritti sui
muri... Figuriamoci!...»
«Ancora Pipelet e Cabrion!»
«Proprio così, mio re dei locatari; tanto che il mio caro vecchio mi
è arrivato a casa istupidito, stordito, deciso ad andarsene via di
qui. Mi racconta la storia e io lo calmo come posso, lo lascio ed
esco con la signorina Cecily per recarmi dal notaio... prima di
andare dal proprietario... Credete che sia finita qui? Sì,
figuriamoci!... Avevo appena voltato le spalle che Cabrion, che
aveva spiato le mie mosse, ha avuto la sfacciataggine di mandare qui
due donnacce che si sono piantate alle costole di Alfred...
Guardate, mi si rizzano i capelli sulla testa... ma di questo vi
dirò tra poco... finiamo il discorso del notaio.
Me ne parto dunque in carrozza con la signorina Cecily... come mi
avevate raccomandato... Ella indossava il suo grazioso costume da
contadina tedesca, dato ch’era appena arrivata e non aveva avuto il
tempo di farsene fare un altro, come dovevo dire al signor Ferrand.
Credetemi, mio re dei locatari, io ne ho viste di belle ragazze;
ricordo anche me stessa nella mia primavera; ma non ho mai visto
(compresa me stessa) una giovane donna che potesse neanche legare i
lacci delle scarpe a Cecily... Ella ha soprattutto nello sguardo di
quei suoi occhiacci neri assassini qualcosa... qualcosa... non
saprei dire che cosa; ma certo c’è qualcosa che vi colpisce... Che
occhi!
Figuratevi, tanto per farvi un esempio, che persino Alfred, e voi
sapete ch’egli non è sospetto, persino Alfred, dicevo, la prima
volta che l’ha vista è diventato rosso come un gambero, povero
vecchio mio... e per tutto l’oro del mondo non l’avrebbe guardata in
viso una seconda volta; ha continuato ad agitarsi sulla sedia per
un’ora, come se fosse stato seduto sull’ortica; mi ha detto poi che
non sapeva come fosse successo, ma che lo sguardo di Cecily gli
aveva ricordato tutte le storie di quello sfacciato di Bradamanti a
proposito delle selvagge che lo facevano arrossire tanto, il mio
bacchettone d’Alfred...»
«Ma il notaio? il notaio?»
«Ora ci siamo, signor Rodolphe. Erano circa le sette di sera quando
arrivammo dal signor Ferrand. Dico al portinaio di avvertire il suo
padrone che c’è la signora Pipelet con la domestica di cui gli ha
parlato la signora Séraphin e che le era stato detto di
accompagnare. Allora il portinaio sospira e mi chiede se so quel
che è successo alla signora Séraphin, rispondo di no... Ah, signor
Rodolphe ecco un altro finimondo!»
«Che cosa dunque?»
«La Séraphin è annegata durante una gita in campagna che era andata
a fare con una sua parente.»
«Annegata!... Una gita in campagna d’inverno!...» disse Rodolphe
meravigliato.
«Mio Dio, sì, signor Rodolphe, annegata... Quanto a me, la cosa mi
stupisce più di quanto non mi addolori; perché dopo la disgrazia di
quella povera Louise ch’ella aveva denunciato, io la detestavo,
quella Séraphin. Così dissi fra me: “È annegata? Ebbene, se è
annegata, non voglio mica morire per questo...”. Così son fatta io.»
«E il signor Ferrand?»
«Il portinaio prima mi dice che non crede che io possa vedere il suo
padrone, e mi prega di attendere nella sua guardiola; ma dopo un
attimo mi viene a chiamare; attraversiamo il cortile ed entriamo in
una stanza a pianterreno.»
«Non c’era per lume che una misera candela. Il notaio era seduto
accanto al fuoco, ove un tizzone mezzo spento mandava fumo... Che
topaia! Io non avevo mai visto il signor Ferrand... Mio Dio, com’è
brutto! Eccone un altro che non riuscirebbe a farmi tradire il mio
Alfred neanche se mi offrisse il trono d’Arabia...»
«E il notaio si mostrò colpito dalla bellezza di Cecily?»
«E come si fa a saperlo con quei suoi occhiali verdi?... Un vecchio
bigotto simile non se ne deve intendere di donne. Tuttavia, quando
siamo entrate nella stanza, ha fatto come un salto sulla sedia; era
indubbiamente per lo stupore nel vedere il costume alsaziano di
Cecily; infatti ella aveva (ma molto, molto in meglio) l’aspetto di
una di quelle piccole venditrici di granate, con quelle gonnelle
corte e le sue belle gambe inguainate nelle calze turchine a pois
rossi; accipicchia... che polpaccio!... e la caviglia... così
sottile!... e quel bel piedino... insomma, il notaio, vedendola, si
è mostrato stupito.»
«Pensate proprio che fosse la stranezza dell’abbigliamento di Cecily
a colpirlo?»
«Ritengo di sì; ma si stava avvicinando il momento cruciale. Per
fortuna mi sono ricordata la massima che mi avete detto, signor
Rodolphe; è stata la mia salvezza.»
«Quale massima?»
«Sapete: “Basta che uno voglia perché l’altro non voglia, o che uno
non voglia perché l’altro voglia”. Allora mi son detta: Biso-
gna che liberi il mio re dei locatari dalla sua tedesca,
collocandola presso il padrone di Louise: forza! giocherò d’astuzia.
Ed ecco che dico al notaio senza dargli tempo di riprender fiato:
“Scusate, signore, se mia nipote viene vestita secondo la moda del
suo paese; ma arriva adesso, non ha altri vestiti che quelli, e io
non ho i mezzi per fargliene di diversi, tanto più che non ne
varrebbe neanche la pena; siamo venute infatti soltanto per
ringraziarvi di aver detto alla signora Séraphin che acconsentivate
a vedere Cecily, in seguito alle buone referenze che avevo dato di
lei; ma non credo che possa andar bene per vossignoria.”»
«Molto bene, signora Pipelet.»
«“Perché vostra nipote non dovrebbe andarmi bene?” disse il notaio
che si era rimesso accanto al fuoco e aveva l’aria di sbirciarci di
sopra gli occhiali.
“Il fatto è che Cecily comincia ad aver nostalgia del suo paese,
signore. Sono appena tre giorni che è qui, e vuol già tornarsene
via, a costo di andare a mendicare per la strada vendendo scope come
le sue compaesane.”
“E voi che siete una sua parente” mi disse Ferrand, “lo
permettereste?”
“Perbacco, signore, io sono sua parente è vero ma ella è orfana, ha
vent’anni, è libera di fare quel che vuole.”
“Bah! bah! libera di fare quel che vuole! Alla sua età si deve
ubbidire ai parenti” replicò bruscamente.
Ed ecco che Cecily si mette a piagnucolare e a tremare stringendosi
a me; era il notaio che le faceva paura, naturale...»
«E Jacques Ferrand?»
«Continuava a borbottare: “Abbandonare una ragazza a quest’età
significa volerla rovinare! Tornarsene in Germania mendicando, bella
risorsa! e voi, sua zia, tollerate una simile condotta?...”
Bene bene, mi dicevo, ci vieni da solo nella rete, spilorcio, e io
ti affibbierò Cecily o non sono più io. “Sono sua zia è vero”
rispondo brontolando, “ed è una parentela disgraziata per me; ho già
abbastanza pesi; se deve restarmi sulle spalle, preferisco che se ne
vada, questa mia nipote. Che il diavolo si porti i parenti che vi
mandano una ragazzona come questa senza neanche affrancarla!” E
subito Cecily, che pareva avesse l’imbeccata, si scioglie in
lacrime... Il notaio allora assume il tono grave da predicatore e mi
dice:
“Voi dovete render conto a Dio del deposito che la Provvidenza ha
messo nelle vostre mani; sarebbe un delitto esporre questa
fanciulla alla perdizione. Io acconsento ad aiutarvi in un’opera di
carità; se vostra nipote mi promette di essere laboriosa, onesta e
pia, e soprattutto di non uscire mai, mai di casa mia, ne avrò pietà
e la prenderò al mio servizio.”
“No, no, preferisco tornarmene al paese” esclamò Cecily sempre
piangendo.»
“La sua funesta ipocrisia non le è venuta meno...” pensò Rodolphe;
“la diabolica creatura, a quel che sento, ha eseguito alla lettera
gli ordini del barone di Graün.”
Poi il principe riprese a voce alta:
«Il signor Ferrand pareva contrariato della resistenza di Cecily?».
«Sì, signore; borbottava fra i denti e poi le disse bruscamente:
“Non si agisce secondo quello che ci piacerebbe di più, signorina,
ma secondo ciò che è decente e onesto; il cielo non vi abbandonerà
se tenete una buona condotta e se adempirete ai vostri doveri
religiosi. Sarete qui in una casa severa e santa; se vostra zia vi
vuole veramente bene, approfitterà della mia offerta; inizialmente
avrete un salario modesto; ma se con la vostra saggezza e il vostro
zelo meriterete di più, in seguito forse lo aumenterò”.
Bene! esclamai tra me, il notaio c’è cascato! Ecco Cecily collocata
in casa tua, vecchio spilorcio, vecchio senza cuore! La Séraphin era
al tuo servizio da tanti anni e non hai neppure l’aria di ricordarti
che è affogata ieri l’altro... Poi seguitai a voce alta:
“Indubbiamente, vossignoria, il posto è ottimo, ma se questa ragazza
ha nostalgia del suo paese...”
“Passerà, passerà” mi risponde il notaio; “via, decidetevi... è sì o
no? Se siete d’accordo, portatemi vostra nipote domani sera alla
stessa ora, ed ella entrerà subito al mio servizio... il mio
portinaio la metterà al corrente di tutto... Quanto alla paga, per
cominciare le darò venti franchi al mese e il nutrimento.”
“Ah, signore, non mettereste cinque franchi di più?”
“No, dopo, dopo... se sono contento, vedremo... Ma devo avvertirvi
che vostra nipote non uscirà mai, e che nessuno verrà a trovarla.”
“Eh, mio Dio, signore, chi volete che venga a trovarla? Non conosce
altri che me a Parigi, e io ho da badare al mio portone; mi ha già
molto scomodata il doverla accompagnare qui; non mi vedrete più, e
per me sarà come se la ragazza non fosse mai venuta dal suo paese.
In quanto a non farla uscire, c’è un mezzo semplicissimo; lasciatele
il costume del suo paese ed ella non oserà uscire per le vie vestita
a quel modo.”
“Avete ragione” mi dice il notaio; “è d’altronde cosa
rispettabilissima il tenere al costume del proprio paese... Ella
resterà dunque vestita all’alsaziana.”
“Su,” faccio a Cecily che, a testa bassa, continuava a piagnucolare,
“devi deciderti, figlia mia; un buon posto in una casa onesta non si
trova tutti i giorni; e del resto, se rifiuti, aggiustati come ti
pare, io non me ne occupo più.”
E allora Cecily risponde sospirando, con il cuore gonfio, ch’ella
acconsente a rimanere, ma a condizione che, se entro una quindicina
di giorni la nostalgia del suo paese la tormenterà troppo, potrà
andarsene.
“Non voglio tenervi per forza” disse il notaio, “e non ho certo
difficoltà a trovare delle domestiche. Eccovi la caparra, vostra zia
non avrà che da ricondurvi qui domani sera.”
Cecily non aveva ancora smesso di piagnucolare. Ho accettato per lei
la caparra di quaranta soldi di quel vecchio pitocco, e siamo
tornate qui.»
«Molto bene, signora Pipelet! Io non dimentico la mia promessa;
eccovi quel che vi avevo promesso se riuscivate a sistemarmi quella
povera fanciulla che non sapevo dove collocare...»
«Aspettate domani, mio re dei locatari» disse la Pipelet rifiutando
il denaro di Rodolphe; «infatti il signor Ferrand potrebbe pentirsi
quando gli porterò Cecily, stasera...»
«Non credo che succederà una cosa del genere; ma Cecily dov’è?»
«Nello stanzino annesso all’appartamento del comandante; non si
muove di là, secondo i vostri ordini; pare rassegnata come un
agnellino, benché abbia certi occhi... ah, che occhi!... Ma a
proposito del comandante, è un bell’intrigante! Quando è venuto a
sorvegliare di persona l’imballaggio dei suoi mobili, non mi ha
detto che se arrivavano qui delle lettere indirizzate a una certa
signora Vincent, erano per lui, e di mandargliele al numero 5 di rue
Mondovì? Si fa scrivere sotto un nome di donna, quel bellimbusto!
che furberia!... Ma non è tutto; non ha avuto la sfacciataggine di
chiedermi che n’era stato della sua legna?... “La vostra legna!... e
perché non il vostro bosco, allora, già che ci siete!” gli ho
risposto. To’, è vero, per due misure scarse di legna... una
sciocchezza, proprio: una levata dal fiume e una nuova, eh sì,
perché non aveva comprato tutta legna nuova, lo spilorcio... fa
tante storie! La sua legna! “L’ho bruciata, la vostra legna” gli
dico, “per salvare la vostra roba dall’umidità; altrimenti sarebbero
nati dei funghi sulla vostra berretta ricamata e sulla veste da
camera di seta lucida che
tanto spesso vi siete messo inutilmente... aspettando quella damina
che si prendeva gioco di voi”.»
Un gemito sordo di Alfred interruppe la signora Pipelet.
«Ecco il mio caro vecchio che rimugina, sta per svegliarsi...
permettete, mio re dei locatari?»
«Sicuro... e poi devo chiedervi ancora alcune informazioni...»
«Ebbene, vecchio mio, come va?» chiese la Pipelet al marito, aprendo
le cortine del letto; «c’è qui il signor Rodolphe; sa della nuova
infamia di Cabrion e ti compiange con tutto il cuore.»
«Ah, signore!» disse Alfred voltando languidamente il capo verso
Rodolphe «questa volta non mi rialzo più... il mostro mi ha colpito
al cuore... Sono oggetto dei frizzi della capitale... il mio nome lo
si può leggere su tutti i muri di Parigi... unito a quello di quel
disgraziato: Pipelet-Cabrion, con una lineetta che non finisce
più... signore mio... una lineetta... io! unito a quell’infernale
uomo sguaiato agli occhi della capitale d’Europa!»
«Il signor Rodolphe sa già tutta questa faccenda... quel che non sa
è la tua avventura di ieri sera con quelle due donnacce.»
«Ah! signore mio, quello aveva serbato per ultima la peggiore delle
sue infamie; questa volta ha oltrepassato ogni limite» disse Alfred
con voce addolorata.
«Sentiamo, caro Pipelet... raccontatemi questa nuova disgrazia.»
«Tutto quel che m’aveva fatto finora era niente a confronto! È
arrivato al suo scopo... servendosi dei mezzi più vergognosi... Non
so se avrò la forza di farvi questo racconto... la confusione, il
pudore mi faranno spesso da intralcio.»
E Pipelet, sedutosi a fatica sul letto, si chiuse pudicamente i
risvolti della sua camicia di flanella e comincio così:
«La mia sposa era appena uscita; io, assorto nell’amarezza causata
in me dalla nuova prostituzione del mio nome scritto su tutti i muri
della capitale, cercavo di distrarmi occupandomi della risuolatura
di uno stivale, preso venti volte in mano e altrettante abbandonato
per colpa dell’ostinata persecuzione del mio boia. Ero seduto
davanti al tavolo, quando vedo schiudersi l’uscio della portineria
ed entrare una donna.
«Era vestita d’un mantello col cappuccio; mi alzai educatamente e
portai la mano al berretto. In quell’istante un’altra donna,
anch’essa avvolta in un mantello col cappuccio, si introduce nella
portineria e chiude la porta dall’interno...
Benché meravigliato dalla familiarità di questo contegno e dal
silenzio delle due donne, mi alzo di nuovo dalla mia sedia, mi ri-
porto la mano al berretto... Allora, signore... no, non potrò mai...
il mio pudore me lo impedisce...»
«Animo, vecchio bacchettone... siamo tra uomini... va avanti.»
«Allora» riprese Alfred facendosi rosso come un peperone, «i
mantelli cadono e che cosa vedo? Due specie di sirene o di ninfe,
senza altro abito che una tunica di foglie... avevano foglie anche
sulla testa... Restai di sasso! Allora si avanzano tutte e due verso
di me tendendomi le braccia come per invitarmi a gettarmici...1»
«Le briccone!...» esclamò Anastasie.
«Le profferte di quelle donne impudiche mi disgustarono» riprese
Alfred, animato da una casta indignazione; «e secondo l’abitudine
che non mi abbandona mai nelle più critiche circostanze della mia
vita, rimasi perfettamente immobile sulla mia sedia. Allora,
approfittando del mio stupore, le due sirene si avvicinano con una
specie di passo di danza, piroettando sulle gambe e mettendo le
braccia ad arco... Io mi irrigidisco sempre più. Quelle mi si fanno
sempre più vicine... mi abbracciano.»
«Abbracciare un uomo vecchio e ammogliato... le canaglie! Ah! se
c’ero io... col manico della mia scopa...» esclamò Anastasie «ve
l’avrei data io la danza e le piroette, sgualdrine!»
«Quando mi sento abbracciare» riprese Alfred, «il sangue mi dà un
tuffo... mi sento venir meno... Allora una delle sirene, la più
sfrontata, una bionda, alta, si china sulla mia spalla, mi leva il
berretto, mi lascia con la testa nuda, sempre ballando... con
piroette e con molli movimenti delle braccia. In quel momento la sua
complice, levatasi un paio di forbici di tra le foglie, riunisce in
una grossa ciocca tutti i capelli che mi restavano dietro la testa,
e mi taglia il tutto, signore... sempre con le solite piroette; poi
dice canticchiando e ballando: “Sono per Cabrion...”. E l’altra
impudica risponde in coro: “Sono per Cabrion... sono per Cabrion!”.»
Dopo una breve pausa, accompagnata da un angoscioso sospiro, Alfred
riprese a dire:
«Durante questo sfacciato furto, alzo gli occhi e vedo incollato ai
vetri della portineria il viso infernale di Cabrion con la sua barba
e il suo cappello a punta... e rideva, rideva... oh, che orrendo.
Per sottrarmi all’odiosa visione, chiudo gli occhi. Quando li
riapro, è tutto sparito... Mi trovo sulla mia seggiola col capo nudo
e completamente devastato!... Capite, signor mio, Cabrion ha
raggiunto il suo scopo a forza di astuzia, d’ostinazione e di
audacia...
1 Due ballerine della Porte-Saint-Martin, amiche di Cabrion vestite
con una calzamaglia e un costume da balletto.
e con quali mezzi, mio Dio!... voleva farmi passare per suo
amico!... ha cominciato col dire in giro, nel quartiere, che avevamo
fatto sodalizio d’amicizia. Non contento di questo... adesso il mio
nome è congiunto al suo su tutti i muri della capitale con un’enorme
lineetta. A quest’ora non c’è più un solo abitante di Parigi che
metta in dubbio la mia intimità con quel disgraziato; voleva una
ciocca dei miei capelli, e ora ce l’ha... li ha tutti, grazie alle
angherie di quelle sfacciate sirene. Adesso, voi lo capite, signore,
non mi resta più che lasciare la Francia... la mia bella Francia...
ove credevo di vivere fino all’ultimo dei miei giorni...»
E Alfred si gettò sul letto a mani giunte.
«Ma al contrario, vecchio mio, ora che ha i tuoi capelli, ti lascerà
perdere.»
«Lasciarmi perdere!» esclamò Pipelet sobbalzando convulsamente. «Tu
non lo conosci, quello è insaziabile. Chissà adesso che cosa vorrà
da me!»
Rigolette, mostrandosi sulla soglia della portineria, mise fine alle
lamentele di Pipelet.
«Non entrate, signorina!» gridò Pipelet, fedele alle sue abitudini
di casta suscettibilità. «Sono a letto e in camicia.»
E così dicendo, si tirò il lenzuolo fino al mento. Rigolette si
fermò discretamente sulla soglia.
«Venivo proprio da voi, cara vicina» le disse Rodolphe. «Vi prego,
aspettatemi un attimo.» Poi, rivolgendosi ad Anastasie: «Non
dimenticatevi di accompagnare stasera Cecily da Ferrand».
State tranquillo, mio re dei locatari, alle sette sarà là. Ora che
la Morel può camminare, la pregherò di badare alla portineria perché
Alfred non resterebbe solo per tutto l’oro del mondo.»
IX VICINO E VICINA
Le rose della carnagione di Rigolette si facevano sempre più
pallide; le sue belle guance, fino ad allora così fresche e
rotondette, cominciavano a incavarsi un po’; il suo visetto allegro,
di solito così animato, così vivace, si era fatto serio e ancor più
triste di quanto non lo fosse il giorno in cui si era incontrata con
Fleur-de-Marie alla porta della prigione di Saint-Lazare.
«Sono così lieta d’incontrarvi, vicino mio» disse Rigolette a
Rodolphe quando questi fu uscito dalla portineria della signora
Pipelet. «Ho tante cose da raccontarvi...»
«Innanzi tutto, vicina mia, come state? Vediamo se quel grazioso
visetto è sempre allegro e colorito. Ahimè no; vi trovo pallida...
Sono sicuro che lavorate troppo...»
«Oh, no, signor Rodolphe, vi assicuro che ormai mi sono assuefatta a
quel piccolo sovrappiù di lavoro... Quello che mi fa male sono
semplicemente i dispiaceri. Mio Dio sì, tutte le volte che vedo quel
povero Germain, mi addoloro sempre più.»
«È dunque ancora così abbattuto?
«Più che mai, signor Rodolphe, e quel che c’è di peggio è che tutto
quello che faccio per consolarlo, mi si rivolge contro, pare
destino...» e una lacrima venne a velare i grandi occhi neri di
Rigolette.
«Spiegatevi, mia cara.»
«Ieri, per esempio, sono andata a trovarlo e gli ho portato un libro
che mi aveva pregato di procurargli, un romanzo che leggevamo ai bei
tempi del nostro vicinato. Alla vista di quel libro, ecco che si
mette a piangere; la cosa non mi stupisce, era naturale... Che
volete... quel ricordo delle nostre serate così tranquille e felici
passate accanto alla mia stufa, nella mia bella cameretta,
paragonato alla sua orribile vita di carcerato... povero Germain, è
ben crudele!»
«Non vi perdete d’animo» disse Rodolphe alla fanciulla. «Quando
Germain sarà fuori di prigione e sarà riconosciuta la sua innocenza,
egli ritroverà sua madre, gli amici, e presto dimenticherà, in mezzo
a loro e al vostro fianco, questi momenti che ora lo mettono a dura
prova.»
«Sì, ma fino a quel giorno si tormenterà sempre più. E poi, non è
tutto...»
«Che altro c’è?»
«Siccome è l’unico galantuomo in mezzo a quei delinquenti, lo hanno
preso in antipatia perché non riesce ad andare d’accordo con loro.
Il custode del parlatorio, un gran brav’uomo, mi ha detto di
suggerire a Germain, nel suo interesse, di essere meno sdegnoso...
di cercare di familiarizzare con quella gentaglia... ma non ce la
fa, è più forte di lui, e io ho paura che un giorno o l’altro gli
facciano male...» Poi, dopo essersi interrotta bruscamente per
asciugarsi una lacrima, Rigolette riprese: «Ma vedete, io non penso
che a me, tanto che mi scordavo di parlarvi della Goualeuse».
«Della Goualeuse?» chiese attonito Rodolphe.
«Ieri l’altro, andando a trovare Louise a Saint-Lazare, l’ho
incontrata.»
«La Goualeuse?»
«Sì, signor Rodolphe.»
«A Saint-Lazare?»
«Ella ne usciva con una vecchia signora.»
«È impossibile!...» esclamò Rodolphe stupefatto.
«Vi assicuro che era proprio lei.»
«Vi sarete sbagliata.»
«No, no; benché fosse vestita da contadina, l’ho riconosciuta
subito; è sempre bella, sebbene pallida, e ha la stessa aria dolce e
triste di un tempo.»
«A Parigi... senza che io ne sappia niente! Non posso crederlo. E
che cosa veniva a fare a Saint-Lazare?»
«Immagino che sarà andata, come me, a trovare una detenuta; non ebbi
il tempo di chiederle molte cose; la vecchia signora che
l’accompagnava aveva un’aria così scorbutica e pareva avere tanta
fretta... Sicché la conoscete anche voi la Goualeuse, signor
Rodolphe?»
«Certo.»
«Allora non vi sono più dubbi, è proprio di voi che mi parlava.» «Di
me?»
«Sì, immaginatevi che io le raccontavo le disgrazie di Louise e
di Germain, entrambi così buoni, così onesti e così perseguitati da
quel manigoldo di Jacques Ferrand, ma mi guardavo bene dal farle
sapere, poiché me l’avete proibito, che vi interessate a loro.
Allora la Goualeuse mi ha detto che se una persona generosa di sua
conoscenza avesse saputo dell’infelice sorte, così immeritata, dei
miei due poveri detenuti, li avrebbe sicuramente soccorsi. Le chiesi
come si chiamava questa persona, ed ella ha fatto il vostro nome,
signor Rodolphe.»
«Allora è proprio lei...»
«Potete immaginarvi come questa scoperta ci abbia sorprese entrambe,
anche pensando che potesse trattarsi soltanto di un caso d’omonimia.
Così ci siamo promesse di scriverci se il nostro Rodolphe era lo
stesso... e pare proprio che siate lo stesso, vicino mio.»
«Sì, mi sono occupato anche di quella povera fanciulla... Ma quanto
mi dite sulla sua presenza a Parigi mi sorprende talmente che se non
mi aveste fornito tanti particolari, avrei continuato il credere che
vi sbagliavate... Ma addio... vicina mia, quel che mi avete riferito
sulla Goualeuse mi obbliga a lasciarvi... Continuate a conservare il
segreto con Louise e Germain circa la protezione che verrà loro da
amici sconosciuti al momento opportuno. Questo segreto è più
necessario che mai. A proposito, come se la cava la famiglia Morel?»
«Sempre meglio, signor Rodolphe; la madre si è rimessa
completamente, ormai; i bambini si stanno riprendendo a vista
d’occhio. Tutti vi devono la vita, la felicità... Siete tanto
generoso con loro!... E quel povero Morel, come sta?»
«Meglio... Ho avuto ieri sue notizie; pare che ogni tanto abbia
degli sprazzi di lucidità; si hanno buone speranze di guarirlo dalla
sua pazzia... Via, coraggio, e a tra poco, vicina... Vi occorre
nulla? Quello che guadagnate col vostro lavoro vi basta sempre?»
«Oh sì, signor Rodolphe; rubo un po’ di ore al sonno, di notte, ma
questo non m’importa, perché tanto non dormo quasi più.»
«Mia povera vicina, temo proprio che Cretù e Ramonette cantino ben
poco, se aspettano che voi diate il la.»
«Avete proprio ragione, signor Rodolphe; non cantiamo più né io né i
miei uccelli; ecco, ora riderete di me, eppure sembra che capiscano
che sono triste; sì, invece di gorgheggiare allegramente quando
arrivo, cantano in maniera così dolce, lamentevole, come se
volessero consolarmi. Sono pazza, vero, a pensare una cosa del
genere, signor Rodolphe?»
«Niente affatto; sono sicuro che i vostri amici uccelli vi amano
troppo per non accorgersi del vostro dolore.»
«In effetti quelle povere bestioline sono così intelligenti!» disse
ingenuamente Rigolette, contenta di essere rassicurata sulla sagacia
dei compagni della sua solitudine.
«Certo, e poi niente è più intelligente della riconoscenza. Be’, ora
addio... Tra non molto, cara vicina, così spero, i vostri begli
occhi torneranno a essere vivaci, le guance colorite e il vostro
canto così lieto, così lieto che Cretù e Ramonette potranno a fatica
starvi dietro.»
«Possiate dire il vero, signor Rodolphe!» riprese Rigolette con un
profondo sospiro. «Addio, dunque.»
«Arrivederci, vicina, e a presto.»
Rodolphe, non riuscendo a comprendere come mai la signora Georges,
senza avvertirlo, avesse condotto o mandato Fleur-deMarie a Parigi,
salì in casa per mandare un espresso al podere di Bouqueval.
Nel momento in cui imboccava rue Plumet, vide una diligenza fermarsi
davanti al portone del palazzo: era Murph che tornava dalla
Normandia.
Il gentiluomo vi si era recato, come dicemmo a suo tempo, per
sventare i funesti progetti della matrigna della signora d’Harville
e del suo complice Bradamanti.
X
MURPH E POLIDORI
Sir Walter Murph era raggiante.
Scendendo dalla carrozza, consegnò a uno dei servi del prin-
cipe un paio di pistole, si levò il lungo soprabito da viaggio e,
senza prendersi neppure il tempo d’andare a cambiarsi, seguì
Rodolphe che, impaziente, lo aveva preceduto nel suo appartamento.
«Buone nuove, altezza, buone nuove!» esclamò il gentiluomo quando fu
solo con Rodolphe; «gli iniqui sono smascherati, il signor d’Orbigny
è salvo. Mi avete fatto partire proprio in tempo... Un’ora di
ritardo, e si sarebbe commesso un nuovo delitto!»
«E la signora d’Harville?»
«È felice del riacquistato affetto di suo padre, è lieta di essere
arrivata, grazie ai vostri consigli, in tempo per sottrarlo a una
morte certa.»
«Così, Polidori...»
«Era anche questa volta il degno complice della matrigna della
signora d’Harville. Ma che mostro è questa matrigna!... Che sangue
freddo! che audacia!... e Polidori!... Ah, altezza, talvolta avete
avuto la benevolenza di ringraziarmi per quelle che voi chiamate le
prove della mia devozione...»
«Ho sempre detto prove della tua amicizia, mio buon Murph.»
«Ebbene, altezza, mai, vi assicuro, mai quest’amicizia è stata messa
a più dura prova che in quest’occasione» disse il gentiluomo tra il
serio e il faceto.
«Che vuoi dire?»
«Il travestimento da carbonaio, le peregrinazioni nella Cité e tutto
il resto, non è stato niente in confronto al viaggio che ho appena
fatto con quel maledetto Polidori.»
«Come! Polidori...»
«L’ho riportato qui.»
«Con te?»
«Con me. Immaginatevi che compagnia... per dodici ore go-
mito a gomito con l’uomo che disprezzo e odio più di ogni altro al
mondo. È stato come viaggiare con un serpente... l’animale che odio
di più.»
«E adesso dov’è?»
«Nella casa dell’Allée des Veuves... sotto buona e sicura guardia.»
«Ti ha seguito dunque senza fare alcuna resistenza?»
«Proprio così. Gli ho lasciato la scelta: o farsi arrestare
immediatamente dalle autorità francesi o essere mio prigioniero alla
Allée des Veuves. Non ha esitato.»
«Hai avuto ragione, è meglio averlo sottomano. Sei un uomo prezioso,
mio caro Murph; ma raccontami il tuo viaggio... Sono ansioso di
sapere come quell’indegna donna e il suo odioso complice sono stati
finalmente smascherati.»
«Niente di più facile: non ho dovuto far altro che seguire alla
lettera le vostre istruzioni, per terrorizzare e annichilire gli
infami. In questa circostanza, altezza, voi avete salvato, come
sempre, delle persone dabbene e punito dei malvagi. Siete una vera,
nobile provvidenza, voi!...»
«Sir Walter, sir Walter, ricordatevi le adulazioni del barone di
Graün...» disse Rodolphe sorridendo.
«E va bene, altezza. Comincerò dunque, o piuttosto voi vorrete forse
leggere innanzi tutto questa lettera della marchesa d’Harville, la
quale vi metterà al corrente di tutto quanto accadde prima che il
mio arrivo disorientasse Polidori.»
«Una lettera?... Fammela vedere, presto.»
Murph, consegnando la lettera della marchesa a Rodolphe, aggiunse:
«Secondo quanto era stato convenuto, invece d’accompagnare la
signora d’Harville a casa di suo padre, io avevo preso alloggio in
una piccola locanda a due passi dal castello, dove dovevo aspettare
che la signora marchesa mi mandasse a chiamare».
Rodolphe lesse quanto segue con affettuosa e impaziente
sollecitudine:
Altezza,
Dopo tutto ciò ch’io già vi dovevo, ora vi sono debitrice anche
della vita di mio padre!...
Lascerò parlare i fatti: essi vi diranno meglio di me quali nuovi
tesori di gratitudine verso di voi io abbia riunito nel mio cuore.
Comprendendo tutta l’importanza dei consigli che mi avevate fatto
dare da sir Walter Murph, che mi ha raggiunta sulla strada di
Normandia, poco dopo essere uscita da Parigi, arrivai al più presto
al castello degli Aubiers.
Non so perché la fisionomia delle persone che mi ricevettero mi
parve sinistra; non vidi fra loro nessuno dei vecchi servitori della
nostra casa: nessuno mi conosceva; fui costretta a dare il mio nome.
Mi fu comunicato che da alcuni giorni mio padre stava molto male, e
che la mia matrigna aveva appena fatto venire un medico da Parigi.
Non v’erano più dubbi: si trattava del dottor Polidori. Desideravo
farmi accompagnare subito da mio padre, chiesi dove fosse un vecchio
cameriere cui egli era molto affezionato. Da qualche tempo
quest’uomo aveva lasciato il castello; tutti questi particolari li
ebbi da un maggiordomo che mi aveva accompagnata al mio
appartamento, lasciandomi poi per andare ad avvertire del mio arrivo
la mia matrigna.
Era illusione, prevenzione? mi pareva che la mia venuta risultasse
importuna persino alla servitù di mio padre. Tutto al castello mi
appariva lugubre, triste. Nella disposizione di spirito in cui mi
trovavo, si cerca di trarre indizi dalle minime cose. Notavo
dappertutto segni di disordine, d’incuria, quasi si fosse giudicato
inutile darsi la minima pena per un’abitazione che presto doveva
essere abbandonata...
Le mie inquietudini, le mie angosce aumentavano a ogni istante. Dopo
aver sistemato mia figlia e la sua governante nel mio appartamento,
stavo per recarmi da mio padre quando entrò la mia matrigna.
Nonostante la sua ipocrisia, malgrado sappia abitualmente
controllarsi molto bene, pareva molto spaventata dal mio improvviso
arrivo.
“Il signor d’Orbigny non aspettava la vostra visita, signora” mi
dice. “Egli è così malato che una simile sorpresa gli sarebbe
funesta. Ritengo dunque opportuno lasciare che egli ignori la vostra
presenza. Non saprebbe spiegarsi la vostra venuta, e...”
Non la lasciai finire.
“Signora” le risposi, “è accaduta una grave disgrazia. Il signor
d’Harville è morto... vittima di una funesta imprudenza. Dopo un
così deplorevole evento, io non potevo restare a Parigi in casa mia
e vengo a passare qui da mio padre i primi tempi del mio lutto.”
“Siete vedova!... ah! è una fortuna sfacciata!” esclamò ella con
rabbia.
Dopo quello che sapete sul malaugurato matrimonio che quella donna
aveva architettato per vendicarsi di me, capirete l’atrocità della
sua esclamazione.
“È perché temo che voi vogliate essere altrettanto sfacciatamente
fortunata, signora, ch’io sono venuta qui” replicai, forse
imprudentemente. “Voglio vedere mio padre.”
“Attualmente è impossibile” mi rispose impallidendo; “la vostra
comparsa gli provocherebbe un’emozione pericolosa.”
“Visto che mio padre è tanto malato, come mai io non ne sono stata
informata?”
“Così ha voluto il signor d’Orbigny” mi rispose la mia matrigna.
“Non vi credo, signora, e vado a sincerarmi di quanto affermate” le
dissi, facendo un passo per uscire dalla mia camera.
“Vi ripeto che la vostra visita inattesa può fare un gran danno a
vostro padre” urlò piazzandomisi davanti per sbarrarmi il passo.
“Non permetterò che entriate da lui prima ch’io l’abbia informato
del vostro ritorno con quelle cautele che esige la sua situazione.”
Io ero in una crudele perplessità, altezza. Una repentina sorpresa
poteva, in effetti, nuocere a mio padre; ma quella donna,
abitualmente così fredda, così padrona di sé, mi sembrava tanto
spaventata dalla mia presenza, avevo tante ragioni di dubitare della
sincerità della sua sollecitudine per la salute di colui che aveva
sposato per cupidigia, e infine la presenza del dottor Polidori,
l’assassino di mia madre, m’ispirava un tal terrore che, credendo in
pericolo la vita di mio padre, non esitai tra la speranza di
salvarlo e il timore di provocargli un’emozione pericolosa.
“Vedrò mio padre immediatamente” dissi alla mia matrigna.
E sebbene costei mi avesse presa per un braccio, passai oltre...
Perdendo completamente la testa, quella donna tentò per la seconda
volta, e quasi con la forza, d’impedirmi di uscire dalla mia
camera... Questa incredibile resistenza raddoppiò il mio spavento, e
io mi liberai dalla sua stretta. Conoscendo l’ubicazione della
camera di mio padre, vi corsi senza perdere un solo istante:
entrai... Altezza, non dimenticherò mai la scena che mi si parò
dinanzi... Mio padre, quasi irriconoscibile, pallido, smagrito, con
il viso segnato dalle sofferenze, la testa abbandonata su un
guanciale, era accasciato su una grande poltrona...
Presso il caminetto, in piedi accanto a lui, il dottor Polidori si
accingeva a versare in una tazza, che gli porgeva un’infermiera,
alcune gocce di un liquido contenuto in una bottiglietta di vetro
che aveva in mano...
La lunga barba rossiccia dava alla sua fisionomia un che di
sinistro. Entrai così precipitosamente ch’egli fece un gesto di
sorpresa, scambiò un’occhiata d’intesa con la mia matrigna che mi
veniva dietro in tutta fretta e, invece di far prendere a mio padre
la pozione che gli aveva preparato, posò bruscamente il flacone sul
caminetto.
Mossa da un istinto che ancor oggi non so spiegarmi, il mio primo
gesto fu d’impossessarmi di quella boccetta.
Notando subito la sorpresa e lo sbigottimento della mia matrigna e
di Polidori, mi congratulai con me stessa. Mio padre, stupefatto,
pareva irritato di vedermi, come m’ero aspettata. Polidori
mi lanciò un’occhiata feroce; malgrado la presenza di mio padre e
dell’infermiera, ebbi paura che quel miserabile, vedendo quasi
scoperto il suo delitto, si spingesse a qualche gesto estremo nei
miei confronti.
Sentii, in un momento così importante, il bisogno di essere
sostenuta, quindi suonai; accorse uno dei domestici di mio padre; lo
pregai di dire al mio cameriere (che era già stato istruito) di
andare a prendere della roba che avevo lasciato alla locanda; sir
Walter Murph sapeva che, per non destare i sospetti della mia
matrigna in caso fossi costretta a dare ordini davanti a lei, avrei
usato questo stratagemma per mandarlo a chiamare.
Tale era lo stupore di mio padre e di sua moglie che il servitore
uscì prima che essi avessero potuto aprir bocca. Mi sentii più
tranquilla; di lì a pochi istanti sir Walter Murph sarebbe stato al
mio fianco... “Che cosa significa tutto ciò?” mi disse infine mio
padre con voce debole, ma imperiosa e piena di collera. “Arrivate,
Clémence, senza che io vi abbia chiamata?... Poi, appena arrivata,
v’impadronite del flacone contenente la pozione che il dottore stava
per darmi... volete spiegarmi un simile comportamento?”
“Uscite di qua” disse la mia matrigna all’infermiera.
Quando quest’ultima fu uscita, ella disse a mio padre: “Calmatevi,
mio caro; sapete bene che la minima emozione potrebbe nuocervi.
Poiché vostra figlia viene qui a vostra insaputa, e poiché la sua
presenza vi infastidisce, datemi il braccio e io vi condurrò in
salotto; intanto il nostro buon dottore farà capire alla signora
d’Harville quanto sia imprudente, per non dire altro, la sua
condotta...”.
E lanciò un’occhiata espressiva al suo complice.
Compresi la sua intenzione. Voleva portar via mio padre e lasciarmi
sola con Polidori che, visto il caso estremo, avrebbe indubbiamente
usato la violenza per strapparmi la boccetta che poteva fornire una
prova schiacciante dei suoi delittuosi progetti.
“Avete ragione” disse mio padre alla moglie. “Visto che vengono a
perseguitarmi fino in casa mia, senza rispetto per quelli che sono i
miei desideri, lascerò libero il campo agli importuni...”
E alzatosi con grande fatica accettò il braccio offertogli dalla mia
matrigna e mosse qualche passo verso il salotto.
Intanto Polidori mi si avvicinava. Ma io, avvicinandomi a mia volta
a mio padre, gli dissi:
“Vi spiegherò subito quanto vi è d’imprevisto nella mia venuta e di
strano nella mia condotta... Da ieri sono vedova... Da ieri so che
si attenta alla vostra vita”.
Egli camminava curvo e penosamente. A queste parole si fermò, si
raddrizzò bruscamente e guardandomi sbigottito esclamò:
“Voi siete vedova... la mia vita è in pericolo... Cosa significa
tutto ciò?”
“E chi osa attentare alla vita del signor d’Orbigny?” mi chiese
audacemente la mia matrigna.
“Sì, chi osa tanto?...” incalzò Polidori.
“Voi, signore e voi, signora” replicai io.
“Che orrore!” gridò la mia matrigna facendo un passo verso di me.
“Quel che dico, signora, lo proverò” le risposi.
“Ma una simile accusa è spaventosa!” esclamò mio padre.
“Io lascio immediatamente questa casa, visto che sono esposto a così
infami calunnie!” fece Polidori simulando lo sdegno di un uomo
oltraggiato nel suo onore.
Cominciando a rendersi conto della precarietà della propria
condizione, voleva sicuramente fuggire.
Mentre s’accingeva ad aprire la porta, si trovò faccia a faccia con
sir Walter Murph...
Rodolphe, interrompendo la sua lettura, tese la mano al gentiluomo e
gli disse:
«Bravissimo, amico mio, la tua comparsa deve aver fulminato quel
miserabile.»
«Proprio così, altezza... è diventato livido... ha fatto due passi
indietro guardandomi sbigottito; sembrava annichilito... Ritrovarmi
nel cuore della Normandia, in un momento come quello!... credeva di
fare un brutto sogno... Ma continuate, altezza, e vedrete che quella
diabolica contessa d’Orbigny ha avuto anche lei la sua rivelazione
fulminante, grazie a quello che mi avevate detto sulla sua visita al
ciarlatano Bradamanti-Polidori nello stabile di rue du Temple...
perché, in sostanza, eravate voi ad agire, e io non ero che lo
strumento dei vostri pensieri... e vi giuro che mai come in
quest’occasione vi siete più felicemente e giustamente sostituito
all’indolente Provvidenza. Rodolphe sorrise e continuò la lettura
della missiva della signora d’Harville:
Alla vista di sir Walter Murph, Polidori restò di sasso; la mia
matrigna passava di sorpresa in sorpresa; mio padre, scosso da
questa scena, indebolito dalla malattia, fu costretto a sedersi su
una poltrona. Sir Walter chiuse a due mandate la porta da cui era
entrato, e messosi davanti a quella che si apriva su un altro
apparta-
mento, affinché il dottor Polidori non potesse scappare, disse al
mio povero padre con tono molto rispettoso:
“Vi chiedo mille scuse, signor conte, della libertà che mi prendo.
Ma un’impellente necessità, dettata unicamente dal vostro interesse
(e fra poco avrete modo di rendervene conto), mi costringe ad agire
così... Mi chiamo sir Walter Murph, come può confermarvi questo
sciagurato che, al vedermi, trema come una foglia. Sono consigliere
personale di S.A.R. il granduca regnante di Gerolstein”.
“È vero” balbettò il dottor Polidori, terrorizzato.
“Ma allora, signore... che venite a fare qui? Che cosa volete?” “Sir
Walter Murph” ripresi io rivolgendomi a mio padre, “viene a unirsi a
me per smascherare gli scellerati di cui poco è mancato che voi
foste vittima.”
Poi, consegnando a Sir Walter la boccetta di vetro, soggiunsi: “Ho
avuto la buona idea d’impossessarmi di questa boccetta mentre il
dottor Polidori si accingeva a versarne alcune gocce in una pozione
che voleva dare a mio padre”.
“Un chimico della città vicina analizzerà davanti a voi il contenuto
di questa boccetta, che io affido a voi, signor conte: se si
dimostrerà ch’esso contiene un veleno lento e sicuro” disse Walter
Murph a mio padre, “non vi rimarranno più dubbi sul pericolo che
correvate, e che l’affetto di vostra figlia ha fortunatamente
sventato.”
Il mio povero padre guardava ora sua moglie, ora Polidori, ora me e
sir Walter con aria smarrita; i suoi tratti esprimevano un’angoscia
indefinibile. Su quel viso addolorato, leggevo la lotta violenta
scatenatasi nel suo cuore. Evidentemente si opponeva con tutte le
forze a dei sospetti terribili e crescenti, per timore d’esser
costretto a riconoscere l’iniquità della mia matrigna; infine,
prendendosi la testa tra le mani, esclamò:
“Mio Dio, mio Dio!... tutto ciò è spaventoso... impossibile. Sto
forse sognando?”.
“No, non è un sogno...” gridò audacemente la mia matrigna, “niente
di più reale che quest’atroce calunnia architettata per rovinare una
sventurata donna il cui solo delitto fu di consacrarvi la vita.
Venite, venite, amico mio, non restiamo qui un minuto di più”
aggiunse rivolgendosi a mio padre; “forse vostra figlia non avrà
l’insolenza di trattenervi contro la vostra volontà...”
“Sì, sì, usciamo di qui” disse mio padre fuori di sé, “tutto ciò non
è vero, non voglio più sentirne parlare, o impazzirei: spaventose
diffidenze mi nascerebbero in cuore, avvelenerebbero i pochi
giorni che mi restano da vivere, e niente potrebbe consolarmi di una
così mostruosa scoperta.”
Mio padre appariva così sofferente, così disperato, che avrei fatto
qualunque cosa per porre fine a questa scena così crudele per lui.
Sir Walter indovinò il mio pensiero; ma volendo fare piena e
completa giustizia, rispose a mio padre:
“Soltanto poche parole ancora, signor conte; sarà certamente un
dolore, per voi, il dover riconoscere che una donna che credevate a
voi devota per riconoscenza è sempre stata un mostro d’ipocrisia; ma
troverete un sicuro conforto nell’affetto di vostra figlia, che non
vi ha mai tradito.”
“Questo oltrepassa tutti i limiti!” gridò la mia matrigna
rabbiosamente; “e con quale diritto, e su che prove osate fondare
calunnie simili? Voi dite che questo flacone contiene del veleno?...
Io lo nego, signore, e lo negherò finché non sia stato provato il
contrario; e quand’anche il dottor Polidori avesse, per sbaglio,
confusa una medicina con un’altra, è forse ragione sufficiente
questa per accusarmi di aver voluto... di complicità con lui... Oh!
no, no, non finirò neppure... Un’idea così terribile è già un
delitto; io vi sfido ancora una volta, signore, a dire su quali
prove, voi e la signora, osate basare questa spaventosa calunnia...”
disse la mia matrigna con un’audacia incredibile.
“Sì, su che prove?” esclamò il mio infelice padre. “Bisogna porre
termine alla tortura cui sono sottoposto.”
“Non sono venuto qui senza prove, signor conte” rispose sir Walter;
“e queste prove vi saranno fornite tra un istante dalle risposte di
questo sciagurato.” Poi sir Walter si rivolse in tedesco al dottor
Polidori che aveva ripreso un po’ di baldanza, ma che la riperse
subito.
«Che cosa gli hai detto?» chiese Rodolphe al gentiluomo
interrompendo la lettura.
«Poche parole, ma significative, altezza. All’incirca così: “Ti sei
sottratto con la fuga alla condanna che ti aveva inflitto la
giustizia del granducato; abiti in rue du Temple, sotto il falso
nome di Bradamanti; è noto l’esecrando mestiere che eserciti; hai
avvelenato la prima moglie del conte; tre giorni fa la signora
d’Orbigny venne a prenderti per condurti qua ad avvelenare suo
marito. S.A.R. è a Parigi e ha le prove di tutto ciò che io affermo.
Se confessi la verità, per confondere questa donna scellerata, puoi
sperare, non la grazia, ma che ti sia mitigato il castigo che
meriti; mi seguirai a Parigi, ove ti chiuderò in un luogo sicuro
fino a
che S.A.R. abbia deciso della tua sorte. Altrimenti puoi scegliere
tra queste due alternative: o S.A.R. chiede e ottiene la tua
estradizione, oppure mando immediatamente a chiamare dalla città più
prossima un magistrato; gli consegnerò questa boccetta contenente il
veleno, tu sarai arrestato immediatamente, si faranno delle
perquisizioni in casa tua, in rue du Temple; tu sai quanto ti
comprometteranno, e la giustizia francese seguirà il suo corso...
Scegli”.
Queste rivelazioni, queste accuse, queste minacce che egli sapeva
fondate, succedendosi l’una all’altra a ritmo incalzante, ridussero
a uno straccio quell’infame, che non si aspettava di vedermi così
ben informato. Nella speranza di addolcire la pena che l’aspettava,
non esitò a sacrificare la sua complice e mi rispose:
“Interrogatemi, dirò la verità su questa donna”».
«Bene, bene, mio nobile Murph, sapevo di potermi fidare di te».
«Mentre parlavo con Polidori, la signora d’Orbigny si mutava
in volto in modo pauroso, benché non capisse il tedesco. Si rendeva
conto, infatti, dall’abbattimento sempre maggiore del suo complice,
dalla sua attitudine supplichevole, che io l’avevo in pugno. In
preda a un’ansia estrema, ella cercava d’incontrare gli occhi di
Polidori per dargli coraggio o implorarne la discrezione, ma questi
evitava costantemente il suo sguardo».
«E il conte?»
«Il suo turbamento era indescrivibile; le sue mani stringevano
convulsamente i braccioli della poltrona; il sudore gli bagnava la
fronte, respirava a fatica e i suoi occhi accesi, allucinati non si
staccavano dai miei. La sua angoscia era pari a quella di sua
moglie. Il seguito della lettera della signora d’Harville vi
racconterà la fine di questa scena penosa, altezza».
XI PUNIZIONE
Rodolphe continuò a leggere la lettera della marchesa d’Harville.
Dopo che per alcuni minuti sir Walter Murph e Polidori si furono
parlati in tedesco, sir Walter disse a quest’ultimo:
“Adesso rispondete. Non fu la signora” e indicò la mia matrigna,
“che in occasione della malattia della prima moglie del signor conte
vi introdusse nella sua casa come medico?”.
“Sì, fu lei...” rispose Polidori.
“Per assecondare i tristi progetti della... signora... non giungeste
a rendere mortale, mediante le vostre cure mortali, la malattia in
un primo tempo per niente grave della contessa d’Orbigny?”
“Sì.”
Mio padre mandò un gemito doloroso, levò le mani al cielo e le
lasciò ricadere, desolato.
“Menzogna e infamia!” gridò la mia matrigna. “È tutto falso; si sono
messi d’accordo per rovinarmi”.
“Silenzio, signora!” disse sir Walter Murph seccamente. Poi, sempre
rivolto a Polidori:
“È vero che tre giorni fa la signora venne a trovarvi in rue du
Temple al numero 17, ove voi abitate sotto il falso nome di
Bradamanti?”.
“Sì, è vero.”
“Non vi propose forse di venir qui ad assassinare il conte d’Orbigny
come avevate già fatto con la moglie?”
“Purtroppo non posso negarlo” rispose Polidori.
Di fronte a questa schiacciante rivelazione, mio padre si alzò in
piedi minaccioso; con un gesto imperioso indicò la porta alla mia
matrigna; poi, tendendo verso di me le braccia, esclamò con voce
rotta:
“In nome della tua sventurata madre, perdono! Perdono!... l’ho fatta
soffrire tanto... ma te lo giuro; ero estraneo al delitto che la
portò alla tomba.”
E prima ch’io potessi trattenerlo, cadde in ginocchio.
Quando sir Walter e io lo rialzammo, era svenuto.
Chiamai la servitù; sir Walter prese il dottor Polidori per un
braccio e uscì con lui dicendo alla mia matrigna:
“Fate come vi dico, signora: lasciate questa casa entro un’ora,
altrimenti vi consegno alla giustizia”.
Quella scellerata uscì dalla stanza in uno stato di terrore e di
rabbia che potete facilmente immaginare.
Quando mio padre riprese i sensi, tutto ciò che era accaduto gli
parve un orribile sogno. Mi trovai nella dolorosa necessità di
raccontargli i miei primi sospetti sulla morte prematura di mia
madre, sospetti che con quello che voi mi diceste sui precedenti
crimini del dottor Polidori si tramutarono in certezza.
Ho dovuto dire a mio padre in che modo la mia matrigna mi avesse
perseguitato col suo odio, fin nel matrimonio, e quale fosse stato
il suo scopo facendomi sposare il signore d’Harville...
Quanto mio padre si era mostrato debole, cieco nei confronti di
quella donna, nella stessa misura voleva ora mostrarsi con lei sen-
za pietà; egli si accusava con disperazione di essere stato quasi il
complice di quel mostro sposandola dopo la morte di mia madre;
voleva consegnare la signora d’Orbigny ai tribunali; io gli feci
presente lo scandalo che avrebbe suscitato un simile processo, la
cui pubblicità sarebbe stata tanto incresciosa per lui; lo esortai a
scacciare per sempre la mia matrigna dalla sua casa, assicurandole
soltanto il necessario per vivere, dal momento ch’ella portava il
suo nome.
Faticai non poco a convincere mio padre a seguire queste decisioni
moderate; volle incaricarmi di cacciarla di casa. Ma poiché una
simile incombenza mi era doppiamente penosa, pensai che sir Walter
Murph avrebbe forse accettato di accollarsela... E infatti
acconsentì.
«Perbacco, ho acconsentito con gioia, altezza» disse Murph a
Rodolphe; «niente mi è più grato che il dare ai malvagi quella
specie di estrema unzione...»
«E lei che cosa disse?»
«La signora d’Harville in effetti aveva spinto la sua bontà fino a
chiedere a suo padre una pensione di cento luigi per quell’infame;
questa mi parve non bontà, ma debolezza. Era già male il sottrarre
alla giustizia una creatura così pericolosa. Andai dal conte, ed
egli trovò perfettamente giuste le mie osservazioni, si stabilì
quindi di dare in tutto venticinque luigi a quella scellerata per
metterla in condizione di trovarsi un impiego o del lavoro. “E quale
impiego, quale lavoro io, contessa d’Orbigny, potrei accettare?” mi
chiese con insolenza. “Questo poi è affar vostro, signora; potete
fare l’infermiera o la governante; ma date retta a me, cercatevi il
mestiere più umile, più oscuro; perché se aveste l’audacia di dire
il vostro nome, quel nome che dovete a un delitto, ci si stupirebbe
di vedere la contessa d’Orbigny ridotta in tale condizione;
probabilmente prenderebbero informazioni, e immaginatevi le
conseguenze, nel caso voi foste tanto pazza da riesumare il passato.
Nascondetevi quindi ben lontano da qui; soprattutto cercate di farvi
dimenticare; diventate la signora Pierre o la signora Jacques, un
nome qualunque, e pentitevi... se ci riuscite.” “E voi credete,
signore” mi disse, lei che indubbiamente si era preparata questa
risposta, “che io non reclamerò i vantaggi che mi assicura il mio
contratto di matrimonio?” “Come dite, signora? Ma certo, niente di
più giusto; sarebbe indegno del signor d’Orbigny il non mantenere le
sue promesse e non apprezzare tutto ciò che voi avete fatto, e
specialmente quello che volevate fare per lui...
Protestate, protestate... appellatevi alla giustizia; sono sicuro
che vi darà ragione contro vostro marito...” Un quarto d’ora dopo,
era in viaggio per la città vicina.»
«Hai ragione, dispiace lasciare quasi impunita una così detestabile
megera; ma lo scandalo di un processo... per quel vecchio già così
stanco... Non c’era neanche da pensarci.»
Non mi è stato difficile convincere mio padre ad abbandonare gli
Aubiers oggi stesso riprese Rodolphe, continuando a leggere la
lettera della signora d’Harville; «qui troppi ricordi tristi lo
tormenterebbero. Quantunque la sua salute sia vacillante, le
distrazioni di un viaggio di qualche giorno, il cambiamento d’aria,
non possono che giovargli, ha detto il medico cui era subentrato il
dottor Polidori, e che io avevo fatto chiamare subito, senza dirgli
nulla di quel che era successo; il medico rispose che poteva fare
quest’analisi solo a casa sua, e che entro due ore avremmo saputo i
risultati. E la risposta fu che diverse dosi di quel liquido,
composto con arte diabolica, potevano, entro un dato periodo,
causare la morte senza tuttavia lasciare altre tracce che quelle di
un male comunissimo; di cui ci disse il nome.
Tra poche ore, altezza, partirò con mio padre e mia figlia per
Fontainebleau; vi resteremo per un po’ di tempo, poi, per desiderio
di mio padre, torneremo a Parigi, ma non in casa mia; non mi sarebbe
più possibile abitarvi dopo il deplorevole incidente accadutovi.
Come vi dicevo cominciando questa lettera, altezza, i fatti vi
dimostrano tutto ciò che io devo ancora una volta alla vostra
inesauribile premura... Avvisata da voi, confortata dai vostri
consigli, forte dell’appoggio del vostro ottimo e coraggioso sir
Walter, ho potuto strappare mio padre a un sicuro pericolo, e sono
certa di aver recuperato il suo affetto...
Addio, altezza; non posso dirvi di più: il mio cuore è troppo
gonfio, troppe emozioni lo agitano, e io vi esprimerei male tutto
ciò che esso prova.
d’Orbigny d’Harville
Riapro in fretta questa lettera, altezza, per riparare a una
dimenticanza di cui mi vergogno. Cercando, secondo i vostri nobili
suggerimenti, di fare un po’ di bene, ero andata alla prigione di
Saint-Lazare a visitare delle povere carcerate; là ho trovato una
sventurata fanciulla alla quale voi vi siete interessato... La sua
angelica dolcezza, la sua pia rassegnazione suscitano l’ammirazione
delle rispettabili donne che sorvegliano le detenute... Farvi sape-
re dov’è la Goualeuse (tale è il suo soprannome, se non erro) è lo
stesso che mettervi in grado di ottenerne immediatamente la libertà;
quest’infelice vi racconterà per quale concorso di sinistre
circostanze, rapita dall’asilo ove voi l’avevate messa, sia stata
gettata in questa prigione, dove se non altro ha saputo far
apprezzare il candore del suo carattere.
Permettetemi di ricordarvi anche le mie due future protette: quella
povera madre e sua figlia, spogliate di tutto dal notaio Ferrand...
Dove sono? Ne sapete più niente? Di grazia, cercate di
rintracciarle, e che al mio ritorno a Parigi possa pagar loro il
debito ch’io ho contratto con tutti gli infelici!...
«Ma la Goualeuse ha dunque lasciato il podere di Bouqueval,
altezza?» esclamò Murph, stupito non meno di Rodolphe da questa
nuova rivelazione.
«Anche poco fa mi hanno detto di averla vista uscire da SaintLazare»
rispose Rodolphe. «Non ci capisco più niente: il silenzio della
signora Georges mi confonde e mi allarma... Povera Fleurde-Marie!
che altri guai le saranno dunque capitati? Ordina subito che un uomo
parta a cavallo alla volta del podere e scrivi alla signora Georges
che la prego di venire immediatamente a Parigi; di’ inoltre al
signor di Graün di procurarmi un permesso per entrare a
Saint-Lazare... Stando a quel che mi dice madame d’Harville,
Fleur-de-Marie dovrebbe essere in carcere. Ma no» riprese Rodolphe
dopo un attimo di riflessione «non è più detenuta, dal momento che
Rigolette l’ha vista uscire dalla prigione con una donna anziana.
Che fosse la Georges? altrimenti chi è quella donna? dov’è andata la
Goualeuse?»2
«Pazientate, altezza; prima di sera saprete il da farsi poi, domani,
vi toccherà interrogare quell’infame Polidori; dice di avere
importanti rivelazioni da fare ma a voi solo...»
«Un tale incontro non può certo farmi piacere» disse tristemente
Rodolphe, «non ho più rivisto quell’uomo dal giorno fatale in cui...
io ho...»
Rodolphe non riuscì a finire; si nascose il viso tra le mani.
«Ma perbacco, altezza, che bisogno c’è di acconsentire a quel che
chiede Polidori? Spaventatelo con lo spettro della giustizia
2 Il lettore ricorderà che, ingannata dall’emissario di Sarah che le
aveva detto che Fleur-de-Marie aveva lasciato Bouqueval per ordine
del principe, la signora Georges non stava in ansia per la sua
protetta, che aspettava da un giorno all’altro.
francese o di un’immediata estradizione; così dovrà ben rassegnarsi
a rivelarmi quel che pretenderebbe di comunicare soltanto a voi.»
«Hai ragione, amico mio; la presenza di quel miserabile renderebbe
ancora più amari i terribili ricordi cui si legano tanti dolori
inconsolabili... dalla morte di mio padre a quella della mia povera
bambina... Non so, ma più avanzo negli anni, e più quella figlia mi
manca... Come l’avrei adorata! come mi sarebbe stato caro e prezioso
quel bel frutto del mio primo amore, delle mie prime e pure
convinzioni, o piuttosto delle mie giovanili illusioni!... Avrei
riversato su quell’innocente creatura i tesori d’affetto di cui è
indegna la sua odiosa madre; e poi mi pare che, così come me l’ero
sognata, questa mia figlia, con la nobiltà del suo animo, con il
fascino delle sue virtù, avrebbe mitigato, calmato tutti gli
affanni, tutti i rimorsi legati, ahimè, alla sua funesta nascita...»
«Altezza, vedo con dolore il sopravvento sempre maggiore che
prendono nel vostro animo questi rimpianti sterili quanto dolorosi.»
Dopo un breve silenzio, Rodolphe disse a Murph:
«Adesso posso confessarti una cosa, mio vecchio amico: Amo... sì,
amo profondamente una donna degna dell’affetto più nobile e più
devoto... E proprio da quando il mio cuore si è aperto nuovamente a
tutte le dolcezze dell’amore, da quando sono più incline alle
emozioni sentimentali, soffro ancor di più per la perdita di mia
figlia... Avrei potuto temere, per così dire, che un nuovo affetto
diminuisse l’amarezza dei miei rimpianti... Niente affatto: anzi,
tutte le mie capacità di amare sono aumentate... mi sento migliore,
più caritatevole, e più che mai mi tormenta il non avere mia figlia
da adorare...».
«Niente di più semplice, altezza, e perdonatemi il paragone; ma come
alcuni uomini sono nell’ubriachezza allegri e benevoli, voi,
nell’amore, siete buono e generoso.»
«Tuttavia il mio odio per i malvagi si è fatto anch’esso più acuto:
la mia avversione per Sarah, è fuor di dubbio, aumenta in
proporzione al dolore che sento per la morte di mia figlia.
M’immagino che quella madre perversa l’abbia trascurata, che una
volta frustrate le sue ambiziose speranze in seguito al mio
matrimonio, la contessa, nel suo spietato egoismo, abbia abbandonato
la nostra creatura a mani mercenarie, e che la poverina sia morta
forse per mancanza di cure... È anche colpa mia... io allora non
capii la vastità dei sacri doveri imposti dalla paternità... Una
volta che mi si è rivelato il vero carattere di Sarah avrei dovuto
toglierle subi-
to mia figlia, vegliare su di lei con amore e sollecitudine. Dovevo
prevedere che la contessa non avrebbe mai potuto essere una madre
amorosa... È colpa mia, capisci, è colpa mia...»
«Altezza, il dolore vi acceca. Potevate forse, dopo il funesto
avvenimento che voi sapete... differire di un sol giorno il lungo
viaggio che vi eravate imposto... come...»
«Come espiazione!... Hai ragione, amico mio» disse Rodolphe,
abbattuto.
«Non avete più sentito parlare della contessa Sarah dalla mia
partenza, altezza?»
«No; dopo quelle infami delazioni che, per due volte, rischiarono di
perdere la signora d’Harville, non ne ebbi più notizia... La sua
presenza qui mi pesa, mi ossessiona; mi pare d’aver vicino il mio
angelo malefico, che qualche nuova disgrazia mi minacci.»
«Abbiate pazienza, altezza, un po’ di pazienza... Per fortuna le è
interdetto l’accesso in Germania, e la Germania ci aspetta.»
«Sì... presto partiamo. Se non altro, durante la mia breve
permanenza a Parigi avrò tenuto fede a una promessa sacra, avrò
fatto qualche passo di più su quel sentiero meritevole che
un’augusta e misericordiosa volontà mi segnò per la mia
redenzione... Appena il figlio della signora Georges sarà restituito
al suo affetto, innocente e libero; appena Jacques Ferrand sarà
convinto e punito dei suoi delitti; appena avrò assicurato
l’avvenire di tutti gli onesti e laboriosi individui che, per la
loro rassegnazione, il loro coraggio e la loro probità, si sono
meritati il mio interesse, torneremo in Germania, e allora il mio
viaggio non sarà stato inutile.»
«Specialmente se riuscirete a smascherare quell’abietto Jacques
Ferrand, altezza, la pietra angolare, il perno, di tanti misfatti.»
«Benché il fine giustifichi i mezzi... e gli scrupoli siano poco
opportuni con quello scellerato, talvolta mi dispiace di far
intervenire Cecily in questa riparazione giusta e vendicatrice.»
«Deve dunque arrivare tra poco?»
«È già arrivata.»
«Cecily?»
«Sì... Non ho voluto vederla; Graün le ha dato istruzioni molto
particolareggiate, ella ha promesso di seguirle.»
«Manterrà la promessa?»
«Tutto la spinge a farlo; la speranza di un miglioramento della
sua sorte futura, e il timore di essere rimandata immediatamente
nella sua prigione in Germania; Graün, infatti, non la perderà di
vista; alla minima imprudenza, otterrà la sua estradizione.»
«È giusto, ella è arrivata qui come evasa: se si venisse a sapere
quali crimini l’avevano fatta condannare all’ergastolo, verrebbe
immediatamente colpita dall’estradizione.»
«E quand’anche il suo personale interesse non l’obbligasse ad
assecondare i nostri progetti, poiché il compito che le è stato
affidato non può essere condotto a termine che a forza di astuzia,
di perfidia e seduzioni diaboliche, Cecily deve essere felicissima
(e in effetti lo è, mi ha detto il barone) di quest’occasione che le
permetterà di servirsi di quelle grazie di cui è stata dotata con
tanta generosità.»
«È sempre bella, altezza?»
«Graün la trova più affascinante che mai; è rimasto, mi ha detto,
abbagliato dalla sua bellezza, messa ancora più in risalto dal
costume alsaziano ch’ella ha scelto. Lo sguardo di quella donna
diabolica ha sempre, così mi dice, la stessa espressione veramente
magica.»
«Sentite, altezza, io non sono mai stato quel che si chiama uno
scapestrato o un libertino, eppure, se a vent’anni avessi incontrato
Cecily, pur sapendola così pericolosa e corrotta quale ella è ora,
non avrei garantito di non perdere la testa nel caso fossi rimasto
per un pezzo esposto al fuoco dei grandi occhi neri e ardenti che le
illuminano il volto pallido e appassionato.... Eh sì, non oso
pensare a quali pazzie mi avrebbe spinto un amore tanto funesto.»
«La cosa non mi stupisce, mio ottimo Murph, poiché conosco quella
donna. A parte questo, il barone è rimasto quasi spaventato dalla
sagacia con cui Cecily ha compreso o piuttosto indovinato la parte
provocatoria e platonica che deve recitare col notaio.»
«Ma riuscirà a introdursi in casa sua così facilmente come voi lo
sperate, altezza, grazie all’intervento della signora Pipelet? La
gente come Jacques Ferrand di solito è così sospettosa!»
«Avevo, con ragione, contato sull’aspetto di Cecily per combattere e
vincere la diffidenza del notaio.»
«L’ha già vista?»
«Ieri. Da quanto mi ha raccontato la signora Pipelet, sono sicuro
ch’egli è rimasto affascinato dalla creola, tanto è vero che l’ha
presa subito al suo servizio.»
«Allora, altezza, la partita è vinta!»
«Lo spero; una feroce cupidigia, una sfrenata lussuria hanno spinto
il carnefice di Louise Morel ai più odiosi delitti... È nella sua
lussuria, nella sua cupidigia ch’egli troverà la terribile punizione
dei suoi misfatti... punizione che, soprattutto, non sarà in-
fruttuosa per le sue vittime... poiché tu sai a che fine devono
tendere tutti gli sforzi della creola.»
«Cecily!... Cecily!... Mai perversità maggiore, mai corruzione più
pericolosa, mai anima più nera avranno contribuito alla
realizzazione di un disegno di più profonda moralità e di più nobile
fine... E David, altezza?»
«Approva tutto; al punto di disprezzo e orrore cui è giunto nei
confronti di quella donna, non vede più in lei che lo strumento di
una giusta vendetta. “Se quella maledetta potesse mai meritarsi un
po’ di commiserazione dopo tutto il male che ha fatto” mi ha detto,
“sarebbe soltanto dedicandosi allo spietato castigo di quello
scellerato, di cui ella deve essere il demone sterminatore.”»
Un usciere bussò discretamente alla porta; Murph uscì e tornò di lì
a poco con due lettere, di cui soltanto una era destinata a
Rodolphe.
«È la signora Georges» disse quest’ultimo, leggendo rapidamente.
«Ebbene, altezza?... la Goualeuse?»
«Non vi sono più dubbi» esclamò Rodolphe dopo aver letto, «si tratta
ancora una volta di qualche oscuro complotto. La sera stessa del
giorno in cui la povera fanciulla sparì dal podere, e proprio mentre
la Georges si accingeva a informarmi dell’accaduto, un uomo
sconosciuto, inviato colà a cavallo espressamente, andò a
rassicurarla da parte mia, dicendole che io sapevo dell’improvvisa
partenza di Fleur-de-Marie e che l’avrei riaccompagnata al podere
quanto prima. Nonostante questa rassicurazione, la signora Georges,
preoccupata dal mio silenzio, non può, così scrive, resistere al
desiderio di avere notizie dell’amata figliola, com’ella chiama
quella povera fanciulla.»
«Tutto ciò è molto strano, altezza.»
«A che scopo rapire Fleur-de-Marie?»
«Altezza» disse a un tratto Murph, «la contessa Sarah non è
estranea a questo rapimento.»
«Sarah? che cosa te lo fa credere?»
«Legate questo fatto alle sue denunce contro la signora d’Har-
ville.»
«Hai ragione» esclamò Rodolphe che, improvvisamente, cre-
deva di vedere tutto chiaro. «Sì, sempre lo stesso calcolo. La
contessa si ostina a credere che, riuscendo a spezzare tutti i
legami affettivi ch’ella mi suppone, mi farà provare il bisogno di
riavvicinarmi a lei. Idea tanto odiosa quanto pazza. Bisogna proprio
che una così indegna persecuzione abbia fine. Non è soltanto contro
di me che si accanisce quella donna, ma contro tutto ciò che merita
rispetto, interesse e pietà. Murph, manda subito Graün in veste
ufficiale, dalla contessa; le dichiari che ho la certezza della
parte da lei avuta nel rapimento di Fleur-de-Marie, e che se non dà
le indicazioni necessarie per ritrovare l’infelice giovanetta, sarò
spietato, e allora Graün farà appello alla giustizia.»
Secondo la lettera della signora d’Harville, la Goualeuse sarebbe
carcerata a Saint-Lazare.
«Sì, ma Rigolette dice d’averla vista libera mentre usciva di
prigione. Vi è un mistero su cui bisogna far luce.»
«Vado subito a dare i vostri ordini a Graün, altezza. Ma
permettetemi di aprire questa lettera; è del mio corrispondente da
Marsiglia, al quale avevo raccomandato lo Chourineur; doveva aiutare
quel povero diavolo a partire per Algeria.»
«Ebbene, è partito?»
«Altezza, questa sì che è buffa!»
«Che c’è?»
«Dopo aver tanto aspettato a Marsiglia una nave diretta in
Algeria, lo Chourineur, che appariva sempre più mesto e pensieroso,
dichiarò improvvisamente, proprio il giorno in cui doveva partire,
che preferiva tornare a Parigi.»
«Che strano!»
«Benché il mio corrispondente, secondo quanto convenuto, avesse
messo a disposizione dello Chourineur una bella somma, costui ha
accettato solo lo stretto necessario per venire a Parigi e, a quanto
mi si dice, non dovrebbe tardare molto ad arrivare.»
«Allora ci spiegherà egli stesso perché ha cambiato idea. Ma ora
manda subito Graün dalla contessa Mac-Grégor, e tu via a
Saint-Lazare a informarti di Fleur-de-Marie.»
Di lì a un’ora il barone di Graün tornava dalla casa della contessa
Sarah Mac-Grégor.
Malgrado il suo sangue freddo abituale, il diplomatico appariva
sconvolto. Appena entrò, Rodolphe si accorse del suo pallore.
«Cosa avete, di Graün?... La contessa, l’avete vista?»
«Ah, altezza!...»
«Cosa c’è?»
«Vostra altezza reale si prepari a sentire una cattiva notizia.»
«Suvvia, parlate.»
«La signora contessa di Mac-Grégor...»
«Ebbene?»
«Vostra altezza reale mi perdoni se le annuncio così brusca-
mente un evento così funesto, così inaspettato, così...»
«La contessa è dunque morta?»
«No, altezza... ma si teme per la sua vita... è stata pugnalata.»
«Ah, è terribile!» esclamò Rodolphe mosso da pietà nonostan-
te la sua avversione per Sarah. «E chi ha commesso questo delitto?»
«Non si sa, altezza; al delitto si è accompagnato il furto: qualcuno
si è introdotto nell’appartamento della signora contessa e ha rubato
una gran quantità di gioielli.»
«E ora come sta?»
«È in uno stato quasi disperato, altezza... non ha ancora ripreso
conoscenza... suo fratello è prostrato.»
«Dovrete andare a informarvi dello stato della contessa tutti i
giorni, mio caro Graün.»
In quel momento Murph tornava da Saint-Lazare.
«Devo comunicarti una triste notizia» gli disse Rodolphe, «hanno
tentato di assassinare la contessa Sarah... la sua vita è appesa a
un filo.»
«Ah, altezza, benché abbia molte colpe, non si può fare a meno di
compiangerla.»
«Sì, una fine simile sarebbe terribile!... E la Goualeuse?»
«È stata rimessa in libertà ieri, altezza, grazie all’intervento
della signora d’Harville, pare.»
«Ma non è possibile! la signora d’Harville mi prega, al contrario,
di fare i passi necessari affinché quella poveretta possa uscire di
prigione.»
«Non lo metto in dubbio altezza... eppure una donna anziana,
dall’aria rispettabile, si è recata a Saint-Lazare con l’ordine di
rimettere Fleur-de-Marie in libertà. Le due donne hanno lasciato
assieme la prigione.»
«È quanto mi ha detto anche Rigolette; ma la donna anziana che è
andata a prendere Fleur-de-Marie chi è? che nuovo mistero è questo?
La contessa Sarah sarebbe forse l’unica che potrebbe illuminarci, ma
ella non è in condizioni di dare alcuna spiegazione. Speriamo che
non si porti nella tomba questo segreto!»
«Ma suo fratello, Tom Seyton, potrebbe certo dare qualche lume. È
stato sempre il consigliere della contessa.»
«La sorella è moribonda; se si tratta di un nuovo intrigo, non
parlerà; ma» disse Rodolphe riflettendo «bisogna sapere il nome
della persona che si è interessata a Fleur-de-Marie per farla uscire
di prigione. Così si verrà per forza a scoprire qualcosa.»
«Giusto, altezza.»
«Cercate dunque di individuare e incontrare al più presto quella
persona, mio caro Graün; se non vi riesce, mettete in moto il vostro
Badinot, tentate ogni mezzo per trovare le tracce di quella povera
fanciulla.»
«Vostra altezza reale può contare sul mio zelo.
«In fede mia, altezza» disse Murph, «forse non è male che lo
Chourineur ritorni; i suoi servigi potranno esservi utili... per
queste indagini.»
«Hai ragione, e ora sono impaziente di veder arrivare a Parigi il
mio coraggioso salvatore. Non mi scorderò mai, infatti, che gli devo
la vita.»
XII
LO STUDIO
Erano passati diversi giorni da quando Jacques Ferrand aveva preso
Cecily al suo servizio.
Guideremo il lettore (che conosce già il luogo) nello studio del
notaio all’ora della colazione dei suoi scrivani.
Cosa inaudita, esorbitante, meravigliosa! al posto degli scarsi e
poco appetitosi manicaretti portati ogni mattina a quei giovani
dalla defunta signora Séraphin, un enorme tacchino freddo, servito
su una vecchia cartella per documenti, troneggiava in mezzo a un
tavolo dello studio, assieme a due pani freschi, un formaggio
olandese e tre bottiglie di vino sigillate; un vecchio calamaio di
piombo, pieno di un miscuglio di pepe e di sale, faceva da saliera.
Questo era il menu.
Ogni giovane, armato del suo coltello e di un appetito formidabile,
attendeva l’ora del banchetto con famelica impazienza; alcuni
masticavano persino a vuoto, maledicendo l’assenza del signor primo
scrivano, senza cui non si poteva, per rispetto di gerarchia,
cominciare il pasto.
Un progresso, o meglio una rivoluzione così radicale nel vitto degli
scrivani di Jacques Ferrand annunciava un enorme scompiglio
domestico.
La seguente conversazione, tipicamente beoziana (se ci è permesso
prendere a prestito quest’espressione dall’arguto scrittore che l’ha
resa popolare),3 getterà un po’ di luce su questa importante
questione.
3 Louis Desnoyers.
«Ecco un tacchino che quando entrò nella vita non si aspettava mai
più di comparire per colazione sulla mensa di giovani di studio come
noi.»
«Esattamente come il nostro padrone, quando entrò nella vita... di
notaio, non si sarebbe mai aspettato di dare ai suoi scrivani un
tacchino per colazione.»
«È un fatto, comunque, che quel tacchino ora è nostro» gridò il
galoppino dello studio con l’acquolina in bocca.
«Galoppino carissimo, tu ti sbagli; questo volatile deve restare per
te un animale sconosciuto, straniero.»
«E, da buon francese, devi avere in odio tutto ciò che è straniero.»
«Tutto quel che si potrà fare sarà di darti le zampe.»
«Emblema della velocità con la quale fai le commissioni per lo
studio.»
«Credevo di avere almeno diritto alla carcassa» disse il fattorino
brontolando.
«Potremo concedertela... ma non ne hai diritto; come accadde per la
Carta del 1814, che era solo un’altra carcassa di libertà» disse il
Mirabeau dello studio.
«A proposito di carcasse» seguitò un altro con brutale insensibilità
«Dio accolga l’anima della Séraphin! perché da quando è annegata
andando in campagna, non siamo più condannati agli intrugli che ci
propinava ogni giorno.»
«E da più di una settimana il padrone, invece di darci colazione...»
«Ci passa due franchi a testa al giorno.»
«E questo appunto mi fa dire: Dio accolga l’anima della vecchia
Séraphin!»
«In effetti, ai suoi tempi il padrone non ci avrebbe mai dato i due
franchi.»
«Una cifra enorme!»
«Favolosa!»
«Non c’è studio a Parigi...»
«In Europa.»
«Al mondo, dove si passino due franchi... a un semplice scriva-
no, per la sua colazione.»
«A proposito della Séraphin, chi di voi ha visto la cameriera
che ha preso il suo posto?»
«Quell’alsaziana che la portinaia della casa dove abitava quel-
la povera Louise portò qui una sera, come ha detto il portiere?»
«Sì.»
«Io non l’ho ancora vista.»
«Neppure io.»
«Per forza! È impossibile vederla, dal momento che il padro-
ne è più feroce che mai nell’impedirci di entrare nella palazzina in
fondo al cortile.»
«E poi è il portiere che mette in ordine lo studio, adesso, quindi
come si fa a vedere la donnaccia?»
«Ebbene, io l’ho vista!» «Tu?»
«E dove?»
«Com’è?»
«Alta o bassa?»
«Giovane o vecchia?»
«Io m’immagino già che non possa avere un visetto così bello
come quella povera Louise. Che brava ragazza, era!»
«Su, dal momento che l’hai vista, com’è la serva nuova?» «Quando
dico che l’ho vista... be’, le ho visto la cuffia, così
strana.»
«Ah sì? E come sarebbe?»
«Era color ciliegia e di velluto, credo; un po’ come quella che
portano le venditrici di granate.»
«Come le alsaziane? Ma è naturale, visto che è alsaziana.» «Senti,
senti...»
«Perdinci! di cosa vi stupite? Eh, chi è stato scottato dall’ac-
qua calda teme quella fredda...»
«Ohimè, Chalamel, cosa c’entra il tuo proverbio con questa
cuffia all’alsaziana?»
«Non c’entra affatto.»
«E allora perché lo tiri fuori?»
«Perché “chi favore fa, favore aspetti” e “la lucertola è l’ami-
ca dell’uomo”.»
«Ecco, se Chalamel comincia le sue sciocchezze con i proverbi
che non vogliono dir niente, è capace di andare avanti un’ora. Su,
di’ quello che sai della nuova serva.»
«Ieri l’altro passavo in cortile; lei era appoggiata a una delle
finestre del pianterreno.»
«E l’hai vista bene?»
«Ma sentilo! No i vetri in basso sono così sporchi che non ho potuto
vedere niente dell’alsaziana; ma poiché i vetri a metà finestra sono
meno sporchi, ho visto la sua cuffia ciliegia e una massa di
riccioli neri come l’ebano; sembrava pettinata alla Tito.»
«Sono sicuro che il padrone, attraverso i suoi occhiali, non ne avrà
vista più di te. Quello infatti è un tipo che, come si suol dire, se
restasse solo con una donna sulla terra il mondo finirebbe presto.»
«Ciò non fa meraviglia: “Ride bene chi ride ultimo” tanto più che
“l’esattezza è la virtù dei re.”»
«Mio Dio come è noioso Chalamel quando ci si mette!» «Perdinci,
“dimmi con chi vai e ti dirò chi sei.”»
«Oh ma com’è spiritoso!»
«Io ho idea che sia la superstizione che istupidisce sempre di
più il padrone.»
«È forse per far penitenza che ci dà due franchi per la cola-
zione.»
«Dev’essere proprio impazzito.»
«O ammalato.»
«Io da diversi giorni gli trovo un’aria stralunata.
«E non è che lo si veda molto... Lui che, per nostra disgrazia,
era nel suo ufficio fin dall’alba, e ci stava sempre addosso, ora
sta anche due giorni senza mettere il naso nello studio.»
«Ragion per cui il primo scrivano è oberato di lavoro.»
«E quindi noi siamo costretti a morire di fame aspettandolo.» «Certo
che tutto questo ha segnato un bel cambiamento nel-
lo studio!»
«Il povero Germain resterebbe di stucco se gli dicessimo: “Fi-
gurati, ragazzo mio, che il padrone ci dà due franchi per la
colazione”. “Scherzate! È impossibile!” “E invece è tanto possibile
che l’ha annunciato proprio a me in persona.” “Vuoi ridere?” “Sì,
fammi ridere!” Ecco come sono andate le cose: nei primi due o tre
giorni che sono seguiti alla morte della Séraphin, non si ebbe
colazione per niente. In un certo senso, preferivamo così perché
mangiavamo meglio; ma il nostro vitto ci costava... Tuttavia
pazientavamo dicendo: Il padrone non ha più né serva né governante;
quando ne avrà ripresa una, riprenderemo il nostro disgustoso
pastone. Ebbene, niente affatto, mio caro Germain: il padrone ha
ripreso una serva, e la nostra colazione ha continuato a restare
sepolta nel fiume dell’oblio. Allora io ho fatto un po’ da
ambasciatore e ho portato al padrone le lamentele dei nostri
stomachi. Egli era col primo scrivano. “Non voglio più pensare al
vostro pasto del mattino” fece in tono burbero e quasi pensasse ad
altro; “la mia serva non ha tempo di occuparsi della vostra
colazione.” “Ma, signore, era nei patti che voi ci dovete la
colazione.” “Ebbene, fatevi venire la colazione di fuori e io la
pagherò. Quanto vi serve, due franchi a
testa?” aggiunse con l’aria di pensare più che mai ad altro. Diceva
due franchi come avrebbe detto un franco o cinque. “Sì, signore, due
franchi ci basteranno,” esclamai io, cogliendo la palla al balzo.
“D’accordo, allora. Il primo scrivano si incaricherà di questa spesa
e io poi farò i conti con lui.” E detto questo il padrone mi chiuse
la porta in faccia. Confessate, signori, che Germain resterebbe
maledettamente attonito di fronte la liberalità del padrone.»
«Germain direbbe che il padrone ha bevuto.»
«Ma che lui non la beve!»
«Chalamel! Guarda, preferiamo i tuoi proverbi, a questi gio-
chi di parole!»
«Senza scherzi, credo che il padrone sia malato. Da dieci gior-
ni non si riconosce più, ha le guance talmente scavate...»
«E com’è distratto! L’altro giorno si levò gli occhiali per legger
un atto! Aveva due occhi rossi e infiammati come due carbo-
ni accesi.»
«Ne aveva ben diritto, “patti chiari, amicizia lunga”.»
«Ma lasciami parlare. Ora vi dico, signori, che cos’è anche più
strano. Io porto dunque quest’atto al padrone perché lo legga, ma
quello era rovesciato.»
«Il padrone? La cosa è veramente singolare. E cosa faceva a testa in
giù? Doveva mancargli il respiro; a meno che le sue abitudini non
siano veramente molto cambiate, come tu dici.»
«Oh, com’è asfissiante questo Chalamel! Ti dico che gli porsi l’atto
da leggere alla rovescia.»
«Uh, chissà come ha brontolato!»
«Sì, figuriamoci; non se ne è neanche accorto; ha continuato a
guardare l’atto per una decina di minuti, coi suoi grossi occhi
arrossati fissi lì sopra, e poi me l’ha reso dicendo: “Va bene!”»
«Ed era sempre alla rovescia?»
«Sempre...»
«Dunque non l’aveva letto!»
«Perbacco, a meno che non legga alla rovescia.» «È buffo!»
«Il padrone aveva una faccia così scura e adirata in quel momento,
che non ho osato dirgli niente, e me ne sono andato come se niente
fosse.»
«E io allora? Quattro giorni fa ero nell’ufficio del primo scrivano;
arriva un cliente, poi due, poi tre clienti, ai quali il padrone
aveva dato appuntamento. Quelli cominciavano a essere stanchi
dell’attesa; dietro loro richiesta, vado a bussare alla porta del
suo studio; nessuno mi risponde, entro...»
«Ebbene?»
«L’egregio Jacques Ferrand aveva le braccia incrociate sul tavolo,
la testa calva e brutta appoggiata sulle braccia; non si mosse.»
«Dormiva?»
«Così credevo. Mi avvicino: “Signore, ci sono dei clienti che
avevano appuntamento con voi...”. Niente. “Signore!...” Nessuna
risposta. Infine lo tocco sulla spalla, e quello si rizza come se
l’avesse morso il diavolo; facendo quel movimento repentino, gli
cadono dal naso i grandi occhiali verdi e vedo... Non lo credereste
mai.»
«Ebbene, che cosa hai visto?» «Delle lacrime...»
«Ah, vuoi scherzare!» «Questa sì che è grossa!»
«Il padrone piangere? Ma via!»
«Quando si vedrà una cosa del genere... i galli faranno le uova.»
«E le galline porteranno gli stivali.»
«E va bene, le vostre stupidaggini non impediranno ch’io l’abbia
visto come vedo voi.»
«Piangere?»
«Sì, piangere; poi parve così furente di esser stato sorpreso in
quello stato, che si rimise in fretta gli occhiali, gridandomi:
“Uscite!... uscite!...”. “Ma, signore...” “Uscite!...” “Ci sono dei
clienti ai quali avete dato appuntamento, e...” “Non ho tempo; che
vadano al diavolo, e voi con loro!” E si alzò infuriato per mettermi
alla porta; ma io non l’ho aspettato, me la sono svignata e ho
mandato via i clienti, che non erano, a dire il vero, molto
soddisfatti... ma, per l’onore dello studio, dissi loro che il
padrone aveva la tosse asinina.»
L’interessante conversazione fu interrotta dal signor primo scrivano
che entrò tutto affannato; la sua venuta fu salutata da acclamazioni
generali, e tutti gli occhi si fissarono con simpatia e impazienza
sul tacchino.
«Non per rimproverarvi, signore, ma voi ci fate aspettare
maledettamente» disse Chalamel.
«State attento: un’altra volta... il nostro appetito non sarà così
subordinato.»
«Eh, signori, non è colpa mia... io mi facevo più cattivo sangue di
voi... Parola mia d’onore, dev’essere il padrone diventato matto!»
«Ve lo dicevo io!»
«Ma ciò non c’impedisca di mangiare...»
«Al contrario!»
«Parleremo benissimo anche con la bocca piena.» «Parleremo meglio»
esclamò il galoppino, mentre Chalamel,
tagliando il tacchino, chiedeva al primo scrivano:
«Per quale motivo pensate che il padrone sia ammattito?». «Ci
sentivamo già propensi a crederlo completamente rincre-
tinito quando ci ha assegnati due franchi a testa per la
colazione... quotidiana.»
«Confesso che io non ne sono rimasto meno stupito di voi, signori;
ma questo è niente in confronto a ciò che è accaduto poco fa.»
«Ma no!»
«Ma insomma, forse il poveretto sta diventando tanto pazzo da
costringerci ad andare a pranzo tutti giorni a sue spese al Cadran
Bleu?»
«E poi a teatro?»
«E poi al caffè, a finire la serata con un poncino?»
«E poi...»
«Signori, scherzate, scherzate fin che volete, ma la scena alla
quale ho appena assistito è più spaventosa che divertente.» «Ebbene,
raccontatecela allora, questa scena.»
«Ecco, bravo, lasciate perdere la colazione» disse Chalamel.
«Noi siamo tutt’orecchi.»
«Sì, e tutte ganasce, miei cari! Non sono stupido: mentre io sto
qui a parlare, voi fate andare le mascelle... e il tacchino sarà
finito prima della mia storia. Pazienza, la sentirete alla frutta.»
Fosse lo stimolo della fame o della curiosità ad animare i giovani
praticanti, noi non sapremmo dire; ma fatto si è che misero una tale
buona volontà nella loro operazione gastronomica, che il momento
fissato dal primo scrivano per il racconto arrivò quasi subito.
Per non essere sorpresi dal padrone, si mandò di vedetta nella
stanza vicina il galoppino, al quale erano state generosamente
lasciate le zampe e la carcassa del volatile.
Il primo commesso disse ai suoi colleghi:
«Prima di tutto dovete sapere che da qualche giorno il portiere era
preoccupato per la salute del padrone; siccome il brav’uomo sta
alzato fino a tardi, aveva visto più di una volta il signor Ferrand
scendere di notte in giardino, malgrado il freddo o la pioggia, e
passeggiare su e giù a gran passi. Una volta si è azzardato a uscire
dal suo casotto per chiedere al padrone se aveva bi-
sogno di qualcosa. Ma quello lo mandò a dormire in maniera tale che,
da allora, il pover’uomo se ne è rimasto mogio mogio al suo posto
come fa sempre, ora, ogni volta che sente il padrone scendere in
giardino, cosa che si verifica quasi ogni notte, con qualunque
tempo.»
«Che sia sonnambulo?»
«È poco probabile... comunque queste passeggiate notturne denunciano
una grande agitazione... Eccomi alla mia storia... Poco fa mi reco
nello studio del padrone per fargli firmare alcuni fogli... mentre
stavo per mettere la mano sulla maniglia della sua porta, mi sembra
di sentire delle voci. Mi fermo e distinguo due o tre gemiti
sordi... come dei lamenti soffocati. Dopo aver esitato qualche
istante a entrare... diamine!... temendo qualche disgrazia, apro la
porta...»
«E allora?»
«Che vedo? Il padrone in ginocchio, sul pavimento...»
«In ginocchio?»
«Sul pavimento?»
«Sì... inginocchiato in terra, col viso tra le mani e i gomiti pun-
tati sul fondo di una sua vecchia poltrona...»
«Ma è chiaro; come siamo stupidi! Quello è così bigotto che
probabilmente stava dicendo una preghiera extra.»
«Come preghiera, sarebbe piuttosto strana! Non si sentivano che
lamenti soffocati; soltanto ogni tanto borbottava tra i denti: “Mio
Dio... mio Dio!...” come un uomo in preda alla disperazione. E
poi... un’altra cosa strana... Mentre faceva un gesto, come se
volesse graffiarsi il petto con le unghie, gli si è aperta appena un
po’ la camicia e ho visto benissimo, contro il suo petto villoso, un
piccolo portafoglio rosso che gli pendeva dal collo, attaccato a
una catenina d’acciaio...»
«Senti, senti... Allora?»
«Allora, vi assicuro che, vedendo ciò, non sapevo più se dove-
vo rimanere o uscire.»
«Anch’io l’avrei pensata così.»
«Me ne stavo dunque là... imbarazzatissimo, quando il padro-
ne si alza e si gira, improvvisamente. Aveva fra i denti un vecchio
fazzoletto a quadri... gli occhiali rimasero sulla poltrona... No,
no, signori... in vita mia non ho mai visto un viso simile; sembrava
un dannato. Retrocedo spaventato, parola d’onore, spaventato. Allora
lui...»
«Vi salta alla gola?»
«Macché. Mi guarda prima con aria smarrita; poi, lasciando cadere il
fazzoletto, che aveva indubbiamente rosicchiato, buca-
to, digrignando i denti, mi si getta fra le braccia esclamando: “Ah,
sono tanto infelice!”.»
«Che farsa!»
«Che farsa, dite voi! Eppure vi dico che nonostante la sua faccia da
teschio, quando ha pronunciato quelle parole aveva una voce così
dolorosa... direi quasi così dolce...»
«Così dolce... eh via!... non c’è cornacchia, non c’è gufo arrochito
il cui grido non sembri musica in confronto alla voce del padrone!»
«Sarà, ma in quell’istante la sua voce era così lamentosa, che mi
sono quasi intenerito, tanto più che il signor Ferrand di solito non
è certo espansivo. “Signore,” gli dico “credete che...” “Lasciami,
lasciami!” mi risponde interrompendomi, “fa tanto bene poter dire a
qualcuno quanto si soffre...” Evidentemente mi aveva preso per un
altro.»
«Vi ha dato del tu? Allora ci dovete due bottiglie di Bordeaux. Lo
dice il proverbio, quindi è sacro: i proverbi sono la saggezza dei
popoli.»
«Su, Chalamel, lasciate perdere i vostri rebus; capirete bene,
signori, che sentendo il padrone darmi del tu, compresi subito che
mi prendeva per un altro o delirava. Mi liberai da lui dicendogli:
“Signore; calmatevi!... calmatevi!... sono io”. Allora mi ha
guardato con un’aria inebetita.»
«Oh, ora sì che dite il vero.»
«Aveva gli occhi stravolti. “Eh!” mi risponde, “che c’è? chi
siete?... cosa volete da me?...” E si passava, a ogni domanda, la
mano sulla fronte, come per allontanare la nebbia che gli offuscava
il cervello.»
«Che gli offuscava il cervello... Ben detto... Bravo! il primo
scritturale, faremo un melodramma assieme:
Quando si parla, in fede mia, così bene Si deve scriver qualcosa per
le scene!».
«Ma taci Chalamel, alla buon’ora!»
«Che diamine può avere il padrone?»
«Io proprio non lo so; ma è certo che una volta ritrovato il suo
sangue freddo, ha cambiato musica: ha corrugato le sopracciglia con
aria terribile e mi ha detto irritato e senza darmi il tempo d’aprir
bocca: “Che cosa venite a fare qui? È un pezzo che siete entrato?...
non posso dunque starmene nella mia stanza senza esser circondato da
spie? Cosa ho detto? Che cosa avete sen-
tito? Rispondete... rispondete!”. Aveva una faccia così cattiva,
ch’io gli rispondo: “Non ho sentito niente, signore, sono entrato in
quest’istante”. “Non m’ingannerete mica, vero?” “Oh, no signore.” “E
va bene, che volete?” “Volevo chiedervi alcune firme, signore.”
“Date qua.” Ed ecco che si mette a firmare, a firmare... senza
leggerli, una mezza dozzina di atti notarili, lui che non metteva
mai la sua sigla su un atto senza compitarlo, per così dire, lettera
per lettera, e due volte da cima a fondo. Notai che ogni tanto la
sua mano quasi si fermava a metà firma, come se egli fosse assorto
in un’idea fissa, e poi si riprendeva e firmava presto, e quasi
convulsamente. Una volta firmato tutto, mi disse di ritirarmi, e io
l’ho sentito scendere giù per la scaletta che porta dal suo studio
in cortile.»
«E io torno sempre alla mia domanda... che cosa può avere?»
«Signori, forse rimpiange la signora Séraphin.»
«Eh sì! proprio lui... rimpiangere qualcuno!»
«E ora mi viene in mente che il portiere ha detto che il cura-
to di Bonne-Nouvelle e il suo vicario erano venuti diverse volte per
parlare col padrone, e che lui non li aveva ricevuti. Questa sì che
è una cosa che desta meraviglia! Loro che non se ne andavano mai di
qui.»
«Per me, m’incuriosirebbe di sapere che lavori ha fatto fare dal
falegname e dal fabbro nella palazzina.»
«Sì, ci hanno lavorato tre giorni di seguito.»
«E poi una sera hanno portato dei mobili in un grande carrozzone
coperto.»
«Quanto a me, signori, io m’arrendo! do la mia lingua ai cani, come
dice il cigno di Cambray.»
«Forse è il rimorso di aver fatto incarcerare Germain che lo
tormenta...»
«Dei rimorsi, lui?... È di pelle troppo dura e troppo corazzata per
queste cose... come dice l’aquila di Meaux.»
«Che buffone siete, Chalamel!»
«A proposito di Germain, avrà delle belle reclute nella sua
prigione, poveretto!»
«Come, come?»
«Ho letto nella “Gazette des Tribunaux” che la banda di ladri e
assassini che hanno arrestato agli Champs-Elysées, in una di quelle
osterie sotterranee...»
«Quelle sì che sono caverne...»
«Questa banda di scellerati, dicevo, è stata incarcerata alla
Force.»
«Povero Germain, allora avrà proprio una bella compagnia!»
«Anche Louise Morel avrà la sua parte di reclute; infatti pare che
nella banda ci fosse tutta una famiglia di ladri e d’assassini dal
padre al figlio... e dalla madre alla figlia.»
«Allora le donne le metteranno a Saint-Lazare dov’è Louise.»
«Forse sarà qualcuno di questa banda ad aver assassinato la contessa
che abita vicino all’Osservatorio, una cliente del padrone. Quante
volte mi ha già mandato dalla contessa per averne notizie! Pare che
s’interessi molto alla sua salute. Bisogna esser giusti, è la sola
cosa sulla quale ancora non dà i numeri... Non più tardi di ieri, mi
ha detto di andare a informarmi dello stato della signora
Mac-Grégor.»
«Ebbene?»
«Sempre lo stesso: un giorno si spera, l’indomani si dispera; non si
sa mai se passerà la giornata; ieri l’altro si erano perse tutte le
speranze, ma ieri c’era, pare, un barlume di speranza; quel che
complica le cose, è che ha una febbre cerebrale.»
«Hai potuto entrare in casa e vedere il luogo dove è stato commesso
il delitto?»
«Sì, stai fresco!... non sono riuscito ad andare oltre il portone, e
il portinaio non ha l’aria molto socievole, anzi...»
«Signori, attenti, attenti! arriva il padrone» gridò il galoppino
entrando nello studio, sempre armato della sua carcassa.
Subito i giovanotti si misero ai loro rispettivi tavoli, sui quali
si curvarono agitando le penne, mentre il fattorino abbandonava
momentaneamente la carcassa del tacchino in una cartella piena di
documenti.
In effetti di lì a poco comparve Jacques Ferrand.
I capelli rossicci, mescolati a ciocche grigie, sfuggendogli di
sotto al vecchio berretto di seta nera, gli ricadevano scomposti da
ogni lato delle tempie: alcune vene che gli segnavano il cranio
erano iniettate di sangue, mentre la sua faccia camusa e le guance
scavate erano di un pallore estremo. Non si poteva cogliere
l’espressione dei suoi occhi, nascosti dietro ai grandi occhiali
verdi, ma l’estrema alterazione dei lineamenti tradiva il tormento
di una passione divorante.
Attraversò lentamente lo studio, senza dire una parola ai suoi
scrivani, e nemmeno mostrò d’accorgersi che vi fossero; entrò nella
stanza del primo scrivano, l’attraversò come fece poi col suo studio
e ridiscese immediatamente per la scaletta che portava in cortile.
Poiché Jacques Ferrand aveva lasciato dietro di sé tutte le porte
aperte, i giovani di studio ebbero di che meravigliarsi, a buon di-
ritto, dello strano giro del loro padrone, che era salito da una
scala e sceso dall’altra senza fermarsi neanche in una delle stanze
che aveva attraversato come un automa.
XIII
E NON SARAI LUSSURIOSO
... Ma invece di limitarmi a ciò che vi è di puro e di luminoso in
quell’unione degli spiriti e dei cuori cui si limita l’amicizia, il
fondo melmoso della mia lascivia, agitato da quella punta di voluttà
che si fa sentire nell’età in cui mi trovavo, esalava delle nubi che
offuscavano gli occhi della mia mente.
... Io mi abbandonavo sfrenatamente ai miei piaceri sensuali, il cui
ardore, siccome pece bollente, bruciava il mio cuore e consumava
tutto quanto vi era di vigore e di forza. ... Quando sentivo i miei
compagni vantarsi delle loro orge, e tanto più compiacersene quanto
più esse erano state infami, io mi vergognavo di non averne fatte
altrettante.
Confessioni di Sant’Agostino, libro II, capp. II e III.
È notte.
Il profondo silenzio che regna nella palazzina abitata da Jac-
ques Ferrand è interrotto di tanto in tanto dal mugghiare del vento
e dalle raffiche di pioggia che cade a torrenti.
Questi rumori malinconici sembrano rendere ancora più completa la
solitudine della casa.
In una camera da letto del primo piano, arredata di nuovo e molto
accogliente con un bel tappeto folto, una giovane donna sta ritta
davanti a un caminetto dove arde un gran fuoco.
Cosa molto strana, in mezzo alla porta che è proprio dirimpetto al
letto, chiusa accuratamente da un chiavistello, si nota un
finestrino di circa sedici centimetri quadrati che può aprirsi
dall’esterno.
Una lampada schermata illumina debolmente la stanza tappezzata di
carta color granato: le cortine del letto, della finestra e il
rivestimento di un ampio divano sono di damasco di seta e lana dello
stesso colore.
Insistiamo molto su questi particolari del semi-lusso entrato così
di recente nella casa del notaio perché esso annunzia una ra-
dicale rivoluzione nelle abitudini di Jacques Ferrand, fino ad
allora di un’avarizia sordida e noncurante come uno spartano
(soprattutto nei confronti degli altri) per tutto ciò che riguardava
l’arredo domestico.
È dunque contro questo sfondo granato, contro questa tinta accesa e
calda che si staglia la figura di Cecily, che cercheremo di
descrivere.
La creola, dalla figura alta e slanciata, è nel fiore degli anni. Le
belle spalle ampie e i fianchi opulenti fanno apparire il suo vitino
così sottile che si direbbe che Cecily possa cingersi la vita con la
sua collana.
Il suo costume alsaziano, semplice e civettuolo, è di un gusto
bizzarro, un po’ teatrale, e per questo tanto più adatto all’effetto
ch’ella si propone di suscitare.
Il suo corpetto di casimira nera, semiaperto sul seno fiorente,
molto lungo sul dietro, con le maniche attillate, le spalle rotonde,
ha sottili ricami di lana rossa sulle cuciture ed è ravvivato da una
fila di bottoncini d’argento cesellati. Una gonna corta, di lana
arancione, che pare di un’ampiezza smisurata benché aderisca ai
contorni della sua bellezza scultorea, scopre a metà il ginocchio
ben fatto della creola, inguainato dalla calza scarlatta, come si
vede spesso nei vecchi pittori fiamminghi, che si compiacciono di
mostrare le giarrettiere delle loro floride eroine.
Mai artista si è sognato una tornitura così perfetta come quella
delle gambe di Cecily; nervose e sottili sotto il polpaccio
sviluppato, esse terminano con un piedino gentile, calzato alla
perfezione da una scarpetta di marocchino nero con fibbie d’argento.
Cecily, col peso del corpo spostato maggiormente sul piede sinistro,
è in piedi davanti allo specchio che sormonta il caminetto... La
scollatura del corpetto lascia libero il collo elegante e forte, di
un candore abbagliante, ma senza trasparenza.
Togliendosi la cuffia di velluto ciliegia per sostituirla con un
fazzoletto di madras, la creola ha scoperto la sua folta e magnifica
chioma nera che, divisa in mezzo alla fronte da una scriminatura e
ricciuta di natura, non scendeva oltre il collare di Venere che
univa il collo alle spalle.
Bisogna conoscere il gusto inimitabile con cui le creole si
attorcigliano attorno al capo questi fazzoletti dai colori brillanti
per avere un’idea della graziosa acconciatura notturna di Cecily, e
del vivace contrasto di quel tessuto a strisce porpora, azzurre e
arancio con i suoi capelli neri che, sfuggendo dalle strette pie-
ghe del fazzoletto, incorniciavano con mille riccioli morbidi come
seta le sue guance pallide, ma rotondette e sode...
Con le braccia sollevate ad arco sopra la testa, ella finiva di
allargare, con la punta delle dita sottili come piccoli fusi
d’avorio, un largo fiocco posto molto in basso sulla sinistra, quasi
sull’orecchio.
I lineamenti del volto di Cecily sono di quelli che si imprimono
nella memoria per sempre.
Una fronte ardita, un po’ sporgente, domina nel suo viso dall’ovale
perfetto; la carnagione ha la bianchezza opaca, la freschezza
vellutata di un petalo di camelia appena illuminato da un raggio di
sole; gli occhi, eccezionalmente grandi, hanno un’espressione tutta
particolare in quanto la pupilla, molto dilatata, nera e brillante,
lascia appena scorgere, ai due angoli delle palpebre frangiate da
lunghe ciglia, la trasparenza azzurrina del globo oculare; il mento
è piuttosto marcato; il naso diritto e sottile finisce con due
narici mobilissime che si dilatano alla minima emozione; la bocca,
insolente e sensuale, è di un rosso acceso.
Immaginiamoci dunque questo volto incolore, con le pupille scure e
scintillanti, e due labbra rosse, morbide, umide, che luccicano come
un corallo bagnato.
Diciamolo pure, quest’imponente creola, slanciata eppur rotondetta,
vigorosa e agile come una pantera, era il prototipo di quella
brutale sensualità che solo si accende al fuoco dei tropici.
Non v’è persona che non abbia sentito parlare di quelle ragazze di
colore fatali, per così dire, agli europei, di quelle vampire
incantatrici che, inebriando la loro vittima con tremende seduzioni,
gli succhiano fino all’ultima goccia di sangue, fino all’ultimo
centesimo, e non gli lasciano, secondo l’energica espressione del
paese, altro che le sue lacrime da bere e il suo cuore da rodere.
Tale è Cecily.
Soltanto che i suoi detestabili istinti, frenati per un certo
periodo dal suo sincero attaccamento a David, si erano rivelati solo
in Europa, così la civiltà e l’influsso dei climi nordici ne avevano
temperato la violenza, modificato l’espressione.
Invece di gettarsi violentemente sulla sua preda e di mirare
unicamente, come le sue simili, ad annientare al più presto una vita
e un patrimonio di più, Cecily, fissando sulle sue vittime lo
sguardo magnetico, incominciava ad attirarle a poco a poco nel
vortice infiammato che pareva emanare da lei; poi, vedendole
palpitanti, smarrite, in preda alle torture di un desiderio
inappagato, si compiaceva, per una raffinatezza di feroce
civetteria, a prolun-
gare il loro ardente delirio; quindi, tornando ai primitivi istinti,
le divorava in amplessi omicidi.
Questo sistema era anche più atroce.
La tigre famelica, che balza sulla preda e la fa a brani ruggendo,
ispira minor terrore del serpente che l’affascina in silenzio,
l’attira a sé a poco a poco, la stringe nelle sue inestricabili
spire, la stritola lentamente, la sente palpitare sotto i suoi pigri
morsi e sembra pascersi delle sue pene non meno che del suo sangue.
Cecily, come abbiamo detto, appena arrivata in Germania fu traviata
da un uomo depravato oltre ogni dire e poté, all’insaputa di David,
che l’adorava ciecamente, spiegare ed esercitare per qualche tempo
le sue pericolose arti di seduttrice; ma in breve fu svelato il
funesto scandalo delle sue avventure; si scoprirono cose orribili,
ed ella fu condannata al carcere a vita.
Si aggiungano a dei precedenti simili uno spirito insinuante e
scaltro, un’intelligenza così fuori del comune che in un anno ella
era riuscita a imparare il francese e il tedesco così bene da
parlarli con estrema facilità, e talvolta persino con spontanea
eloquenza; s’immagini infine una corruzione degna delle più famose
cortigiane dell’antica Roma, un’audacia e un coraggio a tutta prova,
istinti di una perversità diabolica e si avrà una pallida idea della
nuova domestica di Jacques Ferrand... la temeraria creatura che
aveva osato avventurarsi nella tana del lupo.
E tuttavia, per un caso stranissimo, apprendendo dal signor di Graün
il ruolo provocante e platonico ch’ella doveva tenere nei confronti
del notaio e a quali scopi vendicativi dovevano approdare le sue
seduzioni, Cecily aveva promesso di recitare la sua parte con amore
o, per meglio dire, con un odio implacabile per Jacques Ferrand,
essendosi sinceramente sdegnata al racconto delle infami violenze da
questi usate a danno di Louise, racconto che fu necessario fare alla
creola per metterla in guardia contro gli ipocriti tentativi di quel
mostro.
A proposito di quest’ultimo, sono indispensabili alcune premesse.
Quando Cecily gli era stata presentata dalla Pipelet come un’orfana
su cui ella non intendeva mantenere alcun diritto, né esercitare
alcuna sorveglianza, il notaio era stato forse meno colpito dalla
bellezza della creola che dal fascino dal suo sguardo irresistibile,
sguardo che, fin dal primo incontro, accese i sensi di Jacques
Ferrand e ne sconvolse il senno.
Infatti, e l’abbiamo già detto a proposito della stolta audacia del
suo linguaggio in occasione del colloquio con la duchessa di
Lucenay, quest’uomo di solito così padrone di sé, così calmo,
accorto, astuto, dimenticava i freddi calcoli della sua profonda
ipocrisia quando il demone della lussuria gli offuscava la mente.
Inoltre non aveva avuto alcun motivo per diffidare della protetta
della Pipelet.
La Séraphin, dopo il suo abboccamento con quest’ultima, aveva
proposto a Jacques Ferrand, in sostituzione di Louise, una ragazza
quasi abbandonata di cui ella era pronta a rispondere... Il notaio
si era affrettato ad accettare, nella speranza di abusare
impunemente della condizione precaria e isolata della sua nuova
serva.
Infine, lungi dall’essere portato a diffidare, Jacques Ferrand
trovava nell’andamento delle cose nuovi motivi di sicurezza.
Tutto andava secondo i suoi desideri.
La morte della Séraphin lo sbarazzava di una complice pericolosa.
La morte di Fleur-de-Marie (egli la credeva morta) lo liberava dalla
prova vivente di uno dei suoi primi misfatti.
Infine, grazie alla morte della Chouette e all’assassinio
inaspettato della contessa Mac-Grégor (il suo stato era disperato),
egli non temeva più queste due donne le cui rivelazioni avrebbero
potuto essergli fatali...
Lo ripetiamo, non essendo intervenuto alcun sentimento di diffidenza
a controbilanciare nella mente di Jacques Ferrand l’impressione
repentina e irresistibile che aveva provato alla vista di Cecily,
egli colse con gioia l’occasione d’attirare nella sua casa solitaria
la presunta nipote della Pipelet.
Individuati e conosciuti il carattere, le abitudini e i precedenti
di Jacques Ferrand, accettata come un dato di fatto la bellezza
provocante della creola, quale abbiamo cercato di descriverla,
qualche altro fatto che esporremo in seguito faranno comprendere,
noi lo speriamo, la passione improvvisa e sfrenata del notaio per
questa creatura seducente e pericolosa.
E poi bisogna dirlo... se solo ispirano repulsione agli uomini
dotati di sentimenti nobili e delicati, di gusti gentili e
raffinati, le donne della specie di Cecily esercitano invece
un’azione repentina, un fascino magico sugli uomini brutalmente
sensuali come Jacques Ferrand.
Dalla prima occhiata essi riconoscono queste donne e le desiderano;
un fascino fatale li attrae verso di esse e presto affinità
misteriose, simpatie magnetiche, senza dubbio, li incatenano
irremovibilmente ai piedi del loro mostruoso ideale; esse sole,
infatti, possono estinguere gli impuri ardori che hanno ispirato.
Una fatalità giusta e vendicatrice avvicinava dunque la creola al
notaio. Cominciava per lui un’espiazione terribile.
Una feroce lussuria l’aveva spinto a commettere odiosi attentati, a
perseguitare con spietato accanimento un’onesta e indigente
famiglia, a portarvi la miseria, la pazzia, la morte...
La lussuria doveva essere il tremendo castigo di questo grande
colpevole.
Infatti si direbbe che, per una fatale giustizia, certe passioni
insane, snaturate, portino in sé la propria punizione...
Un nobile amore, anche quando non sia corrisposto, può trovare
qualche consolazione nelle dolcezze dell’amicizia, nella stima che
una donna degna di essere adorata offre in mancanza di un sentimento
più tenero. Se questo compenso non calma gli affanni dell’innamorato
non corrisposto, se la sua disperazione è incurabile al pari del suo
amore, egli può almeno confessarsi e quasi inorgoglirsi di quel suo
amore disperato...
Ma quale compenso si può offrire agli ardori sfrenati che solo la
attrattiva materiale esalta fino alla frenesia?
E aggiungiamo anche che l’attrattiva materiale è tanto imperiosa per
gli individui più rozzi quanto l’attrattiva morale per le anime
nobili.
No, le serie passioni del cuore non sono le sole a essere repentine,
cieche, esclusive, le sole che, concentrando tutte le facoltà sulla
persona prescelta, rendono impossibile qualsiasi altro affetto e
decidono di tutta una vita.
La passione fisica può arrivare, come in Jacques Ferrand, a
un’incredibile intensità; allora tutti i fenomeni che nell’ordine
morale caratterizzano l’amore irresistibile, unico, assoluto, si
riproducono nell’ordine materiale.
Sebbene Jacques Ferrand non dovesse essere mai corrisposto, la
creola si era guardata bene dal togliergli definitivamente ogni
speranza; ma le vaghe e lontane speranze con cui lo cullava
ondeggiavano alla mercé di tanti capricci ch’erano per lui una
tortura di più, e ribadivano ancora più solidamente la catena
tormentosa da cui era avvinto.
Se qualcuno si stupisce che un uomo fornito di tanto vigore e
audacia non fosse già ricorso all’astuzia o alla violenza per
trionfare della resistenza calcolata di Cecily, è perché ci si
dimentica che Cecily non era una seconda Louise. Inoltre, fin dal
giorno successivo alla sua presentazione al notaio, ella aveva, come
diremo tra poco, adottato tutt’altro atteggiamento da quello tenu-
to per introdursi in casa del suo padrone: quest’ultimo infatti non
si sarebbe lasciato ingannare dalla sua serva due giorni di seguito.
Messa al corrente della sorte di Louise dal barone di Graün, e
sapendo in virtù di quali abominevoli mezzi l’infelice figlia di
Morel fosse divenuta preda del notaio, la creola, entrando in quella
casa solitaria, aveva preso ottime precauzioni per passarvi la prima
notte in tutta sicurezza.
La sera stessa del suo arrivo, rimasta sola con Jacques Ferrand che,
per non allarmarla, ostentò di guardarla appena e le ordinò
bruscamente di andarsene a letto, ella gli confessò con aria candida
che di notte aveva una gran paura dei ladri, ma che era forte,
pronta e decisa a difendersi.
«E con che cosa?» le domandò Jacques Ferrand.
«Con questo...» rispose la creola, tirando fuori dall’ampio mantello
di lana in cui era avvolta un piccolo pugnale perfettamente
affilato, la cui vista fece riflettere il notaio.
Tuttavia, convinto che la nuova cameriera temesse solo i ladri,
l’accompagnò alla camera che doveva occupare (quella ch’era già
stata di Louise). Dopo aver esaminato il locale, Cecily gli disse
tremando e con gli occhi bassi che, per effetto della paura, avrebbe
passato la notte su una sedia, poiché non vedeva alla porta né
catenaccio né serratura.
Jacques Ferrand, già completamente soggiogato, ma non volendo
compromettere niente col suscitare i sospetti di Cecily, le disse in
tono burbero che era sciocca e pazza ad avere di quelle paure, però
le promise che all’indomani le avrebbe fatto mettere un
chiavistello.
La creola non si coricò.
Al mattino il notaio salì in camera sua per darle le istruzioni
relative al suo servizio. Si era ripromesso di mantenersi per i
primi giorni ipocritamente riservato nei confronti della sua nuova
cameriera, per ispirarle un’ingannevole fiducia. Ma, colpito dalla
sua bellezza che alla luce del giorno pareva ancor più splendida,
accecato, travolto dai desideri che già lo divoravano, balbettò
alcuni complimenti sul vitino e sulla bellezza di Cecily.
Costei, dotata di rara sagacia, si era accorta, fin dal primo
incontro col notaio, che costui era già vittima del suo fascino;
alla confessione ch’egli le fece della sua passione, ritenne di
doversi spogliare subito della finta timidezza e, come dicemmo,
cambiar maschera.
La creola assunse dunque tutto a un tratto un’aria sfrontata.
Poiché Jacques Ferrand s’estasiava di nuovo di fronte alla bellezza
dei lineamenti e al corpo splendido della sua nuova cameriera:
«Guardatemi bene in faccia» gli disse in tono risoluto Cecily.
«Sebbene vestita da contadina alsaziana, ho forse l’aria di una
serva?»
«Che volete dire?» esclamò Jacques Ferrand.
«Guardate questa mano... Vi pare abituata a rozzi lavori?»
E mostrò una mano bianca, deliziosa, dalle dita sottili e de-
licate, con le unghie rosa e lucide come un’agata, ma la cui cima
leggermente scura tradiva il sangue misto.
«E questo piede, è forse da serva?»
E stese in avanti un piedino perfetto, calzato con molta civetteria,
che il notaio non aveva ancora notato e dal quale egli non distolse
gli occhi che per contemplare Cecily con stupore.
«Ho detto a mia zia Pipelet quel che mi accomodava; ella ignora il
mio passato, ha potuto credermi ridotta a una simile condizione...
in seguito alla morte del miei genitori, e prendermi per una serva;
ma voi sarete, io spero, troppo accorto per condividere il suo
errore, caro padrone.»
«Ma dunque, chi siete?» esclamò Jacques Ferrand sempre più sorpreso
di questo linguaggio.
«Questo è il mio segreto... Per ragioni mie particolari, sono stata
costretta a lasciare la Germania travestita da contadina; volevo
restare nascosta a Parigi per qualche tempo il più segretamente
possibile. Mia zia, supponendomi ridotta alla miseria, mi ha
proposto di entrare al vostro servizio, mi ha parlato della vita
solitaria che si faceva forzatamente in casa vostra, e mi ha
avvertito che non sarei mai uscita... Ho accettato subito. Senza
saperlo, mia zia andava incontro al mio più vivo desiderio. Chi
potrebbe mai cercarmi e scoprirmi, qui?»
«Voi vi nascondete!... e cos’avete fatto per essere costretta a
nascondervi?»
«Dei bei peccatacci forse... ma anche questo fa parte del mio
segreto.»
«E che intenzioni avete, signorina?»
«Sempre le stesse. Senza i vostri eloquenti complimenti sul mio
vitino e sulla mia bellezza, forse non vi avrei fatto questa
confessione... che la vostra perspicacia avrebbe del resto prima o
poi provocato... Ascoltatemi dunque bene, mio caro padrone; io ho
accettato momentaneamente la condizione o piuttosto il ruolo di
serva; le circostanze mi ci costringono... avrò il coraggio di
adattarmi a questo ruolo fino in fondo... ne subirò tutte le
conseguenze... vi servirò con zelo, laboriosità, rispetto per
mantenermi il posto... e cioè un asilo sicuro e ignoto. Ma alla
minima parola galante, alla minima libertà che vi prenderete con me,
io vi lascio, non per puritanesimo... perché non v’è niente in me,
io credo, della puritana.»
E lanciò un’occhiata carica d’elettrizzante sensualità fino in fondo
all’anima del notaio, che trasalì.
«No, non sono una puritana» riprese lei con un sorriso provocante
che scoprì dei denti di un candore eccezionale. «Mio Dio, quando
l’amore mi punge, le baccanti sono delle sante in confronto a me...
Ma siate giusto... e converrete che la vostra serva indegna non può
desiderare che fare onestamente il suo mestiere di serva. Ora sapete
il mio segreto, o almeno parte di esso. Vorreste per caso agire da
gentiluomo? Mi trovate troppo bella per servirvi? Desiderate
invertire le parti e diventare il mio schiavo? Sia pure!... io,
francamente, lo preferirei... ma sempre a patto che non uscirò mai
di qui e che voi avrete per me delle attenzioni esclusivamente
paterne... il che non v’impedirà di dirmi che mi trovate deliziosa:
questa sarà la ricompensa per la vostra devozione e la vostra
discrezione...»
«L’unica? l’unica?» chiese Jacques Ferrand, balbettando.
«L’unica... a meno che la solitudine e il diavolo non mi facciano
impazzire... il che è impossibile, poiché voi mi terrete compagnia
e, nella vostra qualità di sant’uomo, scongiurerete il demonio. Su,
decidetevi: niente compromessi. O io servirò voi, o voi servirete
me; altrimenti lascio la casa... e prego mia zia di trovarmi un
altro posto... Tutto ciò deve parervi strano, non importa. Ma se mi
prendete per un’avventuriera, senza mezzi di sussistenza,
v’ingannate... Affinché mia zia mi fosse complice senza saperlo, le
lasciai credere d’essere tanto povera da non avere di che comprarmi
altri abiti che questi... Invece ho, e lo vedete, una borsa ben
fornita: da questa parte è l’oro, dall’altra i diamanti...» e Cecily
mostrava al notaio una lunga borsa di seta rossa piena di monete
d’oro e attraverso la quale s’intravedeva anche lo scintillio di
alcune gioie; «disgraziatamente con tutti i soldi del mondo non
saprei trovarmi un asilo così sicuro come la vostra casa, così
solitaria grazie all’isolamento in cui vivete... Accettate l’una o
l’altra delle mie offerte; mi farete un favore. Voi lo vedete, io mi
metto quasi a vostra discrezione; dirvi infatti che mi nascondo,
equivale a dirvi che qualcuno mi cerca... Ma sono certa che non mi
tradirete, non sapendo in che modo farlo...»
Questa romanzesca confessione, questo brusco cambiamento di
personaggio sconvolse le idee di Jacques Ferrand.
Chi era quella donna? perché si nascondeva? Era proprio soltanto il
caso che l’aveva portata da lui? Se invece veniva con un fine
segreto, che fine poteva essere?
Fra tutte le ipotesi che questa strana avventura suscitò nello
spirito del notaio, il vero motivo della presenza della creola in
casa sua non poteva sfiorargli la mente. Egli non aveva, o meglio
non supponeva di avere altri nemici che le vittime della sua
lussuria e della sua cupidigia; ora queste erano tutte in uno stato
di disgrazia e d’avvilimento tale che non poteva supporle capaci di
tendergli una trappola la cui esca fosse Cecily...
E poi, ancora, a che fine tendergli questa trappola?
No, l’improvvisa trasfigurazione di Cecily non ispirò che un timore
in Jacques Ferrand: pensò che se quella donna non diceva la verità,
era forse un’avventuriera che, credendolo ricco, s’introduceva nella
sua casa per circuirlo, sfruttarlo e, forse, farsi sposare da lui.
Ma benché la sua avarizia e la sua cupidigia avessero avuto un moto
di rivolta a quest’idea, egli si accorse con un fremito che quei
dubbi, quelle riflessioni erano troppo tardive... poiché con una
parola poteva calmare la propria diffidenza scacciando di casa
quella donna.
Ma questa parola, egli non la disse...
Questi pensieri riuscirono a strapparlo appena per qualche attimo
all’ardente estasi in cui lo immergeva la vista di quella donna così
bella, di quella bellezza sensuale che aveva su di lui tanto
potere... D’altronde, fin dalla sera prima, egli si sentiva
soggiogato, affascinato.
Amava già, a modo suo, e con furore...
Già l’idea di vedere quella seducente creatura lasciare la sua casa
gli sembrava insopportabile; già soggetto agli impeti di una fiera
gelosia al solo pensiero che Cecily potesse prodigare ad altri i
tesori di voluttà che a lui sarebbero forse stati negati per sempre,
provava una triste consolazione nel dirsi:
«Finché vivrà qui con me, separata dal mondo, nessuno la possederà».
L’ardito linguaggio di quella donna, il fuoco dei suoi occhi, la
provocante libertà delle sue maniere rivelavano abbastanza
chiaramente che, come aveva detto lei stessa, non era una puritana.
Questa convinzione, fornendo vaghe speranze al notaio, consolidava
ulteriormente il dominio che Cecily aveva su di lui.
Insomma, poiché la lussuria di Jacques Ferrand soffocava la voce
della fredda ragione, egli s’abbandonava ciecamente al torrente di
brame sfrenate che lo travolgeva.
Fu convenuto che Cecily sarebbe stata sua serva soltanto in
apparenza, così non vi sarebbe stato scandalo; inoltre, per
garantire ancora maggiormente la sicurezza della sua ospite, egli
non avrebbe preso altra serva, e anzi si sarebbe rassegnato a
servire lei e se stesso; un trattore vicino avrebbe portato loro i
pasti, egli avrebbe pagato in contanti la colazione dei suoi
scrivani e il portiere si sarebbe occupato delle pulizie dello
studio. Il notaio, infine, prometteva di far ammobiliare al primo
piano una camera per Cecily che fosse di suo gusto. Cecily voleva
pagare le spese... egli vi si oppose e spese 2000 franchi...
Tale generosità era enorme, e provava l’inaudita violenza della sua
passione.
Allora cominciò per questo sciagurato una vita d’inferno.
Rinchiuso nella solitudine impenetrabile della sua casa,
inaccessibile a tutti, ogni giorno più soggiogato dal suo amore,
rinunciando a scoprire il segreto di quella strana donna, da padrone
egli si fece schiavo; fu il servitore di Cecily, la serviva a
tavola, le riordinava la stanza.
Avvertita dal barone che Louise era stata stordita con un narcotico,
la creola beveva solo acqua limpidissima, mangiava solo cibi che non
fosse possibile adulterare; si era scelta la camera che avrebbe
occupato e si era assicurata che i suoi muri non celassero alcuna
porta segreta.
D’altro canto Jacques Ferrand comprese ben presto che Cecily non era
donna da poter sorprendere o violentare impunemente. Ella era forte,
agile e pericolosamente armata; soltanto un delirio frenetico
avrebbe potuto spingerlo a tentativi disperati, e da un simile
pericolo ella si era messa perfettamente al riparo...
Tuttavia, per non stancare e scoraggiare la passione del notaio, la
creola si mostrava qualche volta commossa dalle sue attenzioni e
lusingata del terribile dominio che esercitava su di lui. Allora,
immaginando che a forza di prove di devozione e di totale sacrificio
di sé egli sarebbe riuscito a far dimenticare la propria bruttezza e
l’età avanzata, ella si divertiva a dipingergli, in termini
estremamente licenziosi e provocanti, l’inesprimibile voluttà con
cui avrebbe potuto inebriarlo se mai si fosse realizzato un simile
miracolo d’amore.
A queste parole di una donna tanto giovane e bella, Jacques Ferrand
smarriva talvolta la ragione... immagini divoratrici lo inse-
guivano ovunque; l’antico simbolo della tunica di Nesso diveniva per
lui realtà tangibile...
In mezzo a queste torture indicibili, egli perdeva la salute,
l’appetito, il sonno.
Talvolta di notte, nonostante il freddo e la pioggia, scendeva in
giardino e là cercava, passeggiando nervosamente, di calmare,
troncare i propri ardori.
Altre volte invece, per ore intere, teneva fisso lo sguardo
infiammato entro la camera della creola addormentata; ella, infatti,
aveva avuto l’infernale compiacenza di permettere che alla sua porta
fosse fatto uno sportello, una specie di finestrino, ch’ella apriva
spesso... spesso, perché Cecily aveva un solo scopo, irritare
incessantemente la passione di quell’uomo senza appagarla, di
esasperarlo praticamente fino alla pazzia, per poter allora eseguire
gli ordini che aveva ricevuti...
Questo momento pareva prossimo.
Il castigo di Jacques Ferrand diventava ogni giorno più degno dei
suoi attentati...
Pativa le pene dell’inferno. Alternativamente assorto, stordito,
fuori di sé, indifferente ai suoi veri interessi, al mantenimento
della propria reputazione di uomo austero, grave e devoto,
reputazione usurpata, ma conquistata a prezzo di lunghi anni di
dissimulazione e di scaltrezza, stupiva i clienti col rifiuto di
riceverli, allontanava brutalmente da sé i preti che, ingannati
dalla sua ipocrisia, erano stati fino ad allora i suoi più fervidi
esaltatori.
Agli opprimenti languori che gli strappavano le lacrime succedevano
momenti in cui dava in escandescenze; quando la sua frenesia
giungeva al culmine, egli cominciava a ruggire nella solitudine e al
buio come una belva; questi accessi di rabbia terminavano con una
specie di doloroso abbattimento di tutto il suo essere; né egli
godeva di quella specie di calma mortale che viene data spesso
dall’annientamento del pensiero; il sangue si era talmente acceso in
quell’uomo in piena maturità da non lasciargli tregua né riposo...
Un ribollimento profondo, torrido, agitava incessantemente il suo
spirito.
Come abbiamo detto, Cecily si stava acconciando per la notte davanti
allo specchio.
A un lieve rumore proveniente dal corridoio, ella voltò la testa
verso la porta.
XIV
LO SPORTELLINO
Nonostante il rumore udito alla porta, Cecily continuò
tranquillamente a prepararsi per la notte. Si tolse dal busto, ove
si era messo quasi a guisa di stecca, uno stiletto lungo circa
quindici centimetri chiuso in un fodero di zigrino nero e con una
piccola impugnatura d’ebano avvolta di fili d’argento, impugnatura
semplicissima, ma molto maneggevole.
Non era un’arma di lusso.
Cecily tolse lo stiletto dal fodero con estrema precauzione e lo
posò sul marmo del caminetto; la lama, della migliore tempra e di
acciaio finissimo, era triangolare, affilatissima; la punta, aguzza
come quella di un ago, avrebbe potuto bucare una moneta senza
spuntarsi.
Essendo impregnato di un veleno sottile e persistente, ogni minima
ferita fatta con quel pugnale diveniva mortale.
Jacques Ferrand un giorno aveva messo in dubbio questa pericolosa
proprietà del pugnale, e allora la creola aveva fatto davanti a lui
in esperimento in anima vili, e cioè sul povero cane di casa che,
colpito leggermente sul naso, cadde a terra e morì tra orribili
convulsioni.
Deposto dunque lo stiletto sul camino, Cecily, toltasi il corpetto
di lana nera, rimase con le spalle, il seno e le braccia nude, come
una donna in abito da ballo.
Secondo l’usanza della maggior parte delle ragazze di colore, ella
portava, al posto del busto, un secondo corpetto di tela doppia che
le stringeva molto la vita; la gonna arancio, restando attaccata
sotto questa specie di camiciola bianca con le maniche corte e molto
scollata, componeva così un abbigliamento molto meno severo del
primo, e si intonava a meraviglia con le calze scarlatte e il
fazzoletto aggiustato così capricciosamente attorno al capo della
creola. Niente di più puro, di più perfetto delle linee delle sue
braccia e delle sue spalle, alle quali due graziose fossette e un
piccolo neo nero, vellutato, civettuolo, conferivano un vezzo di
più.
Un profondo sospiro richiamò l’attenzione di Cecily. Ella sorrise
attorcigliandosi attorno al ditino affilato due o tre riccioli che
le sfuggivano dalle pieghe del fazzoletto.
«Cecily!... Cecily!...» mormorò una voce aspra e nello stesso tempo
lamentosa.
E, attraverso la stretta apertura dello sportellino, si mostrò la
faccia livida e camusa di Jacques Ferrand; le sue pupille
scintillavano nell’oscurità.
Cecily, silenziosa fino a quel momento, cominciò a cantare
dolcemente un’aria creola.
Le parole di questa lenta melodia erano soavi e dense di
significato. Sebbene contenuto, il profondo tono di contralto di
Cecily dominava il rumore dei torrenti di pioggia e delle violente
raffiche di vento che parevano scuotere la vecchia casa fin dalle
fondamenta.
«Cecily!... Cecily!...» ripeté Jacques Ferrand in tono
supplichevole.
La creola si interruppe bruscamente, girò il capo, finse di sentire
per la prima volta la voce del notaio e si avvicinò pigramente alla
porta.
«Come, caro padrone!» così lo chiamava per dileggio, «siete lì?»
fece con un leggero accento straniero che dava maggior fascino alla
sua voce pungente e sonora.
«Oh, quanto siete bella così!» mormorò il notaio.
«Trovate? Davvero?» rispose la creola. «Questo fazzoletto si addice
ai miei capelli neri, vero?»
«Ogni giorno vi trovo più bella.»
«E il mio braccio, guardate com’è bianco.»
«Mostro... vattene! vattene!...» gridò Jacques Ferrand furi-
bondo.
Cecily scoppiò a ridere.
«No, no, soffrire così è troppo... Oh! se non avessi paura della
morte!» esclamò quasi tra sé il notaio; «ma morire è rinunciare a
vedervi, e voi siete così bella!... Preferisco soffrire e
guardarvi.»
«Guardatemi... quello sportellino è fatto apposta... e anche perché
si possa chiacchierare come due buoni amici... e rendere meno
pesante la nostra solitudine... che a dire il vero non è che mi pesi
tanto... Siete un padrone così buono!... Ecco, queste sono le
pericolose confessioni che posso farvi attraverso questa porta...»
«E questa porta, non volete aprirla? Eppure vedete come sono
sottomesso! Stasera avrei potuto tentare d’entrare con voi in camera
vostra, e non l’ho fatto.»
«Siete sottomesso per due ragioni... prima perché sapete che avendo
preso, in conseguenza della mia vita errabonda, l’abitudine di
portare uno stiletto... io maneggio con mano ferma questo gioiello
velenoso, più affilato del dente di una vipera... Sapete anche che
il giorno in cui avessi di che lamentarmi di voi, abbandonerei per
sempre questa casa, lasciandovi mille volte più invaghito... giacché
vi siete compiaciuto di concedere alla vostra umile serva la grazia
d’invaghirvi di lei.»
«La mia serva! sono io che sono il vostro schiavo beffeggiato,
disprezzato...»
«Sì, questo è in parte vero...»
«E questo non vi commuove?»
«Mi distrae... le giornate... e le notti soprattutto... sono così
lunghe!...»
«Oh, maledetta!»
«No, sul serio, avete l’aria così stravolta, i vostri tratti si
alte-
rano talmente che io ne sono lusingata... È un magro trionfo, ma non
ci siete che voi qui...»
«Sentire frasi del genere... e non poter far altro che consumarsi in
una rabbia inutile!»
«Mio Dio, come siete sciocco!!! Forse non vi ho mai detto qualcosa
di più affettuoso...»
«Schernite... schernite...»
«Non vi sto schernendo; non avevo ancora visto un uomo della vostra
età innamorato a tal punto... e, bisogna ammetterlo, un uomo giovane
e bello sarebbe incapace di una passione così violenta. Un Adone
ammira se stesso non meno di quanto ammiri noi... ama
superficialmente... e poi assecondarlo... cosa vi è di più
naturale?... gli è dovuto... mostra a stento un po’ di gratitudine;
ma assecondare uno come voi, padrone mio... oh! sarebbe come alzarlo
dalla terra in cielo, sarebbe esaudire i suoi sogni più pazzi, le
sue speranze più impossibili! Poiché infine, l’essere che vi
dicesse: Amate Cecily perdutamente; se io lo voglio ella sarà vostra
fra un secondo... voi riterreste quest’essere dotato di un potere
soprannaturale... non è vero, caro padrone?»
«Sì! Oh, sì!»
«Ebbene, se voi riusciste a convincermi meglio della vostra
passione, io avrei forse la bizzarra idea di fare presso me stessa,
in vostro favore, questa parte soprannaturale... Capite?»
«Capisco che vi prendete ancora gioco di me sempre e senza pietà!»
«Può darsi... la solitudine fa nascere idee così stravaganti...»
Il tono di Cecily era stato fino ad allora beffardo ma pronunciò
queste ultime parole con un’espressione seria, meditabonda e le
accompagnò con una lunga occhiata che fece trasalire il notaio.
«Tacete! non mi guardate così: mi farete impazzire... Preferirei che
mi diceste: Mai!... Almeno potrei odiarvi, scacciarvi di casa mia!»
gridò Jacques Ferrand che s’abbandonava ancora a una vana speranza.
«Sì, perché io non mi aspetterei niente da
voi. Ma per mia disgrazia, adesso vi conosco abbastanza per sperare,
mio malgrado, che un giorno dovrò forse al vostro ozio o a uno dei
vostri sdegnosi capricci quello che non otterrò mai dal vostro
amore... Mi dite di convincervi della mia passione; non vedete
dunque quanto sono infelice, mio Dio?... Eppure faccio tutto quello
che posso per compiacervi... Volete restare nascosta a tutti, e io
vi nascondo a tutti, forse anche a rischio di compromettermi
gravemente; perché io, in definitiva, non so chi siete; rispetto il
vostro segreto, non ve ne parlo mai... Se vi ho fatto delle domande
sul vostro passato... voi non mi avete risposto...»
«E va bene! ho avuto torto; adesso vi darò una prova di cieca
fiducia, padrone! ascoltatemi, suvvia».
«Un altro amaro scherzo, vero?»
«No... parlo molto seriamente. Bisogna almeno che conosciate la vita
di colei alla quale concedete una così generosa ospitalità...» E
Cecily aggiunse con tono d’ipocrita e lacrimevole compunzione:
«Figlia di un valoroso soldato, fratello di mia zia Pipelet,
ricevetti un’educazione superiore alle mie condizioni; fui sedotta,
e poi abbandonata, da un giovane ricchissimo. Allora, per sottrarmi
alla collera del mio vecchio padre, inflessibile in materia d’onore,
sono fuggita dal mio paese natio...». Poi, scoppiando a ridere,
Cecily soggiunse: «Ecco, così spero, una storiella decente e
soprattutto molto probabile, dal momento che è stata raccontata
spesso. In attesa di qualche rivelazione più piccante, pascete di
questo la vostra curiosità.»
«Ero sicuro che si trattava di un crudele scherzo», disse il notaio,
frenando a stento la sua rabbia. «Nulla vi commuove... nulla... che
bisogna fare? parlate almeno! Vi servo come l’ultimo dei camerieri,
per voi trascuro i miei più cari interessi, non so più quel che
faccio... sono oggetto di stupore e di riso per i miei scrivani... i
miei clienti esitano ad affidarmi le loro pratiche... Mi sono
scontrato con alcune pie persone che frequentavo... non oso pensare
a quel che dice la gente del rovesciamento che hanno subìto tutte le
mie abitudini... Ma voi non sapete, no, non sapete le funeste
conseguenze che questa folle passione che m’ispirate può avere per
me... E queste; non sono prove di devozione, di sacrifici?... Ne
volete altre? parlate! Avete bisogno d’oro? Io non sono così ricco
come mi si crede; ma...»
«E cosa volete che ne faccia io, ora, del vostro oro?» disse Cecily
interrompendo il notaio e alzando le spalle; «per starmene chiusa in
questa stanza, a che mi serve l’oro?... avete ben poca fantasia!»
«Ma non è colpa mia se siete prigioniera... Questa camera non vi
piace? la volete più lussuosa? Parlate, ordinate...»
«A che giova, ve lo ripeto, a che giova?... Oh, se dovessi
aspettarvi un essere adorato... infiammato dall’amore che ispira e
che corrisponde, vorrei oro, seta, fiori, profumi; tutte le
meraviglie del lusso, niente sarebbe troppo sontuoso, troppo bello
per far da cornice ai miei ardenti amori» esclamò Cecily con tali
accenti di passione da far sobbalzare il notaio.
«Ebbene! queste meraviglie del lusso... dite una parola e...»
«A che pro? A che pro? a che serve una cornice senza il quadro?... E
l’essere adorato, dove sarebbe, padrone mio?»
«È vero!» esclamò il notaio amaramente. «Io sono vecchio...
brutto... non posso ispirarvi che disgusto e avversione... Ella mi
opprime col suo disprezzo... si fa gioco di me... eppure io non ho
la forza di cacciarla... Ho solo la forza di soffrire.»
«Oh, l’insopportabile piagnone, oh, lo sciocco personaggio con i
suoi lamenti!» esclamò Cecily con tono beffardo e sprezzante; «non
sa far altro che gemere, disperarsi... è da dieci giorni rinchiuso,
solo, con una giovane donna in fondo a una casa deserta...»
«Ma questa donna mi disprezza... ma questa donna è armata... ma
questa donna si è rinchiusa in una stanza!» gridò il notaio,
infuriato.
«Ebbene, vinci il disprezzo di questa donna; falle cadere il pugnale
di mano; costringila ad aprire la porta che ti separa da lei... e
questo non con la violenza, che sarebbe inutile...»
«E come allora?»
«Con la forza della tua passione...»
«La passione... mio Dio, posso forse ispirarne?»
«Sai che ti dico, che sei proprio un povero notaio bacchetto-
ne... mi fai pena... Devo insegnarti io quel che devi fare? Sei
brutto... sei terribile: si dimenticherà la tua bruttezza. Sei
vecchio... sii energico; si dimenticherà la tua età. Sei
ripugnante... sii minaccioso. Poiché non puoi essere il nobile
cavallo che nitrisce fieramente in mezzo alle sue cavalle
innamorate, cerca di non essere almeno lo stupido cammello che piega
le ginocchia e porge la groppa... sii tigre... una vecchia tigre che
rugge in mezzo alla carneficina conserva ancora la sua bellezza... e
la sua femmina gli risponde dal fondo del deserto...»
A questo linguaggio, non privo di una certa eloquenza naturale e
ardita, Jacques Ferrand trasalì, colpito dall’espressione selvaggia,
quasi feroce, dei tratti di Cecily che, il seno gonfio, le nari
dilatate, la bocca insolente, gli fissava addosso i suoi grandi
occhi neri e ardenti.
Mai gli era parsa più bella...
«Parlate, parlate ancora» esclamò esaltato, «questa volta parlate
seriamente... Oh, se io potessi!...»
«Si può quel che si vuole» disse bruscamente Cecily.
«Ma...»
«Ma io ti dico che per quanto vecchio e disgustoso tu sia... io
vorrei essere al tuo posto e avere da sedurre una donna bella,
ardente e giovane, che la solitudine mi avesse messo tra le braccia,
una donna che comprende tutto... perché forse è capace di tutto...
sì, io la sedurrei. E una volta raggiunto lo scopo, ciò che fosse
stato prima contro di me, tornerebbe a mio vantaggio... Che
orgoglio, che trionfo dirsi: “Ho saputo farmi perdonare la mia età e
la mia bruttezza! L’amore che mi si dimostra, non lo devo alla
pietà, a un capriccio depravato, ma al mio spirito, alla mia
audacia, alla mia energia... lo devo alla mia passione sfrenata...
Sì, e ora, anche se vi fossero qui dei bei giovanotti, pieni di
fascino, questa donna così bella, ch’io ho vinto con le prove
illimitate della mia passione sfrenata, non avrebbe uno sguardo per
nessuno di loro; no... poiché ella saprebbe che quegli eleganti
ganimedi avrebbero paura di compromettere il nodo della loro
cravatta o un ricciolo della loro chioma per obbedire a uno dei suoi
ordini capricciosi... mentre s’ella gettasse il suo fazzoletto in
mezzo alle fiamme, a un suo cenno la vecchia tigre si precipiterebbe
nel falò con un ruggito di gioia”.»
«Sì, io lo farei!... Mettetemi alla prova!» esclamò Jacques Ferrand,
sempre più esaltato.
Cecily continuò avvicinandosi maggiormente allo sportellino e
fissando sul notaio i suoi occhi penetranti:
«Perché questa donna saprebbe bene che quando avesse un capriccio
eccessivo da soddisfare... quei bei giovani baderebbero al loro
denaro se ne avessero o, se non ne avessero, paventerebbero di
commettere un’azione indegna... mentre la sua vecchia tigre...».
«Non baderebbe a nulla, lui, capite? a nulla... Fortuna... onore...
saprebbe sacrificare tutto, lui!»
«Davvero?...» disse Cecily posando le sue belle dita su quelle
ossute e pelose di Jacques Ferrand, le cui mani irrigidite, passate
attraverso allo sportello, stringevano il legno della porta.
Egli sentiva per la prima volta il contatto della pelle fresca e
liscia della creola.
Si fece ancora più pallido, emettendo una specie di rauco fremito.
«E come questa donna non sarebbe appassionata all’estremo?» aggiunse
Cecily. «Se avesse un nemico, lo indicherebbe con lo sguardo alla
sua vecchia tigre, dicendo: “Colpisci...” e...»
«Ed egli colpirebbe!» esclamò Jacques Ferrand cercando di avvicinare
alla punta delle dita di Cecily le sue labbra aride.
«Davvero?... la vecchia tigre colpirebbe?» chiese la creola,
appoggiando delicatamente la sua mano su quella di Jacques Ferrand.
«Per possederti» esclamò lo scellerato, «credo che commetterei un
delitto.»
«Ebbene, padrone...» disse improvvisamente Cecily ritirando la mano,
«ora vattene tu... non ti riconosco più; non mi parevi più così
brutto... come poco fa... vattene.»
Ed ella si allontanò bruscamente dallo sportello.
La detestabile creatura seppe dare al suo gesto e a queste ultime
parole un accento di verità così incredibile; il suo sguardo, a un
tempo sorpreso, ardente e sdegnato, pareva esprimere così
naturalmente il dispetto per aver dimenticato anche solo per un
attimo la bruttezza di Jacques Ferrand, che costui, trasportato da
una pazza speranza, esclamò aggrappandosi alle sbarre dello
sportellino:
«Cecily... torna... torna... ordina... sarò la tua tigre...».
«No, no, padrone...» disse Cecily allontanandosi sempre più. «E per
scongiurare il demonio che mi tenta... canterò una canzone del mio
paese... Padrone, senti?... fuori aumenta il vento, la tempesta si
scatena... che bella notte per due amanti, seduti uno accanto
all’altra davanti a un bel fuoco scoppiettante!...»
«Cecily... torna qui!...» implorò Jacques Ferrand.
«No, no, più tardi... quando potrò farlo senza pericolo... ma la
luce di questa lampada mi ferisce gli occhi... un dolce languore mi
appesantisce le palpebre... Non so che emozione mi agiti... una
semioscurità mi riuscirà più gradita... si direbbe che io sia nel
crepuscolo del piacere...»
E Cecily andò verso il caminetto, spense la lampada, prese una
chitarra attaccata al muro e attizzò il fuoco le cui guizzanti
lingue illuminarono la vasta stanza.
Dallo stretto sportello dove stava immobile, tale era il quadro che
s’offriva a Jacques Ferrand:
In mezzo alla zona luminosa formata dai tremuli bagliori del
focolare, Cecily, in atteggiamento pieno di mollezza e d’abbando-
no, semisdraiata su un ampio divano di damasco color granato,
reggeva una chitarra da cui traeva alcuni armoniosi preludi.
Il fuoco del caminetto gettava i suoi riflessi vermigli sulla
creola, che appariva così vivacemente illuminata in mezzo
all’oscurità del resto della stanza.
Per completare l’effetto di questo quadro, il lettore richiami alla
memoria l’aspetto misterioso, quasi fantastico di una stanza ove la
fiamma del caminetto lotti contro le grandi ombre nere che tremano
sul soffitto e sui muri...
La tempesta aumentava d’intensità, la si sentiva mugghiare fuori.
Mentre traeva i primi accordi sulla chitarra, Cecily fissava
ostinatamente lo sguardo magnetico su Jacques Ferrand che,
affascinato, non la perdeva un attimo di vista.
«Bene, padrone» disse la creola, «ascoltate una canzone del mio
paese; noi non sappiamo comporre versi, diciamo un semplice
recitativo senza rime e tra una pausa e l’altra improvvisiamo alla
buona una cantilena che s’adatti all’idea della strofa; è molto
ingenua, l’intonazione, e di genere pastorale. Vi piacerà, padrone,
ne sono sicura... Questa canzone s’intitola Donna innamorata; è lei
che parla.»
E Cecily cominciò una specie di recitativo molto più marcato
dall’intonazione della sua voce che dalla modulazione del canto.
Qualche accordo dolce e vibrante faceva da accompagna-
mento.
Ed ecco la canzone di Cecily.
Fiori, fiori dappertutto...
Tra poco arriverà il mio amante! L’aspettativa di tanta gioia mi
abbatte e mi sfibra.
Addolciamo la cruda luce del giorno, la voluttà vuole un’ombra
trasparente.
Al fresco profumo dei fiori il mio amante preferisce il mio caldo
alito...
L’abbagliante luce del giorno non gli ferirà gli occhi, poiché le
sue pupille, sotto i miei baci, resteranno chiuse.
Angelo mio, deh vieni!... mi balza il seno, mi si accende il
sangue... Vieni... vieni... vieni...
Queste parole, pronunciate con grande ardore, come se la creola si
fosse rivolta a un amante invisibile, furono quindi, per così dire,
tradotte da lei nel tema di una melodia incantatrice; le sue
dita affusolate traevano dalla chitarra, strumento di solito poco
sonoro, vibrazioni piene di una soave armonia.
Il volto acceso di Cecily, i suoi occhi languidi, umidi, sempre
fissi su quelli di Jacques Ferrand, esprimevano l’ardente
struggimento dell’attesa.
Parole d’amore, musica che inebriava, occhiate appassionate,
bellezza sensualmente ideale, fuori il silenzio, la notte... tutto
in quel momento concorreva a far smarrire la ragione a Jacques
Ferrand.
Così, fuori di sé, egli gridò:
«Grazia, Cecily!... grazia!... c’è da perdere la testa!... Taci, v’è
da morire! Oh, vorrei esser pazzo!...»
«Ascoltate dunque la seconda strofa, padrone» disse la creola
cercando sulla chitarra nuovi preludi.
E continuò il suo recitativo appassionato:
Se il mio amante fosse qui e la sua mano mi sfiorasse lieve la
spalla nuda, un brivido mi percorrerebbe tutta e mi parrebbe di
morire...
Se fosse qui... e i suoi capelli mi sfiorassero la guancia, questa
mia guancia così pallida si farebbe vermiglia...
La mia guancia così pallida si farebbe di fuoco... Anima dell’anima
mia, se tu fossi qui... le mie labbra aride, le mie labbra avide non
direbbero una sola parola...
Vita della mia vita, se tu fossi qui, non sarei certo io che,
spirante... chiederei grazia...
Coloro che amo come io t’amo... io li uccido...
Angelo mio, deh, vieni!... mi balza il seno, mi si accende il
sangue...
Vieni... vieni... vieni...
Se la creola aveva dato alla prima strofa un tono di languore
voluttuoso, in queste parole mise tutto il trasporto dell’amore
primitivo.
E come se la musica fosse incapace di esprimere il suo focoso
delirio, ella gettò lontano da sé la chitarra... e sollevatasi a
metà con le braccia tese verso la porta ove stava ritto Jacques
Ferrand, ella ripeté con voce smarrita, quasi in un soffio:
«Oh, vieni!... vieni... vieni...».
Sarebbe impossibile descrivere lo sguardo magnetico con cui ella
accompagnava queste parole.
Jacques Ferrand lanciò un urlo terribile.
«Oh! la morte... la morte a colui che tu amerai così... a chi dirai
quelle ardenti parole!» gridava scuotendo la porta in un impeto di
gelosia e di pazzo desiderio. «Oh!... la mia fortuna... la mia vita
per un minuto di questa voluttà divoratrice... che tu dipingi con
parole di fuoco.»
Cecily, agile come una pantera, con un salto fu al finestrino; e
quasi riuscisse a stento a reprimere i suoi simulati trasporti,
disse a Jacques Ferrand con voce bassa, cupa, palpitante:
«Ebbene!... te lo confesso... io stessa mi sono accesa al fuoco
della mia canzone. Io non volevo tornare a questa porta... eppure
eccomi qua... mio malgrado... perché odo ancora le tue parole di
poco fa: “Se tu mi dicessi colpisci... io colpirei...”. Mi ami
dunque tanto?»
«Vuoi... dell’oro... tutto il mio oro?...» «No... ne ho...»
«Hai un nemico? io l’uccido.»
«Non ho nemici...»
«Vuoi essere mia moglie? io ti sposo...»
«Sono sposata!...»
«Ma dunque, cosa vuoi?... mio Dio!... che vuoi dunque?» «Provami che
la tua passione per me è cieca, che le sacrifiche-
resti tutto!...»
«Tutto! sì, tutto! ma come?»
«Non so... ma poco fa la luce che splendeva nei tuoi occhi mi
ha abbagliata... Se in quell’istante tu mi avessi dato una di quelle
prove d’amore pazzo che esaltano l’immaginazione di una donna fino
al delirio... io non so di cosa sarei capace!... Ma fai presto! sono
capricciosa, io; domani l’impressione di poco fa si sarà forse
dileguata.»
«Ma che prova posso darti, qui, all’istante?» gridò il miserabile
torcendosi le mani. «È un supplizio atroce! Che prova? Dimmi, che
prova?»
«Sei proprio uno sciocco!» rispose Cecily allontanandosi dallo
sportellino con aria di sdegnoso dispetto e d’irritazione. «Mi sono
sbagliata! ti credevo capace di un energico affetto! Buona notte...
Peccato...»
«Cecily... oh, non te ne andare... ritorna... Ma che devo fare?
dimmelo almeno. La testa non mi regge più... che fare? che devo
fare?»
«Cerca...»
«Mio Dio! mio Dio!»
«Io ero disposta, e anche troppo, a lasciarmi sedurre se tu
l’avessi voluto... Non ritroverai più un’occasione simile.»
«Ma, infine, si dice quel che si vuole!» gridò il notaio quasi
impazzito.
«Indovina...»
«Spiegati... ordina...»
«Eh, se tu mi desiderassi così appassionatamente come dici...
troveresti il modo di persuadermi... Buona notte...» «Cecily!»
«Ora chiudo lo sportellino... invece di aprire la porta...» «Grazia!
ascolta...»
«Per un istante avevo proprio creduto che mi s’accendesse-
ro i sensi... il fuoco si spegne... si sarebbe fatto buio... non
avrei più pensato che alla tua devozione; allora questo
catenaccio... ma no... tu non vuoi... ah! non sai quel che perdi...
Buona notte, sant’uomo...»
«Cecily... ascolta... rimani... ho trovato...» esclamò Jacques
Ferrand, dopo un breve silenzio, con un’esplosione di gioia
indescrivibile.
Lo sciagurato fu allora colpito da un momento di vertigine.
La mente gli si offuscò; in preda ai ciechi e furibondi appetiti del
bruto, dimenticò ogni prudenza... ogni ritegno... l’istinto della
sua conservazione morale l’abbandonò...
«E allora, quale sarebbe questa prova del tuo amore?...» disse la
creola che, essendosi avvicinata al caminetto per prendervi il
pugnale, tornava lentamente verso lo sportellino, dolcemente
illuminata dalla fioca luce del focolare...
Poi, senza che il notaio se ne accorgesse, si assicurò del
funzionamento di una catenella di ferro che terminava con due viti,
di cui una era fissata alla porta e l’altra allo stipite. «Ascolta»
disse Jacques Ferrand con voce rauca e rotta, «ascolta... Se io
mettessi il mio onore... la mia fortuna... la mia vita nelle tue
mani... qui, subito, crederesti che t’amo? Questa prova di folle
passione ti basterebbe, di’?»
«Il tuo onore... la tua fortuna... la tua vita?... Non ti capisco.»
«Se ti svelo un segreto che può farmi andare al patibolo, sarai
mia?»
«Tu... un criminale? Stai scherzando... E la tua austerità?»
«Menzogna...»
«La tua probità?»
«Menzogna...»
«La tua devozione?»
«Menzogna...»
«Passi per un santo, e saresti dunque un demonio! Ti vuoi
dare delle arie... No, non c’è uomo abbastanza abile e scaltro,
abbastanza freddo ed energico, abbastanza fortunato nella sua
audacia da carpire così la fiducia e il rispetto degli uomini...
Sarebbe un diabolico sarcasmo, una terribile sfida gettata in faccia
alla società!»
«Ebbene, io sono quest’uomo... io ho gettato in faccia alla società
questo sarcasmo, questa sfida!» esclamò il mostro in un accesso di
spaventoso orgoglio.
«Jacques!... Jacques!... non parlare così!» disse Cecily con voce
stridula e il seno palpitante; «mi farai impazzire...»
«La mia testa per le tue carezze... vuoi?»
«Ah! ecco infine della vera passione!...» esclamò Cecily, «Ecco...
prendi il mio pugnale... tu mi disarmi...»
Jacques Ferrand prese, attraverso lo sportellino, l’arma pericolosa
con molto precauzione e la gettò lontana nel corridoio.
«Cecily... mi credi dunque?» esclamò con trasporto.
«Sì, ti credo!» rispose la creola appoggiando con forza le sue
deliziose mani su quelle irrigidite di Jacques Ferrand. «Sì, ti
credo... perché ritrovo il tuo sguardo di poco fa, quello sguardo
che mi aveva affascinata... I tuoi occhi scintillano di una luce
selvaggia. Jacques... mi piacciono, i tuoi occhi!»
«Cecily!!!»
«Devi dire la verità...»
«Se dico la verità!... Oh, vedrai!»
«La tua fronte è minacciosa... Il tuo viso terribile... Ecco, sei
spaventoso e bello come una tigre infuriata... Ma dici la verità,
vero?»
«Ho commesso dei delitti, ti dico!»
«Tanto meglio... se con la loro confessione mi provi la tua
passione...»
«E se ti dico tutto?»
«Ti concedo tutto... Perché se tu hai questa fiducia cieca,
coraggiosa... vedi, Jacques... non sarebbe più l’amante ideale della
canzone che io chiamerei. Ma a te... mia tigre... a te... io direi:
“Vieni... vieni... vieni...”»
Nel pronunciare queste parole con espressione accesa e sensuale,
Cecily si fece così vicina, così vicina allo sportellino che Jacques
Ferrand sentì sulla propria guancia il soffio infuocato della creola
e sulle dita pelose il tocco elettrizzante delle sue labbra fresche
e giovani...
«Oh! sarai mia... sarò la tua tigre!» proruppe egli. «E poi, se così
vorrai, potrai disonorarmi, far cadere la mia testa... Il mio onore,
la mia vita, tutto è ormai in... tuo potere...»
«Il tuo onore?»
«Il mio onore! Ascolta. Dieci anni fa, mi erano stati affidati una
bambina e 200.000 franchi a essa destinati. Ho abbandonato la
bambina; l’ho fatta passare per morta mediante un falso atto di
decesso, e mi sono tenuto il denaro...»
«Colpo abilissimo e ardito... Chi se lo sarebbe aspettato da te?»
«Ascolta ancora. Odiavo il mio cassiere... Una sera aveva preso nel
mio studio un po’ di danaro che mi restituì il giorno dopo. Ma io,
per rovinarlo, l’ho accusato di avermi rubato una somma
ragguardevole. Mi hanno creduto; è stato messo in prigione... Ora il
mio onore è alla tua mercè, vedi.»
«Oh!... mi ami... Jacques... mi ami... Svelarmi così i tuoi segreti!
Che potere ho io dunque su di te!... Non sarò ingrata... Porgimi
quella fronte in cui nacquero tanti infernali pensieri... affinché
io la baci...»
«Oh!» esclamò il notaio balbettando «se anche il patibolo fosse qui
davanti... preparato, io non indietreggerei... Ascolta ancora...
Quella bambina ch’io avevo in altri tempi abbandonato, l’ho trovata
ancora sul mio cammino... Temevo che potesse darmi delle noie...
l’ho fatta uccidere...»
«Tu?... E come?... E dove?...»
«Pochi giorni fa... vicino al ponte d’Asnières... all’isola del
Predone... un certo Martial l’ha annegata servendosi di un battello
con una botola... Sono sufficienti questi particolari? Mi crederai,
ora?»
«Oh, demone... dell’inferno... mi atterrisci e nello stesso tempo
m’incanti... Che potere è dunque il tuo?»
«Ascolta ancora... Prima di questo, un uomo mi aveva affidato
100.000 scudi... Io lo trassi in un agguato... gli feci saltare le
cervella... Poi ho dimostrato che si era suicidato, e negai il
deposito che sua sorella reclamava. Ora la mia vita è nelle tue
mani... Apri.»
«Jacques... ti adoro!» disse la creola con esaltazione,
«Ah, vengano pure mille morti... che io le affronterò
intrepidamente!» esclamò il notaio in un inesprimibile stato di
eccitazione. «Sì, avevi ragione; se fossi giovane, bello, non
proverei questa gioia così trionfante... La chiave!... gettami la
chiave!... togli il catenaccio...»
La creola levò la chiave dalla serratura, chiusa dal di dentro, e la
dette al notaio dallo sportellino dicendogli appassionatamente:
«Jacques... sono pazza!...».
«Sei mia infine!» esclamò egli con un ruggito da belva, mentre
faceva febbrilmente girare la chiave nella toppa.
Ma la porta, chiusa col catenaccio, non s’apriva ancora. «Vieni, mia
tigre! Vieni...» disse Cecily col fiato mozzo.
«Il catenaccio... il catenaccio!...» gridò Jacques Ferrand.
«Ma se tu m’ingannassi!...» esclamò tutto a un tratto la creo-
la. «Se questi segreti... tu li avessi inventati per prenderti gioco
di me!...»
Il notaio restò un momento come inebetito. Gli pareva d’esser
prossimo a esaudire ogni suo desiderio; quest’ultimo ostacolo portò
al colmo la sua impazienza.
Si portò rapidamente la mano al petto, si aprì il panciotto, ruppe
con violenza una catenina d’acciaio dalla quale pendeva un piccolo
portafoglio rosso, lo prese e mostrandolo attraverso lo sportellino
a Cecily le disse con voce rauca, affannosa:
«Ecco di che farmi tagliare la testa. Tira il catenaccio, e il
portafoglio è tuo...».
«Da’ qua, mia tigre!» esclamò Cecily.
E tirando con gran rumore il catenaccio con una mano, con l’altra
afferrò il portafoglio...
Ma Jacques Ferrand non glielo abbandonò se non nel momento in cui
sentì la porta cedere sotto la sua spinta...
La porta cedette, è vero, ma non fece che schiudersi di un palmo
circa, trattenuta com’era all’altezza della serratura dalla catena e
dalle viti.
A quest’ostacolo imprevisto, Jacques Ferrand si precipitò contro la
porta e la scosse con uno sforzo disperato.
Cecily, con la rapidità del pensiero, prese il portafoglio tra i
denti, aprì la finestra, gettò in cortile un mantello e con agilità
e coraggio, servendosi di una corda coi nodi, che aveva in
precedenza legata al balcone, si lasciò scivolare dal primo piano
nel cortile, rapida e leggera come una freccia che cade a terra...
Poi, avvolgendosi in fretta nel suo mantello, corse al casottino del
portinaio, l’aprì, tirò il cordone della porta, uscì in strada e
saltò in una carrozza che, da quando Cecily era entrata in casa del
notaio, veniva tutte le sere per ordine del barone di Graün, pronta
per ogni evento, a fermarsi a una ventina di passi dalla casa del
notaio...
Questa carrozza partì al gran trotto, tirata da due vigorosi
cavalli.
Essa fu sul boulevard prima che Jacques Ferrand si fosse accorto
della fuga di Cecily.
Torniamo a quel mostro.
Dallo spiraglio della porta, egli non poteva vedere la finestra di
cui la creola si era servita per preparare e assicurare la propria
fuga.
Con un ultimo colpo dato con forza furibonda con le sue larghe
spalle, Jacques Ferrand fece spezzare la catena che teneva la porta
socchiusa...
Si precipitò nella stanza...
La trovò deserta...
La corda a nodi penzolava ancora fuori dal balcone a cui egli
si affacciò...
Allora dall’altro lato del cortile, al chiarore della luna che
usciva dalle nuvole addensate dal temporale, vide, nell’arco della
volta d’ingresso, il portone aperto.
Jacques Ferrand indovinò tutto.
Gli restava un ultimo barlume di speranza.
Vigoroso e risoluto, scavalcò il balcone, si calò a sua volta nel
cortile mediante la corda e uscì in fretta dalla casa.
La strada era deserta...
Non vide nessuno.
Non sentì altro rumore se non quello, già lontano, della car-
rozza che portava la creola.
Il notaio pensò che fosse qualche carrozza rimasta fuori fino a
tardi e non vi dette alcuna importanza.
Sicché non aveva più alcuna probabilità di ritrovare Cecily,
che portava con sé la prova dei suoi delitti!...
A questa tremenda certezza, cadde come fulminato su un mu-
ricciolo vicino alla porta di casa.
Rimase là a lungo, muto, immobile, impietrito.
Con gli occhi fissi, truci, i denti serrati, la bocca schiumante,
mentre si straziava meccanicamente con le unghie il petto che
cominciava a sanguinargli, sentiva di smarrire la ragione, la
sentiva perdersi in un abisso senza fondo.
Quando uscì da quello stupore, camminava pesantemente e con passo
incerto; gli oggetti gli vacillavano davanti come se uscisse da uno
stato di profonda ubriachezza...
Chiuse violentemente il portone e rientrò in cortile... Non pioveva
più.
Il vento, continuando a soffiare con forza, spingeva innanzi grossi
nuvoloni grigi che velavano, nell’oscurità, il chiarore lunare che
rischiarava, con la sua pallida luce, la casa.
Calmatosi un poco all’aria pungente e fredda della notte, Jacques
Ferrand, nella speranza di combattere la propria agitazione interna
con una rapida passeggiata, s’inoltrò nei viali fangosi del suo
giardino, camminando a passi rapidi, irregolari, e ogni tanto si
portava alla fronte i pugni contratti...
Andando così a caso, giunse in fondo a un viale, vicino a una serra
in rovina.
A un tratto inciampò violentemente contro un mucchio di terra smossa
di recente.
Si chinò, guardò distrattamente e vide dei pezzi di stoffa
insanguinati.
Si trovava vicino alla fossa che Louise Morel aveva scavato per
nascondervi la sua creatura morta...
La sua creatura... che era anche figlio di Jacques Ferrand...
Malgrado il suo cinismo, a onta dei grandi timori che l’agitavano,
Jacques Ferrand rabbrividì di raccapriccio.
V’era qualcosa di fatale in quella combinazione. Perseguitato dalla
punizione vendicatrice della sua lussuria, il caso lo riconduceva
sulla fossa di suo figlio... disgraziato frutto della sua violenza e
della sua lussuria!...
In un’altra circostanza, Jacques Ferrand avrebbe calpestato quel
sepolcro con atroce indifferenza, ma ora, avendo esaurito tutta la
propria selvaggia energia nella scena che abbiamo riferito, si sentì
preso da una debolezza e da un terrore improvvisi...
La fronte gli s’imperlò di un sudore gelido, le ginocchia malferme
gli si piegarono sotto, ed egli cadde come un corpo morto a un lato
di quella tomba ancora aperta.
XV
LA FORCE
... Errore inspiegabile! errore ingiusto! errore crudele! WOLFGANG,
libro II.
Forse qualcuno ci accuserà, per l’importanza data alle scene
seguenti, di minare l’unità del nostro racconto con vari quadri
episodici; a noi pare che, soprattutto in questo periodo in cui
importanti questioni penitenziarie, questioni che sono di generale
interesse per tutta la società, stanno per essere se non risolte (i
nostri legislatori se ne guardano bene), almeno discusse, l’interno
di una prigione, spaventoso caos, lugubre termometro della società,
sarebbe uno studio opportuno.
In breve, ci sono parse degne d’attenzione le diverse fisionomie dei
detenuti di ogni ceto, i legami affettivi o familiari che li
uniscono ancora a quel mondo da cui li separano le mura del carcere.
Ci si scuserà dunque se abbiamo riunito attorno a diversi detenuti,
personaggi già noti di questa storia, altre figure secondarie,
destinate a mettere in azione, in risalto, alcune idee critiche, e a
completare questa iniziazione alla vita del carcere.
Entriamo alla Force.
Non v’è niente di tetro, di sinistro, nell’aspetto di questa casa di
detenzione, situata in rue du Roi-de-Sicile.
Al centro di uno dei primi cortili si scorgono cumuli di terra
piantati ad arboscelli, ai cui piedi spuntano qua e là i verdi
germogli precoci delle primule e dei bucaneve: una scalinata che
culmina in un portico a pergola, ove serpeggiano i ramoscelli nodosi
della vite, conduce a uno dei sette o otto luoghi di passeggio
destinati ai detenuti.
I vasti edifici che circondano questi cortili assomigliano molto a
quelli di una caserma o di una fabbrica molto ben tenuta.
Le loro ampie facciate di pietra bianca sono caratterizzate da alte
e larghe finestre attraverso le quali circola abbondantemente l’aria
fresca e pura. Le pietre e il selciato dei cortili sono di una
pulizia scrupolosa. A pianterreno, grandi sale riscaldate d’inverno,
ben arieggiate d’estate, servono, durante il giorno, da luogo di
conversazione, da laboratorio o da refettorio per i detenuti.
I piani superiori sono riservati a immensi dormitori di tre metri e
più d’altezza con un pavimento in mattoni lucido e pulito; in ogni
dormitorio, due file di letti di ferro, letti ottimi composti da un
sacco, un morbido materasso a molle, un guanciale lungo, lenzuola di
tela bianchissima e una grande coperta di lana.
Alla vista di questi edifici che riuniscono tutte le condizioni del
benessere e della salubrità, si rimane molto sorpresi, abituati come
siamo a considerare le prigioni come antri tristi, sordidi, malsani
e tenebrosi.
Ci inganniamo.
Tristi, sporchi e tenebrosi sono quei bugigattoli dove, come Morel
il tagliatore di pietre preziose, tanti poveri e onesti operai
languono sfiniti, costretti a cedere il proprio giaciglio alla
moglie ammalata e a lasciare con impotente angoscia i figli pallidi
e smunti, affamati, tremare di freddo nella loro paglia infetta.
Lo stesso contrasto lo ritroviamo nella fisionomia degli abitanti di
queste due dimore.
Tormentato di continuo dai bisogni della famiglia, cui egli riesce a
stento a provvedere giorno per giorno, vedendo il proprio salario
divenire sempre più magro a causa di una rovinosa con-
correnza, il laborioso artigiano sarà afflitto, abbattuto, l’ora del
riposo non suonerà mai per lui: una sorta di stanchezza sonnolenta
interromperà il suo eccessivo lavoro. Poi, risvegliandosi da questo
doloroso assopimento, si ritroverà a faccia a faccia con gli stessi
pensieri opprimenti sul presente, con le stesse inquietudini per il
futuro.
Indurito dal vizio, indifferente al passato, felice della vita che
conduce, senza problemi per l’avvenire (che può sempre assicurarsi
con un delitto o un crimine), rimpiangendo forse la libertà, ma
trovando ampi compensi nel benessere materiale di cui gode, sicuro
di poter mettere da parte, per quando uscirà di prigione, una buona
somma di denaro, guadagnata con un lavoro comodo e moderato;
stimato, cioè temuto dai suoi compagni per il suo cinismo e della
sua perversità, il condannato, sarà invece sempre spensierato e
allegro.
E infatti, lo ripetiamo, cosa gli manca?
Non trova forse in prigione un buon ricovero, un buon letto un sano
nutrimento, un salario eccellente,4 un lavoro facile e, soprattutto,
una compagnia di suo gusto, compagnia, ripetiamo, che commisura la
propria considerazione alla gravità dei misfatti?
Un condannato incallito non conosce dunque né la miseria, né il
freddo, né la fame. Che gl’importa l’orrore che suscita nelle
persone dabbene?
Non le vede, non le conosce.
I suoi delitti sono la sua gloria, determinano la sua influenza, la
sua forza presso i malviventi tra i quali passerà ormai la sua vita.
Come potrebbe temere la vergogna?
Invece di serie e caritatevoli rimostranze che potrebbero
costringerlo ad arrossire e pentirsi del passato, sente applausi
feroci che lo incoraggiano al furto e agli omicidi.
Appena in prigione, medita nuovi misfatti.
È molto logico, del resto.
Se viene scoperto, arrestato da capo, ritroverà il riposo, il be-
nessere materiale della prigione e i suoi spensierati e audaci
compagni di delitti e di crapula...
Se invece la sua corruzione è meno grave di quella degli altri, se
manifesta il minimo rimorso, è soggetto ad atroci dileggi, a
infernali urla di scherno, a minacce terribili.
4 Salario eccellente se si pensa che, spesato di tutto, un
condannato può guadagnare da 5 a 10 soldi al giorno. Quanti sono gli
operai che tutti i giorni possono mettere da parte una cifra simile?
Infine, cosa tanto rara da diventare un’eccezione alla regola, se un
condannato esce da questo spaventoso asilo con la ferma volontà di
tornare sulla retta via con prodigi di operosità, di coraggio, di
pazienza e di rettitudine, se è riuscito a nascondere il suo
infamante passato, l’incontro di uno dei suoi vecchi compagni di
carcere è sufficiente per demolire quell’impalcatura di
riabilitazione eretta con tanta fatica.
Ed ecco come:
Un ex galeotto incallito propone un colpo a un antico compagno di
carcere che s’è pentito; quest’ultimo, nonostante le pericolose
minacce, rifiuta quest’associazione a delinquere; subito una
delazione anonima rivela la vita di quest’infelice che voleva a ogni
costo nascondere ed espiare un primo errore con una condotta onesta.
Allora, esposto al disprezzo o quanto meno alla diffidenza di coloro
di cui aveva conquistato la simpatia a forza di duro lavoro e di
probità, ridotto alla miseria inasprito dall’ingiustizia, traviato
dal bisogno, cedendo alle sue funeste ossessioni, quest’uomo quasi
riabilitato ricadrà ancora e per sempre in fondo all’abisso da cui,
con tanta difficoltà, era uscito.
Nelle scene seguenti, cercheremo dunque di dimostrare le mostruose e
inevitabili conseguenze della reclusione in comune.
Dopo secoli di prove barbare, di esitazioni perniciose, sembra che
ormai si comprenda che è illogico tuffare in un’atmosfera
terribilmente viziata delle persone che un’aria pura e salubre
avrebbe potuto salvare.
Quanti secoli per riconoscere che, riunendo gli esseri incancreniti,
si raddoppia l’intensità della loro corruzione, che diviene in tal
modo incurabile!
Quanti secoli per riconoscere che vi è, insomma, un solo rimedio
contro questa lebbra dilagante che minaccia il corpo sociale!...
L’isolamento!...
Ci riterremmo fortunati se la nostra debole voce potesse essere se
non annoverata, almeno udita fra tutte quelle che, più autorevoli,
più eloquenti della nostra, chiedono con giusta e impaziente
insistenza l’applicazione completa, assoluta del sistema cellulare.
Un giorno, forse, la società saprà anche che il male è una malattia
accidentale e non organica; che i delitti sano quasi sempre
sovvertimento d’istinti, d’inclinazioni sempre buone,
essenzialmente, ma falsate, degradate dall’ignoranza, dall’egoismo e
dall’incuria dei governanti, e che la salute dell’anima come quella
del corpo è irriducibilmente subordinata alle leggi di un’igiene
salubre e preservatrice.
Dio dà a tutti organi imperiosi, appetiti energici, desiderio di
benessere; spetta alla società equilibrare e soddisfare queste
esigenze.
L’uomo che non ha avuto in sorte altro che forza, buona volontà e
salute, ha diritto, un sacrosanto diritto, a un lavoro giustamente
retribuito, che gli assicuri non il superfluo, ma il necessario per
restare sano e robusto, attivo e laborioso... pertanto onesto e
buono, in quanto non avrà a lagnarsi della sua condizione.
Le sinistre regioni della miseria e dell’ignoranza sono popolate da
esseri morbosi, dai cuori inariditi. Risanate queste cloache,
diffondetevi l’istruzione, l’amore per il lavoro, equi salari,
giuste ricompense, e ben presto quei visi spenti, quelle anime
intristite rinasceranno al bene, che è la salute, la vita
dell’anima.
Condurremo il lettore al parlatorio della Force.
È una grande stanza oscura, divisa per il lungo in due parti uguali
da uno stretto corridoio di rete metallica.
Una delle parti comunica con l’interno della prigione ed è destinata
ai detenuti.
L’altra comunica con la cancelleria ed è destinata agli estranei
ammessi a visitare i prigionieri.
Gli incontri e le conversazioni si svolgono attraverso la doppia
grata del parlatorio in presenza di un guardiano che sta in fondo al
corridoio, dalla parte interna.
L’aspetto dei prigionieri riuniti in parlatorio, quel giorno,
offriva molti contrasti: alcuni erano coperti di poveri stracci
altri, sembravano appartenere alla classe operaia, altri alla ricca
borghesia.
Lo stesso contrasto di condizione sociale si notava tra le persone
venute a trovare i carcerati; in prevalenza donne.
Generalmente i detenuti hanno l’aria meno triste dei visitatori;
infatti, cosa strana, eppure dimostrata dall’esperienza, è raro che
il dolore o la vergogna resistano a tre o quattro giorni di prigione
passati in comune!
Anche coloro che temevano di più questa disgustosa comunione, vi si
abituano rapidamente; soggiacciono al contagio: circondati da esseri
abbrutiti, esposti a sentire soltanto parole infami, vengono
trascinati a una specie di selvaggia emulazione e, sia per trarre in
inganno i propri compagni gareggiando con essi in cinismo, sia per
stordirsi con questa specie di ubriachezza morale,
quasi sempre i nuovi venuti ostentano la stessa depravazione e
insolente allegria dei vecchi carcerati.
Torniamo al parlatorio.
Nonostante il brusio di diverse conversazioni che si tenevano
sottovoce da un lato all’altro del corridoio prigionieri e
visitatori riuscivano, dopo averci fatto un po’ la pratica, a
parlare tra loro a patto di non lasciarsi assolutamente distrarre
neanche un momento e di non occuparsi del colloquio dei vicini, il
che creava una specie di segretezza in mezzo a quel rumoroso scambio
di parole, essendo costretto, ciascuno, a dare ascolto al proprio
interlocutore, ma a non badare a una sola parola di ciò che si
diceva attorno a lui.
Tra i detenuti chiamati al parlatorio per una visita, il più lontano
dal posto dove sedeva il guardiano era Nicolas Martial.
Al cupo abbattimento da cui era stato preso al momento del suo
arresto era subentrata una cinica sfrontatezza.
La contagiosa e detestabile influenza del carcere dava già i suoi
frutti.
Evidentemente, se fosse stato subito trasferito in una cella
separata, questo sciagurato, ancora sotto lo choc del suo primo
scoramento, solo col pensiero dei suoi delitti, spaventato dalla
punizione che lo attendeva, avrebbe provato, se non del pentimento,
almeno un salutare timore da cui niente l’avrebbe distratto.
E chi può dire gli effetti che può produrre in un colpevole
l’incessante e forzata meditazione sui crimini che ha commesso e
sulla loro punizione?
Lontano da tutto ciò, gettato in mezzo a una turba di delinquenti,
ai cui occhi il minimo segno di pentimento è viltà, o meglio un
tradimento che essi fanno pagare molto caro, dal momento che, nel
loro selvaggio indurimento, nella loro stupida diffidenza, essi
considerano come capace di spiarli qualunque uomo (ammettendo che ve
ne sia qualcuno) che, triste e malinconico, pentitosi del suo
errore, non si associ alla loro audace indifferenza e frema al loro
contatto.
Gettato, come dicevamo, in mezzo a quei delinquenti, Nicolas
Martial, che conosceva da lunga pezza e per tradizione le usanze
delle prigioni, superò la propria debolezza e si sforzò di mostrarsi
degno di un nome già celebre negli annali del ladrocinio e
dell’omicidio.
Alcuni vecchi pregiudicati avevano conosciuto suo padre il
giustiziato, altri il fratello galeotto; egli fu quindi ricevuto e
subito protetto da quei veterani del crimine con feroce premura.
Questa fraterna accoglienza da assassino ad assassino esaltò il
figlio della vedova; lo inebriarono le lodi profuse sulla perversità
ereditaria della sua famiglia. Dimenticando ben presto, in
quell’odioso stordimento, l’avvenire che lo minacciava, non ricordò
i propri misfatti passati che per gloriarsene e persino esagerarli
agli occhi dei suoi compagni.
Tanto insolente era dunque l’espressione di Martial quanto inquieta
e costernata era quella dell’uomo venuto a trovarlo.
Quest’uomo era papà Micou, il ricettatore della galleria della
Brasserie, nella cui casa erano state costrette a rifugiarsi la
signora di Fermont e sua figlia, vittime della cupidigia di Jacques
Ferrand.
Papà Micou sapeva di quali pene era passibile per aver tante volte
acquistato per un pezzo di pane il bottino fatto da Nicolas e da
molti altri nei loro furti.
Con l’arresto del figlio della vedova, il ricettatore si trovava
praticamente nelle mani di questo scellerato, che poteva denunciarlo
come suo compratore abituale. Sebbene quest’accusa non potesse
essere convalidata da prove flagranti, era nondimeno molto
pericolosa e tale da spaventare papà Micou. Per questo egli aveva
immediatamente eseguito gli ordini che Nicolas gli aveva fatto
trasmettere per mezzo di un detenuto che aveva finito di scontare la
sua pena.
«Ebbene, come va, papà Micou?» gli chiese il giovane delinquente.
«Ai vostri ordini, mio bravo giovane» si affrettò a rispondere il
ricettatore. «Appena ho incontrato la persona che mi avevate
mandato, mi sono subito...»
«To’, perché non mi date più del tu, papà Micou?» disse Nicolas
interrompendolo, con aria sardonica. «Forse mi disprezzate... perché
sono nelle peste?...»
«No, ragazzo mio, io non disprezzo nessuno...» disse il ricettatore
che non ci teneva a ostentare la sua passata familiarità con quel
miserabile.
«Ebbene, allora datemi del tu... come il solito, o crederò che non
siate più amico mio, e questo mi spezzerebbe il cuore...»
«E va bene» disse papà Micou sospirando. «Mi sono dunque occupato
delle tue piccole commissioni.»
«Questo sì che si chiama parlare, papà Micou... sapevo che non vi
sareste scordato degli amici. E il mio tabacco?»
«Ne ho depositato due libbre in cancelleria, ragazzo mio.» «È
buono?»
«Del migliore.»
«E il prosciuttino?»
«Depositato anche quello con un pane bianco di quattro libbre:
vi ho aggiunto una piccola sorpresa che non ti aspettavi... una
mezza dozzina di uova sode e una bella forma di formaggio
olandese...»
«Questo si chiama comportarsi da amici! E vino?»
«Ce ne sono sei bottiglie sigillate, ma sai bene che te ne
consegneranno solo una al giorno.»
«Che volete!... bisogna adattarsi.»
«Spero che sarai contento di me, vero ragazzo?»
«Sicuro, e lo sarò ancora, e lo sarò sempre, papà Micou, per-
ché quel prosciuttino, quel formaggio, quelle uova e quel vino non
dureranno che il tempo di buttarli giù... ma, come dice quello,
quando non ce ne sarà più, ce ne sarà ancora, grazie a papà Micou,
che mi darà altre leccornie se starò buono.»
«Come!... vuoi?...»
«Che fra due o tre giorni mi rinnoviate le mie piccole provviste,
papà Micou.»
«Che il diavolo mi fulmini se lo faccio! Una volta va bene...»
«Va bene una volta! ma via, che dite mai, prosciutto e vino vanno
bene sempre, lo sapete meglio di me.»
«Può anche darsi, ma io non sono tenuto a mantenerti a
ghiottonerie.»
«Ah, papà Micou, è una cattiva azione, è ingiusto rifiutare un po’
di prosciutto a me che vi ho portato tante volte della trippa.»5
«Sta’ zitto, disgraziato!» fece atterrito il vecchio.
«No, farò decidere la cosa dal curioso.6 Gli dirò: “Figuratevi che
papà Micou...”»
«Va bene, va bene» gridò l’incettatore, vedendo con timore misto a
collera che Nicolas era decisissimo ad abusare della superiorità che
gli dava la loro complicità, «accetto... ti rinnoverò la provvista
quando sarà finita.»
«È giusto... giusto e niente più... E non dovrete dimenticarvi di
mandare del caffè a mia madre e a Calebasse, che sono a
Saint-Lazare; ne bevevano una tazza tutte le mattine... gli
mancherebbe.»
«Anche questo! ma vuoi rovinarmi, allora, canaglia?»
«Fate come volete, papà Micou... non ne parliamo più... chiederò al
curioso se...»
5 Del piombo rubato. 6 Il giudice.
«Vada dunque per il caffè» disse il ricettatore interrompendolo. «Ma
che il diavolo ti porti!... maledetto il giorno in cui t’ho
conosciuto!»
«Vecchio mio... per me è tutto il contrario... in questo momento
sono felicissimo di conoscervi. Vi venero come foste il mio
balio...»
«Spero che tu non abbia altro da ordinarmi!» riprese papà Micou con
amarezza.
«Sì... dirai a mia madre e a mia sorella che se ho tremato al
momento del mio arresto, ora non tremo più, e sono risoluto al pari
di loro due.»
«Glielo dirò. È tutto?»
«Aspettate. Dimenticavo di chiedervi due paia di calze di lana ben
calde... non vorrete che mi buschi un raffreddore, vero?»
«Vorrei che tu crepassi!»
«Grazie, papà Micou, ma per questo c’è ancora tempo; oggi preferisco
pensare a tutt’altre cose... voglio passarmela bene. Almeno, se mi
accorceranno come mio padre... mi sarò goduto la vita.»
«Bella vita, la tua!»
«Oh, è magnifica! da quando sono qui mi diverto come un re. Se ci
fossero stati lampioncini e razzi, si sarebbero accesi i primi e
tirati i secondi in mio onore, quando si è saputo che ero figlio del
famoso Martial il ghigliottinato.»
«È commovente. Bella parentela!»
«Be’, ci sono duchi e marchesi... perché dunque non dovremmo avere
anche noi la nostra nobiltà?» disse il malvivente con truce ironia.
«Sì... è Charlot7 che ve le dà, sulla piazza del Palazzo di
Giustizia, le vostre lettere di nobiltà.»
«È certo che non è il signor curato; ragione di più; in prigione
bisogna essere della nobiltà dell’alta ladroneria per essere
considerati, altrimenti non ti guardano neanche. Bisogna vedere come
li conciano quelli che non ne fanno parte, che vogliono fare le
persone per bene... Per esempio, c’è qui un certo Germain, un
giovanottello che fa lo schizzinoso e che ha l’aria di disprezzarci.
Stia attento alla pelle! È un tipo sornione, è sospettato di essere
una spia. Se è così, gli si rosicchierà il naso... tanto per
avvisarlo.»
«Germain? quel giovane si chiama Germain?» 7 Il boia.
«Sì... lo conoscete? dunque è della ladroneria? Allora, malgrado la
sua aria da babbeo...»
«Io non lo conosco... ma se è il Germain di cui ho sentito parlare,
è sistemato per le feste.»
«Perché?»
«Tempo addietro, poco mancò che non cascasse in un’imboscata tesagli
dal Velu e dal Gros-Boiteux.»
«E perché gliel’avevano tesa?»
«Non ne so niente. Dicevano che in provincia aveva denunciato8
qualcuno della loro banda.»
«Ne ero sicuro... Germain è un uccello che canta volentieri. Ebbene,
ce lo mangeremo! Lo dirò agli amici... così gli verrà appetito. E
dite, il Gros-Boiteux fa sempre i suoi scherzi malvagi alle vostre
inquiline?»
«Grazie a Dio me ne sono liberato di quel mascalzone! Lo vedrai qui
oggi o domani.»
«Evviva! Che risate, ci faremo! Quello è un altro che non fa certo
lo schizzinoso!»
«È proprio perché ritroverà qui Germain... che ti ho detto che il
giovanotto è sistemato per le feste... se è quello...»
«E perché lo hanno pizzicato, il Gros-Boiteux?»
«Per un furto commesso con un ex galeotto che voleva restare onesto
e lavorare. Sì, figuriamoci! Il Gros-Boiteux l’ha tirato dentro fino
agli occhi. È talmente scaltro quel mascalzone! Sono sicuro che è
stato lui a forzare il baule delle due donne che occupano nel mio
casamento il locale al quarto piano.»
«Che donne? Ah, sì... due donne, delle quali la più giovane vi
infiammava il cuore, vecchio brigante, tanto la trovavate bella.»
«Ormai non infiammeranno più il cuore a nessuno. La madre deve
essere morta, a quest’ora, e la figlia deve essere a buon punto. Ci
perderò mezzo mese di affitto; ma che il diavolo mi porti se do
anche soltanto uno straccio per seppellirle! Ne ho avuto ab-
8 Ci si ricorderà che Germain, tirato su da un amico di suo padre,
il Maître d’école, che voleva farne un criminale, essendosi
rifiutato di favorire un furto che si voleva commettere presso il
banchiere presso cui lavorava, a Nantes, aveva avvertito il padrone
di quanto si tramava contro di lui e si era rifugiato a Parigi.
Qualche tempo dopo, avendo incontrato in questa città il miserabile
di cui non aveva voluto essere complice a Nantes, Germain, spiato da
questi, aveva rischiato di restare vittima di un’imboscata notturna.
Per sottrarsi ad altri rischi aveva così lasciato rue du Temple e
aveva tenuto segreto il suo nuovo domicilio.
bastanza di perdite, senza contare le chicche che tu mi preghi di
fornire a te e alla tua famiglia; questo dà il colpo di grazia ai
miei affari. Peggio di così non poteva andare quest’anno...»
«Via, via, vi lamentate sempre, papa Micou, e siete ricco come un
Creso! Ma non voglio trattenervi oltre.»
«Ringraziamo Iddio!»
«Verrete a darmi notizia di mia madre e di Calebasse, vero, quando
mi porterete le altre provviste?»
«Sì... per forza...»
«Ah, dimenticavo... mentre ci siete, compratemi una berretta nuova
di velluto scozzese, con una nappa; la mia non è più portabile.»
«Oh, ma insomma, vuoi proprio scherzare!»
«No, papà Micou, voglio una berretta di velluto scozzese. Ci tengo
tanto.»
«Ma ti accanisci proprio a mandarmi sul lastrico?»
«Suvvia, papà Micou, non vi riscaldate, è sì o no. Io non vi
costringo... ma... basta...»
Il ricettatore, riflettendo che era nelle mani di Nicolas, si alzò,
temendo d’essere assalito da nuove richieste se fosse rimasto lì
ancora un po’.
«Avrai la tua berretta» disse; «ma bada, se mi chiederai ancora
dell’altro, non ti darò più niente. Succeda quel che succeda; ci
perderai quanto me.»
«State tranquillo, papà Micou, vi farò cantare9 quel tanto che basta
per non farvi perdere la voce; infatti sarebbe un peccato, cantate
tanto bene.»
Il ricettatore uscì alzando le spalle con collera e il guardiano
fece rientrare Nicolas dentro il carcere.
Mentre Micou lasciava il parlatorio destinato ai detenuti, Rigolette
vi entrava.
Il guardiano, ex soldato di una quarantina d’anni, d’aspetto rude ed
energico, indossava una casacca, un berretto e un paio di pantaloni
blu; sul colletto e sulle mostre della giacchetta erano ricamate due
stelle d’argento.
Vedendo la sartina, il viso di quest’uomo s’illuminò e assunse
un’espressione affettuosa e benevola. Egli era sempre stato colpito
dalla grazia, dalla gentilezza e dalla bontà commovente con cui
Rigolette consolava Germain quando veniva al parlatorio a trovarlo.
9 Costringere a sborsare del denaro con la minaccia di fare
rivelazioni.
Germain, dal canto suo, era un carcerato fuori dell’ordinario; il
suo riserbo, la sua dolcezza e l’evidente mestizia ispiravano un
vivo interesse agli addetti alla prigione; interesse che si
guardavano bene dal manifestargli, per timore di esporlo ai
maltrattamenti dei suoi orribili camerati che, abbiamo detto, lo
guardavano con odio e diffidenza. Fuori pioveva a dirotto, ma grazie
alle alte calosce e all’ombrello, Rigolette aveva coraggiosamente
affrontato il vento e la pioggia.
«Che giornataccia, mia povera signorina!» le disse il guardiano con
affetto. «Bisogna esser proprio buoni per uscire con un tempo
simile!»
«Quando per tutta la via si pensa al piacere che si procurerà a un
povero carcerato, non si bada al tempo, ve lo assicuro!»
«Non ho bisogno di chiedervi chi venite a trovare...» «Sicuro... E
come va il mio povero Germain?»
«Eh, cara signorina, ne ho visti io di detenuti; erano tristi per
un giorno o due, e poi a poco a poco si mettevano al passo con gli
altri; quelli che da principio si erano mostrati più addolorati,
finivano spesso per diventare i più allegri di tutti... Ma il signor
Germain non è di questi, e ha l’aria sempre più abbattuta.»
«È questo che più mi addolora.»
«Quando sono di servizio in cortile, lo spio con la coda dell’occhio
e lo vedo sempre solo... Ve lo dissi già, dovreste raccomandargli di
non isolarsi così... di sforzarsi e parlare con gli altri; finirà
con l’essere la loro pecora nera. I cortili sono sempre sorvegliati,
ma si fa presto a giocare un brutto tiro a qualcuno.»
«Oh, mio Dio! Ditemi, c’è forse un nuovo pericolo per lui?» esclamò
Rigolette.
«Non proprio; ma quei furfanti vedono bene che non è dei loro e lo
odiano perché ha l’aspetto onesto e sostenuto.»
«Eppure gli avevo tanto raccomandato di fare quel che mi dite, di
cercare di parlare coi meno malvagi; ma è più forte di lui, non
riesce a vincere la sua ripugnanza.»
«Ha torto... ha torto... si fa presto a suscitare una rissa.»
«Mio Dio! Mio Dio! ma non si può separarlo dagli altri?» «Dopo due o
tre giorni che m’ero accorto delle loro cattive
intenzioni nei suoi confronti, gli avevo consigliato di mettersi in
quelle che noi chiamiamo le celle a pagamento.»
«Ebbene?»
«Non avevo pensato a una cosa... nei lavori di riparazione che si
stanno facendo al carcere è compresa tutta una fila di celle, e le
altre sono occupate.»
«Ma quei delinquenti sono capaci di ucciderlo!» esclamò Rigolette, i
cui occhi si erano riempiti di lacrime. «E se per caso avesse dei
protettori, cosa potrebbero fare per lui?»
«Nient’altro che fargli ottenere quello che ottengono i detenuti che
possono pagarsela, e cioè una cella separata.»
«Ahimè!... allora è perduto, se nella prigione prendono a
odiarlo...»
«Rassicuratevi, veglieremo tutti... Ma, ve lo ripeto, mia cara
signorina, consigliategli di familiarizzarsi un po’... è soltanto il
primo passo che costa tanto caro!»
«Glielo raccomanderò con tutte le mie forze; ma per un cuore buono e
onesto è duro, sapete, familiarizzarsi con gente simile.»
«Di due mali bisogna scegliere il minore. Via, vado a far chiamare
il signor Germain. Ma aspettate un po’, ora che ci penso» disse il
guardiano cambiando idea «non vi sono più che due visitatori...
lasciate che se ne vadano... per oggi non ne verranno altri... ormai
sono le due... farò avvertire il signor Germain; parlerete con più
comodo... Potrò anche, quando sarete soli, farlo passare nel
corridoio, in modo che sarete separati da una grata sola invece che
da due: è pur sempre qualcosa.»
«Ah, signore, quanto siete buono... vi ringrazio di tutto cuore.»
«Zitta! non fatevi sentire, o nasceranno delle gelosie. Sedetevi
laggiù in fondo alla panca; non appena quella donna e quell’uomo se
ne saranno andati, avviserò il signor Germain.»
Il guardiano tornò al suo posto all’interno del corridoio; Rigolette
andò a mettersi tristemente all’estremità della panca dove sedevano
i visitatori.
Mentre la sartina attende l’arrivo di Germain, faremo assistere il
lettore, successivamente, al colloquio dei prigionieri che erano
rimasti nel parlatorio dopo la partenza di Nicolas Martial.
PARTE OTTAVA
I PIQUE-VINAIGRE
Il detenuto che si trovava accanto a Barbillon era un uomo di circa
quarantacinque anni, gracile, smunto, con un viso sveglio, gioviale
e beffardo; aveva una bocca enorme, quasi completamente sdentata;
non appena parlava, la contorceva da destra a sinistra, secondo
l’usanza abbastanza diffusa tra la gente abituata a rivolgersi alla
plebaglia nelle strade; il naso era schiacciato; la testa enorme,
sproporzionata, quasi completamente calva; portava un vecchio
panciotto di maglia grigia, un paio di pantaloni dal colore
indefinibile, laceri e rattoppati in mille punti; i suoi piedi nudi,
rossi per il freddo, mezzo avviluppati in vecchi cenci, erano
calzati da un paio di zoccoli.
Costui, un certo Fortuné Gobert, soprannominato Pique-Vinaigre, ex
giocatore di bussolotti, aveva già scontato, a suo tempo, una pena
per aver spacciato moneta falsa, e ora era accusato di aver
illecitamente abbandonato il confino e di furto con scasso.
Incarcerato da pochissimi giorni alla Force, Pique-Vinaigre
assolveva già, con generale soddisfazione dei suoi compagni di
prigione, al compito di narratore.
Al giorno d’oggi i narratori sono molto rari; ma un tempo ogni
camerata aveva, pagando un piccolo contributo a testa, il suo
narratore ufficiale il quale, con le sue storie improvvisate, faceva
sembrare meno lunghe le interminabili serate d’inverno, quando i
detenuti andavano a letto all’imbrunire.
Se è già abbastanza strano segnalare questo bisogno di favole, di
racconti commoventi, che si riscontra in questi disgraziati, vi è
una cosa che può presentare un interesse ancora maggiore agli occhi
dei pensatori; ed è che questa gente corrotta fino al midollo,
questi ladri, assassini, preferiscono le storie in cui siano
espressi sentimenti generosi, eroici, in cui la bontà e la debolezza
sono vendicate di un’oppressione crudele.
Lo stesso succede tra le prostitute: esse prediligono in maniera
particolare la lettura di romanzi ingenui, commoventi e
sentimentali, mentre disdegnano quasi sempre le letture oscene.
Non sono forse l’istinto naturale del bene, unito alla necessità di
sottrarsi col pensiero a tutto ciò che ricorda loro l’avvilimento in
cui vivono, a determinare in quelle infelici le simpatie e le
antipatie intellettuali che abbiamo appena accennato?
Pique-Vinaigre eccelleva dunque in quel genere di racconti eroici in
cui la debolezza, dopo mille traversie, finiva col trionfare del suo
persecutore. Pique-Vinaigre possedeva inoltre una notevole dose
d’ironia che gli aveva procurato il suo nomignolo; le sue risposte
erano spesso sardoniche o facete.
Era appena entrato nel parlatorio.
Davanti a lui, dall’altra parte della griglia, stava una donna di
circa trentacinque anni, dal volto pallido, dolce e interessante,
vestita poveramente, ma pulita. Ella piangeva amaramente, tenendosi
il fazzoletto sugli occhi.
Pique-Vinaigre la guardava con un misto d’impazienza e d’affetto.
«Su, da brava, Jeanne» le disse, «non fare la bambina; sono sedici
anni che non ci vediamo, ma se continui a tenere il fazzoletto sugli
occhi non potremo certo darci una bell’occhiata in faccia.»
«Fratello mio, mio povero Fortuné... soffoco... non ce la faccio a
parlare...»
«Ma sai che sei buffa! Si può sapere cos’hai?»
Sua sorella, poiché quella donna era sua sorella, frenò i
singhiozzi, si asciugò le lacrime e guardandolo con stupore,
soggiunse:
«Che cos’ho? Ma come! Ti ritrovo in prigione, dopo che avevi già
scontato quindici anni!...».
«È vero; oggi fanno sei mesi da quando sono uscito dalla centrale di
Melun... senza venire a trovarti a Parigi, perché mi era proibito
soggiornare nella capitale...»
«Già in prigione un’altra volta! Che cosa hai fatto di nuovo, mio
Dio! Perché hai lasciato Beaugency, dove ti avevano mandato sotto
sorveglianza?»
«Perché! Bisognerebbe chiedermi perché ci sono andato.» «Hai
ragione.»
«Innanzi tutto, mia cara Jeanne, dal momento che fra noi due
ci sono queste due grate, immaginati che io t’abbia baciata e
abbracciata come si deve fare quando si rivede la propria sorella
dopo un’eternità. E ora parliamo. Un detenuto di Melun, sopran-
nominato Gros-Boiteux, mi aveva detto che a Beaugency c’era un ex
forzato di sua conoscenza che impiegava ex galeotti in una fabbrica
di biacca. Sai cosa significa fabbricare la biacca?»
«No, fratello mio.»
«Oh, è un gran bel mestiere; quelli che lo fanno in capo a un mese o
due si prendono la colica di piombo. Su tre che hanno la colica, uno
crepa. Bisogna essere giusti, però; crepano anche gli altri due, ma
con più comodo, con calma, se la godono e intanto durano circa un
anno, diciotto mesi al massimo. A parte questo, ti pagano meglio che
per altri lavori; e vi sono tipi nati con la camicia che resistono
due o tre anni. Ma quelli sono gli anziani, i centenari dei
lavoranti di biacca. Insomma, si muore, è vero, ma il lavoro non è
faticoso.»
«E perché ti sei scelto un mestiere così pericoloso da morirne, mio
povero Fortuné?»
«Cosa volevi che facessi? Quando sono entrato a Melun per quella
faccenda dei soldi falsi, ero giocatore di bussolotti. Poiché in
prigione non potevo esercitare questo mio mestiere, e poiché non
sono più forte di una pulce, mi misero a fare giocattoli per
bambini. Era un fabbricante di Parigi che trovava più conveniente
far fare dai detenuti i suoi burattini, le trombette di legno, le
sciabole. Così è il caso di dirlo: Sciabola di legno! ne ho
affilati, bucati e tagliati in quindici anni di quei giocattoli!
Sono sicuro di averne rifornito i monelli di tutto un quartiere di
Parigi... mi piaceva soprattutto fare le trombette. E le raganelle!
con due di quegli strumenti si sarebbero fatti digrignare i denti a
tutto un battaglione, te lo dico io. Finita di scontare la pena,
eccomi diventato maestro di trombette da due soldi. Mi fanno
scegliere, per mia residenza, tra tre o quattro borghi a
centosessanta chilometri da Parigi: io avevo, per tutta risorsa, la
mia abilità nel far giocattoli... ora, ammettendo che dai vecchi
fino ai marmocchi, tutti gli abitanti del borgo avessero avuto la
Passione di fare pereppeppé nelle mie trombette, avrei sempre
stentato a fare le spese: ma non potevo suggerire a tutta una
borgata di strombettare dalla mattina alla sera. Mi avrebbero preso
per un intrigante.»
«Mio Dio, hai sempre voglia di ridere.»
«È meglio che piangere, no? Alla fine, rendendomi conto che a
centosessanta chilometri da Parigi il mio mestiere di giocatore di
bussolotti non avrebbe costituito maggior risorsa che il far
trombette, chiesi la sorveglianza a Beaugency, con intento di
entrare nella fabbrica di biacca. È una pasticceria che dà
indigestioni di miserere; ma finché uno non ne crepa, ci vive, c’è
sempre
questo di guadagnato, e io preferivo quel mestiere là a quello del
ladro; per rubare non sono né abbastanza coraggioso né abbastanza
forte, ed è per puro caso che ho commesso il fatto che ti racconterò
tra poco.»
«Anche se tu fossi stato coraggioso e forte, per istinto non saresti
stato lo stesso un ladro.»
«Ah, lo credi proprio?»
«Sì, fondamentalmente non sei cattivo; in quella disgraziata
faccenda delle monete false ti ci hanno trascinato tuo malgrado,
quasi con la forza, lo sai bene.»
«Sì, ragazza mia; ma vedi, quindici anni in carcere ti anneriscono
un uomo come questa pipa, anche nel caso che fosse entrato in
prigione bianco come una pipa nuova. Uscendo da Melun, mi sentivo
troppo fifone per rubare.»
«E avevi il coraggio di iniziare un mestiere mortale. Va’ là,
Fortuné, io ti dico che vuoi mostrarti più cattivo di quel che sei.»
«Aspetta dunque; per quanto mingherlino, mi ero messo in testa, il
diavolo mi porti se so il perché!, che avrei fatto gli sberleffi
alla colica di piombo, che la malattia avrebbe trovato troppo poco
da rosicchiare su di me e se ne sarebbe andata altrove, infine, che
sarei diventato uno dei vecchi operai della fabbrica di biacca.
Uscendo di prigione comincio a scialacquare il mio gruzzoletto,
aumentato, ben inteso, da quel che avevo guadagnato rac-
contando storie, tutte le sere, alla camerata.»
«Come le raccontavi a noi, un tempo, caro fratello. La nostra
povera mamma si divertiva tanto, ti ricordi?»
«Eccome! Povera donna! E, prima di morire, non ha mai du-
bitato ch’io fossi a Melun?»
«Mai: sino all’ultimo ha creduto che tu fossi passato alle isole.»
«Che vuoi, figliola, la colpa delle mie sciocchezze è di mio pa-
dre, che mi aveva tirato su per fare il pagliaccio, per aiutarlo nei
suoi giochi di bussolotti, mangiar stoppa e sputar fuoco; così non
avevo tempo di frequentare dei figli di pari di Francia e ho fatto
delle pessime conoscenze. Ma per tornare a Beaugency, una volta
uscito da Melun, comincio con lo scialacquare il mio gruzzoletto,
com’era giusto. Dopo quindici anni passati in gabbia, bisogna pure
prendere un po’ d’aria e svagarsi qualche giorno. Tanto più che,
senza esser troppo goloso, la biacca poteva procurarmi un’ultima
indigestione, e allora a cosa mi sarebbe servito il denaro messo
assieme in prigione, ti pare? Alla fine arrivo a Beaugency quasi
senza una lira; chiedo di Velu, l’amico di Gros-Boiteaux, il capo
della fabbrica. Servo vostro! niente più fabbrica, sparita; vi
erano morte undici persone nel corso dell’anno; l’ex forzato aveva
chiuso i battenti. Eccomi così, in quel borgo, sempre con la mia
abilità nel far trombette di legno come unica risorsa e il mio
marchio di ex galeotto come referenza. Cerco di trovare un lavoro
adatto alle mie forze, ma tu puoi capire come mi ricevono: ladro di
qua, canaglia di là, avanzo di galera! In conclusione, appena mi
vedevano comparire da qualche parte, tutti si mettevano le mani
sulle tasche. Non potevo dunque far altro che morire di fame in un
buco simile, che non avrei dovuto lasciare prima di cinque anni.
Visto come stanno le cose, rompo il mio confino per venire a Parigi
a trarre profitto da quel che so fare. Poiché non avevo certo di che
venir fin qua in carrozza a quattro cavalli, sono venuto accattando
e mendicando per tutta la strada, evitando i gendarmi come un cane
scansa le bastonate. Avevo avuto fortuna, ero arrivato senza intoppi
fino nelle vicinanze di Auteuil. Ero sfinito, avevo una fame del
diavolo, ero vestito come vedi, senza lusso.»
E Pinque-Vinaigre gettò un’occhiata beffarda ai propri stracci.
«Non avevo in tasca una lira, potevo essere arrestato come
vagabondo. Che diamine, mi si è presentata un’occasione, il diavolo
mi ha tentato, e malgrado la mia vigliaccheria...»
«Basta, fratello, basta» disse sua sorella temendo che il guardiano,
sebbene in quel momento molto lontano da Pique-Vinaigre, potesse
sentire questa pericolosa confessione.
«Hai paura che qualcuno ascolti?» riprese egli. «Stai tranquilla,
non ne faccio un mistero, sono stato colto sul fatto, non c’era modo
di negare; ho confessato tutto, so quel che mi aspetta; sono
sistemato per le feste.»
«Mio Dio! Mio Dio!» esclamò la povera donna piangendo, «con che
sangue freddo ne parli!»
«Perché, se ne parlassi a sangue caldo che cosa ci guadagnerei? Via,
cerca di essere ragionevole, Jeanne; devo esser io a consolarti?»
Jeanne si asciugò le lacrime e sospirò.
«Per tornare al mio colpo» riprese Pique-Vinaigre, «ero arrivato
vicino ad Auteuil sull’imbrunire. Non ne potevo più; non volevo
entrare in Parigi che a notte fatta; così mi ero seduto dietro a una
siepe per riposarmi e riflettere sul mio piano d’azione. A forza di
riflettere, finii con l’addormentarmi; mi desta un rumore di voci;
ormai si era fatta notte; ascolto... un uomo e una donna parlavano
sulla via, dall’altra parte della siepe. L’uomo diceva alla donna:
“Chi vuoi che pensi di venire a rubare da noi? Non abbiamo lasciato
tante volte la casa sola?” “Sì” risponde la donna, “ma
non avevamo cento franchi nel cassettone.” “E chi lo sa questo,
scimunita?” ribatte il marito. “Hai ragione” risponde la moglie, e
quelli se ne vanno. In fede mia, l’occasione mi sembrava troppo
bella per perderla. Non c’era alcun pericolo. Aspetto che l’uomo e
la donna siano un po’ più lontani per uscire dalla siepe; guardo a
venti passi di là, e vedo una casupola di contadini. Quella doveva
essere la casa dei cento franchi, era l’unica bicocca sulla strada,
Auteuil era a cinquecento passi di lì. Mi dico: “Coraggio, vecchio
mio, non c’è anima viva, è notte; se non ci sono cani da guardia (tu
sai che ho sempre avuto paura dei cani), l’affare è fatto”. Per
fortuna non c’erano cani. Per essere più sicuro, busso alla porta,
niente... ciò mi dà coraggio. Le imposte a pianterreno erano chiuse,
v’infilo il mio bastone, le forzo, entro dalla finestra in una
stanza; nel caminetto c’era ancora un po’ di fuoco, che mi dà luce;
vedo un cassettone cui era stata tolta la chiave; prendo le molle,
forzo i cassetti e sotto un mucchio di biancheria trovo il malloppo
avvolto in una vecchia calza di lana; non mi gingillo a prendere
altre cose; salto dalla finestra e cado... indovina dove? Questa sì
che si chiama fatalità!»
«Mio Dio! Dove?»
«Sulla schiena della guardia campestre che rientrava al villaggio.»
«Che sfortuna!»
«Si era levata la luna: quello mi vede uscire dalla finestra; mi
acchiappa. Era un tizio che avrebbe potuto mangiarsene dieci come
me... Troppo vigliacco per resistere, mi rassegno. Avevo ancora la
calza in mano; sente tintinnare i soldi, prende il tutto, lo mette
nella sua borsa e mi costringe a seguirlo ad Auteuil. Arriviamo dal
sindaco con tutto un codazzo di monelli e di gendarmi; qualcuno va a
casa dei proprietari ad aspettare che rientrino; questi, al ritorno,
fanno la loro dichiarazione... Non era possibile negare; confesso
tutto, firmo il processo verbale, mi mettono le manette, e via...»
«Ed eccoti in prigione un’altra volta... magari per un pezzo, eh?»
«Ascolta, Jeanne, non voglio ingannarti, ragazza mia; tanto vale
dirtelo subito...»
«Ohimè, che c’è ancora?...»
«Su, coraggio!...»
«Ma parla, dunque!»
«Ebbene! non si tratta più di prigione...» «Come sarebbe a dire?»
«A causa della recidiva, dell’abbandono di confino e del furto con
scasso, di notte, in una casa abitata... l’avvocato me l’ha detto:
mi sono messo in un grosso pasticcio... ne avrò per quindici o
vent’anni di penitenziario in un porto. E per completare il tutto,
sarò anche messo alla gogna.»
«Condannato a remare sulle galere! Ma tu, così debole, ci morirai!»
esclamò la povera donna singhiozzando.
«E se mi facevo assumere alla fabbrica di biacca?...»
«Ma le galere, mio Dio! le galere!»
«È la prigione all’aria aperta, con una giacca rossa invece che
grigia; e poi mi sarebbe sempre piaciuto vedere il mare... Che
stupido parigino sono io, vero?»
«Ma la gogna... povero infelice!... Essere là esposto al disprezzo
di tutti... Ah, mio Dio! mio Dio! Mio povero fratello...»
E la sventurata ricominciò a piangere.
«Su, su, Jeanne cerca di ragionare... è un brutto quarto d’ora da
passare e poi credo che si stia anche seduti... E del resto, non
sono forse abituato a vedere la folla? Quando facevo il giocatore di
bussolotti, avevo sempre un mucchio di gente attorno a me; farò
finta di essere ancora giocoliere, e se la cosa mi dà troppo
fastidio, chiuderò gli occhi; sarà proprio come se nessuno mi
vedesse.»
Parlando con tanto cinismo quell’infelice voleva non tanto dar prova
di insensibilità da criminale, quanto consolare e tranquillizzare la
sorella con quella sua aria d’indifferenza.
Per un uomo abituato alla vita del carcere, e in cui è
necessariamente morto ogni senso di vergogna, la pena da scontare
sulle galere non è, in effetti, che un cambiamento di condizione, un
cambiamento di giacchetta, come diceva Pique-Vinaigre con crudo
verismo.
Anzi, molti detenuti delle carceri centrali preferiscono la condanna
alle galere a causa della vita movimentata che vi si conduce, e così
commettono spesso dei tentativi di omicidio per essere mandati a
Brest o a Tolone.
E ciò è comprensibile: prima d’entrare al penitenziario, avevano
quasi altrettanto lavoro, secondo il loro mestiere.
La condizione dei più onesti operai dei porti non è meno dura di
quella dei forzati; entrano alle fabbriche e ne escono alle stesse
ore, e i giacigli su cui riposano le membra spossate dalla fatica
spesso non sono migliori di quelli della ciurma di forzati della
galera.
Sono liberi! obietterà qualcuno.
Sì, liberi... un giorno... la domenica, e la domenica è giorno di
riposo anche per i forzati.
Ma quelli non hanno la vergogna, il marchio d’infamia. E che cosa
volete che siano la vergogna e il marchio d’infamia per quegli
sciagurati che, ogni giorno, si fanno sempre più nera l’anima in
quella fornace infernale, che raggiungono tutti i gradi dell’infamia
in quella scuola di mutua perdizione, dove i più delinquenti sono i
più stimati?
Tali sono dunque le condizioni dell’attuale sistema penale.
L’incarcerazione è ricercatissima.
I lavori forzati... spesso richiesti...
«Dio, Dio!» ripeteva la povera sorella di Pique-Vinaigre.
«Vent’anni di penitenziario.»
«Ma calmati, Jeanne; non m’infliggeranno una pena che io
non possa reggere, sono troppo debole per essere messo ai lavori in
cui si richieda della forza... Se non ci sono fabbriche di trombette
e di sciabole di legno come a Melun, mi assegneranno i lavori più
leggeri, m’impiegheranno all’infermeria; non sono un tipo
recalcitrante, sono un buon figliolo, racconterò delle storie come
le racconto qui; mi farò adorare dai miei superiori, e stimare dai
miei compagni; ti manderò noci di cocco scolpite e scatolette di
paglia per i miei nipotini e le mie nipotine. Insomma ormai il vino
è mesciuto, e bisogna bere.»
«Se solo mi avessi scritto che venivi a Parigi, avrei cercato di
nasconderti e alloggiarti in attesa che tu trovassi lavoro.»
«Diamine! contavo bene di venire da te, ma preferivo arrivarci con
le mani piene; poiché, del resto, mi par di vedere dai tuoi vestiti
che neanche tu sguazzi nell’oro. Ma dimmi, i tuoi figli, e tuo
marito?»
«Non mi parlare di lui.»
«Sempre gozzovigliatore! Peccato. Resta però pur sempre un buon
operaio.»
«Me ne fa passare di quelle... Ti dico io che avevo già abbastanza
dolori anche senza quello che tu mi dai ora...»
«Come! Tuo marito...»
«Da tre anni mi ha abbandonata, dopo aver venduto tutta la roba di
casa, lasciandomi coi miei figli senza niente, senza altra mobilia
che il mio pagliericcio.»
«Non me l’avevi detto!»
«A che sarebbe servito, ad addolorarti e nient’altro.» «Povera
Jeanne! E come hai fatto, tutta sola con i tuoi tre fi-
gli?»
«Eh, ho penato tanto; lavoravo a casa come frangiaia, quel tanto che
potevo; le vicine mi aiutavano un po’, guardavano i bambini quando
uscivo; e poi, io che di solito non sono troppo fortunata, lo sono
stata una volta in vita mia, ma non ho potuto trarne vantaggio, per
colpa di mio marito...»
«E perché?»
«Il mio merciaio aveva parlato dei miei guai a una sua cliente,
raccontandole come mio marito mi avesse lasciata senza niente, dopo
aver venduto tutta la roba di casa, e che nonostante ciò io lavoravo
con tutte le mie forze per allevare i miei figli; un giorno,
rincasando, che cosa trovo? Tutta la mia casa ammobiliata di nuovo,
un buon letto, dei mobili, della biancheria; era un’opera di carità
della cliente del mio merciaio.»
«Brava cliente!... Povera sorella mia!... Perché diamine non mi hai
scritto delle tue ristrettezze? Invece di buttare al vento il mio
gruzzolo, ti avrei mandato del danaro!»
«Io libera, chiedere aiuto a te, carcerato!...»
«Proprio per quello; io ero nutrito, riscaldato, alloggiato a spese
del governo; quello che guadagnavo era tutto in più. Sapendo che mio
cognato era un buon operaio e tu una buona operaia e donna di casa,
ero tranquillo, e così ho scialacquato il mio gruzzolo a occhi
chiusi e a bocca aperta.»
«Mio marito era un bravo operaio, è vero; ma si è sviato. Insomma,
grazie a quest’aiuto insperato, mi feci coraggio. Mia figlia
maggiore cominciava a guadagnare qualcosa; eravamo contenti, se non
ci fosse stata quella spina nel cuore di saperti a Melun. Il lavoro
andava bene; i miei ragazzi erano vestiti decentemente, non gli
mancava quasi niente; ciò mi dava un coraggio... un coraggio!...
Insomma, ero quasi arrivata a metter da parte trentacinque franchi,
quando improvvisamente mio marito ritorna. Non lo vedevo da un anno.
Trovandomi ben sistemata, ben corredata di tutto, non fa né uno né
due, mi prende i miei soldi e s’installa di nuovo in casa senza
lavorare, si ubriaca tutti i giorni e mi picchia quando mi lagno.»
«La canaglia!»
«Ma non basta. Aveva sistemato in uno stanzino di casa nostra una
donnaccia con la quale viveva; mi toccava sopportare anche questo
per la seconda volta. Ricominciò a vendere a poco a poco i mobili
che avevo. Prevedendo quel che stava per capitarmi, vado da un
avvocato che stava nello stesso casamento a chiedergli che cosa si
doveva fare per impedire a mio marito di mettermi ancora una volta
sulla paglia, me e i miei figli.»
«Era semplice; bisognava mettere tuo marito alla porta.»
«Sì, ma non ne avevo il diritto. L’avvocato mi dice che mio marito
poteva disporre di tutto, e piazzarsi in casa senza far niente; che
era una disgrazia, ma che bisognava piegare la testa; che il fatto
che la sua amante vivesse sotto il nostro tetto mi dava diritto a
chiedere la separazione di corpo e di beni, come la chiamano loro...
Tanto più che avevo dei testimoni che potevano provare che mio
marito m’aveva picchiato, e quindi potevo fargli causa, ma questo mi
sarebbe costato come minimo quattro o cinquecento franchi, per
ottenere la separazione. Figurati! È quasi quanto riesco a
guadagnare in un anno! Da chi farsi prestare una somma simile?... E
poi non basta trovare chi ti fa il prestito... bisogna
restituirlo... E cinquecento franchi... tutti d’un colpo... sono un
capitale.»
«Eppure c’è un sistema semplice per mettere assieme cinquecento
franchi» disse con amarezza Pique-Vinaigre. «Basta lasciare lo
stomaco a digiuno per un anno... e vivere d’aria fresca, continuando
a lavorare, naturalmente. Mi stupisce che l’avvocato non t’abbia
dato questo consiglio...»
«Scherzi sempre...»
«Oh, questa volta no!...» gridò Pique-Vinaigre con sdegno. «Perché
in conclusione è un’infamia, questa... che la legge sia troppo cara
per i poveri. Eccoti lì, tu, coraggiosa madre di famiglia, che
lavori con tutte le tue forze per allevare onestamente i tuoi
figli... Tuo marito è un cattivo soggetto, un manigoldo; ti picchia,
vive alle tue spalle, ti spoglia di tutto, spende all’osteria i
soldi che tu guadagni. Ti rivolgi alla giustizia... perché ti
protegga e per poter mettere al sicuro dalle grinfie di quel
poltrone il pane tuo e dei tuoi figli... E i rappresentanti della
legge ti dicono: Sì, avete ragione; vostro marito è un cattivo
soggetto; vi sarà resa giustizia... ma questa giustizia vi costerà
cinquecento franchi!... quanto ti ci vuole per vivere, tu e la tua
famiglia, per quasi un anno!... Ecco, vedi Jeanne, tutto ciò prova,
come dice il proverbio, che non vi sono che due categorie di
persone: quelle che sono impiccate e quelle che meriterebbero di
esserlo.»
Rigolette, sola, pensosa, non avendo alcun interlocutore da
ascoltare, non aveva perso una sillaba delle confidenze di questa
povera donna, per le cui sventure ella provò subito compassione. Si
ripromise di raccontare tutto a Rodolphe non appena lo avesse visto,
sicura che egli avrebbe soccorso quella poveretta.
II PARAGONE
Rigolette, vivamente interessata al triste caso della sorella di
Pique-Vinaigre, non la perdeva d’occhio e stava per cercare
d’avvicinarlesi quando sfortunatamente un nuovo visitatore, entrando
nel parlatorio, domandò di un detenuto, che fu mandato a chiamare, e
si sedette sulla panca tra Jeanne e la sartina.
Costei, alla vista di quest’uomo, non poté trattenere un gesto di
sorpresa, di timore, quasi...
Riconosceva in lui uno dei due sbirri che erano venuti ad arrestare
Morel mettendo così in esecuzione la sentenza ottenuta contro di lui
da Jacques Ferrand.
Questa circostanza, ricordando a Rigolette l’ostinato persecutore di
Germain, accrebbe la sua mestizia, da cui era stata alquanto
distratta dalle tristi e commoventi confidenze della sorella di
Pique-Vinaigre.
Allontanandosi quanto più poté dal suo nuovo vicino, la sartina si
appoggiò al muro e ricadde nei suoi angosciosi pensieri.
«Vedi, Jeanne» continuò Pique-Vinaigre, il cui viso gioviale e
beffardo si era improvvisamente rabbuiato, «io non sono né forte né
coraggioso; ma se mi fossi trovato là quando tuo marito ti
maltrattava in quel modo, non l’avrebbe passata certo liscia... Ma
già, anche tu sei troppo buona...»
«Che volevi che facessi?... Sono stata costretta a sopportare quel
che non potevo impedire!... Finché c’è stato in casa qualcosa da
vendere, mio marito l’ha venduta per andare all’osteria con la sua
amante, tutto, persino il vestitino delle feste della mia bambina.»
«Ma i quattrini delle tue giornate, perché glieli davi?... Perché
non li nascondevi?»
«Li nascondevo; ma mi picchiava tanto che alla fine ero costretta a
darglieli... E non è tanto per le botte che cedevo, quanto perché mi
dicevo: “Alla fine non ci mancherebbe altro che costui mi ferisse
abbastanza gravemente da mettermi in condizioni tali da non poter
più lavorare per un pezzo. Mettiamo che mi spezzi un braccio: allora
che ne sarà di me?... Chi avrà cura dei miei figli, chi li
nutrirà?... Se mi tocca andare all’ospedale, dovranno dunque morire
di fame mentre non ci sono io?...” Così capisci bene, fratello mio,
ch’io preferivo dare i miei soldi a mio marito, per non essere
bastonata, ferita... per restare insomma in grado di lavorare.»
«Povera donna!... Si parla dei martiri... tu sì che sei una
martire!»
«Eppure non ho mai fatto male a nessuno, non chiedevo che di
lavorare, badare a mio marito e ai miei figli. Ma che vuoi, ci sono
i fortunati e gli sfortunati come ci sono i buoni e i cattivi.»
«Sì, ed è sorprendente vedere come sono fortunati i buoni!... Ma in
definitiva, te ne sei sbarazzata definitivamente di quel mascalzone
di tuo marito?»
«Lo spero, poiché mi ha lasciata solo dopo aver venduto fino
all’ultima tavola del mio letto e la culla dei due bimbi più
piccoli... Ma quando penso che voleva fare ben di peggio...»
«E che altro?»
«Dico lui, ma era più che altro quella sua donnaccia che lo
spingeva; è per questo che te lo racconto. Insomma un giorno mi
disse: “Quando in una famiglia c’è una bella ragazza di quindici
anni come la nostra è proprio da stupidi non sfruttare la sua
bellezza”.»
«Ah sì, capisco... Dopo aver venduto i panni voleva vendere i
corpi!»
Quando disse così, Fortuné, mi si rimescolò il sangue capisci, e
bisogna dir la verità che riuscii a farlo arrossire di vergogna con
i miei rimproveri; e siccome la sua scellerata donnaccia voleva
metter becco nella nostra discussione sostenendo che mio marito
poteva fare di sua figlia quel che gli pareva, io la trattai così
male, quella sciagurata, che mio marito mi picchiò, e dopo quella
scenata non li ho più rivisti.»
«Ecco, vedi Jeanne, c’è della gente condannata a dieci anni di
prigione che non ne ha fatte quanto tuo marito... Se non altro,
loro, si limitavano a spogliare degli estranei... È proprio un vero
mascalzone!...»
«Eppure, in fondo, non è cattivo, sai? Sono le cattive amicizie
fatte all’osteria che lo hanno sviato...»
«Sì, non farebbe male a un bimbo, ma quando si tratta di grandi,
allora la musica cambia...»
D’altra parte che vuoi che ti dica! La vita, bisogna prenderla come
il buon Dio ce la manda... Se non altro, partito mio marito, non
dovevo più temere che un giorno o l’altro, picchiandomi, mi
storpiasse; mi feci animo... Non avendo di che comprare un
materasso, dal momento che prima di tutto bisogna mangiare e pagar
la pigione, e tra me e la mia figliola maggiore, la povera
Catherine, riuscivamo a stento a mettere assieme quaranta soldi al
giorno; gli altri due figli erano ancora troppo piccoli per
guadagnare qualco-
sa... così, dicevo, in mancanza di un materasso, dormivamo su un
saccone pieno della paglia che raccattavamo davanti alla porta di un
imballatore della nostra strada.»
«E io ho buttato al vento il mio gruzzolo!... buttato al vento!...»
«Ma tu non potevi sapere i miei guai, perché io non te ne parlavo.
Insomma, io e Catherine cominciammo a lavorare il doppio... Povera
bambina, se tu sapessi com’è buona, laboriosa e onesta! Sempre con
gli occhi fissi nei miei per indovinare quel ch’io desidero ch’ella
faccia; mai un lamento, eppure... ne ha già patita di miseria...
benché non abbia che quindici anni!... Ah, consola di molte cose,
sai, Fortuné, l’avere una figlia simile» disse Jeanne asciugandosi
gli occhi.
«È tutta il tuo ritratto... a quanto pare? È giusto che tu abbia
almeno questa consolazione...»
«Ti assicuro che mi addoloro più per lei che per me; perché bisogna
proprio dirlo, da due mesi non ha smesso un momento di lavorare.
Esce una volta alla settimana per andare a lavare ai lavatoi di
Pont-au-Change, a tre soldi l’ora, quel po’ di biancheria che mio
marito ci ha lasciato: poi, per tutta la settimana, resta alla
catena come un povero cane... Eh, bisogna proprio dire che ha
sperimentato troppo presto le disgrazie. Lo so che prima o poi
capitano a tutti; ma vi sono almeno quelle che hanno avuto un anno o
due di serenità... Quello che mi addolora, oltre a tutto ciò, mio
povero Fortuné, è di non poterti aiutare quasi in niente, vedi... Ma
cercherò lo stesso...»
«Ah, questo poi! E credi che io accetterei? Sai invece che ti dico,
che una volta chiedevo un soldo per ogni paio d’orecchi per
raccontare le mie ciance, e ora ne chiederò due, o dovranno fare a
meno delle storie di Pique-Vinaigre. Così potrò aiutarti un pochino.
Ma ora che ci penso, perché non metterti in una stanza ammobiliata?
Così tuo marito non potrebbe vendere niente.»
«In stanza ammobiliata? Ma devi considerare che siamo quattro e che
ci chiederebbero almeno un franco al giorno; cosa ci resterebbe per
campare? Mentre la nostra stanza, attualmente, ci costa solo
cinquanta franchi all’anno.»
«Eh, sì, giusto, ragazza mia» disse Pique-Vinaigre con amara ironia;
«tu lavora, togliti la vita per rifarti un po’ di roba; appena avrai
guadagnato qualche franco, tuo marito ti riprenderà tutto un’altra
volta... e un bel giorno venderà tua figlia come ha venduti i tuoi
cenci.»
«Oh, in quanto a questo, dovrebbe prima ammazzarmi... La mia povera
Catherine!»
«No, non ti ammazzerà e venderà la tua povera Catherine. È tuo
marito, sì o no? È il capo famiglia, come t’ha detto l’avvocato,
finché non sarete separati legalmente; e visto che tu cinquecento
franchi da spendere per questa separazione non li hai, devi
rassegnarti: tuo marito ha diritto di toglierti tua figlia e farne
quel che vuole... Se tuo marito e la sua amante si metteranno in
testa di rovinare quella tua povera figliola, lei che vuoi che
faccia?...»
«Dio mio, Dio mio!.... Ma se fosse possibile una simile infamia...
allora non ci sarebbe più giustizia!»
«La giustizia!» fece Pique-Vinaigre con una risata sardonica. «È
come la carne... troppo cara perché i poveri la possano mangiare...
oh, intendiamoci, se si tratta di mandarli a Melun, di metterli alla
berlina o di gettarli in fondo a una galera, è un’altra cosa. Allora
gli si fa giustizia gratis... Se gli si deve tagliar la testa, è
ancora gratis... sempre gratis... Entrino, entrino signori»
soggiungeva Pique-Vinaìgre con la sua voce da saltimbanco. «Vi
offriamo il biglietto non per dieci soldi, non per due, non per uno,
ma per niente; sì, signori, proprio così... non costa niente...
assolutamente niente... È alla portata di tutte le tasche, non ci si
mette che la propria testa.... Taglio e arricciatura sono a spese
del governo... Ecco la giustizia gratis... Ma la giustizia che
impedisca a una brava madre di famiglia di essere picchiata e
spogliata di tutto dal marito mascalzone che vuole e può prostituire
sua figlia, questa giustizia costa cinquecento franchi... e tu
dovrai farne a meno, cara Jeanne.»
«Via, Fortuné» disse la povera madre, sciogliendosi in lacrime, «tu
mi metti la morte nell’anima...»
«È che ce l’ho anch’io... la morte nell’anima, pensando al tuo
destino... a quello della tua famiglia... e rendendomi conto che non
posso farci niente... Pare ch’io scherzi sempre... ma non ti lasciar
ingannare, io ho due generi d’allegria, Jeanne, un’allegria allegra
e un’allegria triste... Non ho la forza né il coraggio d’essere
cattivo, rabbioso o astioso come gli altri... tutto ciò si muta in
me in parole più o meno buffonesche. La mia vigliaccheria e la mia
debolezza mi hanno impedito di diventare peggiore di quel che
sono... c’è voluta l’occasione di quella bicocca isolata, dove non
c’era un gatto, e soprattutto un cane, per spingermi a rubare. C’è
voluto, per di più, un magnifico chiaro di luna, perché io, di
notte, ho una fifa terribile!»
«E questo conferma quanto t’ho già detto, mio caro Fortuné, che sei
migliore di quanto tu creda... Così spero che i giudici avranno
pietà di te...»
«Pietà di me? Uno scarcerato recidivo? Sì, contaci tu! Ma in fondo,
io non gliene voglio; essere qui, o da un’altra parte, per me è
uguale; e poi tu hai ragione, io non sono cattivo... e quelli che lo
sono, io li odio, a modo mio, prendendoli in giro; c’è da credere
che a forza di raccontar storie nelle quali, per far piacere a chi
m’ascolta, faccio sempre in modo che quelli che tormentano il
prossimo per pura crudeltà ricevano alla fine delle legnate coi
fiocchi... io mi sia abituato a sentire come racconto.»
«E piacciono storie simile a quelli che stanno con te... fratello
mio? Non me lo sarei mai immaginato.»
«Un momento!... Se gli raccontassi delle storie ove un pezzo d’uomo
ruba per rubare o uccide per rubare e alla fine ci lascia lo
zampino, quelli non mi lascerebbero neanche finire; ma se si tratta
di una donna o di un ragazzo o, per esempio, di un povero diavolo
come me che si può buttare in terra con un soffio, e che sia
perseguitato a oltranza da un sacripante d’uomo che lo perseguiti
soltanto per il gusto di perseguitarlo, per onor di firma, come si
suol dire, oh, allora battono i piedi per la gioia quando alla fine
del racconto il sacripante prende la sua paga. Per esempio ho una
storia intitolata: Gringalet e Coupe-en-Deux che faceva la delizia
di quelli di Melun, e che qui non ho ancora raccontata. L’ho
promessa per stasera; ma bisognerà che riempiano generosamente il
mio salvadanaio, e tu ne trarrai profitto... La scriverò anche per i
tuoi bambini... Gringalet e Coupeen-Deux... li divertirà; la
potrebbero leggere anche delle suore, quindi stai tranquilla.»
«Insomma, mio povero Fortuné, quel che mi consola un po’ è che,
grazie al tuo carattere, non sei infelice come tanti altri.»
«Certo che se fossi come un detenuto della nostra camerata, mi
tirerei addosso qualche malanno con le mie stesse mani. Povero
figliolo!... Ho proprio paura che prima che finisca la giornata gli
succeda qualche guaio. Si sta mettendo male per lui... hanno
intenzione di fargli un brutto scherzo...»
«Mio Dio! Vogliono fargli del male?... Non immischiartene,
Fortuné!...»
«Fossi matto!... finirei col buscarne anch’io... È nell’andare in su
e in giù che ho sentito cicalare questo e quello... parlavano
d’imbavagliarlo per impedirgli di gridare... e poi, perché non si
veda quando l’accoppano... hanno intenzione di fargli cerchio
attorno fingendo di ascoltare uno di loro... che dovrebbe leggere a
voce alta un giornale o qualche altra cosa.»
«Ma... perché vogliono fargli questo?»
«Siccome è sempre solo, non parla con nessuno e pare abbia disgusto
di tutti, pensano che sia una spia, il che è molto stupido, perché
se così fosse, si caccerebbe in mezzo agli altri, se proprio volesse
far la spia. In realtà quello che a loro dà fastidio è che ha l’aria
di un signore, ecco tutto. È il capo dormitorio, quello che chiamano
lo Squelette, che è alla testa del complotto. Ce l’ha a morte con
quel povero Germain; così si chiama la loro pecora nera. Bah, che
s’arrangino, sono fatti loro; io non posso farci niente. Vedi bene,
Jeanne, a che cosa serve essere tristi in prigione; si è subito
sospettati; per questo, io, non sono mai stato sospettato. Be’, ma
ora abbiamo parlato abbastanza, vattene a casa a badare alle tue
faccende; se io sto qua, tu butti via del tempo prezioso... io non
ho che da far ciance... ma per te la cosa è diversa quindi,
arrivederci... Torna ogni tanto; lo sai che mi farai piacere.»
«Fratello, ancora qualche momento, ti prego.»
«No, no, i tuoi ragazzi ti aspettano. Ah, un momento. Non gli dirai,
spero, che il loro zio è qui in pensione, vero?»
«Ti credono alle isole, come già la mamma. Così posso parlargli di
te.»
«Benissimo. Su, vattene, presto, presto...»
«Sì, ma ascolta, io non ho molto, ma non ti lascerò in queste
condizioni. Devi avere tanto freddo, senza calze e con quel povero
panciotto! Io e Catherine ti prepareremo un po’ di panni. Che
diamine, Fortuné, non è certo la voglia di aiutarti che ci manca!»
«Che cosa, che cosa? Dei panni? Ma io ne ho pieni i bauli. Basta che
arrivino, e avrò da vestirmi come un principe. Su, ridi dunque un
po’! No? E va bene, parlando seriamente, accetterò volentieri, cara
la mia Jeanne, in attesa che Gringalet e Coupeen-Deux abbiano
riempito il mio salvadanaio. Allora ti renderò tutto. Addio, mia
buona Jeanne, la prima volta che vieni non voglio chiamarmi più
Pique-Vinaigre se non ti faccio ridere. Animo, adesso vattene, ti ho
già trattenuta anche troppo.»
«Ma, fratello, ascoltami dunque!»
«Brav’uomo, ehi, brav’uomo» gridò Pique-Vinaigre al guardiano seduto
all’altra estremità del corridoio, «ho finito la mia conversazione e
vorrei tornar dentro. Ho cianciato abbastanza!»
«Ah, Fortuné... non è giusto... mandarmi via così» disse Jeanne.
«È giustissimo, invece. Suvvia, addio, e domattina di’ ai ragazzi
che hai sognato il loro zio che è alle isole e che ti ha pregato di
abbracciarli. Addio.»
«Addio, Fortuné» disse la povera donna; e piangeva nel vedere il
proprio fratello rientrare all’interno della prigione.
Rigolette, da quando la guardia si era seduta accanto a lei, non
aveva potuto sentire i discorsi di Pique-Vinaigre e di Jeanne; ma
non aveva perso di vista quest’ultima, pensando a come procurarsi
l’indirizzo della povera donna per poterla raccomandare, secondo il
suo primo pensiero, a Rodolphe.
Quando Jeanne si alzò dalla panca per uscire dal parlatorio, la
sartina le si avvicinò e le disse timidamente:
«Signora, poco fa, senza voler ascoltare, ho capito dalla vostra
conversazione che voi lavorate in frange e passamanerie, se non
sbaglio».
«Sì, signorina» rispose Jeanne, un po’ sorpresa, ma subito ben
disposta nei confronti di Rigolette in virtù dei suoi bei modi e del
suo volto gentile.
«Io sono sarta» riprese Rigolette; «ora che le frange e le
passamanerie sono di moda, talvolta ho delle clienti che mi chiedono
delle guarnizioni speciali; ho pensato che sarebbe forse più
conveniente per me rivolgermi a voi, che lavorate in casa, anziché a
un merciaio, e che d’altra parte io potrei darvi qualcosa di più di
quel che vi dà il vostro fabbricante.»
«È vero, signorina; prendendo la seta per conto mio, ci guadagnerei
qualcosa di più... Siete molto buona a pensare a me... non vi
nascondo che casco dalle nuvole...»
«Ebbene, signora, vi parlerò francamente: io sto aspettando la
persona che sono venuta a trovare. Non avendo nessuno con cui
parlare, poco fa, prima che quel signore si mettesse tra noi due,
senza volerlo, vi assicuro, vi ho sentita parlare con vostro
fratello delle vostre pene, dei vostri bambini. Mi sono detta: “Tra
poveri bisogna aiutarsi”. E ho pensato che avrei potuto aiutarvi,
dal momento che fate la frangiaia. Se sinceramente v’interessa quel
che vi propongo, eccovi il mio indirizzo, datemi il vostro, in modo
che quando avrò qualche lavoretto da ordinarvi, saprò dove
trovarvi.»
E Rigolette dette un foglietto col suo indirizzo alla sorella di
Pique-Vinaigre.
Costei, commossa dal gesto della sartina, le disse con calore:
«Il vostro viso non mi aveva ingannata; e poi, non prendete questo
per orgoglio materno, ma assomigliate un po’ a mia figlia, e per
questo entrando vi ho guardata due volte. Vi ringrazio
infinitamente; se avrete bisogno di me, rimarrete contenta del mio
lavoro, che sarà fatto con coscienza... Mi chiamo Jeanne Duport...
Abito in rue de la Barillerie al numero 1.»
«Numero 1... bene, non è difficile da ricordare. Grazie, signora.»
«Tocca a me ringraziarvi, mia cara signorina, siete stata tanto
buona... a pensare subito di aiutarmi! Vi ripeto, casco dalle
nuvole.» «Ma è così semplice, signora Duport» disse Rigolette con un
bel sorriso. «Visto che assomiglio un po’ a vostra figlia Catherine,
quel-
la che voi chiamate la mia buona idea non deve stupirvi.»
«Siete proprio gentile... cara signorina! Ecco, grazie a voi me ne
andrò via un po’ meno triste di quanto mi sarei immaginata; e chissà
che non ci si ritrovi qui qualche volta, dal momento che
venite, come me, a trovare un carcerato.»
«Eh sì, signora...» rispose Rigolette con un sospiro.
«Allora arrivederci... almeno, così spero signorina... Rigolet-
te» fece Jeanne Duport dopo aver dato un’occhiata al biglietto della
sartina.
«Arrivederci, signora Duport.»
«Se non altro» pensò Rigolette rimettendosi a sedere sulla panca,
«ora so dove abita quella povera donna e sicuramente il signor
Rodolphe s’interesserà al suo caso quando saprà le sue pene. Egli
infatti mi ha sempre detto: “Se conoscete qualcuno degno di
compassione, rivolgetevi a me...”».
E Rigolette, rimettendosi al suo posto, attese con impazienza la
fine della visita del suo vicino, per poter far chiamare Germain.
E ora diciamo poche parole sulla scena appena descritta.
Bisogna riconoscere, purtroppo, che l’indignazione del fratello di
Jeanne Duport era legittima... Sì... dicendo che la legge era troppo
cara per i poveri, diceva la verità.
Il portare una causa davanti ai tribunali civili comporta spese
enormi, insostenibili per artigiani che vivono a stento di un
salario inadeguato.
Ammettiamo che una madre o un padre di famiglia appartenente a
questo ceto sempre sacrificato desiderino, in effetti, ottenere la
separazione e che abbiano, per ottenerla, tutti i possibili
diritti...
L’otterranno?
No.
Perché non c’è un operaio in grado di spendere dai quattro ai
cinquecento franchi per le onerose formalità di una pratica di
separazione.
Eppure il povero non ha altra possibilità di vita all’infuori di
quella compresa tra le mura domestiche; la buona o cattiva con-
dotta del capofamiglia, nella classe artigiana, non è soltanto una
questione di moralità, è una questione di PANE...
La sorte di una donna del popolo, quale abbiamo tentato di
dipingerla, merita dunque minor interesse, minor protezione di
quella di una donna ricca che soffre per i disordini o le infedeltà
del marito?
Niente più degno di pietà, indubbiamente, che i dolori dell’anima.
Ma quando a questi dolori si aggiungono per un’infelice madre gli
stenti dei propri figli, non è mostruoso che la povertà di questa
donna la ponga al di fuori della legge e l’abbandoni senza difesa,
lei e la sua famiglia, ai maltrattamenti di un marito fannullone e
corrotto?
Eppure questa mostruosità esiste.
E un pregiudicato può, in questa circostanza come in altre, negare
con diritto e con logica l’imparzialità delle istituzioni in nome
delle quali egli è condannato.
È necessario dire quanto sia pericoloso per la società dare adito a
simili attacchi?
Che influenza, che autorità morale potranno avere quelle leggi, la
cui applicazione è assolutamente subordinata a una questione di
danaro?
La giustizia civile, come quella penale, non dovrebbe essere
accessibile a tutti?
Quando certe persone sono troppo povere per poter invocare il
beneficio di una legge eminentemente preservatrice e tutelare, la
società non dovrebbe assicurarne a proprie spese l’applicazione per
garantire la moralità e la pace delle famiglie?
Ma lasciamo questa donna che resterà vittima finché campa di un
marito brutale e pervertito soltanto perché è troppo povera per
ottenere dalla legge un verdetto di separazione.
Parliamo del fratello di Jeanne Duport.
Questo carcerato, espiata la sua pena, esce da un antro di
corruzione per rientrare nel mondo; ha scontato la sua pena, pagato
il suo debito con l’espiazione.
La società, che precauzioni ha preso per impedirgli di ricadere
nell’errore?
Nessuna.
Gli si sono dati i mezzi, con caritatevole previdenza, di tornare al
bene, al fine di poter infierire, come s’infierisce senza pietà, se
egli si mostra incorreggibile?
No...
La contagiosa perversità delle vostre prigioni è talmente nota e
così giustamente temuta, che colui che ne esce è dappertutto oggetto
di disprezzo, avversione e terrore; quand’anche fosse venti volte
galantuomo, non troverà quasi mai un’occupazione.
Inoltre la vostra avvilente sorveglianza lo esilia in piccole
località dove i suoi precedenti saranno ben presto noti, e dove non
avrà modo d’esercitare quei mestieri poco diffusi spesso imposti ai
detenuti dai datori di lavoro delle carceri centrali.
Se lo scarcerato avrà avuto il coraggio di resistere alle cattive
tentazioni, si dedicherà dunque a uno di quei mestieri di cui
abbiamo parlato, alla preparazione di alcuni prodotti chimici la cui
micidiale influenza decima coloro che esercitano questi terribili
mestieri,1 oppure, se ne avrà la forza, andrà a estrarre il grès
nella foresta di Fontainebleau, lavoro al quale si resiste, in
media, sei anni!!!
La condizione di un ex carcerato è dunque molto più penosa, molto
più difficile di quanto non lo fosse prima ch’egli commettesse il
reato che lo portò al carcere. Egli cammina fra ostacoli, fra
scogli; deve affrontare la repulsione, il disprezzo, spesso anche la
più completa miseria...
E se soccombe a tutti questi spaventosi inviti alla criminalità, e
commette un secondo delitto, vi mostrate nei suoi confronti mille
volte più severi che al suo primo reato... Questo è ingiusto... in
quanto è quasi sempre la miseria, alla quale voi lo condannate, che
lo spinge a un secondo crimine.
Sì, perché è dimostrato che invece di correggere, il vostro sistema
penale deprava.
Invece di migliorare, peggiora...
Invece di guarire delle lievi affezioni morali, le rende insanabili.
Il vostro aggravio di pena, spietatamente applicato per la recidiva,
è dunque iniquo, barbaro, dal momento che questa recidiva è, per
così dire, una conseguenza forzata delle vostre istituzioni penali.
Il terribile castigo che colpisce i recidivi sarebbe giusto e logico
se le vostre prigioni raddrizzassero, purificassero i detenuti, e
se, una volta espiata la pena, una buona condotta fosse loro, se non
facile, almeno possibile...
1 Si è recentemente scoperto, pare, il mezzo di proteggere gli
sventurati operai dediti a questi terribili mestieri. (Si veda la
Descrizione di un nuovo metodo di fabbricazione della biacca, lavoro
presentato all’Accademia delle scienze da M. J. N. Gannal).
Se ci si stupisce di queste contraddizioni della legge, che cosa si
dirà allora quando si paragoneranno alcuni reati ad alcuni delitti,
sia a causa delle loro inevitabili conseguenze, sia a causa delle
esorbitanti sproporzioni che esistono tra le punizioni a cui vanno
soggetti?
Il colloquio del prigioniero con la guardia che era venuto a fargli
visita ci offrirà uno di questi desolanti contrasti.
III MAÎTRE BOULARD
Il detenuto che entrò nel parlatorio nel momento in cui
Pique-Vinaigre ne usciva era un uomo di circa trent’anni, dai
capelli di un biondo acceso, il viso gioviale, pieno e rubicondo;
era di statura media, e questo rendeva ancora più evidente
l’accentuata pinguedine. Quel prigioniero, così sanguigno e
corpulento, era avvolto in una lunga e calda redingote di mollettone
grigio, simile ai pantaloni, mentre una specie di berretto a
cappuccio di velluto rosso, detto alla Périnet-Leclerc, e due
bellissime pantofole foderate di pelo completavano il suo
abbigliamento. Sebbene la moda dei ciondoli fosse da lungo tempo
passata, la catena d’oro dell’orologio ne sosteneva parecchi, con
pietre preziose incastonate; infine diversi anelli ornati di belle
gemme brillavano sulle mani rosse e grasse di questo detenuto
chiamato maître Boulard, e accusato di peculato.
Suo interlocutore era, come abbiamo detto, Pierre Bourdin, uno degli
aggiunti incaricati dell’arresto di Morel il lapidario, di cui era
solito servirsi maître Boulard, impiegato presso il signor
Petit-Jean, prestanome di Jacques Ferrand.
Bourdin, piccolo e pingue come Boulard, si conformava, secondo i
suoi mezzi, al padrone, di cui ammirava la magnificenza. Come lui
amante dei gioielli, quel giorno portava una superba spilla di
topazio e una lunga catenella d’oro che appariva e scompariva,
serpeggiando tra i bottoni del gilet.
«Buongiorno, mio fedele Bourdin, ero sicurissimo che non sareste
mancato all’appello» disse con gioia maître Boulard, la cui vocina
sottile contrastava singolarmente con la figura corpulenta e la
larga faccia colorita.
«Mancare all’appello!» rispose l’aggiunto; «ne sarei stato incapace,
mio generale.»
Era così che Bourdin, con questa espressione scherzosa e al tempo
stesso familiare e rispettosa, chiamava l’usciere sotto i cui
ordini egli stendeva gli atti pubblici; tale locuzione del gergo
militare era d’altronde usata molto spesso da certe categorie di
impiegati e di funzionari.
«Noto con piacere che l’amicizia si mantiene anche nella disgrazia»
disse maître Boulard con accento di cordiale gaiezza; «non nascondo
che cominciavo a darmi pensiero; mi dicevo: sono già tre giorni che
gli ho scritto, e Bourdin non si vede...»
«Sapeste, mio generale, è una storia lunga. Vi ricordate quel bel
tipo del visconte di rue de Chaillot?»
«Saint-Rémy?»
«Appunto! Sapete bene come se ne infischiava dei nostri mandati di
cattura...»
«Un’indecenza...»
«A chi lo dite! noi due Malicorne restavamo come istupiditi, se così
si può dire...»
«No, non si può, mio bravo Bourdin.»
«Già, mio generale. Ma ecco i fatti: questo bel tipo di visconte è
salito di grado.»
«È forse diventato conte?»
«No! Da scroccone è diventato ladro.»
«Ah! bah!»
«Gli stiamo alle calcagna per i diamanti che ha fatto sparire i
quali, fra parentesi, appartenevano al gioielliere che teneva presso
di sé quel verme di Morel il lapidario; stavamo per acchiapparlo in
rue du Temple quando uno spilungone con dei baffi neri ha pagato per
questo morto di fame e per poco non ci fa rotolare giù dalle scale,
noi due Malicorne.»
«Ah, sì, mi ricordo... me lo avete già raccontato, mio povero
Bourdin... è stato proprio buffo. Il più bello poi della scena fu
quando la portinaia vi versò addosso una scodella di minestra
bollente.»
«Ivi compresa la scodella, mio generale, che si è infranta come una
bomba ai nostri piedi. Vecchia strega!»
«Questo andrà sul conto dei vostri buoni servizi e delle ferite
riportate. Ma questo visconte, dunque?»
«Vi stavo dicendo appunto che Saint-Rémy era stato denunciato per
furto... dopo aver fatto credere a quel bonaccione di suo padre di
volersi far saltare le cervella. Un agente di polizia mio amico,
sapendo che io ero da lungo tempo alle calcagna di questo visconte,
mi ha chiesto di fornirgli informazioni sul suo conto e di metterlo
sulla pista di questo bellimbusto. Io avevo saputo, al momento
dell’ultima cattura cui è sfuggito, che si era nascosto in
una fattoria ad Arnouville, a cinque leghe da Parigi... Ma quando
siamo giunti là... niente da fare... l’uccello aveva già preso il
volo!» «D’altronde, due giorni dopo ha pagato quella cambiale, gra-
zie all’intervento di una gran dama, si dice.»
«Sì, mio generale... ma non aveva importanza, poiché io ormai
conoscevo la tana: vi si era già nascosto una volta,... poteva
dunque nascondervisi una seconda... è quanto ho detto al mio amico
agente di polizia. Egli mi ha proposto, allora, di dargli una
mano... da dilettante... e di guidarlo alla fattoria. Non avevo
alcuna occupazione... e così ho accettato di fare una scampagnata.»
«Bene! e il visconte?...»
«Introvabile! Dopo aver gironzolato attorno alla fattoria, siamo
entrati all’interno, ma alla fine abbiamo dovuto andarcene come
eravamo venuti... ecco perché non ho potuto rispondere prima alla
vostra chiamata, mio generale...»
«Ero sicuro che doveva trattarsi di un impedimento di questo genere,
mio caro.»
«Ma, se non sono indiscreto, come diavolo vi trovate qui?»
«Canaglie, mio caro... una schiera di canaglie che, per la miseria
di una sessantina di migliaia di franchi di cui si protestano
derubati, mi hanno denunciato per peculato e mi costringono a
lasciare la carica...»
«Davvero! mio generale, cosa mi dite mai: è una vera disgrazia!
Dunque non lavoreremo più per voi?»
«Mio bravo Bourdin... mi hanno ridotto la paga e sono in attesa di
giudizio...»
«Ma chi sono dunque questi irriducibili?»
«Figuratevi che uno dei più accaniti contro di me è un ladro uscito
di prigione; egli mi aveva dato in pagamento una cambiale di 700
franchi, che ho dovuto mandare in protesto. Ho proceduto contro
costui, sono stato pagato, ho incassato il denaro... e siccome poi,
a seguito di operazioni non riuscite, ho sperperato quella somma,
come molte altre, del resto, questi imbroglioni han fatto tanto
fracasso che mi hanno fatto arrestare; per cui eccomi qui, come
fossi né più né meno un malfattore...»
«È una bella seccatura per voi, mio generale...»
«Eh, sì; e quel che v’è di più curioso è che questo ex galeotto mi
ha scritto, alcuni giorni fa, per dirmi che quel denaro costituiva
tutti i suoi risparmi, che ora egli si trovava in condizioni di
assoluta necessità (non so bene cosa voglia dire con ciò) e che io
sarei quindi responsabile dei delitti che potrebbe commettere per
sfuggire alla miseria.»
«La storiella è proprio divertente!»
«Vero? Nulla di più comodo... quel briccone è capace di prenderla
come scusa... Per fortuna, la legge non riconosce simili
complicità.»
«Dopo tutto, voi siete accusato solo di peculato, mio generale, non
è vero?»
«Certo! mi credete forse un ladro, maître Bourdin?»
«Via, andiamo, mio generale! Volevo solo dire che non vi è niente di
così grave nella vostra imputazione: dopo tutto, direi che si tratta
di una bagatella.»
«Ho forse l’aria disperata, vecchio mio?»
«Niente affatto; non vi ho mai visto più in forma. D’altronde, anche
se foste condannato, non prendereste più di due o tre mesi di
prigione e venticinque franchi di multa. Conosco il codice.»
«E questi due o tre mesi di prigione... sono sicuro che riuscirei a
passarli comodamente in una Casa di Salute. Sono nella manica di un
deputato...»
«Ah, quand’è così... non c’è da temere.»
«Sai, Bourdin, non posso fare a meno di ridermela; quegli imbecilli
che mi hanno mandato qui dentro non hanno guadagnato un bel niente e
non vedranno nemmeno una moneta dei soldi che pretendono. Mi
costringono a rinunciare alla mia carica; non me ne importa, in
fondo anch’io la devo al mio predecessore, come voi dite. Vedete,
sono ancora quei filibustieri che resteranno scornati.»
«È quel che penso anch’io, mio generale; tanto peggio per loro.»
«Ma passiamo all’argomento per il quale vi ho pregato di venirmi a
trovare: si tratta di una missione delicata, questione di donne»
disse maître Boulard in tono fatuo e misterioso.
«Ah, birbante d’un generale, vi riconosco! Di che si tratta, dunque?
Dite pure, su di me potete contare.»
«Nutro un interesse particolare per una giovane attrice delle
Folies-Dramatiques; io le pago l’affitto di casa, ed ella a sua
volta mi contraccambia, così almeno spero; perché, come sapete,
vecchio mio, spesso gli assenti hanno torto. E a questo punto ci
terrei particolarmente a sapere se ho torto, visto che Alexandrine
(questo è il suo nome) ha mandato a chiedermi dei soldi. Io non sono
mai stato spilorcio con le donne, ma naturalmente non mi va di fare
lo zimbello. Così, prima di mostrarmi liberale con questa cara
amichetta, vorrei sapere se se lo merita, se insomma mi è fedele. So
bene che non v’è nulla di più rococò, di più codino...
della fedeltà ma, che volete, è una mia debolezza. Voi mi farete un
vero piacere, da amico, mio caro, se per qualche giorno
sorveglierete la persona in questione, in modo ch’io sappia come
comportarmi, se far cantare la portinaia di Alexandrine, o...»
«Non occorre diciate altro, mio generale» rispose Bourdin
interrompendo l’usciere; «non è più difficile che sorvegliare,
spiare e stanare un debitore. Contate su di me: io verrò a sapere se
la signorina Alexandrine viene meno al contratto, sebbene non mi
sembri per nulla probabile, perché, non per dire, ma, mio generale,
voi siete troppo un bell’uomo e troppo generoso perché una donna non
vi adori.»
«Bell’uomo o no, io sono assente, mio caro, ed è un gran torto,
questo; insomma, conto su di voi per sapere la verità.»
«E la saprete, ve lo prometto.»
«Ah, caro amico, come esprimervi la mia riconoscenza?» «Via, non
parliamone, mio generale.»
«Resta inteso, naturalmente, mio caro Bourdin, che in tal
caso i vostri onorari saranno simili a quelli per un mandato di
cattura.»
«Mio generale, non lo potrei tollerare; finché ho lavorato ai vostri
ordini, non mi avete forse sempre lasciato spremere il debitore sino
al nocciolo, e raddoppiare, triplicare le spese di arresto? e non vi
siete sempre curato che i pagamenti andassero a buon fine, con tanto
zelo come se voi stesso ne foste il creditore?»
«Ma, mio caro amico, il caso ora è diverso, e anch’io a mia volta
non permetterei mai che...»
«Mio generale, voi mi umiliereste se non mi permetteste di offrirvi
queste informazioni sulla signorina Alexandrine come una benché
minima prova della mia riconoscenza.»
«Alla buon’ora: non voglio competere più a lungo con voi
sull’argomento generosità. Del resto, la vostra devozione mi sarà
una ricompensa per quel tanto di sentimento che ho sempre messo nei
nostri rapporti d’affari.»
«Ed è proprio così che io la penso, mio generale; ma non potrei
esservi utile in qualche altra cosa? Dovete trovarvi molto male,
qui, voi che tenete tanto alle comodità! Avrete almeno una pistole,2
spero!»
«Certo; sono arrivato appena in tempo per avere l’ultima ancora
disponibile, perché le altre fanno parte di quell’ala della pri-
2 Cella particolare concessa a quegli imputati che possono
permettersi tale spesa.
gione che è in via di restauro. Così ho potuto sistemarmi per il
meglio nella mia cella e non mi trovo poi tanto male; ho una stufa,
mi son fatto portare una buona poltrona, prendo tre lunghi pasti,
digerisco con mio comodo, faccio la mia passeggiata e dormo. Se non
fosse per le preoccupazioni che mi dà Alexandrine, vedete che non mi
si può troppo compiangere.»
«Ma per voi che eravate così ghiottone, capo, le risorse della
prigione sono molto magre.»
«Voi dimenticate il bottegaio di generi alimentari che si trova
vicino a casa mia: si direbbe che vi sia stato mandato apposta per
me. Ho un conto aperto da lui e ogni due giorni mi fa avere un
paniere ben fornito: a proposito, visto che volete aiutarmi, vi
prego di chiedere alla bottegaia, la buona signora Michonneau, che,
detto fra parentesi, non è niente male...»
«Ah, briccone di tre cotte, mio generale.»
«Attenzione, amico mio, non vorrei vi sorgessero cattivi pensieri»
disse Boulard con una sfumatura fatua, «sono solo un buon vicino e
basta. Vogliate dunque pregare questa cara signora Michonneau di
mettere nel mio paniere di domani un pasticcio di tonno marinato...
è la stagione buona per questo piatto, che varierà un po’ il mio
menù e mi farà bere.»
«Eccellente idea!...»
«Vorrei poi che la signora Michonneau mi mandasse un cesto con
bottiglie di diversa qualità! bourgogne, champagne e bordeaux, come
l’ultima volta; lei sa cosa vuol dire, e ditele anche di aggiungere
due bottiglie del suo vecchio cognac del 1817 e una libbra di puro
moka appena tostato e macinato di fresco.»
«Scriverò la data della grappa per non dimenticare nulla» disse
Bourdin prendendo il taccuino dalla tasca.
«Visto che prendete nota, mio caro amico, abbiate dunque anche la
bontà di segnarvi quest’altro: chiedere a casa mia che mi si mandi
il piumino.»
«Tutto sarà eseguito alla lettera, mio generale: state tranquillo;
ora sono un po’ rassicurato quanto alla vostra alimentazione. Ma le
vostre passeggiate, le fate insieme a questi briganti di detenuti?»
«Sì, ed è molto gaio, molto animato: lascio la mia cella dopo aver
pranzato, vado ora in un cortile, ora in un altro e, come voi ben
dite, m’ingaglioffo. Eppure vi assicuro che in fondo mi sembra gran
brava gente: ve ne sono di molto divertenti. I più truci sono tutti
riuniti in quella che chiamano la Fossa-dei-leoni. Vi assicuro, mio
caro amico, che quelle sono proprio facce patibolari!
Tra gli altri ce n’è uno chiamato Squelette: non avevo mai visto
niente di simile prima d’ora!»
«Ben strano, come nome!»
«È così magro, o meglio, scarno, che il suo non si deve considerare
un soprannome: vi assicuro che mette spavento; e per di più è il
capoccia della camerata. Senz’altro è il più gran scellerato...
uscito dal bagno penale ha rubato e assassinato ancora; ma il suo
ultimo delitto è così orribile che egli si aspetta già di essere
condannato a morte senza remissione: eppure ci scherza sopra... e se
ne infischia.»
«Che bandito!»
«Tutti i detenuti lo ammirano e tremano davanti a lui. Io sono
riuscito a entrare subito nelle sue grazie regalandogli dei sigari;
mi ha preso addirittura a benvolere e mi insegna l’argot, in cui
faccio progressi.»
«Ah! Ah! che spasso; il mio generale che impara l’argot!»
«Vi confesso che mi diverto come un matto; quei tipacci mi adorano,
certi mi danno persino del tu... Io infatti non sono certo superbo
come quel signorino di nome Germain, un pezzente che non può neanche
permettersi una cella speciale e che vuol fare lo schizzinoso,
prendendo con costoro arie da gran signore.»
«Allora costui dovrebbe essere contento di poter parlare con una
persona perbene come voi, visto che è così disgustato degli altri.»
«Bah, veramente non ha neanche mostrato di accorgersi della mia
presenza; ma anche in caso contrario io mi sarei ben guardato dal
corrispondere alle sue avances. È la pecora nera della prigione...
Presto o tardi gli giocheranno un brutto tiro e io non ho davvero
voglia di condividere l’avversione di cui si è fatto oggetto.»
«Avete perfettamente ragione.»
«Questo mi guasterebbe la ricreazione: giacché la mia passeggiata
con i detenuti è una vera e propria ricreazione... Solo che quei
briganti non mi tengono in gran considerazione, moralmente
parlando... Capirete, la mia imputazione di semplice peculato... è
una miseria per simili canaglie... Mi tengono in poco conto, come
dice Arnal.»
«In effetti, al confronto di quei mattatori del crimine, voi
siete...»
«Un vero agnello pasquale, mio caro amico... A proposito: poiché
siete così gentile, non dimenticate le commissioni di cui vi ho
pregato.»
«State tranquillo, mio generale!
1° la signorina Alexandrine,
2° il pasticcio di pesce e la cesta dei vini,
3° il cognac stagionato del 1817, il caffè macinato e il piumi-
no... riceverete il tutto. C’è altro?»
«Ah, sì, dimenticavo... Sapete dove abita il signor Badinot?»
«Quell’intermediario? Sì.»
«Bene, vi prego di dirgli che conto sempre sulla sua collabora-
zione per trovarmi un avvocato adatto alla mia causa... e che non
farò questione di soldi.»
«Andrò a trovare Badinot, state tranquillo, mio generale; questa
sera stessa tutte le vostre commissioni saranno fatte, e domani
riceverete quanto mi avete chiesto. A presto, e coraggio, mio
generale.»
«Arrivederci, mio caro amico.»
Il detenuto uscì dal parlatorio da un lato, e il suo visitatore
dall’altro.
Confrontate ora il delitto di Pique-Vinaigre, recidivo, al delitto
di maître Boulard, ufficiale giudiziario.
Confrontate gli inizi di entrambi e le ragioni, le necessità che
hanno potuto spingerli al male.
Paragonate infine il castigo che li attende.
Una volta uscito di prigione, l’ex detenuto non aveva più potuto
esercitare, nella residenza che gli era stata assegnata, il suo
mestiere di un tempo, perché tutti lo sfuggivano, guardandolo con
timore e sospetto; aveva sperato di darsi a un lavoro pericoloso, ma
adatto alle sue forze; invece anche questa possibilità gli era
venuta a mancare.
Egli evade allora dal suo esilio, torna a Parigi, dove conta di
poter più facilmente nascondere i suoi precedenti e trovare
un’occupazione.
Vi arriva stremato di fatica, affamato; per caso viene a scoprire
che in una casa vicina si trova una somma di denaro e, cedendo alla
tentazione, forza un’imposta, apre un mobile, ruba cento franchi e
scappa.
Lo prendono, lo arrestano... Sarà giudicato e condannato.
Trattandosi di un recidivo, lo attendono quindici o vent’anni di
lavori forzati e la gogna. Egli lo sa.
Questa grave pena, se la merita.
La proprietà è sacra. Colui che, di notte, abbatte la porta della
vostra casa per impossessarsi dei vostri averi deve subire un
castigo terribile.
Invano il colpevole obietterà che è disoccupato, in miseria, che la
sua condizione di ex detenuto lo pone in una situazione particolare,
difficile, intollerabile... Peggio per lui: la legge è una: la
società, per vivere tranquilla e sicura vuole, deve, armarsi di un
potere illimitato per reprimere senza pietà questi attacchi temerari
alla proprietà altrui.
Sì, quel miserabile, ignorante, abbrutito, recidivo, corrotto e
spregevole ha meritato quella sorte.
Ma cosa si meriterà allora colui che, intelligente, ricco, istruito,
gode della stima di tutti e, investito di una carica ufficiale,
decide di rubare, non per mangiare, ma per soddisfare i suoi
sfrenati capricci o per fare speculazioni giocando in Borsa?
Questi ruberà non cento franchi... bensì centomila... un milione.
Ruberà non di notte, a rischio della propria vita, ma
tranquillamente, in pieno giorno, di fronte a tutti.
Ruberà... non già a uno sconosciuto che ha affidato il proprio
denaro alla protezione di una serratura,... ma a un cliente che è
stato costretto ad affidarlo alla probità del pubblico ufficiale
designato dalla legge, imposto quindi alla sua fiducia.
Quale terribile castigo meriterà dunque quest’ultimo che, anziché
rubare una piccola somma quasi per necessità... ruba una somma
considerevole per soddisfare le sue sfrenate ambizioni?
Non sarebbe già una grave ingiustizia applicargli una pena uguale a
quella inferta al recidivo, esasperato dalla miseria, ladro per
bisogno?
Via! dirà la legge...
Come applicare a un uomo ben educato la stessa pena di un vagabondo?
Ohibò!
Confrontare un delitto “pulito” con un ignobile scasso? Giammai!
Di che si tratta, in fondo? risponderà, ad esempio maître Bou-
lard, d’accordo con la legge:
«In virtù dei poteri conferitimi dal mio ufficio, io ho incassa-
to per vostro conto una somma di denaro; questa somma io l’ho
dissipata, distraendola dalla sua giusta destinazione, e ora non ne
resta una lira; ma non crediate che sia stata la miseria a spingermi
a questa spoliazione! Sono forse un mendicante, un indigente? Grazie
a Dio, no! ho sempre avuto e ho tuttora di che vivere bene. Oh!
rassicuratevi, le mie mire erano più alte e più ambiziose...
Provvisto del vostro denaro io mi sono lanciato audacemente
nelle più ardite speculazioni; avrei potuto raddoppiare, triplicare
la somma a mio vantaggio, se la fortuna mi avesse arriso...
purtroppo l’ho avuta contro! vedete bene che io ho perduto quanto
voi...».
Ancora una volta, sembra dire la legge, questa disinvolta
spoliazione, lesta e pulita, perpetrata in pieno giorno, di fronte a
tutti vi sembra possa avere qualcosa in comune con quelle rapine
notturne, compiute con scasso di serrature, di porte, chiavi false,
grimaldelli, tutto quel rozzo e grossolano apparato proprio di
miserabili ladri del più basso stampo?
I delitti non cambiano forse pena, ed anche nome, quando sono
commessi da persone privilegiate?
Un disgraziato ruba un pane da un fornaio, rompendo un vetro... una
cameriera sottrae un fazzoletto o qualche centinaio di lire ai suoi
padroni: questo naturalmente viene chiamato furto, con le
circostanze aggravanti e infamanti, per di più, ed è di competenza
della corte d’Assise.
Ed è giusto, specie per il secondo caso.
Il domestico che ruba al padrone è doppiamente colpevole, in quanto
fa quasi parte della famiglia: la casa gli è aperta a qualsiasi ora,
ed egli tradisce indegnamente la fiducia che hanno riposto in lui;
ed è proprio questo tradimento che la legge colpisce con una
condanna infamante.
Ancora una volta, niente di più giusto, di più morale. Ma se un
ufficiale giudiziario, un qualunque pubblico ufficiale vi sottrae il
denaro che siete stati costretti ad affidargli, in grazia del suo
ufficio, non solo il suo crimine non è assimilato al furto del
domestico o al furto con scasso, ma esso non è nemmeno chiamato
furto dalla legge.
Come?
No di certo! furto... questa parola è troppo brutale... puzza troppo
di luogo infamante... furto! Che vergogna! Diciamo, piuttosto,
peculato. È un’espressione più delicata, più decente, e che meglio
si addice alla condizione sociale, al prestigio di coloro che si
sono arrischiati a compiere... questo reato! Giacché è meglio
chiamarlo reato... Crimine sarebbe un’altra parola troppo brutale.
E poi, distinzione importante da farsi:
Il crimine è di competenza della corte d’Assise...
Il peculato del tribunale correzionale.
Oh, colmo di equità! questo si chiama amministrare la giusti-
zia! ripetiamo: un domestico ruba qualche centinaio di lire al suo
padrone, un affamato rompe un vetro per rubare una pagnotta...
questi sono dei criminali, da deferire alle Assise.
Un pubblico ufficiale dissipa o distrae un milione, questo si chiama
peculato... e un semplice tribunale correzionale è competente a
giudicare.
Chiamando in causa i fatti, il diritto, la ragione, la logica,
l’umanità, la morale, questa spaventosa differenza fra le pene
inflitte è veramente giustificata dalla diversità dei rispettivi
delitti?
In che cosa il furto domestico, punito con una pena infamante,
differisce dal reato di peculato, punito con una pena così mite?
Forse perché le malversazioni causano quasi sempre la rovina di
intere famiglie?
Cos’è dunque il peculato, se non un furto domestico, mille volte
aggravato dalle conseguenze serissime che esso comporta, e dalla
veste ufficiale di colui che lo commette?
E perché poi un furto con scasso è considerato un reato più grave di
un furto per peculato?
Come! si oserebbe forse affermare che la violazione morale del
giuramento di non venire mai meno alla fiducia che la società è
costretta ad avere in voi è meno criminosa della violazione
materiale di una porta?
Sì, lo si osa, infatti... La legge è fatta così...
Più i reati sono gravi, più compromettono l’esistenza delle
famiglie, più attentano alla sicurezza, alla moralità pubblica...
meno vengono puniti.
Cosicché più i colpevoli sono persone dotate d’intelligenza, più
godevano di condizioni agiate e di considerazione sociale, più la
legge si mostra indulgente verso di loro...
La legge riserva invece le sue pene più terribili, più infamanti, a
quei miserabili che hanno, non diremo per scusante... ma quanto meno
per attenuante l’ignoranza, l’abbrutimento, la miseria in cui li si
lascia immersi.
Questa parzialità da parte della legge è qualcosa di barbaro e di
profondamente immorale.
Colpite senza pietà il povero, se egli attenta ai beni altrui, ma
colpite allora allo stesso modo il pubblico ufficiale che si
impossessa del denaro dei suoi clienti.
Che non si sentano più certi avvocati scusare, difendere e far
assolvere (giacché condanne così irrisorie sono da considerarsi
delle assoluzioni) individui colpevoli di spoliazioni infami,
adducendo ragioni come queste:
«Il mio cliente non nega di aver dissipato la somma in questione;
egli è consapevole dell’indigenza paurosa in cui le sue
malversazioni hanno precipitato una famiglia onorata; ma che volete
mai! il mio cliente ha uno spirito avventuroso, ama il rischio e,
una volta lanciato nelle speculazioni, una volta preso dalla febbre
del gioco in Borsa, egli non sa più distinguere fra il denaro
proprio e quello altrui».
Il che, come si può notare, è molto consolante per coloro che sono
stati spogliati, e oltremodo rassicurante per coloro che rischiano
di esserlo in futuro.
Ci sembra perciò che un avvocato dovrebbe sentirsi imbarazzato nel
pronunciare dinanzi alle Assise una difesa di questo tipo:
«Il mio cliente non nega di aver scassinato uno scrigno per rubare
la somma in questione; ma che volete! ha un debole per la buona
tavola, per le donne, per la vita comoda e il lusso: e, una volta
che si sente preso da questa sete di piacere, non sa più fare
differenza fra il proprio e l’altrui».
E noi vogliamo continuare il paragone fra il ladro e il
prevaricatore... Quest’ultimo infatti gioca in Borsa al solo scopo
di lucro e desidera guadagnare solo per accrescere la propria
fortuna e i propri piaceri.
Ecco in poche parole il nostro pensiero...
Noi vorremmo che, grazie a una riforma legislativa, il peculato,
commesso da un pubblico ufficiale, venisse qualificato furto e
assimilato, per il minimo della pena, al furto domestico, e, per il
massimo della pena, al furto con scasso e recidiva.
La Società alla quale apparteneva il pubblico ufficiale dovrebbe
rispondere delle somme da lui rubate nella sua qualità di mandatario
stipendiato.
Ecco, del resto, un accostamento che servirà di corollario a questa
digressione... Dopo i fatti che stiamo per citare ogni altro
commento risulterà inutile.
Ci si domanda soltanto se viviamo in una società civile o nella
barbarie.
Si legge nel «Bulletin des Tribunaux» del 17 febbraio 1843, a
proposito di un giudizio di appello chiesto da un ufficiale
giudiziario condannato per peculato:
La Corte, accogliendo le motivazioni dei giudici di prima istanza
... e considerato che i documenti prodotti per la prima volta
davanti alla Corte dall’imputato sono tali da diminuire e
addirittura
infirmare i fatti che erano giunti a conoscenza dei giudici di prima
istanza;
... stabilito e provato che l’accusato, nella sua qualità di
pubblico ufficiale, come mandatario stipendiato ha ricevuto somme in
denaro per conto di tre suoi clienti; che, alle domande rivoltegli
da costoro per venirne in possesso, egli ha risposto con sotterfugi
e menzogne...
che infine ha distratto e dissipato somme di denaro a danno dei
suddetti tre clienti; che ha abusato della loro fiducia, e che si è
reso colpevole del reato previsto e punito dalla legge in base agli
articoli 408 e 406 del codice penale, ecc. ecc...
conferma la condanna a due mesi di prigione e a venticinque franchi
di multa.
Alcune righe più sotto, nello stesso giornale, si poteva leggere, lo
stesso giorno:
Cinquantatré anni di lavori forzati.
Il 13 settembre scorso, un furto notturno è stato commesso da un
ladro che dopo aver scalato un muro è penetrato, forzando la
finestra, in una casa abitata dai coniugi Bresson, vinai, nel
villaggio di Ivry.
Tracce recenti attestano che una scala era stata appoggiata al muro
della casa; infatti una delle imposte della camera svaligiata, che
dava sulla strada, ha ceduto sotto un violento urto.
Gli oggetti sottratti sono risultati numerosi, seppure di poco
valore. Si tratta infatti di abiti vecchi, di vecchie lenzuola, di
scarpe consumate, di due casseruole bucate e, per non omettere
nulla, di due bottiglie d’assenzio bianco svizzero.
Questi fatti, contestati all’imputato Tellier, sono stati pienamente
provati nel corso dei dibattiti, quindi il pubblico ministero ha
invocato tutta la severità della legge contro l’accusato,
soprattutto trattandosi di un recidivo, già condannato dalla legge.
Avendo quindi la giuria emesso un verdetto di colpevolezza su tutti
i capi d’imputazione, senza circostanze attenuanti, la Corte ha
condannato Tellier a vent’anni di lavori forzati e alla gogna.
Così, per il pubblico ufficiale, reo di peculato: due mesi di
prigione...
Per l’ex detenuto recidivo: vent’anni di lavori forzati e la gogna.
Cosa aggiungere, di fronte a questi fatti?... Essi parlano da sé.
Vogliamo almeno sperare che essi possano suscitare accorate e serie
riflessioni.
Fedele alla promessa, il vecchio guardiano era andato a cercare
Germain.
Dopo che maître Boulard fu rientrato all’interno della prigione, la
porta del corridoio si aprì, Germain entrò, e Rigolette fu separata
dal suo infelice protetto solo da una leggera griglia di ferro.
IV FRANÇOIS GERMAIN
I lineamenti di Germain non si potevano dire regolari: tuttavia non
si sarebbe potuto trovare un viso più interessante; la sua figura
era distinta e slanciata; i suoi abiti semplici, ma puliti (calzoni
grigi e redingote nera abbottonata sino al collo) non tradivano la
sordida trascuratezza cui si abbandonano generalmente i prigionieri;
le sue mani bianche e ben fatte testimoniavano di una cura per la
persona che non aveva fatto che accrescere l’avversione degli altri
detenuti nei suoi confronti; perché la perversione morale quasi
sempre si unisce alla sporcizia fisica.
I suoi capelli castani, ondulati di natura, che egli portava lunghi
e con la scriminatura da un lato, secondo la moda del tempo,
incorniciavano il suo viso pallido e abbattuto; gli occhi, d’un
bell’azzurro, rivelavano franchezza e bontà; il sorriso, al tempo
stesso dolce e triste, esprimeva benevolenza e una costante
malinconia; infatti, sebbene molto giovane, questo infelice era già
stato provato crudelmente.
In una parola, nulla di più commovente di quella fisionomia
sofferente, affettuosa, rassegnata, e nulla di più onesto, leale,
del cuore di quel giovane.
Il motivo stesso del suo arresto (che faceva giustizia delle gravi
calunnie dovute all’odio di Jacques Ferrand) provava la bontà di
Germain che certo aveva commesso un’imprudenza, ma la cui colpa era
perdonabile, quando si pensi che il figlio della signora Georges
avrebbe potuto restituire già all’indomani la somma che era stata
momentaneamente prelevata dalla cassa del notaio per salvare Morel
il lapidario.
Germain arrossì lievemente, quando attraverso la griglia del
parlatorio scorse il viso fresco e grazioso di Rigolette.
La ragazza, come al solito, voleva apparire allegra, per infondere
coraggio al suo protetto; ma la poverina sapeva dissimulare male la
sofferenza e l’emozione che provava ogniqualvolta metteva piede
nella prigione.
Seduta su un banco, di là dalla griglia, ella teneva sulle ginocchia
la sua sporta di paglia.
Il vecchio guardiano, anziché restare nel corridoio, andò a mettersi
vicino a una stufa, all’estremità della sala e non passò molto tempo
che si addormentò.
Germain e Rigolette poterono così parlare in tutta libertà.
«Vediamo un po’, signor Germain» disse la sartina avvicinando quanto
più possibile il suo gentile visino alla griglia per meglio
esaminare i lineamenti dell’amico, «vediamo se posso dirmi contenta
del vostro viso... Un po’ meno triste?... Hm... state attento... mi
inquieterò seriamente...»
«Come siete buona!... venire ancora oggi...»
«Ancora! è dunque un rimprovero?...»
«Non dovrei, infatti, rimproverarvi di fare tanto per me, per
me che non posso fare nulla... se non dirvi grazie?»
«Vi sbagliate, signore, perché io sono felice quanto voi delle
visite che vi faccio. Sarei dunque io a dovervi ringraziare a mia
volta... Ah! ecco dove siete ingiusto... E inoltre avrei proprio
voglia di punirvi per i vostri pensieri poco gentili, non dandovi
quello
che avevo portato per voi.»
«Un’altra attenzione... Come mi viziate!... Grazie, di tutto cuo-
re; e scusatemi se così spesso ripeto questa parola che vi irrita...
ma non mi permettete di dire altro che questo.»
«Anzitutto, voi non sapete cosa vi ho portato...»
«E che importa?...»
«Ah, siete proprio gentile...»
«Qualunque cosa sia, non viene forse da voi? La vostra bontà
è commovente, e mi riempie di riconoscenza... e di...» Germain non
completò la frase, e abbassò gli occhi. «E di che?...» aggiunse
Rigolette arrossendo.
«E di... devozione» balbettò Germain.
«Perché non di rispetto, proprio come in chiusa a una lettera?»
disse Rigolette spazientita. «Voi mi volete ingannare, non è questo
che volevate dire... Vi siete fermato bruscamente...»
«Eppure vi assicuro...»
«Voi mi assicurate, mi assicurate... credete forse che non vi veda
arrossire attraverso le sbarre?... Non sono forse la vostra piccola
amica, la vostra compagna? Perché volete nascondermi qual-
cosa?... Siate franco con me, ditemi tutto» aggiunse timidamente la
sartina: ella infatti non attendeva che una confessione da parte di
Germain per dirgli a sua volta ingenuamente e sinceramente che
l’amava.
Un amore onesto e generoso, che la disgrazia di Germain aveva fatto
nascere.
«Vi assicuro» riprese il prigioniero con un sospiro, «che non volevo
dire niente di più... che non vi nascondo nulla!»
«Vergognatevi, bugiardo!...» esclamò Rigolette battendo i piedi.
«Ebbene: vedete questa grande sciarpa di lana bianca che vi ho
portato?» disse Rigolette estraendola dalla cesta: «per punirvi di
aver dissimulato così con me, non ve la darò... E pensare che
l’avevo lavorata a maglia per voi... mi ero detta: deve essere così
freddo, così umido in quei grandi cortili della prigione, che almeno
starà ben caldo con questa... È così freddoloso...»
«Dunque, voi?...»
«Sì, signore, siete freddoloso...» disse Rigolette interrompendolo,
«me ne ricordo bene! il che non vi impediva tuttavia di voler
sempre, per delicatezza, proibirmi di mettere legna nella mia stufa,
quando voi passavate la sera con me... Oh; ho buona memoria,
sapete...»
«E anch’io... fin troppo!» disse Germain con un tremito nella voce.
E si passò la mano sugli occhi.
«Via, eccovi ancora pronto a rattristarvi, malgrado io ve lo
proibisca.»
«Come volete che io non mi senta commosso fino alle lacrime quando
penso a tutto quello che avete fatto per me da quando mi trovo in
prigione?... E quest’ultimo pensiero gentile, non è forse
commovente? Credete, infine, che non sappia che voi rubate le ore al
sonno per riuscire ad avere il tempo di venirmi a trovare? per causa
mia voi vi sottoponete a fatiche eccessive.»
«Già! così voi mi compiangereste di fare ogni due o tre giorni una
bella passeggiata per venire a trovare i miei amici, io che amo
tanto camminare... È così divertente guardare i negozi lungo la
strada!»
«E oggi, poi, uscire con questo vento, e questa pioggia!»
«Ragione di più, voi non avete idea dei tipi che s’incontrano!!! Chi
si tiene il cappello con due mani perché l’uragano non glielo
strappi; altri, mentre l’ombrello si rovescia, fanno delle smorfie
buffissime perché la pioggia li sferza sul viso... Stamane, appunto,
è stato proprio uno spasso, lungo tutta la strada. Mi ripromettevo
anzi di farvi ridere raccontandovi la scena... Ma voi proprio non
volete rasserenarvi neanche un poco...»
«Non è colpa mia... perdonatemi; ma le buone impressioni che vi devo
si tramutano in una tenerezza profonda... Lo sapete, quando mi sento
felice non so essere allegro... è più forte di me...»
Rigolette non volle lasciare intendere che, malgrado la sua lunga
chiacchierata, era vicina a lasciarsi prendere dalla stessa emozione
di Germain: si affrettò quindi a mutare argomento, e disse:
«Voi ripetete sempre che è più forte di voi; ma ci sono ancora tante
altre cose più forti di voi... che non volete fare, malgrado io vi
abbia pregato e supplicato» aggiunse Rigolette.
«Di che intendete parlare?»
«Della vostra ostinazione a volervi sempre isolare dagli altri
detenuti... a non parlare mai con loro... Il guardiano mi ha detto
ancora poco fa che, nel vostro interesse, dovreste preoccuparvene...
Sono sicura invece che voi non ci pensate nemmeno... Tacete?...
Vedete, sempre la stessa storia!... Non sarete soddisfatto finché
quei brutti tipi non finiranno per farvi del male!...»
«Voi parlate così perché non sapete l’orrore che mi ispirano... voi
non conoscete tutte le ragioni personali che ho di sfuggire e di
esecrare costoro e i loro simili!»
«Ahimè! sì, credo di conoscerle queste ragioni... ho letto quelle
lettere che avete scritto per me e che sono andata a prendere a casa
vostra dopo che siete stato imprigionato... Da quelle lettere ho
appreso dei pericoli in cui eravate incorso al vostro arrivo a
Parigi, perché vi siete rifiutato di associarvi, in provincia, ai
crimini di quello scellerato che vi aveva allevato... È stato anzi a
seguito dell’ultima insidia tesavi da costui che, per far perdere le
vostre tracce, voi avete abbandonato la rue du Temple... non dicendo
ad altri che a me dove vi sareste trasferito... In quelle carte ho
letto anche altro» aggiunse Rigolette arrossendo di nuovo e
abbassando gli occhi, «ho letto cose... che...»
«Oh, che voi avreste sempre ignorato, ve lo giuro» esclamò con
vivacità Germain, «se non fossi venuto a trovarmi in tale
disgrazia... Ma, ve ne supplico, siate generosa, perdonatemi simili
follie, dimenticatele; solo allora mi era consentito compiacermi di
tali sogni, benché insensati.»
Rigolette per la seconda volta aveva cercato di indurre Germain alla
tanto attesa confessione, facendo allusione ai pensieri pieni di
tenerezza, di passione, che egli aveva allora espresso e dedicati al
ricordo della sartina; infatti, come si è detto, egli aveva sempre
nutrito per la ragazza un amore vivo e sincero; ma, per go-
dere dell’intimità cordiale della sua gentile vicina, aveva nascosto
questo amore sotto le apparenze dell’amicizia.
Reso dalla disgrazia ancora più diffidente e più timido, egli non
poteva immaginare che Rigolette l’amasse, lui, un prigioniero,
disonorato dalla terribile accusa, se ancor prima di essere colpito
dalla disgrazia ella gli dimostrava solo un attaccamento fraterno.
La sartina, vedendosi così poco compresa, soffocò un sospiro,
aspettando, sperando in un’occasione migliore per rivelare a Germain
il fondo del suo cuore.
Riprese dunque, imbarazzata:
«Mio Dio! comprendo che la compagnia di questa gentaglia vi faccia
orrore, ma non è questa una ragione per correre rischi inutili».
«Vi assicuro che, proprio per seguire le vostre raccomandazioni, ho
cercato diverse volte di rivolgere la parola a quelli che mi
sembravano i meno criminali; ma se sapeste che linguaggio! che
uomini!»
«Ahimè, capisco, deve essere terribile...»
«E quel che c’è di ancor più terribile, vedete, è che io mi sto
abituando a poco a poco a quei discorsi orribili che, mio malgrado,
devo ascoltare tutto il giorno; sì, ora ascolto mesto e come apatico
cose spaventose che i primi giorni mi riempivano d’indignazione; e
devo dirvi anche che comincio a dubitare di me stesso» esclamò
infine con amarezza.
«Oh! signor Germain, che dite mai!»
«A forza di vivere in questi luoghi orribili la nostra mente finisce
coll’abituarsi ai pensieri criminosi, come il nostro orecchio si
abitua alle parole volgari che continuamente vengono pronunciate
intorno a noi. Mio Dio! mio Dio! ora comprendo come si possa entrare
qui innocenti, sebbene accusati, e uscirne pervertiti...»
«Sì, ma non voi, non voi!»
«Sì, io, e altri che valgono mille volte più di me. Ahimè! quelli
che, prima della sentenza, ci condannano a questa odiosa compagnia,
ignorano certo quanto sia dolorosa e funesta!... Essi ignorano che a
lungo andare l’aria che si respira qui diventa contagiosa... mortale
per l’onore di un uomo...»
«Vi prego, non parlate, così, mi fate troppo male.»
«Voi mi domandate la ragione della mia crescente tristezza,
eccola... Non volevo dirvelo... ma ho solo un modo per riconoscere
la pietà che vi anima nei miei confronti.»
«La mia pietà... la mia pietà...»
«Sì, ed è di non nascondervi nulla... Ebbene, ve lo confesso con
terrore... io non mi riconosco più... ho un bel disprezzare e
fuggire quei miserabili; la loro presenza, il loro contatto agiscono
su di me... mio malgrado... Si direbbe che abbiano il potere fatale
di inquinare l’atmosfera in cui vivono... Mi sembra di sentire la
corruzione invadermi da tutti i pori... Anche se mi assolvessero per
la colpa commessa, la vista e i rapporti con le persone oneste mi
riempirebbero di confusione e di vergogna. Non sono ancora arrivato
al punto di godere della compagnia dei miei compagni; ma sono giunto
a temere il giorno in cui mi ritroverò fra persone onorate... E
questo, perché sono colpevole della mia debolezza.»
«Della vostra debolezza?»
«Della mia vigliaccheria...»
«Vigliaccheria?... Ma che idee assurde e ingiuste vi fate di voi
stesso, mio Dio?»
«E non è forse essere vigliacco e colpevole scendere a un com-
promesso con i propri doveri, con certi princìpi di onestà? è questo
che io ho fatto.»
«Voi!, voi!»
«Io, sì. Entrando qui... non minimizzavo l’entità della mia colpa...
per quanto forse scusabile. Ebbene! ora essa mi sembra più piccola;
a forza di ascoltare questi ladri e questi assassini parlare dei
loro crimini con le loro ciniche beffe o con sprezzo feroce, io mi
sorprendo talvolta a invidiare la loro temeraria indifferenza e a
ridere amaramente dei rimorsi che mi hanno tormentato per un reato
tanto insignificante... se confrontato con i loro misfatti...»
«Ma voi infatti avete ragione! la vostra azione, ben lungi
dall’essere biasimevole, è stata generosa; voi eravate sicuro di
poter restituire l’indomani mattina quel denaro che avevate
prelevato solo per alcune ore, allo scopo di salvare un’intera
famiglia dalla rovina, dalla morte forse.»
«Ma le intenzioni non contano: agli occhi della legge, agli occhi
della gente onesta, questo è rubare. Senza dubbio è meno grave
rubare per un simile scopo che per un altro; ma, vedete, è un
sintomo funesto l’essere obbligati, per scusarsi ai propri occhi, a
guardare più in basso... io non sono più capace di mettermi sullo
stesso piano delle persone senza macchia... Eccomi già costretto a
paragonarmi alle persone degradate con cui vivo... A lungo andare...
me ne accorgo chiaramente, la coscienza si intorpidisce,
s’indurisce... Domani potrei commettere un furto, non con la
certezza di poter restituire la somma sottratta per uno scopo
lodevole, per cupidigia, e credermi ugualmente innocente, visto
che altri uccidono per rubare... Sapete, ora la distanza fra me e un
assassino è pari a quella fra me e un uomo irreprensibile... Così,
per la semplice ragione che esistono esseri mille volte più
degradati di me, la mia bassezza sminuisce ai miei occhi! Anziché
poter dire come una volta: io mi sento onesto come il più onesto fra
gli uomini, ora mi consolerò dicendo: sono il meno degradato fra i
miserabili insieme ai quali sono destinato a passare la mia vita!»
«Passare la vostra vita? Ma, e una volta uscito di qui?»
«Anche se la giustizia mi proscioglierà, quella gente mi conosce, e,
usciti di prigione, incontrandomi, si rivolgeranno a me come al loro
vecchio compagno di galera. Se gli altri ignoreranno la giusta
accusa che mi ha portato davanti al tribunale, quei miserabili mi
minacceranno di divulgarla. Voi vedete, dunque, dei legami maledetti
e ormai indissolubili mi uniscono a costoro... mentre se fossi
rimasto chiuso nella mia cella, solo, fino al giorno della sentenza,
non sarei stato assalito da queste angosce che possono paralizzare i
migliori propositi... E poi, solo con me stesso, col pensiero fisso
alla mia colpa, essa si sarebbe ingigantita invece di diminuire, ai
miei occhi; più mi sarebbe parsa grave, più l’espiazione che mi
sarei imposto per l’avvenire sarebbe stata pesante. Così, più avrei
dovuto farmi perdonare, più avrei cercato di fare il bene sia pure
nella mia sfera limitata... Perché, come si sa, occorrono cento
buone azioni per espiarne una cattiva... Ma come pensare ora a
espiare quello che mi suscita a mala pena un rimorso... Sì, lo
sento, obbedisco a un influsso irresistibile, contro il quale ho
lungamente lottato con tutte le mie forze; mi avevano allevato per
il male, e ho ceduto al mio destino; dopo tutto, isolato, senza
famiglia... lasciamo che il mio destino si compia, onesto o
criminale... Eppure... le mie intenzioni erano buone e pure... Per
il fatto stesso che si era voluto fare di me un essere infame, io
provavo una soddisfazione profonda nel dirmi: non sono mai venuto
meno al mio onore, e a un prezzo forse superiore che per chiunque
altro... E oggi... eccomi ridotto... No, è spaventoso...
spaventoso...» esclamò il prigioniero scoppiando in singhiozzi, così
strazianti che Rigolette, profondamente commossa, non riuscì a
trattenere le lacrime.
Anche l’espressione che Germain aveva sul volto era penosissima; e
non si poteva fare a meno di sentirsi solidali di fronte a questa
disperazione di un’anima onesta che si dibatteva sotto gli assalti
di un contagio fatale, sebbene la sua delicata sensibilità
esagerasse la gravità del pericolo.
Sì, un pericolo minaccioso.
Non potremo mai dimenticare le parole di un uomo di rara
intelligenza, alle quali un’esperienza ventennale
nell’amministrazione delle prigioni conferiva tanta autorità:
Ammettendo che una persona ingiustamente accusata entri
perfettamente integra in una prigione, essa ne uscirà sempre meno
onesta di quando vi è entrata; quello che si potrebbe chiamare il
primo fiore della onorabilità scompare per sempre al solo contatto
di quest’aria tanto corrosiva...
Dobbiamo però aggiungere che Germain, grazie alla sua natura
profondamente sana e onesta, aveva lottato a lungo e
vittoriosamente, e che, più che avvertirne realmente i sintomi, egli
presentiva l’avvicinarsi della malattia.
I suoi timori di vedere la sua colpa sminuire ai suoi propri occhi
provavano che in quel momento egli ne sentiva ancora tutta la
gravità; ma il turbamento, l’apprensione, i dubbi che agitavano
crudelmente quell’anima onesta e generosa restavano nondimeno dei
sintomi allarmanti.
Guidata dalla rettitudine del suo animo, dalla sagacia femminile e
da quell’istinto che le veniva dall’amore, Rigolette indovinò quanto
noi ora abbiamo esposto.
Benché perfettamente convinta che il suo amico non avesse perduto
ancora nulla della sua preziosa onestà, ella temeva che, nonostante
la sua nobile natura, Germain finisse un giorno per diventare
indifferente a ciò che allora lo tormentava tanto crudelmente.
V RIGOLETTE
... Per quanto sicura possa essere la felicità di cui si gode,
talvolta si sarebbe tentati di desiderare delle disgrazie
impossibili, per contemplare con riconoscenza e venerazione la
grande nobiltà di certe dedizioni...
WOLFGANG, L’Esprit-Saint, libro II
Rigolette, asciugandosi le lacrime e rivolgendosi a Germain, la cui
fronte era appoggiata alle sbarre, gli disse con accento commosso,
serio, quasi solenne, che egli non le aveva mai sentito prendere
prima di allora:
«Ascoltatemi, Germain, mi esprimerò forse male; io non parlo bene
come voi; ma quel che vi dirò sarà giusto e sincero. Anzitutto voi
avete torto di lamentarvi di essere isolato, abbandonato...»
«Oh, non dovete pensare che io dimentichi ciò che la vostra pietà
per me vi ispira!»
«Poco fa io non vi ho voluto interrompere, quando avete parlato di
pietà... ma poiché voi ripetete questa parola... devo dirvi che non
è affatto la pietà quello che io provo per voi... Cercherò di
spiegarmi il meglio possibile.
Quando noi eravamo vicini di casa io vi amavo come un buon fratello,
come un compagno; voi mi facevate dei piccoli favori, e io
contraccambiavo; voi mi facevate partecipare ai vostri divertimenti
domenicali e io facevo del mio meglio per essere allegra e gentile
per ringraziarvene... eravamo pari.»
«Pari... ah no... io...»
«Lasciate ch’io parli a mia volta... Quando siete stato obbligato a
lasciare la casa dove abitavamo... la vostra partenza mi ha fatto
più dispiacere di quella degli altri.»
«Davvero?»
«Sì, perché gli altri erano degli spensierati ai quali certo sarei
mancata molto meno che a voi; e poi si erano rassegnati a diventare
miei compagni solo dopo essersi fatti ripetere cento volte da me che
non avrei preteso altro... Mentre voi... voi avete subito indovinato
ciò che saremmo stati l’uno per l’altra.
Nonostante ciò voi passavate accanto a me tutto il tempo di cui
potevate disporre... mi avete insegnato a scrivere... mi avete dato
buoni consigli, un po’ severi, perché erano buoni, insomma, siete
stato il più devoto dei miei vicini... e il solo che non mi abbia
domandato nulla.... per il disturbo... E non è tutto: lasciando la
casa, voi mi avete dato una grande prova di fiducia... vedervi
confidare un segreto così importante a una ragazzina come me, questo
mi ha veramente inorgoglito... E quando mi sono separata da voi, il
vostro ricordo era sempre più vivo, per me, di quello degli altri
vicini... Quello che vi sto dicendo è vero... lo sapete, non mento
mai.»
«Dite sul serio?... voi avreste dunque fatto questa differenza fra
me e gli altri?...»
«Certo, l’ho fatta, altrimenti sarei stata ingrata... Sì, mi dicevo:
“Nessuno è migliore del signor Germain: è un po’ serio è vero,... ma
non importa, se io avessi un’amica che cercasse un buon marito, per
essere felice, certamente gli consiglierei di sposare il si-
gnor Germain, che sarebbe proprio uno sposo ideale per una brava
donna di casa”.»
«Voi pensavate a me... per un’altra...» non poté fare a meno di dire
con tristezza Germain.
«È vero; sarei stata felice di vedervi fare un buon matrimonio,
poiché vi amavo come un caro compagno. Vedete, sono franca, vi dico
tutto.»
«E io vi ringrazio dal fondo del cuore; è una consolazione per me
sentirvi dire che fra i vostri amici io ero quello che voi
preferivate.»
«Ecco qual era la situazione quando le vostre disgrazie hanno avuto
inizio... È stato allora che ho ricevuto quella buona lettera in cui
voi mi spiegavate ciò che intendete per colpa... colpa che io trovo,
io che non sono istruita, una bella e buona azione; è stato allora
che mi avete domandato di andare a casa vostra per cercare le carte
che mi hanno rivelato come voi mi avevate sempre amata senza
tuttavia aver osato manifestarvi. Quei fogli in cui ho letto» e qui
Rigolette non poté trattenere le lacrime, «che, pensando al mio
avvenire, minacciato da una possibile malattia o dalla mancanza di
lavoro, voi mi lasciavate, qualora doveste morire di morte violenta,
come avevate motivo di temere... che voi mi lasciavate il poco che
avevate racimolato a forza di lavoro e di economia...»
«Infatti, se io fossi stato ancora in vita e voi vi foste trovata
senza lavoro, o malata... è a me, non è vero, che vi sareste
rivolta, prima che a chiunque altro? Io ci contavo, sapete! Dite...
non mi sono sbagliato, vero?»
«Ma naturalmente, a chi volete che mi rivolgessi?»
«Ah, queste sì sono parole che mi fanno bene, che mi consolano di
tanti dispiaceri!»
«Quanto a me, non so esprimervi quello che ho provato leggendo...
che parola penosa! quel testamento in cui ogni riga conteneva un
ricordo per me o un pensiero per il mio avvenire; e dire che non
avrei conosciuto queste prove del vostro attaccamento che quando voi
non sareste stato più in vita... Che volete, di fronte a un
comportamento tanto generoso, non ci si deve meravigliare se l’amore
nasce d’un botto!... È del tutto naturale, io trovo... non è vero
forse, signor Germain?»
La ragazza pronunciò queste ultime parole in un tono d’ingenuità
così commovente e schietta, fissando i suoi grandi occhi neri in
quelli di Germain, che questi a tutta prima non comprese tanto era
lontano dal credersi amato da Rigolette.
Tuttavia quelle parole erano così precise, che la loro eco risuonò
in fondo all’anima del prigioniero; egli arrossì, impallidì, e
infine esclamò:
«Che dite? Io temo... Oh, mio Dio... forse mi sbaglio... io...».
«Io sto dicendo che dal momento in cui ho scoperto tutta la vostra
bontà nei miei riguardi, e in cui vi ho visto così infelice, ho
cessato di amarvi solo come un compagno e un amico, e che se ora una
mia amica volesse sposarsi» disse Rigolette sorridendo ed
arrossendo, «non sareste più voi che le consiglierei di scegliere,
signor Germain.»
«Voi mi amate! Voi mi amate!»
«Bisognava pure che ve lo dicessi io stessa, dal momento che voi non
me lo domandavate.»
«Allora è vero...»
«Eppure per ben due volte avevo cercato di farvelo comprendere. Ma
già: il signore non vuole capire le mezze parole e mi costringe a
confessargli tutto. Forse non avrei dovuto, ma poiché non ci siete
che voi, che possiate rimproverarmi per la mia audacia, sento di
aver meno paura; e poi» aggiunse Rigolette in un tono più serio e
con commossa tenerezza, «poco fa mi siete parso così abbattuto, così
disperato, che non ho resistito; ho avuto la presunzione di credere
che questa confessione, fatta in tutta franchezza e dal fondo del
cuore, vi avrebbe impedito di sentirvi ancora infelice in futuro. Mi
sono detta: Fino ad oggi non sono riuscita, malgrado i miei sforzi,
né a distrarlo né a consolarlo; le mie leccornie gli toglievano
l’appetito, la mia allegria lo faceva piangere; questa volta
almeno... ah, Dio mio, che avete?» esclamò Rigolette vedendo Germain
che si nascondeva il viso fra le mani. «Allora voi siete crudele!»
aggiunse «qualsiasi cosa dica o faccia... voi non cessate di essere
infelice; questo significa essere troppo cattivo, e troppo egoista,
anche... si direbbe che solo voi soffriate dei vostri
dispiaceri!...»
«Ahimè, che sofferenza è la mia!!!» esclamò Germain disperato. «Voi
mi amate, e io non sono più degno di voi!»
«Non siete più degno di me? Ma voi state dicendo cose senza senso.
Sarebbe come se io vi raccontassi che una volta non ero degna della
vostra amicizia perché ero stata in prigione... giacché, dopo tutto,
anche io ho avuto questa esperienza; ma sono forse per questo meno
onesta?»
«Ma voi siete finita in prigione perché eravate una povera bambina
abbandonata, mentre io! Dio mio, che differenza!»
«Insomma, quanto alla prigione, non abbiamo nulla da
rimproverarci!... Sono piuttosto io a essere ambiziosa... perché
nel-
le mie condizioni dovrei pensare a sposare un operaio. Sono una
trovatella... non possiedo nulla salvo la mia cameretta e la mia
voglia di lavorare... e ciononostante vengo a proporvi di prendermi
in moglie.»
«Ahimè! In altri momenti questo sarebbe stato il sogno, la felicità
della mia vita! ma oggi, sotto il peso di un’accusa infamante, io
abuserei della vostra ammirevole generosità, della vostra pietà, che
forse vi ha portato fuori strada! no, no.»
«Ma mio Dio mio Dio!» esclamò Rigolette con dolorosa impazienza, «io
vi sto dicendo che non è pietà quello che sento per voi! è amore.
Non penso che a voi: non dormo più, non mangio più: il vostro viso
pieno di dolcezza e insieme tanto triste mi segue ovunque. Si può
chiamare pietà questa? ora, mentre mi parlate, la vostra voce il
vostro sguardo mi vanno al cuore. Vi sono mille cose in voi, che in
questo momento mi piacciono alla follia, e che non avevo notato
prima. Amo il vostro viso, i vostri occhi, la vostra figura: amo la
vostra intelligenza, il vostro cuore delicato; è forse pietà, tutto
questo? Forse vi chiederete perché, dopo avervi voluto bene come
amico, oggi vi amo di vero amore? non lo so. Perché ero così pazza e
gaia quando avevo per voi solo dell’amicizia, mentre ora mi sento
tutta assorta, da quando vi amo? Non lo so. Perché ho messo tanto
tempo per trovarvi al tempo stesso bello e buono, per amarvi con gli
occhi oltre che col cuore? non lo so, o meglio, sì, lo so, perché ho
scoperto quanto voi mi amavate senza avermelo mai detto, quanto
eravate generoso e devoto. Allora l’amore mi è salito dal cuore agli
occhi, come fanno le lacrime quando ci si intenerisce.»
«Veramente, io credo di sognare sentendovi parlare così.»
«E io allora? non avrei mai creduto di poter osare parlarvi in
questo modo; è stato il vedervi tanto disperato che mi ha spinto!
Ebbene, signore, ora che sapete che vi amo come amico, come amante,
come marito, direte ancora che si tratta di pietà?»
I generosi scrupoli di Germain caddero per un momento di fronte a
questa confessione così ingenua e coraggiosa.
Una gioia insperata lo sottrasse alle sue dolorose preoccupazioni.
«Voi mi amate!» esclamò. «Vi credo: il vostro accento il vostro
sguardo, tutto me lo dice! Non voglio stare a chiedermi come ho
potuto meritare una simile felicità, e mi ci abbandono ciecamente.
La mia vita, la mia vita intera non basterà a ripagarvi di quanto mi
donate! Ah, ho già sofferto molto, ma questo momento mi sembra
cancellare tutto!»
«Eccovi infine consolato. Oh, ero ben sicura che ci sarei riuscita!»
esclamò Rigolette raggiante di gioia.
«Ed è in mezzo agli orrori di una prigione, ed è proprio quando
tutto sembra schiacciarmi, che una tale felicità...»
Germain non poté terminare.
Quel pensiero gli riportava la realtà della sua condizione; i suoi
scrupoli, dimenticati per un momento, si ripresentarono più
lancinanti che mai, ed egli riprese a dire, disperato:
«Ma io sono prigioniero, sono accusato di furto, sarò condannato,
disonorato forse! e io dovrei accettare il vostro generoso
sacrificio, approfittare del vostro slancio magnanimo! Oh, no! no!
non sono così infame!».
«Che dite?»
«Potrei essere condannato... ad anni di prigione.»
«Ebbene» rispose Rigolette con calma e fermezza... «vedran-
no che sono una brava ragazza e non si rifiuteranno di sposarci
nella cappella della prigione.»
«Ma io posso finire in una prigione lontana da Parigi.»
«Una volta che sarò vostra moglie vi seguirò; mi stabilirò nella
città in cui vi trasferiranno, cercherò lavoro e verrò a trovarvi
tutti i giorni.»
«Ma io sarò disonorato agli occhi di tutti.»
«Voi mi amate più di tutti al mondo, vero?»
«E occorre chiedermelo?»
«Allora che vi importa? Lungi dall’essere disonorato ai miei
occhi, io vi considererò una vittima del vostro buon cuore.» «Ma il
mondo vi accuserà, il mondo vi condannerà, getterà la
calunnia sulla vostra scelta...»
«Il mondo! siete voi per me, e io per voi il mondo; lasceremo
dire...»
«E poi, anche dopo uscito di prigione la mia vita sarà preca-
ria, miserabile; tutti mi chiuderanno la porta in faccia, forse non
riuscirò a trovare lavoro!... e poi, è orribile pensarlo, ma se
questa corruzione che mi ossessiona dovesse mio malgrado
impadronirsi di me... quale avvenire sarebbe il vostro?»
«Voi non vi lascerete corrompere; no, perché ora sapete che vi amo,
e questo pensiero vi darà la forza di resistere al cattivo
esempio... voi penserete che quand’anche tutti vi respingessero,
uscendo di prigione, vostra moglie vi accoglierà con amore e
riconoscenza, certissima che voi vi sarete mantenuto onesto...
Questo linguaggio vi stupisce, vero? anch’io ne sono meravigliata...
Non so nemmeno dove trovo queste parole... certo nel più pro-
fondo del mio animo... e questo deve convincervi... altrimenti, se
voi sdegnate un’offerta che vi è porta con tutto il cuore... se voi
non sapete che farvene dell’affetto di una povera ragazza che...»
Germain interruppe Rigolette con passione.
«Ebbene! Accetto... accetto; sì, lo sento, talvolta è una debolezza,
una vigliaccheria rifiutare certi sacrifici, perché è come
riconoscere di esserne indegni... Accetto, o fanciulla nobile e
coraggiosa.»
«Davvero? Davvero, questa volta?...»
«Ve lo giuro... e poi, voi mi avete detto d’altronde qualcosa che mi
ha colpito, che mi ha infuso quel coraggio che mi mancava.»
«Che felicità! e cos’ho detto?»
«Che per voi io dovrei ormai trovare la forza di mantenermi
onesto... Sì, in questo pensiero io troverò la forza di resistere
alle detestabili influenze che mi circondano... Io sfiderò il
contagio, e saprò conservare degno del vostro amore questo cuore che
vi appartiene!»
«Ah, Germain, come sono felice! se ho fatto qualcosa per voi, come
me ne sento ricompensata!!!»
«E poi, vedete, benché voi scusiate la mia colpa, io non scorderò
mai la sua gravità... In avvenire mi sentirò doppiamente impegnato:
a espiare il passato e a meritare la felicità che vi debbo... Per
questo, farò tutto il bene che mi sarà possibile... perché, per
quanto poveri si sia, non ne manca mai l’occasione.»
«Ahimè! mio Dio! è vero, si trovano sempre esseri più infelici di
noi.»
«In mancanza di denaro...»
«Si offrono le lacrime, come facevo per quel povero Morel...» «Ed è
un’elemosina santa: la carità dell’anima vale bene quel-
la che dà il pane.»
«Insomma, voi accettate... e non ritirerete la parola data?...» «Oh,
mai, mai, amica mia, moglie mia; sì, il coraggio ritorna,
mi sembra di uscire da un sogno, non dubito più di me stesso, mi
ingannavo, mi ingannavo per fortuna. Il mio cuore non batterebbe
come batte, se avesse perduto la sua energia, la sua fierezza.»
«Oh, Germain, come siete bello quando parlate così! come mi
rassicurate, non per me, ma per voi stesso! Voi me lo promettete,
non è vero, ora che avete il mio amore per difesa, voi non avrete
più timore di parlare a quei malvagi, e così non ecciterete la loro
collera contro di voi.»
«Rassicuratevi. Vedendomi triste e accasciato, mi accuserebbero
senza dubbio d’essere in preda ai miei rimorsi; mentre ve-
dendomi pieno di fierezza e di gioia crederanno che il loro cinismo
mi abbia conquistato.»
«È vero; essi non sospetteranno più di voi, e io sarò tranquilla.
Dunque, attento alle imprudenze... ora voi mi appartenete... non
sono forse la vostra mogliettina?»
In quel momento il guardiano fece un movimento e si svegliò.
«Presto!» disse a bassa voce Rigolette con un sorriso pieno di
grazia e di ritrosa tenerezza. «Presto, marito mio, datemi un bel
bacio in fronte, attraverso le sbarre... sarà il nostro
fidanzamento.»
E la ragazza, arrossendo, appoggiò la fronte sull’inferriata.
Germain, profondamente commosso, sfiorò con le labbra, attraverso le
sbarre, quella fronte bianca e pura.
Il prigioniero vi lasciò cadere una lacrima, come una perla umida.
Commovente battesimo di quell’amore casto, malinconico e
incantevole!
«Oh! oh! già le tre!» disse il guardiano alzandosi; «e i visitatori
avrebbero dovuto andarsene alle due. Andiamo, cara signorina»
aggiunse rivolgendosi alla sartina, «mi dispiace, ma dovete
andarvene.»
«Oh, grazie, grazie, signore, di averci lasciato parlare così soli.
Sono riuscita a far coraggio a Germain; ora si darà da fare per
abbandonare quell’aria da funerale e così non avrà più nulla da
temere dai suoi cattivi compagni. Non è vero, amico mio?»
«State tranquilla» disse Germain sorridendo, d’ora in poi sarò il
più allegro della prigione.
«Alla buon’ora, allora non faranno più attenzione a voi» disse il
guardiano.
«Ecco una sciarpa che ho portato a Germain, signore» riprese
Rigolette: «devo lasciarla alla ricevitoria?»
«È la regola; ma, dopo tutto, visto che non ho rispettato il
regolamento, una piccola cosa in più o in meno... Andiamo, via, vi
lascio finire la visita in bellezza: su, presto, consegnategli voi
stessa il vostro regalo.»
E il guardiano aprì la porta del corridoio.
«Questo brav’uomo ha ragione, la giornata così sarà completa» disse
Germain ricevendo la sciarpa dalle mani di Rigolette, che strinse
teneramente. «Addio, e a presto. Ora non temo più di domandarvi di
venire a trovarmi il più presto possibile.»
«Né io di promettervelo. Addio, mio buon Germain.»
«Addio, mia cara piccola amica.»
«E sappiate far buon uso della mia sciarpa, fate attenzione al
freddo; è così umido qui!»
«Che bella sciarpa! quando penso che l’avete fatta per me! Oh! non
la lascerò mai» disse Germain portandola alle labbra.
«Ah! cosa vedo... avete forse appetito?... almeno lo spero. Volete
che vi faccia un piccolo regalo?»
«Certo, e questa volta gli farò onore.»
«State tranquillo, allora, signor ghiottone, e poi mi saprete dire.
Addio ancora. Grazie, signor guardiano, oggi me ne vado felicissima,
e rassicurata... Addio, Germain.»
«Addio, mogliettina mia... a presto!...»
«E per sempre!...»
Alcuni minuti dopo, Rigolette, dopo aver ripreso gli zoccoli e
l’ombrello, se ne usciva dalla prigione ben più allegra di quando vi
era entrata.
Mentre si era svolto il colloquio fra Germain e la sartina, altre
scene avevano avuto luogo in uno dei cortili della prigione, e là
noi condurremo il lettore.
VI
LA FOSSA-DEI-LEONI
Se l’aspetto esterno di una grande casa di pena, costruita in modo
da garantire certe condizioni essenziali di benessere e di igiene,
non offre a chi la guardi, come già abbiamo detto, nulla di
sinistro, la vista dei detenuti causa invece l’impressione
contraria.
Quando, ad esempio, ci si trova in mezzo a delle detenute, ci si
sente presi da un senso di tristezza e di pietà, perché non si può
fare a meno di pensare che queste sventurate quasi sempre si sono
ridotte a quella vita non tanto per la loro volontà quanto per la
perniciosa influenza del primo che le ha sedotte e traviate.
E poi, anche le donne più criminali conservano al fondo del loro
animo due corde sacre che i violenti strappi delle passioni più
detestabili, pertinaci e impetuose, non arrivano mai a spezzare
interamente... l’amore e il sentimento materno!
Parlare d’amore e di maternità vale quanto dire che, anche in queste
miserabili creature, bagliori di purezza e di dolcezza possono
ancora rischiarare qua e là le nere tenebre della corruzione...
Tra gli uomini, invece, così come la prigione li ha ridotti per poi
ributtarli nel mondo... non si trova nulla di simile.
È il crimine, per così dire, allo stato integrale, un blocco di
bronzo che si arroventa solo al fuoco delle passioni infernali.
Così alla vista dei criminali che affollano le prigioni si è a tutta
prima presi da un brivido di spavento e di orrore.
Basta una semplice riflessione a indurvi a pensieri più pietosi, è
vero, ma pur sempre ispirati a profonda amarezza.
Sì, una profonda amarezza... perché si deve riconoscere che quei
sinistri individui che popolano le galere e i penitenziari...
cruenta messe per il boia... nascono sempre nel fango
dell’ignoranza, della miseria e dell’abbrutimento.
Per comprendere questa prima impressione di orrore e di spavento di
cui stiamo parlando, invitiamo il lettore a seguirci nella
Fossa-dei-leoni.
È il nome dato a uno del cortili del penitenziario la Force.
È là che si trovano di solito riuniti i detenuti più pericolosi per
i loro precedenti, per la loro ferocia, o per la gravità delle
imputazioni.
Cionondimeno si era dovuto mettere con loro temporaneamente, a causa
di certi lavori urgenti intrapresi in un’ala della prigione, molti
altri prigionieri.
Costoro, seppure in attesa di una sentenza della corte d’Assise,
erano quasi persone per bene al confronto degli ospiti abituali
della Fossa-dei-leoni.
Il cielo tetro, grigio e piovoso, gettava una luce squallida sulla
scena che stiamo per dipingere. Questa scena si svolgeva al centro
di un cortile, un largo quadrilatero delimitato da alte mura
bianche, qua e là forate da alcune finestre con sbarre.
A un’estremità di questo cortile c’era una porticina, mentre
all’altra si trovava l’entrata a uno stanzone riscaldato, la stufa,
al cui centro si trovava un calorifero di ghisa circondato da
banconi di legno, ove stavano pigramente sdraiati molti prigionieri
che chiacchieravano fra loro.
Altri, preferendo il moto al riposo, passeggiavano nel cortiletto
camminando in file strette, tenendosi a quattro o cinque
orizzontalmente, per il braccio.
Bisognerebbe possedere i pennelli dai colori evocatori e potenti di
un Salvator o di un Goya per tratteggiare un ritratto di questi
diversi esemplari della bruttezza fisica e morale e per rendere in
tutta la sua odiosa fantasia la varietà degli abiti di questi
disgraziati, coperti per lo più da miserabili stracci; infatti,
trattandosi di imputati non ancora processati, essi non vestivano la
divisa dei galeotti; tuttavia alcuni la portavano, perché all’arrivo
in
prigione i loro cenci erano parsi così sordidi, così infetti che
dopo il bagno d’uso3 erano stati dotati di casacca e pantaloni di
grosso panno grigio dei condannati.
Un frenologo avrebbe osservato con interesse quelle teste scarne e
scure, quelle fronti appiattite o schiacciate, quegli sguardi
crudeli o insidiosi, quelle bocche dall’espressione cattiva o
stupida, quelle nuche enormi; quasi tutti rivelavano spaventose
rassomiglianze con gli animali.
Nei lineamenti furbi dell’uno si leggeva la perfidia sottile della
volpe; nei tratti di un altro, la rapacità sanguinaria dell’uccello
da preda; in un altro ancora, la ferocia della tigre o, infine, la
stupidità animale del bruto.
La marcia circolare di questa banda di esseri silenziosi dallo
sguardo insolente e pieno d’odio, dal riso arrogante e cinico, che
si accalcavano gli uni sugli altri, in fondo al cortile, come un
pozzo quadrato, aveva qualcosa di stranamente sinistro...
Non si poteva non rabbrividire al pensiero che quell’orda feroce
sarebbe stata, dopo un certo tempo, di nuovo rilasciata e
sguinzagliata in quel mondo cui essa aveva giurato una guerra
implacabile.
Quante vendette sanguinarie, quanti propositi criminosi covano
sempre sotto quelle apparenze di perversità sfrontata e beffarda!!!
Cercheremo di tratteggiare alcune delle fisionomie più
caratteristiche della Fossa-dei-leoni, lasciandone altre in secondo
piano.
Mentre il guardiano sorvegliava coloro che facevano la passeggiata,
una sorta di conciliabolo si stava svolgendo nella stanza. Fra i
detenuti che vi prendevano parte ritroviamo Barbillon e
Nicolas Martial, a cui accenneremo solo per cronaca.
Colui che sembrava, per così dire, presiedere e condurre la
discussione era un detenuto soprannominato Squelette4 di cui si
3 Grazie a questa eccellente misura, igienica anzitutto, ogni
detenuto, al momento del suo ingresso in prigione e poi due volte al
mese, viene condotto alla stanza delle docce e i suoi abiti
sottoposti a una fumigazione disinfettante. Per un povero operaio un
bagno caldo rappresenta un lusso inaudito.
4 A questo proposito noi siamo presi da un scrupolo. Quest’anno, un
povero diavolo, reo solo di vagabondaggio, di nome Decure, è stato
condannato a un mese di prigione; egli esercitava infatti, in una
fiera, il mestiere di scheletro ambulante, vista la sua incredibile
e straordinaria magrezza. Questo tipo ci è parso curioso e l’abbiamo
sfruttato: ma il vero Squelette non ha, moralmente, alcun rapporto
con il nostro personaggio fittizio.
è udito spesso pronunciare il nome presso i Martial all’isola del
Predone.
Lo Squelette era il capoccia di questo gruppo di detenuti. Sui
quarant’anni, piuttosto alto, quest’uomo giustificava il lugubre
soprannome per la sua magrezza, impossibile a immaginarsi, e che noi
chiameremmo piuttosto osteologica...
Se la fisionomia dei compagni dello Squelette offriva una certa
analogia con quella della tigre, dell’avvoltoio o della volpe, la
forma della sua fronte, sfuggente all’indietro, e delle sue mascelle
ossute, piuttosto piatte e allungate, sostenute da un collo
sproporzionatamente lungo, ricordava perfettamente la conformazione
della testa del serpente.
La totale calvizie accresceva ancora maggiormente quest’odiosa
rassomiglianza; sotto la pelle rugosa della fronte, infatti, quasi
piatta come quella di un rettile, si potevano distinguere le minime
protuberanze e le minime suture del cranio; il viso era imberbe e
incartapecorito come una vecchia pergamena incollata direttamente
sulle ossa facciali e solo leggermente tesa dagli zigomi all’angolo
della mascella inferiore, di cui si vedeva distintamente il punto di
innesto.
Gli occhi, piccoli e torbidi, erano così profondamente infossati,
l’arcata sopracciliare e gli zigomi così prominenti, che sotto la
fronte giallastra, là dove si arrestava la luce, si vedevano due
orbite letteralmente invase d’ombra, mentre gli occhi sembravano
scomparire in fondo a quelle due cavità scure, a quei due buchi neri
che rendono così funebre un teschio. I lunghi denti, i cui rialzi
alveolari si disegnavano chiaramente sotto la pelle scurita delle
mascelle ossute e appiattite, si scoprivano quasi continuamente per
un tic incontrollabile.
Ecco un frammento del racconto dell’interrogatorio di Decure:
«IL PRESIDENTE: Cosa facevate nel comune di Maison al momento del
vostro arresto?
RISPOSTA: Stavo compiendo, secondo la professione che esercito di
scheletro ambulante, ogni sorta di esercizi per divertire i giovani;
io riduco il mio corpo a uno scheletro, distendo le mie ossa e i
miei muscoli a volontà; ingerisco l’arsenico, il sublimato
corrosivo, i rospi, i ragni, e in generale tutti gli insetti; mangio
anche il fuoco, trangugio olio bollente, e in esso mi lavo; almeno
una volta all’anno sono chiamato a Parigi dai medici più famosi,
quali Dubois, Orfila, che mi sottopongono a ogni specie di
esperimento ecc. ecc. ecc. (“Bulletin des Tribunaux”).»
Sebbene i muscoli di quell’uomo fossero quasi ridotti allo stato di
tendini, egli possedeva una forza straordinaria. Anche i più robusti
resistevano difficilmente alla stretta delle sue lunghe braccia, e
delle sue lunghe dita scarne.
Si sarebbe detto trattarsi della formidabile stretta di uno
scheletro di ferro.
Egli portava un camiciotto azzurro molto corto, che lasciava vedere,
ed egli se ne vantava, le mani nodose e la metà dell’avambraccio, o
meglio due ossa (il radio e il cubito, e ci scusiamo
dell’elencazione anatomica), due ossa avvolte in una pelle ruvida e
nerastra, separate fra loro da un profondo incavo ove serpeggiavano
alcune vene dure e secche come corde.
Quando egli posava le mani su un tavolo, sembrava, come si espresse
con una metafora azzeccata Pique-Vinaigre, che vi sciorinasse un
gioco di aliossi.
Lo Squelette, dopo aver passato quindici anni della sua vita al
bagno penale per furto e tentato omicidio, era riuscito a fuggire,
ma era stato poi riacciuffato in flagrante reato di furto e
omicidio.
Quest’ultimo assassinio era stato commesso in circostanze di una
tale ferocia che, vista poi la recidiva, il bandito si considerava
in anticipo e a ragione un condannato a morte.
L’influenza che lo Squelette esercitava sugli altri detenuti grazie
alla sua forza, alla sua energia, e alla sua perversione aveva
indotto il direttore della prigione a sceglierlo come
capo-dormitorio, vale a dire che lo Squelette aveva avuto l’incarico
dalla polizia di provvedere alla sua camerata, per quanto concerneva
l’ordine, la pulizia della stanza e dei letti; egli svolgeva
benissimo le sue funzioni e nessun detenuto avrebbe osato venir meno
ai suoi doveri, sul cui adempimento Squelette doveva sorvegliare...
Fatto strano e significativo...
I direttori di prigione più intelligenti, dopo aver cercato di
affidare le funzioni di cui si è detto ai detenuti che ancora
mostravano di aver conservato qualche parvenza di onestà, o i cui
crimini erano stati più lievi, si sono visti costretti a rinunciare
a questa scelta, sebbene logica e moralmente giustificata, per
cercare invece i capi-camerata fra i prigionieri più corrotti e più
temuti, poiché essi erano i soli a sapersi imporre ai loro compagni.
Così, ripetiamo, più un colpevole mostra cinismo e sfrontatezza, più
è tenuto in considerazione, e per così dire rispettato.
Questo fatto, provato dall’esperienza, sanzionato dalla scelta
obbligata di cui abbiamo detto, non è forse un argomento
irrefutabile contro la piaga della reclusione comune?
Non dimostra forse, con un’evidenza assoluta, la virulenza del
contagio che colpisce mortalmente i detenuti dai quali si potrebbe
ancora sperare qualche possibilità di riabilitazione?
Infatti a cosa serve pensare a pentirsi, a emendarsi, quando in
quell’inferno dove si devono passare lunghi anni, se non l’intera
vita, si constata che il prestigio è proporzionale ai misfatti di
cui uno si vanta?
Ancora una volta si dimentica dunque che il mondo esterno, che la
società onesta non esistono più per il detenuto?
Indifferente alle leggi morali che li reggono, egli assume
necessariamente i costumi di coloro che lo circondano; poiché in
galera ogni considerazione è riservata alla superiorità del delitto,
inevitabilmente egli tenderà sempre verso questa truce aristocrazia.
Ma ritorniamo allo Squelette, capo-camerata, che stava
chiacchierando con alcuni prigionieri, fra i quali si trovava...
«Sei proprio sicuro di quanto stai dicendo?» domandò lo Squelette a
Martial...
«Sì, sì, cento volte sì; compare Micou l’ha saputo dal GrosBoiteux
che ha già cercato di ucciderlo, quel furfante... perché ha
denunciato qualcuno...»
«Allora che gli si mangi il naso, e che questa storia finisca!»
aggiunse Barbillon. «Già poco fa lo Squelette era del parere di dare
una lezione coi fiocchi a quello spione di Germain.»
Il capo-camerata si tolse un momento la pipa di bocca e disse con
voce così bassa, così roca, da avvinazzato, che si sentiva appena:
«Germain voleva fare per conto suo, e ci dava fastidio, ci spiava,
perché meno si parla e più si ascolta; bisognava costringerlo a
sparire dalla Fossa-dei-leoni... una volta che gliele avessimo
suonate a sangue... lo avrebbero tolto di qui...»
«E allora...» disse Nicolas, «cosa c’è di cambiato?»
«Di cambiato c’è» riprese lo Squelette, «che se ha fatto lo spione,
come dice il Gros-Boiteux, non se la caverà con una battuta a
sangue...»
«Alla buon’ora» disse Barbillon.
«Ci vuole un esempio...» disse lo Squelette animandosi a poco a
poco. «Ora non è più la polizia che ci scopre, ma gli spioni.
Jacques e Gauthier che hanno ghigliottinato l’altro giorno...
denunciati... Roussillon, che hanno mandato in galera con
l’ergastolo... denunciato.»
«E io allora? e mia madre? e Calebasse? e mio fratello Toulon?»
esclamò Nicolas. «Forse non siamo stati tutti denunciati
da Bras-Rouge? Adesso è sicuro, che è stato lui, perché invece di
sbatterlo qui l’hanno mandato alla Roquette! Non hanno osato
metterlo con noi... sapeva quel che aveva fatto... il briccone...»
«E io» disse Barbillon, «Bras-Rouge non ha forse spifferato anche
sul mio conto?»
«E su di me, allora?» disse un giovane detenuto con una vocina
sottile, biascicando le parole in tono affettato; «anch’io sono
stato venduto da Jobert, un tipo che mi aveva proposto un affare in
rue Saint-Martin.»
Quest’ultimo personaggio, dalla voce flautata, dal viso pallido,
grasso ed effeminato, dallo sguardo insidioso e vile, era vestito in
maniera singolare; aveva in capo un foulard rosso che lasciava
intravedere delle ciocche di capelli biondi appiccicate sulle
tempie; le due cocche del fazzoletto formavano una vaporosa gala al
di sopra della fronte. In luogo della sciarpa portava uno scialle di
merinos bianco ornato di verde, che s’incrociava sul petto; la
giacca di panno marrone spariva sotto la stretta cintura di larghi
pantaloni scozzesi a grossi quadri di diversi colori.
«È una cosa indegna!... essere furfanti fino a quel punto!...»
riprese questo personaggio con voce affettata. «Per nulla al mondo
avrei osato dubitare di Jobert.»
«Lo so che è stato lui a denunciarti, Javotte» rispose lo Squelette,
che sembrava proteggere particolarmente questo detenuto; «prova ne è
che hanno fatto per questo spione quello che avevano già fatto per
Bras-Rouge... neanche Jobert hanno osato lasciarlo qui... l’hanno
messo alla Conciergerie... Ebbene! questa storia deve finire... ci
vuole un esempio... i traditori fanno il gioco della polizia... e
credono di aver sicura la pelle perché li mettono in un’altra
prigione... dove non ci sono quelli che hanno denunciato...»
«È vero!...»
«Per impedirlo bisogna che i prigionieri considerino ogni spione
come un nemico mortale; che abbia denunciato Pierre o Jacques, qui o
altrove, non ha importanza, bisogna piombar loro addosso. Quando
avremo tirato il collo a quattro o cinque, qui nei cortili... gli
altri ci penseranno due volte prima di denunciare un ladro.»
«Hai ragione, Squelette» disse Nicolas; «allora bisogna che Germain
ci passi...»
«Ci passerà» riprese il capo-camerata. «Ma aspettiamo che il
Gros-Boiteux sia arrivato... Quando, per esempio, egli avrà
dimostrato che Germain è uno spione, tutto sarà a posto... La spia
non canterà più, perché gli chiuderanno il becco.»
«Ma come fare con i guardiani che ci sorvegliano?» domandò il
detenuto che lo Squelette chiamava Javotte. «Ho un’idea...
Pique-Vinaigre farà al caso nostro.»
«Lui? è troppo vigliacco.»
«E poi non è più forte di una pulce.»
«Basta così, so io quel che si deve fare; dov’è ora?»
«Era tornato dal parlatorio, ma poco fa l’hanno mandato a
chiamare per parlare col suo avvocato.»
«E Germain, è sempre nel parlatorio?»
«Sì, con quella ragazzina che viene a trovarlo.»
«Non appena scenderà, fate attenzione! Ma bisognerà aspet-
tare Pique-Vinaigre, perché non possiamo far nulla senza di lui.»
«Senza Pique-Vinaigre?»
«No...»
«E lasceremo secco Germain?»
«Me ne incarico io.»
«Ma con che cosa, se ci tolgono i coltelli.»
«E queste tenaglie? ti sentiresti di infilarci il collo?» domandò
lo Squelette aprendo le sue lunghe dita scarne e dure come il ferro.
«Lo strangolerai?»
«Un po’.»
«Ma se sanno che sei stato tu?»
«E allora? Sono forse un vitello a due teste, come quelli che si
mettono in mostra alla fiera?»
«È vero... ci viene fatta la festa una volta sola, e poiché a te la
faranno sicuramente...»
«Più che sicuro: l’avvocato me l’ha detto ancora ieri... Mi hanno
preso con le mani nel sacco e il coltello nella gola della vittima.
E come recidivo, sono sistemato... Manderò la mia testa a vedere, là
nella cesta dei ghigliottinati, se è vero che si truffano i
giustiziati e che viene messa della segatura di legno invece della
crusca, come il governo ci concede...»
«È vero... il ghigliottinato ha diritto alla crusca... Anche mio
padre l’hanno truffato... me lo ricordo!!!» disse Nicolas Martial
con un ghigno feroce.
Questa abominevole burla fece sbellicare dalle risa i detenuti.
Tutto ciò è spaventoso... ma lungi dall’aver esagerato, noi abbiamo
cercato al contrario di attenuare il tono terrificante di questi
discorsi, tanto comuni in prigione.
Ma bisogna pure, lo ripetiamo, che si abbia un’idea seppur pallida
di quanto viene detto e fatto in queste orrende scuole di
perdizione, di cinismo, di ladrocinio e di scelleratezza.
Bisogna che si sappia con quale sfrontato disprezzo quasi tutti i
grandi criminali parlano dei più terribili castighi con cui la
società ha potuto colpirli.
Allora si comprenderà forse l’urgenza di sostituire a queste inutili
pene, a queste reclusioni che diffondono il contagio, la sola
punizione che possa terrorizzare anche gli scellerati più incalliti;
è quello che andiamo a dimostrare.
I detenuti riuniti nella stufa si eran dunque messi a ridere
sgangheratamente.
«Per mille fulmini!» esclamò lo Squelette, «vorrei proprio che ci
vedessero in questo momento, tutti quei giudici, che credono di
vederci fare il muso mesto davanti alla loro ghigliottina... Non
hanno che venire a vedere alla porta Saint-Jacques il giorno della
mia beneficiata; così mi sentiranno fare gli sberleffi alla folla, e
dire al boia con voce spavalda: “Père Samson, la corda, per
favore!”».
Nuove risate...
«Il fatto è che l’operazione dura il tempo di mandar giù una
cicca... e il boia tira la corda...»
«E vi apre la porta dell’Inferno» disse lo Squelette continuando a
fumare la pipa.
«Ah! bah!... ma c’è poi un Inferno?»
«Imbecille! dico così per ridere... C’è una mannaia, una testa che
si mette sotto... ed è tutto.»
«Io, ora che so qual è la mia destinazione e so che devo fermarmi
alla ghigliottina, trovo perfettamente uguale partire oggi o domani»
disse Squelette in tono di selvaggia eccitazione, «anzi vorrei già
esservi... sento già il sangue che mi viene alla bocca... quando
penso alla folla che sarà là per vedermi... Saranno senz’altro
quattro o cinquemila che si accalcheranno, che si batteranno per
prendere i posti migliori; e affitteranno finestre e sedie come si
fa al passaggio di un corteo. Mi sembra già di sentirli gridare: Si
affitta un posto!... si affitta un posto!... e poi vi sarà la
truppa, cavalleria e fanteria, tutti i pezzi grossi... e questo per
me, Squelette... non è per una vittima qualunque che si
scomoderebbero così... eh?... gli amici...? È quel che ci vuole per
insuperbire un uomo... Anche quando si trattasse di un vigliacco
come Pique-Vinaigre ci sarebbe di che farlo camminare da risoluto...
Tutti quegli occhi che vi guardano vi mettono il fuoco in corpo... e
poi... è un passo che bisogna fare... si muore da gradassi... e
questo dà molto fastidio ai giudici e alle vittime, e incoraggia i
ladri a beffarsi dei benpensanti.»
«È vero» riprese Barbillon, per non essere da meno di quel brigante
dello Squelette, «credono di farci paura e di farci pagare il
massimo quando mandano il boia a preparare la nostra fine.»
«Ah, bah!» disse a sua volta Nicolas, «noi ce la ridiamo e come...
della macchina del boia! è come per la prigione o per il bagno
penale: ce ne ridiamo anche di questi: a patto che si sia tutti
amici insieme, viva la gioia di morire!»
«Per esempio» disse il prigioniero dalla voce effeminata, «quel che
scoccerebbe molto sarebbe che ci mettessero in cella giorno e notte;
si dice che si arriverà anche a questo.»
«In cella!» esclamò Squelette con un’espressione di collera mista a
terrore. «Non parlarmi di questo... In cella!... tutto solo!...
Taci, preferirei mi tagliassero le braccia e le gambe... Tutto
solo!... fra quattro mura!... Tutto solo... senza dei vecchi avanzi
di galera con cui ridere!... Non ce la possono fare. Preferisco
cento volte il bagno penale al carcere centrale, perché al bagno
penale, almeno, invece di essere rinchiusi si sta fuori e si vede la
gente, e si va, si viene, si scherza con la ciurma... Ebbene!
preferirei cento volte rimaner secco che esser cacciato in cella per
un solo anno... A questo punto io sono sicuro che mi faranno fuori.
Ebbene! se mi dicessero: preferisci un anno di cella?.. Io porgerei
la testa... Anche un anno solo!... ma è mai possibile?... A che
vogliono dunque che si pensi, quando si sta tutti soli?...»
«Se ti ci mettessero per forza, in cella?»
«Non ci resterei... brigherei tanto, con le mani e coi piedi, che
riuscirei a evadere» disse lo Squelette.
«Ma se tu non potessi?... se tu fossi sicuro di non poter scappare?»
«Allora ucciderei il primo venuto per essere ghigliottinato.»
«Ma se gli assassini, invece di condannarli a morte,... li
condannassero a restare in cella per tutta la vita!...»
Squelette parve colpito da questa idea. Dopo un momento di silenzio
riprese:
«Allora non so cosa farei... mi romperei la testa contro il muro...
Mi lascerei morire di fame piuttosto di restare in cella... Ma come?
tutto solo... tutta la vita da solo... solo con me stesso? Senza la
speranza di scappare? Non è possibile... Non c’è nessuno che abbia
più fegato di me, io saprei finire un uomo per sei calici di vino...
e anche per niente... per l’onore... Si crede che io non abbia
assassinato che due persone... ma se i morti potessero parlare, ve
ne sono cinque che ho steso secchi, e che potrebbero dire come
lavoro».
Quel brigante si vantava.
La malvagità sanguinaria rimane ancora uno dei tratti più
caratteristici di quegli scellerati incalliti.
Un direttore di prigione ci diceva:
«Se i pretesi delitti di cui quei disgraziati si vantano fossero
veri, la popolazione sarebbe decimata».
«Guardate me...» riprese Barbillon per vantarsi a sua volta, «si
crede che io abbia fatto fuori solo il marito della lattaia della
Cité... e invece ho fatto la festa a molti altri, col grande Robert,
che è stato ghigliottinato l’anno scorso.»
«Volevo dunque dirvi» riprese lo Squelette, «che io non temo né
fuoco né diavolo... ebbene! se fossi in cella... e proprio sicuro di
non poter scappare... accidenti!... credo che avrei paura...»
«E di che?» domandò Nicolas.
«D’essere solo come un cane...» rispose il capo-camerata. «Così, se
tu dovessi ricominciare la malavita, e se, invece del-
le carceri centrali, dei bagni penali e della ghigliottina... non vi
fossero che celle di segregazione, tu esiteresti davanti al male?»
«Be’... sì... forse» rispose lo Squelette.
E diceva la verità.
Non si può immaginare l’indicibile terrore che ispira a simili
banditi il solo pensiero dell’isolamento assoluto...
Questo terrore non è forse un ulteriore argomento eloquente
in favore di questa pena?
E non è tutto: la condanna all’isolamento, così temuta da que-
sti scellerati, condurrà forse di necessità all’abolizione della
pena di morte.
Ecco come:
La generazione di criminali che attualmente popola le prigioni e i
bagni penali guarderà all’applicazione del sistema della
segregazione cellulare come a un supplizio intollerabile.
Abituati alla perversa animazione della prigione comune di cui
abbiamo cercato di ritrarre qualche aspetto, sia pure attenuato,
perché, lo ripetiamo, siamo costretti a indietreggiare davanti a
mostruosità di ogni genere; questi uomini, dicevamo, vedendosi
minacciati, in caso di recidiva, di venire segregati dal mondo
infame in cui espiavano così allegramente i loro crimini, e di esser
messi in cella, soli col ricordo del loro passato... questi uomini
non potranno che ribellarsi all’idea di una simile spaventosa
punizione.
Molti preferiranno la morte.
E, per incorrere nella pena capitale, non indietreggeranno davanti
all’assassinio... giacché, cosa strana, su dieci criminali che
vorranno sbarazzarsi della vita, ve ne saranno nove che
uccideranno... per essere giustiziati... e uno solo che si
suiciderà.
Allora senza dubbio, lo ripetiamo, l’ultima traccia di una barbara
legislazione sparirà dai nostri codici...
Al fine di sottrarre agli assassini questo ultimo rifugio che essi
crederanno trovare nel nulla, si abolirà così necessariamente la
pena di morte.
Ma la segregazione cellulare perpetua potrà poi costituire una
riparazione, una punizione abbastanza forte per certi grandi
crimini, fra gli altri il parricidio?
Si evade anche dalla prigione meglio sorvegliata, o quanto meno si
spera di evadere; non bisogna quindi lasciare ai criminali di cui
stiamo parlando né questa possibilità né questa speranza.
Anche la pena di morte, che non ha altro scopo se non quello di
liberare la società da un essere pericoloso... la pena di morte che
raramente offre al condannato il tempo per pentirsi e mai quello di
riabilitarsi attraverso l’espiazione... la pena di morte, che taluni
subiscono senza quasi esserne consapevoli, e che altri affrontano
con spaventoso cinismo, la pena di morte sarà forse sostituita con
un castigo terribile, che però darà al condannato il tempo di
pentirsi... e di espiare, e che non strapperà violentemente da
questo mondo una creatura di Dio...
Accecando l’assassino lo si porrà nell’impossibilità di evadere e di
nuocere ad alcuno.
In questo dunque, che ne costituisce il solo scopo, la pena di morte
sarà efficacemente sostituita.
Giacché la società non uccide in nome della legge del taglione; essa
non uccide per far soffrire il condannato, e infatti ha scelto fra
tutti i supplizi quello che ritiene il meno doloroso.5
Essa uccide in nome della propria sicurezza...
E che cosa può temere da un cieco imprigionato?
Infine questo isolamento perpetuo, addolcito dai caritatevoli
colloqui con persone oneste e pie che si voteranno a questa
missione, permetterebbe a un assassino di salvare la propria anima
attraverso lunghi anni di rimorsi e di contrizione.
5 Mio padre, il dr. Jean-Joseph Sue, era convinto del contrario: una
serie di acute e interessanti osservazioni da lui pubblicate
sull’argomento proverebbero che il pensiero sopravvive di alcuni
minuti alla decapitazione istantanea. Anche questa sola probabilità
ci fa rabbrividire di spavento.
Un gran tumulto e accese esclamazioni di gioia, lanciate dai
detenuti che passeggiavano nel cortiletto, interruppero il
conciliabolo presieduto dallo Squelette.
Nicolas si alzò precipitosamente e si fece sull’uscio della stufa
per sapere la ragione di quel rumore insolito.
«Il Gros-Boiteux!» esclamò Nicolas rientrando.
«Il Gros-Boiteux!» esclamò il capo-camerata; «e Germain, è sceso o
no dal parlatorio?»
«Non ancora» disse Barbillon.
«Che si sbrighi, dunque» disse lo Squelette, «e gli offriremo
l’occasione di avere una cassa da morto tutta nuova.»
VII
IL COMPLOTTO
Il Gros-Boiteux, il cui arrivo era stato accolto dai detenuti della
Fossa-dei-leoni con una gioia fragorosa, e la cui denuncia poteva
essere tanto funesta per Germain, era un uomo di statura media; ma
nonostante la pinguedine e l’infermità appariva agile e vigoroso.
La sua fisionomia bestiale, comune alla maggior parte dei suoi
compagni, ricordava da vicino il bulldog; la fronte bassa, i piccoli
occhi rossastri, le gote cadenti, le mascelle pesanti, di cui quella
inferiore, molto sporgente, era dotata lunghi denti, o piuttosto
mozziconi che qua e là spuntavano fuori dalle labbra e rendevano
quella somiglianza animale ancor più sorprendente; sul capo portava
un berretto di lontra, e sopra gli abiti un mantello blu col collo
di pelliccia.
Il Gros-Boiteux era entrato nella prigione accompagnato da un uomo
di trent’anni circa, il cui viso bruno e abbronzato appariva meno
abietto di quello degli altri detenuti, sebbene affettasse un’aria
spavalda quanto quella del suo compagno; talvolta il suo viso si
faceva scuro e allora lo si vedeva sorridere amaramente...
Il Gros-Boiteux si ritrovava, come si suol dire, a casa sua.
Riusciva a mala pena a rispondere a tutte le felicitazioni e le
parole di benvenuto che gli giungevano da ogni parte.
«Eccoti arrivato, infine, caro ciccione... Ne faremo delle risate,
ora.»
«Ci mancavi...»
«Ti sei fatto aspettare parecchio...»
«Eppure ho fatto tutto il possibile per rivedere i miei amici... e
non è colpa mia se la polizia non ha voluto saperne di me fino ad
ora.»
«Com’è naturale, vecchio mio, non si viene spontaneamente a farsi
rinchiudere; ma una volta che si è presi... si cerca di stare
allegri.»
«Sei fortunato, Pique-Vinaigre è qui.»
«Anche lui? un veterano di Melun! magnifico!... magnifico! ci
aiuterà a passare il tempo con le sue storielle: e si passerà anche
all’atto pratico, perché a proposito vi annuncio che ci saranno
reclute.»
«Chi dunque?...»
«Poco fa, giù all’archivio... mentre mi registravano, hanno portato
due pivellini... Uno non lo conosco... ma l’altro, con un berretto
di cotone blu e un giaccone grigio mi è restato in mente... l’ho già
visto da qualche parte... Mi sembra da quella crapulona del Lapin
Blanc... un marcantonio...»
«Di’ un po’, Gros-Boiteux... ti ricordi a Melun... che avevamo
scommesso che entro un anno ti avrebbero ripescato?»
«È vero, hai vinto; perché naturalmente avevo più probabilità di
essere riacciuffato che di vincere il premio delle educande... ma tu
cos’hai fatto?»
«Ho fatto un colpo all’americana.»
«Ah! bene, sempre dello stesso calibro?...»
«Sempre... Avevo il mio palo. È quel che si fa di solito... ma
anche le fesserie purtroppo si fanno... e se non fosse stato per
un’asinata del mio collega non mi troverei qui... Ma non importa, la
lezione mi servirà. Quando ricomincerò, prenderò le mie
precauzioni... Ho già un mio piano...»
«To’! guarda Cardillac» disse il Gros-Boiteux vedendo venire verso
di sé un omettino vestito miseramente, dall’aspetto plebeo, maligno,
astuto, che aveva al tempo stesso qualcosa della volpe e del lupo.
«Buongiorno, vecchio...»
«Via, lazzarone» rispose allegramente al Gros-Boiteux il detenuto
soprannominato Cardillac; «ci dicevamo tutti i giorni: verrà, non
verrà... Il signore fa come le belle donne, si fa desiderare...»
«Eh sì, eh sì.»
«Di’ un po’: è per qualcosa di un po’ consistente che sei finito
qui?»
«In verità, mio caro, ho mancato uno scasso. Una volta avevo fatto
dei colpi molto buoni; ma l’ultimo m’è andato male... era un
affare superbo... che d’altronde resta ancora da fare... purtroppo
noi due, che ci vedete qui, l’abbiamo perso.»
E il Gros-Boiteux indicò il suo compagno, sul quale si puntarono
tutti gli occhi.
«È vero, guarda là Frank!» disse Cardillac; «non l’avrei più
riconosciuto, con quella barba... Come! sei tu! ti credevo diventato
quanto meno sindaco del tuo paese... Volevi fare l’onesto?...»
«Ero uno scemo, e sono stato punito» disse bruscamente Frank; «per
ogni peccato c’è misericordia... ma ci si lascia fregare una sola
volta... e ora starò con le canaglie finché crepo; e attenti a
quando uscirò!»
«Alla buon’ora, questo si chiama parlar chiaro.»
«Ma cosa ti è successo, Frank?»
«Quel che capita a qualsiasi ex detenuto abbastanza fesso da
volere, come tu dici, fare l’onesto... La sorte è così giusta!...
Uscito da Melun avevo più di 900 franchi.»
«È vero» disse il Gros-Boiteux, «tutte le sue disgrazie gli vengono
dal fatto che, uscito di prigione, ha voluto conservare il malloppo
invece di goderselo. Sentirete ora a cosa serve pentirsi... se ne
pagano solo le spese.»
«Mi hanno tenuto sotto sorveglianza a Etampes» riprese Frank... «Da
fabbro quale sono, sono capitato presso un maestro del mestiere; gli
ho detto: sono un ex detenuto, so che non si ama dar loro lavoro, ma
eccovi i miei 900 franchi del malloppo, e in cambio datemi del
lavoro; questo denaro sarà la mia cauzione; voglio lavorare ed
essere onesto.»
«Parola d’onore, solo Frank può avere idee simili.» «È sempre stato
un po’ toccato.»
«Eh già... da buon fabbro!...»
«Buffone...»
«E state ora a sentire come gli è andata.»
«Offro dunque il mio malloppo come cauzione al fabbro perché mi dia
del lavoro. Non sono un banchiere per prendere denaro a interesse,
mi risponde, e poi non voglio ex galeotti nel mio negozio; lavoro
nelle case private, apro le porte quando hanno perduto le chiavi;
godo di un buon nome, e se si venisse a sapere che fra i miei operai
c’è un ex detenuto perderei la clientela.»
«Non è vero, Cardillac, che ha avuto proprio quel che si meritava?»
«Certo...»
«Pivello!» aggiunse il Gros-Boiteux rivolgendosi a Frank con aria
paterna, «invece di scappare subito dal paese e di venire a
Parigi a spendere il malloppo, per poi non aver più un soldo e
ritrovarti nella necessità di rubare! Allora si trovano delle idee
superbe.»
«Non fai che ripetermi sempre la stessa cosa!» disse Frank con
impazienza; «è vero, ho avuto torto a non spendere la mia grana, che
così non ho neanche goduto. Ma per tornare a Etampes, là dove ero
tenuto sotto sorveglianza, poiché in paese non vi erano che quattro
botteghe di fabbro, dopo che il primo mi ebbe fatto quel bel
discorso, anche gli altri non fecero da meno... Grazie...
Dappertutto la stessa canzone.»
«Vedete, amici miei, a che serve? Siamo segnati per la vita
ormai!!!»
«Eccomi disoccupato, sul lastrico, a Etampes; vivo del mio gruzzolo
un mese, due mesi» riprende Frank; «il denaro se ne andava, e il
lavoro non veniva. Sebbene sotto sorveglianza, riesco a lasciare
Etampes.»
«È quel che avresti dovuto fare fin dall’inizio, fesso.»
«Vengo a Parigi; là trovo il lavoro; il padrone non sapeva chi
fossi; gli avevo detto che venivo dalla provincia. Non c’era miglior
operaio di me. Metto i 700 franchi che mi restano presso un
“banchiere” che mi rilascia una “cambiale”; alla scadenza non mi
paga; la mia cambiale finisce in protesto e io vengo pagato; lascio
il denaro presso l’ufficiale giudiziario e mi dico: ecco qualcosa da
parte per quando verranno momenti duri. A questo punto incontro il
Gros-Boiteux.»
«Sì, amici miei, ed ero io che rappresentavo i momenti duri, come
sentirete. Frank era fabbro, fabbricava chiavi; avevo un affare in
cui egli mi poteva servire, e così gli ho proposto il colpo. Avevo
delle impronte, e lui non aveva che da lavorarci sopra, era la sua
parte. Il ragazzo rifiuta, voleva ridiventare onesto. Io mi dico:
bisogna farlo per il suo bene, anche suo malgrado. Scrivo così una
lettera anonima al suo padrone, un’altra ai suoi compagni, per far
loro sapere che si tratta di un detenuto. Il padrone lo mette alla
porta e i compagni gli voltano le spalle.
«Va da un altro padrone, e lì lavora otto giorni. Medesima storia.
Anche se fosse stato da dieci altri io gli avrei ripetuto sempre lo
stesso scherzo.»
«E allora non sospettavo che fossi tu a denunciarmi» riprese Frank;
«altrimenti avresti passato un brutto quarto d’ora.»
«Sì, ma io non ero mica scemo e ti avevo detto che me ne andavo a
Longjumeau a trovare uno zio; invece ero rimasto a Parigi ed ero al
corrente di tutto quel che facevi grazie al piccolo Ledru.»
«Infine mi scacciano ancora dall’ultimo fabbro, come un delinquente
buono per la forca. Provati a lavorare! a essere tranquillo; e non
ti chiederanno: Cosa fai? ma: Cos’hai fatto? Una volta sul lastrico
mi dico: per fortuna nell’attesa mi resta il mio gruzzolo. Vado
dall’ufficiale giudiziario: quello se l’era squagliata; il mio
denaro era andato in fumo e io mi ritrovavo senza un soldo, neanche
il necessario a pagarmi per una settimana la camera ammobiliata.
Bisognava vedere la mia rabbia! Ecco farsi vivo a quel punto il
Gros-Boiteux, con l’aria di arrivare da Longjumeau; approfitta del
mio stato d’animo. Io non sapevo dove sbattere la testa, vedevo che
non c’era modo di essere onesto, che una volta diventati canaglie lo
si resta tutta la vita. Il Gros-Boiteux mi sta alle calcagna e non
mi lascia tregua...»
«Al punto che il bravo Frank non fa più il broncio» riprese il
Gros-Boiteux; «si decide, da bravo, ed entra nell’affare, che si
annunciava splendido; purtroppo, al momento in cui apriamo la bocca
per assaporare il bocconcino... presi dalla polizia. Che vuoi,
ragazzo, è una disgrazia, il mestiere sarebbe troppo bello,
altrimenti.»
«Se quel furfante di ufficiale giudiziario non mi avesse derubato
non mi troverei qui» disse Frank con rabbia furiosa.
«Andiamo! andiamo!» riprese il Gros-Boiteux, «sei proprio
arrabbiato! Si direbbe che tu eri più contento quando ti rompevi la
schiena a lavorare.»
«Ma ero libero.»
«Sì, la domenica, e purché non ci fosse lavoro urgente; ma il resto
della settimana alla catena come un cane; e mai sicuro di trovar
lavoro. Tu proprio non sai riconoscere la tua fortuna.
«Sarai tu a insegnarmelo» disse Frank con amarezza.
«Dopo tutto bisogna essere giusti, hai il diritto di essere
arrabbiato; è un vero peccato che il colpo sia fallito, perché era
splendido e lo sarà ancora fra uno o due mesi: quei borghesi ora si
sono rassicurati, lo si potrà rifare. È una casa ricca e straricca!
Io sarò sempre condannato per aver lasciato la residenza coatta e
così non potrò riprendere in mano l’affare; ma se trovo qualcuno
interessato, glielo cederò a un prezzo ragionevole. Le impronte sono
dalla mia ragazza, e non vi sarà che da fabbricare nuove chiavi
false; con le informazioni che lei potrà fornire tutto andrà liscio
come l’olio. È un colpo da 10.000 franchi, e ancora fattibile:
questo ti deve pur consolare, Frank.»
Il complice del Gros-Boiteux scosse la testa, incrociò le braccia
sul petto e non rispose.
Cardillac prese il Gros-Boiteux per il braccio, lo portò in un
angolo del cortiletto e poi gli disse, dopo un momento di silenzio:
«Il colpo che hai fallito è ancora buono?». «Fra due mesi, buono
come uno nuovo.» «Puoi dimostrarmelo?»
«Altro che!»
«Quanto vuoi?»
«100 franchi di anticipo, e dirò la parola d’ordine alla mia ragazza
perché consegni le impronte con cui rifare le chiavi false; inoltre,
se il colpo riesce, voglio un quinto del guadagno, pagabile alla mia
ragazza.»
«È ragionevole.»
«Poiché saprò a chi lei ha dato le impronte, se mi fate saltare la
mia parte io vi denuncerò. Pazienza...»
«Sarebbe tuo diritto farlo se ti facessero una cosa simile... ma fra
ladri... si è onesti... bisogna pur contare gli uni sugli altri...
altrimenti non ci sarebbero più colpi possibili...»
Altro fenomeno curioso che si riscontra in questi detestabili
ambienti...
Quel miserabile diceva la verità.
È piuttosto raro che i ladri manchino alla parola data quando si
tratti di simili impegni... Queste transazioni criminose si svolgono
generalmente in buona fede, se così si può dire, o meglio, per non
degradare questa parola, diremo che la necessità obbliga questi
banditi a mantenere la parola data; perché se non lo facessero, come
diceva il compagno del Gros-Boiteux, non vi sarebbero più colpi
possibili...
Un gran numero di furti vengono così venduti, comprati e
architettati in prigione, altra deprecabile conseguenza della
reclusione in comune.
«Se quel che tu dici è certo» riprese Cardillac, «potrei occuparmi
io dell’affare... contro di me non esistono prove... sono sicuro di
cavarmela; mi chiameranno in tribunale fra una quindicina di giorni,
e sarò libero, poniamo, fra venti; il tempo di far fare le chiavi
false, di cercare le informazioni... diciamo un mese, sei
settimane...»
«Proprio quanto basta perché i borghesi non stiano più in allarme...
E poi, d’altronde, chi è stato attaccato una volta crede di non
esserlo più una seconda; tu lo sai...»
«Lo so: accetto l’affare... d’accordo...»
«Ma hai di che pagarmi? Io voglio una caparra...»
«To’! ecco il mio ultimo bottone; e quando non ce ne saran-
no più, ce ne saranno ancora» disse Cardillac strappando uno dei
bottoni coperti di stoffa che guarnivano la sua brutta redingote
blu... Poi, aiutandosi con le unghie, lacerò la fodera e mostrò al
Gros-Boiteux che, invece dell’anima, il bottone aveva una moneta da
quaranta franchi.
«Vedi» aggiunse, «potrò darti la caparra quando avremo discusso
dell’affare.»
«Allora dacci dentro, vecchio» disse il Gros-Boiteux. «Visto che tu
esci presto e che hai una scorta per lavorare, potrei proporti
qualcos’altro; ma questo è una pacchia... un gioiellino, è come una
creatura che io e mia moglie abbiamo allevato con ogni cura da due
mesi e che chiede solo di camminare... Figurati un po’ una casa
isolata in un quartiere sperduto, un pian terreno che da un lato dà
su una strada deserta, e dall’altro su un giardino; due vecchi che
vanno a letto all’ora delle galline. Dopo che c’erano stati
disordini, per paura di essere derubati, hanno nascosto tra il muro
e il pannello un grande vaso per la marmellata pieno d’oro... È
stata mia moglie a scoprire la cosa, facendo cantare la serva. Ma,
ti avverto, questo colpo vale più dell’altro, e me lo devi pagare...
è già cotto a puntino...»
«Ci arrangeremo, stai tranquillo... Ma vedo che tu hai lavorato
parecchio da quando hai lasciato la centrale....»
«Sì, ho avuto abbastanza fortuna... Un po’ di qui un po’ di là ho
racimolato per circa 1500 franchi; uno dei miei pezzi migliori è
stata la cassa di due donne che abitavano nella stessa casa in cui
io avevo una camera ammobiliata, passage de la Brasserie.»
«Presso compare Micou, il ricettatore?»
«Proprio così.»
«E Joséphine, tua moglie?»
«Sempre una vera detective; andava a servizio dalle vecchie
di cui ti sto parlando; è stata lei a fiutare il vaso coi
marenghi...» «È una donna in gamba!...»
«Me ne vanto... A proposito di donne in gamba, tu conosci la
Chouette, no?»
«Sì Nicolas mi ha raccontato; il Maître d’ecole l’ha ammazzata;
e lui è diventato pazzo.»
«Forse ha perduto i lumi a causa di non so quale disgrazia...
Be’, mio vecchio Cardillac, siamo d’accordo... visto che tu vuoi
occuparti della mia creatura, non ne parlerò ad altri.»
«A nessuno... ci penso io a svezzarla. Ne parleremo questa sera...»
«Cosa si fa qui?»
«Si ride e si dicono sciocchezze da morire.»
«Chi è il capo-camerata?»
«Lo Squelette.»
«Un duro sul serio! L’ho visto dai Martial, all’isola del Predo-
ne... Abbiamo fatto baldoria con Joséphine e la Boulotte.»
«A proposito, Nicolas è qui.»
«Lo so, compare Micou me l’ha detto... si è lamentato che Ni-
colas l’ha fatto cantare, il vecchio furfante... e anch’io gli farò
fischiare un certo motivo... I ricattatori sono fatti per questo...»
«Si parlava dello Squelette: ah, eccolo là» disse Cardillac
mostrando al compagno il capo-camerata che stava entrando nella
stufa...
«Pivello... fatti avanti all’appello» disse lo Squelette al
GrosBoiteux.
«Presente...» rispose questi, entrando nella stanza e tenendo per il
braccio Frank.
Durante la conversazione fra il Gros-Boiteux, Frank e Cardillac,
Barbillon era stato, per ordine del capo-camerata, a reclutare
dodici o quindici detenuti scelti. Questi, per non destare i
sospetti del guardiano, erano entrati nella stufa alla spicciolata.
Gli altri prigionieri restarono nel cortiletto; alcuni, anzi, su
consiglio di Barbillon, si misero a parlare a voce alta, in tono
piuttosto eccitato, per attirare l’attenzione del guardiano e
distrarlo così dalla sorveglianza alla stufa, ove si erano da poco
riuniti lo Squelette, Barbillon, Nicolas, Frank, Cardillac, il
Gros-Boiteux e una quindicina di detenuti, che attendevano tutti con
curiosità impaziente che il capo-camerata prendesse la parola.
Barbillon, incaricato di far la guardia e di dar l’allarme quando si
fosse avvicinato il sorvegliante, si mise vicino alla porta.
Lo Squelette, levando la pipa dalla bocca, disse al Gros-Boiteux:
«Conosci un giovincello di nome Germain, occhi azzurri, capelli
neri, aria d’onest’uomo?»
«Germain è qui!» esclamò il Gros-Boiteux, i cui lineamenti avevano
improvvisamente preso un’espressione di sorpresa mista a odio e
collera.
«Lo conosci, dunque?» domandò lo Squelette.
«Se lo conosco?...» riprese il Gros-Boiteux; «amici miei, lo
denuncio di fronte a tutti voi, è uno spione... Bisogna dargli una
bella battuta...»
«Sì, sì» ripresero i detenuti.
«Ma siete sicuri che abbia denunciato?» domandò Frank. «E se ci
sbagliassimo?... prendersela con un uomo che non se lo merita...»
Questa osservazione spiacque al Squelette, che si chinò verso il
Gros-Boiteux per dirgli a voce bassa:
«Chi è quel tipo?»
«Un uomo con cui ho lavorato.»
«Ti fidi di lui?»
«Sì; ma non ha fiele in corpo, è molle.»
«Basta così, lo terrò d’occhio.»
«Sentiamo perché Germain è uno spione» disse un detenuto. «Spiegati,
Gros-Boiteux» riprese Squelette, che non toglieva
più gli occhi da Frank.
«Ecco» disse il Gros-Boiteux: «uno di Nantes, di nome Velu,
ex galeotto, ha allevato il ragazzo, un trovatello. Quando è stato
in età da lavoro l’ha fatto entrare, a Nantes, da un “banchiere”,
credendo così di mettere la volpe nel pollaio e di servirsi di
Germain per fare un colpo splendido, che sognava da tanto tempo;
aveva due corde al suo arco... un falso e il proposito di
alleggerire la cassa... forse 100.000 franchi... un colpo da fare in
due volte... Tutto era stato previsto: Velu contava sul giovincello
come su se stesso; quel galoppino dormiva proprio nella stanza dove
si trovava la cassa; Velu gli racconta il suo piano... Germain non
risponde né sì né no, spiffera tutto al suo padrone e la stessa sera
scappa a Parigi.»
Fra i detenuti si levò un mormorio di violenta indignazione, poi
delle frasi minacciose.
«È uno spione... bisogna farlo fuori...»
«Se volete, attacco briga con lui... e poi lo finisco...» «Dobbiamo
lasciargli sulla faccia i segni del benservito?» «Silenzio,
canaglie!» gridò lo Squelette con voce imperiosa.
I detenuti tacquero.
«Continua» disse il capo-camerata al Gros-Boiteux.
E si rimise a fumare.
«Credendo che Germain avesse detto di sì, e contando sul suo
aiuto, Velu e due suoi amici tentano il colpo la notte stessa; ma il
padrone stava sul chi va là: uno dei soci di Velu è preso mentre
scala una finestra, lui invece riesce a svignarsela... Arriva a
Parigi, furioso di essere stato tradito da Germain e d’aver fallito
un colpo splendido. Un bel giorno incontra il giovanotto, in pieno
giorno; non osa far niente, ma lo segue; vede dove abita, e una
notte noi due, Velu e il piccolo Ledru piombiamo su Germain...
Purtroppo ci sfugge... Se ne va dalla rue du Temple dove abitava; e
dopo non siamo stati più capaci di trovarlo; ma se si trova qui...
mi domando...»
«Non hai niente da domandarti» disse lo Squelette in tono
autoritario.
Il Gros-Boiteux tacque.
«Mi assumo io il tuo conto da regolare, tu mi cedi la pelle di
Germain, e io lo scortico... non mi chiamo Squelette per niente...
sono già come morto... la mia fossa è già pronta, a Clamart, e non
rischio niente, se lavoro per i miei compagni: gli spioni sono
quelli che ci rovinano ancor più della polizia; si mettono gli
spioni della Force alla Roquette, e gli spioni della Roquette alla
Conciergerie, e così si credono salvi. Ma aspettate... quando ogni
prigione avrà eliminato il suo spione, non importa dove abbia fatto
il suo lavoro... questo toglierà agli altri la voglia... Io vi do
l’esempio... e gli altri non avranno che seguirlo...»
Tutti i detenuti, ammirando la decisione dello Squelette, gli si
accalcarono intorno... Anche Barbillon, invece di rimanere vicino
alla porta, si unì al gruppo, e non si accorse così che un altro
detenuto entrava nel parlatorio.
Quest’ultimo, che portava un giubbotto grigio e un berretto di
cotone blu ricamato con della lana rossa, calato fin sugli occhi,
fece un movimento quando sentì pronunciare il nome di Germain... poi
si avvicinò agli ammiratori di Squelette e approvò con vivacità, sia
a voce che coi gesti, la decisione criminosa del capocamerata.
«È un gradasso, quello Squelette!...» diceva l’uno, «che capoccia!»
«Il diavolo in persona non gli farebbe paura...»
«Quello sì che è un uomo!»
«Se tutti i ladri avessero quella faccia... sarebbero loro a giudi-
care e a far ghigliottinare la gente onesta...»
«E sarebbe giusto... ciascuno a turno...»
«Sì, ma non ci si intende fra noi...»
«Non importa... egli rende un gran servigio alla categoria... ve-
dendo che si tira loro il collo... gli spioni cambieranno
mestiere...» «Questo è certo.»
«E poiché lo Squelette è così sicuro di essere giustiziato non
gli costa niente... uccidere uno spione...»
«Io trovo che è un po’ troppo!» disse Frank «uccidere quel
giovanotto...»
«Troppo? Troppo?» ribatté lo Squelette con voce incollerita,
«non si deve avere il diritto di prendersela con un traditore?»
«Be’, sì, in fondo è un traditore; tanto peggio per lui» concluse
Frank, dopo un momento di riflessione.
Queste ultime parole e l’assicurazione che veniva dal GrosBoiteaux
calmarono la diffidenza che Frank aveva per un momento sollevato fra
i detenuti.
Solo lo Squelette continuava a non fidarsi.
«Ma come fare col guardiano? Di’ un po’, morto in anticipo, poiché è
lo stesso che dire Squelette» riprese Nicolas sghignazzando.
«Lo si terrà occupato da qualche parte, il guardiano.» «No, lo
terremo con la forza.»
«Sì...»
«No.»
«Silenzio, canaglie!!!» disse lo Squelette.
Si fece il più profondo silenzio.
«Ascoltatemi bene» riprese il capo-camerata con la sua voce
rauca, «non c’è modo di fare il colpo mentre il guardiano sarà nella
stufa o nel cortiletto. Io non ho coltello; vi saranno grida
soffocate; lo spione si dibatterà.»
«E allora come...»
«Ecco come: Pique-Vinaigre ci ha promesso di raccontarci, oggi dopo
mangiato, la sua storia di Gringalet e Coupe-en-Deux. Ecco che
piove, noi ci ritireremo tutti qui, e lo spione verrà a mettersi là,
dove va di solito... Daremo qualche soldo a PiqueVinaigre perché dia
inizio alla sua storia... È l’ora in cui il carceriere è a tavola...
Il guardiano ci vedrà tranquilli, occupati ad ascoltare le burle di
Gringalet e di Coupe-en-Deux, e non avrà sospetti, andrà a fare il
giro nel refettorio... Non appena avrà lasciato il cortile...
abbiamo a disposizione un quarto d’ora per tirare il collo allo
spione prima che il guardiano possa intervenire... Me ne incarico
io... ne ho stesi di più duri di lui... Ma non voglio che mi si
aiuti...»
«Un momento» esclamò Cardillac, «e quell’ufficiale giudiziario che
viene sempre qui a chiacchierare con noi... all’ora del pasto?... Se
entra nella stufa per ascoltare Pique-Vinaigre e vede tirare il
collo a Germain è capace di gridare aiuto... Non è un fegataccio,
quello lì; è uno che sta in cella singola e non bisogna fidarsi.»
«È vero» disse lo Squelette.
«C’è un ufficiale giudiziario, qui!» esclamò Frank, vittima, come si
sa, delle malversazioni di maître Boulard; «c’è un tipo del genere,
qui!» riprese pieno di stupore.
«E come si chiama?» «Boulard» disse Cardillac.
«È il mio uomo!» esclamò Frank serrando i pugni; «è lui che mi ha
rubato il gruzzolo...»
«Lui?» domandò il capo-camerata.
«Sì... 720 franchi che ha incassato per mio conto.»
«Tu lo conosci?... e lui ti ha visto?» domandò lo Squelette. «Credo
bene che l’ho visto... per mia disgrazia... Se non fosse
stato per lui, non sarei qui...»
Questi rimpianti suonarono male agli orecchi dello Squelet-
te; non staccava più i suoi occhi loschi da Frank, mentre questi
rispondeva a certe domande rivoltegli dai compagni; poi, chinandosi
verso il Gros-Boiteux, gli disse sotto voce:
«Ecco un pivello che è capace di avvertire i guardiani del nostro
colpo».
«No, ne rispondo io, non denuncerà nessuno... ma non è ancora
incallito... e sarebbe capace di voler difendere Germain... Sarebbe
meglio allontanarlo dal cortiletto.»
«Basta» disse lo Squelette, e riprese, a voce alta: «Di’ un po’,
Frank, non intendi scuotere le pulci a quell’ufficiale imbroglione?»
«Lasciate fare a me,... che venga qui, e regoleremo i conti.» «Sta
per venire, preparati.»
«Sono prontissimo; ne avrà un bel ricordo.»
«Prenderemo due piccioni con una fava; spediranno l’ufficia-
le giudiziario in celle singola e Frank in cella di punizione» disse
sottovoce Squelette al Gros-Boiteux «e così ci saremo sbarazzati di
entrambi.»
«Che tipo!... Questo Squelette è un furbacchione» disse il bandito
con ammirazione. Poi aggiunse a voce alta: «Dobbiamo avvisare
Pique-Vinaigre che si approfitterà della sua storia per far star
buono il guardiano e far fuori lo spione?».
«No; Pique-Vinaigre è troppo molle, troppo vigliacco; se lo sapesse
non si presterebbe al gioco; ma una volta fatto il colpo si
rassegnerà.»
La campanella del pasto suonò.
«Via, cani, alla zuppa!» disse lo Squelette; «Pique-Vinaigre e
Germain stanno per entrare nel cortiletto. Attenti, amici, mi si
chiama morto-in-anticipo, ma anche lo spione ora è un
mortoin-anticipo.»
VIII
IL NARRATORE
Il nuovo detenuto di cui abbiamo parlato, che portava un berretto di
cotone e un giubbotto grigio, aveva ascoltato attentamente ed
energicamente approvato il complotto che minacciava la vita di
Germain... Quest’uomo, di statura atletica, uscito dalla stufa con
gli altri detenuti senza esser stato notato, si unì ai diversi
gruppi che si accalcavano nel cortile intorno agli inservienti che
distribuivano il cibo; essi tenevano la carne cotta in grosse
bacinelle di rame, e il pane in grandi panieri.
Ogni detenuto riceveva un pezzo di bue bollito, senz’ossi che era
servito per la minestra di brodo del mattino, in cui era stata messa
metà pagnotta, di qualità superiore di quella della truppa.6
I prigionieri che possedevano un po’ di denaro potevano comprare il
vino nello spaccio e andarvi a fare una bevutina.
Quelli, infine, che come Nicolas avevano ricevuto viveri da fuori,
improvvisavano un festino al quale invitavano altri detenuti. I
convitati del figlio del giustiziato furono lo Squelette, Barbillon,
e, su segnalazione di questi, Pique-Vinaigre, allo scopo di ben
disporlo al racconto.
Lo zampetto di maiale, le uova sode, il formaggio e il pane bianco,
dovuti alla generosità forzata di Micou il ricettatore, furono
sparsi su uno dei banconi della stufa, e lo Squelette si affrettò a
fare onore al banchetto, senza pensare all’assassinio che stava
freddamente per compiere.
«Va’ un po’ a vedere se Pique-Vinaigre viene o no.
In attesa di strangolare Germain, strangolerò la fame e la sete; non
dimenticare di dire al Gros-Boiteux che bisogna che Frank salti al
collo dell’ufficiale giudiziario per sbarazzare quei due tipi dalla
Fossa-dei-leoni.»
«Stai tranquillo, morto-in-anticipo, se Frank non gliele suona non
sarà colpa nostra...»
6 Questo è il regime alimentare delle prigioni: per la colazione del
mattino ogni detenuto riceve una scodella di minestra magra o di
brodo di carne, molto diluita. Come pasto serale, una porzione di
carne di bue di circa un etto, senz’osso, o una porzione di verdura,
fagiolini, patate, ecc.: mai verdura per due giorni di seguito.
Senza dubbio i detenuti hanno diritto, per un principio di umanità,
a questa alimentazione sana e quasi sempre abbondante... Ma,
ripetiamolo, la maggior parte degli operai più attivi e previdenti
mangiano carne o minestra con brodo di carne sì e no una decina di
volte all’anno.
E Nicolas uscì dalla stufa.
In quello stesso momento maître Boulard entrava nel cortiletto
fumando un sigaro, con le mani infilate nella sua lunga redingote di
mollettone grigio, il berretto a punta tirato fin sulle orecchie,
l’espressione sorridente, distesa; Nicolas, appena lo vide, cercò
subito Frank cogli occhi.
Frank e il Gros-Boiteux stavano mangiando seduti su uno dei banchi
del cortile; non avevano potuto vedere il nuovo arrivato perché gli
volgevano le spalle.
Fedele alla consegna di Squelette, Nicolas, vedendo con la coda
dell’occhio maître Boulard che veniva verso di lui, fece finta di
non vederlo e si avvicinò a Frank e al Gros-Boiteux.
«Buongiorno, amico» disse l’ufficiale giudiziario a Nicolas.
«Ah, buongiorno signore, non vi avevo visto; siete venuto a fare,
come al solito, la vostra piccola passeggiata?»
«Sì, ragazzo mio, e oggi ho due ragioni per farla... Vi dirò perché:
anzitutto, prendete questi sigari... via, senza complimenti... Fra
compagni, che diavolo! non ci si deve sentire imbarazzati.»
«Grazie signore... Dunque, perché avreste due ragioni per fare la
passeggiata?»
«Fra poco lo capirete, ragazzo mio. Non ho appetito oggi... Mi son
detto: assistendo al pasto di quei fusti, a furia di vederli far
lavorare le mascelle, forse la fame si farà sentire.»
«Non è stupida l’idea, dopo tutto... Se volete vedere due pivelli
che masticano gagliardamente» disse Nicolas conducendo a poco a poco
quel detenuto vicino al banco di Frank, che gli voltava le spalle,
«guardate un po’ questi due mangiasassi: la fame si farà sentire
anche per voi, come se aveste mangiato un vaso di cetriolini.»
«Perdinci... vediamo un po’ questo fenomeno» disse maître Boulard.
«Ehi! Gros-Boiteux!...» gridò Nicolas.
Il Gros-Boiteux e Frank voltarono bruscamente il capo. L’altro,
riconoscendo immediatamente colui che aveva deru-
bato, rimase di stucco, a bocca aperta.
Frank, gettando il pane e la carne sul banco, d’un salto fu su
maître Boulard, e lo prese alla gola gridando:
«I miei soldi!...»
«Come?... che?... signore... mi strangolate... io...» «I miei
soldi!»
«Amico mio, ascoltatemi...»
«I miei soldi!... E poi, è troppo tardi ormai, perché è colpa tua se
mi trovo qui...»
«Ma... io... ma...»
«Se mi danno la galera, mi senti, è colpa tua; perché se avessi
avuto quel che tu mi hai rubato... non mi sarei trovato nella
necessità di rubare; sarei rimasto onesto come volevo... mentre tu,
forse ti assolveranno... Non ti faranno nulla, ma io ti farò
qualcosa, io... porterai il segno delle mie unghie! Ah! tu porti
gioielli, catenelle d’oro, e poi rubi ai poveri diavoli!...
Piglia... piglia... Ti basta? No... pigliati ancora questo!...»
«Aiuto, aiuto!...» gridò Boulard rotolando sotto i piedi di Frank
che lo batteva con furia.
Gli altri detenuti, indifferenti alla rissa, facevano cerchio
attorno ai due combattenti, o piuttosto intorno a quel che batteva e
a quel che le prendeva; poiché maître Boulard, senza fiato, stordito
non opponeva alcuna resistenza, e cercava di parare, quanto meglio
poteva, i colpi che gli piovevano addosso.
Per sua fortuna il sorvegliante accorse alle grida e lo liberò dalle
mani di Frank.
Maître Boulard si rialzò pallido e tutto spaventato, con uno dei
suoi grandi occhi contusi; e, senza nemmeno darsi pena di
raccogliere il suo berretto, gridò correndo verso la porta:
«Guardiano... aprite... non voglio restare un secondo di più in
questo posto... Aiuto!».
«E voi, per aver battuto il signore, seguitemi dal direttore» disse
il guardiano prendendo Frank per il colletto; «ne avrete per due
giorni di segregazione.»
«Non m’importa, ha ricevuto la sua paga» disse Frank.
«Ah, a proposito!» gli disse a bassa voce il Gros-Boiteux fingendo
di aiutarlo a rimettersi in ordine, «non una parola di quel che
vogliamo fare allo spione.»
«Stai tranquillo; forse se mi fossi trovato là lo avrei difeso;
perché uccidere un uomo per quello... è troppo; ma denunciarvi,
mai!»
«Allora, venite?» disse il guardiano.
«Eccoci sbarazzati di Boulard e di Frank... e ora addosso, addosso
allo spione!» disse Nicolas.
Nel momento in cui Frank usciva dal cortiletto Germain e
Pique-Vinaigre vi rientravano.
Germain non era più riconoscibile; la sua fisionomia, fino ad allora
triste, abbattuta, era diventata radiosa e fiera; teneva la testa
alta e lanciava intorno uno sguardo gioioso e sicuro di sé...
qualcuno lo amava... l’orrore della prigione scompariva al suoi
occhi.
Pique-Vinaigre lo seguiva con un’aria molto imbarazzata; infine,
dopo aver esitato due o tre volte prima di accostarglisi, fece
un grande sforzo su se stesso e toccò lievemente il braccio di
Germain prima che questi si fosse avvicinato al gruppo dei detenuti,
i quali da lontano lo rimiravano con cupa espressione di odio. La
vittima non poteva più sfuggire.
Suo malgrado Germain trasalì al contatto di Pique-Vinaigre; perché
il viso e gli stracci dell’ex giocatore di bussolotti deponevano
poco favorevolmente nei riguardi del medesimo. Ma ricordandosi delle
raccomandazioni di Rigolette, e sentendosi d’altronde troppo felice
per non essere benevolo, Germain si fermò, e disse con dolcezza a
Pique-Vinaigre:
«Che volete?».
«Dirvi grazie.»
«Di che?»
«Di quello che la vostra graziosa visitatrice vuol fare per la mia
povera sorella.»
«Non vi capisco» disse Germain, sorpreso.
«Ora ve lo spiego... Poco fa, all’archivio ho incontrato il sorve-
gliante che era di guardia al parlatorio...»
«Ah! sì, un brav’uomo...»
«Di solito i carcerieri non rispondono a questo nome... ma il
vecchio Roussel è diverso... se lo merita... Poco fa, dunque, mi ha
bisbigliato all’orecchio: “Pique-Vinaigre, ragazzo mio, voi
conoscete il signor Germain, non è vero?”. “Sì, la bestia nera del
raggio” rispondo io.» Poi, interrompendosi, Pique-Vinaigre disse a
Germain: «Pardon, scusate se vi ho chiamato bestia nera... non ci
fate attenzione... lasciatemi finire.
Sì, dunque, io rispondo che conosco il signor Germain, la bestia
nera del raggio. “E anche la vostra, forse, Pique-Vinaigre?” mi
chiese il guardiano con aria severa. “Caro guardiano, io sono troppo
vigliacco e troppo tenero per permettermi di avere una qualsiasi
bestia nera, bianca o grigia, e tanto meno il signor Germain, che
non mi sembra cattivo; trovo anzi che siano ingiusti con lui.”
“Ebbene! Pique-Vinaigre, avete ragione di tenere le parti del signor
Germain, perché egli è stato buono con voi.” “Con me? e come?”
“Cioè, per essere precisi, non si tratta né di lui né di voi
direttamente; ma in ogni caso gli dovete molta riconoscenza” mi
risponde il vecchio Roussel.»
«Cercate di... spiegarvi un po’ più chiaramente» disse Germain
sorridendo.
«È proprio la stessa cosa che ho risposto anch’io al guardiano:
“Spiegatevi più chiaramente”. Allora egli mi ha detto: “Non è il
signor Germain, ma la sua gentile visitatrice, che è stata mol-
to buona verso vostra sorella. L’ha sentita raccontarvi le disgrazie
della sua famiglia e, nel momento in cui la povera donna lasciava il
parlatorio, la ragazza le ha offerto di aiutarla per quanto le fosse
possibile”.»
«Cara Rigolette!» esclamò Germain intenerito; si è ben guardata dal
dirmi qualcosa!
«“Oh! quand’è così” rispondo al guardiano, “sono stato uno sciocco.
Avevate ragione, il signor Gerrnain è stato buono con me, perché la
sua visitatrice è come dire lui, così come mia sorella Jeanne è come
dire me, e ben più di me stesso...”»
«Povera piccola Rigolette!» riprese Germain, «questo non mi
stupisce... ha un cuore così generoso, così pronto a partecipare al
dolore altrui!»
«Il guardiano ha continuato: “Ho inteso tutto questo senza far
mostra di nulla. Ma ora, voi siete avvisato. Se non cercaste di
rendere un favore al signor Germain, se voi non l’avvertiste nel
caso veniste a conoscenza di qualche complotto che hanno tramato
contro di lui, sareste un furfante fatto e finito...
PiqueVinaigre...”. “Guardiano, sono un furfante fatto, è vero, ma
non ancora finito... Infine, poiché la visitatrice del signor
Germain ha voluto aiutare la mia povera Jeanne... che è una brava
donna, onesta, almeno lei, e me ne vanto... io farò per il signor
Germain quel che potrò... Purtroppo non sarà un gran che...” “Non
importa, varrà ugualmente. Vi do anche una buona notizia da
comunicare a Germain; l’ho appresa or ora”.»
«Che cosa, dunque?» domandò Germain.
«Domani verrà libera una cella singola; il guardiano m’ha detto di
farvelo sapere.»
«Davvero! oh! che felicità!» esclamò Germain. «Quel brav’uomo aveva
ragione: è proprio una bella notizia questa che mi date.»
«Senza volervi lusingare, lo credo bene, perché il vostro posto non
sarebbe qui, con della gente come noi, signor Germain.» Poi,
interrompendosi, Pique-Vinaigre si affrettò ad aggiungere sottovoce
e rapidamente, chinandosi come per raccogliere qual-
cosa:
«Guardate, signor Germain, ecco i detenuti che ci guardano,
sono stupiti di vederci chiacchierare. Vi lascio, state in guardia.
Se cercano di provocarvi, di attaccar briga, non rispondete. Cercano
un pretesto per attaccar briga, trascinarvi in una rissa e battervi.
Barbillon è incaricato di avviare la disputa; fate attenzione. Io
proverò a distoglierli dalla loro idea...».
E Pique-Vinaigre si alzò come se avesse trovato quel che sembrava
cercare da un momento.
«Grazie, brav’uomo. Sarò prudente» disse con calore Germain
separandosi dal suo compagno.
Pique-Vinaigre, al corrente solo del complotto del mattino, che si
riduceva a provocare una rissa in cui Germain avrebbe dovuto essere
battuto, per costringere così il direttore della prigione a
cambiarlo di raggio, non solo ignorava l’assassinio che lo Squelette
aveva da poco architettato, ma ignorava anche che volevano
approfittare del suo racconto di Gringalet e Coupe-en-Deux per
ingannare il guardiano distraendolo dalla sorveglianza.
«Vieni un po’ qui, pigrone» disse Nicolas a Pique-Vinaigre
andandogli incontro. «Lascia pure la tua razione di carne; c’è
baldoria e festino oggi... t’invito.»
«Dove? al Panier-Fleuri? al Petit-Ramponneau?»
«Buffone!... No, nella stufa. La tavola è imbandita... su un banco.
Abbiamo del culatello, delle uova... formaggio... Sono io che pago.»
«La cosa mi va. Ma è un peccato perdere la mia razione, e ancor più
un peccato che mia sorella non possa approfittarne. Sia lei che i
suoi bambini non ne vedono spesso di carne, salvo che nella vetrina
del macellaio.»
«Su, vieni, presto; altrimenti lo Squelette si arrabbia. È capace di
divorare tutto, insieme a Barbillon.»
Nicolas e Pique-Vinaigre entrarono nella stufa. Lo Squelette, a
cavallo dell’estremità del banco dove erano sparsi i viveri di
Nicolas, bestemmiava e imprecava aspettando l’anfitrione.
«Eccoti dunque lumaca! tiratardi!» esclamò il bandito alla vista del
narratore. «Che cosa stavi facendo?»
«Stava chiacchierando con Germain» disse Nicolas tagliando il
prosciutto.
«Ah! tu parlavi con Germain!» disse lo Squelette scrutando
Pique-Vinaigre senza smettere di mangiare avidamente.
«Sì!» rispose il narratore. «Eccone un altro che non ha inventato il
calza-scarpe e le uova sode (dico così perché mi piace troppo quel
signorino). Che salame, quel Germain! E io che mi sono lasciato
sfuggire che in prigione faceva la spia: davvero è troppo fesso per
questo.»
«Ah! tu credi?» disse lo Squelette scambiando uno sguardo rapido ed
espressivo con Nicolas e Barbillon.
«Ne sono sicuro, come è vero che questo è del prosciutto! E poi come
diavolo volete che faccia la spia? se ne sta sempre tutto
solo, non parla con nessuno e nessuno gli parla; ci sfugge come se
avessimo il colera. Se dovesse fare dei rapporti con questi
elementi, mi sembra un po’ poco. E poi non potrà comunque fare la
spia a lungo perché se ne va in cella singola.»
«Lui!» esclamò lo Squelette; «e quando?»
«Domani mattina ce ne sarà una libera.»
«Vedi bene che bisogna ucciderlo subito. Non sta più nella mia
camerata, e domani sarà troppo tardi. Oggi non abbiamo tempo che
fino alle quattro, e fra poco suoneranno le tre» disse sottovoce
Squelette a Nicolas, mentre Pique-Vinaigre parlava con Barbillon.
«Non importa» riprese ad alta voce Nicolas, fingendo di rispondere a
un’osservazione dello Squelette, «Germain sembra che ci disprezzi.»
«Al contrario, ragazzi» riprese a dire Pique-Vinaigre, «voi gli
mettete soggezione, a quel giovane; al vostro confronto si considera
come l’ultimo fra gli ultimi. Poco fa, sapete cosa mi stava
dicendo?»
«No! sentiamo.»
«Mi diceva: “Siete ben fortunato, voi Pique-Vinaigre, che osate
parlare con quel famoso Squelette (ha detto famoso) come fosse un
vostro pari. Io... muoio dall’invidia, vorrei tanto parlargli; ma
m’incute una tal soggezione, che se vedessi il prefetto di polizia
in carne e ossa e uniforme non mi sentirei più intimidito”.»
«Ti ha detto questo?» riprese lo Squelette fingendo di credere e di
essere sensibile all’impressione di ammirazione che risvegliava in
Germain.
«Tanto vero quant’è vero che tu sei il più gran brigante della
terra, mi ha detto queste parole.»
«Quand’è così, allora è diverso» riprese a dire lo Squelette. «Sono
disposto a riconciliarmi con lui. Barbillon aveva voglia di attaccar
briga con lui, ma farà meglio a lasciarlo tranquillo.»
«Sì, farà meglio» esclamò Pique-Vinaigre, persuaso di aver stornato
il pericolo da cui era minacciato Germain. «Farà meglio, perché quel
povero ragazzo non risponderebbe a una provocazione; è un tipo come
me, ardito come una lepre.»
«Eppure è un peccato» ricominciò lo Squelette. Contavamo su quella
operazione per divertirci un po’ dopo mangiato. Il tempo non passerà
più.
«Sì, è vero, cosa faremo allora?» disse Nicolas.
«Stando così le cose, che Pique-Vinaigre racconti una storia a tutta
la camerata, e io non attaccherò briga con Germain» disse Barbillon.
«Va bene, va bene» disse il narratore, «è già una condizione; ma ve
ne è un’altra e senza quest’altra io non racconto niente.»
«Quale altra condizione?»
«Che l’onorata società, che è piena di capitalisti» disse
PiqueVinaigre riprendendo l’accento da saltimbanco, «acconsentirà a
quella bazzecola che è una colletta di venti soldi. Venti soldi!
signori! per ascoltare il famoso Pique-Vinaigre che ha avuto l’onore
di lavorare davanti ai tipi più esigenti, ai banditi più famosi di
Francia e di Navarra, e che è costantemente atteso a Brest e a
Tolone, chiamato per ordine del governo. Venti soldi! È niente,
signori!»
«Via, raccoglieremo venti soldi quando avrai raccontato la tua
storia.»
«Dopo? No, prima» esclamò Pique-Vinaigre.
«Andiamo! di’ un po’, ci credi forse capaci di rubarti dieci soldi?»
disse Squelette in tono contrariato.
«Per niente!» rispose Pique-Vinaigre; «io onoro la categoria dei
ladri di tutta la mia fiducia ed è per farla risparmiare che domando
venti soldi in anticipo.»
«La tua parola d’onore?»
«Sì, signori; perché dopo aver sentito la mia storia sarete così
soddisfatti, che non saranno più venti soldi, ma venti franchi!
cento franchi, che mi obblighereste ad accettare! E io mi conosco,
avrei la debolezza di cedere. Vedete dunque che, per economia, voi
fareste meglio a pagarmi venti soldi in anticipo!»
«Non è la parlantina che manca, a te!»
«Non ho che la mia lingua, bisogna ben che me ne serva. E poi, per
essere sincero, mia sorella e i suoi bambini si trovano in una
miseria spaventosa e venti soldi per un piccolo bilancio sono già
qualcosa.»
«Perché non rubano, tua sorella e i suoi marmocchi, se ne hanno
l’età?» disse Nicolas.
«Non me ne parlate, è una desolazione, è il mio disonore... io son
troppo buono.»
«Di’ pure troppo stupido, visto che l’incoraggi.»
«È vero, io l’incoraggio nel vizio di essere onesta. Ma è capace di
fare solo quello, e mi fa pietà. Via, come d’accordo vi racconterò
la mia famosa storia di Gringalet e Coupe-en-Deux, ma voi mi
raccoglierete i venti soldi e Barbillon non attaccherà briga con
quell’imbecille di Germain» disse Pique-Vinaigre.
«Ti daremo i venti soldi, e Barbillon non attaccherà briga con
quell’imbecille di Germain» disse lo Squelette. «Allora aprite
bene gli orecchi, ne sentirete di belle. Ma ecco la pioggia... che
fa rientrare gli habitués: così non ci sarà bisogno di andarli a
cercare.»
Infatti la pioggia cominciava a cadere; i prigionieri lasciarono il
cortile e andarono a rifugiarsi, sempre accompagnati da un
guardiano, nella stufa.
Come abbiamo detto, era questo uno stanzone col pavimento a
piastrelle, con tre finestre che davano sul cortile; nel mezzo si
trovava una stufa, vicino alla quale stavano Squelette, Barbillon,
Nicolas e Pique-Vinaigre. Ad un cenno d’intesa del capo-camerata il
Gros-Boiteux andò a raggiungere il gruppo...
Germain entrò fra gli ultimi, assorto in deliziosi pensieri. Andò
macchinalmente a sedersi sulla sporgenza della terza finestra della
sala, posto che aveva sempre occupato, e che nessuno gli contendeva,
in quanto lontano dalla stufa intorno a cui si radunavano i
detenuti.
Come abbiamo detto, solo una quindicina di prigionieri erano stati
messi al corrente del tradimento che si addebitava a Germain, e
dell’assassinio che doveva valere come punizione.
Ma, non appena divulgato, questo progetto contò tanti aderenti
quanti erano i detenuti; quei miserabili, infatti, nella loro cieca
crudeltà consideravano quell’odiosa imboscata come una vendetta
legittima e vedevano in essa una garanzia certa contro le future
denunce degli spioni.
Solo Germain, Pique-Vinaigre e il guardiano ignoravano quello che
stava per accadere.
L’attenzione di tutti andava al boia, alla vittima e al narratore
che inconsapevolmente stava per privare Germain del solo aiuto su
cui avrebbe potuto contare; infatti era quasi certo che il
guardiano, vedendo i detenuti così attenti alle storie di
Pique-Vinaigre, avrebbe ritenuto inutile la sorveglianza e avrebbe
approfittato di quel momento di calma per andarsene a mangiare.
Quando i detenuti furono entrati, lo Squelette disse dunque al
guardiano:
«Dite, vecchio, Pique-Vinaigre ha una buon’idea... ci racconterà la
sua storia di Gringalet e di Coupe-en-Deux. C’è un tempaccio che non
val la pena di metter fuori una guardia, aspetteremo tranquillamente
l’ora di tornare alle nostre cucce».
«Per la verità, quando quello chiacchiera, ve ne state tranquilli...
Quanto meno non c’è bisogno di starvi sempre alle costole.»
«Sì» riprese a dire lo Squelette, «ma Pique-Vinaigre le vende care
le sue storie... vuole venti soldi.»
«Sì, la bagatella di venti soldi... ed è proprio niente» esclamò
Pique-Vinaigre. «Sì, signori miei, un’inezia, perché bisognerebbe
non avere un quattrino in tasca per privarsi delle avventure del
povero piccolo Gringalet, del terribile Coupe-en-Deux e di quello
scellerato di Gargousse... roba da far sanguinare il cuore e rizzare
i capelli. Ora, signori, chi non potrà disporre di quella bazzecola
che sono quattro soldi, o, se preferite, di cinque centesimi, pur di
sentirsi il cuore trafitto e i capelli ritti?...»
«Io metto due soldi» disse Squelette; e gettò la moneta davanti a
Pique-Vinaigre. «Via! la compagnia farebbe la spilorcia di fronte a
un tal divertimento?» aggiunse, guardando i complici con aria
d’intesa.
Diversi soldi caddero da una parte e dall’altra, con grande gioia di
Pique-Vinaigre, che facendo la colletta pensava alla sorella.
«Otto, nove, dieci, undici, dodici e tredici!» esclamò raccogliendo
le monete! «via, signori ricconi, capitalisti e banchieri, ancora un
piccolo sforzo, non potete restare a tredici, è un numero che porta
disgrazia. Non mancano che sette soldi, l’inezia di sette soldi!
Come, signori, si dirà che la compagnia dei ladri della
Fossa-dei-leoni non sarà stata capace di racimolare ancora sette
soldi, sette miseri soldi! ah! signori, ci sarebbe da credere che vi
abbiano messi qui ingiustamente, o che non avete mai guadagnato un
colpo!»
La voce penetrante e i lazzi di Pique-Vinaigre avevano sottratto
Germain ai suoi sogni; sia per seguire i consigli di Rigolette e
rendersi un poco popolare, sia per fare una piccola elemosina a quel
povero diavolo che aveva testimoniato un certo desiderio di essergli
utile, egli si alzò e gettò una moneta da dieci soldi ai piedi del
narratore, che esclamò, mostrando a tutti il generoso donatore:
«Dieci soldi, signori!... vedete dunque. Parlavo di capitalisti...
rendiamo onore al signore, che si comporta come un banchiere, come
un ambasciatore, per riuscire gradito alla società... Sì, signori...
perché è a lui che voi dovrete la maggior parte della storia di
Gringalet e Coupe-en-Deux... e voi lo ringrazierete. Quanto ai tre
soldi in più... io me li guadagnerò imitando la voce dei personaggi,
anziché dialogare semplicemente... Sarà una squisitezza che dovrete
a questo ricco capitalista, davvero adorabile.»
«Via, non cianciare troppo» disse lo Squelette.
«Un momento, signori» disse Pique-Vinaigre, «è giusto che il
capitalista che m’ha dato i dieci soldi sia... quello che ha il
posto migliore, all’infuori del nostro capo-camerata che ha il
diritto di scelta.»
Questa proposta serviva tanto bene ai piani dello Squelette, che si
affrettò a dire:
«È vero, dopo di me deve essere quello che ha il posto migliore».
E il bandito gettò un altro sguardo d’intesa ai detenuti.
«Sì, sì, che venga avanti» dissero.
«Che si metta sul primo banco.»
«Vedete, giovanotto... la vostra generosità è stata ricompensa-
ta... l’onorata società riconosce che voi avete diritto ai primi
posti» disse Pique-Vinaigre a Germain.
Credendo che la sua generosità avesse veramente reso i suoi odiosi
compagni meglio disposti nei suoi riguardi, e felice di seguire in
quel modo le raccomandazioni di Rigolette, Germain, malgrado una
forte ripugnanza, lasciò il posto che si era scelto per avvicinarsi
al narratore.
Questi, aiutato da Nicolas e da Barbillon, avendo disposto attorno
alla stufa le quattro o cinque panche che erano nella stanza, disse
con enfasi:
«Ecco i primi palchi!... a ogni signore... ogni onore... prima il
capitalista...»
«E ora, quelli che hanno pagato si siedano sui banchi» aggiunse
allegramente Pique-Vinaigre, fermamente convinto che, grazie a lui,
Germain non avrebbe più corso alcun pericolo. «E quelli che non
hanno pagato» aggiunse, «si siederanno per terra o resteranno in
piedi, come preferiscono...»
Riassumiamo la disposizione dei personaggi di questa scena:
Pique-Vinaigre, in piedi vicino alla stufa, si preparava a iniziare
il racconto.
Accanto a lui, Squelette, anche lui in piedi, senza togliere gli
occhi da Germain, era pronto a lanciarsi su di lui al momento in cui
il guardiano avesse abbandonato la sala.
A una certa distanza da Germain, Nicolas, Barbillon, Cardillac e
altri detenuti, fra i quali si notava l’uomo dal berretto di cotone
blu e dal giubbotto grigio, occupavano gli ultimi banchi.
La maggior parte dei detenuti, radunati qua e là, gli uni seduti per
terra, altri in piedi e appoggiati ai muri, componevano i piani
secondari di questo quadro, rischiarato come un Rembrandt da tre
finestre laterali, che gettavano vivi bagliori e forti ombre su quei
visi così diversi, e dai lineamenti così duramente caratterizzati e
accentuati.
Il guardiano se ne stava sulla porta, socchiusa, ignaro che,
andandosene, avrebbe dato il via all’assassinio di Germain.
«Ci siamo?» domandò Pique-Vinaigre allo Squelette.
«Silenzio, la compagnia...» disse questi voltandosi a metà; poi,
rivolgendosi a Pique-Vinaigre: «E ora, comincia la tua storia, ti
ascoltiamo».
Si fece un profondo silenzio.
IX
GRINGALET E COUPE-EN-DEUX
... Nulla di più dolce, di più salutare, di più prezioso delle
vostre parole; esse ci affascinano, ci infondono coraggio, ci
rendono migliori...
WOLFGANG, IV
Prima di iniziare a raccontare la storia di Pique-Vinaigre
ricorderemo al lettore che, per un contrasto singolare, la maggior
parte dei detenuti, nonostante la loro cinica perversità, amano
quasi sempre i racconti ingenui, per non dire puerili, in cui la
vittima, dopo prove e traversie innumerevoli, quasi per inesorabile
fatalità, finisce per essere vendicata dai soprusi del tiranno.
Lungi da noi l’idea di stabilire il pur minimo parallelo fra gli
uomini corrotti e la massa dei poveri onesti; ma si ignora forse con
quali frenetici applausi il popolo che accorre ai teatri dei
boulevards accoglie la liberazione della vittima, e con quali
roventi maledizioni investe il maligno o il traditore?
Si è soliti ridere di queste inculte testimonianze di simpatia per
ciò che è buono, debole, perseguitato... e di avversione per ciò che
è potente, ingiusto e crudele.
E, a nostro parere, a torto.
Nulla di più consolante in sé di questi risentimenti della folla.
Non è forse evidente che questi istinti salutari non sono che
princìpi atrofizzati in soggetti che l’ignoranza e la povertà
espongono incessantemente all’ossessione sovversiva del male?
Come non riporre tutta la speranza in un popolo il cui buon senso
morale si manifesta così regolarmente? un popolo che, malgrado il
prestigio dell’arte, non permetterebbe mai che un’opera drammatica
rappresentasse il trionfo dello scellerato e il supplizio del
giusto?
Questo fatto, che pure noi disdegniamo e facciamo oggetto di
scherno, ci sembra invece molto importante, per le tendenze che
rivela e che spesso si ritrovano proprio, lo ripetiamo, fra gli
esseri
più corrotti, quando, per così dire, si trovano in riposo, al riparo
dalle istigazioni o dalle necessità criminose.
In una parola, poiché persone assuefatte al comportamento criminale
talvolta si mostrano ancora sensibili ai sentimenti elevati, non si
dovrà forse concludere che tutti gli uomini hanno più o meno in se
stessi l’amore per il bello, il buono, il giusto, e che la miseria e
l’abbrutimento, falsando e soffocando questi divini istinti, sono le
cause prime della umana depravazione?
Non è evidente forse che si diventa cattivi per lo più quando si è
infelici, e che liberare l’uomo dalle terribili tentazioni in cui lo
pone il bisogno attraverso un equo miglioramento delle sue
condizioni materiali significa rendere praticabili quelle virtù di
cui egli ha coscienza?
Le impressioni suscitate dal racconto di Pique-Vinaigre serviranno a
illustrare meglio, lo speriamo, alcune idee che abbiamo esposto.
Pique-Vinaigre cominciò dunque il suo racconto, fra il profondo
silenzio dell’uditorio, con queste parole:
«La storia che sto per raccontare all’onorata società risale ormai a
molti anni or sono. Quel che si chiamava la Petite-Pologne non era
ancora stata distrutta. L’onorata società sa o no cos’era la
Petite-Pologne?»
«Lo sappiamo» disse il detenuto col berretto blu e il giubbotto
grigio, «erano delle bicocche dalla parte della rue du Rocher e
della rue de la Pépinière.»
«Per l’appunto, ragazzo mio» riprese a dire Pique-Vinaigre, «e il
quartiere della Cité, che pure non è composto da palazzi,
sembrerebbe rue de la Paix o rue de Rivoli rispetto alla
Petite-Pologne: che case! comunque un famoso covo di ladri; non
v’erano strade, ma vicoli; non case, ma topaie; non strade
lastricate, ma un leggero strato di fango e di letame, pressati,
tanto che il rumore dei veicoli non vi avrebbe mai disturbato, se ne
fossero passati; ma non ne passavano. Dal mattino alla sera, e
soprattutto dalla sera al mattino, quel che regolarmente si poteva
udire era il solito ritornello: Attenti! aiuto! all’assassino! ma le
guardie non si disturbavano. Quante più persone venivano uccise
nella PetitePologne, tanta meno gente da arrestare!
La gente brulicava, là dentro, bisognava vedere: vi abitavano
naturalmente ben pochi gioiellieri, orafi e banchieri; ma, per
contro, vi era una quantità di suonatori d’organo, di pagliacci, di
pulcinella e ciarlatani che esibiscono animali curiosi. Fra costoro
ve
ne era uno soprannominato Coupe-en-Deux, tanto era cattivo; ma lo
era soprattutto per i bambini... Lo chiamavano Coupe-enDeux perché
si diceva che con un colpo di scure avesse tagliato in due un
piccolo savoiardo.»
A questo punto del racconto di Pique-Vinaigre l’orologio della
prigione suonò le tre e un quarto.
Poiché i detenuti rientravano nei dormitori alle quattro, il delitto
dello Squelette doveva essere consumato prima di quel momento.
«Accidenti! il guardiano non se ne va» disse sottovoce il
GrosBoiteux.
«Stai tranquillo, una volta cominciata la storia, se ne andrà...»
Pique-Vinaigre continuava il suo racconto.
«Non si sapeva da dove venisse questo Coupe-en-Deux; chi
diceva fosse italiano, chi boemo, chi turco, chi africano; le buone
donne dicevano che era un mago, anche se di questi tempi i maghi non
sono più di moda; quanto a me, sarei molto tentato di pensarla come
le buone donne. E quel che lo faceva credere era il fatto che costui
portava sempre con sé uno scimmione rossiccio chiamato Gargousse,
che era così furbo e maligno che sembrava avesse il diavolo in
corpo. Fra poco vi parlerò di Gargousse. Quanto a Coupe-en-Deux,
cercherò di descrivervelo: aveva una carnagione color fodera di
stivale, i capelli rossi come i peli della sua scimmia, gli occhi
verdi, e quel che fa pensare, come le buone donne, che fosse un
mago... è che aveva la lingua nera.»
«La lingua nera?» disse Barbillon.
«Nera come l’inchiostro!» rispose Pique-Vinaigre.
«E perché?»
«Perché quand’era incinta sua madre aveva probabilmente
parlato di un negro» riprese a dire Pique-Vinaigre, con una certa
convinzione. «Oltre a ciò Coupe-en-Deux aveva non so quante
tartarughe, scimmie, porcellini d’India, topini bianchi, volpi e
marmotte, che corrispondevano a un egual numero di piccoli
savoiardi, vale a dire bambini abbandonati.
Tutte le mattine Coupe-en-Deux distribuiva a ciascuno la propria
bestia e un pezzo di pane nero, e poi in viaggio... per chiedere un
soldino o far danzare la Catarina. Quelli che la sera non
riportavano almeno quindici soldi venivano battuti! nei primi tempi
si sentivano i bambini gridare da un capo all’altro della
Petite-Pologne.
Devo anche dirvi che c’era nella Petite-Pologne un uomo che veniva
chiamato il decano, perché nel suo genere era il più anzia-
no del quartiere, di cui era per così dire il sindaco, il
commissario, il giudice di pace o piuttosto di guerra, giacché era
davanti a lui, nel suo cortile (faceva il mercante di vino e
l’oste), che si portavano le dispute, quando restava l’unico modo
per mettersi d’accordo. Benché fosse già vecchio, il decano era
forte come un Ercole e molto temuto; godeva di una grande
considerazione nella Petite-Pologne. Quando egli diceva: Va bene,
tutti dicevano: Va benissimo. Non va, tutti dicevano: non va. Era un
brav’uomo, in fondo, ma terribile; quando, ad esempio, dei potenti
davano fastidio ai più deboli... allora bisognava stare in guardia!
Poiché il decano era vicino di Coupe-en-Deux, da principio aveva
inteso i bambini gridare, per i colpi che quell’omaccio infliggeva
loro; e gli aveva detto: “Se sento ancora quei bambini gridare; ti
faccio gridare a tua volta, e siccome tu hai la voce più forte, io
batterò più forte”.»
«Burlone quel decano! mi piace, il decano!» disse il detenuto dal
berretto blu.
«E anche a me piace» aggiunse il guardiano avvicinandosi al gruppo.
Squelette non poté trattenere un gesto d’impazienza e di collera.
Pique-Vinaigre continuò:
«Grazie al decano, che aveva minacciato Coupe-en-Deux, non si
udivano dunque più i bambini piangere la notte nella Petite-Pologne;
ma i poveri infelici non soffrivano meno per questo, perché se non
piangevano più quando il padrone li batteva era perché temevano di
essere battuti ancora più forte. Quanto ad andare a lamentarsi dal
decano, non ci pensavano nemmeno.
Con i quindici soldi che ogni bambino doveva riportargli,
Coupe-en-Deux dava loro un alloggio, li nutriva e li vestiva.
La sera, un pezzo di pane nero, come al mattino... ecco in cosa
consistevano i pasti; quanto agli abiti, da lui non ne avevano mai
avuti... ecco come li vestiva; e la notte li chiudeva insieme con le
loro bestie, sullo stesso giaciglio di paglia, in un granaio dove si
saliva attraverso una scala e poi per una botola... ecco l’alloggio.
Una volta che gli animali e i bambini erano tutti dentro, ritirava
la scala e chiudeva la botola a chiave.
Voi potete immaginare la vita che quelle scimmie, quei porcellini
d’India, quelle volpi, quei topi, quelle tartarughe, quelle marmotte
e quei bambini conducevano in quel granaio senza luce, grande quanto
un fazzoletto. Coupe-en-Deux dormiva in una camera al piano di
sotto, col suo scimmione Gargousse lega-
to ai piedi del letto. Quando nel granaio vi era brusio o si
sentivano grida, egli si alzava al buio, prendeva una gran frusta,
saliva la scala, apriva la botola e, senza guardare, dava frustate a
destra e a manca.
Poiché aveva sempre con sé una quindicina di bambini e poiché taluni
di loro, innocenti, gli portavano talvolta venti soldi al giorno, a
Coupe-en-Deux, fatte le poche spese, che non erano certo cospicue,
rimanevano circa quattro franchi o cento soldi al giorno; e con
questi gozzovigliava; perché, notate bene, era anche il più grande
ubriacone di questa terra, ed era sempre ubriaco fradicio una volta
al giorno. Era la norma, sosteneva che altrimenti avrebbe avuto mal
di testa tutta la giornata; bisogna anche aggiungere che con i suoi
proventi comprava dei cuori di montone per Gargousse, dato che lo
scimmione mangiava carne cruda con grande voracità.
Ma vedo che l’onorata società mi chiede di Gringalet; eccolo,
signori...».
«Ah! sentiamo un po’ di questo Gringalet, e poi me ne andrò a
mangiare la minestra» disse il guardiano.
Squelette scambiò col Gros-Boiteux uno sguardo soddisfatto e feroce.
«Fra i bambini a cui Coupe-en-Deux distribuiva gli animali» riprese
Pique-Vinaigre, «vi era un povero diavolo chiamato Gringalet. Senza
padre né madre, senza fratelli né sorelle, senza casa, si trovava
tutto solo... tutto solo al mondo, in cui non aveva chiesto di
venire e da dove avrebbe potuto andarsene senza che nessuno vi
facesse caso.
E non si chiamava Gringalet perché il nome gli piacesse, via! era
gracile, mingherlino, malaticcio, che era una pena vederlo; non gli
si sarebbero dati più di sette o otto anni, e invece ne aveva
tredici; ma non ne dimostrava che la metà, e non per colpa sua... ma
perché, in media, aveva mangiato solo un giorno su due e poi così
poco, così poco... così male, così male, che già era un miracolo che
dimostrasse sette anni.»
«Povero marmocchio, mi sembra di vederlo!» disse il detenuto dal
berretto blu, «ce ne sono tanti di bambini così, nelle strade di
Parigi, dei piccoli morti di fame.»
«Bisogna pure che comincino da piccoli a imparare quella vita, in
modo che poi vi siano abituati» riprese Pique-Vinaigre, sorridendo
con amarezza.
«Avanti, spicciatevi dunque» disse bruscamente lo Squelette, «il
guardiano si spazientisce, la minestra si raffredda.»
«Ah! bah! fa lo stesso» rispose il guardiano, voglio conoscere un
po’ meglio questo Gringalet, mi diverte.
«Davvero, è molto interessante» aggiunse Germain, attento al
racconto.
«Ah, grazie per quel che mi dite, mio caro capitalista» rispose
Pique-Vinaigre, «questo mi fa ancora più piacere della vostra moneta
da dieci soldi...»
«Ciondolone che non sei altro!» esclamò lo Squelette, «quando la
finirai di lasciarci sospesi?»
«Ecco!» riprese Pique-Vinaigre. «Un giorno Coupe-en-Deux aveva
raccolto Gringalet dalla strada, che stava morendo di freddo e di
fame; ma avrebbe fatto meglio a lasciarlo morire, forse. Siccome
Gringalet era debole, era anche pauroso, ed essendo pauroso era
diventato lo zimbello e la vittima degli altri piccoli disgraziati,
suoi compagni, che lo battevano e gli facevano tanti e tanti
dispetti che egli sarebbe diventato di necessità cattivo, ma non
aveva né la forza né il coraggio per diventarlo.
Infatti... dopo che lo avevano a lungo battuto, egli piangendo
diceva: “Non ho fatto del male a nessuno, e tutti mi fanno del
male... è ingiusto. Oh! se io fossi forte e coraggioso!”. Voi vi
aspettereste forse che Gringalet aggiungesse poi: “Renderei agli
altri il male che mi fanno”. Ebbene! niente affatto... egli diceva:
“Oh, se fossi forte e ardito difenderei i deboli contro i forti,
perché io sono debole, e i forti mi hanno fatto soffrire!”.
In attesa, siccome era troppo piccolo per impedire ai forti di
molestare i deboli, a cominciare da lui, cominciava con l’impedire
agli animali più grossi di mangiare i più piccoli.»
«Curiosa l’idea!» disse il detenuto dal berretto blu.
«E quel che c’è di più buffo» riprese il narratore, «è che così
facendo Gringalet sembrava consolarsi della sua triste sorte... il
che prova che in fondo non era di animo cattivo.»
«Perdinci, credo bene il contrario» disse il guardiano. «Diavolo
d’un Pique-Vinaigre, è divertente!»
In quel momento suonarono le tre e mezzo.
Il carnefice di Germain e il Gros-Boiteux si scambiarono uno sguardo
significativo.
Il tempo passava, il sorvegliante non se ne andava, e alcuni
detenuti, fra i meno induriti, sembravano quasi dimenticare i
sinistri progetti dello Squelette contro Germain, per ascoltare
avidamente il racconto di Pique-Vinaigre.
«Quando io dico» riprese questi, «che Gringalet impediva agli
animali più grossi di mangiare quelli piccoli, voi capite bene che
Gringalet non andava a immischiarsi con le tigri, i leoni, i lupi, e
nemmeno con le volpi e le scimmie del serraglio di Coupe-enDeux; era
troppo pauroso per farlo; ma non appena vedeva, ad esempio, un ragno
in agguato nella sua tela pronto a piombare su di una povera mosca
pazzerella che volava allegramente al sole, anch’essa creatura del
buon Dio, senza nuocere ad alcuno, crac, Gringalet dava un colpo di
bastone nella tela, liberava la mosca, e schiacciava il ragno come
un vero Cesare... Sì! come un vero Cesare... perché diventava bianco
come un lenzuolo quando doveva toccare quei brutti insetti; ci
voleva dunque del coraggio... per uno come lui che aveva paura di un
maggiolino e che aveva durato fatica a familiarizzarsi con la
tartaruga che Coupe-en-Deux gli consegnava tutte le mattine. Ma
Gringalet, superando il terrore che gli incutevano i ragni, per
impedire che le mosche venissero mangiate, si mostrava...»
«Si mostrava, nel suo genere, altrettanto audace di un uomo che
avesse attaccato un lupo per togliergli un agnello dalla bocca»
disse il detenuto dal berretto blu...
«O di un uomo che avesse attaccato Coupe-en-Deux per toglierli dalle
grinfie Gringalet» aggiunse Barbillon, anche lui molto interessato
al racconto.
«Dite bene» riprese Pique-Vinaigre. «In tal modo dopo quei bei colpi
Gringalet non si sentiva più così infelice... Lui che non rideva mai
arrivava a sorridere, faceva lo spavaldo, metteva il berretto di
traverso (quando ne aveva uno) e canticchiava la Marseillaise con
aria da vincitore... In quel momento non vi era un ragno capace di
guardarlo in faccia.
Un’altra volta, era un grillo che stava annegando e si dibatteva in
un ruscello... Prontamente Gringalet gettava in acqua due dita e
ripescava il grillo, per poi deporlo su un filo d’erba. Un campione
di nuoto, che avesse ripescato il suo decimo annegato a cinquanta
franchi l’uno, non si sarebbe sentito più orgoglioso di Gringalet
mentre vedeva il suo grillo sgambettare e fuggirsene via...
Eppure il grillo non gli procurava né soldi né medaglia, non gli
diceva nemmeno grazie, proprio come nel caso della mosca... Ma
allora, Pique-Vinaigre, amico mio, mi dirà l’onorata società, che
diavolo di piacere provava Gringalet, battuto da tutti, nel
diventare il liberatore dei grilli e il carnefice dei ragni? Visto
che gli facevano del male, perché non si vendicava compiendone a sua
volta, secondo le sue forze; per esempio dando delle mosche in pasto
ai ragni o lasciando annegare i grilli... o addirittura facendoli
annegare apposta?...»
«Già, infatti, perché non si vendicava in quel modo?» disse Nicolas.
«A che gli sarebbe servito?» disse un altro.
«Be’, a far del male, considerato che gli altri ne facevano a lui!»
«No! be’, io lo capisco, che gli piacesse salvare le mosche...
quel povero marmocchio!» riprese l’uomo dal berretto blu. «Forse si
sarà detto: Chi sa che un giorno qualcuno non mi salvi?»
«Il nostro compagno ha ragione» esclamò Pique-Vinaigre; «mi ha letto
in cuore quello che stavo per dire all’onorata società.»
«Gringalet non era un furbo; non vedeva più lontano del suo naso; ma
si era detto: Coupe-en-Deux è il mio ragno e forse può accadere che
un giorno qualcuno farà per me quel che io faccio per gli altri
poveri moscerini... che gli smonteranno la sua ragnatela liberandomi
dalle sue grinfie. Giacché fino a quel momento, per nulla al mondo
avrebbe osato fuggire dal suo padrone; sarebbe stato un suicidio.
Eppure, un giorno che né lui né la sua tartaruga avevano avuto
fortuna e che in due non avevano guadagnato che tre soldi,
Coupe-en-Deux si mise a battere il povero ragazzo così forte, così
forte, che Gringalet non resistette; stanco di essere considerato un
rifiuto e di essere martoriato da tutti, spia il momento in cui la
botola del granaio è aperta e, mentre Coupe-enDeux distribuisce il
mangime ai suoi animali, egli si lascia scivolare giù dalla
scala...»
«Ah... meno male!» disse un detenuto.
«Ma perché non andava a lamentarsi dal decano?» disse il berretto
blu, «quello avrebbe dato un bel sacco di legnate a Coupeen-Deux.»
«Sì, ma il poverino non osava... aveva troppa paura, e preferiva
cercare di fuggire. Disgraziatamente Coupe-en-Deux l’aveva visto; lo
afferra per il collo e lo rimette nel granaio; questa volta
Gringalet, pensando a quel che l’attendeva, ebbe un brivido per
tutto il corpo, ben sapendo che non era ancor giunto alla fine delle
sue pene.
A proposito delle pene di Gringalet, bisogna che vi parli di
Gargousse, la gran scimmia favorita di Coupe-en-Deux; quel cattivo
animale era, credetemi, più grosso di Gringalet; pensate un po’ che
dimensioni, per una scimmia! Ora vi dirò anche perché non lo si
esibiva nelle strade come gli altri animali del serraglio; il fatto
è che Gargousse era così cattivo e forte che fra tutti i ragazzi vi
era stato solo un auvergnate di quattordici anni, robusto e deciso,
che dopo essersi battuto diverse volte con Gargousse aveva finito
per domarlo e portarselo appresso con una catena; eppure
certe volte vi erano state ancora delle zuffe in cui Gargousse aveva
fatto sanguinare la sua guida.
Stanco di questa situazione il piccolo auvergnate si era detto un
bel giorno: “Bene, bene, mi vendicherò di te, furfante d’uno
scimmione!”. Una mattina dunque egli parte con l’animale, come al
solito; per tenerlo buono, compera un cuore di agnello: mentre
Gargousse mangia, passa una corda nell’ultimo anello della catena,
attacca la corda a un albero e, una volta che quel furfante di
scimmione è ben ancorato, gli scarica addosso una gragnuola di colpi
di bastone... ma una gragnuola tale che non vi potete immaginare.»
«Ah! ben fatto!»
«Bravo l’auvergnate!»
«Dagliele, ragazzo!»
«Ammazzalo quello scellerato di Gargousse» dissero i de-
tenuti.
«State sicuri che pestava come si deve» riprese Pique-Vinai-
gre. «Bisognava vedere come gridava Gargousse, e faceva stridere i
denti, e saltava, e si dimenava di qua e di là; ma l’auvergnate gli
rispondeva a suon di bastonate, dicendogli: se ne vuoi ancora,
eccoti servito!
Purtroppo le scimmie sono come i gatti, hanno la pelle dura...
Gargousse era tanto furbo quanto cattivo; quando aveva capito che
fine gli si stava preparando, sul più bello della gragnuola di colpi
aveva fatto un’ultima capriola, era ricaduto disteso ai piedi
dell’albero, aveva sgambettato un momento e poi, fingendosi morto,
era rimasto immobile come un ciocco.
L’auvergnate ne aveva abbastanza; credendo che lo scimmione fosse
morto, se la dà a gambe, per non dover rimettere mai più piede da
Coupe-en-Deux. Ma quel furfante di Gargousse lo spiava con la coda
dell’occhio; e tutto tramortito di colpi com’era, non appena si vede
solo, e il ragazzo già lontano, rompe coi denti la corda che fissava
la sua catena all’albero. Il boulevard Monceau, dove aveva ricevuto
la battuta, era vicino alla Petite-Pologne; lo scimmione conosceva
il cammino come le sue tasche; se la batte dunque trascinandosi la
gamba, e arriva dal suo padrone, che lancia un ruggito furioso di
collera vedendo la bestia ridotta in quello stato. Ma non è tutto:
da quel momento Gargousse aveva conservato un rancore così aspro
verso tutti i bambini in generale, che Coupe-en-Deux, che pure non
era un tipo tenero, non aveva più osato darlo in consegna ad
alcuno... per timore di una disgrazia; giacché Gargousse sarebbe
stato capace di strangolar-
li o di divorarli; e tutti i piccoli sventurati, che ben lo
sapevano, si sarebbero lasciati tagliare a pezzi da Coupe-en-Deux
piuttosto che avvicinarsi allo scimmione.»
«Bisogna assolutamente che vada a mangiare la mia minestra» disse il
guardiano facendo un passo verso la porta; «questo diavolo di
Pique-Vinaigre farebbe scendere gli uccelli dagli alberi per
ascoltarlo... Non so proprio dove vada a pescare quel che ci
racconta.»
«Finalmente... il guardiano se ne va» disse sottovoce lo Squelette
al Gros-Boiteux; «sono tutto sudato, ho la febbre... tanto mi rodo
dalla rabbia... Attenti soltanto a fare un muro attorno allo
spione... e io mi incarico del resto...»
«Ah! statemi buoni» disse il guardiano dirigendosi verso la porta.
«Buoni come statuine» rispose lo Squelette avvicinandosi a Germain,
mentre il Gros-Boiteux e Nicolas, fattisi un cenno d’intesa, fecero
due passi nella stessa direzione.
«Ah! egregio guardiano... ve ne andate sul più bello» disse
Pique-Vinaigre in tono di rimprovero.
Se non fosse stato per il Gros-Boiteux che prevenne quel movimento,
afferrandolo bruscamente per il braccio, lo Squelette si sarebbe
lanciato su Pique-Vinaigre.
«Come sarebbe a dire sul più bello?» rispose il guardiano voltandosi
verso il narratore.
«Lo credo bene» disse Pique-Vinaigre; «voi non sapete tutto quel che
vi perdete... La parte più affascinante della storia è quella che
sto per raccontarvi...»
«Non state ad ascoltarlo» disse lo Squelette contenendo a mala pena
il furore; «non è in forma oggi; io trovo che la sua storia è
proprio stupida...»
«Stupida la mia storia?» esclamò Pique-Vinaigre offeso nel suo amor
proprio di narratore; «ebbene! guardiano... ve ne prego, ve ne
supplico... rimanete fino alla fine... al massimo ne ho ancora per
un buon quarto d’ora... d’altronde la vostra minestra è fredda
ormai,... e cosa ci perdete dunque? Io cercherò di sbrigarmi in modo
che abbiate ancora il tempo di andare a mangiare prima che noi
saliamo nelle camerate.»
«Via, resto, ma fate presto» disse il guardiano avvicinandosi.
«Avete proprio ragione di rimanere, guardiano; non per vantarmi, ma
avreste perduto qualcosa di impareggiabile, soprattutto alla fine;
c’è il trionfo della scimmia e di Gringalet... scortati da tutti i
bambini con le loro bestiole e dagli abitanti della Peti-
te-Pologne. Parola d’onore, non è per gloriarmi, ma è veramente
superbo...»
«Allora... raccontate in fretta, ragazzo mio» disse il guardiano
ritornando vicino alla stufa.
Lo Squelette fremeva di collera...
Quasi disperava di poter compiere il suo crimine.
Quando fosse arrivata l’ora di andare a dormire, Germain
sarebbe stato salvo; egli infatti non stava nella stessa camerata
del suo implacabile nemico e l’indomani, come abbiamo detto, avrebbe
occupato una delle celle singole.
Infine lo Squelette si rendeva conto, dalle interruzioni che alcun
detenuti facevano, che essi si erano inteneriti al racconto di
Pique-Vinaigre, per cui probabilmente non avrebbero assistito con
feroce indifferenza all’assassinio orribile di cui la loro
impassibilità doveva renderli complici,
Squelette avrebbe potuto impedire al narratore di terminare la sua
storia; ma allora svaniva l’ultima speranza di vedere il guardiano
allontanarsi prima dell’ora in cui Germain sarebbe stato al sicuro.
«Ah! la mia storia sarebbe stupida!» riprese Pique-Vinaigre.
«Ebbene! l’onorata società potrà decidere...
Non v’era dunque animale più cattivo di quello scimmione di
Gargousse, che in particolare era accanito quanto il suo padrone
contro i bambini... Cosa fa dunque Coupe-en-Deux per punire
Gringalet d’aver voluto fuggire?... è quel che saprete fra poco.
Intanto riacciuffa il ragazzo e lo sistema nel granaio per la notte
dicendogli: “Domani mattina, quando tutti i tuoi compagni saranno
partiti, ti acchiapperò e ti farò vedere cosa faccio a quelli che
vogliono piantarmi in asso...”.
Vi lascio immaginare la notte terribile che passò Gringalet. Quasi
non chiuse occhio; si domandava cosa Coupe-en-Deux avrebbe potuto
fargli... A forza di chiederselo finì per addormentarsi... Ma che
sonno!... fece un sogno... un sogno orribile... cioè solo
l’inizio... Ora sentirete...
Sognò di essere una di quelle povere mosche che aveva salvato dalle
tele di ragno e di cadere a sua volta in una grande e solida
ragnatela dove si dibatteva, si dibatteva con tutte le forze senza
potersene liberare; poi vide venire verso di sé, sommessamente, a
tradimento, una specie di mostro che aveva il volto di Coupe-enDeux
e un corpo di ragno...
Il mio povero Gringalet ricominciava a dibattersi, come voi potete
immaginare... ma, più si dimenava, più si impigliava nel-
la ragnatela, proprio come fanno le povere mosche... Infine il ragno
si avvicina... lo tocca... ed egli sente le grandi zampe fredde e
pelose dell’orribile insetto attirarlo, stringerlo... per
divorarlo... Si crede morto... Ma ecco che a un tratto ode una
specie di leggero ronzio sonoro, acuto, e vede un bel moscerino
d’oro, con una sorta di dardo sottile e brillante come una punta di
diamante, volteggiare intorno al ragno, infuriato e con una voce...
(quando dico una voce, immaginate la voce di un moscerino!) una voce
che gli diceva: “Povero meschino... tu hai salvato delle mosche... e
il ragno non...”.
Purtroppo Gringalet si svegliò di soprassalto... e non poté vedere
compiersi il sogno; ciononostante, si sentì un po’ più rassicurato e
si disse: forse il moscerino d’oro dal dardo di diamante avrebbe
ucciso il ragno, se avessi visto la fine del sogno.
Ma Gringalet aveva un bel rimanere su quell’idea per rassicurarsi e
consolarsi; man mano che la notte passava, la sua paura si faceva
così forte che alla fine dimenticò il sogno, o piuttosto ricordò
solo la parte più spaventosa, la grande ragnatela in cui era stato
avviluppato e il ragno con la faccia di Coupe-en-Deux... Pensate a
che brividi di paura doveva avere... Mamma mia! pensate un po’...
solo... tutto solo... senza nessuno che volesse difenderlo!
Verso la mattina, quando vide farsi giorno a poco a poco attraverso
il lucernario del granaio, il suo terrore raddoppiò; si avvicinava
il momento in cui si sarebbe trovato solo con Coupeen-Deux. Allora
si gettò in ginocchio in mezzo al granaio e, piangendo a calde
lacrime, supplicò i suoi compagni di domandare grazia per lui a
Coupe-en-Deux, oppure di aiutarlo a fuggire se vi era modo. Ah!
purtroppo! gli uni per paura del padrone, altri per indifferenza,
altri ancora per cattiveria, tutti rifiutarono al povero Gringalet
il favore che egli chiedeva.»
«Monellacci!» disse il prigioniero del berretto blu; «dunque non
avevano né cuore né fegato.»
«È vero» riprese un altro; «fa rabbia vedere quel piccolo
abbandonato dal mondo intero.»
«E per di più solo e senza difesa» riprese il prigioniero dal
berretto blu; «qualcuno che non può che tendere il collo al
carnefice senza recalcitrare ispira sempre pietà. Quando si hanno
denti per mordere, allora è diverso... Parola mia... Tu hai zanne?
ebbene! mostrale e difendi la tua pelle, ragazzo mio!»
«Ha ragione!» dissero diversi detenuti.
«Ah, questa poi!» esclamò Squelette, non potendo più dissimulare la
sua collera e rivolgendosi al berretto blu, «e tu, quand’è
che vorrai startene zitto? Non ho forse detto: silenzio nella
tana?... Sono o non sono il capo-camerata, qui dentro?»
Per tutta risposta il berretto blu guardò lo Squelette in faccia poi
fece quel gesto di scherno ben noto ai ragazzini, che consiste
nell’accostare alla punta del naso il pollice della mano aperta a
ventaglio, appoggiando nel contempo il mignolo sul pollice della
mano sinistra, stesa allo stesso modo.
Il berretto blu accompagnò questa risposta muta con un’espressione
così grottesca che diversi detenuti scoppiarono a ridere
fragorosamente, mentre altri, al contrario, rimasero stupefatti
dell’audacia del nuovo prigioniero, tanto Squelette era temuto in
quell’ambiente.
Quest’ultimo mostrò il pugno al berretto blu e gli disse digrignando
i denti:
«Faremo i conti domani.»
«E io farò il conto sulla tua grinta... vi metterò diciassette
ceffoni, non uno di meno».
Temendo che il guardiano avesse una nuova ragione per rimanere e
scongiurare una possibile rissa, Squelette rispose con calma:
«Non si tratta di questo; io sono incaricato dell’ordine nella stufa
e mi si deve ascoltare, non è vero, guardiano?».
«È vero» disse il sorvegliante. «Non interrompete. E tu continua,
Pique-Vinaigre; ma spicciati, ragazzo mio.»
X
IL TRIONFO DI GRINGALET E DI GARGOUSSE
«Gringalet» riprese a raccontare Pique-Vinaigre «vedendosi
abbandonato da tutti, si rassegna al suo triste destino. Il gran
giorno arriva, e tutti i bambini si preparano a darsela a gambe
assieme alle loro bestiole. Coupe-en-Deux apre la botola e fa
l’appello per dare a ciascuno il suo pezzo di pane. Tutti scendono
dalla scala, e Gringalet, più morto che vivo, rincantucciato in un
angolo del granaio con la sua tartaruga, non si muoveva più di
questa; guardava i suoi compagni andarsene l’uno dopo l’altro;
quanto non avrebbe dato per poterli seguire... Finalmente l’ultimo
di loro lascia il granaio. Il cuore batteva ben forte nel petto del
povero bambino; egli sperava ancora che, forse, il padrone l’avrebbe
dimenticato. Eh, sì! Ecco che sente Coupe-en-Deux rimasto ai piedi
della scala gridare col suo vocione:
“Gringalet!... Gringalet!...”.
“Eccomi, padrone.”
“Scendi subito, oppure vengo io a prenderti” riprende Coupe-
en-Deux.
Gringalet, a queste parole si credette giunto agli ultimi.
“Su” si disse tremando da capo a piedi, ricordandosi del sogno,
“eccoti nella rete, piccolo moscerino; il ragno sta per mangiarti.”
Dopo aver deposto dolcemente per terra la sua tartaruga, cui aveva
finito per affezionarsi, le rivolse una specie di addio. Poi si
avvicinò alla botola. Stava mettendo il piede sul primo gradino
della scala per scendere, quando Coupe-en-Deux, prendendolo per la
sua povera gamba, magra come un fuso, lo tirò con tanta forza, tanto
bruscamente, che Gringalet perdette l’equilibrio e si
ammaccò tutta la faccia cadendo lungo la scala.»
«Che peccato che il decano della Petite-Pologne non si trovas-
se là!... Che battuta per Coupe-en-Deux!» disse il berretto blu. «È
in questi momenti che fa piacere essere forti.»
«Sì, ragazzo mio; ma purtroppo il decano non si trovava da quelle
parti!... Coupe-en-Deux afferra dunque il ragazzo per i pantaloni e
lo porta nel suo canile, dove teneva lo scimmione legato ai piedi
del letto. Alla sola vista del ragazzo ecco la bestiaccia che si
mette a saltare, a digrignare i denti come una furia, a lanciarsi,
per quanto la lunghezza della catena glielo permetteva, contro
Gringalet, come per divorarlo.»
«Povero Gringalet, come te la caverai?»
«Ma se cade sotto le grinfie della scimmia sarà strangolato in un
colpo solo!»
«Diavolo!... è una tortura...» disse il berretto blu; «io, in questo
momento, non saprei fare del male a una pulce... E voi, amici miei?»
«Parola mia, nemmeno io.»
«E io neppure.»
In quel mentre il pendolo della prigione suonò le tre e tre
quarti.
Squelette, temendo sempre più che gli venisse a mancare il
tempo, esclamò, furente per quelle interruzioni che sembravano
annunciare che diversi detenuti stavano cedendo a sentimenti di vera
pietà:
«Silenzio nella tana!... Non finirà mai, questo contastorie della
malora, se voi parlate quanto lui!».
Coloro che avevano interrotto tacquero. Pique-Vinaigre continuò:
«Quando si pensa che Gringalet aveva fatto una fatica inimmaginabile
ad abituarsi alla sua tartaruga, e che i più coraggiosi dei suoi
compagni tremavano al solo nome di Gargousse, ci si potrà fare
un’idea del terrore di Gringalet quando si vide condurre dal padrone
vicino a quel furfante di uno scimmione.
“Vi chiedo grazia, padrone!” gridava, battendo le mascelle l’una
contro l’altra come se avesse la febbre, “pietà, padrone! Non lo
farò più, ve lo prometto!”
Il poverino gridava: “Non lo farò più”, senza neanche sapere quel
che diceva, poiché in realtà non aveva nulla da rimproverarsi. Ma
Coupe-en-Deux rideva delle sue preghiere... Malgrado le grida del
ragazzo, che dibatteva, egli lo mette alla portata di Gargousse, che
gli salta addosso e lo agguanta...».
Un fremito si diffuse attraverso l’uditorio, sempre più attento al
racconto.
«Come sarei stato sciocco ad andarmene» disse il guardiano
avvicinandosi di più ai gruppetti di detenuti.
«E questo ancora non è niente; il più bello deve ancora venire»
riprese Pique-Vinaigre. «Non appena Gringalet si sentì addosso le
zampe fredde e pelose dello scimmione che lo afferrava per il collo
e per la testa, si credette già divorato, e come in delirio si mise
a gridare con dei gemiti che avrebbero intenerito una tigre:
“Il ragno del mio sogno, mio Dio!... il ragno del sogno... Piccolo
moscerino d’oro, vienimi in aiuto!”.
“Vuoi star zitto, vuoi star zitto!”... gli diceva Coupe-en-Deux
dandogli dei gran calci, temendo che qualcuno potesse sentire quelle
grida; ma dopo un minuto non vi era più alcun rischio! il povero
Gringalet non gridava più, non si dibatteva più; in ginocchio e
pallido come uno straccio, chiudeva gli occhi e tremava per tutte le
membra né più né meno che se vi fosse stato il gelo di gennaio; nel
frattempo la scimmia lo batteva, gli tirava i capelli, lo graffiava;
e poi di tanto in tanto la bestiaccia si fermava a guardare il suo
padrone, proprio come se fossero stati d’accordo. Coupeen-Deux,
invece, rideva così forte! così forte! che se anche Gringalet avesse
gridato, le risate del suo padrone avrebbero coperto le sue grida.
Si sarebbe detto che quelle risa servivano a incoraggiare Gargousse,
che si accaniva sempre più contro il ragazzo.»
«Ah! furfante di uno scimmione!» esclamò il berretto blu. «Se ti
avessi potuto prendere per la coda, ti avrei fatto roteare come una
fionda, e ti avrei rotto la testa sul pavimento.»
«Furfante d’uno scimmione! era cattivo come un uomo!» «Ma non vi
sono uomini cattivi fino a quel punto!»
«Non tanto cattivi?» riprese Pique-Vinaigre. «E Coupe-enDeux?
Giudicate un po’ voi... ecco quel che fa in seguito: stacca dai
piedi del letto la catena di Gargousse, che era molto lunga, gli
toglie per un momento il ragazzo di fra le zampe, più morto che
vivo, e lo lega dall’altra parte, in modo che Gringalet veniva a
trovarsi a un estremo della catena e Gargousse dall’altro, entrambi
attaccati per le reni e distanti l’uno dall’altro di circa tre
piedi.»
«Ecco una trovata!»
«È vero, vi sono uomini più cattivi delle bestie più feroci.»
«Quando Coupe-en-Deux ha finito l’operazione, dice alla
scimmia, che aveva l’aria di capire tutto e infatti meritavano bene
di intendersi:
“Attenzione, Gargousse! finora ti hanno messo in mostra, e ora sei
tu che metterai in mostra a tua volta Gringalet; sarà lui la tua
scimmia. Via, hop! in piedi, Gringalet, oppure dico a Gargousse di
saltarti addosso...”.
Il povero ragazzo era ricaduto in ginocchio, con le mani giunte, ma
non era più in grado di parlare; batteva solo i denti per il
terrore.
“Prendilo, fallo camminare, Gargousse” si mise a dire Coupe-en-Deux
alla scimmia, “e se arriccia il naso trattalo come faccio io.”
E nel frattempo lascia cadere sul ragazzo una gragnuola di colpi di
frusta, che poi passa alla scimmia.
Voi sapete come quegli animali siano portati all’imitazione per loro
natura, ma Gargousse lo era più che mai; eccolo dunque prendere la
frusta con una mano e gettarsi su Gringalet, che è costretto ad
alzarsi. Una volta in piedi egli era, parola mia, quasi della stessa
statura della scimmia; allora Coupe-en-Deux esce dalla sua camera e
scende dalla scala chiamando Gargousse, e Gargousse lo segue
sospingendo davanti a sé Gringalet a colpi di frusta, come fosse
stato il suo schiavo.
Arrivano così nel cortiletto davanti alla casupola di Coupeen-Deux,
dove quel brigante contava di divertirsi; chiude infatti la porta
che dà sul vicolo e fa segno a Gargousse di far correre il ragazzo
davanti a sé, intorno al cortile, a grandi colpi di frusta.
La scimmia obbedisce, e si mette a far giostrare così Gringalet a
suon di botte, mentre Coupe-en-Deux si sbellica dalle risa. Credete
che quella cattiveria gli bastasse? Ah!... non era ancora niente.
Gringalet fino a quel punto se l’era cavata con dei graffi, delle
frustate e una paura santissima. Ma ecco quel che architettò
Coupe-en-Deux:
Per far infuriare la scimmia contro il ragazzo che, ormai senza
fiato, era più morto che vivo, prende Gringalet per i capelli, fa
finta di tramortirlo di colpi e di morderlo e poi lo consegna di
nuovo a Gargousse gridandogli: azzanna, azzanna... mostrandogli
anche un pezzetto di cuore di agnello, come per dirgli: questa sarà
la tua ricompensa...
Oh! allora, amici miei, veramente lo spettacolo era orripilante...
Immaginate uno scimmione rossiccio dal muso nero che digrignava i
denti come un ossesso, che si gettava furente, quasi smanioso, su
quel povero infelice che, non potendo difendersi, era stato gettato
a terra al primo colpo e si era messo carponi, la faccia contro il
pavimento, per non rimanere sfigurato. Vedendo ciò, Gargousse, che
il padrone aizzava sempre contro il ragazzo, gli sale sul dorso, lo
prende per il collo e comincia a rodergli a sangue la testa.
“Oh! il ragno del mio sogno!... il ragno!” gridava Gringalet con
voce soffocata, credendosi proprio alla fine, questa volta.
A un tratto si sente battere alla porta. Pum!... pum!... pum!...»
Ah! il decano!» esclamarono i detenuti con gioia.
Sì, questa volta era lui, amici miei; e lo si sentiva gridare attra-
verso la porta:
“Vuoi aprire o no, Coupe-en-Deux? vuoi aprire o no? Non
fare il sordo; perché io ti vedo dal buco della serratura!”.
Questi, costretto a rispondere, se ne va borbottando ad aprire al
decano, che era un robustone solido come un masso, malgrado i suoi
cinquant’anni, e col quale proprio non c’era da scherzare
quando si arrabbiava.
“Che cosa volete da me?” gli chiese Coupe-en-Deux socchiu-
dendo la porta.
“Voglio parlarti” disse il decano, entrando quasi di forza nel
cortiletto; poi, vedendo la scimmia sempre alle prese con Gringalet,
corre, prende Gargousse per la pelle del collo, per staccarlo dal
ragazzo e gettarlo lontano; ma si accorge solo allora che il ragazzo
era legato con una catena all’animale. Vedendo ciò il decano guarda
Coupe-en-Deux con aria terribile e gli grida: “Vieni subito a
togliere la catena a questo povero disgraziato!”.
Potete immaginare la gioia, la sorpresa di Gringalet che, mezzo
morto di terrore, si vede salvato in extremis, e come per miracolo.
E non può fare a meno di ricordarsi del moscerino d’oro del suo
sogno, sebbene il decano non avesse per nulla l’aspetto di un
moscerino, tutt’altro...»
«Via» disse il guardiano facendo un passo verso la porta, «ecco che
Gringalet è salvo, e io vado a mangiare la mia minestra.»
«Salvo!» esclamò Pique-Vinaigre, «ahimè! salvo, sì! ma non è ancora
giunto alla fine delle sue pene, il povero Gringalet.»
«Davvero?» dissero alcuni detenuti con interesse.
«Che cosa deve succedergli ancora?» ribatté il guardiano
avvicinandosi.
«Rimanete, guardiano, e lo saprete» riprese il narratore.
«Diavolo d’un Pique-Vinaigre, vi fa fare tutto quel che vuole» disse
il guardiano; «parola mia, io resto ancora un momento.» Lo
Squelette, muto, era livido di rabbia. Pique-Vinaigre con-
tinuò:
«Coupe-en-Deux, che temeva il decano come il fuoco, aveva,
pur borbottando, liberato il ragazzo dalla catena; dopo di che il
decano getta Gargousse in aria, e quando questi ridiscende, lo
accoglie con un gran calcio e lo lancia a dieci passi... La scimmia
grida come uno scorticato, digrigna i denti, ma poi scappa lesto e
va a rifugiarsi in cima a un piccolo hangar e da lì mostra il pugno
al decano.
“Perché battete la mia scimmia?” dice Coupe-en-Deux al decano.
“Dovresti piuttosto domandarmi perché non batto te. Far soffrire a
questo modo un bambino! Ti sei ubriacato presto, questa mattina,
eh?”
“Non sono più ubriaco di voi: stavo insegnando uno scherzo alla mia
scimmia; voglio dare una rappresentazione in cui Gargousse e
Gringalet appariranno insieme; io faccio il mio mestiere, di che vi
impicciate voi?”
“Io m’impiccio di quel che mi compete. Questa mattina, non avendo
visto passare davanti alla mia porta Gringalet con gli altri
ragazzi, ho domandato loro dove si trovava; essi non hanno risposto,
e avevano l’aria imbarazzata; io che ti conosco, ho immaginato che
gli dovevi aver combinato qualche brutto scherzo, e non mi sono
sbagliato. Ora ascoltami bene! tutte le volte che non vedrò
Gringalet passare davanti alla mia porta con gli altri, alla
mattina, io piomberò qui immediatamente e allora bisognerà che tu me
lo faccia vedere, altrimenti ti ammazzo...”
“Io farò quel che mi piacerà, non devo ricevere ordini da voi” gli
rispose Coupe-en-Deux, irritato da questa minaccia di sorveglianza.
“Voi non ammazzerete un bel niente, e se non ve ne andate di qui, o
se vi azzardate a tornarci, io vi...”
“Pac!” fece il decano interrompendo Coupe-en-Deux con un paio di
ceffoni tali da stendere un rinoceronte, “ecco quel che ti meriti
per rispondere su questo tono al decano della PetitePologne.”»
«Due ceffoni erano troppo pochi» disse il berretto blu; «se fossi
stato al posto del decano gli avrei lasciato il segno come si deve.»
«E se lo sarebbe ben meritato!»
«Il decano» riprese Pique-Vinaigre, «ne avrebbe mangiati dieci di
Coupe-en-Deux. Quest’ultimo si vide dunque costretto a incassare i
ceffoni; ma non per questo era meno furente per essere stato battuto
così, e soprattutto davanti a Gringalet. Così, in quello stesso
momento, promise a se stesso di vendicarsi, e gli venne un’idea che
non poteva venire che a un demonio di cattiveria par suo. Mentre
rimuginava questa idea diabolica strofinandosi le orecchie, il
decano gli disse:
“Ricordati che se tu ti azzardi a fare soffrire ancora questo
ragazzo, io ti costringerò ad andartene dalla Petite-Pologne, tu e
le tue bestie, altrimenti solleverò tutti contro di te; sai bene che
non ti possono già vedere: così ti lasceranno anche un ricordo sul
gobbone di cui non ti dimenticherai, te lo assicuro io”.
Bugiardo qual era e per poter realizzare il suo scellerato
proposito, invece di mostrarsi offeso contro il decano, Coupe-enDeux
fece il cagnolino e disse in tono carezzevole:
“Vi assicuro, decano, che avete avuto torto a battermi, e a credere
che io voglia far del male a Gringalet; al contrario, vi ripeto che
stavo insegnando un nuovo scherzo alla mia scimmia; e non è un
soggetto facile quando si innervosisce; così, nella zuffa, il
piccolo è stato morsicato, e me ne dispiace”.
“Hum!...” fece il decano guardandolo di traverso, “sarà poi vero
quel che mi stai raccontando? E poi, se vuoi insegnare un gioco alla
tua scimmia, perché l’attacchi a Gringalet?”
“Perché Gringalet fa parte anche lui del numero. Ecco quel che
voglio fare: metterò a Gargousse un vestito rosso e un cappello con
le piume, come un mercante svizzero di vulnerario; farò sedere
Gringalet in una seggiolina da bambini; poi gli metterò una
salvietta intorno al collo e la scimmia, con un gran rasoio di
legno, farà finta di fargli la barba.”
Il decano non poté fare a meno di ridere a quell’idea. «“Non è
buffo?” riprese Coupe-en-Deux in tono sornione.
“Il fatto è che il gioco è divertente” disse il decano, “tanto più
che quel furfante del tuo scimmione passa per essere abbastanza
abile e astuto per una simile farsa.”
“Lo credo bene; quando mi avrà visto cinque o sei volte far finta di
fare la barba a Gringalet, Gargousse mi imiterà col suo gran rasoio
di legno; ma bisogna che prima si abitui al ragazzo; per questo li
avevo legati insieme.”
“Ma perché hai scelto proprio Gringalet invece di un altro?”
“Perché è il più piccolo di tutti e, quando sarà seduto, Gargousse
sarà più alto di lui; d’altra parte io avevo pensato di lasciare la
metà dell’incasso a Gringalet.”
“Quand’è così” disse il decano rassicurato dall’ipocrisia del suo
interlocutore, “mi dispiace di averti picchiato; fai conto che sia
un anticipo.”
Mentre il suo padrone parlava con il decano, Gringalet non osava
quasi respirare; tremava come una foglia e moriva dalla voglia di
gettarsi ai piedi del decano per supplicarlo di portarlo via di lì;
ma il coraggio gli veniva meno, ed egli ricominciava a disperarsi e
a ripetere fra sé: finirò come la povera mosca del mio sogno, il
ragno mi divorerà; ho avuto torto a credere che il moscerino d’oro
mi avrebbe salvato.
“Andiamo, ragazzo mio, poiché papà Coupe-en-Deux ti lascia la metà
degli incassi, questo deve incoraggiarti ad abituarti alla
scimmia... Bah! bah! ci arriverai, e se gli affari vanno bene, non
avrai di che lamentarti.”
“Lui! lamentarsi! Hai forse di che lamentarti?” gli domandò il
padrone guardandolo furtivamente con un’aria tanto terribile che il
bambino avrebbe voluto trovarsi cento piedi sotto terra.
“No... no... padrone”, rispose balbettando.
“Vedete bene, dunque, decano” disse Coupe-en-Deux, “che non ha mai
avuto di che lamentarsi; io non voglio che il suo bene, dopo tutto.
Se Gargousse l’ha graffiato una prima volta, questo non succederà
più, ve lo prometto, farò attenzione.”
“Alla buon’ora! Così tutti saranno contenti.”
“E Gringalet per primo” disse Coupe-en-Deux. “Non è vero che tu
sarai contento?”
“Sì, sì... padrone” disse il bambino piangendo.
“E per consolarti dei tuoi graffi ti farò fare una buona colazione;
il decano mi manderà infatti un piatto di cotolette con i cetrioli,
quattro bottiglie di vino e un quarto di grappa, non è vero?”
“Ai tuoi ordini, Coupe-en-Deux, la mia cantina e la mia cucina sono
aperte a tutti.”
In fondo il decano era un brav’uomo, ma non era furbo, e poi ci
teneva a vendere il suo vino e i suoi manicaretti. Quel furfante
di Coupe-en-Deux lo sapeva bene, e vedete un po’ come lo rimanda a
casa contento di vendergli da bere e da mangiare, e per di più
rassicurato sulla sorte di Gringalet.
Ecco dunque il povero bambino ricaduto in balìa del suo padrone. Non
appena il decano se ne è andato, Coupe-en-Deux mostra la scala alla
sua vittima e gli ordina di salire subito nel granaio; il bambino
non se lo fa dire due volte, e se ne va tutto spaventato.
“Dio mio, sono perduto!” esclama gettandosi sulla paglia al fianco
della sua tartaruga, e piangendo a calde lacrime. Era là da circa
un’ora a singhiozzare quando sente la grossa voce di Coupeen-Deux
che lo chiama... Ma quel che aumentava ancora di più la paura di
Gringalet era la voce del padrone, che gli sembrava diversa dal
solito.
“Vieni subito o no?” riprende quest’ultimo con una sfilza di
bestemmie.
Il ragazzo si affretta a scendere; ha appena fatto l’ultimo gradino
che il padrone lo afferra e lo porta nella sua camera, inciampando a
ogni passo, poiché Coupe-en-Deux aveva bevuto tanto, ma tanto, che
era ubriaco fradicio e si teneva appena sulle gambe; il suo corpo si
piegava ora avanti ora indietro, mentre guardava Gringalet con due
occhi feroci, ma senza parlare; aveva, come si dice, la bocca troppo
legata; ma il ragazzo ne aveva ancor più paura.
Gargousse era incatenato ai piedi del letto.
In mezzo alla camera si trovava una sedia con una corda che pendeva
dalla spalliera...
“Sie... siediti là”» continuò a raccontare Pique-Vinaigre, imitando
sino alla fine della storia il discorso faticoso di un ubriaco,
quando faceva parlare Coupe-en-Deux.
«Gringalet si siede tutto tremante; allora Coupe-en-Deux, sempre
senza parlare, lo avvolge con la grossa corda e lo lega alla sedia,
non senza difficoltà, perché sebbene egli avesse conservato ancora
un po’ di vista e di conoscenza, potete ben immaginare che poteva
fare solo i nodi doppi.
Finalmente ecco Gringalet solidamente fissato alla sedia. “Mio buon
Dio! Mio buon Dio!” mormorò, “questa volta nessuno verrà a
liberarmi.”
Povero piccolo, aveva ragione, nessuno poteva nessuno doveva venire,
come voi sentirete; il decano se ne era andato rassicurato,
Coupe-en-Deux aveva chiuso la porta del cortile dall’interno a
doppia mandata e aveva messo il catenaccio; nessuno dunque avrebbe
potuto venire in aiuto di Gringalet.»
«Oh! questa volta» si dissero i prigionieri impressionati dal
racconto, «Gringalet, sei proprio perduto...»
«Povero piccolo...»
«Che pena!»
«Se non occorressero che venti soldi per salvarlo, io li darei.»
«Anch’io.»
«Furfante d’un Coupe-en-Deux!»
«Che cosa gli farà?»
Pique-Vinaigre continuò:
«Quando Gringalet fu ben legato alla sedia, il padrone gli dis-
se» e qui il narratore imitò nuovamente l’accento di un ubriaco:
«“Eh!... furfante... sei tu... è per colpa tua che... sono stato
battuto dal decano... tu... tu devi mo... morire...”
E tira fuori di tasca un grosso rasoio appena affilato, lo apre, e
con una mano prende Gringalet per i capelli...».
Un mormorio d’indignazione e di orrore si levò dai detenuti e
interuppe Pique-Vinaigre, che poco dopo riprese:
«Alla vista del rasoio il ragazzo si mise a gridare:
“Grazia!.... padrone mio... grazia!... non uccidetemi!...”
“Grida,... grida pure... marmocchio... non griderai ancora per
molto” rispose Coupe-en-Deux.
“Moscerino d’oro! moscerino d’oro! aiuto!” gridò il povero
Gringalet quasi in delirio, e ricordandosi del sogno che l’aveva
tanto colpito: “ecco il ragno che mi ucciderà!”
“Ah! tu mi... tu mi chiami... ragno, tu...” disse Coupe-en-Deux.
“Per questo... e per altre... altre cose tu morirai... mi senti...
ma... non ti ucciderò con le mie mani... perché... la... cosa... e
poi finirei alla ghigliottina... dirò... e pro... proverò... che è
stato... lo scimmione... Ho... ormai... fatto il mio piano... e...
e... e... comunque non importa” disse Coupe-en-Deux reggendosi a
mala pena; poi, chiamato il suo scimmione, che tirava con tutte le
sue forze la catena digrignando i denti e guardando ora il padrone
ora il ragazzo:
“To’, Gargousse” gli disse mostrandogli il rasoio e Gringalet che
teneva per i capelli, “tu farai così... visto?”.
E, passando a diverse riprese il rasoio sul collo di Gringalet, fece
finta di tagliargli la testa.
Quel furfante di uno scimmione era così abile nell’imitare, e così
cattivo e astuto, che comprese quel che il padrone voleva; e, come
per dimostrarglielo, si prese il mento con la zampa sinistra,
rovesciò la testa all’indietro e, con la zampa destra, fece finta di
tagliarsi il collo.
“Proprio così, Gargousse... ci siamo” disse Coupe-en-Deux
balbettando, e socchiudendo gli occhi, ma in quel mentre inciampò
così forte che rischiò di cadere insieme a Gringalet e alla sedia.
“Sì, ci siamo... io ti... stac... staccherò... e tu... tu gli
mozzerai il fiato non è vero Gargousse?”
Lo scimmione lanciò un grido digrignando i denti, come per dire sì,
e portò avanti la zampa per prendere il rasoio che Coupeen-Deux gli
tendeva.
“Moscerino d’oro, aiutami!” mormorò Gringalet con voce agonizzante,
certo questa volta di essere giunto alla fine.
Infatti, purtroppo! egli chiamava il moscerino d’oro in aiuto senza
contarci e senza speranza, ormai; ma lo ripeteva come si dice: Mio
Dio! mio Dio!, quando si sta andando a fondo...
Ebbene! niente affatto.
Ecco che proprio in quel momento Gringalet vede entrare dalla
finestra aperta una di quelle piccole mosche color verde e oro, come
ce ne sono tante! Si sarebbe detto una scintilla di fuoco che
volteggiava; e, proprio nel momento in cui Coupe-en-Deux porge il
rasoio a Gargousse, il moscerino d’oro va a infilarsi dritto
nell’occhio di quel crudele brigante.
Una mosca nell’occhio non è gran che; ma, sul momento, voi sapete
che brucia come una puntura di spillo; e Coupe-en-Deux, che già si
sosteneva appena, portò bruscamente la mano all’occhio, ma con un
movimento così violento che inciampò, cadde lungo e disteso e rotolò
come un sacco ai piedi del letto dove si trovava Gargousse
incatenato.
“Moscerino d’oro, grazie... mi hai salvato!” gridò Gringalet che,
sempre seduto e legato alla sedia, aveva seguito tutta la scena».
«È proprio vero, il moscerino d’oro gli ha salvato la testa»
esclamarono i detenuti, con gran trasporto di gioia.
«Viva il moscerino d’oro!» gridò il berretto blu.
«Sì, viva il moscerino d’oro» ripeterono diverse voci.
«Viva Pique-Vinaigre e le sue storie!» disse un altro. «Aspettate»
riprese il narratore; «ecco la parte più bella e più
terribile della storia, che vi avevo promesso:
Coupe-en-Deux era caduto per terra come fosse di piombo;
era così ubriaco, ma così ubriaco, che non si muoveva più di un
ciocco... Era ubriaco da morire... insomma! e non capiva più nulla;
ma nel cadere per poco non aveva schiacciato Gargousse, e gli aveva
quasi spezzato una zampa posteriore. Voi sapete come quel brutto
animale fosse cattivo, astioso e maligno.
Aveva ancora il rasoio che il padrone gli aveva dato per tagliare la
testa a Gringalet. Cosa fa allora quel furfante di scimmione quando
vede il suo padrone steso sulla schiena, immobile come un carpione
svenuto e proprio lì a portata di mano? salta su di lui, si
accoccola sul petto, con una delle zampe gli tende la pelle del
collo e con l’altra... crac... gli mozza il respiro netto netto...
proprio come Coupe-en-Deux gli aveva insegnato a fare sulla pelle di
Gringalet».
«Bravo!...»
«Bel colpo!...»
«Viva Gargousse!...» gridarono i detenuti con entusiasmo. «Viva il
piccolo moscerino d’oro!»
«Viva Gringalet!»
«Viva Gargousse!».
«Ebbene! amici miei» esclamò Pique-Vinaigre felice del suc-
cesso che aveva avuto la sua storia, «quel che voi gridate ora,
tutta la Petite-Pologne lo gridava un’ora dopo che si era svolto il
fatto.»
«Come... come?»
«Vi avevo detto che per poter fare quel suo brutto colpo con tutto
comodo quel furfante di Coupe-en-Deux aveva chiuso la porta,
dall’interno. All’imbrunire ecco i bambini che arrivano l’uno dopo
l’altro con le loro bestiole; i primi bussano, ma nessuno risponde;
poi, quando sono arrivati tutti, bussano ancora insieme, ma niente.
Uno di loro va dal decano e gli dice che hanno avuto un bel
picchiare, ma che il padrone non apriva. “Quel furfante si sarà
ubriacato come al solito” disse, “gli ho appena mandato del vino;
bisogna sfondare la porta, perché questi bambini non possono restar
fuori tutta la notte.”
Buttano giù la porta a colpi di mazza; entrano, salgono, arrivano
nella camera, e che cosa vedono? Gargousse incatenato e accoccolato
sul corpo del suo padrone che gioca con il rasoio; il povero
Gringalet, per fortuna fuor di tiro dalla catena di Gargousse,
sempre seduto e legato alla sedia, che non osava alzare gli occhi
sul corpo di Coupe-en-Deux mentre guardava, indovinate cosa? la
piccola mosca d’oro che, dopo aver volteggiato intorno al bambino
come per congratularsi con lui, era infine andata a posarsi sulla
sua manina.
Gringalet raccontò tutto al decano e alla piccola folla che lo aveva
seguito; sembrava proprio, come si suol dire, un miracolo; anche il
decano esclama: “Il trionfo per Gringalet, il trionfo per Gargousse,
che ha ucciso quel crudele brigante di Coupe-
en-Deux! Ammazza gli altri, e ora è venuto il suo turno di finire
ammazzato’’.
“Sì, sì...” disse la folla; infatti quell’individuo era odiato da
tutti. “Il trionfo per Gargousse; in trionfo Gringalet!”
Si faceva notte; si accendono le torce di paglia e si lega Gargousse
su una panca che quattro ragazzini portano a spalla; quel furfante
di uno scimmione non aveva però l’aria di gradire troppo la messa in
scena e assumeva un’aria da trionfatore mostrando i denti alla
folla. Dopo la scimmia veniva il decano, che portava Gringalet in
braccio; tutti i ragazzini che lavoravano per Coupeen-Deux, ciascuno
con la propria bestiola, facevano corona intorno al decano: uno
aveva con sé una volpe, un altro una marmotta, un altro un
porcellino d’India; quelli che suonavano la gironda avevano
attaccato col loro strumento; v’erano carbonai dell’Auvergne con le
loro cornamuse, e anch’essi suonavano; era insomma un gran chiasso,
un’allegria, una festa che non si può immaginare! Dietro ai
musicanti e ai bambini con i loro animali venivano tutti gli
abitanti della Petite-Pologne, uomini, donne, bambini; quasi tutti
avevano in mano una torcia di paglia e gridavano come ossessi: Viva
Gringalet! viva Gargousse! Il corteo fa quindi il giro della bicocca
di Coupe-en-Deux. Era proprio uno spettacolo fuori del comune vedere
quelle vecchie catapecchie e tutti quei visi rischiarati dalla luce
rossa dei fuochi di paglia che sfavillavano, sfavillavano! Quanto a
Gringalet, la prima cosa che aveva fatto, una volta in libertà, era
stato di mettere il moscerino d’oro in un cono di carta, e andava
ripetendo durante tutto il tempo del suo trionfo:
“Piccoli moscerini, ho fatto bene a impedire che i ragni vi
mangiassero, perché...”.»
La fine della storia di Pique-Vinaigre fu interrotta.
«Ehi, père Roussel» gridò una voce da fuori, vieni a mangiare la tua
minestra; fra dieci minuti suoneranno le quattro.
«Parola mia, la storia sta per finire, e io devo andare. Grazie,
ragazzo, mi hai proprio divertito, puoi esserne orgoglioso» disse il
sorvegliante a Pique-Vinaigre avviandosi verso la porta. Poi,
fermandosi un momento: «Ah, mi raccomando, fate i bravi» disse ai
detenuti voltandosi.
«Ascoltiamo allora la fine della storia» disse lo Squelette
ansimando per la rabbia trattenuta. Poi aggiunse sottovoce al
GrosBoiteux: «Va’ vicino alla porta, segui il guardiano con gli
occhi, e quando l’avrai visto uscire dal cortile grida: Gargousse! e
lo spione sarà morto».
«Bene» disse il Gros-Boiteux accompagnando il guardiano e rimanendo
in piedi sulla porta della stufa per poterlo seguire con lo sguardo.
«Vi dicevo dunque» riprese a dire Pique-Vinaigre, «che Gringalet,
per tutto il tempo del suo trionfo, non faceva che ripetersi:
“Piccoli moscerini, ho...”.»
«Gargousse!» gridò le Gros-Baiteux voltandosi. Aveva appena visto il
guardiano uscire dal cortile.
«A me! Gringalet... sarò io il tuo ragno» gridò nello stesso momento
lo Squelette, e piombò così bruscamente su Germain che questi non fu
in grado di fare alcun movimento, né di mandare un grido.
La sua voce si spense sotto la formidabile stretta delle lunghe dita
di ferro di Squelette.
XI
UN AMICO SCONOSCIUTO
«Se tu sei il ragno, io sarò il moscerino d’oro, Squelette della
malora» gridò una voce nel momento stesso in cui Germain, sorpreso
dal violento e subitaneo attacco del suo implacabile nemico, cadeva
riverso sul banco, in balìa del brigante che lo teneva per il collo,
con un ginocchio sul suo petto.
«Sì, io sarò il moscerino e che moscerino!» ripeté l’uomo dal
berretto blu, di cui abbiamo parlato; poi, con un salto furioso,
rovesciando tre o quattro prigionieri che lo separavano da Germain,
si slanciò sullo Squelette e gli assestò sulla testa e sulla fronte
una serie di colpi così rapidi che si sarebbe detta la batteria
sonora di un martello sull’incudine.
L’uomo dal berretto blu, che altri non era che lo Chourineur,
aggiunse, raddoppiando la frequenza del suo martellamento sulla
testa dello Squelette:
«È la gragnuola di pugni che il signor Rodolphe mi ha tamburinato
sulla zucca! li ricordo bene!».
A questa aggressione inattesa i detenuti restarono tutti sorpresi e
sul momento non presero partito né pro né contro lo Chourineur.
Molti di loro, ancora sotto la salutare impressione riportata dalla
storia di Pique-Vinaigre, furono anzi soddisfatti di
quell’incidente, che permetteva di salvare la vita a Germain.
Lo Squelette, dapprima stordito, barcollando come un bue sotto la
mazza del macellaio, stese macchinalmente le mani in
avanti per ripararsi dai colpi dell’avversario; Germain poté
liberarsi dalla stretta mortale dello Squelette e rialzarsi per
metà.
«Ma cosa c’è? Con chi ce l’ha, quel brigante?» esclamò il
Gros-Boiteux; e, lanciandosi sullo Chourineur, cercò di
immobilizzargli le braccia assalendolo da dietro, mentre questi
compiva sforzi enormi per tenere lo Squelette sul banco.
Il difensore di Germain rispose all’attacco del Gros-Boiteux con una
serie di calci così violenti che lo fece rotolare sino all’estremità
del cerchio formato dai detenuti.
Germain, livido, di un pallore violaceo, a metà soffocato, in
ginocchio vicino al banco, non sembrava aver coscienza di quel che
avveniva intorno a lui. Lo strangolamento era stato così violento e
così doloroso che respirava appena.
Riavutosi dall’improvviso stordimento, lo Squelette, con uno sforzo
disperato, riuscì a sbarazzarsi dello Chourineur e a rimettersi in
piedi.
Ansimando, ubriaco di collera e di odio, era spaventoso a vedersi...
Il suo viso cadaverico era sporco di sangue; il labbro superiore,
rivolto come quello di un lupo furioso, lasciava vedere i denti,
digrignanti per il furore.
Infine, con voce alterata dalla collera e dallo sforzo, per la
violenta lotta che aveva dovuto ingaggiare contro lo Chourineur
gridò:
«Ammazzatelo, dunque,... quel brigante!... compagnia di conigli mi
fate fare la figura di un traditore... così lo spione ci scapperà!».
Durante questa specie di tregua, lo Chourineur era riuscito a
sollevare Germain, mezzo svenuto; e aveva agito tanto abilmente da
avvicinarsi a poco a poco all’angolo del muro, dove depose il suo
protetto.
Approfittando di questa eccellente posizione lo Chourineur poteva
allora, senza timore di essere preso alle spalle, resistere
abbastanza a lungo all’attacco dei detenuti cui il coraggio e la
forza erculea che egli aveva mostrato ispiravano non poco timore.
Pique-Vinaigre, spaventato, scomparve nel tumulto, senza che ci si
accorgesse della sua assenza.
Vedendo l’esitazione della maggior parte dei prigionieri, lo
Squelette esclamò:
«A me, dunque!... ammazziamoli tutti e due... il grosso e il
piccolo!».
«Attento a te!» rispose lo Chourineur preparandosi al combattimento,
con le mani avanti, puntate con decisione sui fianchi poderosi.
«Attento a te, Squelette! Se vuoi continuare a far la parte di
Coupe-en-Deux,... io farò Gargousse, ti torcerò il collo...»
«Ma dategli dunque addosso!» gridò il Gros-Boiteux rialzandosi.
«Perché questo arrabbiato difende lo spione? a morte lo spione... e
anche lui! Se difende Germain è un traditore!»
«Sì!... sì!...»
«A morte lo spione!»
«A morte!»
«Sì! a morte il traditore... che lo difende!»
Queste furono le grida che i detenuti più cinici levarono come
risposta.
Ma una parte di loro, i più pietosi, dissero:
«No! lo si lasci prima parlare!».
«Sì! che si spieghi!»
«Non si uccide un uomo senza prima averlo ascoltato!»
«E senza difesa!»
«Bisognerebbe essere dei veri Coupe-en-Deux!»
«Tanto meglio!» ripresero Gros-Boiteux e i partigiani di Sque-
lette.
«Uno spione non merita di meno!»
«A morte!»
«Diamogli addosso!»
«Diamo man forte allo Squelette!»
«Sì! sì!... abbasso il berretto blu!»
«No!... aiutiamo il berretto blu!... abbasso lo Squelette!» rispo-
sero i partigiani dello Chourineur.
«No!... abbasso il berretto blu!»
«Abbasso lo Squelette!»
«Bravi i miei ragazzi!...» esclamò lo Chourineur rivolgendosi
ai detenuti che si schieravano dalla sua parte. «Voi avete un
cuore... e non vorreste veder massacrare un uomo già mezzo morto!...
solo i vigliacchi sono capaci di questo... lo Squelette se ne
infischia,... è già condannato... è per questo che vi spinge... ma
se voi lo aiutate a uccidere Germain, sarete duramente puniti. E
poi, io propongo questo!... lo Squelette vuol finire questo povero
giovane... Ebbene! venga a prenderselo, se ha il coraggio!... ce la
vedremo noi due... ma se non osa, allora è come Coupe-en-Deux, forte
solo con i deboli.»
Il vigore, l’energia, il viso forte dello Chourineur dovevano
esercitare un’impressione potente sui prigionieri; e un buon nu-
mero di loro si schierò dalla sua parte e circondò Germain; i
partigiani dello Squelette invece si strinsero intorno al loro
bandito.
Stava per avere inizio una zuffa sanguinosa, quando si intese nel
cortile il passo cadenzato del picchetto di fanteria sempre di
guardia alla prigione.
Pique-Vinaigre, approfittando del frastuono e dell’emozione
generale, aveva raggiunto il cortile ed era andato ad avvertire i
guardiani di quel che stava succedendo nella stufa.
L’arrivo dei soldati mise fine alla rissa.
Germain, lo Squelette e lo Chourineur furono condotti dal direttore
del carcere. Il primo per esporre denuncia, gli altri due per
rispondere di rissa all’interno della prigione.
Il terrore e la sofferenza di Germain erano stati così forti e la
sua debolezza era ancora tale che dovette appoggiarsi ai due
guardiani per arrivare fino alla camera attigua del direttore, dove
lo stavano accompagnando. Là egli si sentì male; sul collo aveva
delle escoriazioni e l’impronta livida e sanguinante delle dita di
ferro dello Squelette. Ancora qualche secondo, e il fidanzato di
Rigolette sarebbe morto strangolato.
Il guardiano incaricato della sorveglianza nel parlatorio che, come
abbiamo detto, si era sempre interessato a Germain, gli prestò i
primi soccorsi.
Quando questi rinvenne, e la sua mente riprese a connettere dopo le
improvvise e terribili emozioni che lo avevano sconvolto, il suo
primo pensiero fu per il suo salvatore.
«Grazie delle vostre cure, signore» disse al guardiano; «se non
fosse intervenuto quell’uomo con tanto coraggio, io non me la sarei
cavata.»
«Come va ora?»
«Meglio... Ah! quel che ho passato mi sembra un sogno spaventoso!»
«Cercate di riprendervi.»
«E colui che mi ha salvato, dov’è ora?»
«Nell’ufficio del direttore. Gli sta raccontando come si è svolta
la rissa... Pare che senza di lui...»
«Sarei morto, signore... Oh! ditemi il suo nome... Chi è?»
«Il suo nome... non ne so niente, è soprannominato lo Chouri-
neur; si tratta di un vecchio forzato.»
«E il delitto che l’ha condotto qui... non è grave... forse?»
«Gravissimo! Furto con scasso, di notte... in una casa abitata»
disse il guardiano. «Avrà probabilmente la stessa condanna di
Pique-Vinaigre; quindici o vent’anni di lavori forzati e la gogna,
visto che è un recidivo.»
Germain trasalì: avrebbe preferito essere legato da riconoscenza a
un uomo meno colpevole.
«Ah, è terribile!» disse. «Eppure quell’uomo, senza conoscermi, ha
preso le mie difese. Tanto coraggio, tanta generosità...»
«Che volete, signore, talvolta c’è ancora qualcosa di buono in
quella gente. L’importante è che vi abbia salvato; domani avrete la
vostra cella singola, e per questa notte dormirete all’infermeria,
secondo le disposizioni del direttore. Via, fatevi coraggio! Il
momento brutto è passato; quando la vostra graziosa visitatrice
verrà a vedervi, potrete rassicurarla; una volta in cella non avrete
più nulla da temere. Solo, credo che fareste bene a non parlarne
della scena che si è svolta poco fa. Se ne cruccerebbe troppo.»
«Oh! no, senza dubbio, non gliene parlerò; vorrei tuttavia
ringraziare il mio difensore... Per quanto colpevole possa essere
agli occhi della legge, non posso dimenticare che mi ha salvato la
vita.»
«Ecco, sta uscendo proprio in questo momento dal direttore, che ora
interrogherà Squelette; li ricondurrò insieme tra poco, lo Squelette
alla cella di segregazione e lo Chourineur alla Fossadei-leoni. Avrà
una ricompensa per quello che ha fatto per voi; trattandosi di un
tipo così forte e deciso, come bisogna essere per comandare agli
altri, è probabile che sostituirà lo Squelette come
capo-camerata...»
Lo Chourineur, dopo aver attraversato un piccolo corridoio sul quale
si apriva la porta dell’ufficio del direttore, entrò nella camera
dove si trovava Germain.
«Aspettatemi qui» disse il guardiano allo Chourineur: «vado a
chiedere al direttore cosa ha deciso per lo Squelette, e poi verrò a
riprendervi... Ecco il nostro giovanotto che si è già ripreso; vuole
ringraziarvi, e ne ha ben ragione, perché senza di voi non si
troverebbe qui.»
Il guardiano uscì. La fisionomia dello Chourineur era raggiante; si
fece avanti pieno di gioia e disse: «Diavolo! come sono contento!
come sono contento di avervi salvato!». E tese la mano a Germain.
Questi, per un sentimento di repulsione involontario, si ritrasse
prima leggermente, invece di prendere la mano che lo Chourineur gli
porgeva; poi, ricordandosi che dopo tutto a quell’uomo doveva la
vita, volle riparare a questo gesto di rifiuto. Ma lo Chourineur se
ne era accorto; si rabbuiò in viso e, indietreggian-
do a sua volta, disse in tono triste e amaro: «Ah! è giusto,
scusate, signore...».
«No, sono io che vi devo chiedere scusa... Non sono forse un
prigioniero come voi? Devo pensare solo al servizio che mi avete
reso... voi mi avete salvato la vita. Datemi la vostra mano, ve ne
prego, signore, di grazia, la vostra mano.»
«Grazie... ora è inutile. Quel che conta è il primo gesto. Se voi mi
aveste subito stretto la mano, mi avrebbe fatto piacere... Ma,
riflettendoci, sono io ora che non lo desidero. Non perché sono un
prigioniero come voi, ma» aggiunse con tono cupo ed esitante,
«perché prima di essere qui... sono stato...»
«Il guardiano mi ha detto tutto» aggiunse Germain interrompendolo;
«ma voi mi avete comunque salvato la vita.»
«L’ho fatto perché era mio dovere e perché mi faceva piacere farlo,
perché so chi siete... signor Germain.»
«Voi mi conoscete?»
«Un po’, nipote mio! io vi risponderei se fossi vostro zio» disse lo
Chourineur riprendendo quel tono distaccato che gli era abituale, «e
avreste proprio torto ad attribuire al caso la mia venuta in questa
prigione. Se non vi avessi conosciuto... non mi troverei in
prigione.»
Germain guardò lo Chourineur con aria di profonda sorpresa. «Come? è
stato perché mi avete conosciuto che?...»
«Che sono qui prigioniero alla Force...»
«Vorrei credervi, ma...»
«Ma non mi credete.»
«Voglio dire che non riesco a capire come io possa aver avuto parte
nel vostro arresto.»
«Aver avuto parte?... è stato tutto per causa vostra.»
«Avrei dunque la disgrazia?...»
«Una disgrazia!... al contrario,... sono io che vi devo qualcosa.
E non poco...»
«A me! voi dovete?...»
«Dovrei accendere una candela coi fiocchi, per avermi procu-
rato il vantaggio di fare un giro alla Force...»
«In verità» disse Germain passandosi la mano sulla fronte
«non so se sia dovuto alla terribile scossa che il mio cervello ha
subito poco fa, ma proprio non riesco a capirvi. Il guardiano mi ha
detto or ora che voi eravate qui sotto l’accusa... di... di...»
E Germain esitava.
«Di furto... per Giove,... via, dunque... sì, di furto con scasso
con scalata... e di notte, per di più!... non mancava proprio nulla,
insomma!» esclamò Chourineur scoppiando in una risata. «Non manca
nulla... Il mio è un furto con tutte le carte in regola, come si
suol dire...»
Germain, penosamente impressionato dal cinismo spavaldo dello
Chourineur, non poté fare a meno di dirgli:
«Come... voi, voi così coraggioso... così generoso, come potete
parlare in modo simile? Non sapete a quale terribile punizione vi
siete esposto?».
«Una ventina d’anni di galera e la gogna!... è risaputo... Sono un
grande scellerato, eh, a scherzare con queste cose? Ma che volete?
una volta che ci si trova dentro... E dire che siete stato voi,
signor Germain» aggiunse lo Chourineur con un gran sospiro, e in
tono più faceto che contrito, «che siete stato voi la causa della
mia disgrazia!...»
«Quando vi spiegherete più chiaramente vi ascolterò. Scherzate
quanto volete, la mia riconoscenza per il servizio che mi avete reso
rimarrà cionondimeno» disse Germain tristemente.
«Scusate, signor Germain» rispose lo Chourineur diventando serio, «a
voi non piace vedermi ridere di ciò, e quindi non parliamone più.
Bisogna che mi riconcili con voi e che vi costringa forse a tendermi
la mano.»
«Non ne dubito; perché, malgrado il reato di cui vi si accusa e di
cui voi stesso vi accusate, tutto in voi rivela il coraggio e la
franchezza. Sono sicuro che voi siete stato accusato
ingiustamente... forse delle apparenze gravi a vostro sfavore vi
compromettono... ma non sarà che questo...»
«Oh! quanto a ciò vi ingannate, signor Germain» disse lo Chourineur
e così seriamente questa volta, e con un tale accento di sincerità,
che Germain dovette credergli. «Parola mia, quant’è vero che ho un
protettore (Chourineur si levò il berretto), che è per me quel che
il buon Dio è per i buoni preti, ho rubato di notte forzando
un’imposta e sono stato colto sul fatto, arrestato ancora in
possesso di tutto quel che avevo sottratto...»
«Ma il bisogno... la fame... vi spingevano dunque fino a quel
punto?»
«La fame?... Avevo 120 franchi quando sono stato arrestato... il
resto di un biglietto da 1000 franchi... senza contare che il
protettore di cui vi parlo e che, fra l’altro, non sa che mi trovo
qui, non mi lascerà mai mancare quello di cui ho bisogno. Ma poiché
vi ho parlato del mio protettore, voi dovete credermi, la storia
diventa seria, perché, vedete, quello è un uomo davanti al quale
bisogna mettersi in ginocchio. Ad esempio... quella gragnuola di
pugni
che ho rovesciato addosso allo Squelette è stata una tecnica che ho
appreso da lui. L’idea del furto... è stato a causa sua che mi è
venuta. E infine, se voi vi trovate qui, ora, invece di essere
finito strangolato dallo Squelette, è ancora grazie a lui.»
«Ma questo protettore, dunque?...»
«È anche il vostro.»
«Il mio?»
«Sì, il signor Rodolphe vi protegge. Quando dico signor, è
piuttosto sua signoria... che dovrei dire... perché è quanto meno un
principe... ma io ho l’abitudine di chiamarlo signor Rodolphe, ed
egli me lo permette.»
«Vi sbagliate» disse Germain sempre più stupito, «io non conosco
prìncipi.»
«Sì, ma lui vi conosce. Non lo sospettavate? È possibile, questo è
il suo modo di fare. Viene a sapere che c’è un onest’uomo nei guai,
tac, l’onest’uomo riceve aiuto; e né visto né conosciuto, lui entra
in gioco; e la felicità a quell’altro casca dalle nuvole come una
tegola sulla testa. Così, abbiate pazienza, un giorno o l’altro voi
riceverete la vostra tegola.»
«In verità, quello che mi dite mi confonde.»
«E dovrete sentirne di ben altre ancora! Per tornare al mio
protettore, un po’ di tempo fa, pretendendo che io gli avrei reso un
servizio, mi procura un posto magnifico; non sto a dirvi quale,
sarebbe troppo lungo; infine mi spedisce a Marsiglia per imbarcarmi
e andare in Algeria a prendere possesso della mia splendida
posizione. Parto da Parigi, contento come un briccone; bene; ma ben
presto le cose cambiano. Facciamo un paragone: immaginiamo che io
sia partito con un bel sole. Ebbene! l’indomani ecco che il cielo
diventa coperto, e il giorno dopo tutto grigio, e così via, sempre
più scuro a mano a mano che io mi allontanavo, finché non divenne
nero come il diavolo. Mi capite?»
«No, per niente.»
«Ebbene! vediamo un po’, avete mai avuto un cane?»
«Che strana domanda mi ponete?»
«Avete mai avuto un cane che vi era molto affezionato, e che
si sia perduto?» «No.»
«Allora vi dirò semplicemente che una volta lontano dal signor
Rodolphe io mi sentivo inquieto, abbrutito, smarrito, come un cane
che avesse perduto il padrone. Era sciocco, eppure anche i cani sono
affezionati ai loro padroni e si ricordano quanto meno dei buoni
bocconi e delle bastonate che hanno ricevuto;
e il signor Rodolphe mi aveva dato molto di più che dei buoni
bocconi, perché, vedete, per me il signor Rodolphe è tutto. Di me,
un cattivo soggetto, buono a nulla, violento, selvaggio e rissoso,
egli ha fatto una specie di uomo onesto, dicendomi solamente due
parole... Ma quelle due parole, vedete, sono come una magia...»
«E queste parole, quali sarebbero? Che cosa vi ha dunque detto?»
«Mi ha detto che io avevo ancora un cuore e un onore anche se ero
stato al bagno penale, e non per aver rubato... è vero. Oh! questo
mai... ma per qualcosa di peggiore, forse... per aver ucciso... Sì»
disse lo Chourineur con voce cupa, «sì, ucciso in un momento di
collera... perché, prima di allora, allevato come una bestia
selvaggia o meglio come un piccolo teppista senza padre né madre,
abbandonato sul lastrico di Parigi, io non conoscevo né Dio né il
diavolo, né il bene né il male, né forza né debolezza. Talvolta il
sangue mi oscurava la vista... e vedevo rosso... e se avevo in mano
un coltello, io menavo colpi, menavo colpi, come un lupo, ecco! non
potevo frequentare altro che furfanti e banditi; e non mi mettevo il
lutto per questo; bisognava vivere nel fango... e ci guazzavo...
solo che non mi rendevo conto di esserci. Ma un giorno il signor
Rodolphe ebbe a dirmi che poiché, malgrado il disprezzo di tutti e
la miseria, invece di rubare come gli altri, io avevo preferito
lavorare finché potevo e come potevo, questo gli dimostrava che
avevo cuore e senso dell’onore... Diavolo!... vedete... quelle due
parole m’hanno fatto lo stesso effetto che se mi avessero preso per
la collottola sollevandomi a mille piedi d’altezza al di sopra di
quel pantano in cui guazzavo, e mostrarmi in quale ambiente vivevo.
Come era giusto, io allora dissi: Grazie! ne ho abbastanza;
facciamola finita. E il cuore mi batté non più di collera, mentre
giuravo a me stesso che avrei sempre conservato quell’onore di cui
parlava il signor Rodolphe. Vedete bene, signor Germain, che
dicendomi per bontà che non ero poi tanto cattivo quanto credevo, il
signor Rodolphe mi ha incoraggiato, e, grazie a lui, sono diventato
migliore di quanto non fossi...»
Udendo questo linguaggio, Germain capiva sempre meno perché lo
Chourineur avesse commesso quel furto di cui si professava
colpevole.
XII LIBERAZIONE
No, pensava Germain, è impossibile, quest’uomo che si esalta a tal
punto al solo parlare di cuore e di onore non può aver commesso quel
furto di cui parla con tanto cinismo.
Lo Chourineur continuò, senza aver notato lo stupore di Germain.
«Infine, ciò che fa sì che io sia legato al signor Rodolphe come un
cane è legato al suo padrone è il fatto che egli mi ha riabilitato
di fronte a me stesso. Prima di conoscerlo, non avevo avuto che
sensazioni epidermiche; ma lui mi ha mosso qualcosa dentro, e ben in
profondità, ve lo assicuro. Una volta lontano da lui e dal luogo
dove abitava, mi sono trovato come un corpo senz’anima. A mano a
mano che mi allontanavo, mi dicevo: conduce una vita così strana!
occupandosi di simili canaglie (ne so qualcosa) egli rischia la
pelle venti volte al giorno, ed è in uno di questi casi che io
potrei essere come il cane che difende il suo padrone; perché di
forza ne ho. Ma, d’altra parte, egli mi aveva detto: “Bisogna,
ragazzo mio, che vi rendiate utile agli altri, e accorriate là dove
potesse servire a qualcosa”. Quanto a me, avevo proprio voglia di
rispondergli: “Per me non v’è altri da servire che voi, signor
Rodolphe”. Ma non osavo. Mi diceva: “Andate”. Io andavo, e mi sono
allontanato quanto ho potuto. Ma, diavolo! quando sono stato
costretto a salire sulla nave per lasciare la Francia, e mettere il
mare fra me e il signor Rodolphe, senza speranza di rivederlo mai
più... vi assicuro, non ne ho avuto il coraggio. Egli aveva fatto
dire al suo corrispondente di darmi del denaro, e molto, quando mi
fossi imbarcato. Sono andato a trovare questo signore. Gli ho detto:
“Impossibile per il momento, preferisco la terraferma. Datemi quanto
basta per fare la strada a piedi, ho buone gambe, ritorno a Parigi,
non resisto. Il signor Rodolphe dirà quel che vorrà, si arrabbierà,
non vorrà più vedermi, forse. Ma io riuscirò a vederlo; scoprirò
dov’è e, se continua a far quella vita, presto o tardi arriverò
forse a tempo per pormi fra lui e il coltello che gli verrà
lanciato. E poi, insomma io non posso andarmene così lontano da lui,
io! Sento non so qual diavolo che mi tira dalla parte in cui egli si
trova”. Per farla breve, mi si dà quanto occorre per il viaggio, e
arrivo a Parigi. Non ho paura di niente, ma una volta arrivato, mi
sento intimorito. Cosa potrò dire al signor Rodolphe per scusarmi di
essere ritornato senza il suo permesso? Bah! dopo tutto, non mi
mangerà, sarà quel che sarà. Vado a trovare un amico, un
altro bel tipo, quello! Diavolo! quando il signor Murph è entrato,
mi sono detto: il mio destino sta per decidersi; e mi son sentito la
gola secca, mentre il cuore batteva come uno stantuffo. Mi aspettavo
di essere strapazzato a dovere. Ebbene, sì! quella degna persona mi
riceve, come se mi avesse lasciato la sera prima; mi dice che il
signor Rodolphe, lungi dall’essere contrariato, vuol vedermi subito.
E così mi fa entrare dal mio protettore. Diavolo! quando mi sono
ritrovato a faccia a faccia con lui, lui così energico e così di
buon cuore, lui che è terribile come un leone e dolce come un
bambino, lui che è un principe e che si è messo un giaccone come me,
per avere l’occasione (che io benedico) di allungarmi una gragnuola
di pugni in cui non ci capivo nulla, ecco, signor Germain, pensando
a tutte queste qualità che possiede, mi sono sentito sconvolto, e mi
sono messo a piangere come una cerbiatta. Ebbene, invece di riderne,
perché potete immaginare la mia faccia quando piagnucolo, il signor
Rodolphe mi dice serio:
“Eccovi dunque di ritorno, ragazzo mio”.
“Sì, signor Rodolphe; scusatemi se ho avuto torto, ma non ce la
facevo. Fatemi un cantuccio in un angolo del vostro cuore, datemi di
che mangiare, o lasciate che me lo guadagni qui, ecco tutto quel che
vi chiedo, e soprattutto non vogliatemene per essere ritornato.”
“Non ve ne voglio, tanto più che, ragazzo mio, voi tornate giusto a
tempo per rendermi un favore.”
“Io, signor Rodolphe! Ebbene! vedete, come voi dite, bisogna davvero
che ci sia qualcuno lassù; altrimenti, come spiegare che io arrivo
qui, proprio nel momento in cui voi avete bisogno di me? E cosa
potrei dunque fare per voi, signor Rodolphe? Gettarmi dall’alto
delle torri di Notre-Dame?”
“Un po’ meno, ragazzo mio. Un giovane, onesto e intelligente al
quale io mi interesso come fosse un figlio, è ingiustamente accusato
di furto e detenuto alla Force; il suo nome è Germain, è una persona
mite e riservata; gli scellerati coi quali si trova in carcere
l’hanno in avversione, ed egli può correre seri rischi; voi che
purtroppo avete conosciuto la vita di prigione e un gran numero di
detenuti, non potreste, nel caso in cui qualcuno dei vostri antichi
compagni fossero alla Force (si troverebbe il modo per venirlo a
sapere), non potreste andare a trovarli e, con promesse di denaro,
che verrebbero poi mantenute, indurli a proteggere questo sfortunato
giovanotto?”»
«Ma chi è dunque quest’uomo, generoso e a me sconosciuto, che si
prende tanto a cuore la mia sorte?» disse Germain sempre più
stupito.
«Lo saprete, forse; quanto a me, l’ignoro. Per tornare alla mia
conversazione col signor Rodolphe, mentre mi parlava, mi era venuta
un’idea, ma un’idea così buffa, che non ho potuto fare a meno di
ridere di fronte a lui.
“Che avete dunque, ragazzo mio?” mi chiese.
“Signor Rodolphe, io rido perché sono contento, e sono contento
perché conosco il modo per mettere il vostro signor Germain al
riparo da un cattivo colpo dei prigionieri, e dargli un protettore
che lo difenderà gagliardamente; infatti, una volta che il
giovanotto sarà sotto la protezione del tipo di cui vi parlo, non vi
sarà un solo detenuto che oserà dargli fastidio.”
“Benissimo, ragazzo mio, è senza dubbio uno dei vostri vecchi
compagni, no?”
“Proprio così, signor Rodolphe; è entrato alla Force alcuni giorni
fa e l’ho saputo arrivando qui; ma occorrerà del denaro.”
“Quanto?”
“Un biglietto da 1000 franchi.”
“Eccolo.”
“Grazie, signor Rodolphe; fra due giorni avrete mie notizie; ai
vostri ordini!” Diavolo! dunque io potevo rendere un servizio al
signor Rodolphe attraverso di voi, questo era il bello!»
«Comincio a capire, o meglio, mio Dio, tremo credendo di capire»
esclamò Germain; «una tale dedizione sarebbe dunque possibile? per
venire a proteggermi, a difendermi in questa prigione, voi avete
forse commesso un furto? oh! ne porterei il rimorso per tutta la
vita!»
«Un momento! Il signor Rodolphe ha detto che avevo un cuore e il
senso dell’onore; quelle parole... sono la mia legge, vedete, ed
egli potrebbe ripetermele ancora, perché se non sono migliore di una
volta, almeno non sono peggiore.»
«Ma quel furto?... Se non lo avete commesso, come mai siete qui?...»
«Aspettate, dunque. Ecco lo scherzo: con i miei 1000 franchi vado a
comprarmi una parrucca nera; mi rado i baffi, mi metto degli
occhiali scuri, un cuscino sulla schiena, sotto la giacca e... in
viaggio; cerco un appartamento di una o due camere da affittare
subito, al pianterreno, in un quartiere molto animato. Trovo quel
che mi conviene in rue de Provence, pago l’affitto in anticipo sotto
il nome del signor Grégoire. L’indomani vado al Temple per comprare
il mobilio delle due camere sempre con la mia parrucca nera, la mia
gobba e i miei occhiali scuri; in modo che mi riconoscano bene;
faccio mandare il tutto in rue de Provence, insieme
a un servizio di posate da sei persone, in argento, che compro in
boulevard Saint-Denis, sempre truccato da gobbo.
Torno per mettere tutto in ordine nel mio appartamento. Dico al
portiere che quella notte non dormirò a casa, che starò fuori fino
all’indomani, e prendo con me la chiave. Le finestre delle due
camere erano chiuse da robuste imposte. Prima di andarmene, avevo
provveduto a lasciarne una aperta, senza fissare cioè il tirante
all’interno. Venuta la notte, tolgo la parrucca, gli occhiali, la
gobba e gli abiti con i quali ero andato a fare gli acquisti e a
prendere in affitto la camera; metto il tutto in una valigia che
invio all’indirizzo del signor Murph, amico del signor Rodolphe,
pregandolo di conservare quei panni; compero il giubbotto che voi
vedete, questo berretto blu, una spranga di ferro lunga due piedi, e
all’una del mattino me ne vado a gironzolare in rue de Provence,
davanti al mio appartamento, aspettando il momento in cui passerà
una pattuglia per accingermi a fare il colpo, salendo con la scala e
fingendo lo scasso, allo scopo di farmi acciuffare.»
E qui lo Chourineur non poté fare a meno di ridere ancora
fragorosamente.
«Ah! ora capisco» esclamò Germain.
«Ma ora sentirete quanto sono sfortunato!... Avrei potuto
svaligiarmi con tutto comodo una ventina di volte. Finalmente verso
le due del mattino, sento i passi della squadra in fondo alla
strada; finisco di aprire l’imposta, rompo due o tre vetri per fare
un baccano d’inferno, sfondo la finestra, salto nella camera,
impugno la scatola dell’argenteria... alcuni abiti... Per fortuna la
pattuglia aveva sentito il rumore dei vetri rotti e così, appena
uscito dalla finestra, sono preso dalla guardia, che a quel
frastuono era accorsa lesta lesta.
«Bussa, e il portiere apre; si va a cercare il commissario; questi
arriva; il portiere dice che le due camere svaligiate erano state
affittate la sera prima da un signore gobbo, coi capelli neri e con
gli occhiali scuri che si chiamava Grégoire. Avevo la capigliatura
color stoppa che voi mi vedete, tenevo gli occhi aperti come una
lepre nel suo covo! ero dritto come un russo con porto d’armi,
dunque non mi si poteva prendere per quel gobbo dagli occhiali
scuri, e dai capelli neri. Confesso tutto, mi arrestano, mi portano
in questura, e dalla questura qui, ed ecco che arrivo al momento
giusto, proprio in tempo per togliere dalle grinfie dello Squelette
il giovane di cui il signor Rodolphe mi aveva detto: Mi sta a cuore
come un figlio.»
«Ah! cosa non vi devo... per tanta devozione!» esclamò Germain. «Non
è a me... è al signor Rodolphe che voi dovete...»
«Ma qual è la ragione del suo interesse per me?»
«Egli ve lo dirà, ammesso che lo voglia; perché spesso a lui basta
avervi fatto del bene, e se osate domandargli perché, ha l’ardire di
rispondervi: Impicciatevi di quel che vi riguarda.»
«E il signor Rodolphe lo sa che siete qui?»
«Non ero così sciocco da metterlo a parte della mia idea, forse non
mi avrebbe permesso di realizzare... questo scherzo... e non per
vantarmi, ma è ben pensato, no?»
«Ma quanti rischi avete corso... e correte ancora!»
«Che cosa rischiavo? Di non essere condotto alla Force dove voi vi
trovavate, d’accordo... Ma contavo sulla protezione del signor
Rodolphe per farmi cambiare di prigione e potervi così raggiungere;
un signore come lui può tutto. E una volta che ero stato preso,
anche lui avrebbe avuto piacere che servisse a qualcosa.»
«Ma il giorno del vostro processo?»
«Ebbene, pregherò il signor Murph di mandarmi la valigia; davanti al
giudice rimetterò la mia parrucca nera, i miei occhiali scuri, la
mia gobba, e ridiventerò il signor Grégoire per il portiere che mi
ha dato in affitto la camera, per i bottegai che mi hanno venduto la
merce, ed ecco il derubato... Se vogliono rivedere il ladro,
svestirò quei panni e sarà chiaro come il giorno che il ladro e il
derubato non sono né più né meno che una sola persona, lo
Chourineur. Allora che diavolo volete che mi facciano, quando avrò
dimostrato che io rubavo a me stesso?»
«In effetti» disse Germain, più rassicurato. «Ma visto che avevate
tanto interesse per me, perché non mi avete detto nulla quando siete
entrato in prigione?»
«Ho saputo subito del complotto che avevano preparato contro di voi,
e avrei potuto denunciarlo prima che Pique-Vinaigre avesse
cominciato o finito la storia; ma denunciare, sia pure simili
banditi, era una cosa che non mi andava... ho preferito contare solo
sui miei pugni... per togliervi dalle grinfie dello Squelette. E poi
quando l’ho visto, quel brigante, mi sono detto: ecco un’occasione
magnifica per ricordarmi la gragnuola di pugni del signor Rodolphe,
ai quali devo l’onore di averlo conosciuto.»
«Ma se tutti i detenuti si fossero schierati contro di voi, che cosa
avreste potuto fare?»
«Allora avrei gridato aiuto come un’aquila! Ma preferivo sbrigare la
faccenda da solo, per poter dire al signor Rodolphe: Sono stato io,
da solo, a risolvere la faccenda... ho difeso e difenderò il vostro
giovanotto, state tranquillo.»
In quel momento il guardiano entrò improvvisamente nella camera.
«Signor Germain, venite presto, dal signor direttore, che vuole
parlarvi subito. E voi, Chourineur, ragazzo mio, ritornate alla
Fossa-dei-leoni... Voi sarete capo-camerata, se vi va l’idea; avete
tutto quel che occorre per svolgere questa funzione... e i detenuti
non scherzeranno con un tipo come voi.»
«Sì, non mi dispiace... già che ci siamo, meglio essere capitano che
soldato semplice.»
«Rifiuterete ancora la mia mano?» disse cordialmente Germain allo
Chourineur.
«In fede mia, no... signor Germain, proprio no, certo; credo che ora
posso permettermi questo piacere, e ve la stringo di tutto cuore.»
«Ci rivedremo... eccomi ormai sotto la vostra protezione... ormai
non avrò più nulla da temere, e dalla mia cella scenderò ogni giorno
nel cortiletto.»
«State calmo; se io voglio, vi si parlerà solo col dovuto rispetto.
Ma ora che ci penso, voi sapete scrivere... mettete allora sulla
carta quello che io vi ho raccontato e spedite la lettera al signor
Rodolphe; così saprà che voi non siete più in pericolo e che io mi
trovo qui per la buona e ben nota ragione, perché se venisse a
sapere che lo Chourineur ha rubato senza conoscere il resto della
storia... diavolo!... la cosa non mi garberebbe...»
«State tranquillo... questa sera stessa scriverò al mio protettore
sconosciuto; domani mi darete il suo indirizzo e la lettera partirà.
Addio ancora, e grazie, amico!»
«Addio, signor Germain, ritorno da quel mucchio di furfanti... di
cui sono il capo-camerata... bisognerà bene che righino dritto,
altrimenti, peggio per loro!...»
«Quando penso che per causa mia dovrete rimanere ancora per qualche
tempo con questi miserabili!...»
«E che m’importa? Ora non c’è più rischio che mi influenzino;... il
signor Rodolphe mi ha convertito troppo a fondo; sono assicurato
contro l’incendio.»
E lo Chourineur seguì il guardiano.
Germain entrò dal direttore.
E quale non fu la sua sorpresa... vedendo Rigolette... Rigolet-
te pallida, emozionata, gli occhi lacrimanti, eppure sorridenti tra
le lacrime... La sua fisionomia esprimeva sentimenti di gioia e di
felicità inesprimibili.
«Ho una bella notizia da darvi, signore» disse il direttore a
Germain. «Il tribunale ha dichiarato che non v’era luogo a procedere
contro di voi. A seguito del ritiro della denuncia e so-
prattutto delle spiegazioni della parte civile, io ricevo l’ordine
di mettervi immediatamente in libertà.»
«Signore... che mi dite? sarebbe mai possibile?
Rigolette volle parlare; ma non vi riuscì, per l’emozione troppo
viva; congiungendo le mani poté fare a Germain solo un cenno con la
testa, per confermargli quanto stava apprendendo.
«La signorina è arrivata qui pochi momenti dopo che io avevo
ricevuto l’ordine di rimettervi in libertà» aggiunse il direttore.
«Una lettera, contenente una raccomandazione fortissima, che ella mi
ha portato, mi ha messo al corrente della devozione commovente che
vi ha testimoniato durante la vostra permanenza in prigione. È
dunque con vivo piacere che io vi ho mandato a chiamare, certo che
sarete molto felice di dare il braccio alla signorina per uscire di
qui!
«Un sogno!... no, è un sogno!» disse Germain. «Ah! signore... che
bontà!... Perdonatemi se la sorpresa... la gioia... mi impediscono
di ringraziarvi come dovrei...»
«E io, Germain, non trovo le parole» riprese Rigolette; «immaginate
un po’ la mia felicità; dopo avervi lasciato, trovo l’amico del
signor Rodolphe che mi aspettava.»
«Ancora il signor Rodolphe!» disse Germain stupito.
«Sì, ora vi si può dire tutto; il signor Murph mi dice dunque:
“Germain è libero, ecco una lettera per il signor direttore della
prigione; quando arriverete da lui, avrà già ricevuto l’ordine di
mettere Germain in libertà e voi potrete condurlo via”. Io non
potevo credere ai miei orecchi, eppure era vero. Presto, presto,
prendo una carrozza... arrivo... e lui è là che ci aspetta.»
Rinunciamo a descrivere l’estasi dei due fidanzati quando uscirono
dalla Force, e la serata che passarono nella cameretta di Rigolette,
che Germain lasciò alle undici, per raggiungere la sua modesta
camera ammobiliata.
Riassumiamo in poche parole le idee pratiche e teoriche che abbiamo
cercato di mettere in evidenza in questo episodio della vita di
prigione.
Ci riterremo molto soddisfatti se saremo riusciti a dimostrare:
L’insufficienza, l’impotenza e i pericoli insiti nella reclusione in
comune...
Le sperequazioni esistenti fra la valutazione e la punizione
riservate a certi reati (il furto domestico, il furto con scasso) e
quelle di altri delitti (quali il peculato...).
E infine l’impossibilità materiale in cui si trovano le classi
povere di godere del beneficio delle leggi civili.
XIII
LA PUNIZIONE
Noi condurremo di nuovo il lettore nello studio del notaio Jacques
Ferrand.
Grazie alla loquacità abituale degli impiegati, quasi di continuo
occupati a commentare le bizzarrie sempre nuove dei loro padroni,
noi esporremo così i fatti svoltisi dopo la sparizione di Cecily.
«Cento soldi contro dieci che, se continua a deperire, entro un mese
il padrone sarà finito?»
«Il fatto è che, da quando la domestica che aveva l’aria di essere
un’alsaziana ha lasciato la casa, egli è tutto pelle e ossa.»
«E che pelle!»
«Ah! questo poi! era dunque innamorato dell’alsaziana, allora, visto
che da quando è partita si è incartapecorito a quel modo.»
«Lui! il padrone innamorato? che scherzo!!!»
«Al contrario, ha ricominciato a frequentare i preti più che mai.»
«Senza contare che il curato della parrocchia, un uomo
rispettabilissimo, bisogna essere giusti, ieri mentre usciva (io
l’ho sentito) diceva a un altro prete che l’accompagnava: “È
ammirevole!... Il signor Jacques Ferrand è l’ideale della carità e
della generosità su questa terra...”.»
«Il curato ha detto questo? di lui? e senza sforzo?»
«Come?»
«Che il padrone era l’ideale della carità e della generosità su
questa terra?...»
«Sì, l’ho sentito...»
«Allora non ci capisco più nulla; il curato ha la sua reputazione
e se la merita, per essere quel che si dice un vero buon pastore...»
«Oh! questo è vero, e di lui non si può che parlare seriamente e con
rispetto! egli è buono e caritatevole quanto il Petit-Manteau-
Bleu,7 e quando si dice questo di un uomo, è detto tutto.»
7 Ci sia consentito citare qui con profonda venerazione il nome di
quel grande benefattore, il signor Champion, che noi non abbiamo
l’onore di conoscere personalmente, ma di cui tutti i poveri di
Parigi parlano con tanto rispetto e gratitudine.
«E non è dire poco.»
«No. Il Petit-Manteau-Bleu come il buon prete, i poveri non possono
che amarli, e di tutto cuore.»
«Torno allora alla mia idea. Quando il curato afferma qualcosa,
bisogna credergli, considerato che egli è incapace di mentire;
eppure, credere a quel che dice, che cioè il padrone è caritatevole
e generoso... questo mi lascia perplesso.»
«Oh! questa è bella, Chalamel! Oh com’è bella!...»
«Veramente, sarebbe come credere a un miracolo... Non mi riuscirebbe
più difficile.»
«Il signor Ferrand generoso!... lui... che è di un’avarizia
incredibile!»
«Eppure, signori, che dire dei quaranta soldi della nostra
colazione?»
«Bella prova! È come quando si ha per caso un brufolo sul naso... un
caso.»
«Sì, ma d’altra parte il capufficio mi ha detto che da tre giorni il
padrone ha realizzato una somma enorme in buoni del Tesoro e che...»
«Ebbene?»
«Parla dunque...»
«È che si tratta di un segreto...»
«Ragione di più... Quale segreto?...»
«Ho la vostra parola d’onore che non direte niente?...»
«Sulla testa dei nostri figli, diamo la nostra parola.»
«Che mia zia Messidor si dia ai piaceri mondani, se io raccon-
to chiacchiere.»
«E poi, signori, riportiamoci a quel che diceva solennemente
il grande sovrano Luigi XIV al doge di Venezia, davanti a tutta la
corte riunita:
Quando un segreto è tenuto da un impiegato quel segreto, è chiaro,
sarà rivelato.»
«Andiamo! ecco Chalamel con i suoi proverbi!»
«Io chiedo la testa di Chalamel!»
«I proverbi sono la saggezza dei popoli; è a questo titolo che
esigo il tuo segreto.»
«Andiamo, non si tratta di sciocchezze... Vi dico che il capuf-
ficio mi ha fatto promettere di non dire a nessuno...» «Sì, ma egli
non ti ha proibito di dirlo a tutti?» «Insomma, non uscirà di qui.
Avanti, su!...»
«Muore dalla voglia di raccontarcelo, il suo segreto.»
«Ebbene! il padrone vende il suo incarico; in questo momento
potrebbe anche averlo già fatto!...»
«Ah! Bah!»
«Ecco una notizia ben curiosa!...»
«È sconvolgente!»
«Stupefacente!»
«Vediamo, senza incarico, chi si incarica della carica di cui si
scarica?»
«Dio! questo Chalamel è insopportabile coi suoi giochi di pa-
role!»
«Ma che ne so io a chi la vende?»
«Se la vende, è forse perché vuol lanciarsi, dare delle feste...
darsi alla dolce vita, come dice il bel mondo.»
«Dopo tutto, può permetterselo.»
«Non ha sulle spalle una famiglia.»
«Credo bene possa permetterselo! Il capufficio parla di più di
un milione, ivi compreso il valore dell’incarico.»
«Più di un milione, vale la pena.»
«Si dice che abbia giocato in Borsa di nascosto col comandan-
te Robert, e che abbia guadagnato molto denaro.»
«Senza contare che viveva come un ladro.»
«Sì; ma quei ladruncoli, una volta che si mettono a spendere,
diventano più prodighi degli altri.»
«Anch’io la penso come Chalamel; credo proprio che adesso il
padrone vuol darsi alla bella vita.»
«E avrebbe proprio torto di non gettarsi nei piaceri e nelle de-
lizie di Golconda... se ne ha i mezzi... perché, come dice l’oscuro
Ossian nella grotta di Fingal:
Ogni notaio che gozzoviglierà
se ha del cum quibus ragione avrà.»
«Io chiedo la testa di Chalamel!»
«È assurdo!»
«E poi dice che il padrone ha proprio l’aria di pensare a di-
vertirsi.»
«Ha una faccia che grida vendetta al cielo.»
«E il signor curato che vanta la sua carità!»
«Ebbene! carità ben distribuita comincia da se medesimo...
Dunque non conosci neanche i comandamenti di Dio, selvaggio? Se il
padrone chiede a se stesso l’elemosina dei più grandi
piaceri, è suo dovere accordarsela... oppure si terrebbe in poco
conto...»
«Quel che mi stupisce è questo amico intimo che gli è come cascato
dalle nuvole e che non lo lascia mai come la sua ombra...»
«Senza contare che ha una brutta faccia...»
«È rosso come una carota...»
«Io sarei abbastanza propenso a pensare che l’intruso è il frut-
to di un errore di gioventù del signor Ferrand; perché, come diceva
l’aquila di Meaux a proposito della tenera La Vallière che prese il
velo:
Che si ami un giovane o un vecchio spesso la fine è un bel
marmocchio.»
«Chiedo la testa di Chalamel!»
«È vero, con lui non si può parlare neanche un momento.» «Che
sciocchezza! Dire che questo sconosciuto è il figlio del
padrone! ma se è più vecchio di lui, lo si vede bene.»
«Ebbene! dopo tutto, cosa vorrebbe dire?»
«Come! cosa vorrebbe dire: che il figlio sia più vecchio del
padre?»
«Signori, ho detto dopo tutto, nella estrema ipotesi.»
«E come spieghi il fatto?»
«È semplice: in questo caso l’intruso avrebbe commesso l’er-
rore di gioventù e sarebbe il padre del signor Ferrand invece di
essere suo figlio.»
«Chiedo la testa di Chalamel!»
«Non ascoltatelo; sapete bene che una volta che ha cominciato a dire
sciocchezze ne ha per un’ora!»
«Quel che è certo, è che questo intruso ha una brutta faccia e non
lascia un momento mastro Ferrand.»
«È sempre con lui nel suo studio; mangiano insieme, non possono fare
un passo l’uno senza l’altro.»
«Mi sembra di averlo già visto qui, l’intruso.»
«Io no...»
«Dite dunque, signori, non avete notato anche voi che da al-
cuni giorni viene quasi regolarmente ogni due ore un uomo con dei
grandi baffi biondi, corporatura da militare, per chiedere al
portiere di chiamare l’intruso? L’intruso scende, parla un minuto
con l’uomo dai baffi; dopo di che il primo fa un giretto come un
automa e ritorna due ore dopo.»
«È vero, l’ho notato anch’io... Mi è sembrato anche di incontrare
per la strada, uscendo, degli uomini che avevano l’aria di
sorvegliare la casa...»
«Parlando seriamente, qui sta succedendo qualcosa di straordinario.»
«Chi vivrà vedrà.»
«Sull’argomento il capufficio ne sa forse più di noi ma fa il
diplomatico.»
«A proposito, dov’è da qualche tempo?»
«È da quella contessa che hanno tentato di assassinare; pare che ora
sia fuori pericolo.»
«La contessa Mac-Grégor?»
«Sì: questa mattina aveva mandato a chiamare il padrone in tutta
fretta, ma lui non è andato di persona e ha mandato il capufficio.»
«Forse per un testamento?»
«No, visto che sta meglio.»
«Ne ha da fare il capufficio, ora che sostituisce anche Germain
come cassiere!»
«A proposito di Germain, ecco un’altra storia curiosa!» «Quale?»
«Il padrone, per farlo rimettere in libertà, ha dichiarato che
era stato lui ad aver commesso un errore di computo e che aveva poi
ritrovato il denaro che reclamava da Germain.»
«Io non trovo affatto strana la storia, ma giusta; vi ricordate, ve
lo dicevo sempre: Germain è incapace di rubare.»
«Ciononostante è molto imbarazzante per lui essere stato arrestato e
imprigionato come un ladro.»
«Io, al posto suo, chiederei l’indennizzo dei danni con gli
interessi al signor Ferrand.»
«Veramente egli avrebbe dovuto almeno riprenderlo come cassiere, per
dimostrare che Germain non era colpevole.»
«Sì, ma forse Germain non avrebbe accettato.»
«È sempre là in campagna dove è andato uscendo di prigione e da dove
ci ha scritto per informarci che il signor Ferrand aveva ritirato la
denuncia?»
«Probabilmente sì, perché ieri mi sono recato all’indirizzo che ci
aveva dato; mi hanno detto che era ancora in campagna e che si
poteva scrivergli a Bouqueval, per Ecouen, presso la signora
Georges, fittavola.»
«Ah! signori, una carrozza!» disse Chalamel sporgendosi verso la
finestra. «Certo, quanto a eleganza non potrebbe gareggia-
re con quella del famoso visconte. Vi ricordate quel Saint-Remy,
fiammante, con il domestico in livrea carico di decorazioni
d’argento e il grasso cocchiere con la parrucca bianca? Questa
volta, si tratta semplicemente di una carrozza presa a nolo.»
«E chi ne scende?»
«Abbiate pazienza!... Ah! un vestito nero!»
«Una donna! una donna!... oh! vediamo un po’!»
«Dio! questo galoppino è un dongiovanni indecente per la sua
età! non pensa che alle donne; si dovrà finire per incatenarlo,
oppure rapirà le ragazze per la strada infatti come dice il cigno di
Cambrai nel suo Trattato d’Educazione per il Delfino:
Diffidate del galoppino
che dà l’assalto al bel sesso.»
«Io chiedo la testa di Chalamel!»
«Signor Chalamel, voi dite un abito nero... ma io credevo...» «È il
signor curato, imbecille!... e che questo ti serva di esem-
pio!»
«Il curato della parrocchia? il buon pastore?»
«Lui in persona, signori.»
«Ecco un onest’uomo!»
«Non è un gesuita quello!»
«Lo credo bene e, se tutti i preti gli somigliassero, non esiste-
rebbero che devoti ferventi.»
«Silenzio! suonano alla porta.»
«A voi! a voi!... è lui!»
E tutti gli impiegati, curvandosi sulle loro scrivanie, si misero
a scrivere con apparente ardore, facendo stridere rumorosamente la
penna sui fogli.
Il pallido viso di questo prete era al tempo stesso dolce e grave,
intelligente e venerabile; il suo sguardo, pieno di mansuetudine e
di serenità.
Una piccola calotta nera copriva la tonsura; i capelli grigi,
abbastanza lunghi, cadevano sul colletto della redingote marrone.
Affrettiamoci ad aggiungere che, grazie a una fiducia delle più
candide, questo eccellente prete era sempre stato ed era ancora
vittima dell’abile e sottile ipocrisia di Jacques Ferrand.
«Il vostro degno padrone è ancora nel suo studio, figlioli?» domandò
il curato.
«Sì, signor prevosto» disse Chalamel alzandosi rispettosamente. E
aprì al prete la porta di una camera vicina allo studio.
Sentendo che nello studio di Jacques Ferrand si discuteva con una
certa veemenza, il curato, non volendo stare ad ascoltare suo
malgrado, si avviò rapidamente verso la porta e bussò.
«Entrate!» disse una voce con un accento italiano piuttosto
pronunciato.
Il prete si trovò di fronte a Polidori e a Jacques Ferrand. Gli
impiegati del notaio non si erano probabilmente sbagliati nel
pronosticare una morte vicina per il loro padrone.
Dopo la fuga di Cecily, il notaio era diventato quasi
irriconoscibile.
Benché il suo viso fosse di una magrezza impressionante, di un
livore cadaverico, un rossore da febbricitante dava colore agli
zigomi sporgenti; un tremito nervoso, interrotto a tratti da
soprassalti convulsi, l’agitava quasi di continuo; le sue mani
scarne erano madide e caldissime; i larghi occhiali verdi
nascondevano gli occhi iniettati di sangue che brillavano del cupo
fuoco di una febbre divorante; in una parola, quella maschera
sinistra tradiva i morsi di una consunzione sorda e incessante...
La fisionomia di Polidori contrastava con quella del notaio; niente
di più amaro, di più freddo, di più ironico dell’espressione che si
leggeva sui lineamenti di quell’altro scellerato; una selva di
capelli di un rosso ardente, misti a qualche ciocca brizzolata,
contornava la sua fronte livida e rugosa; gli occhi penetranti,
trasparenti e verdi come l’acquamarina, erano molto ravvicinati al
naso, adunco, la bocca, dalle labbra sottili, esprimeva sarcasmo e
malignità. Polidori, completamente vestito di nero, era seduto
vicino allo scrittoio di Jacques Ferrand.
Alla vista del prete, entrambi si alzarono.
«Ebbene, come sta il nostro galantuomo, il nostro signor Ferrand?»
disse il prete con sollecitudine, «vi sentite un poco meglio?»
«Sono sempre nelle stesse condizioni, signor curato; questa febbre
non mi dà tregua» rispose il notaio; «e l’insonnia mi uccide! Sia
fatta la volontà di Dio!»
«Vedete, signor curato» aggiunse Polidori compunto; «che cristiana
rassegnazione! Il mio povero amico è sempre il medesimo; non trova
consolazione ai suoi mali che nel bene che compie!»
«Non merito queste lodi, dispensatemene, ve ne prego» disse
seccamente il notaio dissimulando a fatica un attacco di collera e
di odio repressi. «Solo al Signore compete di valutare il bene e il
male; io non sono che un miserabile peccatore...»
«Siamo tutti peccatori» riprese il curato; «ma non tutti abbiamo la
carità che vi distingue, mio rispettabile amico. Sono ben rari
coloro che, come voi, si distaccano quanto occorre dai beni mondani
per pensare a utilizzarli, mentre ancora sono in vita, in una
maniera così cristiana...»
«Insistete sempre nel voler lasciare il vostro lavoro per darvi
interamente alle pratiche religiose?»
«Da ieri l’altro il mio incarico è venduto, signor curato; talune
concessioni mi hanno consentito di realizzare, cosa ben rara, la
somma in contanti; e questa, insieme ad altre, mi servirà per
fondare quell’istituzione di cui vi ho parlato, e per la quale ho
deciso il piano, che ora vi mostrerò...»
«Ah, mio degno amico!» disse il curato con profonda e santa
ammirazione; «fare tanto bene... e con tanta semplicità... e, posso
ben dirlo, con tanta naturalezza!... Ve lo ripeto, le persone come
voi sono rare, e non vi sono abbastanza benedizioni...»
«Il fatto è che ben poche persone assommano in sé, come Jacques, la
ricchezza e la pietà religiosa, l’intelligenza e la carità» disse
Polidori con un sorriso ironico che sfuggì al buon curato.
A questo nuovo e sarcastico elogio la mano del notaio si contrasse
involontariamente; egli lanciò, di sotto gli occhiali, uno sguardo
pieno di rabbia infernale a Polidori.
«Voi vedete, signor curato» si affrettò a dire l’amico intimo di
Jacques Ferrand; «sempre quegli scatti nervosi, e non vuol curarsi.
Io sono desolato... è diventato il carnefice di se stesso... Sì,
avrò il coraggio di dirlo davanti al signor curato, tu sei il
carnefice di te stesso, mio povero amico...»
A queste parole di Polidori il notaio trasalì ancora convulsamente,
ma poi si calmò.
Una persona meno ingenua del curato avrebbe notato, durante il
colloquio, e soprattutto durante quello che segue, l’accento
corrucciato e impacciato di Jacques Ferrand; giacché è inutile dire
che una volontà superiore alla sua, vale a dire la volontà di
Rodolphe, imponeva a quell’individuo parole e atti diametralmente
opposti al suo vero carattere.
Ma qualche volta, quando gli facevano perdere la pazienza, il notaio
sembrava esitare nell’ubbidire a questa autorità invisibile e
onnipotente; ma uno sguardo di Polidori metteva fine a questa
indecisione; allora, trattenendo con un sospiro di furore i più
violenti impulsi di collera, Jacques Ferrand subiva il giogo che non
poteva spezzare.
«Ahimè, signor curato» riprese Polidori, che sembrava essersi
assunto il compito di torturare il suo complice, come si suol dire,
a colpi di spillo, «il mio povero amico trascura troppo la sua
salute... Ditegli dunque, come faccio io, che si curi, se non vuol
farlo per sé, almeno per i suoi amici, per quegli infelici di cui
egli è la speranza e il sostegno...»
«Basta!... basta!...» mormorò il notaio con voce sorda.
«No, non basta» disse il prete con una voce che tradiva l’emozione
«non vi si ripeterebbe mai abbastanza che voi non appartenete a voi
stesso, e che è male trascurare così la vostra salute. Da dieci anni
che vi conosco, non vi ho mai visto malato; ma da circa un mese
siete irriconoscibile. E il cambiamento che si legge sul vostro viso
mi colpisce ancora di più per il fatto che sono stato qualche tempo
senza vedervi. Infatti appena vi ho rivisto non ho potuto
nascondervi il mio stupore; ma il cambiamento che noto in voi da
diversi giorni è ben più grave; voi deperite a vista d’occhio, e mi
preoccupate seriamente... Ve ne scongiuro, mio degno amico, pensate
alla vostra salute...»
«Non potrei esservi più grato per il vostro interessamento, signor
curato; ma vi assicuro che le mie condizioni non sono così disperate
come voi credete.»
«Poiché tu ti ostini così» riprese Polidori, «io voglio dire tutto
al signor curato; egli ti ama, ti stima, e molto; dico io quando
conoscerà i tuoi nuovi meriti, quando conoscerà la causa vera del
tuo deperimento.»
«Cosa c’è ancora?» disse il curato.
«Signor curato» disse il notaio con impazienza, «vi avevo pregato di
venire gentilmente a farmi visita per comunicarvi taluni progetti di
grande importanza, e non per stare ad ascoltare le ridicole lodi che
il mio amico vuol rivolgermi.»
«Lo sai, Jacques, con me bisogna rassegnarsi ad ascoltare tutto»
disse Polidori guardando fisso il notaio.
Questi abbassò gli occhi e tacque. Polidori continuò:
«Voi avrete forse notato, signor curato, che i primi sintomi della
malattia nervosa di Jacques sono cominciati appena dopo
l’abominevole scandalo che Louise Morel ha causato in questa casa».
Il notaio ebbe un fremito.
«Voi sapete dunque quale delitto ha commesso quella disgraziata
ragazza, signore?» domandò stupito il prete. «Io vi credevo a Parigi
solo da pochi giorni.»
«Certo, signor curato; ma Jacques mi ha raccontato tutto, come al
suo migliore amico, al suo medico; giacché egli attribui-
sce in gran parte all’indignazione ispiratagli dal delitto di Louise
il crollo nervoso di cui soffre oggi... Ma non è tutto, ahimè, il
mio povero amico doveva sopportare nuovi colpi, i quali, come ben
vedete, hanno scosso la sua salute... Una vecchia domestica che da
tanti anni gli era fedele e legata da sentimenti di riconoscenza...»
«La signora Séraphin?» disse il curato interrompendo Polidori; «ho
saputo della morte di quella poveretta, annegata per una malaugurata
imprudenza, e posso comprendere la pena del signor Ferrand; non si
dimenticano così facilmente dieci anni di servizio fedele... tali
rimpianti onorano tanto il padrone che il servitore.»
«Signor curato» disse il notaio, «ve ne prego, non parlate delle mie
virtù... voi mi confondete... e questo mi è penoso.»
«E chi ne parlerà dunque? forse tu stesso?» riprese affettuosamente
Polidori; «ma state a sentire, signor curato, e avrete ben altre
ragioni per lodarlo; forse voi ignorate chi è stata la domestica che
ha sostituito, in casa di Jacques, Louise Morel e la signora
Séraphin? Voi ignorate insomma quel che ha fatto per quella povera
Cecily... giacché la nuova domestica si chiamava Cecily, signor
curato.»
Il notaio, suo malgrado, fece un salto sulla sedia; i suoi occhi
lampeggiarono sotto gli occhiali; un rossore bruciante imporporò i
suoi lineamenti lividi.
«Taci... taci!» esclamò levandosi a metà sulla sedia. «Non una
parola di più, te lo proibisco!»
«Via via calmatevi» disse il curato sorridendo con mansuetudine
«ancora qualche azione generosa che io ignoro... quanto a me,
approvo decisamente l’indiscrezione del vostro amico... Io non
conosco, infatti, questa domestica, perché è stato proprio pochi
giorni dopo il suo arrivo presso il nostro degno signor Ferrarnd
che, sotto il peso di molteplici impegni, egli è stato obbligato,
con mio gran rincrescimento, a interrompere momentaneamente i nostri
rapporti.»
«Era per nascondervi la buona azione che stava meditando, signor
curato; e benché la sua modestia ne soffra, egli sarà costretto ad
ascoltarmi, e così voi saprete tutto» riprese Polidori sorridendo.
Jacques Ferrand tacque, appoggiò i gomiti sul tavolo e si nascose la
fronte fra le mani.
XIV
LA BANCA DEI POVERI
«Immaginate dunque signor curato» riprese Polidori rivolgendosi al
prete, ma accompagnando ogni frase con uno sguardo ironico
all’indirizzo di Jacques Ferrand, «immaginatevi che il mio amico non
tardò a scoprire nella sua nuova domestica, che come vi ho già detto
si chiamava Cecily, le migliori qualità... una grande modestia...
una dolcezza angelica,... e soprattutto molto spirito religioso. E
non è tutto, Jacques, voi lo sapete, deve alla sua lunga esperienza
nel campo degli affari un formidabile intuito: egli si accorse
quindi ben presto che quella ragazza, giacché infatti era giovane e
molto bella, signor curato, che quella giovane e bella donna non era
fatta per essere una domestica, e che a dei princìpi... virtuosi e
austeri... univa una solida istruzione e conoscenze... svariate.»
«In verità questo è strano» disse il curato mostrando molto
interesse. «Io ignoravo completamente queste circostanze... Ma che
cosa avete, mio buon Ferrand? Mi sembrate più sofferente...»
«Infatti» disse il notaio asciugandosi il sudore freddo che gli
gocciolava dalla fronte, e compiendo sforzi atroci per far forza su
se stesso «ho un po’ di emicrania... ma passerà.»
Polidori alzò le spalle sorridendo.
«Notate, signor curato» aggiunse poi, «che Jacques è sempre così
quando si tratta di svelare qualche sua buona azione di cui altri
non sono a conoscenza; è così ipocrita, quando si tratta del bene
che compie! per fortuna ci sono io: e così gli è resa giustizia
piena. Ma torniamo a Cecily. A sua volta ella indovinò ben presto
l’eccellente natura di Jacques; e, quando questi le fece delle
domande sul suo passato, gli confidò ingenuamente che, straniera in
questo paese, senza risorse, e ridotta per la cattiva condotta del
marito in condizioni umilissime, aveva considerato una manna del
cielo il poter entrare nella santa casa di un uomo venerabile come
il signor Ferrand. Alla vista di tanta disgrazia, rassegnazione e
virtù, Jacques non esitò; scrisse al paese di questa infelice per
avere altre informazioni sul suo conto, le quali furono ottime e
confermarono la verità di tutto quello che Cecily aveva raccontato
al nostro amico; allora, sicuro di compiere un’opera buona nei
riguardi di una persona che ben la meritava, egli la rimandò al suo
paese con una somma di denaro che le permetterà di attendere giorni
migliori e l’occasione di una sistemazione adeguata. Non aggiungerò
una parola di più alle lodi per Jacques: i fatti sono più eloquenti
delle mie parole.»
«Bene! benissimo!» esclamò il curato intenerito.
«Signor curato» disse Jacques Ferrand con voce sorda e quasi mozza,
«non vorrei abusare del vostro tempo prezioso; non parliamo più di
me, ve ne scongiuro, ma di quel progetto per il quale vi ho pregato
di venire qui, e a proposito del quale ho chiesto la vostra gentile
collaborazione.»
«Io capisco che le lodi del vostro amico feriscono la vostra
modestia; occupiamoci dunque delle vostre nuove opere caritatevoli,
e dimentichiamo che voi ne siete l’autore; ma prima vorrei che si
parlasse dell’affare di cui voi mi avete incaricato. Secondo i
vostri desideri ho depositato alla Banca di Francia, a mio nome, la
somma di 100.000 scudi destinati alla restituzione di cui voi siete
l’intermediario, e che deve aver luogo attraverso di me. Voi avete
preferito che questa somma non restasse in mano vostra, sebbene
avrebbe potuto rimanerci, mi sembra, altrettanto sicura che alla
Banca.»
«In questo, signor curato, mi sono attenuto alle intenzioni
dell’autore sconosciuto di questa restituzione; egli agisce così per
scrupolo di coscienza. Secondo i suoi desideri ho dovuto affidarvi
questa somma e pregarvi di rimetterla alla vedova de Fermont, nata
de Renneville» la voce del notaio tremò leggermente nel pronunciare
questi nomi «quando questa signora si presenterà da voi provando la
sua identità.»
«Assolverò alla missione di cui voi mi incaricate» disse il prete.
«E non è l’ultima, signor curato.»
«Tanto meglio se le altre assomigliano a questa; perché, senza
voler ricercare i motivi che l’ispirano, io mi sento sempre commosso
quando si tratta di una restituzione spontanea; questi imperativi
categorici, dettati dalla sola coscienza, per libera scelta
interiore, sono sempre indice di un pentimento sincero, e non
costituiscono davvero un’espiazione sterile.»
«Vero, signor curato? 100.000 scudi restituiti in un colpo solo, è
raro; io sono stato più curioso di voi; ma che poteva la mia
curiosità contro l’incrollabile discrezione di Jacques? E così
ignoro ancora il nome dell’onest’uomo che fa questa nobile
restituzione.»
«Comunque» disse il curato, «sono certo che deve godere di tutta la
stima del signor Ferrand.»
«Questo galantuomo gode infatti, signor curato, di tutta la mia
stima» rispose il notaio con mal dissimulata amarezza.
«E non è tutto, signor curato» riprese Polidori guardando Jacques
Ferrand con aria significativa, «voi sentirete fino a dove si
spingono i generosi scrupoli dell’autore sconosciuto di questa
restituzione; e se devo dire proprio tutto, io ho dei forti sospetti
che il nostro amico ha contribuito non poco a risvegliare questi
scrupoli, per trovare poi il modo di acquietarli.»
«Come?» domandò il prete.
«Cosa volete dire?» aggiunse il notaio.
«E i Morel, quella brava e onesta famiglia?»
«Ah! sì... sì... infatti... dimenticavo...» disse Jacques Ferrand
con voce sorda.
«Figuratevi, signor curato» riprese a dire Polidori, «che l’au-
tore di questa restituzione, senza dubbio consigliato da Jacques,
non contento di rendere questa somma considerevole, vuole ancora...
Ma io lascio parlare il mio degno amico... è un piacere che non
voglio sottrargli.»
«Vi ascolto, mio caro Ferrand» disse il prete.
«Voi sapete» riprese Jacques Ferrand, con tono compunto e ipocrita,
interrotto di tanto in tanto da moti di ribellione involontaria per
la parte che gli facevano recitare, moti che l’alterazione della
voce e l’esitazione nel parlare tradivano di frequente, «voi sapete,
signor curato, che la cattiva condotta di Louise Morel... ha causato
un colpo tale a suo padre che il poveretto è diventato pazzo. La
numerosa famiglia dell’umile artigiano correva il rischio di morire
di fame, così privata del suo solo sostegno. Per fortuna la
Provvidenza è venuta in loro aiuto e... la... persona che
restituisce il denaro spontaneamente, e di cui siete gentilmente
l’intermediario, signor curato, non ha creduto aver sufficientemente
scontato una grande... malversazione. Questa persona mi ha dunque
chiesto se io non conoscessi un caso pietoso cui venire in soccorso.
Ho dovuto segnalare alla sua generosità la famiglia Morel, ed egli
mi ha pregato, dandomi i fondi necessari, di rimetterveli
immediatamente, e di incaricarvi di assegnare una rendita di 2000
franchi intestata a Morel, reversibile alla moglie e ai bambini...»
«Ma in verità» disse il curato, «accettando questo nuovo compito,
rispettabilissimo senza dubbio, mi stupisco che non abbia incaricato
voi stesso della cosa.»
«La persona che vuol mantenere l’anonimato ha pensato, e io lo
approvo, che le sue buone azioni acquisterebbero un nuovo pregio...
sarebbero per così dire santificate... passando attraverso le vostre
pie mani, signor curato...»
«Allora non ho niente da aggiungere; accenderò questa rendita di
2000 franchi intestata a Morel, l’onesto e infelice padre di Louise.
Ma io credo, come il vostro amico, che voi non sia-
te estraneo alla decisione che ha ispirato questo nuovo dono, in
espiazione...»
«Ho fatto il nome della famiglia Morel, niente più, vi prego di
crederlo, signor curato» rispose Jacques Ferrand.
«Ora» disse Polidori, «sentirete a quali alte vedute filantropiche
si è elevato il mio buon amico Jacques a proposito dell’istituto di
beneficenza del quale abbiamo già parlato; egli ci leggerà il piano
che ha definitivamente deciso; il denaro necessario per l’accensione
delle rendite è là, nella sua cassa; ma da ieri gli è nato uno
scrupolo e, se egli non osa manifestarvelo, sarò io a farlo.»
«È inutile» riprese Jacques Ferrand che talvolta preferiva ancora
stordirsi con le proprie parole piuttosto che essere obbligato a
subire in silenzio le lodi sarcastiche del suo complice. «Ecco il
fatto, signor curato. Ho riflettuto... e ho trovato che sarebbe
proprio di un’umiltà... più cristiana... che questo istituto non
portasse il mio nome.»
«Ma questa umiltà è esagerata» esclamò il curato. «Voi potete, voi
dovete a buon diritto essere orgoglioso della vostra restituzione
benefica; è un diritto, quasi un dovere per voi darle il vostro
nome.»
«Io preferisco tuttavia, signor curato, conservare l’anonimato; sono
deciso... conto molto sulla vostra bontà e spero che voi vorrete
espletare al posto mio, conservando il massimo segreto, le ultime
formalità e scegliere gli impiegati d’ordine che lavoreranno
nell’istituto. Io mi sono riservato di nominare solo il direttore e
un guardiano.»
«Pur non avendo molto desiderio di partecipare a quest’opera, che è
vostra, sarebbe mio dovere accettare... E dunque accetto.»
«Ora, signor curato, se voi siete d’accordo, il mio amico vi leggerà
il progetto definitivo...»
«Poiché voi siete così gentile, amico mio» disse Jacques Ferrand con
amarezza, «leggete voi stesso... Risparmiatemi questa fatica... ve
ne prego...»
«No, no» rispose Polidori lanciando al notaio uno sguardo in cui
quest’ultimo lesse tutta l’intenzione sarcastica. «Io provo un gran
piacere nell’ascoltarti esprimere i nobili sentimenti che ti hanno
ispirato a creare questa istituzione filantropica.»
«E sia, leggerò io stesso» disse bruscamente il notaio prendendo il
documento che si trovava sullo scrittoio.
Polidori, da lungo tempo complice di Jacques Ferrand, era a
conoscenza dei crimini e dei pensieri segreti di questo miserabile;
non poté quindi trattenere un sorriso crudele vedendolo costretto a
leggere quelle parole dettate da Rodolphe.
Come si vede, il principe rivelava una logica inesorabile nelle
punizioni che infliggeva al notaio.
Lussurioso... lo torturava con la lussuria.
Avaro... con la cupidigia.
Ipocrita... con l’ipocrisia.
Giacché se Rodolphe aveva scelto il venerabile prete di cui si
parla come intermediario delle restituzioni e dell’espiazione
imposte a Jacques Ferrand, lo aveva fatto per punirlo doppiamente di
avere, con la sua odiosa ipocrisia, ingannato la stima, l’ingenuità
e l’affetto candido del buon curato.
Non era infatti una grande punizione per quell’odioso impostore, per
quel criminale incallito, l’essere costretto a praticare finalmente
quelle virtù cristiane che egli aveva così spesso simulato, e di
meritare questa volta, fremente di rabbia impotente, i giusti elogi
di un prete rispettabile di cui si era fino allora preso gioco?
Jacques Ferrand lesse dunque la dichiarazione seguente con i
sentimenti di odio e di collera nascosti che ben si possono
immaginare.
CREAZIONE DELLA BANCA DEI LAVORATORI DISOCCUPATI
Amiamoci gli uni gli altri, ha detto Cristo.
Queste divine parole contengono il germe di tutti doveri, di tutte
le virtù, di ogni carità.
Esse hanno ispirato l’umile fondatore di questa istituzione.
A Cristo solo spetta la gloria per il bene che avrà potuto fare.
Limitato nei mezzi d’azione, il fondatore ha voluto tuttavia che il
maggior numero possibile dei suoi fratelli beneficiasse dell’aiuto
che egli ha voluto donare.
Egli si rivolge anzitutto a quegli operai onesti, laboriosi e padri
di famiglia che la mancanza di lavoro riduce spesso ad azioni
disperate.
Non si tratta di un’elemosina degradante che egli offre ai suoi
fratelli, ma di un prestito gratuito.
Possa questo prestito, come egli spera, evitare loro di gravare
indefinitamente il loro futuro con debiti schiaccianti che spesso
sono obbligati a contrarre in attesa che torni il lavoro, unica loro
risorsa, per mantenere la famiglia di cui sono l’esclusivo sostegno!
Come garanzia di questo prestito egli chiede ai suoi fratelli solo
un impegno sulla parola.
Egli destina una rendita annuale di 12.000 franchi alla concessione
– nel primo anno e fino a concorrenza di tale cifra – di piccoli
prestiti da venti a quaranta franchi, senza interesse, in favore di
operai sposati e disoccupati, che abitano nel 7° arrondissement. Si
è scelto questo quartiere perché è uno di quelli in cui la classe
operaia è più numerosa.
Questi prestiti saranno accordati solo a quegli operai e operaie che
potranno esibire un certificato di buona condotta, rilasciato dal
loro ultimo padrone, in cui sarà indicata la causa e la data della
sospensione dal lavoro.
Questi prestiti saranno rimborsabili mensilmente, quota un sesto o
un dodicesimo, a scelta di chi lo ha richiesto, a partire dal giorno
in cui troverà un impiego.
Egli sottoscriverà un semplice impegno d’onore a rimborsare il
prestito all’epoca fissata.
A questo impegno aderiranno, come garanti, due suoi compagni, al
fine di sviluppare e di estendere, attraverso la solidarietà, la
religione della promessa giurata.8
L’operaio che non rimborsasse la somma dovuta non potrebbe, né lui
né i suoi garanti, pretendere un nuovo prestito; perché sarà venuto
meno a un impegno sacro, e soprattutto perché avrà privato molti
altri suoi fratelli del vantaggio di cui egli ha goduto, in quanto
la somma che egli non renderà sarà perduta per la banca dei poveri.
Se le somme prestate, invece, saranno scrupolosamente rimborsate,
questi piccoli prestiti aumenteranno di anno in anno di numero e di
quota, e un giorno sarà possibile far partecipare altri quartieri
agli stessi benefici.
Non degradate l’uomo con l’elemosina...
Non incoraggiate la pigrizia con un dono sterile...
Esaltare il sentimento dell’onore e della probità che sono spontanei
nelle classi umili...
Venire fraternamente in aiuto al lavoratore che, stentando già a
vivere e a mantenere la famiglia, per i salari insufficienti, viene
8 Si ignora forse che la classe operaia ha in generale un tal senso
di responsabilità per i debiti che contrae, che quei vampiri che
concedono piccoli prestiti a breve scadenza, al tasso enorme dal 300
al 400%, non esigono alcun impegno scritto, eppure vengono sempre
scrupolosamente rimborsati. È soprattutto alle Halles e nei dintorni
che si svolge questa abominevole attività.
a trovarsi, in caso di disoccupazione, in una situazione
assolutamente disperata.
Tali sono state le idee che hanno ispirato questa istituzione.9
Che colui il quale ha detto: Amiamoci gli uni gli altri, sia il solo
ad averne gloria.»
«Ah! signore» esclamò il curato con religiosa ammirazione, «che idea
caritatevole! come capisco la vostra emozione leggendo queste righe
di una semplicità tanto toccante!»
In effetti, al termine della lettura, la voce di Jacques Ferrand si
era alterata; la sua pazienza e il suo coraggio erano al limite: ma,
sorvegliato da Polidori, egli non osava, né poteva venir meno al pur
minimo ordine di Rodolphe.
Lascio a voi giudicare la rabbia del notaio, costretto a disporre
con tanta liberalità, con tanta carità della sua fortuna in favore
di una classe che egli aveva spietatamente angariato nella persona
del lapidario Morel.
«Non è vero, signor curato, che l’idea di Jacques è eccellente?»
riprese Polidori.
«Ah! signore, io che conosco tante miserie, sono in grado più di
chiunque altro di comprendere quale importanza possa avere per dei
poveri e onesti operai senza lavoro questo prestito, che pur
sembrerebbe ben modico a coloro che si trovano nell’agiatezza...
Ahimè! quanto bene non farebbero costoro se sapessero che una somma
così esigua, sufficiente appena a soddisfare il più piccolo dei loro
costosi capricci... che con trenta o quaranta franchi, che poi
verrebbero loro scrupolosamente restituiti, sia pure senza
interesse... essi potrebbero spesso salvare l’avvenire, talvolta
l’onore di una famiglia, che la mancanza di lavoro getta in preda al
terribile incubo della miseria! L’indigenza senza lavoro non trova
mai credito o, se si accetta di prestare delle piccole somme senza
pegno, è con interessi da usurai disgustosi; quel poveretto prenderà
a prestito trenta soldi per otto giorni, e ne dovrà rendere
quaranta; e si aggiunga che questi prestiti modici sono rari e
difficili. I prestiti del Monte di pietà, anche quelli costano, in
9 Il nostro progetto, per il quale abbiamo consultato diversi
lavoratori tanto onesti quanto illuminati, è imperfetto senza
dubbio, ma noi lo sottoponiamo all’osservazione di quelle persone
che si interessano alle classi operaie, sperando che il nucleo di
utilità che esso contiene (e non temiamo di poterlo affermare) possa
essere fecondato da una mente più lucida della nostra.
certi casi, circa 300%.10 L’operaio senza lavoro vi deposita spesso
per quaranta soldi l’unica coperta che, nelle notti d’inverno,
difende lui e i suoi dai rigori del freddo... Ma» aggiunse il curato
con entusiasmo, «un prestito da trenta a quaranta franchi senza
interesse e rimborsabile in dodici rate quando sarà tornato il
lavoro... per dei lavoratori onesti è la salvezza, è la speranza, è
la vita!... E con quale lealtà essi pagheranno il debito! Ah!
signore, non è in questi casi che essi verranno meno alla parola...
È un debito sacro quello che si è contratto per sfamare la propria
moglie e i propri figli!»
«Come devi considerare preziosi gli elogi del signor curato,
Jacques!» disse Polidori, «e quanti te ne rivolgerà ancora... per la
tua creazione del Monte di pietà gratuito!»
«Come?»
«Certo, signor curato; Jacques non ha dimenticato questo problema,
che costituisce, per così dire, un’appendice della sua Banca dei
poveri.»
«Davvero!» esclamò il prete unendo le mani con ammirazione.
«Continua, Jacques» disse Polidori.
10 Prendiamo i seguenti dati da un eloquente ed eccellente lavoro
pubblicato da Alphonse Esquiros nella «Revue de Paris» dell’11
giugno 1843: «La media degli oggetti impegnati per tre franchi
presso i funzionari dell’8° e 12° arrondissement è di almeno
cinquecento al giorno. La popolazione operaia, ridotta a contare su
così esigue risorse, non trae dunque dal Monte di pietà che anticipi
insignificanti in rapporto ai bisogni. Oggi gli interessi chiesti
dal Monte di pietà raggiungono, nei casi ordinari, il 13%; ma questo
tasso aumenta in proporzione spaventosa se il prestito, invece di
essere annuale, è contratto per un periodo più breve. Ora, poiché
gli oggetti depositati dalla classe povera sono, in generale,
articoli di prima necessità, capita che essi vengano ritirati poco
dopo essere stati depositati; vi sono oggetti che sono regolarmente
impegnati e disimpegnati una volta alla settimana. In un caso
simile, facciamo l’esempio che il prestito sia di tre franchi;
l’interesse pagato da chi prende a prestito sarà allora calcolato
sul tasso del 294% all’anno. Il denaro che così si accumula ogni
anno nelle casse del Monte di pietà finisce direttamente in quelle
degli ospedali: e si tratta di una somma molto cospicua. Nel 1840,
anno di miseria, tali interessi hanno raggiunto i 422.215 franchi.
Non si può negare» conclude Esquiros molto giustamente, «che tale
somma abbia una destinazione lodevole, perché venendo dalla miseria
ritorna alla miseria, ma ci si pone tuttavia questa grave domanda:
Se è proprio il povero che debba venire in soccorso al povero!»
Diciamo infine che Esquiros, pur invocando grandi innovazioni
nell’esercizio del Monte di pietà, rende comunque omaggio allo zelo
dell’attuale direttore, Delaroche, che ha già intrapreso utili
riforme.
Il notaio continuò, con voce rapida; perché tale scena gli risultava
odiosa:
I piccoli prestiti hanno per scopo di far fronte a uno dei più gravi
incidenti che colpiscono la vita dell’operaio, l’interruzione del
lavoro. Essi saranno dunque accordati solo a lavoratori disoccupati.
Ma bisogna anche prevedere altri gravissimi casi di necessità che
possono colpire anche i lavoratori non disoccupati.
Spesso un’assenza dal lavoro anche di uno o due giorni, imposta
talvolta dalla fatica, o dalle cure che egli deve prestare alla
moglie o a un bambino malato, o da un trasloco obbligato, privano
l’operaio del suo quotidiano introito... Allora egli fa ricorso al
Monte di pietà, che gli dà il denaro a un tasso elevatissimo, oppure
a usurai clandestini che fanno prestiti a condizioni incredibili.
Con l’intenzione di alleggerire, per quanto possibile, il fardello
che grava sui suoi fratelli, il fondatore della Banca dei poveri
destina una rendita di 25.000 franchi all’anno ai prestiti su pegno,
che non potranno eccedere i dieci franchi ciascuno.
Coloro che chiedono il prestito non pagheranno né spese né
interessi, ma dovranno dimostrare di esercitare una professione
onorata e fornire una dichiarazione dei loro padroni, che garantisca
della loro moralità.
Passati due anni, si venderanno gli oggetti non disimpegnati; la
somma ricavata in sovrappiù dalla vendita sarà investita
all’interesse del 5% a favore dell’Istituto.
Al termine di cinque anni, se l’interessato non avrà reclamato
questa somma, essa resterà acquisita alla Banca dei poveri e, unita
alle entrate successive, permetterà di aumentare ulteriormente il
numero di prestiti.11
L’amministrazione e l’ufficio dei prestiti della Banca dei poveri
saranno posti in rue du Temple n. 17, in una casa acquistata a
questo scopo in quel popoloso quartiere. Una rendita di 10.000
franchi sarà destinata alle spese e all’amministrazione della Banca
dei poveri, il cui direttore a vita sarà...
Polidori interruppe il notaio per dire al prete:
«Ora sentirete signor curato, dalla scelta del direttore di questa
Banca, se Jacques sa riparare al male che è stato involontaria-
11 Abbiamo detto che in taluni piccoli Stati italiani esistono dei
Monti di pietà gratuiti, fondazioni benefiche che hanno molte
analogie con l’istituzione che noi abbiamo concepito.
mente compiuto. Voi sapete che, per un errore che egli deplora,
aveva ingiustamente accusato il suo cassiere di avere distratto la
somma che è stata invece ritrovata».
«Senza dubbio...»
«Ebbene! è a questo onesto giovane, di nome François Germain, che
Jacques accorda la direzione a vita di questa Banca, con uno
stipendio di 4000 franchi. Non è ammirevole, signor curato?»
«Niente mi stupisce più, a questo punto, o piuttosto niente mi ha
stupito fin qui» disse il prete. «Il fervente spirito religioso, le
virtù del vostro degno amico dovevano prima o poi portarlo a una
simile conclusione. Consacrare tutta la propria fortuna a una tale
istituzione, ah! è ammirevole!»
«Più di un milione, signor curato!» disse Polidori, «più di un
milione racimolato a forza di precisione, di economia, e di
onestà!... E dire che vi erano dei miserabili capaci di accusare
Jacques di avarizia!... Come, si dicevano costoro: il suo studio gli
frutta da 50 a 60.000 franchi all’anno, ed egli vive di stenti!»
«A questi» riprese il curato con entusiasmo, «io risponderei: per
quindici anni ha vissuto come un indigente... al fine di potere un
giorno largamente aiutare gli indigenti veri.»
«Ma sii dunque almeno orgoglioso e contento del bene che fai!»
esclamò Polidori, rivolgendosi a Jacques Ferrand, che, cupo,
abbattuto, con lo sguardo fisso, sembrava assorto in profonda
meditazione.
«Ahimè!» disse tristemente il curato, «non è in questo mondo che si
riceve la ricompensa di tanta virtù, egli ha ambizioni più
elevate...»
«Jacques» disse Polidori toccando leggermente la spalla del notaio,
«finisci dunque di leggere.»
Il notaio trasalì, si passò la mano sulla fronte, poi, rivolgendosi
al prete, gli disse:
«Scusate, signor curato, ma io pensavo... pensavo all’immenso
sviluppo che potrebbe avere questa Banca dei poveri con la semplice
accumulazione delle rendite, se i prestiti di ogni anno venissero
regolarmente restituiti. In capo a quattro anni la Banca sarebbe in
grado di fare già circa 50.000 scudi di prestiti gratuiti o su
pegno. È enorme,... enorme... e io me ne rallegro» aggiunse, mentre
pensava invece con nascosta rabbia, al sacrificio enorme che gli
veniva imposto. Egli riprese: «Ero arrivato, credo...».
«Alla nomina di François Germain come direttore della società» disse
Polidori.
Jacques Ferrand continuò:
Una rendita di 10.000 franchi sarà destinata alle spese e
all’amministrazione della Banca dei lavoratori disoccupati, il cui
direttore a vita sarà François Germain, e il custode l’attuale
portiere della casa, di nome Pipelet.
L’abate Dumont, al quale vengono consegnati i fondi necessari alla
fondazione di questa istituzione, costituirà un consiglio superiore
di controllo, composto dal sindaco e dal giudice di pace del
quartiere, che sceglieranno poi persone che riterranno più adatte a
sostenere il patronato e lo sviluppo della Banca dei poveri; il
fondatore infatti si riterrebbe mille volte ripagato del poco che ha
fatto se talune persone caritatevoli volessero contribuire alla sua
opera.
«Si annuncerà l’apertura di questa Banca, dandole tutta la
pubblicità possibile.
Il fondatore ripete, infine, che egli non ha alcun merito in ciò che
fa, in quanto lo compie per i suoi fratelli;
il suo pensiero non è che l’eco di questo pensiero divino: Amiamoci
gli uni gli altri».
«E il vostro posto sarà fissato in cielo, accanto a Colui che ha
pronunciato queste parole immortali» esclamò l’abate andando a
stringere con trasporto le mani di Jacques Ferrand nelle sue.
Il notaio era in piedi. Le forze gli venivano meno. Senza rispondere
alle felicitazioni del curato, si affrettò a rimettergli in buoni
del Tesoro la cospicua somma necessaria alla fondazione di
quest’opera e a quella della rendita del lapidario Morel.
«Io oso credere, signor curato» disse infine Jacques Ferrand, «che
voi non rifiuterete quest’altra missione, affidata alla vostra
carità. Del resto uno straniero... di nome Walter Murph,... che mi
ha dato alcuni consigli... relativi alla redazione di questo
progetto, alleggerirà un poco la vostra fatica... e oggi stesso
verrà a parlarvi degli aspetti pratici di questa impresa, mettendosi
a vostra disposizione, per ciò in cui potrà esservi utile. A parte
questa persona, vi prego dunque, signor curato, di mantenere su
tutto quanto vi ho detto il massimo segreto.»
«Avete ragione... Dio sa quel che voi fate per i vostri fratelli...
Che importa il resto? Il mio solo rammarico è di non poter
contribuire a questa nobile impresa che con tutto il mio zelo; esso
sarà comunque tanto fervido quanto la vostra carità è inesauribile.
Ma che avete? Voi impallidite... soffrite?»
«Un poco, signor curato. Questa lunga lettura, l’emozione che mi
suscitano le vostre benevole parole... il malessere che provo da
qualche giorno... Perdonate la mia debolezza» disse Jacques Ferrand
sedendosi a fatica; «non è niente di grave, senza dubbio, ma mi
sento stremato.»
«Forse fareste bene a mettervi a letto?» disse il prete mostrando un
vivo interessamento, «e far chiamare il medico...»
«Io sono medico, signor curato» disse Polidori. «Lo stato di salute
di Jacques Ferrand richiede molte cure, ci sarò io a
somministrargliele.»
Il notaio trasalì.
«Un po’ di riposo vi rimetterà in salute, lo spero proprio» disse il
curato. «Io vi lascio; ma prima vi darò la ricevuta di questa
somma.»
Mentre il prete scriveva la ricevuta, Jacques Ferrand e Polidori si
scambiarono uno sguardo impossibile a descriversi.
«Via, coraggio, abbiate fiducia!» disse il prete consegnando la
ricevuta a Jacques Ferrand. «Dio non tarderà ancora a lungo a
consentire che uno dei suoi migliori servitori lasci una vita spesa
così utilmente, così religiosamente. Domani tornerò a farvi visita.
Addio, signore... addio, amico mio... mio degno e santo amico.»
Il prete uscì.
Jacques Ferrand e Polidori rimasero soli.
PARTE NONA
I
I COMPLICI
Appena il prete se ne fu andato, Jacques Ferrand proruppe in
un’imprecazione tremenda.
La sua disperazione e la sua rabbia, così a lungo contenute,
scoppiarono furibonde; ansante, con la faccia raggrinzita e gli
occhi stralunati, camminava su e giù per lo studio a passi concitati
come una bestia feroce alla catena.
Polidori, con la massima tranquillità, osservava attentamente il
notaio.
«Fulmini e saette!» gridò infine Jacques Ferrand con voce piena di
rabbia, «tutto il mio patrimonio ingoiato in quelle stupide buone
opere!... io che odio e disprezzo gli uomini... io che vivevo solo
per infamarli e spogliarli... io fondare degli istituti
filantropici... costringermi... con mezzi infernali! Ma è dunque il
demonio il tuo padrone!» gridò esasperato fermandosi all’improvviso
davanti a Polidori.
«Non ho padroni» rispose costui freddamente. «Come te... ho un
giudice.»
«Obbedire come uno scemo a ogni minimo gesto di quell’uomo!» rispose
Jacques Ferrand con ira sempre crescente. «E quel prete... che in
cuor mio ho sempre preso in giro essendo egli, come gli altri,
vittima della mia ipocrisia... ogni lode che mi faceva in buona
fede, era una pugnalata... E frenarmi... frenarmi sempre!»
«Se no, il patibolo.»
«Oh! non poter sfuggire a quel fatale dominio!... Ecco vedi ho già
dato un milione. E ora è molto se mi rimangono 100.000 franchi più
questa casa. Cosa si può ancora volere da me?»
«Non sei ancora alla fine... Il principe ha saputo tramite Badinot
che il tuo uomo di paglia, Petit-Jean, non era altro che il tuo
prestanome per i prestiti a usura fatti al visconte di Saint-Remy,
che hai (sempre sotto il nome di Petit-Jean) tanto brutalmente
ricattato, per le sue falsificazioni del resto. Le somme che
SaintRemy ha pagato gli erano state prestate da una gran dama...
forse un’altra restituzione che ti aspetta. Ma la differiscono
certamente perché si tratta di una cosa più delicata.»
«Essere incatenato... incatenato qui!»
«Solidamente come con un cavo di ferro.»
«Tu... il mio carceriere... miserabile!»
«Che vuoi... secondo il sistema del principe, niente di più lo-
gico: egli punisce il delitto col delitto, il complice con il
complice.»
«Oh rabbia!»
«E purtroppo rabbia impotente!... perché finché EGLI non mi dirà:
“Jacques Ferrand è libero di lasciare la sua casa...” resterò alle
tue costole, sarò la tua ombra... Ascoltami dunque, come te, anch’io
merito la forca. Se vengo meno agli ordini che ho ricevuto come tuo
carceriere, la mia testa cade! Non potevi quindi avere un guardiano
più incorruttibile. In quanto a fuggire insieme... impossibile. Noi
non potremo fare un passo fuori di qui senza cadere nelle mani di
gente che veglia giorno e notte alla porta di questa casa e a quella
della casa vicina, la nostra sola uscita in caso che pensassimo di
tentare una scalata.»
«Morte!... lo so.»
«Rassegnati, allora, perché questa fuga è impossibile. Anche se
riuscisse, ci offrirebbe possibilità di salvezza molto incerte:
avremmo la polizia alle calcagna. Invece, se tu obbedirai e se io
farò in modo che tu obbedisca a puntino, siamo sicuri di non
rimetterci la pelle. Ti ripeto, rassegniamoci.»
«Non esasperarmi con questa tua calma piena d’ironia...
altrimenti...»
«Altrimenti che cosa? Non ti temo, sto in guardia, sono armato, e
quand’anche tu ritrovassi per uccidermi lo stiletto avvelenato di
Cecily...»
«Taci.»
«Non avresti nessun vantaggio. Sai che ogni due ore devo fare a chi
di dovere un resoconto della tua preziosa salute... una maniera
indiretta di avere notizie di tutti e due. Se non mi vedessero
andare, sospetterebbero un delitto e tu saresti arrestato. Ma...
senti... ti offendo supponendoti capace di un delitto. Hai
sacrificato più di un milione per aver salva la vita, e rischieresti
la testa... per lo sciocco e sterile piacere di uccidermi per
vendetta! Suvvia, non sei tanto scemo da agire così.»
«Perché sai che non posso ucciderti, acuisci i miei mali
esasperandoli con i tuoi sarcasmi.»
«La tua situazione è molto originale... tu non ti vedi... ma parola
mia... è molto curiosa.»
«Oh, sventura! sventura inestricabile! da qualunque parte io mi
giri, c’è la rovina, c’è il disonore, la morte! E dire che, adesso,
ciò che temo di più al mondo... è il nulla! Maledizione a me, a te,
a tutta la terra!»
«La tua misantropia è più grande della tua filantropia. La prima
comprende il mondo. La seconda, un circondario di Parigi.»
«Sì... prendimi in giro, mostro!»
«Preferisci che ti schiacci sotto i rimproveri?»
«Io?»
«Di chi è la colpa se siamo in questa situazione? Tua. Perché
tenere al collo, appesa come una reliquia, la lettera relativa a
quel delitto che ti ha fruttato 100.000 scudi, quel delitto che
abbiamo così abilmente fatto passare per un suicidio?»
«Perché? miserabile! Non ti avevo dato 50.000 scudi per l’aiuto
prestatomi da te in quel delitto e per quella lettera che ho voluto,
lo sai bene, per avere una garanzia contro di te... e impedirti di
ricattarmi più tardi con la minaccia di rovinarmi? Perché così non
potevi denunciarmi senza rovinare te stesso. La mia vita e il mio
patrimonio erano dunque legati a quella lettera... ecco... perché la
portavo su di me come una reliquia.»
«È vero, è stata una mossa astuta la tua perché, denunciandoti, non
ci potevo guadagnare che il piacere di salire alla forca fianco a
fianco a te. Eppure la tua astuzia ci ha rovinati, mentre la mia,
fino ad adesso, ci aveva assicurato l’impunità per quel delitto.»
«L’impunità... lo vedi.»
«Chi poteva prevedere ciò che è successo? Ma se le cose fossero
andate normalmente, il nostro delitto sarebbe stato impunito come è
stato fino ad adesso, per merito mio.»
«Merito tuo?»
«Sì, quando abbiamo ucciso quell’uomo... tu volevi semplicemente
contraffare la sua calligrafia e scrivere a sua sorella che,
rovinato completamente, egli si uccideva per disperazione. Tu
credevi di far mostra di gran furbizia non parlando in quella
ipotetica lettera del deposito che egli ti aveva affidato. Era
assurdo. La sorella del nostro uomo sapeva del deposito, quindi
l’avrebbe senz’altro reclamato. Invece bisognava, come abbiamo fatto
noi, far menzione del deposito, di modo che se qualcuno avesse avuto
dei dubbi sulla realtà del suicidio, tu fossi l’ultima persona
a essere sospettata. Come immaginare che, uccidendo un uomo per
impadronirti di una somma che ti aveva affidato, tu fossi così
sciocco da parlare di quel deposito nella falsa lettera che gli
avresti attribuito? Così, che è successo? Si è creduto al suicidio.
Grazie alla tua reputazione di onestà, hai potuto negare il deposito
e si è creduto che il fratello si fosse ucciso dopo aver dissipato
il patrimonio della sorella.»
«Ma che importa ormai tutto questo? il delitto è stato scoperto.»
«E grazie a chi? È colpa mia se la mia lettera era un’arma a doppio
taglio? Perché sei stato tanto debole, tanto sciocco da dare un’arma
così terribile... in mano a quell’infernale Cecily?»
«Taci... non pronunciare quel nome!» esclamò Jacques Ferrand con
un’espressione spaventosa.
«Va bene... non voglio renderti epilettico... vedi bene dunque che
contando solo su una giustizia normale... le nostre reciproche
precauzioni sarebbero state sufficienti... Ma la giustizia
soprannaturale di colui che ci tiene nel suo terribile potere
procede altrimenti...»
«Oh, lo so anche troppo bene.»
«Per lui tagliare la testa ai criminali non basta a riparare il male
che hanno fatto... Con le prove che ha in mano, avrebbe potuto
benissimo consegnarci ai giudici. Cosa avrebbe ottenuto? Due
cadaveri buoni tutt’al più a ingrassare l’erba del cimitero.»
«Oh sì, vuole lacrime, angosce, torture questo principe, questo
demonio. Ma io non lo conosco, non gli ho mai fatto del male. Perché
si accanisce contro di me?»
«Prima di tutto, dice di risentire del bene e del male fatto agli
altri uomini che egli chiama con tanta semplicità fratelli; e poi,
conosce quelli a cui tu hai fatto del male, e ti punisce a modo
suo.»
«Ma con che diritto?»
«Su, Jacques, perché proprio noi parlare di diritto? Poteva farti
tagliare la testa dalla giustizia. Che ne sarebbe derivato? I tuoi
due soli parenti sono morti, lo Stato avrebbe approfittato della tua
ricchezza a scapito di quelli che avevi spogliato. Invece, facendoti
pagare la tua vita con la tua ricchezza, Morel il lapidario, il
padre di Louise, che hai disonorato, si trova con la famiglia al
sicuro dalla miseria. La signora di Fermont, la sorella del signor
di Reneville supposto suicida, recupera i suoi 100.000 scudi.
Germain, che avevi ingiustamente accusato di furto è riabilitato e
occupato in un posto sicuro e onorato, a capo, come direttore, della
Banca dei Lavoratori disoccupati, che sei stato costretto a fondare
per riparare ed espiare le colpe commesse da te contro la società.
Fra scellerati ce lo possiamo dire; ma francamente dal punto di
vista di colui che ci tiene in pugno, la società non avrebbe niente
da guadagnare dalla tua morte, mentre invece guadagna molto
di più se tu sei vivo.»
«Ecco da dove viene la mia rabbia... e non è la sola tortura.» «Il
principe lo sa. Adesso che farà di noi? Non so. Ci ha pro-
messo la vita; se eseguiremo ciecamente i suoi ordini, egli manterrà
la sua promessa. Ma se riterrà che i nostri delitti non siano
completamente espiati, saprà certo fare in modo che la morte sia
mille volte preferibile alla vita che ci lascia. Tu non lo conosci.
Quando si crede autorizzato a essere inesorabile, non c’è carnefice
più tremendo. Deve avere avuto il diavolo ai suoi ordini per avere
scoperto ciò che ero andato a fare in Normandia. Del resto, ha più
di un demonio al suo servizio, perché quella Cecily, che Dio la
fulmini!...»
«Ti ripeto di tacere, quel nome, no, non pronunciare quel nome!»
«Sì, sì che Dio fulmini colei che porta questo nome! È stata lei a
rovinare tutto. La nostra testa starebbe salda sulle nostre spalle
senza il tuo stupido amore per quella donna.»
Invece di arrabbiarsi, Jacques Ferrand rispose con grande tristezza:
«La conosci questa donna? Di’, l’hai mai vista?»
«Mai. Dicono che sia bella, lo so.»
«Bella!» rispose il notaio alzando le spalle. «Senti» aggiunse
con una specie di disperata amarezza, «taci, non parlare di ciò che
non sai. Non accusarmi. Al mio posto, anche tu avresti fatto ciò che
ho fatto io.»
«Io! mettere la mia vita alla mercé di una donna!»
«Di quella, sì, e lo farei ancora, se dovessi sperare ciò che per un
momento ho sperato.»
«Per tutti i diavoli!... è ancora invaghito» esclamò Polidori con
stupore.
«Stammi a sentire» riprese il notaio con voce bassa e tranquilla, e
rotta, per così dire, da saltuarie crisi di profonda disperazione,
«sai quanto amo il denaro? Sai che cosa ho affrontato per
acquistarlo? Contare nella mia testa le somme che possedevo, vederle
raddoppiare grazie alla mia avarizia, sopportare tutte le privazioni
e sapermi padrone di un tesoro era la mia gioia, la mia felicità.
Sì, possedere, non per spendere, non per godere, ma per
mettere da parte, era la mia vita... Un mese fa, se mi avessero
detto “scegli fra la tua ricchezza e la tua testa”, avrei dato la
testa.»
«Ma a che serve avere, quando si deve morire?»
«Chiedimi invece: a che serve avere quando non si fa uso di ciò che
si ha? Io, milionario, conducevo una vita da milionario? No, vivevo
come un povero. Mi piaceva dunque avere... per avere.»
«Ma a che serve, ripeto, avere se si muore?»
«A morire possedendo! sì, a godere fino all’ultimo momento del
godimento che vi ha fatto affrontare tutto, privazioni, infamia,
patibolo; sì, a dire ancora, con la testa sul ceppo: Possiedo!!! Oh
vedi, la morte è dolce, paragonata ai tormenti che si patiscono da
vivi quando si è privati, come lo sono io, di ciò che si è ammassato
con tanta fatica, con tanti pericoli! Oh, dirsi a ogni ora, in ogni
momento del giorno: Io che avevo più di un milione, io che ho
sofferto le più dure privazioni per conservare, per aumentare quel
tesoro, io che in dieci anni l’avrei raddoppiato, triplicato, non ho
più niente, più niente! È atroce, è una morte continua. Sì, a questa
orribile agonia che durerà forse anni, avrei preferito mille volte
la morte rapida e sicura che vi colpisce prima che vi sia tolta una
parcella del vostro tesoro; ripeto che almeno sarei morto dicendo:
Possiedo!»
Polidori guardò stupito il suo complice.
«Non ti capisco più. Allora perché hai obbedito agli ordini di colui
che con una sola parola può farti cadere la testa? perché hai
preferito la vita senza la tua ricchezza se questa vita ti sembra
così orribile?»
«Perché, vedi» aggiunse il notaio sempre più piano, «morire vuol
dire non pensare più, morire è il nulla. E Cecily?»
«E tu speri?» gridò stupefatto Polidori. «Non spero, possiedo.»
«Che cosa?»
«Il ricordo.»
«Non la rivedrai mai più, è stata lei a consegnarti.»
«Ma io l’amo sempre, e più freneticamente che mai!» gridò scoppiando
in lacrime e singhiozzi che contrastarono con la cupa calma delle
sue ultime parole. «Sì» continuò poi spaventosamente esaltato,
«l’amo sempre e non voglio morire, per potermi tuffare e rituffare
ancora con atroce piacere in quella fornace dove mi consumo a fuoco
lento. Perché tu non sai, ma quella notte, quella notte in cui l’ho
vista così appassionata, così inebriante, quella notte è sempre viva
nel mio ricordo. Quella scena di terribile voluttà è sempre lì,
davanti ai miei occhi. Che siano aperti o chiusi
in febbrile torpore o in ardente insonnia, vedo sempre il suo nero
sguardo di fuoco che mi fa ribollire il midollo delle ossa. Sento
sempre il suo alito sulla mia fronte. Sento sempre la sua voce.»
«Ma questi sono tormenti orribili!»
«Orribili! sì, orribili! Ma la morte! ma il nulla! ma perdere per
sempre questo ricordo vivo come la realtà, rinunciare a questi
ricordi che mi straziano, mi divorano, mi bruciano!
No, no, no! Vivere, vivere povero, disprezzato, bollato, vivere in
galera, ma vivere purché mi resti il pensiero, perché quella donna
infernale ha tutti i miei pensieri, è il mio unico pensiero!»
«Jacques» disse Polidori con un tono grave che contrastò con la sua
solita amara ironia, «ho visto tante sofferenze; ma nessuna può
essere paragonata alla tua. Colui che ci ha in suo potere non poteva
essere più implacabile. Egli ti ha condannato a vivere, o piuttosto
ad aspettare la morte in angosce terribili, perché dalla tua
confessione ho avuto la spiegazione dei sintomi allarmanti di un
male che ogni giorno di più si sta sviluppando in te, e di cui
cercavo invano la causa.»
«Ma questi sintomi non hanno niente di grave! è la stanchezza, è la
reazione ai dispiaceri!... Non sono in pericolo vero?...»
«No, no, ma la tua situazione è grave, non bisogna peggiorarla; ci
sono certi pensieri che dovresti scacciare. Altrimenti correresti
seri pericoli.»
«Farò come vuoi tu, basta che io viva, perché non voglio morire. Oh!
i preti parlano di dannati! per questi non hanno mai immaginato un
supplizio uguale al mio. Torturato dalla passione e dalla cupidigia,
ho due piaghe aperte invece di una, e le sento egualmente tutte e
due. La perdita della ricchezza è una cosa terribile per me, ma la
morte mi sarebbe ancora più terribile. Ho voluto vivere, la mia vita
forse non sarà altro che una tortura senza fine, senza scampo, e non
oso invocare la morte, perché la morte distruggerebbe la mia funesta
felicità, questo miraggio del pensiero, dove mi appare
incessantemente Cecily.»
«Almeno» disse Polidori riprendendo la sua solita calma, «hai la
consolazione di pensare al bene che hai fatto per espiare i tuoi
delitti...»
«Sì, prendimi in giro, hai ragione, rivoltami sui carboni ardenti.
Sai pure, miserabile, che detesto l’umanità sai che le espiazioni
che mi vengono imposte, e nelle quali gli animi deboli troverebbero
un conforto, a me ispirano solo odio e furore contro coloro che ci
obbligano e contro coloro che ne approfittano. Fulmini e saette.
Pensare che mentre io condurrò una vita spaventosa, solo
per godere di sofferenze che spaventerebbero anche i più
intrepidi... questi uomini che detesto vedranno, grazie ai beni di
cui sono stato spogliato, diminuire la loro miseria... quella vedova
e sua figlia ringrazieranno Dio del denaro che rendo loro... Morel e
sua figlia vivranno nell’agiatezza... quel Germain avrà un avvenire
onorato e sicuro! E quel prete, quel prete che mi benediva, mentre
il cuore mi nuotava nel fiele e nel sangue, l’avrei pugnalato! Oh, è
troppo! No, no!» egli gridò appoggiando la fronte sulle mani
rattratte «la testa mi scoppia, mi si confondono le idee. Non
resisterò a simili accessi di rabbia impotente, a queste torture che
non mi lasceranno mai. E tutto questo per te! Cecily, Cecily! Lo sai
almeno che soffro così, lo sai Cecily demonio uscito dall’inferno?»
E Jacques Ferrand, sfinito da questa spaventosa esaltazione, ricadde
sulla sedia, torcendosi le braccia ed emettendo rauche e sconnesse
parole simili a ruggiti.
Questo accesso di rabbia convulsa e disperata non meravigliò
Polidori.
Medico di grande esperienza, capiva che Jacques Ferrand, per l’ira
di vedersi privato dei suoi beni, e per la sua passione o piuttosto
per la frenesia verso Cecily, era bruciato da una febbre che lo
consumava inesorabilmente.
E non era tutto... nella crisi che aveva preso Jacques Ferrand,
Polidori aveva notato con inquietudine i sintomi di una delle più
spaventose malattie che abbiano mai afflitto l’umanità, e di cui
Paulus e Aretée, grandi osservatori e grandi moralisti, hanno
tracciato quadri stupendi e folgoranti.
A un tratto bussarono con violenza alla porta dello studio.
«Jacques» disse Polidori al notaio, «Jacques ricomponiti un po’...
c’è gente.»
Il notaio non l’udì. Mezzo disteso sulla scrivania, si torceva fra
atroci spasimi.
Polidori andò ad aprire la porta, e vide il primo scrivano che,
pallido e sconvolto, esclamò:
«Devo parlare immediatamente al signor Ferrand!».
«Zitto... in questo momento sta molto male... non può ricevervi»
disse piano Polidori; e uscì dallo studio del notaio, chiudendo la
porta dietro di sé.
«Ah, signore» continuò lo scrivano, «voi che siete il migliore amico
del signor Ferrand, aiutatemi; non c’è un momento da perdere.»
«Che volete dire?»
«Come il signor Ferrand mi aveva ordinato, sono andato dalla signora
contessa Mac-Grégor, per dirle che egli oggi non poteva recarsi da
lei, come desiderava...»
«Ebbene?»
«Questa signora, che adesso pare fuori pericolo, mi ha fatto entrare
nella sua camera e ha gridato in tono minaccioso: “Tornate a dire al
signor Ferrand che, se non è qui da me fra mezz’ora, prima che venga
notte, sarà arrestato come falsario... perché la bambina che fece
passare per morta è viva invece... so a chi l’ha consegnata, so
dov’è”.»1
«La donna delirava» rispose freddamente Polidori alzando le spalle.
«Credete, signore?»
«Ne sono sicuro.»
«L’avevo pensato anch’io in un primo momento, ma la sicurez-
za della signora contessa...»
«Avrà avuto la testa indebolita dalla malattia... i visionari cre-
dono sempre alle loro visioni.»
«Dovete avere ragione, signore; infatti non riuscivo a spie-
garmi come la contessa potesse minacciare un uomo rispettabile come
il signor Ferrand.»
«È assurdo.»
«Devo dirvi inoltre, signore, che, nel momento in cui lasciavo la
camera della signora contessa, è entrata improvvisamente una donna
di servizio dicendo: “Sua Altezza sarà qui fra un’ora”.»
«Ha detto proprio così?» esclamò Polidori.
«Sì, signore, e ciò mi ha stupito non sapendo di che Altezza possa
trattarsi...»
“Non ci possono essere dubbi, è il principe” disse tra sé Polidori.
“Lui dalla contessa Sarah che non doveva più rivedere... Non so, ma
non mi piace questo riavvicinamento... potrebbe peggiorare la nostra
situazione.” Poi, rivolgendosi al primo scrivano, aggiunse: «Vi
ripeto, signore, che la cosa non ha nessuna gravità, sono assurde
fantasie da ammalata; comunque, ora riferirò al signor Ferrand ciò
che mi avete detto».
Adesso condurremo il lettore dalla contessa Sarah Mac-Grégor.
1 Il lettore sa che Sarah credeva Fleur-de-Marie ancora rinchiusa a
Saint-Lazare, come le aveva detto la Chouette prima di ferirla.
II RODOLPHE E SARAH
Condurremo il lettore dalla contessa Mac-Grégor, che una crisi
salutare aveva strappato al delirio e agli spasimi che per parecchi
giorni avevano fatto temere seriamente per la sua vita.
Il giorno cominciava a declinare... Sarah, seduta in una gran
poltrona e sostenuta dal fratello Tom Seyton, si scrutava in uno
specchio che una cameriera, inginocchiata, le teneva davanti.
La scena si svolgeva nello stesso salotto in cui la Chouette aveva
tentato l’assassinio.
La contessa era di un pallore marmoreo, che faceva risaltare ancora
di più il nero cupo degli occhi, delle ciglia e dei capelli; era
completamente avvolta in un ampio accappatoio di mussolina.
«Datemi il diadema di coralli» disse a una delle sue cameriere, con
voce debole ma imperiosa e secca.
«Ve lo metterà Betty» disse Tom Seyton, «voi vi stanchereste... È
già una grande imprudenza...»
«Il diadema! il diadema!» ripeté Sarah spazientita; prese il monile
e se lo aggiustò sulla fronte come voleva. «Adesso fissatelo... e
lasciatemi» disse alle cameriere.
Mentre queste si ritiravano, essa aggiunse:
«Farete passare il signor Ferrand nel salotto azzurro... poi» essa
riprese con malcelato orgoglio, «appena arriverà Sua Altezza Reale
di Gerolstein, lo introdurrete qui.»
«Finalmente!» continuò Sarah sprofondandosi nella poltrona, appena
fu sola col fratello, «finalmente avrò la corona... il sogno di
tutta la vita... La predizione sta per avverarsi!»
«Sarah, calmate la vostra esaltazione» le disse severamente il
fratello. «Fino a ieri siamo stati in ansia per la vostra vita;
un’altra delusione sarebbe per voi un colpo mortale.»
«Avete ragione, Tom, la sconfitta sarebbe terribile perché le mie
speranze non sono mai state tanto vicine ad avverarsi. Ne sono
certa, ciò che mi ha impedito di soccombere alle mie sofferenze è
stato il pensiero costante di valermi dell’importantissima
rivelazione fattami da quella donna mentre stava per assassinarmi.»
«Anche nel vostro delirio ritornavate sempre a quell’idea.»
«Perché la mia malsicura esistenza era sorretta solo da quest’idea.
Che speranza!... principessa regnante... quasi regina!...» essa
aggiunse con ebbrezza.
«Sarah, vi ripeto di non fare folli sogni; il risveglio sarebbe
terribile.»
«Folli sogni?... Come! quando Rodolphe saprà che quella ragazza che
ora è prigioniera a Saint-Lazare, e che in passato era stata
affidata al notaio che l’ha fatta passare per morta, è nostra
figlia, credete che...»
Seyton interruppe la sorella:
«Credo» egli continuò con amarezza, «che i principi antepongano le
ragioni di Stato, le convenienze politiche ai doveri naturali».
«Vi fidate così poco della mia abilità?»
«Il principe non è più l’adolescente candido e appassionato che voi
avete sedotto una volta; quel tempo è molto lontano per lui... e per
voi, sorella.»
Sarah alzò leggermente le spalle e disse:
«Sapete perché ho voluto ornarmi i capelli con questo diadema di
coralli, perché ho indossato questa veste bianca? Perché la prima
volta che Rodolphe mi ha vista alla corte di Gerolstein ero vestita
di bianco, e sui capelli avevo questo stesso diadema».
«Come!» disse Thomas Seyton guardando sbalordito la sorella, «volete
rievocargli tali ricordi? non temete invece che abbiano un’influenza
negativa?»
«Conosco Rodolphe meglio di voi. Certo il mio viso, segnato dall’età
e dalla sofferenza, non è più quello della fanciulla sedicenne che
egli ha perdutamente amato, la sola che egli ha amato, perché ero il
suo primo amore... E questo amore, unico nella vita di un uomo,
lascia nel cuore tracce indelebili. Credete a me, fratello, la vista
di questo gioiello ridesterà in lui non solo il ricordo del suo
amore, ma anche quelli della sua giovinezza... E per gli uomini
questi ricordi sono sempre dolci e preziosi.»
«Ma questi dolci ricordi ne chiameranno altri di terribili; e la
tragica conclusione del vostro amore? e l’odiosa condotta del padre
del principe verso di voi? e il vostro ostinato silenzio quando
Rodolphe, dopo il vostro matrimonio col conte Mac-Grégor, vi
chiedeva vostra figlia, allora bambina, vostra figlia di cui gli
avete annunciato la morte dieci anni fa, con una fredda lettera?
Dimenticate dunque che da allora il principe ha avuto per voi solo
odio e disprezzo?»
«La pietà si è sostituita all’odio. Dacché ha saputo che sono
morente, ha mandato ogni giorno il barone di Graün a chiedere mie
notizie.»
«Per umanità.»
«Poco fa mi ha fatto rispondere che sarebbe venuto qui. Questa
concessione è immensa, fratello.»
«Vi crede morente, crede che si tratti di un ultimo addio e viene.
Avete avuto torto a non scrivergli della rivelazione che gli
farete.»
«So perché agisco così. Questa rivelazione lo riempirà di sorpresa,
di gioia, e io sarò qui per approfittare del suo primo slancio di
tenerezza. Oggi o mai più egli mi dirà: Un matrimonio deve
legittimare la nascita di nostra figlia. Se lo dice lui, la sua
parola è sacra e la speranza di tutta la mia vita viene a
realizzarsi.»
«Se vi fa questa promessa, sì.»
«E perché la faccia, non bisogna trascurare niente di questa
circostanza decisiva. Conosco Rodolphe, egli, mi odia, sebbene io
non sappia il motivo del suo odio, perché davanti a lui non sono mai
venuta meno alla parte che mi ero imposta.»
«Forse sì, dato che non è uomo da odiare senza ragione.»
«Non importa; una volta certo di avere ritrovato la figlia, egli
supererà la sua avversione per me e farà qualunque sacrificio pur di
assicurare il migliore avvenire a sua figlia, pur di renderla felice
quanto è stata infelice prima di allora.»
«Che egli assicuri l’avvenire più brillante alla figlia, va bene; ma
fra questa riparazione e la decisione di sposarsi per legittimare la
nascita della bambina, c è un abisso.»
«L’amore paterno colmerà questo abisso.»
«Ma la povera ragazza sarà vissuta fino ad adesso in condizioni
precarie e miserevoli.»
«Rodolphe vorrà tanto più innalzarla quanto più sarà stata
umiliata.»
«Ma pensateci, elevarla al rango delle famiglie sovrane d’Europa!
riconoscerla per sua figlia agli occhi di quei principi di cui è
parente o alleato!»
«Non conoscete il suo carattere strano, impetuoso e risoluto, la sua
esagerata cavalleria per tutto ciò che egli considera giusto e
imposto dal dovere?»
«Ma la disgraziata ragazza forse sarà tanto corrotta della causa
della miseria in cui sarà vissuta, che il principe invece di essere
attratto da lei...»
«Che dite?» gridò Sarah interrompendo il fratello. «Non è bella da
ragazza come era incantevole da piccola? Rodolphe, senza sapere chi
fosse, non si è interessato di lei, tanto da preoccuparsi del suo
avvenire? non l’ha mandata alla fattoria di Bouqueval da dove
l’abbiamo rapita...»
«Sì, con la vostra ostinazione di voler rompere tutti i legami
d’affetto del principe, nella folle speranza di riprendervelo un
giorno.»
«Però, senza questa folle speranza, non avrei scoperto, al prezzo
della mia vita, il segreto dell’esistenza di mia figlia.
Non ho scoperto, grazie a quella donna, che l’ha rapita dalla
fattoria, l’infame truffa di Jacques Ferrand?»
«È stata una seccatura che questa mattina non mi abbiano lasciato
entrare a Saint-Lazare, dove vi hanno detto che si trova la
sventurata ragazza; sebbene io abbia insistito molto, non hanno
voluto darmi nessuna delle informazioni che chiedevo perché non
avevo la lettera di presentazione per il direttore della prigione.
Ho scritto a vostro nome al prefetto, ma prima di domani non avrò la
risposta, e il principe sarà qui tra poco. Vi ripeto che è un
peccato che non possiate voi stessa presentargli... vostra figlia;
sarebbe stato meglio aspettare che uscisse di prigione, prima di far
venire qui il granduca.»
«Aspettare! e che so io se la crisi di bontà in cui mi trovo durerà
fino a domani? Forse è la forza della mia ambizione che mi sorregge
al momento.»
«Ma che prove darete al principe? Vi crederà?»
«Dovrà credermi quando avrà letto l’inizio della rivelazione che
stavo scrivendo sotto la dettatura della donna che mi ha colpito,
rivelazione di cui fortunatamente ricordo ogni particolare; dovrà
credermi quando avrà letto la vostra corrispondenza con la signora
Séraphin e Jacques Ferrand fino alla presunta morte della bambina,
dovrà credermi quando avrà sentito la confessione del notaio che,
spaventato dalle mie minacce, sarà qui a momenti; dovrà credermi
quando vedrà il ritratto di mia figlia all’età di quattro anni,
ritratto che, mi ha detto quella donna, assomiglia ancora adesso in
modo impressionante a mia figlia. Tutte queste prove basteranno a
dimostrare al principe che dico il vero, e per spingerlo a quel
primo atto che può fare di me quasi una regina... Ah, fosse solo per
un giorno, un’ora; almeno morirei contenta!»
In quel momento si udì il rumore di una carrozza che entrava nel
cortile.
«È lui... è Rodolphe!...» gridò Sarah a Thomas Seyton.
Costui si avvicinò in fretta a una tenda, la sollevò e rispose: «Sì,
è il principe; sta scendendo di carrozza».
«Lasciatemi sola, ecco il momento decisivo» disse Sarah con
calma imperturbabile, tanto era mostruosa l’ambizione e spietato
l’egoismo che erano stati e continuavano a essere l’unico movente
di quella donna. Nella miracolosa resurrezione della figlia, essa
non vedeva altro che il mezzo per giungere finalmente allo scopo di
tutta la sua vita.
Thomas Seyton, dopo aver un momento esitato a lasciare
l’appartamento, si avvicinò improvvisamente alla sorella e le disse:
«Dirò io al principe in che modo vostra figlia, che era stata
creduta morta, è stata salvata. Un colloquio come questo potrebbe
essere pericoloso per voi... basterebbe un’emozione violenta a farvi
morire, dopo una così lunga separazione... vedere il principe... il
ricordo di quei tempi...».
«La vostra mano, fratello» disse Sarah.
E si mise sul cuore insensibile la mano del fratello dopo di che
disse con un sinistro e gelido sorriso:
«Sono emozionata?».
«No... niente... nemmeno un battito affrettato» disse Seyton
stupito, «so che sapete dominarvi. Ma in un momento simile, in cui
si tratta per voi o della corona o della morte... perché, vi ripeto,
pensateci; perdere anche una tale speranza, potrebbe esservi fatale;
a dire il vero, la vostra calma mi sbalordisce!»
«Perché questo stupore, fratello? Non ve ne siete ancora reso conto?
niente... no, niente ha mai fatto battere questo mio cuore di
pietra: esso palpiterà solo il giorno in cui sentirò posarsi sul mio
capo la corona regale. Sento Rodolphe... lasciatemi...»
«Ma...»
«Lasciatemi» gridò Sarah con tono così imperioso e risoluto, che suo
fratello se ne andò dalla stanza, qualche momento prima che vi fosse
introdotto il principe.
Quando Rodolphe entrò nel salotto, il suo sguardo esprimeva pietà.
Ma vedendo Sarah seduta sulla poltrona e vestita quasi di gala,
indietreggiò stupito e diventò subito cupo e diffidente.
Intuito ciò che era successo in lui, la contessa gli disse con voce
dolce e debole:
«Credevate di trovarmi moribonda, venivate a ricevere l’estremo
saluto?».
«Ho sempre considerato sacri i desideri dei moribondi, ma qui c’è un
inganno sacrilego...»
«Calmatevi» disse Sarah interrompendo Rodolphe, «calmatevi, non vi
ho ingannato, mi restano, penso, solo poche ore di vita. Perdonate
questa mia ultima civetteria. Ho voluto risparmiarvi il triste
armamentario che suole accompagnare un’agonia; ho voluto morire
vestita come ero la prima volta che vi ho visto. Ahimè, dopo dieci
anni di separazione, eccovi qui finalmente! Grazie,
oh, grazie! Ma ringraziate anche voi Dio di avervi ispirato il
pensiero di venire ad ascoltare la mia ultima preghiera. Se vi foste
rifiutato... avrei portato con me nella tomba un segreto che farà la
gioia... la felicità della vostra vita. Felicità con qualche
tristezza in mezzo... felicità con qualche lacrima in mezzo... come
tutte le felicità della terra, ma una tale felicità sareste capace
di comperarla anche a prezzo della metà dei giorni che vi restano da
vivere!»
«Che volete dire?» chiese Rodolphe stupefatto.
«Sì, Rodolphe, se non foste venuto... questo segreto mi avrebbe
seguito nella tomba, sarebbe stata la mia sola vendetta... ma... no,
no non avrei avuto un così terribile coraggio. Sebbene mi abbiate
fatto tanto soffrire, avrei voluto egualmente dividere con voi
questa suprema felicità; d’altronde, voi sarete più fortunato di me,
perché ne godrete a lungo, molto a lungo, spero.»
«Ma di che si tratta, signora?»
«Quando ve lo dirò non riuscirete a capire perché sia stata così
lenta a dirvelo; questa rivelazione la considererete un miracolo.
Ma, cosa strana, io che con una parola potrei procurarvi la più
grande gioia che abbiate forse mai avuto... provo, sebbene ora abbia
i minuti contati, provo un’indefinibile soddisfazione a prolungare
la vostra attesa... e poi conosco il vostro cuore, e nonostante
abbiate un carattere forte ho paura di annunciarvi, senza la dovuta
preparazione, una scoperta così incredibile... Anche le gioie
folgoranti presentano i loro pericoli.»
«Il vostro pallore aumenta, avete una violenta agitazione che non
riuscite a contenere, tutto questo, lo vedo, è grave, solenne.»
«Grave e solenne» continuò Sarah con voce alterata; infatti,
nonostante il suo naturale sangue freddo, il pensiero dell’immenso
valore della rivelazione che stava per fare a Rodolphe l’aveva
turbata più di quanto si fosse aspettata di essere; e non potendosi
più frenare, esclamò:
«Rodolphe... nostra figlia vive...».
«Nostra figlia!»
«Vive! vi dico...»
Queste parole furono pronunciate con un tale accento di ve-
rità che il principe si sentì rimescolare fino in fondo alle
viscere. «Nostra figlia?» egli ripeté avvicinandosi precipitosamente
alla poltrona di Sarah, «nostra figlia! mia figlia!»
«Non è morta, le prove che ho sono incontestabili... So dov’è...
domani la vedrete.»
«Figlia mia! figlia mia» ripeté Rodolphe come trasognato,
«possibile; essa vive!»
Ma dubitando dell’inverosimiglianza del fatto, e temendo di essere
di nuovo vittima di un tradimento di Sarah, gridò a un tratto:
«No... no... è un sogno! è impossibile! voi mi ingannate; è
un’astuzia, un’infame menzogna!».
«Rodolphe, ascoltatemi!»
«No, conosco la vostra ambizione, so di che cosa siete capace, ho
intuito lo scopo della menzogna!»
«Ebbene avete ragione, io sono capace di tutto. Sì, avevo tentato di
ingannarvi, sì, alcuni giorni prima di essere ferita a morte; volevo
trovare una ragazza,... che avrei fatto passare per nostra figlia,
quella che voi andate piangendo tanto amaramente.»
«Basta... oh, basta, signora.»
«Dopo la mia confessione, forse mi crederete, o meglio sarete
costretto ad arrendervi all’evidenza.»
«All’evidenza?...»
«Sì, Rodolphe, ripeto che ho cercato di ingannarvi, di sostituire
con una ragazza di basso ceto quella che noi abbiamo pianto; ma Dio
ha voluto che proprio quando stavo tessendo questa trama
sacrilega... fossi ferita a morte.»
«Voi... proprio in quel momento.»
«Dio ha voluto inoltre che mi fosse proposta... per fare questa
parte... nell’inganno... sapete chi? nostra figlia...»
«Ma in nome del cielo... state delirando?»
«No, non deliro, Rodolphe. In quella cassetta ci sono documenti e un
ritratto che vi proveranno che sto dicendo la verità; troverete tra
l’altro un foglio macchiato del mio sangue.»
«Del vostro sangue?»
«La donna che mi ha detto che vostra figlia vive ancora mi stava
dettando questa rivelazione, quando fui colpita da una pugnalata.»
«E chi è? come poteva sapere?...»
«A lei era stata affidata nostra figlia... ancora bambina... dopo
che era stata fatta passare per morta.»
«Ma questa donna?... il suo nome? Le si può prestare fede? dove
l’avete conosciuta?»
«Vi dico, Rodolphe, che tutto ciò è fatale, provvidenziale. Voi
stesso, alcuni mesi fa, avete tolto dalla miseria una fanciulla per
mandarla in campagna, non è vero?»
«Sì, a Bouqueval.»
«Per odio e gelosia ho perso la testa. Ho fatto rapire la ragazza
appunto dalla donna... di cui vi sto parlando...»
«E la sventurata è stata portata a Saint-Lazare.»
«Dove si trova tuttora.»
«No, non c’è più. Ah, non sapete, signora, il male orribile che
mi avete fatto... strappando quella poveretta dal posto in cui
l’avevo portata... ma...»
«La ragazza non è più a Saint-Lazare» esclamò Sarah sgomenta, «e
parlate anche di disgrazie orribili!»
«Un mostro di cupidigia aveva interesse a farla scomparire. L’hanno
annegata, signora. Ma rispondete... voi dite che...»
«Mia figlia!» gridò Sarah, interrompendo Rodolphe e alzandosi in
piedi rigida come una statua.
«Ma che dite? Dio mio!» esclamò Rodolphe.
«Mia figlia!» ripeté Sarah disperata e livida in volto «hanno ucciso
mia figlia!»
«La Goualeuse, vostra figlia!!!» ripeté Rodolphe retrocedendo
atterrito.
«Sì, Goualeuse... è il nome che mi ha detto quella donna chiamata
Chouette. Morta... morta!» rispose Sarah sempre immobile e con lo
sguardo fisso: «l’hanno uccisa.»
«Sarah!» rispose Rodolphe non meno pallido e stravolto della
contessa, «tornate in voi... rispondetemi. La Goualeuse... quella
ragazza che avevate fatto rapire dalla Chouette a Bouqueval...
era...»
«Nostra figlia!»
«Lei.»
«E l’hanno uccisa!»
«Oh, no... no... voi state delirando... non è possibile... Ah, non
sapete, no, non sapete quanto sarebbe terribile. Sarah! tornate in
voi... parlatemi con calma. Sedete... state tranquilla. Spesso ci
sono apparenze, somiglianze che ingannano, si è così inclini a
credere a ciò che si desidera. Non ve ne faccio un rimprovero... ma
spiegatemi bene... ditemi bene tutte le ragioni che vi hanno indotto
a credere una tale cosa... perché non è possibile... no, no! non
dev’essere così! non è così!»
Dopo un momento di silenzio la contessa, raccolte le idee, disse a
Rodolphe con voce fioca:
«Quando seppi del vostro matrimonio, decisi di maritarmi anch’io, ma
non potei tenere con me nostra figlia; allora aveva quattro anni...»
«Ma appunto in quel periodo ve la chiesi... con mille preghiere»
esclamò, Rodolphe con voce straziante, «e le mie lettere sono
rimaste senza risposta. La sola che mi avete scritto mi annunciava
la sua morte!»
«Volevo vendicarmi del vostro disprezzo non dandovi la figlia. Era
un’azione indegna. Ma ascoltatemi... la vita mi sfugge, quest’ultimo
colpo mi ha davvero schiantata...»
«No, no, non vi credo, non posso credervi. La Goualeuse... mia
figlia! O Dio mio, fate che non sia vero!»
«Ascoltatemi, vi dico. Quando la bambina ebbe quattro anni, mio
fratello incaricò la signora Séraphin, vedova di un suo vecchio
domestico, di tenerla fino a che non fosse in età di essere messa in
collegio. La somma destinata ad assicurare il suo avvenire fu
deposta da mio fratello presso un notaio, conosciuto per la sua
onestà. Le lettere che a quell’epoca scrissero a me e a Tom il
notaio e la signora Séraphin sono lì in quel cassetto. Dopo un anno
mi fecero sapere che mia figlia era ammalata... otto mesi dopo mi
comunicarono la sua morte, e mi mandarono il suo atto di morte.
Appunto a quell’epoca la signora Séraphin entrò al servizio di
Jacques Ferrand, dopo avere consegnato nostra figlia alla Chouette,
tramite uno sciagurato, attualmente all’ergastolo di Rochefort.
Stavo appunto scrivendo questa dichiarazione che mi era stata fatta
dalla Chouette, quando essa mi ha colpito. Il foglio è qui...
assieme a un ritratto della nostra bambina all’età di quattro anni.
Esaminate tutto, lettera, dichiarazione, ritratto, e giudicate un
po’, voi che avete conosciuto... questa infelice ragazza.»
Dopo tale discorso Sarah, esaurite le forze, cadde svenuta sulla
poltrona.
Rodolphe era come fulminato da quella rivelazione. Esistono certe
sventure così impensabili, così spaventose a cui si cerca di non
credere finché non vi ci costringe una lampante evidenza. Rodolphe,
persuaso della morte di Fleur-de-Marie, non aveva che una speranza,
quella di convincersi che essa non era sua figlia.
Con una calma che atterrì Sarah, egli si avvicinò al tavolo, aprì il
cassetto e si mise a leggere le lettere a una a una e a esaminare
con scrupolosa attenzione i documenti che c’erano dentro.
Erano lettere timbrate e datate che, scritte a Sarah e al fratello
dal notaio e dalla signora Séraphin, riguardavano l’infanzia di
Fleur-de-Marie e l’impiego dei fondi destinati a lei.
Rodolphe non avrebbe potuto dubitare dell’autenticità di quella
corrispondenza.
La dichiarazione della Chouette era confermata dalle informazioni di
cui abbiamo parlato all’inizio di questa storia, informazioni prese
per ordine di Rodolphe, e che designavano un tale Pierre Tournemine,
allora forzato a Rochefort, come l’uomo che aveva ricevuto
Fleur-de-Marie dalle mani della signora Séraphin
per consegnarla alla Chouette... a quella stessa Chouette che la
sventurata ragazza aveva riconosciuto poi, quando si trovò con
Rodolphe nella bettola dell’ostessa.
Rodolphe non poteva più dubitare dell’identità di questi personaggi
e di quella della Goualeuse.
L’atto di morte sembrava in regola; ma Ferrand aveva lui stesso
confessato a Cecily che l’atto era falso e che se n’era servito per
impadronirsi di una notevole somma, che una volta era il vitalizio
di una ragazza fatta annegare dai Martial all’isola del Predone.
Con spavento e con angoscia sempre più crescente, Rodolphe acquistò,
suo malgrado, la terribile certezza che la Goualeuse era sua figlia
e che essa era morta.
Per sua disgrazia... tutto sembrava confermare quella certezza.
Prima di condannare Jacques Ferrand con le prove che lo stesso
notaio aveva fornito a Cecily, il principe s’era subito preoccupato
per la Goualeuse facendo prendere informazioni ad Ansières; dalle
informazioni aveva sapuro che realmente due donne, una vecchia e una
giovane vestita da contadina, erano affogate all’isola del Predone e
che correva voce che l’autore di questo delitto fosse Martial.
Diciamo invece che, nonostante le cure del dottor Griffon, del conte
di Saint-Remy e della Louve, Fleur-de-Marie, dopo essere rimasta a
lungo tra la vita e la morte, aveva cominciato allora la
convalescenza e che era ancora fisicamente e psichicamente tanto
debole che fino ad allora non era riuscita ad avvertire né la
signora Georges né Rodolphe della sua situazione.
Concorso di circostanze, questo, che non poteva lasciare al principe
nessuna speranza.
Lo aspettava un’ultima prova.
Diede infine, un’occhiata al ritratto che quasi quasi aveva avuto
paura di guardare.
Fu un colpo tremendo.
In quel viso infantile e grazioso, e già bello di quella bellezza
divina che si attribuisce solo ai cherubini, ritrovò, in modo
sorprendente, i lineamenti di Fleur-de-Marie... il naso sottile e
diritto, la nobile fronte, la sua boccuccia già un po’ seria.
Poiché, diceva la signora Séraphin in una delle lettere che Rodolphe
aveva appena letto: «La bambina domanda sempre di sua madre, ed è
molto triste».
Erano gli stessi suoi grandi occhi di un azzurro così puro e
soave... di un azzurro fiordaliso aveva detto la Chouette a Sarah,
riconoscendo in quella miniatura i lineamenti della poveretta che
essa aveva perseguitato da piccina sotto il nome di Pégriotte, da
giovinetta sotto il nome di Goualeuse.
Alla vista di quel ritratto, i sentimenti violenti e tumultuosi di
Rodolphe furono soffocati dalle lacrime.
Egli si lasciò cadere angosciato su una poltrona e, singhiozzando,
si coprì il volto con le mani.
III
LA VENDETTA
Mentre Rodolphe piangeva amaramente, il volto di Sarah si
stravolgeva in modo pauroso.
Proprio sul punto di realizzare il sogno ambizioso della sua vita,
l’ultima speranza, quella che l’aveva fino ad allora sostenuta, le
sfuggiva per sempre.
Quella tremenda delusione doveva avere sulla sua salute,
momentaneamente migliorata, una funesta conseguenza.
Inarcata sulla poltrona, agitata da un tremito febbrile, con le mani
incrociate e rigide sulle ginocchia, lo sguardo fisso, la contessa
attese con terrore la prima parola di Rodolphe.
Conoscendo il carattere impulsivo del principe, essa aveva il
presentimento che al dolore straziante che strappava tante lacrime a
quell’uomo risoluto e inflessibile sarebbe successa una collera
terribile.
A un tratto Rodolphe sollevò la testa, si asciugò gli occhi, si alzò
in piedi e si avvicinò a Sarah, con le braccia incrociate sul petto,
lo sguardo minaccioso, implacabile... la contemplò qualche momento
in silenzio, poi disse con voce cupa:
«Così doveva essere... ho tratto la spada contro mio padre... sono
stato punito in mia figlia... Giusta punizione del parricida...
Ascoltatemi, signora».
«Parricida!... voi! Dio mio! O giorno funesto, che cosa mi state
ancora per dire?»
«In questo supremo istante, dovete conoscere tutti i mali causati
dalla vostra sfrenata ambizione, dal vostro feroce egoismo... Avete
capito, donna senza cuore e senza fede? Avete capito, madre
snaturata?»
«Pietà!... Rodolphe...»
«Nessuna pietà per voi... che in passato, senza alcuna pietà per un
amore sincero, per favorire il vostro esecrabile orgoglio, avete
approfittato di una generosa e fedele passione che fingevate di
contraccambiare... Nessuna pietà per voi che avete armato il figlio
contro il padre!... Nessuna grazia per voi che, invece di vigilare
con amore sulla vostra creatura, l’avete abbandonata a mani
mercenarie, per poter appagare la vostra cupidigia con un ricco
matrimonio... come prima avevate saziato la vostra sfrenata
ambizione, convincendomi a sposarvi... Nessuna pietà per voi che,
dopo aver negato alla mia creatura il mio affetto, avete ora
provocato la sua morte con i vostri maledetti intrighi!...
Maledizione a voi... voi genio funesto a me e alla mia razza!...»
«O Dio mio!... com’è spietato! Lasciatemi!... lasciatemi!»
«E invece dovete sentirmi vi dico!... Vi ricordate dell’ultimo
giorno... in cui vi ho visto... diciassette anni fa... non potevate
più nascondere le conseguenze della nostra unione segreta che, come
voi, anch’io credevo indissolubile... Conoscevo il carattere
inflessibile di mio padre... sapevo quale matrimonio politico
prospettava per me... Sfidando il suo sdegno, gli dichiarai che
eravate mia moglie davanti a Dio e davanti agli uomini... che fra
poco avreste dato alla luce un bambino, frutto del nostro amore...
La sua collera fu terribile... non voleva credere al mio
matrimonio... gli sembrava impossibile una tale audacia... Mi
minacciò della sua collera, se mi permettevo di parlargli ancora di
una simile follia... Allora vi amavo pazzamente... vittima delle
vostre seduzioni, credevo che il vostro cuore di bronzo avesse
palpitato per me... Risposi a mio padre che non avrei mai avuto
altra moglie che voi... A queste parole la sua collera non ebbe più
limiti; vi ricoprì degli epiteti più oltraggiosi, gridò che il
nostro matrimonio era nullo; che per punirvi dell’audacia che
avevate avuto, vi avrebbe fatto attaccare alla gogna della nostra
città... Cedendo alla mia folle passione, alla violenza del mio
carattere... osai proibire a mio padre, al mio sovrano... di parlare
così di mia moglie... osai minacciarlo. Esasperato da questo
insulto, mio padre alzò le mani su di me; dalla rabbia non ci vidi
più... sfoderai la spada... mi scagliai contro di lui... se Murph
non fosse sopraggiunto a sviare il colpo... sarei stato parricida di
fatto... come lo sono stato d’intenzione!... Capite... parricida!...
E per difendere voi... voi!...»
«Ahimè, ignoravo questo terribile fatto.»
«Invano ho sperato di poter espiare in tutto questo tempo il mio
delitto... la sciagura che oggi mi colpisce è la mia punizione.» «Ma
non ho sofferto anch’io della durezza di vostro padre quando ruppe
il nostro matrimonio? Perché accusarmi di non
avervi amato, quando...»
«Perché?...» gridò Rodolphe, interrompendo Sarah e gettando su di
lei uno sguardo di terribile disprezzo. «Adesso ve lo dico; non
stupitevi più quindi se mi fate orrore. Dopo il funesto episodio in
cui avevo minacciato mio padre, consegnai la mia spada. Fui cacciato
in segreta. Polidori, per opera del quale era stato effettuato il
nostro matrimonio, fu arrestato, egli dimostrò che il nostro
matrimonio era nullo, che il pastore che l’aveva benedetto era un
falso prete e che voi, vostro fratello e io eravamo stati ingannati.
Per placare la collera di mio padre nei suoi riguardi, Polidori fece
di più: gli consegnò una lettera scritta da voi a vostro fratello,
in occasione di un suo viaggio, che egli aveva intercettato.»
«Cielo!... è possibile?»
«Vi spiegate adesso il mio disprezzo?»
«Oh, basta... basta.»
«In quella lettera svelavate i vostri ambiziosi progetti con di-
sgustoso cinismo. Mi trattavate con gelido disprezzo, mi
sacrificavate al vostro orgoglio infernale; non ero che lo strumento
del destino regale che vi era stato predetto... e dicevate infine
che per il vostro gusto mio padre viveva troppo a lungo.»
«Disgraziata me! Adesso capisco tutto.»
«E per difendervi, io avevo minacciato la vita di mio padre. Quando,
all’indomani, senza farmi alcun rimprovero, egli mi mostrò la
lettera... questa lettera di cui ogni riga diceva quanto fosse nera
la vostra anima, non seppi fare altro che cadere in ginocchio e
chiedere pietà. Da quel giorno sono stato perseguitato da un rimorso
inesorabile. Partii subito dalla Germania per fare lunghi viaggi;
allora cominciò l’espiazione che mi sono imposto... e che finirà con
la mia vita... Ricompensare il bene, combattere il male; aiutare
quelli che soffrono, conoscere tutte le piaghe dell’umanità, cercare
di strappare qualche anima alla perdizione, questo è il compito che
mi sono proposto.»
«Compito nobile, sacro; compito degno di voi.»
«Se vi parlo di questo compito» riprese Rodolphe con disprezzo e
amarezza, «di questo compito che ho assolto, per quanto mi è stato
possibile, ovunque mi sia trovato, non lo faccio per sentirmi lodare
da voi. Statemi a sentire. Ultimamente giungo in Francia, la mia
permanenza in questo paese non doveva essere vana ai fini
dell’espiazione. Ho cercato di soccorrere le sventure della gente
onesta, ma ho anche cercato di conoscere quelle classi che sono
schiacciate, abbrutite e costrette alla depravazione dalla miseria,
sapendo che un aiuto dato al momento propizio o qualche buona parola
spesso bastano a salvare lo sventurato dall’abisso. Per po-
ter giudicare io stesso, mi vestii e parlai come la gente che
desideravo osservare. Fu proprio durante una di queste esplorazioni
che... per la prima volta... io... io incontrai...» Poi, come se
avesse titubato davanti a quella terribile rivelazione, Rodolphe
soggiunse dopo un momento di esitazione: «No... no, non ho il
coraggio».
«Dio mio, che avete ancora da dirmi?»
«Lo saprete anche troppo presto... ma» egli riprese con sferzante
ironia, «voi vi interessate tanto del passato che devo parlarvi
degli avvenimenti che hanno preceduto il mio ritorno in Francia.
Dopo lunghi viaggi ritornai in Germania, mi affrettai a obbedire
alla volontà di mio padre; sposai una principessa di Prussia.
Durante la mia assenza voi eravate stata cacciata dal granducato.
Venendo a sapere più tardi che vi eravate sposata col conte
Mac-Grégor, vi richiesi insistentemente mia figlia: voi non mi
rispondeste; nonostante tutte le mie informazioni, non riuscii mai a
sapere dove avevate mandato quella bambina sventurata, al cui
avvenire mio padre aveva provveduto con grande generosità. Solo
dieci anni fa una vostra lettera mi ha informato della morte di
nostra figlia. Ahimè! Avesse voluto il Cielo che fosse morta
allora... avrei ignorato l’inguaribile dolore che desolerà ormai la
mia vita»
«Adesso» disse Sarah con voce fioca, «sapendo che avevate letto
quella lettera, non posso più stupirmi dell’avversione che avete
avuto per me... Lo sento, non sopravviverò a questo nuovo colpo.
Ebbene, sì, l’orgoglio e l’ambizione mi hanno rovinata! Sotto le
apparenze della passione, io nascondevo un cuore di ghiaccio,
ostentavo sincerità e affetto; e non era altro che falsità ed
egoismo. Ignorando con quanta ragione voi mi disprezzavate e
odiavate, le mie folli speranze erano tornate più ardenti che mai.
Dato che una doppia vedovanza ci aveva resi liberi ambedue, io avevo
riacquistato fede nella predizione che mi prometteva una corona, e
quando il caso ha fatto sì che ritrovassi mia figlia, mi è sembrato
di scorgere in questa inattesa fortuna la volontà del cielo. Sì,
avevo perfino immaginato che la vostra avversione per me avrebbe
ceduto all’amore per vostra figlia... e che mi avreste concesso la
vostra mano per darle il posto che le spettava...»
«Ebbene! la vostra detestabile ambizione sia dunque soddisfatta e
punita! Sì, nonostante mi facciate tanto orrore, sì, per affetto,
che dico? per rispetto verso le terribili sventure di mia figlia
avrei... sebbene deciso a vivere separato da voi, l’avrei, con un
matrimonio che ne legittimasse la nascita, l’avrei restituita a una
posizione così alta e brillante, quanto era stata misera!»
«Non mi ero sbagliata!... Povera me!... Povera me! è troppo
tardi!...»
«Oh, lo so, voi non piangete la morte di vostra figlia, ma la
perdita di quel grado a cui miravate con implacabile pertinacia!
Ebbene che questi indegni rimpianti siano l’ultimo vostro castigo!»
«L’ultimo... poiché non sopravviverò...»
«Ma prima di morire dovete sapere... quale esistenza ha fatto vostra
figlia dopo che l’avete abbandonata.»
«Povera creatura! Molto miserabile forse...»
«Vi ricordate» rispose Rodolphe con calma spaventosa, «vi ricordate
di quella notte in cui voi e vostro fratello mi avete seguito in un
covo della Cité?»
«Me ne ricordo, ma perché questa domanda?... il vostro sguardo mi fa
gelare il sangue.»
«Prima di arrivare in quel covo avete visto vero agli angoli di
quelle strade immonde certe... donne sciagurate... che... ma no,
no... non oso... le mie parole mi fanno paura.»
«Anche a me fanno paura.... Dio mio, che altro c’è ancora?»
«Le avete viste, vero?» riprese Rodolphe facendo su di se un
grandissimo sforzo. «Le avete viste quelle donne, onta del loro
sesso?... Ebbene... fra loro... avete notato una giovinetta di
sedici anni, bella... oh, bella... come si dipingono gli angeli?...
una povera fanciulla, che nonostante la degradazione a cui da poche
settimane era stata costretta, conservava un volto così candido,
così virgineo e puro, che i ladri e gli assassini che le davano del
tu... signora... le avevano dato il soprannome di Fleur-de-Marie...
L’avete notata, quella ragazza... dite, su, dite, tenerissima
madre!»
«No... non l’ho notata» disse Sarah quasi inconsciamente presa da un
vago terrore.
«Davvero?» gridò Rodolphe con sarcasmo. «Strano... io sì, l’ho
notata... State a sentire in che occasione. Durante una di quelle
esplorazioni di cui vi parlavo poco fa e che avevano allora un
doppio scopo,2 mi trovai nella Cité: non lontano dal covo dove mi
avevate seguito, un uomo stava per picchiare una di quelle donne
disgraziate; io la difesi contro la brutalità di quell’uomo... Non
indovinate chi fosse quella donna?... Ditelo, madre santa e
previdente... non lo indovinate?
«No... non capisco... Oh, lasciatemi... lasciatemi.» «Quella
disgraziata era Fleur-de-Marie...»
«Oh, Dio mio!»
2 Quello di seguire le tracce di Germain, figlio della signora
Georges.
«E non avete capito... che cosa facesse Fleur-de-Marie... madre
irreprensibile?»
«Uccidetemi... oh, uccidetemi...»
«Era la Goualeuse... vostra figlia...» urlò Rodolphe esplodendo in
modo straziante. «Sì, quella sventurata che io ho strappato dalle
mani di un ex forzato era mia figlia, mia... mia... di Rodolphe di
Gerolstein! Oh, se ho incontrato mia figlia e l’ho salvata senza
sapere chi fosse, vuol dire che c’è stato qualcosa di fatale... di
provvidenziale... una ricompensa per l’uomo che cerca di soccorrere
i suoi fratelli... una punizione per il parricida...»
«Muoio maledetta e dannata» balbettò Sarah gettandosi sulla poltrona
e nascondendosi la faccia tra le mani.
«Allora» continuò Rodolphe, frenando a stento lo sdegno e tentando
invano di reprimere i singhiozzi che ogni tanto gli troncavano le
parole, «quando l’ebbi salvata da colui che minacciava di
picchiarla, colpito dall’ineffabile dolcezza della voce... dai suoi
lineamenti da angelo... non ho potuto fare a meno d’interessarmi di
lei... Con che profonda commozione ho ascoltato l’ingenuo e patetico
racconto di quella sua vita da derelitta, di quella sua vita di
sofferenze e di miserie, vedete, signora, la vita di vostra figlia è
stata qualcosa di tremendo.
Oh, bisogna che sappiate le torture subite da vostra figlia, sì,
signora, mentre in mezzo all’opulenza voi sognavate una corona...
vostra figlia, ancora piccola, coperta di stracci, andava la sera a
mendicare per le strade, soffrendo il freddo e la fame... le notti
d’inverno essa tremava dal freddo sotto un mucchio di paglia
nell’angolo di una soffitta, e poi quando l’orribile donna che la
torturava era stanca di picchiare la povera piccina, non sapendo che
cosa ideare per farla soffrire di più, sapete che le faceva,
signora?... le strappava i denti!...»
«Oh, voglio morire! È un’agonia atroce!...»
«Sentite, sentite... Infine fugge delle mani della Chouette, va per
le strade senza un tozzo di pane, senza un asilo, e a soli otto anni
l’arrestano come vagabonda, e la mettono in prigione... E lì vostra
figlia ha passato il tempo migliore della sua vita... signora... Sì,
nella sua cella, ogni sera ringraziava Dio di non soffrire più il
freddo, la fame e di non essere bastonata. E in una prigione essa ha
trascorso gli anni più preziosi della sua esistenza di ragazza,
quegli anni in cui una madre affettuosa si dimostra sempre tenera,
gelosa e premurosa con sua figlia; sì, invece di arrivare al
sedicesimo anno usufruendo delle attenzioni di un tutore e dei suoi
nobili insegnamenti, vostra figlia non ha conosciuto che la brutale
indifferenza
dei carcerieri, e poi un giorno la società, nella sua feroce
noncuranza, l’ha gettata, innocente e pura, bella e candida, in
mezzo al fango della grande città... Disgraziata fanciulla...
abbandonata... senza appoggio, senza consigli, esposta a tutti i
rischi della miseria e del vizio!... Oh!» esclamò Rodolphe, dando
libero corso ai singhiozzi che lo soffocavano, «il vostro cuore è
indurito, il vostro egoismo è spietato, ma voi avreste pianto... sì,
pianto all’udire lo straziante racconto di vostra figlia! Povera
creatura! macchiata, ma non corrotta, ancora casta in mezzo
all’orribile degradazione in cui viveva come in un sogno spaventoso,
perché da ogni sua parola traspariva l’orrore per una vita a cui era
fatalmente incatenata; oh, se sapeste quali nobili istinti si
rivelavano in lei in ogni momento!
Quanta bontà... quanta commovente carità! sì... perché per
soccorrere una sventura più grande della sua, la povera ragazza
aveva speso il poco danaro rimastole, l’unica cosa che la tenesse
ancora lontana dall’abisso di infamia in cui è stata trascinata...
Sì, perché è venuto il giorno... un giorno orribile... in cui, senza
lavoro, senza pane, senza asilo... certe donne malvagie l’hanno
incontrata sfinita dalla debolezza... e dall’inedia... l’hanno
ubriacata e...»
Rodolphe non poté terminare; ruppe in un grido straziante
esclamando:
«Ed era mia figlia! mia figlia!...».
«Maledizione a me!» balbettò Sarah, nascondendosi il viso tra le
mani quasi avesse temuto di vedere la luce.
«Sì» gridò Rodolphe, «maledizione a voi! perché averla abbandonata è
stato la causa di tanti orrori! Maledizione a voi! perché quando,
dopo averla tratta dal fango, l’ho portata in un posto tranquillo,
l’avete fatta rapire dai vostri sciagurati complici. Maledizione a
voi! perché con quel rapimento è passata di nuovo in potere di
Jacques Ferrand.»
A quel nome, Rodolphe tacque bruscamente...
Sussultò come se fosse stata la prima volta che lo pronunciasse.
Infatti era la prima volta che lo pronunciava dopo che aveva
saputo che sua figlia era stata vittima di quel mostro... I
lineamenti del principe presero allora una spaventosa espressione di
odio e di rabbia.
Muto, immobile, era come annientato da questo pensiero: l’assassino
di sua figlia viveva ancora...
Sarah, intanto, si sentiva sempre più debole; nonostante il
colloquio con Rodolphe l’avesse sconvolta, fu colpita dal suo
aspetto sinistro; ebbe paura per se stessa...
«Ahimè! che avete?» mormorò con voce tremante. «Non bastano tante
sofferenze. Dio mio?»
«No... non bastano! non bastano...» disse Rodolphe come se avesse
parlato a se stesso e risposto a un suo pensiero, «non avevo mai
sentito qualcosa così in me... mai! Che brama di vendetta... che
sete di sangue... che collera fredda e controllata!... Prima di
sapere che anche mia figlia era una delle vittime del mostro... mi
dicevo: La morte di quest’uomo sarebbe sterile... la sua vita invece
può essere feconda, se, per riscattarla, egli accetta le condizioni
che gli impongo... Condannarlo alla carità per scontare i suoi
delitti, mi sembrava giusto... E poi una vita senza denaro, una vita
senza poter mai saziare la sua frenetica sensualità, sarebbe stata
per lui una lunga e duplice tortura... Ma è stato lui a esporre mia
figlia a tutti gli orrori della miseria da bambina... da giovinetta,
a tutti gli orrori dell’infamia!...» gridò Rodolphe animandosi
sempre di più; «ma è stato lui a fare uccidere mia figlia!... E io
questo uomo devo ucciderlo!...»
E il principe si slanciò verso la porta.
«Dove andate? Non abbandonatemi!...» gridò Sarah, alzandosi un poco
e tendendo le mani in atto supplichevole. «Non lasciatemi sola!...
io muoio...»
«Sola!... no!... no!... no!... Vi lascio con lo spettro di vostra
figlia, di cui avete causato la morte!...»
Sarah si buttò in ginocchio sgomenta con un grido di spavento, come
se le fosse apparso uno spaventoso fantasma.
«Pietà! io muoio!»
«Morite dunque, maledetta!...» rispose Rodolphe reso spaventoso dal
furore. «Adesso voglio la vita del vostro complice... perché siete
stata voi a consegnare vostra figlia al suo carnefice!...»
E Rodolphe si fece rapidamente condurre da Jacques Ferrand.
IV FURENS AMORIS
Era venuta la notte intanto che Rodolphe si recava dal notaio...
Il piccolo palazzo occupato da Jacques Ferrand è immerso nella più
profonda oscurità...
Il vento ulula... Scroscia la pioggia...
Il vento ululava, la pioggia scrosciava anche nella notte sinistra
in cui Cecily, prima di lasciare per sempre la casa del notaio,
aveva eccitato fino alla frenesia la brutale passione di quell’uomo.
Disteso sul letto della sua camera debolmente rischiarata da una
lampada, Jacques Ferrand ha addosso un paio di pantaloni scuri, un
panciotto anch’essa scuro e una camicia con una manica rimboccata e
macchiata di sangue; la fascia di panno rosso che gli si scorge sul
braccio nerboruto sta a dimostrare che Polidori gli ha appena fatto
un salasso.
Questi, ritto accanto al letto, è appoggiato con una mano al
capezzale da dove scruta inquieto il volto del suo complice.
Niente di più orrendo e spaventoso della faccia di Jacques Ferrand,
immerso ora nel torpore sonnolento che succede di solito alle crisi
violente.
Di un pallore violaceo che risalta nell’ombra dell’alcova, il suo
viso, grondante di freddo sudore, ha raggiunto l’ultimo stadio del
marasma; le sue palpebre chiuse sono talmente gonfie e venate di
sangue, che sembrano due lobi rossastri in mezzo a una faccia di
livore cadaverico.
«Se ha ancora un attacco forte come quello di poco fa... è
spacciato...» disse piano Polidori. «Arétée3 l’ha detto, la maggior
parte di coloro che sono colpiti da questa strana e tremenda
malattia periscono sempre nel settimo giorno... e oggi sono sei
giorni che l’infernale creola ha attizzato il fuoco inestinguibile
che divora quest’uomo...»
Dopo alcuni momenti di silenzio e di meditazione, Polidori si
allontanò dal letto e si mise a passeggiare lentamente per la
camera.
«Poco fa» riprese fermandosi, «durante la crisi che per poco non s’è
portata via Jacques e in cui lo sentivo descrivere a una a una con
voce affannosa le mostruose allucinazioni che passavano per il suo
cervello, mi pareva di essere sotto l’incubo di una terribile...
malattia!... Volta per volta essa sottopone ogni organo a fenomeni
che sconcertano la scienza... spaventano la natura... Per esempio
poco fa l’udito di Jacques Ferrand era di una sensibilità così
incredibilmente dolorosa, che sebbene io parlassi pia-
3 Nam plerumque in septim die hominem consumit (Arétée). Vedere
anche la traduzione di Baldassar (Cas. med.; lib. III, Salacitas
nitro curata). Vedere anche le belle pagine di Ambroise Paré sulla
satyriasis, questa strana e spaventosa malattia che assomiglia
tanto, egli dice, a un castigo di Dio.
nissimo, le mie parole urtavano a tal punto il suo timpano che gli
sembrava, egli diceva, che la sua testa fosse una campana, e che un
enorme batacchio di bronzo si muovesse al minimo suono, gli
martellasse la testa da una tempia all’altra con un fracasso
assordante e dolori lancinanti.»
Polidori restò di nuovo pensieroso davanti al letto di Jacques
Ferrand presso al quale si era avvicinato...
Fuori rumoreggiava il temporale; sfociò infine in lunghi sibili, in
violente raffiche di vento e di pioggia che fecero tremare tutte le
finestre di quella casa sconquassata...
Nonostante la sua audacia da scellerato, Polidori era superstizioso;
era agitato da oscuri presentimenti, provava un malessere
indefinibile; il rombo della bufera gli metteva addosso un vago
terrore contro il quale tentava invano di reagire.
Per distrarsi dai cupi pensieri, si rimise a esaminare il volto del
suo complice:
«Adesso» disse chinandosi su di lui, «gli occhi gli si stanno
iniettando di sangue... Sembra che vi affluisca e vi si concentri un
sangue grumoso.
L’organo della vista, come poco fa quello dell’udito, presenterà
adesso qualche fenomeno straordinario. Che sofferenze!... quanto
durano!... E come cambiano sempre!... Oh» egli aggiunse, «quando la
natura vuole essere crudele... e fare la parte del carnefice, supera
le più feroci combinazioni degli uomini. Così, in questa malattia,
causata dalla frenesia erotica, essa sottopone ogni senso a torture
inaudite, disumane... sviluppa la sensibilità di ogni organo fino
all’inverosimile, perché l’atrocità dei dolori raggiunge il grado
supremo».
Dopo aver osservato per qualche istante i lineamenti del suo
complice, egli ebbe un moto di disgusto, fece un passo indietro e
disse:
«Ah, che maschera orribile... quando è percorso e scosso da questi
fremiti intensi diventa spaventoso».
Fuori l’uragano andava crescendo in violenza.
«Che tempesta!» riprese Polidori cadendo a sedere su una poltrona e
posandosi la fronte sulle mani. «Che nottata... che nottata! non
poteva essere più funesta per lo stato di Jacques.»
Dopo un lungo silenzio, disse: «Non so se il principe, conscio
dell’infernale potere delle arti di Cecily e della carica sensuale
di Jacques, avesse previsto che in un uomo di tempra così energica,
di costituzione così forte, il fuoco di una passione ardente,
insoddisfatta, complicata da una specie di mania rabbiosa per il
denaro
avrebbe sviluppato la terribile nevrosi di cui è vittima Jacques...
ma era una conseguenza logica, obbligata...
Oh, sì» continuò alzandosi di scatto come fosse stato spaventato da
una tale idea, «sì, il principe doveva averlo previsto... la sua
grande e non comune intelligenza è versata in tutte le scienze... La
sua visione profonda coglie la causa e l’effetto di ogni cosa...
Spietato nel fare giustizia, deve avere ponderato e calcolato con
sicurezza come castigo per Jacques la successione che avrebbero
avuto gli sviluppi logici in una passione brutale ed esasperata
oltre ogni dire come questa...».
Polidori tacque un po’, poi riprese:
«Quando penso al passato, ai progetti ambiziosi che, d’accordo con
Sarah, avevo concepito, sperando nella giovinezza del principe!...
Quante cose sono successe! attraverso quale serie di colpe sono
caduto nell’abiezione in cui vivo? io che avevo creduto di fare del
principe un rammollito, un facile strumento quindi del potere che
avevo sognato!... Da precettore credevo di diventare ministro... e
nonostante il mio sapere, la mia intelligenza, ho toccato, di
misfatto in misfatto, il fondo dell’infamia... eccomi adesso
carceriere del mio complice.».
E le sinistre riflessioni in cui sprofondò, lo facevano andare col
pensiero a Rodolphe.
«Temo e odio il principe, ma sono costretto a inchinarmi e a tremare
davanti a quella sua immaginazione, davanti a quella sua volontà
potentissima a cui basta un solo balzo per prendere strade non
battute. Che enorme contrasto in quest’uomo... tanto buono e
caritatevole da ideare la banca degli operai disoccupati, e tanto
feroce... da sottrarre alla morte Jacques per darlo in balìa a tutte
le furie vendicatrici della lussuria!...
Tutto ciò, del resto, è molto ortodosso» aggiunse Polidori con cupa
ironia. «Fra le figure dipinte da Michelangelo nei sette vizi
capitali del suo Giudizio Universale della Cappella Sistina, ho
visto la terribile punizione con cui colpisce la lussuria;4 ma le
orrende maschere contorte di quei peccatori carnali che si torcevano
sotto i morsi acuti dei serpenti sono meno spaventose della fac-
4 «Trascinato dal soggetto e da un’immaginazione sconvolta da otto
anni di meditazioni continue su un giorno così terribile per un
credente, Michelangelo, innalzato alla dignità di predicatore e
preoccupato solo della sua salvezza, ha voluto punire nel modo più
impressionante il vizio allora più in voga. L’orrore di questo
supplizio mi sembra arrivare al vero sublime del genere». (Stendhal,
Hist. de la Peinture en Italie).
cia che aveva Jacques durante la sua crisi di poco fa... mi ha fatto
paura.»
E Polidori rabbrividì come se avesse avuto davanti agli occhi la
terribile visione.
«Sì, sì!» seguitò con angoscia, «il principe è spietato... Sarebbe
stato cento volte meglio per Ferrand avere offerto la testa alla
mannaia, sarebbe stato meglio il fuoco, la ruota, avere gli arti
bruciati e bucati dal piombo fuso piuttosto che il supplizio a cui è
sottoposto questo sciagurato. A forza di vederlo soffrire ho finito
con lo spaventarmi della sorte che toccherà a me... Che cosa si farà
di me... che cosa toccherà a me, complice di Jacques?... Essere il
suo carceriere non può bastare alla vendetta del principe... non mi
ha certo risparmiato la forca... per lasciarmi vivere. Forse mi
aspetta la galera a vita in Germania... Sarebbe preferibile alla
morte... Non mi restava che offrirmi ciecamente alla discrezione del
principe... era la mia sola possibilità di salvezza... A volte,
nonostante la sua promessa, un terrore mi assale... forse mi daranno
al boia... se Jacques muore! preparare la forca per me, mentre egli
è vivo, vorrebbe dire prepararla anche per lui, mio complice... ma,
morto lui?... Tuttavia... so che la parola del principe è sacra...
ma io che ho tante volte violato le leggi divine e umane...
appellarmi alla promessa fattami?... Non importa!... come è stato
mio interesse che Jacques non sfuggisse, così ora sarebbe mio
interesse tenerlo in vita il più possibile...
Ma il suo male va peggiorando sempre più... ci vorrebbe un miracolo
per salvarlo... Che fare... che fare?...»
In quel momento la tempesta si scatenò col massimo furore,
rovesciato dalla violenza del vento, un comignolo, già incrinato,
precipitò dal tetto nel cortile, col fragore assordante del tuono.
Strappato d’improvviso alla sua torpida sonnolenza, Jacques Ferrand
si mosse nel letto.
Polidori si sentì ancora più sotto l’incubo del vago terrore che
aveva in sé.
«È una sciocchezza dare retta ai presentimenti» disse con voce
alterata, «ma credo che questa notte sarà funesta.»
Un sordo gemito del notaio richiamò l’attenzione di Polidori.
«Esce dal torpore» e si avvicinò lentamente al letto, «forse sarà
una nuova crisi.»
«Polidori!» balbettò Jacques Ferrand restando sempre immobile sul
letto con gli occhi chiusi, «Polidori, che cos’è questo rumore?»
«È caduto un comignolo...» rispose Polidori sottovoce, per paura di
offendere l’udito del suo complice; «un temporale terribile
sta squassando la casa fin dalle fondamenta... è una brutta notte...
spaventosa!»
Non avendolo sentito, il notaio volse un poco il capo per dire:
«Polidori, non sei qui?».
«Sì... sì... sono qui» rispose Polidori a voce più alta, «ma ti ho
risposto piano perché ho avuto paura, parlando forte, di causarti
nuovi dolori, come poco fa.»
«No... adesso la tua voce arriva alle mie orecchie senza darmi gli
atroci dolori di poco fa... infatti prima al minimo rumore mi
sembrava che nel cranio mi fosse scoppiata una saetta... eppure tra
quello strepito, tra quelle indicibili sofferenze, ho sentito la
voce appassionata di Cecily che mi chiamava...»
«Sempre quella maledetta donna... sempre! Scaccia questi pensieri...
se non vuoi morire!»
«Questi pensieri sono la mia vita! e come la mia vita, anch’essi
resistono alle mie torture.»
«Ma, pazzo che non sei altro, questi pensieri sono l’unica causa
della tua tortura, ti dico! La tua malattia non è altro che una
esasperazione della frenesia sessuale... Scaccia, ripeto, dal tuo
cervello queste micidiali immagini lascive o ne morrai...»
«Scacciare queste immagini!» gridò Jacques Ferrand con esaltazione,
«oh! mai, mai! Tutta la mia paura è che il richiamarle possa
esaurire le forze della mia mente... ma per l’inferno! no, no, non
si esauriscono... Più quest’ardente miraggio mi appare e più
assomiglia alla realtà... Appena il dolore mi dà un momento di
respiro, appena riesco a connettere due idee, Cecily, demone che
adoro e maledico, sorge davanti ai miei occhi.»
«Che indomabile furore! Mi fai paura!»
«Ecco, adesso» disse il notaio con voce stridula e gli occhi fissi
su un punto scurissimo dell’alcova, «vedo già una forma bianca e
indecisa disegnarsi... là... là!»
E stendeva il dito peloso e scarno verso la visione. «Stai zitto,
disgraziato!»
«Oh, eccola!...»
«Jacques, è la morte!»
«Ah la vedo» aggiunse Ferrand stringendo i denti, senza rispondere a
Polidori; «eccola! com’è bella! com’è bella!... Oh, quei capelli
neri che le ondeggiano sulle spalle!... E quei denti piccoli e uniti
che si scorgono quando lei dischiude le labbra... Le labbra rosse e
tumide! che perle!... E quei suoi grandi occhi che ora sfavillano e
ora languono!... Cecily!» aggiunse con indicibile esaltazione,
«Cecily! ti adoro...»
«Jacques! ascolta, ascolta!»
«Oh! essere eternamente dannato... e vederla così per tutta
l’eternità!...»
«Jacques!» gridò Polidori allarmato, «non eccitarti la vista con
questi fantasmi!»
«Non è un fantasma!»
«Stai attento! poco fa, lo sai... ti immaginavi di sentire il canto
voluttuoso di quella donna, e a un tratto le tue orecchie furono
colpite da forti dolori... Stai attento!»
«Lasciami!» gridò il notaio infuriato e spazientito, «lasciami!... A
che serve l’udito se non per sentire lei?... a che serve la vista,
se non per vedere lei?»
«Ma le torture che vengono dopo? povero pazzo!»
«Posso affrontare tutte le torture per un miraggio! Ho affrontato la
morte per una realtà... Del resto che m’importa? per me la realtà è
questa ardente immagine! Oh, Cecily! come sei bella!... E tu lo sai,
mostro, di ubriacarmi... Che bisogno hai di accendermi con questa
tua civetteria infernale! Oh, furia maledetta! Vuoi dunque che io
muoia?... Smettila... smettila... o ti strozzo!...» gridò il notaio
in delirio.
«Ma tu ti ammazzi, sciagurato!» gridò Polidori scuotendo
violentemente il notaio per strapparlo all’estasi.
«Vani sforzi!...» continuò Jacques ancora più esaltato:
«O regina adorata! demonio di voluttà! non ho mai visto...». Il
notaio non poté finire.
Gettando un grido angoscioso, si rovesciò all’indietro.
«Che hai?» gli chiese Polidori sbigottito.
«Spegni quel lume; è troppo forte... non posso sopportarlo:
mi fa male.»
«Come!» disse Polidori sempre più sorpreso, «c’è solo una
lampada con paralume che fa così poca luce...»
«Ti dico che è aumentata la luce qui... ecco, ancora ancora!
Oh, è troppo... non posso sopportarlo!» aggiunse Jacques Ferrand
chiudendo gli occhi con espressione di grandissima sofferenza.
«Tu sei pazzo! Ti dico che questa camera è a malapena illuminata;
anzi ho coperto la lampada; apri gli occhi e vedrai!»
«Aprire gli occhi... ma sarei accecato dai torrenti di luce
fiammeggiante che vanno sempre più inondando la stanza... Qui, là,
dappertutto... sono lingue di fuoco, migliaia di scintille
accecanti!» gridò il notaio rizzandosi a sedere. Poi, gettando un
altro terribile grido di dolore, si portò le mani agli occhi. «Ah,
mi acce-
ca! è una luce che mi abbacina, mi attraversa le palpebre anche se
son chiuse... mi brucia, mi divora... Ah, adesso le mie mani mi
proteggono un poco!... Ma questa lampada getta una luce d’inferno,
spegnila!»
«Non c’è dubbio» disse Polidori, «anche la sua vista, come prima
l’udito, ha acquistato un’acuta sensibilità, poi ci sarà
l’allucinazione... È finito! Salassarlo di nuovo nello stato in cui
è vuol dire ucciderlo... È finito!»
Un nuovo grido acuto, terribile, di Jacques Ferrand risuonò nella
camera.
«Boia! Spegni quella lampada!... la sua luce infuocata mi penetra
fra le dita e me le rende trasparenti... Mi vedo il sangue circolare
all’interno delle vene... Per quanto io cerchi di chiudere il più
forte possibile le palpebre, quella lava ardente vi si introduce
dentro... Oh, che tortura!... Sono delle fitte terribili, come se mi
conficcassero nelle orbite un ferro appuntito e rovente... Dio mio!
aiuto, aiuto!» egli gridò contorcendosi sul letto, in preda a
orribili convulsioni di dolore.
Spaventato dalla violenza di quella crisi, Polidori spense il lume.
E tutti e due si trovarono al buio.
In quel momento si udì il rumore di una carrozza che si fer-
mava al portone...
V
LE VISIONI
Dopo che nella stanza in cui si trovavano Jacques Ferrand e Polidori
fu il buio, gli spasimi del notaio andarono lentamente scemando.
«Perché hai aspettato tanto prima di spegnere il lume?» disse
Jacques Ferrand. «Forse per farmi patire le pene dell’inferno? Oh,
quanto ho sofferto... Dio mio, quanto ho sofferto! Oh, quanto ho
sofferto.»
«Soffri meno adesso?»
«Ho una specie di forte irritazione... ma non è niente in confronto
a ciò che provavo poco fa.»
«Che cosa ti avevo detto? appena il ricordo di quella donna ecciterà
uno dei tuoi sensi, questo, quasi nello stesso momento, sarà preda
di uno di quei terribili fenomeni che sconcertano la scienza, e che
i credenti potrebbero prendere per un terribile castigo di Dio...»
«Non parlarmi di Dio!» gridò il notaio, digrignando i denti.
«Te lo dicevo così... a titolo informativo... Ma dato che ci tieni
alla vita, per quanto poca cosa essa sia... sappi, ti ripeto, che se
continuerai a cercarti queste crisi furiose, finirai col morire
durante una di esse...»
«Io ci tengo alla vita perché il ricordo di Cecily è tutta la mia
vita...»
«Ma è un ricordo che ti sfibra, ti consuma, ti uccide!»
«Non posso e non voglio sottrarmici... sono in Cecily come il sangue
è nel corpo... Quell’uomo mi ha preso tutti i soldi che avevo, ma
non ha potuto togliermi l’ardente e indistruttibile immagine della
mia ammaliatrice; è un’immagine solo mia; in qualsiasi momento essa
è qui come una schiava... per dirmi ciò che voglio, per guardarmi
come voglio... per adorarmi come voglio!» gridò il notaio in un
nuovo e frenetico impulso di passione.
«Jacques, non esaltarti! ricordati delle torture di poco fa!»
Siccome il notaio non gli obbedì, Polidori previde un’altra
allucinazione.
Difatti Jacques Ferrand, con un viso convulso e sardonico,
soggiunse:
«Togliermi Cecily? Ma allora non sanno che uno può giungere
all’impossibile concentrando tutte le proprie facoltà su un oggetto!
E fra poco... io... salirò alla camera di Cecily, dove non ho osato
andare dopo la sua partenza... Oh, vedere... toccare i vestiti che
le appartenevano... lo specchio davanti al quale si vestiva... sarà
come vedere lei stessa! Sì, fissando con tutte le mie forze lo
specchio... presto vi vedrò apparire Cecily; non sarà un’illusione,
un miraggio, sarà proprio lei, la troverò lì come lo scultore trova
la statua nel blocco di marmo... Ma, per tutto il fuoco
dell’inferno, di cui ardo, non sarà una pallida e fredda Galatea».
«Dove vai?» chiese a un tratto Polidori che, nella profonda oscurità
che regnava nella stanza, aveva sentito Ferrand alzarsi dal letto.
«Vado da Cecily...»
«Non ci andrai! Ti basterebbe vedere quella stanza per morire.»
«Cecily mi aspetta lassù.»
«Non ci andrai, non ti lascerò, ti terrò fermo» disse Polidori
afferrando il notaio per un braccio.
Un Jacques Ferrand, giunto all’ultimo stadio dello sfinimento, non
poteva certo lottare contro un Polidori che lo teneva fortissimo.
«Vuoi impedirmi di andare da Cecily?»
«Sì; d’altronde c’è una lampada accesa nella stanza vicina: sai che
effetto ha prodotto poco fa la luce sui tuoi occhi.»
«Cecily è di sopra... mi aspetta... traverserei una fornace ardente
pur di raggiungerla... Lasciami... mi ha detto che ero una vecchia
tigre, stai attento che le mie unghie graffiano.»
«Non uscirai di qui! Piuttosto ti legherò sul letto come un pazzo
furioso.»
«Senti, Polidori, non sono pazzo, sono in possesso di tutte le mie
facoltà mentali, so che Cecily in realtà non è lassù... ma, per me,
i fantasmi della mia immaginazione, equivalgono a realtà...»
«Silenzio!» gridò improvvisamente Polidori, tendendo l’orecchio,
«poco fa mi era sembrato che alla porta si fosse fermata una
carrozza; non mi sono sbagliato; adesso sento delle voci nel
cortile.»
«Vuoi distogliermi dalla mia idea; è un trucco volgare.»
«Ti dico che sento delle voci, e credo di riconoscere...»
«Tu vuoi ingannarmi» disse Jacques Ferrand interrompendo
Polidori, «ma io non la bevo...»
«Ma, sciagurato, su ascolta, ascolta, ecco senti?...» «Lasciami!...
Cecily è lassù che mi chiama; non farmi arrab-
biare. Anch’io ti dico: stai attento!... Hai capito? stai
attento...» «Non uscirai...»
«Stai attento...»
«Non uscirai di qui; il mio interesse esige che tu non esca...»
«M’impedisci di andare da Cecily? il mio interesse esige che
tu muoia... Tieni, a te» disse il notaio con voce cupa.
Polidori gettò un grido.
«Scellerato! mi hai dato un colpo sul braccio, ma è stato un
colpo fiacco; la ferita è lieve, non mi sfuggirai...»
«È una ferita mortale... ti ho colpito con lo stiletto avvelena-
to di Cecily; lo tenevo sempre con me; vedrai l’effetto del veleno.
Ah, ecco che mi lasci, sei prossimo a morire... Non dovevi impedirmi
di andare là sopra a trovare Cecily...» aggiunse Jacques Ferrand
cercando a tastoni di aprire la porta.
«Oh!...» balbettò Polidori «mi si intorpidisce il braccio... sento
il freddo della morte... mi tremano le ginocchia... mi si coagula il
sangue nelle vene... sono preso da vertigini... Aiuto!...» gridò il
complice di Jacques Ferrand raccogliendo le sue forze in un urlo
estremo; «aiuto... muoio!...»
E si accasciò su se stesso.
Lo sbattere di una porta spalancata con tale violenza da far volare
in pezzi i vetri che aveva, la voce di Rodolphe e un rumo-
re di passi frettolosi sembrarono far eco al grido angoscioso di
Polidori.
Jacques Ferrand, trovata finalmente al buio la serratura, aprì
bruscamente la porta della stanza vicino e vi si precipitò dentro,
con in mano il suo pericoloso stiletto...
Nello stesso momento, dalla parte opposta, entrava nella stanza,
minaccioso e terribile come il genio della vendetta, il principe.
«Mostro!» urlò Rodolphe avanzando verso Jacques Ferrand, «mia figlia
hai ucciso! adesso...»
Ma il principe non ebbe il tempo di terminare la frase perché subito
indietreggiò atterrito...
Sembrava che le sue parole avessero fulminato Jacques Ferrand.
Gettato via lo stiletto e tappatisi gli occhi con le mani, lo
sciagurato cadde bocconi, con un urlo che non aveva più nulla di
umano.
Entrando in quella stanza tutta illuminata, Jacques Ferrand, a causa
dal fenomeno prima accennato, fenomeno la cui azione era stata
annullata dalla profonda oscurità, era stato abbagliato e colto da
vertigini in modo ancora più insopportabile che se fosse stato in
mezzo a un fiume di luce incandescente come quella del disco solare.
E fu uno spettacolo tremendo la sua agonia: si torceva fra
spaventose convulsioni e graffiava con le unghie il pavimento come
se avesse voluto scavarsi una fossa dove potersi mettere al riparo
dagli atroci tormenti che gli causava la violenza della luce.
Rodolphe e con lui un suo servo e il portinaio della casa che era
stato costretto a condurre il principe fino alla porta di quella
stanza erano inorriditi.
Nonostante il suo odio giustificato, Rodolphe, preso da un
sentimento di pietà per gli inauditi patimenti di Jacques Ferrand,
ordinò di metterlo su un divano.
Ci riuscirono ma non senza fatica, perché il notaio, per paura di
essere messo a contatto diretto con la luce della lampada, si
dibatteva violentemente; quando poi si sentì la faccia investita
dalla luce, gettò un altro urlo...
Un urlo che agghiacciò Rodolphe.
Dopo aver tormentato a lungo il notaio, il fenomeno cessò per via
della sua stessa violenza.
Avendo raggiunto l’ultimo stadio dello spasmo senza provocare la
morte, il dolore agli occhi cessò... ma la malattia, seguendo
il suo corso normale, fece succedere a questa crisi l’allucinazione
del delirio.
A un tratto Jacques Ferrand s’irrigidì come un catalettico; aprì di
scatto le palpebre che fino ad allora aveva tenuto ostinatamente
chiuse; invece di evitare la luce, i suoi occhi la fissarono
apertamente; le sue pupille, immobili e dilatate al massimo,
sembravano fosforescenti e illuminate dall’interno.
Jacques Ferrand sembrava immerso in una specie di contemplazione
estatica; dapprima restò con tutte le membra in completa immobilità,
esclusi i lineamenti del volto che furono i soli a essere
continuamente agitati da un tremito nervoso.
Il suo orribile viso così contratto e stravolto non aveva più niente
di umano; si sarebbe detto che in lui gli istinti belluini avessero
preso il posto dell’intelligenza umana e avessero conferito alla sua
fisionomia un’espressione assolutamente bestiale.
Giunto alla fase più critica del delirio, si ricordava ancora in
quella suprema allucinazione che Cecily l’aveva chiamato la sua
tigre; e, persa la ragione, finì coll’immaginarsi una tigre.
L’affanno e la frammentarietà dei suoi discorsi tradivano il
disordine del suo cervello e la strana aberrazione a cui esso era in
preda. Poi le sue membra, fino ad allora ferme e irrigidite, si
distesero; con movimento scattante balzò giù dal divano, tentò di
rialzarsi e camminare, ma, mancandogli le forze, dovette ora
strisciare come un rettile, ora trascinarsi sulle mani e sui
ginocchi... andare e venire, su e giù, in base a come lo spingevano
e lo trattenevano le sue visioni.
Infatti rincantucciandosi in un angolo della stanza, come una tigre
nella sua tana, emettendo grida roche e furiose, digrignando i
denti, muovendo nervosamente i muscoli della fronte e della faccia,
facendo fiammeggiare gli occhi dava a volte l’impressione di avere
qualche vaga e spaventosa somiglianza con quella belva.
«Tigre... tigre... sono una tigre» diceva con voce rotta,
raccogliendosi tutto su se stesso, «sì, tigre... Quanto sangue!...
Nella mia caverna... cadaveri strozzati!... La Goualeuse, il
fratello di quella vedova... un bambino... il figlio di Louise...
ecco i cadaveri... la mia tigre, Cecily, avrà la sua parte.» Poi,
guardandosi le dita scarne, le cui unghie erano cresciute
smisuratamente durante la malattia, aggiunse questi frammenti di
frase: «Oh, le mie unghie taglienti... Una vecchia tigre sono io, ma
più agile, più forte, più ardita... Nessuno oserebbe contendermi la
mia tigre Cecily... Ah, essa chiama!... chiama!» disse allungando il
viso mostruoso e tendendo l’orecchio.
Tacque un momento, poi si rannicchiò di nuovo lungo il muro dicendo:
«No... mi pareva di averla sentita... non c’è... ma la vedo... Oh!
sempre, sempre!... Essa mi chiama, rugge, rugge... laggiù...
Eccomi... eccomi...».
E Jacques Ferrand si portò verso il centro della stanza
trascinandosi sulle mani e sulle ginocchia. Sebbene fosse sfinito,
di tanto in tanto faceva un brusco balzo in avanti dopo il quale si
fermava per ascoltare attentamente.
«Dov’è?... dov’è?... io mi avvicino e lei si allontana... Ah,
laggiù... oh... mi aspetta... su, va... mordi la sabbia, manda i
tuoi lamentosi ruggiti... Ah, i suoi grandi occhi feroci...
diventano languidi, implorano... Cecily, la vecchia tigre è tua»
egli gridò.
E con un ultimo slancio, ritrovò la forza per sollevarsi e
raddrizzarsi sulle ginocchia.
Ma improvvisamente si buttò all’indietro spaventato; il corpo
piegato in due, i capelli irti, gli occhi stravolti, la bocca
sformata dal terrore, le mani protese, tutto lasciava credere che
stesse rabbiosamente lottando contro un oggetto invisibile, e
intanto diceva parole sconnesse e gridava con voce strozzata.
«Che morso... aiuto... nodi ghiacciati... mi si spezzano le
braccia... non posso toglierlo... denti aguzzi... No, no, oh! non
gli occhi... aiuto... un serpente nero... oh, la sua testa piatta...
le pupille di fuoco. Mi guarda... è il demonio... Ah, mi ha
riconosciuto... Jacques Ferrand... in chiesa... Un sant’uomo...
sempre in chiesa.... vattene... al segno della croce... vattene...»
E il notaio, raddrizzandosi un poco e appoggiandosi con una mano sul
pavimento, tentò con l’altra di farsi il segno della croce. Un
sudore gelido gli bagnava la fronte livida: gli occhi cominciavano a
perdere la loro trasparenza, si velavano, diventavano
opachi.
C’erano già in lui tutti i sintomi della morte.
Rodolphe e gli altri che assistevano a questa scena stavano im-
mobili e silenziosi come sotto l’incubo di un sogno spaventoso.
«Ah!...» riprese Jacques Ferrand sempre mezzo disteso per terra e
mezzo appoggiato su una mano, «il demonio... spirito... vado in
chiesa!... sono un sant’uomo io... prego... Eh, nessuno lo saprà...
credi? no, no, tentatore... ma certo!.. Il segreto?... bene, che
ven-
gano... quelle donne... tutte... sì, tutte... se non sanno.»
E sull’orribile faccia di quel dannato martire della lussuria, si
poterono scorgere le estreme convulsioni di agonia sensuale...
Oramai, benché con i piedi dentro a quella fossa che si era sca-
vato con la sua passione frenetica, era talmente ossessionato dal
suo ardente delirio che andava ancora evocando immagini di funesta
voluttà.
«Ah!...» egli riprese ansimando, «quelle donne... quelle donne!...
Ma il segreto... Io sono un sant’uomo!... Il segreto!... Ah
eccole... tre. Sono tre... Che dice costei? Sono Louise Morel... Ah,
sì... Louise Morel... lo so... Non sono che una figlia del popolo...
guarda Jacques... che selva di capelli bruni ricopre le mie
spalle... Dicevi che avevo un bel viso... To’... prendi...
Tienilo... Che cosa mi dà?... La sua testa... recisa dal boia... La
testa morta mi guarda... La testa morta... mi parla... Le sue livide
labbra si muovono... vieni!... vieni!... vieni!... Come Cecily...
no... non voglio... non voglio... demonio lasciami... vattene!...
vattene!... E l’altra donna? oh! bella... bella!... Jacques... sono
la duchessa di Lucenay... Guarda il mio corpo da dea... il mio
sorriso... i miei occhi audaci... Vieni... vieni... sì... vengo...
ma aspetta... E costei... che volge il viso!... oh, Cecily!...
Cecily!... Sì... Jacques, sono Cecily... Guarda le tre Grazie...
Louise... La duchessa e me... scegli... Bellezza popolana...
bellezza aristocratica... bellezza selvaggia dei tropici... per noi
l’inferno... Vieni!... vieni!... L’inferno per voi!... sì» gridò
Jacques Ferrand alzandosi sulle ginocchia e stendendo le braccia per
afferrare quei fantasmi.
Quest’ultima convulsione fu seguita da un’agitazione mortale.
Improvvisamente ricadde all’indietro, esanime, irrigidito; gli occhi
sembravano uscirgli dalle orbite; atroci convulsioni imprimevano ai
suoi lineamenti scosse disumane, simili a quelle che la pila di
Volta produce sui visi dei cadaveri; una schiuma sanguinosa gli
bagnava le labbra; la sua voce era sibilante e strozzata, come
quella di un idrofobo, perché, quando giunge alla sua fase
parossistica, questa spaventosa malattia, spaventosa punizione della
lussuria, ha le stesse caratteristiche della rabbia.
La vita del mostro si spense in mezzo a un’ultima orribile visione;
balbettava ancora:
«Notte fonda!... Fonda... spettri... scheletri di bronzo
arroventato... mi afferrano... le loro dita ardenti... fumano le mie
carni... il midollo mi si calcina... spettro spietato... no!...
no... Cecily!... il fuoco... Cecily!...».
Queste furono le ultime parole di Jacques Ferrand. Rodolphe uscì
sbigottito.
VI L’OSPEDALE5
Ricordiamo che Fleur-de-Marie, salvata dalla Louve, era stata
trasportata, non lontana dall’isola del Predone, nella casa di
campagna del dottor Griffon, uno dei medici dell’ospedale civile;
qui condurremo il lettore.
Il dotto professore che, grazie alla protezione di grosse
personalità, aveva ottenuto un posto in quell’ospedale, considerava
le sale di questo come un laboratorio in cui poteva sperimentare sui
poveri le cure che poi applicava ai clienti facoltosi, non tentando
mai su questi ultimi il nuovo metodo di cura se non prima di averne
tentato e ripetuto più volte l’applicazione in anima vili, come egli
diceva con quella specie di naturale barbarie alla quale può
condurre la cieca passione per la scienza, e soprattutto l’abitudine
e il potere di fare, senza tanti timori o riguardi, di una creatura
di Dio l’oggetto di tutti i bizzarri tentativi e tutti i dotti
ghiribizzi di uno spirito inventore.
Così, per esempio, quando il dottore voleva assicurarsi dell’effetto
comparativo di un nuovo metodo di cura alquanto ardito, per poter
trarre delle conseguenze favorevoli a questo o a quel sistema:
Egli prendeva un certo numero di ammalati...
Ne curava alcuni col metodo nuovo, altri col vecchio; qualche volta,
ne abbandonava altri alle sole forze della natura...
Dopo di che contava i superstiti...
Questi terribili esperimenti erano, per parlare appropriatamente, un
sacrificio umano fatto sull’altare della scienza.
Al dottor Griffon questo non passava nemmeno per la testa.
5 Il nome che ho l’onore di portare e che mio padre, mio nonno, mio
prozio e mio bisnonno (uno degli uomini più eruditi del XVII secolo)
hanno reso celebre con notevoli esperimenti e opere teoriche
riguardanti tutti i campi dell’arte del guarire, non mi
permetterebbe il sia pur minimo attacco, la sia pur minima allusione
avventata contro i medici, quand’anche la gravità dell’argomento che
tratterò e la giusta e immensa celebrità della scuola di medicina
francese non dovessero opporvisi; nel personaggio del dottor Griffon
io ho voluto solo personificare uno di quegli uomini, molto
rispettabili del resto, che possono a volte lasciarsi trascinare
dalla loro passione per la scienza, per gli esperimenti e abusare
del loro potere di medici, se così si può dire, dimenticando che c’è
qualcosa di più sacro della scienza: l’umanità.
Per questo luminare della scienza, come si dice adesso, i malati del
suo ospedale non erano altro che materia di studio, di esperimenti;
e siccome, dopotutto, da queste prove risultava qualche utile
constatazione o qualche scoperta vantaggiosa per la scienza, il
dottore si sentiva soddisfatto e glorioso tanto quanto un generale
dopo una vittoria che gli è costata molti soldati.
L’omeopatia ebbe al suo apparire un accanito avversario, nel dottor
Griffon. Diceva che questo metodo era assurdo, funesto, omicida;
perciò per mettere gli omeopatici con le spalle al muro, come si
dice, aveva deciso, forte della sua convinzione, di offrire loro con
cavalleresca lealtà un certo numero di malati sui quali l’omeopatia
avrebbe agito a suo piacimento, pur sapendo in anticipo che, su
venti malati sottoposti a una tale cura, ne sarebbero sopravvissuti
cinque al massimo... Ma una lettera da parte dell’Accademia di
medicina, la quale si era opposta al ministero stesso, avendo
questo, dietro domanda della società di medicina omeopatica,
incoraggiato tali esperimenti, represse questi eccessi di zelo, e
lui per spirito di corpo non volle fare di sua iniziativa ciò che i
suoi superiori in scala gerarchica avevano respinto. Si limitò solo
a continuare, con la stessa incoerenza dei suoi colleghi, a
sostenere che le cure omeopatiche non avevano alcun effetto ed erano
comunque pericolosissime, senza pensare che ciò che è inerte non può
essere velenoso; ma i pregiudizi dei dotti non sono meno tenaci di
quelli del popolino; ci vollero quindi molti anni prima che un
medico coscienzioso tentasse di sperimentare in un ospedale di
Parigi la medicina delle piccole dosi e salvare con i globuli
centinaia di malati di polmonite che il salasso avrebbe mandato
all’altro mondo.
Quanto al dottor Griffon, che dichiarava con tanta spavalderia che i
milionesimi di grani erano micidiali, continuò a far ingurgitare
senza pietà ai suoi pazienti iodio, stricnina e arsenico, fino
all’estremo limite della tolleranza fisiologica o per meglio dire
fino a farli morire.
Certo il dottor Griffon non avrebbe potuto non stupirsi se si fosse
sentito dire a proposito del modo libero e autocritico di disporre
dei suoi sudditi:
«Una tale situazione di fatto fa rimpiangere il tempo in cui i
condannati a morte venivano costretti a sottoporsi alle operazioni
chirurgiche scoperte di recente... ma che non si osava ancora
praticare sui vivi... se l’operazione riusciva, il condannato veniva
graziato.
In confronto a ciò che fate voi, signore, questa barbarie è carità
bella e buona.
Dopotutto, si dava una possibilità di vivere a un miserabile
aspettato dal boia e si rendeva possibile un esperimento, utile
forse alla salvezza di tutti.
Gli omeopatici su cui voi scaricate i vostri sarcasmi hanno prima
provato su se stessi le medicine di cui si servono per combattere le
malattie. Non sono pochi quelli che sono caduti vittime di questi
temerari esperimenti; il loro nome però dovrebbe essere scritto a
caratteri d’oro nel martirologio della scienza.
A simili esperimenti dovreste incoraggiare i vostri allievi.
Ma considerare la popolazione di un ospedale come vile materia
destinata alle manipolazioni mediche, come una specie di carne da
macello destinata a subire le prime raffiche della mitraglia medica
più micidiale ancora di un cannone; ma tentare avventurose
medicazioni su poveri artigiani per cui l’ospedale è il solo rifugio
quando sono ammalati... ma sperimentare una cura forse funesta su
persone che la miseria ha affidato fiduciosi e disarmati... a voi,
loro sola speranza, a voi che dovete rispondere solo a Dio della
loro vita... Non sapete, signore, che ciò vuol dire spingere l’amore
per la scienza fino alla disumanità.
Come! la povera gente vive già nei laboratori, sui campi,
nell’esercito; di questo mondo conosce solo miserie e privazioni, e
quando cade estenuata da fatiche e sofferenze... mezzo morta....
neppure la malattia la potrà salvare da un ultimo sfruttamento
sacrilego.
Mi appello al vostro buon cuore, signore; non è una cosa ingiusta e
feroce?»
Ahimè, il dottor Griffon sarebbe stato commosso da tali parole, ma
non convinto.
L’uomo è fatto così: anche un capitano si abitua a considerare i
suoi soldati solo come pedine di quel gioco sanguinoso che è una
battaglia.
Proprio perché l’uomo è fatto così, la società è tenuta a dare
protezione a coloro che il destino costringe a subire lo svantaggio
delle necessità umane.
Ora, una volta ammesso il carattere del dottor Griffon (e lo si può
ammettere senza troppe iperboli), si capisce come la popolazione del
suo ospedale non avesse nessuna sicurezza e non facesse nessun
ricorso contro la barbarie dei suoi esperimenti scientifici; infatti
l’organizzazione degli ospedali civili ha un’incresciosa lacuna.
Noi la segnaliamo qui; voglia il cielo che qualcuno ci dia ascolto.
Gli ospedali militari vengono ogni giorno visitati da un ufficiale
superiore che ha l’incarico di accogliere le lamentele dei soldati e
di dar corso a esse, se sono sensate. Questo tipo di sorveglianza,
completamente distinto dall’amministrazione e dal servizio di
sanità, è una cosa eccellente; ha sempre dato ottimi risultati.
D’altronde è impossibile trovare edifici meglio tenuti degli
ospedali militari; i soldati vengono curati con grandissime cautele
e trattati diremmo quasi con discreta compassione.
Perché una sorveglianza analoga a quella che esercitano gli
ufficiali superiori negli ospedali militari non viene esercitata
negli ospedali civili da uomini che siano completamente indipendenti
dall’amministrazione e dal servizio di sanità, da una commissione
che possa essere composta da sindaci, assessori, da tutti coloro
insomma che ricoprono le svariate cariche comunali a Parigi, cariche
alle quali si aspira con tanto fervore? I poveri avrebbero un organo
imparziale a cui rivolgere i loro reclami (se fossero reclami
sensati), mentre quest’organo, ripetiamo, manca del tutto; non
esiste nessun controllo sulle lamentele nel servizio degli
ospedali...
È una cosa inconcepibile.
Così, una volta chiusa la porta alle spalle di un ammalato, il
dottor Griffon apparteneva anima e corpo alla scienza. Nessun
orecchio amico o disinteressato poteva sentire le lagnanze
dell’ammalato.
Gli si diceva chiaramente che, essendo stato ammesso all’ospedale
per carità, egli faceva ormai parte del patrimonio sperimentale del
dottore, e che malato e malattia dovevano diventare argomento di
studio, di osservazione, di analisi o d’insegnamento per i giovani
allievi che seguivano assiduamente le visite del signor Griffon.
Infatti, dopo un po’, il malato era tenuto a rispondere a
interrogatori spesso penosissimi, dolorosi, e non a quattr’occhi col
medico che, come il prete, ha il diritto di sapere tutto, adempiendo
egli a una missione; no, gli toccava rispondere a voce alta, davanti
a una moltitudine avida e curiosa.
Sì, in questo inferno della scienza, vecchio o giovane, donna o
ragazzo, tutti erano costretti a mettere da parte ogni sentimento di
pudore o di vergogna, a fare le rivelazioni più intime, a
sottomettersi alle più penose indagini mediche davanti a un pubblico
numeroso; e quasi sempre queste crudeli formalità finivano
coll’aggravare le malattie.
Era una cosa disumana e ingiusta: perché il povero che entra in
ospedale nel sacrosanto nome della carità, deve essere tratta-
to con compassione e rispetto; perché anche la disgrazia ha una sua
dignità.6
6 Non ci sono esagerazioni in ciò; prendiamo i seguenti passaggi da
un articolo del «Constitutionnel» (19 gennaio 1836). Questo
articolo, intitolato Una visita d’ospedale, è firmato Z; e sappiamo
che questa iniziale nasconde il nome di una celebrità in campo
medico, che non può essere accusata di parzialità nella questione
degli ospedali civili.
«Quando un malato arriva in ospedale, ci si affretta a scrivere su
una cartella il nome del nuovo arrivato, il numero del letto, la
designazione della malattia, l’età del malato, la sua professione,
l’indirizzo. Questa misura non è senza inconvenienti per coloro che,
a... causa di un rovescio di fortuna, sono costretti a entrare in
quello che è l’ultimo rifugio del povero. Potete credere, per
esempio, che questo fatto per Gilbert, un malato, non abbia inciso
in modo negativo sulla sua guarigione? Ho visto dei giovani, ho
visto dei vecchi imprevidenti diventare tristi perché avevano fatto
conoscere la loro miseria e il loro nome.
È un giorno di dure fatiche quello in cui un ammalato è ammesso
all’ospedale. Pensate un po’ se un ammalato non sarà stanco il
giorno dopo il suo arrivo; nello spazio di ventiquattr’ore si è
visto successivamente interrogato: 1°) dal suo medico; 2°) dai
medici dell’ufficio d’amministrazione; 3°) dal medico di guardia;
4°) dall’interno della sala; 5°) dal medico fisso all’ospedale, e
infine 6°) il giorno dopo dal medico capo servizio, e da dieci o
venti allievi zelanti e studiosi che seguono il corso pubblico di
clinica. Certo ciò favorisce l’esperienza ora così precoce dei
giovani medici, e i progressi della scienza; ma aggrava anche i mali
o perlomeno ritarda la guarigione del malato...
Uno di questi disgraziati diceva un giorno:
“Se fossi stato un imputato alla corte d’Assise, in quindici giorni
non mi avrebbero fatto tanti interrogatori; da ieri, cinquanta
persone mi hanno subissato di domande quasi tutte uguali. Quando
sono entrato qui, avevo solo una pleurite; ma temo che l’insaziabile
curiosità di tante persone mi porti a una polmonite”.
Una donna mi diceva:
“Mi ossessionano ogni momento, vogliono sapere la mia età, il mio
temperamento, la mia costituzione, il colore dei miei capelli, se ho
la pelle scura o chiara, la mia dieta, le mie abitudini, le malattie
dei miei antenati, le circostanze in cui sono nata, quanto possiedo,
la mia situazione, i miei affetti più intimi, quale sia il motivo
dei miei mali, giungono perfino a volere sapere della mia condotta e
a voler spiare sentimenti che dovrei accuratamente tenere chiusi nel
mio cuore, e a farmi arrossire attribuendomene qualcuno”. E più
oltre: “Mi battono il petto in venti punti e davanti a tutti; ci
fanno certe macchie d’inchiostro per indicare alla superficie i
progressi delle mie congestioni intestinali.
I medici di adesso” aggiungeva quella donna, “assomigliano a
inquisitori: una volta si era puniti alla stessa maniera con cui
adesso si è guariti e mi dispiace.”»
Leggendo le righe seguenti, si capirà perché le abbiamo fatte
precedere da alcune riflessioni.
Niente è più triste di un vasto salone d’ospedale visto di notte;
porteremo il lettore in uno di questi.
Lungo le grandi e oscure pareti, su cui ci sono qua e là finestre
con inferriate simili a quelle delle prigioni, sono state disposte
due file parallele di letti, scarsamente illuminate dalla luce
sepolcrale di un lampione appeso al soffitto.
L’atmosfera è così nauseabonda e pesante, che i nuovi malati spesso
non vi si abituano senza pericolo; quest’altra sofferenza è una
specie di scotto che ogni nuovo arrivato paga inevitabilmente al
triste soggiorno in ospedale.
Dopo un po’, il malato acquista un certo livore morboso; è segno che
ha subìto la prima influenza deleteria dell’ambiente e che si è,
come abbiamo detto, assuefatto.
L’aria di quell’immensa sala è dunque pesante e fetida.
Il silenzio della notte è rotto qua e là da gemiti lamentosi, o da
profondi sospiri strappati alla veglia febbrile... poi tutto tace e
si sente solo il ticchettio regolare e monotono di un grosso
orologio che batte ore così lunghe, così lunghe per il dolore che
veglia.
Una estremità della sala era quasi immersa nella oscurità.
Improvvisamente vi fu in quel punto una specie di tumulto seguito
subito da un rumore di passi affrettati... una porta si aprì e si
chiuse più volte; una suora di carità, di cui si poté distinguere la
gran cuffia bianca e la veste nera al chiarore del lume che essa
portava, si avvicinò a uno degli ultimi letti della fila di destra.
Alcune malate si svegliarono di soprassalto, e si rizzarono a
sedere, per vedere ciò che succedeva.
Poco dopo si aprirono i due battenti della porta.
Più oltre, dopo aver descritto le formalità della visita, Z
aggiunge:
«Il dottore fa solo una breve apparizione al letto di quelli che
sono ammalati da un pezzo o che sono in via di guarigione o
convalescenti; ma per giungere al letto di un ammalato appena
arrivato o grave, deve passare in mezzo a una doppia ala di studenti
che fin dalla mattina si sono presi il loro posto d’osservazione.
Quanto al malato, egli resta muto e silenzioso in mezzo a quella
folla curiosa e attenta; spesso la malattia si aggrava in
proporzione a questa affluenza; l’affluenza è sempre indice di
pericolo e inquietudine. Mentre il paziente scruta il medico con
quella emozione fatta di fiducia e di ansia, questi getta sui
presenti uno sguardo che dice il raccoglimento e la circospezione e
che s’illumina subito quando tutti arrivano vicino al malato, in cui
il turbamento interiore raggiunge così il suo culmine.»
Entrò un prete con un crocefisso... le due suore s’inginocchiarono.
Nella luce che circondava quel letto di una pallida aureola, mentre
il resto della stanza rimaneva nell’ombra si poté vedere il
cappellano dell’ospedale chinarsi su un letto miserando e
pronunciare alcune parole, il cui debole suono si perdette nel
silenzio della notte.
Dopo un quarto d’ora il prete sollevò il lembo del lenzuolo per
coprire il letto fino al capezzale...
Poi uscì...
Una delle due suore inginocchiate si alzò, chiuse le coltri con uno
stridio di ferri, e si rimise a pregare accanto alla compagna.
Poi tutto ritornò silenzioso.
Era morta una delle ammalate...
Fra le donne che non dormivano e che avevano assistito a que-
sta scena silenziosa, ce n’erano tre i cui nomi sono già stati fatti
nel corso della nostra storia:
la signorina di Fermont, figlia della sventurata vedova rovinata
dalla cupidigia di Jacques Ferrand; la Lorraine, la povera
lavandaia, a cui Fleur-de-Marie aveva dato il poco denaro che le era
rimasto, e Jeanne Duport, sorella di Pique-Vinaigre, il narratore
della Force.
Noi conosciamo già la signorina di Fermont e la sorella del
narratore della Force. Quanto alla Lorraine, essa era una ragazza di
circa vent’anni con viso dolce e regolare, ma estremamente magra e
pallida, era in una fase di tisi acuta, e non c’era speranza di
salvarla; e lei era cosciente di andarsi spegnendo lentamente.
I letti di queste ultime due donne erano così vicini, che esse
potevano parlarsi sottovoce senza essere sentite dalle suore.
«Eccone un’altra che se ne va» disse a mezza voce la Lorraine,
pensando alla morta e come parlando a se stessa. «Essa non
soffre!... Beata lei!...»
«Beata... se non ha figlioli» soggiunse Jeanne.
«To’, non dormite... vicina...» le disse la Lorraine.
«Come è andata la prima notte qui? Ieri sera, appena arriva-
ta, hanno dovuto mettervi a letto... e dopo non ho osato parlarvi,
perché vi sentivo singhiozzare.»
«Oh, sì... Ho pianto molto.»
«Avete tanto male?»
«Sì, ma al male resisto; piango per dispiacere. Finalmente ero
riuscita a dormire e stavo sonnecchiando, quando mi ha svegliato il
rumore della porta. Quando è entrato il prete e le buone suore
si sono inginocchiate, ho capito che era morta una donna... allora
ho recitato un Pater e un’Ave per lei.»
«Anch’io... e, siccome ho lo stesso male della donna che è appena
morta, non ho potuto fare a meno di esclamare: Eccone una che non
avrà più da patire; ha avuto fortuna lei!»
«Sì... se come vi dicevo poco fa... non ha figlioli!»
«Voi ne avete allora.... figlioli?»
«Tre» disse la sorella di Pique-Vinaigre con un sospiro. «E
voi?»
«Avevo una bimba... è vissuta poco, la poveretta; era già ma-
lata prima di nascere; mi ero strapazzata troppo durante la
gravidanza. Sono lavandaia; ho lavorato finché ho potuto tirare
avanti. Ma tutto ha un limite; quando mi sono mancate le forze, mi è
mancato il pane. Sono stata mandata via dalla stanza che avevo in
affitto; non so che ne sarebbe stato di me, se non ci fosse stata
una povera donna che mi prese con sé in una cantina dove essa si
nascondeva per sfuggire al marito che voleva ammazzarla. Lì ho
partorito, su un po’ di paglia ma, per fortuna, quella brava donna
conosceva una ragazza, bella e caritatevole come un angelo del buon
Dio, che aveva un po’ di denaro; mi ha fatto venire via dalla
cantina, mi ha sistemata per bene in una stanzetta ammobiliata per
cui mi ha pagato un mese d’anticipo... e inoltre mi ha dato una
culla di giunchi per la mia creatura, quaranta franchi per me e un
po’ di biancheria. Grazie a lei, ho potuto rimettermi in piedi e
riprendere a lavorare.»
«Che brava ragazza... Ecco, anch’io ho incontrato per caso una che
le assomiglia, una giovane operaia tanto servizievole. Ero andata...
a trovare il mio povero fratello che è prigioniero...» disse Jeanne
dopo un momento di esitazione, «ho incontrato appunto in parlatorio
questa artigiana: poiché mi aveva sentito dire a mio fratello che
non ero contenta, è venuta da me tutta imbarazzata, per offrirsi di
essermi utile nella misura del possibile, poveretta...»
«Come è stato bello da parte sua!»
«Ho accettato: mi ha dato il suo indirizzo e due giorni dopo, quella
cara signorina Rigolette... si chiama Rigolette... mi ha dato
un’ordinazione...»
«Rigolette!» esclamò la Lorraine; «guardate che combinazione!...»
«La conoscete?»
«No; ma la ragazza che è stata tanto generosa con me, mi ha fatto
tante volte il nome di Rigolette; erano amiche...»
«Ebbene» disse Jeanne con un triste sorriso, «giacché siamo vicine
di letto, dovremmo essere amiche come le nostre due benefattrici.»
«Ben volentieri; io mi chiamo Annette Garbier» disse la Lorraine,
«lavandaia.»
«E io, Jeanne Duport, lavorante in frange. Ah, fa così bene in
ospedale trovare qualcuno che non sia del tutto estraneo,
specialmente quando ci si viene per la prima volta e si hanno tanti
dispiaceri!... Ma non ci voglio pensare... Ditemi, Lorraine... come
si chiama la ragazza che è stata così buona con voi?»
«Si chiama Goualeuse. Mi dispiace solamente che sia un pezzo che non
la vedo... Era bella come una madonna, con bei capelli biondi e
occhi azzurri così dolci, così dolci... Purtroppo, nonostante il suo
aiuto, la mia creatura è morta... a due mesi; era così debole, era
solo fiato...» e la Lorraine si asciugò una lacrima.
«E vostro marito?»
«Non sono sposata... lavoravo a giornata da una ricca signora del
mio paese; ero sempre stata giudiziosa, ma mi sono lasciata
abbindolare dal figlio della padrona, e allora...»
«Ah sì... capisco.»
«Quando mi sono accorta dello stato in cui mi trovavo, non ho avuto
il coraggio di restare in paese; il signor Jules, il figlio della
ricca signora, mi ha dato cinquanta franchi per venire a Parigi,
dicendo che mi avrebbe passato venti franchi ogni mese per il
corredino e le spese del parto; ma, dopo la mia partenza dal paese,
non ho ricevuto più niente da lui, nemmeno sue notizie; una volta
gli ho scritto, ma non mi ha risposto... non ho avuto il coraggio di
farlo di nuovo, avevo capito che non voleva più saperne di me...»
«Eppure era stato lui a rovinarvi! era ricco?»
«Sua madre possiede molti beni laggiù, da noi; ma che volete? io non
ero più lì... si è dimenticato di me...»
«Ma almeno... non avrebbe dovuto dimenticarsi del suo bambino.»
«Anzi, sarà stato proprio questo a mal disporlo nei miei riguardi;
me ne avrà voluto perché ero incinta, e così gli creavo dei
fastidi.»
«Povera Lorraine!»
«Mi dispiace per me, non per lei; poveretta! avrebbe troppo sofferto
la miseria e sarebbe rimasta orfana troppo presto... perché non ho
più molto da vivere...»
«Alla vostra età, non bisogna avere queste idee. È da molto che
siete ammalata?»
«Quasi tre mesi... Caspita, quando avevo bisogno di guadagnare per
me e la mia piccola, lavoravo il doppio; ho ripreso troppo presto ad
andare al lavatoio; l’inverno era freddissimo... ho preso una
flussione di petto; a quell’epoca ho perso la mia bambina... Per
vegliare lei, ho trascurato di curarmi... e poi, il dolore...
insomma sono tisica... e condannata come lo era l’attrice che è
morta poco fa.»
«Alla vostra età c’è sempre speranza.»
«L’attrice aveva solo due anni più di me, e avete visto...» «Faceva
l’attrice quella che stanno vegliando ora le buone
suore?»
«Dio mio, sì. Guardate un po’ il destino... Era stata bella come
il sole. Aveva avuto molto denaro, carrozze, diamanti; ma ha avuto
la disgrazia di essere stata sfigurata dal vaiolo; allora sono
venute le ristrettezze, poi la miseria e alla fine ecco la morte
all’ospedale. Del resto non era superba; anzi era dolce e gentile
con tutte... Nessuno è mai venuto a trovarla; però, quattro o cinque
giorni fa, essa ci diceva di avere scritto a un signore che aveva
conosciuto ai bei tempi, e che le aveva voluto molto bene; gli aveva
scritto per pregarlo di venire a reclamare il suo corpo, perché le
faceva male pensare che l’avrebbero sezionata... tagliata a pezzi.»
«E quel signore... è venuto?...»
«No.»
«Ah, malissimo.»
«La povera donna chiedeva sempre di lui, e diceva: oh, ver-
rà, verrà sicuramente... e poi è morta senza che quello fosse
venuto...»
«La morte le sarà stata ancora più terribile.»
«Dio mio, sì! perché sul suo corpo si farà quello che le faceva
tanta paura...»
«Morire qui, dopo essere stata ricca e felice, è triste! almeno noi
non facciamo altro che cambiare miseria...»
«A proposito» riprese la Lorraine dopo aver esitato un poco, «vorrei
che mi faceste un favore.»
«Dite...»
«Se io morissi, com’è probabile, vorrei che voi, prima di uscire da
qui, reclamaste il mio cadavere... Ho la stessa paura che aveva
l’attrice... e ho messo qui da parte il poco denaro che mi resta per
farmi seppellire.»
«Non abbiate queste idee.»
«Non importa; me lo promettete?»
«Speriamo che, grazie a Dio, ciò non succeda.»
«Sì, ma se succederà, grazie a voi, non mi toccherà la sorte toccata
all’attrice.»
«Povera signora, dopo essere stata ricca, finire così!»
«L’attrice non è la sola a essere stata ricca in questa sala,
signora Jeanne.»
«Chiamatemi Jeanne, come io vi chiamo Lorraine.»
«Siete molto buona...»
«Chi altra è stata ricca?»
«Una giovanetta di quindici anni al massimo, che hanno por-
tato qui ieri sera, prima che veniste voi... Era tanto debole che
sono stati costretti a trasportarla. La suora dice che la ragazza e
sua madre sono persone molto perbene, che sono state rovinate...»
«Anche la madre è qui?»
«No, la madre stava così male, che non hanno potuto trasportarla...
La povera ragazza non voleva lasciarla, e hanno approfittato di un
suo svenimento per portarla via... Il padrone della brutta casa
ammobiliata dove esse alloggiavano, per paura che morissero là, è
andato a denunciare il caso.»
«E dov’è?»
«Là... nel letto di fronte al vostro...»
«E ha quindici anni?»
«Oh, al massimo...»
«L’età di mia figlia maggiore» disse Jeanne senza riuscire a
trattenere le lacrime.
VII
LA VISITA
Ripensando alla figlia, Jeanne Duport si era messa a piangere
amaramente.
«Scusate» le disse la Lorraine avvilita, «scusate se senza volerlo
vi ho rattristata parlandovi dei vostri figli... forse sono ammalati
anche loro?...»
«Oh, Dio mio!... non so che ne sarà di loro se resto qui più di
altri otto giorni.»
«E vostro marito?»
Jeanne tacque un momento, poi riprese asciugandosi le lacrime:
«Visto che siamo amiche, Lorraine, posso dirvi i miei guai, come voi
mi avete detto i vostri... mi farà bene... Mio marito era
un buon operaio, si è traviato e poi ha abbandonato me e le mie
creature, dopo avere venduto tutto quello che avevamo; mi sono
rimessa al lavoro, ho trovato delle anime buone che mi hanno
aiutata; cominciavo a rimettermi un poco a galla, allevavo la
famiglia meglio che potevo, quando mio marito è ritornato con una
donnaccia che era la sua amante, a riprendermi il poco che
possedevo, e ho dovuto ricominciare tutto da capo».
«Povera Jeanne, non potevate fare qualcosa?»
«Bisognava che mi separassi davanti alla legge; ma la legge è troppo
cara, come dice mio fratello. Ahimè, sentirete, Dio mio, che cosa
vuol dire che la legge sia troppo cara per noi poveri. Giorni fa
vado di nuovo a trovare mio fratello; mi dà tre franchi, che aveva
messo da parte raccontando delle storie agli altri carcerati.»
«Si vede che siete gente di buon cuore nella vostra famiglia» disse
la Lorraine che, per un tratto istintivo di non comune delicatezza,
aveva evitato di chiedere a Jeanne perché suo fratello fosse in
prigione.
«Cosicché riprendo coraggio; credevo che per un pezzo mio marito non
si facesse più vedere, dato che aveva portato via da casa tutto
quello che poteva. No, sbaglio» aggiunse la poveretta rabbrividendo;
«gli restava ancora da prendere mia figlia... la mia povera
Catherine...»
«Vostra figlia?»
«Adesso sentirete... sentirete. Tre giorni fa, stavo a lavorare con
vicino i miei figli; entra mio marito. Dalla faccia vedo che ha
bevuto. “Sono venuto a prendere Catherine” mi dice. Mio malgrado,
afferro per un braccio mia figlia e dico a Duport: “Dove vuoi
portarla?”. “Questi sono affari miei, è mia figlia; che faccia il
suo fagotto e venga con me.” A queste parole mi si rimescola il
sangue, perché, figuratevi, Lorraine, che quella donnaccia che è con
mio marito... mi vengono i brividi solo a dirlo, ma... è così... è
un pezzo che lo incita a sfruttare nostra figlia... che è giovane e
bella. Che mostro di donna, eh!»
«Oh, sì, un vero mostro.»
«“Portare via Catherine” gli rispondo, “ mai; so che cosa ne
vorrebbe fare la tua donnaccia.” “Senti,” mi dice mio marito con le
labbra già sbiancate dalla collera, “non intestardirti o ti
ammazzo.” Dopo di che afferra mia figlia per un braccio dicendole:
“Andiamo, Catherine!”. La poveretta mi salta al collo piangendo e
gridando: “Voglio restare con la mamma!”. Davanti a questo fatto,
Duport diventa furibondo; mi strappa la figlia dal-
le braccia e mi butta a terra con un pugno nello stomaco, e una
volta a terra... una volta a terra... Ma vedete, Lorraine» disse la
sventurata donna interrompendosi, «era così cattivo solo perché
aveva bevuto... insomma mi pesta dicendomi un mucchio di
parolacce...»
«Dio mio, che cattiveria!»
«I miei poveri bambini si gettano in ginocchio chiedendo pietà; e
Catherine con loro: “Se non vieni con me finisco tua madre!”. Io
vomitavo sangue... mi sentivo mezzo morta... non potevo muovermi!...
Ma grido a Catherine: “Lascia piuttosto che mi uccida, ma non andare
con tuo padre!”. “Vuoi star zitta?” mi dice Duport dandomi un calcio
tale da farmi perdere i sensi.»
«Che cattiveria! che cattiveria!»
«Quando sono tornata in me, ho trovato i miei due maschietti che
piangevano.»
«E vostra figlia?»
«Andata via!...» esclamò la disgraziata madre con una voce e certi
singulti da straziare l’anima, «sì... andata via... I miei figli mi
hanno detto che il padre l’aveva bastonata... e l’aveva inoltre
minacciata di uccidermi sul posto. Allora che volete? La povera
bambina ha perduto la testa... si è gettata su di me per
abbracciarmi... ha abbracciato anche i suoi fratellini, piangendo...
e poi mio marito l’ha portata via! Ah! sono sicura che sulla scala
lo aspettava l’amica...»
«E non potevate denunciarlo al commissario?»
«In un primo momento soffrii solo per la partenza di Catherine....
ma poi mi sentii dei fortissimi dolori per tutto il corpo per cui
non potevo camminare. Ahimè, Dio mio! era accaduto quel che temevo.
Sì, l’avevo detto a mio fratello, un giorno mio marito mi darà tante
botte... ma tante... che mi toccherà andare all’ospedale. E
allora... che ne sarà dei miei bambini? E oggi che ci sono
all’ospedale... mi chiedo: che ne sarà dei miei bambini?»
«Ma, Dio mio, non c’è dunque giustizia per la povera gente?»
«Troppo cara, troppo cara per noi, come dice mio fratello» riprese
Jeanne con amarezza. «I vicini erano andati a chiamare il
commissario... è venuto il suo cancelliere, ma mi ripugnava
denunciare Duport... per mia figlia comunque, ho dovuto farlo. Mi
sono limitata a dire che in una lite provocata da me perché voleva
portare via Catherine, mi aveva dato uno spintone... che non era
nulla... ma che volevo riavere Catherine, perché temevo che la
donnaccia che conviveva con mio marito volesse metterla su una
brutta strada.»
«E che cosa vi ha detto il cancelliere?»
«Che mio marito aveva diritto di portare via la figlia, non essendo
separato da me; che sarebbe stata una disgrazia se la piccola fosse
stata rovinata dai cattivi consigli, ma che in fondo queste erano
solo supposizioni e che come tali non bastavano per fare querela a
mio marito. “Non avete che un mezzo” mi ha detto poi il cancelliere:
“ricorrere al tribunale civile, chiedete la separazione legale, e
allora le botte datevi da vostro marito, la sua relazione con la
sgualdrina saranno tanto di prove a vostro favore, e allora sarà
costretto a rendervi la figlia: altrimenti, ha diritto di tenerla
con sé.” “Fare querela? ma se non ho niente, Dio mio! devo dare da
mangiare alle mie creature.” “Che cosa posso farci?” ha risposto il
cancelliere, “la legge è così.” Sì» riprese Jeanne singhiozzando,
«aveva ragione... la legge è così... e poiché è così... fra tre mesi
mia figlia sarà forse una ragazza di strada! mentre se avessi avuto
il denaro per far causa e separarmi da mio marito, questo non
sarebbe successo.»
«Ma non succederà; vostra figlia deve volervi tanto bene!»
«Ma è così giovane! alla sua età non ci si sa difendere, e poi la
paura, i maltrattamenti; i cattivi consigli, i brutti esempi,
l’accanimento con cui cercheranno di spingerla al male! Il mio
povero fratello aveva previsto quello che è successo quando mi
diceva: “Cosa credi che la ragazza non sia costretta a passare di lì
se quella donnaccia e tuo marito si impuntano a volerla rovinare”.
Dio, Dio! povera Catherine, così dolce e affettuosa! E io che
quest’anno volevo farle rifare la prima comunione!»
«Quanti dispiaceri avete. E io che mi lamentavo» disse la Lorraine,
asciugandosi gli occhi. «E gli altri bambini?»
«Proprio per loro ho cercato di fare il possibile per vincere il
dolore e non entrare in ospedale, ma non ho potuto farcela. Vomito
sangue tre o quattro volte al giorno, ho una febbre che mi spezza le
braccia e le gambe, non posso lavorare. Almeno guarissi presto;
potrei ritornare dai miei bambini, se non sono già morti di fame o
finiti in prigione come mendicanti. Se sono qui, chi volete che si
prenda cura di loro, che li sfami?»
«Oh, è terribile. Non avete qualche vicino caritatevole?»
«I vicini sono poveri come me, e hanno già cinque figli. Due figli
in più! è gravoso; tuttavia essi mi hanno promesso di dar loro un
po’ da mangiare, per otto giorni, è tutto quanto possono, e per
giunta da detrarre dal loro pane, e di pane non ne hanno certo in
più; bisogna dunque che io guarisca in otto giorni; oh sì, guarita o
no, uscirò lo stesso.»
«Ma perché non avete pensato a quella buona sartina, la signorina
Rigolette, che avete incontrato in prigione? lei ve li avrebbe
tenuti certamente.»
«Ci ho pensato, e sebbene la povera ragazza abbia forse il suo da
fare per vivere, le ho fatto raccontare i miei guai da una vicina;
disgraziatamente è in campagna, dove si deve sposare, ha detto la
portinaia della casa dove abita.»
«Così fra otto giorni... i vostri poveri bambini... Ma no, i vostri
vicini non avranno il coraggio di mandarli via.»
«Ma cosa volete che facciano? già non mangiano loro stessi a
sufficienza e se poi devono anche togliere ai loro bambini per dare
ai miei. No, no credete, bisogna che fra otto giorni io sia guarita:
l’ho chiesto a tutti i medici che da ieri mi interrogano, ma mi
hanno sempre risposto ridendo: “Per questo bisogna rivolgersi al
medico capo”. E, quando verrà, Lorraine, questo medico capo?»
«Zitta! credo sia qui; non bisogna parlare mentre fa la visita»
rispose sottovoce la Lorraine.
Durante la conversazione delle due donne, a poco a poco s’era fatto
giorno.
L’arrivo del dottor Griffon fu annunciato da un andirivieni
tumultuoso; entrò nella sala accompagnato dal conte di Saint-Remy
suo amico, che, come sappiamo, si stava terribilmente preoccupando
della signora di Fermont e di sua figlia, ma che era ben lungi
dall’aspettarsi di trovare quella disgraziata ragazza all’ospedale.
Entrando nella sala, il dottor Griffon atteggiò il freddo e severo
volto a un’espressione di distensione: volgendo attorno uno sguardo
soddisfatto e autorevole, rispose con un benevolo cenno del capo
alle premurose accoglienze delle suore.
Una profonda tristezza segnava invece il volto duro e austero del
conte di Saint-Remy. Il fallimento dei tentativi fatti per
rintracciare la signora di Fermont, l’ignominiosa vigliaccheria del
visconte che aveva preferito alla morte una turpe esistenza, lo
avevano riempito di dolore.
«Ebbene!» disse al conte il dottor Griffon con aria trionfante «cosa
pensate del mio ospedale?»
«A dire la verità» rispose il conte di Saint-Remy «non so perché mi
sono arreso al vostro desiderio, non c’è niente di più squallido di
queste sale piene di malati. Da quando sono arrivato sento crudeli
strette al cuore.»
«Suvvia! fra un quarto d’ora non ci penserete più, voi che siete
filosofo ci troverete ampia materia d’osservazione; e poi insomma è
vergognoso che voi, uno dei miei più vecchi amici, non cono-
sciate il mio campo glorioso di battaglia, il teatro dei miei lavori
e che non mi abbiate ancora visto all’opera. Io ripongo tutto il mio
orgoglio nella mia professione; ho torto?»
«No, certo; e dopo che avete salvato Fleur-de-Marie con le vostre
eccellenti cure, non potevo rifiutarvi niente, povera bambina! che
affascinante bellezza le è rimasta sul volto, nonostante la
malattia!»
«Essa mi ha fornito un caso clinico molto curioso, sono
contentissimo di lei. A proposito, come ha passato la notte? L’avete
vista stamane prima di partire da Asnières?»
«No; ma la Louve, che la sta assistendo con uno zelo impareggiabile,
mi ha detto che essa ha dormito benissimo. Si potrebbe oggi
permetterle di scrivere?»
Dopo aver esitato un momento, il dottore rispose: «Sì... finché la
paziente non era completamente ristabilita, la minima emozione, il
più piccolo sforzo mentale mi hanno fatto temere per lei; ma ora non
vedo quale inconveniente ci possa essere a permetterle di scrivere.»
«Almeno potrà avvertire le persone che si interessano a lei...»
«Certamente... A proposito, avete saputo niente della signora di
Fermont e della figlia?»
«Niente» disse il signor Saint-Remy sospirando. «Le mie continue
ricerche non hanno avuto nessun risultato positivo, la mia unica
speranza è la signora d’Harville che, mi hanno detto, si sta
preoccupando moltissimo di quelle due sventurate. Forse ha qualche
informazione che può mettermi sulla buona strada... Tre giorni fa
sono andato da lei, mi hanno detto che doveva arrivare da un momento
all’altro. Le ho scritto a questo proposito pregandola di
rispondermi il più presto possibile.»
Durante il colloquio tra il signor di Saint-Remy e il dottor
Griffon, si erano andati formando attorno a una grande tavola
situata in mezzo alla sala vari gruppetti di persone; sopra la
tavola c’era un registro dove gli allievi addetti all’ospedale,
facilmente riconoscibili dai loro grembiuli bianchi, andavano a
turno a firmare il foglio di presenza; da fuori venivano, uno dopo
l’altro, altri giovani studenti, studiosi e solleciti, che andavano
a ingrossare le file del manipolo di scienziati del dottor Griffon
il quale, essendo in anticipo di qualche minuto sull’ora fissata per
la sua visita, attendeva che questa suonasse.
«Vedete, caro Saint-Remy, che il mio stato maggiore è alquanto
notevole» disse il dottore con orgoglio, indicando la folla che
veniva ad assistere alle sue lezioni pratiche.
«E questi giovanotti vi seguono al letto di ogni ammalato?» «Vengono
qui appunto per questo.»
«Ma tutti questi letti sono occupati da donne.»
«Ebbene?»
«Dovranno sentirsi spiacevolmente imbarazzate dalla presenza di
tanti uomini.»
«Via, un ammalato non ha sesso.»
«Per voi forse; ma per loro... il pudore, la vergogna.»
«Tutte queste belle cose bisogna lasciarle fuori dalla porta, mio
caro Alceste; qui cominciamo sul vivo quegli studi che
nell’anfiteatro ci riserviamo di completare lavorando sul cadavere.»
«Ecco, dottore, voi siete il più buono e il più onesto degli uomini,
vi devo la vita, e riconosco le vostre ottime qualità, ma
l’abitudine e l’amore per il vostro mestiere vi fanno affrontare
certe questioni in una maniera che mi ripugna... Me ne vado... Me ne
vado...» disse il signor di Saint-Remy, muovendosi per lasciare la
sala.
«Che stupidaggine!» esclamò il dottor Griffon trattenendolo.
«No, no, ci sono certe cose che mi rattristano e mi fanno indignare;
prevedo che per me sarebbe un supplizio accompagnarvi nella vostra
visita. Va bene, non me ne andrò; comunque vi aspetterò vicino a
questo tavolo.»
«Che razza di uomo siete con tutti i vostri scrupoli! Ma non per
questo siete dispensato. Ammetto che vi darebbe fastidio venire da
un letto all’altro; quindi restate qui, vi chiamerò solo per due o
tre casi interessanti.»
«Va bene, dato che ci tenete; a me basteranno e ne avrò anche di
troppo.»
Le sette e mezzo suonarono.
«Su, signori» disse il dottor Griffon. E cominciò la sua visita,
seguito dal numeroso auditorio.
Quando arrivò al primo letto della fila a destra le cui tende erano
chiuse, la suora gli disse:
«Signore, il numero 1 è morta questa notte alle quattro e mezzo».
«Così tardi? strano; ieri mattina non gli avrei dato un giorno. È
venuto qualcuno a richiederne il corpo?»
«No, signor dottore.»
«Meglio così, bene, faremo l’autopsia; voglio fare contento
qualcuno.» Poi, rivolgendosi a un allievo del seguito: «Caro
Dunoyer, è un pezzo che desiderate un paziente, siete il primo
iscritto, questo è vostro».
«Oh, signore, come siete buono!»
«Vorrei ricompensare più spesso il vostro zelo, caro amico; ma fate
un segno sul paziente e prendetene possesso... ci sono tanti
giovanotti che bramerebbero averlo.»
E il dottore passò oltre.
L’allievo con un scalpello incise delicatamente una F e una D
(François Dunoyer) sul braccio dell’attrice defunta7 per prenderne
possesso, come aveva detto il dottore.
E la visita continuò.
«Lorraine» disse piano Jeanne Duport alla vicina, «chi è tutta
quella gente che va dietro al medico?»
«Sono assistenti e studenti.»
«Oh Dio mio, e quei giovanotti saranno lì quando il dottore mi
interrogherà e visiterà?»
«Ahimè, sì!»
«Ma io ho male al petto... non mi guarderà mica, davanti a tutti
quegli uomini?»
«Sì, sì, bisogna, vogliono così. La prima volta io ho pianto tanto,
morivo dalla vergogna. Mi sono opposta e allora hanno minacciato di
mandarmi via. Ho dovuto decidermi; ma ciò mi ha talmente sconvolto,
che sono stata ancora peggio. Pensate un po’, quasi nuda davanti a
tutti, è molto brutto, no!»
«Davanti al dottore solo, capisco, se è necessario, e costa ancora
molto. Ma perché davanti a tutti quei giovanotti?...»
«Devono imparare e noi serviamo per gli insegnamenti che vengono
dati... Che volete? siamo qui apposta per questo; solo a questa
condizione ci accettano in ospedale.»
«Ah! capisco» disse Jeanne con amarezza, «pure ci sono occasioni in
cui non può essere così. Se mia figlia Catherine che ha quindici
anni venisse all’ospedale, oserebbero pretendere che in presenza di
tanti giovanotti...? Oh! no, credo che preferirei vederla morire in
casa mia.»
«Se venisse qui, dovrebbe rassegnarsi come le altre, come voi come
me; ma stiamo zitte» disse la Lorraine. «Se quella povera signorina
di fronte a voi ci sentisse, lei che era ricca dicono, lei che forse
non ha mai lasciato sua madre, e ora tocca a lei. Immaginatevi come
sarà imbarazzata e addolorata.»
7 Nessuno è più convinto di noi del sapere e dell’umanità dei
giovani studiosi e illuminati che vogliono apprendere l’arte della
medicina; noi vorremmo solo che qualcuno dei maestri che insegnano
quest’arte desse loro più frequenti esempi di quel pietoso riserbo,
di quella dolcezza caritatevole che può avere una così salutare
influenza sul morale dei malati.
«È vero, Dio mio, è vero; mi vengono i brividi al solo pensarci.
Povera bambina!»
«Silenzio, Jeanne, ecco il medico!» disse la Lorraine.
VIII
LA SIGNORINA DI FERMONT
Dopo aver dato una rapida occhiata a varie malate che non gli
offrivano niente di interessante, il dottor Griffon giunse da Jeanne
Duport.
Al veder giungere e affollarsi attorno al suo letto quella gente,
avida di vedere e di sapere, d’imparare e di conoscere, la povera
donna si mise a tremare di timore e di vergogna e si strinse addosso
le coperte.
Il dottor Griffon con quella sua faccia severa e pensosa, quel suo
sguardo penetrante, quelle sue sopracciglia sempre aggrottate per il
continuo riflettere, quel suo modo di parlare brusco, nervoso e
conciso, accrebbe lo spavento in Jeanne.
«Un caso nuovo!» disse il dottore dando una scorsa alla cartella
dove era segnato il genere di malattia della nuova arrivata. Dopo di
che diede a Jeanne una lunga occhiata investigativa.
Si fece un gran silenzio, durante il quale gli assistenti, per
imitare questo luminare della scienza, fissarono con curiosità
l’ammalata.
Costei, per sottrarsi per quanto possibile allo spiacevole
turbamento che le causavano tanti occhi fissi su di lei, non solo
non staccò i suoi da quelli del medico, ma lo stette a guardare con
angoscia.
Dopo vari minuti di attenzione, il medico, scorto qualcosa di
anormale nel colore giallognolo del globo dell’occhio della
paziente, le andò vicino, le alzò le palpebre e le esaminò
silenziosamente il cristallino.
Poi parecchi allievi, come rispondendo a un tacito invito del loro
professore, andarono uno dopo l’altro a osservare l’occhio di
Jeanne.
Quindi il dottore procedé all’interrogatorio.
«Il vostro nome?»
«Jeanne Duport» balbettò l’ammalata sempre più spaventata. «Che
età?»
«Trentasei anni e mezzo.»
«Più su dunque, dove siete nata?»
«A Parigi.»
«Che mestiere fate?»
«Operaia in frange.»
«Siete sposata?»
«Ahimè sì, signore!» rispose Jeanne con un profondo sospiro. «Da
quando?»
«Da diciotto anni.»
«Avete figli?»
A questo punto, invece di rispondere la povera madre diede
stura alle lacrime da molto trattenute.
«Non si tratta di piangere, ma di rispondere. Avete figli?» «Sì, due
maschietti e una ragazza di sedici anni.»
Qui varie domande che ci è impossibile ripetere e alle quali
Jeanne, dopo parecchie severe ingiunzioni da parte del dottore,
rispose balbettando; la disgraziata moriva di vergogna a dover
rispondere ad alta voce a quelle domande davanti al numeroso
auditorio.
Il dottore era così assorto nei suoi problemi che non pensò
minimamente alla penosa confusione di Jeanne; e continuò:
«Da quanto tempo siete ammalata?».
«Da quattro giorni, signore» disse Jeanne asciugandosi gli occhi.
«Raccontateci in che maniera vi siete ammalata.»
«Signore... con tanta gente... non ho coraggio...»
«Oh bella! ma da dove venite, cara mia?» disse il dottore spa-
zientito. «Dobbiamo farvi portare, qui un confessionale?... su...
parlate... e sbrigatevi...»
«Dio mio, signore, sono cose di famiglia...»
«State tranquilla, qui siamo in famiglia... in una numerosa
famiglia, vedete» aggiunse il principe della scienza, che quel
giorno era di buon umore. «Su, finiamola.»
Jeanne, sempre più intimidita, disse balbettando e fermandosi ogni
momento:
«Ho avuto... signore... una lite con mio marito... a proposito dei
miei figli... voglio dire per la figlia maggiore... egli voleva
portarla via... Io, capite signore, non volevo: per via di una
donnaccia che poteva dare cattivi esempi a mia figlia e con cui mio
marito viveva; allora mio marito che era ubriaco... oh sì,
signore... se no... non l’avrebbe fatto... mi diede un gran
spintone... sono caduta e poi, poco dopo, ho cominciato a vomitare
sangue».
«Via, via, via, vostro marito vi ha spinto e siete caduta... bella
questa... ha fatto qualcosetta di meglio... deve avervi picchiata
come si deve sullo stomaco, e tante volte... forse vi ha anche
calpestato... Su, rispondete, dite la verità...»
«Ah, signore, vi assicuro che era ubriaco... altrimenti non sarebbe
stato così cattivo.»
«Buono o cattivo, ubriaco o no, non si tratta di questo, buona
donna, non sono mica un giudice istruttore io; voglio solo precisare
un fatto; siete stata buttata a terra e calpestata con violenza,
vero?»
«Ahimè! sì, signore» disse Jeanne scoppiando a piangere, «eppure non
gli ho mai dato motivo di lagnarsi... lavoro più che posso e...»
«Vi fa male l’epigastrio? sentite un gran calore?» disse il medico
interrompendo Jeanne... «vi sentite malesseri, stanchezza e nausee?»
«Sì, signore... sono venuta qui all’ultimo momento proprio quando
non ne potevo più; altrimenti non avrei abbandonato i miei
bambini... per i quali sono tanto preoccupata, perché hanno solo
me... E poi Catherine... ah! quella soprattutto mi dà pensiero... se
sapeste...»
«La lingua!» disse il dottor Griffon interrompendo di nuovo
l’ammalata.
Quest’ordine sembrò così strano a Jeanne che sperava di avere
intenerito il dottore, che essa non rispose subito e rimase a
guardarlo stupita.
«Vediamo questa benedetta lingua che adoperate così bene» disse il
dottore sorridendo; poi con la punta del dito le abbassò la mascella
inferiore.
Dopo avere fatto lungamente e a turno toccare ed esaminare dai suoi
allievi la lingua della paziente, per poterne constatare il colore e
l’aridità, il dottore si raccolse per un momento in se stesso.
Jeanne, una volta superata la paura, disse con voce tremante:
«Signore, adesso vi dirò... dei vicini poveri come me sono stati
tanto buoni da prendersi cura dei miei bambini, ma per otto giorni
soltanto... È già molto... Passati questi giorni, bisogna che
ritorni a casa... Perciò, vi supplico, per l’amor di Dio, guaritemi
al più presto possibile... o quasi... in modo che possa almeno
alzarmi e lavorare, ho solo otto giorni davanti a me... perché...»
«Faccia pallida, stato di completa prostrazione; nonostante ciò
polso forte, duro e frequente» disse il medico imperturbabile,
indicando Jeanne. «Notate bene, signori: oppressione; calore
all’epigastrio: sono tutti sintomi sicuri di una ematemesi...
probabilmente complicata da una infiammazione al fegato, dovuta a
dispiaceri
familiari, come dice il colore giallognolo del globo dell’occhio; la
paziente ha ricevuto colpi molto forti nella regione dell’epigastrio
e dell’addome: lo sbocco di sangue è stato naturalmente causato da
lesioni organiche di alcuni visceri... A questo proposito richiamerò
la vostra attenzione su un punto interessante: sezionando cadaveri
di quelli che sono morti della malattia da cui è colpito il
paziente, si trovano risultati molto vari; spesso quando arriva alla
sua fase più acuta una malattia grave, si porta via il malato in
pochi giorni senza lasciare traccia della sua esistenza, altre
volte, la milza, il fegato, il pancreas, presentano lesioni più o
meno profonde... Probabilmente la paziente di cui ci stiamo
occupando ha subìto qualcuna di queste lesioni; noi tenteremo di
individuarla, e tenterete voi stessi mediante un attento esame della
malata.»
E con un rapido movimento, il dottor Griffon gettò la coperta ai
piedi del letto scoprendo quasi completamente Jeanne.
Ci ripugna descrivere la spiacevole lotta sostenuta da questa
disgraziata piena di vergogna con singhiozzi e implorazioni al
dottore e al suo seguito.
Ma a questa minaccia... «Vi cacceremo dall’ospedale se non
sottostate alle formalità consacrate», minaccia così terribile per
coloro per i quali l’ospedale è l’unico e ultimo rifugio, Jeanne si
sottomise a una visita pubblica che durò a lungo, molto a lungo...
perché il dottore analizzava, spiegava ogni sintomo; gli studenti
più solerti poi vollero passare dalla teoria alla pratica e
sincerarsi personalmente dello stato fisico del paziente.
Dopo un simile e disgustoso episodio, Jeanne si turbò a tal punto
che finì coll’essere colta da una crisi nervosa per la quale il
dottor Griffon diede una prescrizione supplementare.
La visita continuò.
Dopo un po’ il dottor Griffon arrivò vicino al letto della signorina
Claire di Fermont, vittima come la madre della cupidigia di Jacques
Ferrand. Altro terribile esempio delle funeste conseguenze di cui è
causa un abuso di fiducia, reato così leggermente punito dalla
legge.
La signorina di Fermont teneva appoggiata languidamente sul
capezzale la testa coperta dalla cuffia passatale dall’ospedale;
nonostante fosse segnato dalla malattia, il suo dolce e innocente
viso serbava ancora traccia di una nobile bellezza.
Dopo una notte di forti dolori, la povera ragazza era piombata in
una specie di febbrile sonnolenza tale che il rumore fatto dal
dottore e dal suo dotto corteo al loro ingresso in sala non era
riuscito a svegliarla.
«Un nuovo elemento, signori!» disse il luminare della scienza
leggendo la cartella clinica che un allievo gli aveva porto.
«Malattia, febbre lenta, nervosa... Caspita!» esclamò il dottore
tutto soddisfatto, «se l’interno di servizio non ha sbagliato la
diagnosi sarà una gran pacchia, da un pezzo desideravo una febbre
lenta nervosa... perché in genere non è una malattia da poveri.
Queste affezioni derivano quasi sempre dal sopraggiungere di gravi
sconvolgimenti nella posizione sociale del paziente, e non è
necessario dire che più la posizione è elevata, più la malattia è
grave. Del resto è un’affezione molto interessante per le
caratteristiche che offre. Essa risale alla più remota antichità,
gli scritti di Ippocrate non lasciano alcun dubbio a questo
riguardo, ed è molto semplice: questa febbre, come ho già detto, è
quasi sempre causata da grandi dispiaceri. Ora il dispiacere è nato
con l’uomo. Tuttavia, cosa strana, prima del XVIII secolo nessun
autore aveva descritto con esattezza questa malattia; è stato
Huxham, a buon diritto, a onorare la medicina di quel tempo, è stato
Huxham, dico, a dare per primo una monografia sulla febbre nervosa,
monografia diventata classica... e ciò nonostante è una malattia di
vecchia data» soggiunse il dottore ridendo. «Eh, eh, eh!... essa
appartiene a quella grande, antica e illustre famiglia febris la cui
origine si perde nella notte dei tempi. Ma non felicitiamoci prima
del tempo; guardiamo se veramente abbiamo la fortuna di possedere un
campione di questa curiosa malattia. Sarebbe doppiamente da
augurarselo, perché da molto tempo ho voglia di provare l’uso
interno del fosforo... Sì, signori» riprese il dottore che aveva
sentito il suo auditorio fremere di curiosità, «sì, signori,
fosforo, voglio tentare questa esperienza interessante anche se
ardita! ma audaces fortuna iuvat... e sarà un’ottima occasione.
Prima di tutto cercheremo di vedere se la paziente presenta in tutte
le parti del corpo, e soprattutto sul petto, quell’eruzione
miliarica che è così sintomatica per Huxham; quindi voi stessi
potrete accertarvi, tastando la paziente, di quella certa rugosità
che porta con sé questo tipo di eruzione. Ma non vendiamo la pelle
dell’orso prima d’averlo ucciso» soggiunse il luminare della scienza
che doveva essere decisamente molto allegro.
E scosse leggermente la spalla della signorina di Fermont per
svegliarla.
La giovìnetta aprì due grandi occhi scavati dalla malattia e
sussultò.
Si pensi al suo stupore, al suo spavento...
Mentre un folto gruppo di uomini stava lì attorno al suo letto a
covarla con gli occhi, essa sentì la mano del dottore toglierle le
coperte di dosso e introdurvisi sotto per toccarle il polso.
La signorina di Fermont, con uno sforzo disperato, gettò un grido
d’angoscia e di terrore:
«Mamma!... aiuto!... mamma...».
Per una fortunata combinazione, nel momento stesso in cui le grida
della signorina di Fermont facevano balzare dalla sedia il vecchio
conte di Saint-Remy, che aveva riconosciuto quella voce, la porta
della sala si aprì e una giovane donna vestita a lutto entrò
precipitosamente, accompagnata dal direttore dell’ospedale.
Era la marchesa d’Harville.
«Di grazia, signore» essa disse con la più grande angoscia,
«accompagnatemi dalla signorina di Fermont.»
«Abbiate la compiacenza di seguirmi, signora marchesa» rispose
rispettosamente il direttore. «La signorina è al numero diciassette
di questa sala.»
«Disgraziata ragazza!... qui... qui...» disse la signora d’Harville
asciugandosi gli occhi. «Ah, è terribile.»
La marchesa, preceduta dal direttore, si stava avvicinando
rapidamente al gruppo di gente radunata intorno al letto della
signorina Fermont, quando si sentì gridare con indignazione:
«Vi dico che questo è un infame delitto, così la ucciderete,
signore».
«Ma, caro Saint-Remy, ascoltatemi, su.»
«Vi ripeto, signore, che il vostro contegno è atroce; io considero
la signorina di Fermont come una figlia; vi proibisco di avvicinarvi
a lei; la farò immediatamente trasportare fuori di qua.»
«Ma caro amico, è un caso di febbre lenta, nervosa, un caso
rarissimo... Volevo provare il fosforo... È un’occasione unica.
Promettetemi almeno di farla curare da me, in qualunque luogo la
portiate, visto che volete privare la mia clinica di un paziente
così prezioso.»
«Se non foste pazzo... sareste un mostro» continuò il conte di
Saint-Remy.
Clémence aveva ascoltato quelle parole con sempre più crescente
angoscia; la gente attorno al letto era così numerosa che il
direttore dovette gridare forte:
«Signori, per favore, fate largo, la signora marchesa d’Harville
vuole vedere il numero 17».
A quelle parole, gli allievi si scostarono con premura e rispetto a
vedere il bel volto di Clémence, vivamente arrossato dall’emozione.
«La signora d’Harville!» esclamò il conte di Saint-Remy, scostando
senza riguardi il dottore e andando verso Clémence. «Ah, è Dio che
manda uno dei suoi angeli. Signora... sapevo che vi interessavate a
queste due sventurate. Voi siete stata più fortunata di me, le avete
trovate... mentre io... è il caso che mi ha condotto qui... e per
assistere a una scena d’inaudita barbarie. Povera ragazza! Guardate,
signora... guardate... E voi, signori, in nome delle vostre figlie e
delle vostre sorelle, abbiate pietà di una fanciulla di sedici anni,
ve ne supplico... lasciatela sola con questa signora e queste buone
suore. Quando avrà ripreso i sensi, la farò trasportare fuori di
qui.»
«E sia... firmerò il permesso d’uscita!» esclamò il dottore; «ma
seguirò i suoi passi... mi attaccherò a voi. È una paziente che
appartiene a me... avrete un bel fare voi... voglio curarla io...
non mi arrischierò con il fosforo, ma se è necessario passerò le
notti vicino a lei... come le ho passate vicino a voi, ingrato
Saint-Remy... anche questa come la vostra è una febbre strana. Sono
sorelle e come tali hanno tutte e due diritto che mi occupi io di
esse.»
«Maledetto uomo, perché siete tanto dotto?» disse il conte sapendo
che non poteva infatti affidare la signorina di Fermont a mani
migliori.
«Eh! Dio mio, è molto semplice!» gli disse il dottore all’orecchio,
«sono molto dotto, perché studio, provo, rischio e faccio
esperimenti sui miei pazienti... sia detto con tutta serietà. Ma
insomma avrò la mia febbre lenta, brutto zoticone?»
«Sì; ma può essere trasportata la ragazza?»
«Certo.»
«Allora... perdio, andatevene.»
«Andiamo, signori» disse il principe della scienza, «la nostra
clinica sarà privata di uno studio prezioso... ma vi terrò al
corrente.»
E il dottor Griffon, seguito dal corteo, continuò la sua visita,
lasciando il signor di Saint-Remy e la signora d’Harville vicino
alla signorina di Fermont.
IX FLEUR-DE-MARIE
Durante la scena che abbiamo appena raccontato, la signorina di
Fermont, sempre svenuta, era stata affidata alle premurose cure di
Clémence e delle due suore; la pallida faccia in abbandono del-
la ragazza era tenuta alzata da una delle suore, mentre la signora
d’Harville, chinata sul letto, asciugava con un fazzoletto il sudore
freddo che inondava la fronte dell’ammalata.
Profondamente commosso, il signor di Saint-Remy stava a guardare
quel gruppo, quando affacciatoglisi alla mente un funesto pensiero
si avvicinò a Clémence e le disse piano: «Signora, e la madre di
questa poveretta?».
La marchesa si voltò verso il signor di Saint-Remy e gli disse con
grande tristezza:
«La ragazza... non ha più una madre... signore».
«Dio mio!... morta...!»
«Ho saputo solo ieri al mio ritorno l’indirizzo della signora
di Fermont... e il suo stato disperato. All’una di notte sono andata
da lei col mio medico, ah, signore, che spettacolo!... la miseria in
tutto il suo orrore e nessuna speranza di salvare quella povera
madre moribonda!»
«Oh! come dev’essere stata terribile la sua agonia, se aveva in
mente la figlia.»
«Le sue ultime parole sono state: Figlia mia!»
«Che morte... Dio mio!... Lei, madre così affettuosa e tenera. È
spaventoso!»
Una suora venne a interrompere il colloquio del signor di Saint-Remy
e della marchesa d’Harville, dicendo a quest’ultima:
«La fanciulla è molto debole... sente appena... forse tra poco
riprenderà i sensi... questa scossa l’ha buttata giù, se volete
restare qui, signora,... intanto vi offrirò la mia sedia finché non
sarà rinvenuta».
«Datemela... datemela pure» disse Clémence sedendosi vicino al
letto; «non lascerò la signorina di Fermont; voglio che almeno veda
un volto amico quando aprirà gli occhi... Poi la porterò con me;
meno male che il dottore ha detto che si può portare via senza
pericolo.»
«Ah signora, siate benedetta per il bene che fate» disse il signor
di Saint-Remy; «ma scusatemi se non vi ho ancora detto il mio nome;
con tanti dispiaceri, tante emozioni! Signora, sono il conte di
Saint-Remy... il marito della signora di Fermont era il mio più
intimo amico. Abitavo ad Angers... sono venuto via da quella città
perché ero preoccupato di non ricevere notizie da queste nobili e
buonissime donne; prima di allora avevano abitato nella stessa città
dove corse voce che fossero state completamente rovinate; la loro
situazione era tanto più difficile in quanto esse erano sempre
vissute nell’agiatezza.»
«Ah signore... Non sapete tutto... la signora di Fermont è stata
indegnamente truffata.»
«Forse dal loro notaio? ne avevo avuto qualche sospetto.»
«Quell’uomo era un mostro, signore. Ahimè! Questo non è il solo
delitto che ha commesso. Ma fortunatamente» disse Clémence
esaltandosi, al pensiero di Rodolphe, «un angelo mandato dalla
provvidenza ha fatto giustizia, e ho potuto chiudere gli occhi alla
signora di Fermont tranquillizzandola sull’avvenire della figlia.
Così la sua morte è stata meno crudele.»
«Capisco; sapendo che la figlia avrebbe avuto un appoggio in voi,
signora, la mia amica dev’essere morta più tranquilla...»
«Non solo io mi interesserò sempre alla signorina di Fermont... ma
le farò restituire anche il suo patrimonio.»
«Il patrimonio?... Come?... Il notaio?...»
«È stato costretto a restituire la somma di cui si era appropriato
con un orribile delitto.»
«Un delitto?...»
«Aveva fatto assassinare il fratello della signora di Fermont per
fare credere che si fosse ucciso per avere dilapidato le sostanze
della sorella...»
«Ma è tremendo!... sembra incredibile... eppure, in seguito ai miei
sospetti sul notaio, avevo qualche dubbio sulla credibilità di quel
suicidio... perché Reneville era l’onore e la lealtà in persona. E
la somma restituita dal notaio?»
«È depositata presso un santo prete, il parroco di Bonne-Nouvelle;
sarà consegnata alla signorina di Fermont.»
«Questa restituzione, signora, non basta alla giustizia degli
uomini!... per lui ci vuole la forca... perché non ha commesso un
solo delitto, ma due... La morte della signora di Fermont, le
sofferenze che patisce la figlia qui, su un letto d’ospedale, sono
state causate dall’infame truffa fatta da quello scellerato!»
«E quello scellerato ha commesso un altro delitto, altrettanto
terribile, e combinato con la stessa atrocità.»
«Che dite, signora?»
«Si è sbarazzato del fratello della signora di Fermont ricorrendo
alla falsa notizia di un suicidio, per assicurarsi l’impunità, e
pochi giorni fa si è sbarazzato di una sventurata ragazza che aveva
tutto l’interesse a uccidere facendola annegare... convinto che la
sua morte sarebbe stata attribuita a in accidente.»
Il signor di Saint-Remy sussultò, guardò sorpreso la signora
d’Harville pensando a Fleur-de-Marie ed esclamò:
«Ah, Dio mio, signora, che strana coincidenza!...».
«Che avete, signore?»
«Quella ragazza... dove ha voluto farla annegare?»
«Nella Senna... vicino ad Asnières... mi hanno detto...»
«È lei!... è lei!...» esclamò il signor di Saint-Remy.
«Di chi state parlando, signore?»
«Della ragazza che quel mostro aveva tutto l’interesse a far
uccidere.»
«Fleur-de-Marie!!!»
«La conoscete, signora?»
«Povera bambina... le volevo molto bene... Ah, se sapeste, si-
gnore, com’era bella e affascinante... ma come mai?...»
«Il dottor Griffon e io abbiamo dato i primi soccorsi...»
«I primi soccorsi? a lei?... e dove?»
«All’isola del Predone, quando fu salvata...»
«Salvata, Fleur-de-Marie... salvata?...»
«Da una coraggiosa donna che, rischiando la propria vita, l’ha
tirata fuori dalla Senna... Ma che avete, signora?...»
«Ah, signore, sono così contenta che non oso ancora crederci... ma
temo di essere vittima di un errore... vi supplico, la fan-
ciulla... com’e?»
«Di ammirevole bellezza... un viso angelico...»
«Grandi occhi azzurri... capelli biondi?»
«Sì, signora.»
«E quando hanno tentato di annegarla... era con una donna
attempata?»
«Sì, infatti ieri, solo ieri ha potuto parlare (perché è ancora
debolissima), ci ha rivelato questa circostanza... L’accompagnava
una donna anziana.»
«Sia benedetto Iddio!» esclamò Clémence congiungendo le mani con
fervore, «potrò dirgli che la sua protetta è viva.8
Che gioia sarà per lui che nella sua ultima lettera mi parlava della
povera ragazza con tanto doloroso rammarico!... Scusate, signore! ma
se sapeste quanto mi rende felice ciò che mi avete detto... per me
stessa e per una persona che ha protetto e amato Fleur-de-Marie
ancora più di me! Ma, di grazia, adesso dov’è?»
8 La signora d’Harville, arrivata soltanto il giorno prima, non
sapeva che Rodolphe aveva scoperto che la Goualeuse (che egli
credeva morta) era sua figlia. Alcuni giorni prima, il principe,
scrivendo alla marchesa, le aveva fatto sapere i nuovi delitti del
notaio e le restituzioni a cui egli lo aveva costretto. Grazie
al’abilità del signor Badinot, si era trovato l’indirizzo della
signora di Fermont nel passage de la Brasserie e anche di questo
Rodolphe aveva avvertito la signora d’Harville.
«Vicino ad Asnières... nella casa di uno dei medici di
quest’ospedale... il dottor Griffon che, nonostante qualche difetto
che io deploro molto, ha ottime qualità... infatti Fleur-de-Marie è
stata trasportata a casa sua; ed egli le ha prodigato le cure più
assidue.»
«Ed è del tutto fuori pericolo?»
«Sì, signora, ma solo da due o tre giorni; e oggi le sarà concesso
di scrivere ai suoi protettori.»
«Oh, signore... me ne incaricherò io... o piuttosto vorrò avere io
la gioia di condurla da coloro che, credendola morta, la piangono
amaramente.»
«Capisco il loro dolore, signora... perché è impossibile conoscere
Fleur-de-Marie senza esserne affascinati: la sua grazia e la sua
dolcezza esercitano su tutti quelli che l’avvicinano un influsso
indefinibile... la donna che l’ha salvata e che poi l’ha vegliata
notte e giorno come una madre è coraggiosa e premurosa, ma di
carattere così collerico che l’hanno soprannominata la Louve...
figuratevi... Ebbene! basta una parola di Fleur-de-Marie per
sconvolgerla... L’ho vista singhiozzare, gridare dalla disperazione,
quando in seguito a una grave crisi il dottor Griffon aveva quasi
disperato della vita di Fleur-de-Marie.»
«Non mi meraviglio... conosco la Louve.»
«Voi, signora?» disse il signor di Saint-Remy sorpreso, «conoscete
la Louve?»9
«Certo, vi stupirete, signore» disse la marchesa, sorridendo
dolcemente perché era felice... oh, molto felice della dolce
sorpresa che avrebbe fatto al principe.
Come sarebbe stata inebriante la sua gioia, se avesse saputo che si
trattava di una figlia, una figlia creduta morta... che essa avrebbe
riportato a Rodolphe!...
«Ah! signore» essa disse al signor di Saint-Remy, «è un giorno così
bello questo per me... che vorrei che lo fosse anche per altri;
penso che qui ci sarebbero molte sventure degne di essere alleviate,
sarebbe un modo degno per celebrare la bella notizia datami da voi.»
Poi, rivolgendosi alla suora che aveva fatto bere alcune cucchiaiate
di una pozione alla signorina di Fermont: «Ebbene!... suora,
riprende i sensi?».
«Non ancora... signora... è così debole. Povera signorina! si sente
appena battere il polso.»
9 Durante la sua visita a Saint-Lazare, la signora d’Harville aveva
sentito parlare della Louve dall’ispettrice Armand.
«Aspetterò, per portarla via di qui, che sia in grado di essere
trasportata nella mia carrozza... Ma ditemi, suora, non sapete se
c’è fra queste povere ammalate qualcuna che merita particolare
interesse e pietà e a cui io potrei essere utile prima di andarmene
dall’ospedale?»
«Ah, signora... è Dio che vi manda...» disse la suora; «c’è là» essa
soggiunse indicando la sorella di Pique-Vinaigre, «una povera donna
molto ammalata e tanto disgraziata: è entrata qui solo quando non ha
potuto più reggere; è sempre triste perché ha dovuto abbandonare i
suoi due figlioletti, che hanno lei sola al mondo per sostegno.
Proprio poco fa essa diceva al signor dottore che voleva uscire,
guarita o no, fra otto giorni, perché i suoi vicini le avevano
promesso di tenere i suoi figlioli solo per una settimana... e che
dopo non avrebbero più potuto prendersene cura.»
«Accompagnatemi, per favore, al suo letto» disse la signora
d’Harville. Quindi essa si alzò e seguì la suora.
Jeanne Duport, per la violenta crisi prodotta in lei dalla visita
del dottor Griffon e da cui non si era ancora del tutto rimessa, non
aveva avuto modo d’accorgersi dell’arrivo di Clémence d’Harville
nella sala dell’ospedale.
Quale non fu la sua meraviglia, quando Clémence, sollevando un poco
le cortine del suo letto, le disse, guardandola con bontà e con
commiserazione:
«Buona madre, non dovete più preoccuparvi per le vostre creature;
m’incaricherò io di loro; voi dovete solo pensare a guarire al più
presto per ritornare da loro!».
Jeanne Duport credeva di sognare.
In quello stesso posto in cui il dottor Griffon con il suo zelante
seguito l’aveva costretta a essere oggetto di una spietata
investigazione, essa aveva visto una giovane donna d’incantevole
bellezza accostarsi a lei con parole di pietà, di consolazione e di
speranza.
L’emozione della sorella di Pique-Vinaigre era così forte che essa
non riuscì a dire una parola; congiunse soltanto le mani in atto di
preghiera e guardò con venerazione la benefattrice sconosciuta.
«Jeanne, Jeanne!» le disse piano la Lorraine, «su, rispondete a
questa buona signora...» Poi rivoltasi alla marchesa la Lorraine
soggiunse: «Ah signora, voi l’avete salvata! Sarebbe morta di
disperazione perché vedeva i suoi bambini già abbandonati... Vero
Jeanne?».
«Vi ripeto che dovete stare tranquilla, buona madre... non abbiate
nessuna preoccupazione» disse la marchesa stringendo tra
le sue manine bianche e delicate la mano scottante di Jeanne Duport.
«Rassicuratevi, non state più in pena per i vostri bambini; anzi, se
preferite, vi farò uscire oggi stesso dall’ospedale; sarete curata a
casa vostra; non vi mancherà niente. Così non dovrete lasciare i
vostri amati figlioli... Se la vostra abitazione è malsana e troppo
piccola, ve ne troveremo subito un’altra migliore e che abbia una
stanza per voi e una per i vostri bambini... Troveremo una buona
infermiera che curerà voi e sorveglierà i bambini... Infine, quando
sarete guarita, se non avrete lavoro, ve ne farò avere; intanto da
oggi stesso penserò io all’avvenire dei vostri figli!»
«Ah, buon Dio! che cosa sento?... i cherubini scendono dunque dal
cielo come nei libri di chiesa!» disse Jeanne Duport tremante,
smarrita, osando appena guardare la sua benefattrice. «Perché tanta
bontà per me? che ho fatto per meritarla?... Non è possibile! Io,
uscire dall’ospedale dove ho già tanto pianto e sofferto! non
lasciare più i miei bambini... avere un’infermiera!... Ma è un
miracolo del buon Dio!»
E la povera donna non si sbagliava.
Se si sapesse quanto sia dolce e facile fare con poca spesa, simili
miracoli!
Ahimè! per certi disgraziati, abbandonati e respinti da tutti,
un’insperata occasione di salvarsi che si accompagna per giunta a
parole buone, a teneri sentimenti di carità, non avrà o non ha tutto
il carattere soprannaturale del miracolo?...
Così era umanamente permesso a Jeanne Duport non di sperare, ma solo
di sognare alla probabilità dell’inaudita felicità che le aveva
assicurato la signora d’Harville.
«Non è un miracolo, buona madre» rispose Clémence vivamente
commossa; «quello che faccio per voi» essa aggiunse arrossendo
leggermente al ricordo di Rodolphe, «m’è stato ispirato da uno
spirito generoso che mi ha insegnato ad aver pietà degli
sventurati... lui dovete ringraziare e benedire...»
«Ah signora, benedirò voi e i vostri!» disse Jeanne Duport,
piangendo. «Scusatemi se mi esprimo così male, ma non sono abituata
a tali gioie... è la prima volta che mi succede.»
«Ebbene! vedete, Jeanne» disse commossa la Lorraine, «anche fra i
ricchi ci sono delle Goualeuse e delle Rigolette... in grande, è
vero, ma, quanto al buon cuore, è la stessa, cosa!»
Sentendo pronunciare quei due nomi la signora d’Harville si volse
sorpresa verso la Lorraine.
«Conoscete la Goualeuse e una giovane sartina che ha nome
Rigolette?» chiese Clémence alla Lorraine.
«Sì, signora... quel piccolo angelo della Goualeuse ha fatto per me
l’anno scorso, oh Dio, secondo i suoi miseri mezzi, ciò che voi
avete fatto per Jeanne... Sì, signora! Mi fa bene dirlo e ripeterlo
a tutti! La Goualeuse mi ha tolto da una cantina dove avevo
partorito sulla paglia... e quel caro angelo ha sistemato me e la
mia creatura in una camera dove c’erano un buon letto e una culla...
La Goualeuse aveva fatto quelle spese per pura carità, perché mi
conosceva appena ed era povera anche lei... È bello, vero, signora?»
disse la Lorraine con esaltazione.
«Oh! Sì... la carità del povero verso il povero è una cosa
sacrosanta» disse Clémence con gli occhi umidi di pianto.
«Lo stesso ha fatto la signorina Rigolette per Jeanne offrendole,
secondo i suoi mezzi di sartina, il suo aiuto» riprese la Lorraine.
«Che strana combinazione!» pensò Clémence sempre più commossa, dato
che i nomi della Goualeuse e di Rigolette le ricordavano una
generosa azione di Rodolphe. «E per voi, figliola che posso fare?»
disse alla Lorraine. «Vorrei che i nomi che avete pronunciato con
tanta riconoscenza vi portassero fortuna.»
«Grazie, signora» disse la Lorraine con un sorriso di amara
rassegnazione; «avevo un bambino... è morto... Sono tisica
condannata a morire, non ho più bisogno di niente.»
«Che idee tristi! Alla vostra età... così giovane, c’è sempre
speranza!»
«Oh no, signora, so che cosa m’aspetta... non mi lamento! Anche
questa notte ho visto morire una tisica nella sala... si muore molto
dolcemente! a ogni modo vi ringrazio della vostra bontà.»
«Voi esagerate la vostra situazione...»
«Non mi sbaglio, signora, lo sento; ma dato che siete così buona...
una gran signora come voi può tutto...»
«Parlate... dite pure... che volete?»
«Avevo chiesto un favore a Jeanne; ma poiché, grazie a Dio e grazie
a voi, lei se ne va...»
«Ebbene, questo favore non posso farvelo io?»
«Certo, signora... una vostra parola alle suore o al medico
sistemerebbe tutto.»
«Questa parola, la dirò, siatene sicura... di che cosa si tratta?»
«Da quando ho visto che l’attrice, morendo, era così tormentata
dalla paura di essere tagliata a pezzi dopo la morte, anch’io adesso
ho la stessa paura... Jeanne mi aveva promesso di richiedere il mio
corpo e di farmi seppellire...»
«Ah, è orribile!» disse Clémence rabbrividendo dallo spavento;
«bisogna venire qui per sapere che per i poveri ci sono miserie e
terrori anche al di là della tomba!...»
«Scusate, signora» disse timidamente la Lorraine; «per una gran
signora ricca e felice come meritate di essere voi, questa richiesta
è molto triste... non avrei dovuto farvela!»
«No anzi, ve ne sono grata, figliola; essa mi fa conoscere una
miseria che ignoravo, e questo insegnamento non resterà infecondo...
State tranquilla, sebbene un momento così fatale sia ancora molto
lontano, quando giungerà, state sicura che riposerete in terra
benedetta!»
«Oh, grazie, signora!» esclamò la Lorraine; «se osassi chiedervi il
permesso di baciarvi la mano...»
Clémence porse la mano alle aride labbra della Lorraine.
«Oh, grazie, signora! avrò qualcuno da amare e da benedire fino alla
fine... assieme alla Goualeuse... e non sarò più preoccupata di
quello che mi succederà dopo la morte!»
La signora d’Harville era stata profondamente rattristata da questo
distacco dalla vita e da questi timori per l’oltretomba; per questo
si chinò all’orecchio della suora che era venuta ad avvertirla che
la signorina di Fermont aveva completamente ripreso conoscenza, per
dirle:
«È vero che lo stato di questa giovane è disperato?»
E con un segno le indicò il letto della Lorraine.
«Ahimè! sì, signora, la Lorraine è condannata... forse non ha
nemmeno una settimana di vita!»
Mezz’ora dopo, la signora d’Harville, accompagnata dal signor
Saint-Remy, conduceva a casa sua la giovane orfanella a cui però
aveva nascosto la morte della madre.
Nello stesso giorno un uomo di fiducia della signora d’Harville,
dopo essere andato a vedere in rue de la Barillerie la misera
abitazione di Jeanne Duport, e avere raccolto su questa brava donna
ottime informazioni, prese in affitto sul quai de l’Ecole due vaste
camere e un salottino ben aerato e, grazie ai rapidi acquisti fatti
nel Temple, fece ammobiliare in due ore un modesto ma salubre
alloggio; ragion per cui la sera stessa Jeanne poté essere
trasportata nella casa e trovarvi già i suoi figli e una bravissima
infermiera.
Lo stesso uomo di fiducia fu incaricato di reclamare e di fare
seppellire il corpo della Lorraine, quando fosse morta.
Dopo aver condotto e sistemato nella propria casa la signorina di
Fermont, la signora d’Harville partì immediatamente per Asnières,
accompagnata dal signor di Saint-Remy, per andare a prendere
Fleur-de-Marie e condurla da Rodolphe.
X SPERANZA
Si avvicinava la primavera: il sole cominciava a prendere un po’ di
forza, il cielo era puro e tiepida l’aria... Fleur-de-Marie,
appoggiata al braccio della Louve, provava le sue forze passeggiando
nel giardino del dottor Griffon.
Grazie al calore vivificatore del sole e alla passeggiata, il volto
pallido e magro della Goualeuse s’era colorito di rosa; dato che i
vestiti da contadina le erano stati strappati dai soccorritori, essa
li aveva sostituiti con un vestito di merinos azzurro scuro, fatto a
camiciotto, e stretto intorno alla vita delicata e sottile da una
cintura di lana.
«Che bel sole!» disse alla Louve fermandosi in fondo a un viale di
piante verdi esposte a mezzogiorno che circondavano un sedile di
pietra. «Louve, volete che ci sediamo qui un momento?»
«Avete forse bisogno di domandarmi se voglio?» rispose bruscamente
la donna di Martial alzando le spalle.
Poi, toltasi dal collo uno scialle di borra di seta, lo spiegò in
quattro e s’inginocchiò per stenderlo sulla sabbia un po’ umida;
dopo di che disse alla Goualeuse:
«Mettete i piedi qui sopra».
«Ma, Louve» replicò Fleur-de-Marie che si era accorta troppo tardi
dell’intenzione della compagna per impedirle una tale attenzione,
«ma, Louve, così il vostro scialle si rovinerà.»
«Niente storie!... la terra è bagnata» disse la Louve.
E, presi di forza i piedi di Fleur-de-Marie, la costrinse a metterli
sopra lo scialle.
«Mi viziate, Louve...»
«Uhm!... non lo meritereste; sempre a contrastare quello che io
voglio fare per il vostro bene... non siete stanca? È già una buona
mezz’ora che camminiamo... È appena suonato mezzogiorno ad
Asnières.»
«Sono un po’ stanca... ma sento che questa passeggiata mi ha fatto
bene.»
«Vedete... eravate stanca. Non potevate chiedermi prima di sedervi.»
«Non sgridatemi; non mi accorgevo della stanchezza. È così bello
camminare dopo essere stati a letto tanto... vedere il sole, gli
alberi, la campagna, quando si è creduto di non vederli mai più!»
«Fatto sta che siete stata in condizioni gravissime per due giorni.
Povera Goualeuse... sì, adesso ve lo posso dire... non si sperava
più nella vostra salvezza.»
«E poi, figuratevi, Louve, che vedendomi sotto acqua... mio
malgrado, mi sono ricordata di una donna malvagia che mi aveva
tormentata durante la mia infanzia e che mi minacciava sempre di
gettarmi in acqua. In seguito aveva tentato ancora di annegarmi.10
Allora mi sono detta: non sono fortunata... è una fatalità, non ci
sfuggirò...»
«Povera Goualeuse... è stato il vostro ultimo pensiero di quando vi
siete vista perduta?»
«Oh, no...» disse Fleur-de-Marie con esaltazione. «Quando mi sono
sentita morire... Il mio ultimo pensiero è stato per colui che
considero il mio Dio; come sentendomi rivivere il mio primo pensiero
si è innalzato a lui...»
«È un piacere fare del bene a voi... ve lo ricordate sempre.»
«Oh no! È così bello addormentarsi con la riconoscenza in petto e
svegliarsi con lei!»
«Per questo ci si butterebbe nel fuoco per voi.»
«Cara Louve... Sentite, vi assicuro che una delle ragioni per cui
sono felice di vivere... è la speranza di portarvi fortuna, di
mantenere la mia promessa... vi ricordate i nostri castelli in aria
a Saint-Lazare?»
«Ne è passato del tempo. Eccovi ristabilita, e io mi sono rifatta
delle spese... come dice il mio uomo.»
«Purché il conte di Saint-Remy mi venga a dire presto che il medico
mi permette di scrivere alla signora Georges! sarà così in pena! E
forse anche il signor Rodolphe!» soggiunse Fleur-de-Marie,
abbassando gli occhi e arrossendo di nuovo ripensando al suo Dio.
«Forse mi credono morta!»
«Come lo credono coloro che vi hanno fatto annegare, povera piccina.
Che furfanti!»
«Allora, Louve, continuate e credere che non sia stato un
incidente?»
10 In uno dei sotterranei invasi dall’acqua di Bras-Rouge, agli
ChampsElysées.
«Un incidente! Sì, i Martial li chiamano incidenti... Quando parlo
dei Martial... naturalmente escludo il mio uomo... perché non è
della famiglia lui... come non lo saranno mai François e Amandine.»
«Ma che interesse potevano avere alla mia morte? Non ho mai fatto
male a nessuno... nessuno mi conosce.»
«Non vuol dire niente... se i Martial sono tanto scellerati da far
annegare qualcuno, non vuol dire che siano tanto stupidi da farlo
senza interesse, e una prova l’ho avuta da certe parole dette in
prigione dalla vedova al mio uomo.»
«Dunque è stato a trovare sua madre, quella donna terribile?»
«Sì. Non c’è più speranza né per lei, né per Calebasse, né per
Nicolas. Sono state scoperte molte cose; ma quel furfante di
Nicolas, per salvare la pelle, ha denunciato la madre e la sorella
di un altro assassinio. Perciò andranno tutti alla ghigliottina.
L’avvocato non ha più nessuna speranza; i giudici dicono che ci
vuole un esempio.»
«Ah! è terribile! quasi tutta una famiglia.»
«Sì, a meno che Nicolas non evada. È nella stessa prigione di un
mostro di bandito chiamato lo Squelette e con lui sta complottando
per fuggire assieme a qualche altro. Nicolas ha fatto dire la cosa a
Martial da un prigioniero che era uscito; perché il mio uomo è stato
tanto debole da andare a trovare alla Force quel mascalzone di suo
fratello. Allora, incoraggiato da questa visita, lo sciagurato, che
il diavolo se lo porti, ha avuto la sfacciataggine di far dire al
mio uomo che da un momento all’altro sarebbe evaso e di far
preparare da papà Micou denaro e abiti per travestirsi.»
«Il vostro Martial ha tanto buon cuore!»
«Buon cuore finché volete Goualeuse; ma che le fiamme dell’inferno
mi brucino, se lascio che il mio uomo aiuti un assassino che ha
tentato di ucciderlo! Martial non denuncerà la sua evasione, ed è
già molto... Del resto, adesso che voi, Goualeuse, state bene, io,
il mio uomo e i bambini partiremo per il nostro giro della Francia;
non rimetteremo più piede a Parigi; già costa molto a Martial
sentirsi chiamare figlio di un giustiziato. Che cosa sarà, quando
verranno ghigliottinati madre, fratello e sorella?»
«Aspetterete almeno che io abbia parlato di voi al signor Rodolphe,
se lo rivedo. Voi siete ritornata sulla retta via, vi ho detto che
ne sareste stata ricompensata e manterrò la mia promessa. Altrimenti
come potrei sdebitarmi con voi? Mi avete salvato la vita... e
durante la malattia mi avete curata amorosamente.»
«Esatto! adesso darei l’impressione di essere interessata, se vi
lasciassi chiedere qualcosa per me ai miei protettori. Voi siete
salva... vi ripeto che mi sono rifatta delle spese.»
«Cara Louve... state tranquilla... non sarete voi interessata ma io
riconoscente.»
«State a sentire!» disse a un tratto la Louve alzandosi, «sembra il
rumore di una carrozza. Sì... sì, si sta avvicinando; eccola;
l’avete vista passare davanti al cancello? c’è dentro una donna.»
«Oh, Dio mio!» esclamò Fleur-de-Marie piena di emozione, «mi è
sembrato di riconoscere...»
«Chi?»
«Una giovane e bella signora che ho visto a Saint-Lazare e che è
stata tanto buona con me.»
«Sa che voi siete qui?»
«Non so, ma essa conosce la persona di cui vi parlo sempre, e che,
se vuole e io spero lo voglia, potrà realizzare i nostri castelli in
aria della prigione.»
«Un posto di guardacaccia per il mio uomo, e una capanna in mezzo al
bosco per noi» disse la Louve sospirando. «Ma tutte queste sono
fantasticherie... sarebbe troppo bello, non può succedere.»
Si sentirono dei passi frettolosi dietro le piante; François e
Amandine che, grazie alla bontà del conte di Saint-Remy non avevano
lasciato la Louve, giunsero tutti scalmanati gridando:
«Louve, una bella signora e il signor di Saint-Remy hanno chiesto di
vedere subito Fleur-de-Marie».
«Non mi ero sbagliata!» disse la Goualeuse.
Quasi nello stesso istante comparve il signor di Saint-Remy seguito
dalla marchesa d’Harville.
Appena quest’ultima scorse Fleur-de-Marie, le corse incontro e
abbracciandola teneramente esclamò:
«Mia cara figliola... eccoci qui... Ah! salvata... miracolosamente
salvata da un’orribile morte... con che gioia vi ritrovo... io che,
come i vostri amici, vi credevo perduta... e vi avevo tanto
pianto!».
«Anch’io sono felicissima di vedervi, signora; perché non ho mai
dimenticato la vostra bontà per me» disse Fleur-de-Marie,
rispondendo alle affettuose espansioni della signora d’Harville con
una grazia e una modestia incantevoli.
«Ah, non potete sapere quale sorpresa e quale enorme gioia sarà per
i vostri amici che ancora vi piangono tanto amaramente...»
Fleur-de-Marie prese per mano la Louve che s’era tirata in disparte
e la presentò alla signora d’Harville dicendo:
«Signora, poiché la mia salvezza è tanto cara ai miei benefattori,
permettetemi di chiedervi dei favori da parte loro per la mia
compagna, che mi ha salvato a rischio della propria vita...».
«State pur tranquilla, figliola... i vostri amici proveranno alla
buona Louve che sanno di esserle debitori della gioia di riavervi.»
Rossa e confusa, la Louve non aveva osato né rispondere né alzare
gli occhi sulla signora d’Harville, tanto era intimidita dalla
presenza di una donna così piena di dignità; eppure non riuscì a
nascondere il suo stupore a sentire pronunciare il suo nome
da Clémence.
«Ma non c’è un momento da perdere» continuò la marchesa.
«Sono impaziente di condurvi con me, Fleur-de-Marie; ho nella
carrozza uno scialle e un cappotto molto pesante, venite, venite,
figliola...» Poi, rivolgendosi al conte: «Sarete tanto gentile da
dare il mio indirizzo a questa coraggiosa donna, perché possa venire
domani a salutare Fleur-de-Marie! Così sarete costretta a venirci a
trovare» aggiunse la signora d’Harville rivolgendosi alla Louve.
«Oh, signora, ci verrò di sicuro» rispose costei, «dato che sarà per
salutare la Goualeuse, soffrirei troppo se non potessi abbracciarla
ancora una volta.»
Pochi minuti dopo, la signora d’Harville e la Goualeuse erano sulla
strada di Parigi.
Rodolphe, dopo aver assistito alla morte di Jacques Ferrand, che era
stata una terribile punizione dei suoi delitti, era rientrato a casa
incredibilmente abbattuto.
Dopo una lunga e brutta notte d’insonnia aveva fatto chiamare sir
Walter Murph, per confidare al vecchio e fedele amico la
sconvolgente scoperta fatta il giorno prima su Fleur-deMarie.
Il buon gentiluomo restò annientato, meglio di chiunque altro poteva
capire e condividere l’immenso dolore del principe.
Questi, pallido, abbattuto e con gli occhi rossi per le lacrime,
aveva appena fatto a Murph la triste rivelazione.
«Coraggio!» disse il gentiluomo asciugandosi gli occhi, infatti,
nonostante la sua flemma, anche lui aveva pianto molto «Sì,
coraggio, mio signore!... ci vuole molto coraggio!... Niente inutili
consolazioni... questo è un dolore di cui non si può guarire...»
«Hai ragione... Ciò che provavo ieri non è niente in confronto a ciò
che provo oggi...»
«Ieri, mio signore,... eravate stordito dal colpo ma il contraccolpo
diventerà sempre più doloroso... Perciò, coraggio!... L’avvenire è
triste... molto triste...»
«E poi ieri... il disprezzo e l’orrore che mi ha suscitato quella
donna... che Dio ne abbia pietà!... adesso essa è davanti a lui...
ieri inoltre, la sorpresa, l’odio, lo spavento, tutte queste
violente passioni mi hanno stroncato, quegli slanci di tenerezza
disperata... che adesso non riesco più a frenare... quasi, quasi non
riuscivo nemmeno a piangere... Almeno adesso... vicino a te... posso
farlo... Ecco, vedi... sono senza forze... sono vile; scusami.
Lacrime... ancora... sempre...O la mia bambina!... la mia povera
bambina!»
«Piangete, piangete, mio signore... Ahimè! è una perdita
irreparabile.»
«E tante atroci miserie da farle dimenticare!» esclamò Rodolphe, con
voce straziante... «dopo quello che ha sofferto!... Pensa alla sorte
che l’aspettava!»
«Forse un tale passaggio sarebbe stato troppo brusco per quella
sventurata, già crudelmente provata!»
«Oh no... no!... via.... se tu sapessi con quante precauzioni... con
quanta delicatezza le avrei fatto sapere com’è nata!... L’avrei
preparata con tanta dolcezza a questa rivelazione... Sarebbe stato
così semplice... così facile... Oh! se si fosse trattato solo di
questo, vedi» soggiunse il principe con un triste sorriso, «sarei
stato tranquillo, non avrei avuto problemi. Mi sarei messo in
ginocchio davanti alla mia adorata figlia e le avrei detto: Tu che
fino ad ora sei stata così torturata... sii finalmente felice... e
felice per sempre... Tu sei mia figlia... Ma no» disse Rodolphe
riprendendosi, «no... sarebbe stato troppo brusco, troppo
improvviso... sì; mi sarei dominato, e le avrei detto con voce
calma! Bambina mia, devo farvi sapere una cosa che vi stupirà
molto... Dio mio! sì... pensate un po’, abbiamo ritrovato i vostri
genitori... vostro padre vive... e vostro padre... sono io.» Qui il
principe s’interruppe di nuovo. «No, no! è ancora troppo brusco
troppo improvviso... ma non è colpa mia se questa rivelazione mi
sale subito alle labbra... ci vuole una grande padronanza di se
stessi... capisci, amico mio, capisci... Essere davanti alla propria
figlia e frenarsi!» Poi, lasciandosi andare a un’altra crisi di
disperazione, Rodolphe esclamò: «Ma a che servono, a che servono
queste inutili parole? Non potrò mai dirle niente. Oh! vedi, ciò che
è terribile, terribile al solo pensarci, è il pensiero che ho avuto
mia figlia vicina a me... per un giorno intero... sì, durante quel
giorno maledetto e sacro in cui l’ho condotta alla fattoria, quel
giorno in cui i tesori della sua anima d’angelo
si sono rivelati in tutta la loro purezza! Assistevo all’adorabile
risveglio della natura... e niente mi diceva nel cuore: È tua
figlia... Niente... niente... Com’ero cieco, barbaro e sciocco!...
Non indovinavo... Oh! ero indegno di essere padre!»
«Ma, mio signore...»
«Ma insomma...» esclamò il principe, «dipendeva da me sì o no, non
lasciarla mai! Perché non l’ho adottata, io che piangevo tanto mia
figlia? Perché, invece di mandarla dalla signora Georges, non l’ho
tenuta con me?... Oggi non avrei che da tenderle le braccia...
Perché non l’ho fatto? Perché? Ah! perché si fa sempre il bene a
metà, perché le cose belle si apprezzano solo quando, dopo aver
brillato, sono sparite per sempre... Perché invece di innalzare
subito al suo giusto livello questa ammirevole ragazza che, sebbene
miserabile e derelitta, era, quanto a intelligenza e a cuore, più
grande e più nobile forse di quello che sarebbe diventata grazie ai
vantaggi della nascita e dell’educazione... ho creduto di fare molto
per lei mettendola in una fattoria... presso brava gente... come
avrei fatto con la prima mendicante degna d’aiuto che si fosse
trovata sulla mia strada... È colpa mia... è colpa mia... Se avessi
fatto così, essa non sarebbe morta... Oh sì... Mi sta bene... me lo
sono meritato... Cattivo figlio... cattivo padre!...»
Murph stava zitto sapendo che per tali dolori non ci sono
consolazioni.
Dopo un lungo silenzio, Rodolphe riprese con voce alterata: «Non
resterò più qui, Parigi mi è odiosa... domani parto...». «Avete
ragione, mio signore.»
«Faremo una deviazione perché voglio fermarmi alla fattoria
di Bouqueval... andrò a rinchiudermi per qualche ora nella camera
dove mia figlia passò i soli giorni felici della sua infelice
esistenza... Là raccoglierò religiosamente tutto quanto è rimasto di
lei... i libri dove incominciava a leggere... i quaderni dove ha
scritto... gli abiti che ha portato... tutto... anche i mobili...
anche le tappezzerie della stanza e io stesso stenderò un disegno
esatto di essa... E a Gerolstein... nel parco privato dove ho fatto
innalzare un monumento alla memoria di mio padre oltraggiato... farò
costruire una casetta e vi farò mettere questa stanza... Là andrò a
piangere mia figlia... i due monumenti mi ricorderanno uno il mio
delitto verso mio padre, l’altro il castigo che mi ha colpito in mia
figlia...» Dopo aver taciuto ancora, Rodolphe aggiunse: «Così, che
tutto sia pronto per domani mattina...».
Murph, per cercare di distrarre il principe dai suoi tristi
pensieri, gli disse:
«Tutto sarà pronto mio signore; solo che avete dimenticato che
domani a Bouqueval si celebreranno le nozze del figlio della signora
Georges e di Rigolette... Non solo avete assicurato un avvenire a
Germain e dato una magnifica dote alla sua fidanzata... ma avete
promesso loro di assistere alla cerimonia nuziale come testimone...
Solo in questa occasione avrebbero dovuto sapere il nome del loro
benefattore».
«È vero, l’ho promesso... Essi sono alla fattoria... e io domani non
posso andarci... senza prendere parte alla festa e confesso che non
ho il coraggio di farlo...»
«Forse davanti alla felicità dei due giovani il vostro dolore
potrebbe calmarsi un po’!»
«No, no, il dolore è solitario ed egoista... domani tu andrai a
scusarmi e a rappresentarmi alla cerimonia; pregherai la signora
Georges di raccogliere tutto ciò che apparteneva a mia figlia... Che
faccia fare il disegno della sua stanza e mi venga spedito in
Germania.»
«Partirete, mio signore, senza neppure vedere la marchesa
d’Harville?»
Al ricordo di Clémence, Rodolphe sussultò... quell’amore sincero era
in lui sempre vivo, ardente e profondo... ma in quel momento era
stato sommerso, per così dire, dai flutti di amarezza che gli
avevano mondato il cuore...
Per una strana contraddizione, il principe aveva capito che solo il
tenero affetto della signora d’Harville avrebbe potuto aiutarlo a
sopportare la sventura che si era abbattuta su di lui, ma si era
rimproverato questo pensiero come indegno della serietà del suo
dolore di padre.
«Partirò senza vedere la signora d’Harville» rispose Rodolphe.
«Pochi giorni fa le avevo detto in una lettera quanto dolore mi
fosse costata la morte di Fleur-de-Marie. Quando saprà che
Fleur-de-Marie era mia figlia, comprenderà che ci sono dolori o
meglio fatali punizioni che bisogna avere il coraggio di sopportare
da soli... sì, soli, perché possano valere come espiazione... ed è
terribile questa espiazione impostami dal destino, terribile! perché
essa è incominciata... per me... nel momento in cui anche la vita
comincia a declinare.»
Fu bussato leggermente e discretamente alla porta dello studio di
Rodolphe. Questi ebbe un moto d’impazienza.
Murph si alzò e andò ad aprire.
Attraverso la porta socchiusa, un aiutante di campo del principe
disse al gentiluomo qualche parola a bassa voce. Costui rispose con
un cenno del capo e, rivolgendosi a Rodolphe:
«Mio signore, mi permettete di assentarmi un momento? C’è qualcuno
che vuole parlarmi subito di cose che concernono il servizio di Sua
Altezza».
«Va’ pure...» rispose il principe.
Appena Murph se ne fu andato, Rodolphe si nascose il volto tra le
mani e mandò un lungo gemito:
«Oh!» egli esclamò, «ciò che sto provando mi spaventa... Mi sento
traboccante di odio e di fiele; la presenza del mio migliore amico
mi pesa... il ricordo di un amore nobile e puro m’importuna e mi
turba, e poi... cosa da vili e da miserabili, ieri ho appreso con
gioia selvaggia la morte di Sarah... di quella madre snaturata che
ha causato la perdita di mia figlia; mi compiaccio di ricordare
l’agonia del mostro che ha fatto uccidere mia figlia. Oh rabbia!
sono arrivato troppo tardi!» egli gridò balzando sulla sedia.
«Tuttavia ieri non soffrivo così, eppure anche ieri come oggi sapevo
che mia figlia era morta... Oh sì, ma non mi dicevo queste parole,
che ormai avveleneranno la mia vita: “Ho visto mia figlia, le ho
parlato, ho ammirato tutto ciò che c’era di incantevole in lei”. Oh
quanto tempo perduto in quella fattoria! Quando penso che ci sono
andato solo tre volte... sì, non di più. E potevo andarci tutti i
giorni... vedere mia figlia tutti i giorni... Che dico! tenerla per
sempre vicino a me! Oh questo sarà il mio supplizio... ripetermi
così sempre... sempre!».
E l’infelice provava una crudele voluttà a tornare su questo
pensiero angoscioso e senza via d’uscita; infatti è tipico dei
grandi dolori il ritornare sempre sulle stesse cose diventando
sempre più acuti.
A un tratto si aprì la porta dello studio ed entrò Murph,
pallidissimo, così pallido che il principe si alzò e gridò:
«Murph, che hai?»
«Niente, mio signore...»
«Eppure sei pallido.»
«Lo stupore.»
«Che stupore?»
«La signora d’Harville!»
«La signora d’Harville, gran Dio! nuove disgrazie!...»
«No, no, signore, calmatevi, è qui... nel salotto.»
«Lei... qui... a casa mia, è impossibile!»
«Per questo, mio signore... vi dico... la sorpresa.»
«Questo da parte sua... Ma che sta succedendo, in nome del
cielo?»
«Non so... non riesco a rendermi conto di ciò che sto pro-
vando...»
«Mi nascondi qualcosa?»
«Parola d’onore, mio signore... parola d’onore... no... so solo
quello che mi ha detto la marchesa.»
«Ma che ti ha detto?»
«“Sir Walter Murph” la sua voce era commossa e il suo sguardo
raggiante di gioia, “non dovete meravigliarvi se mi vedete qui. Ci
sono certe circostanze così importanti che non lasciano il tempo di
pensare alle convenienze. Pregate Sua Altezza di accordarmi subito
un colloquio di qualche istante in vostra presenza, poiché so che il
principe non ha miglior amico al mondo. Avrei potuto chiedergli di
venire a casa mia, ma ci sarebbe stato un ritardo di un’ora forse, e
il principe dovrà essermi grato di non avere differito di un minuto
questo colloquio...” essa ha aggiunto con un’espressione che mi ha
scosso.»
«Ma» disse Rodolphe con voce alterata diventando più pallido ancora
di Murph, «non capisco il motivo del tuo turbamento... della tua
emozione... del... tuo pallore... ci dev’essere qualcos’altro...
questo colloquio.»
«Parola d’onore, non so altro. Sono bastate queste parole della
marchesa per sconvolgermi. Perché? non lo so... Ma anche voi, mio
signore, siete molto pallido.»
«Io?» disse Rodolphe che s’era appoggiato alla sedia, perché aveva
sentito le ginocchia piegarsi.
«Vi dico mio signore che siete sconvolto quanto me. Che avete?»
«Dovessi morire sul colpo... prega la signora d’Harville di entrare»
gridò il principe.
Per uno strano fenomeno di simpatia, l’inattesa e curiosa visita
della signora d’Harville aveva destato in Murph e in Rodolphe la
stessa vaga e folle speranza; una speranza che sembrava loro così
assurda, che né l’uno né l’altro avevano voluto confessarlo. La
signora d’Harville, accompagnata dal gentiluomo, entrò nello studio
del principe.
XI PADRE E FIGLIA
Ignorando, come abbiamo detto, che Fleur-de-Marie era figlia del
principe, la signora d’Harville, tutta presa dalla gioia di
ricondurgli la protetta, aveva creduto di potergliela presentare
senza tante precauzioni; però l’aveva lasciata nella carrozza, non
sa-
pendo se Rodolphe volesse farsi conoscere da lei e riceverla nel suo
palazzo. Ma, accortasi che il volto di Rodolphe era alterato e
tradiva una cupa disperazione e notate nei suoi occhi le tracce di
qualche lacrima non ancora asciugata, Clémence pensò che gli fosse
successa una sventura ancora più terribile della morte della
Goualeuse; perciò, dimenticando lo scopo della sua visita, esclamò:
«Gran Dio! che avete... mio signore?»
«Non lo sapete, signora?... Ah, ogni speranza è perduta... e la
vostra premura, il colloquio che avete chiesto con tanta
insistenza... mi avevano fatto credere...»
«Oh, vi prego mio signore... non parliamo del motivo che mi ha
spinto qui... in nome di mio padre a cui avete salvato la vita... Ho
quasi diritto a chiedervi la causa dello scoramento che vi ha
preso... Il vostro abbattimento, il vostro pallore mi fanno paura...
Oh parlate, mio signore... siate generoso, abbiate pietà delle mie
angosce...»
«A che serve, signora! la mia ferita non può rimarginarsi.»
«Tali parole, mio signore, mi fanno ancora più temere; spiegatevi...
Sir Walter Murph... Dio mio, che è successo?»
«Ebbene» disse Rodolphe con voce rotta, facendo un grande sforzo su
se stesso, «dopo avervi informata della morte di Fleurde-Marie, ho
saputo che era mia figlia.»
«Fleur-de-Marie!... vostra figlia?» gridò Clémence con un accento
impossibile a descriversi.
«Sì. E poco fa, quando mi avete fatto dire che volevate vedermi
subito per darmi una notizia che mi avrebbe riempito di gioia...
abbiate pietà della mia debolezza, ma un padre che ha perso la sua
creatura e che per questo è impazzito dal dolore, è capace delle più
assurde speranze... per un momento avevo creduto che... ma no, no,
capisco, mi ero illuso. Perdonatemi, non sono che un povero pazzo.»
E, schiantato dal contraccolpo di una fugace speranza e di un
terribile disinganno, Rodolphe si lasciò cadere sulla sedia
nascondendosi il viso tra le mani.
La signora d’Harville era rimasta stupefatta, immobile, muta,
respirava appena; era in preda ora a una gioia inebriante, ora alla
paura che la rivelazione potesse avere sul principe un effetto
folgorante; inoltre era animata da religiosa riconoscenza per la
provvidenza, che aveva incaricato lei... lei... di annunciare a
Rodolphe che sua figlia viveva e di ricondurgliela...
Tanto contrastanti e violenti erano i sentimenti che agitavano
Clémence che essa non riusciva a dire parola.
Murph, dopo aver avuto per un momento la stessa folle speranza del
principe, era anche lui angosciato.
A un tratto la marchesa, cedendo a un moto improvviso, involontario,
e dimenticando la presenza di Murph e di Rodolphe, s’inginocchiò,
congiunse le mani, ed esclamò con espressione di fervente pietà e
ineffabile gratitudine:
«Grazie... mio Dio... siate benedetto!... riconosco la vostra
possente volontà... grazie anche per avere scelto me... per dirgli
che sua figlia è salva!...».
Queste sante e sincere parole furono pronunciate a voce bassa ma non
tanto però che non giungessero all’orecchio di Murph e del principe.
Questi alzò la testa di scatto; Clémence allora si alzò. È
impossibile descrivere lo sguardo, l’atteggiamento, l’espressione
che prese Rodolphe contemplando il volto incantevole, pieno di gioia
celeste, raggiante di bellezza divina della signora d’Harville.
Appoggiata con una mano sul marmo di una console, mentre con l’altra
comprimeva i battiti del cuore, essa rispose con un segno
affermativo a uno sguardo di Rodolphe che ancora una volta dobbiamo
rinunciare a descrivere.
«E dov’è?» chiese il principe tremando come una foglia. «Giù, nella
mia carrozza.»
Se non ci fosse stato Murph che, rapido come un fulmine, cor-
se a sbarrargli il passo, Rodolphe sarebbe uscito tutto sconvolto.
«Mio signore, la farete morire!» gridò il gentiluomo trattenen-
do il principe.
«Da ieri soltanto è in convalescenza. In nome della sua vita,
non commettete imprudenze, mio signore» aggiunse Clémence. «Avete
ragione» disse Rodolphe, facendo uno sforzo per frenarsi, «avete
ragione, sarò calmo, non la vedrò adesso, aspetterò di calmarmi
prima. Ah! è troppo, troppo in un giorno solo!» egli aggiunse con
voce alterata. Poi, rivolgendosi alla signora d’Harville le porse la
mano ed esclamò con grandissima riconoscenza:
«Sono perdonato... voi siete l’angelo della redenzione». «Signore,
voi mi avete reso il padre, Dio ha voluto che io vi restituissi la
figlia» rispose Clémence. Ma anch’io vi chiedo perdono della mia
debolezza. Questa imprevista, inaspettata rivelazione mi ha
sconvolta. Confesso che non ho il coraggio di andare a prendere
Fleur-de-Marie; sono così turbata che ho paura di
spaventarla.»
«E come è stata salvata? chi l’ha salvata?» esclamò Rodolphe.
«Avete visto come sono irriconoscente, non l’ho ancora chiesto.»
«Proprio mentre stava per annegare è stata tratta fuori dall’acqua
da una donna coraggiosa.»
«La conoscete?»
«Verrà da me domani.»
«Ho un debito immenso» disse il principe, «ma saprò pa-
garlo.»
«Dio mio, che bella idea ho avuto a non portare con me Fleur-
de-Marie!» disse la marchesa, «questa scena le sarebbe stata
funesta.»
«È vero, signora» disse Murph, «è provvidenziale che essa non sia
qui.»
«Non sapendo se sua signoria desiderava essere riconosciuto da lei,
non ho voluto presentargliela senza prima averlo consultato.»
«Adesso» disse il principe che per alcuni minuti aveva lottato per
superare la propria agitazione, e che già sembrava tranquillo,
«adesso, sono padrone di me, ve lo assicuro. Murph, va’ a prendere
mia figlia.»
Le parole mia figlia furono pronunciate dal principe con un accento
che non sapremmo esprimere.
«Mio signore, siete sicuro di voi?» disse Clémence. «Niente
imprudenze.»
«Oh, non dubitate, so a che pericolo essa andrebbe incontro. Non
voglio essere io a esporla a un simile rischio. Mio buon Murph, va’
te ne supplico!»
«State tranquilla, signora» riprese il gentiluomo, che aveva
attentamente osservato il viso del principe, «può venire; sua
signoria saprà dominarsi.»
«Allora va’ presto, mio vecchio amico mio.»
«Sì, mio signore, vi chiedo solo un minuto, non sono neanch’io fatto
di sasso» disse il bravo gentiluomo togliendosi i segni lasciati da
qualche lacrima; «non deve vedere che ho pianto.»
«Caro amico!» riprese Rodolphe stringendo le mani di Murph fra le
sue.
«Su, su, mio signore, eccomi... non volevo attraversare la sala di
servizio piangendo come una maddalena.»
E il gentiluomo fece per uscire; poi, si fermò:
«Ma, mio signore, che le dirò?».
«Sì, appunto... cosa dovrà dirle?» chiese il principe a Clémence.
«Che il signor Rodolphe desidera vederla, solo questo credo.»
«Certo: che il signor Rodolphe desidera vederla... solo questo...
Su, va’, va’.»
«Certo è la miglior cosa che le si possa dire» riprese il gentiluomo
che si sentiva emozionato almeno come la signora d’Harville. «Le
dirò semplicemente che il signor Rodolphe desidera vederla. Così non
si immaginerà niente, non si accorgerà di niente; è la cosa più
ragionevole.»
E Murph non si muoveva.
«Sir Walter» gli disse Clémence, «voi avete paura.»
«È vero, signora marchesa; nonostante i miei sei piedi di sta-
tura e la mia scorza dura, sono ancora sotto il peso di una profonda
emozione.»
«Amico mio, stai attento» gli disse Rodolphe, «piuttosto aspetta
qualche momento ancora, se non sei sicuro di te stesso.»
«Adesso, adesso, mio signore, mi sono vinto» disse il gentiluomo,
dopo essersi passato sugli occhi i suoi pugni erculei; «è chiaro che
alla mia età una simile debolezza è del tutto ridicola. Non temete,
signore.»
E Murph uscì con passo deciso, fingendo indifferenza.
La sua partenza fu seguita da un breve silenzio.
Allora Clémence arrossì pensando che era a casa di Rodolphe,
sola con lui. Il principe, avvicinatosi, le disse timidamente:
«Scelgo questo giorno, questo momento per farvi una dichiarazione
sincera, perché la solennità di questo giorno e di questo momento ne
aumenterà il valore. Vi amo dalla prima volta che vi ho vista. Sono
stato costretto a tenerlo nascosto per tanto tempo; adesso siete
libera, mi avete restituito la figlia, volete essere sua
madre?».
«Io, signore!» esclamò la signora d’Harville. «Che dite?»
«Vi prego, non ditemi di no, fate che questo giorno decida del-
la felicità di tutta la mia vita» continuò teneramente Rodolphe.
Anche Clémence amava appassionatamente il principe da tanto tempo;
credeva di sognare; la dichiarazione di Rodolphe, semplice, grave e
sconvolgente a un tempo e fatta poi in una simile circostanza,
l’aveva riempita di gioia incredibile; essa rispose esitando: «Mio
signore, tocca a me ricordarvi la distanza che
corre fra le nostre condizioni e i vostri interessi di sovrano».
«Lasciatemi pensare prima di tutto ai bisogni del mio cuore e a
quelli della mia amata figliola; rendeteci felici tutti e due; fate
che io, che poco fa ero senza famiglia, ora possa dire: mia moglie,
mia figlia; fate infine che questa povera ragazza, la quale era
anche lei senza famiglia possa dire... mio padre, mia madre, mia
sorella, dato che la figlia che avete diventerà anche mia
figlia.»
«Ah, mio signore, a così nobili parole non si può rispondere se non
con lacrime di riconoscenza» esclamò Clémence. Poi, dopo essersi
frenata, soggiunse: «Signore, sta venendo qualcuno, è vostra
figlia».
«Oh, non ditemi di no» rispose Rodolphe con voce turbata e
supplichevole, «in nome del mio amore, dite... nostra figlia.»
«Ebbene! nostra figlia» balbettò Clémence proprio nel momento in cui
Murph apriva la porta e faceva entrare Fleur-de-Marie nel salone del
principe.
La fanciulla era scesa dalla carrozza della marchesa davanti al
peristilio di quel grande palazzo, aveva attraversato una prima
anticamera piena di lacchè in livrea di gala, una sala d’attesa dove
stavano i camerieri, poi il salone degli ussari e infine un salone
di servizio, occupato da un ciambellano e dagli aiutanti di campo
del principe in alta uniforme. Ci si figuri lo stupore della povera
Goualeuse, che non conosceva altri splendori se non quelli della
fattoria di Bouqueval, nell’attraversare quelle sale principesche
scintillanti d’oro, di specchi e di pitture...
Appena essa comparve, la signora d’Harville le corse incontro, la
prese per mano e, tenendole un braccio attorno alla vita come per
sostenerla, la condusse fino a Rodolphe che, in piedi accanto al
caminetto, non aveva potuto fare un passo.
Murph, dopo avere affidato Fleur-de-Marie alla signora d’Harville,
si era affrettato a nascondersi dietro alle immense cortine delle
finestre, non sentendosi troppo sicuro di sé.
Al vedere il suo benefattore, il suo salvatore, il suo Dio... che la
stava a contemplare in silenzio e come in estasi, Fleur-de-Marie,
già assai turbata, cominciò a tremare.
«Calmatevi,... figliola cara» le disse la signora d’Harville «ecco
il vostro amico... il signor Rodolphe, che vi ha aspettato con
impazienza... è stato molto in pena per voi.»
«Oh!... sì... molto... molto in pena...»
Il turbamento della ragazza andava sempre più aumentando; si sentiva
soffocare; la voce le mancava; le dispiaceva molto di non avere
ancora potuto dire una parola di ringraziamento a Rodolphe.
Infine, a un segno della signora d’Harville che, coi gomiti
appoggiati sullo schienale della poltrona, stava china su
Fleurde-Marie tenendole una mano, il principe si portò, piano piano,
all’altro lato della sedia. Quando si sentì più calmo disse a
Fleur-de-Marie che teneva girato verso di lui il suo incantevole
volto:
«Finalmente, mia cara, eccovi ritornata per sempre ai vostri
amici!... non li lascerete più... ora come prima cosa dovete
dimenticare ciò che avete sofferto».
«Sì, figliola cara, il mezzo migliore per dimostrare che ci volete
bene» aggiunse Clémence «è di dimenticare il vostro triste passato.»
«Vi assicuro, signor Rodolphe... vi assicuro signora, che, se
dovessi pensarci, mio malgrado, sarebbe per dirmi che senza di
voi... sarei ancora molto infelice.»
«Sì, ma noi faremo in modo che non abbiate più pensieri così cupi:
il nostro affetto non ve ne lascerà il tempo, mia cara Marie»
riprese Rodolphe; «sapete che vi ho dato questo nome... alla
fattoria.»
«Sì, signor Rodolphe. E la signora Georges che mi aveva dato il
permesso di chiamarla mamma... sta bene?»
«Benissimo, mia cara... ma ho da darvi notizie importanti.» «A me,
signor Rodolphe?»
«Dall’ultima volta che vi ho vista... sono state fatte grandi sco-
perte su... sulla vostra nascita.»
«Sulla mia nascita?»
«Abbiamo saputo chi sono i vostri genitori. Conosciamo vo-
stro padre.»
Rodolphe pronunciò queste parole con una voce così carica di
lacrime, che Fleur-de-Marie si volse turbata verso di lui; per
fortuna egli riuscì a volgere la testa da un’altra parte.
Sopravvenne un fatto quasi comico a distrarre ancora la Goualeuse e
a impedirle di notare troppo l’emozione del padre: il bravo
gentiluomo, che non era uscito da dietro alla tenda e che sembrava
intento a guardare il giardino del palazzo, non poté fare a meno,
dato che stava piangendo come un bambino, di soffiarsi rumorosamente
il naso.
«Sì, mia cara Marie» si affrettò a dire Clémence, «conosciamo vostro
padre... egli vive.»
«Mio padre!» esclamò la Goualeuse con tale impeto che mise a dura
prova il coraggio di Rodolphe.
«E un giorno...» ripeté Clémence, «forse fra poco... voi lo vedrete.
E vi sorprenderà il fatto che è di alta condizione... di alto
rango.»
«E mia madre, signora, potrò vederla?»
«Vostro padre risponderà a questa domanda, mia cara... ma non siete
felice di vederlo?»
«Oh sì, signora» rispose Fleur-de-Marie abbassando gli occhi.
«Chissà come gli vorrete bene, quando lo conoscerete!» disse la
marchesa.
«Da quel giorno incomincerà per voi una nuova vita, vero, Marie?»
aggiunse il principe.
«Oh no, signor Rodolphe» rispose candidamente la Goualeuse. «La mia
nuova vita data dal tempo in cui voi avete avuto pietà di me... e mi
avete mandato alla fattoria.»
«Ma vostro padre... vi ama» disse il principe.
«Non lo conosco... e a voi devo tutto... signor Rodolphe.» «Così...
mi amate... tanto... e forse più di quanto amereste vo-
stro padre?»
«Vi benedico e vi rispetto come Dio, signor Rodolphe, perché
voi avete fatto per me ciò che solo Dio avrebbe potuto fare» rispose
con fervore la Goualeuse dimenticando la solita timidezza. «Quando
la signora ha avuto la compiacenza di parlarmi alla prigione, le ho
detto come dicevo a tutti... sì, signor Rodolphe, alle persone che
erano molto disgraziate dicevo: “Abbiate fiducia, il signor Rodolphe
aiuta i disgraziati”. A quelle che esitavano fra il bene e il male,
dicevo: “Coraggio, siate buone, il signor Rodolphe premia i buoni”.
A quelle che erano cattive, dicevo: “Badate, il signor Rodolphe
punisce i malvagi”. Infine quando ho creduto di morire, mi son
detta: “Dio avrà pietà di me, perché il signor Rodolphe mi ha
considerata degna di essere aiutata”.»
Trascinata dalla riconoscenza che sentiva per il suo benefattore,
Fleur-de-Marie aveva messo al bando i suoi timori; le guance le si
erano lievemente colorate, e i begli occhi azzurri che teneva levati
al cielo come se stesse pregando brillavano dolcemente.
Alle parole entusiaste di Fleur-de-Marie successero alcuni momenti
di silenzio; l’emozione di quanti si trovavano presenti era
profonda.
«Vedo, mia cara» riprese Rodolphe, che riusciva a stento a frenare
la sua gioia, «che nel vostro cuore ho preso quasi il posto di
vostro padre.»
«Non è colpa mia, signor Rodolphe. Forse faccio male... ma, come vi
ho detto, mio padre non lo conosco mentre voi sì» e chinato il capo
confusa, aggiunse: «e poi, in fondo, voi conoscete il mio passato...
signor Rodolphe... e nonostante ciò mi avete colmata di favori; ma
mio padre non lo conosce... questo mio passato. Forse gli dispiacerà
di avermi trovata» aggiunse la disgraziata fanciulla rabbrividendo,
«e se è, come dice la signora, di altissimo rango... si vergognerà
certamente... arrossirà di me.»
«Arrossire di voi» esclamò Rodolphe alzando la sua fronte altera, il
suo sguardo orgoglioso. «Rassicuratevi, povera bambina, vi darà una
posizione così brillante, così alta, che i più grandi fra i grandi
di questo mondo vi guarderanno d’ora in poi con profondo rispetto.
Arrossire di voi! no... no... Dopo le regine, alle quali siete
congiunta dal sangue... andrete al passo con le più nobili regine di
Europa.»
«Signore!» esclamarono Murph e Clémence, spaventati dall’esaltazione
di Rodolphe e dal crescente pallore di Fleur-deMarie, che guardava
stupita il padre.
«Arrossire di te!» egli continuò, «oh! se mai sono stato contento e
fiero della mia dignità di sovrano... è perché, in grazia di questa
dignità, posso alzarti quanto sei stata abbassata... capisci,
fanciulla cara... mia figlia adorata?... perché sono io... sono io
tuo padre!...»
E il principe, non potendo più frenare la sua emozione, si gettò ai
piedi di Fleur-de-Marie, ricoprendola di baci e di carezze.
«Siate benedetto, Dio mio!» esclamò Fleur-de-Marie, congiungendo le
mani. «Mi era dato di amare il mio benefattore come lo amavo... È
mio padre... potrò adorarlo senza rimorsi... Siate... benedetto...
mio...»
E non riuscì a finire... la scossa era stata troppo violenta;
Fleurde-Marie svenne tra le braccia del padre.
Murph corse alla porta del salone di servizio, l’aprì e disse:
«Il dottor David... subito... per Sua Altezza Reale... c’è qualcuno
che sta male».
«Maledizione a me!... l’ho uccisa...» gridò Rodolphe, singhiozzando
inginocchiato ai piedi della figlia. «Marie... bambina mia...
ascoltami... sono tuo padre... Scusami... oh! scusami... di non
avere potuto mantenere più a lungo questo segreto... L’ho uccisa...
Dio mio! l’ho uccisa!»
«Calmatevi, mio signore» disse Clémence; «non c’è nessun pericolo...
Guardate... ha le guance rosse... è l’impressione... solo
l’impressione.»
«Ma appena convalescente... morrà... Guai, oh! guai a me.»
In quel momento, David, il medico negro, entrò precipitosamente, con
una cassetta piena di fiale e un foglio che consegnò a Murph.
«David... mia figlia muore... Ti ho salvato la vita... devi salvare
mia figlia!» gridò Rodolphe.
Sebbene stupito dal fatto che il principe parlasse di sua figlia, il
dottore andò verso Fleur-de-Marie, che la signora d’Harville
teneva fra le braccia, le tastò il polso, le mise una mano sulla
fronte e, voltosi a Rodolphe che, pallido e sbigottito, aspettava il
suo responso:
«Non c’è nessun pericolo. Stia tranquilla Vostra Altezza». «Dici
davvero... nessun pericolo... nessuno?...»
«Nessuno, mio signore. Qualche goccia d’etere, e la crisi ces-
serà.»
«Oh! grazie... David... mio caro David!» esclamò il principe
con trasporto. Poi rivolgendosi a Clémence, Rodolphe, aggiunse:
«Vive... nostra figlia vivrà...».
Murph aveva dato un’occhiata al biglietto che gli aveva consegnato
David; sussultò e guardò sgomento il granduca.
«Sì, mio vecchio amico!...» seguitò Rodolphe, «tra poco mia figlia
potrà dire alla signora marchesa d’Harville... Mamma...»
«Signore» disse Murph, tremando, «la notizia di ieri era falsa...»
«Che dici?»
«Un attacco violento e una sincope avevano fatto pensare che la
contessa Sarah fosse morta...»
«La contessa!»
«Stamane... sperano di salvarla.»
«Dio mio!... Dio mio!...» gridò il principe annichilito, mentre
Clémence lo guardava stupita, senza capire.
«Signore» disse David, sempre occupandosi di Fleur-de-Ma-
rie, «non c’è per niente da stare in pena... ma ha bisogno di aria;
si potrebbe spingere la poltrona sulla terrazza e aprire la porta
che dà sul giardino... e lo svenimento cesserebbe del tutto.»
Murph andò subito ad aprire la porta a vetri che dava su un’immensa
scalinata che formava una terrazza; poi, aiutato da David, spinse
dolcemente la poltrona su cui sedeva la Goualeuse sempre svenuta.
Rodolphe e Clémence rimasero soli.
XII DISINTERESSE
«Ah signora!» esclamò Rodolphe, appena Murph e David si furono
allontanati, «non sapete chi è la contessa Sarah? è la madre di
Fleur-de-Marie!»
«Santo Dio!»
«E io che la credevo morta.»
Ci fu un momento di profondo silenzio.
La signora d’Harville divenne molto pallida e sentì spezzarsi il
cuore.
«Quello che ancora non sapete» riprese Rodolphe con amarezza, «è che
essa è una donna ambiziosa, egoista, che in me ha amato solo il
principe, e che m’ha spinto, quand’ero ancora giovane, a un
matrimonio che poi fu rotto. Quindi per potersi rimaritare ha
affidato a mani mercenarie sua figlia causandone così tutte le
sventure.»
«Ah, adesso capisco, mio signore, l’avversione che avete per lei.»
«Capirete anche perché per ben due volte ha voluto perdervi con
infami delazioni! Sempre per via di quella implacabile ambizione,
essa voleva costringermi a ritornare a lei isolandomi da ogni
affetto.»
«Oh che infame disegno!»
«E non è morta!»
«Mio signore, un simile rammarico non è degno di voi!» «Perché non
sapete tutti i mali che mi ha fatto! anche in que-
sto momento... quando, ritrovando mia figlia... stavo per darle una
madre degna di lei... Oh no... no... è un demone vendicatore che mi
segue a ogni passo...»
«Su, signore, coraggio» disse Clémence asciugandosi le lacrime che
le venivano giù, suo malgrado, «voi avete da compiere un sacro e
sublime dovere. L’avete detto voi stesso in un giusto e generoso
slancio d’amore paterno, d’ora in poi vostra figlia deve essere
felice tanto quanto prima è stata infelice. Deve essere innalzata
tanto quanto prima è stata umiliata. Per questo... dovete
legittimare la sua nascita... per questo dovete sposare la contessa
Mac-Grégor.»
«Mai, mai. Sarebbe come volere ricompensare la falsità, l’egoismo e
la feroce ambizione di questa madre snaturata. Io riconoscerò mia
figlia, voi l’adotterete e, come spero, troverà in voi un affetto
materno.»
«No, mio signore non dovete fare così; no, non lascerete nell’ombra
la nascita di vostra figlia. La contessa Sarah è di nobile e antica
casata; per voi certamente questo legame di parentela è inadeguato,
ma ha un certo decoro. Con questo matrimonio, vostra figlia non sarà
legittimata, ma legittima, e così, qualunque sia l’avvenire che
l’aspetta, potrà gloriarsi di suo padre e dire a voce alta il nome
della madre.»
«Ma rinunciare a voi, Dio mio! è impossibile. Ah, non v’immaginate
ciò che sarebbe stato per me una vita divisa fra voi e mia figlia, i
soli amori che abbia in questo mondo.»
«Vi resta vostra figlia, mio signore. Dio ve l’ha miracolosamente
resa. Considerare incompleta la vostra felicità sarebbe
un’ingratitudine!»
«Ah! voi non mi amate come vi amo io.»
«Credetemi mio signore, credetemi, il sacrificio che farete per i
vostri doveri vi sembrerà meno penoso.»
«Ma se voi mi amate, se i vostri rimpianti sono amari come i miei,
sarete terribilmente infelice. Che cosa vi resterà?»
«La carità, mio signore! questo sentimento meraviglioso che voi
avete destato nel mio cuore... questo sentimento che fino adesso mi
ha fatto dimenticare molti dolori e al quale devo tante dolci
consolazioni.»
«Di grazia, ascoltatemi. Va bene, la sposerò; ma, una volta fatto
questo sacrificio, mi sarà possibile vivere accanto a lei? a lei,
per la quale sento solo avversione e disprezzo? No, no, resteremo
separati per sempre l’uno dall’altra, essa non vedrà mai mia figlia.
Così Fleur-de-Marie... perdendo voi, perderà la più tenera delle
madri.»
«Le resterà il più tenero dei padri. Grazie al matrimonio, essa sarà
la figlia legittima di un principe sovrano d’Europa e, come voi
avete detto, la sua posizione sarà brillante tanto quanto prima è
stata oscura.»
«Siete spietata... come sono infelice!»
«Osate parlare così... voi così grande, così giusto... voi che avete
un’idea così alta del dovere, del disinteresse, dell’abnegazione. Se
poco fa, prima di questa rivelazione provvidenziale, vi avessero
detto, mentre stavate a piangere vostra figlia con singhiozzi così
strazianti: esprimete un desiderio, uno solo, e sarà realizzato, voi
avreste esclamato: Mia figlia... oh, che mia figlia sia viva! Il
miracolo si è compiuto... vostra figlia vi è stata restituita... e
voi vi dite infelice. Ah mio signore, che Fleur-de-Marie non vi
senta.»
«Avete ragione» disse Rodolphe, dopo un lungo silenzio «tanta
felicità... sarebbe stato il paradiso... su questa terra... e io non
la merito... farò il mio dovere. Non mi dispiace di aver esitato,
perché così ho avuto un’altra prova della bellezza della vostra
anima.»
«Siete stato voi ad averla resa così bella ed elevata. Se faccio del
bene il merito è vostro, così come merito vostro sono tutti i buoni
pensieri che ho avuto. Coraggio, signore, appena Fleur-deMarie sarà
in grado di mettersi in viaggio, portatela via. Quando sarà in
Germania, in un paese così calmo e grave, si trasformerà
completamente, e il passato non sarà per lei che un brutto sogno
lontano.»
«Ma voi? voi?»
«Quanto a me... adesso posso dire, e lo potrò sempre dire con gioia
e orgoglio, che il mio amore per voi sarà il mio angelo custode, il
mio salvatore, la mia virtù, il mio avvenire; tutto quanto farò di
bene verrà da lui e ritornerà a lui. Vi scriverò ogni giorno,
scusatemi se ho questa necessità, ma è la sola che mi concedo. Voi,
mio signore, mi risponderete qualche volta... per darmi notizie di
colei che per una volta almeno ho potuto chiamare mia figlia» disse
Clémence senza riuscire a trattenere le lacrime, «e che in spirito
lo sarà sempre; infine, quando col tempo ci saremo procurati il
diritto di confessare ad alta voce l’affetto che ci siamo
costantemente corrisposti... ebbene! ve lo giuro su vostra figlia,
se vorrete, verrò a vivere in Germania, nella vostra stessa città,
per non lasciarci più e terminare così una vita che avremmo potuto
vivere assecondando la nostra passione, ma che, dopotutto, sarà
stata almeno degna e decorosa.»
«Mio signore!» gridò Murph entrando precipitosamente nella stanza,
«colei che Dio vi ha restituito ha ripreso i sensi, sta rinvenendo.
Le sue prime parole sono state: “Padre mio!”... Chiede di
vedervi...»
Pochi minuti dopo, la signora d’Harville lasciava il palazzo del
principe; questi dal canto suo si era recato dalla contessa
MacGrégor, accompagnato da Murph, dal barone di Graün e da un
aiutante di campo.
XIII
IL MATRIMONIO
Dopo che Rodolphe le aveva detto dell’assassinio di Fleur-de-Marie,
la contessa Sarah Mac-Grégor, persa ogni speranza per via della
rivelazione avuta, s’era sentita talmente torturare dai rimorsi che
era caduta in violente crisi nervose, accompagnate da terribili
deliri; la sua ferita, mezzo cicatrizzata, si era riaperta; e una
lunga sincope aveva lasciato credere per un momento che fosse morta.
Ma, grazie alla sua forte costituzione, essa non soccombette a un
così duro colpo, e venne a rianimarla un nuovo barlume di vita.
Seduta su una poltrona, per sottrarsi all’oppressione che la
soffocava, Sarah si era immersa in angosciose riflessioni,
attraversate dal rammarico di essere sfuggita alla morte.
Improvvisamente Thomas Seyton entrò nella stanza della contessa; era
riuscito sì e no a celare la sua profonda emozione; fece
un segno alle due cameriere di Sarah perché si ritirassero; costei
parve accorgersi appena della presenza del fratello.
«Come state?» egli le disse.
«Nelle stesse condizioni... mi sento addosso una gran debolezza e di
tanto in tanto dolorose sensazioni di soffocamento... Perché Dio non
ha voluto strapparmi da questa vita nel mio ultimo attacco?»
«Sarah,» riprese Thomas Seyton dopo un momento di silenzio, «siete
tra la vita e la morte... con un’altra scossa potreste morire...
come anche salvarvi.»
«Non ho più nessuna scossa da subire, fratello mio.» «Forse...»
«Anche la morte di Rodolphe mi lascerebbe indifferente... lo
spettro di mia figlia annegata... annegata per colpa mia... è lì...
davanti a me... non è una sensazione... è un rimorso continuo. Solo
da quando non ho più mia figlia, sono veramente diventata madre.»
«Preferirei trovare in voi quella fredda ambizione che vi faceva
considerare vostra figlia come un mezzo per realizzare il sogno
della vostra vita.»
«I tremendi rimproveri del principe hanno ucciso questa ambizione,
il sentimento materno s’è destato in me... quando ho saputo delle
atroci sofferenze di mia figlia.»
«E...» disse Seyton esitando e pesando per così dire ogni parola,
«se per caso, supponiamo una cosa impossibile, per un miracolo,
veniste a sapere che vostra figlia vive ancora, come accogliereste
una simile notizia?»
«Vedendola, morirei di vergogna e di disperazione.»
«Non credo, vi esalterebbe troppo il trionfo della vostra ambizione!
Il principe infatti mi ha detto che se vostra figlia fosse stata
ancora in vita, vi avrebbe sposato.»
«Anche ammettendo una cosa così assurda, credo di non avere comunque
il diritto di vivere. Dopo avere accettato la mano del principe, il
mio dovere sarebbe quello di liberare lui... da una sposa indegna...
e mia figlia, da una madre snaturata...»
L’imbarazzo di Tom Seyton andava crescendo sempre più. Incaricato da
Rodolphe che era in una stanza vicina di dire a Sarah che
Fleur-de-Marie viveva, egli non sapeva che cosa decidere. La
contessa era così in pericolo, che poteva morire da un momento
all’altro; non c’era quindi altro da scegliere che un matrimonio in
extremis per legittimare la nascita di Fleur-de-Marie. Per questa
triste cerimonia, il principe s’era fatto accompagnare da un
pastore, da Murph e dal barone di Graün che dovevano fare da
testimoni; il duca di Lucenay e lord Douglas, avvisati all’ultimo
momento da Seyton di fare da testimoni alla contessa, erano appena
arrivati.
I momenti passavano in fretta; ma il compito di Seyton era reso
ancora più difficile da quell’impasto di affetto materno e di
rimorsi, che in Sarah aveva preso il posto di quella sua spietata
ambizione. La sua sola speranza era che la sorella lo ingannasse
oppure ingannasse se stessa, e che potesse essere ripresa dal suo
orgoglio non appena avesse raggiunto quella corona da tanto sognata.
«Sorella...» disse Thomas Seyton con voce grave e solenne, «sono
molto perplesso... una mia parola può forse farvi vivere... o
morire...»
«Ve l’ho già detto... non ho più paura di nessuna emozione...» «Ma
solo... però...»
«Quale?»
«Se si trattasse... di vostra figlia?...»
«Mia figlia è morta...»
«E se non lo fosse?»
«Abbiamo già scartato una tale supposizione... Basta, fratel-
lo... i rimorsi che ho sono sufficienti.»
«Ma se non fosse una supposizione? Se per una combinazio-
ne incredibile... insperata... vostra figlia fosse sfuggita alla
morte... se vivesse?»
«Mi fate male... non parlatemi così.»
«Ebbene! ma mi perdoni e vi giudichi!... Essa è ancora viva...» «Mia
figlia?»
«Essa vive, vi dico... Il principe è qui con un pastore... io ho
fatto avvisare due vostri amici, perché vi facciano da testimoni...
Il sogno della nostra vita è finalmente realizzato... Si compie la
predizione... Siete sovrana.»
Pronunciando queste parole, Thomas Seyton aveva puntato sul viso
della sorella due occhi pieni d’angoscia per vedere se si turbava.
Si stupì invece al notare che il volto di Sarah era rimasto
impassibile: essa però si portò le mani al cuore, si rigirò sulla
poltrona e represse un breve grido che sembrò strappato da un dolore
improvviso e profondo... poi il suo viso ridivenne calmo.
«Che avete, sorella?»
«Niente... la sorpresa... la gioia inattesa... Finalmente i miei
desideri sono stati esauditi!...»
«Non mi ero ingannato!» pensò Thomas Seyton. «L’ambizione torna a
galla... mia sorella è salva...» Poi rivolgendosi a Sarah: «Ebbene,
sorella, che vi dicevo?».
«Avevate ragione...» essa rispose con un amaro sorriso indovinando
il pensiero di suo fratello, «l’ambizione ha ancora una volta avuto
la meglio sul mio amore materno...»
«Voi vivrete! e amerete vostra figlia...»
«Non ne dubito... vivrò... vedete come sono calma...»
«Ma è reale questa calma?»
«Abbattuta, angosciata come sono... avrei la forza di finge-
re?»
«Capite ora, perché poco fa ero perplesso?»
«No, non me ne stupisco; perché voi conoscete la mia ambi-
zione... Dov’è il principe?» «È qui.»
«Vorrei vederlo... prima della cerimonia...» Poi aggiunse con
ostentata indifferenza: «E c’è anche mia figlia... immagino!»
«No... la vedrete più tardi.»
«Difatti, ho ancora tempo... vi prego fate venire il principe...»
«Sorella... non so... ma la vostra fisionomia ha qualcosa di
strano... di sinistro...»
«Volete che rida? Credete che il volto di un’ambizione appa-
gata abbia un’espressione dolce e tenera?... Fate venire il
principe!»
Seyton era, suo malgrado, preoccupato della calma di Sarah. Per un
momento gli sembrò di vedere negli occhi della sorella una gran
voglia di pianto; dopo avere esitato ancora un poco, uscì lasciando
aperta la porta.
«Adesso» disse Sarah, «purché veda... abbracci mia figlia, sarò
soddisfatta... Sarà difficile ottenerlo... Rodolphe, per punirmi, mi
dirà di no... Ma ci riuscirò... oh se ci riuscirò... Eccolo...»
Rodolphe entrò e chiuse la porta.
«Vostro fratello vi ha detto tutto?» chiese freddamente il principe
a Sarah.
«Tutto...»
«La vostra... ambizione... è soddisfatta?» «È... soddisfatta...»
«Il pastore... e i testimoni... sono qui...» «Lo so...»
«Possono entrare... penso...»
«Una parola... signore...»
«Parlate... signora...»
«Vorrei vedere mia figlia...»
«È impossibile...»
«Vi dico, signore, che voglio vedere mia figlia!...»
«È ancora convalescente... ha già subito stamane una violenta
scossa... un colloquio con voi le sarebbe fatale...»
«Ma almeno abbraccerà... sua madre...»
«A che serve? Eccovi principessa sovrana...»
«Non lo sono ancora... e non lo sarò se non dopo aver abbrac-
ciato mia figlia...»
Rodolphe guardò la contessa con profondo stupore. «Come!» egli
esclamò, «posponete la soddisfazione del vo-
stro orgoglio...»
«Alla soddisfazione... del mio amore materno... Vi stupisce,
signore?...»
«Ahimè!... sì.»
«Vedrò mia figlia?»
«Ma...»
«Badate, signore, forse ho i momenti contati... come ha detto
mio fratello... Questa crisi può salvarmi come può farmi morire...
In questo momento... sto raccogliendo tutte le mie forze... tutta la
mia energia... e me ne occorre molta... per lottare contro
l’impressione prodotta da una simile scoperta... Voglio vedere mia
figlia... altrimenti... rifiuto la vostra mano... e così se muoio,
la sua nascita non sarà legittimata.»
«Fleur-de-Marie... non è qui... bisognerebbe mandarla a prendere...
a casa mia.»
«Mandatela a prendere subito... acconsento a tutto. Siccome ho i
momenti contati, vi ho detto... il matrimonio si farà... nel lasso
di tempo che impiegherà Fleur-de-Marie a venire qui.»
«Sebbene questo sentimento mi stupisca da parte vostra... è troppo
bello perché io non lo rispetti... Vedrete Fleur-de-Marie... le
scriverò.»
«Sì... su questa scrivania... dove sono stata ferita...» Mentre
Rodolphe scriveva alcune parole in fretta, la contessa si asciugò il
gelido sudore che le grondava dalla fronte; il suo volto fino ad
allora impassibile tradì una violenta sofferenza interiore; sembrava
quasi che Sarah avesse smesso di controllarsi e di dissimulare per
prendere un po’ di respiro.
Scritta la lettera, Rodolphe si alzò e disse alla contessa:
«Farò portare questa lettera a mia figlia da un mio aiutante di
campo. Sarà qui fra una mezz’ora... posso fare entrare con il
pastore i testimoni?».
«Lo potete... o meglio... vi prego, suonate... non lasciatemi
sola... Incaricate sir Walter di questa commissione... Farà entrare
lui i testimoni e il pastore.»
Rodolphe suonò; comparve una delle cameriere di Sarah.
«Pregate mio fratello di mandar qui sir Walter Murph» disse la
contessa.
La cameriera uscì.
«Questo matrimonio è triste, Rodolphe...» disse amaramente la
contessa. «Triste per me... Per voi, sarà felice!»
Il principe fece un movimento.
«Sarà felice per voi, Rodolphe, perché non sopravviverò!»
In quel momento entrò Murph.
«Amico mio» gli disse Rodolphe, «fa’ portare questa lettera a
mia figlia dal colonnello; deve condurla qui con la mia carrozza...
Fa’ accomodare il pastore e i testimoni nella sala attigua.»
«Dio mio!» esclamò supplichevole Sarah dopo che il gentiluomo fu
uscito, «fa’ che mi restino le forze per vederla! che non muoia
prima del suo arrivo!...»
«Ah! perché non siete sempre stata così buona madre?»
«È merito vostro se adesso conosco almeno il pentimento, l’affetto,
l’abnegazione. Sì, poco fa, quando mio fratello mi ha detto che
nostra figlia viveva... lasciatemi dire nostra figlia... non lo dirò
per molto tempo, ho sentito nel cuore un colpo tremendo, ho sentito
che ero ferita a morte. Non ho lasciato trapelare niente, ma ero
felice... La nascita di nostra figlia sarebbe stata legittimata e
poi io sarei morta...»
«Non parlate così!»
«Oh! questa volta non vi inganno... vedrete!»
«E nessun segno di quella implacabile ambizione che vi ha ro-
vinato! Perché la fatalità ha voluto che il pentimento giungesse
tanto tardi?»
«È giunto tardi, ma è profondo e sincero, ve lo giuro. In questo
momento solenne, ringrazio Dio se mi toglie da questo mondo perché
la mia vita sarebbe stata un gran peso per voi...»
«Sarah! di grazia...»
«Rodolphe... un’ultima preghiera... la vostra mano...»
Il principe, girata la testa da un’altra parte, tese la mano alla
contessa che la strinse con forza tra le sue.
«Ah! le vostre mani sono gelate!» esclamò Rodolphe spaven-
tato.
«Sì... mi sento morire! Forse come ultima punizione Dio non
vorrà che io abbracci mia figlia!»
«Oh! sì... sì! sarà mosso a pietà dai vostri rimorsi...»
«E voi, amico mio, siete mosso a pietà?... mi perdonate?... Oh! di
grazia, ditemelo. Fra poco... quando nostra figlia sarà qui, se
giunge in tempo, non potrete perdonarmi davanti a lei... sarebbe
come dirle che io sono colpevole... e questo no, voi non lo
vorrete... Quando sarò morta, che cosa vi fa se essa mi amerà?»
«State tranquilla... non saprà niente!»
«Rodolphe... perdono!... oh! perdono!... Sarete senza pietà?... Non
sono abbastanza infelice?...»
«Ebbene che Dio vi perdoni il male che avete fatto a nostra figlia,
come io vi perdono quello che avete fatto a me, disgraziata donna!»
«Mi perdonate... dal fondo del cuore?...»
«Dal fondo del cuore...» disse il principe con voce turbata. La
contessa incollò le sue smorte labbra sulla mano di Rodol-
phe con uno slancio di gioia e di gratitudine, poi disse:
«Amico mio, fate entrare il pastore, e ditegli di non allontanar-
si... Mi sento molto debole!».
La scena era molto triste; Rodolphe aprì la porta; entrò il pa-
store seguito da Murph e dal barone di Graün, testimoni di Rodolphe,
e dal duca di Lucenay e da lord Douglas, testimoni della contessa;
per ultimo entrò Thomas Seyton.
Tutti i presenti alla dolorosa scena erano seri, tristi e nel più
grande raccoglimento: anche il signor di Lucenay aveva abbandonato
la sua solita irrequietezza.
Il contratto di nozze fra l’altissimo e potentissimo principe S.A.R.
Gustave-Rodolphe V, granduca regnante di Gerolstein, e Sarah Seyton
di Halsbury, contessa Mac-Grégor (contratto che doveva legittimare
la nascita di Fleur-de-Marie), era stato preparato e curato dal
barone di Graün. Quando questi l’ebbe letto, gli sposi e i testimoni
lo firmarono.
Nonostante fosse pentita, Sarah, quando il pastore disse con voce
solenne a Rodolphe: «Vostra Altezza Reale acconsente a prender in
sposa Sarah Seyton Mac-Grégor?» e il principe ebbe risposto Sì! con
voce alta e ferma, ebbe uno sguardo moribondo attraversato da un
balenio; una rapida e fuggitiva espressione di orgoglio e di trionfo
le apparve sulla faccia livida; era l’ultimo bagliore di ambizione
che si spegneva con lei.
Fu una cerimonia mesta e grave in cui i presenti non scambiarono una
parola. Quando fu terminata, i testimoni di Sarah, il signor duca di
Lucenay e lord Douglas, salutarono il granduca in silenzio e poi
uscirono.
A un cenno di Rodolphe, Murph e il signor di Graün li seguirono.
«Fratello mio» disse piano Sarah, «pregate il pastore di seguirvi
nella stanza accanto e di avere la compiacenza di aspettare lì un
momento.»
«Come state, sorella? siete molto pallida...»
«Adesso sono sicura di vivere... non sono la granduchessa di
Gerolstein?» essa soggiunse con un amaro sorriso.
Restata sola con Rodolphe, balbettò con voce fioca, mentre il volto
le si contraeva in modo terribile:
«Non ho più forze... mi sento morire... non la vedrò!».
«Sì... sì... state tranquilla, Sarah... la vedrete.».
«Non lo spero più... questo costringermi... Oh! ci voleva una
forza sovrumana... mi si annebbia già la vista!»
«Sarah!» disse il principe avvicinandosi prontamente alla con-
tessa e prendendole le mani fra le sue «... adesso, non più... non
tarderà molto ancora...»
«Dio non vorrà concedermi... quest’ultima consolazione.»
«Sarah! ascoltate, ascoltate... Mi sembra di sentire una carrozza...
Sì, è lei... ecco vostra figlia!»
«Rodolphe, voi non le direte... che sono stata una pessima madre!»
articolò lentamente la contessa che già non sentiva più.
Si udì una carrozza arrivare sul lastricato del cortile. La contessa
non se ne accorse. Le sue parole divennero sempre più sconnesse;
Rodolphe, chino su di lei, vide i suoi occhi velarsi.
«Perdono! figlia mia... vedere mia figlia! Perdono... almeno... dopo
la mia morte, gli onori del mio rango!» mormorò infine.
Queste furono le ultime parole intelligibili di Sarah.
Quell’idea fissa che aveva dominato tutta la sua vita ritornava
nonostante il sincero pentimento.
A un tratto entrò Murph.
«Signore... la principessa Marie...»
«No» gridò vivamente Rodolphe, «non farla entrare! Di’ a
Seyton di introdurre il pastore.» Poi, indicandogli Sarah che, in
agonia, stava lentamente spegnendosi, Rodolphe aggiunse: «Dio le ha
negato la suprema consolazione d’abbracciare sua figlia».
Mezz’ora dopo la contessa Sarah Mac-Grégor aveva cessato di vivere.
XIV BICÊTRE
Erano passati quindici giorni da quando Rodolphe, sposando Sarah in
extremis, aveva legittimato la nascita di Fleur-de-Marie.
Era il giorno di martedì grasso. Detta questa data, ci affrettiamo a
condurre il lettore a Bicêtre, È un immenso edificio, destinato,
come ognuno sa, alla cura dei pazzi, che serve anche di asilo a
sette o ottocento vecchi poveri, che sono ammessi a questa specie di
casa d’invalidi civili11 quando hanno compiuto l’età di settant’anni
o sono stati colpiti da gravi infermità.
Arrivando a Bicêtre, si entra dapprima in un vasto cortile pieno di
grandi alberi, con praticelli verdi ornati d’estate d’aiuole
fiorite. Niente di più ridente, di più calmo, di più salubre di
questa passeggiata destinata specialmente ai vecchi poveri di cui
abbiamo parlato; essa circonda i fabbricati in cui si trovano al
primo piano dormitori spaziosi, ben arieggiati e forniti di buoni
letti, e al pianterreno refettori di ammirevole pulizia, dove i
pensionanti di Bicêtre consumano i loro pasti sani, abbondanti,
gradevoli e preparati con estrema cura, grazie alla paterna
sollecitudine degli amministratori di quel bell’edificio.
Un simile ricovero sarebbe il sogno dell’artigiano vedovo o scapolo
che, dopo una lunga vita di privazioni, di lavoro e di probità,
troverebbe la tranquillità e il benessere che non ha mai conosciuto.
Purtroppo quel favoritismo che ai nostri giorni non risparmia
niente, invade tutto, si è impadronito delle borse di Bicêtre, per
cui a usufruire di questi asili sono in gran parte vecchi domestici
che hanno saputo sfruttare l’influenza dei loro ultimi padroni.
Questo ci sembra un abuso rivoltante.
Niente è tanto meritorio quanto i lunghi e onesti servizi in una
casa, niente è più degno di ricompensa di questi servitori che,
messi alla prova da anni di fedeltà, finivano col fare quasi parte,
in passato, della famiglia; ma per quanto pregevoli siano simili
referenze, è stato comunque il padrone ad averne approfittato, e non
lo Stato, che dovrebbe remunerarli.
11 Non potremmo mai stancarci di ripetere che nell’ultima sessione,
una petizione che era basata sui sentimenti e i desideri più giusti
e che intendeva richiedere la fondazione di case d’invalidi civili
per gli operai, è stata scartata in mezzo all’ilarità generale della
Camera (v. il «Moniteur»).
Non sarebbe dunque giusto, morale, umano, che i posti di Bicêtre e
quelli di altre simili fondazioni appartenessero di diritto ad
artigiani scelti fra quelli che avessero dato prova di ottima
condotta e di grande sfortuna?
Per essi, per ristretto che fosse il loro numero, questi asili
potrebbero almeno rappresentare una lontana speranza, un piccolo
alleviamento delle quotidiane miserie. Salutare speranza che,
incoraggiandoli al bene, mostrerebbe loro in un avvenire lontano sì,
ma sicuro la ricompensa di un po’ di calma e di felicità. E, siccome
potrebbero aspirare a questi asili solo grazie a una condotta
irreprensibile, la loro moralizzazione diventerebbe per così dire
obbligatoria.
È troppo chiedere che il piccolo numero di lavoratori che arrivano
alla vecchiaia, dopo privazioni di ogni genere, abbiano almeno la
fortuna di ottenere un giorno a Bicêtre un po’ di pane, riposo e un
riparo per la loro stanca vecchiaia?
È vero che una tale misura escluderebbe per l’avvenire da questo
edificio quei letterati anziani, quella gente dotta, e quegli
artisti che non hanno altro ricovero.
Sì, ai nostri giorni, uomini il cui talento, il cui sapere e la cui
intelligenza sono stati apprezzati dal loro tempo riescono sì e no a
ottenere un posto fra i vecchi servitori che sono entrati a Bicêtre
grazie al credito dei loro padroni.
Per coloro che hanno contribuito a rendere celebre e bella la
Francia, per coloro la cui reputazione è stata consacrata dalla fama
popolare, è troppo volere che abbiano nella loro estrema vecchiaia
un ricovero modesto ma decoroso?
Senza dubbio sarà troppo; tuttavia citeremo un esempio fra tanti: si
sono spesi da 8 a 10 milioni per il monumento della Madeleine, che
non è né un tempio, né una chiesa; con questa somma enorme quanto
bene si sarebbe potuto fare! fondare, mettiamo, una casa di ricovero
dove duecentocinquanta o trecento persone, un tempo celebri
scienziati, preti, musicisti, amministratori, medici, avvocati ecc.,
ecc. (infatti quasi tutte queste professioni hanno i loro
rappresentanti a Bicêtre), potessero trovare un ricovero onorevole.
Certo, è una questione di umanità, di pudore, di dignità nazionale
per un paese che pretende di essere il primo nel campo delle arti,
dell’intelligenza e della civiltà; ma nessuno ci ha pensato...
Infatti Hégésippe Moreau e tanti altri geni sono morti all’ospedale
o nell’indigenza...
Infatti le nobili intelligenze, che una volta hanno brillato di vivo
e puro splendore, portano oggi la cappa dei poveri di Bicêtre.
Qui non c’è, come a Londra, una casa di assistenza12 dove uno
straniero, senza mezzi, abbia almeno per una notte un letto e un
tozzo di pane...
Infatti gli operai che vanno a Grève per cercare lavoro o per
aspettare di essere assunti, non hanno, per ripararsi dalle
intemperie, neppure una tettoia simile a quella sotto la quale nei
mercati si mette il bestiame da vendere.13 Eppure la piazza di Grève
è la borsa degli operai disoccupati, e in quella borsa si fanno solo
transazioni oneste, perché esse hanno come unico scopo di ottenere
il duro lavoro e lo scarso salario con cui l’artigiano si paga un
pane amarissimo...
Infatti...
Ma non si finirebbe più se si dovessero contare tutte le inutili
fondazioni che sono state fatte per correre dietro alla ridicola
idea di voler costruire un tempio greco, da destinarsi poi al culto
cattolico.
Ma ritorniamo a Bicêtre e diciamo, per rendere note del tutto le
diverse funzioni di questa fondazione, che all’epoca di questo
racconto vi erano condotti anche i condannati a morte dopo la
sentenza. In una delle celle di questo edificio la vedova Martial e
la figlia Calebasse aspettavano l’ora di essere giustiziate, il
giorno stabilito; madre e figlia non avevano voluto né domandar
grazia,
12 Società di beneficenza, fondata a Londra da un nostro
compatriota, il signor conte d’Orsay, che patrocina questa nobile e
degna opera con generosità e intelligenza.
13 Noi conosciamo l’attività, lo zelo del signor prefetto della
Senna e del signor prefetto di polizia e anche le loro ottime
intenzioni per le classi povere e lavoratrici. Speriamo che questa
protesta giunga fino a loro, e che la loro iniziativa nel consiglio
municipale faccia cessare un simile stato di cose. La spesa sarebbe
minima e il beneficio grande. La stessa cosa varrebbe per i prestiti
gratuiti fatti dal Monte di pietà, quando la somma presa a prestito
fosse superiore a tre o quattro franchi. Non si dovrebbe inoltre,
ripetiamo, abbassare il tasso esorbitante di interesse? Come mai la
città di Parigi, così ricca, non fa godere alle classi povere quei
vantaggi che offrono loro, come ho detto,molte città del nord e del
sud della Francia, prestando sia gratuitamente, sia al 3 o 4%
d’interesse (si veda l’ottimo libro del signor Blaise, sulla
Statistica e organizzazione del Monte di pietà, opera piena di fatti
curiosi, di osservazioni sincere, eloquenti e nobili)?
né ricorrere in Cassazione. Nicolas, lo Squelette, e vari altri
scellerati erano riusciti a evadere dalla Force la sera prima del
trasferimento a Bicêtre.
Abbiamo già detto che niente era più ameno dell’aspetto di
quell’edificio, quando venendo da Parigi vi si entrava dal cortile
dei Poveri.
Grazie a una primavera precoce, gli olivi e i tigli si erano già
ricoperti del verde dei germogli; i grandi prati di erbetta erano
freschissimi; le sparse aiuole erano smaltate di bucaneve, di
margherite e di bocche di leone multicolori; il sole indorava la
sabbia luminosa dei viali. I vecchi pensionanti, vestiti di pellande
grigie, passeggiavano qua e là, o chiacchieravano seduti sulle
panchine: i loro visi erano sereni ed esprimevano di solito calma,
tranquillità e una specie di pacifica noncuranza.
Suonavano le undici all’orologio quando due carrozze si fermarono
davanti al cancello esterno; dalla prima carrozza scesero la signora
Georges, Germain e Rigolette; dalla seconda, Luise Morel e la madre.
Germain e Rigolette si erano, come sappiamo, sposati da quindici
giorni. Lasceremo immaginare al lettore l’allegra irrequietezza, la
vivace felicità che brillavano sul bel visetto della sartina, le cui
rosee labbra si schiudevano solo per ridere, sorridere o baciare la
signora Georges, che chiamava mamma.
Il volto di Germain esprimeva una felicità più calma, più grave, più
pacata... vi si univa un sentimento di profonda gratitudine, quasi
di rispetto per la buona e coraggiosa fanciulla che in prigione gli
aveva dato tanto conforto... del che Rigolette sembrava non
ricordarsi affatto; infatti appena il suo piccolo Germain faceva
cadere il discorso su questo argomento, essa parlava subito d’altro,
dicendo che quei ricordi la rattristavano. Sebbene fosse diventata
la signora Germain e Rodolphe l’avesse dotata di 40.000 franchi,
Rigolette non aveva voluto, e il marito era stato del suo parere,
cambiare la sua acconciatura da sarta con il cappello.
Certo, mai l’umiltà è stata al servizio di più innocente civetteria;
infatti niente era più grazioso, più elegante della sua cuffietta
con frangia liscia, un po’ alla contadina e con ai lati due grossi
fiocchi arancione che facevano ancora più risaltare la lucida
nerezza dei capelli che aveva lunghi e inanellati ora che aveva
tempo di mettersi i bigodini; attorno al bel collo aveva un colletto
finemente ricamato; una sciarpa di cachemire francese, dello stesso
colore dei nastri della cuffietta, le nascondeva quasi interamente
la vita flessuosa e sottile; e, quantunque non avesse, come il
suo solito, il corsetto (pur avendo anche il tempo di
allacciarselo), l’accollato vestito di taffetà color malva che aveva
non le faceva la più piccola piega sul corpetto tondo e slanciato
come quello di una Galatea di marmo.
La signora Georges contemplava il figlio e la nuora con sempre
rinnovata e profonda felicità.
Louise Morel, dopo una minuziosa istruttoria e dopo che fu fatta
l’autopsia a suo figlio, era stata messa in libertà dalla camera di
consiglio del tribunale. Sul bel volto della figlia del lapidario,
scavato dalla sofferenza, si poteva leggere una specie di
rassegnazione dolce e triste. Grazie alla generosità di Rodolphe e
alle cure che egli le aveva fatto prodigare, la madre di Louise
Morel aveva riacquistato la salute.
Avendo il custode del portone chiesto alla signora Georges che cosa
desiderasse, essa rispose che uno dei medici del reparto dei pazzi
aveva dato appuntamento per le undici e mezzo a lei e alle persone
che l’accompagnavano. Il custode disse alla signora Georges che
poteva attendere il dottore in un ufficio, e glielo indicò, oppure
nel giardino di cui abbiamo parlato. Decisasi per quest’ultimo, si
appoggiò al braccio del figlio e, continuando a parlare con la
moglie del lapidario, percorse i viali del giardino. Louise e
Rigolette li seguivano a poca distanza.
«Come sono contenta di vedervi, cara Louise!» disse la sartina.
«Poco fa, quando siamo venute a prendervi in rue du Temple, al
nostro arrivo da Bouqueval, volevo salire da voi; ma mio marito non
ha voluto perché diceva che era troppo in alto: ho aspettato nella
carrozza. Voi siete salita nella carrozza che seguiva la nostra; per
cui ora è la prima volta che vi parlo da quando...»
«Da quando venivate a consolarmi in prigione... Ah, signorina
Rigolette» esclamò Louise commossa «che buon cuore! che...» «Prima
di tutto, mia cara Louise» interruppe lietamente la sartina per
evitare i ringraziamenti, «non sono più la signorina Rigolette, ma
la signora Germain: non so se lo sappiate... ma io ci
tengo ai miei titoli.»
«Sì, sapevo... che vi eravate maritata... Ma lasciate che vi rin-
grazi ancora di...»
«Ciò che certamente non sapete, mia buona Louise» conti-
nuò la signora Germain interrompendo di nuovo la figlia di Morel,
per sviare Louise dalle sue idee, «ciò che non sapete è che mi sono
sposata grazie alla generosità di colui che è stato una provvidenza
per tutti noi, per voi, per la vostra famiglia, per me, per Germain,
per sua madre!»
«Il signor Rodolphe! Oh, noi lo benediciamo ogni giorno!... Quando
sono uscita di prigione, l’avvocato che è venuto da parte sua a
vedermi, a consigliarmi e a incoraggiarmi, mi ha detto che, grazie
al signor Rodolphe, che aveva fatto già tanto per noi, il signor
Ferrand...» e la poveretta non poté pronunciare quel nome senza
rabbrividire... «il signor Ferrand, per riparare alla sua crudeltà,
aveva assicurato una rendita a me e una a mio padre, che è ancora
qui... ma che, grazie a Dio, va sempre più migliorando...»
«E che oggi ritornerà con voi a Parigi... se si realizzerà la
speranza di quel bravo medico.»
«Volesse il cielo!...»
«Il cielo deve volerlo... Vostro padre è così buono e onesto! E io
sono sicura che lo condurremo con noi.»
«Il medico pensa che adesso c’è bisogno di una grande scossa, e che
l’inaspettata presenza di persone che vostro padre aveva l’abitudine
di vedere quasi ogni giorno prima di perdere la ragione... potrà
rendere la sua guarigione... A me, nel mio piccolo, pare ormai cosa
sicura...»
«Non oso ancora crederci, signorina.»
«Signora Germain... signora Germain... se non vi dispiace, mia buona
Louise... Ma per ritornare a quello che vi dicevo prima, non sapete
chi è il signor Rodolphe?»
«È la provvidenza dei disgraziati.»
«Prima di tutto... e poi che altro? Voi non lo sapete... Ebbene!
adesso ve lo dirò...»
Poi, rivoltasi al marito che camminava davanti a lei a braccio della
signora Georges e che chiacchierava con la moglie del lapidario,
Rigolette esclamò:
«Amico mio... non camminare così svelto... stancherai la nostra cara
mamma... e poi mi piace averti vicino».
Germain, rallentò il passo, si voltò, sorrise a Rigolette, che gli
mandò un bacio furtivo.
«Com’è carino, il mio piccolo Germain! Vero Louise? E inoltre ha
un’aria così distinta!... una bella figura! Non ho avuto forse
ragione a preferirlo agli altri miei vicini, il signor Giraudeau, il
commesso viaggiatore, e il signor Cabrion?... Ah, Dio mio! A
proposito di Cabrion... il signor Pipelet e sua moglie dove sono? Il
medico aveva detto anche a loro di venire perché vostro padre aveva
pronunciato spesso il loro nome...»
«Non tarderanno. Quando sono venuta via da casa erano usciti già da
molto.»
«Oh! allora non mancheranno all’appuntamento; il signor Pipelet è
puntuale come un orologio...
«Ma ritorniamo al nostro matrimonio e al signor Rodolphe.
Figuratevi, Louise, che prima di tutto è stato lui a mandarmi a
portare l’ordine di scarcerazione per Germain. Pensate alla nostra
gioia quando siamo usciti da quella maledetta prigione! Arriviamo a
casa mia, e lì, aiutata da Germain, faccio un pranzetto... ma un
pranzetto da veri golosi. È vero che non ci è servito a niente;
infatti, quando avevamo finito, non avevamo mangiato né l’uno né
l’altra, eravamo troppo contenti. Alle undici Germain se ne va; ci
diamo appuntamento per la mattina seguente. Alle cinque ero già
alzata e all’opera, perché ero rimasta indietro di almeno due
giorni. Alle otto bussano, apro: chi entra? Il signor Rodolphe...
Come prima cosa lo ringrazio con tutto il cuore per tutto ciò che ha
fatto per il povero Germain; non mi lascia finire. Vicina mia, mi
dice, adesso verrà Germain e voi gli consegnerete questa lettera.
Poi assieme prendete una carrozza e recatevi subito a un paesino che
si chiama Bouqueval, vicino a Ecouen, via SaintDenis. Arrivati lì
chiederete della signora Georges... e arrivederci. Signor Rodolphe,
è un altra giornata persa, e, non per farvene un rimprovero, ma così
saranno tre. State tranquilla, vicina mia, dalla signora Georges
troverete lavoro; sarà un’ottima cliente. Se è così, va bene, signor
Rodolphe. Addio, vicina. Addio e grazie, vicino. Se ne va e arriva
Germain; gli racconto la cosa, il signor Rodolphe non poteva
ingannarci; saliamo in carrozza, allegri come matti, noi che il
giorno prima eravamo così tristi... Immaginatevi... arriviamo... Ah,
mia buona Louise... vedete, mio malgrado mi vengono le lacrime agli
occhi... Quella signora Georges che adesso è davanti a noi, era la
madre di Germain.»
«Sua madre!!!»
«Dio mio, sì... sua madre; le era stato rapito da bambino, e lei non
sperava più di rivederlo. Immaginatevi la felicità di quei due. Dopo
che la signora Georges ebbe pianto e abbracciato suo figlio, è stata
la mia volta.»
«Il signor Rodolphe le aveva certamente scritto delle buone cose su
di me, perché essa mi ha detto, stringendomi fra le braccia, che
sapeva come mi ero comportata con suo figlio. E se voi volete,
mamma, disse Germain, anche Rigolette sarà vostra figlia. Se lo
voglio, ragazzi miei! ma con tutto il cuore; lo so, non troverai mai
una donna più buona e più graziosa. Eccoci dunque sistemati in una
bella fattoria con Germain, sua madre e i miei uccelletti, che avevo
fatto venire, povere bestioline, perché godessero anche
loro. Sebbene a me non piaccia la campagna, i giorni passavano così
in fretta che mi sembrava un sogno, non lavoravo che per diporto;
aiutavo la signora Georges, passeggiavo con Germain, cantavo,
saltavo, c’era da impazzire...
«Infine si fissa il giorno del nostro matrimonio, quindici giorni
fa, circa... Il giorno prima della vigilia, chi è che arriva in una
bella carrozza? un signore grande e grosso, calvo, dall’aria buona,
che mi porta, da parte del signor Rodolphe, un regalo di nozze.
Immaginatevi, Louise, un cofanetto di legno rosa, con queste parole
scritte in oro su un listello di porcellana blu: Lavoro e bontà,
amore e felicità. Apro il cofanetto e che cosa trovo? cuffiette di
pizzo come questa che porto, vestiti, gioielli, guanti, questa
sciarpa, un bello scialle, insomma sembrava una fiaba.»
«È proprio vero che era come una fiaba; ma vedete come vi ha portato
fortuna... essere così buona e laboriosa.»
«Quanto a essere buona e laboriosa, non è merito mio... sono nata
così... tanto meglio per me... Ma non è tutto: in fondo al cofanetto
scopro un bel portafogli con queste parole: Il vicino alla sua
vicina. Lo apro: c’erano due buste, una per Germain, l’altra per me;
in quella di Germain trovo una carta che lo nominava direttore di
una banca per poveri, con 4000 franchi di salario; lui, nella busta
per me, trova un buono di 40.000 franchi... del tesoro... proprio
così, era la mia dote... Non voglio accettarlo, ma la signora
Georges che aveva parlato col gran signore calvo e con Germain:
Figliola, potete e dovete accettare; è il premio per la vostra bontà
e per il vostro lavoro... e per la vostra premura verso coloro che
soffrono... Infatti, togliendovi ore di sonno, a rischio di
ammalarvi e di perdere così i vostri soli mezzi di sussistenza,
siete andata a consolare i vostri amici disgraziati.»
«Oh! questo è vero» esclamò Louise; «non ce n’è un’altra come voi
almeno... signorin... signora Germam.»
«Va bene!... Io dico al gran signore calvo che l’ho fatto per mio
piacere; egli mi risponde: Non importa, il signor Rodolphe è
immensamente ricco; la vostra dote è da parte sua una dimostrazione
di stima, di amicizia; un vostro rifiuto gli farebbe molto
dispiacere; egli assisterà comunque al vostro matrimonio, e vi
costringerà ad accettare.»
«Che fortuna che tanta ricchezza sia in mano a una persona
caritatevole come il signor Rodolphe!»
«Certo è ricco, ma se non avesse altro che questo. Ah, cara Louise,
se sapeste chi è il signor Rodolphe!... E io che gli ho fatto
portare i miei pacchetti!!! Ma pazienza... ora sentirete... La sera
prima del matrimonio... molto tardi arriva con la diligenza il
solito signore calvo; il signor Rodolphe non poteva venire... non
stava bene, e mandava lui al suo posto... Allora soltanto, cara
Louise, abbiamo saputo che il vostro e il nostro benefattore, era...
indovinate?... un principe!»
«Un principe?»
«Che dico principe?... un’altezza reale, un granduca regnante, un re
in piccolo... Germain mi ha spiegato tutto.»
«Il signor Rodolphe!»
«Eh! mia povera Louise! E io che gli avevo chiesto di aiutarmi a
dare la cera alla stanza!»
«Un principe... quasi un re! Per questo ha la possibilità di fare
tanto bene.»
«Capirete la mia confusione, mia buona Louise. Così vedendo che era
quasi un re, non ho osato rifiutare la dote. Ci siamo sposati. Otto
giorni fa, il signor Rodolphe ha fatto dire a me, a Germain e alla
signora Georges, che sarebbe stato molto contento se gli avessimo
fatto una visita di nozze; andiamo da lui. Caspita, capirete, il
cuore mi batteva forte, arriviamo in rue Plumet, entriamo in un
palazzo, attraversiamo saloni pieni di servitori gallonati, di
signori in nero con grandi catene d’argento al collo e con la spada
al fianco, di ufficiali in uniforme; o che so io? e poi cose dorate
dappertutto tanto che ne eravamo abbagliati. Infine troviamo il
signore calvo in un salone con altri signori tutti fregiati; ci fa
entrare in una grande stanza dove troviamo il signor Rodolphe...
cioè il principe, vestito molto semplicemente e una faccia così
buona, così franca e così poco superba... insomma con una faccia
così da signor Rodolphe di una volta che io mi sono subito sentita a
mio agio, ricordandomi che mi ero fatta attaccare da lui lo scialle,
temperare le penne e che mi aveva dato il braccio per strada.»
«Non avete più avuto paura? Oh, io avrei tremato come una foglia!»
«Ebbene! io, no. Dopo avere ricevuto la signora Georges con grande
bontà e avere dato la mano a Germain, il principe mi ha detto
sorridendo: “E allora, vicina mia, come stanno papà Crétu e
Ramonette?” (Sono i nomi dei miei uccellini; com’è stato gentile a
ricordarsene!). “Sono sicuro” ha aggiunto, “che adesso voi e Germain
vi misurerete in canto con i vostri begli uccelletti!” “Sì, mio
signore.” (La signora Georges per tutta la strada aveva ripetuto a
me e a Germain di chiamare il principe mio signore). “Sì, mio
signore, la nostra felicità è gran-
de e ci sembra ancora più dolce e più grande perché la dobbiamo a
voi.” “Non a me la dovete, ma alle vostre ottime qualità e a quelle
di Germain”. Eccetera, ecc., non sto qui a dire tutti gli altri
complimenti che ci ha fatto. Insomma ce n’andiamo via col cuore un
po’ gonfio perché non lo avremmo più rivisto. Ci aveva detto che di
lì a qualche giorno sarebbe tornato in Germania, forse è già
partito; ma partito o no il suo ricordo resterà sempre con noi...»
«Se ha dei sudditi, chissà come saranno felici!»
«Figuratevi! Ha fatto tanto bene a noi che non siamo niente per lui.
Dimenticavo di dirvi che in quella fattoria aveva abitato una delle
mie ex compagne di prigione, una cara e onesta ragazza che, per sua
fortuna, aveva anche lei incontrato il signor Rodolphe; ma la
signora Georges mi aveva molto raccomandato di non parlarne al
principe, non so perché... certamente perché non gli piace sentire
parlare del bene che fa. Una cosa è sicura, ed è che, a quanto
sembra, la cara Goualeuse ha trovato i suoi genitori e che questi
l’hanno portata con sé, lontano, lontano; quello che mi dispiace è
di non averla potuta abbracciare prima che partisse.»
«Certo, meglio così» disse amaramente Louise; «anche lei è
felice...»
«Scusate, mia buona Louise... sono egoista; non vi parlo che di
felicità... a voi che avete tanti motivi per essere triste.»
«Se mi fosse restato mio figlio» disse mestamente Louise,
interrompendo Rigolette, «avrei avuto un conforto; infatti adesso
quale uomo mi vorrebbe, anche se ho denaro?»
«Anzi, Louise, per me, qualsiasi bravo uomo sarebbe capace di capire
la vostra situazione; sì, quando saprà tutto, quando vi conoscerà,
non potrà fare altro che compiangervi, stimarvi, e sarà sicuro di
avere in voi una buona e brava donna.»
«Mi dite questo per consolarmi.»
«No lo dico perché è vero.»
«Comunque, vero o no, questo non può che farmi bene, e ve
ne sarò grata. Ma, chi arriva? To’, è il signor Pipelet con sua
moglie! Dio mio, come sembra contento! lui, che negli ultimi tempi
era sempre così triste, per gli scherzi del signor Cabrion.»
Infatti i coniugi Pipelet stavano venendo avanti allegramente.
Alfred con l’inseparabile cappello a rocchetto e un magnifico
vestito verde prato che era ancora nuovo fiammante; il suo
fazzoletto a punte ricamate era annodato attorno a un enorme collo
di camicia che gli nascondeva quasi interamente le guan-
ce; un gran panciotto a fondo giallo acceso con larghe strisce
marrone, pantaloni neri un po’ corti, calze bianchissime e scarpe
rese lucidissime dalla tinta color uovo completavano il suo
abbigliamento.
Anastasie si pavoneggiava in un vestito di merinos amaranto, sul
quale risaltava uno scialle azzurro cupo. Mostrava con orgoglio a
tutti la sua parrucca arricciata da poco, dato che la cuffia se
l’era appesa al braccio per mezzo di nastri verdi e la portava come
una borsa.
La fisionomia di Alfred, di solito grave, raccolta e poco prima così
abbattuta, brillava, scintillava, sfolgoreggiava; appena scorse
Louise e Rigolette, corse verso di loro esclamando con la sua voce
da basso:
«Liberato... partito!».
«Ah, Dio mio! signor Pipelet» disse Rigolette, «che faccia allegra
avete! che vi è successo?»
«Partito... signorina, o meglio signora, voglio, posso, devo dire,
perché adesso siete esattamente come Anastasie, grazie al conjugo,
come vostro marito, il signor Germain, è esattamente come me.»
«Troppo gentile, signor Pipelet» disse Rigolette sorridendo; «ma chi
è che è partito?»
«Cabrion!» urlò il signor Pipelet inspirando ed espirando aria con
grande gioia come se si fosse sgravato di un gran peso. «Lascia la
Francia per sempre, per sempre... in perpetuo... insomma è partito.»
«Ne siete sicuro?»
«L’ho visto... con i miei occhi montare sulla diligenza per
Strasburgo... con tutti i suoi bagagli... e le sue cose, cioè una
cappelliera, un bastone e la cassetta dei colori.»
«Che cosa vi sta raccontando il mio caro vecchio?» disse Anastasie
che arrivava allora tutta trafelata, poiché non era riuscita a stare
dietro alla gran corsa di Alfred. «Scommetto che vi sta parlando
della partenza di Cabrion! non ha fatto altro che parlarne per tutta
la strada.»
«Il fatto è, Anastasie, che mi pare di essere sollevato da terra.
Prima, il mio cappello mi dava la sensazione di essere foderato di
piombo; adesso mi pare che l’aria mi sollevi verso il cielo!
Partito... finalmente... partito! e non ritornerà più.»
«Per fortuna, brutto mascalzone!»
«Anastasie, abbiate riguardo per chi è assente... la felicità mi
rende clemente; dirò solo che era un monellaccio.»
«E come avete saputo che andava in Germania?» chiese Rigolette.
«Da un amico del mio principe degli inquilini. A proposito non
sapete che, grazie alle ottime informazioni che egli ha dato su di
noi, Alfred è stato nominato custode e guardiano di un Monte di
pietà e di una banca di carità fondata in casa nostra da un’anima
buona, che mi sa tanto che sia quella di cui il signor Rodolphe
faceva il commesso viaggiatore di buone azioni.»
«Tutto si combina» riprese Rigolette, «mio marito è direttore di
quella banca, anche lui grazie al signor Rodolphe.»
«E giù dunque...» gridò allegramente la signora Pipelet. «Meglio
così! meglio così! meglio le conoscenze che gli intrusi, meglio i
visi vecchi che i nuovi. Ma, per ritornare a Cabrion, immaginatevi
che un signore grande, grosso e calvo, venendo a darci la notizia
della nomina di Alfred a guardiano, ci ha chiesto se un pittore di
gran talento era alloggiato da noi. Al nome di Cabrion, ecco il mio
caro vecchio che alza lo stivale in aria e comincia a sudare freddo.
Per fortuna quel signore calvo aggiunge: il pittore sta per partire
per la Germania; ce lo conduce un ricco signore per dei lavori che
lo tratterranno lì per vari anni... anzi forse si stabilirà per
sempre all’estero. A prova di questo, il tipo fece sapere al mio
vecchio la data della partenza di Cabrion e l’indirizzo dell’ufficio
delle vetture di posta.»
«E ho l’immensa fortuna di leggere sul registro: Il signor Cabrion,
pittore, partenza per Strasburgo e per l’estero.»
«La partenza era fissata per stamane.»
«Vado nel cortile con la mia sposa.»
«Vediamo quel mascalzone salire sull’imperiale accanto al
conduttore.»
«E poi quando la carrozza si muove, Cabrion mi scorge, mi
riconosce, si volta e mi grida: Parto per sempre... tuo per la vita!
Meno male che la tromba del vetturino copre un po’ le ultime parole
evitando che si notasse quel suo indecente modo di apostrofarmi
dandomi del tu, cosa che io disprezzo... Comunque, sia lodato Iddio,
è partito.»
«È partito per sempre, certo, signor Pipelet» disse Rigolette
frenando una grande voglia di ridere. «Ma voi non sapete, e vi
meraviglierete molto... che il signor Rodolphe era...»
«Era?»
«Un principe travestito... un’altezza reale.»
«Eh, via che storie!» disse Anastasie.
«Ve lo giuro su mio marito...» rispose seriamente Rigolette.
«Il mio principe degli inquilini... un’altezza reale!» esclamò
Anastasie. «Ma dai!... E io che l’ho pregato di badare alla
portineria!... Perdono... perdono... perdono...»
Ed essa si rimise automaticamente la cuffia in testa, come se quella
acconciatura fosse più conveniente per parlare di un principe.
Come per un’operazione diametralmente opposta nelle forme, ma molto
simile nel valore, Alfred, contrariamente al suo solito, si tolse il
cappello e salutò profondamente il vuoto esclamando: «Un principe,
un’altezza nella nostra portineria!... E mi ha visto sotto le
lenzuola quando sono stato a letto per le infamie di Cabrion!».
In quel momento la signora Georges si volse, e disse al figlio e a
Rigolette:
«Figlioli, ecco il dottore».
XV
IL MAÎTRE D’ÉCOLE
Il dottor Herbin, uomo avanzato in età, aveva una fisionomia
estremamente spirituale e distinta, uno sguardo penetrante e sagace,
e un sorriso buono e dolce. La sua voce, armoniosa per natura,
diventava quasi carezzevole quando si rivolgeva ai dementi; cosicché
sembrava che spesso la soavità della sua voce e la dolcezza delle
sue parole riuscissero a calmare la naturale irritabilità di quei
disgraziati. Egli era stato uno dei primi a ricorrere, per curare la
pazzia, alla pietà e alla benevolenza anziché ai terribili mezzi
coercitivi impiegati una volta: niente più catene, bastonate, getti
d’acqua, e soprattutto niente più isolamento (tranne qualche caso
eccezionale).
Da uomo straordinariamente intelligente, aveva capito che l’insania
e il furore venivano esasperati dalla segregazione e dalla
brutalità; e che invece, obbligando gli alienati alla vita in
comune, mille distrazioni, mille incidenti impedivano loro ogni
momento di concentrarsi su un’idea fissa, che sarebbe stata ancora
più funesta se frutto di solitudine e minacce.
Così con l’esperienza si è dimostrato che per i pazzi l’isolamento è
funesto com’è invece salutare per i detenuti criminali... lo
scompiglio mentale dei primi aumenta con la solitudine, come lo
scompiglio o meglio lo spirito di infrazione alla morale dei secondi
aumenta e diventa insensibile frequentando gente corrotta come loro.
Certo ci vorranno parecchi anni prima che l’attuale sistema
penitenziario, con le sue prigioni in comune, vere scuole d’infamia,
le sue galere, le sue catene, le sue gogne e le sue ghigliottine,
possa sembrare sbagliato, barbaro e atroce come il vecchio sistema
di cura dei pazzi sembra assurdo e atroce ora...
«Signore» disse la signora Georges14 al dottor Herbin, «accompagno
mio figlio e mia nuora a vedere il signor Morel, sebbene io non lo
conosca. La sua situazione mi è sembrata così penosa, che non ho
potuto resistere al desiderio di assistere con i miei figlioli al
completo risvegliarsi della sua ragione, ragione che ci hanno detto
voi sperate gli ritorni con le prove a cui state per sottoporlo.»
«Conto molto, signora, sull’impressione favorevole che gli procurerà
la presenza della figlia e delle persone che era solito vedere.»
«Quando vennero ad arrestare mio marito» disse la moglie di Morel
commossa indicando Rigolette al dottore, «questa nostra buona vicina
s’è data da fare per soccorrere me e le mie creature.»
«Mio padre conosceva bene anche il signor Germain, che è sempre
stato tanto buono con noi» aggiunse Louise. Poi, mostrandogli Alfred
e Anastasie, essa continuò: «Il signore e la signora sono i portinai
della nostra casa... anch’essi avevano aiutato molte volte la nostra
famiglia quando c’erano disgrazie, per quanto potevano».
«Vi ringrazio, signore» disse il dottore ad Alfred, «di esservi
disturbato a venire qui; mi sembra però che quanto si è detto ora,
provi che questa visita non debba dispiacervi.»
«Signore» disse Pipelet inchinandosi con gravità, «gli uomini devono
aiutarsi scambievolmente quaggiù... siamo tutti fratelli... senza
contare che papà Morel era una perla di galantuomo... prima di
perdere la ragione in seguito al suo arresto e a quello della
signorina Louise.»
«E anche» riprese Anastasie, «mi dispiace sempre che il piatto di
minestra bollente che ho gettato in testa alle guardie non fosse
piombo fuso... non è vero, caro vecchio? piombo fuso...»
«È vero; devo rendere un giusto omaggio all’affetto che la mia sposa
ha per i Morel.»
14 Noi sappiamo che difficilmente le donne sono ammesse nei
manicomi: chiediamo scusa al lettore di questa nostra licenza che
peraltro è necessaria alla nostra storia.
«Signora» disse il dottor Herbin alla madre di Germain, «speriamo
che la presenza degli alienati non vi faccia paura perché dovremo
attraversare vari cortili prima di giungere all’edificio esterno
dove ho giudicato opportuno far condurre Morel, dopo avere dato
l’ordine che questa mattina non lo mandassero al podere come al
solito.»
«Al podere, signore?» disse la signora Georges, «c’è un podere qui?»
«Vi sorprende, signora? Vi capisco. Sì, noi qui abbiamo un podere i
cui prodotti sono una gran risorsa per la casa, podere che è
lavorato dagli alienati.»15
«Essi vi lavorano? in libertà, signore?»
«Certo, il lavoro, la calma dei campi, la vista della natura, è uno
dei nostri migliori mezzi di cura... Un solo guardiano ve li conduce
e non c’è mai stato un caso di evasione; essi vi si recano con vera
soddisfazione... e il piccolo salario che guadagnano serve a
migliorare la loro posizione... a procurare loro piccole gioie. Ma
eccoci arrivati alla porta di uno dei cortili.» Poi, scorta una
leggera ombra di apprensione sul volto della signora Georges, il
dottore soggiunse: «Non abbiate paura, signora... fra qualche minuto
sarete tranquilla come me.»
«Vi seguo, signore... Venite, figlioli.»
«Anastasie» disse piano il signor Pipelet, che era rimasto indietro
con la moglie, «quando penso che, se l’infernale persecuzione di
Cabrion fosse durata... il tuo Alfred sarebbe diventato pazzo, e,
come tale, sarebbe stato relegato fra questi disgraziati che adesso
vedremo vestiti degli abiti più strani, con catene attorno alla vita
o chiusi in gabbie di ferro come le bestie feroci del
Jardin-desPlantes!»
«Non parlarmene, vecchio adorato... Dicono che i pazzi per amore
diventano vere e proprie scimmie appena scorgono una donna... Si
gettano alle sbarre delle loro gabbie, emettono urla orribili... e
bisogna che i loro guardiani li calmino con grandi frustate e
aprendo loro sulla testa immensi rubinetti di acqua gelida che cade
da cento piedi di altezza... e questo non basta ancora a
rinfrescarli.»
«Anastasie, non avvicinatevi troppo a quelle gabbie di matti» disse
gravemente Alfred; «fa presto a succedere una disgrazia!»
«Senza contare che non sarebbe bello da parte mia avere l’aria di
farmi beffe di loro; perché, dopotutto aggiunse Anastasie con
15 Questo podere, ammirevole mezzo di cura, è situato a poca
distanza da Bicêtre.
malinconia, «sono le nostre grazie a rendere gli uomini così. Vedi,
Alfred mio, mi vengono i brividi quando penso che se non avessi
voluto farti felice, adesso come adesso saresti probabilmente pazzo
d’amore come uno di questi ossessi... ti arrampicheresti, povero
vecchio caro... tu che, invece, scappi via, appena esse ti
stuzzicano.»
«Il mio pudore prende ombra di tutto, è vero, e non me ne lamento.
Ma, Anastasie, la porta si apre, ho i brividi... Vedremo facce
spaventose, sentiremo rumori di catene e digrignare di denti...»
Il signore e la signora Pipelet, non avendo, come si vede, sentito
il discorso del dottor Herbin, avevano quei pregiudizi popolari sui
manicomi che esistono ancora, pregiudizi che, del resto,
quarant’anni fa erano orribili realtà.
Aprirono la porta.
Il cortile era fatto a parallelogramma; aveva molti alberi ed era
pieno di sedili; a ognuno dei quattro lati c’era una galleria di
strana fattura sulla quale davano delle celle molto ariose; una
cinquantina di uomini vestiti tutti di grigio e allo stesso modo,
passeggiavano, chiacchieravano, o stavano seduti al sole silenziosi
e meditabondi.
Niente contrastava di più con l’idea che ci si fa di solito
sull’eccentricità dei vestiti e sulla singolarità fisionomica dei
pazzi; ci voleva inoltre una lunga abitudine all’osservazione per
potere scoprire su molti di quei visi i segni della follia.
All’arrivo del dottor Herbin, un gran numero di alienati gli si
affollarono intorno lieti e premurosi, porgendogli la mano con
commovente espressione di fiducia e di gratitudine, alla quale egli
rispose cordialmente dicendo:
«Buon giorno, buon giorno, figlioli».
Alcuni di quegli infelici, troppo lontani dal dottore per porgergli
la mano, andarono a offrirla esitanti e timidi alle persone che lo
accompagnavano.
«Buon giorno, amici» disse Germain stringendo loro la mano con tanta
bontà che li incantò.
«Signore» disse la signora Georges, «questi sono pazzi?»
«Sono forse i più pericolosi del manicomio» rispose il dottore
sorridendo. «Li lasciamo insieme il giorno; la notte però li
rinchiudiamo in quelle celle che ora vedete aperte.»
«Come! questi sono completamente pazzi?... Ma quando sono
furiosi?...»
«Lo sono in principio... quando vengono qui; poi a poco a poco la
cura fa il suo effetto, la vista dei loro compagni li calma,
li distrae... la dolcezza li rende pacifici e le loro crisi di
furore diventano sempre meno frequenti... Guardate, eccone uno dei
più pericolosi.»
Era un uomo robusto e nerboruto di circa quarant’anni con lunghi
capelli neri, la fronte spaziosa, il colorito bilioso, lo sguardo
profondo, una faccia intelligentissima. Si avvicinò gravemente al
dottore e disse con molta gentilezza, ma non senza soggezione:
«Signor dottore, devo avere anch’io il diritto di tenere compagnia
al cieco e di portarlo a spasso; mi prendo la libertà di farvi
osservare che è una ingiustizia bella e buona privare il poveretto
della mia conversazione per abbandonarlo... (e il pazzo sorrise con
sprezzante amarezza) allo stupido divagare di un idiota
completamente a digiuno, e non parlo a vanvera, completamente a
digiuno di nozioni scientifiche; mentre se parlasse con me, il cieco
si distrarrebbe. Così» egli aggiunse con grande volubilità «gli
avrei detto la mia opinione sulle superfici isoterme e ortogonali,
facendogli notare che le equazioni con differenze parziali, la cui
interpretazione geometrica si riassume in due facce ortogonali,
generalmente non possono essere integrate a causa della loro
complessità. Gli avrei dimostrato che le superfici coniugate sono
necessariamente tutte isoterme, e noi avremmo cercato insieme quali
sono le superfici capaci di comporre un sistema tre volte
isotermo... Se non è una mia illusione, signore... paragonate un po’
questa diatriba alle stupidaggini che si dicono al cieco» aggiunse
il pazzo, riprendendo fiato, «e ditemi se non è un delitto
impedirgli di parlare con me!».
«Signora, non prendete quello che ha detto per le elucubrazioni di
un pazzo» disse sottovoce il dottore: «A volte egli discute i più
alti problemi di geometria e di astronomia con una sagacia che
farebbe onore ai più illustri scienziati... Il suo sapere è immenso.
Parla tutte le lingue vive; ma, ahimè, è martire del desiderio e
dell’orgoglio di sapere; si immagina di avere assorbito in sé tutto
lo scibile umano e che l’umanità sia ripiombata nelle tenebre della
più profonda ignoranza dal momento che egli è chiuso qui dentro.»
Il dottore poi disse ad alta voce al pazzo, che sembrava aspettare
rispettosamente e ansiosamente la sua risposta:
«Caro signor Charles, il vostro reclamo mi pare giustissimo e quel
povero cieco che credo sia muto, ma fortunatamente non sordo,
sarebbe infinitamente felice di conversare con un uomo erudito come
voi. Farò in modo che vi sia resa giustizia.»
«Del resto, voi, tenendomi qui, continuate a privare l’universo di
tutto quello scibile umano che ho assorbito in me e di cui mi sono
appropriato» disse il pazzo avvicinandosi a poco a poco e
cominciando a gesticolare nervosamente.
«Su, su, calmatevi, caro signor Charles. Fortunatamente l’universo
non si è ancora accorto di quello che gli manca; appena gli
mancherà, ci affretteremo a soddisfare la sua protesta; comunque un
uomo della vostra capacità, del vostro sapere può sempre rendere
grandi servizi.»
«Ma io sono per la scienza ciò che era l’arca di Noè per la natura»
egli gridò digrignando i denti e stralunando gli occhi.
«Lo so, caro amico.»
«Volete mettere la fiaccola sotto il moggio!» egli gridò stringendo
i pugni. «Ma allora vi spezzerò come un fuscello» egli aggiunse
minaccioso, con il viso rosso di collera e le vene gonfie da
spezzarsi.
«Ah! signor Charles» rispose il dottore guardando il pazzo con uno
sguardo calmo, fisso, penetrante, e dando alla sua voce un tono
carezzevole e adulatore «credevo che foste il più grande scienziato
dei tempi moderni...»
«E passati!» gridò il pazzo dimenticando improvvisamente la sua
collera per il suo orgoglio.
«Non mi lasciate finire... che voi foste il più grande scienziato
dei tempi passati... presenti...»
«E futuri...» aggiunse il pazzo con fierezza.
«Oh, che chiacchierone maleducato che m’interrompe sempre» disse il
dottore sorridendo e battendogli amichevolmente sulla spalla. «Si
direbbe quasi che io non sappia quanta ammirazione suscitiate e
meritiate!... Su, andiamo dal cieco... guidatemi da lui.»
«Dottore, voi siete un brav’uomo; venite, venite, sentirete che roba
lo costringono ad ascoltare, mentre io potrei dirgli cose tanto
belle» riprese il pazzo, ormai calmato, camminando tutto contento
davanti al dottore.
«Vi confesso, signore» disse Germain, che si era avvicinato alla
madre e alla moglie che erano state spaventate dal parlare e dal
gesticolare furioso del pazzo; «per un momento ho temuto una crisi.»
«Eh, Dio mio, signore, una volta, alla prima parola di esaltazione,
al primo gesto minaccioso di questo disgraziato, i guardiani si
sarebbero gettati su di lui; lo avrebbero legato, picchiato,
inondato di getti d’acqua, una delle più atroci torture che si
possa immaginare... Pensate un po’ che effetto doveva produrre una
simile cura su un organismo energico e irritabile, la cui forza
d’espansione è tanto più violenta quanto più è repressa. Allora
sarebbe caduto in uno di quegli accessi di rabbia tremendi che
sfidano le strette più potenti, che più sono frequenti e più si
esasperano e che finiscono col diventare quasi incurabili; mentre
invece se, come avete visto, non si reagisce a questi loro scatti o
se si cerca di calmarli sfruttando quella esagerata volubilità
psicologica che si riscontra in molti pazzi, questi bollori si
spengono con la stessa facilità con cui sono sorti.»
«E chi è, signore, quel cieco che ha detto? è un’invenzione della
sua mente?» chiese la signora Georges.
«No, signora, è una storia molto strana» rispose il dottore. «Si
tratta di uno che è stato preso in uno covo degli Champs-Elysées,
dove è stata arrestata una banda di ladri e di assassini; è stato
trovato incatenato in un sotterraneo, accanto al cadavere di una
donna così orrendamente mutilata che non si è riusciti a
riconoscerla.»
«Ah, è orribile...» disse la signora Georges rabbrividendo.16
«È di una bruttezza spaventosa, ha tutta la faccia corrosa dal
vetriolo. Da quando è qui non ha pronunciato una parola. Non so se
sia veramente muto o se finga di esserlo. Le crisi che ha avuto gli
sono sempre capitate quando io non c’ero, e sempre di notte.
Purtroppo tutte le domande che gli si rivolgono restano senza
risposta, ed è impossibile sapere qualcosa della sua situazione; i
suoi attacchi sembrano causati da un furore di cui non si riesce a
capire la causa, perché non dice una parola. Gli altri matti sono
pieni di premure per lui; lo guidano, e si compiacciono di parlare
con lui, ahimè, ognuno secondo il suo rispettivo grado
d’intelligenza. Oh... eccolo...»
Tutti quelli che erano col medico indietreggiarono inorriditi appena
videro il Maître d’école; era proprio lui.
Non era pazzo, ma si fingeva muto e pazzo.
Aveva massacrato la Chouette non in un accesso di follia ma in un
accesso di febbre infiammatoria simile a quella che aveva avuto la
volta della sua terribile visione alla fattoria di Bouqueval.
Dopo il suo arresto alla taverna degli Champs-Elysées, il Maître
d’école si era destato dal suo momentaneo delirio in una
16 Rodolphe aveva sempre lasciato ignorare alla signora Georges
cos’era successo al Maître d’école dopo che era fuggito dal bagno di
Rochefort.
cella del deposito della Conciergerie, dove si rinchiudono
provvisoriamente i dementi. Avendo sentito dire vicino a sé: «È un
pazzo furioso», decise di continuare a fingersi tale e di chiudersi
in un ostinato mutismo per non compromettersi con le sue risposte,
qualora vi fosse stato qualche dubbio sulla sua finta pazzia.
Lo stratagemma gli riuscì. Fu portato a Bicêtre, dove finse di tanto
in tanto violenti accessi di furore; però per questi scelse sempre
la notte, perché così poteva evitare di essere attentamente
esaminato dal medico primario; e il medico di guardia, che veniva
svegliato e chiamato d’urgenza, arrivava di solito al termine della
crisi.
I pochissimi complici del Maître d’école che sapevano il suo vero
nome e della sua fuga dal bagno di Rochefort, ignoravano quel che
era stato di lui; d’altra parte, non avevano nessun interesse a
denunciarlo; così non si era riusciti a identificarlo. Sperava
dunque di restare a Bicêtre continuando a fare il muto e il pazzo.
Sì, per sempre, questo era l’unico desiderio di quell’uomo, perché i
suoi cattivi istinti erano spariti con la sua capacità di far male.
È merito dello strettissimo isolamento in cui egli era vissuto nel
sotterraneo di Bras-Rouge, se il rimorso, come si sa, si era a poco
a poco impossessato di quell’anima di pietra.
A forza di avere la mente concentrata su un pensiero continuo, sul
ricordo cioè dei propri delitti, e non avendo alcuna comunicazione
col mondo esterno, spesso le sue idee finivano col prendere forma
corporea, e con lo scolpirsi nel suo cervello, come aveva detto alla
Chouette; allora gli apparivano i volti delle sue vittime; ma non
era follia, era la forza del ricordo spinta alla sua più alta
potenza.
Così quest’uomo che era ancora nel pieno degli anni e di
costituzione atletica, quest’uomo che aveva ancora molti anni di
vita davanti a sé, quest’uomo che era in possesso di tutte le sue
facoltà mentali, si vedeva costretto a chiudersi nel più assoluto
mutismo per poter vivere fra i pazzi, altrimenti, se fosse stato
scoperto, lo avrebbero mandato alla forca per i suoi nuovi delitti,
o lo avrebbero imprigionato a vita fra quegli scellerati per i quali
provava un orrore che andava aumentando in misura del suo
pentimento.
Il Maître d’école era seduto su un sedile; una selva di capelli già
grigi gli copriva la testa, orribile ed enorme; teneva i gomiti
appoggiati sulle ginocchia e il mento su una mano. Sebbene la sua
orribile maschera fosse priva dello sguardo, avesse due buchi al
posto del naso e una bocca deforme, era atteggiata a un’espressione
di atroce, incurabile disperazione.
Un giovane matto dall’aspetto malinconico e benevolo stava
inginocchiato davanti al Maître d’école, tenendogli una mano; lo
guardava con bontà e con voce dolce stava a ripetergli
continuamente: «Fragole... fragole... fragole...».
«Ecco dunque» disse gravemente il pazzo sapiente «le sole cose che
sappia dire quell’idiota al cieco. Se in lui gli occhi del corpo
sono chiusi, quelli della mente saranno sicuramente aperti, sarei
contento quindi di essere in comunicazione con lui.»
«Non ne dubito» disse il dottore, mentre il povero pazzo dal viso
triste contemplava il volto ripugnante del Maître d’école con
compassione e ripeteva con la sua voce dolce: «Fragole... fragole...
fragole...».
«Da quando è entrato qui, questo povero pazzo non ha pronunciato
altre parole» disse il dottore alla signora Georges che guardava con
orrore il Maître d’école; «chissà a che avvenimento sono connesse
queste parole... non sono riuscito a scoprirlo...»
«Dio mio, mamma» disse Germain alla signora Georges, «come sembra
afflitto quel povero cieco!...»
«È vero, figlio mio» replicò la signora Georges, «mio malgrado mi si
stringe il cuore... mi fa male vederlo. Oh! com’è triste vedere
l’umanità sotto un aspetto così brutto!»
Appena la signora Georges ebbe pronunciato quelle parole, il Maître
d’école sussultò; sotto le cicatrici, il suo volto impallidì; alzò e
girò il capo dalla parte della madre di Germain tanto di scatto che
questa non poté frenare un grido di spavento, sebbene ignorasse
ancora chi fosse quel disgraziato.
«Che avete, mamma?» esclamò Germain.
«Niente figlio mio,... ma il movimento di quell’uomo...
l’espressione del suo viso... tutto... mi ha spaventato. Signore,
perdonate la mia debolezza» essa aggiunse rivolgendosi al dottore;
«mi sto quasi pentendo di avere ceduto alla curiosità e di avere
accompagnato qui mio figlio.»
«Oh! per una volta... mamma... poco male.»
«Certo, esso non ci tornerà mai più e noi nemmeno, vero, mio piccolo
Germain?» disse Rigolette; «è così triste... fa male al cuore.»
«Via, paurosa. Vero, signor dottore» disse Germain sorridendo
«vero che mia moglie è una paurosa?»
«Confesso» rispose il medico, «che la vista di questo poveret-
to cieco e muto ha impressionato anche me... io che ho visto tante
disgrazie.»
«Che muso... eh, vecchio mio?» disse piano Anastasie.
«Ebbene...Vicino a te... tutti gli uomini mi sembrano brutti come
que-
sto mostro... Per questo nessuno si può vantare di... mi capisci,
Alfred?»
«Anastasie, mi sognerò di quella faccia... di certo... mi verranno
gli incubi...»
«Amico» disse il dottore al Maître d’école, «come state?...»
Il Maître d’école restò muto.
«Non sentite dunque?» riprese il dottore battendogli sulla
spalla.
Il Maître d’école non disse nulla, chinò il capo; e dopo un mo-
mento... dai suoi occhi senza luce cadde una lacrima...
«Piange» disse il dottore.
«Pover’uomo!» aggiunse Germain impietosito.
Il Maître d’école rabbrividì; aveva sentito di nuovo la voce di
suo figlio... Suo figlio provava per lui un senso di pietà.
«Che avete? che cosa vi affligge?» chiese il dottore.
Il Maître d’école, senza rispondere, si nascose il viso tra le
mani.
«Non otterremo niente» disse il dottore.
«Lasciate fare a me, lo consolerò io» riprese il pazzo sapiente
con tono grave e pretenzioso. «Gli dimostrerò che tutti i generi di
superfici ortogonali in cui i tre sistemi sono isotermi sono: l°
quello delle superfici del secondo ordine; 2° quello degli
ellissoidi di rivoluzione attorno all’asse piccolo e all’asse
grande; 3° quelli... Ma, no» riprese il pazzo arrestandosi e
riflettendo: «gli parlerò del sistema planetario.» Poi, rivolgendosi
al giovane pazzo che stava sempre inginocchiato davanti al Maître
d’école: «Levati di lì... con le tue fragole...»
«Ragazzo mio» disse il dottore al giovane pazzo, «bisogna che
ciascuno di voi intrattenga e accompagni a turno questo
pover’uomo... Date il posto al vostro compagno.»
Il giovane pazzo obbedì; si alzò, guardò timidamente il dottore con
i suoi grandi occhi azzurri, gli manifestò il suo rispetto con un
saluto, fece un cenno d’addio al Maître d’école e si allontanò
continuando a ripetere con voce lamentosa:
«Fragole... fragole...»
Il dottore, accortosi della paurosa impressione che tutto ciò
produceva sulla signora Georges, le disse:
«Per fortuna, signora, ora andiamo a trovare Morel e, se si avverano
le mie speranze, vi si aprirà il cuore al vedere quest’ottimo uomo
restituito all’affetto della buona moglie e della sua buona figlia».
E il medico si allontanò con quanti erano con lui.
Il Maître d’école restò solo col pazzo scienziato, che cominciò a
spiegargli, peraltro con molta sapienza ed eloquenza, come gli
astri, con moto grandioso, descrivessero silenziosamente la loro
immensa curva nel cielo, il cui stato normale è la notte...
Ma il Maître d’école non lo stava ad ascoltare...
Egli pensava con profonda angoscia che non avrebbe udito mai più la
voce di suo figlio e di sua moglie... consapevole del giusto orrore
che egli avrebbe ispirato loro, dell’infelicità, della vergogna, del
terrore in cui li avrebbe gettati la rivelazione del suo nome,
avrebbe preferito morire mille volte piuttosto che farsi
riconoscere... gli restava una sola, un’ultima consolazione: per un
momento egli aveva ispirato un po’ di pietà a suo figlio.
E, suo malgrado, egli ricordava parole dettegli da Rodolphe prima
che gli venisse inflitto il terribile castigo:
«Ogni tua parola è una bestemmia, ogni tua parola sarà una
preghiera: sei audace e crudele perché sei forte, sarai umile e
dolce perché sarai debole. Il tuo cuore è chiuso al pentimento... un
giorno piangerai le tue vittime... Da uomo ti sei fatto bestia
feroce... un giorno la tua intelligenza riacquisterà dignità
attraverso l’espiazione. Tu non hai rispettato nemmeno ciò che
rispettano le bestie selvagge, la loro donna e i loro piccoli...
dopo una lunga vita consacrata al riscatto dei tuoi delitti, la tua
ultima preghiera sarà per supplicare Dio di concederti di morire
vicino a tua moglie e a tuo figlio...».
«Passeremo davanti al cortile degli idioti, e arriveremo
all’edificio dove si trova Morel» disse il dottore uscendo dal
cortile dove si trovava il Maître d’école.
XVI
MOREL IL LAPIDARIO
Nonostante la tristezza ispiratale dalla vista dei pazzi, la signora
Georges non poté fare a meno di fermarsi un momento, passando
davanti al cortile con inferriate dietro alle quali stavano
rinchiusi gli idioti senza speranza di guarigione.
Poveri esseri, che spesso non hanno nemmeno l’istinto delle bestie e
della cui menomazione si ignora quasi sempre l’origine; sconosciuti
per tutti e per se stessi... Trascorrono così la vita, del tutto
estranei ai sentimenti, al pensiero, provando solo i bisogni animali
più limitati...
L’orribile connubio tra la miseria e la dissolutezza, nel più
profondo degli antri più infetti, causa di solito questa spaventosa
corruzione della specie... che colpisce generalmente le classi
povere. Se di solito la pazzia non si manifesta subito
all’osservatore superficiale che esamini la fisionomia
dell’alienato, è però facilissimo riconoscere i caratteri fisici
dell’idiozia.
Il dottor Herbin non ebbe bisogno di fare notare alla signora
Georges il selvaggio abbrutimento, la stupida insensibilità o lo
sbalordimento imbecille che conferivano al volto di quei disgraziati
un’espressione al tempo stesso orribile e dolorosa a vedersi. Quasi
tutti vestivano lunghi camici sudici e laceri: infatti, nonostante
tutta la sorveglianza, non si può impedire a queste creature prive
assolutamente d’istinto e di ragione di lacerare, di sporcare i loro
vestiti, cosa che fanno strisciando e rotolandosi come bestie nel
fango dei cortili17 dove restano durante il giorno.
Alcuni rannicchiati negli angoli più bui sotto una tettoia che li
ripara, raggomitolati, raccolti su se stessi come animali nelle loro
tane, facevano sentire una specie di rantolo sordo e continuo.
Altri, appoggiati al muro, ritti, immobili, muti, guardavano fisso
il sole.
Un vecchio, reso deforme dalla sua grassezza, seduto su una sedia di
legno, divorava la sua pietanza con una voracità bestiale, gettando
qua e là sguardi biechi e corrucciati.
Alcuni camminavano svelti e in circolo nel piccolissimo spazio che
si erano scelti. Questo strano esercizio durava ore intere senza
interruzione.
Altri, seduti per terra, si dondolavano incessantemente gettando la
parte superiore del corpo ora in avanti e ora all’indietro,
17 Dicono a questo proposito che è impossibile vedere senza provare
una profonda ammirazione per le intelligenze caritatevoli che hanno
promosso queste ricerche di pulizia e di igiene, vedere, dicevamo, i
dormitori e i letti del reparto degli idioti. Quando si pensa che
una volta questi disgraziati marcivano in paglia infetta e che
adesso hanno ottimi letti, mantenuti in stato di perfetta igiene con
mezzi veramente meravigliosi, non si può che glorificare coloro che
si sono dedicati all’alleviamento di tali miserie. Qui non c’è da
aspettarsi nessuna gratitudine dell’animale per il suo padrone. È il
bene fatto per il bene, nel santo nome dell’umanità; e ciò è ancora
più bello e più grande. Non ci si stancherebbe mai di lodare i
signori amministratori e i medici di Bicêtre degnamente sostenuti
d’altronde dalla alta e giusta autorità del celebre dottor Ferrus,
incaricato dell’ispezione generale degli ospedali d’alienati e al
quale si deve l’eccellente legge sugli alienati, legge basata su
sapienti e acute osservazioni.
e interrompevano quel movimento monotono e vertiginoso solo per
ridere forte, col riso stridulo e gutturale proprio degli idioti.
Altri, infine, in un completo abbrutimento, aprivano gli occhi solo
all’ora dei pasti, e restavano inerti, inanimati, sordi, muti,
ciechi, senza dar segno di vita neppure con grida o gesti.
La completa mancanza di comunicazione verbale o di comunicazione
comprensibile è una delle caratteristiche più sinistre in una
collettività di idioti; almeno nonostante l’incoerenza delle loro
parole e dei loro pensieri, i pazzi si parlano, si riconoscono, si
cercano; ma fra gli idioti regna una stupida indifferenza, un
selvaggio isolamento. Non li si sente mai articolare parola; di
tanto in tanto risate selvagge o gemiti o grida che non hanno niente
di umano. Fra loro, sono pochi quelli che riescono a riconoscere i
loro guardiani. Eppure, e noi ne siamo doppiamente stupiti, il
rispetto per la natura umana è tale che anche questi sventurati che
sembrano non appartenere né alla nostra specie, né alla specie
animale, data la completa assenza di facoltà mentali, che anche
questi esseri, cronicamente ammalati, che hanno più del mollusco che
dell’essere animato, e che spesso percorrono così tutte le tappe di
una lunga carriera, vengono fatti segno di cure particolari e di un
benessere di cui essi non hanno nemmeno coscienza.
Certo è bello rispettare il principio della dignità umana perfino in
questi disgraziati che dell’uomo non hanno che l’involucro; ma,
diciamolo di nuovo, si dovrebbe pensare anche alla dignità di coloro
che non solo sono in possesso di tutte le loro facoltà mentali ma
sono anche pieni di zelo, di alacrità e costituiscono la forza viva
della nazione; renderli coscienti di questa dignità incoraggiandoli
e ricompensandoli quando essi ne danno prova con l’attaccamento al
lavoro, con la rassegnazione e l’onestà; e non dire infine da
egoisti pseudo-ortodossi: Quaggiù puniamo, e lassù premierà Dio.
«Povera gente!» disse la signora Georges seguendo il dottore, dopo
aver gettato un altro sguardo nel cortile degli idioti, «com’è
triste pensare che non c’è nessun rimedio ai loro mali!»
«Ahimè, signora, nessuno» rispose il dottore, «specialmente quando
sono arrivati a una certa età; infatti, adesso, grazie ai progressi
della scienza, i bambini idioti ricevono una certa educazione con
cui si mira a sviluppare in essi quell’atomo di intelligenza
incompleta di cui sono a volte dotati. Noi abbiamo qui una scuola,18
diretta con perseveranza e pazienza, che dà già risultati
18 Questa scuola è ancora una delle istituzioni più singolari e più
interessanti.
interessantissimi: con mezzi molto ingegnosi e adatti esclusivamente
alla loro condizione, si esercita la natura fisica, morale di questi
poveri bambini; e sono molti quelli che riescono a riconoscere le
lettere e i numeri, a rendersi conto dei colori; si è giunti perfino
a insegnare loro a cantare in coro, e vi assicuro, signora, che si
prova uno strano fascino, fascino triste e commovente, quando si
sentono queste voci come incantate, innalzarsi al cielo lamentose e
a volte angosciate in un cantico le cui parole, quantunque tutte
francesi, sono loro ignote. Oh, ma eccoci arrivati al reparto dove
si trova Morel. Ho raccomandato che questa mattina fosse lasciato
solo, affinché l’effetto che spero di produrre su di lui fosse della
maggior portata.»
«E che genere di follia è la sua, signore?» disse sottovoce la
signora Georges al dottore, in modo da non farsi sentire da Louise.
«Egli è convinto che, se non riuscirà a guadagnare in giornata 1300
franchi in modo da pagare un debito contratto con un certo notaio
Ferrand, Louise dovrà morire sulla ghigliottina come infanticida.»
«Ah! signore, quel notaio... era un mostro!» esclamò la signora
Georges, che aveva saputo dell’odio di costui per Germain. «Louise
Morel e suo padre non sono le sue uniche vittime. Ha perseguitato
anche mio figlio con spietato accanimento.»
«Louise Morel mi ha detto tutto, signora» rispose il dottore.
«Grazie a Dio, quello sciagurato è morto. Ma abbiate la compiacenza
di aspettarmi qui un momento. Vado a vedere come sta Morel.»
Poi rivolgendosi alla figlia del lapidario:
«Louise ve ne prego, state bene attenta. Appena griderò: “Venite!”
venite subito, ma sola... Quando dirò una seconda volta: “Venite!”
entrino anche gli altri...»
«Ah! signore, mi manca il coraggio» disse Louise asciugandosi le
lacrime. «Povero papà... se anche questa prova fosse inutile!...»
«Io spero di salvarlo. Da molto tempo sto preparandolo... Su,
state tranquilla, e pensate a quanto vi ho raccomandato.»
E, lasciate le persone che lo accompagnavano, il dottore entrò
in una camera con finestre sbarrate che davano su un giardino.
Grazie al riposo, al vitto sano e alle cure da cui era circondato,
il volto di Morel il lapidario non era più pallido, smunto e scavato
da una magrezza da ammalato. Dalla sua faccia piena e leggermente
colorita, si capiva che era ritornato in salute; ma il sorriso
melanconico che aveva e la fissità in cui spesso cadeva il suo
sguardo dicevano che egli non aveva ancora riacquistato
completamente il senno.
Quando il dottore entrò, Morel, curvo sul tavolo davanti al quale
era seduto, stava facendo la pantomima del suo mestiere di lapidario
e dicendosi: «Mille e trecento franchi... mille e trecento
franchi... se no Louise va alla ghigliottina... mille e trecento
franchi... lavoriamo... lavoriamo... lavoriamo...».
In questa alterazione della mente le cui manifestazioni andavano
sempre più diradandosi, era stato individuato il principale sintomo
della sua follia. Benché sulle prime fosse stato contrariato di
trovare Morel sotto l’influenza della sua monomania, il dottor
Herbin non tardò a sperare che questa circostanza giovasse al suo
piano. In tasca aveva un sacchetto in cui aveva messo 65 luigi; lo
tirò fuori dalla tasca, prese i soldi in mano e disse bruscamente a
Morel, che era così occupato dalla pantomima del suo lavoro che non
si era accorto dell’arrivo del dottore:
«Bravo, Morel... basta lavorare... finalmente avete guadagnato i
mille e trecento franchi che vi occorrono per salvare Louise...
eccoli...».
E il dottore gettò sul tavolo la manciata di soldi.
«Louise è salva!» gridò il lapidario raccogliendo in fretta il
denaro. «Corro dal notaio.»
E, alzatosi, si precipitò verso la porta.
«Venite!» gridò il dottore con grande angoscia dato che l’immediata
guarigione del lapidario poteva dipendere da quella prima
impressione.
Appena egli ebbe detto «Venite», Louise comparve sulla porta,
proprio nel momento in cui si affacciava suo padre.
Stupefatto, Morel, fece due passi indietro e lasciò cadere il denaro
che aveva in mano.
Per qualche minuto contemplò Louise con grande stupore poiché non
l’aveva riconosciuta. Sembrava però che cercasse di richiamarsi alla
mente i ricordi; poi, avvicinatolesi cautamente, la guardò inquieto
e timoroso.
Tremante d’emozione, Louise era riuscita sì e no a trattenere le
lacrime; il dottore però, che aveva fatto un gesto per raccomandarle
di stare zitta, stava osservando con attenzione e in silenzio la
fisionomia del lapidario per coglierne i movimenti. Questi, sempre
chino sulla figlia, cominciò a impallidire: si passò le mani sulla
fronte imperlata di sudore; poi fece un passo verso di lei per
cercare di parlarle; ma la voce gli morì sulle labbra. Diventò
ancora più pallido e si guardò attorno attonito, come se uscisse da
un sogno.
«Bene... bene...» disse piano il dottore a Louise, «è buon segno...
quando dirò venite, gettatevi fra le sue braccia chiamandolo: papà!»
Il lapidario si mise le mani sul petto e si guardò, se così si può
dire, dalla testa ai piedi come per convincersi della sua identità.
Il suo volto sembrava esprimere una dolorosa incertezza; invece di
guardare la figlia, pareva volesse sottrarsi al suo sguardo. Allora
disse fra sé con voce bassa e rotta:
«No!... no!... un sogno... dove sono?... impossibile!... un sogno...
non è lei...» Poi vedendo le monete d’oro sparse sul pavimento: «E
questo denaro... non mi ricordo... mi sto dunque svegliando? la
testa mi gira... non oso guardare... mi vergogno... non è
Louise...».
«Venite» disse il dottore a voce alta.
«Papà... guardatemi, sono Louise... vostra figlia!...» essa gridò,
prorompendo in pianto mentre si gettava tra le braccia del
lapidario; nello stesso momento entravano la moglie di Morel, la
signora Georges, Germain e i Pipelet.
«Oh, Dio mio!» diceva Morel, che Louise riempiva di carezze, «dove
sono? che vogliono da me? che è successo? non posso credere...» Poi,
dopo alcuni istanti di silenzio, prese bruscamente tra le sue mani
la testa della figlia, la guardò fisso e, dopo qualche attimo di
sempre maggiore turbamento, gridò:
«Louise!».
«È salvo!» disse il dottore.
«Marito mio... povero Morel!...» esclamò la moglie del lapida-
rio, andando vicino a Louise.
«Mia moglie!» riprese Morel, «mia moglie e mia figlia!»
«E anch’io, signor Morel» disse Rigolette, «tutti i vostri amici
si sono dati appuntamento qui.»
«Tutti i vostri amici!... vedete, signor Morel» soggiunse Ger-
main.
«La signorina Rigolette!... Il signor Germain!...» disse il lapi-
dario riconoscendo con sorpresa ciascuno.
«E i vecchi amici della portineria!» disse Anastasie avvicinan-
dosi a sua volta con Alfred, «eccoli i Pipelet... i vecchi
Pipelet... amici anche nella morte... e allegri su, papà Morel...
questa è una bella giornata...»
«Il signor Pipelet e sua moglie! tanta gente intorno a me!... Mi
sembra che sia molto tempo!... E... ma, ma insomma... sei tu,
Louise... vero?...» egli esclamò con trasporto stringendo la figlia
tra le braccia. «Sei tu, Louise? davvero?...»
«Sì... mio povero papà... sono io... è mia madre... sono tutti i
vostri amici... Voi non ci lascerete più... non avrete più
dispiaceri... saremo felici, adesso, tutti felici.»
«Tutti felici... Ma... aspettate che mi ricordi... Tutti felici...
mi sembra però che fossero venuti a prenderti per portarti in
prigione, Louise.»
«Sì... padre mio... ma ne sono uscita... assolta... Vedete... eccomi
vicino a voi...»
«Aspettate ancora... aspettate... mi torna la memoria.»
Poi il lapidario riprese atterrito: «E il notaio?».
«Morto... è morto, padre mio...» balbettò Louise.
«È morto?... lui... allora... vi credo... possiamo essere felici...
Ma dove sono?... come mai sono qui?... da quanto tempo... e
perché?... non mi ricordo bene...»
«Siete stato così ammalato, signore» gli disse il dottore, «che si è
stati costretti a trasportarvi qui... in campagna. Avete avuto una
febbre fortissima, un delirio.»
«Sì, sì... mi ricordo dell’ultima cosa prima della mia malattia;
stavo parlando con mia figlia e... chi altri, chi altri? Ah, un uomo
molto generoso, il signor Rodolphe... aveva impedito che io fossi
arrestato. Del resto, non ricordo più nulla.»
«La vostra malattia è stata complicata dalla perdita della memoria»
disse il medico... «La vista di vostra figlia, di vostra moglie, dei
vostri amici, ve l’ha restituita.»
«E qui, in casa di chi sono?»
«In casa di un amico del signor Rodolphe» si affrettò a dire
Germain; «si pensò che vi avrebbe fatto bene un cambiamento d’aria.»
«A meraviglia» disse sottovoce il dottore; e rivolgendosi a un
sorvegliante aggiunse: «Mandate la carrozza in fondo al viottolo del
giardino, in modo che eviti di passare per i cortili e non esca dal
gran portone».
Come talvolta accade, Morel non si ricordava né si era reso conto
della sua follia.
Pochi momenti dopo, Morel, appoggiato al braccio della moglie e
della figlia, accompagnato da un allievo medico che, per maggior
prudenza, il dottore aveva incaricato i sorvegliare il lapidario
fino a Parigi, saliva sulla carrozza e lasciava Bicêtre senza
neppure sospettare che vi era stato rinchiuso come pazzo.
«Credete che quest’uomo sia completamente guarito?» chiese la
signora Georges al dottore, che l’aveva accompagnata fino al portone
di Bicètre.
«Lo credo, signora, e ho voluto a bella posta lasciarlo sotto la
benefica influenza di questa sua unione con la famiglia, avrei avuto
paura di separarlo da essa. Ma un mio allievo starà con lui e gli
indicherà la cura da seguire. Andrò a visitarlo ogni giorno finché
la sua guarigione non sarà completa, perché non solo egli
m’interessa molto, ma mi è stato anche raccomandato particolarmente,
nell’entrare a Bicêtre, dall’incaricato d’affari del granduca di
Gerolstein.»
Germain e sua madre si scambiarono un’occhiata significativa.
«Vi ringrazio, signore» disse la signora Georges, «della bontà che
avete avuto a concedermi di visitare questa casa, e mi congratulo
con voi per la vostra bravura, grazie alla quale avevate previsto e
dichiarato la scena commovente a cui poco fa ho assistito.»
«E io, signora, mi congratulo doppiamente di questo successo, che
restituisce un ottimo uomo all’affetto dei suoi.»
Ancora tutti commossi per quello che avevano visto, la signora
Georges, Rigolette e Germain ripresero la strada per Parigi, assieme
ai coniugi Pipelet.
Quando il dottor Herbin rientrò nei cortili, incontrò un impiegato
della casa che gli disse:
«Ah, caro signor Herbin, non potete immaginare a che scena ho
assistito. Per uno come voi, sarebbe stata una fonte inesauribile di
osservazioni».
«Come? che scena?»
«Sapete che abbiamo qua due condannate a morte, madre e figlia, che
saranno giustiziate domani?»
«Sicuro.»
«Ebbene! in vita mia non ho mai visto un’audacia e un sangue freddo
simili a quelli della madre. È una donna infernale.»
«Non è la vedova Martial che ha mostrato tanto cinismo nelle
discussioni?»
«Proprio lei.»
«E cosa ha fatto ancora?»
«Aveva chiesto di stare rinchiusa nello stesso stanzino della fi-
glia fino al momento dell’esecuzione. Questo le era stato accordato.
La figlia, molto meno indurita di lei, sembra che vada cedendo a
misura che si avvicina l’ora fatale, mentre la diabolica fermezza
della madre aumenta sempre più, se mai può aumentare. Poco fa, il
buon cappellano delle prigioni è entrato nella loro cella per
offrire loro i conforti della religione. La figlia si preparava ad
accettarli, quando la madre, senza lasciare per un momento il suo
solito sangue freddo, ha scaricato su di lei e sul prete così
orribili sarcasmi, che il rispettabile sacerdote è stato costretto
ad andarsene dalla cella dopo avere tentato invano di dire qualche
buona parola all’indomita donna.»
«Alla vigilia di salire sul patibolo! Una simile audacia è veramente
spaventosa» disse il dottore.
«Del resto la loro sembra una di quelle famiglie perseguite da una
fatalità che dura da molto. Il padre è morto ghigliottinato, un
figlio è in galera, un altro figlio, anche lui condannato a morte, è
evaso di recente. Solo il figlio maggiore e due bambini sono
riusciti a sfuggire a un così spaventoso contagio. Tuttavia la donna
ha fatto chiamare il figlio maggiore, unico onest’uomo di questa
razza terribile, per venire domattina a ricevere le sue ultime
volontà.»
«Che colloquio!»
«Non siete curioso di assistervi?»
«Francamente no. Voi conoscete i miei princìpi sulla pena di
morte e non ho bisogno di un così tremendo spettacolo per
riconfermarmi nelle mie idee. Se questa terribile donna si
comporterà in questo modo anche sul patibolo, che deplorevole
esempio sarà per il popolo!»
«C’è inoltre in questa duplice esecuzione qualcosa che mi sembra
singolare, cioè il giorno scelto per farla.»
«Come?»
«Oggi è martedì grasso.»
«Ebbene?»
«Domani l’esecuzione avrà luogo alle sette. Ora, quei gruppi
di gente mascherata, che avranno passato la notte nelle balere,
rientrando a Parigi, incroceranno per forza il corteo funebre.»
«Avete ragione, sarà un triste contrasto.»
«Senza contare che dalla piazza dell’esecuzione alla barriera
Saint-Jacques, si sentirà da lontano la musica delle bettole vicine,
perché, per festeggiare l’ultimo giorno di carnevale, in quelle
osterie si balla fino alle dieci o alle undici di mattina.»
L’indomani il sole era splendido e raggiante.
Alle quattro di mattina vari picchetti di fanteria e di cavalleria
andarono per controllo a scaglionarsi nelle vicinanze di Bicêtre.
Condurremo il lettore nella cella dove si trovavano insieme la
vedova del giustiziato e la figlia Calebasse.
PARTE DECIMA
I
LA TOELETTA
A Bicêtre si accedeva alla prigione dei condannati a morte
attraverso un oscuro corridoio su cui davano alcune finestre
sbarrate, specie di pertugi situati più su del selciato di un
cortile.
La prigione riceveva luce solo da un largo sportello praticato sulla
parte superiore della porta, che dava sul corridoio scarsamente
illuminato che abbiamo detto.
In una cella con soffitto basso, muri umidi e verdastri, pavimento
di pietre fredde come le pietre di un sepolcro sono rinchiuse la
Martial e sua figlia Calebasse.
La faccia angolosa della vedova del giustiziato, dura, impassibile e
pallida come una maschera di marmo, risalta nettamente nell’oscurità
che regna nella cella.
Non può servirsi delle mani perché sopra il vestito nero porta la
camicia di forza, una specie di lunga casacca di grossa tela,
grigia, allacciata dietro la schiena, con maniche che finiscono
chiudendosi a sacco; essa si lagna di un gran calore alla testa e
chiede che le venga levata la cuffia. I capelli grigi le cadono
sulle spalle. È seduta sulla sponda del letto, con i piedi che
toccano per terra; sta fissando la figlia Calebasse, da cui la
separa tutta la larghezza della cella...
Calebasse, mezzo sdraiata, sta appoggiata al muro; anche lei ha
addosso la camicia di forza. Ha la testa china sul petto, lo sguardo
fisso, il respiro affannoso. A parte il tremito convulso che, di
tanto in tanto, le agita leggermente la mascella inferiore, il suo
volto sembra abbastanza calmo, nonostante sia di livido pallore.
Dentro, a una estremità della prigione, vicino alla porta e sopra lo
sportello aperto, sta seduto su una sedia un veterano decorato, con
tanto di faccia dura e bruciata dal sole, testa calva e lunghi baffi
grigi. Ha il compito di sorvegliare le condannate.
«Qui dentro fa un freddo glaciale!... eppure mi bruciano gli
occhi... e poi ho sete... sempre sete...» disse Calebasse dopo qual-
che istante. Poi, rivolgendosi al veterano, aggiunse: «Per favore,
un po’ d’acqua, signore...»
Il vecchio soldato si alzò, prese su uno sgabello un boccale di
stagno, pieno d’acqua, ne riempì un bicchiere, si avvicinò a
Calebasse e la fece bere lentamente, avendo essa le mani impedite
dalla camicia di forza.
Dopo aver bevuto con avidità, essa disse: «Grazie signore.»
«Volete bere?» chiese il soldato alla vedova. Costei fece cenno di
no.
Il veterano tornò a sedere.
Vi fu un nuovo silenzio.
«Che ore sono, signore?» chiese Calebasse.
«Fra poco saranno le quattro e mezzo» disse il soldato.
«Fra tre ore!» proseguì Calebasse con un sorriso sardonico e
sinistro, volendo alludere all’ora stabilita per l’esecuzione, «fra
tre ore...»
E non osò terminare.
La vedova alzò le spalle... La figlia, capitone il pensiero,
riprese:
«Avete più coraggio di me, madre mia... Non cedete mai... voi...».
«Mai!»
«Lo so... lo vedo bene... avete il viso calmo come se foste seduta
accanto al fuoco della nostra cucina... intenta a cucinare... Ah,
com’è lontano, quel tempo!... com’è lontano!...»
«Chiacchierona!»
«È vero... invece di stare qui a pensare... senza dire niente...
preferisco parlare... preferisco...»
«Stordirti... vigliacca!»
«Anche se fosse così, mamma... non tutti hanno il vostro coraggio...
Ho fatto quello che ho potuto per imitarvi, non ho dato ascolto al
prete, perché voi non volevate. Ciò non toglie che non abbia forse
avuto torto.... perché insomma...» aggiunse la condannata
rabbrividendo, «dopo... chi sa?... e dopo... sarà fra poco... e...
fra...»
«Fra tre ore.»
«Con che freddezza l’avete detto, mamma!... Dio mio, Dio mio! eppure
è vero... e dire che siamo qui... tutte e due che non siamo
ammalate... che non vorremmo morire... eppure fra tre ore...»
«Fra tre ore l’avrai finita da vera Martial. Vedrai buio... e
nient’altro. Coraggio, figlia mia.»
«Non dovreste parlare così a vostra figlia» disse il vecchio soldato
con voce lenta e grave; «avreste fatto meglio a lasciarle ascoltare
il prete.»
La vedova alzò di nuovo le spalle con feroce disprezzo e riprese
rivolgendosi a Calebasse senza nemmeno volgere il capo dalla parte
del veterano:
«Coraggio, figlia mia... dimostreremo che certe donne hanno più
coraggio di questi uomini... con i loro preti... Quei vigliacchi!».
«Il comandante Leblond era il più valoroso ufficiale del 3°
cacciatori a piedi... L’ho visto io tutto ferito alla breccia di
Saragozza... morire facendosi il segno della croce» disse il
veterano.
«Eravate forse il suo sagrestano?» gli chiese la vedova con una
risata selvaggia.
«Ero un suo soldato...» rispose dolcemente il veterano. «Volevo solo
dirvi che sul punto di morire... si può pregare senza essere
vigliacchi...»
Calebasse guardò attentamente l’uomo dal viso abbronzato, esemplare
perfetto di un uomo del popolo che ha fatto il soldato sotto
l’impero; aveva una guancia solcata da una profonda cicatrice che
andava a perdersi tra i grandi baffi grigi. La figlia della vedova
fu profondamente colpita dalle semplici parole del veterano il cui
volto, le cui ferite, e il cui nastro rosso stavano a dimostrare la
serenità di un coraggio messo a dura prova dalle battaglie.
Essa aveva rifiutato il conforto del prete più per falsa vergogna e
per paura dei sarcasmi della madre, che per durezza. Nella sua mente
confusa di moribonda accolse al posto degli scherni sacrileghi della
vedova l’acquiescenza del soldato. Forte di ciò ritenne di non
essere vile se dava retta all’istinto religioso a cui avevano
obbedito uomini intrepidi.
«A dir il vero» essa riprese «perché non ho voluto ascoltare il
prete?... In questo non c’era debolezza... Del resto ciò sarebbe
servito a stordirmi... e poi... infine... dopo... chi sa?»
«Ancora!» disse la vedova con grande disprezzo. «Peccato... manca il
tempo... altrimenti ti faresti suora. L’arrivo di tuo fratello
Martial finirà di convertirti. Ma non verrà quel brav’uomo... quel
buon figlio!»
Mentre la vedova pronunciava queste parole, si udì stridere l’enorme
serratura della prigione e fu aperta la porta. «Di già!» esclamò
Calebasse con un sussulto. «Oh, Dio mio! hanno anticipato l’ora! Ci
hanno ingannate!»
E si scompose in volto spaventosamente.
«Meglio così... se l’orologio del boia è avanti... le tue
bacchettonerie non mi disonoreranno.»
«Signora» disse un impiegato della prigione alla condannata con
quella commiserazione sdolcinata che puzza di morte, «c’è vostro
figlio... volete vederlo?»
«... Sì» rispose la vedova senza volgere il capo.
«Entrate... signore...» disse l’impiegato.
Martial entrò.
Il veterano restò nella cella, di cui, per maggior precauzione,
fu lasciata la porta aperta. Attraverso la penombra del corridoio,
un po’ rischiarato dalla luce dell’alba e di un lampione, si
vedevano parecchi soldati e guardiani, alcuni seduti su una panca,
altri in piedi.
Martial era pallido come sua madre, gli si leggeva in viso
un’angoscia e un orrore profondi; gli si piegavano le ginocchia.
Nonostante i delitti della madre, nonostante l’odio che essa aveva
sempre avuto per lui, si era sentito in dovere di obbedire alle sue
ultime volontà.
Appena egli entrò nella cella, la vedova gli lanciò un’occhiata
penetrante, e gli disse con voce sorda, carica d’ira, quasi avesse
voluto destare nell’animo del figlio un odio implacabile:
«Vedi... cosa faranno fra poco di tua madre... di tua sorella?!».
«Ah, madre mia... è terribile... ma io ve l’avevo detto, ahimè!...
ve l’avevo detto!»
La vedova si morse le labbra con collera; suo figlio non aveva
capito, tuttavia continuò:
«Ci ammazzeranno... come hanno ammazzato tuo padre...»
«Dio mio!... Dio mio!... e io non posso fare nulla... è finita.
Adesso che volete che faccia? perché non ascoltarmi... voi e mia
sorella? adesso non sareste qui.»
«Ah!... è così...» riprese la vedova con la sua abituale e feroce
ironia «ti sembra giusto questo?»
«Madre mia!»
«Eccoti contento... potrai dire, senza mentire, che tua madre è
morta... non ti vergognerai più di lei.»
«Se fossi stato un cattivo figlio» rispose brusco Martial, irritato
dall’ingiusta durezza della madre, «non sarei qui.»
«Vieni per curiosità.»
«Vengo per obbedirvi.»
«Ah, se avessi ascoltato te, Martial, invece della mamma... non
sarei qui» esclamò Calebasse con voce straziante cedendo a quelle
angosce e a quel terrore, che la presenza della madre le aveva
impedito fino ad allora di manifestare. «È colpa vostra... siate
maledetta, mamma!»
«Essa si pente... mi accusa... devi esserne contento eh?» disse la
vedova al figlio con una risata diabolica.
Senza risponderle Martial si avvicinò a Calebasse che già entrava in
agonia e le disse con compassione:
«Povera sorella... adesso... è troppo tardi...»
«Mai... troppo tardi... per essere vili!» disse la madre con freddo
furore. «Oh, che razza! che razza! Per fortuna Nicolas è scappato.
Per fortuna François e Amandine... ti sfuggiranno... Sono già
corrotti... la miseria farà il resto!»
«Ah! Martial, veglia su di loro... altrimenti finiranno... come me e
mia madre. Taglieranno il capo anche a loro!» esclamò Calebasse con
un gemito affannoso.
«Avrà un bel vegliare su di loro» gridò la vedova con feroce
esaltazione «il vizio e la miseria saranno più forti di lui... e un
giorno... vendicheranno padre, madre e sorella.»
«Mamma, la vostra orribile speranza sarà delusa» rispose Martial
sdegnato. «Né loro né io dovremo più temere la miseria. La Louve ha
salvato la ragazza che Nicolas voleva fare annegare. I genitori
della ragazza ci hanno promesso molto denaro, oppure meno denaro e
terra in Algeria... vicino a una fattoria che hanno già dato a un
uomo che pure aveva reso loro grandi servizi. C’è un po’ di
pericolo... ma piace a noi,... alla Louve e a me. Domani partiremo
con i bambini e finché vivremo non torneremo più in Europa.»
«È vero ciò che dici?» chiese la vedova stupita e irritata.
«Io non mento mai.»
«Ma oggi menti per farmi arrabbiare.»
«Arrabbiarvi, perché l’avvenire dei bambini è assicurato?» «Sì, da
lupacchiotti ne faranno agnelli. Il sangue di tuo padre,
di tua sorella e il mio non sarà vendicato...» «Non parlate così in
questo momento.» «Ho ucciso, mi uccidono... siamo pari.» «Mamma, il
pentimento...»
La vedova fece una risata.
«Da trent’anni vivo nel delitto, e per pentirmi di trent’anni, mi si
danno tre giorni, con la morte vicina... Come posso averne il tempo?
No, no, quando la mia testa cadrà schiatterà di odio e di rabbia.»
«Fratello, aiuto! portami via di qui! fra poco verranno» balbettò
Calebasse con voce fioca; infatti cominciava a delirare.
«Vuoi tacere?» disse la vedova esasperata dalla debolezza di
Calebasse; «vuoi tacere? Oh, che infame!... ed è mia figlia!»
«Mamma, mamma!» gridò Martial coll’animo straziato da quell’orribile
scena «perché mi avete fatto venire qui?»
«Perché credevo di infonderti coraggio e odio... ma chi non ha
l’uno, non ha nemmeno l’altro, vile!»
«Mamma!»
«Vile, vile, vile!»
In quel momento si udì nel corridoio un gran rumore. Il vete-
rano trasse di tasca l’orologio e guardò l’ora.
Il sole, che era sorto brillante e radioso, gettò a un tratto un
fascio di luce dorata attraverso lo spiraglio del corridoio che era
di fronte alla cella.
La porta si aprì e fu completamente inondata di luce. Al centro
della zona luminosa, i guardiani portarono due sedie,1 poi il
cancelliere venne a dire alla vedova con voce commossa:
«Signora, è ora...»
La condannata si alzò diritta, impassibile; Calebasse si mise a
urlare forte.
Entrarono quattro uomini.
Tre di loro portavano in mano fasci di corde sottili, ma molto
forti.
Il più grande dei quattro uomini, correttamente vestito di nero con
un cappello tondo e un fazzoletto da collo bianco, consegnò un
foglio al cancelliere.
Era il boia.
Il foglio era una ricevuta in cui si dichiarava che le due donne
erano buone per la ghigliottina. Il boia prendeva possesso di due
creature di Dio; ormai egli solo ne era responsabile.
In Calebasse, al disperato terrore erano subentrati l’inebetimento e
il torpore. Due aiutanti del boia dovettero farla sedere sul letto e
sorreggerla. Con le mascelle agitate da spasmodiche convulsioni,
riusciva appena a pronunciare qualche parola sconnessa. Girava
attorno due occhi opachi e vuoti; il mento le toccava il petto;
senza l’appoggio dei due aiutanti, il suo corpo sarebbe caduto in
avanti come una massa inerte.
Martial, dopo aver abbracciato per l’ultima volta la disgraziata,
stette immobile spaventato; senza osare né avere la forza di fare un
passo, era come affascinato da quella terribile scena.
1 Di solito la vestizione dei condannati aveva luogo nell’anticamera
della cancelleria, ma essendo necessarie alcune riparazioni si era
stati costretti a fare nella cella quei sinistri preparativi.
La fredda audacia della vedova non si era smentita: con la testa
alta e diritta, s’era tolta da sé quella camicia di forza che le
aveva impedito ogni movimento. Caduta la camicia, essa si trovò
addosso un vecchio vestito di lana nera.
«Dove devo mettermi?» essa chiese con voce ferma.
«Abbiate la compiacenza di sedervi su una di quelle sedie» disse il
boia indicandole uno dei sedili posti all’ingresso della cella.
Attraverso la porta rimasta aperta si potevano vedere nel corridoio
i guardiani, il direttore della prigione e alcuni curiosi
privilegiati.
La vedova si diresse con passo sicuro verso il posto indicatole.
Ma arrivata davanti alla figlia si fermò per dirle con voce
leggermente commossa:
«Figlia mia, abbracciami».
La voce della madre scosse Calebasse dalla sua apatia; si rizzò a
sedere e, con un gesto di maledizione gridò:
«Se c’è l’inferno, scendetevi maledetta!».
«Figlia mia, abbracciami» ripeté la vedova facendo ancora un passo.
«Non vi avvicinate! siete stata voi a rovinarmi!» balbettò la
disgraziata, gettando avanti le mani per respingere la madre.
«Perdonami!»
«No, no» disse Calebasse con voce convulsa e ricadde esausta ed
esanime quasi fra le braccia degli aiutanti.
Sull’indomita fronte della vedova passò come una nube; per un
istante i suoi occhi asciutti e ardenti divennero umidi. In quel
momento essa incontrò lo sguardo del figlio.
Dopo un momento di esitazione, e come se cedesse allo sforzo di una
lotta interiore, essa gli disse:
«E tu?...».
Martial si gettò singhiozzando tra le braccia della madre. «Basta!»
disse la vedova vincendo la sua emozione e scioglien-
dosi dalla stretta del figlio. «Il signore aspetta» essa soggiunse
mostrando il boia...
Poi si diresse rapidamente verso la sedia e vi si sedette senza più
esitare.
Quel barlume di materna sensibilità, che per un momento aveva
rischiarato le nere profondità del suo animo feroce, si spense
subito.
«Signore» disse il veterano avvicinandosi premurosamente a Martial
«non restate qui. Venite, venite.»
Martial era talmente fuori di sé dall’orrore e dallo spavento che lo
seguì come un automa.
Mentre uno dei due aiutanti, nel trasportare Calebasse, ne aveva
retto il corpo agonizzante e quasi esanime, l’altro, con corde
sottilissime ma molto lunghe, le aveva legato strettamente le mani
dietro alla schiena e anche le caviglie, ma in modo tale da
permetterle di camminare a piccoli passi.
L’operazione era strana e orribile a un tempo: si sarebbe detto che
lunghe corde sottili, che a malapena si distinguevano nell’ombra e
con le quali quegli uomini silenziosi legano la condannata con
rapidità e destrezza, uscissero dalle loro mani come i fili sottili
con cui i ragni avvolgono le loro vittime prima di divorarle.
Il boia e il suo aiutante allacciarono la vedova con altrettanta
destrezza e lei non fece una grinza. Soltanto tossiva leggermente di
tanto in tanto.
Quando la condannata fu messa così nell’impossibilità di muoversi,
il boia tirò fuori dalla tasca un paio di forbici e le disse
educatamente:
«Abbiate la compiacenza di abbassare la testa».
La vedova abbassò la testa dicendo:
«Siamo buoni clienti; avete già avuto mio marito, adesso ecco-
vi la moglie e la figlia».
Senza rispondere il boia prese con la mano sinistra i lunghi ca-
pelli grigi della condannata e si mise a tagliarglieli, specialmente
dietro la nuca.
«Così sarò stata pettinata tre volte nella mia vita» disse la vedova
con un ghigno sinistro: «il giorno della mia prima comunione quando
mi hanno messo il velo; il giorno del mio matrimonio quando mi hanno
messo i fiori d’arancio; e oggi, non è vero, parrucchiere della
morte?»
Il boia non disse nulla.
Siccome i capelli della condannata erano folti e duri, l’operazione
fu così lunga che mentre la capigliatura di Calebasse giaceva a
terra da un pezzo, quella della madre era stata tagliata solo a
metà.
«Sapete che cosa penso?» disse la vedova al boia, dopo avere
contemplato di nuovo la figlia.
Il boia continuò a stare zitto.
Si sentivano solo i rumori delle forbici, i singhiozzi e i rantoli
che di tanto in tanto sollevavano il petto a Calebasse.
In quel momento si vide nel corridoio un prete con un viso da santo
avvicinarsi al direttore della prigione e parlargli sottovo-
ce. Il buon sacerdote era venuto per tentare per l’ultima volta di
strappare l’anima della vedova al male.
«Penso» riprese la vedova dopo qualche momento vedendo che il boia
non rispondeva «penso che a cinque anni mia figlia a cui fra poco
taglierete la testa era la più bella bambina che si potesse vedere.
Aveva i capelli biondi e le guance bianche e rosa. Allora chi le
avrebbe detto che...» Poi, dopo un breve silenzio essa esclamò con
una risata e un’espressione che non sapremmo descrivere: «Che
commedia la vita!»
In quel momento le ultime ciocche della capigliatura grigia caddero
sulle spalle della condannata.
«È finito, signora» disse gentilmente il boia.
«Grazie!... Vi raccomando mio figlio Nicolas, uno di questi giorni
pettinerete anche lui!»
Un guardiano andò a dire qualche parola all’orecchio della
condannata.
«No, vi ho già detto di no» essa rispose bruscamente.
Il prete, sentite queste parole, alzò gli occhi al cielo, congiunse
le mani e sparì.
«Signora, bisogna andare via... volete prendere qualcosa...» le
disse ossequiosamente il boia.
«Grazie... stasera prenderò un tozzo di terra.»
E la vedova, dopo quest’altro sarcasmo si rizzò in piedi; aveva le
mani legate dietro la schiena e anche le caviglie legate ma in modo
da potere camminare. Sebbene camminasse con passo fermo e deciso, il
boia e un aiutante vollero cortesemente sostenerla; essa fece un
gesto di impazienza e disse con voce dura e imperiosa:
«Non toccatemi, ho gambe e occhi buoni. Sulla forca sentirete se
avrò buona voce e se dirò parole di pentimento...»
E la vedova, con accanto il boia e un aiutante, uscì dalla segreta
ed entrò nel corridoio.
Gli altri due aiutanti dovettero trasportare Calebasse sulla sedia;
era moribonda.
Dopo avere attraversato il lungo corridoio, il corteo funebre salì
una scala di pietra che conduceva a un cortile esterno.
Il sole inondava della sua luce calda e dorata la cima delle alte
mura bianche che circondavano il cortile e si stagliavano su un
cielo di un azzurro splendido; l’aria era tiepida e dolce, non vi fu
mai giornata di primavera più bella e più splendente.
Nel cortile c’erano un picchetto di gendarmi, una carrozza pubblica
e una vettura lunga e stretta dalla carcassa gialla con
tre cavalli da posta che nitrivano allegramente facendo tintinnare i
loro sonagli.
Era una carrozza in cui si doveva salire come in un omnibus, dallo
sportello posteriore cioè. Questa somiglianza suggerì un’altra
facezia alla vedova.
«Il conduttore non ci dirà... Completo» essa disse. Poi salì sul
predellino come le permettevano i legacci.
Spirante, sostenuta da uno degli aiutanti, Calebasse fu messa nella
vettura, dirimpetto alla madre; poi lo sportello venne chiuso.
Il boia scosse il vetturino che si era addormentato.
«Scusate, padrone» disse il cocchiere svegliandosi e scese
pesantemente da cassetta; «ma una notte di martedì grasso è dura. Ho
appena portato alle Vendanges de Bourgogne un mucchio di uomini e di
donne che cantavano come matti prima che voi mi prendeste a un tanto
all’ora.»
«Sì, va bene. Seguite quella carrozza e... al boulevard
SaintJacques.»
«Scusate, padrone.... un’ora fa alle Vendanges, adesso alla
ghigliottina! Vuol dire che le corse si succedono ma non sono tutte
eguali, come dice quello.»
Le due carrozze, precedute e seguite da un picchetto di gendarmi,
uscirono dal portone di Bicêtre e si avviarono al trotto verso
Parigi.
II
MARTIAL E LO CHOURINEUR
Abbiamo presentato il quadro della preparazione dei condannati in
tutta la sua spaventosa verità, perché ci sembra che una tale
descrizione possa dare luogo a importanti discussioni:
Contro la pena di morte.
Contro il modo con cui questa viene applicata.
Contro l’effetto che ci si aspetta, come esempio dato al popolo.
Benché spoglia di quell’apparecchio terribile e religioso insie-
me che dovrebbero avere tutti gli atti di castigo supremo inflitti
dalla legge in nome della pubblica vendetta, la preparazione
rappresenta quanto vi è di più terrificante in una sentenza di morte
ed è proprio questa che si nasconde alla moltitudine.
In Spagna, al contrario, per esempio, il condannato rimane tre
giorni in una camera ardente con una bara sempre sotto gli occhi;
i preti recitano le preghiere dei moribondi, le campane della chiesa
suonano a morto giorno e notte.2
Si capisce come questa specie di iniziazione a una morte vicina
possa spaventare i criminali più incalliti e ispirare un salutare
fervore alla folla che si raduna davanti alle grate della cappella
mortuaria.
Poi il giorno del supplizio è giorno di pubblico lutto; le campane
di tutte le parrocchie suonano a morto; il condannato è condotto
lentamente al patibolo con una pompa maestosa, lugubre; la bara è
sempre lì davanti a lui; al suo fianco camminano i preti recitando
le preghiere dei morti; dietro vengono le confraternite religiose e
infine i frati questuanti che chiedono alla folla soldi per dire
messe per il riposo dell’anima del giustiziato... E mai la folla
resta sorda a una tale richiesta...
Certo tutto ciò è spaventoso ma è logico, è suggestivo e mostra che
non si elimina da questo mondo una creatura di Dio piena di forza e
di vita come si scanna un bue; ciò dà da pensare alla gente che
giudica sempre il delitto dalla grandezza della pena... che
l’omicidio è un crimine orribile, dal momento che la punizione di
esso scuote, rattrista e turba un’intera città.
Ripetiamo che questo terribile spettacolo può far nascere serie
riflessioni, ispirare un fecondo terrore... e ciò che vi è di più
barbaro in questo sacrificio umano viene almeno coperto dalla
terribile maestà dell’esecuzione.
Ma se le cose si svolgono esattamente come noi le abbiamo riferite
(e a volte con minor gravità) ci chiediamo di che esempio possano
mai essere.
La mattina presto si prende il condannato, lo si lega, lo si butta
in una carrozza chiusa, il postiglione frusta, si arriva al
patibolo, la mannaia colpisce, e una testa cade in un cesto... in
mezzo agli scherni atroci di coloro che sono la feccia della
plebe!...
Ripetiamo, in questa esecuzione rapida e clandestina dov’è
l’esempio? dov’è lo spavento?...
E poi... dato che l’esecuzione ha luogo, per così dire, a porte
chiuse, in un posto fuori mano, con una precipitazione piena di
cautele, tutta la città ignora quest’atto sanguinoso, solenne,
niente le annuncia che in quel giorno «si uccide un uomo...», nei
teatri si ride e si canta... la folla brulica indifferente e
rumorosa...
2 Così avveniva in Spagna durante il mio soggiorno nel 1824 e nel
1825.
Eppure dal punto di vista della società, della religione,
dell’umanità, è una cosa che dovrebbe interessare a tutti questo
legale omicidio commesso in nome del comune interesse...
Infine, diciamolo ancora una volta, ripetiamolo sempre, ecco la
mannaia, ma dov’è la corona? Accanto alla punizione, mostrate la
ricompensa; solo allora la lezione sarà completa e feconda... Se
all’indomani di quel giorno di lutto e di morte, il popolo, che il
giorno prima ha visto il sangue di un grande criminale tingere di
rosso il patibolo, vedesse remunerare ed esaltare un grand’uomo
dabbene, il supplizio del primo sarebbe temuto tanto quanto sarebbe
desiderato il trionfo del secondo; il terrore riesce al massimo a
impedire il delitto, ma non l’incita mai alla virtù.
Consideriamo l’effetto della pena di morte sui condannati stessi.
O l’affrontano con audace cinismo...
O la subiscono inerti, mezzo morti dallo spavento...
O offrono la loro testa profondamente e sinceramente pentiti... Ora,
la pena è insufficiente per coloro che se ne fanno beffe... Inutile
per quelli che sono morti moralmente...
Eccessiva per quelli che si pentono sinceramente.
Ripetiamo: la società non uccide l’assassino né per farlo sof-
frire né per infliggergli la legge del taglione... Essa lo uccide
per metterlo nell’impossibilità di nuocere... lo uccide perché
l’esempio della sua punizione serva da freno ai futuri assassini.
Per quel che ci riguarda, noi crediamo che la pena è troppo barbara
e che non riesca a incutere abbastanza paura...
Noi crediamo che in certi delitti, come il parricidio o simili,
l’acciecamento e un isolamento perpetuo metterebbero il colpevole
nell’impossibilità di nuocere e lo punirebbero in modo mille volte
più terribile lasciandogli anche il tempo di pentirsi e di espiare.
Se si avesse qualche dubbio su questa asserzione, ricorderemo molti
fatti che attestano l’invincibile terrore che alcuni criminali
incalliti hanno dell’isolamento. Non si sa forse che alcuni hanno
commesso delitti per essere condannati a morte preferendo questo
supplizio alla cella?... Quale sarebbe dunque il loro terrore quando
l’acciecamento unito all’isolamento toglierebbe al condannato la
speranza di evadere, speranza che egli conserva e che si realizza
qualche volta anche se in cella è carico di catene?
E a questo proposito noi pensiamo anche che l’abolizione della pena
capitale sarà forse una delle conseguenze portate dall’isolamento
penitenziario: lo spavento che questo isolamento incute
alla generazione che adesso popola le prigioni e le galere è tale
che molti tra questi preferiscono subire l’estremo supplizio
piuttosto che l’incarcerazione in celle separate; bisognerà quindi
sopprimere la pena di morte per togliere loro quest’ultima e
orribile alternativa.
Prima di continuare la nostra storia, spenderemo qualche parola
circa le relazioni che s’erano venute a stabilire tra lo Chourineur
e Martial.
Uscito Germain di prigione, lo Chourineur provò con facilità che
aveva rubato a se stesso, confessò al giudice istruttore lo scopo di
quella strana burla e fu messo in libertà dopo essere stato
giustamente e severamente ammonito dal magistrato.
Non avendo allora ancora ritrovato Fleur-de-Marie e volendo
ricompensare di quel nuovo atto di fedeltà lo Chourineur, a cui
doveva già la vita, Rodolphe per appagare i desideri del suo forte
protetto lo aveva fatto venire al palazzo di rue Plumet e gli aveva
promesso di condurlo con sé quando sarebbe ritornato in Germania.
Lo Chourineur, come abbiamo detto, provava per Rodolphe
l’attaccamento cieco e ostinato del cane per il suo padrone. Abitare
sotto lo stesso tetto del principe, vederlo qualche volta, aspettare
pazientemente un’altra occasione per sacrificarsi per lui e per i
suoi: era questa tutta l’ambizione dello Chourineur che preferiva
mille volte questa condizione al denaro e alla fattoria messa a sua
disposizione da Rodolphe in Algeria.
Ma quando il principe ebbe ritrovato la figlia, tutto cambiò:
nonostante la sua viva riconoscenza per l’uomo che gli aveva salvato
la vita, non poté risolversi a condurre in Germania un testimone
delle colpe passate di Fleur-de-Marie... Ben deciso d’altronde a
esaudire ogni desiderio dello Chourineur, lo chiamò a sé per
l’ultima volta e gli disse che attendeva dal suo affetto un altro
servizio. A quelle parole il volto dello Chourineur divenne
raggiante; ma si oscurò subito quando sentì che non solo non avrebbe
potuto seguire il principe in Germania, ma che avrebbe dovuto
lasciare quel giorno stesso il palazzo.
È inutile dire i grandi compensi che Rodolphe offriva allo
Chourineur: il denaro riservatogli, il contratto di vendita della
fattoria in Algeria, e più ancora se voleva... tutto era a sua
disposizione.
Lo Chourineur, ferito al cuore, rifiutò; e, per la prima volta in
vita sua, pianse... Ci volle tutta l’affettuosa insistenza di
Rodolphe per indurlo ad accettare questa ricompensa.
L’indomani, il principe fece chiamare la Louve e Martial; senza dire
loro che Fleur-de-Marie era sua figlia, chiese loro che cosa poteva
fare per essi; tutti i loro desideri dovevano essere appagati.
Vedendoli incerti, il principe, ricordatosi che Fleur-de-Marie gli
aveva parlato dei gusti un po’ selvatici della Louve e di suo
marito, propose all’ardita coppia o una notevole somma di denaro,
oppure metà di quella somma e dei terreni attinenti a una fattoria
vicino a quella che aveva fatto acquistare per lo Chourineur, e che
doveva anch’essa essere venduta. Facendo quell’offerta, il principe
aveva pensato che Martial e lo Chourineur, tutti e due forti,
energici, tutti e due dotati di buoni istinti e di coraggio,
avrebbero simpatizzato, tanto più che tutti e due avevano dei motivi
per ricercare la solitudine, l’uno per via del suo passato, l’altro
per via dei delitti della sua famiglia.
E non si sbagliava; Martial e la Louve accettarono con entusiasmo;
poi, essendo stati per mezzo di Murph messi in relazione con lo
Chourineur, tutti e tre si felicitarono dei buoni rapporti che si
sarebbero stabiliti fra loro in Algeria.
Nonostante la profonda tristezza in cui era immerso, o meglio
proprio a causa di questa tristezza, lo Chourineur, commosso dalla
cordialità di Martial e della moglie, vi corrispose con slancio. In
breve un’amicizia sincera unì i futuri coloni: le persone di quella
tempra si giudicano presto e si amano in fretta... Così la Louve e
Martial, non avendo potuto, nonostante i loro sforzi amichevoli,
trarre il loro nuovo amico dal suo cupo letargo, avevano finito con
lo sperare che sarebbe stato distratto dal viaggio e dall’attività
della loro vita futura; perché, una volta in Algeria, essi avrebbero
dovuto aggiornarsi sulla tecnica di coltivare le terre avute in
dono, dato che, secondo le norme di vendita, i proprietari dovevano
fare fruttare i poderi ancora per un anno affinché i nuovi
possessori fossero poi in grado di dirigerli da sé.
Posti questi preliminari, si capirà perché lo Chourineur, saputo del
penoso colloquio al quale Martial doveva recarsi per obbedire alle
ultime volontà della madre, avesse voluto accompagnare il suo nuovo
amico fino alla porta di Bicêtre e avesse voluto aspettarlo nella
carrozza che avevano preso e che poi li riportò a Parigi dopo che
Martial, spaventato, ebbe lasciato la segreta dove si facevano i
terribili preparativi per l’esecuzione della madre e della
sorella...
La fisionomia dello Chourineur era completamente cambiata;
all’espressione di audacia e di buon umore che caratterizzava il suo
maschio volto era subentrato un cupo abbattimento; perfino
la sua voce aveva perduto un po’ della sua rozzezza; una pena
interiore, pena fino ad allora a lui sconosciuta, aveva schiantato
la sua natura energica.
Egli guardava Martial con compassione.
«Coraggio» gli diceva lo Chourineur, «avete fatto tutto quello che
poteva fare un bravo ragazzo... È finita... Pensate a vostra moglie,
ai bambini ai quali avete impedito di essere furfanti come il loro
padre e la loro madre... E poi, questa sera, lasceremo Parigi per
non tornarvi più, e non sentirete più parlare di ciò che ora vi
tormenta.»
«Non serve, vedete, Chourineur... dopotutto è mia madre... è mia
sorella.»
«Ma insomma che volete... bisogna lasciarle andare...» disse lo
Chourineur soffocando un sospiro.
Dopo un momento di silenzio, Martial gli disse cordialmente:
«Anch’io dovrei consolarvi, povero ragazzo... sempre questa
tristezza...».
«Sempre, Martial.»
«Basta... mia moglie e io... speriamo che una volta fuori da
Parigi... la tristezza vi passerà...».
«Sì» disse lo Chourineur dopo qualche momento e quasi rabbrividendo,
«se esco da Parigi...»
«Ma... non partiamo stasera?»
«Cioè voialtri... partite stasera...»
«E voi? adesso avete forse cambiato idea?»
«No...»
«E allora?»
Lo Chourineur tacque ancora, poi riprese, facendo uno sfor-
zo su se stesso:
«Sentite, Martial... adesso voi alzerete le spalle... ma preferisco
dirvi tutto... Se mi succede qualcosa, almeno sarà una prova che non
mi sono sbagliato».
«Che c’è dunque?»
«Quando... il signor Rodolphe... ci ha fatto chiedere se ci
conveniva andare assieme ad Algeri e diventare buoni vicini, non ho
voluto ingannare... né voi né vostra moglie... Vi ho detto quello
che ero stato...»
«Non parliamone nemmeno... Avete scontato la vostra pena... siete
buono e bravo tanto che non c’è uno uguale a voi... Ma credo che,
come me, voi preferiate andarvene lontano... grazie al nostro
generoso protettore... invece di restare qui... dove, per quanto
onesti e agiati possiamo essere, ci rimproverebbero sempre, a
voi un delitto che avete pagato e di cui vi pentite ancora adesso...
a me i delitti dei miei genitori... di cui non sono responsabile. Ma
in confidenza... il passato è passato... assolutamente passato...
State tranquillo... Noi contiamo su di voi come voi potete contare
su di noi.»
«Fra noi... forse... il passato è passato; ma come dicevo al signor
Rodolphe... vedete, Martial... c’è qualcosa lassù... e io ho ucciso
un uomo...»
«È una gran disgrazia; ma, in quel momento eravate fuori di voi...
eravate quasi pazzo... e poi in fondo avete salvato la vita ad altre
persone... e questo conta.»
«Sentite, Martial... Se vi parlo della mia disgrazia... è perché...
Una volta, facevo spesso un sogno... nel quale vedevo... il sergente
che ho ucciso... Da molto tempo... non l’avevo più quel sogno... ma
questa notte... l’ho avuto...»
«È una combinazione.»
«No... mi annuncia una disgrazia per oggi.»
«State sragionando, mio caro amico.»
«Ho il presentimento che non uscirò da Parigi.»
«Vi ripeto che non ragionate... Il dispiacere di lasciare il vostro
benefattore... il pensiero di dovermi condurre oggi a Bicêtre...
dove mi aspettavano cose così tristi... tutto ciò vi avrà agitato
questa notte; allora naturalmente il vostro sogno... vi sarà
ritornato...»
Lo Chourineur scosse tristemente la testa.
«Mi è ritornato proprio il giorno prima della partenza del signor
Rodolphe... perché parte appunto oggi...»
«Oggi?»»
«Sì... Ieri ho mandato un galoppino al suo palazzo... io non osavo
andarci... me l’aveva proibito... Hanno detto che il principe
partiva stamane, alle undici... dalla barriera di Charenton. Così
arrivati a Parigi... mi metterò di guardia lì... per cercare di
vederlo; sarà l’ultima volta!... l’ultima!...»
«È così buono, che capisco benissimo che gli vogliate bene...»
«Volergli bene!» disse lo Chourineur con grande e profonda emozione,
«oh sì!... Vedete, Martial... dormire per terra, mangiare pane
nero... essere il suo cane... ma essere dove egli era, non chiedevo
di più... Era troppo... non ha voluto.»
«È stato così generoso con voi!»
«Non per questo gli voglio tanto bene... ma perché mi ha detto che
avevo un cuore e un onore. Sì, al tempo in cui ero feroce come una
bestia selvaggia, in cui mi disprezzavo come un rifiuto della
peggiore genia... egli mi ha fatto capire che c’era ancora qualco-
sa di buono in me, perché, scontata la mia pena, mi ero pentito, e
dopo avere sofferto la più grande miseria senza rubare mai, avevo
lavorato con coraggio per guadagnarmi onestamente da vivere... senza
volere male a nessuno, sebbene tutti mi considerassero un brigante
incallito, il che non era incoraggiante.»
«È vero; spesso per mantenervi o per mettervi sulla buona via
bastano poche parole che vi incoraggino e vi sollevino...»
«Vero, Martial? Così quando il signor Rodolphe me le ha dette,
queste parole, diamine, il cuore mi batteva forte, forte. Adesso mi
butterei nel fuoco per fare del bene... Venga l’occasione, e si
vedrà... E questo, grazie a chi? grazie al signor Rodolphe.»
«Ma proprio perché siete migliore di prima, non dovete avere brutti
presentimenti. Il vostro sogno non vuole dire niente.»
«Insomma, vedremo. Non che cerchi apposta una disgrazia... per me
non ce ne sono di più grandi di quella che mi succede... Di non
vedere più il signor Rodolphe!... Io che credevo di non lasciarlo
più... Così come sono, ben inteso... sarei stato sempre lì, suo,
anima e corpo, sempre pronto... Non importa, forse ho avuto torto...
Sentite, Martial, io non sono che un verme vicino a lui... eppure, a
volte succede che i più piccoli possono essere utili ai più
grandi... Se ciò dovesse succedere, non gli perdonerei di avere
fatto a meno di me.»
«Chissà?... forse un giorno lo rivedrete...»
«Oh! no. Mi ha detto: “Ragazzo mio, devi promettermi che non
cercherai di rivedermi mai più; così mi renderai un gran servizio”.
Capite, Martial, ho promesso... e parola mia lo farò... ma è dura.»
«Quando sarete laggiù, dimenticherete a poco a poco ciò che vi
tormenta. Lavoreremo, vivremo soli, tranquilli, da buoni coloni, a
parte le fucilate che scambieremo con gli arabi... Meglio così!
questo piacerà a me e a mia moglie; la Louve infatti è una
coraggiosa!»
«Se si tratta di fucilate, la cosa riguarda me, Martial!» disse lo
Chourineur già un po’ sollevato. «Sono scapolo e ho fatto il
soldato.»
«E io il bracconiere.»
«Ma voi... avete vostra moglie, e i due bambini per i quali siete
come un padre... Io, non ho che la mia pelle... e, poiché non può
essere più buona per fare da paravento al signor Rodolphe, non ci
tengo affatto. Cosicché se si tratta di fucilate, ci penserò io.»
«Ci penseremo tutti e due.»
«No, io solo... perdio!... qua a me i beduini!»
«Oh, finalmente; preferisco sentirvi parlare così anziché come poco
fa... Su, Chourineur, saremo buoni fratelli; e poi potrete parlarci
delle vostre pene, se le avrete ancora, che anch’io avrò le mie. La
giornata di oggi sarà memorabile nella mia vita. Non si può vedere
la propria madre e la propria sorella così come le ho viste io...
senza che tornino alla mente... Voi e io ci assomigliamo in troppe
cose, per non andare d’accordo. Né all’uno né all’altro fa paura il
pericolo; ebbene saremo un po’ fattori e un po’ soldati... se ci
sarà da cacciare laggiù... cacceremo... Se vorrete vivere solo a
casa vostra, ci vivrete, e saremo buoni vicini... se no... abiteremo
tutti assieme. Educheremo i bambini e voi sarete come uno zio per
loro... dato che noi saremo fratelli. Vi va?» disse Martial tendendo
la mano allo Chourineur.
«Mi va, mio buon Martial... E poi alla fine... o il dolore ucciderà
me, o io ucciderò il dolore... come si dice.»
«Non vi ucciderà... Noi invecchieremo là nel nostro deserto e ogni
sera diremo: “Fratello... grazie al signor Rodolphe...”. Sarà la
vostra preghiera per lui...»
«Eh via, Martial... voi mi mettete il balsamo nel sangue...»
«Finalmente... quello stupido sogno... non ci pensate più, vero?»
«Cercherò...»
«Su, veniteci a prendere alle quattro! la diligenza parte alle
cinque.»
«D’accordo... Ma siamo vicini a Parigi; farò fermare la carrozza.
Andrò a piedi fino alla barriera di Charenton; aspetterò lì il
signor Rodolphe per vederlo passare.»
La carrozza si fermò, e lo Chourineur scese.
«Ricordatevi... alle quattro... mio buon amico» disse Martial. «Alle
quattro!...»
Lo Chourineur aveva dimenticato di essere all’indomani del
martedì grasso; per cui fu molto sorpreso dallo spettacolo bizzarro
e ributtante a un tempo che gli si offerse davanti, quando ebbe
percorso una parte della circonvallazione che portava alla barriera
di Charenton.
III
LA MANO DI DIO
Dopo un po’ lo Chourineur si trovò risucchiato, suo malgrado, in
mezzo a una folla compatta, fiumana di gentaglia che veniva
dal faubourg de la Glacière, per ammassarsi all’ingresso di quella
barriera e per andare sul boulevard Saint-Jacques dove doveva aver
luogo l’esecuzione...
Sebbene fosse già giorno, si sentiva ancora da lontano la musica
assordante delle orchestre delle osterie e su tutto risaltava
particolarmente il suono vibrato delle trombe.
Ci vorrebbe il pennello di Callot, di Rembrandt o di Goya per
dipingere l’aspetto bizzarro, disgustoso, quasi fantastico di quella
moltitudine. Quasi tutti, uomini, donne, bambini, erano vestiti con
vecchi abiti da mascherata; quelli che non avevano potuto
permettersi quel lusso portavano sui loro vestiti degli stracci di
colore vistoso; alcuni giovanotti indossavano vestiti femminili
mezzo strappati e inzaccherati di fango; i loro visi macchiati dalla
dissolutezza e dal vizio, marmorizzati dall’ubriachezza,
scintillavano di gioia selvaggia al pensiero che, dopo una notte di
orgia, avrebbero assistito al supplizio di due donne, per le quali
era già stato preparato il patibolo.3
Schiuma fangosa e fetida della popolazione di Parigi, quell’immensa
ressa era costituita da banditi e da prostitute, da gente cioè che
per guadagnarsi il pane quotidiano ricorre ogni giorno al delitto...
e che ogni sera ritorna sazia nella propria tana.4
La folla accalcata in quel punto ostacolava qualsiasi tipo di
circolazione, perché lì la circonvallazione era molto stretta.
Nonostante la sua forza atletica, lo Chourineur fu costretto a
restare immobile in mezzo a quella massa compatta... Vi si
rassegnò... Il principe, stando a quanto gli avevano detto, sarebbe
partito alle dieci dalla rue Plumet, e sarebbe passato quindi verso
le undici dalla barriera di Charenton mentre in quel momento erano
solo le sette.
Sebbene in passato avesse frequentato la triste genia alla quale
apparteneva quella gentaglia, lo Chourineur non poté non provare un
profondo disgusto per esserci capitato in mezzo. Spinto dal riflusso
della folla fino al muro di una delle bettole di cui sono pieni
questi boulevard, lo Chourineur, guardando attraverso le finestre
aperte da cui uscivano i suoni stridenti di un’orchestra di ottoni,
poté assistere, senza che ci tenesse molto, a uno strano
spettacolo...
3 L’esecuzione di Norbert e di Després ha avuto luogo quello stesso
anno, il giorno successivo al martedì grasso...
4 Secondo il signor Fregier, l’ottimo storico di quella categoria di
gente che è la feccia della società, esistono a Parigi trentamila
persone per cui il furto rappresenta l’unico mezzo per vivere.
Nel pianterreno di un vasto salone occupato a una delle estremità
dai suonatori, circondata da panche e da tavole ingombre degli
avanzi di una cena, di piatti rotti, di bottiglie rovesciate, una
dozzina di uomini e donne mascherati, mezzo ubriachi, si lasciavano
trasportare freneticamente dalla danza oscena che si chiama chahut,
alla quale un piccolo numero di frequentatori di quei luoghi si
abbandonano solo alla fine della festa e quando le guardie
municipali se ne sono andate.
Fra le ignobili coppie che prendevano parte a quel saturnale, lo
Chourineur ne notò due che si facevano applaudire per il ributtante
cinismo delle pose, dei gesti e delle parole...
La prima coppia era composta da un uomo travestito da orso, con la
giacca e i calzoni di pelle di agnello nero. La testa dell’animale,
che di certo gli avrebbe dato fastidio, era stata rimpiazzata da una
specie di cappuccio con lunghi peli, che copriva totalmente la
faccia; due buchi, all’altezza degli occhi, una larga fessura
all’altezza della bocca, gli permettevano di vedere, di parlare e di
respirare... Quell’uomo mascherato, uno dei prigionieri evasi dalla
Force (fra i quali si trovavano anche il Barbillon e i due assassini
che erano stati arrestati nella bettola all’inizio della nostra
storia), quell’uomo mascherato era Nicolas Martial, il figlio della
vedova, il fratello di Calebasse, le due donne per cui era stato
preparato il patibolo a pochi passi di lì... era una manifestazione
di atroce insensibilità, di audace infamia a cui era stato spinto da
un suo compagno, terribile bandito, anche lui evaso... anche lui
mascherato... il miserabile non s’era fatto scrupolo di abbandonarsi
alle ultime orge del carnevale...
La donna che ballava con lui aveva un vestito da vivandiera, un
cappello di cuoio incerato con nastri laceri, una specie di
giustacuore di panno rosso scolorito, guarnito da tre file di
bottoni di ottone alla ussara, una gonna verde e un paio di
mutandoni bianchi di calicò; i capelli neri le cadevano in disordine
sulla fronte; il suo volto emaciato e plumbeo lasciava trasparire
sfrontatezza e impudicizia.
Di fronte ai due ballerini c’era una coppia non meno ignobile.
L’uomo, scheletrico, s’era travestito da Robert Macaire, e s’era
messo sul volto magro tanta fuliggine, che era impossibile
riconoscerlo; del resto una larga benda gli copriva l’occhio
sinistro, e il bianco opaco dell’occhio destro, spiccando su quel
viso nero, lo rendeva ancora più schifoso. La parte inferiore del
viso dello Squelette (lo si sarà certo già riconosciuto) s’ingolfava
tutta en-
tro un vecchio scialle rosso che gli faceva da fazzoletto da collo.
Con in testa, come si usava, un piatto cappello grigio, unto e senza
cucuzzolo, e con un vestito verde tutto a brandelli e un paio di
pantaloni rossi con mille toppe legati alle caviglie con degli
spaghi, l’assassino, per rendere più esagerate le pose grottesche e
ciniche della chahut, lanciava a destra e a sinistra, avanti e
indietro le lunghe membra dure come il ferro, piegandole e
ripiegandole con tanto vigore ed elasticità che sembravano messe in
moto da una molla d’acciaio.
Degno corifeo di questo immondo saturnale, la sua compagna, grande e
agile, col viso impudente e da avvinazzata, era vestita da facchino,
con un berretto da poliziotto messo su una parrucca incipriata con
una gran coda; aveva inoltre una giacca e un paio di pantaloni di
velluto verde, tutti logori, stretti alla vita da una sciarpa
arancione, le cui lunghe cocche le penzolavano dietro la schiena.
L’ostessa della bettola, un donnone dall’aspetto ignobile e
mascolino, stava seduta su una panca, con sulle ginocchia i mantelli
di questa donna e della vivandiera, mentre esse gareggiavano tutte e
due in salti e in atteggiamenti lascivi con Squelette e Nicolas
Martial...
Fra gli altri ballerini si notava anche un ragazzo zoppo, vestito da
diavolo, cioè con un abito di maglia nera troppo lungo e largo per
lui, un paio di mutande rosse e una orribile maschera verde, che
ghignava. Benché menomato, il mostriciattolo era di un’agilità
sorprendente; la sua depravazione di ragazzetto precoce eguagliava,
se non superava, quella dei suoi orribili compagni, e sgambettava
così ignobilmente da superare chiunque davanti a un donnone vestito
da pastorella che con le sue risate eccitava ancora più
l’impudicizia il suo compagno.
Poiché Tortillard non era stato accusato di nessun crimine (il
lettore avrà riconosciuto anche lui), e poiché Bras-Rouge era stato
lasciato provvisoriamente in prigione, il ragazzo su richiesta del
padre era stato reclamato da Micou, il ricettatore del passage de la
Brasserie, che non era stato denunciato dai suoi complici.
Come figure secondarie del quadro che abbiamo tentato di dipingere,
ci si immagini tutto ciò che vi è di più meschino, di più
vergognoso, di più mostruoso in quella genia di fannulloni, di gente
audace, rapace, sanguinaria, atea, che si mostra sempre più ostile
all’ordine sociale, e sulla quale abbiamo voluto richiamare
l’attenzione delle persone intelligenti al termine del nostro
racconto...
Possa quest’ultima orrenda scena dare un’idea del pericolo che
minaccia continuamente la società!
Sì, pensiamoci, la compattezza e l’aumento in modo preoccupante di
questa razza di ladri e di assassini implicano una specie di viva
protesta contro l’erroneità del carattere repressivo delle leggi e
soprattutto contro la mancanza di provvedimenti preventivi di una
legislazione lungimirante, di istituti salutari che mirano a
sorvegliare, a moralizzare fin dall’infanzia questa classe di
disgraziati abbandonati o traviati da orribili esempi. Ripetiamo che
questi esseri diseredati, che Dio non ha fatto né peggiori, né
migliori degli altri uomini, cadono nella corruzione e si portano
addosso un male cronico solo perché vengono trascinati fin dalla
nascita nel fango della miseria, dell’ignoranza e del disonore.
Ancora più eccitati dalle risa e dagli applausi della folla radunata
presso la finestra, gli attori dell’orribile orgia a cui abbiamo
accennato, gridarono all’orchestra di suonare un ultimo galop.
I suonatori, contenti di essere giunti alla fine di una festa così
faticosa per i loro polmoni, accondiscesero alla richiesta generale,
e attaccarono con impeto un’aria di galop a tempo rapido e
precipitoso.
Gli accordi vibranti degli ottoni mandarono alle stelle
l’esaltazione; tutta la gente si alzò, si accoppiò e, seguendo lo
Squelette e la sua ballerina, ricominciarono una ridda infernale,
mandando urla selvagge...
Lo sfrenato trepestio dei piedi sollevò una polvere densa che si
alzò dal pavimento della sala per andare ad avvolgere in una specie
di sinistra nube rossa quel turbinio di uomini e donne abbracciati,
che giravano a velocità vertiginosa.
In breve, per quelle teste eccitate dal vino, dal moto e dalle loro
stesse grida, non fu più solo ebbrezza, ma delirio, frenesia;
mancava perfino lo spazio... Lo Squelette gridò con voce ansante:
«Fate largo!... la porta!... Usciamo... sul boulevard...»
«Sì... sì...» urlò la folla che si accalcava sulle finestre, «un
galop fino alla barriera Saint-Jacques.»
«Fra poco accorceranno della testa le due donne.» «Il boia fa un
colpo doppio; sarà divertente!»
«Con accompagnamento di tromba a pistoni.»
«E noi balleremo la contraddanza della ghigliottina!» «Avanti la
donna senza testa!...» gridò Tortillard. «Divertiremo le
condannate.»
«Io invito la vedova...»
«Io, la figlia...»
«E il boia diventerà di buon umore.»
«Ballerà sulla sua bottega con i suoi impiegati.»
«A morte la gente onesta! Viva i ladri e gli assassini!» urlò lo
Squelette con voce fremente.
Questi motteggi, le minacce da selvaggi, accompagnati da can-
ti osceni, da grida, da fischi, da schiamazzi, aumentarono ancora
quando la combriccola dello Squelette si scaraventò con prepotenza
fra la folla compatta, facendovi una larga breccia.
Fu allora una terribile mischia, e si udirono ruggiti, imprecazioni,
risate che non avevano più niente di umano.
Il tumulto a un tratto fu portato al colmo da due nuovi incidenti.
La carrozza delle condannate, seguita dalla scorta di cavalleria,
comparve da lontano a una curva del boulevard; allora tutta quella
plebaglia si avviò in quella direzione emettendo urla di feroce
soddisfazione.
In quel momento un corriere che veniva dal boulevard des Invalides e
si dirigeva al galoppo verso la barriera di Charenton raggiunse la
moltitudine. Aveva una giacca turchina col collo giallo, doppiamente
gallonato d’argento su tutte le cuciture; ma in segno di gran lutto
portava i calzoni neri con stivali lunghi; il berretto egualmente
guarnito d’argento era circondato da un velo di crespo; infine,
sugli occhielli delle briglie carichi di sonagli, si vedevano le
insegne reali di Gerolstein.
Il corriere mise al passo il cavallo; ma poiché diventava sempre più
difficile andare avanti, fu quasi costretto a fermarsi quando si
trovò in mezzo all’ondata della plebaglia a cui abbiamo accennato...
Sebbene gridasse: «Attenzione!...» e guidasse il cavallo con la più
grande precauzione, grida, minacce e ingiurie si levarono contro di
lui.
«Ci vuole forse camminare sulla schiena con quel suo cammello...
quello lì?...»
«Ne ha dell’argento addosso... grazie tante!...» gridò Tortillard da
sotto la sua maschera verde con la lingua rossa.
«Se ci secca, lo butteremo giù da cavallo...»
«E gli scuciremo i galloni della giacca per fonderli» disse Nicolas.
«E ti scuciremo la pancia, se non basta, brutto servaccio...»
aggiunse Squelette rivolgendosi al corriere e afferrando la briglia
del suo cavallo; la folla era diventata così compatta che il bandito
aveva rinunciato al suo progetto di danza fino alla barriera.
Il corriere, uomo vigoroso e deciso, disse allo Squelette alzando il
manico del suo frustino:
«Se non molli la briglia del mio cavallo, ti spacco il muso...».
«Tu, brutto grugno?»
«Sì... vado al passo, ho gridato: attenzione! quindi non hai il
diritto di fermarmi. Dietro di me c’è la carrozza del mio signore...
sento lo schioccare delle fruste... lasciatemi passare...»
«Il tuo signore?» disse lo Squelette. «Che me ne frega a me del tuo
signore?... L’ammazzerò, se avrò voglia. Un signore, che sia uno,
non l’ho mai fatto fuori... e adesso me ne viene voglia.»
«Non ci sono più signori... Viva la Carta!» gridò Tortillard; e,
canticchiando questi versi della Parisienne, “Avanti marciamo contro
i loro cannoni”, si arrampicò con un balzo a uno stivale del
corriere, vi si appoggiò con tutto il suo peso e lo fece vacillare
sulla sella. Ma Tortillard fu punito della sua audacia da un colpo
datogli sulla testa con il manico della frusta. Subito la plebe,
infuriata, si precipitò sul corriere; aveva un bel piantare lui gli
sproni nel ventre del cavallo per farlo andare avanti e tirarsi
fuori dalla folla; non vi riuscì e non riuscì nemmeno a tirare fuori
il suo coltello da caccia. Disarcionato, buttato giù in mezzo a
grida e a schiamazzi rabbiosi, sarebbe stato ucciso se non fosse
giunta la carrozza di Rodolphe a distogliere quei miserabili
infuriati dal loro atto di ferocia.
Da qualche tempo la carrozza del principe, seppure con quattro
cavalli da posta, stava andando al passo, e uno dei due lacchè, in
lutto (a causa della morte di Sarah), seduti sul sedile di dietro,
era sceso a terra per prudenza e stava vicino a uno sportello, dato
che la carrozza era molto bassa. I postiglioni gridavano:
attenzione! e avanzavano con cautela.
Rodolphe, vestito a lutto, come la figlia, le teneva le mani e la
guardava con gioia e tenerezza. Il dolce e bel viso di Fleur-deMarie
era incorniciato da un cappellino di crespo nero che faceva
risaltare ancor di più la smagliante bellezza della sua carnagione e
i riflessi dorati dei suoi capelli biondi: sembrava che l’azzurro di
quella bella giornata si riflettesse nei suoi grandi occhi, che mai
erano stati di un azzurro più puro e più dolce... Sebbene il suo
volto sorridente esprimesse calma e fellcità, pure quando guardava
suo padre, sul volto di Fleur-de-Marie passava una certa malinconia,
e perfino una indefinibile tristezza, non appena gli occhi di
Rodolphe si staccavano da lei.
«Non me ne vuoi di averti fatto alzare tanto presto questa
mattina... e di averti anticipato così il momento della partenza?»
le disse Rodolphe sorridendo.
«Oh no, padre mio, questa mattina è così bella!...»
«Il fatto è che ho pensato, vedi, che la nostra giornata sarebbe
stata ripartita meglio, mettendoci presto in viaggio... e che ti
saresti stancata meno... Murph, i miei aiutanti di campo, e la
carrozza del seguito, dove sono le tre cameriere, ci raggiungeranno
alla prima fermata, dove tu ti riposerai.»
«Mio buon padre... sono io... sempre io... che ti faccio
preoccupare...»
«Sì, signorina... e, sinceramente, è impossibile avere altri
pensieri...» disse il principe sorridendo, poi aggiunse con uno
slancio di affetto: «Oh, ti voglio tanto bene... ti voglio tanto
bene... Su presto... la tua fronte...».
Fleur-de-Marie si chinò verso il padre e Rodolphe posò
deliziosamente le labbra sulla bella fronte di lei.
Proprio in quel momento la carrozza, avvicinandosi alla folla, aveva
cominciato ad andare adagio.
«Ebbene, Frantz... che succede? che cos’è questo tumulto?»
«Signore, c’è tanta gente... che i cavalli non possono andare
avanti.»
«E perché tutta questa gente?» «Signore...»
«Ebbene?»
«È che Vostra Altezza...»
«Su parla...»
«Signore... ho appena sentito dire che laggiù... c’è un’esecuzione
capitale.»
«Ah, è terribile!» gridò Rodolphe, tirandosi indietro.
«Che avete, padre mio?» chiese vivamente Fleur-de-Marie inquieta.
«Niente... niente... bambina mia.»
«Ma queste grida minacciose... sentite? Si avvicinano... Che cosa
succede, Dio mio?»
«Frantz, ordina ai postiglioni di tornare indietro o di andare a
Charenton per un’altra strada... una qualunque...» disse Rodolphe.
«Signore è troppo tardi... siamo in mezzo alla calca... Hanno
fermato i cavalli... che brutte facce...»
Il lacché non poté continuare. La folla aizzata dagli istinti
sanguinari dello Squelette e di Nicolas a un tratto circondò
vociferando la carrozza del principe. Nonostante gli sforzi e le
minacce dei postiglioni, i cavalli furono fermati, e Rodolphe vide
da ogni lato, all’altezza degli sportelli, visi orribili, furiosi,
minacciosi e,
sovrastante a tutti con la sua alta statura, lo Squelette, che si
avvicinò allo sportello.
«Padre mio... state attento!...» gridò Fleur-de-Marie gettando le
braccia al collo del padre.
«Ah, siete voi il signore?» disse lo Squelette mettendo la sua
brutta faccia dentro la carrozza.
A quell’insolenza, Rodolphe, se non avesse avuto la figlia con sé,
si sarebbe lasciato trascinare dalla violenza del suo carattere; ma
si dominò e rispose freddamente.
«Che volete?... Perché avete fermato la carrozza?...»
«Perché così ci piace» disse lo Squelette mettendo le mani ossute
sul bordo dello sportello. «Una volta per uno... ieri tu schiacciavi
la canaglia, oggi la canaglia schiaccerà te, se ti muovi.»
«Padre mio... siamo perduti!» balbettò Fleur-de-Marie sottovoce.
«Sta’ tranquilla... ho capito...» disse il principe; «è l’ultimo
giorno di carnevale... sono ubriachi... adesso li tolgo di torno.»
«Bisogna farlo smontare, lui e la sua donna...» gridò Nicolas.
«Perché vogliono schiacciare la povera gente?»
«Mi sembra che voi abbiate già bevuto molto, e che abbiate voglia di
bere ancora» disse Rodolphe traendo di tasca una borsa. «Tenete...
ecco a voi e non fermate più la mia carrozza» e gettò la borsa.
Tortillard la prese al volo.
«Già, vai in viaggio quindi devi avere le tasche piene; sputa ancora
denaro, o ti uccido... Non ho niente da rischiare... ti domando la
borsa o la vita alla luce del sole... È da ridere eh!» disse
Squelette completamente esaltato dal vino e da una rabbia
sanguinaria.
E aprì violentemente lo sportello.
La pazienza di Rodolphe era agli sgoccioli; preoccupato per
Fleur-de-Marie, che era sempre più spaventata, e pensando che con un
atto di forza avrebbe fatto tacere quel furfante che credeva solo
ubriaco, saltò dalla carrozza e afferrò lo Squelette per il collo...
Costui indietreggiò subito di scatto, e si trasse di tasca un
pugnale, poi si gettò sul principe.
Fleur-de-Marie, vedendo il pugnale del bandito alzato sul padre,
gettò un grido straziante, si slanciò fuori della carrozza e gli
gettò le braccia al collo...
Per lei e per suo padre sarebbe stata la fine, se non ci fosse stato
lo Chourineur che, subito dopo l’inizio della rissa, riconosciuti
gli stemmi del principe, era riuscito con sforzi sovrumani ad
avvicinarsi allo Squelette.
Nel momento in cui questi stava minacciando Rodolphe con il
coltello, lo Chourineur, con una mano fermò il braccio del brigante,
con l’altra lo prese per il collo e lo buttò giù all’indietro...
Benché preso di sorpresa e dietro le spalle, lo Squelette riuscì a
girarsi e a riconoscere lo Chourineur:
«L’uomo del camiciotto grigio della Force!... questa volta ti
uccido». E buttatosi contro lo Chourineur, gli affondò il coltello
nel petto...
Lo Chourineur traballò... ma non cadde... era tenuto in piedi dalla
folla.
«Le guardie! ecco le guardie!»
Gridarono alcune voci spaventate.
Queste parole e l’uccisione dello Chourineur fecero disper-
dere e fuggire in tutte le direzioni la folla compatta, avendo essa
paura di essere incolpata dell’assassinio.
Quando le guardie arrivarono, accompagnate dal corriere che era
riuscito a sfuggire alla folla quando questa l’aveva lasciato andare
per passare a circondare la carrozza del principe, non restavano sul
teatro della lugubre scena se non Rodolphe, sua figlia e lo
Chourineur tutto cosparso di sangue.
I due camerieri del principe l’avevano fatto sedere per terra e
appoggiato a un albero.
Tutto quanto era successo a qualche passo dall’osteria da dove erano
usciti Squelette e la sua combriccola era stato di una rapidità
impossibile da descrivere.
Pallido e turbato, il principe teneva fra le braccia Fleur-deMarie,
mentre i postiglioni riparavano le tirelle che erano state mezzo
rotte dalla furia.
«Presto» disse il principe alla sua gente che era intenta a
soccorrere lo Chourineur, «trasportate questo povero uomo
nell’osteria...»
«E tu...» aggiunse rivolgendosi al corriere «sali a cassetta e parti
a spron battutto in cerca del dottor David a palazzo; partirà alle
undici lui... lo troverai...»
Qualche minuto dopo, la carrozza partiva al galoppo e i due
domestici intanto trasportavano lo Chourineur nella sala bassa dove
si era svolta l’orgia e dove si trovava ancora qualche donna che vi
aveva preso parte.
«Povera figliola» disse Rodolphe alla figlia, «adesso ti porto in
una stanza di questa casa... dove mi aspetterai perché non posso
lasciare alle sole cure della mia gente quest’uomo coraggioso che
ancora una volta mi ha salvato la vita.»
«Oh, padre mio, vi prego, non lasciatemi...» esclamò Fleur-deMarie
spaventata prendendo Rodolphe per un braccio, «non lasciatemi
sola... morirei di paura... verrò dove andrete voi...»
«Ma è uno spettacolo terribile!»
«Ma, grazie a quest’uomo... voi vivete per me, padre mio...
permettete almeno che mi unisca a voi per ringraziarlo e
consolarlo.»
Il principe era molto perplesso: sua figlia aveva una paura così
giustificabile di restare sola in una stanza dell’infame taverna che
si rassegnò a entrare con lei nella sala bassa in cui si trovava lo
Chourineur.
Il padrone dell’osteria e alcune delle donne che erano restate (tra
le quali c’era l’ostessa della bettola), avevano rapidamente steso
il ferito su un materasso e poi stagnato e tappato la ferita con
tovaglioli.
Quando Rodolphe entrò, lo Chourineur aprì gli occhi. Appena vide il
principe, perse il suo pallore di morte e si rianimò un po’...
Sorrise faticosamente e disse con voce fioca:
«Ah, signor Rodolphe... è stata proprio una fortuna che mi sia
trovato qui!...»
«Coraggioso e fedele... come sempre!» gli rispose il principe
desolato, «mi avete salvato ancora...»
«Stavo per andare... alla barriera di Charenton... per cercare di
vedervi partire... meno male che... sono stato fermato qui dalla
folla... comunque doveva capitarmi, l’ho detto a Martial... avevo un
presentimento.»
«Un presentimento?»
«Sì... signor Rodolphe... il sogno del sergente... l’ho avuto questa
notte...»
«Non pensateci... abbiate fiducia... la vostra ferita non è
mortale...»
«Oh no, Squelette ha colpito giusto... Non importa, avevo ragione...
a dire a Martial... che un verme come sono io, qualche volta poteva
essere... utile... a un signore come voi.»
«Ma la vita... la vita... che ancora vi devo...»
«Siamo pari... signor Rodolphe... Voi mi avete detto che ho un cuore
e un onore... Queste parole... vedete... Oh, soffoco... Signore...
senza... obblighi... fatemi l’onore... della... vostra mano... sento
che sto andandomene...»
«No... è impossibile...» esclama il principe chinandosi sullo
Chourineur e stringendogli la gelida mano da moribondo, «no...
vivrete... vivrete...»
«Signor Rodolphe... avete visto che c’e qualcosa... lassù... Ho
ucciso... con una coltellata... e muoio... con... una coltellata...»
disse lo Chourineur, con voce sempre più fioca e soffocata...
In quel momento girò gli occhi verso Fleur-de-Marie che non aveva
ancora scorto. Atteggiò il suo volto di moribondo a espressione di
stupore; fece un movimento e disse:
«Ah!... mio... Dio! la Goualeuse...».
«Sì... è mia figlia... vi benedice per averle conservato in vita il
padre...»
«Lei... vostra figlia... qui... mi fa ricordare il nostro primo
incontro... signor Rodolphe... e i pugni del finale... ma...
anche... questa... coltellata... Sarà quella... finale... Ho
ammazzato a coltellate... sono stato... accoltellato... è giusto
così...»
Poi trasse un profondo sospiro rovesciando la testa all’indietro...
era morto...
Fuori si sentì il rumore dei cavalli; la carrozza di Rodolphe aveva
incontrato quella di Murph e di David che, premurosi di raggiungere
il principe, avevano anticipato la loro partenza.
Entrarono David e il gentiluomo.
«David» disse Rodolphe asciugandosi le lacrime e mostrando lo
Chourineur, «mio Dio, non resta proprio più alcuna speranza?»
«Nessuna, mio signore» disse il dottore dopo un rapido esame.
Intanto tra l’ostessa e Fleur-de-Marie s’era svolta in silenzio
una scena spaventosa... l’ostessa che Rodolphe non aveva notato.
Dopo che lo Chourineur ebbe pronunciato a mezza voce il nome della
Goualeuse, l’ostessa aveva alzato di scatto la testa e
aveva visto Fleur-de-Marie.
L’orribile donna aveva subito riconosciuto Rodolphe: veniva
chiamato mio signore... aveva chiamato figlia la Goualeuse... Una
tale metamorfosi aveva stupito l’ostessa che teneva gli occhi
ostinatamente puntati e sbarrati sulla sua ex vittima.
Pallida, spaventata, Fleur-de-Marie sembrava affascinata da questo
sguardo.
La morte dello Chourineur, l’inaspettata apparizione dell’ostessa
che erano venute a ridestare, più doloroso che mai, il ricordo del
suo passato disonore, le erano sembrate di sinistro presagio.
Da quel momento Fleur-de-Marie resta preda di uno di quei
presentimenti che hanno, su caratteri come il suo, un’influenza
ineliminabile.
Poco tempo dopo questi tristi fatti, Rodolphe e la figlia avevano
per sempre abbandonato Parigi.
EPILOGO
I GEROLSTEIN
Il principe Henri d’Herkausen-Oldenzaal al conte Maximilien Kaminetz
Oldenzaal 25 agosto 18401
Arrivo da Gerolstein dove ho passato tre mesi presso il granduca e
la sua famiglia; credevo di trovare una lettera che mi annunciasse
il vostro arrivo a Oldenzaal, caro Maximilien. Pensate un po’ alla
mia sorpresa e al mio dispiacere quando ho saputo che sareste
rimasto in Ungheria per parecchie settimane.
Da quattro mesi non posso scrivervi perché non so dove indirizzare
le mie lettere e questo lo devo alla maniera originale e avventurosa
di viaggiare che avete; eppure a Vienna mi avevate formalmente
promesso, prima di dividerci, che il 1° agosto sareste stato a
Oldenzaal. Devo quindi rinunciare al piacere di vedervi, eppure mai
come adesso avrei avuto maggior bisogno di versare le mie confidenze
nel vostro cuore, caro Maximilien, perché la nostra amicizia, anche
se siamo molto giovani, è vecchia: risale alla nostra infanzia.
Che devo dirvi? da tre mesi si è verificata in me una rivoluzione
radicale... Sono prossimo a uno di quei momenti che decidono
dell’esistenza di un uomo. Pensate un po’ se non sento la mancanza
della vostra presenza e dei vostri consigli. Ma non mi mancherete
oltre, qualunque siano gli interessi che vi trattengono in Ungheria;
dovete tornare, Maximilien, dovete tornare, ve ne scongiuro, perché
senz’altro avrò bisogno delle vostre efficaci consolazioni... e non
posso venire a cercarvi. Mio padre, la
1 Ricorderemo al lettore che sono passati circa quindici mesi dal
giorno in cui Rodolphe ha lasciato Parigi passando dalla barriera
Saint-Jacques, dopo l’uccisione dello Chourineur.
cui salute diventa sempre più malsicura, mi ha fatto chiamare da
Gerolstein. S’indebolisce ogni giorno di più; mi è impossibile
lasciarlo solo...
Ho tante cose da dirvi che diventerò prolisso; devo raccontarvi il
periodo più denso e più romanzesco della mia vita...
Strana e triste fatalità! durante questo periodo siamo rimasti
fatalmente lontani uno dall’altro, noi, gli inseparabili, noi, i due
fratelli, noi, i due più ferventi apostoli della tre volte sacra
amicizia! noi infine così fieri di dimostrare che i Carlos e i Posa
del nostro Schiller non sono idealità e che, come queste due divine
creazioni del grande poeta, anche noi sapevamo gustare le soavi
delizie di un tenero e vicendevole affetto!
Oh, amico mio! perché non siete qui! perché non eravate qui! Da tre
mesi il mio cuore è immerso in emozioni di una dolcezza e di una
tristezza insieme indicibili. Ed ero solo e sono solo...
Compiangetemi voi che conoscete la mia sensibilltà a volte
stranamente ricca d’espansioni, voi che spesso mi avete visto con
gli occhi umidi di lacrime davanti al semplice racconto di un gesto
generoso, davanti alle bellezze di un tramonto o di una tranquilla e
stellata notte estiva! Vi ricordate, l’anno scorso, quando abbiamo
fatto quella gita alle rovine di Oppenfeld... in riva al grande
lago... le nostre silenziose fantasticherie durante quella magnifica
serata così piena di calma, di poesia e di serenità?
Bizzarro contrasto!... Era tre giorni prima di quel terribile duello
per cui non ho voluto prendervi come mio secondo, perché avrei
sofferto troppo se fossi stato ferito sotto i vostri occhi... Quel
duello in cui, per una questione di gioco, il mio secondo ha
malauguratamente ucciso quel giovane francese, il visconte di
SaintRemy... A proposito, sapete che ne è stato della pericolosa
sirena che il signor di Saint-Remy aveva condotto a Oppenfeld e che
si chiamava, credo, Cecily David?
Caro amico, avrete un sorriso di pietà vedendo che mi smarrisco così
tra gli incerti ricordi del passato, invece di dirvi le gravi
confidenze di cui vi ho parlato; il fatto è che, mio malgrado,
rimando il momento di queste confidenze; conoscendo la vostra
severità, ho paura di essere rimproverato, sì, rimproverato, perché
invece di agire con ponderatezza e saggezza (una saggezza di ventun
anni, ahimè) ho agito sconsideratamente, o meglio non ho agito... mi
sono lasciato ciecamente trascinare dalla corrente che mi portava
via... e solo dopo il mio ritorno da Gerolstein, mi sono, per così
dire, svegliato dal sogno ammaliatore che mi ha cullato per tre
mesi... e il risveglio è funesto.
Bene, caro amico, caro il mio Maximilien, prendo tutto il coraggio
che ho. Ascoltatemi e siate indulgente... Comincio abbassando gli
occhi non osando guardarvi in faccia... perché, dopo aver letto
queste righe, il vostro volto si farà serio e severo... uomo stoico!
Avendo ottenuto sei mesi di vacanza, lasciai Vienna e passai qui da
mio padre qualche tempo; essendo allora in buona salute, egli mi
consigliò d’andare a trovare la mia ottima zia, la principessa
Juliane, superiora dell’abbazia di Gerolstein. Vi ho detto, credo,
amico mio, che la mia bisnonna era cugina di primo grado del
bisnonno dell’attuale granduca e che quest’ultimo, Gustave-Rodolphe,
grazie a questa parentela, ha sempre molto affettuosamente trattato
me e mio padre da cugini. Sapete anche, credo, che durante il lungo
viaggio che il principe fece ultimamente in Francia, incaricò mio
padre dell’amministrazione del granducato. Credetemi, amico mio, se
vi parlo di queste circostanze non lo faccio affatto per orgoglio,
ma per spiegarvi il motivo della grandissima intimità in cui ho
vissuto con il granduca e la sua famiglia durante la mia permanenza
a Gerolstein.
Vi ricordate che l’hanno scorso, in occasione del nostro viaggio sul
Reno, avevamo saputo che il principe aveva ritrovato e sposato in
extremis la contessa Mac-Grégor al fine di legittimare la nascita
della figlia che egli aveva avuto durante il primo matrimonio
segreto con la contessa, matrimonio che poi fu annullato per vizio
di forma e perché era stato contratto contro la volontà del granduca
allora regnante?
Questa giovane fanciulla, dopo un simile e solenne riconoscimento, è
ora l’incantevole principessa Amélie di cui lord Dudley, che l’aveva
vista circa un anno fa a Gerolstein, ci aveva parlato quest’inverno
a Vienna con un entusiasmo che avevamo accusato di esagerazione...
Caso strano!... chi mi avrebbe detto allora!... Ma, anche se
certamente avrete intuito ora il mio segreto, lasciatemi seguire il
corso degli avvenimenti senza inversioni...
Il convento di Sainte-Hermangilde, di cui mia zia è la badessa,
dista appena un quarto di lega da Gerolstein, tant’è vero che i
giardini dell’abbazia giungono nei sobborghi della città; una bella
casa, completamente staccata dal chiostro, era stata messa a mia
disposizione da mia zia che mi vuole bene, voi lo sapete, come a un
figlio. Il giorno del mio arrivo, mi fece sapere che, il giorno
dopo, alla corte avrebbero dato una festa e un solenne ricevimento,
dovendo quel giorno il granduca annunciare ufficialmente il suo
prossimo matrimonio con la signora d’Harville, arrivata da poco a
Gerolstein accompagnata dal padre, il conte d’Orbigny.
Alcuni rimproveravano al principe di non avere cercato neppure
questa volta un matrimonio con una principessa (la granduchessa di
cui il principe era vedovo apparteneva alla casa di Baviera); altri,
invece, e mia zia era di questi, si congratulavano con lui per aver
preferito ad ambiziose mire di convenienza una donna giovane e
avvenente ch’egli adorava e che apparteneva alla più alta nobiltà
francese. Sapete, d’altronde, che mia zia ha sempre nutrito per il
granduca l’attaccamento più profondo; meglio di chiunque altro essa
poteva apprezzare le pregevoli doti del principe. «Figliolo caro» mi
disse a proposito del solenne ricevimento a cui dovevo andare il
giorno dopo al mio arrivo, «figliolo caro, ciò che vedrete di più
meraviglioso in quella festa sarà senza ombra di dubbio la perla di
Gerolstein.»
«Buona zia, di chi intendete parlare?»
«Della principessa Amélie...»
«La figlia del granduca? Infatti lord Dudley ce n’aveva parlato a
Vienna con un entusiasmo che noi avevamo tacciato di poeticismo
esagerato.»
«Alla mia età, con il mio carattere e nella mia posizione» riprese
mia zia, «ci si esalta molto poco; quindi dovrete credere, caro
figliolo, all’imparzialità del mio giudizio. Ebbene, io vi dico che
in vita mia non ho mai visto niente di più incantevole della
principessa Amélie. Potrei parlarvi della sua bellezza di angelo se
essa non fosse dotata di un fascino che non si può descrivere e che
è superiore alla sua bellezza. Immaginatevi la purezza accoppiata
alla dignità, la grazia alla modestia. Fin dal primo giorno in cui
il granduca me l’ha presentata, ho provato per la giovane
principessa una simpatia immediata. Del resto non sono la sola:
l’arciduchessa Sophie è a Gerolstein; è la più altera, la più
superba che io conosca...»
«È vero, zia; è terribilmente ironica; sono poche le persone che
riescono a salvarsi dai suoi frizzi pungenti. A Vienna la si temeva
come il fuoco... E la principessa Amélie le è piaciuta?»
«L’altro giorno è venuta qui, dopo aver visitato la casa d’asilo
posta sotto la sorveglianza della giovane principessa. “Sapete una
cosa?” mi disse la terribile arciduchessa con quel suo fare brusco e
franco; “sono portata eccezionalmente per la satira, vero? Ebbene,
se vivessi per un pezzo con la figlia del granduca, diventerei, ne
sono sicura, inoffensiva... tanto la sua bontà penetra e contagia.”»
«Ma allora è un’incantatrice, mia cugina?» dissi a mia zia con un
sorriso.
«La sua attrattiva più forte, almeno per me» riprese mia zia, «è
quell’impasto di dolcezza, di modestia e di dignità di cui vi ho
parlato e che conferisce al suo angelico viso l’espressione più
conturbante.»
«Certo, zia, la modestia è una qualità straordinaria in una
principessa così giovane, bella e felice.»
«Pensate inoltre, figliolo caro, che essa ha tanto maggior merito a
godere senza vana ostentazione dell’alta posizione che
indiscutibilmente le spetta in quanto il suo innalzamento è
recente.»2
«E ditemi, zia, nel colloquio che avete avuto con lei, ella non vi
ha parlato del suo passato?»
«No, ma quando, nonostante la mia età avanzata, le ho parlato col
rispetto che le è dovuto, poiché Sua Altezza è figlia del nostro
sovrano, il suo ingenuo turbamento misto a riconoscenza e
venerazione per me mi ha profondamente commossa; quel suo riserbo,
infatti, pieno di nobiltà e affabilità, era una prova che non era
inebriata dal presente tanto da dimenticare il passato e che essa
rendeva alla mia età ciò che io concedevo al suo rango.»
«Ci vuole, infatti» dissi a mia zia, «un tatto delicatissimo per
poter osservare sfumature così sottili.»
«Perciò, caro figliolo, più vidi la principessa Amelie, più mi
congratulai con me stessa della prima impressione avutane.
«Da quando è qui, sono incredibili tutte le opere buone che ha
fatto, e tutto con una ponderatezza, una maturità di criterio che
stupiscono in una persona della sua età. Giudicate un po’ voi:
dietro sua richiesta, il granduca ha fondato a Gerolstein un
istituto per le orfanelle di cinque o sei anni e per le fanciulle,
pure orfane, che hanno compiuto i sedici anni, età fatale per le
sventurate che non hanno niente con cui difendersi contro le
lusinghe del vizio o l’assillo del bisogno. Alcune monache nobili
della mia abbazia istruiscono e dirigono le fanciulle di quella
casa. Andandovi a far visita, spesso ho avuto l’occasione di notare
la grande venerazione che queste povere creature diseredate hanno
per la principessa Amélie. Ogni giorno va a passare qualche ora in
quest’istituto posto sotto la sua speciale protezione; e vi torno a
dire, caro figliolo, che le monache e le fanciulle provano per lei
non solo rispetto e venerazione ma anche fanatismo.»
«Ma è un angelo allora la principessa Amélie» dissi a mia zia.
2 Arrivando in Germania, Rodolphe aveva detto che Fleur-de-Marie, da
molto tempo creduta morta, non aveva mai abbandonato sua madre, la
contessa Sarah.
«Un angelo, sì, un angelo» riprese lei, «perché non potete
immaginare la tenerezza e la bontà che ella ha quando tratta con le
sue protette e le grandi premure di cui le circonda. Non ho mai
visto usare tanta delicatezza per non urtare la suscettibilità di
quelle sventurate; sembra quasi che la principessa sia attratta
verso quella classe di povere ragazze abbandonate da
un’irresistibile simpatia. E come se non bastasse, lo credereste,
lei, figlia di un sovrano, chiama sempre quelle fanciulle “mie
sorelle”.»
Dopo quanto mi disse mia zia, vi confesso, Maximillien, che mi
vennero le lacrime agli occhi. Infatti non vi sembra bella e santa
la condotta della giovine principessa? Voi conoscete la mia
sincerità; vi giuro che vi riferisco e riferirò sempre, quasi
testualmente, le parole di mia zia.
«Poiché la principessa» le dissi «ha doti così straordinarie,
proverò un gran turbamento domani quando le sarò presentato; voi
conoscete la mia invincibile timidezza, voi sapete che un nobile
carattere mi fa ancor più soggezione di un alto rango; sono sicuro
quindi di comparire agli occhi della principessa impacciato e
stupido; sono già preparato.»
«Via via» disse mia zia sorridendo, «avrà pietà di voi, caro
figliolo, tanto più che per lei non siete una conoscenza nuova.»
«Io, zia?»
«Certo.»
«E come mai?»
«Non vi ricordate che all’età di sedici anni, prima che partiste da
Oldenzaal per andare a fare un viaggio in Russia e in Inghilterra,
vi ho fatto fare un vostro ritratto con gli abiti che portavate al
primo ballo in maschera dato dalla defunta granduchessa?»
«Sì, zia, un costume di paggio tedesco del Cinquecento.»
«Il nostro ottimo pittore Pritz Mocker, riproducendo fedelmente i
vostri lineamenti, non solo aveva disegnato un personaggio del
Cinquecento ma, per un capriccio da artista, si era compiaciuto
d’imitare perfino il vecchio stile dei quadri dipinti in
quell’epoca. Qualche giorno dopo il suo arrivo in Germania, la
principessa Amélie, essendo venuta a trovarmi con il padre, mi
chiese, dopo aver notato il vostro ritratto, chi fosse
quell’incantevole personaggio dei tempi passati. Il padre, dopo
averle sorriso e avermi fatto un cenno, le rispose: “È il ritratto
di uno dei nostri cugini che ora avrebbe, come, mia cara Amélie,
potete vedere dal suo costume, circa trecento anni ma che, da molto
giovane, aveva già dato prova di straordinaria intrepidezza e di
ottimo cuore; infatti non ha lo sguardo di un coraggioso e il
sorriso di un buono?”.»
(Vi supplico, Maximilien, non alzate infastidito le spalle e non
siate sprezzante al vedermi scrivere tali cose su me stesso; non
sapete quanto mi costi, credetemi; il seguito di questo mio
racconto, comunque, vi dimostrerà come questi stupidi particolari,
che capisco essere amaramente ridicoli, siano purtroppo
indispensabili. Chiudo la parentesi e continuo.)
«La principessa Amélie» riprese mia zia, «illusa da quell’innocente
scherzo, condivise il parere del padre per quanto riguardava la
dolcezza e l’intrepidezza della vostra espressione, dopo avere più
attentamente considerato il ritratto. In seguito andai a trovarla a
Gerolstein; fu durante una di queste mie visite che essa mi chiese
sorridendo notizie del suo cugino dei tempi passati. Allora le
confessai l’inganno e le dissi che il bel paggio del Cinquecento non
era altri che mio nipote, il principe Henri d’Herkausen-Oldenzaal,
in età ora di ventun anni, capitano delle guardie di S.M.
l’imperatore d’Austria e in tutto e per tutto, a parte il costume,
somigliante al ritratto. A queste parole, la principessa Amélie»
aggiunse mia zia, «arrossì e diventò seria, com’è quasi sempre. Da
allora naturalmente non mi ha più riparlato del quadro. Nonostante
ciò, state sicuro, caro figliolo, che non sarete completamente
estraneo e tanto meno un viso nuovo per vostra cugina, come dice il
granduca. Quindi state tranquillo e cercate piuttosto di fare onore
al vostro ritratto» aggiunse mia zia.
La conversazione, caro Maximilien, aveva avuto luogo, come vi ho
detto, il giorno prima a quello in cui dovevo venire presentato a
mia cugina la principessa; lasciata mia zia, ritornai a casa.
Non vi ho mai tenuto nascosti i miei più segreti pensieri, buoni o
cattivi che fossero; adesso vi confesserò a quali assurde, folli
fantasticherie mi sono lasciato andare dopo la conversazione che vi
ho poc’anzi riferita.
II GEROLSTEIN
Il principe Henri d’Herkausen-Oldenzaal al conte Maximilien Kaminetz
Molte volte, caro Maximilien, mi avete detto che non sono per niente
vanitoso; ho bisogno di crederci, penso, se voglio continuare questo
mio racconto senza rischiare di essere preso da voi per un
presuntuoso.
Quando fui solo a casa, non potei fare a meno, al ricordo della
conversazione con mia zia, di pensare con segreta soddisfazione come
alla principessa Amélie, dopo sei o sette anni il mio ritratto
avesse fatto effetto e come questa, qualche giorno dopo, avesse
chiesto, scherzando, notizie del suo cugino dei tempi passati.
Niente, ne convengo, c’era di più stupido del fondare una sia pur
piccola speranza su una circostanza così insignifcante; però, come
vi ho detto, sarò, come sempre, con voi della più schietta
franchezza: ebbene, una tale circostanza mi mandò in visibilio.
Fatto sta che l’elogio fatto alla principessa Amélie da parte di una
donna grave e austera come mia zia, oltre a nobilitare la
principessa, era anche riuscito a rendermi più sensibile
all’attenzione che s’era degnata di concedere al mio ritratto.
Eppure, che devo dirvi, una tale attenzione destò in me speranze
così insensate che adesso, che posso gettare uno sguardo sereno sul
passato, mi sto a domandare come mai abbia potuto lasciarmi andare a
pensieri che avrebbero inevitabilmente dovuto far sprofondare in un
abisso. Anche se parente del duca e sempre onorevolmente ricevuto da
lui, non potevo nutrire alcuna speranza di un matrimonio con la
principessa seppure essa avesse gradito il mio amore, cosa questa
più che impossibile. La nostra famiglia ha un tenore di vita
onorevole per il suo rango, eppure è povera se si paragona la nostra
ricchezza agli immensi domini del granduca, che è il principe più
ricco della Confederazione germanica; e poi infine avevo solo ventun
anni ed ero un semplice capitano delle guardie, senza fama e senza
una mia posizione; mai, insomma, il granduca avrebbe potuto pensare
a me per un matrimonio con sua figlia.
Tutte queste riflessioni avrebbero dovuto garantirmi da una passione
che ancora non provavo, ma di cui avevo per così dire uno strano
presentimento. Ahimè, invece mi sono lasciato andare ad altre
sciocchezze. Portavo al dito un anello donatomi tempo addietro da
Thécla (la buona contessa che conoscete); benché fosse il pegno di
un amore spensierato, facile e leggero, e non potesse recarmi gran
fastidio, pure fui tanto eroico da immolarlo al mio amore nascente
per cui il povero anello scomparve tra le acque correnti del fiume
che passa sotto le mie finestre.
Dirvi che notte ho passato è inutile; avrete capito da voi. Mi
avevano detto che la principessa Amélie era bionda e di bellezza
angelica; cercai di immaginarmi le sue fattezze, la sua figura, il
suo portamento, il timbro della sua voce, l’espressione del suo
sguardo; poi, pensando al ritratto che essa aveva notato, mi
ricordai con rammarico che quel maledetto pittore mi aveva fatto
troppo bello;
inoltre ero disperato al confrontare il pittoresco costume del
paggio del Cinquecento con l’austera divisa da capitano delle
guardie di Sua Maestà Imperiale. Poi a queste sciocche
preoccupazioni succedevano di tanto in tanto, ve l’assicuro amico,
pensieri generosi e nobili slanci d’animo; mi sentivo commosso,
profondamente commosso dal ricordo dell’adorabile bontà della
principessa Amélie che usava chiamare sue sorelle le povere ragazze
abbandonate che proteggeva, come mi aveva detto mia zia.
Infine, contrasto bizzarro e inesplicabile, ho di me, voi lo sapete,
la più umile opinione... eppure m’inorgogliva il pensiero che il mio
ritratto avesse fatto impressione sulla principessa; avevo
abbastanza buon senso per capire che un abisso incolmabile mi
separava per sempre da lei, eppure mi andavo domandando con vera
ansietà se poteva darsi che essa mi trovasse tanto inferiore al mio
ritratto. Infine, non avendola io mai vista, mi ero ormai convinto
che essa sì e no mi avrebbe notato... eppure mi ero arrogato il
diritto di immolarle il pegno del mio primo amore.
Passai la notte di cui sopra e parte del giorno successivo in preda
a una vera angoscia. Giunse l’ora del ricevimento. Provai due o tre
uniformi, ma mi sembravano le une peggio delle altre; partii per il
palazzo granducale che ero molto scontento di me.
Benché Gerolstein disti appena un quarto di lega dall’abbazia di
Sainte-Hermangilde, il tragitto non fu tanto breve da impedire che
venissi assalito da mille e mille pensieri; però tutte le
sciocchezze di cui mi ero tanto preoccupato davanti a un’idea grave,
triste, quasi minacciosa; un invincibile presentimento mi diceva che
avrei avuto una di quelle crisi che incidono su tutta la vita; una
specie di rivelazione mi diceva che avrei amato, amato follemente,
amato come non si può amare che una volta sola; e, per colmo di
fatalità, questo amore rivolto a una persona tanto altolocata quanto
degna non poteva che essere per me un amore infelice.
Queste idee mi spaventavano a tal punto che di colpo presi la saggia
risoluzione di far fermare la carrozza, di tornare all’abbazia e di
andare a raggiungere mio padre, lasciando a mia zia l’incarico di
presentare al granduca le scuse per la mia brusca partenza.
Purtroppo per una di quelle cause banali i cui effetti a volte sono
immensi, non potei mettere in atto il mio piano. La mia carrozza si
era fermata all’inizio del viale che porta al palazzo e io mi ero
sporto dal finestrino per dare ordini alla servitù di ritornare
quando, avendomi visto il barone e la baronessa Koller che, come me,
stavano recandosi a corte, fecero fermare la loro carrozza. Il
barone, scorgendomi in uniforme, mi disse: «Vi posso essere utile in
qualcosa, caro principe? Che vi è successo? Se è capitato qualcosa
ai vostri cavalli, salite pure da noi, visto che andate anche voi al
palazzo».
Non ci sarebbe stato niente di più facile, vero, amico mio, che
trovare un pretesto per piantare lì il barone e raggiungere
l’abbazia. Ebbene, un po’ per impotenza un po’ per il segreto
desiderio di sottrarmi alla salutare determinazione che avevo appena
preso, risposi con imbarazzo che avevo dato ordine al mio cocchiere
di andare al cancello del palazzo per informarsi se si dovesse
entrare per la palazzina nuova o per il cortile di marmo. «Si entra
per il cortile di marmo, caro principe» mi rispose il barone,
«perché è un ricevimento di gran gala. Vi indicherò io la strada,
dite alla vostra carrozza di seguire la mia.»
Voi sapete, Maximilien, quanto io sia fatalista; volevo tornare
all’abbazia per evitarmi i dispiaceri che avevo presentito; visto
che avevo il destino avverso, mi abbandonai alla mia buona stella.
Conoscete, amico, il palazzo granducale di Gerolstein. Secondo il
parere di tutti quelli che hanno visitato le capitali d’Europa, non
esiste, a eccezione di Versailles, una reggia che, per il suo
edificio e i dintorni, sia più maestosa. Se a questo proposito entro
in particolari, lo faccio perché, ricordandomi ora quel fasto
imponente, mi sto a chiedere come mai esso non mi abbia fatto venire
in mente la nullità che ero; perché alla fin fine, la principessa
Amélie era figlia del sovrano padrone di quel palazzo, di quelle
guardie, di quelle meravigliose ricchezze.
La corte di marmo, vasto emiciclo, è chiamata così perché, a
eccezione della larga strada intorno a essa, è pavimentata con marmi
policromi che formano magnifici mosaici al cui centro s’apre
un’immensa vasca rivestita di breccia antica alimentata da una
grande massa d’acqua che ricade ininterrottamente da una larga coppa
in porfido.
Il cortile è circondato da una serie di statue di marmo bianco del
più bello stile, ciascuna delle quali porta una torciera di bronzo
dorato da dove zampillano fasci di gas abbagliante. Alternati con le
statue ci sono dei vasi etruschi poggianti su piedistalli riccamente
scolpiti, con dentro enormi oleandri, veri e propri cespugli finti
le cui lucide foglie, alla luce dei lumi, mandavano riflessi d’un
verde metallico.
Le carrozze si fermavano ai piedi di una doppia rampa balaustrata
che portava al peristilio del palazzo; ai piedi della scalinata
stavano, in groppa a cavalli neri, due cavalieri del reggimento
delle guardie
del duca, il quale aveva scelto questi militari tra i sottufficiali
più grandi del suo esercito. Voi, amico, a cui piace tanto la gente
d’armi, sareste stato impressionato dal portamento fiero e marziale
di questi due colossi con corazza ed elmo d’acciaio di antica
fattura senza cimiero e criniera che brillavano alla luce dei lumi;
i cavalieri vestivano una uniforme blu con collo giallo e avevano
pantaloni di pelle bianca e stivali che arrivavano fin sopra i
ginocchi. Infine aggiungerò per voi, amico, che siete portato per le
cose militari, che in cima alla scalinata, ai due lati di una porta,
stavano di sentinella due granatieri del reggimento di fanteria
della guardia granducale. La loro tenuta, a parte il colore
dell’uniforme e le mostrine, assomigliava, mi hanno detto, a quella
dei granatieri di Napoleone.
Dopo aver attraversato il vestibolo, dove si trovavano, con
l’alabarda impugnata, gli svizzeri con la livrea del principe, salii
per un maestoso scalone di marmo bianco che terminava in un portico
ornato di colonne di diaspro e sormontato da una cupola dorata
dipinta. Qui c’erano due lunghe file di domestici. Entrai poi nella
sala delle guardie, alla cui porta stavano sempre un ciambellano e
un aiutante di campo di servizio, con l’incarico di accompagnare da
Sua Altezza le persone che avevano diritto a una presentazione
speciale. Ebbi quest’onore in virtù della mia parentela ancorché
lontana: un aiutante di campo mi fece strada per una lunga galleria
piena di uomini in abito da corte o in uniforme e di donne in
splendidi abiti.
Mentre passavo lentamente attraverso quella folla brillante, sentii
qualche parola che mi emozionò ancora di più. Tutti erano rimasti
strabiliati dall’angelica bellezza della principessa Amélie, dal
volto delizioso della marchesa d’Harville, dall’aspetto veramente
regale dell’arciduchessa Sophie che, arrivata da poco da Monaco con
l’arciduca Stanislas, sarebbe subito ripartita per Varsavia; ma per
quanto si rendesse omaggio alla fiera dignità dell’arciduchessa,
all’aggraziata signorilità della marchesa d’Harville, ognuno
riconosceva che non c’era niente di più ideale dell’incantevole
volto della principessa Amélie.
Più mi avvicinavo al luogo dove si trovavano il granduca e sua
figlia, più aumentava la violenza dei battiti del mio cuore. Quando
arrivai sulla soglia del salone (mi sono dimenticato di dirvi che
alla corte si tenevano una festa da ballo e un concerto), il celebre
Liszt si mise al piano; subito al leggero brusio del conversare
successe il raccoglimento più silenzioso. Restai fermo nel vano
della porta in attesa che finisse il pezzo, un pezzo che il grande
musicista stava eseguendo con la sua solita maestria.
Allora, caro Maximilien, vidi per la prima volta la principessa
Amélie.
Fatemi descrivere questa scena perché sento un fascino ineffabile a
rivangare questi ricordi.
Immaginatevi, amico, un ampio salone arredato con regale sontuosità,
abbagliante di luci e tappezzato di seta cremisi percorsa da ricami,
in rilievo, di foglie d’oro. In prima fila, in grandi poltrone
dorate, c’erano l’arciduchessa Sophie (il principe la onorava del
suo palazzo), alla sua sinistra la signora marchesa d’Harville e
alla sua destra la principessa Amélie; dietro a esse, in piedi,
stava il granduca con l’uniforme di colonnello delle guardie;
sembrava che la gioia l’avesse ringiovanito e dimostrava meno di
trent’anni; l’uniforme militare metteva ancor più in risalto la
signorilità del suo portamento e la bellezza dei suoi lineamenti;
vicino a lui c’era l’arciduca Stanislas nell’uniforme di
feldmaresciallo, poi venivano le dame d’onore della principessa
Amélie, le mogli dei grandi dignitari e infine i dignitari stessi.
C’e bisogno di dirvi che la principessa Amélie, non tanto per il suo
rango quanto per la sua grazia e bellezza, si staccava da questa
splendida moltitudine? Non condannatemi, amico, prima d’aver letto
il ritratto che vi farò. Sebbene sia mille volte al disotto della
realtà, pure capirete perché io l’adori, perché, appena la vidi, me
ne sia innamorato e perché la fulmineità di questa mia passione
possa essere paragonata solo alla sua violenza e alla sua eterna
durata.
La principessa Amélie indossava un semplice abito di moire bianco
con il gran cordone dell’ordine imperiale di Saint-Népomucène
speditole da poco dall’imperatrice, cordone che portava anche
l’arciduchessa Sophie. Il diadema di perle che le cingeva la nobile
e candida fronte s’intonava stupendamente con le due grosse trecce
d’un magnifico biondo cinerino che le incorniciavano le guance un
po’ colorite; due braccia bellissime, più bianche degli sbuffi di
trina da cui uscivano, erano mezzo nascoste da un paio di guanti che
le arrivavano un po’ più giù di quei suoi gomiti con fossetta;
niente di più perfetto della sua statura, niente di più grazioso del
suo piede calzato di raso bianco.
Nel momento, in cui la vidi, i suoi occhi grandi, e di un azzurro
purissimo, erano sognanti; non so se in quel momento essa fosse
sotto l’influsso di qualche grave pensiero oppure se fosse
profondamente impressionata dalla triste armonia del brano suonato
da Liszt; fatto sta che il suo mesto sorriso mi parve di una
dolcezza e di una malinconia indicibili. Con la testa leggermente
inclina-
ta sul petto, stava sfogliando, senza neppure badarvi, il mazzo di
rose e di garofani bianchi che aveva in mano.
Non potrò mai esprimervi ciò che sentii allora: tutto quanto mia zia
mi aveva detto della indicibile bellezza della principessa Amélie mi
ritornò alla mente... Sorridete, amico... io, comunque, sentii,
quasi mio malgrado, inumidirmisi gli occhi al veder pensierosa e
quasi triste questa fanciulla così stupenda, ricolma d’onori e di
rispetto e idolatrata da un padre come il granduca. Maximilien,
questa cosa ve l’ho detta più di una volta: come credo l’uomo sia
incapace di gustare certe felicità troppo complete, troppo immense
per le limitate facoltà, così credo anche che ci sono certi esseri
dotati di qualità troppo soprannaturali per non sentirsi qualche
volta amareggiati di essere isolati in questa vita e per non
rimpiangere allora vagamente quella squisita delicatezza che li fa
andare incontro a tante delusioni e a tanti rincrescimenti
incomprensibili per gente meno eletta... Mi pareva che la
principessa Amélie stesse provando in quel momento il contraccolpo
di un simile pensiero.
A un tratto, per una strana combinazione (tutto è fatalità in questo
mondo), essa volse automaticamente gli occhi dalla parte in cui mi
trovavo io.
Voi sapete con quanto scrupolo vengano rispettate da noi l’etichetta
e la gerarchia di rango. In virtù del mio titolo e dei legami di
parentela che mi uniscono al granduca, le persone in mezzo alle
quali mi ero messo in un primo momento si erano un po’ alla volta
tirate indietro tanto che restai quasi solo nel vano della porta
della galleria. Ci volle questa circostanza perché la principessa
Amélie si scuotesse dalle sue fantasticherie, mi scorgesse e mi
notasse, tanto è vero che fece un leggero gesto di sorpresa e
diventò rossa. Avendo visto il mio ritratto nell’abbazia, mi
riconobbe subito: cosa semplicissima. Benché fosse durato un
secondo, lo sguardo della principessa mi gettò in un’agitazione
violenta, profonda: mi sentii le guance in fiamme, abbassai gli
occhi e per qualche minuto restai senza avere il coraggio di levarli
di nuovo sulla principessa...
Quando mi ci arrischiai, essa stava parlando con l’arciduchessa
Sophie la quale... sembrava ascoltarla con affettuosa sollecitudine.
Avendo Liszt diviso con un intervallo di pochi minuti i due brani
che doveva eseguire, il granduca approfittò per manifestargli la sua
ammirazione con la più grande cortesia. Il principe mentre ritornava
al suo posto mi scorse, mi fece un benevolo segno con la testa e
disse qualche parola all’arciduchessa accennando a me.
Questa, dopo essere stata un istante a considerarmi, si volse al
granduca che non poté non sorridere rispondendole e rivolgendo poi
la parola alla figlia. La principessa Amélie mi sembrò imbarazzata
tanto che arrossì di nuovo.
Era un supplizio per me; purtroppo, per via dell’etichetta, non
potevo muovermi dal posto in cui ero prima della fine del concerto
che subito ricominciò. Due o tre volte guardai di sfuggita la
principessa Amélie; mi sembrò triste e pensierosa; mi si strinse il
cuore; stavo soffrendo per la leggera contrarietà che le avevo
involontariamente causato e che ero sicuro di avere capito.
Il granduca doveva averle chiesto, scherzando, se trovava qualche
rassomiglianza con il ritratto del suo cugino dei tempi passati; e
lei, nella sua ingenuità, forse stava rimproverandosi di non aver
detto al padre che mi aveva già riconosciuto. Finito il concerto,
seguii l’aiutante di campo di servizio che mi condusse dal granduca;
questi ebbe la compiacenza di venirmi incontro, di prendermi
amichevolmente sotto braccio e di condurmi verso l’arciduchessa
Sophie a cui disse:
«Chiedo a Vostra Altezza Imperiale il permesso di presentarle mio
cugino, il principe Henri d’Herkausen-Oldenzaal».
«Ho già visto il principe a Vienna e lo rivedo qui con piacere»
rispose l’arciduchessa davanti alla quale m’inchinai profondamente.
«Cara Amélie» riprese il principe rivolgendosi alla figlia, «vi
presento il principe Henri, vostro cugino; è figlio del principe
Paul, uno dei miei più venerabili amici che mi dispiace molto di non
vedere oggi a Gerolstein.»
«Favorite, signore, far sapere al principe Paul che anch’io
condivido il vivo dispiacere di mio padre dato che sarei felicissima
di conoscere i suoi amici» rispose mia cugina con una semplicità
piena di garbo...
Non avevo mai sentito la voce della principessa; pensate, amico, al
timbro più dolce, più fresco, più armonioso, insomma uno di quegli
accenti che fanno vibrare le corde più delicate dell’anima. «Spero,
Henri, che vorrete restare un po’ di tempo da quella vostra zia a
cui voglio bene e che rispetto, voi lo sapete, come una madre» mi
disse il granduca benevolmente. «Cercate di venire a trovarci spesso
in famiglia, verso la fine della mattinata, sulle tre; se usciremo,
verrete a passeggio con noi; sapete che vi ho sempre voluto bene
perché siete uno dei cuori più nobili che io conosca.» «Non so come
esprimere a Vostra Altezza Reale la mia riconoscenza per la benevola
accoglienza che si è degnato di farmi.»
«Ebbene, per dimostrarmi la vostra riconoscenza» disse il principe
sorridendo, «invitate vostra cugina per la seconda contraddanza
visto che la prima spetta di diritto all’arciduca.»
«Vostra Altezza vuole concedermi questa grazia?» dissi io alla
principessa Amélie facendole un inchino.
«Chiamatevi cugino e cugina come vuole la buona e vecchia usanza
tedesca» disse allegramente il granduca; «non sta bene far cerimonie
fra parenti.»
«Mia cugina mi concede l’onore di ballare questa contraddanza con
me?»
«Sì, cugino» mi rispose la principessa Amélie.
III GEROLSTEIN
Il principe Henri d’Herkausen-Oldenzaal al conte Maximilien Kaminetz
Non saprei dirvi, amico, quanto fui scontento e dolente insieme
della paterna cordialità del granduca; la confidenza che mi aveva
dimostrato, la squisita bontà con cui aveva invogliato me e la
figlia a sostituire le formule dell’etichetta con quegli appellativi
familiari di così calda intimità, tutto mi induceva alla
riconoscenza e tanto più amaramente mi rimproveravo il fascino
fatale di un amore che non doveva né poteva riuscire gradito al
principe.
Mi ero proposto, è vero (non sono mai venuto meno a questa
risoluzione), di non dire mai una sola parola che potesse far
sospettare a mia cugina l’amore che provavo per lei; ma temevo che a
tradirmi potessero essere la mia emozione, i miei sguardi... e pur
non volendolo, questo sentimento, per tacito e occulto che fosse, mi
sembrava colpevole.
Ebbi il tempo di fare queste riflessioni intanto che la principessa
Amélie faceva la prima contraddanza con l’arciduca Stanislas. Qui,
come dappertutto, il ballo non è più che una specie di passeggio
durante il quale si segue il tempo segnato dall’orchestra; non c’era
cosa che potesse far meglio risaltare il portamento pieno di grazia
di mia cugina.
Aspettavo felice e ansioso insieme il momento di conversazione che
durante il ballo avrei avuto la libertà di fare con lei. Fui
abbastanza padrone di me stesso per nascondere il mio turbamento
quando andai a prenderla vicino alla marchesa d’Harville.
Pensando alla circostanza del ritratto, mi aspettavo di vedere la
principessa Amélie imbarazzata come me; non mi sbagliavo. Mi ricordo
quasi parola per parola il nostro primo colloquio; lasciate, amico,
che ve lo riferisca: «Vostra Altezza mi permette» le dissi, «di
chiamarla cugina, come mi ha autorizzato il granduca?» «Certo,
cugino» mi rispose lei con grazia; «sono sempre contenta quando
obbedisco a mio padre.»
«E io, cugina, sono tanto più fiero di codesta familiarità in quanto
mia zia mi ha insegnato a conoscervi, cioè ad apprezzarvi.» «Anche
mio padre mi ha parlato spesso di voi, cugino, e, cosa questa che vi
stupirà» aggiunse timidamente, «io vi conoscevo già, se così si può
dire, di vista... La superiora di Sainte-Hermangilde, per la quale
ho il più rispettoso affetto, aveva mostrato un giorno a mio padre e
a me un ritratto...»
«Dove ero rappresentato come un paggio del Cinquecento?»
«Sì, cugino; e mio padre mi ingannò dicendomi che era il ritratto di
un nostro parente del tempo passato, aggiungendo peraltro parole
benevole nei riguardi di questo cugino d’una volta tanto che la
nostra famiglia deve rallegrarsi oggi d’averlo nel novero dei nostri
parenti...»
«Ahimè, cugina, temo di assomigliare così poco al paggio del
Cinquecento quanto al quadro morale che il granduca s’è degnato di
tracciare di me.»
«Vi sbagliate, cugino» ribatté candidamente la principessa; «perché
quando, alla fine del concerto, ho buttato gli occhi a caso dalla
parte della galleria, vi ho riconosciuto subito, nonostante la
diversità d’abiti.»
Poi cercando di cambiare argomento a quella conversazione dato che
si sentiva imbarazzata, mi disse: «Che talento straordinario quel
Liszt, non trovate?».
«Straordinario. Con quanto piacere l’ascoltavate!»
«Infatti, a mio parere, c’e un doppio godimento nella musica senza
parole: non solo si gode di una eccellente esecuzione, ma si può
applicare il proprio pensiero del momento alle melodie che si stanno
ascoltando diventando in certo qual modo l’accompagnamento... Non so
se mi avete capita, cugino!»
«Perfettamente; allora i pensieri sono parole che mentalmente
adattiamo alla musica che andiamo ascoltando.»
«Proprio così, proprio così, mi avete capita» disse con un certo
garbo pieno di soddisfazione: «temevo di poter spiegare male quello
che ho sentito poco fa durante una così lamentevole e commovente
melodia.»
«Grazie a Dio, cugina» le dissi sorridendo, «voi non potete trovare
parole per un’aria così triste.»
Fosse la mia una domanda indiscreta o che non volesse rispondermi o
che non l’avesse sentita, a un tratto la principessa Amélie mi disse
indicandomi il granduca che dava il braccio all’arciduchessa Sophie
e stava attraversando allora la galleria dove si ballava: «Cugino,
guardate un po’ mio padre com’e bello!... che nobile aspetto! con
quale sollecitudine tutti gli sguardi s’appuntano su di lui! credo
che sia più amato che rispettato...».
«Ah» esclamai, «non solamente qui, nella sua corte, egli è amato! Se
le benedizioni del popolo risuonassero anche nella posterità, il
nome di Rodolphe di Gerolstein sarebbe giustamente immortale.»
Dicendo queste cose la mia esaltazione è sincera, perché voi sapete,
amico, che non a torto gli stati del principe sono chiamati il
Paradiso della Germania.
È impossibile dirvi lo sguardo di riconoscenza gettatomi da mia
cugina al sentirmi parlare così.
«Questo apprezzamento di mio padre» mi disse lei con emozione,
«dimostra che siete degno dell’attaccamento che ha per voi.» «Da
nessuno è ammirato più che da me! Oltre alle straordinarie qualità
che possiedono i grandi principi, non ha egli anche quel genio della
bontà che rende i principi adorabili?...».
«Non sapete quanto sia vero quanto dite!...» esclamò la principessa
ancora più interessata.
«Oh, lo so, lo so e tutti i suoi sudditi lo sanno meglio di me... È
amato a tal segno che ognuno è afflitto quando lui è dispiaciuto
così come ognuno si rallegra quando è contento; la sollecitudine che
tutti hanno dimostrato venendo a porgere i loro omaggi alla signora
contessa d’Harville consacra la scelta di Sua Altezza Reale e
insieme il merito della futura granduchessa.»
«La signora marchesa d’Harville è degna più di chiunque
dell’attaccamento di mio padre; è il miglior elogio che vi possa
fare di lei.»
«Certamente voi, cugina, potete giudicarla bene dal momento che
probabilmente l’avete conosciuta in Francia.»
Appena ebbi pronunciato queste parole, non so quale improvvisa idea
si affacciò alla mente della principessa Amélie; essa abbassò gli
occhi e per un secondo ebbe in volto un’espressione di tristezza
tale che mi stupì e mi fece ammutolire.
Si era verso la fine della contraddanza, l’ultima figura mi separò
per un istante da lei; quando la riaccompagnai dalla signora
d’Harville, mi sembrò che il suo volto fosse ancora leggermente
turbato...
Pensai, e lo penso tuttora, che la mia allusione al suo soggiorno in
Francia, avendole ricordato la morte della madre, le avesse
cagionato il dispiacere di cui vi ho detto prima.
Durante la serata notai un fatto che vi sembrerà insignificante ma
che per me è stato una nuova prova dell’attrattiva che questa
fanciulla suscita in tutti. Essendosi il suo diadema di perle un po’
spostato, l’arciduchessa Sophie, a cui essa in quel momento dava il
braccio, ebbe la bontà di rimetterglielo a posto sulla fronte. Ora a
chi conosce la proverbiale alterigia dell’arciduchessa, una tale
cortesia sembrerà incredibile. Del resto, la principessa Amélie, che
in quel momento stavo attentamente osservando, si mostrò tanto
confusa e insieme tanto riconoscente, direi quasi imbarazzata da
quell’atto di garbatezza, che mi parve di vederle brillare negli
occhi una lacrima.
Questa fu, amico, la mia prima serata a Gerolstein. Se nel
raccontarvela sono stato prodigo di particolari, l’ho fatto perché
quasi tutti questi fatti hanno avuto in seguito le loro conseguenze.
D’ora in poi sarò breve; vi parlerò solo di alcuni fatti relativi ai
miei frequenti colloqui con mia cugina e suo padre.
Due giorni dopo la festa fui tra i pochi invitati alla celebrazione
del matrimonio tra il granduca e la signora marchesa d’Harville.
Mai, come durante la cerimonia, il volto della principessa Amélie fu
così radioso e sereno. Essa stava a contemplare il padre e la
marchesa come in una specie di mistico rapimento che caricò di un
nuovo incanto i suoi lineamenti, sui quali sembrava riflettersi
l’ineffabile felicità del principe e della signora d’Harville.
In quel giorno mia cugina fu molto allegra ed espansiva. Io le
offrii il braccio per una passeggiata che si fece dopo cena nei
giardini del palazzo magnificamente illuminati. Essa mi disse a
proposito del matrimonio del padre: «Trovo che la felicità di coloro
che ci sono tanto cari ci sia ancora più dolce della nostra stessa
felicità, perché c’è sempre un’ombra d’egoismo nel godimento della
nostra felicità personale».
Se vi cito, o amico, fra le mille questa osservazione di mia cugina
è per mostrarvi quanta bontà racchiuda in sé, come suo padre
d’altronde, questa adorabile creatura.
Qualche giorno dopo il matrimonio, ebbi col principe una lunga
conversazione: volle sapere qualcosa del mio passato, dei miei
futuri progetti; lui mi diede i più saggi consigli, gli
incoraggiamenti più lusinghieri perfino di certi suoi progetti
riguardanti il governo
con una confidenza di cui ero fiero e lusingato; infine, devo
dirlo?, per un momento ebbi in mente un’idea pazzesca: credetti che
il principe avesse intuito il mio amore e che mi avesse concesso
quel colloquio per studiarmi, prevenirmi e condurmi forse a una
dichiarazione...
Purtroppo questa folle speranza non durò a lungo: il principe pose
fine alla conversazione dicendomi che il tempo delle grandi guerre
era terminato, che dovevo approfittare del mio nome, delle mie
parentele, dell’educazione ricevuta e della stretta amicizia che
legava mio padre al principe M. per intraprendere la carriera
diplomatica al posto di quella militare, e aggiunse che tutte le
questioni che un tempo si risolvevano sul campo di battaglia da ora
innanzi si sarebbero risolte con i congressi, che presto sarebbe
venuto il tempo in cui tutte le intricate e infide tradizioni della
vecchia diplomazia sarebbero state rimpiazzate da una politica umana
e aperta inerente ai veri interessi dei popoli perché questi ogni
giorno di più acquisivano coscienza dei loro diritti e che una mente
elevata, leale e generosa avrebbe avuto, di lì a qualche anno, un
grande e nobile ruolo da ricoprire negli affari politici e fare così
molto bene. E come se non bastasse mi offriva l’appoggio della sua
regale protezione per facilitarmi gli inizi della carriera che
caldamente mi esortava a intraprendere.
Voi capite, amico, che, se il principe avesse avuto la più piccola
mira su di me, non mi avrebbe aperto simili prospettive. Lo
ringraziai delle sue premure con la più sentita riconoscenza e
aggiunsi subito che capivo tutto il valore dei suoi consigli e che
ero deciso a seguirli.
Sul principio mi dimostrai riservatissimo durante le mie visite a
palazzo; ma il principe diventò tanto insistente che finii ben
presto con l’andarci verso le tre quasi ogni giorno. Vi si conduceva
la vita semplice e incantevole delle nostre corti tedesche. Era la
vita dei grandi castelli d’Inghilterra resa più attraente dalla
schietta semplicità e dalla piacevole libertà dei costumi tedeschi.
Quando il tempo lo permetteva, facevo lunghe passeggiate a cavallo
con il granduca, la granduchessa, mia cugina e le persone della loro
casa. Quando si restava nel palazzo, ci si occupava di musica; io
cantavo con la granduchessa e mia cugina, la cui voce aveva un
timbro di purezza e soavità senza pari e che io non potevo ascoltare
senza sentirmi rimescolare fino in fondo all’anima. Altre volte si
visitavano a una a una le meravigliose collezioni di quadri e di
oggetti d’arte o le stupende biblioteche del principe che, come voi
sapete, è uno degli uomini più colti e illuminati dell’Europa;
molto spesso restavo a cenare a corte, e accompagnavo la famiglia
granducale a teatro nelle sere di rappresentazione.
Erano, quelli, giorni di sogno; dopo un po’ mia cugina cominciò a
trattarmi con fraterna amicizia; non mi nascondeva il piacere che
aveva di vedermi, mi confidava tutto quanto le interessava; due o
tre volte mi pregò di accompagnarla a visitare, con la granduchessa,
le sue orfanelle; spesso mi parlava anche del mio avvenire con
un’assennatezza e una premura grave e ponderata che mi stupiva in
una ragazza della sua età; le piaceva anche molto informarsi della
mia infanzia, di mia madre che, ahimè, continuo sempre a
rimpiangere. Ogni volta che scrivevo a mio padre, mi raccomandava di
essere ricordato a lui; un giorno, siccome ricamava benissimo, mi
consegnò per lui un magnifico lavoro di tappezzeria per cui aveva
speso molto tempo. Che posso dirvi, amico? un fratello e una sorella
che, dopo lunghi anni di separazione, si fossero ritrovati non
avrebbero goduto di una più piacevole amicizia. Del resto se
sopraggiungeva un terzo quando noi, per una rarissima combinazione,
restavamo soli, non capitava mai che si cambiasse l’argomento oppure
il tono dei nostri discorsi.
Vi stupirete forse, amico, di questa fraternità tra due giovani
soprattutto se terrete presenti le confidenze che vi ho fatto; ma
più mia cugina mi dava prova di fiducia e amicizia, più io mi
controllavo, più io mi frenavo per paura che questo incantevole
legame venisse a rompersi. E poi il mio riserbo aumentava ancora di
più davanti al fatto che la principessa, nelle sue relazioni con me,
era tanto sincera, generosa, fiduciosa e soprattutto così poco
civetta che sono quasi sicuro che lei non sapeva niente della mia
violenta passione. A questo proposito m’è restato un piccolo dubbio
riguardante un fatto che adesso vi racconto.
Se una tale amicizia fraterna avesse potuto durare sempre, forse mi
sarebbe bastata questa fortuna; ma, per il fatto stesso che io ne
godevo e ne ero deliziato, pensavo che presto il mio servizio o la
carriera a cui il principe mi aveva esortato, mi avrebbe chiamato a
Vienna o all’estero; pensavo, insomma, che il principe forse avrebbe
quanto prima pensato a maritare sua figlia in modo degno di lei...
Tali idee, a mano a mano che si avvicinava il momento della mia
partenza, mi diventavano sempre più penose. Mia cugina non tardò a
notare il cambiamento che era avvenuto in me. Il giorno prima di
andarmene, essa mi disse che da qualche tempo mi vedeva cupo,
preoccupato. Cercai di eludere le sue domande; attribuii la mia
tristezza a un indefinibile malessere.
«Non posso credervi» mi disse; «mio padre vi tratta quasi come un
figlio, tutti vi vogliono bene; sentirvi infelice vorrebbe dire
essere un ingrato.»
«Ebbene» dissi senza poter dominare la mia emozione «non è un
malessere, è un dispiacere, sì, ho un profondo dispiacere.»
«E perché? che cosa vi è successo?» mi chiese lei interessandosi.
«Poco fa, cugina, mi avete detto che vostro padre mi tratta come un
figlio... che tutti mi vogliono bene... Ebbene, fra poco, dovrò
rinunciare a questi affetti così cari, dovrò infine... lasciare
Gerolstein e vi confesso che questo pensiero mi fa disperare.»
«E non vi pare niente, cugino... il ricordo di coloro che ci sono
cari?»
«Certo... ma gli anni, gli avvenimenti producono cambiamenti così
imprevedibili!»
«Eppure ci sono certi affetti che non cambiano mai: quello che mio
padre ha sempre avuto per voi... quello che io sento per voi rientra
nel novero di questi, voi lo sapete bene; siamo fratello e
sorella... sempre, per tutta la vita» aggiunse alzando su di me i
suoi occhioni azzurri umidi di pianto.
Fui sconvolto da quello sguardo; fui lì lì per tradirmi; meno male
che riuscii a dominarmi.
«È vero che gli affetti durano» le dissi imbarazzato; «ma cambiano
le situazioni... Per cui, cara cugina, quando, fra qualche anno,
ritornerò, pensate che allora questa amicizia di cui ho apprezzato
tutto il valore potrà esistere ancora?»
«Perché non dovrebbe esistere?»
«Perché voi, allora, sarete, cugina, sicuramente maritata... avrete
altri doveri... e avrete dimenticato il vostro povero fratello.»
Vi giuro, amico, che le dissi solo questo; non so neanche adesso se
in quelle mie parole essa abbia visto una dichiarazione che avesse
potuto offendere o se invece si sentì, come me, addolorata della
prospettiva degli inevitabili cambiamenti che necessariamente il
tempo doveva portare nelle nostre relazioni; invece di rispondermi,
comunque, essa ebbe un momento di sconsolato silenzio; poi si alzò
di scatto pallida e turbata e uscì dopo aver guardato per qualche
secondo il lavoro di tappezzeria della giovane contessa d’Oppenheim,
una delle dame d’onore che stava lavorando nel vano di una delle
finestre del salone dove aveva luogo il nostro colloquio.
La sera dello stesso giorno ricevetti un’altra lettera di mio padre
che mi richiamava qui precipitosamente. L’indomani mattina an-
dai ad accomiatarmi dal granduca; questi mi disse che mia cugina
stava un po’ male e che si sarebbe incaricato lui di salutarla da
parte mia; mi strinse paternamente fra le sue braccia assicurandomi
il suo dispiacere per la mia improvvisa partenza e soprattutto
perché questa era stata dettata dalle preoccupazioni che avevo sulla
salute di mio padre; poi ebbe la compiacenza di ricordarmi i suoi
consigli circa quella nuova carriera che m’incoraggiava con grande
insistenza ad abbracciare e terminò dicendomi che avrebbe sempre
avuto un grande piacere di rivedermi a Gerolstein, di ritorno dalle
mie missioni o durante le mie vacanze.
Per fortuna, al mio arrivo qui, ho trovato che mio padre era un po’
migliorato; è sempre a letto e molto debole ancora, però la sua
salute non mi dà più serie preoccupazioni. Purtroppo si è accorto
del mio abbattimento e del mio contegno chiuso e taciturno;
parecchie volte, ma invano, mi ha supplicato di confidargli il
motivo del mio grosso dispiacere. Non ne avrò mai il coraggio,
nonostante sia con me di una tenerezza senza pari, voi conoscete la
sua severità per quanto riguarda tutto ciò che gli sembra mancanza
di franchezza e di lealtà.
Ieri l’ho vegliato; solo, accanto a lui che credevo addormentato,
non ho potuto trattenere le lacrime; piangevo in silenzio pensando
ai bei giorni di Gerolstein. Mi vide piangere, perché stava solo
sonnecchiando e io ero tutto preso dal mio dolore; mi rivolse la
parola con una bontà che mi commosse; attribuii la mia tristezza
all’inquietudine causatami dalla sua salute, ma non bevve la scusa.
Ora che sapete tutto, caro Maximilien, ditemi, non è il mio destino
disperato?... Che fare?... a che risolvermi?...
Ah, amico mio, non posso dirvi la mia angoscia. Dio mio, che
succederà?... Tutto e per sempre perduto! Io sono il più infelice
degli uomini se mio padre non rinuncia al suo progetto.
Ecco che cosa è capitato:
Poco fa stavo terminando la lettera quando, con mio grande stupore,
mio padre, che credevo a letto, è entrato nel suo studio dove io
stavo scrivendovi; ha visto sul suo scrittoio le mie prime quattro
pagine tutte piene; quest’altra la stavo finendo.
«A chi scrivi così a lungo?» mi chiese sorridendo.
«A Maximilien.»
«Oh» mi disse con un’espressione d’affettuoso rimprovero, «so che
gode di tutta la tua fiducia... È molto fortunato lui.» Pronunciò
queste ultime parole in tono di tanta afflizione che, turbato dalla
sua voce, gli dissi senza pensarci e porgendogli la lettera:
«Leggete pure».
Amico mio, ha letto tutto. Sapete poi che cosa mi ha detto dopo
essere stato per qualche tempo soprappensiero?
«Henri, scrivo al granduca per dirgli che cosa è successo durante la
vostra permanenza a Gerolstein.»
«Padre mio, ve ne scongiuro, non lo fate.»
«Quello che avete raccontato a Maximilien è veramente successo?»
«Sì.»
«In questo caso la vostra condotta è stata finora leale... Il
granduca l’apprezzerà. Ma non dovete in seguito mostrarvi indegno
della sua nobile fiducia, cosa che si verificherebbe se,
approfittando della sua offerta, voi ritornaste a Gerolstein con
l’intento forse di farvi amare da sua figlia.»
«Padre mio... potete pensare?...»
«Penso che voi state amando con passione e che la passione prima o
poi finisce col diventare una cattiva consigliera.»
«Come! scrivete al principe che...»
«Che amate alla follia vostra cugina.»
«In nome del cielo, vi supplico, non lo fate!»
«Amate o non amate vostra cugina?»
«L’amo e l’idolatro.»
Mio padre s’interruppe.
«In tal caso scriverò al granduca chiedendogli per voi la mano di
sua figlia...»
«Ma, padre mio, una tale pretesa è insensata da parte mia!»
«Giusto... Comunque devo fare questa domanda al granduca ed essere
franco, dicendogli le ragioni che mi hanno spinto a questo passo.
Lui vi ha accolto con la più schietta ospitalità, si è mostrato con
voi di una bontà paterna, sarebbe indegno di me e di voi
l’ingannarlo. Conosco l’elevatezza della sua anima, non lo lascerà
affatto indifferente il mio agire da uomo onesto; se non accetta di
darvi sua figlia, cosa che è fuori discussione, saprà almeno che in
futuro, se voi tornerete a Gerolstein, non dovrete più vivere con
lei nella stessa intimità. Voi, figliolo» aggiunse benevolmente mio
padre, «mi avete liberamente mostrato la lettera che stavate
scrivendo a Maximilien. Ora so tutto; è mio dovere scrivere al
granduca... e lo farò immediatamente.»
Voi sapete, amico, che mio padre è il migliore degli uomini ma anche
che è tenace e irremovibile nelle sue decisioni quando si tratta di
ciò che considera dovere suo; pensate un po’ alle mie angosce e ai
miei timori. Benché il passo che sta per tentare sia, dopo tutto,
leale e onorevole, questo non vuol dire che io non sia inquie-
to. Come accoglierà il granduca questa richiesta pazzesca? Non si
vedrà offeso e la principessa Amélie, dal canto suo, non sarà urtata
dal fatto che io ho lasciato che mio padre prendesse una simile
decisione senza il suo consenso?
Ah, amico mio, dovete compiangermi perché non so che cosa pensare.
Mi sembra di stare a contemplare dentro a un abisso e di sentirmi
prendere dalle vertigini.
Termino in fretta questa lettera; presto vi scriverò di nuovo. Ve lo
ripeto, compatitemi, perché, a esser sincero, temo d’impazzire se la
febbre che mi agita durerà ancora tanto. Addio, addio; vostro di
cuore e per sempre.
Henri d’H.O.
Ora porteremo il lettore nel palazzo di Gerolstein dove vive
Fleur-de-Marie da quando è tornata dalla Francia.
IV
LA PRINCIPESSA AMÉLIE
L’appartamento che occupava Fleur-de-Marie (la chiameremo
principessa Amélie solo ufficialmente) nel palazzo granducale era
stato arredato, per ordine di Rodolphe, con un gusto e un’eleganza
eccezionali. Dal balcone dell’annesso oratorio si scoprivano in
lontananza le due torri del convento di Sainte-Hermangilde che, pur
sovrastando due o tre immense macchie di verde, erano però più basse
di un’alta montagna boscosa ai piedi della quale sorgeva l’abbazia.
Era una bella mattinata d’estate. Fleur-de-Marie lasciava correre lo
sguardo su quello splendido paesaggio che si perdeva all’orizzonte.
Non aveva niente in testa; vestiva un abito estivo accollato di
stoffa bianca a righe azzurre; dal largo colletto di batista molto
semplice, ripiegato sulle spalle, spuntavano le punte e il nodo di
un fazzolettino di seta di un azzurro uguale a quello della cintura
del vestito.
Era seduta in una grande poltrona d’ebano intagliato con un alto
schienale ricoperto di velluto cremisi e stava con un gomito
appoggiato su uno dei braccioli, con la testa un po’ china, con la
guancia posata sul rovescio della bianca manina leggermente venata
d’azzurro.
La languida attitudine, il pallore, lo sguardo fisso, l’amarezza del
suo mezzo sorriso tradivano in Fleur-de-Marie una malinconia
profonda.
Dopo un po’, un sospiro profondo, doloroso le sollevò il petto. E
allora, lasciata cadere la mano su cui aveva posato la guancia, la
testa le si abbassò sul petto. Pareva che l’infelice fosse sotto il
peso di una grande tristezza.
In quel mentre, una donna seria e distinta di età matura, vestita
con elegante semplicità, entrò quasi con timidezza nell’oratorio e
tossì piano per attirare l’attenzione di Fleur-de-Marie.
Questa si scosse dai suoi pensieri, alzò la testa e disse con moto
pieno di grazia: «Che volete, cara contessa?».
«Vengo ad avvertire Vostra Altezza che sua signoria la prega di
attenderlo; sarà qui fra qualche minuto» rispose la dama d’onore
della principessa Amélie col dovuto rispetto.
«Mi stavo appunto stupendo di non aver ancora potuto abbracciare mio
padre, quest’oggi; sto aspettando impaziente la sua consueta visita
mattutina! Intanto, cara contessa, spero di non dover attribuire a
qualche indisposizione della signora d’Harneim il piacere che ho di
vedervi due giorni di seguito a palazzo.»
«Quanto a questo Vostra Altezza non stia in pensiero; la signora
d’Harneim mi ha pregato di sostituirla oggi; domani avrà l’onore di
riprendere il suo servizio presso Vostra Altezza; voglia Vostra
Altezza degnarsi di scusare questo cambiamento.»
«Certo, dal momento che non ci perdo niente; dopo avere avuto, cara
contessa, il piacere di avervi vista per due giorni di seguito avrò,
per altri due, vicino a me la signora d’Harneim.»
«Vostra Altezza è troppo gentile» rispose la dama d’onore
inchinandosi di nuovo; «la sua enorme benevolenza mi incoraggia a
chiederle una grazia!»
«Parlate... parlate pure; voi sapete come mi prema assecondarvi...»
«È vero che Vostra Altezza da molto tempo mi ha abituata a essere
oggetto dei suoi favori; si tratta però di un argomento tanto penoso
che non avrei il coraggio di parlarne se non si trattasse di
un’azione meritoria; per questo ho l’ardire di contare sulla
straordinaria indulgenza di Vostra Altezza.»
«Voi non avete nessun bisogno della mia indulgenza, cara contessa,
io sono sempre grata a chi mi dà occasione di fare un po’ di bene.»
«Si tratta di una povera disgraziata che ebbe la sfortuna di
andarsene da Gerolstein prima che Vostra Altezza avesse fonda-
to l’opera tanto utile quanto caritatevole per le giovani orfane o
per le giovani abbandonate che non hanno alcuna difesa contro le
cattive passioni.»
«E che cosa ha fatto? cosa desiderate fare per lei?»
«Suo padre, un uomo a cui piace l’avventura, era andato in America
per fare fortuna lasciando moglie e figlia in precarie condizioni.
La madre è morta; la figlia, una ragazza di appena sedici anni,
rimasta in balìa di se stessa, lasciò il paese per seguire a Vienna
un seduttore che non tardò ad abbandonarla. E, fatto il primo passo
sulla strada del vizio, la sventurata, come capita di solito, si
trovò in fondo al baratro dell’infamia; in poco tempo diventò, come
tante altre sciagurate, l’obbrobrio del suo sesso...»
Fleur-de-Marie abbassò gli occhi, arrossì e non riuscì a nascondere
un lieve sussulto che venne notato dalla dama d’onore. Questa, per
paura di avere urtato la casta suscettibilità della principessa
parlandole di una tale donna, riprese con un certo imbarazzo:
«Domando mille scuse a Vostra Altezza per aver mancato di
delicatezza attirando la sua attenzione su un’esistenza tanto
infame; ma la poverina dà a vedere di essere così sinceramente
pentita... che ho pensato di poter implorare un po’ di pietà per
lei».
«E avete avuto ragione. Continuate pure... vi prego» disse
Fleur-de-Marie, una volta superato il doloroso turbamento; «ogni
traviato, che alla colpa faccia succedere il pentimento, è degno di
pietà.»
«Così è successo anche alla poverina come ho già fatto notare a
Vostra Altezza. Dopo due anni di vita abominevole, la derelitta fu
toccata dalla grazia... Presa da tardo rimorso, è tornata qui.
Fortuna volle che al suo arrivo essa sia andata ad alloggiare in una
casa che appartiene a una buona vedova nota per la sua dolcezza e
per la sua pietà. Incoraggiata dalla santa bontà della vedova, essa
le confessò le sue colpe e le disse di essere giustamente inorridita
del suo passato e di voler guadagnarsi, con una durissima penitenza,
la felicità d’entrare in un istituto religioso per poter espiare i
suoi peccati e meritare il perdono. La buona vedova a cui essa fece
questa confidenza, sapendo che io ho l’onore di dipendere da Vostra
Altezza, mi ha scritto per raccomandarmi la povera ragazza; essa,
infatti, se Vostra Altezza intervenisse presso la principessa
Juliane, superiora dell’abbazia, potrebbe entrare come conversa nel
convento di Sainte-Hermangilde: chiede, come favore, di essere
destinata ai lavori più faticosi perché la sua penitenza possa
essere più meritoria. Prima di permettermi d’implorare per lei la
pietà di Vostra Altezza, ho parlato con questa donna parecchie volte
e sono
convinta che il suo è un pentimento che durerà. Al bene non l’ha
ricondotta né il bisogno né l’età; ha appena diciotto anni, è ancora
molto bella e ha da parte una sommetta di denaro che vuole impiegare
per un’opera di carità, se otterrà il favore che desidera.»
«M’incarico io della vostra protetta» disse Fleur-de-Marie dominando
a stento il proprio turbamento, tanto il suo passato assomigliava a
quello dell’infelice in favore della quale veniva supplicata, poi
aggiunse: «È troppo degno di lode il suo ravvedimento perché non
debba essere incoraggiato.»
«Non so come esprimere a Vostra Altezza la mia gratitudine. Era
tanto se osavo sperare che si degnasse d’avere la carità
d’interessarsi a una donna così...»
«È stata colpevole, ora si pente...» disse Fleur-de-Marie con voce
carica di commiserazione e di tristezza da non dire; «è giusto che
si abbia pietà di lei. Più i suoi rimorsi saranno sinceri più essa
soffrirà, cara contessa...»
«Se non sbaglio, sta arrivando sua signoria» disse a un tratto la
dama d’onore a cui sfuggì la crescente emozione di Fleur-deMarie.
Infatti Rodolphe era entrato nel salotto che precedeva l’oratorio,
con in mano un gran mazzo di rose.
Quando comparve il principe, la contessa, con molta discrezione, si
ritirò. Appena la contessa fu fuori, Fleur-de-Marie buttò le braccia
al collo del padre, gli posò la fronte sulle spalle e restò così,
senza parlare, per qualche istante.
«Buongiorno... buongiorno, figliola cara» disse Rodolphe
stringendosi con effusione la figlia tra le braccia senza essersi
accorto della sua tristezza. «Guarda un po’ questo mazzo di rose;
che bella raccolta ho fatto per te stamattina! per questo non sono
venuto più presto. Credo di non averti mai portato un mazzo più
bello... Prendi.»
E il principe, sempre col mazzo di rose in mano, si tirò indietro
per sciogliersi dalla stretta della figlia e poterla guardare; ma
non appena s’accorse che essa stava piangendo, gettò il mazzo su una
tavola, prese le mani di Fleur-de-Marie tra le sue e le disse: «Mio
Dio, piangi! che hai?».
«Niente... niente... caro padre...» rispose Fleur-de-Marie
asciugandosi le lacrime e sforzandosi di sorridere a Rodolphe.
«Ti scongiuro, dimmi che cosa hai... Che cosa può averti
rattristata?»
«Vi assicuro, padre mio, che non c’è nessun motivo che vi
preoccupiate... La contessa era venuta a implorare il mio aiuto per
una povera donna così bisognosa d’aiuto... così infelice che senza
volerlo mi sono intenerita a quel racconto.»
«Davvero?... solo questo?...»
«Solo questo» replicò Fleur-de-Marie prendendo i fiori che Rodolphe
aveva gettato sul tavolo. «Ma come mi state abituando male!»
aggiunse, «che magnifico mazzo! Quando penso poi che ogni giorno...
me ne portate uno simile... raccolto da voi...»
«Figliola» disse Rodolphe contemplando la figlia con inquietudine,
«tu mi nascondi qualcosa... Il tuo sorriso è triste, forzato. Ti
scongiuro, dimmi che cosa ti affligge... non badare ai fiori.»
«Oh, voi sapete la gioia che provo ogni mattina davanti a questi
fiori e poi le rose mi piacciono tanto... Mi sono sempre piaciute...
Vi ricordate» aggiunse con un sorriso straziante, «vi ricordate
della mia povera e piccola piantina di rose... della quale continuo
a conservare i resti...»
Dinanzi a questa dolorosa allusione al passato, Rodolphe non poté
fare a meno d’esclamare: «Povera figliola! i miei sospetti non erano
infondati!... In mezzo allo splendore che ti circonda, stai ancora a
pensare qualche volta a quell’orribile periodo?... Ahimè! eppure ero
convinto che te l’avrei fatto dimenticare a forza di tenerezza».
«Scusate, scusate, padre mio! mi sono sfuggite queste parole. Vi ho
fatto star male...»
«Sto male, povero angelo» rispose tristemente Rodolphe, «perché
questi ritorni al passato devono essere tremendi per te... perché
sarebbero capaci di avvelenarti la vita se fossi tanto debole da
abbandonartici.»
«Padre mio... per caso... Da quando siamo arrivati qui, è la prima
volta...»
«È la prima volta che me ne parli... sì... ma forse non è la prima
volta che queste idee ti tormentano... Quando mi accorgevo delle tue
crisi di malinconia, le attribuivo qualche volta al tuo passato. Ma
siccome non ne ero sicuro, non osavo neppure tentare di combattere
la funesta influenza di queste rimembranze, di mostrarti quanto
fosse fuori luogo e vana; perché se il tuo dispiacere avesse avuto
un’altra origine, se il passato fosse stato per te, come peraltro
dovrebbe essere, un brutto sogno lontano, rischiavo di suscitare in
te le tristi idee che volevo distruggere...»
«Come siete buono!... questi timori sono un altro segno della vostra
ineffabile tenerezza!»
«Che vuoi... mi trovavo in una situazione così difficile e delicata.
Non ti dicevo niente, ma ero continuamente preoccupato di
ciò che ti riguardava. Contraendo questo matrimonio che adempie
pienamente i miei desideri, ero convinto anche di poterti dare la
tranquillità. Sapevo anche troppo bene quanto fosse esagerata la tua
delicatezza d’animo per illudermi che mai... mai più tu avresti
pensato alla tua vita passata; ma mi andavo dicendo che, se per caso
fossi riandata con la mente a questo tuo passato, avresti dovuto,
vedendoti amata come una figlia dalla nobile donna che t’ha
conosciuta e amata quand’eri nel pieno della tua sventura, avresti
dovuto, dico, considerare il passato come una colpa che tu avevi
sufficientemente espiato in virtù delle tue atroci miserie ed essere
indulgente o meglio giusta con te stessa; perché la mia consorte, in
sostanza, ha diritto al rispetto di tutti, non ti pare? Ebbene, dal
momento che per lei tu sei una figlia, una sorella carissima, perché
non devi sentirti tranquilla? Il suo attaccamento non è per te una
completa riabilitazione? Non ti dice, che essa sa come lo sai anche
tu che sei stata vittima e non colpevole e che si può solo, in
fondo, rimproverarti la sventura... che s’è abbattuta su di te
appena nata. Se anche tu avessi commesso grandi colpe, non sarebbero
state esse espiate, scontate da tutto il bene che hai fatto e dalla
bontà e santità che sono sorte in te?...»
«Padre mio...»
«Oh, ti prego, lascia che ti dica per intero il mio pensiero dal
momento che il caso volle, caso che dobbiamo senz’altro bandire, che
si giungesse a tale conversazione. È un caso che desideravo e
insieme temevo da molto tempo... Voglia Iddio che abbia un utile
risultato!... Devo farti dimenticare tanti terribili dispiaceri,
devo compiere verso di te una missione così alta, così sacra che,
per la tua tranquillità, sarei capace di sacrificare il mio amore
per la signora d’Harville... la mia amicizia per Murph, se pensassi
che la loro presenza ti possa ricordare un passato troppo doloroso.»
«Oh, caro padre, come potete crederlo? La loro presenza, essi che
sanno... quello che sono stata e che, nonostante ciò, mi vogliono
così bene, non vuol rappresentare invece l’oblio e il perdono?...
Insomma padre mio, sarebbe stata la mia vita meno disperata se, per
me, voi aveste rinunciato al vostro matrimonio con la signora
d’Harville?»
«Oh, non sarei stato il solo a volere un simile sacrificio se con
esso avessi potuto assicurarti la felicità... Tu non sai quale
rinuncia Clémence s’era già volontariamente imposta?... Perché anche
lei capisce tutto il peso dei miei doveri verso di te.»
«Vostri doveri verso di me! E che ho fatto io per meritare tanto?»
«Quello che hai fatto, povero angelo mio?... prima che tu mi venissi
restituita, hai avuto una vita piena di amarezze, di miseria, di
disperazione... e le tue passate sofferenze le rimprovero a me
stesso come se ne fossi stato io la causa! Per questo quando ti vedo
sorridente e contenta mi ritengo perdonato. Il mio solo scopo, il
mio solo desiderio è di renderti felice tanto quanto sei stata
infelice, di elevarti tanto quanto ti sei abbassata, perché mi
sembra che le ultime tracce del passato si cancellino quando le
persone più altolocate e più onorevoli ti trattano col rispetto che
ti devono.»
«A me il rispetto?... no, no, padre mio... ma al mio rango o meglio
a quello che voi mi avete dato.»
«Non il tuo rango si ama e si onora... sei tu, sappilo, figliola
cara, sei tu sola... Ci sono omaggi davanti al rango, ma ve ne sono
altri che si devono ai pregi dell’attrattiva! Questi tu non li sai
cogliere perché non ti conosci e perché ti sono straordinari lo
spirito e il tatto, cosa che mi fa essere ammiratore e fiero di te,
che metti nelle tue relazioni di corte, così nuove per te, un
insieme di dignità, di modestia e di grazia al quale non possono
resistere neanche le persone più superbe.»
«Voi mi volete così bene, padre mio, e vi si vuole tanto bene che
chiunque si dimostri rispettoso con me è sicuro di farvi cosa
gradita.»
«Oh, la cattivella!» esclamò Rodolphe interrompendo la figlia e
baciandola teneramente. «La cattivella che non vuole concedere
nessuna soddisfazione al mio orgoglio di padre.»
«Non basta a soddisfare il vostro orgoglio il fatto che è merito
vostro la benevolenza di cui mi si dà prova, padre mio?»
«No, certo, signorina» disse il principe sorridendo per scacciare la
tristezza a cui la vedeva ancora in preda, «no, signorina, non è la
stessa cosa; perché non è possibile che sia fiero di me mentre posso
e devo esserlo di te... sì, fiero. Ti torno a dire che tu non sai
quali eccezionali qualità possiedi. In quindici mesi la tua
educazione ha raggiunto un livello tale che anche la madre più
incontentabile sarebbe entusiasta di te; e questa educazione ha
corroborato quell’influenza quasi irresistibile che vai esercitando
attorno a te senza accorgertene.»
«Padre mio... queste lodi mi confondono.»
«Dico la verità, nient’altro che la verità. Vuoi qualche esempio?
Mettiamoci a parlare apertamente del passato; è un nemico con cui
voglio ingaggiare un corpo a corpo, un nemico che devo guardare in
faccia. Ebbene, ti ricordi della Louve, di quella donna coraggiosa,
cioè, che ti ha salvata? Fatti venire in mente quella scena della
prigione che mi hai raccontato: le detenute, gente più stupida che
cattiva, si ostinavano a tormentare, tutte in massa, una compagna
debole e minorata, che era il loro zimbello: vieni fuori tu, ti
metti a parlare... ed ecco che subito quelle furie si vergognano di
essere state vigliacche e crudeli con la loro vittima per poi
mostrarsi sensibili tanto quanto erano state cattive. E questo non
ti pare niente? Insomma sei o non sei stata tu a portare la Louve,
donna indomabile, al pentimento e farle desiderare una vita onesta e
laboriosa? Via, credimi, cara figliola, colei che ha soggiogato la
Louve e le sue turbolente compagne con il solo ascendente che le
veniva da una bontà accoppiata a un’eccezionale nobiltà d’animo,
costei, benché in altre circostanze e in un ambiente completamente
diverso, avrebbe dovuto soggiogare anche (non ridete di questo
accostamento, signorina) affascinare la superba arciduchessa Sophie
e tutto il mio seguito; perché buoni o cattivi, piccoli o grandi,
tutti subiscono quasi sempre l’influenza degli spiriti superiori...
Con questo non voglio dire che tu sia nata principessa
nell’accezione aristocratica della parola, sarebbe una bassa
adulazione, figliola... ma tu fai parte del piccolissimo numero
degli esseri privilegiati che hanno ricevuto, nascendo, il dono di
poter dire a una regina quanto basta per accattivarsela e farsi
benvolere... e anche per dire a una povera creatura vissuta
nell’abbandono e nell’infamia quanto basta per renderla migliore,
consolarla e farsi adorare.»
«Padre... di grazia...»
«Oh, peggio per voi, signorina; da troppo tempo ho il cuore gonfio;
pensa che per paura di suscitare in te i ricordi del passato che
voglio cancellare, che cancellerò per sempre dalla tua mente... non
osavo dirti questi paragoni, farti questi accostamenti che ti
rendono adorabile ai miei occhi. Quante volte Clémence e io siamo
andati in estasi parlando di te!... Quante volte lei, intenerita a
tal segno che le venivano le lacrime agli occhi, m’ha detto: “Non è
una cosa meravigliosa che questa nostra cara ragazza sia quello che
è, dopo tanta infelicità? o meglio” si correggeva Clémence, “non è
una cosa meravigliosa che, lungi dall’incidere sulla straordinaria
nobiltà della sua natura, abbia favorito il fiorire delle ottime
qualità che c’erano in lei?”.»
In quel momento, la porta del salotto s’aprì e Clémence,
granduchessa di Gerolstein, entrò con una lettera in mano.
«Ecco, caro» disse a Rodolphe, «una lettera dalla Francia. Ho voluto
portarvela io per poter dare il buongiorno alla mia pigra figliola
che questa mattina non ho ancora visto» aggiunse Clémence baciando
teneramente Fleur-de-Marie.
«Questa lettera arriva a puntino» disse allegramente Rodolphe dopo
averla scorsa; «stavamo proprio parlando del passato... di questo
mostro che non dovremo mai cessare di combattere, cara Clémence...
perché sta minacciando la tranquillità e la felicità della nostra
figliola.»
«Davvero, caro? Le crisi di malinconia che avevamo notato...»
«Erano originate solo da brutti ricordi; ma per fortuna ora
conosciamo il nostro nemico... e l’avremo vinta su di lui...»
«Ma, caro, di chi è la lettera?» chiese Clémence.
«Della brava Rigolette.... la moglie di Germain.» «Rigolette...»
esclamò Fleur-de-Marie, «che gioia avere sue
notizie.»
«Caro» Clémence disse piano a Rodolphe accennando a Fleur-
de-Marie con gli occhi, «non avete paura che la lettera... le faccia
tornare alla mente certe tristi idee?»
«Cara Clémence, sono proprio questi ricordi che voglio cancellare!
dobbiamo affrontarli a viso aperto e per questo sono sicuro di
trovare nella lettera di Rigolette delle ottime armi... questa brava
ragazza, infatti, adorava la nostra figliola e la stimava come
bisognava stimarla.»
E Rodolphe attaccò a leggere ad alta voce la lettera che segue:
Fattoria di Bouqueval, 15 agosto del 1841
Mio signore,
Mi prendo la libertà di scrivervi ancora per farvi sapere un fortu-
natissimo evento e per chiedervi un altro favore, a voi a cui
dobbiamo già tanto o meglio a cui dobbiamo il vero paradiso in cui
ci troviamo io, il mio Germain e la sua buona madre.
Ecco di che cosa si tratta, mio signore: da dieci giorni sono come
impazzita dalla gioia, perché da dieci giorni ho un amore di
bambina; a me pare che sia tutta il ritratto di Germain e a lui che
sia il mio; alla mamma Georges, ch’essa assomigli a tutti e due;
fatto sta che ha due begli occhi azzurri come quelli di Germain e
capelli neri e ricciuti come i miei. Ecco mio marito, contrariamente
al suo solito, è ingiusto, vuole sempre avere la piccola sulle
ginocchia... mentre è un diritto, questo, che spetta a me, non vi
pare, mio signore?
«Brave e ottime persone! come saranno felici!» disse Rodolphe. «Se
mai ci fu coppia meglio assortita... questa è la loro.»
«Questa felicità Rigolette se la merita proprio!» disse
Fleurde-Marie.
«Per questo benedicevo il destino ogni volta che me la faceva
incontrare» ribatté Rodolphe; poi continuò:
Ma scusate, mio signore, se vi parlo di questi piccoli screzi di
famiglia che vanno sempre a finire con un bacio... Le orecchie,
comunque, dovrebbero fischiarvi ben bene, signore, perché non passa
giorno in cui io e Germain non diciamo guardandoci l’un l’altra:
“Dio mio, come siamo felici! come siamo felici!...” e naturalmente
subito dopo queste parole viene il vostro nome... Scusate, mio
signore, la cancellature e la macchia che ci sono qui: senza
pensarci avevo scritto signor Rodolphe, come dicevo una volta,
quindi ho cancellato. A proposito, spero che noterete dei progressi
nella mia scrittura e nei caratteri; Germain sta sempre insegnandomi
e adesso non faccio più quelle aste tutte storte che facevo
all’epoca in cui mi temperavate le matite...
«Devo ammettere» disse Rodolphe ridendo, «che la mia piccola
protetta si sta illudendo un po’; sono sicuro che Germain bada più a
baciare la mano alla sua allieva anziché a dirigerla.»
«Via, caro, siete ingiusto» disse Clémence osservando la lettera; «è
scritto un po’ grosso, ma si legge benissimo. Il fatto è che i
progressi ci sono» riprese Rodolphe; «una volta ci sarebbero volute
otto pagine per farci star dentro ciò che qui ha scritto in due.»
E continuò:
Eppure è vero, mio signore, che voi mi avete temperato le matite;
quando io e Germain ci pensiamo, ne abbiamo tanta vergogna
ricordandoci che eravate così poco superbo. Ah, Dio mio! ecco che
son venuta ancora a parlarvi di una cosa diversa da quella che
vogliamo chiedervi, mio signore; noi abbiamo la nostra idea... ora
sentite. Vi supplichiamo dunque, mio signore, d’avere la bontà di
scegliere e dare un nome alla nostra cara bambina; siamo già
d’accordo con il padrino e la madrina; e sapete, mio signore, chi
sono il padrino e la madrina? Due persone che voi e la signora
marchesa d’Harville avete tratto dalla miseria per rendere
felicissimi, felici come noi... Insomma si tratta del lapidario
Morel e di Jeanne Duport, la sorella del povero carcerato che
chiamavano Pique-Vinaigre, una brava donna che ho visto in prigione
quando andavo a trovare il mio povero Germain e che in seguito la
signora marchesa ha fatto uscire dall’ospedale.
Ora, mio signore, è necessario che sappiate perché abbiamo scelto il
signor Morel come padrino e Jeanne Duport come madrina. Ci
siamo detti io e Germain: “Sarà un modo per ringraziare ancora il
signor Rodolphe dei suoi favori prendere come padrino e madrina
della nostra bambina due brave persone che devono tutto a voi, mio
signore? e alla signora marchesa... senza dire che il lapidario
Morel e Jeanne Duport sono il fior fiore della brava gente.”
Appartengono al nostro ceto e inoltre, come diciamo io e Germain,
sono parenti con noi sul piano della felicità, dal momento che sono,
come noi, della famiglia dei vostri protetti, mio signore.
«Ah padre, non vi sembra un pensiero delicatissimo questo?» disse
Fleur-de-Marie commossa; «prendere come padrino e madrina della loro
bambina due persone che devono tutto a voi e alla mia seconda
madre?»
«Avete ragione, figliola» disse Clémence, «sono straordinariamente
commossa da questo ricordo.»
«E io sono felicissimo d’aver così bene impiegato i miei benefizi»
disse Rodolphe; dopo di che riprese la lettura:
D’altronde, mediante il denaro che gli avete fatto dare, Morel fa
ora il sensale di pietre preziose; guadagna quanto basta per
mantenere la famiglia e far imparare un mestiere ai figli. La buona
e povera Louise credo si mariterà con un bravo operaio che le vuol
bene e la rispetta come si deve; fino ad ora è stata molto infelice
ma non colpevole e il suo fidanzato ha abbastanza cuore per
capire...
«Ero sicurissimo» esclamò Rodolphe rivolgendosi alla figlia, «di
trovare nella lettera della buona e piccola Rigolette le armi contro
il nostro nemico!... Hai sentito, è il semplice buon senso di
un’anima retta e onesta che parla... Dice di Louise: È stata
infelice ma non colpevole e il suo fidanzato ha abbastanza cuore per
capire.»
Fleur-de-Marie, sempre più turbata e rattristata dalla lettera,
trasalì quando il padre, proferendo le parole che abbiamo
sottolineato, le rivolse una tenera occhiata.
Il principe proseguì:
Vi dirò inoltre, mio signore, che Jeanne Duport, grazie alla
generosità della signora marchesa, è riuscita a ottenere la
separazione dal marito, quell’omaccio che le mangiava tutto e la
picchiava; ha preso con sé la figlia più grande, tiene una
botteguccia di passamaneria dove vende ciò che fabbrica con l’aiuto
dei figli: il loro negozio tira avanti bene. Non ci sono persone più
contente di loro e
ciò grazie a chi? grazie a voi, mio signore, grazie alla signora
marchesa, perché tutti e due sapete dare così bene e così a puntino.
A questo proposito, Germain vi scriverà, come il solito, alla fine
del mese relativamente alla banca degli operai senza impiego e dei
prestiti gratuiti. Non ci sono mai ritardi nei rimborsi; tutti si
sono accorti del benessere che la cosa ha portato nel quartiere.
Adesso almeno le famiglie povere possono passare la stagione in cui
non c’è lavoro senza andare a portare la biancheria e i materassi al
Monte di pietà. Per questo dovreste vedere quanta lena ci mettono
quando ritorna il tempo del lavoro; sono così fieri che si abbia
avuto fiducia nel loro lavoro e nella loro probità! Veramente hanno
solo questo. Sapete anche come benedicono voi per aver fatto
ottenere loro dei prestiti; perché, anche se andavate dicendo, a
parte la nomina a capo cassiere di Germain, che non c’entravate per
niente in questa fondazione e che ad aver fatto questa opera era
stato uno sconosciuto... preferiamo pensare che sia opera vostra; è
più naturale!
E poi c’è una tromba straordinaria che s’incarica di ripetere a ogni
momento che si deve benedire il vostro nome; questa tromba è la
signora Pipelet la quale va dicendo a tutti che solo il suo principe
degli inquilini (scusate, signor Rodolphe, ma lei continua a
chiamarvi così) può aver fatto una tale opera di carità, e il
vecchio e diletto Alfred è anche lui del parere della moglie.
Alfred, dal canto suo, è così fiero e contento del posto di custode
della banca che ora le persecuzioni di Cabrion, va dicendo, lo
lascerebbero indifferente. E per finire con la famiglia di coloro
che sono legati a voi da riconoscenza, aggiungerò che Germain ha
letto nei giornali che un colono d’Algeria, di nome Martial, era
stato citato e largamente elogiato per il coraggio dimostrato in
occasione di un attacco di predoni arabi con l’aiuto dei suoi
mezzadri e che al suo fianco la moglie, intrepida quanto lui, si era
battuta a colpi di fucile come un vero e proprio granatiere ed era
stata leggermente ferita. Da allora, si dice nel giornale, è
chiamata signora Carabine. Scusate, mio signore, la lunga lettera;
ma ho pensato che non vi sarebbe dispiaciuto avere per mezzo nostro
notizie di tutti coloro per cui voi siete stato la provvidenza... Vi
scrivo dalla fattoria di Bouqueval in cui in primavera siamo venuti
a stare con la nostra buona mamma. La mattina Germain parte per i
fatti suoi e ritorna la sera. In autunno torneremo a stare a Parigi.
Com’è strano, signor Rodolphe, io che non potevo soffrire la
campagna, ora ne vado matta... Credo dipenda dal fatto che piace
tanto a Germain. A proposito della fattoria, signor Rodolphe, voi
saprete senz’altro dove si trova la piccola buona Goualeuse; se ve
ne capita l’oc-
casione, ditele che la ricordiamo come la persona più dolce e più
buona che ci sia al mondo e che io, da parte mia, non penso mai alla
nostra felicità senza che mi dica: Dal momento che il signor
Rodolphe è anche il signor Rodolphe di Fleur-de-Marie, essa sarà,
grazie a voi, senz’altro felice come noialtri e questo pensiero mi
fa trovare ancora più bella la mia felicità.
Dio mio, Dio mio, come chiacchiero! Che cosa direte mai, mio
signore? Ma tanto voi siete così buono... E poi vedete, è colpa
vostra se cinguetto tanto e così gaiamente quanto papà Crétu e
Ramonette che adesso non osano più competere in canto con me. Sì,
signor Rodolphe, vi garantisco che li metto alle strette.
Vero, mio signore, che accetterete la nostra richiesta? Se il nome
alla nostra cara bambina lo date voi, ci sembra che la cosa debba
portarle fortuna, sarà un po’ come la sua buona stella. Vedete,
signor Rodolphe, io e il mio buon Germain qualche volta ci
rallegriamo quasi d’aver conosciuto gli stenti perché sentiamo così
doppiamente quanto sarà felice la nostra bambina non sapendo che
cosa sia la miseria attraverso la quale siamo passati noi.
Se finisco dicendovi, signor Rodolphe, che di tanto in tanto
cerchiamo di aiutare la povera gente secondo le nostre possibilità,
non è per vantarci ma per farvi sapere che non teniamo per noi soli
la felicità che voi ci avete dato. D’altronde a quelli che aiutiamo
diciamo: “Non dovete ringraziare e benedire noi... ma il signor
Rodolphe, l’uomo più buono e generoso che ci sia mai stato al
mondo”. Ed essi vi prendono per un santo, se non di più. Addio, mio
signore. State sicuro che quando la nostra bambina comincerà a
compitare, la prima parola che leggerà sarà il vostro nome, signor
Rodolphe; e poi dopo quelle che avete fatto scrivere sul regalo che
mi avete fatto per il matrimonio:
Lavoro e bontà Onore e felicità
Grazie a queste quattro parole, alla nostra tenerezza e alle nostre
cure, speriamo, signore, che la nostra bambina possa essere sempre
degna di pronunciare il nome di colui che è stato la nostra
provvidenza e la provvidenza di tutti quelli che ha conosciuto.
Scusate, signore, ma adesso che sto finendo mi sento un gran pianto
negli occhi... ma è un pianto di consolazione... Scusatemi, vi
prego... non è colpa mia... ma non ci vedo più e sto
scarabocchiando... Mi pregio, signore, di salutarvi con rispetto e
gratitudine
Rigolette in Germain
P.S. Ah, Dio mio, mio signore, rileggendo la lettera, mi sono
accorta che molte volte ho messo signor Rodolphe. Mi scusate, vero?
Voi sapete comunque che con uno o con altro titolo, noi vi
rispettiamo e vi benediciamo egualmente, mio signore.
V
I RICORDI
«Cara e piccola Rigolette!» disse Clémence commossa dalla lettura
fatta da Rodolphe. «Che lettera semplice e piena di sensibilità.»
«Certo» ribatté Rodolphe; «non si poteva impiegare meglio un
beneficio. La vostra protetta ha un’indole buonissima ha un cuore
d’oro e la nostra cara figliola è d’accordo con noi» aggiunse rivol-
gendosi alla figlia.
Poi, colpito dal pallore e dall’abbattimento di lei, esclamò:
«Ma che cosa hai?»
«Ahimè!... che orribile contrasto fra la mia situazione e quel-
la di Rigolette... Lavoro e bontà – Onore e felicità; queste quattro
parole dicono tutto ciò che è stato... tutto ciò che sarà la sua
vita... Ragazza laboriosa e savia, sposa amata, madre felice, donna
rispettata... questo è il suo destino!... mentre io...»
«Mio Dio!... Che dici?»
«Pietà... padre mio; non accusatemi d’ingratitudine... ma nonostante
la vostra ineffabile tenerezza, nonostante quella della mia seconda
madre, nonostante il rispetto e lo splendore che mi circondano...
nonostante il vostro potere sovrano la mia onta non può sparire...
Niente può cancellare il passato... Ancora una volta, padre mio, vi
dico di perdonarmi... ve l’ho tenuto nascosto fino ad ora... ma il
ricordo della mia degradazione passata mi fa disperare e mi
uccide...»
«Clémence, la sentite!» disse disperato Rodolphe.
«Ma, povera figliola!» ribatté Clémence prendendo affettuosamente le
mani di Fleur-de-Marie fra le sue, «la nostra tenerezza, l’affetto
di coloro che vi stanno attorno e che voi non demeritate, tutto
insomma non è una prova che questo passato non deve più essere per
voi se non un brutto sogno lontano?»
«Oh, fatalità... fatalità!» riprese Rodolphe. «Ora maledico i timori
e il silenzio che ho avuto; questa funesta idea, da tempo radicata
nella sua mente, ha fatto danni tremendi e ora è inutile il poter
capire un tale deplorevole errore... Ah, come sono disgraziato!»
«Coraggio, amico mio» disse Clémence a Rodolphe; «poco fa dicevate
che è meglio conoscere il nemico che ci minaccia... Ora conoscendo
la causa del dispiacere della nostra figliola, possiamo averla vinta
perché avremo dalla nostra la ragione, la giustizia e la tenerezza.»
«E poi infine perché essa vedrà che se la sua sofferenza non si
potesse guarire, renderebbe inguaribile anche la nostra» riprese
Rodolphe; «perché, allora, vorrebbe dire non avere più alcuna
speranza nella giustizia divina e umana se questa infelice non
avesse fatto altro che procurarsi altri tormenti.»
Dopo un lungo silenzio durante il quale parve raccogliersi,
Fleur-de-Marie, presa con una mano la mano di Rodolphe e con l’altra
quella di Clémence, disse loro con voce profondamente alterata:
«Padre, ascoltatemi... e anche, cara madre mia... questo giorno è
solenne... Dio ha voluto, e io lo ringrazio, che non potessi più
tenervi ancora nascosto ciò che sento. Comunque non sarebbe passato
molto tempo che vi avrei fatto la confessione che vi dirò, perché
ogni sofferenza ha la sua fine... e, per quanto nascosta avessi
potuto tenere la mia, non sarei riuscita a tacervela oltre.»
«Ah!... ho capito tutto» esclamò Rodolphe, «non c’è più speranza per
lei.»
«Spero invece nell’avvenire, padre mio, ed è questa speranza a darmi
la forza di parlarvi così.»
«E che cosa puoi sperare dall’avvenire... povera ragazza, se il
presente non ti arreca altro che dolori e amarezze?»
«Adesso ve lo dico, padre... ma prima permettetemi di farvi riandare
al passato, di confessarvi davanti a Dio che mi sente ciò che fino
ad ora ho provato.»
«Parla... parla, ti stiamo ad ascoltare» disse Rodolphe, andando a
sedersi con Clémence vicino a Fleur-de-Marie.
«Finché sono rimasta a Parigi... vicino a voi, padre mio» disse
Fleur-de-Maire, «mi sono sentita felice, oh, tanto felice che molti
anni di sofferenza non riuscirebbero a ripagare quei bei giorni...
Vedete... ho almeno conosciuto la felicità.»
«Per qualche giorno forse...»
«Sì, ma che felicità pura e senza inquietudini! Voi mi colmavate,
come sempre, delle più tenere premure! Io mi abbandonavo senza paure
a quegli slanci di gratitudine e di affetto che in ogni momento mi
trascinavano vicino a voi... Ero abbagliata dall’avvenire: un padre
da adorare, una seconda madre da amare doppiamente, dovendo prendere
il posto della mia... che non ho mai
conosciuto... E poi... confesserò tutto, il mio orgoglio, mio
malgrado, andava alle stelle all’idea di appartenervi. Quando le
poche persone della vostra casa che, a Parigi, avevano occasione di
parlarmi, mi chiamavano Altezza... non potevo non sentirmi fiera di
un tale titolo. Se allora pensavo qualche volta di sfuggita al
passato, lo facevo per dirmi: Io così abietta una volta, sono ora la
figlia diletta di un principe sovrano riverito e benedetto da tutti;
io, così miserabile una volta, ho adesso per me tutti gli splendori
del lusso e di un’esistenza quasi regale! Ahimè! che volete, padre
mio, la mia fortuna era stata così improvvisa... la vostra potenza
mi aveva innalzato a tanto lustro che ero giustificabile se mi
lasciavo così accecare.»
«Giustificabile!... ma naturalissimo, povero angelo adorato. Che
male c’era a insuperbirti di un grado che è tuo? di godere dei
vantaggi della posizione che io t’avevo ridato? Perciò in quel
tempo, adesso che mi ricordo, eri di un’allegria deliziosa; quante
volte ti ho visto cadermi tra le braccia, oppressa quasi dalla
felicità, e dirmi con accento delizioso queste parole che, ahimè,
non sentirò più: Padre... è troppa... troppa felicità! Purtroppo,
vedi, sono stati quei ricordi... ad adagiarmi in una ingannevole
tranquillità; e poi non mi sono più preoccupato delle cause della
tua malinconia...»
«Ma diteci un po’, figliola» riprese Clémence, «che cosa ha potuto
cambiare in tristezza la gioia pura e legittima che sulle prime
avete provato?»
«Ahimè, una circostanza funesta e inaspettata!...»
«E quale?...»
«Vi ricordate, padre mio,...» disse Fleur-de-Marie senza riusci-
re a nascondere un fremito d’orrore «vi ricordate il terribile
episodio che ha preceduto la nostra partenza da Parigi... quando la
vostra carrozza venne fermata vicino alla barriera?»
«Sì» rispose tristemente Rodolphe. «Bravo Chourineur! dopo averci
ancora una volta salvato la vita è morto... lì... davanti a noi...
dicendo: “Il cielo è giusto... Ho ucciso, mi uccidono!...”»
«Ebbene!... padre mio, proprio quando il povero uomo stava spirando,
sapete chi ho visto... che mi guardava fisso?... Oh, quello
sguardo... quello sguardo... Da allora mi ha sempre perseguitato»
aggiunse Fleur-de-Marie rabbrividendo.
«Che sguardo? Di chi stai parlando?» esclamò Rodolphe. «Dell’ostessa
della bettola» mormorò Fleur-de-Marie.
«Quel mostro! l’hai rivisto? e dove?»
«Non l’avete scorta voi nella taverna in cui è morto lo Chou-
rineur?»
«Ah, ora» disse Rodolphe disperato, «capisco... Già presa da terrore
per l’uccisione dello Chourineur, ti sarà sembrato di vedere
qualcosa di soprannaturale in quel tremendo incontro!...»
«Purtroppo è vero, padre mio; al vedere l’ostessa ho sentito un
freddo brivido di morte; mi parve che sotto quello sguardo il mio
cuore, fino ad allora raggiante di felicità e di speranze, si fosse
di colpo ghiacciato. Sì, incontrare quella donna proprio nel momento
in cui lo Chourineur moribondo stava dicendo: “Il cielo è
giusto!...”, lo considerai come un richiamo dell’alto per il mio
sprezzante oblio di quel passato che dovevo espiare a forza
d’umiliazione e di pentimento.»
«Siete stata costretta... ubriacata... povera figliola.»
«Una volta scaraventata in quell’abisso, non potevi più uscirne
fuori nonostante i rimorsi e lo spavento provati; e questo lo dovevi
all’atroce indifferenza di quella società di cui eri stata vittima.
Tu ti vedevi per sempre incatenata in quell’antro; per strapparti di
là c’è voluto che il caso ti mettesse sulla mia strada.»
«E poi insomma: figliola, anche vostro padre vi disse che eravate
stata vittima e non complice di tanta infamia» esclamò Clémence.
«Ma quell’infamia... io l’ho subita... madre mia...» ribatté
dolorosamente Fleur-de-Marie. «Niente può cancellare quegli orribili
ricordi... Mi perseguitano incessantemente, non più come una volta
tra i pacifici abitanti di una fattoria o le donne disonorate, le
mie compagne di Saint-Lazaire... ma mi perseguitano fino dentro a
questo palazzo... dove c’è il fior fiore della Germania... Mi
perseguitano infine sin tra le braccia di mio padre, fino sui
gradini del suo trono.»
E Fleur-de-Marie scoppiò in un pianto dirotto. Rodolphe e Clémence
restarono silenziosi davanti a questa tremenda presenza di un
rimorso invincibile; piansero anche essi perché capivano di non
poter far niente con le loro consolazioni.
«Da allora» riprese Fleur-de-Marie asciugandosi le lacrime «in ogni
istante del giorno mi dico con amara vergogna: Sono onorata,
riverita; le persone più eminenti e più venerabili mi trattano con
rispetto; sotto gli occhi di tutta la corte la sorella di un
imperatore s’è degnata di mettermi a posto il diadema sulla
fronte... e sono vissuta nel fango della Cité, e i ladri e gli
assassini mi davano del tu. Oh, padre mio, perdonatemi... ma più la
mia posizione è alta... e più sono impressionata dalla profonda
degradazione in cui ero caduta; a ogni omaggio che mi vien fatto, mi
sento colpevole di una profanazione; pensateci un po’, Dio mio, dopo
essere
stata quello che sono stata... permettere che gli anziani
s’inchinino davanti a me, che nobili fanciulle, che donne
giustamente rispettate si sentano lusingate di stare vicino a me...
permettere infine che principesse auguste per l’età e il loro
carattere austero mi colmino di attenzioni e di encomi... non è cosa
sacrilega ed empia! E poi, se sapeste, padre mio, quanto ho
sofferto... quanto soffro ancora ogni giorno quando mi dico: se Dio
volesse far conoscere il mio passato... con quale giusto ribrezzo si
tratterebbe colei che ora è tanto esaltata!... che giusta e
terribile punizione.»
«Ma, povera figliola, mia moglie e io conosciamo il tuo passato...
siamo degni del nostro rango, eppure ti amiamo... ti adoriamo.»
«Per me voi avete la cieca tenerezza di un padre e di una madre...»
«Tutto il bene che hai fatto da quando sei qui? e la sacra e bella
fondazione, quell’asilo che hai aperto per le povere ragazze
abbandonate e la premura ammirevole per intelligenza e abnegazione
che hai per loro? la tua insistenza a chiamarle sorelle e a volere
che ti chiamino così perché in fondo tu le tratti come sorelle?...
non ti sembra niente in vista della redenzione delle colpe non
tue?... E infine l’affetto che ti dimostra la santa badessa di
SainteHermangilde che ti conosce solo da quando sei arrivata qui,
non lo devi all’elevatezza della tua mente, alla bellezza della tua
anima alla tua sincera devozione?»
«Finché le lodi della badessa vertono sulla mia attuale condotta non
ho scrupoli a rallegrarmene, padre mio; ma quando cita me come
esempio alle nobili fanciulle che vivono nell’abbazia, ma quando
queste vedono in me il modello di tutte le virtù, mi sento morire di
confusione, come se fossi complice di un’infame menzogna.»
Dopo un lungo silenzio, Rodolphe riprese in preda a un grandissimo
abbattimento:
«Capisco, non c’è speranza di persuaderti: i ragionamenti sono
inutili contro una convinzione tanto più irremovibile in quanto è
radicata in un sentimento nobile ed elevato visto che tu in ogni
momento getti uno sguardo sul passato. Il contrasto esistente fra i
tuoi ricordi e la tua attuale situazione deve esserti infatti un
supplizio continuo... Povera figliola, ti chiedo a mia volta
perdono».
«Voi, caro padre, chiedermi perdono!... e di che cosa, buon Dio?»
«Di non avere previsto i tuoi scrupoli... Conoscendo l’eccessiva
delicatezza del tuo animo, avrei dovuto intuirli... Eppure...
che avrei potuto fare?... Era mio dovere riconoscerti solennemente
per mia figlia... da qui è derivato quel rispetto che tanto ti
rattrista... Sì, ma ho fatto uno sbaglio... sono stato, vedi, troppo
orgoglioso di te... ho voluto godere del fascino che la tua
bellezza, la tua intelligenza e la tua indole ispiravano a tutti
quelli che ti avvicinavano... Avrei dovuto tenere nascosto il mio
tesoro... vivere in luogo appartato con Clémence e te.... rinunciare
a tutte queste feste, a tutti questi ricevimenti in cui mi piaceva
vederti brillare... credendo da stolto di poterti elevare tanto...
tanto... da farti sparire completamente da sotto gli occhi il
passato... Ma, ahimè, è successo tutto il contrario... e, come hai
detto tu, più ti sei innalzata e più l’abisso da cui t’avevo tratta
t’è sembrato oscuro e profondo... Lo ripeto, è colpa mia... eppure
avevo creduto di far bene!...» disse Rodolphe asciugandosi le
lacrime, «ma mi sono sbagliato... E poi, mi sono ritenuto perdonato
troppo presto... la vendetta di Dio non si è placata... essa mi
perseguita anche nella felicità di mia figlia!...»
Alcuni colpi battuti con discrezione sulla porta del salotto che
precedeva l’oratorio di Fleur-de-Marie interruppero il triste
colloquio.
Rodolphe si alzò e aprì la porta. Vide Murph, il quale gli disse:
«Chiedo scusa a Vostra Altezza Reale se vengo a disturbarla; ma un
corriere del principe d’Herkausen-Oldenzaal ha portato questa
lettera e m’ha detto di consegnarla immediatamente a Vostra Altezza
Reale perché è molto importante».
«Grazie, caro Murph. Non allontanarti» gli disse Rodolphe con un
sospiro; «fra poco avrò bisogno di parlare con te.»
E il principe, dopo aver chiuso la porta, si fermò nel salotto un
momento a leggere la lettera che Murph gli aveva consegnato.
Essa era così concepita:
Mio signore,
Posso sperare che i legami di parentela che mi uniscono a Vostra
Altezza Reale e che l’amicizia con cui si è sempre degnato
d’onorarmi siano di giustificazione a un passo che sarebbe
sommamente temerario se non fosse stato dettato dalla mia coscienza
di uomo onesto?
Quindici mesi fa, mio signore, voi ritornavate dalla Francia
conducendo con voi una figlia tanto più amata in quanto l’avete
creduta perduta per sempre, mentre invece essa non aveva mai
lasciato la madre, la donna che avete sposato in extremis a Parigi
per legittimare la nascita della principessa Amélie che, così, è
diventata eguale alle altre Altezze della Confederazione germanica.
È dunque di nascita reale e di bellezza impareggiabile; il suo cuore
è degno della sua origine tanto quanto la sua intelligenza lo è
della sua bellezza, così mi ha scritto mia sorella, la badessa di
Sainte-Hermangilde, che spesso ha l’onore di vedere la beneamata
figlia di Vostra Altezza Reale.
Ora, mio signore, affronterò decisamente l’argomento che è lo scopo
di questa mia lettera, poiché, purtroppo, una grave malattia mi
trattiene a Oldenzaal e m’impedisce di presentarmi a Vostra Altezza
Reale.
Nel tempo che ha passato a Gerolstein, mio figlio ha avuto modo di
vedere quasi ogni giorno la principessa Amélie; egli l’ama
perdutamente, ma le ha sempre tenuto nascosto il suo amore.
Ho ritenuto opportuno, signore, di dovervi informare. Vi siete
degnato di accogliere come un padre mio figlio e l’avete invogliato
a ritornare in seno alla vostra famiglia e a viverci con
quell’intimità che gli è così cara; avrei mancato di lealtà se non
avessi rivelato a Vostra Altezza Reale un fatto tale da costringerla
ad apportare qualche modifica all’accoglienza che veniva riservata a
mio figlio. So che sarebbe pazzesco da parte nostra sperare
d’imparentarci in maniera ancora più stretta con la famiglia di
Vostra Altezza Reale.
So che la figlia di cui andate giustamente così fiero, mio signore,
ambirà ad alti destini.
Ma so anche che voi siete il più tenero dei padri e che se mai voi
riteneste mio figlio degno di appartenervi e di fare la felicità
della principessa Amélie, non sarebbe un ostacolo per voi la
notevole sproporzione per cui noi consideriamo insperabile una
simile fortuna.
Non spetta a me fare l’elogio di Henri, mio signore; ma mi limiterò
a ricordarvi gli incoraggiamenti e gli encomi che vi siete tante
volte degnato di prodigargli.
Non oso e non posso dire di più, signore, troppo grande è la mia
emozione.
Qualunque sia la vostra decisione, credete pure che a essa
sottostaremo rispettosamente e che io sarò sempre fedele ai
sentimenti di profonda devozione coi quali mi pregio di firmarmi
di Vostra Altezza Reale
umilissimo e obbedientissimo servitore,
principe d’Herkausen-Oldenzaal
Gustave Paul
VI CONFESSIONI
Dopo la lettura della lettera del principe, padre di Henri, Rodolphe
restò per un po’ triste e meditabondo; poi, col volto illuminato da
un raggio di speranza tornò vicino alla figlia alla quale Clémence
stava prodigando inutilmente le più amorevoli espressioni di
tenerezza e di conforto.
«Figliola, tu stessa l’hai detto; Dio ha voluto che questo fosse il
giorno delle solenni spiegazioni» disse Rodolphe a Fleur-de-Marie;
«non prevedendo che le tue parole dovessero essere giustificate da
una nuova e grave circostanza.»
«Padre, di che cosa si tratta?» «Amico mio, che c’è?»
«Altri motivi di timore.» «Per chi, padre mio?»
«Per te.»
«Per me?»
«Tu ci hai rivelato soltanto la metà delle tue pene, povera fi-
gliola.»
«Padre mio, abbiate la bontà di spiegarvi» disse Fleur-de-Ma-
rie arrossendo.
«Ora posso farlo; prima, no, non ho potuto, perché non sape-
vo che tu disperassi tanto del tuo destino. Stammi a sentire, amata
figlia; tu ti credi o meglio sei molto infelice. Quando all’inizio
del nostro colloquio mi hai parlato delle speranze che ti restavano,
ho capito... mi si è spezzato il cuore... perché voleva dire per me
perderti per sempre, vederti rinchiusa in un chiostro, vederti
scendere in una tomba. Vorresti entrare in convento...»
«Padre...»
«Non è vero, figliola?»
«Sì, se me lo concedete» rispose Fleur-de-Marie con voce
fioca.
«Abbandonarci!» esclamò Clémence.
«L’abbazia di Sainte-Hermangilde è molto vicina a Gerolstein;
potrò vedervi spesso.»
«State attenta che tali voti sono eterni, cara figliola. Non avete
ancora diciott’anni e forse un giorno...»
«Oh, non mi pentirò mai della decisione che ho preso: la tran-
quillità e l’oblio posso trovarli solo nella solitudine di un
chiostro, se tuttavia voi, padre mio, e voi, mia seconda madre,
continuerete a volermi bene.»
«I doveri, le consolazioni della vita religiosa potrebbero, infatti»
disse Rodolphe, «se non guarire almeno placare i dolori della tua
povera anima scoraggiata e straziata. E, benché ci vada di mezzo
metà della felicità della mia vita, può darsi che approvi la tua
risoluzione. So quanto tu soffra e non penso che la rinuncia al
mondo non debba essere l’ineluttabile fine logica della tua triste
esistenza.»
«Come! anche voi, Rodolphe!» esclamò Clémence.
«Lasciatemi, amica mia, finire il pensiero» ribatté Rodolphe. Poi
rivolgendosi alla figlia: «Ma prima di prendere una decisione così
grave, bisognerà vedere se un altro avvenire potrebbe essere più
conforme ai tuoi desideri e ai nostri. In tal caso, non ci sarebbe
sacrificio che non farei per assicurare questo tuo avvenire».
Fleur-de-Marie e Clémence ebbero un gesto di stupore; Rodolphe,
guardando fissa la figlia, continuò: «Che pensi... del principe
Henri, tuo cugino?».
Fleur-de-Marie trasalì e arrossì.
Dopo aver esitato un momento, si gettò piangente tra le braccia del
principe.
«Tu l’ami, povera figliola!»
«Non me l’avete mai chiesto, padre mio!» rispose Fleur-deMarie
asciugandosi gli occhi.
«Amico mio, non ci eravamo sbagliati» disse Clémence.
«Così, tu l’ami...» aggiunse Rodolphe prendendo le mani della figlia
tra le sue; «l’ami molto, adorata figlia mia?»
«Oh, se sapeste» riprese Fleur-de-Marie, «quanto mi è costato
tenervi nascosto questo sentimento dopo che l’avevo scoperto in cuor
mio! Ahimè, alla più piccola richiesta da parte vostra, avrei
confessato tutto... Ma la vergogna mi frenava e mi avrebbe sempre
frenata.»
«E credi che Henri conosca il tuo amore per lui? disse Rodolphe.»
«Santo Iddio! non lo so, padre!» esclamò Fleur-de-Marie spaventata.
«E lui... credi che t’ami?»
«No, padre mio... no... Oh, spero di no... soffrirebbe troppo.» «E
come è nato quest’amore, angelo caro?»
«Ahimè quasi senza che me ne accorgessi... Vi ricordate del ri-
tratto del paggio?»
«Che c’è nell’appartamento della badessa di Sainte-Her-
mangilde... era il ritratto di Henri.»
«Sì, padre mio... Credendo che quel ritratto fosse di altri tempi,
un giorno che eravate presente anche voi dissi alla superiora di
essere stata colpita dalla bellezza del ritratto. Allora voi mi
diceste, scherzando, che il quadro raffigurava un nostro parente del
tempo passato che, fin da giovanissimo, aveva dimostrato di avere
molto coraggio e ottime qualità. La sua bellezza, assieme a quello
che voi avete chiamato il carattere nobile del nostro parente,
riconfermò la mia prima impressione... Dopo quel giorno, ho
cominciato a pensare, compiacendomi, al ritratto e senza alcuno
scrupolo anche perché ero convinta si trattasse di un nostro cugino
morto da tempo... A poco a poco mi abituai a questi dolci
pensieri... sapevo tanto che non m’era dato d’amare qualcuno su
questa terra...» aggiunse Fleur-de-Marie con espressione straziante
e rimettendosi a piangere. «Per queste strane fantasticherie
cominciai a sentire come un malinconico affetto, fatto un po’ di
lacrime e un po’ di sorrisi; considerai il bel paggio dei tempi
remoti come un fidanzato d’oltretomba... che un giorno avrei
ritrovato nell’eternità; pensavo che solo un amore così poteva
essere degno di un cuore che vi appartiene completamente, padre
mio... Ma perdonatemi queste tristi cose da bambina.»
«Niente di più commovente, invece, povera figliola» disse Clémence
turbata.
«Ora capisco» riprese Rodolphe, «perché un giorno mi hai
rimproverato, con aria dispiaciuta, di averti ingannata su quel
ritratto.»
«Ahimè, sì, padre mio... Pensate un po’ alla mia confusione quando
in seguito la superiora mi informò che il ritratto era quello di suo
nipote, uno dei nostri parenti... Allora, ne fui completamente
sconvolta; cercai di dimenticare le prime impressioni avute; ma più
mi sforzavo e più esse si radicavano in cuor mio proprio a causa dei
miei continui sforzi... Per colmo di sventura poi, io vi sentivo
spesso, padre mio, vantare il cuore, l’intelligenza, il carattere
del principe Henri...»
«L’amavi già, figliola cara, pur avendo visto solo il suo ritratto e
sentito parlare delle sue straordinarie qualità.»
«Senza amarlo, padre mio, sentivo per lui un’attrazione che mi stavo
sempre a rimproverare amaramente; ma mi consolavo col pensiero che
mai nessuno al mondo avrebbe saputo di questo mio triste segreto che
mi ricopriva di vergogna ai miei stessi occhi. Io poter amare...
io... io... e poi non accontentarmi della vostra tenerezza e di
quella della mia seconda madre! Non vi dovevo forse tanto da
impiegare tutte le forze, tutte le risorse della mia anima
ad amare voi due soli? Oh, credetemi, tra i rimproveri che mi
facevo, questi erano quelli che mi facevano più male. Alla fine vidi
per la prima volta mio cugino, alla grande festa che deste per
l’arciduchessa Sophie; il principe Henri assomigliava in maniera
così impressionante al suo ritratto che lo riconobbi subito... La
sera stessa mi fu presentato da voi, padre mio; ci autorizzaste
anche a trattarci con la familiarità che implica una parentela.»
«E vi siete amati subito?»
«Ah, padre mio, esprimeva il suo rispetto, il suo attaccamento, la
sua ammirazione per voi con tanta eloquenza... voi stesso me n’avete
detto tanto bene!...»
«E lo meritava... Non c’è persona più nobile, non c’è cuore migliore
e più coraggioso del suo.»
«Ah, di grazia, padre mio... non lodatelo così... Sono già tanto
infelice!»
«Io, invece, ci tengo a che tu sia convinta di tutte le ottime
qualità di tuo cugino... Ciò che ti sto dicendo ti stupisce... Lo
capisco, figliola... Continua...»
«Capivo di andare incontro a un pericolo vedendo ogni giorno il
principe Henri, ma non potevo sottrarmi a questo pericolo.
Nonostante la cieca fiducia che ho in voi, padre mio, non osavo
palesarvi i miei timori. Tutto il mio coraggio lo impiegai a
nascondere il mio amore; eppure, padre mio, vi confesso che,
nonostante i miei rimorsi, spesso in quella quotidiana amicizia
fraterna provavo, dimenticando il passato, sprazzi di felicità fino
ad allora sconosciuta a cui ahimè succedeva subito, però, una cupa
disperazione non appena ricadevo sotto l’influenza dei miei tristi
ricordi... Perché, ahimè, se mi perseguitavano in mezzo agli onori e
al rispetto da parte di persone che mi erano quasi indifferenti,
pensate, pensate... padre mio, ai miei tormenti quando il principe
Henri mi prodigava le lodi più discrete... mi dimostrava una casta e
religiosa adorazione, mettendo, diceva lui, la fraterna amicizia che
sentiva per me sotto la sacra protezione di sua madre che era morta
molto giovane. Quel dolce nome di sorella che lui mi dava cercavo di
meritarmelo dandogli consigli sul suo avvenire, in base alla mia
poca esperienza, interessandomi di tutto ciò che lo riguardava,
ripromettendomi sempre di domandare per lui il vostro benevolo
appoggio... Ma quanti tormenti, spesso, quanti pianti ringoiati
quando per caso il principe Henri mi chiedeva qualcosa della mia
infanzia, della mia prima adolescenza... Oh, ingannare... sempre
ingannare... sempre temere... sempre mentire, sempre tremare davanti
allo sguardo di colui che si ama e si
rispetta come il criminale trema davanti allo sguardo inesorabile
del suo giudice!... Oh, padre mio! Sono colpevole, lo so, non avevo
il diritto di amare; ma espiavo questo triste amore con molte
sofferenze... Che vi dirò? la partenza del principe Henri,
causandomi un nuovo violento dolore, mi ha illuminata... ho capito
che lo amavo ancor più di quanto credessi... Perciò» aggiunse
Fleurde-Marie schiantata come se quella confessione l’avesse privata
di tutte le forze, «dopo un po’ vi avrei fatto questa rivelazione
perché questo mio amore fatale ha colmato la misura di quanto io
soffro... Ditemi ora che sapete tutto, ditemi, padre mio, esiste per
me altro avvenire se non quello del chiostro?»
«Ne esiste un altro, figliola... sì... ed è un avvenire dolce,
felice tanto quanto è squallido e sinistro quello del convento.»
«Che state dicendo, padre mio?»
«Stammi ora a sentire... Sai che io ti voglio tanto bene e che la
mia tenerezza vede troppo al di là delle cose per lasciarsi sfuggire
il tuo amore e quello di Henri; dopo alcuni giorni ero sicuro che
egli ti amava più di quanto tu l’ami...»
«Padre mio... no... no... è impossibile, non mi ama tanto.»
«Ti ama, ti dico... ti ama con passione, delira d’amore.»
«Oh Dio mio, Dio mio!»
«Stammi ancora a sentire... Quando ti ho fatto quello scherzo
del ritratto, non sapevo che Henri dovesse presto venire a
Gerolstein a trovare sua zia. Quando arrivò, cedetti alla
compiacenza che ho sempre avuto per lui; lo invitai a venirci spesso
a trovare... Fino a quel momento l’avevo trattato come mio figlio,
non cambiai nulla nel mio modo di comportarmi nei suoi riguardi...
Di lì a qualche giorno, Clémence e io non avemmo più dubbi sulla
vostra reciproca simpatia... Se la tua situazione era penosa, anche
la mia era scabrosa e soprattutto d’una estrema delicatezza... Come
padre, poiché conoscevo le eccellenti qualità di Henri, non potevo
che essere profondamente felice del vostro reciproco affetto, dato
che mai avrei potuto sognare sposo più degno di te.»
«Ah, padre mio... pietà, pietà!...»
«Ma, come uomo d’onore, ho pensato al triste passato della mia
figliola... Perciò, anziché alimentare le speranze di Henri, nei
nostri colloqui gli diedi consigli completamente contrari a quelli
che avrebbe dovuto aspettarsi da me qualora avessi pensato di
accordargli la tua mano. In congiunture così delicate, come padre e
uomo d’onore, dovevo attenermi a una strettissima neutralità, non
incoraggiare l’amore di tuo cugino, ma trattarlo con la stessa
affabilità che avevo per lui in passato... Sei stata finora tanto
infe-
lice, figliola cara, che vedendoti, per così dire, rinascere sotto
l’influenza di un nobile e puro amore, per nulla al mondo avrei
voluto toglierti questa preziosa gioia divina. Pure supponendo che
questo amore dovesse essere poi troncato... tu avresti almeno goduto
di qualche giorno d’innocente felicità... E poi insomma... questo
amore poteva assicurarti la tranquillità futura...»
«La mia tranquillità?»
«Stammi ancora a sentire... Il padre di Henri, il principe Paul, mi
ha scritto; ecco la sua lettera... Benché consideri un favore
insperabile questo matrimonio... mi chiede la tua mano per suo
figlio che, dice, sente per te l’amore più rispettoso e
appassionato.»
«Oh, Dio mio, Dio mio!» disse Fleur-de-Marie nascondendosi il viso
tra le mani, «avrei potuto essere così felice!»
«Coraggio, diletta figlia! Se vuoi, questa felicità è tua!» esclamò
teneramente Rodolphe.
«Oh, mai!... mai!... Avete dimenticato?»
«Non ho dimenticato niente... Ma se domani entri in convento, non
solo ti perdo per sempre... ma anche lasci a me una vita di
austerità e di pianto... Ebbene, persa per persa... è meglio che ti
sappia felice e maritata a colui che tu ami... e che ti adora.»
«Maritata con lui... io, padre!...»
«Sì... ma con la condizione che il matrimonio si celebri qui di
notte senza altri testimoni se non Murph per te e il barone di Graün
per Henri e che subito dopo partiate tutti e due per un sito
tranquillo della Svizzera o dell’Italia per vivere in incognito, da
ricchi signori. Sai ora, figlia cara, perché mi rassegno a mandarti
lontano da me? Sai perché desidero che Henri abbandoni il suo titolo
una volta fuori dalla Germania? Perché sono sicuro che in una serena
felicità che mira tutta a una vita priva di fasto, tu potrai
dimenticare a poco a poco il tuo odioso passato che ti addolora
soprattutto perché contrasta amaramente con gli omaggi cerimoniosi
che ti si porgono in ogni istante.»
«Rodolphe ha ragione!» esclamò Clémence. «Sola con Henri, paga
continuamente della sua felicità e della vostra, non avrete il tempo
di pensare ai dispiaceri di una volta, figliola.»
«Poi, siccome mi sarebbe impossibile di stare molto tempo senza
vederti, ogni anno Clémence e io verremmo a trovarvi.»
«E un giorno... quando la ferita di cui, povera piccola soffrite
tanto, sarà cicatrizzata... quando avrete trovato l’oblio nella
felicità... e un tal momento giungerà prima di quanto pensiate...
ritornerete da noi per non lasciarci più!»
«L’oblio nella felicità!...» mormorò Fleur-de-Marie che, suo
malgrado, si lasciava cullare in quel sogno d’incanto.
«Sì... sì, figliola» riprese Clémence, «quando in ogni momento del
giorno vi vedrete benedetta, rispettata, adorata dallo sposo scelto
da voi, dall’uomo di cui vostro padre mille volte ha elogiato la
nobiltà e generosità d’animo... avrete tempo di pensare al passato?
E quand’anche voi ci pensaste... come potrebbe questo passato
rattristarvi? come potrebbe impedirvi di credere alla radiosa
felicità di vostro marito?»
«Sì, è così... perché, dimmi un po’, figliola» riprese Rodolphe, che
riusciva sì e no a trattenere le lacrime dalla gioia di vedere sua
figlia titubante, «davanti all’idolatria di tuo marito per te...
quando sarai cosciente e avrai le prove della felicità di cui ti è
debitore... quali rimproveri potrai farti?»
«Padre mio...» disse Fleur-de-Marie a cui questa ineffabile speranza
aveva fatto dimenticare il passato, «posso ancora sperare in tanta
felicità?»
«Ah, ero sicurissimo!» esclamò Rodolphe in uno slancio di gioia e di
trionfo, «non può un padre, quanto lo voglia... dare la felicità
alla sua figlia adorata?...»
«Essa è tanto meritevole... che, amico mio, dovremmo essere
esauditi» disse Clémence unendosi alla felicità del principe.
«Sposare Henri... e un giorno... poter passare la mia vita tra
lui... la mia seconda madre... e mio padre...» ripeté Fleur-de-Marie
lasciandosi sempre più prendere dalla dolce ebbrezza di questi
pensieri.
«Sì, angelo caro, saremo tutti felici!... Rispondo subito al padre
di Henri che acconsento al matrimonio!» esclamò Rodolphe stringendo
con grandissima commozione Fleur-de-Marie tra le braccia. «Stai
tranquilla, il tempo della separazione passerà presto... i nuovi
doveri che t’imporrà il matrimonio renderanno più sicuri i tuoi
passi sulla strada dell’oblio e della felicità che ormai stai per
prendere... perché infine, se un giorno diventerai madre, non ti
sarà necessario essere felice per te sola...»
«Ah» esclamò Fleur-de-Marie con un grido straziante, perché la
parola madre la scosse dal sogno incantevole in cui si stava
cullando, «madre!... Io?... Oh, mai... Io sono indegna di questo
sacro nome... Morirei di vergogna davanti a mio figlio... qualora
non fossi morta di vergogna davanti a suo padre... con la
confessione del mio passato...»
«Che dici? Dio mio!» esclamò Rodolphe folgorato da un tale brusco
cambiamento...
«Io madre!» riprese Fleur-de-Marie con angosciata amarezza «io
rispettata, io benedetta da un bambino innocente e puro! Io che una
volta ero oggetto del disprezzo di tutti! io profanare così il nome
sacro di madre... oh, mai... Che miserabile pazza sono stata a
lasciarmi andare a una speranza che non merito!...»
«Figlia, per carità, ascoltami.»
Fleur-de-Marie si alzò in piedi, pallida, bella della maestà di
un’inguaribile sventura...
«Padre... abbiamo dimenticato che prima di sposarmi... il principe
Henri deve conoscere la mia vita passata.»
«Non l’ho dimenticato!» esclamò Rodolphe; «deve sapere tutto...
saprà tutto...»
«Ma voi non volete che io muoia... al vedermi così disonorata
davanti a lui?»
«Ma saprà anche dell’inevitabile fatalità che ti ha gettato
nell’abisso... ma saprà anche della tua riabilitazione.
«E capirà infine» riprese Clémence stringendosi Fleur-de-Marie al
petto, «che se io vi chiamo figlia... lui può senza vergognarsi
chiamarvi moglie.»
«E io... madre mia... amo troppo... stimo troppo il principe Henri
per dargli una mano che è stata toccata dai delinquenti della
Cité...»
Poco tempo dopo questa scena angosciosa, si poteva leggere nella
«Gazzetta ufficiale di Gerolstein»:
Ieri ha avuto luogo, nell’abbazia granducale di Sainte-Hermangilde,
in presenza di Sua Altezza Reale il granduca regnante e di tutta la
corte, la vestizione dell’altissima e potentissima principessa Sua
Altezza Amélie di Gerolstein.
Il noviziato è stato accolto dall’illustrissimo e reverendissimo
signore Charles-Maxime, arcivescovo duca di Oppenheim; signore
Annibal-André Montano dei principi di Delfo, vescovo di Centa in
partibus infidelium e nunzio apostolico, ha portato il saluto e la
benedizione del Papa.
L’orazione è stata pronunziata dal reverendissimo signore Pierre
d’Asfeld canonico del capitolo di Colonia, conte del Sacro Romano
Impero.
VENI CREATOR OPTIME
Rodolphe a Clémence
VII
LA PROFESSIONE
Gerolstein, 12 gennaio 18423
Amica mia, col tranquillizzarmi oggi completamente sulla salute di
vostro padre, mi fate sperare che possiate ricondurlo qui prima
della fine della settimana. L’avevo avvertito che nella residenza di
Rosenfeld, situata in mezzo alle foreste, sarebbe andato incontro
con tutte le precauzioni possibili al crudo rigore dei nostri
freddi; purtroppo la sua passione per la caccia ha reso vani i
nostri consigli. Vi scongiuro, Clémence, di partire subito non
appena vostro padre sarà in grado di affrontare il viaggio in
carrozza; venite via da quel posto selvaggio e da quella selvaggia
residenza che può essere abitata solo da quei vecchi tedeschi col
corpo duro come il ferro la cui razza è ormai estinta.
Temo che, anche voi abbiate ad ammalarvi; i disagi di questo viaggio
precipitoso, l’inquietudine che avete avuto finché non siete
arrivata accanto a vostro padre, hanno dovuto agire su di voi
arrecandovi danno. Perché non ho potuto accompagnarvi!... Clémence,
vi supplico, niente imprudenze; so che siete coraggiosa e
premurosa... so che darete a vostro padre le cure più amorose; ma
egli sarebbe disperato come me se la vostra salute dovesse risentire
di questo viaggio. Doppiamente deploro la malattia del conte, perché
essa vi tiene lontana da me in un momento in cui avrei potuto
attingere dal vostro affetto molto conforto.
La cerimonia della professione della nostra povera figliola è
stabilita per domani... per domani 13 gennaio, data fatale... Il 13
gennaio ho sguainato la spada contro mio padre...
Ah, amica mia... mi ero creduto perdonato troppo presto;
l’inebriante speranza di poter passare la mia vita accanto a voi e a
mia figlia m’aveva fatto dimenticare che non io, ma lei era stata
fino a questo momento castigata e che la mia punizione non è ancora
arrivata. Ed è arrivata... quando sei mesi fa la povera ci ha
svelato il doppio tormento della sua anima: la sua inguaribile
vergogna del passato... assieme al suo infelice amore per Henri...
Due ardenti e amari sentimenti che, esaltato l’uno dall’altro,
dovevano logicamente e fatalmente condurla all’irremovibile riso-
3 Circa sei mesi sono passati da quando Fleur-de-Marie è entrata
come novizia nel convento di Sainte-Hermangilde.
luzione di prendere il velo. Voi sapete, amica mia, che, pur
combattendo questo suo progetto con tutte le forze che ci forniva la
nostra adorazione per lei, non avremmo potuto non ammettere che la
sua bella e coraggiosa condotta è stata tale e quale sarebbe stata
la nostra. Cosa rispondere alle parole terribili:
«Amo troppo il principe Henri per dargli una mano toccata dai
delinquenti della Cité».
Essa ha voluto sacrificarsi ai suoi nobili scrupoli, al ricordo
incancellabile del suo obbrobrio! l’ha fatto con coraggio... ha
rinunciato agli splendori del mondo, è scesa dai gradini d’un trono
per andare a inginocchiarsi, vestita di saio, sul pavimento d’una
chiesa; ha incrociato le mani sul petto, chinato la testa
angelica... i suoi bei capelli biondi che mi piacevano tanto e che
conservo come un tesoro, sono caduti sotto le forbici...
Oh, amica mia, voi sapete quale straziante angoscia abbiamo provato
in quel momento lugubre e solenne; ora questa emozione m’è dolorosa
come è stata allora... Mentre vi scrivo queste parole, sto piangendo
come un bambino.
Questa mattina l’ho vista; benché mi sia sembrata meno pallida del
solito e sostenga di non soffrire... sono mortalmente preoccupato
della sua salute. Ahimè, quando sotto il velo e la benda che le
cingono la nobile fronte, vedo il suo volto emaciato che ha la
fredda bianchezza del marmo per cui i suoi grandi occhi azzurri
appaiono ancora più grandi, non posso fare a meno di pensare al
dolce e puro splendore della sua bellezza al tempo del nostro
matrimonio. Mai, vero, l’avevamo vista così bella! la nostra
felicità sembrava rispecchiarsi sul suo incantevole volto.
Come vi dicevo, questa mattina l’ho vista; non sa ancora che la
principessa Juliane vuole dimettersi in suo favore dalla dignità di
badessa: domani quindi, giorno della sua professione, la nostra
figliola sarà eletta badessa dato che le damigelle nobili della
comunità sono d’accordo nel conferirle tale carica.
Dall’inizio del suo noviziato tutti decantano unanimemente la sua
pietà, la sua carità, la sua religiosa esattezza nell’osservare
tutte le regole del suo ordine, di cui essa purtroppo spinge oltre
l’austerità... In convento ha esercitato l’influenza che esercita
dappertutto senza pretensione, anzi ignorandola, il che aumenta il
potere... Il colloquio che ho avuto con lei stamattina mi ha dato
conferma di ciò che sospettavo; non è riuscita a trovare, nella
solitudine del chiostro e nell’austera pratica della vita monacale,
la tranquillità e l’oblio... eppure è contenta della sua decisione,
anzi la vede come l’adempimento di un imperioso dovere; ma essa
continua a soffri-
re, perché non è nata per le mistiche contemplazioni in mezzo alle
quali certe persone, dimenticato ogni affetto e ogni ricordo
terreno, sprofondano in estasi ascetiche.
No, Fleur-de-Marie crede, prega, si sottomette al duro e rigido
regolamento del suo ordine; prodiga le consolazioni più cristiane,
le cure più umili alle povere donne ammalate che sono in cura
nell’ospedale dell’abbazia. Non ha neppure voluto avere l’aiuto di
una suora conversa per le piccole faccende della cella triste,
fredda e nuda dove avevano notato fra lo stupore e l’angoscia i rami
secchi del suo piccolo rosaio sotto il suo crocefisso. Lei è insomma
l’amato esempio, il venerato modello della comunità... Ma stamattina
mi ha confessato, rimproverandoselo amaramente, il difetto di non
essere assorbita dalla pratica e dai sacrifici della vita religiosa
tanto che il passato non le si affacci di continuo e non solo quale
è stato... ma anche quale avrebbe potuto essere.
«Mi accuso, padre mio» mi ha detto con quella dolce e serena
rassegnazione che le conoscete, «mi accuso ma non posso fare a meno
di pensare che, se Dio avesse voluto evitarmi la degradazione da cui
il mio avvenire è stato macchiato, avrei potuto vivere sempre vicino
a voi, amata dallo sposo che voi avreste scelto. A mio dispetto, la
mia vita è divisa tra questi angosciosi rimpianti e i terribili
ricordi della Cité. Invano prego Iddio di liberarmi da queste
ossessioni, di riempirmi il cuore soltanto del suo santo amore,
delle sue sacre speranze, di prendermi infine tutta intera perché
tutta intera voglio darmi a lui... egli non esaudisce i miei
desideri... certamente perché le mie sono preoccupazioni terrene e
mi rendono quasi indegna di entrare in comunione con lui.» «Ma
allora» esclamai con un barlume di folle speranza,... «siamo ancora
in tempo, oggi finisce il tuo noviziato, ma domani soltanto avrà
luogo la tua solenne professione; sei ancora libera, rinuncia a
questa vita così dura e severa che non ti offre il conforto che ti
aspettavi; sofferenza per sofferenza, vieni a soffrire tra le nostre
braccia, con la nostra tenerezza leniremo le tue pene.»
Scosse tristemente la testa e mi rispose con quella logica
inattaccabile che ci ha tanto spesso impressionati.
«È vero, mio buon padre, la solitudine è una cosa molto triste per
me... per me già così abituata alle vostre innumerevoli prove di
tenerezza. Certo sono perseguitata da amari rimpianti, da strazianti
ricordi; ma almeno so di compiere un dovere... ma capisco, ma so che
in qualunque altro posto che non fosse questo sarei fuori posto; mi
sentirei in quella crudele condizione... di cui ho tanto sofferto...
e per me... e per voi... perché anch’io ho il mio orgoglio.
Vostra figlia sarà quella che deve essere... farà quello che deve
fare, subirà ciò che deve subire. Domani se anche tutti venissero a
sapere da quale abiezione mi avete tratto... vedendomi pentita ai
piedi della croce, forse mi perdonerebbero il passato in virtù del
mio attuale stato di umiltà... E non succederebbe la stessa cosa,
non vi pare, mio buon padre, se mi vedessero brillare, come qualche
mese fa, nello splendore della vostra corte. D’altra parte,
soddisfare alle giuste e rigorose esigenze del mondo vuol dire
soddisfare me stessa: perciò ringrazio e benedico Dio con tutta la
forza della mia anima perché sono convinta che solo lui poteva
offrire a vostra figlia un asilo e una condizione degni di lei...
una situazione insomma che non fosse in penoso contrasto col mio
passato disonore... e potesse darmi il solo rispetto che mi si
debba... quello che si concede a un pentimento e a una umiltà
sinceri.»
Ahimè, Clémence... che rispondere mai?
Fatalità! fatalità! perché questa nostra infelice figliola è dotata
di una logica implacabile per tutto ciò che riguarda la delicatezza
d’animo e l’onore. Con una mente e un’anima così, non si deve
pensare a nascondere qualcosa o a non affrontare le situazioni
difficili; bisogna subirne le inevitabili conseguenze...
L’ho lasciata, come sempre, che aveva il cuore in pezzi. Senza farmi
nessuna illusione di questa conversazione che sarà l’ultima, prima
della sua professione, mi sono detto:
«Oggi potrebbe ancora abbandonare il chiostro». Ma, come avete
sentito, amica mia, la sua volontà è irremovibile e io devo, ahimè,
essere d’accordo con lei e ripetere le sue parole.
Dio solo poteva offrirle un asilo e una condizione degni di lei e di
me.
Ripeto che la sua decisione è straordinariamente indovinata e
logica, considerata la società in cui viviamo... Con la squisita
sensibilità che ha, non c’è per Fleur-de-Marie altra condizione
possibile. Ma, e ve l’ho detto già parecchie volte, amica mia, se
dei sacri doveri, più sacri ancora di quelli della famiglia, non mi
trattenessero in mezzo a questo popolo che amo e di cui sono un po’
la provvidenza, sarei andato con voi, mia figlia, Henri e Murph a
vivere oscuramente ma felice in qualche luogo remoto. Allora,
lontano dalle imperiose leggi di una società incapace di guarire i
mali che ha originato, avremmo probabilmente costretto la nostra
infelice figliola alla felicità e all’oblio... mentre qui, invece,
nello splendore della nostra reggia, per quanto limitato, era
impossibile... Ma ancora una volta... fatalità!... fatalità! io non
posso abdicare al mio potere senza compromettere la felicità di un
popolo che
ha fiducia in me... Brava e buona gente! ignori per sempre quanto mi
costa la sua fedeltà!...
Addio, vi saluto caramente, mia beneamata Clémence. Mi consola quasi
il fatto di vedervi addolorata quanto me per il destino di mia
figlia; così posso dire la nostra sofferenza e non c’è egoismo nella
mia pena.
Talvolta mi spaventa l’idea di che cosa sarebbe stato di me senza
voi, in circostanze così dolorose... E spesso anche questa idea mi
fa ancora più pietoso con la sorte di Fleur-de-Marie... Perché a me,
almeno, restate voi... Ma a lei, che cosa resterà?
Un altro addio, un mesto addio, nobile amica, angelo dei miei tristi
giorni. Tornate presto; questa assenza pesa a voi quanto a me...
Vostro con la mia vita e il mio amore!... vostro col cuore e con
l’anima!
R.
Vi mando questa lettera a mezzo corriere; salvo improvvisi
cambiamenti, ve ne manderò un’altra domani, subito dopo la
cerimonia. Mille auguri a vostro padre per una pronta guarigione.
Dimenticavo di darvi notizie di Henri. La sua salute va migliorando
e non c’è più serio motivo di preoccuparsi. Il suo ottimo padre,
benché ammalato, ha trovato la forza per curarlo e vegliarlo;
miracolo d’amore paterno che non ci sorprende affatto.
Allora così, amica, a domani... domani giorno sinistro e nefasto per
me!
Vostro ancora e per sempre
R.
Dall’abbazia di Sainte-Hermangilde alle quattro di mattina.
State tranquilla, Clémence, state tranquilla benché l’ora in cui vi
ho scritto e il luogo accennato sulla data vi abbiano spaventata...
Grazie a Dio, il pericolo è passato; ma la crisi è stata tremenda...
Ieri, dopo avervi scritto, ripensando al pallore, all’espressione
sofferente di nostra figlia, allo stato di debolezza in cui langue
da qualche tempo e al tempo che avrebbe dovuto passare in preghiera,
dentro una chiesa immensa e gelida, la notte prima della sua
professione colto da un funesto presentimento, ho mandato Murph e
David all’abbazia a chiedere alla principessa Juliane di permettere
loro di restare fino a domani nella casa esterna al convento in cui
di solito abitava Henri. Così mia figlia avrebbe potuto
avere un pronto soccorso e io sue notizie nel caso che, come temevo,
le fossero mancate le forze di osservare il severo... non voglio
dire crudele... obbligo di restare un’intera notte per di più nel
mese di gennaio a pregare con un freddo eccessivo. Avevo anche
scritto a Fleur-de-Marie che, pur rispettando la pratica dei suoi
doveri religiosi, non potevo non supplicarla, per la sua salute, di
fare la veglia di orazioni nella cella e non nella chiesa.
Ecco che cosa mi ha risposto:
Caro padre, vi ringrazio dal più profondo del cuore per questa nuova
prova di tenero affetto da parte vostra. Non preoccupatevi; mi
ritengo in condizione di compiere il mio dovere. Vostra figlia,
padre caro, non può dimostrare né paura né debolezza. Questa è la
regola e io devo osservarla. Quand’anche me ne venisse qualche
sofferenza fisica, l’offrirò a Dio con gioia. Spero che approverete
le mie intenzioni; voi che avete praticato il dovere e la rinuncia
con tanto coraggio. Addio, buon padre mio, non vi dico che pregherò
per voi... Pregando Iddio, prego sempre per voi, perché non mi è
possibile non unirvi alla divinità che invoco. Sulla terra voi siete
stato per me ciò che Dio, se ne sarò degna, sarà per me in cielo.
Degnatevi di benedire questa sera vostra figlia col pensiero, caro
padre... Domani essa sarà sposa del Signore.
Vi bacio le mani con religioso affetto.
Suor Amélie
Questa lettera, che non posso leggere senza scoppiare in lacrime, mi
tranquillizzò un po’; anch’io dovevo compiere una triste veglia.
Al calar della notte, sono andato a rinchiudermi nella palazzina che
ho fatto costruire non lontano dal monumento eretto in memoria di
mio padre, per espiare quella notte fatale...
Verso l’una di notte sentii la voce di Murph; rabbrividii dallo
spavento. Era tornato in tutta fretta dal convento.
Che vi dirò, amica mia? Come avevo previsto la povera ragazza,
nonostante il suo coraggio e la volontà, non aveva avuto la forza di
adempiere interamente quella barbara pratica della quale era stato
impossibile alla principessa Juliane dispensarla, essendo la regola
severa a questo proposito.
Alle otto di sera, Fleur-de-Marie s’era inginocchiata sul pavimento
della chiesa. Ha pregato fin oltre mezzanotte. Ma a quell’ora, presa
dalla debolezza, dall’orribile freddo, dalla sua emozione – infatti
aveva pianto a lungo in silenzio – è svenuta. Due suore che,
per ordine della principessa Juliane, vegliavano con essa, alzatala
da terra, la trasportarono nella sua cella.
David fu subito avvertito. Murph prese la carrozza e venne a
cercarmi. Volai al convento; fui ricevuto dalla principessa Juliane.
Mi disse che David temeva che la mia presenza potesse produrre
un’impressione troppo forte su mia figlia.
Mi venne subito in mente un orribile pensiero. Pensai che mi si
volesse nascondere una qualche grave disgrazia o che volessero
prepararmi a sentirla; ma la superiora mi disse: «Vi assicuro,
signore, che la principessa Amélie è fuori pericolo; un leggero
cordiale somministratole dal dottor David le ha ridato le forze».
Non potevo nutrire sospetti in merito a ciò di cui la badessa mi
dava rassicurazioni: le credetti; e aspettai poi notizie di mia
figlia in angosciosa impazienza.
Dopo un quarto d’ora di supplizio, ritornò David. Grazie a Dio, ella
stava meglio; però aveva deciso di continuare la sua veglia in
preghiere nella chiesa acconsentendo soltanto a inginocchiarsi su di
un cuscino. E siccome io mi ero irritato e indignato che la
superiora si fosse piegata all’intenzione di lei dicendo che mi
opponevo a ciò decisamente, mi rispose che sarebbe stato pericoloso
contrariare la volontà di mia figlia in un momento in cui essa era
in preda a una forte agitazione nervosa e che d’altra parte aveva
stabilito d’accordo con la principessa Juliane che la povera ragazza
avrebbe lasciato la chiesa il mattino per andare un po’ a riposare e
a prepararsi così alla cerimonia.
«Allora adesso è in chiesa?» gli dissi.
«Sì, signore; ma fra neppure mezz’ora uscirà.»
Mi feci subito condurre nella nostra tribuna nord da dove si domina
tutto il coro.
Lì, nell’oscurità dell’enorme chiesa, illuminata solo dalla pallida
luce della lampada del santuario, la vidi inginocchiata e con le
mani giunte vicino alla grata che stava piangendo ancora con
fervore.
Pensando a mia figlia, m’inginocchiai anch’io. Suonarono le tre; le
due suore che le avevano tenuto sempre gli occhi sopra, si alzarono
dai due stalli in cui erano sedute per andare a parlarle in un
orecchio. Dopo un po’, essa si fece il segno della croce, s’alzò e
attraversò il coro con passo sicuro; eppure, amica mia, quando essa
passò vicino alla lampada, mi accorsi che aveva un viso bianco come
il velo che le svolazzava attorno.
Uscii subito dalla tribuna per andare a raggiungerla; ma subito
temetti che una nuova emozione potesse non farle godere di qual-
che momento di tranquillità. Mandai David a sentire come stesse:
ritornò e mi disse che si sentiva meglio e che avrebbe cercato di
dormire un po’.
Resto all’abbazia per la cerimonia che avrà luogo questa mattina.
Ora che ci penso, amica mia, mi pare inutile mandarvi una lettera
non completa. La finirò domani col racconto dei fatti di questa
triste giornata.
A presto quindi, amica mia. Sono stroncato dal dolore; abbiate pietà
di me.
VIII
IL 13 GENNAIO
Rodolphe a Clémence
Il 13 GENNAIO... anniversario ormai doppiamente sinistro!!! Amica...
l’abbiamo persa per sempre!
È finita... è finita!
Ascoltate questo racconto:
È proprio vero... si prova un piacere atroce a raccontare un
terribile dolore.
Ieri mi lamentavo col destino perché vi aveva mandato lontano da
me... oggi, Clémence, mi rallegro che non siate qui: soffrireste
troppo...
Questa mattina ero fra il sonno e la veglia; sono stato svegliato
dal suono delle campane... ho avuto un sobbalzo di spavento... m’è
sembrata una cosa da funerale.
Infatti... mia figlia è morta per noi... morta, capite. Da oggi,
Clémence... dovrete portare il lutto in cuor vostro per lei; nel
vostro cuore sempre così materno nei suoi riguardi...
Che la nostra figliola sia sepolta sotto il marmo di una tomba o
sotto la volta d’un chiostro... per noi... che differenza fa?
Da oggi, capite, Clémence, si dovrà considerarla morta...
D’altronde... è così debole... la sua salute è così malsicura, dopo
tanti dispiaceri e tante scosse... Perché non allora quell’altra
morte, più completa ancora? Il destino non è ancora stanco...
E poi d’altra parte... dalla mia lettera di ieri, avrete capito che
sarebbe forse meglio così per lei... piuttosto che sia morta.
Morta... queste cinque lettere hanno uno strano volto... non vi
sembra?... quando si devono scrivere per una figlia idolatrata...
per una figlia così bella... così incantevole, di bontà così
angelica...
Appena diciott’anni... e morta al mondo!... In fondo... per noi e
per lei, a che serve vegetare e soffrire nella solitudine squallida
di questo chiostro? che importa che viva se per noi è perduta? Deve
piacerle tanto la vita... che il destino le ha riservato!...
Quello che sto dicendo è terribile... c’è una barbaro egoismo
nell’amore paterno!...
A mezzogiorno, ha avuto luogo con pompa solenne la sua professione.
Ho assistito, nascosto dietro le cortine della nostra tribuna...
Ho provato, ma con maggiore intensità ancora, tutte le angosce che
avevamo provato in occasione del suo noviziato...
Cosa strana! essa è adorata; tutti credono che alla vita religiosa
l’abbia spinta una irresistibile vocazione; si dovrebbe vedere nella
sua professione un evento fortunato per lei e, invece, un’opprimente
tristezza gravava sui presenti.
In fondo alla chiesa, tra la gente... ho visto due sottufficiali
delle mie guardie, due vecchi e duri militari, abbassare la testa e
piangere.
Pareva quasi che ci fosse un triste presentimento nell’aria... Se
era fondato, si è realizzato solo a metà...
Terminata la professione, la nostra figliola è stata condotta nella
sala del capitolo, dove doveva svolgersi la cerimonia per la nomina
della nuova badessa...
Grazie al mio privilegio di sovrano, andai in quella sala ad
aspettare Fleur-de-Marie che stava tornando dal coro.
Dopo un po’ entrò... Il suo turbamento, la sua debolezza erano tali
che doveva essere sorretta da due suore... Fui più spaventato
dall’espressione del suo sorriso che dal suo pallore e dal suo volto
sconvolto... Mi parve un sorriso di una certa sinistra
soddisfazione...
Clémence ve lo dico... forse fra poco avremo bisogno di coraggio...
di molto coraggio... Sento per così dire in me che la nostra
figliola è stata ferita a morte...
Dopo tutto la sua vita sarebbe stata così infelice...
Questa è la seconda volta che mi dico, pensando a un’eventuale morte
di mia figlia... che questa morte avrebbe almeno messo termine alla
sua dolorosa esistenza... Un tale pensiero è orribile sintomo... Ma
se dobbiamo essere colpiti da una simile disgrazia, è meglio
trovarsi preparati, vero, Clémence? Prepararsi a una simile
disgrazia... vuol dire provarne a poco a poco le interminabili
angosce... È una dolorosa e inaudita raffinatezza... Così è mille
volte più terribile che non il colpo che si abbatte su di noi
improv-
visamente... Lo stupore, almeno, e l’annichilimento vi risparmiano
in parte questo strazio atroce...
Ma la compassione vuole, di solito, che uno sia preparato...
Anch’io, probabilmente, non agirei in modo diverso, amica mia... se
dovessi farvi sapere il funesto avvenimento di cui vado parlandovi.
Sicché, spaventatevi, se vi parlo come sto facendo ora... con
precauzioni e rigiri di disperante tristezza, benché vi abbia detto
che la sua salute, nonostante tutto, non mi desse serie
preoccupazioni.
Sì, spaventatevi, se vi parlo come sto facendo ora... perché pur
avendola lasciata un’ora fa, prima di venire a terminare questa
lettera, molto calma, tuttavia vi ripeto Clémence, che mi sembra di
sentire in me che stia soffrendo più di quanto dimostri... Voglia il
cielo che mi stia sbagliando e che abbia preso per un presentimento
il cordoglio causatomi da quella lugubre cerimonia. Fleur-de-Marie
entrò dunque nella grande sala del capitolo.
Poi tutte le monache andarono a occupare i loro stalli.
Essa prese posto nell’ultimo stallo della fila di sinistra; stava
appoggiata al braccio di una suora perché era sempre molto debole.
In fondo alla sala stava seduta la principessa Juliane con da un
lato la gran priora e dall’altro una seconda dignitaria che aveva in
mano un pastorale d’oro, simbolo dell’autorità abbaziale.
Si fece un profondo silenzio; la principessa si alzò e prese in mano
il pastorale e disse con voce grave e commossa:
«Care figliole, la mia età avanzata mi costringe ad affidare a mani
più giovani l’emblema del mio potere spirituale» e mostrò il
pastorale. «Sono stata autorizzata a ciò da una bolla del nostro
Santo Padre; presenterò dunque alla benedizione di signore il
vescovo di Oppenheim e all’approvazione di S.A.R. il granduca,
nostro sovrano, quella fra voi, amate figliole, che avrete designato
a succedermi. La gran priora vi farà conoscere l’esito dell’elezione
e a colei che voi avrete scelto io consegnerò il mio pastorale e il
mio anello».
Io non perdevo d’occhio mia figlia.
In piedi nel suo stallo, con le mani giunte sul petto, gli occhi
chini, mezzo avvolta nel suo bianco velo e nella veste nera a lunghe
pieghe, essa era immobile e meditabonda; non poteva neppure
immaginare che si potesse eleggere lei; la sua nomina mi era stata
confidata dalla badessa.
La gran priora prese un registro e lesse:
«Essendo state tutte le nostre dilette sorelle invitate,
conformemente alla regola, otto giorni fa a deporre il loro voto tra
le mani
della nostra santa madre, io, in nome della nostra santa madre, vi
dico che una di voi, dilette sorelle, ha, con la sua esemplare
devozione e con le sue angeliche virtù, meritato il suffragio
unanime della comunità e che costei è la nostra suora Amélie, al
secolo augustissima e potentissima principessa di Gerolstein».
A queste parole corse per la sala un certo brusio di piacevole
sorpresa e di felice soddisfazione; gli sguardi di tutte le suore si
fissarono su mia figlia con espressione di tenera simpatia; anch’io,
nonostante le mie terribili preoccupazioni, mi sentii profondamente
commosso da questa nomina che, seppur fatta isolatamente e in
segreto, offriva ciononostante un commovente esempio di unanimità.
Fleur-de-Marie, stupefatta, diventò ancora più pallida; le ginocchia
le tremavano tanto che fu costretta ad appoggiarsi con una mano sul
bordo dello stallo.
La badessa soggiunse con voce alta e grave:
«Dilette figliole, è proprio suor Amélie che avete creduto più degna
e meritevole di voi tutte? è proprio lei che riconoscete come vostra
madre spirituale? Dilette figliole, a turno ognuna di voi risponda».
E a turno ogni suora rispose a voce alta:
«Liberamente e spontaneamente ho scelto e scelgo suor Amélie per mia
santa madre e superiora».
Presa da inesprimibile commozione, la mia povera figliola si lasciò
cadere in ginocchio, congiunse le mani e restò così finché non
furono letti tutti i voti.
Allora la badessa, deposti il pastorale e l’anello tra le mani della
gran priora, andò verso mia figlia, la prese per mano e la condusse
al seggio abbaziale.
Amica mia, tenera amica, ho per un momento interrotto; è stato
necessario farmi coraggio prima di finire di raccontarvi questa
scena straziante...
«Alzatevi, diletta figliola» le disse la badessa «venite a prendere
il posto che vi appartiene; non con il vostro grado sociale, ma con
le vostre angeliche virtù ve lo siete guadagnato.»
Ciò detto, la venerabile principessa si chinò per aiutare mia figlia
ad alzarsi.
Fleur-de-Marie fece qualche passo tremante, poi, arrivata in mezzo
alla sala del capitolo, si fermò e disse con una voce di cui mi
stupirono la calma e la fermezza:
«Scusatemi, santa madre... vorrei parlare alle mie consorelle.»
«Andate prima a sedervi, amata figliola, sul vostro seggio
abbaziale» disse la principessa; «da lì dovete far loro sentire la
vostra voce.»
«Quel posto, santa madre... non può essere il mio rispose
Fleurde-Marie con voce alta e tremante.
«Che cosa dite, diletta figliola?»
«Una dignità così augusta non è fatta per me, santa madre.»
«A essa vi hanno innalzato i voti di tutte le suore.» «Perdonatemi,
santa madre, di fare qui in ginocchio una solenne confessione; le
mie consorelle capiranno e anche voi, santa madre, che la più umile
condizione non è ancora la più umile per me.» «La vostra modestia,
figlia diletta, vi sta ingannando» disse la superiora benevolmente
credendo che la povera ragazza avesse ceduto a un sentimento
d’eccessiva modestia; ma io capii la dichiarazione che
Fleur-de-Marie avrebbe fatto. Preso da spavento gridai con voce
supplichevole:
«Figliola... ti scongiuro...».
A queste parole... dirvi, amica mia, tutto quello che lessi nello
sguardo profondo che Fleur-de-Marie mi gettò, mi sarebbe
impossibile... Come saprete fra un istante, ella mi aveva capito.
Sì, aveva capito che anch’io avrei dovuto subire l’infamia di quella
orribile rivelazione... Aveva capito che, dopo una simile
confessione, avrebbero potuto accusare... me di menzogna... perché
avevo sempre dovuto lasciar credere che mai Fleur-de-Marie aveva
abbandonato sua madre...
A questo pensiero, la povera ragazza si credette colpevole di grande
ingratitudine nei miei confronti... Non ebbe la forza di proseguire
e schiantata abbassò la testa in silenzio.
«Vi ripeto, diletta figliola» riprese la badessa, «che la vostra
modestia vi sta ingannando... l’unanimità di scelta da parte delle
vostre consorelle è una prova di quanto siate degna di
sostituirmi... Per il fatto stesso che avete conosciuto le gioie del
mondo, la vostra rinuncia a tali gioie non è per questo meno
meritoria... Non S.A. la principessa Amélie è stata eletta, ma suor
Amélie... Per noi, la vostra vita è cominciata il giorno in cui
avete messo piede nella casa del Signore... e questa vita santa ed
esemplare ora noi ricompensiamo... Vi dirò di più, diletta figlia;
anche se prima d’entrare nell’ovile del Signore la vostra vita fosse
stata traviata tanto quanto, invece, è stata pura e lodevole... le
angeliche virtù di cui ci avete dato esempio da quando siete qui
basterebbero ad avere espiato e riscattato agli occhi del Signore un
passato per quanto peccaminoso fosse... Da ciò vedete un po’ voi se
la vostra modestia corre rischi.»
Il discorso della badessa, come capirete, amica mia, fu tanto più
valido per Fleur-de-Marie in quanto ella credeva che il passato non
potesse essere cancellato. Purtroppo questo fatto l’aveva
profondamente sconvolta e, benché facesse mostra di calma e
fermezza, mi pareva che il suo viso si fosse stravolto in maniera
preoccupante... Per due volte sussultò e si passò sulla fronte la
povera e scarna mano.
«Spero di avervi convinta, diletta figliola» riprese la principessa
Juliane; «non vorrete dare alle vostre consorelle il grosso
dispiacere di non accettare questo segno della loro fiducia e del
loro affetto.»
«No, santa madre» rispose lei con un’espressione che mi colpì e con
voce sempre più fioca, «ora credo di poter accettare... Ma, siccome
mi sento molto stanca e sofferente, se permettete, santa madre,
vorrei che la cerimonia della mia consacrazione venisse celebrata
fra qualche giorno...»
«Sarà fatto come desiderate, figliola diletta... ma in attesa che
venga benedetta e consacrata la vostra dignità... prendete
quest’anello... venite al vostro posto... Le nostre sorelle vi
renderanno omaggio secondo la nostra regola.»
E la superiora infilò l’anello pastorale nel dito di Fleur-de-Marie
e la condusse al seggio abbaziale.
Fu uno spettacolo semplice e commovente.
Vicino al seggio dove era andata a sedersi stavano da una parte la
gran priora con il pastorale d’oro e dall’altra la principessa
Juliane. A una a una le suore andarono a inchinarsi davanti a nostra
figlia e a baciarle rispettosamente la mano.
Io vedevo la sua emozione crescere di momento in momento, il suo
volto sconvolgersi sempre più; insomma fu un avvenimento superiore
alle sue forze... infatti essa svenne prima che la processione delle
suore fosse terminata. Pensate un po’ al mio spavento!... fu
trasportata nell’appartamento della badessa.
David non aveva lasciato il convento; accorse e le diede le prime
cure. Dio voglia che egli mi abbia ingannato! mi ha assicurato,
comunque, che questa ricaduta era da attribuirsi a una grandissima
debolezza conseguente al digiuno, alla fatica e alle veglie che mia
figlia s’era imposta durante il lungo e duro periodo di noviziato...
Gli ho creduto perché l’angelico volto di lei, benché di
preoccupante pallore, non diede segno di sofferenza quand’essa
riprese i sensi... Anzi fui sorpreso dalla serenità che le
illuminava il volto. Di nuovo la sua calma mi spaventò: mi sembrava
che nascondesse la segreta speranza di essere presto libera...
Essendo la superiora ritornata in capitolo per chiudere la seduta,
restai solo con mia figlia.
Dopo avermi guardato in silenzio per qualche istante, mi disse:
«Buon padre mio... come potrete dimenticare la mia ingratitudine?
come potrete dimenticare che nel momento in cui stavo per fare
quella penosa confessione, voi m’avete chiesto pietà?». «Taci... ti
supplico.»
«E non avevo pensato» proseguì con amarezza, «che rivelare di fronte
a tutti da quale abisso d’infamia voi mi avevate tratta voleva dire
rivelare un segreto che voi avevate conservato per affetto verso di
me... voleva dire accusarvi pubblicamente, padre mio, di una
dissimulazione alla quale vi eravate rassegnato per assicurarmi una
vita splendente e onorata... Oh, come potrete perdonarmi?»
Invece di risponderle, posai le mie labbra sulla sua fronte ed essa
allora sentì le mie lacrime scorrerle sul volto...
Dopo avermi baciato e ribaciato le mani, mi disse: «Ora mi sento
meglio, padre mio... ora che, come dice la nostra regola, sono morta
al mondo... vorrei dare qualche disposizione in favore di varie
persone... ma siccome tutto quanto io possiedo è vostro... mi
autorizzate, padre mio?».
«E puoi dubitarne? Ma ti supplico» le dissi, «non avere idee così
lugubri... In seguito ti occuperai anche di ciò; non hai forse
tempo?»
«Certo, padre caro, ho ancora molto tempo da vivere...» aggiunse con
un tono che, non so perché, mi fece di nuovo trasalire. La guardai
con maggiore attenzione; sul suo volto nessun cambiamento che
potesse giustificare la mia preoccupazione. «Sì, ho ancora molto
tempo da vivere» riprese, «ma non potrò più occuparmi delle cose
terrene... perché oggi ho rinunciato a tutto ciò che mi legava al
mondo. Vi prego, non ditemi di no...»
«Ordina... farò quanto desideri...»
«Vorrei che la mia buona madre tenesse per sempre nel salottino dove
sta di solito... il mio telaio da ricamo... con la tappezzeria che
avevo cominciato.»
«Sarà compiuto il tuo desiderio, figlia mia. Il tuo appartamento,
figlia mia, è restato com’era il giorno in cui hai lasciato il
palazzo; perché tutto quello che è stato tuo è per noi oggetto di
culto religioso... Clémence sarà profondamente commossa da questo
tuo pensiero...»
«Quanto a voi, mio buon padre, prendete, vi prego, la mia poltrona
d’ebano, dove ho tanto pensato, tanto sognato...»
«Sarà messa vicino alla mia, nel mio studio, e ogni giorno ti vedrò
seduta accanto a me, come tante volte hai fatto» le dissi senza
riuscire a trattenere le lacrime.
«Ora vorrei lasciare qualche mio ricordo a coloro che si sono
dimostrati affettuosi con me quando ero infelice. Alla signora
Georges vorrei lasciare la piccola scrivania di cui ultimamente mi
servivo. Il dono avrà un certo senso» aggiunse col suo dolce
sorriso, «visto che è stata lei a insegnarmi a scrivere. Quanto al
santo parroco di Bouqueval che mi ha istruita nella religione,
riservo il bel crocefisso del mio oratorio...»
«Bene, figliola.»
«Vorrei anche mandare il diadema di perle alla buona Rigolette... E
poi, se fosse possibile, dato che sapete in quale parte dell’Algeria
si trovano Martial e la Louve, vorrei lasciare alla donna coraggiosa
che mi ha salvato la vita la croce smaltata d’oro... Vorrei anche,
mio buon padre, che questi ricordi venissero consegnati a coloro a
cui li mando “da parte di Fleur-de-Marie.”»
«Eseguirò le tue volontà... Non dimentichi nessuno?...»
«Non credo, caro padre.»
«Cerca bene... Fra coloro che t’amano, non c’è qualcuno che è molto
infelice?... infelice come tua madre e me.... qualcuno insomma che
rimpiange con dolore eguale al nostro che tu sia entrata in
convento?»
La povera ragazza capì subito; mi strinse la mano mentre un leggero
rossore le colorò per un istante il pallido volto.
Prevenendo una domanda che essa doveva aver paura di farmi, le
dissi:
«Va meglio... non c’è più pericolo per la sua vita...».
«E suo padre?»
«Risente della guarigione del figlio... va meglio... E a Henri? che
cosa lasci? Un tuo ricordo sarebbe per lui un conforto così caro e
prezioso!...»
«Padre... dategli il mio inginocchiatoio... Ahimè! quante volte l’ho
bagnato con le mie lacrime quando chiedevo al cielo la forza di
dimenticare Henri sentendomi io indegna del suo amore...» «Come sarà
felice di vedere che hai avuto un pensiero per lui!» «Quanto
all’asilo delle orfanelle e delle ragazze abbandonate dai loro
genitori, vorrei, buon padre mio, che...»
A questo punto la lettera di Rodolphe era stata interrotta da queste
parole quasi illeggibili:
Clémence... Murph finirà la lettera; non mi sento più la testa; sono
pazzo... Ah, il 13 GENNAIO!!!
Il resto della lettera, scritto da Murph, era così concepito:
Signora,
Per ordine di Sua Altezza Reale, completerò io il triste racconto.
Le due lettere del mio signore avrebbero dovuto preparare Vostra
Altezza Reale alla tremenda notizia che devo comunicarvi:
Tre ore fa, il mio signore era occupato a scrivere a Vostra Altezza
Reale; io aspettavo in una stanza vicina che mi venisse consegnata
la lettera per spedirla subito a mezzo corriere. A un tratto ho
visto entrare la principessa Juliane tutta sconvolta. «Dov’è Sua
Altezza Reale» mi disse con voce alterata. «Principessa, sua
signoria sta scrivendo alla signora granduchessa le notizie del
giorno.» «Sir Walter, dobbiamo comunicare a sua signoria un fatto
terribile. Voi siete suo amico... fatelo voi, vi prego... Da voi il
colpo gli riuscirà meno terribile...»
Capii tutto; ritenni più prudente incaricarmi io della fatale
rivelazione... avendo la superiora aggiunto che la principessa
Amélie stava lentamente spegnendosi e che sua signoria doveva
sbrigarsi se voleva ricevere l’estremo respiro della figlia; non
avevo, per disgrazia, il tempo per dire la cosa a mezzi termini.
Entrai nel salone; Sua Altezza notò il mio pallore. «Sei venuto ad
annunciarmi una disgrazia...» «Una disgrazia senza ripari,
signore... Coraggio!...» «Ah, i miei presentimenti!...» esclamò. E,
senza altre parole, corse al convento. Io lo seguii.
Dall’appartamento della superiora la principessa Amélie era stata
trasportata nella cella dopo il suo ultimo colloquio con sua
signoria. La vegliava una delle suore; dopo un’ora ella s’accorse
che la voce della principessa Amélie, la quale di tanto in tanto le
parlava, andava facendosi sempre più fioca e affannosa. La suora
s’affrettò ad avvertire la superiora. Fu chiamato il dottor David;
egli si illuse di poter porre un rimedio a questo nuovo svenimento
con un cordiale, ma fu inutile; il polso si sentiva appena...
riconobbe con grande cordoglio che avendo le numerose agitazioni
esaurito le poche forze della principessa Amélie, non restava più
alcuna speranza di salvarla.
In quel momento arrivò sua signoria; la principessa Amélie aveva
appena ricevuto gli ultimi sacramenti; le restava ancora un barlume
di sentimento; in una delle mani che aveva incrociate sul seno,
stringeva i resti della sua piantina di rose...
Sua signoria cadde singhiozzante ai piedi del letto:
«Figlia!... figlia mia amata!...» esclamò con voce straziante.
La principessa Amélie, sentitolo, volse la testa dalla sua parte...
aprì gli occhi... cercò di sorridere e gli disse con voce fioca:
«Mio buon padre... perdono... anche a Henri... alla mia buona
madre... perdono...».
Furono le sue ultime parole.
Dopo un’ora d’agonia, per così dire serena... rese l’anima a Dio...
Dopo l’estremo respiro della figlia, sua signoria non disse più
parola... la sua calma e il suo silenzio spaventavano... chiuse le
palpebre alla figlia, la baciò ripetutamente sulla fronte, prese
religiosamente i resti della piantina di rose e uscì dalla cella.
Io lo seguii; ritornò nella casa esterna al chiostro e mostratami la
lettera che aveva cominciato a scrivere a Vostra Altezza Reale e
alla quale aveva tentato invano di aggiungere qualche parola essendo
la sua mano tremava in modo convulso, mi disse:
«Non posso scrivere... Sono distrutto... la testa non mi regge!
Scrivi alla granduchessa che non ho più mia figlia!...».
Ho eseguito gli ordini del mio signore.
Mi sia permesso, in qualità di più anziano servitore, supplicare
Vostra Altezza Reale d’affrettare il suo ritorno... per quanto lo
conceda la salute del signor conte d’Orbigny. Solo la presenza di
Vostra Altezza Reale potrebbe placare la disperazione di sua
signoria... Ogni notte vuole restare a vegliare la figlia fino al
giorno in cui sarà seppellita nella cappella granducale.
Ho compiuto il mio triste dovere, signora; vogliate scusare
l’incoerenza di questa mia lettera e ricevere le profferte della
rispettosa fedeltà con cui ho l’onore di essere di Vostra Altezza
Reale
umilissimo servitore Walter Murph
Il giorno che precedette il servizio funebre della principessa
Amélie, Clémence arrivò a Gerolstein con il padre.
Rodolphe non fu solo il giorno dei funerali di Fleur-de-Marie.