MAX STIRNER

L'UNICO E LA SUA PROPRIETA’


TORINO
FRATELLI BOCCA. EDITORI
Librai di S. M. F Re d'Italia ROMA MILANO
Corso Umberto I, 216-217  Corso Vittorio Emanuele 21
Anno 1921

INDICE

lo ho riposto le mia brame nel nulla

PARTE PRIMA. — L'UOMO.

I. — Una vita umana
II. — Uomini del tempo antico e moderno
1. — GLI ANTICHI
2. — I MODERNI
§ 1. — Lo spirito
§ 2. — Gli ossessi.
III regno dei fantasmi
Un ramo di pazzia.
§ 3. — La gerarchia
3. — I LIBERI
§ 1. — Il liberalismo politico
§ 2. — Il liberalismo socialista
Il liberalismo umano

PARTE SECONDA. — IO.
1. — L'ORIGINALITÀ
2. — L'INDIVIDUO PROPRIETARIO
3. — LA MIA POTENZA
4. — I MIEI RAPPORTI
La mia gioia
III. — L'Unico



Io ho riposto le mie brame nel nulla.

A chi non appartiene la causa ch'io debbo difendere? Essa è, innanzitutto, la causa buona in se stessa, poi la causa di Dio, della verità, della libertà, della giustizia; poi la causa del mio popolo, del mio principe, della mia patria; infine la causa dello spirito, e mille altre ancora. Soltanto, essa non dev'essere mai la mia causa! "Onta all'egoista che non pensa che a sé stesso!"
Vediamo un po', più da vicino, che cosa pensino della propria causa coloro per gl'interessi dei quali noi dobbiamo lavorare, sacrificarci ed infervorarci.

Voi che così profondamente conoscete le cose che concernono Dio, ed avete investigato per millenni gli abissi e scrutato il cuore della divinità, certo saprete dirci in qual modo Egli stesso tratti la causa alla quale siamo chiamati a servire. Non tentate di nasconderci il modo di condursi del Signore. Ebbene, qual'è la sua causa? Ha egli forse — come da noi si richiede — abbracciato una causa a lui estranea, ha egli fatta sua la causa della verità o dell'amore? Voi vi sentite indignati in udir pronunciare un simile assurdo e ci sapete insegnare che quella di Dio è bensì la causa della verità e dell'amore, ma che essa non può esser detta a lui estranea, giacché Dio è per se stesso la verità e l'amore; e vi muove a sdegno il supporre che Dio possa assomigliarsi a noi poveri vermi col favorire la causa d'altri come se fosse la propria. "Dio dovrebbe occuparsi della causa della verità, se non fosse egli stesso la verità?".

Egli non pensa che alla propria causa, ma egli è il tutto nel tutto, e così la sua causa abbraccia tutto; noi non siamo il tutto nel tutto e la nostra causa è oltre modo meschina e spregevole, perciò noi dobbiamo servire ad "una causa più elevata". — Ebbene, è chiaro che Dio non si occupa che delle cose sue, non pensa che a sé stesso e non vede che sé stesso; guai a tutto ciò che contrasta a' suoi disegni. Egli non serve ad uno più alto di lui e non cerca di soddisfare che sé stesso. La sua è una causa prettamente egoistica.

Osserviamo un po' la causa dell'umanità che si vorrebbe facessimo nostra. E forse quella d'alcuno a lei estraneo; l'umanità serve forse ad una causa superiore? No, l'umanità non vede che se stessa, essa non è ad altro intenta che a favorire se medesima, né ha, all'infuori della propria, causa alcuna. Nell'intento di svilupparsi, essa fa che popoli ed individui si logorino, ed allorquando questi hanno compiuto il loro ufficio, essa per tutta riconoscenza li getta nel letamaio della storia. Non è forse la causa dell'umanità una causa prettamente egoistica?

Non ho bisogno di dimostrare a coloro che ci vorrebbero imporre la propria causa, che col far ciò essi si dimostrano teneri della lor salute, non già della nostra. Osservate gli altri. Forse che la Verità, la Libertà, l'Umanità richiedono da voi altre cose se non che v'infervoriate per loro e serviate a' lor fini ?

In ciò essi trovano tutto il lor vantaggio. Osservate un po' il popolo tutelato dai patrioti a tutta prova. I patrioti cadono nelle battaglie cruente e nella lotta colla fame e colla miseria; forse che il popolo si commuove perciò? Grazie al concime dei loro cadaveri esso diviene un popolo fiorente! Gli individui son morti per "la grande causa del popolo" che paga il suo debito con alcune parole di ringraziamento, e ne trae tutto il profitto che può. Ecco un egoismo che frutta!

Ma osservate un po' quel sultano, che provvede con tanto affetto ai "suoi". Non è egli forse l'immagine più schietta del disinteresse? non sacrifica egli forse incessantemente sé stesso al bene dei suoi? Si, proprio dei suoi! Prova un po' a fargli capire che non sei suo bensì tuo: in premio dell'esserti sottratto al suo egoismo, tu sarai gettato in una carcere. Il sultano non conosce altra causa che la propria: egli è per sé il tutto nel tutto, è l'unico, e non consente ad alcuno di non essere dei "suoi".

E da tutti questi esempi illustri non volete apprendere che il miglior partito è quello dell'egoista? Io per mio conto faccio tesoro di queste lezioni e piuttosto che servire disinteressatamente a quei grandi egoisti, voglio essere l'egoista io stesso.

Dio e l'umanità non hanno risposto la loro causa che in sé stessi. Perciò voglio riporre anch'io in me stesso la mia causa, io, che, al pari di Dio, sono nulla per ogni altra cosa, e per me sono il mio tutto, l'unico.

Se Dio e l'umanità son ricchi abbastanza per esser tutto a sé stessi, io sento che a me manca ancor meno e che non potrò lagnarmi della mia "vanità". Io non sono già il nulla del vacuo, bensì il nulla creatore, il nulla dal quale io stesso creo ogni cosa.

Lungi dunque da me ogni causa, che non sia propriamente e interamente la mia! Voi pensate che la mia causa debba essere per lo meno la "buona causa"? Ma che buono, ma che cattivo ! Io sono per me stesso la mia causa, ed io non sono né buono né cattivo. Tutto ciò per me non ha senso alcuno.

Il divino è cosa di Dio, l'umano dell' "uomo". La mia causa non è divina né umana, non è la verità, non è la bontà, né la giustizia, né la libertà, bensì unicamente ciò che è mio; e non è una causa universale, bensì unica, come unico sono io.

Nessuna cosa mi sta a cuore più di me stesso.


PARTE PRIMA

L'UOMO


«Per l'uomo l'Ente Supremo è l'uomo» dice FEUERBACH.

«L'uomo ora soltanto è trovato» dice BRUNO BAUER.

Ebbene, osserviamo un po' più da vicino cotesto Ente Supremo e questo uomo nuovamente ritrovato.

I.

Una vita umana.

L'uomo, dall'istante che aprì gli occhi alla luce, nella confusione strana che lo circonda, cerca di ritrovare se stesso, di conquistare se stesso.

Ma tutto ciò cui il bambino tende le mani, si schermisce dai tentativi quand'è minacciato e afferma la propria indipendenza.

E poiché ogni cosa vuol conservarsi qual'è e contrasta ad un tempo a tutto ciò che le dissomiglia, la lotta per l'autonomia diviene inevitabile.

Vincere o soccombere, — tale la vicenda di questa lotta. Il vincitore diviene il padrone, il soccombente lo schiavo; quegli esercita l'imperio, il "diritto sovrano", questi adempie umile e riverente i "doveri di suddito".

Ma essi continuano ad esser nemici e sempre si guatano sospettosi l'un l'altro: spiano le debolezze reciproche, i figli quelle dei genitori, i genitori quelle dei figli (per esempio il loro timore): e chi non percuote è percosso.

Nell' infanzia noi riusciamo a liberarci col cercare la ragione delle cose e ciò che in esse si nasconde (nel che i fanciulli son guidati da un sicuro istinto); e perciò noi ci dilettiamo a rompere i nostri balocchi, a esplorare i cantucci più reconditi, e ci sentiamo spinti da curiosità verso tutto ciò ch'è misterioso ed appartato e su tutto vogliamo provar le nostre forze.

Quando abbiamo scoperto il segreto, l'intima essenza d'una cosa, ci sentiamo sicuri; cosi, per esempio, quando ci siamo accorti che la verga è troppo più debole della nostra caparbietà, essa non c'incute più timore, noi ci sentiamo ad essa superiori.

Dietro la verga si ergono, più potenti di essa, la nostra ostinazione e il nostro coraggio orgoglioso. A poco a poco noi riusciamo a trionfare di tutto ciò che un tempo ci appariva sinistro e pauroso; della temuta potenza della verga, dello sguardo severo del padre, ecc., e dietro a tutto ciò noi ritroviamo la nostra atarassia, vale a dire l'irremovibilità, l'intrepidezza, la nostra resistenza, la nostra oltre possanza, l'invincibilità. Ciò che prima ci incuteva timore e rispetto ora ci inspira coraggio; dietro ad ogni cosa si drizza il nostro ardire, la nostra superiorità; al brusco comando dei superiori e dei genitori noi contrapponiamo il nostro audace egoismo, o gli artifici della nostra astuzia. E quanto più sentiamo d'esser noi, tanto più meschino ci appare ciò che prima stimavano impossibile a superarsi.

E che cos’è la nostra astuzia, la nostra accortezza, il nostro coraggio, la nostra ostinazione? Che cosa, se non spirito?

Per gran tempo ci è risparmiata una lotta, che più tardi non ci darà tregua, quella contro la ragione. Passano i più bei giorni dell'infanzia, senza che siamo costretti a contender con la ragione. Noi non ci curiamo affatto di lei, non accettiamo di contrastar con essa, non ce ne vogliamo impacciare. Con la persuasione da noi nulla si ottiene, noi restiamo sordi a tutte le massime, ecc.; per contro resistiamo difficilmente alle carezze ed alle punizioni.

L'ardua lotta con la ragione ha principio solo più tardi e dà inizio ad un periodo nuovo: nella fanciullezza noi procediamo senza tanti rompicapi.

Spirito chiamasi il primo aspetto nel quale ci riveliamo a noi stessi e umanizziamo il divino, cioè il fantastico, il sinistro mistero delle potenze superiori.

Nulla più contrasta il sentimento della nostra fresca giovinezza e della fede in noi stessi: il mondo si ha da noi in dispregio, giacche noi siamo superiori ad esso, siamo spirito.

Ora soltanto ci accorgiamo di non aver finora osservato il mondo con lo spirito, ma solamente con gli occhi del corpo.

Colle forze naturali noi misuriamo le nostre prime forze. I genitori s'impongono quale una forza elementare; più tardi il detto suona; bisogna abbandonare padre e madre, considerare infranta ogni forza naturale. Essi sono superati. Per l'uomo ragionevole, vale a dire per l' "uomo spirituale", la famiglia non rappresenta più una forza naturale: ne segue la rinunzia dei genitori, dei fratelli, ecc. Se questi "rinascono" quali forze spirituali, ragionevoli, non saranno per nulla quelli che erano prima,

E non soltanto i genitori, ma gli uomini in generale vengono superati dal giovane; essi non sono più un ostacolo per lui, ed egli non ne tiene più alcun conto giacché gli si dice allora: bisogna obbedire più a Dio, che agli uomini.

Tutto ciò che è "terrestre" da quest'altezza s'arretra in una dispregievole distanza; poiché il nuovo aspetto è il — celeste.

La condotta del giovane è ora opposta a quella del fanciullo. Essa è divenuta spirituale, mentre il fanciullo non sentendosi finora "spirito" crebbe imparando meccanicamente. Il giovane non cerca più d'appropriarsi le cose, come, ad esempio, di cacciarsi nella memoria delle date storiche, ma indaga invece i pensieri che si nascondano nelle cose, come, ad esempio, lo spirito della storia; mentre, fanciullo, egli comprendeva i nessi, ma non già le idee, lo spirito, quindi imparava tutto ciò che gli veniva fatto di apprendere senza alcun procedimento aprioristico e teorico, cioè senza ricercare le idee.

Se nell'infanzia s'ebbe a superare la resistenza delle leggi universali, più tardi, in tutto ciò che ci proponiamo di fare, ci abbattiamo a qualche obbiezione dello spirito, della ragione, della nostra coscienza, "Ciò è irragionevole, anticristiano, antipatriottico", ci grida la coscienza e ci trattiene dal fare, quella data cosa. Noi non temiamo già la possanza delle Eumenidi, la collera di Poseidone, non il Dio, che vede le cose più recondite, non la ferula del padre — bensì la nostra coscienza.

Ora noi seguiamo i nostri pensieri, e noi obbediamo alle loro leggi, proprio come sino allora noi avevamo ubbidito a precetti dei genitori o dei superiori. Le nostre azioni si informano ormai al nostro pensare (alle nostre idee, alle nostre rappresentazioni, alla nostra fede) come nella fanciullezza si lasciarono dirigere dai comandi dei genitori.



Tuttavia anche da fanciulli noi abbiamo pensato; ma i nostri pensieri non erano incorporei, astratti, assoluti, cioè puri pensieri (un cielo per sé stesso, un mondo puramente ideale), non erano infine dei pensieri logici.

Ben al contrario, erano unicamente pensieri che noi ci formavamo sul modo d'essere di una cosa determinata: noi pensavamo che la cosa potesse essere in tale o in tal altro modo. Cosi noi pensavamo: il mondo che noi vediamo è l'opera di Dio: ma non pensavamo (cioè non ci curavamo d' "investigare") le "profondità della divinità stessa". Noi pensavamo: "questo v'ha di vero in tale cosa" ma non sapevamo immaginare il vero o la verità per sé stessa, ed eravamo incapaci di pervenire alle tesi "Dio è la verità ". Le profondità della divinità, "che è la verità", noi non le toccavamo. Su cotale questione puramente logica, vale a dire teologica: "che cosa sia la verità". Pilato non si sofferma, quantunque nel singolo caso concreto non esiti a investigare quanto ci sia di vero in una data cosa

— cioè se la cosa sia vera.

Ogni pensiero congiunto ad una cosa determinata non è ancora un pensiero per sé stesso, un pensiero assoluto.

Nello scoprire il pensiero puro, o per lo meno nel farlo proprio, è riposto il godimento dell'età giovanile; tutte le forme luminose del mondo delle idee, la verità, la libertà, l'umanesimo, l'essere umano, illuminano ed esaltano l'anima dell'adolescente.

Ma riconosciuto lo spirito per la cosa essenziale, permane ancora la differenza tra uno spirito povero ed uno ricco, e perciò noi ci adoperiamo a diventare ricchi di spirito; lo spirito chiede d'espandersi, di fondare un regno proprio, un regno che non è di questo mondo, di recente superato. In tal guisa egli si argomenta di divenire il tutto nel tutto. Ciò vuol dire che sebbene l'Io sia spirito, non è ancora per questo uno spirito perfetto e deve cercare d'attingere tale perfezione.

Con ciò Io, che ero giunto a ritrovare me stesso, quale spirito, perdo nuovamente e subitamente me stesso, inchinandomi dinanzi allo spirito perfetto, che non è in me, ma è fuori di me e sentendo così la mia pochezza.

Si tratta (non è così forse?) sempre dello spirito, ma può dirsi d'ogni spirito ch'egli sia il vero ? Lo spirito vero e genuino è l'ideale dello spirito, lo "spirito santo". Esso non è il tuo o il mio spirito, bensì per l'appunto lo spirito ideale, superiore, Dio insomma. "Dio è lo spirito". E questo "Padre celeste" che dimora nell'infinito, concede lo spirito perfetto a coloro che lo pregano [(1) LUCA, 11, 13..)].

L'uomo adulto si distingue dall' adolescente perciò che egli prende il mondo così com'è senza vedere di ogni cosa soltanto il lato peggiore e senza l'ambizione di riformarlo, cioè di rimodellarlo secondo il suo ideale. In lui prende radice l'opinione che nel mondo si debba agire secondo il proprio interesse e non già secondo i propri ideali.

Sino a tanto che l'uomo non vede in sé stesso che lo spirito e ripone ogni suo pregio nell'essere "spirito" e al giovane riesce cosa facile il dare la sua vita, la vita "materiale" per un nonnulla per la più sciocca offesa del suo amor proprio e della sua vanità, egli non ha che dei pensieri delle idee che spera d'attuare in progresso di tempo non possiede che ideali, cioè idee non tradotte in effetti, pensieri che attendono d'essere convertiti in azione.

Solo quando avremo incominciato ad amare il nostro "corpo" e noi stessi così come siamo — il che avviene soltanto nell'età matura — potremo provare un interesse personale ed egoistico, vale a dire un interesse che non si restringerà al solo nostro spirito, ma abbraccerà tutto l'essere, l'organismo intero. Confrontate un uomo adulto con un adolescente, e il primo v'apparirà tosto più duro, più ingeneroso, più egoista. Forse è più cattivo perciò? Voi direte che no; soltanto egli è divenuto più caratteristico, o, come voi preferite chiamarlo, più "pratico". L'essenziale è che egli è andato facendo di sé stesso sempre più il centro d'ogni cosa, mentre il giovane s'esalta per tante altre cose, per Iddio, per la patria, ecc. Perciò l'uomo adulto segna il punto in cui l'uomo ritrova se stesso, per la seconda volta. Il giovane ritrovò sé stesso quale spinto, e si perde nuovamente nello spirito universale, nello spirito perfetto, "santa", nell'uomo come tale, nell'umanità, in breve in tutti gli ideali, l'uomo adulto ritrova sé stesso quale uno spirito "reale e corporeo".

I fanciulli non conobbero che interessi indipendenti dallo spirito, vale a dire da idee e da pensieri, il giovane non conobbe altri interassi all'infuori di quelli spirituali; l'uomo adulto ha degli interessi reali, personali, egoistici.

Il fanciullo s'annoia se non ha qualche oggetto con cui possa trastullarsi; giacché egli non sa ancora occuparsi di sé stesso. Il giovane all'incontro respinge da sé gli oggetti perchè essi hanno fatto sorgere in lui dei pensieri: egli si trastulla coi suoi pensieri, coi suoi sogni che l'occupano spiritualmente; il suo "spirito è occupato".

Tutto ciò che non concerne lo spirito è da lui tenuto in conto di futile. E se non di meno talora egli s'apprende a frivolezze (quali, ad esempio, le cerimonie e le formalità in uso tra gli studenti), ciò avviene soltanto per lo "spirito" ch'egli v'ha scoperto, per i simboli che in esse gli si sono rivelati.

Io mi ritrovai, spirito, dietro alle cose; or mi ritrovo dietro ai pensieri, lor creatore e lor signore. Al tempo delle visioni i pensieri crebbero sopraffacendo il cervello, che pur gli aveva generati; essi aleggiarono intorno a me quali fantasie febbrili, e mi scossero con orribile forza. I pensieri presero un corpo proprio, divennero fantasmi, e si chiamarono Dio, il re, il papa, la patria, ecc. Col distruggere le loro incarnazioni io li faccio rientrare in mio potere e dico; Io solo sono reale. Ed allora prendo il mondo per quello che rappresenta per me, vale a dire quale il mio mondo, di cui io sono il padrone; e riferisco a me ogni cosa.

Se nei momenti di profondo disprezzo pel mondo io, quale spirito, lo respinsi da me lontano, ora respingo nel nulla gli spiriti e le idee di cui io sono il possessore. Essi non hanno più alcuna forza su di me, nello stesso modo che sullo spirito non può prevalere alcuna potenza della terra.

Il fanciullo era realista, assorto nelle cose di questo mondo, e tale rimase sino a che gli venne fatto di scoprire a poco a poco l'essenza occulta delle cose: il giovane fu idealista, caldo dell'entusiasmo dei suoi pensieri, fino a che con grave stento riuscì all'egoismo dell'uomo adulto, che dispone a suo piacere delle cose e delle idee e pone sovra ad ogni altra cosa il proprio interesse. Ma e il vecchio? Se potrò diventare tale ne discorreremo a nostro agio.


II

Uomini del tempo antico e del moderno.


Come si sviluppò ciascuno di noi? che cosa desiderò e raggiunse? in che fallì? quali disegni e quali desideri ebbe cari il suo cuore, quali cambiamenti subirono le sue idee, quali scosse i suoi principi? in una parola, come ciascun di noi divenne quel ch'è oggi, cioè un essere dissimile da quel di ieri o d'un tempo ? A queste domande ognuno può più o men facilmente rispondere ricorrendo ai propri ricordi, ma con maggior vivacità avvertirà i cambiamenti che in lui avvennero chi assista allo svolgersi della vita d'un altro.

Gettiamo adunque uno sguardo sul sistema di vita che sedusse i nostri progenitori.


— GLI ANTICHI.


Poiché la consuetudine ha voluto imporre ai nostri antenati che vissero avanti Cristo il nome di "antichi", noi non vogliamo osservare che a giusto diritto essi di fronte alla nostra esperienza dovrebbero chiamarsi i "bambini" e vogliamo continuare ad onorarli quali nostri buoni vecchi. Ma in qual modo essi si ridussero a invecchiar in tal guisa e chi poté sopraffargli con la sua pretesa modernità?

Noi lo conosciamo l'innovatore rivoluzionario, lo conosciamo molto bene l'irriverente erede che profanò persino il sabato dei padri per solennizzare la sua domenica, ed interruppe il corso del tempo per incominciare con sé stesso un'êra nuova. Noi lo conosciamo e sappiamo che fu il Cristo. Ma resterà egli eternamente giovane, è egli ancora moderno o è invecchiato ancor lui al par degli antichi?

Bisogna pur ammettere che dagli antichi sia stato generato il moderno che a loro si sovrappone. Esaminiamo un po' codesto atto generativo.

"Per gli antichi il mondo era verità" dice Feuerbach, ma egli dimentica quest'aggiunta importante: "una verità della quale cercavano di comprendere la falsità"; e vi riuscirono. Che importino quelle parole del Feuerbach si riconoscerà di leggeri, confrontandole coll'assioma cristiano della "vanità e caducità delle cose mondane". Nello stesso modo che il cristianesimo non è mai in condizione di persuadere sé stesso della vanità della parola divina ma crede invece all'eterna ed incrollabile verità di essa, tanto più trionfante quanto con più profonda meditazione ricercata, così gli antichi per parte loro vivevano nella credenza che il mondo e i rapporti umani (per es. i vincoli naturali del sangue) rappresentassero la verità, dinanzi alla quale il loro io impotente si dovesse piegare. Ciò appunto cui gli antichi attribuivano maggior valore è dai cristiani respinto come cosa priva di pregio; ciò che quelli riconoscevano per vero questi vituperano col marchio della menzogna. Svanito l'alto concetto della patria, il cristiano è costretto a riguardare se stesso come uno "straniero sulla terra" [(1) Ebrei, 11, 13.]; così, il santo dovere di dar sepoltura ai morti, che inspirò un capolavoro quale l'Antigone di Sofocle, si riduce nella nuova dottrina a miserabile cosa ("lasciate che i morti seppelliscano i propri morti") e la indissolubilità de' vincoli familiari vien tacciata come una falsità, dalla quale mai abbastanza presto ci vien fatto di liberarci [(2) MARC, 10, 29.] , e così via.

Ora, quando abbiamo compreso che ciascuna delle due parti ha in conto di verità ciò che per l'altra è menzogna: l'una, cioè, la natura e i rapporti terreni, l'altra lo spirito e la comunione con gli esseri soprannaturali (la patria celeste, la celeste Gerusalemme): ci rimane ancora da ricercare come dal mondo antico sia sorto il moderno e come si sia potuta operare quella evidente inversione di criteri.

Gli antichi hanno contribuito essi stessi a trasformare la loro verità in una menzogna. Entriamo senz'altro nel periodo più splendido dell'antichità, in quella che ha nome da Pericle.

A quel tempo i sofisti erano in fiore e la Grecia si faceva beffe di tutto ciò che sino a poco innanzi aveva tenuto in pregio.

Troppo a lungo i padri erano stati costretti sotto il ferreo dominio dello Stato, al quale nessuno poteva attentare, perchè i posteri per le proprie amare esperienze non avessero dovuto apprendere a sentir se stessi. Per cui con coraggioso ardimento i sofisti lanciarono l'ammonimento: "Non lasciarti sgomentare!"; e diffusero la dottrina educatrice : "Adopera a proposito d'ogni cosa il tuo intelletto, la tua malizia, il tuo spirito; un intelletto sano e scaltrito ti porge l'unico mezzo per trarti d'impaccio e prepararti la più felice delle sorti, la miglior vita". Essi riconobbero adunque nello spirito la miglior arma dell'uomo contro il mondo.

Ecco perchè i sofisti tengono in così alto pregio l'abilità dialettica, la prontezza della parola, l'arte del disputare, ecc. Essi annunziano che lo spirito può esser adoperato in ogni occasione; ma sono ancora ben lontani dalla santità dello spirito, poiché questo non è per essi che un mezzo, un'arma, come l'astuzia e la caparbietà pei ragazzi. Il loro spirito è l'intelletto infallibile.

Ai giorni nostri questa sarebbe giudicata una educazione intellettuale incompiuta, e a guisa di ammonimento si aggiungerebbe: non educate soltanto il vostro intelletto, ma pure il cuore. Ed è ciò che fece Socrate.

Se il cuore non riusciva a liberarsi dei suoi impulsi naturali, ma restava invece tutto implicato nel contenuto più accidentale, e interamente in balia delle cose e alla mercè dei desideri non frenati dalla ragione (null'altro infine che un vaso accogliente gli appetiti più vari), il libero intelletto avrebbe dovuto esser servo del "cattivo cuore", pronto a giustificare tutto tutto ciò che il "cattivo cuore" desiderasse.

Perciò Socrate dice che non basta giovarci in tutte le cose del nostro intelletto, ma che soprattutto importa sapere a quale intènto ce ne vogliamo servire. Oggi noi diremmo "che si deve servire alla buona causa". Però servire alla buona causa, significa — esser morali. Ecco perchè Socrate è il fondatore dell'etica.

Il principio della sofistica doveva, del resto, condurre a ritenere che il più servile e cieco schiavo dei suoi desideri potesse essere un eccellente sofista, coll'interpretare e predisporre ogni cosa in favore del suo rozzo cuore. Non si trova forse cercando bene una buona ragione per ogni cosa e per ogni causa?

Perciò disse Socrate: "voi dovete essere a puri di cuore" se volete che la vostra saggezza sia degna di stima. A questo punto incomincia il secondo periodo della liberazione dello spirito ellenico, il periodo della purezza del cuore. Giacché il primo ebbe la sua conclusione coi sofisti, i quali proclamarono l'onnipotenza dell'intelletto. Ma il cuore rimase mondano, cioè schiavo del mondo, sempre agitato da desideri di beni materiali. E questo cuore rozzo doveva venir educato: sopraggiungeva l'età dell'educazione del cuore. Ma in qual modo dev'esser educato il cuore? L'intelligenza è pervenuta a giocar liberamente col contenuto dello spirito; un'eguale sorte attende il cuore; e di fronte a questo deve perire tutto ciò che è mondano, sicché si finirà col rinunziare alla famiglia, alla comunità della patria, ecc., per amore del cuore, vale a dire della felicità, della beatitudine del cuore.

L'esperienza d'ogni giorno conferma che l'intelletto può aver da lungo tempo rinunziato a qualche cosa per la quale il cuore palpita ancora lungamente.

E così l'intelletto sofistico si era reso talmente padrone delle antiche forze signoreggianti, che per toglier loro ogni potere sull'uomo non altro ormai occorreva se non snidarle dal cuore ove ancora regnavano incontrastate.

Una tale guerra fu iniziata da Socrate e la pace non fu conchiusa che il giorno in cui perì il mondo antico.

Da Socrate ha principio lo studio del cuore e la critica di ciò che esso contiene.

Nei loro ultimi e disperati sforzi gli antichi gettarono dal loro cuore tutto ciò che vi si accoglieva, sicché esso non seppe più battere per cosa alcuna: questa fu l'opera degli scettici. Così fu ottenuta nell'età degli scettici la purezza del cuore, come nell'età dei sofisti s'era conseguita la liberazione dell'intelletto.

L'educazione sofistica ebbe per conseguenza che l'intelletto non s'arrestò dinanzi a cosa alcuna; la scettica che il cuore non si commosse più per alcuna cosa.

Sino a tanto che l'uomo è nei suoi rapporti impacciato dalle cose mondane e ne dipende e ne rimane schiavo — (e tale egli resta sino alla fine dell'antichità dacché ancor sempre il suo cuore deve lottare per rendersi indipendente) — egli non è uno spirito; giacché lo spirito è incorporeo e non conosce rapporti col mondo e col corpo; per esso il mondo non esiste, come non esistono legami naturali, ma soltanto ciò che è spirituale, i legami dello spirito. Perciò l'uomo doveva, prima di riuscire a sentirsi puro spirito, perdere ogni riguardo, divenire, quale ce lo ritrae l'educazione scettica, incurante d'ogni cosa, libero da tutti i suoi rapporti, indifferente a tutto il mondo, si da vederlo crollare senza commuoversi. E il risultato dell'opera gigantesca degli antichi è questo: di far sì che l'uomo diventi un essere senza mondo e senza rapporti, vale a dire uno spirito puro.

Allora soltanto, libero da ogni cura terrena, egli è a sé stesso il tutto nel tutto, esiste per sé solo, è lo spirito per lo spirito, o, per meglio dire, non si cura che delle cose spirituali.

Nell'astuzia viperea e nell'innocenza di tortura del cristianesimo i due termini dell'antica liberazione dello spirito, l'intelletto ed il cuore, sono condotti a tal perfezione da apparire ringiovaniti e moderni, e né l'uno né l'altro si lasciano sgomentare da ciò che è mondano e naturale.

Allo spirito adunque s'innalzarono gli antichi ed aspirarono a diventar spirituali. Ma l'uomo, che intende svolgere la sua operosità quale spirito, si vede attratto verso compiti ben diversi da quelli che prima poteva prefiggersi, verso compiti che veramente occupano lo spirito, e non soltanto il senso o la penetrazione, facoltà codeste che solo ci aiutano a renderci padroni delle cose. Solo di cose spirituali si occupa lo spirito ed in tutto egli va rintracciando le sue vestigia: per lo spirito credente "ogni cosa viene da Dio" e non l'interessa se non in quanto serve a rivelargli una divina origine; per lo spirito filosofico tutto si presenta con l'impronta della ragione e l'interessa solo in quanto gli sia dato di trovarsi un contenuto intellettuale.

Gli antichi non esercitavano dunque lo spirito poiché ancora non lo possedevano (non esistendo esso nelle cose, con le quali nulla ha di comune, ma nel pensiero che è dietro e sopra ciascuna cosa); soltanto lo ricercavano, lo invocavano, e lo acuivano per lanciarlo contro il loro nemico ultrapossente, il mondo dei sensi. Tutto infatti era per essi oggetto dei sensi, dacché lo stesso Jehova e i numi pagani ancor ripugnavano al concetto "Dio e spirito" e alla patria terrena non era ancora sottentrata la celeste. Ancor oggi gli ebrei, codesti figli precocemente savi dell'antichità, non sono giunti, pur con tutta la loro sottigliezza e la forza della lor perspicacia e la versatilità del loro pregevolissimo intelletto, a trovare lo spirito, che ha in non cale ogni cosa.

Il cristiano ha interessi spirituali, perchè egli ardisce di essere un uomo spirituale; l'ebreo non sa comprendere nemmeno tali interessi in tutta la loro purezza, perchè egli non permette a sé stesso di non attribuire alcun valore alle cose. Egli non sa elevarsi alla pura spiritualità, ad una spiritualità com'è espressa, a mo' d'esempio religiosamente nella fede cristiana che ci rende beati, anche senza le opere. La loro mancanza di spiritualità allontana per sempre gli ebrei dai cristiani, giacche a chi non è spirituale tutto ciò che tiene dello spirito riesce inconcepibile, nello stesso modo che l'uomo spirituale disprezza chi tale non è.

Gli ebrei non possiedono che lo "spirito di questo mondo".

La penetrazione e la profondità dello spirito antico sono tanto lontane dallo spirito e dallo spiritualismo del mondo cristiano quanto il cielo dalla terra.

Chi si sente un libero spirito, non è oppresso né angustiato dalle cose di questo mondo, perchè egli non ne tiene conto; solo chi è tanto sciocco da attribuire loro un peso può sentirne la gravezza, e in questo caso egli dimostra di tenersi ancora stretto alla "cara vita". Colui, che sopra ogni altra cosa è vago di sentirsi e di comportarsi quale un libero spirito, poco si curerà che le cose gli volgano propizie od avverse e non penserà come debba governarsi per viver di una vita libera e lieta.

Egli non s'affligge per gli inconvenienti che derivano da una vita soggetta alle cose, dacché quella ch'egli conduce è vita spirituale; e infatti mangia ed ingoia quasi sempre senza esserne consapevole, e se gli fa difetto l'alimento, muore col corpo, ma sapendosi immortale quale spirito, e chiude gli occhi con una preghiera e con un pensiero. La sua vita consiste nell'occuparsi di cose spirituali — tutto ciò che non è pensiero non lo tange; quale che sia l'oggetto della sua occupazione spirituale — preghiera, contemplazione, o speculazione filosofica — l'azione sua è il pensiero. Ecco perchè il Descartes quando alfine si fu di ciò convinto poté proclamare l'assioma: "Io penso, dunque io sono". Questo significa: "Il mio pensiero è il mio essere e la mia vita ; soltanto se vivo spiritualmente, io vivo; soltanto quale spirito sono realmente io; oppure: Io sono interamente spirito e null'altro che spirito". Lo sventurato Pietro Schlemihl che aveva perduto la propria ombra è il ritratto dell'uomo diventato spirito; poiché il corpo dello spirito non proietta ombra alcuna.

Come diversi gli antichi! Per quanto ci si dimostrassero gagliardi e virili, di fronte alla forza delle cose dovevano pur riconoscerla, né ad altro seppero riuscire che a difender contro essa come meglio poterono, la loro vita. Solo tardi riconobbero che la "vera vita" non era quella della lotta contro le cose, bensì la vita spirituale quella che rifuggiva dalle cose, e quando di ciò si accorsero divennero cristiani, vale a dire moderni e novatori contro gli antichi.

La vita rifuggente dalle cose, la vita spirituale, non ritrae perciò più alcun alimento dalla natura, bensì si pasce di soli pensieri "perciò non è più vita" ma pensiero.

Tuttavia non è da credere che gli antichi non conoscessero il pensiero; ciò sarebbe altrettanto falso quanto l'immaginare che l'uomo spirituale non partecipi alla vita materiale. Bensì essi avevano le proprie idee su ogni cosa, sul mondo, sugli uomini, sugli dei, ecc. e si argomentavano in ogni guisa a rendersene coscienti. Però non conoscevano il Pensiero, quantunque pensassero a molte cose e si travagliassero coi loro pensieri. Si confronti in proposito degli antichi il verso cristiano: "I miei pensieri non sono i vostri pensieri, e di quanto il cielo è più alto della terra d'altrettanto i miei pensieri sono più alti dei vostri" e si rammenti quanto ho detto più sopra a proposito dei nostri pensieri infantili.

Che cosa cerca adunque l'antichità? Il vero godimento della vita! E si finirà per arrivare alla "vera vita".

Canta il greco poeta Simonide: "La salute è il più prezioso bene dell'uomo mortale, poi viene la bellezza, poi la ricchezza conquistata senza frodi, infine il godimento che si prova nella conversazione di giovani amici". Tutti questi sono beni della vita o godimenti della vita. Quale altra cosa cercava mai Diogene di Sinope se non il vero piacere, ch'egli ritrovò nel minimo grado dei bisogni? Che cosa Aristippo, che lo ritrovò nel saper serbare tranquillo l'animo nella buona e nella avversa fortuna? Essi tutti cercavano la gioia d'una vita inalterabilmente serena la giocondità, la letizia.

Gli stoici vogliono attuare il tipo dell'uomo saggio, di colui — cioè — che sa vivere una vita conforme ai dettami della saggezza; essi pongono il loro ideale nel disprezzo del mondo, in una vita immobile e imperturbata, senza rapporti amichevoli col mondo, isolata e appartata; lo stoico solo vive, tutto il resto è morto per lui. All'incontro gli Epicurei domandavano una vita tutta movimento.

Gli antichi ambivano, quando volessero vivere allegramente, una vita agiata (precipuamente gli Ebrei, che si augurano vita lunga, benedetta di figli e di doni di fortuna), l'eudaimonia, il benessere nelle sue forme più varie. Democrito esalta, p. es., come tale la "tranquillità dell'animo" la quale permette di "viver dolcemente senza timore e senza agitazioni".

L'antico è d'avviso che la tranquillità dell'animo sia la migliore compagna della vita, quella che procura la più lieta delle sorti e porge il miglior mezzo per campare. Ma siccome egli non può staccarsi dalla vita, principalmente per la ragione che ogni sua attività s'esaurisce nello sforzo che fa per staccarsene, cioè per respingerla (per far la qual cosa è necessaria l'esistenza di una vita che possa esser respinta, che diversamente nulla più rimarrebbe da respingere), così egli non può altro raggiungere se non al più un altissimo grado di liberazione, e per il grado soltanto si distingue dagli altri meno fortunati negli sforzi fatti per esser liberi. Se pure ottenesse l'assoluto annientamento dei sensi terrestri, quel grado d'annientamento che sol permette ancora di sussurrare la parola "Brahma", egli non si distinguerebbe per ciò essenzialmente dall'uomo sensuale.

Lo stesso stoicismo e la stessa virtù virile in fin dei conti vengono alla conclusione della necessità di sostenersi e di affermarsi contro il mondo, e l'etica degli stoici (unica loro scienza poiché dallo spirito null'altro seppero insegnare se non il modo con cui esso dovesse comportarsi di fronte al mondo ed alla natura [: fisica :] e lottare contro essa) non è una dottrina dello spirito, bensì una dottrina del disprezzo del mondo e dell'affermazione del proprio io, cioè di quella «"imperturbabilità e indifferenza della vita ", che fu la virtù più caratteristica dei Romani.»

Più lontano di questa filosofia della vita non andarono nemmeno i Romani (Orazio, Cicerone, ecc.).

Quella dal benessere (edoné) degli epicurei è una filosofia simile a quella degli stoici, ma più raffinata, più ingannatrice. Essa null'altro insegna fuor che una diversa attitudine verso il mondo, un contegno più prudente; il mondo dev'essere ingannato, imperocché esso è il nemico.

Ma gli scettici soltanto ripudiano il mondo interamente. Tutti i rapporti col mondo sono per essi "senza valore e senza verità." Timone dice: " I sentimenti ed i pensieri, che noi attingiamo dal mondo, non contengono nulla di vero". — "Che cosa è verità?" esclama Pilato. Il mondo, secondo la dottrina di Pirrone, non è né buono né cattivo, né bello né brutto, e così via; tutti questi sono predicati, che io gli attribuisco. Timone dice: "Per sé stessa nessuna cosa è buona o cattiva, bensì l'uomo s'immagina che sia tale o tale"; di fronte al mondo non rimane che l'atarassia (l'apatia) e l'afasia (l'ammutolimento o, con altre parole, l'isolamento ulteriore). Nel mondo non esiste più alcuna verità da conoscere, le cose si contraddicono, le idee delle cose sono incapaci di distinzione (bene e male sono la stessa cosa, di modo che quello che per taluno è buono, per tal altro è cattivo). E con ciò cessa la ricerca del vero; e non rimane che l'uomo privo di conoscenza, l'uomo che nulla trova da conoscere nella vita, e lascia sussistere così com'è il mondo vuoto di verità, e non se ne cura.

In cotal modo l'antichità si sbriga del mondo delle cose, dell'ordine universale, dell' universo stesso. Ma all'ordine universale ed alle cose di questo mondo non appartiene già soltanto la natura, bensì ne fan parte tutti i rapporti nei quali l'uomo si vede posto dalla natura, p. es., la famiglia, la comunità, in una parola tutti i cosiddetti "legami naturali". Col mondo dello spirito principia allora il cristianesimo.

L'uomo che si trova ancora vigile in armi contro il mondo è l'antico, il pagano (ed a questa categoria appartiene anche l'ebreo, per non essere cristiano); l'uomo che solo è guidato dalla gioia del cuore della sua compassione dalla sua simpatia dal suo spirito è il moderno, il cristiano. Gli antichi col porre ogni loro sforzo nel superare il mondo e redimere l'uomo dalle pesanti catene che lo avvincevano, pervennero alla dissoluzione dello stato ed alla esaltazione dell'individuo. Comunità, famiglia, ecc. quali rapporti naturali, non sono forse ostacoli importuni, che diminuiscono la mia libertà spirituale?


— I MODERNI.


"Se uno va con Cristo, diviene una nuova creatura; l'antico è passato, ecco tutto s'è rinnovato" [(1) Cor, 5, 17.].

Se più sopra fu detto: "Per gli antichi il mondo era una verità", ora noi dobbiamo dire: "pei moderni lo spirito era una verità ", però, qui come là, non dobbiamo omettere di soggiungere: una verità di cui cercavano ed anche giunsero a scoprire la falsità.

Il Cristianesimo seguì una via non dissimile da quella percorsa dall'antichità. In tutta l'età di mezzo infatti l'intelletto fu tenuto prigioniero dei dogmi cristiani, ma nel secolo che precedette la riforma si ribellò col sofismo e si prese gioco sacrilego di tutti gli articoli di fede. E in pari tempo si diceva, principalmente in Italia ed alla Corte di Roma; purché si serbi cristiano il cuore, l'intelletto può scapricciarsi a suo bell'agio.

Già molto prima della riforma erano cosi frequenti le dispute cavillose che il papa e i più ritennero che anche l'apparizione di Lutero si dovesse risolvere in una "disputa di frati". L'umanesimo corrisponde alla sofistica, e nello stesso modo che nell'età dei sofisti la vita greca trova vasi nella sua maggiore floridezza (secolo di Pericle), cosi il massimo splendore rifulse nel secolo dell'umanesimo, o, come si potrebbe anche dire, del machiavellismo (invenzione della stampa, scoperta del nuovo mondo, ecc.). In quel tempo al cuore era ignoto ancora il desiderio di liberarsi dal suo contenuto cristiano.

Ma la Riforma, al pari della filosofia socratica, mosse guerra seriamente al cuore e da allora i cuori divennero, a tutta evidenza, sempre più anticristiani. Avendo incominciato con Lutero a por mente alla cosa, la riforma doveva condurre inevitabilmente il cuore a liberarsi dal grave pondo della cristianità. Il cuore, facendosi di giorno in giorno meno cristiano, perde il contenuto che l'occupava, sino a tanto che non gli resterà altro fuorché la pura virtù sua sostanziale, la cordialità, l'amore universale, l'amore dell'uomo, il sentimento della libertà, la "coscienza di sé stesso".

Ora soltanto può dirsi che il cristianesimo è perfetto, perchè è divenuto arido, privo di vita e di contenuto. Ora non si ha più alcun contenuto al quale il cuore non si ribelli, eccetto il caso che inconsciamente ci se ne lasci sorprendere. Il cuore fa la critica d'ogni cosa, di tutto ciò che mostra di voler insinuarsi in lui, con una crudeltà spregiudicata e non è capace di alcuna pietà (se non inconsciamente o di sorpresa). Del resto, v'ha egli cosa che si possa amare negli uomini, dacché tutti sono "egoisti" e nessuno è l'uomo come tale, vale a dire "un puro spirito"? Il cristiano non ama che lo spirito; ma dove si troverebbe qualcuno che non fosse proprio null'altro che spirito?

Amare un uomo di carne ed ossa non sarebbe degno d'un puro cuore, sarebbe piuttosto un tradimento della purezza del cuore, dell' "interesse teoretico". Giacché non si deve credere che la cordialità assomigli a quella giovialità che stringe ad ognuno la mano; ben all'opposto la pura cordialità non è cordiale con nessuno, essa non è che un interesse platonico per l'uomo come uomo, ma non già come persona. La persona le ripugna per il suo " egoismo ", perchè non è l'uomo, o meglio non è l'uomo ideale. E l'interesse teoretico non esiste che per l'idea. Per la pura cordialità o per la pura teoria gli uomini non esistono se non per essere criticati, scherniti e profondamente disprezzati; sono per esse quello che sono pel prete fanatico; fango e null'altro che fango.

Giunti cosi all'apogeo della cordialità apatica, dobbiamo pur infine accorgerci che lo spirito, il quale solo è amato dal cristiano, non esiste, o che questo spirito è una menzogna,

Ciò che qui abbiamo esposto concisamente e in modo forse poco intelligibile, si schiarirà, speriamo, successivamente.

Accettiamo l'eredità lasciataci dagli avi, e da buoni lavoratori ricaviamone ciò che se ne può ritrarre. Il mondo giace ai nostri piedi, vilipeso, molto al disotto di noi e del nostro cielo al quale le sue braccia più non si tendono e cui non giunge più il suo alito che i sensi hanno ammorbato.

Per quante seduzioni ponga in opera, esso non può abbagliare che i nostri sensi, ma lo spirito - e noi in verità non siamo che spirito — non gli riesce d'ingannarlo. Così favella la " libertà spirituale ". Poi che pervenne alla compiuta conoscenza delle cose, lo spirito si elevò sopra di esse, si sciolse dai legami che lo tenevano avvinto, ed ora spazia libero nell'infinito.

Allo spirito, che dopo tante fatiche si è sottratto alla schiavitù del mondo, poi che rinnegò le cose terrene e la materia, null'altro rimane se non ciò ch'è spirituale. E tuttavia, come soltanto ci si è straniato dal mondo ma non l'ha potuto distruggere, così nel mondo egli continua a vedere un perenne ostacolo, un triste ente e si strugge nel desiderio di spiritualizzarlo, e concepisce e accarezza per esso, con giovanile baldanza, disegni di riforme, di miglioramenti, di redenzione.

Gli antichi erano, come vedemmo, asserviti alla materia e all'ordine naturale delle cose; ma di continuo si travagliano per sottrarsi a un tal dominio, in impeti sovrumani di ribellione senza posa rinnovellati; infine dal loro gemito supremo nacque il "Dio, vincitore del mondo". Tutta l'operosità della persona era rivolta alla conoscenza del mondo, e svolgevasi in un perpetuo intento di penetrarne il mistero e di oltrepassarlo. E quale è la sapienza dei molti secoli succedutisi? Che cosa cercarono di scoprire i moderni? Il mistero del mondo non più giacché l'avevano svelato gli antichi, bensì il mistero di Dio, loro da quelli legato, del Dio ch'è "spirito di tutto ciò che appartiene allo spirito, ch'è spirituale".

L'attività dello spirito, che "investiga persino gli abissi della divinità" ha nome teologia. Se gli antichi null'altro ci possono insegnare che la loro filosofia naturale, i moderni non arrivarono né arriveranno mai più in là della teologia. Noi vedremo più tardi che persino le più recenti ribellioni contro Dio null'altro sono infine che i più disperati sforzi della teologia, insurrezioni teologiche dunque.


§ 1. — Lo SPIRITO.

Immenso è il regno degli spiriti e innumerevoli cose comprende.

Vediamo dunque che sia questo spirito che i nostri vecchi ci lasciarono in retaggio.

Essi lo generarono tra i dolori, e pur non seppero riconoscersi in lui: gli dettero la vita, ma non gli appresero la parola che doveva pronunciare solo egli. Il "Dio nato" il figlio dell'uomo profferisce, primo, la massima che lo spirito, cioè egli, Dio, nulla ha a che fare col mondo e coi suoi rapporti, ma solamente conosce sé stesso e ciò che gli si attiene.

Il mio coraggio inalterabile in mezzo a tutti i colpi della sorte, la mia incrollabilità, il mio spirito d'indipendenza, e forse tutto ciò "spirito" nel pieno suo senso ? In tal caso mi troverei ancora nello stato di lotta col mondo, ed unico mio intento sarebbe di non soccombere a lui! No, prima ch'egli non s'occupi che di sé stesso, del suo mondo, del mondo spirituale, lo spirito non è il libero spirito, ma solamente lo spirito di questo mondo, che alle cose del mondo è avvinto. Egli è spirito libero, cioè effettivamente spirito, soltanto nel mondo suo proprio; in questa terra egli è uno straniero. Soltanto in grazia d'un mondo spirituale lo spirito è spirito realmente, giacché il mondo de' sensi gli è ignoto.

Ma donde, se non da lui stesso, deve venirgli cotesto mondo spirituale? Egli deve rivelarsi; e le parole che pronuncia, le manifestazioni del proprio essere, compongono il suo mondo. Come l'uomo fantasioso vive solo nelle immagini da lui create e di quelle compone il suo regno; come il pazzo s'edifica un mondo formato di sogni, senza il quale egli cesserebbe d'esser pazzo; così lo spirito è obbligato a crearsi un dominio spirituale, e prima che questo non sia creato egli non è spirito.

Sicché le sue creazioni fanno di lui uno spirito, e dalle creature si manifesta in lui il creatore; in esso egli vive, esse formano il suo mondo.

Che cosa è dunque lo spirito? E’ il creatore d'un mondo spirituale! Anche a me ed a te si riconosce lo spirito quando si vede che ci siamo appropriate cose spirituali, vale a dire che abbiamo dato vita ai pensieri, quando pure ci sian stati suggeriti; nella nostra infanzia se pur ci avessero suggeriti i pensieri più edificanti sarebbe a noi mancata e la volontà e la facoltà di riprodurli.

Così dunque lo spirito non esiste se non quando crea cose immateriali; la sua vita è associata a ciò ch'egli ha creato.

Siccome noi lo riconosciamo dalle sue opere, vale la pena di domandarci in che queste consistono.

Orbene, le opere o le creature dello spirito null'altro sono che spirito.

Se io m'avessi dinanzi degli ebrei, ma di quei genuini, io qui dovrei far punto e lasciarli dinanzi a questo mistero, che per quasi duemila anni li trovò increduli e indifferenti. Ma siccome tu, mio caro lettore, difficilmente sarai un ebreo puro sangue, — che se tale fossi, non avresti perduto il tempo a seguirmi sin qui — noi vogliamo fare insieme ancora un tratto di cammino, sino a che forse anche tu mi volgerai le spalle, vedendo ch'io ti rido sul viso.

Se qualcuno ti dicesse che tu sei tutto spirito, tu ti tasteresti il corpo, e gli risponderesti incredulo: "Io possiedo, bensì, dello spirito, ma non esisto solo come spirito; sono anche un uomo in carne ed ossa". Tu faresti ancor sempre una distinzione fra te ed il tuo "spirito". Ma ribatte colui, tu sei destinato, quantunque inceppato per ora dai vincoli del corpo, a diventare un giorno "uno spirito beato", e comunque tu possa rappresentarti l'aspetto futuro di questo spirito, non è men vero che morendo tu dovrai spogliarti del corpo e tuttavia tu continuerai ad esistere e ad esistere in eterno; adunque lo spirito solo in te è eterno e vero, il corpo non è altro che una dimora provvisoria, che tu dovrai abbandonare e mutar con un'altra.

Adesso tu gli presterai fede? Per ora tu non sei ancora soltanto spirito, ma allorquando sarai costretto ad emigrare dal tuo corpo mortale, tu dovrai far di meno del corpo, perciò è necessario che tu preveda per tempo una tale eventualità e provveda per tempo al tuo vero "io". "Che cosa gioverebbe all'uomo se conquistasse l'intero mondo e nondimeno recasse danno all'anima sua!"

Ma anche ammesso che i dubbi sollevati in corso di tempo contro i dogmi cristiani, ti abbiano tolta da lunga pezza la fede nell'immortalità del tuo spirito, un dogma per te è rimasto intatto e intangibile, una verità alla quale resti sempre devoto, che cioè lo spirito è di te la miglior parte e che le cose spirituali hanno verso di te maggiori diritti di ogni altra cosa. Se pur ateo, ti trovi d'accordo con chi crede alla immortalità nello zelo contro l'egoismo.

Ma quale idea ti sei formata dell'egoista? Un uomo, il quale anziché vivere per un'idea, cioè per qualcosa di spirituale, sacrificandole il proprio vantaggio, serve invece a quest'ultimo.

Un buon patriota, ad esempio, sacrifica tutto sull'altare della patria; e che la patria sia una idea è una cosa indiscutibile, poiché gli animali irragionevoli ed i bambini ancor privi di spirito non conoscono ne patria né patriottismo. Se adunque qualcuno non si dimostra buon patriota, egli rivela nei suoi rapporti colla patria il suo egoismo.

E cosi è in numerosissimi casi; chi nella società umana si arroga e sfrutta un privilegio è reo d'egoismo e pecca contro la idea dell' uguaglianza; chi esercita un dominio è un egoista che pecca contro la idea della libertà, e così via.

E appunto perciò tu disprezzi l'egoista, dacché egli pospone lo spirituale al personale, e non pensa che a sé stesso quando tu vorresti vederlo operare per amor d'un'idea. Voi vi distinguete in ciò, che centro per te è lo spirito, per lui il suo proprio essere, ovvero che tu sdoppi il tuo io, facendo dello spirito il vero "io", padrone del resto che ha minor valore, mentre egli non vuol saperne di codesto sdoppiamento, curando i suoi interessi spirituali o materiali come meglio gli piace e gli giova.

Tu credi di biasimare soltanto coloro che non sanno comprendere il puro interesse spirituale, e invece tu imprechi a tutti quelli che non vedono nell'interesse spirituale ciò "che vi é di più vero e sublime". Paladino d'una tale bellezza, tu giungi a tanto da negare al mondo sia altra bellezza. Tu non vivi per te stesso, bensì per il tuo spirito e per tutto ciò che viene dallo spirito, cioè per le idee.

Siccome lo spirito non esiste se non in quanto crea, vediamo quale sia la sua creazione prima.

Compiuta questa, altre naturalmente ne seguono, al modo stesso che secondo la mitologia bastava creare i primi uomini perchè la stirpe si propagasse da sé. Ma la prima creazione deve sorgere "da nulla": lo spirito per attuarla nulla possiede all'infuori di se stesso, o, per meglio dire, egli non possiede ancora nemmeno se stesso, ma deve formarsi: sicché la sua prima creazione è esso stesso, lo spirito.

Per quanto ciò possa sembrar mistico, a noi lo insegna l'esperienza quotidiana. Sei tu forse un pensatore, prima d'aver pensato? Col creare il primo pensiero tu crei te stesso, il pensatore; poi che tu non pensi prima di pensare, vale a dire, prima d'aver un pensiero. Non è forse il tuo canto che fa di te un cantore, la parola che fa di te un essere parlante? Ebbene, nello stesso modo, la

creazione d'una cosa spirituale fa di te uno spirito.

Ma alla guisa stessa che tu distingui te dal pensatore, dal cantore e dal parlatore, così ti distingui anche dallo spirito, sentendo molto bene che tu sei ancora oltre che spirito qualche altra cosa; ma come all' "io" che pensa nell'entusiasmo nel pensare va mancando il senso dell'udito e della vista, cosi anche tu, nell'entusiasmo dello spirito, desideri con tutte le tue forze di essere solamente immateriale e di obliare ogni altra cosa. Lo spirito è il tuo ideale, ciò che ancora non fu raggiunto, ciò che si trova oltre ogni confine; lo spirito si chiama per te Dio, "Dio è lo spirito".

Contro tutto ciò che non è spirito tu lasci libero corso al tuo sdegno, e così anche contro te stesso perché non sai liberarti da ogni cosa materiale. Invece di dire "Io sono più che uno spirito" tu dici, tutto compunto : "Io sono da meno che uno spirito, e lo spirito, il puro spirito, io non posso che immaginarlo, ma non esserlo, e poiché io non lo sono, dev'esserlo un altro, esistere come tale un altro, che io chiamo " Dio ".

E proprio della natura delle cose, che lo spirito che deve esistere puramente per sé, deve essere uno di là; e siccome l'uomo non può essere immateriale del tutto, il puro spirito, lo spirito come tale, non può essere che fuori dell' uomo, fuori del mondo umano; dunque non sulla terra, ma in cielo.

Soltanto da questo disaccordo tra l'io e lo spirito, soltanto perchè l'io e lo spirito non significano una sola e medesima cosa, bensì dimostransi del tutto differenti tra loro, soltanto perchè l'io non è lo spirito e lo spirito non è l'io, sorge logicamente la necessità che lo spirito debba avere stanza al di là, debba essere " Dio ".

Ma con ciò si dimostra pure quanto prevalentemente teologica è la redenzione di cui ci vuole regalare il Feuerbach [(1) Essenza del Cristianesimo.] Egli dice cioè che noi abbiamo soltanto misconosciuto il nostro vero essere, e che perciò l'abbiamo cercato nel di là, ma ora, poiché siano convinti che Dio è null'altro che il nostro stesso essere umano, noi dovremo riconoscerlo per nostro e trasferirlo dal cielo alla terra. "Dio", che è spirito, è chiamato da Feuerbach, il "nostro essere". Ora, possiamo noi ammettere senza opposizione che il "nostro essere" sia posto in contrasto con noi stessi, e che noi stessi siamo divisi in un io essenziale ed in uno non essenziale? Non ricadiamo con ciò nuovamente nelle miserevoli condizioni di un esilio fuori di noi stessi?

Che cosa si guadagna, se, per cambiare, collochiamo in noi stessi la divinità ch'era fuori di noi? Siamo noi quello che è in noi ?

Non sarebbe già vero il dire che noi siamo ciò ch'è fuori di noi. Io sono tanto poco il mio cuore, quanto sono la mia amante riamata, che pure rappresenta un altro "me stesso". Noi fummo costretti a collocare lo spirito fuori di noi appunto perchè esso pur vivendo in noi non costituiva tutta la nostra sostanza: per ciò appunto noi non lo potevamo rappresentare se non fuori di noi, in un di là remoto.

Con la forza della disperazione Feuerbach s'avviticchia a tutto intero il contenuto del Cristianesimo, ma non già per ripudiarlo, bensì per avvincere a sé il lungamente desiderato, il sempre lontano, strappandolo con un ultimo sforzo al cielo, dove si trovava per possederlo così eternamente. Non è forse ciò un ultimo disperato tentativo dal quale dipende la vita o la morte, e non e in pari tempo l'ardente bramosia cristiana dell’al di là? L'eroe non vuole fare il suo ingresso nell’al di là, bensì attirarlo a sé e costringerlo a diventar cosa di questa terra ! E non grida forse d'allora  in  poi  tutto  il  mondo,  con  maggior  o  minor  coscienza,  che  il  regno  dei  sensi  è l'essenziale, e che il cielo deve venir sulla terra e deve esser vissuto già in questa vita?

Poniamo in poche parole di fronte la teoria teologica del Feuerbach e la nostra confutazione. L'essenza dell'uomo — dice quel filosofo — è l'ente supremo dell'uomo. Orbene l'essere supremo dalla religione viene chiamato Dio e considerato in sé oggettivamente. Ma poi che in realtà esso non è che l'essenza dell'uomo, così per la storia dell'umanità incomincerà una nuova era, in cui l' uomo sarà Dio [(1) Essenza del Cristianesimo, pag. 402].

E noi rispondiamo: L'essere supremo è in vero l'essere dell'uomo; ma appunto perchè è il suo essere e non lui stesso, così tanto vale considerarlo fuori di sé sotto il nome di Dio o in sé quale essere umano, quale uomo. Io non sono né Dio né l'uomo, né l'essere supremo né l'essere mio, e perciò m'è indifferente il pensare un essere in me o fuori di me. Si, noi ci immaginiamo sempre l'essere supremo fuori di noi ed in noi, poiché lo "spirito divino", secondo la fede cristiana, è pure il "nostro spirito" e dimora in noi. [(2) Vedi Rom. 8, 9; Cor. 3, 16; Giovanni 20, 22, ecc.,ecc.] Egli ha stanza e nel cielo e in noi; noi poveri esseri non rappresentiamo che la sua "dimora"; e se il Feuerbach ci distrugge anche la sua "dimora celeste", a prezzo di quale fatica noi gli potremo dar ricetto ?

Ma tronchiamo questa divagazione (che avremmo dovuto protrarre a più tardi) per non incorrere in ripetizioni, e ritorniamo alla prima creazione dello spirito.

Lo spirito è alcunché di diverso dall'io. Ma in che cosa ne differisce?


§ 2. — GLI OSSESSI.

Hai tu mai veduto uno spirito? "Io no, ma l'ha veduto la nonna". Ecco, la stessa cosa succede a me. Io non ho veduto mai alcuno spirito; invece mia nonna ne incontrava uno ad ogni momento; sicché, per non far torto alla sincerità della nonna, mi convien credere all'esistenza degli spiriti.

Ma tra i nostri vecchi non vi eran di tali che facevano spallucce allorché la nonna favoleggiava degli spiriti che aveva veduti? Certo; ma erano increduli, liberi pensatori che gran danno recarono alla nostra santa religione. E noi ce ne accorgeremo! Su che cosa è fondata la credenza negli spiriti se non sulla fede nell'esistenza d' "esseri spirituali in generale?". E questa fede non vien forse scossa, se si permette che uomini seguaci della pura ragione ardiscano attentarvi? Come per la scemata credenza negli spiriti e nei fantasmi la stessa fede in Dio sia stata se stessa ci è insegnato dai romantici: i quali tentano di attraversarsi tali funeste conseguenze col ridestare a nuova vita il mondo dei miti e delle favole, e in modo particolare vi si adoperano di recente con la rievocazione "di un mondo superiore che penetra entro il nostro mondo", con le loro sonnambule, con le veggenti di Prevorst, ecc.

I buoni credenti ed i padri della Chiesa non prevedevano che col cessar della credenza negli spiriti dovesse mancare il terreno alla religione stessa, si che da allora in poi essa avesse a librarsi sull'aria. Chi non crede più nei fantasmi non ha che a proseguire con una certa coerenza per la sua via, per accorgersi che dietro le cose non si nasconde alcun essere sovrannaturale, alcun fantasma — o, ciò che l'ingenuità linguistica chiama con un medesimo vocabolo — alcuno "spirito".

"Gli spiriti esistono!" Guardati un po’ d'attorno nel mondo, e dimmi se da ogni cosa non si riveli a te uno spirito. Dal piccolo fiore grazioso parla a te lo spirito del creatore che l'ha formato così bello; gli astri annunziano lo spirito che li ha ordinati: dai vertici dei monti ti soffia incontro uno spirito sublime; dalle acque s'innalza a te uno spirito di bramosia; dagli uomini favellano a te milioni di spiriti. Si sprofondino i monti, appassiscano i fiori, crolli l'universo, perisca anche l'ultimo uomo — e che importa d'una cotal ruina generale? Lo spirito, l'invisibile, "vive in eterno".

Sì, su tutto il mondo passa lo spirito coi suoi brividi ! Soltanto su lui? No, il mondo stesso sembra un sinistro fantasma, l'ombra d'uno spirito. Che altro potrebbe essere un fantasma se non un corpo apparente a uno spirito reale? Ebbene, il mondo è "vano" è il "vuoto", è un' "apparenza" che inganna col suo splendore; l'unica verità sta nello spirito; il mondo non è che la figura apparente dello spirito.

Vicino e lontano, da per tutto, ti circonda un mondo di spiriti: tu sei sempre in balia delle apparizioni e delle visioni. Ogni cosa che a te si presenti, altro non è che il riflesso d'uno spirito che risiede in lei, un' "apparizione" fantastica: il mondo è per te solo un complesso di "fenomeni", dietro ai quali lo spirito fa suoi giochi.

Vorresti forse paragonarti agli antichi che vedevano gli dei dappertutto? Gli dei, mio caro moderno, non sono spiriti; gli dei non umiliano il mondo sino a ridurlo ad una parvenza, né lo spiritualizzano.

Ma per te tutto il mondo appare spiritualizzato e fatto simile a un misterioso fantasma; perciò non meravigliarti se anche in te stesso null'altro troverai che una ridda di fantasmi. Non è forse il tuo corpo ossesso da quel fantasma che tu chiami spirito; non forse quello solo è il vero, il reale, mentre il tuo corpo è cosa "passeggera, vana, una parvenza" ? Non siamo noi tutti altrettanti spettri; esseri sinistri che attendono d'essere "redenti"; non siamo noi forse "spiriti"?

Dacché lo spirito è apparso nel mondo, dacché il verbo s'è fatto "carne", il mondo s'è spiritualizzato, è diventato il regno dei fantasmi. Tu hai lo spirito, perché hai pensieri. Che cosa sono i tuoi pensieri? — esseri spirituali. — Dunque non sono cose: — No, bensì lo spirito; l'essenza di tutte le cose; ciò che in esse è di più intimo; la loro idea. — Sicché ciò che tu pensi non è semplicemente il tuo pensiero? — Ben al contrario, il pensiero è la realtà, ciò che v'é di vero al mondo; è la verità stessa; quando io penso veracemente, io penso la verità. — Io posso bensì ingannarmi sul conto della verità e disconoscerla; ma se io conosco veracemente, l'oggetto della mia conoscenza è la verità. — Sicché tu intendi perennemente a conoscere il vero? — La verità m'è sacrosanta. Può darsi, si, che io trovi imperfetta una data verità, e che la sostituisca con una migliore, ma con ciò non posso levar dal mondo la verità. Nella verità io credo, perciò la ricerco; oltre essa non v'é cosa alcuna; essa è eterna.

Sacrosanta, eterna è la verità: essa è la santità, l'eternità stessa. Ma tu, che ti lasci penetrare e guidare da codesta santità, divieni santo tu pure. Di più, la santità non è fatta per i tuoi sensi, e giammai ne troverai la traccia quale uomo sensuale, poiché essa parla alla tua fede e, più ancora, al tuo spirito: ed è anzi essa medesima uno spirito; uno spirito che parla allo spirito.

Non è cosa facile metter da parte la santità, come sostengono alcuni, che "schivano di pronunciare questa parola impropria". Qualunque sia la ragione per cui mi si taccia di egoismo, certo è che tale accusa non sarebbe possibile se non si avesse il pensiero di qualche cosa cui io debba servire con maggior zelo che non a me stesso e in cui sopra tutto io debba cercare la mia salute; di qualche cosa, insomma, di santo. E quando anche questa cosa santa rassomigli ad una cosa umana, o sia, se pur vuolsi, l'uomo stesso, non le verrà meno per ciò il carattere suo; al più la santità soprannaturale si muterà in terrestre, e la divina in umana.

La santità non esiste che per l'egoista che non conosce se stesso, per l'egoista involontario, che va sempre in cerca di ciò che a lui conviene e che pure non vede in sé stesso l'essere supremo; che non serve che a sé stesso, pur ritenendo di servire ad un essere superiore; che nulla conosce di superiore a sé stesso mentre pur si sente spinto a qualche cosa di più elevato; in breve per l'egoista che non vorrebbe esser tale, che si umilia e combatte il proprio egoismo, e in pari tempo non si umilia che "per essere innalzato", vale a dire per soddisfare il suo egoismo.

Poiché vorrebbe cessare d'esser egoista, egli cerca in cielo ed in terra esseri superiori per servirli, e sacrificar loro sé stesso; ma per quanto si agiti e si travagli, in fin dei conti egli fa tutto ciò nel proprio interesse.

Tutti gli sforzi ch'ei fa per liberarsi da sé stesso non da altro derivano che dall'istinto inconscio della propria liberazione. Perché tu sei avvinto all'ora passata, perché tu devi far oggi ciò che hai fatto ieri, perché non puoi ad ogni momento trasformarti, ti senti oppresso dalle catene dello schiavo. Per questo ad ogni minuto della tua esistenza ti sorride un attimo allietante dell'avvenire; e, sviluppandoti, ti vai liberando da te stesso, cioè da quello che tu eri poco prima.

Ciò che tu sei in ogni singolo momento è tua creazione; e non vorresti perderti, tu creatore, nella tua creatura? Tu sei un essere superiore a te stesso e oltrepassi te stesso. Ma involontario egoista, tu non arrivi a conoscere che sei tu stesso quell'essere superiore, cioè che tu non sei unicamente una creatura, ma anche il creatore di te stesso. Mancando di una tale conoscenza, "l'essere superiore" ti appare come un non son che a te estraneo. Tutte le cose superiori, la verità, l'umanità, ecc., stanno al disopra di noi.

Questo ci è estraneo; ecco il segno a cui conosciamo ciò che è santo. In tutto ciò che è santo è qualcosa di "strano", cioè di straniero, nel quale noi ci sentiamo a disagio. Ciò che per me è santo non appartiene a me; e se, ad esempio, la proprietà altrui non fosse per me una cosa sacrosanta, io la considererei qual cosa mia, della quale in una occasione opportuna io potrei disporre a mio piacere; se all'opposto io riguardo come santo il volto dell'imperatore della Cina, esso rimane estraneo pei miei occhi, e perciò li chiudo quand'egli si appressa.

Perché una verità matematica inconfutabile, la quale, secondo il significato comune della parola, potrebbe dirsi eterna, perché una tale verità non è "santa"? perché non ci fu rivelata, o perché non è la manifestazione d'un essere superiore. Se col nome di verità rivelate noi non comprendiamo che le cosiddette verità religiose, noi c'inganniamo di molto, e disconosciamo il valore del concetto: "essere superiore". L'essere superiore, adorato anche sotto il nome d' "ente supremo", fu dagli atei fatto segno allo scherno. Essi distrussero l’una dopo l'altra le "prove" della esistenza di quell'Ente, senza accorgersi che abbattevano l'antico per far posto al nuovo. Non e forse "l'uomo in sé" un essere superiore al singolo uomo; e tutte le verità, i diritti e le idee, che si svolgono dal concetto "uomo", non devono forse esser considerate e in conseguenza riguardate come sante, per essere manifestazioni e rivelazioni di quel concetto? Poiché se per taluna delle verità che sorgono in apparenza da quel concetto dovesse esser confutata, ciò non sarebbe che provare che ci fu un malinteso da parte nostra senza nulla scemare alla santità del concetto stesso e senza togliergli il carattere suo di fronte a quelle verità che ne possono esser considerate "a buon diritto" quali rivelazioni. "L'uomo" preso nella sua collettività oltrepassa ogni uomo singolo, ed è un essere universale e "superiore"; anzi per gli atei "l'essere supremo".

E allo stesso modo che le rivelazioni divine non furono vergate dalla mano propria di Dio, bensì portate a conoscenza degli uomini mediante gli "strumenti del Signore"; così anche l'essere supremo moderno non scrive di propria mano le sue rivelazioni, bensì le fa giungere a nostra conoscenza mediante i "veri uomini". Solamente, il nuovo essere supremo rivela (è giusto il riconoscerlo) un concetto più spirituale che non l'antico Dio; poiché l'antico ci veniva rappresentato sotto una forma corporea, mentre il moderno resta libero d'ogni veste materiale. Ne tuttavia gli difetta una certa corporeità, tanto più fascinante quanto più naturale; perché altro esso non è insomma che l'uomo, anzi l'umanità intera. Il carattere fantastico dello spirito s'incarna così in una forma corporea e ridiviene popolare.

Santo è adunque l'essere supremo, e santa è ogni cosa per cui questo essere si rivela o si rivelerà; e santi coloro che riconoscono questo essere supremo e ciò ch'è suo attributo, cioè le sue rivelazioni. La cosa santa rende poi santo colui che l'adora; del pari ciò che egli fa è santo: una vita santa, un santo modo di pensare, d'agire, d'immaginare, d'aspirare, ecc.

La ricerca di quel che si debba adorare quale essere supremo non può aver importanza sino a tanto che gli avversari sono d'accordo sul punto essenziale, cioè che esiste un essere supremo al quale si deve culto e fede. Se qualcuno sorridesse di disprezzo assistendo a una controversia sull'essere supremo — come farebbe, ad esempio, un cristiano udendo disputare un Sciita con un Sunnita o un Bramino con un Buddista - ciò vorrebbe dire che l'ipotesi d'un essere supremo è per lui vana e una disputa su tale argomento una cosa assurda e inutile. Che poi il Dio uno o il Dio trino o il Dio Lutero, od infine "l' uomo", rappresentino l'essere supremo, è indifferente a chi nega l'esistenza di un tale Ente, poiché ai suoi occhi tutti quei servi d'un essere supremo non sono

che gente religiosa: così il furibondo ateo, come il cristiano dalla fede cieca.

Nella santità risiede dunque innanzi tutto l'essere supremo, e la fede in lui — la nostra santa fede.


III

IL REGNO DEI FANTASMI.

Coi fantasmi noi entriamo nel regno degli spiriti, nel regno degli "esseri".

L'essere misterioso e incomprensibile che s'aggira nell'universo e lo turba, è appunto il fantasma che noi chiamiamo Ente supremo. Penetrarlo, comprenderlo, trovare ciò che in esso v'é di reale (dimostrare l' "esistenza di Dio") — questo è il compito prefissosi nei millenni dall'uomo con la orribile inutile fatica, col lavoro senza fine delle Danaidi, di far reale il fantastico, dimutare lo spirito in corpo. — Dietro al mondo che esiste essi cercarono la "cosa in sé", l'essere: dietro la "cosa" es. si cercarono la "non cosa".

Quando si penetra nel fondo d'una cosa, cioè nella sua vera essenza, si scopre molte volte che essa è altra da quella che ci appariva; un discorso ingannevole, od un cuore falso, delle parole gonfie o dei pensieri meschini, e così via. Col rivelarne l'essenza, il fenomeno sino allora mal conosciuto si riduce a un'apparenza vana. L'essenza del mondo, che ha tanta parvenza d'allettamenti e di splendori è, per colui che vuole approfondirla, la vanità; la vanità è l'essenza universale. Ora chi è religioso non si occupa dall'apparenza ingannatrice, ma ricerca l'essenza, e trova nell'essenza la verità.

Gli esseri che sorgono da certa specie di fenomeni sono gli esseri cattivi; quelli che sorgono da altre specie sono i buoni. L'essenza dell'animo umano è, per esempio, l'amore; l'essenza della volontà umana è il bene; quella del suo pensiero la verità, e cosi via.

Ciò che prima ai nostri occhi costituiva il mondo, oggi si presenta come una pura apparenza; e ciò che veramente esiste è più tosto l'essere, il cui regno è popolato di dei, spiriti, demoni, vale a dire di esseri buoni e di maligni. Soltanto questo mondo a rovescio, il mondo degli esseri, esiste oggidì veramente. Il cuore umano può essere privo d'amore, ma la sua essenza vive — ed è il Dio che "è tutto amore"; il raziocinio umano può errare, ma la sua essenza, la verità, esiste: "Dio è la verità", ecc.

Conoscere e riconoscere gli esseri e null'altro che gli esseri: ecco la religione; il suo regno è un regno degli esseri, dei fantasmi, degli spettri.

La tendenza di render comprensibile il regno misterioso degli spiriti, e di incarnarne il "non senso", ha prodotto un fantasma reale, uno spirito che ha corpo. E in qual modo si sono affaticate le più forti e le più geniali intelligenze del cristianesimo per comprendere un tal fantastico oggetto! Però restava sempre la contraddizione delle due nature, la spirituale e la sensuale. Nulla fu più tormentoso per un'anima. L'ossesso che per cacciare da sé uno spirito si tortura fino al delirio e s'agita nelle più terribili convulsioni, non prova un'angoscia comparabile a quella che cristiani soffersero pel loro inconcepibile fantasma.

Ma per merito di Cristo questa verità fu palese; che lo spirito propriamente detto, il vero fantasma, era l'uomo. Quello spirito che ha preso forma corporea è per l'appunto l'uomo; egli stesso è l'essere visibile, e n'è l'apparenza in pari tempo che la sostanza. Da allora in poi l'uomo non teme, a dire il vero, i fantasmi che sono fuori di lui, bensì se stesso; egli ha terrore di sé stesso. Nelle profondità del suo seno ha ricetto lo spirito del peccato; perfino il più innocente pensiero (ch'è pure uno spirito) può essere un demonio. — Il fantasma ha preso carne; Dio s'è fatto uomo; ma l'uomo stesso è ora l'orrido fantasma del quale prima indagava il mistero e ch'ei si sforzava di cacciare, di evocare e di far parlare; l'uomo è lo spirito. Possa perire il corpo, purché si salvi lo spirito; lo spirito è ciò che importa soprattutto; e la salute dello spirito, o "dell'anima", discaccia ogni altro interesse. L'uomo è divenuto dinanzi a se stesso un fantasma; sinistro fantasma al quale anche dovette assegnare una sede nel proprio corpo (vedi le controversie intorno alla sede dell'anima).

Tu per me ed io per te non siamo esseri superiori. Eppure tanto in me quanto in te può racchiudersi un essere superiore il quale ci indurrà ad una reciproca venerazione. Per restringerci alla cosa più comune, in me ed in te vive "l'uomo". Se non vedessi in te un uomo, quale motivo avrei di stimarti? Tu non sei, è vero, l'uomo e la sua vera forma adeguata, bensì soltanto la spoglia mortale, dalla quale egli può separarsi senza cessar d'esistere; ma per ora almeno quell'essere superiore ha fissato in te la sua dimora, e tu rappresenti per me (per la ragione che uno spirito immortale ha preso stanza in un corpo mortale, sicché la tua forma non è che "provvisoria "), uno spirito che mi si rivela senza esser vincolato al tuo corpo ne ad un modo di manifestazione determinato: dunque un fantasma. E perciò non vedo già in te un essere superiore, bensì rispetto unicamente quell'essere superiore che in te si "contiene"; rispetto in te "l'uomo". Questo gli antichi non sapevano vedere nei loro schiavi, l'essere superiore, l'uomo, non moveva il loro affetto. Un fantasma d'altra sorte scorgevano in ciascun di loro: lo spirito popolare che a tutti gli individui sovrasta ed è in ognuno di essi. Quindi veneravano quello spirito, e solo in quanto un singolo serviva devotamente ad esso o ad un altro spirito affine, (per es allo "spirito della famiglia") costui poteva ottenere considerazione e importanza. Soltanto in grazia dell'essere superiore, chiamato popolo, il singolo "membro" del popolo valeva qualcosa. Allo stesso modo che tu ci sei sacro in virtù dell' "uomo" che scorgiamo in te, così allora si era resi sacri per il prestigio di qualche ente superiore, popolo, famiglia, ecc. Se io mi prendo cura di te perché ti amo, perché il mio cuore trova alimento in te e i miei bisogni hanno in te la loro soddisfazione, ciò non avviene già per amor d'un essere superiore, di cui tu sei l'involucro sacro, né perché io vegga in te uno spirito che attraverso il tuo corpo mi si riveli, ma per soddisfare il mio egoismo. Tu stesso mi sei caro, così come sei poiché il tuo essere non è superiore a te, non è più elevato, più universale di te, ma è con te la stessa cosa: è ciò che tu sei.

Ma il fantasma non è solo nell' uomo; è in ogni cosa. L'essere superiore, lo spirito, compenetra ogni cosa. Spiriti da ogni parte!

Gioverebbe qui una rassegna di tutti gli spiriti che aleggiano per ogni dove, se più sotto essi non ci dovessero riapparire per dileguar qual nebbia al sole dell'egoismo. Perciò ci restringeremo ad accennare alcuno a mo' d'esempio, per occuparci del modo con cui ci dobbiamo comportare verso di loro: tali lo "spirito santo", la verità, il diritto, la legge, la giusta causa, la maestà, il matrimonio, la salute pubblica, l'ordine, la patria, ecc.


UN RAMO DI PAZZIA.

O uomo, la tua testa non è a segno; tu hai un granello di follia. Tu immagini grandi cose, dipingi alla tua fantasia un intero mondo di dei fatto per te solo, un regno degli spiriti al quale tu solo sei destinato: un ideale che a sé ti chiama. La tua è un'idea fissa.

Non pensare già che io scherzi o parli in stile biblico, se considero quegli uomini, anzi la maggior parte degli uomini che vivono sotto il fascino delle cose elevate, quale altrettanti "pazzi" degni del manicomio.

Che cosa s'intende per "idea fissa"? Un'idea della quale l'uomo si è reso schiavo. Se da una tale idea fissa voi riconosceste che l'uomo è pazzo voi chiudete in un manicomio, colui che n'è schiavo. E non sono forse tali i dogmi della fede, dei quali non è lecito dubitare la maestà, per esempio, del popolo alla quale non si deve attentare (chi lo fa si rende colpevole di lesa maestà); la virtù che il censore tutela col dar l'ostracismo ad ogni parola che possa ledere in qualunque modo la moralità, ecc.? Non sono forse, tutte codeste, "idee fisse" ? Non son forse tutte stolte chiacchiere, quelle, per esempio, della massima parte dei nostri giornali; chiacchiere di pazzi, dominati dall'idea fìssa della moralità, della legalità, del cristianesimo, erranti liberi per il mondo poiché tanto vasto è il manicomio che li accoglie? Se ad alcuno di cotali pazzi si tocca il tasto dell'idea fissa, ecco che ci sarà necessario d'assicurarci contro la sua furia. Giacché questi grandi pazzi rassomigliano ai pazzi ordinari in ciò, che essi assalgono proditoriamente chi s'attenta a dissuaderli dalla loro "idea fissa". Prima gli tolgono l'arma; poi la parola, ed in fine piombano su di lui per dilaniarlo colle loro unghie. Ogni giorno ci fornisce nuove prove della vigliaccheria e degli istinti di vendetta di tali pazzi, e il popolo sciocco plaude alle loro folli attitudini. Bisogna leggere le gazzette dei nostri giorni per acquistare l'orribile convincimento, che si è rinchiusi insieme con dei pazzi. — "Tu non devi dar del pazzo al fratello tuo, altrimenti, ecc.". Ebbene, io non temo la vostra maledizione e dico: "i miei fratelli sono pazzi, arcipazzi". Che un disgraziato inquilino del manicomio s'immagini d'essere il Padre Eterno, l'imperatore del Giappone, oppure lo Spirito Santo, o che un bravo borghese persuada a sé stesso ch'egli è destinato ad essere un buon cristiano, un fedele protestante, un cittadino devoto al governo, un uomo virtuoso e cosi via
si tratta pur sempre d'una "idea fissa". Colui che non ha tentato mai né mai osato di cessar d'essere (fosse pure per un momento) un buon cristiano, un fedele protestante, un uomo virtuoso è prigioniero e schiavo della sua fede, della sua virtù. Come gli scolastici non filosofavano che entro i limiti dei dogmi della Chiesa e il papa Benedetto XIV scriveva dei grossi volumi il cui contenuto non esorbitava dai confini delle superstizioni papistiche, come molti scrittori pubblicarono innumerevoli in-folio sullo "Stato" senza mettere in dubbio l' idea fissa dello Stato, come le colonne dei nostri giornali sono ripiene di politica, perché coloro che li scrivono sono dominati dall'idea che l'uomo sia destinato ad essere un "animale politico"; cosi vegetano anche i sudditi nella sudditanza, i virtuosi nella moralità, i liberali nell'umanesimo, ecc. senza mai provare contro tali loro idee fisse il coltello della critica. Immutabili, al pari delle monomanie dei pazzi quelle idee, se ne stanno su fondamenta di granito, e guai a chi s'attenta a toccarle — perché son cose sacre! L'idea fissa: ecco ciò ch'è sacro.

Ci abbattiamo noi forse soltanto in uomini ossessi dal demonio, oppure anche in persone ossesse dall' idea del bene, della virtù, della moralità, della legge, o da qualche altro "principio"?

Le ossessioni e possessioni diaboliche non sono le sole esistenti. Dio agisce su noi, ma su noi agisce pure il demonio; le opere di Dio sono effetti della "grazia divina", le altre della "malia del demonio". Gli ossessi sono posseduti dalle loro opinioni.

Se la parola "ossessione" vi spiace, adoperate per l'altra di "prevenzione"; anzi, poiché lo spirito vi possiede e da esso vi vengano tutte le ispirazioni, dite pure "entusiasmo". Io soggiungo che l'entusiasmo perfetto — non volendo indugiare a parlar dell'entusiasmo non sincero — si chiama fanatismo.

Il fanatismo ritrovasi precisamente nelle persone colte; giacché colto è l'uomo il quale dimostra interesse per le cose spirituali; ora quando un tale interesse si manifesta in atto diviene (né altrimenti potrebbe essere) "fanatismo"; è cioè un interesse fanatico per una cosa "sacra" (fanum). Si guardi un po' ai nostri liberali; si getti un'occhiata sui giornali patriottici della Sassonia; si ascolti quello che dice la Schlosser [(1) Il Secolo XVIII, II. 519.]: "La società dell'Holbach formava una vera trama contro la dottrina rivelata e contro il sistema vigente, e coloro che vi avevano parte erano altrettanto fanatici del loro ateismo, quanto i frati e i preti, i gesuiti e i pretisti, i metodisti e i missionari e le società della Bibbia del loro servizio divino meccanico e della loro fede nei dogmi".

Si ponga attenzione al modo con cui oggidì si comporta un uomo "morale", che pur presume molto spesso di essersi sbrigato di Dio e rigetta il cristianesimo come un'anticaglia. Se gli si domanda se abbia mai dubitato che l'accoppiamento tra fratelli non sia un incesto, che la monogamia non sia il vero matrimonio, che la pietà non sia sacro dovere ecc., egli proverà un brivido morale. E donde questo brivido? Dalla sua fede nei precetti dell'etica. Quella fede morale ha profonde radici nel suo petto. A nulla gli giova il suo travagliarsi contro i devoti cristiani; egli stesso è rimasto sempre cristiano, cioè un cristiano morale. Sotto forma di moralità il cristianesimo lo tiene schiavo, e propriamente schiavo della fede. La monogamia dev'essere una cosa sacra, e chi vive in bigamia dev'essere punito; punito chi si rende colpevole di incesto. In ciò appaiono perfettamente d'accordo tutti quelli che si danno faccenda a gridare che lo Stato non deve curarsi della religione e che l'ebreo è un membro dello stato al pari del cristiano. L'incesto e la monogamia non sono forse ancor essi "articoli di fede"? Si provi a toccarli, e anche quell'uomo morale si rivelerà un eroe della fede, come Krummacher e Filippo II. Questi combattevano per la loro fede religiosa; quegli combatte per la sua fede nello Stato, o nelle leggi morali onde lo Stato è disciplinato. Per articoli di fede tanto gli uni quanto gli altri condanneranno chiunque dissenta dalla loro fede: gli imprimeranno in fronte il marchio del "delitto" e lo manderanno a marcire nelle case di correzione morale, nelle carceri. Le credenze morali sono fanatiche quanto le religiose! E si ardisce parlare di "libertà di credenze" quando si gettano in un carcere dei fratelli che si rendono colpevoli d'un accoppiamento che dovrebbero giustificare unicamente dinanzi alla "propria coscienza"? "Ma essi davano un esempio pernicioso"! E si, perché anche a qualcun altro potrebbe cader in mente che lo Stato non abbia da impacciarsi di simili cose, e allora addio "sicurezza di costumi"! E così è degli eroi religiosi: alcuni difendono la "santità di Dio", altri la "santità della morale".

Gli zelanti dalle cose sacre talvolta poco si rassomigliano tra di loro. Di quanto i rigorosi ortodossi o i vecchi credenti non differiscono dai combattenti per la "libertà, per la luce e pel diritto", dagli amici della luce, dagli illuminati, ecc.? Eppure nulla havvi d'essenziale in tale differenza. Se vi provate a scuotere l'una o l'altra delle verità dogmatiche (per esempio i miracoli, la potestà assoluta del principe, e cosi via), i liberali vi aiuteranno, e solo i vecchi credenti strilleranno. Ma se toccate alle fondamenta della stessa verità, vi troverete di fronte, quali avversari, i credenti d'ambo le specie.

La stessa cosa vale per ciò che riguarda i costumi morali. I credenti ortodossi non conoscono l'indulgenza; gli intelletti più aperti sono i più tolleranti. Ma chi s'attenta a toccare alla moralità per sé stessa avrà da fare con gli uni e con gli altri. "Verità, moralità, diritto progresso, ecc." devono essere e rimaner "sacri". Ciò che nel cristianesimo da argomento di biasimo dev'essere appunto, sostengono i liberali, anticristiano; il cristianesimo per sé stesso deve restare una torre "incrollabile", ed il cercar d'abbatterla è un "crimine".

E’ ben vero che l'eretico contro la vera fede non s'espone più oggidì, come un tempo, al pericolo della persecuzione; ma ben più trista sorte attende l'eretico contro i buoni costumi.

La religiosità ha dovuto subire da un secolo tante scosse, e la sua essenza sovrumana ha sentito tante volte tacciarsi di inumana, che non si è più tentati ormai di contrastarla. Eppure quasi sempre sono scesi in lizza contro essa degli avversari morali per combattere l'ente supremo in favore di un altro ente supremo. Cosi s'esprime Proudhon senza riguardo: "L'uomo è destinato a vivere senza religione, ma la legge morale è eterna ed assoluta. Chi oserebbe oggidì di assalir la morale?"

I moralisti schiumarono ciò che v'era di più grasso nella pentola della religione, lo assaggiarono, ed ora non sanno come liberarsi dalla ipertrofia glandulare che li ha colti.

Se dunque noi osserviamo che la religione non corre pericolo d'esser lesa intimamente per ciò che solo le si rimproveri la sua essenza sovrumana, e che essa, in ultima istanza, si rivolge allo spirito (poiché Dio è spirito), ci sembra d'aver dimostrato a sufficienza come nelle sue ultime conseguenze essa possa accordarsi assai bene colla moralità, sicché possiamo tralasciar d'occuparci della lotta ostinata che contro di quella sostiene. Per entrambe la posta è un ente supremo; ne a noi importa che questo sia un essere umano, od un essere sovrumano, poiché si tratta nell' uno o nell'atro caso d'un essere che si sovrappone al nostro. Al postutto, l'uomo, poiché avrà gettato da sé la pelle di serpente dell'antica religione, ne rivestirà tosto un'altra.

Cosi Feuerbach ci insegna che col solo invertire la filosofia speculativa, cioè col fare del predicato il soggetto e del soggetto l'oggetto ed il principio, si ottiene la genuina, la pura la nuda verità [(1) Anekdota II, 64]. Con ciò noi perdiamo Dio, che nel rispetto della religione circoscritta è il soggetto , ma in compenso acquistiamo l'altra parte del concetto religioso: la morale. Per esempio, noi non diciamo più: "Dio è l'amore"; bensì "l'amore è divino". Se ora mettiamo in luogo del predicato "divino" l'equivalente "sacro", le cose ritornano al loro posto antico. L'amore sarebbe dunque ciò che v'ha di buono nell'uomo, la sua divinità, così che gli torna ad onore, la sua vera "umanità" (onde solo può esser chiamato uomo).

E per spiegarci più chiaramente, le cose starebbero cosi: l'amore è la qualità per eccellenza "umana" dell'uomo, e l'egoista senza cuore e l' "inumano".

Ma per l'appunto tutto ciò che il cristianesimo ed anche la filosofia speculativa, cioè la teologia ci offrono per "buono", per "assoluto" in sé, non è già propriamente il bene; cosi, col mutare il predicato nel soggetto, l'essenza cristiana (e il predicato contiene in sé l'essenza) non diverrebbe che più opprimente.

Dio e il divino si confonderebbero ancora più inestricabilmente con l'Io.

Cacciare Dio dal suo cielo e privarlo del suo carattere trascendentale non può ancor significare una  piena  vittoria,  se  con  ciò  lo  si  confina  nel  cuore  umano  dotandolo  d'un'indistruttibile "immanenza". Allora si dice: il divino è ciò che è veramente umano!

Le persone stesse, cui ripugna l'idea d'un cristianesimo posto a fondamentdello Stato (cioè del cosiddetto Stato cristiano) non si rimangono dal ripetere che la moralità è "la pietra angolare della vita sociale e dello Stato". Come se l'impero della morale non fosse l'impero d'una cosa sacra, non fosse una "gerarchia"!

Vogliamo qui accennare di volo all'indirizzo liberale, il quale, dopo che i teologi ebbero asserito per lungo tempo la fede sola esser capace a far comprendere la verità della religione; Dio manifestarsi ai soli credenti; il cuore solo, il sentimento, la fantasia piena di fede, esser religiosi; proclamò che anche l' "intelletto naturale" e la ragione umana sono capaci della conoscenza di Dio. Che cosa significa ciò se non che anche la ragione pretende di esser altrettanto fantastica quanto l'immaginazione?

In questo senso Reinaro scrisse le sue "più importanti verità sulla religione naturale". Si doveva venire a tale che l'uomo tutt'intero e con tutte le sue facoltà si dimostrasse religioso; cuore e sentimento, intelletto e ragione, sentire sapere e volere in breve tutto nell'uomo apparve religioso. Hegel ha dimostrato che persino la filosofia è religiosa. E che cosa oggidì non si comprende sotto il nome di religione? La "religione dell'amore", la "religione della libertà" la "religione politica", in breve tutti gli entusiasmi. E così stanno le cose realmente.

Oggi ancora noi adoperiamo il vocabolo a noi straniero di "religione" che contiene il significato della costrizione. Costretti noi siamo, è vero, in quanto la religione domina il nostro interno; ma è costretto, e vincolato anche lo spirito? Al contrario, esso è libero, è padrone assoluto di sé stesso; non il nostro spirito, bensì l'assoluto.

Per ciò la vera traduzione affermativa della parola religione sarebbe la "libertà di pensiero". Quegli il cui pensiero è libero e religioso allo stesso modo che è sensuale l'uomo che da libero sfogo ai suoi sensi. Il primo è costretto dallo spirito, il secondo dai suoi desideri sensuali. La costrizione o la "religione" significa dunque la religione nei suoi rapporti verso me stesso: io sono costretto; lo spirito è libero. Quanto male noi risentiamo allorché i nostri sensi ci trasportano liberi e sfrenati più d'uno saprà per esperienza: ma che lo spirito libero, la spiritualità dominante, l'entusiasmo per gli interessi spirituali, o comunque nelle sue varie metamorfosi si possa chiamare un cotal bene prezioso, possa recarci i più seri imbarazzi, non vuoi si ammettere e riconoscere, e, a vero dire, non lo si può senza essere coscientemente egoisti.

Reinaro e tutti gli altri che vollero dimostrare che anche la nostra ragione, il nostro cuore ecc., ci traggono verso Dio, non hanno fatto altro che rivelare che noi siamo al tutto ossessi. Certamente essi riuscirono ad offendere i teologi, ai quali di tal modo toglievano il privilegio dell'edificazione religiosa; ma alla religione stessa, alla libertà del pensiero, essi fecero guadagnar terreno sempre più. Poiché se lo spirito non è più ristretto al sentimento o alla fede, ma fa parte di sé stesso anche come intelletto e ragione, come pensiero in generale, ed è ammesso per conseguenza a prender parte quale intelletto alle verità spirituali e celesti, convien dire che lo spirito intero non è occupato che di cose spirituali, cioè di sé stesso ed è per conseguenza libero.

Ora noi siamo religiosi a tal punto che i "giurati" ci condannano a morte e che ogni guardia di questura può farci cacciare in prigione in forza del suo giuramento ufficiale.

Allora soltanto la moralità si sarebbe potuta mettere in contrasto colla religiosità, quando l'odio ribollente contro tutto ciò che somiglia ad un' "ingiunzione" (ordinanze, decreti, ecc.), trovava uno sfogo nella ribellione, e il "padrone assoluto" personale veniva deriso e perseguitato: essa poteva quindi innalzarsi all'indipendenza soltanto in grazia del liberalismo, la cui prima forma dette alla borghesia storica fama, e valse a fiaccare le autorità propriamente religiose. Poiché il principio che la moralità non sia serva della pietà religiosa, ma stia ritta su fondamenta proprie non s'attiene più ai comandamenti divini, bensì alla legge della ragione, dalla quale i comandamenti divini, per aver un valore, debbono ottenere una specie di sanzione. Nella legge della ragione l'uomo dispone di sé stesso, poiché egli è ragionevole, e dall' "essenza sua" quelle leggi si generano necessariamente. La religiosità e la moralità si distinguono tra loro in quanto per la prima legislatore è Dio, per la seconda l'uomo.

Da un certo aspetto della morale si ragiona a un depresso cosi: o l'uomo viene spinto dalla sua sensualità, ed egli, seguendola, diventa immorale; oppure lo spinge il bene, il quale tradotto in volontà diviene l'inclinazione morale; in tal caso si dimostra uomo morale. Come si potrebbe, per esempio chiamare a tal riguardo immorale l'azione dei Sand contro Kotzebue?

Essa fu per lo meno altrettanto disinteressata, quanto furono disinteressate in altre circostanze le ruberie di San Crespino in favore dei poverelli, "Egli non avrebbe dovuto uccidere, perché sta scritto: tu non devi uccidere!". Sicché servire al bene, alla salute pubblica, come almeno era l'intenzione di Sand è cosa morale, è morale il sacrificarsi per il bene dei poveri, come San Crispino; ma l'uccisione e il furto sono immorali: morale il fine, i mezzi immorali perché? "Perché l'uccisione e l'assassinio sono azioni assolutamente cattive per sé stesse".

Quando i guerriglieri attiravano i nemici della patria nei burroni, e li trucidavano non visti dai loro nascondigli, non commettevano forse un assassinio? Se voleste davvero esser fedeli al principio della morale, la quale impone di servire al bene, voi dovreste soltanto chiedervi se l'assassinio possa attuare il bene, e riconoscere per buono quell'assassinio che tal fine raggiunga. Voi non potete in alcun modo condannare l'azione di Sand; essa fu morale, perché spesa in servizio del bene, perché disinteressata; essa fu un atto di punizione eseguita da un singolo — un'esecuzione effettuata con pericolo della propria vita. Che cosa aveva voluto egli dopotutto, se non sopprimer uno scrittore colla brutale violenza? Non riconoscete voi lo stesso modo di agire quale "legale" e giusto? E che cosa potreste obiettare movendo dal vostro principio della moralità? — "Ma fu un atto contrario alla legge". Sicché l'immoralità dell'azione consisteva nella sua illegalità, nella ribellione contro la legge? Allora concedete voi stessi che il bene altro non è che la legge, e che la moralità è semplicemente l'ossequio alle leggi. Dunque la vostra moralità è costretta ad abbassarsi sino a quest'apparenza vana dell'ossequio, sino a questa, falsa devozione dell'adempimento della legge, con la sola differenza che quest'ultima è molto più tirannica e ripugnante dell'antica. Poiché per l'antica era sufficiente l'azione, per la vostra si richiede anche il pensiero; bisogna tener impressa entro stessi la legge, e chi meglio la osserva è il più morale di tutti. Anche l' ultima giocondità della vita cattolica deve tramontare in questa legalità protestante. Con questo l'impero della legge trionfa pienamente. Non già "io vivo", bensì "la legge vive in me". Sicché io sono giunto tale da esser unicamente "il vaso che racchiude la magnificenza della legge". "Ogni Prussiano alberga in sé un gendarme" disse un ufficiale prussiano di alto grado.

Perché certe opposizioni non possono aver lunga vita? Unicamente per questa ragione: che esse non vogliono abbandonare la via della moralità e della legalità. Da ciò proviene quella smisurata ipocrisia di devozione, d'amore, ecc.; e ogni giorno noi proviamo la profonda nausea che c’ispira codesta corrotta e ipocrita "opposizione legale". — Nei rapporti morali dell'amore e della fedeltà non c'è posto per una volontà a due tagli; il bel rapporto è turbato, se alcuno vuole una cosa e altri la cosa contraria, Invece secondo i criteri e l'uso sin qui seguiti e i pregiudizi dell'opposizione, è necessario conservare anzitutto intatti i rapporti morali. E che cosa resta all'opposizione? Forse l'esigere la libertà, quando l'essere amato trova opportuno di ricusarla? Niente affatto! Esigere la libertà essa non può, né deve; essa non può che desiderarla, fare "istanze" per ottenerla, balbettare un "prego, prego"! Che cosa succederebbe se l'opposizione volesse realmente, con tutta l'energia della volontà? No, essa deve rinunziare alla volontà e vivere per il solo amore, rinunziare alla libertà per amore della moralità. Essa non può giammai far valere come un "diritto" ciò che non le è concesso che di domandare come una "grazia". L'amore, l'abnegazione, ecc., esigono senza remissione che una volontà esista; alla quale le altre si sottomettano; cui esse servano, obbediscano, amino. Che quella volontà sia razionale o irrazionale non importa: in tutti i casi si agisce moralmente obbedendole, e immoralmente sottraendosi al suo dominio. Gli obblighi che impone la censura sembrano irrazionali a molti; tuttavia colui che in un paese dove esiste la censura le sottrae il libro che ha scritto, commette un'azione immorale, e agisce invece moralmente colui che glielo affida per l'esame. Se taluno, per esempio, istituisse una tipografia clandestina, costui si dovrebbe chiamare immorale, e avrebbe anche nome d'imprudente quando si lasciasse cogliere in fallo; ma potrebbe almeno egli pretendere d'aver un valore agli occhi delle "persone morali"? Forse! — nel caso, cioè, ch'egli avesse fede di servire ad una "morale più elevata".

La trama dell'odierna ipocrisia è tesa tra i confini di due campi: e la nostra età trascorre dall'uno all'altro tessendo e ritessendo le fila dell'inganno e dell'illusione di sé stessa. Non più robusta abbastanza da servire senza dubbi e con tutte le sue forze alla moralità, non sufficientemente scevra di scrupoli per dedicarsi esclusivamente all'egoismo, essa si dibatte convulsa entro la ragnatela dell'ipocrisia, e paralizzata dalla maledizione della mediocrità coglie dei miserabili moscerini.

Se talvolta abbiamo ardito di fare una proposta "franca e schietta", noi ci affrettiamo ad annacquarla con assicurazioni amorose simulando rassegnazione; se dall'altra parte abbiamo avuto il coraggio di respingere una audace proposta con accenni morali alla buona fede, ecc., di lì a poco questo nostro coraggio vien meno, e noi ci affrettiamo a dichiarare che quella franca proposta ci piacque: simuliamo, cioè, d'approvare. In breve, noi si vorrebbe possedere tale cosa, ma non senza privarci d'una cotal altra: noi si vorrebbe possedere una libera volontà ma senza doverci privare della volontà morale.

Provatevi, o liberali, a trovarvi insieme con un uomo servile. Voi vi sforzerete di raddolcirlo con lo sguardo della più fiduciosa devozione ogni parola libera che pronuncerete, e quegli rivestirà il suo servilismo delle frasi più seducenti di libertà. E quando vi separerete, voi penserete allo stesso modo uno dell'altro: Ti conosco, vecchio volpone! Egli subodora in voi tanto bene il nuovo Satana, quanto voi in lui l'antico Dio accigliato.

Nerone è un uomo "malvagio" soltanto agli occhi dei "buoni": ai miei egli non è che un ossesso, al pari di quelli che chiamate i "buoni". Questi scorgono in lui un fior di birbante e lo confinano nell'inferno. Ma perché nulla l'ha trattenuto dalle sue azioni arbitrarie? perché si è tollerato che le commettesse? I pazienti Romani che si erano lasciati imporre la volontà di quel tiranno, erano forse migliori di lui? L'antica Roma lo avrebbe giustiziato immediatamente, né giammai egli avrebbe potuto renderla sua schiava. Ma i "buoni Romani della sua età non seppero opporre alla sua tirannia che dei postulati morali, e non già la propria volontà; essi deploravano lacrimando che il loro imperatore non rendesse omaggio alla moralità al par di loro stessi; essi rimasero " sudditi morali " sino a tanto che uno trovò il coraggio di bandire dal proprio cuore" i sentimenti obbedienti e morali del suddito. Ed allora gli stessi "buoni Romani", che da "sudditi ossequenti" avevano sopportata tutta la vergogna dell'apatia inneggiarono all'atto delittuoso ed immorale dell'insorto. Dov'era allora nei "buoni" quel coraggio della rivoluzione che oggi esaltano, da poi che si trovò chi la seppe compiere? I buoni ne erano incapaci, poiché una "rivoluzione" e peggio ancora un' "insurrezione" è sempre una cosa "immorale", alla quale ci si può risolvere solo allorquando si cessa dall'esser "buoni" e si diventa "malvagi".

Nerone non era peggiore della sua età, nella quale bisognava essere, senz'altra alternativa, o "buoni" o "malvagi". Il suo secolo dovette giudicarlo malvagio nel più tristo senso della parola. Tutte le persone «morali» devono giudicare di lui a questo modo. Di furfanti, simili a lui, ne vivono anche oggidì (vedi, per esempio, le memorie del cavaliere di Lang) in mezzo alla gente morale. Non si vive, com'è naturale, comodamente in mezzo a loro poi che non si è mai sicuri della propria vita; ma si vive forse meglio tra la gente morale?

Anche tra "i buoni" non si è ben sicuri della propria vita, con la sola differenza che se ti impiccano, essi lo fanno in "nome della legge"; meno ancora poi si è sicuri del proprio onore poi che la coccarda nazionale sparisce in men che non si dica,

Il pugno rude della moralità non fa troppi complimenti coll'egoismo.

"Ma non si può infine mettere allo stesso grado un furfante ed un uomo onesto?"

Ebbene, nessuno fa ciò più facilmente di voi stessi, o giudici della morale; anzi, peggio ancora, voi cacciate in prigione, al pari dell'infimo delinquente, ogni uomo onesto che si permetta di levare francamente la voce contro l'ordine vigente delle cose, contro le sacrosante istituzioni, ecc ; mentre al furfante raffinato voi cedete il vostro portafoglio ed altre cose di ben maggior importanza. Sicché "in pratica" voi nulla mi potete rimproverare. Ma bensì "in teoria". Ebbene, allora porrò l'uno e l'altro su d'un medesimo livello, ma quali due poli opposti: tutti e due sul livello della legge morale. Entrambi non hanno un significato che nel mondo "morale", allo stesso modo che nei tempi precristiani un ebreo eterodosso ed un ortodosso non differivano tra di loro che per rapporto alla legge giudaica, mentre dinanzi al Cristo il fariseo non contava di più dei "peccatori e dei pubblicani". Allo stesso modo per l'individualità il fariseo morale è simile al peccatore immorale.

Nerone si rese molto incomodo per la sua ossessione. Ma l'uomo che obbedisce unicamente alla propria natura non gli avrebbe stupidamente contrapposto il "sacro," per poi sfogarsi in geremiadi vane se il tiranno di ciò non si curava; bensì gli avrebbe contrapposta la propria volontà. Quanto spesso la santità degli inalienabili diritti umani vien rinfacciata a chi li avversa, quanto si dimostra che una libertà qualunque è un "sacrosanto diritto umano"! Coloro che così agiscono meritano d'esser derisi; e ciò, del resto, succederebbe a loro di frequente se non prendessero, fosse pure incoscientemente, la via che deve condurli alla meta. Essi comprendono che non appena si saranno cattivati gli animi in favore di quella libertà che propugnano, la maggioranza vorrà la medesima cosa ed otterrà ciò che essa vuole. Con questo non riusciranno mai a dimostrare la santità di quella libertà che propugnano: le lamentazioni e le suppliche rivelano appunto l'accattone.

L'uomo "morale" è necessariamente limitato nelle sue vedute dal non conoscere egli altri nemici all'infuori dell'uomo "immorale". "Chi non è morale è immorale!" la qual cosa significa abietto, spregevole ecc. E perciò l'uomo morale non può riuscire a comprendere l'egoista.

Non è forse il concubinaggio un'immoralità?

L'uomo morale può fare tutti gli sforzi possibili ma non potrà liberarsi da questo pregiudizio. Ad Emilia Galotti questa verità morale costò la vita. E infatti quella è un'immoralità. Una giovane virtuosa diventi pure una vecchia zitella; un uomo virtuoso si strugga pure nella vana fatica di soffocar i suoi istinti naturali, si faccia pure evirare, come origine, per amore del cielo: con ciò essi rendono onore alla santità del matrimonio, riconoscono inviolabile la santità della castità; e tutto ciò è morale. L'inverecondia non può giammai elevarsi a tanto da esser cosa morale. Per quanto l'uomo morale possa giudicar benevolmente e scusare chi si è reso colpevole d'un atto inverecondo, questo rimane tuttavia un peccato contro un precetto morale, e gli resta impressa una macchia indelebile: sicché come una volta castità faceva parte dei voti claustrali così essa fa ora parte della moralità. La castità è un bene. Per contro, per l'egoista la castità non rappresenta un bene per lui necessario; perciò non la cura. Che cosa ne segue pel giudizio dell'uomo morale? Questo: che egli pone l'egoista in quella sola classe d'uomini ch'egli conosce all'infuori degli uomini "morali" — cioè in quella degli "immorali". Egli non può agire diversamente: deve giudicar immorale l'egoista tutte le volte che questi non cura la moralità.

Se non agisse in tal modo egli avrebbe già rinunciato alla moralità, senza confessarselo, e non sarebbe più l'uomo morale nel senso ch'egli attribuisce a questa parola. Eppure, converrebbe non vero lasciarsi traviare da tali fatti, i quali oggidì non sono dei più rari, e considerare che chi cede nelle questioni di moralità può essere annoverato tanto poco tra le persone "morali", quanto tra i cristiani Lessing, il quale nella nota parabola paragona la religione cattolica, al pari della maomettana e della giudaica, ad un anello "falso",

Talora si è andati più oltre che non s'ardisca di confessare. — Per Socrate, che rimaneva nel campo della moralità, sarebbe stata un'immoralità l'obbedire alle seducenti suggestioni di Critone e il sottrarsi alla prigione; restarci, era la sola cosa che la moralità imponeva.

Ma ciò fu possibile solo perché Socrate era un uomo morale. All'incontro "gli scostumati, i perfidi uomini della rivoluzione" avevano giurato fedeltà a Luigi XVI, e tuttavia decretarono la deposizione ed anche la morte di lui, e perciò la loro fu "d'azione immorale," della quale gli uomini "morali" avranno orrore finché durerà il mondo.

Più o meno tutto ciò si riferisce alla "moralità borghese" che i più liberali riguardano con disprezzo. Essa è, come la borghesia in generale, ancor troppo poco lontana dal cielo religioso troppo poco libera per non dover appropriarsene la legge, anziché generare delle proprie leggi indipendenti. Tutt'altro aspetto assume la moralità quando assurge alla coscienza della  sua dignità e si prefigge per unico principio determinante l'essenza dell'uomo: "l'uomo". Coloro che faticosamente sono giunti a tale coscienza determinata, ripudiano del tutto la religione il cui Dio non trova più posto presso all' "uomo", e coll'applicare il loro trapano alla nave dello Stato minano anche la "moralità" che nello Stato solamente può prosperare; anzi per essere conseguenti, dovrebbero rinunziare anche al nome di moralità. perché ciò che quei critici chiamano moralità si distingue essenzialmente dalla "moralità" politica e borghese "e deve apparire al buon cittadino come una libertà insensata e sfrenata". In fondo però essa non ha per sé che la "purezza del principio", il quale, liberato dal suo rozzo connubio colla religione, assorge all'onnipotenza nella manifestazione purificata di "umanità". Perciò non bisogna meravigliare s il nome di moralità vien mantenuto accanto a quelli di libertà, umanità coscienza di sé stessi, ecc., e viene adornato forse soltanto dal predicato di "libera" — allo stesso modo che lo "Stato" (quantunque il reggimento borghese ne subisca una diminuzione) si rinnova sotto la forma di "stato libero" o per lo meno di "società libera". Da poi che la moralità perfezionatasi nell'umanesimo ha definito le sue controversie colla religione, dalla quale storicamente è sorta, nulla le impedisce di diventar religione per conto proprio. Tra religione e moralità regna infatti una diversità solo sino a tanto che i nostri rapporti colla società umana sono regolati e consacrati dalla dipendenza nostra da un ente sovrumano, ovvero sino a tanto che tutto il nostro agire è un agire per "l'amor di Dio". Ma se si giunge a tale che "per l' uomo l'ente supremo sia rappresentato dall' uomo medesimo", quella diversità sparisce, e la moralità — sottratta alla posizione subordinata che prima occupava — s'innalza alla perfezione d'una religione. In tal caso l'uomo, che sino allora era soggetto ad un ente supremo, ha raggiunto il più alto grado del suo valore, e noi informiamo i nostri rapporti con lui alla stregua di quelli coll'ente supremo, vale a dire religiosamente: "moralità e pietà" divengono nuovamente sinonimi come ai primi tempi del cristianesimo e soltanto perché l'ente supremo è divenuto un altro, una condotta morale non si chiamerà più "santa" bensì "umana". Con la vittoria sulla moralità dovrà avverarsi un compiuto cambiamento di padrone.

Distrutta la fede, Feuerbach crede d'entrare nel porto apparentemente tranquillo dell'amore. "Prima ed altissima legge deve esser l'amore dell'uomo per l'uomo "Homo homini Deus est" - ecco il supremo principio pratico — ecco il momento critico della storia universale [(1) Essenza del cristianesimo, 2a edizione, p. 402].

In realtà però di mutato non v'è che Dio, il «Deus» ; l'amore è rimasto; là avevamo l'amore per un Dio sovrumano qui abbiamo l'amore per un Dio umano, per l' "homo" quale "Deus". Dunque l'uomo è per me sacrosanto. E tutto ciò che è "prettamente umano" è per me "sacrosanto". Il matrimonio è sacro per sé stesso. E la stessa cosa deve dirsi di tutti gli altri rapporti morali. "Sacrosanta è, e dev'esserti, l'amicizia, sacrosanti la proprietà, il matrimonio, il benessere dei singoli, ma tutto ciò dev'essere sacrosanto per sé stesso" [(2) Op. cit., pag. 408.]. Non sembra di sentir parlare un prete? Chi è il suo Dio? L'uomo! Che cosa è divino? Ciò che è umano! In tal modo s'è operato effettivamente il mutamento del predicato nel soggetto, ed invece della tesi "Dio è l'amore" si dovrà dire "l'amore è divino"; invece di "Dio s'è fatto uomo": "l'uomo s'è fatto Dio" [(3) Id., ibidem.].

Come si vede, non si tratta che d'una nuova religione, "tutti i rapporti morali non son tali e non vengono coltivati con senso morale, che in quanto valgono come religiosi (senza che il prete abbia a consacrarli)". La frase del Feuerbach: "la teologia è un'antropologia" non significa che questo: "la religione è l'etica, e soltanto l'etica è religione".

Del resto Feuerbach non ottiene che un'inversione di soggetto e di predicato, a tutto vantaggio di quest'ultimo. Ma poi che egli stesso dice: "Non è vero che l'amore sia santo, e tale riguardato dagli uomini, per essere un attributo di Dio — ma è vero invece ch'esso è attributo di Dio perché in sé stesso è divino", egli si sarebbe potuto accorgere che bisognava cominciare a muover guerra ai predicati stessi, l'amore e le santità di ogni specie. In qual modo poteva egli sperare d'allontanar gli uomini da Dio, senza togliere loro anche l'idea della divinità? E se, come Feuerbach sostiene, per gli uomini l'essenziale non era già Dio, bensì i suoi attributi, egli, poteva passarsi dallo spogliare dei suoi ornamenti il feticcio, da poi che questo, il vero nocciolo del tutto, restava. Egli stesso riconosce che non mirava che a "distruggere un'illusione" [(1) Op. cit., pag. 403.]; ma soggiunse che a suo avviso quella illusione era assai perniciosa per gli uomini, poi che persino l'amore, il più intimo e vero dei sentimenti, in grazia della religiosità diviene vano e senza significato, dacché l'uomo religioso non ama il suo simile che per amore di Dio [[NOTA FUORI CAMPO] Dolce Stil Novo [DANTE]], dunque non quello ama ma Dio soltanto. L'amore morale è forse diverso? L'uomo che ad esso si ispira ama forse il suo simile perché questi è un uomo determinato, o non l'ama invece per amore della morale, per amore dell'uomo in genere, e, in conclusione — poi che homo homini Deus — per amore di Dio?

Il ramo di pazzia ha ancora gran numero di lati formali dei quali alcuni sarà bene accennar qui..

Il sacrificio di sé stessi, per un esempio, è comune tanto ai santi quanto ai non santi, così ai puri come agli impuri. L'impuro rinnega tutti i "migliori sentimenti", come il pudore e la timidezza naturale, e non obbedisce che ai desiderî dov’è signoreggiato. Il puro rinnega i suoi rapporti naturali col mondo ("rinnega il mondo") e non obbedisce che alla "brama" da cui è dominato. Accecato dalla fame dell'oro, l'avaro pone in non cale i precetti della coscienza, l'amor proprio, la dolcezza dei modi, la compassione; egli bandisce ogni riguardo: la passione lo trascina con sé. Il "santo" si comporta allo stesso modo. Egli rende sé stesso "ludibrio del mondo" è duro di cuore, fanatico della giustizia: pur egli è trascinato dalla sua passione. Allo stesso modo che il non santo rinnega se stesso dinanzi al Dio dell'oro, così il santo rinnega sé stesso dinanzi a Dio ed alle leggi divine.

Noi viviamo in un'età in cui la sfrontatezza dei santi si fa sentire sempre più, in modo da smascherarsi e svelarsi del tutto. La sfrontatezza e la stupidità degli argomenti con cui si tenta di contrastare il "progetto dei tempi" non sorpassano forse ogni misura ed ogni previsione? Ma così doveva avvenire; quelli che rinnegano sé stessi perché sono santi devono fare lo stesso cammino degli empi, e come questi gradatamente vanno sprofondando nell'abisso della volgarità e della bassezza, così quelli sono costretti a salire alla più disonorante altezza.

Il mammone terrestre e il Dio del cielo esigono entrambi lo stesso grado d'abnegazione. L'abietto e il sublime cercano entrambi un "bene"; quegli uno materiale, questi uno ideale: il cosiddetto "bene supremo"; ed entrambi alla fine si compendiano, dacché colui che prosegue d'amore le cose materiali sacrifica tutto ad un fantasma ideale — la sua vanità — mentre l'uomo tutto "spirituale" sacrifica ai godimenti materiali "la vita comoda".

Gran cosa credono di dire coloro che raccomandano agli uomini "il disinteresse". Che cosa intendono essi con questa parola? Probabilmente alcunché di consimile all' "abnegazione". Ma chi è quegli che dev'esser rinnegato e non deve trarre profitto da cosa alcuna? Sembra che debba esser tu stesso! E a profitto di chi ti si raccomanda il disinteresse? Sempre a tuo profitto, con la sola differenza che tu col disinteresse procuri "il tuo vero vantaggio".

A te tu devi esser utile, ma senza cercare di procurarti un vantaggio. Si ha in conto di disinteressato il benefattore dell'umanità, un Franke che ha fondato il primo orfanotrofio, un O' Connell che lavora indefessamente a favore della sua patria; ma si tiene in ugual conto anche il fanatico, che, come San Bonifacio, mette in grave pericolo la sua vita per convertire i pagani, o, come Robespierre, sacrifica ogni cosa alla virtù, o, come Korner, si immola per il suo Dio, per il re e per la patria. Per ciò gli avversari di O' Connell gli rimproverano d'esser interessato ed avido di lucro, e la "rendita O' Connell" parrebbe dar loro ragione, e certo è che posto in dubbio il suo "disinteresse" diventa facile offuscare il buon nome ond'egli gode presso i suoi seguaci.

Ma che cosa costoro potrebbero provare, se non che O' Connell prosegue un intento diverso da quello ch'egli afferma di proporsi? Che egli cerchi di far danari o di render libero il suo popolo, non rileva; l'interesse esiste pur sempre, con questa sola differenza: che il suo interesse potrebbe giovare anche ad altri e diventare per ciò un interesse comune.

Ora, il disinteresse è forse una cosa irreale? Al contrario, nulla havvi di più comune? Anzi si potrebbe chiamarlo un oggetto di moda del mondo civile, tenuto per così necessario che quando ad averlo di stoffa solida troppo costi, lo si acquista di qualità inferiore, a buon mercato, e lo si ostenta in ogni modo. Dove incomincia il disinteresse? In quel punto, propriamente, in cui un intento cessa d'esser proprietà nostra, della quale possiamo usare a nostro agio, e diviene un fine così vivamente imperioso ch'ei ci soggioga, un'idea fissa che ci rapisce d'entusiasmo e ci costringe all'obbedienza. Non si è disinteressati sino a tanto che si sa padroneggiare il proprio scopo; lo si diviene invece soltanto quando si giunge a pronunciare il famoso: "Qui mi sto e non posso agire diversamente", la frase sacramentale di tutti gli ossessi; lo si diviene per un fine santo e con un corrispondente zelo santo.

Io non sono disinteressato sino a tanto che lo scopo rimane cosa mia propria, ed io, invece d'abbassarmi ad essere il cieco strumento del suo compimento, l'ho costantemente in mio potere. Il mio zelo non sarà perciò minore di quello del fanatico, ma in pari tempo io mi conserverò freddo, incredulo ed inesorabilmente nemico verso di esso. Io sono il suo giudice, poi che esso è mia proprietà. Il disinteresse pullula rigoglioso con la ossessione, tanto nei possedimenti del demonio, quanto in quelli dello spirito benigno; da una parte i vizi, le follie — dall'altra l'umiltà, il sacrificio, ecc.

Dovunque giri lo sguardo, appaiono le vittime del sacrificio di se stessi. Ecco, di contro a me è assisa una giovane, la quale forse da ben dieci anni offre sacrifici sanguinosi alla sua anima. Coll'opulenza del corpo contrasta il viso pallido e mortalmente stanco: il suo pallore tradisce il lento dissanguamento in cui la sua giovinezza perisce. Povera creatura, chi sa quante volte le passioni hanno fatto palpitare il tuo cuore, quante volte la gioventù ha reclamato impetuosamente i suoi diritti! Quando il tuo capo si agitava convulso sul molle origliare, quando i ridestati istinti della natura facevano fremere tutte le tue membra, le tue vene s'inturgidivano e l'accesa fantasia ti faceva sorgere innanzi incantevoli immagini voluttuose. Allora ti appariva dinanzi lo spettro dell'anima e della salute eterna. Tu inorridivi, le tue mani si giungevano, i tuoi occhi contristati guardavano in alto, tu pregavi. Le tempeste della natura s'assopivano, la calma sottentrava alla tempesta delle tue concupiscenze. Lentamente le tue palpebre si abbassavano velando a te la visione della vita; dalle membra turgide spariva a poco a poco la tensione; nel cuore si quietavano le onde agitate; le mani giunte pesavano inerti sul seno non più ribelle; un ultimo gemito — e l'anima era tranquilla, Tu t'addormentavi per ridestarti l'indomani a nuove lotte ed a nuove preghiere. Ora la consuetudine della rinunzia ha raffreddato le vampe del desiderio, e le rose della tua giovinezza impallidiscono nell'anemia della tua beatitudine. L'anima è salva, perisca pure il corpo! O Laide, o Ninon, quanto bene avete fatto a disprezzare quella pallida virtù! Una libera "grisette" vale mille vergini incanutite nella virtù!

Anche in forma di "principi e di precetti" l'idea fissa si fa sentire.

Archimede chiedeva un punto fuori della terra per poterla smuovere. Questo punto cercarono tutti gli uomini, ciascuno a suo modo. Esso è il mondo dello spirito, delle idee, dei pensieri, dei concetti, degli enti: esso è il cielo. I1 cielo è il punto dal quale si vuole smuovere la terra, dal quale si assiste alla vita di quaggiù — e la si disprezza. Assicurarsi il cielo, assicurarsi per sempre il punto di vista celeste, non è questo che tante fatiche e tanti dolori ha costato agli uomini?

Il Cristianesimo si è proposto di redimerci dalla dipendenza, dagli istinti naturali, dalle passioni che ci agitano e ci fanno schiavi. Con ciò non si volle già che l'uomo non dovesse più aver passioni, bensì che queste non dovessero possederlo, essere cioè fisse, insuperabili, invincibili. Ora ciò che il Cristianesimo ha ordito contro le passioni, non potremmo noi tentarlo contro il suo stesso precetto, che cioè la nostra destinazione debba venire dallo spirito (pensieri, immagini, idee, fede, …); non potremmo noi pretendere che anche lo spirito e la rappresentazione — l'idea — non abbiano più nell'avvenire a determinar l'animo nostro, ad esser fisse, intangibili o "sante"?

Con ciò si inizierebbe la dissoluzione dello spirito, la dissoluzione di tutti i pensieri, di tutte le idee. Allo stesso modo che prima si diceva: "Noi possiamo avere delle concupiscenze, ma queste non devono aver noi", cosi si direbbe ora: "Noi possiamo avere lo spirito, ma lo spirito non deve aver noi".

Siccome questa affermazione sembra non avere un chiaro significato, giova rammentare che, per esempio, presso taluni un dato pensiero diventa una "massima" la quale tiene in prigione l'uomo stesso, sicché non è già lui che ha quella massima bensì è la massima che ha lui.

E grazie a quella massima egli ha "un punto fermo che gli serve di appoggio".

Le dottrine del catechismo diventano, senza che noi l'avvertiamo, i nostri "principi"; e non è lecito rigettarle. L'idea o, ciò ch'è la stessa cosa, lo spirito di tali principi, esercita su noi un potere assoluto e non consente alcuna obiezione alla "carne". Eppure mediante, la "carne" soltanto io posso infrangere la tirannia dello spirito; poi che soltanto se l'uomo presta ascolto alla propria "carne", può intendere interamente sé stesso — purché egli sia di ciò capace e intelligente. Il cristiano non sente l'angustia della sua natura asservita, ma vive nell' "umiltà"; per ciò egli non protesta, non mormora contro l'ingiuria che viene fatta alla sua "persona"; si ritiene soddisfatto avendo "la libertà dello spirito". Ma se una qualche volta la carne prende la parola, ed il tuono della sua voce è (né diverso può essere) "appassionato", "indecoroso", "contrario al ben pensare", "maligno", ecc., egli crede di sentire le suggestioni d'un demonio, suggestioni contro il suo spirito (poi che il decoro, l'imparzialità, il retto pensare, ecc., altro non sono che spirito): e grida a ragione contro di esse. Cesserebbe d'esser cristiano se così non facesse. Egli non dà ascolto che alla moralità e tura la bocca all' immoralità, non dà ascolto che alla legalità e mette un bavaglio all'illegalità: lo spirito della moralità o della legalità lo tiene prigioniero, ed è un padrone rigido, inflessibile.

Ecco ciò che chiamiamo "il dominio dello spirito" — il quale è in pari tempo il punto di vista dello spirito.

E chi intendono redimere i soliti signori liberali? Quale libertà invocano essi ad alte grida? Quella dello spirito! Dello spirito, della moralità, della legalità, della pietà, del timor di Dio, ecc. Ma ciò vogliano anche gli antiliberali, e il nodo di tutta la questione sta in questo: che gli ultimi vogliono aver la parola per sé soli, mentre gli altri ambiscono di godere una parte di quel vantaggio.

Lo spirito resta per entrambi i partiti il vero signore assoluto ed essi contendono unicamente per sapere a chi debba spettare il trono gerarchico, serbato al "rappresentante del signore". La miglior cosa è d'assistere tranquillamente alla lotta colla sicurezza che le belve della favola si dilanieranno tra di loro al pari delle belve reali; i loro cadaveri putrefatti serviranno di concime al terreno, che maturerà i nostri frutti.

Su parecchi altri rami di follia, come quello della professione, della veracità, dell'amore, ecc , ritorneremo più tardi.

Se si contrappone ciò che ci è connaturale "ciò che ci viene instillato", non gioverà obiettarci che noi nulla possiamo aver in noi d'isolato, ma che possediamo ogni cosa pei rapporti che abbiamo col mondo, per l'impressione che esercita su di noi l'ambiente; come alcunché dunque, che ci viene ispirato. Poiché è grande la differenza tra quei sentimenti e pensieri che vengono prodotti in me da influenze esterne, e quelli che mi sono dati. Dio, l'immortalità, la libertà, l'umanità, ecc., ci vengono impressi sia dall'infanzia quali idee e sentimenti, che agitano più o meno fortemente il nostro interno, e ci dominano senza che noi ne abbiamo coscienza, quando, come avviene in talune nature privilegiate, non si svolgono in sistemi ed in opere d'arte; ma sono sempre sentimenti non già provocati, bensì inspirati, perché ad essi noi dobbiamo credere e da essi dipendere. Che l'assoluto esista e che quest'assoluto debba venir concepito, sentito e pensato, era ferma credenza in coloro che si adoperavano con tutta la forza del loro spirito per conoscerlo e rappresentarlo.

Il sentimento dell'assoluto insiste solo perché fu inspirato e si rivela nei modi più diversi.

Così Klopstock il sentimento religioso aveva carattere d'inspirazione e nella Messiade non fece che manifestarsi artisticamente. Ma se invece la religione, che egli trovò, non fosse stata per lui che un eccitamento al pensare e al sentire, ed egli avesse saputo opporle il proprio ente, non l'entusiasmo religioso si sarebbe prodotto, ma una dissoluzione dell'oggetto. E appunto perciò nella sua età matura Klopstock continuò a manifestare i sentimenti della sua fanciullezza e dissipò le forze della virilità ad avvivare infantili fantasmi.

Essenziale è dunque distinguere i sentimenti che vengono inspirati da quelli che sono soltanto eccitati.

Questi ultimi sono sentimenti propri, egoistici, perché non vengono impressi nella mia mente né suggeriti o a forza innestati; ma dei primi invece io vado superbo, li considero come un mio retaggio, li coltivo e ne son posseduto. Chi non avrebbe osservato, coscientemente o inconsciamente, che, tutta la nostra educazione è intensa a far nascere in noi dei sentimenti, anziché permetterci di crearli da noi bene o male? Se alcuno pronunci avanti a noi il nome di Dio; noi dobbiamo esser compresi di timor di Dio; se il nome del principe, noi dobbiamo accoglierlo con rispetto, con venerazione e con devozione; se quello della morale, noi dobbiamo rappresentarci qualcosa di inviolabile; se quello del maligno e dei malvagi, noi abbiamo il dovere di rabbrividire.

Tutto è inteso a instillarci quei sentimenti, e chi, per avventura, dimostrasse di udire con compiacenza le imprese dei malvagi, si renderebbe meritevole d'esser "castigato ed educato" colle verghe. Così rimpinzati, di sentimenti imposti, noi ci presentiamo alla sbarra della età adulta per esser dichiarati "maggiorenni".

Il nostro bagaglio è composto di "sentimenti sublimi, di massime entusiasti che, di principi eterni, ecc."

I giovani devono cinguettare al modo dei vecchi; e i maestri di scuola si impegnano per apprender loro l'antica melodia; e sol quando l'anno mandata a memoria li proclamano adulti.

A noi non è permesso di sentire — ad ogni cosa, ad ogni nome che ci si affaccia — quello che vorremmo e potremmo pensare; non di figurarci, per esempio, qualche cosa di ridicolo di irriverente quando si pronuncia dinanzi a noi il nome di Dio; bensì ci è sempre prescritto quello che in un dato momento dobbiamo sentire e pensare.

Tale è il significato del vocabolo "cura d'anime".

La mia anima o il mio spirito devono esser foggiati come desiderano gli altri, non come bramerei io stesso. Quanta fatica costa ad ognuno il conquistarsi un sentimento proprio ed indipendente quando sente pronunciar dinanzi a sé un qualche nome, il ridere in faccia a colui che quando ci parla attende da noi un viso compunto! Ciò che c'instillarono nell'animo è una cosa straniera, e perciò "santa"; donde la difficoltà di spogliarci del "santo rispetto per essa".

È per uso oggi di celebrare anche la " serietà", la serietà "nelle cose e nei dibattiti di grande importanza", la "serietà tedesca". Questa specie di serietà dimostra assai bene quanto siano antiche e serie la pazzia e l'ossessione. Poiché nessuno è più serio del pazzo quand'egli si trova nel punto centrico della sua pazzia dacché allora egli prende la cosa tanto sul serio che non tollera scherzi.


§3. — LA GERARCHIA.

La riflessione storica circa il nostro mongolesimo, che io voglio inserire a mo' d'episodio in questo punto, non ha pretesa di esser fondata, ma è necessaria per servir di spiegazione al rimanente.

La storia universale, il cui svolgimento appartiene quasi per intero alla razza caucasica, sembra aver percorso sinora due ere; noi fummo costretti a manifestare e a perfezionare nella prima la nostra essenza di razza negra, nella seconda il mongolesimo (la cineseria) con cui è necessario finirla egualmente. Il primo periodo rappresenta l'evo antico, i tempi della dipendenza dalle cose (dal cibarsi dei galli, dal volo degli uccelli, dallo starnutare, dal lampo e dal tuono, dallo stormire degli alberi, ecc.); il mongolesimo segna l'età della dipendenza dalle idee, l'evo cristiano. All'avvenire sono riserbate le parole: "io sono il possessore del mondo delle cose, io sono il possessore del mondo dello spirito".

Nel primo periodo avvengono le gesta di Sesostri e si rivela in generale l'importanza storica dell'Egitto e dell'Africa settentrionale. All'era mongolica appartengono le invasioni degli Unni e dei Mongoli, sino a quella dei Russi.

Il valore del mio io non può essere che ancor molto basso, finché il duro diamante del " non- io" è cosi costoso, come erano allora "Dio" e il "mondo" Il "non-io" è ancor tenuto quale un frutto troppo immaturo ed acerbo per poter essere mangiato ed assorbito dell' Io. Gli uomini s'accontentano di strisciare su quella sostanza immobile, e vi si affaccendano faticosamente; simili a insetti parassiti, che succhiano l'alimento da un corpo, senza perciò consumarlo. L'attività dei Mongoli è veramente l'affaccendarsi dei vermi. Presso i Cinesi ogni cosa è immutabile; nulla di ciò che è "essenziale" e "sustanziale" è capace di mutamento; ma appunto per questo maggiore è l'affaticarsi intorno a ciò che è immanente e porta il nome di "antico".

Per tal modo nella nostra êra mongolica non v'é mutamento che non si proponga di riformare o di migliorare; non mai di distruggere o di consumare. La sostanza, l'oggetto resta. Tutta la nostra operosità non è paragonabile che a quella delle formiche o delle pulci, ai giuochi degli acrobati sulla corda immobile dell'oggettività, al servizio della gleba sotto la signoria dell' "immutabile", dell' "eterno". Il cinese è certo il più positivo di tutti i popoli, perché interamente sepolto in mezzo alle sue istituzioni; ma dalla "libertà limitata", dalla "libertà entro certi limiti", neppure il Cristianesimo ha saputo affrancarsi. Nel più alto grado di civiltà questa attività ha nome di scientifica; ed è tenuta in conto di lavoro su di una premessa irremovibile, su di una ipotesi irrefutabile.

Nella sua forma primitiva e misteriosa la moralità si presenta quale consuetudine. Condursi secondo il costume e la usanza del paese — si chiama allora esser morali. Perciò una condotta prettamente morale, una moralità pura e genuina, si trova particolarmente nella Cina; ove l'uomo si attiene alle consuetudini e ai costumi antichi, e odia quale un delitto degno di morte ogni innovazione. Poiché l'innovazione è il nemico mortale della consuetudine, dell'antico, del costante. È fuor di dubbio che l'uomo mercé l'assuefazione assicura sé stesso contro l'invadenza delle cose del mondo e si forma un mondo a parte, nel quale egli si trova a suo agio; si edifica, insomma, il proprio cielo. Il cielo al postutto non ha altro significato se non quello di vera patria dell'uomo, dov'egli non è soggiogato da alcuna cosa straniera né a sé sottratto da alcun allettamento mondano; dove, deposto il velo terrestre, egli ha visto il fine delle sue lotte contro il mondo; dove nulla insomma gli è più ricusato. Il cielo significa la fine della rinunzia, il libero godimento. Là l'uomo più nulla rifiuta a sé stesso, perché nulla più gli è estraneo o avverso. Ora, l'abitudine è una "seconda natura", la quale rivela e redime l' uomo dalla natura sua primitiva, assicurandolo da ogni capriccio di questa. La consuetudine sapiente dei Cinesi ha previsto tutti gli avvenimenti possibili, e a tutti ha "provveduto" checché possa accadere il cinese sa sempre come deve contenersi e non ha bisogno di dirigersi a seconda dei casi: dal cielo della sua quiete nessun accidente imprevisto lo può precipitare. Il cinese ligio alla moralità e alle sue usanze non si lascia sorprendere e cogliere all' improvviso; egli conserva la serenità in ogni occasione, giacche l'animo suo è fatto sicuro per la previdenza che gli viene dalle consuetudini inveterate. Sulla scala della civiltà l'umanità ascende perciò il primo gradino in forza dell'assuefazione; e siccome essa salendo verso la civiltà pensa di raggiungere il cielo (il regno della seconda natura), così essa ascende realmente il primo gradino della scali celeste.

Se il mongolesimo ha accertata l'esistenza d'enti spirituali e creato il mondo degli spiriti (un cielo), gli uomini della razza caucasica hanno lottato per secoli contro quegli esseri spirituali, tentando di comprenderli. Che altro dunque hanno fatto se non continuare ad edificar sulle fondamenta mongoliche? Essi non hanno edificato sulla sabbia, bensì nell'aria; hanno lottato contro il mongolesimo; hanno dato la scalata al cielo mongolo, al Tien. Quando riusciranno essi a distrugger quel cielo? Quando ridiverranno dei Caucasei autentici e ritroveranno sé stessi? Quando l' "immortalità dell'anima" che negli ultimi tempi tentò farsi più certa col proclamare la "immortalità dello spirito", si convertirà finalmente nella "mortalità dello spirito?".

Nelle loro industriose lotte gli uomini della razza mongola avevano edificato un cielo, mentre quelli della razza caucasica, occupati — perché tuttavia intinti di mongolesimo — del cielo impresero il compito opposto: dare l'assalto a quel cielo della morale. Minare tutte le istituzioni umane per fondare — sulle loro rovine — nuove e migliori istituzioni, distruggere ogni morale per sostituirvi una nuova e miglior morale, ecco a che la loro attività, si restringe. Ma con questa il compito è raggiunto; o altro ancora le rimane da tentare? No, nella sua ricerca del meglio, essa è tuttavia ammorbata di mongolesimo. Essa dà, sì, l'assalto al cielo, ma unicamente per sostituirlo con un altro; fa crollare una podestà, ma per legittimarne un'altra; né altro sa che recare dei miglioramenti. Con tutto ciò la meta, per quanto si sia smarrita la via, è il crollo effettivo e definitivo del cielo, della morale, ecc., in breve dell'uomo che non ha assicurato sé stesso contro il mondo; la fine, dunque, dell'isolamento dell'uomo. Mediante il cielo della civiltà l'uomo intende a separarsi dal mondo, a spezzarne la potenza malvagia. Ma anche questo isolamento nel cielo deve essere sfatato; la vera meta dell'assalto dato al cielo dev'essere la sua distruzione finale. Miglioramenti e riforme sono avanzi di mongolesimo nel Caucasico, poiché con ciò egli fa risorgere il passato: le istituzioni, l'assoluto, il cielo. Egli nutre un odio invincibile contro il cielo, e pur crea ogni dì nuovi cieli; e in quest'opera vana fa che l'uno prema sull'altro e lo distrugga; il cielo degli Ebrei, quello dei Greci, quello dei Cristiani l'ebreo, il protestante quello dei cattolici. Quando gli uomini di razza caucasica, che danno l'assalto al cielo, avranno svestita la pelle del mongolo, essi seppelliranno l'uomo sentimentale sotto le macerie dell'immane mondo dei sentimenti, l'uomo isolato sotto il suo mondo isolatore, l'uomo che anela al cielo sotto il suo cielo. E il cielo è il regno degli spiriti, il regno della libertà spirituale.

Il regno celeste degli spiriti e degli spettri ha avuto la sua classificazione perfetta nella filosofia speculativa. La quale lo proclamò il regno dei pensieri, dei concetti e delle idee; e lo fece rappresentativo della realtà.

Voler procacciare libertà allo spirito è pretto mongolismo; la libertà dello spirito è una libertà mongola; e tali appunto sono la libertà dei sentimenti e la libertà morale.

La parola "moralità" vien riguardata quale sinonimo di indipendenza, di libera disposizione di sé stessi. Ma ciò non è; che anzi se il Caucaseo ha dimostrato una certa indipendenza ciò fu nonostante la sua morale mongola. Il cielo mongolo o la morale era la torre inespugnabile; e soltanto col darle assalto senza tregua il Caucaseo si dimostrò uomo morale; se egli non avesse più avuto a che far colla morale, se non l'avesse riguardata come la sua eterna nemica, che non gli dava posa, sarebbero cessati i suoi rapporti con essa, e la sua stessa moralità sarebbe con ciò stata distrutta. E appunto l'essere la sua attività ancor morale dimostra che gli tien del mongolo, e che pure non ha saputo rendersi intiera ragione dell'esser suo. L' "attività indipendente morale" corrisponde in tutto alla "filosofia religiosa e ortodossa", alla "monarchia costituzionale" allo "stato cristiano", alla "libertà entro i dovuti limiti", alla "libertà della stampa limitata dalla censura" o, per adoperar un' immagine più propria ad un eroe confinato in un letto di dolore.

Solo allora l'uomo si sarà liberato dallo sciamannesimo e dalle fantasmagorie, quando avrà avuto la forza di liberarsi non solo della credenza negli spiriti, ma pure nello spirito.

Chi crede negli spiriti ammette, al pari di chi ha fede nello spirito, l' "ingerenza d'un mondo superiore"; entrambi cercano, dietro a quello dei sensi, un altro mondo soprannaturale in cui credono e che generato dalla lor fantasia, è una creazione tutta fittizia: e poi che i loro sensi non sanno e non possono comprendere, invece, altro mondo che il materiale, il lor spirito soltanto si trova a suo agio.

Il passaggio dalla credenza mongolica nell'esistenza d'enti spirituali alla teorica che anche l'intima essenza dell'uomo sia il suo spirito e che ogni cura debba esser rivolta a questo spirito soltanto (dunque alla "salute dell'anima"), non è difficile. E con ciò il dominio sullo spirito è assicurato, e s'è ottenuta la cosiddetta "influenza morale".

E quindi certo che il mongolesimo rappresenta la spogliazione intera dei diritti dei sensi, il controsenso e la contronatura, e che il peccato e la coscienza del peccato sono la piaga mongolica che ci affligge da secoli.

Ma chi dissolverà nel nulla anche lo "spirito"? Solo colui che ha compreso la vanità, la fugacità della natura potrà anche dello spirito fare ugual conto; io lo posso; e lo può ciascuno di voi il quale si comporti nell'opera e nel pensiero quale un "io" che non conosce costrizioni; lo può, in una parola, l'egoista.

Dinanzi alla «santità» si perde ogni sentimento della forza ed ogni coraggio; si diviene impotenti e vili. Eppure nessuna cosa è sacra per sé stessa, ma perché tale fu proclamata; per il nostro giudizio, dunque, per le nostre genuflessioni; insomma — per la nostra coscienza.

Sacro è tutto ciò, che dev'esser intangibile per l'egoista, ciò che e sottratto al suo potere, ed è per ciò al disopra di lui : sacro è in una parola ogni caso di coscienza, giacché il dire: "questa cosa è per me affare di coscienza" vale quanto il dire: "questo io ho in conto di cosa sacra".

Per i bambini, come per gli animali, nulla esiste di sacro, giacché, per poter giungere a questo concetto, è d'uopo saper già distinguere il bene dal male, il legittimo dall'illegittimo, e così via. Soltanto a un tale grado di riflessione o d'intelligenza — che è il vero fondamento della religione

può subentrare in luogo del timore naturale la venerazione, che è frutto del pensiero: il "timor santo". Per venire a ciò è necessario che si ritenga esistere all'infuori di noi qualche cosa di più potente, di più grande, di, più, legittimo, di migliore, cioè che si riconosca il predominio di alcunché d'estraneo; e dico si riconosca e non si senta, volendo significare l'atto dell'intelletto per cui ci si rende, prigionieri di tale predominio (devozione, umiltà, soggezione, sudditanza, ecc.).

Ed ecco che qui incomincia la fantasmagoria di tutte le "virtù cristiane".

Tutto ciò per cui voi provate rispetto e venerazione merita il nome di «santo»; voi stessi riconoscete che provate un «sacro timore» a toccarlo. E persino ciò che non è santo voi sapete scialbarlo di quella tinta sacra (le forche, i delitti, ecc.). Vi coglie un brivido al solo pensiero di venir in contatto con una cosa sacra; quasi che in essa si celasse alcunché di terribile, di non proprio alla natura umana.

"Se l'uomo nulla riguardasse come sacro, l'arbitrio, il soggettivismo sfrenato non troverebbero ostacoli!"

Si principia dalla paura; ora, non v'è uomo, per quanto selvaggio, che non si possa incutere paura; ecco già un argine contro la sua insolenza. Ma alla paura resta ancora un mezzo di liberazione; l'astuzia, l'inganno, ecc. Mentre per la venerazione non può dirsi altrettanto.

Quando si venera qualche cosa, non la si teme unicamente ma anche la si onora: la cosa temuta diviene una potenza interna alla quale noi non possiamo sottrarci: noi abbiamo in onore una cosa; ne siamo conquisi; le apparteniamo senza più saperci sottrarre al suo potere. Alla cosa che reputo santa io m'attacco con tutta la forza della mia fede; io credo. Io e la cosa temuta diventiamo una cosa sola: "non già io vivo, bensì vive quello che da me è venerato".

Poiché é infinito, lo spirito non può mutare, e resta quale è: esso teme la morte; non può decidersi ad abbandonare il suo piccolo Gesù; la grandezza del "finito" non è più comprensibile pel suo occhio abbacinato: per tal modo la cosa temuta, innalzata alla venerazione, diviene intangibile; ciò che si venera diviene eterno, e ciò che si rispetta invidiato. L'uomo non è più un essere che crea, ma uno che impara (mediante la conoscenza, le indagini, ecc.), un essere cioè che si occupa d'un dato oggetto, e si oblia in quello studio, senza far ritorno a sé stesso.

Quest'oggetto egli lo può indagare, penetrare, conoscere; ma non dissolverlo. " L'uomo dev'esser religioso" è principio non discusso; tutto si riduce sempre a ricercare com'ei possa divenir tale, quale sia il senso del fervore religioso, e così via. Ma altro è se si ponga in questione l'assioma stesso, a rischio anche di distruggerlo.

La moralità è anch'essa una cotal rappresentazione di cosa sacra: morali si deve essere, soltanto bisogna ricercare il vero modo d'esser tali.

Però nessuno ha ardire di domandare se la moralità non sia essa stessa opera della fantasia : essa è tenuta superiore ad ogni esame: immutabile. E così procede dal sacro al santo, e, grado grado, dal "santo" al "sacrosanto".

E’ uso distinguere gli uomini in due classi: quella dei colti e quella degli ignoranti.

I primi, per rendersi degni del loro nome, si occupano dei pensieri, dello spirito, e poiché, vivendo nell'êra cristiana in cui la idea è il principio supremo, erano essi i padroni, pretendevano un cieco rispetto ai pensieri da loro riconosciuti per buoni. Lo Stato, la Chiesa, Dio, la moralità, l'ordine, tali nomi hanno queste idee, spiriti che non esistono che per lo spirito. Di esse il bruto ha tanta cura quanto n'ha il fanciullo. Però gli ignoranti altro non sono che fanciulli, e chi non pensa che a soddisfare i bisogni del corpo, si mantiene indifferente verso quegli spiriti; ma poiché si sente troppo debole di fronte ad essi, egli s'assoggetta alla loro potenza ed è per ciò dominato dalle idee. Ecco il significato della gerarchia.

La gerarchia importa dominazione dell'idea dominazione dello spirito!

Noi siamo gerarchici anche ai giorni nostri, oppressi da coloro che traggon la loro potenza dalle idee. L'idea è la cosa "sacra".

Ma l'uomo colto e l'ignorante contrastano in ogni tempo tra loro: né il conflitto avviene sempre tra due persone diverse, ma talvolta anche nello stesso uomo. Poiché nessun uomo è così colto da non trovar piacere nelle cose esteriori (e in ciò egli procede da barbaro), e nessun ignorante, per contro, è del tutto sprovvisto d'idee. In Hegel s'appalesa finalmente l'ardente ispirazione dell'uomo colto verso le cose e la ripugnanza a ogni teorica vana,

Secondo Hegel all'idea dovrebbe corrispondere in tutta la realtà il mondo delle cose, e fuori della realtà non dovrebbe esistere alcun concetto.

Perciò il sistema di questo filosofo fu detto il più oggettivo, come se in lui il pensiero e le cose celebrassero la loro unione. Ma questa non era in fondo che l'estrema violenza, il massimo dispotismo, l'autocrazia del pensiero, il trionfo dello spirito; e per conseguenza il trionfo della filosofia.

Oltre a questo confine la filosofia non può procedere; giacché il suo fine supremo è il dominio assoluto, l'onnipotenza del pensiero. [(1) Rousseau, i filantropi ed altri ancora, avversarono la cultura e l'intelligenza, ma non considerarono che queste si trovavano in tutti i cristiani e si restrinsero a combattere la cultura raffinata dei dotti.].

Gli uomini spirituali si sono fitti in capo una qualche cosa, che dev'esser attuata. Essi hanno certo il loro concetto dell'amore, che vorrebbero veder tradotto in realtà; quindi si danno a credere di poter fondare sulla terra un regno, nel quale ogni azione non sarà più informata all'egoismo, ma all' "amore" soltanto. L'amore deve imperare. Ora ciò che costoro si sono fitti in capo, come potrebbe aver nome diverso da quello di idea fissa?

Un qualche guasto è nel loro cervello. E l'incubo più opprimente è l'uomo come tale. Si pensi al proverbio: "la via della perdizione è lastricata di buoni propositi". Il proposito di attuare in sé stesso l'umanità, di diventar uomo perfetto, è uno di quelli che conducono alla perdizione di cui parlammo poc'anzi. Alla stessa specie appartengono i propositi di diventar "buoni, nobili, affettuosi, ecc."

Nel sesto fascicolo delle sue Cose memorabili, a pagina 7, BR. BAUER, dice :

"Quella classe borghese che doveva avere una sì triste azione sulla storia moderna, non è capace di alcun sacrifizio, di alcun entusiasmo per un'idea, di nessuna elevazione: essa non altro consegue che l'interesse della sua mediocrità; e, sempre racchiusa in sé stessa, non ottiene la vittoria finale che o per la forza del numero — con la quale sa rintuzzare gli assalti della passione dell'entusiasmo, della logica — o per la forza della propria superficialità, che seppe assorbire una parte delle idee nuove".

Ed a pagina 6 : "Essa sola ha saputo trarre profitto delle idee rivoluzionarie, per le quali non essa, ma altri uomini disinteressati o entusiasti, si sacrificarono; essa ha cambiato lo spirito in denaro. — Ma ciò le venne fatto solo dopo avere spuntate quelle idee, dopo aver tolto loro la logica, la serietà della lotta contro l'egoismo". Codesta gente non è adunque pronta al sacrificio, non è entusiasta, non è ideale, non è coerente. Secondo l' intelligenza comune essa è una gente egoista, interessata, calcolatrice, spregiudicata e crudele.

Ebbene, chi è "pronto al sacrificio"? Colui che dà tutto sé stesso ad una cosa, ad una scopo, ad una volontà, ad una passione. L'amante, che abbandona padre e madre, che affronta tutti i pericoli e tutti i disagi per raggiungere il suo fine, non è forse un di coloro che si sacrificano? E non è tale l'ambizioso, che dà in olocausto all'unica sua passione tutte le sue brame, e tutte le sue soddisfazioni; l'avaro che rinunzia a tutto, per la smania di accumular tesori; l' uomo che d'altro non ha cura che del piacer suo? Costoro sono dominati da una passione cui sacrificano tutte le altre.

E questa gente che sacrifica se stessa, non è forse egoista, interessata?

Siccome in loro una passione travolge tutte le altre, essi non d'altro si danno pensiero che di soddisfarla, ma vi si adoperano con tutto l'impegno, sì da dimenticare ogni altra cosa.

Il loro affaccendarsi e il loro affannarsi non è altro che egoismo, ma un egoismo unilaterale, racchiuso, di corta veduta: e insomma un'occasione.

"Ma queste sono passioni meschine, da cui l'uomo non deve lasciarsi soggiogare. Solo per una grande idea, per una causa sublime egli deve sacrificare sé stesso". Son forse "idee sublimi" o "grandi cause" la gloria di Dio, per la quale innumerevoli uomini hanno trovato la morte; il Cristianesimo che ha avuto i suoi martiri volenterosi; la Chiesa fuor della quale non è salvezza e che tanto avida fu di sacrifici d'eretici: la libertà e l'uguaglianza che vollero a lor strumento la ghigliottina?

Chi vive per una grande idea, per una giusta causa, per una dottrina o un sistema o una vocazione sublime, non deve permetter a sé stesso alcun desiderio mondano, alcun egoistico interesse. Questo ci riconduce al concetto del sacerdozio, che anche potrebbe chiamarsi (chi riguardi al suo ufficio pedagogico) pedantismo; poiché un ideale è sempre un pedante.

Il sacerdote è per eccellenza chiamato a vivere per l'idea, ad operare per la buona causa. Per ciò il popolo sente intimamente quanto poco si addica al prete il mostrar arroganza, il desiderare una vita agiata, di prender parte ai divertimenti, quali la danza ed il giuoco, il far mostra, in una parola, di altri interessi all'infuori dei "sacri". In ciò forse ha giustificazione la scarsa retribuzione dei maestri, i quali si sentono già premiati dalla santità della loro professione e sono costretti a rinunziare agli altri vantaggi.

Né manca una gerarchia delle idee sacre, che in tutto o in parte l'uomo deve professare. La famiglia, la patria, la scienza devono trovare in lui un servo fedele agli obblighi professionali.

E qui ci abbattiamo alla falsa credenza, antica quanto il mondo (il quale non ha ancora appreso a fare di meno dei preti): che, cioè, vivere e creare in favore d'un'idea sia il vero fine dell'uomo e che il valore di lui debba commisurarsi alla riguardosa esattezza con cui adempie a quell'intento.

E questo il dominio dell'idea o, se meglio vi piace la parola, il pretismo. Robespierre, ad esempio. St. Just ed altri, erano preti nell'anima, entusiasti, strumenti obbedienti dell'idea, uomini ideali. St Just esclama in una delle sue orazioni: " Vi è qualcosa di terribile nell'amor di patria; esso è così imperioso da sacrificar tutto senza misericordia, senza tema, senza riguardi umani alla salute pubblica. Esso precipita Manlio nell'abisso, sacrifica gli affetti privati, guida Regolo a Cartagine, spinge un Romano a gettarsi nella voragine e colloca Marat, vittima della sua devozione, nel Pantheon ".

A tali rappresentanti di interessi ideali o sacri si oppone una folla d'innumerevoli interessi "personali" e profani. Ma nessuna idea, nessun sistema, nessuna causa santa è così grande che essa non debba essere soverchiata dagli interessi personali. Se questi tacciono a tratti nella età di sconvolgimenti e di fanatismo, riprendono in breve il loro predominio in virtù "del buon senso del popolo". Quelle idee non riescono vittoriose se non allorquando cessano dall'essere avverse all'interesse personale e soddisfanno l'egoismo.

Il mercante d'acciughe che offre la sua mercé, gridando sotto la mia finestra, ha un interesse personale a venderla in gran quantità, e se sua moglie o gli amici gli augurano che ciò avvenga, ciò è pur sempre per l'interesse puramente personale di lui. Se invece un ladro gli rubasse il canestro che contiene la sua mercanzia, si ridesterebbe l'interesse di molti, di tutta la città, di tutto il paese o — a dirla in breve — l'interesse di tutti coloro che hanno in orrore il furto: a questo interesse sarebbe del tutto estranea la persona del merciaiuolo, e gli sottentrerebbe la classe dei «derubati».

Ma anche in questo caso tutto si risolverebbe alla fin fine in un interesse personale giacché ognuno penserebbe esser suo dovere di concorrere alla punizione del ladro, per impedire che il furto si estenda e ne possa diventar vittima egli stesso. E per quanto sia difficile ammettere un tale ragionamento conscio presso molte persone, si udrà tuttavia proclamare generalmente che "il ladro è un delinquente". Ecco che ci troviamo di fronte a un giudizio dacché l'azione del ladro è dichiarata un "delitto".

Ora le cose stanno in questo modo: quand'anche il delitto non recasse il più lieve danno né a me né ad altri, malgrado ciò io imprecherei sempre contro esso. perché? Perché io sono entusiasta della moralità, sono compreso dell'idea della moralità; e per ciò combatto ciò che le è contrario. Appunto perché crede degno di biasimo il rubare, Proudhon può ritenere d'aver abbastanza vilipesa la proprietà definendola un furto. Agli occhi dei preti esso è senz'altro e in tutti i casi un delitto o per lo meno una contravvenzione.

E quì finisce l'interesse personale. Quella persona che ha rubato il canestro mi è del tutto indifferente: io mi interesso unicamente, al furto per sé stesso — al concetto, cioè, che nel ladro è rappresentato.

Ladro e Uomo son nel mio spirito termini inconciliabili, poiché non si è veramente uomo essendo ladro; si disonora l'uomo o la umanità quando si ruba. E dimenticato il lato personale della cosa si cade per tal modo nel filantropismo, nell'amore per tutti gli uomini, che non è già amore per ogni uomo singolo, sì invece amore dell' uomo in astratto, d'un concetto irreale cioè, d'un fantasma; poi che non è già , gli uomini, bensì  l'uomo, quel che il filantropo accoglie nel suo cuore. Vero è che egli si occupa anche dei singoli, ma unicamente perché spera di veder da per tutto attuato il suo prediletto ideale.

Dunque non si tratta d'aver cura di me stesso, di te, di noi: ciò sarebbe interesse personale e apparterrebbe al capitolo dell'"amore del mondo"; si tratta invece d'un amore celeste, spirituale, pretino; ché tale è il filantropismo. L' uomo deve esser edificato in noi, anche se noi, che lo rappresentiamo, dovessimo perire tutti quanti.

È una massima clericale al pari di quella che dice: fiat justilia pereat mundus; l'uomo, la giustizia, sono idee, fantasmi ai quali tutto s'immola: per questo gli spiriti pretini sono quelli che si "sacrificano".

Chi è entusiasta dell'uomo, non considera le persone, ma l'ideale. L'uomo, per lui non è già una persona, bensì è un ideale, un fantasma.

Le cose più diverse possono esser considerate come attributi dell'uomo. Se l'attributo è la pietà, abbiamo il pretismo religioso; se è la moralità, abbiamo il pretismo morale. Perciò i chierici della nostra età vorrebbero trasformare ogni cosa in "religione"; nella religione della libertà, in quella dell'uguaglianza, ecc. Tutte le idee per loro diventano "cause sante", persino l’appartenenza ad uno Stato, la politica, la pubblicità, la libertà di stampa, la istituzione delle giurie, ecc. Che cosa significa allora, presa in questo senso, la parola "disinteresse"? L'avere soltanto un interesse ideale senza considerazioni della persona!

Contro questo modo di considerar le cose si ribella il duro cervello dell' uomo mondano, ma per secoli e secoli egli ha dovuto sempre soccombere, e curvare il collo caparbio, e "adorare la potenza superiore". Il pretismo lo seppe conculcare. Se l'egoista mondano era riuscito a respingere lontano da sé una "potenza superiore" (per esempio, la legge dell'antico testamento, il papa romano, ecc.); una nuova potenza dieci volte superiore sorgeva ad avvincerlo (per esempio, in luogo della legge la fede, in luogo del clero limitato il mutarsi di tutti i laici in sacerdoti e cosi via). Così succedeva all'ossesso nel quale entravano sette diavoli quando egli credeva d'averne cacciato uno.

Nelle parole del Bauer che abbiamo sopra citate si nega ogni idealità alla classe borghese. Ed è vero proprio che essa falsò da prima la conseguenza ideale che Robespierre voleva trarre dai principi affermati. L'istinto del proprio interesse diceva alla borghesia che quella conseguenza poco armonizzava coi fini ai quali essa mirava, e che il favorire l'entusiasmo per il principio sarebbe stato un lavorar contro se stessa. Doveva essa forse condursi così disinteressatamente, abbandonare tutti i suoi fini pel trionfo di una teoria immatura? Ciò si conviene bensì egregiamente ai preti, quando trovino chi presti ascolto a queste lor massime: "Fa getto d'ogni cosa e seguimi", oppure, "vendi tutto ciò che possiedi, e dallo ai poveri, con ciò ti acquisterai un tesoro nel cielo; dunque vieni e seguimi". Alcuni idealisti risoluti obbediscono a tale voce ; ma la maggior parte di essi fanno come Anania e Saffira, conducendosi mezzo da preti e mezzo da mondani, sacrificando cioè insieme a Dio ed al mammone.

Io non rimprovero già alla classe borghese di essersi lasciata distrarre dai suoi fini da Robespierre, d'aver cioè interrogato il proprio egoismo, finché questo poteva consentire coll'idea rivoluzionaria. Ma il rimprovero sarebbe appropriato a coloro (se proprio qui e il caso di muover rimproveri) che per servire agli interessi della classe borghese hanno cagionata la ruina dei propri. Ma non è da supporsi che, presto o tardi, anche essi impareranno a conoscere ciò che torna a loro vantaggio? Augusto Bceker dice [(1) Filosofia del popolo dei nostri giorni, pag. 22]: "A guadagnarsi i produttori (proletari), non è sufficiente la negazione dei principi del diritto vigente. La gente s'occupa purtroppo assai poco del trionfo delle idee. Bisogna provare loro "ad oculos", in qual modo la vittoria possa tornar di pratico vantaggio". Ed a pag. 32: "Bisogna prendere la gente dal lato dei loro interessi reali, se si vuol agire su di essa". E subito dopo egli dimostra come tra i nostri contadini si faccia strada un'immoralità sempre maggiore, perché essi guardano assai più al loro interesse che non alle leggi della moralità.

I preti e i maestri della Rivoluzione volevano servire all'uomo; per ciò essi tagliavano la testa agli uomini. I laici o i profani della Rivoluzione non erano meno restii nel tagliare le teste, ma essi lo facevano pel proprio interesse e poco si curavano dei diritti dell'uomo.

Onde avviene dunque che l'egoismo di coloro che propugnano l'interesse personale, e con esso si consigliano in ogni occasione, sia subordinato sempre a qualche interesse ideale? Da ciò che la propria persona apparisce loro troppo meschina, troppo poco importante (e ciò è di fatto vero), per poter esigere che ogni cosa si pieghi al suo volere. Un sicuro indizio di ciò sta nel dualismo che si trova in ogni uomo, per cui egli è come scisso in due parti, l'una eterna, l'altra caduta, delle quali ora l'una ora l'altra prevale. La domenica si pensa alla salute della parte eterna, negli altri giorni a quella temporale; colla preghiera all'una, col lavoro all'altra. Costoro hanno in sé veramente del pretino e non possono liberarsene! sicché tutte le domeniche, nel loro interno, si sentono fare il sermone.

Quanto "non hanno lottato e durato gli uomini per rendersi conto del dualismo del loro essere! Le idee succedono alle idee i principi ai principi, i sistemi ai sistemi; eppure nulla finora seppe vincere le obbiezioni dell'uomo "mondano", del cosiddetto "egoista". Non prova ciò forse che tutte quelle idee erano impotenti a comprendere in se stesse intera la volontà e a soddisfarla? Esse mi erano e mi sono rimaste avverse, benché la loro ostilità mi sia restata nascosta per lungo tempo. Sarà la stessa cosa anche dell' "individualità"? È anch'essa un semplice tentativo di mediazione? Qualunque sia il principio cui mi rivolsi, io fui costretto poi ad allontanarmene. Eppure posso io esser sempre ragionevole, ordinare tutta la mia vita secondo ragione? Io posso bensì aspirare alla "ragionevolezza", io posso amarla allo stesso modo che amo Dio e le altre idee. Io posso essere filosofo, posso amar la sapienza allo stesso modo che amo Dio. Ma quello che io amo, quello a cui aspiro, non esiste che nella mia idea, nella mia rappresentazione, nei miei pensieri: si trova nel mio cuore, nella mia testa, m'è tanto caro quanto il cuore; eppure non è l' "io"; non sono io.

Dell'attività degli spiriti ligi al sacerdozio è parte precipua ciò che si suole chiamare "influsso morale".

L'influsso morale ha origine là dove incomincia "l'umiliazione", anzi, non è altra cosa che l'umiliazione stessa, l'abbassamento del coraggio verso l'umiliazione. Se io grido a qualcuno, al momento dello scoppio d'una mina di allontanarsi, io non esercito con ciò su di lui alcuna azione morale. Se dico al fanciullo: Tu avrai fame se non mangi quello che ti viene offerto, non esercito con queste parole un influsso morale. Ma se gli dico: tu pregherai, onorerai i genitori, rispetterai la croce, dirai la verità, ecc., imperocché ciò appartiene all'uomo, è la sua vocazione, o, più ancora, perché tale è la volontà divina, l'azione morale non è dubbia. Tutti devono inchinarsi dinanzi alla vocazione dell'uomo, e rinunziare alla propria volontà per un volere estranea che servirà loro di norma e di legge; devono umiliarsi dinanzi a qualche cosa di più elevato: abbassare sé stessi. "Chi si umilierà sarà esaltato". Sì, sì, i fanciulli devono essere educati per tempo a venerar Dio; l'uomo bene educato è quello che ha accolto in sé "sagge massime " per amore o per forza.

Se a proposito di queste cose si fa spallucce, i buoni alzano le mani in atto di disperazione ed esclamano: "Per l'amor del cielo, se non si dovessero insegnare ai ragazzi le buone massime, essi correrebbero alla perdizione e diventerebbero altrettanti monelli scioperati". Profeti di cattivo augurio! Diverranno certo degli scioperati nel senso che voi intendete, ma questo vostro senso non è proprio buono a nulla. Quei monelli insolenti non si lascieranno più agguindolare da voi e non proveranno alcuna simpatia per le stoltezze che da secoli vi fanno girare il capo; essi aboliranno il diritto dell'eredità, cioè non vorranno essere eredi delle vostre sciocchezze, come voi le avete ereditate dai vostri padri; essi cancelleranno la macchia originale. Quando voi imporrete loro d'inchinarsi dinanzi all'essere supremo, — essi risponderanno: se egli vuole che ci inchiniamo, venga egli stesso e ci costringa; volontariamente non c'inchineremo già mai. E se voi li minaccerete della sua collera e del suo castigo, essi terranno tutto ciò in conto di uno spauracchio da bambini. Se non vi verrà fatto d'incutere loro paura dei fantasmi, il regno dei fantasmi cesserà d'essere, ed i racconti delle bambinaie non troveranno più alcuno che presti loro fede.

E non sono forse per l'appunto i liberali quelli che insistono sulla buona educazione e si travagliano per un miglioramento dei procedimenti pedagogici? Poiché, come potrebbe tradursi in atto il loro liberalismo, la loro "libertà entro i limiti della legge" senza una disciplina? Se essi non educano al timor di Dio con tanto maggior rigore esigono il timore degli uomini; cioè il timore dell' uomo; e colla disciplina ridestano l' "entusiasmo per la vera vocazione umana".

Per lungo tempo l'uomo si accontentò alla falsa credenza di possedere la verità, senza riflettere seriamente, se, innanzi tutto non era necessario che l'uomo fosse egli vero per possedere la verità. Erano i tempi del Medio Evo. Con la coscienza comune, (quella che serviva a comprender le cose e non poteva percepire se non ciò che è accessibile ai sensi), si volle conoscere l'immateriale, l'insensuale. Allo stesso modo che alcuno affatica l'occhio per poter vedere ciò che è lontano, o esercita lentamente la mano a premere sui tasti secondo le regole musicali, così l'uomo mortificava nelle guise più varie il proprio corpo per rendere sé stesso capace di percepire il soprannaturale. Ma ciò che si mortificava, non era al postutto che l'uomo sensuale, la coscienza comune, la percezione materiale delle cose. Ora siccome quel pensiero, quell'intelletto, che Lutero col nome di ragione copre di contumelie, erano incapaci di comprendere la divinità, il mortificarli contribuiva tanto a conoscere la verità, quanto si potrebbe sperare che i piedi educati lungamente alla danza potessero riuscire a suonare il flauto mercé l'agilità acquistata.

Solo Lutero, col quale finisce il cosiddetto Evo Medio, comprese esser necessario che l'uomo stesso diventi un altro, s'egli vuole conoscere la verità; che cioè occorreva ch'egli diventasse altrettanto vero, quanto la verità stessa. Solamente colui che ha fede nella verità può sperare di diventarne partecipe; la verità non si rivela al credente. Soltanto quell'organo dell'uomo che sa far uscire il fiato dai polmoni può imparar a suonare il flauto, e quell'uomo soltanto può divenir partecipe della verità, che possiede l'organo necessario per comprendere. Chi non è capace di pensare altre cose che le sensuali, anche nella verità non cercherà che una cosa concreta. Ma la verità è spirito, è del tutto immateriale, e perciò accessibile soltanto ad una "coscienza più elevata", non a quella di chi "pensa mondanamente."

Perciò con Lutero si fa strada la convinzione che la verità, essendo pensiero, non sia destinata che all'uomo pesante. La qual cosa significa che l'uomo deve abbracciare quind'innanzi un altro aspetto delle cose, quello del cielo, della fede, della scienza, oppure del pensiero di fronte all'oggetto di sé stesso, che è il pensare; dello spirito di fronte allo spirito. Soltanto l'eguale può dunque conoscere l'eguale. "Tu somigli allo spirito che tu comprendi ".

Poi che il protestantesimo spezzò la gerarchia medioevale, poté prevalere l'opinione che la gerarchia per sé stessa ne fosse rimasta infranta, e non si volle comprendere che non si trattava che d'una semplice "riforma" cioè d'un ravvivamento della gerarchia antiquata. Quella del Medio Evo era stata una gerarchia debole, poi che aveva dovuto permettere che intorno a sé fiorisse indomita la barbarie profana d'ogni specie; la Riforma, sola, seppe rialzare la forza della gerarchia. Bruno Bauer dice [(1) Anecdota, II, 152]: Allo stesso modo che la riforma rappresenta in modo particolare la separazione astratta del principio religioso dell'arte, dallo Stato e dalla scienza, cioè la sua liberazione da quelle forze con le quali nei primordi della chiesa e nella gerarchia medioevale si era collegato — così anche le correnti teologiche ed ecclesiastiche, che uscirono  dalla  Riforma,  non  sono  che  l’attuazione  logica  di  quell'astrazione  del  principio religioso dalle altre forze che regolano l'umanità. Ma io ritengo invece che la dominazione o la libertà dello spirito — ciò che in fondo è la stessa cosa — non siano mai state tanto complesse ed onnipotenti quanto oggidì, poiché quelle, anziché scindere il principio religioso dall'arte, dallo Stato e dalla scienza, li hanno trascinati con loro fuori del mondo, nel "regno dello spirito", elevandoli ad una religione.

Lutero e Cartesio sono stati paragonati felicemente per le lor massime: "Chi crede, è un Dio", "Io penso, dunque sono (cogito ergo sum)". Il cielo dell'uomo è il pensiero — lo spirito. Tutto può venirgli tolto, fuorché il pensiero e la fede. Una fede determinata in Giove, Astarte, Jeova, Allah, ecc., può venir distrutta, le fede per sé stessa e indistruttibile. Nel pensare sta la libertà. Quello di cui abbisogno non può più venirmi concesso per virtù d'alcuno, non per la vergine Maria, né per la intercessione dei santi, né per la chiesa che lega e scioglie, bensì io me lo procuro da me stesso. In breve il mio essere (il sum) è un vivere nel cielo del pensiero, nello spirito; è, insomma, un cogitare. Ed io stesso null'altro sono che spirito, o pensante (secondo Cartesio), o credente (secondo Lutero). Il mio corpo non è il mio "io"; la mia carne può durare i tormenti dei desideri e le sofferenze dei castighi. Io non sono la mia carne, sono il mio spirito: sono spirito unicamente.

Questa idea procede attraverso tutta la storia dalla Riforma sino ai nostri giorni.

Soltanto la filosofia moderna, da Cartesio in poi, si è data seriamente a condurre il Cristianesimo verso un effetto sicuro, proclamando la "coscienza scientifica" quale unicamente vera e fornita di valore. Perciò essa col dubbio assoluto, col dubitare, dà principio alla "contrizione" della coscienza comune, allontanandola da tutto ciò che non sia legittimato dallo spirito, dal pensare. Nulla conta per lei la natura, nulla l'opinione degli uomini e le "istituzioni umane"; ed essa non ha tregua sino a tanto che non abbia tutto rischiarato col lume della ragione sì da poter dire: "il reale è il ragionevole, e soltanto ciò che è ragionevole e reale". Con ciò essa ha finalmente guidato alla vittoria lo spirito, la ragione: ormai tutto è spirito, poi che tutto è ragionevole, così la natura come le più bizzarre opinioni degli uomini; poiché ogni cosa deve servire pel suo meglio , cioè al trionfo della ragione.

Il dubitare del Cartesio contiene l'affermazione recisa, che il cogitare soltanto, soltanto il pensare sia lo spirito. E ripudiata dunque la coscienza "comune" che assegnava una realtà alle cose "irragionevoli"! Soltanto il ragionevole esiste, solo lo spirito esiste! Questo è il principio, nella sua essenza cristiana, della moderna filosofia. Già Cartesio distingueva rigorosamente il corpo dallo spirito. E il Goethe dice che "lo spirito è quello che si edifica il corpo".

Ma anche questa filosofia, la cristiana, non sa come liberarsi dal ragionevole e grida perciò contro quel che è "puramente subbiettivo", contro le "idee improvvise, le accidentalità, gli arbitrii" ecc. Non chiede essa forse che il "divino" si manifesti in ogni cosa, e che ogni coscienza diventi una scienza del divino, e che l'uomo veda Dio in ogni dove? ma Dio non si trova mai scompagnato dal diavolo.

Per ciò non può dirsi filosofo chi ha bensì gli occhi aperti alle cose del mondo, uno sguardo chiaro e non velato, un giudizio sereno intorno al mondo, ma nel mondo non vede che il mondo e negli oggetti i puri oggetti; bensì filosofo è soltanto colui che nel mondo scorge il cielo, nelle cose terrestri il soprannaturale, nel mondano il divino; e sa dimostrarlo e provarlo. Quegli che, sia pur dotato dell'intelletto più acuto, proclama la massima: "Ciò che non vede l'intelletto dell'uomo intelligente, nella sua semplicità lo mette in opera l'intelletto del bambino, animo infantile occorre per essere riconosciuti filosofi", costui non possiede che la coscienza "comune"; invece chi conosce e sa proclamare il "divino", ha una coscienza scientifica. Per questa ragione, Bacone fu cacciato dal regno dei filosofi.

Del resto, la filosofia cosiddetta inglese non ha saputo produrre nulla di meglio delle scoperte dei cosiddetti "spiriti aperti", Bacane e Hume. Gli inglesi non seppero elevare ad un'importanza filosofica "l'animo infantile", non conobbero l'arte di creare dagli "animi infantili" dei filosofi. Ciò vuol dire: la loro filosofia non seppe diventar "teologica". Eppure soltanto quale teologia essa può svilupparsi e perfezionarsi interamente. Nella teologia essa deve contorcersi in disperata agonia. Bacone non si curava delle questioni teologiche e dei punti cardinali.

La vita è invece l'oggetto della conoscenza del pensiero tedesco, poi che questo, meglio d'ogni altro, sa discendere ai principi ed alle fonti dell'esistenza, e solo nella conoscenza vede la vita. Il cartesiano "cogito, ergo sum" significa: "Si vive solo quando si pensa". Vita di pensiero vuol dire: "vita spirituale"! Lo spirito solo vive, la vita sua è la vera vita. E così nella natura le "leggi eterne" (lo spirito) rappresentano la vera vita. Solo il pensiero, negli uomini come nella natura, vive; tutto il resto e morto ! A codesta astrazione, alla vita delle generalità o delle cose apparentemente inanimate si deve giungere facendo la storia dello spirito. Dio, che è spirito, vive lui solo. Nulla vive all’infuori del fantasma.

Come si può affermare a proposito della filosofia o della civiltà moderna, ch'esse abbiano conquistato la libertà se esse non ci hanno liberato dal dominio dell'oggettività? O sono io forse libero, di fronte al despota, se io, pur non dimostrando timore di lui personalmente, tremo tuttavia di contravvenire alla venerazione che io credo dovergli essere da me tributata? La stessa cosa è della civiltà moderna. Essa non fece che mutare gli oggetti "esistenti", quelli che in realtà si onoravano, in oggetti rappresentati, vale a dire in "concetti", di fronte ai quali l'antico rispetto non pure non si dileguò ma anzi s'accrebbe. Se si prese un po' in burla Dio ed il diavolo per la rozza materialità con cui venivano anticamente rappresentati, si prestò tanta maggior attenzione al concetto ch'era in essi. "Si sono liberati dai malvagi, ma il male è restato". A cuor leggero si sconvolse lo Stato, si mutarono le leggi, senza pensarvi più che tanto, poiché s'era deciso di non sottrarsi all'impero di ciò che realmente esisteva e si poteva toccare con mano: ma peccare contro il concetto dello Stato, ma ribellarsi al concetto della legge, chi mai l'avrebbe osato? In tal modo si rimase "cittadini dello Stato" uomini "legali" ossequienti alle leggi: anzi si creddette di dover dimostrare maggior ossequio alle leggi, dopo aver abolite quelle che apparivano difettose; e lo si fece col rendere omaggio allo "spirito della legge". In tutto ciò gli oggetti, solo trasformati, avevano conservato la loro supremazia; in breve, si era ancora in preda, all'obbedienza ed all'ossessione, si viveva nella "riflessione" e si aveva un oggetto per la propria riflessione, oggetto che si rispettava, si venerava, si temeva. Non si era fatto altro che mutare le cose in rappresentazioni, in pensieri cioè e in concetti, rendendone cosi più intima e indissolubile la dipendenza. Cosi, per esempio, non riesce difficile emanciparsi dai comandamenti dei genitori, o sottrarsi alle ammonizioni dello zio e della zia, alle preghiere del fratello e della sorella; ma della negata obbedienza si prova poi subito rimorso, e, quanto meno noi ci arrendiamo a singole pretese che la nostra ragione ci dice essere irragionevoli, tanto più teniamo alto il culto della pietà, dell'amore della famiglia, restii a perdonare a noi stessi l'infrazione del concetto che si ha dell'amor di famiglia e degli obblighi della pietà figliale. Redenti dalla dipendenza della famiglia esistente, si cade nella dipendenza ancor più tirannica del concetto della famiglia: si è dominati dallo spirito della famiglia. Quella famiglia che si componeva di Gianni e Ghita, ecc., la cui padronanza è divenuta impotente, continua ad esistere mutata nel concetto astratto della famiglia cui si applica l'antico precetto: bisogna obbedire prima a Dio che agli uomini; ciò che nel nostro caso significherebbe: Io non posso assoggettarmi alle vostre insensate pretese; ma quale mia "famiglia" voi continuate ad esser l'oggetto del mio amore e de' miei pensieri: imperocché la "famiglia" è un concetto santo, che non è permesso d'offendere.

E questa famiglia che ebbe vita nel mio interno, questa famiglia immateriale sarà per me quind'innanzi la cosa "santa", il cui dispotismo sarà le mille volte più insopportabile, perché strepiterà senza tregua nella mia coscienza. Questo dispotismo non può essere infranto, che quando anche il concetto astratto della famiglia si dissolva nel nulla. Le parole del Vangelo; "Donna, che cosa ho io di comune con te?" [(1) GIOV., 2, 4.]; "Io sono venuto a suscitare l'uomo contro il proprio padre e la figlia contro la madre" [(2) MATT., 10, 35] ed altre simili, vengono poste in correlazione con la famiglia celeste, con la vera famiglia, e non significano altro fuor che la pretesa dello Stato, per la quale in caso di conflitto tra esso e la famiglia, è obbligo di obbedire allo Stato.

Come della famiglia, così è della morale. Molti si staccano dalla morale ma restano servi della moralità. La moralità è l'idea della morale, è la sua potenza spirituale, la sua potenza sulle coscienze; mentre la morale è troppo materiale, per poter dominare lo spirito, e non può assoggettare un uomo "spirituale", un cosiddetto "indipendente", un "libero pensatore".

Il protestante può dire ciò che vuole; ma "santa" è per lui la "Sacra Scrittura", la "parola di Dio". Chi cessa dal ritenerla "santa" cessa d'essere protestante. Ma per ciò stesso gli è "sacro" ciò che in lei è "prescritto": l'autorità posta da Dio, ecc.

Tutto ciò per lui dev'essere indissolubile, intangibile, "superiore ad ogni dubbio", e siccome il "dubbio" è la cosa più naturale all'uomo, tutte quelle cose vengono riguardate come superiori all'uomo. Chi non sa liberarsene avrà la fede: poiché credere significa esser vincolato a qualche cosa. Poiché nel protestantesimo la fede si è fatta più pura, anche il servaggio è divenuto più intimo: tutte quelle cose "sacre", son divenute parte dell'essere stesso, "questioni di coscienza", "sacrosanti obblighi". Per ciò al protestante é sacra quella tal cosa dalla quale non sa liberare la sua coscienza, e la "coscienziosità" è la virtù che più di tutte lo distingue dagli altri.

Il protestantesimo ha ridotto l'umanità in uno stato affatto simile alla "polizia segreta". La spia continuamente origliante della "coscienza" vigila ogni moto dello spirito: ogni azione e ogni pensiero, è per lei "questione di coscienza". In questo antagonismo tra l' "istinto naturale" e la "coscienza" (plebe e polizia interiore) vive il protestante. La ragione della Bibbia (al posto della cattolica ragion della Chiesa), è tenuta in conto di sacra, e il sentimento che la parola della Bibbia è sacra si chiama coscienza.

Con ciò si fa entrare per forza la santità nella coscienza dell'uomo. Chi non sa liberarsi dalla coscienza, della cosa sacra, potrà, è vero, agire contro coscienza, ma giammai indipendentemente dalla coscienza.

Il cattolico si sente soddisfatto, quando ha eseguito un ordine; il protestante opera secondo la sua "miglior scienza e coscienza". Il cattolico non è che un laico, il protestante è sempre "sacerdote".

Questo perfezionarsi dello spirituale è il progresso segnato dalla Riforma sul Medio Evo, ma ne è anche la maledizione.

Che altro era la morale gesuitica fuorché una continuazione del commercio delle indulgenze, con questa sola differenza che ormai quegli che otteneva l'indulto dei peccati, poteva prendere in esame l'indulto che otteneva a persuadersi in qual modo gli veniva tolto il peccato? Poiché in certi casi determinati (così dicono i casuisti) non era affatto peccato ciò ch'egli aveva commesso. Il commercio delle indulgenze s'estendeva a tutti i peccati e a tutte le contravvenzioni ed aveva fatto tacere tutti gli scrupoli della coscienza. Tutta la sensualità poteva espandersi a sua posta purché si fosse conquistata a suon di denari la licenza della Chiesa. Questo favoreggiamento della sensualità fu continuato dai Gesuiti, mentre i protestanti puritani, tetri, fanatici, smaniosi di penitenze, avidi di mortificazioni e di preghiere, nella lor qualità di restauratori del Cristianesimo null'altro volevano ammettere fuor che l'uomo spirituale e religioso.

Il cattolicesimo e particolarmente i Gesuiti favorirono con ciò l'egoismo e trovarono persino tra i protestanti un seguito involontario ed incosciente riuscendo così a salvarsi dalla degenerazione e dalla morte dei sensi.

Malgrado tutto lo spirito protestante estende sempre più il suo dominio, e il gesuitismo (il quale per lui, che si tiene divino, non rappresenta che il "diabolico" necessariamente inseparabile da tutto ciò che è divino), nonostante tutti gli sforzi, non può sostenersi in nessuna parte colle proprie forze, e deve assistere, come avviene in Francia, alla vittoria del protestantesimo nell'ipocrisia borghese, che pone lo spirito al disopra d'ogni altra cosa.

Al protestantesimo vuolsi riconoscere il merito d'aver ricondotto in onore il "temporale", per esempio il matrimonio, lo Stato, ecc. Ma per esso il temporale (come il profano) è molto più indifferente che non sia pel cattolico, il quale permette al mondo profano di esistere, e ne partecipa spesso ai godimenti, mentre il protestante, ragionevole e logico, s'appresta a distruggere del tutto ogni cosa che sia mondana. Il che gli succede col proclamarla semplicemente "sacra".

Così al matrimonio è stato tolto il carattere naturale, col renderlo "sacro", non già nel senso di sacramento cattolico che lo presuppone cosa profana che dalla Chiesa soltanto riceve la consacrazione, bensì nel senso ch'esso diventa per sé stesso un non so che di sacro, un sacro legame. Così lo Stato, ecc. Una volta era il papa che consacrava e benediceva lo Stato e i suoi principi; ora lo Stato è santo in sé, e tale è pure la maestà senza aver bisogno della benedizione sacerdotale.

In generale si consacrò l'ordine della natura, ovvero il diritto naturale, il quale diventò l' "ordine divino". Perciò leggiamo, p. es., nella Confessione d'Augusta, art. 11: "E così atteniamoci al decreto saggio e giusto dei giureconsulti: che l'uomo e la donna stiano insieme, è diritto naturale. Se è un diritto naturale, è anche un ordinamento di Dio che ha disposto che così fosse, e per conseguenza è un diritto divino". E che è mai Feuerbach se non un protestante illuminato quando dimostra sacri i rapporti morali, non già perché ordinati da Dio, bensì per lo spirito che in essi alberga? Ma il matrimonio, se veramente risulti da una libera unione d'amore, è per sé stesso sacro, per la natura dell'unione che viene contratta. Quel matrimonio soltanto è religioso, il quale è anche vero e corrisponde all'essenza del matrimonio, all'amore.

E così è di tutti i rapporti morali. Essi non diventano e non sono morali, e come tali non vengono tenuti in onore, che quando per sé stessi sono riguardati come religiosi. Vera amicizia non v'é se non la dove i limiti dell'amicizia vengono religiosamente osservati collo stesso fervore religioso con cui il credente difende la dignità del suo Dio.

"Sacra" è, e dev'essere, per te l'amicizia, sacra la proprietà, sacro il matrimonio, sacro il benessere d'ogni uomo, ma sacro in sé, per sé stesso [(1) Essenza del Cristianesimo, pag. 408]

Questo è un momento molto essenziale. Nel cattolicesimo le istituzioni mondane possono venir "consacrate" ed anche "santificate"; ma, senza la consacrazione religiosa, non sono sacre; mentre nel protestantesimo i rapporti mondani sono "sacri per sé stessi", sacri unicamente perché sussistono.

Con la consacrazione che conferisce la santità s'accorda benissimo la massima gesuitica: "lo scopo santifica i mezzi".

Nessun mezzo è per sé stesso santo o non santo: bensì i suoi rapporti con la Chiesa, l'utilità ch'esso ha per la Chiesa, lo rendono tale. Tra questi mezzi c'è anche il regicidio; se esso era stato compiuto in prò della Chiesa, poteva esser sicuro d'essere santificato, benché non apertamente. Pel protestante la maestà è sacrosanta, pel cattolico non era tale che quella consacrata dal pontefice, anche senza un atto speciale, una volta per tutte. Se il papa revocasse la sua consacrazione, il re pel cattolico non differirebbe da un altro uomo qualsiasi.

Se il protestante è intento a trovare anche nelle cose sensuali la "santità", il cattolico tende a porre tutto ciò che è sensuale in un luogo appartato, dove, al pari del resto della natura, continua a conservare il suo valore.

La Chiesa cattolica sottrasse dal proprio Stato consacrato l'istituzione mondana del matrimonio, e lo vietò ai sacerdoti; la Chiesa protestante, all'incontro, dichiarò sacro il matrimonio e i legami coniugali, quindi non li giudicò inadatti per religiosi.

Un gesuita, da buon cattolico, può santificar ogni cosa. Basta p. es. ch'egli si dica: Io nella mia qualità di sacerdote sono necessario alla Chiesa; ma la servo con maggior zelo, se posso soddisfare i miei desideri; per conseguenza voglio sedurre quella ragazza, voglio far perire di veleno questo mio nemico, ecc. Il mio fine è santo, perché è il fine d'un sacerdote, quindi santifico i mezzi. In fin dei conti tutto si risolve in maggior gloria della Chiesa. perché il prete cattolico dovrebbe rifiutarsi ad offrire all'imperatore Arrigo VII l'ostia avvelenata — per la maggior gloria della Chiesa?

I protestanti ortodossi levano alta la voce contro ogni "divertimento innocente" sostenendo che solo le cose sacre, le spirituali possono essere innocenti. Tutto ciò in cui non si può dimostrare la presenza dello spirito, deve essere ripudiato: la danza, il teatro, le pompe (p. es. nelle chiese), ecc.

Di fronte a questo Calvinismo puritano il Luteranesimo procede di preferenza sulla via religiosa, vale a dire sulla via spirituale; esso è più radicale.

Il Calvinismo cioè esclude d'un tratto un gran numero di cose, perché sensuali e mondane, e purifica così la Chiesa; il luteranesimo invece cerca di spiritualizzare quante più cose gli è possibile, e così di far riconoscere lo spirito quale essenza d'ogni cosa per modo da render sacro tutto ciò che è mondano. Perciò riuscì al luterano Hegel (in un passo d'una delle sue opere egli dichiara di "voler restar luterano" ) l'attuazione compiuta del pensiero mediante il tutto. In tutto v'è la ragione: o — in altri termini — "il reale è ragionevole". Il reale é, in verità, il tutto, poiché in ogni cosa, persino nella menzogna, può venir scoperto il vero; non esiste una menzogna assoluta, come non esiste il male assoluto, e così via.

Grandi opere dello spirito non furono create che dai protestanti, poiché essi erano i veri discepoli e i veri zelatori dello spirito.

Quanto angusto è l'impero dell'uomo! Egli deve permettere che il sole segua il suo corso, che il mare sollevi le sue onde, che i monti s'ergano verso il cielo. E così egli si arresta impotente dinanzi all'invincibile.

Può egli schermirsi dall'impressione della propria impotenza di contro a questo accordo colossale? Il mondo è la legge immutabile alla quale egli è costretto di assoggettarsi; essa determina il suo destino.

A che cosa intendeva l'umanità precristiana? A rendersi libera dall'imperversare dei destini, a non lasciarsene alterare. Gli stoici raggiunsero questo fine coll'apatia durando indifferenti gli assalti della natura, senza mostrarsene turbati. Orazio pronuncia il celebre "Nil admirari", con cui egli manifesta anche l'indifferenza dell'altro, del mondo; esso non deve aver influenza su noi, non deve eccitare la nostra meraviglia. E il suo impavidum ferient ruinae esprime la stessa incrollabilità, di cui parla il salmo 46, 3: "Noi non temiamo, anche se dovesse crollare il mondo". Tutto ciò apre la via alla tesi cristiana che il mondo è vano, sgombra cioè il cammino al disprezzo del mondo proprio dei cristiani.

Lo spirito "incrollabile" del "savio" con cui il mondo antico si adoperava alla propria affermazione finale, ricevette un tale urto interiore dal quale non seppe proteggerlo nessuna atarassia, e nemmeno il coraggio stoico.

Lo spirito, resosi sicuro contro ogni influenza del mondo, insensibile ai suoi colpi, e superiore ai suoi assalti, deliberato a non ammirare cosa alcuna, non poteva esser tratto dalla sua indifferenza nemmeno dal crollare del mondo; — egli traboccava sempre. Imperocché nel suo interno si sviluppavano dei gas (spiriti) e, cessati gli effetti dell' urto meccanico prodotto dal di fuori, le tensioni chimiche eccitate nel suo seno diedero principio alla loro attività meravigliosa.

Infatti la storia antica finisce il giorno in cui l'uomo acquista nel mondo la sua proprietà. "Tutte le cose mi furono consegnate da mio padre" (Matt. II, 27). Il mondo ha cessato di esser per me ultrapossente, inconcepibile, sacro, divino, ecc.; esso è "sdivinizzato" ed io lo tratto a mio piacimento, di modo che, s'io potessi far miracoli, io vorrei esercitare su di esso tutta la mia forza, (cioè la forza dello spirito), per spostare i monti, ordinare ai gelsi di strappar da sé stessi le proprie radici dalla terra e di metter radice nel mare" (Luca, 17, 6); atterrare, insomma, tutto ciò che può esser pensato. Tutte le cose sono possibili per colui che crede [(1)MARCO, 9, 23]. Io sono il padrone del mondo: la sovranità m'appartiene. Il mondo si è fatto prosaico, giacché ciò che era divino è scomparso; esso è mia proprietà, della quale mi valgo a mio piacere.

Poiché l'Io era assorto al dominio del mondo, l'egoismo aveva celebrato la sua prima e compiuta vittoria; egli aveva superato il mondo, era divenuto senza mondo, aveva chiuso sotto chiave le conquiste d'una lunga êra.

La prima proprietà, la prima signoria era stata conquistata!

Ma il signore del mondo non è per ciò ancora il signore dei propri pensieri, dei suoi sentimenti, della sua volontà; egli non s'è reso ancora padrone e dominator dello spirito, poiché lo spirito e ancor santo, è lo "spirito santo" e il cristiano senza mondo non saprebbe essere il cristiano senza Dio. Se la lotta antica era diretta contro il mondo, quella del Medio Evo cristiano era combattuta dall'uomo contro sé stesso (lo spirito). La prima era una lotta contro il mondo esteriore, questa fu un combattimento contro il mondo interiore. L'uomo del Medio Evo è l' uomo "raccolto in se stesso", pensante, pensoso. Tutta la pazienza degli antichi è sapienza mondana, cosmologia; quella dei moderni è sapienza divina, teologia.

Del mondo i pagani (anche i giudei tra altri), seppero aver ragione: ma ormai si trattava di venire a capo di se stessi, di finirla con lo spirito, di diventare, in una parola senza spirito e senza Dio.

Sin da quasi duemila anni noi ci affatichiamo a soggiogare lo spirito santo, e coll'andar del tempo abbiamo distrutta e calpestata buona parte di santità; ma il poderoso avversario si risolleva dinanzi a noi perennemente diverso, sotto forme mutate, sotto nomi ad ora ad ora differenti. Lo spirito non cessò ancora d'essere divino, non fu ancora sconsacrato, fatto profano. Vero è ch'ei non aleggia più sulle nostre teste in forma di colomba, non predilige più soltanto i suoi santi, ma si lascia dar la caccia anche dai laici. Ma col nome di spirito dell'umanità, di spirito umano, cioè di spirito dell'uomo, egli per me e per te continua ad essere uno spirito straniero, ben lontano ancora dal diventare nostro esclusivo possesso, del quale noi possiamo disporre a nostro piacere. Tuttavia una cosa è avvenuta certamente, la quale ebbe azione efficace sulla storia dei tempi che successero ai cristiani; la tendenza cioè ad umanizzare lo spirito, ad avvicinarlo agli uomini, a trasformarlo in umano.

Da ciò seguì ch'esso poté venir riguardato come lo spirito dell'umanità e rendersi così più simpatico, confidenziale ed accostevole coi nomi di umanità, umanesimo, amore degli uomini ecc.

Dovremmo credere dunque che ognuno potesse ora possedere lo spirito santo, accogliere in sé stesso l'idea dell'umanità, incarnata in sé stesso ?

No, lo spirito non è spogliato della sua santità e della sua inaccessibilità, non è per noi raggiungibile, non è possesso nostro; poiché lo spirito dell'umanità non è ancora il mio spirito. Può essere un mio ideale e come tale io posso vagheggiarlo in pensiero: è in mio possesso, ed io lo dimostro a sufficienza col rappresentarmelo come meglio mi piace, oggi così, domani diversamente, nei modi ad ora ad ora più differenti. Ma, in pari tempo, esso è un fedecommesso che non mi è lecito alienare, e da cui non posso liberarmi.

Per effetto di lente mutazioni lo spirito santo d'un tempo si trasforma nell'idea assoluta, la quale, a sua volta, per opera di molteplici atti, si scinde nelle idee di amore del prossimo, di ragionevolezza, di virtù civile, ecc.

Ma posso io chiamar mia l'idea, se essa è l'idea dell'umanità? Posso io ritenere d'aver superato lo spirito, se io sono obbligato a servirlo, a "sacrificarmi" a lui? Gli antichi presero possesso del mondo solo quando n'ebbero infranta la strapotenza e la "divinità", e riconosciutane la impotenza e la vanità.

Così è dello spirito. Quando io sono giunto a considerarlo come un fantasma e a vedere nel dominio ch'egli ha su di me un ramo di follia da parte mia, allora esso cessa di esser sacro e divino, allora io mi servo di lui, come senza scrupoli ed a mio talento mi servo della natura.

La "natura della cosa" il "concetto del rapporto" devono servirmi di norma quand'io tratto quella cosa, quand'io formo quel rapporto. Come se un concetto della cosa esistesse in sé e non invece dalla cosa derivasse il concetto! Come se un rapporto, che s'inizia, non fosse unico per il fatto che unico son io che lo penso! Come se dipendesse dal modo con cui le terze persone lo definiranno! Ma alla stessa guisa, che si separa l' "essenza" dell'uomo dall'uomo stesso, e questo si giudica alla stregua di quella, così si distinguono dall'uomo le sue azioni e le si apprezzano a seconda del loro "valore umano". I concetti devono decidere in ogni cosa, regolar l'esistenza, dominare.

Questo è il mondo religioso al quale Hegel dette un'espressione sistematica coll'introdurre il metodo in una cosa priva di senso e col codificare i concetti in modo da ottenerne una dogmatica serrata solidamente costrutta. Tutto in quel sistema viene misurato alla stregua dei concetti, e l'uomo reale, vale a dire l' "io", è costretto a vivere secondo quei concetti. Può darsi una più tirannica dominazione di leggi? e non ha forse confessato il Cristianesimo sin dal bel principio, ch'esso intendeva stringere ancor maggiormente il freno delle leggi mosaiche? ("Non una parola della legge deve andar perduta!").

Il liberalismo non fece che incidere le tavole di altri concetti, umani invece che divini, e sostituire il concetto dello Stato a quello della Chiesa, ai religiosi gli scientifici, o, per dir meglio, ai "rozzi sistemi e alle grossolane istituzioni i concetti reali e le leggi eterne".

Ormai solo lo spirito impera nel mondo e un numero infinito di concetti affolla i cervelli; ebbene che cosa fanno quelli che tendono a progredire? Essi negano quei concetti per metterne altri in lor luogo! Essi dicono: voi vi siete formati un falso concetto del diritto, dello stato, dell'uomo, della libertà, dell'onore; il vero concetto del diritto, dello stato, dell'uomo, della libertà dell'onore è quello che noi vi proponiamo. E di questo passo la confusione dei pensieri s'accresce.

La storia universale ci ha trattati crudelmente e lo spirito ha raggiunto una forza onnipotente. Tu sei tenuto a rispettare le mie miserabili scarpe, che potrebbero proteggere i tuoi piedi nudi; il mio sale, che potrebbe servire a condir le tue patate; e la mia carrozza di gala, il cui possesso ti trarrebbe dall'indigenza; a tutto ciò tu non devi tender la mano. Tutte queste ed altre cose senza numero l'uomo è obbligato a riconoscerle indipendenti, inaccessibili ed intangibili, sottratte al suo potere. Egli deve rispettarle; e s'egli tenda la mano bramosa verso di esse, noi diremo subito di lui ch'egli ha le mani "lunghe".

Quanto miserabilmente scarso è il numero delle cose di cui ci è rimasto il possesso! Poco più di nulla! Ogni cosa è stata collocata fuor dalla nostra portata; nessuna cosa possiamo ardire di toccare, se non ci fu data; noi non viviamo che della carità del donatore. Tu non puoi raccoglier da terra nemmeno un ago, se non hai ottenuto da te stesso licenza di poterlo fare. E da chi deve venirti codesta licenza? Dal rispetto! Soltanto quand'esso te la cede in tua proprietà; solo quando tu puoi rispettarla quale cosa tua propria, tu hai licenza di prendertela.

E, d'altro canto, tu non puoi concepire alcun pensiero, né pronunciare sillaba, né commettere un'azione, che non ti sian suggerite dalla moralità, dalla ragione o dall' umanità. Beata ingenuità dell' uomo concupiscente! Senza misericordia si tentò di immolarti sull'altare delle "prevenzioni".

Ma intorno all'altare sorge una chiesa e le sue mura si allargano sempre più. Ciò ch'esse racchiudono è sacro. A te ne è vietato l'accesso: tu non puoi più toccare le cose che vi si racchiudono. Gettando grida di dolore a cui ti sforza la fame tu t'aggiri intorno a quelle mura a raccogliere le poche briciole del profano, e sempre più s'allarga la cerchia. In breve quella chiesa abbraccerà tutta la terra, e tu ne sarai respinto al margine estremo; un passo ancora ed il mondo "sacro" avrà trionfato; tu precipiterai nell'abisso. Sollecita dunque te stesso, finché n'è tempo; non vagare più inutilmente sul terreno già falciato del profano, spicca il salto e di un balzo entra nel santuario. Quando avrai consumato ciò che è santo, tu l'avrai posto in tuo dominio! Digerisci l'ostia; ne sarai liberato.


— I LIBERI.

Poiché più sopra abbiamo distinto i vecchi e i moderni in due categorie, parrebbe logico formare una categoria indipendente dei liberi. Ma così non è. I liberi non si trovano che tra i moderni e tra i più "nuovi" dei moderni, e vengono classificati separatamente soltanto perché appartengono all'êra presente, la quale è particolarmente oggetto della nostra attenzione. Io intendo qui per liberi i cosiddetti liberali, ma per ciò che riguarda il concetto della libertà e di parecchie altre cose, alle quali non fu possibile di non accennare prematuramente, devo riferirmi a quel che dirò più oltre.


§ 1. — IL LIBERALISMO POLITICO.

Dopo che il calice della cosiddetta monarchia, assoluta fu vuotato sino alla feccia, nel secolo decimottavo vi fu chi s'accorse troppo bene che il liquore contenutovi aveva un sapore d'extraumano, sì che incominciò, a desiderare un altro calice. I nostri padri, uomini com'erano, domandarono finalmente d'esser considerati quali uomini.

Chi in noi vede altra cosa che l'uomo, e da noi tenuto quale un essere inumano, e come tale trattato; chi invece ci riconosce per uomini e ci difende nel pericolo, è da noi rispettato quale nostro vero protettore e patrono.

Uniamoci dunque fortemente e difendiamo l'uomo nell'uomo; allora nella nostra unione troveremo la protezione che ci abbisogna, ed in noi, che siamo uniti, scorgeremo una comunione di individui consci della propria dignità umana, e associati perché "uomini". La nostra unione rappresenta lo Stato, e noi che ci teniamo uniti formiamo la Nazione.

Nel nostro complesso, quale Stato o Nazione, noi restiamo semplicemente uomini. La nostra condotta individuale, gli istinti naturali cui ci assoggettiamo riguardano la vita privata; la nostra vita pubblica o la nostra condotta verso lo Stato è puramente umana. Ciò che in noi v'é d'antiumano e d'egoistico viene abbassato al grado di faccenda privata, e noi distinguiamo rigorosamente lo Stato dalla "società borghese" nella quale l'egoismo si fa largo a sua posta.

Il vero uomo è la Nazione, il singolo individuo è sempre un egoista. Spogliatevi dunque della vostra individualità nella quale s'annidano l'ineguaglianza egoistica e la discordia, e dedicatevi interamente al vero uomo, alla Nazione od allo Stato. Allora avrete valor vero di uomini, ed otterrete tutto ciò che appartiene all'uomo; lo Stato, il vero uomo, vi conferirà il diritto d'essere dei suoi, e vi farà dono dei "diritti dell'uomo"; l'uomo vi darà i suoi diritti.

Così parla la borghesia.

Il regime borghese s'informa all'idea che lo Stato sia il tutto nel tutto, che sia il vero uomo, e che il singolo non acquisti valore che col far parte dello Stato. Nel buon cittadino esso pone ogni sua aspirazione; all'infuori di ciò nulla conosce di elevato, se ne togli l'ambizione già ormai vieta d'essere un buon cristiano.

La borghesia si svolse nella lotta contro le classi privilegiate, dalle quali era stata trattata generosamente da "terzo Stato" e confusa con la "canaglia". Sino allora adunque nello Stato la eguaglianza dei cittadini era ignota. Al figlio del nobile erano riservate le alte cariche, alle quali invano alzavano lo sguardo i migliori della borghesia. Contro di ciò si sollevò il sentimento borghese. Nessuna distinzione, nessuna preferenza, nessuna differenza, di casta! Tutti siamo uguali! Nessun interesse particolare sia quind'innanzi favorito; ma unicamente l'interesse universale. Lo Stato dev'essere l'unione di uomini liberi e uguali tra di loro, e ciascuno deve dedicarsi al "bene comune", confondere la propria individualità nello Stato, formare dello Stato il proprio fine e il proprio ideale. Lo Stato, lo Stato! era il grido di tutti, e d'allora in poi non si fece che ricercare il "vero ordinamento dello Stato" la costituzione migliore, lo Stato, cioè, nella sua miglior concezione.

L'idea dello Stato penetrò in tutti i cuori e destò l'entusiasmo; servire a lui, al nuovo Iddio terrestre, divenne un nuovo culto.

Sorgeva l'êra politica per eccellenza. Servire allo Stato ed alla Nazione divenne il più sublime degli ideali, l'interesse dello Stato il supremo interesse, il servizio dello Stato (al quale si può partecipare senza essere impiegati dello Stato), il più grande degli onori.

Con ciò s'erano cacciati in bando gl'interessi particolari e le individualità, ed il sacrificio per lo Stato era divenuto lo " sciboleh ".

Bisogna rinunziar a sé stessi e vivere per lo Stato. Bisogna operare disinteressatamente, non bisogna voler recar vantaggio a sé stessi bensì allo Stato.

Questo è divenuto la vera persona, dinanzi alla quale ogni individualità scompare. Con ciò, l'egoismo antico si mutava in disinteresse e in impersonalità incarnata.

Dinanzi al dio — raffigurato dallo Stato — ogni forma di egoismo dileguava, tutti diventavano uguali, senza distinzioni: — uomini, e null'altro che uomini.

La materia facilmente incendiabile della "proprietà" fu la causa della rivoluzione.

Il governo aveva bisogno di denari. Ormai occorreva dimostrar vera la tesi che il governo è assoluto e perciò proprietario esclusivo di ogni cosa; conveniva dunque togliere ai sudditi il denaro che si trovava bensì in loro possesso, ma di cui soltanto lo Stato era il vero padrone. Invece di far ciò si convocarono gli Stati generali, chiedendo concedessero allo Stato quel denaro di cui abbisognava. La paura delle ultime conseguenze distrusse l'illusione del governo assoluto; chi ha bisogno di farsi accordar qualche cosa, non può più esser riguardato come assoluto. I sudditi riconobbero ch'essi erano i proprietari legittimi e che loro apparteneva quel denaro che ad essi si domandava.

Quelli che sino allora erano stati sudditi riconobbero così di esser proprietari.

In brevi parole ciò è osservata da Bailly: " Se in difetto del mio consenso voi non potete disporre della mia proprietà, tanto meno potrete senza mia volontà disporre della mia persona e di tutto ciò che riguarda la mia condizione spirituale e sociale. Tutto ciò è mia proprietà, come il pezzo di terra che io coltivo; ed io vi ho diritto, come ho l'interesse di creare le leggi da me stesso". Dalle parole di Bailly si sarebbe, è vero, potuto arguire che ciascuno fosse proprietario. Invece in luogo del governo, del principe subentrò quale proprietaria e signora — la Nazione. D'allora in poi l'ideale ha nome — "libertà del popolo" — "il popolo libero" ecc.

Già all'8 luglio 1789 la dichiarazione del vescovo d'Autun e di Barrères distrasse l'apparenza che ciascuno, individualmente, potesse avere un'importanza qualunque nella legislazione, e dimostrò l'intera impotenza dei committenti; la cosiddetta maggioranza dei rappresentanti è divenuta padrona.

Quando al 9 di luglio fu esposto il progetto sulla divisione dei lavori della costituzione, Mirabeau osservava: "Il governo non ha dalla sua parte che la Violenza, ma nessun diritto l'assiste; nel popolo soltanto deve esser ricercata la fonte d'ogni diritto". Al 16 luglio lo stesso Mirabeau esclama: "Non è il popolo la fonte d'ogni potere?" Ah, dunque dal potere sorge il diritto!

Di passaggio, qui si scopre che la vera essenza del diritto è la forza. "Chi ha la forza, ha anche il diritto".

La borghesia è l'erede delle classi privilegiate.

E di fatto i diritti che furono tolti ai baroni, perché "usurpati", furono dati alla classe borghese. Poiché la borghesia si chiamava ormai la Nazione.

Nelle mani della "Nazione" furono restituiti tutti i privilegi. Con ciò essi cessarono d'esser chiamati "privilegi" e presero nome di "diritti".

La Nazione da allora in poi esige le decime e le prestazioni; essa ha ereditato il diritto di signoria, il diritto di caccia, la dominazione sugli schiavi della gleba. La notte del 4 agosto segnò la morte dei privilegi (anche le città, i comuni, i magistrati godevano privilegi e diritti di signoria) e finì colla nuova aurora del "diritto", dei "diritti dello Stato", dei "diritti della nazione".

Il monarca in persona del "re" era stato un monarca ben meschino in confronto del nuovo monarca, la "Nazione sovrana".

Questa nuova monarchia era mille volte più dura, più rigorosa, più logica.

Al nuovo monarca non potevasi contrastar più alcun diritto, alcun privilegio; di quanto, in paragone di questo nuovo potere, si rivela limitato quello del "re assoluto", dell'antico regime! La rivoluzione ebbe per effetto la trasformazione della monarchia circoscritta nella monarchia illimitata. D'ora innanzi ogni diritto, che non emana da questo nuovo monarca, diventa un' "arroganza", e ogni privilegio che esso sancisce si trasforma in "un diritto".

I tempi volevano una monarchia assoluta che tale fosse in realtà; per ciò cadde quella monarchia, solo di nome assoluta, che aveva saputo tanto poco rendersi conforme al suo titolo, da esser limitata da mille piccoli signorotti.

Ciò che era stato il desiderio, l'aspirazione dei secoli, la ricerca, cioè, d'un padrone assoluto, vicino al quale non potessero sussistere altri signori e signorotti che ne limitassero la possanza, fu tradotto in realtà dalla borghesia. Essa ha rivelato il signore che solo dispensa titoli legalmente validi, e senza la cui concessione nessuna cosa ha un "valor legale".

"Sicché noi ora sappiamo che un idolo nulla conta nel mondo e che nessun Dio esiste all'infuori dell'unico e solo" [(1) COR., § 4].

Del diritto non è possibile, come di un diritto, sostenere che sia un "torto"; solo, al più si può affermare ch'esso è un'illusione, un controsenso. Se lo chiamasse "torto" bisognerebbe opporgli un altro "diritto" alla stregua del quale potesse essere giudicato. Ma se si rigetta il diritto come tale, il diritto in sé e per sé, si ripudia nel medesimo tempo il concetto del "torto", annullando così intero il concetto stesso del diritto del quale l'idea del torto, suo contrario, fa parte.

Che cosa significa: "noi possediamo l'uguaglianza dei diritti politici"? Questo solamente: che lo Stato non si cura affatto della singola persona; che per lui questa, al pari di tutte le altre, non ha, oltre quella materiale, una qualunque significazione importante. Io non m'impongo allo Stato perché sono un nobile, il figlio d'un gentiluomo o anche soltanto l'erede d'un officiale dello Stato, le cui funzioni mi spettino per diritto ereditario (come nel Medio Evo p. es. le contee eco., ed anche più tardi gli impieghi ereditari sotto la monarchia assoluta). Ora lo Stato ha una quantità innumerevole di diritti da conferire, quali p. es., il diritto di comandare una compagnia di soldati o il diritto di far lezione alle università; egli solo gli può conferire perché gli appartengono, essendo, tutti codesti, non altro che diritti politici. E per lo Stato è indifferente ch'essi sieno conferiti all'uno più tosto che all'altro, purché quegli che li ottiene sappia adempire agli obblighi che nascono dall'officio commesso. Per lui noi siamo tutti uguali e tutti ad un modo graditi; nessuno è considerato da più o da meno d'un altro. Che il comando dell'armata sia ottenuto da questo o da quello poco mi importa, dice lo Stato sovrano, purché colui che lo consegue conosca bene il suo mestiere. "Uguaglianza dei diritti politici" significa adunque che ognuno è in condizione di conseguire qualunque diritto che possa essere dallo Stato concesso, pur di adempiere ai doveri che ne derivano. I quali doveri sono insiti nella natura del diritto di cui nel singolo caso si tratta, non già in un privilegio della persona (persona grata); e cosi ad esempio, la natura del diritto d'esser officiale importa la necessità d'aver il corpo sano e certe determinate cognizioni, ma non richiede nobili natali; se invece anche al più meritevole dei cittadini talune cariche fossero precluse, ne seguirebbe un'ineguaglianza nei diritti politici. Tutti gli Stati odierni, quale più e quale meno, si sono attenuti a questo principio d'uguaglianza.

La monarchia a classi (cosi chiamerò la monarchia assolata, l'età dei re, prima della rivoluzione) sottometteva il singolo a mille altre piccole monarchie, le quali erano delle caste: come le corporazioni, la classe aristocratica, il clero, la borghesia, le città, i comuni, ecc. In ogni luogo il singolo doveva considerarsi anzitutto quale un membro di queste piccole divisioni in che la Società era partita a prestar cieca obbedienza allo spirito al quale esse erano informate, l'esprit del corps. Così al nobile, più di sé stesso doveva importare della famiglia, dell'onore della sua schiatta. Soltanto in virtù della corporazione, cui apparteneva, il singolo aveva dei rapporti colla corporazione maggiore, che era lo Stato, alla stessa guisa che nel cattolicesimo il singolo comunica con Dio per mezzo del prete. A ciò pose fine il terzo Stato, col negare arditamente d'essere, egli stesso, uno Stato, e con l'elevarsi al grado di Nazione. Con ciò egli creò una monarchia molto più perfetta ed assoluta, nella quale disparve il principio delle caste prima d'allora dominante. Non è dunque giusto affermare che la rivoluzione sia stata diretta contro le prime classi privilegiate, bensì si deve dire che essa intese ad eliminare le piccole monarchie esistenti entro lo Stato. Ma infranta la dominazione delle classi privilegiate (anche il re non era che il re delle classi, non un re borghese) rimanevano gli individui sottratti al giogo dell'ineguaglianza di classe? Dovevano essi restare senza alcun legame? No, perché non per altro il terzo Stato si era sollevato se non nell'intento di non più formare uno Stato tra altri Stati, bensì uno Stato unico. Quest'unico Stato è la Nazione, lo "Stato" per eccellenza (Status). Che cosa era divenuto allora il "singolo"? Un protestante politico! poiché era entrato in immediato rapporto col suo Dio, lo Stato, Egli non era più un nobile in una monarchia aristocratica, non era più un operaio in una repubblica di corporazioni, bensì egli e tutti gli altri non riconoscevano che un padrone unico, lo Stato dal quale tutti, senza eccezione, ottennero il titolo onorifico di "cittadini".

La borghesia è la nobiltà del MERITO: "al merito il premio" è la sua divisa. Essa aveva lottato contro la nobiltà "oziosa" poiché, secondo il criterio della nobiltà acquisita col lavoro e coi meriti, non si nasce già "liberi"; e non la persona in sé, qualunque essa sia, è libera, ma tale è soltanto quella che di libertà è degna, quella che onestamente ha "servito" (il suo re, lo Stato, il popolo negli Stati costituzionali). Col servire si acquista la libertà, cioè "il merito", quand'anche il padrone fosse il "mammone". Bisogna rendersi benemeriti dello Stato, cioè del principio che informa lo Stato, del suo spirito morale. Chi serve a codesto spirito dello Stato, è, a qualunque professione si sia dedicato, un buon cittadino. Agli occhi dei buoni cittadini gli "innovatori" s'occupano di un' "arte che non dà pane"; soltanto il "mercante" è "pratico"; e dotato di spirito mercantile è tenuto colui che va alla caccia degli impieghi, colui che nei commerci procura di mettere da parte un gruzzolo, colui che sa rendersi utile in qualche modo a sé stesso ed agli altri. Ma se i benemeriti sono avuti in conto di liberi (dopotutto di che cosa manca la libertà del borghese che ama i comodi, e scrupolosamente attende al suo officio?) i servi sono i liberi. Il servo ossequioso è l'uomo libero. Quale crudele controsenso!

Eppure questa è l'intima significazione della borghesia, ed il suo poeta Goethe ed il suo filosofo Hegel hanno trovato il modo d'esaltare la dipendenza del soggetto dall'oggetto, l'obbedienza al mondo oggettivo, e così via. Chi serve unicamente ad una causa, e ad essa "si dà interamente", quegli, solo, possiede la vera libertà. E questa causa per gli esseri pensanti era la ragione, quella — come già la Chiesa e lo Stato — promulga leggi universali, e mediante l'idea dell'umanità avvince il singolo con le sue catene. Essa decreta ciò che deve ritenersi per vero, ciò che deve servire di norma. Nessuno è più ragionevole che il servo ossequente, al quale, meglio che ad ogni altro, spetta il nome di buon cittadino.

Che tu possa esser ricco sfondato o povero in canna — allo Stato borghese poco importa; purché tu appaia inspirato a "sentimenti devoti allo Stato". Questo solo egli ti domanda e questo sopra tutto intende ad inculcare in tutti. Per ciò esso ti difende dai "malvagi suggerimenti", tenendo in freno i "tristi" e facendo ammutolire (col mezzo della censura, delle leggi sulla stampa e delle carceri) i loro discorsi sovversivi. Oltre a ciò esso conferirà ufficio di censori a persone di "non dubbia devozione" e farà esercitare su te un'influenza morale per mezzo dei "buoni". Quando t'avrà reso, così, sordo ai mali suggerimenti, esso aprirà ben volenteroso l'orecchio ai tuoi "buoni consigli".

Dall'età della borghesia data anche il liberalismo. Da tutte le parti si domanda che si dia luogo a ciò che è "ragionevole"; a ciò che è, come dicono, "all'altezza dei tempi".

La seguente definizione del liberalismo, fatta in suo onore, ne determina esattamente il carattere: Il liberalismo non è altro che la conoscenza della ragione applicata ai rapporti esistenti. Sua, mèta è "un ordinamento ragionevole", una "condotta morale", una "libertà temperata"; non già l'anarchia, l'assenza delle leggi, l'individualismo. Ma dove domina la ragione, ivi sparisce la "persona". L'arte non solo ha ammesso il brutto, ma anzi l'ha ritenuto necessario e gli ha assegnato un posto: essa ha bisogno del mostro. Anche nel campo della religione i liberali estremi vanno tant'oltre che essi vogliono che il più religioso degli uomini, il "mostro religioso", sia, al pari degli altri, considerato come cittadino dello Stato; essi non vogliono più saperne degli "auto da fè". Ma alla "legge della ragione" nessuno deve ribellarsi, altrimenti lo attende il più duro dei castighi. Ciò che il liberalismo vuole è la libera evoluzione: la manifestazione indipendente non della persona o dell' "io", ma della ragione.

Si esige adunque la dominazione della ragione, che è pur sempre una tirannide. I liberali sono

fanatici, non già a dir vero per la fede, per Dio, ecc., bensì per la ragione, che è la loro signora.

Essi non ammettono scherzi su questo punto, e perciò non consentono che l'individuo possa svolgersi e determinarsi a suo talento: essi lo tutelano ben peggio che gli autocrati più assoluti. "Libertà politica": che cosa si deve intendere per questa parola? Forse l'indipendenza del singolo dallo Stato e dalle sue leggi? No, tutt'all'opposto, la dipendenza del singolo dallo Stato e dalle leggi dello Stato. Ma perché si parla allora di "libertà"? perché non si è più divisi dallo Stato per l'intromissione di terze persone, perché si e con esso in contatto immediato, in fine perché si è cittadini dello Stato, non più sudditi d'un'altra persona, fosse pure quella del re, che per noi non ha più valore se non come capo dello Stato. La libertà politica, questa dottrina fondamentale del liberalismo, non è altro che un secondo periodo del protestantesimo, e va di conserva con la "libertà religiosa" [(1) Louis BLANC (Histoire des dix ans, I. p. 138), parlando dell'epoca della restaurazione dice: «Le protestantisme devint le fond des idées et des moeurs ».]. O si potrebbe forse intendere per tale una libertà che ci "allontana" dalla religione? Tutt'altro. Con ciò si vuole indicare unicamente l'indipendenza da terze persone che hanno ufficio di mediatori, l'abolizione del "laicismo": lo stabilirsi cioè dei rapporti diretti con la religione e con Dio.

Soltanto supponendo l'esistenza d'una religione si può godere della libertà religiosa, poiché questa non significa assenza di religione, ma invece intensità di fede, comunicazione immediata con Dio. Per chi è "religiosamente libero" la religione é "convinzione sacra". La stessa cosa è del "politicamente libero"; lo Stato è una sua "convinzione sacra"; è questione di sentimento, questione essenziale, questione sua propria.

Libertà politica significa che la "polis" (lo Stato) è libera; libertà religiosa, che la religione è libera: allo stesso modo che "libertà di coscienza" vuol dire che la coscienza è libera; non già ch'"io" sia libero, indipendente dallo Stato, dalla religione, dalla coscienza. Non dunque la mia libertà bensì la libertà d'un potere che mi domina ed opprime; uno dei miei padroni, sia esso lo Stato o la religione, o la coscienza; è libero: ecco tutto. Stato, religione, coscienza, questi deposti, mi rendono schiavo: la loro libertà significa il mio servaggio. Ch'essi in ciò segnano necessariamente la massima "il fine santifica i mezzi" è naturale. Se la salute dello Stato è il fine, la guerra diventa un "mezzo"? santo; se la giustizia è il fine, l'uccisione diviene un mezzo onesto e prende il nome di "esecuzione ", ecc.; lo Stato santifica tutto ciò che gli torna a vantaggio.

La "libertà individuale" sulla quale vigila geloso il liberalismo borghese, non significa punto una libera e illimitata disposizione di sé stessi, (per cui tutti gli atti sarebbero miei esclusivamente) bensì soltanto l'indipendenza dalle persone. Individualmente libero è colui che non è tenuto a dar ragione a nessuno del suo operato. Preso in questo senso — e non si può accettarne uno diverso — non soltanto il monarca è libero individualmente, perché irresponsabile verso gli uomini ("dinanzi a Dio" egli afferma la sua responsabilità), bensì liberi sono tutti i cittadini, perché non "responsabili che dinanzi alla legge". Conquista dei moti rivoluzionali del secolo è questa specie di libertà, questa indipendenza dal capriccio di terze persone, dal "tel est mon plaisir". Ma per ottener ciò il principe stesso doveva essere spogliato d'ogni sua personalità, e dello stesso diritto di prender decisioni individuali, al fine di non ledere, quale persona, "la libertà individuale" degli altri.

La volontà personale del regnante è scomparsa nel principe costituzionale. A ciò ripugnino, assai giustamente, i principi assoluti, i quali precisamente vogliono esser riguardati quali principi cristiani nel miglior senso della parola, e credono di rappresentare un "potere puramente spirituale", poiché il cristiano non è soggetto che allo "spirito" ( Dio è spirito "). Ma logicamente il solo principe costituzionale rappresenta il potere puramente spirituale, poi ch'egli appare così spiritualizzato dalla privazione d'ogni significazione personale, da sembrare un "fantasma", un'idea. Il re costituzionale è il vero re cristiano, la vera conseguenza logica del principio cristiano. Nella monarchia costituzionale si e spento il regno individuale, cioè la volontà personale  del  regnante:  perciò  nella  monarchia  costituzionale  regna  la  libertà  individuale, l'indipendenza, cioè, da ogni volere individuale, da chiunque voglia costringere altrui all'obbedienza col suo "tel est mon plaisir". Essa rappresenta la vera vita dello Stato cristiano, una vita spiritualizzata.

La borghesia si comporta liberamente, in tutto e per tutto. Ogni invasione personale nel dominio altrui le ripugna: se il borghese s'accorge che ei dipende dal capriccio, dall'arbitrio, dalla volontà d'un uomo singolo, da uno, cioè, che non rappresenta un "potere superiore" egli tosto innalza la bandiera del liberalismo e si apparecchia a combattere contro l' "illegalità". Sopra tutto egli vuole che la sua libertà non sia minacciata dai decreti che provengono da un potere personale (ordonnance).

Egli dice: "a me nessuno ha da comandare!" Il decreto (l' ordonnance) è la manifestazione della volontà d'un altro uomo, mentre la legge non esprime la volontà d'una persona determinata, ma quella dello Stato.

La libertà della borghesia è la libertà o l'indipendenza della volontà d'un'altra persona, la cosiddetta libertà personale od individuale: poiché essere personalmente libero significa per me esser libero a segno che nessun altra persona possa disporre di me, ovvero che quello che io posso o non posso fare non dipenda dalla volontà di un altro. La libertà della stampa, per un esempio, è una delle tante libertà del liberalismo, che combatte la censura quale un atto d'arbitrio personale, ma nel resto è dispostissimo a tiranneggiare e a restringere, mediante apposite "leggi", la libertà in astratto proclamata. Insomma, i liberali domandano unicamente per sé stessi la "libertà dello scrivere"; poiché i loro scritti, essendo legali, non entreranno mai in conflitto con la legge. Ciò solo che proviene dai liberali, quello cioè che è informato a principi legali, deve poter essere stampato: pel rimanente provvedono le punizioni delle "leggi sulla stampa". Quando si vede assicurata la libertà personale, non si avverte più che progredendo sulla stessa via, la più triste schiavitù ci si apparecchia. Ci siamo liberati dai decreti, e "nessuno ha da imporci più cosa alcuna": ma tanto più ossequiosi per contro siam divenuti alla legge. E la conclusione è che noi veniamo asserviti, sotto tutte le forme, in nome della legge.

Nello Stato borghese non trovasi che "gente libera", la quale costretta però all'obbedienza o all'osservanza di mille precetti (per es. a prestar omaggio, a professare una data religione, ecc.).

Ma che importa ciò? Chi ve la costringe non è che lo Stato, la legge, non già un singolo!

A che cosa intende la borghesia col combattere ogni autorità che derivi dalla persona e ogni imposizione del singolo ? Essa non altro sa che lottare nell'interesse della "causa" contro la dominazione delle "persone"! La causa dello spirito e ciò ch'e ragionevole, buono, fondato in legge; questa la "buona causa". La borghesia esige l' impersonalità e se ne accontenta.

Ammesso poi il principio che sull'uomo la moralità soltanto o la legalità possono aver impero, non può esser logicamente ammessa la menomazione dell'uno per opera d'un altro (come prima avveniva, quando — ad esempio — il borghese era privato dei diritti di esclusiva spettanza dei nobili, e il nobile, a sua volta, non aveva facoltà di esercitare un'industria dei borghesi): deve cioè regnare la libera concorrenza. La cosa, non la persona, dà — sola ormai — modo al singolo di menomare i diritti d'un altro. D'ora in poi una sola dominazione è valida, quella dello Stato; personalmente nessuno ha diritto di padronanza sull'altro. Fin dalla nascita i bambini appartengono allo Stato, ed ai genitori solamente in nome dello Stato; il quale vieta, ad esempio, l'infanticidio, impone il battesimo dei neonati, e cosi via.

Ma per lo Stato tutti i cittadini sono uguali ("uguaglianza civile politica"): ci pensino essi a trarsi d'impaccio il meglio che possono: e si facciano pure, quanto è necessario, concorrenza.

La libera concorrenza altro non significa se non che ciascuno può imporsi agli altri, farsi rispettare dagli altri, lottare contro gli altri.

Che questo non piaccia al partito feudale, è naturale, poiché la esistenza sua dipende dal "non concorrere". Le lotte dell'età della restaurazione in Francia non avevano altra causa, se non questa: che la borghesia lottava per la libera concorrenza e il feudalismo intendeva a ritornare all'êra delle corporazioni.

Ebbene, la libera concorrenza ha vinto e doveva vincere i fautori delle corporazioni.

La Rivoluzione è finita in reazione e ha con ciò manifestato aperto il carattere suo. Poiché ogni aspirazione finisce in reazione nel momento in cui riacquista la ragione; non prosegue tempestosa nell'opera iniziata, se non sino a tanto ch'essa è il frutto d'una ebbrezza, cioè d'una "imprudenza". "Prudenza" è, sarà sempre la divisa della reazione, perché la prudenza ha cura dei limiti, e assicura ciò che è effettivamente voluto, il principio, dalla "sfrenatezza" e dalla "intemperanza" originarie.

I ragazzacci, gli studenti sciamannati che si ribellano a tutte le convenzioni sociali non sono in fondo che dei "borghesi". Quelle convenzioni che essi avversano sono l'unica loro preoccupazione: combatterle è sempre un riconoscerle, sia pure negativamente: quando più tardi vi si sottometteranno, sarà allora un riconoscerle positivamente.

Per gli uni come per gli altri le convenzioni sono l'oggetto di tutti i pensieri e di tutti gli atti: e cosi il borghese è un reazionario, cioè un ragazzo che acquistò il lume della prudenza, mentre il ragazzo spensierato è un borghese in erba. L'esperienza di ogni giorno conferma la verità di quest'evoluzione e dimostra che i rodomonti diventano buoni borghesi quando i capelli incominciano ad incanutire.

Cosi anche la cosiddetta reazione in Germania dimostra di non esser altro che la prudente

continuazione di quegli entusiasmi che erano fervidi al tempo delle guerre di liberazione.

La rivoluzione non era diretta contro l'ordine esistente delle cose, bensì contro un determinato ordine di cose, contro l'esistenza di quelle cose. Essa abolì un determinato monarca, non il monarca in generale (che anzi i Francesi furono tiranneggiati inesorabilmente); essa uccise gli antichi viziosi, ma non per altro che per assicurare l'esistenza a coloro che erano reputati, virtuosi (e vizio e virtù si distinguono tra loro a quel modo che un giovane di sentimenti primitivi dal borghese prudente).

Sino ai nostri giorni il principio rivoluzionario è rimasto ostinato nel voler lottare contro un determinato ordine di cose, nel voler riformare. Per quanto rinnovato, per quanto incessantemente coltivato sia il "prudente progresso"; esso non ad altro riesce che a porre un nuovo regime in luogo d'un altro; cosicché la rivoluzione diventa una riedificazione. La cosa sta sempre nella differenza tra borghesi giovani e borghesi vecchi. Borghesemente ebbe principio la rivoluzione coll'elevazione del terzo Stato: dello Stato di mezzo; e borghesemente essa si è esaurita.

Non l'uomo singolo (ed egli solo è veramente l'uomo) divenne libero, bensì il cittadino: l'uomo politico (il quale, appunto perciò, non è il vero uomo, ma invece nulla più che un esemplare della specie umana, e particolarmente della specie borghese) è un libero cittadino.

Nella rivoluzione non l'individuo lavorava per la storia, bensì il popolo: la Nazione sovrana voleva compiere ogni più alta cosa, Che un' idea, quale é quella della Nazione, sottentri, e i singoli diverranno gli strumenti di quell' idea ed opereranno quali "cittadini".

La borghesia segnò la sua potenza (e i suoi confini ad un tempo) in una carta, la legge fondamentale dello Stato; e la confidò ad un principe legittimo (cioè "giusto") il quale regola sé stesso a seconda dei "dettami della ragione"; la fondò, in breve, sulla legalità. Il periodo borghese è dominato dallo spirito britannico della legalità. Un'adunanza, per esempio, di Stati provinciali, costantemente ricorda che le sue prerogative non vanno oltre a un certo termine, e che essa è stata convocata in virtù d'una concessione per la quale anche può esser disciolta.

Ma se è vero che non si può negare che mio padre m'abbia generato, è vero pure che, ora che son generato, poco m'interessarono i motivi e il fine per cui altri mi creò; io faccio quello che voglio. Giustamente dunque un'adunanza degli Stati, la francese nei primordi della rivoluzione riconobbe che essa era indipendente da colui che l'aveva convocata. Essa esisteva e sarebbe stata ben stolta a non far valere il diritto della propria esistenza, a ritenersi dipendente come un figlio del padre. Quegli ch'è chiamato non ha più a domandarsi: quale era l'intenzione del convocatore nel crearmi? — bensì: che cosa farò io ora che ho obbedito alla chiamata?

Né il convocatore, né i committenti, né la carta che originò la convocazione, rappresenteranno più per il convocato un potere sacro intangibile. Egli è autorizzato a far tutto ciò che sta in suo potere; egli non ammetterà un' "autorizzazione limitata", non vorrà esser chiamata "ligio".

Se qualcosa di simile fosse lecito attendere dalle Camere, si otterrebbe una Camera perfettamente "egoista"; non legata da alcun cordone ombelicale; senza scrupoli e senza riguardi. Ma le Camere sono sempre devote; e per ciò non deve destare meraviglia se in esse prevale un "egoismo" incerto, irresoluto, mascherato d'ipocrisia.

I membri degli Stati devono muoversi entro certi limiti segnati a loro dalla carta, dalla volontà del principe, ecc.; in caso diverso essi devono "uscire" dalla rappresentanza. Or chi dunque sarebbe da tanto da porre in cima ad ogni cosa la propria convinzione e la propria volontà, quand'anche con ciò dovessero per le istituzioni e tutto il resto? Per ciò ci si attiene gelosamente ai limiti delle proprie "prerogative"; i confini della propria potenza già ci costringono a non uscirne, nessuno potendo più di quello che può. "La mia potenza o la mia impotenza sarebbero il mio solo limite; i diritti, invece, sono le leggi che mi vincolano".

A queste dovrei io ribellarmi? No, no, io sono ora cittadino della legge. La borghesia professa una morale, che è intimamente stretta alla sua essenza. La sua prima esigenza si è che si facciano degli affari sicuri, si eserciti un mestiere onesto, e si abbia una condotta morale. Immorali sono il cavaliere d'industria, la donna di facili costumi, il ladro, l'assassino, il giocatore, l'uomo sprovvisto di mezzi di fortuna, l'uomo ozioso, l'uomo leggero. Simili persone il bravo borghese le condanna con la sua "profonda indignazione". Ciò che manca a costoro è quella specie di diritto di domicilio nella vita che è dato da un commercio solido, da mezzi d'esistenza sicura, da rendite stabili. Essi fan parte dei "singoli" o dei singolari, del pericoloso proletariato: sono degli "schiamazzatori solitari" che non danno alcun serio affidamento e che "nulla avendo da perdere", nulla hanno da arrischiare. Il matrimonio vincola l'uomo, e questo vincolo è per la società un affidamento: ma chi risponde della prostituta? Il giocatore arrischia tutto ciò che possiede, rovina sé ed altri con lui; non offre dunque garanzia alcuna.

Si potrebbero comprendere sotto il nome di vagabondi tutti coloro i quali per il buon borghese sono gente sospetta, avversa, pericolosa; perché al borghese spiace tutto ciò che sa di vita irregolare. E vi sono poi — e paiono più temibili — i vagabondi spirituali pei quali riesce troppo angusto l'antico domicilio intellettuale paterno, e ne vogliono uscire all'aperto; insofferenti dei limiti cari ai pensatori moderati (cui pare sacro tutto ciò che all'universale reca sollievo e conforto); desiderosi di saltare oltre le barriere della tradizione; vaghi d'esercitar il loro pensiero in una continua ardita critica irriverente. Costoro formano la classe degli irrequieti, dei volubili, degli instabili, vale a dire dei proletari, e si chiamano, quando si fanno sentire, le "teste irrequiete".

Questo e il significato e il concetto del cosiddetto proletariato e del pauperismo. Quanto è erroneo il credere che la borghesia sia mossa dal desiderio di far cessare la miseria (il pauperismo) e a ciò si adoperi con tutte le forze ! Ben all'opposto: il buon borghese s'accontenta della convenzione straordinariamente confortante che i "beati di fortuna" sono dispensati inegualmente, e che cosi sarà sempre, secondo il saggio decreto divino. "La miseria", a cui s'abbatte ad ogni pie' sospinto, non lo turba gran fatto: al più egli si toglie d'impiccio gettando qua e là un'elemosina, o procurando lavoro e nutrimento a qualche "giovanotto onesto e utile alla convenienza sociale" Ciò che veramente lo turba è la miseria malcontenta e smaniosa d'innovazioni, quella di coloro che non sanno mantenersi più oltre tranquilli, e incominciano a commettere stravaganze, e si agitano inquieti. Cacciateli in prigione quei vagabondi, quei suscitatori di torbidi ! Essi vogliono "suscitare il malcontento nello Stato ed aizzare il popolo contro le leggi esistenti" — lapidateli, lapidateli !

Ma, a loro volta, i malcontenti fanno questo ragionamento: Pei buoni borghesi può esser indifferente che un re assoluto od un re costituzionale, od una repubblica, invece, proteggano i loro principi: purché qualcuno li protegga. E quali sono questi principi, di cui hanno caro il difensore? Non certo quello del lavoro e ancora meno quello della nascita! Bensì quello della mediocrità, dell'aurea mediocrità: qualche po' di nascita e qualche po' di lavoro; in altre parole un possesso che possa dare una rendita. Possesso significa qui quello ch'è solito, ch'è dato, ereditato (con la nascita); il mettere tutto ciò a frutto rappresenta il lavoro, la fatica; dunque un capitale impiegato nel lavoro. Ma badiamo bene: non oltrepassare la misura, non scapestrare nel radicalismo! Si ammette, si, il diritto di nascita: ma quale possesso legittimo non s'ammette che il lavoro, cui concorrono unite le forze del capitale e dei devoti operai.

Quando un'età è soggiogata da un errore, gli uni cercano di trame profitto, gli altri invece ne riportano un danno. Nel Medio Evo era universale la credenza erronea tra i cristiani che la Chiesa dovesse avere la supremazia in terra: i gerarchi erano convinti di ciò non meno dei laici, e gli uni e gli altri soggiacevano al fascino di questo orrore. Ma i gerarchi, in virtù di esso, avevano il vantaggio d'aver nelle lor mani il potere, e i laici il danno di esser a quel potere soggetti. Se non che — dice il proverbio: "Sbagliando s'impara"; e i laici finirono per imparare e non prestarono più fede alla "verità medioevale". — La stessa cosa avviene dei rapporti tra borghesi ed operai. Si gli uni sì gli altri credono alla verità del denaro; quelli che non lo possiedono ci credono quanto quelli che lo posseggono; i laici, dunque, al pari dei preti.

"Il denaro governa il mondo" ecco il cardinal principio del secolo borghese. Un nobile senza fortuna e un miserabile operaio contano lo stesso, cioè nulla: nulla contano nascita e lavoro; il denaro solo conferisce valore alla persona. Quelli che lo posseggono dominano, ma lo Stato educa tra i non abbienti i suoi "servi" e li paga con denaro in conformità dei servizi che ne riceve.

Io ricevo tutto dallo Stato. Ho io qualche cosa senza l'autorizzazione dello Stato? Ciò che io posseggo senza suo consenso o contro il suo decreto egli me lo ritoglie non appena scopre che non ho i titoli legali per ritenerlo. Non possiedo io dunque ogni cosa per grazia sua, per sua autorizzazione?

Su ciò soltanto, sui titoli di diritto, s'appoggia la borghesia. Il borghese è ciò che è per la protezione dello Stato, per grazia sua. Egli deve temere di perder tutto se lo Stato andasse in frantumi.

Ma come procedono le cose col proletario?

Siccome costui nulla ha da perdere, egli non abbisogna d'una "protezione dello Stato".Anzi egli non può che trarre vantaggio se avvenga che lo Stato revochi la protezione ai suoi prediletti.

Perciò il nulla abbiente deve considerare lo Stato quale una potenza protettrice delle classi agiate, la quale ad esse conferisce privilegi per dissanguar lui. Lo Stato è uno Stato borghese, è lo "Status" della borghesia.

Esso non protegge l'uomo in ragione del suo lavoro, bensì della sua devozione (" lealtà "), cioè secondo ch'egli gode ed esercita i diritti conferiti dallo Stato in conformità della volontà sua, cioè delle leggi.

Nel regime borghese i lavoratori vanno a cadere sempre nelle mani degli abbienti, di coloro che hanno a lor disposizione un bene dello Stato (tutto ciò che è posseduto appartiene infatti allo Stato, che lo distribuisce tra i singoli a guisa di feudo), principalmente danari e ricchezze; dunque dei capitalisti.

L'operaio non può trarre dal suo lavoro un frutto che corrisponda al valore che il prodotto di tal lavoro ha per colui che le consuma.

"Il lavoro è mal compensato!"

Il capitalista ne ritrae il guadagno maggiore. — Bene e più che bene non sono pagati che quei lavori che accrescono lo splendore e la potenza dello Stato, i lavori degli alti funzionari dello Stato.

Lo Stato paga bene, affinché i suoi "buoni cittadini", gli abbienti, possono poi, a lor volta, pagar male, senza correr pericolo di sorta; egli assicura a se stesso dei buoni servi coi quali forma una valorosa polizia (della quale fanno parte e soldati e impiegati d'ogni categoria: della giustizia, dell'istruzione, e così via). I "buoni cittadini" gli pagano volentieri le imposte più elevate, per aver il diritto di pagar tanto di meno ai propri operai.

Ma la classe degli operai è senza difesa (essa non gode protezione dallo Stato, dacché quali soggetti dello Stato, soltanto, non già quali lavoratori, gli operai hanno diritto d'essere difesi dalla polizia); essa rappresenta una potenza avversa, nemica allo Stato, alla classe degli abbienti, al regno dei borghesi. Il principio che essa professa, il lavoro, non è valutato secondo il suo vero valore: esso viene sfruttato, come bottino in guerra, da parte degli abbienti — i nemici.

Gli operai hanno in mano loro il più immenso dei poteri, e se essi riuscirono a convincersi intimamente di ciò, nulla potrebbe loro resistere: basterebbe ch'essi sospendessero di lavorare e considerassero ciò che hanno prodotto come se fosse a loro appartenente.

Questa è la significazione delle sollevazioni di operai che succedono di tempo in tempo.

Lo Stato è fondato sulla schiavitù del lavoro. Quando il lavoro sarà libero, lo Stato sarà perduto.


§ 2. — IL LIBERALISMO SOCIALISTA.

Noi siamo nati liberi, pure dovunque giriamo lo sguardo ci vediamo fatti schiavi dagli egoisti! Dovremo perciò divenir egoisti anche noi? Dio ne guardi! Piuttosto procureremo di abolire gli egoisti! Faremo si che tutti diventino straccioni, e che nessuno più possegga affinchè tutti abbiamo qualche cosa.

Cosi i socialisti.

Che volete significare con questa parola; "tutti" ? — La società! — Ma è forse essa un essere corporeo? — Noi ne formiamo il corpo! — Voi! ma se non avete corpo voi stessi. Io sì, quegli ancor più, ma voi tutti uniti non formate corpo, sicché la società ha bensì dei corpi a sua disposizione, ma non un corpo unico e proprio. Esso non sarà mai, come la "nazione" dei politici, che uno "spirito", del quale il corpo sarà lo spettro.

La libertà dell'uomo nel liberalismo politico è l'indipendenza dalle persone, dal dominio personale, dal regime: assicurazione della singola persona contro le altre persone, in somma libertà personale.

La legge sola impera.

Ma se le persone sono divenute eguali, varia tuttavia sempre il loro potere. Eppure hanno bisogno il ricco del povero, il povero del ricco: l'uno del lavoro, l'altro del denaro.

E il bisogno non è della persona, ma della cosa che la persona ha o dà: sicché quel che conferisce valore all'uomo è ciò che egli possiede. Ebbene, nell'avere negli "averi", gli uomini sono disuguali.

In conseguenza, conclude il liberalismo socialista, nessuno deve avere, come secondo il liberalismo politico nessuno deve comandare; sicché, come lo Stato soltanto ha il diritto di comandare, così la società soltanto ha il diritto di possedere. Lo Stato, proteggendo le persone, e la loro proprietà contro le altre persone, le divide; ognuno è ed ha per sé. Chi si contenta di ciò che è e di ciò che ha si trova bene in tale condizione di cose; ma chi vorrebbe essere ed avere di più, guarda intorno a sé e vede che questo "di più" è in potere di altri. E qui egli si trova di fronte ad una contraddizione: quale persona nessuno è da meno d'un altro, eppure una tale persona ha ciò che l'altra non ha e vorrebbe avere. Ed allora egli ne inferisce che una persona può valere più d'un'altra, perché essa ha ciò di cui abbisogna, e l'altra no; questa è povera, quella è ricca.

Dobbiamo noi (cosi egli continua ad interrogar sé stesso), dobbiamo noi far rivivere ciò che abbiamo sepolto: dobbiamo noi lasciar sussistere questa disuguaglianza delle persone, ristabilita per vie torte? No: al contrario noi dobbiamo condurre a termine ciò che fu interrotto a mezzo! Alla nostra libertà manca ancora l'indipendenza da ciò di cui può disporre la persona d'un altro, da ciò ch'essa tiene in suo potere personale, in breve dalla "proprietà individuale". Aboliamo adunque la proprietà personale. Nessuno abbia più cosa alcuna: tutti diventino straccioni. La proprietà sia impersonale: appartenga d'ora in poi non ai singoli, ma all'associazione.

Di fronte al capo supremo, il solo che avesse diritto a comandare, noi eravamo divenuti tutti uguali, senza valore.

Di fronte all'unico e supremo proprietario — noi diventeremo ancora tutti uguali: straccioni. Oggi un individuo può esser da un altro tenuto in conto d'un miserabile, d'un "nullatenente". Domani cesserà anche questa valutazione, e noi saremo tanti straccioni uguali: e poiché tutti uniti formeremo la società comunista, potremo chiamarci col nome collettivo di "canaglia".

Quando il proletario avrà potuto fondare la "società" dei suoi sogni, mercé la quale sarà tolta per sempre la distinzione tra poveri e ricchi, allora egli sarà uno "straccione", la qual cosa non toglie però che egli possa far assorgere questo appellativo a un titolo onorifico, come la rivoluzione ha fatto della parola "borghese". Lo straccione è l'ideale del proletario e noi tutti dobbiamo diventare straccioni.

Ecco, nell'interesse dell' "umanità", il secondo furto fatto alla proprietà personale. Non si lascia al singolo né il comando né la proprietà; l'uno fu preso dallo Stato, la Società prenderà l'altra.

Siccome nella società privata si fanno sentire le miserie più opprimenti, cosi gli oppressi, cioè gli appartenenti alle classi sociali inferiori, pensano che la colpa ne risieda nella società, e si accingono in conseguenza al compito di scoprire la società quale dov'essere realmente.

Ed è antica illusione questa: che la causa d'un male la si ricerchi in tutti gli altri piuttosto che in noi stessi: nello Stato, nell'egoismo dei ricchi, ecc., mentre è colpa nostra, e nostra soltanto, se esiste uno Stato e se esistono i ricchi.

Le riflessioni e le conclusioni del comunismo sono in apparenza molto semplici.

Come le cose stanno adesso, cioè nelle condizioni politiche presenti, gli uni, che sono la maggior parte, si trovano svantaggiati rispetto ad altri, che sono la parte più esigua. In questo stato di cose, quelli stanno bene, questi male.

Perciò è necessario abolire il presente stato di cose, cioè lo Stato (Status). E che cosa si metterà al suo posto ? Invece del bene dei singoli — il bene generale il bene di tutti.

Con la rivoluzione la borghesia divenne onnipotente ed ogni disuguaglianza fu tolta con l'elevare o l'umiliare ciascuno alla dignità di cittadino: l'uomo del popolo fu innalzato, — il nobile degradato: il terzo Stato divenne l'unico Stato vale a dire lo Stato comprendente tutti i cittadini. Ora il comunismo afferma a sua volta: la nostra dignità e la nostra ragion d'essere non sono già in ciò che noi tutti siamo gli uguali figli dello Stato, tutti nati con gli stessi diritti al suo amore ed alla sua protezione, bensì in ciò che noi tutti dobbiamo vivere l'uno per l'altro.

Questa è la nostra uguaglianza, in ciò solo siamo uguali: io, e tu, e voi, tutti insomma lavoriamo l'uno per l'altro. Dunque la nostra uguaglianza è in ciò che ciascuno di noi è un lavoratore. A noi non importa d'essere cittadini, né della condizione che come tali abbiamo; ma si, invece, d'esser l'uno per l'altro, cioè che ognuno di noi non esista che per il suo simile, si che io provveda ai vostri interessi, e voi, alla vostra volta, vi curiate dei miei.

Il tale lavora, per farmi un vestito quale sarto, io penso a divertirlo quale autore drammatico o quale funambolo, ecc., egli pensa alla mia alimentazione, io alla sua istruzione, ecc.

Dunque nell'essere lavoratori consiste la nostra dignità e la nostra uguaglianza.

Quali vantaggi ci offre lo Stato borghese? Carichi! E come vi è considerato il nostro lavoro? Più basso che sia possibile! Eppure il lavoro rappresenta l'unico nostro valore; l'esser lavoratori è il più alto titolo nostro, il più importante di tutti, e per ciò deve essere da noi fatto valere e dovrà esser riconosciuto nel suo vero valore. Che cosa potete voi opporci? Null'altro che il lavoro. Soltanto in ragione del vostro lavoro o per le vostre prestazioni noi vi dobbiamo una ricompensa, non già dunque perché voi esistete, o per ciò che voi siete, ma per quello che siete per noi.

Su che cosa fondate le vostre pretese verso di noi? Forse sulla vostra nascita illustre? No, ma soltanto sul fatto che voi operate cose a noi gradite o sgradite. Ebbene, sia pure cosi: voi non terrete conto di noi che per l'utilità che vi recheremo; e noi adopreremo con voi allo stesso modo. Le prestazioni determinano il valore, in quanto esse abbiano qualche pregio; dunque i lavori che anno un valore reciproco che sono utili alla collettività. Ciascuno rappresenta agli occhi d'un altro un operaio.

Colui che produce cosa utile non è da meno di chi che sia: dunque tutti i lavoratori (sempre — s'intende — nel senso di lavoro reciprocamente utile, di lavoro comunista) sono uguali tra loro. Ma siccome il lavoratore ha diritto alla mercede che gli compete, così anche la mercede sia uguale.

Sino a tanto che la fede bastava all'onore ed alla dignità dell'uomo, nulla si poteva obbiettare contro il lavoro per quanto grave esso fosse, dacché esso non distoglieva l'uomo dalla sua fede. Per contro oggi, per l'aspirazione dell'uomo ad esser veramente uomo, obbligarlo ad un lavoro macchinale val quanto renderlo schiavo. Se l'operaio d'una fabbrica è obbligato a logorare le sue forze per dodici ore o anche più, le sue aspirazioni di umana dignità sono deluse. Ogni lavoro deve aver per fine di rendere soddisfatto l'uomo. E così nel lavoro, quale ch'esso sia deve esser concesso ad ognuno di poter diventare maestro, cioè di creare un'opera che sia un tutto. Quegli che in una fabbrica di spille non ha altro compito che d'attaccarvi le capocchie, o di stirare il filo di ferro, ecc., quegli lavora meccanicamente, e resterà sempre un operaio ignorante senza poter mai diventare un maestro; il suo lavoro non potrà giammai renderlo soddisfatto e non riuscirà che a stancarlo. Il lavoro ch'egli fa, preso in sé, non ha nessun scopo proprio, non riesce a nulla di compiuto: altro fine non ha che di render più facile il lavoro di un altro dal quale in tal guisa viene sfruttato. Da un siffatto lavoro al servizio d'un altro non può uscire alcun godimento per uno spirito colto, tutt'al più vi potranno aver luogo dei rozzi passatempi la "coltura" a un tale operaio è preclusa. Per esser un buon cristiano basta aver la fede, e ciò non è impedito nemmeno dalle condizioni di vita più opprimenti. Per ciò coloro che pensano cristianamente non si prendono altra cura che della pietà, della pazienza, della rassegnazione delle classi oppresse, le quali non impararono a sopportare la lor miseria che quando si fecero "cristiane", e ne divennero insofferenti quando cessarono d'esser tali: poiché il cristianesimo non permette loro di manifestare il malcontento col mormorare e col ribellarsi. Ora non basta più l'ammassare le concupiscenze, ma si richiede di poterle soddisfare.

La borghesia ha proclamato il vangelo del godimento mondano, del godimento materiale, e ora stupisce che quel vangelo abbia trovato dei fedeli anche tra noi. Essa ha dimostrato che non già la fede e la povertà, ma la cultura e il possesso rendono l'uomo felice; e ciò lo comprendiamo oggi anche noi, proletari.

Dal comando e dall'arbitrio dei singoli la borghesia s'è liberata. Ma è rimasto quell'arbitrio che viene dalla sorte e che può esser chiamato il capriccio della sorte: è rimasta la fortuna che favorisce, son rimasti i favoriti dalla fortuna.

Se, per esempio, una qualche industria deperisce e migliaia di operai restano senza pane, a nessuno verrà in mente di darne colpa a singole persone, ma tutti ne recheranno la causa alle "circostanze".

Mutiamo adunque le circostanze, ma cangiamole in modo così radicale da renderle libere dal capriccio e regolate dalla legge. Non continuiamo ad esser più oltre gli schiavi del caso! Decretiamo un nuovo ordine di cose che metta un fine a tutte le oscillazioni. E il nuovo ordine sia sacro!

Prima della rivoluzione bisognava operare al modo dei padroni per riuscire a qualche cosa: dopo corse la parola: Acciuffa la fortuna!! Nella caccia alla fortuna, nel giuoco d'azzardo si compendiava la vita borghese. Con l'aggiunta dell'obbligo di non arrischiare quello che la fortuna ci aveva fatto guadagnare.

Strana, eppur naturale contraddizione! La concorrenza, entro la quale si svolge esclusivamente la vita borghese o politica, è in tutto simile a un giuoco d'azzardo, a cominciar dalle speculazioni di borsa per finire alla caccia agli impieghi, al cliente, al lavoro, alle promozioni, agli ordini, ecc. Se si riesce a scavalcare e superare i concorrenti il "buon colpo è riuscito" poiché il vincitore deve già tenersi a fortuna d'esser dotato d'una capacità o d'una intelligenza (per quanto aiutata da un'attività indefessa) superiore a quella degli altri, si da non trovarsi di fronte concorrenti più capaci o più intelligenti. E coloro che vivono di questa vita, in balia dei casi, senza, per così dire, accorgersene, manifestano la più viva indignazione se il loro stesso principio sia troppo crudamente e pericolosamente rivelato sotto la forma del "giuoco d'azzardo"! Questa forma è troppo cruda; e offende, al pari di qualsiasi nudità, il pudore borghese.

A tali capricci del caso vogliono mettere fine i socialisti e formare una società i cui membri, resi in tutto liberi, non abbiano a dipendere più oltre dalla fortuna.

Nel modo più naturale tale tendenza si rivela nell'odio degli "sfortunati" contro i "fortunati", cioè di quelli ai quali la fortuna non ha arriso verso quelli ch'essa ha colmato dei suoi favori. Veramente l'odio è maggiormente rivolto non tanto contro i prediletti della fortuna quanto contro la fortuna stessa, che è il cane o della borghesia.

Siccome i comunisti affermano che soltanto nella libera attività è la vera natura dell'uomo, così essi abbisognano (né altrimenti può pensar chi lavora meccanicamente tutti i giorni) d'una domenica, al modo stesso che ogni aspirazione materiale sente il bisogno d'un Dio, di qualche cosa che innalzi e compensi del lungo lavoro intellettuale.

Se il comunista vede in te l'uomo, il fratello, questo non è che il lato domenicale del comunismo. Nei giorni di lavoro egli non vede in te l'uomo, bensì il lavoratore-uomo o l'uomo- lavoratore il principio liberale risiede nel primo modo di vedere, nel secondo si nasconde la reazione al liberalismo. Se tu fossi un individuo "rifuggente dal lavoro", egli ti riconoscerebbe ancora per uomo ma per un uomo "poltrone ", e farebbe il possibile per indurti al lavoro e convertiti alla sua fede che nel lavoro vede lo "scopo e la vocazione" dell'uomo.

Epperciò il comunismo ha due intenti: da un lato si prende cura che l'uomo spirituale venga soddisfatto, dall'altro ricerca i mezzi per soddisfare l'uomo materiale.

Esso assegna all'uomo una doppia occupazione, quella dell'acquisto materiale e quella dell'acquisto spirituale.

La borghesia aveva resi disponibili i beni materiali e spirituali lasciando libero a ciascuno d'appropriarseli. Il comunismo li procura realmente a ciascuno, glieli impone e lo obbliga ad acquistarseli. Poiché solo i beni spirituali e materiali ci rendono uomini egli vuole che noi ce li appropriamo per diventare uomini veramente.

La borghesia rese libero l'acquisto dei beni, il comunismo ci costringe a conseguirli e non riconosce se non coloro che li acquistarono, cioè coloro che esercitano un'industria. Non basta che l'industria sia libera: tu devi procurartela.

In tal modo alla critica non resta altro la dimostrare se non questo: che l'acquisto di quei beni non basta ancora a renderci uomini.

Il precetto liberale: a che ciascuno è tenuto "formarsi uomo", presupponeva la necessità che ognuno si procurasse il tempo occorrente a tale bisogna, cioè che fosse reso possibile ad ognuno di lavorare alla propria redenzione. La borghesia credette d'aver ottenuto questo col dare in balia della concorrenza tutto ciò ch'è umano, con l'autorizzare il singolo a tutto ciò che è umano. "Ciascuno può aspirare ad ogni cosa".

Il liberalismo socialista trova che col "può" non è finita ogni cosa, dopotutto "poter fare" una cosa significa che non è proibito di farla, ma non ancora che con ciò sia reso possibile di farla. Esso sostiene perciò che la borghesia è molto liberale a parole, ma nei fatti è illiberale; e quindi vuol procurarsi i mezzi che rendano possibile a ciascuno di lavorare pel proprio bene.

Il principio del "lavoro" è superiore senza dubbio a quello della "fortuna" e della "concorrenza". E in pari tempo il lavoratore, essendo convinto che ciò che v'ha di meglio in lui è l'essere che lavora, si tiene lontano dall'egoismo e si sottomette alla autorità d'una società d'operai, allo stesso modo che il borghese era ligio allo Stato che aveva per norma la concorrenza. Il bel sogno del "dovere sociale" va ancor più lontano. Si ritiene che la società dia ciò che ci abbisogna, e che per ciò noi le siamo obbligati, anzi che noi le dobbiamo tutto [(1) PROUDHON, Création de l'ordre, esclama, p. es., a pag. 414: «Nell'industria come nella scienza la pubblicazione di una nuova invenzione è il primo ed il più sacro dei doveri».]. Si continua a restar ligi all'idea di voler servire ad un "supremo dispensatore d'ogni bene". Che la società non sia un "io" il quale possa dare, conferire o concedere, bensì uno strumento, dal quale, tutt'al più, potremo trarre un vantaggio; che noi non abbiamo doveri sociali ma tutt'al più interessi che la società deve favorire; che noi non siamo tenuti a fare alcun sacrificio alla società, bensì, se vogliamo sacrificare qualche cosa, dobbiamo sacrificar essa a noi; tutto ciò è ignoto ai socialisti, perché essi, quali liberali, sono ancora irretiti entro il principio religioso e intendono a creare — a similitudine dello Stato ora esistente — una società sacra!

La società, dalla quale dobbiamo riconoscere ogni cosa è una nuova signora, un nuovo fantasma, un nuovo "ente supremo", che ci "obbliga e ci asservisce!".

Un apprezzamento più compiuto del liberalismo politico si troverà in seguito nel nostro libro. Noi vogliamo ora tradurlo dinanzi al Tribunale del liberalismo critico e umano


IL LIBERALISMO UMANO.

Noi diamo nome di "umano" o di "umanitario" al liberalismo critico nel quale il principio attinge il più alto grado di sua perfezione e tocca l'espressione definitiva. In esso il soggetto stesso diviene materia d'esame, pur restando il critico un liberale e non trascendendo l'uomo.

Il lavoratore è tenuto in conto del più grossolano e del più egoista fra gli uomini, perché egli nulla fa per l'umanità, ma tutto per sé medesimo e per il proprio vantaggio.

La borghesia non facendo libero l'uomo che per diritto di nascita fu costretta ad abbandonarlo per tutto il resto alla mercé dell'egoista. Perciò all'egoismo, sotto la dominazione del liberalismo politico, è aperto al più vasto campo che possa immaginarsi. Come il borghese sfrutta lo Stato, cosi il lavoratore sfrutterà la società per i suoi intenti egoistici. Tu non hai che un solo fine, l'utile tuo! dice l'umanitario al socialista. Occupati d'interessi puramente umani, ed io ti sarò compagno. Ma per ottener ciò, è necessario una coscienza più robusta, più ampia che non sia quella dell'operaio. Costui non crea nulla e per ciò non ha nulla: ma se nulla egli crea, questo avviene perché l'opera sua resta sempre un lavoro circoscritto e limitato dalle più imprescindibili necessità dell'esistenza [(1) BRUNO BAUER, Lit. Zig., V, 18]..

Al che si potrebbe opporre forse che, per un esempio, il lavoro di Gutenberg non restò isolato, bensì si perpetuò nel tempo e vive ancor oggi, come quello che, essendo rivolto a soddisfare un bisogno dell'uomo, era, per conseguenza, eterno, imperituro.

La coscienza umanista disprezza la coscienza borghese così come quella operaia: poiché il borghese ha in fastidio il vagabondo (nome cotesto, ch'egli usa a designare tutti coloro che non hanno una "occupazione stabile").

Per contro l'operaio ha in odio "gli scioperati" e le loro "massime" immorali, sfruttatrici ed antisociali.

L'umanista invece ribatte al borghese: l'instabilità di domicilio alla quale molti sono costretti è opera tua.

E il proletario oppone: Che tu esiga che tutti debbano lavorare come bestie da soma e che ognuno sia condannato a questa sorte deplorabile, la è cosa che solo la tua crassa ignoranza e l'abito, in te ormai fatto natura, di vivere come una bestia da soma può spiegare. Tu con ciò vorresti che tutti dovessero lavorare come bestie, perché poi ciascuno potesse godere della stessa somma d'ozio.

Ma che ne farete poi delle ore d'ozio? In qual modo la società intende a procurare che le ore d'ozio e di ricreazione vengano spese umanamente? Essa è costretta a permettere che ciascuno ne usi secondo il comodo o il capriccio suo; ed il profitto che la tua società intende favorire, va a cadere in grembo all'egoista allo stesso modo che il profitto della borghesia, cioè la indipendenza dell'uomo, per mancargli un contenuto umano, dovette essere abbandonato in balia dei singoli.

Certamente è necessario che l'uomo sia senza padroni; ma non perciò all'egoista dev'essere permesso di rendersi egli padrone dell'uomo; l'uomo invece deve tener in freno l'egoista. Certamente l'uomo ha diritto ad una certa quantità d'ozio, al riposo, alla ricreazione: ma se il solo egoista ne approfitta, quell'ozio, quel riposo sono perduti per l'uomo.

Sicché  voi  dovreste  dare  all'ozio  una  significazione  umana.  Ma  anche  il  lavoro  voi l'intraprenderete, operai, perché spinti dall'egoismo perché vi bisogna pur mangiare, bere, vivere; come dunque pretendereste poi d'esser meno egoisti nelle ore d'ozio? Voi lavorate unicamente perché dopo il lavoro è gradito il riposo, il dolce far nulla; quello che voi compirete nelle ore d'ozio sarà opera del caso.

Ma se si vuol chiudere ogni porta all'egoismo, bisogna intendere ad un lavoro puramente disinteressato, al puro disinteresse.

Questo solo è degno dell'uomo: il disinteresse è umano perché è proprio soltanto dell' uomo.

Ebbene, ammettiamo un istante il principio del disinteresse; noi domanderemo; non vuoi tu interessarti a cosa alcuna, non lasciarti vincere all'entusiasmo per cosa alcuna, ne per libertà, né per l' umanità, ecc.? Oh, si — ci verrà risposto — ma codesto non è un interesse egoistico, bensì un interesse umano, cioè teoretico, o in altri termini un interesse non già per un singolo o per i singoli (che sarebbero "tutti"), bensì per l'idea, per l' uomo.

E non t'accorgi che tu stesso non sei infiammato che per la tua idea, per la tua idea di libertà?

E di più non t'accorgi che il tuo disinteresse, al pari del religioso, è ancor esso un disinteresse celeste?

L'utile che ne può ritrarre il singolo ti lascia indifferente, e tu saresti capace d'esclamare astrattamente: "fiat libertas pereat mundus". Tu non ti prendi cura nemmeno della dimane, anzi, in genere, non ti prendi alcun serio pensiero dei bisogni del singolo né per il tuo bene, né per quello degli altri: nulla a te importa di ciò, poiché tu sei un entusiasta, un sognatore.

L'umanitario sarà liberale a segno da considerare come "umano" tutto ciò che può esser proprio dell'uomo? Al contrario: se, per esempio, riguardo alla prostituta egli non accoglierà in astratto i pregiudizi morali del borghesuccio, gli parrà però cosa indegna di un essere umano che ella avvilisca il proprio corpo a tale da renderlo una macchina per spillar quattrini?

Egli penserà: la meretrice non è un essere umano nell'atto in cui si prostituisce; essa è antiumana, disumana. Ancora: il giudeo il cristiano, il teologo, ecc., in quanto tali, non sono uomini; quanto più tu sarai giudeo, ecc., tanto maggiormente cesserai d'esser uomo. Ed ecco di nuovo il postulato imperativo: getta lontano da te tutto ciò che non è inerente a te, allontanalo con la tua critica! Non vi è né giudeo, né cristiano, vi ha l'Uomo soltanto. Fa valere il tuo umanesimo contro le limitazioni d'ogni sorta, diventa uomo mercè quello e renditi libero da tutte le pastoie; diventa un "uomo libero", cioè riconosci nel tuo umanesimo l'unica ragione determinatrice dei tuoi atti.

E io rispondo: Tu sei, sì, qualcosa più che un giudeo, che un cristiano, ma sei anche più che uomo. Tutte quelle sono idee, ma tu sei cosa corporale. Pensi tu forse di poter giammai diventare "uomo come tale"? Credi tu forse che i nostri posteri non si troveranno innanzi altri ostacoli, altri pregiudizi, che noi non fummo capaci di abbattere?

O credi tu forse, che col tuo quarantesimo o cinquantesimo anno d'età sarai giunto al tanto, che i giorni che susseguiranno più nulla ti potranno togliere e che sarai finalmente "uomo"? Gli uomini che verranno dopo di noi dovranno conquistare molte libertà, delle quali noi non sentiamo nemmeno il bisogno. Che t'importa di quella futura libertà? Se tu fossi veramente deliberato a non tener in alcun conto te stesso prima d'esser diventato uomo, tu avresti da attendere sino al giorno del giudizio universale, sino al giorno in cui l'uomo e l'umanità avranno raggiunto il più alto grado della perfezione. Ma poi che tu morrai probabilmente prima d'allora, quale sarà il premio della tua vittoria?

Dunque inverti piuttosto il ragionamento e di' a te stesso: "Io sono uomo "! Io non ho bisogno di formare in me l'uomo, poiché esso mi appartiene di già, con tutte le mie qualità.

Ma come si può, domanda il critico, esser in pari tempo giudeo e uomo? In primo luogo — io gli risponderò — non si può essere assolutamente ed esclusivamente né giudeo né uomo. Per quanto Samuele abbia sentimento e religione d'israelita, tale in modo esclusivo egli non è già — non fosse altro per ciò che egli è quanto meno quel determinato ebreo, non mai dunque l'ebreo in astratto.

In secondo luogo si può essere certamente giudeo senz'esser uomo, se esser uomo significa esser una cosa non individuale. In terzo luogo poi — e di ciò si tratta — io quale giudeo posso essere tutto ciò che è in mia facoltà di divenire. Considerate Samuele e Mosé; essi non furono ancora uomini nel senso che voi attribuite a questa parola; pur v'è impossibile di pensare ch'egli si sarebbero potuti elevare al di sopra del giudaismo. Essi furono quello che potevano essere. Forse gli ebrei odierni sono diversi? perché voi avete scoperto l'idea dell'umanesimo, voi pretenderete inferirne che ogni giudeo debba convertirsi a tale idea? Se egli può far ciò lo farà; se non lo fa è da concluderne che non può farlo. Che cosa gl'importa della vostra pretesa? Che cosa della vocazione che gli volete imporre ?

Nella società umana, divinata dall'umanitario, nulla deve esser riconosciuto di ciò che l'uno e l'altro ha in sé di particolare, "nulla di ciò che porta il contrassegno del privato" deve aver pregio. In questo modo s'allarga la cerchia del liberalismo, il quale vede nell'uomo e nella libertà dell'uomo il principio del bene, nell'egoismo e in tutto ciò che è particolare il principio del male; in quello Dio, in questo il demonio. E come nello "stato" il privato ha perduto i propri privilegi e nella società degli operai o degli straccioni è abolita la proprietà personale, così nella "società umanistica" tutto ciò che è particolare non verrà tenuto in alcun conto. Solo allorquando la pura critica avrà compiuto il suo faticoso lavoro, noi potremo sapere quali cose debbano essere considerate come "private" e quali, nella coscienza della sua nullità, l'uomo dovrà lasciar esistere tuttavia.!

Al liberalismo umanistico non bastano lo Stato e la società; egli li nega dunque entrambe in astratto, se bene in realtà pur li conservi. A dire il vero la "società umana" si compone dello Stato più universale e della più universale società. Soltanto contro lo Stato ristretto si obbietta ch'esso concede soverchia importanza agli interessi privati spirituali (p. e. alla pietà del volgo) e contro la società, ch'essa tiene troppo conto degli interessi materiali. L'uno e l'altra devono abbandonare ai privati tutti gli interessi particolari, per non curarsi che degli interessi esclusivamente umani.

Quando i politici pensarono di abolire la volontà personale, il capriccio e l'arbitrio, essi non s'accorsero che, mercé il possesso, il capriccio arbitrario s'era creato un sicuro rifugio per l'avvenire.

I socialisti, col toglier di mezzo anche la proprietà, non s'avvedono che questa s'assicura un'esistenza futura mediante la "individualità". Perché proprietà non è soltanto il denaro o i beni di fortuna: non è oggetto di proprietà anche il pensiero e il giudizio?

È necessario dunque abolire anche ogni opinione singolare, o per lo meno renderla impersonale. La singola persona non deve avere opinioni, bensì allo stesso modo che l'arbitrio fu attribuito allo Stato, il possesso alla società, così l'opinione dev'essere riferita ancor essa a qualche cosa di "universale", all'umanità, e con ciò diventare l'opinione universalmente accettata.

Se all'opinione personale si permette di esistere, io avrò il mio dio (poi che dio non è altro insomma che il mio dio, la mia opinione, la mia fede) adunque la mia fede, la mia religione, i miei pensieri, i miei ideali; perciò è d'uopo che sorga una fede umana universale, "il fanatismo della libertà". Questa sarebbe cioè una fede in astratto corrispondente appunto alla "essenza dell'uomo", e siccome soltanto "l'uomo", in genere è ragionevole (io e tu possiamo essere irragionevolissimi), questa soltanto si avrebbe a chiamare una fede ragionevole.

Come il capriccio e il possesso furono resi impotenti, così anche ciò che di proprio possiede l'uomo, ovvero l'egoismo, deve diventar tale.

In questo ultimo svolgimento del concetto dell' "uomo libero" si combatte per principio l'egoismo, la singolarità dell'uomo; e i fini di tanto inferiori dell' "utile" sociale vagheggiato dai socialisti dileguano dinanzi alla sublime "idea dell'umanesimo". Tutto ciò che non è "universalmente umano" è alcunché d'anormale che soddisfa soltanto i singoli o un singolo, o pur appagando tutti, li soddisfa quali singoli individui non già quali uomini, e perciò si chiama "egoismo".

Pei socialisti l'utile comune, come pei liberali la concorrenza, rappresenta ancora il fine supremo; l'utile sociale non impedisce a ciascuno di procurarsi ciò che gli bisogna, allo stesso modo che nel sistema della concorrenza non è imposta la scelta dei mezzi.

Se non che per partecipare alla concorrenza è sufficiente che siate cittadini, per prender parte al benessere è sufficiente che siate operai. Ma ciò non corrisponde ancora alla qualità di uomo. L'uomo proverà la "felicità vera" quando sarà "spiritualmente libero"; dopotutto l'uomo è spirito, e perciò tutte le potenze che sono estranee a lui, allo spirito, tutte le forze sovrumane, celesti, devono essere precipitate nel nulla e il nome "uomo" "deve essere innalzato al disopra di tutti i nomi."

E così in questa fine dei tempi moderni ritorna ciò che nei loro principi era stata la cosa essenziale: "la libertà dello spirito".

Al comunista in specie il liberale dice: Se la società ti prescrive il genere d'attività, ciò è di fatto indipendente dall'azione dei singoli, cioè degli egoisti ma con questo non consegue ancora che quella attività debba essere "cosa puramente umana" e che tu sia un organo perfetto dell'umanità. Il genere d'attività che la società esigerà da te, dipende unicamente dal caso; essa potrebbe occuparti nella fabbrica d'un tempio, ecc., e astraendo da ciò, tu potresti, per tua propria volontà, adoperarti in cose basse, vale a dire indegne di uomo; più ancora potrebbe accadere che tu lavorassi unicamente per aver di che vivere, per amore della vita dunque e non per la maggior gloria dell'umanità. Perciò la libera attività sarà raggiunta solo quando tu ti sarai liberato da tutte le follie, da tutto ciò che è disumano, cioè egoistico, e avrai ripudiato tutti i pensieri che oscurano l'idea dell'uomo e dell'umanità, in breve quando non solo tu non sarai impedito nella manifestazione della tua attività, ma quando il contenuto di questa attività sarà divenuto puramente umano, e tu non vivrai che per l'umanità. Ma questo non può avvenire sino a tanto che il fine di ogni tua aspirazione è il vantaggio tuo proprio oppure quello di tutti; ciò che tu fai per la "società degli straccioni" non è ancora operato per l'umanità.

Il solo lavoro non fa di te un uomo, giacché esso è qualche cosa di formale e il suo oggetto è accidentale; ciò che importa sapere è chi sei tu che lavori. Tu puoi lavorare anche per impulso materiale, egoistico; ora è necessario invece che il lavoro sia anche tale da giovare alla società, che sia diretto ad accrescerne la felicità, a favorirne lo svolgimento storico; in breve, che sia un lavoro "umanitario". E per ciò due cose si ricercano: in primo luogo ch'esso torni di vantaggio all'umanità, in secondo luogo ch'esso sia fatto da un "uomo".

La prima condizione può verificarsi in qualunque lavoro, poiché anche dalla rondella natura, per esempio degli animali, l'uomo trae vantaggio per il progresso delle scienze; la seconda richiede che il lavoratore conosca lo scopo del suo lavoro, e siccome a tale coscienza ei non può giungere che quando si sente d'esser uomo, così la condizione determinante è la coscienza di se stesso.

Certamente si sarà ottenuto molto quando tu cesserai di esser un operaio mercenario; ma con ciò tu non riuscirai che a farti tutt'al più un'idea generale nel "tuo lavoro", ad acquistarne una coscienza che è ancora assai lontana dall'esser la coscienza di te stesso, la coscienza del tuo vero "essere", dell'essere dell'uomo. L'operaio prova ancora la sete d'una "coscienza superiore", e non potendola saziare nelle ore del lavoro, cerca di soddisfarla in quelle d'ozio. Onde vicino al lavoro egli vede l'ozio, ed egli si vede costretto a consentire nello stesso tempo esser l'uno e l'altro umani; e di più ancora gli bisogna riconoscere l'elevatezza dell'ozioso, di colui cioè che fa festa. Egli non lavora che per rendersi libero dal lavoro; egli vuole render libero il lavoro per liberarsene.

In breve, il suo lavoro non ha un contenuto che lo possa soddisfare, poi che gli è imposto dalla società, è un tema, un compito, una professione; e d'altro canto la sua "società" non lo appaga perché non ad altro l'indice che a lavorare.

Il lavoro dovrebbe appagarlo quale uomo, invece esso soddisfa solamente la società: la società dovrebbe trattarlo da uomo e invece lo ha in conto di cencioso operaio o di straccione che lavora.

Il lavoro e la società non gli sono di vantaggio che in quanto egli ne ha bisogno: non dunque quale uomo egli li appoggia, bensì quale egoista.

Questa la critica contro l'essenza del lavoro. Essa accenna allo "spirito" "dirige la lotta dello spirito contro la moltitudine", e proclama essere il lavoro comunista un lavoro privo dello spirito. Nemica del lavoro come è la folla, essa ama rendersi la fatica più leggera che sia possibile. Nella letteratura, che oggidì si produce in copia, quella ripugnanza contro il lavoro genera la ben nota superficialità, la quale non ama sottoporsi alle "fatiche delle indagini".

Ma tu replicherai, che tu riveli un uomo ben diverso, più degno, più elevato, più grande; un uomo che è più uomo di quegli altri. E io voglio ammettere che tu sappia recare in atto tutto ciò che è possibile all'uomo, che tu sappia anzi far ciò di cui nessun altro è capace. In che cosa consiste la tua grandezza? Appunto in ciò, che tu sei superiore agli altri uomini, alla moltitudine. Dunque la tua grandezza consiste nella tua superiorità sugli altri uomini. Dagli altri uomini tu non ti distingui per ciò che sei "uomo", bensì perché sei un uomo "unico". Tu dimostri bene ciò che un uomo può fare, ma se tu lo puoi, gli altri, benché uomini, nol possono: tu l'hai compiuto quale uomo "unico", ed in ciò tu non hai pari. Non già l'uomo crea la tua grandezza, bensì tu stesso la crei, perché tu sei più potente degli altri uomini.

Si crede che non si possa essere più che uomini. E vero piuttosto che non si può esser da meno di uomini.

Si crede ancora che qualunque acquisto umano torni a profitto degli uomini. Ma se io sono un uomo, son tale come Schiller era svevo, Kant prussiano, e Gustavo Adolfo miope: i miei meriti e i loro fanno di noi un uomo, un prussiano, un miope, uno svevo. E allora tutti questi qualificativi valgono come la gruccia di Federigo il Grande, che è divenuta celebre perché apparteneva a lui.

All'antico "sia reso onore a Dio" corrisponde il moderno "sia reso onore all'uomo". Ma io penso che l'onore debba esser reso a me.

La critica, coll'esigere dall'uomo che sia "uomo", esprime la condizione indispensabile della socialità; poiché solo in quanto si è uomo tra uomini si è un essere sociale. Con ciò essa manifesta il suo scopo sociale, la "fondazione della società umana".

Delle teorie sociali la critica è, senza contrasti, la più perfetta poiché essa allontana e spoglia del suo valore ogni cosa che separa l'uomo dall'uomo: tutti i privilegi, ad eccezione di quello della fede. In essa il principio d'amore del Cristianesimo, il vero principio sociale, giunge alla più alta e compiuta sua espressione; essa fa l'ultima sua prova per togliere all'uomo la esclusività e l'antagonismo che gli appartengono da natura: è una lotta contro l'egoismo nella sua forma più semplice e perciò più rigida, l'individualità o la esclusività.

"Come potete voi far veramente vita sociale sino a tanto che tra di voi esiste ancora esclusivismo"?

Così chiede la critica; e io domando all'opposto: "Come potete voi esser veramente unici, sino a tanto che esiste una relazione qualsiasi tra di voi? Se voi siete uniti l'uno all'altro, voi non potete separarvi; se un patto vi lega, solo nell' unione voi rappresentate qualche cosa, e dodici di voi formano una dozzina, mille un popolo, milioni l'umanità".

"Soltanto se siete umani — osserva ancora la critica — voi potete comunicare con gli uomini, allo stesso modo che solo essendo patrioti voi siete in condizione di comprendervi tra cittadini". E a mia volta io ribatto: Solo in quanto sei unico, tu puoi aver commercio con gli altri in tuo nome ed esser per gli altri ciò che veramente sei. Il critico più acuto è quegli che si vedrà colpito più gravemente dalla maledizione del suo principio. Quando fa getto d'ogni esclusività — clericalismo, patriottismo, ecc. — egli non fa che sciogliere un legame dopo l'altro e separarsi dal clericale, dal patriottico, ecc. sino a tanto che dopo aver infranto tutti i vincoli, si trova solo. Qui appunto deve ripudiare tutti coloro che hanno in sé qualcosa d'esclusivo e di particolare: ora che v'é egli di più esclusivo e di più particolare della persona stessa?

O crede egli forse che sarebbe meglio che tutti divenissero "uomini" rinunziando ad ogni esclusivismo? Ma appunto per ciò che la parola "tutti" non altro significa se non il complesso dei singoli, risorge più evidente il contrasto, giacché "singolo" importa l'esclusività stessa. Se l'umanità non permette al singolo nulla di particolare o d'esclusivo, nessun pensiero proprio, nessuna follia speciale, se colla sua critica lo spoglia d'ogni carattere personale e se contro ogni cosa privata è intollerante perché "antiumana", essa non potrà tuttavia distruggere con la sua critica la stessa persona, e dovrà quindi accontentarsi a proclamare che il singolo è una persona privata e lasciare ad essa tutto ciò che è particolare.

Che cosa farà una società che non si curerà più di cose che siano private? Riuscirà a distruggere il privato? No, bensì lo renderà soggetto all' "interesse sociale" lasciando poi libera la volontà privata di prendersi quanti giorni di congedo le paiano necessari per non aver a contrastare con gli interessi comuni [(1) BRUNO BAUER, La questione degli ebrei, pag. 66.]. Tutto ciò ch'é privato viene abbandonato a sé stesso perché esso non rappresenta per la società cosa che l'interessi. " Armandosi contro la scienza, la Chiesa e la religione dimostrarono di esser ciò che furono sempre, quantunque abbiano cercato di presentarsi sotto un altro aspetto quando vollero farsi credere il necessario fondamento dello Stato: si rivelarono cioè per istituzioni  affatto private. Già allora, quando esse erano unite allo Stato e lo fecero ligio al Cristianesimo, esse servirono  a  provare  che  lo  Stato  non  aveva  finora  svolta  l'idea  politica  universale  e  non ammetteva che diritti privati. Esse erano la più alta espressione del concetto che voleva far dello Stato una cosa privata la quale non dovesse curarsi che di questioni particolari. Quando lo Stato avrà finalmente il coraggio e la forza di compiere la sua vocazione universale, e quando sarà perciò anche in condizione d'assegnare il vero posto agli interessi particolari ed ai negozi privati, allora Chiesa e religione saranno libere quali mai furono sino ad ora. Considerate sotto l'aspetto d'una questione puramente privata, d'una soddisfazione o d'un bisogno puramente personali, esse potranno liberamente disporre da sé stesse, ed ogni singolo, ogni Comune, ogni congregazione religiosa, potranno provvedere alla salute dell'anima nel modo che crederanno migliore. Alla salute dell'anima penserà e si adoprerà ciascuno in quanto ne sentirà personalmente il bisogno, ed affiderà la cura dell'anima a quella persona che darà maggiore affidamento di fargli ottenere l'intento. E la scienza sarà lasciata "tutto fuori di questione" [(1) ID., La buona causa della libertà, pagg. 62-63.].

Ma che cosa succederà? La vita sociale deve essa prima distruggere ogni rapporto sociale — la fratellanza — ciò che fu creato dal principio dell'amore e dell'associazione? Ma non potrà già fare che chi ha bisogno d'altrui non gli si rivolga o non gli si sottometta. E la sola differenza è questa che, dopo, il singolo si collegherà realmente col singolo, mentre prima era soltanto a lui vincolato. Così padre e figlio, prima che quest'ultimo abbia raggiunto la maggior età, sono vincolati da un legame; dopo, essi possono aver tra di loro rapporti indipendenti: il padre resterà padre, e figlio il figlio; ma non più la dipendenza del figlio dal padre, bensì la libera volontà d'entrambi li terrà finiti.

L'ultimo privilegio è, per vero, l' "uomo" perché di questo privilegio tutti son dotati. Dopotutto, come dice Bruno Bauer: "il privilegio resta, se anche a tutto si estende" [(2) La questione degli ebrei, pag. 60].

Di modo che le evoluzioni del liberalismo sono le seguenti:

Primo: Il singolo non è l'uomo; per ciò la sua personalità non è tenuta in alcun conto: non volontà personale, non arbitrio, non comando.

Secondo: Il singolo non ha nulla di ciò che è comune: perciò, non esiste né il mio né il tuo, non dunque la proprietà.

Terzo: Siccome il singolo non è uomo, né alcunché possiede d'umano, egli non deve nemmeno esistere, e deve esser distrutto dalla critica con tutto il suo egoismo, per far luogo all' "uomo", all'uomo ora per la prima volta trovato ".

Quantunque però il singolo non sia l' "uomo", l'uomo nonostante sussiste nel singolo ed ha per sé stesso, come ogni spirito ed ogni fantasma, una propria esistenza.

Perciò il liberalismo politico assegna al singolo tutto ciò che gli spetta "in quanto è nato uomo", cioè libertà di coscienza, possedimento, ecc., in breve tutti quelli che si chiamano i diritti dell'uomo; e a sua volta il socialismo concede al singolo ciò che gli spetta quale uomo attivo, quale uomo che "lavora"; finalmente il liberalismo umanitario dà al singolo ciò ch'egli possiede quale "uomo"; vale a dire tutto ciò che è di pertinenza dell'umanità. Conseguenza: il singolo non ha nulla, l'umanità ha tutto: donde la necessità di proclamare il rinascimento predicato dal Cristianesimo: divieni una nuova creatura, divieni "uomo".

Tutto ciò non fa forse pensare al pater noster?

All'Uomo appartiene la dominazione (la forza o la "dinamica"): quindi nessun singolo dev'esser padrone, bensì l'Uomo è il padrone dei singoli — "; dell'Uomo è il regno, cioè il mondo; dunque non il singolo deve possedere, bensì l'uomo ("tutti" hanno il possesso del mondo) —, all'Uomo spetta la gloria di tutto, la glorificazione, dopotutto l'Uomo, l'umanità sono il fine del singolo, per i quali esso lavora, pensa, vive, e per la cui glorificazione egli deve diventar uomo.

Gli uomini hanno sempre aspirato finora a render possibile una comunanza, nella quale tutte le "loro inevitabili ineguaglianze" potessero essere considerate come non essenziali; essi aspirarono alla "eguaglianza"; ciò che null'altro significa, se non che cercavano un padrone, un vincolo, una sede ("noi crediamo tutti in un solo Dio"). Cosa più comune o più uguale non può darsi per l'uomo dell'uomo stesso, ed in questa comunanza l'istinto d'amore ha trovato il suo appagamento; esso non ebbe riposo prima d'aver ottenuta questa compensazione e tolta ogni disuguaglianza e fatto si che l'uomo stringesse l'uomo al suo seno. Ma precisamente tale comunanza affrettata produce la decadenza e lo sfasciamento. In una comunanza limitata il francese stava ancora contro il tedesco, il cristiano contro il maomettano, ecc. Ora, invece, l'uomo sta contro gli uomini, o se meglio vi piace, poi che gli uomini non sono l'uomo, l'uomo sta contro il non-uomo.

Alla tesi "Dio s'è fatto uomo" è seguita l'altra: "l'uomo s'è fatto"l'Io". Questo è l' "io" umano. Ma noi invertiamo la tesi e diciamo: io non ho potuto trovare me stesso sino a tanto che ho cercato in me l'Uomo. Ma, ora che l'uomo aspira a diventar 1' "io" e ad acquistar corpo in "me"; io comprendo bene che tutto dipende dalla individualità mia, e che senza di essa l'uomo è perduto. Ma io non sento alcun desiderio di diventar lo scrigno di questo "sacrosanto io", e per ciò quind'innanzi non domanderò se nella estrinsecazione della mia attività io sarò uomo o non- uomo : "sia lontano da me codesto spettro" !

Il liberalismo umano procede senza riguardi: Se tu in un solo punto vuoi essere od avere qualche cosa di particolare, se vuoi difendere una tua prerogativa contro altri, o semplicemente far uso d'un diritto che non sia un diritto universale degli uomini, egli ti dichiara un egoista.

Sta bene: Io non voglio ne avere ne essere qualche cosa di particolare rispetto agli altri, io non pretenderò nessuna prerogativa, ma io non mi misuro alla stregua degli altri, e di diritti astratti non so che fare. Io voglio essere ed avere tutto ciò "che posso essere ed avere". Se altri fanno la stessa cosa che me n'importa? Essi la stessa cosa non potranno già né essere né avere.Io non arreco loro alcun danno, allo stesso modo che io non arreco danno alla roccia per ciò ch' io posso muovermi ed essa nol può. Se essa lo potesse, lo farebbe.

Di qui procede la dottrina: recar discapito o pregiudizio agli altri uomini, Non già che nessuno debba godere d'un privilegio, che sia obbligò il rinunciare ad aver dei " vantaggi " sugli altri, cioè che si ammetta la più stretta teoria della abnegazione. "Non bisogna tener sé stessi in conto d'alcunché di particolare, perché si è, p. es., cristiani o ebrei." Sta bene, ma io non mi tengo in conto di "qualcosa di particolare", bensì in conto di unico. Io ho, è vero, alcuni caratteri comuni con gli altri, ma tutto ciò non è che relativo; nel fatto io sono incomparabile, sono unico. La mia carne non è la carne loro, il mio spirito non e il loro spirito. Liberi di classificarvi sotto le dominazioni generali di "carne" o di "spirito"; ma voi dovete pur riconoscere che queste non sono che idee, le quali nulla hanno a che fare con la mia carne, col mio spirito, e meno d'ogni altra cosa siete autorizzati ad impormi una vocazione.

Io non voglio riconoscere o rispettare in te cosa alcuna, non il possidente né il cencioso, e nemmeno l'uomo, bensì voglio sfruttarti per i miei bisogni. Io trovo che il sale dà sapore ai miei cibi, e perciò io lo disciolgo. Io conosco che il pesce è atto ad alimentarmi, e perciò lo mangio. Io scorgo in te il dono di allietarmi la vita, e perciò ti prescelgo a mio compagno. Ai miei occhi tu non sei che ciò che rappresenti per me, vale a dire un oggetto mio, e, perché mio, diventi anche mia proprietà.

Nel liberalismo umanitario la pitoccheria giunge all'estremo.

È necessario che noi discendiamo all'ultimo grado di cenciosità e di miseria, se vogliamo giungere al concetto del nostro valore astratto, poiché siamo tenuti a spogliarci di tutto ciò ch'è nostro acquisto. Ma che v'é di più miserevole dell'uomo nudo? Ma altro succede se io getto lontano da me anche l'uomo perché sento che pur esso mi è estraneo e che io posso far poco conto di lui. Codesta non è più canaglieria: il cencioso si è spogliato anche dei suoi cenci e con ciò ha cessato d'essere un cencioso.

Io non sono più un pezzente: lo fui.

Sino ad ora non era possibile intenderci dopo di ché la lotta tra i liberali vecchi e nuovi era insomma contrasto fra coloro che accettavano la "libertà a piccole dosi" e quelli che domandavano libertà "nella più alta misura", dunque tra i moderati e i partigiani della libertà illimitata. Tutto si riduceva alla questione: "Quanto libero dev'esser l'uomo".

Che l'uomo debba esser libero lo ammettono gli uni e gli altri, e per questo entrambi i partiti sono liberali. Ma il selvaggio che si cela in ogni uomo, in qual modo si potrà frenarlo? Come far sì che rendendo libero l'uomo, non si scateni in pari tempo anche la belva?

Ogni liberalismo ha un nemico mortale, un avversario insuperabile, come Dio ha il demonio; a lato dell'uomo sta sempre il barbaro, il singolo, l'egoista. Stato, società, umanità sono incapaci a soggiogarlo.

Il liberalismo umanista s'è prefisso il compito di dimostrare ai liberali puri che essi vogliono tutt'altro che la libertà.

Gli altri liberali non avevano dinanzi agli occhi che alcuni casi d'egoismo, ciechi per la maggior parte dei rimanenti; il liberalismo radicale ha invece contro di sé l'egoismo "in genere" al quale egli fa appartenere tutti coloro che non intendono la libertà a suo modo, sicché ora l'uomo e il barbaro sono strettamente separati l'un dall'altro e si stanno di fronte quali nemici; da un lato la moltitudine, dall'altro la critica, e più precisamente quella cui si dà nome di libera critica umana (Questione giudaica, p. 114) per distinguerla dalla critica primitiva o religiosa.

La critica confida di poter riportar vittoria su tutta la "massa" e di poterle dare un "attestato di generale povertà".

Essa pretende dunque d'avere l'ultima parola e di provare che la lotta dei "timidi" e degli scoraggiati si risolve in un ergotismo egoistico, in una piccineria, in una meschinità. Ogni rancore scema d'importanza ed i piccoli dissidi si bandiscono, poiché colla critica scende in campo un nemico comune. "Voi siete egoisti, tutti quanti siete, e nessuno di voi vale meglio dell'altro. Ed ora gli egoisti si schierano compatti contro la critica."

Ma che siano proprio egoisti? No essi combattono la critica, per ciò che questa li taccia d'egoisti; essi non vogliono confessare d'esser tali, sicché la critica e la "moltitudine" son ferme sulla stessa base; entrambe lottano contro l'egoismo, entrambe lo rinnegano e cercano di staccarsene reciprocamente.

Critica e moltitudine seguono la stessa mèta, l'emancipazione dall'egoismo, e non questionano tra di loro che per sapere chi più è vicino alla mèta o anche chi l'ha raggiunta.

Gli ebrei, i cristiani, gli assolutisti, gli uomini "oscuri", gli amanti della luce, i politici, i comunisti, insomma tutti, respingono da sé l'epiteto infamante d'egoisti, e siccome la critica li ha in conto di tali, senza reticenze nel significato più ampio, tutti intendono giustificarsi contro il rimprovero d'egoista e combattono l'egoismo, cioè lo stesso nemico, contro il quale è scesa in arme la critica.

Sono nemici degli egoisti l'una e l'altra, la critica e la massa, e sì l'una sì l'altra cercano di emanciparsi dall'egoismo tanto col cercar di scagionarsene quanto coll'accusarne l'avversario.

Il critico è il vero oratore della "folla"; ed egli le manifesta il "semplice concetto ed il modo d'esprimersi" dell'egoismo Egli è principe e duce nella guerra di liberazione contro l'egoismo. Ma in pari tempo egli è pure l'avversario della moltitudine, non perché la combatte, ma perché la incita e la sprona, e fa schioccare la frusta dietro i pusillanimi, per incoraggiarli.

Con ciò il contrasto tra la critica e la folla si riduce a questo dibattito: "Voi siete egoisti! — No, noi non siamo tali! — Io ve lo dimostrerò. — E tu vedrai come sapremo giustificarci!"

Prendiamoli pure l'una e l'altra per quel che pretendono di essere, cioè per antiegoisti, o per quello in cui l'una tiene l'altra, vale a dire per egoisti.

La critica dice veramente; tu devi liberare per tal modo il tuo io da ogni cosa che lo limiti da farlo diventare un "io" umano. Ed io osservo: liberatene per quanto puoi ed avrai fatto il tuo dovere; poiché non a tutti e concesso d'abbattere tutti gli ostacoli, o, per meglio dire, non tutti scorgono una barriera in ciò che agli altri sembra tale. Per conseguenza non curarti degli ostacoli che non danno impaccio a te. Ti basti l'abbattere questi. A chi mai fu dato di abbattere un ostacolo in pro di tutti gli uomini? Non sono forse senza numero coloro che corrono oggidì, come sempre, pel mondo pur trascinando tutte le pastoie dell'umanità? Chi ha abbattuto una delle sue barriere, può con ciò additare agli altri la via ed i mezzi; l'abbattere gli ostacoli che gli si attraversano è compito di ognuno per se stesso. Di fatto nessuno opera diversamente. Pretendere che tutti diventino perfettamente "uomini" equivale a domandare loro di abbattere tutte le barriere. E ciò è impossibile, poiché l'uomo per sé stesso non ha barriere. Io ne ho ancora, ma son sempre le mie, e queste soltanto possono essere da me superate.

Un "io umano", non potrò diventarlo giammai, perché io sono "io" e non solamente uomo.

Vediamo un po' tuttavia se la critica ci ha insegnato alcunché di utile. Libero io non lo sono se non sono senza interessi, uomo nemmeno se non sono disinteressato. Sia pure, ma che m'importa d'esser libero o d'esser uomo? io non lascierò perciò solo trascorrere alcuna occasione di farmi valere. La critica mi porge quest'occasione, coll'insegnarmi che allorquando qualcosa mi si insinua nell'animo e vi permane indissolubilmente, io ne divento il prigioniero e lo schiavo, cioè un ossesso. Un interesse qualunque fa di me, se non so liberarmene, la sua preda, e non più esso appartiene a me, bensì io appartengo a lui. Accettiamo dunque il monito della critica: non consentiremo ad alcuna proprietà di diventare stabile, e faremo in modo da non trovarci a nostro agio fuorché nella distruzione.

Se dunque la critica dice: Tu non sei uomo che quando critichi e dissolvi senza posa; noi diciamo: Tale io sono già anche senza di ciò e quindi io non voglio prendermi altra cura che d'assicurarmi la mia proprietà, e, per meglio assicurarla, la chiudo in me stesso, la faccio mia schiava, e ne uso prima ch'essa possa diventare un'idea fissa o una mania.

Ma io non faccio questo già per un dovere che mi sia imposto, bensì per libera volontà mia. Io non meno vanto di abbattere tutto ciò che all'uomo è dato di poter distruggere; finché, ad esempio, non avrò ancora dieci anni, io non pretenderò di criticare i controsensi del decalogo; sarò per questo meno un uomo? Anzi sarò tale perciò a punto. In breve, io non ho alcuna vocazione e non ne seguo nessuna nemmeno quella d'esser uomo. Ripudio forse con ciò quello che il liberalismo ha conquistato con le sue fatiche? Sono ben lontano dal desiderare che vada perduto ciò che fu conquistato; solamente ora che, mercé il liberalismo, l'uomo è divenuto libero, io guardo a me stesso e dico francamente a me stesso: quello che in apparenza ha conquistato l'uomo l'ho conquistato io solo.

L'uomo, dice il liberalismo, è libero solo quando della sua esistenza egli ha fatto l'ente supremo. Dunque per il perfezionamento del liberalismo è necessario che ogni altro essere supremo sia distrutto, che la teologia sia abbattuta e sostituita dall'antropologia, e che Dio e la sua provvidenza sian condannati al dileggio, si che l'ateismo divenga universale.

L'egoismo della proprietà fa l'ultima perdita, il giorno che il "mio Dio" diviene parola senza significato; poiché Dio non esiste se non in quanto egli ha cura della salute del singolo il quale a sua volta in Lui abbia fede.

Il liberalismo politico ha abolito l'ineguaglianza dei servi e dei padroni: egli ci rese senza padroni — anarchici. Il padrone fu separato dal singolo, dall' egoista, per divenire uno spettro; la legge e lo Stato. Il liberalismo sociale abolì l'ineguaglianza della proprietà, dei poveri e dei ricchi, e rese tutti senza proprietà, poiché questa, nel suo concetto, vien confidata a un fantasma — la società.I1 liberalismo umano a sua volta ci toglie Dio, ci rende atei. Per ciò il Dio del singolo, il "mio Dio" deve essere abolito. Ora è certo che la mancanza di padroni trae seco l'abolizione di ogni servaggio, la mancanza di possesso ha per conseguenza la liberazione dai bisogni, e l'ateismo significa assenza di pregiudizi, giacche col padrone cade il servo, col possesso la causa di conservarlo, col dio tutti i pregiudizi! Ma siccome il padrone risorge nello Stato, il servo riappare quale suddito, la proprietà fa nuovamente capolino nel possesso esclusivo della società, e il pregiudizio di Dio si riaffaccia sotto la forma dell'Uomo, cosi sorge una nuova credenza, quella nell'umanità e nella libertà. Al posto del "Dio" del singolo è ora innalzato il Dio di tutti, l'Uomo: "la cosa suprema alla quale tendiamo, è d'esser uomini". Ma siccome nessuno può perfettamente tradurre in atto ciò che l'idea "uomo" vuol esprimere, così l'uomo resta pel singolo un "al di là", sublime, un ente supremo non ancora raggiunto, un Dio. Di più, esso è il vero Dio perché è perfettamente adeguato alla nostra natura e rappresenta ed è il nostro vero "essere ": perché raffigura insomma noi stessi, ma come astratti dalla realtà ed elevati a un ideale superiore.

Le osservazioni che precedono sulla "libera critica umana" furono scritte, al pari di tutto il resto che si riferisce ad opere che hanno attinenza a questo soggetto, saltuariamente subito dopo la pubblicazione dei libri che ne trattavano, ed io non feci altro poi che raccogliere ed ordinare i frammenti. Ma la critica prosegue d'ora innanzi senza tregua per la sua strada e rende necessario che io, avendo terminato la prima parte, aggiunga questa nota a mò di conclusione.

Io ho dinanzi a me l'ottava puntata della Gazzetta universale di letteratura di Bruno Bauer.

Fin da principio essa ci parla un'altra volta degli interessi generali della società. Ma la critica ha riflettuto bene ed ha a questa società attribuito una destinazione, mercè la quale essa ora si distingue da un'altra forma, con cui prima soleva essere scambiata; "lo Stato", poco innanzi esaltato ancora quale "libero Stato" fu del tutto abbandonato, poiché fu chiaro che in nessun modo esso saprebbe conseguire il fine della "società umana". La critica che nel 1842 si era "veduta costretta a identificare per un momento l'essenza umana colla politica ", ora s'è invece accorta che lo Stato, sia pure il "libero Stato", non è la società umana, o, come potrebbe dirsi in altri termini, che il popolo non è "l' uomo".

Noi abbiamo veduto come essa si sia disfatta della teologia dimostrando chiaramente come dinanzi all'uomo Dio dilegui; ora la vediamo liberarsi allo stesso modo dalla politica e dimostrare che dinanzi all'uomo cessano popoli e nazionalità; noi vediamo adunque che essa si emancipa a un tempo dalla Chiesa e dallo Stato dichiarando antiumani l'una e l'altro, e noi vedremo — poiché già ci è facile divinarlo — che essa saprà, anche dimostrare come dinanzi all' "uomo" la stessa "umanità" proclamata da essa ente spirituale "si chiarirà senza valore.E come mai saprebbero in altro modo i piccoli "enti spirituali" sostenersi di fronte allo spirito supremo? L'uomo abbatte tutti i falsi idoli.

Quello adunque che il critico pensa di fare per ora, si è di considerare la collettività secondo il suo astratto concetto dell' "uomo" per combatterla. Quale è ora l'oggetto della critica? "

"La collettività, un ente spirituale!" Il critico imparerà pure a conoscerla e s'accorgerà che sta in contraddizione coll'uomo e dimostrerà ch'essa è antiumana; e questa prova gli riuscirà altrettanto felicemente quanto la prima, che cioè la divinità e la nazionalità, vale a dire la religione e lo Stato, sono antiumani.

Il popolo è definito il più importante prodotto della rivoluzione, — la moltitudine ingannata che le illusioni del progresso politico, anzi in generale del progresso di tutto il secolo decimottavo, diedero in preda allo sconforto.

La rivoluzione per i suoi risultati soddisfò gli uni e lasciò insoddisfatti gli altri; la parte soddisfatta è la borghesia, l'insoddisfatta il popolo. Per questo rispetto il critico stesso non appartiene forse esso pure al popolo?

Ma i malcontenti procedono ancora a tastoni e il loro disagio morale s'esprime in un'ira immoderata. Questa si propone di vincere il critico, ch'è malcontento del pari: egli non può volere né raggiungere altro fine se non quello di liberar la moltitudine dall'angustia che l'affigge e "sollevare il morale" (come usano dire) dei malcontenti, assegnando il posto che per i risultati della rivoluzione loro spetta. Per ciò, egli vuol riempire il "profondo abisso che lo separa dalla massa".

Da coloro che vogliono innalzare le "classi popolari inferiori" egli si distingue per ciò, che non soltanto quelle, ma anche sé stesso intende liberare "dalla tristezza che l'affligge".

D'altro canto l'istinto non la tradisce quando lo avverte che la folla è un "nemico naturale della teoria" che quanto più "quella teoria andrà sviluppandosi, tanto maggior compattezza acquisterà la moltitudine". Poiché il critico, con la sua teorica dell'uomo, non è in condizione né di ammaestrare né di soddisfare la moltitudine. Se già di fronte alla borghesia questa non rappresenta che la classe "inferiore del popolo", una massa senza importanza politica, con maggior ragione di fronte all'uomo essa non altro rimase che una massa senza importanza per l'umanità, anzi barbara al tutto.

Il critico perviene così per dispetto a distruggere tutto ciò che è umano: infatti, movendo dalla premessa, che ciò ch'é umano è anche il vero, egli si dà la scure sui piedi, poiché viene a negar il

carattere umano a tutto ciò cui finora era stato attribuito. Egli dimostra soltanto, che l'umano non si trova che nella sua testa, mentre l'antiumano si trova da per tutto. L'antiumano è il vero, il reale, ciò che trovasi in ogni luogo, ed il critico col dimostrarlo "non umano" non fa che esprimere chiaramente con una tautologia la verità della mia affermazione.

Ma che accadrebbe se l'antiumano voltandogli coraggiosamente il dorso mostrasse le spalle anche al critico che lo inquieta, e lo lasciasse stare, senza curarsi della sua obbiezione ?

Tu mi chiami antiumano, potrebbe dirgli, ed io sono tale effettivamente, per te: ma son tale per questa sola ragione: che tu mi contrapponi all'umano ed io non potevo disprezzare me stesso che sino a tanto che io mi ritenni vincolato a quel contrapposto. Io era spregevole, perché cercavo fuori di me "la miglior parte di me stesso": io rappresentava l'antiumanesimo, perché sognavo l'umanesimo: ero simile ai religiosi che hanno sete del loro vero "io" e restano tutta la vita dei "miseri peccatori"; io non mi concepivo che in rapporto ad un altro; in breve io non era il tutto nel tutto, non era l'unico. Ma ora ho cessato di apparire a me stesso antiumano, ho cessato di misurarmi e di lasciarmi misurare in relazione agli altri uomini, ho cessato di riconoscere qualche cosa al disopra di me stesso; e con ciò, ti saluto, mio bel critico umano!

Io fui l'antiumano, ma non lo sono più ora; ora io sono l'unico, anzi, ciò che più ti farà ribrezzo, sono l'egoista, non già l'egoista in rapporto coll'umanismo o col disinteresse, bensì l'egoista in sé.

Dobbiamo far rilevare anche un altro passo del fascicolo sovra accennato. "La critica non impone dogmi e non domanda che di conoscere le cose".

Il critico teme d'essere "dogmatico" o di imporre dei dogmi. Ed è naturale: poiché ciò essendo e facendo egli diventerebbe il contrario del critico: di buono, quale è presentemente, si farebbe cattivo, di disinteressato egoista, e cosi via. "Bando ai dogmi", ecco il vero dogma, poiché critico e dogmatico stanno sullo stesso terreno: quello del pensiero. Entrambi procedono dal pensiero, ma il critico si distingue dall'altro per ciò che egli non cessa di assoggettare il suo pensiero a un sistema che lo costringe continuamente a mutare. Egli fa valere il raziocinio contro la credulità del pensiero, il progresso del pensare contro l'immobilità del pensiero. Nessun pensiero è sicuro di andar immune dalla critica, poiché questa rappresenta il pensare, ovvero lo spirito pensante per eccellenza.

Da questo nasce — è bene ripeterlo — il mondo religioso — e tale è appunto il mondo dei pensieri che nella critica raggiunge la sua perfezione poiché l'operazione del pensare soverchia ogni pensiero singolo e gli impedisce d'immobilizzarsi "egoisticamente". Che ne sarebbe della "purezza della critica", della purezza del pensare, sé un solo pensiero potesse sfuggire all'operazione del raziocinio? Con ciò si spiega che critico di quando in quando arrivi persino a farsi gioco del pensiero dell'uomo, dell'umanità e dell' umanesimo, perché egli sente che qui c'è un pensiero che accenna ad avvicinarsi all'immobilizzazione dogmatica. Ma egli non può distruggere questo pensiero se prima non né abbia trovato uno d'ordine più elevato, nel quale quello possa risolversi; poiché egli non procede che per via di pensieri. Questo pensiero più elevato potrebbe esser chiamato il pensiero — per antonomasia — del "raziocinio" stesso, vale a dire il pensièro del pensare o della critica.

Con ciò la libertà del pensiero ha raggiunta la sua perfezione e la libertà dello spirito festeggia il suo trionfo : poiché i pensieri singoli egoistici, hanno perduta la lor forza, dogmatica. Null'altro è rimasto fuorché il dogma del libero pensiero o della libera critica.

Contro tutto ciò che appartiene al mondo dei pensieri, la critica ha dalla sua il diritto, cioè la forza: essa è vittoriosa. La critica, è la sola critica, è all' "altezza dei tempi". Nel rispetto del pensiero non v'é forza che la possa superare, ed è bello il vedere quanto facilmente, e quasi scherzando, questo mostro ingoi e divori tutto il brulicame degli altri pensieri, vermi che esso schiaccia nonostante le lor contorsioni e i loro avvolgimenti.

Io non sono un avversario della critica, o — per dir più proprio — io non sono un dogmatico, e non mi sento morso dal dènte col quale il critico azzanna il dogmatico. Se io fossi un dogmatico, io porrei un dogma, vale a dire un pensiero, un'idea, un principio in capo a tutto, e recherei ogni cosa a perfezione creando un sistema, componendo cioè un'architettura di concetti. Se per contro io fossi un critico, io propugnerei la libertà del pensiero nuovo contro il pensiero che invecchia, difenderei il pensiero presente contro l'antico. Ma io non sono né il campione d'un pensiero, né quello del pensare, poiché io muovo dal concetto dell' "io" che non è né il pensiero singolo né l'atto del pensare. Contro l' "io" — l'innominabile, — s'infrangono e il regno dei pensieri, e quello del pensare e dello spirito.

La critica è la lotta degli ossessi contro l'ossessione : essa sorge dal convincimento che in ogni cosa esista l'ossessione, o, come dice il critico, esistono rapporti religiosi e teologici.

Egli sa che non pur verso Dio ci si comporta religiosamente — cioè guidati da una fede, da una credenza, — ma anche verso altre idee quali il diritto, lo Stato, la legge: e da ciò inferisce che l'ossessione è in ogni cosa. E così alla ragione ci si richiama contro i pensieri. Ma io dico invece che soltanto la mancanza di pensieri mi salva effettivamente dai pensieri. Non il pensare bensì là mia "assenza di pensieri", ovvero l' "io" — l'incomprensibile — mi salva dall'ossessione.

Una scrollata di spalle vale bene talora una meditazione; uno stirar delle membra mi può liberare da pensieri penosi; balzando in piedi io getto da me lontano l'incubo del mondo religioso; un grido di tripudio allontana da me un peso sopportato lunghi anni. Ma la significazione preziosissima d' un tripudio spensierato e liberatore non poté esser riconosciuta nella lunga notte del pensiero e della fede.

"Quale sciocchezza e quale frivolezza sono nel voler risolvere i più ardui problemi, i compiti più complessi mediante una interruzione improvvisa".

Ma hai tu dei doveri che tu stesso non ti sia imposto ? Sino a tanto che ti assegnerai tali compiti, è ben naturale che non ti daranno pace, ed è ben naturale ch'essi ti offrano materia a pensieri e che pensando tu crei a te stesso mille cure. Ma tu, che ti sei imposto un compito, non dovresti avere il potere d'annullarlo? Sei tu costretto ad esser vincolato a quel compito, e deve esso diventare assoluto?

Per accennare a una sola cosa fra tante, si è cercato di accusare l'autorità del governo, perché contro le idee esso adopera mezzi violenti e procede contro la stampa coll'arbitrio poliziesco della censura e muta una lotta letteraria in una personale. Così se si trattasse soltanto d'idee e come se verso le idee noi dovessimo comportarci con disinteresse e con virtù di sacrificio! Ma quelle idee non sono forse dirette contro gli stessi governanti, e non provocano esse forse in tal modo l'egoismo?

E i propagatori di quelle idee non mettono innanzi forse la pretesa religiosa del rispetto alla forza del pensiero, delle idee? Essi dovrebbero soccombere volontariamente e disinteressatamente, perché la divina possanza del pensiero, Minerva, combatte al fianco dei loro nemici. Ma questo sarebbe un atto suggerito dall'ossessione, sarebbe un sacrifizio religioso.

Certamente anche i governi subiscono il fascino religioso e seguono la potenza direttiva d'un'idea o d'una credenza: ma in pari tempo sono degli egoisti, senza confessarlo (precisamente nella lotta contro i nemici erompe l'egoismo latente) sono ossessi quanto alla loro fede, ma si ritrovano ad essere egoisti di fronte alla fede degli avversari. Se si vuole far loro un rimprovero, conviene imputar loro d'esser ossessi, come gli altri, dalle proprie idee. Ai pensieri non dovrebbe opporsi alcuna potenza egoistica, nessuna violenza poliziesca ecc. Cosi credono quelli che hanno fede nella ragione, ma l'attitudine del pensare e i concetti per me non sono cose sacre ed io difendo la mia pelle anche contro di loro: Ciò sarà irragionevole ma se io sono vincolato alla ragione, io dovrò, secondo Abramo sacrificarle ciò che ho di più caro.

Nel regno del pensiero (il quale, al pari di quello della fede, è il regno dei cieli), ha certamente torto colui che adopera la violenza cieca, come ha torto ognuno che voglia procedere senza amore per il regno dell'amore — o che cristiano si comporti anticristianamente; ciascun di costoro si rivela un egoista, perché vuole appartenere a uno di questi regni e sottrarsi tuttavia alle lor leggi. Ma s'egli vorrà sottrarsi non più alla legge soltanto ma alla stessa costituzione di questo regno e pretendere di non esservi più soggetto, egli apparirà allora addirittura un delinquente.

Il pensatore è nel suo diritto allorché lotta contro le idee del governo (il governo resta di solito muto e nel rispetto della letteratura nulla sa obiettare); è per contro nel torto, cioè impotente, quando null'altro che pensieri sa metter in campo contra un potere personale (il potere egoistico chiude la bocca al pensatore). La lotta teoretica non può condurre alla vittoria finale e la santa potenza del pensiero soccombe alla prepotenza dell'egoismo, dacché soltanto la lotta egoistica, la lotta di egoisti d'ambo le parti, può venir a capo d'ogni cosa.

Ma questo è fare del raziocinio un oggetto del capriccio del singolo — è ridurlo a un dilettantismo e toglierli ogni importanza; quest'umiliazione e profanazione del pensare, questo pareggiar l'io che pensa all' io che non pensa, questa rozza, ma purtroppo reale, "uguaglianza", la critica non può formularla, poiché essa stessa non è che la sacerdotessa della ragione, e di là dal pensiero non scorge altro che l'universale ruina.

La critica sostiene bensì che essa, qual libera critica, può trionfare dello Stato, ma si schernisce, in pari tempo dal rimprovero che le vien mosso dal governo dello Stato, ch'essa "sia arbitrio e impudenza"; essa ritiene che non all'arbitrio ed alla impudenza, ma alla virtù sua debba attribuirsi la vittoria. Invece l'opposto è giusto: lo Stato non può essere vinto che dallo arbitrio impudente.

Si potrà concludere da questo, per finire, che il critico nella sua nuova evoluzione non si è già trasformato, ma solo ha "chiarito una data questione"; se non che egli procede troppo oltre

quando afferma che la "critica critica sé stessa"; essa, o piuttosto egli, non ha fatto che criticare un errore commesso e purificarsi delle sue "assurdità". Se il critico presumesse di criticare la critica, dovrebbe anzitutto accertarsi se nella ipotesi onde questa procede c'è qualche cosa che valga.

Dal mio canto io muovo dalla ipotesi dell' "io": della mia premessa io non mi valgo che per mio vantaggio. Io mi nutro precisamente della mia premessa e non esisto se non perché mi nutro di essa, ma appunto perciò questa è in fine più e meglio che una ipotesi, poi che siccome io sono l'unico, cosi io ignoro l'esistenza d'un dualismo in me stesso, del dualismo d'un io che premette e d'uno ch'è premesso (d'un io imperfetto e d'uno perfetto, che sarebbe l'uomo): per me il fatto che "io mi assorbo" significa che io sono. Io non premetto che io sia, perché in ogni momento io mi ammetto e creo, e sono " io " non per ciò che io sia premesso, ma per ciò che io sono ammesso

da me medesimo vale a dire per ciò che io sono in pari tempo il mio creatore e la mia creatura.

Se le ipotesi fatte sinora devono dissolversi del tutto, esse non devono assorbirsi in un'altra ipotesi più elevata cioè nel pensiero o nel pensare, nella critica Quel dissolvimento deve operarsi in mio vantaggio altrimenti esso rientrerebbe nella categoria innumerevole di quelli che a pro d'altri, per esempio dell'uomo, di Dio, dello Stato, della morale pura ecc., proclamarono menzogna le antiche verità, ed abolirono ipotesi da gran tempo ammesse per vere.


PARTE SECONDA

IO

All'alba de' nuovi tempi s'affaccia " l'uomo-dio ". Al loro tramonto dileguerà il dio? E l'uomo- dio può veramente morire se in lui scompare soltanto il dio? Non si è pensato a tale questione e si credette d'aver tutto compiuto quando si riuscì a superare vittoriosamente il dio; non si avvertì che l'uomo ha ucciso Dio per diventale egli stesso "unico Dio nei cieli". Il di là esteriore è certamente spazzato via e la grande impresa della filosofia è compiuta; ma il di là in noi è diventato un nuovo regno celeste e ci chiama nuovamente a dar la scalata ai cieli: Dio ha dovuto cedere il suo posto, ma non già a noi — bensì all'uomo. Come potete voi supporre che l'uomo- dio sia morto se prima in lui, oltre che il dio, non si sia spento anche l'uomo?

— L'ORIGINALITÀ.

"Non anela forse lo spirito alla libertà?" — Ah, non soltanto il mio spirito; tutta la mia carne anche vi anela ardentemente, in ogni ora ! Quando il mio naso, eccitato dai grati odori che gli giungono dalla cucina del castello, parla al mio palato dei gustosi manicaretti che vi si prepararono, quest' ultimo, condannato al pane asciutto, proverà un orribile languore; quando i miei occhi fanno intendere al mio dorso calloso che mille volte più dolce è il riposo in un letto di piume che non sovra un sacco di paglia, esso si sente morso da un'ira repressa; quando... ma non proseguiamo più oltre nell'annunciare le privazioni e le sofferenze e i dolori. — E a ciò tu dai il nome di brama di libertà? Ma di che cosa mai ti vuol tu render libero? Del pane asciutto che sei costretto a mangiare o del tuo duro giaciglio? Ebbene gettali via. — Ma pare che ciò non ti basti ancora: tu vorresti possedere la libertà di assaporare i cibi deliziosi e di godere i letti ben sprimacciati. Devono forse gli uomini procurarti questa "libertà" — possono essi permetterla a te? Tu non speri tanto dal loro amore pel prossimo, poi che tu ben sai ch'essi pensano come te: ciascuno è il prossimo di sé stesso! E in qual modo vorresti allora procurarti il godimento di quei cibi o di quei letti? Non altrimenti, certo, che col rendertene padrone

Se pensi bene, tu non vuoi la libertà di poter avere tutte quelle belle cose, perché la sola libertà non te le può concedere; tu vuol possederle in effetto, vuoi poterle chiamare tue, averle quale tua proprietà. A che cosa ti servirebbe una libertà da cui tu non potessi trarre alcun vantaggio? E se tu divenissi libero da ogni cosa, tu finiresti col non aver più nulla: poiché la libertà non ha una contenenza propria. Per colui che non se ne sa servire la libertà non ha alcun valore, è una cosa inutile; ma il modo di servirmene dipende dall'originalità del mio essere.

Io non ho nulla da obiettare contro la libertà, ma io auguro a te qualcosa di più che non la sola libertà; tu dovresti non solo esser libero, vale a dire privo, ma anche dovresti possedere quello che tu vuoi: — in una parola — tu dovresti essere non solamente, un "libero", ma anche un "padrone".

Libero — ma da che cosa? Oh, di quante cose è facile liberarsi! Dal giogo della schiavitù, dalla sovranità, dall'aristocrazia dei principi, e dal dominio della concupiscenza e delle passioni: sì, persino l'impero della propria volontà, l'ostentazione, il capriccio, lo spirito di sacrificio, null'altro sono che "libertà" cioè liberazioni dal diritto di disporre di sé stessi, del proprio essere: l'impulso verso la libertà, come qualcosa di assoluto, degno del più alto prezzo, ci tolse la nostra, individualità. Quanto più io divento libero, tanto maggiori costrizioni mi premono da ogni lato e tanto più impotente mi sento.

Il non libero figlio delle selve non ha alcuna notizia ancora degli ostacoli che si attraversano da tutti i lati all'uomo civile; egli ritiene sé stesso più libero di questo! Nella misura in cui io conquisto la libertà, io creo a me stesso nuovi limiti e nuovi compiti. Se bene io abbia inventato le ferrovie, io sento tuttavia di esser debole, perché non posso trascorrer gli spazi aerei al pari dell' uccello; e quando ho sciolto un problema, la cui difficoltà angustiava il mio spirito, ecco affacciarsene mille altri, l'enigma dei quali m'impedisce di progredire, vela il mio sguardo, e mi fa sentir con dolore i confini della mia libertà. "Poi ché vi siete redenti dal peccato, diveniste i servi della giustizia".

I repubblicani, con tutta la lor vasta libertà, non diventano essi forse i servi della legge?

Quanto ardentemente desiderarono in ogni tempo i cuori cristiani "d'esser liberi", con quanto struggimento languirono nella brama d'esser redenti dai "ceppi di questa vita terrestre"; con quanta ansia essi spinsero i loro sguardi verso il paese della libertà! ("La Gerusalemme che sta in alto sopra di noi, è la libera, la madre di noi tutti". Gal. 4, 26).

Esser liberi da qualche cosa, altro non significa se non esserne sbarazzati o privi. "Egli è libero dal mal di capo" significa: egli se n'è liberato. "Egli è libero da questo o quel pregiudizio" importa: egli non l'ha mai avuto, oppure egli se n'è sbarazzato. Nel distacco da una cosa, noi adempiamo al precetto della libertà raccomandata dal Cristianesimo, ci facciamo puri dal peccato, (senza peccato): così l'empio è il senza Dio, l'immorale e il senza morale, ecc.

Libertà è la dottrina del Cristianesimo. "Voi, miei cari fratelli, siete chiamati alla libertà" (Perti, 1, 2, 16). "Dunque, parlate ed operate come debbono parlare e operare quelli che devono esser giudicati dalla legge della libertà" (Jacobi, 2, 12).

Dovremmo noi forse rinunciare alla libertà perché essa si manifesta per un ideale cristiano ? No, nulla deve andar perduto, né pur la libertà; ma essa deve diventar cosa nostra.

Quale differenza tra libertà e proprietà! Di molte cose è possibile liberarsi, ma non già di tutte: da molte cose si diviene libero, ma non da tutte. Nel suo interno, anche lo schiavo può esser libero: esteriormente egli lo può essere da molte cose, ma non da tutte. Dalla sferza, per esempio, o dal capriccio imperioso del padrone lo schiavo non può liberarsi. "La libertà non esiste che nel regno dei sogni!"

Per contro l'originalità, vale a dire l'essenza e la sostanza di me stesso, costituisce la individualità unica. Io sono libero dalla cosa di cui mi sono sbarazzato, sono invece proprietario delle cose che io ho in mio potere, o di ciò che posso. Mia proprietà io lo sono sempre in ogni incontro se io so possedere me stesso, e non mi do in balia degli altri. L'esser libero io non posso volerlo veramente, dacché io non posso né ottenerlo né crearlo. Io non posso che desiderarlo: posso aver la tendenza d'esser libero, non altro, ma infine ciò è un ideale, un fantasma.

Le catene della realtà si serrano intorno ai miei polsi facendone sgorgar il sangue ad ogni momento. Ma io rimango il signore di me stesso. Se sono schiavo d'un padrone io non penso che a me ed a ciò che mi può tornar utile; le sue percosse mi colpiscono; sì: io non sono libero da esse; ma io le sopporto per mio vantaggio, sia per ingannare il mio signore con la mia apparente pazienza, sia per non attirarmi con la mia ribellione un castigo peggiore. Ma siccome io non considero che me stesso ed il mio tornaconto, così io approfitterò della prima o della più favorevole occasione che mi si presenti per schiacciare il possessore di schiavi. Se io con ciò mi libero da lui e dalla sua sferza, ciò è un effetto del mio egoismo. Mi si obietterà forse che anche allo stato di schiavitù io era "libero", vale a dire ero tale "per me stesso internamente". Ma esser "liberi per sé stessi" non vale esser "liberi" in effetti, e "internamente" non corrisponde ad "esternamente". Invece "padrone di me stesso" io era del tutto, internamente ed esternamente. Dai martirî, dai colpi di sferza il mio corpo non è "libero" sotto il dominio d'un padrone crudele; ma pur sono le mie ossa che scricchiolano durante la tortura, le mie fibre che vibrano sotto i colpi, ed io gemo, perché il mio corpo geme. Se io gemo e tremo ciò significa che io sono ancora in possesso di me medesimo. La mia gamba non è libera dalle percosse del padrone, ma la gamba è mia, e da me inseparabile. Me la strappi e vedrà se egli possiede la mia gamba! Egli non stringerà in sua mano che il cadavere della mia gamba la quale sarà allora tanto poco mia quanto la carogna di un cane è ancora un cane; un cane ha un cuore che palpita, la carogna non ne ha più e per ciò cessa di esser un cane.

Coll'affermare che lo schiavo possa essere, non ostante tutto, internamente libero si pone soltanto un'affermazione inutile e volgare. perché chi vorrà mai asserire che un uomo sia sprovvisto di ogni libertà? Se io sono schiavo dei miei occhi, non posso perciò non esser libero da innumerevoli cose, p. e. dalla credenza in Giove, dal desiderio della gloria, ecc. perché adunque uno schiavo non potrebbe essere internamente libero da un modo di pensare, un cristiano dall'odio dei nemici? ecc. In tal caso egli è libero cristianamente, perché egli s'è liberato di ciò ch'è anticristiano; ma è egli libero in modo assoluto, per esempio, dalla superstizione cristiana, dal dolore corporale, e via dicendo? Del resto sembra che tutto ciò sia diretto più contro il nome che contro la sostanza della cosa. Ma è forse indifferente il nome, e non ha forse la parola reso scemi gli uomini? Se non che tra la libertà e la proprietà più lungo è il tratto che non quello rappresentato da una pura distinzione di parole.

Tutti chiedono la libertà, tutti ne invocano il Regno. O incantevole visione d'un "regno fiorente della libertà", d'un "libero genere umano" — chi non l'avrebbe sognata? Ebbene siano pur liberi gli uomini, in tutto liberi, esenti da ogni costrizione. Da ogni costrizione, è proprio vero? Ma non s'imporranno poi essi stessi una costrizione? "Oh sì, ma questa non è già una costrizione!" Siamo liberi dalle credenze religiose, dai rigorosi doveri della moralità, dall'inesorabilità della legge, da "quell'orribile equivoco!" Se non che, ditemi, da quali cose devono liberarsi, e da quali no?

Il bel sogno è svanito, e noi ci ridestiamo fregandoci gli occhi, guardando il volgare interruttore. "Da che cosa deve liberarsi l'uomo?" — Dalla cieca credulità, esclama taluno. Ma che! esclama un altro, ogni credenza è credulità cieca; gli uomini devono emanciparsi da ogni credenza. No, no, per l'amor di Dio — replica il primo —, non gettate da voi ogni credenza altrimenti scatenerete la tempesta della brutalità. Noi dobbiamo, dice un terzo, costituirci in repubblica, ed esser liberi da ogni padrone. Con ciò nulla si acquista, afferma un quarto; ché allora il nostro padrone sarà la "maggioranza dominante", fate piuttosto che ci liberiamo dalla trista disuguaglianza, — O disgraziata uguaglianza eccoti ritornare in campo! Era così bello il mio sogno d'un paradiso della libertà, ed ora l'impudenza e la sfrenatezza levano un'altra volta la loro voce selvaggia! Così si lamenta il primo e balza in piedi per sguainare la sua spada contro la libertà sconfinata. E in breve non sentiamo più altro che il cozzare delle armi dei nostri discorsi propugnatori di libertà.

L'istinto di libertà s'espresse un tempo nel desiderio d'una libertà determinata: l'uomo credente voleva esser libero ed indipendente. Da che cosa? Forse dalla fede? No, bensì dagli inquisitori della fede. La stessa cosa avviene oggi della libertà politica e civile. I borghesi vogliono esser liberi, non già dalla dominazione borghese, bensì dalla dominazione burocratica, dall'arbitrio dei principi, ecc. Il principe di Metternich asserì un giorno ch'egli aveva trovata una via atta a condurre, una volta per sempre, sulla traccia della vera libertà. Il conte di Provenza lasciò la Francia, allora appunto che questa s'accingeva a fondare il "regno della libertà", e disse: "la mia prigionia mi era divenuta insopportabile, io non avevo che una passione — quella della libertà —, io non pensavo che ad essa".

Il bisogno d'una determinata libertà presuppone sempre il concetto e il desiderio d'una nuova dominazione: allo stesso modo la rivoluzione poteva bensì ispirare ai "suoi difensori la inebriante convinzione di combattere per la libertà", ma in realtà creava una dominazione nuova: quella della legge.

Libertà cercate voi tutti : voi volete la libertà. Ma perché poi lesinate per un po' di più o di meno? La libertà non può essere che la libertà intera, illimitata: una briciola di libertà non può essere la libertà. Voi disperate che si possa ottenere tutta la libertà, la libertà sovra ogni altra cosa, anzi, voi ritenete per pazzia il solo desiderarla? Ebbene, in tal caso, cessate di dar la caccia a un fantasma, e rimanetevi dal perseguire l' inarrivabile.

"Si, ma non c'è cosa migliore della libertà!"

Ma che avete dunque quando possedete la libertà, o meglio — perché non intendo parlare delle vostre briciole — quando possedete la illimitata libertà? Allora voi vi sarete sbarazzati di tutto. Ma di tutto ciò che vi dà fastidio: e credo ci saranno poche cose nella vita che non vi diano molestia. E per amore di chi voi volete sbarazzarvene? Io credo bene per amor vostro, per la ragione che quelle cose vi sono d'ostacolo! Ma se qualche cosa non vi desse fastidio, anzi, all'opposto, vi fosse gradita come, per es., lo sguardo, dolce si, ma irresistibilmente imperioso della vostra amata, in tal caso voi non desiderereste di liberarvene. E perché? Per amor di voi stessi! Dunque voi prendete quale misura d'ogni cosa voi stessi. Voi non fate nessun conto della libertà quando la schiavitù, il "dolce servizio d'amore", vi torna gradita; e voi vi ripigliate all'occasione la vostra libertà, quando essa incomincia a piacervi nuovamente.

E perché mai non sapete avere il coraggio di fare di voi stessi il centro e il punto essenziale d'ogni cosa? perché sfiatarvi ad invocare la libertà il vostro sogno? Siete voi il vostro sogno? Non domandate consiglio ai vostri sogni, alle vostre idee, ai vostri pensieri, perché tutto ciò è teorica vana. Chiedete consiglio a voi stessi — ciò è più pratico: né l'essere uomini "pratici" vi dispiaccia.

Ma ecco che l'uno tende l'orecchio per sentire che cosa dirà il suo dio (perché naturalmente ciò che egli si raffigura sotto il nome di Dio, è il suo dio): l'altro vuol sapere che cosa richiedono in proposito il suo senso morale, la sua coscienza, il suo sentimento del dovere; un terzo pensa a ciò che dirà la gente, e cosi, quando ognuno ha interrogato il suo nume (poi che in complesso la gente forma una divinità non inferiore per nulla a quella soprannaturale, bensì più complessa: vox populi, vox Dei) egli si rimette alla volontà del suo padrone e non vuol saperne più di ciò ch'egli stesso amerebbe dire o fare.

Dunque rivolgetevi a voi stessi, anziché ai vostri Dei o ai vostri idoli. Traete fuori di voi ciò che sta in voi celato, traetelo fuori alla luce del sole, costringetelo a rivelarsi.

In qual modo uno pensi soltanto per impulso proprio senza curarsi di nessuna altra cosa, ci appare nella rappresentazione che il cristiano si fa del suo Dio. Egli agisce come gli piace. E l'uomo stolto, che potrebbe fare altrettanto, è costretto invece ad agire come "piace a Dio!"

Se si obbietta che Dio si regola secondo le leggi eterne, è lecito affermare ciò anche per l'uomo, poiché, io pure devo seguire le leggi della mia natura: la mia individualità mi è legge.

Ma basta eccitarvi a pensare a voi stessi per vedervi ridotti alla disperazione.

"Che cosa sono io?" si chiede ciascuno di voi. Un abisso di istinti senza norma e senza legge, di concupiscenze, di desideri, di passioni, un caos privo di luce.

Come potrei io, interrogando me stesso senza tener conto dei comandamenti divini o dei doveri che impone la morale, o della voce della ragione (la quale nel corso della storia, fondandosi sulle più amare esperienze, ha fatto assorgere a legge tutto ciò che v'ha di migliore e di più ragionevole) come potrei io, ripeto, ottenere da me stesso una giusta risposta? La mia passione mi suggerirebbe le cose più insensate. E così ognuno tiene sé stesso in conto d'un demonio; poiché se egli — parlando di chi non si cura di religione, ecc. — tenesse sé stesso soltanto in conto d'una bestia, egli troverebbe facilmente che la bestia, quantunque non segua che il suo proprio istinto, non suggerisce a sé stessa le cose più insensate, bensì sa trovare egregiamente ciò che le abbisogna. Ma l'abito del pensare religiosamente ha per tal modo imprigionato il nostro spirito, che noi abbiamo paura di vedere noi stessi in tutta la nostra nudità e naturalezza; essa ci ha talmente avviliti, che noi ci riteniamo macchiati dal peccato originale, e abbiamo noi stessi in conto di demoni nati. Naturalmente voi pensate sempre che la vostra vocazione richieda di operare ciò che è "bene", ciò che è morale, ciò che è giusto. Come potrebbe mai, quando interrogate voi stessi sul da farsi, uscirvi dai precordi la vostra vera voce, la voce, che segna la via del buono, del giusto, del vero ecc.? Come s'accorda Dio con Belial?

Ma che pensereste voi, se alcuno vi dicesse che queste affermazioni con cui vi si vuol far credere che voi dovete prestar ascolto alla voce di Dio, della coscienza, dei doveri, delle leggi ecc., sono chiacchiere delle quali vi hanno riempito il capo e il cuore, rendendovi folli? E se vi domandasse poi, in qual modo voi sapete con tanta sicurezza che la voce della natura è seduttrice? E se invece pretendesse da voi che invertiste le parti col ritenere per l'appunto la cosiddetta voce di Dio e della coscienza per opere diaboliche? Vi sono degli uomini così empi; in qual modo ve ne libererete? Non potrete richiamarvi ai vostri preti, ai vostri genitori, alla cosiddetta gente per bene, perché essi appunto da quei vostri contradditori vi saranno dipinti quali seduttori, traviatori e corruttori della gioventù, i quali seminano senza posa la mala erba del disprezzo di se stessi e dell'adorazione divina, per far insugherire i giovani cuori e render folli le giovani menti. Ma coloro soggiungeranno: Per amore di chi voi prendete cura dei comandamenti divini e degli altri? Voi credete di farlo solo per compiacere a Dio? Ma voi fate in realtà anche questo per amor vostro. Anche in questo dunque la vostra persona è innanzi a tutto, sì che ciascuno di voi può ben dire: per me io sono tutto e tutto opero per amor mio. Se poteste arrivare a tanto da comprendere chiaramente che le idee di Dio, dei comandamenti, ecc. non vi arrecano che danno, ch'essi vi scemano valore e vi conducono alla perdizione, oh per certo voi ve le caccereste di dosso e le respingereste lontano, così come i cristiani in altri tempi fecero d'Apollo e di Minerva, condannando la morale pagana. Essi posero, è vero, Cristo e Maria in luogo dei gentili, una morale cristiana al posto della pagana; ma lo fecero anch'essi per la salute delle loro anime, dunque per egoismo.

E mercè quell'egoismo, gli uomini poterono liberarsi dell'Olimpo pagano, sciogliersi da esso. L'individualità creò una nuova libertà; poiché l'individualità è la créatrice di tutto, allo stesso modo che la genialità (una specie determinata dell' individualità), che è sempre originalità, è riguardata da lungo tempo come la opératrice dei nuovi avvenimenti importanti nella storia mondiale.

Se è vero che tutti i vostri intenti sono diritti alla conquista della libertà, è vostro obbligo l'osservarne i precetti. Chi dev'esser libero? Tu, io, noi. Liberi da che cosa ? Da tutto che non sia io, tu, noi! Io sono adunque il nocciolo che, libero da tutti gli involucri, dalle cortecce che lo opprimono, dev'esser liberato. Che cosa rimane, quando io sia liberato da tutto ciò che non sia "io"? Io e null'altro che io. Ma a questo " io " astratto nulla può offrire la libertà. Che cosa abbia poi a succedere quando l'io sarà libero, la libertà non sa dire: allo stesso modo i nostri governi rilasciano i prigionieri, a detenzione finita, e senz'altro li abbandonano a sé stessi.

perché adunque, se si aspira alla libertà per amore dell'io, non fare di questo io il principio, il centro, il fine d'ogni cosa? Non valgo io più della libertà? Non son forse io che rendo libero me stesso, non sono forse io il primo? Anche schiavo, anche avvinto da mille catene, io esisto, e non soltanto come una cosa a venire, una speranza — quale è la libertà — ma come una cosa presente.

Considerate bene questo, e decidete se sulla vostra bandiera meglio vi giovi iscrivere il sogno della "libertà" oppure l'affermazione dell' "egoismo", della "individualità". La libertà suscita il vostro rancore contro tutto ciò che non rappresenta voi; l' "egoismo" vi chiama a gioire di voi stessi, a godere di voi stessi; la libertà è e sarà un "desiderio ardente", un rimpianto romantico una speranza cristiana in un di là; in un futuro:"individualità "è realtà la quale libera il vostro cammino da tutti gli ostacoli. Da ciò che non v' impaccia, voi non domanderete d'esser liberi, e quando qualche cosa incomincerà a darvi noia, ebbene sappiate ormai che dovete obbedienza più a voi stessi che non agli altri uomini.

La libertà insegna soltanto: sbarazzatevi, liberatevi da tutto ciò che vi dà molestia; essa non v'insegna a conoscere chi voi siete. Sbarazzatevi, sbarazzatevi, ecco la sua divisa, e voi accorrendo volenterosi a quel grido vi sbarazzate persino di voi stessi, del vostro essere, "rinnegate voi stessi". Invece l'individualismo vi richiama alla coscienza di voi stessi, esso vi dice: "tornate in voi." Sotto l'egida della libertà voi riuscite a sbarazzarvi di molte cose, ma molte cose nuove vi angustiano un altra volta: del diavolo vi siete liberati, ma il male è rimasto. Soltanto accettando l'individualismo voi vi liberate compiutamente d'ogni cosa, e non ritenete se non ciò che voi liberamente avete accettato per elezione o per vostro piacere. L'individualista è il libero nato, il libero per eccellenza; ma colui che si contenta a dirsi libero non è che un sognatore, un sentimentale.

Il primo è libero in origine poiché nulla riconosce all' infuori di sé stesso; egli non ha bisogno di rendersi libero perché sin dal principio rigetta tutto fuorché sé stesso, perché nulla egli tiene in maggior conto di sé stesso, in breve perché egli procede dal proprio "io" e al proprio "io" ritorna. Ancora fanciullo, già egli comincia a lavorare per svincolarsi da ogni pastoia. L'individualità fermenta nel piccolo egoista e gli procura la desiderata libertà.

Millenni di cultura hanno oscurato ai vostri occhi ciò che veramente siete, vi hanno fatto credere che siate non già egoisti, ma idealisti (uomini dabbene). Scuotete ciò dalle vostre spalle! Non andate in cerca della libertà, che soffoca miserevolmente quello che forma la vostra essenza nell'abnegazione, nella negazione di voi stessi; bensì ricercate invece il vostro "io", diventate egoisti. Che ciascuno di voi divenga un "io onnipotente". Riconoscete nuovamente voi stessi, riconoscete quello che siete realmente, e cacciate le vostre ipocrite aspirazioni, la vostra stolta mania di formarvi una natura diversa dalla vera. Aspirazioni ipocrite perché con tutto ciò voi siete rimasti altrettanti egoisti nel corso dei millenni; ma egoisti torpidi, assopiti, ingannatori di voi stessi, egoisti folli, eautontimorumeni, torturatori di voi stessi. Mai ancora una religione seppe far di meno delle promesse, si riferiscano queste al di là o al di qua; perché l'uomo è sempre in attesa della ricompensa, e nulla fa disinteressatamente. E allora che ne è  della massima "operare il bene per amor del bene"?

Come se anche qui, nella soddisfazione che si prova operando secondo quel precetto, non fosse contenuta la ricompensa! Sicché anche la stessa religione ha per fondamento il nostro egoismo e lo sfrutta; fa calcolo sulle nostre concupiscenze, e ne soffoca molte per amore d'una sola. E ciò è causa del fatto dell'egoismo tradito nel quale io non soddisfo me stesso, bensì uno de' miei desideri, per esempio la brama d'essere felice. La religione mi promette il "sommo bene" e per guadagnar questo io non fo più alcun caso degli altri miei appetiti e non penso a soddisfarli.

Tutto il vostro modo di pensare e d'operare è un egoismo non confessato, tacito e segreto. Ma siccome l'egoismo vostro è nascosto, non manifesto, non confessato e perciò inconsapevole, così esso cessa d'esser egoismo e diventa servaggio, schiavitù, rinnegazione di sé stessi; sì che voi siete egoisti, e rinnegate l'egoismo: siete e non siete. perché dove sembra che siate maggiormente egoisti, voi sapete coprire di obbrobrio e di disprezzo la parola "egoista".

La mia libertà di fronte agli altri io l'apprezzo nel grado in che essa mi rende padrone del mondo o mi dà modo di conquistarlo, avvenga poi ciò con la persuasione o con la preghiera o colla richiesta imperiosa o anche con l'ipocrisia, con l'inganno e così via. Poiché i mezzi che io adopero stanno in relazione con quello che io sono. Se sono debole non avrò a mia disposizione che mezzi deboli, ma che pure saranno sufficienti per conquistare una buona parte di mondo. Già perciò l' inganno, l'ipocrisia, la menzogna sembrano peggiori di quello che sono.

Chi mai non avrebbe creduto lecito l'inganno contro la polizia? Chi mai, di fronte allo sbirro, non avrebbe simulato una cieca e profonda devozione per nascondere qualche illegalità commessa? Chi non ha fatto ciò, ha fatto violenza a sé stesso; era un debole per coscienza. Io so che la mia libertà non è intera se non quando posso far valere la mia volontà su d'un altro (sia una cosa senza volontà, per esempio uno scoglio, od un essere volente, come un governo o un singolo): io rinnego la mia individualità se di fronte ad un altro io cedo e desisto, mi arrendo, o in una parola mi rassegno. Poiché altro e che io cangi la mia condotta, perché mi accorgo che non mi permette di raggiungere il mio fine; altro è che io stesso mi arrenda.

Intorno a un masso che mi si oppone io sono costretto ad aggirarmi sino a tanto che mi sarò procurata la polvere per farlo saltare; le leggi d'un popolo io procurerò d'eluderle sino a tanto che io potrò distruggerle. Se io non posso afferrare la luna, è questo un buon motivo perché essa debba essermi "sacra", una "Astarte"? Se io potessi afferrarti, t'afferrerei per bene, e se trovo un mezzo di salire sino a te, tu non mi incuterai paura! Oh incomprensibile, non sarai per me tale, se non sino a tanto che mi sarò procurata la forza di comprenderti, di dirti cosa mia. Io non rinunzio a possederti, bensì attendo a ciò il momento opportuno. Se per ora mi rassegno a nulla tentare contro di te cionondimeno io non rinuncio a pensarvi.

Gli uomini forti han fatto sempre cosi. Se i "rassegnati" avevano proclamato ed adorato qual loro signore un qualche potere inespugnabile, pretendendo adorazione da tutti pel loro idolo sopraggiungeva qualche figlio selvaggio della natura che non voleva saper di arrendersi e cacciava dal suo olimpo l'idolo adorato. Egli gridò al sole "arrestati" e fece si che la terra girasse: i "rassegnati" dovettero lasciar fare; egli rivolse la scure contro le querce sacre, e i "rassegnati" stupirono che un sacro foco non lo incenerisse; egli cacciò il papa dal soglio di Pietro, e i "rassegnati" non glie lo poterono impedire: egli atterrò il "malgoverno per grazia di Dio", e i "rassegnati" strillarono, ma poi finirono per tacere.

La mia libertà sarà perfetta solo quando sarà la mia forza; ma in virtù di questa io cesso d'esser un libero e divento un individualista. perché la libertà dei popoli è una "vana parola"? perché i popoli non hanno la forza; con un soffio del vivente "io" io atterro popoli, sia pure il soffio d'un Nerone, d'un imperatore cinese o d'un povero scrittorello. perché i Parlamenti invocano la libertà e si lasciano menar pel naso dai ministri? perché essi non hanno la forza dalla loro. La forza è una bella cosa ed è utile a molte cose; poiché con una manciata di forza si va più lontano che con un sacco di diritti. Voi anelate alla libertà? stolti! Procuratevi la forza e la libertà verrà da sé! Guardate un po': quelli che hanno la forza stanno al disopra della legge! Che ne sembra a voi, uomini della "legge"? voi siete senza gusto!

Da tutte le parti tuona il grido di "libertà". Ma si comprende poi che cosa significhi una libertà donata o imposta? Non si giunge a comprendere, in tutto il pieno senso della parola, che la libertà, in sostanza, é la liberazione di sé stessi, vale a dire, che io non posso godere più libertà di quella che da me stesso mi procuro.

Che vantaggio hanno le pecore da ciò che nessuno loro impedisca di parlare? Esse si accontentano di belare. Concedete a taluno, che è intimamente maomettano giudeo o cristiano, la licenza di parlare a suo modo; egli non saprà dirvi che delle cose molto limitate. Ma se altri vi tolgono la libertà, di parola, essi sanno apprezzare molto bene il vantaggio che da ciò viene a loro, poiché voi sareste forse in condizione di dire qualche cosa che recherebbe lor danno o scemerebbe loro rinomanza.

Se ciò non di meno vi concedono la libertà, fate conto che sono dei mariuoli che danno più di quello di che possono disporre. Essi non vi danno cioè del proprio, bensì della mercé rubata, vi danno la vostra stessa libertà, quella libertà che dovreste procurarvi da voi stessi; ed essi ve la danno, unicamente affinché voi non ve la prendiate, chiamando per giunta i ladri e gli ingannatori a renderne conto.

Nella loro astuzia essi sanno molto bene che la libertà concessa non è libertà, e che sol quella è libertà, che da sé stesso l'uomo ottiene, cioè la libertà dell' "egoista". La libertà donata abbassa le vele non appena alla tempesta sottentra la bonaccia: ed ha sempre bisogno d'esser gonfiata dolcemente e mediocremente.

Qui sta la differenza tra liberazione ed emancipazione. Coloro che oggidì "stanno all'opposizione" anelano e gridano alla "emancipazione". I principi devono proclamare "maturi" i loro popoli cioè emanciparli. Ma se vi conducete da uomini maturi, voi siete tali senza quella dichiarazione; se la vostra condotta non è assennata, non meritate d'essere liberi e non diverreste maturi nonostante mille dichiarazioni. I Greci, giunti alla maturità, espulsero i loro tiranni, e il figlio, giunto alla maggior età, si rende indipendente dal padre. Se coloro avessero pazientato sino a tanto che i loro tiranni gli avessero proclamati maturi essi attenderebbero ancora. Un padre accorto caccerà da casa il figlio che non vuole saper d'esser maggiorenne, e farà bene.

L'emancipato non è nulla di più d'un liberato, d'un "libertinus": un cane che trascina seco un pezzo della sua catena, uno schiavo in veste di libertà, come l'asino nella pelle del leone. Gli ebrei emancipati non sono per nulla divenuti migliori in sé stessi, soltanto si sentono ora meno a disagio di prima. È ben vero che per alleggerire il loro stato si richiedeva qualche cosa di più che non ciò che il cristianesimo poteva consentire, perché liberar gli ebrei esso non poteva senza essere illogico. Ma, emancipato o no, l'ebreo resta ebreo; poiché ognuno che non si è affrancato per propria forza, null'altro è che un emancipato.

Lo stato protestante può certamente emancipare i cattolici; ma poi che questi non s'affrancano da sé stessi, rimangono cattolici.

Dell'interesse e del disinteresse abbiamo già parlato più sopra. Gli amici della libertà declamano contro l'interesse perché nelle proprie aspirazioni religiose verso la libertà non sanno affrancarsi dalla sublime idea della rinnegazione del proprio io. L'egoismo è fatto segno all'ira dei liberali, per ciò che l'egoista si occupa d'una cosa, non per cosa in sé, ma pel solo vantaggio che può arrecargli; la cosa deve servire a lui. Pensare egoisticamente significa non già attribuire a cosa alcuna un valore proprio o "assoluto", bensì ricercarne il valore nei rapporti della cosa col soggetto. Tra i caratteri più ripugnanti dell'egoismo è uso annoverare anche l'abito dello studio non per amor della scienza ma per il guadagno, il quale importa la più spudorata profanazione della scienza. Se non che per che cosa esiste la scienza se non deve essere sfruttata? Se taluno non sa adoperarla in miglior modo che per guadagnar il pane quotidiano, il suo egoismo sarà certamente molto gretto, e si rivelerà assai circoscritto: ma il gridare per ciò solo alla profanazione della scienza è opera da ossessi.

Essendo il Cristianesimo incapace di far valere il singolo quale singolo, e non considerandolo che nel suo grado di dipendente, esso si rivela per ciò appunto una teoria sociale, una teoria del vivere in comune, tanto dell'uomo in comunione con Dio, quanto degli uomini tra di loro. Ecco perché tutto ciò che sapeva d' "individuale" doveva essere coperto d'infamia: interessi, capricci, caratteri individuali, amor proprio, ecc. L'opinione del cristiano ha per così dire macchiato d'infamia molti vocaboli d'onorevole significato; perché non li dovremmo ripristinare in onore? Così, per es., molte parole tedesche, che in origine significavano "scherzo, spasso, svago", per opera del Cristianesimo, che non intendeva scherzi, perdettero la significazione originaria e la tramutarono in quella di "ingiuria, scherno, insolenza".

Il nostro linguaggio s'è adattato quasi interamente alle necessità del pensiero cristiano, e la coscienza universale è ancora troppo cristiana per non doversi arretrare spaventata dinanzi a tutto ciò che non è cristiano come dinanzi a qualche cosa di mostruoso o malvagio. Per questo anche l'interesse si trova a gran disagio.

In senso cristiano "io ho un interesse" vuol dire a un depresso: Io non guardo ad altro che all'utile che una cosa può arrecare ai miei sensi. Ma la sensualità è forse tutta la mia individualità? Sono io in me stesso quando mi do in braccio alla sensualità? Seguo io forse me stesso, la mia vocazione, col secondare la mia sensualità? Io appartengo tutto a me stesso solo allorquando nessuno, non già la sola sensualità, ma né meno altri (Dio, uomini, autorità, legge, Stato, Chiesa) m'ha in suo potere; ciò che giova a me, che appartiene a me stesso, che mi conviene, ecco quello che ricerca il mio interesse. Del resto ogni momento s'è obbligati a credere nell'interesse, tanto vilipeso, come in una forza che abbatte tutti gli ostacoli.

Nella tornata del 10 febbraio 1844 Welcker propone una mozione sull'indipendenza dei giudici, esponendo in un diffuso discorso che i giudici soggetti ad essere trasferiti, licenziati, sostituiti, che in breve quei membri d'una Corte di giustizia che dalla Amministrazione possono venir menomati e lesi nella loro autorità, perdono tutta la stima e la fiducia del popolo. Tutta la classe dei giudici — esclama Welcker — è umiliata da codesto stato di dipendenza in cui si trova. In buon volgare ciò significa che i giudici trovano maggior tornaconto a giudicare secondo il desiderio dei ministri, che non secondo giustizia. Come toglier di mezzo questo stato di cose? Forse col rinfacciare ai giudici l'obbrobrio della loro venalità, confidando che per ciò si convertirono e porranno la giustizia al disopra del loro interesse? No, il popolo non è capace d'una fiducia così fantastica, poiché esso sente che l'interesse è più forse d'ogni altro motivo. Si lascino pur dunque i giudici al loro posto, per quanto vi sia modo di smascherarli per egoisti, ma si faccia sì che essi più non vedano il loro egoismo incoraggiato dalla venalità della legge, e li si pongano in condizione di indipendenza dal Governo sì che col promuovere una sentenza conforme a giustizia, essi non abbiano più a temere pei propri interessi e possano cosi unire a un largo compenso la stima dei loro concittadini.

Sicchè Welcker e i cittadini badesi si ritengono sicuri solo quando si possa fare assegnamento sull'egoismo. E sta bene; ma allora che si deve pensare di tutte le belle frasi di disinteresse ecc. che uscirono dalla loro bocca?

Altri sono i rapporti che io ho con una causa per la quale mi adopero nel mio interesse, altri quelli che io ho con una causa cui servo disinteressatamente. Si potrebbero distinguere gli uni dagli altri caratteristicamente così: verso la prima io posso peccare o esser colpevole, mentre l'altra, col mio operare io non posso che perderla: il mio sarebbe dunque non un peccato, ma una imprudenza. Sotto tutti e due gli aspetti può considerarsi la libertà dei commerci, la quale talvolta viene riguardata quale una libertà che a seconda dei casi può essere concessa o tolta; tale altra quale una libertà che deve essere rispettata in ogni contingenza.

Se io non do importanza ad una cosa per sé stessa, e se non la desidero per sé stessa, ciò avviene sia perché essa mi e utile, sia perché essa mi è di diletto: come per esempio le ostriche pel loro sapore gradito. Non dovranno quindi servire di mezzo all'egoista tutte le cose delle quali egli è il fine ultimo e dovrà egli invece darsi a proteggere una cosa che nulla può servirgli, come ad esempio il proletariato o lo Stato?

L' individualismo racchiude in se stesso tutto ciò che è proprio dell' individuo, e richiama in onore ciò che il pensare e il linguaggio cristiano han fatto apparire infame. Ma l'individualismo non ha alcuna misura esteriore; non è un'idea come la libertà, la moralità, l'umanità, ecc. Esso non è che il segno di chi lo possiede.


— L'INDIVIDUO PROPRIETARIO.

Potrò io conquistar me stesso e ciò che è mio per opera del liberalismo?

Chi è il "prossimo" pel liberalismo? L'uomo! Sii uomo (e tu sei tale) e il liberale ti chiamerà fratello. Egli non si curerà affatto delle tue opinioni personali, dei tuoi gusti o de' tuoi capricci privati purché scorga in te l' uomo.

Ma poiché egli poco o nulla si cura di ciò che tu sei privatamente, anzi se vuole essere coerente ai suoi principi non dà a questo alcuna importanza, egli non vede se non quel che tu sei in astratto. Con altre parole: egli non vede in te il tuo essere individuale, bensì la specie; non Pietro o Paolo, ma unicamente l'uomo; non però l'uomo reale, l'Unico, bensì l'essenza o il concetto dell'uomo; non l'individuo in carne ed ossa, sì invece lo spettro-uomo.

Se tu fossi semplicemente Pietro, non saresti suo uguale, perché egli e Paolo e non Pietro. Quale uomo soltanto tu sei uguale a lui. E siccome sotto forma di Pietro tu non esisti per lui — se davvero egli sia un liberale e non già un egoista incosciente — cosi egli si è reso molto facile l' "amore fraterno del prossimo" egli non ama in te Pietro, cui non conosce e non vuole conoscere bensì l'uomo.

Lo scorgere in te ed in me null'altro che l'uomo, si chiama esagerare sopra misura la teorica cristiana secondo la quale gli uomini non rappresentano che un concetto (per esempio, il concetto di esseri chiamati alla beatitudine eterna, ecc.).

Il Cristianesimo propriamente detto ci accomuna ancora sotto un concetto universale: "Noi siamo i figli d'Iddio" e lo "spirito di Dio ci agita" (Rom. 8, 14). Non tutti però possono vantarsi d'essere figli di Dio, poiché lo stesso spirito che ci rende testimonianza che noi siamo i figli d'Iddio, ci rivela anche quali siano i "figli del demonio" (Rom. 8, 14). Ora un uomo, per esser figlio di Dio, non deve esser figlio anche del demonio: la figliolanza di Dio esclude dunque certi determinati uomini. Per contro a noi, per essere figli dell'uomo, cioè uomini, basta far parte della specie umana, esser altrettanti esemplari d'una medesima specie.

Il mio io individuale non deve importare a te, che sei buon liberale, poiché ciò è per me faccenda privata; ti basta che siamo figli della stessa madre, cioè della specie umana; quale figlio dell'uomo io sono uguale a te.

Che cosa sono io adunque per te? Forse l'essere in carne ed ossa: che tu vedi? Tutt'altro. Questo io vivente, con i suoi pensieri, le sue risoluzioni e le sue passioni, rappresenta ai tuoi occhi una "cosa particolare" della quale "te nulla importa, una "cosa a sé". Quale "cosa per te" io non esisto che come concetto, — concetto della specie, uomo, del quale è affatto indifferente se ha nome Pietro o Paolo. Tu non vedi in me qualcosa che esiste in realtà, bensì qualcosa d'irreale, uno spettro, in una parola: l'Uomo.

Nel corso dei secoli dell'êra cristiana noi proclamammo nostro eguale le genti più diverse, però sempre in proporzione del grado di spirito che da loro ci attendevano, accogliendo per esempio quelli il cui spirito sentiva il bisogno d'una redenzione, poi tutti quelli che erano animati dallo spirito di rettitudine, finalmente tutti coloro che avevano spirito e faccia umani. Cosi variò il principio dell' "eguaglianza".

L'eguaglianza, intesa quale parità degli spiriti umani, comprende certo tutti gli uomini; chi infatti  potrebbe  negare  che  noi  uomini  possediamo  uno  spirito  umano,  o  meglio  che  non possediamo nessun altro spirito all'infuori dell'umano?

Ma con ciò abbiamo noi forse avanzato il Cristianesimo pur d'un solo passo? Un tempo si esigeva da noi che avessimo uno spirito divino, ora ci si richiede uno spirito umano; ma se il divino non giungeva ad esprimere compiutamente la nostra essenza, come potrà lo spirito umano rivelare tutto quello che noi siamo? Feurbach, per esempio, crede che, umanizzando ciò ch'è divino, si sia trovato la verità. No, se Dio ci ha torturati, l'uomo può bene infiggerci torture ancor maggiori. A dirla in breve, il fatto d'esser uomini non è di alcuna rilevanza per noi se anche non vi si aggiunga qualche carattere che ci distingua da tutti gli altri e che in proprio ci appartenga. Tra l'altro io sono anche uomo, allo stesso modo che sono anche un essere vivente, un animale, o un europeo, un berlinese, ecc. Ma se alcuno volesse tenermi in pregio soltanto perché sono uomo o perché sono berlinese, egli mi dimostrerebbe una stima assai indifferente. E perché? perché egli non stimerebbe che una sola delle mie qualità, ma non già la mia individualità.

La stessa cosa è in rapporto allo spirito. Uno spirito cristiano, retto, può, esser una proprietà da me acquisita, ma io non sono quello spirito; quello spirito appartiene a me, non io a lui.

Nel liberalismo noi vediamo adunque soltanto la continuazione del disprezzo cristiano per l'io. Invece di prendermi tal quale io mi sono, si pretende di considerar soltanto le mie qualità, (159) le mie proprietà, e si conclude con me un'alleanza onesta; si cerca quello che io posseggo, non già quello che io sono. Il cristiano si attiene al mio spirito, il liberale alla mia umanità.

Ma se lo spirito, che vien riguardato non quale una proprietà dell'io vivente, ma come l'io stesso propriamente detto, è uno spettro, anche l'uomo del quale non si vuol riconoscere l'individualità ma l'io astratto, non è altro che uno spettro, un'idea, un concetto.

Perciò il liberale s'aggira entro la medesima cerchia in cui si avvolge il cristiano, perché lo spirito dell' umanesimo, vale a dire l'uomo, alberga in te, come alberga in te lo spirito di Cristo. Siccome esso è in te come un secondo io (quantunque questo secondo io sia anche il migliore), esso per te resta confinato in un di là, quale un' ideale, e tu devi aspirare ad essere interamente l'uomo. Un intento altrettanto infruttuoso quanto quello del cristiano di diventare interamente uno spirito beato!

Ora si può affermare che, proclamando l'uomo il liberalismo altro non ha fatto che recare all'ultima conseguenza il principio del Cristianesimo, il quale sin dalle sue origini non s'era proposto altro fine se non quello di attuare il concetto del "vero uomo". Da ciò proviene l'illusione che il cristianesimo assegni un valore immenso all'io, come parrebbe rivelarsi dal dogma dell'immortalità, dalla cura delle anime, ecc. No, tale valore il Cristianesimo lo attribuisce all'uomo solamente. L'uomo solo è immortale; io sono tale perché uomo. Infatti il Cristianesimo doveva insegnare che tutti sono uguali dinanzi a Dio come il liberalismo insegna che tutti sono uguali dinanzi alla legge. Ma l'una e l'altra eguaglianza si riferiscono non all'individuo sì all'uomo. Io sono immortale come uomo. In uno stesso senso si dice che il re — come tale — non muore. Muore Luigi, ma il re rimane. Del pari io muoio — ma il mio spirito, l'uomo, rimane. E per identificarmi interamente coll'uomo si è trovato e affermato il principio che io devo farmi conforme alla vera essenza della specie (p. es. Marx negli Annali franco-germanici, pag. 197).

La religione "umana" non è che l'ultima forma della religione cristiana. Il liberalismo è religione in quanto separa il mio essere da me stesso e lo pone al disopra di me, perché innalza l'uomo alla stessa guisa che le religioni innalzano i loro dei o idoli, perché di ciò ch'è mio egli fa qualcosa di trascendentale, e, in generale, perché delle mie qualità, della mia proprietà, egli fa una cosa straniera, un'essenza, in breve perché mi assegna un posto tra gli uomini e con ciò mi attribuisce una predestinazione. Ma anche nella forma il liberalismo si manifesta quale religione allorquando egli vuole che in codesto "ente supremo", l'uomo, si abbia una credenza "religiosa" una credenza che a suo tempo si chiarirà animata e pervasa di fanatico zelo. Uno zelo che sarà invincibile, (Br. Bauer, La questione giudaica, pag. 61). Ma siccome il liberalismo è religione umana, quegli che professa il liberalismo è tollerante verso coloro che professano un'altra religione (la cattolica, l'ebraica, ecc.), allo stesso modo che Federigo il Grande era tollerante verso chiunque adempiva ai suoi doveri di suddito, lasciando poi libero ognuno di acquistarsi la beatitudine eterna come meglio credesse. Questa religione si vuole ormai innalzata al grado di religione universale, separandola da tutte le altre che si considerano quali follie private, ma che si tollerano per la loro inconcludenza.

Si può chiamarla la "religione dello Stato", la religione dello Stato libero, non già nel senso, sin qui accettato, ch'essa sia la religione preferita o privilegiata dello Stato, bensì perché essa è la religione che lo Stato libero è, non solo autorizzato, ma bensì obbligato a pretendere rispettata e osservata da ognuno dei suoi, sia poi questi privatamente ebreo o cristiano. Essa rende cioè gli stessi servigi allo Stato che la pietà figliale rende alla famiglia. Perché l'esistenza della famiglia possa esser riconosciuta da ogni singolo dei suoi membri, è necessario che i vincoli del sangue gli sieno sacri e ch'egli nutra un senso di pietà, di rispetto verso quei vincoli, si che ogni consanguineo diventi per lui cosa sacra. E così pure ad ogni membro d'una comunità la comunità stessa dev'esser sacra, e quel concetto che per lo Stato è il supremo dev'esser il supremo anche per lui.

Ma quale concetto è il supremo per lo Stato? Certamente questo: formare una comunità realmente umana, una società nella quale possa esser accolto ognuno che sia veramente uomo, cioè che non sia inumano. Per quanto grande possa esser la tolleranza di fronte al barbaro, di fronte al non-uomo essa viene meno. Eppure se quel barbaro è un uomo, anche l'inumano è tale. Si: ma quantunque l' inumano sia anch'esso un uomo, lo Stato cionondimeno lo respinge: cioè lo chiude in un carcere; di compagno dello Stato lo muta in compagno di prigione (o in compagno di manicomio o d'ospedale secondo i principi del comunismo).

Dire che cosa sia all'incirca un essere antiumano non è difficile: è un essere che non corrisponde all'idea dell'uomo. La logica chiamerebbe questa sentenza un controsenso. Si può infatti esprimere un giudizio sì fatto: che vi possa essere un uomo che non sia uomo, se non si muove dall'ipotesi che il concetto dell'uomo possa esser separato dalla sua esistenza, e la essenza di esso dal fenomeno? Si dice: questo è apparentemente un uomo ma non è tale in realtà.

Questo "giudizio-controsenso" gli uomini l'hanno espresso pel corso di molti secoli! E — cosa singolare — in tutto quel corso di tempo non ebbero esistenza che esseri antiumani. Quale singolo individuo avrebbe corrisposto al concetto ideale? Il Cristianesimo riconosce un solo "uomo", e quest'uno, Cristo, è, per converso, un anti-uomo, cioè un uomo sovrumano, un Dio. Veramente "uomo" sarebbe dunque solo il non-uomo. Ma uomini che non sono uomini che altro sono se non fantasmi? Ma se quest' umanità che fino ad ora era esclusivamente un ideale io la faccio un attributo mio; se, in altri termini, io costringo l'uomo a non rappresentare più che il mio modo di essere sì che ciò che io compio debba dirsi umano non già perché risponde alla nozione astratta dell'uomo, ma perché io — essere concreto e individuale — lo compio; potrà dirsi ancora che io sia un non-uomo? Io sono realmente l'uomo e il non-uomo in pari tempo; poiché io sono uomo e in pari tempo più che uomo; o, in altre parole, io sono il soggetto di questa individualità che a me solo appartiene.

Si doveva venire a tale da non pretendere da noi d'esser cristiani, bensì d'esser "uomini". Poiché se bene non c'era concesso di diventare veramente cristiani sì che restavamo pur sempre "poveri peccatori" (essendo il cristiano un ideale irraggiungibile), il controsenso non si rendeva tuttavia così manifesto, e l'illusione era più facile di quello che sia ora, che da noi, quantunque uomini che operiamo umanamente (ne in altro modo potremmo), si esige che dobbiamo essere uomini secondo un'astratta significazione e un ideal tipo — cioè uomini veri.

I nostri Stati odierni, tuttodì servi della religione, impongono ancora vari obblighi (per esempio la pietà) che ad essi, a dir il vero, nulla dovrebbero importare, ma, in complesso, non rinnegano il lor significato col voler esser riguardati quali società umane delle quali ogni uomo, come tale, può far parte anche quando goda di minori privilegi che non gli altri. La maggior parte d'essi ammettono i seguaci di tutte le sètte religiose, e tutte le accolgono senza distinzione di razza e di nazionalità: così, per un esempio ebrei, tedeschi, mori possono diventare cittadini francesi.

Lo Stato adunque nell'accoglierli riguarda in essi l'uomo unicamente. La Chiesa, essendo una società di credenti, non potrebbe accogliere nel proprio seno ogni uomo; lo Stato, quale una società d' uomini, lo può.

Ma allorquando lo Stato avrà recato alle ultime conseguenze il suo principio di non ammettere nei suoi membri se non la lor sola qualità di uomini (oggi persino gli americani del Nord esigono dai cittadini che abbiano una religione, per lo meno quella della rettitudine), egli si sarà scavato la propria fossa. Mentre egli riterrà di possedere nei suoi null'altro che uomini, questi nel frattempo saranno diventati altrettanti egoisti, ciascuno dei quali sfrutterà lo Stato a seconda dei propri bisogni. L'egoista sarà la rovina della società umana; poiché gli egoisti non avranno più tra di loro rapporto di uomo ad uomo, bensì agiranno ciascuno per fini propri: individui contro individui, ciascuno dei quali rappresenta per gli altri qualche cosa, non pur di distinto, ma di opposto.

Tener conto della nostra umanità, significa per lo Stato tener conto della nostra "moralità".

Vedere in sé stesso l' uomo ed operare umanamente nei reciproci rapporti, si chiama aver una condotta morale. E una cosa che corrisponde perfettamente all' "amore spirituale" del Cristianesimo. Se io vedo in te 1’uomo, come vedo l'uomo in me, io avrò cura di te come l'avrei di me stesso, perché noi non rappresentiamo altro che l'assioma matematico A == C e B = C, quindi A = B. In altri termini: io non rappresento che un uomo e tu del pari; dunque io e tu rappresentiamo la medesima cosa. La moralità non si confà con l'egoismo, poiché essa non ammette l'io bensì soltanto l'uomo ch'io rappresento. Ma se lo Stato è una società d' uomini, e non un'associazione d'altrettanti esseri ognuno dei quali non si cura che di sé stesso, è manifesto ch'esso non può esistere senza la moralità e che deve tenerne conto.

Perciò noi due lo Stato ed io — siamo nemici. A me, che rappresento l'egoismo, nulla importa del bene della "società umana"; nulla io le sacrifico, ne d'altro mi curo che di adoperarla ai miei fini; e per poterla meglio sfruttare io la faccio mia proprietà, mia creatura; io la distruggo e metto al suo posto una società d'egoisti.

Così lo Stato mi si rivela nemico col pretendere, prima, da me che io sia uomo (la qual cosa presuppone che io possa anche non esser tale e ch'esso possi avermi in concetto di "inumano"),

poi con l'impormi di nulla fare di ciò che potrebbe metter in pericolo la sua esistenza, quasi che questa mi debba essere sacra. Per lo Stato io non devo essere un egoista, bensì un uomo di retto pensare, cioè un uomo morale. Col che egli viene in somma a pretendere di ridurmi all'impotenza.

Uno Stato tale — non già quello tuttora esistente, bensì uno Stato futuro, ancor da creare — è l'ideale del liberalismo progressista. Questo sogna una "vera società umana", nella quale ogni uomo possa trovare posto. Il liberalismo intende ad attuare il concetto dell'uomo, a creare cioè un mondo, che sarebbe il mondo umano o la società umana universale (comunista). Si disse: la Chiesa non poteva prendere in considerazione che lo "spirito", ma lo Stato deve considerare l'uomo tutto intero (HESS, Triarchia, pag. 76). Ma l'uomo non è forse anche spirito? Il nucleo dello Stato è l'uomo, concetto astratto, e lo Stato non è che una società d'uomini. Il mondo creato dal credente (dallo spirito religioso) si chiama Chiesa, quello creato dall'uomo (spirito umano) si chiama Stato. Ebbene, questo non è il mio mondo. Io non opero mai umanamente "in astratto", bensì a seconda delle mie qualità; le mie azioni differiscono dalle azioni di qualsiasi altra persona, e appunto per questa differenza il mio modo d'operare è cosa mia. La parte umana che v'ha in esso è come tale un'astrazione, cioè spirito. Bruno Bauer (Questione ebrea, p. 87) conferma che la verità della critica è la verità ultima ricercata dal Cristianesimo, cioè "l'uomo". Egli dice: "La storia del mondo cristiano è la storia della suprema lotta per la verità, poiché in essa — e soltanto in essa — si tratta della conquista dell'ultima che è anche la prima verità: la conquista dell'uomo e della libertà".

Ebbene, accettiamo questa conquista: e supponiamo pure che l'uomo sia il risultato finale, lungamente ricercato dall'indagine cristiana e in genere dalle aspirazioni religiose e ideali degli uomini. Sia: ma chi è l'uomo? Io sono tale! L'uomo, fine e risultato del Cristianesimo, è, quale individuo, il principio della storia moderna che non è già una storia di uomini in astratto, ma di individui.

L'uomo — si oppone — rappresenta l'universale. Ebbene, se così è, l'individuo e l'egoismo saranno il vero universale poiché tutti sono egoisti e non v'ha alcuno che non debba posporre gli altri a se stesso. L'ebreo non è interamente egoista, perché egli si dà ancora a Jeova: il cristiano nemmeno perché egli vive della grazia divina ed è ad essa soggetto. Tanto l'ebreo quanto il cristiano non soddisfano che a certi loro bisogni, non già a sé stessi: ciascun di essi è egoista a mezzo, mezzo uomo e mezzo ebreo, mezzo uomo e mezzo cristiano, mezzo padrone e mezzo schiavo. Per questo ebrei e cristiani si escludono reciprocamente a metà, cioè s'affratellano quali uomini, ma si escludono poi quali schiavi perché entrambi sono schiavi di due padroni diversi. Se potessero essere egoisti perfetti essi si escluderebbero interamente. Il male non è già nell'escludersi, ma nell'escludersi solo a metà. Per contro Bauer pensa che ebrei e cristiani non possono considerarsi quali uomini se non allorquando abbiano ripudiati i caratteri particolari che li distinguono e riconosciuta quale lor propria l'essenza generale dell'uomo. A suo modo di vedere l'errore degli ebrei e dei cristiani sta in ciò che essi vogliono essere ed avere alcunché di proprio, anziché contentarsi d'esser uomini e d'aspirare a cose umane, ad ottenere cioè i "diritti universali dell'uomo". Egli ritiene che il loro errore fondamentale consista nella credenza ch'essi sono "privilegiati", che possiedono delle "prerogative"; in generale dunque nella loro credenza in un privilegio. Ed egli oppone loro il diritto universale dell'uomo.

Il diritto dell'uomo!

L'uomo è l'uomo in genere e tale è ognuno in quanto è uomo. Ora ognuno dovrebbe possedere gli eterni diritti dell'uomo e nella perfetta società democratica o — come si dovrebbe chiamarla più acconciamente — antropocratica, ne dovrebbe godere, secondo l'opinione dei comunisti. Ma solo io ho tutto quello che so procurarmi; quale uomo non ho nulla. Si vorrebbe che all'uomo convergessero tutte le cose buone, solamente perché egli ha il nome di uomo. Ma io proclamerò me stesso il mio io, non già l'ente uomo.

L'uomo per me non è che una mia qualità (o proprietà) come l'esser maschio o femmina. Gli antichi ponevano l'ideale umano nel dimostrarsi maschio in tutto il senso della parola; nella "virtus" o vale a dire nella virilità. Che cosa si dovrebbe pensare di una donna la quale non volesse essere perfettamente donna? Esser tale non è possibile a tutte, e per molte di loro questa sarebbe una mèta inarrivabile. "Femmina" ciascuna è invece già per sua natura: la femminilità è la sua qualità, ed essa non ha bisogno di ricercare la vera femminilità perché già la possiede. Io sono uomo allo stesso modo che l'astro è astro. Allo stesso modo che sarebbe ridevole il pretendere dalla terra che essa fosse un "vero astro", altrettanto è vano il ricercare da me ch'io sia un vero uomo.

Quando Fichte dice: l' "io è tutto" parrebbe ch'egli affermasse cosa in armonia con la mia tesi. Ma non già l'io è tutto, bensì l'io distrugge tutto — soltanto l'io che dissolve sé stesso, l'io finito è il vero io. Fichte parla dell' io assoluto, ma io parlo di me, dell'io passeggero.

Facilmente potrebbe credersi che uomo ed io significhino la stessa cosa: e pure si vede, per esempio in Feuerbach, che l'espressione "uomo" designa l'io assoluto, la specie, e non l'io singolo passeggero. Egoismo ed umanità dovrebbero significare la stessa cosa: e pure a detta di Feuerbach il singolo (l'individuo) non può innalzarsi che al disopra delle barriere, della sua individualità, non al disopra delle leggi, delle disposizioni positive degli esseri della sua specie (Essenza del cristianesimo, II, pag. 400). Ma la specie non è nulla; e se il singolo si innalza al disopra delle barriere della sua individualità, egli ciò fa quale singolo, egli esiste perché si innalza, egli esiste solo perché non rimane fermo; altrimenti egli non sarebbe o sarebbe morto. L'uomo non è che un ideale; la specie non è che un'immagine. Essere un uomo non vuol già dire raggiungere l'ideale dell'uomo, bensì rappresentare sé stesso, un uomo, un singolo. Il mio compito non deve già consistere nel ricercare in qual modo io rappresenti l'universalmente umano, bensì come io sappia soddisfare a me stesso. Io sono la mia specie: sono senza nome, senza leggi, senza modelli, ecc.

Potrà accadere che di me stesso io riesca a fare ben poca cosa; ma questo poco è tutto, e vale assai più di quello che potrebbesi ottenere da me per la forza degli altri con la disciplina della morale, della religione, delle leggi, dello Stato, ecc. Molto meglio — poiché siamo a parlare del meglio — un fanciullo male educato, che non uno precocemente saggio; meglio un uomo che fa ogni cosa di mala voglia, che non uno che si sobbarca a qualunque più vil carico di buon grado. Al male educato ed al caparbio è ancora aperta la via di poter formare se stessi secondo la propria volontà, mentre il prematuramente saggio e l'accomodevole son già predestinati ad esser foggiati secondo le esigenze della " specie ". La specie non rappresenta forse per essi la "destinazione" o la "vocazione" ? V'ha forse divario nella sostanza in ciò che per raggiungere l'ideale io rivolga i pensieri all'umanità o che li rivolga a Dio o a Cristo? Tutto al più si potrà dire: quell'ideale è più incolore di questo. Come ogni singolo rappresenta la natura tutta, così egli rappresenta anche tutta la specie.

Ciò che io sono determina indubbiamente tutto quello che io faccio, penso, ecc.; in breve ogni manifestazione della mia persona. L'ebreo, per esempio, non può volere che in tal modo o in tal'altro, non può insomma rivelarsi che per quello che è; il cristiano non può manifestarsi che cristianamente. Se ti fosse possibile di non esser nient'altro che ebreo o cristiano, tu certamente non ti manifesteresti che giudaicamente o cristianamente; ma poiché ciò non è possibile, così con tutto il tuo buon volere tu rimani un egoista, cioè un peccatore in rapporto a quel tuo concetto. Siccome l'egoismo fa capolino da per tutto, così si è ricercato un concetto più perfetto, il quale potesse esprimere interamente tutto quello che tu sei. E il più perfetto di tali concetti parve essere l' "uomo". Quale ebreo tu sei troppo poco, e il giudaismo non è il tuo fine; l'essere greci o tedeschi non basta: sii un uomo e tu avrai tutto; poiché tu devi riporre nell'umano ogni tua cura.

Ormai io so quello che devo fare, e posso accingermi a comporre il catechismo nuovo. Anche qui il soggetto è nuovamente sottomesso al predicato, il singolo alla generalità; un'altra volta è assicurato il dominio di un'idea, un'altra volta sono poste le basi di una nuova religione. Questo é un progresso nel campo religioso, e specialmente nel campo cristiano, ma non un passo di più oltre quel campo.

Un tale passo condurrebbe all'indicibile. Per l'io il misero linguaggio non ha alcuna parola, e la parola, il "logos", applicato all'io è semplicemente un'espressione vana.

Si ricerca la mia essenza, e la si ritrova nell' uomo.

Io ripugno a me stesso; sento paura e schifo di me stesso; non basto a me stesso; non faccio abbastanza per me stesso. Da tali sentimenti scaturisce la dissoluzione dell'io, l'autocritica. Incominciata con la rinnegazione dell'io, la religiosità si chiude colla autocritica assoluta.

Io sono ossesso e voglio liberarmi dallo "spirito maligno". In qual modo ci riuscirò? Io commetterò a cuor leggero il peccato più tristo agli occhi d'un buon cristiano, il peccato contro lo spirito santo. "Chi bestemmia contro lo spirito santo, non sarà perdonato in eterno, e si renderà meritevole di dannazione senza fine". Io non domando perdono e non temo il giudizio universale.

L'uomo è l'ultimo spirito maligno, l'ultimo tristo fantasma, il più terribile degli ingannatori, il più astuto mentitore dal viso falsamente ingenuo, il padre della menzogna.

Rivolgendosi contro le pretese ed i concetti del presente, l'egoista traduce inesorabilmente in atto la più smisurata profanazione. Nulla gli è sacro !

Sarebbe stolto affermare che non vi sia alcun potere superiore al mio. Tuttavia la posizione che io assumerò di fronte a quel potere superiore sarà ben differente da quella che si assumeva nelle età religiose. Io sarò l'avversario d'ogni potere superiore, mentre la religione c'insegnava a cercar d'amicarcelo con l'adulazione e con l'umiliazione.

Il profanatore adoprerà le sue forze contro ogni timor di Dio, poiché il timor di Dio lo costringerebbe a venerare ogni cosa tenuta per sacra. Che sia Dio o l'uomo che nell'uomo-Dio esercita il potere sacro, che noi alla santità di Dio o a quella dell'uomo rivolgiamo i nostri omaggi, ciò nulla importa all'essenza del timor di Dio: l'uomo divenuto essere supremo sarà oggetto della stessa venerazione che il Dio: entrambi ricercheranno da noi e ci imporranno timore e rispetto.

Il vero timore di Dio da lungo tempo è scosso: un ateismo più o meno cosciente, riconoscibile per un diffuso anticlericalismo, è divenuto involontariamente di moda. Però quello che fu tolto a Dio fu aggiunto all'uomo, e la potenza dell' umanità s'accrebbe in proporzione di ciò che veniva a mancare alla religione; " l'uomo " è il Dio dell'oggi e il timore dell'uomo è sottentrato al timor di Dio.

Ma siccome l' uomo non rappresenta che un altro "ente supremo", così ne consegue che l'ente supremo ha subito una semplice modificazione e che il timore dell'uomo non è che il timor di Dio sotto mutata forma.

I nostri atei sono gente pia.

Se nei cosiddetti tempi feudali noi riconoscevamo il possesso di ogni cosa alla grazia divina, nel periodo liberale noi siamo vassalli dell'uomo. Il padrone, il mediatore, lo spirito era Dio prima, ora è l'uomo. Sotto questo triplice rapporto il vassallaggio è mutato. Poiché oggidì in primo luogo noi abbiamo in feudo dall'uomo onnipotente la nostra potenza, la quale, provenendo da un essere più elevato, non si chiama potenza o forza, bensì "diritto"; abbiamo poi in feudo dall'uomo la nostra condizione nel mondo, imperocché egli, il mediatore, è l'arbitro dei nostri rapporti, i quali per conseguenza non possono essere che umani: infine teniamo da lui in feudo noi stessi, cioè il nostro proprio valore, o quello che noi siamo, nel mondo. Poiché nulla siamo, se esso, l'uomo, non risiede in noi, e se noi non siamo " umani ". — La potenza è dell'uomo, il mondo e dell'uomo, l'io e dell' uomo.

Ma non dipende forse da me il dichiarare me stesso quale mio proprio signore, mio proprio mediatore, mio proprio dominatore? Dunque io dovrò dire cosi:

La mia potenza è la mia proprietà.

La mia potenza mi concede la proprietà.

Io sono la mia potenza, per essa io sono proprietà di me stesso


— LA MIA POTENZA.

Il diritto è lo spirito della società. Se la società possiede una volontà, essa è per l'appunto il diritto. Ma poi che la società non esiste che in virtù del dominio che essa esercita sui singoli, cosi il diritto non altro è che la sua volontà dominatrice. Aristotele definisce la giustizia "il profitto della società". Ogni diritto esistente è un diritto che mi si "concede", di cui, cioè, mi si permette di godere. Ma sono io nel diritto per ciò solo che questo mi è riconosciuto da tutti? E che altro è il diritto che io ottengo nello Stato, nella società, se non un diritto di straniero? Se un imbecille riconosce il mio diritto, io ne diffiderò per ciò solo. Ma se anche me lo riconoscesse una persona assennata per questo soltanto io non potrei ancor dire di possederlo. Che io sia o non sia nel mio diritto, ciò non dipende dall'apprezzamento dello stolto o del saggio.

Ciononostante sinora noi abbiamo sempre mirato a questo. Noi cerchiamo giustizia e a tale fine ci rivolgiamo ai tribunali. A quale? A un tribunale regio, papale, popolare ecc. Ma può un tribunale istituto dal sultano giudicare diversamente che con le norme di giustizia imposte dal sultano? Può esso dar ragione a me contraddicendo alle leggi del sultano ? Può esso riconoscermi quale un diritto l' "alto tradimento", se il sultano non l'ha per tale? Può la censura riconoscermi il diritto d'esprimere liberalmente la mia opinione, se il sultano non ne vuol sapere? E che cosa vado a cercare allora presso quel tribunale? Io vado in cerca della giustizia del sultano, non del mio diritto; vado quindi in cerca d'un diritto straniero. Io non troverò giustizia se non quando tale diritto s'accorderà col mio.

Lo Stato non permette che tra uomini si venga a vie di fatto; egli si oppone al duello. Egli punisce ogni rissa, per ciò che nessuno dei contendenti invoca l'intervento della polizia, ma lascia impunito un capo famiglia il quale picchi di santa ragione un bambino. La famiglia è autorizzata a far ciò, e per suo mandato il padre; io quale singolo non lo sono.

La "Gazzetta di Voss" ci presenta "lo stato secondo il diritto". Qui ogni cosa dev'essere definita dal giudice e da una magistratura. Il tribunale superiore di censura costituisce agli occhi della "Gazzetta" la magistratura che giudica secondo il diritto. Ma secondo quale diritto? Il diritto della censura. Per menar buone le sentenze di quel giudizio, bisogna riconoscere un diritto alla censura. Ma prescindendo da ciò, si ritiene generalmente che un tale giudizio offra una protezione. Certo, protezione contro gli errori d' un singolo censore. Esso non fa che assicurare il legislatore dalla falsa interpretazione della sua volontà, ma rende con ciò tanto più dura la sua legge contro coloro che scrivono.

Io solo posso giudicare se ho ragione o torto. Gli altri al più possono dire se ammettono o negano il mio diritto, o se ciò che è diritto per me è tale anche per loro.

Ma consideriamo per un istante la cosa anche sotto un altro aspetto. Io sono obbligato a venerare la legge del sultano nei domini di costui, la legge popolare nelle repubbliche, il diritto canonico nelle comunità cattoliche e così via.

Io devo sottomettermi a quelle leggi, ritenerle sacre. Il "senso del diritto" è cosi radicato nel popolo, che i più fervidi rivoluzionari dei nostri giorni vogliono assoggettarci ad un nuovo "sacro diritto", al "diritto della società", al "diritto dell' umanità", al "diritto di tutti", ecc. Il "diritto di tutti" — per essi — deve precedere al mio. Certo che, essendo diritto di tutti, dovrebbe essere anche il mio, poiché dei tutti faccio parte ancor io; ma perché quella appunto è un diritto di altri, io non mi sento di doverlo sostenere. Io non difenderò il diritto di tutti, bensì il diritto mio: ciascuno pensi poi a difendere il diritto proprio da sé. Il vero diritto di tutti (p. e. quello di mangiare) è quello che è diritto d'ogni singolo. Se ciascuno saprà difendere il proprio diritto, ne conseguirà che anche l'universale lo difenderà e saprà conservarselo; ma non è punto necessario che ciascuno pensi per tutti, e che si adoperi a difender il diritto proprio quale diritto di tutti.

Ma i riformatori socialisti predicano il "diritto sociale", in virtù del quale il singolo diventa lo schiavo della società, e non possiede altri diritti all'infuori di quelli che la società gli conferisce, a patto, beninteso, che egli viva a seconda delle leggi della società, cioè da cittadino o da compagno ben pensante. Ma che io sia "ben pensante" in uno Stato retto a dispotismo o in una "società" socialista o comunista, ciò non toglie che la illegalità permanga, poiché in entrambi i casi io non godo di diritti miei propri ma di diritti che mi sono concessi.

Nelle questioni di diritto ci si domanda sempre : "Che o chi ci dà il diritto di fare la tal cosa?" E si risponde : "Dio, l'amore, la ragione, la natura, l'umanità, ecc.". Si dovrebbe rispondere invece: la tua propria volontà, la tua propria forza.

Il comunismo, il quale ammette che gli uomini "per natura hanno uguali diritti", contraddice la propria tesi col negare poi qualsiasi diritto naturale agli uomini. Esso non vuole, per un esempio, riconoscere che i genitori "per natura" possiedano dei diritti rispetto ai figli, o questi di fronte ai genitori; e cosi abolisce la famiglia. La natura non conferisce ai genitori e ai fratelli diritto alcuno. Del resto questa tesi rivoluzionaria, chiamata il principio di Babeuf, si fonda su d'un concetto religioso, dunque falso. Chi mai, se non si trova sotto l'influsso del pensiero religioso, parlerà di diritto? Non è forse il "diritto" un concetto religioso, cioè qualcosa di sacro? "La parità di diritti" proclamata dalla rivoluzione, non è che un'altra forma della " eguaglianza cristiana -, della "eguaglianza dei fratelli, o dei figli di Dio", ecc., in breve è la "fraternité". Tutte le questioni riferentesi al diritto meritano d'esser giudicate con le parole dello Schiller:

"Da lungo tempo per odorare mi servo del naso: poss'io "provare d'aver un diritto su di esso?"

Quando la rivoluzione fece dell'eguaglianza un diritto, essa penetrò nel terreno sacro. Da ciò ebbe inizio la lotta per i "sacri, inalienabili diritti umani". Contro gli eterni diritti dell'uomo si fa valere con non minore fondamento "il diritto acquisito" alle "cose esistenti"; si ha cosi un diritto contro un altro diritto; e naturalmente il diritto dell'uno è un torto agli occhi del partito contrario. E questa la lotta per il diritto che dura dalla rivoluzione.

Voi volete esser riconosciuti nel vostro "diritto" pur essendo contro gli altri. Ciò non è possibile, poiché per gli altri sarete sempre dalla parte del torto. Se ciò non fosse, gli altri non sarebbero vostri avversari. Essi vi daranno costantemente torto. Ma il vostro diritto è forse di fronte a quello degli altri un diritto più alto, più grande, più potente? Niente affatto! Il vostro diritto non è più potente, perché voi non siete più forti. Hanno i sudditi cinesi un diritto alla libertà? Donatela loro e v'accorgerete d'aver commesso un error grossolano: essi non sapranno approfittarne, e perciò non vi hanno diritto. I fanciulli non hanno nessun diritto alla maggior età, perché non sono maggiorenni, cioè perché sono fanciulli. I popoli che si lasciano trattare da minorenni non hanno alcun diritto alla maggior età: quando cesseranno d'esser minorenni, essi s'acquisteranno tale diritto. Ciò significa semplicemente: Tu hai diritto di essere ciò che puoi essere. Io derivo ogni diritto, ogni facoltà da me stesso; io sono autorizzato a fare tutto ciò che posso fare. Io sono autorizzato ad abbattere Giove, Jehova, Dio, se sono in potere di farlo; se non posso, quegli dei avranno sempre potere e vantaggio contro di me, ed io dinanzi alla loro forza e alla loro legge mi curverò tremante d'impotente "timor di Dio", osserverò i loro comandamenti, e crederò d'aver diritto di fare solo tutto ciò che potrò secondo la loro legge. Non altrimenti i doganieri russi ritengon d'esser nel loro diritto allorquando tirano contro coloro che tentano di varcare i confini: essi uccidono in forza d'una "autorità superiore", in forza della "legge". Ma io sono licenziato da me stesso a uccidere, se io stesso non me lo proibisco, se io stesso non indietreggio dinanzi all'idea dell'assassinio come dinanzi a un "torto". Questo pensiero è illustrato dalla poesia del "Chamisso". "La valle degli assassini", nella quale il canuto assassino indiano sa strappare un senso di venerazione al bianco, di cui egli ha trucidato i compagni. Quello soltanto io non ho diritto di fare che non faccio per libera determinazione della mia volontà.

A me spetta stabilire se con me è il diritto: fuor di me esso non esiste. Giusta è ogni cosa che tale a me sembra. Gli altri penseranno diversamente: ma questo è affar loro, non mio, si difendano come sanno. E se una qualunque cosa non sembrasse giusta all'universale, ma tale sembrasse a me, io mi riderei dall'universale. Cosi adopera ciascuno secondo che sa apprezzare se stesso: ciascuno secondo il grado del suo egoismo, poiché la forza vince la ragione, ed è bene che così sia.

Essendo io "per natura uomo", io ho un uguale diritto al godimento di tutti i beni — dice Babeuf. Non dovrebbe egli dir anche press'a poco cosi: essendo io "per natura" un principe primogenito, io ho diritto ad un trono? I diritti umani ed i diritti acquisiti s'incontrano nello stesso punto, cioè nella "natura" che mi conferisce un diritto: quello alla nascita, quello all'eredità, ecc. La frase: Io son nato uomo, non ha diverso significato da quest'altra: Io son nato principe reale. L'uomo della natura possiede solamente un diritto naturale. Ma la natura non può darmi un diritto, non può farmi atto a cangiar ciò cui il mio potere non giunge. Se il principe di sangue reale si colloca al disopra degli altri suoi coetanei, si ha in questo già un fatto che gli assicura un privilegio: se poi gli altri approvano e riconoscono tale privilegio, si ha allora un altro fatto che li rende meritevoli di esser sudditi.

E sempre a me estraneo il diritto che mi conferisce Dio o il popolo dacché non son io che me l'attribuisco.

I comunisti dicono: un lavoro uguale dà diritto agli uomini ad un'uguale somma di godimenti. Prima s'era agitata la questione se il "virtuoso" non dovesse essere "felice" sulla terra" E gli ebrei accettarono questa massima: "sii virtuoso — dissero — affinché tu goda il bene sulla terra". No, l'uguale lavoro non ti da alcun diritto; sola l'attitudine a godere ti autorizza al godimento. Se tu godi, tu sei autorizzato a godere. Ma se hai lavorato e ti lasci mancare il godimento, tua colpa e tuo danno.

Se voi sapete procacciarvi un godimento, esso diviene un vostro diritto, se lo desiderate solamente, senza osare di prendervelo, esso resterà sempre uno dei diritti acquisiti di coloro che sono privilegiati a fruirne. Esso è il loro diritto, come diventerebbe il vostro, se sapeste acquistarlo.

Viva è la lotta pel "diritto della proprietà". I comunisti affermano: "la terra appartiene per diritto a coloro che la coltivano, i frutti a coloro che li producono". Io credo invece ch'essa appartenga a chi sa pigliarsela, o a chi, possedendola, non se ne lascia spogliare. Chi si appropria la terra ha diritto di possederla. E questo il "diritto egoistico"; "piace così a me, dunque la ragione è dalla mia parte".

Inteso altrimenti il diritto ha, come si dice, "un naso di cera". La tigre che m'assalisce ha diritto di farlo, come io di ucciderla. Io non difendo il mio diritto contro la tigre, difendo me stesso.

Il diritto umano si riduce dunque sempre a quella facoltà che gli uomini si concedono reciprocamente. Se si concede ai neonati il diritto dell'esistenza, essi l'acquistano; se non viene loro concesso, come presso gli Spartani e gli antichi Romani, essi non l'avranno. Poiché conferire o concedere può soltanto la società, essi non possono da sé prenderlo o rinunziarvi. Mi si obbietterà che il diritto all'esistenza era pei neonati un diritto naturale: ebbene, gli Spartani si rifiutavano di riconoscerlo. E così quel diritto rimaneva disconosciuto, del pari  che disconosciuto era il diritto di pretendere che le fiere cui venivano dati in pasto avessero a rispettare la loro vita.

Si parla tanto del diritto innato! Or bene, quale è il diritto nato con me?

Il diritto di diventar padrone d'un maggiorasco, d'ereditare un trono, di godere d'una educazione principesca, oppure — se io sono il nato di povera gente — d'usufruire della scuola libera, d'esser vestito a spese dei ricchi, e finalmente di guadagnarmi un tozzo di pane nelle miniere carbonifere o negli opifici? Non sono questi altrettanti diritti innati, trasmessimi dai genitori colla nascita? Voi siete d'avviso opposto; voi credete che essi usurpino il nome di "innati", e appunto a favore dei veri diritti innati li volete abolire. Per provare il vostro asserto, voi risalire alle cose più semplici e sostenete che tutti per nascita sono uguali cioè uomini. Io concedo volentieri che tutti nascono uomini, e che in ciò i neonati sono uguali tra loro. Ma perché sono tali? Unicamente perché non sanno in altro modo manifestar la loro attività se non per dimostrare che sono figli dell' uomo; piccoli uomini nudi e crudi. Ma con ciò differiscono appunto da coloro che han saputo già far qualche cosa, e che non sono più "i figli degli uomini" bensì — i figli della propria creazione..

Questi ultimi posseggono assai più che i diritti innati: essi hanno i diritti acquisiti. Quale contrasto, quale campo aperto alla lotta. La lotta dei diritti innati e dei diritti acquisiti. Richiamatevi pure, se vi talenta, ai vostri diritti innati: noi non mancheremo di opporvi i nostri, che ci siamo acquistati. Cosi voi come noi stiamo sul terreno del diritto; ciascuno dei due partiti difende un "diritto" contro l'altro; l'uno il diritto naturale, l'altro il diritto ch'egli seppe procacciarsi.

Ma restando tuttavia sul terreno del diritto, voi pretendete anche d'aver ragione.

Il vostro avversario non può darvi il vostro diritto, egli non ha potere di rendervi giustizia. Chi ha la forza — ha il diritto: se non avete quella, non avrete né pur quésto. E tanto difficile a procurarsi questa sapienza? Guardate i potenti; considerate il loro modo di condursi? Naturalmente noi non intendiamo parlare che della Cina e del Giappone. Provatevi un po' voi, Cinesi e Giapponesi, a dar torto a chi è potente, e vedrete se non vi s'aprirà il carcere. Se volete aver ragione del potente, non avete che un mezzo: la violenza. Se a questo mezzo non vi appigliate, null'altro potrete che stringer in silenzio le pugna, o cader vittima della vostra loquacità imprudente.

In breve, se voi non interrogaste i Cinesi e Giapponesi sulla questione del diritto, e principalmente del diritto "innato", voi non avreste bisogno di interrogarli a proposito dei diritti acquisiti.

Voi v'arretrate dinanzi agli altri, quasi scorgeste accanto ad essi il fantasma del diritto, combattente al loro fianco, come al fianco degli eroi le divinità d'Omero. E che fate voi? Gettate forse l'asta? No, voi vi prosternate al fantasma per cercar di trarlo dalla vostra parte, affinché combatta con voi: voi tentate di propiziarvelo.

Altri direbbe semplicemente: Voglio io ciò che vuole il mio avversario? "No". Ebbene, allora militino in suo favore mille diavoli o mille dei, non io mi rimarrò per questo dal dargli battaglia!

Lo stato del diritto vagheggiato dalla Gazzetta di Voss vuole che gli impiegati non possano venire rimossi dall'amministrazione ma solo dal giudice. Vana illusione! Se una legge stabilisce che un impiegato, colto in stato d'ubriachezza, dovesse perdere il suo impiego il giudice dovrebbe condannarlo sulla base di testimonianze, ecc. In breve il legislatore dovrebbe specificare ad una ad una tutte le ragioni le quali traggono seco la perdita dell'officio (p. es.: chi ride in faccia a un suo superiore, chi non va tutte le domeniche in chiesa, chi non si presenta una volta al mese al sacramento dell'eucaristia, chi ha contratto dei debiti, chi frequenta cattive compagnie, chi non dimostra risolutezza in certi incontri, ecc., deve essere rimosso dall'officio suo). Il legislatore potrebbe anzi lasciare che un giurì d'onore stabilisce queste cose: il giudice non avrebbe che ad accertare se l'impiegato si sia "reso colpevole" di quelle "contravvenzioni" ed a prova raggiunta decretare la sua rimozione di "diritto".

Il giudice è perduto se si scosta dalla lettera della legge. perché in tal caso egli non ha più che un'opinione, come ogni altro e se egli non si attiene che a questa, la sua cessa dall'esser una attribuzione ufficiale; come giudice egli è obbligato a giudicare secondo la legge. In tal caso preferisco gli antichi Parlamenti di Francia, i quali volevano esaminare di volta in volta le questioni di diritto e ne facevano registrare le decisioni. Essi almeno giudicavano secondo i propri concetti del diritto e non s'abbassavano ad essere semplici macchine del legislatore; sebbene quali giudici dovessero essere macchine in ogni modo — macchine di sé stessi.

Si dice che la punizione sia il diritto del delinquente. Ma anche l'impunità è il suo diritto. Se la sua impresa gli riesce, è giusto ch'egli ne tragga vantaggio, come e giusto che ne abbia pena se essa fallisce.

Avrai sonni più o meno tranquilli, secondo che più o meno morbido è il letto che ti sei preparato. Se taluno si getta temerariamente in mezzo ai pericoli, e vi perisce, noi diremo: bene gli sta, egli l'ha voluto. Ma s'egli poté superare i pericoli, se cioè la sua forza l'ha fatto vincere, egli avrà ragione, ai nostri occhi. Se un bambino si trastulla con un coltello e si ferisce, bene gli sta; ma se non si ferisce, ha ragione.

È giusto che il delinquente soffra, perché ha arrischiato qualcosa, perché ha corso il pericolo, conoscendone le conseguenze! Ma la pena che noi gli minacciamo è il nostro diritto, non il suo. Il nostro diritto reagisce contro il suo; ed egli ha torto quando noi siamo più forti di lui.

"Ma ciò che costituisce il diritto" — ci si oppone — "trova la sua espressione nella legge".

Qualunque sia la legge, aggiungono, essa dev'essere rispettata dai buoni cittadini. Cosi si esalta il sentimento della legalità della vecchia Inghilterra. A ciò ben s'addice la parola d'Euripide: "Noi serviamo agli Dei, quali che essi si siano". La legge sopra ogni cosa. Iddio sopra ogni cosa, ecco il principio cui oggi siamo giunti.

Noi ci diamo faccenda per distinguere la legge dall'arbitrio, dal comando, dal decreto, con l'affermare che la legge procede da una autorità riconosciuta. Tuttavia una legge che regola le azioni umane (la legge etica, la legge dello Stato, ecc.) è sempre la manifestazione d'una volontà, dunque un comando.

Se io stesso mi imponessi una legge, essa sarebbe un mio comando, al quale, a un dato momento, potrei ricusare obbedienza. Taluno può dichiarare, è vero, ciò che è disposto a tollerare, costituendo in tal modo una legge che vieta tutto il rimanente sotto pena di considerare come suoi nemici i trasgressori di quel divieto. Ma alle mie azioni nessuno deve comandare, a nessuno deve esser lecito di prescrivermi il modo d'agire e d'impormi così le sue leggi. Io devo consentire bensì ch'egli mi riguardi per suo nemico, non però che mi tratti secondo il piacer suo come se io fossi sua creatura e come se la sua ragione o il suo capriccio anche irragionevole fossero una norma per me.

Gli Stati non durano che sino a tanto che son retti da una volontà dominante la quale è confusa con la lor propria. La legge presuppone l'obbedienza. A che ti giovano le tue leggi, se nessuno le osserva; a che i tuoi comandi, se nessuno li eseguisce? Lo Stato non può rinunziare alla sua pretesa di determinare le volontà dei singoli, di contare e speculare su di esse. Per lo Stato è al tutto necessario che nessuno abbia una volontà propria; se taluno l'avesse, lo Stato dovrebbe cacciarlo. Se tutti avessero una volontà propria, lo Stato cesserebbe d'esistere. Lo Stato non si può in fatti immaginare senza il dominio e senza la schiavitù poiché esso deve voler essere il padrone di tutti i cittadini e questa sua volontà si chiama la volontà di stato.

Chi per resistere deve far assegnamento sulla mancanza di volontà da parte degli altri, diventa una macchina: allo stesso modo il padrone è un meccanismo creato dallo schiavo. Col cessare della soggezione cesserebbe anche il dominio.

La volontà mia propria è la rovina dello Stato; per ciò da questo vien chiamata volontà arbitraria. La volontà individuale e lo Stato sono potenze mortalmente nemiche l' una all'altra, e tra di esse non è possibile una "pace perpetua". Sino a tanto che lo Stato esisterà, esso dovrà rappresentarsi la volontà del singolo, cioè del suo eterno avversario, come alcunché d'irragionevole, e di malvagio; e sino a tanto che il singolo accetterà per buono questo concetto, tal giudizio sarà giusto, indiscutibile.

Ogni Stato significa dispotismo, sia poi il despota uno solo o siano molti, o anche tutti, come c'immaginiamo che accada in una repubblica. Allora avverrà che la legge decretata di volta in volta, per la manifesta volontà dell'universale, divenga legge per il singolo, alla quale egli sarà tenuto a prestar obbedienza. Anche se immaginiamo il caso che ogni singolo abbia espressa un'uguale volontà, sì che si abbia una manifestazione perfetta della volontà complessiva, la cosa, per questo solo, non cangerà d'aspetto. Non resterei io forse legalo anche per l'avvenire alla volontà espressa ieri? La mia volontà dunque s'irrigidirebbe, acquisterebbe una stabilità fastidiosa! La mia creatura, cioè, diventerebbe la mia signora. Ma io, il creatore, sarei impedito di oltre svolgere la volontà mia. perché ieri fui un pazzo, dovrei continuare ad esser tale per sempre. Di modo che nello Stato, nella miglior ipotesi — si potrebbe anche dire nella peggiore — io sarei lo schiavo di me stesso. perché ieri ho voluto, sarei oggi un essere privo di volontà; ieri libero, oggi costretto.

Come impedir ciò? Unicamente col non riconoscere alcun dovere, col non legarsi o col non lasciarsi legare. Se io non ho alcun dovere, non devo conoscere alcuna legge.

"Ma mi si legherà con la forza ". La mia volontà nessuno può legarla, e io avrò diritto sempre di respingere ciò che non mi conviene.

Ma sarebbe una universale rovina il concedere a ciascuno di far ciò che meglio gli aggrada!" Ma chi vi dice che ciascuno possa far tutto ? Non sei tu al mondo, e non puoi tu impedire che ti sia fatto ciò che non t'aggrada? sappi difenderti, e nessuno ti farà del male. Chi vuole sprezzare la tua volontà sarà tuo nemico. Comportati contro di lui da nemico. Se dietro a te sta in tua difesa qualche milione d'individui, voi rappresenterete una forza immensa e otterrete facilmente vittoria. Ma pur imponendovi al vostro avversario per la vostra forza, nondimeno voi non sarete per lui un'autorità sacrosanta, salvo ch'egli sia un brigante o un ladrone. Egli non vi deve né rispetto né considerazione, benché sia costretto a difender sé stesso contro il prevalere delle vostre forze.

Noi siamo soliti a classificare gli Stati secondo il vario modo con cui è ordinata la "suprema potestà".

Se essa è di spettanza d'un solo avremo la monarchia, se di tutti, la democrazia, ecc. Dunque la suprema potestà! Ma potestà contro chi? contro il singolo e la sua volontà. Lo Stato stesso esercita una potestà, il singolo non può né deve esercitarla. Questo contegno dello Stato è violenza, e la sua potestà esso la chiama diritto, quella degli altri a crimine ". Crimine è adunque il potere del singolo: e soltanto per mezzo di crimini il singolo spezza la potestà dello Stato ove egli ritenga che lo Stato non é superiore a lui, bensì egli allo Stato.

Ora io potrei (voi forse ne ridereste), consigliarvi paternamente di non pronunciar leggi atte ad intralciare lo sviluppo, l'attività, l'opera creativa di me stesso. Io non vi darò questo consiglio, poiché già voi non lo sapreste seguire e io perderei tutto l'utile che mi riprometto dalla cosa. A voi nulla io chiedo e quand'anco di alcunché vi ricercassi, voi continuereste ad essere dei legislatori implacabili; chiedervi di non esser tali, sarebbe come volere che il corvo canti o che il ladrone si rimanga dallo spogliare i viandanti. Piuttosto domando a coloro che vogliono essere egoisti che cosa sembra loro più conforme ai lor fini: l'accettare leggi da voi e rispettarle, o il dimostrarsi ribelli e negar l'obbedienza.

La gente timorata ama darsi a credere che le leggi non dovrebbero prescrivere se non ciò che nei sentimento dei popolo è considerato come giusto ed equo. Ma che cosa importa a me di ciò che ha valore pel popolo e tra il popolo? Il popolo sarà forse avverso a coloro che bestemmiano Dio; ed ecco che si farà una legge contro la bestemmia. Ma per questo forse io non dovrei bestemmiare? Questa legge potrà essere ai miei occhi qualche cosa di più che un ordine? Sarei curioso di saperlo!

Unicamente dall'assioma che ogni diritto ed ogni potere spetta al popolo, sono sorte tutte le forme di governo. Poiché tutti si richiamano al popolo: tanto il despota, quanto il presidente d'una repubblica agiscono e imperano in "nome dello Stato". Essi sono in possesso della "potestà dello Stato": nulla importa poi che il popolo (il quale rappresenta il complesso di tutti i singoli, oppure alcuni suoi rappresentanti o pochi soltanto (come nei governi aristocratici), o infine uno solo (come nelle monarchie), eserciti la "potestà di Stato". Sempre l'universale soverchia il singolo, e possiede una potestà "legittima" alla quale si dà nome di diritto.

Dinanzi alla santità dello Stato, il singolo non è altro che un vaso vile, nel quale appariranno mescolate insieme la "tracotanza, la malvagità, il vezzo di schernire e di calunniare, la frivolità, ecc.," non appena egli protesterà di non dover riconoscere la santità dello Stato."

L'alterigia religiosa dei servi dello Stato ha in serbo delle pene graziose per "insolenza" irreligiosa.

Se il governo mostra di voler punire ogni atto dello spirito indipendente contro lo Stato, ecco che si fanno innanzi i liberali e dicono: lo scherzo, la satira, le arguzie, l'umorismo, ecc., dovrebbero poter manifestarsi liberamente: il genio dev'essere libero. Dunque non ogni singolo individuo, ma il genio soltanto deve essere libero. In tal caso con pieno diritto lo Stato, o in nome suo il governo, oppone: Chi non è con me, è contro di me. Gli scherzi, le arguzie, ecc., furono sempre la causa della rovina dello Stato. Quelle manifestazioni non sono innocue. E poi dove finisce lo scherzo innocuo e dove comincia lo scherzo pericoloso?

I moderati dinanzi a tale domanda si mostrano assai impacciati e si riducono ad esprimere il voto che lo Stato (il governo) si mostri meno sensibile, meno suscettibile, e a supplicarlo di non vedere negli scherzi "innocui" un'intenzione malvagia, e di essere un po' più tollerante.

Una suscettibilità esagerata è certamente indizio di debolezza, e l'evitarla potrà essere una virtù lodevolissima; ma in tempi di guerra non si deve risparmiare nessuno, e ciò che in condizioni normali può esser tollerato, deve esser proibito quando invece si sia proclamato lo stato d'assedio.

Siccome i liberali ben pensanti sanno ciò, essi si affrettano a dichiarare che "il popolo essendo devoto" é assurdo temer pericoli. Ma il governo sarà più prudente e non si accontenterà a questo.

Esso conosce troppo bene l'arte di adescare gli uomini con belle parole e non presterà fede a quelle affermazioni.

Ma bisogna pure avere un posto dove trastullarci: si è bambini; la gioventù non conosce troppi ritegni.

Ed ecco che tutta la questione viene a ridursi a questo campo di trastullo, e si domanda qualche ora di libera ricreazione. Si domanda soltanto che lo Stato sia un padre non troppo indulgente, dia al popolo qualche processione di asini, qualche festa carnevalesca, come quella che nel Medio Evo la stessa Chiesa permetteva. Ma i tempi in cui ciò poteva avvenire senza pericoli sono passati. Oggi i fanciulli che si trovano per qualche ora all'aperto, lontani dalla verga, non vogliono più saperne di rientrare nel loro chiuso.

Ormai l'aria aperta non è più il complemento della clausura, non è più una ricreazione, un'antitesi, un aut-aut. In breve lo Stato non può più tollerar nulla o è costretto a tollerar tutto; egli dev'essere o sensibile oltre misura o insensibile come un cadavere.

E finita con la tolleranza. Se lo stato offre il dito, gli si prenderà la mano. Non è più possibile scherzare: ogni scherzo può diventare terribilmente serio.

Le proteste dei "liberali" che chiedono la libertà di stampa, son dirette contro il loro principio, contro la loro vera volontà. Essi vogliono quello che non vogliono: essi si riducono a desiderare e a far voti. Per ciò cangiano d'avviso con tanta rapidità che allorquando si accorda loro la cosiddetta libertà di stampa essi si fanno "desiderare la censura."

Ciò é ben naturale. Lo Stato è sacro anche per loro, e così la morale, ecc. Essi si comportano verso di lui quali ragazzi male avvezzi, quali fanciulli astuti, che sanno volgere in loro vantaggio le debolezze dei genitori. Il papa Stato deve permetter loro di dire molte dure cose senz'altro diritto che di censurarli con un'occhiata severa. Poiché riconoscono in lui il loro padre, essi sono costretti a subirne la censura, come appunto i ragazzi.

Se tu consenti che un altro ti dia ragione tu devi anche tollerare che egli ti dia torto: se da lui viene a te la giustificazione e la rimunerazione, devi essere pronto ad attender da lui anche l'accusa e la punizione. Accanto al diritto procede il torto, accanto alla legalità il crimine. Che cosa sei tu? — Tu sei un delinquente.

"Il delinquente è il crimine dello Stato!", dice Bettina. Si possono accettare queste parole, benché la stessa Bettina non le prenda proprio in questo senso. Nello Stato, cioè, l'Io senza freni, l'Io appartenente a me stesso, non trova modo di raggiungere il suo compimento.

Ogni io è sin dalla nascita un delinquente contro il popolo contro lo Stato. Per ciò questo vigila sopra ogni singolo, vede in ogni uomo un egoista, e degli egoisti ha paura. Egli presuppone in tutti i più tristi propositi, e sta attento, poliziescamente, per non averne a risentir danno, ne quid respublica detrimenti capiat. L'Io senza, freno — quale ognuno di noi è in origine e resta nell'intimo essere — è per lo Stato il delinquente incorreggibile. L'uomo ch'è diretto dal suo ardimento, dalla sua volontà, dalla mancanza di ogni scrupolo, e dall'impavidità, viene dallo Stato e dal popolo circondato di spie.

E dico dal popolo! Il popolo (o voi gente ingenua, pensate ora un po' che cosa sia codesto popolo) il popolo è intimamente materiato di principi polizieschi. Soltanto chi rinnega il proprio essere, chi "ripudia sé stesso" è ben accetto al popolo.

Bettina è, nel suo libro, tanto ingenua da ritenere che lo Stato sia solamente ammalato e da sperare nella sua guarigione — una guarigione che dovrebbe essere, operata dai demagoghi. Ma esso non è ammalato, è nella pienezza delle sue forze quando respinge da sé lontano i demagoghi che vogliono ottenere qualche cosa per i singoli, cioè per tutti.

Coloro che in lui hanno fede sono — per esso — i migliori capipopolo e i migliori demagoghi i soli ch'egli ammetta. Secondo Bettina lo Stato "dovrebbe sviluppare il germe della libertà innato nell'uomo, se non vuol essere un padre snaturato. Esso non può agire diversamente: appunto perché si prende cura dell'umanità (il che dovrebbe fare anche lo Stato umano e "libero") deve avere il singolo in conto di un uccello introdottosi in un nido non suo." Quanto giustamente osserva invece il borgomastro [(1) BETTINA, Questo libro appartiene al re, p. 381]: " Come? lo Stato non dovrebbe aver altri obblighi se non quello di curare gli infermi che non hanno speranza di guarigione? Ciò non è giusto. Da quando gli Stati esistono, essi si sono argomentati sempre di liberarsi dalle materie impure, non mai di lasciarsene impregnare. Esso non ha bisogno di applicare tanta economia ai suoi succhi. Taglia senza esitazione i rami che intristiscono, affinché gli altri possono essere fiorenti. La durezza dello Stato non deve muoverci a meraviglia: la sua morale la sua politica, la sua religione lo costringono ad essere implacabile; non lo si accusi d'insensibilità: il suo sentimento può bensì ripugnare, ma la sua esperienza gli impone di cercar la salvezza nel rigore! Vi sono delle malattie, in cui soltanto i rimedi drastici hanno forza. Il medico, che conoscendo il male esita e ricorre ai palliativi, non vincerà giammai la malattia, ma farà soccombere prima o poi l'ammalato!"

L'obbiezione della moglie del consigliere: "Come ottenere una guarigione, se vi servite della morte quale rimedio eroico?" non regge. Lo Stato non applica già la pena di morte contro sé stesso bensì contro qualche membro che gli dà noia.

"Per uno Stato infermo l'unica via di salvezza è permettere che l'uomo possa svilupparsi e prosperare" (pag. 385). Se al pari di Bettina, per uomo si intende il concetto astratto di "uomo " essa ha ragione: lo Stato infermo guarirà pel prosperare "dell'uomo", poiché quanto più i singoli sono teneri del concetto l' "uomo ", tanto maggior tornaconto ne avrà lo Stato. Ma se per uomo s'intende il singolo (a cui pare alluda anche l'autrice del libro citato, la quale ivi parla molto oscuramente dell' "uomo"), tanto farebbe il dire: "Per una banda di briganti ammalati, l'unica via di salvezza è il permettere che in essa prosperino gli onesti cittadini!" Se ciò si avverasse, la banda di ladroni perirebbe come tale. E poiché essa prevede ciò, preferisce uccidere chiunque accenna a voler diventare un galantuomo.

Bettina in questo libro è una patriota, o per lo meno una lodatrice degli uomini. Essa è malcontenta dell'ordine di cose esistente, al pari di tutti coloro che vorrebbero ricondurre nel mondo la buona fede antica. Soltanto, essa pensa che i politicanti, gli ufficiali dello Stato e i diplomatici spingono lo Stato verso la rovina, mentre quegli altri ne danno ogni colpa ai malvagi, ai "seduttori del popolo".

Che altro è il delinquente comune, se non uno che ha commesso la fatale imprudenza di attentare a ciò che appartiene al popolo, anziché ricercare quello che appartiene a sé?

Egli è andato in cerca dello spregevole "possesso altrui", ha fatto ciò che fanno i credenti, che aspirano alle cose appartenenti a Dio. Che cosa fa il prete quando rimprovera il delinquente? Ei gli mette dinanzi agli occhi il torto gravissimo d'aver profanato con i suoi atti la proprietà dello Stato che questo ha proclamata santa (e di tale proprietà fanno parte anche le vite dei cittadini, dei singoli, onde lo Stato si compone). Invece egli assai meglio adoprerebbe rinfacciandogli d'aver macchiato se stesso per avere, non disprezzato, ma ritenuto oggetto d'appropriazione ciò che gli era estraneo. Ma egli non può far ciò perché è prete. Parlate al cosiddetto delinquente nella sua qualità d'egoista e costui si vergognerà, non già d'aver contravvenuto alle vostre leggi ed attentato ai vostri beni, bensì d'aver ritenute le vostre leggi meritevoli d'infrazioni, i vostri beni meritevoli d'esser desiderati. Egli si vergognerà di non avere disprezzato voi — con tutto quello che vi appartiene: d'essere stato cioè troppo poco egoista. Ma voi non sapete parlare a lui da egoisti, perché voi siete inferiori al delinquente. Voi non commettete alcuna contravvenzione alla legge! Voi non sapete che un io cosciente di sé stesso non può non essere un delinquente e che di violazioni del diritto si compone la sua vita. Eppure dovreste saperlo, poiché credete che "noi tutti siamo peccatori". Ma voi avete l'intenzione di sottrarvi al peccato con l'astuzia e con l'inganno; voi non comprendete — poiché siete pieni di timor del demonio — che la colpa costituisce il volere d'un uomo. Oh se foste colpevoli! Ma voi siete dei giusti! Ebbene, fate in modo che al vostro signore appariscano giuste tutte le opere vostre.

Quando la coscienza cristiana, o l'uomo cristiano, compone un Codice criminale, in che altro modo può concepire il delitto se non come un segno di mancanza di cuore? Ogni offesa d'un legame del cuore, ogni atto contro un essere sacro, è delitto. Quanto più dev'essere cordiale il rapporto, tanto più colpevole è il volgerlo in gioco e tanto più meritevole di punizione è il delitto.

Ogni suddito è obbligato ad amare il suo signore: rinnegare codesto amore è un alto tradimento meritevole di morte. L'adulterio è una mancanza di cuore meritevole di condanna [(1) Questo poi no . (Nota del correttore).], perché chi lo compie dimostra di non aver rispetto per la santità del matrimonio. Sino a tanto che il cuore detta le leggi, soltanto l'uomo di cuore godrà della protezione della legge. Ora l'uomo di cuore è l'uomo morale; e infatti egli condanna ciò che è contrario al sentimento morale; l'infedeltà, la ribellione, lo spergiuro, tutto ciò insomma che significa infrazione di un vincolo morale. Ogni infrazione di vincoli venerabili per la loro durata, non dovrebbe apparir dissennata e delittuosa ai suoi occhi?

Chi disconosce tali diritti del sentimento si rende nemici tutti gli uomini morali. Soltanto i Krummacher e consorti sono persone per bene, atte a comporre logicamente un Codice penale del cuore : come un certo progetto di legge, che noi conosciamo, dimostra a tutta evidenza.

La legislazione dello Stato cristiano deve essere affidata in tutto alle mani dei preti, e non sarà mai rigorosamente logica sino a tanto che sarà elaborata da servi di prete che non siano preti interamente. Quando ogni "assenza di sentimento, di cuore" sarà riprovata come un delitto imperdonabile, e ogni eccitazione del sentimento individuale ritenuta condannabile, e ogni protesta della critica e del dubbio biasimata come meritevole d'anatema; allora soltanto l'egoista dinanzi alla coscienza cristiana sarà senz'altro un delinquente convinto.

Gli uomini della rivoluzione parlavano spesso della giusta vendetta del "popolo", come d'un "diritto". Vendetta e diritto, son due cose che in questo caso si corrispondono.

E’ questa la condotta che deve tenere un io verso un altro io? Il popolo grida che il partito avversario ha commesso dei "delitti " contro di lui. Posso io ammettere che alcuno commetta un delitto contro di me, senza affermare in pari tempo che egli deve agire secondo la volontà mia? Se egli agisce così, io dirò ch'egli opera rettamente; se altrimenti, dirò che commette un delitto. Anch'io premetto che gli altri debbono proseguire la stessa mèta che io mi sono prefisso, e cioè li considero non già come singoli individui, ognuno dei quali porti nel suo interno la propria legge e vi conformi gli atti, bensì quali esseri che sono costretti ad obbedire ad una particolar legge "ragionevole". Io stabilisco che cosa debba intendersi per uomo e che cosa voglia dire operar umanamente, e pretendo poi da ognuno che il mio decreto gli sia e legge e norma e ideale, altrimenti egli mi si chiarirà per un "peccatore" e per un "delinquente". Ma il "colpevole" incorrerà nelle pene della legge.

Si vede, anche qui, che il concetto "dell'uomo" rende possibile quello del delitto, del peccato, e conseguentemente del diritto. Colui nel quale io non riconosco "l'uomo", è un "peccatore", un "colpevole".

Il concetto del delinquente presuppone quello di alcunché di sacro cui egli attenti; tu di fronte a me, quale singolo individuo, non sarai mai un delinquente ma semplicemente un avversario, un nemico. Ma non odiare colui che offende una cosa sacra, è già per sé un delitto. Cosi il St.-Just grida a Danton: "Non sei tu un delinquente? non sei tu responsabile di non aver odiato i nemici della patria?"

E poi che la rivoluzione nel concetto "uomo" comprende il "buon cittadino", cosi da codesto concetto derivano i "peccati e i delitti politici".

In tutto ciò l'uomo singolo si suole considerare come un rifiuto della società, mentre si onora l'uomo in astratto: "l'uomo". E comunque si chiami tale fantasma, o giudeo, o cristiano, o buon cittadino, o suddito leale, o liberale, o patriota, dinanzi a questo concetto vittorioso "dell'uomo" s'inginocchiano tutti, per quanto diversa sia in ciascuno l'idea dell'uomo.

E con quanta convinzione si punisce e si uccide col nome della legge, del popolo sovrano, di Dio!

Ora, se i perseguitati sono tanto astuti da nascondersi e da sfuggire ai lor giudici inesorabili, essi acquistano nome di ipocriti; tali chiamò il St.-Just coloro che egli accusa nella sua orazione contro Danton [(1) V. Orazioni politiche, I, p. 153.]. Bisogna essere pazzi e darsi in mano al loro Moloch.

Dalle idee fisse sorgono i delitti. La santità del matrimonio è un'idea fissa. Da questa santità consegue che l'infedeltà matrimoniale è un delitto che la legge matrimoniale colpisce di pene più o meno gravi. Ma queste pene da coloro che proclamano "santa" la libertà devono esser riguardate quale un delitto contro la libertà; e di fatto in questo senso appunto la pubblica opinione ha riprovato ormai le leggi matrimoniali.

La società vuole, si, che ognuno abbia il suo diritto, ma a patto che un tale diritto sia quello riconosciuto dalla società, sia un diritto sociale, e non già un diritto dell'individuo. Ma io non concedo un diritto o me ne privo a mio piacere, e di contro ad ogni prepotenza voglio essere un peccatore; un "malfattore" impenitente. Proprietario e creatore del mio diritto — io non gli riconosco altra fonte all'infuori di me stesso; né Dio, né lo Stato, né la natura, né l' uomo: non dunque diritti umani né divini.

Ah dunque voi volete il diritto per sé stesso senza relazione al mio essere! il diritto assoluto, dunque, indipendente da me! Una cosa che esiste di per sé stessa! L'assoluto! Un diritto eterno, allo stesso modo che abbiamo una verità eterna!

Secondo il principio dei liberali, il diritto dovrebbe esser obbligatorio anche per me, perché è istituto dalla ragione umana di fronte alla quale la mia ragione non è che capriccio. Prima si gridava in nome della ragione divina contro la debole ragione umana, ora in nome della gagliarda ragione umana universale contro la ragione egoistica, che si chiama dissennata. Eppure non esiste altra ragione all'infuori di questa che a voi piace chiamare dissennata; non la ragione divina, né la umana, ma la tua sola ragione, quale si manifesta di volta in volta; — unica, vera, certa come l'esistenza nostra. L'idea del diritto è in origine il mio pensiero; ha la sua fonte in me; è sorta da me. Ma poi che il mio pensiero si è manifestato nella "parola", esso divenne "carne", idea fissa. Io non posso più ormai liberarmi dal pensiero; per quanto io faccia, esso mi sta sempre dinanzi. Così gli uomini non seppero rendersi padroni del pensiero "diritto" che essi stessi crearono; la creatura è sfuggita al loro potere. Tale è il diritto assoluto, staccatosi da chi lo creò — come un frutto dall'albero. Noi non possiamo riprenderlo dacché l'adoriamo come cosa assoluta; esso ci priva della forza créatrice; più potente del creatore, la creatura ha acquistata un'esistenza indipendente.

Se tu non permetterai più al diritto di errare vanamente senza padrone, se lo ricondurrai alle sue origini, esso ridiverrà il tuo diritto; e il diritto sarà ciò che, per te, tu consideri come tale.

Il diritto dovette sostenere un assalto sul proprio terreno quando il liberalismo ruppe la guerra contro il privilegio.

"Privilegi" ed "eguaglianza di diritti" — tali i due concetti a torno a cui ferve la lotta. Esclusione o ammissione di diritti, in lingua povera. Ma si può ammettere che un potere esista (sia esso Dio o la legge, od un essere reale, quale io, o tu) — dinanzi al quale tutti non godono dell'eguaglianza di diritti? A Dio ognuno è egualmente caro, purché lo adori; del pari alla legge, purché la rispetti; che l'uomo sia storpio o gobbo, ricco o povero, non importa né a Dio né alla legge; cosi a un depresso quando sei sul punto di annegarti, poco t'importa che chi ti salva sia un negro o un bianco della più pura razza caucasica — purché ti salvi. Anzi un cane, in un simile momento, ti sarà accetto non meno di un uomo. Ma per contro, chi distingue tra i suoi simili i privilegiati e i negletti? Dio punisce i malvagi con la sua collera; la legge punisce chi non la osserva; tu stesso ti presteresti a parlare con uno, mentre cacceresti lungi da te un altro non appena ti capitasse tra i piedi.

L' "uguaglianza del diritto" è appunto un fantasma, poiché il diritto in sostanza non è né più né meno che una autorizzazione, una licenza, cioè in fine una grazia, che si può acquistare anche coi propri meriti. Poiché meriti e grazie non si escludono, tanto più che anche la grazia vuol essere "meritata", e il nostro sorriso clemente non fiorisce che per chi se ne dimostra degno.

E cosi si va sognando che tutti i cittadini d'uno Stato debbano essere uguali. Come cittadini, per lo Stato, essi sono certamente tutti uguali: se bene già per i suoi fini speciali lo Stato sarà costretto a dividerli in classi, di cui taluna preferita; e più anche ei li dovrà poi distinguere in cittadini buoni e cattivi.

Bruno Bauer cerca risolvere la questione giudaica col principio che il "privilegio" non abbia ragion d'esistere. L'ebreo è per alcuni rispetti superiori al cristiano, per altri gli cede: le differenze, che a ciascuno di essi danno argomento a sostenere la superiorità sull'altro, si compensano all'esame del critico e si dissolvono nel nulla. E biasimato è pure lo Stato perché dà forma di diritto alle differenze individuali, mutandole in privilegi e venendo meno in tal modo al compito, che è di diventare uno "Stato libero".

Ma in qualche cosa ciascun uomo è superiore agli altri; cioè in quello che il suo essere ha di particolare o di unico, poiché in ciò ognuno resta originale.

E ciascuno poi fa valere di fronte agli altri, per quanto gli è possibile, le sue attitudini particolari; e si prova, se ciò gli torna a bene, di renderle attraenti.

Nulla dunque dovrebbe importare il particolar carattere che distingue un uomo dall'altro? Si domanda questo allo Stato libero o all' Umanità. In tal caso essi dovrebbero essere privi d'ogni attitudine ad interessarsi a una cosa qualsisia. Indifferente a tal segno non fu mai immaginato né Dio, che discerne i buoni dai malvagi, né la società, che separa gli onesti dai cattivi cittadini.

Ma si cerca per l'appunto questo Ente che non conferirà più "alcun privilegio"; e gli si dà nome di Stato libero di umanità, ecc.

Bruno Bauer abbassa il cristiano e l'ebreo perché l'uno e l'altro pretendono "privilegi"; entrambi dovrebbero dunque, con qualche sacrificio del loro amor proprio, liberarsi dal preconcetto in cui si compiacciono ingiustamente. Se essi si spogliassero del loro "egoismo", il torto reciproco cesserebbe e, con esso, la religione cristiana e la giudaica. Basterebbe a ciò che ciascuno di loro non pretendesse d'avere qualche cosa di particolare per sé. Ma se pur essi rinunziassero a questo, il terreno su cui combatterono le loro lotte non resterebbe per ciò solo sgombro. Essi potrebbero trovare un modo di accomodamento, una "religione universale", una "religione d'umanità" ecc., un accordo insomma non migliore di quello che s'otterrebbe se tutti gli ebrei si facessero cristiani rinunciando cosi al privilegio ch'essi ritengono d'avere di fronte a quelli. Con ciò sarebbe tolto il contrasto, ma non in questo consisteva l'essenza delle due credenze, bensì nella loro affinità. Essendo distinti l'uno dall'altro, una certa opposizione doveva esser necessariamente tra loro: e l'ineguaglianza resterà sempre. Non può essere certamente né un difetto né un errore per te, che tu dimostri qualche ripugnanza a mio riguardo e cerchi d'affermare le qualità che ti son proprie; ciò rivela soltanto che tu non vuoi cedere né rinunziare a te stesso.

Si dà al contrasto un significato troppo formale e superficiale, se si crede di ricomporlo ricorrendo a qualche altra cosa atta a conciliare gli elementi discordanti. Il contrasto ci bisogna invece inasprirlo. Tra ebrei e cristiani l'opposizione è troppo meschina, poiché si riduce a questioni religiose, a cose da nulla. Avversari in religione, nel rimanente voi siete buoni amici: e, per esempio, quali uomini voi vi considerate uguali. Eppure anche il rimanente è diverso in ciascuno di voi, e, per quanto vi argomentiate di nasconderlo, voi finirete col riconoscere il contrasto, quando ciascuno di voi affermerà francamente il carattere proprio. Certamente l'antica opposizione con ciò si risolverà, ma solo perché un'altra opposizione più forte prenderà il suo posto.

La nostra debolezza non consiste già nel trovarci in inimicizia con gli altri, bensì nel non trovarci in un contrasto assoluto, cioè nel non essere distinti al tutto gli uni dagli altri, ovvero nell'avere o nel ricercare una "comunanza", un "legame comune", e nell'esserci formato di questa comunanza un ideale. Una fede, un Dio, un'idea, un cappello per tutti! Se un solo cappello ci coprisse tutti certamente si avrebbe il vantaggio di non doverlo levar dinanzi agli altri. Il contrasto ultimo e più significativo, quello tra il singolo e il singolo, ha superato in fondo quello volgare. Tu, quale singolo, non hai più nulla di comune con gli altri, e per la stessa ragione nulla hai che dagli altri ti divida o ti renda a loro nemico. Tu contro il singolo non invocherai la giustizia d'un terzo, e con lui non avrai rapporti di "diritto", o altri rapporti derivanti da un concetto comune. Il contrasto sparisce nella perfetta separazione. Questa potrebbe, bensì esser riguardata come una novella comunanza, o una nuova uguaglianza, ma in tal caso l'uguaglianza consisterebbe nella disuguaglianza: una disuguaglianza di ciascuno verso tutti, avvertita soltanto da coloro che farebbero dei "raffronti".

La lotta contro il privilegio è un carattere del liberalismo che ama richiamarsi al "diritto". Ma altro che strillare non può: poiché i privilegi non cadranno prima che cada lo stesso diritto, del quale essi sono semplici derivazioni. Ma il diritto, si dissolve nel nulla quando è schiacciato dalla forza, cioè quando se ne avverte il vero significato: la forza prevale al diritto. Allora ogni diritto diventa privilegio, e il privilegio stesso divien potenza, prepotenza.

Ma la lotta immane contro la prepotenza non deve essa forse aver un altro aspetto che non quello meschino di opposizione al privilegio, di cui sia arbitro un primo giudice — il "diritto" — il quale ne decida secondo i propri intendimenti?

Da ultimo io dovrò cancellare dal mio vocabolario questa parola "diritto", e le espressioni che vi si riferiscono, dalle quali non volli far uso se non costretto, perché nello studio intimo della cosa m'era pur forza accettarne provvisoriamente il nome. Ora, distrutto il concetto, anche la parola perde il suo significato. Ciò che prima io chiamavo il "diritto", ora mi si chiarisce altra cosa, poiché il diritto non può esser conferito che da uno spirito, o della natura, o della specie, o dell'umanità, o di Dio, e così via. Ma quel che io posseggo senza l'autorizzazione di uno spirito, io lo posseggo senza diritto, unicamente ed esclusivamente per il mio potere.

Io non ricerco riconoscimento da alcuno, dunque non sono obbligato ad accettarne da alcuno. Ciò che io posso ottenere colla forza l'ottengo, e su ciò ch'io non posso ottenere non ho ragioni da far valere, né mai i diritti imprescrittibili mi saranno argomento di consolazione o di orgoglio.

Col diritto assoluto cessa d'esistere ogni concetto del diritto, e ogni impero di un tale concetto. Poiché non bisogna dimenticare, che sin da tempo immemorabile noi fummo sempre dominati da concetti, da idee e da principî, e che tra questi dominatori il concetto del diritto, ovvero quello della giustizia, rappresentava la parte principale.

Ch' io abbia o non abbia diritto ad una cosa poco mi cale, purché io sia forte; il diritto l'otterrò da me, senza uopo di autorizzazioni d'altrui.

Il diritto è un'idea fissa, un fantasma: io sono la forza. Il diritto è cosa estranea che appartiene ad un essere superiore e che ne è dato in grazia: la forza è cosa mia, poiché il forte sono io.


— I MIEI RAPPORTI.

Nella società umana potrà esser soddisfatto il postulato umano, ma quello egoistico avrà sempre la peggio.

Siccome è assai noto che l'età nostra a nessuna questione prende tanto interesse quanto a quella "sociale" bisogna fissare una speciale attenzione sulla società. Certo, se l'interesse non fosse tanto cieco e appassionato, non si dimenticherebbero così facilmente i singoli e si riconoscerebbe esser impossibile rinnovare una società sino a tanto che le persone che la compongono rimangono immutate. Così p. es. se nel popolo giudaico dovesse sorgere una società destinata a propagare nel mondo una nuova fede, gli apostoli di essa non potrebbero continuare ad essere dei farisei.

Tu ti riveli altrui e agisci secondo quello che sei. Un ipocrita si comporterà da ipocrita, un cristiano da cristiano. Perciò il carattere d'una società e determinato di quello dei singoli; essi l'hanno creata. Ciò dovrebbe esser chiaro anche senza analizzare il concetto " società ". Ma incuranti sempre di attendere al proprio sviluppo, di far valere sé stessi, gli uomini non hanno saputo fondare la società sulla base di sé stessi, e non ad altro hanno inteso che a costituirsi in società e a vivere socialmente. Le società restavano sempre persone, potenti persone, cosiddette "persone morali" fantasmi dinanzi ai quali il singolo si sentiva preso da un brivido di rispettoso terrore. Tali fantasmi potremmo designarli più facilmente col nome di "popoli" od anche di "popolucci"; il popolo dei patriarchi, il popolo degli Elleni, ecc. — poi il popolo umano, l'umanità (Anacarsi Clootz s'accendeva d'entusiasmo per la "nazione" dell'umanità), poi le suddivisioni in cui quello si scisse; il popolo francese, lo spagnolo ecc., e in mezzo a codesti popoli, gli Stati, le città, in breve le corporazioni d'ogni specie, e, quale estrema derivazione il breve popolo della famiglia. — Invece di dare a tutte le società finora esistite per modello il popolo, si potrebbero porre in luogo di esso i due estremi, vale a dire "l'umanità" e"la famiglia" che sono le due unità originarie. Noi abbiamo scelto la parola "popolo" non solo perché questa si ricollega per l'etimologia al vocabolo greco "polloi" che significa "molti" (la "moltitudine"), ma più ancora, perché le "aspirazioni nazionali" oggidì ricorrono continuamente al pensiero e nel discorso, e perché anche i ribelli di più recente data non hanno saputo liberarsi di quel fantasma, quantunque gli si dovrebbe preferire il vocabolo "umanità", visto che ormai tutti vanno in sollucchero per "l'umanità".

Dunque il popolo — l'umanità e la famiglia — è stato, quanto sembra, fin qui l'operatore unico della storia: all'interesse egoistico dovevano in quelle società prevalere gli interessi comuni, nazionali o popolari: interessi di casta, interessi famigliari ed interessi universalmente umani. Ma chi ha tratto alla rovina i popoli, dei quali la storia ci narra la caduta? Chi, se non l'egoista, che cercava l'utile proprio?

Se un interesse egoistico vi si insinuava, la società diventava "corrotta" e andava incontro alla sua dissoluzione; cosi avvenne della schiavitù allorché il diritto privato prevalse, cosi del cristianesimo quando la "coscienza dell'io" l' "autonomia dello spirito" riuscì ad affermarsi.

Il popolo cristiano ha prodotte due società, quant'esso durevoli: lo Stato e la Chiesa. Possono queste chiamarsi associazione d'egoisti? I fini che noi, appartenendo ad esse, proseguiamo, sono essi individuali e personali; o non più tosto popolari? Posso e devo io, vivendo in essi, affermare l'individualità mia, rivelarmi quale io sono?

Posso io pensare ed operare come voglio, e manifestarmi e vivere, svolgendo interamente il mio carattere, esercitando tutte le mie forze? Non devo forse, invece riguardar come intangibili la Maestà dello Stato, la Santità della Chiesa?

Dunque, io non posso fare ciò che voglio. Ma troverò in un'altra società, quale che essa sia, una smisurata libertà di potere? No di certo! Dunque, potremmo accontentarci di quella che abbiamo? Né pure? Altro è che il mio volere, il mio io, si spezzi contro un altro "io", altro che s'infranga contro un popolo. Nel primo caso io sono un avversario degno del mio nemico; nel secondo sono disprezzato, legato, sotto tutela; là stanno di fronte l'uomo contro l'uomo; qui, io sono lo scolaretto, impotente contro al suo condiscepolo, perché questi ha chiamato in soccorso il padre e la madre sotto al cui grembiale egli è corso a nascondersi, mentre io, ragazzaccio mal educato, devo piegarmi e rimanermi dal far valere le mie ragioni; là io combatto contro un nemico in carne ed ossa; qui contro l'umanità; cioè contro qualcosa di generale, contro una maestà, contro un fantasma. Ma per me, ne la maestà né la santità sono ostacoli, nessuna cosa anzi è ostacolo se io posso superarla. Solo ciò ch'io non posso vincere pone un limite al mio potere; poiché la mia forza non è infinita, io sarò sempre un essere limitato, ma non già da forze esteriori, bensì dall'insufficienza del mio potere, dalla mia impotenza. Però "la guardia muore, ma non si arrende". Anzitutto ponetemi di fronte un avversario in carne ed ossa!

Dice il poeta:

"Oserò sfidare qualunque avversario purché io lo possa vedere e prender di mira, accendendo al suo il mio coraggio".

Molti privilegi furono certo soppressi col tempo, ma sempre pel vantaggio dello Stato, nel suo interesse, mai per quello dell'individuo. La sudditanza ereditaria fu p. es. soppressa per rafforzare la potenza d'un unico signore ereditario, del padrone del popolo, della potestà monarchica: con ciò la sudditanza ereditaria divenne ancora più gravosa. Solamente a vantaggio del monarca, abbia nome principe o legge, son caduti i privilegi. In Francia i cittadini se non sono sudditi ereditari del re, sono schiavi della "legge". La soggezione fu conservata; soltanto, lo Stato cristiano riconobbe che l'uomo non poteva servire a due padroni, perciò ad un solo conferì tutti i privilegi: ed egli ora può avvilire l'uno ed esaltare l'altra, concedere e togliere a suo talento i privilegi.

Ma che può importare a me dell'utile comune? Come tale esso non è l'utile mio. Esso può avvantaggiarsi, mentre io devo fremere in me stesso; lo Stato può esser circondato di splendore, mentre io muoio di fame. Dove mai si rivelò più aperta la stoltezza dei liberali politici, che nel voler contrapporre al governo il popolo e nel parlare di diritti popolari? Secondo essi il popolo dovrebbe esser maggiorenne, etc. Il singolo solo può esser tale, un popolo non mai. Cosi tutta la questione della libertà di stampa viene sconvolta quando la si esige quale un "diritto del popolo". Essa non è che un diritto, o piuttosto un potere del singolo. Il popolo gode della libertà di stampa, ma io, parte di questo popolo, non la posseggo; la libertà del popolo non è la mia libertà, e la libertà di stampa, ammessa quale libertà popolare, avrà sempre al suo fianco una legge sulla stampa, che sarà diretta contro di me.

In generale, alle aspirazioni liberali dell'oggi bisogna sempre opporre questo. La libertà del popolo non è la mia libertà.

Ammettiamo per ipotesi la libertà popolare e il diritto popolare: per esempio, il diritto che ognuno possa portar armi. Non si può perdere un tale diritto? Pur essendo proclamata la libertà popolare io posso esser incarcerato e come prigioniero esser privato del diritto di portar armi. Ma il diritto proprio non si può perdere mai.

Il liberalismo ci appare quale un ultimo tentativo di creare una libertà popolare, una libertà comunale, — della "società della generalità, dell'umanità; il sogno d'una umanità adulta, d'un popolo adulto, d'una comunità adulta, d'una società adulta".

Un popolo non può essere libero che a spese del singolo; poiché lo scopo essenziale di codesta libertà non è il singolo, bensì il popolo. Più un popolo è libero, e più asservito è il singolo: il popolo ateniese, proprio ai tempi di sua maggior libertà inventò l'ostracismo, bandì gli atei, propinò il veleno al più giusto dei pensatori.

Si elogia Socrate per gli scrupoli di coscienza che lo fecero resistere ai suggerimenti di fuggire dal suo carcere! Egli fu uno stolto concedendo agli Ateniesi il diritto di condannarlo. Perciò quel che gli successe, sino a un certo segno, gli sta bene: perché volle egli ostinarsi a convivere con gli Ateniesi? perché non ruppe loro la guerra? Se egli avesse avuto coscienza di sé, non avrebbe concesso ai suoi giudici tali diritti né tali pretese.

Il non esser fuggito fu appunto la sua debolezza: fu falsa credenza la sua di avere ancora qualcosa di comune con gli Ateniesi, fu errore l'idea che egli fosse un membro, nient'altro che un membro di quel popolo. Egli compendiava tutto quel popolo nella sua persona: perciò egli soltanto poteva esser giudice proprio. Non c'era giudice al disopra di lui. E del resto egli aveva pur espresso pubblicamente giusto giudizio su sé stesso, proclamandosi degno del "pritaneo". Ma egli dovea restar fermo in ciò; e poiché non aveva pronunciata sentenza di morte contro sé stesso egli era in dovere di disprezzare quella degli Ateniesi e di sottrarsene. Ma egli volle sottomettersi al popolo, riconoscere in lui il suo giudice, e così sembrò piccolo a se stesso di fronte alla maestà del popolo. Dandosi in balia alla forza — che sola poteva trionfare di lui — ravvisando in quella forza un diritto, egli tradì sé stesso. Cristo il quale rinunzia al potere che ha sulle sue legioni celesti, vien posto dai suoi storici in una consimile posizione.

Lutero agi con molta prudenza ed assennatezza facendosi rilasciare per iscritto un salvacondotto nel suo viaggio a Worms: Socrate del pari avrebbe dovuto sapere che gli Ateniesi erano suoi nemici e che egli non poteva avere altri giudici che sé stesso. I pregiudizi di "diritto e legge" dovevano dileguare dinanzi alla convinzione, che ogni rapporto con la moltitudine è un rapporto forzato.

Con i sofismi gli intrighi ebbe fine la libertà ateniese. perché? Perché i Greci non seppero arrivare a quelle logiche conseguenze, che non poté raggiungere nemmeno quel loro eroe del pensiero che fu Socrate. Che cosa sono i sofismi se non l'arte di sfruttare l'ordine di cose esistenti, pur non avendo coraggio né forza di abolirlo?

Io potrei soggiungere "a proprio vantaggio" ma ciò è già compreso nella parola "sfruttare". Non dissimili ai sofisti sono i teologi, che interpretano a loro "vantaggio" la parola divina; che cosa interpreterebbero, se la parola divina non esistesse già? Così operano anche i liberali che con le loro interpretazioni sofistiche si rivolgono contro l'ordine di cose esistente. Son tutti raggiratori del diritto.

Socrate riconosceva il diritto, la legge; i Greci conservarono sempre l'autorità della legge e del diritto. Se ciò non ostante essi cercavano il proprio vantaggio, dovevano cercarlo forzatamente nell'interpretazione sofistica o arbitraria della legge, nella frode e nell'artifizio. Alcibiade, un raggiratore di genio, apre il periodo della decadenza ateniese; lo spartano Lisandro dimostra che il vezzo del sofisma è diventato generale tra i Greci. Il diritto greco, su cui si fondavano gli Stati greci, doveva esser falsato e distrutto dagli egoisti entro i confini di quegli Stati; per ciò gli Stati perirono perché i singoli potessero esser liberi, e il popolo greco cadde perché i singoli meglio che del popolo ebbero cura di sé stessi. In generale tutti gli Stati, le costituzioni, le religioni sono perite per la diserzione dei singoli; poiché il singolo é il nemico irriconciliabile di tutto ciò ch'è comune. E pure oggi ancora si ritiene falsamente che l'uomo abbisogni di "sacri legami", egli ch'è nemico acerrimo d'ogni legame. La storia universale dimostra che finora non vi fu legame che non si sia potuto infrangere, dimostra che l'uomo indefessamente tende a spezzare ogni vincolo; e pure l'accecamento umano è tale che vincoli sempre nuovi si creano e si crede d'aver raggiunto l'ideale sognato quando si legano all'uomo mani e piedi con un bel nastro costituzionale, con la cosiddetta costituzione libera; quando gli si conferisce un bell'ordine il cui nastro serve qual legame di fiducia tra "...".

Tutto ciò che è sacro è un legame, un vincolo.

Tutto ciò ch'è sacro deve esser interpretato a proprio modo dai raggiratori del diritto; perciò la nostra età in tutte le classi sociali conta di tali raggiratori in buon dato. Essi spianano la via ai ribelli, agli anarchici del diritto.

Poveri Ateniesi accusati di sofismi, povero Alcibiade tacciato d'intrigante. Ciò che a voi si rimprovera è la miglior parte di voi stessi, il vostro primo passo verso il progresso. I vostri Eschili, Erodoti, ecc., volevano che il popolo greco fosse libero. Voi soltanto incominciaste ad aver una vaga idea della vostra libertà.

Un popolo opprime coloro che vogliono levarsi alla sua maestà, punisce coll'ostracismo i cittadini strapotenti, persegue coll'inquisizione gli eretici, i rei di alto tradimento contro lo Stato, ecc.

Poiché il popolo di non altro ha cura che del suo vantaggio, è naturale che esso richieda da ognuno un patriottismo pronto al sacrificio. Per il popolo l'individuo riesce indifferente, è un nulla. Il popolo non può fare; non può tollerare ciò che il singolo soltanto può: cioè far valere le proprie qualità. Ingiusto è ogni popolo, ingiusto è ogni Stato contro l'egoista.

Fino a tanto che un'istituzione dura ancora, finché il singolo non l'ha potuta distruggere, io sarò ancor lontano dall'esser padrone di me stesso. Come potrei p. e. esser libero, se col giuramento devo vincolarmi ad una costituzione, ad una "carta", ad una legge, se cioè devo legarmi "corpo ed anima" al mio popolo? Come posso esser padrone di me stesso, se le mie facoltà non possono svilupparsi che sino a quel limite oltre il quale turberebbero "l'armonia della società"? (Weitling).

Il tramonto dei popoli e dell'umanità sarà la risoluzione del mio "io".

Ma appunto mentre sto scrivendo questo, le campane incominciano a suonare, annunciando le feste di domani: il compiersi del millennio dal dì in cui cominciò ad esistere la nostra diletta Germania. Suonate, suonate l'agonia della moribonda! Il vostro suono è solenne, quasi sapeste di suonare a chi sta per morire. Il popolo tedesco ha una storia millenaria dietro di sé; quale lunga vita; Andate a dormire, o secoli, ne risorgete mai più, affinché siano liberi coloro che sinora erano avvinti in ceppi. — Morto è il popolo. — Ebbene vivrò io!

Ma tu, mio tormentato popolo tedesco, di che cosa più soffristi? Il tuo fu il tormento d'un pensiero che non seppe crearsi un corpo, il travaglio d'un fantasma funesto, il quale ad ogni canto di gallo vaniva nel nulla, eppure attendeva redenzione e compimento. Anche in me tu hai vissuto a lungo, o diletto pensiero o caro fantasma. Per poco io mi illudeva d'aver trovata la parola della tua redenzione, ed ecco, sento suonare le campane che ti accompagnano al riposo eterno, e con quel suono l'ultima speranza dilegua, svanisce l'ultimo amore, e io parto dalla casa deserta dei morti e ritorno tra i viventi. "perché soltanto chi vive ha ragione".

Addio sogno di tanti milioni, addio tiranna millenaria dei tuoi figli!

Domani ti si darà sepoltura; in breve ti seguiranno le sorelle: le nazioni. Ma insieme con loro sarà sepolta l'umanità ed io sarò finalmente padrone di me stesso: sarò l'erede gioivo.

La parola "società" richiama il concetto della sala. Se una sala comprende molte persone, la sala è la ragione per cui quelle persone si trovano in società. Esse sono società e formano infatti una società da salotto, e si trastullano colle solite frasi da salotto. Ma quando si tratta di rapporti reali, questi devonsi riguardare come indipendenti dalla società e si ha obbligo di considerarli in sé stessi. Parte della società sono in un salotto anche coloro che si mantengono silenziosi o che si contentano a profferir poche frasi convenzionali. I rapporti implicano una reciprocità, un'azione un "commercium" dei singoli; la società non consiste che nella comunanza della sala; e nella sala le persone sono ordinate come le statue in un museo, formano dei "gruppi". Si suol dire, è vero che si possiede in comune "una sala"; ma piuttosto è vero il contrario, cioè che la sala possiede noi e che ci contiene in sé. Questo il significato naturale della società. Da ciò si viene a rilevare che la società non è generata e formata da me e da te, bensì da una terza cosa che di noi fa due compagni.

La stessa cosa è d'una società o di una compagnia d'ergastolo, cioè di persone rinchiuse nella stessa prigione. Qui noi ci abbattiamo ad una terza cosa più ricca di contenuto che non fosse la semplice sala alla quale accennammo. La prigione non significa più un semplice spazio chiuso, bensì uno spazio che ha un rapporto diretto coi suoi abitatori; quello spazio è prigione soltanto perché è destinato ai prigionieri, senza dei quali sarebbe un edificio qualunque. E chi da ai singoli ivi rinchiusi un' impronta speciale comune? Per certo la prigione, poiché senza di questa non sarebbero prigionieri. Chi dunque determina il modo di vivere della società carceraria? La prigione! Chi i loro rapporti? forse anche qui la prigione? E certo che essi non possono aver rapporti fra di loro che in quanto sono prigionieri, in quanto cioè lo consentano i regolamenti della prigione; ma tali regolamenti intervengono non ad agevolare bensì a circoscrivere i rapporti stessi. La prigione può obbligarci bensì a lavorare in comune, a metter in moto una macchina; ma farci dimenticare che noi siamo prigionieri, e favorire lo svolgere dei rapporti personali, la prigione non può, perché ciò sarebbe per essa un pericolo: farà dunque di tutto per impedirlo.

Per questo motivo la santa e morale Camera francese ha deciso d'introdurre la "reclusione cellulare" ed altri santi siffatti escogiteranno qualche cosa di simile per impedire i "rapporti immorali". La prigionia è una cosa che esiste e che per ciò è sacra: non si deve tentar di toccarla. Anche il più lieve tentativo in questo riguardo diviene punibile, quasi una ribellione dell'uomo contro una cosa che da lui, quale sacra, dev'essere rispettata.

Al pari della sala, anche la prigione dunque forma una società una compagnia, una comunità (p. e. per la comunanza del lavoro), ma non crea già dei rapporti, ne produce una vera unione. Al contrario, ogni unione entro le mura della prigione ha in sé il pericolo d'un complotto, il quale, favorito dalle circostanze, potrebbe tradursi in un'azione e quindi in un danno.

Ma in prigione di solito non ci si va spontaneamente, e di rado vi si resta di buon grado: anzi chi v'è rinchiuso sente il desiderio egoistico di riavere la libertà. Perciò si comprenderà di leggieri che i rapporti personali tra quei condannati saranno intesi non già a conservare la loro società, bensì a dissolverla, il che per essi significa riacquistare la libertà.

Osserviamo ora un po' quelle società nelle quali, a quanto sembra, noi viviamo volontariamente e di buon grado, senza metterne in pericolo l'esistenza coi nostri istinti egoistici.

L'esempio più comune d'una società di tal fatta ci è dato dalla famiglia. Genitori, coniugi, figli e fratelli formano un tutto e rappresentano la famiglia, che può esser ampliata quando vi si ammettono anche i congiunti laterali.

La famiglia sarà una vera comunità solo in quanto la legge della famiglia, la pietà o l'amor famigliare saranno osservate dai singoli suoi componenti. Un figlio, cui i genitori e i fratelli siano divenuti indifferenti, ha cessato d'esser figlio; poiché la virtù figliale se non può manifestarsi non ha maggior significato del legame materiale, l'ombelico, che unisce il figlio nascituro alla madre. Che un tempo si sia vissuti in una cotale unione corporale è cosa che non si può negare: per ciò si rimane irrevocabilmente figli della propria madre e fratelli dei figli di lei, ma per conservare una tale unione è necessaria la pietà figliale, lo spirito della famiglia.

I singoli sono soltanto allora nel pieno senso membri di una famiglia quando s'impongono quale compito la conservazione della famiglia: soltanto in tali intendimenti conservativi essi si astengono dallo scalzare le fondamenta. Una cosa dev'esser sicura e sacrosanta ad ogni membro della famiglia, cioè la famiglia stessa, o meglio ancora, la pietà verso la famiglia: cotesta è, per colui che si mantiene lontano da ogni egoismo, una verità intangibile. In una parola — se la famiglia è santa, nessuno di coloro che ne fanno parte deve svincolarsi da lei, altrimenti diviene un delinquente rispetto ad essa; egli non deve mai proseguire alcun fine antifamigliare, per esempio non deve determinarsi ad una unione illegale. Chi fa ciò "disonora la famiglia" la "copre di vergogna", ecc.

Ora colui che non sente abbastanza forte lo stimolo dell'egoismo accetta volentieri il matrimonio che convenga alle esigenze della famiglia, e abbraccia una professione che armonizzi con la condizione sociale della famiglia, in breve fa onore "alla sua famiglia".

Invece l'egoista vero preferisce essere un delinquente rispetto alla famiglia, pur di sottrarsi al peso delle sue leggi.

Quale mi sta più a cuore; la salute della famiglia, o la mia? Assai volte i due interessi procedono d'accordo, si che l'utile della famiglia è anche il mio: in tali casi, è difficile il giudicare se io agisco egoisticamente, per mio vantaggio, o disinteressatamente, pel ben comune. Ma verrà il giorno ch'io dovrò pur scegliere: posto nella necessità o di rinunciare a un mio piacere o di guastarmi co' miei, come mi condurrò? Allora si chiarirà da vero quel che io pensi in fondo del cuore; allora apparirà aperto se la pietà era stata collocata da me al disopra dell'egoismo, ed io non potrò più celare l'interesse mio dietro un disinteresse apparente. Un desiderio sorge nell'anima mia e di ora in ora s'accresce finché prorompe in passione. A chi mai s'affaccerà in tal caso l'idea, che anche il più lieve pensiero che possa cozzare contro lo spirito di famiglia, contro la pietà, porti già in sé il germe d'un delitto? Chi mai in un tal caso sarà cosciente di quello che fa? Tale è il caso di Giulia "nella Giulietta e Romeo". La passione non ha più freno e abbatte il culto della pietà. Voi mi opporrete certamente che le famiglie per egoismo soltanto respingono da sé coloro che prestano più ascolto alla passione che non alla pietà. I buoni protestanti si sono valsi, e con successo, di questo argomento contro i cattolici e hanno finito a rimanerne persuasi.

Ma ciò non è che una scusa, un pretesto, per allontanare da sé stessi ogni colpa. I cattolici eran teneri dell'unità della Chiesa cristiana e respingevano da sé, quali eretici, coloro che non sapevano dar tanto valore a quell'unità da sacrificarle i propri convincimenti. Coloro che non sentono la religione della famiglia, non sono già espulsi, ma si escludono da sé con l'anteporre ai vincoli famigliari la propria passione o il proprio capriccio.

Ma talora s'accende un desiderio in cuori meno appassionati e tenaci, che non fosse quello di Giulietta. La fanciulla proclive a cedere offre sé stessa in olocausto alla pace famigliare. Si potrebbe dire che anche da ciò non è escluso l'egoismo, poiché una tale risoluzione può ben dimostrare che colei che cede si sente più soddisfatta nel trovarsi in pace con la propria famiglia, che non nel compiacere ai suoi propri desideri. Forse: ma che dovremmo dire, se avessimo sicuro indizio che l'egoismo è stato sacrificato alla pietà? Se il desiderio diretto contro la pace domestica, anche dopo il sacrificio fatto, restasse nella memoria quale un "olocausto" recato in omaggio a un sacro vincolo? Che cosa diremmo, se colei che ha ceduto avesse sempre coscienza di aver lasciata insoddisfatta la propria volontà e d'essersi sottomessa umilmente ad una forza maggiore? Sottomessa e sacrificata, perché il pregiudizio della pietà esercitò su di lei il suo imperio?

Là ha vinto l'egoismo, qui la pietà, e il cuore dell'egoista sanguina; là l'egoismo era forte qui si dimostrò debole. Ma i deboli — lo sappiamo molto bene — sono i disinteressati. Di codesti membri fiacchi si prende cura la famiglia, poiché essi appartengono alla famiglia, non a se stessi, e di sé non sanno prender cura. Questa debolezza ha gli elogi di Hegel il quale vorrebbe lasciata all'arbitrio dei genitori la scelta dei matrimoni.

Alla famiglia, quale sacra comunità cui il singolo deve rispetto ed obbedienza, spetta anche l'officio del giudice. Un tale "giudizio di famiglia" è efficacemente descritto nel Cabanis di Willifaldo Alexis. Il padre, in nome del "consiglio famigliare", costringe il figlio, in punizione dell'onta recata alla famiglia, a farsi soldato, e ad abbandonare la casa. Le conseguenze più logiche della responsabilità domestica son quelle sancite dal diritto cinese, secondo il quale per la colpa d'un singolo membro tutta la famiglia è condannata all'espiazione.

Ma ai dì nostri il braccio della giurisdizione famigliare non si stende tanto da colpire seriamente l'apostata della famiglia. Il delinquente contro la famiglia trova un rifugio nel territorio dello Stato ed è libero, al pari del delinquente politico, cui è dato rifugiarsi in America. Egli, il figliuolo degenere, che ha disonorato la propria famiglia, ottiene protezione contro la persecuzione famigliare, perché lo Stato, questo patrono, toglie al potere domestico l'aureola della "santità", e lo profana, decretando che la punizione da quello minacciata non altro è che vendetta. Esso s'oppone alla punizione, perché al suo cospetto, dinanzi alla "santità" dello Stato, la santità subordinata della famiglia impallidisce. Quando però tra i due poteri non sia contrasto, lo Stato lascia libera la via alla giurisdizione famigliare: ma in altri casi esso giunge ad imporre il delitto "contro la famiglia", ordinando p. e. al figlio, di ricusare obbedienza ai genitori quando questi volessero indurlo a perpetrare un delitto contro lo Stato.

Dunque, l'egoista ha infranto i vincoli familiari ed ha trovato nello Stato un difensore contro lo spirito di famiglia che fu, per tal modo umiliato. Ma dove è andato a finire l'egoista? In un'altra società dove il suo egoismo è insidiato dalle stesse serpi, dalle stesse reti, alle quali poc'anzi era potuto sfuggire. Poiché lo Stato è anch'esso una società, non sia un'unione: è in somma una famiglia più estesa (il padre, la madre della nazione, del popolo, ecc.)

Quello che si chiama Stato è un tessuto di dipendenze e di colleganze; coloro che si sostengono per forza dello Stato sono soggetti gli uni agli altri. Lo stato è il regolatore di codesta dipendenza. Supposto che il re, il cui potere conferisce autorità a chiunque da lui dipenda (e quindi persino alla più umile guardia di polizia), sparisce, ciò nondimeno tutti coloro in cui fosse ancor desto il senso dell'ordine sosterrebbero l'ordine contro il disordine bestiale, perché comprenderebbero che se il disordine avesse il sopravvento, lo Stato dovrebbe pur cessare d'esistere.

Ma quest'idea prediletta dell'adattarsi l'uno all'altro, di dipendere reciprocamente l'un dall'altro è proprio tale da cattivarsi le nostre simpatie? Lo Stato sarebbe in tal modo l'incarnazione dell'amore, significherebbe il tutti per ciascuno, e l'uno per tutti. Ma nell'ordine non va forse perduto il sentimento della propria volontà? Sarà per noi soddisfazione bastante questa di sapere che l'ordine è mantenuto colla forza, vale a dire che si è provveduto che l'uno non calpesti l'altro impunemente, o, a dir più breve, che il gregge sia ordinato in modo ragionevole? Ma in tal caso tutto si troverebbe ad essere nel miglior ordine possibile, e questo miglior ordine possibile avrebbe, nome di Stato!

Le nostre società e i nostri Stati esistono senza che siano stati fatti da noi, sono composti non per forza della nostra riunione ma indipendentemente dal nostro volere, ed hanno una esistenza propria, autonoma, e formano contro noi egoisti l'esistente indissolubile. Le lotte odierne, dicesi, sono dirette contro tutto ciò che sussiste. Se non che s'intende sempre, ed a torto che tutto ciò che esiste debba essere sostituito con altre migliori forme d'esistenza. Ma la guerra per chi sa comprendere direttamente, potrebbe esser meglio diretta, non già contro uno Stato determinato o contro certe condizioni dello Stato, e non già a favore d'un altro Stato (p. es. lo Stato popolare) cui si aspiri, bensì a vantaggio d'una unione degli Stati.

Uno Stato esiste anche senza il mio concorso. Io nasco in lui, vengo in esso allevato, ho degli obblighi verso di lui, e devo prestargli "omaggio". Egli mi prende sotto la sua protezione ed io vivo dalla sua "grazia". E di tal modo l'esistenza indipendente dello Stato implica la mia dipendenza; il suo organismo richiede che la mia natura non si svolga liberamente, ma che sia adattata ai bisogni di esso. Affinché possa espandersi liberamente, egli applica su me la forbice della "civiltà"; egli m'impone un'educazione appropriata non già a me bensì ad esso Stato, e m'insegna p. es. a rispettare le leggi, ad astenermi dal ledere la proprietà sociale (vale a dire dei privati), a venerare una supremazia divina e terrena, in breve a vivere senza colpa, esigendo che io sacrifichi tutto ciò che m'è proprio alla "santità" (sacre son tutte le cose possibili, la proprietà, la vita degli altri, e cosi via). Questa è la specie di civiltà e di coltura che lo Stato è in condizione di darmi: egli forma del mio essere uno "strumento utile", mi rende un "membro utile della società".

Questo deve fare ogni Stato, sia esso popolare o costituzionale o dispotico, sino a tanto che noi siamo schiavi dell'errore che lo Stato sia un "io" e come tale dia a se stesso il nome di una "persona morale, mistica o politica". Questa pelle del leone dell'Io di cui l'insuperbito divoratore d'ortiche s'è rivestito, io, che sono realmente Io, devo cercar di strappargliela. Quante e quali spogliazioni fui costretto a tollerare nel corso dei secoli! Ho dovuto tollerare che il sole, la luna, le stelle, i gatti, i coccodrilli s'arrogassero l'onore di rappresentare l' "Io"; questo onore toccò poi a Geova, ad Allah, al Padre Nostro, tutti regalati dell' "Io". Poi vennero le famiglie, le tribù, i popoli, e in fine l'umanità tutta intera e si fregiarono dell' "Io"; all'ultimo anche lo Stato e la Chiesa pretesero d'esser un "Io", ed io assistetti indifferente a tale spettacolo. Quale meraviglia, che poi qualche "io"? genuino osasse sostenermi in faccia ch'esso non era un estraneo, bensì il mio proprio io? Questo è ciò che fece il figlio dell'uomo par excellence: o perché non dovrebbe poterlo fare anche un figlio dell'uomo qual si fosse? E, così ho veduto sempre il mio io al disopra di me, fuori di me e non giunsi mai a fissarlo dentro di me.

Io non credetti mai all'Io nel presente, sempre lo vagheggiai nel futuro. Il ragazzo crede che sarà un vero io quando sarà adulto; l'uomo adulto s'immagina che solo nell'avvenire egli raggiungerà la perfezione. E per trovarci più vicini alla realtà, anche i migliori cercano di persuadersi vicendevolmente che è necessario comprendere in sé stessi e lo Stato e il popolo e l'umanità e Dio sa quale altra cosa per giunta; per essere dei veri "io", dei "liberi cittadini", "dei cittadini dello Stato", degli "uomini veramente liberi". Anch'essi scorgono la verità e la realtà del proprio "io" nella percezione d'un "io" estraneo e nel dedicarsi ad esso. Ma di qual "io"? D'un io immaginario d'un fantasma.

Mentre nel medio evo la Chiesa poteva tollerare facilmente l'esistenza di molti Stati ch'ella componeva in un'ideale unità, gli Stati, dopo la riforma e più ancora dopo la guerra dei trent'anni, impararono a tollerar molte Chiese (confessioni) raccolte sotto uno stesso scettro. Ma tutti gli Stati sono religiosi e cristiani, e si assegnano per compito di costringere i "refrattari", gli "egoisti" sotto un giogo contrario alla natura, cioè di cristianizzarli. Tutte le istituzioni dello Stato cristiano convergono allo scopo di cristianizzare il popolo. Così i tribunali hanno per intento di costringere gli uomini alla giustizia, la scuola di obbligarli a coltivare la mente, in breve, di tutelare chi opera cristianamente e di difenderlo contro chi opera contrariamente ai precetti cristiani, di dare la dominazione all'opera cristiana, di renderla oltre ogni altra potente. Tra questi mezzi coercitivi, lo Stato annovera anche la religione, poiché richiede da ciascuno ch'egli accetti una confessione determinata. Dupin si espresse di recente in senso anticlericale? "L'istruzione e l'educazione sono di spettanza dello Stato".

Questione di Stato è certamente tutto ciò che tocca alla moralità. Per questa ragione lo Stato cinese s'impaccia nelle faccende famigliari e nella Cina non ha pregio chi prima d'ogni cosa non sia un buon figlio. Le questioni domestiche sono anche presso di noi questioni di Stato, con questa sola differenza: che lo Stato ha fiducia nella famiglia e per ciò non la sottopone ad una rigorosa vigilanza. Col matrimonio esso la tiene legata così che senza il suo consenso quel nodo non può esser disciolto.

Ma che lo Stato tenga me responsabile dei miei principi, e me ne imponga più d'uno, la è cosa che mi costringe a domandare: O che glie ne importa allo Stato? Assai — mi risponde — poiché esso è il principio dominante. Si ritiene che nelle questioni di divorzio e più largamente in tutte quelle che hanno attinenza al matrimonio, si dibatte la prevalenza del diritto tra la Chiesa e lo Stato. Si tratta invece di quest'altra indagine: se la religione, sia pur essa fede o morale, debba imperare sull'uomo. Lo Stato si conduce da dominatore come la Chiesa; e la morale è per esso ciò che per la Chiesa la fede.

Si parla della tolleranza, della liberalità di cui gli Stati civili dovrebbero dar prova col consentire alle opposte tendenze di svolgersi senza impedimenti. Certo tra gli Stati ve ne ha di tali che si sentono forti tanto da assistere tranquillamente anche ai meetings più tumultuosi, mentre altri sguinzagliano gli sbirri alla caccia di pipe da tabacco. Ma per tutti gli Stati, senza eccezione, i giochi degli individui, la vita loro di ogni giorno, i lor diporti, son cose di nessun rilevo, ch'essi non intralciano perché non ne saprebbero che fare. Vero è bensì che alcuni s'occupano delle piccole cose e trascurano le importanti, mentre altri sono più assennati e s'impacciano meno dei fatti dei cittadini. Ma libero veramente io non sono in nessuno Stato. La celebrata tolleranza degli Stati non altro è che il tollerare ciò che è "innocuo" il non curarsi delle minuzie: un dispotismo in somma, più rispettabile, più grandioso, più orgoglioso. Uno Stato, ch'io mi so, sembrava per qualche tempo voler esser superiore alle lotte "letterarie" che si combattevano col massimo ardore; l'Inghilterra è superiore ai tumulti popolari e lascia libero l'uso di fumar tabacco. Ma guai alla letteratura che ardisca assalire lo Stato, guai alle riunioni popolari che siano una "minaccia" per lo Stato. Nello Stato da me accennato si sogna una "scienza libera", in Inghilterra una "libera vita del popolo".

Lo Stato permette ai cittadini di sollazzarsi liberamente, ma operar seriamente essi non possono se non col suo consenso e nel modo ch'ei vuole. L'uomo non può avere rapporti di qualche rilevanza col suo simile, se non con la vigilanza e l'intervento superiore. Io non posso svolgere tutta la mia attività in tutta la sua pienezza, ma unicamente quel tanto di essa che lo Stato mi permette: io non posso far valere come meglio mi piaccia le mie idee, il mio lavoro, nulla anzi in genere di ciò che è mio.

Lo Stato ha sempre il fine di circoscrivere l'operosità del cittadino, di domarlo, di renderlo soggetto a qualche interesse generale. Esso è insomma l'espressione della limitazione individuale e rappresenta per l'Io la schiavitù. Non mai esso si proporrà il compito di agevolare il libero svolgimento dell'attività dei singoli, ma sempre avrà cura soltanto di quella attività che alla ragion sua è necessaria. E né pure è capace di produrre al meno alcun che di collettivo. Poi che non può dirsi da vero che un tessuto sia l'opera collettiva delle differenti parti di una macchina: non esso è piùttosto il risultato del lavoro di tutte le macchine considerate come unità? Lo stesso deve dirsi di tutto ciò che esce dalla macchina dello Stato. Ogni libera attività è impedita nel suo svolgimento mediante la censura, la vigilanza, la polizia: e l'attraversarsele pare allo Stato un dovere, perché realmente ciò gli è imposto dalle necessità della propria conservazione. Lo Stato vuole fare dell'uomo qualche cosa che gli torni utile, perciò non favorisce che gli uomini ch'esso ha foggiati a sua immagine; ognuno che voglia essere padrone di sé stesso diviene per questo solo un avversario dello Stato e più non vi conta per nulla. "E un uomo da nulla", si dice in fatti di persona di cui lo Stato non sa che fare, non avendo modo di impiegarla e d'adoperarla ai suoi fini.

E. Bauer nelle sue aspirazioni liberali (II. 50) sogna ancora di un " governo " che, sorto dal popolo, non si troverà mai in opposizione con esso! Egli stesso in seguito cancella, è vero {p. 69), la parola "governo": "In una Repubblica non ha valore nessun governo, ma soltanto la forza esecutiva". Derivazione diretta e pura del popolo, questo potere non rappresenterebbe per lui né una forza indipendente, né un principio indipendente, né avrebbe altri ufficiali che quelli dal popolo eletti, né trarrebbe il suo fondamento e l'autorità sua d'altronde che dal popolo, unica e suprema possanza dello Stato. Il concetto "governo" non s'adatta quindi a quello di "Stato popolare". Ma la cosa non muta, se pur cambiano le parole. Ciò che è "sorto, fondato, emanato" diviene cosa "indipendente"; e, come il bambino staccato dal grembo materno, si mette tosto in contrasto con chi l'ha creato. Il governo, se non fosse alcunché d'indipendente e d'opposto al singolo, cesserebbe d'esser qualche cosa.

"Nello Stato libero non esistono governi, ecc." (pag. 94) Ciò vuol dire che il popolo, quand'è sovrano, non si piega a un potere superiore. Ma forse che nella Monarchia assoluta le cose procedono diversamente? C'è forse in essa per il sovrano una potenza più alta della sua? Al disopra del sovrano, sia questo un principe o un popolo, nessun governo impera: ciò va da sé. Ma al disopra di me ci sarà sempre un governo, tanto nello Stato assoluto quanto nel repubblicano "libero". L'io si trova a disagio cosi nell'uno come nell'altro.

La repubblica non è per nulla migliore della Monarchia assoluta, poiché poco importa che il monarca abbia nome "principe" o "popolo": l'uno e l'altro sono "maestà". Appunto il costituzionalismo dimostra che nessuno può né vuole essere un semplice strumento. I ministri signoreggiano il loro padrone — il principe; il deputato cerca, pur egli, di dominare il suo — il popolo. Il principe deve acconciarsi alla volontà dei ministri, il popolo deve ballare secondo la musica delle Camere. Il costituzionalismo segna si un progresso sulla Repubblica, ma per ciò solo che esso rappresenta il cammino dello Stato verso la dissoluzione.

E. Bauer nega (p. 56) che il popolo nello Stato costituzionale sia "una personalità"; ma è tale almeno in una Repubblica? Nello Stato costituzionale il popolo rappresenta un "partito", e un partito infine è una "personalità" se s'intende designare con questo nome "una persona morale" (pag. 76). La verità è che una persona morale, si chiami essa partito popolare, popolo, o "signore", non è in nessun caso una persona, bensì sempre un fantasma.

Poi, cosi prosegue E. Bauer (pag. 69), "la tutela e il carattere che contrassegna ogni governo". Ma tal carattere si afferma, per verità, anche in maggior grado nel popolo e nello "Stato popolare"; esso è il segno di ogni dominazione. Uno Stato popolare che raccoglie in sé tutta "l'onnipotenza", non può permettere che l'io diventi potente. E quale chimera il non voler più chiamare i "funzionari popolari" col nome di "servi", di "strumenti", perché essi sono gli esecutori della "libera, ragionevole volontà popolare"! (p. 73). Dice lo Stato popolare: "Soltanto coll'assoggettare gli impiegati alle idee del governo, si può assicurare la unità in uno Stato". E poiché di tale "unità" deve godere pur esso, eccolo costretto a imporre agli impiegati di sottomettere al volere del popolo la volontà loro.

"Nello Stato costituzionale il sovrano ed il suo modo di pensare sono il fondamento di tutto l'edifìzio del governo" (p. 130). Sarebbe forse diversa la cosa nello Stato popolare? Non sarei io governato anche qui in conformità del modo di pensare del popolo? E posso io scorgere una distinzione in ciò, che io sia dipendente dal modo di pensare d'un principe, o in vece da quello del popolo (cioè dalla cosiddetta opinione popolare), se dipendente o nell'un modo o nell'altro sono pur sempre?

Se dipendenza è il vero senso del "rapporto religioso", come afferma Bauer, con tutta ragione nello Stato popolare il popolo sarà per me la "potenza superiore", la "maestà" (poiché nella maestà si assommano l'essenza vera di Dio e quella del principe) alla quale io mi troverò legato da un rapporto religioso. — Al pari del sovrano, anche il popolo non potrebbe esser colpito da alcuna legge. Tutti gli sforzi del Bauer si risolvono nell'ottenere un cangiamento di padrone. Ma invece di voler render libero il popolo, egli avrebbe dovuto porre ogni suo studio nel dar la libertà a se stesso, — dacché questa è la sola libertà che si possa ottenere da vero. Nello Stato costituzionale l'assolutismo ha finito a mettersi per disperato in lotta con sé stesso, dividendosi in due parti: il governo e il popolo. Entrambi vogliono essere assoluti. E questi due assoluti finiranno col distruggersi reciprocamente.

E. Bauer sostiene esser ingiusto che il sovrano acquisti i suoi diritti colla nascita in forza del caso. Ma se il popolo diventa "la sola forza dominante" nello Stato, non avremo noi anche in esso un padrone datoci dal caso? Che cosa è il popolo? Il popolo è sempre stato soltanto il corpo del governo. I1 popolo si compone di molte persone raccolte sotto una sola dominazione (governo del principe), o composte in una unica costituzione. E la costituzione è in fin dei conti una dominazione pur essa. Principi e popoli esisteranno sino a tanto che non cadranno insieme. Se vari popoli trovansi riuniti in un'unica costituzione, essi prendono nome di "province". Per me il popolo è nulla più che una potenza accidentale, una forza elementare, un nemico del quale io devo riuscir vittorioso.

Che cosa si deve intendere per un popolo organizzato? (p. 132). Un popolo non più soggetto, che si governa da sé medesimo. Dunque un popolo nel quale non emerge l'io, un popolo retto con l'ostracismo. Il bando inflitto all'io, l'ostracismo, rende signore di sé il popolo.

Se parlate di popoli siete costretti a parlare dei principi; poiché il popolo, per poter fare della storia da sé, deve avere, come tutto ciò che opera, una testa, un capo che lo guidi. Weitling ci espone questo nel "Trio" e Proudhon ribadisce: "une société pour ainsi dire acphale ne peut vivre".

La vox popoli oggidì ci viene sempre addotta come un argomento di ragione: "l'opinione pubblica" deve predominare sui principi. Certamente la vox popoli è anche la vox dei, ma hanno poi l'una e l'altra qualche valore? E la vox principis non è anche essa la vox dei?

Vogliamo accennare di passaggio ai nazionalisti. Pretendere che i trentotto Stati germanici operino come se costituissero una nazione sola è altrettanto assurdo quanto volere che trentotto sciami d'api, guidati da trentotto regine, debbano riunirsi in un unico sciame. Api resteran tutte, ma non già quali api esse sono unite sì per esser soggette alle regine che hanno il dominio. Api e popoli non possiedono una volontà; li guida l'istinto della propria regina.

Se si tentasse di far conoscere alle api, che esse sono api, si farebbe quella medesima cosa che oggidì col pretendere di insegnare ai tedeschi il loro germanesimo. L'esser germano ha con l'esser ape questo di comune: che importa la necessità di scissioni e di separazioni senza fine, anche se non si vogliono ammettere le ultime conseguenze che trarrebbero seco con la separazione assoluta il dissolvimento stesso del germanesimo. La Germania si divide, è vero, in vari popoli e rami, vale a dire "alveari", ma il singolo, al quale solo è proprio l'esser tedesco, è altrettanto impotente quanto un'ape solitaria. Eppure i singoli soltanto hanno potere di formare una società, e tutte le alleanze e tutte le leghe dei popoli non sono per contro che unioni artificiali e meccaniche, poiché le parti che si uniscono, cioè i popoli, sono senza alcuna volontà. Soltanto con l'estrema separazione finisce la divisione ed incomincia l'associazione.

Ora i nazionalisti s'affannano a costituire l'unità astratta, senza vita, del regno delle api; ma gli individualisti lotteranno per l'unità voluta da essi — per l'associazione. E comune a tutti i desideri reazionari l'intento di costituire qualche cosa di generale e di astratto, un concetto vuoto, senza, vita, mentre gli individui mirano a liberare la forte, la vivida originalità dall' involucro di astrazione in cui è avvolta. I reazionari vorrebbero far sorgere dalla terra un popolo, una nazione; gli individualisti non guardano che a sé stessi. Nell'essenza le due aspirazioni che oggi prevalgono, cioè quella alla ricostituzione delle franchigie provinciali, delle antiche divisioni per stirpi (Franchi, Bavari, ecc.), e quella alla ricostituzione dell'unità nazionale non sono l'una dall'altra diverse. Ma i tedeschi non saranno uniti se non quando saranno riusciti a spogliarsi delle loro consuetudini di api, ed avranno rovesciati tutti gli alveari; con altre parole — quando saranno qualche cosa più che tedeschi. Soltanto allora potranno formare l'associazione dei tedeschi. Non devono tendere a rientrare nella nazionalità — nel grembo materno — per rinascere, bensì devono rientrare in sé stessi. Quanto sentimentalismo ridicolo è nell'atto con cui un tedesco stringe a un suo connazionale la mano, con un sacro brivido, perché anche l'altro "è tedesco"! Quasi che l'esser tedesco sia proprio qualcosa di particolare! Ma questa stessa commozione prevarrà finché non riusciremo a spogliarci dei "sentimenti di famiglia". Dal pregiudizio della "pietà" e della "fraternità" (quali che siano i nomi che si vogliono dare a questi concetti sentimentali), dallo spirito della famiglia insomma, i nazionalisti che ambiscono a formare una grande famiglia tedesca non sanno liberarsi.

Del resto se i cosiddetti nazionalisti sapessero comprendere bene sé stessi, uscirebbero tosto dall'unione coi sentimentali pantedeschi. Poiché la riunione per scopi ed interessi materiali, quale è quella che essi richiedono dai tedeschi, non tende ad altro che alla libera associazione. Carrière applaude entusiasticamente al cammino che mena ad "una vita popolare di cui non si è ancora manifestata l'eguale". Sta bene, sarà una vita non mai rivelatasi per l'innanzi appunto perché non è da vero "una vita popolare". E Carrière contraddice a sé stesso quando aggiunge: (pag. 10): "Il vero umanesimo non può esser meglio rappresentato che da un popolo che compie la sua missione". Con ciò soltanto ci si presenta la popolarità. "La nebulosa generalità" è posta più basso che non la figura chiusa in se stessa. Appunto il popolo è quella "generalità nebulosa" e l'uomo è soltanto una "figura chiusa in se stessa".

L'astrattezza di quello che si chiama "popolo, nazione" appare evidente anche da ciò, che un popolo il quale voglia svolgere nel miglior modo le proprie forze, è costretto ad innalzare sopra di se un regnante senza volontà. Esso si trova nell'alternativa di esser soggetto al proprio principe

il quale non cercherà di attuare che quello che a lui aggrada, quale individuo — o di porre sul trono un sovrano senza volontà propria, il quale potrebbe esser sostituito benissimo da una orologeria ben congegnata. perché non occorre molta sagacia per comprendere che il popolo è una potenza astratta, spirituale: è la legge. L' "io" del popolo — ciò viene di conseguenze — è un fantasma, non già un "io" reale. Io non sono io, se non in quanto creo me stesso; cioè in quanto non vengo già creato da un altro, ma sono opera mia. Invece che cosa è l' "io" popolo? Il caso è l'arbitro del popolo, il caso gli concede quel tale padrone o quell'altro. Il dominatore ch'egli accetta od elegge non può dirsi il prodotto suo, a quel modo che io posso dirmi il prodotto di me stesso. Pensa un po' che alcuno volesse darti a intendere che tu non sei il tuo io, bensì Pietro o Paolo. La stessa cosa avviene pel popolo, e con ragione poiché il popolo possiede tanto poco un proprio "io" quanto lo posseggono gli astri presi tutti insieme, quantunque si muovano intorno ad un centro comune.

È significativa l'espressione di Bailly sul servilismo da cui tutti sono animati verso il popolo e verso il principe : "La mia, propria ragione non conta più nulla, quando la ragione universale s'è dichiarata. La mia prima legge fu la volontà della nazione quando la nazione si compose, io non riconobbi altro all'infuori della sua volontà sovrana". Egli rinuncia alla ragione propria eppure, nel suo concetto, è questa ragione che sa tutto.

Non diversa è l'affermazione, declamatoria del Mirabeau: "Nessuna potenza al mondo ha il

diritto di dire ai rappresentanti della nazione: io voglio!"

Come già al tempo degli antichi greci, si vorrebbe anche oggi ridurre l'uomo ad un zoon politicon, ad un animale politico. Per un non diverso errore egli fu tenuto gran tempo in conto di "cittadino del cielo". Ma il cittadino politico fu consacrato insieme col suo stato, il cittadino celeste insieme col suo cielo.

Noi vogliamo perire insieme col popolo, non vogliamo essere esclusivamente uomini politici. "La felicità del popolo" è il fine supremo della rivoluzione in poi, e mentre si mira a render felice il popolo, a farlo grande, potente, ecc. si rende in realtà infelice l'individuo, il singolo! La felicità del popolo è la "mia infelicità".

Quanto siano sciocche le chiacchiere, le frasi vuote di senso dei liberali politici, si può vedere dall'opera del Neuwerk. "Sulla partecipazione al governo dello Stato". In quel libro si biasimano gli indifferenti e gli apatici, che non sono cittadini dello Stato nel vero senso della parola, e l'autore fa intendere che non si può esser uomini degni di questo nome se non si prende viva parte alle cose dello Stato. In ciò egli è logico, poiché, ammesso che lo Stato sia tutore di tutto ciò che è "umano", noi non possiamo aver in noi nulla di umano se non prendiamo parte alle cose dello Stato.

Ma che prova cotesto contro l'egoista? Nulla poiché l'egoista considera sé stesso quale unico tutore dell'essenza umana e si contenta a dire allo Stato: Fatti in là perché mi nascondi il sole. Solo quando lo Stato entra in rapporti o in conflitto con la proprietà individuale, l'egoista prende un interesse diritto alle cose dello Stato. Se il dotto, solito a studiare tra le quattro pareti della sua stanza, non si sente oppresso dalle condizioni che impone ai cittadini lo Stato, dovrà egli occuparsi della cosa pubblica perché "tale è il suo dovere"? Fino a tanto che lo Stato agisce in modo da non turbare i suoi interessi, che bisogno ha il dotto di levar gli occhi dai suoi libri? Lo facciano coloro che vogliono mutare quelle condizioni in modo più conforme ai loro bisogni. Il sacrosanto dovere non potrà mai costringere la gente a riflettere sulle condizioni dello Stato, come non la può costringere a dedicarsi alle scienze, o alle arti.

L'egoismo soltanto può spingerli a far ciò, e lo farà, non appena le condizioni accennino a peggiorare. Se dimostrerete agli uomini che l'utile loro richiede ch'essi si occupino delle condizioni dello Stato, voi non avrete bisogno di stimolarli per molto tempo; ma se fate appello al loro amor di patria, ecc., voi dovrete predicare lungamente e invano a sordi che non vogliono udire. Certamente dunque nel senso che voi desiderate gli egoisti non parteciperanno mai alle cose dello Stato.

Una frase schiettamente liberale la troviamo nel Neuwerk a pag. 16: "L'uomo adempie interamente alla sua vocazione solo quando ha coscienza d'esser parte dell' umanità, e come tale spiega l'attività sua. Il singolo non può attuare l'idea dell'umanesimo senza richiamarsi alla umanità tutta intera, e trarre da essa la forza, come Anteo dalla terra".

Alla stessa pagina si legge: "I rapporti dell' uomo colla res publica sono dalla teologia abbassati al grado d'una faccenda privata e per ciò disconosciuti ". Come se l'opinione politica agisse diversamente verso la religione! Per essa la religione non diventa forse una questione privata?

Se invece di parlar alla gente di "sacri doveri", di "destinazione dell'uomo", di "vocazione a svolgere interamente l'umana essenza" le si facesse capire che essa risente un danno col lasciar che le cose dello Stato vadan così come vanno, si raggiungerebbe lo scopo desiderato senza tanto sciupìo di vuote frasi, A questo si deve venire quando il momento è decisivo. Invece l'avversatore dei teologhi scrive: "Se mai ci fu un tempo in cui lo stato deve far appello a tutti i suoi, si è il nostro. L'uomo pensatore scorge nella partecipazione teorica e pratica alla cosa pubblica un dovere uno dei più sacri doveri che gli incombano" e prende poi a considerare più da presso la "necessità incondizionata che ciascuno abbia parte alle faccende dello Stato".

Politico è e sarà eternamente colui che porta lo Stato nel cervello o nel cuore, l'ossesso dello Stato, il credente nello Stato.

Lo Stato — si dice — è il mezzo più "necessario per il perfezionamento dell' umanità". Certo esso fu tale sino a tanto che la perfezione da noi ricercata rimase quella della società, ma se della nostra invece, della nostra unicamente, ci curiamo, lo Stato non potrà esserci che d'ostacolo. Si può anche ora riformare e migliorare lo Stato ed il popolo? Tanto poco quanto si può migliorare la nobiltà, il clero, la Chiesa, ecc. Possiamo eliminarli, distruggerli, abolirli, non mai riformarli Posso io forse mercé le riforme render sensata una cosa che non sia tale? Meglio dunque distruggerla senz'altro.

Si tratta quind'innanzi non più dello Stato (della sua costituzione, ecc.) bensì di me stesso. Con ciò svaniscono tutte le questioni intorno ai poteri del principe, alla costituzione, e ad altre cose si fatte. Esse dileguano nel nulla. Io, che rappresento questo nulla, farò uscire da me quelle che sono le mie creazioni.

*  *  *

Al capitolo della società si ricollega anche l'argomento del "partito" che di recente fu esaltato.

Nello Stato ha solo valore il partito. Ma il singolo è l'unico, e come tale non appartiene ad alcun partito. Egli si associa liberamente, e volontariamente esce dall'associazione. Il partito non è altro che uno Stato nello Stato, nel quale si esige che regni la "concordia" come nell'altro. Tant'è che appunto coloro i quali gridano più forte che nello Stato debba esistere un'opposizione combattono ogni discordia nel partito. Ciò prova come anche essi non vogliono che uno Stato solo. Soltanto il concetto del singolo può distruggere tutti i partiti.

Nessuna ammonizione suona oggi più frequente di questa: che conviene restar fedeli al proprio partito. Nessuno più del rinnegato è oggetto di disprezzo per parte degli uomini di partito. Bisogna seguire in tutti i modi il proprio partito e riconoscere e propagare incondizionatamente le sue idee fondamentali. Nel partito si sta ad ogni modo meglio che nelle società chiuse, perché in queste i singoli sono vincolati da determinate leggi, dagli statuti, ecc. (p. es. gli ordini religiosi, la Compagnia di Gesù). Ma il partito cessa d'essere una libera associazione nel momento in cui rende obbligatori certi principî e tende ad assicurarli contro gli assalti di terzi; e pure quel momento è appunto l'atto suo di nascita. Come tale esso è già un'associazione morta, una idea divenuta fissa. Il partito dell'assolutismo non può tollerare, ad esempio, che i suoi membri dubitino della verità inconfutabile di quel principio; potrebbero dubitarne se fossero tanto egoisti da voler essere qualche cosa anche fuori del proprio partito, vale a dire "imparziali". E "imparziali" non possono essere quali uomini di parte, bensì solamente quali egoisti. Se tu sei protestante ed appartieni a questa setta, tu non puoi che giustificare, e tutt'al più riformare il protestantismo, ma non già ripudiarlo; se tu sei cristiano non ti è possibile abbandonare o respingere i principi del Cristianesimo, se non allora quando il tuo interesse proprio ti faccia giudice imparziale della dottrina comune. Quanti sforzi non hanno fatto i cristiani venendo giù sino all'Hegel ed ai comunisti, per render forte il loro partito? E oggi ancora essi persistono ad affermare che il Cristianesimo contiene la verità eterna, e che tutto sta nel sapervela trovare, determinare e giustificare.

In breve, il partito non ammette imparzialità. Ma che importa a me del partito! Troverò all'infuori di esso molti che si uniranno a me, senza obbligarmi a giurare in una comune fede.

Chi passa da un partito all'altro vien chiamato "apostata". Certamente la morale esige che si resti fedeli alla propria parte: abbandonarla per un'altra significa macchiarsi d'infedeltà; ma l'individualità non conosce obblighi di fedeltà; essa ammette tutto, anche l'apostasia. Senza avvedersene, gli stessi moralisti si lasciano guidare da questo principio quando si tratta di giudicare alcuno che possa nel loro partito, e cercare anche di far proseliti; ma essi dovrebbero avvertire in pari tempo con cosciente chiarezza che è necessario operare immoralmente, affermare di fronte alla collettività la propria natura, vale a dire, in questo caso concreto, che è necessario rompere la giurata fedeltà per affermar sé stessi anziché lasciarsi determinare da considerazioni morali. Agli occhi delle persone strettamente morali un apostata è sempre una natura equivoca, indegna della lor fiducia, poiché porta impresso il marchio incancellabile dell'infedeltà, cioè d'una immoralità. Presso il popolo quest'opinione è pressoché generale; i più illuminati, anche in questo caso come in tanti altri, divengono preda della incertezza e della confusione, e il contrasto, necessariamente fondato sul principio della moralità, per la confusione dei concetti non riesce a manifestarsi chiaramente nella loro coscienza. Chiamare senz'altro immorale l'apostata non osano, poiché essi stessi cercano d'indurre altri all'apostasia, al passaggio cioè alla lor religione, e d'altra parte non hanno il coraggio di sacrificare il concetto convenzionale della moralità. Eppure dovrebbero afferrare quest'occasione per uscir dal campo della morale comune; forse che i singoli formano un partito? Come potrebbero a questo patto essere singoli ed unici?

Dunque dovremmo tenerci lontani da ogni partito? Certo, poi che questo non mi può giovare se non fino a tanto ch'io proseguo interessi ad esso comuni. Se l'utile mio sia col suo in contrasto, m'è forza divenirgli infedele. Il partito non ha dunque nulla d'obbligatorio per me e non può pretendere al mio rispetto; anzi se non fa più per me, io lo avverserò.

In ogni partito che voglia esser duraturo, i singoli sono dipendenti e schiavi; l'individualità loro di tanto è sacrificata di quanto s'accrescono le esigenze dell'associazione. L'indipendenza del partito ha per condizione la dipendenza dei singoli.

Un partito, quale che esso sia, ha bisogno d'una professione di fede. Poiché nel principio del partito si ha obbligo di credere, quel principio non può esser per chi v'appartiene argomento di dubbio, ma deve per ciascuno rappresentare ciò che v'ha di più certo. Ciò significa che bisogna darsi al partito corpo ed anima, altrimenti non si è veramente uomo di parte, ma un egoista, in un maggiore o in un minor grado.

Se tu metti in dubbio un dogma cristiano, tu già non sei più un vero cristiano, poiché sei stato tanto "insolente" da voler prender in esame quel dogma e da giudicarlo dinanzi al tribunale del tuo egoismo.

Tu hai peccato contro il Cristianesimo. Ma fortunato te se non ti lasci impaurire: la tua insolenza ti aiuta a conquistare la tua individualità.

*  *  *

Sicché un egoista non dovrebbe mai appartenere ad alcun partito? Si; ma egli non deve

lasciarsene legare. Il partito dev'esser per lui semplicemente un mezzo del quale si serve finché gli giova.

Il miglior Stato sarà evidentemente quello che possiede i cittadini più ligi; quanto più va perdendosi il sentimento di soggezione alla legalità, tanto più lo Stato, questo sistema fondato sulla morale, sarà diminuito nell'esser suo. Insieme coi "buoni cittadini" anche lo Stato perisce e si dissolve nell'anarchia. Il rispetto alla legge è il cemento che tiene unita la compagine dello Stato. La legge è sacra e chi le contravviene è un malfattore. Senza delitti non c'è Stato: il mondo morale — e tale è lo Stato — pullula di furfanti, d'imbroglioni, di ladri ecc. E siccome lo Stato rappresenta il "dominio della legge", così l'egoista in tutti i casi nei quali il suo interesse sarà diverso da quello dello stato non potrà soddisfarlo che col delitto.

Lo Stato non può rinunziare al principio che le sue leggi e le sue istituzioni devono esser tenute in conto di sacre. Perciò il singolo viene da esso considerato quale cosa non sacra (barbaro? uomo di natura egoista), come in altri tempi fu considerato dalla Chiesa. Così per esempio, si decreta una legge contro il duello. Due persone che si sono accordate tra loro di voler esporre la propria vita per una causa, quantunque essa sia, non devono poterlo fare, perché lo Stato non lo permette, anzi colpisce con una pena i contravventori. Qual conto è fatto della libertà di disporre della propria vita? Le cose stanno diversamente, quando, come avviene nell'America del Nord, la società ha convenuto di far provare ai duellanti talune dannose conseguenze della loro azione, negando loro, ad esempio, la stima di cui avevano goduto sino allora. Negare la stima è un diritto di ciascuno, e se una società ciò fa verso una determinata persona, questa non può lagnarsi che la sua libertà personale sia stata in alcun modo menomata. La società fa valere il suo diritto e niente di più. Questa non è una pena, non è un'espiazione per un "delitto". Il duello in tal caso non è un crimine ma semplicemente un atto contro il quale la società prende certe misure repressive. Invece lo Stato colpisce il duello col marchio del delitto, cioè di una violazione delle sue sacre leggi: ne fa un caso criminale. Se la società americana lascia al libero arbitrio di ciascuno il sopportare le conseguenze dannose derivanti dal suo modo di agire, riconoscendo con ciò la libertà delle sue risoluzioni, lo Stato fa precisamente l'opposto, poiché nega al singolo ogni diritto di liberamente determinarsi, e attribuisce tale diritto unicamente a sé stesso, sicché chiunque contravvenga alle leggi sue è tenuto nello stesso conto di chi contravvenga ai precetti divini; opinione che fu tenuta un dì anche dalla Chiesa. Dio è il santo per sé stesso, e i comandamenti della Chiesa e dello Stato sono ordini di quel santo che li trasmette al mondo col mezzo dei suoi sacerdoti e dei suoi principi per grazia di Dio. Se la Chiesa aveva i peccati mortali, lo Stato ha i suoi delitti capitali; se quella aveva gli eretici, lo Stato ha i rei d'alto tradimento; se quella ha le pene della Chiesa, questo ha le pene criminali; se quella i processi inquisitoriali questo i processi fiscali; in breve quella ha i peccatori e questo i malfattori, e l'inquisizione è da una parte come dall'altra. La santità dello Stato non cadrà essa al pari di quella della Chiesa? Il terrore delle sue leggi, la venerazione della sua sovranità, l'umiltà dei suoi "soggetti" dovranno prevalere in eterno? Il viso del santo non verrà mai deturpato?

Quale stoltezza il pretendere che la forza dello Stato sostenga una lotta leale contro ogni singolo, distribuendo — come si domanda per la libertà di stampa — equamente il sole e il vento. Se lo Stato, questa idea, deve essere una forza che si fa valere, è necessario che tal forza sia superiore a quella del singolo. Lo Stato è sacro e non può esporsi agli "impudenti assalti" dei singoli. Se lo Stato è sacro, la censura è necessaria. I liberali ammettono la prima parte di quest'assioma e negano la seconda. Ma in tutti i casi attribuiscono allo Stato il diritto di misure repressive poiché convengono anch'essi che lo Stato è da più del singolo individuo e che a ragione per ciò esso esercita la sua vendetta, cui dan nome di punizione.

La punizione non ha un significato se non quando deve servire d'espiazione per la violazione di qualche cosa sacra. Se alcuno ha per sacra una cosa, giusto è che egli sia punito allorquando la profana. Uomo religioso è appunto colui che rispetta la vita umana perché essa gli è sacra.

Weitling imputa ai delitti la colpa del "disordine sociale" e spera che con le istituzioni comunistiche essi saranno tolti di mezzo perché mancherà la tentazione a commetterli: il denaro, tra altro. Ma poiché anche la sua società organizzata è sacrosanta e inviolabile, egli sbaglia nel conto, non ostante tutta la sua buona volontà. Non farebbero certamente difetto coloro che professandosi con le labbra per zelatori dalla società comunistica, lavorassero di sottomano alla rovina di essa. Malgrado tutto Weitling deve limitarsi ai "rimedi" contro il resto delle malattie e debolezze naturali e la parola "rimedi" rivela sempre che egli considera i singoli come chiamati ad una determinata salute, e che fa conto di trattarli in conformità di tale "vocazione umana". Il "rimedio" non è che il rovescio della medaglia: la teoria dei rimedi salutari corre parallelamente a quella delle pene; se questa intravede in un atto un peccato contro la legge, quella vi scorge un peccato dell'uomo contro se stesso e per ciò quasi un principio di malattia. Ma la verità è che io considero una cosa nel rispetto che meglio mi è a grado come una mia proprietà che io posso conservare o spezzare a mio piacere. Tanto il "delitto" quanto la "malattia" non sono concetti egoistici d'una cosa, sono giudizi che procedono non da me ma da altra persona. Se non che, col "delitto" si è inesorabili, con la "malattia" si abbonda invece di pietà e di compatimento.

Al delitto tiene dietro il castigo. Se il delitto, col dileguarsi del concetto del "sacro", scomparisce, è giusto che scompaia anche la punizione; poiché anche essa non ha valore che in quanto ha rapporto con la cosa "sacra". Si sono abolite le punizioni ecclesiastiche. perché? Perché ognuno è padrone di condursi come meglio crede verso il buon Dio. Ma allo stesso modo che sono scomparse quelle punizioni della chiesa devono pur sparire tutte le punizioni. Allo stesso modo che il peccato contro Dio è faccenda privata d'ogni singolo, cosi faccende private devono essere tutte le altre contravvenzioni contro le cose "sacre". Secondo le nostre teorie di diritto criminale, che invano ci arrovelliamo a riformare a norma delle "esigenze moderne", si vorrebbero punire gli uomini per questa o per quella "inumanità" commessa, e si rende invece più manifesta la puerile illogicità di tali sforzi coll'impiccare i ladri piccoli e lasciar correre i grandi. Per le violazioni della proprietà si hanno le case di pena, e per la "costrizione del pensiero", — per l'oppressione dei "diritti naturali umani" non si hanno che gli argomenti logici e le preghiere.

Il codice penale non sussiste che in virtù del concetto religioso, e si dissolve da sé, con l'abolizione delle pene. Da per tutto si vuol creare un nuovo Codice penale, senza tuttavia riguardi circa le pene da infliggere. Ora ciò che appunto importa è che la pena ceda il posto alla soddisfazione non già della legge e della giustizia ma di noi stessi. Se alcuno farà a noi cosa che non tolleriamo ci sia fatta, noi spezzeremo la sua forza, e faremo valere la nostra: noi soddisfaremo su di lui noi stessi e non commetteremo la sciocchezza di voler soddisfare la legge (un fantasma). Non è già il "sacro" che debba difendersi dell'uomo, bensì l'uomo dall'uomo. Cosi ora Dio più non si difende dall' uomo, mentre in altri tempi e in qualche parte anche oggi, tutti "i servi di Dio si univano a punire il sacrilegio", proprio come ai di nostri si collegano per punire chi viola una cosa "sacra". Tale devozione alla cosa sacra fa si che senza farci un giudizio proprio, noi diamo i delinquenti in mano alla polizia ed ai tribunali: e poniamo un'apatica fiducia nell'autorità, che sola è in condizione di tutelare ciò ch'è "sacro". Il popolo poi ha un cotal pazzo uso di chiamare in aiuto la polizia a proposito d'ogni cosa che gli sembri immorale, o anche semplicemente indecente, e questa mania protegge la polizia meglio che non la potrebbe proteggere qualsiasi governo.

Sin qui l'egoista si è affermato col delitto, ridendosi di tutto ciò che è tenuto sacro. perché non lo dovremo tutti imitare? Se oggi una rivoluzione non è più possibile, potremo aver di meglio. Un delitto collettivo, oltrepossente, impetuoso, irrefrenato, si annuncia col rumore d'un tuono lontano. Non vedi tu come il cielo si fa cupo per un presagio silenzio?

Colui che si rifiuta di odoperarsi a vantaggio di società così ristrette come la famiglia, il partito, la nazione, desidera nondimeno sempre una società più degna e più vasta, e crede di aver trovato nella "società umana" o nell' "umanità" il vero oggetto del suo amore, e considera come un onore il sacrificarsi ad essa; da quel momento egli non vive che per l'umanità.

Popolo si chiama il corpo, Stato lo spirito di quella persona dominante che per tanti anni m'ha oppresso. Si cercò gran tempo di trasfigurare i popoli e gli Stati con l'innalzarsi al grado di "umanità" e col nobilitarli nel nome della "ragione universale". Ma in forza di quest'esaltazione la schiavitù divenne ancor più trista, e i filantropi e gli umanisti si chiarirono padroni assoluti al pari dei politici e dei diplomatici.

Alcuni critici moderni gridano contro la religione, perché essa pone — dicono — Dio, la divinità, la moralità ecc., fuori dell'uomo, mentre essi li vorrebbero riporre nell'uomo. Ma essi pure ricadono nel vero errore della religione, di voler cioè imporre una destinazione all'uomo, poiché anch'essi esigono dall'uomo che sia divino, umano, ecc., pretendono che la moralità, la libertà, la umanità ecc. formino la sua essenza. E come già la religione, cosi ora anche la politica vuole "educare" l'uomo, guidarlo verso la attuazione del suo vero "essere", dei suoi "destini", fare insomma di lui un "vero uomo": se non più nella forma "d'un vero credente", in quella almeno del "buon cittadino o del buon suddito". La cosa non muta: il divino e l'umano devono essere la destinazione dell'uomo.

Per virtù della religione e della politica l'uomo si trova sempre sul punto del dover fare e del dover essere. Con questo postulato egli si presenta non soltanto innanzi al suo prossimo, ma pure innanzi a se stesso. I critici poc’anzi accennati dicono: Tu devi essere un uomo, genuino, un uomo libero. E così essi pure stanno per cedere alla tentazione di proclamare una nuova religione, un nuovo assoluto, un nuovo ideale: la libertà. Gli uomini devono esser liberi. In tal caso vedremo sorgere i missionari della libertà allo stesso modo Cristianesimo — mosso dalla persuasione che tutti non avessero altra destinazione da quella in fuori di diventar cristiani — sorsero i missionari della fede. E così la libertà si costituirebbe, come finora la fede, in "comunità", e ordinerebbe una propaganda consimile. E ben vero che non si può sollevare alcuna obbiezione contro un'unione per fini comuni. Ma bisogna opporsi con tutte le forze all'intendimento, al principio di voler fare degli uomini qualche cosa; cristiani o maomettani, sudditi o liberi cittadini.

Si può affermare bensì con Feuerbach e con altri che la religione abbia strappato all'uomo ciò che è umano, per collocarlo a una grande distanza da lui, in un di là, dove l'inaccessibile poté condurre un'esistenza propria, personale, sotto il nome di Dio; ma con ciò l'errore della religione non è ancora finito. Mutate Dio nel "divino" e la religione continuerà ancora. Poiché il concetto religioso muove dal fastidio che si prova per l' "uomo" qual'egli è; e così dal desiderio di contrapporgli una "perfezione" da raggiungere, prestando alla fantasia l'immagine di un "uomo che lotta per la sua perfezione". (Epperciò voi dovete esser perfetti, come il vostro padre nei cieli, Matt., V. 481). Esso consiste insomma nel foggiare un ideale, una cosa assoluta. La perfezione è il "supremo bene", il finis bonorum; l'ideale di tutti è l'uomo perfetto, il vero uomo, l'uomo libero, ecc.

Le aspirazioni dell'età moderna tendono a comporre l'ideale dell' "uomo libero". Se si potesse trovarlo — ne risulterebbe una nuova religione, poiché un nuovo ideale darebbe vita a nuovi desideri, a nuovi affanni, a nuove devozioni, a nuove divinità, a nuove costrizioni.

L'ideale della "libertà assoluta" ci trae in inganno come ogni assoluto. Secondo l'Hess quella libertà deve attuarsi nella società umana assoluta; poco dopo essa è chiamata destinazione; in fine viene trasformata in moralità: bisogna iniziare il regno della giustizia (eguaglianza) e della moralità (libertà) ecc.

Certo è ridicolo colui che mena vanto delle lodi ottenute dalla sua stirpe, dalla sua nazione, dalla sua famiglia; ma non è forse accecato del pari colui che pretende di attuare in sé "l'uomo"? Poiché né l'uno né l'altro ripongono il lor valore nella propria individualità, sì invece nella comunanza o nel vincolo che li lega agli altri: nei vincoli famigliari, nazionali, umani. In grazia degli odierni nazionalisti è risorto il litigio tra coloro che si vantano del lor sangue puramente umano e de' lor legami puramente umani e gli altri che si gloriano della lor stirpe speciale e dei lor portentosi legami.

Concediamo pure all'orgoglio il nome di coscienza nazionale; esiste nondimeno un immenso divario fra l'orgoglio di appartenere ad una nazione e quello di possedere una propria nazionalità. La nazionalità è il mio possesso, ma la nazione è quella che mi possiede, è la mia padrona. Se tu disponi di muscoli robusti, tu potrai far valere all'occasione la tua forza ed andarne orgoglioso; ma se invece il tuo corpo robusto possiede te, quella forza si manifesterà anche nei momenti più inopportuni, e tu non potrai, per un esempio, stringer la mano ad alcuno senza fargli male.

La coscienza d'esser da più che un semplice membro della famiglia, della stirpe, della nazione, ci ha condotto finalmente a dire: siamo da più di tutto ciò, perché siamo uomini, oppure: l'esser uomo vale più che non l'esser ebreo, tedesco, ecc. Ciascuno dunque sia solamente e veramente uomo! Non si poteva dire piuttosto: Se l'essere nostro significa qualche cosa che oltrepassa i nomi che gli usan dare, noi vogliamo essere da più che uomini per la stessa ragione per cui voi volete essere da più che tedeschi od ebrei? I nazionali hanno ragione; non si può rinunziare alla propria nazionalità; e gli umanisti hanno ragione del pari: bisogna emanciparsi dagli angusti concetti dei nazionalisti. Nella individualità il contrasto si risolve. La nazionalità è una mia proprietà. Ma la nazionalità non comprende tutto il mio essere. Cosi anche l'umanità è una mia proprietà, ma soltanto l'individualità mia può far di me un uomo.

La storia va in cerca dell'uomo: ma l'uomo sono io, sei tu, siamo noi. Dopo averlo cercato quale un essere misterioso — quale un essere divino, quale un Dio, poi quale uomo — io lo trovo al fine quale singolo finito — quale unico.

Io sono il possessore dell'umanità, io sono l'umanità e nulla faccio pel benessere d'un'altra umanità. Quanto sei stolto, tu, che essendo per te stesso un'umanità unica, ti affanni a vivere per un'umanità diversa dalla tua!

I rapporti, sin qui considerati, che corrono tra me e il mondo degli uomini, presentano una tale ricchezza di fatti da non potersene trattare che di proposito e a parte; ma qui devo interrompermi per discorrerne sotto due altri aspetti. Con gli uomini io non ho rapporto soltanto in quanto rappresentano in sé il concetto "uomo" e in quanto sono figli dell'uomo (dico figli dell'uomo, nel senso stesso in cui si parla dei figli di Dio), ma anche per ciò che essi posseggono di proprio quali uomini. Dunque bisognerà far entrare nel campo della nostra discussione, oltre al mondo degli uomini, anche il mondo dei sensi e delle idee, e dir qualche cosa a proposito dei beni, sì materiali si spirituali di proprietà umana.

Man mano che si svolse il concetto dell'uomo e che gli si poté dare una forma concreta, lo si fece conoscere a noi quale un ente che esige rispetto per molte ragioni; e dalla più lata compressione di questo pensiero uscì finalmente il precetto: "rispetto l'uomo in ciascuno". Ma se io rispetto l'uomo, il mio rispetto deve estendersi a ciò che è umano e a ciò che è pertinente all'uomo.

Gli uomini hanno tutti alcunché di proprio; questo solo è sacro. Questa proprietà di ciascun uomo può consistere in beni esterni ed in beni interni. — Quelli sono rappresentati da cose, questi da idealità, pensieri, convinzioni, sentimenti nobili, ecc. Ma io sono tenuto soltanto a rispettare la proprietà di diritto dell'uomo non quella che è contro il diritto e non umana. Bene interno di tal specie è, ad esempio, la religione; e siccome la religione è libera — dunque di spettanza dell'uomo — io non devo toccarla. La stessa cosa è dell'onore. Religione ed onore sono "proprietà spirituali". Nel novero delle cose sta sovra tutta la persona: la persona è la mia prima proprietà, la proprietà per eccellenza. Dunque libertà della persona; ma soltanto la persona secondo il diritto. La tua vita è tua proprietà: ma essa è sacra agli uomini solo sino a tanto che non è una vita inumana.

Quei beni corporali sui quali l'uomo come tale non può accampare un diritto, ci è lecito di rapirglieli: in ciò sta il significato della concorrenza nella libertà industriale. E del pari, quei beni spirituali che l'uomo non sa rivendicar come propri possono divenire nostra preda: in ciò consiste la libertà della critica, della discussione, della scienza.

Ma sono intangibili — si afferma — i beni che furono proclamati sacri. Consacrati, da chi? In primo luogo dallo Stato (dalla società) poi dall'uomo, o — a meglio dire — dall'idea, poiché il concetto dei beni sacri importa che essi siano veramente umani che l'uomo li possegga nella sua qualità d'uomo, come tale.

Beni spirituali sono pure la fede dell'uomo, il suo onore, il suo senso morale, il senso della decenza, del pudore, ecc. Gli atti che offendono l'onore (con discorsi e con scritti) sono punibili; punibili gli assalti contro i principi d'ogni religione, contro la fede politica, in breve contro tutto ciò che un uomo possiede a "buon diritto".

Sull'estensione che debba darsi al concetto della santità di quei beni il liberalismo critico non si è finora dichiarato; fors'anche crede falsamente d'esser contrario a tale santità. Ma siccome esso combatte l'egoismo, così è costretto a moltiplicare gli ostacoli, e non può tollerare che ciò che è anti-umano prevalga a ciò che è umano. Al suo disprezzo teoretico della "massa" dovrebbe corrispondere, quando fosse giunto a conquistare la forza, una pratica sanzione

Sulla estensione che debba assegnarsi al concetto "uomo" — si da determinare con certezza che cosa sia di spettanza dell'uomo e che dunque sia veramente l'uomo o l'umano — non v'è accordo tra le varie scuole de' liberali: l'uomo politico, il sociale, l'umano vanno acquistando sempre più cose, uno a danno dell'altro, e tutto in favore d'un'astrazione. Chi ha compreso meglio quel concetto, sa anche meglio che cosa spetti "all'uomo". Lo stato lo intende ancora sotto il solo aspetto politico, la società sotto quello sociale, l'umanità (per quel che si afferma) lo comprende invece interamente. Ma, trovato che sia con esattezza l' "uomo", noi sapremo in che consista ciò gli è proprio, quali cose gli appartengano, e che sia in somma l'umano.

Ma accampi pure l'uomo quanti diritti egli voglia: che importa a me delle sue pretese? Se il suo diritto procede dagli uomini soltanto, ma non da me, esso non ha per me alcun valore. La sua vita, per esempio, non ha valore ai miei occhi che quel tanto che vale per me. Io non riconosco né il suo cosiddetto diritto di proprietà, né il suo diritto su cose determinate, e neppure quello ch'ei crede d'avere sul suo santuario interiore, né la pretesa che i suoi beni spirituali, le sue divinità, debbano esser rispettate dagli altri. I suoi beni materiali o spirituali appartengono a me, ed io ne uso secondo il mio vantaggio e per quanto il mio potere me lo consente.

La questione della proprietà racchiude in sé un significato più largo di quanto a primo tratto non appaia. Se la si riferisce unicamente a ciò che si chiama il nostro possesso, non è possibile risolverla con esattezza; deciderla non può che colui dal quale noi deriva tutto ripetere: il proprietario.

La rivoluzione ruppe la guerra contro tutto ciò che derivava dalla "grazia celeste", e al luogo della legge divina pose la umana. A ciò che viene "conferito da Dio" venne cosi contrapposto ciò che deriva a dall'essenza dell' uomo ".

E a quel modo che i rapporti tra gli uomini dovettero (per contrasto al dogma religioso : "amatevi l'un l'altro per amor di Dio") ricevere una sanzione umana dalla massima: "amatevi per amore dell'uomo", cosi la dottrina rivoluzionaria non seppe e non poté far altro, in quanto riguarda i rapporti degli uomini con le cose, se non stabilire che il mondo, sino allora retto da ordinamenti divini, dovesse appartenere quind'innanzi all'uomo.

Il mondo appartiene all'uomo, ed io devo rispettarlo quale sua proprietà. Ma che è la proprietà, se non quello che ciascuno ha per se?

La proprietà, secondo il significato borghese, importa una cosa sacra che ciascuno deve rispettare in ciascuno, "Rispetto alla proprietà"! Ben per questo i politici vedrebbero volentieri che ognuno avesse la sua piccola particella di proprietà, e in omaggio a questa tendenza son pervenuti a sminuzzare ogni cosa. Ciascuno deve avere il suo osso da rosicchiare.

Ma le cose stanno ben altrimenti secondo il senso egoistico. Dinanzi alla tua ed alla vostra proprietà io non m'arretro tremante; sono pronto anzi a farla mia, s'io posso. Fate voi altrettanto riguardo alla proprietà mia.

In quest'ordine d'idee ci sarà più facile l'intenderci.

I liberali politici si danno faccenda per abolire tutte le servitù, affinché ogni uomo sia libero padrone sul suo terreno, quand'anche questo terreno fosse tanto ristretto quanto bastano gli escrementi d'un singolo ad alimentare. (È nota la storia di quel contadino che in tarda età si rammogliò per profittare delle feci della moglie a vantaggio del proprio terreno). Sia pur piccola quanto si voglia, purché sia proprietà di chi lo coltiva, e vale dire una proprietà rispettata, sacra!

E più crescerà il numero di tali piccoli proprietari, più grande diverrà quello da "gente libera dei buoni patrioti" su cui può contare lo Stato.

Il liberalismo politico, come tutto ciò che è religioso, fa assegnamènto sul rispetto, sulla umanità, sulla carità. Per questo esso è malinconico in eterno. Poiché nella pratica la gente non rispetta cosa alcuna, e non v'ha giorno che i piccoli possessi non vengano ingoiati dai grandi proprietari, sicché gli uomini liberi si trasformano in altrettanti operai asserviti.

Se invece i "piccoli" proprietari avessero considerato che anche la grande proprietà appartiene a loro, essi non ne avrebbero esclusi se stessi, e non ne sarebbero rimasti esclusi.

La proprietà com'è intesa dai liberali borghesi merita gli attacchi dei comunisti e di Proudhon, è insostenibile, poiché in fondo il proprietario borghese non è altro che un "senza possesso" un escluso da ogni cosa. Invece di avere il mondo in sua proprietà ei non possiede nemmeno il piccolo tratto di terreno sul quale passeggia.

Proudhon non vuole il "propriétaire" bensì il "possesseur" ovvero "usufruitier" (Que cest que la propriété? p. 83). Che cosa significa ciò? Egli vuole che nessuno possa appropriarsi il suolo, né altro averne che l' uso; ma per quanto piccola sia la parte dei frutti ch'ei concede a ciascuno, costui non ne sarà per ciò meno il proprietario. Chi non fruisce che del reddito d'un terreno, non è certo il proprietario del suolo; meno o lo sarà ancora chi, come esige Proudhon, dovrà cedere agli altri quella parte di utile che sorpassa i suoi bisogni; ciò nondimeno egli sarà però sempre il proprietario della parte di frutti che gli rimane, Sicché Proudhon nega tale e tale altra proprietà, ma non già la proprietà. Se noi vogliamo togliere al proprietario il suo podere, noi ci uniremo a questo scopo, formeremo una associazione, una "société" che se ne renderà proprietaria; se il colpo ci riesce, il nostro intento sarà ottenuto. E come cacciamo dal lor terreno i proprietari, così noi possiamo cacciarli da molte altre proprietà e ridurre queste in proprietà nostra, proprietà dei conquistatori. I conquistatori formano una società che si può immaginare tanto vasta da abbracciare l'umanità tutta intera; ma anche la cosiddetta umanità, come tale, non è che un'idea, un fantasma. La realtà è nei singoli di cui quella si compone. E questi singoli riuniti non si comporteranno meno arbitrariamente nella questione del terreno di quel che si comporta ciascuno separatamente. Anche così dunque continua a sussistere la proprietà, né cessa di essere esclusiva poiché l'umanità esclude il singolo dalla sua proprietà (limitandosi tutt'al più ad affittargliene una parte, a dargliela in feudo), così come ne esclude tutto ciò che non sia umanità, p. es. non permettendo che il mondo degli animali possegga alcunché di proprio. E così sarà sempre. Quella cosa a cui tutti vorranno partecipare sarà sottratta a chi vorrebbe averla per lui solo, diverrà proprietà comune.

Alla proprietà comune ha diritto ciascuno per una parte e questa parte costituisce la sua proprietà. Così anche nelle nostre presenti condizioni una casa che appartiene a cinque eredi, è loro proprietà comune; ma la quinta parte del reddito è proprietà d'ogni singolo erede. Proudhon poteva risparmiarci la sua retorica quando disse: Vi sono alcune cose che appartengono solamente a pochi ed alle quali non vogliamo dare la caccia. Prendiamocele, poiché col prendere si acquista proprietà, e quella che ora ci è negata gli attuali proprietari se la sono presa un tempo da loro stessi. Potremo meglio sfruttarla quando sarà in nostre mani, nelle mani di noi tutti che noi allora quando pochi soltanto avevano facoltà di disporne. Associamoci pertanto allo scopo di questo furto (vol). — Ma per giunta egli ci vuole far credere, che la società sia stata la proprietaria in origine e la sola legittima, e che verso di lei il proprietario si sia reso colpevole di furto (la propriété c'est le vol.); sicché sia lecito concludere che se essa toglie al proprietario dell'oggi ciò ch'egli possiede non lo deruba, poiché fa soltanto valere i suoi diritti imprescrittibili. A tanto si viene in virtù del fantasma d'una società, considerata come persona morale. Ma è vero invece l'opposto: all'uomo appartiene tutto ciò di cui egli sa insignorirsi: a me appartiene il mondo. Enunciate voi forse altra cosa coll'assioma contrario: "il mondo appartiene a tutti"? I tutti si compongono di tanti "io"; ma voi create con la parola "tutti" un fantasma che proclamate sacro, di modo che il "tutti" di viene un tiranno più terribile del singolo. Ed ecco che gli si colloca tosto a lato l'altro fantasma del "diritto".

Proudhon al pari di tutti i comunisti combatte l'egoismo. Perciò le sue teoriche sono conseguenze e continuazione del principio cristiano, del principio dell'amore, del sacrificio, della rinunzia in pro-dell'universalità. Esse svolgono dal concetto di proprietà ciò che da gran tempo già vi è compreso, vale a dire l'espropriazione del singolo. Se nella legge sta scritto: Ad reges potestas omnium pertinet, ad singulos proprietas; omnia rex imperio possident, singuli dominio, ciò significa: Il re è il proprietario poiché egli soltanto può disporre a suo talento di ogni cosa, egli ha la potestas e l'imperium su ogni cosa. I comunisti resero più chiaro questo assioma col conferire tale imperium alla "società di tutti". Dunque, poiché si proclamano nemici dell'egoismo, essi sono "cristiani", o, per parlare in tesi più generale, sono uomini religiosi, superstiziosi, che credono ai fantasmi, dipendenti e servi d'una qualche astrazione (d'una divinità, della società, ecc. E il Proudhon conviene coi cristiani anche in ciò egli attribuisce a Dio quello che nega spettare agli uomini. Egli lo chiama p. es. (pag. 90) il propriétaire della terra, col che ben dimostra che egli non può passarsi del proprietario come tale. Per tal modo con le sue teoriche il Proudhon finisce ad ammettere un proprietario: se non che lo relega in un di là.

La verità è invece questa : che proprietari non sono né Dio, né l'uomo (cioè la "società umana"), ma è il singolo soltanto.

Proudhon (come Weitling) crede di lanciar l'anatèma contro la proprietà, proclamandola un furto (vol). Lasciamo la questione difficile delle obiezioni che si possono sollevare contro il furto, e domandiamoci: E’ mai possibile il concetto del "furto"se non si lascia sussistere quello della a proprietà"? Ciò che non appartiene a nessuno non può esser rubato; l'acqua che caviamo dal mare non è rubata. Per conseguenza, la proprietà non è furto: bensì è essa che rende possibile il furto. Anche Weitling è costretto a giungere a questa conclusione, da che egli considera il tutto quale proprietà di tutti: se tutto appartiene a tutti certamente il singolo, per appropriarsi una qualche cosa, deve rubare.

La proprietà privata vive per la grazia del diritto. Nel diritto soltanto essa ha le sue guarentigie. — Il possesso non rappresenta finora la proprietà, ma diviene tale, diviene mia proprietà pel consenso del diritto; — esso non è un fatto, un fait come asserisce Proudhon, bensì una finzione, un'idea. La proprietà di diritto, la proprietà legale; ecco la proprietà vera. Non per virtù mia essa m'appartiene, bensì in grazia del diritto.

Nondimeno la parola proprietà serve ad esprimere il dominio assoluto su qualche cosa (animali, uomini, oggetti) della quale io possa disporre a "mio talento". Secondo il diritto romano significa certamente l' " ius utenti et abutendi re sua, quatenus juris ratio patitur ", un diritto esclusivo ed illimitato. Ma la proprietà è condizionata dalla forza. Ciò che io posseggo con la forza, è mio. Sino a tanto che io so far valere la mia forza, io sono il proprietario d'una cosa; se questa mi viene tolta per qualsiasi potere — fosse perché anche io riconosco i diritti d'un altro su quella cosa — la proprietà cessa. In tal modo proprietà e possesso finiscono a diventare la stessa cosa. Non già un diritto che sta all'infuori di me mi dà ragione, bensì unicamente la mia forza; se io non la posseggo, è per me perduta la cosa che vorrei possedere. Allorquando i Romani si trovarono impotenti contro i Germani, appartenne a questi ultimi l'impero romano e sarebbe ridicolo il voler sostenere che nonostante i veri proprietari sian rimasti i Romani. Chi sa conquistare e conservare una cosa ne diventa proprietario sino a che non gli viene ritolta: allo stesso modo la libertà è di chi sa conquistarsela e conservarla.

Della proprietà la sola forza decide, e siccome lo Stato — sia uno Stato di cittadini o di pitocchi — o di uomini senz'altro — è il solo potente, così esso è anche il solo proprietario. Io — l'unico — non ho nulla di mia proprietà, sono soltanto investito d'un possesso, e divento con ciò un vassallo, un servo. Sotto la dominazione dello Stato, per me non esiste la proprietà.

Io voglio rialzare il mio valore, il valore dell'individualità; e dovrei tener a vile la proprietà? No; come io finora non fui tenuto mai in conto alcuno, perché sopra di me furono esaltati il popolo, l'umanità e mille altre astrazioni, così sino ai nostri giorni la proprietà non è stata apprezzata secondo il suo vero valore. Anche la proprietà non fu sin qui che la proprietà d'un fantasma, p. es. del popolo; la mia stessa esistenza "apparteneva alla patria". Io apparteneva alla patria, al popolo, allo Stato, e con me anche tutto quello ch'era mio. Si esige dagli Stati ch'essi ci liberino dal pauperismo. A me sembra che tanto valga pretendere che lo Stato debba tagliarmi con proprie mani il capo e porselo ai piedi; poiché sino a tanto che lo Stato è tutto, l'io sarà sempre disconosciuto. Lo Stato ha interesse ad esser ricco esso solo; se Pietro o Paolo sono poveri che gliene importa? E così se Pietro fosse ricco e Paolo povero. Esso assiste impassibile all'impoverimento dell'uno, all'arricchimento dell'altro. Quali singoli, al suo cospetto tutti sono perfettamente uguali l'uno all'altro: in ciò consiste la sua giustizia: al suo cospetto ciascun cittadino è un valore, allo stesso modo che una volta al "cospetto di Dio eravamo tutti peccatori". Per contro allo Stato preme che quelli i quali in lui vedono il proprio io, partecipano alle sue ricchezze; e per ciò li considera quali partecipanti alla sua proprietà. Col possesso con cui li rimunera, egli li attrae a sé; ma la proprietà resta sempre sua, e ciascuno può goderne sino a tanto che l' io dello Stato sopprime l'io individuale, vale a dire sino a tanto che l'individuo è un "membro leale della società". Nel caso contrario la proprietà viene confiscata o distrutta col mezzo dei processi penali. La proprietà è perciò proprietà dello Stato, non già del singolo "io". Se lo Stato non toglie arbitrariamente al singolo ciò ch'egli mercé sua, possiede, ciò avviene solo perché lo Stato non deruba se stesso. Colui che, quale io dello Stato, sarà un buon cittadino, un suddito fedele, potrà godere indisturbato del possesso di cui fu investito. In tal caso il Codice s'esprime così: proprietà è ciò che io posseggo in virtù "di Dio e del diritto". Ma per virtù di Dio e del diritto una cosa è mia solo sino a tanto che lo Stato non vi si oppone, e non oltre.

Nelle espropriazioni, nella consegna delle armi, ecc. (come nell'impossessamento delle eredità che il fisco compie a suo vantaggio se gli eredi non s'annunziano in tempo utile) il principio, dissimulato fin ch'è possibile, che il popolo, lo Stato sia il solo proprietario — mentre il singolo non è che un vassallo investito di certi possessi —, salta chiaramente agli occhi.KKK

Lo Stato, ecco ciò che volevo dire, lo Stato non può desiderare che taluno sia ricco per sé stesso; a me come individuo esso nulla può riconoscere, nulla concedere. Lo Stato non può mettere una fine al pauperismo poi che questo riguarda non il popolo in astratto ma i cittadini come persone. Chi nulla conta se non per ciò che l'hanno reso il caso o lo Stato, costui a buon diritto nulla possiede se non ciò che un altro gli dà. E quest'altro non gli darà se non quanto ci si merita in compenso dei suoi servizi. Non egli si fa valere per se; è lo Stato solo che gli attribuisce o gli nega il valore.

L'economia nazionale s'occupa assai di questo argomento. Ma esso varca di molto i confini del "campo nazionale" e oltrepassa i concetti e l'orizzonte dello Stato, il quale non riconosce altra proprietà fuorché la sua a non può distribuire che questa. Per ciò esso vincola il possesso della proprietà a certe condizioni, allo stesso modo che a certe condizioni subordina ogni cosa, p. es. il matrimonio, non riconoscendo per valide che le nozze le quali ottengono la sua sanzione e sottraendo cosi questa istituzione al potere del singolo. Ma una cosa non è mia se non quando io ne sono signore incondizionatamente; quando cioè io amo la donna che più mi piace ed esercito il commercio che meglio m'aggrada.

Lo Stato non si cura di me e di ciò ch'è mio, bensì di sé stesso e di ciò ch'è suo: io conto per lui tutto al più quale un suo figlio, non quale individuo. Ciò che succede a me, quale singolo per lo Stato non ha importanza. Ma se io insieme con tutto ciò che costituisce la mia proprietà non ho per lo Stato alcun pregio, ciò avviene perché egli non è in condizioni di comprendermi; il suo intelletto è troppo ottuso.

Per questo soltanto egli nulla può fare per me.

Il pauperismo è un corollario del deprezzamento dell'io, che diventa un non-valore. Perciò pauperismo e Stato sono inseparabili. Lo Stato non mi permette di farmi valere per quello che sono, anzi fa di tutto per impedire che io quale singolo, mi affermi. Egli è sempre intento a sfruttarmi quanto più gli è possibile a depredarmi, a spogliarmi, e quando altro non può mi costringe a provvedere ad una proles (il proletariato); egli vuole insomma che in tutto io sia una sua creatura.

Ora il pauperismo non si potrà togliere se non quando il singolo stabilirà egli il valore di sé e degli altri e di tutte le cose. Io devo ribellarmi per potermi innalzare.

Ciò che io produco, farina, tela, ferro o carbone, ciò che io strappo penosamente alla terra, ecc., tutto ciò è mio lavoro, che io intendo far valere per me.

Il lamentarmi non mi gioverebbe ; il mio lavoro non sarebbe per questo pagato secondo il suo valore. Il compratore non mi ascolterà e lo Stato si serberà indifferente esso pure, sino a tanto che non crederà giunto il momento di "acquetarmi" per timore che io alla fine mi ribelli con suo danno. Ma con l'acquetarmi esso avrà fatto tutto ciò che può e sa fare, e se io mi ostinerò a domandare qualche altra cosa, lo Stato mi si rivolgerà contro con tutta la forza delle sue unghie di leone e dei suoi artigli d'aquila poiché esso è il re degli animali: è aquila e leone. Se io non voglio accontentarmi del prezzo ch'egli assegna al mio prodotto ed al mio lavoro, e tento di stabilirlo io stesso cioè di "pagarmi a mio modo", io mi porrò in lotta anzitutto coi compratori del mio prodotto. Or se tale conflitto potrà esser composto da un reciproco accordo, lo Stato non solleverà obiezioni, poiché poco gli importa il modo con cui i singoli si mettano d'accordo tra di loro, purché non gli attraversino il cammino. Il suo danno, il suo pericolo, incominciano solo quando i singoli non riescono più a mettersi d'accordo, e vengono alle prese tra loro. Lo Stato non può tollerare che l'uomo abbia un qualunque rapporto diretto coi suoi simili; vuol cacciarsi di mezzo, quale mediatore, vuol intervenire. Esso è divenuto con ora ciò che è stato un tempo Cristo, ciò che furono i santi, ciò che fu la Chiesa: "mediatore". Egli strappa l'uomo dall'uomo, per porsi in mezzo a loro quale "spirito". Gli operai che domandano un aumento di mercede sono trattati quali malfattori, non appena accennino a voler conseguire con la forza il loro intento. Che devono fare? Senza la forza nulla essi possono ottenere, ma nell' uso della forza lo Stato scorge un aiuto procuratosi coi mezzi che dovrebbero appartenere a lui solo, uno sfruttamento reale,

libero delle proprietà dell' io, e ciò egli non può tollerare. Che devono dunque fare i lavoratori? Sperar nelle proprie forze e non curarsi più che tanto dello Stato. E quello che avviene del mio lavoro materiale, succede anche di quello spirituale. Lo Stato mi permette di trar partito da tutte le mie idee (io le sfrutto già coll'acquistarmi onore presso coloro ai quali le espongo, ecc.), ma il suo permesso mi è dato a patto che le mie idee siano le sue. Se io nutro dei sentimenti e posseggo dei pensieri che lo Stato non può approvare, egli non mi dà facoltà in nessun modo di scambiarli di metterli in commercio. I miei pensieri sono liberi sino a tanto che lo Stato mi fa la grazia di approvarli, vale a dire sino a tanto che le mie idee convengono con le sue.

Così ei mi concede facoltà di filosofare sino a tanto ch'io mi dimostro "filosofo di Stato" e cerco di aiutarlo nei suoi intenti: non oltre. Allo stesso modo, dunque, che io posso considerarmi un "io" per grazia dello Stato, provvisto di carte di legittimazione e del passaporto di polizia, cosi da ciò ch'è mio non possa trar profitto salvo che il mio sia anche qualcosa di suo, di cui egli mi abbia investito. Il mio cammino deve essere il suo; se no, egli me l'attraversa: le mie idee devono essere le sue; se no, egli mi tura la bocca.

Nulla è per lo Stato più "temibile del mio valore". Ogni occasione che mi dia modo di farmi valere da me stesso mi è da lui impedita a tutti i modi. Io sono il nemico mortale dello Stato. Costretto a termini in ogni momento, esso mira con ogni rigore a togliermi ciò ch'è mio sì ch'io non possa riuscire nel mio intento. Nello Stato non esiste proprietà individuale, bensì unicamente la proprietà dello Stato. Soltanto in grazia dello Stato io ho quello che ho, allo stesso modo che mercè sua soltanto io sono quello che sono. La mia proprietà privata non è che quel tanto che lo Stato mi concede il godimento sulla sua proprietà privandone con ciò gli altri cittadini: è dunque proprietà dello Stato.

Ma per contro, io sento sempre più chiaramente che un gran potere ancor mi rimane, il potere su me stesso, cioè su tutto ciò che mi è proprio, e che è proprio a me solo.

Che cosa dovrò fare quando le mie vie divergeranno da quelle dello Stato, quando le mie idee non saranno più le sue? Procederò da me, senza preoccuparmi di lui in alcun modo. Nelle mie idee, che io non permetto a nessuno di determinare, di concedere o di giudicare, sta la mia vera proprietà: una proprietà, di cui posso liberamente disporre. Poiché essendo mie posso bene se così mi piace, cambiarle con altre idee — privarmene, acquistandone altre che diventano mia nuova e legittima proprietà.

Che cosa è dunque la mia proprietà? Quello soltanto che sta in mio potere! Quale proprietà io sono licenziato a possedere? Ogni proprietà al cui possesso io licenzio me stesso. Il diritto io me lo conferisco da me, col prendermi la mia proprietà, e col dichiararmi per tal modo, e senz'uopo d'altri, proprietario.

Tutto ciò che al mio potere non può esser strappato, è mio; la forza decide della proprietà ed io aspetterò dalla mia forza ogni cosa! La forza estranea, quella che io concedo ad un altro, mi rende schiavo; dunque la mia forza mi rende libero dei miei destini. Io riprendo il potere, che inconscio della mia forza ho ceduto ad altri ! Io devo dire a me stesso che la mia proprietà si estende sin là dove arriva il mio potere e che io riguardo come mia proprietà tutto ciò che mi sento abbastanza forte da conseguire ed estendo la mia reale proprietà su tutto ciò che io autorizzo me stesso a conquistarmi.

Qui devono prevalere l'egoismo e l'interesse, non già i principi o i motivi dell'amore: la misericordia, la carità, la bontà, l'equità, la giustizia (poiché justitia è ancor essa un prodotto dell'amore)! L'amore non conosce e non richiede che sacrifici.

L'egoismo non pensa a rinunziare ad alcuna cosa né a privarsene; esso dichiara semplicemente: ciò mi è necessario dunque, io devo averlo e voglio procurarmelo.

Tutti i tentativi di dar leggi ragionevoli intorno alla proprietà sono usciti dal seno dell'amore per gettarci in un mare burrascoso di prescrizioni d'ogni specie. Anche il socialismo ed il comunismo non possono andarne esenti. Ognuno dovrebbe essere provveduto di mezzi sufficienti, e, dato il fine, poco importa se quei mezzi debbano — come sostengono i socialisti — ricercarsi nella proprietà personale, oppure — come vogliono i comunisti — nella comunione dei beni. Il significato resta il medesimo: quello di dipendenza. L'autorità che distribuisce secondo l'equità mi concederà ciò che dal sentimento dell'equità — la sua cura amorevole di tutto — le sarà suggerito. Io, il singolo, non vedo nella proprietà comune un ostacolo minore che nella proprietà dei singoli; né l'una né l'altra mi appartiene. Siano i beni proprii della comunità che me ne concede in parte il godimento, o siano invece di singoli proprietari, la costrizione è per me sempre eguale, poiché io non posso disporre né in un caso ne nell'altro. Anzi; il comunismo mi fa anche più schiavo, poiché coll'abolire ogni proprietà personale mi rende dipendente dall'università e dalla comunità e, per quanto fieramente esso attacchi lo Stato, ciò che egli vuole insomma è pur sempre uno stato, uno "status" che limiti e impedisca la libertà dei miei movimenti, che eserciti cioè una supremazia su di me. Contro l'oppressione alla quale sono soggetto per opera dei singoli proprietari il comunismo si ribella con ogni diritto; ma più terribile è ancora il potere di cui esso vuole investire la comunità, l'universalità, a mio danno.

L'egoismo prende un'altra via per toglier di mezzo la plebe; nullatenente. Esso non dice: Attendi ciò che l'autorità ti vorrà concedere in nome dell' università) poiché cotali donazioni furon fatte sempre anche negli Stati "secondo i meriti" vale a dire in quella misura in cui ciascuno la sapeva ottenere in compenso dei propri servizi), bensì: stendi la mano e prenditi ciò che ti è necessario! Con ciò è dichiarata la guerra di tutti contro tutti. Io solo devo decidere di ciò che voglio avere.

"Ma questa verità non è nuova, poiché gli egoisti di tutti i tempi han sempre predicato la stessa cosa!". Ciò che importa non è che essa sia nuova, ma che ci sia la coscienza che una tale verità esiste. E questa coscienza non può vantarsi di contare molti anni, salvo che s'intenda tener conto delle leggi egiziache e spartane. E al postutto che poco sia diffusa lo prova lo stesso disprezzo in cui voi tenete gli egoisti. E necessario che si sappia che l'atto dello stender le mani per prendere non è spregevole, bensì è la vera manifestazione dell'egoista coerente a sé stesso.

Io non mi potrò districare dalla rete dell'amore se non quando io non attenderò né dai singoli né dalla comunità nulla di ciò che posso procurarmi da me stesso. Allora soltanto la plebe cesserà d'esser plebe.

Ciò che crea la plebe è l'idea che l'appropriarsi d'una cosa sia peccato e delitto. E se essa rimane tale, in parte e per sua colpa poiché non dovrebbe ammettere per valida una simile legge, in parte è per colpa di coloro che pretendono "egoisticamente" (tanto per ricambiar loro la parola tanto vilipesa) che quella legge sia rispettata. In breve, l'antica coscienza del peccato: ecco la ragione vera di questo stato di cose.

Il giorno in cui gli uomini riusciranno a perdere il rispetto della proprietà, ciascuno avrà qualcosa di suo, avrà una proprietà sua: non altrimenti gli schiavi diventano uomini liberi, quando hanno disappreso a rispettare il padrone. Le associazioni moltiplicheranno anche allora i mezzi dei singoli e assicureranno a ciascuno la sua proprietà.

Secondo l'avviso dei comunisti, proprietaria dovrebbe esser la comunità. Tutt'altro anzi: il proprietario sono io; io solo tratto a mio piacere con gli altri sul conto della mia proprietà. Se i procedimenti della comunità non mi garbano, io mi saprò ben ribellare e difendere contro tutto ciò ch'è mio.

Io son proprietario; tuttavia la proprietà non è sacra. Sarò dunque soltanto un possessore? No, sinora non eranvi che possessori, assicurati nel possesso d'una particella, per ciò solo che si garantiva anche ad altri il possesso d'una eguale particella; ora invece tutto m'appartiene, io sono proprietario di ogni cosa che m'abbisogni e che io sappia conquistarmi. Se il vangelo socialista predica: la società mi darà quello che mi è necessario; l'egoista dirà: io prenderò da me stesso quello che m'abbisogna. Se i comunisti si conducano da straccioni, l'egoista si contiene da proprietario.

Tutti i tentativi di render felice la plebe tutte le associazioni informate al sentimentalismo e derivate dall'amore, sono costrette a far naufragio. Dall'egoismo soltanto la plebe può attender salute, e questa salute dev'esser, e sarà opera sua. Quando non si lascierà più persuadere ad aver paura, essa sarà una potenza, "La gente perderebbe ogni rispetto se non la si costringesse alla paura.....".

Sicché la proprietà non dove ne può venir soppressa bensì ha da essere strappata a mani fantastiche per diventare cosa mia; così soltanto vanirà l'erronea credenza che io non possa autorizzare me stesso ad avere quel tanto di cui ho bisogno. — "Ma di quante cose non può aver bisogno l'uomo!". Ebbene, chi abbisogna di molte cose e sa prendersele, se le prese in ogni tempo: Napoleone non s'è forse conquistato il Continente e i Francesi non si son presi l'Algeria? Ciò che preme è che la plebe impari finalmente a prendersi quello che le abbisogna. Se essa stende troppo la mano, ebbene, ricacciatela indietro. Chi imparerà a conoscere sé stesso, si toglierà alla plebe e saprà far di meno della vostra elemosina. Ne per questo voi lo potete chiamare delinquente e peccatore. Difendete la vostra proprietà, e voi sarete forti; se invece volete serbare a voi stessi la facoltà di donare, e più ancora, se vorrete avere dei diritti politici in misura di quanto potete donare ai poveri (imposta sulla povertà) la cosa non potrà durare se non sino a tanto che i beneficati lo consentiranno [(1) In una legge per l'Irlanda il Governo fece la proposta d'accordare il voto elettorale soltanto a coloro che pagherebbero cinque lire sterline d'imposta sulla povertà.].

In somma la questione della proprietà non può esser risolta così facilmente come sognano i socialisti e i comunisti, solo la guerra di tutti contro tutti la può decidere definitivamente. I poveri saranno liberi e proprietari solo quando si ribelleranno, si solleveranno, si innalzeranno. Regalate loro quello che volete, essi chiederanno sempre di più; poiché a null'altro mirano che all'abolizione dei doni.

Si domanderà: Ma che avverrà quando i poveri avranno coscienza di sé stessi? Come si giungerà ad un'equa ripartizione dei beni? Allo stesso modo mi si potrebbe chiedere di predire l'ora in cui un bambino verrà al mondo. Ciò che potrà fare uno schiavo che ha infranto i suoi ceppi, lo vedremo.

Kaiser nel suo opuscolo privo d'ogni valore di forma e di contenuto, ("La personalità della proprietà in rapporto al socialismo ed al comunismo") spera che lo Stato renderà possibile una giusta ripartizione dei beni. E sempre lo Stato! Il signor papa! Si volle vedere nella Chiesa la "madre" di tutti i credenti, ed ora si aspetta ogni salute dal "papa" Stato. Intimamente connessa col principio della borghesia si dimostra la concorrenza. E’ d’essa altra cosa che l'uguaglianza (égalité)? E non è forse l'égalité un prodotto di quella rivoluzione, che fu effettuata dalla borghesia, cioè dalle classi medie? Non essendo impedito ad alcuno (eccetto che al principe che per sé stesso rappresenta lo Stato) di gareggiare entro lo Stato, d'innalzarsi al grado d'ogni altro, di abbattere qualunque altro, di sfruttarlo, di sorpassarlo anche con uno sforzo maggiore delle proprie facoltà, di spogliarlo di ciò che possiede, dobbiamo concludere che dinanzi al tribunale dello Stato ciascuno non ha che il valore d'un semplice "individuo" e non può attendersi privilegio alcuno a svantaggio degli altri.

Fate ressa, e schiacciatevi, pur di giunger primi, come volete e come potete, ciò è una cosa che non riguarda me, lo Stato. Tra di voi siete liberi di concorrere, a vostro piacere; questa è la vostra condizione sociale. Ma al cospetto di me, Stato, voi null'altro siete fuorché semplici individui [(1) Di quest'espressione si valse il ministro Stein a proposito del conte di Reìsach, allorquando lo diede in balìa del Governo bavarese senza provarne alcun rimorso.].

Ciò che in forma teoretica ed assiomatica fu proclamato già per l'uguaglianza di tutti ha ormai trovato nella concorrenza la sua esplicazione pratica; poiché l'égalité è la libera concorrenza. Tutti sono dinanzi allo Stato non più che persona, ma nella società e nei rapporti tra loro sono concorrenti.

Mi basta esser cittadino per poter concorrere con tutti — tranne che col principe e con la sua famiglia —; libertà questa che prima m'era impedito dacché soltanto entro la propria corporazione ed entro i limiti di esso m'era concesso di gareggiare con gli altri.

Nelle corporazioni e nella feudalità lo Stato si dimostrava intollerante con accordare privilegi alla concorrenza e al liberalismo: esso s'è fatto ora tollerare e lascia fare, e concede autorizzazioni e diplomi (vale a dire assicura per iscritto all'aspirante la libertà d'esercitare una professione o un'industria.) E poiché in tal modo ha messo ogni forza in mano degli aspiranti ne segue che la concorrenza diviene necessaria; ciascuno in fatti è autorizzato ad aspirare ad ogni cosa.

La libera concorrenza è essa veramente "libera"? meglio anzi è essa una vera "concorrenza" di

persone, come si vuol far credere, poiché su quel titolo si pone il fondamento di ogni diritto?

È libera una concorrenza, che lo Stato, questo despota di principi borghesi, inceppa con mille ostacoli?

Ecco un ricco industriale che fa splendidi affari. Io vorrei fargli concorrenza. "Sia pure, dice lo Stato, io non ho nulla da obiettare contro la tua persona quale concorrente", "bene, dico io, ma per poter far ciò ho bisogno d'un'area per costruirvi degli edifici, ho bisogno di denaro!" "Peggio per te, mi risponde, senza denaro tuo proprio tu non puoi concorrere, ne ti è lecito prenderlo, poiché io tutelo e garantisco la proprietà". La concorrenza non è libera, perché mi manca l'essenziale per poter concorrere. Contro la mia persona non si muovono eccezioni; ma siccome io non posseggo la cosa, così anche la mia persona è costretta a starsene indietro. E chi possiede la cosa di cui ho bisogno? Forse questo industriale? In tal caso potrei togliergliela? No, perché lo Stato l'ha riconosciuta quale sua proprietà: ed essa è per il singolo che l'ha alle mani un feudo tutelato, un possesso.

Da quando non posso concorrere con l'industriale, mi ci proverò con quel professore di diritto; egli è uno allocco, ed io che ne so cento volte più di lui, gli spopolerò la classe. "Hai tu frequentato le scuole pubbliche?" — mi chiede lo Stato — "sei stato promosso, amico mio?" "No, ma che importa? Io so quello che occorre e conosco bene la mia materia". "Mi dispiace, ma in questo caso la concorrenza non è libera: contro la tua persona nulla si può obiettare, se non che ti manca la cosa: la laurea di dottore. E questa laurea, questo diploma io, lo Stato, lo pretendo. Domandala con bei modi; vedrò ciò che si può fare".

Questa è adunque a libertà della concorrenza. Lo Stato, il mio padrone, deve darmi anzitutto la facoltà di concorrere.

Ma concorrono poi veramente le persone? No, le cose soltanto concorrono! E in primo luogo i denari.

Nella gara ci sarà sempre uno che resterà indietro (p. es. un poetastro in gara con un vero poeta). Ma che i mezzi di cui difetta lo sgraziato concorrente siano personali o dipendano dalle cose, non è tutt'uno, né è tutt'uno che le cose possano essere acquistate per la forza personale o per grazia, quale un dono; p. es. che il più povero debba lasciare, vale a dire donare, al ricco le sue ricchezze. Se io devo attendere l'approvazione dello Stato per potermi procacciare i mezzi (p. es. mediante la promozione), io devo dire che ho acquistato quei mezzi non per mia virtù ma per la grazia dello Stato.

La "libera concorrenza" non può dunque avere che questo significato lo Stato considera tutti egualmente quali suoi figli, e dà a ciascuno facoltà di correre e concorrere per meritarsi le

grazie ed i beni che egli dispensa. Per ciò tutti danno la caccia agli averi, al possesso sia di danaro, sia di impieghi, sia di titoli, ecc.: insomma alla cosa.

Secondo il senso della borghesia ciascuno è possessore o "proprietario". Donde viene dunque che la maggior parte degli uomini nulla possiede? Da ciò che i più godono d'esser possessori, fosse pure soltanto di due stracci, allo stesso modo che i fanciulli gioiscono del possesso dei primi calzoncini o di un paio di centesimi. Ma per esser più chiari, le cose stanno in questo modo. Il liberalismo si presentò senz'altro con la dichiarazione che l'essenziale per l'uomo era il possedere, non l'essere posseduto. Ma poiché nel concetto dei liberali si trattava dell'uomo in astratto e non già del singolo, dell'individuo, cosi la determinazione di ciò che al singolo abbisognava restò in facoltà del singolo. Perciò l'egoismo del singolo poté spaziare in un campo sconfinato, e sbizzarrirsi in un'instancabile concorrenza.

Ma con ciò l'egoismo dei fortunati doveva diventare una spina nell'occhio per quello degli infelici, e quest'ultimo — basato, ancor sempre, sul principio dell'umanesimo — pose la questione del quanto e proclamò che l'uomo doveva avere quel tanto a punto che gli abbisognava.

Ma il mio egoismo s'accontenterà forse di ciò? Quel che abbisogna all'uomo in astratto non può servire di misura pei bisogni del singolo in concreto; poiché io posso aver bisogno di più o di meno. Io devo avere dunque tutto quello che le mie forze mi possono procurare.

La concorrenza è difettosa in sé, poiché i mezzi per concorrere non sono a disposizione di tutti e non derivano dalla virtù di nessuno, ma dal caso. La maggior parte degli individui non possiede quei mezzi, ed è perciò senza beni di fortuna.

Ecco perché i socialisti chiedono così i mezzi per tutti, e tendono a formare una società che li possa a tutti fornire. Il denaro che tu possiedi, dicono essi, noi non vogliamo più riconoscerlo per tuo. Tu devi cercarti un'alta facoltà: la tua forza di lavoro.

Tu non puoi possedere le cose eternamente; le avrai solo fino a che tu non ne sarai spossessato.

Siccome la tua mercé è possesso tuo sino a tanto che sei in condizione d'averla in tua mano, vale a dire sino a tanto che noi non abbiamo nessuna ragione su di essa, così noi t'invitiamo ora a cercarti un altro possesso, poiché la nostra forza vale più del tuo preteso possesso.

Pareva che molto si fosse ottenuto col proclamare il principio del possesso. La schiavitù era stata con ciò abolita e tutti coloro che prima d'allora avevano servito il padrone in qualità di schiavi, ed erano stati più o meno proprietà di lui, erano diventati "signori". Ma d'ora innanzi il tuo avere e la tua facoltà non bastano più, e non sono più riconosciuti; per contro aumenta il valore del tuo lavoro è del prodotto del tuo lavoro. Noi rispettiamo ora la forza che tu hai di soggiogare le cose, allo stesso modo che prima rispettavamo il tuo possesso. Il tuo lavoro rappresenta la tua facoltà; tu sei ora possessore e proprietario di ciò che hai acquistato non più, come dianzi, coll'eredità, ma col tuo lavoro. E siccome generalmente la fonte della ricchezza è l'eredità ed ogni lira che tu possiedi porta l'impronta di essa, non quella del lavoro, così necessario che tutto venga restituito perché tutto fu mal tolto.

Così ragionano i socialisti. Ma è poi vero che il mio lavoro rappresenta la mia sola facoltà, o non consiste questa invece in tutto ciò di cui io sono capace? E non è forse la stessa società dei lavoratori costretta a riconoscere questo col sostentare gli infermi, i fanciulli, i vecchi, in breve tutti coloro che non possono lavorare? Questi possono far molte cose: p. es., serbar la vita, anziché togliersela. Se essi giungono ad ottenere da voi che li manteniate in vita, essi hanno un predominio su di voi. A colui che non avesse alcun potere su di voi, voi nulla concedereste: lo lascereste morire.

Dunque ciò che tu sei capace di fare, forma la tua facoltà! Se tu sai procurar un godimento a migliaia d'uomini, costoro te ne rimunereranno, poiché sarebbe anche in tua facoltà di non farlo ; e per ciò essi sono costretti a pagarti la tua opera. Se non sai guadagnarti la simpatia di alcuno, tu morrai di fame.

E non dovrei forse io, che posso molte cose, esser preferito a coloro che possono meno di me?

Noi siamo tutti ben provveduti d'ogni cosa; ed io dovrei rimanermi dallo stender la mano per prendere, aspettando che mi si dia la parte concessami dagli altri ?

Contro la concorrenza si solleva il principio della società degli straccioni: la divisione.

Ma il singolo non vuole esser considerato una semplice parte della società, perché sa d'esser

di più. La sua individualità si oppone a questo concetto limitato.

Per ciò egli non attende la sua sorte da una divisione fatta da altri; e già in fatti nella società dei lavoratori nasce il dubbio, se in una uguale divisione il debole possa avvantaggiarsi a spese del forte. Ma il singolo attende la sua sorte da sé stesso e si dice: ciò che io sono capace di procurarmi, è mio. Quale fortuna non possiede il bambino sin dalla sua nascita nel suo sorriso, nei suoi giuochi, nel suo strillare, in breve nel solo fatto d'esistere? Sei tu capace di resistere ai suoi desideri? non gli porgi il seno, se madre; se padre, non gli sacrifichi una parte dei tuoi averi? Egli vi costringe a farlo, perciò egli possiede quello che voi chiamate proprietà vostra.

Se a me sta a cuore la tua persona io sarò compensato col solo fatto della tua esistenza; se mi cale di alcune tue qualità,esse avranno per me un valore (valor di danaro) e io le acquisto.

Se tu non sei capace d'assegnare a te stesso un prezzo più alto d'un semplice valor numerario, si ripeterà per te il caso dei fanciulli tedeschi venduti in America. Essi, che si lasciarono vendere, non dovettero avere un valor maggiore del denaro agli occhi del venditore.

Anzi, egli preferiva il denaro sonante alla merce vivente, perché questa non s'era dimostrata preziosa per lui. Come ne avrebbe potuto dimostrare stima se era incapace di sentirla?

Voi agite da egoisti solo quando non vi rispettate tra di voi — né come individui, ne come straccioni, né come operai, ma vi considerate unicamente l'un l'altro come soggetti "utilizzabili".

Così facendo, voi non darete nulla ne a colui che possiede, né al lavoratore, bensì pagherete un prezzo unicamente a colui del quale avrete bisogno. Abbiamo noi bisogno d'un re? si domandano gli Americani del Nord, e rispondano: per noi egli e il suo lavoro non valgono un centesimo.

Il dire che la concorrenza è aperta a tutti non è esatto; meglio è esprimersi cosi: la concorrenza rende venale ogni cosa. Col mettere ogni cosa alla portata di tutti la concorrenza lascia in balìa di ciascuno l'assegnarne il prezzo.

Ma spesso a chi ha necessità o desiderio di comperare una cosa difetta il denaro. Dove prenderlo?

Come acquistare quella proprietà maneggevole e corrente? Ebbene sappi che tu possiedi altrettanto danaro quanta è la forza di cui disponi; poiché tu vali quel tanto che sai farti valere.

Non si paga già col denaro, che può mancare, sì invece con ciò di cui si è capaci; perché noi siamo proprietari soltanto sin là dove giunge la forza del nostro braccio.

Weitling ha escogitato un nuovo modo di pagare il lavoro. Ma il vero mezzo per pagare resta, come sempre, la facoltà. Con ciò che forma la tua facoltà tu paghi. Attendi dunque ad accrescerla con ogni tua cura.

Ed ecco la divisa: "A ciascuno e secondo le sue attitudini!" Ma chi dovrebbe dare a me a seconda de' miei meriti? La società? In tal caso dovrei acconsentire a lasciarmi apprezzare e giudicare da lei. Ma io preferirò, anziché ricevere, prendere a seconda delle attitudini mie.

"Il tutto appartiene a tutti!" Questo assioma è prodotto di teorica vuota. A ciascuno appartiene soltanto quello di cui è capace. Se io dico: a me appartiene il mondo, questa è in fondo una frase che non ha senso, se non in quanto significa che io non rispetto la proprietà degli altri. A me non appartiene che quel tanto che io possiedo o che riuscirò a possedere.

Noi non siamo degni di possedere ciò che per debolezza ci lasciamo ritogliere; non ne siamo degni, perché non ne siamo capaci.

Si suol fare gran caso dei "torti millennarî" di cui si resero colpevoli i ricchi verso i poveri. Come se i ricchi fossero stati la causa del pauperismo, e come se invece i poveri non fossero stati essi la cagione della ricchezza degli altri! C'è tra i ricchi e i poveri altra differenza all'infuori di quella della potenza e dell' impotenza, della capacità e della inettitudine? In che cosa consiste il delitto dei ricchi? "Nella durezza del loro cuore". Ma chi dunque se non il ricco ha sostentato i poveri, chi ha pensato ad alimentarli, quando non erano più in condizione di lavorare, chi ha lor prodigato le elemosine, quelle elemosine che prendono persino il nome della dea pietà?

I ricchi non furono essi forse in tutti i tempi pietosi, non sono forse ancor oggi "caritatevoli", come dimostrano le molte tasse in pro della povertà, gli spedali, le fondazioni d'ogni specie?

Ma tutto ciò non vi basta? Vorreste dunque che i ricchi dividessero il proprio coi poveri? Già, voi domandate che si sopprima il pauperismo. Ma, anche a non voler osservare che nessuno di voi l'oserebbe se non fosse un pazzo, domandate un po' a voi stessi: perché mai i ricchi dovrebbero rinunziare a se stessi, cioè ad esser ricchi? Non a voi poveri forse riuscirebbe più utile il sopprimer voi stessi, cioè la povertà? Tu, per esempio, tu puoi disporre d'una moneta da cinque franchi tutti i giorni, e sei così molto più ricco di mille altri che vivono di quattro soldi; ora dimmi ci ai tu un interesse a dividere con costoro, o non l'han piuttosto essi a diveder con te?

Il concetto della concorrenza importa non tanto il far bene una cosa, quanto il farla in modo che possa dare il maggior frutto. Perciò si frequentano le scuole con la speranza d'un impiego rimunerativo, s'impara a far complimenti ed inchini, ad adulare, ad acquistar la pratica degli affari, si lavora per le "apparenze". Sicché mentre si mostra di voler fare un'opera buona e forte, in realtà non si mira che al lucro. Si protesta di fare una cosa per sé stessa, ma invece la si fa pel profitto ch'essa ci arreca. Si diventerebbe volentieri censori, ma si esige un avanzamento; si vorrebbe giudicare, amministrare secondo le proprie convinzioni, ma si teme il trasloco e il licenziamento: anzitutto bisogna pur "vivere".

E cosi tutto si risolve in una lotta per la esistenza accompagnata da un grado maggiore o minore di agiatezza.

E con tutto ciò dal nostro affannarci, dal nostro lottare non sappiamo trarre che la "misera vita" e l'amara "povertà". Quest'è la verità triste!

La gara assidua, senza tregua, non ci permette di pigliar fiato, di gioire sinceramente. Ci è tolto di poter godere di quello che possediamo.

L'ordinamento del lavoro riguarda però soltanto le opere che gli altri fanno per noi esempio, la macellazione, il lavoro dei campi, ecc. Gli altri lavori sono lasciati all'arbitrio del singolo, perché, ad esempio, nessuno saprebbe comporre la musica che tu scrivi, eseguire i dipinti da te ideati, e cosi via. La concezione d'un Raffaello non potrebbe essere attuata da nessun altro.

Ora siccome la società non può prender in considerazione che i lavori d'utile generale, i lavori "umani", ne consegue che chi fa opera individuale resta privo delle sue cure, se pur non trovi impedita la propria opera dall'intervento inopportuno della società.

L'Unico potrà coi propri sforzi trovarsi fuori della società, ma questa non potrà mai produrre l'Unico.

Perciò è sempre utile all'interesse comune l'intendersi sul conto dei lavori "umani" affinché questi sotto forma di concorrenza non ci facciano perdere tutto il nostro tempo e le nostre fatiche. Sino a questo punto il comunismo porta dei frutti. Poiché anche ciò di cui sono o possono esser capaci tutti gli uomini fu dalla dominazione borghese riservato a pochi e sottratto agli altri facendone un privilegio. Alla borghesia parve giustizia il concedere ad ognuno ciò che sembrava esistere per ognuno. Tuttavia quel che essa in apparenza pareva concedere non lo donava in realtà, bensì lasciava che a ciascuno fosse possibile l'ottenerlo colle proprie forze "umane". Con ciò i sensi furono diretti all'acquisto dell' "umano" e ne venne l'indirizzo che da molti si sente deplorare col nome di "materialismo".

A questo indirizzo cerca d'opporsi il comunista col diffondere la credenza che l'umano non merita tanta pena e che è possibile raggiungerlo mercé istituzioni ragionevoli senza il presente immane dispendio di tempo e di forza.

Ma per chi e a che dobbiamo cercare di risparmiar tempo? V'è forse cosa in cui l'uomo adoperi più tempo, che nel ristorare le proprie forze?

E di ciò il comunismo tace.

A che? Per godere di sé stesso quale Unico, dopo aver fatto il proprio lavoro quale uomo. Nella prima gioia improvvisa datagli dalla coscienza di poter stendere la mano su ogni cosa,

l'uomo dimenticò di voler ancora qualche altra cosa, ed entrò a cuor leggero nella gara, quasi che il possesso delle cose " umane " fosse la mèta di tutti i suoi desideri.

Tanto si corse che ora siamo affranti e incominciamo a comprendere che "il possesso non rende felici". Perciò studiamo d'ottenere per vie più facili di ciò di cui abbiamo bisogno, e di non spendere che quella fatica e quel tempo che sono necessari per ottenerlo.

La ricchezza perde di pregio, e la povertà fa pago lo straccione spensierato e si muta in un ideale seducente.

Le attività umane delle quali ciascuno si sente capace dovrebbero ottener meglio compensato il lor lavoro? Già, nelle frasi che tanta gente ha su la bocca: "se io fossi ministro, o meglio ancora, se fossi re le cose andrebbero ben diversamente", è chiara l'opinione, che ciascuno ha, di esser capace di rappresentare questo o quell'altro dignitario. Si comprende che per questo non è necessario alcuna attitudine speciale, ma è sufficiente, una cultura che, se non da tutti, da molti può esser conseguita; che per essere a quel posto insomma non occorre essere un uomo straordinario.

Supponiamo che, come l'ordine cosi la subordinazione sia fondata nella natura dello Stato, e allora ci accorgeremo che dai privilegiati vengono sfruttati senza misura gli altri. Ma questi ultimi si fanno coraggio, e partendo, prima, dal concetto socialista, poi guidati dalla coscienza egoistica, domandano: Da che cosa è garantita la nostra proprietà o privilegiati? — E rispondono: Dalla nostra paura e dal nostro rispetto. E che cosa ci date voi in cambio? Calci e parole di scherno, ecco ciò che date alla "canaglia"; la vigilanza della polizia ed un catechismo che si compendia nel precetto: Rispetta ciò che non t'appartiene, ciò ch'è degli altri! Ma noi rispondiamo: Se volete il nostro rispetto comperatela al prezzo a cui noi lo porremo. Noi vogliamo permettervi di godere della vostra proprietà, perché voi rimuneriate sufficientemente il nostro permesso. Che cosa da a noi in tempi di pace il generale in cambio del largo stipendio di cui egli gode? Con che cosa ci pagate, perché noi, che dobbiamo accontentarci a mangiare delle patate, assistiamo indifferenti alla vostra cena mentre voi gustate delle ostriche? Comperate da noi le ostriche allo stesso prezzo che noi paghiamo per procurarci da voi le patate, e voi potrete continuare a mangiarle in pace. O credereste forse che le ostriche non debbano spettare anche a noi come a voi? Voi griderete alla sopraffazione, alla violenza, se noi ci siederemo al desco vostro; ed avrete ragione. Ma la violenza è necessaria; né per altro che per averla usata un tempo voi siete oggi i privilegiati.

Ma tenetevi pure le ostriche e permettete che consideriamo la nostra proprietà più speciale (poiché quell'altra non è che possesso), cioè il lavoro. Noi ci affatichiamo per dodici ore e voi ci ricambiate con pochi soldi. In tal caso prendete anche voi altrettanto per il vostro lavoro. Non ne volete sapere? Voi pensate che il vostro lavoro sia pagato abbastanza con quella mercede, ma che il vostro sia meritevole di molte migliaia di lire? Ma se non credeste così elevato il prezzo del vostro lavoro, e ci permetteste d'approfittare più largamente del nostro, noi, quando se la occasione si offrisse, saremmo capaci di produrre cose ben più importanti di quelle che producete voi per le migliaia di scudi con cui siete pagati, e voi non avreste in tal caso una retribuzione maggiore della nostra. Voi diverreste in breve più assidui al lavoro per guadagnar di più. Ma se voi siete in condizione di produrre qualche cosa che vi sembra avere un prezzo dieci, cento volte maggiore del nostro, voi ne sarete retribuiti cento volte di più; dal canto nostro noi pensiamo di produr delle cose che voi dovrete pagare a più caro prezzo che non sia quello della nostra mercede ordinaria. Noi troveremo bene il modo d'andar d'accordo perché siamo d'accordo in ciò, che nessuno sia tenuto a regolare checchessia all'altro.

E così arriveremo a tanto da pagare un prezzo adeguato anche agli infermi, agli ammalati ed ai vecchi, affinché non si dipartano da noi uccisi dalla fame e dalla miseria; poiché se noi vogliamo ch'essi vivano, è ben giusto che noi ci acquistiamo il diritto di soddisfare tale nostro desiderio. Io dico " acquistare ", non parlo dunque d'una miserabile "elemosina". La propria vita è proprietà anche di coloro che non possono lavorare; se noi vogliamo che essi (per un motivo che è inutile indagare) ci siano serbati, noi non possiamo ottenerlo altrimenti che con un riscatto. Fors'anco poiché ci piace esser circondati da facce allegre, noi vogliamo ch'essi godano d'una certa agiatezza. In somma, noi non vogliamo ricevere in dono da voi alcuna cosa, ma nello stesso tempo non intendiamo regalar nulla a voi. Pel corso di molti secoli noi vi abbiamo porto l'elemosina, per imbecillità abbiamo speso i nostri risparmi di poverelli per dare a voi signori ciò che non vi apparteneva; ora aprite voi le vostre borse poiché la nostra merce incomincia a salire assai rapidamente di prezzo. Noi non vogliamo togliervi nulla, proprio nulla; solo voi dovete pagar meglio quello che volete avere da noi. Tu possiedi un bene di "mille jugeri". Ed io sono il tuo famiglio e quind'innanzi non lavorerò il tuo campo che al prezzo di cinque lire al giorno. "In tal caso ne prenderò un altro". Tu non ne troverai poiché tutti noi servi ci siamo accordati a non lavorare per una mercede minore, e se alcuno dimenticasse gli accordi, sapremmo punirlo ben noi. Ecco la serva di casa: ti chiede questa mercede; se non l'accetti, non ne troverai altre, "Eh, ma voi mi forzate a morire". Non tanta fretta! Le tue rendite saranno per lo meno uguali alle nostre, e, quando ciò non fosse, noi cederemo quel tanto sul nostro salario, che ti darà modo di vivere al pari di noi. "Ma io sono abituato a viver meglio". Noi nulla possiamo obiettare a ciò, ma è affar tuo; se tu sei in condizione di risparmiare più di noi, tanto meglio. Dovremmo noi forse darti il nostro lavoro ad un prezzo più basso per ciò solo che tu possa vivere meglio di noi? Il ricco si sbarazza sempre dei poveri con le parole : "E che importa a me della tua miseria? Cerca di campare meglio che puoi, quest'è affar tuo, non mio". Ebbene, poiché è affar nostro, noi non permetteremo ai ricchi che ci privino oltre dei mezzi che noi abbiamo per farci valere. "Ma voi, gente ignorante non abbisognate di tante cose." Ebbene, ci prenderemo qualche cosa di più per procurarci quell'istruzione che ci manca. "Ma se voi ridurrete a mal partito i ricchi, chi s'interesserà più delle arti e delle scienze?". Eh, la gran massa dovrà concorrervi; ciascuno vi contribuirà in qualche modo e ne ritrarremo una bella somma, tanto più che voi ricchi non siete avvezzi a comperare che i libri più insulsi e le madonne più noiose, se non preferite le agili gambe di qualche ballerina. "Oh, la disgraziata uguaglianza!". No, mio buon signore, qui non si tratta di eguaglianza.

Noi non vogliamo valere che secondo il nostro merito, e se voi ne avete più di noi, sarete anche più apprezzanti.

Noi non domandiamo che un prezzo onesto, conforme al merito e intendiamo dimostrarci meritevoli del prezzo che ci pagherete.

Lo Stato può esso infondere nel servo un coraggio cosi sicuro di sé stesso, un amore proprio cosi vigoroso? Può esso fare che l'uomo abbia coscienza di se medesimo? Può esso volere che il singolo riconosca il proprio valore? Teniamo distinta questa doppia questione e vediamo anzitutto se lo Stato e in condizione di mandar ad effetto alcunché di simile. Occorre, per attuarlo, come vedemmo, che tutti i lavoratori dei campi si mettan d'accordo; ora una legge dello Stato sarebbe mille volte delusa, particolarmente dalla concorrenza e in segreto. E poi, potrebbe lo Stato soffrir una tal cosa? E impossibile ch'esso possa tollerare che la gente subisca altra legge che la sua; non c'è dunque da sperare che possa ammettere un accordo generale dei lavoratori dei campi contro quelli che accettano di lavorare per un salario inferiore a quello che fu concordato tra loro. Ma supponiamo che lo Stato abbia fatta la legge e che tutti i lavoratori l'abbiano accettata, potrebbe esso assicurarne l'adempimento.

In questo caso singolo, si; ma il caso singolo, per ciò appunto che è singolo, è qualche cosa di più, diventa una questione di principio. Qui si tratta del concetto della liberazione del proprio io da tutto ciò che tende a limitarlo e quindi anche dalla costrizione dello Stato. A tale conclusione giunge anche il comunismo: ma la conquista della piena indipendenza individuale è diretta non solo contro lo Stato, bensì anche contro la società, e perciò trabocca oltre i confini della dottrina collettivista.

Il comunismo fa dell'assioma borghese "ciascuno è un possessore (proprietario)" una verità indiscutibile, una realtà, ponendo fine alla preoccupazione dell'acquistare, poiché ciascuno si trova ad avere in casa ciò di cui abbisogna. Nella sua forza di lavorare egli possiede la sua ricchezza e se egli non la mette a frutto, peggio per lui. Le corse — le cacce — sono finite e nessuna concorrenza rimane, poiché con ogni atto che si traduce in lavoro entra in casa il necessario. Allora si è veramente proprietari, perché chi ha forza di lavorare non può perdere il frutto del suo lavoro come in vece accadeva facilmente sotto il regime della concorrenza.

Si è proprietari spensierati e sicuri. E si è tali appunto per ciò che noi non ricerchiamo più la ricchezza in una merce, bensì nel nostro proprio lavoro, nella facoltà di lavorare: perché in somma col divenir tutti straccioni ci siam ridotti a non posseder più che ricchezze ideali.

Ma a me non può bastare quel poco che posso ritrarre dalle mie fatiche, da che la mia ricchezza non consiste solamente nel lavoro.

Col lavoro io posso adempiere l'ufficio d'un ministro, d'un presidente, ecc.; tali impieghi non ricercano che una cultura generale vale a dire una cultura che può essere acquistata da tutti (poiché cultura generale è quella appunto che ognuno può conseguire), o per lo meno un'abilità che ciascuno può raggiungere con l'esercizio.

E tuttavia questi uffici, se pur sono aperti a chicchessia, non traggono che dalle forze del singolo il lor vero valore. Se taluno attende al suo compito, non già come un "uomo comune", ma in modo da spiegarvi tutte le virtù della individualità sua, egli ha diritto a ben più che non al semplice stipendio che spetta all'impiegato e al ministro. Se egli s'è adoperato con vostra soddisfazione e se vi preme conservarvi questa sua forza ammirabile, voi non potrete pagarlo come si paga un uomo comune che ha prodotto delle cose comuni, bensì come uno che produce alcunché di unico. Fate un po' anche voi, se potete, la stessa cosa col vostro lavoro!

La mia individualità non può essere apprezzata con un criterio comune come la mia astratta qualità d' uomo.

Dunque accogliete pure un generale criterio di mercede per i lavori puramente umani, ma non privare l'individualità del giusto guadagno che essa si merita.

I bisogni umani, generali, possono essere soddisfatti dalla società; per i bisogni singoli, ti bisogna un attitudine speciale. Un amico, e un servizio d'amico, persino un servizio d'una persona estranea, la società non e in grado di procurarteli. Eppure tu avrai bisogno a ogni tratto di fatti servizi, e nelle circostanze più comuni ti sarà necessario l'aiuto di qualcuno. Dunque non attender ogni cosa dalla società, ma bada invece a procurarti ciò che è necessario per il soddisfacimento dei tuoi desideri.

Sarà conservato il denaro in una società d'egoisti? — Il denaro d'antico conio porta l'impronta dell'eredità. Se voi non volete più esser pagati con quel denaro esso perderà il suo valore; e se voi

non vi curate d'assegnarli un valore, esso perderà ogni potere. Cancellate l'eredità e con ciò avrete infranto il suggella dell'esecutore giudiziario.

Oggi tutto è eredità, passata o futura. Se l'eredità è vostra, perché permettete che le si imprima il suggello officiale e la rispettate?

Ma perché non dovreste voi creare un nuovo anello nella catena? Distruggete voi forse la mercanzia con l'abbattere l'eredità? No, il denaro è ancor esso una merce, e precisamente una ricchezza. Esso salva la ricchezza dalla ruggine, la tiene in corso e ne rende possibile lo scambio. Se conoscete a ciò un mezzo migliore di questo, tanto meglio; ma anche il nuovo mezzo sarà pur sempre moneta. Non già il denaro vi arreca danno, bensì il non potervene insignorire. Fate valere le vostre attitudini, e di danaro — del denaro vostro, di vostro conio — non avrete difetto. Ma esercitare le attitudini che ciascuno ha proprie è altro dal "lavorare" nel senso che oggi si dà a questa parola.

Coloro che si accontentano a cercar lavoro e non si propongono altro che di "lavorar bene" preparano a se stessi l'inevitabile: la mancanza di lavoro.

Dal denaro dipende la fortuna. Nel periodo borghese esso è una potenza perciò che tutti gli corron dietro; come a una ragazza, cui tutti fanno la corte, e che nessuno può sposare. Tutto il romanticismo e tutta la cavalleria dell'aspirare ad un oggetto prezioso rivivono nella concorrenza, il danaro oggetto di tutte le brame, viene rapito dagli audaci "cavalieri d'industria".

Chi ha fortuna conquista la sposa. Lo straccione ha fortuna; egli conduce la sposa tra le pareti domestiche della "società" dove ella perde la verginità e con essa anche il nome della propria famiglia. Se chiamavasi Denaro, ora si chiama Lavoro, poiché lavoro è il nome dell'uomo. Essa è un possesso dell'uomo. Per continuare l'immagine, la figlia del lavoro e del denaro è di nuovo una ragazza non maritata, dunque di nuovo denaro, soltanto con certi contrassegni dell'origine paterna: il lavoro. I lineamenti del volto presentano un'impronta diversa.

Ma ritornando alla concorrenza, essa esiste appunto per ciò che non tutti s'interessano alla sua causa né si preoccupano di intendersi fra di loro a suo riguardo. Il pane p. es. è necessario a tutti gli abitanti d'una città; per ciò sarebbe facile che essi si mettessero d'accordo per esigere dei forni pubblici. Invece se ne rimettono ai panettieri che si fanno concorrenza. La stessa cosa vale per la carne per il vino, ecc.

Abolire la concorrenza equivale a favorire le corporazioni. La differenza è questa: Nella corporazione l'arte di cuocere il pane è riservata ad alcune persone determinate; nella concorrenza appartiene a chiunque prenda parte alla gara; nell'associazione l'interesse è di tutti coloro che hanno bisogno del pane, dunque di tutti gli associati.

Se io non mi prendo cura dei miei interessi dovrò accontentarmi di ciò che agli altri parrà opportuno concedermi. L'aver del pane è un bisogno mio, eppure per averlo io me ne rimetto ai fornai, sperando tutto al più di godere di qualche vantaggio in virtù della concorrenza — vantaggio che dai fornai appartenenti ad una corporazione, arbitra dei prezzi e delle condizioni, non avrei potuto attendermi. Alla produzione di ciò che ad ognuno abbisogna dovrebbero contribuire tutti; poiché essa riguarda gli interessi di tutti, e non già quello particolare dei mastri fornai iscritti alla corporazione o autorizzati a tale mestiere.

Guardiamo indietro un'altra volta. A figli degli uomini appartiene il mondo; esso non è più il mondo; di Dio, bensì il mondo degli uomini. Quel tanto che ogni uomo può conquistarsi nel mondo diventa sua proprietà; lo Stato, la società umana o l'umanità non debbono d'altro aver cura, se non di questo: che nessuno s'appropri di cosa alcuna in modo contrario alle leggi umane. Una approvazione contraria a questa legge dev'esser vietata all'uomo, perché delittuosa; mentre è "legale, legittima", quella acquistata in forza del "diritto".

Cosi si dice dalla rivoluzione in poi. Ma la proprietà non è già una cosa, poiché la cosa tua ha un'esistenza indipendente dalla mia: la proprietà vera è la volontà. Non già quell'albero, bensì la mia forza di disporre d'esso come mi pare e piace, costituisce la mia proprietà.

Come s'esprime ora questa forza? Dicendo: io ho diritto a quest'albero, oppure, esso è mia proprietà legittima. Acquistato in ogni modo io l'ho con la forza. Si dimentica che la forza deve persistere in me, per poter sostenere il "diritto", o, per meglio dire, che la forza non è cosa esistente da se, bensì insita nel mio potere. La forza al pari di tante altre mie qualità, p. es., l'umanità, la maestà, ecc., è considerata come avente una propria esistenza, di modo che essa continua a sussistere, anche quando ha cessato d'essere la mia forza. Trasformata così in fantasma, la forza diventa diritto. Questa forza esternata non s'estingue nemmeno con la mia morte, tant'è che la si trasmette in eredità.

Per tal modo le cose in realtà non appartengono più a me, bensì al diritto.

Ora tutto ciò non è altro che un errore. La potenza del singolo non diviene duratura, non si fa cioè diritto, se non in forza della protezione che la collettività le concede.

Ma perché non potremo riprendere la protezione che abbiamo concessa?

Si ripete l'illusione che fa della forza una cosa assoluta. Ho dato "pieni poteri" ad un altro; dunque mi son privato della mia propria forza e con ciò della possibilità di metterla a miglior profitto.

Il proprietario può rinunziare al diritto che ha su una data cosa, col donarla o gettarla via. E

noi non potremo?

Il giusto non desidera il possesso di cosa alcuna ch'egli non abbia diritto di possedere, dunque non vuol sentir parlare che di proprietà legittima. Ma chi ha da conferirgli quel "diritto"? L'uomo. Bene; egli può dunque esclamare con Terenzio, ma in un senso molto più ampio: humani nihil a me alienum putò; vale a dire; tutto ciò ch'è umano é mia proprietà. Egli può far quello che vuole, ma gli è necessario un giudice; ora ai nostri tempi le varie specie di giudici che l'umanità s'era foggiate hanno finito a impersonarsi in due forme mortalmente nemiche: Dio e l'uomo. Gli uni si richiamano al diritto divino, gli altri all'umano, cioè ai diritti dell'uomo; nell'uno e nell'altro caso non è mai il singolo, che conferisce il diritto a sé stesso.

Citatemi oggi un atto qualsiasi, che non rappresenti una violazione del diritto! Da un lato a ogni momento sono calpestati i diritti umani, mentre dall'altro gli avversari non sanno aprir bocca, senza bestemmiare il diritto divino. Se fate l'elemosina voi dileggiate un diritto umano, perché il rapporto tra il mendicante e il benefattore è antiumano; se la negate voi peccate contro il diritto divino. Se vi mangiate in pace un tozzo di pane asciutto, voi offendete con la vostra indifferenza un diritto umano; se lo mangiate mormorando e imprecando, con la vostra insofferenza oltraggiate la legge divina. Non v'ha uno solo tra voi che non commetta ad ogni momento qualche delitto; i vostri discorsi sono delittuosi, ma ogni freno imposto alla libertà di parola e anche un reato. Voi siete tutti delinquenti. Ma siete tali perché tutti state saldi sul terreno del diritto, senza pur sapere e senza poter conoscere che siete tutti delinquenti.

La pianta della proprietà inviolabile e sacrosanta è cresciuta su quel terreno; è un concetto di diritto.

Un cane che vede un altro cane addentare un osso lo lascia fare perché si sente più debole. L'uomo invece vuol rispettare il diritto che un altro uomo ha su quell' osso. Così operando si conduce umanamente: se facesse altrimenti, il suo agire si chiamerebbe brutale od egoista.

E così in tutti i casi. Sempre una azione si dice umana quando vi si intravede alcunché di spirituale (che nel caso succitato sarebbe il diritto), quando d'ogni cosa si fa un fantasma, e si ha rapporto non già con la cosa, bensì col fantasma che si crede essa rappresenti, con un fantasma che nulla vale a distruggere. E si suole chiamare umano il considerar ciò che è singolo non come singolo ma come alcunché di generale e di astratto.

Io non debbo alla natura, come tale, alcun rispetto: verso di lei mi si concede ogni diritto. Invece nell'albero di quel giardino mi si impone di rispettare l'oggetto altrui, la "proprietà": e io non posso toccarlo. Questo stato di cose cesserà solo quando io potrò nell'atto del cedere quell'albero ad un'altra persona vedere un fatto non diverso da quello del cedere ad altri il mio bastone, quando cioè io avrò cessato di concedermi quell'albero come una cosa estranea e perciò sacra, quando in somma io non imputerò a delitto né l'appropriarmelo né il toglierlo, e l'avrò per mio se pur l'abbia ceduto. Nella ricchezza del banchiere v'è così poco di estraneo a me, quanto ve n'era a Napoleone nelle province dei re. Noi non dobbiamo temere di conquistar quella ricchezza, anzi dobbiamo cercare intorno a noi i mezzi che ci abbisognano a far ciò. Spogliamo dunque quella facoltà del velo dell'estraneità che c'induceva a un pauroso rispetto.

Perciò è necessario che alla cosa io non ricorra più quale uomo, bensì unicamente quale io, e che non riguardi più alcuna cosa, come umana, bensì come mia perché io la voglio.

Proprietà legittima d'un altro non sarà che quella che a te piacerà che sia sua.

Se ciò non ti piacerà più, essa perderà la legittimità, e tu riderai del diritto assoluto che quell'altro protestava di vantare su quella cosa.

Oltre la proprietà in senso limitato, della quale sin qui ci siamo intrattenuti, ve n'ha un'altra che vien messa continuamente sotto gli occhi dell'uomo, sotto il rispetto del sentimento religioso. Contro quest'altra "proprietà" ci è ancor meno successo di "peccare". Consiste, essa, nei beni spirituali, nel santuario intimo dell' uomo. Ciò che un uomo considera come sacro non dev'essere schernito da alcun altro uomo, poiché, per quanto quella cosa ritenuta sacra possa essere falsa e sia permesso di tentar con modi dolci e amorevoli di far comprendere a colui quale sia la vera santità, nonostante bisogna rispettare come sacra anche la sua falsa credenza. Poiché, se anche falsamente quell' uomo crede in alcunché di sacro questa sua credenza nella santità d'una cosa dev'essere rispettata.

In tempi più rozzi dei nostri solevasi pretendere una credenza determinata, una fede in qualche cosa di particolarmente sacro, e non si avevano riguardi per coloro che la pensavano diversamente. Ma poiché la libertà religiosa fu estesa sempre più, l'antico "Dio unico e solo" si mutò a grado a grado in un essere supremo anzi nebuloso che no, e bastò alla tolleranza umana che ogni uomo venerasse qualche cosa di "sacro".

Talvolta nella sua forma più umana, questa cosa sacra è "l'uomo stesso" l'umano. perché è illusione il credere che l'umano appartenga interamente a noi, spogliato d'ogni idea del di là, di lui è rivestito Dio, e che l'uomo sia tutt'uno col mio e il tuo io. Tale errore fu causa della orgogliosa credenza che il "sacro" sia stato superato e che noi non siamo più costretti a lottare col "sacro" penetrati da un religioso terrore. La gioia di aver finalmente "ritrovato l'uomo" ci impedì di  sentire  il  grido  di  dolore  dell'egoista;  e  il  nuovo  fantasma  divenutoci  famigliare  venne considerato come il nostro proprio io.

Ma "humanus" si chiama il Santo (Goethe) e l'umano non è che la cosa santa per eccellenza.

L'egoista s'esprime nel modo opposto. Appunto perché tu ritieni per sacra una cosa, io ti dileggio, e pur rispettando le altre cose che ti son proprie, non rispetto precisamente ciò che ti è sacro.

Da queste opinioni opposte procede un contrasto nella condotta rispetto ai beni spirituali: l'egoista li insulta, l'uomo religioso deve invece difenderli. Però il sapere quali beni spirituali debbano esser difesi e protetti e quali no, dipende dal concetto che l'uomo si fa dell' "ente supremo", sicché il credente in Dio ha, per esempio, più cose da difendere che il non credente nell'uomo (il liberale).

Nei nostri beni spirituali, a differenza che nei materiali, noi veniamo offesi moralmente, e il peccato contro di essi consiste in una profanazione diretta, mentre il nostro peccato contro i beni dei sensi si manifesta nella forma di una sottrazione od alienazione.

I beni spirituali non vengono soltanto sottratti, bensì conculcati e profanati e lo stesso concetto della "santità" corre pericolo. Con le parole "irriverenza" e "profanazione" è uso designare ogni atto che venga perpetrato a danno dei nostri beni spirituali, di ciò insomma che a noi è sacro; lo scherno, la contumelia, il disprezzo, il dubbio ecc., non sono che gradazioni dell'insolenza delittuosa.

Che la profanazione possa avverarsi in più modi è cosa nota; però noi vogliamo accennare solamente a quella cui è esposto il "sacro" per l'illimitata libertà di stampa.

Sino a che si sente rispetto per un ente spirituale qualsiasi, la parola e la stampa devono essere imbavagliate in nome di quell'ente poiché l'egoista con le sue espressioni potrebbe peccare contro di esso, il che gli deve essere impedito con la minaccia d'una "punizione", se non si preferiscano i mezzi preventivi, polizieschi — come la censura.

Quanto si sospira per la libertà di stampa! Ma da che cosa vorreste liberare la stampa? Dalla sua dipendenza, dal suo servaggio: non è vero? Ma liberare se stesso da qualche cosa è faccenda di ciascun singolo, e si può ammettere con certezza che se tu ti sarai sottratto ad un servaggio anche quello che tu parli o scrivi sarà proprietà tua, invece di esser cosa al servizio d'altri. Se io non posso ne devo scrivere qualche cosa, la colpa è fuor di dubbio principalmente di me stesso. Quantunque ciò a prima vista non sembri proprio giusto, è facile tuttavia trovarne esempi moltissimi. In virtù d'una legge sulla stampa io impongo o lascio imporre a me stesso un confine a ciò che vado pubblicando, un limite, oltrepassato il quale io incespico nel peccato e incorro nella punizione. Io stesso assegno un limite a me stesso.

Per rendere veramente libera la stampa, bisognerebbe svincolarla da ogni costrizione che potesse esserle fatta in nome d'una legge. E per ottener ciò dovrei anzitutto aver liberato me stesso da ogni vincolo d'obbedienza verso la legge.

Certamente, la libertà assoluta della stampa, al pari d'ogni altra libertà assoluta, è un'utopia. Essa potrà esser libera da molte cose ma sempre da quelle cose solamente delle quali il singolo si sarà liberato. Se ci sbarazziamo di ciò che è ritenuto per "sacro", noi diverremo senza religione e senza legge, e tali saranno anche le manifestazioni della nostra parola.

Allo stesso modo che noi nel mondo non possiamo liberarci da ogni forma di costrizione, così anche le nostre parole ed i nostri scritti non vi si possono sottrarre. Ma quel grado di libertà di cui noi godiamo, possiamo concederlo anche ai nostri scritti.

La libertà deve dunque diventare una nostra proprietà, anzi che servire ad un fantasma come sin qui è avvenuto.

Non si comprende chiaramente ciò che vogliano coloro che chiedono la libertà di stampa. Quel che apparentemente si ricerca è che lo Stato accordi libertà alla stampa; ma ciò che in fondo si vuole, senza saperlo, si è che la stampa sia libera dallo Stato e che faccia di meno dello Stato. Nella forma, adunque, una petizione diretta allo Stato; nella sostanza una sollevazione contro lo Stato. La forma, che è l'istanza per ottenere un diritto, riconosce lo Stato quale elargitore, né in altro lascia sperare che in un dono concesso con maggiore o minor buona grazia. Può darsi che uno Stato sia tanto sciocco da concedere il regalo che gli si domanda; però c'è da scommettere cento contro uno che i beneficati non sapranno far uso conveniente di quel dono, sino a tanto che considereranno lo Stato come una verità. Essi non insorgeranno di certo contro ciò che rende "sacro" lo Stato; anzi invocheranno, contro ognuno che tentasse dì far ciò, una nuova legge di stampa che lo punisca.

In una parola, la stampa non può essere libera da quelle cose dalle quali il singolo non si è liberato.

Mi dimostro io forse con ciò avversario della libertà di stampa? Tutt'altro; solo io sostengo che non la si otterrà giammai, se non si mira che a quella libertà soltanto, cioè, se non si tende che ad ottenere una autorizzazione illimitata. Mendicate pure codesta autorizzazione: voi potete attendere eternamente, poiché non troverete al mondo alcuno che possa concedervela: Sino a tanto che volete esser "autorizzati", e far uso della stampa mediante una concessione, voi sperate e vi travagliate invano.

"Sciocchezze! Tu, che pensi in quel modo che vai esponendo nel tuo libro, non sai render pubblici i tuoi pensieri se non in virtù di qualche caso fortunato e per vie recondite. E con tutto ciò ti affanni a dimostrare che non bisogna insistere e far forza allo Stato perché ci conceda la libertà di stampa che esso ci ricusa".

Ma uno scrittore assalito così a bruciapelo risponderebbe forse — poiché l'insolenza di questa gente non ha limiti — presso a poco così: "Pensate bene a ciò che dite! Che cosa faccio io per ottenere libertà di stampa pel mio libro? Domando io forse una licenza o non cerco invece un'occasione favorevole senza curarmi della questione del diritto, non l'afferro forse quest'occasione senza alcun riguardo per lo Stato ed i suoi desideri! Tò — bisogna pur dirla la parola nefanda — io inganno lo Stato. E voi inconsciamente fate la stessa cosa. Dalle vostre tribune voi vi argomentate di persuaderlo a rinunziare alla propria santità ed inviolabilità, a dar sé stesso in balia di coloro che scrivono, assicurandolo che ciò facendo non incorrerà in alcun pericolo. Ma voi lo ingannate. perché voi sapete che ci va della sua esistenza se lo spogliate della sua inaccessibilità. A voi esso potrebbe certa mente concedere la libertà dello scrivere, come ha fatto l'Inghilterra. Poiché voi siete credenti nello Stato ed incapaci di scrivere alcunché contro lo Stato per quanto abbiate sempre qualche cosa da riformare, qualche magagna da curare. Ma che diresti se gli avversari dello Stato usassero della libera parola per muover una guerra risoluta e implacabile alla Chiesa, allo Stato stesso, alla morale, a tutto ciò che è "sacrosanto"? Allora voi per primi presi da paura, richiamereste in vita le leggi di settembre. Troppo tardi vi pentirete della sciocchezza commessa col prestarvi ad illudere lo Stato od il Governo con di belle parole.

Ma io con la mia azione non dimostro che due sole cose. La prima, che la libertà di stampa va sempre congiunta alle "occasioni favorevoli", sicché non potrà esser mai una libertà assoluta; la seconda volta, che chi vuole approfittarne deve ricercare l'occasione favorevole, o piuttosto, se gli sia possibile, crearla, col far valere contro lo Stato il proprio vantaggio, e col ritenere superiore se stesso allo Stato e ad ogni altro potere. Non già nello Stato, ma contro di lui, può esser ottenuta la libertà di stampa: essa è e sarà conseguibile non già sotto forma di preghiera, ma quale opera di un'insurrezione. Ogni preghiera, ogni proposta che tenda al conseguimento della libertà di stampa è già una ribellione conscia o inconscia; il che soltanto l'ipocrita mediocrità non vuole e non può confessare a sé stessa, sino a tanto che non è costretta a riconoscerlo negli effetti. Poiché la libertà di stampa, così com'è richiesta, ha per certo in sulle prime un aspetto innocuo, ed attraente, non pensando alcuno che essa debba mutarsi in licenza. Ma un po’ alla volta il cuore dell'uomo s'indurisce, ed ei si lascia vincere alla considerazione che una libertà non è tale finché si trova al servizio dello Stato, della morale o della legge. E una liberazione dalla costrizione della censura, ma non già da quella della legge. La stampa, poiché l'ardente desiderio della libertà l'assale, vuol diventare sempre più libera. Chi scrive, dovrà dire a sé stesso. Io non sarò compiutamente libero che allorquando non avrò più riguardi per cosa alcuna. Ma lo scrivere non è libero che in quanto è una mia proprietà che non può essermi tolta da nessuna potenza, da nessuna autorità, da nessuna credenza, da nessun timore; non basta dunque che la stampa sia libera — sarebbe troppo poco — bisogna che essa sia mia: — la proprietà della stampa, ecco ciò che io voglio ottenere per me.

La libertà di stampa è in fondo la concessione di poter stampare, né mai lo Stato mi potrà permettere che con essa io miri a distruggerlo.

Ricapitoliamo ora, per correggere l'idea ancora incerta della parola "libertà di stampa", in questo modo: La libertà di stampa com'è voluta dai liberali, è certamente possibile in uno Stato, anzi non è possibile che nello Stato, poiché essa non è che una concessione per la quale non può mancare il concedente, ch'è lo Stato. Questa concessione è circoscritta però precisamente ai limiti di questo Stato, che naturalmente non vorrà e non potrà permettere più di quanto si concilia col suo benessere e con la sua esistenza. Egli le prescrive quel limite quale una legge, dalla cui osservanza dipende l'esistenza e l'estensione della concessa libertà. Se uno Stato è più tollerante d'un altro, la differenza non sarà che quantitativa; o ciò è appunto quello che sta a cuore ai liberali. Essi non domandano, p. es., in Germania, che una "licenza più estesa, più ampia alla libera parola". La libertà che si domanda è una causa del popolo, e prima che il popolo (lo Stato) non la possegga io non devo farne alcun uso. Nel rispetto della proprietà della stampa le cose procedono certo diversamente. Se al mio popolo non è concessa la libertà di stampa, io con la forza e con l'astuzia farò stampare quello che voglio la licenza non la domanderò che a me stesso ed alla mia forza.

Se la stampa è una mia proprietà, io abbisogno, per usarne, tanto poco della licenza dello Stato, quanto ne abbisogno per pulirmi il naso. La stampa diverrà proprietà mia, solo il giorno in cui riterrò che nessuna cosa sia superiore a me. "Poiché da questo momento soltanto cesseranno di esistere Stato, Chiesa, popolo, società, ecc la cui esistenza dipende unicamente dal poco conto in cui tengo io me stesso, sicché col dileguare di questo concetto essi svaniscono e si dissolvono. Queste entità non sussistono che in quanto mi sono superiori: quali potenze. Potreste infatti immaginarvi uno Stato, che non fosse tenuto in alcun conto dai cittadini? Una cosa simile sarebbe un sogno, un'esistenza apparente, al par di quella della "Germania una".

E con tutto ciò la mia stampa potrebbe essere ancora per gran tempo serva, vale a dire non libera, come, per esempio, in questo momento. Ma il mondo è grande, e ognuno cerca d'aiutarsi come può. Se io volessi rinunziare alla mia proprietà della stampa, io potrei ottenere in breve di vedere stampato tutto ciò che le mie dita fossero capaci di scrivere. Ma siccome io voglio sostenere e difendere la mia proprietà, io devo di necessità assalire i miei nemici, "Non accetteresti tu il loro permesso, se te lo dessero? Certamente, e con piacere; poiché ciò proverebbe che io li ho sedotti e che li ho scôrti sull'orlo del precipizio. Poiché a me non importa già della loro concessione: ciò che mi preme è che perdano la testa e che periscano. Io non aspiro ad ottenere il loro permesso — poiché non so illudermi (come fanno i nostri liberali politici) che sia possibile vivere in pace agitandosi l'uno accanto all'altro — ma a valermene per distruggere coloro che me l'han dato. Io agisco da nemico che sa quello che si fa, col sopraffarli approfittando della loro leggerezza.

Mia è la stampa, quando io non riconosco sopra di me alcun giudice che mi vieti o conceda di usarne, vale a dire, quando non più moralità o religione o rispetto alle leggi dello Stato, ecc., mi determinano a scrivere, ma la sola mia volontà e il mio egoismo.

Che cosa replicherebbe a colui che vi desse una risposta cosi impertinente? — Forse la questione si farà più chiara esponendola in questo modo: A chi appartiene la stampa: al popolo (Stato) o a me? I politici a null'altro intendono fuorché a render la stampa libera dalle inframmettenze personali ed arbitrarie di coloro che hanno alle lor mani il potere, senza riflèttere che la stampa, per esser realmente aperta a tutti, dovrebbe esser anche libera dalle leggi, cioè dalla volontà del popolo (dello Stato). Essi vogliono farne ad ogni costo una causa del popolo.

Ma quand'anche fosse diventata proprietà di popolo, essa sarebbe ancor sempre ben lontana dall'essere proprietà mia, poiché per me continuerebbe ad avere il significato subordinato d'una concessione. Il popolo si erige a giudice dei miei pensieri, e io sono obbligato a rendergliene conto. I giurati, quando si toccano le loro idee preconcette, hanno delle teste e dei cuori altrettanto duri quanto i più feroci despoti o i loro impiegati servili.

Nelle "Aspirazioni liberali" (II, p. 91 seg.) E. Bauer sostiene che la libertà di stampa è, sì, impossibile nella monarchia assoluta e nello Stato costituzionale, ma può esser attuata nello "Stato libero". "Qui, egli dice, è riconosciuto che il singolo, quale membro della vera e ragionevole universalità, ha il diritto di esprimere ciò che pensa". Ma dunque non già il singolo bensì il "membro" gode della libertà di stampa. Ma se il singolo per ottenere la libertà di stampa è tenuto a provare che fede nel popolo, nell' universalità, se quella libertà in somma egli non l'ottiene per propria forza, bisognerà pur concludere che codesta è una libertà di popolo, una libertà che al singolo non viene concessa se non perché egli crede nel popolo di cui riconosce di esser parte. All'opposto, precisamente il singolo come tale deve aver la libertà di esprimere il suo pensiero Ma è ben vero ch'egli non ne ha il diritto: che quella libertà non è, cioè, "un suo sacrosanto diritto". Egli non ha che la forza; ma questa è sufficiente di per sé a farlo proprietario. Io non ho bisogno di concessioni per stampare liberamente: non ho bisogno dell'autorizzazione del popolo, non ho bisogno "del diritto" e dell' "immissione nel possesso del diritto". Anche la libertà di stampa, al pari di ogni altra libertà, io devo prendermela da me stesso; il popolo, quale "unico giudice", non può concedermela. Può tollerare la libertà che io mi prendo, oppure, vietarmela; donarla o concederla esso non può.

Io la esercito, non ostante il popolo, quale singolo; io la strappo lottando, al popolo, al mio "nemico", e non la ottengo che quando toltala a lui, me la sono conquistata. E me la prendo perché mi appartiene.

Sander, avversato da E. Bauer, vede nella libertà di stampa "il diritto e la libertà del cittadino dello Stato". E il Bauer, fa egli altrimenti? Anche per lui quella libertà non è che un diritto del libero cittadino.

Anche i "diritti umani universali" si invocano a sostegno della libertà della stampa. S'era obiettato che ogni uomo non saprebbe usarne giustamente; poiché non ogni singolo, in quanto tale, può esser chiamalo uomo. All'uomo — come tale — nessun governo negava un tale diritto. Ma l'uomo nulla può scrivere, poiché esso è un fantasma. E così si rifiutava dallo Stato tale libertà ai singoli concedendola invece ad altri, p. es., ai propri organi. Richiederla per tutti senza eccezione non era possibile senza riconoscere ch'essa spetta al singolo, non già all'uomo in astratto. In tutti i casi — si diceva — chi non é uomo, p. es., un animale, è già per ciò stesso nell'impossibilità d'usarne. E così il governo francese, per citarne uno, non mette in dubbio che la libertà di stampa sia un diritto umano; ma vuole che il singolo dimostri d'esser veramente uomo; poiché non già al singolo, bensì all'uomo esso la concede.

Appunto col pretesto che quello ch'era mio non era cosa umana mi si spogliò di ciò che m'apparteneva. E non mi si lasciò che ciò spettava all' uomo.

La libertà della stampa non potrà produrre che una stampa responsabile. L'irresponsabile non può uscire che dalla proprietà della stampa.

*  *  *

I rapporti tra gli uomini che vivono religiosamente son regolati da una legge suprema, cui si può talvolta contravvenire colposamente, ma di cui nessun oserebbe negare il valore.

E questa la legge dell'amore alla quale non divennero infedeli nemmeno coloro che sembrano combattere contro tal principio ed odiarne perfino il nome; poiché ancor essi serbano in sé medesimi una parte di amore, anzi amano, più intimamente e puramente, " l'uomo e l'umanità".

Se cerchiamo di determinare il significato di questa legge arriveremo all’incirca a questa conclusione: Ogni uomo deve avere qualche cosa da porre al disopra di sé stesso. Tu devi posporre i tuoi "interessi privati" a quello degli altri, al bene della patria o della società, al bene pubblico, alla buona causa, ecc. Patria, società, umanità, ecc. devono stare al disopra di te, e al loro il tuo interesse particolare deve cedere sempre. Poiché, in somma, tu non devi essere egoista.

L'amore è un postulato religioso ricco di affetti, che non si limita solamente all'amore di Dio e degli uomini, ma sta in cima a tutti i rapporti. Qualunque cosa noi pensiamo, facciamo, vogliamo, il motivo dev'esserne sempre l'amore. Anche di giudicare ci è permesso, ma con amore.

La Bibbia può certamente essere oggetto di critica, anche profonda, ma il critico anzitutto è tenuto ad amarla e a scorgere in essa il libro santo per eccellenza. Non significa ciò forse, ch'egli non deve permettersi d'esser inesorabile nella sua critica, ch'egli è tenuto a lasciar sussistere quel libro come qualche cosa di santo di inconfutabile? Anche della nostra critica a proposito degli uomini il tono fondamentale immutabile ha da esser l'amore. Per certo i giudizi ispiratici dall'odio non possono essere giudizi degni di noi, ma emanazioni del malanimo che ci domina cioè "giudizi odiosi". Ma forse che i giudizi che l'amore c'inspira possono chiamarsi a miglior diritto nostri? Anche questi sono emanazioni dell'amore dal quale sian dominati: sono giudizi indulgenti, dettati dalla benevolenza; dunque non possono dirsi dei veri giudizi. Chi arde d'amore per la giustizia esclamerà: fìat justitia pereat mundus. Egli potrà sì, domandarsi che cosa sia veramente giustizia, e che cosa essa esiga, e in che consista, ma non si domanderà mai se essa esista, se sia qualcosa di concreto. E molto vero "che chi rimane nell' amore, rimane in Dio e Dio in lui" (I, Giov., 4, 16). Il Dio rimane in lui ed egli non può liberarsene, non divenire senza Dio, ateo; egli resta perennemente nell'amore di Dio e non può esistere senza amore.

"Dio è l'amore". Tutti i tempi e tutte le generazioni riconoscono in queste parole il principio essenziale del Cristianesimo. Dio, che è l'amore, è un Dio pieno di esigenze: egli non può lasciar in pace il mondo, ma vuole renderlo beato. "Dio si è fatto uomo, per far divini gli uomini" (Atanasio). Egli ha parte in ogni cosa, e nulla succede senza che Dio voglia; da per tutto noi ci abbattiamo alle sue "migliori intenzioni", ai "suoi disegni imperscrutabili". Quella  ragione, ch'egli stesso rappresenta, dev'esser favorita e attuata in tutto il mondo. Le sue cure paterne ci tolgono ogni indipendenza. Noi nulla possiamo fare di buono senza che ci si dica: Dio l'ha fatto! Se ci casca addosso una disgrazia: Dio l'ha voluto! Nulla abbiamo che non sia mercè sua; egli ci ha dato tutto. Ma come fa Dio, così anche fa l'uomo. Dio vuol render beato il mondo ad ogni costo, e l'uomo vuol render il mondo ad ogni costo felice. Per ciò ogni uomo vuole infondere in tutti la ragione che crede d'avere in se. Tutti, assolutamente tutti, devono esser ragionevoli a modo suo. Dio è costretto a lottare col diavolo, e il filosofo a contrastar colla stoltezza e col capriccio Dio non permette a nessun essere di camminare pei proprî sentieri, e l'uomo vuole che noi abbiamo a condurci sempre "umanamente". Ma chi è pieno d'amore santo (religioso, morale, umano) non ama che il fantasma, il "vero uomo", e perseguita ciecamente e senza misericordia il singolo, l'uomo reale, con lo stupido titolo di diritto della procedura contro l' "inumano". Per lui è cosa commendevole, necessaria anzi, il mostrarsi a tal riguardo quanto più gli è possibile spietato; poiché l'amore dell'astrazione gli comanda d'odiare la realtà viva, vale a dire l'egoista, o il singolo. Questo e il significato di quell'apparenza d'amore cui si dà nome di "giustizia".

L'accusato non deve attendere pietà e nessuno stenderà un benigno manto sulla sua infelice nudità. Senza commuoversi, il giudice severo strappa di dosso al povero imputato gli ultimi laceri lembi della sua discolpa; senza pietà il carceriere lo trascina nella nuova cupa dimora e senza riconciliarsi con lui lo getta, espiata la sua colpa, in balia al disprezzo del mondo, in mezzo al suo buon prossimo cristiano e ligio al proprio governo. Un delinquente reo di morte, vien condotto sul palco fatale, e dinanzi agli occhi d' una moltitudine ebbra di gioia feroce la legge morale trionfa nella sua sublime vendetta. Dei due l' uno soltanto può vivere: o la legge morale o il delinquente sono impuniti, la legge morale ha cessato d'esistere: dove questa impera, quelli devono perire.

Appunto l'êra cristiana è quella della pietà, dell'amore, intesa ad ottenere che tutti gli nomini abbiano ciò che a loro spetta, sì da ridurli a compire la loro vocazione umana (divina). L'amore nei rapporti tra gli uomini fu dunque posto in cima d'ogni cosa; questo solo forma l'essenza dell'uomo e quindi la sua missione, alla quale fu chiamato da Dio, o, secondo i concetti moderni, dalla Specie. Donde lo zelo di convertire. Se i comunisti e gli umanitari s'aspettano maggiori cose dall'uomo, che non i cristiani, ciò non toglie che essi accolgano un principio in tutto conforme al cristiano. Ciò che è umano deve appartenere all'uomo. Se all'uomo religioso bastava l'avere la sua parte di divino, gli umanitari pretendono che l'umano sia lor dato interamente, senza restrizioni. Ma all'egoismo s'oppongono l'uno e gli altri con tutte le loro forze. Ciò è ben naturale, dacché ciò che è egoistico non può venir concesso o conferito all'uomo: ciascuno deve concederselo a sé stesso. Quello può esser conferito dall'amore, questo unicamente da me.

I rapporti erano sin qui fondati sull'amore, sul principio del1'uno per tutti. Allo stesso modo ch'era un dovere verso sé stessi l'argomentarsi a divenir santi, raccogliere insomma a sé la luce dell'Ente supremo per rivelarla ad altrui, così era un dovere verso gli altri l'aiutarli ad attuare il loro vero essere, la loro vocazione. Nell'un caso e nell'altro era un dovere verso l'essenza dell'uomo il far sì che essa potesse rivelarsi in ciascuno.

Ma in verità noi non abbiamo alcun dovere né di far di noi una determinata cosa, né di aiutare gli altri a svolgere la personalità loro in un modo piuttosto che nell'altro. I rapporti che si fondano sull'essenza umana sono rapporti con un fantasma, non con una cosa reale; se io comunico con l'Ente supremo non comunico con me stesso, e se comunico con l'essenza umana non comunico con gli uomini.

L'amor naturale dell' uomo verso il suo simile mercè l'educazione è un comandamento. Ma può essere un comandamento per l'uomo come tale, non già per me stesso. L'amore è una mia essenza, cui si dà un'esagerata importanza, ma non già una mia proprietà. L'uomo (vale a dire l'umanità) pretende da me l'amore e vuol impormelo quale un dovere. Ma così fatto esso non appartiene più a me bensì a un'astrazione, e diventa quindi una proprietà dell'uomo: "All'uomo (dunque ad ogni uomo) s'addice l'amare: Amate è il dovere e la missione d'ogni uomo; ecc."

Per conseguenza io devo nuovamente mendicare a me stesso l'amore, liberandolo dal potere
dell'uomo.

Ciò che in origine era mio mi venne poi conferito quale proprietà dell'uomo; io divenni un vassallo, quando amavo, il vassallo dell'umanità, un esemplare della specie, sì che amando non agivo più quale io, bensì quale uomo, quale un semplice essere umano: agivo insomma umanamente. Tutta la civiltà odierna è fondata sul vassallaggio — da che la proprietà è dell'uomo, o dell'umanità, non mai mia. Si fondò per tal modo un immenso Stato feudale togliendo tutto al singolo, e tutto concedendo all'uomo.

Il singolo doveva finalmente assumere l'aspetto d'un "peccatore in ogni senso".

Non dovrei io forse prender alcun interesse per la persona d'un altro? non dovrebbero starmi a cuore la sua gioia, il suo vantaggio? dovrebbe il godimento che io posso procurargli esser per me uno inferiore a qualunque mia gioia particolare? Al contrario; io saprò sacrificargli non piacere innumerevoli miei diletti, rinunzierò ad infiniti miei vantaggi per accrescere la sua gioia, fin le cose a me più care io potrò sacrificargli in ogni pericolo: la mia vita, la felicità mia, la mia libertà. Si, ma per ciò soltanto che nel pensiero della sua felicità consiste la mia gioia. Ma me, me stesso io non gli sacrificherò mai, anzi resterò egoista e godrò di ciò che io ho fatto per lui. Che io gli sacrifichi tutto ciò che, se non fosse il mio amore per lui, io conserverei gelosamente, è cosa semplice e molto più comune nella vita di quanto si creda; ma ciò altro non prova, senonché quella passione è in me più forte di tutte le altre. Sacrificare a questa passione ogni altra, è pur insegnamento del Cristianesimo. Ma quando io sacrifico ad una data passione le altre, ciò non avviene già perché io rinneghi me stesso; nulla io sacrifico di ciò per cui sono veramente io, non il mio vero valore, non la mia personalità.

Che se questo brutto caso succeda, l'amore non è del tutto migliore delle altre passioni, alle quali ciecamente obbedisco. L'ambizioso, il quale trascinato dalla sua ambizione è sordo contro ogni ammonimento della riflessione nei momenti di tranquillità, ha fatto della sua passione un tiranno, cui egli rinunzia ad opporsi. Egli è un ossesso.

Anch'io amo gli uomini. Ma io li amo con la coscienza dell'egoista, io li amo perché il loro amore mi rende felice, io li amo perché l'amore è incarnato nella mia natura, perché così mi piace.Io non riconosco alcuna legge che m'imponga d'amare. Io provo simpatia e compassione per ogni essere che sente, e le sue pene mi danno tormento, le sue gioie piacere; io saprei uccidere, ma non torturare. Invece il magnanimo, il virtuoso principe, filisteo, Rodolfo nei Misteri di Parigi, nella sua indignazione contro i malvagi, pensa al modo di farli soffrire. Quella compassione e atta soltanto a provare che ciò che sentono gli altri lo sento ancor io, che questo sentimento mi è proprio, mi appartiene; mentre il procedere spietato del "giusto" p. es. contro il notaio Ferrand)) rassomiglia all' insensibilità di quel brigante, che, legate sul suo letto le vittime, tagliava loro i piedi e le gambe, o le stirava finché raggiungessero la lunghezza del letto. Il letto di Rodolfo, secondo il quale egli accorcia o distende gli uomini, è il principio del "bene". Il sentimento del diritto, della virtù lo rende di cuor duro e intollerante. Rodolfo non pensa come il notaio: all'opposto di lui, egli sente che il malvagio ha avuto ciò che si meritava.

Voi amate l'uomo, e per ciò torturate il singolo, l'egoista; il vostro amore degli uomini non riesce in somma ad altro che a torturare gli uomini. Se io vedo soffrire l'oggetto amato, io soffrirò con lui e non avrò riposo prima d'essermi adoperato in tutti i modi a confortarlo, ad allietarlo; se lo vedrò giulivo, ne sentirò piacere ancor io. Ma da ciò non segue che la causa del dolore o della gioia sia a noi comune. Questo é palese sopra tutto nei dolori corporali che io non sento come lui: se egli ha mal di denti ad esempio, ciò che io sento non è quello stesso dolore che egli prova ma la pietà per quel suo dolore.

Soltanto perché io non posso sopportare quella ruga dolorosa sulla fronte della persona amata per me dunque soltanto, per amor di me stesso — io cerco di farla sparire con un bacio. Se io non amassi quella persona, le sue rughe non m'importerebbero più che tanto; io non cerco che di far cessare il mio dispiacere.

Ebbene v'è forse qualche cosa che io non amo la quale possa vantare il diritto d'essere amata da me? I genitori, i parenti, la patria, il popolo, la città natia, ecc., e poi in generale tutti gli uomini ("fratelli, fratellanza") pretendono d'aver un diritto al mio amore e ne dispongono addirittura senza domandarmene il permesso. Essi scorgono nel mio amore una proprietà loro e considerano me, se non rispetto quella proprietà, per un ladro che toglie loro una cosa alla quale hanno diritto. Io devo amare. Se l'amore è comandamento e legge, è necessario che io venga secondo questo principio educato, e, se contravvengo ad esso, punito. Perciò si esercitava su di me un'influenza morale potentissima, per costringermi ad amare. E senza dubbio si può col solletico dei sensi istigare, sedurre l'uomo all'amore, come anche, del resto, all'odio. L'odio si trasmette da intere generazioni alle future, soltanto perché gli antenati delle une erano Guelfi, quelli delle altre Ghibellini.

Se non che l'amore non è un Comandamento mio, come ogni altro sentimento — una mia proprietà. Acquistatela ed io ve la cederò. Una chiesa, un popolo, una patria, una famiglia ecc. non hanno diritto al mio amore se non sanno acquistarselo: quanto al prezzo, spetta a me solo stabilirlo.

L'amore egoistico è ben diverso dall'amore disinteressato, mistico o romantico. Si può amare qualunque cosa; non soltanto gli uomini, ma anche il vino, la patria, ecc. L'amore diviene cieco e
folle, quando, mutandosi in una necessità, sfugge al mio potere: diviene romantico quando vi si aggiunge l'idea del "dovere", in guisa che l' "oggetto" si fa per me sacro, ed io mi lego a lui con la coscienza, col vincolo del giuramento. D'allora in poi non più l'oggetto esiste, per me, bensì io esisto per l'oggetto.

Come sentimento, l'amore è una mia proprietà — quando il suo oggetto è concepito come un'entità astratta, esso diventa una ossessione. L'amor religioso consiste nel precetto di amare nell'oggetto una cosa "santa". Per l'amor disinteressato esistono degli oggetti degni d'esser amati in modo assoluto, pei quali il mio core ha l'obbligo di palpitare: p. es., pel nostro prossimo, per la moglie, per i parenti, ecc. L'amor religioso ama non l'oggetto in sé ma quel che v'ha in esso di sacro, e cerca di accrescere la santità si da rappresentarselo sempre più estraneo e astratto.

Mi si impone di amare una determinata entità e di amarla per sé stessa: L'oggetto amato non divien tale per mia elezione come la sposa, la moglie, ecc.; se anche io l'abbia prescelto una volta, egli s'è ora acquistato un "diritto al mio amore" ed io, per averlo amato, sono obbligato ad amarlo in eterno. Esso non è adunque un oggetto del mio amore, bensì dell'amore in generale. L'amore gli è dovuto, gli compete, è un suo diritto; ed io sono tenuto ad amarlo. Il mio amore, vale a dire l'amore ch' io gli debbo, è in realtà il suo amore, ch'egli riceve da me quale un tributo.

Ogni amore, nel quale sia anche in minima parte una costrizione, è un affetto non più interamente mio e facilmente si converte in un'ossessione. Chi ritiene d'esser in debito di qualche cosa all'oggetto del suo amore, ama romanticamente e religiosamente.

L'amor della famiglia è un amore religioso; tale è pure l'amor di patria, "il patriottismo". Lo stesso avviene di tutti i nostri amori romantici; è in tutti la medesima illusione d'un amore "disinteressato", un affetto manifestato per un oggetto in sé, non per me o per amor mio.

L'amore religioso o romantico si distingue bensì dall'amor sensuale per la diversità dell'oggetto, ma non già per una differenza della nostra condotta verso ciò che n'è causa. Nell'uno e nell'altro c'è dell'ossessione; colla differenza che per l' uno l'oggetto è profano, per l'altro sacro. La signoria dell'oggetto su me è in entrambi i casi egualmente intensa, con questa sola differenza: che nel primo esso è sensuale, nel secondo ideale. Ma l'amore non è veramente cosa mia se non quando esso consista in un interesse egoistico, si che l'oggetto del mio amore sia veramente un mio oggetto, un mio possesso. Verso il mio possesso io non ho obbligo di sorta, cosi come, per un esempio, io non ho alcun dovere verso il mio occhio; se ne prendo cura, ciò avviene unicamente nel mio interesse.

L'amore mancava cosi all'antichità come ai tempi cristiani; il dio d'amore è più vecchio del dio
dell'amore. Ma l'ossessione mistica appartiene esclusivamente all'età moderna.

L'ossessione dell'amore deriva dal fare dell'oggetto dell'amore un'entità astratta. Per l'egoista nessuna cosa è tanto elevata da farlo cader in adorazione, nessuna tanto indipendente da poterlo obbligare a vivere unicamente per essa, nessuna tanto sacra da indurlo a sacrificarle sé stesso. L'amore dell'egoista sgorga dallo interesse, si svolge nei termini dell'interesse, e riesce ancora all'interesse.

Può esso dirsi ancora amore? Se sapete esprimerlo con un'altra parola, sceglietela pure; e allora la dolce parola "amore" tramonterà insieme col mondo privo della bua luce? Per me io non ne trovo alcuna adatta a definirlo nella nostra lingua "cristiana" e mi attengo per conseguenza all'antica denominazione e continuo ad amare l'oggetto ch'è mio, la mia proprietà.

Io coltivo l'amore perché è uno dei miei sentimenti, ma mi ripugna il considerarlo quale un
potere superiore a me, quale una cosa divina (Feuerbach), quale una passione a cui devo cercar di sottrarmi o quale un dovere religioso e morale. Essendo un mio sentimento, esso m'appartiene, come principio al quale io voto e consacro la mia anima, esso è un dominatore; non è divino meglio che non sia diabolico l'odio; l'uno non vale meglio dell'altro. In somma il mio amore egoistico, vale a dire il mio amore, non è ne sacro né profano, né divino né diabolico.

Un amore circoscritto dalla fede è un falso amore. L'unica limitazione che s'addice all'essenza dell'amore è quella imposta dalla ragione e dall'intelletto. Un amore che disprezza la legge
dell' intelletto è, teoricamente, un amor falso, in pratica un amor pernicioso (Feuerbach).

L'amore è per la sua essenza ragionevole — pensa Feuerbach. L'amore e per sua indole credente — pensa invece il cristiano. Quegli inveisce contro l'amore irragionevole, questi contro l'amore senza fede. Ma ambedue lo tollerano unicamente quale uno splendidum vitium. Non sono forse entrambi costretti a tollerare l'amore anche sotto le forme di irragionevolezza e di scetticismo? Essi non ardiscono dire: l'amore irragionevole e l'amore scettico sono un controsenso, non sono l'amore, allo stesso modo che non si arrischiano a dire; le lagrime irragionevoli e le scettiche non sono lagrime. Ma se anche l'amore irragionevole dev'esser tenuto in contò d'amore, e pure è stimolo indegno dell' uomo, ne segue semplicemente questo: non l'amore, bensì l'intelletto o la fede è la cosa suprema; amare possono anche gli esseri irragionevoli e i non credenti; sebbene non abbia pregio se non l'amore d'un essere che ragiona o che crede.

E’ un abbaglio il chiamare, come fa il Feuerbach, la ragionevolezza dell'amore la limitazione che questo da sé stesso c'impone; allo stesso modo potrebbe il credente chiamare col nome di fede "la regola dell'amore". L'amore separato dalla ragione non è né falso né pernicioso; esso adempie al suo ufficio quale amore: ecco tutto.

Di fronte al mondo, e particolarmente agli uomini, io devo impormi un sentimento, e presentarmi loro ricco d'affetto e d'amore. Certo, così adoperando, io faccio prova di maggiore indipendenza, che non lasciandomi assalire da tutti i sentimenti più diversi e avvolgermi dalla rete inestricabile delle sensazioni che il caso mi reca. Io avvicino piuttosto il mondo con un sentimento preconcetto, con una specie di pregiudizio. Io mi sono di già tracciata la mia linea di condotta verso gli uomini, e, checché essi facciano, io non sentirò e penserò a lor riguardo se non nel mondo che ho già in precedenza stabilito. Io sono fatto sicuro contro il dominio altrui dal mio principio d'amore; poiché qualunque cosa possa accadere, io amo. Per esempio il brutto mi fa impressione spiacevole, ma risoluto come sono ad amare, faccio forza a me stesso, e vinco, con ogni altra ripugnanza, anche quell'impressione.

Ma un sentimento al quale io mi sia votato e condannato ancor prima di fare il mio ingresso nel mondo, è per l'appunto un sentimento angusto, limitato, perché è un sentimento predestinato, da cui non so più liberarmi. Sicché se il mondo non mi domina, io sono però in soggezione dello spirito dell' uomo. E’ un pregiudizio. Non sono già io che mi mostro al mondo, è il mio amore che gli si rivela. Ecco, io ho trionfato del mondo; ma son divenuto uno schiavo di quello spirito.

Se prima dissi: io amo il mondo; ora soggiungerò ancora, io non l'amo, poiché io l'anniento come anniento me stesso: io lo dissolvo. Io non mi limito ad un unico sentimento verso gli uomini, bensì mi do libero a tutti gli affetti, di cui sono capace. perché non dovrei esprimermi con tutta franchezza? Si, io sfrutto il mondo e gli uomini! E con tutto ciò posso conservarmi accessibile ad ogni impressione senza che l'una piuttosto che l'altra mi tolga a me stesso. Io posso amare, con tutta l'anima, senza veder nell'oggetto amato altra cosa fuorché un alimento alla mia passione, che in virtù di quello incessantemente si rinnova. Tutte le cure ch'io mi prendo sono rivolte unicamente all'oggetto del mio amore, a quell'oggetto di cui il mio amore prova bisogno, e che io amo ardentemente. Quanto indifferente mi sarebbe quell'oggetto se non si trattasse che del mio amore ! Io con esso alimento il mio amore, e solo per questo ne ho bisogno; io lo godo.

Scegliamo un altro esempio, che è alla nostra portata. Io vedo gli uomini angustiati, per cupa superstizione, da un lugubre nugolo di fantasmi. Se io mi argomento con ogni mia forza a portare la luce del giorno in quelle fitte tenebre, faccio forse ciò perché il vostro amore mi vi spinge? Scriverò io forse per amore degli uomini? No, io scrivo perché voglio procurare ai miei pensieri un'esistenza nel mondo, e quand'anco potessi prevedere che questi miei pensieri vi toglierebbero la pace ed il riposo, e che dalla semente loro usciranno le guerre più sanguinose e la rovina di molte generazioni: — io spargerei nonostante a piene mani la mia semente. Fatene ciò che volete, e ciò che potete. Quest'è affare vostro: io non me ne curo. Pochi se ne gioveranno. Che mi importa? Forse voi ne avrete cordoglio, lotte, morte. Se mi stesse a cuore l'utile vostro io mi condurrei come la Chiesa, che sottrasse ai profani la Bibbia, o come i governi cristiani che credono di avere il sacrosanto dovere di difendere il "volgo", dai libri cattivi.

Ma vi è di più. Non solo io non scrivo i miei pensieri per amor vostro, ma nemmeno per amor della verità. No; io scrivo così come canta l'uccello che vive tra i rami; la canzone è sufficiente premio al cantore (Goethe).

Io canto — perché son cantore. Ma di voi ho bisogno unicamente perché ho bisogno d'orecchi che m'intendano.

Dovunque il mondo m'attraversi il cammino — e ciò mi succede ad ogni passo — io lo distruggo per soddisfare la fame del mio egoismo. Tu non sei per me altro che un mio alimento, quantunque anch'io venga da te sfruttato a mia volta.

Tra di noi non esiste che un solo rapporto, un solo legame: quello dell'utilità, del profitto. Noi reciprocamente nulla ci dobbiamo, poiché ciò che in apparenza devo a te, lo devo in realtà tutt'al più a me stesso. Se ti mostro una faccia ilare, per dilettarti, ciò significa che mi sta a cuore la tua letizia e la mia faccia obbedisce al mio desiderio. A molti altri, che non mi curo di allietare io non farò quel viso.

Solo l'educazione può avviarci a quell'amore che si fonde sull' "essenza dell'uomo" e che pesa su noi quale un "precetto". Noi dimostreremo con esempi in qual modo l'influenza morale, ch'è il principale espediente della nostra educazione, cerchi di regolare i rapporti degli uomini tra loro.

Coloro che hanno cura della nostra educazione si danno anzitutto faccenda per toglierci l'abuso della menzogna e per inspirarci l'amore alla verità. Ora se a questa regola si ponesse per fondamento l'egoismo, ognuno comprenderebbe di leggeri com'egli mentendo corra pericolo di perder la fiducia degli altri, o quanto sia vero l'assioma, che chi ha mentito anche una sola volta non si presta fede più né pure quando dice la verità. Ma in pari tempo sentirà anche ch'egli non è tenuto a dire la verità se non a colui cui egli ha conferito il diritto di saperla. Se una spia s'aggira travestita pel tempo nemico, e viene richiesta del suo essere, coloro che l'interrogano sono certamente nel loro diritto di domandare, ma la spia travestita non concede loro quello di sapere chi essa si sia; essa dirà tutto, fuorché la verità. Eppure la morale impone: tu non devi mentire. La morale conferisce però a coloro un diritto di saper chi sia quella spia, ma non a questa il diritto di rivelarlo.

Io non riconosco altri diritti fuorché quelli che io stesso concedo, supponiamo che in un'adunanza rivoluzionaria la polizia domandi il nome dell'oratore: tutti sanno che essa ha diritto di conoscerlo, ma l'oratore, ch'è a lui nemico, dirà un nome falso e mentirà alla polizia. Anche questa non è tanto sciocca da rimettersene all'amore della verità dei suoi avversari, anzi essa cercherà se le vien fatto, di conoscere chi realmente sia la persona in questione. Sì, lo Stato si mantiene sempre incredulo di fronte agli individui, poiché nel loro egoismo riconosce il suo nemico naturale. Esso richiede sempre delle prove, e chi non può fornirle cade nelle sue mani. Lo Stato non crede al singolo, non si fida di lui, e si pone di conseguenza sullo stesso terreno della menzogna. Esso mi crede solo quando s'è convinto della verità del mio asserto, per ottenere la qual cosa molte volte è ridotto a rimettersi al mio giuramento. Con quanta evidenza non è dimostrato con ciò che lo Stato non conta sulla nostra sincerità, ma solamente sul nostro interesse, sul nostro egoismo: che solo si affida alla convinzione che noi non vorremmo con un falso giuramento incorrere nella disgrazia di Dio.

Immaginiamoci un po' un rivoluzionario francese dell'anno 1788 il quale tra amici si lasciasse sfuggire queste parole: "Il mondo non avrà riposo prima che l'ultimo re non penda appiccato dalle budella dell'ultimo prete". A quel tempo il re raccoglieva in sé ogni potere, e se si fosse saputo che si eran profferite quelle parole si sarebbe preteso che l'accusato le confessasse. Ora vi sarebbe egli tenuto? Negandole, egli mentirebbe, ma sfuggirebbe alla pena. Affermandole, egli dice la verità, e ci rimette la testa. Se egli tiene la verità in maggior conto di ogni altra cosa, ebbene muoia. Soltanto qualche poeta miserabile potrebbe sentirsi allettato e scriver sul quei soggetto una tragedia. Poiché qual interesse può esservi nel veder un uomo soccombere per viltà? Ma se egli avesse il coraggio di non essere schiavo della verità e della sincerità, egli chiederebbe a sé stesso presso poco: Che bisogno hanno i giudici di conoscere quello che ho detto in un circolo d'amici? Se io avessi voluto ch'essi lo sapessero l'avrei detto a loro medesimi nello stesso modo che l'ho detto agli amici. Ma io non voglio ch'essi lo sappiano. Essi vogliono impicciarsi dei fatti miei, senza ch'io li abbia chiamati né fatti miei confidenti: essi vogliono conoscere quello che io voglio nascondere. Ebbene, orsù, voi che volete spezzare la mia volontà colla vostra, provate le vostre arti. Voi potete mettermi alla tortura, potrete minacciarmi le pene dell'inferno, la dannazione eterna, mi potrete rendere tanto debole da prestarvi un giuramento falso, ma la verità voi non potrete costringermi a confessarvela, poiché io voglio mentire a voi perché io non vi ho dato alcun diritto di disporre del mio pensiero. Possa quel Dio ch'è la verità, guardami dall'alto accigliato e minaccioso quanto gli aggrada, mi riesca pur difficile pronunciar una menzogna, io avrò tuttavia il coraggio di mentire; e quando pure fossi stanco della vita, e nulla mi fosse più gradito della scure del carnefice, nondimeno non vorrei darvi la gioia di aver trovato in me uno schiavo della verità, che voi con le vostre arti pretine riduceste al vostro volere. Quando pronunciai quelle parole di alto tradimento, io volli che voi nulla ne sapeste; ora mantenga ferma la mia volontà e non mi lascio intimidire dall'anatema della menzogna.

Sigismondo non è già un soggetto miserabile e spregevole perché ha mancato alla sua parola di re; anzi è vero l'opposto; egli mancò alla sua parola data perché era un soggetto miserabile e spregevole; egli avrebbe potuto anche mantener la sua parola e sarebbe rimasto cionondimeno l'essere miserabile e spregevole che egli era.

Lutero, spinto da una forza superiore, infranse i suoi voti monastici; egli li infranse per amor di Dio. Ambidue, infrangendo i loro giuramenti, erano ossessi. Sigismondo, perché voleva in apparenza professare sinceramente la verità divina, vale a dire la vera fede, la cattolica; Lutero, perché voleva far testimonianza, sinceramente, in tutta verità, corpo ed anima, pel vangelo, l'uno e l'altro furono spergiuri. Per poter essere sinceri di fronte ad una "verità superiore". Con questa differenza però: che l'uno fu svincolato dal suo giuramento dai preti, l'altro se ne svincolò da sé stesso. Che altro hanno fatto entrambi se non tener conto dell'insegnamento contenuto nelle parole degli Apostoli: "tu non hai mentito agli uomini, bensì hai mentito a Dio"? Essi mentirono agli uomini, infransero i loro giuramenti dinanzi agli uomini, per non mentire a Dio, anzi per servirlo. In questo modo essi ci mostrano come si debba far conto della verità dinanzi agli uomini. Per la gloria di Dio — per amor suo — lo spergiuro, la menzogna, la fede infranta.

Ma se commettessimo uno spergiuro per amor nostro non ci si accuserebbe forse di furfanteria? In apparenza cosi è, ma in realtà quest'azione non sarebbe diversa dall'altra fatta per amor di Dio. Non si sono forse commesse tutte le atrocità possibili in nome di Dio, alzati i patiboli per amor suo, consumati in suo nome tutti gli auto da fé, imbecillità l'umanità in nome suo? Ed oggi ancora nei teneri bambini non si costringe lo spirito alla educazione religiosa? Non s'infranse in tutti i tempi ogni più sacro voto per amor suo? Non si mandano forse ogni giorno in giro pel mondo missionari e preti per indurre ebrei e pagani, protestanti e cattolici, a tradire la fede dei padri — sempre per amor di Dio? E le cose dovrebbero andar peggio se si trattasse di farle per amor mio? Che cosa significa "per amor mio"? Ecco che tosto si ricorre col pensiero alla "miserabile sete di lucro". Chi opera per amore di lucro opera per conto proprio (né v'ha cosa del resto che non sia fatta per amor di sé stessi; solo chi ricerca il lucro per sé stesso ne diviene schiavo, appartiene al lucro, e non già a sé stesso); non deve forse chi è dominato dalla passione dell'avidità obbedire ai comandi di questa sua padrona, e se talvolta dà prova di debolezza non è questa forse un'eccezione? Non altrimenti i fedeli perdono talvolta la guida del Signore e sono travagliati dalle arti diaboliche. Dunque l'avaro non è uno che possiede sé stesso, bensì uno schiavo, e non può far cosa alcuna per sé stesso senza farla per amore della sua padrona — la passione che lo domina — proprio così come la fede signoreggia l'uomo religioso.

E’ celebre l'infrazione del giuramento commessa da Francesco II contro l'Imperatore Carlo

V. Non già più tardi, quando egli ebbe agio di meditare tranquillamente la sua promessa, ma nel momento stesso in cui prestava il giuramento, il re Francesco lo infrangeva con una restrizione mentale e poi con un documento segreto firmato dai suoi consiglieri: egli aveva pronunciato uno spergiuro premeditato. Francesco non era alieno dal riscattare la propria libertà; ma il prezzo richiesto da Carlo gli sembrava soverchio ed ingiusto. Se pure non dobbiamo dire che Carlo si sia dimostrato avido troppo, Francesco si comportò nondimeno da straccione col voler acquistare la propria libertà ad un prezzo inferiore al pattuito; e le sue azioni posteriori, tra le quali si annovera un secondo spergiuro, dimostrano a sazietà in qual modo egli fosse posseduto dallo spirito dell'avarizia che lo teneva schiavo e lo rendeva un miserabile truffatore. Però che cosa possiamo noi dire circa allo spergiuro che gli è imputato? Questo soltanto: che non lo spergiuro lo ha disonorato, bensì la sua spilorceria; ch'egli non merita disprezzo perché sia stato uno spergiuro, bensì ch'egli s'è reso colpevole d'uno spergiuro per ciò solo ch'era un uomo spregevole. Ma lo spergiuro di Francesco considerato per sé stesso merita d'esser giudicato diversamente. Si potrebbe dire che Francesco non abbia corrisposto alla fiducia dimostratagli da Carlo quando gli rese la libertà. Ma se Carlo avesse avuto realmente fiducia in lui, gli avrebbe semplicemente indicata la somma del riscatto e poi gli avrebbe restituita la libertà, attendendo che Francesco versasse quella somma. Carlo non aveva tale fiducia; soltanto, era persuaso che la debolezza e la credulità di Francesco non gli avrebbero permesso d'infrangere il giuramento; e Francesco non fece che sventare quel calcolo mal fondato. Mentre Carlo V credeva di assicurarsi, mediante un giuramento, del suo nemico, appunto con quel giuramento lo svincolava da ogni obbligazione. Egli aveva calcolato unicamente sulla imbecillità del suo nemico, vale a dire sulla lealtà sua. L'aveva rilasciato dalla prigione di Madrid per renderlo più sicuramente prigioniero della sua coscienza, del grande carcere in cui la religione ha chiuso l'uomo. Per ciò lo rimandò in Francia avvinto da invisibili ceppi. Qual meraviglia dunque se Francesco cercò di fuggire, spezzando quelle catene? Nessuno gli avrebbe mosso un appunto se fosse evaso segretamente dalle carceri di Madrid, poiché si trovava in balia di un nemico; ed ecco che invece ogni buon cristiano si tiene licenziato a condannarlo perché egli abbia tentato di sottrarsi ai legami divini. (Il papa solo più tardi lo sciolse dal suo giuramento).

È trista cosa tradire la fiducia, che volontariamente noi ispiriamo agli altri. Ma l'abbattere colui, che ha tentato piegarci con un giuramento, non reca disonore all'egoismo. Se tu hai tentato di legar me, ebbene sappi ch'io ho appreso a spezzale i tuoi legami.

Si tratta anzitutto di conoscere se alcuno per ciò solo che ha riposto la sua fiducia in me acquisti il diritto ch'io non le venga meno. Se quegli che insegue il mio amico mi domanderà d'ovesso si sia rifugiato, io certo lo metterò su una falsa traccia. perché vuol saperlo proprio da me che sono amico dell'inseguito? Per non essere un falso amico, un traditore, io accetto volentieri di esser menzognero. Io potrei certamente rispondere col coraggio che dà una buona coscienza; "io non voglio dirlo" (in questo modo Fichte rivolse il caso), e con ciò io salverei la mia lealtà; ma cosi adoperando nulla farei pel mio amico poiché se io non metto il nemico suo su una traccia falsa è possibile ch'egli prenda il vero cammino si che la mia sincerità avrà per effetto di tradire l'amico. Chi vede un idolo, una cosa sacra, nella verità, è costretto ad umiliarsi dinanzi ad essa, non deve opporsi né resistere alle sue esigenze, in somma deve rinunziare all'eroismo della menzogna. Poiché a mentire ci vuole non minor coraggio che a dire la verità, un coraggio che fa difetto alla maggior parte dei giovani, i quali preferiscono confessare la verità e salire il patibolo anziché ridurre all'impotenza i propri nemici col dire una menzogna. A costoro la verità è "sacra"; ora quello che è sacro ricerca sempre cieca venerazione e obbedienza. Se non siete sfacciati schernitori di ciò che è sacro, voi ne siete gli schiavi. Purché io vi getti un granello di verità nella trappola, voi ne resterete impigliati. Così i pazzi ci sono caduti. Non volete mentire? Ebbene, soccombete vittime della verità e diventate i suoi martiri. Martiri — ma per che cosa? Per ciò che vi è proprio? No, per la vostra dea — per la verità. Voi non conoscete che un duplice servizio, e due specie di servitori: quelli della verità e quelli della menzogna. E allora, in nome di Dio, siate servi della verità!

Altri poi servono pure alla verità, ma in una "certa misura"; e fanno; per esempio, una grande distinzione tra una semplice bugia ed una bugia giurata. Eppure il capitolo del giuramento è quello stesso della bugia, poiché un giuramento non è che una affermazione rafforzata. Voi vi ritenete autorizzati a mentire purché non abbiate a giurare il falso. Chi è scrupoloso deve condannare una bugia altrettanto severamente quanto un falso giuramento. Tuttavia s'è conservato nella morale un vecchio argomento contrastato, quello della menzogna "necessaria": per forza maggiore. Ebbene nessuno che l'ammetta può escludere il falso giuramento per "forza maggiore". Se io giustifico la mia bugia col bisogno, non dovrei esser tanto pusillanime da privare questa legittima bugia della sua forza che è il giuramento. perché quello ch'io faccio non potrebbe esser fatto liberamente e senza alcuna restrizione (reservatio mentalis)? Poi che son costretto a mentire, per qual ragione non devo farlo liberamente, in tutta la coscienza e con tutta la forza? La spia presa dal nemico deve saper giurare la verità di quanto essa ha affermato; decisa a mentire, essa dovrebbe esitare vilmente dinanzi al giuramento? In tal caso sarebbe stato meglio che non si fosse mai risoluta a servire da spia; poiché arretrando dinanzi al giuramento essa si dà a priori in balia al nemico.

Anche lo Stato, del resto, teme il giuramento in casi di "forza maggiore", e perciò non ammette a giurare l'accusato. Ma voi non giustificate lo Stato: voi mentite, ma non giurate il falso. Se voi rendete, per esempio, un beneficio a taluno e non volete ch'egli lo sappia, richiestine da lui, voi negherete recisamente che siete stato voi a beneficarlo. Ma se vi chiedesse di affermarlo con giuramento voi vi rifiutereste, e per timore di profanare ciò ch'è sacro restereste a mezzo cammino. Contro la cosa sacra voi non avete una volontà propria. Voi mentite con moderazione, allo stesso modo che siete religiosi con "moderazione", liberi con "moderazione di sentimenti" moderatamente monarchici, e in tutto in somma leggiadramente "temperati ", tiepidi ed esitanti; metà di Dio, metà del diavolo.

Era costume degli studenti d'una certa università il considerare come nulla ogni parola d'onore data per forza al giudice universitario. Gli studenti scorgevano cioè in quella richiesta di suffragare le loro affermazioni con la parola d'onore un tranello al quale non potevano sottrarsi che spogliando della abituale importanza la parola d'onore data in quelle condizioni. Dagli studenti della stessa università ognuno che non avesse tenuto parola ad un commilitone sarebbe stato coperto d'infamia: ma chi mancava alla parola data al giudice si faceva più tardi beffe, in mezzo alle risa dei proprî commilitoni, del magistrato che s'immaginava scioccamente che la stessa parola dovesse avere eguale valore per gli amici e pei nemici. Non tanto una giusta teoria quanto la pratica della necessità aveva insegnato a quegli studenti di condursi in tal modo, poiché agendo diversamente si sarebbero visti ridotti a tradire tutti i giorni i proprî compagni. Ma tale mezzo come sortì un buon effetto praticamente, cosi si dimostra efficace anche in teoria. La parola d'onore e il giuramento sono tali solo per colui che io autorizzo a riceverli; chi mi costringe non avrà da me che una parola nemica, un giuramento nemico, cui è assurdo prestar fede; poiché il nostro nemico non ha diritto alla nostra fiducia.

Del resto persino i tribunali dello Stato sono costretti a disconoscere l'infrangibilità d'un giuramento. Supponiamo che io abbia giurato a qualcuno che si trova perseguito dalla giustizia, di non deporre alcuna cosa contro di lui: non richiederebbe forse da me il tribunale, senza curarsi del mio giuramento, ch'io rendessi testimonianza al vero? E s'io opponessi un rifiuto, non mi farebbe gettare in una carcere sino a tanto che mi decidessi a diventare spergiuro? Il tribunale mi "scioglie" dal mio giuramento. Come e generoso? Se v'ha una potenza capace di sciogliermi da un giuramento, non è giusto che quella potenza sia io?

Per ricordare una specie di giuramenti in uso, accennerò a quello fatto prestare dall'imperatore Paolo ai polacchi rilasciati (Kosciuszko, Potoeki, Niemcewicz ed altri): "Noi giuriamo non soltanto fedeltà ed obbedienza all' imperatore, ma anche di spargere il nostro sangue in sua gloria; noi ci obblighiamo a rivelare tutto ciò che ci venisse fatto di sapere da cui sia minacciata la sua persona o il suo impero. Noi dichiariamo infine, che, in qualsiasi parte del mondo fossimo per trovarci, basterà una sola parola dell'imperatore per farci abbandonare ogni cosa e correre immediatamente a lui".

In un solo campo il principio dell'amore sembra essere stato da lungo raggiunto e sorpassato dall'egoismo; quello della speculazione, nella sua doppia forma di pensiero e d'azione. Si pensa e si continua a pensare senza curarsi di ciò che ne potrà derivare; si commercia senza riguardo ai molti che avranno a soffrire per le nostre speculazioni tradotte in atto. Ma sul più bello, quando si tratta di concludere, quando si è giunti al punto di spogliarci da ogni reliquia di religiosità, di romanticismo e di umanitarismo, ecco che la coscienza religiosa risorge e noi finiamo a professare per lo meno la "religione" dell'umanità. L'arido speculatore getta alcuni soldi nella cassetta delle elemosine e fa così "del bene"; l'animoso pensatore si consola col pensiero che lavora per il progresso del genere umano e che la sua opera di devastazione andrà a profitto "dell'umanità" oppure s'immagina di servire "all'idea" — quella cosa, che è costretto a riconoscere più forte di lui.

Sino ad oggi si è pensato ed operato unicamente per amor di Dio. Coloro che per sei giorni avevano calpestato tutto in pro dei loro fini egoistici, nel settimo giorno sacrificavano al Signore; e coloro che distruggevano mille "buone cause" coll'inflessibilità del loro pensiero, facevano ciò per favorire una nuova "buona causa" e dovevano pensare — oltre che a sé stessi — anche a qualcun altro che potesse godere dell'opera loro: al popolo, all'umanità, ecc. Ma questo qualcun altro è un essere superiore a loro stessi, è un essere supremo: perciò io dico che essi fanno ogni cosa per amor di Dio.

Io posso dunque anche asserire che l'ultimo fine delle loro azioni è l'amore. Ma non già un amore volontario, non un amore proprio a loro, bensì un amore tributario, l'amore ad un essere superiore o supremo: in somma, non un amore egoistico, ma un amore religioso, inspirato dalla superstizione.

Se noi vogliamo rendere libero il mondo da molti servaggi dobbiamo a ciò indurci per amor nostro, e non già per amore del mondo stesso: poiché, non essendo dei redentori per professione o per "amore", noi non miriamo ad altro che a guadagnare il mondo a noi. Noi vogliamo ridurlo in nostra proprietà, non più esso deve appartenere a Dio (alla Chiesa), alla legge (allo Stato), bensì a noi; perciò noi miriamo a "guadagnarcelo" ad "attrarlo a noi" e quindi a rendere vana la forza ch'esso dispiega contro di noi, con l'andargli incontro e sottometterci a lui non appena sarà nostro. Quando sarà nostro, esso non userà della sua forza contro di noi, bensì con noi. Il mio egoismo ha interesse che il mondo sia libero perché in tale guisa soltanto esso può divenire una mia proprietà Lo stato primitivo dell'uomo non è nell'isolamento o nella solitudine, ma nella società. Con la più intima delle relazioni sociali ha principio la nostra esistenza, poiché prima ancora di respirare noi viviamo legati alla madre; usciti alla luce noi ci troviamo nuovamente attaccati al seno d'un essere umano, il cui amore ci culla nei nostri sogni, guida i nostri primi passi e ci lega a se con mille vincoli.

La società è il nostro stato secondo natura. Per ciò appunto quanto più procediamo nell'arte di conoscer noi stessi tanto più l'antico intimo legame si allenta e il primitivo stato sociale si dissolve. La madre è costretta a strappar ai giochi degli amici nella strada, la creatura che un dì portò nel grembo, se talvolta risente il bisogno d'averla presso lei. Il bambino preferisce la compagnia dei suoi pari ad una società ch'egli non ha ricercata ma nella quale é solamente nato.

Ma dal dissolvimento della società sorge l'associazione. E ben vero che anche con l'associazione una società si forma, ma solamente a quel modo che da un pensiero nasce un'idea fissa, con la quale si strema la stessa energia del pensare — questa ripresa senza tregua di tutti i pensieri che vanno associandosi e componendosi in unità ideali. Quando un'associazione s'è cristallizzata in una società, essa ha cessato d'essere un'associazione; poiché associazione significa un incessante adunarsi degli uomini tra loro; allora che tale fiotto continuo si arresta l'associazione è morta, è un cadavere che si trasforma in società o comunità. Un esempio appropriato di ciò ci offre lo studio dei partiti.

Che una società, mettiamo lo Stato, menomi la mia libertà, ciò non mi muove gran fatto a sdegno. Son già pur troppo avvezzo a tollerare che la mia libertà sia limitata nelle più diverse guise, da ognuno ch'è più forte di me, dal mio prossimo in generale; se pur fossi l'autocrate moscovita, non potrei per questo ancor dire di godere d'un assoluta libertà. Ma ciò che mi è proprio, la mia individualità, non tollero che mi venga tolta. E quella appunto è presa di mira dalla società, quella appunto deve soccombere alla sua potenza.

Un'associazione, invece, alla quale m'ascrivo, mi toglie si alcune libertà, ma altre in cambio me ne concede: e nulla rileva che io stesso mi privi d'una libertà più tosto che d'un altra: ciò che io voglio custodire gelosamente è la mia individualità. Ogni società, a seconda delle forze di cui dispone, è più o meno inclinata a diventare un'autorità pei membri che la compongono e a limitare la libertà degli altri, essa esige e deve esigere dai proprî membri una cieca obbedienza, una assoluta soggezione, in forza della quale soltanto essa esiste. Tutto ciò non esclude una certa tolleranza; al contrario: la società accetta tutti quei consigli e quei biasimi che le potranno giovare ; però il biasimo dev'essere rispettoso ed espresso a "fin di bene" non già "irriverente e impertinente": con altre parole, non si deve, toccare alla sostanza che vuol essere tenuta come cosa "sacra". La società esige che i suoi membri non oltrepassino i confini che ella ha loro assegnati e non tentino d'innalzarsi sopra di essa, vuole anzi che essi rimangono entro i "limiti della legalità" vale a dire che non si permettano altre cose da quelle in fuori che son permesse da lei e dalle sue leggi.

Ma altra cosa è che per mezzo di una consociazione si limiti la mia libertà, altra che s'attenti alla mia proprietà. Nel primo caso la società agisce come un contraente. Ma quando per essa e minacciata, la proprietà, la società rappresenta un potere a sé, un potere superiore al mio, qualche cosa d'inaccessibile per me che mi si permette d'ammirare, d'adorare, di venerare e di rispettare, ma che non posso soggiogare e alla cui autorità io mi rassegno. Quella società sussiste in virtù della mia rassegnazione, della rinunzia di me stesso, della mia virtù: di tutto ciò in somma che si chiama col nome — d'umiltà. Dalla mia umiltà nasce il suo coraggio; dalla mia sottomissione ha forza il suo dominio.

Ma in punto a libertà lo Stato e l'associazione non differiscono gran fatto. L'uno e l'altra traggono la ragion della loro vita dalla costrizione della libertà individuale. Certo la limitazione dalla libertà è in qualche guisa inevitabile da per tutto, poiché ci è impossibile renderci liberi da ogni cosa. Noi non possiamo ad esempio, volare come gli uccelli, poiché la nostra volontà non potrebbe mai liberarci dalla legge della gravita; non vivere oltre un certo tempo sotto acqua perché ci bisogna dell'aria e cosi via. Allo stesso modo che la religione (e il Cristianesimo in particolar modo) tormentò l'uomo col pretender da lui che attuasse ciò che è contro la natura e contro lo stesso buon senso, così è da riguardarsi come una conseguenza logica di quella esaltazione religiosa l'ideale della libertà per se stessa, della libertà assoluta. Così il controsenso dell'impossibile doveva diventar palese.

Certamente l'associazione offrirà maggiore libertà che non lo Stato e sarà riguardata anche come dispensatrice d'una libertà nuova perché in grazia di essa ci verrà fatto di sfuggire alle costrizioni imposte dallo Stato e dalla vita sociale, se bene anch'essa contenga schiavitù in buon dato. Poiché lo scopo dell'associazione non è già la libertà: questa anzi deve venir sacrificata alla individualità. Per tale riguardo la differenza tra lo stato e l'associazione è rilevante. Quello è un nemico implacabile dell'originalità individuale, questa invece è frutto di tale originalità; quello uno spirito che chiede d'esser adorato come tale questa è opera mia, un mio prodotto. Lo Stato è il padrone del mio spirito, dal quale esso esige una fede e al quale prescrive gli articoli della legge; esso esercita un'influenza morale, domina il mio spirito, discaccia il mio "io", per mettersi al suo posto sotto il nome del mio "vero io": in somma, lo Stato è sacro, e di fronte a me, all'individuo singolo, rappresenta il vero uomo, lo spirito, il fantasma. Invece l'associazione è creazione mia, è creatura mia, non è sacra, non rappresenta un sacro potere al disopra di me. Allo stesso modo che io non voglio esser lo schiavo dei miei principî ma li assoggettano spietatamente e senza alcun riguardo alla mia critica, così io non contrarrò coll'associazione degli obblighi per l'avvenire, né le venderò la mia anima (come si dice che si usa fare col diavolo, e come si fa realmente con lo Stato e con tutte le autorità spirituali) ma vorrò essere e sarò per me molto più che non siano lo Stato, la Chiesa, Dio, ecc., e in conseguenza molto più che non sia l'associazione stessa.

La società vagheggiata dal comunismo sembra meglio di ogni altra accostarsi all' "associazione". Essa infatti deve aver per scopo "l'utile di tutti", ma proprio di tutti, di tutti, esclama Weitling ripetutamente! Sembra dunque che davvero nessuno sarà dimenticato. Ma quale sarà l'utile promesso? Aspirano tutti allo stesso benessere? Il benessere di tutti sarà proprio il benessere d'ogni singolo? Se fosse così, si tratterrebbe realmente della vera felicità universale. Ma non arriviamo con ciò al punto che serve di partenza al dispotismo religioso? Il Cristianesimo dice: Non curatevi delle vanità terrene, ma ricercate la vostra vera salute, diventando buoni cristiani. Nell'esser cristiani sta la vera salute.

E’ la vera salute di "tutti", poiché è quella dell'uomo come tale (del fantasma dell'uomo). Io ritengo per altro che la felicità di tutti dovrebbe essere anche quella d'ogni singolo: la mia e la tua. E se io e tu non sappiamo trovare la nostra felicità in quella dell'universale, si penserà poi a provvedere a ciò che occorre a noi per sentirsi felici? Tutt'altro, anzi; la società ha decretato che un dato benessere abbia ad essere il "vero" e lo chiama, p. es., il godimento acquistato col frutto d'un onesto lavoro. Bene; ma tu forse preferiresti il godimento dell'ozio che rifugge dal lavoro, il godimento senza la fatica. Ora in tal caso la società che provvede alla felicità universale si guarderà bene dal procurarti quel godimento che tu preferisci. Proclamando il benessere di tutti, il comunismo distrugge precisamente la gioia di coloro che sin qui avevano vissuto delle loro rendite e che trovano quella vita indubbiamente preferibile alle lunghe ore di lavoro promesse dal "Weitling". Questi sostiene perciò che la felicità di alcuni è d'ostacolo a quella dei molti e che per conseguenza i privilegiati dell'oggi dovrebbero rinunziare al loro benessere particolare per amore del "benessere universale". No, con questo postulato cristiano non si andrà innanzi gran fatto; meglio è esortare i singoli a non lasciarsi strappare da nessuno l'utile proprio, anzi a riaffermarlo e a trattenerlo e a difenderlo contro tutti; sarà così più facile farci comprendere. Allora soltanto gli uomini giungeranno a conoscere sé stessi quando si assoceranno con altri, sacrificando "una parte della loro libertà", non già al benessere universale, bensì al proprio. Ogni appello ai sentimenti di sacrificio e di rinunzia per amore dovrebbe al fine aver perduto ogni sua forza ingannatrice, poiché dal bilancio dei millenni nulla è risultato fuorché la miseria odierna. perché attendere ancor sempre e invano che l'abnegazione ci apporti giorni migliori; perché non sperarli più tosto dall'usurpazione? Non più dagli elargitori o dai donatori viene la salute, bensì dagli usurpatori. Il comunismo e, scientemente o inconsciamente, anche l'umanismo che impreca all'egoismo, confidano ancor sempre nell'amore.

Se la comunione è un bisogno per l'uomo e lo favorisce nei suoi intenti, non è men vero però che essa gli detterà in breve corso di tempo le sue leggi, le leggi della società. Il principio s'erige a sovrano degli uomini, diventa il loro essere supremo, il loro Dio, e come tale il loro legislatore. Il comunismo trae le conseguenze più logiche da questo principio, si erige a religione della società, poiché l'amore è, come dice Feuerbach (quantunque non s'esprima cosi esattamente), l'essenza della società, cioè dell'uomo sociale (comunista). Ogni religione è un culto  della società, è il rito di questa religione da cui l'uomo sociale (civile) viene dominato; e così nessun Dio è il Dio, esclusivo d'un singolo "io", ma sempre d'una società e d'una comunità, si chiamino esse famiglia (i Lari, i Penati) o "popolo" (Dio nazionale), o "tutti" (Dio padre di tutti gli uomini).

E cosi non si avrà modo di estirpare dalla radice la religione se non allorquando si renderà antiquata la società e, con essa, tutto ciò che scaturisce da quel principio. Ma appunto nel comunismo si vuole invece che tal principio raggiunga il suo maggior svolgimento, poiché per esso tutto deve diventar comune, per preparare l'impero dell'eguaglianza. Ottenuta l'eguaglianza non mancherà nemmeno la "libertà". Ma la libertà di chi? Della società! La società rappresenterà allora il tutto nel tutto e gli uomini non esisteranno che per i lor mutui rapporti. Sarebbe l'apoteosi dello stato dell'amore.

Ma io amo meglio esser alla mercè dell'egoismo degli uomini, che non esser soggetto ai loro "servizi d'amore", alla loro pietà, alla loro misericordia, ecc. L'egoismo ricerca "reciprocità," (quello che tu fai a me, io lo farò a te), non fa nulla per nulla, e vuol esser guadagnato e comperato. Ma chi m'assicura ch' io riesca a guadagnarmi i servigi per amore? Vorrà il caso che m'incontri in un essere animato dallo spirito d'amore? I servizi d'amore non si possono ottenere che mendicando, o per la compassione che ispira il mio aspetto, o per la mia impotenza ad aiutarmi da me stesso, o per la mia miseria — o infine per le mie sofferenze. E che potrò io dare in cambio dell'amore che mi si dimostrerà? Nulla! Sicché, sarò costretto a riceverlo come un dono. L’amore è impagabile, o per meglio dire: l’amore può essere pagato, ma soltanto con altrettanto amore ("un favore ne vale un altro"). Bisogna essere ben spudorati e miserabili per accettare continuamente dei doni, senza contraccambiarli — come si è avvezzi a fare col povero operaio che vive giorno per giorno. Che cosa può offrire colui che riceve all'operaio in cambio di quel che ne ottiene e che costituisce tutto il suo avere? All'operaio assai più gioverebbe che quegli per cui lavora perisce insieme con tutte le sue leggi e le sue istituzioni, le quali dopo tutto son pagate da lui. E con tutto ciò quel povero diavolo ama per giunta il suo padrone.

No, la comunanza, intravista quale mèta della storia, è cosa impossibile. Spogliamoci piuttosto dell' ipocrisia della comunanza e riconosciamo che se in astratto siamo tutti eguali, non siamo però in effetto tali, perché gli uomini non sono astrazioni. Noi siamo uguali soltanto nell'idea, non nel fatto. Io sono io, e tu sei tu, ma che io non debba esser questo "io", bensì un essere la cui natura è uguale a quella degli altri, è un errore. Io sono uomo e tu sei uomo, ma "l'astratto" non è che un fantasma; né io né tu siamo esseri definibili, noi siamo indefinibili. I pensieri soltanto possono essere espressi e tradursi nell'espressione; la realtà non può essere circoscritta nelle parole. Dunque noi non dobbiamo mirare alla comunanza, ma all'unicità. Non ricerchiamo la comunità più estesa, la società umana; ma riguardiamo tutti gli uomini quali mezzi ed organi dei quali ci serviamo come d'una nostra proprietà! Forse che noi stimiamo nostri uguali l'albero o l'animale? Ebbene, anche la nostra premessa che gli altri siano uguali a noi deriva da un'ipocrisia. Nessuno è uguale a me; ciascuno dei miei simili è una mia proprietà. E si viene a dirmi ch'io devo essere un uomo tra uomini (Questione giuridica, p. 60), che io devo "rispettare" in ciascuno l'uomo! Nessuno è per me una persona che abbia diritto al mio rispetto, ma ciascuno è come ogni altro essere, un oggetto pel quale provo o non provo simpatia, un oggetto interessante o non interessante, un oggetto di cui mi posso o non mi posso valere.

Se mi è utile, io mi metterò unicamente con lui, al fine di accrescere il mio potere e di ottener con forze riunite ciò che non avrei potuto conseguire da solo. In questa comunanza io scorgo solamente una moltiplicazione della mia forza, e niente di più; e sinché rappresenterà la mia forza moltiplicata io mi atterrò ad essa. Ma allora non si tratta più di società, bensì di associazione.

L'associazione non sussiste né per vincoli naturali, né per spirituali. Non il sangue, non la fede (cioè lo spirito) le da origine. In un'unione naturale — quale la famiglia, la stirpe, la nazione ed anche l'umanità — i singoli non hanno altro valore fuorché quello d'esemplari nella medesima specie; nell'unione spirituale — quale la comunità, la chiesa — il singolo non ha altro significato che quello di membro di uno stesso spirito; in entrambe ciò ch'è tua proprietà singolare dev'essere soppresso. Quale singolo tu puoi affermarti unicamente nell'associazione, poiché non già questa possiede te, ma è da te posseduta.

Nell'associazione, in fatti, la proprietà individuale non è disconosciuta come nella società, ove quello che si possiede di proprio ci vien conferito quale un feudo da altri. I comunisti non fanno altro che recare alle ultime conseguenze questo principio che già era accorto durante l'evoluzione religiosa e particolarmente nello Stato, vale a dire il sistema feudale.

Lo Stato s'affatica a domare il cupido; in altre parole esso tende a far sé centro di tutti i desideri e a soddisfarli con ciò ch'esso offre. Soddisfare i bisogni altrui per amore non cade neppure in pensiero allo Stato; all'incontro l'uomo dai desideri sfrenati ei lo taccia d' "egoista", e l'ha per nemico. La Stato non sa "comprendere" l'egoista. Poi che esso pensa esclusivamente a sé stesso, è ben naturale che non provveda ai miei bisogni, ma che anzi miri unicamente a distruggere il mio vero essere, vale a dire a trasformarlo in qualche altra cosa, cioè in un buon cittadino. Vedetelo: lo Stato prende dei provvedimenti atti a migliorare i costumi. E in qual modo guadagna esso il singolo? Con la proprietà sua, con la proprietà dello Stato. Per ciò è incessantemente intento a rendere tutti partecipi dei "beni" dei quali essa dispone; e a tutti provvede coi "benefici della civiltà", fa loro dono della sua educazione, apre loro i suoi istituti d'incivilimento, li rende atti ad acquistarsi delle ricchezze, vale a dire dei feudi, mediante le industrie, ecc. Per tutti questi feudi esso non domanda che perpetua riconoscenza. Ma gli "ingrati" dimenticano di dimostrare la loro gratitudine.

E neanche alla società è dato di far opera essenzialmente diversa da quella dello Stato.

Nell'associazione tu rechi tutta la tua forza, ogni tuo valore: nella società, in vece si sfrutta il tuo lavoro. Nella prima tu vivi egoisticamente, nella seconda umanamente, cioè religiosamente, e vi rappresenti un "membro del corpo del Signore". Alla società tu sei in debito di ciò che hai, e le devi in tutto esser tenuto, mentre l'associazione tu la sfrutti e l'abbandoni senza obbligo alcuno, quando più non ti giova. Se la società conta più di te, essa ti dominerà: l'associazione non è invece che un tuo strumento, è la spada mercé la quale tu accresci ed affini la tua forza. L'associazione sussiste per te e per causa tua, la società invece ti incorpora in sé medesima e vive anche senza di te. In breve la società è sacra, l'associazione è una tua proprietà; la società sfrutta te, l'associazione è da te sfruttata.

Ma ci si obietterà che anche un patto concluso liberamente può riuscir molesto e limitare la nostra libertà. Si dirà che anche così giungeremo alla stessa conseguenza che ognuno sarà obbligato di "sacrificare una parte della sua libertà all'universale".

Fosse pure: il sacrificio non sarebbe consumato per l'amore dell'universale, ma per l'interesse proprio. Quanto poi al sacrificare, al postutto io non sacrifico che quello che non sta in mio potere, cioè non sacrifico in realtà nulla.

Per ritornare all'argomento della proprietà, proprietario è il padrone. Scegli dunque: vuoi essere tu, o preferisci che sia la società, il padrone? Dalla tua scelta dipenderà l'esser un proprietario o un pitocco! L'egoista è proprietario, il socialista un pitocco. Ma la pitoccheria è il contrassegno del feudalismo, del vassallaggio, che dal secolo passato ad oggi non ha che cangiato di padrone col mettere "l'uomo al posto di Dio" e coll'accettare in feudo dall'uomo quello che prima teneva per grazia di Dio. Che la pitoccheria del comunismo mediante il principio umanistico debba giungere all'estremo l'abbiamo dimostrato più sopra ma dimostrammo anche come solo in tale modo la pitoccheria potrà trasformarsi in proprietà. L'antico sistema feudale fu cosi bene abbattuto dalla rivoluzione, che d'allora in poi ogni astuzia reazionaria restò e resterà senza frutto, poiché ciò ch'è morto — è morto. Ma anche la risurrezione doveva dimostrarsi quale una verità nella storia cristiana e tale si rivelò. Poiché nel di là il feudalismo è risorto trasfigurato nelle forme corporee, è risorto mutato a nuovo con la sovranità "dell'uomo".

Il Cristianesimo non è distrutto (1 pur troppo!). Hanno ragione i credenti di serbare tenacemente la convinzione che ogni lotta contro di esso sia giovata a purificarlo e a rafforzarlo: poiché in realtà il Cristianesimo è uscito dalla lotta trasfigurato e il neo-cristianesimo è la dottrina dell'uomo. Noi viviamo ancor sempre in una età cristiana e coloro che più sentono dispetto di ciò, concorrono meglio degli altri a "perfezionare il principio cristiano". Più il feudalismo s'è venuto umanando, e più esso ci riesce accetto, come una nostra proprietà; sicché con la scoperta dell'umano ci pare d'aver trovato ciò che ci è più intimamente proprio.

Il liberalismo intende a darmi quello ch'è mio, ma non già col titolo di mio, bensì con quello d' "umano". Come se fosse possibile ottener ciò sotto quella maschera! I diritti dell'uomo, la preziosa opera della rivoluzione, significano che in me e l' "uomo" e che la mia natura mi autorizza a fare questa o quest'altra cosa. Ma io, quale singolo, non ho tale diritto; l'ha l'uomo, e lo conferisce a me. Ma se voi volete attribuire un valore ai vostri doni, date loro almeno un prezzo elevato, non tollerate che vi si costringa a cederli per vil somma, non vi lasciate persuadere che la vostra mercè non vale il prezzo richiesto, non rendetevi oggetto di derisione col cedere il vostro per poco prezzo bensì imitate il valoroso che dice: "Io voglio vender cara la mia vita: la mia proprietà i nemici non l'avranno a buon mercato". Così conducendovi voi avrete riconosciuto per giusto precisamente il principio opposto a quello del comunismo, e allora non vi si dirà: " Rinunziate alla vostra proprietà " ma invece: "Sfruttate la vostra proprietà! "

Sulla soglia dei nostri templi non sta la leggenda apollinea: "Conosci te stesso" bensì quest'altra: "Sfruttate la vostra proprietà".

Proudhon chiama la proprietà un "furto" (vol). Ma si tratta della proprietà degli altri — e di questa sola egli parla. Una proprietà che deve la sua esistenza al sacrificio e alla rinunzia, è un dono. perché dovremo far appello alla pietà del prossimo, quando per la nostra stoltezza non sappiamo che farci dei doni? perché addossare agli altri la colpa, quasi che essi ci abbia " spogliati, mentre la colpa è tutta nostra se non spogliamo gli altri. I poveri hanno essi colpa se vi sono dei ricchi?

Del resto l'oggetto di disputa è sempre la proprietà degli altri. Ciò che é argomento a discussione è sempre il trapasso della proprietà. Invece di mutar ciò ch'è estraneo in proprio, si finge l'imparzialità e si esige che ogni cosa debba appartenere ad un terzo — un ente (p. es. la società). E con ciò ci si illude di cancellar l'impronta egoistica, e ai nostri occhi tutto diventa puro ed umano!

Pitoccheria, ecco l'"essenza del Cristianesimo" come in generale quella d'ogni religione (pietà, moralità, umanità) e con maggior evidenza quella della "religione assoluta", che divenne il lieto annunzio d'un vangelo capace di attuazione. Lo svolgimento più caratteristico di questo principio l'abbiamo nella lotta odierna contro la proprietà: una lotta che deve condurre l'uomo alla vittoria e abolire la proprietà stessa. La vittoria sperata sarà il trionfo del Cristianesimo. Ma questo "nuovo Cristianesimo" la perfezione del feudalismo: un feudalismo che abbraccerà ogni cosa: dunque una pitoccheria perfetta.

Ci si dirà: ma voi volete una nuova rivoluzione contro il feudalismo.

Ecco. Rivoluzione e insurrezione non sono la stessa cosa. Quella consiste in un cangiamento violento delle condizioni dello Stato e della società, è adunque un atto politico e sociale, la insurrezione per contro ha certamente per inevitabile conseguenza un cangiamento dello stato di cose esistente, ma deriva dall'interno malcontento dell'uomo — non è un'alzata di scudi, bensì una rivolta del singolo, una sollevazione che non ha riguardo alle nuove condizioni che ne potranno seguire.

La rivoluzione aveva per fine di sostituire nuove istituzioni alle antiche; l'insurrezione conduce invece a non tollerare istituzioni che ci governino, e ad ottenere il diritto di governarci da noi stessi. Essa é una lotta contro l'esistente stato di cose, poiché se vittoriosa, questo stato di cose ruina da sé. Se io mi stacco dallo stato di cose esistente, questo stato perisce e si dissolve. Ma siccome il mio intento non è di rovesciare ciò che esiste, si invece di sollevarmi al disopra di quello, così le mie idee ed i miei atti non sono né politici né sociali; sono per contro, poiché hanno di mira unicamente me stesso e la mia proprietà, egoistici: ecco tutto.

Creare delle istituzioni è il compito della rivoluzione: sollevarsi ed innalzarsi è quello della insurrezione. Quale costituzione sia da prescegliersi è questione che occupa la mente dei rivoluzionari, e tutto il periodo politico ribocca di lotte e di questioni costituzionali, e tutti gli ingegni sociali son fervidi nell'inventare nuove istituzioni sociali (falansteri, ecc.). Esistere senza costituzione ecco quanto ha di mira invece chi insorge [(1) (Nota dell'Autore Per non incorrere in un'accusa penale osserverò espressamente, sebbene ciò mi sembri superfluo, che la parola "insorgere" è da me adoperata nel suo senso etimologico e non già nel significato limitato accettato dal Codice penale).].

Mentre per rendere più chiaro il mio concetto penso ad un raffronto, ecco che mi soccorre spontaneo l'esempio dell'istituto cristiano. I liberali non vogliono perdonare al Cristianesimo d'aver predicata l'obbedienza all'ordine di cose pagano vigente, d'aver consigliato di riconoscere le autorità pagane e insegnato a dare a "Cesare quello che è di Cesare". Quanto fermento era a quei tempi contro l'impero romano, come ardenti rivoluzionari si dimostravano gli ebrei e gli stessi Romani contro il lor proprio governo civile, in breve quanto era di moda il malcontento politico! Ma di ciò i cristiani non volevano saperne; essi non volevano associarsi alle "tendenze liberali". I tempi erano politicamente tanto agitati che, come si osserva negli evangeli, si ritenne non vi fosse più sicuro modo di perdere il fondatore del Cristianesimo che l'incolparlo di raggiri politici. E pare gli stessi evangeli ci dimostrano che nessuno meno di lui prese parte a quelle agitazioni. Ma perché mai non fu egli un rivoluzionario, un demagogo — come avrebbero desiderato gli ebrei ; perché insomma non fu un liberale? perché egli non attendeva salute da un cangiamento delle condizioni esistenti, e tutto l'ordinamento d'allora gli era affatto indifferente. Egli non era un rivoluzionario, come Cesare, bensì un insorgente; non uno che rovesciava gli Stati, bensì uno che innalzava sé stesso. Perciò egli attribuiva la massima importanza al precetto: "Siate astuti come serpi", che può servire di spiegazione a quello già menzionato di "dare a Cesare quello che è di Cesare". Egli non aveva impreso a movere una lotta liberale o politica contro l'autorità esistente, bensì voleva camminare per la propria via, ignorando quell'autorità ed essendo da essa ignorato. Non meno del governo gli erano indifferenti i nemici dello Stato, poiché quello che egli voleva né l'uno né gli altri potevano comprendere, ed egli non aveva bisogno che dell'astuzia del serpe per tenergli entrambi lontani. Ma se non era un agitatore del popolo, un demagogo e un rivoluzionario, egli era nondimeno, come furono tutti i primi cristiani, in tanto maggior grado un insorgente in quanto s'innalzava al disopra di tutto ciò che agli occhi del governo e dei nemici del governo appariva elevato, e si svincolava da tutto ciò da cui quelli erano legati, e disseccava un tempo le fonti vitali di tutto il mondo pagano, mancando le quali lo Stato d'allora era costretto a perire. Appunto perché non credeva alcun modo di rovesciare lo stato di cose esistenti, egli ne fu in effetto il nemico mortale e il vero distruttore ; poiché lo murò, e sopra di esso eresse animosamente e senza scrupoli l'edifìzio del suo tempio.

Ebbene l'ordinamento cristiano avrà la stessa fine del pagano? Una rivoluzione non ci mostrerà certamente questa fine, se non è preceduta da una vera insurrezione !

A che tendono i miei rapporti col mondo? Io voglio godere del mondo: esso deve dunque diventare proprietà mia, e perché sia tale, mi è d'uopo conquistarlo. Io non voglio la libertà, l'eguaglianza degli uomini; io voglio unicamente aver dominio su di loro, voglio ridurli in mia proprietà, cioè sfruttarli. E se ciò non mi riesce fatto, ebbene, coloro che riservarono a sé stessi il potere sulla morte e la vita, sulla Chiesa e sullo Stato, io li chiamerò anch'essi mia proprietà. Bruttate pure d'infamia la memoria di quella vedova d'un officiale, che nella ritirata dalla Russia, quando un colpo di cannone le spezzò una gamba, disciolse il legaccio e con essi strangolò il suo bambino vicino al quale mori dissanguata — macchiate pure d'obbrobrio la memoria dell'infanticida. "Chi sa se quel bambino, rimasto in vita, sarebbe stato utile al mondo? La madre lo uccise perché voleva morire soddisfatta e tranquilla." Cosi voi dite; ma di quest'esempio io mi valgo invece per dimostrare che la mia soddisfazione decide dei miei rapporti cogli uomini, e che non v'ha principio religioso che possa farmi rinunciare al mio potere di vita e di morte.

Per ciò che riguarda in genere i "doveri sociali", nessuno conferisce a me quella qualunque condizione in cui io mi trovo in rapporto agli altri; né Dio né gli uomini mi prescrivono il sistema di condotta ch'io devo serbare; io stesso m'assegno il mio posto. Per parlar più chiaro: io non ho alcun dovere verso gli altri, meglio che non ne abbia verso me stesso, salvo che io distingua in me due parti di cui l'una abbia obblighi verso l'altra (la mia anima immortale dalla mia esistenza terrestre, ecc.).

Io non mi umilio più innanzi a nessuna forza, riconosco che tutte le potenze finiscono ad essere la mia potenza, e che io le devo render tutte immediatamente a me soggette, quando esse tentano di diventare forze contro di me o sopra di me. Tutte codeste potenze null'altro devono essere per me fuorché mezzi per raggiungere i miei fini; come è un mezzo il cane nella caccia della selvaggina il che non mi vieta d'ucciderlo senza scrupoli se esso mi assale. Tutte le potenze che mi dominano io devo ridurle in mio dominio. Gli idoli non esistono che per mia volontà: basta che io non li crei nuovamente ed essi più non esisteranno: le potenze superiori cesseranno di essere il giorno che io più non le innalzerò sopra di me.

Così che il mio rapporto col mondo è questo: io nulla debbo più fare in suo vantaggio per l'amor di Dio, nulla per "amor dell'uomo", ma tutto per amor mio. A questa guisa soltanto il mondo può soddisfarmi, mentre nel rispetto religioso (del quale è parte anche il morale e l'umanistico) tutto si riduce ad un pio desiderio irraggiungibile. Tali la felicità universale degli uomini, il mondo morale governato dall'amore universale, la pace perpetua, la cessazione dell'egoismo, ecc. "Nulla in questo mondo è perfetto". Con questo vano aforisma i buoni si separano dal mondo e rifuggono nella loro stanzuccia a rivolgere i loro pensieri a Dio, o trovano la quiete soltanto nella "coscienza di sé stessi".

Ma noi invece siamo lieti di restare in questo mondo "imperfetto" — poiché cosi ce ne potremo servire per il nostro diletto.

Le mie relazioni col mondo consistono in ciò: che io lo sfrutto per la mia gioia.


LA MIA GIOIA.

Noi ci troviamo all'estremo confine d'un periodo. Il mondo, qual'è stato sinora, non s'è curato che di conquistar la vita — né d'altro s'è preso pensiero che della vita. Poiché — sia che noi ci adoperiamo per conservarci la vita quaggiù, sia che ci travagliamo per acquistar la vita lassù — sia che aneliamo al "pane quotidiano" (dacci il nostro pane quotidiano), sia che aspiriamo al pane celeste (il vero pane del cielo, il pane divino, che viene dal cielo e dà vita al mondo, il pane della vita, Giov., 6) — sia che provvediamo alla " misera vita " sia che intendiamo alla "salute eterna" — il nostro fine si chiarisce pur sempre questo solo: la vita. Le tendenze moderne si presentano forse sotto diverso aspetto ?

Si vuole che a nessuno più sia tolto il modo di procacciarsi ciò di cui abbisogna per la vita e che l'uomo abbia a prendersi cura della terra e del mondo reale senza preoccuparsi del di là.

Consideriamo la stessa cosa di un altro punto di vista. Chi è preoccupato soltanto di vivere, dimenticherà facilmente di godere la vita. Or in qual modo si gode la vita? Consumandola al pari d'una candela.

Ebbene — noi andiamo in cerca della gioia! Che fece il mondo religioso? Esso ricercava la vita. "In che cosa consiste la vera vita, la beatitudine della vita, ecc.? Come si può raggiungerla? Che cosa deve fare l'uomo per vivere veramente? Come adempie esso alla sua vocazione? Queste e simili questioni denotano che quelli che così interrogano ricercavano prima d'ogni cosa se stessi. Quello che io sono non è che fumo ed ombra; quello ch'io sarò è il mio vero io". Dar la caccia a quest'io, attuarlo, ecco il difficile compito proposto dalla religione ai mortali, i quali non muoiono che per risuscitare, non vivono che per morire e ritrovar nella morte la vera vita.

Io non appartengo a me stesso se non quando son sicuro di me e più non mi cerco. Per contro sino a tanto che penso che il mio vero io sia ancora da scoprire, e che per ottener questo sia d'uopo ch'io creda che non io, ma Cristo o qualche altro io spirituale — vale a dire fantastico — viva in me, io non posso essere soddisfatto di me stesso.

Una distanza immensa separa queste due concezioni. Nell'antica io cammino verso me stesso, quale mia mèta; nella moderna io parto da me stesso. Nell'una io provo desiderio di me; nell'altra io mi possiedo e dispongo di me, come faccio di qualunque altra cosa che m'appartenga, — io godo di me stesso secondo il piacer mio. Io non trepido più per la vita: la "consumo".

La ricerca non è più questa dunque: come io debba acquistare la vita; ma quest'altra; come io possa spenderla, goderla; non più come io debba formare il mio io, bensì come io abbia e dissolverla, ed esaurirlo.

Che cosa è l'ideale se non l'io lontano di cui si va in cerca? Si cerca sé stessi, dunque non si ha finora il possesso di sé stessi; si anela a ciò che dobbiamo diventare: dunque si riconosce che l'ideale è ancora inattuato. Si vive nella brama inappagata: e per millenni di che altro si visse se non di brame e di speranze? Ma ben altra sarà la vita della gioia.

Queste parole son forse rivolte ai soli uomini religiosi? No, son rivolte a tutti coloro che appartengono al periodo storico che ora sta tramontando; anche ai così detti uomini di mondo. Anche per costoro ai giorni di lavoro seguono le feste; pur essi in mezzo all'agitazione mondana si cullano nel sogno d'un mondo migliore, di una felicità universale, in somma d'un ideale.

Ma agli uomini religiosi è uso per lo più contrapporre i filosofi. Ebbene, hanno mai costoro pensato a qualche altra cosa che non fosse un ideale, od un "io" assoluto? Dappertutto desideri e speranze, e null'altro! Chiamate pur ciò, se vi piace, romanticismo.

Se il godimento della vita deve trionfare del desiderio della vita, è pur necessario ch'esso ne trionfi nella duplice forma che lo Schiller ci presenta col nome di "ideale per la vita", che esso distrugga la miseria religiosa e sociale, che sperda l'ideale, che annienti la causa del pane quotidiano. Chi deve logorar la vita, per salvarsi dalla fame, non può goderla; chi va in cerca della sua vita, non la possiede e può goderla ancor meno. L'uno e l'altro sono poveri, ma di essi è il regno dei cieli.

Se a coloro che sperano in una vita futura, e considerano la presente come una preparazione a quella, riesce accettabile la schiavitù della loro esistenza terrena che dedicano interamente al servizio della sperata vita celeste, non è men vero che anche le persone più colte posseggono ugual virtù di sacrificio. Nella "vera vita" non si trova forse un significato molto più esteso di quello che nella "vita celeste"? Può forse alcuno vivere per la sola virtù del suo istinto secondo un tal principio, o non basta invece a ogni uomo cotesto indicibile sforzo? La possiede egli già questa sua ideal vita, o non deve invece conquistarla appunto come una vita futura, di cui sarà meritevole solo allorquando si sarà deterso da ogni macchia di egoismo? Sotto questo aspetto non si vive che per acquistare la vera vita. Per ciò appunto si ha paura di godere la vita, dacché essa non deve servire che a un altro uso — più remoto.

All'esistenza in somma è prefissa una missione, un compito cui la vita è mezzo e strumento. V'è a tutti i modi un Dio, che esige una vittima vivente. Il rozzo costume dei sacrifizi umani non ha che mutato la sua forma, nella sostanza è rimasto; e ad ogni ora i colpevoli cadono vittime della giustizia, e noi "poveri peccatori" immoliamo noi stessi all' "essenza umana", all' "idea dell'umanità", all' "umanesimo" ed agli altri idoli, comunque ci si chiamino. E poiché noi dobbiamo la nostra vita ad un ideale, noi non abbiamo — ecco ciò che ne consegue immediatamente — il diritto di ucciderci.

La tendenza conservatrice del Cristianesimo non consente che si pensi alla morte altrimenti che a un passaggio ad un'altra vita eternamente duratura. Il cristiano sopporta ogni più trista cosa e si rassegna a ogni offesa e ad ogni male purché — da vero ebreo — gli si conceda di entrare; anche di contrabbando, nel paradiso. Uccidersi non gli è permesso, egli non può che conservar sé medesimo per attendere a prepararsi la futura dimora. Il conservarsi gli sta a cuore, "L'ultimo nemico che sarà tolto è la morte" (1 Cor. 15, 26.). Cristo ha strappato alla morte ogni potere ed ha creato la vita e l'essenza imperitura mediante il vangelo (2 Tim. 1, 10.).

L'uomo morale vuole il bene, il giusto; e se egli usa i mezzi che conducono a quel suo fine, riconosce però che questi mezzi non sono propri a sé, ma al bene, al giusto, ecc. Da ciò la massima che il fine santifica i mezzi. L'uomo morale agisce al servizio d'un intento o d'una idea; egli fa di sé stesso uno strumento del concetto del bene, allo stesso modo che l'uomo religioso fa di sé uno strumento di Dio. Attender la morte, ecco ciò che il principio del bene ci impone; darsela volontariamente è dunque cosa immorale e malvagia. Il suicidio non può quindi esser giustificato in alcun modo dinanzi al tribunale della moralità. Se la religione lo vieta perché Dio t'ha data la vita e Dio solo può togliertela (come se, anche accettando questo modo di vedere, Dio non me la togliesse col risvegliare in me l' idea del suicidio, allo stesso modo che mi fa trovare la morte per una tegola che mi cade addosso o per una palla nemica che m'uccide); la moralità lo proibisce perché "io sono in debito della mia vita alla patria, ecc.", "perché io non so se vivendo non potrei fare ancora del bene" e cosi, a tutti i modi, perché colla mia morte il bene perde un suo strumento, come lo perde Dio. Se io sono immorale devo serbarmi in vita per farmi migliore, se io sono "empio" devo vivere per il ravvedimento. Dunque chi si uccide o dimentica Dio o dimentica il dovere. Cosi si ragiona.

Fu molto discussa la questione se la morte d'Emilia Galotti possa giustificarsi nel rispetto della morale (la si considera quale un suicidio, perché tale è in realtà). Che essa sia sì fattamente posseduta dall'idea della castità da sacrificarle la vita, è certo una cosa morale, ma che essa non sappia vincersi è per converso immorale. Di tali contraddizioni del resto si compone il conflitto nelle tragedie morali; bisogna pensare e sentire secondo la morale umana per trovarci un interesse qualunque.

Cose non diverse debbono dirsi per l'umanità, poiché anche a questa — all' uomo, alla specie "uomo" — si è in debito della propria vita. La conservazione della vita non diviene cosa mia se non quando io più non riconosco alcun dovere verso chicchessia. "Un salto giù da questo ponte mi rende la libertà".

Ma se noi siamo in debito della conservazione della nostra vita a quell'essere che dobbiamo attuare in noi, non è meno dover nostro di non condurre questa vita secondo il nostro piacere ma di informarla invece a quell'ideale.

Or quanto diversamente tal ideale fu inteso ne' vari tempi, e come ne muta il concetto pur in una medesima età presso popoli diversi! Quali cose esige l'ente supremo del maomettano e quanto diverse cose quello del cristiano! Come differente dunque deve essere la vita dell'uomo da quella dell'altro! Soltanto nel ritenere che l'ente supremo debba regolare la nostra vita le fedi religiose vanno d'accordo. Gli uomini religiosi appartengono ad un periodo di civiltà già oltrepassato e debbono esser lasciati al lor luogo. Ai nostri tempi non più essi ma i liberali prevalgono, e la stessa religione è costretta a darsi colore di liberale. Ora i liberali non adorano in Dio l'arbitro delle loro azioni e non regolano la vita secondo i suoi precetti: mirano all' "uomo"; essi non intendono vivere "secondo Dio", bensì "secondo l'uomo".

L'uomo è per i liberali l'ente supremo, l'arbitro della vita, e l'umanità è il catechismo, al quale ciascuno deve informare le sue azioni. Dio è spirito, ma l'uomo è lo "spirito, perfettissimo", il risultato finale della lunga caccia data allo spirito, o delle indagini nelle profondità del divino, cioè dello spirito.

Ciascuno dei tuoi atti dev'essere umano; tu stesso devi informarti a questo ideale tipo d'uomo. Tale è la tua vocazione.

Vocazione — destinazione — compito; nulla più che illusioni!

Ciascuno diventa quel che può diventare. Un poeta-nato può da circostanze sfavorevoli esser impedito d'innalzare e di creare delle opere d'arte perfette sebbene vi si sia preparato coi grandi studi che sono a ciò necessari; ma egli farà delle poesie, a ogni modo, tanto se costretto a lavorare i campi, quanto se ospitato alla corte di Weimar. Un musicista-nato farà della musica, e se gli mancheranno strumenti, s'accontenterà d'una canna. Chi ha da natura inclinazione alle speculazioni filosofiche se non potrà diventare professore d'università sarà almeno un filosofo da villaggio. Finalmente chi è nato sciocco ed è tuttavia dotato d'una certa astuzia (ciò che accade molto spesso) resterà sempre uno sciocco anche se a forza di spinte diventerà un capo divisione o il lustrascarpe di un capo divisione. Sì, le teste ottuse sin dalla nascita formano indubbiamente la classe più numerosa dell'umanità. O perché non si dovrebbero manifestare anche nell'uomo quelle diversità che si riscontrano in tutte le specie d'animali?

Tuttavia ben pochi sono imbecilli a segno da essere inaccessibili a ogni idea. Per ciò è opinione comune che non v'è uomo che non sia capace di religione e che non possa anche accogliere in maggiore o minor grado, qualche insegnamento di scienza o d'arte: per esempio alcune nozioni di musica o un po' di filosofia. E qui appunto incomincia la faticosa opera dei sacerdoti della religione, della moralità, della civiltà, della scienza, e finisce alla pretesa dei comunisti, i quali, mediante la loro "scuola popolare", vorrebbero rendere accessibile il tutto a tutti.

Non basta l'aver avviato alla religione il popolo, si pretende ora che esso si occupi anche di tutto ciò che e "umano". E la disciplina si fa per tal modo sempre più generale e complessa.

Voi poveri esseri, che condurreste vita così felice se poteste saltare a piacer vostro, siete costretti a ballare secondo il flauto dei maestri di scuola e dei conduttori d'orsi, e a far delle capriole che nulla vi gioveranno nella vita. E non osate nemmeno ribellarvi se vi si prende sempre per quel verso che è contro la vostra natura. No; voi ripetete meccanicamente l'interrogazione che vi fu insegnata. A che cosa sono io chiamato? Quale è la cosa ch'io devo fare? Così, basta che facciate a voi stesso queste domande, ed eccovi ridotti a tollerare che vi si dica e vi s'imponga di fare come gli altri vogliono, a lasciarvi imporre la vostra vocazione, o a prescriverla da voi stessi secondo i precetti dello spirito. E in quanto alla volontà, finirete col dire: io voglio quello che devo fare.

L'uomo non è chiamato a cosa alcuna, non ha nessun compito, nessuna destinazione, meglio che possa averli una pianta o un animale. Il fiore non obbedisce ad una vocazione di perfezionare la sua bellezza, ma adopera invece come meglio può le proprie forze: per poter godere e trar dal mondo il miglior vantaggio, esso assorbe tanti succhi dalla terra, tant'aria dall'etere, tanta luce dal sole, quanto ne può ottenere e contenere. L'uccello non sa di vocazione, ma usa delle sue forze nel miglior modo possibile; va in caccia d'insetti e canta finché gli piace. Eppure le forze del fiore e dell'uccello sono ben meschine in confronto a quelle dell'uomo, cui è prescritta — come nella vita stessa — un'operosità perenne. Si potrebbe dunque dire all'uomo: usa delle tue forze. Se non che da questo imperativo sarebbe pur d'uopo inferire esser insita nell'uomo una legge cui egli deve obbedire. Ma così non é. Ognuno adopera, sì, le proprie forze, ma senza che ciò sia per lui un compito; in ogni momento ciascuno adopera tutta la forza di cui è capace. Si dice, è vero, parlando di chi soccombe, che egli avrebbe dovuto usare una maggior forza; ma si dimentica che se avesse potuto farlo, presso a soccombere, lo avrebbe fatto. Sia durato anche solo un istante lo scoraggiamento, ciò equivale all'impotenza d'un minuto. Le forze si possono certamente affinare e moltiplicare particolarmente per una resistenza al nemico o per un aiuto amico; ma quando si tralascia di adoperarle, si può esser ben certi che esse sono venute meno. Si può sprigionare il fuoco da una pietra; ma senza un colpo, senza un forte attrito, il fuoco non si sprigiona; non altrimenti l'uomo abbisogna d'una scossa.

Se le forze sono sempre attive per sé stesse, il precetto di adoperarle è superfluo e senza senso. Adoperare le proprie forze non è la vocazione dell' uomo, non è il suo compito, bensì è la sua azione necessaria in ogni momento. La parola "forza" è una semplificazione per esprimere la manifestazione della forza.

Sicché, come la rosa è sempre, fin da principio, una vera rosa e l'usignolo è sempre un vero usignolo, così io non divento uomo solo quando corrispondo alla mia vocazione, bensì sono sin dalla mia nascita un "vero uomo". Il mio primo balbettare è indizio di vita d'un "vero uomo", le mie lotte per l'esistenza sono le manifestazioni della mia forza, il mio ultimo respiro è l'ultimo esaurirsi della forza dell'uomo.

Non nell'avvenire, oggetto eterno di desideri, sta il vero uomo bensì nel presente e nella realtà. Come e chiunque io sia, lieto o addolorato, bambino o vecchio, fiducioso o dubbioso, dormente o vigilante, io sono io, io sono il vero uomo.

Ma se io sono l'uomo e ho ritrovato in me quell'essere che l'umanità religiosa mi additò quale una mèta lontana, è forza concludere, che, dunque, tutto ciò che è veramente umano m'appartiene. Quella libertà dei commerci, p. es., che l'umanità anela sempre di conseguire, e che si fa brillare dinanzi agli sguardi come un sogno incantevole sconfinante nell'avvenire, io me l'approprio senz'altro e la esercito frattanto sotto forma di contrabbando. Certamente saranno ben rari quei contrabbandieri che sapranno rendersi conto dei motivi del loro agire, tuttavia l'istinto dell'egoismo supplisce al difetto di coscienza. Della libertà di stampa ho dimostrato più sopra la stessa cosa.

Ogni cosa m'appartiene, e per ciò io mi riprendo quello che mi si vuol sottrarre, ma anzitutto riprendo possesso di me stesso ogni qualvolta cado inavvertitamente nella soggezione d'altrui. E ciò non per una mia vocazione, bensì per un mio atto naturale.

In somma v'ha immenso divario tra il considerare le cose come punto di partenza e il considerarle come punto d'arrivo. In questo ultimo caso io non possiedo ancora me stesso, la vera mia essenza mi è estranea e si prende gioco di me come un fantasma dai mille aspetti. E poiché io non sono ancor io, un altro mi si sostituisce (Dio, il vero uomo, l'uomo religioso, l'uomo ragionevole, libero ecc.).

Lontano ancora dall'aver raggiunto me stesso, io mi divido in due parti, delle quali l'una, quella che attende il conseguimento e l'adempimento della promessa, è la sola vera ; l'altra la falsa, deve essere sacrificata. Allora si dice: "Lo spirito è la vera essenza dell'uomo"; oppure: L'uomo non esiste che spiritualmente come tale è. Ed allora noi ci affaccendiamo disperatamente nella ricerca dello spirito, come se con esso riuscissimo ad attuare la nostra essenza; e in quell'indagine faticosa e vana perdiamo di vista noi stessi.

E come impetuosamente si tiene dietro all'ideale — non mai raggiunto — di se stessi, così si trascura anche il precetto dei savi, di prender cioè gli uomini quali sono, e li si prendono invece quali dovrebbero essere, e si esorta ognuno a dar la caccia a sé stesso, a quell'essere che dovrebbe essere formato "da tutti gli uomini perfettamente uguali per diritto, moralità e ragionevolezza" [(1) Il Comunismo nella Svizzera, p. 24.].

Certe, si dice, "se gli uomini fossero quali dovrebbero o quali potrebbero essere; se tutti gli uomini fossero ragionevoli, e si amassero come fratelli" [(2) Op. cit., p. 63.], questa sarebbe una vita di paradiso.

Ebbene — rispondiamo — è così appunto: gli uomini sono quali devono e possono essere. Come dovrebbero essere? Non diversi certo da quello che possono essere!

E che cosa possono essere? Non altra cosa da quella che sono: una forza. E forze, sono realmente, poiché non possono essere altra cosa, fuor di quella che sono.

Una persona che sia ammalata di cataratta può essa vedere? Sì, quando si sia fatta operare con successo. Ma come cieca essa non può più vedere, per questa semplice ragione: che non vede»

Possibilità e realtà coincidono sempre. Nulla si può che non si faccia, e per converso nulla si fa che non si possa.

La singolarità di quest'affermazione sparisce, se si considera che le parole "è possibile che...." non celano mai altro significato senonché questo: "io posso pensarmi, che.....". Per esempio, l'affermazione: è possibile che tutti gli uomini vivano secondo la ragione, vuol dire; io posso immaginarmi che tutti gli uomini vivano ragionevolmente. Ma siccome col mio pensiero non posso ottenere, e non ottengo di fatto, che tutti gli uomini vivano ragionevolmente, e quindi devo lasciare ciò in facoltà degli uomini, così la ragione universale non può esser immaginata che da me, è una realtà che, per riguardo a quello che io non posso fare, è chiamata una possibilità. Per ciò che dipende da te, tutti gli uomini potrebbero essere ragionevoli, poiché tu non ci avresti nulla in contrario, anzi, per quanto tu possa spaziare col pensiero, tu non saprai scoprire alcun ostacolo che a ciò s'opponga, e perciò nulla si oppone a che tu possa immaginare una tal cosa: essa è per te possibile.

Ma siccome gli uomini non sono tutti ragionevoli, bisogna credere anche che non possano esser tali.

Se una cosa, che immaginiamo possibilissima, non è o non avviene, si può esser sicuri, che c'è qualche impedimento di mezzo e che quella cosa è impossibile. La nostra età ha la sua arte, la sua scienza, ecc. L'arte odierna, ad esempio, sarà pessima, ma è per noi la sola possibile e perciò reale.

Anche interpretando la parola "possibile" nel senso ch'essa voglia significare qualcosa di "futuro", il possibile mantiene nonostante tutta la piena forza del "reale". Se si dice p. es., "è possibile che domani sorga il sole", ciò non vuol dir altro se non che: "per l'oggi il domani è il futuro reale"; perché è superfluo osservare che il futuro è solo allora veramente "il futuro" quando non s'è finora avverato.

Ma a che queste interpretazioni di singole parole? Se dietro ad esse non si nascondesse un malinteso ormai secolare se tutta la fantasmagoria da cui è posseduta l'umanità non s'aggirasse intorno al concetto di questa parola "possibile", non metterebbe conto da vero che noi ce ne occupassimo.

Il pensiero, come abbiamo dimostrato, domina il mondo. Ebbene, la possibilità non è che ciò che può capire nell'immaginazione ed a questa orribile immaginazione furono immolate innumerevoli vittime. Era possibile immaginare che gli uomini diventassero ragionevoli; possibile immaginare ch'essi comprendessero il Cristo, che s'esaltassero per il bene e per la moralità; possibile il pensare che tutti riposassero nel grembo della Chiesa, che nessuno s'argomentasse di rovesciare lo Stato, che tutti potessero essere dei buoni sudditi; e per la ragione che era possibile rappresentarsi tutto ciò, la cosa — ecco la conclusione — doveva  esser possibile essa stessa; e più anche, perché agli uomini ciò era possibile (qui sta l'errore da che altro è che io immagini una cosa, altro che questa cosa debba essere possibile agli uomini) essi dovevano essere così e non altrimenti, e avere quella missione ed essere alla stregua di quella missione giudicati.

A che cosa si arriva procedendo di questo passo? L'uomo quale fu immaginato dai metafisici è un pensiero, un ideale, un fantasma di fronte al quale il singolo è ciò che il punto tracciato colla creta è di fronte al vero punto matematico, o ciò che una creatura di fronte all'eterno creatore, o, secondo le idee più recenti, ciò che l'esemplare di fronte alla specie. E qui trova sua espressione la glorificazione dell' "umanità", "l'eterno immortale", in onore di cui (in majorem humanitatis gloriam) il singolo deve sacrificar sé stesso, considerando come suo unico vanto immortale l'operare a vantaggio dello "spirito umano".

In tal modo coloro che pensano hanno il dominio del mondo, finché dura la scuola dei maestri e dei preti, e quello ch'essi pensano è possibile e quello che è possibile deve tradursi in realtà. Essi pensano un ideale umano, che, pel momento, non esiste se non nei loro pensieri; ma essi pensano anche alla possibilità di attuarlo, e l'attuazione — ciò è indiscutibile — può esser realmente immaginata: è un'idea.

Ma io e tu saremo, supponiamo, tra coloro di cui è possibile formare, secondo i desideri di un Krummacher, dei buoni cristiani; pure, se alcuno tentasse di catechizzarci, noi sapremo ben fargli comprendere che il nostro Cristianesimo può esser immaginato ma non attuato. E se costui insistesse per ridurci quale il suo pensiero o la sua fede ci vagheggiano, egli dovrebbe pur accorgersi al fine che noi non abbiamo nessun bisogno di diventare ciò che non vogliamo essere a nessun patto.

E così di seguito, anche lasciando da parte i religiosi. Si suol dire; "se tutti gli uomini fossero ragionevoli, se tutti operassero equamente, se tutti fossero guidati dall'amore del prossimo" ... Ragione, giustizia, amor del prossimo, ecc., tutto ciò si vuol far credere esser la missione degli uomini, l'unica mèta d'ogni loro aspirazione. Ma che cosa significa essere ragionevoli? Intendere la propria voce interna? No, la ragionevolezza é un libro pieno di leggi tutte rivolte contro l'egoismo.

La storia sino ai nostri giorni non rispecchia che l'uomo spirituale. Chiuso il periodo della sensualità, s'inizia quello dello spiritualismo, del soprannaturale, del trascendentale. L'uomo incomincia ad essere qualche cosa ed a voler diventare qualche cosa. Ma che cosa? Buono, giusto, vero; più oltre, morale, pio, costumato, ecc. Egli vuol fare di se stesso un "vero uomo", qualcosa di "buono". Il tipo astratto dell' "uomo" diventa la sua mèta, il suo dovere, la sua destinazione, la sua missione, il suo compito — insomma, il suo ideale: per sé stesso egli è un essere di là da venire. E che cosa lo aiuta a diventare un "uomo" ideale? L'essere veritiero, buono, costumato, ecc. Da allora in poi egli guarderà biecamente tutti coloro che non riconosceranno al pari di lui quell'idea, e non andranno in cerca della lor moralità, della lor fede. Egli li respingerà quali "settari, eretici" ecc.

Ma né la pecora né il cane s'affaticano a diventare delle vere pecore, dei veri cani; a nessun animale il proprio essere appare come un compito, un concetto, ch'esso sia tenuto ad attuare. L'animale svolge l'individualità sua vivendo, vale a dire consumandosi, dissolvendosi. Esso non domanda di essere qualche altra cosa da quella ch'esso è.

Credete forse ch'io voglia consigliarvi d'imitare i brutti? No, certo — poiché anche questo sarebbe un nuovo compito, un ideale nuovo.

Del resto tanto farebbe desiderare che gli animali diventassero uomini. La vostra natura in fin dei conti è l'umana, voi siete uomini. Ma per ciò appunto non c'è alcun bisogno che cerchiate di diventare tali. Anche gli animali possono essere "addomesticati" ed "ammaestrati" e apprendere così a far molte così che sono contro la lor natura. Se non che un cane ammaestrato non è da più d'un cane secondo natura: il vantaggio non è suo, è nostro.

Dai tempi più remoti fu continuo lo sforzo di render morali, ragionevoli, più umani in somma tutti gli uomini, nel che è l'arte d'ammaestrare. Ma quella tendenza s'è sempre urtata alla indomabilità  dell'individuo,  alle  particolarità  naturali,  all'egoismo.  Coloro  che  si  lasciano ammaestrare non ottengono mai il loro fine, e soltanto colle labbra professano i lor sublimi principi. Di fronte a questa professione di fede essi nella vita sono costretti a riconoscersi sempre per peccatori incapaci di attuare la lor chimera, "uomini vili" condannati a gemere sorto il "pondo dell'umana debolezza".

Altro accade quando tu non insegni nessun ideale, ma vai dissolvendo te stesso così come tutto si dissolve nel tempo. Il dissolvimento non è la tua "destinazione" poiché esso è il presente.

La coltura religiosa ha bensì resi liberi gli uomini, ma per darli in mano a un nuovo padrone. Io ho appreso dalla religione a frenare le mie passioni, dalla scienza a trionfare delle resistenze esteriori; e posso anche dire che non servo ad alcun uomo. Ma adesso viene il bello: Tu devi obbedire prima a Dio che agli uomini. Io sono certamente libero dalla irragionevole destinazione dei miei istinti: se non che, ecco, sono schiavo della padrona: la ragione. Io ho acquistato la libertà spirituale, la libertà dello spirito. Ma con ciò son divenuto lo schiavo appunto dello spirito. Lo spirito mi comanda, la ragione mi guida, essi sono i miei padroni e i miei duci. Prevalgono i "ragionevoli", i "servi dello spirito"; ma se io non sono soltanto carne non son certamente nemmeno spirito solo. Io sono qualche altra cosa oltre spirito e carne, poiché la libertà dello spirito equivale a schiavitù di me stesso.

Senza dubbio la civiltà m'ha reso forte. Essa mi ha concesso dominazione su tutti gli impulsi esteriori ed interiori. Mercé la coltura io ho acquistato la forza di non lasciarmi più domare da nessuna delle mie passioni, sensazioni, emozioni, ecc.: Io sono padrone di essere. Ancora: mediante le scienze e le arti, io mi rendo padrone di tutto ciò che mi contrasta: a me obbediscono il mare e la terra, e perfino gli astri sono obbligati a rendermi conto della loro essenza. Lo spirito m'ha reso ragione di tutto. — Ma sullo spirito io non ho alcun potere. La religione (l'educazione) m'insegna, è vero, il modo di "vincere il mondo", ma non già quello di soggiogare Dio e di rendermene padrone; poiché " Dio è lo spirito ". Oltre a ciò, lo spirito, che io non possa padroneggiare, può assumere le forme più diverse, può aver nome Dio o Popolo, Stato o Famiglia, Ragione o Libertà.

Io accetto volentieri quello che secoli di coltura hanno ottenuto per me; nulla di ciò io voglio abbandonare e a nulla rinunziare; io non ho vissuto invano. L'esperienza che mi diede il potere sulla mia natura e mi liberò dal servaggio delle mie passioni, non sarà perduta per me. Essa, che mi die' modo, di soggiogare il mondo, è stata acquistata a troppo caro prezzo; non io la vorrò dimenticare. Ma tutto questo non mi basta.

Si domanda, quale più alta mèta possa prefiggersi all'uomo, quali beni egli possa ancora acquistare; e gli si pone dinanzi senz'altro il più arduo compito quale una sua missione. Come se a me fosse possibile ogni cosa !

Quando si vede che taluno è travolto da una mania o da una passione, nasce in noi il desiderio di salvarlo da quella sua ossessione e d'aiutarlo a vincerla, "Vogliamo fare di lui un uomo!" Tutto ciò sarebbe una bella cosa, se al posto di quella idea fissa non se ne collocasse immediatamente un'altra. Ma non si sa redimere chi è schiavo del denaro se non dandolo il potere della religione, sottraendolo così ad una schiavitù per assoggettarlo ad una schiavitù nuova.

Questa trasposizione dall'uno all'altro servaggio, via via più astratta, è espressa così: i sensi non devono essere rivolti alle cose periture, bensì unicamente alle eterne, non alle cose temporali, ma alle perpetue, assolute, divine, prettamente umane, ecc. — vale a dire alle cose dello spirito.

Si comprese molto presto che non era indifferente la cosa, cui il cuore s'affezionava o di cui ci
si occupava: si riconobbe l'importanza dell' "oggetto". Un oggetto elevato sopra le particolarità delle cose è l'anima delle cose; quest'anima è anzi ciò che solo può esser immaginato, ciò che solo veramente esiste per l'uomo pesante. Dunque ti conviene non più rivolgere i tuoi sensi alle cose, bensì i tuoi pensieri all'essenza delle cose. "Beati son coloro che non vedono, e pur credono". Ciò significa: beati son coloro che pensano, poiché essi hanno a fare coll'invisibile, e ci credono. Eppure anche tal oggetto del pensiero, che pel corso di secoli è stato un punto contrastato e discusso, finisce in un nulla. Si è compreso ciò; nondimeno si volle aver sempre di nuovo sott'occhi un qualche oggetto, il cui valore dovesse essere assoluto, come se le pappatoie per i bambini e per i turchi il Corano non fossero gli oggetti di maggior importanza. Sino a tanto che il mio io non è per me l' unica cosa che abbia pregio, è indifferente che io metta il mondo a rumore per un qualunque oggetto: solo un mio delitto contro quell'oggetto potrà avere importanza. Il grado della mia devozione manifesta la maggiore o minor servilità della mia condizione; il grado del mio peccato contro quell'oggetto rivela la misura dalla mia originalità.

Bisogna saperci liberare da tutte queste angustie — non fosse altro che per poter avere tranquilli i sonni: nessuna cosa può preoccuparci se noi non ce ne occupiamo; l'ambizioso non può liberarsi dai suoi disegni ne l'uomo religioso dal pensiero di Dio: idea fissa ed ossessione sono tutt'uno. Attuare il proprio essere, vivere secondo il suo concetto (il che per i credenti in Dio significa esser "pii", pei credenti nell'umanità esser "umani"), sarà compito dell' uomo sensuale o del peccatore ondeggiante tra l'ebbrezza dei godimenti e la tranquillità dello spirito. Lo stesso cristiano altro non è che un sensuale che crede nell'esistenza di cose sacre, ed ha coscienza di violarle, e perciò vede in se stesso un "povero peccatore". La sensualità, riconosciuta come peccaminosa, è la coscienza cristiana. E se i moderni non parlano più di "peccati", o del "peccato", ma invece s'affaticano a combattere l' "egoismo", l'interesse, ecc.; se il diavolo in somma s'è cangiato nell'uomo "antiumano", "nell'egoista", forse che per ciò il cristiano non esiste come prima? L'antico dissidio tra il bene e il male è forse cessato? Non v'ha forse al di sopra di noi un giudice supremo: l'uomo? La missione di diventar uomini veri non è forse rimasta? Se essa ora si chiama "compito" o "dovere" sarà esatto il nome, poiché l'uomo non è al pari di Dio un ente personale, che possa destinarci una determinata impresa, ma, con mutata parola, la cosa è rimasta quale era,

Ciascuno ha con le cose i suoi propri rapporti, a cui conforma gli atti. Prendiamo ad esempio il libro, al quale ebbero la mente milioni di uomini pel corso di due millenni: la Bibbia. Che rappresentò esso per ciascuno di quegli uomini? Unicamente ciò che ciascuno volle trovarvi per se! Per chi non se ne curi affatto, la Bibbia nulla rappresenta; per chi l'adopera come amuleto, essa ha la virtù d'un incantesimo; per chi si trastulla con quel libro, come fanno i fanciulli, esso non è che un balocco: e così via.

Il cristianesimo esige che per tutti la Bibbia debba rappresentare ed essere un'unica cosa: cioè il libro sacro per eccellenza, la "sacra scrittura". Si vuol dunque imporre a tutti una sola fede: la cristiana — e pretendere che nessuno possa in relazione a quel libro sacro comportarsi come gli piace. Con ciò si distrugge la libertà nella condotta individuale, a si decreta per vero, unicamente vero un significato, un modo di sentire. Togliendomi la libertà di far della Bibbia quel che più mi piace, mi si toglie in generale la libertà d'azione, e in luogo di essa, mi si impone un'opinione o un giudizio. E così chi si permette di giudicare essere la Bibbia un millenario errore della umanità, si rende reo d'un crimine.

Ma in verità, il bambino il quale fa il libro a brani, l'Inka Atahualpa, che l'appressa all'orecchio e lo rigetta da sé con disprezzo quando s'accorge ch'esso rimane muto, giudicano così giustamente della Bibbia quanto il prete, che esalta in essa "la parola del Signore", o il critico, che la chiama opera di menti umane. Poiché il modo di considerare le cose appartiene al nostro arbitrio: noi ne usiamo come ci talenta, o, per meglio dire, nel modo che possiamo usarne. Di che cosa si lagnano con alte grida i preti, quando vedono un Hegel e i teologi metafisici cavar fuori dalla Bibbia pensieri di filosofia?

Appunto di ciò, che coloro usano della Bibbia come loro piace: "arbitrariamente".

Ma siccome nell'usare delle cose siamo tutti arbitrali; ne usiamo cioè così come a noi piace (nulla è più gradito al filosofo quanto lo scoprire in ogni cosa un'idea, nulla all'uomo pio quanto il trovar da per tutto l'immagine di Dio); così noi non ci abbattiamo in alcun altro campo ad una prepotenza così terribile, ad una costrizione così stupida — come nel campo del nostro arbitrio. Se noi procediamo arbitrariamente, col prendere nel modo che meglio ci piace le cose sacre, con qual diritto potremmo rinfacciare agli spiriti religiosi l'uso che essi hanno di trattarci arbitrariamente a modo loro col ritenerci meritevoli del fuoco eterno, o di qualche altra pena, o per lo meno della censura?

L'uomo fa delle cose ciò ch'egli è; "così come tu vedi il mondo, il mondo vede te". Ma ecco che s'affaccia pronto il consiglio: tu devi osservare il mondo giustamente, spregiudicatamente. Come se il bambino non guardasse serenamente e senza preconcetto la Bibbia, quando ne fa un trastullo! Questo saggio consiglio ci viene dal Feuerbach. Ma le cose non si osservano spregiudicatamente, se non quando si fa di esse quel conto che si vuole (col nome di cose, noi intendiamo tutti gli oggetti materiali e ideali, come Dio, il nostro prossimo, la donna amata, un libro, un animale, ecc.). Per ciò quel che più importa non è già l'oggetto o il modo d'osservarlo; bensì l'io, la mia volontà. Si vuol ricavare dalle cose l'idea, si vuole scoprire una ragione nel mondo: ecco perché vi si trova quello che si cerca. "Cercate e troverete". Che cosa io debba cercare io solo ho diritto di decidere. Per esempio io voglio cercar edificazione nella Bibbia, e io ve la troverò. Io voglio leggere ed esaminare la Bibbia a fondo, e ne ritrarrò un profondo ammaestramento e argomenti sottili di critica — a seconda delle mie forze. Io scelgo quello che più è conforme ai miei desideri, e, così scegliendo, mi rivelo arbitrario.

Aggiungete che ogni mio giudizio sul conto d'un oggetto, è una creazione della mia volontà. Da ciò nasce la convinzione che io non debba perdermi dietro la creazione, ma considerare me stesso quale l'unico che giudica e suscita sempre nuove forme e nuove cose. Tutti i predicati delle cose sono mie osservazioni, sono miei giudizi, sono mie creazioni. Se esse vogliono staccarsi da me e diventare entità per sé stesse, o, peggio ancora, imporsi a me, io le ricaccerò nel loro nulla, facendole rientrare in me, che le ho create. Dio, Cristo, la trinità, la moralità, il bene, ecc., sono tali creazioni, di lui io ho ben diritto dì giudicar che son vere come di affermare che son false. Allo stesso modo che io ho voluto e decretato che siano, così io devo poter volere e decretare che più non siano, non devo permettere ch'esse mi sopraffacciano, non devo esser debole tanto da consentire che esse si eternino e si sottraggano al mio potere. — Se così adoperassi io cadrei sotto la signoria di quel principio della stabilità che è il vero concetto vitale della religione, a cui troppo preme di creare delle "santità intangibili", delle "verità eterne", di porre in somma sopra di te qualche cosa sacra, per sottrarti a quello che ti è proprio.

L'oggetto fatto entità ci rende ossessi, quale che sia la forma — sensibile o soprasensibile, sacra o profana — in cui si presenta. Sete dell'oro desiderio di una eterna felicità in cielo si equivalgono — per questo rispetto — interamente.

Quando i progressisti vollero convertire il mondo alla religione dei sensi, Lavater predicò la brama dell'invisibile.

Ciascuno si fa dell'oggetto un'idea sua propria: e Dio, Cristo, il mondo, ecc., furono e sono concepiti nei modi più vari. Ciascuno in ciò pensa diversamente dagli altri. Terribili lotte furono necessarie per ottenere che opinioni diverse intorno a uno stesso oggetto non dovessero essere condannate quali eresie meritevoli di morte. Certo i liberali hanno imparato la reciproca tolleranza. Ma perché il mio diritto dovrà esser questo soltanto di poter pensare ciò che voglio intorno a una cosa? perché, traendo dal principio le conseguenze estreme, non potrò io, se mi talenta, non fare più alcun conto di quella cosa, non pensarci più affatto, ridurla nel nulla? perché mai devo io dire: Dio non è Allah non è Brama, non è Geova, bensì Dio? perché non devo poter dire: Dio è null'altro che una finzione? perché mi si macchia d'infamia se io nego l'esistenza di Dio? perché si tiene in maggior conto la cosa creata di quello che si tenga il creatore? ( " Essi servono e adorano la creatura più del creatore ") [(1) ROMANI. 1. 25.] e si ha bisogno d' un oggetto dominante, per far col soggetto un servo devoto? perché devo io inchinarmi all'assoluto.

Col "regno dei pensieri" il Cristianesimo ha raggiunto la perfezione estrema. Nel pensiero si spegne ogni luce del mondo, ogni esistenza s'annienta. L'uomo interno (il cuore, la testa) diventa il tutto nel tutto. Questo regno dei pensieri attende il suo redentore, aspetta — novella Sfinge — un Edipo che sciolga l'enigma per poter morire. Ebbene il distruttore della sua esistenza sono io. Nel regno del creatore esso non forma più un mondo a sé, uno Stato nello Stato, bensì è una creatura della créatrice fantasia. Soltanto così il Cristianesimo e la religione possono tramontare. Solo quando mancano i pensieri cessano di esistere anche i credenti. Al pensatore le meditazioni appaiono quale un "lavoro sublime, un'attività sacra", che regna su una "fede" inconcussa; quelle della verità. E un'attività sacra appunto è da prima la preghiera: poi il "pensare" ragionevole e filosofico, il quale però ha sempre il suo fondamento nella "santa verità" e non è che una macchina meravigliosa che lo spirito della verità apparecchia perché gli possa servire. Il libero pensiero e la libera scienza occupano me — (poiché non io sono libero, non io occupo me stesso, bensì il pensare è libero ed occupa me) — col cielo e con le cose celesti o "divine", col mondo e con le cose che gli appartengono. Tutto ciò è un pervertimento, una follia. Quegli che pensa è cieco alle cose che lo circondano ed incapace di rendersene padrone ; egli non mangia, non beve, non gode, poiché quegli che mangia e beve non pensa, e quegli che vive di pensiero dimentica di mangiare e di bere: ogni cosa dimentica, al pari di colui che è assorto nella preghiera.

Perciò agli occhi del forte figlio della natura egli appare come un maniaco, un pazzo, benché lo consideri un santo, come usano gli antichi. Il libero pensare è follia poiché è moto esclusivo dell'intimo, è l'opera dell'uomo interno, che guida e dà legge all'uomo reale.

Lo sciamano e il filosofo speculativo significano l'ultimo ed il primo gradino della scala dell'uomo interiore: del mongolo. Sciamani e filosofi combattono coi fantasmi, coi demoni, con gli spiriti, con gli dei.

Assai diverso da questo libero pensare è il mio proprio pensare: un pensare che non mi guida, bensì è da me guidato, continuato, interrotto, allo stesso modo di un desiderio che io possa soddisfare a mio talento e non invece come una brama violenta a cui m'è forza soggiacere.

Feuerbach, nei suoi "principi della filosofia dell'avvenire", batte e ribatte sempre sul concetto dell'esistenza. E con ciò gli resta, per quanto avverso all'Hegel ed alla filosofia assoluta, impigliato nell'astrazione, poiché l' "essere" è astrazione, come l'Io. Con questa sola differenza che l'io non è soltanto astrazione, ma anche il tutto nel tutto, e per conseguenza astrazione è tutto, è tutto, e tutto è nulla. L'io non è un'idea soltanto, bensì un mondo di idee. Hegel condanna ciò che è proprio — il mio. Il pensare "assoluto" rinnega il mio pensare e dimentica che il pensiero non esiste che in grazia mia. Ma poiché io posso prendere nuovamente ciò ch'è mio, così io solo sono il padrone del mio pensiero, della mia idea, e posso cangiarli a tutti i momenti, distruggerli, dissolverli a mio talento. Feuerbach vorrebbe combattere il pensare assoluto dell'Hegel col mezzo dell'invincibile essere. Ma l'essere è da me superato come il pensiero. L'essere è il mio essere, allo stesso modo che il pensare é il mio pensare.

Con ciò Feuerbach, come è ben naturale, non fa nessun passo avanti e giunge soltanto a dimostrare queste verità assai volgari che io adopero i miei sensi in tutte le cose, e che non posso far di meno dei miei organi. Certo io non posso pensare se non esisto. Ma tanto per pensare quanto per sentire, dunque sì per le cose sensuali come per le astratte, io ho bisogno anzitutto di me stesso, e precisamente del mio io, di quest' io determinato, unico. Se, per esempio, io non fossi Hegel, io avrei un altro concetto del mondo; io non saprei trovarci quel sistema filosofico, che, essendo Hegel ho saputo rinvenirvi. Io possederei i miei sensi al pari d'ogni altro uomo, ma non ne farei l'uso che ne faccio.

Così il Feuerbach rimprovera all'Hgel di abusare del linguaggio, con dare alle parole un significato diverso da quello loro assegnato della coscienza naturale. Ma egli pure incorre nello stesso errore, quando al "sensuale" attribuisce un significato così largo quale non gli fu mai dato. Così per esempio, a pag. 69, dove afferma non doversi confondere il sensuale col profano vuoto di idee, alla portata di tutti, da tutti comprensibile. Ma allora se ciò ch'egli vuol esprimere è il sacro — quello che è traboccante di idee, che giace nascosto, ch'è comprensibile soltanto mercè l'interpretazione — ebbene, in tale caso, non è più questo che si chiama col nome di sensuale. Sensuale è unicamente quello che esiste per i sensi: ciò di cui possono godere coloro che oltrepassano la concezione del sensibile non potrà più chiamarsi sensuale. La sensualità, quale che essa sia, cessa di essere sensualità quando diviene concetto, sebbene essa possa produrre effetti sui sensi, eccitando ad esempio le funzioni e facendo pulsare più rapido il sangue.

Che Feuerbach rimetta in onore la sensualità, è bene: ma pur troppo ei non sa rivestire il materialismo della sua filosofia nuova con le spoglie dell'idealismo. Sarà difficile persuadere la gente che si possa vivere soltanto di "spiritualità", senza aver bisogno di pane. Anche sarà difficile farle credere che l'uomo, creatura sensuale, possa essere a un tempo tutto spirituale, ricco d'idee, ecc.

Col solo fatto dell'esistere nulla si giustifica. Ciò ch'è pensato esiste allo stesso modo di ciò che non è pensato: il sasso della via esiste come il concetto che di esso io mi faccio, con questa sola differenza che l'uno si trova in un luogo differente dall'altro; il sasso nella strada, il mio concetto nella mia testa, in me — poiché io rappresento uno spazio al pari della strada.

I privilegiati non tollerano alcuna libertà di pensiero vale a dire nessun pensiero che non provenga dal "dispensatore d'ogni cosa", si chiami esso Dio, il papa la Chiesa o comunque si voglia.

Che se taluno concepisca di tali pensieri illeciti, sarà bene che ei si confessi in un orecchio al suo confessore e si faccia infliggere mortificazioni e penitenze finché non l'abbia prostrato come

si prostrano con la frusta gli schiavi ribelli. Ma un altro mezzo ha lo spirito di corpo per impedire addirittura che sorgano i liberi pensieri: la savia educazione. Chi vuole inculcare gli elementi della morale, non può liberarsi dalle idee morali, e il furto, lo spergiuro, il profitto disonesto, ecc., saranno sempre per lui delle idee fisse, contro le quali non lo proteggerà alcuna libertà di pensiero. Egli ha avuto le sue idee dall' "alto" e resta ad esse attaccato.

In altro modo procedono i concessionali o patentati. Ognuno deve aver dell'idee e deve potersene formare a suo agio. Quando uno ha la patente o la concessione d'un'attitudine a pensare egli non ha bisogno d'un privilegio speciale. Ma poiché "tutti gli uomini sono ragionevoli", dev'esser libero ad ognuno di cacciarsi in capo quei pensieri che meglio gli piacciono di avere, a seconda della patente della sua disposizione naturale, una copia maggiore o minore di tali idee. E quindi si raccomanda di "rispettare tutte le opinioni e tutte le convinzioni" — poiché "ogni convinzione è legittima", e bisogna "esser tolleranti verso le opinioni altrui".

Ma "le vostre idee non sono le mie e le vostre vie non sono le mie". O piuttosto lasciatemi dire il contrario: i vostri pensieri sono i miei pensieri, in questo senso che io ne dispongo a mio piacere e li abbatto inesorabilmente; essi sono mia proprietà, che io, se così mi piace, posso distruggere. Io non attendo la vostra autorizzazione, per sciogliere in fumo i vostri pensieri. A me non cale affatto che essi sieno vostri; son pure miei, e il trattarli nell'uno o nell'altro modo è un mio diritto. Tacerò, se mi piacerà di lasciarvi tranquilli colle vostre idee. Credete forse che le idee volino senz'altro intorno libere come gli uccelli e che ciascuno possa afferrarne una o più per poi farla valere contro di me come una sua proprietà intangibile? Tutto ciò che mi vola d'intorno è mio.

Credete forse che le vostre idee non esistano che per voi che voi non siate tenuti a giustificarle verso nessuno, o, meglio, secondo il vostro linguaggio preferito, che voi non abbiate a renderne conto ad altri che a Dio? No, le vostre idee, grandi o piccole, m'appartengono; e io le tratto come mi piace.

L'idea diviene mia proprietà solo quando io non esito in alcun momento a ridurla in pericolo di morte, quando io non devo temere ch'essa si perda, come temerei della perdita di me stesso. Mia proprietà è l'idea solo quando, quantunque posseduta da me, essa non può mai possedermi, mai soggiogarmi, mai fanatizzarmi mai rendermi strumento della sua attuazione.

Dunque la libertà del pensiero esiste quando m'è dato d'avere ogni sorta di pensieri. Le idee diventano una proprietà, quando sono rese incapaci d'esser signore. Ai tempi della libertà del pensiero dominano le idee; ma se io so ridurle in mia proprietà esse per me saranno delle creazioni.

Se il concetto della gerarchia non fosse ormai così radicato nelle coscienze, da toglier agli uomini fin l'ardire d'aver dei pensieri liberi, la libertà del pensiero ci dovrebbe apparire una parola vuota di senso come sarebbe, ad esempio, la libertà di digerire.

Secondo l'avviso degli uomini ligi a una fede religiosa l'idea m'è data: secondo quello dei liberali io la ricerco. Io accolgo, secondo gli uni, la verità bella e pronta, purché la chieda alla grazia del dispensatore; io devo rintracciarla, secondo gli altri e tendervi come a mia mèta futura.

In ambo i casi la verità (idea vera) è posta fuori di me ed io aspiro a ottenerla sia sotto forma di dono (dalla grazia), sia coll'acquisto (mediante il mio proprio merito). Dunque nel primo caso la verità è un privilegio, nei secondo invece può esser conseguita da tutti (poiché né la Bibbia né il santo padre, né la Chiesa ne hanno l'esclusivo possesso), e il mezzo con cui la si ottiene è la speculazione.

Così gli uni come gli altri sono dunque privi di un titolo di proprietà in rapporto al vero; essi o possiedono la verità in feudo (imperocché il santo padre, per esempio, non è un singolo: come tale egli avrà nome Sisto, Clemente, ecc , ma non quale Sisto o Clemente egli possiede la verità, bensì quale "santo padre") o l'hanno come un ideale. Come feudo essa è riservata a pochi (privilegiati), come ideale appartiene a tutti.

La libertà del pensiero ha dunque questo significato: che noi tutti procediamo bensì nelle tenebre e sulla via dell'errore, ma che ciascuno di noi può in questa via avvicinarsi alla verità e perciò si trova sulla retta via ("ogni strada conduce a Roma, in capo al mondo, ecc."). Il che in somma vuol dire che la vera idea non può appartenere ai singolo; poiché se cosi fosse, in qual modo gli si potrebbe impedire d'ottenerla?

Il pensiero, divenuto interamente libero ha proclamato molte verità alle quali io devo inchinarmi.

Esso tende a comporsi in un sistema e a rivelarsi in una forma assoluta. Nello Stato, p. es., esso ricerca l'ideale del reggimento politico secondo ragione; nell'uomo persegue l'ideal tipo umano.

Il pensatore si distingue dal credente solo in ciò che egli crede in un più largo insieme di cose. Egli ha in somma migliaia di articoli di fede, mentre al credente bastano pochi. Ma il credente riesce facilmente a comporre i suoi articoli di fede in un sistema ch'egli erige poi a norma dei

suoi apprezzamenti. Ciò che non si confà a tale sistema, ei lo rigetta senz'altro.

E nello stesso modo procedono i pensatori nella dichiarazione dei lori principi. Invece di affermare: "se una cosa viene da Dio, voi non giungerete a distruggerla", essi dicono: "tutto ciò che scaturisce dalla verità, è vero": al principio: "sia gloria a Dio", sostituiscono quest'altro: "sia gloria alla verità". Ma per me è affatto indifferente che la vittoria sia di Dio o della verità l'essenziale è che sia mia.

Come è possibile del resto immaginare una libertà illimitata nello Stato o nella società? Lo Stato potrà, sì, difendere l'un cittadino contro l'altro, ma non già mettere in pericolo la propria esistenza col concedere una libertà illimitata, che, per lui, sarebbe licenza. Così nella "libertà dell'insegnamento" esso dichiara soltanto di accettare di buon grado chiunque insegni secondo i principi della autorità. I concorrenti debbono tener conto appunto di quello che "esige lo Stato". Se per esempio la Chiesa non può consentire ai principi che lo Stato accetta e fa propri, essa sarà costretta   ad   escludersi   volontariamente   dalla   concorrenza   (come,    p.    es.,    in Francia). Il confine posto dallo Stato ad ogni concorrenza si chiama la vigilanza e l'ispezione superiore dello Stato. E così, col limitare la libertà d'insegnamento entro certi determinati confini, lo Stato impone un ostacolo insuperabile alla libertà del pensiero, poiché l'uomo facilmente si avvezza a non pensare diversamente dal proprio maestro.

Ecco ad esempio, come s'esprime in proposito il ministro Guizot [(1) Seduta della Camera dei Pari del 25 aprile 1877.]: " la grande difficoltà dei nostri tempi sta nella direzione e nella dominazione dello spirito. Una volta la Chiesa adempiva a questa missione, ora l'opera sua si chiarisce insufficiente al bisogno.

"L'adempiere tale compito spetta ora alla universalità ed essa non vi verrà meno. Noi che siamo al governo, abbiamo il dovere di renderle agevole quest'officio. La carta vuole la libertà del pensiero e della coscienza".-

Cosicché in favore della libertà del pensiero e della coscienza il ministro impone la "direzione e la dominazione dello spirito"!

Il cattolicesimo citava quelli che voleva assoggettare a giudizio dinanzi al foro ecclesiastico, il protestantesimo li trascinava dinanzi a quello della cristianità biblica. Parrà da vero grande progresso che li si citino ora dinanzi al foro della ragione, secondo i desideri di Ruge [(2) Anekdota 1. 120.]? Che la Chiesa, la Bibbia o la ragione (alla quale si richiamavano del resto già Lutero ed

Huss) rappresentino l'autorità sacra, poco importa, poiché l'autorità sacra rimane.

Né la questione si risolve più agevolmente col proporla a questo modo : "Il diritto spetta all'università ( Stato, legge, costumi, moralità, ecc.) oppure ai singoli?". Bisogna invece risolutamente cessare di parlar di diritto e di lottare soltanto contro i "privilegi". — Una libertà d'insegnamento "ragionevole" unicamente inspirata alla coscienza della ragione [(3) RUGE, Anekdota, 1, 127] non ci condurrà più vicino alla méta; noi abbiamo bisogno invece d'una libertà d'insegnamento egoistica, in virtù della quale ciascuno possa affermarsi e manifestarsi senza alcun impedimento.

Qual vantaggio si ritrarrebbe da ciò, che, come prima era libero l'io ortodosso, legale, morale, ecc.,diventasse libero ora l'io ragionevole? Sarebbe questa la libertà individuale?

Se io sono libero quale essere ragionevole se ne dovrà conchiudere che è libero quello che in me é ragionevole: cioè la ragione. Ora questa libertà della ragione, ossia dello spirito, fu sempre l'ideale del mondo cristiano. Si volle render libero il pensiero — (e, come abbiamo già detto, anche il credere è una forma del pensare, cosi come il pensare è un credere pur esso) — in vantaggio così di quelli che avevano una fede come di quelli che possedevano la ragione. Ma la libertà di coloro che pensano non è diversa dalla "libertà dei figli di Dio" e trae seco in pari tempo la più spietata gerarchia o schiavitù del pensiero; poiché all'idea soggiace l'io. Se i pensieri son fatti liberi io divento il lor schiavo io non ho più nessun potere su di loro e sono da essi dominato. Ma io voglio invece possederlo io il pensiero, anzi possederne molti ed essere a un tempo senza pensieri: voglio in somma non la libertà del pensiero, ma la spensieratezza.

Certo se desidero che i miei simili mi comprendano io non posso far uso che de' mezzi umani, i quali stanno a mia disposizione appunto perché, oltre ad esser io, sono anche uomo. E in verità, soltanto quale uomo io ho dei pensieri. Quale singolo io sono senza pensiero. Chi non può liberarsi da un pensiero non è che uomo: è uno schiavo del linguaggio, di questa legge umana, di questo tesoro delle umane idee. Il linguaggio — la "parola" — è il nostro peggior tiranno, poiché solleva contro di noi un esercito d'idee fisse. Osserva te stesso nel momento appunto che stai pensando e vedrai che non puoi procedere, se non restando di tratto in tratto senza pensieri e senza parole. Non soltanto nel sonno ma, anche nell'atto stesso del riflettere tu sei a ogni tratto senza idee e senza parole. E soltanto per quell'assenza di pensieri, per quella misconosciuta libertà di pensiero o meglio liberazione dal pensiero, tu appartieni a te stesso. Soltanto in virtù di essa tu puoi giungere a tale da adoperar il linguaggio quale tua libera proprietà.

Finché il pensiero non è il mio pensiero, esso non sarà mai altro che la continuazione, l'ampliazione d'un'idea comune: il lavoro d'uno schiavo, d'un "servo della parola". Pel mio pensiero la individualità mia è il principio unico e l'unica mèta: e il suo corso non è altro che il corso del godimento di me stesso. Invece il pensiero assoluto — o, come dicono, libero — ha per principio sé stesso, rappresentato quale la più alta "astrazione" (per esempio quale esistenza) che sia  dato  raggiungere.  Ma  questa  stessa  ampliazione  viene  poi  a  sua  volta  continuata  ed amplificata.

Il pensiero assoluto appartiene allo spirito umano. Or lo spirito umano è uno spirito santo. Perciò questo modo di pensare appartiene ai preti che "sanno comprendere i più alti interessi dell'umanità": "è la essenza stessa dello spirito".

Per il credente le verità sono un fatto compiuto; per chi pensa liberamente esse sono invece una cosa che si deve ancora attuare. Per quanto scettico sia il libero pensatore, gli resta ancor sempre la fede nelle verità, nello spirito, nell'idea, e nel lor trionfo. Il pensiero libero non pecca contro lo spirito santo. Ma ogni pensiero che non pecca contro lo spirito santo è una credenza superstiziosa negli spiriti e nei fantasmi.

Io non posso rinunziar al pensare cosi, come non posso rinunziare a sentire; non posso rinunziare all'attività dello spirito come non posso rinunziare a quella de' sensi. Come il sentire è il nostro senso delle cose, così il pensare è il nostro senso degli esseri (idee). Gli esseri hanno la loro esistenza in tutto ciò che cade sotto il dominio dei sensi, e particolarmente nella parola. La potenza delle parole tiene dietro a quella delle cose; dapprima noi siamo soggiogati colla ferula, poi con la persuasione. La forza delle cose abbatte il nostro coraggio; contro la potenza d'una convinzione — cioè della parola — sono impotenti la tortura e la spada. Gli uomini convinti resistono ad ogni tentazione di Satana.

Il Cristianesimo tolse alle cose di questo mondo il loro fascino, non il lor potere su di noi. Io voglio innalzarmi al di sopra della verità e sottrarmi al lor dominio, esse devono essere al mio cospetto così comuni e indifferenti come tutte le altre cose, io non consentirò né che esse mi soggioghino né che mi esaltino Non havvi alcuna verità — né il diritto, né la libertà, né l'umanità

che possa levarsi di contro a me e piegarmi. Le verità non sono altro che parole, vanità — come vanità sono per il Cristianesimo tutte le cose. Nelle parole e nelle verità (ogni parola è una verità, poiché, come Hegel sostiene, non è possibile dire una bugia) non havvi salute per me, come non v'ha salute nella vanità delle cose per il cristiano. Le ricchezze di questo mondo non mi rendono felice, ma neppure la verità può farmi tale. La storia della tentazione non è più rappresentata da Satana — bensì dallo spirito il quale non seduce più col fascino delle cose di questo mondo, ma con l'idea delle cose, con lo "splendor dell'idea".

Dopo i beni mondani bisogna sfatare anche le cose sacre.

Le verità sono frasi, parole (ldgoe); la connessione delle parole forma la logica, la scienza, la filosofia.

Per  pensare  e  per  parlare  io  abbisogno  della  verità  e  delle  parole,  come  per  mangiare

abbisogno dei cibi. Le verità sono le idee degli uomini, espresse in parole, e perciò reali al pari delle cose quantunque non esistano che per lo spirito o pel pensiero. Esse sono leggi umane e creazioni umane, tenute, sì per manifestazioni divine, ma non fatte a me estranee dopo l'atto della lor creazione.

L'uomo cristiano è colui che crede nell'idea e ne vuole attuare il dominio. Molti, è vero non accolgono le idee se non dopo di averle sottoposte alla critica, ma in ciò somigliano al cane che annusa le persone, per scoprire il suo padrone: tutto per lui si svolge intorno a un' idea predominante. Il cristiano moltiplicherà le riforme e le rivoluzioni, distruggerà i concetti dominanti da secoli; ma sempre sarà in cerca d'un nuovo principio, d'un nuovo signore, e sempre aspirerà ad innalzare una più sublime o più profonda verità, a creare un nuovo culto, a proclamare qualche nuovo spirito preconizzato alla dominazione, a stabilire una nuova legge per tutti.

Sia pure una sola la verità, cui l'uomo dovrebbe dedicare la vita e le forze, egli è soggetto sempre ad una regola, ad un dominio, ad una legge: egli è servo. Né importa che questa norma sia l'uomo, l'umanità, la libertà, o un'altra astrazione qualunque.

Bisogna dire invece: Se tu vuoi continuare ad aver dei pensieri, quest'è affar tuo; soltanto sappi che se tu vorrai che il tuo pensiero riesca a qualche utile certo, molti e difficili sono i problemi che ti bisogna sciogliere, e senza averli superati tu non andrai molto lontano. Dunque non esiste per te il dovere o la vocazione d'occuparti delle verità e dei principi; ma se ci tieni a farlo, sarà bene che tu tenga conto delle vane fatiche già durate dagli altri nel percorrere un sì arduo cammino.

Cosicché colui che vuole pensare, si prefigge, tacitamente o inconsciamente un compito — ma questo compito non può essere per lui un obbligo, perché nessuno può esser costretto a credere o a pensare. A costui si potrà dire: Tu non vai abbastanza lontano, il tuo interessamento è limitato e poco sincero, tu non miri al fondo della cosa, in somma tu non potrai adempiere convenientemente al compito tuo. Ma quale che sia il punto cui sei pervenuto, tu puoi bene considerarlo come la mèta — se così ti piace — poiché non hai nessuna missione di dover andar oltre, e puoi soffermarti o precedere ancora, come ti aggrada. Così è di questo come d'ogni altro lavoro, che sta in tua facoltà di tralasciare quando non vuoi più continuarlo. Non altrimenti, quando tu non puoi più credere ad una cosa, non devi costringer te stesso a credere, ad occuparti in eterno di quella cosa come se fosse una verità sacrosanta, alla quale tu abbia obbligo di aver fede come fanno i teologi e i filosofi, bensì puoi disinteressartene a tuo talento e lasciarla da parte. Gli spiriti infeudati alla religione interpreteranno certo il tuo disinteressamento quale "poltroneria, spensieratezza, durezza di cuore, aberrazione dello spirito, ecc.". Ma tu lascia dire. Nessuna cosa, nessuna "santa causa" è degna che tu serva a lei, e che te ne occupi per amor d'essa; il suo valore tu devi ricercarlo unicamente in ciò, che essa ti sia utile. Siate come i bambini — consiglia un precetto evangelico. Ebbene, i bambini non conoscono sacri interessi, nulla sanno delle "sante cause". Ma sanno, per contro, molto bene a che tenda la loro volontà; e a farla trionfare essi si adoperano con tutte le loro forze.

Ne il pensare ne il sentire potranno mai essere aboliti. Ma la potenza dei pensieri e delle idee, la dominazione delle teoriche e dei principi, la supremazia dello spirito, in breve la gerarchia, dureranno sino a tanto che i preti, vale a dire i teologi, i filosofi gli uomini di Stato, i borghesi dalla angusta mente, i servitori, i genitori, i figli — Proudhon, George Sand, Bluntschli — avranno voce in capitolo; sino a tanto che si crederà nei principî e se ne farà argomento di critica, poiché anche la critica più spietata, che abbatte tutti i principi ammessi, pur contrastandoli, li presuppone.

Tutti criticano. E poi che i criteri sono differenti, si dà la caccia al "giusto criterio". Questo giusto criterio è la promessa essenziale. Si procede da una tesi, da una verità, da una credenza. Queste son creazioni non della critica, ma del dogmatismo e della civiltà odierna, e vengono accettate senza esame. Tali "la libertà", l'umanità, ecc. Il dogmatismo, non la critica, ha scoperto l'uomo, e a questa verità oggi anche la critica crede, come in un articolo di fede.

Il segreto della critica è sempre una qualche "verità"; la sua forza è un mistero.

Ma io distinguo la critica servile da quella libera. Se la premessa che io accetto è l'ente supremo, tutta la mia critica non servirà che a quest'ente. Se io, per esempio, sono dominato dalla fede nello "Stato libero", ogni mia indagine avrà per fine di ricercare che cosa convenga a quello "Stato", che io immagino, perché l'amo. Se a principio della mia critica io pongo la religione, io dividerò tutte le cose in divine e in diaboliche, e la natura mi si rivelerà o su la traccia di Dio o su quella del demonio (da ciò derivano anche le denominazioni: Dono di Dio, Monte di Dio, Pulpito del diavolo, ecc.), e gli uomini mi appariranno sotto il solo aspetto della lor fede: credenti o irreligiosi. Se io critico avendo fede nell'uomo, io distinguerò tutti gli uomini in umani e inumani.

La critica è stata fin qui un'opera d'amore poi che noi la esercitammo sempre per amore di qualche essere. Per ciò essa procedette sempre a seconda del precetto del Nuovo Testamento: Esaminate tutte le cose e conservate ciò ch'è buono. Il "buono" è il criterio, la pietra del paragone. Il buono, che si riaffaccia a ogni ora sotto tutti i nomi e in tutte le forme, fu sempre la premessa, il punto fermo dogmatico della critica — l'idea fissa.

Senza esitare — il critico, mettendosi al lavoro, accetta la premessa della "verità", e va in traccia del vero, confidando che sia possibile trovarlo. Vuole scoprire la verità nella quale appunto sta il "bene" cui sopra accennammo.

Premettere significa mettere un pensiero per fondamento agli altri, o pensare una cosa prima d'ogni altra e continuar poi a pensare partendo da quella cosa e facendo di essa norma a tutti gli altri pensieri. In altre parole vuol dire che l'atto del pensare deve incominciar da un pensiero. Certo, se il pensare potesse incominciar davvero, se esso insomma fosse un soggetto, agente per sé stesso, converrebbe ammettere che gli si debba attribuire un principio. Ma la personificazione del pensare è per appunto l'origine degli innumerevoli errori che prevalgono. Il linguaggio del sistema hegeliano presuppone appunto questa personificazione, un' Idea-fantasma. Il liberalismo invece personifica la critica e di essa suol dire: "la critica" o — con diverse parole, la "coscienza individuale" fa questo e quest'altro. Ma la personificazione del pensiero, come quella della critica, importa la premessa dell'esistenza loro. Pensiero e critica dovrebbero essere essi medesimi la premessa della attività loro poiché senza l'essere non v' ha azione. Ma il pensiero, quale premessa, è un' idea fissa, un dogma: pensiero e critica non possono adunque procedere che da un dogma.

E così ritorniamo a ciò di cui parlammo più sopra, siamo cioè costretti ad affermare un'altra volta che il Cristianesimo consiste nell'evoluzione d'un mondo di idee, che esso è, in somma, l'attuazione della "libertà dei pensieri", lo "spirito libero" per eccellenza. La critica che si dà nome di vera e che io chiamo la critica officiosa, non è dunque diversa dalla critica detta libera: al pari di questa appunto, non è proprietà mia esclusiva.

Le cose stanno diversamente, quando ciò che è tuo non viene mutato in entità, ne personificato o rappresentato quale uno "spirito" che abbia propria esistenza. Il tuo pensare non ha per fondamento il pensiero astratto, ma la individualità tua. Con esso dunque tu premetti te stesso. Il mio pensiero presuppone la mia esistenza. Ne segue che esso non è preceduto da un pensiero, e per ciò esiste senza una premessa. Poiché quello che io rappresento pel mio pensiero, non è già una astrazione del pensiero, ma è la facoltà stessa del pensare — che non esiste indipendentemente da chi la possiede.

Questa inversione del concetto comune può a primo aspetto parere un cosi vano artificio verbale che persino coloro, contro i quali essa è rivolta, giudicherebbero inutile il confutarla: se essa non traesse seco molte pratiche conseguenze.

Per compendiarle in poche parole, io affermo che non l'uomo in astratto, ma il singolo, è la misura di tutte le cose. Il critico officioso ha di mira un altro essere, un'idea, cui intende servire quello che si fa per amore di questo essere, di questa idea, non è forse un'opera d'amore? Ma io, quando critico, non ho di mira nemmeno me stesso: bado a divertirmi secondo i miei gusti e cedo, volenteroso, al mutevole capriccio dell'ora.

Anche più chiara parrà la differenza ch'e tra i due concetti quando si rifletta che la critica officiosa, guidata — com'è — dall'amore, crede di servire alla cosa stessa.

Non si vuol rinunziare alla verità assoluta, e si va continuamente in cerca di essa. Ma che altro è, codesta verità se non l' "ente supremo?" Anche la vera critica dovrebbe disperare d'ogni salute quando perdesse la fede nella verità. Eppure la verità non è altro che un'idea, anzi è per eccellenza l'idea inconfutabile, quella che sta al sommo di tutte le altre: è la consacrazione del "pensiero". La verità durerà più a lungo di tutti gli dei; poiché solo per amor suo le divinità furon distrutte e più tardi Dio stesso fu abbattuto. Al crepuscolo degli dei sopravvive la verità, poiché essa è l'anima immortale di quel mondo tramontato: è la divinità stessa.

Io voglio rispondere all'interrogazione di Pilato: "Che cosa è la verità?". La verità è il pensiero libero, l'idea libera, lo spirito libero; la verità è ciò che è libero da te, quello che non appartiene a te, che non è in tuo potere. Ma in pari tempo essa è pur ciò che è assolutamente dipendente, impersonale, irreale e incorporeo; la verità non può agire da sé stessa, come tu agisci, non può — come te — muoversi, mutarsi, svilupparsi; la verità attende e riceve da te ogni cosa e non esiste che in grazia tua; poiché essa non è che nella tua mente. Tu ammetti che la verità sia un'idea, ma non vuol consentire che ogni idea sia vera: tu affermi anzi che non ogni idea è veramente e realmente un' idea. E da che cosa riconosci tu e misuri il valore dell'idea? Dalla tua impotenza, cioè dal non poterla tu padroneggiare. Se essa ti soggioga, se essa ti infiamma e ti trascina seco, tu la tieni per vera. Il dominio ch'essa ha su te ti è norma a giudicare della verità sua; e se l'idea ti possiede tu ti senti a tuo agio — poiché hai trovato il tuo padrone e signore. Quando tu andavi in cerca della verità, a che cosa aspirava il tuo cuore? A crearsi un padrone! Tu non aspiravi al tuo proprio potere: tu volevi innalzare un potente: "innalzate il signore, il nostro Dio!" La verità, mio caro Pilato, è la padrona, e tutti coloro che esaltano la verità cercano ed esaltano un padrone. Dove esiste questo padrone? Dove, se non nella vostra testa? Esso non è che spirito, e dovunque tu credi di mirarlo esso rimane sempre un fantasma. Il signore non è che un'astrazione generata dall'angoscia in cui si torturarono i cristiani per render visibile l' invisibile, corporeo lo spirituale.

Finché tu credi alla verità, non avrai mai fede in te stesso e sarai sempre un servo — un uomo religioso. Tu solo sei la verità, o meglio, tu sei da più che la verità, poi che questa avanti di te non era. Certo anche tu indaghi il vero, e fai delle critiche; ma non ti affanni a perseguire una "verità superiore", e non la poni come fondamento del tuo investigare. Tu ti accingi a pensare, a immaginare, a studiare i fenomeni per il solo fine di rendere tutte le cose accessibili alla tua comprensione sì da poterle fare tue proprie e sommetterle al tuo potere; e tu le giudichi vere quando esse son soggette al tuo dominio e fatte proprietà tua. Se più tardi esse ti sfuggiranno, ciò significherà che non erano vere, e dimostrerà in pari tempo la tua impotenza. Poi che nella tua impotenza è la potenza loro, nella tua umiltà a loro esaltazione. La loro verità sei dunque tu, o è il nulla che tu rappresenti per esse e nel quale esse si dissolvono: la loro verità è la vanità loro.

La verità più non mi angustia quando interamente mi appartiene, quando — cioè — di' essa più non si può dire, come di un'astrazione personificata: "La verità si svolge, domina, si fa strada, trionfa". No, non essa trionfa; essa non è che un mezzo alle mie mani per conseguire la vittoria

come la spada. La Verità non ha esistenza propria: è una lettera, una parola, una materia, che io impiego a mio talento. Ogni verità per sé stessa è una cosa morta; essa non trae la vita che da me, cioè dalla mia forza vitale. Tale è un mio organo. Le verità sono simili alle erbe buone o cattive; il giudicare se un'erba sia buona o cattiva appartiene a me solo.

Per me gli oggetti non sono altro che materiali che io consumo. Dovunque io stenda la mano, io afferro una verità, e la adatto ai miei fini. La verità mi appartiene, io non ho bisogno di desiderarla. Render un servizio alla verità non è mai stato mio proposito: la verità non è che un alimento pel mio cervello che pensa, a quella guisa che la patata è un alimento pel mio stomaco e l'amico pel mio cuore che desidera la compagnia. Sino a tanto che io ho voglia e forza di pensare ogni verità mi serve per usarla a mio talento. Quello che per i cristiani è il mondo, è per me la verità : vanitas canitatum. Essa esiste con lo stesso diritto per cui esistono le altre cose delle quali il cristiano ha pur dimostrata la vanità. Il suo valore essa l'attinge da me. Per ciò essa non ha forza: è una creatura.

La vostra attività ha creato opere innumerevoli; per essa voi avete mutato la figura della terra erigendo in ogni luogo monumenti umani; ebbene, allo stesso modo, voi potrete nel vostro pensiero scoprire verità innumerevoli, e noi ve ne sapremo grado. Solo, siccome io non voglio esser il servo delle vostre macchine, vi aiuterò a metterle in moto non per altro che per mio vantaggio: userò delle vostre verità, ma non mi metterò già al loro servizio.

Tutte le verità che stanno in mio potere mi sono accette, ma una verità, che sia al disopra di me, una verità secondo la quale io debba dirigermi, io non la riconosco. Per me non esiste alcuna verità assoluta, nessuna verità superiore, perché al disopra del mio io non vi è nulla. Neanche la mia essenza, l'essenza dell'uomo è superiore a me, sebbene io non sia che una goccia nell'immenso mare.

Voi ritenete d'aver fatto il più maraviglioso degli sforzi, quando audacemente sostenete, che siccome ogni età ha i suoi veri, così una "verità assoluta" non esista. Ma con ciò voi lasciate ancora ad ogni età il suo vero e create appunto con ciò la verità assoluta la verità che non fa difetto ad alcun tempo, da che ciascuno sente, possiede la sua verità, quale che essa si sia. O invece intendete forse dire che in ogni età si è pensato, si sono avuti dei pensieri che mutarono poi di tempo in tempo? No, dovete dire che ogni tempo ebbe una verità in cui credette come in un articolo di fede; e in fatti non ci fu età nella quale non si sia riconosciuta una qualche "verità superiore", una verità, dinanzi alla quale si credette che gli uomini dovessero inchinarsi. Ogni verità rappresenta l'idea fissa dell'età che l'ha prodotta, e se in corso di tempo una nuova ne sorge, la ragione si è che se ne cercava appunto una nuova. Non si faceva altro che vestir la pazzia di nuove spoglie. Poiché gli uomini volevano — e chi dubiterebbe che non ne avessero il diritto? — esaltarsi per un'idea. Volevano, cioè, esser dominati, posseduti da un'idea. La dominatrice più recente è l'idea della "nostra essenza" ossia dell'uomo. Ogni critica libera ebbe per fondamento un'idea. Ebbene, per la critica egoistica il fondamento è l'Io, l'indefinibile, il reale, non l'immaginario o immaginabile soltanto (solo quello che è immaginato può essere espresso con la parola, perché la parola coincide col pensiero). Il vero è ciò che è mio, il falso è quello che a me non appartiene; vera è, p. es., l'associazione, falsi son lo Stato e la società. La critica "libera e vera" si è travagliata per assicurare la dominazione continua d'un'idea, d'uno spirito: la critica individualistica non pensa in vece che alla soddisfazione dell' Io: e in ciò si accorda — non vogliamo risparmiarle quest'onta — alla critica animale dell'istinto. Per me come per l'animale, si tratta unicamente del mio io e non già della "cosa". Io sono il criterio della verità. Ma io non sono un'idea: sono più che un'idea — sono l'indefinibile.

La mia non è una critica serva d'un' idea; è una mia proprietà.

La critica che ama darsi nome di vera, non cerca nei fenomeni se non quello che all'uomo; al vero uomo, può convenire, la critica individualistica indaga quali siano le cose che convengano all'Io.

La critica cosiddetta libera si occupa d'idee, e perciò è schiava delle teoriche. Essa s'illude bensì di lottare contro i fantasmi, ma dai fantasmi non può astrarre. Le idee, che la occupano, non scompaiono mai interamente ; l'alba del nuovo giorno non ha il potere di cacciarle.

Il critico che appartiene a questa scuola può giungere bensì all'atarassia contro le idee, ma non a liberarsene del tutto. In somma egli non riuscirà mai a vincere il preconcetto, che al disopra dell'uomo in carne ed ossa deve esistere qualche cosa di superiore, vale a dire l'umanità, la libertà, ecc. Egli sarà sempre preoccupato dalla "vocazione" dell'uomo: "dell'umanità". E quest'idea dell'umanità rimarrà sempre inattuabile, appunto perché è un'idea e non potrà esser mai che un'idea.

Se invece io concepisco l'idea quale cosa mia, essa è per ciò solo già attuata dacché la sua realtà è in me: la sua realtà consiste in ciò, che io, il vivente, la posseggo.

Si afferma che nella storia universale si attua l'idea della libertà. Al contrario: quell' idea non diviene realtà se non quando è pensata da un uomo, e in quel grado appunto che esiste quale pensiero individuale. Ciò che si svolge non è già l'Idea per sé, ma l'uomo; o meglio l'evoluzione dell'Idea non è che la conseguenza dell'evoluzione dell'uomo.

Il critico in somma non può dirsi padrone delle idee, finché contro esse combatte come contro nemici; a quel modo che non è padrone delle passioni il cristiano che cerca di vincerle e di soggiogarle.

E cosi la critica non ha saputo sin qui abbattere un'idea che col mezzo d'un'altra; p. es. quella del privilegio con quella dell'umanità, quella dell'egoismo con quella del disinteresse.

Cosicché il Cristianesimo nel suo finire ritorna quale era alle sue origini: avversatore dell'egoismo. Non al singolo — ma alla idea, all'astrazione, esso assegna il primo posto.

Guerra di preti contro l'egoismo, guerra di coloro che pensano religiosamente contro quelli che pensano irreligiosamente; ecco tutto il contenuto della storia cristiana. Nella critica più recente quella guerra abbraccia ogni cosa e il fanatismo diviene universale né può scomparire in altro modo che distrutto dal suo medesimo furore.

Ma a me che importa che ciò ch'io faccio o penso sia cristiano, umano, liberale — o non sia? Purché io ottenga quel che voglio purché trovi in ciò una mia soddisfazione, adottate pure quel nome che meglio vi piace: per me è tutt'uno.

Anch'io forse mi difendo in quest'istante dai pensieri che ho avuto poc'anzi, e anche muto, da un momento all'altro, in un tratto, i miei atti, ma non già perché essi non sian conformi agli insegnamenti del Cristianesimo, o perché contrastino agli eterni diritti umani, o perché cozzino coll'idea della società umana, dell'umanità, dell'umanesimo, sì invece per la ragione che quei pensieri o quegli atti non mi appagano più interamente, perché io dubito della lor convenienza, o perché la mia condotta di poc'anzi più non mi piace.

Siccome il mondo è divenuto un materiale, del quale io dispongo a mio talento, cosi anche lo spirito quale proprietà deve mutarsi in un materiale, dinanzi al quale nessun sacro timore più mi colga. Quind'innanzi io non rabbrividirò più per un'idea, per quanto possa essere ardita o anche "diabolica", poiché se quell'idea comincia a diventarmi importuna sta in mio potere l'annientarla. Ma neppure dinanzi ad alcun atto io mi ritrarrò tremando perché in esso s'asconda uno spirito di empietà, d'immoralità, d'ingiustizia. Forse che San Bonifacio si lasciò trattenere da scrupoli religiosi nell'abbattere la sacra quercia dei pagani? Se tutte le cose del mondo son fatte vane devono divenir tali anche le idee.

Nessun pensiero è sacro, nessun sentimento è sacro (non il sentimento dell'amicizia, non il sentimento materno), nessuna credenza è sacra. Essi sono tutti alienabili come una proprietà mia, e da me possono essere cosi distrutti come creati.

Il cristiano può perdere tutte le cose, tutti gli oggetti, tutte le persone più caramente dilette senza ritener perduto per questo sé stesso, o — nel senso cristiano — il suo spirito, la sua anima. Ebbene, allo stesso modo, chi è veramente signore dei suoi pensieri può respingere da sé tutte le idee che furono care un tempo al suo cuore e infiammarono il suo zelo, e nondimeno riguadagnar mille volte ciò che ha perduto, poiché egli, il loro creatore permane.

Inconsciamente noi tendiamo tutti al dominio. E difficile che non vi sia tra noi chi non abbia dovuto rinunziare a qualche sentimento sacro, a qualche idea sacra, a qualche sacra credenza. Tutta la guerra contro le convinzioni procede dalla opinione che noi abbiamo forza di cacciare il nemico dalle trincee di idee ch'egli ha eretto intorno a sé. Ma ogni cosa che io faccio inconsciamente, non la faccio che a mezzo, sicché dopo ogni vittoria riportata su di una credenza io diverrò un'altra volta il prigioniero (l'ossesso) d'una credenza nuova che mi costringerà al suo servizio. E così dopo che avrò cessato di essere schiavo della Bibbia, diverrò servo della ragione o dell'umanità.

Signore dei miei pensieri, io li ricoprirò, sì del mio scudo, così come difenderò contro tutti le cose che m'appartengono. Ma in pari tempo assisterò indifferente all'esito della pugna, deporrò serenamente il mio scudo sui cadaveri delle mie idee e delle mie credenze abbattute, e avrò un sorriso di trionfo anche nella sconfitta. È questo l'aspetto giocondo della cosa. Esercitar l'ironia contro le piccole miserie umane è facile a ognuno che possegga dei "sentimenti elevati". Ma lasciarle libero corso contro tutte le "grandi idee, i sentimenti sublimi, i nobili entusiasmi e la santa fede" ecco ciò che solo vale a dimostrare ch'io sono ormai il padrone d'ogni cosa.

Se la religione ha posto la tesi che noi siamo tutti peccatori, io le contrapporrò quest'altra: noi tutti siamo perfetti! Poiché a ogni istante noi siamo tutto quello che possiamo essere e non abbiamo in alcun momento il bisogno né il dovere d'esser qualcosa di più. E poiché noi non abbiamo difetti, anche il peccato perde il suo significato. Potrete mostrarmi ancora un solo peccatore quando nessuno avrà più l'obbligo di condursi secondo il volere di qualche cosa o di qualche essere a lui superiore? Ma se io non ho bisogno che di soddisfar me stesso, io non sono più un peccatore, né tale sarò, anche quando io non riesca a soddisfarmi, dacché in nessun caso io avrò offesa una cosa sacra. Se invece voglio essere un uomo pio, dovrò cercar di condurmi a modo di Dio. Quello che per la religione è il "peccatore", per l' umanità è l'egoista.  Ma, diciamolo ancora una volta, se io non ho l'obbligo di condurmi in modo da soddisfare gli altri, l'egoista che per l'umanità rappresenta il diavolo moderno, non diviene un nome senza soggetto? L'egoista, il cui nome fa tremare gli umanitari, è un fantasma così come il diavolo; esso non esiste che nella loro  fantasia e sotto forma d'idea fantastica nel loro cervello. Se essi non

ondeggiassero eternamente incerti tra il bene ed il male — fra l'umanesimo (secondo il loro linguaggio) e l' egoismo — non avrebbero trasformato il vecchio "peccatore" nell' "egoista", e mutato i vecchi cenci in novelli panni. Ma essi non potevano fare diversamente, poiché riguardavano quale loro compito l'essere uomini. Si sono sbarazzati del "buono", ma il "bene" è rimasto!

Noi tutti, senza eccezioni, siamo perfetti : non esiste nella terra un sol uomo che sia peccatore! Ci sono bensì dei pazzi, che s'immaginano d'esser dio-padre o dio-figlio o l' uom della luna, e altri ve n'ha che ritengono di essere peccatori; ma come i primi non sono ciò che credono d'essere, cosi non sono peccatori i secondi. Il loro peccato è immaginario. Ma — mi si obietterà per cogliermi in fallo — in tal caso il lor peccato consisterà almeno nella loro pazzia o nella loro ossessione. No, la loro ossessione è tutto ciò a cui essi potevano pervenire: cosi come la fede nella Bibbia fu per Lutero tutto ciò che egli era capace di trarre da sé stesso. All'uno è serbato il manicomio, all'altro il Panteon o il Walhalla.

Non v'ha peccatore e non v'ha peccato.

Non m'importunare col tuo amore del prossimo! — Penetra pure, o amico dell'uomo, nelle "tane del vizio", soggiorna un tratto in mezzo al rumore di una grande città: non troverai tu forse in ogni luogo peccati senza fine? Non piangerai tu sulla corruzione umana, sull' infinito egoismo? Potrai tu mirare un ricco senza trovarlo spietato ed "egoista"? Sarai tentato di dirti ateo, ma con tutto ciò resterai fedele ai tuoi sentimenti cristiani, e continuerai a credere esser più facile a un cammello passar per la cruna d'un ago che non a un ricco il diventar umano! Tra le persone che appressi, ve n'ha una sola che non debba esser compresa, per una ragione o per un'altra, tra gli egoisti? Che cosa ha dunque ritrovato il tuo amor del prossimo? Unicamente della gente che non puoi amare! E donde proviene quella gente? Da te stesso, dal tuo amore del prossimo! Nella tua testa tu porti impressa l'idea del peccato, e perciò tu l'hai ritrovato in ogni luogo e l'hai voluto scorgere in ogni persona. Non chiamar peccatori gli uomini, ed essi non saranno tali: tu, tu solo, crei i peccati: e tu che credi falsamente d'amare gli uomini, tu li rigetti nel fango del peccato, tu li distingui in viziosi e virtuosi, in umani e disumani; tu, proprio tu, li insudici con la bava della tua ossessione. Poiché tu non ami gli uomini, bensì l'uomo. Ma io ti dico che tu non hai mai veduto un peccatore: l'hai soltanto sognato.

Il godimento di me stesso viene turbato dall'idea che io ho di dover servire ad un altro, di aver degli obblighi verso quest'altro, di esser "chiamato" a sacrificarmi a lui, a dimostrargli abnegazione o entusiasmo. Ebbene, se io non sono più servo di nessuna idea, di nessun "ente supremo", è ovvio che io non sarò più servo di alcun uomo, ma tutt'al più di me stesso. In tal modo però io sono, non soltanto nel fatto, ma anche nella mia coscienza, l'unico.

A te spettano ben maggiori cose che non siano Dio, l'umano, ecc.: a te spetta quello che è tuo.

Se considererai te stesso per più potente degli altri, tu accrescerai la tua forza: se terrai te stesso in maggior conto di quello che gli altri non t'abbiano, tu avrai anche di più.

Allora tu non sarai solamente chiamato alle cose divine, e autorizzato alle umane, ma sarai il padrone di ciò ch'è tuo, vale a dire di tutto ciò che avrai la forza di far tuo. Sarai cioè adatto ad ogni cosa tua.

Mi si volle fin qui attribuire una destinazione posta fuori di me stesso, sicché si finì col pretender da me che io godessi di ciò che è umano per questo solo motivo che io sono uomo. Questo è il circolo magico dei cristiani. Anche l'io di Fichte è la medesima astrazione posta fuori di me, poiché l'io è di tutti, e se quest'io di tutti è il solo che ha dei diritti, esso diventa l'io universale. Ma io non sono un io fra tanti altri: io sono unico! E per ciò anche i miei bisogni, le mie azioni, in breve tutto ciò che è in me, e viene da me è unico. E soltanto sotto questo aspetto di unico io m'approprio ogni cosa a quel modo che solamente come tale io spiego la mia attività e mi svolgo liberamente.

Quest'è il senso dell' unico.


III.

L'Unico.

L'età precristiana e la cristiana perseguono due fini l'uno all'altro contrario; questa vuole idealizzare ciò ch'è reale, quella attuare l'ideale; la seconda va in cerca dello "spirito santo", la prima della "glorificazione del corpo". Per ciò l'una si chiude con l'insensibilità in cospetto al reale, col "disprezzo del mondo", l'altra finirà con l'abbandono dell'ideale, col "disprezzo dello spirito".

Il contrasto tra il reale e l'ideale non potrà mai comporsi; l' uno non potrà mai diventar l'altro; se l'ideale si mutasse nel reale, non sarebbe più l'ideale, e per converso se ciò che è reale si mutasse nell'ideale, il reale più non sarebbe. Il dissidio non potrà esser risolto che il giorno in cui si sopprimerà l'uno e l'altro: l'ideale e il reale. Soltanto allora il contrasto potrà cessare: altrimenti idea e realtà non potranno mai confondersi in una cosa sola. L'idea non può esser attuata in modo da ancor restare un'idea, bensì solo dissolvendosi nella realtà. E la stessa cosa, per converso, si deve dire del reale.

Ora noi vediamo negli antichi i seguaci dell' idea, nei moderni i seguaci della realtà. Cosi quelli come questi non possono liberarsi dal contrasto che li travaglia e anelano sempre a un'altra cosa. Gli uni aspirarono allo spirito — poi, quando fu paga la lor brama, lo spirito parve finalmente esser venuto, ecco che gli altri agognarono subito a dare a quello spirito forma corporea, vanamente struggentisi in un inutile sforzo, in un pio desiderio disperato d'effetto.

Il pio desiderio degli antichi era la santità, il pio desiderio dei moderni è l' incarnazione. Ma nello stesso modo che l'età antica dovette tramontare il giorno che il suo voto fu pago, così e impossibile attuare il concetto che l'età moderna persegue senza uscir dal cerchio del Cristianesimo. Al soffio di purificazione che attraversa il mondo antico, corrisponde l'idea dell'incarnazione che penetra il mondo cristiano: Dio scende in mezzo a questa terra, si fa umana carne per redimerla, cioè per compenetrarla della sua divinità. E siccome Dio è l' "idea" o lo "spirito", cosi (come appunto in Hegel) si finisce a introdurre l'idea da per tutto, e si dimostra che in ogni cosa "é l'idea e, la ragione". E così a quel che gli stoici in altri tempi ci presentarono col nome del "saggio" corrisponde nella civiltà odierna "l' uomo": l'uno e l'altro astrazioni.

Il "saggio irreale" degli stoici è divenuto un "santo" in carne ed ossa per l'incarnazione di Dio. Ebbene, non altrimenti l'uomo, l'io incorporeo, si attuerà veramente nell'io reale: in me stesso.

La questione dell' "esistenza di Dio" affaticò le menti dei cristiani senza tregua, incessantemente ripresa, perché il bisogno della esistenza, delle corporalità, della personalità, della realtà, occupava gli spiriti in penosa angosciosissima indagine senza mai trovare una soluzione soddisfacente. Finalmente la questione dell'esistenza di Dio si sciolse, ma per risorgere nella tesi dell'esistenza del divino (Feuerbach). Ma anche questa tesi non poté reggersi, e ne pur l'ultima credenza nell'attuazione "dell'umano" potrà sostenersi a lungo andare. Nessuna idea ha un'esistenza, poiché nessuna idea è capace d'aver corpo. La controversia del realismo e del nominalismo non ebbe altro oggetto: continuata dal Cristianesimo, non potrà finire con esso.

Il mondo cristiano vuol dare forma alle idee nelle varie condizioni della vita, nelle istituzioni e nelle leggi della Chiesa e dello Stato; ma le idee vi si ribellano, da che è in esse qualche cosa che assolutamente non si può attuare. E uno sforzo continuo verso un fine vanamente perseguito e non mai raggiunto.

Colui che vuole dar corpo alle astrazioni poco si cura delle cose reali, non d'altro desideroso che dell'attuazione delle sue idee; per ciò appunto egli riprende mille volte ad esaminare se in ciò che si avvera di giorno in giorno sia insita realmente 1’idea che deve formare il nocciolo d'ogni cosa, e disperatamente si travaglia nell'indagine se l'idea possa o non possa tradursi nel vero.

La famiglia, lo Stato, non hanno importanza pel cristiano in quanto realtà vera: a quelle cose divine egli non è tenuto, come l'antico, a sacrificarsi: bensì esse devono unicamente servire all'incarnazione dello spirito. La famiglia reale è divenuta indifferente; una famiglia ideale — la sola vera — dovrebbe sorger da quella — una famiglia sacra, benedetta da Dio o, secondo il concetto liberale, "una famiglia secondo ragione". Presso gli antichi la famiglia, lo Stato, la patria, ecc., avevano carattere divino quali cose esistenti; presso i moderni esse non son che destinate a diventar divine — in fatto, per sé, son peccaminose e terrestri, ed hanno bisogno d'esser redente. Il senso di tutto ciò è in somma questo: Ciò che veramente esiste non è la famiglia o lo Stato, ma il divino; che poi quella famiglia compenetrandosi del divino (la sola realtà vera) possa attuarsi, è ciò che continuamente si spera. Cosicché il compito del singolo non è, per costoro, di servire alla famiglia come a cosa sacra, ma invece di servire a ciò ch'è divino e insinuarlo nella famiglia levando su tutto il vessillo dell'idea, e attuando l'idea in ogni cosa.

Ma poiché, sia pel mondo antico, sia pel cristiano, ciò che importa è sempre il divino, così per cammini opposti l'uno e l'altro finiscono a giungere al medesimo punto. Col tramonto del paganesimo il "divino" si è mutato nello "estramondano", ma perché a straniarlo al tutto dal mondo l'antichità non è riuscita, il Cristianesimo si accinge a questo compito; se non che, ecco il "divino" è ripreso dal desiderio della terra e vi anela per redimerla. Ma finché la civiltà cristiana prevale, il "divino" - che è l'anima "del mondo"— non può versarsi al di fuori e diventare il mondo stesso: troppe cose rimangono che sotto il nome di "malvagio", " irragionevoli", "egoistiche", si ribellano ad accoglierlo.

Il Cristianesimo incomincia coll'incarnazione di Dio e in ogni sua opera e in tutti i tempi s'affatica a preparare l'uomo a dar ricetto in sé stesso a Dio; tutto il suo compito si ridusse ad apparecchiare un asilo allo "spirito".

Se alla fine si affermò in modo più speciale il concetto dell'uomo e dell'umanità, ciò si è fatto per proclamare nuovamente l'idea: "L'uomo non muore!". Si credette così che l'attuazione di questa idea fosse finalmente trovata: l'uomo è l'io della storia, della storia universale: egli, questo essere ideale, intende a incarnarsi. Egli è il vero "reale", poiché il suo corpo è la storia, e di questo corpo i singoli sono i membri. Cristo rappresenta l'io della storia universale; se nel concetto moderno l'io è l'uomo, ciò avviene perché l'immagine del Cristo s'è trasformata in quella dell'uomo per eccellenza. Nell'uomo si riaffaccia l'origine mistica; poiché l'uomo è un essere immaginario al pari del Cristo. L'uomo — quale io — chiude nella storia il ciclo delle concezioni cristiane.

Il Cristianesimo vedrebbe infranto il suo magico cerchio se cessasse il contrasto tra l'essere e l'ideale, vale a dire, tra l’io, qual'è, e l'io, quale dovrebbe essere; poiché esso sussiste oggidì ancora non altrimenti che quale aspirazione ad incarnare l'idea, ed è destinato a perire il giorno che quel dissidio sarà composto. L'idea incarnata, lo spirito fatto carne o "perfetto", sta dinanzi agli occhi dei cristiani come la "fine dei giorni", come la "metà della storia": immaginazione d'un futuro; non realtà del presente.

Al singolo non altro compito si riconosce fuorché quello di partecipare alla fondazione del regno dei cieli, cioè — con parole moderne — all'evoluzione e alla storia dell'umanità; e solo nella misura ch'egli vi partecipa gli si riconosce un valore cristiano, o, nel senso moderno, umano: tutto il resto è polvere e fango.

Ma che il singolo sia per sé solo una storia del mondo e che il rimanente della storia universale sia cosa sua, è concetto che oltrepassa l'idea cristiana. Pel cristiano la storia rappresenta qualche cosa di superiore all'individuo, perché essa è la storia di Cristo, ossia dell'uomo per eccellenza; per l'egoista invece non ha valore che la storia propria, poiché egli non intende a svolgere l'idea dell'umanità, non i progetti divini, non le intenzioni della provvidenza, non la libertà, non l'individualità sua. Egli non vede in sé stesso uno strumento dell'idea, un vaso divino; egli non riconosce a sé prefissa alcuna missione; egli non ritiene d'esistere per contribuire allo sviluppo della società umana; egli vive per sé senza curarsi se ciò per l'umanità sia un bene o un male.

Se non temessi di esser frainteso, facendo credere altrui che io intenda lodare lo stato di natura, vorrei ricordare qui la poesia del Lenau, "I tre zingari" — O che sono io forse al mondo per attuare delle idee? Per contribuire col sacrificio del mio io a incarnare il concetto dello "Stato", o a dar corpo all'idea della famiglia ammogliandomi e procreando dei figli? Che importa a me di tale missione? Io vivo tanto poco per una vocazione, quanto il fiore per il profumo.

L'ideale dell'uomo non si attuerà se non quando si sarà invertita la tesi del concetto cristiano. Io, — l'Unico — sono l'uomo. La questione "che cosa è l'uomo"? Si muta cosi nella questione "chi è l'uomo?" Nel "che cosa" si cercava il concetto; nel "chi" la questione è senz'altro risolta, poiché la risposta è data da quello stesso che interroga. La risposta a quella domanda viene da sé.

Si dice a proposito di Dio: "Non v' ha nome che valga a definirti". La stessa cosa è dell'Io; nessun concetto può esprimerlo, nessuna parola definirlo adeguatamente. E si dice ancora di Dio, ch'egli è perfetto e che perciò non gli incombe alcuna missione di intendere alla perfezione. Ebbene, la stessa cosa si deve pur dire dell'Io.

Padrone della mia forza sono io, nel momento in cui acquisto consapevolezza d'essere unico. Nell'unico il possessore si dissolve nel nulla creatore, dal quale è nato. Qualunque essere superiore a me, sia esso Dio o l'uomo, impallidisce al sole di questa mia coscienza d'esser l'Unico. Se in me stesso nell' "Unico", io faccio convergere la mia causa, essa diventa proprietà del singolo da cui tutto si crea e che ogni cosa e sé stesso consuma; ed io potrò dire veracemente:

Io ho riposto la mia causa nel nulla.