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     Arthur Schopenhauer
     Il mondo come volontà
 e rappresentazione
    Tomo II
    
    Indice generale
    
    LIBRO TERZO
    
    
IL MONDO COME RAPPRESENTAZIONE    
    
    SECONDA CONSIDERAZIONE
    
    La rappresentazione, indipendente dal principio di ragione: l'idea
    platonica: l'oggetto dell'arte.    
    
    LIBRO QUARTO
    
    IL MONDO COME VOLONTÀ    
    
    SECONDA CONSIDERAZIONE
    
    
Affermazione e negazione della volontà di vivere, dopo raggiunta la
    conoscenza di sé.    
    
     Tomo secondo
    
    LIBRO TERZO
    
    IL MONDO COME RAPPRESENTAZIONE
    
    SECONDA CONSIDERAZIONE
    
    
La rappresentazione, indipendente dal principio di ragione: l'idea
    platonica: l'oggetto dell'arte.
    
    Τί τὸ ὂν μὲν ἀεὶ, γένεσιν δὲ οὐκ ἔχον; χαὶ τί τὸ γιγνύμενον
    μὲν χαὶ ἀπολλύμενον, ὄντως δὲ οὐδέπυτε ὄν;
    ΠΛΔΤΩΝ
    
    § 30.
    Dopo aver nel primo libro considerato il mondo come pura
    rappresentazione, come oggetto per un soggetto, nel secondo libro
    l'abbiamo guardato dall'altra sua faccia, trovando che questa è
    volontà, e risultò che il mondo, oltre all'esser rappresentazione,
    non è altro che volontà. In virtù di tale conoscenza, il mondo come
    rappresentazione l’abbiam definito, sia nel complesso che nelle sue
    parti, oggettità della volontà: ciò che viene quindi a significare
    la volontà fatta oggetto, ossia rappresentazione. Ricordiamoci
    inoltre che codesta oggettivazione della volontà aveva molti gradi,
    ma determinati: attraverso i quali, con chiarezza e compiutezza di
    grado in grado più alta, veniva l'essenza della volontà ad entrar
    nella rappresentazione, ossia a presentarsi come oggetto. In codesti
    gradi abbiamo già nel secondo libro riconosciuto le idee di Platone,
    in quanto essi gradi sono appunto le specie determinate, o le
    originarie, immutabili forme e proprietà di tutti i corpi naturali,
    sia inorganici che organici; come anche sono le forze universali
    manifestantisi secondo leggi di natura. Tali idee in complesso si
    presentano adunque in individui e fenomeni singoli innumerevoli,
    stando di fronte ad essi come modelli di fronte alle copie. La
    molteplicità di codesti individui può esser rappresentata solo
    mediante tempo e spazio; il loro nascere e perire solo mediante
    causalità: nelle quali forme tutte noi non vediamo se non differenti
    modi del principio di ragione, che è il principio ultimo di ogni
    cosa finita, di ogni individuazione, nonché la general forma della
    rappresentazione, com'essa penetra nella conoscenza dell'individuo
    in quanto individuo. L'idea invece non rientra in quel principio:
    non le tocca quindi né molteplicità né mutamento. Mentre
    gl'individui, nei quali ella si presenta, sono innumerevoli, e
    nascono e muoiono senza posa, ella resta immutata, sempre una ed
    identica, né il principio di ragione ha valore per lei. Ma poi che
    questo è la forma, a cui va sottomessa tutta la conoscenza del
    soggetto, in quanto esso conosce come individuo, vengono anche le
    idee a trovarsi affatto fuori della sfera di conoscenza
    dell'individuo in quanto individuo. Se quindi si vuol che le idee
    diventino oggetto della conoscenza, questo può accadere solo col
    sopprimere l'individualità nel soggetto conoscente. Più precisi ed
    ampii chiarimenti di ciò saranno materia della trattazione che
    segue.
    
    § 31.
    
    Ma, prima di tutto, ancora una considerazione essenziale. Spero mi
    sia riuscito nel libro precedente di generare la persuasione che la
    cosa in sé della filosofia kantiana – la quale vi si presenta come
    una dottrina di gran peso, ma oscura e paradossale, sì che,
    soprattutto per il modo con cui Kant l'introduce, ossia mediante la
    deduzione dal causato alla causa, apparve come una pietra
    d'inciampo, anzi come il lato debole della sua filosofia – non è
    altro che la volontà, quando a tal riconoscimento si pervenga per la
    via affatto diversa da noi seguita; volontà, nella sfera di questo
    concetto allargata e precisata al modo suesposto. Spero inoltre che,
    in virtù di quanto ho detto, non si troverà ostacolo a riconoscere
    nei determinati gradi dell'oggettivazione di quella volontà,
    costituente l'in-sé del mondo, ciò che Platone chiamava le idee
    eterne, ossia le forme immutabili (ειδη), le quali, riconosciute
    come il primo ma anche come il più oscuro e paradossale dogma della
    sua dottrina, sono state per una serie di secoli oggetto di
    meditazione, di contesa, di beffa e di venerazione da parte di tanti
    cervelli così vanamente intonati.
    
    Se adunque per noi la volontà è la cosa in sé, e l'idea è invece la
    diretta oggettità di quella volontà in un grado determinato, veniamo
    a trovare che la cosa in sé di Kant e l'idea di Platone, la quale
    per lui è l'unico οντως ον – questi due grandi oscuri paradossi dei
    due maggiori filosofi dell'Occidente –, pur non essendo del tutto
    identici, sono nondimeno strettamente affini, e distinti per una
    sola determinazione. I due grandi paradossi sono addirittura –
    appunto pel fatto di suonar in modo tanto diverso, malgrado la loro
    intima concordanza e parentela, a causa della straordinaria
    differenza tra le individualità dei loro autori – il miglior
    commento reciproco l'uno dell'altro, rassomigliando a due strade
    affatto diverse, che pur conducono ad una mèta. Questo si può
    chiarire con poco. Kant dice, nella sostanza, quanto segue: «Tempo,
    spazio e causalità non sono determinazioni della cosa in sé; bensì
    appartengono solamente al suo fenomeno, non altro essendo se non
    forme della nostra conoscenza. Ma poiché ogni pluralità ed ogni
    principio e fine è possibile sol mediante tempo, spazio e causalità,
    ne deriva che anche pluralità, principio e fine si riferiscono
    esclusivamente al fenomeno, e non mai alla cosa in sé. Ed essendo la
    nostra conoscenza sotto condizione di quelle forme, ne viene che
    l'esperienza tutta intera è semplice conoscimento del fenomeno, e
    non della cosa in sé: quindi non possono le sue leggi aver valore
    per la cosa in sé. Ciò s'estende perfino al nostro proprio io, che
    noi conosciamo soltanto come fenomeno, e non quale può essere in se
    stesso». Questo è, sotto l'importante rispetto qui preso a
    esaminare, il significato e il contenuto della dottrina kantiana.
    Platone invece dice: «Le cose di questo mondo, che i nostri sensi
    percepiscono, non hanno nessuna vera consistenza: esse divengono
    sempre, ma non sono mai: hanno un'esistenza appena relativa,
    esistono soltanto nel loro reciproco rapporto e per il loro
    reciproco rapporto: tutto il loro essere può così chiamarsi con
    egual ragione un non-essere. Non sono quindi neppure oggetto di una
    vera e propria conoscenza (επιστημη); potendosi aver conoscenza solo
    di ciò che esiste in sé e per sé; e sempre nello stesso modo: mentre
    esse non sono se non l'oggetto di un'opinione provocata per mezzo di
    sensazione (δοξα μετ' αισθησεως αλογου). Fin quando restiamo
    vincolati alla loro percezione, rassomigliando a uomini i quali
    stiano in una oscura caverna, così strettamente legati da non poter
    nemmeno volgere il capo; i quali null'altro vedano, alla luce di un
    fuoco acceso dietro di loro, se non le ombre, riflesse sulla parete
    di contro, di oggetti reali fatti passare tra loro medesimi ed il
    fuoco; ed anche di se stesso o dei compagni ciascuno veda soltanto
    l'ombra su quella parete. Tutta la loro sapienza starebbe nel
    predire l'ordine di successione, appreso per esperienza, di quelle
    ombre. Ciò che invece può esser chiamato un vero essere (οντως ον),
    perché sempre è ma non mai comincia né finisce, sono le cause reali
    di quelle ombre: sono le eterne idee, le forme prime di tutte le
    cose. Quelle non hanno pluralità: perché ciascuna è, per essenza,
    unica; essendo ella il prototipo, del quale sono riproduzioni oppure
    ombre tutte le omonime, singole, periture cose. Né tocca loro un
    principio o una fine; poi che esse veramente sono, e non cominciano
    e non finiscono come i loro evanescenti riflessi. (In entrambe
    queste determinazioni negative è di necessità sottintesa la
    premessa, che tempo spazio e causalità non abbiano per le idee
    significato né valore, e che le idee non stiano entro cotali forme).
    Delle idee soltanto si ha quindi vera e propria conoscenza, potendo
    di questa essere oggetto solo ciò che perennemente e sotto ogni
    aspetto (quindi in sé) è; non ciò che ora è, ora non è, secondo il
    punto da cui lo si considera». Questa è la dottrina di Platone.
    Risulta evidente, e non richiede ulteriore spiegazione, che l'intimo
    senso delle due dottrine è identico; che l'una e l'altra tiene il
    mondo visibile per un'apparenza, la quale è in sé nulla, ed acquista
    significato e realtà riflessa solo da ciò che in lei si esprime (per
    Kant la cosa in: sé, per Platone l'idea). Ed a questa unica verace
    essenza sono affatto estranee, secondo entrambe le dottrine, tutte
    le forme dei fenomeni, anche le più universali e sostanziali. Per
    negare codeste forme, Kant le ha direttamente assunte in espressioni
    astratte: e, senz'altro, tempo spazio e causalità ha riconosciuto
    non appartenenti alla cosa in sé, quali semplici forme dei fenomeni:
    Platone invece non è pervenuto fino all'ultima espressione, e le sue
    idee ha solo in modo indiretto mostrate prive di quelle forme,
    negando loro ciò che unicamente per mezzo delle forme stesse diventa
    possibile, ossia pluralità dell'identico, nascita e morte. Ma per
    abbondare voglio ancora rendere evidente con un esempio quella
    singolare e importante concordanza. Stia davanti a noi un animale,
    in piena attività di vita. Platone dirà: «Questo animale non ha
    alcuna esistenza effettiva, bensì solo apparente: un perpetuo
    divenire, una esistenza relativa, la quale può esser chiamata tanto
    un non-essere, quanto un essere. Effettiva esistenza ha soltanto
    l'idea, che in quell'animale si riproduce, ossia l'animale in se
    stesso (αυτο το θηριον), il quale da nulla dipendente esiste solo in
    sé e per sé (θαθ' ἑαυτο, αει ὡς αυτως), non è nato, non morirà,
    sempre ad un modo sarà (αει ον, χαὶ μηδεποτε ουγε απολλυμενον). Fin
    quando adunque riconosciamo in questo animale la sua idea, è affatto
    indifferente e senza importanza, se noi abbiamo davanti questo
    animale d'adesso o un suo progenitore vissuto or sono mille anni; e
    così se esso sia qui o in una terra lontana; e se si mostri in
    questa o quella maniera, posizione o azione; e se infine sia esso o
    qualunque altro individuo della sua specie: tutto ciò non ha peso, e
    riguarda il solo fenomeno, mentre l'idea dell'animale unicamente ha
    effettiva esistenza ed è oggetto di verace conoscimento». Così
    Platone. Kant dirà su per giù: «Questo animale è un fenomeno nel
    tempo, nello spazio e nella causalità, che sono tutte condizioni a
    priori dell'esperienza possibile giacenti nella nostra facoltà
    conoscitiva, non già determinazioni della cosa in sé. Perciò
    quest'animale, sì come noi lo vediamo in un tempo determinato, in un
    dato luogo, quale individuo formatosi nella connessione
    dell'esperienza, ossia nella catena di causa ed effetto, e
    necessariamente perituro, non è punto cosa in sé, ma soltanto un
    fenomeno che non vige se non in modo relativo alla nostra
    conoscenza. Per conoscer ciò che l'animale può essere in se
    medesimo, e quindi indipendentemente da tutte le determinazioni
    riferentisi al tempo, allo spazio e alla causalità, si richiederebbe
    un modo di conoscenza diverso da quell'unico a noi reso possibile
    dai sensi e dall'intelletto».
    
    Per avvicinare ancor più la formula kantiana alla platonica, si
    potrebbe anche dire: tempo, spazio e causalità sono quella
    disposizione del nostro intelletto, in grazia della quale l'unico
    essere di ogni specie che effettivamente esiste ci si presenta come
    una pluralità di individui della specie medesima, sempre da capo
    nascenti e morienti, in successione infinita. La percezione delle
    cose per mezzo e in conformità della suddetta disposizione è
    l'immanente; mentre quella, che si rende consapevole del come sta
    veramente la cosa, è la trascendentale. Questa la si riceve in
    abstracto mediante la critica della ragion pura: ma in via
    d'eccezione può anche stabilirsi intuitivamente. Quest'ultima
    affermazione è una mia aggiunta, che per l'appunto mi occupo di
    spiegare nel presente terzo libro.
    
    Se si fosse mai davvero intesa e afferrata la dottrina di Kant, e,
    da Kant in qua, capito Platone; se si avesse con fedeltà e serietà
    meditato l'intimo senso e contenuto delle dottrine di questi due
    grandi maestri, invece di far sproloqui coi termini tecnici dell'uno
    e parodiare lo stile dell'altro, non si sarebbe potuto mancar di
    scoprire da gran tempo quanto concordino i due grandi sapienti, e
    come il significato puro, l'indirizzo ultimo delle due dottrine sia
    proprio il medesimo. E così non pure non si sarebbe ostinatamente
    confrontato Platone con Leibniz, col quale il suo genio non
    s'accorda in nessun modo, e tanto meno con un noto signore ancor
    vivente1, quasi per dileggiare i Mani del grande pensatore antico;
    ma sotto ogni rispetto saremmo assai più progrediti di quanto siamo,
    o piuttosto non saremmo così ignominiosamente retrocessi, come è
    accaduto in questi ultimi quarant'anni; non ci si sarebbe lasciati
    tirar pel naso oggi da un ciarlatano, domani da un altro, né questo
    secolo XIX, annunziantesi così significante, avremmo inaugurato in
    Germania con filosofiche farse recitate sulla tomba di Kant (come
    talora gli antichi ai funerali dei loro), fra il giusto dileggio
    d'altre nazioni – perché ai gravi e perfino rigidi tedeschi scherzi
    siffatti si convengono meno che a ogni altro. Ma così ristretto è il
    vero e proprio pubblico degno dei filosofi genuini, che perfino i
    discepoli atti a comprenderli sono loro parcamente condotti dai
    secoli.
    
    Εισι δη ναρθηκοφοροι μεν πολλοι, Βακχοι δε γε παυροι. (Thyrsigeri
    quidem multi, Bacchi vero pauci). Ἡ ατιμια φιλοσοφια̣ δια ταυτα
    προσπεπτωκεν, ότι ον κατ’ αξιαν αυτης άπτονται’ ου γαρ νοθους, εδει
    άπτεσθαι, αλλα γνησιους. (Eam ob rem philosophia in infamiam
    incidit, quod non pro dignitate ipsa attingunt: neque enim a
    spuriis, sed a legitimis erat attractanda). Plat.
    
    Si andò dietro alle parole, alle parole: «rappresentazioni a priori,
    indipendentemente dall'esperienza consapute forme dell'intuire e del
    pensare, concetti primi del puro intelletto», etc. – e ci si chiese
    poi se le idee di Platone, le quali anche vogliono essere concetti
    originarii e per di più ricordi di un'intuizione delle cose davvero
    reali, anteriore alla vita, non forse coincidessero con le forme
    kantiane dell'intuire e del pensare, le quali stanno a priori nella
    nostra conscienza. Queste due affatto eterogenee dottrine – la
    dottrina kantiana delle forme, che limitano al fenomeno la
    conoscenza individuale, e la dottrina platonica delle idee, la cui
    conoscenza per l'appunto nega espressamente quelle forme – queste
    dottrine sotto un tal rispetto diametralmente opposte si
    confrontarono attentamente, perché esse nelle loro espressioni un
    poco vengono a rassomigliarsi. E si tenne consiglio, e ci si
    accapigliò sulla loro coincidenza, e si trovò alla fine, che non
    erano la stessa cosa; e si concluse, che la teoria platonica delle
    idee e la critica kantiana della ragione non avessero nessun punto
    di contatto2. Ma basti di ciò.
    
    § 32.
    
    Per le considerazioni fatte finora, malgrado tutto l'intimo accordo
    fra Kant e Platone, e l'identità della mèta che ad essi traluceva, o
    della concezione del mondo la quale li mosse e guidò al filosofare,
    non sono tuttavia identiche per noi l'idea e la cosa in sé;
    piuttosto è per noi l'idea solo immediata e quindi adeguata
    oggettità della cosa in sé, la quale ultima è tuttavia la volontà;
    la volontà, in quanto non è ancora oggettivata, non ancora è
    divenuta rappresentazione. Imperocché la cosa in sé deve, appunto
    secondo Kant, esser sciolta da tutte le forme inerenti al conoscere
    in quanto tale: ed è soltanto (come sarà mostrato nell'appendice) un
    errore di Kant il non aver noverato tra codeste forme, primo di
    tutte, l'essere-oggetto-per-un-soggetto, essendo proprio questa la
    prima e più universal forma d'ogni fenomeno, ossia rappresentazione.
    Alla sua cosa in sé avrebbe egli dunque dovuto espressamente toglier
    la qualità d'essere oggetto; ciò che l'avrebbe salvato da quella
    grande, subito scoperta inconseguenza. L'idea platonica invece è per
    necessità oggetto, un che di conosciuto, una rappresentazione: e
    appunto perciò, ma anche solo perciò, distinto dalla cosa in sé.
    Ella ha semplicemente deposto le subordinate forme del fenomeno, le
    quali tutte noi comprendiamo sotto il principio di ragione, o meglio
    non ancora è in quelle penetrata; ma la prima e più universal forma
    ha ella mantenuto, ossia quella di rappresentazione, d'essere
    oggetto per un soggetto. Sono le forme a questa subordinate, che
    moltiplicano le idee in singoli ed effimeri individui, de' quali il
    numero è affatto indifferente rispetto all'idea. Il principio di
    ragione è adunque ancora la forma in cui s'adagia l'idea, entrando
    nella conoscenza del soggetto in quanto individuo. Il singolo
    oggetto manifestantesi in conformità del principio di ragione è
    quindi soltanto una mediata oggettivazione della cosa in sé (che è
    la volontà), tra la qual cosa in sé ed esso oggetto sta ancora
    l'idea come unica immediata oggettità della volontà, non avendo ella
    preso alcun'altra forma propria del conoscere in quanto tale, se non
    quella generica della rappresentazione, ossia dell'essere oggetto
    per un soggetto. Quindi ella sola è anche l'adeguata oggettità della
    volontà o cosa in sé, anzi è proprio la cosa in sé, ma soltanto in
    forma di rappresentazione: e qui sta la base della grande
    concordanza tra Platone e Kant – per quanto, a tutto rigore, la cosa
    di cui parlano non sia la medesima. I singoli oggetti invece non son
    punto oggettità adeguata della volontà; bensì questa vi è già
    intorbidata da quelle forme di cui è espressione comune il principio
    di ragione, e che sono condizione della conoscenza nel modo in cui
    questa è possibile all'individuo come tale. Noi invero, se è lecito
    trarre deduzione da una possibile premessa, non conosceremmo più né
    singoli oggetti, né casi, né mutamenti, né pluralità; ma solamente
    idee, solamente i gradi nella scala dell'oggettivazione di quell'una
    volontà della verace cosa in sé coglieremmo in pura, non disturbata
    conoscenza, e sarebbe quindi il nostro mondo un Nunc stans; se come
    soggetti del conoscere non fossimo in pari tempo individui, ossia se
    la nostra intuizione non avesse per intermediario un corpo, dalle
    cui affezioni ella muove, ed il quale è anch'esso soltanto volontà
    concreta, oggettità della volontà, ossia oggetto tra oggetti; e come
    tale, può entrare nella conscienza conoscente solo nelle forme del
    principio di ragione, sì che già presuppone e quindi introduce il
    tempo con tutte le altre forme che quel principio esprime. Il tempo
    è semplicemente l'immagine divisa e spezzettata, che un essere
    individuo ha delle idee, le quali stanno fuori del tempo, e sono
    quindi eterne: perciò dice Platone essere il tempo una mossa
    immagine dell'eternità: αιωνος εικων κινητη ὁ χρονος3
    
    § 33.
    
    Poiché noi adunque come individui non abbiamo conoscenza se non
    sottomessa al principio di ragione, e questa forma esclude la
    conoscenza delle idee, certo è che quando sia a noi possibile
    sollevarci dalla conoscenza delle singole cose a quella delle idee,
    ciò può aversi solo accadendo nel soggetto una mutazione
    corrispondente ed analoga a quel gran cambiamento nel modo d'essere
    dell'oggetto; per la quale il soggetto, in quanto conosce un'idea,
    non è più individuo.
    
    Ci sovviene dal precedente libro, che il conoscere in genere
    appartiene esso medesimo alla oggettivazione della volontà nel suo
    grado più alto; e la sensibilità, i nervi, il cervello non sono
    appunto, come altre parti dell'essere organico, se non espressione
    della volontà in questo grado della sua oggettità. Quindi la
    rappresentazione sorta per loro mezzo è anch'essa parimenti
    destinata al servizio di quella, come un mezzo (μηκανη) pel
    conseguimento dei suoi fini fattisi complicati (πολυτελεστερα), per
    la conservazione di un essere avente molteplici bisogni. In origine
    adunque e per natura è la conoscenza in tutto al servizio della
    volontà; e come l'oggetto immediato, che diviene suo punto di
    partenza mediante l'applicazione della legge di causalità, non è se
    non volontà oggettivata, così rimane anche ogni conoscenza informata
    al principio di ragione in un più stretto o più largo rapporto con
    la volontà. Imperocché l'individuo trova che il suo corpo è un
    oggetto fra oggetti, coi quali tutti il corpo stesso ha svariate
    relazioni e riferimenti, secondo il principio di ragione; sì che la
    considerazione di quegli oggetti riconduce pur sempre, in via
    diretta o indiretta, al proprio corpo, ossia alla propria volontà.
    Essendo il principio di ragione quello che pone gli oggetti in
    codesto rapporto con il corpo e quindi con la volontà, deve la
    conoscenza che alla volontà è serva essere perciò rivolta unicamente
    a conoscer degli oggetti appunto i rapporti stabiliti secondo il
    principio di ragione, ossia a tener dietro alle loro svariate
    relazioni nello spazio, nel tempo e nella causalità. Poiché solo in
    virtù di queste è l'oggetto interessante per l'individuo, ossia ha
    un rapporto con la volontà. Per conseguenza non altro conosce
    veramente degli oggetti la conoscenza che sta al servizio della
    volontà, se non le relazioni loro; e gli oggetti solo in tanto
    conosce, in quanto essi esistono in un tempo, in un luogo, in date
    circostanze, in virtù di date cause, con dati effetti – esistono, in
    una parola, come singoli oggetti. E se fossero tolte via tutte
    codeste relazioni, svanirebbero insieme per la conoscenza anche gli
    oggetti, appunto perché questa non conosceva in quelli null'altro.
    Neppure dobbiamo dissimularci, che quanto considerano le scienze
    negli oggetti non è sostanzialmente altro se non quel che sopra è
    detto: cioè le loro relazioni, i rapporti del tempo, dello spazio,
    le cause dei mutamenti naturali, il confronto delle forme, i motivi
    dei fatti – ossia semplici relazioni. Ciò che le scienze distingue
    dalla comune conoscenza è soltanto la lor forma, il carattere
    sistematico, l'alleviamento del conoscere raggiunto col ridurre ogni
    caso singolo all'universale, mediante la subordinazione dei
    concetti, e ottenendo così la piena compiutezza. Ogni relazione ha
    pur essa un'esistenza solamente relativa: per esempio ogni essere
    nel tempo è anche un non-essere, perché il tempo per l'appunto non è
    se non ciò, per cui mezzo possono a un medesimo oggetto toccare
    determinazioni opposte. Quindi ogni fenomeno nel tempo è e non è:
    poiché ciò che separa il suo principio dalla sua fine non è se non
    tempo, ossia alcunché di evanescente, inconsistente e relativo,
    chiamato in questo caso durata. Eppure il tempo è la più general
    forma di tutti gli oggetti della conoscenza posta al servizio della
    volontà, ed il prototipo delle rimanenti forme di quella.
    
    Ora, di regola al servizio della volontà rimane la conoscenza
    sottomessa ognora, come già per tal servizio ebbe principio; anzi è
    dalla volontà germinata, come la testa si svolge dal tronco. Presso
    gli animali codesta sommissione della conoscenza alla volontà non
    può mai venir meno. Negli uomini può mancare solo in via
    d'eccezione, come tosto vedremo. Tale differenza tra uomo e bruto
    viene manifestata esteriormente con la differenza della relazione
    che in loro passa tra il capo ed il tronco. Negli animali inferiori
    sono capo e tronco ancora del tutto confusi; in ognuno è il capo
    rivolto a terra, dove stanno gli oggetti della sua volontà: ed ancor
    negli animali superiori sono capo e tronco assai più riuniti che
    nell'uomo, il cui capo appare libero al sommo del tronco, solo da
    esso portato, non ad esso servendo. Questo umano privilegio presenta
    nel massimo grado l'Apollo del Belvedere: il lungiattornomirante
    capo del Dio delle Muse poggia così libero sulle spalle, da apparire
    in tutto disciolto dal corpo, non più soggetto alle cure corporali.
    
    § 34.
    
    Il passaggio dalla volgar conoscenza di singoli oggetti alla
    conoscenza dell'idea – possibile, come ho detto, ma da considerarsi
    soltanto quale eccezione – avviene d'un subito, pel fatto che la
    conoscenza si scioglie dal servigio della volontà, e appunto perciò
    il soggetto cessa di essere semplicemente individuale, diventando
    soggetto puro della conoscenza, privo di volontà. E questo non tiene
    più dietro alle relazioni, secondo il principio di ragione, bensì
    posa in ferma contemplazione dell'oggetto offertogli, e in questa
    s'immerge.
    
    Ciò richiede di necessità, per esser chiaro, un'ampia spiegazione. A
    quanto essa avrà di singolare non si badi per ora, finché codesta
    apparente stranezza non venga a dissiparsi da sé, quando sia stato
    afferrato nel suo complesso il pensiero che quest'opera vuole
    comunicare.
    
    Se, sollevati dalla potenza dello spirito, abbandoniamo la maniera
    usuale di considerar le cose e cessiamo di ricercare secondo gli
    aspetti del principio di ragione le reciproche relazioni loro, di
    cui è ultimo termine sempre la relazione con la nostra volontà; se
    quindi non più si considera il dove, il quando, la causa e la
    finalità delle cose, ma unicamente ciò che elle sono; se non
    lasciamo che il pensare astratto, i concetti della ragione
    s'impadroniscano della conscienza, bensì viceversa tutta la forza
    dello spirito nostro diamo all'intuizione, in questa ci
    sprofondiamo, e la conscienza intera lasciamo riempire dalla
    tranquilla contemplazione dell'oggetto naturale che ci sta innanzi,
    sia esso un paesaggio, un albero, una roccia, un edifizio o quel che
    si voglia; allor che – secondo un'espressiva locuzione tedesca – ci
    si perde appieno in quell'oggetto, ossia si dimentica il proprio
    individuo, la propria volontà, e si rimane nient'altro che soggetto
    puro, chiaro specchio dell'oggetto, come se l'oggetto solo
    esistesse, senza che alcuno fosse là a percepirlo, né più è
    possibile separare colui che intuisce dall'intuizione stessa, poiché
    sono diventati tutt'uno, essendo l'intera conscienza riempita e
    presa da una sola immagine d'intuizione; se adunque in siffatto modo
    l'oggetto s'è disciolto da ogni relazione con altri oggetti fuor di
    se stesso, e il soggetto s'è disciolto da ogni relazione con la
    volontà – allora quel che viene così conosciuto non è più la singola
    cosa come tale, ma è l'idea, l'eterna forma, la diretta oggettità
    della volontà in quel grado. E perciò appunto non è più individuo
    quegli che è assorto in tale intuizione, imperocché proprio
    l'individualità vi s'è perduta. Egli è invece puro soggetto della
    conoscenza, fuori della volontà, del dolore, del tempo.
    Quest'affermazione, ora così ostica (della quale io molto bene so,
    che conferma il detto di Thomas Paine, du sublime au ridicule il n'y
    a qu'un pas), apparirà nel seguito di mano in mano più chiara e meno
    stupefacente. Era la stessa verità che balenava a Spinoza quando
    scrisse: mens aeterna est, quatenus res sub aeternitatis specie
    concipit (Eth., V, prop. 31, schol.)4 In siffatta contemplazione
    accade insieme d'un tratto, che il singolo oggetto diventi idea
    della propria specie; e l'individuo intuente si faccia puro soggetto
    del conoscere. L'individuo come tale conosce solo oggetti singoli;
    il puro soggetto del conoscere, solo idee. Imperocché l'individuo è
    il soggetto del conoscere nella sua relazione con un determinato,
    singolo fenomeno della volontà, ed in servizio di esso. Codesto
    singolo fenomeno della volontà è, in quanto tale, sottomesso al
    principio di ragione in tutte le sue forme; ogni conoscenza
    riferentevisi segue perciò anch'essa il principio di ragione, e ai
    fini della volontà nessuna conoscenza vale se non questa, che per
    oggetto ha sempre e solamente relazioni. L'individuo conoscente,
    come tale, e la singola cosa da lui conosciuta sono sempre in
    qualche luogo, in un dato tempo; sono anelli nella catena delle
    cause e degli effetti. Il puro soggetto della conoscenza ed il suo
    correlato – l'idea – sono usciti fuori da tutte quelle forme del
    principio di ragione: il tempo, il luogo, l'individuo che conosce e
    l'individuo che viene conosciuto non hanno per essi alcun
    significato. Non appena un individuo conoscente si eleva nel modo
    indicato a puro soggetto del conoscere, ed appunto con ciò l'oggetto
    conosciuto innalza ad idea, si presenta integro e puro il mondo come
    rappresentazione, e accade la compiuta oggettivazione della volontà,
    perché soltanto l'idea è sua adeguata oggettità. Questa chiude
    oggetto e soggetto parimenti in sé, essendo entrambi la sua unica
    forma: ma in lei oggetto e soggetto mantengono appieno l'equilibrio:
    e come l'oggetto anche qui non altro è se non la rappresentazione
    del soggetto, così anche il soggetto – perdendosi tutto nell'oggetto
    intuito – è diventato quest'oggetto medesimo, in quanto l'intera
    conscienza non è che la più limpida immagine di esso. Questa
    conscienza appunto – in quanto tutte le idee, ossia i gradi
    dell'oggettità della volontà, vengono per suo mezzo percorse
    ordinatamente col pensiero – costituisce l'intero mondo quale
    rappresentazione. Le singole cose d'ogni tempo e luogo non sono
    altro che le idee moltiplicate dal principio di ragione (forma della
    conoscenza degli individui in quanto tali) e perciò turbate nella
    lor pura oggettità. Come nel mentre appare l'idea non sono più in
    lei distinguibili soggetto ed oggetto, perché sol quando l'uno e
    l'altro reciprocamente si compiono e si penetrano appieno balza
    fuori l'idea, l'adeguata oggettità della volontà, il vero mondo
    quale rappresentazione; così sono anche in tale atto
    indistinguibili, come cose in sé, l'individuo conoscente ed il
    conosciuto. Perciocché se facciamo astrazione da quel vero e proprio
    mondo quale rappresentazione nulla rimane, se non il mondo come
    volontà. La volontà è l'in-sé dell'idea, la quale oggettiva quella
    compiutamente; la volontà è anche l'in-sé del singolo oggetto e
    dell'individuo che lo conosce: i quali oggettivano quella
    incompiutamente. In quanto volontà, fuor della rappresentazione e di
    tutte le sue forme, essa è una e identica nell'oggetto contemplato e
    nell'individuo, che innalzandosi a codesta contemplazione diventa
    conscio di sé come puro soggetto; oggetto e individuo non sono
    perciò distinti in sé, poi che in sé essi sono la volontà, che quivi
    conosce se stessa. E pluralità e varietà consistono soltanto nel
    modo, in cui ella acquista tale conoscenza, ossia soltanto nel
    fenomeno, in grazia della sua forma, che è il principio di ragione.
    Come senza l'oggetto, senza la rappresentazione io non sono soggetto
    conoscente, bensì volontà cieca, così senza di me quale soggetto del
    conoscere non può la cosa conosciuta essere oggetto, bensì è pura
    volontà, impulso cieco. Questa volontà è in sé, ossia fuor della
    rappresentazione, una e identica con la mia; solo nel mondo quale
    rappresentazione, la cui forma è sempre almeno di soggetto e
    oggetto, veniamo a scinderci in conosciuto e conoscente individuo.
    Non appena il conoscere – il mondo quale rappresentazione – è tolto
    via, non rimane altro se non pura volontà, cieco impulso. Il suo
    farsi oggettità, il divenir rappresentazione, stabilisce d'un tratto
    sia soggetto che oggetto. L'essere invece codesta oggettità pura,
    compiuta, adeguata oggettità della volontà, pone l'oggetto come
    idea, libero dalle forme del principio di ragione, e il soggetto
    come puro soggetto della conoscenza, sciolto dall'individualità e
    dal servizio della volontà.
    
    Ora chi al modo sopra detto si è tanto addentro sprofondato e
    smarrito nella contemplazione della natura, da non esistere più se
    non come puro soggetto conoscente, viene con ciò senz'altro a
    sentire che, in quanto tale, egli è la condizione, egli è che
    contiene il mondo e ogni esistenza oggettiva; poi che questa non si
    presenta più d'ora innanzi se non come dipendente dall'esistenza
    sua. Egli trae adunque dentro a sé la natura, sì da sentirla solo
    come un accidente dell'esser suo. In questo senso dice Byron:
    
    Are not the mountains, waves and skies, a part
Of me and of my soul,
    as I of them?5
    
    Ma come potrebbe, chi sente così, se stesso credere del tutto
    mortale, in contrasto con l'immortale natura? Piuttosto lo afferrerà
    la coscienza di ciò che l'Upanishad del Veda esprime; «Hae omnes
    creaturae in totum ego sum, et praeter me aliud ens non est»
    (Oupnek'hat, I, 122)6.
    
    § 35.
    
    Per conseguire una più profonda penetrazione nell'essenza del mondo,
    è assolutamente necessario apprendere a distinguere la volontà quale
    cosa in sé dalla sua adeguata oggettità; e inoltre i diversi gradi,
    in cui questa più limpidamente e compiutamente appare – ossia le
    idee stesse – dal semplice fenomeno delle idee nelle forme del
    principio di ragione, del circoscritto modo di conoscenza degli
    individui. Allora si converrà con Platone, dove egli alle idee sole
    attribuisce un vero e proprio essere, riconoscendo invece agli
    oggetti nel tempo e nello spazio, a quel che per l'individuo è il
    mondo reale, una mera esistenza apparente, a mo' di sogno. Allora si
    comprenderà come l'unica e identica idea si manifesti in così
    numerosi fenomeni, ed ai conoscenti individui la sua essenza palesi
    solo in modo frammentario, un aspetto dopo l'altro. Anche si
    distinguerà allora l'idea in sé dal modo, onde il suo fenomeno si
    offre all'osservazione dell'individuo: quella riconoscendo
    essenziale, e questo invece non essenziale. Ma vediamo ciò in
    esempi, prima minimi e poi massimi. – Quando le nubi trasvolano, le
    figure ch'esse formano non sono a loro essenziali, sono anzi a loro
    indifferenti: ma che le nubi, essendo elastico vapore, vengano
    dall'impeto del vento compresse, cacciate, dilatate, lacerate,
    questo è natura loro, è l'essenza delle forze, che in loro si
    oggettivano, è l'idea; mentre i lor mutevoli aspetti esistono
    soltanto per l'individuale osservatore. – Al rivo, che sui sassi
    precipita sono i gorghi, le onde, i disegni di spuma, ch'esso fa
    vedere, sono indifferenti ed inessenziali: ma che il rivo obbedisca
    alla gravità, e si comporti come liquido non elastico, mobilissimo,
    privo di forma, trasparente, questa è la sua essenza, questa è – se
    conosciuta intuitivamente – l'idea; mentre solo per noi, finché noi
    conosciamo in quanto individui, esistono quelle forme. Il ghiaccio
    sui vetri delle finestre si cristallizza secondo le leggi della
    cristallizzazione, le quali rivelano l'essenza della forza naturale
    quivi manifestantesi, rappresentano l'idea; ma gli alberi e i fiori,
    che quel ghiaccio raffigura, sono inessenziali ed esistono solo per
    noi. Ciò che nelle nubi, nel rivo e nel cristallo apparisce, è il
    più debole riflesso di quella volontà, che più compiuta nella
    pianta, più ancora nell'animale, compiutissima apparisce nell'uomo.
    Ma soltanto l'essenziale in tutti quei gradi della sua
    oggettivazione costituisce l'idea; viceversa lo spiegamento di
    questa, in quanto ella viene disgregata in fenomeni svariati e
    multilaterali nelle forme del principio di ragione, non è all'idea
    stessa essenziale, ma sta soltanto nel modo di conoscenza
    dell'individuo, e ha unicamente per esso la realtà. Lo stesso vale,
    necessariamente, anche per lo spiegarsi di quell'idea, che è la più
    compiuta oggettità della volontà: quindi la storia del genere umano,
    la folla degli eventi, il mutar dei tempi, i molteplici aspetti
    della vita umana in paesi e secoli diversi, tutto questo non è se
    non la forma casuale presa dal fenomeno dell'idea, e non appartiene
    a questa, nella quale soltanto è l'adeguata oggettità della volontà,
    bensì al fenomeno che cade nella conoscenza dell'individuo, ed è
    all'idea tanto estraneo, inessenziale e indifferente quanto sono
    alle nubi le figure, ch'esse rappresentano, al rivo la forma dei
    suoi gorghi e delle sue spume, e al ghiaccio i suoi alberi e i suoi
    fiori.
    
    Per chi ha ben compreso questo, e la volontà sa distinguere
    dall'idea, e questa dal suo fenomeno, gli eventi del mondo hanno
    significato non già in sé e per sé, ma solo in quanto essi sono i
    segni dell'alfabeto, mediante i quali si può leggere l'idea
    dell'uomo. Quegli non crederà col volgo, che il tempo generi
    alcunché di veramente nuovo e significante; che per esso o in esso
    qualcosa di effettivamente reale pervenga ad esistere; o che il
    tempo medesimo abbia, come un tutto, principio e fine, norma e
    sviluppo, e per avventura tenda, quasi ad estremo termine, al
    massimo perfezionamento (come il volgo pensa) del genere ultimo
    venuto e vivente trent'anni. Perciò tanto sarà lontano
    dall'istituire con Omero tutto un Olimpo pieno di Dèi a guida di
    quegli eventi temporali, quanto dal tener con Ossian le forme delle
    nubi per esseri individuali; poiché, come s'è detto, l'una e l'altra
    cosa ha l'identica significazione, in rapporto all'idea che vi si
    manifesta. Negli svariati aspetti della vita umana e nella perenne
    vicenda degli eventi, egli terrà come immutabile ed essenziale
    soltanto l'idea; nella quale la volontà di vivere trova la sua più
    compiuta oggettità, e tutti i suoi vari aspetti mostra nelle
    qualità, nelle passioni, negli errori e nei meriti dell'uman genere
    – egoismo, odio, amore, paura, audacia, leggerezza, ottusità,
    astuzia, spirito, genio, etc. – che concorrendo ad incorporarsi in
    forme (individui) svariatissime, perennemente fanno agire la grande
    e la piccola storia del mondo. E in ciò è per sé indifferente se
    codesta storia sia messa in moto da un nonnulla o da corone. Quegli
    troverà infine, che accade nel mondo come nei drammi di Gozzi, nei
    quali agiscono sempre gli stessi personaggi, con la stessa
    intenzione e lo stesso destino: sono bensì diversi in ogni dramma i
    motivi e gli avvenimenti, ma degli avvenimenti è uno lo spirito. I
    personaggi d'un dramma nulla sanno di quanto è accaduto in un altro,
    nel quale tuttavia agivano anch'essi: quindi, malgrado tutte le
    esperienze dei drammi precedenti, Pantalone non diviene più destro e
    più generoso, Tartaglia più onesto, Brighella più audace e Colombina
    più costumata.
    
    Posto che fosse a noi concesso gettare un limpido sguardo sul regno
    della possibilità e su tutte le concatenazioni di cause e di
    effetti, balzerebbe fuori lo spirito della terra e ci mostrerebbe in
    un quadro i più eminenti individui, luci del mondo, eroi, che il
    caso ha distrutto prima che venisse il tempo della loro azione – poi
    i grandi eventi, che avrebbero mutato la storia del mondo e generato
    periodi di altissima e illuminata cultura, se non li avesse
    soffocati nel nascere il più cieco accidente, il caso più
    insignificante; e infine le magnifiche forze di grandi individui,
    che avrebbero potuto fecondare tutta un'era del mondo, ma che sviati
    da errore o da passione, o costretti da necessità, quelle forze
    sterilmente dissiparono in oggetti indegni e infruttiferi, o
    addirittura sprecarono come in un giuoco. Se tutto questo vedessimo,
    avremmo da rabbrividire e da gemere pei tesori perduti d'intere
    epoche del mondo. Ma lo spirito della terra sorriderebbe, dicendo:
    «La fonte, dalla quale gl'individui e le loro forze rampollano, è
    inesauribile e infinita come il tempo e lo spazio: imperocché quelli
    sono, sì come queste forme d'ogni fenomeno, null'altro se non
    fenomeni, visibilità della volontà. Quella infinita sorgente non può
    essere esausta da una misura finita: quindi ad ogni evento oppure
    opera soffocati in germe, rimane aperta sempre, per riprodursi, una
    giammai diminuita infinità. In questo mondo del fenomeno è tanto
    poco possibile una vera perdita, come un vero guadagno. La volontà
    sola è: ella, la cosa in sé, ella, la sorgente di tutti quei
    fenomeni. La sua autocoscienza, e l'affermazione o negazione, che ne
    procede, è l'unico evento in sé»7
    
    § 36.
    
    Al filo degli eventi tien dietro la storia: ella è prammatica, in
    quanto deduce quelli secondo la legge di motivazione, la qual legge
    determina la manifestantesi volontà, dove questa è illuminata dalla
    conoscenza. Nei gradi inferiori della sua oggettità, dove ancora
    agisce senza conoscenza, è la scienza naturale, che studia come
    etiologia le leggi delle variazioni dei suoi fenomeni, e quanto è in
    essi permanente studia come morfologia; la quale allevia il suo
    compito quasi infinito con l'aiuto dei concetti, raccogliendo il
    generale per ricavarne il particolare. Infine le semplici forme,
    nelle quali – per la conoscenza del soggetto in quanto individuo –
    appariscono le idee scisse nella pluralità, ossia tempo e spazio,
    sono studiate dalla matematica. Tutte queste, che hanno il nome
    comune di scienze, seguono il principio di ragione nei suoi vari
    atteggiamenti, e la materia loro è sempre il fenomeno, le sue leggi,
    i suoi nessi, e i rapporti che ne derivano. Ma qual maniera di
    conoscenza studia ciò che stando fuori e indipendente da ogni
    relazione è in verità la sola cosa essenziale del mondo, la vera
    sostanza dei suoi fenomeni, a nessun mutamento soggetta e quindi in
    ogni tempo con pari verità conosciuta – in una parola, le idee, che
    sono l'immediata e adeguata oggettità della cosa in sé, della
    volontà? È l'arte, l'opera del genio. Ella riproduce le eterne idee
    afferrate mediante pura contemplazione, l'essenziale e il permanente
    in tutti i fenomeni del mondo; ed a seconda della materia in cui
    riproduce, è arte plastica, poesia o musica. Sua unica origine è la
    conoscenza delle idee; suo unico fine la comunicazione di questa
    conoscenza. Mentre la scienza, tenendo dietro all'incessante e
    instabile flusso di cause ed effetti quadruplicemente atteggiati, ad
    ogni mèta raggiunta viene di nuovo sospinta sempre più lontano e non
    mai può trovare un termine vero, né un pieno appagamento, più di
    quanto si possa raggiungere correndo il punto in cui le nubi toccano
    l'orizzonte; l'arte all'opposto è sempre alla sua mèta. Imperocché
    ella strappa l'oggetto della sua contemplazione fuori dal corrente
    flusso del mondo e lo tiene isolato davanti a sé: e quest'oggetto
    singolo, ch'era in quel flusso una infinitamente minima parte,
    diviene per lei un rappresentante del tutto, un equivalente del
    molteplice infinito nello spazio e nel tempo: a questo singolo ella
    s'arresta: ella ferma la ruota del tempo: svaniscono per lei le
    relazioni: soltanto l'essenziale, l'idea, è suo oggetto. Noi
    possiamo adunque senz'altro indicarla come il modo di considerar le
    cose indipendentemente dal principio di ragione all'opposto della
    considerazione che appunto di tal principio tien conto, la quale è
    la via dell'esperienza e della scienza. Quest'ultima maniera di
    considerazione va paragonata ad una linea orizzontale corrente
    all'infinito; la prima, invece, alla verticale che la taglia in
    qualsivoglia punto. Quella che tien dietro al principio di ragione è
    la maniera razionale, che nella vita pratica, come nella scienza,
    sola vale e soccorre; quella che prescinde dal contenuto del
    principio stesso è la maniera geniale, che sola vale e soccorre
    nell'arte. La prima è la maniera di Aristotele; la seconda, in
    complesso, quella di Platone. La prima somiglia al violento uragano,
    che senza principio e fine trascorre, e tutto piega, scuote,
    trascina con sé: la seconda al placido raggio di sole, che traversa
    la via di quell'uragano senza esserne scosso. La prima somiglia alle
    innumerabili, impetuosamente agitate gocce della cascata, che sempre
    mutando non posano un attimo: la seconda al placido arcobaleno, che
    poggia su questo tumulto furioso. Solo mediante la pura
    contemplazione sopra descritta, assorbentesi intera nell'oggetto,
    vengono colte le idee, e l'essenza del genio sta appunto nella
    preponderante attitudine a tale contemplazione: e poi che questa
    richiede un pieno oblio della propria persona e dei suoi rapporti,
    ne viene che genialità non è altro se non la più completa obiettità,
    ossia direzione obiettiva dello spirito, contrapposta alla direzione
    subiettiva, che tende alla propria persona, ossia alla volontà.
    Quindi genialità è l'attitudine a contenersi nella pura intuizione,
    a perdersi nell'intuizione, e la conoscenza, che in origine esiste
    soltanto in servizio della volontà, sottrarre a codesto servizio;
    ossia il proprio interesse, il proprio volere, i propri fini perdere
    affatto di vista, e così spogliarsi appieno per un certo tempo della
    propria personalità per rimanere alcun tempo qual puro soggetto
    conoscente, chiaro occhio del mondo. E ciò non per pochi istanti; ma
    così durevolmente e con tanta conscienza, quanto è necessario per
    riprodurre con meditata arte il conosciuto, e «ciò che fluttua in
    ondeggiante apparizione fissare in durevoli pensieri». Gli è come se
    – perché il genio si riveli in un individuo – dovesse a questo esser
    toccata in sorte una tal misura di forza conoscitiva, da superar di
    molto quella che occorre al servizio d'una volontà individuale; e
    questo più di conoscenza, divenuto libero, diventa allora un
    soggetto sciolto da volontà, un lucido specchio dell'essenza del
    mondo. Così si spiega la vivacità spinta all'irrequietezza in
    individui geniali, di rado potendo loro bastare il presente, perché
    non riempie la loro conscienza; questo da loro quella tensione senza
    posa, quell'incessante ricerca di oggetti nuovi e degni di
    considerazione, quindi anche quell'ansia quasi mai appagata di
    trovare esseri a loro somiglianti, fatti per loro, coi quali possano
    comunicare; mentre l'ordinario figlio della terra, tutto riempito ed
    appagato dall'ordinario presente, in esso si assorbe, e trovando
    inoltre dappertutto pari suoi, possiede quello speciale benessere
    nella vita quotidiana, che al genio è negato. S'è riconosciuto come
    parte essenziale della genialità la fantasia, anzi talora la si è
    tenuta identica a quella: nel primo caso con ragione, a torto nel
    secondo. Imperocché oggetti del genio in quanto tale sono le eterne
    idee, le permanenti essenziali forme del mondo e di tutti i suoi
    fenomeni; ma la conoscenza dell'idea è, per necessità, intuitiva,
    non astratta: in tal modo sarebbe la conoscenza del genio limitata
    alle idee degli oggetti effettivamente presenti alla sua persona, e
    dipendenti dalla catena delle circostanze che a lui lì condussero,
    se la fantasia non allargasse il suo orizzonte molto di là dalla
    realtà della sua personale esperienza e non lo ponesse in grado di
    ricostruire, dal poco che è venuto nella sua effettiva appercezione,
    tutto il rimanente; e così far passare davanti a sé quasi tutte le
    possibili immagini della vita. Inoltre, gli oggetti reali quasi
    sempre non sono che manchevoli esemplari dell'idea in loro
    manifestantesi: quindi il genio ha bisogno della fantasia, per veder
    nelle cose non ciò che la natura ha in effetti formato, bensì ciò
    ch'ella si sforzava di formare, ma che a causa della lotta – nel
    precedente libro ricordata – delle sue forme tra loro, non è
    riuscita a compiere. Torneremo su questo proposito in seguito,
    trattando della scultura. La fantasia allarga dunque la cerchia
    visuale del genio oltre gli oggetti offrentisi in realtà alla sua
    persona; e l'allarga sia per la qualità che per la quantità. Quindi
    una non comune forza della fantasia è compagna, anzi condizione
    della genialità. Invece, quella non è prova di questa; anzi, possono
    anche uomini tutt'altro che geniali aver molta fantasia. Imperocché
    come si può considerare un oggetto reale in due modi opposti – o in
    modo puramente obiettivo, geniale, cogliendo l'idea di esso, o in
    modo comune, sol nelle sue relazioni con altri oggetti e con la
    propria volontà, conformi al principio di ragione – così anche un
    fantasma si può considerare nell'un modo e nell'altro: nel primo,
    esso è un mezzo per la conoscenza dell'idea, della quale è
    comunicazione l'opera d'arte; nel secondo, il fantasma è impiegato a
    costruir castelli in aria, che piacciono al nostro egoismo e al
    nostro capriccio, e momentaneamente ingannano e rallegrano. E così,
    facendo dei fantasmi in tal guisa intrecciati, vengono invero
    conosciute sempre le sole relazioni. Chi pratica questo giuoco è un
    cervello fantastico: facilmente confonderà le immagini, della sua
    fantasia, come fanno i romanzi ordinari d'ogni specie, che
    sollazzano i pari suoi ed il gran pubblico, per ciò che i lettori
    sognano di trovarsi al posto dell'eroe e trovano quindi il racconto
    molto piacevole.
    
    L'uomo comune, questa mercé all'ingrosso della natura, che ne
    produce migliaia al giorno, è, come abbiamo detto, capace solo
    fugacemente di guardare le cose in maniera affatto disinteressata in
    ogni senso – ciò che costituisce la vera contemplazione. Può alle
    cose volgere la sua attenzione solo in quanto esse abbiano una
    qualsiasi relazione, anche se molto indiretta, con la sua volontà.
    Poi che sotto questo riguardo, il quale sempre richiede solamente la
    conoscenza delle relazioni, è bastevole ed anzi è spesso più valido
    il concetto astratto della cosa, non s'indugia a lungo l'uomo comune
    nell'intuizione pura, e quindi non poggia a lungo lo sguardo sopra
    un oggetto; bensì egli cerca sollecito in tutto ciò, che gli si
    offre, soltanto il concetto, al quale la cosa va ricondotta, come
    l'accidioso cerca la sedia – e non se ne interessa più oltre. Perciò
    si sbriga di tutto così alla svelta: di opere d'arte, di belli
    oggetti naturali, e dell'ognora significante spettacolo della vita
    in tutte le sue scene. Egli non s'indugia: cerca soltanto la sua
    strada nella vita, o anche, per ogni caso, tutto ciò che potrebbe
    essere un giorno la sua strada, ossia cerca notizie topografiche nel
    senso più ampio della parola: con l'osservazione della vita stessa
    come tale non sta a perder tempo. L'uomo geniale invece, la cui
    forza conoscitiva si sottrae, per la propria prevalenza, al servizio
    della sua volontà, si trattiene a considerar la vita per se stessa,
    si sforza di raggiunger l'idea d'ogni cosa, e non già le relazioni
    di ciascuna con le altre: perciò trascura sovente la considerazione
    del suo proprio cammino nella vita, e lo percorre quindi il più
    delle volte in modo abbastanza maldestro. Mentre per l'uomo comune
    il proprio patrimonio conoscitivo è la lanterna, che illumina la
    strada, esso è per l'uomo geniale il sole, che disvela il mondo.
    Questa sì dissimile maniera di guardar dentro alla vita, si fa
    presto visibile perfino dall'apparenza esterna dei due. Lo sguardo
    dell'uomo, in cui il genio vive e opera, fa distinguere costui
    facilmente, perché, vivace e fermo insieme, ha il carattere della
    contemplazione; quale possiamo vedere nelle immagini delle poche
    teste geniali, che la natura ha di quanto in quanto prodotto fra gli
    innumeri milioni. Invece nell'occhio dell'altro – quando non sia,
    come è il più spesso, opaco o insignificante – si osserva facilmente
    il vero contrapposto della contemplazione: il cercare. Per
    conseguenza l'«espressione geniale di una testa consiste nel
    palesarvisi un risoluto prevaler del conoscere sul volere, e quindi
    anche nell'esprimervisi un conoscere senz'alcuna relazione con un
    volere, ossia un puro conoscere». Viceversa, in teste quali sono di
    regola, predomina l'espressione del volere, e si vede che il
    conoscere entra sempre in azione solo in seguito a spinta del
    volere, e perciò è sempre indirizzato secondo motivi.
    
    Poi che la conoscenza geniale, ossia conoscenza dell'idea, è quella
    che non segue il principio di ragione, l'altra invece che lo segue
    dà nella vita saggezza e raziocinio, e produce le scienze; perciò
    individui geniali avranno quelle manchevolezze che trae con sé la
    trascuranza dell'altro modo di conoscere. Tuttavia va qui notata la
    restrizione, che ciò ch'io verrò dicendo sotto tale riguardo, li
    tocca solo in quanto e mentre essi sono veramente in atto di aver la
    conoscenza geniale, e questo non è punto il caso in ogni momento di
    lor vita; imperocché la grande – sebbene spontanea – tensione, che
    si richiede per vedere le idee fuori della volontà, necessariamente
    si rilascia ed ha grandi pause; in cui gli uomini geniali vengono,
    sia riguardo ai pregi che ai difetti, su per giù a somigliare agli
    uomini comuni. Perciò s'è dai tempi più remoti indicata l'attività
    del genio come un'ispirazione; anzi, secondo esprime la parola
    stessa, come l'attività di un essere sovrumano distinto
    dall'individuo medesimo, che sol periodicamente s'impadronisce di
    questo. La ripugnanza degli individui geniali a diriger l'attenzione
    sul contenuto di principio di ragione, si rivelerà dapprima rispetto
    al principio d'esistenza, come ripugnanza per la matematica, la cui
    cognizione va alle forme più universali del fenomeno, tempo e
    spazio, che per l'appunto non sono se non forme del principio di
    ragione; ed è quindi proprio l'opposto di quella cognizione, che
    cerca viceversa il contenuto del fenomeno, l'idea esprimentevisi
    dentro, prescindendo da ogni relazione. Inoltre anche la trattazione
    logica della matematica ripugnerà al genio, perché questa, sbarrando
    la via alla vera e propria penetrazione, non appaga; bensì,
    presentando semplicemente una catena di sillogismi, secondo il
    principio della ragione di conoscenza, tra tutte le forze dello
    spirito occupa prevalentemente la memoria, per tenere ognora
    presenti le proposizioni anteriori, a cui ci si riferisce. Anche
    l'esperienza ha confermato, che grandi genii dell'arte non hanno
    alcuna attitudine per la matematica: mai è esistito un uomo
    eccellente in pari tempo nell'una e nell'altra. Alfieri narra di non
    aver mai potuto capire neppur il quarto teorema di Euclide. A Goethe
    la mancanza di cognizioni matematiche fu a sazietà rimproverata
    dagli stolti avversari della sua teoria dei colori: e invero quivi,
    dove non si trattava di calcolare e misurare su dati ipotetici,
    bensì d'immediata conoscenza intuitiva della causa e dell'effetto,
    era quel rimprovero così storto e fuori posto, che coloro hanno
    appunto tanto con esso mostrato alla luce del giorno la lor completa
    assenza di ragione, quanto con le altre lor sentenze degne del re
    Mida. Che oggi ancora, quasi un mezzo secolo dopo l'apparir della
    teoria goethiana dei colori, possano perfino in Germania rimanere
    indisturbate in possesso delle cattedre le fandonie neutoniane, e
    che si continui in tutta serietà a discorrere delle sette luci
    omogenee e della lor varia rifrangibilità, conterà un giorno tra le
    maggiori caratteristiche intellettuali dell'umanità in genere e del
    germanesimo in ispecie. Con lo stesso motivo sopra indicato si
    spiega il fatto notissimo, che viceversa eccellenti matematici hanno
    poca comprensione per le opere delle arti belle; secondo è espresso
    in modo particolarmente ingenuo dal noto aneddoto di quel matematico
    francese, che dopo aver letta l'Ifigenia di Racine domandò alzando
    le spalle: Qu'est-ce-que cela prouve? Poi che inoltre un'acuta
    comprensione dei rapporti secondo la legge di causalità e
    motivazione costituisce l'intelligenza, mentre la conoscenza geniale
    non è rivolta alle relazioni, ne viene che un uomo intelligente, in
    quanto e nel mentre è tale, non ha genio; e l'uomo di genio, in
    quanto e nel mentre è tale, non è intelligente. Infine la conoscenza
    intuitiva in genere, nel cui dominio esclusivo è l'idea, sta proprio
    di fronte alla conoscenza razionale o astratta, guidata dal
    principio di ragione del conoscere. È anche raro, com'è noto, trovar
    grande genialità unita a predominante ragionevolezza, che anzi al
    contrario individui geniali sono spesso in preda ad effetti violenti
    e irragionevoli passioni. E di ciò non è punto causa debolezza di
    ragione, bensì, in parte, eccezionale energia di tutto il fenomeno
    della volontà, che forma l'uomo di genio, e che si manifesta con la
    vivacità di tutti gli atti volitivi; e in parte predominio della
    conoscenza intuitiva, mediante sensi e intelletto, sull'astratta;
    quindi tendenza risoluta al campo intuitivo; – l'espressione del
    quale, energica in sommo grado, di tanto supera negli uomini geniali
    gl'incolori concetti, che non più questi, bensì quella dirige
    l'azione divenuta appunto perciò irrazionale: e per conseguenza
    l'impressione del presente è su di loro potentissima, li trascina
    all'atto inconsapevole, all'affetto, alla passione. Anche perciò, e
    soprattutto perché la lor conoscenza s'è in parte sottratta al
    servizio della volontà, nella conversazione baderanno non tanto alla
    persona, con la quale parlano, quanto alla cosa di cui parlano, che
    vivacemente aleggia loro dinnanzi: quindi giudicheranno in un modo
    troppo obiettivo, senza riguardo al proprio interesse, o
    racconteranno, invece di tacere, cose che prudenza vorrebbe taciute,
    e così via. Quindi, finalmente, sono inclinati a monologare, e
    possono in genere lasciar scorgere in sé tante debolezze, da
    avvicinarsi davvero alla follia. Che genialità e pazzia abbiano un
    lato in cui confinano, anzi si confondono, fu osservato sovente; e
    perfino l'estro poetico fu detto una specie di pazzia: amabili
    insania lo chiama Orazio (Od. III, 4), e «graziosa follia» Wieland
    nell'introduzione dell'Oberon. Lo stesso Aristotele, secondo
    riferisce Seneca (de tranq. animi, 15, 16) avrebbe detto: «Nullum
    magnum ingenium sine mixtura dementiae fuit». Il medesimo esprime
    Platone, nel sopracitato mito della caverna oscura (de Rep. 7), col
    dire: Coloro, che fuor della caverna hanno contemplata la vera luce
    solare e le cose davvero esistenti (le idee), non possono rientrando
    nella caverna più nulla vedere, perché i loro occhi hanno perduto
    l'abitudine dell'oscurità, né più sanno distinguere lì sotto le
    ombre; ed essi vengono perciò nei loro errori derisi dagli altri,
    che non sono mai usciti da questa caverna e da queste ombre. Egli
    dice anche espressamente nel Fedro (p. 317) che senza qualche follia
    non può darsi poeta vero; anzi (p. 327) che ciascuno, il quale nelle
    effimere cose conosca le eterne idee, apparisce qual folle. Pur
    Cicerone riferisce: «Negat enim, sine furore, Democritus, quemquam
    poëtam magnum esse posse, quod idem dicit Plato» (de divin. I, 37).
    E finalmente dice Pope:
    
    Great wits to madness sure are near allied,
And thin partitions do
    their bounds divide8.
    
    Particolarmente istruttivo a questo proposito è il Torquato Tasso di
    Goethe; dove questi ci pone innanzi agli occhi non solo il dolore,
    il martirio proprio del genio in quanto tale, ma anche il suo
    perenne inclinar verso la follia. Infine l'immediato contatto tra
    genialità e pazzia è confermato dalle biografie di uomini
    genialissimi – per esempio Rousseau, Byron, Alfieri –, e da aneddoti
    delle altrui vite; per converso devo ricordare d'aver trovato,
    visitando frequentemente i manicomi, taluni soggetti dotati di
    capacità innegabilmente grandi, la cui genialità traluceva palese
    attraverso la follia; la quale nondimeno aveva qui preso del tutto
    il sopravvento. Ora, questo fatto non può essere attribuito al caso,
    perché da un lato il numero dei pazzi è relativamente assai piccolo,
    mentre dall'altro un individuo geniale è un fenomeno raro oltre ogni
    comune misura, e sol come straordinaria eccezione comparisce nella
    natura: basti a persuadercene il contare i genii davvero grandi che
    tutta intera l'Europa ha prodotto nell'era antica e nella moderna –
    ma comprendendovi soltanto gli autori di opere che in ogni tempo
    hanno conservato un durevole valore per l'umanità – e il numero di
    questi singoli paragonar coi 250 milioni d'uomini che, rinnovandosi
    di trenta in trent'anni, costantemente vivono in Europa. Ancora, non
    voglio tacere che varie persone ho conosciuto, dotate d'una
    superiorità intellettuale sicura, se pur non considerevole, che in
    pari tempo dimostravano una leggera aria di follia. Da questo può
    apparire che ogni elevazione dell'intelletto sopra il livello
    comune, essendo un carattere anormale, già disponga alla follia.
    Nondimeno voglio nel modo più breve possibile esporre la mia
    opinione sul motivo puramente intellettuale di quella parentela tra
    genialità e follia, poiché codesto esame contribuirà senza dubbio a
    chiarire la vera essenza della genialità, ossia di quella proprietà
    dello spirito che sola può produrre vere opere d'arte. Ma questo
    rende necessario anche un breve esame della follia9.
    
    Un chiaro, compiuto riconoscimento dell'essenza della follia; un
    esatto e limpido concetto di ciò che propriamente distingue il folle
    dal savio, non s'è ancora, per quanto io sappia, trovato. Né
    ragione, né intelletto si possono negare ai folli; imperocché questi
    discorrono e intendono, anzi spesso ragionano molto bene; di regola
    intuiscono con giustezza ciò ch'è loro presente, e scorgono il
    rapporto tra causa ed effetto. Visioni, simili a fantasmagorie
    febbrili, non sono punto un ordinario sintomo di follia: il delirio
    altera la percezione, la follia altera i pensieri. Il più delle
    volte invero non errano i folli nella cognizione dell'immediato
    presente, bensì il lor farneticare si riferisce ognora all'assente e
    passato, e solo per tal via al rapporto di quello col presente.
    Perciò adunque sembra a me che il loro male tocchi particolarmente
    la memoria; non già nel senso che questa manchi ad essi del tutto
    (che molti sanno a memoria molto, e riconoscono talora persone da
    tempo non vedute), ma che il filo della memoria sia rotto, smarrita
    la concatenazione costante di quella, e reso impossibile un regolare
    coordinato risovvenirsi di ciò che fu. Singole scene del passato si
    presentano con giustezza, come l'isolato presente: ma nel risalire
    indietro s'incontrano lacune, che i folli riempiono con fantasie, le
    quali o essendo sempre le medesime diventano idee fisse (e allora si
    ha monomania, malinconia) o cambiano ogni volta, in forma
    d'immaginazioni momentanee (chiamandosi in questo caso stravaganza,
    fatuitas). Perciò è tanto difficile ricavar da un folle, nel suo
    entrare in manicomio, informazioni sulla sua vita passata. Sempre
    più viene a confondersi nella sua memoria il vero col falso. Per
    quanto sia conosciuto rattamente l'immediato presente, lo si altera
    mediante la fittizia connessione con un immaginario passato: i folli
    ritengono quindi se stessi, o altri, identici a persone che esistono
    soltanto nel loro chimerico passato, non riconoscono invece talune
    persone note, ed hanno così, pur rappresentandosi con esattezza il
    singolo presente, ognora false relazioni di questo con l'assente.
    Quando la follia raggiunge un alto grado, viene una completa assenza
    di memoria, per cui il folle diventa affatto incapace di riferirsi
    ad alcunché di assente o di passato, ma è determinato esclusivamente
    dalla fantasia momentanea, in rapporto con le chimere che nel suo
    capo riempiono il passato. Allora non si è mai sicuri un istante,
    vicino a lui, dalla violenza o assassinio, quando non gli si tenga
    ognora davanti agli occhi la forza dominatrice. Il modo di conoscere
    del folle ha di comune con l'animale, l'essere entrambi limitati al
    presente; ma questo li distingue: che l'animale non ha propriamente
    alcuna rappresentazione del passato come passato, per quanto esso
    agisca sull'animale stesso per il mezzo dell'abitudine, sì che a mo'
    d'esempio il cane riconosce anche dopo anni il suo antico padrone,
    ossia riceve l'usata impressione dal suo sguardo, pur non avendo
    nessun ricordo del tempo da allora trascorso: mentre il folle invece
    reca pur sempre nella sua ragione un passato in abstracto, ma però
    falso, che per lui solo esiste; e questo, o rimane costante, o varia
    a momenti. Ora, l'influsso di questo falso passato impedisce anche
    quell'uso del presente, conosciuto con giustezza, che l'animale
    tuttavia può fare. Che intensa vita intellettuale, inattesi orribili
    eventi producono spesso follia, io mi spiego nel modo seguente.
    Ciascuna di quelle sofferenze è sempre, in quanto evento reale,
    limitata al presente; quindi passeggera e perciò non mai oltremisura
    grave; smisuratamente grande si fa solo col diventar dolore fisso.
    Ma come tale, esso non è più che un pensiero, e sta quindi nella
    memoria. Ora, se un tale affanno, una tal dolorosa consapevolezza o
    memoria è di tanto tormento da riuscire affatto intollerabile, tanto
    che l'individuo finirebbe col soggiacervi, – allora la natura in sì
    estremo grado angosciata ricorre alla follia, come all'estrema
    àncora di salvamento della vita: lo spirito, cotanto travagliato, fa
    come se strappasse il filo della propria memoria, riempie le lacune
    con chimere, e da un dolore intellettuale, che soverchia le sue
    forze, si rifugia nella follia – come si amputa un membro preso
    dalla cancrena e lo si sostituisce con altro di legno. Per esempio
    si consideri Aiace furioso, il re Lear e Ofelìa: imperocché le
    creature del genio vero, che sole si possono qui allegare, essendo a
    tutti note, sono per la lor verità da tenersi come persone reali; e
    d'altronde in ciò dimostra esattamente lo stesso anche la frequente
    esperienza effettiva. Una lontana somiglianza con quella maniera di
    passaggio dal dolore alla follia si scorge nel cercare che tutti
    spesso facciamo, di allontanare quasi meccanicamente un penoso
    ricordo, il quale improvviso ci sopravvenga, con una qualsiasi
    esclamazione o con un movimento, distogliendo noi stessi di là,
    distraendocene con violenza.
    
    Se vediamo adunque il folle ben conoscere, nel modo indicato, il
    singolo presente, e anche qualche singolo passato, ma misconoscerne
    le relazioni e quindi errare e farneticare, proprio in ciò è il suo
    punto di contatto con l'individuo geniale. Imperocché anche il
    geniale, tralasciando la conoscenza delle relazioni conforme al
    principio di ragione, per vedere e cercar nelle cose soltanto l'idea
    loro, afferrare la lor vera essenza come intuitivamente gli si
    rivela (per la quale essenza un oggetto rappresenta tutta intera la
    sua specie, sì che, dice Goethe, un caso vale per mille), – anche il
    geniale perde con ciò di vista la conoscenza del nesso che lega le
    cose: il singolo oggetto della sua contemplazione, oppure il
    presente, da lui con eccessiva vivezza percepito, gli appariscono in
    così chiara luce, che i rimanenti anelli della catena a cui quelli
    appartengono vengono di conseguenza a trovarsi nell'ombra; la qual
    cosa produce fenomeni, che hanno con quelli della follia una
    somiglianza da tempo riconosciuta. Quel che in una singola cosa non
    esiste se non incompiutamente e indebolito da modificazioni, il modo
    di vedere del genio Io innalza fino all'idea, al compiuto: da per
    tutto quindi il genio vede estremi, e appunto perciò la sua azione
    va sempre all'estremo: non sa cogliere la giusta misura, gli manca
    la temperanza, e il risultato è quel che s'è detto. Conosce le idee
    appieno, ma non gl'individui. Perciò un poeta, come fu osservato,
    può conoscere intimamente e a fondo l'uomo, molto male invece gli
    uomini: egli è facile a essere ingannato, ed è un trastullo in mano
    degli astuti10.
    
    § 37.
    
    Sebbene adunque, come risulta dalla nostra esposizione, il genio
    consista nella capacità di conoscere, indipendentemente dal
    principio di ragione, le idee delle cose invece che i singoli
    oggetti, i quali soltanto nelle relazioni hanno la loro esistenza; e
    di essere, di fronte alle idee, il correlato stesso dell'idea, ossia
    non più un individuo, bensì puro soggetto del conoscere; – deve
    tuttavia questa capacità trovarsi in minore e diverso grado presso
    gli uomini tutti: poiché altrimenti sarebber questi altrettanto
    incapaci di goder le opere dell'arte, quanto di produrle, e in
    genere non possederebbero per il bello e l'elevato sensibilità
    alcuna; anzi queste parole non avrebbero per loro alcun senso.
    Dobbiamo dunque ammetter come esistente in tutti gli uomini – se per
    avventura non ve n'ha affatto incapaci d'ogni godimento estetico –
    quel potere di conoscer nelle cose le idee rispettive, e spogliarsi
    così per un istante della loro personalità. Il genio ha di fronte ad
    essi il solo vantaggio di possedere in maggior grado e più
    durevolmente quel modo di conoscere; vantaggio che gli permette di
    mantenere in questa conoscenza la riflessione necessaria per
    riprodurre a volontà, in un'opera, ciò che ha conosciuto in tal
    modo; e codesta riproduzione è l'opera d'arte. Con l'opera d'arte il
    genio comunica agli altri l'idea percepita. L'idea rimane dunque
    immutata e identica: uno e identico è anche il piacere estetico
    relativo, sia esso prodotto da un'opera dell'arte o direttamente
    dall'intuizione della natura e della vita. L'opera d'arte è
    semplicemente un mezzo per rendere più facile quella conoscenza in
    cui consiste il piacere estetico. Lo svelarsi a noi dell'idea meglio
    nell'opera d'arte, che non direttamente dalla natura e dalla realtà,
    dipende dal fatto che l'artista, il quale l'idea sola e non la
    realtà conobbe, nell'opera sua appunto l'idea pura ha riprodotto,
    l'ha isolata dalla realtà, tralasciando ogni causalità
    perturbatrice. L'artista ci fa attraverso i suoi occhi guardare
    dentro al mondo. L'aver questi occhi, il conoscer nelle cose
    l'essenziale, che sta fuor d'ogni relazione, è proprio il dono del
    genio, la qualità innata; ma l'essere in grado di comunicare anche a
    noi questo dono, dare a noi i suoi occhi, è la qualità acquisita, la
    tecnica dell'arte. Perciò dopo aver nelle pagine precedenti esposta
    l'intima natura della conoscenza estetica nelle sue linee più
    generiche, il più minuto esame filosofico del bello e del sublime,
    che ora segue, mostrerà entrambi nella natura e nell'arte insieme,
    senza continuare a distinguere. Vedremo dapprima quel che accade
    nell'uomo, quando il bello lo tocca, e quando il sublime: se poi
    questa commozione egli l'attinga direttamente dalla natura, dalla
    vita, oppure ne sia partecipe solo per mezzo dell'arte, non
    costituisce un'essenziale bensì appena un'esteriore differenza.
    
    § 38.
    
    Abbiamo trovato nella contemplazione estetica due inseparabili
    elementi: la conoscenza dell'oggetto, non come cosa singola, ma come
    idea platonica, ossia come permanente forma di tutta questa specie
    d'oggetti; quindi la coscienza del conoscente, non come individuo,
    ma come puro, libero dalla volontà soggetto della conoscenza. La
    condizione per cui entrambi gli elementi si mostrano sempre uniti
    vedemmo essere il tralasciare la conoscenza legata al principio di
    ragione, la quale è invece la sola che possa servire alla volontà,
    com'anche alla scienza. Anche il piacere suscitato dalla
    contemplazione del bello vedremo nascere da quei due elementi; or
    più dall'uno, or più dall'altro, secondo l'oggetto della
    contemplazione estetica.
    
    Ogni volere scaturisce da bisogno, ossia da mancanza, ossia da
    sofferenza. A questa dà fine l'appagamento; tuttavia per un
    desiderio, che venga appagato, ne rimangono almeno dieci
    insoddisfatti; inoltre, la brama dura a lungo, le esigenze vanno
    all'infinito; l'appagamento è breve e misurato con mano avara. Anzi,
    la stessa soddisfazione finale è solo apparente: il desiderio
    appagato dà tosto luogo a un desiderio nuovo: quello è un errore
    riconosciuto, questo un errore non conosciuto ancora. Nessun oggetto
    del volere, una volta conseguito, può dare appagamento durevole, che
    più non muti: bensì rassomiglia soltanto all'elemosina, la quale
    gettata al mendico prolunga oggi la sua vita per continuare domani
    il suo tormento. Quindi finché la nostra conscienza è riempita dalla
    nostra volontà; finché siamo abbandonati alla spinta dei desiderii,
    col suo perenne sperare e temere; finché siamo soggetti del volere,
    non ci è concessa durevole felicità né riposo. Che noi andiamo in
    caccia o in fuga; che temiamo sventura o ci affatichiamo per la
    gioia, è in sostanza tutt'uno; la preoccupazione della volontà
    ognora esigente, sotto qualsivoglia aspetto, empie e agita
    perennemente la conscienza; e senza pace nessun benessere è mai
    possibile. Così posa il soggetto del volere senza tregua sulla
    volgente ruota d'Issione, attinge ognora col vaglio delle Danaidi, è
    l'eternamente struggentesi Tantalo.
    
    Ma quando una causa esteriore, o un'interna disposizione ci trae
    all'improvviso fuori dall'infinita corrente del volere, e la
    conoscenza sottrae alla schiavitù della volontà, e quando
    l'attenzione non è più rivolta ai motivi del volere, bensì
    percepisce le cose sciolte dal loro rapporto col volere, ossia le
    considera senza interesse, senza soggettività, in modo puramente
    obiettivo, dandosi tutta ad esse, in quanto esse sono pure
    rappresentazioni e non motivi: allora sopravviene d'un tratto,
    spontaneamente, la pace ognora cercata sulla prima via, la via del
    volere, e ognora sfuggente; e noi ci sentiamo benissimo. È lo stato
    senza dolore, che Epicuro lodò come il massimo bene, e come
    condizione degli Dei: poiché noi siamo, per quell'istante, liberati
    dalla bassa ansia della volontà, celebriamo il sabba dei lavori
    forzati; e la ruota d'Issione si ferma.
    
    Ed è questo appunto lo stato, ch'io ho descritto più sopra come
    necessario per la conoscenza dell'idea quale pura contemplazione,
    assorbimento nell'intuizione, smarrimento di sé nell'oggetto, oblio
    d'ogni individualità, abolizione della conoscenza che segue il
    principio di ragione e soltanto le relazioni afferra; è lo stato, in
    cui d'un subito e indissociabilmente s'innalza il singolo oggetto
    intuito all'idea della sua specie, e l'individuo conoscente a puro
    soggetto del conoscere fuori della volontà; sì che entrambi, in
    quanto tali, non stanno più nella corrente del tempo e di tutte le
    altre relazioni. È tutt'uno, allora, se il sole che sorge si vegga
    da un carcere o da un palazzo.
    
    Interna disposizione, prevalenza del conoscere sul volere possono in
    qualsivoglia condizione produrre questo stato. Ce lo dimostrano
    quegli eccellenti olandesi, che codesta intuizione puramente
    obiettiva rivolsero ai più insignificanti oggetti, e un durevole
    monumento della loro obiettità e pacatezza di spirito lasciarono
    nelle nature morte, che il contemplatore estetico guarda non senza
    commozione, presentandoglisi alla mente il pacato, tranquillo, di
    volontà scevro stato d'animo dell'artista, ch'era necessario per
    guardare in modo tanto obiettivo sì insignificanti oggetti, con
    tanta attenzione considerarli, e questa contemplazione riprodurre
    con tanta cura: e mentre il quadro invita anche lui a farsi
    partecipe di cotale stato, la sua commozione è spesso ancora
    accresciuta dal contrasto della disposizione d'animo agitata,
    conturbata da impetuoso volere, in cui egli stesso si trova. Col
    medesimo spirito anche pittori paesisti, sopra tutti Ruisdael, hanno
    spesso dipinto insignificantissimi oggetti campestri, producendo con
    ciò, ancora più piacevolmente, la stessa impressione.
    
    A ciò perviene sola l'intima forza di un animo d'artista: ma
    facilitata e dal di fuori favorita è quella disposizione d'animo,
    puramente obiettiva, da oggetti che le si offrano, dalla pienezza
    della bella natura che invita, anzi costringe alla contemplazione.
    Quasi sempre a lei riesce, ogni volta che si riveli d'un tratto al
    nostro occhio, sia pure per qualche istante, di strapparci alla
    soggettività, alla schiavitù del volere, e trasportarci nello stato
    del puro conoscere. Perciò anche chi sia tormentato da passioni o
    bisogno o affanno, è da un solo libero sguardo, ch'egli getti sulla
    natura, così improvvisamente confortato, rallegrato e sollevato: la
    tempesta delle passioni, l'ansia del desiderio e del timore, ed ogni
    tormento del volere sono allora d'un tratto placati istantaneamente
    in maniera maravigliosa. Imperocché nell'istante in cui noi,
    liberati dal volere, ci siamo abbandonati al puro conoscere senza
    più volontà, siamo come trasportati in un altro mondo, dove tutto
    ciò che commuove la nostra volontà e quindi sì forte ci scuote, più
    non esiste. Quella liberazione della conoscenza ci trae fuori da
    tutto, tanto e sì appieno, quanto il sonno e il sogno: felicità e
    infelicità sono svanite: non siamo più l'individuo, che è obliato,
    non siamo più che puro soggetto della conoscenza: non esistiamo più
    se non come l'unico occhio del mondo, il quale da tutti gli esseri
    conoscenti guarda, ma nell'uomo soltanto può diventare del tutto
    libero dal servigio della volontà: e allora ogni distinzione da
    individuo a individuo svanisce a tal punto, da essere affatto
    indifferente se il contemplante occhio appartenga a un re possente o
    a un tormentato mendico. Imperocché né felicità né pena vengono
    portati con noi al di là da quei confini. Sì presso sta a noi
    perennemente un dominio, nel quale siamo del tutto strappati al
    nostro dolore; ma chi ha la forza di trattenervisi a lungo? Non
    appena una qualsiasi relazione tra quegli oggetti oggettivamente
    intuiti e la nostra volontà, la nostra persona, si riaffaccia alla
    conscienza, ha fine l'incantesimo: noi ricadiamo indietro nella
    conoscenza che il principio di ragione governa; conosciamo non più
    l'idea, ma la cosa singola, l'anello d'una catena, alla quale noi
    stessi apparteniamo; e siamo restituiti a tutto il nostro affanno. I
    più degli uomini, mancando loro affatto l'oggettità, ossia la
    genialità, stanno quasi sempre in questa condizione. Perciò non si
    trovano volentieri soli con la natura; abbisognano di compagnia,
    almeno quella d'un libro. Imperocché il lor conoscere rimane
    soggetto al volere: negli oggetti essi cercano quindi solamente un
    possibile rapporto con la propria volontà; e davanti a tutto ciò che
    tal rapporto non abbia, risuona nel loro intimo un perenne,
    sconsolato Non mi serve a nulla: dal che anche il più bello
    spettacolo di natura viene a prendere per essi nella solitudine una
    triste, sinistra, ostile apparenza.
    
    Finalmente è ancora quel senso beato dell'intuizione libera da
    volontà, che diffonde un sì mirabile incanto sul passato come sulla
    distanza, e ce li mostra in una luce che tanto li abbellisce, per
    effetto d'una nostra illusione. Quando ci rappresentiamo giorni da
    lungo tempo trascorsi, vissuti in un paese lontano, sono gli oggetti
    soltanto, che la fantasia nostra richiama, e non il soggetto della
    volontà, il quale trascinava con sé i suoi mali insanabili, allora
    come oggi; ma questi sono dimenticati, perché già sovente da quei
    giorni hanno fatto luogo ad altri mali. Così l'intuizione oggettiva
    agisce nel ricordo come agirebbe nel presente, qualora avessimo su
    di noi stessi la forza di abbandonarci a lei, liberi da volontà. Da
    ciò deriva, che specialmente quando una pena qualsiasi ci angoscia
    più del consueto, l'improvvisa memoria di scene passate e lontane ci
    balena come un paradiso perduto. L'oggettivo soltanto, non
    l'individuale-soggettivo è rievocato dalla fantasia, e noi
    c'immaginiamo che quella visione oggettiva stesse allora davanti a
    noi così pura, così incontaminata dalla volontà, come ora ci sta la
    sua immagine nella fantasia: mentre invece la relazione degli
    oggetti col nostro volere ci creava tormento allora come adesso. Noi
    possiamo per mezzo degli oggetti presenti sottrarci a tutti i dolori
    come per mezzo dei lontani, sol che ci eleviamo alla pura
    considerazione oggettiva di quelli, e perveniamo così a produrre
    l'illusione che essi soli, e non già noi stessi, siano presenti:
    allora, disciolti dal prepotente Io, come puri soggetti del
    conoscere saremo tutt'uno con quegli oggetti. E nel modo ond'è loro
    indifferente il nostro affanno, così è questo, in tali istanti,
    indifferente a noi medesimi. Sopravvive allora unicamente il mondo
    quale rappresentazione, e il mondo quale volontà è svanito. Con
    tutte queste considerazioni vorrei aver chiarito di qual genere e
    quanto grande sia la parte che nel piacere estetico ha la condizione
    soggettiva di esso, cioè la liberazione del conoscere dal servizio
    della volontà, l'oblio di se stesso in quanto individuo, e
    l'elevazione della conscienza a puro, libero da volontà, fuori del
    tempo, da ogni relazione indipendente soggetto del conoscere. Con
    questo aspetto soggettivo della contemplazione estetica si presenta
    ognora congiunto, qual necessario correlato, l'aspetto oggettivo di
    quella: la percezione intuitiva dell'idea platonica. Ma, prima di
    volgerci a un più attento esame di quest'ultima, occorre indugiare
    ancora alquanto sull'aspetto soggettivo del piacere estetico, per
    compierne lo studio spiegando l'impressione del sublime, che da esso
    unicamente dipende, e da una modificazione di esso deriva. In
    seguito la nostra investigazione del piacere estetico raggiungerà,
    con l'esame del suo aspetto oggettivo, intera compiutezza.
    
    A quanto abbiamo detto vanno aggiunte dapprima le osservazioni che
    seguono. La luce è la più rallegrante delle cose: è divenuta il
    simbolo di tutto ciò ch'è buono e salutare. In tutte le religioni
    indica la eterna salvezza, mentre l'oscurità indica dannazione.
    Ormuzd risiede in purissima luce, Ahriman in eterna notte. Il
    paradiso di Dante fa all'inarca l'effetto del Wauxhall di Londra,
    tutti gli spiriti beati apparendovi come punti luminosi, che si
    raccolgono in regolari figure. L'assenza della luce ci fa
    immediatamente tristi; il suo ritorno rallegra: i colori suscitano
    di per sé un vivo senso di piacere, che, quando sono trasparenti,
    raggiunge il massimo grado. Tutto ciò proviene esclusivamente
    dall'esser la luce il correlato e la condizione del più compiuto
    modo di conoscenza intuitiva, del solo, che direttamente non tocchi
    in nulla la volontà. Imperocché la vista non è punto, come
    l'affezione degli altri sensi, in sé immediatamente e per la propria
    azione sensitiva capace di sentire nell'organo un'impressione
    piacevole o spiacevole, ossia non ha alcun legame immediato con la
    volontà: ma solo può averlo l'intuizione che nell'intelletto ne
    deriva; e quel legame sta nel rapporto dell'oggetto con la volontà.
    Già nell'udito le cose vanno altrimenti: certi suoni possono
    direttamente produrre dolore, e anche direttamente, pel puro senso,
    non già rispetto all'armonia o alla melodia, essere piacevoli. Il
    tatto essendo tutt'uno col sentimento del corpo intero, è ancor più
    vincolato a questo diretto influsso sulla volontà: tuttavia può
    aversi una sensazione tattile che non dia dolore o piacere. Ma gli
    odori sono sempre piacevoli o spiacevoli; i gusti ancor più. Questi
    due ultimi sensi adunque sono i più inquinati dalla volontà: sono
    perciò sempre i meno nobili, e Kant li chiamò sensi soggettivi. La
    gioia che dà la luce è quindi in realtà nient'altro che la gioia per
    l'oggettiva possibilità della più pura e più compiuta conoscenza
    intuitiva; e come tale va derivata dal fatto che il puro conoscere,
    libero e disciolto da ogni volere, è in sommo grado rallegrante, e
    già di per sé ha una gran parte nel godimento estetico. Da questo
    aspetto della luce proviene alla sua volta la bellezza
    incredibilmente grande che noi troviamo nel riflesso degli oggetti
    nell'acqua. Quella lievissima, rapidissima, finissima maniera di
    reciproca influenza dei corpi; quella, a cui noi dobbiamo le nostre
    percezioni di gran lunga più perfette e più pure – l'influenza per
    mezzo di raggi riflessi – è qui del tutto chiara, e su vasta scala
    messa davanti ai nostri occhi: di là viene la gioia estetica che ne
    proviamo, la quale, in sostanza, ha tutte le sue radici nel
    principio soggettivo del piacere estetico, ed è gioia del puro
    conoscere e delle sue vie11.
    
    § 39.
    
    Ora, a tutte codeste considerazioni, le quali devono mettere in
    rilievo la parte soggettiva del piacere estetico, ossia il piacere
    stesso in quanto è gioia del puro, intuitivo conoscere come tale, in
    opposizione alla volontà – viene a collegarsi, essendovi
    direttamente connesso, lo studio di quella disposizione che s'è
    chiamata sentimento del sublime.
    
    Già osservammo che il trasportarsi dello stato della pura intuizione
    più facilmente avviene, quando gli oggetti si fanno a questa
    incontro, ossia quando, per la lor varia e in pari tempo determinata
    e chiara forma, facilmente divengono i rappresentanti delle loro
    idee; nelle quali appunto la bellezza, in senso oggettivo, consiste.
    Più di tutto ha questo privilegio la bella natura, e strappa quindi
    anche all'uomo più insensibile almeno un fugace piacere estetico:
    anzi, è sorprendente come in particolar maniera il mondo vegetale
    inviti alla contemplazione estetica e quasi la imponga, sì che si
    potrebbe dire, questa facilità essere in relazione col fatto che gli
    esseri organici di quel mondo non sono essi medesimi, come i corpi
    animali, immediato oggetto della conoscenza, e abbisognano quindi
    d'un estraneo individuo intelligente, per entrare dal mondo del
    cieco volere in quello della rappresentazione; sì che quasi avevano
    la nostalgia d'entrarvi, per conseguire almeno indirettamente ciò
    che direttamente è loro negato. Io pongo del resto senz'altro in
    disparte questo pensiero audace e forse confinante con la
    fantasticheria, poi che solo una molto intima e amorosa
    contemplazione della natura può suscitarlo o giustificarlo12. Fin
    quando è codesto offrircisi della natura, con la significazione e
    l'evidenza delle sue forme (dalle quali facilmente parlano a noi le
    idee in noi individuate), che dalla conoscenza delle semplici
    relazioni asservite alla volontà ci trasporta nella contemplazione
    estetica, e con questa ci eleva a soggetti del conoscere, liberi da
    volontà; fino allora è solamente il bello, che agisce su noi, e quel
    che si sveglia è sentimento della bellezza. Ma se appunto quegli
    oggetti, le cui forme significative ci invitano alla contemplazione
    pura, hanno un atteggiamento ostile verso l'umana volontà in genere,
    quale si palesa nella sua oggettità – nel corpo umano –, ed a quella
    s'oppongono, e la minacciano con la lor forza superiore, che vince
    ogni resistenza, o davanti alla propria smisurata grandezza la
    impiccioliscono fino al nulla; e pur ciò nondimeno il contemplatore
    non volge l'attenzione a questa premente mossa ostile contro la
    volontà di lui, ma, pure accorgendosene e riconoscendola,
    conscientemente ne rimuove lo sguardo, nel mentre si discioglie con
    vigore dalla volontà e dalle sue relazioni e, tutto dato alla
    conoscenza, appunto quegli oggetti per la volontà paurosi contempla
    tranquillo come puro soggetto del conoscere; solo cogliendone
    l'idea, estranea ad ogni relazione, e quindi indugiandosi volentieri
    a contemplarli, sentendosi così levato sopra se stesso, sopra la
    propria persona, la volontà propria e la volontà in genere: – allora
    lo riempie il sentimento del sublime; egli è in istato di
    elevazione, e perciò si dice sublime anche l'oggetto che un tale
    stato ha prodotto. Ciò che adunque distingue il sentimento del
    sublime dal sentimento del bello, è questo: nel bello il puro
    conoscere ha preso senza lotta il sopravvento, mentre la bellezza
    dell'oggetto, ossia la conformazione di esso, che ne lascia
    facilmente conoscer l'idea, ha senza opposizione e quasi
    inavvertitamente la volontà e la conoscenza delle relazioni, che la
    serve, allontanato dalla conscienza; e lasciata questa sopravvivere
    come puro soggetto del conoscere, sì che della volontà non resta
    neppure un ricordo; invece nel sublime quello stato del puro
    conoscere è raggiunto solo mediante un conscio ed energico
    districarsi dalle relazioni di quello stesso oggetto con la volontà,
    riconosciute sfavorevoli; e mediante un libero elevarsi,
    accompagnato dalla conscienza, sopra la volontà come sopra la
    conoscenza che a lei si riferisce. Codesta elevazione deve non
    soltanto esser guadagnata consapevolmente, ma anche conservata;
    l'accompagna quindi un continuo ricordo della volontà, ma non di un
    singolo, individuale volere, come sarebbe la paura o il desiderio,
    bensì il ricordo del volere umano in genere, in quanto esso è
    genericamente espresso per mezzo della sua oggettità, ossia del
    corpo umano. Qualora intervenga nella conscienza un reale, singolo
    atto di volontà, per effetto di una vera, personale angustia e d'un
    pericolo proveniente dall'oggetto, ecco l'individuale volontà
    effettivamente scossa prendere d'un subito il sopravvento, farsi
    impossibile la calma della contemplazione, andar perduta
    l'impressione del sublime; la quale cede il posto alla paura, in cui
    l'ansia, che l'individuo prova, per salvarsi, caccia ogni altro
    pensiero. Alcuni esempi gioveranno molto a chiarire e rendere
    indubitabile questa teoria del sublime estetico; in pari tempo
    mostreranno la varietà dei gradi nel sentimento del sublime.
    Imperocché, poi ch'esso è nella sua principal determinazione
    tutt'uno col sentimento del bello (determinazione che consiste nel
    puro conoscere libero da volontà e nella conoscenza necessariamente
    concomitante delle idee, le quali stanno fuor d'ogni relazione
    dominata dal principio di ragione); e dal sentimento del bello si
    distingue solo per un'aggiunta, ossia l'elevazione sopra il
    riconosciuto rapporto ostile dell'oggetto contemplato con la volontà
    in genere; nascono così – a seconda che tale aggiunta sia forte,
    chiara, insistente, vicina, oppure debole, lontana, appena accennata
    – più gradi del sublime: anzi, passaggi dal bello al sublime. Credo
    più opportuno per la trattazione, questi passaggi e in genere i più
    deboli gradi del sublime porre dapprima in esempi davanti agli
    occhi; anche se coloro, la cui sensibilità estetica non è molto
    grande, né viva la fantasia, comprenderanno solo gli esempi, che più
    tardi seguono, dei gradi più alti e più chiari. A questi unicamente
    dovranno tenersi, ed i primi tralasciare.
    
    Come l'uomo è a un tempo impetuoso e oscuro impulso del volere
    (indicato, quale suo vertice, dal polo dei genitali) ed eterno,
    libero, sereno soggetto del puro conoscere (indicato mediante il
    polo del cervello); così è il sole – conformemente a tale contrasto
    – nello stesso tempo sorgente della luce, ch'è condizione del più
    perfetto modo di conoscere, e sorgente del calore, ch'è condizione
    prima d'ogni vita, ossia d'ogni fenomeno della volontà nei gradi più
    alti di questa. Ciò che per la volontà è il calore, è per la
    conoscenza la luce. La luce è quindi il più grosso diamante nella
    corona della bellezza, e ha il più deciso influsso sopra la
    conoscenza di ciascun bell'oggetto: la sua presenza è condizione
    assoluta; la sua favorevole situazione aumenta anche la bellezza di
    ciò ch'è bellissimo. Più degli altri è dal suo favore aumentato il
    bello dell'architettura; il qual favore tuttavia da la maggior
    bellezza anche a ciò che v'ha di più insignificante. Immaginiamo ora
    nel duro inverno, nell'universale irrigidimento della natura, i
    raggi del sole basso all'orizzonte riflessi da pietrosi massi, che
    quelli illuminano senza riscaldare, essendo con ciò propizi solo al
    più puro modo di conoscere e non alla volontà; la contemplazione del
    bell'effetto di luce su codesti massi ci trasporta, come ogni cosa
    bella, nello stato della conoscenza pura, il quale tuttavia per il
    tenue ricordo della mancanza di calore, e quindi del principio
    vivificante – ricordo suscitato appunto da quei raggi – esige di già
    un certo elevarsi sopra l'interesse della volontà, contiene una
    leggera esortazione a rimanere nella conoscenza pura, rimuovendo
    ogni volere; ed appunto perciò viene ad essere un passaggio dal
    sentimento del bello al sentimento del sublime. Altro esempio quasi
    altrettanto debole è il seguente.
    
    Trasportiamoci in una contrada molto solitària, con illimitato
    orizzonte, sotto cielo perfettamente sereno, con alberi e piante
    nell'aria affatto immobile, nessun animale, nessun uomo,
    nessun'acqua scorrente, la più profonda quiete; tale spettacolo è
    come un richiamo alla gravità, alla contemplazione, a liberarsi
    dalla volontà e dalla sua miseria: questo è sufficiente per dare
    alla contrada, sol per essere solinga e immersa nella pace, una
    sfumatura di sublime. Non offrendo ella alcun oggetto, né favorevole
    né sfavorevole, alla volontà bisognosa d'un perenne aspirare e
    conseguire, rimane unicamente lo stato della pura contemplazione; e
    chi di questo non è capace, resta in preda al vuoto della volontà
    disoccupata, al tormento della noia, con vergognosa umiliazione.
    Quel paesaggio ci dà adunque la misura del nostro valore
    intellettuale, di cui è buon indizio il grado dell'attitudine nostra
    a sopportare, oppure ad amare la solitudine. Ci offre perciò un
    esempio del sublime nel grado minore, essendo davanti ad esso, alla
    sua tranquilla e pacata necessità, insito nello stato di pura
    conoscenza, come contrasto, un ricordo della soggezione e miseria
    della volontà per sua natura perennemente agitata. Questa è la
    specie di sublime, che si suole esaltare come prodotto dalla vista
    delle infinite praterie nell'interno dell'America Settentrionale.
    
    Ma immaginiamo ora una contrada simile, la quale, spoglia anche
    delle piante, non mostri che nude rocce; già l'assoluta mancanza
    d'ogni essere organico necessario alla nostra sussistenza è
    angosciosa per la volontà; il deserto prende un carattere pauroso;
    la nostra disposizione si fa più tragica; l'elevazione al puro
    conoscere avviene con un risoluto svincolarsi dall'interesse della
    volontà; e mentre noi persistiamo nello stato del puro conoscere,
    comparisce palese il sentimento del sublime.
    
    In grado ancor più alto questo può esser suscitato da un'altra
    scena. La natura in tempestosa agitazione, dubbia luce attraverso
    minacciose, nere nubi d'uragano; mostruose, nude, precipiti rocce,
    le quali chiudono in loro cerchia la vista; fragorose spumeggiami
    corrènti; assoluto deserto; gemiti dell'aria fischiante attraverso
    le gole. La nostra pochezza, la nostra lotta con la natura nemica,
    la nostra volontà, che vi s'infrange, ci sta qui evidente innanzi
    agli occhi: ma fin che l'angoscia individuale non prende il
    sopravvento, finché noi restiamo in estetica contemplazione, ficca
    l'occhio dentro quella battaglia delia natura, dentro quello
    spettacolo di volontà infranta il puro soggetto del conoscere; e
    tranquillo, imperturbato, non coinvolto (unconcerned) coglie le idee
    appunto in quegli oggetti che sono per la volontà minacciosi e
    paurosi. Proprio in tal contrasto è il sentimento del sublime. Ma
    più forte ancora è l'impressione, quando abbiamo in grande, davanti
    agli occhi, la battaglia delle infuriate forze naturali: quando in
    quella scena una precipite cascata ci toglie col suo fragore la
    possibilità d'udir la nostra stessa voce; – o quando ci troviamo
    sull'ampio mare sconvolto dalla burrasca: onde alte come case
    salgono e scendono, impetuose battono contro dirupate rive,
    sprizzano alta nell'aria la spuma, e la burrasca urla, il mare
    mugghia, guizzano lampi dalle nere nubi, colpi di tuono coprono la
    voce della tempesta e del mare. Raggiunge allora evidenza massima,
    nello spettatore imperturbato di questa scena, il doppio carattere
    della sua coscienza: egli sente se stesso come individuo, come
    fragile manifestazione della volontà, che il più piccolo urto di
    quelle forze può sfracellare, inerme contro la possente natura, da
    tutto dipendente, preda del caso, meno che nulla di fronte a potenze
    mostruose; e d'altra parte nel tempo stesso vede sé come eterno,
    tranquillo soggetto del conoscere, il quale, essendo condizione
    dell'oggetto, è appunto quegli che porta in sé questo mondo intero;
    la tremenda battaglia della natura non è che la sua
    rappresentazione, mentr'egli stesso contempla tranquillo le idee,
    libero e straniero a tutti i voleri, a tutti i bisogni. Questa è la
    piena impressione del sublime. Qui la produce la vista d'una
    potenza, che minaccia all'individuo distruzione: potenza di lui,
    senza confronto, maggiore.
    
    In tutt'altro modo può sorgere quell'impressione dal rappresentarsi
    nella fantasia una semplice grandezza di spazio e di tempo, tanto
    smisurata da impicciolire l'individuo, nel confronto, fino al nulla.
    La prima specie possiamo chiamare sublime dinamico, la seconda
    sublime matematico, conservando le denominazioni e la giusta
    distinzione di Kant; sebbene ci discostiamo interamente da lui nello
    spiegar l'intima essenza di quell'impressione, non riconoscendovi
    alcuna parte dovuta a riflessioni morali o a ipostasi tratte dalla
    scolastica.
    
    Se ci veniamo a smarrire nel considerar l'infinita grandezza del
    mondo nello spazio e nel tempo, ripensando ai secoli passati ed ai
    futuri – o anche, se il cielo notturno veracemente pone davanti al
    nostro occhio innumerabili mondi –, vediamo noi stessi ridotti a un
    nulla, ci sentiamo, in quanto individui, in quanto corpi animati, in
    quanto effimere manifestazioni di volontà, come una goccia
    nell'oceano svanire, scioglierci nel nulla. Ma in pari tempo, contro
    codesto fantasma della nostra propria nullità, contro codesta
    menzognera impossibilità si leva l'immediata conscienza, che tutti
    quei mondi solamente nella nostra rappresentazione esistono,
    solamente quali modificazioni dell'eterno soggetto del puro
    conoscere – soggetto che riconosciamo in noi stessi non appena
    dimentichiamo l'individualità, e che è il necessario sostegno, la
    condizione di tutti i mondi e di tutti i tempi. La grandezza del
    mondo, che prima c'inquietava, sta ora in noi: la nostra dipendenza
    da lei viene soppressa mediante la sua dipendenza da noi. Ma tutto
    ciò non si presenta subito alla riflessione; invece, si mostra come
    la coscienza appena sentita d'essere, in un senso qualsivoglia (il
    quale dalla filosofia sarà chiarito), tutt'uno col mondo, e quindi
    nella sua smisurata grandezza non già schiacciati, bensì innalzati.
    È la conscienza sentita di ciò, che le Upanishad dei Veda esprimono
    ripetute volte in così vari modi, specialmente nella già citata
    sentenza: «Hae omnes creaturae in totum ego sum, et praeter me aliud
    ens non est» (Oupnek'hat, vol. I, p. 122). È innalzamento sul
    proprio individuo, sentimento del sublime.
    
    In modo affatto immediato quest'impressione del sublime matematico
    ci è già prodotta da uno spazio piccolo, sì, in confronto
    dell'universo, ma che, essendo a noi visibile intero e direttamente,
    agisce su di noi nelle sue tre dimensioni con tutta la grandezza
    sua; la quale basta a render quasi infinitamente pìccola la
    proporzione del nostro corpo. Di tale effetto non è capace uno
    spazio, che si presenti vuoto alla nostra percezione; mai quindi uno
    spazio aperto, ma soltanto uno che, essendo circoscritto, sia
    direttamente percepibile in tutte le dimensioni: così un alto e
    grande interno, qual è quello di S. Pietro in Roma o di S. Paolo in
    Londra. L'impressione del sublime nasce qui da sentire
    l'impercettibile nullità del nostro corpo davanti a una grandezza,
    la quale nondimeno d'altra parte sta solamente nella nostra
    rappresentazione, e che portiamo noi stessi, in quanto soggetto
    conoscente. Ossia, nasce qui come sempre dal contrasto
    dell'insignificanza e dipendenza del nostro io, in quanto individuo,
    in quanto fenomeno di volontà, con la conscienza di quell'io in
    quanto puro soggetto del conoscere. Anche la volta del cielo
    stellato agisce – quando la si osservi senza riflessione – non
    altrimenti che quella volta di pietra; e non con la sua vera, ma sol
    con la sua apparente grandezza. Vari oggetti della nostra intuizione
    eccitano il sentimento del sublime, perché – a causa della loro
    vastità, o della loro antichità, ossia della loro durata temporale –
    noi ci sentiamo davanti ad essi impiccioliti fino a sparire, e
    tuttavia ci inebriamo nel goderne la vista. Di tal fatta sono le
    altissime montagne, le piramidi d'Egitto, le colossali rovine di
    remota antichità.
    
    Anzi, perfino al campo etico può applicarsi la nostra spiegazione
    del sublime; ossia a quel che si suol designare col nome di
    carattere sublime. Poiché questo egualmente si ha, quando la volontà
    non viene eccitata da oggetti, i quali pur sarebbero atti ad
    eccitarla; e invece la conoscenza mantiene anche allora il
    sopravvento. Un tal carattere considera quindi gli uomini in modo
    affatto obiettivo, e non già secondo le relazioni che possono avere
    secondo la sua volontà. Osserverà per esempio i loro difetti, e
    perfino il loro odio e la loro ingiustizia verso di lui medesimo,
    senza per ciò sentirsi spinto a odiarli; li vedrà felici, senza
    provarne invidia; riconoscerà le loro buone qualità, senza
    desiderarne per questo di avvicinarli più intimamente; apprezzerà la
    bellezza delle donne, senza desiderarle. La sua individuale
    condizione felice o infelice non lo toccherà molto; piuttosto sarà
    come Orazio descritto da Amleto:
    
    for thou hast been
    
    As one, in suffering ali, that suffers nothing;
    
    A man, that fortune's buffets and rewards
    
    Hast ta'en with equal thanks, etc.
    
    A. 3, sc. 213
    
    Imperocché nel suo corso vitale e nelle traversie di questo, egli
    scorgerà meno il proprio fato individuale che non il fato
    dell'umanità in genere; e per conseguenza si comporterà piuttosto
    come quegli che conosce, anziché come quegli che soffre.
    
    § 40.
    
    Poiché i contrari si illuminano a vicenda, può qui trovar posto
    l'osservazione, che il vero e proprio contrario del sublime è
    alcunché a tutta prima non riconoscibile per tale: l'eccitante.
    Chiamo così ciò che eccita la volontà, con l'immediato prometterle
    esaudimento, appagamento. Se l'impressione del sublime è nata dal
    fatto che un oggetto avverso alla volontà può divenire oggetto di
    pura contemplazione, e questa viene continuata sol mediante un
    perenne distogliersi dalla volontà ed elevarsi sopra l'interesse di
    lei, la qual cosa appunto costituisce il sublime in tal
    disposizione; l'eccitante viceversa fa discendere lo spettatore
    dalla contemplazione pura, richiesta per ogni percezione del bello,
    eccitando forzatamente la sua volontà, per mezzo di oggetti che
    direttamente l'attraggono: sì che lo spettatore non è più puro
    soggetto del conoscere, bensì bisognoso, dipendente soggetto del
    volere. Che di solito si chiami eccitante ogni bellezza di genere
    lieto, è concetto di troppo ampia sfera per mancanza di distinzione;
    ed io devo metterlo in disparte, anzi disapprovarlo. Ma nel senso
    indicato e spiegato, trovo nel dominio dell'arte due sole specie di
    eccitante, ed entrambe indegne di lei. L'una, davvero bassa, nella
    natura morta degli olandesi: quando ci si inganna a segno da
    scambiar gli oggetti dipinti per commestibili, i quali per la loro
    ingannevole rappresentazione suscitano l'appetito, che è appunto
    un'eccitazione della volontà, per cui cessa ogni contemplazione
    estetica dell'oggetto. Frutta dipinta si può ancora ammettere,
    presentandosi come successivo sviluppo del fiore e come bel prodotto
    di natura per forma e colore, senza che si deva per forza pensare
    alla sua commestibilità; ma purtroppo troviamo spesso, con
    naturalezza da illudere, vivande allestite e servite in tavola,
    ostriche, aringhe, gamberi di mare, pane e burro, birra, vino, etc.:
    cosa del tutto riprovevole. Nella pittura storica e nella scultura,
    l'eccitante consiste in figure nude, che per l'atteggiamento, la
    mezza nudità e tutto il modo della rappresentazione mirano a destare
    libidine nello spettatore; dal che vien subito distrutta la
    contemplazione puramente estetica: ossia si opera in opposizione
    allo scopo dell'arte. Tale difetto corrisponde in tutto a quello or
    ora biasimato negli olandesi. Quasi sempre ne son privi gli antichi,
    malgrado tutta la bellezza e piena nudità delle figure; perché
    l'artista medesimo le ha create con puro, obiettivo spirito, pieno
    dell'ideale bellezza, e non già in ispirito di soggettiva, bassa
    concupiscenza. L'eccitante è quindi sempre da evitarsi nell'arte.
    
    V'è anche un eccitante negativo, ancor più biasimevole che non sia
    il positivo or ora illustrato: e questo è il nauseante. Appunto come
    il vero eccitante, questo sveglia la volontà dello spettatore e
    distrugge con ciò la contemplazione puramente estetica. Ma quel che
    viene per suo mezzo eccitato, è un vivace non-volere, una
    riluttanza; suscita la volontà, ponendole innanzi oggetti del suo
    ribrezzo. Fu perciò conosciuto da tempo, ch'esso è del tutto
    inammissibile nell'arte; dove tuttavia anche il brutto – fin quando
    non sia disgustoso – può esser tollerato a suo luogo, come vedremo
    in seguito.
    
    § 41.
    
    Il corso del nostro studio ha reso necessario introdur
    l'illustrazione del sublime a questo punto, quando quella del bello
    non era compiuta che a mezzo, sotto un solo dei suoi aspetti – il
    soggettivo. Imperocché era appunto una particolare modificazione di
    codesto aspetto soggettivo, che distingueva il sublime dal bello.
    Invero, se lo stato del puro conoscere scevro di volontà,
    presupposto e voluto da ogni contemplazione estetica, sia sorto come
    spontaneamente, senza resistenza, per un semplice dileguarsi della
    volontà dalla conscienza, quando un oggetto l'ha a ciò invitato ed
    attratto; oppur se il medesimo stato sia raggiunto attraverso un
    libero, conscio elevarsi sulla volontà, con la quale l'oggetto
    contemplato aveva una relazione sfavorevole ed ostile; – questa è la
    differenza tra il bello e il sublime. Nell'oggetto non sono l'uno e
    l'altro sostanzialmente distinti: poiché in ciascun caso è oggetto
    della contemplazione estetica non già la singola cosa, bensì l'idea,
    che in questa tende a palesarsi, ossia l'adeguata oggettità della
    volontà in un dato grado: il suo correlato necessario – sottratto,
    come lei medesima, al principio di ragione, è il puro soggetto del
    conoscere; come il correlato della cosa singola è l'individuo
    conoscente, e questo e quella stanno entrambi in potere del
    principio di ragione.
    
    Chiamando bella una cosa, veniamo con ciò a dire che ella è oggetto
    della nostra contemplazione estetica; la qual cosa implica due
    fatti: da un lato, che la vista di quella ci renda obiettivi, ossia
    che noi nel contemplarla non siamo più consapevoli di noi stessi in
    quanto individui, bensì in quanto puro, libero da volontà soggetto
    del conoscere; e dall'altro lato, che nell'oggetto non la singola
    cosa, bensì conosciamo un'idea – il che può solo accadere fin quando
    la nostra contemplazione dell'oggetto non sia asservita al principio
    di ragione, non vada dietro al suo rapporto con qualcosa fuori di
    esso (rapporto ch'è sempre collegato a rapporti con la nostra
    volontà), bensì posi nell'oggetto medesimo. Imperocché l'idea e il
    puro soggetto del conoscere si presentano sempre insieme alla
    conscienza, come necessari correlati, e col loro presentarsi
    svanisce anche ogni differenza temporale, essendo entrambi affatto
    estranei al principio di ragione in tutte le sue forme, e stando
    fuori delle relazioni da esso determinate: paragonabili
    all'arcobaleno ed al sole, che nessuna parte hanno nel continuo moto
    e nella successione delle cadenti gocce. Quindi, se io a mo'
    d'esempio guardo un albero esteticamente, ossia con occhio
    artistico, e quindi non esso conosco, bensì la sua idea; perde
    subito ogni valore il saper se l'albero è questo o se è un suo
    florido antenato di mille anni innanzi, e così se chi l'osserva è
    questo o quell'individuo, quando che sia e dove che sia vissuto.
    Tolto il principio di ragione, son tolti anche l'oggetto singolo e
    il conoscente individuo; nulla rimane se non l'idea e il puro
    soggetto del conoscere, che insieme costituiscono l'adeguata
    oggettità della volontà in questo grado. E non solo al tempo, ma
    anche allo spazio è sottratta l'idea: poiché non la forma spaziale,
    che mi sta davanti, ma la sua espressione, il suo significato puro,
    la sua più intima essenza, che a me si apre e mi parla, è
    propriamente l'idea; e rimane identica pur se vi sia gran differenza
    nelle relazioni spaziali della forma.
    
    Ora, poiché da un verso ogni cosa che esista può esser considerata
    in modo puramente obiettivo e fuor d'ogni relazione; poiché inoltre
    dall'altro verso, in ogni cosa la volontà – qualunque sia il grado
    della sua oggettità – si rileva, e la cosa stessa è quindi
    espressione di un'idea; ne viene che ogni cosa è bella. Che anche le
    cose più insignificanti possano essere oggetto d'una considerazione
    puramente obiettiva e scevra di volontà, e come tali mostrarsi
    belle, attesta l'esempio, già citato a questo riguardo (§ 38), delle
    nature morte olandesi. Ma una cosa è più bella d'un'altra pel fatto
    che ella agevola quella considerazione puramente oggettiva, le muove
    incontro, quasi la costringe: e allora noi diciamo ch'è molto bella.
    Questo in parte accade perché, come cosa singola, mediante la
    chiarissima, nettamente determinata, in tutto significativa
    relazione delle sue parti, ella esprime nettamente l'idea della
    propria specie; e mediante la compiutezza, in lei raccolta, di tutte
    le possibili manifestazioni della specie stessa, quell'idea palesa
    in modo compiuto; sì che allo spettatore è reso facilissimo il
    passar dalla singola cosa all'idea, e facilissimo appunto perciò
    anche lo stato della pura contemplazione. Per un'altra parte, il
    privilegio della maggior bellezza d'un oggetto consiste nell'esser
    l'idea medesima, che da quello ci parla, un alto grado
    nell'oggettità della volontà, e quindi significantissima e molto
    espressiva. Perciò è l'uomo più bello d'ogni altra cosa, e la
    rivelazione della sua essenza è il più alto fine dell'arte. Figura
    umana ed umana espressione sono il più importante oggetto dell'arte
    figurativa, come l'azione umana è oggetto più importante della
    poesia. Ma tuttavia ogni cosa ha la sua speciale bellezza: non
    soltanto ogni essere organico presentantesi nell'unità del suo
    individuo, bensì anche ogni cosa inorganica, priva di forma, e
    perfino ogni cosa fatta dalla mano dell'uomo. Imperocché tutte
    palesano le idee, per mezzo delle quali la volontà s'oggettiva nei
    gradi più bassi, e formano come le più profonde, estinguentisi note
    di basso della natura. Gravità, solidità, fluidità, luce, etc., sono
    le idee che si esprimono in rocce, edilizi, acque. La bella
    architettura dei giardini e delle costruzioni non altro può se non
    aiutar tali idee a spiegare in modo limpido, vario e compiuto quelle
    lor qualità, e dar loro modo di esprimersi nettamente; sì che
    possano richiamare e rendere agevole la contemplazione estetica. A
    ciò poco o punto riescono invece brutti edifizi e paesi; ma nemmeno
    da questi posson dileguarsi del tutto quelle generali idee
    elementari della natura. Quivi anche parlano codeste idee al
    contemplatore che le cerca, anche edifizi brutti e simili cose sono
    atti ad una considerazione estetica: ancora sono quivi riconoscibili
    le più generali qualità della loro materia, e soltanto la forma loro
    data artificialmente, lungi dall'agevolare, è un impedimento, che fa
    difficile la contemplazione estetica. Dunque, anche cose artefatte
    servono alla espressione di idee: ma non è l'idea della cosa
    artefatta, che in loro parla, bensì l'idea del materiale a cui s'è
    data quella forma artificialmente. Questo si può esprimere, in modo
    assai comodo, nel linguaggio degli scolastici, con due parole: ossia
    nell'artefatto si esprime l'idea della sua forma substantialis, non
    quella della sua forma accidentalis; la quale ultima non fa capo a
    un'idea, bensì semplicemente ad un concetto umano, dal quale ella è
    nata. S'intende, che qui con la parola artefatto non si vuole
    indicare nessun'opera dell'arte figurativa. D'altronde in realtà gli
    scolastici intesero per forma substantialis quel ch'io chiamo grado
    dell'oggettivazione della volontà in un oggetto. Nel trattar della
    bella architettura, ritorneremo fra poco sull'espressione dell'idea
    del materiale. Or dunque, dato questo nostro giudizio, non possiamo
    convenir con Platone, quando afferma (De Rep,, x, pp. 284-285, e
    Parmen., p. 79, ed. Bip.), che tavola e sedia esprimono le idee
    tavola e sedia; noi diciamo invece, che esprimono le idee già
    rilevantisi nella semplice materia loro, in quanto tale. Secondo
    Aristotele (Metaph,, xi, cap. 3) avrebbe tuttavia Platone statuito
    solamente idee degli enti naturali: Πλατον εφη, ότι ειδη εστιν
    όποσα φυσει. (Plato dixit, quod ideae eorum sunt, quae natura
    sunt); e nel cap. 5 si dice non esister secondo i platonici idea
    alcuna di casa o d'anello. In ogni modo già i discepoli più prossimi
    di Platone, secondo c'informa Alcinoo (introducilo in platonicam
    philosophiam, cap. 9), negarono potersi dare idee di cose
    artificiali. Dice Alcinoo: Ὁριζονται δε την ιδεαν, παραδειγμα των
    κατα φυσιν αιωνιον. Ουτε γαρ τοις πλειστοις των απο Πλατωνος
    αρεσκει, των τεχνικων ειναι ιδεας, οίον ασπιδος η λυρας, ουτε μην
    των παρα φυσιν, οίον πυρετου και χολερας, ουτε των κατα μερος, οίον
    Σωκρατους καὶ Πλατωνος, αλλ’ουτε των ευτελων τινος, οίον μειζονος
    και ύπερεχοντος ειυαι γαρ τας ιδεας νοησεις θεου αιωνιους τε και
    αυτοτελεις (Definiunt autem ideam exemplar aeternum éorum, quae
    secundum naturam existunt. Nam plurimis ex iis, qui Platonem secuti
    sunt, minime placuit, arte factorum ideas esse, ut clypei atque
    lyrae; neque rursus eorum, quae praeter naturam, ut febris et
    cholerae; neque particularium, ceu Socratis et Platonis; neque etiam
    rerum vilium, veluti sordium et festucae; neque relationum, ut
    majoris et excedentis: esse namque ideas intellectiones dei
    aeternas, ac seipsis perfectas). In quest'occasione può essere
    toccato un altro punto, nel quale la nostra dottrina delle idee
    molto s'allontana da quella di Platone. Egli insegna (De Rep., X, p.
    288), l'oggetto che l'arte bella vuol rappresentare, il modello
    della pittura e della poesia, non esser l'idea, bensì la cosa
    singola. Proprio il contrario sostiene tutta la dimostrazione da noi
    fin qui fatta; e l'avviso di Platone tanto meno ci svierà su questo
    punto, essendo la causa d'un dei più grossi e riconosciuti errori
    commessi da quell'uomo grande, ossia del suo disdegno e abominio per
    l'arte, specialmente la poesia. Il suo falso giudizio su di questo
    ei lo collega direttamente col luogo citato.
    
    § 42.
    
    Ritorno alla nostra indagine dell'impressione estetica. La
    conoscenza del bello richiede adunque sempre, contemporanei e
    inseparabili, un oggetto puramente conoscente, e, come oggetto,
    un'idea conosciuta. Quindi la fonte del godimento estetico starà or
    più nella percezione dell'idea conosciuta, or più nella beatitudine
    e serenità spirituale del puro conoscere, liberatosi da ogni volere
    e per conseguenza da ogni individualità, e della pena che questa
    produce: e codesto prevalere dell'uno o dell'altro elemento del
    piacere estetico dipenderà dall'esser l'idea intuitivamente
    percepita un più alto o più basso grado nell'oggettità della
    volontà. Ad esempio, con la contemplazione estetica della bella
    natura (sia in realtà, sia attraverso il mezzo dell'arte) nel campo
    inorganico e vegetale, e così con quella delle opere di bella
    architettura, prevarrà il godimento del puro conoscere scevro di
    volontà, essendo le idee qui concepite sol bassi gradi
    nell'oggettità della volontà, e non fenomeni di profonda
    significazione e molto espressivo contenuto. Viceversa, quando
    animali e uomini sono oggetto della contemplazione o
    rappresentazione estetica, consisterà il godimento piuttosto
    nell'obiettivo percepir tali idee, che sono le più chiare
    manifestazioni della volontà, mostrandoci la massima varietà di
    forme, ricchezza e profonda significanza dei fenomeni, e palesandoci
    nel modo più compiuto l'essenza della volontà: sia nella sua
    violenza, nella sua terribilità, nel suo appagamento, sia nel suo
    infrangersi (quest'ultimo nella rappresentazione tragica), e
    finalmente pur nel suo mutarsi o sopprimersi (ciò ch'è
    particolarmente il tema della pittura cristiana; come in genere la
    pittura storica e il dramma han per oggetto l'idea della volontà
    illuminata dalla piena conoscenza). Esamineremo adesso le arti ad
    una ad una: dal che la teoria del bello or ora formulata acquisterà
    compiutezza ed evidenza.
    
    § 43.
    
    La materia, in quanto tale, non può essere rappresentazione di
    un'idea. Imperocché essa, come abbiamo trovato nel primo libro, è in
    tutto e per tutto causalità: il suo essere è un semplice agire. Ma
    causalità è forma del principio di ragione: conoscenza dell'idea
    invece esclude essenzialmente il contenuto di quel principio. Anche
    abbiamo trovato nel secondo libro esser la materia il sostrato
    comune a tutti i singoli fenomeni delle idee, e quindi l'anello di
    congiunzione tra l'idea e il fenomeno o cosa singola. Dunque, tanto
    per l'uno quanto per l'altro motivo, non può la materia di per sé
    rappresentare idea alcuna. Ciò si conferma a posteriori pel fatto
    che della materia come tale nessuna rappresentazione intuitiva è
    possibile, bensì unicamente un concetto astratto: non
    rappresentandosi in quella se non le forme e qualità, delle quali è
    base la materia, e in tutte le quali si palesano idee. Questo
    corrisponde pure al fatto, che causalità (l'intera essenza della
    materia) per sé non è rappresentabile intuitivamente: ma
    rappresentabile è solo un determinato nesso causale. All'opposto
    deve ciascun fenomeno di un'idea, essendo questa come tale spirata
    nella forma del principio di ragione, o nel principia
    individuationis, rappresentarsi nella materia, come qualità di
    questa. In questo senso è adunque la materia, come s'è detto,
    l'anello di congiunzione tra l'idea e il principium individuationis,
    il quale è la forma della conoscenza individuale, ossia il principio
    di ragione. Giustissimamente ha quindi Platone posto accanto
    all'idea e al suo fenomeno, ch'è la cosa singola – i quali entrambi
    comprendono le cose tutte del mondo – ancora la materia, come un
    terzo elemento, da quelli diverso (Timaeus, p. 345). L'individuo, in
    quanto fenomeno dell'idea, è sempre materia. Anche ciascuna qualità
    della materia è sempre fenomeno di un'idea, e come tale pur capace
    d'una contemplazione estetica, ossia conoscenza dell'idea che in lei
    si presenta. Questo vale egualmente per le più generiche qualità
    della materia, senza le quali essa non può esistere, e le cui idee
    sono la più debole oggettità della volontà. Tali sono: gravità,
    coesione, rigidità, fluidità, reazione contro la luce, etc.
    
    Se consideriamo ora l'architettura, soltanto come arte bella,
    prescindendo dalla sua destinazione ai fini pratici, nei quali ella
    serve non alla conoscenza pura ma alla volontà, e non è adunque più
    arte come noi l'intendiamo, non ci è possibile attribuirle altro
    intento se non quello di rendere più chiare all'intuizione alcune
    delle idee, che sono i gradi più bassi nell'oggettità della volontà,
    quali gravità, coesione, solidità, durezza – le proprietà generiche
    della pietra; le prime, più semplici, più grosse manifestazioni
    visibili della volontà; le note del basso fondamentale della natura;
    – e poi, oltre quelle, la luce: che per molti rispetti è di quelle
    un contrapposto. Già in codesto basso grado dell'oggettità della
    volontà vediamo che la sua essenza si palesa in un conflitto: poiché
    la lotta tra gravità e solidità è propriamente l'unico proposito
    estetico della bella architettura; metterlo variamente in piena
    evidenza è il suo compito. Tale compito adempie, togliendo a quelle
    indelebili forze la via più breve del loro soddisfacimento,
    trattenendole col deviarle; la lotta viene così prolungata, e si fa
    in vario modo palese l'inesauribile tendenza di entrambe le forze.
    L'intera massa dell'edificio, abbandonata alla sua originaria
    tendenza, presenterebbe nient'altro che un cumulo il più possibile
    aderente alla terra: verso la quale incessante sospinge la gravità
    (perché così si manifesta quivi la volontà), mentre la solidità,
    anch'essa oggettità della volontà, le si oppone. Ma appunto codesta
    tendenza, codesta necessità viene dall'architettura impedita nella
    sua immediata soddisfazione; che sol mediatamente le vien concessa,
    per vie non dirette. Per esempio, l'architrave può premer la terra
    sol per mezzo delle colonne; la volta deve reggersi da sé, e appagar
    la sua attrazione verso la massa terrestre solo attraverso i
    pilastri, etc. Ma appunto in queste forzate vie indirette, appunto
    attraverso questi impedimenti, si dispiegano nel modo più manifesto
    e variato le forze inerenti al nudo masso di pietra; e più lungi non
    può andare il fine puramente estetico dell'architettura. Perciò
    senza dubbio la bellezza di un edifizio consiste nell'adattamento,
    visibile a tutta prima, di ciascuna parte al suo fine: e non al fine
    esteriore, arbitrario dell'uomo (che sotto questo rispetto
    appartiene l'opera all'architettura pratica), bensì direttamente
    alla consistenza dell'insieme; nella quale la posizione, grandezza e
    forma d'ogni parte ha con le altre una relazione tanto necessaria,
    che, qualora fosse possibile, sottraendone una sola crollerebbe
    l'edifizio intero. Imperocché solo col sostener ciascuna parte
    quanto le conviene di sopportare, e con l'esser ciascuna sorretta
    dove e come occorre, si sviluppa fino alla più perfetta evidenza
    quel contrasto, quella lotta tra solidità e gravità, onde son
    costituite nella pietra la vita, le manifestazioni della volontà; e
    chiaramente si palesano questi gradi infimi dell'oggettità della
    volontà. Non altrimenti deve la forma di ciascuna parte esser
    determinata dal proprio scopo e dalla propria relazione con
    l'insieme, non già dall'arbitrio. La colonna è la più semplice forma
    di sostegno, determinata soltanto dal suo fine: quindi la colonna
    attorta è goffa. Il pilastro quadrato è in realtà meno semplice,
    sebbene casualmente più facile a farsi che non la tonda colonna.
    Similmente sono le forme della cornice, dell'architrave, dell'arco e
    della cupola determinate in tutto e per tutto dal loro scopo
    diretto, e si spiegano quindi da sé. Le decorazioni dei capitelli
    etc., spettano alla scultura, e non all'architettura; dalla quale
    essi, come ornati aggiunti, non sono che tollerati, e potrebbero
    anche venir tralasciati. In ragione di quanto s'è detto, per la
    comprensione e il godimento estetico di un'opera d'architettura è
    imprescindibilmente necessario aver conoscenza intuitiva del suo
    materiale in quanto a peso, solidità e coesione. E la gioia, che
    proviamo d'una tale opera, verrebbe subitamente molto ridotta dallo
    scoprir che il materiale di costruzione fosse di pietra pomice: che
    allora essa ci apparirebbe quasi come un edifizio posticcio. Press'a
    poco il medesimo effetto produrrebbe saperla fatta di legno, mentre
    noi la credevamo di pietra: appunto perché ciò muterebbe e
    sposterebbe il significato, la necessità di tutte le parti, molto
    più debolmente rivelandosi quelle forze di natura nell'edilizio
    ligneo. Perciò non può veramente farsi col legno opera alcuna di
    bella architettura, per quanto possa il legno piegarsi a tutte le
    forme: la qual cosa è spiegabile soltanto con la nostra teoria. Se
    poi infine ci si dicesse, che l'edifizio, la cui vista ci rallegra,
    è formato di materiali tra loro affatto diversi, di molto dissimile
    gravità e consistenza, ma che l'occhio non sa distinguere, l'intero
    edifizio ci apparirebbe perciò insipido e incomprensibile, come una
    poesia in una lingua a noi ignota. Tutto ciò prova appunto, che
    l'architettura non agisce solo matematicamente, ma anche
    dinamicamente; e quel che per suo mezzo ci parla, non è per
    avventura semplice forma e simmetria, bensì sono piuttosto quelle
    elementari forze della natura, quelle prime idee, quegl'infimi gradi
    dell'oggettità della volontà. La regolarità dell'edifizio e delle
    sue parti è per un verso generata dal diretto adattamento di
    ciascuna parte alla consistenza dell'insieme; per l'altro serve ad
    agevolare la visione generale e la comprensione del tutto; e infine
    le figure regolari, mostrando la regolarità dello spazio come tale,
    contribuiscono alla bellezza. Ma tutto ciò ha valore e necessità
    subordinati, ed è lungi dal costituir l'essenziale: che la simmetria
    stessa non è punto richiesta assolutamente, potendo esser belle
    anche le rovine.
    
    Una specialissima relazione hanno poi ancora le opere
    dell'architettura con la luce: in pieno splendore di sole, col cielo
    azzurro nello sfondo, sono due volte più belle; e tutt'altro effetto
    producono inoltre nello splendore lunare. Perciò anche nella
    costruzione di una bell'opera architettonica si ha sempre
    particolare riguardo agli effetti di luce e alle regioni del cielo.
    Tutto questo ha il suo motivo per massima parte nel fatto, che
    chiara e netta luce occorre a render ben visibili tutte le parti e
    le correlazioni loro; inoltre sono d'avviso, che l'architettura sia
    rivolta a palesare, così come palesa gravità e solidità, anche
    quest'opposta essenza della luce. Infatti, col venir la luce
    accolta, impedita, riflessa dalle grandi masse non trasparenti,
    nettamente delineate e variamente conformate, dispiega la sua natura
    e le sue proprietà nel modo più limpido ed evidente, con grande
    gioia dello spettatore: perché di tutte le cose la luce è quella che
    più rallegra, come condizione e correlato oggettivo del più perfetto
    modo di conoscenza intuitiva.
    
    Ora, essendo le idee, che l'architettura trae alla chiara
    intuizione, i gradi infimi nell'oggettità della volontà, e venendo
    per conseguenza a esser relativamente scarsa la significanza
    oggettiva di ciò che l'architettura ci svela; ne deriva, che il
    godimento estetico provato alla vista d'un bell'edifizio in buona
    luce, non sta tanto nella percezione dell'idea, quanto nel correlato
    soggettivo stabilito con codesta percezione. Ossia consiste
    prevalentemente nel fatto, che in tal vista il contemplatore si
    sente strappato al modo di conoscere dell'individuo, e innalzato a
    quello del puro, scevro di volontà soggetto del conoscere; ossia
    alla pura, da ogni pena del volere e dell'individualità disciolta
    contemplazione. Sotto questo rispetto il contrario
    dell'architettura, l'estremo opposto nella serie delle arti belle, è
    il dramma: il quale porta alla conoscenza le idee di più alta
    importanza, sì che nel godimento estetico di esso il lato oggettivo
    è del tutto prevalente.
    
    L'architettura ha di fronte alle arti plastiche e alla poesia questo
    carattere distintivo: non dà, come quelle, un'immagine della cosa,
    bensì la cosa stessa; non riproduce, come quelle, l'idea conosciuta,
    cedendo l'artista i proprii occhi allo spettatore, ma invece
    l'artista presenta semplicemente allo spettatore l'oggetto, e gli
    allevia la percezione dell'idea, portando il vero oggetto
    individuale alla chiara e completa espressione della sua essenza.
    
    Molto raramente vengono le opere d'architettura – come le rimanenti
    opere dell'arte bella – eseguite per puri fini estetici: più spesso
    vengono subordinate ad altri fini pratici, all'arte stranieri; ed il
    gran merito dell'architetto consiste nel tener tuttavia di mira, e
    raggiungere, i fini puramente estetici anche in quella lor
    subordinazione a fini estranei, adattandoli di volta in volta, in
    vario modo, con abilità, allo scopo pratico, e rettamente giudicando
    qual bellezza estetico-architettonica s'adatti e si possa accordare
    con un tempio, quale con un palazzo, quale con un arsenale, e così
    via. Quanto più un rude clima accresce quelle esigenze del
    necessario e dell'utile, e più rigidamente le determina e
    inesorabilmente prescrive, tanto meno spazio rimane al bello
    nell'architettura. Nel mite clima dell'India, d'Egitto, di Grecia e
    di Roma, dove le esigenze della necessità erano imposte in minor
    numero e con meno rigore, potè l'architettura più liberamente tener
    dietro ai suoi fini estetici; sotto il nordico cielo questi le
    vennero molto limitati. Qui, dove necessità voleva chiusure, tetti
    acuminati e torri, dove l'architettura – potendo spiegar la propria
    bellezza solo in ristretti confini – ornarsi in compenso con
    decorazione tolta a prestito dalla scultura, come si può veder nella
    bella architettura gotica.
    
    Se deve in tal modo l'architettura, per le esigenze del necessario e
    dell'utile, subir grandi limitazioni, ha appunto in ciò d'altra
    parte un poderoso appoggio; non potendosi ella punto reggere, per
    l'ampiezza ed il costo delle sue opere, come per la circoscritta
    sfera della sua speciale azione estetica, se in pari tempo non
    avesse, come arte utile e necessaria, un posto fermo e onorevole tra
    le umane occupazioni. È appunto la mancanza d'un tal posto, che
    impedisce a un'altra arte di starle accanto da sorella, sebbene
    sotto il rispetto estetico sia propriamente da porlesi vicino come a
    riscontro: intendo l'arte bella dell'idraulica. Imperocché ciò che
    opera l'architettura per l'idea della gravità, dove questa appare
    congiunta con la solidità, opera quella per l'idea medesima, dove a
    lei è associata la fluidità, ossia assenza di forma, estrema
    mobilità, trasparenza. Su per le rocce spumeggiando e mugghiando
    precipiti cascate, cataratte frangentisi mute in polvere d'acqua,
    fontane sprizzanti in alte liquide colonne, chiarospecchianti laghi
    svelano le idee della gravità fluida nella materia, come le opere
    architettoniche dispiegano le idee della materia solida. Nessun
    appoggio trova l'idraulica artistica nell'idraulica pratica; non
    potendosi gli scopi di quest'ultima accordare di regola co' suoi.
    Questo può accader soltanto per eccezione, ad esempio nella Cascata
    di Trevi in Roma14.
    
    § 44.
    
    Quel che le due arti ricordate fanno per i gradi minimi
    dell'oggettità della volontà, fa in certo modo l'arte bella dei
    giardini per il grado, più elevato, della natura vegetale. La
    bellezza d'un limitato paesaggio consiste in gran parte nella
    varietà degli oggetti naturali che vi si trovano; e poi nel fatto
    che questi vi si distinguano nettamente, vi risaltino con evidenza,
    e tuttavia si presentino in convenevole armonia e varietà. Sono
    queste le condizioni, a cui l'arte bella dei giardini contribuisce:
    nondimeno ella è lungi dall'esser padrona della sua materia, come
    l'architettura è della propria; e quindi la sua azione rimane
    limitata. Il bello, che essa presenta, appartiene quasi per intero
    alla natura; essa v'ha poco contribuito. E pochissimo può d'altra
    parte contro il disfavore della natura: dove questa invece di
    preparare contrasta, i suoi risultati sono scarsi.
    
    Adunque, in quanto il mondo vegetale – che senza aver l'arte per
    intermediaria si offre da per tutto al godimento estetico – è
    oggetto dell'arte, appartiene principalmente alla pittura di paese.
    Nel dominio di questa si trova, col mondo vegetale, anche tutta
    l'altra natura priva di conoscenza. Nella natura morta, e nella
    riproduzione di opere architettoniche, rovine, interni di chiese,
    etc., prevale il lato soggettivo del godimento estetico: ossia il
    piacere che ne abbiamo non sta principalmente e direttamente nella
    percezione delle idee rappresentate, bensì di più nel correlato
    soggettivo di questa percezione, nel puro conoscere scevro di
    volere. Perché, mentre il pittore ci fa veder le cose co' suoi
    occhi, sentiamo in pari tempo dentro di noi medesimi quasi
    riflettersi la profonda serenità di spirito e il perfetto silenzio
    della volontà, che sono stati necessari per concentrar sì appieno la
    conoscenza in quegli oggetti inanimati, e con tanto amore – ossia a
    tal grado di obiettività – riprodurli. L'effetto della vera e
    propria pittura di paesaggio è ancora, a dire il vero, dello stesso
    genere; ma poi che le idee rappresentate, come gradi più alti
    nell'oggettità della volontà, sono già più significanti ed
    espressive, vien fuori in maggior misura il lato obiettivo del
    piacere estetico, e sta a pari col soggettivo. Il puro conoscere,
    come tale, non è più quel che solo conta; ma con eguale potenza
    agisce l'idea conosciuta, il mondo come rappresentazione, in un
    notevole grado di oggettivazione della volontà.
    
    Ma un grado ben più alto rivela la pittura e scultura d'animali;
    della quale ultima abbiamo importanti avanzi antichi, per esempio
    cavalli, a Venezia, a Monte Cavallo, sui rilievi di Elgin, ed anche
    a Firenze, in bronzo o marmo (quivi pur l'antico cignale, gli
    urlanti lupi); e i leoni dell'arsenale di Venezia, e in Vaticano
    tutta una sala piena d'animali in massima parte antichi, e così via.
    Ora, davanti a codeste rappresentazioni il lato oggettivo del
    piacere estetico prende un aperto sopravvento sul soggettivo. La
    serenità del soggetto, che tali idee conoscendo ha placato la
    propria volontà, vi si ritrova, è vero, come in ogni contemplazione
    estetica, ma la sua azione non viene sentita: imperocché ci occupa
    la inquietudine e la violenza della rappresentata volontà. È quello
    stesso volere, ond'è pur costituita la nostra essenza, che ci sta
    davanti agli occhi: in figure, nelle quali la sua manifestazione non
    è come in noi dominata e mitigata dalla riflessione, ma si presenta
    bensì in forti tratti, con un'evidenza da rasentare il grottesco e
    il mostruoso; e in compenso ostentantesi liberamente in piena luce,
    ingenua e aperta – ragione per cui, appunto, il nostro interesse va
    agli animali. La nota caratteristica delle specie già veniva fuori
    nella rappresentazione delle piante, mostrandosi tuttavia solamente
    nelle forme: qui acquista molto maggior rilievo, e si esprime non
    solo nella forma, bensì nell'azione, posizione e movenza; sebbene
    sia ancor sempre carattere della specie, e non dell'individuo.
    Questa conoscenza delle idee di gradi più alti, che noi acquistiamo
    nella pittura mediante un intermediario, possiamo raggiungere anche
    in maniera diretta, con la intuizione puramente contemplativa delle
    piante e l'osservazione degli animali; questi nel loro stato libero,
    naturale, a loro agio. La considerazione obiettiva delle lor
    svariate, mirabili forme e della loro attività è un'istruttiva
    lezione del gran libro della natura, una decifrazione della vera
    signatura rerum15: in lei vediamo i molteplici gradi e modi della
    manifestazione della volontà, la quale, in tutti gli esseri una e
    identica, ovunque la stessa cosa vuole – vuole appunto ciò, che come
    vita, come esistenza viene ad oggettivarsi, in sì infinita varietà,
    in sì infinite forme; le quali tutte sono accomodamenti alle diverse
    condizioni esteriori, paragonabili a molte variazioni d'uno stesso
    tema. Ma se dovessimo al contemplatore fornire, anche per la
    riflessione, e con una sola parola, un chiarimento sull'intima
    essenza di codesti esseri, potremmo meglio d'ogni altra usare quella
    formula sanscrita, la quale tanto spesso ricorre nei libri sacri
    degli Indù e vien detta Mahavakya, ossia la grande parola: «Tat tvam
    asi», che significa: «questo vivente sei tu».
    
    § 45.
    
    Rappresentare intuitivamente, in maniera diretta, l'idea nella quale
    la volontà raggiunge il massimo grado della sua oggettivazione, è
    finalmente il gran compito della pittura storica e della scultura.
    Il lato obiettivo del piacere prodotto dal bello è qui affatto
    prevalente, e il lato soggettivo è rientrato nella penombra. Inoltre
    è da osservare, che ancor nel grado immediatamente più prossimo
    sotto di questo, nella pittura animale, il caratteristico è tutt'uno
    col bello: il più caratteristico leone, lupo, cavallo, pecoro, toro
    v'è anche ognora il più bello. La ragione di questo è che gli
    animali hanno solo il carattere della specie, e nessun carattere
    individuale. Ma nella rappresentazione dell'uomo si distingue invece
    il carattere della specie dal carattere dell'individuo: quello si
    chiama bellezza (in senso del tutto oggettivo), mentre questo
    mantiene il nome di carattere o espressione; e subentra la nuova
    difficoltà, di rappresentarli entrambi in pari tempo nello stesso
    individuo.
    
    Umana bellezza è un'espressione oggettiva, la quale indica la più
    perfetta oggettivazione della volontà nel grado più alto della sua
    conoscenza possibile, l'idea dell'uomo in genere, pienamente
    espressa nella forma intuita. Ma per quanto prevalga qui il lato
    oggettivo del bello, rimane tuttavia suo perenne compagno il
    soggettivo. E appunto perché nessun oggetto ci rapisce così presto
    nell'intuizione puramente estetica, come fa il bellissimo aspetto e
    la forma dell'uomo, alla cui vista subitamente un piacere
    inesprimibile ci coglie, e sopra noi stessi e ogni nostro tormento
    ci eleva; appunto per questo ciò è possibile solo in quanto cotale
    evidentissima e purissima conoscibilità della volontà anche ci
    trasporti nel modo più lieve e rapido in quello stato del puro
    conoscere, in cui la nostra personalità, il nostro volere, con la
    sua assidua pena, svanisce, fin quando persiste la pura gioia
    estetica: perciò dice Goethe: «Chi scorge l'umana bellezza, niente
    di male può spirargli contro: egli si sente con se stesso e col
    mondo in accordo». Che alla natura possa riuscir una bella figura
    d'uomo, si spiega col fatto che la volontà, oggettivandosi a tale
    altissimo grado in un individuo, vince appieno sia per favorevoli
    circostanze sia per forza propria tutti gli ostacoli e la resistenza
    opposti a lei dalle manifestazioni della volontà nei gradi
    inferiori: di codesta sorte son le forze naturali, a cui ella deve
    ognora cominciar col conquistare e strappare la materia, a tutte
    comune. Inoltre il fenomeno della volontà nei gradi superiori ha
    sempre varietà di forma: già l'albero non è che un sistematico
    aggregato di germinanti fibre moltiplicate indefinitamente: questa
    complessità s'accresce man mano che si salga nei gradi, e il corpo
    umano è un complicatissimo sistema di parti affatto diverse,
    ciascuna delle quali, al complesso subordinata, ha tuttavia anche
    una vita propria. E l'esser tutte codeste parti appunto nel giusto
    modo subordinate all'insieme, e il contribuire armonicamente
    all'aspetto generale, nulla trovandovisi di eccessivo, nulla di
    manchevole; tali son le rare condizioni, di cui è risultato la
    bellezza, il carattere della specie perfettamente improntato. Così
    fa la natura. Ma come fa l'arte? Si crede, con l'imitar la natura.
    Ma a che cosa riconoscerebbe un artista l'opera di natura ben
    riuscita e da imitare, scegliendola tra le non riuscite, se egli non
    avesse del bello una nozione anteriore all'esperienza? E poi, ha mai
    la natura prodotto un essere umano perfettamente bello in ogni
    parte? Allora s'è pensato che l'artista dovesse scegliere le parti
    belle singolarmente distribuite in molte creature, per comporne un
    solo essere perfetto: opinione assurda e insensata. Imperocché ci si
    torna a chiedere: a qual segno deve conoscere, che proprio queste
    forme sono le belle, e non le altre? E possiamo vedere che sorta di
    bellezza hanno trovata gli antichi pittori tedeschi, con l'imitar la
    natura! Basta guardare i loro nudi. No: a posteriori, e per semplice
    esperienza, non si può aver cognizione del bello: questa è sempre,
    almeno in parte, a priori, sebbene di tutt'altra specie che i modi a
    noi noti a priori del principio di ragione. Questi si riferiscono
    alla general forma del fenomeno come tale, in quanto essa è base
    alla conoscenza in genere, al come – universale e senza eccezione –
    del fenomeno (da tal conoscenza nascono matematica e scienza
    naturale pura). Invece quell'altra maniera di conoscenza a priori,
    che rende possibile la rappresentazione del bello, non concerne la
    forma, bensì il contenuto dei fenomeni: non il «come» del loro
    manifestarsi, bensì il «che cosa». Noi tutti conosciamo, vedendola,
    la beltà umana; ma nell'artista una tal conoscenza avviene con tal
    chiarezza, ch'egli mostra quella beltà, come non l'ha veduta mai, e
    sorpassa nella sua rappresentazione la natura: questo è possibile
    sol perché la volontà, la cui adeguata oggettivazione nel suo
    massimo grado va qui giudicata e scoperta, è noi stessi. Solo così
    possiamo avere in effetti una cognizione anticipata di ciò che la
    natura (la quale è appunto la volontà che costituisce il nostro
    proprio essere) si sforza di rappresentare; e codesta cognizione
    anticipata nel vero genio s'accompagna con tal grado di riflessione,
    che esso, mentre nel singolo oggetto conosce l'idea rispettiva,
    quasi viene a comprender la natura attraverso mezze parole; e così
    può esprimer nettamente ciò ch'ella appena balbetta; tanto da
    imprimer nel duro marmo la bellezza della forma che a lei in mille
    tentativi fallisce, e quella bellezza contrappone alla natura, quasi
    esclamando: «Questo era, ciò che tu volevi esprimere!» – e, «Sì,
    questo era!» fa eco l'intenditore. Solo così potè il greco geniale
    scoprire il prototipo della forma umana, e porlo come canone nella
    scuola della scultura; ed anche solo in grazia di tale anticipazione
    è a noi tutti possibile di conoscere il bello, là dove esso è alla
    natura in un singolo esemplare effettivamente riuscito. Codesta
    anticipazione è l'ideale: è l'idea, in quanto essa, almeno a metà, è
    conosciuta a priori, e, come tale, venendo a completar quanto ci è
    offerto dalla natura a posteriori, diventa pratica per l'arte. La
    possibilità di simile anticipazione del bello a priori nello
    scultore, come del suo riconoscimento a posteriori nell'intenditore,
    sta in questo, che artista e conoscitore sono essi medesimi l'in-sé
    della natura, l'oggettivantesi volontà. Soltanto dal simile, come
    disse Empedocle, si conosce il simile: soltanto natura può
    comprendere se stessa; soltanto natura da fondo a se stessa: e
    similmente dal solo spirito è inteso lo spirito16.
    
    L'assurda opinione che i greci abbiano trovato l'ideale della umana
    bellezza in modo affatto empirico, mediante scelta di singole parti
    belle, qui un ginocchio, là un braccio denudando o notando, ha del
    resto il suo riscontro in un'opinione analoga concernente la poesia:
    l'opinione che, p. es., gl'infinitamente vari caratteri de' suoi
    drammi, così veri, così sostenuti, così ricavati dal profondo, abbia
    Shakespeare notati nella propria personale esperienza della vita
    sociale, e poi riprodotti. L'impossibilità e assurdità di tale
    opinione non ha bisogno d'esser dimostrata: è evidente che il genio,
    come produce le opere dell'arte plastica sol per mezzo di una
    presaga anticipazione del bello, così produce le opere della poesia
    solo mediante una consimile anticipazione del caratteristico; per
    quanto l'una e l'altra richiedano l'esperienza come uno schema,
    indispensabile, perché quanto era loro noto oscuramente a priori
    venga innalzato alla piena chiarezza, e nasca così la possibilità di
    una meditata rappresentazione.
    
    Umana bellezza fu qui sopra spiegata come la più perfetta
    oggettivazione della volontà nel più alto grado della sua
    conoscibilità. Essa si esprime attraverso la forma: questa è
    soltanto nello spazio, e non ha relazione necessaria col tempo; come
    l'ha, per esempio, il moto. Possiamo dire adunque: l'adeguata
    oggettivazione della volontà per mezzo d'un fenomeno spaziale è
    bellezza, nel senso oggettivo. La pianta non è altro che un tal
    fenomeno, puramente spaziale, della volontà; imperocché nessun
    movimento e quindi nessuna relazione col tempo (astraendo dal suo
    sviluppo) appartiene all'espressione della sua essenza: la sua forma
    esprime da sola tutta la sua essenza, e aperta la palesa. Ma uomo e
    animale per la piena rivelazione della volontà in loro
    manifestantesi abbisognano ancora d'una serie di atti, attraverso
    cui quel fenomeno viene a prendere in essi un'immediata relazione
    col tempo. Tutto ciò fu già spiegato nel libro che precede: alla
    nostra indagine presente si riannoda per quanto segue. Come il
    fenomeno puramente spaziale della volontà può oggettivar
    quest'ultima in ciascun grado perfettamente o imperfettamente, il
    che produce appunto bellezza o bruttezza: così può anche la
    temporale oggettivazione della volontà, ossia l'azione, e
    precisamente l'azione immediata, il movimento, corrisponder in modo
    puro e perfetto alla volontà che in lei si oggettiva; senza estranea
    mescolanza, senza superfluità, senza manchevolezza, ma solo
    esprimendo per l'appunto ogni volta quel determinato atto di
    volontà; – oppure può tutto questo accadere a rovescio. Nel primo
    caso, il movimento è compiuto con grazia; e nel secondo, senza. Come
    adunque bella è la ben rispondente rappresentazione della volontà in
    genere mediante il suo fenomeno puramente spaziale, così è grazia la
    ben rispondente rappresentazione della volontà mediante il suo
    fenomeno temporale; ossia l'espressione in tutto giusta e
    commisurata di ciascun atto di volontà, per mezzo del movimento e
    della posizione che l'oggettiva. Poiché movimento e posizione già
    presuppongono il corpo; quindi è giustissima e calzante la
    definizione di Winckelmann, quando dice: «La grazia è il particolare
    rapporto della persona agente con l'azione» (Werke, vol. I, p. 258).
    Se ne ricava naturalmente, che a piante può attribuirsi bellezza, ma
    non grazia, fuor che in senso figurato; ad animali e uomini
    entrambe, bellezza e grazia. La grazia consiste, adunque, in questo:
    che ogni movimento e atteggiamento venga eseguito o preso nel modo
    più facile, più conveniente e più comodo, e sia quindi l'espressione
    diretta del proposito suo, ossia dell'atto di volontà, senza nulla
    di superfluo (che il superfluo si presenta come agitazione
    disordinata, priva di senso, o posizione assurda) né di manchevole
    (che produce lignea rigidità). La grazia richiede, come condizione,
    un giusto equilibrio di tutte le membra, una regolare, armonica
    struttura del corpo; poiché sol per questo mezzo è possibile il
    perfetto agio e la palese opportunità in tutte le posizioni e
    movenze: e quindi la grazia non si dà senza un certo grado di
    bellezza corporea. Questa e quella perfette e congiunte sono il più
    limpido fenomeno della volontà nel grado supremo della sua
    oggettivazione.
    
    È uno de' contrassegni dell'umanità – l'abbiamo osservato – il
    trovarsi in lei distinti il carattere della specie e quel
    dell'individuo; sì che, com'è detto nel libro precedente, ciascun
    essere umano rappresenta, in un certo senso, un'idea tutta a sé.
    Quindi le arti il cui fine è posto nel rappresentar l'idea
    dell'umanità, hanno per compito, oltre la bellezza – carattere della
    specie – anche il carattere individuale, che suol chiamarsi appunto
    carattere senz'altro. Quest'ultimo tuttavia, alla sua volta, solo in
    quanto sia da considerarsi non già come alcunché di casuale, come
    una singolarità appartenente in proprio a un dato individuo; bensì
    come un aspetto, specialmente rilevantesi in quell'individuo,
    dell'idea dell'umanità: a palesare la quale è perciò opportuna la
    rappresentazione dell'individuo medesimo. Quindi il carattere, pur
    essendo individuale, deve tuttavia esser colto e rappresentato
    idealmente, ossia mettendo in rilievo la sua significanza in
    rapporto con l'idea dell'umanità in genere (alla cui oggettivazione
    esso contribuisce a sua guisa): e oltre a ciò poi la
    rappresentazione è ritratto, riproduzione del singolo come tale, con
    tutte le sue accidentalità. Ma il ritratto medesimo dev'essere, come
    dice Winckelmann, l'immagine ideale dell'individuo.
    
    Quel carattere, da cogliersi idealmente, che è il rilievo di uno
    speciale aspetto dell'idea dell'umanità, si fa visibile nei
    transitori affetti e passioni, nelle reciproche alterne
    modificazioni del conoscere e del volere: cose tutte esprimentisi
    nel volto e nel movimento.
    
    Appartenendo ognora l'individuo all'umanità, e viceversa rivelandosi
    ognora l'umanità nell'individuo, anzi rivelandosi con la particolar
    significazione ideale di esso, non può né la bellezza esser
    cancellata dal carattere, né questo da quella: perché soppressione
    del carattere della specie a tutto vantaggio di quello individuale
    darebbe caricatura; e soppressione dell'individuale, per lasciare il
    solo carattere della specie, darebbe insignificanza. Dovrà quindi la
    rappresentazione, in quanto miri alla bellezza, – il che fa
    soprattutto la scultura – sempre modificar tuttavia quella (ossia il
    carattere della specie) in taluna cosa mediante il carattere
    individuale; e l'idea dell'umanità sempre esprimere in determinata,
    individuale maniera, rilevandone un particolare aspetto; imperocché
    l'umano individuo come tale ha la dignità di un'idea sua propria, ed
    all'idea dell'umanità è appunto essenziale il manifestarsi in
    individui di speciale significazione. Perciò nelle opere degli
    antichi troviamo, che la bellezza da loro limpidamente intuita non è
    espressa da una figura sola, ma da molte, aventi carattere diverso,
    quasi fosse colta sempre sotto un nuovo aspetto, e quindi altrimenti
    rappresentata in Apollo, altrimenti in Bacco, altrimenti in Ercole,
    altrimenti in Antinoo: anzi, il caratteristico può limitare il bello
    e addirittura arrivar fino alla bruttezza, nel Sileno ebbro, nel
    Fauno, e così via. Ma se il caratteristico perviene a sopprimer
    veramente il carattere della specie, ossia a toccare l'innaturale,
    diventa caricatura. Tuttavia molto meno ancora della bellezza deve
    la grazia venir sopraffatta dal caratteristico: qualunque posizione
    e movimento richieda l'espressione del carattere, devono tuttavia
    quelli esser presi o compiuti nel modo più adatto alla persona, più
    confacente allo scopo e più facile. Tale precetto osserverà non
    soltanto lo scultore e pittore, ma pur ciascun buon attore: in caso
    contrario, si ha anche qui caricatura, sotto forma di contorcimento,
    distorsione.
    
    Nella scultura rimangono bellezza e grazia la qualità essenziale. Il
    vero carattere dello spirito, rilevantesi in affetto, passione,
    giuoco alterno del conoscere e volere, rappresentabile solo mediante
    l'espressione del volto ed il gesto, è soprattutto privilegio della
    pittura. Perché sebbene occhi e colorito, – i quali stanno fuor del
    dominio della scultura – molto contribuiscano alla bellezza, ben più
    sono essenziali per il carattere. Inoltre la bellezza si dispiega
    più completamente a chi l'osservi da vari lati: mentre la
    espressione, il carattere, possono anche da un sol punto di vista
    essere compresi appieno.
    
    Essendo la bellezza precipuo fine della scultura, ha Lessing cercato
    di spiegare il fatto che Laocoonte non grida, con l'addurre che il
    gridare non sia compatibile con la bellezza. Poi che per Lessing
    questo argomento divenne il tema, o per lo meno il punto di
    partenza, d'un libro speciale, ed anche prima e dopo di lui tanto vi
    si è scritto intorno, sia a me concesso di esporre qui per incidenza
    la mia opinione a questo proposito; sebbene un'analisi tanto
    particolare non entri propriamente nella trama di un'argomentazione,
    che mira, in modo esclusivo, ai principi generali.
    
    § 46.
    
    Che Laocoonte, nel celebre gruppo, non gridi, è palese, e la
    generale, sempre rinnovata sorpresa che se ne prova, deve provenir
    dal fatto che noi tutti, al suo posto grideremmo. E ciò richiede la
    natura stessa: che nel vivissimo dolor fisico e nella massima,
    improvvisa angoscia corporea, ogni riflessione, la quale potesse per
    avventura indurci a un tacito patire, è del tutto bandita dalla
    conscienza; e la natura si sfoga nel gridare, con che insieme
    esprime il dolore e il terrore, il salvatore invoca e l'assalitore
    spaventa. Già Winckelmann sentì quindi una mancanza, non trovando la
    espressione del gridare: ma nell'intento di giustificar lo scultore,
    fece invero di Laocoonte uno stoico, il quale non ritiene conforme
    alla propria dignità il gridare secundum naturam, bensì al proprio
    dolore aggiunge ancora l'inutile sforzo di comprimerne
    l'espressione: Winckelmann vede quindi in lui «lo spirito provato di
    un uomo grande, il quale lotta col martirio, e cerca di soffocare e
    rinserrare in sé l'espressione di ciò che prova: egli non prorompe
    in alte grida, come fa in Virgilio, ma solamente gli sfuggono
    angosciosi sospiri», e così via (Werke, vol. VII, p. 98. Lo stesso
    più ampiamente, vol. VI, pp. 104 sg.). Ora, quest'opinione di
    Winckelmann criticò Lessing nel suo Laocoonte, e la corresse nel
    modo sopra indicato; il motivo psicologico sostituì col motivo,
    puramente estetico, che la bellezza – principio fondamentale
    dell'arte antica – non ammette la espressione del grido. Un altro
    argomento da lui addotto, che cioè uno stato affatto passeggero e
    incapace di durata non si possa esprimere in un'immobile opera
    d'arte, ha contro di sé cento esempi di figure ammirabili le quali
    sono fissate in movimenti più che fuggitivi, danzando, lottando,
    inseguendo. Anzi, Goethe nel suo scritto sul Laocoonte, che inizia i
    Propilei (p. 8), tiene la scelta d'un tal momento affatto fuggitivo
    per addirittura indispensabile. A' nostri giorni Hirt (Horen, 1797,
    X), tutto riducendo alla massima verità dell'espressione, concluse
    nel senso che Laocoonte non grida, perché, già in procinto di morir
    soffocato, non può più gridare. Da ultimo Fernov (Römische Studien,
    vol. I, pp. 426 sg.) ha illustrato e pesato le tre opinioni
    precedenti, senza tuttavia recarne alcuna nuova; ma quelle tre
    componendo e unificando.
    
    Non posso a meno di stupirmi, che sì riflessivi e acuti uomini
    faticosamente vadano a cercar lontano ragioni inadeguate,
    s'afferrino ad argomenti psicologici, o addirittura fisiologici, per
    chiarire un fatto, la cui ragione è ben prossima e subito palese ad
    uno spirito spregiudicato, – e stupirmi soprattutto che Lessing, il
    quale tanto s'appressò alla giusta spiegazione, non abbia poi colto
    per nulla nel segno.
    
    Prima d'ogni indagine psicologica e fisiologica, se Laocoonte nella
    sua situazione debba o no gridare – ciò che d'altronde io affermerei
    senz'altro – riguardo a quel gruppo è da mettere in chiaro, che non
    poteva il gridare esservi espresso, per il semplice motivo che la
    rappresentazione del grido sta completamente fuor del dominio della
    scultura. Non si poteva dal marmo trarre un urlante Laocoonte, ma
    solo un che sgangheri la bocca e invano si sforzi d'urlare: un
    Laocoonte a cui la voce s'è arrestata nelle fauci, vox faucibus
    haesit. L'essenza, e quindi anche l'effetto del gridare sullo
    spettatore, è tutto nel suono, non nello spalancare la bocca.
    Quest'ultimo fenomeno, che di necessità accompagna il gridare, deve
    venir motivato e giustificato dal suono che per esso è prodotto:
    allora, come caratteristico per l'azione, è ammissibile, anzi
    necessario, quand'anche nuoccia alla bellezza. Ma nell'arte
    figurativa, a cui la rappresentazione del gridare è del tutto
    estranea e negata, effettivamente incomprensibile sarebbe il
    rappresentar la bocca spalancata, violento mezzo nel grido, che
    altera tutti i lineamenti e il resto dell'espressione; perché si
    porrebbe innanzi agli occhi un mezzo, che esige molti sacrifizi del
    rimanente, mentre il fine di esso, il grido, verrebbe a mancare
    insieme col relativo effetto sul nostro animo. Anzi – e questo è
    peggio – si produrrebbe con ciò lo spettacolo sempre ridicolo di uno
    sforzo che rimane senz'effetto: spettacolo da paragonarsi a quel che
    si procurò un burlone, riempiendo di cera il corno d'una guardia
    notturna addormentata, per poi risvegliarla e godersi i suoi vani
    tentativi di suonare. Là dove invece la rappresentazione del gridare
    sta nel dominio dell'arte, essa è pienamente ammissibile, perché
    serve alla verità, ossia alla compiuta rappresentazione dell'idea.
    Così nella poesia, la quale per la rappresentazione intuitiva si
    rivolge alla fantasia del lettore: perciò mugghia Laocoonte presso
    Virgilio, come un toro che si sia sciolto dai legami dopo che la
    scure l'ha colpito: perciò fa Omero (Il, XX, 48-53) orrendamente
    urlare Marte e Minerva, senza danno della lor dignità di dei, né
    della divina bellezza. E così nell'arte scenica: Laocoonte sulla
    scena doveva assolutamente gridare; anche Sofocle fa urlare
    Filottete, e sull'antica scena questi avrà urlato per davvero.
    Similmente ricordo d'aver visto in Londra il celebre attore Kemble
    rappresentare, in un dramma tradotto dal tedesco, Pizarro, la parte
    dell'americano Rolla, un mezzo selvaggio, ma di nobilissimo
    carattere: questi, ferito, diede in un grido alto e veemente, che,
    essendo oltremodo caratteristico, molto contribuiva alla verità
    dell'azione. All'opposto sarebbe un gridare dipinto o impietrato
    ancor più ridicolo, che una dipinta musica, quale già vien
    condannata nei Propilei goethiani; imperocché il gridare nuoce alla
    rimanente espressione e alla bellezza molto più della musica, la
    quale di solito occupa soltanto mani e braccia, e va considerata
    come un atto caratteristico della persona; sì che sotto questo
    rispetto si può benissimo rappresentare in pittura, fin quando non
    richieda moti impetuosi del corpo o deformazione della bocca: come
    per esempio la Santa Cecilia all'organo e il Violinista di Raffaello
    nella Galleria Sciarra in Roma, e molti altri. Poiché adunque, a
    causa dei limiti dell'arte, non poteva il dolore di Laocoonte venire
    espresso col grido, dovè l'artista porre in uso ogni altra
    espressione del dolore stesso: questo egli ha fatto con perfezione
    suprema, secondo espone sì magistralmente Winckelmann (Werke, vol.
    VI, pp. 104 sg.), la cui mirabile descrizione acquista perciò valore
    e verità pieni, quando se ne tolga soltanto l'attribuzione a
    Laocoonte di un animo stoico.
    
    § 47.
    
    Essendo bellezza e grazia il principale oggetto della scultura,
    questa predilige il nudo, e tollera vestimento solo se esso non cela
    le forme. Del drappeggiamento si serve non per nascondere, ma per
    rappresentare in un modo indiretto la forma: maniera di
    rappresentare, che molto occupa l'intelletto, il quale così non
    perviene all'intuizione della causa, ossia della forma corporea, se
    non attraverso il solo effetto datogli direttamente, ossia
    attraverso la disposizione delle pieghe. Il drappeggiamento è quindi
    nella scultura in certo modo quel che nella pittura è lo scorcio.
    
    L'uno e l'altro sono accenni: non già simbolici, ma tali, che –
    quando siano ben riusciti – direttamente costringono l'intelletto a
    intuir la cosa accennata come se fosse effettiva, rappresentata in
    realtà.
    
    Mi sia concesso d'intercalar qui per incidenza un paragone
    riferentesi alle arti oratorie. Come la bella forma corporea è nel
    modo più vantaggioso visibile con un abbigliamento leggerissimo, o
    addirittura senza, e quindi un uomo molto bello se avesse buon gusto
    e gli fosse lecito usarne, andrebbe di preferenza quasi nudo,
    vestito appena a mo' degli antichi; – così ciascuno spirito bello,
    ricco di pensiero, si esprimerà sempre nella più naturale, schietta,
    semplice maniera; cercando, ove sia possibile, di comunicare agli
    altri i suoi pensieri, per alleviare così a se stesso la solitudine
    che in un mondo come questo deve sentire.
    
    All'opposto povertà di mente, confusione, stortezza si vestiranno
    delle espressioni più ricercate e dei modi più oscuri per avvolgere
    così, in frasi difficili e pompose, piccoli, meschini, insipidi o
    comuni pensieri: come quegli che, mancando a lui la maestà della
    bellezza, a tale mancanza vuol riparare col vestito; e la meschinità
    o bruttezza della persona cerca di nascondere sotto barbarico
    sfoggio, luccicanti fronzoli, piume, gale, sboffi e mantello.
    
    Imbarazzato come costui se dovesse andar nudo, sarebbe più d'un
    autore, se fosse costretto a tradurre in forma chiara la povera
    sostanza del suo libro sì pomposo ed oscuro.
    
    § 48.
    
    La pittura storica ha, oltre la bellezza e la grazia, anche il
    carattere per suo oggetto principale: con la qual parola s'intende
    la rappresentazione della volontà nel massimo grado della sua
    oggettivazione, dove l'individuo – nel quale ha rilievo uno speciale
    aspetto dell'idea di umanità – acquista una sua particolare
    significanza, e questa non con la forma sola da a conoscere, ma con
    ogni maniera d'azione e con le modificazioni del conoscere e del
    volere (visibili nel volto e nei gesti) onde quell'azione è
    determinata e accompagnata. Poi che l'idea dell'umanità va espressa
    in sì vasta cerchia occorre che i suoi molteplici aspetti ci vengano
    offerti da individui ben significanti; e questi alla lor volta
    possono esser fatti palesi nella lor significazione solo mediante
    scene, eventi e atti svariati. Questo suo compito infinito adempie
    la pittura storica col porre davanti agli occhi ogni specie di scene
    della vita, di grande o piccolo significato. Né un individuo
    qualsiasi, né una qualsiasi azione possono essere senza significato:
    in ciascuno e con ciascuna si fa sempre più manifesta l'idea
    dell'umanità. Perciò nessunissimo fatto della vita umana va escluso
    dalla pittura. E gran torto si fa agli eccellenti pittori della
    scuola olandese, lodando esclusivamente la loro perizia tecnica, ma
    per il resto disdegnandoli, perché essi rappresentano di solito
    oggetti della vita comune: mentre invece si ritengono significanti
    solo i grandi fatti della storia universale o quelli della Bibbia.
    Si dovrebbe prima di tutto riflettere, che l'intimo significato di
    un'azione è affatto diverso dal significato esteriore, e l'uno
    spesso procede separato dall'altro. Il significato esterno è
    l'importanza di un'azione in rapporto alle sue conseguenze e nel
    mondo reale e pel mondo reale; ossia, in base al principio di
    ragione. Il significato intimo è la più o meno profonda penetrazione
    nell'idea dell'umanità, che quell'azione può dare col mettere in
    luce i meno comuni aspetti di tale idea; facendo che individualità
    nettamente e apertamente rivelantisi dispieghino – per mezzo di
    opportune circostanze – le loro caratteristiche. Solo il significato
    intimo conta nell'arte: l'esteriore conta nella storia. Entrambi
    sono affatto indipendenti l'uno dall'altro; possono presentarsi
    insieme, ma anche isolati. Un'azione altamente significativa per la
    storia può essere comune e banale nel suo senso interiore; e
    viceversa può una scena della vita comune avere un senso interiore
    grande, quando umani individui e umano agire e volere vi appaiano,
    fino alle più riposte pieghe, in una luce limpida e chiara. Anche
    può, in azioni di molto vario significato esteriore, esser
    l'interiore uno e identico. Così, per esempio, valgono rispetto a
    quest'ultimo in egual modo ministri, che sulla carta geografica si
    contendono terre e popoli, o contadini, che nella taverna vogliono
    l'un contro l'altro affermare il loro diritto a proposito di carte
    da giuoco e di dadi: come è indifferente se si giochi a scacchi con
    pezzi d'oro o di legno. Inoltre le scene e gli eventi, ond'è fatta
    la vita di tanti milioni d'uomini, e il loro agire e adoprarsi, la
    lor pena e la loro gioia, sono già di per sé importanti abbastanza
    per essere oggetto dell'arte; e devono, con la ricca varietà loro,
    dare materia sufficiente a che si dispieghi la multifronte idea
    dell'umanità. La fugacità stessa dell'attimo, che l'arte ha fissato
    in un tal quadro (detto oggi quadretto di genere), produce una
    lieve, particolare commozione: imperocché il fermar con durevoli
    tratti l'effimero mondo, che incessantemente si trasmuta, in singoli
    episodi, che pur danno immagine del Tutto, è tal compito della
    pittura, che per esso ella sembra rendere immobile il tempo,
    innalzando il singolo caso all'idea della sua specie. Finalmente i
    soggetti storici, ed esteriormente significativi, della pittura,
    hanno spesso lo svantaggio, che per l'appunto ciò che in essi è più
    significante non è rappresentabile per l'intuizione, bensì
    dev'esservi sovrapposto col pensiero. Sotto questo rispetto il
    significato nominale del quadro va di regola distinto dal reale:
    quello è il significato esterno, che viene ad aggiungersi soltanto
    come pensiero; questo è una faccia dell'idea dell'umanità, dal
    quadro rivelata all'intuizione. Quello sarà, per esempio, Mosè
    trovato dalla principessa egiziana: momento essenzialissimo per la
    storia; il senso reale invece, il vero dato dell'intuizione, è un
    trovatello che una donna salva dalla sua culla natante – episodio
    che può essere accaduto sovente. Solo il costume può qui far
    conoscere a un uomo colto che si tratta di quel determinato fatto
    storico; ma il costume, se ha valore per il senso nominale, è
    indifferente per il reale: poi che quest'ultimo conosce soltanto
    l'uomo come tale, e non le forme occasionali. Soggetti presi dalla
    storia non hanno alcun vantaggio su quelli che, tolti dalla semplice
    possibilità, non possono avere un titolo individuale, bensì
    generale: imperocché ciò, che veramente importa nei primi, non è
    l'individuale, non è il singolo fatto per se stesso, bensì quanto vi
    si contiene d'universale, l'aspetto dell'idea d'umanità, che per suo
    mezzo si esprime. D'altronde non sono perciò punto da rigettare
    anche determinati soggetti storici: ma in questo caso la vera mira
    artistica, sia del pittore sia dello spettatore, non tende a ciò che
    v'ha d'individuale, a ciò che propriamente costituisce la nota
    storica, bensì all'universale, che vi si esprime, all'idea. Inoltre
    vanno scelti solo quei soggetti storici, in cui la sostanza sia
    davvero rappresentabile, e non vada invece aggiunta col pensiero:
    che altrimenti il senso nominale troppo si allontana dal reale; e
    ciò che innanzi al quadro non è che pensato, diviene l'elemento più
    importante, a danno di ciò che è intuito. Se già sul palcoscenico è
    un difetto (come nella tragedia francese) che l'azione principale si
    svolga dietro le quinte, evidentemente questo difetto è di gran
    lunga maggiore nel quadro. Effetto decisamente cattivo producono le
    scene storiche sol quando costringono il pittore in un terreno
    arbitrario, e scelto con fini estranei all'arte; ma soprattutto
    quando codesto terreno è povero di soggetti pittorici e
    significanti, – come sarebbe, per esempio, la storia d'un piccolo,
    segregato, caparbio popolastro, fatto segno al disprezzo di tutti i
    grandi popoli dell'oriente e dell'occidente suoi contemporanei, qual
    è quello dei giudei. Poi che tra noi e tutti i popoli antichi sta
    come un termine la migrazione barbarica – nel modo stesso in cui tra
    l'attuale superficie terrestre e quella, di cui ci si mostrano
    pietrificati gli organismi, sta l'avvenuto spostamento del letto
    marino – è da considerarsi gran male che non siano per avventura
    gl'indiani o, i greci, o anche i romani il popolo la cui passata
    civiltà serva di precipua base alla nostra, bensì proprio codesti
    giudei. E fu specialmente una cattiva stella pei geniali pittori
    d'Italia, nel XV e XVI secolo, il doversi appigliare – nella breve
    cerchia in cui erano arbitrariamente ridotti, per la scelta dei loro
    argomenti – a ogni maniera di miseri soggetti: perché il Nuovo
    Testamento è, nella parte storica, quasi ancor più sfavorevole alla
    pittura che l'Antico non sia; e soggetto infelicissimo è la
    susseguente storia dei martiri e dei Padri della Chiesa. Bisogna
    tuttavia ben distinguere dai quadri, che hanno per soggetto la parte
    storica o mitologica del giudaismo e del cristianesimo, quelli, nei
    quali il verace ossia l'etico genio del cristianesimo viene offerto
    all'intuizione, rappresentandovisi uomini che di quel genio son
    pieni. Codeste rappresentazioni sono invero le più alte e ammirabili
    opere della pittura: riuscite unicamente ai maestri maggiori
    dell'arte, a Raffaello ed al Correggio – quest'ultimo
    particolarmente ne' suoi primi quadri. Opere di tal natura non vanno
    punto annoverate tra le pitture storiche, imperocché di solito non
    rappresentano un fatto, un'azione: sono bensì semplici gruppi di
    santi, o del Salvatore medesimo, spesso ancor bambino, con sua
    madre, angeli, etc. Nei loro volti, e specialmente negli occhi,
    vediamo l'espressione, il riflesso della più perfetta conoscenza: di
    quella, che non a singole cose è rivolta, bensì ha pienamente
    afferrato le idee, ossia l'intero essere del mondo e della vita. La
    qual conoscenza operando in essi, di ritorno, sulla volontà, non
    fornisce a questa, come l'altra conoscenza, motivi; ma viceversa è
    divenuta un quietivo d'ogni volontà, dal quale provengono la
    perfetta rassegnazione – ch'è lo spirito intimo del cristianesimo
    come dell'indiana saggezza – la rinunzia a tutte le brame,
    l'abdicazione, la soppressione della volontà e con essa dell'intera
    essenza di questo mondo: ossia, la redenzione. Così quei maestri
    dell'arte in eterno laudati ci espressero intuitivamente con le
    opere loro la saggezza suprema. E qui è la vetta dell'arte: la
    quale, dopo aver perseguito la volontà, nella sua adeguata oggettità
    – le idee – per tutti i gradi, dai più bassi, ove la eccitano cause,
    ai meno bassi, ove la eccitano stimoli, e finalmente ai superiori,
    in cui sì variamente la muovono motivi e ne dispiegano l'essenza;
    alla fine termina col rappresentarne la libera abolizione mediante
    quel solo grande quietivo, che a lei viene dalla perfetta cognizione
    della sua propria essenza17.
    
    § 49.
    
    Tutte le nostre considerazioni sull'arte finora svolte hanno sempre
    per base la verità, che suo oggetto – la cui rappresentazione è
    scopo dell'artista, e la cui conoscenza deve quindi preceder come
    germe e principio l'opera di lui – è un'idea, nel senso platonico, e
    nient'altro: non la cosa singola, oggetto della comune percezione;
    né meno il concetto, ch'è oggetto del pensar razionale e della
    scienza. Sebbene idea e concetto abbiano qualcosa in comune,
    rappresentando l'una e l'altro come unità una pluralità di cose
    reali, dev'esser tuttavia risultata chiara e luminosa la differenza
    loro, dopo quanto nel primo libro si disse intorno al concetto; e
    intorno all'idea nel libro presente. Che nondimeno già Platone
    avesse ben compresa codesta differenza, non voglio punto affermare:
    che anzi taluni tra' suoi esempi d'idee e tra' suoi chiarimenti in
    proposito sono applicabili soltanto a concetti. Basti per ora di
    ciò, e andiamo pel nostro cammino: rallegrandoci bensì ogni qual
    volta ci accada d'incontrar la via segnata da un grande e nobile
    spirito, ma ognora mirando alla nostra meta e non alle tracce di
    quello. Il concetto è astratto, discorsivo, affatto indeterminato
    entro la propria sfera, determinato solo nei confini della medesima;
    raggiungibile e afferrabile da ciascuno con la sola ragione;
    comunicabile in parole senz'altra mediazione, tutto esaurito dalla
    propria definizione. L'idea invece, che al più va definita come
    adeguata rappresentante del concetto, è del tutto intuitiva, e,
    sebbene rappresenti un'infinità di singole cose, è tuttavia ben
    determinata. Dall'individuo come tale non è mai conosciuta, ma sol
    da quegli, che s'è elevato sopra ogni volere e ogni individualità a
    puro soggetto nel conoscere: quindi a lei perviene solamente il
    genio, e in secondo luogo chi si trovi in una disposizione geniale,
    mediante un innalzamento della sua pura forza conoscitiva, il più
    delle volte dalle opere del genio prodotta. L'idea non è quindi
    comunicabile senz'altro, ma solo condizionatamente, in quanto l'idea
    percepita e riprodotta nell'opera d'arte parla a ciascuno secondo la
    misura del suo valore intellettuale: perciò proprio le più
    eccellenti opere di ogni arte, i più nobili prodotti del genio,
    devono per l'ottusa maggioranza degli uomini rimaner libri chiusi in
    eterno, ad essa inaccessibili, separati da un largo abisso, sì come
    al volgo è inaccessibile il commercio dei principi. È vero, che
    anche i più ottusi ammettono per sentito dire le opere riconosciute
    grandi: ma nell'ombra si tengono pronti ognora a criticarle, non
    appena li si lasci sperare che possan farlo senza compromettersi –
    nel che gioiosamente si sfoga il loro astio a lungo celato contro
    tutte le cose grandi e belle, che per non averli mai toccati li
    umiliavano, e contro i creatori di quelli. Imperocché di regola, per
    riconoscere e ammettere spontaneamente, liberamente, il valore
    altrui, bisogna averne di proprio. Su ciò poggia la necessità della
    modestia malgrado qualsivoglia merito, ed anche la lode
    sproporzionatamente alta di codesta virtù: la quale, sola tra tutte
    le sue sorelle, da ciascuno, che ardisca esaltare un uomo in qualche
    modo segnalato, è ogni volta aggiunta alle altre lodi di lui, per
    conciliarsi gl'inetti e placarne il livore. Che cos'è la modestia,
    se non finta umiltà, con la quale, in un mondo turgido di bassa
    invidia, si vuol mendicare per i propri vantaggi e meriti il perdono
    di quelli che non ne hanno? Poiché colui il quale né vantaggi né
    meriti s'attribuisce, perché effettivamente non ne possiede, non è
    modesto, ma appena onesto.
    
    L'idea è l'unità infranta nella pluralità, secondo la forma
    temporale e causale della nostra apprensione intuitiva: invece il
    concetto è l'unità, dalla pluralità novellamente ricostituita,
    mediante il procedere astratto della nostra ragione. Questa si può
    chiamare unitas post rem, quella unitas ante rem. Da ultimo la
    differenza tra concetto e idea si può ancora indicare con un
    paragone, dicendo: – II concetto somiglia a una inerte custodia,
    nella quale effettivamente viene a giustapporsi ogni cosa che vi si
    ponga; ma da cui nulla può esser tolto (mediante giudizi analitici)
    più di quanto vi si sia posto (mediante sintetica riflessione).
    L'idea invece sviluppa, in quegli che l'ha afferrata,
    rappresentazioni che sono nuove in rapporto al concetto omonimo:
    ella somiglia a un vivente, sviluppantesi organismo, dotato di forza
    generativa, il quale produce quel che non conteneva incasellato
    dentro di sé.
    
    Da tutto ciò risulta che il concetto, per quanto sia giovevole alla
    vita, per quanto utile, necessario e fecondo alla scienza, è in
    eterno sterile per l'arte. Vera e unica sorgente d'ogni genuina
    opera d'arte è la percepita idea. Nella sua robusta originalità
    viene ella attinta unicamente alla vita medesima, alla natura, al
    mondo; e unicamente anche per mezzo del genio vero, o di chi sia per
    quell'attimo asceso fino a raggiungere la genialità. Sol da questa
    diretta concezione nascono capolavori, che recano in sé vita
    immortale. Appunto perché l'idea è intuitiva, e tale rimane, non è
    l'artista consapevole in abstracto dell'intenzione e della meta a
    cui tende l'opera sua; non un concetto, ma un'idea gli fluttua
    davanti: perciò non può render conto del suo operare. Lavora, come
    si suol dire, di puro sentimento, e inconsapevole, anzi per istinto.
    Viceversa imitatori, artefici di maniera, imitatores, servum pecus,
    procedono nell'arte movendo dal concetto: prendon nota di ciò che
    nelle vere opere d'arte piace e commuove, se lo rendono chiaro, lo
    afferrano in forma di concetto, astrattamente, e lo imitano infine,
    in modo aperto o palese, con avveduta intenzione. Succhiano il lor
    nutrimento, simili a piante parassite, da opere altrui; e, simili a
    polipi, prendono il colore di ciò che mangiano. Anzi, andando
    innanzi coi paragoni, si potrebbe affermare, che somigliano a
    macchine, le quali perfettamente tritino e frammischino quanto vi si
    getta dentro, ma senza poterlo mai digerire: sì che i diversi
    componenti si possan sempre ritrovare, trar fuori della miscela ed
    isolare: mentre il genio somiglierebbe invece all'organismo, che
    assimila, trasforma e produce. Imperocché il genio viene bensì
    educato e formato dai predecessori e dalle opere loro; ma la vita e
    il mondo stesso, direttamente, lo fecondano con l'intuizione: perciò
    anche una ricchissima cultura non può recar danno alla sua
    originalità. Tutti gl'imitatori, tutti i manieristi percepiscono in
    forma di concetto l'essenza dei capolavori altrui; ma concetti non
    possono mai dar vita interna a un'opera. I contemporanei – ossia
    l'opaca folla d'ogni generazione – non conoscono anch'essi altro che
    concetti, e vi si attaccano, e accolgono quindi le opere manierate
    con rapido e alto plauso: ma le stesse opere sono dopo brevi anni
    già indigeste, perché lo spirito del tempo – vale a dire, i concetti
    dominanti – in cui quelle avevano la loro unica base, è mutato.
    Soltanto le vere opere d'arte, le quali dalla natura, dalla vita
    sono direttamente inspirate, rimangono, come queste perennemente
    giovani, e poderose in eterno. Imperocché non appartengono a una
    data epoca, ma all'umanità: e come perciò appunto dal loro proprio
    tempo – a cui disdegnarono di conformarsi – furono tiepidamente
    accolte, e, svelando in modo indiretto e negativo gli errori di
    quello, furono tardi e contro voglia riconosciute; così in compenso
    non possono invecchiare, e ancor ne' tempi più lontani parlano con
    voce fresca e sempre giovane: non più esposte a venir trascurate o
    misconosciute, ma immutabilmente coronate e sanzionate dal plauso
    delle poche teste capaci di giudicare, le quali compaiono isolate e
    rare nei secoli18 e depongono i loro voti – la cui somma lentamente
    crescendo serve di base a quell'autorità, che sola costituisce il
    tribunale, a cui si allude quando diciamo di fare appello alla
    posterità. Sole formano il tribunale queste teste isolate, che
    successivamente appariscono: perché la folla della posterità sarà e
    rimarrà in ogni tempo stolta e ottusa come nel passato e come nel
    presente. Si leggano i lamenti di grandi spiriti, in ogni secolo,
    intorno ai loro contemporanei: sembrano di oggi, perché la razza è
    sempre la medesima. In ciascun tempo ed in ciascuna arte la maniera
    prende il posto del genio, che sempre è proprietà esclusiva di
    pochi: ma la maniera è come il vecchio vestito smesso della più
    recente, riconosciuta apparizione del genio. In conseguenza di tutto
    ciò, il plauso dei posteri non s'acquista di regola se non a costo
    del successo contemporaneo; e viceversa19.
    
    § 50.
    
    Se adunque è fine di tutte le arti il comunicar la percepita idea,
    la quale appunto per l'interposizione dello spirito dell'artista, in
    cui apparisce purificata e isolata, diventa alfine accessibile anche
    a chi abbia ricettività più debole, e nessuna produttività; se
    inoltre è nell'arte da rigettarsi il muover dal concetto; non
    potremo per conseguenza approvare, che un'opera d'arte sia
    intenzionalmente e palesemente destinata all'espressione d'un
    concetto: com'è il caso dell'allegoria. Un'allegoria è un'opera
    d'arte, la quale significa alcunché di diverso da quel che
    rappresenta. Ma ciò che è intuitivo, e quindi anche l'idea, si
    esprime da sé in modo diretto e compiuto, né ha bisogno di altro
    intermediario, dal quale esso venga significato velatamente. Quel
    che in tal modo viene adunque significato e rappresentato mediante
    alcunché di affatto diverso, non potendo esso medesimo venire
    offerto all'intuizione, è sempre un concetto. Con l'allegoria viene
    quindi ognora significato un concetto, e per conseguenza la mente
    dello spettatore è condotta lungi dall'offertale rappresentazione
    intuitiva verso un'altra astratta, non intuitiva, che sta tutta
    fuori dell'opera d'arte: così il quadro o la statua devono compiere
    quel che compie, solo in modo più completo, la scrittura. Quel che
    per noi è il fine dell'arte – rappresentazione dell'idea percepibile
    solo intuitivamente – non è quivi più il fine. Per la mira, a cui
    nell'allegoria si tende, non è neppur necessaria una gran perfezione
    dell'opera d'arte: basta che si vegga che cosa sia l'oggetto;
    perché, una volta trovato questo, lo scopo è raggiunto, e lo spirito
    è condotto verso una rappresentazione di tutt'altra natura, verso un
    concetto astratto che era appunto il fine proposto. Allegorie
    nell'arte figurativa non sono perciò altro che geroglifici: il
    pregio artistico, che d'altronde possono avere come rappresentazioni
    intuitive, non appartiene loro in quanto sono allegorie, ma per un
    altro verso. Che la Notte del Correggio, il Genio della Fama di
    Annibale Carracci, le Ore del Poussin siano bellissime pitture, è
    cosa affatto indipendente dall'essere allegorie. Come allegorie non
    dicono più di un'iscrizione – anzi piuttosto meno. Siamo qui
    richiamati alla distinzione, fatta più sopra, tra il senso reale e
    il nominale d'un quadro. Il nominale è qui appunto l'allegorico,
    come, per esempio, il Genio della Fama; il reale è ciò che in
    effetti vien rappresentato: nel caso presente, un bel giovane alato,
    con bei fanciulli intorno. Questo esprime un'idea: ma cotal senso
    reale agisce solo fin che sia posto in oblio il senso nominale,
    allegorico; basta pensarvi, perché l'intuizione si allontani e un
    concetto astratto occupi lo spirito: ora il passaggio dall'idea al
    concetto è sempre una caduta. Sì, quel senso nominale,
    quell'intenzione allegorica fa spesso danno al senso reale, alla
    verità intuitiva: come, per esempio, l'innaturale luce nella Notte
    del Correggio, la quale, per quanto ben dipinta, tuttavia è motivata
    solo dall'allegoria, ed in realtà impossibile. Se quindi un quadro
    allegorico ha pregio d'arte, questo è del tutto separato e
    indipendente dall'ufficio dell'allegoria: un'opera siffatta serve
    insieme a due scopi, ossia all'espressione d'un concetto e
    all'espressione di un'idea, ma esclusivamente il secondo può essere
    un fine dell'arte, mentre l'altro è uno scopo estraneo; è la
    piacevolezza scherzosa, di far che un quadro serva in pari tempo
    come un'iscrizione, un geroglifico: piacevolezza inventata a
    vantaggio di coloro per cui è muta l'essenza vera dell'arte. Gli è
    allora come se un'opera d'arte fosse in pari tempo un arnese
    d'utilità pratica, nel qual caso anche serve a due scopi: per
    esempio una statua, che sia insieme candelabro o cariatide, o un
    bassorilievo, che sia contemporaneamente scudo d'Achille. Sinceri
    amici dell'arte non gusteranno né l'una né l'altro. È vero, che
    un'immagine allegorica può appunto in questa sua qualità produrre un
    vivo effetto sull'animo: ma l'effetto medesimo produrrebbe, in
    circostanze eguali, anche un'iscrizione. Così, per esempio, se
    nell'animo d'un uomo sia fermamente e fortemente radicata la brama
    della gloria, ed egli guardi alla gloria come a sua legittima
    proprietà, a lui negata sol finché ei non abbia prodotto i titoli
    del suo possesso; e quest'uomo venga davanti al Genio della Fama
    coronato d'alloro; tutto il suo animo ne sarà infervorato, e la sua
    energia spronata all'azione. Ma non accadrebbe altrimenti, se d'un
    tratto e' leggesse grande e chiara sulla parete la parola «gloria».
    Oppure, se un uomo abbia svelata una verità, la quale sia importante
    o come regola per la vita pratica, o come cognizione per la scienza,
    ma non trovi fede; agirà profondamente su di lui un'immagine
    allegorica del Tempo, che alzi il velo e scopra la verità nuda. Ma
    non altrimenti agirebbe il motto: «Le temps découvre la vérité».
    Imperocché ciò che quivi propriamente agisce è sempre il solo
    pensiero astratto, e non la cosa intuita.
    
    Ora se, come abbiamo visto, l'allegoria nell'arte figurativa è una
    tendenza viziosa, asservita ad un fine, che all'arte è affatto
    estraneo, codesta tendenza diviene addirittura insopportabile, se è
    spinta a tal segno che la rappresentazione di sottigliezze forzate e
    introdotte arbitrariamente venga a cader nell'insulso. Di tal fatta
    è, per esempio, una testuggine, che voglia indicar la ritrosia
    femminile; la Nemesi, che si guardi in seno dentro al vestito, per
    significar ch'ella vede anche l'ascoso; la dichiarazione del
    Bellori, che Annibale Carracci abbia vestita di giallo la voluttà,
    per esprimere che le sue gioie tosto appassiscono e si fanno gialle
    come paglia. Se adunque tra la cosa rappresentata e il concetto, per
    suo mezzo significato, non è alcun legame che abbia per base la
    sussunzione sotto quel soggetto e l'associazione delle idee; ma
    segno e cosa significata stanno in connessione tutta convenzionale,
    mediante un ravvicinamento positivo e provocato a caso: allora io
    chiamo simbolo questa varietà dell'allegoria. Così la rosa è simbolo
    della discrezione, l'alloro simbolo della gloria, la palma simbolo
    della vittoria, la conchiglia simbolo del pellegrinaggio, la croce
    simbolo della religione cristiana: e qui vengono anche tutte le
    significazioni dirette attribuite ai semplici colori, per esempio,
    il giallo come colore della falsità, l'azzurro della fedeltà. Cotali
    simboli possono sovente giovar nella vita, ma all'arte il lor pregio
    è straniero: sono da considerare in tutto come geroglifici, o
    addirittura come caratteri cinesi, ed appartengono in realtà alla
    stessa categoria degli stemmi, della frasca posta a insegna di
    un'osteria, delle chiavi da cui si riconoscono i ciambellani, o del
    cuoio da cui si conoscono i minatori. Quando infine certi personaggi
    storici o mitici, oppure certi personificati concetti vengono fatti
    conoscere mediante simboli convenuti una volta per sempre, forse
    dovrebbero questi chiamarsi propriamente emblemi: tali sono le
    bestie degli Evangelisti, la civetta di Minerva, il pomo di Paride,
    l'ancora della Speranza, e così via. Ma solitamente si da il nome
    d'emblemi a quelle immagini parlanti, semplici, e illustrate da un
    motto, che servono a raffigurare una verità morale, e di cui si
    hanno grandi raccolte per opera di J. Camerarius, Alciatus e altri:
    esse formano il trapasso verso l'allegoria poetica, della quale sarà
    trattato in seguito. La scultura greca si rivolge all'intuizione, e
    però ella è estetica; l'indostana si rivolge al concetto, e però è
    solamente simbolica.
    
    Questo giudizio dell'allegoria, poggiato sulle considerazioni fin
    qui da noi fatte intorno all'intimo essere dell'arte, e con quelle
    strettamente connesso, è proprio l'opposto dell'opinione di
    Winckelmann; il quale lungi dal dichiarar l'allegoria affatto
    estranea all'arte, e a lei spesso dannosa, costantemente ne sostiene
    le parti, anzi (Werke, vol. I, pp. 55 sg.) pone il supremo fine
    dell'arte nella «rappresentazione di concetti generali e di cose non
    percettibili dai sensi». Sia libero ciascuno d'accostarsi all'una o
    all'altra opinione. Ma a me, davanti a questa ed a consimili
    opinioni di Winckelmann, concernenti la vera e propria metafisica
    dell'arte, apparve limpida la persuasione, che si possa aver la
    massima sensibilità e il più esatto giudizio intorno al bello
    artistico, senza tuttavia essere in grado di dar ragione astratta e
    propriamente filosofica dell'essenza del bello e dell'arte: così
    come si può esser d'animo nobilissimo e virtuoso, e avere una
    coscienza molto delicata, la quale di caso in caso proceda con
    l'esattezza d'una bilancia di precisione, senza perciò essere in
    grado di approfondir filosoficamente e rappresentare in abstracto il
    valore etico delle azioni.
    
    Ma un tutt'altro rapporto ha l'allegoria con la poesia che non con
    l'arte figurativa, e sebbene qui sia da respingere, colà è
    volentieri ammessa e vantaggiosa. Imperocché nell'arte figurativa
    ella conduce dal dato intuitivo, dal vero oggetto di tutte le arti,
    al pensiero astratto; mentre nella poesia è il rapporto inverso.
    Nella poesia quel ch'è dato direttamente con le parole è il
    concetto, e scopo più prossimo è sempre il condur da questo al dato
    intuitivo, la cui rappresentazione dev'essere intrapresa dalla
    fantasia dell'ascoltatore. Se nell'arte figurativa s'è condotti dal
    dato immediato verso qualche altra cosa, questa dev'esser sempre un
    concetto, perché qui soltanto l'astratto non può esser dato
    immediatamente; ma un concetto non può mai esser l'origine, né la
    sua comunicazione esser lo scopo di un'opera d'arte. Viceversa nella
    poesia il concetto è il materiale, il dato immediato, che si può
    quindi benissimo abbandonare, per far nascere un'immagine intuitiva
    del tutto diversa, con la quale vien raggiunto lo scopo. Nella
    connessione di una poesia può qualche concetto, o pensiero astratto,
    essere indispensabile, pur non potendo in sé e direttamente esser
    dato all'intuizione: esso viene allora sovente reso intuibile per
    mezzo d'un qualunque esempio che vi si possa sussumere. Questo si
    vede già in ogni espressione figurata, e accade in ogni metafora,
    paragone, parabola e allegoria, – tutte figure, che si distinguono
    solo per la lunghezza e ampiezza della loro rappresentazione. Per
    tal motivo sono d'eccellente effetto paragoni e allegorie nelle arti
    oratorie. Come dice bene Cervantes del sonno, per significare
    ch'esso ci sottrae a tutti i dolori morali e corporali, «essere un
    mantello che copre l'uomo tutto quanto!». Come bene esprime Kleist
    allegoricamente il pensiero, che filosofi e scienziati rischiarano
    il genere umano, nel verso:
    
    Quei, la cui lampa notturna la terra tutta rischiara!20
    
    Come fortemente e limpidamente Omero indica Ate di mali
    apportatrice, dicendo: «ella ha piedi delicati, poiché non calpesta
    la dura terra, ma s'aggira soltanto sulle teste degli uomini» (Il.,
    XIX, 91)! Che effetto ebbe sul fuoruscito popolo romano la favola,
    detta da Menenio Agrippa, dello stomaco e delle membra! Come
    l'allegoria platonica della caverna, già riferita, bellamente
    esprime all'inizio del settimo libro della Repubblica un
    astrattissimo dogma filosofico! Similmente va considerata come
    profonda allegoria di filosofica tendenza la favola di Persefone, la
    quale, per avere gustato una melagrana nel mondo sotterraneo, cade
    in potere di questo: e ciò appare soprattutto luminosamente nella
    trattazione, superiore a ogni lode, che di tal favola Goethe ha
    intrecciato come episodio nel Trionfo della sensibilità. Tre ampie
    opere allegoriche io conosco: allegorica è in modo aperto ed
    espresso l'incomparabile Criticon di Baldassar Gracian, consistente
    in un vasto, ricco tessuto d'allegorie profondissime intrecciate
    l'un con l'altra, le quali servono qui a rivestir gaiamente verità
    morali, cui lo scrittore dà appunto in tal modo la massima evidenza
    intuitiva, stupefacendosi con la ricchezza delle sue invenzioni. Due
    allegorie dissimulate sono invece il Don Chisciotte e Gulliver in
    Lulliput. Quello rappresenta allegoricamente la vita di ciascuno, il
    quale non voglia, come gli altri, pensare soltanto al suo interesse
    personale, ma persegua un fine obiettivo, ideale, che s'è
    impadronito del suo pensiero e della sua volontà, per la qual cosa
    egli finisce, a dir vero, col comportarsi in questo mondo un po'
    stranamente. Nel Gulliver basta dar senso morale a tutto ciò ch'è
    materiale, per accorgersi a che abbia mirato quel satirical rogue,
    come lo chiamerebbe Amleto. Essendo adunque dato costante
    dell'allegoria poetica il concetto, che quella vuol rendere
    intuitivo mediante un'immagine, potrà dessa talvolta esprimersi o
    aiutarsi magari con un'immagine dipinta: ma questa non s'ha però da
    considerare come opera dell'arte figurativa, bensì unicamente qual
    parlante geroglifico; né può pretendere d'aver valore artistico,
    bensì solo poetico. Di tal natura è quella bella vignetta allegorica
    di Lavater, che tanto deve rianimare il cuore a ciascun nobile
    combattente per la verità: una mano, che sorreggendo una fiaccola
    viene punta da una vespa, mentre alla fiamma si bruciano dei
    moscerini; e in basso sta il motto:
    
    S'arda pure le ali il moscerino,
    
    Gli scoppi il capo e il piccolo cervello;
    
    La luce riman sempre luce.
    
    E s'anco la vespa più irosa mi punge,
    
    Non lascio la luce cadere21.
    
    Qui va ricordata inoltre quella pietra sepolcrale con un lume spento
    dal soffio, e che fuma; col motto:
    
    Quand'è spento, si rende allor palese
Se luce era di sego, oppur di
    cera22.
    
    Dello stesso genere è infine un antico albero genealogico tedesco,
    nel quale l'ultimo rampollo della remotissima schiatta espresse il
    suo proposito di menar la vita in tutta continenza e castità,
    lasciando così perire la stirpe, col rappresentar se stesso vicino
    alla radice dell'albero dai molti rami, nell'atto di reciderlo con
    le forbici e abbatterlo su di sé. E sempre di questo medesimo tipo
    sono tutte le immagini parlanti più sopra ricordate, dette emblemi,
    che si potrebbero anche definir brevi favole a colori, con la morale
    formulata in parole. Cosiffatte allegorie vanno sempre annoverate
    tra le poetiche, non tra le pittoriche, e appunto perciò sono
    ammesse: la rappresentazione figurata vi sta ognora come un
    accessorio, ed a lei non altro si domanda che di far conoscere la
    cosa. Ma come nell'arte figurativa, così anche nella poesia
    l'allegoria diventa simbolo, quando tra l'oggetto presentato
    all'intuizione e l'astrazione per suo mezzo indicata non è altro
    legame, se non arbitrario. Appunto perché ogni rapporto simbolico
    poggia in sostanza sopra una convenzione, tra gli altri svantaggi il
    simbolo ha pur quello che il suo significato si dimentica col tempo,
    e finisce col perdersi del tutto: chi indovinerebbe, se non lo
    sapesse, perché il pesce è simbolo del Cristianesimo? Soltanto uno
    Champolion: essendo esso in tutto e per tutto un geroglifico
    fonetico. E perciò l'Apocalissi di Giovanni ci sta ora innanzi
    press'a poco come i bassorilievi con l'iscrizione magnus Deus sol
    Mithra, intorno ai quali ancor si fanno chiose23.
    
    § 51.
    
    Se ora, armati delle nostre considerazioni precedenti sull'arte in
    generale, ci volgiamo dalle arti figurative alla poesia, non
    dubiteremo, che anch'essa si proponga di rivelar le idee – gradi
    dell'oggettivazione della volontà – e con quella chiarezza e
    vivacità, in cui le percepì l'animo del poeta, comunicarle
    all'ascoltatore. Le idee sono essenzialmente intuitive: se quindi
    ciò, che nella poesia vien comunicato direttamente con parole, sono
    concetti astratti, è nondimeno palese l'intenzione di far che il
    lettore intuisca, nei rappresentanti di codesti concetti, le idee
    della vita; la qual cosa non può aversi senza l'aiuto della fantasia
    di lui. Ma per scuoter quest'ultima in conformità del fine, devono i
    concetti astratti, che sono il diretto materiale della poesia come
    della più arida prosa, esser riuniti in modo, che le loro sfere
    s'intersechino, sì che nessuna possa permaner nella sua astratta
    universalità; e in luogo di questa si presenti alla fantasia un suo
    rappresentante intuitivo, che le parole del poeta vengano sempre più
    a modificare secondo l'intento proposto. Come il chimico da liquidi
    affatto chiari e trasparenti ricava, mescolandoli, precipitazioni
    solide, così il poeta sa dall'astratta, trasparente universalità dei
    concetti, secondo la maniera con cui li collega, far precipitare il
    concreto, l'individuale, la rappresentazione intuitiva. Imperocché
    solo intuitivamente vien conosciuta l'idea: e conoscenza dell'idea è
    lo scopo di tutte le arti. La maestria del poeta, come quella del
    chimico, lo fa capace di raccoglier sempre quel precipitato per
    l'appunto che si era proposto. A tal fine servono nella poesia i
    molti epiteti, dai quali viene limitata l'universalità di ciascun
    concetto, sempre più, fino a renderlo intuibile. Omero accoppia
    quasi a ogni sostantivo un aggettivo, il cui concetto taglia la
    sfera del concetto primo, e tosto considerevolmente la riduce, sì
    che questo già molto s'avvicina all'intuizione: per esempio
    
    Εν δ’επεσ΄ Ωκεανω λαμπρον φαος ηελιοιο,
‘Ελκον νυκτα μελαιναν επι
    ξειδωρον αρουραν.
    
    (Occidit vero in Oceanum splendidum lumen solis,
Trahens noctem
    nigram super almam terram).
    
    E i versi:
    
    Un lieve vento dal cielo azzurro spira,
Sta immoto il mirto ed alto
    sta l'alloro24.
    
    Da pochi concetti traggono innanzi alla fantasia sensibilmente tutta
    l'ebbrezza del clima meridionale.
    
    Ausiliarii tutti proprii della poesia sono ritmo e rima. Del loro
    effetto, efficace in modo incredibile, non so dare altra spiegazione
    se non questa: che le nostre forze rappresentative, essenzialmente
    legate al tempo, ne abbiano derivata una proprietà, in grazia della
    quale noi si segue internamente ogni suono ripetentesi a regolari
    intervalli, e quasi facciamo coro. Perciò in parte ritmo e rima
    diventano un vincolo per la nostra attenzione, facendoci ascoltar
    più volentieri la recitazione; e in parte sorge dentro di noi per
    loro mezzo quasi un intuitivo accompagnamento musicale, anteriore a
    ogni giudizio, di ciò che vien recitato: dal che questo prende un
    certo potere di persuasione enfatico, indipendente da tutte le
    ragioni.
    
    Per l'universalità della materia, di cui la poesia si vale a
    comunicar le idee – ossia, de' concetti – molto vasta è la cerchia
    del suo dominio. La natura tutta quanta, le idee in tutti i gradi si
    posson per suo mezzo rappresentare, nel mentre ella, a seconda
    dell'idea che vuol comunicarci, procede or descrivendo, ora
    narrando, ora rappresentando direttamente in forma drammatica. Ma,
    se nel rappresentare i gradi infimi dell'oggettità della volontà,
    l'arte figurativa supera il più delle volte la poesia, perché la
    natura inconsciente e anche quella puramente animale tutta l'essenza
    loro rivelano in un unico momento ben colto; viceversa è l'uomo – in
    quanto non con la semplice sua forma o con l'espressione del volto
    rivela se stesso, ma con una catena d'azioni e coi pensieri e
    affetti che l'accompagnano – il principale oggetto della poesia: e
    nessun'altra arte può gareggiare con lei, perché in questo alla
    poesia soccorre il progressivo sviluppo dell'argomento, negato alle
    arti figurative.
    
    Rivelazione di quella idea, che è il grado più alto nell'oggettità
    della volontà, rappresentazione dell'uomo nella serie coordinata
    delle sue tendenze e dei suoi atti, questo è il grande soggetto
    della poesia. È vero bensì che anche l'esperienza, anche la storia
    insegnano a conoscere l'uomo; ma più spesso gli uomini che non
    l'uomo: ossia danno notizie empiriche sul contegno degli uomini tra
    loro, dalle quali emergono regole per la condotta individuale,
    piuttosto che far penetrare lo sguardo addentro nell'intimo essere
    dell'uomo. Non che questa penetrazione sia loro del tutto preclusa:
    ma ogni qual volta veramente si apra a noi nella storia, o nella
    personale esperienza, l'essenza dell'umanità, vuol dire che o da noi
    l'esperienza, o dallo storico la storia sono state percepite già con
    occhi d'artista, poeticamente, ossia nell'idea, e non nel fenomeno,
    nell'intimo essere, e non nelle relazioni. Assoluta condizione, per
    comprendere la poesia come la storia, è l'esperienza propria: perché
    è quasi il dizionario della lingua, che parlano entrambe. Ma la
    storia sta alla poesia come il ritratto sta al quadro storico:
    quello rende il vero nel particolare, questo il vero in generale:
    quello rende la verità del fenomeno, e col fenomeno documenta la
    verità; questo rende la verità dell'idea, che non si trova in nessun
    fenomeno singolo ma da tutti parla. Il poeta rappresenta con
    opportuna scelta e intenzione significanti caratteri in significanti
    situazioni: lo storico prende queste e quelli come vengono. Anzi,
    egli non ha da considerare e scegliere le circostanze e le persone
    secondo la loro interna, genuina significazione, esprimente l'idea;
    ma piuttosto secondo la significazione esterna, apparente, relativa,
    importante rispetto ai loro nessi, alle loro conseguenze. Nessuna
    cosa può guardare in sé e per sé, nel carattere e nell'espressione
    essenziali, bensì deve tutto considerare in rapporto alla relazione,
    alla concatenazione, all'influsso e a ciò che ne consegue; in
    rapporto, soprattutto, alla sua epoca. Non potrà quindi trascurar
    l'azione di un re, anche se poco importante, anzi in se stessa
    ordinaria: perché quest'azione ha conseguenze ed effetto. Viceversa
    non dovrà far cenno di azioni per se medesime significantissime,
    compiute da singoli, eminenti individui, quando non abbiano avuto né
    conseguenze né effetto. Imperocché la sua indagine procede secondo
    il principio di ragione, e s'attacca al fenomeno, di cui quello è
    forma. Coglie invece il poeta le idee, l'essenza dell'umanità, fuori
    d'ogni relazione, fuor d'ogni tempo, adeguata oggettità della cosa
    in sé nel suo grado più alto. Anche se in quella maniera d'indagine
    ch'è necessaria allo storico non può andar del tutto smarrita
    l'essenza intima, la significanza dei fenomeni, il nocciolo di tutti
    quei gusci, o almeno la si lascia ancora scoprire e riconoscere da
    chi la cerca; tuttavia quel che per se stesso e non per le sue
    relazioni è importante, ossia il vero sviluppo dell'idea, si
    ritroverà di gran lunga più preciso e limpido nella poesia che non
    nella storia. Ed alla poesia, per quanto suoni paradossale, sarà
    quindi da attribuire molto più genuina, intima, vera verità che alla
    storia. Imperocché lo storico è obbligato a seguire con esattezza
    gli eventi individuali secondo il corso della vita, quale si svolge
    nel tempo in concatenazioni variamente intrecciate di cause e di
    effetti; ma gli è impossibile di conoscer tutti i dati, tutto
    vedere, tutto investigare: ad ogni istante l'originale del suo
    quadro si allontana, oppure un originale falso si frappone innanzi
    al vero; e questo accade tanto spesso, ch'io credo potermi
    convincere essere in tutte le storie più di falso che di vero. Il
    poeta invece ha colto l'idea dell'umanità in uno dei suoi aspetti,
    che vuol rappresentare. Quel che per lui si oggettiva in quella, è
    l'essenza del suo proprio io: la sua conoscenza è, secondo fu sopra
    esposto a proposito della scultura, mezza a priori: il suo modello
    gli sta davanti allo spirito, fermo, limpido, in piena luce, e non
    può allontanarsi: perciò egli ci mostra pura e chiara nello specchio
    del proprio spirito l'idea, e la raffigurazione, ch'egli ne da, è,
    fino ai minimi particolari, vera come la vita stessa25.
    
    I grandi storici antichi sono perciò, quando pongono in disparte gli
    elementi di fatto, per esempio, nei discorsi dei loro eroi, poeti;
    ed anzi tutta la loro trattazione della materia tiene dell'epico:
    ciò che per l'appunto dà unità ai loro racconti, e fa che questi
    contengano la verità interna pur là dove l'esterna non era agli
    storici accessibile, o addirittura era falsata. E se dianzi
    paragonammo la storia al ritratto, in opposizione alla poesia che
    corrisponderebbe alla pittura storica, troviamo che la massima di
    Winckelmann, dovere il ritratto esser l'ideale dell'individuo, fu
    seguita pur dagli antichi storici, rappresentando essi il singolo in
    modo che ne risultasse l'idea dell'umanità dentro esprimentevisi:
    mentre i moderni, pochi eccettuati, non offrono di solito che «un
    cesto di spazzatura e un ripostiglio d'oggetti fuori uso, e al più
    affari capitali e di stato». A quegli adunque, che vuol conoscere
    l'umanità nella sua intima essenza, identica in tutti i fenomeni e
    svolgimenti, nella sua idea, offriranno le opere dei grandi,
    immortali poeti un quadro ben più fedele e limpido che non possano
    gli storici offrirgli: imperocché anche i migliori tra questi sono
    lungi dall'esser come poeti i primi, e inoltre non hanno la mano
    libera. Il loro reciproco rapporto, sotto questo rispetto, può
    ancora esser chiarito dal paragone che segue. Lo storico semplice,
    puro, che non lavora se non sui dati, somiglia a taluno, che, senza
    conoscere punto la matematica, da figure per caso ritrovate calcola,
    misurando, i rapporti loro, venendo a un risultato empirico cui sono
    inerenti tutti gli errori della disegnata figura: mentre il poeta
    somiglia al matematico, che quelle relazioni costruisce a priori, in
    pura intuizione, e li manifesta non quali sono effettivamente nella
    figura disegnata, ma quali nell'idea ond'è immagine sensibile il
    disegno. Perciò dice Schiller:
    
    Quello che mai né in alcun luogo è stato,
Quello soltanto non
    invecchia mai26.
    
    Devo anzi, in riguardo alla cognizione dell'essenza dell'umanità,
    attribuire maggior pregio alle biografie, e soprattutto alle
    autobiografie, che non alla storia vera e propria – almeno come di
    solito è trattata. Imperocché per un verso sono in quelle raccolti i
    dati con più precisione e compiutezza che in questa; per l'altro,
    nella storia vera e propria non agiscono tanto uomini quanto popoli
    ed eserciti, e gl'individui, che riescono ad entrarvi, appariscono a
    sì gran distanza, con sì gran contorno e tale seguito, e coperti per
    di più da rigidi abiti di gala, e grevi, non pieghevoli armature,
    che davvero difficile si rende il riconoscere fra tutto questo il
    moto umano. Invece la vita fedelmente esposta di un singolo
    individuo, in una sfera limitata, ci mostra la condotta degli uomini
    in tutte le loro sfumature e in tutti i loro aspetti: l'eccellenza,
    la virtù, anzi la santità di alcuni, la perversità, la miseria
    morale, la malizia dei più, la scelleraggine di non pochi. In ciò,
    sotto il rispetto che qui esclusivamente consideriamo, ossia in
    rapporto all'intimo significato del fenomeno, è affatto
    indifferente, se gli oggetti intorno a cui s'aggira l'azione siano,
    relativamente considerati, piccolezze o cose di gran peso, masserie
    o regni: imperocché tutte codeste cose, senza importanza di per sé,
    ne acquistano solo in quanto la volontà è da esse agitata; il motivo
    ha importanza solo per la sua relazione con la volontà, mentre la
    relazione, che esso in quanto oggetto può avere con altri oggetti,
    non entra punto in gioco. Come un circolo d'un pollice di diametro e
    un altro con un diametro di quaranta milioni di miglia hanno
    esattamente le stesse proprietà geometriche, così sono gli
    avvenimenti e la storia d'un villaggio o quelli d'un regno, in
    sostanza, i medesimi; e si può negli uni come negli altri studiare e
    conoscere l'umanità. Si ha anche torto di ritenere che le biografie
    siano in tutto inganno e finzione. Anzi la menzogna (sebbene
    possibile dappertutto) v'è forse più difficile che altrove. La
    finzione è facilissima nel semplice conversare; ma – per quanto
    sembri paradossale – è già più difficile in una lettera, perché
    quivi l'uomo, abbandonato a se stesso, guarda in sé e non fuori,
    stenta ad aver da presso ciò che gli è estraneo e lontano, e non ha
    innanzi agli occhi la misura dell'effetto sopra un altr'uomo.
    Quest'altro invece, calmo, in una disposizione d'animo estranea a
    quella dello scrittore, scorre la lettera, la rilegge a varie
    riprese ed in tempi diversi, e così finisce con lo scoprirvi
    facilmente l'intenzione riposta. Il miglior modo, di conoscere un
    autore anche come uomo, è cercarlo nel suo libro, perché quivi
    agiscono ancor più forte e durevolmente tutte quelle condizioni: e
    farsi in una biografia diversi da quel che si è, è tanto difficile,
    che non ve n'ha forse alcuna, la quale non sia in complesso più vera
    di qualsivoglia altra storia scritta. L'uomo, che ritrae la propria
    vita, la vede nelle sue grandi linee: i singoli fatti
    s'impiccioliscono, le cose vicine s'allontanano, mentre s'avvicinano
    le lontane, i riguardi s'attenuano: egli sta con se medesimo in
    confessione, e vi si è disposto liberamente. Lo spirito della
    menzogna non l'afferra qui tanto facilmente: essendo in ogni uomo
    insita un'inclinazione alla verità, che per ciascuna bugia dev'esser
    prima rattenuta, e che all'atto del confessarsi acquista il
    predominio. Il rapporto tra biografia e storia dei popoli si rende
    manifesto con l'esempio che segue. La storia ci mostra l'umanità,
    come la vista da un alto monte ci mostra la natura: molto vediamo
    con un'occhiata, ampie distese, grandi masse; ma nulla è
    distintamente riconoscibile in tutto il suo vero essere. Viceversa
    la vita di un singolo individuo ci mostra l'uomo a quel modo stesso,
    con cui apprendiamo a conoscer la natura passeggiando tra i suoi
    alberi, piante, rocce e acque. Ma, come per mezzo della pittura di
    paesaggi, nella quale l'artista ci fa veder la natura con gli occhi
    suoi, vengono a noi resi molto più facili la conoscenza delle idee
    di questa e lo stato del puro conoscere, scevro di volontà, per tal
    conoscenza richiesto; così ha l'arte poetica per la rappresentazione
    delle idee, che noi potremmo cercar nella storia e nella biografia,
    grandi vantaggi su queste ultime: perché anche quivi il genio regge
    davanti a noi il chiarificante specchio, nel quale tutto ciò ch'è
    essenziale e significativo si raccoglie, e, posto in piena luce, ci
    si fa incontro, mentre ciò ch'è causale ed estraneo, viene
    rimosso27.
    
    La rappresentazione dell'idea dell'umanità, che al poeta incombe,
    può da lui esser fatta o in modo che il rappresentato sia anche
    colui che rappresenta: il che accade nella poesia lirica, nella
    canzone in senso proprio, dove il poeta vede e descrive vivacemente
    solo il suo stato personale, sì che diviene essenziale in questo
    genere poetico una certa soggettività, a causa dell'argomento;
    oppure quegli che rappresenta è affatto distinto dalla cosa
    rappresentata, come accade in tutti gli altri generi poetici, dove
    chi rappresenta più o meno si cela dietro al rappresentato e finisce
    con lo scomparire. Nella romanza lirico-drammatica, chi rappresenta
    esprime ancora in qualche modo, mediante il tono e l'andatura
    dell'insieme, il proprio stato: molto più oggettiva della canzone,
    la romanza ha tuttavia ancor qualcosa di soggettivo, che
    impallidisce già vieppiù nell'idillio, e più ancora nel romanzo, e
    svanisce quasi del tutto nell'epopea, e, fino all'ultima traccia,
    nel dramma, che è il più oggettivo, e per vari riguardi più
    perfetto, ma anche più difficile genere poetico. La lirica è per
    questo motivo il genere più facile; e se l'arte in complesso è
    dominio esclusivo del genio vero, che è tanto raro, tuttavia anche
    un uomo il quale non sia nell'insieme molto eminente può, quando in
    effetti siano le sue forze spirituali innalzate da una forte
    eccitazione esteriore, da un qualche entusiasmo, mettere insieme una
    bella canzone: perché a ciò occorre non altro che una viva
    intuizione del proprio stato in un momento d'agitazione. Questo
    provano molti canti isolati composti da individui altrimenti ignoti,
    in ispecie i canti popolari tedeschi, dei quali noi abbiamo
    un'ottima raccolta nel Wunderhorn, e così pure innumerabili canti
    popolari d'amore o d'altro soggetto in tutte le lingue. Imperocché
    il cogliere e fissare nella canzone la disposizione del momento, è
    tutto il compito di questo genere poetico. Tuttavia nella lirica dei
    poeti veri si riflette l'intimo di tutta l'umanità; e tutto ciò, che
    milioni d'uomini passati, presenti, futuri hanno sentito o
    sentiranno nelle medesime situazioni sempre rinascenti, trova colà
    la sua voce. Quelle situazioni, per il loro costante ritorno,
    appunto come l'umanità rimangono perenni, e ognora producono i
    sentimenti medesimi: e perciò le liriche dei veri poeti durano per
    millenni giuste, efficaci e fresche. Il poeta, in sostanza, è l'uomo
    universale: tutto ciò che ha scosso un cuore umano, ciò che l'umana
    natura in qualsivoglia stato da se medesima esprime, tutto ciò che
    in un petto umano può trovarsi e covare, – è suo tema e sua materia;
    come, inoltre, tutta quanta la rimanente natura. Può così il poeta
    cantare la voluttà come il misticismo, essere Anacreonte o Angelus
    Silesius, scrivere tragedie o commedie, rappresentare animi alti o
    volgari, – secondo ha capriccio e vocazione. E a nessuno è lecito
    prescrivere al poeta d'esser nobile ed elevato, morale, pio,
    cristiano, essere questo o quello; e tanto meno rimproverarlo di non
    essere questo e quello. Egli è lo specchio dell'umanità, e la fa
    consapevole di ciò ch'ella sente ed opera.
    
    Consideriamo ora più da presso l'essenza della canzone vera e
    propria, togliendo a esempio qualche modello eccellente e puro
    insieme: non di quelli, che già in certo modo s'accostano a un altro
    tipo, come sarebbe alla romanza, all'elegia, all'inno,
    all'epigramma, e così via; troveremo così, che l'essenza
    caratteristica della canzone in senso preciso è la seguente. È il
    soggetto della volontà, ossia il proprio volere, che empie la
    conscienza di chi canta; spesso come sciolto, appagato volere
    (gioia), e più spesso come un volere contrastato (dolore); sempre,
    tuttavia, come affetto, passione, animo agitato. Ma nondimeno
    accanto a questo, e insieme con questo, colui che canta diviene,
    alla vista della natura d'intorno, conscio di sé qual soggetto del
    puro conoscere, scevro di volontà: la cui incrollabile pace
    spirituale viene a trovarsi in contrasto con l'urto del volere
    sempre costretto, ancor sempre assetato. E la sensazione di tal
    contrasto, di tal giuoco alterno, è proprio ciò che s'esprime nel
    complesso della canzone, e costituisce in genere lo stato lirico. Si
    direbbe, che in tal stato ci si faccia dappresso il puro conoscere,
    per liberarci dal volere e dal suo impulso; noi lo seguiamo, ma sol
    per brevi istanti: sempre di nuovo il volere, il ricordo dei nostri
    fini personali, ci strappa alla pacata contemplazione; ma ogni volta
    ci discioglie dai lacci del volere la bella natura circostante,
    nella quale a noi si offre la pura conoscenza libera da volontà.
    Perciò sono nella canzone e nella disposizione lirica il volere
    (l'interesse personale per i propri fini) e la pura intuizione del
    mondo circostante in singolar modo frammisti: tra loro vengon
    cercate e immaginate relazioni; la disposizione soggettiva, la
    commozione della volontà comunica i suoi colori all'ambiente
    intuito, e questo a quella: di tutto questo stato d'anima sì
    commisto e discorde è la vera canzone un riflesso. Per rendere
    comprensibile con esempi questa analisi astratta d'uno stato ben
    lontano da ogni astrazione, sì può prender ciascuna delle immortali
    canzoni di Goethe; ma come particolarmente chiare per il nostro
    scopo ne raccomando solo alcune: Lamento d'un pastore, Il benvenuto
    e il commiato, Alla luna, Sul lago, Sensazione d'autunno28 Sono
    anche ottimi esempi le canzoni del Wunderhorn: soprattutto quella
    che comincia: O Brema, or ti debbo lasciare29. Come parodia comica,
    e giustissima, del carattere lirico, mi sembra notevole una canzone,
    in cui Voss descrive ciò che prova un copritetti ubriaco, nell'atto
    di cader da una torre; il quale, pur cadendo, fa l'osservazione,
    molto fuori luogo nel suo stato presente, e quindi spettante alla
    conoscenza scevra di volontà, che l'orologio della torre segna per
    l'appunto le undici e mezza. Chi divide la mia opinione sullo stato
    lirico, dovrà pur convenire che esso è propriamente la conoscenza
    intuitiva e poetica di quella massima stabilita nel mio scritto sul
    principio di ragione, e in quest'opera già ricordata, che l'identità
    del soggetto del conoscere con quello del volere può esser chiamata
    il miracolo κατ’εξοχην sì che l'effetto poetico della canzone poggia
    da ultimo sulla verità di quella massima. Nel corso della vita que'
    due soggetti o, per esprimermi alla buona, testa e cuore, vengono
    sempre più discostandosi l'uno dall'altro: sempre più scindiamo il
    nostro sentimento soggettivo dalla conoscenza oggettiva. Nel
    fanciullo sono entrambi ancor fusi del tutto: egli sa a stento
    distinguer sé da ciò che lo circonda, e vi si dissolve. Nel giovane,
    ogni percezione produce dapprima sentimento e stato d'animo; e molto
    bene è ciò espresso da Byron:
    
    I live not in myself, but I become
Portion of that around me; and to
    me
High mountains are a feeling30.
    
    Appunto perciò il giovine è tanto attaccato all'intuitiva faccia
    esterna delle cose; appunto perciò egli non è capace d'altra poesia
    che lirica, e soltanto l'uomo maturo è capace della drammatica. Il
    vecchio possiamo immaginarcelo al più come poeta epico, quali furono
    Ossian e Omero: perché il narrare appartiene al carattere del
    vecchio.
    
    Nei generi più oggettivi, specialmente nel romanzo, nell'epopea e
    nel dramma, lo scopo, rivelazione dell'idea dell'umanità, viene
    raggiunto soprattutto con due mezzi: con esatta e profonda
    rappresentazione di significanti caratteri, e col trovar
    significanti situazioni, in cui quelli si dispieghino. Imperocché
    come al chimico tocca non solo presentar puri e genuini i corpi
    semplici e le lor principali combinazioni; ma anche esporli
    all'azione di reagenti tali, per cui le proprietà loro si rendano
    chiare e visibili appieno; così tocca al poeta non solo portarci
    innanzi con verità e fedeltà, come fa la natura medesima,
    significanti caratteri; ma deve, per farceli conoscere, metterli in
    situazioni, nelle quali le proprietà loro si svolgano compiutamente
    e si presentino nette con precisi contorni, situazioni che perciò
    appunto si chiamano significanti. Nella vita reale e nella storia è
    raro che il caso introduca situazioni di questa natura, e quelle
    poche stanno isolate, smarrite e nascoste nella folla delle
    situazioni insignificanti. La continuata importanza delle situazioni
    distingue il romanzo, l'epopea, il dramma dalla vita reale,
    altrettanto come li distingue l'accolta e la scelta di caratteri
    espressivi: ma nell'una cosa e nell'altra è inesorabile condizione
    dell'effetto la più rigida verità. E mancanza di unità nei
    caratteri, contraddizioni interne in quelli, oppur contrasti con
    l'essenza dell'umanità in genere, e impossibilità, o
    inverosimiglianza (che all'impossibilità è vicina) dei fatti, sia
    pur soltanto in circostanze secondarie, offendono nella poesia
    quanto figure mal disegnate, o falsa prospettiva, o luce difettosa
    offendono in pittura: perché noi vogliamo, là come qui, lo specchio
    fedele della vita, dell'umanità, del mondo, sol reso più limpido
    dalla rappresentazione e più significante della combinazione. Uno
    essendo lo scopo di tutte le arti, rappresentazione delle idee, e
    consistendo la sostanzial differenza di quelle solamente nel diverso
    grado di oggettivazione della volontà toccato all'idea da
    rappresentare, dal qual grado è a sua volta determinata la materia
    della rappresentazione; ne consegue che anche le arti tra loro più
    discoste si possono illustrare con reciproci confronti. Per esempio,
    a ben comprendere le idee esprimentisi nell'acqua, non basta veder
    l'acqua d'un placido stagno o corrente d'un corso regolare ed
    eguale: quelle idee si rivelano appieno sol quando l'acqua si mostra
    alle prese con tutte le situazioni e gli ostacoli che, operando su
    lei, la spingono alla manifestazione piena di tutte le sue
    proprietà. Perciò la troviamo bella quando precipita, rumoreggia,
    spumeggia, si slancia in alto o ricadendo si fa polvere, o alfine,
    ad arte costretta, come raggio sprizza verso il cielo. E così in
    circostanze diverse variamente mostrandosi, sempre afferma costante
    il carattere proprio. Altrettanto è a lei naturale sprizzar
    nell'alto, quanto star quieta come specchio: all'uno e all'altro
    stato è subito disposta, non appena se ne presentino le circostanze.
    Ora, ciò che con la materia liquida può fare un artefice del genere,
    fa con la solida l'architetto, e non altrimenti fa il poeta epico o
    drammatico con l'idea dell'umanità. Disvelamento e chiarimento
    dell'idea esprimentesi nell'oggetto di ogni arte, della volontà
    oggettivantesi in ogni grado, è di tutte le arti compito comune. La
    vita dell'uomo, quale apparisce il più sovente nella realtà,
    somiglia all'acqua come noi di solito la vediamo, in fiume e stagno:
    ma nell'epopea, nel romanzo e nella tragedia vengono eletti
    caratteri posti in circostanze, nelle quali tutte le lor proprietà
    si dispiegano, gli abissi dell'animo umano si dischiudono e fanno
    visibili in azioni straordinarie, altamente significative. Così
    l'arte poetica oggettiva l'idea dell'umanità, della quale è
    caratteristico il presentarsi in caratteri fortissimamente
    individuali.
    
    Come vetta dell'arte poetica, tanto riguardo alla grandezza
    dell'effetto, quanto alla difficoltà dell'opera, è da considerarsi
    ed è generalmente ritenuta la tragedia. Per il complesso di tutta la
    nostra indagine è molto importante e da tener bene in conto, che
    scopo di quest'altissima creazione poetica è la rappresentazione
    della vita nel suo aspetto terribile; che il dolore senza nome,
    l'affanno dell'umanità, il trionfo della perfidia, la schernevole
    signoria del caso e il fatale precipizio dei giusti e degl'innocenti
    vengono qui a noi presentati: imperocché si ha in ciò un
    significante segno intorno alla natura del mondo e dell'essere. È il
    contrasto della volontà con se medesima, che qui, nel grado supremo
    della sua oggettità, dispiegato in tutta la sua pienezza,
    tremendamente balza alla luce. Nel dolore della umanità si fa
    visibile: e quello è prodotto parte dal caso e dall'errore, che
    quali dominatori del mondo intervengono, e per la loro malizia, che
    giunge fino ad aver l'apparenza di consapevolezza, sono
    personificati nel destino; parte proviene dall'umanità stessa, per
    le incrociantesi voglie degli individui, per la malvagità e
    perversità dei più. Una e identica volontà è quella, che in tutti
    vive e si manifesta, ma le sue manifestazioni si combattono e si
    dilaniano a vicenda. In un individuo si rivela potente, in un altro
    più debole, qui più, lì meno accordata con la riflessione e
    attenuata dalla luce della conoscenza, fin quando alfine in taluno
    questa conoscenza, purificata ed elevata mediante il dolore stesso,
    tocca il punto in cui il fenomeno, il velo di Maja, non più
    l'inganna. Allora la forma del fenomeno, il principium
    individuationis, viene da lei visto bene addentro; e perciò
    l'egoismo che su questo si fonda è spento, sì che i motivi prima sì
    poderosi perdono la loro forza, e in luogo di quelli la piena
    cognizione dell'essenza del mondo, agendo come quietivo della
    volontà, fa nascer la rassegnazione, la rinunzia non alla vita
    soltanto, ma all'intera volontà di vivere. Così vediamo nella
    tragedia i più nobili caratteri da ultimo rinunziar per sempre, dopo
    lungo combattere e soffrire, agli scopi fino allora sì vivamente
    perseguiti, e a tutti i piaceri della vita, o la vita stessa
    abbandonare volenterosi e lieti. Così il principe costante di
    Calderón; così Margherita nel Faust; così Amleto, cui il suo Orazio
    volentieri seguirebbe, ma Amleto gl'impone di rimanere, e ancora un
    poco respirare con dolore in questo duro mondo, per far luce sul
    destino di lui e lavar da ogni macchia la sua memoria; così ancora
    la Pulcella d'Orléans, la Fidanzata di Messina: tutti muoiono
    purificati dal dolore, ossia quando in loro la volontà di vivere è
    già morta. Questo è significato alla lettera nelle ultime parole del
    Mohammed di Voltaire, dove la Palmira grida a Mohammed: «Il mondo è
    fatto pei tiranni: vivi!». Invece il pretender la cosiddetta
    giustizia poetica poggia sopra un assoluto misconoscer l'essenza
    della tragedia, anzi l'essenza del mondo. Sfacciatamente questa
    pretesa si mostra in tutta la sua scipitaggine nei saggi critici,
    che il dr. Samuel Johnson ha scritto su ciascun dramma di
    Shakespeare, dov'egli in maniera proprio ingenua lamenta che la
    giustizia poetica sia sempre trascurata. Ed è vero: che male hanno
    commesso le Ofelie, le Desdemone, le Cordelie? Ma soltanto la
    piatta, ottimista, protestante-razionalistica, o propriamente
    giudaica concezione del mondo pretenderà la giustizia poetica e
    troverà il proprio soddisfacimento nel soddisfacimento di quella. Il
    vero senso della tragedia è la cognizione ben più profonda, che
    l'eroe non sconta i suoi peccati personali, ma il peccato
    universale, ossia la colpa stessa dell'essere:
    
    Pues el delito mayor
Del hombre es haber nacido31,
    
    come apertamente afferma Calderón.
    
    Guardando più da presso il modo di compor la tragedia, voglio
    permettermi ancora un'osservazione. Il rappresentare una grande
    sventura è la sola cosa essenziale alla tragedia. Ma le molte vie,
    per le quali la sventura può essere introdotta dal poeta, sono di
    tre specie. Può accadere per la straordinaria perfidia, spinta a
    toccar gli estremi limiti della possibilità, d'un carattere, il
    quale diventa causa della sventura: esempi di questo genere sono
    Riccardo III, Jago nell'Otello, Shylok nel Mercante di Venezia,
    Franz Moor, la Fedra d'Euripide, Creonte nell'Antigone e così via.
    Oppure può accadere per un cieco destino, ossia caso ed errore: di
    tale specie è un vero modello il re Edipo di Sofocle, ed anche le
    Trachinie, e in genere la maggior parte delle tragedie antiche; tra
    le moderne sono esempi Romeo e Giulietta, il Tancred di Voltaire, la
    Fidanzata di Messina. La sventura può esser cagionata in fine dalla
    semplice situazione rispettiva delle persone, dai loro rapporti, sì
    che non v'ha bisogno né d'un mostruoso errore o d'un caso inaudito,
    né d'un carattere, che tocchi i confini umani del male: ma caratteri
    come sotto il rispetto morale ve n'ha tanti, in circostanze quali
    occorrono sovente, sono posti di fronte in modo, che la situazione
    loro li costringe a farsi l'un l'altro, sapendo e vedendo, il più
    gran male, senza che in ciò il torto sia tutto da una parte sola.
    Quest'ultima specie sembra a me di molto preferibile alle altre due:
    imperocché ci fa apparir la più grande delle sventure non come
    un'eccezione, non come effetto di circostanze rare o di mostruosi
    caratteri, ma come alcunché venuto facilmente e spontaneamente,
    quasi per naturale necessità, dall'azione e dai caratteri degli
    uomini; e appunto perciò la rende in terribile modo vicina a noi
    stessi. E se noi nelle altre due specie vediamo il mostruoso destino
    e l'orrenda malvagità bensì come forze terribili, ma che solo da
    gran distanza ci minacciano e alle quali possiamo sfuggire, senza
    cercar ricovero nella completa rinunzia, l'ultima invece presenta a
    noi quelle forze, onde felicità e vita son travolte, come fatte di
    tal natura che anche contro di noi possono aprirsi la via ad ogni
    istante; e il più gran dolore può venirci da complicazioni, la cui
    essenza può pesare anche sul nostro destino, e da azioni, che noi
    anche saremmo capaci di commettere, sì che non potremmo lagnarci
    d'ingiustizia. Allora rabbrividendo ci sentiamo già in mezzo
    all'inferno. Ma la composizione d'una tragedia di quest'ultimo tipo
    è pur la più difficile, dovendosi qui con un minimo impiego di mezzi
    e di moventi produrre il massimo effetto, solo mediante la
    situazione e la distribuzione di quelli: perciò anche in nome delle
    migliori tragedie questa difficoltà è girata. Qual perfetto modello
    del genere è tuttavia da citare un dramma, che sotto altro riguardo
    è di molto superato da altre opere del medesimo grande maestro:
    Clavigo. Della stessa natura è in un certo senso Amleto, se non
    guardiamo che alla situazione del protagonista davanti a Laerte e ad
    Ofelia; anche il Wallenstein ha questo merito; tale è pure il Faust,
    se si considera come azione principale soltanto ciò che accade a
    Margherita ed a suo fratello; così il Cid di Corneille, al quale
    manca nondimeno l'esito tragico, che invece si trova nell'analoga
    situazione di Max rispetto a Teda nel Wallenstein32.
    
    § 52.
    
    Dopo aver fin qui considerato tutte le arti belle da quel punto di
    vista generale, che a noi si conviene, principiando
    dall'architettura, scopo della quale è render palese
    l'oggettivazione della volontà nel grado più basso in cui questa è
    visibile, ov'essa si mostra come oscuro, inconsciente, meccanico
    impulso della massa, e pur tuttavia già palesa interno dissidio e
    lotta; e il nostro esame concludendo con la tragedia, che nel grado
    supremo dell'oggettivazione della volontà appunto quell'interno
    dissidio ci disvela in tremenda grandezza e chiarezza; troviamo che
    nondimeno un'arte bella è rimasta e doveva rimanere esclusa da
    questa indagine, non essendo per lei alcun luogo conveniente nella
    trama della nostra esposizione: la musica. Ella è staccata da tutte
    le altre. In lei non conosciamo l'immagine, la riproduzione d'una
    qualsiasi idea degli esseri che sono al mondo; eppure ell'è una sì
    grande e sublime arte, sì potentemente agisce sull'intimo dell'uomo,
    sì appieno e a fondo vien da questo compresa, quasi lingua
    universale più limpida dello stesso mondo intuitivo; – che in lei di
    certo dobbiamo cercar ben più dell'exercitium arithmeticae occultum
    nescientis se numerare animi, qual fu dichiarata da Leibniz33. E
    questi ebbe nondimeno ragione, in quanto ne guardò soltanto
    l'immediata ed esterna significazione, la scorza. Ma se non fosse
    nulla di più, dovrebbe la soddisfazione, ch'ella ci arreca,
    somigliare a quella che noi troviamo nella giusta soluzione d'un
    problema di calcolo; e non sarebbe punto quell'intima gioia, con la
    quale noi vediamo fatto parlante il più segreto recesso del nostro
    essere. Dal nostro punto di vista, adunque, dobbiamo riconoscere
    alla musica un significato ben più grave e profondo, riferentesi
    alla più interiore essenza del mondo e del nostro io; rispetto alla
    quale le relazioni di numeri, in cui quella si lascia scomporre,
    stanno non già come la cosa significata, ma appena come il segno
    significante. Che la musica debba stare al mondo, in un senso
    qualsiasi, come rappresentazione sta al rappresentato, come immagine
    all'originale, possiamo dedurre dall'analogia delle altre arti, alle
    quali tutte appartiene questo carattere, e la cui azione su di noi
    ha la stessa natura di quella della musica, ma solo è quest'ultima
    più forte, più rapida, più necessaria, più infallibile. Quella
    relazione d'immagine rispetto all'originale, ch'ella ha col mondo,
    deve pur essere ben intima, infinitamente verace e sommamente
    precisa, per esser da ciascuno compresa in un attimo; e dà a
    conoscere una tal quale infallibilità, dal fatto che la sua forma si
    lascia ricondurre a regole ben determinate, da esprimersi in numeri;
    regole cui non può sottrarsi, senza cessare interamente d'esser
    musica. Tuttavia il punto di paragone tra la musica e il mondo, il
    modo onde quella sta con questo nel rapporto d'imitazione o
    riproduzione, giace ben profondamente celato. S'è fatto musica in
    tutti i tempi, senza rendersi conto di ciò: paghi di comprenderla
    direttamente, s'è rinunziato a una conscienza astratta di questa
    immediata comprensione.
    
    Nel mentre io abbandonavo tutto il mio spirito all'impressione della
    musica, facendo poi in seguito ritorno alla riflessione e al corso
    dei pensieri esposti nell'opera presente, venni a una conclusione
    sulla sua intima essenza e sul modo della sua relazione col mondo,
    la quale per necessaria analogia era da supporre fosse di natura
    imitativa. Tale conclusione essendo per me stesso sufficiente
    appieno, e per la mia indagine soddisfacente, sarà forse egualmente
    luminosa per chi mi abbia seguito finora convenendo col mio concetto
    del mondo. Ma di quella conclusione fornir la prova, riconosco esser
    cosa sostanzialmente impossibile; perché essa ammette e stabilisce
    un rapporto della musica, come rappresentazione, con ciò che per
    essenza non può mai essere rappresentazione; e la musica vuol
    considerata come immagine di un modello, che non può direttamente
    venir rappresentato esso medesimo. Non posso quindi fare altro, che
    qui, al termine del terzo libro, principalmente consacrato all'esame
    delle arti, esporre quel giudizio, ond'io m'appago, sulla mirabile
    arte dei suoni; e il consenso o il dissenso dipenderà dall'effetto
    prodotto sul lettore per una parte dalla musica, per l'altra da
    tutto l'unico pensiero, ch'io comunico in quest'opera. Ritengo
    inoltre necessario, perché si possa accogliere con piena persuasione
    l'indagine, che ora farò, intorno al senso della musica, ascoltar
    musica spesso, riflettendovi durevolmente. Ed anche a ciò occorre
    esser già molto famigliare con tutto il mio pensiero.
    
    L'adeguata oggettivazione della volontà sono le idee (platoniche);
    provocar la conoscenza di queste (cosa possibile solo con una
    corrispondente modificazione nel soggetto conoscitivo) mediante
    rappresentazione di singoli oggetti (che non altro sono pur sempre
    le opere d'arte), è il fine di tutte le altre arti. Tutte
    oggettivano adunque la volontà in modo mediato, ossia per mezzo
    delle idee: e il nostro mondo non essendo se non fenomeno delle idee
    nella pluralità, per essere entrate nel principium individuationis
    (forma della conoscenza possibile all'individuo come tale), ne
    risulta che la musica, la quale va oltre le idee, anche dal mondo
    fenomenico è del tutto indipendente, e lo ignora, e potrebbe in
    certo modo sussistere quand'anche il mondo non fosse: il che non può
    dirsi delle altre arti. La musica è dell'intera volontà
    oggettivazione e immagine, tanto diretta com'è il mondo; o anzi,
    come sono le idee: il cui fenomeno moltiplicato costituisce il mondo
    dei singoli oggetti. La musica non è quindi punto, come l'altre
    arti, l'immagine delle idee, bensì immagine della volontà stessa,
    della quale sono oggettità anche le idee. Perciò l'effetto della
    musica è tanto più potente e insinuante di quel delle altre arti:
    imperocché queste ci danno appena il riflesso, mentre quella esprime
    l'essenza. Essendo adunque la medesima volontà che si oggettiva,
    tanto nelle idee quanto nella musica, ma solo in modo affatto
    diverso, deve trovarsi non proprio una diretta somiglianza, ma
    tuttavia un parallelismo, un'analogia tra la musica e le idee, delle
    quali è fenomeno molteplice e imperfetto il mondo visibile.
    L'indicare una tale analogia sarà come un chiarimento, che aiuti a
    comprendere questa dimostrazione difficile per l'oscurità del
    soggetto.
    
    Nei suoni più gravi dell'armonia, nel basso fondamentale, io
    riconosco i gradi infimi dell'oggettivantesi volontà, la natura
    inorganica, la massa del pianeta. Tutti i suoni acuti, agili e
    rapidi, notoriamente sono da considerare sorti dalle vibrazioni
    concomitanti del suono fondamentale profondo, e al risuonar di
    questi risuonan tosto lievi anch'essi. È legge dell'armonia,
    accordare con una nota bassa soltanto quei suoni acuti, che insieme
    con lei già effettivamente risuonano nelle vibrazioni concomitanti
    (i suoi sons harmoniques). È un fatto analogo a quello, per cui
    tutti i corpi e organismi della natura devono esser considerati come
    svoltisi gradatamente dalla massa del pianeta; questa è il loro
    sostegno come la loro sorgente: e la medesima relazione hanno i
    suoni acuti col basso fondamentale. La profondità ha un termine,
    oltre il quale un suono non è più percettibile: e ciò corrisponde al
    non esservi materia percepibile senza forma e qualità, ossia senza
    manifestazione d'una forza, che non può esser meglio spiegata, e in
    cui un'idea si esprime; anzi corrisponde più generalmente al non
    esservi materia in tutto scevra di volontà. Come adunque dal suono,
    in quanto tale, è inseparabile un certo grado di altezza, così lo è
    dalla materia un certo grado di manifestazione della volontà. Il
    basso fondamentale è quindi per noi nell'armonia quel che il mondo
    nella natura inorganica: la massa più rude, su cui tutto posa e da
    cui tutto s'innalza e si sviluppa. Procedendo, in tutte le parti
    costituenti l'armonia, tra il basso e la voce guida che canta la
    melodia, riconosco l'intera scala delle idee, in cui la volontà si
    oggettiva. Quelle più vicine al basso corrispondono ai gradi
    inferiori, ossia ai corpi ancora inorganici ma già in più modi
    estrinsecantisi: le più alte mi rappresentano il mondo vegetale ed
    animale. I determinati intervalli della scala sono paralleli ai
    gradi determinati nell'oggettivazione della volontà, alle
    determinate specie della natura. Il discostarsi dall'aritmetica
    esattezza degl'intervalli, o mediante una qualsiasi tempera, o
    indotto dalla prescelta tonalità, è analogo al discostarsi
    dell'individuo dal tipo della specie: e anzi le dissonanze impure,
    che non danno un determinato intervallo, si posson paragonare ai
    mostri venuti da due specie animali, o da uomo e animale. A tutte
    codeste parti di basso e medie, che formano l'armonia, manca
    nondimeno quell'organismo nella progressione, che soltanto ha la
    parte superiore, ond'è cantata la melodia; la qual parte è la sola a
    potersi muovere rapida e leggera nelle modulazioni e digressioni,
    mentre tutte le altre hanno un andare più lento, senz'avere in
    ciascuna per sé un organismo costante. Più pesante di tutte si muove
    il basso fondamentale, il rappresentante della massa bruta: il suo
    salire e discendere si fa solo per grandi passaggi, in terze,
    quarte, quinte, e non mai d'un tono solo; che allora sarebbe, per
    contrappunto doppio, un basso trasportato. Questo tardo moto è a lui
    anche fisicamente naturale: un rapido passaggio o un gorgheggio
    nelle note gravi non si può neppure immaginare. Più svelte, ma ancor
    senza nesso melodico e significante progressione si muovono le parti
    più elevate, che corrono parallele al mondo animale. Il movimento
    isolato e la destinazione regolata di tutte le parti sono analoghi
    al fatto, che in tutto il mondo irrazionale, dal cristallo
    all'animale più perfetto, nessun essere ha una conscienza
    propriamente sistematica, che faccia della sua vita un complesso
    sensato; e nessuno ha una successione di sviluppi mentali, nessuno
    si perfeziona con la cultura; bensì tutti rimangono in ogni tempo
    eguali, secondo la propria natura, determinati da rigida legge.
    Finalmente nella melodia, nella voce principale, alta, canora, che
    il tutto guida, e libera, spontanea procede dal principio alla fine
    con l'organismo ininterrotto e significativo d'un pensiero unico,
    formando un tutto ben delineato, riconosco il grado supremo
    dell'oggettivazione della volontà, la conscia vita e lotta
    dell'uomo. Come l'uomo ognora guarda, egli solo essendo fornito di
    ragione, davanti o dietro a sé, sul cammino della propria realtà e
    delle possibilità innumerabili, compiendo un corso vitale
    consapevole, in cui tutto si collega e forma un insieme: così ha la
    melodia sola una significativa, voluta connessione da capo a fondo.
    Ella narra quindi la storia della volontà illuminata dalla
    riflessione, volontà che si manifesta nel reale con la serie degli
    atti suoi; ma dice di più, narra della volontà la storia più
    segreta, ne dipinge ogni emozione, ogni tendenza, ogni moto, tutto
    ciò, che la ragione comprende sotto l'ampio e negativo concetto di
    sentimento, né può meglio accogliere nelle proprie astrazioni.
    Perciò fu sempre detto esser la musica il linguaggio del sentimento
    e della passione, come le parole sono il linguaggio della ragione.
    Già Platone la dichiara ή των μελων κινησις μεμιμημενη, εν τοις
    παθημασιν όταν ψυχη γινηται (melodiarum motus, animi affectus
    imitans), De leg. VII; e anche Aristotele dice: δια τι οί ρυθμοι και
    τα μελη, φωνη ουσα, ηθεσιν εοικε; (cur numeri musici et modi, qui
    voces sunt, moribus similes sese exhibent?); Probl, c. 19.
    
    Ora, come l'essenza dell'uomo sta nel fatto, che la sua volontà
    aspira, viene appagata e torna ad aspirare, e sempre così continua;
    anzi sua sola felicità, solo suo benessere è che quel passar dal
    desiderio all'appagamento e da questo a un nuovo desiderio proceda
    rapido, poi che il ritardo dell'appagamento è dolore, e il ritardo
    del nuovo desiderio è aspirazione vuota, languor, noia; così
    l'essenza della melodia è un perenne discostarsi, peregrinar lontano
    dal tono fondamentale per mille vie non solo verso i gradi armonici,
    la terza e la dominante, ma verso ogni tono, fino alla dissonante
    settima ed ai gradi eccedenti; eppur sempre succede da ultimo un
    ritorno al tono fondamentale. Per tutte codeste vie esprime la
    melodia il multiforme aspirar della volontà; ma col ritrovare infine
    un grado armonico, o meglio ancora il tono fondamentale, esprime
    l'appagamento. Trovar la melodia, scoprire in lei tutti i segreti
    più profondi dell'umano volere e sentire, è l'opera del genio: la
    cui azione è qui più facile a vedersi che altrove, libera da ogni
    riflessione e meditato intento – e potrebbe chiamarsi inspirazione.
    Qui, come ovunque nel dominio dell'arte, il concetto è infruttifero:
    il compositore disvela l'intima essenza del mondo, in un linguaggio
    che la ragione di lui non intende: come una sonnambula magnetica da
    rivelazione di cose, delle quali sveglia non ha concetto alcuno. In
    un compositore quindi, meglio che in ogni altro artista, è l'uomo
    dall'artista in tutto separato e distinto. Perfino
    nell'illustrazione di quest'arte mirabile il concetto lascia
    scorgere la propria povertà e i propri limiti: ma io voglio
    nondimeno tentar d'esporre fino all'ultimo l'analogia da me
    indicata. Come il rapido passaggio dal desiderio all'appagamento, e
    da questo a un nuovo desiderio, è felicità e benessere, così sono
    gioiose le melodie rapide, senza grandi deviazioni: tristi sono
    invece se lente, deviate in penose dissonanze, e solo attraverso
    molte battute facenti ritorno al tono fondamentale; sì da
    paragonarsi a un tardivo, contrastato appagamento del desiderio. Il
    ritardo della nuova eccitazione della volontà, il languore, non
    potrebbe esprimersi altrimenti che nel prolungato tono fondamentale,
    il cui effetto sarebbe ben presto intollerabile: già di molto
    s'avvicinano a ciò le monotone, inespressive melodie. I brevi,
    facili periodi d'una rapida musica a danza sembrano parlar d'una
    gioia comune, agevole a raggiungersi; mentre l'Allegro maestoso, in
    lunghi periodi, lenti passaggi, ampie deviazioni, esprime una più
    alta, più nobile aspirazione verso una meta lontana, e il suo finale
    conseguimento. L'Adagio parla del dolore d'una grande e nobile
    aspirazione, la quale disdegna ogni felicità meschina. Ma come
    mirabile è l'effetto del Minore e Maggiore! Come stupisce, che il
    mutar d'un semitono, il subentrar della terza minore in luogo della
    maggiore, c'inspiri immediatamente e inevitabilmente un senso
    d'angoscia e di pena, dal quale con la stessa rapidità ci libera il
    modo maggiore! L'Adagio raggiunge nel modo minore l'espressione del
    più alto spasimo, diviene il più sconvolgente lamento. Musica a
    ballo in minore sembra indicare la perdita d'una felicità mediocre,
    che piuttosto si dovrebbe disdegnare; sembra parlar d'un fine basso,
    conseguito con travagli e tribolazioni. L'inesauribile ricchezza di
    possibili melodie corrisponde all'inesauribile ricchezza della
    varietà d'individui, fisonomie e carriere vitali nella natura. Il
    passaggio da una tonalità a un'altra affatto diversa, venendo a
    toglier la connessione con ciò che precede, somiglia alla morte, in
    quanto ella è fine dell'individuo: ma la volontà, che in costui si
    palesava, vive dopo come prima, in altri individui palesandosi, la
    cui conscienza tuttavia non ha connessione di sorta con quella del
    primo.
    
    Nel mostrar tutte queste analogie, non si deve tuttavia mai
    dimenticare che la musica non ha con esse una relazione diretta, ma
    soltanto indiretta: non esprimendo ella il fenomeno, ma l'intimo
    essere, l'in-sé d'ogni fenomeno, la volontà stessa. Non esprime
    adunque questa o quella singola e determinata gioia, questo o quel
    turbamento, o dolore, o terrore, o giubilo, o letizia, o serenità;
    bensì la gioia, il turbamento, il dolore, il terrore, il giubilo, la
    letizia, la serenità in se stessi, e, potrebbe dirsi, in abstracto,
    dandone ciò che è essenziale, senza accessori, quindi anche senza i
    loro motivi. Perciò noi comprendiamo la musica perfettamente, in
    questa purificata quintessenza. Di là procede che la nostra fantasia
    venga dalla musica con tanta facilità eccitata, tenti allora di dar
    forma a quel mondo di spiriti, che direttamente ci parla, invisibile
    e pur sì vivamente mosso, e di vestirlo con carne e ossa, cioè
    impersonarlo in un esempio analogo. Questa è l'origine del canto
    accompagnato da parole, e finalmente dell'opera, – la quale appunto
    perciò non dovrebbe mai abbandonare questa situazione subordinata
    per salire al primo luogo, e ridurre la musica a semplice mezzo
    della propria espressione; la qual cosa è un grosso errore e una
    brutta stortura. Imperocché sempre la musica esprime la quintessenza
    della vita e dei suoi eventi, ma non mai questi medesimi; le cui
    distinzioni quindi non hanno il minimo influsso sopra di lei.
    Appunto tale universalità, che a lei esclusivamente appartiene,
    malgrado la determinatezza più precisa, le dà l'alto valore, ch'ella
    possiede come panacea di tutti i nostri mali. Se quindi si vuol
    troppo adattar la musica alle parole, e modellarla sui fatti, ella
    si sforza a parlare un linguaggio che non è il suo. Da questo
    difetto nessuno s'è tenuto lontano come Rossini: perciò la musica di
    lui parla sì limpido e puro il linguaggio suo proprio, da non aver
    punto bisogno di parole, ed esercitare quindi tutto il suo effetto,
    anche se eseguita dai soli strumenti.
    
    In conseguenza di tutto ciò possiamo considerare il mondo fenomenico
    (o la natura) e la musica come due diverse espressioni della cosa
    stessa; la quale è adunque il termine di unione dell'analogia che
    passa fra loro, la cui conoscenza si richiede per vedere addentro
    quell'analogia. La musica quindi è – guardata come espressione del
    mondo – un linguaggio in altissimo grado universale, che addirittura
    sta all'universalità dei concetti press'a poco come i concetti
    stanno alle singole cose. Ma la sua universalità non è punto
    quell'universalità vuota dell'astrazione, bensì ha tutt'altro
    carattere, ed è congiunta con una perenne, limpida determinatezza.
    Somiglia in ciò alle figure geometriche ed ai numeri: che, quali
    forme universali di tutti i possibili oggetti dell'esperienza ed a
    tutti applicabili, non sono tuttavia astratti, ma intuitivi e sempre
    determinati. Tutte le possibili aspirazioni, eccitazioni e
    manifestazioni della volontà; tutti quei fatti interni dell'uomo,
    che la ragione getta nell'ampio concetto negativo di sentimento,
    sono da esprimere nelle infinite melodie possibili; ma ognora
    nell'universalità di semplice forma, senza la materia; ognora
    nell'in-sé, e non nel fenomeno: quasi la più profonda anima di
    questo, senza il corpo. Da quest'intima relazione, che la musica ha
    con la vera essenza di tutte le cose, si trae pur la spiegazione del
    fatto che se a qualsivoglia scena, azione, evento, ambiente
    s'accompagna una musica adatta, questa sembra dischiudercene il
    senso più segreto, ed esserne il più esatto, il più limpido
    commentario; e nello stesso tempo pare a quegli, che intero
    s'abbandona all'effetto d'una sinfonia, di vedere innanzi a sé
    passare le vicende tutte della vita e del mondo: ma nondimeno non
    gli è possibile, quando vi rifletta, trovare una somiglianza tra
    quella musica e le cose che ondeggiavano a lui nella fantasia.
    Imperocché quivi la musica differisce, come ho detto, da tutte le
    altre arti: nell'essere non già una riflessa immagine del fenomeno
    o, meglio, l'adeguata oggettità della volontà, bensì l'immediato
    riflesso della volontà medesima; e per tutto ciò ch'è fisico nel
    mondo rappresentare il metafisico, per ogni fenomeno rappresentare
    la cosa in sé. Tanto si potrebbe quindi chiamare il mondo musica
    materiata, quanto materiata volontà. Così si spiega, perché la
    musica faccia apparire in più forte rilievo ogni quadro, anzi ogni
    scena della vita reale e del mondo: e tanto più, per quanto più
    analoga è la melodia di lei all'intimo spirito del dato fenomenico.
    Di qui viene che una poesia possa, come canto, venir sottomessa alla
    musica: o una rappresentazione intuitiva come pantomina; o questa e
    quella insieme, come opera. Tali scene isolate dell'umana vita,
    fatte soggetto all'universale linguaggio della musica, non sono mai
    con questa congiunte o a lei corrispondenti per una fissa necessità;
    bensì v'hanno il rapporto che un qualsivoglia esempio può avere col
    concetto generale: rappresentano con la determinatezza della realtà
    quel che la musica esprime nell'universalità della forma pura.
    Perché le melodie sono, in un certo modo, così come i concetti
    universali, un'astrazione della realtà. Quest'ultima, invero,
    fornisce l'intuitivo, il particolare e individuale, il caso singolo,
    in corrispondenza sia all'universalità dei concetti, sia
    all'universalità delle melodie; le quali universalità sono tuttavia,
    sotto un certo rispetto, contrarie: poiché i concetti contengono
    soltanto le forme primamente astratte dall'intuizione, quasi il
    vuoto guscio esterno delle cose, e sono quindi astrazioni vere e
    proprie; mentre la musica da invece il nocciolo più interno,
    precedente a ogni formazione, ossia il cuore della cosa. Questo
    rapporto si potrebbe esprimere benissimo nella lingua degli
    scolastici, dicendo: i concetti sono gli universalia post rem,
    mentre la musica dà gli universalia ante rem, e la realtà gli
    universalia in re. Al senso universale della melodia, posta ad
    accompagnare una poesia, potrebbero corrispondere egualmente altri
    esempi, scelti a piacere, dell'universale in quella espresso, nello
    stesso grado; perciò la stessa composizione s'adatta a più strofe, e
    perciò si può avere il vaudeville. Ma in genere l'esser possibile un
    rapporto tra una composizione musicale e una rappresentazione
    intuitiva poggia, come ho osservato, sul fatto che l'una e l'altra
    sono espressioni differentissime della stessa intima essenza del
    mondo. Ora, quando s'abbia davvero nel caso singolo un tal rapporto,
    e il compositore abbia saputo esprimere nell'universale lingua della
    musica quei moti della volontà, che formano il nocciolo di un
    evento, allora la melodia della canzone o la musica dell'opera è
    altamente espressiva. L'analogia, dal compositore trovata fra quel
    linguaggio e quei moti, deve nondimeno procedere dall'immediata
    cognizione dell'essenza del mondo, senza consapevolezza della
    ragione; non dev'essere imitazione fatta consapevolmente, mediante
    concetti, che allora non esprimerebbe la musica l'intima essenza, la
    volontà medesima, e non farebbe che imitare insufficientemente il
    fenomeno di quest'ultima, come ognor fa la musica imitativa, qual è
    per esempio Le stagioni di Haydn e anche la sua Creazione, in molti
    luoghi ove fenomeni del mondo intuitivo sono direttamente imitati. E
    così anche in tutte le descrizioni di battaglie: tutta roba da
    gettar via.
    
    L'ineffabile senso intimo d'ogni musica, in grazia del quale ella ci
    passa davanti come un paradiso a noi ben famigliare e pure
    eternamente lontano, affatto comprensibile e pur tanto
    incomprensibile, proviene dal riflettere tutti i moti del nostro
    essere più segreto, ma senza la realtà loro, e tenendosi lungi dal
    loro tormento. Similmente la gravità essenziale alla musica, per cui
    è il ridicolo escluso affatto dal suo diretto dominio, si spiega con
    l'esser suo oggetto immediato non la rappresentazione, che sola può
    apparire illusoria e ridicola, ma la volontà stessa. E questa è per
    sua natura ciò che esiste di più grave, come ciò da cui tutto
    dipende. Come ricco di contenuto e di significanza sia il linguaggio
    musicale, provano perfino i segni di ripetizione, oltre al da capo,
    che in opere letterarie sarebbero intollerabili, mentre in quello
    appaiono opportuni e vantaggiosi, dovendosi udire due volte per
    afferrarlo appieno. In tutta questa trattazione intorno alla musica
    mi sono sforzato di render chiaro, come ella in un linguaggio
    universalissimo esprima l'essenza intima, l'in-sé del mondo, che
    noi, muovendo dalla sua manifestazione più limpida, significhiamo
    sotto il concetto di volontà; e l'esprima in una materia
    particolare, ossia con semplici suoni, con la massima determinatezza
    e verità. E d'altra parte, secondo io vedo e tendo, la filosofia non
    è se non compiuta, esatta riproduzione ed espressione dell'essenza
    del mondo, in concetti molto generali; sol con questi potendosi
    avere una visione, per ogni verso sufficiente e servibile, di tutta
    quell'essenza. Chi adunque m'ha seguito ed è penetrato nel mio
    pensiero, non mi troverà tanto paradossale, quando dico che, posto
    si potesse dare una spiegazione della musica, in tutto esatta,
    compiuta e addentrantesi nei particolari, ossia riprodurre
    estesamente in concetti ciò ch'ella esprime, questa sarebbe
    senz'altro una sufficiente riproduzione e spiegazione del mondo in
    concetti; oppur le equivarrebbe in tutto, e sarebbe così la vera
    filosofia. Né il motto di Leibniz sopra citato, giustissimo da un
    inferior punto di vista, suonerebbe paradossale venendo a esser
    parodiato nel senso della nostra superiore concezione della musica,
    così: Musica est exercitium metaphysices occultum nescientis se
    philosophari animi. Imperocché scire, sapere, significa sempre aver
    deposto la conoscenza in concetti astratti. E poi che la musica, per
    la verità da più parti confermata del motto leibniziano, non è
    altro, astraendo dal suo significato estetico, o interno, e
    guardandola in modo affatto esteriore ed empirico, che il mezzo di
    afferrar direttamente, e in concreto, numeri più grandi e relazioni
    numeriche più complesse, quali di solito possiam conoscere solo
    indirettamente per mezzo di concetti, ne viene che, riunendo quelle
    due sì diverse e pure esatte concezioni della musica, possiamo farci
    un concetto sulla possibilità d'una filosofia dei numeri, qual era
    quella di Pitagora e anche dei Cinesi nel Y-King; e in questo senso
    interpretare il detto di Pitagora riferito da Sesto Empirico (adv.
    Math., 1. VII): τω αριθμω δε τα παντ’ επεοικεν (numero cuncta
    assimilantur). Ma se infine applichiamo questo modo di vedere alla
    nostra precedente dimostrazione dell'armonia e della melodia,
    troveremo che una filosofia morale pura, senza spiegazione della
    natura, come Socrate la voleva introdurre, è affatto analoga a una
    melodia senz'armonia, come Rousseau in modo esclusivo la voleva; e
    all'opposto, una fisica e metafisica pura, senza etica, corrisponde
    a una pura armonia senza melodia. A queste osservazioni incidentali
    mi sia lecito annodarne alcune altre, riferentisi ancora
    all'analogia della musica col mondo fenomenico. Trovammo nel
    precedente libro, che il grado supremo d'oggettivazione della
    volontà, l'uomo, non può apparir solitario e distaccato dagli altri
    gradi inferiori; ma li presuppone, come questi presuppongono
    gl'infimi. Così pure la musica, la quale, proprio come il mondo,
    oggettiva la volontà direttamente, è perfetta soltanto nell'armonia
    completa. La voce acuta, che fa da guida alla melodia, abbisogna,
    per produrre tutto il suo effetto, dell'accompagnamento di tutte le
    altre voci, fino al basso più profondo, il quale è da considerarsi
    come principio di tutte; la melodia entra qual parte integrante
    nell'armonia, come questa in quella. E come soltanto nell'insieme di
    tutte le voci la musica esprime ciò che d'esprimer si propone, così
    l'unica volontà, che sta fuori del tempo, trova la sua perfetta
    oggettivazione soltanto nella completa unione di tutti i gradi, che
    lungo un'infinita scala di progressiva evidenza manifestano il suo
    essere. Molto notevole è ancora l'analogia che segue. Abbiamo nel
    precedente libro veduto che, malgrado il reciproco adattamento,
    rispetto alle specie, di tutti i fenomeni della volontà (il che dà
    luogo alla considerazione teleologica), rimane tuttavia un non
    eliminabile contrasto tra quei fenomeni individualmente; il quale è
    in tutti i lor gradi visibile, e riduce il mondo a un perenne campo
    di battaglia tra i fenomeni tutti dell'una e identica volontà,
    facendo palese così l'intimo dissidio di quest'ultima con se
    medesima. A ciò pur si trova corrispondenza nella musica. Invero un
    sistema armonico di suoni interamente puro è impossibile non solo
    fisicamente, ma già perfino aritmeticamente. I numeri stessi, co'
    quali si esprimono i toni, hanno irrazionalità non riducibili:
    nessuna scala sarebbe mai possibile a calcolare, entro la quale ogni
    quinta stesse al tono fondamentale come 2 sta a 3, ogni terza
    maggiore come 4 a 5, ogni terza minore come 5 a 6, e così via.
    Perché, se i toni sono esatti rispetto al tono fondamentale, non lo
    son più reciprocamente, che allora, per esempio, dovrebbe la quinta
    esser la terza minore della terza, etc. I toni della scala
    rassomigliano ad attori, che debbano rappresentare or questa or
    quella parte. Una musica perfettamente esatta non si può adunque
    pensare, nonché eseguire, e dalla purezza piena si discosta ogni
    possibile musica. Questa può solamente celare le dissonanze in lei
    essenziali, distribuendole fra tutti i toni, ossia per mezzo di
    tempera. Si veda a questo proposito l'I di Chladni, § 30, e del
    medesimo la Breve esposizione della teoria dei suoni e dell'armonia,
    p. 1234. Avrei ancor parecchio da aggiungere sul modo onde la musica
    vien percepita, ossia unicamente nel tempo e per il tempo, con
    assoluta esclusione dello spazio, ed anche senz'influsso della
    conoscenza di causalità, ossia dell'intelletto: imperocché i suoni
    musicali già producono come effetto l'impressione estetica, senza
    che si debba risalire alla loro causa, come accade nell'intuizione.
    Ma non voglio prolungar questi discorsi, che probabilmente già a
    taluno sono apparso nel mio terzo libro troppo prolisso, o troppo mi
    sono addentrato nei particolari. Ciò era tuttavia necessario per il
    mio scopo, e tanto meno sarà biasimato, quanto più ci si rappresenti
    l'importanza, di rado conosciuta abbastanza, e l'alto valore
    dell'arte; riflettendo che se, a nostro modo di vedere, tutto il
    mondo visibile non è se non oggettivazione, specchio della volontà,
    e accompagna questa alla conoscenza di sé, anzi, come tosto vedremo,
    alla sua possibile redenzione; e riflettendo in pari tempo, che il
    mondo come rappresentazione, quando lo si consideri a parte, ed
    essendo svincolati dal volere lo si lasci occupare esso solo la
    conscienza, è il più gioioso e l'unico innocente aspetto della vita;
    di tutto ciò noi dobbiamo considerar l'arte come il più alto grado,
    il più completo sviluppo, poi che ella sostanzialmente fa quel
    medesimo che fa il mondo visibile, ma con più concentrazione,
    compiutezza, consapevole intento; e può quindi nel pieno significato
    della parola esser chiamata la fioritura della vita. Se il mondo
    intero quale rappresentazione non è che la visibilità della volontà,
    l'arte è quella, che fa più limpida codesta visibilità, la camera
    oscura, che gli oggetti fa apparire più puri e meglio vedere e
    abbracciar con lo sguardo. È lo spettacolo nello spettacolo, la
    scena sulla scena, come nell'Amleto.
    
    Il godimento del bello, il conforto che l'arte può dare,
    l'entusiasmo dell'artista, che gli fa dimenticare i travagli della
    vita, unico privilegio del genio, il solo che lo compensi del dolore
    cresciuto di pari passo con la chiarità della conscienza, e della
    squallida solitudine fra una gente eterogenea, – tutto ciò poggia
    sul fatto che, come ci si mostrerà in seguito, l'in-sé della vita,
    la volontà, l'essere medesimo sono un perenne soffrire, in parte
    miserabile, in parte orrendo; mentre l'essere medesimo quale
    semplice rappresentazione, puramente intuita, o riprodotta
    dall'arte, libera da dolore, offre un significante spettacolo.
    Quest'aspetto del mondo puramente conoscitivo, e la riproduzione sua
    in un'arte qualsiasi è l'elemento dell'artista. Egli è incatenato
    dallo spettacolo dell'oggettivata volontà: vi si indugia, non si
    stanca di guardarlo e di riprodurlo, e talora ne fa egli medesimo le
    spese, ossia egli medesimo è la volontà, che in quel modo
    s'oggettiva e perdura in continuo dolore. Quella pura, vera e
    profonda conoscenza dell'essere del mondo gli si fa scopo di per se
    stessa: ed egli a lei si ferma. Non diviene ella adunque per lui,
    come vedremo nel seguente libro accadere per il santo arrivato alla
    redenzione, un quietivo della volontà; non lo redime per sempre
    dalla vita, ma solo per brevi istanti, e non è ancor una via a uscir
    dalla vita, ma solo a volte un conforto nella vita stessa; fin che
    la sua forza, così accresciuta, stanca alfine del giuoco, non si
    volga al serio. Come simbolo di questo passaggio si può considerar
    la Santa Cecilia di Raffaello. Al serio ci volgeremo adunque noi
    pure nel libro seguente.
    
    LIBRO QUARTO
    
    IL MONDO COME VOLONTÀ
    
    SECONDA CONSIDERAZIONE
    
    Affermazione e negazione della volontà di vivere, dopo raggiunta la
    conoscenza di sé.
    
    
    Tempore quo cognitio simul advenit, amor e medio supersurrexit.
    
    Oupneck' hat, studio Anquetil Duperron,
vol. II, p. 216
    
    
    § 53.
    
    L'ultima parte del nostro esame si annunzia come la più grave, poi
    che tocca le azioni degli uomini: oggetto che a ciascuno
    direttamente importa, e a nessuno può essere straniero o
    indifferente. Anzi, tanto è conforme alla natura dell'uomo il
    riferire a quello tutte le altre cose, che in ogni indagine di varie
    parti contesta egli terrà sempre la parte riferentesi alle azioni,
    almeno fin dove l'interessa, per il risultato ultimo di tutto quanto
    in quell'indagine si contiene; ed a questa sola porrà seria
    attenzione, anche se non bada a nessun'altra. Sotto il rispetto
    indicato, la parte del nostro esame che ora segue si potrebbe
    chiamare, secondo il comune modo d'esprimersi, filosofia pratica; in
    opposizione alla filosofia teoretica finora trattata. Ma ogni
    filosofia è a mio avviso teoretica sempre, essendo a lei essenziale,
    qualunque sia l'oggetto immediato della ricerca, il rimaner nel
    campo della considerazione pura e l'investigare, non già il dar
    precetti. Invece il diventar pratica, il guidar la condotta, il
    modificare il carattere, sono vecchie pretese cui ella, con più
    maturo giudizio, dovrebbe alfine rinunciare. Imperocché qui, dove si
    tratta del valore e del non valore d'un'esistenza, di salvazione o
    di condanna, non sono i suoi morti concetti a dare l'esito, bensì lo
    dà l'essenza più intima dell'uomo medesimo, il demone che lo guida e
    che non lo ha scelto, ma che da lui è stato scelto, come dice
    Platone – il suo carattere intelligibile, come Kant si esprime. La
    virtù non s'insegna, più che non s'insegni il genio: per lei è il
    concetto tanto infruttifero, e solo valevole come strumento, quanto
    è infruttifero per l'arte. Altrettanto stolti saremmo
    nell'attenderci, che i nostri sistemi morali e le nostre etiche
    suscitassero uomini virtuosi, nobili e santi, come nel chiedere alle
    nostre estetiche di suscitare poeti, scultori, musici.
    
    La filosofia non può in nessun caso fare altro, se non chiarire e
    spiegare ciò che è dato; recare alla limpida, astratta conoscenza
    della ragione, sotto ogni rispetto e da ogni punto di vista,
    quell'essenza del mondo che a ciascuno si esprime intelligibile in
    concreto, ossia come sentimento. Ora, come nei tre libri precedenti
    s'è cercato d'operar questo passaggio alla consapevolezza razionale
    nel modo generico proprio della filosofia, e muovendo da altri
    principi; così nel presente libro sarà in egual modo considerata la
    condotta dell'uomo: il quale aspetto del mondo dovrebbe non solo,
    secondo osservai, per giudizio soggettivo, ma anche oggettivo,
    essere riguardato come di tutti il più importante. Mi terrò in
    questo fedele al metodo finora seguito; mi fonderò su quanto ho
    esposto innanzi, come necessaria premessa; anzi propriamente
    quell'unico pensiero, che forma il contenuto di tutta la mia opera,
    svolgerò in relazione con la condotta umana, come l'ho svolto fin
    qui in relazione con tutti gli altri oggetti: venendo così a far
    l'ultimo sforzo ch'io posso, per la comunicazione il più possibile
    compiuta del pensiero medesimo.
    
    Il punto di vista indicato, e l'annunziato metodo d'indagine, già
    lasciano capire che in questo libro di etica non bisogna attendersi
    ad alcuna prescrizione, ad alcuna teoria dei doveri: ancor meno vi
    sarà formulato un principio morale universale, quasi universale
    ricetta per la produzione di tutte le virtù. Né discorreremo di un
    «dovere assoluto», perché questo, secondo si espone nell'Appendice,
    contiene una contraddizione; né di una «legge per la libertà», che
    si trova nello stesso caso. In genere non discorreremo punto di
    dovere: poiché si parla così a bambini e a popoli in istato
    d'infanzia, ma non a coloro che han resa propria tutta la cultura di
    un'età fatta maggiorenne. Gli è pure una contraddizione che
    s'afferra con mano, proclamar libera la volontà e tuttavia
    prescrivere a lei leggi, in base alle quali ella deve volere: –
    «deve volere!» – come chi dicesse: ferro fatto di legno! Invece,
    come appare da tutto il nostro modo di vedere, è la volontà non
    soltanto libera, bensì onnipotente: da lei procede non pure la sua
    condotta, ma anche il suo mondo; e quale ella è, tale appare la sua
    condotta, tale appare il suo mondo: sua conscienza di sé sono quella
    e questo, e null'altro: ella determina se stessa, e determina con
    ciò condotta e mondo: perché nulla è fuori di lei, e condotta e
    mondo sono lei medesima. Così soltanto ella è veramente autonoma;
    eteronoma è invece secondo ogni altra concezione. Il nostro sforzo
    filosofico può appena pervenire a interpretare e spiegare la
    condotta dell'uomo, le massime sì diverse, anzi contraddittorie, di
    cui quella condotta è vivente espressione, in rapporto con le
    considerazioni che abbiam fatte finora, nel modo stesso in cui
    abbiam cercato d'interpretare gli altri fenomeni del mondo,
    recandone l'essenza più intima nel dominio della limpida conoscenza
    astratta. La nostra filosofia affermerà in ciò quella stessa
    immanenza, affermata nelle considerazioni precedenti: non userà,
    venendo meno alla grande dottrina kantiana, le forme del fenomeno,
    di cui è espressione universale il principio di ragione, come un
    bastone da salto, per oltrepassare il fenomeno, che solo dà a quello
    un senso, e approdare allo sconfinato dominio delle vuote finzioni.
    Questo reale mondo della conoscibilità, nel quale noi stiamo e che
    sta in noi, rimane non soltanto materia, ma limite del nostro
    studio: ed è sì ricco di contenuto, che non potrebbe esaurirlo
    neppur l'indagine più profonda, di cui fosse capace lo spirito
    umano. Poiché adunque il mondo reale, conoscibile, non lascerà mai
    argomento e realtà venir meno alle nostre considerazioni etiche,
    come già non ne lasciò mancare alle considerazioni precedenti; nulla
    ci sarà più inutile che il far ricorso a vuoti, negativi concetti, e
    poi far credere a noi stessi d'aver detto qualcosa, quando con
    solenne cipiglio abbiam parlato d'«assoluto», d'«infinito», di
    «soprasensibile», e di quant'altre pure negazioni consimili possan
    darsi ancora (ουδεν εστι, η το της στερησεως ονομα, μετα αμυδρας
    επινοιας.— nihil est, nisi negationis nomen, cum obscura notione.
    Jul. or. 5); in luogo delle quali si potrebbe dir, più brevemente,
    «nubicuculia» (νεφελοκοκκυγία). Piatti di tal fatta, ben coperti ma
    vuoti, non avremo noi bisogno di mettere in tavola. Insomma, anche
    qui come per il passato ci guarderemo dal raccontare storie
    gabellandole per filosofia. Imperocché noi siamo d'avviso, che da
    una filosofica cognizione del mondo sia oltre ogni misura lontano
    chi pensi di poterne coglier l'essenza, e sia pur sotto i più bei
    trucchi, storicamente. E questo è il caso, non appena nel concetto,
    che colui ha del mondo in sé, venga a trovarsi un qualsiasi
    divenire, o esser divenuto, o esser per divenire; e un prima e poi
    acquisti la pur minima importanza, e quindi in modo palese o
    nascosto si cerchi e trovi un principio e una fine del mondo, e una
    via da quello a questa. Codesto isterico filosofare da il più spesso
    una cosmogonia, la quale consente molte varietà, ma può dare anche
    un sistema di emanatismo, una dottrina della caduta; oppure, se
    disperando dei vani tentativi per quelle strade si riduce a
    prenderne un'altra, ultima, dà viceversa una teoria dell'eterno
    divenire, del nascere, del sorgere, del balzar alla luce dalle
    tenebre, dall'oscuro fondo, dal fondo dei fondi, dal fondo senza
    fondo, e quanti sono vaniloqui di tal sorta. Tutte cose le quali si
    tolgono di mezzo con l'osservare, che essendo un'eternità intera,
    ossia un tempo infinito, già trascorsa fino all'attimo presente,
    tutto quel che può e deve accadere deve anche essere già accaduto.
    Poiché codesta filosofia storica, per quante arie voglia darsi,
    prende, come se Kant non fosse mai esistito, il tempo per una
    determinazione della cosa in sé: e s'arresta quindi a ciò che Kant
    chiama fenomeno, in opposizione alla cosa in sé, e Platone chiama il
    divenire che mai non è, in opposizione all'essere che mai non
    diviene; s'arresta a ciò, insomma, che gl'Indiani chiamano il velo
    di Maja. E quest'è appunto la conoscenza vincolata al principio di
    ragione, con la quale mai non si giunge all'essenza intima delle
    cose, ma non si fa che perseguire all'infinito i fenomeni, muovendo
    intorno senza fine e senza meta, come fa lo scoiattolo nella gabbia
    a ruota; finché per avventura stanchi alla fine o sopra o sotto in
    un punto qualsiasi ci si ferma, e si pretende di far rispettare
    questo punto anche dagli altri. La vera considerazione filosofica
    del mondo, ossia quella che c'insegna a conoscere l'essenza intima,
    e ci conduce così di là dal fenomeno, è appunto quella che non
    chiede il donde e il dove e il perché, ma sempre e in tutto domanda
    esclusivamente il che cosa del mondo: ossia quella, che le cose
    considera non già in una lor qualunque relazione, non già nel loro
    principiare e finire, non già insomma secondo una delle quattro
    forme del principio di ragione; ma viceversa ha per oggetto proprio
    quel che avanza, quando abbiamo tolto via tutta la conoscenza
    sottomessa al principio medesimo, quel che in tutte le relazioni si
    manifesta senza esser da loro dipendente, l'essenza del mondo ognora
    eguale a se stessa, le idee del mondo. Da tal conoscenza essenziale
    procede, come l'arte, anche la filosofia; anzi, come vedremo in
    questo libro, ne procede pur quella disposizione dell'animo, che
    sola conduce alla vera santità e alla redenzione del mondo.
    
    § 54.
    
    I tre primi libri avranno fatto veder chiaramente e sicuramente,
    spero, che nel mondo quale rappresentazione la volontà ha il proprio
    specchio, in cui se stessa conosce, per gradi progressivi di
    limpidità e di compiutezza; de' quali il più alto è l'uomo. Ma
    l'essere dell'uomo raggiunge la sua piena espressione sol mediante
    la serie coerente delle sue azioni. E il conscio nesso delle azioni
    è reso possibile dalla ragione, che da mezzo all'uomo di dominarne
    con lo sguardo il complesso in abstracto.
    
    La volontà considerata in se stessa è inconsciente: è un cieco,
    irresistibile impeto, qual noi già vediamo apparire nella natura
    inorganica e vegetale, com'anche nella parte vegetativa della nostra
    propria vita. Sopravvenendo il mondo della rappresentazione,
    sviluppato per il suo servigio, ella acquista conoscenza del proprio
    volere e di ciò ch'ella vuole, che altro non è se non il mondo, la
    vita, così come si presenta. Perciò il mondo fenomenico l'abbiam
    chiamato specchio della volontà, e sua oggettità: e ciò che la
    volontà sempre vuole è la vita, appunto perché questa non è altro
    che il manifestarsi di quel volere per la rappresentazione; perciò è
    tutt'uno, e semplice pleonasmo, quando invece di «volontà»
    senz'altro diciamo «volontà di vivere».
    
    Essendo la volontà la cosa in sé, l'interna sostanza, l'essenza del
    mondo, mentre la vita, il mondo visibile, il fenomeno è solamente lo
    specchio della volontà; ne viene che il fenomeno accompagna la
    volontà sì fedelmente, come l'ombra il corpo; e dov'è volontà, sarà
    pur vita, mondo. Alla volontà di vivere è adunque la vita
    assicurata; e fin quando pieni siamo della volontà di vivere, non
    dobbiamo trovarci in ansia per la nostra esistenza – neppure in
    vista della morte. Vediamo bensì l'individuo nascere e perire: ma
    l'individuo è soltanto fenomeno, non esiste se non per la conoscenza
    irretita nel principio di ragione, nel principio individuationis: in
    virtù di questo invero riceve la propria vita come un dono, vien
    fuori dal nulla, soffre poi per morte la perdita di quel dono, e al
    nulla fa ritorno. Ma noi vogliamo invece considerar la vita
    filosoficamente, ossia nelle sue idee; e troveremo allora che né la
    volontà, la cosa in sé di tutti i fenomeni, né il soggetto del
    conoscere, quegli che guarda tutti i fenomeni, da nascita e morte
    sono in alcun modo toccati. Nascita e morte toccano per l'appunto al
    fenomeno della volontà, ossia alla vita; e di questa è proprio il
    manifestarsi in individui, i quali nascono e periscono come effimere
    apparenze, palesantisi nella forma del tempo, di ciò che in sé
    nessun tempo conosce, ma deve tuttavia nel modo suddetto
    manifestarsi, per oggettivare il suo vero essere. Nascita e morte
    toccano in egual maniera alla vita, e si fanno equilibrio come
    reciproche condizioni l'una dell'altra: o, se si preferisce il
    termine, come poli di tutto il fenomeno vitale. La più saggia di
    tutte le mitologie, l'indiana, ciò esprime attribuendo a quel
    medesimo Dio, che simboleggia la distruzione e la morte (come Brama,
    il più peccaminoso e basso Dio della Trimurti, simboleggia la
    generazione, la nascita, e Visnu la conservazione), attribuendo a
    Shiva, dico, in pari tempo il collare di teschi ed il Lingam,
    simbolo della generazione, la quale si presenta quivi adunque come
    adeguamento della morte. La qual cosa significa, che generazione e
    morte sono per natura correlati, che a vicenda si neutralizzano e
    sopprimono. Ed è lo stesso pensiero, che Greci e Romani indusse a
    ornare i preziosi sarcofagi come ancora li vediamo, con feste,
    danze, nozze, cacce, lotte d'animali, baccanali, ossia con
    rappresentazioni del più impetuoso ardore vitale: ardore che non
    solo essi ci mostrano in codeste scene festive, ma perfino in gruppi
    voluttuosi, arrivando fino all'accoppiamento di satiri e di capre.
    Loro scopo era palesemente quello di rivolgere la mente dalla morte
    dell'individuo compianto all'immortal vita della natura, e con ciò
    indicare, sia pure senz'averne astratta conscienza, che tutta la
    natura è fenomeno ed anche adempimento della volontà di vivere.
    Forma di tal fenomeno sono tempo, spazio e causalità, e quindi, per
    lor mezzo, individuazione; la qual cosa fa sì, che l'individuo debba
    nascere e morire; ma essa non tocca la volontà di vivere, della cui
    manifestazione l'individuo non è che un singolo esempio o saggio,
    più che il complesso della natura non venga toccato dalla morte di
    un individuo. Poiché non l'individuo, ma la specie sola importa alla
    natura, la quale per la conservazione della specie si affatica con
    ogni sforzo, a quella provvedendo con sì larga prodigalità, mediante
    la smisurata sovrabbondanza dei germi e la gran forza della
    fecondità. Invece l'individuo non ha per lei valore alcuno, perché
    tempo infinito, infinito spazio, e, in tempo e spazio, infinito
    numero di possibili individui, sono il regno della natura; quindi
    ella è ognor pronta a lasciar cadere l'individuo, il quale non solo
    in mille modi, per i più piccoli accidenti, è esposto alla rovina,
    ma alla rovina è fin da principio destinato e dalla natura stessa
    condotto, a partir dall'istante, in cui esso è servito alla
    conservazione della specie. Apertissimamente esprime in ciò la
    natura medesima quel grande vero, che le idee soltanto, e non gli
    individui, hanno effettiva realtà, cioè sono compiuta oggettità
    della volontà. Ora, essendo l'uomo la natura stessa, nel più alto
    grado della sua autoconscienza, e la natura non essendo se non
    l'oggettivata volontà di vivere, può l'uomo, che abbia bene
    afferrato questa concezione e vi si tenga stretto, consolarsi a
    giusta ragione della morte sua e degli amici suoi, contemplando
    l'immortal vita della natura, la quale è lui stesso. Così va dunque
    inteso Shiva con il Lingam, e così quegli antichi sarcofagi, i quali
    con le lor figure della più fervida vita ammoniscono il dolorante
    contemplatore: Natura non contristatur.
    
    Che nascita e morte vadano considerate come alcunché spettante alla
    vita, ed essenziale a codesto fenomeno della volontà, risulta anche
    dal fatto, che l'una e l'altra ci si presentano semplicemente come
    espressioni, elevate a più alta potenza, di ciò, in cui pur tutta la
    rimanente vita consiste. Questa invero è in tutto e per tutto
    nient'altro che un perenne mutar della materia in un fisso permaner
    della forma: e non altra è la caducità degli individui di fronte
    all'eternità della specie. La continuata nutrizione e riproduzione
    si distingue dalla nascita soltanto per il grado; e soltanto per il
    grado si distingue la continuata escrezione dalla morte.
    
    La prima di codeste analogie si mostra, nel modo più semplice e
    chiaro, nella pianta. Questa è unicamente la ripetizione costante di
    uno stesso impulso, della sua più semplice fibra, che si aggruppa in
    foglia e ramo; è un sistematico aggregato di piante consimili, l'una
    con l'altra sostenentisi, la cui costante riproduzione è il suo
    unico impulso: per soddisfarlo appieno ella da ultimo ascende,
    attraverso la scala delle metamorfosi, fino al fiore e al frutto,
    compendio del suo essere e della sua aspirazione, nel quale per la
    via più breve consegue ciò ch'era sua meta unica, e d'un tratto
    compie in mille ciò ch'avea fino allora operato in un solo
    esemplare: la riproduzione di se stessa. Il suo sviluppo prima di
    pervenire al frutto sta a questo, come la scrittura alla stampa.
    Evidentemente il medesimo accade pur tra gli animali. Il processo
    nutritivo è un perenne generare, il processo generativo è una
    nutrizione innalzata a più alta potenza: la voluttà nel generare è
    il benessere, elevato a più alta potenza, del sentimento vitale. E
    d'altra parte la escrezione, il continuo esalare e rigettar materia,
    è il medesimo di quel ch'è in più alta potenza la morte, l'opposto
    della generazione. E come in ciò basta a noi conservar la forma,
    senza rimpianto per la rigettata materia, così dobbiamo in egual
    maniera contenerci, quando per morte accade in più alta potenza e
    nella totalità, ciò che ciascun giorno e ciascuna ora accade in
    parte con l'escrezione: come siamo indifferenti nel primo caso, così
    non dovremmo sbigottirci davanti al secondo. Sotto questo rispetto
    apparisce altrettanto stolto il pretender la durata della propria
    individualità, la quale vien sostituita da altri individui, quanto
    il pretendere che perduri intatta la materia del nostro corpo, la
    quale da materia nuova è continuamente sostituita. Imbalsamare i
    cadaveri non è meno stolto, che non sia il conservare con cura i
    propri escrementi. Per ciò che tocca la conscienza individuale
    congiunta con l'individuale corpo, si avverta ch'essa viene
    quotidianamente interrotta in modo completo dal sonno. Il sonno
    profondo non è, nel tempo della sua durata, diverso dalla morte, in
    cui sovente va a finire, per esempio, nei casi di assideramento;
    diverso n'è soltanto per l'avvenire, ossia per la possibilità del
    risveglio. La morte è un sonno, nel quale si dimentica
    l'individualità: ma tutto il rimanente si risveglia, o piuttosto non
    s'è mai addormentato35.
    
    Prima d'ogni altra cosa dobbiamo ben persuaderci, che la forma del
    fenomeno della volontà, ossia la forma della vita o della realtà, è
    invero il solo presente, non l'avvenire, né il passato: questi
    esistono unicamente nel concetto, unicamente nella concatenazione
    della conoscenza, in quanto ella segue il principio di ragione. Nel
    passato nessun uomo è vissuto, e nell'avvenire nessuno vivrà: il
    presente solo è forma d'ogni vita, ed è sicuro dominio, che alla
    vita non può mai essere strappato. Il presente è ognora qui, col suo
    contenuto: l'uno e l'altro tengon fermo, senza vacillare; come
    l'arcobaleno sulla cascata. Imperocché alla volontà è la vita, alla
    vita il presente sicuro e certo. È vero, che se pensiamo ai
    trascorsi millennii, ai milioni d'uomini che in quelli vissero, ci
    domandiamo: Che cosa furono? che cosa ne è accaduto? Ma dobbiamo
    invece richiamarci alla memoria il passato della nostra esistenza
    personale, e vivacemente riprodurcene le scene nella fantasia, e poi
    domandarci ancora: Che cosa è stato tutto ciò? che cosa ne è
    accaduto? La stessa sorte è toccata al nostro passato e alla vita di
    quei milioni. O dovremmo noi pensare, che il passato acquisti
    un'esistenza nuova, per avere avuto il suggello della morte? Il
    nostro individuale passato, anche il più prossimo, quello di ieri,
    non è più che un sogno della fantasia, fatto di nulla, e così è il
    passato di tutti quei milioni d'esseri. Che cosa fu? che cosa è? La
    volontà: di cui è specchio la vita; e il conoscere scevro di
    volontà, che in quello specchio limpidamente la volontà vede
    riflessa. Chi non ancora ha ciò compreso, o non vuole comprenderlo,
    deve alla domanda fatta più sopra, intorno al destino delle
    generazioni trapassate, aggiungere quest'altra: perché proprio lui,
    lui che interroga, ha la gioia di posseder questo prezioso,
    fuggitivo presente, che solo è reale, mentre quelle centinaia di
    generazioni, e perfino gli eroi e i sapienti delle età trascorse,
    sono caduti nella notte del passato e perciò ridotti a nulla,
    quand'egli, col suo insignificante io, esiste di fatto? O più
    brevemente, ma senza diminuir la stranezza della cosa: perché questo
    presente, il suo presente, si ha proprio ora e non fu invece già da
    tempo? Con queste domande strane, vede il suo essere e il suo tempo
    come indipendenti l'uno dall'altro, e quello come gettato in questo;
    egli ammette in verità due presenti, l'uno dei quali appartiene
    all'oggetto, l'altro al soggetto, e si stupisce per il caso felice
    della loro coincidenza. Ma in verità (come si vede nel mio scritto
    sopra il principio di ragione), il presente è formato soltanto dal
    punto d'incontro dell'oggetto, la cui forma è il tempo, col
    soggetto, che non ha per forma nessun modo del principio di ragione.
    Ora, ogni oggetto è volontà, in quanto questa è divenuta
    rappresentazione, e il soggetto è il necessario correlato
    dell'oggetto; ma oggetti reali si danno soltanto nel presente;
    passato e futuro contengon semplici concetti e fantasmi, sì che il
    presente è l'essenzial forma del fenomeno della volontà, e da questa
    inseparabile. Il presente solo è ciò che sempre esiste, e
    incrollabile perdura. Mentre, guardato empiricamente, esso è quanto
    v'ha di più soggettivo, all'occhio metafisico, il quale guarda oltre
    le forme dell'intuizione empirica, si mostra come l'unico
    Permanente, il Nunc stans degli scolastici. Principio e fondamento
    del suo contenuto è la volontà di vivere, o la cosa in sé, – che
    siamo noi stessi. Ciò che sempre nasce e perisce, mentre o è già
    stato o sarà in futuro, appartiene al fenomeno come tale, in virtù
    delle forme di questo, che rendono possibile il cominciare e il
    finire. Bisogna dunque pensare: Quid fuit? Quod est. Quid erit? Quod
    fuit. E si prenda l'espressione nel senso preciso della parola,
    intendendo non già simile bensì idem. Imperocché alla volontà è
    certa la vita, alla vita il presente. Quindi può anche dire ognuno:
    «Io sono una volta per tutte signore del presente, e per tutta
    l'eternità questo mi accompagnerà come la mia ombra: perciò non mi
    maraviglia il come esso sia venuto fino a me, e come accada che ora
    ap punto sia qui». Possiamo paragonare il tempo a un cerchio che
    gira senza fine: la parte ognora discendente sarebbe il passato,
    quella sempre ascendente, il futuro: il punto in alto, indivisibile,
    che la tangente tocca, sarebbe il presente, che non ha estensione:
    come la tangente non ruota col cerchio, così non ruota il presente,
    il punto di contatto dell'oggetto, di cui è forma il tempo, col
    soggetto, che non ha forma, perché non appartiene al dominio
    conoscibile, bensì d'ogni conoscibile è condizione. Oppure: il tempo
    somiglia a un'infrenabile corrente, e il presente a una roccia,
    contro cui quella si frange, senza pervenire a trascinarla con sé.
    La volontà, come cosa in sé, non è sottomessa al principio di
    ragione più che non vi sia sottomesso il soggetto della conoscenza,
    il quale poi finalmente in un certo senso è la volontà medesima, o
    la sua manifestazione. E come alla volontà è certa la vita, suo
    proprio fenomeno, così è certo anche il presente, unica forma della
    vita reale. Non abbiamo dunque da indagar né il passato innanzi la
    vita, né il futuro dopo la morte: invece come unica forma in cui la
    volontà si svela dobbiamo conoscere il presente36. Tale forma non
    verrà mai meno alla volontà, ma neppur questa a quella. Chi s'appaga
    quindi della vita qual è, chi in tutte guise la vita afferma, può
    fiducioso considerarla come infinita, e il timor della morte bandire
    come un inganno, che a lui inspiri lo stolto timore di poter un
    giorno perdere il presente, e gli ponga innanzi agli occhi la
    prospettiva di un tempo senza presente: inganno che nel rispetto del
    tempo corrisponde all'altro nel rispetto dello spazio, per cui
    ciascuno nella propria fantasia ritiene il posto della sfera
    terrestre da lui occupato essere il punto superiore della sfera
    stessa, e tutto il rimanente vede al disotto. Proprio così collega
    ciascuno il presente con la propria individualità, e ritiene abbia
    con questa ogni presente a cessare; e passato ed avvenire siano
    senza presente. Ma, come sulla sfera terrestre ogni dove sta
    disopra, così pure è presente la forma d'ogni vita; e il temer la
    morte, perché questa ci strappa il presente, non è più saggio che il
    temer si possa scivolare giù dal globo della Terra, sul quale per
    fortuna ci si trovi ora proprio al punto superiore.
    All'oggettivazione della volontà è essenziale la forma del presente,
    che qual punto senza estensione divide il tempo di qua e di là
    infinito, e immobilmente sta fermo, pari a un eterno meriggio, senza
    la rinfrescante sera; così come il sole in realtà arde senza
    interruzione, mentre in apparenza cade nel seno della notte. Perciò,
    quando un uomo teme la morte come annientamento di sé, gli è come se
    altri pensasse poter il sole alla sera lamentarsi: «Ahimè! io
    sprofondo nell'eterna notte»37. E viceversa: chi è oppresso dai pesi
    della vita, chi la vita bensì vorrebbe, e la vita afferma, ma ne ha
    in orrore i tormenti, e soprattutto più non sa tollerare il duro
    destino, che a lui proprio è toccato, questi non ha da sperar
    liberazione nella morte, né si può salvare col suicidio: sol con
    falsa illusione lo trae a sé l'oscuro, freddo Orco qual porto di
    riposo. La terra si volge dal giorno verso la notte; l'individuo
    muore; ma il sole brilla senza posa in eterno meriggio. Alla volontà
    di vivere è certa la vita: la forma della vita è un presente senza
    fine; né importa il come nascano e periscano nel tempo gl'individui,
    fenomeni dell'idea, comparabili a sogni fugaci. Il suicidio ci
    apparisce già da questo un'azione vana e quindi stolta: e quando
    saremo progrediti più oltre nella nostra indagine, ci si presenterà
    in una luce ancor più sfavorevole.
    
    I dogmi mutano, e il nostro sapere è illusorio, ma la natura non
    sbaglia: il suo corso è sicuro, ed ella non lo cela. Ogni cosa è
    tutta in lei, ed ella è tutta in ogni cosa. In ciascun animale ha
    ella il suo centro: ogni animale ha trovato sicuramente la propria
    via dell'essere, come sicuramente la troverà per uscirne: frattanto
    vive senza tema di annientamento e libero da preoccupazioni,
    sorretto dalla conscienza di essere egli la natura medesima, e come
    lei eterno. Soltanto l'uomo trae seco in concetti astratti la
    certezza della propria morte: tuttavia questa, ed è molto strano,
    può angustiarlo solo per momenti isolati, quando una circostanza la
    richiama alla fantasia. Contro la poderosa voce della natura può la
    riflessione ben poco. Anche in lui, come nell'animale che non pensa,
    impera come durevole stato quella certezza, proveniente dalla più
    intima conscienza, ch'egli è la natura, è il mondo medesimo; per la
    qual certezza il pensiero della morte sicura e mai lontana nessun
    uomo inquieta visibilmente, che ciascuno invece vive come dovesse
    vivere in eterno. E questa condizione di cose va tanto lontano, da
    potersi dire che nessuno abbia una vera, vivente persuasione della
    certezza della propria morte, perché altrimenti non potrebb'essere
    una sì gran differenza tra la sua disposizione d'animo e quella d'un
    condannato a morte; ma che l'uomo, pur riconoscendo quella certezza
    in abstracto e teoricamente, la mette in disparte come altre verità
    teoriche, inservibili nella pratica, senza punto accoglierla nella
    sua vivente conscienza. Chi ben consideri questa particolarità dello
    spirito umano, vedrà che le sue spiegazioni psicologiche, fondate
    sull'abitudine o sull'adattamento all'inevitabile, non sono in
    nessun modo sufficienti, e che la ragione è quella, più profonda,
    indicata. Con quella va pur spiegato, perché in tutti i tempi,
    presso tutti i popoli si trovino e stiano in onore dogmi d'un
    qualsivoglia perdurar dell'individuo dopo la morte, sebbene le prove
    dovessero sempre esserne insoddisfacenti, mentre forti e numerose
    son le prove del contrario; anzi, il contrario veramente non ha
    bisogno di prove, bensì da un intelletto sano vien riconosciuto come
    un fatto, e come tale confermato dalla fiducia, che la natura né
    smentisce né erra, ma la sua azione e il suo essere apertamente
    manifesta, o addirittura ingenuamente esprime: mentre siamo noi
    stessi che col nostro vaneggiare l'intorbidiamo, per ricavarne
    arzigogolando ciò che ai nostri occhi miopi per l'appunto si confà.
    
    Ma la verità, che ora abbiamo recata a chiara conscienza, che, per
    quanto il singolo fenomeno della volontà abbia nel tempo principio e
    nel tempo fine, la volontà stessa come cosa in sé non viene da ciò
    punto toccata, e neppure il correlato d'ogni oggetto, il conoscente
    e mai conosciuto soggetto; e similmente il fatto che alla volontà di
    vivere è sempre certa la vita: tutto ciò non va confuso con quelle
    dottrine della persistenza individuale. Imperocché alla volontà,
    considerata come cosa in sé, com'anche al puro soggetto del
    conoscere, all'eterno occhio del mondo, non tocca un perdurare più
    che non tocchi un perire, queste essendo determinazioni che valgono
    solamente nel tempo, mentre quelli stanno fuori del tempo. Perciò
    l'egoismo dell'individuo (di questo singolo fenomeno della volontà
    illuminato dal soggetto del conoscere) può dalla nostra concezione
    suesposta tanto poco alimento e conforto ricavare per il suo
    desiderio di esistere in un tempo infinito, quanto poco ne ricava
    dal conoscer che dopo la sua morte il rimanente mondo esterno
    seguiterà nondimeno a esistere nel tempo; il che esprime proprio la
    stessa concezione di sopra, ma da un punto di vista oggettivo e
    quindi temporale. Imperocché è bensì vero, che ogni individuo è
    effimero solo in quanto fenomeno, mentre come cosa in sé è fuori del
    tempo, e perciò non ha fine; ma pur soltanto come fenomeno è
    distinto dalle altre cose del mondo, mentre come cosa in sé esso è
    la volontà, che in tutto si palesa, e la morte cancella l'illusione
    che separa la sua conscienza dall'universale: questa è la vera
    eternità. Il suo non esser toccato dalla morte è proprietà di lui in
    quanto cosa in sé, mentre per il fenomeno coincide col permanere del
    rimanente mondo esteriore38. Da ciò procede che l'intima conscienza,
    non altro che sentita, di quanto abbiamo or ora elevato a chiara
    cognizione, impedisce bensì, come s'è detto, che il pensiero della
    morte avveleni la vita al consapevole essere razionale, essendo tale
    conscienza la base di quell'ardore vitale, che sorregge ciascun
    vivente, e lo fa procedere animoso nell'esistenza, quasi morte non
    fosse, almeno fin tanto ch'egli ha la vita innanzi agli occhi e alla
    vita è rivolto; ma non impedisce tuttavia che quando la morte si
    presenta all'individuo o nella realtà o anche soltanto nella
    fantasia, e questo deve guardarla in faccia, un tremendo terrore lo
    colga, ed esso cerchi in tutte le maniere di sfuggire. Perché al
    modo che quando la sua conoscenza era rivolta alla vita come tale,
    doveva di questa riconoscer l'eternità, così, quando la morte gli si
    fa innanzi, deve riconoscerla per quel ch'essa è, la temoral fine
    del singolo fenomeno temporale. Ciò che temiamo nella morte, non è
    punto il dolore: in parte, perché questo sta di qua dalla morte; in
    parte, perché sovente dal dolore ci rifugiamo nella morte, come
    d'altronde all'opposto affrontiamo talvolta il più atroce dolore,
    sol per isfuggire un momento alla morte, fosse pur rapida e lieve.
    Distinguiamo adunque dolore e morte come due mali affatto diversi;
    ciò, che nella morte temiamo, è in realtà la fine dell'individuo,
    che tale apertamente ci si palesa la morte; e poi che l'individuo è
    la volontà di vivere medesima, in una singola oggettivazione, tutto
    l'esser suo contro la morte si ribella. Ma, dove in siffatta maniera
    il sentimento ci lascia senza difesa, può nondimeno subentrare la
    ragione, e per massima parte vincere le ripugnanze di quello,
    elevandoci ad una considerazione più alta, dove noi, invece del
    singolo, abbiamo davanti agli occhi il tutto. Perciò una cognizione
    filosofica dell'essenza del mondo, la quale fosse pervenuta fino al
    punto in cui ci troviamo nella nostra indagine, ma non andasse più
    oltre, già potrebbe superare i terrori della morte: nella misura, in
    cui la riflessione avesse per un dato individuo il sopravvento sul
    diretto sentire. Immaginiamo un uomo, che le verità finora esposte
    abbia ben fissate nella mente, ma non sia insieme arrivato, né per
    esperienza propria, né per visione larga delle cose, a riconoscer
    come essenziali in ogni vita un diuturno dolore, bensì nella vita
    trovi soddisfazione, e ci si senta a suo pieno agio, e con
    tranquilla riflessione desideri veder continuata indefinitamente la
    sua vita, quale fu in passato, o aver sempre nuovo principio. E sia
    il suo ardor vitale sì grande, che per le gioie del vivere egli
    accetti volenteroso tutti i fastidi e le pene, a cui il vivere è
    soggetto. Un tale uomo starebbe «con salde ben midollate ossa sulla
    bene arrotondata, durabile terra», e non avrebbe nulla da temere:
    armato della conoscenza, che noi gli diamo, indifferente guarderebbe
    la morte sulle ali del tempo rapida appressantesi, contemplandola
    come una falsa apparenza, un impotente fantasma, che può far paura
    ai deboli, ma nessuna forza ha su quegli, che sa d'esser egli
    medesimo quella volontà, la cui oggettivazione o immagine è il mondo
    intero; quegli, cui rimangono perciò sicuri sempre la vita ed il
    presente, la vera, l'unica forma del fenomeno della volontà; quegli,
    cui nessun passato o avvenire infinito, nel quale e' non si
    trovasse, può sbigottire, poiché li considera come il vano miraggio
    ed il velo di Maja; quegli, che non dovrebbe quindi temer la morte,
    più che il sole non tema la notte. A questa concezione innalza
    Krishna nella Bhagavat Gita il suo principiante discepolo Arjuna,
    allorché questi alla vista dell'esercito pronto per la battaglia
    (circa nella stessa guisa di Serse) colto da pensosa tristezza
    sbigottisce e vorrebbe desister dalla lotta, per iscongiurar la
    distruzione di tante migliaia di vite: a quella concezione lo
    innalza Krishna, e la morte delle migliaia non val più a
    trattenerlo: egli dà il segnale della battaglia. La stessa
    concezione esprime il Prometeo di Goethe, soprattutto quando dice:
    
    Qui io sto, uomini formo
A immagine di me,
Una razza, che eguale mi
    sia
Nel soffrire, nel piangere,
Nel godere e rallegrarsi,
E di te
    non curarsi,
Come me!39.
    
    Ed alla stessa concezione ancora potrebbero la filosofia di Bruno e
    quella di Spinoza condurre chi non si sentisse disturbato o scosso
    nella persuasione dai loro errori e difetti. La filosofia di Bruno
    non contiene una vera etica, e quella ch'è nella filosofia di
    Spinoza non nasce punto dall'essenza della sua dottrina, bensì, pur
    essendo in sé apprezzabile e bella, v'è collegata sol con deboli e
    troppo visibili sofismi. Alla concezione suddetta finalmente
    perverrebbero forse molti uomini, se la loro conoscenza andasse di
    pari passo con il loro volere, ossia se liberi d'ogni falso
    miraggio, fossero in grado d'aver chiara e limpida conscienza di sé.
    Imperocché qui sta, per la conoscenza, la base dell'intera
    affermazione della volontà di vivere.
    
    La volontà afferma se stessa, s'è detto: mentre nella sua oggettità,
    ossia nel mondo e nella vita, la sua propria essenza viene a lei
    data compiutamente e limpidamente, codesta conoscenza non impedisce
    punto il suo volere; anzi appunto quella vita in siffatto modo
    conosciuta viene anche come tale dalla volontà voluta, con
    cognizione, in maniera consapevole e meditata, come prima era voluta
    senza cognizione, quale cieco impulso. Il contrario, la negazione
    della volontà di vivere, si mostra quando, raggiunta quella
    cognizione, la volontà finisce; allor che i singoli fenomeni
    conosciuti non agiscono più come motivi della volontà, ma invece
    tutta intera la cognizione, maturata con l'afferrar le idee,
    dell'essenza del mondo, il quale rispecchia la volontà, diventa un
    quietivo della volontà stessa, e così la volontà liberamente si
    sopprime. Questi concetti affatto sconosciuti, e difficilmente
    comprensibili in questa forma generica, diventeranno chiari, spero,
    con l'esposizione, che tosto seguirà, dei fenomeni, o, nel caso
    nostro, modi di agire, ne' quali da un lato s'esprime
    l'affermazione, nei suoi diversi gradi, e dall'altro la negazione.
    Imperocché entrambe procedono bensì dalla conoscenza, ma non da
    quella astratta, che si rivela in parole, bensì da una conoscenza
    vivente, la quale unicamente si rivela nei fatti e nel tenore di
    vita; e rimane indipendente dai dogmi, che in proposito, come
    conoscenza astratta, occupano la ragione. Semplicemente l'una e
    l'altra esporre, e recare a limpida conoscenza della ragione, può
    essere mio scopo: e non prescrivere o raccomandar questa o quella;
    il che sarebbe stolto non meno che inutile, perché la volontà è in
    sé assolutamente libera, da sola determina se stessa, né sono leggi
    per lei. Questa libertà e la sua relazione con la necessità dobbiamo
    nondimeno in primo luogo, e prima di procedere alla suindicata
    esposizione, illustrare e in maniera precisa determinare; e inoltre
    sulla vita, la cui affermazione o negazione forma il nostro
    problema, avanzare alcuni pensieri generici, riferentisi alla
    volontà e ai suoi oggetti. Da tutto tutto ciò verrà a noi alleviata
    la conoscenza, che ci proponiamo, del valore etico delle azioni, a
    seconda della loro più intima essenza.
    
    Poiché, come s'è detto, tutta quest'opera non è se non lo sviluppo
    di un pensiero unico, ne deriva, che tutte le sue parti hanno la più
    stretta connessione tra loro, e non solo ciascuna sta in necessaria
    relazione con quella, che immediatamente precede, e quindi quella
    sola vuol presente al lettore come immediata premessa, secondo
    accade in tutte le filosofie, le quali consistono in una serie di
    deduzioni; ma ogni parte dell'opera intera è con tutte le altre
    connessa, e le presuppone. Si richiede adunque, che dal lettore sia
    ricordato non soltanto ciò che immediatamente precede, ma tutta la
    trattazione anteriore: sì che di volta in volta egli possa sempre
    riannodarne ogni parte alla pagina che ha davanti, stianvi pur
    molt'altre cose frammezzo. Ammonimento, che anche Platone ha fatto
    al suo lettore, per i tortuosi avvolgimenti dei suoi dialoghi, che
    il pensiero fondamentale riprendon sol dopo lunghi episodi, ma da
    ciò appunto fatto più limpido. Da parte nostra è tale ammonimento
    necessario, perché il frazionar l'unico nostro pensiero in molte
    considerazioni è bensì il solo modo che abbiamo di comunicarlo, ma è
    un dar forma artificiosa e non naturale al pensiero stesso. A render
    più facile l'esposizione e l'intendimento giova l'aver distinto, in
    quattro libri, quattro principali punti di vista, come giova
    l'attentissimo ravvicinar ciò che è affine e omogeneo: tuttavia la
    materia non permette assolutamente un andare in linea retta, come fa
    il procedimento storico, ma invece rende necessaria un'esposizione
    più complicata. E questa, a sua volta, richiede un ripetuto studio
    dell'opera; soltanto così diviene chiaro il nesso d'ogni parte con
    ciascun'altra, e alla fine tutte insieme s'illuminano a vicenda e
    splendono in piena chiarità40.
    
    § 55.
    
    Che la volontà come tale sia libera, già risulta dal fatto che a
    nostro modo di vedere ella è la cosa in sé, la sostanza di tutti i
    fenomeni. Questi li sappiamo invece in tutto soggetti al principio
    di ragione, nei suoi quattro modi: e conoscendo noi, che necessità
    ed effetto di una data causa sono concetti identici, e convertibili,
    tutto ciò che è fenomeno, ossia oggetto per il soggetto conoscente
    in quanto individuo, è per un verso causa, e per l'altro effetto; e
    in quest'ultima qualità è determinato necessariamente, né può quindi
    esser diverso da quel che è. Tutto il contenuto della natura, il
    complesso dei suoi fenomeni, è adunque assolutamente necessario, e
    la necessità di ogni parte, di ogni fenomeno, di ogni fatto si può
    ciascuna volta scoprire, dovendosi trovar la causa, da cui quelli
    come effetti provengono. Ed a ciò non v'ha eccezione: consegue
    dall'illimitato potere del principio di ragione. Ma d'altra parte
    questo mondo medesimo, in tutti i suoi fenomeni, è per noi anche
    oggettità della volontà; la quale, non essendo né fenomeno né
    rappresentazione o oggetto, bensì cosa in sé, non è al principio di
    ragione, forma d'ogni oggetto, sottomessa: e quindi non è
    determinata come effetto da una causa, e non conosce necessità,
    ossia è libera. Il concetto di libertà è dunque propriamente
    concetto negativo, essendo il suo contenuto nient'altro che
    negazione della necessità, ovvero del rapporto di causa ed effetto,
    conforme al principio di ragione. Ora, qui ci sta innanzi nel modo
    più palese il punto d'eliminazione d'un grande contrasto, l'unione
    di libertà e necessità, onde sovente s'è in questi tempi parlato,
    ma, per quanto io mi sappia, non mai con chiarezza e proprietà.
    Ciascuna cosa è in quanto fenomeno, in quanto oggetto, assolutamente
    necessaria: ma la stessa cosa è in sé volontà, e questa è del tutto
    libera in eterno. Il fenomeno, l'oggetto, è necessariamente e
    immutabilmente determinato nella catena delle cause e degli effetti,
    la quale non può avere interruzione alcuna. Ma l'essere in genere di
    questo oggetto, e la maniera del suo essere, ossia l'idea che vi si
    palesa, o, con altre parole, il suo carattere, è fenomeno immediato
    della volontà. Per la libertà ch'è propria, di codesta volontà, esso
    potrebbe non essere, o anche essere originariamente e
    sostanzialmente affatto diverso; nel qual caso l'intera catena,
    della quale esso è un anello, ma che a sua volta è fenomeno della
    medesima volontà, sarebbe tutt'altra. Ma da che ha preso ad
    esistere, l'oggetto è entrato nella serie delle cause e degli
    effetti, vi è determinato con necessità, né può quindi più diventare
    un altro, ovvero modificarsi, né uscir dalla serie, ovvero sparire.
    L'uomo è, come ogni altra parte della natura, oggettità della
    volontà: perciò quanto s'è detto vale anche per lui. Come ciascuna
    cosa nella natura ha le sue forze e qualità, che a un dato stimolo
    reagiscono in un dato modo, e costituiscono il suo carattere, così
    l'uomo ha pure il carattere suo, secondo il quale i motivi provocano
    le sue azioni con necessità. Ed è in questo modo d'agire, che si
    palesa il suo carattere empirico; mentre in questo poi si palesa il
    suo carattere intelligibile, la volontà in sé, della quale egli è
    fenomeno determinato. Ma l'uomo è della volontà il fenomeno più
    perfetto; il quale, per sussistere, com'è dimostrato nel secondo
    libro, dovè essere illuminato da un sì alto grado di conoscenza, che
    in questa si rese possibile addirittura, come abbiam veduto nel
    libro terzo, una riproduzione in tutto adeguata dell'essenza del
    mondo, sotto la forma della rappresentazione; il che si ha mediante
    la percezione delle idee, ed è il vero specchio del mondo. Nell'uomo
    adunque può la volontà pervenire alla piena conscienza di sé, alla
    chiara ed esauriente cognizione del suo proprio essere, quale nel
    mondo intero si rispecchia. Dall'effettiva presenza di codesto grado
    di cognizione procede l'arte, come abbiam visto nel libro che
    precede. Ma alla fine di tutto il nostro studio risulterà, che
    mediante la cognizione medesima, quando la volontà la riferisce a se
    stessa, diventa possibile una soppressione e autonegazione della
    volontà, nel suo fenomeno più perfetto: sì che la libertà, la quale
    altrimenti, spettando solo alla cosa in sé, non può mai mostrarsi
    nel fenomeno, stavolta anche nel fenomeno si rivela; e sopprimendo
    l'essenza che del fenomeno è base, mentr'esso pur continua a durare
    nel tempo, genera un dissidio del fenomeno con se medesimo, e perciò
    appunto ci offre i casi di santità e di abnegazione. Tutto questo si
    potrà intendere appieno soltanto alla fine del presente libro. Per
    ora non si fa che accennare genericamente, come l'uomo da tutti gli
    altri fenomeni della volontà si distingua, pel fatto che la libertà,
    ossia indipendenza dal principio di ragione, la quale spetta
    unicamente alla volontà come cosa in sé e sta col fenomeno in
    contrasto, in lui può nondimeno apparire anche nel fenomeno,
    dov'ella tuttavia di necessità si presenta come un dissidio del
    fenomeno da se medesimo. In questo senso non può non solo la volontà
    in sé, ma perfino l'uomo esser chiamato libero, e distinto così da
    tutti gli altri esseri. Ma, come ciò sia da intendere, apparirà
    chiaro nel seguito; e per adesso ancora dobbiamo lasciare del tutto
    in disparte questo argomento. Imperocché preme piuttosto mettere in
    guardia contro l'errore, che le operazioni dell'uomo singolo,
    determinato, non siano soggette a necessità di sorta, ossia la forza
    del motivo sia meno certa che la forza della causa, ovvero la
    conseguenza dedotta dalle premesse. La libertà della volontà come
    cosa in sé non si trasmette punto in modo diretto al suo fenomeno,
    prescindendo, come s'è detto, dal caso accennato più sopra, che fa
    eccezione; neppur là dove essa raggiunge il grado massimo di
    visibilità, ossia neppure all'animale ragionevole, che abbia
    carattere individuale, cioè alla persona. Questa non è mai libera,
    per quanto sia fenomeno di una libera volontà; perché appunto di tal
    libero volere ella è già il fenomeno determinato; e con l'entrar,
    che questo fa nella forma di tutti gli oggetti, nel principio di
    ragione, frange l'unità di quella volontà in una pluralità di
    azioni, la quale non di meno a causa dell'unità, sita fuor del
    tempo, di quel volere in sé, si presenta regolare come una forza di
    natura. Ma poiché tuttavia quel libero volere è, che si rende
    visibile nella persona e in tutta la sua condotta, stando a questa
    come il concetto sta alla definizione, così va pure ogni singolo
    atto della persona medesima attribuito alla libera volontà, e come
    tale s'annunzia immediatamente alla conscienza: perciò, com'è detto
    nel libro secondo, si ritiene ognuno libero a priori (ossia, nel
    caso attuale, in virtù del suo sentimento originario) in tutte le
    azioni sue; nel senso che a lui, in ciascun dato caso, ogni azione
    sia possibile. E solo a posteriori, per esperienza e per meditazione
    dell'esperienza, riconosce che la sua condotta risulta determinata
    con necessità dell'incontro del carattere coi motivi. Di là
    proviene, che i più rozzi uomini, seguendo i loro sentimenti,
    sostengano nel modo più vivo la piena libertà delle singole azioni,
    mentre i grandi pensatori di tutti i tempi, anzi perfino le dottrine
    religiose più profonde, l'abbiano negata. Tuttavia a quegli, cui s'è
    reso chiaro che l'intera essenza dell'uomo è volontà, e ch'egli
    medesimo non è che fenomeno di questa volontà, fenomeno avente il
    principio di ragione per forma necessaria, conoscibile già dal
    soggetto stesso, la quale in questo caso si presenta come legge
    della motivazione, a quegli un dubbio circa la possibilità di non
    compiere una certa azione, dato un certo carattere e un certo
    motivo, farà lo stesso effetto che un dubbio sull'eguaglianza fra i
    tre angoli d'un triangolo e due retti. La necessità di ciascuna
    singola azione ha con sufficienza illustrato Priestley nella sua
    Doctrine of philosophical necessity; ma il coesistere di questa
    necessità con la libertà del volere in sé, ossia fuori del fenomeno,
    l'ha per il primo dimostrato Kant41, il cui merito è in ciò
    particolarmente grande, facendo la distinzione tra carattere
    intelligibile ed empirico. Distinzione, che io in tutto e per tutto
    mantengo, essendo il primo la volontà come cosa in sé, in quanto si
    manifesta in un determinato individuo, e in un determinato grado; ed
    essendo l'altro questa manifestazione medesima, qual ella si
    presenta con la condotta, nel tempo, e già con la propria forma
    corporea, nello spazio. Perché s'intenda bene la relazione loro,
    nessuna espressione val meglio di quella usata nel mio scritto
    introduttivo: il carattere intelligibile di un uomo doversi
    considerare come un atto di volontà, che sta fuori del tempo, ed è
    quindi indivisibile e immutabile; mentre il fenomeno di quello,
    sviluppato e frazionato nel tempo e nello spazio e in tutte le forme
    del principio di ragione, è il carattere empirico, quale si palesa
    sperimentalmente in tutta la condotta e in tutta la vita dell'uomo
    medesimo. Come tutto l'albero non è che il fenomeno sempre ripetuto
    dell'unico e identico impulso, il quale nel modo più semplice si
    presenta nella fibra e si ripete nell'aggregamento di fibre, onde
    risultano foglia, picciuolo, ramo, tronco, essendovi facilmente
    riconoscibile: così tutte le azioni dell'uomo non sono che la
    manifestazione ripetuta ognora, al quanto diversa sol nella forma,
    del suo carattere intelligibile; e l'induzione risultante dalla
    somma di quegli atti ci dà il carattere empirico di lui. Ma non mi
    metterò qui a riprodurre, rimaneggiandola, l'esposizione magistrale
    di Kant, bensì faccio conto che sia già conosciuta.
    
    Nel 1840 ho trattato a fondo e distesamente l'importante capitolo
    sulla libertà del volere, nella mia premiata memoria per concorso su
    quel tempo; ed ho soprattutto scoperta la cagione dell'inganno, per
    cui si crede di trovar nell'autoconscienza, come fatto reale,
    un'assoluta libertà del volere data empiricamente, ovvero un liberum
    arbitrium indifferentiae: che proprio a ciò mirava, acutamente, il
    problema messo a concorso. Nel mentre io rinvio adunque il lettore a
    quello scritto, e così pure al cap. 10 della memoria sui problemi
    fondamentali dell'etica, pubblicata insieme con l'altra sotto il
    titolo I due problemi fondamentali dell'etica, tralascio qui
    l'imperfetta argomentazione sulla necessità degli atti volitivi,
    data nella prima edizione; e voglio invece chiarire ancora con una
    breve spiegazione l'inganno esposto più sopra, che ha come premessa
    il 19° capitolo del nostro secondo volume e non poteva quindi
    trovarsi nella memoria citata.
    
    Se prescindiamo dal fatto, che essendo la volontà, come vera cosa in
    sé, per sua natura alcunché di originario e di indipendente, deve
    anche nell'autoconscienza il sentimento di quella originarietà e
    indipendenza accompagnare i suoi atti, sebbene essi quivi siano già
    determinati – l'illusione d'una libertà empirica del volere (in
    luogo della libertà transcendentale, che solo gli si può
    attribuire), proviene dalla situazione isolata e subordinata
    dell'intelletto di fronte alla volontà: situazione esposta nel
    capitolo 19° del secondo volume, specialmente al numero 3. Perché
    l'intelletto apprende le risoluzioni della volontà solo a
    posteriori, ed in maniera empirica. Quindi non ha, al momento di
    scegliere, nessun dato per saper ciò che la volontà deciderebbe. Non
    entra nella conoscenza dell'intelletto il carattere intelligibile,
    in virtù del quale, dati questi o quei motivi, una sola decisione è
    possibile, e perciò necessaria; ma soltanto il carattere empirico
    gli divien noto a grado a grado, per i suoi singoli atti. Sembra
    perciò alla conoscente conscienza (all'intelletto) che, in un dato
    caso, siano alla volontà due opposte risoluzioni in pari modo
    possibili. Invece è come se davanti a una sbarra fissata
    verticalmente ma scossa nel suo equilibrio e oscillante si dicesse
    che «può abbattersi a destra o a sinistra»; il qual «può» non ha
    tuttavia che un valore soggettivo, e in verità vuol dire: «secondo i
    dati che a noi constano»; mentre oggettivamente è la caduta già in
    modo necessario determinata, non appena ha principio l'oscillazione.
    Similmente è la decisione della propria volontà sol per il suo
    osservatore, ossia il proprio intelletto, indeterminata, e quindi
    relativa e soggettiva; mentre in se stessa e oggettivamente, ad ogni
    scelta che si offra, la decisione è già determinata e necessaria. Ma
    codesta determinazione non sale alla coscienza, se non con la
    decisione che ne deriva. Ne abbiamo perfino una prova empirica,
    quando ci sta davanti una scelta difficile e importante, e tuttavia
    soggetta a una condizione che noi speriamo, ma che non s'è ancora
    avverata; sì che lì per lì non possiamo far nulla, e dobbiamo
    attender passivamente. Allora prendiamo a riflettere qual sarà la
    nostra decisione, quando si saranno presentate le circostanze, che
    ci permettano libera azione e scelta d'un partito. Il più sovente a
    favor dell'uno parla più forte la lungi veggente, ragionevole
    riflessione; ed a favor dell'altro la spontanea inclinazione. Fino a
    quando noi, costretti, restiamo passivi, sembra che la parte della
    ragione abbia il sopravvento; ma già prevediamo con qual violenza
    l'altra parte ci tirerà, non appena sarà venuto il momento d'agire.
    Fino allora ci siamo affaticati, con fredda meditazione del pro e
    contro, a porre nella miglior luce i motivi dell'una e dell'altra
    parte, affinchè ciascuno possa agire con tutta la sua forza sulla
    volontà, quando sarà il momento, e un errore da parte
    dell'intelletto non abbia per avventura a disviare la volontà,
    facendo ch'ella si risolva altrimenti da come si risolverebbe quando
    tutto vi avesse egualmente influito. Ma questo limpido prospettare i
    contrastanti motivi è tutto ciò che l'intelletto può far per la
    scelta. La scelta vera esso l'attende con la medesima passività, con
    la medesima curiosità intenta, come se attendesse quella d'una
    volontà estranea. Ben possono a lui, dal suo punto di vista,
    entrambe le risoluzioni apparire come egualmente possibili: questa è
    appunto l'illusione dell'empirica libertà del volere. Che in modo
    affatto empirico entra la risoluzione, come un tratto finale, nella
    sfera dell'intelletto; tuttavia essa proviene dalla natura intima,
    dal carattere intelligibile della volontà individuale nel suo
    conflitto con certi dati motivi; e quindi ha forza d'assoluta
    necessità. In ciò l'intelletto non può altro fare, che lumeggiar da
    ogni parte e ben chiaro la natura dei motivi, ma non già determinare
    la volontà medesima; essendo questa a lui inaccessibile, anzi, come
    abbiamo veduto, insondabile.
    
    Se un uomo potesse, in pari circostanze, agire una volta in un modo
    e una volta in modo diverso, ciò significherebbe essersi la sua
    volontà frattanto mutata; e la volontà starebbe adunque nel tempo,
    che sol nel tempo può aversi mutazione. Sarebbe, così, o la volontà
    un semplice fenomeno, oppure il tempo una determinazione della cosa
    in sé. Quindi la contesa intorno alla libertà dell'azione
    individuale, intorno al liberum arbitrium indifferentiae, rientra
    propriamente nella quistione se la volontà stia o no nel tempo. Se
    ella, come appar dimostrato dalla dottrina kantiana e da tutta la
    mia esposizione, è la cosa in sé, fuori del tempo e d'ogni altra
    forma del principio di ragione, non soltanto deve l'individuo agire
    in egual modo in casi eguali, non soltanto ogni sua mala azione sarà
    sicura garanzia d'altre innumerevoli, che egli deve compiere e non
    può tralasciare: ma ben si potrebbe anche, come dice Kant, sol che
    fossero conosciuti appieno il carattere empirico e i motivi,
    prevedere il futuro, come si prevedono eclissi di sole o di luna.
    Come è conseguente la natura, così è il carattere: ciascuna singola
    azione deve essergli conforme, come ogni fenomeno accade secondo la
    legge naturale: la causa, nel fenomeno, e il motivo, nell'azione,
    sono semplicemente gli impulsi occasionali, com'è dimostrato nel
    secondo libro. La volontà, di cui è fenomeno l'intero essere e
    l'intera vita dell'uomo, non può in un caso particolare venir meno a
    se stessa, e ciò che l'uomo vuole in complesso, vorrà pur sempre di
    volta in volta.
    
    L'affermazione d'una libertà empirica del volere, d'un liberi
    arbitrii indifferentiae, è strettissimamente connessa col fatto
    d'aver posto l'essenza dell'uomo in un'anima, la quale in origine
    sarebbe un essere conoscente, anzi proprio astrattamente pensante, e
    solo in seguito anche un essere volitivo: attribuendo così alla
    volontà natura secondaria, mentre secondaria è invece la conoscenza.
    La volontà fu perfino considerata come un atto di pensiero e
    identificata col giudizio; particolarmente per opera di Cartesio e
    Spinoza. Ciascun uomo sarebbe adunque diventato quel ch'egli è, solo
    per effetto della sua conoscenza. Al mondo e' verrebbe come una
    nullità morale; quivi conoscerebbe le cose, e si risolverebbe allora
    a esser questo o quello, ad agire così o così; potrebbe, anche in
    seguito a nuova conoscenza, scegliere una nuova linea di condotta,
    ossia diventare affatto un altro. Inoltre, quando così fosse, ei
    dovrebbe un oggetto riconoscer per buono, e come tale volerlo,
    invece che prima volerlo, e sol per effetto di codesto suo volere,
    chiamarlo buono. Secondo la mia concezione fondamentale, tutto ciò è
    un capovolger lo stato vero delle cose. La volontà è l'elemento
    primo e originario; la conoscenza non sopraggiunge che più tardi,
    appartenendo al fenomeno della volontà, come strumento di questa.
    Ciascun uomo è quindi quel ch'egli è, per la sua volontà, e il suo
    carattere è originario; essendo il volere la base del suo essere.
    Dalla sopravveniente conoscenza apprende, nel corso dell'esperienza,
    ciò ch'egli è; ossia, apprende a conoscere il proprio carattere. Se
    stesso conosce adunque per effetto e in conformità della natura del
    suo volere: e non già vuole, secondo l'antica concezione, per
    effetto e in conformità del suo conoscere. Se questa fosse vera,
    basterebbe ch'egli riflettesse sul come più gli piacerebbe essere, e
    così sarebbe: tale è la libertà del volere, secondo la concezione
    suddetta. La quale adunque consiste propriamente nel ritener che
    l'uomo si faccia da sé, nella luce della conoscenza. Io viceversa
    dico: l'uomo si fa da sé prima d'ogni conoscenza, e questa
    interviene per dar lume a quel ch'è già fatto. Quindi non può l'uomo
    decider d'esser fatto in un modo piuttosto che altrimenti, né può
    diventare un altro: bensì egli è, una volta per sempre; e quel che
    sia, conosce successivamente. Pei seguaci della vecchia dottrina,
    egli vuole ciò che conosce; per me, conosce quel che vuole.
    
    I Greci chiamarono il carattere ηθος, ed ηθος le manifestazioni del
    carattere, ossia i costumi; ma questa parola deriva da εθος,
    abitudine: la scelsero quindi per indicare metaforicamente la
    costanza del carattere con la costanza dell'abitudine. Το γαρ ηθος
    απο του εθους εχει την επωνυμιαν. ηθικη γαρ καλειται δια το
    εθιζεσθαι (a voce εθος, i. e. consuetudo, ή̃θος est appellatum:
    ethica ergo dicta est απο του εθιζεσθαι, sive ab assuescendo), dice
    Aristotele (Eth. magna, i, 6, p. 1186, e Eth. End., p. 1220, e Eth.
    Nic., p. 1103, ed. berlinese). Stobeo attesta: οί δε κατα Ζηνωνα
    τροπικως˙ ηθος εστι πηγη βιου, αφ’ ής αί κατα μερος πραξεις ρεουσι
    (Stoici autem, Zenonis castra sequentes, metaphorice ethos definiunt
    vitae fontem, e quo singulae manant actiones). II, cap. 7. Nella
    dottrina cristiana troviamo il dogma della predestinazione,
    riferentesi alla scelta della grazia o della dannazione (San Paolo,
    Epist. ai Romani, 9, 11-24); dogma nato evidentemente dal concetto
    che l'uomo non muti, e la sua condotta nella vita, ossia il suo
    carattere empirico, non sia che la manifestazione del carattere
    intelligibile, lo sviluppo di ben definite tendenze, già nel bambino
    evidenti e immutabili: sì che all'uomo già dalla nascita sia la sua
    condotta precisamente determinata, ed in sostanza rimanga la
    medesima fino all'ultimo. Questo è pure il concetto nostro, ma non
    m'assumo certo di sostenere le conseguenze, che vennero dall'unione
    di tal concetto giustissimo coi dogmi, che lo avevan preceduto nella
    dottrina ebraica, e che generarono la difficoltà massima,
    l'eternamente indistricabile nodo gordiano, intorno a cui s'aggira
    la più gran parte delle dispute ecclesiastiche. Una tal difesa è
    assai male riuscita perfino all'apostolo Paolo, col suo apologo del
    vasaio, introdotto per questo fine: il risultato sarebbe quello
    espresso nei versi che seguono:
    
    Tema gl'Iddii
L'umana razza!
Han nelle eterne
Mani il
    potere:
Possono usarlo
Come a lor piace42.
    
    Ma siffatte considerazioni sono in verità estranee al nostro
    soggetto. Più appropriati saranno alcuni chiarimenti sul rapporto
    tra il carattere e la conoscenza, nella quale stanno tutti i motivi
    di quello.
    
    I motivi, che determinano la manifestazione del carattere, ossia
    l'azione, sul carattere medesimo agiscono pel tramite della
    conoscenza. Ma la conoscenza è mutevole, sovente oscilla tra errore
    e verità, sebbene di regola venga sempre più a rettificarsi, se pure
    in grado assai diverso, col proceder della vita. Perciò è possibile,
    che la condotta di un uomo venga osservabilmente cambiata, senza che
    si possa inferirne un cambiamento del suo carattere. Quel che l'uomo
    veramente e genericamente vuole, l'aspirazione del suo più intimo
    essere e la meta, a cui seguendo quell'aspirazione egli è diretto,
    tutto ciò non possiamo mai modificare né con influenze esteriori né
    con ammonimenti: per riuscirvi, dovremmo rifarlo di pianta. Seneca
    dice benissimo: vette non discitur, mostrando con ciò di anteporre
    la verità ai suoi cari Stoici, che ammonivano διδακτην ειναι την
    αρετην (doceri posse virtutem). Dall'esterno si può influir sulla
    volontà solo mediante motivi. Ma questi non posson mai mutare la
    volontà medesima, che su lei hanno potere solo a condizione ch'ella
    sia qual è. Il lor potere si riduce adunque a modificare la strada
    della sua aspirazione; ossia a far ch'ella cerchi per un'altra via
    quel che immutabilmente s'è proposto. Ammonimenti, o più retta
    conoscenza, insomma tutti gl'influssi esteriori, possono bensì
    avvertirla d'aver sbagliato nei mezzi, e far ch'ella persegua per
    tutt'altra via, o addirittura in tutt'altro oggetto, il medesimo
    scopo, a cui già mirava secondo la propria intima natura: ma non
    posson mai fare ch'ella voglia davvero cosa diversa da quella fino
    allora voluta; la quale rimane immutabile, essendo per l'appunto
    tutt'uno con quella volontà medesima, che altrimenti dovrebbe esser
    soppressa. Invece la mutevolezza della conoscenza, e quindi della
    condotta, va tant'oltre, che la volontà si sforza di raggiungere il
    suo scopo immutabile, per esempio il paradiso di Maometto, or nella
    vita reale, ora in un mondo immaginario; disponendo a ciò i mezzi
    opportuni, e quindi nel primo caso adoprando astuzia, violenza e
    inganno, nel secondo astinenza, giustizia, elemosina, pellegrinaggio
    alla Mecca. Ma per questo non è mutata la sua aspirazione, e tanto
    meno egli stesso. Quindi, anche se il suo operare può esser molto
    diverso in diverse epoche, è il suo volere tuttavia rimasto il
    medesimo. Velle non discitur.
    
    Perché i motivi agiscano, si richiede non soltanto la loro
    esistenza, ma anche l'esser conosciuti: perché, come dice
    l'eccellente espressione degli scolastici, già ricordata, causa
    finalis movet non secundum suum esse reale, sed secundum esse
    cognitum. Perché, ad esempio, si palesi il rapporto, che
    reciprocamente hanno in un dato uomo egoismo e compassione, non
    basta che costui possegga delle ricchezze e vegga la miseria di
    altri; egli deve anche sapere, che cosa può farsi con la ricchezza,
    sia per sé, sia per altri; e non solo rappresentarglisi l'altrui
    pena, ma deve anch'egli sapere che cosa sia pena, e pur che cosa sia
    gioia. Tutto ciò non saprebbe egli forse tanto bene in un primo
    incontro, quanto in un secondo; e se in occasione simile agisce
    differentemente, questo dipende solo dall'esser diverse, in realtà,
    le circostanze: soprattutto nella parte che dipende dal suo
    conoscimento; anche se paiano esser le medesime. Come l'esser
    ignorate toglie a circostanze effettivamente esistenti ogni maniera
    d'azione, così posson d'altra parte circostanze affatto immaginarie
    agire al modo delle reali; non solo per effetto d'una illusione
    isolata, ma anche nel loro complesso, e durevolmente. Se per esempio
    un uomo viene fermamente convinto che ogni buona azione gli sarà a
    cento doppi ripagata nella vita futura, codesta persuasione vale e
    vige come una sicura cambiale a lunghissima scadenza, ed egli per
    egoismo può dare, come, sotto altri riguardi, per egoismo
    prenderebbe. Né con ciò è cambiato: velle non discitur. In virtù di
    questo grande influsso della conoscenza sulla condotta, pur
    rimanendo immutata la volontà, accade che solo a poco a poco si
    sviluppi il carattere e vengano in luce i suoi vari tratti. Perciò
    apparisce esso in ogni età della vita diverso: ed alla vivace,
    impetuosa giovinezza può seguire una posata, misurata, virile
    maturità. Specialmente il lato cattivo del carattere si manifesta
    col tempo sempre più; ma talora invece le passioni, a cui ci
    abbandonammo nella giovinezza, vengono più tardi spontaneamente
    frenate, sol perché si sono allora mostrati alla conoscenza i motivi
    che possono far loro ostacolo. Ed è perciò che noi tutti siamo, in
    sulle prime, innocenti: la qual cosa significa che noi non
    conosciamo, né altri conosce, il lato cattivo della nostra propria
    natura: solo incontrandosi coi motivi questo si palesa, e solo col
    tempo entrano i motivi nella nostra conoscenza. Alla fine impariamo
    a conoscere noi stessi, come affatto diversi da quel che ritenevamo
    a priori; e sovente abbiamo di noi medesimi orrore.
    
    Rimorso non proviene mai dall'essersi mutata la volontà (cosa
    impossibile), bensì la conoscenza. Ciò che v'ha d'essenziale e di
    proprio in quanto io ho potuto per l'innanzi volere, debbo volere
    oggi ancora; perché io medesimo sono codesta volontà, la quale sta
    fuor del tempo e fuor del mutamento. Non posso quindi pentirmi mai
    di ciò che ho voluto, ma posso bensì di ciò che ho fatto; perché, da
    falsi concetti guidato, ho fatto cose non conformi alla mia volontà.
    L'accorgersene, in grazia di più esatta conoscenza, costituisce il
    rimorso. Ciò non s'estende per avventura soltanto al saper vivere,
    alla scelta dei mezzi e al giudizio se un dato scopo convenga alla
    mia propria volontà, ma anche al dominio etico in senso vero e
    proprio. Posso per esempio aver agito con più egoismo di quanto sia
    conforme al mio carattere, fuorviato da esagerate rappresentazioni
    della necessità in cui mi trovavo, o anche dall'astuzia, falsità,
    malvagità altrui, o anche dalla mia precipitazione; ovvero mancanza
    di riflessione; determinato da motivi non già chiaramente conosciuti
    in abstracto, ma semplicemente intuiti, sotto l'influenza del
    presente e della commozione che ne risultò: così forte, che a dir
    vero non possedevo più l'uso della mia ragione. In questo caso, il
    ritorno della riflessione non è se non rettificata conoscenza, dalla
    quale può sorgere rimorso, che poi si manifesta ognora nel rimediare
    al mal fatto, fin dove sia possibile. Va tuttavia osservato, che per
    illuder noi stessi ci predisponiamo apparenti precipitazioni, le
    quali in realtà sono atti meditati in segreto. Perché nessuno
    inganniamo e lusinghiamo con sì fini artificii quali usiamo per noi
    medesimi. Può darsi anche il caso opposto: un eccesso di fiducia
    verso altri, o ignoranza del valore relativo da attribuire ai
    diversi beni della vita, o un qualsiasi dogma astratto, al quale io
    cessi poi di prestar fede, possono avermi indotto ad agire con meno
    egoismo di quanto il mio carattere richieda; preparandomi così
    rimorso d'altra natura. Sempre è adunque il rimorso rettificata
    conoscenza del rapporto tra l'azione e il vero e proprio intento.
    Come alla volontà manifestantesi nel solo spazio, ossia con la
    semplice figura, resiste la materia già da altre idee, in questo
    caso le forze naturali, dominata, e di rado lascia apparire in tutta
    la sua purezza e limpidità la figura che qui tendeva a farsi
    visibile; così la volontà, che si rivela solo nel tempo, ossia con
    azioni, trova analogo ostacolo nella conoscenza, che a lei di rado
    fornisce esatti i dati, per modo che l'azione non riesce ben
    corrispondente alla volontà, e quindi ci prepara il rimorso. Il
    rimorso proviene perciò sempre da conoscenza fattasi più retta, e
    non da mutazione della volontà, che è impossibile. Il tormento della
    coscienza per un atto commesso è tutt'altro che rimorso: è dolore
    per l'aver conosciuti noi stessi nel nostro vero essere, ossia nella
    nostra volontà. Si fonda sulla certezza d'aver tuttora la medesima
    volontà. Fosse questa mutata, e fosse quindi semplice rimorso il
    tormento della coscienza, questo cadrebbe da sé: imperocché
    l'accaduto non potrebbe più dare inquietudine, riflettendo le
    manifestazioni d'una volontà, la quale non è più quella dell'uomo
    che si è pentito. Chiariremo più oltre ampiamente il valore del
    tormento di coscienza.
    
    L'influsso che la conoscenza, in quanto mezzo dei motivi, esercita
    non proprio sulla volontà medesima, ma sul suo manifestarsi nelle
    azioni, è anche base del principale divario tra l'azione dell'uomo e
    quella dell'animale, essendo in entrambi diverso il modo di
    conoscere. L'animale ha soltanto rappresentazioni intuitive; l'uomo,
    per via della ragione, possiede anche rappresentazioni, astratte, o
    concetti. Ora, sebbene animale e uomo vengano con pari necessità
    determinati dai motivi, l'uomo ha nondimeno in più dell'animale una
    completa facoltà di scelta; la quale spesso venne anche presa per
    una libertà del volere nei singoli atti, mentre non è se non la
    possibilità di un conflitto combattuto fino in fondo tra più motivi,
    de' quali il più forte determina alla fine con necessità il volere.
    Occorre a ciò, che i motivi abbian preso la forma di pensieri
    astratti; perché sol per mezzo di questa è possibile una vera e
    propria deliberazione, ossia il pesare gli opposti motivi d'agire.
    Nell'animale può la scelta aver luogo soltanto tra motivi presenti
    all'intuizione, sì che essa è limitata alla stretta sfera della sua
    attuale, intuitiva apprensione. Perciò la necessità, onde il volere
    è determinato dal motivo, necessità eguale a quella dell'effetto,
    data la causa, può solo presso gli animali esser mostrata
    intuitivamente e immediatamente, avendo qui anche lo spettatore
    davanti agli occhi nella stessa immediatezza i motivi e l'effetto
    loro; mentre nell'uomo quasi sempre i motivi sono rappresentazioni
    astratte, delle quali non è partecipe lo spettatore; e perfino a
    colui, che agisce, il conflitto dei motivi nasconde la necessità
    dell'azione. Imperocché solamente in abstracto possono più
    rappresentazioni, in forma di giudizi o catene d'illazioni,
    coesistere nella conscienza, e poi, libere da ogni determinazione
    temporale, l'una contro l'altra agire, finché la più forte predomini
    sulle rimanenti e determini la volontà. Questa è la perfetta facoltà
    di scelta, o capacità di deliberazione, privilegio dell'uomo di
    fronte all'animale; per essa fu all'uomo attribuita libertà del
    volere, ritenendosi che il suo volere sia un semplice risultato
    delle operazioni intellettive, senza che un determinato impulso
    serva all'intelletto di base; mentre, in verità, la motivazione non
    fa che agir sulla base ed a condizione del determinato impulso di
    lui, che è individuale, ossia è un carattere. Una più ampia
    esposizione di quella capacità deliberativa, e della derivante
    varietà dell'arbitrio umano e animale, si trova nell'opera I due
    problemi fondamentali dell'etica (1a ed., pp. 35 sgg.), alla quale
    rinvio dunque per tale soggetto. D'altronde codesta capacità
    deliberativa dell'uomo appartiene anch'essa alle cose, che fanno la
    sua vita tanto più tormentosa di quella degli animali; perché i
    nostri maggiori dolori in genere non stanno nel presente, come
    rappresentazioni intuitive o sentimento immediato, bensì nella
    ragione, come concetti astratti, torturanti pensieri, da cui è
    affatto libero l'animale, che vive soltanto nel presente, e quindi
    in invidiabile assenza di pensiero.
    
    La suesposta dipendenza dell'umana capacità deliberativa della
    facoltà del pensare in abstracto, e quindi del giudicare e dedurre,
    sembra esser quella che ha traviato tanto Cartesio quanto Spinoza,
    facendo loro identificar le decisioni della volontà con la facoltà
    di affermare e negare (che è il giudizio), dal che Cartesio dedusse
    esser la volontà, secondo lui indifferentemente libera, responsabile
    anche di ogni errore teorico. Spinoza ne dedusse invece esser la
    volontà determinata necessariamente dai motivi, come il giudizio
    dalle ragioni43; il che ha del resto il suo valore, ma tuttavia si
    presenta come una conclusione esatta da false premesse.
    
    La dimostrata varietà del modo onde l'animale e l'uomo vengono mossi
    da motivi, estende di molto la sua influenza sull'essere d'entrambi,
    ed è causa precipua del profondo e visibilissimo divario nella loro
    esistenza. Che mentre l'animale vien sempre mosso da una
    rappresentazione esclusivamente intuitiva, s'affatica l'uomo ad
    escludere del tutto questo genere di motivazione, e farsi condurre
    soltanto da rappresentazioni astratte; traendo in ciò tutto il
    possibile vantaggio dal suo privilegio della ragione, e, senza
    dipender dal presente, non già l'effimero godimento o dolore
    scegliendo o fuggendo, ma considerando dell'uno e dell'altro le
    conseguenze. Nella più parte dei casi, all'infuori delle azioni
    affatto insignificanti, ci determinano motivi astratti, pensati, e
    non già impressioni momentanee. Quindi è per noi ogni singola
    privazione abbastanza lieve a sopportare nel momento, ma
    orribilmente grave ogni rinunzia: perché quella tocca soltanto
    l'attimo che fugge, questa invece tocca l'avvenire, e chiude in sé
    privazioni innumerevoli, delle quali è l'equivalente. La causa del
    nostro dolore, come della nostra gioia, per lo più non sta adunque
    nel reale presente, ma sol negli astratti pensieri: sono questi, che
    spesso ci gravano insopportabilmente, e creano pene, di fronte alle
    quali assai piccole sono tutte le sofferenze dell'animalità, poi che
    il nostro stesso dolore fisico non viene spesso neppur sentito
    vicino a quelle; ed anzi, soffrendo di violenti dolori morali, noi
    ci produciamo dolori fisici solo per distogliere con ciò dai primi
    l'attenzione: tale è il motivo per cui, nel massimo dolore morale,
    ci strappiamo i capelli, battiamo il petto, laceriamo il volto,
    rotoliamo per terra; tutte cose che propriamente non sono se non
    violente distrazioni da un pensiero che pare intollerabile. Appunto
    perché il dolore morale, essendo di gran lunga il maggiore, ci rende
    insensibili al dolore fisico, diventa facilissimo il suicidio al
    disperato, o a chi è consumato da un morboso travaglio, anche se
    costui per l'innanzi, in condizioni tranquille, davanti al pensiero
    del suicidio s'arretrava sbigottito. Similmente la pena e la
    passione, ossia il travaglio del pensiero, consumano il corpo più
    spesso e più a fondo che le sofferenze fisiche. Perciò dice a
    ragione Epitteto: Ταρασσει τους ανθρωπους ου τα πραγματα, αλλα τα
    περι των πραγματων δογματα (Perturbant homines non res ipsae, sed de
    rebus decreta) (V), e Seneca: «Plura sunt, quae nos terrent, quam
    quae premunt, et saepius opinione quam re laboramus» (Ep. 5). Anche
    Eulenspiegel satireggiava benissimo la natura umana, quando in
    salita rideva, in discesa piangeva. Perfino bimbi, che si son fatti
    del male, non piangono per il dolore, ma piangono quando li si
    compiange, per il pensiero, in tal maniera suscitato, del dolore.
    Così gran divarii nell'agire e nel soffrire provengono dalla varietà
    nel modo di conoscenza animale ed umano. Inoltre il presentarsi del
    limpido e deciso carattere individuale, che soprattutto distingue
    l'uomo dall'animale, avendo quest'ultimo quasi unicamente il
    carattere della specie, è in egual modo determinato dalla scelta tra
    più motivi, possibile solo mediante i concetti astratti. Che solo
    dopo precedente scelta sono le risoluzioni diverse nei diversi
    individui un segno del carattere individuale di questi, in ciascuno
    variato; mentre l'azione dell'animale dipende solo dalla presenza, o
    assenza, dell'impressione, premesso poi che questa sia per la sua
    specie un motivo. Perciò finalmente nell'uomo soltanto è la
    decisione, e non il semplice desiderio, un valido segno del suo
    carattere, per lui stesso e per gli altri. Ma la risoluzione diventa
    certa, per lui stesso come per gli altri, solamente con l'azione. Il
    desiderio è semplice effetto necessario dell'impressione presente,
    sia per uno stimolo esterno, sia per una passeggera disposizione
    interiore; ed è quindi così immediatamente necessario e privo di
    riflessione come l'agir delle bestie: perciò esprime, a mo' di
    questo, il carattere della specie, e non l'individuale. Ossia mostra
    ciò che l'uomo in genere, e non l'individuo, che prova quel
    desiderio, sarebbe capace di fare. L'azione soltanto, come quella
    che già per essere un atto umano richiede sempre una certa
    riflessione, e perché l'uomo di regola è signore della propria
    ragione, e quindi è riflessivo, ossia si risolve secondo motivi
    astratti pensati, è l'espressione della massima intelligibile della
    sua condotta, il risultato del suo interno volere; e sta come una
    consonante della parola, che indica il suo carattere empirico, il
    quale a sua volta non è che l'espressione temporale del suo
    carattere intelligibile. Perciò in uno spirito sano gravano la
    coscienza solamente azioni, e non desiderii e pensieri. Imperocché
    solamente le nostre azioni ci tengono innanzi lo specchio della
    nostra volontà. L'azione più sopra accennata, punto meditata, ed
    effettivamente commessa nel cieco impeto, è in un certo modo un che
    di mezzo tra il semplice desiderio e la decisione: quindi essa
    mediante vero pentimento, ma che si mostri anche in azione, può come
    una linea mal disegnata venir soppressa nell'immagine della nostra
    volontà; la quale immagine è la nostra vita. Del resto può qui, come
    un singolare raffronto, trovar luogo l'osservazione, che il rapporto
    tra desiderio e atto ha un'analogia affatto fortuita, ma precisa,
    con quello che passa tra distribuzione elettrica ed elettrica
    comunicazione.
    
    In virtù di tutta codesta indagine sulla libertà del volere e su
    quanto vi si riferisce, troviamo che, sebbene la volontà in sé e
    fuor del fenomeno si possa chiamar libera, anzi onnipotente, vien
    poi nei suoi singoli fenomeni illuminati dalla conoscenza, ossia
    negli uomini e negli animali, determinata da motivi, contro i quali
    ciascun carattere reagisce sempre nello stesso modo, regolarmente e
    necessariamente. Vediamo l'uomo, in grazia della sopraggiuntagli
    conoscenza astratta, o di ragione, avere in più dell'animale una
    facoltà di scelta, la quale tuttavia fa di lui un campo di battaglia
    per il conflitto dei motivi, senza sottrarlo al loro dominio; essa è
    condizione quindi, perché il carattere individuale si manifesti
    appieno, ma non va punto considerata come libertà del volere
    singolo, ossia indipendenza dalla legge di causalità; la cui
    necessità si estende all'uomo come ad ogni altro fenomeno. Fino al
    punto indicato, adunque, e non oltre, va il divario che la ragione,
    o conoscenza mediante concetti, fa nascere tra il volere umano e
    l'animale. Ma qual tutt'altro fenomeno della volontà umana,
    all'animalità affatto estraneo, possa prodursi, quando l'uomo
    abbandona l'intera, al principio di ragione sottomessa conoscenza
    delle singole cose in quanto tali, e mediante conoscenza delle idee
    egli va oltre il principium individuationis, ove un effettivo
    palesarsi della vera e propria libertà della volontà come cosa in sé
    diventa possibile, sì che il fenomeno finisce col trovarsi in un
    certo dissidio con se medesimo, espresso con la parola abnegazione,
    ed anzi alla fine l'in-sé del suo essere viene soppresso: questa
    verace ed unica immediata manifestazione della libertà della volontà
    in se stessa, anche nel fenomeno, non ancora può qui venire esposta
    chiaramente, bensì formerà da ultimo l'oggetto della nostra
    indagine.
    
    Intanto, dopo che ci si è fatta chiara, attraverso le presenti
    dimostrazioni, l'immutabilità del carattere empirico, in quanto essa
    è semplice manifestazione del carattere intelligibile posto fuori
    del tempo; e così pure la necessità, con cui le azioni procedono
    dall'incontro del carattere coi motivi: dobbiamo ora in primo luogo
    rimuovere una deduzione che molto facilmente se ne potrebbe trarre a
    favore delle nostre tendenze riprovevoli. Dovendosi considerare il
    nostro carattere come estrinsecazione temporale d'un atto di volontà
    posto fuori del tempo, e quindi indivisibile e immutabile, ossia di
    un carattere intelligibile, da cui immutabilmente è determinato e
    conformemente a cui s'esprime nel suo fenomeno (il carattere
    empirico) quanto v'ha d'essenziale nella nostra condotta, ossia il
    contenuto empirico di essa; mentre l'inessenziale di codesto
    fenomeno, l'esterno atteggiamento della nostra vita, dipende dalle
    forme in cui si presentano i motivi; si potrebbe concluderne, che
    sia fatica vana il lavorare a un miglioramento del proprio
    carattere, o il resistere alla forza delle cattive tendenze: tal che
    meglio sarebbe sottomettersi all'ineluttabile, e immediatamente
    cedere a ogni inclinazione, sia pur malvagia. Ma le cose stanno a
    questo proposito come stanno per la teoria dell'ineluttabile destino
    e della conseguenza derivatane, detta αργος λογος, e a' nostri
    giorni fatalismo musulmano: la cui refutazione, quale si attribuisce
    a Crisippo, è esposta da Cicerone nel libro de fato, capp. 12, 13.
    
    Che sebbene tutto si possa considerar come irrevocabilmente
    predeterminato dal destino, ciò non accade se non mediante la
    concatenazione delle cause. In nessun caso può esser destinato, che
    si abbia un effetto senza la sua causa. Non è già predeterminato,
    adunque, un fatto qualsiasi senz'altro: ma come effetto di cause
    preesistenti; non l'effetto solo, cioè, ma anche i mezzi, cui esso
    dovrà succedere come risultato, per disposizione del destino.
    Mancando i mezzi, manca sicuramente anche il risultato: questo e
    quelli sempre secondo la determinazione del destino, che tuttavia
    noi veniamo a conoscere solo dopo l'evento. Come gli eventi saranno
    sempre conformi al destino, ossia all'infinita concatenazione delle
    cause, così saranno le nostre azioni conformi sempre al nostro
    carattere intelligibile; ma, come non abbiamo cognizione anticipata
    di quello, così non ci è dato di guardare a priori dentro di questo;
    bensì unicamente a posteriori, con l'esperienza, veniamo a conoscere
    tanto gli altri quanto noi stessi. Se il nostro carattere
    intelligibile comporta, che noi prendiamo una buona risoluzione solo
    dopo lunga lotta contro un'inclinazione cattiva, bisogna che questa
    lotta preceda e che se ne attenda la fine. La riflessione
    sull'immutabilità del carattere, sull'unità della sorgente, da cui
    derivano tutte le nostre azioni, non ha potere d'indurci a
    precorrere, a favor dell'una o dell'altra parte, la decisione voluta
    dal carattere: solo a decisione presa, potremo vedere di qual fatta
    noi siamo, e specchiarci nelle nostre azioni. Da ciò appunto è
    spiegata la soddisfazione oppure l'angoscia, con cui guardiamo
    indietro al cammino percorso nella nostra vita: soddisfazione e
    angoscia non procedono dall'esistere tuttora quelle azioni
    trapassate; che esse sono svanite, furono e non sono più; ma la lor
    grande importanza per noi proviene dal loro significato, proviene
    dall'esser codeste azioni l'immagine del carattere, lo specchio
    della volontà, contemplando il quale noi conosciamo il nostro più
    intimo io, il nocciolo della nostra volontà. Poiché questo non ci è
    noto in antecedenza, ma soltanto dopo, ci tocca affaticarci e
    combattere nel tempo, affinchè l'immagine, che veniamo a creare con
    le nostre azioni, riesca tale, che la sua vista ci rassereni il più
    possibile, e non ci travagli. Ma il valore di questa serenità o
    angoscia sarà, come dicemmo, indagato in appresso. A questo luogo
    spetta invece ancora la seguente, per sé stante, considerazione.
    
    Accanto al carattere intelligibile e all'empirico ne va ricordato un
    terzo, da entrambi diverso, il carattere acquisito, che si acquista
    vivendo, con l'uso del mondo; e di questo si parla, quando un uomo è
    lodato per aver carattere, o biasimato per mancarne. Si potrebbe in
    verità ritenere, che il carattere empirico, come fenomeno del
    carattere intelligibile, essendo immutabile, e, come ogni fenomeno
    naturale, in sé conseguente, anche l'uomo dovrebbe similmente
    apparir sempre eguale a se stesso e conseguente; né aver quindi
    necessità di acquistare artificialmente un carattere mediante
    esperienza e riflessione. Ma altro è il caso dell'uomo: e, pur
    essendo ognora il medesimo, non sempre tuttavia comprende se stesso,
    bensì sovente si misconosce, fin quando non abbia in un certo grado
    acquistata la vera e propria conoscenza di sé. Il carattere empirico
    è, come semplice istinto naturale, in sé irragionevole: anzi, le sue
    manifestazioni vengono per di più dalla ragione turbate; e
    maggiormente turbate, per quanta maggior riflessione e forza di
    pensiero ha l'uomo. Imperocché queste gli tengono ognora davanti ciò
    che all'uomo in genere, in quanto carattere della specie,
    s'appartiene, e sì nel volere, sì nell'oprare è a lui possibile. In
    tal modo gli è resa più difficile la comprensione di quel che
    veramente egli vuole e può per effetto della individualità propria.
    Trova in sé le disposizioni per tutte, siano pur diverse, le umane
    tendenze e forze; ma il vario grado di quelle nella sua
    individualità non gli si fa chiaro senza esperienza; e quand'egli
    invero ha dato opera a soddisfar le aspirazioni, che sole al suo
    carattere sembrano conformi, sente tuttavia, soprattutto in qualche
    momento e in talune disposizioni, la spinta verso aspirazioni
    addirittura opposte e inconciliabili con le prime; e quelle, se le
    prime vuol seguire indisturbato, devono essere soffocate appieno.
    Poiché, come il nostro fisico andare sulla terra è sempre una linea,
    e giammai una superficie, così dobbiamo nella vita, quando
    afferriamo qualcosa e vogliamo possederla, innumerevoli altre
    lasciarne, rinunziandovi, a destra e sinistra. Non ci possiamo
    risolvere a ciò, e invece andiamo afferrando, come bimbi al mercato,
    tutto quanto ci seduce al passaggio; allora gli è lo sforzo
    insensato, di trasformare in una superficie la linea della nostra
    via; andiamo correndo a zig-zag, vagolando come fuochi fatui qua e
    là, e non perveniamo a nulla. O, per usare un'altra immagine, come,
    secondo la teoria hobbesiana del diritto, originariamente ciascuno
    ha un diritto sopra ciascuna cosa, ma su nessuna esclusivo; e
    quest'ultima si può pervenire ad avere tuttavia su talune cose, col
    rinunziare al proprio diritto su tutte le rimanenti, mentre gli
    altri fanno lo stesso per ciò che noi abbiamo scelto; così proprio
    accade nella vita, dove noi una qualunque aspirazione determinata,
    sia essa verso godimento, onore, ricchezza, scienza, arte o virtù,
    possiamo allora soltanto seguire con serietà e con fortuna, quando
    abbiam fatto getto d'ogni aspirazione estranea a quella, e
    rinunziato a tutto il resto. A tanto non basta né il semplice
    volere, né, in sé, il potere: un uomo deve anche sapere ciò che
    vuole, e sapere ciò che può: solo così mostrerà carattere, e
    riuscirà a qualcosa di buono. Prima di giungere a questa
    consapevolezza, egli, malgrado la natural conseguenza del carattere
    empirico, è nondimeno privo di carattere; e, sebbene trascinato dal
    suo demone debba restar fedele a se stesso e percorrer la sua via,
    non seguirà una linea diretta, bensì oscillante e disuguale;
    esiterà, devierà, tornerà sui propri passi, preparando a sé
    pentimento e dolore. Tutto questo, perché nel grande e nel piccolo
    tante cose vede come possibili e raggiungibili dall'uomo, e tuttavia
    non sa quanto di ciò a lui solo s'adatti, e possa da lui venir
    compiuto o anche semplicemente goduto. Invidierà quindi taluno per
    una situazione e per condizioni, che sono bensì adatte al carattere
    di quegli, ma non al suo, e nelle quali si sentirebbe infelice, o
    addirittura non potrebbe reggere. Imperocché come il pesce solamente
    nell'acqua, l'uccello solamente nell'aria, la talpa solamente sotto
    la terra sta bene, così ogni uomo sta bene solamente nell'atmosfera
    a lui propizia; per esempio, l'aria della corte non è respirabile
    per tutti. Per mancanza di sufficiente giudizio a questo proposito
    molti compiranno ogni sorta di tentativi destinati a fallire,
    faranno in caso particolare violenza al proprio carattere, mentre in
    generale dovranno pure seguirlo; e quanto avranno in tal modo,
    contro la natura propria, faticosamente raggiunto, non darà loro
    alcun piacere; quanto avranno in tal maniera appreso, resterà cosa
    morta; perfino sotto il rispetto morale un'azione troppo nobile per
    il loro carattere, venuta non da un puro, immediato impulso, ma da
    un concetto, da un dogma, perderà ogni valore, ai loro stessi occhi,
    per l'egoistico pentimento che le succederà. Velle non discitur.
    Come dell'irremovibilità dei caratteri altrui ci rendiamo persuasi
    sol con l'esperienza, e prima di persuadercene crediamo
    infantilmente di poter con ragionevoli argomentazioni, con preghiere
    e suppliche, con esempio e generosità, indurre altri a smuoversi
    dalla sua natura, a cambiare il suo modo d'agire, a discostarsi dal
    suo modo di pensare, o addirittura d'allargare le sue capacità; così
    ci accade anche di fronte a noi medesimi. Solo per esperienza
    possiamo apprendere ciò che vogliamo e ciò che possiamo; prima, non
    lo sappiamo, non abbiamo carattere e dobbiamo sovente venir
    rigettati, da duri urti esteriori, sulla nostra via. E quando alla
    fine l'abbiamo appreso, allora s'è conseguito quel che nel mondo si
    chiama carattere, ossia il carattere acquisito. Il quale non è altro
    che la conoscenza il più possibile compiuta della propria
    individualità: è l'astratta, e quindi limpida consapevolezza del
    proprio carattere empirico, e della misura e direzione delle sue
    capacità intellettuali e corporee, ovvero di tutte le forze e
    debolezze della propria individualità. Questo ci mette in grado di
    adempiere con riflessione e metodo il compito individuale, in sé
    immutabile, che per l'innanzi sregolatamente abbandonavamo alla
    natura; e le lacune, che capricci o debolezze nostre producevano,
    riempire con l'aiuto di saldi concetti. La condotta, resa
    assolutamente necessaria dalla nostra natura individuale, veniamo a
    formularla in massime chiaramente conosciute, a noi ognora presenti,
    secondo le quali noi quella pratichiamo sì consapevolmente, come
    fosse una condotta appresa, senza mai venir confusi da una
    passeggera disposizione o da un'impressione momentanea, senza venire
    inceppati dall'amaro o dal dolce di un singolo incidente occorso per
    via, senza incertezza, senza esitazione, senza inconseguenze. Non
    più, come novizi, aspetteremo, proveremo, andremo a tentoni, per
    vedere ciò che propriamente vogliamo e ciò che possiamo; questo ci è
    noto una volta per sempre, in ogni scelta abbiamo principii generali
    da applicare ai casi singoli, e subito veniamo alla decisione.
    Conosciamo la nostra volontà in genere, e non ci lasciamo sviare né
    da disposizioni fugaci né da pressioni esterne, a prendere in un
    caso particolare una decisione che sia contraria alla nostra volontà
    generica. Conosciamo egualmente la natura e la misura delle nostre
    forze e delle nostre debolezze, e ci risparmieremo così molti
    dolori. Che in verità non esiste godimento se non nell'uso e
    sentimento delle proprie forze, e il maggior dolore è la
    riconosciuta mancanza di forze, là dove se n'avrebbe bisogno. Avendo
    bene indagato dove le nostre forze stiano, e dove le nostre
    debolezze, svilupperemo, useremo, cercheremo di adoprare in tutti i
    modi le nostre spiccate naturali attitudini, sempre volgendoci dalla
    parte ove queste giovano e hanno valore; ma rigidamente e con
    dominio di noi stessi evitiamo gli sforzi, a cui da natura abbiamo
    poche disposizioni: ci guarderemo dal tentar ciò che in nessun modo
    ci riuscirebbe. Solo chi è giunto a questo, sarà sempre con piena
    consapevolezza tutto intero se stesso, né mai da se stesso sarà
    lasciato in asso, poi che sempre ha saputo di che fosse capace.
    Proverà dunque sovente la gioia di sentire le proprie forze, e
    raramente avrà il dolore d'esser richiamato alle proprie debolezze:
    umiliazione che forse produce il peggior dolore morale. Molto meglio
    si può sopportare di veder limpidamente la propria sfortuna, che la
    propria inettitudine. Una volta che noi siamo resi consapevoli
    appieno delle nostre forze e debolezze, non tenteremo più di
    mostrare capacità che non abbiamo, non giocheremo con falsa moneta,
    perché alla fine codesta ciurmeria vien pure a fallire. Essendo
    l'uomo intero un semplice fenomeno della sua volontà, nulla può
    darsi di più stolto che, rimuovendosi dalla riflessione, voler esser
    altro da quel che si è: poi che gli è una diretta contraddizione
    della volontà da se medesima. Imitare qualità e caratteristiche
    altrui è molto più vile che portare altrui vesti: che il giudizio
    sulla nostra insignificanza viene così pronunziato da noi stessi.
    Conoscenza della propria natura e delle sue capacità d'ogni maniera
    e dei suoi inalterabili confini è sotto questo rispetto la più
    sicura via, per arrivare alla maggior possibile soddisfazione di se
    medesimo. Imperocché vale per le circostanze interne, quel che vale
    per le esterne, non essere a noi nessun conforto più efficace che la
    piena certezza dell'immutabile necessità. Non tanto ci strazia un
    male, che ci abbia colti, quanto il pensiero delle circostanze, le
    quali avrebbero potuto stornarlo; nulla quindi conferisce a
    tranquillarci, come il considerar l'accaduto dal punto di vista
    della necessità, secondo cui tutti gli eventi accidentali
    appariscono strumenti d'un sovrano destino, sì che noi riconosciamo
    il male occorsoci come prodotto ineluttabilmente dal conflitto di
    circostanze interne ed esterne. Il fatalismo, adunque. In verità noi
    ci lamentiamo e infuriamo sol fin quando abbiamo speranza con ciò o
    di influire su altri, o di eccitare noi stessi ad uno sforzo
    inaudito. Ma ragazzi e adulti sanno benissimo rassegnarsi, non
    appena vedano chiaramente che il male è irreparabile:
    
    θυμόν ὲνὶ στὴθεσσι φίλον δαμάσαντες ὰνάγκη
(Animo in
    pectoribus nostro domito necessitate).
    
    Noi somigliamo agli elefanti presi prigionieri, i quali per molti
    giorni orrendamente infuriano e lottano, fin quando scorgono che
    tutto è vano, e quindi d'un tratto calmi offrono il collo al giogo,
    per sempre domati. Siamo come il re David, il quale, mentre ancora
    viveva suo figlio, incessantemente investiva Jehovah con suppliche,
    e disperatamente si dimenava: ma, non appena il figlio fu morto, non
    ci pensò più. Di qui proviene, che innumerevoli mali permanenti,
    come deformità, miseria, bassa condizione, bruttezza, spiacevole
    luogo di residenza, siano da innumerevoli uomini sopportati affatto
    indifferentemente, né vengano più sentiti, come cicatrizzate ferite,
    sol perché questi uomini sanno che interna o esterna necessità non
    lascia quivi adito a mutamento; mentre i felici non comprendono come
    si possan sopportare quei mali. Ora, come con l'esterna, così con
    l'interna necessità nulla ci riconcilia tanto bene, quanto l'averne
    chiara contezza. Quando abbiamo una volta per sempre conosciuto
    chiaramente sì le nostre buone qualità e forze, sì i nostri difetti
    e debolezze, e conformemente a tal conoscenza abbiam segnata a noi
    la nostra meta, e ci siam rassegnati all'irraggiungibile, sfuggiamo
    con ciò nel più sicuro modo, finché la nostra individualità lo
    consente, all'amarissimo tra tutti i mali, al malcontento di noi
    stessi, inevitabile conseguenza del non conoscer la propria
    individualità, della falsa opinione e della presunzione che ne
    deriva. Agli amari capitoli, in cui è raccomandata la cognizione di
    sé, si applica eccellentemente il distico ovidiano:
    
    Optimus ille animi vindex laedentia pectus
Vincula qui rupit,
    dedoluitque semel.
    
    E ciò basti intorno al carattere acquisito, il quale invero non
    tanto importa per l'etica propriamente detta, quanto per la vita
    sociale; ma la cui illustrazione andava qui posta presso quella del
    carattere intelligibile e dell'empirico, come terza specie
    coordinata. Sulle prime abbiamo dovuto indugiare con un esame
    alquanto più esteso, per renderci chiaro come la volontà sia in
    tutti i suoi fenomeni soggetta alla necessità, pur potendo nondimeno
    esser chiamata in se stessa libera, anzi onnipotente.
    
    § 56.
    
    Questa libertà, questa onnipotenza, di cui l'intero mondo visibile,
    suo fenomeno, è manifestazione ed immagine, e progressivamente si
    svolge secondo le leggi che porta seco la forma della conoscenza –
    può anche, e propriamente là ove a lei, nel suo più perfetto
    fenomeno, è venuta la conoscenza in tutto adeguata del suo proprio
    essere, novellamente manifestarsi: o nel volere ancor qui, al
    vertice della riflessione e della consapevolezza di sé, quel che già
    da cieca e di sé inconscia voleva, e in tal caso la conoscenza, sia
    particolare, sia generale, rimane per lei sempre motivo; oppur,
    viceversa, codesta conoscenza diventa a lei un quietivo, il quale
    ogni volere sopisce e cancella. Si ha così l'affermazione o
    negazione, già più sopra genericamente stabilita, della volontà di
    vivere; la quale, essendo rispetto alla condotta dell'individuo una
    generica, non particolare manifestazione della volontà, non altera
    con modificazioni lo sviluppo del carattere, né trova la sua
    espressione in singoli atti; bensì o con un sempre più forte rilievo
    di tutta la condotta precedente, o all'opposto con la soppressione
    di quella, esprime in forma vivente la massima che, dietro
    conoscenza alfine raggiunta, la volontà liberamente ha fatto sua. Il
    più chiaro svolgimento di tutto ciò, principal soggetto di
    quest'ultimo libro, ci è ora alquanto alleviato e preparato dalle
    considerazioni sulla libertà, sulla necessità e sul carattere, che
    sono venute qui a intercalarsi; ma più sarà, se, discostandosi
    ancora una volta dal soggetto primo, avremo innanzi rivolta la
    nostra attenzione alla vita medesima, volere o non voler la quale è
    la grande quistione. E ciò in maniera, da cercar di conoscere in
    generale, che cosa propriamente venga alla volontà medesima, la
    quale in tutto è di questa vita la più intima essenza, dalla propria
    affermazione, e come e fino a che punto tale affermazione l'appaghi,
    anzi possa appagarla; in breve, che cosa genericamente e
    sostanzialmente sia da considerare come suo stato in questo mondo
    che è suo, ed a lei sotto ogni rispetto appartiene.
    
    In primo luogo desidero, che si richiami qui la considerazione con
    cui abbiamo chiuso il secondo libro, indottivi dalla domanda colà
    formulata, intorno alla meta e allo scopo della volontà. Invece di
    trovar risposta, ci risultò evidente che la volontà, in tutti i
    gradi del suo fenomeno, dai più bassi ai più alti, manca affatto
    d'un fine ultimo e d'uno scopo; continuamente aspira, perché
    aspirare è la sua unica essenza, a cui non pone termine alcun fine
    raggiunto; non è quindi capace d'alcun appagamento finale, e solo
    per una costrizione può esser trattenuta, ma in sé si estende
    nell'infinito. Questo vedemmo nel più semplice di tutti i fenomeni
    naturali, nella gravità, che non ha posa nel tendere e non cessa di
    premere verso un punto centrale senza estensione, il cui
    raggiungimento segnerebbe l'annientarsi di essa e della materia: non
    cessa, foss'anche l'universo tutto concentrato in una densa sfera.
    Questo vediamo ancora negli altri fenomeni semplici della natura: il
    solido tende, sia liquefacendosi o dissolvendosi, alla fluidità,
    dove tutte le sue forze chimiche diventano libere; mentre la
    solidità è come una loro prigione, in cui vengono chiuse dal freddo.
    Il liquido tende allo stato gassoso, nel quale tosto passa, non
    appena sia libero da ogni pressione. Nessun corpo è senza affinità,
    ossia senza un suo tendere; ovvero senza desiderio e bramosia, come
    direbbe Jakob Böhm. L'elettricità propaga nell'infinito la sua
    interna scissione, pur se la massa terrestre ne assorbe l'effetto.
    Il galvanismo è egualmente, finché la pila vive, un atto
    incessantemente senza scopo rinnovato di scissione e di
    riconciliazione. Appunto un consimile diuturno tendere, non mai
    soddisfatto, è la vita della pianta, un incessante svilupparsi,
    attraverso forme sempre più elevate, finché il punto ultimo, il
    seme, diventi alla sua volta principio. E questo si ripete
    all'infinito: mai un termine, mai definitivo appagamento, mai un
    riposo. In pari tempo rammenteremo, dal secondo libro, che ovunque
    le svariate forze naturali e forme organiche si contrastano la
    materia in cui vogliono spiccare, ciascuno possedendo solo quel che
    all'altro ha rapito; e così viene alimentato un perenne battagliar
    per la vita e la morte, dal quale appunto sgorga precipuamente la
    resistenza, che ognora tien frenata quell'aspirazione, ond'è
    costituita l'essenza più intima di tutte le cose. E questa preme
    invano, ma tuttavia non può venir meno alla propria natura, e si
    tormenta, fin quando il suo fenomeno perisce, mentre tosto altri ne
    afferrano avidi il posto e la materia.
    
    Da tempo conoscemmo quest'aspirazione, costituente l'in-sé di ogni
    cosa, come identica e tutt'una con ciò che in noi, dov'essa si
    manifesta con la maggior chiarezza, alla luce della più piena
    conscienza, si chiama volontà. La sua compressione mediante un
    ostacolo, che si mette fra lei e una sua mira, chiamiamo quindi
    dolore; viceversa il suo conseguir la mira chiamiamo appagamento,
    benessere, felicità. Cotali denominazioni possiamo pur riferire ai
    fenomeni del mondo privo di conoscenza, più deboli di grado, ma
    nell'essenza identici. Questi vedremo allora presi da perenne
    soffrire, senza durabile felicità. Perché ogni aspirare proviene da
    mancanza, da insoddisfazione del proprio stato: è quindi dolore,
    finché non sia appagato; ma nessun appagamento è durevole, anzi non
    è che il principio di una nuova aspirazione. L'aspirazione vediamo
    ovunque in più forme compressa, diuturnamente pugnando; quindi
    sempre come dolore. Non ha termine l'aspirare, non ha dunque misura
    e termine il soffrire.
    
    Ma quel che così sol con più acuta attenzione ed a fatica scopriamo
    nella natura priva di conoscenza, limpido ci appare nella
    conoscente, nella vita animale; il cui perenne soffrire è facile a
    dimostrarsi. E, senza indugiare in codesto grado intermedio, ci
    volgeremo là, dove, dalla più luminosa conoscenza rischiarato, tutto
    nel modo più chiaro si disvela: nella vita dell'uomo. Imperocché
    come il fenomeno della volontà diventa più compiuto, così diventa
    anche più e più palese il dolore. Nella pianta non è ancora
    sensibilità, e quindi punto dolore: un grado certamente tenue di
    sofferenza è insito negli animali infimi, infusori e radiari;
    perfino negl'insetti è la capacità di sentire e di soffrire ancor
    limitata: solo col perfetto sistema nervoso dei vertebrati la si
    presenta in alto grado, e sempre più alto, quanto più l'intelligenza
    si sviluppa. Nella stessa misura dunque, onde la conoscenza perviene
    alla chiarezza, e la conscienza si eleva, cresce anche il tormento,
    che raggiunge perciò il suo massimo grado nell'uomo; e anche qui
    tanto più, quanto più l'uomo distintamente conosce ed è più
    intelligente. Quegli, in cui vive il genio, soffre più di tutti. In
    questo senso, ossia rispetto alla conoscenza in genere, e non già al
    semplice sapere astratto, io intendo e adopro qui quel detto del
    Kohelet: Qui auget scientiam, auget et dolorem. Tal preciso rapporto
    tra il grado della conscienza e quel dolore ha oltremodo bellamente
    espresso in un disegno quel filosofo pittore, o dipingente filosofo,
    che fu Tischbein. La superior metà del suo foglio rappresenta donne,
    alle quali vengono rapiti i figli, e che in diversi gruppi e
    atteggiamenti manifestano il profondo materno dolore, angoscia,
    disperazione, variamente; l'inferior metà del foglio mostra, in
    affatto pari disposizione e aggruppamento, pecore, a cui si portano
    via gli agnellini: sì che a ogni umana testa, a ogni umano
    atteggiamento sulla metà superiore del foglio, corrisponde là sotto
    un'animalesca analogia. E quivi si vede chiaramente, come il dolore
    possibile all'ottusa conscienza animale si comporti di fronte al
    possente strazio, che solo fu reso possibile dalla limpidità del
    conoscere, dalla chiarità della conscienza.
    
    Studieremo perciò nell'umana esistenza l'intimo ed essenziale
    destino della volontà. Ciascuno ritroverà facilmente nella vita
    dell'animale le stesse condizioni, soltanto più deboli, espresse in
    gradi diversi; e, guardando anche la sofferente animalità, avrà di
    che convincersi abbastanza che sostanzialmente ogni vita è dolore.
    
    § 57.
    
    In ogni grado, che la conoscenza illumina, apparisce a sé la volontà
    come individuo. Nell'infinito spazio e infinito tempo vede l'umano
    individuo se stesso come finito, e per conseguenza, come una
    quantità evanescente di fronte a quelli, in essi gettata; e, per la
    loro sconfinatezza, ha sempre un relativo quando e dove della sua
    esistenza, non mai assoluto: perché il suo luogo e la sua durata
    sono parti finite di un infinito e di un illimitato. Il suo vero e
    proprio essere è soltanto nel presente, la cui non trattenuta fuga
    verso il passato è un perenne passar nella morte, un perenne morire;
    che la sua vita trascorsa, prescindendo dalle sue eventuali
    conseguenze nel presente, com'anche dalla testimonianza che dà della
    volontà di lui, la quale v'è dentro impressa, è già del tutto
    chiusa, morta, e ridotta a nulla: quindi ragion vuole che gli sia
    indifferente, se angosce o gioie fossero il contenuto del suo
    passato. Il presente sfugge ognora dalle sue mani diventando
    passato: l'avvenire è affatto incerto e sempre corto. È dunque la
    sua esistenza, anche se guardata soltanto sotto l'aspetto formale,
    un perenne precipitar del presente nel morto passato, un perenne
    morire. Ma ora guardiamola anche sotto l'aspetto fisico; è chiaro
    che, come il nostro camminare si sa essere nient'altro che un
    costantemente trattenuto cadere, così la vita del nostro corpo è un
    costantemente trattenuto morire, una morte sempre rinviata: e nello
    stesso modo, per concludere, l'attività del nostro spirito è un
    costante allontanare la noia. Ciascun respiro rimuove la morte
    ognora premente, con la quale noi veniamo così a combattere in tutti
    i minuti; come la combattiamo, a maggiori intervalli, con ciascun
    pasto, ciascun sonno, ciascun riscaldamento, e così via. Alla fine
    la morte deve vincere: perché a lei apparteniamo già pel fatto
    d'essere nati, ed ella non fa che giocare alcun tempo con la sua
    preda, prima d'inghiottirla. Frattanto continuiamo la nostra vita
    con grande interesse e gran cura, fin quando è possibile, come si
    gonfia più a lungo e più voluminosamente che si può una bolla di
    sapone, pur con la ferma certezza che scoppierà.
    
    Già vedemmo la natura priva di conoscenza avere per suo intimo
    essere un continuo aspirare, senza meta e senza posa; ben più
    evidente ci apparisce quest'aspirazione considerando l'animale e
    l'uomo. Volere e aspirare è tutta l'essenza loro, affatto simile a
    inestinguibile sete. Ma la base d'ogni volere è bisogno, mancanza,
    ossia dolore, a cui l'uomo è vincolato dall'origine, per natura.
    Venendogli invece a mancare oggetti del desiderio, quando questo è
    tolto via da un troppo facile appagamento, tremendo vuoto e noia
    l'opprimono: cioè la sua natura e il suo essere medesimo gli
    diventano intollerabile peso. La sua vita oscilla quindi come un
    pendolo, di qua e di là, tra il dolore e la noia, che sono in realtà
    i suoi veri elementi costitutivi. Tal condizione s'è dovuta
    singolarmente esprimere anche col fatto, che quando l'uomo ebbe
    posti nell'inferno tutti i dolori e gli strazi, per il cielo non
    rimase disponibile se non appunto la noia.
    
    Ma il permanente aspirare, ond'è costituita l'essenza d'ogni
    fenomeno della volontà, ha nei gradi superiori dell'oggettivazione
    il suo primo e più general fondamento, pel fatto che quivi la
    volontà a se stessa appare come un corpo vivo, con l'obbligo ferreo
    di nutrirlo: e ciò che dà impero a quest'obbligo, gli è appunto
    l'esser codesto corpo nient'altro se non la stessa oggettivata
    volontà di vivere. L'uomo, come la più compiuta oggettivazione di
    quella volontà, è per conseguenza anche il più bisognoso di tutti
    gli esseri: è in tutto e per tutto un volere, un abbisognare reso
    concreto, è il concremento di mille bisogni. Con questi egli sta
    sulla terra, abbandonato a se stesso, incerto di tutto fuor che
    della propria penuria e delle proprie necessità: l'ansia per la
    conservazione di quell'esistenza, fra tante sì gravi e ogni giorno
    rinnovantisi esigenze, riempie di regola l'intera vita umana. Vi si
    collega immediatamente la seconda imperiosa brama, quella di
    continuare la specie. In pari tempo minacciano l'uomo da ogni parte
    i più svariati pericoli, per isfuggire ai quali occorre permanente
    vigilanza. Con cauto passo, e ansiosamente spiando intorno, va egli
    per la sua via, perché mille accidenti e mille nemici lo insidiano.
    Così camminava nelle foreste, e così cammina nella vita civilizzata:
    non v'ha per lui sicurezza di sorta:
    
    Qualibus in tenebris vitae, quantisque periclis
Degitur hocc'aevi,
    quodcunque est!
    
    Lucr., II, 15.
    
    La vita dei più non è che una diuturna battaglia per l'esistenza,
    con la certezza della sconfitta finale. Ma ciò che li fa perdurare
    in questa sì travagliata battaglia non è tanto l'amore della vita,
    quanto la paura della morte, la quale nondimeno sta inevitabile
    nello sfondo, e può a ogni minuto sopravvenire. La vita stessa è un
    mare pieno di scogli e di vortici, cui l'uomo cerca di sfuggire con
    la massima prudenza e cura; pur sapendo, che quand'anche gli riesca,
    con ogni sforzo e arte, di scamparne, perciò appunto si accosta con
    ogni suo passo, ed anzi vi drizza in linea retta il timone, al
    totale, inevitabile e irreparabile naufragio: alla morte. Questo è
    il termine ultimo del faticoso viaggio, e per lui peggiore di tutti
    gli scogli, ai quali è scampato.
    
    Ma qui ci si presenta subito come molto notabile, che da un lato i
    dolori e strazi dell'esistenza possono facilmente accumularsi a tal
    segno che la morte stessa, nel fuggir la quale consiste l'intera
    vita, diviene desiderata, e spontaneamente le si corre incontro;
    dall'altro, che non appena miseria e dolore concedono all'uomo una
    tregua, la noia è subito vicino tanto, che quegli per necessità ha
    bisogno d'un passatempo. Quel che tutti i viventi occupa e tiene in
    molto, è la fatica per l'esistenza. Ma dell'esistenza, una volta che
    sia loro assicurata, non sanno che cosa fare: perciò il secondo
    impulso, che li fa muovere, è lo sforzo di alleggerirsi dal peso
    dell'essere, di renderlo insensibile, di «ammazzare il tempo», ossia
    di sfuggire alla noia. Quindi vediamo, che quasi tutti gli uomini al
    riparo dei bisogni e delle cure, quand'abbiano alla fine rimosso da
    sé tutti gli altri pesi, si trovano esser di peso a se stessi, e
    hanno per tanto di guadagnato ogni ora che passi, ossia ogni
    sottrazione fatta a quella vita appunto, per la cui conservazione il
    più possibile lunga avevano fino allora impiegate tutte le forze. E
    la noia è tutt'altro che un male di poco conto: che finisce con
    l'imprimere vera disperazione sul volto. Essa fa sì che esseri, i
    quali tanto poco s'amano a vicenda, come gli uomini, tuttavia si
    cerchino avidamente, e diviene in tal modo il principio della
    socievolezza. Anche contro di essa, come contro altre universali
    calamità, vengono prese pubbliche precauzioni, e già per ragion di
    stato; perché questo male, non meno del suo estremo opposto, la
    fame, può spingere gli uomini alle maggiori sfrenatezze: panem et
    circenses vuole il popolo. Il severo sistema penitenziario di
    Filadelfia fa strumento di punizione la semplice noia, per mezzo di
    solitudine e inazione: ed è sì terribile, che già ha condotto i
    reclusi al suicidio. Come il bisogno è il perpetuo flagello del
    popolo, così è flagello la noia per le classi elevate. Nella vita
    borghese è rappresentata dalla domenica, come il bisogno dai sei
    giorni di lavoro.
    
    Tra il volere e il conseguire trascorre dunque intera ogni vita
    umana. Il desiderio è, per sua natura, dolore: il conseguimento
    genera tosto sazietà: la mèta era solo apparente: il possesso
    disperde l'attrazione: in nuova forma si ripresenta il desiderio, il
    dolore: altrimenti, segue monotonia, vuoto, noia, contro cui è la
    battaglia altrettanto tormentosa quanto contro il bisogno. Quando
    desiderio e appagamento si susseguono senza troppo brevi e senza
    troppo lunghi intervalli, n'è ridotto il soffrire, ch'entrambi
    producono, ai minimi termini, e se n'ha la più felice vita.
    Imperocché quel che fuori di ciò si potrebbe chiamar la parte più
    bella, la più pura gioia della vita, appunto perché ci solleva
    sull'esistenza reale e ci trasmuta in sereni spettatori di questa:
    ossia il puro conoscere, cui ogni volere è estraneo, il godimento
    del bello, il genuino piacere dell'arte, richiedendo attitudini già
    rare, è dato solo a pochissimi, ed anche a' pochissimi soltanto come
    un effimero sogno. E la più elevata forza intellettuale fa proprio
    costoro capaci di ben maggiori sofferenze, di quante non possano mai
    sentire i più ottusi, e inoltre solitarii li lascia tra esseri molto
    da loro diversi: sì che pur quel vantaggio si compensa. Ma alla più
    parte degli uomini sono le gioie puramente intellettuali
    inaccessibili; del piacere, che consiste nel puro conoscere, sono
    quasi affatto incapaci: in tutto sono confinati nel volere. Quindi,
    se cosa alcuna vuol destar la loro attenzione, esser per loro
    interessante, deve (e ciò è insito nel valore stesso della parola)
    stimolare in qualche modo la loro volontà, sia pur soltanto per un
    remoto e anche meramente possibile rapporto con lei; la volontà non
    può mai restare affatto fuori del gioco, perché l'esser loro sta di
    gran lunga più nel volere che nel conoscere: azione e reazione è il
    loro unico elemento. Le ingenue manifestazioni di questa lor natura
    si possono cogliere anche in piccolezze e in fatti ordinari: per
    esempio, scrivono nei luoghi notabili, che vanno a visitare, il loro
    nome, per così reagire, per agire sul luogo, poi che il luogo non ha
    agito su di loro; inoltre non sanno facilmente contentarsi di
    contemplare un esotico, raro animale, ma devono stuzzicarlo,
    provocarlo, scherzare con esso, per sentire nient'altro che azione e
    reazione. Quel bisogno d'eccitazione della volontà si mostra
    soprattutto nell'invenzione e nella pratica del giocare alle carte,
    che benissimo esprime l'aspetto lamentevole dell'umanità.
    
    Ma per quanto la natura, per quanto la fortuna abbia operato;
    chiunque noi siamo, e qualunque cosa possediamo; il dolore ch'è
    essenza della vita non si lascia rimuovere:
    
    Πηλειδης δ’ω̣μωξεν, ιδων ουρανον ευρον
    
    (Pelides autem ejulavit, intuitus in coelum latum).
    
    E ancora:
    
    Ζηνος μεν παις ηα Κρονιονος, αυταρ οιζυν
Ειχον απειρεσιην
    
    (Jovis quidem filius eram Saturni!, verum aerumnam
Habebam
    infinitam).
    
    Gl'incessanti sforzi di bandire il dolore non servono che a mutarne
    l'aspetto. Questo è dapprima mancanza, bisogno, ansia per la
    conservazione della vita. Quando sia riuscito, il che è assai
    difficile, lo scacciare il dolore in questa sua forma, ecco che
    tosto si ripresenta in mille altre, variando secondo età e
    circostanze, come istinto sessuale, appassionato amore, gelosia,
    invidia, odio, paura, ambizione, avarizia, infermità, ecc. ecc. E se
    finalmente non riesca a trovar via in nessun'altra forma, viene
    sotto la malinconica, grigia veste del tedio e della noia, contro
    cui si tentano rimedii variati. Quando poi si pervenga da ultimo a
    discacciare anche quelli, sarà difficile che accada senza riaprir
    con ciò la via al dolore in una delle precedenti forme, e
    ricominciar così il ballo da principio; imperocché tra dolore e noia
    viene ogni vita umana di qua e di là rimbalzata. Per disanimante che
    sia questa considerazione, voglio tuttavia richiamare
    accessoriamente l'attenzione sopra un suo lato, dal quale si può
    attingere conforto, o anzi addirittura trarre forse una stoica
    indifferenza per il proprio male. Che la nostra intolleranza di esso
    procede massimamente dal fatto, che noi lo riteniamo venuto per
    caso, provocato da una catena di cause, la quale potrebbe
    agevolmente essere diversa. Per il male immediatamente necessario e
    affatto universale, come è per esempio la necessità della vecchiaia
    e della morte e di molti quotidiani disagi, non usiamo rattristarci.
    È piuttosto il considerar l'accidentalità delle circostanze, le
    quali ci produssero un dolore, che dà a questo il pungolo. Se invece
    abbiamo conosciuto, che il dolore come tale è inerente all'essenza
    della vita, od è inevitabile, ed unicamente la sua figura, la forma
    in cui si presenta, dipende dal caso; che insomma il nostro dolore
    attuale riempie uno spazio, nel quale, se quello non fosse,
    immediatamente un altro subentrerebbe, per ora impedito dal primo;
    che quindi, in sostanza, ben poco potere ha su noi il destino;
    allora potrebbe una cotal riflessione, facendosi persuasione
    vivente, portar seco un notevole grado di stoica imperturbabilità, e
    diminuir l'angosciosa inquietudine per il nostro bene. Ma in realtà
    una sì efficace signoria della ragione sopra il dolore direttamente
    sentito, la si trova di rado, o mai.
    
    D'altronde codesta considerazione sull'inevitabilità del dolore, e
    sul fatto che un dolore scaccia l'altro, e che il dolore nuovo
    interviene con lo sparir dell'antico, potrebbe condurci alla
    paradossale, ma non stolta ipotesi, che in ciascun individuo la
    misura del dolore in lui sostanziale venga una volta per sempre
    determinata dalla sua natura: la qual misura né potrebbe rimaner
    vuota, né superata, per varia che fosse la forma del dolore. Il suo
    soffrire o godere non sarebbe quindi determinato punto dal di fuori,
    ma solo da quella misura, da quella disposizione, la quale bensì
    potrebbe, per lo stato fisico, aver qualche diminuzione o
    accrescimento secondo le epoche, ma in complesso resterebbe la
    medesima e non altro sarebbe, se non ciò che si chiama il
    temperamento dell'individuo, o, meglio, il grado in cui questi,
    secondo s'esprime Platone nel primo libro della Repubblica, è
    εΰκολος oppure δύσκολος, ossia d'animo leggero o grave. In favor di
    questa ipotesi non soltanto parla la ben nota esperienza, secondo
    cui i grandi dolori ci rendono affatto insensibili ai minori, e,
    viceversa, nella assenza di dolori grandi, anche le minime molestie
    ci tormentano e contristano; ma l'esperienza ci ammonisce ancora,
    che se una grande sventura, la quale ci faceva rabbrividire solo a
    pensarla, è effettivamente sopravvenuta, il nostro animo resta
    nondimeno, tosto superato il primo schianto, pressoché immutato; e
    così, all'opposto, dopo l'avvento d'una felicità a lungo sognata,
    non ci sentiamo in complesso e alla lunga notevolmente meglio e più
    soddisfatti di prima. Il momento solo in cui quelle mutazioni si
    presentano ci scuote con particolar forza, sia come profondo dolore,
    sia come alta gioia; ma questa e quello rapidamente svaniscono,
    perché si fondavano sopra un'illusione. Sorgono invero non già
    dall'immediatamente attuale godere o patire, ma dall'aprirci un
    nuovo avvenire, che viene in essi anticipato. Sol prendendo a
    prestito dall'avvenire hanno potuto essere sì anormalmente intensi:
    e quindi non durano. In favor dell'ipotesi formulata, per cui, come
    nel conoscere, così anche nel sentimento del soffrire o del godere
    una grandissima parte è soggettiva e determinata a priori, possono
    ancora essere addotte come prove le osservazioni, secondo le quali
    l'umana gaiezza, o tristezza, palesemente non da circostanze
    esteriori è determinata, da ricchezza o condizione sociale; poiché
    noi incontriamo altrettante facce liete tra' poveri, quanto tra'
    ricchi: e inoltre, i motivi pe' quali accadono i suicidii sono così
    profondamente diversi; non potendo noi indicare nessuna sventura
    grande abbastanza da dover provocare con molta verosimiglianza in
    ciascun carattere il suicidio, e poche tanto piccole, che
    nessun'altra di egual peso non l'abbia già altra volta provocato. Se
    dunque il grado della nostra letizia o malinconia non è tuttodì il
    medesimo, ciò attribuiremo, in virtù di quest'opinione, non al mutar
    delle circostanze esterne, ma a quello dello stato interno, delle
    condizioni fisiche. Che quando si produce una vera, se pur sempre
    temporanea, elevazione della nostra gaiezza, sia pur fino alla
    gioia, questo suol essere senz'alcuna ragione esteriore. Sì, sovente
    vediamo il nostro dolore provenir solo da un determinato fatto
    esterno, e solo da questo siamo visibilmente oppressi e turbati:
    allora crediamo che, se esso venisse meno, ne seguirebbe la massima
    contentezza. Ma è un'illusione. La misura del nostro dolore e
    benessere è in complesso, secondo la nostra ipotesi, determinata
    soggettivamente per ogni istante, e in rapporto ad essa è ogni
    esterna cagione di turbamento appena ciò ch'è pel corpo un
    vescicante, verso il quale traggono tutti gli umori cattivi, che
    altrimenti restan dispersi pel corpo. Il dolore nel nostro essere,
    prodotto da un dato motivo per questo spazio di tempo, e quindi non
    rimovibile, sarebbe senza quella determinata causa esteriore di
    sofferenza distribuito in cento punti, e comparirebbe in forma di
    cento piccole molestie e fastidi a proposito di cose, che invece
    allora trascuriamo del tutto, perché la nostra capacità di soffrire
    è già riempita da quella pena centrale, che tutta la sofferenza
    altrimenti dispersa ha concentrata in un punto. A ciò corrisponde
    anche l'osservazione, che se alla fine una grande, conturbante
    angoscia ci vien tolta dal petto mediante un esito felice, tosto
    subentra un'altra al suo posto, la cui materia già c'era tutta, ma
    non poteva entrar come angoscia nella conscienza, perché questa non
    aveva capacità disponibile per lei, sì che quella materia d'angoscia
    rimaneva appena come oscura, inosservata parvenza nebbiosa
    all'estremo limite del suo orizzonte. Ma tosto che lo spazio è
    libero, ecco questa materia pronta farsi subito innanzi, e occupare
    il trono della dominante (πρυτανευουσα) angoscia del momento: pur
    se, nella sua sostanza, è molto più leggera che la materia di
    quell'angoscia svanita; nondimeno sa tanto gonfiarsi, da farlesi
    eguale in apparente grandezza, e in tal modo, come precipua angoscia
    del momento, rimpie appieno il trono.
    
    Smisurata gioia e molto vivo dolore si ritrovano sempre soltanto
    nella stessa persona: imperocché l'una è condizione dell'altro, ed
    entrambi poi han per condizione una vivacità grande dello spirito.
    Entrambi sono prodotti, come or ora vedemmo, non dal puro presente,
    ma da anticipazione dell'avvenire. Ed essendo il dolore alla vita
    essenziale, ed anche, nel suo grado, determinato dalla natura del
    soggetto, sì che subitanee modificazioni non possono, essendo sempre
    esteriori, mutare veramente quel grado; ne viene, che all'eccessivo
    giubilo o dolore sempre è base un errore e vaneggiamento: onde
    quelle due sovreccitazioni dell'animo si potrebbero evitar con
    l'intendimento. Ogni immoderato giubilo (exultatio, insolens
    laetitia) poggia sempre sull'illusione d'aver trovato alcunché nella
    vita, che non vi si può punto trovare, ossia durevole riposo dei
    torturanti, ognora rinascenti desideri o affanni. Da ogni singola
    illusione di tal fatta bisogna più tardi inevitabilmente far
    ritorno, e poi, quando scompare, pagarla con dolori altrettanto
    amari, per quanto gioia aveva recato il suo apparire. Somiglia sotto
    questo rispetto interamente ad un'altura, dalla quale si possa venir
    giù solo cadendo; perciò la si dovrebbe evitare: ed ogni improvviso,
    immoderato dolore è proprio nient'altro che la caduta da una cotale
    altezza, lo svanire d'una tale illusione: e quindi questa è
    condizione di quello. Si potrebbero perciò evitare entrambi, qualora
    si avesse sopra di sé il potere di veder con tutta chiarezza le
    cose, sempre nel loro complesso e nella lor connessione, e
    fermamente guardarsi dall'attribuir loro in effetti il colore, che
    si vorrebbe avessero. L'etica stoica mirava soprattutto a liberar
    l'animo da tutta codesta illusione e dalle sue conseguenze, e dargli
    invece incrollabile imperturbabilità. Di quest'intendimento è pieno
    Orazio, nella celebre ode:
    
    Aequam memento rebus in arduis
    
    Servare mentem, non secus in bonis
    
    Ab insolenti temperatam
    
    Laetitia.
    
    Ma il più delle volte vogliamo sottrarci alla conoscenza, simile ad
    amara medicina, che il dolore è essenziale alla vita, e quindi non
    dal di fuori fluisce in noi: bensì ciascuno ne porta nel suo proprio
    interno l'inesauribile sorgente. Noi cerchiamo piuttosto ognora una
    singola causa esterna, quasi un pretesto, al dolore che mai da noi
    si rimuove; come l'uomo libero si forma un idolo, per avere un
    signore. Imperocché infaticabilmente andiamo di desiderio in
    desiderio, e sebbene ogni soddisfazione raggiunta, per quanto ci
    promettesse, tuttavia non ci appaga, anzi il più sovente non tarda a
    mostrarci come un mortificante errore, non vediamo, ciò malgrado,
    che attingiamo con la botte delle Danaidi, e invece corriamo
    incontro a desiderii sempre nuovi:
    
    Sed, dum abest quod avemus, id exsuperare videtur
Caetera; post
    aliud, quum contigit illud, avemus;
Et sitis aequa tenet vitai
    semper hiantes.
    
    Lucr., III, 1095
    
    E così o continua all'infinito, oppure, il che è più raro, e
    presuppone già una certa forza di carattere, continua fin quando
    capitiamo in un desiderio, che non può essere appagato, ed a cui
    tuttavia non si rinunzia: allora gli è come se avessimo quel che
    cercavamo, cioè qualcosa che in ogni istante possiamo accusar come
    sorgente dei nostri mali, invece d'accusarne la nostra propria
    natura, e per cui noi, in dissidio col nostro destino, veniamo in
    compenso riconciliati con la nostra esistenza, allontanandosi di
    nuovo la cognizione, che a codesta esistenza sia essenziale il
    dolore, e impossibile un vero appagamento. La conseguenza di
    quest'ultima maniera di sviluppo è una cotal disposizione
    malinconica, il perpetuo portar con sé un unico, grande dolore, e il
    derivantene disdegno di tutti i minori dolori o godimenti; quindi
    una condizione già più degna, che non sia il continuo correre in
    caccia di sempre nuovi fantasmi, il che è molto più comune.
    
    § 58.
    
    Qualsiasi soddisfacimento, o ciò che in genere suol chiamarsi
    felicità, è propriamente e sostanzialmente sempre negativo, e mai
    positivo. Non è una sensazione di gioia spontanea, e di per sé
    entrata in noi, ma sempre bisogna che sia l'appagamento d'un
    desiderio. Imperocché desiderio, ossia mancanza, è la condizione
    preliminare d'ogni piacere. Ma con l'appagamento cessa il desiderio,
    e quindi anche il piacere. Quindi l'appagamento o la gioia non può
    essere altro se non la liberazione da un dolore, da un bisogno: e
    con ciò s'intende non solo ogni vero, aperto soffrire, ma anche ogni
    desiderio, la cui importunità disturbi la nostra calma, e perfino la
    mortale noia, che a noi rende un peso l'esistenza. Ora, è
    difficilissimo raggiungere e menare a compimento alcunché: a ogni
    nostro proposito contrastano difficoltà e fatiche senza fine, e a
    ogni passo si accumulano gli ostacoli. Quando poi finalmente tutto è
    superato e raggiunto, nient'altro ci si può guadagnare, se non
    d'essere liberati da una sofferenza, o da un desiderio: quindi ci si
    trova come prima del loro inizio, e non meglio. Direttamente dato è
    a noi sempre il solo bisogno, ossia il dolore. Invece l'appagamento
    e il piacere non li possiamo conoscere che mediatamente, per
    ricordar la passata sofferenza e privazione, venuta meno
    all'apparire di quelli. Da ciò proviene, che dei beni e vantaggi,
    che possediamo in effetti, non siamo punto ben persuasi, né li
    apprezziamo, bensì ci sembra naturale l'averli; che essi ci
    letiziano solo indirettamente, con l'impedir sofferenze. Bisogna
    averli perduti, per sentirne il pregio: perché il bisogno, la
    privazione, il soffrire è la sensazione positiva, che si manifesta
    direttamente. Perciò anche ci rallegra il ricordo di angustia,
    malattia, bisogni superati, che tal ricordo è l'unico mezzo per
    godere dei beni presenti. Nemmeno è da negare, che sotto questo
    rispetto e dal punto di vista dell'egoismo, il quale è la forma
    della volontà di vivere, lo spettacolo o la descrizione di mali
    altrui ci dà soddisfazione e piacere appunto per quella via, secondo
    esprime in bel modo e sincero Lucrezio, al principio del secondo
    libro:
    
    Soave, mari magno, turbantibus æquora ventis,
E terra magnum
    alterius spectare laborem:
Non, quia vexari quemquam est jucunda
    voluptas;
Sed, quibus ipse malis careas, quia cernere suave est.
    
    Tuttavia ci si mostrerà in seguito, che questa maniera di gioia,
    proveniente da siffatta mediata conoscenza del nostro benessere, sta
    molto vicina alla sorgente della vera e propria malvagità positiva.
    
    Che ogni felicità sia di natura soltanto negativa, e non positiva;
    che non possa quindi esser mai durevole appagamento o letificazione,
    ma sia sempre nient'altro che liberazione da un dolore o bisogno, al
    quale o un nuovo dolore oppur languore, vuota nostalgia e noia deve
    seguire; è provato anche in quel fedele specchio dell'essenza del
    mondo e della vita, che è l'arte, e soprattutto nella poesia. Che
    ogni poesia epica o drammatica ha soltanto capacità di rappresentare
    uno sforzo, un'aspirazione attiva, una lotta per la conquista della
    felicità, e non mai la felicità stessa durevole e compiuta. Conduce
    il suo eroe attraverso mille traversie e pericoli fino alla mèta:
    appena questa è raggiunta, lascia tosto cadere il sipario. Che altro
    non le resterebbe, se non mostrare che la luminosa mèta, in cui
    l'eroe sognava di trovare la felicità, era una beffa; e quando l'ha
    toccata, egli non si trova meglio di prima. Poiché una vera,
    durevole felicità non è possibile, non può nemmeno essere oggetto
    dell'arte. È vero, che l'idillio precisamente si propone di
    rappresentarla: ma si vede, appunto, che l'idillio come tale non si
    può reggere. Sempre, nelle mani del poeta, o diventa epico, ed è
    allora semplicemente un epos di poco rilievo, intessuto di piccoli
    dolori, piccole gioie, e piccoli sforzi: e questo è il caso più
    frequente; o si riduce a poesia descrittiva, descrive la bellezza
    della natura, cioè propriamente il puro conoscere fuor della
    volontà, che invero è in effetti il solo bene reale, cui né
    sofferenza né bisogno precede, né rimorso, né dolore, né vuoto, né
    tedio necessariamente segue. Ma un tal bene non può riempir tutta la
    vita, bensì appena qualche istante. Quel che vediamo nella poesia,
    ritroviamo nella musica, nella cui melodia già riconoscemmo,
    genericamente espressa, la più intima storia della volontà resa
    consapevole di sé, la più segreta vita, aspirazione, sofferenza,
    gioia, il flusso e riflusso dell'umano cuore. La melodia è sempre
    una deviazione dal tono fondamentale, con mille strani andirivieni,
    fino alla più dolorosa dissonanza, indi ritorna da ultimo al tono
    fondamentale, che esprime l'appagamento e il rasserenarsi della
    volontà, ma col quale non c'è più in seguito altro da fare, e
    prolungato a lungo genererebbe solo una pesante e inespressiva
    monotonia, analoga alla noia.
    
    Tutto quanto dovevano chiarire queste considerazioni,
    l'irraggiungibilità di durevole soddisfazione e il valore negativo
    d'ogni felicità, trova spiegazione in ciò ch'è mostrato alla fine
    del secondo libro; che cioè la volontà, di cui è oggettivazione la
    vita umana come ogni fenomeno, è un aspirar senza mèta e senza fine.
    L'impronta di questa infinità troviamo stampata anche in tutte le
    parti del suo intero fenomeno, dalla forma più generale di questo,
    spazio e tempo senza fine, al più perfetto di tutti i fenomeni, alla
    vita e all'ansia degli uomini. Si possono teoricamente ammettere tre
    estremi della vita umana, e considerarli come elementi della vita
    realmente umana. In primo luogo, il poderoso volere, le grandi
    passioni (Ragia-Cuna). Apparisce nei grandi caratteri storici; è
    rappresentato nell'epos e nel dramma: ma può mostrarsi anche in una
    piccola sfera, perché la grandezza degli oggetti si misura qui solo
    secondo il grado, in cui quelli muovono la volontà, e non secondo i
    loro rapporti esterni. Indi, in secondo luogo, il puro conoscere, il
    percepir le idee, che ha per condizione una conoscenza emancipata
    dal servigio della volontà: la vita del genio (Sattva-Guna).
    Finalmente, in terzo luogo, la massima letargia della volontà, e
    quindi della conoscenza che ne dipende: vuota aspirazione,
    paralizzante noia (Tama-Guna). La vita individuale, lungi dal
    permanere in uno di codesti estremi, appena raramente li tocca, ed
    il più spesso non è che fiacco e vacillante appressarsi ora a questa
    ora a quella parte, un povero volere oggetti meschini, che ognora si
    rinnova e così ci sottrae alla noia. È davvero incredibile, come
    insignificante e priva di senso, vista dal di fuori, e come opaca e
    irriflessiva, sentita dal di dentro, trascorra la vita di quasi
    tutta l'umanità. È un languido aspirare e soffrire, un sognante
    traballare attraverso le quattro età della vita fino alla morte, con
    accompagnamento d'una fila di pensieri triviali. Gli uomini
    somigliano a orologi, che vengono caricati e camminano, senza sapere
    il perché; ed ogni volta, che un uomo viene generato e partorito, è
    l'orologio della vita umana di nuovo caricato, per ancora una volta
    ripetere, frase per frase, battuta per battuta, con variazioni
    insignificanti, la stessa musica già infinite volte suonata. Ciascun
    individuo, ciascun volto umano e ciascuna vita non è che un nuovo
    breve sogno dell'infinito spirito naturale, della permanente volontà
    di vivere; non è che una nuova immagine fuggitiva, che la volontà
    traccia per gioco sul foglio infinito dello spazio e del tempo,
    lasciandola durare un attimo appena percettibile di fronte
    all'immensità di quelli, e poi cancellandola, per dar luogo ad
    altre. Nondimeno, e in ciò è l'aspetto grave della vita, ognuna di
    tali immagini fugaci, ognuno di tali insipidi capricci dev'essere
    pagato dalla intera volontà di vivere, in tutta la sua violenza, con
    molti e profondi dolori, e in ultimo con un'amara morte, a lungo
    temuta, finalmente venuta. Per questo ci fa così subitamente
    malinconici la vista d'un cadavere.
    
    La vita d'ogni singolo, se la si guarda nel suo complesso,
    rilevandone solo i tratti significanti, è sempre invero una
    tragedia; ma, esaminata nei particolari, ha il carattere della
    commedia. Imperocché l'agitazione e il tormento della giornata,
    l'incessante ironia dell'attimo, il volere e il temere della
    settimana, gli accidenti sgradevoli d'ogni ora, per virtù del caso
    ognora intento a brutti tiri, sono vere scene di commedia. Ma i
    desideri sempre inappagati, il vano aspirare, le speranze calpestate
    senza pietà dal destino, i funesti errori di tutta la vita, con
    accrescimento di dolore e con morte alla fine, costituiscono ognora
    una tragedia. Così, quasi il destino avesse voluto aggiungere lo
    scherno al travaglio della nostra esistenza, deve la vita nostra
    contenere tutti i mali della tragedia, mentre noi non riusciamo
    neppure a conservar la gravità di personaggi tragici, e siamo invece
    inevitabilmente, nei molti casi particolari della vita, goffi tipi
    da commedia.
    
    Ma per quanto i grossi e piccoli tormenti riempiano ogni vita umana,
    tenendola in perenne inquietudine e moto, non possono tuttavia
    coprir l'insufficienza della vita rispetto alla soddisfazione dello
    spirito, e il vuoto e l'insulsaggine dell'esistenza, né bandire la
    noia, ch'è sempre pronta a empire ogni pausa lasciata dall'angoscia.
    Di là è venuto, che lo spirito umano, non ancora contento delle
    angosce, amarezze e occupazioni impostegli dal mondo reale, si crea
    per di più, in forma di mille variate superstizioni, un mondo
    immaginario, col quale si affatica in tutti i modi, dissipandovi e
    tempo e forze, non appena il mondo reale gli lasci un riposo ch'egli
    non sa gustare. Codesto è anche spessissimo, in origine, il caso di
    quei popoli, cui la dolcezza del clima e del suolo fa agevole la
    vita; soprattutto degli Indù, e poi dei Greci, dei Romani, e più
    tardi degl'Italiani, Spagnuoli e così via. Demoni, Dei e santi si
    crea l'uomo a propria immagine; a essi devono incessantemente venire
    tributati sacrifizi, preci, adornamento di templi, voti e
    conseguenti offerte, pellegrinaggi, saluti, addobbo delle loro
    immagini, etc. Il loro culto s'intreccia dappertutto con la realtà,
    anzi l'oscura: ogni avvenimento della vita vien preso allora come un
    effetto dell'azione di quegli esseri: i rapporti con loro riempiono
    metà della vita, alimentano diuturnamente la speranza e diventano
    spesso, pel fascino dell'illusione, più interessanti dei rapporti
    con la vita reale. Sono l'espressione e il sintomo del doppio
    bisogno, che spinge l'uomo da una parte verso aiuto e sostegno,
    dall'altra verso occupazione e passatempo: e quand'anche operino
    spesso all'opposto contro il primo di codesti bisogni, facendo sì
    che, in caso di sventure e pericoli, vengano e tempo prezioso e
    forze non già usati a difendersene, bensì vanamente sciupati in
    preghiere e sacrifizi, appunto per questo servono ancor meglio al
    secondo bisogno, mediante quella fantastica comunicazione con un
    sognato mondo di spiriti. E questo è il frutto, tutt'altro che
    disprezzabile, d'ogni superstizione.
    
    § 59.
    
    Siamo ormai persuasi a priori, per le generalissime considerazioni
    fatte, per avere investigato i primi fondamenti elementari della
    vita umana, che questa già per sua generica disposizione è incapace
    d'ogni vera felicità, anzi è essenzialmente un dolore in molteplici
    forme, e uno stato al tutto infelice. Potremmo adesso suscitare
    questa persuasione molto più vivacemente in noi, se, procedendo più
    a posteriori, venissimo a esaminare casi meglio determinati,
    presentassimo immagini alla fantasia, e volessimo con esempi
    raffigurare il martirio senza nome, che esperienza e storia ci
    offrono, da qualunque parte si guardi, e sotto qualsivoglia aspetto
    s'investighi. Ma il capitolo non avrebbe mai fine, e ci
    allontanerebbe dal punto di vista della generalità, che è essenziale
    alla filosofia. Inoltre una cotale analisi potrebb'esser forse
    tenuta per semplice declamazione sull'umana miseria, come se ne son
    fatte tante, e come tale accusata d'essere unilaterale, perché
    procederebbe da fatti singoli. Da codesto rimprovero e sospetto va
    perciò esente la nostra affatto fredda e filosofica dimostrazione,
    procedente dall'universale, e condotta a priori, dell'inevitabile
    dolore radicato nell'essenza della vita. La conferma a posteriori è
    facile averla dovunque. Ciascuno, che si sia svegliato dai primi
    sogni di giovinezza, e abbia osservato la propria e l'altrui
    esperienza, e guardato intorno nella vita, nella storia del passato
    e del tempo suo, come infine nelle opere dei grandi poeti, troverà
    per risultanza, quando un pregiudizio incancellabilmente impresso
    non paralizzi il suo giudizio, che quest'umano mondo è il regno del
    caso e dell'errore, i quali senza pietà vi imperano, nelle grandi
    come nelle piccole cose; e accanto a quelli agitano inoltre follia e
    malvagità la sferza. Di là deriva, che ogni cosa buona si faccia
    strada solo a fatica, e alcunché di nobile e di saggio ben raramente
    venga alla luce, raggiungendo efficacia o attenzione; mentre
    l'assurdo e lo stolto nel dominio del pensiero, il triviale e lo
    scipito nel dominio dell'arte, il malvagio e l'insidioso nel dominio
    delle azioni, soli tengono il campo, appena turbati da brevi
    interruzioni. E viceversa l'eccellenza in ogni genere è sempre
    un'eccezione, un caso tra milioni; sì che, quando s'è manifestata in
    un'opera durevole, questa, dopo esser sopravvissuta al rancore dei
    suoi contemporanei, rimane isolata, e la si conserva come un
    aerolite, caduto da un ordine di cose diverso da quello che qui
    regna. Per ciò che tocca poi la vita individuale, ogni storia di
    vita è una storia di dolore; che ogni corso vitale è, di regola, una
    prolungata serie di grandi e piccole sventure, che ciascuno cela del
    suo meglio, perché sa come altri raramente ne proverebbero simpatia
    o compassione, bensì quasi sempre soddisfazione, vedendo un'immagine
    delle pene da cui sono essi in quel momento immuni. E forse non si
    darà mai il caso che un uomo, al termine della sua vita, se capace
    di riflessione e in pari tempo sincero, desideri di ricominciarla;
    ma invece ben più volentieri sceglierà il completo non essere. Il
    contenuto essenziale del celeberrimo monologo nell'Amleto è, ridotto
    in breve, questo: il nostro stato è così miserabile, che un completo
    non essere dovrebbe senz'altro essergli preferito. Ora, se il
    suicidio ci portasse veramente al non essere, sì che l'alternativa
    «essere o non essere» ci stesse innanzi nel pieno significato della
    parola, sarebbe assolutamente da scegliere, come una
    desiderabilissima conclusione (a consummation devoutly to be
    wish'd). Ma in noi è qualcosa, che ci dice, non stare il fatto così;
    tutto non sarebbe finito, la morte non è un assoluto annientamento.
    Corrisponde a ciò quanto attesta il padre della storia44, né mai fu
    contraddetto da allora, non essere esistito uomo alcuno, il quale
    più d'una volta non abbia desiderato di non vedere il dì seguente.
    Quindi la brevità della vita, tanto spesso lamentata, potrebbe forse
    essere quel che la vita ha di meglio. Se finalmente a ciascuno si
    volessero porre sottocchio gli orrendi dolori e strazi, a cui è la
    sua vita perennemente esposta, lo coglierebbe raccapriccio: e se si
    conducesse il più ostinato ottimista attraverso gli ospedali, i
    lazzaretti, le camere di martirio chirurgiche, attraverso le
    prigioni, le stanze di tortura, i recinti degli schiavi, pei campi
    di battaglia e i tribunali, aprendogli poi tutti i sinistri covi
    della miseria, ove ci si appiatta per nascondersi agli sguardi della
    fredda curiosità, e da ultimo facendogli ficcar l'occhio nella torre
    della fame di Ugolino, certamente finirebbe anch'egli con
    l'intendere di qual sorte sia questo meilleur des mondes possibles.
    Donde ha preso Dante la materia del suo Inferno, se non da questo
    nostro mondo reale? E nondimeno n'è venuto un inferno bell'e buono.
    Quando invece gli toccò di descrivere il cielo e le sue gioie, si
    trovò davanti a una difficoltà insuperabile: appunto perché il
    nostro mondo non offre materiale per un'impresa siffatta. Perciò non
    gli rimase se non trasmetterci, in luogo delle gioie paradisiache,
    gli ammaestramenti, che a lui furono colà impartiti dal suo
    antenato, dalla sua Beatrice, e da differenti santi. Da ciò
    apparisce abbastanza chiaro, di qual natura sia questo mondo. È vero
    bensì che nella vita umana, come in ogni cattiva mercanzia, il lato
    esterno è mascherato con falso splendore: sempre si cela ciò che
    soffre; mentre quanto può ciascuno procacciarsi di pompa e di lustro
    porta in evidenza, e quanto più interna contentezza gli manca, tanto
    più desidera nell'opinione altrui passare per felice. A tanto giunge
    la stoltezza: e l'opinione altrui è una mira essenziale per le
    fatiche di tutti, sebbene la sua completa insignificanza sia già di
    per sé espressa dal fatto che in quasi tutte le lingue la parola
    vanità, vanitas, significa in origine il vuoto e il nulla. Ma anche
    sotto codesto orpello possono gli affanni della vita crescere in tal
    modo (e ciò accade tutti i giorni), che la morte, d'ordinario temuta
    soprattutto, viene ghermita con avidità. O addirittura, se il
    destino vuol mostrare tutta la sua malizia, anche quel rifugio può
    esser chiuso a chi soffre; e questi, nelle mani di nemici
    infelloniti, rimanere esposto a lunghi, lenti martiri senza scampo.
    Invano il tormentato chiede allora aiuto a' suoi Dei: rimane
    implacabilmente in preda al suo destino. Ma codesta impossibilità di
    scampo è appunto lo specchio dell'indomabilità del suo volere, di
    cui è oggettità la sua persona. Come non può una forza esterna
    mutare o sopprimere questo volere, così non può alcuna forza
    estranea liberarlo dai tormenti, che produce la vita, la quale è
    fenomeno di quel volere. Sempre l'uomo è ridotto a contar su se
    stesso, e in ogni cosa e nella sostanza delle cose. Invano si forma
    Dei, per mendicare e carpire con adulazioni ciò che solo può dargli
    la sua forza di volontà. Se il Vecchio Testamento aveva fatto del
    mondo e dell'uomo l'opera d'un Dio, si vide il Nuovo Testamento
    costretto, per insegnar che salvezza e redenzione dal dolore di
    questo mondo può solo dal mondo stesso partire, a far di quel Dio un
    uomo. La volontà dell'uomo è, e rimane, ciò da cui tutto per l'uomo
    dipende. Saniassi, martiri, santi d'ogni fede e nome, hanno
    spontaneamente e volentieri sofferti quei martiri, perché era in
    loro soppressa la volontà di vivere; fin la lenta distruzione del
    suo fenomeno fu quindi a loro gradita. Ma non voglio anticipare il
    discorso che dovrà venire in seguito. Non posso però tenermi dal
    dichiarare, che a me l'ottimismo, quando non sia per avventura il
    vuoto cianciar di cotali sotto la cui piatta fronte non altro
    alberga se non parole, sembra non pure un pensare assurdo, ma anche
    iniquo davvero, un amaro scherno dei mali senza nome patiti
    dall'umanità. Né si pensi, poi, che la fede cristiana sia favorevole
    all'ottimismo; che per contro negli Evangeli le parole mondo e male
    sono usate quasi come sinonimi45.
    
    § 60.
    
    Or che abbiamo terminate entrambe le spiegazioni, ch'era necessario
    intercalare, intorno alla libertà della volontà in sé, insieme con
    la necessità del suo fenomeno, e intorno alla sorte di lei nel
    mondo, che ne rispecchia l'essenza (mondo nella cognizion del quale
    ella deve affermarsi o negarsi); or possiamo portare a maggior
    chiarezza quest'affermazione o negazione, che più indietro
    esaminammo e spiegammo sol genericamente, con l'esporre le maniere
    di condotta, in cui quelle trovano la loro espressione, e
    considerarle nel loro intimo significato.
    
    L'affermazione della volontà è il volere stesso permanente, non
    turbato da nessuna conoscenza, qual suol riempire la vita dell'uomo
    in generale. Essendo già il corpo dell'uomo l'oggettità della
    volontà, quale questa appare in un dato grado e in un dato
    individuo; così il suo volere svolgentesi nel tempo è quasi la
    parafrasi del corpo, il commento che illustra il senso del tutto e
    delle sue parti; è un altro modo di presentarsi della stessa cosa in
    sé, di cui è già fenomeno anche il corpo. Potremmo quindi, invece
    che affermazione della volontà, dire affermazione del corpo. Il tema
    fondamentale di tutti gli svariati atti di volontà è il
    soddisfacimento dei bisogni, che dall'esistenza corporale nella sua
    salute sono inseparabili, e già nel corpo hanno la loro espressione
    e si riducono alla conservazione dell'individuo, alla continuazione
    della specie. Ma mediatamente, per questo mezzo, i più molteplici
    motivi acquistano impero sulla volontà, e producono i più diversi
    atti di volontà. Ognuno di questi è solo un saggio, un esempio,
    della volontà generica qui manifestantesi: di qual natura sia tal
    saggio, qual parvenza abbia il motivo e quale comunichi ad esso, non
    è distinzione essenziale; essenziale è soltanto, che alcunché si
    voglia, e l'intensità del volere. La volontà può diventar visibile
    solo in relazione coi motivi, come l'occhio soltanto nella luce
    mostra la sua forza visiva. Il motivo sta davanti alla volontà come
    un multiforme Proteo: promette ognora piena soddisfazione,
    estinzione della sete della volontà; ma una volta raggiunto, eccolo
    tosto riapparire in altra forma, ed in essa eccitar daccapo la
    volontà, sempre secondo il grado di vivezza che questa possiede, e
    la sua relazione con la conoscenza; grado e relazione, che appunto
    mediante codesti saggi ed esempii diventano palesi come carattere
    empirico.
    
    Fin dall'inizio della sua conscienza, l'uomo si trova in atto di
    volere, e la sua conoscenza rimane di regola in costante relazione
    con la sua volontà. Egli cerca dapprima di conoscere appieno gli
    oggetti del volere, quindi i mezzi per raggiungerli. Fatto questo,
    sa quel che gli tocca di fare, e d'ordinario non tende ad altro
    sapere. Attivamente agisce: la conscienza di lavorar sempre per lo
    scopo della sua volontà lo regge e mantiene operoso: il suo pensiero
    va soltanto alla scelta dei mezzi. Tale è la vita di quasi tutti gli
    uomini: vogliono, sanno ciò che vogliono, vi tendono con tanto
    successo, quanto basta a proteggerli dalla disperazione, e con tanto
    insuccesso, quanto occorre a proteggerli dalla noia e dalle sue
    conseguenze. Di là viene una certa letizia, o almeno tranquillità, a
    cui né ricchezza né povertà nulla propriamente tolgono: che il ricco
    e il povero godono non ciò ch'essi hanno, che, come s'è mostrato,
    agisce sol negativamente; ma ciò che con la loro attività sperano di
    conseguire. Vanno innanzi dandosi da fare, con molta gravità, e anzi
    con aria d'importanza: non altrimenti fanno i loro giuochi i
    ragazzi. È sempre un'eccezione, quando il corso d'una tal vita è
    deviato per effetto d'un conoscere indipendente dal servigio della
    volontà, e rivolto all'essenza del mondo in genere: sia che se ne
    produca il bisogno estetico della contemplazione, o il bisogno
    morale della rinunzia. I più incalza attraverso l'esistenza il
    travaglio, senza lasciare loro tempo a riflessione. Sovente,
    all'opposto, la volontà s'infiamma ad un grado, che di gran lunga
    trascende l'affermazione del corpo: grado che poi vivaci slanci e
    poderose passioni rivelano, nelle quali l'individuo non pure afferma
    il suo proprio essere, ma quel degli altri nega, e cerca di
    sopprimere, dove gl'intralcia la via.
    
    La conservazione del corpo mediante le sue stesse forze è un così
    minimo grado dell'affermazione della volontà, che se ci si fermasse
    volontariamente a questo, noi potremmo ritener cessata, con la morte
    del corpo, anche la volontà che in esso si manifestava. Ma già la
    soddisfazione dell'istinto sessuale va oltre l'affermazione della
    nostra esistenza, la quale empie un sì breve spazio di tempo, e
    afferma la vita oltre la morte individuale, per un tempo indefinito.
    La natura, sempre vera e conseguente, e in questo punto addirittura
    ingenua, ci disvela apertamente l'intimo significato dell'atto
    generativo. La nostra conscienza, la vivacità dell'istinto,
    c'insegna che in codesto atto s'esprime la più risoluta affermazione
    della volontà di vivere, pura e senza ulteriore aggiunta (come per
    avventura sarebbe la negazione d'altri individui); e così nel tempo
    e nella serie causale, ossia nella natura, appare quale effetto
    dell'atto una nuova vita: di contro al generatore viene a porsi il
    generato, diverso da quello nel fenomeno, ma in sé, nell'idea,
    identico ad esso. È quindi per codesto atto, che le generazioni dei
    viventi si collegano l'una con l'altra in un tutto, e si perpetuano.
    La generazione è, per ciò che tocca il generante, semplice
    espressione e simbolo della sua risoluta affermazione della volontà
    di vivere; per ciò che tocca invece il generato, essa non è punto la
    cagione della volontà che in lui si manifesta, non conoscendo la
    volontà in sé né vera causa sostanziale, né effetto; bensì è, come
    ogni causa, soltanto l'occasione pel manifestarsi di codesta volontà
    in un dato tempo e in un dato luogo. In quanto cosa in sé, non è la
    volontà del generante diversa da quella del generato: che unicamente
    il fenomeno, e non la cosa in sé, è soggetto al principio
    individuationis. Con quell'affermazione che va oltre il nostro
    corpo, fino alla produzione fenomenica di un corpo nuovo, sono anche
    dolore e morte, in quanto appartenenti al fenomeno della vita,
    novellamente affermati; e la possibilità della redenzione, che può
    venir da una più perfetta capacità di conoscere, è in tal caso
    proclamata infeconda. Qui sta la profonda ragione della vergogna
    onde si cela il traffico generativo. Questo concetto è rappresentato
    miticamente nel dogma della dottrina cristiana, secondo il quale noi
    tutti siamo partecipi del peccato di Adamo (che evidentemente non
    era se non la soddisfazione della voglia sessuale), e per esso
    andiamo soggetti a soffrire e morire. Con ciò quella dottrina va
    oltre il modo di vedere fondato sul principio di ragione, e penetra
    l'idea dell'uomo; l'unità della quale viene ricostituita dal suo
    frazionamento negl'innumerevoli individui, mediante il vincolo della
    generazione che tutti li riunisce. Vede così da un lato ogni
    individuo come identico ad Adamo, al rappresentante
    dell'affermazione della vita, e in questa qualità destinato al
    peccato (peccato originale), al dolore, e alla morte: dall'altro
    lato, la conoscenza dell'idea le fa apparire ogni uomo come identico
    al Redentore, a quegli che rappresenta la negazione della volontà di
    vivere, e sotto questo rispetto partecipe del sacrificio di Lui, per
    merito di Lui redento, e salvato dai vincoli del peccato e della
    morte, ossia del mondo (Epist. ai Romani, 5, 12-21).
    
    Un'altra mitica rappresentazione del nostro concetto intorno
    all'appagamento sessuale, visto come affermazione della volontà di
    vivere di là dalla vita individuale, come un lasciarsi cader preda
    della vita con quell'atto, o quasi come un rinnovato impegno verso
    la vita stessa, è il mito greco di Proserpina; alla quale era ancor
    possibile il ritorno dal mondo sotterraneo, fintanto che ella non ne
    avesse gustati i frutti: ma che a quel mondo appartenne intera, non
    appena ebbe gustata la melagrana. Dall'incomparabile narrazione, che
    Goethe fa di questo mito, ne risulta ben chiaro il significato,
    soprattutto quando, immediatamente dopo l'assaggio della melagrana,
    improvviso irrompe l'invisibile coro delle Parche:
    
    Tu sei nostra!
    
    Digiuna dovevi ritornare:
    
    Ed il morso nel pomo ti fa nostra46.
    
    È notevole che Clemente Alessandrino (Strom., ni, e. 15) esprima la
    cosa con la stessa immagine e gli stessi termini: Οί μεν
    ευνουχισαντες ὲαυτους απο πασης αμαρτιας, δια την βασιλειαν των
    ουρανων, μακαριοι ούτοι εισιν, οι̃ του κοσμου νηστευοντες (Qui se
    castrarunt ab omni peccato, propter regnum coelorum, ii sunt beati,
    a mundo jejunantes).
    
    L'istinto sessuale si conferma essere la risoluta, la più forte
    affermazione della vita, anche pel fatto che per l'uomo naturale,
    come per l'animale, esso è il fine ultimo, il supremo scopo della
    vita sua. Sua prima aspirazione è conservar se stesso: e non appena
    v'ha provveduto, non tende più ad altro che alla continuazione della
    specie: più in là di questo non può, in quanto semplice essere
    naturale, aspirare. Anche la natura, la cui essenza intima è appunto
    la volontà di vivere, trascina con ogni sua possa l'uomo, come
    l'animale, alla continuazione della specie. Ella ha con ciò
    raggiunto lo scopo, a cui l'individuo poteva servirle, ed è oramai
    affatto indifferente al suo perire; che a lei, come alla volontà di
    vivere, soltanto la conservazione della specie importa, e
    l'individuo è un nulla. Poiché nell'istinto sessuale l'intima
    essenza della natura, la volontà di vivere, nel modo più forte si
    palesa, dissero gli antichi poeti e filosofi – Esiodo e Parmenide –
    con molto senso, che Eros è il Primo, il Creatore, il Principio, dal
    quale ebbero origine tutte le cose. (Si vegga Arist. Metaph., i, 4).
    Ferecide ha detto: Εις ερωτα μεταβεβλησθαι τον Δια, μελλοντα
    δημιουργειν (Jovem, cum mundum fabricare vellet, in cupidinem sese
    transformasse). Proclus ad Plat. Tim. 1. III. Un'estesa trattazione
    di questo soggetto abbiamo avuta di recente da G. F. Schoemann, De
    cupidine cosmogonica, 1852. Anche la Maja degl'Indiani, della quale
    è opera e tessuto l'intero mondo apparente, viene parafrasata con la
    parola amor.
    
    I genitali sono, molto più di qualsivoglia altra parte del corpo,
    alla semplice volontà e non alla conoscenza soggetti: anzi, la
    volontà vi si mostra pressoché altrettanto indipendente dalla
    conoscenza, quanto nelle parti che, dietro semplici stimoli, servono
    alla vita vegetativa, alla riproduzione; parti in cui la volontà
    agisce cieca, come nella natura priva di conoscenza. Imperocché il
    generare non è che una riproduzione trapassata in un nuovo
    individuo, quasi riproduzione in seconda potenza, come la morte non
    è che escrezione in seconda potenza. In conseguenza di tutto ciò i
    genitali sono il vero e proprio fuoco della volontà, e quindi il
    polo opposto al cervello, al rappresentante della conoscenza, ossia
    all'altra parte del mondo, al mondo come rappresentazione. Quelli
    sono il principio conservatore della vita, che vita senza fine
    assicura al tempo; e in tal qualità furon dai Greci venerati nel
    Phallus, dagl'Indiani nel Lingam, i quali sono adunque il simbolo
    dell'affermazione della volontà. La conoscenza invece rende
    possibile la soppressione del volere, la redenzione mediante
    libertà, il superamento e l'annientamento del mondo.
    
    Già al principio di questo quarto libro abbiamo estesamente
    studiato, come la volontà di vivere abbia da guardare nella sua
    affermazione il proprio rapporto con la morte: questa non la tocca,
    perché sta nella vita come alcunché d'implicito in lei, e che a lei
    spetta. Alla morte fa da eguale contrappeso il suo opposto, la
    generazione; la quale, malgrado la morte dell'individuo, assicura e
    garantisce per sempre la vita alla volontà di vivere. Per ciò
    esprimere, diedero gl'Indiani il Lingam come attributo al Dio della
    morte Shiva. Colà abbiamo pure dimostrato come chi stia con piena
    consapevolezza fermo nella risoluta affermazione della vita, guarda
    senza paura la morte.
    
    Su ciò adunque non altre parole. Senza chiara consapevolezza, la
    maggior parte degli uomini è di questo sentimento, e afferma
    costantemente la vita. Come specchio di tale affermazione sussiste
    il mondo, con individui innumerabili, in tempo infinito e infinito
    spazio, e infinito dolore, tra generazione e morte senza fine. Ma di
    ciò da nessuna parte è lecito alzare altri lamenti: perché la
    volontà esegue a sue spese la grande tragedia e commedia, ed è anche
    il suo proprio spettatore. Il mondo è per l'appunto quello che è,
    perché la volontà, di cui esso è fenomeno, è quella che è; perché la
    volontà così vuole. Per i dolori la giustificazione è che la volontà
    anche quivi afferma se stessa; e quest'affermazione è giustificata e
    compensata dal fatto, che la volontà quei dolori patisce. Ci si apre
    già qui un'occhiata sulla eterna giustizia, in complesso; in seguito
    la conosceremo più da vicino e più chiaramente anche nel
    particolare. Tuttavia occorre prima parlare della giustizia
    temporale o umana47.
    
    § 61.
    
    Ci sovviene, dal secondo libro, che nella natura intera, in ogni
    grado dell'oggettivazione della volontà, necessariamente era una
    lotta perenne tra gli individui di tutte le specie, e con ciò
    appunto si esprimeva un intimo contrasto della volontà di vivere con
    se medesima. Nel grado supremo dell'oggettivazione anche quel
    fenomeno si presenterà, come ogni altro, con maggiore chiarezza, e
    si lascerà quindi indagare più addentro. A tal fine andremo in primo
    luogo a rintracciar nella sua sorgente l'egoismo, quale origine di
    tutte le lotte.
    
    Tempo e spazio chiamammo principium individuationis, perché sol per
    loro mezzo, ed in loro, è possibile pluralità dell'identico. Sono le
    forme essenziali della conoscenza naturale, ossia procedente della
    volontà. La volontà deve quindi manifestarsi ovunque in pluralità
    d'individui. Ma questa pluralità non tocca la volontà in sé, bensì i
    suoi fenomeni: è intera e indivisa in ciascuno di essi, e si vede
    intorno innumerabili volte ripetuta l'immagine della sua propria
    essenza. Ma codesta, ch'è la vera realtà, ella non trova tuttavia
    direttamente se non dentro di sé. Perciò vuole ciascuno aver tutto
    per sé, vuol tutto possedere, o almeno dominare, ed ogni cosa, che
    gli si opponga, vorrebbe distruggere. A ciò s'aggiunge, negli esseri
    conoscenti, che l'individuo rappresenta il soggetto conoscente,
    contiene cioè il mondo intero; ossia, che tutta la natura
    all'infuori di lui, e quindi anche tutti i rimanenti individui,
    esistono soltanto nella sua rappresentazione; soltanto come di sua
    rappresentazione egli n'è consapevole, ossia sol mediatamente, e
    come d'alcunché dipendente dal suo proprio essere individuale; che
    venendogli meno la conscienza, per necessità gli vien meno anche il
    mondo; vale a dire, l'esistere o non esistere di questo diventano
    per lui termini equivalenti e non distinguibili. Ogni individuo
    conoscente è adunque in verità, e si riconosce per tale, tutta
    intera la volontà di vivere, ovvero l'in-sé del mondo medesimo; ed è
    anche la condizione integrante del mondo quale rappresentazione. È
    per conseguenza un microcosmo, che s'ha da valutare egualmente come
    il macrocosmo. La natura stessa, sempre e ovunque veritiera, fin
    dall'origine e all'infuori d'ogni riflessione gli fa semplicemente e
    direttamente sicura tale conoscenza. Ora, con entrambe le necessarie
    determinazioni surriferite si spiega come ogni individuo, per quanto
    infinitamente piccolo nello sterminato mondo e quasi evanescente nel
    nulla, si faccia nondimeno centro dell'universo, la propria
    esistenza e il proprio benessere consideri innanzi a ogni altra
    cosa, anzi, dal punto di vista naturale, ogni altra cosa sia pronto
    a sacrificare a codesta esistenza; pronto a distruggere il mondo,
    sol per conservare un po' più a lungo il suo proprio io, che è
    appena una goccia nel mare. Tale disposizione è l'egoismo, proprio
    d'ogni cosa nella natura. Ma esso è pure la via, per cui l'interno
    contrasto della volontà con se medesima perviene alla più terribile
    manifestazione. Imperocché questo egoismo si fonda per essenza sul
    riferito antagonismo tra microcosmo e macrocosmo: cioè sul fatto che
    l'oggettivazione della volontà ha per forma il principium
    individuationis, sì che la volontà in egual modo si riflette in
    numero infinito d'individui; intera e compiuta sotto i due aspetti
    (volontà e rappresentazione) in ciascuno di essi. Mentre adunque
    ogni individuo è dato a se medesimo, direttamente, come tutta quanta
    la volontà e tutta quanta la capacità rappresentativa, i rimanenti
    individui gli son dati sol come rappresentazioni sue; perciò importa
    a lui il proprio essere e la propria conservazione più di tutto
    l'altro insieme. Alla propria morte guarda ciascuno come alla fine
    del mondo, e invece accoglie come una cosa abbastanza indifferente
    quella dei suoi conoscenti, s'egli non v'è per avventura interessato
    di persona. Nella conscienza salita al suo più alto grado, la
    conscienza umana, deve anche l'egoismo, come la conoscenza, il
    dolore, la gioia, aver toccato il vertice più alto, e deve nel modo
    più terribile palesarsi il contrasto degli individui, da esso
    determinato. Ciò vediamo dappertutto, nel piccolo come nel grande;
    ciò vediamo ora sotto l'aspetto terrificante, nella vita di grandi
    tiranni e uomini scellerati, e nelle guerre che devastano il mondo,
    ora sotto l'aspetto ridicolo, dov'è fatto tema di commedia; e in
    particolar modo si rivela nella presunzione e nella vanità, le quali
    Rochefoucault ha come nessun altro colto e rappresentato in
    abstracto: tale ci appare nella storia del mondo e nella nostra
    propria esperienza. Ma nel modo più evidente balza fuori, non appena
    una qualche turba di uomini sia sciolta da ogni legge e ordinamento:
    allora si mostra subitamente con tutta evidenza il bellum omnium
    contra omnes, che Hobbes, nel primo capitolo De cive, mirabilmente
    ha descritto. Appare, che non soltanto ciascuno cerca di rapire
    all'altro ciò ch'egli stesso vuol avere, ma spesso addirittura v'ha
    chi, per accrescere d'un trascurabile incremento il proprio
    benessere, tutto il bene o la vita dell'altro distrugge. Questa è
    l'espressione suprema dell'egoismo, i cui fenomeni, sotto tale
    rispetto, possono venir superati soltanto da quelli della malvagità
    vera e propria, la quale affatto disinteressatamente, senz'alcun
    proprio vantaggio, cerca il danno e il dolore altrui. Ma di ciò in
    seguito. Con questo scoprimento della fonte dell'egoismo si ponga a
    riscontro la descrizione di esso, fatta nella mia memoria per
    concorso a premio, intorno al fondamento della morale, § 14.
    
    Una tra le principali sorgenti del dolore, il quale abbiamo veduto
    essenzialmente ed inevitabilmente connaturato a tutta la vita, non
    appena questa in realtà e con determinata figura si mostri, è quella
    Eris, la lotta fra gl'individui tutti, l'espressione del dissidio
    interiore, da cui è travagliata la volontà di vivere, e che per
    mezzo del principii individuationis viene alla luce: mezzo barbaro
    di render visibile direttamente e crudamente tale dissidio sono le
    lotte tra gli animali. In questo originario contrasto risiede una
    sorgente inesauribile di dolore, malgrado le misure che si son prese
    per combatterlo, e che ora esamineremo da vicino.
    
    § 62.
    
    Fu già spiegato, che la prima e semplice affermazione della volontà
    di vivere non è se non l'affermazione del proprio corpo, ossia
    esplicazione della volontà mediante atti nel tempo, fin dove il
    corpo, nella sua forma e natura disposta a' suoi fini, rappresenta
    la stessa volontà spazialmente – e non oltre. Codesta affermazione
    si dimostra sotto specie di conservazione del corpo, usando a ciò
    tutte le forze di esso. A lei si collega direttamente la
    soddisfazione dello stimolo sessuale; anzi, questa appartiene a
    quella, in quanto i genitali al corpo appartengono. Perciò la
    volontaria, da nessun motivo determinata rinunzia alla soddisfazione
    di quello stimolo, è già un rinnegar la volontà di vivere, è una
    spontanea autosoppressione di esso stimolo in seguito a sopravvenuta
    conoscenza che agisce come quietivo: perciò tal rinnegamento del
    proprio corpo si presenta già come un'opposizione della volontà
    contro il suo proprio fenomeno. Imperocché sebbene qui il corpo
    oggettivi nei genitali la volontà della propagazione, questa non
    viene tuttavia voluta. Appunto perciò, ossia per essere rinnegamento
    o soppressione della volontà di vivere, tale rinunzia è una grave e
    dolorosa vittoria su noi stessi; ma di questo sarà detto in seguito.
    Ora, mentre la volontà presenta quell'autoaffermazione del proprio
    corpo in un numero infinito d'individui coesistenti, può, in grazia
    dell'egoismo connaturato in ciascuno, molto facilmente in un
    individuo andar oltre codesta affermazione, fino alla negazione
    della stessa volontà, manifestantesi in un altro individuo. La
    volontà del primo irrompe nei confini dell'altrui affermazione di
    volontà, sia in quanto l'individuo l'altrui corpo distrugge o
    ferisce, sia in quanto costringe le forze dell'altrui corpo a servir
    la volontà propria, invece della volontà che in quello stesso altrui
    corpo si palesa; come, per esempio, quando alla volontà, palesantesi
    in forma d'altrui corpo, le forze di codesto corpo sottrae, e con
    ciò accresce la forza a servizio della volontà propria oltre i
    termini naturali di questa; sì che afferma la volontà propria oltre
    il suo proprio corpo, mediante negazione della volontà
    manifestantesi in un corpo estraneo. Quest'irrompere nei confini
    dell'altrui affermazione di volontà fu chiaramente conosciuto dai
    più remoti tempi, e il suo concetto espresso con la parola
    ingiustizia. Imperocché le due parti interessate riconoscono
    istantaneamente la cosa; non già, invero, come l'abbiamo qui esposta
    in limpida astrazione, bensì come sentimento. Chi subisce
    l'ingiustizia sente l'irromper nella sfera dell'affermazione del suo
    proprio corpo, mediante negazione di essa da parte di un individuo
    estraneo, sotto forma d'un dolore diretto e morale, affatto distinto
    e diverso dal male fisico, provato in pari tempo per l'azione
    stessa, o dal rammarico del danno. D'altra parte, a quegli che
    commette l'ingiustizia si affaccia la cognizione ch'egli è, in sé,
    la volontà medesima, la quale anche in quell'altro corpo si
    manifesta, e nell'un fenomeno s'afferma con tale veemenza, da farsi
    negazione appunto della volontà stessa nell'altro fenomeno,
    oltrepassando i confini del proprio corpo e delle sue forze; quindi
    egli, considerato come volontà in sé, combatte per l'appunto con la
    sua veemenza contro se medesimo, se medesimo dilania; anche a lui
    s'affaccia questa cognizione istantaneamente, non già in astratto,
    ma come oscuro sentimento: e questo è chiamato rimorso, ossia, più
    precisamente nel caso sopraddetto, sentimento della commessa
    ingiustizia.
    
    L'ingiustizia, il cui concetto abbiamo così analizzato nella più
    generica astrazione, si esprime in concreto nel modo più compiuto,
    più caratteristico e più tangibile col cannibalismo: questo è il suo
    tipo più chiaro ed evidente, l'orrenda immagine del massimo
    contrasto della volontà con se medesima, nel grado supremo della sua
    oggettivazione, che è l'uomo. Subito dopo viene l'assassinio: al cui
    compimento segue perciò il rimorso, del quale abbiamo indicata or
    ora in maniera astratta e arida la significazione, immediatamente,
    con terribile evidenza; ed alla pace dello spirito reca un colpo
    insanabile per la vita intera; essendo il nostro orrore per
    l'assassinio commesso, com'anche il nostro arretrarci davanti
    all'assassinio da commettere, prodotto dallo sconfinato attaccamento
    alla vita, che penetra ogni essere vivente, appunto in quanto è
    fenomeno della volontà di vivere (del resto, quel sentimento che
    accompagna l'atto dell'ingiustizia e del male analizzeremo in
    seguito più distesamente, e innalzeremo alla limpidità del
    concetto). Sostanzialmente identica all'assassinio, e sol per grado
    diversa, è da considerarsi la consapevole mutilazione, o anche
    semplice lesione del corpo altrui, o addirittura ogni colpo
    infertogli. Inoltre si manifesta l'ingiustizia nella sottomissione
    dell'altrui individuo, nel costringerlo a schiavitù; e finalmente
    nell'attacco contro l'altrui proprietà; il quale, ove la proprietà
    stessa si consideri come frutto del lavoro dell'aggredito, è in
    sostanza identico al ridurre a schiavitù. La spoliazione sta alla
    schiavitù, come la semplice ferita sta all'assassinio.
    
    Imperocché proprietà, la quale non si strappi all'uomo senza
    ingiustizia, può, secondo la nostra spiegazione dell'ingiustizia,
    esser soltanto quella che l'uomo ha conquistata con le proprie
    forze: strappandogliela, veniamo a sottrarre le forze del suo corpo
    alla volontà in codesto corpo oggettivata, per farle servire alla
    volontà oggettivata in un altro corpo. Invero l'autor
    dell'ingiustizia, mediante assalto non dell'altrui corpo, ma di una
    cosa inanimata, da quel corpo affatto diversa, irrompe tuttavia
    nella sfera dell'altrui affermazione di volontà, solo in quanto con
    la cosa sono quasi confuse e identificate le forze e l'attività del
    corpo stesso. Ne segue che ogni genuino, ossia ogni morale diritto
    di proprietà, poggia in origine unicamente sull'acquisto mediante il
    lavoro; come già s'ammetteva press'a poco generalmente anche prima
    di Kant, e addirittura come già esprime chiaramente e bellamente il
    più antico di tutti i codici: «I saggi, cui è nota l'antica età,
    dichiarano che un campo coltivato appartiene a colui il quale ne
    rimosse gli sterpi, lo nettò ed arò; come un'antilope appartiene al
    primo cacciatore che l'abbia ferita a morte» – Leggi Manu, IX, 44.
    Solo con l'affievolimento senile di Kant posso spiegarmi tutta la
    sua dottrina del diritto, singolare intreccio di errori germinati
    l'un dall'altro, ed il fatto ch'egli voglia fondare il diritto di
    proprietà sulla presa di possesso. Come mai potrebbe la semplice
    affermazione della mia volontà, d'escluder altri dal possesso d'una
    cosa, costituire a ciò un immediato diritto? È chiaro, che
    quest'affermazione abbisogna alla sua volta d'una base di diritto;
    mentre invece Kant ammette ch'ella sia un diritto di per sé. E in
    qual modo allora agirebbe con ingiustizia, nel significato morale,
    colui il quale non rispettasse quelle pretese all'esclusivo possesso
    di un oggetto, fondate unicamente sulla lor propria dichiarazione?
    Perché dovrebbe turbarlo in tal caso la sua coscienza? essendo tanto
    chiaro, e facile a comprendere, che non vi può essere alcuna
    legittima presa violenta di possesso, ma semplicemente una legittima
    approvazione, conseguimento dell'oggetto, con l'impiegarvi forze che
    originariamente ci appartengono. Quando, per esempio, un oggetto
    viene mediante un qualsivoglia sforzo altrui, sia pur minimo,
    coltivato, migliorato, protetto contro i rischi, conservato, e si
    riducesse pur codesto sforzo a coglier dal ramo o sollevar dal suolo
    un frutto selvatico, è palese che chi s'attacca secondo a tale
    oggetto toglie al primo il risultato del lavoro ch'egli vi ha speso,
    e fa che il corpo di questi serva alla propria volontà, invece che a
    quella di lui, afferma la sua propria volontà oltre la sfera del
    fenomeno a lei spettante, e nega la volontà dell'altro: ossia,
    commette ingiustizia48. Viceversa il semplice godimento d'un
    oggetto, senz'alcun lavoro o difesa del medesimo contro la
    distruzione, non costituisce diritto su di esso più che non
    costituisca diritto al possesso esclusivo l'affermazione della
    propria volontà. Se quindi una famiglia ha essa sola esercitata la
    caccia in una riserva, sia pure durante un secolo, ma senz'avervi
    introdotto alcun miglioramento, non può senza morale ingiustizia
    contrastarla a un intruso straniero, che voglia per l'appunto colà
    andare a caccia. Il cosiddetto diritto del primo occupante, secondo
    il quale per il semplice godimento avuto di un oggetto si pretende
    di avere in più anche una ricompensa, ossia un esclusivo diritto al
    godimento futuro, è moralmente del tutto infondato. A chi su esso
    unicamente s'appoggia potrebbe il nuovo venuto opporre con molto
    miglior diritto: «Appunto perché tu già sì a lungo ne hai goduto, è
    giusto che ora anche altri ne godano». Di ogni cosa, che non si
    presti a lavoro alcuno, sia per miglioramento, sia per difesa contro
    i rischi, non può aversi esclusivo possesso moralmente fondato, se
    non mediante volontaria cessione da parte di tutti gli altri, o come
    ricompensa di servigi altrimenti prestati; il che già presuppone una
    comunità governata da convenzioni, ossia lo Stato. Il diritto di
    possesso moralmente fondato, quale s'è dedotto più sopra, dà per sua
    natura al possessore un diritto sulla cosa posseduta altrettanto
    illimitato, quanto è quello ch'egli ha sul proprio corpo; ne viene,
    ch'egli può trasmettere il suo possesso, per mezzo di cambio o
    donazione, ad altri; i quali allora posseggono l'oggetto col suo
    medesimo diritto morale.
    
    Venendo a ciò che concerne in genere l'attuazione dell'ingiustizia,
    questa può farsi mediante violenza, o mediante insidia; che, dal
    punto di vista morale, sostanzialmente sono la stessa cosa. In primo
    luogo è nell'assassinio moralmente tutt'uno, se io mi servo del
    pugnale o del veleno; e così in ogni lesione corporale. I rimanenti
    casi di ingiustizia si posson tutti ridurre al fatto che io, con
    l'attuar l'ingiustizia, obbligo l'individuo estraneo a servir la mia
    volontà, in luogo della sua; ad agir secondo la mia, e non secondo
    la sua. Tenendo la via della violenza, conseguo questo risultato
    mediante causalità fisica; tenendo la via dell'insidia, lo conseguo
    invece mediante motivazione, ossia causalità procurata dalla
    conoscenza; col porre innanzi alla volontà altrui motivi illusori,
    in virtù dei quali l'individuo ingannato, credendo di seguir la
    volontà sua, segue la mia. Poiché il terreno in cui stanno i motivi
    è la conoscenza, io posso arrivare a quel risultato solo falsando
    l'altrui conoscenza, e questa falsificazione è la menzogna. Essa
    tende ognora a influire sull'altrui volontà; e non sull'altrui
    conoscenza sola, in sé e in quanto tale, ma sulla conoscenza come
    mezzo, ossia in quanto determina la volontà. Imperocché il mio
    stesso mentire, procedendo dalla mia volontà, ha bisogno d'un
    motivo: ma tale può esser soltanto la volontà altrui, non l'altrui
    conoscenza in sé e per sé; poi che questa come tale non può aver mai
    un influsso sulla volontà mia, né, per conseguenza, muoverla, né
    essere un motivo dei suoi fini: bensì tale può essere unicamente
    l'altrui volere ed agire; e l'altrui conoscenza invece non è tale se
    non mediatamente. Ciò vale non solo per tutte le menzogne sgorgate
    da un palese vantaggio personale, ma anche per quelle prodotte da
    pura malvagità, la quale voglia pascersi delle dolorose conseguenze
    d'un errore altrui da lei generato. Perfino la semplice fanfaronata
    mira, mediante l'aumento di stima che ne viene, o una più favorevole
    opinione da parte degli altri, ad esercitare un'influenza più o meno
    grande sul loro volere ed agire. Il rifiutarsi a dire una verità,
    ossia, in genere, a un'asserzione, in sé non costituisce un torto;
    mentre invece è tale ogni credito aggiunto a una menzogna. Chi allo
    smarrito viandante si rifiuta d'additar la buona via, non gli fa
    alcun torto; glielo fa quegli che lo mette sulla via falsa. Da
    quanto s'è detto risulta che ogni menzogna, al pari d'ogni violenza
    è, in quanto tale, torto; avendo in quanto tale per fine di
    allargare il dominio della mia volontà su altri individui, cioè di
    affermar la volontà mia negando la loro, proprio come fa la
    violenza. Ma la più compiuta menzogna è il patto infranto; perché
    quivi tutte le determinazioni suriferite sono raccolte compiutamente
    e limpidamente. Invero, quando io stringo un patto, la prestazione
    che altri mi promette è, direttamente ed esplicitamente, il motivo
    della mia, che dovrà tosto seguire. Le promesse vengono scambiate
    consapevolmente, e in tutta forma. La verità della dichiarazione
    fatta con quelle da ciascuno si intende che stia in suo potere. Se
    l'altra parte rompe il patto, essa m'ha ingannato e, insinuando
    nella mia conoscenza motivi solo illusori, ha diretto la mia volontà
    secondo i propri fini, ha esteso il dominio della volontà propria
    sopra un altro individuo, e quindi ha compiuto una vera e propria
    ingiustizia. Su ciò si fondano la legittimità morale e la validità
    dei contratti. Ingiustizia mediante violenza non è per chi la
    commette tanto obbrobriosa, quanto è l'ingiustizia mediante insidia;
    perché quella attesta forza fisica, la quale, in ogni circostanza,
    fa grande effetto sugli uomini; mentre questa, andando per via
    obliqua, è prova di debolezza, ed abbassa chi la compie, sì come
    individuo fisico che come individuo morale; ancor più lo abbassa, in
    quanto menzogna e inganno possono riuscire solo a condizione, che
    chi li adopra manifesti in pari tempo ripugnanza e disprezzo verso
    tali armi, per guadagnarsi fiducia, e la sua vittoria sta nel farsi
    attribuire la lealtà che non possiede. La profonda ripugnanza, che
    malizia infedeltà e tradimento destano ognora, viene dall'esser
    fedeltà e lealtà il vincolo, che ricongiunge esteriormente in unità
    la volontà sparpagliata nella folla degli individui, ponendo così un
    limite alle conseguenze dell'egoismo prodotto da quel frazionamento.
    Infedeltà e tradimento spezzano quest'ultimo vincolo esterno, e
    aprono con ciò alle conseguenze dell'egoismo un campo senza confini.
    
    Nella concatenazione del nostro pensiero abbiamo trovato il
    contenuto del concetto d'ingiustizia nella particolar natura
    dell'azione, con cui un individuo tanto allarga l'affermazione della
    volontà manifestantesi nel suo corpo, da farne la negazione della
    volontà manifestantesi nei corpi altrui. Abbiamo anche mostrato con
    esempi affatto generici i limiti ove ha principio il dominio
    dell'ingiusto, determinandone insieme le gradazioni, dalle massime
    alle minime, con pochi concetti fondamentali. Da ciò risulta, che
    originario e positivo è il concetto dell'ingiusto: mentre l'opposto
    concetto del giusto è derivato, negativo. Imperocché non alle parole
    dobbiamo tenerci, ma ai concetti. In verità, non si sarebbe mai
    fatta parola del giusto, se non vi fosse l'ingiusto. Il concetto di
    giustizia contiene semplicemente la negazione dell'ingiustizia, e in
    esso viene compresa ogni azione, che non sia trasgressione del
    confine su esposto, ossia negazione dell'altrui volontà per maggiore
    affermazione della propria. Quel confine partisce adunque, rispetto
    a una determinazione puramente e semplicemente morale, l'intero
    campo delle azioni possibili in azioni ingiuste o giuste. Un'azione
    che non vada a ficcarsi, al modo spiegato più sopra, nella sfera
    dell'affermazione della volontà altrui, tale affermazione negando,
    non è ingiusta. Perciò il negare aiuto in caso di stringente
    necessità altrui, l'indifferente contemplar chi muore di fame,
    mentre noi stiamo nell'abbondanza, è bensì crudele e perverso, ma
    non è un far torto: soltanto si può dir con tutta certezza, che
    colui il quale è capace di spingere a tal punto la sua insensibilità
    e durezza, sicuramente saprà compiere anche ogni ingiustizia, non
    appena le sue voglie lo chiedano e nessuna costrizione l'impedisca.
    
    Il concetto di diritto, come negazione dell'ingiusto, ha nondimeno
    trovato la sua principale applicazione, e senza dubbio anche la sua
    prima origine, nei casi in cui tentata ingiustizia viene impedita
    con violenza: il quale impedimento alla sua volta non può essere
    ingiustizia, bensì è diritto: anche se la violenza impiegatavi,
    considerata in se stessa e isolatamente, sarebbe ingiustizia, e qui
    venga giustificata sol dal suo motivo, diventando diritto. Se un
    individuo nell'affermazione della sua volontà va tanto lontano, da
    irrompere nella sfera dell'affermazione di volontà inerente alla mia
    persona in quanto tale, e viene con ciò a negar l'affermazione mia,
    il mio difendermi da tale violenza è solo un negar quella negazione;
    e quindi, da parte mia, non altro è che l'affermar la volontà per
    essenza e originariamente manifestantesi nel mio corpo, e già
    implicite esprimentesi col semplice fenomeno del corpo stesso: non è
    quindi ingiustizia, bensì diritto. Il che vai quanto dire: io ho
    allora un diritto, di negar quella negazione con ogni forza atta a
    toglierla di mezzo; diritto che, si vede facilmente, può arrivare
    fino all'uccisione dell'individuo estraneo, il cui atto a mio danno,
    quale premente violenza esteriore, può essere impedito mediante una
    reazione alquanto più forte di esso, senza commettere ingiustizia di
    sorta, e quindi con diritto; imperocché tutto quanto vien fatto da
    parte mia sta sempre esclusivamente nella sfera dell'affermazione di
    volontà inerente alla mia persona come tale, e già in lei espressa
    (sfera che è il teatro della battaglia); né irrompe nella sfera
    altrui: sì che è solo negazione della negazione, ossia affermazione
    e non negazione. Io posso adunque, senza ingiustizia, costringer la
    volontà estranea che nega la volontà mia quale si manifesta nel mio
    corpo e nell'uso delle forze di esso per la propria conservazione,
    senza negare io perciò un'altrui volontà contenuta in eguali
    confini, a desister da codesta negazione: ossia ho, in siffatta
    misura, un diritto di coercizione.
    
    In tutti i casi nei quali io ho un diritto di coercizione, un pieno
    diritto di usar violenza contro gli altri, posso egualmente, secondo
    le circostanze, opporre all'altrui violenza anche l'astuzia, senza
    commettere ingiustizia; ed ho quindi un vero e proprio diritto alla
    menzogna, nella stessa misura in cui ho diritto alla coercizione
    violenta. Perciò, chi assicuri al malandrino che lo sta frugando, di
    non aver null'altro su di sé, agisce con pieno diritto; così anche
    colui, il quale attiri con una menzogna in cantina il ladro
    entratogli di notte in casa, e ve lo rinchiuda. Chi sia trascinato
    prigione da malfattori, per esempio, da pirati barbareschi, ha il
    diritto, per liberarsi, di ucciderli non soltanto con aperta
    violenza, ma anche con inganno. Similmente una promessa strappata
    con diretta violenza corporale non lega in nulla; perché quegli, che
    subisce una tal costrizione, può con pieno diritto liberarsi di chi
    gli usa violenza, con l'uccisione, nonché con l'insidia. Chi non può
    riprender con la forza il bene rubatogli, non commette ingiustizia
    se lo riacquista con inganno. Perfino, se taluno dissipa al gioco il
    denaro che m'ha involato, ho diritto di barare a suo danno: perché
    quanto io gli tolgo, già mi appartiene. Chi ciò volesse negare,
    dovrebbe ancor più negar la legittimità dell'insidia guerresca, la
    quale è addirittura una menzogna in azione, e conferma il motto
    della regina Cristina di Svezia: «Le parole degli uomini non vanno
    calcolate per nulla: grazia se si può credere ai loro atti». Così da
    presso il limite del giusto sfiora quello dell'ingiusto! Del resto,
    credo superfluo dimostrare, che tutto ciò concorda appieno con
    quanto è detto più sopra intorno all'illegittimità della menzogna
    come della violenza: può anche servir d'illustrazione alle singolari
    teorie sopra la menzogna necessaria49.
    
    In virtù di tutto quanto ho esposto finora, torto e diritto sono
    semplicemente determinazioni morali; tali, cioè, che abbian valore
    rispetto alla considerazione dell'umana attività in se stessa, e in
    rapporto all'intimo significato di codesta attività in sé. Questo
    valore si rivela direttamente nella conscienza, in primo luogo, per
    il fatto che l'agire contro giustizia è accompagnato da un interno
    rammarico, il quale in chi commette l'ingiustizia è la conscienza,
    semplicemente sentita, dell'eccessiva forza onde s'afferma in lui la
    volontà, arrivando fino al punto di negare il fenomeno della volontà
    altrui. E l'autor dell'ingiustizia, essendo bensì distinto come
    fenomeno della sua vittima, le è nondimeno identico nell'essenza.
    L'ulteriore esplicazione di codesto intimo significato d'ogni
    fenomeno potrà seguire solo più tardi. Per un altro verso, chi
    patisce l'ingiustizia è dolorosamente consapevole della negazione
    della propria volontà, quale essa volontà è già espressa mediante il
    corpo di lui, ed i suoi naturali bisogni, pel cui appagamento la
    natura lo fa contar sulle forze di questo corpo medesimo. Anche è
    consapevole, in pari tempo, che senza commettere ingiustizia
    potrebbe opporsi in tutti i modi a quella negazione, se non gliene
    mancasse la forza. Cotal valore puramente morale è l'unico, che
    diritto e ingiustizia abbiano per l'uomo come uomo (non come
    cittadino nello Stato); l'unico, quindi, che sussisterebbe anche
    nello stato di natura, senz'alcuna legge positiva; l'unico, che
    costituisce la base e il contenuto di tutto quanto s'è perciò
    chiamato diritto naturale, ma meglio si chiamerebbe diritto morale:
    estendendosi il suo valore non già al subire, alla realtà esterna,
    ma solo all'agire e alla consapevolezza del proprio volere
    individuale, che l'agire fa nascere nell'uomo; consapevolezza, che
    si chiama coscienza. La quale nello stato di natura non in tutti i
    casi può farsi valere anche al di fuori, sopra altri individui, ed
    impedire che violenza regni in luogo del diritto. Nello stato di
    natura dipende invero semplicemente da ciascuno, di non agire in
    nessun caso con ingiustizia, ma non già di non subire in nessun caso
    ingiustizia, poiché ciò dipende da quella forza esteriore che ci è
    toccata. Perciò sono i concetti di giusto e ingiusto bensì validi
    anche per lo stato di natura, e punto convenzionali; ma quivi
    valgono sol come concetti morali, per l'autoconscienza che ciascuno
    ha della propria volontà. Ovvero sono, sulla scala dei
    differentissimi gradi d'intensità, con cui la volontà di vivere
    s'afferma negli individui umani, un punto fermo, simile al punto di
    congelazione nel termometro: il punto, ove l'affermazione della
    volontà propria diventa negazione dell'altrui, ossia con l'agire
    ingiustamente indica il grado della sua vivacità congiunto col grado
    dell'irretimento della conoscenza nel principio individuationìs (il
    quale è la forma della conoscenza posta per intero al servigio della
    volontà). Chi voglia ora porre da canto la considerazione puramente
    morale degli atti umani, o negarla, e gli atti stessi guardar
    soltanto sotto il rispetto del loro effetto esteriore e del loro
    successo, potrà invero chiamar con Hobbes giustizia e ingiustizia
    convenzionali determinazioni, arbitrariamente assunte, e punto
    esistenti all'infuori della legge positiva; né mai potremmo noi
    fargli intendere per esteriore esperienza ciò che non all'esteriore
    esperienza s'appartiene. Così al medesimo Hobbes, il quale
    caratterizza in modo singolarissimo quel suo pensiero affatto
    empirico, negando nel suo libro De principiis geometrarum tutta la
    matematica pura vera e propria, e ostinato affermando avere il punto
    estensione, e aver larghezza una linea, non potremo metter mai sotto
    gli occhi un punto senza estensione e una linea senza larghezza, per
    provargli l'a priori della matematica, più di quanto possiamo fargli
    intendere l'a priori del diritto: perché egli si è asserragliato
    contro ogni conoscenza non empirica.
    
    La pura filosofia del diritto è dunque un capitolo della morale, e
    si riferisce in modo diretto soltanto all'azione che si compie, non
    già a quella che si subisce. Che solo la prima è esplicazione della
    volontà, e la morale non considera se non la volontà. Il subire è un
    semplice accidente: solo in via indiretta la morale può
    considerarlo, ed esclusivamente per dimostrare, che quanto si fa con
    l'unico fine di non patire un'ingiustizia, non è atto ingiusto. Quel
    capitolo della morale, sviluppato, avrebbe come contenuto la precisa
    determinazione del limite, fino al quale un individuo può arrivare
    nell'affermazione della volontà già oggettivata nel suo corpo, senza
    che codesta affermazione diventi negazione di quella volontà
    medesima, rilevantesi in un altro individuo; ed inoltre dovrebbe
    determinar le azioni, che andando oltre il limite sopraddetto sono
    ingiuste, e tali quindi da poter essere impedite senza commettere
    ingiustizia. Sempre rimarrebbe così oggetto dell'indagine l'azione
    sola.
    
    Ma nell'esperienza esteriore, come accidente, si presenta il fatto
    dell'ingiustizia patita: e vi si manifesta più limpido che altrove,
    come già fu detto, il fenomeno dell'opposizione della volontà di
    vivere contro se stessa, risultante dalla pluralità degli individui
    e dall'egoismo; l'una e l'altro determinati dal principio
    individuationis, che è la forma del mondo quale rappresentazione per
    la conoscenza individuale. Abbiamo anche visto più sopra, che
    un'assai gran parte del dolore inerente all'umana vita ha in quel
    contrasto degl'individui la sua perenne sorgente.
    
    Ma la ragione, a tutti codesti individui comune, la quale fa sì
    ch'essi non conoscano, come gli animali, soltanto il caso singolo,
    ma anche la connessione dell'insieme, in astratto, ha presto
    insegnato loro a conoscer la sorgente di quel male, e li ha
    richiamati a considerare i mezzi di farlo minore, o, quando fosse
    possibile, di sopprimerlo, mediante un sacrificio comune, che
    tuttavia vien vantaggiosamente compensato dal profitto che a tutti
    ne deriva. Per quanto gradevole sia invero all'egoismo individuale,
    capitandone il caso, il commettere un'ingiustizia, tale atto ha
    nondimeno un correlato necessario nel patir che altri fa
    l'ingiustizia medesima, avendone un grande dolore. E quando la
    ragione, considerando genericamente, si innalzò sul punto di vista
    unilaterale dell'individuo a cui appartiene, sciogliendosi per un
    istante dal vincolo che a lui la lega, vide che il godimento,
    provato da ciascuno individuo per l'atto ingiusto commesso, è
    superato ognora da un dolore relativamente più grande, che prova chi
    quell'atto subisce. E vide, inoltre, come tutto essendo in ciò
    affidato al caso, ciascuno avrebbe avuto da temere, che a sé il
    dolore dell'ingiustizia sofferta toccasse ben più frequente del
    piacere per un'eventuale ingiustizia commessa. E la ragione ne
    ricavò che, tanto per diminuire il male su tutti disteso, quanto per
    distribuirlo quanto più fosse possibile uniformemente, il migliore e
    unico mezzo fosse risparmiare a tutti il dolore di subire
    l'ingiustizia, per questa via: rinunziar tutti anche al piacere di
    commetterla. Questo mezzo adunque, che l'egoismo per mezzo della
    ragione facilmente trovò, e gradatamente perfezionò, procedendo con
    metodo e abbandonando il proprio unilaterale punto di vista, è il
    contratto sociale o la legge.
    
    L'origine, ch'io qui gli assegno, esponeva già Platone nella
    Repubblica. In verità è tale origine essenzialmente l'unica, e posta
    dalla natura della cosa. Né può lo Stato averne avuta altra, in
    nessun paese, che gli è appunto codesta maniera di nascita, codesta
    finalità, a farne uno Stato; ed è poi indifferente se in questo o in
    quel popolo l'abbia preceduto la condizione d'una moltitudine di
    selvaggi indipendenti (anarchia), o di schiavi dominati per arbitrio
    dal più forte (dispotismo). Nell'un caso e nell'altro non s'aveva
    Stato: lo Stato sorge solo mediante quel comune accordo; ed a
    seconda che tale accordo sia più o meno puro da anarchia o
    dispotismo, è anche lo Stato più o meno perfetto. Le repubbliche
    tendono all'anarchia, le monarchie al dispotismo, e la via
    intermedia della monarchia costituzionale, che per ovviare a quei
    mali s'è escogitata, tende al predominio delle fazioni. Per fondare
    uno Stato perfetto, si deve incominciar dal creare esseri, cui
    Natura consenta di sacrificare il bene proprio al bene pubblico. Ma
    frattanto qualcosa già s'ottiene, dall'esservi una famiglia, il cui
    bene sia da quello del paese affatto inseparabile: sì che ella,
    almeno nelle cose essenziali, non possa mai vantaggiar l'uno senza
    l'altro. Qui sta la forza e il pregio della monarchia ereditaria.
    
    Se la morale mira esclusivamente all'azione giusta o ingiusta, e
    può, a quegli il quale sia per avventura risoluto di non fare atto
    ingiusto, stabilir nettamente i confini delle sue operazioni; la
    dottrina dello Stato, invece, la scienza della legislazione, mira
    soltanto all'ingiustizia patita, né mai si occuperebbe
    dell'ingiustizia commessa, se non fosse per l'ognor necessario
    correlato di questa, ossia la patita: la quale è l'oggetto della sua
    attenzione, quasi il nemico contro cui ella si affatica. Ove si
    potesse concepire un atto ingiusto, col quale non fosse d'altra
    parte congiunta un'ingiustizia sofferta, lo Stato conseguentemente
    non lo punirebbe in nessun modo. Inoltre, poiché nella morale è
    oggetto di considerazione ed unica realtà l'animo, l'intenzione, per
    essa la volontà risoluta di commettere ingiustizia, quando pur sia
    arrestata e resa impotente da una forza estranea, equivale in tutto
    all'ingiustizia effettivamente commessa; e la morale condanna nel
    suo tribunale, come ingiusto, chi quell'intenzione aveva. Viceversa
    lo Stato non toccano animo e intendimento, sol come tali, né punto
    né poco; bensì solamente l'atto (sia esso poi tentato o compiuto),
    in ragione del suo correlato, del patire, che ne viene dall'altra
    parte: per lo Stato è una realtà l'azione, il fatto accaduto;
    l'intendimento, il volere non s'indaga se non in quanto da esso vien
    reso manifesto il significato dell'atto. Quindi lo Stato non vieterà
    ad alcuno di meditar permanentemente violenza omicida o veleno a
    danno altrui, non appena sia persuaso che il timore della pena
    capitale e della tortura arresteranno sempre gli effetti di
    quell'intenzione. E lo Stato non ha pur minimamente il folle
    proposito di distruggere l'inclinazione all'ingiustizia, la malvagia
    intenzione; bensì ad ogni possibile impulso verso il compimento di
    un torto vuol porre accanto una prevalente ragione di non
    commetterlo, la qual consiste nell'ineluttabile punizione: perciò è
    il codice penale un elenco, il più possibile completo, di
    contromotivi opposti a tutte le azioni delittuose presupposte come
    possibili. La scienza statale, o legislazione, per questo suo fine
    torrà a prestito dalla morale il capitolo, che costituisce la
    filosofia del diritto, e che oltre a dar l'intimo significato del
    giusto e dell'ingiusto ne determina i netti confini; ma
    esclusivamente per adoprarne il rovescio, e tutti quei termini, che
    la morale pone come insormontabili da chi non voglia commettere
    ingiustizia, considerar sotto l'aspetto opposto: come termini, il
    cui valicamento da parte d'altri non va tollerato, se non si vuol
    patire ingiustizia, e da cui s'ha il diritto di respingere altrui.
    Tali termini vengono così sotto codesto rispetto, fin dove si può
    passivo, barricati dalle leggi. Ne risulta che, come molto
    argutamente lo storico fu definito un profeta a rovescio, così è un
    moralista a rovescio il giurista; e quindi anche la scienza del
    diritto in senso proprio, ossia la dottrina dei diritti, che si
    possono affermare, è una morale a rovescio nel capitolo, in cui
    questa insegna i diritti che non si possono violare. Il concetto
    dell'ingiustizia e della sua negazione, della giustizia, il quale è
    in origine concetto morale, diventa giuridico trasportando il punto
    di partenza dall'aspetto attivo al passivo, ossia mediante un
    capovolgimento. Ciò, aggiunto alla dottrina giuridica di Kant, il
    quale molto falsamente deriva dal suo imperativo categorico
    l'istituzione dello Stato come un dovere morale, ha prodotto anche
    nell'età più moderna di tanto in tanto il singolarissimo errore, che
    lo Stato sia un istituto per l'incremento della moralità, nasca da
    un tendere verso di essa e sia quindi rivolto contro l'egoismo. Come
    se l'interno animo, l'eternamente libero volere, al quale soltanto
    si riferiscono moralità o immoralità, si potesse dal di fuori
    modificare, e per influsso esterno mutare! Ancor più stolto è il
    teorema, secondo il quale lo Stato è condizione della libertà nel
    senso morale e quindi della moralità: mentre invece la libertà
    risiede di là dal fenomeno, altro che di là dalle umane istituzioni!
    Lo Stato, come ho detto, è sì poco rivolto contro l'egoismo in
    genere e in quanto tale, che viceversa per l'appunto dall'egoismo è
    originato: da quell'egoismo bene inteso, metodicamente procedente,
    salito dal punto di vista individuale al generale, e assommante in
    sé l'egoismo di tutti. A servizio di questo è lo Stato: poggiando
    sulla retta premessa, che non sia da attendersi moralità pura, ossia
    un giusto agire per principi morali; che se così non fosse, esso
    diventerebbe superfluo. Non punto, adunque, contro l'egoismo, bensì
    esclusivamente contro gli effetti dannosi dell'egoismo, che dalla
    folla degli individui egoisti si producono a svantaggio reciproco di
    tutti, e ne turbano il benessere, è lo Stato rivolto: il quale a tal
    benessere mira. Perciò diceva già Aristotele (De Rep., III): Τελος
    μεν ουν πολεων το ευ ζη̣ν˙ τουτο δε εστιν το ζη̣ν˙ ευδαιμονως και
    καλως (Finis civitatis est bene vivere, hoc autem est beate et
    pulchre vivere). Anche Hobbes ha giustissimamente e in modo
    eccellente esposto quest'origine e finalità dello Stato, quali
    vengono d'altronde espresse dall'antico principio di tutti i gli
    ordinamenti statali, salus publica suprema lex esto. Se lo Stato
    raggiungesse appieno il suo fine, produrrebbe lo stesso effetto come
    se universalmente regnasse perfetta giustizia d'intenzioni. Ma
    l'intima essenza, l'origine di codeste due condizioni di cose
    sarebbero l'una l'opposto dell'altra. Imperocché nel secondo caso
    s'avrebbe, che nessuno voglia compiere ingiustizia; nel primo,
    invece, che nessuno voglia patire ingiustizia; e a tal fine
    sarebbero appieno adoprati i mezzi opportuni. Così può la medesima
    linea venir tracciata da opposte direzioni, e un animale da preda
    con la museruola è innocuo come un erbivoro. Ma più in là di questo
    punto lo Stato non può andare: non può quindi mostrarci un aspetto
    pari a quello, che risulterebbe da generale, reciproca benevolenza
    ed amore. Poiché, come abbiamo or ora notato che esso, per propria
    natura, non vieterebbe un atto ingiusto, dal quale non risultasse
    dall'altra parte alcun patimento d'ingiustizia, ed ogni ingiustizia
    vieta sol perché tale condizione sarebbe impossibile; così viceversa
    assai volentieri farebbe sì, conformemente alla propria tendenza
    rivolta al benessere generale, che ciascuno ricevesse benevolenza e
    ogni maniera d'atti d'amor del prossimo; se nondimeno anche questi
    atti ricevuti non avessero un correlato inevitabile nella
    prestazione di benefizi e di opere altruistiche. Ma invece ogni
    cittadino dello Stato vorrebbe in ciò assumere la parte passiva, e
    nessuno l'attiva; e quest'ultima per nessun motivo si potrebbe
    pretenderla dall'uno piuttosto che dagli altri. Perciò si può
    imporre il negativo soltanto, che appunto costituisce il diritto, e
    non il positivo, che va sotto il nome di doveri d'amore, o doveri
    imperfetti.
    
    La legislazione toglie a prestito, come s'è detto, la dottrina pura
    del diritto, ossia dottrina intorno all'essenza ed ai limiti del
    diritto e del torto, dalla morale, per adoprarla capovolta secondo i
    fini proprii, che alla morale sono estranei, e su questa base
    stabilire la legislazione positiva coi mezzi per sostenerla, ossia
    lo Stato. La legislazione positiva è adunque la dottrina morale del
    diritto puro, applicata a rovescio. Quest'applicazione può accadere
    con riguardo alle speciali condizioni e circostanze di un
    determinato popolo. Ma sol quando la legislazione positiva nella
    sostanza è costantemente guidata dal principio del diritto puro, ed
    ogni sua sanzione ha nella dottrina del diritto puro la propria
    base, può dirsi che codesta legislazione siffattamente formata sia
    davvero un diritto positivo, e lo Stato un'associazione giuridica:
    Stato nel vero senso della parola, istituzione moralmente
    ammissibile, e non immorale. In caso contrario la legislazione
    positiva è viceversa il fondamento di una positiva ingiustizia, è
    essa medesima un'ingiustizia imposta, pubblicamente ammessa. Di tal
    fatta è ogni dispotismo, e la costituzione della più parte degli
    Stati musulmani; di tal natura sono perfino talune parti di molte
    costituzioni, come per esempio la schiavitù, il lavoro obbligato, e
    così via. La dottrina pura del diritto, o diritto naturale, anzi
    meglio diritto morale, sta, neppur sempre a rovescio, a base d'ogni
    legislazione giuridica positiva, come la matematica pura sta a base
    d'ogni ramo dell'applicata. I punti più importanti della dottrina
    pura del diritto, quali la filosofia deve trasmetterli, pei fini
    suddetti, alla legislazione, sono i seguenti: 1. Spiegazione
    dell'intimo e proprio valore nonché dell'origine dei concetti di
    giusto e d'ingiusto, e della loro applicazione e del loro posto
    nella morale. 2. Deduzione del diritto di proprietà. 3. Deduzione
    del valore morale dei contratti: essendo questo il fondamento morale
    del contratto sociale. 4. Spiegazione dell'origine e finalità dello
    Stato, della relazione di codesta finalità con la morale, e della
    conseguente trasposizione della dottrina morale del diritto,
    invertita, alla legislazione. 5. Deduzione del diritto penale. Il
    rimanente contenuto della teoria del diritto non è se non
    l'applicazione di quei principii, più precisa determinazione dei
    confini del giusto e dell'ingiusto per tutte le possibili
    contingenze della vita, le quali vengono perciò riunite e suddivise
    sotto speciali riguardi e titoli. In queste dottrine particolari
    s'accordano quasi del tutto i manuali del diritto puro: sol nei
    principii suonano assai diversi; imperocché i principii sono sempre
    in relazione con qualche sistema filosofico. Ora che noi, in
    conformità del sistema nostro, abbiamo esposto in forma breve e
    generica sì, ma tuttavia netta e chiara, i primi quattro di quei
    punti essenziali, ci tocca ancora di parlar nello stesso modo del
    diritto penale.
    
    Kant gettò la falsissima affermazione, che fuori dello Stato non
    esista alcun diritto perfetto di proprietà. Secondo la deduzione
    fatta più sopra, esiste invece proprietà anche nello stato di
    natura, con pieni diritti naturali, ossia morali; la quale non può
    senza ingiustizia venire offesa, e senza ingiustizia può esser
    difesa fino all'estremo. Invece è certo, che fuori dello Stato non
    c'è diritto di pena. Ogni diritto di punire è fondato unicamente
    sulla legge positiva, la quale prima dell'atto compiuto ha sancito
    per questo una pena; la cui minaccia, come contromotivo, dovrebbe
    prevaler su tutti gli eventuali motivi di quell'atto. Codesta legge
    positiva si deve considerare come sanzionata e riconosciuta da tutti
    i cittadini dello Stato. Si fonda dunque sopra un patto comune, al
    cui adempimento in ogni circostanza, ossia all'esecuzione della pena
    da una parte e al sofferimento di essa dall'altra, i membri dello
    Stato sono vincolati: perciò la pena può con diritto venire imposta.
    Conseguentemente l'immediato fine della pena nel singolo caso è
    adempimento della legge come d'un contratto. Ma scopo unico della
    legge è il trattenere, col timore, dalla violazione degli altrui
    diritti: poi che appunto, perché ciascuno sia protetto contro
    l'ingiustizia, ci si è riuniti nello Stato, i pesi del suo
    mantenimento assumendo su di sé. La legge adunque e la sua
    esecuzione, la pena, sono essenzialmente rivolte al futuro, non al
    passato. Ciò distingue pena da vendetta, la quale ultima è motivata
    esclusivamente dal fatto accaduto, ossia dal passato, in quanto
    tale. Ogni imposizione di dolore fatta, senza mirare al futuro, per
    un'ingiustizia commessa, è vendetta, e non può avere altro fine, se
    non confortare se stesso del male sofferto, mediante la vista di un
    male altrui, da noi cagionato. Ciò costituisce cattiveria e
    crudeltà, né si può eticamente giustificare. L'ingiustizia, che
    altri compie verso me, non mi dà minimamente il diritto di
    commettere ingiustizia a suo riguardo. Pagar male con male,
    senz'altra mira, non è cosa da giustificarsi moralmente né in altro
    modo in virtù di qualsivoglia principio ragionevole; ed il jus
    talionis, eretto a principio indipendente ed a finalità ultima del
    diritto penale, è vuoto di senso. Perciò è in tutto priva di base e
    assurda la teoria di Kant intorno alla pena, concepita qual semplice
    compensazione per la compensazione. E nondimeno la viene ancor fuori
    negli scritti di molti giuristi, in mezzo a ogni maniera di frasi
    pompose, che si riducono a una vuota filastrocca, come ad esempio:
    venire il delitto per mezzo della pena espiato, neutralizzato,
    cancellato, e così via. Ma nessun uomo ha la facoltà di stabilirsi
    giudice e compensatore in senso puramente morale, ed i misfatti di
    un altro punire con dolori da sé causati, ed a quegli imporre così
    espiazione per ciò che ha fatto. Questa sarebbe arrogantissima
    presunzione; onde il detto biblico: «Mia è la vendetta, esclama il
    Signore, e voglio io compensare». Ha bensì l'uomo il diritto di
    provvedere alla sicurezza della società; ma ciò può accadere solo
    mediante interdizione di tutti quegli atti che indica la parola
    «criminale», per impedirli col mezzo dei contromotivi, che sono le
    minacciate pene; la qual minaccia può avere efficacia sol con
    l'esecuzione, quando il caso sia, malgrado l'interdizione, avvenuto.
    Che perciò scopo della punizione o più precisamente della legge
    punitiva, sia il trattenere altrui col timore dal compiere un reato,
    è una verità così universalmente riconosciuta, anzi di per se stessa
    luminosa, che in Inghilterra fu perfino già espressa nell'antica
    formula d'accusa (indictment), di cui oggi ancora si serve nei
    processi criminali l'avvocato della corona; la quale termina: «if
    this be proved, you, the said N. N., ought to be punished with pains
    of law, to deter others from the like crimes, in ali time coming»
    50. Servire al futuro è ciò che distingue la pena dalla vendetta; e
    la pena ha questa finalità sol quando viene applicata come
    esecuzione di una legge; la quale esecuzione, solo siffattamente
    annunziandosi come inevitabile in ogni altro caso futuro, dà alla
    legge la forza d'intimidazione in cui sta appunto la sua finalità.
    Qui un kantiano immancabilmente osserverebbe, che secondo questo
    modo di vedere il delinquente punito viene adoprato «sol come
    mezzo». Ma questo principio, così infaticabilmente ripetuto da tutti
    i kantiani, «che si debba sempre trattar l'uomo sol come fine, mai
    come mezzo», è bensì un principio che suona con aria d'importanza, e
    quindi appropriatissimo per tutti coloro, i quali amano d'avere una
    formula, che tolga loro la fatica di continuare a pensare; tuttavia
    guardato alla luce è una sentenza oltremodo vaga, indeterminata, la
    quale per ciascun caso, in cui debba essere applicata, richiede
    dapprima particolare spiegazione, determinazione e modificazione,
    mentre, presa così in maniera generica, è insufficiente, poco
    concludente, e per di più problematica. L'assassino, che per virtù
    di legge è consacrato alla pena capitale, deve invero ed a buon
    diritto essere usato come semplice mezzo. Perché la sicurezza
    pubblica, scopo principale dello Stato, è da lui turbata anzi
    soppressa, se la legge rimane ineseguita: lui, la sua vita, la sua
    persona devono essere ora il mezzo per l'esecuzione della legge, e
    quindi per la restaurazione della pubblica sicurezza; e un mezzo
    egli diviene a pieno diritto, per l'adempimento del contratto
    sociale, che da lui medesimo, in quanto egli era cittadino dello
    Stato, aveva avuto sanzione, e per effetto del quale, col fine
    d'aver sicurtà di godere la propria vita, la propria libertà, i
    propri possessi, aveva questa vita, questa libertà, questi possessi
    dati in pegno. Ed il pegno è ora scaduto. La teoria della pena qui
    esposta, che balza evidente per ogni sana ragione, è in verità
    sostanzialmente un pensiero tutt'altro che nuovo; bensì un pensiero
    quasi messo al bando da nuovi errori, sì ch'era necessario chiarirlo
    limpidissimamente. La sua spiegazione è, nella sostanza, già
    contenuta in ciò che a tal proposito dice Puffendorf, De officio
    hominis et civis, 1. 2, cap. 13. Vi si accorda egualmente Hobbes,
    Leviathan, capp. 15 e 28. Ai nostri giorni l'ha sostenuta, come si
    sa, Feuerbach. La si trova d'altronde già nei detti dei filosofi
    antichi: Platone l'espone chiaramente nel Protagora (p. 114, ed.
    Bip.), e anche nel Gorgia (p. 168), e finalmente nell'undecimo libro
    delle Leggi. Seneca esprime appieno il pensiero di Platone e la
    teoria di tutte le pene nelle brevi parole: «Nemo prudens punit,
    quia peccatum est; sed ne peccetur» (De Ira, I, 16).
    
    Abbiamo dunque conosciuto nello Stato il mezzo, mediante cui
    l'egoismo armato di ragione cerca di sfuggire ai suoi proprii
    perniciosi effetti rivolgentisi contro se medesimo; ciascuno
    favorisce il bene di tutti, perché vi vede compreso il bene suo
    proprio. Ove lo Stato raggiungesse appieno il suo fine, potrebbe
    aversi da ultimo, poiché esso mediante le forze umane in sé
    congiunte sa ognor più trarre a suo servigio anche la rimanente
    natura, con la rimozione d'ogni maniera di mali alcunché d'analogo
    al paese di Cuccagna. Ma per un verso esso è tuttora sempre lontano
    da questo termine; per l'altro innumerevoli mali, alla vita
    necessariamente inerenti, manterrebbero come prima la vita in
    dolore; tra i quali, fossero pur tutti gli altri eliminati, da
    ultimo la noia occuperebbe ogni posto da quelli lasciato; per un
    altro verso ancora la discordia degli individui non può mai dallo
    Stato esser tolta in tutto di mezzo, che essa stuzzica nel piccolo,
    dov'è interdetta nel grande, ed infine Eris, felicemente cacciata
    dall'interno, si volge ancora al di fuori: bandita per mezzo
    dell'ordinamento civile dalle contese degli individui, ritorna
    dall'esterno in forma di guerra dei popoli, e pretende allora in
    grosso e tutto in una volta, come debito accumulato, le sanguinose
    vittime, che mediante saggia provvidenza le si erano sottratte
    singolarmente. E ammesso finalmente, che tutto ciò si potesse
    superare e toglier di mezzo, con una saggezza fondata
    sull'esperienza di millennii, il risultato ultimo sarebbe l'eccesso
    di popolazione sull'intero pianeta; terribile male, che oggi solo
    un'audace fantasia riesce a rappresentarsi51.
    
    § 63.
    
    Abbiamo conosciuta la giustizia temporale, che ha sua sede nello
    Stato, quale compensatrice o punitrice; e abbiam visto, ch'essa
    divien giustizia solo riguardo al futuro; imperocché senza tale
    riguardo ogni punizione e compensazione d'un delitto sarebbe
    ingiustificata, anzi sarebbe non altro che l'aggiunta di un secondo
    male al male accaduto, senza ragione e significato. Tutt'altra
    condizione si ha con la giustizia eterna, già innanzi ricordata; la
    quale regge non lo Stato, bensì il mondo, non dipende da umani
    ordinamenti, non è soggetta al caso ed all'errore, mai insicura,
    oscillante ed errante, bensì infallibile, ferma e sicura. Il
    concetto della compensazione racchiude già il tempo in sé: quindi
    non può l'eterna giustizia punire con determinata misura; non può,
    come la giustizia penale, concedere dilazioni e fissar termini, e,
    sol per mezzo del tempo sanando il misfatto con le cattive
    conseguenze di esso, del tempo aver bisogno per sussistere. La pena
    dev'esser qui col misfatto siffattamente congiunta, da formare
    tutt'uno.
    
    Δοκειτε πηδα̣ν τ’αδικηματ’ εις θεους
    
    Πτεροισι, κα̉πειτ’ εν Διος δελτου πτυχαις
    
    Θνητοις δικάζειν: Ουδ’ ό πας ουρανος,
    
    Διος γραφοντος τας βροτων άμαρτιας,
    
    Εξαρκεσειεν, ουδ’ εκεινος αν σκοπων
    
    Πεμπειν έκαστω̣ ζημιαν˙ αλλ’ή Δικη
    
    Ενταυθα που 'στιν εγγυς, ει βουλεσθ’ όρα̣ν.
    
    Eurip., ap. Stob. Ed. i, e. 4
    
    (Volare penis scelera ad aetherias domus
    
    Putatis, illic in Jovis tabularia
    
    Scripto referri: tum Jovem lectis super
    
    Sententiam proferre? – sed mortalium
    
    Facinora cœli, quantaquanta est, regia
    
    Nequit tenere; nec legendis Juppiter
    
    Et puniendis par est. Est tamen ultio,
    
    Et, intuemur, illa nos habitat prope).
    
    Ora, che una tal divina giustizia veramente esista nell'essenza del
    mondo, risulterà presto luminosamente appieno, da tutto il nostro
    pensiero finora svolto, a chi lo abbia afferrato.
    
    Il fenomeno, l'oggettità dell'unica volontà di vivere è il mondo, in
    tutta la molteplicità delle sue parti e figure. L'essere, e il modo
    dell'essere, nel tutto come in ciascuna parte, è costituito solo
    dalla volontà. Essa è libera, essa è onnipotente. In ogni cosa
    appare la volontà, quale essa medesima in sé e fuori del tempo si
    determina. Il mondo non è che lo specchio di questo volere; ed ogni
    limitazione, ogni male, ogni tormento, che il mondo contiene,
    appartengono all'espressione di ciò che la volontà vuole: sono quali
    sono, perché essa così vuole. È rigorosa giustizia, quindi, che ogni
    creatura sopporti l'essere in genere, e quindi l'essere della sua
    specie e della sua particolare individualità, interamente com'essa
    è, e in condizioni quali esse sono, in un mondo quale esso è,
    governato dal caso e dall'errore, temporaneo, effimero, ognora
    sofferente: e qualunque sorte le tocchi, qualunque le possa toccare,
    sarà sempre giustizia. La responsabilità dell'essere e della
    costituzione del mondo può essa solamente, e nessun altro, portare:
    poiché come potrebbe un altro assumerla per sé? Se si vuol vedere
    ciò che gli uomini, moralmente considerati, sono in tutto e per
    tutto, si consideri in tutto e per tutto il loro destino. Esso è
    penuria, miseria, strazio, tormento e morte. L'eterna giustizia
    impera: s'essi non fossero, presi collettivamente, così dappoco, non
    sarebbe neppure il lor destino, collettivamente preso, così triste.
    In questo senso possiamo dire: il mondo stesso è il giudizio
    universale. Se si potesse mettere in un piatto di bilancia tutto il
    dolore del mondo, e tutta la colpa del mondo nell'altra, la bilancia
    starebbe sicuramente in bilico.
    
    Certo che alla conoscenza, quale essa, dalla volontà in proprio
    servizio generata, si forma nell'individuo in quanto tale, il mondo
    non appare come da ultimo si disvela all'osservatore, ossia come
    oggettità dell'una e unica volontà di vivere, che è l'individuo
    medesimo; invece il velo di Maja, come dicono gl'Indiani, turba lo
    sguardo dell'inconscio individuo: a lui, in luogo della cosa in sé,
    apparisce solo il fenomeno nel tempo e nello spazio, nel principio
    individuationis, e nelle rimanenti forme del principio di ragione.
    In questa limitata cognizione non vede l'essenza delle cose, che è
    unica, bensì i suoi fenomeni, distinti, disgiunti, innumerevoli,
    contraddittori. Gli apparisce allora il piacere come alcunché di
    affatto diverso dal dolore; in un uomo vede l'aguzzino e
    l'assassino, in un altro il paziente e la vittima, distinte come due
    unità indipendenti sono per lui la cattiveria e la sofferenza. Vede
    taluno vivere nella gioia, nella sovrabbondanza, nei piaceri, e
    contemporaneamente altri morire di penuria e di freddo innanzi alla
    sua porta. Allora si domanda: dov'è la compensazione? Ed egli
    medesimo, nel violento impulso della volontà, che è sua origine e
    sua essenza, si aggrappa ai piaceri e ai godimenti della vita, vi si
    tiene fortemente stretto, non sapendo, che appunto per questo atto
    della sua volontà egli afferra e stringe a sé tutti quei dolori e
    tormenti della vita, alla cui vista rabbrividisce. Vede la
    sofferenza, vede la malvagità nel mondo: ma lungi dal riconoscere,
    che entrambe non sono se non diverse facce del fenomeno dell'unica
    volontà di vivere, le crede molto diverse, anzi addirittura opposte,
    e cerca spesso mediante la malvagità, ossia cagionando il male
    altrui, di sfuggire al dolore, alla sofferenza del proprio
    individuo, circoscritto nel principio individuationis, ingannato dal
    velo di Maja. Imperocché, come sull'infuriante mare che, per tutti i
    lati infinito, ululando montagne d'acqua innalza e precipita, siede
    in barca il navigante e sé affida al debole naviglio; così siede
    tranquillo, in mezzo a un mondo pieno di tormenti, il singolo uomo,
    poggiandosi fidente sul principio individuationis, ossia sul modo
    onde l'individuo conosce le cose, in quanto fenomeno. Lo scofinato
    mondo, pieno di mali ovunque, nell'infinito passato, nell'infinito
    futuro, è a lui straniero, anzi è a lui come una fiaba: la sua
    infinitesima persona, il suo presente privo d'estensione, il suo
    momentaneo benessere hanno soli realtà ai suoi occhi; e per
    conservarli fa di tutto, fin quando una miglior conoscenza non
    gl'illumini la vista. Fino allora vive appena nella più intima
    profondità della sua conscienza l'oscurissimo sentore, che quel
    mondo non gli sia poi veramente tanto straniero, bensì abbia con lui
    una relazione, dalla quale il principium individuationis non può
    proteggerlo. Da codesto presentimento viene quell'invincibile
    terrore, comune a tutti gli uomini (e fors'anche agli animali più
    intelligenti) che li coglie all'improvviso, quando per un caso
    purchessia smarriscono la guida del principii individuationis,
    allorché il principio di ragione in una qualunque delle sue forme
    sembra avere un'eccezione: per esempio, quando pare che si produca
    una mutazione senza causa, o un morto ritorni, o in qualsiasi
    maniera il passato o il futuro si faccian presenti, o il lontano
    vicino. L'orribile sbigottimento per tali cose si fonda sul fatto,
    che essi si smarriscono rispetto alle forme conoscitive del
    fenomeno, le quali sole tengono distinto il lor proprio individuo
    dal resto del mondo. Ma tale distinzione sta semplicemente nel
    fenomeno, e non nella cosa in sé: su ciò appunto poggia l'eterna
    giustizia. In effetti ogni godimento temporale si basa ed ogni
    saggezza si muove sopra un terreno minato. Godimento e saggezza
    proteggono l'uomo dalle sventure e gli procacciano piaceri; ma la
    personalità è semplice fenomeno, e la sua varietà dagli altri
    individui, nonché l'esser priva dei dolori che questi sopportano,
    dipendono dalla forma del fenomeno, dal principio individuationis.
    Secondo la vera essenza delle cose, ciascuno ha da considerar come
    propri tutti i dolori del mondo, anzi tutti i dolori possibili avere
    come reali per sé, fin quando egli è deliberata volontà di vivere,
    ossia afferma con ogni forza la vita. Per la conoscenza, che vede
    più lontano del principii individuationis, una vita temporale
    felice, donata dal caso, o a lui strappata con saggezza, fra dolori
    innumerevoli altrui, è nient'altro che il sogno d'un mendico, in cui
    questi si vegga re, ma per apprendere al risveglio, che solo una
    fuggitiva illusione l'aveva separato dai dolori della sua vita.
    
    Allo sguardo circoscritto nella conoscenza che segue il principio di
    ragione, nel principio individuationis, si sottrae l'eterna
    giustizia: quello non ha punto cognizione di lei, a men che non la
    consegua mediante finzioni. Vede il malvagio, che ha commesso
    misfatti e crudeltà d'ogni maniera, vivere nei piaceri e uscirsene
    indisturbato dal mondo. Vede l'oppresso trascinare una vita piena
    fino all'ultimo di dolori, senza che si mostri un vendicatore, un
    compensatore. Ma l'eterna giustizia sarà compresa sol da colui, che
    si eleva su quella conoscenza procedente sulla traccia del principio
    di ragione e legata ai singoli oggetti: da colui, che conosce le
    idee, penetra con l'occhio oltre il principium individuationis, e
    comprende che alla cosa in sé non toccano le forme del fenomeno.
    Questi solamente, in grazia della stessa conoscenza, può comprendere
    la vera essenza della virtù, secondo ci verrà presto chiarito in
    rapporto con la presente trattazione; sebbene per la pratica della
    virtù non sia punto domandata codesta conoscenza in abstracto. Chi
    adunque è pervenuto alla suddetta conoscenza, intende chiaramente
    che, essendo la volontà l'in-sé di tutti i fenomeni, l'affanno
    inflitto altrui o personalmente sofferto, la malvagità e il dolore
    colpiscono pur sempre l'una e identica essenza; anche se i fenomeni,
    in cui questa e quella condizione si manifestano, esistono come
    individui distinti e addirittura separati da tempi e spazii lontani.
    Intende, che la differenza da ciò che produce il dolore a ciò che
    deve sopportarla è semplice fenomeno e non tocca la cosa in sé,
    ossia è la volontà in entrambi vivente; la quale, ingannata dalla
    conoscenza avvinta al suo servigio, se stessa disconosce, in uno dei
    propri fenomeni cercando accresciuto benessere, mentre nell'altro
    produce gran dolore; e così con violento impulso, ficca i denti
    nella sua carne medesima, non sapendo che ognora se stessa
    unicamente ferisce, palesando in tal modo, per il mezzo
    dell'individuazione, il contrasto interiore ch'ella trae nel suo
    intimo. Il tormentatore e il tormentato sono tutt'uno. Quegli erra
    nel non ritenersi partecipe del tormento, erra questi nel non
    ritenersi partecipe della colpa. Ove si aprissero a entrambi gli
    occhi, quegli, che infligge dolore, conoscerebbe di vivere in tutto
    quanto sul vasto mondo patisce tormento e invano si chiede, se
    dotato di ragione, perché sia stato chiamato a esistere in sì grandi
    dolori, che non sa d'aver meritati; e il tormentato conoscerebbe,
    che ogni malvagità, la quale viene commessa o fu un giorno commessa
    sulla terra, procede da quella volontà, che costituisce anche
    l'essere suo, che anche in lui si manifesta. Mediante codesto
    fenomeno e per la sua affermazione egli ha preso su di sé tutti i
    dolori, che da tale volontà promanano; e giustamente li soffre fin
    quando egli è quella volontà. Da questa conoscenza muove il veggente
    poeta Calderón in La vita è sogno:
    
    Pues el delito mayor
Del hombre es haber nacido52.
    
    Come non dovrebbe essere una colpa, poi che per una eterna legge
    sopra v'incombe la morte? Calderón non fece che esprimere in quel
    versetto il dogma cristiano del peccato originale.
    
    La vivente conoscenza dell'eterna giustizia, del bilanciere, che
    inseparabilmente congiunge il malum culpae col malo poenae, richiede
    completa elevazione sulla individualità e sul principio che la fa
    possibile: essa rimarrà quindi alla più parte degli uomini ognora
    inaccessibile, com'anche l'affine cognizione pura e limpida
    dell'essenza di tutte le virtù, la quale verrà tosto chiarita.
    Perciò i sapienti primi padri del popolo indiano l'espressero, sì,
    nei Veda, i quali eran permessi soltanto alle tre caste rigenerate,
    ossia nella dottrina esoterica, direttamente, fin dove concetto e
    lingua l'afferrano e la loro maniera d'esposizione, ancora
    immaginativa e anche rapsodica, consente; ma nella religione
    popolare, o dottrina exoterica, l'hanno comunicata sol miticamente.
    La rappresentazione diretta la troviamo in varie guise espressa nei
    Veda, il frutto della più alta conoscenza e sapienza umana, il cui
    nocciolo è finalmente pervenuto a noi nelle Upanishad; espressa
    particolarmente nel fatto, che davanti allo sguardo del discepolo si
    fanno sfilare per ordine tutti quanti gli esseri del mondo, viventi
    e inanimati, e per ciascuno viene ripetuto quel detto ch'è divenuto
    una formula e si chiama, come tale, mahavakya: Tatoumes, o, più
    esattamente tat tvam asi, che significa: questo tu sei53. Ma al
    popolo questa grande verità venne tradotta, fin dove esso poteva
    afferrarla con la propria limitazione, nel modo di conoscenza retto
    dal principio di ragione; il qual modo, per sua natura, non può
    punto accoglier tale verità pura ed in sé, che anzi sta con essa in
    diretta opposizione, bensì ne ha ricevuto un surrogato nella forma
    del mito. Il surrogato era sufficiente come regola per l'azione,
    rendendo afferrabile mediante rappresentazione figurata il valore
    etico di quella, pur nella forma di conoscenza regolata dal
    principio di ragione, che a tal valore rimane eternamente straniera.
    E codesto è lo scopo di tutte le dottrine religiose, essendo esse in
    genere rivestimenti mitici delle verità impenetrabili dalla rozza
    mente umana. Quel mito si potrebbe in questo senso chiamare, nel
    linguaggio di Kant, un postulato della ragion pratica: ma come tale
    considerato ha il grande vantaggio di non contenere nessun elemento,
    che non ci stia davanti agli occhi nel dominio della realtà, e
    quindi può tutti i suoi concetti documentare con intuizioni. Il
    mito, a cui alludo, è quello della migrazione delle anime. Esso
    insegna, come tutti i dolori, che nella vita s'infliggono ad altri
    esseri, in una vita successiva su questo stesso mondo devono essere
    scontati precisamente coi medesimi dolori; e ciò va tanto lontano,
    che chi uccide anche un semplice animale, rinascerà un giorno nel
    tempo infinito con la forma di codesto animale e subirà la stessa
    morte. Insegna, che cattiva condotta trae con sé una futura vita, in
    questo mondo, in forma d'esseri miseri e spregiati; che si rinascerà
    quindi in caste inferiori, o donna, o animale, o Paria, o Ciandala,
    o lebbroso, o coccodrillo e così via. Tutti gli affanni che il mito
    minaccia, documenta con intuizioni tratte dalla vita reale, mediante
    creature dolorose, le quali neppur sanno come abbiano meritata la
    lor pena; e non gli abbisogna di prender per appoggio nessun altro
    inferno. Come ricompensa invece promette rinascita in forme migliori
    e più nobili, quale bramano, quale sapiente, quale santo. La più
    alta ricompensa, che attende gli animi più nobili e la più compiuta
    rassegnazione, ricompensa concessa anche alla donna, che in sette
    vite successive volontariamente sia morta sul rogo del marito, come
    all'uomo la cui bocca pura non abbia mai pronunziato una sola
    menzogna, può il mito esprimerla solo negativamente nel linguaggio
    terreno, mediante la promessa tanto spesso ripetuta, di non più
    rinascere: «non adsumes iterum existentiam apparentem». Oppure come
    l'esprimono i Buddhisti, che non ammettono né i Veda né le caste:
    «Tu raggiungerai il Nirvana, ossia uno stato, in cui non sono
    quattro cose: nascita, età, malattia e morte».
    
    Non mai un mito s'è accostato più strettamente, non mai s'accosterà
    alla verità filosofica, cui sì pochi uomini possono salire, come fa
    questa remotissima dottrina del più nobile e più antico popolo; nel
    quale essa, per quanto in molte parti tralignata, regna nondimeno
    tuttora come fede generale ed ha sulla vita un effettivo influsso,
    oggi come quattro millenni or sono. Questo non plus ultra di
    rappresentazione mitica hanno quindi di già Pitagora e Platone
    accolto con ammirazione, e tratto dall'India, o dall'Egitto, e
    onorato, e applicato, e, non sappiamo fino a qual punto, essi stessi
    creduto. Noi invece spediamo oramai ai bramani, clergymen inglesi e
    fratelli moravi esercenti la tessitura, per ammonirli
    compassionevolmente d'una verità superiore e spiegar loro, che son
    creati dal nulla, e che di ciò devono con gratitudine rallegrarsi.
    Ma ci succede come a chi tira una palla contro una roccia. In India
    non potranno metter mai radice le nostre religioni: la sapienza
    originaria dell'uman genere non sarà soppiantata dagli accidenti
    successi in Galilea. Viceversa torna l'indiana sapienza a fluire
    verso l'Europa, e produrrà una fondamentale mutazione nel nostro
    sapere e pensare.
    
    § 64.
    
    Ma ora procediamo dalla nostra posizione non mitica, bensì
    filosofica, dell'eterna giustizia, alle connesse considerazioni sul
    valore etico dell'azione e della coscienza, la quale è il
    conoscimento sentito di quel valore. Voglio solo, in questo luogo,
    richiamar dapprima l'attenzione su due particolarità dell'umana
    natura, le quali posson contribuire a render chiaro come ciascun
    uomo abbia la consapevolezza, almeno come sentimento oscuro,
    dell'essenza di quella eterna giustizia, e del suo fondamento, ch'è
    l'unità e l'identità della volontà in tutti i suoi fenomeni. Affatto
    indipendentemente dallo scopo, che dimostrammo aver lo Stato
    nell'infliggere la pena, scopo su cui poggia il diritto punitivo,
    quando una cattiva azione è stata commessa dà soddisfazione non solo
    all'offeso (il quale di solito è acceso da sete di vendetta), ma
    anche allo spettatore più indifferente, il vedere che quegli, il
    quale cagionò altrui un dolore, patisca a sua volta dolore in egual
    misura. A me pare che qui si esprima nient'altro se non la
    conscienza di quella eterna giustizia; conscienza che tuttavia da
    una mente non purificata vien tosto malcompresa e falsata; perché
    questa, irretita nel principio individuationis, cade in un'anfibolia
    di concetti, e pretende dal fenomeno ciò che spetta solo alla cosa
    in sé. Né comprende, come in sé l'offensore e l'offeso siano
    tutt'uno, e sia una medesima essenza la quale, non riconoscendo se
    stessa nel suo proprio fenomeno, porta tanto l'affanno quanto la
    colpa. Invece, domanda di riveder anche l'affanno in quello stesso
    individuo a cui tocca la colpa. Quindi vorrebbero i più pretendere
    ancora, che un uomo fornito d'un alto grado di malvagità, grado che
    può trovarsi in molti uomini, ma non congiunto come in costui con
    altre qualità, il quale per non comune forza d'ingegno fosse agli
    altri di gran lunga superiore e quindi indicibili dolori procurasse
    a milioni d'uomini, per esempio come conquistatore; vorrebbero
    pretendere, dico, che un tal uomo espiasse quando che sia e comunque
    tutti quei dolori con una misura di dolori eguale. Imperocché non
    sanno, che in sé il tormentatore e i tormentati sono tutt'uno, e la
    medesima volontà, mediante la quale questi esistono e vivono, è pur
    quella, che nel tormentatore apparisce, e che appunto per mezzo di
    lui perviene alla più chiara manifestazione della propria essenza, e
    che soffre negli oppressi come nell'oppressore, anzi soffre in
    quest'ultimo tanto più, quanto più alta chiarezza e limpidità ha la
    conscienza di lui, e più grande veemenza ha la sua volontà. Che
    tuttavia codesta disposizione a chiedere tal forma di giustizia
    cessi d'ottenebrare la conoscenza più approfondita, non più
    imprigionata nel principio individuationis, conoscenza da cui viene
    ogni virtù e nobiltà d'animo, dimostra già l'etica cristiana, la
    quale vieta senz'altro di render male per male e fa operare l'eterna
    giustizia come fosse nel dominio della cosa in sé, diverso dal
    fenomeno («Mia è la vendetta, io voglio punire, dice il Signore»:
    Rom., 12, 19).
    
    Un carattere molto più sorprendente, ma anche molto più raro
    nell'umana natura, esprime quell'aspirazione a trarre l'eterna
    giustizia nel dominio dell'esperienza, ossia dell'individuazione; e
    in pari tempo è indice d'una consapevolezza sentita, ma non ancora
    limpida, del fatto che, come ho detto più sopra, la volontà di
    vivere recita a proprie spese la grande tragedia e commedia, e che
    la medesima ed unica volontà vive in tutti i fenomeni. Tale
    carattere è il seguente. Vediamo talvolta un uomo per una grande
    iniquità subita, o di cui forse è stato semplice testimone,
    infuriarsi a tal segno, che impegna la sua propria vita,
    consapevolmente e senza possibile salvezza, per prendere vendetta di
    chi quell'iniquità ha commessa. Lo vediamo per esempio ricercare
    durante anni un potente oppressore, ucciderlo alfine e quindi morire
    egli medesimo sul patibolo, come aveva preveduto, e che anzi spesso
    non aveva punto cercato d'evitare; avendo la sua vita conservato
    valore per lui soltanto come mezzo per la vendetta. Specialmente fra
    gli spagnoli si trovano questi esempi54. Se noi adunque osserviamo
    attentamente lo spirito di quella sete di compensazione, la troviamo
    assai differente dalla vendetta comune, che vuole mitigare il male
    sofferto mediante la vista del male provocato. Troviamo, anzi, che
    il suo scopo merita d'esser chiamato non tanto vendetta quanto
    punizione: poi che in lei si ritrova propriamente l'intento di
    un'azione sul futuro, mediante l'esempio, e senza alcun fine di
    proprio vantaggio, né per l'individuo vendicatore, perché esso vi
    soccombe, né per una società, la quale foggia a sé con leggi la
    sicurezza; che essendo quella pena inflitta da un singolo, non dallo
    Stato, e neppure in esecuzione d'una legge, colpisce invece sempre
    un'azione, che lo Stato non voleva e non poteva punire, e di cui
    disapprova la pena. Mi sembra che lo sdegno, il quale spinge un
    siffatto uomo sì lungi oltre i confini d'ogni egoismo, balzi dalla
    più profonda con scienza, che esso sia la volontà stessa di vivere,
    la quale in tutti gli esseri, in tutti i tempi si rivela; che ad
    esso il più lontano avvenire appartenga in egual maniera che il
    presente, e non possa essere indifferente. Affermando questa
    volontà, pretende che nello spettacolo, in cui è rappresentata
    l'essenza di lei, non riapparisca una così mostruosa iniquità, e
    vuole, con l'esempio d'una vendetta contro la quale non esiste
    difesa, che il timor della morte non trattiene il vendicatore,
    sbigottire ogni malfattore futuro. La volontà di vivere, pure
    affermandosi ancora, non si lega qui più al singolo fenomeno,
    all'individuo, bensì abbraccia l'idea dell'uomo e vuol conservarne
    il fenomeno puro da codesta mostruosa, rivoltante iniquità. È un
    raro, significante, anzi elevatissimo tratto di carattere, mediante
    il quale il singolo si sacrifica, aspirando a farsi braccio
    dell'eterna giustizia, di cui ancora disconosce la vera essenza.
    
    § 65.
    
    Con tutte le considerazioni fatte finora sulle azioni umane abbiamo
    preparata l'ultima, e molto alleviato il compito che ci rimane:
    elevare a chiarezza filosofia e concatenare nel nostro sistema il
    vero significato etico dell'azione, che nella vita si indica con le
    parole buono e cattivo, con le quali ci s'intende perfettamente.
    
    Ma voglio dapprima ricondurre al lor senso verace quei concetti di
    buono e cattivo, che dagli scrittori filosofici dei nostri giorni
    vengono trattati, cosa singolarissima, come concetti semplici, e
    quindi non atti ad analisi alcuna. Questo farò, affinchè non s'abbia
    per avventura a restare nella nebbiosa illusione, ch'essi contengano
    più di quanto contengono in effetti, e già esprimano in sé e per sé
    quanto occorre al nostro argomento. E posso farlo, perché io stesso
    son così lontano dal cercarmi nell'etica un riparo dietro la parola
    buono, quanto lontano fui dal cercarlo finora dietro le parole bello
    e vero; per poi far credere mediante l'appiccicamento di un – tà –
    che oggi si pretende ch'abbia una speciale σεμνότης e quindi in
    molti casi può servire, e mediante un'aria solenne, d'aver con la
    formulazione di codeste tre parole fatto più che indicar tre
    concetti assai ampi ed astratti, e quindi punto ricchi di contenuto,
    i quali hanno ben diversa origine e diverso valore. A quale uomo
    invero, cui sian noti gli scritti dei dì nostri, non son venute
    finalmente a nausea quelle tre parole, per quanto riferentisi in
    origine a sì nobili cose, allor ch'egli ha dovuto mille volte
    vedere, come i più inetti all'esercizio del pensare credano che
    basti averle emesse, a bocca spalancata e con l'aria d'una pecora
    inspirata, per aver rivelato una solenne saggezza?
    
    L'esplicazione del concetto di vero è già data nello scritto sul
    principio di ragione, cap. 5, §§ 29 sgg. Il contenuto del concetto
    di bello ha per la prima volta trovato la sua giusta illustrazione
    in tutto il nostro terzo libro. Ora ricondurremo al suo significato
    il concetto di buono, cosa che può farsi con molto poco. Questo
    concetto è essenzialmente relativo, e indica la conformità di un
    oggetto con una qualsivoglia determinata aspirazione della volontà.
    Quindi tutto ciò che conviene alla volontà in qualunque delle sue
    manifestazioni, e soddisfa la sua mira, vien pensato sotto il
    concetto di buono, per quanta varietà vi possa essere nel rimanente.
    Perciò noi diciamo buon cibo, buone strade, tempo buono, buone armi,
    buon presagio, etc.: in breve, chiamiamo buono tutto ciò che è come
    noi vogliamo che sia; quindi per l'uno può esser buono ciò che per
    l'altro è addirittura l'opposto. Il concetto di buono si suddivide
    in due sottospecie: quella cioè della soddisfazione immediata e
    quella della mediata, vale a dire la soddisfazione della volontà nel
    futuro: e sono il piacevole e l'utile. Il concetto opposto viene
    espresso con la parola cattivo, e più raramente e astrattamente con
    la parola male, che indica così tutto quanto non si confaccia a
    ciascuna aspirazione della volontà. Come tutti gli altri esseri, che
    posson venire in relazione con la volontà, si son poi detti buoni
    anche uomini, ai desiderati fini favorevoli, servizievoli,
    amicamente disposti, benefici; buoni adunque nel medesimo senso, e
    sempre con la riserva della relatività di codesto senso, quale si
    mostra per esempio nella frase: «Costui è buono verso di me, e non
    verso di te». Coloro invece, il cui carattere comportava di non
    porre ostacolo in genere alle altrui aspirazioni, e costantemente
    erano servizievoli, benevoli, amichevoli, benefici, furon chiamati
    uomini buoni per cotale relazione della loro condotta con la volontà
    degli altri. Il concetto opposto s'indica in tedesco, e da forse
    cent'anni anche in francese, riferendosi ad esseri conoscenti
    (animali e uomini) con parola diversa da quella usata per gli esseri
    privi di conoscenza – ossia la parola böse (malvagio), méchant,
    mentre in quasi tutte le altre lingue codesto divario non esiste, e
    κακος, malus, cattivo, bad vengono usati sì per gli uomini sì per le
    cose inanimate, quando si oppongano ai fini di una determinata,
    individuale volontà. Partita adunque in tutto e per tutto dal lato
    passivo del buono, l'indagine poteva solo più tardi volgersi
    all'attivo, e studiar la condotta dell'uomo chiamato buono non più
    in rapporto ad altri, bensì a lui medesimo, proponendosi in
    particolar modo la spiegazione sì della stima puramente obiettiva,
    che quella condotta visibilmente produceva in altri, sì della
    singolar contentezza di sé prodotta in lui stesso; come, al
    contrario, dell'intimo dolore, che accompagna la cattiva intenzione,
    per quanti vantaggi esteriori produca a chi la nutre. Ora, di qui
    ebbero origine i sistemi etici, tanto filosofici quanto religiosi.
    Gli uni e gli altri cercan sempre di collegare in qualche modo la
    felicità con la virtù; i primi, o in virtù del principio di
    contraddizione, o anche in virtù del principio di ragione, ma sempre
    sofisticamente; gli ultimi invece affermando l'esistenza d'altri
    mondi da quello che può esser conosciuto dall'esperienza55.
    
    Viceversa per l'indagine nostra l'intima essenza della virtù si
    rivelerà come una tendenza in direzione affatto opposta a quella che
    conduce alla felicità, ossia al benessere e alla vita.
    
    In virtù di quanto fu detto più sopra, il buono è, considerato nel
    suo concetto, των προς τι,sia è ogni cosa buona essenzialmente
    relativa, avendo la sua essenza sol nel suo rapporto con una volontà
    in atto. Bene assoluto è quindi una contraddizione: sommo bene,
    summum bonum, significa ancora lo stesso, cioè propriamente il
    finale appagarsi della volontà, dopo il quale nessun volere nuovo
    subentri: un ultimo motivo, il cui raggiungimento produca una
    indistruttibile soddisfazione della volontà. Per le considerazioni
    fatte finora in questo quarto libro, un tal bene non si può
    concepire. La volontà non può per qualsivoglia appagamento cessar di
    ricominciare ognora a volere, più di quanto possa il tempo
    cominciare o finire: una durevole soddisfazione, che appaghi appieno
    e per sempre la sua sete, non esiste per lei. Ella è la botte delle
    Danaidi: non v'ha per lei alcun sommo bene, alcun bene assoluto,
    bensì ognora appena un bene provvisorio. Ma se frattanto piacesse
    mantenere un posto onorifico a un'antica espressione, la quale per
    abitudine non si vorrebbe del tutto sopprimere, come a un
    funzionario emerito, allora si potrebbe chiamar bene assoluto,
    summum bonum in modo tropico e figurato, la completa soppressione e
    negazione della volontà, la vera assenza di volontà, che unica per
    sempre placa e sopprime la sete del volere, unica da quella pace la
    quale non può più esser turbata, unica ci redime dal mondo. Di lei
    tratteremo alla fine di tutta la nostra opera, considerandola come
    unico radicale rimedio della malattia, di fronte alla quale tutti
    gli altri beni non sono che palliativi anodini. In tal senso il
    greco τελος, com'anche il latino finis bonorum, corrisponde ancor
    meglio alla verità. E questo basti intorno alle parole buono e
    cattivo; veniamo ora al sodo.
    
    Se un uomo, non appena ne abbia l'occasione e nessun potere esterno
    lo trattenga, è sempre inclinato a commettere ingiustizia, lo
    chiamiamo cattivo. Secondo la nostra spiegazione dell'ingiustizia,
    ciò significa che costui non solo afferma la volontà di vivere,
    quale essa si manifesta nel suo corpo, ma in codesta affermazione va
    tanto oltre, da negare la volontà manifestantesi in altri individui.
    Egli pretende con ciò le forze loro pel servigio della volontà
    propria, e l'esistenza loro cerca di sopprimere, quando della
    volontà di lui essi contrariano le aspirazioni. Di ciò è sorgente
    prima un alto grado di egoismo, la cui essenza fu esposta più sopra.
    Due cose son qui subito palesi: primo, che in un tale uomo si
    esprime una volontà di vivere estremamente impetuosa, oltrepassante
    di gran lunga l'affermazione del suo proprio corpo; secondo, che la
    conoscenza di lui, tutta presa dal principio di ragione e
    prigioniera nel principio individuationis, rimane attaccata alla
    distinzione completa messa da quello tra la sua persona e tutte le
    altre. Perciò egli cerca solo il benessere proprio, affatto
    indifferente a quello di tutti gli altri, il cui essere è a lui del
    tutto estraneo, separato dal suo mediante un ampio abisso. Gli altri
    vede egli addirittura come larve senza realtà. E codeste due note
    sono gli elementi fondamentali del carattere malvagio.
    
    Quella grande vivacità del volere è intanto già in sé e per sé una
    perenne fonte di dolore. Dapprima, perché ogni volere, in quanto
    tale, deriva dalla privazione, ossia dal dolore (perciò, come il
    lettore ricorderà dal terzo libro, il momentaneo tacere della
    volontà, che si produce appena noi come puro, privo di volontà
    soggetto del conoscere – correlato dell'idea – ci abbandoniamo alla
    contemplazione estetica, è già per l'appunto un elemento principale
    della gioia provata davanti al bello). In secondo luogo, perché, in
    forza della causale concatenazione delle cose, quasi tutte le
    aspirazioni rimangono inappagate, e la volontà viene ben più spesso
    ostacolata che soddisfatta; sì che, anche per questo, vivace e forte
    volere trae sempre con sé vivace e forte soffrire. Imperocché ogni
    soffrire non è null'altro se non inappagato e contrariato volere: lo
    stesso dolore del corpo, quando questo vien ferito o distrutto, è in
    quanto dolore unicamente possibile pel fatto, che il corpo non è se
    non la volontà medesima fattasi oggetto. Perciò adunque, poi che
    molto e vivo soffrire da molto e vivo volere è inseparabile, già
    l'espressione del volto in uomini assai cattivi ha l'impronta
    dell'interno dolore. Quand'anche abbiano raggiunto ogni felicità
    esteriore, hanno sempre aspetto d'infelici, a meno che non si
    trovino in uno stato di giubilo momentaneo o che s'infingano. Da
    questo interno tormento, che in loro è proprio direttamente
    essenziale, vien prodotta in ultimo perfino quella gioia del male
    altrui, non più causata dal semplice egoismo, ma addirittura
    disinteressata, che è la malvagità vera e propria, e sale fino alla
    crudeltà. Per essa l'altrui dolore non è più un mezzo a ottenere il
    conseguimento dei fini della propria volontà, bensì scopo a se
    stesso. La precisa spiegazione di questo fenomeno è la seguente.
    Essendo l'uomo fenomeno della volontà, illuminato dalla più chiara
    conoscenza, paragona sempre l'effettivo, provato appagamento della
    sua volontà con quello, solamente possibile, che la conoscenza gli
    pone davanti agli occhi. Da ciò nasce l'invidia: ogni privazione
    viene infinitamente esasperata dall'altrui godimento, e sollevata
    dal sapere che anche altri patiscono la privazione medesima. I mali
    a tutti comuni, e dalla umana vita inseparabili, poco ci turbano: e
    similmente quelli che al clima, al paese tutto appartengono. Il
    ricordo di mali maggiori, che non siano i nostri, placa il dolore di
    questi: attenua i nostri la vista dei dolori altrui. Ora, un uomo
    preso da un estremo, impetuoso impeto della volontà, con ardente
    cupidigia vorrebbe tutto abbracciare per ispegnere la sete
    dell'egoismo; ma intanto, com'è fatale, deve sperimentar che ogni
    appagamento è illusorio, né il bene conseguito mai corrisponde a
    ciò, che il bene desiderato prometteva, ossia definitivo cessare
    della rabbiosa sete; perché invece il desiderio con l'appagamento
    non fa che mutar di forma, e in forma nuova torturare ancora; anzi
    da ultimo, quando tutte le forme sono esaurite, la sete della
    volontà pur senza aspirazione consapevole permane, manifestandosi
    come insanabile martirio, qual sentimento della più atroce
    desolazione e del vuoto universale. Tutto questo, che nei gradi
    ordinari della volontà, sentito solamente in più tenue misura,
    produce anche solo un grado ordinario di turbamento dell'animo, in
    colui, che invece è fenomeno della volontà spinto fino all'aperta
    cattiveria, sviluppa necessariamente un'estrema tortura intima,
    eterna inquietudine, insanabile dolore. Allora costui cerca in modo
    indiretto quel sollievo, che non può raggiungere in modo diretto,
    ossia cerca di lenire il male suo con la vista dell'altrui, che egli
    in pari tempo vede come una manifestazione della propria forza.
    Altrui dolore gli diviene scopo in se stesso, è uno spettacolo nel
    quale egli esulta: e così nasce il fenomeno della vera e propria
    crudeltà, della sete di sangue, che la storia tanto spesso ci
    mostra, nei Neroni, nei Domiziani, nei Robespierre, etc.
    
    Alla malvagità è già affine la sete di vendetta, che il male paga
    col male, non per riguardo al futuro, il che costituisce il
    carattere della pena, ma solo per il fatto accaduto, passato; quindi
    senza vantaggio; non come mezzo, ma come fine, per letiziarsi nel
    tormento, da noi stessi inflitto l'offensore. Ciò che distingue la
    vendetta dalla pura malvagità, e in qualche po' la scusa, è
    un'apparenza di giustizia; in quanto lo stesso atto, che stavolta è
    vendetta, quando fosse legale, ossia compiuto secondo una regola
    fissa e notoria, e in seno a una collettività, da cui questa fosse
    sanzionata, si chiamerebbe pena, cioè diritto. Fuori delle
    sofferenze descritte, nate con la malvagità da una stessa radice,
    l'eccessiva volontà, e quindi da quella inseparabili, alla malvagità
    è ancora associata un'altra sofferenza affatto diversa e
    particolare, la quale si fa sensibile ad ogni cattiva azione
    commessa, sia poi questa una semplice ingiustizia per egoismo, o
    malvagità pura; e secondo il tempo della sua durata si chiama breve
    rimorso o duratura angoscia della coscienza. Chi abbia presente
    nella memoria quanto si contiene finora in questo quarto libro, e
    particolarmente la verità illustrata in principio, che alla volontà
    di vivere è assicurata ognora la vita stessa, qual semplice immagine
    e specchio di lei – quegli troverà che, conformemente alle
    considerazioni fatte, il rimorso non può avere altro significato se
    non questo che ora seguirà. Ossia, il suo contenuto, astrattamente
    espresso, è il seguente, nel quale si distinguono due parti, che
    nondimeno devono da ultimo essere riunite e pensate come affatto
    congiunte.
    
    Per quanto fitto sia il velo di Maja che avvolge l'animo del
    malvagio, ossia per quanto chiusa sia la prigionia di lui nel
    principio individuationis, in virtù del quale egli tiene la propria
    persona come distinta assolutamente, e da ogni altra separata
    mediante un ampio abisso, la qual cognizione, perché è la sola
    conforme al suo egoismo e ne forma il sostegno, egli tien ferma con
    tutta forza, essendo quasi sempre la cognizione corrotta dalla
    volontà, si agita tuttavia nell'intimo della sua coscienza l'occulta
    sensazione, che un siffatto ordine di cose sia nondimeno nient'altro
    che fenomeno; e che in sé la cosa sia tutt'altra. Dividano pur tempo
    e spazio lui medesimo da altri individui e dai tormenti inenarrabili
    ch'essi soffrono, anzi per cagion sua soffrono, e veda egli pur
    costoro come affatto stranieri a lui medesimo, tuttavia è l'unica
    volontà di vivere che in sé, prescindendo dalla rappresentazione e
    dalle sue forme, in essi tutti si palesa; ella è, che se stessa
    disconoscendo, contro sé volge le proprie armi; e mentre cerca con
    un dei propri fenomeni un maggiore benessere, perciò appunto
    infligge a un altro il maggior dolore. E l'uomo malvagio è per
    l'appunto codesta volontà tutta intera, sì ch'ei viene a essere non
    solo il tormentatore, ma anche il tormentato, dal cui dolore egli è
    separato e si crede libero sol mediante un sogno illusorio, che ha
    per forma il tempo e lo spazio. Ma il sogno svanisce; ed egli, per
    forza della verità, deve il piacere pagare col dolore; tutta la
    sofferenza ch'egli conosce solo in quanto possibile, lui colpisce
    effettivamente, in quanto egli è volontà di vivere; imperocché sol
    per la conoscenza individuale, solo per virtù del principii
    individuationis, e non già in sé, sono distinte possibilità e
    realtà, lontananza e vicinanza di tempo e di spazio. È questa la
    verità, che miticamente, ossia conformata al principio di ragione e
    tradotta con ciò nella forma del fenomeno, viene espressa dalla
    dottrina della migrazione delle anime: ma la sua espressione più
    pura da ogni mescolanza l'ha per l'appunto in quell'angoscia
    oscuramente sentita, eppure inconsolabile, che si chiama rimorso. Ma
    questo procede inoltre da una seconda, immediata conoscenza, con
    quella prima esattamente congiunta: ossia dalla conoscenza del
    vigore, con cui nell'individuo malvagio la volontà di vivere si
    afferma; vigore che va ben oltre l'individuale fenomeno di lui, fino
    alla completa negazione della medesima volontà rivelantesi in altri
    individui. Quindi l'interno orrore del malvagio per la sua propria
    azione, orrore ch'ei cerca di celare a se stesso, contiene, oltre
    quel vago sentimento della nullità e della pura apparenza sì del
    principio di ragione sì della distinzione, ch'esso mette tra lui e
    gli altri, contiene, dico, in pari tempo anche la cognizione della
    violenza della propria volontà, dell'impeto con cui questa ha
    ghermito la vita, e l'ha succhiata. Questa vita appunto, di cui egli
    vede la faccia orrenda nell'angoscia di chi è da lui oppresso; e con
    la quale è nondimeno così strettamente avvinto, che perciò appunto
    il più tristo orrore proviene da lui medesimo, qual mezzo per la
    compiuta affermazione della sua propria volontà. Egli si riconosce
    come concentrato fenomeno della volontà di vivere, sente fino a qual
    punto ei sia in potere della vita, e quindi anche degli innumerabili
    dolori, che a questa sono essenziali, avendo essa infinito tempo e
    infinito spazio per cancellare il divario tra possibilità e realtà,
    e tutti i mali da lui per ora sol conosciuti convertire in mali
    provati. I milioni d'anni delle continue rinascite sussistono in
    verità soltanto nel concetto, come soltanto nel concetto esistono
    tutto il passato ed il futuro: il tempo realmente pieno, la forma
    del fenomeno della volontà è solo il presente, e per l'individuo è
    il tempo ognora nuovo: egli si ritrova sempre come nato allora.
    Imperocché dalla volontà di vivere è inseparabile la vita, e sua
    unica forma è l'adesso. La morte (mi si scusi la ripetizione del
    paragone) somiglia al tramonto del sole, il quale solo in apparenza
    viene inghiottito dalla notte, mentre in realtà, esso ch'è sorgente
    unica d'ogni luce, senza interruzione arde, a nuovi mondi reca nuovi
    giorni, in ogni attimo si leva e in ogni attimo tramonta. Principio
    e fine toccano solo all'individuo, per mezzo del tempo, forma del
    fenomeno individuale per la rappresentazione. Fuori del tempo non è
    che la volontà, la cosa in sé di Kant, e la sua adeguata oggettità,
    ossia l'idea di Platone. Perciò non dà il suicidio salvazione di
    sorta: ciò che ciascuno nel suo più intimo vuole, ciò deve egli
    essere: e ciò che ciascuno è, ciò appunto egli vuole. Quindi accanto
    alla cognizione soltanto sentita della pura apparenza e della
    nullità delle forme della rappresentazione, per cui vengono distinti
    gli individui, gli è l'autocognizione della propria volontà e del
    suo grado quella che dà pungolo alla coscienza. Il corso vitale
    produce l'immagine del carattere empirico, di cui è originale il
    carattere intelligibile, ed il malvagio ha orrore di questa
    immagine: sia essa tracciata a grosse linee, sì che il mondo
    partecipi al suo proprio orrore, o sia tracciata invece in linee
    così sottili, ch'egli solo le veda: che lui unicamente essa immagine
    tocca in modo immediato. Il passato sarebbe indifferente, come
    semplice fenomeno, e non potrebbe angustiare la coscienza, se il
    carattere non si sentisse sciolto da ogni tempo e, attraverso il
    tempo, immutabile, finch'esso non abbia rinnegato se medesimo.
    Perciò azioni commesse anche da gran pezzo pesano pur sempre sulla
    coscienza. La preghiera: «Non m'indurre in tentazione», significa:
    «Non lasciarmi vedere che io mi sia». Dalla forza, con cui il
    malvagio afferma la vita, e che gli si manifesta nei dolori da lui
    inflitti ad altri, egli misura quanto lontane siano da lui appunto
    la rinunzia e la negazione di quella volontà, che sono l'unica
    redenzione possibile dal mondo e dal suo male. Vede, fino a che
    punto egli al mondo appartiene ed è con esso avvinto: il conosciuto
    dolore altrui non è giunto a scuoterlo: della vita e del dolore
    direttamente provato egli è in pieno potere. Tralasciamo per ora di
    vedere, se questa diretta prova infrangerà e vincerà la violenza del
    suo volere.
    
    Quest'illustrazione del valore e dell'intima essenza del malvagio,
    la qual sol come sentimento, ossia non come chiara, astratta
    conoscenza, è il contenuto del rimorso, acquisterà ancor maggior
    limpidità e compiutezza mediante l'analisi, condotta nel medesimo
    modo, del buono, come proprietà dell'umano volere; e poi, da ultimo,
    della rassegnazione e santità, la quale proviene da quella
    proprietà, quand'essa ha raggiunto il grado più alto. Imperocché i
    contrari s'illuminano sempre vicendevolmente, e il giorno rivela
    insieme se medesimo e la notte, secondo ha detto eccellentemente
    Spinoza.
    
    § 66.
    
    Una morale senza fondamento, ossia un semplice moraleggiare, non può
    aver effetto, perché non fornisce motivi. Ma una morale che dia
    motivi, può farlo solo con l'agire sull'amore di sé. Ed il frutto di
    codesto amore non ha alcun valore morale. Ne deriva, che per la via
    della morale, e della conoscenza astratta in genere, nessuna genuina
    virtù può essere prodotta; bensì questa deve provenire dalla
    conoscenza intuitiva, la quale nell'individuo estraneo riconosce
    l'essenza medesima che è in noi stessi.
    
    La virtù procede invero dalla conoscenza; ma non dall'astratta,
    comunicabile per mezzo di parole. Se così fosse, la si potrebbe
    insegnare; e proclamandone qui astrattamente l'essenza, e la
    cognizione che alla virtù servisse di fondamento, avremmo migliorato
    ognuno che ciò avesse compreso. Ma non è punto così. Con etiche
    conferenze o prediche non si fabbrica un virtuoso, più di quanto
    tutte le estetiche, a cominciar da quella d'Aristotele, abbian mai
    fabbricato un poeta. Che per la vera e propria essenza intima della
    virtù il concetto è infruttifero, come per l'arte, e solo in maniera
    affatto subordinata può render servigio nell'esecuzione e
    conservazione di quanto s'è per altra via conosciuto e deciso. Velle
    non discitur. Sulla virtù, ossia sulla bontà dell'animo, non hanno i
    dogmi astratti in realtà effetto alcuno: non la turbano i falsi, e
    difficilmente la favoriscono i veri. E sarebbe d'altronde gran male,
    se la cosa più importante dell'umana vita, il suo valore etico, da
    valere per l'eternità, dipendesse da elementi, il cui acquisto è
    tanto soggetto al caso, come sono dogmi, religiosi, filosofemi. I
    dogmi hanno per la moralità questo semplice valore, che in essi chi
    è già virtuoso in virtù d'una diversa conoscenza la quale
    spiegheremo, trova uno schema, un formulario, secondo il quale rende
    conto, conto il più delle volte immaginario, alla propria ragione
    degli atti non egoistici da lui compiuti, dei quali la ragione,
    ossia egli medesimo, non comprende l'essenza. E di tal conto egli ha
    abituato la ragione a contentarsi.
    
    Forte influenza possono bensì avere i dogmi sulla condotta,
    sull'agire esterno; così pure l'abitudine e l'esempio (quest'ultimo,
    perché l'uomo comune non fida nel giudizio proprio, di cui conosce
    la fiacchezza, bensì segue soltanto la propria o l'altrui
    esperienza); ma con ciò non è mutato l'animo56. Ogni conoscenza
    astratta non da che motivi: i motivi tuttavia possono, com'è
    mostrato più sopra, cambiar solamente l'indirizzo della volontà, e
    non la volontà medesima. Ma intanto ogni conoscenza mediata può
    sulla volontà agire sol come motivo; perciò, comunque la guidino i
    dogmi, nondimeno quel che l'uomo propriamente e genericamente vuole
    rimane sempre il medesimo: egli ha solo ricevuto altri pensieri
    intorno alle vie, per cui la sua volontà va attuata, e motivi
    immaginari lo guidano come i reali. Quindi è per esempio affatto
    indifferente, rispetto al suo valore morale, se egli faccia grandi
    donazioni a indigenti, persuaso di riavere in una vita futura,
    decuplicato, il suo dono, o se impiega quella stessa somma a
    migliorare una tenuta che gli frutterà interessi bensì tardivi, ma
    perciò appunto più sicuri e considerevoli: – e un assassino, non
    meno del bandito, che si guadagna col delitto un compenso, è anche
    quegli che ortodossamente consegna l'eretico alle fiamme, o
    addirittura, guardato nel suo intimo, anche colui che scanna i
    Turchi in Terrasanta, se, come l'altro, ciò propriamente fa perché
    crede di guadagnarsi così un posto nel cielo. Imperocché solo a se
    stessi, al proprio egoismo, voglion costoro pensare; proprio come
    quel bandito, da cui essi si distinguono unicamente per l'assurdità
    dei mezzi. Dal di fuori, come abbiam detto, si perviene alla volontà
    solo per mezzo di motivi: nondimeno questi mutano esclusivamente il
    modo con cui la volontà si manifesta, e non mai la volontà stessa.
    Velle non discitur.
    
    Nelle buone azioni, il cui autore si fonda su dogmi, bisogna però
    sempre distinguere, se codesti dogmi sono poi veramente il motivo
    dell'azione, o se, com'io dicevo poc'anzi, non sono che l'apparente
    giustificazione, con cui quegli cerca di appagare la propria ragione
    intorno ad una buona azione originata da tutt'altra sorgente,
    ch'egli compie perché è buono, ma che non sa sufficientemente
    spiegarsi, perché non è filosofo, e pur vorrebbe pensar qualcosa in
    proposito. Ma la differenza è assai difficile a scorgere, perché sta
    nell'intimo dell'animo. Perciò non possiamo quasi mai rettamente
    giudicare il valore morale delle azioni altrui, e raramente delle
    nostre. Gli atti e i modi d'agire del singolo, come d'un popolo,
    possono da dogmi, esempii e abitudine essere di molto modificati. Ma
    in sé son tutte le azioni (opera operata) nient'altro che vuote
    immagini, e soltanto l'animo, che a quelle mena, dà loro il valore
    morale. E questo può in realtà essere il medesimo, anche sotto ben
    diversa apparenza esteriore. Pur possedendo lo stesso grado di
    malvagità, che presso un popolo si esprime in grossi tratti, con
    l'assassinio e il cannibalismo, e nell'altro invece sottilmente e
    delicatamente en miniature con intrighi di corte, oppressioni e
    astute manovre d'ogni maniera: l'essenza rimane la stessa. Si
    potrebbe immaginare che uno stato perfetto, o addirittura fors'anche
    un dogma di ricompense e pene nell'al di là, a cui si prestasse fede
    assolutamente piena, impedisse ogni delitto: ora, politicamente
    sarebbe questo un gran risultato, ma nullo moralmente; anzi si
    sarebbe solo interdetto alla vita di riflettere la volontà.
    
    La genuina bontà dell'animo, la disinteressata virtù e la pura
    generosità non provengono adunque da conoscenza astratta, ma bensì
    tuttavia da una conoscenza: ossia da una conoscenza immediata ed
    intuitiva, che non si può cancellare né eccitare con arzigogoli di
    ragione; da una conoscenza, che appunto perché non è astratta, non
    si lascia comunicare, ma deve in ognuno nascere spontanea, e che
    perciò trova la sua vera, adeguata espressione non già in parole,
    bensì esclusivamente in atti, nella condotta, nel corso vitale
    dell'uomo. Noi, che qui cerchiamo la teoria della virtù, e quindi
    dobbiamo anche esprimere astrattamente l'intimo essere della
    conoscenza, che le serve di base, non potremo tuttavia fornire in
    tale espressione quella conoscenza in sé, bensì esclusivamente il
    suo concetto. Sempre dovremo partire dalla condotta, sol nella quale
    essa diviene visibile, e alla condotta riferirci come alla sua sola
    espressione adeguata, che noi possiamo appena chiarire e spiegare,
    ossia formulando astrattamente ciò che propriamente in lei accade.
    
    Ma prima che noi, in contrasto con la trattazione fatta del
    malvagio, veniamo a trattare di ciò ch'è propriamente buono, ci
    tocca accennare, come grado intermedio, alla semplice negazione del
    malvagio: alla giustizia. Che cosa siano giusto e ingiusto, abbiamo
    sufficientemente spiegato: potremo quindi dire ora in breve, che
    colui il quale volontariamente riconosce e rispetta quel confine
    puramente morale, anche dove nessuno stato o altra forza lo difende,
    e perciò, secondo la nostra spiegazione, non arriva mai
    nell'affermazione della propria volontà fino a negar quel che si
    palesa in un altro individuo – colui è giusto. Non infliggerà dunque
    dolori ad altri, per accrescere il suo proprio benessere: ossia non
    commetterà nessun crimine, rispetterà i diritti, rispetterà il bene
    altrui. E noi vediamo, ora, che per un tale uomo giusto, il
    principium individuationis non è già più, come per il malvagio,
    un'immobile parete divisoria; vediamo ch'egli non afferma, come il
    malvagio, solamente il suo proprio fenomeno di volontà, e tutti gli
    altri nega; che gli altri uomini non sono per lui semplici larve, la
    cui essenza sia affatto diversa dalla sua. Viceversa con la sua
    maniera d'agire dimostra ch'egli la sua propria essenza, ossia la
    volontà di vivere, in quanto cosa in sé, riconosce anche nel
    fenomeno estraneo, dato a lui esclusivamente come rappresentazione;
    ritrova in quello se stesso, fino a un certo grado, il grado del non
    commettere ingiustizia, del non ferire. In questo grado appunto egli
    penetra di là dal principio individuationis, dal velo di Maja:
    considera l'essenza, ch'è fuori di lui, pari, fino a questo segno,
    alla propria: non fa ingiuria.
    
    In codesta giustizia, quando la si guardi nel suo intimo, già si
    trova il proposito di non andar nell'affermazione della volontà
    propria tant'oltre, ch'essa neghi gli estranei fenomeni di volontà,
    obbligandoli a servirci. Si vorrà dunque agli altri tanto concedere,
    quanto da loro si riceve. Il grado supremo di tale giustizia
    dell'animo, che sempre nondimeno già s'accoppia con la bontà vera e
    propria, il cui carattere non è più soltanto negativo, arriva fino a
    porre in dubbio i propri diritti su di un patrimonio ereditato, a
    voler mantenere il corpo sol mediante le forze proprie,
    intellettuali o corporali, ad accogliere ogni altrui prestazione di
    servigi, ogni lusso come un rimprovero, e ad abbracciare da ultimo
    la volontaria povertà. Così vediamo Pascal, quando prese l'indirizzo
    ascetico, non poter più sopportare d'essere servito, sebbene avesse
    servi a sufficienza; non badando alla permanente cagionevolezza
    della sua salute, si rifaceva da sé il letto, toglieva egli stesso
    il suo cibo dalla cucina, e così via (Vie de Pascal par sa soeur, p.
    19). In piena corrispondenza con ciò si narra che taluni Hindù, e
    addirittura dei Rajà, pur possedendo molta ricchezza, questa
    impiegano solo nel mantenimento della famiglia, della corte dei
    servi, mentr'essi con rigido scrupolo osservano la massima di nulla
    mangiare che non abbiano con le lor mani seminato e raccolto. In
    fondo a questo è nondimeno un certo malinteso: imperocché il singolo
    uomo può, appunto essendo ricco e potente, al complesso dell'umana
    società rendere servigi sì considerevoli, da corrispondere
    all'ereditata ricchezza, della cui sicurtà egli va debitore allo
    Stato. Propriamente quell'eccessiva giustizia di cotali hindù è già
    più che giustizia: è reale rinunzia, negazione della volontà di
    vivere, ascesi; del che tratteremo da ultimo. Viceversa può il
    semplice far niente e il vivere delle forze altrui, con una
    proprietà ereditata, senza nulla operare, esser già considerato come
    moralmente ingiusto, anche se deve rimaner giusto secondo le leggi
    positive.
    
    Abbiamo trovato, che la giustizia volontaria ha la sua più profonda
    origine in un certo grado di superamento del principii
    individuationis, mentre in questo principio riman sempre del tutto
    prigioniero l'uomo ingiusto. Codesto superamento può aver luogo non
    soltanto nel grado a ciò richiesto, ma anche in un grado maggiore,
    che spinge al benvolere e al benfare attivi, all'amor del prossimo:
    e questo può accadere per quanto forte ed energica sia in sé pur la
    volontà manifestantesi in tale individuo. Sempre può la conoscenza
    tenerlo in equilibrio, insegnargli a resistere alla tentazione
    dell'ingiustizia, fino a produrre tutti i gradi della bontà e
    addirittura della rassegnazione. Perciò l'uomo buono non va punto
    considerato come un fenomeno di volontà, il quale sia dall'origine
    più debole dell'uomo cattivo: bensì è la conoscenza, che in lui
    governa il cieco impeto della volontà. Vi sono invero individui, che
    sembrano buoni sol per la debolezza della volontà in essi
    palesantesi: ma quel ch'essi veramente sono appare presto dal fatto,
    che sono incapaci d'ogni notevole sforzo su se medesimi per compiere
    un'azione giusta o buona.
    
    Se poi ora ci capita, come rara eccezione, un uomo, il quale per
    avventura possegga una considerevole rendita, ma di questa poco
    prenda per sé, e tutto il rimanente dia ai miseri, mentr'egli
    medesimo di molti godimenti e comodi si privi; e se noi cerchiamo di
    spiegarci la condotta di quest'uomo; troveremo, prescindendo affatto
    dai dogmi ond'egli vuol forse far comprensibile alla propria ragione
    il suo agire, essere questa la più semplice, generica espressione, e
    questo il carattere essenziale della sua condotta: che egli minor
    differenza pone, di quanto solitamente si faccia, tra sé e gli
    altri. Se per l'appunto codesta differenza, agli occhi di tanti
    altri, è sì grande, che altrui dolore è al malvagio diretta gioia,
    all'ingiusto è gradito mezzo per conseguire il benessere proprio; e
    se quegli ch'è semplicemente giusto si limita a non causar quel
    dolore; e se in genere la maggior parte degli uomini vede e conosce
    in sua prossimità innumerabili dolori altrui, ma non si risolve a
    mitigarli, perché dovrebbe a tal fine patire a sua volta qualche
    privazione; se adunque a ciascuno di cotali uomini sembra che un
    forte divario passi tra il proprio io e l'altrui; a quel generoso
    invece, che noi immaginammo, non pare quel divario sì considerevole.
    Il principium individuationis, la forma del fenomeno, non lo tiene
    più così stretto; invece il dolore, ch'ei vede in altri, lo tocca
    quasi come il suo proprio: egli cerca perciò di tener tra questo e
    quello l'equilibrio, si rifiuta godimenti, si assume privazioni, per
    attenuare i mali altrui. Si persuade, che la distinzione tra lui e
    gli altri, la quale è per il malvagio un sì grande abisso, è in
    realtà prodotta da un effimero, illusorio fenomeno; conosce,
    direttamente e senza bisogno di sillogismi, che l'in-sé del suo
    proprio fenomeno è pur quel dell'altrui, ossia è quella volontà di
    vivere, che costituisce l'essenza d'ogni cosa e in tutto vive;
    conosce, anzi, che quest'essenza si estende fino agli animali e alla
    natura intera: perciò non tormenterà mai un animale57. Egli è oramai
    così poco in grado di lasciar che altri stenti la vita, mentr'egli
    possiede financo il superfluo, come a nessuno verrebbe in mente di
    soffrire una giornata di fame, per avere il dì seguente più di
    quanto possa mangiare. Imperocché a quegli, che pratica le opere
    dell'amore, il velo di Maja si è fatto trasparente; da lui è svanita
    l'illusione del principii individuationis. Se stesso, il suo io, la
    sua volontà egli conosce in ogni essere, e quindi anche in chi
    soffre. Da lui è fuggita la stoltezza, con la quale la volontà di
    vivere, se medesima disconoscendo, qui gode in un individuo
    fuggitivi, finti piaceri, mentre in cambio là soffre e stenta; e
    così affanno cagiona ed affanno patisce; senza conoscere che, come
    Tieste, la propria carne avido divora, e poi qui geme sopra un
    immeritato dolore, là folleggia senza timpr della Nemesi, sempre e
    sempre sol perché se stesso disconosce nell'altrui fenomeno, e
    quindi non percepisce l'eterna giustizia, essendo prigioniero del
    principii individuationis, ossia ognora di quel modo di conoscenza,
    che il principio di ragione governa. Esser guarito da questo errore
    illusorio del velo di Maja, e praticar le opere dell'amore, è
    tutt'uno. Questa pratica è l'immancabile sintomo di quella
    guarigione.
    
    Il contrario del rimorso, del quale furon chiariti più sopra
    l'origine e il valore, è la buona coscienza, la soddisfazione che
    noi proviamo dopo ogni azione, quale viene generata dal diretto
    riconoscer la nostra propria essenza in sé anche nell'altrui
    fenomeno, dà di rimando a noi la conferma di codesta conoscenza: la
    conoscenza, cioè, che il nostro vero io non risiede soltanto nella
    persona nostra, la quale è un fenomeno isolato, ma bensì in tutto
    quanto ha vita. Da ciò si sente il cuore fatto più ampio, come
    viceversa per l'egoismo si sente più stretto. Imperocché, come
    l'egoismo concentra la nostra partecipazione nel singolo fenomeno
    del nostro individuo, nel quale stato la conoscenza ci tiene ognora
    presenti i pericoli innumerevoli, onde questo fenomeno è minacciato,
    sì che ansia e preoccupazione divengono il fondo dell'animo nostro,
    la conoscenza invece che ogni cosa vivente è per l'appunto la nostra
    stessa essenza in sé com'è nostra la nostra persona, estende
    viceversa la nostra partecipazione a tutto quanto vive; ed il cuore
    ne è allargato. Mediante questo diminuito interesse al nostro io,
    l'angosciosa ansia a suo riguardo viene intaccata e limitata nella
    radice: di là proviene la tranquilla, fiduciosa letizia, che animo
    virtuoso e buona coscienza ci danno; di là viene il loro sempre più
    chiaro manifestarsi ad ogni azione buona, perché l'azione buona ci
    conferma la verità di quella disposizione. L'egoista si sente
    circondato da fenomeni estranei ed ostili, ed ogni sua speranza
    poggia sul bene proprio. Il buono vive in un mondo di fenomeni
    amici: il bene d'ognuno di questi è il suo bene. Quindi, se pur la
    cognizione dell'umano destino universale non può far lieto il suo
    animo, nondimeno il saldo riconoscer l'essenza propria in tutto ciò
    che vive gli dà un certo equilibrio, e perfino serenità d'animo.
    Perché l'interesse diffuso su innumerevoli fenomeni non può
    angustiare come l'interesse concentrato sopra uno solo. I casi
    accidentali ond'è colta l'universalità degli individui si
    compensano, mentre quelli occorrenti a un individuo isolato
    apportano felicità o sventura.
    
    Se altri, adunque, potè stabilire principi morali, gabellandoli come
    regole di virtù, e leggi da seguirsi per obbligo, non posso invece
    io, come ho detto, fornirne di altrettali: perché all'eternamente
    libera volontà non ho da prescrivere dovere né legge. Invece,
    nell'organismo del mio sistema ciò che in certo modo corrisponde
    analogicamente a quel proposito è la verità, puramente teoretica, di
    cui è semplice sviluppo il complesso di questa mia esposizione.
    Ossia, che la volontà è l'in-sé d'ogni fenomeno, e quindi, come
    tale, sciolta dalle forme fenomeniche e dalla pluralità; la qual
    verità io, riguardo alla condotta, non so esprimere più degnamente
    che con la citata formula del Veda: «Tat tvam asi!» («questo sei
    tu!»). Chi sa ripeterla a se stesso con limpida cognizione e ferma,
    intima persuasione innanzi a ciascun essere con cui venga in
    contatto, è certo con essa di conseguire ogni virtù e beatitudine, e
    si trova sulla via diritta che conduce alla redenzione.
    
    Ma, prima che io proceda oltre e mostri, come termine della mia
    trattazione, in qual modo l'amore, di cui già conosciamo essere
    origine ed essenza il poter guardare di là dal principio
    individuationis, conduca alla redenzione, ossia alla cessazione
    completa della volontà di vivere, cioè d'ogni volere; ed in qual
    modo vi conduca pure un'altra via, meno dolce, eppur più frequente;
    deve ancora venir formulato e chiarito un paradosso: non perché sia
    tale, ma perché è vero, ed entra nella compiutezza del pensiero
    ch'io voglio esporre. Esso è il seguente: «Ogni amore τελος,
    caritas) è compassione».
    
    § 67.
    
    Abbiamo veduto come dall'oltrepassamento del principii
    individuationis venisse, nel grado minore, la giustizia, e nel
    maggiore la bontà vera e propria dell'animo, la quale ci si mostrò
    come puro, ossia disinteressato amore per gli altri. Dove
    quest'amore si fa perfetto, rende l'individuo estraneo e il suo
    destino affatto pari al nostro: più in là non si può andare, non
    essendovi ragione di preferire l'altrui individuo al nostro. Può
    nondimeno la massa degli individui estranei, il cui benessere o la
    cui vita siano in pericolo, prevalere sui riguardi del bene
    individuale. In tal caso il carattere asceso all'altissima bontà e
    alla perfetta generosità sacrifica in tutto il suo bene al bene dei
    più: così periva Codro, così Leonida, così Regolo, così Decio Mure,
    così Arnoldo di Winkelried, così ciascuno, che volontariamente e
    consapevolmente per i suoi, per la patria va a morte sicura. Alla
    medesima altezza sta chiunque di buon animo affronti dolore e morte
    per l'affermazione di ciò che all'umanità intera giova ed a buon
    diritto spetta, ossia per verità generali e importanti, e per
    l'estirpazione di grossi errori. Così periva Socrate, così Giordano
    Bruno, così trovarono tanti eroi della verità la morte sul rogo, tra
    le mani dei preti.
    
    Ma riguardo al paradosso più sopra formulato ho da rammentare, che
    noi già per l'addietro trovammo essere inerente alla vita, nel suo
    complesso, il dolore, e dalla vita inseparabile. Vedemmo pure, come
    ogni desiderio nasca da un bisogno, da una mancanza, da una
    sofferenza; che quindi ogni appagamento è appena un dolore tolto di
    mezzo, e non già un piacere positivo; che le gioie appariscono
    menzogneramente al desiderio come un bene positivo, mentre in verità
    non sono che negative, quali cessazioni d'un male. Quel che adunque
    bontà, amore e nobiltà posson fare per altri, è sempre nient'altro
    che lenimento dei loro mali; e quel che per conseguenza può muoverle
    alle buone azioni e opere dell'amore, è sempre soltanto la
    conoscenza dell'altrui dolore, fatto comprensibile attraverso il
    dolore proprio, e messo a pari di questo. Ma da ciò risulta che il
    puro amore (αγαπη, caritas) è, per sua natura, compassione, sia pur
    grande o piccolo (è tra questi ogni desiderio inappagato) il dolore
    ch'esso lenisce. In diretto contrasto con Kant, il quale ogni vera
    bontà e ogni virtù ammette come tali sol quando siano originate
    dalla riflessione astratta, e precisamente dal concetto del dovere e
    dell'imprativo categorico, mentre dichiara debolezza, e non virtù,
    la compassione provata, non esiteremo a dire: il puro concetto è per
    la virtù genuina tanto infecondo, quanto per la genuina arte: ogni
    vero e puro amore è compassione, e ogni amore che non sia
    compassione è egoismo. Egoismo è l'ερως; compassione è l'αγαπη). I
    due si trovano spesso frammisti. Perfino la vera amicizia è sempre
    mescolanza di egoismo e compassione: quello sta nel compiacersi
    della presenza dell'amico, la cui individualità corrisponde con la
    nostra, e costituisce dell'amicizia quasi sempre la massima parte;
    questa invece, la compassione, si manifesta nel partecipar
    sinceramente al suo bene e al suo male, e nei sacrifizi
    disinteressati che per lui si fanno. Perfino Spinoza dice:
    benevolentia nihil aliud est, quam cupiditas ex commiseratione orta.
    (Eth., II, pr. 27, cor. 3, schol.). A conferma del nostro paradosso
    si può osservare, che accento e parole della lingua, e carezze del
    puro amore coincidono in tutto col tono della compassione: e
    inoltre, di passata, che in italiano compassione e puro amore
    vengono indicati con la stessa parola: pietà.
    
    Qui è pure il luogo di spiegare un'altra delle più sorprendenti
    proprietà dell'umana natura, il pianto, il quale, come il riso,
    appartiene alle manifestazioni ond'è l'uomo distinto dall'animale.
    Il piangere non è punto, senz'altro, espressione del dolore:
    imperocché i dolori pei quali si piange sono i meno. Anzi, secondo
    me, non si piange mai direttamente per un dolore provato, ma bensì
    sempre per il riprodursi di esso nella riflessione. Cioè, dal dolore
    provato, pur quand'è corporale, si passa a una pura rappresentazione
    di esso, e si trova allora sì compassionevole il proprio stato, che,
    se altri fosse a soffrire, siamo fermamente e sinceramente persuasi
    che l'aiuteremmo con tutta pietà e amore. Ma intanto siamo noi
    stessi l'oggetto di quella nostra sincera pietà: col più
    soccorrevole animo sentiamo d'essere proprio noi i bisognosi
    d'aiuto; si sente di patir più di quanto potremmo resistere a veder
    patire un altro; e in tal situazione singolarmente complessa, in cui
    il dolore direttamente sentito ritorna alla percezione sol con un
    doppio rigiro, rappresentandocisi come estraneo, come tale
    compassionato, e quindi immediatamente ripercepito come nostro, la
    natura si da sollievo mediante quella strana convulsione corporea.
    Il pianto è adunque pietà di se stesso, ossia pietà che torna
    indietro al suo punto di partenza. Perciò esso ha per condizione la
    capacità dell'amore e della compassione, e la fantasia; quindi né
    uomini duri di cuore né uomini privi di fantasia piangono
    facilmente, ed il pianto vien'anzi ognora considerato come segno
    d'un certo grado di bontà del carattere, e disarma l'ira, perché si
    sente, che chi può ancora piangere, deve per necessità essere anche
    capace d'amore, ossia di pietà verso altri; questo essendo che ci
    mette, nella maniera descritta, in quella disposizione la quale al
    pianto conduce. Affatto conforme a questa spiegazione, è il modo
    come Petrarca, esprimendo spontaneo e vero il proprio sentimento,
    descrive l'origine delle sue lagrime:
    
    I' vo pensando: e nel pensar m'assale
Una pietà sì forte di me
    stesso,
Che mi conduce spesso
Ad alto lagrimar, ch'i' non soleva.
    
    Quanto abbiam detto trova conferma nel fatto che bambini, i quali
    abbian patito un dolore, si mettono di solito a piangere solo quando
    li si compassiona; ossia non per il dolore, ma per la
    rappresentazione di esso. Quando noi non siam mossi al pianto da
    nostri, bensì da altrui dolori, ciò accade perché vivacemente ci
    mettiamo con la fantasia al posto di chi soffre, oppure nel suo
    destino scorgiamo la sorte dell'umanità intera e quindi
    principalmente di noi stessi; e così per un ampio giro pur sempre
    veniamo a piangere su di noi, di noi abbiam pietà. Questo sembra
    anche essere il motivo principale del comune, e quindi naturale,
    pianto nei casi di morte. Chi piange un morto non piange ciò che ha
    perduto; che si vergognerebbe di lagrime sì egoiste; mentre invece a
    volte si vergogna di non piangere. Piange in primo luogo invero la
    sorte del defunto: nondimeno piange anche quando in seguito a
    lunghe, gravi e insanabili sofferenze la morte è per quegli una
    desiderabile liberazione. Principalmente lo stringe adunque
    compassione per il destino dell'umanità intera, la quale è in potere
    d'un fato di morte, in cui ogni vita per quanto attiva e spesso
    ricca d'azioni dovrà spegnersi e ridursi al nulla. E in questo fato
    dell'umanità egli vede soprattutto il fato proprio: tanto più,
    quanto più vicino era a lui il morto: più che mai, quanto il morto
    era suo padre. Fosse pure a quest'ultimo per età e malattia divenuta
    un tormento la vita, fosse pure il padre nel suo stato d'impotenza
    ridotto un carico grave per il figlio, questi piange pur sempre
    vivamente la sua morte: per il motivo che s'è detto58.
    
    § 68.
    
    Dopo questa digressione sull'identità del puro amore e della pietà,
    la quale ultima facendo ritorno a noi medesimi ha per sintomo il
    fenomeno del pianto, riprendo il filo della nostra esposizione
    riguardante il valore etico della condotta; per venire a mostrare
    come dalla sorgente medesima, da cui proviene ogni bontà, amore,
    virtù e nobiltà, si origini infine anche quella, ch'io chiamo
    negazione della volontà di vivere.
    
    Come vedemmo odio e malvagità aver per condizione l'egoismo, e
    questo poggiar sulla conoscenza circoscritta nel principio
    individuationis; così trovammo essere origine ed essenza della
    giustizia, nonché, salendo più in su, dell'amore e della nobiltà
    fino ai gradi più alti, l'oltrepassamento di quel principii
    individuationis. Che solo il guardar di là da questo sopprime la
    distinzione tra l'individuo nostro e gli altri, e rende possibile e
    spiega la perfetta bontà dell'animo, fino al più disinteressato
    amore e al più generoso sacrificio di sé.
    
    Ma, dato in alto grado di chiarezza questo superamento del principii
    individuationis, data questa diretta cognizione della volontà
    identica in tutti i suoi fenomeni, essa eserciterà immediatamente
    sulla volontà un influsso procedente ancor più lontano. Se invero
    davanti agli occhi d'un uomo quel velo di Maja, che è il principium
    individuationis, s'è tanto sollevato, che quest'uomo non ponga più
    l'egoistico divario tra la sua persona e l'altrui, bensì agli altrui
    dolori tanta parte prenda, quanta ai propri, e quindi non soltanto
    sia in altissima misura soccorrevole, ma pronto addirittura a
    sacrificar se stesso non appena più individui estranei sian da
    salvare col sacrificio suo; allora ne consegue spontaneamente che un
    tale uomo, il quale in tutti gli esseri il suo più intimo e più vero
    io riconosce, anche gl'infiniti mali d'ogni vivente tiene come suoi,
    e così fa suo il dolore del mondo intero. Nessun dolore gli è più
    straniero. Tutti gli affanni altrui, ch'egli vede e può sì raramente
    lenire; tutti gli affanni, di cui ha notizia indiretta, o che
    semplicemente conosce come possibili, agiscono sullo spirito di lui
    come i suoi propri. Non è più l'alterno bene e male della sua
    persona, quel ch'egli ha in vista, com'è il caso degli uomini ancor
    prigionieri dell'egoismo; invece, scorgendo egli di là dal principio
    individuationis, tutto gli è ugualmente vicino. Conosce il tutto, ne
    comprende l'essenza, e la trova sempre involta in un continuo
    perire, in un vano aspirare, in intimo contrasto e in perenne
    dolore; vede, dovunque guardi, la sofferente umanità e la sofferente
    animalità, e un mondo evanescente. E tutto è a lui così vicino,
    com'è vicina all'egoista la sua propria persona. Ora, come
    potrebb'egli mai, con tal conoscenza del mondo, questa vita
    affermare con continui atti di volontà, e in siffatto modo sé ognora
    più strettamente alla vita avvincere, sempre più forte a sé
    stringerla? Se adunque colui il quale ancor prigioniero nel
    principio individuationis, nell'egoismo, soltanto singole cose
    conosce, e il rapporto di esse con la sua persona; e quelle diventan
    poi motivi sempre rinnovati del suo volere; viceversa quella
    cognizione del tutto, dell'essenza delle cose in sé, diventa un
    quietivo della volontà in genere e in particolare. La volontà si
    distoglie oramai dalla vita: ha orrore dei suoi piaceri, nei quali
    riconosce l'affermazione di quella. L'uomo perviene allo stato della
    volontaria rinunzia, della rassegnazione, della vera calma e della
    completa soppressione del volere. A noi, che ancora avvolge il velo
    di Maja, traluce a momenti, in mezzo a dolori nostri pesantemente
    sofferti o a dolori altrui vivacemente percepiti, la conoscenza
    della vanità e amarezza della vita, e allora con piena,
    definitivamente risoluta rinuncia vorremmo strappare al desiderio il
    suo pungolo, a ogni dolore sbarrare il cammino, purificarci e
    santificarci; ma tosto ci riafferra nelle sue maglie l'illusione del
    fenomeno, e di nuovo i suoi motivi mettono in moto la volontà: né
    perveniamo a districarcene. Gli adescamenti della speranza, la
    lusinga del presente, la dolcezza dei piaceri, il benessere, ond'è
    partecipe la nostra persona in mezzo al travaglio d'un mondo
    doloroso, in balìa del caso e dell'errore, ci traggono novellamente
    a sé e stringono di nuovo i legami. Perciò dice Gesù: «È più facile
    a una gomena passare attraverso una cruna d'ago, che a un ricco
    venire nel regno di Dio». Paragoniamo la vita a un'orbita fatta di
    carboni ardenti, con pochi spazi freddi, orbita che noi dobbiamo
    senza posa percorrere: a chi in quell'orbita è preso da conforto il
    piccolo spazio freddo, sul quale per il momento egli si trova, o che
    vicino innanzi a sé vede, e continua a percorrere l'orbita. Ma
    quegli che, guardando oltre il principium individuationis, conosce
    l'essenza delle cose in sé, e quindi il tutto, non è più sensibile a
    quel conforto: vede se stesso contemporaneamente su tutta l'orbita,
    e ne viene fuori. La sua volontà muta indirizzo, non afferma più la
    sua propria essenza, rispecchiantesi nel fenomeno, bensì la rinnega.
    Il processo, con cui ciò si manifesta, è il passaggio dalla virtù
    all'ascesi. Non basta più a quell'uomo amare altri come se stesso, e
    far per essi quanto fa per sé; ma sorge in lui un orrore per
    l'essere, di cui è espressione il suo proprio fenomeno, per la
    volontà di vivere, per il nocciolo e l'essenza di quel mondo
    riconosciuto pieno di dolore. Quest'essenza appunto, in lui medesimo
    palesantesi e già espressa mediante il suo corpo, egli rinnega; il
    suo agire sbugiarda ora il suo fenomeno, entra con esso in aperto
    contrasto. Egli, che non altro è, se non fenomeno della volontà,
    cessa di volere, si guarda dall'attaccar la sua volontà a una cosa
    qualsiasi, cerca di rinsaldare in se stesso la massima indifferenza
    per ogni cosa. Il suo corpo, sano e forte, esprime per mezzo dei
    genitali l'istinto sessuale, ma egli rinnega la volontà e sbugiarda
    il corpo: non vuole la soddisfazione del sesso, a nessun patto.
    Volontaria, perfetta castità è il primo passo nell'ascesi, ovvero
    nella negazione della volontà di vivere. Essa rinnega così
    l'affermazione della volontà, che va oltre la vita individuale; e
    con ciò dà segno che con la vita di questo corpo la volontà, di cui
    esso è fenomeno, è soppressa. La natura, sempre vera e ingenua, dice
    che, se questa massima diventasse universale, perirebbe il genere
    umano: e dopo quanto fu detto nel secondo libro intorno alla
    connessione di tutti i fenomeni della volontà, credo di poter
    ammettere, che col fenomeno di volontà più alto svanirebbe anche
    quel più debole riflesso che è il mondo animale: come in piena luce
    svaniscono anche le penombre. Con la piena soppressione della
    conoscenza, si perderebbe da sé nel nulla anche il rimanente mondo:
    che non v'ha oggetto senza soggetto. A ciò potrei perfino riferire
    un passo del Veda, che dice: «Come in questo mondo bambini affamati
    si stringono intorno alla madre, così attendono tutti gli esseri il
    santo sacrificio» «Asiatic researches», vol. 8: Colebrooke, On the
    Vedas, nell'estratto del Sama-veda: si trova anche in Colebrooke,
    Miscellaneous Essays, vol. I, p. 88). Sacrificio significa
    genericamente rassegnazione, e la residua natura deve attendere la
    sua redenzione dall'uomo, ch'è nel medesimo tempo sacerdote e
    vittima. E merita d'esser notato come cosa singolarissima, che
    questo pensiero fu espresso anche dall'ammirabile e
    incommensurabilmente profondo Angelus Silesius, nel versetto
    intitolato l'uomo porta tutto a Dio, che suona così:
    
    Uomo! tutto ti ama; a te intorno è gran ressa:
Tutto verso te corre,
    per così giungere a Dio59.
    
    Ma un mistico ancor più grande, Meister Eckhard, le cui mirabili
    opere sono or finalmente rese accessibili dall'edizione di Franz
    Pfeiffer (1857), scrive (ibid., p. 459), proprio nel senso qui
    illustrato: «Io confermo ciò con Cristo, che dice: quando vengo
    sollevato dalla terra, voglio tutte le cose trarre dietro a me
    (Giov., 12, 32). Similmente deve l'uomo buono tutte le cose elevare
    a Dio, alla loro origine prima. Questo ci confermano i Maestri, che
    tutte le creature sono fatte per la volontà dell'uomo. Questo
    verificate in tutte le creature, che una creatura all'altra giova:
    al giovenco l'erba, al pesce l'acqua, all'uccello l'aria, alla
    bestia selvatica il bosco. E così tutte le creature portano
    giovamento all'uomo buono: e l'una creatura nell'altra è portata
    dall'uomo buono a Dio». Vuol dire: l'uomo mette a profitto gli
    animali in questa vita, per il fine di redimerli in sé e con sé. Mi
    sembra che perfino il difficile passo della Bibbia in Romani, 8,
    21-24 sia da interpretarsi a questo modo.
    
    Anche nel Buddhismo non mancano espressioni di ciò: per esempio,
    quando Buddha, ancora in forma di Bodhisattva, fa sellare un'ultima
    volta il suo cavallo, per la fuga dalla paterna residenza verso il
    deserto, dice ad esso queste parole: Già lungo tempo tu fosti nella
    vita e nella morte: ma ora devi cessar di portare e di trascinare.
    Sol questa volta ancora, o Kantakana, portami via di qua, e quando
    io avrò conseguita la legge (diventato Buddha), non mi dimenticherò
    di te (Foe Koue Ki, traduz. di Abel Rémusat, p. 233).
    
    L'ascesi si rivela inoltre nella volontaria, meditata povertà, che
    non sopravviene per accidens, in quanto il patrimonio venga donato
    per lenir mali altrui, ma è già scopo a se stessa, serve di
    permanente mortificazione della volontà, affinchè l'appagamento dei
    desideri e la mollezza della vita non tornino ad eccitar la volontà,
    della quale ha concepito orrore la vera conoscenza. Chi è pervenuto
    a tal segno, sente ancor sempre, come corpo animato, come concreto
    fenomeno di volontà, la disposizione al volere in tutte le sue
    forme: ma meditatamente la soffoca, costringendosi a nulla fare di
    quanto vorrebbe, e viceversa a tutto fare quanto non vorrebbe, anche
    se non abbia altro fine, che quello di servire alla mortificazione
    della carne. Poiché egli medesimo rinnega la volontà palesantesi
    nella sua persona, non resisterà se altri fa lo stesso, ossia se gli
    fa un torto: ogni sofferenza, che a lui venga dall'esterno, sia per
    caso, sia per altrui malvagità, è la benvenuta; e così ogni danno,
    ogni smacco, ogni offesa. Tutto accoglie gioiosamente, come
    occasione di dare a se medesimo la certezza, ch'egli la volontà più
    non afferma, bensì lieto prende le parti di ciascun nemico sorto
    contro quel fenomeno di volontà, ch'è la sua propria persona. Tale
    onta e dolore sopporta quindi con inesauribile pazienza e dolcezza,
    paga senza ostentazione il male col bene, e non tollera che il fuoco
    dell'ira si risvegli in lui, più che non tolleri il fuoco della
    brama. Come mortifica la volontà, così mortifica la sua forma
    visibile, l'oggettità di lei: il corpo. Scarsamente lo nutre,
    affinchè il suo rigoglioso fiorire e prosperare non torni a far più
    viva e forte la volontà, di cui esso è semplice espressione e
    specchio. Similmente pratica il digiuno, anzi la macerazione,
    l'autoflagellazione, per sempre più uccidere mediante perenne
    privazione e sofferenza la volontà, ch'egli conosce ed aborrisce
    qual sorgente del proprio doloroso essere come di quello del mondo.
    Viene finalmente la morte, a disciogliere questo fenomeno di quella
    volontà, la cui essenza qui, già da gran tempo, per libera negazione
    di se medesima, fuori del fioco resto che ne appariva in mantener
    vita al corpo, era spenta. E la morte, come invocata redenzione, è
    altamente ben venuta, e lietamente viene accolta. Con lei non
    termina in questo caso, com'è per gli altri, il solo fenomeno; bensì
    l'essenza medesima è soppressa, la quale qui ancor soltanto nel
    fenomeno, e per suo mezzo, aveva una pallida vita60: ultimo fragile
    vincolo, ora anch'esso spezzato. Per quegli, che così finisce, è il
    mondo insieme finito.
    
    E ciò, ch'io qui con debole lingua e solo in termini generali ho
    descritto, non è per avventura una fiaba filosofica di mia
    invenzione, e che solo da oggi duri: no, era invece l'invidiabile
    vita di numerosi santi e di belle anime tra i Cristiani, e ancor più
    tra gli hindù e i Buddhisti, e pure in altre confessioni. Per quanto
    fossero diversi i dogmi impressi nella loro ragione, nell'identica
    guisa venne tuttavia ad attuarsi, mediante il modo di vivere,
    l'intima, diretta, immediata conoscenza, da cui esclusivamente può
    procedere ogni virtù e santità. Imperocché anche qui si mostra il
    grande divario tra la conoscenza intuitiva e l'astratta, finora
    troppo poco osservato, ma in tutto il nostro sistema così importante
    e penetrante in ogni dove. Tra le due conoscenze è un ampio abisso,
    attraverso il quale, riguardo alla cognizione dell'essenza del
    mondo, la sola filosofia può condurre. Intuitivamente invero, ossia
    in concreto, ogni uomo è consapevole di tutte le verità filosofiche:
    ma portarle nel suo sapere astratto, nella riflessione, è affare del
    filosofo: il quale, oltre a questo, nulla deve, nulla può.
    
    Forse qui adunque per la prima volta, in forma astratta e pura
    d'ogni mito, l'intima essenza della santità, negazione di sé, morte
    della volontà, ascesi, è formulata come negazione della volontà di
    vivere; la quale subentra dopo che la compiuta conoscenza del
    proprio essere è divenuta quietivo d'ogni volere. Viceversa l'hanno
    direttamente conosciuta ed espressa nella realtà tutti quei santi e
    asceti che, pur avendo la stessa intima cognizione, parlavano una
    lingua assai diversa, secondo i dogmi che avevano accolti nella loro
    ragione, e in virtù dei quali un santo indiano, cristiano, lamaico
    devono render diversissimo conto della propria azione; il che è, per
    la sostanza, del tutto indifferente. Un santo può esser pieno della
    più assurda superstizione, o esser viceversa un filosofo: i due si
    equivalgono. Soltanto il suo modo d'agire prova ch'egli è santo:
    perché esso, sotto il riguardo morale, non proviene dalla conoscenza
    astratta, bensì dall'intuitiva, immediata conoscenza del mondo e
    della sua essenza; e da quegli sol per appagamento della sua ragione
    viene spiegato con un dogma purchessia. Che il santo sia un
    filosofo, è tanto poco necessario, quanto poco necessario che il
    filosofo sia un santo: come necessario non è che un uomo bellissimo
    sia un grande scultore, o che un grande scultore sia pure un
    bell'uomo. Sarebbe d'altronde singolare il pretendere da un
    moralista, ch'egli non deva raccomandare se non le virtù da lui
    stesso possedute. Rispecchiare astrattamente, universalmente e
    limpidamente in concetti l'intera essenza del mondo; e così, quale
    immagine riflessa, deporla nei permanenti e ognora disposti concetti
    della ragione: questo e non altro è filosofia. Richiamo alla memoria
    il passo, citato nel primo libro, di Bacone da Verulamio.
    
    Ma appunto, esclusivamente astratto e generico e quindi freddo è il
    modo, ond'io ho più sopra descritta la negazione della volontà di
    vivere, ossia la condotta di una bell'anima, di un santo rassegnato,
    che faccia volontaria penitenza. Essendo intuitiva e non astratta la
    conoscenza, da cui nasce la negazione della volontà, non può trovar
    la sua espressione compiuta in concetti astratti, bensì
    esclusivamente nell'azione e nella condotta. Quindi, per meglio
    comprendere ciò che noi esprimiamo filosoficamente col concetto di
    negazione della volontà di vivere, si devono conoscere esempi tolti
    all'esperienza e alla realtà. Non li incontreremo di certo
    nell'esperienza di tutti i giorni: nam omnia praeclara tam
    difficilia quam rara sunt, dice benissimo Spinoza. Se adunque non si
    è stati testimoni oculari per una sorte particolarmente benigna,
    bisognerà contentarsi di legger le biografie di quegli uomini. La
    letteratura indiana, come già possiam vedere dal poco che finora ne
    conosciamo in traduzioni, è assai ricca di biografie dei santi, dei
    penitenti, detti Samani, Saniassi, e così via. Anche la nota, sebben
    tutt'altro che in tutto lodevole, Mythologie des Indous di Mad. de
    Polier contiene molti eccellenti esempi di tal genere (specialmente
    nel 13° cap. del 2° volume). Né mancano esempi tra i cristiani. Si
    leggano le biografie, di solito scritte male, di coloro che or
    vengono chiamati anime sante, ora pietisti, quietisti, pii
    visionarii, etc. Raccolte di tali biografie si fecero in diverse
    epoche, per esempio dal Tersteegen, Vite di anime sante, dal Reiz,
    Storia dei Rigenerati; a' nostri giorni si ha una raccolta del
    Kanne, che tra molta roba cattiva ne contiene pure alcuna buona, e
    specialmente, secondo me, la Vita della beata Sturmin. In modo
    particolarissimo va qui ricordata la vita di san Francesco d'Assisi,
    vera personificazione dell'ascesi, e modello di tutti i monaci
    mendicanti. La vita di lui, descritta dal suo contemporaneo,
    alquanto più giovane, e celebre anche come filosofo scolastico, san
    Bonaventura, è comparsa recentemente in nuova edizione (Soest,
    1847): Vita S. Francisci a S. Bonaventura concinnata, poco dopo
    ch'era uscita in Francia una biografia di san Francesco accurata,
    ampia, e condotta su tutte le fonti: Histoire de S. Francois
    d'Assise, di Chavin de Mallan (1845). Come paralleli orientali di
    codesti scritti claustrali abbiamo il libro interessantissimo di
    Spence Hardy: Eastern Monachism, an Account of the Order of
    Mendicants founded by Gotama Budha (1850). Ci mostra la stessa cosa
    in altra veste. E vi si vede, come sia alla cosa indifferente il
    prender le mosse da una religione teista o atea. Ma soprattutto
    posso raccomandare, come speciale, amplissimo esempio e
    illustrazione effettiva dei concetti da me formulati,
    l'autobiografia di Madame de Guyon. Conoscere quella bella e grande
    anima, il cui ricordo mi riempie ognora d'ammirazione, e render
    giustizia all'eccellenza delle sue disposizioni spirituali, pur
    facendo riserve sulla superstizione della sua mente, dev'essere per
    ogni uomo bennato una gioia, come invece quel libro starà sempre in
    cattiva luce presso il comune volgare, ch'è costituito dai più;
    perché sempre e dovunque ciascuno può ammirar solo quel ch'è a lui
    in certa maniera analogo, e per cui ha una sia pur debole tendenza.
    Questo vale sì pel dominio intellettuale e sì nel morale. In un
    certo senso, si potrebbe ravvicinare a questi esempi anche la nota
    biografia francese di Spinoza, se si adopra come chiave per
    penetrarvi la magnifica introduzione a quella molto scadente opera
    di lui ch'è il De emendatione intellectus: introduzione, che posso
    consigliare come il più efficace mezzo ch'io mi conosca per placare
    la tempesta delle passioni. Finalmente, anche il gran Goethe, per
    quanto greco egli sia, non ha stimato indegno di sé mostrar questo
    bellissimo aspetto dell'umanità nel chiarificante specchio della
    poesia, col rappresentarci idealizzata nelle Confessioni di una
    bell'anima la vita della signorina Klettenberg; e più tardi, nella
    propria autobiografia, diede anche notizia storica di lei; come pure
    ci ha raccontato ben due volte la vita di san Filippo Neri. La
    storia del mondo tacerà invero sempre, e deve tacere, degli uomini
    la cui condotta è la migliore, l'unica soddisfacente illustrazione
    di questo punto essenziale della nostra indagine. Perché la materia
    della storia del mondo è tutt'altra, anzi è l'opposto: non è il
    negare, il rinunciare della volontà di vivere, ma è per l'appunto
    l'affermarla, il rilevarsi di lei in individui innumerabili. E
    quivi, in codesto affermarsi, apparisce con tutta chiarezza, al
    vertice supremo della sua oggettivazione, il suo dissidio interiore;
    ponendoci davanti agli occhi ora la prevalenza del singolo mediante
    l'intelligenza, ora la violenza della folla mediante la massa, ora
    il potere del caso personificato nel destino, ma sempre la caducità
    e nullità di tutti i desideri. Ma noi, che non dobbiamo qui seguire
    nel tempo il filo dei fenomeni, bensì come filosofi abbiam da
    investigare il valore etico delle azioni, e di questo il criterio
    unico per misurare quanto è per noi significativo e importante, noi
    non tratterrà nessun timore della volgarità e della scipitaggine
    raccolte in perpetua maggioranza, dal proclamare che il più alto, il
    più importante, il più significativo fenomeno, che il mondo possa
    mostrare, non è chi il mondo conquista, ma chi il mondo supera.
    Ossia è in verità la silenziosa, inosservata condotta di un uomo, al
    quale sia venuta tal conoscenza, che per effetto di lei egli getti
    via da sé e rinneghi quell'avida volontà di vivere, che tutto
    riempie e in tutto si agita. Solo in lui la volontà apparisce allora
    libera: ma la sua condotta diviene opposta alla condotta comune. Per
    il filosofo sono adunque sotto questo riguardo incomparabilmente più
    istruttive e importanti, quanto riguardo alla significazione del
    contenuto, le biografie di santi uomini, per male che sian scritte
    di solito, e presentate con un misto di superstizione e di
    stoltezza, che non siano Plutarco e Livio.
    
    Alla migliore e più compiuta conoscenza di quel che noi,
    nell'astrazione e nell'universalità del nostro modo d'esporre,
    chiamiamo negazione della volontà di vivere, molto contribuirà,
    inoltre, lo studio delle massime etiche le quali in questo senso
    furon date da uomini pieni di cotale spirito. Esse ci mostreranno
    insieme, come antica sia la nostra concezione, per quanto nuova
    possa essere la sua formula filosofica. Più dappresso a noi sta il
    cristianesimo, la cui etica è tutta animata da quello spirito, e non
    solo conduce al più alto grado dell'amore verso il prossimo, ma
    anche alla rinunzia. Quest'ultima è già ben visibile in germe negli
    scritti degli Apostoli, ma tuttavia solo più tardi si sviluppa
    appieno e viene explicite enunciata. Troviamo che gli Apostoli
    prescrivono: amor del prossimo eguale all'amor di sé; carità, amore
    e benevolenza in cambio di odio; pazienza, mitezza, sopportazione
    d'ogni possibile offesa senza opporvisi: sobrietà nel cibo per
    mortificare il piacere; resistenza all'istinto sessuale, ove sia
    possibile, completa. Vediamo qui già i primi gradi dell'ascesi, o
    propriamente negazione della volontà. E questa nostra espressione
    indica proprio ciò che negli Evangeli si chiama rinnegar se medesimo
    e prender su di sé la croce (Math. 16, 24.25; Mare. 8, 34.35; Lue.
    9, 23.24; 14, 26.27.33). Quest'indirizzo si sviluppò presto sempre
    più, e diede origine ai penitenti, agli anacoreti, al monachismo; il
    quale era in sé puro e santo, ma appunto perciò in nulla adatto alla
    maggioranza degli uomini, per modo che soltanto finzione e
    turpitudine potè venirne: imperocché abusus optimi pessimus. Col
    Cristianesimo meglio sviluppato possiam poi vedere quel germe
    ascetico aprirsi nel suo pieno fiore, negli scritti dei santi e
    mistici cristiani. Costoro predicano, oltre il puro amore, anche
    rassegnazione intera, volontaria, assoluta povertà, verace calma,
    completa indifferenza riguardo a ogni cosa terrena, morte della
    volontà individuale e rinascita in Dio, perfetto oblio della propria
    persona e assorbimento nella contemplazione divina. Di ciò si ha una
    compiuta esposizione in Fénelon, Explication des maximes des Saints
    sur la vie intérieure. Ma forse mai lo spirito del Cristianesimo in
    questo suo sviluppo fu espresso con tanta perfezione e vigore come
    negli scritti dei mistici tedeschi, e quindi di Meister Eckhard e
    nel libro a ragione celebrato Die deutsche Theologie (la teologia
    tedesca), di cui Lutero, nella prefazione che vi fece, disse di non
    aver da nessun altro libro, eccettuati la Bibbia e sant'Agostino,
    imparato meglio che da questo, che cosa siano Dio, Cristo e l'uomo.
    Ma il suo testo genuino l'abbiamo avuto solo il 1851, nell'edizione
    di Stuttgart curata da Pfeiffer. I precetti e ammaestramenti quivi
    impartiti sono la più completa illustrazione, inspirata dalla più
    intima e profonda certezza, di ciò ch'io ho presentato come
    negazione della volontà di vivere. Colà bisogna quindi imparare a
    meglio conoscerla, prima di sdottrineggiarvi su con
    ebraico-protestante saccenteria. Scritta nel medesimo, altissimo
    spirito, sebbene non tale da mettersi proprio a paro di quell'opera,
    è l'Imitazione della povera vita di Cristo (Nachfolgung des armen
    Leben Christi) di Tauler, e anche, dello stesso autore, la Medulla
    animae. Secondo me gl'insegnamenti di questi genuini spiriti
    cristiani sono rispetto a quelli del Nuovo Testamento ciò che
    l'alcool è rispetto al vino. Ossia: ciò che nel Nuovo Testamento ci
    appare come attraverso velo e nebbia, ci si fa incontro nelle opere
    dei Mistici scopertamente, in piena chiarità ed evidenza. E si
    potrebbe, per concludere, considerare il Nuovo Testamento come la
    prima consacrazione, i Mistici come la seconda σμικρα και μεγαλα
    μυοτηρια.
    
    Ma ancor più sviluppato, sotto più aspetti formulato, e più
    vivacemente rappresentato che non fosse possibile nella Chiesa
    cristiana e nel mondo occidentale, troviamo ciò che noi chiamammo
    negazione della volontà di vivere nelle antichissime opere della
    lingua sanscrita. Che quella grave considerazione etica della vita
    potesse colà raggiungere uno sviluppo ancora più ampio, e più
    risoluta espressione, è forse principalmente da attribuire al fatto,
    che quivi essa non fu limitata da un elemento a lei del tutto
    estraneo, com'è nel Cristianesimo la religione ebraica, alla quale
    l'alto fondatore di quello dovè per necessità, parte consapevolmente
    e parte forse inconsapevolmente, conformarsi e adattarsi: per modo
    che il Cristianesimo risulta di due elementi molto eterogenei, dei
    quali io l'elemento ch'è soltanto etico amerei di preferenza, anzi
    in modo esclusivo, chiamar cristiano; e vorrei distinguerlo dal
    dogmatismo ebraico ch'esso trovò innanzi a sé. Se, come già spesso,
    e in particolar modo nell'età presente si è temuto, quell'alta e
    redentrice religione dovesse un giorno decadere del tutto, io
    troverei di ciò la ragione nel fatto, ch'ella consta non già di un
    elemento semplice, bensì di due elementi in origine eterogenei, e
    venuti a collegarsi sol per il corso degli eventi. La loro
    scomposizione, causata dalla naturale disuguaglianza e dal contrasto
    col progredito spirito di quest'età, non mancherebbe di produrne lo
    scioglimento; ma in seguito rimarrebbe tuttavia integra la parte
    puramente morale, perché questa è indistruttibile. Venendo all'etica
    degli hindù, quale noi già ora, per incompiuta che sia la nostra
    cognizione di quella letteratura, la troviamo espressa nel modo più
    vario e più vivace nei Vedas, nei Puranas, nelle opere poetiche, nei
    miti, nelle leggende dei santi indiani, nelle massime e regole di
    vita61, vediamo che vi si prescrive: amore del prossimo con piena
    rinunzia ad ogni egoismo; amore non limitato al genere umano, ma
    estendentesi a ogni cosa viva; carità spinta fino a dare lo stentato
    guadagno quotidiano; illimitata pazienza verso tutti gli offensori;
    bontà e amore in cambio d'ogni male, per duro che sia; volontaria e
    gioiosa tolleranza d'ogni umiliazione; astinenza da ogni nutrizione
    animale; completa castità e rinunzia a tutti i piaceri da parte di
    chi aspira alla vera santità; donazione d'ogni patrimonio, abbandono
    d'ogni domicilio, e di tutti i parenti; profonda, assoluta
    solitudine, trascorsa in silenziosa contemplazione, con volontaria
    penitenza e terribile, lenta macerazione, per venire alla compiuta
    mortificazione della volontà, mortificazione che giunge fino alla
    morte volontaria per fame, o con l'esporsi ai coccodrilli, o col
    precipitarsi da una sacra vetta dell'Himalaja, o col farsi
    seppellire vivi, o col gettarsi sotto le ruote dell'immane carro
    recante attorno in processione le immagini degli Dei tra canto,
    giubilo e danza delle bajadere. E a codeste regole, la cui origine
    risale indietro di quattro millenni, s'informa oggi ancora la vita
    di quel popolo, per quanto in molte cose degenerato; taluni le
    seguono addirittura fino agli ultimi eccessi62. Ora, quel che sì a
    lungo, in un popolo comprendente tanti milioni d'uomini, è stato
    praticato, sebbene imponga i più gravi sacrifici, non può essere
    un'ubbia inventata a capriccio, ma deve avere il suo fondamento
    nell'essenza dell'umanità. A ciò si aggiunga, che non ci si
    meraviglierà mai abbastanza della somiglianza uniforme, che si trova
    quando si legge la vita di un penitente o santo cristiano, e quella
    di un indiano. Con dogmi, costumi e luoghi sì fondamentalmente
    diversi, affatto identica è l'aspirazione e l'interna vita di
    entrambi. Lo stesso si dica per le loro prescrizioni. Per esempio,
    Tauler parla dell'assoluta povertà, che bisogna ricercare, e che
    consiste nel disfarsi appieno di tutto ciò da cui potrebbe trarsi un
    conforto o una soddisfazione terrena: evidentemente, perché tutto
    ciò da sempre nuovo alimento alla volontà, che si mira invece a
    spegnere del tutto. Ora, come analogia indiana troviamo nelle regole
    del Fo raccomandato al Saniassi, il quale non deve aver domicilio né
    proprietà alcuna, di non adagiarsi, per di più, troppo sovente sotto
    lo stesso albero, affinchè non abbia a concepire per quest'albero
    qualche preferenza o inclinazione. I mistici cristiani e i maestri
    della filosofia Vedanta s'incontrano anche nel considerar superflue
    tutte le opere esteriori e pratiche religiose, per colui che abbia
    raggiunto lo stato perfetto. Tanta concordanza, in tempi e popoli sì
    diversi, è una prova di fatto che quivi non si esprime, come
    volentieri afferma l'ottimistica insulsaggine, una stramberia e
    stoltezza dell'animo, bensì un lato essenziale dell'umana natura, il
    quale sol per la sua eccellenza di rado si manifesta. Oramai ho
    indicata la fonte, dalla quale si posson direttamente conoscere,
    attingendo alla vita stessa, i procedimenti in cui si palesa la
    negazione della volontà di vivere. In un certo modo è questo il
    punto più importante di tutto il nostro studio: nondimeno io l'ho
    esposto tenendomi sempre sulle generali, meglio essendo rimandare a
    quelli, i quali ne parlano per diretta esperienza, che non
    ingrossare senza bisogno questo libro con l'affievolita ripetizione
    di ciò ch'essi hanno detto.
    
    Ma poco altro voglio aggiungere per definire genericamente il loro
    stato. Vedemmo più indietro il malvagio, per vivacità del suo
    volere, soffrire perenne, divorante intimo affanno, e da ultimo,
    quando tutti gli oggetti del volere sono esauriti, placar la
    rabbiosa sete dell'egoismo con la vista della pena altrui; quegli
    viceversa, in cui s'è affermata la negazione della volontà di
    vivere, per quanto povero, scevro di gioia, di privazioni pieno sia
    il suo stato visto dal di fuori, è pieno d'intima gioia e di vera
    calma celeste. Non sono più l'irrequieto impulso vitale,
    l'esuberante gioia, che ha per condizione precedente o successiva un
    vivo dolore, quali costituiscono la vita di un uomo amante
    dell'esistenza; ma è invece un'incrollabile pace, una profonda
    quiete ed intima letizia, uno stato che noi, se ci vien posto
    davanti agli occhi o alla fantasia, non possiamo guardare senza
    altissimo desiderio, perché tosto lo riconosciamo come l'unico a noi
    conveniente, di gran lunga superiore a ogni altra cosa, e verso di
    esso il nostro spirito migliore ci spinge col grande sapere aude.
    Sentiamo allora come ogni appagamento dei nostri desideri strappato
    al mondo è appena simile all'elemosina, che oggi tiene in vita il
    mendico perché domani ancor soffra la fame. La rassegnazione
    somiglia invece alla proprietà ereditaria, che libera per sempre il
    possessore da tutte le angustie.
    
    Ci sovviene il terzo libro, che la gioia estetica del bello consiste
    per gran parte nel fatto che noi, entrando nello stato della pura
    contemplazione, siamo pel momento liberati da ogni volere, ossia da
    tutti i desideri e gli affanni, quasi fossimo sciolti da noi
    medesimi; non più individuo dotato d'una conoscenza in servizio del
    suo perenne volere, non più correlato dell'oggetto singolo, a cui le
    cose divengono motivi; bensì eterno soggetto del conoscere, liberato
    dalla volontà, correlato dell'idea. E sappiamo come gl'istanti, in
    cui sciolti dal feroce impulso della volontà veniamo quasi a tenerci
    sollevati sulla greve aria terrestre, siano i più beati che noi
    conosciamo. Da ciò possiam ricavare, come felice debba esser la vita
    di un uomo, la cui volontà sia non per fugaci istanti domata, come
    accade nel godimento del bello, ma per sempre, e sia anzi spenta del
    tutto, eccettuata solamente l'ultima estinguentesi scintilla, che
    regge il corpo e con questo si estinguerà. Un siffatto uomo, che
    dopo molte amare lotte contro la propria natura, riporta finalmente
    piena vittoria, non sopravvive più se non come semplice essenza
    conoscente, come limpido specchio del mondo. Nulla più perviene ad
    angustiarlo, nulla a scuoterlo: perché tutte le mille fila del
    volere, che ci tengono legati al mondo, e di qua e di là in forma di
    sete, paura, invidia, ira ci trascinano dilaniandoci, con assiduo
    dolore, egli le ha tagliate. Sereno e sorridente egli si volge ora a
    guardare le finte immagini del mondo, che un tempo sapevano scuotere
    e affliggere anche l'animo suo, ma ora gli stanno innanzi
    indifferenti come i pezzi d'una scacchiera a giuoco finito, o come
    al mattino i vestiti da maschera smessi e dispersi, le cui parvenze
    ci avevano stuzzicati ed eccitati nella notte di carnevale. La vita
    e le sue forme ondeggiano oramai davanti a lui come una fuggitiva
    visione, o come appare nel dormiveglia un lieve sogno mattutino,
    attraverso il quale già traluce la realtà, e che più non perviene ad
    illuderci: e appunto come questo sogno svaniscono, senza un brusco
    passaggio. Da queste considerazioni possiamo intendere in qual senso
    si esprima spesso così M.me de Guyon, verso la fine della sua
    autobiografia: «Tutto m'è indifferente; io non posso più nulla
    volere: spesso non so, se esisto o non esisto». Mi sia anche
    concesso, per esprimere come, dopo la morte della volontà, pur la
    morte del corpo (il quale non è che il fenomeno della volontà,
    soppressa la quale perde anch'esso ogni significato) non abbia più
    nulla d'amaro, e sia anzi la benvenuta –, di trasportar qui le
    parole stesse di quella santa penitente, sebbene non siano formulate
    con eleganza: «Midi de la gloire; jour où il n'y a plus de nuit; vie
    qui ne craint plus la mort, dans la mort même: parce que la mort a
    vaincu la mort, et que celui qui a souffert la première mort, ne
    goûtera plus la seconde mort» (Vie de M.me de Guyon, vol. Il, p.
    13).
    
    Non dobbiamo tuttavia ritenere che, una volta subentrata, attraverso
    la conoscenza ridotta a quietivo, la negazione della volontà di
    vivere, questa non tentenni mai più, e si possa su lei posare come
    su d'una proprietà guadagnata. Invece dev'essere con diuturna
    battaglia sempre di nuovo riconquistata. Perché il corpo è la
    volontà medesima, ma sol nella forma dell'oggettità, ossia fenomeno
    nel mondo quale rappresentazione; quindi, finché il corpo vive,
    sussiste ancora nella propria possibilità tutta intera la volontà di
    vivere, e tende perennemente a entrar nella realtà, ad ardere di
    nuovo in tutto il proprio ardore. Quindi troviamo, che nella vita
    dei santi quella descritta calma e beatitudine è come il fiore, che
    sorge dalla continua vittoria sulla volontà; il suolo, da cui essa
    germoglia, è la permanente battaglia con la volontà di vivere:
    imperocché durevole calma non può aver nessuno sulla terra. Perciò
    vediamo le narrazioni della vita interna dei santi esser piene di
    lotte spirituali, tentazioni, e abbandoni della grazia: ossia
    offuscamenti di quel modo di conoscenza, che facendo inefficaci
    tutti i motivi doma come universal quietivo tutti i voleri, dà la
    pace più profonda e apre la porta della libertà. E vediamo quindi
    anche coloro, i quali son giunti alla negazione della volontà,
    tenersi con tutti gli sforzi su questo cammino, costringendosi a
    rinunzie d'ogni maniera, con una espiante dura regola di vita e con
    la ricerca di ciò che loro spiace: tutto per soffocare la volontà
    sempre divampante. Da qui vengono infine, poiché essi già conoscono
    il pregio della redenzione, la loro cura angosciosa per la
    osservazione del bene raggiunto, i loro scrupoli di coscienza per
    ogni innocente piacere, e per ogni piccol moto della vanità, che
    anche in essi è l'ultima a morire, essendo di tutte le inclinazioni
    umane la più tenace, la più attiva e la più stolta. Con la parola
    ascesi, già spesso da me usata, io intendo, nel senso più stretto,
    il deliberato infrangimento della volontà, mediante l'astensione dal
    piacevole e la ricerca dello spiacevole, l'espiazione e la
    macerazione spontaneamente scelta, per la continuata mortificazione
    della volontà.
    
    Ora, se noi vediamo questa mortificazione praticata da chi già è
    giunto alla negazione della volontà, per mantenervisi, è poi il
    dolore in genere, quale ci viene inflitto dal destino, una seconda
    via (δευτερος πλους) per arrivare a quella negazione. Possiamo anzi
    ritenere, che i più solo da questa vi arrivano, e che è il dolore
    direttamente provato, non quello semplicemente conosciuto, a
    produrre la piena rassegnazione, spesso solamente in prossimità
    della morte. Che solo in pochi basta a ciò la semplice conoscenza,
    la quale, penetrando oltre il principium individuationis, produce
    dapprima la perfetta bontà dell'animo, e finalmente fa riconoscer
    come proprii tutti i mali del mondo, per dar luogo alla negazione
    della volontà. Anche in colui che a tale stato si avvicina, quasi
    sempre le condizioni tollerabili della sua persona, la lusinga
    dell'attimo, l'ingannevole richiamo della speranza e l'ognora
    offrentesi appagamento della volontà, ossia del piacere, sono un
    continuo ostacolo alla negazione della volontà stessa, e una
    continua tentazione di riaffermarla: perciò sotto tale riguardo
    tutte codeste tentazioni vennero personificate in diavoli. Il più
    delle volte deve quindi la volontà venire spezzata da un fortissimo
    dolore personale, prima che pervenga a negarsi. Vediamo allora
    l'uomo, quando per tutti i gradi della crescente angoscia è giunto,
    resistendo con violenza, all'orlo della disperazione,
    improvvisamente tornare in sé, sé e il mondo conoscere, mutare tutto
    il proprio essere, elevarsi sopra sé stesso e sopra il dolore, e,
    come fosse da questo dolore purificato e santificato, in non
    attaccabile calma, in beatitudine e sublimità di spirito rinunziare
    a tutto quanto prima egli bramava con la massima violenza, e gioioso
    accogliere la morte. Questo è il corrusco metallo della negazione
    della volontà di vivere, ossia della redenzione, che all'improvviso
    balza fuori dalla fiamma purificatrice del dolore. Perfino coloro,
    che furono molto malvagi, vediamo talora purificati fino a questo
    grado dai più profondi dolori: sono diventati altre persone da quel
    che furono, e completamente trasformati. I misfatti prima commessi
    non angosciano quindi nemmen più la loro coscienza; tuttavia li
    espiano volentieri con la morte, e di buon animo vedono volgersi al
    termine il fenomeno di quella volontà, che ora è ad essi straniera
    ed oggetto d'orrore. Di questa negazione della volontà prodotta da
    grande sventura e nessuna speranza di salvezza, ci ha dato una
    limpida e intuitiva rappresentazione, tale ch'io non ne conosco pari
    nella poesia, il gran Goethe, nel suo immortale capolavoro, il
    Faust, nella storia del dolore di Margherita. Essa è un esempio
    perfetto della seconda via, la qual conduce alla negazione della
    volontà mediante un personale, terribile dolore da noi stessi
    provato; e non, come la prima, mediante la semplice cognizione del
    dolore di un mondo intero, che volontariamente si fa dolore proprio.
    È vero, che molte tragedie conducono da ultimo il loro eroe pieno
    d'impetuosa volontà a questo punto di completa rassegnazione, in cui
    di solito si spengono insieme la volontà di vivere ed il suo
    fenomeno: ma nessuna rappresentazione, ch'io conosca, mi mette
    innanzi agli occhi ciò ch'è essenziale in quel rivolgimento con
    tanta limpidità e così puro d'ogni accessorio, come la storia citata
    del Faust.
    
    Nella vita reale vediamo quegl'infelici, i quali han da vuotare la
    più gran misura di dolore, allorché è tolta loro del tutto ogni
    speranza, e in piena lucidità di spirito vanno incontro a una
    vergognosa, violenta, spesso tormentosa morte sul patibolo, molto
    spesso trasmutarsi nel modo suddetto. Non penseremo davvero, che tra
    il carattere loro e quello della maggior parte degli uomini sia
    tanta differenza, come dà a credere il loro destino, e invece
    attribuiremo quest'ultimo, il più delle volte, alle circostanze: ma
    pur tuttavia sono colpevoli, e malvagi in grado considerevole. E
    intanto vediamo molti di loro, una volta perduta affatto la
    speranza, convertiti come dicemmo. Dimostrano allora una reale bontà
    e purezza d'animo, hanno orrore d'ogni atto minimamente malvagio o
    privo d'amore; ai loro nemici perdonano, fossero pur questi gli
    autori d'una pena che innocentemente essi soffrono, non solo a
    parole e forse per ipocrita paura dei giudici dell'al di là, bensì
    effettivamente, e con intima gravità; né voglion vendetta alcuna.
    Anzi, il soffrire e morire finisce col diventar loro gradito,
    imperocché è subentrata la negazione della volontà di vivere;
    respingono spesso l'offerta salvezza, volentieri muoiono,
    tranquilli, beati. Nell'eccesso del dolore si è loro palesato il
    segreto ultimo della vita, che cioè il dolore e la malvagità, la
    sofferenza e l'odio, il tormentato e il tormentatore, per quanto
    diversi appariscano alla conoscenza, che segue il principio di
    ragione, sono in sé tutt'uno, fenomeno di quell'unica volontà di
    vivere, che il proprio dissidio con se medesima oggettiva mediante
    il principium individuationis: essi hanno appreso a conoscerne in
    piena misura le due facce, la malvagità e il dolore, e scorgendone
    da ultimo l'identità, entrambe le rigettano da sé, rinnegano la
    volontà di vivere. In quali miti e dogmi diano poi conto alla loro
    ragione di questa intuitiva e diretta conoscenza, e del proprio
    mutamento, è cosa, come osservammo, affatto indifferente.
    
    Testimone di una simile trasformazione morale fu, senza dubbio,
    Matthias Claudius, quando scrisse quel singolare saggio che nel
    Wandsbecker Boten (parte I, p. 115) si trova sotto il titolo Storia
    della conversione di ***, e si chiude così: «Il modo di pensare
    dell'uomo può passar da un punto della periferia al punto opposto, e
    tornar poi al punto precedente, se le circostanze ve lo spingano. E
    tali mutamenti non sono nell'uomo nulla di grande e d'interessante.
    Ma quella strana, cattolica, trascendentale trasformazione, per cui
    tutto il circolo viene irrevocabilmente lacerato, e tutte le leggi
    della psicologia diventan vane e vuote; dove il vestimento è tolto
    alla pelle, o almeno rovesciato, e all'uomo sembrano cadere squame
    dagli occhi, quella trasformazione è tal cosa che ciascuno, il quale
    abbia in qualche modo coscienza del fiato nel suo naso, abbandona
    padre e madre, se ha occasion di udire e apprendere alcunché di
    sicuro intorno a quest'argomento».
    
    Prossimità della morte e perdita della speranza non sono d'altronde
    punto necessarie per codesta purificazione prodotta dal dolore.
    Anche senza di quelle può, mediante grande sventura e grande dolore,
    la cognizione del contrasto della volontà di vivere con se medesima
    prodursi vigorosamente, e fare scorgere il nulla d'ogni aspirazione.
    Per questo si videro sovente uomini, i quali avevano menato una vita
    assai travagliata nel tumulto delle passioni, re, eroi, cavalieri di
    ventura, improvvisamente mutare, darsi alla rassegnazione e alla
    penitenza, farsi eremiti e monaci. Quivi vanno comprese tutte le
    storie genuine di conversione, ad esempio, anche quella di Raimondo
    Lullo, il quale da una bella, a cui aveva lungamente fatto la corte,
    invitato finalmente a raggiungerla in camera sua, si vedeva presso
    al compimento di tutti i desideri, quand'ella, slacciandosi il
    corpetto, gli mostrò il seno orribilmente divorato da un cancro. Da
    quest'istante, com'avesse spinto l'occhio nell'inferno, si convertì;
    abbandonò la corte del re di Majorca e andò nel deserto, a far
    penitenza63.
    
    A questa conversione somiglia molto quella dell'abate Rancé, che io
    ho brevemente narrata nel cap. 48 del secondo volume. Se
    consideriamo come in entrambi il passaggio avvenisse dal piacere
    agli orrori della vita, abbiamo in ciò una spiegazione del fatto
    sorprendente, che la nazione più mondana, più allegra, più sensuale
    e più leggiera d'Europa, ossia la francese, sia pur quella in cui è
    sorto l'ordine monastico di gran lunga più rigido, la Trappa, poi
    restaurato dopo la sua decadenza da Rancé, e malgrado rivoluzioni,
    evoluzioni ecclesiastiche e propagata incredulità, fino al dì d'oggi
    sopravvivente nella sua purezza e terribile severità.
    
    Ma una cognizione della natura del mondo, quale quella più sopra
    ricordata, può nondimeno allontanarsi nuovamente dall'uomo, quando
    cessi l'occasione che l'ha prodotta; ritorna allora la volontà di
    vivere, e con lei il carattere antecedente. Così vediamo l'impetuoso
    Benvenuto Cellini, una volta in prigione e altra volta ammalato di
    grave malattia, trasmutarsi nel modo suddetto; ma, scomparsi i mali,
    tornar nell'antico stato. In genere, poi, la negazione della volontà
    non è prodotta dal dolore con la stessa necessità con cui un effetto
    è prodotto dalla sua causa; la volontà resta libera. Anzi è proprio
    questo l'unico punto, in cui la sua libertà entri direttamente nel
    fenomeno; di qui la sorpresa così vivamente espressa dall'Asmus
    sulla «conversione trascendentale». Accanto a ogni dolore si può
    immaginare una volontà ad esso superiore in forza, e quindi
    incoercibile. Così Platone racconta nel Fedone di cotali, che fino
    all'istante del loro supplizio banchettano, bevono, godono Afrodite,
    fino alla morte affermando la vita, Shakespeare ci pone innanzi nel
    cardinale Beaufort64 la terribile fine di uno scellerato, che muore
    al colmo della disperazione, non potendo dolore alcuno né morte
    infrangere la sua volontà spinta fino alla malvagità più estrema.
    
    Quanto più vivace la volontà, quanto più stridente il fenomeno del
    suo contrasto, tanto è più forte il dolore. Un mondo, il quale fosse
    fenomeno di una volontà di vivere molto più vivace della presente,
    ci mostrerebbe dolore d'altrettanto più grande: sarebbe adunque un
    inferno.
    
    Poiché ogni sofferenza, essendo una mortificazione e un richiamo
    alla rassegnazione, ha la possibilità d'essere una forza
    purificatrice, si spiega con questo che una grande sventura e
    profondi dolori già di per sé ispirino un certo rispetto. Ma del
    tutto degno di venerazione ci appare colui che soffre, sol
    quand'egli, guardando al corso della sua vita come a una catena di
    mali, o soffrendo per un grande, insanabile dolore, non s'indugi a
    mirar precisamente la concatenazione di circostanze, onde fu
    precipitata in doglia la sua vita, e non s'arresti a quel singolo
    grande dolore che l'ha colpito: che entro questi limiti la sua
    conoscenza seguirebbe ancora il suo principio di ragione e
    rimarrebbe attaccata al singolo fenomeno, egli vorrebbe ancor sempre
    la vita, purché in condizioni diverse dalle sue; ma invece, dico,
    degno di venerazione egli appare veracemente sol quando il suo
    sguardo s'è elevato dal particolare all'universale, quando egli il
    suo dolore personale considera come esempio del Tutto, e per lui,
    diventato ormai geniale sotto il rispetto etico, un caso val quanto
    mille; sì che il complesso della vita, visto come essenziale dolore,
    lo conduce alla rassegnazione. In questo senso è degna di
    venerazione nel Torquato Tasso di Goethe la Principessa, quando si
    effonde a narrar come sempre mesta e senza gioia fosse la vita sua e
    quella dei suoi, e ciò facendo guarda al dolore universale.
    
    Un carattere molto nobile ce lo immaginiamo sempre con una certa
    apparenza di muta tristezza; la quale è tutt'altro che un permanente
    cattivo umore per le contrarietà quotidiane (che questo non sarebbe
    un tratto nobile, e darebbe a temere malvagità d'animo); bensì è
    conscienza, nata da cognizione, della vanità di tutti i beni e del
    dolore d'ogni vita, non della propria soltanto. Nondimeno questa
    cognizione può esser dapprima destata da mali personalmente
    sofferti, soprattutto da un unico grande dolore. Così un'unica,
    inappagabile brama ha condotto Petrarca a quella rassegnata mestizia
    nel considerar la vita intera, che tanto ci commuove nelle sue
    opere: imperocché la Dafne ch'egli inseguiva doveva sfuggire dalle
    sue mani, per lasciare a lui, in luogo di se stessa, l'alloro
    immortale. Quando la volontà, per un tal grande e irreparabile
    diniego del destino, è rotta ad un certo grado, non viene quasi più
    null'altro desiderato, e il carattere si mostra dolce, triste,
    nobile, rassegnato. Quando infine il dolore non ha più una casa
    determinata, ma si estende sul complesso della vita, allora esso è
    in certo modo un rientrare in sé, un ritirarsi, un graduale svanire
    della volontà. E la visibilità di questa, il corpo, finisce con
    l'essere a poco a poco, ma nel più profondo, minata dal dolore; in
    ciò l'uomo sente una certa liberazione dai suoi ceppi, un dolce
    presentimento della morte annunziantesi insieme col dissolvimento
    del corpo e della volontà. Perciò tale dolore s'accompagna con una
    segreta gioia, quella, secondo me, che il più malinconico di tutti i
    popoli ha chiamato the joy of grief. Tuttavia si trova proprio qui
    lo scoglio della sensibilità, sia nella vita, sia nella
    rappresentazione poetica di questa: se cioè si soffre sempre, e
    sempre ci si lamenta, senza elevarsi alla rassegnazione e
    fortificarsi, ci si trova ad aver perduto insieme terra e cielo,
    conservando solo una lagrimosa sensibilità. Il soffrire è via di
    redenzione, e degno quindi d'alto rispetto solo in quanto prende la
    forma della semplice, pura conoscenza; e questa allora, fattasi
    quietivo della volontà, produce vera rassegnazione. Sotto tale
    riguardo proviamo alla vista di ciascun grande infelice un certo
    rispetto, affine a quello che virtù e nobiltà ci inspirano; innanzi
    a lui ci sembra un rimprovero la nostra condizione felice. Non
    possiamo trattenerci dal considerare ogni dolore, sia nostro che
    altrui, come un ravvicinamento, per lo meno possibile, alla virtù e
    santità; e considerare invece i piaceri e le soddisfazioni terrene
    come un allontanamento da quelle. Ciò arriva al punto, che ogni uomo
    il quale patisca una grande sofferenza corporea, o una grave
    sofferenza morale; o anche addirittura ogni uomo, che compia col
    sudore nel volto e con visibile sfinimento un semplice lavoro fisico
    richiedente il massimo sforzo; e tutto ciò sopporti pazientemente e
    senza mormorare; quest'uomo, dico, quando lo guardiamo con profonda
    attenzione, ci appare come un malato: il quale faccia una cura
    dolorosa, ma sopportando di buon animo e addirittura con piacere il
    dolore, che da quella gli viene, perché sa che quanto più soffre,
    tanto più sarà estirpata la causa del male. Il dolore presente è la
    misura della sua guarigione.
    
    Da quanto s'è detto finora apparisce che la negazione della volontà
    di vivere, la quale è quel che si chiama rassegnazione completa o
    santità, proviene sempre dal quietivo della volontà, ossia dalla
    cognizione dell'intimo dissidio a questa inerente, e della sua
    essenziale vanità, che si manifestano nei dolori d'ogni essere
    vivente. La differenza, che noi indicammo con l'immagine delle due
    vie, è questa: se quella cognizione è generata dal dolore
    semplicemente conosciuto, con spontanea adozione di esso, mediante
    il superamento del principii individuationis; oppure dal dolore
    direttamente, personalmente provato. Vera salvezza, redenzione dalla
    vita e dal dolore non può essere immaginata senza completa negazione
    della volontà. Prima di giungere a quel punto, noi non siamo altro
    che quella volontà stessa, il cui fenomeno è un'esistenza
    evanescente, è un sempre nullo, vano aspirare, è l'intero doloroso
    mondo della rappresentazione, al quale tutti in egual modo
    irrevocabilmente appartengono. Imperocché noi vedemmo più sopra, che
    alla volontà di vivere è ognor sicura la vita, e sua unica forma
    reale è il presente: a cui gli esseri, per quanto nascita e morte
    imperino sul fenomeno, mai si sottraggono. Questo esprime il mito
    indiano, dicendo: «essi tornano a nascere». Il gran divario etico
    dei caratteri ha il significato seguente. Il malvagio è
    infinitamente lontano dal raggiungere la conoscenza, da cui si
    genera la negazione della volontà, e quindi è effettivamente in
    balìa di tutti gli affanni che nella vita appaiono come possibili:
    essendo anche la casuale sua presente condizione felice null'altro
    se non un fenomeno mediato dal principio individuationis, ossia
    un'illusione della Maja, il sogno felice del mendicante. I dolori,
    ch'egli nella violenza e nella rabbia della sua sete infligge
    altrui, sono la misura dei dolori da lui personalmente provati, che
    non pervengono a infrangere la sua volontà e a guidarlo verso la
    finale negazione. Ogni vero e puro amore, invece, ed anche ogni
    libero senso di giustizia, provengono già dal superamento del
    principii individuationis; il qual superamento, quando avvenga con
    pieno vigore, ha per effetto la completa santità e redenzione. Il
    processo di questa è lo stato di rassegnazione sopra descritto,
    l'incrollabile amore, che tale rassegnazione accompagna, e la
    suprema letizia nella morte65.
    
    § 69.
    
    Da questa negazione della volontà di vivere, oramai sufficientemente
    esposta nei limiti del nostro studio; negazione, che è l'unico atto
    di libertà possibile al fenomeno, e costituisce quindi, come Asmus
    la chiama, la metamorfosi trascendentale, nulla si discosta tanto
    come l'effettiva soppressione del proprio singolo fenomeno: il
    suicidio. Lungi dall'esser negazione della volontà, esso è invece un
    atto di forte affermazione della volontà stessa. Imperocché la
    negazione ha la sua essenza nell'aborrire non già i mali, bensì i
    beni della vita. Il suicida vuole la vita, ed è solo malcontento
    delle condizioni che gli sono toccate. Egli non rigetta perciò in
    nulla la volontà di vivere, ma soltanto la vita, distruggendone il
    singolo fenomeno. Vuole la vita, vuole la libera esistenza ed
    affermazione del corpo; ma ciò non gli è consentito dall'intreccio
    delle circostanze, e gliene viene un grande dolore. La volontà di
    vivere viene a trovarsi in questo singolo fenomeno tanto
    compromessa, da non poter più svolgere la propria tendenza. Allora
    essa prende una risoluzione conforme alla propria essenza in sé; la
    quale sta fuor delle forme del principio di ragione, e tiene quindi
    per indifferente ogni isolato fenomeno, essendo ella medesima
    intangibile da nascita e da morte, e costituendo l'intimo della vita
    di tutte le cose. Quella medesima salda, profonda certezza, la quale
    fa sì che noi tutti viviamo senza il continuo terror della morte,
    ossia la certezza che alla volontà non verrà mai meno il suo
    fenomeno, sorregge anche il gesto del suicida. La volontà di vivere
    si palesa dunque altrettanto nel suicidio (Shiva), quanto nel
    benessere della propria conservazione (Visnù) e nella voluttà della
    generazione (Brahma). Questo è il significato profondo dell'unità
    della Trimurti, la quale è tutta in ciascun uomo sebbene ella nel
    tempo alzi ora l'una, ora l'altra delle sue tre teste. Come
    l'oggetto singolo sta all'idea, così sta il suicidio alla negazione
    della volontà: il suicida nega soltanto l'individuo, non la specie.
    Già vedemmo che, essendo alla volontà di vivere sicura sempre la
    vita, ed essenziale alla vita il dolore, il suicidio o arbitraria
    distruzione di un fenomeno isolato è azione in tutto vana e stolta:
    che sopprimendo il fenomeno rimane intatta la cosa in sé, come
    sussiste l'arcobaleno, per veloci che si succedano le gocce le quali
    nell'attimo lo sostengono. Quell'azione è inoltre il capolavoro
    della Maja, essendo la più clamorosa espressione del contrasto della
    volontà di vivere con se stessa. Come già osservammo, tale contrasto
    nei fenomeni più bassi della volontà, nella lotta permanente
    combattuta da tutte le manifestazioni delle forze naturali e da
    tutti gl'individui organici per la materia, per il tempo e per lo
    spazio; e come quel contrasto vedemmo sempre più visibile apparire,
    con tremenda evidenza, nei gradi dell'oggettivazione della volontà
    man mano più alti; così finalmente raggiunge nel grado supremo, ch'è
    l'idea dell'uomo, questo vertice, in cui non soltanto gl'individui
    rappresentanti della stessa idea si distruggono l'un l'altro, ma
    addirittura l'individuo dichiara guerra a se medesimo. E allora
    quella stessa vivacità con cui l'individuo vuole la vita e fa impeto
    contro l'oppressore di essa, il dolore, lo riduce a distruggere se
    medesimo: sì che la volontà individuale sopprime con un atto
    volontario il corpo, il quale è appunto la propria manifestazione
    visibile, prima che il dolore infranga la volontà. Appunto perché il
    suicida non può cessar di volere, cessa di vivere; e la volontà
    s'afferma qui proprio con la soppressione del proprio fenomeno, non
    potendosi più altrimenti affermare. Ma poiché precisamente il dolore
    a cui il suicida in tal modo si sottrae era quello che avrebbe
    potuto, qual mortificazione della volontà, condurlo alla negazione
    di se stesso ed alla redenzione, somiglia sotto questo riguardo il
    suicida ad un malato, il quale non lasci condurre a termine una
    dolorosa operazione che lo guarirebbe radicalmente, e preferisce
    tenersi la malattia. Il dolore gli s'accosta, e gli apre la
    possibilità di venire alla negazione del volere: ma egli lo respinge
    da sé, distruggendo il fenomeno della volontà, il corpo, affinchè la
    volontà rimanga intatta. Questa è la ragione, per cui quasi tutte le
    etiche, sia filosofiche, sia morali, condannano il suicidio; sebbene
    non possano giustificar la condanna se non con strani sofismi. Ma se
    mai un uomo potesse venir trattenuto dal suicidio con una semplice
    incitazione morale, il senso intimo di codesta vittoria su se stesso
    (quali che fossero poi i concetti di cui la sua ragione rivestisse
    quel senso) sarebbe il seguente: «Io non voglio sottrarmi al dolore,
    affinchè esso possa contribuire a spegnere la volontà di vivere, il
    cui fenomeno è sì pieno d'affanno, rafforzando in me la già
    balenantemi cognizione dell'essenza del mondo fino a tal segno,
    ch'essa diventi un finale quietivo della mia volontà e mi redima per
    sempre». È noto che di tanto in tanto si danno casi in cui il
    suicidio si estende ai propri figli: il padre uccide i figli, che
    egli ama, e poi se medesimo. Riflettiamo che coscienza, religione e
    tutti i concetti appresi gli fanno scorgere nel delitto il più grave
    misfatto, e nondimeno ei lo commette nell'ora della sua propria
    morte, senza poter avere in ciò il minimo motivo egoistico. Il suo
    atto si spiega solo pensando, che qui la volontà dell'individuo si
    riconosce direttamente nei figli, ma prigioniera tuttavia
    dell'errore che scambia il fenomeno con la cosa in sé; e così,
    profondamente scossa dalla cognizione del dolore inerente a ogni
    vita, ritiene allora di sopprimere col fenomeno l'essenza. Quindi se
    stessa ed i figli, nei quali si vede direttamente rivivere, vuol
    salvare dall'esistenza e dal suo tormento. Un errore del tutto
    analogo a questo sarebbe il pensare che la stessa mèta, a cui si
    perviene mediante volontaria castità, possa venir raggiunta con
    l'impedire i fini della natura nell'atto del generare, o addirittura
    col procurar la morte del neonato, in considerazione
    dell'inevitabile dolore della vita, invece di far viceversa il
    possibile, perché la vita sia assicurata a ognuno che nella vita
    vuole entrare. Imperocché quando esiste volontà di vivere, nessuna
    forza può distruggerla, essa che è la sola realtà metafisica, la
    cosa in sé; ma unicamente può distruggere il suo fenomeno nello
    spazio e nel tempo. La volontà non può venir soppressa che dalla
    conoscenza. Perciò unica via di salvazione è che la volontà si
    palesi liberamente, per poter conoscere, in questo suo palesarsi, la
    propria essenza. Solo quando tale cognizione è raggiunta può la
    volontà sopprimere se stessa e quindi anche dar termine al dolore,
    che dal fenomeno di lei è inseparabile: ma non vi si perviene invece
    con violenza fisica, come sarebbe distruzione del germe, uccisione
    del neonato, o suicidio. La natura mette appunto alla luce la
    volontà, perché questa nella luce soltanto può trovare la sua
    redenzione. Quindi tutti i fini della natura vanno aiutati in ogni
    modo, non appena si è decisa ad agire la volontà di vivere, che
    della natura è l'intima essenza.
    
    Affatto diversa dal suicidio comune sembra essere una particolar
    forma di esso, la quale tuttavia non venne fino ad ora abbastanza
    constatata. È la morte per fame, volontariamente scelta dal grado
    più alto dell'ascesi. Ma essa fu sempre accompagnata da molta
    esaltazione religiosa e addirittura da superstizione, che l'han
    fatta poco chiara. Sembra nondimeno, che la completa negazione della
    volontà possa raggiungere il punto, in cui vien meno perfino la
    volontà occorrente a mantener mediante il cibo la vegetazione del
    corpo. Tal maniera di suicidio proviene da tutt'altro che dalla
    volontà di vivere: quell'asceta rassegnato appieno cessa di vivere
    sol perché ha cessato affatto di volere. Altra forma di morte che
    per fame non sarebbe, in questo caso, immaginabile (a meno che non
    fosse determinata da una particolare superstizione); perché
    l'intendimento di abbreviare la sofferenza sarebbe già in effetti un
    grado d'affermazione della volontà. I dogmi, che empiono a quel
    penitente la ragione, gli prospettano l'errore, che un essere di
    natura superiore gli abbia imposto il digiuno, a cui lo spinge
    invece l'intimo impulso. Non recenti esempi di queste morti si
    posson trovare nella Breslauer Sammlung von Naturund Medicin
    Geschichten, settembre 1719, p. 363; presso Bayle, Nouvelles de la
    république des lettres, febbraio 1685, pp. 189 sg.; presso
    Zimmermann, Ueber die Einsamkeit, vol. I, p. 182; nella Histoire de
    l'Académie des Sciences del 1764 si trova una relazione di Houttuyn;
    questa è riprodotta nella Sammlung für praktische Aente, vol. I, p.
    69. Relazioni posteriori si trovano nel Journal für praktische
    Hilkunde di Hufeland, vol. x, p. 181, e vol. 48, p. 95; anche nella
    «Zeitschrift für psychische Aerzte» di Nasse, 1819, fasc. 3, p. 460;
    nell'«Edinburgh medicai and surgical Journal», 1809, vol. 5, p. 319.
    Nell'anno 1833 tutti i giornali riferirono, che lo storico inglese
    dr. Lingard, di gennaio, a Dover, era volontariamente morto di fame;
    secondo notizie successive non si trattava di lui, ma di un suo
    parente. Nondimeno in queste relazioni cotali individui vengono
    generalmente dati come pazzi, e non c'è più modo di stabilire fino a
    che punto pazzi fossero veramente. Ma una notizia nuova dello stesso
    genere voglio riferire anch'io, dovesse pur servire soltanto a
    conservare il ricordo d'un de' più rari esempi di codesta
    straordinaria singolarità dell'umana natura. La notizia sembra
    appartener proprio ai fatti, tra i quali io vorrei annoverarla, e
    sarebbe altrimenti difficile a spiegare. La si trova nel Nurnberger
    Korrespondenten del 29 luglio 1813, come segue:
    
    «Si annunzia da Berna, che presso Thurnen in un folto bosco fu
    scoperta una capannuccia, e dentro di questa un cadavere maschile
    giacente in putrefazione da circa un mese, con abiti che poco danno
    a comprendere sulla condizione del loro proprietario. Due camicie
    assai fini gli stavano da presso. L'oggetto più importante era una
    Bibbia, con fogli bianchi intercalati, i quali in parte erano
    scritti di mano del morto. Questi vi segna il giorno della sua
    partenza da casa (ma il luogo d'origine non è nominato), poi dice
    ch'egli è sospinto dallo spirito di Dio in un deserto, per pregare e
    digiunare. Ha già digiunato in viaggio sette giorni, poi ha di nuovo
    mangiato. Ma nel suo romitaggio ha ripreso a digiunare, ed indica i
    giorni. Ogni giorno è indicato con un trattolino, e ve ne son
    cinque; trascorsi i quali, il pellegrino verisimilmente sarà morto.
    Si trovò inoltre una lettera a un sacerdote, intorno a una predica
    che il morto aveva udita da lui; ma quivi pur mancava l'indirizzo».
    Fra questa morte provocata da un estremo dell'ascesi e il comune
    suicidio mosso dalla disperazione, potranno essere più gradi
    intermedi e forme miste, la qual cosa è difficile a chiarire; ma
    l'animo umano ha abissi, tenebre e avvolgimenti, che sono di estrema
    difficoltà ad illuminare e dispiegare.
    
    § 70.
    
    Tutta questa nostra esposizione, oramai compiuta, di ciò ch'io
    chiamo negazione della volontà, si potrebbe ritenere inconciliabile
    con l'esame, fatto più indietro, della necessità, la quale
    appartiene alla motivazione come ad ogni altra forma del principio
    di ragione. In virtù di quella necessità i motivi, come tutte le
    cause, sono semplicemente cause occasionali, per cui mezzo il
    carattere dispiega la propria essenza e la manifesta con la
    necessità d'una legge di natura: sì che noi negammo allora
    senz'altro la libertà come liberum arbitrium indifferentiae. Ben
    lungi dal cancellar qui tutto codesto, vi richiamo la memoria.
    Invero la libertà propriamente detta, ossia indipendenza dal
    principio di ragione, appartiene soltanto alla volontà come cosa in
    sé, e non al suo fenomeno, la cui forma essenziale è sempre il
    principio di ragione, l'elemento della necessità. Ma l'unico caso,
    in cui quella libertà può direttamente apparire anche nel fenomeno,
    è quello, in cui essa al fenomeno mette fine; e poiché nondimeno
    allora il semplice fenomeno, in quanto esso è un anello nella catena
    delle cause, ossia il corpo animato, continua a sussistere nel
    tempo, il quale non contiene che fenomeni, sta allora la volontà, in
    codesto fenomeno manifestantesi, in contrasto con lui: poiché ella
    nega ciò che esso esprime. Esistono, per esempio, in questo caso,
    reali e sani, i genitali; come manifestazione visibile dell'istinto
    sessuale; ma tuttavia la volontà non vuol più, anche nel suo più
    intimo, nessuna soddisfazione di sensi: ed il corpo tutto non è se
    non espressione visibile della volontà di vivere, e tuttavia non
    agiscono più i motivi corrispondenti a questa volontà. Anzi, il
    dissolvimento del corpo, la fine dell'individuo, e con essa
    l'ostacolo maggiore opposto alla volontà naturale, è benvenuta e
    invocata. Questa reale contraddizione, proveniente dal diretto
    attacco, che la libertà del volere in sé, la quale non conosce
    necessità di sorta, muove contro la necessità inerente ai fenomeni
    del volere, viene riflessa filosoficamente dalla contraddizione fra
    quanto affermammo, per un lato, intorno alla necessaria
    determinazione della volontà mediante i motivi, nella misura imposta
    dal carattere; e, per l'altro, intorno alla possibile soppressione
    completa della volontà, soppressione che toglie forza ai motivi. La
    chiave per accordare queste contraddizioni è la seguente: lo stato,
    in cui il carattere si trova ad esser sottratto all'impero dei
    motivi, non viene direttamente dalla volontà, ma da un mutato modo
    di conoscere. Finché non si possiede altra conoscenza, che quella
    irretita nel principio individuationis e asservita tutta al
    principio di ragione, l'impero dei motivi è irresistibile; ma quando
    il principium individuations è superato, e le idee, o anzi l'essenza
    delle cose in sé, come volontà unica ovunque, vengon direttamente
    conosciute, e da tal conoscenza proviene un general quietivo del
    volere, allora perdono ogni possa i singoli motivi, perché il modo
    di conoscenza, che ad essi corrisponde, è venuto a offuscarsi, a
    scomparire davanti a un modo affatto nuovo. È vero adunque, che un
    carattere non può mai mutarsi parzialmente, e deve, con la
    conseguenza di una legge di natura, obbedire di volta in volta alla
    volontà, di cui è in complesso il fenomeno: ma appunto questo
    complesso, il carattere medesimo, può esser tolto via del tutto
    dalla sopraddetta trasformazione della conoscenza. Tale soppressione
    indica Asmus, come dicemmo, come «cattolica, trascendentale
    metamorfosi», e ne stupisce: essa è quel che nella Chiesa cristiana
    vien chiamato molto opportunamente la rigenerazione; e la conoscenza
    che ne deriva è detta azione della grazia. Appunto perché non si
    tratta di un mutamento, ma di una completa soppressione del
    carattere, ne viene che, per diversi che fossero prima della
    soppressione i caratteri, a cui questa è toccata, essi mostrano in
    seguito una grande somiglianza, sebbene ciascuno parli ancora molto
    diversamente, secondo i propri concetti e i propri dogmi.
    
    In questo senso non è adunque infondato il vecchio, sempre discusso
    e sempre affermato filosofema della libertà del volere; e non è
    neppure privo di senso e di valore anche il dogma ecclesiastico
    della grazia operante e della rigenerazione. Li vediamo fusi in
    unità, il filosofema e il dogma, e possiamo adesso comprendere qual
    significato intendesse l'eccelso Malebranche con le parole: La
    liberté est un mystère. Aveva ragione. Quel che i mistici cristiani
    chiamano azione della grazia e rigenerazione, è per noi l'unica
    diretta manifestazione della libertà del volere. Questa si ha quando
    la volontà, pervenuta alla cognizione della propria essenza in sé,
    riceve da questa un quietivo e appunto perciò è sottratta all'impero
    dei motivi, il quale sta nel dominio d'un altro modo di conoscenza,
    i cui oggetti sono esclusivamente fenomeni. L'esser possibile la
    libertà, manifestantesi in questo modo, è il più alto privilegio
    dell'uomo, privilegio che all'animale non sarà mai conceduto, avendo
    per condizione la capacità riflessiva della ragione, la quale fa
    vedere il complesso della vita, indipendentemente dall'impressione
    dell'attimo. L'animale non ha libertà possibile, com'è del resto
    addirittura privo della possibilità d'una scelta vera e propria,
    ossia riflessa, che ponga termine a un precedente conflitto di
    motivi: perché a ciò occorrerebbe che i motivi fossero
    rappresentazioni astratte. Quindi con la stessa necessità, con cui
    la pietra cade a terra, pianta il famelico lupo i denti nella carne
    della selvatica preda, senza possibilità di conoscere ch'egli è
    tanto il divorato quanto il divoratore. Necessità è il regno della
    natura; libertà è il regno della grazia.
    
    Ora, poiché, come vedemmo, quella autosoppressione della volontà
    procede dalla conoscenza, ed ogni conoscenza, in quanto tale, è
    indipendente dall'arbitrio; così anche quella negazione del volere,
    quell'entrar nella libertà non si può ottenere con deliberato
    proposito, bensì viene dal più intimo rapporto del conoscere col
    volere nell'uomo. Viene perciò d'un tratto, quasi arrivasse volando.
    E questa è la causa per cui fu chiamata dalla Chiesa azione della
    grazia: ma come la Chiesa fa inoltre dipender l'azione della grazia
    dall'accoglimento della grazia, così anche l'azione del quietivo è
    infine un atto di libertà del volere. E poiché in conseguenza di
    codesta azione della grazia l'intero essere dell'uomo viene dalle
    fondamenta trasformato e convertito, sì ch'egli più nulla vuole di
    quanto finora con tanta forza voleva, e quindi è in lui veramente
    quasi un uomo nuovo sorto al posto dell'antico, la Chiesa chiamò
    rigenerazione quest'effetto della grazia operante. Quel ch'essa
    chiama l'uomo naturale, a cui nega ogni capacità di bene, è appunto
    la volontà di vivere; la quale va negata, se si vuole aver
    redenzione da una esistenza com'è la nostra. Dietro la nostra
    esistenza si cela invero qualche altra cosa, che si fa a noi
    accessibile sol quando abbiamo rimosso il mondo da noi stessi.
    
    Guardando non agli individui, in conformità del principio di
    ragione, bensì all'idea dell'uomo nella sua unità, la religione
    cristiana simboleggia la natura, l'affermazione della volontà di
    vivere, in Adamo: il peccato di lui, disceso ereditariamente fino a
    noi, ossia l'unità nostra con lui nell'idea, unità che si manifesta
    nel tempo col vincolo della generazione, ci fa tutti partecipi del
    dolore e della morte eterna. E simboleggia invece la grazia, la
    negazione della volontà, la redenzione, nel Dio incarnato: il quale,
    libero da ogni peccato, ossia da ogni volontà di vivere, non può
    come noi provenire dalla più risoluta affermazione della volontà, né
    avere come noi un corpo, che in tutto e per tutto è esclusivamente
    volontà concreta, fenomeno della volontà; ma invece, generato dalla
    pura Vergine, ha solo un corpo apparente. Così almeno pretendono i
    doceti, ch'erano certi padri della chiesa molto conseguenti nel loro
    pensare. L'insegnò soprattutto Apelle, contro il quale, e contro i
    successori suoi, si levò Tertulliano. Ma lo stesso Agostino commenta
    quel passo (Rom., 8, 3): «Deus filium suum misit in similitudinem
    carnis peccati»; quindi «non enim caro peccati erat, quae non de
    carnali delectatione nata erat: sed tamen inerat ei similitudo
    carnis peccati, quia mortalis caro erat» (Liber 83 quaestion., qu.
    66). Lo stesso Agostino insegna nell'opera, che ha per titolo Opus
    imperfectum, I, 47, che nel peccato originale si trova a un tempo
    peccato e punizione. Si trova già nei neonati, ma apparisce solo col
    loro crescere. Quindi l'origine di questo peccato sta, secondo lui,
    nella volontà del peccatore. E il peccatore, dice, fu Adamo, ma in
    lui siamo tutti esistiti: Adamo divenne infelice, e tutti divenimmo
    infelici con lui. Sicuramente la dottrina del peccato originale
    (affermazione della volontà), con quella della redenzione (negazione
    della volontà), è la gran verità che forma il nocciolo del
    cristianesimo; mentre il rimanente è il più delle volte una veste e
    un velo, o un accessorio. Quindi Gesù Cristo va sempre preso in
    generale come simbolo, o personificazione, della negazione della
    volontà di vivere; e non già individualmente, sia nella sua storia
    mitica, com'è negli Evangeli, sia nella storia presumibilmente vera,
    che serve a quella di base. Né l'una né l'altra appagherebbe
    facilmente appieno. Questo non è che il tramite per salire a quella
    concezione: tramite ad uso del popolo, che domanda sempre qualcosa
    di materiale. Che poi il Cristianesimo nell'età moderna abbia
    dimenticato il suo vero senso, degenerando in uno scipito ottimismo,
    è cosa che qui non ci riguarda.
    
    C'è poi un'altra dottrina dell'originario ed evangelico
    Cristianesimo, che Agostino, col consenso dei capi della Chiesa,
    sostenne contro le stoltezze dei pelagiani; purificarla da errori e
    metterla in vigore fu il principale scopo dell'attività di Lutero,
    com'egli espressamente dichiara nel suo libro De servo arbitrio. È
    la dottrina, che la volontà non sia libera, ma dall'origine soggetta
    all'inclinazione del male; che perciò son le sue opere sempre
    peccaminose, e non posson mai soddisfare la giustizia; che
    finalmente non già le opere, ma la fede sola salva; e codesta fede
    non nasce da proposito e da libera volontà; bensì per l'azione della
    grazia, senza il nostro concorso, viene a noi quasi giungesse dal di
    fuori. Non soltanto i dogmi più sopra riferiti, ma anche
    quest'ultimo, genuinamente evangelico, appartengono a quelli, che
    oggi una rozza e insulsa concezione rigetta come assurdi, o
    nasconde. Soggetta a quel borghesismo intellettuale pelagiano, che è
    appunto il razionalismo odierno, codesta concezione, malgrado
    Agostino e Lutero, mette fra le anticaglie proprio i dogmi più
    intimamente ed essenzialmente cristiani, e invece tien fermo
    soltanto e pone in primo luogo il dogma originato e conservato dal
    giudaismo, collegato col cristianesimo esclusivamente per la via
    della storia.66
    
    Noi viceversa riconosciamo nella dottrina citata la verità
    corrispondente appieno al risultato delle nostre osservazioni.
    Vediamo cioè, che la genuina virtù e santità dell'animo ha la sua
    prima origine non già nel meditato arbitrio (nelle opere), bensì
    nella conoscenza (nella fede): proprio secondo noi pure concludemmo,
    muovendo dal nostro pensiero centrale. Se conducessero alla
    beatitudine le opere, le quali emanano da motivi e da meditato
    proposito, sarebbe ognora la virtù null'altro che un sottile,
    metodico, lungimirante egoismo: si giri pur la cosa come si vuole.
    La fede invece, a cui la Chiesa cristiana promette la beatitudine, è
    questa: che, come per il peccato originale del primo uomo siamo del
    peccato tutti partecipi, e destinati alla morte e alla perdizione,
    tutti saremo egualmente salvati sol per la grazia e perché il divino
    propiziatore ha assunto su di sé il nostro immane peccato. Saremo
    salvati senz'alcun nostro merito personale; perché ciò che può venir
    dall'agire intenzionale (determinato da motivi) dell'individuo,
    ossia le opere, non potrebbe esserci di giustificazione mai in
    nessun modo e per propria natura, appunto essendo agire
    intenzionale, determinato da motivi, opus operatum. In questa fede è
    primo principio, che il nostro sia originalmente ed essenzialmente
    uno stato di perdizione, dal quale dobbiamo essere redenti. Vien poi
    l'altro principio, che noi apparteniamo per essenza al male, e siamo
    ad esso così strettamente legati, che le nostre opere, fatte secondo
    legge e secondo prescrizione, ossia secondo motivi, né possono
    soddisfare la giustizia, né salvarci. La redenzione s'acquista
    soltanto con la fede, ossia mediante un mutato modo di conoscenza; e
    questa fede non può venire che dalla grazia, cioè dal di fuori: ciò
    vuol dire che la salvazione è alcunché d'affatto estraneo alla
    nostra persona, e indica come necessario per quella salvazione
    appunto il negare, il sopprimere la persona stessa. Le opere,
    adempimento della legge in quanto tale, non posson mai giustificare,
    perché sono sempre un agire per effetto di motivi. Lutero vuole (nel
    libro De libertate christiana) che, una volta penetrata la fede, le
    buone opere ne emanino spontanee, come sintomi, come frutti di lei:
    non già pretendendo d'avere in sé diritto a merito, giustificazione,
    o ricompensa, ma producentisi invece affatto spontaneamente e
    disinteressatamente. Così anche noi facemmo sorgere, dalla
    penetrazione sempre più limpida che va oltre il principium
    individuationis, dapprima la semplice libera giustizia, poi l'amore,
    fino alla completa soppressione dell'egoismo, e finalmente la
    rassegnazione, o negazione della volontà.
    
    Questi dogmi della religione cristiana, che sono in sé estranei alla
    filosofia, li ho qui introdotti per mostrare, che l'etica risultante
    da tutto il nostro sistema, e accordantesi e connettentesi in tutto
    con le varie parti di esso, non è punto nuova e inaudita nella
    sostanza, se pur tale può parere nella sua formulazione. Essa
    coincide invece appieno coi veri dogmi cristiani, ed ora anzi già in
    essi, sostanzialmente, contenuta e presente; così come in tutta
    precisione coincide con le dottrine e le prescrizioni morali,
    sebbene presentate anch'esse in tutt'altra forma, dei libri sacri
    indiani. Inoltre il richiamo ai dogmi della Chiesa cristiana servì a
    illustrare e dirimere il contrasto apparente tra la necessità di
    tutte le manifestazioni del carattere in seguito a dati motivi
    (regno della natura) da una parte, e dall'altra la libertà, che
    possiede la volontà in sé, di negare se medesima e sopprimere il
    carattere, con tutta la necessità dei motivi che su di esso si fonda
    (regno della grazia).
    
    § 71.
    
    Dando qui termine ai fondamenti dell'etica, e con essi all'intero
    sviluppo di quell'unico pensiero, ch'io mi proponevo di comunicare,
    non voglio punto tener celato un rimprovero che tocca quest'ultima
    parte della trattazione; intendo anzi mostrare, ch'esso è inerente
    alla sostanza della cosa, e sarebbe del tutto impossibile
    rimuoverlo. Eccolo: giunta la nostra indagine al punto da farci
    vedere nella perfetta santità la negazione e l'abbandono d'ogni
    volere, e quindi la redenzione da un mondo, la cui essenza intera ci
    si presentò come dolore, tale condizione ci appare come un passare
    al vuoto nulla.
    
    A questo proposito devo in primo luogo osservare, che il concetto
    del nulla è essenzialmente relativo, e si riferisce sempre ad
    alcunché di determinato, ch'esso nega. Codesta relatività fu
    attribuita (specie da Kant) soltanto al nihil privativum, indicato
    col segno – in opposizione al segno +; il qual segno –, capovolgendo
    il punto di vista, poteva diventare +; e in contrasto con quel nihil
    privativum, si stabilì un nihil negativum, che fosse il nulla sotto
    tutti i rapporti, per esempio, del quale si cita la contraddizione
    logica, distruggente se stessa. Ma, guardando più da vicino, un
    nulla assoluto, un vero e proprio nihil negativum non si può neppure
    immaginare: ogni nihil negativum, guardato più dall'alto o sussunto
    ad un più ampio concetto, rimane pur sempre un nihil privativum.
    Ciascun nulla è pensato come tale solo in rapporto a qualche cosa, e
    presuppone codesto rapporto, ossia quella cosa. Perfino una
    contraddizione logica è un nulla relativo. Non è un pensiero della
    ragione: ma non perciò è un nulla assoluto. Imperocché essa è
    un'accozzaglia di parole, è un esempio del non pensabile, di cui
    nella logica si ha bisogno per mostrar le leggi del pensare: quindi,
    allorché si ricorre con quel fine a un esempio siffatto, si bada
    all'insensato, che è la cosa positiva di cui si va in cerca,
    trascurando il sensato, come negativo. Così adunque ogni nihil
    negativum, o nulla assoluto, quando venga subordinato a un concetto
    più alto, apparirà sempre qual semplice nihil privativum, o nulla
    relativo, che può sempre scambiare il suo segno con ciò ch'esso
    nega, sì che questo diventi a sua volta negazione, ed esso viceversa
    diventi posizione. Con noi s'accorda anche il risultato della
    difficile indagine dialettica intorno al nulla, che Platone
    istituisce nel Sofista (pp. 277-287, ed. Bip.): Την του έτερου φυσιν
    αποδειξαντες ουσαν τε, και κατακεκερματισμεηνη ετι παντα τα οντα
    προς αλληλα, το προς το ον έκαστου μοριον αυτης αντιτιθεμενον.
    Ετολμησαμεν ειπειν, ώς αυτο τουτο εστιν αυτως το μη ον (Cum enim
    ostenderemus, alterius ipsius naturam esse, perque omnia entia
    divisam atque dispersam invicem; tunc partem ejus oppositam ei, quod
    cujusque ens est, esse ipsum revera non ens asseruimus).
    
    Ciò ch'è universalmente ammesso come positivo, che noi chiamiamo
    l'ente, e la cui negazione è espressa dal concetto del nulla nel suo
    significato più universale, è appunto il mondo della
    rappresentazione, che io ho indicato come oggettità, specchio della
    volontà. E questa volontà e questo mondo sono poi anche noi stessi,
    e al mondo appartiene la rappresentazione in genere, come una delle
    sue facce: forma di tale rappresentazione sono spazio e tempo,
    quindi ogni cosa, che sotto questo riguardo esista, dev'esser posta
    in qualche luogo e in qualche tempo. Negazione, soppressione,
    rivolgimento della volontà è anche soppressione e dileguamento del
    mondo, ch'è specchio di quella. Se non vediamo più la volontà in
    codesto specchio, invano ci domanderemo dove si sia rivolta; e
    lamentiamo allora ch'ella non abbia più né dove né quando, e sia
    svanita nel nulla.
    
    Un punto di vista invertito, qualora fosse possibile per noi,
    scambierebbe i segni, mostrando come il nulla ciò che per noi è
    l'ente, e quel nulla come l'ente. Ma, finché noi medesimi siamo la
    volontà di vivere, il nulla può esser conosciuto da noi solo
    negativamente, perché l'antico principio d'Empedocle, potere il
    simile esser conosciuto soltanto dal simile, ci toglie qui ogni
    possibilità di conoscenza; come viceversa poggia su quel principio
    la possibilità di tutta la nostra conoscenza reale, ossia il mondo
    come rappresentazione, o l'oggettità della volontà. Imperocché il
    mondo è l'autocognizione della volontà.
    
    Quando si volesse tuttavia insistere nel pretendere in qualche modo
    una cognizione positiva di ciò, che la filosofia può esprimere solo
    negativamente, come negazione della volontà, non potremmo far altro
    che richiamarci allo stato di cui fecero esperienza tutti coloro, i
    quali pervennero alla completa negazione della volontà; stato al
    quale si son dati i nomi di estasi, rapimento, illuminazione, unione
    con Dio, e così via. Ma tale stato non può chiamarsi cognizione vera
    e propria, perché non ha più la forma del soggetto e dell'oggetto, e
    inoltre è accessibile solo all'esperienza diretta, né può essere
    comunicato altrui.
    
    Noi, che restiamo fermi sul terreno della filosofia, dobbiamo qui
    contentarci della conoscenza negativa, paghi d'aver raggiunto il
    limite estremo della positiva. Avendo riconosciuto nella volontà
    l'essenza in sé del mondo, e in tutti i fenomeni del mondo
    null'altro che l'oggettità di lei; avendo quest'oggettità perseguito
    dall'inconsapevole impulso delle oscure forze naturali fino alle più
    lucide azioni umane, non vogliamo punto sfuggire alla conseguenza:
    che con la libera negazione, con la soppressione della volontà,
    vengono anche soppressi tutti quei fenomeni e quel perenne premere e
    spingere senza mèta e senza posa, per tutti i gradi dell'oggettità,
    nel quale e mediante il quale il mondo consiste; soppressa la
    varietà delle forme succedentisi di grado in grado, soppresso, con
    la volontà, tutto intero il suo fenomeno; poi finalmente anche le
    forme universali di quello, tempo e spazio; e da ultimo ancora la
    più semplice forma fondamentale di esso, soggetto e oggetto. Non più
    volontà: non più rappresentazione, non più mondo.
    
    Davanti a noi non resta invero che il nulla. Ma quel che si ribella
    contro codesto dissolvimento nel nulla, la nostra natura, è
    anch'essa nient'altro che la volontà di vivere. Volontà di vivere
    siamo noi stessi, volontà di vivere è il nostro mondo. L'aver noi
    tanto orrore del nulla, non è se non un'altra manifestazione del
    come avidamente vogliamo la vita, e niente siamo se non questa
    volontà, e niente conosciamo se non lei. Ma rivolgiamo lo sguardo
    dalla nostra personale miseria e dal chiuso orizzonte verso coloro,
    che superarono il mondo; coloro, in cui la volontà, giunta alla
    piena conoscenza di sé, se medesima ritrovò in tutte le cose e
    quindi liberamente si rinnegò; coloro, che attendono di vedere
    svanire ancor solamente l'ultima traccia della volontà col corpo,
    cui ella dà vita. Allora, in luogo dell'incessante, agitato impulso;
    in luogo del perenne passar dal desiderio al timore e dalla gioia al
    dolore; in luogo della speranza mai appagata e mai spenta, ond'è
    formato il sogno di vita d'ogni uomo ancor volente: ci appare quella
    pace che sta più in alto di tutta la ragione, quell'assoluta quiete
    dell'animo pari alla calma del mare, quel profondo riposo,
    incrollabile fiducia e letizia, il cui semplice riflesso nel volto,
    come l'hanno rappresentato Raffaello e Correggio, è un completo e
    certo Vangelo. La conoscenza sola è rimasta, la volontà è svanita. E
    noi guardiamo con profonda e dolorosa nostalgia a quello stato,
    vicino al quale apparisce in piena luce, per contrasto, la miseria e
    la perdizione del nostro. Eppur quella vista è la sola, che ci possa
    durevolmente consolare, quando noi da un lato abbiam riconosciuto
    essere insanabile dolore ed infinito affanno inerenti al fenomeno
    della volontà, al mondo; e dall'altro vediamo con la soppressione
    della volontà dissolversi il mondo, e soltanto il vacuo nulla
    rimanere innanzi a noi. In tal guisa adunque, considerando la vita e
    la condotta dei santi, che raramente ci è concesso invero
    d'incontrar nella nostra personale esperienza, ma che dalle loro
    biografie e, col suggello dell'interna verità, dall'arte ci son
    posti sotto gli occhi, dobbiamo discacciare la sinistra impressione
    di quel nulla, che ondeggia come ultimo termine in fondo a ogni
    virtù e santità e di cui noi abbiamo paura, come della tenebra i
    bambini. Discacciarla, quell'impressione, invece d'ammantare il
    nulla, come fanno gl'Indiani, in miti e in parole prive di senso,
    come sarebbero l'assorbimento in Brahma o il Nirvana dei Buddhisti.
    Noi vogliamo piuttosto liberamente dichiarare: quel che rimane dopo
    la soppressione completa della volontà è invero, per tutti coloro
    che della volontà ancora son pieni, il nulla. Ma viceversa per gli
    altri, in cui la volontà si è rivolta da se stessa e rinnegata,
    questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue
    vie lattee, è – il nulla.