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Arthur Schopenhauer
Il mondo come volontà
e rappresentazione
Tomo II
Indice generale
LIBRO TERZO
IL MONDO COME RAPPRESENTAZIONE
SECONDA CONSIDERAZIONE
La rappresentazione, indipendente dal principio di ragione: l'idea
platonica: l'oggetto dell'arte.
LIBRO QUARTO
IL MONDO COME VOLONTÀ
SECONDA CONSIDERAZIONE
Affermazione e negazione della volontà di vivere, dopo raggiunta la
conoscenza di sé.
Tomo secondo
LIBRO TERZO
IL MONDO COME RAPPRESENTAZIONE
SECONDA CONSIDERAZIONE
La rappresentazione, indipendente dal principio di ragione: l'idea
platonica: l'oggetto dell'arte.
Τί τὸ ὂν μὲν ἀεὶ, γένεσιν δὲ οὐκ ἔχον; χαὶ τί τὸ γιγνύμενον
μὲν χαὶ ἀπολλύμενον, ὄντως δὲ οὐδέπυτε ὄν;
ΠΛΔΤΩΝ
§ 30.
Dopo aver nel primo libro considerato il mondo come pura
rappresentazione, come oggetto per un soggetto, nel secondo libro
l'abbiamo guardato dall'altra sua faccia, trovando che questa è
volontà, e risultò che il mondo, oltre all'esser rappresentazione,
non è altro che volontà. In virtù di tale conoscenza, il mondo come
rappresentazione l’abbiam definito, sia nel complesso che nelle sue
parti, oggettità della volontà: ciò che viene quindi a significare
la volontà fatta oggetto, ossia rappresentazione. Ricordiamoci
inoltre che codesta oggettivazione della volontà aveva molti gradi,
ma determinati: attraverso i quali, con chiarezza e compiutezza di
grado in grado più alta, veniva l'essenza della volontà ad entrar
nella rappresentazione, ossia a presentarsi come oggetto. In codesti
gradi abbiamo già nel secondo libro riconosciuto le idee di Platone,
in quanto essi gradi sono appunto le specie determinate, o le
originarie, immutabili forme e proprietà di tutti i corpi naturali,
sia inorganici che organici; come anche sono le forze universali
manifestantisi secondo leggi di natura. Tali idee in complesso si
presentano adunque in individui e fenomeni singoli innumerevoli,
stando di fronte ad essi come modelli di fronte alle copie. La
molteplicità di codesti individui può esser rappresentata solo
mediante tempo e spazio; il loro nascere e perire solo mediante
causalità: nelle quali forme tutte noi non vediamo se non differenti
modi del principio di ragione, che è il principio ultimo di ogni
cosa finita, di ogni individuazione, nonché la general forma della
rappresentazione, com'essa penetra nella conoscenza dell'individuo
in quanto individuo. L'idea invece non rientra in quel principio:
non le tocca quindi né molteplicità né mutamento. Mentre
gl'individui, nei quali ella si presenta, sono innumerevoli, e
nascono e muoiono senza posa, ella resta immutata, sempre una ed
identica, né il principio di ragione ha valore per lei. Ma poi che
questo è la forma, a cui va sottomessa tutta la conoscenza del
soggetto, in quanto esso conosce come individuo, vengono anche le
idee a trovarsi affatto fuori della sfera di conoscenza
dell'individuo in quanto individuo. Se quindi si vuol che le idee
diventino oggetto della conoscenza, questo può accadere solo col
sopprimere l'individualità nel soggetto conoscente. Più precisi ed
ampii chiarimenti di ciò saranno materia della trattazione che
segue.
§ 31.
Ma, prima di tutto, ancora una considerazione essenziale. Spero mi
sia riuscito nel libro precedente di generare la persuasione che la
cosa in sé della filosofia kantiana – la quale vi si presenta come
una dottrina di gran peso, ma oscura e paradossale, sì che,
soprattutto per il modo con cui Kant l'introduce, ossia mediante la
deduzione dal causato alla causa, apparve come una pietra
d'inciampo, anzi come il lato debole della sua filosofia – non è
altro che la volontà, quando a tal riconoscimento si pervenga per la
via affatto diversa da noi seguita; volontà, nella sfera di questo
concetto allargata e precisata al modo suesposto. Spero inoltre che,
in virtù di quanto ho detto, non si troverà ostacolo a riconoscere
nei determinati gradi dell'oggettivazione di quella volontà,
costituente l'in-sé del mondo, ciò che Platone chiamava le idee
eterne, ossia le forme immutabili (ειδη), le quali, riconosciute
come il primo ma anche come il più oscuro e paradossale dogma della
sua dottrina, sono state per una serie di secoli oggetto di
meditazione, di contesa, di beffa e di venerazione da parte di tanti
cervelli così vanamente intonati.
Se adunque per noi la volontà è la cosa in sé, e l'idea è invece la
diretta oggettità di quella volontà in un grado determinato, veniamo
a trovare che la cosa in sé di Kant e l'idea di Platone, la quale
per lui è l'unico οντως ον – questi due grandi oscuri paradossi dei
due maggiori filosofi dell'Occidente –, pur non essendo del tutto
identici, sono nondimeno strettamente affini, e distinti per una
sola determinazione. I due grandi paradossi sono addirittura –
appunto pel fatto di suonar in modo tanto diverso, malgrado la loro
intima concordanza e parentela, a causa della straordinaria
differenza tra le individualità dei loro autori – il miglior
commento reciproco l'uno dell'altro, rassomigliando a due strade
affatto diverse, che pur conducono ad una mèta. Questo si può
chiarire con poco. Kant dice, nella sostanza, quanto segue: «Tempo,
spazio e causalità non sono determinazioni della cosa in sé; bensì
appartengono solamente al suo fenomeno, non altro essendo se non
forme della nostra conoscenza. Ma poiché ogni pluralità ed ogni
principio e fine è possibile sol mediante tempo, spazio e causalità,
ne deriva che anche pluralità, principio e fine si riferiscono
esclusivamente al fenomeno, e non mai alla cosa in sé. Ed essendo la
nostra conoscenza sotto condizione di quelle forme, ne viene che
l'esperienza tutta intera è semplice conoscimento del fenomeno, e
non della cosa in sé: quindi non possono le sue leggi aver valore
per la cosa in sé. Ciò s'estende perfino al nostro proprio io, che
noi conosciamo soltanto come fenomeno, e non quale può essere in se
stesso». Questo è, sotto l'importante rispetto qui preso a
esaminare, il significato e il contenuto della dottrina kantiana.
Platone invece dice: «Le cose di questo mondo, che i nostri sensi
percepiscono, non hanno nessuna vera consistenza: esse divengono
sempre, ma non sono mai: hanno un'esistenza appena relativa,
esistono soltanto nel loro reciproco rapporto e per il loro
reciproco rapporto: tutto il loro essere può così chiamarsi con
egual ragione un non-essere. Non sono quindi neppure oggetto di una
vera e propria conoscenza (επιστημη); potendosi aver conoscenza solo
di ciò che esiste in sé e per sé; e sempre nello stesso modo: mentre
esse non sono se non l'oggetto di un'opinione provocata per mezzo di
sensazione (δοξα μετ' αισθησεως αλογου). Fin quando restiamo
vincolati alla loro percezione, rassomigliando a uomini i quali
stiano in una oscura caverna, così strettamente legati da non poter
nemmeno volgere il capo; i quali null'altro vedano, alla luce di un
fuoco acceso dietro di loro, se non le ombre, riflesse sulla parete
di contro, di oggetti reali fatti passare tra loro medesimi ed il
fuoco; ed anche di se stesso o dei compagni ciascuno veda soltanto
l'ombra su quella parete. Tutta la loro sapienza starebbe nel
predire l'ordine di successione, appreso per esperienza, di quelle
ombre. Ciò che invece può esser chiamato un vero essere (οντως ον),
perché sempre è ma non mai comincia né finisce, sono le cause reali
di quelle ombre: sono le eterne idee, le forme prime di tutte le
cose. Quelle non hanno pluralità: perché ciascuna è, per essenza,
unica; essendo ella il prototipo, del quale sono riproduzioni oppure
ombre tutte le omonime, singole, periture cose. Né tocca loro un
principio o una fine; poi che esse veramente sono, e non cominciano
e non finiscono come i loro evanescenti riflessi. (In entrambe
queste determinazioni negative è di necessità sottintesa la
premessa, che tempo spazio e causalità non abbiano per le idee
significato né valore, e che le idee non stiano entro cotali forme).
Delle idee soltanto si ha quindi vera e propria conoscenza, potendo
di questa essere oggetto solo ciò che perennemente e sotto ogni
aspetto (quindi in sé) è; non ciò che ora è, ora non è, secondo il
punto da cui lo si considera». Questa è la dottrina di Platone.
Risulta evidente, e non richiede ulteriore spiegazione, che l'intimo
senso delle due dottrine è identico; che l'una e l'altra tiene il
mondo visibile per un'apparenza, la quale è in sé nulla, ed acquista
significato e realtà riflessa solo da ciò che in lei si esprime (per
Kant la cosa in: sé, per Platone l'idea). Ed a questa unica verace
essenza sono affatto estranee, secondo entrambe le dottrine, tutte
le forme dei fenomeni, anche le più universali e sostanziali. Per
negare codeste forme, Kant le ha direttamente assunte in espressioni
astratte: e, senz'altro, tempo spazio e causalità ha riconosciuto
non appartenenti alla cosa in sé, quali semplici forme dei fenomeni:
Platone invece non è pervenuto fino all'ultima espressione, e le sue
idee ha solo in modo indiretto mostrate prive di quelle forme,
negando loro ciò che unicamente per mezzo delle forme stesse diventa
possibile, ossia pluralità dell'identico, nascita e morte. Ma per
abbondare voglio ancora rendere evidente con un esempio quella
singolare e importante concordanza. Stia davanti a noi un animale,
in piena attività di vita. Platone dirà: «Questo animale non ha
alcuna esistenza effettiva, bensì solo apparente: un perpetuo
divenire, una esistenza relativa, la quale può esser chiamata tanto
un non-essere, quanto un essere. Effettiva esistenza ha soltanto
l'idea, che in quell'animale si riproduce, ossia l'animale in se
stesso (αυτο το θηριον), il quale da nulla dipendente esiste solo in
sé e per sé (θαθ' ἑαυτο, αει ὡς αυτως), non è nato, non morirà,
sempre ad un modo sarà (αει ον, χαὶ μηδεποτε ουγε απολλυμενον). Fin
quando adunque riconosciamo in questo animale la sua idea, è affatto
indifferente e senza importanza, se noi abbiamo davanti questo
animale d'adesso o un suo progenitore vissuto or sono mille anni; e
così se esso sia qui o in una terra lontana; e se si mostri in
questa o quella maniera, posizione o azione; e se infine sia esso o
qualunque altro individuo della sua specie: tutto ciò non ha peso, e
riguarda il solo fenomeno, mentre l'idea dell'animale unicamente ha
effettiva esistenza ed è oggetto di verace conoscimento». Così
Platone. Kant dirà su per giù: «Questo animale è un fenomeno nel
tempo, nello spazio e nella causalità, che sono tutte condizioni a
priori dell'esperienza possibile giacenti nella nostra facoltà
conoscitiva, non già determinazioni della cosa in sé. Perciò
quest'animale, sì come noi lo vediamo in un tempo determinato, in un
dato luogo, quale individuo formatosi nella connessione
dell'esperienza, ossia nella catena di causa ed effetto, e
necessariamente perituro, non è punto cosa in sé, ma soltanto un
fenomeno che non vige se non in modo relativo alla nostra
conoscenza. Per conoscer ciò che l'animale può essere in se
medesimo, e quindi indipendentemente da tutte le determinazioni
riferentisi al tempo, allo spazio e alla causalità, si richiederebbe
un modo di conoscenza diverso da quell'unico a noi reso possibile
dai sensi e dall'intelletto».
Per avvicinare ancor più la formula kantiana alla platonica, si
potrebbe anche dire: tempo, spazio e causalità sono quella
disposizione del nostro intelletto, in grazia della quale l'unico
essere di ogni specie che effettivamente esiste ci si presenta come
una pluralità di individui della specie medesima, sempre da capo
nascenti e morienti, in successione infinita. La percezione delle
cose per mezzo e in conformità della suddetta disposizione è
l'immanente; mentre quella, che si rende consapevole del come sta
veramente la cosa, è la trascendentale. Questa la si riceve in
abstracto mediante la critica della ragion pura: ma in via
d'eccezione può anche stabilirsi intuitivamente. Quest'ultima
affermazione è una mia aggiunta, che per l'appunto mi occupo di
spiegare nel presente terzo libro.
Se si fosse mai davvero intesa e afferrata la dottrina di Kant, e,
da Kant in qua, capito Platone; se si avesse con fedeltà e serietà
meditato l'intimo senso e contenuto delle dottrine di questi due
grandi maestri, invece di far sproloqui coi termini tecnici dell'uno
e parodiare lo stile dell'altro, non si sarebbe potuto mancar di
scoprire da gran tempo quanto concordino i due grandi sapienti, e
come il significato puro, l'indirizzo ultimo delle due dottrine sia
proprio il medesimo. E così non pure non si sarebbe ostinatamente
confrontato Platone con Leibniz, col quale il suo genio non
s'accorda in nessun modo, e tanto meno con un noto signore ancor
vivente1, quasi per dileggiare i Mani del grande pensatore antico;
ma sotto ogni rispetto saremmo assai più progrediti di quanto siamo,
o piuttosto non saremmo così ignominiosamente retrocessi, come è
accaduto in questi ultimi quarant'anni; non ci si sarebbe lasciati
tirar pel naso oggi da un ciarlatano, domani da un altro, né questo
secolo XIX, annunziantesi così significante, avremmo inaugurato in
Germania con filosofiche farse recitate sulla tomba di Kant (come
talora gli antichi ai funerali dei loro), fra il giusto dileggio
d'altre nazioni – perché ai gravi e perfino rigidi tedeschi scherzi
siffatti si convengono meno che a ogni altro. Ma così ristretto è il
vero e proprio pubblico degno dei filosofi genuini, che perfino i
discepoli atti a comprenderli sono loro parcamente condotti dai
secoli.
Εισι δη ναρθηκοφοροι μεν πολλοι, Βακχοι δε γε παυροι. (Thyrsigeri
quidem multi, Bacchi vero pauci). Ἡ ατιμια φιλοσοφια̣ δια ταυτα
προσπεπτωκεν, ότι ον κατ’ αξιαν αυτης άπτονται’ ου γαρ νοθους, εδει
άπτεσθαι, αλλα γνησιους. (Eam ob rem philosophia in infamiam
incidit, quod non pro dignitate ipsa attingunt: neque enim a
spuriis, sed a legitimis erat attractanda). Plat.
Si andò dietro alle parole, alle parole: «rappresentazioni a priori,
indipendentemente dall'esperienza consapute forme dell'intuire e del
pensare, concetti primi del puro intelletto», etc. – e ci si chiese
poi se le idee di Platone, le quali anche vogliono essere concetti
originarii e per di più ricordi di un'intuizione delle cose davvero
reali, anteriore alla vita, non forse coincidessero con le forme
kantiane dell'intuire e del pensare, le quali stanno a priori nella
nostra conscienza. Queste due affatto eterogenee dottrine – la
dottrina kantiana delle forme, che limitano al fenomeno la
conoscenza individuale, e la dottrina platonica delle idee, la cui
conoscenza per l'appunto nega espressamente quelle forme – queste
dottrine sotto un tal rispetto diametralmente opposte si
confrontarono attentamente, perché esse nelle loro espressioni un
poco vengono a rassomigliarsi. E si tenne consiglio, e ci si
accapigliò sulla loro coincidenza, e si trovò alla fine, che non
erano la stessa cosa; e si concluse, che la teoria platonica delle
idee e la critica kantiana della ragione non avessero nessun punto
di contatto2. Ma basti di ciò.
§ 32.
Per le considerazioni fatte finora, malgrado tutto l'intimo accordo
fra Kant e Platone, e l'identità della mèta che ad essi traluceva, o
della concezione del mondo la quale li mosse e guidò al filosofare,
non sono tuttavia identiche per noi l'idea e la cosa in sé;
piuttosto è per noi l'idea solo immediata e quindi adeguata
oggettità della cosa in sé, la quale ultima è tuttavia la volontà;
la volontà, in quanto non è ancora oggettivata, non ancora è
divenuta rappresentazione. Imperocché la cosa in sé deve, appunto
secondo Kant, esser sciolta da tutte le forme inerenti al conoscere
in quanto tale: ed è soltanto (come sarà mostrato nell'appendice) un
errore di Kant il non aver noverato tra codeste forme, primo di
tutte, l'essere-oggetto-per-un-soggetto, essendo proprio questa la
prima e più universal forma d'ogni fenomeno, ossia rappresentazione.
Alla sua cosa in sé avrebbe egli dunque dovuto espressamente toglier
la qualità d'essere oggetto; ciò che l'avrebbe salvato da quella
grande, subito scoperta inconseguenza. L'idea platonica invece è per
necessità oggetto, un che di conosciuto, una rappresentazione: e
appunto perciò, ma anche solo perciò, distinto dalla cosa in sé.
Ella ha semplicemente deposto le subordinate forme del fenomeno, le
quali tutte noi comprendiamo sotto il principio di ragione, o meglio
non ancora è in quelle penetrata; ma la prima e più universal forma
ha ella mantenuto, ossia quella di rappresentazione, d'essere
oggetto per un soggetto. Sono le forme a questa subordinate, che
moltiplicano le idee in singoli ed effimeri individui, de' quali il
numero è affatto indifferente rispetto all'idea. Il principio di
ragione è adunque ancora la forma in cui s'adagia l'idea, entrando
nella conoscenza del soggetto in quanto individuo. Il singolo
oggetto manifestantesi in conformità del principio di ragione è
quindi soltanto una mediata oggettivazione della cosa in sé (che è
la volontà), tra la qual cosa in sé ed esso oggetto sta ancora
l'idea come unica immediata oggettità della volontà, non avendo ella
preso alcun'altra forma propria del conoscere in quanto tale, se non
quella generica della rappresentazione, ossia dell'essere oggetto
per un soggetto. Quindi ella sola è anche l'adeguata oggettità della
volontà o cosa in sé, anzi è proprio la cosa in sé, ma soltanto in
forma di rappresentazione: e qui sta la base della grande
concordanza tra Platone e Kant – per quanto, a tutto rigore, la cosa
di cui parlano non sia la medesima. I singoli oggetti invece non son
punto oggettità adeguata della volontà; bensì questa vi è già
intorbidata da quelle forme di cui è espressione comune il principio
di ragione, e che sono condizione della conoscenza nel modo in cui
questa è possibile all'individuo come tale. Noi invero, se è lecito
trarre deduzione da una possibile premessa, non conosceremmo più né
singoli oggetti, né casi, né mutamenti, né pluralità; ma solamente
idee, solamente i gradi nella scala dell'oggettivazione di quell'una
volontà della verace cosa in sé coglieremmo in pura, non disturbata
conoscenza, e sarebbe quindi il nostro mondo un Nunc stans; se come
soggetti del conoscere non fossimo in pari tempo individui, ossia se
la nostra intuizione non avesse per intermediario un corpo, dalle
cui affezioni ella muove, ed il quale è anch'esso soltanto volontà
concreta, oggettità della volontà, ossia oggetto tra oggetti; e come
tale, può entrare nella conscienza conoscente solo nelle forme del
principio di ragione, sì che già presuppone e quindi introduce il
tempo con tutte le altre forme che quel principio esprime. Il tempo
è semplicemente l'immagine divisa e spezzettata, che un essere
individuo ha delle idee, le quali stanno fuori del tempo, e sono
quindi eterne: perciò dice Platone essere il tempo una mossa
immagine dell'eternità: αιωνος εικων κινητη ὁ χρονος3
§ 33.
Poiché noi adunque come individui non abbiamo conoscenza se non
sottomessa al principio di ragione, e questa forma esclude la
conoscenza delle idee, certo è che quando sia a noi possibile
sollevarci dalla conoscenza delle singole cose a quella delle idee,
ciò può aversi solo accadendo nel soggetto una mutazione
corrispondente ed analoga a quel gran cambiamento nel modo d'essere
dell'oggetto; per la quale il soggetto, in quanto conosce un'idea,
non è più individuo.
Ci sovviene dal precedente libro, che il conoscere in genere
appartiene esso medesimo alla oggettivazione della volontà nel suo
grado più alto; e la sensibilità, i nervi, il cervello non sono
appunto, come altre parti dell'essere organico, se non espressione
della volontà in questo grado della sua oggettità. Quindi la
rappresentazione sorta per loro mezzo è anch'essa parimenti
destinata al servizio di quella, come un mezzo (μηκανη) pel
conseguimento dei suoi fini fattisi complicati (πολυτελεστερα), per
la conservazione di un essere avente molteplici bisogni. In origine
adunque e per natura è la conoscenza in tutto al servizio della
volontà; e come l'oggetto immediato, che diviene suo punto di
partenza mediante l'applicazione della legge di causalità, non è se
non volontà oggettivata, così rimane anche ogni conoscenza informata
al principio di ragione in un più stretto o più largo rapporto con
la volontà. Imperocché l'individuo trova che il suo corpo è un
oggetto fra oggetti, coi quali tutti il corpo stesso ha svariate
relazioni e riferimenti, secondo il principio di ragione; sì che la
considerazione di quegli oggetti riconduce pur sempre, in via
diretta o indiretta, al proprio corpo, ossia alla propria volontà.
Essendo il principio di ragione quello che pone gli oggetti in
codesto rapporto con il corpo e quindi con la volontà, deve la
conoscenza che alla volontà è serva essere perciò rivolta unicamente
a conoscer degli oggetti appunto i rapporti stabiliti secondo il
principio di ragione, ossia a tener dietro alle loro svariate
relazioni nello spazio, nel tempo e nella causalità. Poiché solo in
virtù di queste è l'oggetto interessante per l'individuo, ossia ha
un rapporto con la volontà. Per conseguenza non altro conosce
veramente degli oggetti la conoscenza che sta al servizio della
volontà, se non le relazioni loro; e gli oggetti solo in tanto
conosce, in quanto essi esistono in un tempo, in un luogo, in date
circostanze, in virtù di date cause, con dati effetti – esistono, in
una parola, come singoli oggetti. E se fossero tolte via tutte
codeste relazioni, svanirebbero insieme per la conoscenza anche gli
oggetti, appunto perché questa non conosceva in quelli null'altro.
Neppure dobbiamo dissimularci, che quanto considerano le scienze
negli oggetti non è sostanzialmente altro se non quel che sopra è
detto: cioè le loro relazioni, i rapporti del tempo, dello spazio,
le cause dei mutamenti naturali, il confronto delle forme, i motivi
dei fatti – ossia semplici relazioni. Ciò che le scienze distingue
dalla comune conoscenza è soltanto la lor forma, il carattere
sistematico, l'alleviamento del conoscere raggiunto col ridurre ogni
caso singolo all'universale, mediante la subordinazione dei
concetti, e ottenendo così la piena compiutezza. Ogni relazione ha
pur essa un'esistenza solamente relativa: per esempio ogni essere
nel tempo è anche un non-essere, perché il tempo per l'appunto non è
se non ciò, per cui mezzo possono a un medesimo oggetto toccare
determinazioni opposte. Quindi ogni fenomeno nel tempo è e non è:
poiché ciò che separa il suo principio dalla sua fine non è se non
tempo, ossia alcunché di evanescente, inconsistente e relativo,
chiamato in questo caso durata. Eppure il tempo è la più general
forma di tutti gli oggetti della conoscenza posta al servizio della
volontà, ed il prototipo delle rimanenti forme di quella.
Ora, di regola al servizio della volontà rimane la conoscenza
sottomessa ognora, come già per tal servizio ebbe principio; anzi è
dalla volontà germinata, come la testa si svolge dal tronco. Presso
gli animali codesta sommissione della conoscenza alla volontà non
può mai venir meno. Negli uomini può mancare solo in via
d'eccezione, come tosto vedremo. Tale differenza tra uomo e bruto
viene manifestata esteriormente con la differenza della relazione
che in loro passa tra il capo ed il tronco. Negli animali inferiori
sono capo e tronco ancora del tutto confusi; in ognuno è il capo
rivolto a terra, dove stanno gli oggetti della sua volontà: ed ancor
negli animali superiori sono capo e tronco assai più riuniti che
nell'uomo, il cui capo appare libero al sommo del tronco, solo da
esso portato, non ad esso servendo. Questo umano privilegio presenta
nel massimo grado l'Apollo del Belvedere: il lungiattornomirante
capo del Dio delle Muse poggia così libero sulle spalle, da apparire
in tutto disciolto dal corpo, non più soggetto alle cure corporali.
§ 34.
Il passaggio dalla volgar conoscenza di singoli oggetti alla
conoscenza dell'idea – possibile, come ho detto, ma da considerarsi
soltanto quale eccezione – avviene d'un subito, pel fatto che la
conoscenza si scioglie dal servigio della volontà, e appunto perciò
il soggetto cessa di essere semplicemente individuale, diventando
soggetto puro della conoscenza, privo di volontà. E questo non tiene
più dietro alle relazioni, secondo il principio di ragione, bensì
posa in ferma contemplazione dell'oggetto offertogli, e in questa
s'immerge.
Ciò richiede di necessità, per esser chiaro, un'ampia spiegazione. A
quanto essa avrà di singolare non si badi per ora, finché codesta
apparente stranezza non venga a dissiparsi da sé, quando sia stato
afferrato nel suo complesso il pensiero che quest'opera vuole
comunicare.
Se, sollevati dalla potenza dello spirito, abbandoniamo la maniera
usuale di considerar le cose e cessiamo di ricercare secondo gli
aspetti del principio di ragione le reciproche relazioni loro, di
cui è ultimo termine sempre la relazione con la nostra volontà; se
quindi non più si considera il dove, il quando, la causa e la
finalità delle cose, ma unicamente ciò che elle sono; se non
lasciamo che il pensare astratto, i concetti della ragione
s'impadroniscano della conscienza, bensì viceversa tutta la forza
dello spirito nostro diamo all'intuizione, in questa ci
sprofondiamo, e la conscienza intera lasciamo riempire dalla
tranquilla contemplazione dell'oggetto naturale che ci sta innanzi,
sia esso un paesaggio, un albero, una roccia, un edifizio o quel che
si voglia; allor che – secondo un'espressiva locuzione tedesca – ci
si perde appieno in quell'oggetto, ossia si dimentica il proprio
individuo, la propria volontà, e si rimane nient'altro che soggetto
puro, chiaro specchio dell'oggetto, come se l'oggetto solo
esistesse, senza che alcuno fosse là a percepirlo, né più è
possibile separare colui che intuisce dall'intuizione stessa, poiché
sono diventati tutt'uno, essendo l'intera conscienza riempita e
presa da una sola immagine d'intuizione; se adunque in siffatto modo
l'oggetto s'è disciolto da ogni relazione con altri oggetti fuor di
se stesso, e il soggetto s'è disciolto da ogni relazione con la
volontà – allora quel che viene così conosciuto non è più la singola
cosa come tale, ma è l'idea, l'eterna forma, la diretta oggettità
della volontà in quel grado. E perciò appunto non è più individuo
quegli che è assorto in tale intuizione, imperocché proprio
l'individualità vi s'è perduta. Egli è invece puro soggetto della
conoscenza, fuori della volontà, del dolore, del tempo.
Quest'affermazione, ora così ostica (della quale io molto bene so,
che conferma il detto di Thomas Paine, du sublime au ridicule il n'y
a qu'un pas), apparirà nel seguito di mano in mano più chiara e meno
stupefacente. Era la stessa verità che balenava a Spinoza quando
scrisse: mens aeterna est, quatenus res sub aeternitatis specie
concipit (Eth., V, prop. 31, schol.)4 In siffatta contemplazione
accade insieme d'un tratto, che il singolo oggetto diventi idea
della propria specie; e l'individuo intuente si faccia puro soggetto
del conoscere. L'individuo come tale conosce solo oggetti singoli;
il puro soggetto del conoscere, solo idee. Imperocché l'individuo è
il soggetto del conoscere nella sua relazione con un determinato,
singolo fenomeno della volontà, ed in servizio di esso. Codesto
singolo fenomeno della volontà è, in quanto tale, sottomesso al
principio di ragione in tutte le sue forme; ogni conoscenza
riferentevisi segue perciò anch'essa il principio di ragione, e ai
fini della volontà nessuna conoscenza vale se non questa, che per
oggetto ha sempre e solamente relazioni. L'individuo conoscente,
come tale, e la singola cosa da lui conosciuta sono sempre in
qualche luogo, in un dato tempo; sono anelli nella catena delle
cause e degli effetti. Il puro soggetto della conoscenza ed il suo
correlato – l'idea – sono usciti fuori da tutte quelle forme del
principio di ragione: il tempo, il luogo, l'individuo che conosce e
l'individuo che viene conosciuto non hanno per essi alcun
significato. Non appena un individuo conoscente si eleva nel modo
indicato a puro soggetto del conoscere, ed appunto con ciò l'oggetto
conosciuto innalza ad idea, si presenta integro e puro il mondo come
rappresentazione, e accade la compiuta oggettivazione della volontà,
perché soltanto l'idea è sua adeguata oggettità. Questa chiude
oggetto e soggetto parimenti in sé, essendo entrambi la sua unica
forma: ma in lei oggetto e soggetto mantengono appieno l'equilibrio:
e come l'oggetto anche qui non altro è se non la rappresentazione
del soggetto, così anche il soggetto – perdendosi tutto nell'oggetto
intuito – è diventato quest'oggetto medesimo, in quanto l'intera
conscienza non è che la più limpida immagine di esso. Questa
conscienza appunto – in quanto tutte le idee, ossia i gradi
dell'oggettità della volontà, vengono per suo mezzo percorse
ordinatamente col pensiero – costituisce l'intero mondo quale
rappresentazione. Le singole cose d'ogni tempo e luogo non sono
altro che le idee moltiplicate dal principio di ragione (forma della
conoscenza degli individui in quanto tali) e perciò turbate nella
lor pura oggettità. Come nel mentre appare l'idea non sono più in
lei distinguibili soggetto ed oggetto, perché sol quando l'uno e
l'altro reciprocamente si compiono e si penetrano appieno balza
fuori l'idea, l'adeguata oggettità della volontà, il vero mondo
quale rappresentazione; così sono anche in tale atto
indistinguibili, come cose in sé, l'individuo conoscente ed il
conosciuto. Perciocché se facciamo astrazione da quel vero e proprio
mondo quale rappresentazione nulla rimane, se non il mondo come
volontà. La volontà è l'in-sé dell'idea, la quale oggettiva quella
compiutamente; la volontà è anche l'in-sé del singolo oggetto e
dell'individuo che lo conosce: i quali oggettivano quella
incompiutamente. In quanto volontà, fuor della rappresentazione e di
tutte le sue forme, essa è una e identica nell'oggetto contemplato e
nell'individuo, che innalzandosi a codesta contemplazione diventa
conscio di sé come puro soggetto; oggetto e individuo non sono
perciò distinti in sé, poi che in sé essi sono la volontà, che quivi
conosce se stessa. E pluralità e varietà consistono soltanto nel
modo, in cui ella acquista tale conoscenza, ossia soltanto nel
fenomeno, in grazia della sua forma, che è il principio di ragione.
Come senza l'oggetto, senza la rappresentazione io non sono soggetto
conoscente, bensì volontà cieca, così senza di me quale soggetto del
conoscere non può la cosa conosciuta essere oggetto, bensì è pura
volontà, impulso cieco. Questa volontà è in sé, ossia fuor della
rappresentazione, una e identica con la mia; solo nel mondo quale
rappresentazione, la cui forma è sempre almeno di soggetto e
oggetto, veniamo a scinderci in conosciuto e conoscente individuo.
Non appena il conoscere – il mondo quale rappresentazione – è tolto
via, non rimane altro se non pura volontà, cieco impulso. Il suo
farsi oggettità, il divenir rappresentazione, stabilisce d'un tratto
sia soggetto che oggetto. L'essere invece codesta oggettità pura,
compiuta, adeguata oggettità della volontà, pone l'oggetto come
idea, libero dalle forme del principio di ragione, e il soggetto
come puro soggetto della conoscenza, sciolto dall'individualità e
dal servizio della volontà.
Ora chi al modo sopra detto si è tanto addentro sprofondato e
smarrito nella contemplazione della natura, da non esistere più se
non come puro soggetto conoscente, viene con ciò senz'altro a
sentire che, in quanto tale, egli è la condizione, egli è che
contiene il mondo e ogni esistenza oggettiva; poi che questa non si
presenta più d'ora innanzi se non come dipendente dall'esistenza
sua. Egli trae adunque dentro a sé la natura, sì da sentirla solo
come un accidente dell'esser suo. In questo senso dice Byron:
Are not the mountains, waves and skies, a part
Of me and of my soul,
as I of them?5
Ma come potrebbe, chi sente così, se stesso credere del tutto
mortale, in contrasto con l'immortale natura? Piuttosto lo afferrerà
la coscienza di ciò che l'Upanishad del Veda esprime; «Hae omnes
creaturae in totum ego sum, et praeter me aliud ens non est»
(Oupnek'hat, I, 122)6.
§ 35.
Per conseguire una più profonda penetrazione nell'essenza del mondo,
è assolutamente necessario apprendere a distinguere la volontà quale
cosa in sé dalla sua adeguata oggettità; e inoltre i diversi gradi,
in cui questa più limpidamente e compiutamente appare – ossia le
idee stesse – dal semplice fenomeno delle idee nelle forme del
principio di ragione, del circoscritto modo di conoscenza degli
individui. Allora si converrà con Platone, dove egli alle idee sole
attribuisce un vero e proprio essere, riconoscendo invece agli
oggetti nel tempo e nello spazio, a quel che per l'individuo è il
mondo reale, una mera esistenza apparente, a mo' di sogno. Allora si
comprenderà come l'unica e identica idea si manifesti in così
numerosi fenomeni, ed ai conoscenti individui la sua essenza palesi
solo in modo frammentario, un aspetto dopo l'altro. Anche si
distinguerà allora l'idea in sé dal modo, onde il suo fenomeno si
offre all'osservazione dell'individuo: quella riconoscendo
essenziale, e questo invece non essenziale. Ma vediamo ciò in
esempi, prima minimi e poi massimi. – Quando le nubi trasvolano, le
figure ch'esse formano non sono a loro essenziali, sono anzi a loro
indifferenti: ma che le nubi, essendo elastico vapore, vengano
dall'impeto del vento compresse, cacciate, dilatate, lacerate,
questo è natura loro, è l'essenza delle forze, che in loro si
oggettivano, è l'idea; mentre i lor mutevoli aspetti esistono
soltanto per l'individuale osservatore. – Al rivo, che sui sassi
precipita sono i gorghi, le onde, i disegni di spuma, ch'esso fa
vedere, sono indifferenti ed inessenziali: ma che il rivo obbedisca
alla gravità, e si comporti come liquido non elastico, mobilissimo,
privo di forma, trasparente, questa è la sua essenza, questa è – se
conosciuta intuitivamente – l'idea; mentre solo per noi, finché noi
conosciamo in quanto individui, esistono quelle forme. Il ghiaccio
sui vetri delle finestre si cristallizza secondo le leggi della
cristallizzazione, le quali rivelano l'essenza della forza naturale
quivi manifestantesi, rappresentano l'idea; ma gli alberi e i fiori,
che quel ghiaccio raffigura, sono inessenziali ed esistono solo per
noi. Ciò che nelle nubi, nel rivo e nel cristallo apparisce, è il
più debole riflesso di quella volontà, che più compiuta nella
pianta, più ancora nell'animale, compiutissima apparisce nell'uomo.
Ma soltanto l'essenziale in tutti quei gradi della sua
oggettivazione costituisce l'idea; viceversa lo spiegamento di
questa, in quanto ella viene disgregata in fenomeni svariati e
multilaterali nelle forme del principio di ragione, non è all'idea
stessa essenziale, ma sta soltanto nel modo di conoscenza
dell'individuo, e ha unicamente per esso la realtà. Lo stesso vale,
necessariamente, anche per lo spiegarsi di quell'idea, che è la più
compiuta oggettità della volontà: quindi la storia del genere umano,
la folla degli eventi, il mutar dei tempi, i molteplici aspetti
della vita umana in paesi e secoli diversi, tutto questo non è se
non la forma casuale presa dal fenomeno dell'idea, e non appartiene
a questa, nella quale soltanto è l'adeguata oggettità della volontà,
bensì al fenomeno che cade nella conoscenza dell'individuo, ed è
all'idea tanto estraneo, inessenziale e indifferente quanto sono
alle nubi le figure, ch'esse rappresentano, al rivo la forma dei
suoi gorghi e delle sue spume, e al ghiaccio i suoi alberi e i suoi
fiori.
Per chi ha ben compreso questo, e la volontà sa distinguere
dall'idea, e questa dal suo fenomeno, gli eventi del mondo hanno
significato non già in sé e per sé, ma solo in quanto essi sono i
segni dell'alfabeto, mediante i quali si può leggere l'idea
dell'uomo. Quegli non crederà col volgo, che il tempo generi
alcunché di veramente nuovo e significante; che per esso o in esso
qualcosa di effettivamente reale pervenga ad esistere; o che il
tempo medesimo abbia, come un tutto, principio e fine, norma e
sviluppo, e per avventura tenda, quasi ad estremo termine, al
massimo perfezionamento (come il volgo pensa) del genere ultimo
venuto e vivente trent'anni. Perciò tanto sarà lontano
dall'istituire con Omero tutto un Olimpo pieno di Dèi a guida di
quegli eventi temporali, quanto dal tener con Ossian le forme delle
nubi per esseri individuali; poiché, come s'è detto, l'una e l'altra
cosa ha l'identica significazione, in rapporto all'idea che vi si
manifesta. Negli svariati aspetti della vita umana e nella perenne
vicenda degli eventi, egli terrà come immutabile ed essenziale
soltanto l'idea; nella quale la volontà di vivere trova la sua più
compiuta oggettità, e tutti i suoi vari aspetti mostra nelle
qualità, nelle passioni, negli errori e nei meriti dell'uman genere
– egoismo, odio, amore, paura, audacia, leggerezza, ottusità,
astuzia, spirito, genio, etc. – che concorrendo ad incorporarsi in
forme (individui) svariatissime, perennemente fanno agire la grande
e la piccola storia del mondo. E in ciò è per sé indifferente se
codesta storia sia messa in moto da un nonnulla o da corone. Quegli
troverà infine, che accade nel mondo come nei drammi di Gozzi, nei
quali agiscono sempre gli stessi personaggi, con la stessa
intenzione e lo stesso destino: sono bensì diversi in ogni dramma i
motivi e gli avvenimenti, ma degli avvenimenti è uno lo spirito. I
personaggi d'un dramma nulla sanno di quanto è accaduto in un altro,
nel quale tuttavia agivano anch'essi: quindi, malgrado tutte le
esperienze dei drammi precedenti, Pantalone non diviene più destro e
più generoso, Tartaglia più onesto, Brighella più audace e Colombina
più costumata.
Posto che fosse a noi concesso gettare un limpido sguardo sul regno
della possibilità e su tutte le concatenazioni di cause e di
effetti, balzerebbe fuori lo spirito della terra e ci mostrerebbe in
un quadro i più eminenti individui, luci del mondo, eroi, che il
caso ha distrutto prima che venisse il tempo della loro azione – poi
i grandi eventi, che avrebbero mutato la storia del mondo e generato
periodi di altissima e illuminata cultura, se non li avesse
soffocati nel nascere il più cieco accidente, il caso più
insignificante; e infine le magnifiche forze di grandi individui,
che avrebbero potuto fecondare tutta un'era del mondo, ma che sviati
da errore o da passione, o costretti da necessità, quelle forze
sterilmente dissiparono in oggetti indegni e infruttiferi, o
addirittura sprecarono come in un giuoco. Se tutto questo vedessimo,
avremmo da rabbrividire e da gemere pei tesori perduti d'intere
epoche del mondo. Ma lo spirito della terra sorriderebbe, dicendo:
«La fonte, dalla quale gl'individui e le loro forze rampollano, è
inesauribile e infinita come il tempo e lo spazio: imperocché quelli
sono, sì come queste forme d'ogni fenomeno, null'altro se non
fenomeni, visibilità della volontà. Quella infinita sorgente non può
essere esausta da una misura finita: quindi ad ogni evento oppure
opera soffocati in germe, rimane aperta sempre, per riprodursi, una
giammai diminuita infinità. In questo mondo del fenomeno è tanto
poco possibile una vera perdita, come un vero guadagno. La volontà
sola è: ella, la cosa in sé, ella, la sorgente di tutti quei
fenomeni. La sua autocoscienza, e l'affermazione o negazione, che ne
procede, è l'unico evento in sé»7
§ 36.
Al filo degli eventi tien dietro la storia: ella è prammatica, in
quanto deduce quelli secondo la legge di motivazione, la qual legge
determina la manifestantesi volontà, dove questa è illuminata dalla
conoscenza. Nei gradi inferiori della sua oggettità, dove ancora
agisce senza conoscenza, è la scienza naturale, che studia come
etiologia le leggi delle variazioni dei suoi fenomeni, e quanto è in
essi permanente studia come morfologia; la quale allevia il suo
compito quasi infinito con l'aiuto dei concetti, raccogliendo il
generale per ricavarne il particolare. Infine le semplici forme,
nelle quali – per la conoscenza del soggetto in quanto individuo –
appariscono le idee scisse nella pluralità, ossia tempo e spazio,
sono studiate dalla matematica. Tutte queste, che hanno il nome
comune di scienze, seguono il principio di ragione nei suoi vari
atteggiamenti, e la materia loro è sempre il fenomeno, le sue leggi,
i suoi nessi, e i rapporti che ne derivano. Ma qual maniera di
conoscenza studia ciò che stando fuori e indipendente da ogni
relazione è in verità la sola cosa essenziale del mondo, la vera
sostanza dei suoi fenomeni, a nessun mutamento soggetta e quindi in
ogni tempo con pari verità conosciuta – in una parola, le idee, che
sono l'immediata e adeguata oggettità della cosa in sé, della
volontà? È l'arte, l'opera del genio. Ella riproduce le eterne idee
afferrate mediante pura contemplazione, l'essenziale e il permanente
in tutti i fenomeni del mondo; ed a seconda della materia in cui
riproduce, è arte plastica, poesia o musica. Sua unica origine è la
conoscenza delle idee; suo unico fine la comunicazione di questa
conoscenza. Mentre la scienza, tenendo dietro all'incessante e
instabile flusso di cause ed effetti quadruplicemente atteggiati, ad
ogni mèta raggiunta viene di nuovo sospinta sempre più lontano e non
mai può trovare un termine vero, né un pieno appagamento, più di
quanto si possa raggiungere correndo il punto in cui le nubi toccano
l'orizzonte; l'arte all'opposto è sempre alla sua mèta. Imperocché
ella strappa l'oggetto della sua contemplazione fuori dal corrente
flusso del mondo e lo tiene isolato davanti a sé: e quest'oggetto
singolo, ch'era in quel flusso una infinitamente minima parte,
diviene per lei un rappresentante del tutto, un equivalente del
molteplice infinito nello spazio e nel tempo: a questo singolo ella
s'arresta: ella ferma la ruota del tempo: svaniscono per lei le
relazioni: soltanto l'essenziale, l'idea, è suo oggetto. Noi
possiamo adunque senz'altro indicarla come il modo di considerar le
cose indipendentemente dal principio di ragione all'opposto della
considerazione che appunto di tal principio tien conto, la quale è
la via dell'esperienza e della scienza. Quest'ultima maniera di
considerazione va paragonata ad una linea orizzontale corrente
all'infinito; la prima, invece, alla verticale che la taglia in
qualsivoglia punto. Quella che tien dietro al principio di ragione è
la maniera razionale, che nella vita pratica, come nella scienza,
sola vale e soccorre; quella che prescinde dal contenuto del
principio stesso è la maniera geniale, che sola vale e soccorre
nell'arte. La prima è la maniera di Aristotele; la seconda, in
complesso, quella di Platone. La prima somiglia al violento uragano,
che senza principio e fine trascorre, e tutto piega, scuote,
trascina con sé: la seconda al placido raggio di sole, che traversa
la via di quell'uragano senza esserne scosso. La prima somiglia alle
innumerabili, impetuosamente agitate gocce della cascata, che sempre
mutando non posano un attimo: la seconda al placido arcobaleno, che
poggia su questo tumulto furioso. Solo mediante la pura
contemplazione sopra descritta, assorbentesi intera nell'oggetto,
vengono colte le idee, e l'essenza del genio sta appunto nella
preponderante attitudine a tale contemplazione: e poi che questa
richiede un pieno oblio della propria persona e dei suoi rapporti,
ne viene che genialità non è altro se non la più completa obiettità,
ossia direzione obiettiva dello spirito, contrapposta alla direzione
subiettiva, che tende alla propria persona, ossia alla volontà.
Quindi genialità è l'attitudine a contenersi nella pura intuizione,
a perdersi nell'intuizione, e la conoscenza, che in origine esiste
soltanto in servizio della volontà, sottrarre a codesto servizio;
ossia il proprio interesse, il proprio volere, i propri fini perdere
affatto di vista, e così spogliarsi appieno per un certo tempo della
propria personalità per rimanere alcun tempo qual puro soggetto
conoscente, chiaro occhio del mondo. E ciò non per pochi istanti; ma
così durevolmente e con tanta conscienza, quanto è necessario per
riprodurre con meditata arte il conosciuto, e «ciò che fluttua in
ondeggiante apparizione fissare in durevoli pensieri». Gli è come se
– perché il genio si riveli in un individuo – dovesse a questo esser
toccata in sorte una tal misura di forza conoscitiva, da superar di
molto quella che occorre al servizio d'una volontà individuale; e
questo più di conoscenza, divenuto libero, diventa allora un
soggetto sciolto da volontà, un lucido specchio dell'essenza del
mondo. Così si spiega la vivacità spinta all'irrequietezza in
individui geniali, di rado potendo loro bastare il presente, perché
non riempie la loro conscienza; questo da loro quella tensione senza
posa, quell'incessante ricerca di oggetti nuovi e degni di
considerazione, quindi anche quell'ansia quasi mai appagata di
trovare esseri a loro somiglianti, fatti per loro, coi quali possano
comunicare; mentre l'ordinario figlio della terra, tutto riempito ed
appagato dall'ordinario presente, in esso si assorbe, e trovando
inoltre dappertutto pari suoi, possiede quello speciale benessere
nella vita quotidiana, che al genio è negato. S'è riconosciuto come
parte essenziale della genialità la fantasia, anzi talora la si è
tenuta identica a quella: nel primo caso con ragione, a torto nel
secondo. Imperocché oggetti del genio in quanto tale sono le eterne
idee, le permanenti essenziali forme del mondo e di tutti i suoi
fenomeni; ma la conoscenza dell'idea è, per necessità, intuitiva,
non astratta: in tal modo sarebbe la conoscenza del genio limitata
alle idee degli oggetti effettivamente presenti alla sua persona, e
dipendenti dalla catena delle circostanze che a lui lì condussero,
se la fantasia non allargasse il suo orizzonte molto di là dalla
realtà della sua personale esperienza e non lo ponesse in grado di
ricostruire, dal poco che è venuto nella sua effettiva appercezione,
tutto il rimanente; e così far passare davanti a sé quasi tutte le
possibili immagini della vita. Inoltre, gli oggetti reali quasi
sempre non sono che manchevoli esemplari dell'idea in loro
manifestantesi: quindi il genio ha bisogno della fantasia, per veder
nelle cose non ciò che la natura ha in effetti formato, bensì ciò
ch'ella si sforzava di formare, ma che a causa della lotta – nel
precedente libro ricordata – delle sue forme tra loro, non è
riuscita a compiere. Torneremo su questo proposito in seguito,
trattando della scultura. La fantasia allarga dunque la cerchia
visuale del genio oltre gli oggetti offrentisi in realtà alla sua
persona; e l'allarga sia per la qualità che per la quantità. Quindi
una non comune forza della fantasia è compagna, anzi condizione
della genialità. Invece, quella non è prova di questa; anzi, possono
anche uomini tutt'altro che geniali aver molta fantasia. Imperocché
come si può considerare un oggetto reale in due modi opposti – o in
modo puramente obiettivo, geniale, cogliendo l'idea di esso, o in
modo comune, sol nelle sue relazioni con altri oggetti e con la
propria volontà, conformi al principio di ragione – così anche un
fantasma si può considerare nell'un modo e nell'altro: nel primo,
esso è un mezzo per la conoscenza dell'idea, della quale è
comunicazione l'opera d'arte; nel secondo, il fantasma è impiegato a
costruir castelli in aria, che piacciono al nostro egoismo e al
nostro capriccio, e momentaneamente ingannano e rallegrano. E così,
facendo dei fantasmi in tal guisa intrecciati, vengono invero
conosciute sempre le sole relazioni. Chi pratica questo giuoco è un
cervello fantastico: facilmente confonderà le immagini, della sua
fantasia, come fanno i romanzi ordinari d'ogni specie, che
sollazzano i pari suoi ed il gran pubblico, per ciò che i lettori
sognano di trovarsi al posto dell'eroe e trovano quindi il racconto
molto piacevole.
L'uomo comune, questa mercé all'ingrosso della natura, che ne
produce migliaia al giorno, è, come abbiamo detto, capace solo
fugacemente di guardare le cose in maniera affatto disinteressata in
ogni senso – ciò che costituisce la vera contemplazione. Può alle
cose volgere la sua attenzione solo in quanto esse abbiano una
qualsiasi relazione, anche se molto indiretta, con la sua volontà.
Poi che sotto questo riguardo, il quale sempre richiede solamente la
conoscenza delle relazioni, è bastevole ed anzi è spesso più valido
il concetto astratto della cosa, non s'indugia a lungo l'uomo comune
nell'intuizione pura, e quindi non poggia a lungo lo sguardo sopra
un oggetto; bensì egli cerca sollecito in tutto ciò, che gli si
offre, soltanto il concetto, al quale la cosa va ricondotta, come
l'accidioso cerca la sedia – e non se ne interessa più oltre. Perciò
si sbriga di tutto così alla svelta: di opere d'arte, di belli
oggetti naturali, e dell'ognora significante spettacolo della vita
in tutte le sue scene. Egli non s'indugia: cerca soltanto la sua
strada nella vita, o anche, per ogni caso, tutto ciò che potrebbe
essere un giorno la sua strada, ossia cerca notizie topografiche nel
senso più ampio della parola: con l'osservazione della vita stessa
come tale non sta a perder tempo. L'uomo geniale invece, la cui
forza conoscitiva si sottrae, per la propria prevalenza, al servizio
della sua volontà, si trattiene a considerar la vita per se stessa,
si sforza di raggiunger l'idea d'ogni cosa, e non già le relazioni
di ciascuna con le altre: perciò trascura sovente la considerazione
del suo proprio cammino nella vita, e lo percorre quindi il più
delle volte in modo abbastanza maldestro. Mentre per l'uomo comune
il proprio patrimonio conoscitivo è la lanterna, che illumina la
strada, esso è per l'uomo geniale il sole, che disvela il mondo.
Questa sì dissimile maniera di guardar dentro alla vita, si fa
presto visibile perfino dall'apparenza esterna dei due. Lo sguardo
dell'uomo, in cui il genio vive e opera, fa distinguere costui
facilmente, perché, vivace e fermo insieme, ha il carattere della
contemplazione; quale possiamo vedere nelle immagini delle poche
teste geniali, che la natura ha di quanto in quanto prodotto fra gli
innumeri milioni. Invece nell'occhio dell'altro – quando non sia,
come è il più spesso, opaco o insignificante – si osserva facilmente
il vero contrapposto della contemplazione: il cercare. Per
conseguenza l'«espressione geniale di una testa consiste nel
palesarvisi un risoluto prevaler del conoscere sul volere, e quindi
anche nell'esprimervisi un conoscere senz'alcuna relazione con un
volere, ossia un puro conoscere». Viceversa, in teste quali sono di
regola, predomina l'espressione del volere, e si vede che il
conoscere entra sempre in azione solo in seguito a spinta del
volere, e perciò è sempre indirizzato secondo motivi.
Poi che la conoscenza geniale, ossia conoscenza dell'idea, è quella
che non segue il principio di ragione, l'altra invece che lo segue
dà nella vita saggezza e raziocinio, e produce le scienze; perciò
individui geniali avranno quelle manchevolezze che trae con sé la
trascuranza dell'altro modo di conoscere. Tuttavia va qui notata la
restrizione, che ciò ch'io verrò dicendo sotto tale riguardo, li
tocca solo in quanto e mentre essi sono veramente in atto di aver la
conoscenza geniale, e questo non è punto il caso in ogni momento di
lor vita; imperocché la grande – sebbene spontanea – tensione, che
si richiede per vedere le idee fuori della volontà, necessariamente
si rilascia ed ha grandi pause; in cui gli uomini geniali vengono,
sia riguardo ai pregi che ai difetti, su per giù a somigliare agli
uomini comuni. Perciò s'è dai tempi più remoti indicata l'attività
del genio come un'ispirazione; anzi, secondo esprime la parola
stessa, come l'attività di un essere sovrumano distinto
dall'individuo medesimo, che sol periodicamente s'impadronisce di
questo. La ripugnanza degli individui geniali a diriger l'attenzione
sul contenuto di principio di ragione, si rivelerà dapprima rispetto
al principio d'esistenza, come ripugnanza per la matematica, la cui
cognizione va alle forme più universali del fenomeno, tempo e
spazio, che per l'appunto non sono se non forme del principio di
ragione; ed è quindi proprio l'opposto di quella cognizione, che
cerca viceversa il contenuto del fenomeno, l'idea esprimentevisi
dentro, prescindendo da ogni relazione. Inoltre anche la trattazione
logica della matematica ripugnerà al genio, perché questa, sbarrando
la via alla vera e propria penetrazione, non appaga; bensì,
presentando semplicemente una catena di sillogismi, secondo il
principio della ragione di conoscenza, tra tutte le forze dello
spirito occupa prevalentemente la memoria, per tenere ognora
presenti le proposizioni anteriori, a cui ci si riferisce. Anche
l'esperienza ha confermato, che grandi genii dell'arte non hanno
alcuna attitudine per la matematica: mai è esistito un uomo
eccellente in pari tempo nell'una e nell'altra. Alfieri narra di non
aver mai potuto capire neppur il quarto teorema di Euclide. A Goethe
la mancanza di cognizioni matematiche fu a sazietà rimproverata
dagli stolti avversari della sua teoria dei colori: e invero quivi,
dove non si trattava di calcolare e misurare su dati ipotetici,
bensì d'immediata conoscenza intuitiva della causa e dell'effetto,
era quel rimprovero così storto e fuori posto, che coloro hanno
appunto tanto con esso mostrato alla luce del giorno la lor completa
assenza di ragione, quanto con le altre lor sentenze degne del re
Mida. Che oggi ancora, quasi un mezzo secolo dopo l'apparir della
teoria goethiana dei colori, possano perfino in Germania rimanere
indisturbate in possesso delle cattedre le fandonie neutoniane, e
che si continui in tutta serietà a discorrere delle sette luci
omogenee e della lor varia rifrangibilità, conterà un giorno tra le
maggiori caratteristiche intellettuali dell'umanità in genere e del
germanesimo in ispecie. Con lo stesso motivo sopra indicato si
spiega il fatto notissimo, che viceversa eccellenti matematici hanno
poca comprensione per le opere delle arti belle; secondo è espresso
in modo particolarmente ingenuo dal noto aneddoto di quel matematico
francese, che dopo aver letta l'Ifigenia di Racine domandò alzando
le spalle: Qu'est-ce-que cela prouve? Poi che inoltre un'acuta
comprensione dei rapporti secondo la legge di causalità e
motivazione costituisce l'intelligenza, mentre la conoscenza geniale
non è rivolta alle relazioni, ne viene che un uomo intelligente, in
quanto e nel mentre è tale, non ha genio; e l'uomo di genio, in
quanto e nel mentre è tale, non è intelligente. Infine la conoscenza
intuitiva in genere, nel cui dominio esclusivo è l'idea, sta proprio
di fronte alla conoscenza razionale o astratta, guidata dal
principio di ragione del conoscere. È anche raro, com'è noto, trovar
grande genialità unita a predominante ragionevolezza, che anzi al
contrario individui geniali sono spesso in preda ad effetti violenti
e irragionevoli passioni. E di ciò non è punto causa debolezza di
ragione, bensì, in parte, eccezionale energia di tutto il fenomeno
della volontà, che forma l'uomo di genio, e che si manifesta con la
vivacità di tutti gli atti volitivi; e in parte predominio della
conoscenza intuitiva, mediante sensi e intelletto, sull'astratta;
quindi tendenza risoluta al campo intuitivo; – l'espressione del
quale, energica in sommo grado, di tanto supera negli uomini geniali
gl'incolori concetti, che non più questi, bensì quella dirige
l'azione divenuta appunto perciò irrazionale: e per conseguenza
l'impressione del presente è su di loro potentissima, li trascina
all'atto inconsapevole, all'affetto, alla passione. Anche perciò, e
soprattutto perché la lor conoscenza s'è in parte sottratta al
servizio della volontà, nella conversazione baderanno non tanto alla
persona, con la quale parlano, quanto alla cosa di cui parlano, che
vivacemente aleggia loro dinnanzi: quindi giudicheranno in un modo
troppo obiettivo, senza riguardo al proprio interesse, o
racconteranno, invece di tacere, cose che prudenza vorrebbe taciute,
e così via. Quindi, finalmente, sono inclinati a monologare, e
possono in genere lasciar scorgere in sé tante debolezze, da
avvicinarsi davvero alla follia. Che genialità e pazzia abbiano un
lato in cui confinano, anzi si confondono, fu osservato sovente; e
perfino l'estro poetico fu detto una specie di pazzia: amabili
insania lo chiama Orazio (Od. III, 4), e «graziosa follia» Wieland
nell'introduzione dell'Oberon. Lo stesso Aristotele, secondo
riferisce Seneca (de tranq. animi, 15, 16) avrebbe detto: «Nullum
magnum ingenium sine mixtura dementiae fuit». Il medesimo esprime
Platone, nel sopracitato mito della caverna oscura (de Rep. 7), col
dire: Coloro, che fuor della caverna hanno contemplata la vera luce
solare e le cose davvero esistenti (le idee), non possono rientrando
nella caverna più nulla vedere, perché i loro occhi hanno perduto
l'abitudine dell'oscurità, né più sanno distinguere lì sotto le
ombre; ed essi vengono perciò nei loro errori derisi dagli altri,
che non sono mai usciti da questa caverna e da queste ombre. Egli
dice anche espressamente nel Fedro (p. 317) che senza qualche follia
non può darsi poeta vero; anzi (p. 327) che ciascuno, il quale nelle
effimere cose conosca le eterne idee, apparisce qual folle. Pur
Cicerone riferisce: «Negat enim, sine furore, Democritus, quemquam
poëtam magnum esse posse, quod idem dicit Plato» (de divin. I, 37).
E finalmente dice Pope:
Great wits to madness sure are near allied,
And thin partitions do
their bounds divide8.
Particolarmente istruttivo a questo proposito è il Torquato Tasso di
Goethe; dove questi ci pone innanzi agli occhi non solo il dolore,
il martirio proprio del genio in quanto tale, ma anche il suo
perenne inclinar verso la follia. Infine l'immediato contatto tra
genialità e pazzia è confermato dalle biografie di uomini
genialissimi – per esempio Rousseau, Byron, Alfieri –, e da aneddoti
delle altrui vite; per converso devo ricordare d'aver trovato,
visitando frequentemente i manicomi, taluni soggetti dotati di
capacità innegabilmente grandi, la cui genialità traluceva palese
attraverso la follia; la quale nondimeno aveva qui preso del tutto
il sopravvento. Ora, questo fatto non può essere attribuito al caso,
perché da un lato il numero dei pazzi è relativamente assai piccolo,
mentre dall'altro un individuo geniale è un fenomeno raro oltre ogni
comune misura, e sol come straordinaria eccezione comparisce nella
natura: basti a persuadercene il contare i genii davvero grandi che
tutta intera l'Europa ha prodotto nell'era antica e nella moderna –
ma comprendendovi soltanto gli autori di opere che in ogni tempo
hanno conservato un durevole valore per l'umanità – e il numero di
questi singoli paragonar coi 250 milioni d'uomini che, rinnovandosi
di trenta in trent'anni, costantemente vivono in Europa. Ancora, non
voglio tacere che varie persone ho conosciuto, dotate d'una
superiorità intellettuale sicura, se pur non considerevole, che in
pari tempo dimostravano una leggera aria di follia. Da questo può
apparire che ogni elevazione dell'intelletto sopra il livello
comune, essendo un carattere anormale, già disponga alla follia.
Nondimeno voglio nel modo più breve possibile esporre la mia
opinione sul motivo puramente intellettuale di quella parentela tra
genialità e follia, poiché codesto esame contribuirà senza dubbio a
chiarire la vera essenza della genialità, ossia di quella proprietà
dello spirito che sola può produrre vere opere d'arte. Ma questo
rende necessario anche un breve esame della follia9.
Un chiaro, compiuto riconoscimento dell'essenza della follia; un
esatto e limpido concetto di ciò che propriamente distingue il folle
dal savio, non s'è ancora, per quanto io sappia, trovato. Né
ragione, né intelletto si possono negare ai folli; imperocché questi
discorrono e intendono, anzi spesso ragionano molto bene; di regola
intuiscono con giustezza ciò ch'è loro presente, e scorgono il
rapporto tra causa ed effetto. Visioni, simili a fantasmagorie
febbrili, non sono punto un ordinario sintomo di follia: il delirio
altera la percezione, la follia altera i pensieri. Il più delle
volte invero non errano i folli nella cognizione dell'immediato
presente, bensì il lor farneticare si riferisce ognora all'assente e
passato, e solo per tal via al rapporto di quello col presente.
Perciò adunque sembra a me che il loro male tocchi particolarmente
la memoria; non già nel senso che questa manchi ad essi del tutto
(che molti sanno a memoria molto, e riconoscono talora persone da
tempo non vedute), ma che il filo della memoria sia rotto, smarrita
la concatenazione costante di quella, e reso impossibile un regolare
coordinato risovvenirsi di ciò che fu. Singole scene del passato si
presentano con giustezza, come l'isolato presente: ma nel risalire
indietro s'incontrano lacune, che i folli riempiono con fantasie, le
quali o essendo sempre le medesime diventano idee fisse (e allora si
ha monomania, malinconia) o cambiano ogni volta, in forma
d'immaginazioni momentanee (chiamandosi in questo caso stravaganza,
fatuitas). Perciò è tanto difficile ricavar da un folle, nel suo
entrare in manicomio, informazioni sulla sua vita passata. Sempre
più viene a confondersi nella sua memoria il vero col falso. Per
quanto sia conosciuto rattamente l'immediato presente, lo si altera
mediante la fittizia connessione con un immaginario passato: i folli
ritengono quindi se stessi, o altri, identici a persone che esistono
soltanto nel loro chimerico passato, non riconoscono invece talune
persone note, ed hanno così, pur rappresentandosi con esattezza il
singolo presente, ognora false relazioni di questo con l'assente.
Quando la follia raggiunge un alto grado, viene una completa assenza
di memoria, per cui il folle diventa affatto incapace di riferirsi
ad alcunché di assente o di passato, ma è determinato esclusivamente
dalla fantasia momentanea, in rapporto con le chimere che nel suo
capo riempiono il passato. Allora non si è mai sicuri un istante,
vicino a lui, dalla violenza o assassinio, quando non gli si tenga
ognora davanti agli occhi la forza dominatrice. Il modo di conoscere
del folle ha di comune con l'animale, l'essere entrambi limitati al
presente; ma questo li distingue: che l'animale non ha propriamente
alcuna rappresentazione del passato come passato, per quanto esso
agisca sull'animale stesso per il mezzo dell'abitudine, sì che a mo'
d'esempio il cane riconosce anche dopo anni il suo antico padrone,
ossia riceve l'usata impressione dal suo sguardo, pur non avendo
nessun ricordo del tempo da allora trascorso: mentre il folle invece
reca pur sempre nella sua ragione un passato in abstracto, ma però
falso, che per lui solo esiste; e questo, o rimane costante, o varia
a momenti. Ora, l'influsso di questo falso passato impedisce anche
quell'uso del presente, conosciuto con giustezza, che l'animale
tuttavia può fare. Che intensa vita intellettuale, inattesi orribili
eventi producono spesso follia, io mi spiego nel modo seguente.
Ciascuna di quelle sofferenze è sempre, in quanto evento reale,
limitata al presente; quindi passeggera e perciò non mai oltremisura
grave; smisuratamente grande si fa solo col diventar dolore fisso.
Ma come tale, esso non è più che un pensiero, e sta quindi nella
memoria. Ora, se un tale affanno, una tal dolorosa consapevolezza o
memoria è di tanto tormento da riuscire affatto intollerabile, tanto
che l'individuo finirebbe col soggiacervi, – allora la natura in sì
estremo grado angosciata ricorre alla follia, come all'estrema
àncora di salvamento della vita: lo spirito, cotanto travagliato, fa
come se strappasse il filo della propria memoria, riempie le lacune
con chimere, e da un dolore intellettuale, che soverchia le sue
forze, si rifugia nella follia – come si amputa un membro preso
dalla cancrena e lo si sostituisce con altro di legno. Per esempio
si consideri Aiace furioso, il re Lear e Ofelìa: imperocché le
creature del genio vero, che sole si possono qui allegare, essendo a
tutti note, sono per la lor verità da tenersi come persone reali; e
d'altronde in ciò dimostra esattamente lo stesso anche la frequente
esperienza effettiva. Una lontana somiglianza con quella maniera di
passaggio dal dolore alla follia si scorge nel cercare che tutti
spesso facciamo, di allontanare quasi meccanicamente un penoso
ricordo, il quale improvviso ci sopravvenga, con una qualsiasi
esclamazione o con un movimento, distogliendo noi stessi di là,
distraendocene con violenza.
Se vediamo adunque il folle ben conoscere, nel modo indicato, il
singolo presente, e anche qualche singolo passato, ma misconoscerne
le relazioni e quindi errare e farneticare, proprio in ciò è il suo
punto di contatto con l'individuo geniale. Imperocché anche il
geniale, tralasciando la conoscenza delle relazioni conforme al
principio di ragione, per vedere e cercar nelle cose soltanto l'idea
loro, afferrare la lor vera essenza come intuitivamente gli si
rivela (per la quale essenza un oggetto rappresenta tutta intera la
sua specie, sì che, dice Goethe, un caso vale per mille), – anche il
geniale perde con ciò di vista la conoscenza del nesso che lega le
cose: il singolo oggetto della sua contemplazione, oppure il
presente, da lui con eccessiva vivezza percepito, gli appariscono in
così chiara luce, che i rimanenti anelli della catena a cui quelli
appartengono vengono di conseguenza a trovarsi nell'ombra; la qual
cosa produce fenomeni, che hanno con quelli della follia una
somiglianza da tempo riconosciuta. Quel che in una singola cosa non
esiste se non incompiutamente e indebolito da modificazioni, il modo
di vedere del genio Io innalza fino all'idea, al compiuto: da per
tutto quindi il genio vede estremi, e appunto perciò la sua azione
va sempre all'estremo: non sa cogliere la giusta misura, gli manca
la temperanza, e il risultato è quel che s'è detto. Conosce le idee
appieno, ma non gl'individui. Perciò un poeta, come fu osservato,
può conoscere intimamente e a fondo l'uomo, molto male invece gli
uomini: egli è facile a essere ingannato, ed è un trastullo in mano
degli astuti10.
§ 37.
Sebbene adunque, come risulta dalla nostra esposizione, il genio
consista nella capacità di conoscere, indipendentemente dal
principio di ragione, le idee delle cose invece che i singoli
oggetti, i quali soltanto nelle relazioni hanno la loro esistenza; e
di essere, di fronte alle idee, il correlato stesso dell'idea, ossia
non più un individuo, bensì puro soggetto del conoscere; – deve
tuttavia questa capacità trovarsi in minore e diverso grado presso
gli uomini tutti: poiché altrimenti sarebber questi altrettanto
incapaci di goder le opere dell'arte, quanto di produrle, e in
genere non possederebbero per il bello e l'elevato sensibilità
alcuna; anzi queste parole non avrebbero per loro alcun senso.
Dobbiamo dunque ammetter come esistente in tutti gli uomini – se per
avventura non ve n'ha affatto incapaci d'ogni godimento estetico –
quel potere di conoscer nelle cose le idee rispettive, e spogliarsi
così per un istante della loro personalità. Il genio ha di fronte ad
essi il solo vantaggio di possedere in maggior grado e più
durevolmente quel modo di conoscere; vantaggio che gli permette di
mantenere in questa conoscenza la riflessione necessaria per
riprodurre a volontà, in un'opera, ciò che ha conosciuto in tal
modo; e codesta riproduzione è l'opera d'arte. Con l'opera d'arte il
genio comunica agli altri l'idea percepita. L'idea rimane dunque
immutata e identica: uno e identico è anche il piacere estetico
relativo, sia esso prodotto da un'opera dell'arte o direttamente
dall'intuizione della natura e della vita. L'opera d'arte è
semplicemente un mezzo per rendere più facile quella conoscenza in
cui consiste il piacere estetico. Lo svelarsi a noi dell'idea meglio
nell'opera d'arte, che non direttamente dalla natura e dalla realtà,
dipende dal fatto che l'artista, il quale l'idea sola e non la
realtà conobbe, nell'opera sua appunto l'idea pura ha riprodotto,
l'ha isolata dalla realtà, tralasciando ogni causalità
perturbatrice. L'artista ci fa attraverso i suoi occhi guardare
dentro al mondo. L'aver questi occhi, il conoscer nelle cose
l'essenziale, che sta fuor d'ogni relazione, è proprio il dono del
genio, la qualità innata; ma l'essere in grado di comunicare anche a
noi questo dono, dare a noi i suoi occhi, è la qualità acquisita, la
tecnica dell'arte. Perciò dopo aver nelle pagine precedenti esposta
l'intima natura della conoscenza estetica nelle sue linee più
generiche, il più minuto esame filosofico del bello e del sublime,
che ora segue, mostrerà entrambi nella natura e nell'arte insieme,
senza continuare a distinguere. Vedremo dapprima quel che accade
nell'uomo, quando il bello lo tocca, e quando il sublime: se poi
questa commozione egli l'attinga direttamente dalla natura, dalla
vita, oppure ne sia partecipe solo per mezzo dell'arte, non
costituisce un'essenziale bensì appena un'esteriore differenza.
§ 38.
Abbiamo trovato nella contemplazione estetica due inseparabili
elementi: la conoscenza dell'oggetto, non come cosa singola, ma come
idea platonica, ossia come permanente forma di tutta questa specie
d'oggetti; quindi la coscienza del conoscente, non come individuo,
ma come puro, libero dalla volontà soggetto della conoscenza. La
condizione per cui entrambi gli elementi si mostrano sempre uniti
vedemmo essere il tralasciare la conoscenza legata al principio di
ragione, la quale è invece la sola che possa servire alla volontà,
com'anche alla scienza. Anche il piacere suscitato dalla
contemplazione del bello vedremo nascere da quei due elementi; or
più dall'uno, or più dall'altro, secondo l'oggetto della
contemplazione estetica.
Ogni volere scaturisce da bisogno, ossia da mancanza, ossia da
sofferenza. A questa dà fine l'appagamento; tuttavia per un
desiderio, che venga appagato, ne rimangono almeno dieci
insoddisfatti; inoltre, la brama dura a lungo, le esigenze vanno
all'infinito; l'appagamento è breve e misurato con mano avara. Anzi,
la stessa soddisfazione finale è solo apparente: il desiderio
appagato dà tosto luogo a un desiderio nuovo: quello è un errore
riconosciuto, questo un errore non conosciuto ancora. Nessun oggetto
del volere, una volta conseguito, può dare appagamento durevole, che
più non muti: bensì rassomiglia soltanto all'elemosina, la quale
gettata al mendico prolunga oggi la sua vita per continuare domani
il suo tormento. Quindi finché la nostra conscienza è riempita dalla
nostra volontà; finché siamo abbandonati alla spinta dei desiderii,
col suo perenne sperare e temere; finché siamo soggetti del volere,
non ci è concessa durevole felicità né riposo. Che noi andiamo in
caccia o in fuga; che temiamo sventura o ci affatichiamo per la
gioia, è in sostanza tutt'uno; la preoccupazione della volontà
ognora esigente, sotto qualsivoglia aspetto, empie e agita
perennemente la conscienza; e senza pace nessun benessere è mai
possibile. Così posa il soggetto del volere senza tregua sulla
volgente ruota d'Issione, attinge ognora col vaglio delle Danaidi, è
l'eternamente struggentesi Tantalo.
Ma quando una causa esteriore, o un'interna disposizione ci trae
all'improvviso fuori dall'infinita corrente del volere, e la
conoscenza sottrae alla schiavitù della volontà, e quando
l'attenzione non è più rivolta ai motivi del volere, bensì
percepisce le cose sciolte dal loro rapporto col volere, ossia le
considera senza interesse, senza soggettività, in modo puramente
obiettivo, dandosi tutta ad esse, in quanto esse sono pure
rappresentazioni e non motivi: allora sopravviene d'un tratto,
spontaneamente, la pace ognora cercata sulla prima via, la via del
volere, e ognora sfuggente; e noi ci sentiamo benissimo. È lo stato
senza dolore, che Epicuro lodò come il massimo bene, e come
condizione degli Dei: poiché noi siamo, per quell'istante, liberati
dalla bassa ansia della volontà, celebriamo il sabba dei lavori
forzati; e la ruota d'Issione si ferma.
Ed è questo appunto lo stato, ch'io ho descritto più sopra come
necessario per la conoscenza dell'idea quale pura contemplazione,
assorbimento nell'intuizione, smarrimento di sé nell'oggetto, oblio
d'ogni individualità, abolizione della conoscenza che segue il
principio di ragione e soltanto le relazioni afferra; è lo stato, in
cui d'un subito e indissociabilmente s'innalza il singolo oggetto
intuito all'idea della sua specie, e l'individuo conoscente a puro
soggetto del conoscere fuori della volontà; sì che entrambi, in
quanto tali, non stanno più nella corrente del tempo e di tutte le
altre relazioni. È tutt'uno, allora, se il sole che sorge si vegga
da un carcere o da un palazzo.
Interna disposizione, prevalenza del conoscere sul volere possono in
qualsivoglia condizione produrre questo stato. Ce lo dimostrano
quegli eccellenti olandesi, che codesta intuizione puramente
obiettiva rivolsero ai più insignificanti oggetti, e un durevole
monumento della loro obiettità e pacatezza di spirito lasciarono
nelle nature morte, che il contemplatore estetico guarda non senza
commozione, presentandoglisi alla mente il pacato, tranquillo, di
volontà scevro stato d'animo dell'artista, ch'era necessario per
guardare in modo tanto obiettivo sì insignificanti oggetti, con
tanta attenzione considerarli, e questa contemplazione riprodurre
con tanta cura: e mentre il quadro invita anche lui a farsi
partecipe di cotale stato, la sua commozione è spesso ancora
accresciuta dal contrasto della disposizione d'animo agitata,
conturbata da impetuoso volere, in cui egli stesso si trova. Col
medesimo spirito anche pittori paesisti, sopra tutti Ruisdael, hanno
spesso dipinto insignificantissimi oggetti campestri, producendo con
ciò, ancora più piacevolmente, la stessa impressione.
A ciò perviene sola l'intima forza di un animo d'artista: ma
facilitata e dal di fuori favorita è quella disposizione d'animo,
puramente obiettiva, da oggetti che le si offrano, dalla pienezza
della bella natura che invita, anzi costringe alla contemplazione.
Quasi sempre a lei riesce, ogni volta che si riveli d'un tratto al
nostro occhio, sia pure per qualche istante, di strapparci alla
soggettività, alla schiavitù del volere, e trasportarci nello stato
del puro conoscere. Perciò anche chi sia tormentato da passioni o
bisogno o affanno, è da un solo libero sguardo, ch'egli getti sulla
natura, così improvvisamente confortato, rallegrato e sollevato: la
tempesta delle passioni, l'ansia del desiderio e del timore, ed ogni
tormento del volere sono allora d'un tratto placati istantaneamente
in maniera maravigliosa. Imperocché nell'istante in cui noi,
liberati dal volere, ci siamo abbandonati al puro conoscere senza
più volontà, siamo come trasportati in un altro mondo, dove tutto
ciò che commuove la nostra volontà e quindi sì forte ci scuote, più
non esiste. Quella liberazione della conoscenza ci trae fuori da
tutto, tanto e sì appieno, quanto il sonno e il sogno: felicità e
infelicità sono svanite: non siamo più l'individuo, che è obliato,
non siamo più che puro soggetto della conoscenza: non esistiamo più
se non come l'unico occhio del mondo, il quale da tutti gli esseri
conoscenti guarda, ma nell'uomo soltanto può diventare del tutto
libero dal servigio della volontà: e allora ogni distinzione da
individuo a individuo svanisce a tal punto, da essere affatto
indifferente se il contemplante occhio appartenga a un re possente o
a un tormentato mendico. Imperocché né felicità né pena vengono
portati con noi al di là da quei confini. Sì presso sta a noi
perennemente un dominio, nel quale siamo del tutto strappati al
nostro dolore; ma chi ha la forza di trattenervisi a lungo? Non
appena una qualsiasi relazione tra quegli oggetti oggettivamente
intuiti e la nostra volontà, la nostra persona, si riaffaccia alla
conscienza, ha fine l'incantesimo: noi ricadiamo indietro nella
conoscenza che il principio di ragione governa; conosciamo non più
l'idea, ma la cosa singola, l'anello d'una catena, alla quale noi
stessi apparteniamo; e siamo restituiti a tutto il nostro affanno. I
più degli uomini, mancando loro affatto l'oggettità, ossia la
genialità, stanno quasi sempre in questa condizione. Perciò non si
trovano volentieri soli con la natura; abbisognano di compagnia,
almeno quella d'un libro. Imperocché il lor conoscere rimane
soggetto al volere: negli oggetti essi cercano quindi solamente un
possibile rapporto con la propria volontà; e davanti a tutto ciò che
tal rapporto non abbia, risuona nel loro intimo un perenne,
sconsolato Non mi serve a nulla: dal che anche il più bello
spettacolo di natura viene a prendere per essi nella solitudine una
triste, sinistra, ostile apparenza.
Finalmente è ancora quel senso beato dell'intuizione libera da
volontà, che diffonde un sì mirabile incanto sul passato come sulla
distanza, e ce li mostra in una luce che tanto li abbellisce, per
effetto d'una nostra illusione. Quando ci rappresentiamo giorni da
lungo tempo trascorsi, vissuti in un paese lontano, sono gli oggetti
soltanto, che la fantasia nostra richiama, e non il soggetto della
volontà, il quale trascinava con sé i suoi mali insanabili, allora
come oggi; ma questi sono dimenticati, perché già sovente da quei
giorni hanno fatto luogo ad altri mali. Così l'intuizione oggettiva
agisce nel ricordo come agirebbe nel presente, qualora avessimo su
di noi stessi la forza di abbandonarci a lei, liberi da volontà. Da
ciò deriva, che specialmente quando una pena qualsiasi ci angoscia
più del consueto, l'improvvisa memoria di scene passate e lontane ci
balena come un paradiso perduto. L'oggettivo soltanto, non
l'individuale-soggettivo è rievocato dalla fantasia, e noi
c'immaginiamo che quella visione oggettiva stesse allora davanti a
noi così pura, così incontaminata dalla volontà, come ora ci sta la
sua immagine nella fantasia: mentre invece la relazione degli
oggetti col nostro volere ci creava tormento allora come adesso. Noi
possiamo per mezzo degli oggetti presenti sottrarci a tutti i dolori
come per mezzo dei lontani, sol che ci eleviamo alla pura
considerazione oggettiva di quelli, e perveniamo così a produrre
l'illusione che essi soli, e non già noi stessi, siano presenti:
allora, disciolti dal prepotente Io, come puri soggetti del
conoscere saremo tutt'uno con quegli oggetti. E nel modo ond'è loro
indifferente il nostro affanno, così è questo, in tali istanti,
indifferente a noi medesimi. Sopravvive allora unicamente il mondo
quale rappresentazione, e il mondo quale volontà è svanito. Con
tutte queste considerazioni vorrei aver chiarito di qual genere e
quanto grande sia la parte che nel piacere estetico ha la condizione
soggettiva di esso, cioè la liberazione del conoscere dal servizio
della volontà, l'oblio di se stesso in quanto individuo, e
l'elevazione della conscienza a puro, libero da volontà, fuori del
tempo, da ogni relazione indipendente soggetto del conoscere. Con
questo aspetto soggettivo della contemplazione estetica si presenta
ognora congiunto, qual necessario correlato, l'aspetto oggettivo di
quella: la percezione intuitiva dell'idea platonica. Ma, prima di
volgerci a un più attento esame di quest'ultima, occorre indugiare
ancora alquanto sull'aspetto soggettivo del piacere estetico, per
compierne lo studio spiegando l'impressione del sublime, che da esso
unicamente dipende, e da una modificazione di esso deriva. In
seguito la nostra investigazione del piacere estetico raggiungerà,
con l'esame del suo aspetto oggettivo, intera compiutezza.
A quanto abbiamo detto vanno aggiunte dapprima le osservazioni che
seguono. La luce è la più rallegrante delle cose: è divenuta il
simbolo di tutto ciò ch'è buono e salutare. In tutte le religioni
indica la eterna salvezza, mentre l'oscurità indica dannazione.
Ormuzd risiede in purissima luce, Ahriman in eterna notte. Il
paradiso di Dante fa all'inarca l'effetto del Wauxhall di Londra,
tutti gli spiriti beati apparendovi come punti luminosi, che si
raccolgono in regolari figure. L'assenza della luce ci fa
immediatamente tristi; il suo ritorno rallegra: i colori suscitano
di per sé un vivo senso di piacere, che, quando sono trasparenti,
raggiunge il massimo grado. Tutto ciò proviene esclusivamente
dall'esser la luce il correlato e la condizione del più compiuto
modo di conoscenza intuitiva, del solo, che direttamente non tocchi
in nulla la volontà. Imperocché la vista non è punto, come
l'affezione degli altri sensi, in sé immediatamente e per la propria
azione sensitiva capace di sentire nell'organo un'impressione
piacevole o spiacevole, ossia non ha alcun legame immediato con la
volontà: ma solo può averlo l'intuizione che nell'intelletto ne
deriva; e quel legame sta nel rapporto dell'oggetto con la volontà.
Già nell'udito le cose vanno altrimenti: certi suoni possono
direttamente produrre dolore, e anche direttamente, pel puro senso,
non già rispetto all'armonia o alla melodia, essere piacevoli. Il
tatto essendo tutt'uno col sentimento del corpo intero, è ancor più
vincolato a questo diretto influsso sulla volontà: tuttavia può
aversi una sensazione tattile che non dia dolore o piacere. Ma gli
odori sono sempre piacevoli o spiacevoli; i gusti ancor più. Questi
due ultimi sensi adunque sono i più inquinati dalla volontà: sono
perciò sempre i meno nobili, e Kant li chiamò sensi soggettivi. La
gioia che dà la luce è quindi in realtà nient'altro che la gioia per
l'oggettiva possibilità della più pura e più compiuta conoscenza
intuitiva; e come tale va derivata dal fatto che il puro conoscere,
libero e disciolto da ogni volere, è in sommo grado rallegrante, e
già di per sé ha una gran parte nel godimento estetico. Da questo
aspetto della luce proviene alla sua volta la bellezza
incredibilmente grande che noi troviamo nel riflesso degli oggetti
nell'acqua. Quella lievissima, rapidissima, finissima maniera di
reciproca influenza dei corpi; quella, a cui noi dobbiamo le nostre
percezioni di gran lunga più perfette e più pure – l'influenza per
mezzo di raggi riflessi – è qui del tutto chiara, e su vasta scala
messa davanti ai nostri occhi: di là viene la gioia estetica che ne
proviamo, la quale, in sostanza, ha tutte le sue radici nel
principio soggettivo del piacere estetico, ed è gioia del puro
conoscere e delle sue vie11.
§ 39.
Ora, a tutte codeste considerazioni, le quali devono mettere in
rilievo la parte soggettiva del piacere estetico, ossia il piacere
stesso in quanto è gioia del puro, intuitivo conoscere come tale, in
opposizione alla volontà – viene a collegarsi, essendovi
direttamente connesso, lo studio di quella disposizione che s'è
chiamata sentimento del sublime.
Già osservammo che il trasportarsi dello stato della pura intuizione
più facilmente avviene, quando gli oggetti si fanno a questa
incontro, ossia quando, per la lor varia e in pari tempo determinata
e chiara forma, facilmente divengono i rappresentanti delle loro
idee; nelle quali appunto la bellezza, in senso oggettivo, consiste.
Più di tutto ha questo privilegio la bella natura, e strappa quindi
anche all'uomo più insensibile almeno un fugace piacere estetico:
anzi, è sorprendente come in particolar maniera il mondo vegetale
inviti alla contemplazione estetica e quasi la imponga, sì che si
potrebbe dire, questa facilità essere in relazione col fatto che gli
esseri organici di quel mondo non sono essi medesimi, come i corpi
animali, immediato oggetto della conoscenza, e abbisognano quindi
d'un estraneo individuo intelligente, per entrare dal mondo del
cieco volere in quello della rappresentazione; sì che quasi avevano
la nostalgia d'entrarvi, per conseguire almeno indirettamente ciò
che direttamente è loro negato. Io pongo del resto senz'altro in
disparte questo pensiero audace e forse confinante con la
fantasticheria, poi che solo una molto intima e amorosa
contemplazione della natura può suscitarlo o giustificarlo12. Fin
quando è codesto offrircisi della natura, con la significazione e
l'evidenza delle sue forme (dalle quali facilmente parlano a noi le
idee in noi individuate), che dalla conoscenza delle semplici
relazioni asservite alla volontà ci trasporta nella contemplazione
estetica, e con questa ci eleva a soggetti del conoscere, liberi da
volontà; fino allora è solamente il bello, che agisce su noi, e quel
che si sveglia è sentimento della bellezza. Ma se appunto quegli
oggetti, le cui forme significative ci invitano alla contemplazione
pura, hanno un atteggiamento ostile verso l'umana volontà in genere,
quale si palesa nella sua oggettità – nel corpo umano –, ed a quella
s'oppongono, e la minacciano con la lor forza superiore, che vince
ogni resistenza, o davanti alla propria smisurata grandezza la
impiccioliscono fino al nulla; e pur ciò nondimeno il contemplatore
non volge l'attenzione a questa premente mossa ostile contro la
volontà di lui, ma, pure accorgendosene e riconoscendola,
conscientemente ne rimuove lo sguardo, nel mentre si discioglie con
vigore dalla volontà e dalle sue relazioni e, tutto dato alla
conoscenza, appunto quegli oggetti per la volontà paurosi contempla
tranquillo come puro soggetto del conoscere; solo cogliendone
l'idea, estranea ad ogni relazione, e quindi indugiandosi volentieri
a contemplarli, sentendosi così levato sopra se stesso, sopra la
propria persona, la volontà propria e la volontà in genere: – allora
lo riempie il sentimento del sublime; egli è in istato di
elevazione, e perciò si dice sublime anche l'oggetto che un tale
stato ha prodotto. Ciò che adunque distingue il sentimento del
sublime dal sentimento del bello, è questo: nel bello il puro
conoscere ha preso senza lotta il sopravvento, mentre la bellezza
dell'oggetto, ossia la conformazione di esso, che ne lascia
facilmente conoscer l'idea, ha senza opposizione e quasi
inavvertitamente la volontà e la conoscenza delle relazioni, che la
serve, allontanato dalla conscienza; e lasciata questa sopravvivere
come puro soggetto del conoscere, sì che della volontà non resta
neppure un ricordo; invece nel sublime quello stato del puro
conoscere è raggiunto solo mediante un conscio ed energico
districarsi dalle relazioni di quello stesso oggetto con la volontà,
riconosciute sfavorevoli; e mediante un libero elevarsi,
accompagnato dalla conscienza, sopra la volontà come sopra la
conoscenza che a lei si riferisce. Codesta elevazione deve non
soltanto esser guadagnata consapevolmente, ma anche conservata;
l'accompagna quindi un continuo ricordo della volontà, ma non di un
singolo, individuale volere, come sarebbe la paura o il desiderio,
bensì il ricordo del volere umano in genere, in quanto esso è
genericamente espresso per mezzo della sua oggettità, ossia del
corpo umano. Qualora intervenga nella conscienza un reale, singolo
atto di volontà, per effetto di una vera, personale angustia e d'un
pericolo proveniente dall'oggetto, ecco l'individuale volontà
effettivamente scossa prendere d'un subito il sopravvento, farsi
impossibile la calma della contemplazione, andar perduta
l'impressione del sublime; la quale cede il posto alla paura, in cui
l'ansia, che l'individuo prova, per salvarsi, caccia ogni altro
pensiero. Alcuni esempi gioveranno molto a chiarire e rendere
indubitabile questa teoria del sublime estetico; in pari tempo
mostreranno la varietà dei gradi nel sentimento del sublime.
Imperocché, poi ch'esso è nella sua principal determinazione
tutt'uno col sentimento del bello (determinazione che consiste nel
puro conoscere libero da volontà e nella conoscenza necessariamente
concomitante delle idee, le quali stanno fuor d'ogni relazione
dominata dal principio di ragione); e dal sentimento del bello si
distingue solo per un'aggiunta, ossia l'elevazione sopra il
riconosciuto rapporto ostile dell'oggetto contemplato con la volontà
in genere; nascono così – a seconda che tale aggiunta sia forte,
chiara, insistente, vicina, oppure debole, lontana, appena accennata
– più gradi del sublime: anzi, passaggi dal bello al sublime. Credo
più opportuno per la trattazione, questi passaggi e in genere i più
deboli gradi del sublime porre dapprima in esempi davanti agli
occhi; anche se coloro, la cui sensibilità estetica non è molto
grande, né viva la fantasia, comprenderanno solo gli esempi, che più
tardi seguono, dei gradi più alti e più chiari. A questi unicamente
dovranno tenersi, ed i primi tralasciare.
Come l'uomo è a un tempo impetuoso e oscuro impulso del volere
(indicato, quale suo vertice, dal polo dei genitali) ed eterno,
libero, sereno soggetto del puro conoscere (indicato mediante il
polo del cervello); così è il sole – conformemente a tale contrasto
– nello stesso tempo sorgente della luce, ch'è condizione del più
perfetto modo di conoscere, e sorgente del calore, ch'è condizione
prima d'ogni vita, ossia d'ogni fenomeno della volontà nei gradi più
alti di questa. Ciò che per la volontà è il calore, è per la
conoscenza la luce. La luce è quindi il più grosso diamante nella
corona della bellezza, e ha il più deciso influsso sopra la
conoscenza di ciascun bell'oggetto: la sua presenza è condizione
assoluta; la sua favorevole situazione aumenta anche la bellezza di
ciò ch'è bellissimo. Più degli altri è dal suo favore aumentato il
bello dell'architettura; il qual favore tuttavia da la maggior
bellezza anche a ciò che v'ha di più insignificante. Immaginiamo ora
nel duro inverno, nell'universale irrigidimento della natura, i
raggi del sole basso all'orizzonte riflessi da pietrosi massi, che
quelli illuminano senza riscaldare, essendo con ciò propizi solo al
più puro modo di conoscere e non alla volontà; la contemplazione del
bell'effetto di luce su codesti massi ci trasporta, come ogni cosa
bella, nello stato della conoscenza pura, il quale tuttavia per il
tenue ricordo della mancanza di calore, e quindi del principio
vivificante – ricordo suscitato appunto da quei raggi – esige di già
un certo elevarsi sopra l'interesse della volontà, contiene una
leggera esortazione a rimanere nella conoscenza pura, rimuovendo
ogni volere; ed appunto perciò viene ad essere un passaggio dal
sentimento del bello al sentimento del sublime. Altro esempio quasi
altrettanto debole è il seguente.
Trasportiamoci in una contrada molto solitària, con illimitato
orizzonte, sotto cielo perfettamente sereno, con alberi e piante
nell'aria affatto immobile, nessun animale, nessun uomo,
nessun'acqua scorrente, la più profonda quiete; tale spettacolo è
come un richiamo alla gravità, alla contemplazione, a liberarsi
dalla volontà e dalla sua miseria: questo è sufficiente per dare
alla contrada, sol per essere solinga e immersa nella pace, una
sfumatura di sublime. Non offrendo ella alcun oggetto, né favorevole
né sfavorevole, alla volontà bisognosa d'un perenne aspirare e
conseguire, rimane unicamente lo stato della pura contemplazione; e
chi di questo non è capace, resta in preda al vuoto della volontà
disoccupata, al tormento della noia, con vergognosa umiliazione.
Quel paesaggio ci dà adunque la misura del nostro valore
intellettuale, di cui è buon indizio il grado dell'attitudine nostra
a sopportare, oppure ad amare la solitudine. Ci offre perciò un
esempio del sublime nel grado minore, essendo davanti ad esso, alla
sua tranquilla e pacata necessità, insito nello stato di pura
conoscenza, come contrasto, un ricordo della soggezione e miseria
della volontà per sua natura perennemente agitata. Questa è la
specie di sublime, che si suole esaltare come prodotto dalla vista
delle infinite praterie nell'interno dell'America Settentrionale.
Ma immaginiamo ora una contrada simile, la quale, spoglia anche
delle piante, non mostri che nude rocce; già l'assoluta mancanza
d'ogni essere organico necessario alla nostra sussistenza è
angosciosa per la volontà; il deserto prende un carattere pauroso;
la nostra disposizione si fa più tragica; l'elevazione al puro
conoscere avviene con un risoluto svincolarsi dall'interesse della
volontà; e mentre noi persistiamo nello stato del puro conoscere,
comparisce palese il sentimento del sublime.
In grado ancor più alto questo può esser suscitato da un'altra
scena. La natura in tempestosa agitazione, dubbia luce attraverso
minacciose, nere nubi d'uragano; mostruose, nude, precipiti rocce,
le quali chiudono in loro cerchia la vista; fragorose spumeggiami
corrènti; assoluto deserto; gemiti dell'aria fischiante attraverso
le gole. La nostra pochezza, la nostra lotta con la natura nemica,
la nostra volontà, che vi s'infrange, ci sta qui evidente innanzi
agli occhi: ma fin che l'angoscia individuale non prende il
sopravvento, finché noi restiamo in estetica contemplazione, ficca
l'occhio dentro quella battaglia delia natura, dentro quello
spettacolo di volontà infranta il puro soggetto del conoscere; e
tranquillo, imperturbato, non coinvolto (unconcerned) coglie le idee
appunto in quegli oggetti che sono per la volontà minacciosi e
paurosi. Proprio in tal contrasto è il sentimento del sublime. Ma
più forte ancora è l'impressione, quando abbiamo in grande, davanti
agli occhi, la battaglia delle infuriate forze naturali: quando in
quella scena una precipite cascata ci toglie col suo fragore la
possibilità d'udir la nostra stessa voce; – o quando ci troviamo
sull'ampio mare sconvolto dalla burrasca: onde alte come case
salgono e scendono, impetuose battono contro dirupate rive,
sprizzano alta nell'aria la spuma, e la burrasca urla, il mare
mugghia, guizzano lampi dalle nere nubi, colpi di tuono coprono la
voce della tempesta e del mare. Raggiunge allora evidenza massima,
nello spettatore imperturbato di questa scena, il doppio carattere
della sua coscienza: egli sente se stesso come individuo, come
fragile manifestazione della volontà, che il più piccolo urto di
quelle forze può sfracellare, inerme contro la possente natura, da
tutto dipendente, preda del caso, meno che nulla di fronte a potenze
mostruose; e d'altra parte nel tempo stesso vede sé come eterno,
tranquillo soggetto del conoscere, il quale, essendo condizione
dell'oggetto, è appunto quegli che porta in sé questo mondo intero;
la tremenda battaglia della natura non è che la sua
rappresentazione, mentr'egli stesso contempla tranquillo le idee,
libero e straniero a tutti i voleri, a tutti i bisogni. Questa è la
piena impressione del sublime. Qui la produce la vista d'una
potenza, che minaccia all'individuo distruzione: potenza di lui,
senza confronto, maggiore.
In tutt'altro modo può sorgere quell'impressione dal rappresentarsi
nella fantasia una semplice grandezza di spazio e di tempo, tanto
smisurata da impicciolire l'individuo, nel confronto, fino al nulla.
La prima specie possiamo chiamare sublime dinamico, la seconda
sublime matematico, conservando le denominazioni e la giusta
distinzione di Kant; sebbene ci discostiamo interamente da lui nello
spiegar l'intima essenza di quell'impressione, non riconoscendovi
alcuna parte dovuta a riflessioni morali o a ipostasi tratte dalla
scolastica.
Se ci veniamo a smarrire nel considerar l'infinita grandezza del
mondo nello spazio e nel tempo, ripensando ai secoli passati ed ai
futuri – o anche, se il cielo notturno veracemente pone davanti al
nostro occhio innumerabili mondi –, vediamo noi stessi ridotti a un
nulla, ci sentiamo, in quanto individui, in quanto corpi animati, in
quanto effimere manifestazioni di volontà, come una goccia
nell'oceano svanire, scioglierci nel nulla. Ma in pari tempo, contro
codesto fantasma della nostra propria nullità, contro codesta
menzognera impossibilità si leva l'immediata conscienza, che tutti
quei mondi solamente nella nostra rappresentazione esistono,
solamente quali modificazioni dell'eterno soggetto del puro
conoscere – soggetto che riconosciamo in noi stessi non appena
dimentichiamo l'individualità, e che è il necessario sostegno, la
condizione di tutti i mondi e di tutti i tempi. La grandezza del
mondo, che prima c'inquietava, sta ora in noi: la nostra dipendenza
da lei viene soppressa mediante la sua dipendenza da noi. Ma tutto
ciò non si presenta subito alla riflessione; invece, si mostra come
la coscienza appena sentita d'essere, in un senso qualsivoglia (il
quale dalla filosofia sarà chiarito), tutt'uno col mondo, e quindi
nella sua smisurata grandezza non già schiacciati, bensì innalzati.
È la conscienza sentita di ciò, che le Upanishad dei Veda esprimono
ripetute volte in così vari modi, specialmente nella già citata
sentenza: «Hae omnes creaturae in totum ego sum, et praeter me aliud
ens non est» (Oupnek'hat, vol. I, p. 122). È innalzamento sul
proprio individuo, sentimento del sublime.
In modo affatto immediato quest'impressione del sublime matematico
ci è già prodotta da uno spazio piccolo, sì, in confronto
dell'universo, ma che, essendo a noi visibile intero e direttamente,
agisce su di noi nelle sue tre dimensioni con tutta la grandezza
sua; la quale basta a render quasi infinitamente pìccola la
proporzione del nostro corpo. Di tale effetto non è capace uno
spazio, che si presenti vuoto alla nostra percezione; mai quindi uno
spazio aperto, ma soltanto uno che, essendo circoscritto, sia
direttamente percepibile in tutte le dimensioni: così un alto e
grande interno, qual è quello di S. Pietro in Roma o di S. Paolo in
Londra. L'impressione del sublime nasce qui da sentire
l'impercettibile nullità del nostro corpo davanti a una grandezza,
la quale nondimeno d'altra parte sta solamente nella nostra
rappresentazione, e che portiamo noi stessi, in quanto soggetto
conoscente. Ossia, nasce qui come sempre dal contrasto
dell'insignificanza e dipendenza del nostro io, in quanto individuo,
in quanto fenomeno di volontà, con la conscienza di quell'io in
quanto puro soggetto del conoscere. Anche la volta del cielo
stellato agisce – quando la si osservi senza riflessione – non
altrimenti che quella volta di pietra; e non con la sua vera, ma sol
con la sua apparente grandezza. Vari oggetti della nostra intuizione
eccitano il sentimento del sublime, perché – a causa della loro
vastità, o della loro antichità, ossia della loro durata temporale –
noi ci sentiamo davanti ad essi impiccioliti fino a sparire, e
tuttavia ci inebriamo nel goderne la vista. Di tal fatta sono le
altissime montagne, le piramidi d'Egitto, le colossali rovine di
remota antichità.
Anzi, perfino al campo etico può applicarsi la nostra spiegazione
del sublime; ossia a quel che si suol designare col nome di
carattere sublime. Poiché questo egualmente si ha, quando la volontà
non viene eccitata da oggetti, i quali pur sarebbero atti ad
eccitarla; e invece la conoscenza mantiene anche allora il
sopravvento. Un tal carattere considera quindi gli uomini in modo
affatto obiettivo, e non già secondo le relazioni che possono avere
secondo la sua volontà. Osserverà per esempio i loro difetti, e
perfino il loro odio e la loro ingiustizia verso di lui medesimo,
senza per ciò sentirsi spinto a odiarli; li vedrà felici, senza
provarne invidia; riconoscerà le loro buone qualità, senza
desiderarne per questo di avvicinarli più intimamente; apprezzerà la
bellezza delle donne, senza desiderarle. La sua individuale
condizione felice o infelice non lo toccherà molto; piuttosto sarà
come Orazio descritto da Amleto:
for thou hast been
As one, in suffering ali, that suffers nothing;
A man, that fortune's buffets and rewards
Hast ta'en with equal thanks, etc.
A. 3, sc. 213
Imperocché nel suo corso vitale e nelle traversie di questo, egli
scorgerà meno il proprio fato individuale che non il fato
dell'umanità in genere; e per conseguenza si comporterà piuttosto
come quegli che conosce, anziché come quegli che soffre.
§ 40.
Poiché i contrari si illuminano a vicenda, può qui trovar posto
l'osservazione, che il vero e proprio contrario del sublime è
alcunché a tutta prima non riconoscibile per tale: l'eccitante.
Chiamo così ciò che eccita la volontà, con l'immediato prometterle
esaudimento, appagamento. Se l'impressione del sublime è nata dal
fatto che un oggetto avverso alla volontà può divenire oggetto di
pura contemplazione, e questa viene continuata sol mediante un
perenne distogliersi dalla volontà ed elevarsi sopra l'interesse di
lei, la qual cosa appunto costituisce il sublime in tal
disposizione; l'eccitante viceversa fa discendere lo spettatore
dalla contemplazione pura, richiesta per ogni percezione del bello,
eccitando forzatamente la sua volontà, per mezzo di oggetti che
direttamente l'attraggono: sì che lo spettatore non è più puro
soggetto del conoscere, bensì bisognoso, dipendente soggetto del
volere. Che di solito si chiami eccitante ogni bellezza di genere
lieto, è concetto di troppo ampia sfera per mancanza di distinzione;
ed io devo metterlo in disparte, anzi disapprovarlo. Ma nel senso
indicato e spiegato, trovo nel dominio dell'arte due sole specie di
eccitante, ed entrambe indegne di lei. L'una, davvero bassa, nella
natura morta degli olandesi: quando ci si inganna a segno da
scambiar gli oggetti dipinti per commestibili, i quali per la loro
ingannevole rappresentazione suscitano l'appetito, che è appunto
un'eccitazione della volontà, per cui cessa ogni contemplazione
estetica dell'oggetto. Frutta dipinta si può ancora ammettere,
presentandosi come successivo sviluppo del fiore e come bel prodotto
di natura per forma e colore, senza che si deva per forza pensare
alla sua commestibilità; ma purtroppo troviamo spesso, con
naturalezza da illudere, vivande allestite e servite in tavola,
ostriche, aringhe, gamberi di mare, pane e burro, birra, vino, etc.:
cosa del tutto riprovevole. Nella pittura storica e nella scultura,
l'eccitante consiste in figure nude, che per l'atteggiamento, la
mezza nudità e tutto il modo della rappresentazione mirano a destare
libidine nello spettatore; dal che vien subito distrutta la
contemplazione puramente estetica: ossia si opera in opposizione
allo scopo dell'arte. Tale difetto corrisponde in tutto a quello or
ora biasimato negli olandesi. Quasi sempre ne son privi gli antichi,
malgrado tutta la bellezza e piena nudità delle figure; perché
l'artista medesimo le ha create con puro, obiettivo spirito, pieno
dell'ideale bellezza, e non già in ispirito di soggettiva, bassa
concupiscenza. L'eccitante è quindi sempre da evitarsi nell'arte.
V'è anche un eccitante negativo, ancor più biasimevole che non sia
il positivo or ora illustrato: e questo è il nauseante. Appunto come
il vero eccitante, questo sveglia la volontà dello spettatore e
distrugge con ciò la contemplazione puramente estetica. Ma quel che
viene per suo mezzo eccitato, è un vivace non-volere, una
riluttanza; suscita la volontà, ponendole innanzi oggetti del suo
ribrezzo. Fu perciò conosciuto da tempo, ch'esso è del tutto
inammissibile nell'arte; dove tuttavia anche il brutto – fin quando
non sia disgustoso – può esser tollerato a suo luogo, come vedremo
in seguito.
§ 41.
Il corso del nostro studio ha reso necessario introdur
l'illustrazione del sublime a questo punto, quando quella del bello
non era compiuta che a mezzo, sotto un solo dei suoi aspetti – il
soggettivo. Imperocché era appunto una particolare modificazione di
codesto aspetto soggettivo, che distingueva il sublime dal bello.
Invero, se lo stato del puro conoscere scevro di volontà,
presupposto e voluto da ogni contemplazione estetica, sia sorto come
spontaneamente, senza resistenza, per un semplice dileguarsi della
volontà dalla conscienza, quando un oggetto l'ha a ciò invitato ed
attratto; oppur se il medesimo stato sia raggiunto attraverso un
libero, conscio elevarsi sulla volontà, con la quale l'oggetto
contemplato aveva una relazione sfavorevole ed ostile; – questa è la
differenza tra il bello e il sublime. Nell'oggetto non sono l'uno e
l'altro sostanzialmente distinti: poiché in ciascun caso è oggetto
della contemplazione estetica non già la singola cosa, bensì l'idea,
che in questa tende a palesarsi, ossia l'adeguata oggettità della
volontà in un dato grado: il suo correlato necessario – sottratto,
come lei medesima, al principio di ragione, è il puro soggetto del
conoscere; come il correlato della cosa singola è l'individuo
conoscente, e questo e quella stanno entrambi in potere del
principio di ragione.
Chiamando bella una cosa, veniamo con ciò a dire che ella è oggetto
della nostra contemplazione estetica; la qual cosa implica due
fatti: da un lato, che la vista di quella ci renda obiettivi, ossia
che noi nel contemplarla non siamo più consapevoli di noi stessi in
quanto individui, bensì in quanto puro, libero da volontà soggetto
del conoscere; e dall'altro lato, che nell'oggetto non la singola
cosa, bensì conosciamo un'idea – il che può solo accadere fin quando
la nostra contemplazione dell'oggetto non sia asservita al principio
di ragione, non vada dietro al suo rapporto con qualcosa fuori di
esso (rapporto ch'è sempre collegato a rapporti con la nostra
volontà), bensì posi nell'oggetto medesimo. Imperocché l'idea e il
puro soggetto del conoscere si presentano sempre insieme alla
conscienza, come necessari correlati, e col loro presentarsi
svanisce anche ogni differenza temporale, essendo entrambi affatto
estranei al principio di ragione in tutte le sue forme, e stando
fuori delle relazioni da esso determinate: paragonabili
all'arcobaleno ed al sole, che nessuna parte hanno nel continuo moto
e nella successione delle cadenti gocce. Quindi, se io a mo'
d'esempio guardo un albero esteticamente, ossia con occhio
artistico, e quindi non esso conosco, bensì la sua idea; perde
subito ogni valore il saper se l'albero è questo o se è un suo
florido antenato di mille anni innanzi, e così se chi l'osserva è
questo o quell'individuo, quando che sia e dove che sia vissuto.
Tolto il principio di ragione, son tolti anche l'oggetto singolo e
il conoscente individuo; nulla rimane se non l'idea e il puro
soggetto del conoscere, che insieme costituiscono l'adeguata
oggettità della volontà in questo grado. E non solo al tempo, ma
anche allo spazio è sottratta l'idea: poiché non la forma spaziale,
che mi sta davanti, ma la sua espressione, il suo significato puro,
la sua più intima essenza, che a me si apre e mi parla, è
propriamente l'idea; e rimane identica pur se vi sia gran differenza
nelle relazioni spaziali della forma.
Ora, poiché da un verso ogni cosa che esista può esser considerata
in modo puramente obiettivo e fuor d'ogni relazione; poiché inoltre
dall'altro verso, in ogni cosa la volontà – qualunque sia il grado
della sua oggettità – si rileva, e la cosa stessa è quindi
espressione di un'idea; ne viene che ogni cosa è bella. Che anche le
cose più insignificanti possano essere oggetto d'una considerazione
puramente obiettiva e scevra di volontà, e come tali mostrarsi
belle, attesta l'esempio, già citato a questo riguardo (§ 38), delle
nature morte olandesi. Ma una cosa è più bella d'un'altra pel fatto
che ella agevola quella considerazione puramente oggettiva, le muove
incontro, quasi la costringe: e allora noi diciamo ch'è molto bella.
Questo in parte accade perché, come cosa singola, mediante la
chiarissima, nettamente determinata, in tutto significativa
relazione delle sue parti, ella esprime nettamente l'idea della
propria specie; e mediante la compiutezza, in lei raccolta, di tutte
le possibili manifestazioni della specie stessa, quell'idea palesa
in modo compiuto; sì che allo spettatore è reso facilissimo il
passar dalla singola cosa all'idea, e facilissimo appunto perciò
anche lo stato della pura contemplazione. Per un'altra parte, il
privilegio della maggior bellezza d'un oggetto consiste nell'esser
l'idea medesima, che da quello ci parla, un alto grado
nell'oggettità della volontà, e quindi significantissima e molto
espressiva. Perciò è l'uomo più bello d'ogni altra cosa, e la
rivelazione della sua essenza è il più alto fine dell'arte. Figura
umana ed umana espressione sono il più importante oggetto dell'arte
figurativa, come l'azione umana è oggetto più importante della
poesia. Ma tuttavia ogni cosa ha la sua speciale bellezza: non
soltanto ogni essere organico presentantesi nell'unità del suo
individuo, bensì anche ogni cosa inorganica, priva di forma, e
perfino ogni cosa fatta dalla mano dell'uomo. Imperocché tutte
palesano le idee, per mezzo delle quali la volontà s'oggettiva nei
gradi più bassi, e formano come le più profonde, estinguentisi note
di basso della natura. Gravità, solidità, fluidità, luce, etc., sono
le idee che si esprimono in rocce, edilizi, acque. La bella
architettura dei giardini e delle costruzioni non altro può se non
aiutar tali idee a spiegare in modo limpido, vario e compiuto quelle
lor qualità, e dar loro modo di esprimersi nettamente; sì che
possano richiamare e rendere agevole la contemplazione estetica. A
ciò poco o punto riescono invece brutti edifizi e paesi; ma nemmeno
da questi posson dileguarsi del tutto quelle generali idee
elementari della natura. Quivi anche parlano codeste idee al
contemplatore che le cerca, anche edifizi brutti e simili cose sono
atti ad una considerazione estetica: ancora sono quivi riconoscibili
le più generali qualità della loro materia, e soltanto la forma loro
data artificialmente, lungi dall'agevolare, è un impedimento, che fa
difficile la contemplazione estetica. Dunque, anche cose artefatte
servono alla espressione di idee: ma non è l'idea della cosa
artefatta, che in loro parla, bensì l'idea del materiale a cui s'è
data quella forma artificialmente. Questo si può esprimere, in modo
assai comodo, nel linguaggio degli scolastici, con due parole: ossia
nell'artefatto si esprime l'idea della sua forma substantialis, non
quella della sua forma accidentalis; la quale ultima non fa capo a
un'idea, bensì semplicemente ad un concetto umano, dal quale ella è
nata. S'intende, che qui con la parola artefatto non si vuole
indicare nessun'opera dell'arte figurativa. D'altronde in realtà gli
scolastici intesero per forma substantialis quel ch'io chiamo grado
dell'oggettivazione della volontà in un oggetto. Nel trattar della
bella architettura, ritorneremo fra poco sull'espressione dell'idea
del materiale. Or dunque, dato questo nostro giudizio, non possiamo
convenir con Platone, quando afferma (De Rep,, x, pp. 284-285, e
Parmen., p. 79, ed. Bip.), che tavola e sedia esprimono le idee
tavola e sedia; noi diciamo invece, che esprimono le idee già
rilevantisi nella semplice materia loro, in quanto tale. Secondo
Aristotele (Metaph,, xi, cap. 3) avrebbe tuttavia Platone statuito
solamente idee degli enti naturali: Πλατον εφη, ότι ειδη εστιν
όποσα φυσει. (Plato dixit, quod ideae eorum sunt, quae natura
sunt); e nel cap. 5 si dice non esister secondo i platonici idea
alcuna di casa o d'anello. In ogni modo già i discepoli più prossimi
di Platone, secondo c'informa Alcinoo (introducilo in platonicam
philosophiam, cap. 9), negarono potersi dare idee di cose
artificiali. Dice Alcinoo: Ὁριζονται δε την ιδεαν, παραδειγμα των
κατα φυσιν αιωνιον. Ουτε γαρ τοις πλειστοις των απο Πλατωνος
αρεσκει, των τεχνικων ειναι ιδεας, οίον ασπιδος η λυρας, ουτε μην
των παρα φυσιν, οίον πυρετου και χολερας, ουτε των κατα μερος, οίον
Σωκρατους καὶ Πλατωνος, αλλ’ουτε των ευτελων τινος, οίον μειζονος
και ύπερεχοντος ειυαι γαρ τας ιδεας νοησεις θεου αιωνιους τε και
αυτοτελεις (Definiunt autem ideam exemplar aeternum éorum, quae
secundum naturam existunt. Nam plurimis ex iis, qui Platonem secuti
sunt, minime placuit, arte factorum ideas esse, ut clypei atque
lyrae; neque rursus eorum, quae praeter naturam, ut febris et
cholerae; neque particularium, ceu Socratis et Platonis; neque etiam
rerum vilium, veluti sordium et festucae; neque relationum, ut
majoris et excedentis: esse namque ideas intellectiones dei
aeternas, ac seipsis perfectas). In quest'occasione può essere
toccato un altro punto, nel quale la nostra dottrina delle idee
molto s'allontana da quella di Platone. Egli insegna (De Rep., X, p.
288), l'oggetto che l'arte bella vuol rappresentare, il modello
della pittura e della poesia, non esser l'idea, bensì la cosa
singola. Proprio il contrario sostiene tutta la dimostrazione da noi
fin qui fatta; e l'avviso di Platone tanto meno ci svierà su questo
punto, essendo la causa d'un dei più grossi e riconosciuti errori
commessi da quell'uomo grande, ossia del suo disdegno e abominio per
l'arte, specialmente la poesia. Il suo falso giudizio su di questo
ei lo collega direttamente col luogo citato.
§ 42.
Ritorno alla nostra indagine dell'impressione estetica. La
conoscenza del bello richiede adunque sempre, contemporanei e
inseparabili, un oggetto puramente conoscente, e, come oggetto,
un'idea conosciuta. Quindi la fonte del godimento estetico starà or
più nella percezione dell'idea conosciuta, or più nella beatitudine
e serenità spirituale del puro conoscere, liberatosi da ogni volere
e per conseguenza da ogni individualità, e della pena che questa
produce: e codesto prevalere dell'uno o dell'altro elemento del
piacere estetico dipenderà dall'esser l'idea intuitivamente
percepita un più alto o più basso grado nell'oggettità della
volontà. Ad esempio, con la contemplazione estetica della bella
natura (sia in realtà, sia attraverso il mezzo dell'arte) nel campo
inorganico e vegetale, e così con quella delle opere di bella
architettura, prevarrà il godimento del puro conoscere scevro di
volontà, essendo le idee qui concepite sol bassi gradi
nell'oggettità della volontà, e non fenomeni di profonda
significazione e molto espressivo contenuto. Viceversa, quando
animali e uomini sono oggetto della contemplazione o
rappresentazione estetica, consisterà il godimento piuttosto
nell'obiettivo percepir tali idee, che sono le più chiare
manifestazioni della volontà, mostrandoci la massima varietà di
forme, ricchezza e profonda significanza dei fenomeni, e palesandoci
nel modo più compiuto l'essenza della volontà: sia nella sua
violenza, nella sua terribilità, nel suo appagamento, sia nel suo
infrangersi (quest'ultimo nella rappresentazione tragica), e
finalmente pur nel suo mutarsi o sopprimersi (ciò ch'è
particolarmente il tema della pittura cristiana; come in genere la
pittura storica e il dramma han per oggetto l'idea della volontà
illuminata dalla piena conoscenza). Esamineremo adesso le arti ad
una ad una: dal che la teoria del bello or ora formulata acquisterà
compiutezza ed evidenza.
§ 43.
La materia, in quanto tale, non può essere rappresentazione di
un'idea. Imperocché essa, come abbiamo trovato nel primo libro, è in
tutto e per tutto causalità: il suo essere è un semplice agire. Ma
causalità è forma del principio di ragione: conoscenza dell'idea
invece esclude essenzialmente il contenuto di quel principio. Anche
abbiamo trovato nel secondo libro esser la materia il sostrato
comune a tutti i singoli fenomeni delle idee, e quindi l'anello di
congiunzione tra l'idea e il fenomeno o cosa singola. Dunque, tanto
per l'uno quanto per l'altro motivo, non può la materia di per sé
rappresentare idea alcuna. Ciò si conferma a posteriori pel fatto
che della materia come tale nessuna rappresentazione intuitiva è
possibile, bensì unicamente un concetto astratto: non
rappresentandosi in quella se non le forme e qualità, delle quali è
base la materia, e in tutte le quali si palesano idee. Questo
corrisponde pure al fatto, che causalità (l'intera essenza della
materia) per sé non è rappresentabile intuitivamente: ma
rappresentabile è solo un determinato nesso causale. All'opposto
deve ciascun fenomeno di un'idea, essendo questa come tale spirata
nella forma del principio di ragione, o nel principia
individuationis, rappresentarsi nella materia, come qualità di
questa. In questo senso è adunque la materia, come s'è detto,
l'anello di congiunzione tra l'idea e il principium individuationis,
il quale è la forma della conoscenza individuale, ossia il principio
di ragione. Giustissimamente ha quindi Platone posto accanto
all'idea e al suo fenomeno, ch'è la cosa singola – i quali entrambi
comprendono le cose tutte del mondo – ancora la materia, come un
terzo elemento, da quelli diverso (Timaeus, p. 345). L'individuo, in
quanto fenomeno dell'idea, è sempre materia. Anche ciascuna qualità
della materia è sempre fenomeno di un'idea, e come tale pur capace
d'una contemplazione estetica, ossia conoscenza dell'idea che in lei
si presenta. Questo vale egualmente per le più generiche qualità
della materia, senza le quali essa non può esistere, e le cui idee
sono la più debole oggettità della volontà. Tali sono: gravità,
coesione, rigidità, fluidità, reazione contro la luce, etc.
Se consideriamo ora l'architettura, soltanto come arte bella,
prescindendo dalla sua destinazione ai fini pratici, nei quali ella
serve non alla conoscenza pura ma alla volontà, e non è adunque più
arte come noi l'intendiamo, non ci è possibile attribuirle altro
intento se non quello di rendere più chiare all'intuizione alcune
delle idee, che sono i gradi più bassi nell'oggettità della volontà,
quali gravità, coesione, solidità, durezza – le proprietà generiche
della pietra; le prime, più semplici, più grosse manifestazioni
visibili della volontà; le note del basso fondamentale della natura;
– e poi, oltre quelle, la luce: che per molti rispetti è di quelle
un contrapposto. Già in codesto basso grado dell'oggettità della
volontà vediamo che la sua essenza si palesa in un conflitto: poiché
la lotta tra gravità e solidità è propriamente l'unico proposito
estetico della bella architettura; metterlo variamente in piena
evidenza è il suo compito. Tale compito adempie, togliendo a quelle
indelebili forze la via più breve del loro soddisfacimento,
trattenendole col deviarle; la lotta viene così prolungata, e si fa
in vario modo palese l'inesauribile tendenza di entrambe le forze.
L'intera massa dell'edificio, abbandonata alla sua originaria
tendenza, presenterebbe nient'altro che un cumulo il più possibile
aderente alla terra: verso la quale incessante sospinge la gravità
(perché così si manifesta quivi la volontà), mentre la solidità,
anch'essa oggettità della volontà, le si oppone. Ma appunto codesta
tendenza, codesta necessità viene dall'architettura impedita nella
sua immediata soddisfazione; che sol mediatamente le vien concessa,
per vie non dirette. Per esempio, l'architrave può premer la terra
sol per mezzo delle colonne; la volta deve reggersi da sé, e appagar
la sua attrazione verso la massa terrestre solo attraverso i
pilastri, etc. Ma appunto in queste forzate vie indirette, appunto
attraverso questi impedimenti, si dispiegano nel modo più manifesto
e variato le forze inerenti al nudo masso di pietra; e più lungi non
può andare il fine puramente estetico dell'architettura. Perciò
senza dubbio la bellezza di un edifizio consiste nell'adattamento,
visibile a tutta prima, di ciascuna parte al suo fine: e non al fine
esteriore, arbitrario dell'uomo (che sotto questo rispetto
appartiene l'opera all'architettura pratica), bensì direttamente
alla consistenza dell'insieme; nella quale la posizione, grandezza e
forma d'ogni parte ha con le altre una relazione tanto necessaria,
che, qualora fosse possibile, sottraendone una sola crollerebbe
l'edifizio intero. Imperocché solo col sostener ciascuna parte
quanto le conviene di sopportare, e con l'esser ciascuna sorretta
dove e come occorre, si sviluppa fino alla più perfetta evidenza
quel contrasto, quella lotta tra solidità e gravità, onde son
costituite nella pietra la vita, le manifestazioni della volontà; e
chiaramente si palesano questi gradi infimi dell'oggettità della
volontà. Non altrimenti deve la forma di ciascuna parte esser
determinata dal proprio scopo e dalla propria relazione con
l'insieme, non già dall'arbitrio. La colonna è la più semplice forma
di sostegno, determinata soltanto dal suo fine: quindi la colonna
attorta è goffa. Il pilastro quadrato è in realtà meno semplice,
sebbene casualmente più facile a farsi che non la tonda colonna.
Similmente sono le forme della cornice, dell'architrave, dell'arco e
della cupola determinate in tutto e per tutto dal loro scopo
diretto, e si spiegano quindi da sé. Le decorazioni dei capitelli
etc., spettano alla scultura, e non all'architettura; dalla quale
essi, come ornati aggiunti, non sono che tollerati, e potrebbero
anche venir tralasciati. In ragione di quanto s'è detto, per la
comprensione e il godimento estetico di un'opera d'architettura è
imprescindibilmente necessario aver conoscenza intuitiva del suo
materiale in quanto a peso, solidità e coesione. E la gioia, che
proviamo d'una tale opera, verrebbe subitamente molto ridotta dallo
scoprir che il materiale di costruzione fosse di pietra pomice: che
allora essa ci apparirebbe quasi come un edifizio posticcio. Press'a
poco il medesimo effetto produrrebbe saperla fatta di legno, mentre
noi la credevamo di pietra: appunto perché ciò muterebbe e
sposterebbe il significato, la necessità di tutte le parti, molto
più debolmente rivelandosi quelle forze di natura nell'edilizio
ligneo. Perciò non può veramente farsi col legno opera alcuna di
bella architettura, per quanto possa il legno piegarsi a tutte le
forme: la qual cosa è spiegabile soltanto con la nostra teoria. Se
poi infine ci si dicesse, che l'edifizio, la cui vista ci rallegra,
è formato di materiali tra loro affatto diversi, di molto dissimile
gravità e consistenza, ma che l'occhio non sa distinguere, l'intero
edifizio ci apparirebbe perciò insipido e incomprensibile, come una
poesia in una lingua a noi ignota. Tutto ciò prova appunto, che
l'architettura non agisce solo matematicamente, ma anche
dinamicamente; e quel che per suo mezzo ci parla, non è per
avventura semplice forma e simmetria, bensì sono piuttosto quelle
elementari forze della natura, quelle prime idee, quegl'infimi gradi
dell'oggettità della volontà. La regolarità dell'edifizio e delle
sue parti è per un verso generata dal diretto adattamento di
ciascuna parte alla consistenza dell'insieme; per l'altro serve ad
agevolare la visione generale e la comprensione del tutto; e infine
le figure regolari, mostrando la regolarità dello spazio come tale,
contribuiscono alla bellezza. Ma tutto ciò ha valore e necessità
subordinati, ed è lungi dal costituir l'essenziale: che la simmetria
stessa non è punto richiesta assolutamente, potendo esser belle
anche le rovine.
Una specialissima relazione hanno poi ancora le opere
dell'architettura con la luce: in pieno splendore di sole, col cielo
azzurro nello sfondo, sono due volte più belle; e tutt'altro effetto
producono inoltre nello splendore lunare. Perciò anche nella
costruzione di una bell'opera architettonica si ha sempre
particolare riguardo agli effetti di luce e alle regioni del cielo.
Tutto questo ha il suo motivo per massima parte nel fatto, che
chiara e netta luce occorre a render ben visibili tutte le parti e
le correlazioni loro; inoltre sono d'avviso, che l'architettura sia
rivolta a palesare, così come palesa gravità e solidità, anche
quest'opposta essenza della luce. Infatti, col venir la luce
accolta, impedita, riflessa dalle grandi masse non trasparenti,
nettamente delineate e variamente conformate, dispiega la sua natura
e le sue proprietà nel modo più limpido ed evidente, con grande
gioia dello spettatore: perché di tutte le cose la luce è quella che
più rallegra, come condizione e correlato oggettivo del più perfetto
modo di conoscenza intuitiva.
Ora, essendo le idee, che l'architettura trae alla chiara
intuizione, i gradi infimi nell'oggettità della volontà, e venendo
per conseguenza a esser relativamente scarsa la significanza
oggettiva di ciò che l'architettura ci svela; ne deriva, che il
godimento estetico provato alla vista d'un bell'edifizio in buona
luce, non sta tanto nella percezione dell'idea, quanto nel correlato
soggettivo stabilito con codesta percezione. Ossia consiste
prevalentemente nel fatto, che in tal vista il contemplatore si
sente strappato al modo di conoscere dell'individuo, e innalzato a
quello del puro, scevro di volontà soggetto del conoscere; ossia
alla pura, da ogni pena del volere e dell'individualità disciolta
contemplazione. Sotto questo rispetto il contrario
dell'architettura, l'estremo opposto nella serie delle arti belle, è
il dramma: il quale porta alla conoscenza le idee di più alta
importanza, sì che nel godimento estetico di esso il lato oggettivo
è del tutto prevalente.
L'architettura ha di fronte alle arti plastiche e alla poesia questo
carattere distintivo: non dà, come quelle, un'immagine della cosa,
bensì la cosa stessa; non riproduce, come quelle, l'idea conosciuta,
cedendo l'artista i proprii occhi allo spettatore, ma invece
l'artista presenta semplicemente allo spettatore l'oggetto, e gli
allevia la percezione dell'idea, portando il vero oggetto
individuale alla chiara e completa espressione della sua essenza.
Molto raramente vengono le opere d'architettura – come le rimanenti
opere dell'arte bella – eseguite per puri fini estetici: più spesso
vengono subordinate ad altri fini pratici, all'arte stranieri; ed il
gran merito dell'architetto consiste nel tener tuttavia di mira, e
raggiungere, i fini puramente estetici anche in quella lor
subordinazione a fini estranei, adattandoli di volta in volta, in
vario modo, con abilità, allo scopo pratico, e rettamente giudicando
qual bellezza estetico-architettonica s'adatti e si possa accordare
con un tempio, quale con un palazzo, quale con un arsenale, e così
via. Quanto più un rude clima accresce quelle esigenze del
necessario e dell'utile, e più rigidamente le determina e
inesorabilmente prescrive, tanto meno spazio rimane al bello
nell'architettura. Nel mite clima dell'India, d'Egitto, di Grecia e
di Roma, dove le esigenze della necessità erano imposte in minor
numero e con meno rigore, potè l'architettura più liberamente tener
dietro ai suoi fini estetici; sotto il nordico cielo questi le
vennero molto limitati. Qui, dove necessità voleva chiusure, tetti
acuminati e torri, dove l'architettura – potendo spiegar la propria
bellezza solo in ristretti confini – ornarsi in compenso con
decorazione tolta a prestito dalla scultura, come si può veder nella
bella architettura gotica.
Se deve in tal modo l'architettura, per le esigenze del necessario e
dell'utile, subir grandi limitazioni, ha appunto in ciò d'altra
parte un poderoso appoggio; non potendosi ella punto reggere, per
l'ampiezza ed il costo delle sue opere, come per la circoscritta
sfera della sua speciale azione estetica, se in pari tempo non
avesse, come arte utile e necessaria, un posto fermo e onorevole tra
le umane occupazioni. È appunto la mancanza d'un tal posto, che
impedisce a un'altra arte di starle accanto da sorella, sebbene
sotto il rispetto estetico sia propriamente da porlesi vicino come a
riscontro: intendo l'arte bella dell'idraulica. Imperocché ciò che
opera l'architettura per l'idea della gravità, dove questa appare
congiunta con la solidità, opera quella per l'idea medesima, dove a
lei è associata la fluidità, ossia assenza di forma, estrema
mobilità, trasparenza. Su per le rocce spumeggiando e mugghiando
precipiti cascate, cataratte frangentisi mute in polvere d'acqua,
fontane sprizzanti in alte liquide colonne, chiarospecchianti laghi
svelano le idee della gravità fluida nella materia, come le opere
architettoniche dispiegano le idee della materia solida. Nessun
appoggio trova l'idraulica artistica nell'idraulica pratica; non
potendosi gli scopi di quest'ultima accordare di regola co' suoi.
Questo può accader soltanto per eccezione, ad esempio nella Cascata
di Trevi in Roma14.
§ 44.
Quel che le due arti ricordate fanno per i gradi minimi
dell'oggettità della volontà, fa in certo modo l'arte bella dei
giardini per il grado, più elevato, della natura vegetale. La
bellezza d'un limitato paesaggio consiste in gran parte nella
varietà degli oggetti naturali che vi si trovano; e poi nel fatto
che questi vi si distinguano nettamente, vi risaltino con evidenza,
e tuttavia si presentino in convenevole armonia e varietà. Sono
queste le condizioni, a cui l'arte bella dei giardini contribuisce:
nondimeno ella è lungi dall'esser padrona della sua materia, come
l'architettura è della propria; e quindi la sua azione rimane
limitata. Il bello, che essa presenta, appartiene quasi per intero
alla natura; essa v'ha poco contribuito. E pochissimo può d'altra
parte contro il disfavore della natura: dove questa invece di
preparare contrasta, i suoi risultati sono scarsi.
Adunque, in quanto il mondo vegetale – che senza aver l'arte per
intermediaria si offre da per tutto al godimento estetico – è
oggetto dell'arte, appartiene principalmente alla pittura di paese.
Nel dominio di questa si trova, col mondo vegetale, anche tutta
l'altra natura priva di conoscenza. Nella natura morta, e nella
riproduzione di opere architettoniche, rovine, interni di chiese,
etc., prevale il lato soggettivo del godimento estetico: ossia il
piacere che ne abbiamo non sta principalmente e direttamente nella
percezione delle idee rappresentate, bensì di più nel correlato
soggettivo di questa percezione, nel puro conoscere scevro di
volere. Perché, mentre il pittore ci fa veder le cose co' suoi
occhi, sentiamo in pari tempo dentro di noi medesimi quasi
riflettersi la profonda serenità di spirito e il perfetto silenzio
della volontà, che sono stati necessari per concentrar sì appieno la
conoscenza in quegli oggetti inanimati, e con tanto amore – ossia a
tal grado di obiettività – riprodurli. L'effetto della vera e
propria pittura di paesaggio è ancora, a dire il vero, dello stesso
genere; ma poi che le idee rappresentate, come gradi più alti
nell'oggettità della volontà, sono già più significanti ed
espressive, vien fuori in maggior misura il lato obiettivo del
piacere estetico, e sta a pari col soggettivo. Il puro conoscere,
come tale, non è più quel che solo conta; ma con eguale potenza
agisce l'idea conosciuta, il mondo come rappresentazione, in un
notevole grado di oggettivazione della volontà.
Ma un grado ben più alto rivela la pittura e scultura d'animali;
della quale ultima abbiamo importanti avanzi antichi, per esempio
cavalli, a Venezia, a Monte Cavallo, sui rilievi di Elgin, ed anche
a Firenze, in bronzo o marmo (quivi pur l'antico cignale, gli
urlanti lupi); e i leoni dell'arsenale di Venezia, e in Vaticano
tutta una sala piena d'animali in massima parte antichi, e così via.
Ora, davanti a codeste rappresentazioni il lato oggettivo del
piacere estetico prende un aperto sopravvento sul soggettivo. La
serenità del soggetto, che tali idee conoscendo ha placato la
propria volontà, vi si ritrova, è vero, come in ogni contemplazione
estetica, ma la sua azione non viene sentita: imperocché ci occupa
la inquietudine e la violenza della rappresentata volontà. È quello
stesso volere, ond'è pur costituita la nostra essenza, che ci sta
davanti agli occhi: in figure, nelle quali la sua manifestazione non
è come in noi dominata e mitigata dalla riflessione, ma si presenta
bensì in forti tratti, con un'evidenza da rasentare il grottesco e
il mostruoso; e in compenso ostentantesi liberamente in piena luce,
ingenua e aperta – ragione per cui, appunto, il nostro interesse va
agli animali. La nota caratteristica delle specie già veniva fuori
nella rappresentazione delle piante, mostrandosi tuttavia solamente
nelle forme: qui acquista molto maggior rilievo, e si esprime non
solo nella forma, bensì nell'azione, posizione e movenza; sebbene
sia ancor sempre carattere della specie, e non dell'individuo.
Questa conoscenza delle idee di gradi più alti, che noi acquistiamo
nella pittura mediante un intermediario, possiamo raggiungere anche
in maniera diretta, con la intuizione puramente contemplativa delle
piante e l'osservazione degli animali; questi nel loro stato libero,
naturale, a loro agio. La considerazione obiettiva delle lor
svariate, mirabili forme e della loro attività è un'istruttiva
lezione del gran libro della natura, una decifrazione della vera
signatura rerum15: in lei vediamo i molteplici gradi e modi della
manifestazione della volontà, la quale, in tutti gli esseri una e
identica, ovunque la stessa cosa vuole – vuole appunto ciò, che come
vita, come esistenza viene ad oggettivarsi, in sì infinita varietà,
in sì infinite forme; le quali tutte sono accomodamenti alle diverse
condizioni esteriori, paragonabili a molte variazioni d'uno stesso
tema. Ma se dovessimo al contemplatore fornire, anche per la
riflessione, e con una sola parola, un chiarimento sull'intima
essenza di codesti esseri, potremmo meglio d'ogni altra usare quella
formula sanscrita, la quale tanto spesso ricorre nei libri sacri
degli Indù e vien detta Mahavakya, ossia la grande parola: «Tat tvam
asi», che significa: «questo vivente sei tu».
§ 45.
Rappresentare intuitivamente, in maniera diretta, l'idea nella quale
la volontà raggiunge il massimo grado della sua oggettivazione, è
finalmente il gran compito della pittura storica e della scultura.
Il lato obiettivo del piacere prodotto dal bello è qui affatto
prevalente, e il lato soggettivo è rientrato nella penombra. Inoltre
è da osservare, che ancor nel grado immediatamente più prossimo
sotto di questo, nella pittura animale, il caratteristico è tutt'uno
col bello: il più caratteristico leone, lupo, cavallo, pecoro, toro
v'è anche ognora il più bello. La ragione di questo è che gli
animali hanno solo il carattere della specie, e nessun carattere
individuale. Ma nella rappresentazione dell'uomo si distingue invece
il carattere della specie dal carattere dell'individuo: quello si
chiama bellezza (in senso del tutto oggettivo), mentre questo
mantiene il nome di carattere o espressione; e subentra la nuova
difficoltà, di rappresentarli entrambi in pari tempo nello stesso
individuo.
Umana bellezza è un'espressione oggettiva, la quale indica la più
perfetta oggettivazione della volontà nel grado più alto della sua
conoscenza possibile, l'idea dell'uomo in genere, pienamente
espressa nella forma intuita. Ma per quanto prevalga qui il lato
oggettivo del bello, rimane tuttavia suo perenne compagno il
soggettivo. E appunto perché nessun oggetto ci rapisce così presto
nell'intuizione puramente estetica, come fa il bellissimo aspetto e
la forma dell'uomo, alla cui vista subitamente un piacere
inesprimibile ci coglie, e sopra noi stessi e ogni nostro tormento
ci eleva; appunto per questo ciò è possibile solo in quanto cotale
evidentissima e purissima conoscibilità della volontà anche ci
trasporti nel modo più lieve e rapido in quello stato del puro
conoscere, in cui la nostra personalità, il nostro volere, con la
sua assidua pena, svanisce, fin quando persiste la pura gioia
estetica: perciò dice Goethe: «Chi scorge l'umana bellezza, niente
di male può spirargli contro: egli si sente con se stesso e col
mondo in accordo». Che alla natura possa riuscir una bella figura
d'uomo, si spiega col fatto che la volontà, oggettivandosi a tale
altissimo grado in un individuo, vince appieno sia per favorevoli
circostanze sia per forza propria tutti gli ostacoli e la resistenza
opposti a lei dalle manifestazioni della volontà nei gradi
inferiori: di codesta sorte son le forze naturali, a cui ella deve
ognora cominciar col conquistare e strappare la materia, a tutte
comune. Inoltre il fenomeno della volontà nei gradi superiori ha
sempre varietà di forma: già l'albero non è che un sistematico
aggregato di germinanti fibre moltiplicate indefinitamente: questa
complessità s'accresce man mano che si salga nei gradi, e il corpo
umano è un complicatissimo sistema di parti affatto diverse,
ciascuna delle quali, al complesso subordinata, ha tuttavia anche
una vita propria. E l'esser tutte codeste parti appunto nel giusto
modo subordinate all'insieme, e il contribuire armonicamente
all'aspetto generale, nulla trovandovisi di eccessivo, nulla di
manchevole; tali son le rare condizioni, di cui è risultato la
bellezza, il carattere della specie perfettamente improntato. Così
fa la natura. Ma come fa l'arte? Si crede, con l'imitar la natura.
Ma a che cosa riconoscerebbe un artista l'opera di natura ben
riuscita e da imitare, scegliendola tra le non riuscite, se egli non
avesse del bello una nozione anteriore all'esperienza? E poi, ha mai
la natura prodotto un essere umano perfettamente bello in ogni
parte? Allora s'è pensato che l'artista dovesse scegliere le parti
belle singolarmente distribuite in molte creature, per comporne un
solo essere perfetto: opinione assurda e insensata. Imperocché ci si
torna a chiedere: a qual segno deve conoscere, che proprio queste
forme sono le belle, e non le altre? E possiamo vedere che sorta di
bellezza hanno trovata gli antichi pittori tedeschi, con l'imitar la
natura! Basta guardare i loro nudi. No: a posteriori, e per semplice
esperienza, non si può aver cognizione del bello: questa è sempre,
almeno in parte, a priori, sebbene di tutt'altra specie che i modi a
noi noti a priori del principio di ragione. Questi si riferiscono
alla general forma del fenomeno come tale, in quanto essa è base
alla conoscenza in genere, al come – universale e senza eccezione –
del fenomeno (da tal conoscenza nascono matematica e scienza
naturale pura). Invece quell'altra maniera di conoscenza a priori,
che rende possibile la rappresentazione del bello, non concerne la
forma, bensì il contenuto dei fenomeni: non il «come» del loro
manifestarsi, bensì il «che cosa». Noi tutti conosciamo, vedendola,
la beltà umana; ma nell'artista una tal conoscenza avviene con tal
chiarezza, ch'egli mostra quella beltà, come non l'ha veduta mai, e
sorpassa nella sua rappresentazione la natura: questo è possibile
sol perché la volontà, la cui adeguata oggettivazione nel suo
massimo grado va qui giudicata e scoperta, è noi stessi. Solo così
possiamo avere in effetti una cognizione anticipata di ciò che la
natura (la quale è appunto la volontà che costituisce il nostro
proprio essere) si sforza di rappresentare; e codesta cognizione
anticipata nel vero genio s'accompagna con tal grado di riflessione,
che esso, mentre nel singolo oggetto conosce l'idea rispettiva,
quasi viene a comprender la natura attraverso mezze parole; e così
può esprimer nettamente ciò ch'ella appena balbetta; tanto da
imprimer nel duro marmo la bellezza della forma che a lei in mille
tentativi fallisce, e quella bellezza contrappone alla natura, quasi
esclamando: «Questo era, ciò che tu volevi esprimere!» – e, «Sì,
questo era!» fa eco l'intenditore. Solo così potè il greco geniale
scoprire il prototipo della forma umana, e porlo come canone nella
scuola della scultura; ed anche solo in grazia di tale anticipazione
è a noi tutti possibile di conoscere il bello, là dove esso è alla
natura in un singolo esemplare effettivamente riuscito. Codesta
anticipazione è l'ideale: è l'idea, in quanto essa, almeno a metà, è
conosciuta a priori, e, come tale, venendo a completar quanto ci è
offerto dalla natura a posteriori, diventa pratica per l'arte. La
possibilità di simile anticipazione del bello a priori nello
scultore, come del suo riconoscimento a posteriori nell'intenditore,
sta in questo, che artista e conoscitore sono essi medesimi l'in-sé
della natura, l'oggettivantesi volontà. Soltanto dal simile, come
disse Empedocle, si conosce il simile: soltanto natura può
comprendere se stessa; soltanto natura da fondo a se stessa: e
similmente dal solo spirito è inteso lo spirito16.
L'assurda opinione che i greci abbiano trovato l'ideale della umana
bellezza in modo affatto empirico, mediante scelta di singole parti
belle, qui un ginocchio, là un braccio denudando o notando, ha del
resto il suo riscontro in un'opinione analoga concernente la poesia:
l'opinione che, p. es., gl'infinitamente vari caratteri de' suoi
drammi, così veri, così sostenuti, così ricavati dal profondo, abbia
Shakespeare notati nella propria personale esperienza della vita
sociale, e poi riprodotti. L'impossibilità e assurdità di tale
opinione non ha bisogno d'esser dimostrata: è evidente che il genio,
come produce le opere dell'arte plastica sol per mezzo di una
presaga anticipazione del bello, così produce le opere della poesia
solo mediante una consimile anticipazione del caratteristico; per
quanto l'una e l'altra richiedano l'esperienza come uno schema,
indispensabile, perché quanto era loro noto oscuramente a priori
venga innalzato alla piena chiarezza, e nasca così la possibilità di
una meditata rappresentazione.
Umana bellezza fu qui sopra spiegata come la più perfetta
oggettivazione della volontà nel più alto grado della sua
conoscibilità. Essa si esprime attraverso la forma: questa è
soltanto nello spazio, e non ha relazione necessaria col tempo; come
l'ha, per esempio, il moto. Possiamo dire adunque: l'adeguata
oggettivazione della volontà per mezzo d'un fenomeno spaziale è
bellezza, nel senso oggettivo. La pianta non è altro che un tal
fenomeno, puramente spaziale, della volontà; imperocché nessun
movimento e quindi nessuna relazione col tempo (astraendo dal suo
sviluppo) appartiene all'espressione della sua essenza: la sua forma
esprime da sola tutta la sua essenza, e aperta la palesa. Ma uomo e
animale per la piena rivelazione della volontà in loro
manifestantesi abbisognano ancora d'una serie di atti, attraverso
cui quel fenomeno viene a prendere in essi un'immediata relazione
col tempo. Tutto ciò fu già spiegato nel libro che precede: alla
nostra indagine presente si riannoda per quanto segue. Come il
fenomeno puramente spaziale della volontà può oggettivar
quest'ultima in ciascun grado perfettamente o imperfettamente, il
che produce appunto bellezza o bruttezza: così può anche la
temporale oggettivazione della volontà, ossia l'azione, e
precisamente l'azione immediata, il movimento, corrisponder in modo
puro e perfetto alla volontà che in lei si oggettiva; senza estranea
mescolanza, senza superfluità, senza manchevolezza, ma solo
esprimendo per l'appunto ogni volta quel determinato atto di
volontà; – oppure può tutto questo accadere a rovescio. Nel primo
caso, il movimento è compiuto con grazia; e nel secondo, senza. Come
adunque bella è la ben rispondente rappresentazione della volontà in
genere mediante il suo fenomeno puramente spaziale, così è grazia la
ben rispondente rappresentazione della volontà mediante il suo
fenomeno temporale; ossia l'espressione in tutto giusta e
commisurata di ciascun atto di volontà, per mezzo del movimento e
della posizione che l'oggettiva. Poiché movimento e posizione già
presuppongono il corpo; quindi è giustissima e calzante la
definizione di Winckelmann, quando dice: «La grazia è il particolare
rapporto della persona agente con l'azione» (Werke, vol. I, p. 258).
Se ne ricava naturalmente, che a piante può attribuirsi bellezza, ma
non grazia, fuor che in senso figurato; ad animali e uomini
entrambe, bellezza e grazia. La grazia consiste, adunque, in questo:
che ogni movimento e atteggiamento venga eseguito o preso nel modo
più facile, più conveniente e più comodo, e sia quindi l'espressione
diretta del proposito suo, ossia dell'atto di volontà, senza nulla
di superfluo (che il superfluo si presenta come agitazione
disordinata, priva di senso, o posizione assurda) né di manchevole
(che produce lignea rigidità). La grazia richiede, come condizione,
un giusto equilibrio di tutte le membra, una regolare, armonica
struttura del corpo; poiché sol per questo mezzo è possibile il
perfetto agio e la palese opportunità in tutte le posizioni e
movenze: e quindi la grazia non si dà senza un certo grado di
bellezza corporea. Questa e quella perfette e congiunte sono il più
limpido fenomeno della volontà nel grado supremo della sua
oggettivazione.
È uno de' contrassegni dell'umanità – l'abbiamo osservato – il
trovarsi in lei distinti il carattere della specie e quel
dell'individuo; sì che, com'è detto nel libro precedente, ciascun
essere umano rappresenta, in un certo senso, un'idea tutta a sé.
Quindi le arti il cui fine è posto nel rappresentar l'idea
dell'umanità, hanno per compito, oltre la bellezza – carattere della
specie – anche il carattere individuale, che suol chiamarsi appunto
carattere senz'altro. Quest'ultimo tuttavia, alla sua volta, solo in
quanto sia da considerarsi non già come alcunché di casuale, come
una singolarità appartenente in proprio a un dato individuo; bensì
come un aspetto, specialmente rilevantesi in quell'individuo,
dell'idea dell'umanità: a palesare la quale è perciò opportuna la
rappresentazione dell'individuo medesimo. Quindi il carattere, pur
essendo individuale, deve tuttavia esser colto e rappresentato
idealmente, ossia mettendo in rilievo la sua significanza in
rapporto con l'idea dell'umanità in genere (alla cui oggettivazione
esso contribuisce a sua guisa): e oltre a ciò poi la
rappresentazione è ritratto, riproduzione del singolo come tale, con
tutte le sue accidentalità. Ma il ritratto medesimo dev'essere, come
dice Winckelmann, l'immagine ideale dell'individuo.
Quel carattere, da cogliersi idealmente, che è il rilievo di uno
speciale aspetto dell'idea dell'umanità, si fa visibile nei
transitori affetti e passioni, nelle reciproche alterne
modificazioni del conoscere e del volere: cose tutte esprimentisi
nel volto e nel movimento.
Appartenendo ognora l'individuo all'umanità, e viceversa rivelandosi
ognora l'umanità nell'individuo, anzi rivelandosi con la particolar
significazione ideale di esso, non può né la bellezza esser
cancellata dal carattere, né questo da quella: perché soppressione
del carattere della specie a tutto vantaggio di quello individuale
darebbe caricatura; e soppressione dell'individuale, per lasciare il
solo carattere della specie, darebbe insignificanza. Dovrà quindi la
rappresentazione, in quanto miri alla bellezza, – il che fa
soprattutto la scultura – sempre modificar tuttavia quella (ossia il
carattere della specie) in taluna cosa mediante il carattere
individuale; e l'idea dell'umanità sempre esprimere in determinata,
individuale maniera, rilevandone un particolare aspetto; imperocché
l'umano individuo come tale ha la dignità di un'idea sua propria, ed
all'idea dell'umanità è appunto essenziale il manifestarsi in
individui di speciale significazione. Perciò nelle opere degli
antichi troviamo, che la bellezza da loro limpidamente intuita non è
espressa da una figura sola, ma da molte, aventi carattere diverso,
quasi fosse colta sempre sotto un nuovo aspetto, e quindi altrimenti
rappresentata in Apollo, altrimenti in Bacco, altrimenti in Ercole,
altrimenti in Antinoo: anzi, il caratteristico può limitare il bello
e addirittura arrivar fino alla bruttezza, nel Sileno ebbro, nel
Fauno, e così via. Ma se il caratteristico perviene a sopprimer
veramente il carattere della specie, ossia a toccare l'innaturale,
diventa caricatura. Tuttavia molto meno ancora della bellezza deve
la grazia venir sopraffatta dal caratteristico: qualunque posizione
e movimento richieda l'espressione del carattere, devono tuttavia
quelli esser presi o compiuti nel modo più adatto alla persona, più
confacente allo scopo e più facile. Tale precetto osserverà non
soltanto lo scultore e pittore, ma pur ciascun buon attore: in caso
contrario, si ha anche qui caricatura, sotto forma di contorcimento,
distorsione.
Nella scultura rimangono bellezza e grazia la qualità essenziale. Il
vero carattere dello spirito, rilevantesi in affetto, passione,
giuoco alterno del conoscere e volere, rappresentabile solo mediante
l'espressione del volto ed il gesto, è soprattutto privilegio della
pittura. Perché sebbene occhi e colorito, – i quali stanno fuor del
dominio della scultura – molto contribuiscano alla bellezza, ben più
sono essenziali per il carattere. Inoltre la bellezza si dispiega
più completamente a chi l'osservi da vari lati: mentre la
espressione, il carattere, possono anche da un sol punto di vista
essere compresi appieno.
Essendo la bellezza precipuo fine della scultura, ha Lessing cercato
di spiegare il fatto che Laocoonte non grida, con l'addurre che il
gridare non sia compatibile con la bellezza. Poi che per Lessing
questo argomento divenne il tema, o per lo meno il punto di
partenza, d'un libro speciale, ed anche prima e dopo di lui tanto vi
si è scritto intorno, sia a me concesso di esporre qui per incidenza
la mia opinione a questo proposito; sebbene un'analisi tanto
particolare non entri propriamente nella trama di un'argomentazione,
che mira, in modo esclusivo, ai principi generali.
§ 46.
Che Laocoonte, nel celebre gruppo, non gridi, è palese, e la
generale, sempre rinnovata sorpresa che se ne prova, deve provenir
dal fatto che noi tutti, al suo posto grideremmo. E ciò richiede la
natura stessa: che nel vivissimo dolor fisico e nella massima,
improvvisa angoscia corporea, ogni riflessione, la quale potesse per
avventura indurci a un tacito patire, è del tutto bandita dalla
conscienza; e la natura si sfoga nel gridare, con che insieme
esprime il dolore e il terrore, il salvatore invoca e l'assalitore
spaventa. Già Winckelmann sentì quindi una mancanza, non trovando la
espressione del gridare: ma nell'intento di giustificar lo scultore,
fece invero di Laocoonte uno stoico, il quale non ritiene conforme
alla propria dignità il gridare secundum naturam, bensì al proprio
dolore aggiunge ancora l'inutile sforzo di comprimerne
l'espressione: Winckelmann vede quindi in lui «lo spirito provato di
un uomo grande, il quale lotta col martirio, e cerca di soffocare e
rinserrare in sé l'espressione di ciò che prova: egli non prorompe
in alte grida, come fa in Virgilio, ma solamente gli sfuggono
angosciosi sospiri», e così via (Werke, vol. VII, p. 98. Lo stesso
più ampiamente, vol. VI, pp. 104 sg.). Ora, quest'opinione di
Winckelmann criticò Lessing nel suo Laocoonte, e la corresse nel
modo sopra indicato; il motivo psicologico sostituì col motivo,
puramente estetico, che la bellezza – principio fondamentale
dell'arte antica – non ammette la espressione del grido. Un altro
argomento da lui addotto, che cioè uno stato affatto passeggero e
incapace di durata non si possa esprimere in un'immobile opera
d'arte, ha contro di sé cento esempi di figure ammirabili le quali
sono fissate in movimenti più che fuggitivi, danzando, lottando,
inseguendo. Anzi, Goethe nel suo scritto sul Laocoonte, che inizia i
Propilei (p. 8), tiene la scelta d'un tal momento affatto fuggitivo
per addirittura indispensabile. A' nostri giorni Hirt (Horen, 1797,
X), tutto riducendo alla massima verità dell'espressione, concluse
nel senso che Laocoonte non grida, perché, già in procinto di morir
soffocato, non può più gridare. Da ultimo Fernov (Römische Studien,
vol. I, pp. 426 sg.) ha illustrato e pesato le tre opinioni
precedenti, senza tuttavia recarne alcuna nuova; ma quelle tre
componendo e unificando.
Non posso a meno di stupirmi, che sì riflessivi e acuti uomini
faticosamente vadano a cercar lontano ragioni inadeguate,
s'afferrino ad argomenti psicologici, o addirittura fisiologici, per
chiarire un fatto, la cui ragione è ben prossima e subito palese ad
uno spirito spregiudicato, – e stupirmi soprattutto che Lessing, il
quale tanto s'appressò alla giusta spiegazione, non abbia poi colto
per nulla nel segno.
Prima d'ogni indagine psicologica e fisiologica, se Laocoonte nella
sua situazione debba o no gridare – ciò che d'altronde io affermerei
senz'altro – riguardo a quel gruppo è da mettere in chiaro, che non
poteva il gridare esservi espresso, per il semplice motivo che la
rappresentazione del grido sta completamente fuor del dominio della
scultura. Non si poteva dal marmo trarre un urlante Laocoonte, ma
solo un che sgangheri la bocca e invano si sforzi d'urlare: un
Laocoonte a cui la voce s'è arrestata nelle fauci, vox faucibus
haesit. L'essenza, e quindi anche l'effetto del gridare sullo
spettatore, è tutto nel suono, non nello spalancare la bocca.
Quest'ultimo fenomeno, che di necessità accompagna il gridare, deve
venir motivato e giustificato dal suono che per esso è prodotto:
allora, come caratteristico per l'azione, è ammissibile, anzi
necessario, quand'anche nuoccia alla bellezza. Ma nell'arte
figurativa, a cui la rappresentazione del gridare è del tutto
estranea e negata, effettivamente incomprensibile sarebbe il
rappresentar la bocca spalancata, violento mezzo nel grido, che
altera tutti i lineamenti e il resto dell'espressione; perché si
porrebbe innanzi agli occhi un mezzo, che esige molti sacrifizi del
rimanente, mentre il fine di esso, il grido, verrebbe a mancare
insieme col relativo effetto sul nostro animo. Anzi – e questo è
peggio – si produrrebbe con ciò lo spettacolo sempre ridicolo di uno
sforzo che rimane senz'effetto: spettacolo da paragonarsi a quel che
si procurò un burlone, riempiendo di cera il corno d'una guardia
notturna addormentata, per poi risvegliarla e godersi i suoi vani
tentativi di suonare. Là dove invece la rappresentazione del gridare
sta nel dominio dell'arte, essa è pienamente ammissibile, perché
serve alla verità, ossia alla compiuta rappresentazione dell'idea.
Così nella poesia, la quale per la rappresentazione intuitiva si
rivolge alla fantasia del lettore: perciò mugghia Laocoonte presso
Virgilio, come un toro che si sia sciolto dai legami dopo che la
scure l'ha colpito: perciò fa Omero (Il, XX, 48-53) orrendamente
urlare Marte e Minerva, senza danno della lor dignità di dei, né
della divina bellezza. E così nell'arte scenica: Laocoonte sulla
scena doveva assolutamente gridare; anche Sofocle fa urlare
Filottete, e sull'antica scena questi avrà urlato per davvero.
Similmente ricordo d'aver visto in Londra il celebre attore Kemble
rappresentare, in un dramma tradotto dal tedesco, Pizarro, la parte
dell'americano Rolla, un mezzo selvaggio, ma di nobilissimo
carattere: questi, ferito, diede in un grido alto e veemente, che,
essendo oltremodo caratteristico, molto contribuiva alla verità
dell'azione. All'opposto sarebbe un gridare dipinto o impietrato
ancor più ridicolo, che una dipinta musica, quale già vien
condannata nei Propilei goethiani; imperocché il gridare nuoce alla
rimanente espressione e alla bellezza molto più della musica, la
quale di solito occupa soltanto mani e braccia, e va considerata
come un atto caratteristico della persona; sì che sotto questo
rispetto si può benissimo rappresentare in pittura, fin quando non
richieda moti impetuosi del corpo o deformazione della bocca: come
per esempio la Santa Cecilia all'organo e il Violinista di Raffaello
nella Galleria Sciarra in Roma, e molti altri. Poiché adunque, a
causa dei limiti dell'arte, non poteva il dolore di Laocoonte venire
espresso col grido, dovè l'artista porre in uso ogni altra
espressione del dolore stesso: questo egli ha fatto con perfezione
suprema, secondo espone sì magistralmente Winckelmann (Werke, vol.
VI, pp. 104 sg.), la cui mirabile descrizione acquista perciò valore
e verità pieni, quando se ne tolga soltanto l'attribuzione a
Laocoonte di un animo stoico.
§ 47.
Essendo bellezza e grazia il principale oggetto della scultura,
questa predilige il nudo, e tollera vestimento solo se esso non cela
le forme. Del drappeggiamento si serve non per nascondere, ma per
rappresentare in un modo indiretto la forma: maniera di
rappresentare, che molto occupa l'intelletto, il quale così non
perviene all'intuizione della causa, ossia della forma corporea, se
non attraverso il solo effetto datogli direttamente, ossia
attraverso la disposizione delle pieghe. Il drappeggiamento è quindi
nella scultura in certo modo quel che nella pittura è lo scorcio.
L'uno e l'altro sono accenni: non già simbolici, ma tali, che –
quando siano ben riusciti – direttamente costringono l'intelletto a
intuir la cosa accennata come se fosse effettiva, rappresentata in
realtà.
Mi sia concesso d'intercalar qui per incidenza un paragone
riferentesi alle arti oratorie. Come la bella forma corporea è nel
modo più vantaggioso visibile con un abbigliamento leggerissimo, o
addirittura senza, e quindi un uomo molto bello se avesse buon gusto
e gli fosse lecito usarne, andrebbe di preferenza quasi nudo,
vestito appena a mo' degli antichi; – così ciascuno spirito bello,
ricco di pensiero, si esprimerà sempre nella più naturale, schietta,
semplice maniera; cercando, ove sia possibile, di comunicare agli
altri i suoi pensieri, per alleviare così a se stesso la solitudine
che in un mondo come questo deve sentire.
All'opposto povertà di mente, confusione, stortezza si vestiranno
delle espressioni più ricercate e dei modi più oscuri per avvolgere
così, in frasi difficili e pompose, piccoli, meschini, insipidi o
comuni pensieri: come quegli che, mancando a lui la maestà della
bellezza, a tale mancanza vuol riparare col vestito; e la meschinità
o bruttezza della persona cerca di nascondere sotto barbarico
sfoggio, luccicanti fronzoli, piume, gale, sboffi e mantello.
Imbarazzato come costui se dovesse andar nudo, sarebbe più d'un
autore, se fosse costretto a tradurre in forma chiara la povera
sostanza del suo libro sì pomposo ed oscuro.
§ 48.
La pittura storica ha, oltre la bellezza e la grazia, anche il
carattere per suo oggetto principale: con la qual parola s'intende
la rappresentazione della volontà nel massimo grado della sua
oggettivazione, dove l'individuo – nel quale ha rilievo uno speciale
aspetto dell'idea di umanità – acquista una sua particolare
significanza, e questa non con la forma sola da a conoscere, ma con
ogni maniera d'azione e con le modificazioni del conoscere e del
volere (visibili nel volto e nei gesti) onde quell'azione è
determinata e accompagnata. Poi che l'idea dell'umanità va espressa
in sì vasta cerchia occorre che i suoi molteplici aspetti ci vengano
offerti da individui ben significanti; e questi alla lor volta
possono esser fatti palesi nella lor significazione solo mediante
scene, eventi e atti svariati. Questo suo compito infinito adempie
la pittura storica col porre davanti agli occhi ogni specie di scene
della vita, di grande o piccolo significato. Né un individuo
qualsiasi, né una qualsiasi azione possono essere senza significato:
in ciascuno e con ciascuna si fa sempre più manifesta l'idea
dell'umanità. Perciò nessunissimo fatto della vita umana va escluso
dalla pittura. E gran torto si fa agli eccellenti pittori della
scuola olandese, lodando esclusivamente la loro perizia tecnica, ma
per il resto disdegnandoli, perché essi rappresentano di solito
oggetti della vita comune: mentre invece si ritengono significanti
solo i grandi fatti della storia universale o quelli della Bibbia.
Si dovrebbe prima di tutto riflettere, che l'intimo significato di
un'azione è affatto diverso dal significato esteriore, e l'uno
spesso procede separato dall'altro. Il significato esterno è
l'importanza di un'azione in rapporto alle sue conseguenze e nel
mondo reale e pel mondo reale; ossia, in base al principio di
ragione. Il significato intimo è la più o meno profonda penetrazione
nell'idea dell'umanità, che quell'azione può dare col mettere in
luce i meno comuni aspetti di tale idea; facendo che individualità
nettamente e apertamente rivelantisi dispieghino – per mezzo di
opportune circostanze – le loro caratteristiche. Solo il significato
intimo conta nell'arte: l'esteriore conta nella storia. Entrambi
sono affatto indipendenti l'uno dall'altro; possono presentarsi
insieme, ma anche isolati. Un'azione altamente significativa per la
storia può essere comune e banale nel suo senso interiore; e
viceversa può una scena della vita comune avere un senso interiore
grande, quando umani individui e umano agire e volere vi appaiano,
fino alle più riposte pieghe, in una luce limpida e chiara. Anche
può, in azioni di molto vario significato esteriore, esser
l'interiore uno e identico. Così, per esempio, valgono rispetto a
quest'ultimo in egual modo ministri, che sulla carta geografica si
contendono terre e popoli, o contadini, che nella taverna vogliono
l'un contro l'altro affermare il loro diritto a proposito di carte
da giuoco e di dadi: come è indifferente se si giochi a scacchi con
pezzi d'oro o di legno. Inoltre le scene e gli eventi, ond'è fatta
la vita di tanti milioni d'uomini, e il loro agire e adoprarsi, la
lor pena e la loro gioia, sono già di per sé importanti abbastanza
per essere oggetto dell'arte; e devono, con la ricca varietà loro,
dare materia sufficiente a che si dispieghi la multifronte idea
dell'umanità. La fugacità stessa dell'attimo, che l'arte ha fissato
in un tal quadro (detto oggi quadretto di genere), produce una
lieve, particolare commozione: imperocché il fermar con durevoli
tratti l'effimero mondo, che incessantemente si trasmuta, in singoli
episodi, che pur danno immagine del Tutto, è tal compito della
pittura, che per esso ella sembra rendere immobile il tempo,
innalzando il singolo caso all'idea della sua specie. Finalmente i
soggetti storici, ed esteriormente significativi, della pittura,
hanno spesso lo svantaggio, che per l'appunto ciò che in essi è più
significante non è rappresentabile per l'intuizione, bensì
dev'esservi sovrapposto col pensiero. Sotto questo rispetto il
significato nominale del quadro va di regola distinto dal reale:
quello è il significato esterno, che viene ad aggiungersi soltanto
come pensiero; questo è una faccia dell'idea dell'umanità, dal
quadro rivelata all'intuizione. Quello sarà, per esempio, Mosè
trovato dalla principessa egiziana: momento essenzialissimo per la
storia; il senso reale invece, il vero dato dell'intuizione, è un
trovatello che una donna salva dalla sua culla natante – episodio
che può essere accaduto sovente. Solo il costume può qui far
conoscere a un uomo colto che si tratta di quel determinato fatto
storico; ma il costume, se ha valore per il senso nominale, è
indifferente per il reale: poi che quest'ultimo conosce soltanto
l'uomo come tale, e non le forme occasionali. Soggetti presi dalla
storia non hanno alcun vantaggio su quelli che, tolti dalla semplice
possibilità, non possono avere un titolo individuale, bensì
generale: imperocché ciò, che veramente importa nei primi, non è
l'individuale, non è il singolo fatto per se stesso, bensì quanto vi
si contiene d'universale, l'aspetto dell'idea d'umanità, che per suo
mezzo si esprime. D'altronde non sono perciò punto da rigettare
anche determinati soggetti storici: ma in questo caso la vera mira
artistica, sia del pittore sia dello spettatore, non tende a ciò che
v'ha d'individuale, a ciò che propriamente costituisce la nota
storica, bensì all'universale, che vi si esprime, all'idea. Inoltre
vanno scelti solo quei soggetti storici, in cui la sostanza sia
davvero rappresentabile, e non vada invece aggiunta col pensiero:
che altrimenti il senso nominale troppo si allontana dal reale; e
ciò che innanzi al quadro non è che pensato, diviene l'elemento più
importante, a danno di ciò che è intuito. Se già sul palcoscenico è
un difetto (come nella tragedia francese) che l'azione principale si
svolga dietro le quinte, evidentemente questo difetto è di gran
lunga maggiore nel quadro. Effetto decisamente cattivo producono le
scene storiche sol quando costringono il pittore in un terreno
arbitrario, e scelto con fini estranei all'arte; ma soprattutto
quando codesto terreno è povero di soggetti pittorici e
significanti, – come sarebbe, per esempio, la storia d'un piccolo,
segregato, caparbio popolastro, fatto segno al disprezzo di tutti i
grandi popoli dell'oriente e dell'occidente suoi contemporanei, qual
è quello dei giudei. Poi che tra noi e tutti i popoli antichi sta
come un termine la migrazione barbarica – nel modo stesso in cui tra
l'attuale superficie terrestre e quella, di cui ci si mostrano
pietrificati gli organismi, sta l'avvenuto spostamento del letto
marino – è da considerarsi gran male che non siano per avventura
gl'indiani o, i greci, o anche i romani il popolo la cui passata
civiltà serva di precipua base alla nostra, bensì proprio codesti
giudei. E fu specialmente una cattiva stella pei geniali pittori
d'Italia, nel XV e XVI secolo, il doversi appigliare – nella breve
cerchia in cui erano arbitrariamente ridotti, per la scelta dei loro
argomenti – a ogni maniera di miseri soggetti: perché il Nuovo
Testamento è, nella parte storica, quasi ancor più sfavorevole alla
pittura che l'Antico non sia; e soggetto infelicissimo è la
susseguente storia dei martiri e dei Padri della Chiesa. Bisogna
tuttavia ben distinguere dai quadri, che hanno per soggetto la parte
storica o mitologica del giudaismo e del cristianesimo, quelli, nei
quali il verace ossia l'etico genio del cristianesimo viene offerto
all'intuizione, rappresentandovisi uomini che di quel genio son
pieni. Codeste rappresentazioni sono invero le più alte e ammirabili
opere della pittura: riuscite unicamente ai maestri maggiori
dell'arte, a Raffaello ed al Correggio – quest'ultimo
particolarmente ne' suoi primi quadri. Opere di tal natura non vanno
punto annoverate tra le pitture storiche, imperocché di solito non
rappresentano un fatto, un'azione: sono bensì semplici gruppi di
santi, o del Salvatore medesimo, spesso ancor bambino, con sua
madre, angeli, etc. Nei loro volti, e specialmente negli occhi,
vediamo l'espressione, il riflesso della più perfetta conoscenza: di
quella, che non a singole cose è rivolta, bensì ha pienamente
afferrato le idee, ossia l'intero essere del mondo e della vita. La
qual conoscenza operando in essi, di ritorno, sulla volontà, non
fornisce a questa, come l'altra conoscenza, motivi; ma viceversa è
divenuta un quietivo d'ogni volontà, dal quale provengono la
perfetta rassegnazione – ch'è lo spirito intimo del cristianesimo
come dell'indiana saggezza – la rinunzia a tutte le brame,
l'abdicazione, la soppressione della volontà e con essa dell'intera
essenza di questo mondo: ossia, la redenzione. Così quei maestri
dell'arte in eterno laudati ci espressero intuitivamente con le
opere loro la saggezza suprema. E qui è la vetta dell'arte: la
quale, dopo aver perseguito la volontà, nella sua adeguata oggettità
– le idee – per tutti i gradi, dai più bassi, ove la eccitano cause,
ai meno bassi, ove la eccitano stimoli, e finalmente ai superiori,
in cui sì variamente la muovono motivi e ne dispiegano l'essenza;
alla fine termina col rappresentarne la libera abolizione mediante
quel solo grande quietivo, che a lei viene dalla perfetta cognizione
della sua propria essenza17.
§ 49.
Tutte le nostre considerazioni sull'arte finora svolte hanno sempre
per base la verità, che suo oggetto – la cui rappresentazione è
scopo dell'artista, e la cui conoscenza deve quindi preceder come
germe e principio l'opera di lui – è un'idea, nel senso platonico, e
nient'altro: non la cosa singola, oggetto della comune percezione;
né meno il concetto, ch'è oggetto del pensar razionale e della
scienza. Sebbene idea e concetto abbiano qualcosa in comune,
rappresentando l'una e l'altro come unità una pluralità di cose
reali, dev'esser tuttavia risultata chiara e luminosa la differenza
loro, dopo quanto nel primo libro si disse intorno al concetto; e
intorno all'idea nel libro presente. Che nondimeno già Platone
avesse ben compresa codesta differenza, non voglio punto affermare:
che anzi taluni tra' suoi esempi d'idee e tra' suoi chiarimenti in
proposito sono applicabili soltanto a concetti. Basti per ora di
ciò, e andiamo pel nostro cammino: rallegrandoci bensì ogni qual
volta ci accada d'incontrar la via segnata da un grande e nobile
spirito, ma ognora mirando alla nostra meta e non alle tracce di
quello. Il concetto è astratto, discorsivo, affatto indeterminato
entro la propria sfera, determinato solo nei confini della medesima;
raggiungibile e afferrabile da ciascuno con la sola ragione;
comunicabile in parole senz'altra mediazione, tutto esaurito dalla
propria definizione. L'idea invece, che al più va definita come
adeguata rappresentante del concetto, è del tutto intuitiva, e,
sebbene rappresenti un'infinità di singole cose, è tuttavia ben
determinata. Dall'individuo come tale non è mai conosciuta, ma sol
da quegli, che s'è elevato sopra ogni volere e ogni individualità a
puro soggetto nel conoscere: quindi a lei perviene solamente il
genio, e in secondo luogo chi si trovi in una disposizione geniale,
mediante un innalzamento della sua pura forza conoscitiva, il più
delle volte dalle opere del genio prodotta. L'idea non è quindi
comunicabile senz'altro, ma solo condizionatamente, in quanto l'idea
percepita e riprodotta nell'opera d'arte parla a ciascuno secondo la
misura del suo valore intellettuale: perciò proprio le più
eccellenti opere di ogni arte, i più nobili prodotti del genio,
devono per l'ottusa maggioranza degli uomini rimaner libri chiusi in
eterno, ad essa inaccessibili, separati da un largo abisso, sì come
al volgo è inaccessibile il commercio dei principi. È vero, che
anche i più ottusi ammettono per sentito dire le opere riconosciute
grandi: ma nell'ombra si tengono pronti ognora a criticarle, non
appena li si lasci sperare che possan farlo senza compromettersi –
nel che gioiosamente si sfoga il loro astio a lungo celato contro
tutte le cose grandi e belle, che per non averli mai toccati li
umiliavano, e contro i creatori di quelli. Imperocché di regola, per
riconoscere e ammettere spontaneamente, liberamente, il valore
altrui, bisogna averne di proprio. Su ciò poggia la necessità della
modestia malgrado qualsivoglia merito, ed anche la lode
sproporzionatamente alta di codesta virtù: la quale, sola tra tutte
le sue sorelle, da ciascuno, che ardisca esaltare un uomo in qualche
modo segnalato, è ogni volta aggiunta alle altre lodi di lui, per
conciliarsi gl'inetti e placarne il livore. Che cos'è la modestia,
se non finta umiltà, con la quale, in un mondo turgido di bassa
invidia, si vuol mendicare per i propri vantaggi e meriti il perdono
di quelli che non ne hanno? Poiché colui il quale né vantaggi né
meriti s'attribuisce, perché effettivamente non ne possiede, non è
modesto, ma appena onesto.
L'idea è l'unità infranta nella pluralità, secondo la forma
temporale e causale della nostra apprensione intuitiva: invece il
concetto è l'unità, dalla pluralità novellamente ricostituita,
mediante il procedere astratto della nostra ragione. Questa si può
chiamare unitas post rem, quella unitas ante rem. Da ultimo la
differenza tra concetto e idea si può ancora indicare con un
paragone, dicendo: – II concetto somiglia a una inerte custodia,
nella quale effettivamente viene a giustapporsi ogni cosa che vi si
ponga; ma da cui nulla può esser tolto (mediante giudizi analitici)
più di quanto vi si sia posto (mediante sintetica riflessione).
L'idea invece sviluppa, in quegli che l'ha afferrata,
rappresentazioni che sono nuove in rapporto al concetto omonimo:
ella somiglia a un vivente, sviluppantesi organismo, dotato di forza
generativa, il quale produce quel che non conteneva incasellato
dentro di sé.
Da tutto ciò risulta che il concetto, per quanto sia giovevole alla
vita, per quanto utile, necessario e fecondo alla scienza, è in
eterno sterile per l'arte. Vera e unica sorgente d'ogni genuina
opera d'arte è la percepita idea. Nella sua robusta originalità
viene ella attinta unicamente alla vita medesima, alla natura, al
mondo; e unicamente anche per mezzo del genio vero, o di chi sia per
quell'attimo asceso fino a raggiungere la genialità. Sol da questa
diretta concezione nascono capolavori, che recano in sé vita
immortale. Appunto perché l'idea è intuitiva, e tale rimane, non è
l'artista consapevole in abstracto dell'intenzione e della meta a
cui tende l'opera sua; non un concetto, ma un'idea gli fluttua
davanti: perciò non può render conto del suo operare. Lavora, come
si suol dire, di puro sentimento, e inconsapevole, anzi per istinto.
Viceversa imitatori, artefici di maniera, imitatores, servum pecus,
procedono nell'arte movendo dal concetto: prendon nota di ciò che
nelle vere opere d'arte piace e commuove, se lo rendono chiaro, lo
afferrano in forma di concetto, astrattamente, e lo imitano infine,
in modo aperto o palese, con avveduta intenzione. Succhiano il lor
nutrimento, simili a piante parassite, da opere altrui; e, simili a
polipi, prendono il colore di ciò che mangiano. Anzi, andando
innanzi coi paragoni, si potrebbe affermare, che somigliano a
macchine, le quali perfettamente tritino e frammischino quanto vi si
getta dentro, ma senza poterlo mai digerire: sì che i diversi
componenti si possan sempre ritrovare, trar fuori della miscela ed
isolare: mentre il genio somiglierebbe invece all'organismo, che
assimila, trasforma e produce. Imperocché il genio viene bensì
educato e formato dai predecessori e dalle opere loro; ma la vita e
il mondo stesso, direttamente, lo fecondano con l'intuizione: perciò
anche una ricchissima cultura non può recar danno alla sua
originalità. Tutti gl'imitatori, tutti i manieristi percepiscono in
forma di concetto l'essenza dei capolavori altrui; ma concetti non
possono mai dar vita interna a un'opera. I contemporanei – ossia
l'opaca folla d'ogni generazione – non conoscono anch'essi altro che
concetti, e vi si attaccano, e accolgono quindi le opere manierate
con rapido e alto plauso: ma le stesse opere sono dopo brevi anni
già indigeste, perché lo spirito del tempo – vale a dire, i concetti
dominanti – in cui quelle avevano la loro unica base, è mutato.
Soltanto le vere opere d'arte, le quali dalla natura, dalla vita
sono direttamente inspirate, rimangono, come queste perennemente
giovani, e poderose in eterno. Imperocché non appartengono a una
data epoca, ma all'umanità: e come perciò appunto dal loro proprio
tempo – a cui disdegnarono di conformarsi – furono tiepidamente
accolte, e, svelando in modo indiretto e negativo gli errori di
quello, furono tardi e contro voglia riconosciute; così in compenso
non possono invecchiare, e ancor ne' tempi più lontani parlano con
voce fresca e sempre giovane: non più esposte a venir trascurate o
misconosciute, ma immutabilmente coronate e sanzionate dal plauso
delle poche teste capaci di giudicare, le quali compaiono isolate e
rare nei secoli18 e depongono i loro voti – la cui somma lentamente
crescendo serve di base a quell'autorità, che sola costituisce il
tribunale, a cui si allude quando diciamo di fare appello alla
posterità. Sole formano il tribunale queste teste isolate, che
successivamente appariscono: perché la folla della posterità sarà e
rimarrà in ogni tempo stolta e ottusa come nel passato e come nel
presente. Si leggano i lamenti di grandi spiriti, in ogni secolo,
intorno ai loro contemporanei: sembrano di oggi, perché la razza è
sempre la medesima. In ciascun tempo ed in ciascuna arte la maniera
prende il posto del genio, che sempre è proprietà esclusiva di
pochi: ma la maniera è come il vecchio vestito smesso della più
recente, riconosciuta apparizione del genio. In conseguenza di tutto
ciò, il plauso dei posteri non s'acquista di regola se non a costo
del successo contemporaneo; e viceversa19.
§ 50.
Se adunque è fine di tutte le arti il comunicar la percepita idea,
la quale appunto per l'interposizione dello spirito dell'artista, in
cui apparisce purificata e isolata, diventa alfine accessibile anche
a chi abbia ricettività più debole, e nessuna produttività; se
inoltre è nell'arte da rigettarsi il muover dal concetto; non
potremo per conseguenza approvare, che un'opera d'arte sia
intenzionalmente e palesemente destinata all'espressione d'un
concetto: com'è il caso dell'allegoria. Un'allegoria è un'opera
d'arte, la quale significa alcunché di diverso da quel che
rappresenta. Ma ciò che è intuitivo, e quindi anche l'idea, si
esprime da sé in modo diretto e compiuto, né ha bisogno di altro
intermediario, dal quale esso venga significato velatamente. Quel
che in tal modo viene adunque significato e rappresentato mediante
alcunché di affatto diverso, non potendo esso medesimo venire
offerto all'intuizione, è sempre un concetto. Con l'allegoria viene
quindi ognora significato un concetto, e per conseguenza la mente
dello spettatore è condotta lungi dall'offertale rappresentazione
intuitiva verso un'altra astratta, non intuitiva, che sta tutta
fuori dell'opera d'arte: così il quadro o la statua devono compiere
quel che compie, solo in modo più completo, la scrittura. Quel che
per noi è il fine dell'arte – rappresentazione dell'idea percepibile
solo intuitivamente – non è quivi più il fine. Per la mira, a cui
nell'allegoria si tende, non è neppur necessaria una gran perfezione
dell'opera d'arte: basta che si vegga che cosa sia l'oggetto;
perché, una volta trovato questo, lo scopo è raggiunto, e lo spirito
è condotto verso una rappresentazione di tutt'altra natura, verso un
concetto astratto che era appunto il fine proposto. Allegorie
nell'arte figurativa non sono perciò altro che geroglifici: il
pregio artistico, che d'altronde possono avere come rappresentazioni
intuitive, non appartiene loro in quanto sono allegorie, ma per un
altro verso. Che la Notte del Correggio, il Genio della Fama di
Annibale Carracci, le Ore del Poussin siano bellissime pitture, è
cosa affatto indipendente dall'essere allegorie. Come allegorie non
dicono più di un'iscrizione – anzi piuttosto meno. Siamo qui
richiamati alla distinzione, fatta più sopra, tra il senso reale e
il nominale d'un quadro. Il nominale è qui appunto l'allegorico,
come, per esempio, il Genio della Fama; il reale è ciò che in
effetti vien rappresentato: nel caso presente, un bel giovane alato,
con bei fanciulli intorno. Questo esprime un'idea: ma cotal senso
reale agisce solo fin che sia posto in oblio il senso nominale,
allegorico; basta pensarvi, perché l'intuizione si allontani e un
concetto astratto occupi lo spirito: ora il passaggio dall'idea al
concetto è sempre una caduta. Sì, quel senso nominale,
quell'intenzione allegorica fa spesso danno al senso reale, alla
verità intuitiva: come, per esempio, l'innaturale luce nella Notte
del Correggio, la quale, per quanto ben dipinta, tuttavia è motivata
solo dall'allegoria, ed in realtà impossibile. Se quindi un quadro
allegorico ha pregio d'arte, questo è del tutto separato e
indipendente dall'ufficio dell'allegoria: un'opera siffatta serve
insieme a due scopi, ossia all'espressione d'un concetto e
all'espressione di un'idea, ma esclusivamente il secondo può essere
un fine dell'arte, mentre l'altro è uno scopo estraneo; è la
piacevolezza scherzosa, di far che un quadro serva in pari tempo
come un'iscrizione, un geroglifico: piacevolezza inventata a
vantaggio di coloro per cui è muta l'essenza vera dell'arte. Gli è
allora come se un'opera d'arte fosse in pari tempo un arnese
d'utilità pratica, nel qual caso anche serve a due scopi: per
esempio una statua, che sia insieme candelabro o cariatide, o un
bassorilievo, che sia contemporaneamente scudo d'Achille. Sinceri
amici dell'arte non gusteranno né l'una né l'altro. È vero, che
un'immagine allegorica può appunto in questa sua qualità produrre un
vivo effetto sull'animo: ma l'effetto medesimo produrrebbe, in
circostanze eguali, anche un'iscrizione. Così, per esempio, se
nell'animo d'un uomo sia fermamente e fortemente radicata la brama
della gloria, ed egli guardi alla gloria come a sua legittima
proprietà, a lui negata sol finché ei non abbia prodotto i titoli
del suo possesso; e quest'uomo venga davanti al Genio della Fama
coronato d'alloro; tutto il suo animo ne sarà infervorato, e la sua
energia spronata all'azione. Ma non accadrebbe altrimenti, se d'un
tratto e' leggesse grande e chiara sulla parete la parola «gloria».
Oppure, se un uomo abbia svelata una verità, la quale sia importante
o come regola per la vita pratica, o come cognizione per la scienza,
ma non trovi fede; agirà profondamente su di lui un'immagine
allegorica del Tempo, che alzi il velo e scopra la verità nuda. Ma
non altrimenti agirebbe il motto: «Le temps découvre la vérité».
Imperocché ciò che quivi propriamente agisce è sempre il solo
pensiero astratto, e non la cosa intuita.
Ora se, come abbiamo visto, l'allegoria nell'arte figurativa è una
tendenza viziosa, asservita ad un fine, che all'arte è affatto
estraneo, codesta tendenza diviene addirittura insopportabile, se è
spinta a tal segno che la rappresentazione di sottigliezze forzate e
introdotte arbitrariamente venga a cader nell'insulso. Di tal fatta
è, per esempio, una testuggine, che voglia indicar la ritrosia
femminile; la Nemesi, che si guardi in seno dentro al vestito, per
significar ch'ella vede anche l'ascoso; la dichiarazione del
Bellori, che Annibale Carracci abbia vestita di giallo la voluttà,
per esprimere che le sue gioie tosto appassiscono e si fanno gialle
come paglia. Se adunque tra la cosa rappresentata e il concetto, per
suo mezzo significato, non è alcun legame che abbia per base la
sussunzione sotto quel soggetto e l'associazione delle idee; ma
segno e cosa significata stanno in connessione tutta convenzionale,
mediante un ravvicinamento positivo e provocato a caso: allora io
chiamo simbolo questa varietà dell'allegoria. Così la rosa è simbolo
della discrezione, l'alloro simbolo della gloria, la palma simbolo
della vittoria, la conchiglia simbolo del pellegrinaggio, la croce
simbolo della religione cristiana: e qui vengono anche tutte le
significazioni dirette attribuite ai semplici colori, per esempio,
il giallo come colore della falsità, l'azzurro della fedeltà. Cotali
simboli possono sovente giovar nella vita, ma all'arte il lor pregio
è straniero: sono da considerare in tutto come geroglifici, o
addirittura come caratteri cinesi, ed appartengono in realtà alla
stessa categoria degli stemmi, della frasca posta a insegna di
un'osteria, delle chiavi da cui si riconoscono i ciambellani, o del
cuoio da cui si conoscono i minatori. Quando infine certi personaggi
storici o mitici, oppure certi personificati concetti vengono fatti
conoscere mediante simboli convenuti una volta per sempre, forse
dovrebbero questi chiamarsi propriamente emblemi: tali sono le
bestie degli Evangelisti, la civetta di Minerva, il pomo di Paride,
l'ancora della Speranza, e così via. Ma solitamente si da il nome
d'emblemi a quelle immagini parlanti, semplici, e illustrate da un
motto, che servono a raffigurare una verità morale, e di cui si
hanno grandi raccolte per opera di J. Camerarius, Alciatus e altri:
esse formano il trapasso verso l'allegoria poetica, della quale sarà
trattato in seguito. La scultura greca si rivolge all'intuizione, e
però ella è estetica; l'indostana si rivolge al concetto, e però è
solamente simbolica.
Questo giudizio dell'allegoria, poggiato sulle considerazioni fin
qui da noi fatte intorno all'intimo essere dell'arte, e con quelle
strettamente connesso, è proprio l'opposto dell'opinione di
Winckelmann; il quale lungi dal dichiarar l'allegoria affatto
estranea all'arte, e a lei spesso dannosa, costantemente ne sostiene
le parti, anzi (Werke, vol. I, pp. 55 sg.) pone il supremo fine
dell'arte nella «rappresentazione di concetti generali e di cose non
percettibili dai sensi». Sia libero ciascuno d'accostarsi all'una o
all'altra opinione. Ma a me, davanti a questa ed a consimili
opinioni di Winckelmann, concernenti la vera e propria metafisica
dell'arte, apparve limpida la persuasione, che si possa aver la
massima sensibilità e il più esatto giudizio intorno al bello
artistico, senza tuttavia essere in grado di dar ragione astratta e
propriamente filosofica dell'essenza del bello e dell'arte: così
come si può esser d'animo nobilissimo e virtuoso, e avere una
coscienza molto delicata, la quale di caso in caso proceda con
l'esattezza d'una bilancia di precisione, senza perciò essere in
grado di approfondir filosoficamente e rappresentare in abstracto il
valore etico delle azioni.
Ma un tutt'altro rapporto ha l'allegoria con la poesia che non con
l'arte figurativa, e sebbene qui sia da respingere, colà è
volentieri ammessa e vantaggiosa. Imperocché nell'arte figurativa
ella conduce dal dato intuitivo, dal vero oggetto di tutte le arti,
al pensiero astratto; mentre nella poesia è il rapporto inverso.
Nella poesia quel ch'è dato direttamente con le parole è il
concetto, e scopo più prossimo è sempre il condur da questo al dato
intuitivo, la cui rappresentazione dev'essere intrapresa dalla
fantasia dell'ascoltatore. Se nell'arte figurativa s'è condotti dal
dato immediato verso qualche altra cosa, questa dev'esser sempre un
concetto, perché qui soltanto l'astratto non può esser dato
immediatamente; ma un concetto non può mai esser l'origine, né la
sua comunicazione esser lo scopo di un'opera d'arte. Viceversa nella
poesia il concetto è il materiale, il dato immediato, che si può
quindi benissimo abbandonare, per far nascere un'immagine intuitiva
del tutto diversa, con la quale vien raggiunto lo scopo. Nella
connessione di una poesia può qualche concetto, o pensiero astratto,
essere indispensabile, pur non potendo in sé e direttamente esser
dato all'intuizione: esso viene allora sovente reso intuibile per
mezzo d'un qualunque esempio che vi si possa sussumere. Questo si
vede già in ogni espressione figurata, e accade in ogni metafora,
paragone, parabola e allegoria, – tutte figure, che si distinguono
solo per la lunghezza e ampiezza della loro rappresentazione. Per
tal motivo sono d'eccellente effetto paragoni e allegorie nelle arti
oratorie. Come dice bene Cervantes del sonno, per significare
ch'esso ci sottrae a tutti i dolori morali e corporali, «essere un
mantello che copre l'uomo tutto quanto!». Come bene esprime Kleist
allegoricamente il pensiero, che filosofi e scienziati rischiarano
il genere umano, nel verso:
Quei, la cui lampa notturna la terra tutta rischiara!20
Come fortemente e limpidamente Omero indica Ate di mali
apportatrice, dicendo: «ella ha piedi delicati, poiché non calpesta
la dura terra, ma s'aggira soltanto sulle teste degli uomini» (Il.,
XIX, 91)! Che effetto ebbe sul fuoruscito popolo romano la favola,
detta da Menenio Agrippa, dello stomaco e delle membra! Come
l'allegoria platonica della caverna, già riferita, bellamente
esprime all'inizio del settimo libro della Repubblica un
astrattissimo dogma filosofico! Similmente va considerata come
profonda allegoria di filosofica tendenza la favola di Persefone, la
quale, per avere gustato una melagrana nel mondo sotterraneo, cade
in potere di questo: e ciò appare soprattutto luminosamente nella
trattazione, superiore a ogni lode, che di tal favola Goethe ha
intrecciato come episodio nel Trionfo della sensibilità. Tre ampie
opere allegoriche io conosco: allegorica è in modo aperto ed
espresso l'incomparabile Criticon di Baldassar Gracian, consistente
in un vasto, ricco tessuto d'allegorie profondissime intrecciate
l'un con l'altra, le quali servono qui a rivestir gaiamente verità
morali, cui lo scrittore dà appunto in tal modo la massima evidenza
intuitiva, stupefacendosi con la ricchezza delle sue invenzioni. Due
allegorie dissimulate sono invece il Don Chisciotte e Gulliver in
Lulliput. Quello rappresenta allegoricamente la vita di ciascuno, il
quale non voglia, come gli altri, pensare soltanto al suo interesse
personale, ma persegua un fine obiettivo, ideale, che s'è
impadronito del suo pensiero e della sua volontà, per la qual cosa
egli finisce, a dir vero, col comportarsi in questo mondo un po'
stranamente. Nel Gulliver basta dar senso morale a tutto ciò ch'è
materiale, per accorgersi a che abbia mirato quel satirical rogue,
come lo chiamerebbe Amleto. Essendo adunque dato costante
dell'allegoria poetica il concetto, che quella vuol rendere
intuitivo mediante un'immagine, potrà dessa talvolta esprimersi o
aiutarsi magari con un'immagine dipinta: ma questa non s'ha però da
considerare come opera dell'arte figurativa, bensì unicamente qual
parlante geroglifico; né può pretendere d'aver valore artistico,
bensì solo poetico. Di tal natura è quella bella vignetta allegorica
di Lavater, che tanto deve rianimare il cuore a ciascun nobile
combattente per la verità: una mano, che sorreggendo una fiaccola
viene punta da una vespa, mentre alla fiamma si bruciano dei
moscerini; e in basso sta il motto:
S'arda pure le ali il moscerino,
Gli scoppi il capo e il piccolo cervello;
La luce riman sempre luce.
E s'anco la vespa più irosa mi punge,
Non lascio la luce cadere21.
Qui va ricordata inoltre quella pietra sepolcrale con un lume spento
dal soffio, e che fuma; col motto:
Quand'è spento, si rende allor palese
Se luce era di sego, oppur di
cera22.
Dello stesso genere è infine un antico albero genealogico tedesco,
nel quale l'ultimo rampollo della remotissima schiatta espresse il
suo proposito di menar la vita in tutta continenza e castità,
lasciando così perire la stirpe, col rappresentar se stesso vicino
alla radice dell'albero dai molti rami, nell'atto di reciderlo con
le forbici e abbatterlo su di sé. E sempre di questo medesimo tipo
sono tutte le immagini parlanti più sopra ricordate, dette emblemi,
che si potrebbero anche definir brevi favole a colori, con la morale
formulata in parole. Cosiffatte allegorie vanno sempre annoverate
tra le poetiche, non tra le pittoriche, e appunto perciò sono
ammesse: la rappresentazione figurata vi sta ognora come un
accessorio, ed a lei non altro si domanda che di far conoscere la
cosa. Ma come nell'arte figurativa, così anche nella poesia
l'allegoria diventa simbolo, quando tra l'oggetto presentato
all'intuizione e l'astrazione per suo mezzo indicata non è altro
legame, se non arbitrario. Appunto perché ogni rapporto simbolico
poggia in sostanza sopra una convenzione, tra gli altri svantaggi il
simbolo ha pur quello che il suo significato si dimentica col tempo,
e finisce col perdersi del tutto: chi indovinerebbe, se non lo
sapesse, perché il pesce è simbolo del Cristianesimo? Soltanto uno
Champolion: essendo esso in tutto e per tutto un geroglifico
fonetico. E perciò l'Apocalissi di Giovanni ci sta ora innanzi
press'a poco come i bassorilievi con l'iscrizione magnus Deus sol
Mithra, intorno ai quali ancor si fanno chiose23.
§ 51.
Se ora, armati delle nostre considerazioni precedenti sull'arte in
generale, ci volgiamo dalle arti figurative alla poesia, non
dubiteremo, che anch'essa si proponga di rivelar le idee – gradi
dell'oggettivazione della volontà – e con quella chiarezza e
vivacità, in cui le percepì l'animo del poeta, comunicarle
all'ascoltatore. Le idee sono essenzialmente intuitive: se quindi
ciò, che nella poesia vien comunicato direttamente con parole, sono
concetti astratti, è nondimeno palese l'intenzione di far che il
lettore intuisca, nei rappresentanti di codesti concetti, le idee
della vita; la qual cosa non può aversi senza l'aiuto della fantasia
di lui. Ma per scuoter quest'ultima in conformità del fine, devono i
concetti astratti, che sono il diretto materiale della poesia come
della più arida prosa, esser riuniti in modo, che le loro sfere
s'intersechino, sì che nessuna possa permaner nella sua astratta
universalità; e in luogo di questa si presenti alla fantasia un suo
rappresentante intuitivo, che le parole del poeta vengano sempre più
a modificare secondo l'intento proposto. Come il chimico da liquidi
affatto chiari e trasparenti ricava, mescolandoli, precipitazioni
solide, così il poeta sa dall'astratta, trasparente universalità dei
concetti, secondo la maniera con cui li collega, far precipitare il
concreto, l'individuale, la rappresentazione intuitiva. Imperocché
solo intuitivamente vien conosciuta l'idea: e conoscenza dell'idea è
lo scopo di tutte le arti. La maestria del poeta, come quella del
chimico, lo fa capace di raccoglier sempre quel precipitato per
l'appunto che si era proposto. A tal fine servono nella poesia i
molti epiteti, dai quali viene limitata l'universalità di ciascun
concetto, sempre più, fino a renderlo intuibile. Omero accoppia
quasi a ogni sostantivo un aggettivo, il cui concetto taglia la
sfera del concetto primo, e tosto considerevolmente la riduce, sì
che questo già molto s'avvicina all'intuizione: per esempio
Εν δ’επεσ΄ Ωκεανω λαμπρον φαος ηελιοιο,
‘Ελκον νυκτα μελαιναν επι
ξειδωρον αρουραν.
(Occidit vero in Oceanum splendidum lumen solis,
Trahens noctem
nigram super almam terram).
E i versi:
Un lieve vento dal cielo azzurro spira,
Sta immoto il mirto ed alto
sta l'alloro24.
Da pochi concetti traggono innanzi alla fantasia sensibilmente tutta
l'ebbrezza del clima meridionale.
Ausiliarii tutti proprii della poesia sono ritmo e rima. Del loro
effetto, efficace in modo incredibile, non so dare altra spiegazione
se non questa: che le nostre forze rappresentative, essenzialmente
legate al tempo, ne abbiano derivata una proprietà, in grazia della
quale noi si segue internamente ogni suono ripetentesi a regolari
intervalli, e quasi facciamo coro. Perciò in parte ritmo e rima
diventano un vincolo per la nostra attenzione, facendoci ascoltar
più volentieri la recitazione; e in parte sorge dentro di noi per
loro mezzo quasi un intuitivo accompagnamento musicale, anteriore a
ogni giudizio, di ciò che vien recitato: dal che questo prende un
certo potere di persuasione enfatico, indipendente da tutte le
ragioni.
Per l'universalità della materia, di cui la poesia si vale a
comunicar le idee – ossia, de' concetti – molto vasta è la cerchia
del suo dominio. La natura tutta quanta, le idee in tutti i gradi si
posson per suo mezzo rappresentare, nel mentre ella, a seconda
dell'idea che vuol comunicarci, procede or descrivendo, ora
narrando, ora rappresentando direttamente in forma drammatica. Ma,
se nel rappresentare i gradi infimi dell'oggettità della volontà,
l'arte figurativa supera il più delle volte la poesia, perché la
natura inconsciente e anche quella puramente animale tutta l'essenza
loro rivelano in un unico momento ben colto; viceversa è l'uomo – in
quanto non con la semplice sua forma o con l'espressione del volto
rivela se stesso, ma con una catena d'azioni e coi pensieri e
affetti che l'accompagnano – il principale oggetto della poesia: e
nessun'altra arte può gareggiare con lei, perché in questo alla
poesia soccorre il progressivo sviluppo dell'argomento, negato alle
arti figurative.
Rivelazione di quella idea, che è il grado più alto nell'oggettità
della volontà, rappresentazione dell'uomo nella serie coordinata
delle sue tendenze e dei suoi atti, questo è il grande soggetto
della poesia. È vero bensì che anche l'esperienza, anche la storia
insegnano a conoscere l'uomo; ma più spesso gli uomini che non
l'uomo: ossia danno notizie empiriche sul contegno degli uomini tra
loro, dalle quali emergono regole per la condotta individuale,
piuttosto che far penetrare lo sguardo addentro nell'intimo essere
dell'uomo. Non che questa penetrazione sia loro del tutto preclusa:
ma ogni qual volta veramente si apra a noi nella storia, o nella
personale esperienza, l'essenza dell'umanità, vuol dire che o da noi
l'esperienza, o dallo storico la storia sono state percepite già con
occhi d'artista, poeticamente, ossia nell'idea, e non nel fenomeno,
nell'intimo essere, e non nelle relazioni. Assoluta condizione, per
comprendere la poesia come la storia, è l'esperienza propria: perché
è quasi il dizionario della lingua, che parlano entrambe. Ma la
storia sta alla poesia come il ritratto sta al quadro storico:
quello rende il vero nel particolare, questo il vero in generale:
quello rende la verità del fenomeno, e col fenomeno documenta la
verità; questo rende la verità dell'idea, che non si trova in nessun
fenomeno singolo ma da tutti parla. Il poeta rappresenta con
opportuna scelta e intenzione significanti caratteri in significanti
situazioni: lo storico prende queste e quelli come vengono. Anzi,
egli non ha da considerare e scegliere le circostanze e le persone
secondo la loro interna, genuina significazione, esprimente l'idea;
ma piuttosto secondo la significazione esterna, apparente, relativa,
importante rispetto ai loro nessi, alle loro conseguenze. Nessuna
cosa può guardare in sé e per sé, nel carattere e nell'espressione
essenziali, bensì deve tutto considerare in rapporto alla relazione,
alla concatenazione, all'influsso e a ciò che ne consegue; in
rapporto, soprattutto, alla sua epoca. Non potrà quindi trascurar
l'azione di un re, anche se poco importante, anzi in se stessa
ordinaria: perché quest'azione ha conseguenze ed effetto. Viceversa
non dovrà far cenno di azioni per se medesime significantissime,
compiute da singoli, eminenti individui, quando non abbiano avuto né
conseguenze né effetto. Imperocché la sua indagine procede secondo
il principio di ragione, e s'attacca al fenomeno, di cui quello è
forma. Coglie invece il poeta le idee, l'essenza dell'umanità, fuori
d'ogni relazione, fuor d'ogni tempo, adeguata oggettità della cosa
in sé nel suo grado più alto. Anche se in quella maniera d'indagine
ch'è necessaria allo storico non può andar del tutto smarrita
l'essenza intima, la significanza dei fenomeni, il nocciolo di tutti
quei gusci, o almeno la si lascia ancora scoprire e riconoscere da
chi la cerca; tuttavia quel che per se stesso e non per le sue
relazioni è importante, ossia il vero sviluppo dell'idea, si
ritroverà di gran lunga più preciso e limpido nella poesia che non
nella storia. Ed alla poesia, per quanto suoni paradossale, sarà
quindi da attribuire molto più genuina, intima, vera verità che alla
storia. Imperocché lo storico è obbligato a seguire con esattezza
gli eventi individuali secondo il corso della vita, quale si svolge
nel tempo in concatenazioni variamente intrecciate di cause e di
effetti; ma gli è impossibile di conoscer tutti i dati, tutto
vedere, tutto investigare: ad ogni istante l'originale del suo
quadro si allontana, oppure un originale falso si frappone innanzi
al vero; e questo accade tanto spesso, ch'io credo potermi
convincere essere in tutte le storie più di falso che di vero. Il
poeta invece ha colto l'idea dell'umanità in uno dei suoi aspetti,
che vuol rappresentare. Quel che per lui si oggettiva in quella, è
l'essenza del suo proprio io: la sua conoscenza è, secondo fu sopra
esposto a proposito della scultura, mezza a priori: il suo modello
gli sta davanti allo spirito, fermo, limpido, in piena luce, e non
può allontanarsi: perciò egli ci mostra pura e chiara nello specchio
del proprio spirito l'idea, e la raffigurazione, ch'egli ne da, è,
fino ai minimi particolari, vera come la vita stessa25.
I grandi storici antichi sono perciò, quando pongono in disparte gli
elementi di fatto, per esempio, nei discorsi dei loro eroi, poeti;
ed anzi tutta la loro trattazione della materia tiene dell'epico:
ciò che per l'appunto dà unità ai loro racconti, e fa che questi
contengano la verità interna pur là dove l'esterna non era agli
storici accessibile, o addirittura era falsata. E se dianzi
paragonammo la storia al ritratto, in opposizione alla poesia che
corrisponderebbe alla pittura storica, troviamo che la massima di
Winckelmann, dovere il ritratto esser l'ideale dell'individuo, fu
seguita pur dagli antichi storici, rappresentando essi il singolo in
modo che ne risultasse l'idea dell'umanità dentro esprimentevisi:
mentre i moderni, pochi eccettuati, non offrono di solito che «un
cesto di spazzatura e un ripostiglio d'oggetti fuori uso, e al più
affari capitali e di stato». A quegli adunque, che vuol conoscere
l'umanità nella sua intima essenza, identica in tutti i fenomeni e
svolgimenti, nella sua idea, offriranno le opere dei grandi,
immortali poeti un quadro ben più fedele e limpido che non possano
gli storici offrirgli: imperocché anche i migliori tra questi sono
lungi dall'esser come poeti i primi, e inoltre non hanno la mano
libera. Il loro reciproco rapporto, sotto questo rispetto, può
ancora esser chiarito dal paragone che segue. Lo storico semplice,
puro, che non lavora se non sui dati, somiglia a taluno, che, senza
conoscere punto la matematica, da figure per caso ritrovate calcola,
misurando, i rapporti loro, venendo a un risultato empirico cui sono
inerenti tutti gli errori della disegnata figura: mentre il poeta
somiglia al matematico, che quelle relazioni costruisce a priori, in
pura intuizione, e li manifesta non quali sono effettivamente nella
figura disegnata, ma quali nell'idea ond'è immagine sensibile il
disegno. Perciò dice Schiller:
Quello che mai né in alcun luogo è stato,
Quello soltanto non
invecchia mai26.
Devo anzi, in riguardo alla cognizione dell'essenza dell'umanità,
attribuire maggior pregio alle biografie, e soprattutto alle
autobiografie, che non alla storia vera e propria – almeno come di
solito è trattata. Imperocché per un verso sono in quelle raccolti i
dati con più precisione e compiutezza che in questa; per l'altro,
nella storia vera e propria non agiscono tanto uomini quanto popoli
ed eserciti, e gl'individui, che riescono ad entrarvi, appariscono a
sì gran distanza, con sì gran contorno e tale seguito, e coperti per
di più da rigidi abiti di gala, e grevi, non pieghevoli armature,
che davvero difficile si rende il riconoscere fra tutto questo il
moto umano. Invece la vita fedelmente esposta di un singolo
individuo, in una sfera limitata, ci mostra la condotta degli uomini
in tutte le loro sfumature e in tutti i loro aspetti: l'eccellenza,
la virtù, anzi la santità di alcuni, la perversità, la miseria
morale, la malizia dei più, la scelleraggine di non pochi. In ciò,
sotto il rispetto che qui esclusivamente consideriamo, ossia in
rapporto all'intimo significato del fenomeno, è affatto
indifferente, se gli oggetti intorno a cui s'aggira l'azione siano,
relativamente considerati, piccolezze o cose di gran peso, masserie
o regni: imperocché tutte codeste cose, senza importanza di per sé,
ne acquistano solo in quanto la volontà è da esse agitata; il motivo
ha importanza solo per la sua relazione con la volontà, mentre la
relazione, che esso in quanto oggetto può avere con altri oggetti,
non entra punto in gioco. Come un circolo d'un pollice di diametro e
un altro con un diametro di quaranta milioni di miglia hanno
esattamente le stesse proprietà geometriche, così sono gli
avvenimenti e la storia d'un villaggio o quelli d'un regno, in
sostanza, i medesimi; e si può negli uni come negli altri studiare e
conoscere l'umanità. Si ha anche torto di ritenere che le biografie
siano in tutto inganno e finzione. Anzi la menzogna (sebbene
possibile dappertutto) v'è forse più difficile che altrove. La
finzione è facilissima nel semplice conversare; ma – per quanto
sembri paradossale – è già più difficile in una lettera, perché
quivi l'uomo, abbandonato a se stesso, guarda in sé e non fuori,
stenta ad aver da presso ciò che gli è estraneo e lontano, e non ha
innanzi agli occhi la misura dell'effetto sopra un altr'uomo.
Quest'altro invece, calmo, in una disposizione d'animo estranea a
quella dello scrittore, scorre la lettera, la rilegge a varie
riprese ed in tempi diversi, e così finisce con lo scoprirvi
facilmente l'intenzione riposta. Il miglior modo, di conoscere un
autore anche come uomo, è cercarlo nel suo libro, perché quivi
agiscono ancor più forte e durevolmente tutte quelle condizioni: e
farsi in una biografia diversi da quel che si è, è tanto difficile,
che non ve n'ha forse alcuna, la quale non sia in complesso più vera
di qualsivoglia altra storia scritta. L'uomo, che ritrae la propria
vita, la vede nelle sue grandi linee: i singoli fatti
s'impiccioliscono, le cose vicine s'allontanano, mentre s'avvicinano
le lontane, i riguardi s'attenuano: egli sta con se medesimo in
confessione, e vi si è disposto liberamente. Lo spirito della
menzogna non l'afferra qui tanto facilmente: essendo in ogni uomo
insita un'inclinazione alla verità, che per ciascuna bugia dev'esser
prima rattenuta, e che all'atto del confessarsi acquista il
predominio. Il rapporto tra biografia e storia dei popoli si rende
manifesto con l'esempio che segue. La storia ci mostra l'umanità,
come la vista da un alto monte ci mostra la natura: molto vediamo
con un'occhiata, ampie distese, grandi masse; ma nulla è
distintamente riconoscibile in tutto il suo vero essere. Viceversa
la vita di un singolo individuo ci mostra l'uomo a quel modo stesso,
con cui apprendiamo a conoscer la natura passeggiando tra i suoi
alberi, piante, rocce e acque. Ma, come per mezzo della pittura di
paesaggi, nella quale l'artista ci fa veder la natura con gli occhi
suoi, vengono a noi resi molto più facili la conoscenza delle idee
di questa e lo stato del puro conoscere, scevro di volontà, per tal
conoscenza richiesto; così ha l'arte poetica per la rappresentazione
delle idee, che noi potremmo cercar nella storia e nella biografia,
grandi vantaggi su queste ultime: perché anche quivi il genio regge
davanti a noi il chiarificante specchio, nel quale tutto ciò ch'è
essenziale e significativo si raccoglie, e, posto in piena luce, ci
si fa incontro, mentre ciò ch'è causale ed estraneo, viene
rimosso27.
La rappresentazione dell'idea dell'umanità, che al poeta incombe,
può da lui esser fatta o in modo che il rappresentato sia anche
colui che rappresenta: il che accade nella poesia lirica, nella
canzone in senso proprio, dove il poeta vede e descrive vivacemente
solo il suo stato personale, sì che diviene essenziale in questo
genere poetico una certa soggettività, a causa dell'argomento;
oppure quegli che rappresenta è affatto distinto dalla cosa
rappresentata, come accade in tutti gli altri generi poetici, dove
chi rappresenta più o meno si cela dietro al rappresentato e finisce
con lo scomparire. Nella romanza lirico-drammatica, chi rappresenta
esprime ancora in qualche modo, mediante il tono e l'andatura
dell'insieme, il proprio stato: molto più oggettiva della canzone,
la romanza ha tuttavia ancor qualcosa di soggettivo, che
impallidisce già vieppiù nell'idillio, e più ancora nel romanzo, e
svanisce quasi del tutto nell'epopea, e, fino all'ultima traccia,
nel dramma, che è il più oggettivo, e per vari riguardi più
perfetto, ma anche più difficile genere poetico. La lirica è per
questo motivo il genere più facile; e se l'arte in complesso è
dominio esclusivo del genio vero, che è tanto raro, tuttavia anche
un uomo il quale non sia nell'insieme molto eminente può, quando in
effetti siano le sue forze spirituali innalzate da una forte
eccitazione esteriore, da un qualche entusiasmo, mettere insieme una
bella canzone: perché a ciò occorre non altro che una viva
intuizione del proprio stato in un momento d'agitazione. Questo
provano molti canti isolati composti da individui altrimenti ignoti,
in ispecie i canti popolari tedeschi, dei quali noi abbiamo
un'ottima raccolta nel Wunderhorn, e così pure innumerabili canti
popolari d'amore o d'altro soggetto in tutte le lingue. Imperocché
il cogliere e fissare nella canzone la disposizione del momento, è
tutto il compito di questo genere poetico. Tuttavia nella lirica dei
poeti veri si riflette l'intimo di tutta l'umanità; e tutto ciò, che
milioni d'uomini passati, presenti, futuri hanno sentito o
sentiranno nelle medesime situazioni sempre rinascenti, trova colà
la sua voce. Quelle situazioni, per il loro costante ritorno,
appunto come l'umanità rimangono perenni, e ognora producono i
sentimenti medesimi: e perciò le liriche dei veri poeti durano per
millenni giuste, efficaci e fresche. Il poeta, in sostanza, è l'uomo
universale: tutto ciò che ha scosso un cuore umano, ciò che l'umana
natura in qualsivoglia stato da se medesima esprime, tutto ciò che
in un petto umano può trovarsi e covare, – è suo tema e sua materia;
come, inoltre, tutta quanta la rimanente natura. Può così il poeta
cantare la voluttà come il misticismo, essere Anacreonte o Angelus
Silesius, scrivere tragedie o commedie, rappresentare animi alti o
volgari, – secondo ha capriccio e vocazione. E a nessuno è lecito
prescrivere al poeta d'esser nobile ed elevato, morale, pio,
cristiano, essere questo o quello; e tanto meno rimproverarlo di non
essere questo e quello. Egli è lo specchio dell'umanità, e la fa
consapevole di ciò ch'ella sente ed opera.
Consideriamo ora più da presso l'essenza della canzone vera e
propria, togliendo a esempio qualche modello eccellente e puro
insieme: non di quelli, che già in certo modo s'accostano a un altro
tipo, come sarebbe alla romanza, all'elegia, all'inno,
all'epigramma, e così via; troveremo così, che l'essenza
caratteristica della canzone in senso preciso è la seguente. È il
soggetto della volontà, ossia il proprio volere, che empie la
conscienza di chi canta; spesso come sciolto, appagato volere
(gioia), e più spesso come un volere contrastato (dolore); sempre,
tuttavia, come affetto, passione, animo agitato. Ma nondimeno
accanto a questo, e insieme con questo, colui che canta diviene,
alla vista della natura d'intorno, conscio di sé qual soggetto del
puro conoscere, scevro di volontà: la cui incrollabile pace
spirituale viene a trovarsi in contrasto con l'urto del volere
sempre costretto, ancor sempre assetato. E la sensazione di tal
contrasto, di tal giuoco alterno, è proprio ciò che s'esprime nel
complesso della canzone, e costituisce in genere lo stato lirico. Si
direbbe, che in tal stato ci si faccia dappresso il puro conoscere,
per liberarci dal volere e dal suo impulso; noi lo seguiamo, ma sol
per brevi istanti: sempre di nuovo il volere, il ricordo dei nostri
fini personali, ci strappa alla pacata contemplazione; ma ogni volta
ci discioglie dai lacci del volere la bella natura circostante,
nella quale a noi si offre la pura conoscenza libera da volontà.
Perciò sono nella canzone e nella disposizione lirica il volere
(l'interesse personale per i propri fini) e la pura intuizione del
mondo circostante in singolar modo frammisti: tra loro vengon
cercate e immaginate relazioni; la disposizione soggettiva, la
commozione della volontà comunica i suoi colori all'ambiente
intuito, e questo a quella: di tutto questo stato d'anima sì
commisto e discorde è la vera canzone un riflesso. Per rendere
comprensibile con esempi questa analisi astratta d'uno stato ben
lontano da ogni astrazione, sì può prender ciascuna delle immortali
canzoni di Goethe; ma come particolarmente chiare per il nostro
scopo ne raccomando solo alcune: Lamento d'un pastore, Il benvenuto
e il commiato, Alla luna, Sul lago, Sensazione d'autunno28 Sono
anche ottimi esempi le canzoni del Wunderhorn: soprattutto quella
che comincia: O Brema, or ti debbo lasciare29. Come parodia comica,
e giustissima, del carattere lirico, mi sembra notevole una canzone,
in cui Voss descrive ciò che prova un copritetti ubriaco, nell'atto
di cader da una torre; il quale, pur cadendo, fa l'osservazione,
molto fuori luogo nel suo stato presente, e quindi spettante alla
conoscenza scevra di volontà, che l'orologio della torre segna per
l'appunto le undici e mezza. Chi divide la mia opinione sullo stato
lirico, dovrà pur convenire che esso è propriamente la conoscenza
intuitiva e poetica di quella massima stabilita nel mio scritto sul
principio di ragione, e in quest'opera già ricordata, che l'identità
del soggetto del conoscere con quello del volere può esser chiamata
il miracolo κατ’εξοχην sì che l'effetto poetico della canzone poggia
da ultimo sulla verità di quella massima. Nel corso della vita que'
due soggetti o, per esprimermi alla buona, testa e cuore, vengono
sempre più discostandosi l'uno dall'altro: sempre più scindiamo il
nostro sentimento soggettivo dalla conoscenza oggettiva. Nel
fanciullo sono entrambi ancor fusi del tutto: egli sa a stento
distinguer sé da ciò che lo circonda, e vi si dissolve. Nel giovane,
ogni percezione produce dapprima sentimento e stato d'animo; e molto
bene è ciò espresso da Byron:
I live not in myself, but I become
Portion of that around me; and to
me
High mountains are a feeling30.
Appunto perciò il giovine è tanto attaccato all'intuitiva faccia
esterna delle cose; appunto perciò egli non è capace d'altra poesia
che lirica, e soltanto l'uomo maturo è capace della drammatica. Il
vecchio possiamo immaginarcelo al più come poeta epico, quali furono
Ossian e Omero: perché il narrare appartiene al carattere del
vecchio.
Nei generi più oggettivi, specialmente nel romanzo, nell'epopea e
nel dramma, lo scopo, rivelazione dell'idea dell'umanità, viene
raggiunto soprattutto con due mezzi: con esatta e profonda
rappresentazione di significanti caratteri, e col trovar
significanti situazioni, in cui quelli si dispieghino. Imperocché
come al chimico tocca non solo presentar puri e genuini i corpi
semplici e le lor principali combinazioni; ma anche esporli
all'azione di reagenti tali, per cui le proprietà loro si rendano
chiare e visibili appieno; così tocca al poeta non solo portarci
innanzi con verità e fedeltà, come fa la natura medesima,
significanti caratteri; ma deve, per farceli conoscere, metterli in
situazioni, nelle quali le proprietà loro si svolgano compiutamente
e si presentino nette con precisi contorni, situazioni che perciò
appunto si chiamano significanti. Nella vita reale e nella storia è
raro che il caso introduca situazioni di questa natura, e quelle
poche stanno isolate, smarrite e nascoste nella folla delle
situazioni insignificanti. La continuata importanza delle situazioni
distingue il romanzo, l'epopea, il dramma dalla vita reale,
altrettanto come li distingue l'accolta e la scelta di caratteri
espressivi: ma nell'una cosa e nell'altra è inesorabile condizione
dell'effetto la più rigida verità. E mancanza di unità nei
caratteri, contraddizioni interne in quelli, oppur contrasti con
l'essenza dell'umanità in genere, e impossibilità, o
inverosimiglianza (che all'impossibilità è vicina) dei fatti, sia
pur soltanto in circostanze secondarie, offendono nella poesia
quanto figure mal disegnate, o falsa prospettiva, o luce difettosa
offendono in pittura: perché noi vogliamo, là come qui, lo specchio
fedele della vita, dell'umanità, del mondo, sol reso più limpido
dalla rappresentazione e più significante della combinazione. Uno
essendo lo scopo di tutte le arti, rappresentazione delle idee, e
consistendo la sostanzial differenza di quelle solamente nel diverso
grado di oggettivazione della volontà toccato all'idea da
rappresentare, dal qual grado è a sua volta determinata la materia
della rappresentazione; ne consegue che anche le arti tra loro più
discoste si possono illustrare con reciproci confronti. Per esempio,
a ben comprendere le idee esprimentisi nell'acqua, non basta veder
l'acqua d'un placido stagno o corrente d'un corso regolare ed
eguale: quelle idee si rivelano appieno sol quando l'acqua si mostra
alle prese con tutte le situazioni e gli ostacoli che, operando su
lei, la spingono alla manifestazione piena di tutte le sue
proprietà. Perciò la troviamo bella quando precipita, rumoreggia,
spumeggia, si slancia in alto o ricadendo si fa polvere, o alfine,
ad arte costretta, come raggio sprizza verso il cielo. E così in
circostanze diverse variamente mostrandosi, sempre afferma costante
il carattere proprio. Altrettanto è a lei naturale sprizzar
nell'alto, quanto star quieta come specchio: all'uno e all'altro
stato è subito disposta, non appena se ne presentino le circostanze.
Ora, ciò che con la materia liquida può fare un artefice del genere,
fa con la solida l'architetto, e non altrimenti fa il poeta epico o
drammatico con l'idea dell'umanità. Disvelamento e chiarimento
dell'idea esprimentesi nell'oggetto di ogni arte, della volontà
oggettivantesi in ogni grado, è di tutte le arti compito comune. La
vita dell'uomo, quale apparisce il più sovente nella realtà,
somiglia all'acqua come noi di solito la vediamo, in fiume e stagno:
ma nell'epopea, nel romanzo e nella tragedia vengono eletti
caratteri posti in circostanze, nelle quali tutte le lor proprietà
si dispiegano, gli abissi dell'animo umano si dischiudono e fanno
visibili in azioni straordinarie, altamente significative. Così
l'arte poetica oggettiva l'idea dell'umanità, della quale è
caratteristico il presentarsi in caratteri fortissimamente
individuali.
Come vetta dell'arte poetica, tanto riguardo alla grandezza
dell'effetto, quanto alla difficoltà dell'opera, è da considerarsi
ed è generalmente ritenuta la tragedia. Per il complesso di tutta la
nostra indagine è molto importante e da tener bene in conto, che
scopo di quest'altissima creazione poetica è la rappresentazione
della vita nel suo aspetto terribile; che il dolore senza nome,
l'affanno dell'umanità, il trionfo della perfidia, la schernevole
signoria del caso e il fatale precipizio dei giusti e degl'innocenti
vengono qui a noi presentati: imperocché si ha in ciò un
significante segno intorno alla natura del mondo e dell'essere. È il
contrasto della volontà con se medesima, che qui, nel grado supremo
della sua oggettità, dispiegato in tutta la sua pienezza,
tremendamente balza alla luce. Nel dolore della umanità si fa
visibile: e quello è prodotto parte dal caso e dall'errore, che
quali dominatori del mondo intervengono, e per la loro malizia, che
giunge fino ad aver l'apparenza di consapevolezza, sono
personificati nel destino; parte proviene dall'umanità stessa, per
le incrociantesi voglie degli individui, per la malvagità e
perversità dei più. Una e identica volontà è quella, che in tutti
vive e si manifesta, ma le sue manifestazioni si combattono e si
dilaniano a vicenda. In un individuo si rivela potente, in un altro
più debole, qui più, lì meno accordata con la riflessione e
attenuata dalla luce della conoscenza, fin quando alfine in taluno
questa conoscenza, purificata ed elevata mediante il dolore stesso,
tocca il punto in cui il fenomeno, il velo di Maja, non più
l'inganna. Allora la forma del fenomeno, il principium
individuationis, viene da lei visto bene addentro; e perciò
l'egoismo che su questo si fonda è spento, sì che i motivi prima sì
poderosi perdono la loro forza, e in luogo di quelli la piena
cognizione dell'essenza del mondo, agendo come quietivo della
volontà, fa nascer la rassegnazione, la rinunzia non alla vita
soltanto, ma all'intera volontà di vivere. Così vediamo nella
tragedia i più nobili caratteri da ultimo rinunziar per sempre, dopo
lungo combattere e soffrire, agli scopi fino allora sì vivamente
perseguiti, e a tutti i piaceri della vita, o la vita stessa
abbandonare volenterosi e lieti. Così il principe costante di
Calderón; così Margherita nel Faust; così Amleto, cui il suo Orazio
volentieri seguirebbe, ma Amleto gl'impone di rimanere, e ancora un
poco respirare con dolore in questo duro mondo, per far luce sul
destino di lui e lavar da ogni macchia la sua memoria; così ancora
la Pulcella d'Orléans, la Fidanzata di Messina: tutti muoiono
purificati dal dolore, ossia quando in loro la volontà di vivere è
già morta. Questo è significato alla lettera nelle ultime parole del
Mohammed di Voltaire, dove la Palmira grida a Mohammed: «Il mondo è
fatto pei tiranni: vivi!». Invece il pretender la cosiddetta
giustizia poetica poggia sopra un assoluto misconoscer l'essenza
della tragedia, anzi l'essenza del mondo. Sfacciatamente questa
pretesa si mostra in tutta la sua scipitaggine nei saggi critici,
che il dr. Samuel Johnson ha scritto su ciascun dramma di
Shakespeare, dov'egli in maniera proprio ingenua lamenta che la
giustizia poetica sia sempre trascurata. Ed è vero: che male hanno
commesso le Ofelie, le Desdemone, le Cordelie? Ma soltanto la
piatta, ottimista, protestante-razionalistica, o propriamente
giudaica concezione del mondo pretenderà la giustizia poetica e
troverà il proprio soddisfacimento nel soddisfacimento di quella. Il
vero senso della tragedia è la cognizione ben più profonda, che
l'eroe non sconta i suoi peccati personali, ma il peccato
universale, ossia la colpa stessa dell'essere:
Pues el delito mayor
Del hombre es haber nacido31,
come apertamente afferma Calderón.
Guardando più da presso il modo di compor la tragedia, voglio
permettermi ancora un'osservazione. Il rappresentare una grande
sventura è la sola cosa essenziale alla tragedia. Ma le molte vie,
per le quali la sventura può essere introdotta dal poeta, sono di
tre specie. Può accadere per la straordinaria perfidia, spinta a
toccar gli estremi limiti della possibilità, d'un carattere, il
quale diventa causa della sventura: esempi di questo genere sono
Riccardo III, Jago nell'Otello, Shylok nel Mercante di Venezia,
Franz Moor, la Fedra d'Euripide, Creonte nell'Antigone e così via.
Oppure può accadere per un cieco destino, ossia caso ed errore: di
tale specie è un vero modello il re Edipo di Sofocle, ed anche le
Trachinie, e in genere la maggior parte delle tragedie antiche; tra
le moderne sono esempi Romeo e Giulietta, il Tancred di Voltaire, la
Fidanzata di Messina. La sventura può esser cagionata in fine dalla
semplice situazione rispettiva delle persone, dai loro rapporti, sì
che non v'ha bisogno né d'un mostruoso errore o d'un caso inaudito,
né d'un carattere, che tocchi i confini umani del male: ma caratteri
come sotto il rispetto morale ve n'ha tanti, in circostanze quali
occorrono sovente, sono posti di fronte in modo, che la situazione
loro li costringe a farsi l'un l'altro, sapendo e vedendo, il più
gran male, senza che in ciò il torto sia tutto da una parte sola.
Quest'ultima specie sembra a me di molto preferibile alle altre due:
imperocché ci fa apparir la più grande delle sventure non come
un'eccezione, non come effetto di circostanze rare o di mostruosi
caratteri, ma come alcunché venuto facilmente e spontaneamente,
quasi per naturale necessità, dall'azione e dai caratteri degli
uomini; e appunto perciò la rende in terribile modo vicina a noi
stessi. E se noi nelle altre due specie vediamo il mostruoso destino
e l'orrenda malvagità bensì come forze terribili, ma che solo da
gran distanza ci minacciano e alle quali possiamo sfuggire, senza
cercar ricovero nella completa rinunzia, l'ultima invece presenta a
noi quelle forze, onde felicità e vita son travolte, come fatte di
tal natura che anche contro di noi possono aprirsi la via ad ogni
istante; e il più gran dolore può venirci da complicazioni, la cui
essenza può pesare anche sul nostro destino, e da azioni, che noi
anche saremmo capaci di commettere, sì che non potremmo lagnarci
d'ingiustizia. Allora rabbrividendo ci sentiamo già in mezzo
all'inferno. Ma la composizione d'una tragedia di quest'ultimo tipo
è pur la più difficile, dovendosi qui con un minimo impiego di mezzi
e di moventi produrre il massimo effetto, solo mediante la
situazione e la distribuzione di quelli: perciò anche in nome delle
migliori tragedie questa difficoltà è girata. Qual perfetto modello
del genere è tuttavia da citare un dramma, che sotto altro riguardo
è di molto superato da altre opere del medesimo grande maestro:
Clavigo. Della stessa natura è in un certo senso Amleto, se non
guardiamo che alla situazione del protagonista davanti a Laerte e ad
Ofelia; anche il Wallenstein ha questo merito; tale è pure il Faust,
se si considera come azione principale soltanto ciò che accade a
Margherita ed a suo fratello; così il Cid di Corneille, al quale
manca nondimeno l'esito tragico, che invece si trova nell'analoga
situazione di Max rispetto a Teda nel Wallenstein32.
§ 52.
Dopo aver fin qui considerato tutte le arti belle da quel punto di
vista generale, che a noi si conviene, principiando
dall'architettura, scopo della quale è render palese
l'oggettivazione della volontà nel grado più basso in cui questa è
visibile, ov'essa si mostra come oscuro, inconsciente, meccanico
impulso della massa, e pur tuttavia già palesa interno dissidio e
lotta; e il nostro esame concludendo con la tragedia, che nel grado
supremo dell'oggettivazione della volontà appunto quell'interno
dissidio ci disvela in tremenda grandezza e chiarezza; troviamo che
nondimeno un'arte bella è rimasta e doveva rimanere esclusa da
questa indagine, non essendo per lei alcun luogo conveniente nella
trama della nostra esposizione: la musica. Ella è staccata da tutte
le altre. In lei non conosciamo l'immagine, la riproduzione d'una
qualsiasi idea degli esseri che sono al mondo; eppure ell'è una sì
grande e sublime arte, sì potentemente agisce sull'intimo dell'uomo,
sì appieno e a fondo vien da questo compresa, quasi lingua
universale più limpida dello stesso mondo intuitivo; – che in lei di
certo dobbiamo cercar ben più dell'exercitium arithmeticae occultum
nescientis se numerare animi, qual fu dichiarata da Leibniz33. E
questi ebbe nondimeno ragione, in quanto ne guardò soltanto
l'immediata ed esterna significazione, la scorza. Ma se non fosse
nulla di più, dovrebbe la soddisfazione, ch'ella ci arreca,
somigliare a quella che noi troviamo nella giusta soluzione d'un
problema di calcolo; e non sarebbe punto quell'intima gioia, con la
quale noi vediamo fatto parlante il più segreto recesso del nostro
essere. Dal nostro punto di vista, adunque, dobbiamo riconoscere
alla musica un significato ben più grave e profondo, riferentesi
alla più interiore essenza del mondo e del nostro io; rispetto alla
quale le relazioni di numeri, in cui quella si lascia scomporre,
stanno non già come la cosa significata, ma appena come il segno
significante. Che la musica debba stare al mondo, in un senso
qualsiasi, come rappresentazione sta al rappresentato, come immagine
all'originale, possiamo dedurre dall'analogia delle altre arti, alle
quali tutte appartiene questo carattere, e la cui azione su di noi
ha la stessa natura di quella della musica, ma solo è quest'ultima
più forte, più rapida, più necessaria, più infallibile. Quella
relazione d'immagine rispetto all'originale, ch'ella ha col mondo,
deve pur essere ben intima, infinitamente verace e sommamente
precisa, per esser da ciascuno compresa in un attimo; e dà a
conoscere una tal quale infallibilità, dal fatto che la sua forma si
lascia ricondurre a regole ben determinate, da esprimersi in numeri;
regole cui non può sottrarsi, senza cessare interamente d'esser
musica. Tuttavia il punto di paragone tra la musica e il mondo, il
modo onde quella sta con questo nel rapporto d'imitazione o
riproduzione, giace ben profondamente celato. S'è fatto musica in
tutti i tempi, senza rendersi conto di ciò: paghi di comprenderla
direttamente, s'è rinunziato a una conscienza astratta di questa
immediata comprensione.
Nel mentre io abbandonavo tutto il mio spirito all'impressione della
musica, facendo poi in seguito ritorno alla riflessione e al corso
dei pensieri esposti nell'opera presente, venni a una conclusione
sulla sua intima essenza e sul modo della sua relazione col mondo,
la quale per necessaria analogia era da supporre fosse di natura
imitativa. Tale conclusione essendo per me stesso sufficiente
appieno, e per la mia indagine soddisfacente, sarà forse egualmente
luminosa per chi mi abbia seguito finora convenendo col mio concetto
del mondo. Ma di quella conclusione fornir la prova, riconosco esser
cosa sostanzialmente impossibile; perché essa ammette e stabilisce
un rapporto della musica, come rappresentazione, con ciò che per
essenza non può mai essere rappresentazione; e la musica vuol
considerata come immagine di un modello, che non può direttamente
venir rappresentato esso medesimo. Non posso quindi fare altro, che
qui, al termine del terzo libro, principalmente consacrato all'esame
delle arti, esporre quel giudizio, ond'io m'appago, sulla mirabile
arte dei suoni; e il consenso o il dissenso dipenderà dall'effetto
prodotto sul lettore per una parte dalla musica, per l'altra da
tutto l'unico pensiero, ch'io comunico in quest'opera. Ritengo
inoltre necessario, perché si possa accogliere con piena persuasione
l'indagine, che ora farò, intorno al senso della musica, ascoltar
musica spesso, riflettendovi durevolmente. Ed anche a ciò occorre
esser già molto famigliare con tutto il mio pensiero.
L'adeguata oggettivazione della volontà sono le idee (platoniche);
provocar la conoscenza di queste (cosa possibile solo con una
corrispondente modificazione nel soggetto conoscitivo) mediante
rappresentazione di singoli oggetti (che non altro sono pur sempre
le opere d'arte), è il fine di tutte le altre arti. Tutte
oggettivano adunque la volontà in modo mediato, ossia per mezzo
delle idee: e il nostro mondo non essendo se non fenomeno delle idee
nella pluralità, per essere entrate nel principium individuationis
(forma della conoscenza possibile all'individuo come tale), ne
risulta che la musica, la quale va oltre le idee, anche dal mondo
fenomenico è del tutto indipendente, e lo ignora, e potrebbe in
certo modo sussistere quand'anche il mondo non fosse: il che non può
dirsi delle altre arti. La musica è dell'intera volontà
oggettivazione e immagine, tanto diretta com'è il mondo; o anzi,
come sono le idee: il cui fenomeno moltiplicato costituisce il mondo
dei singoli oggetti. La musica non è quindi punto, come l'altre
arti, l'immagine delle idee, bensì immagine della volontà stessa,
della quale sono oggettità anche le idee. Perciò l'effetto della
musica è tanto più potente e insinuante di quel delle altre arti:
imperocché queste ci danno appena il riflesso, mentre quella esprime
l'essenza. Essendo adunque la medesima volontà che si oggettiva,
tanto nelle idee quanto nella musica, ma solo in modo affatto
diverso, deve trovarsi non proprio una diretta somiglianza, ma
tuttavia un parallelismo, un'analogia tra la musica e le idee, delle
quali è fenomeno molteplice e imperfetto il mondo visibile.
L'indicare una tale analogia sarà come un chiarimento, che aiuti a
comprendere questa dimostrazione difficile per l'oscurità del
soggetto.
Nei suoni più gravi dell'armonia, nel basso fondamentale, io
riconosco i gradi infimi dell'oggettivantesi volontà, la natura
inorganica, la massa del pianeta. Tutti i suoni acuti, agili e
rapidi, notoriamente sono da considerare sorti dalle vibrazioni
concomitanti del suono fondamentale profondo, e al risuonar di
questi risuonan tosto lievi anch'essi. È legge dell'armonia,
accordare con una nota bassa soltanto quei suoni acuti, che insieme
con lei già effettivamente risuonano nelle vibrazioni concomitanti
(i suoi sons harmoniques). È un fatto analogo a quello, per cui
tutti i corpi e organismi della natura devono esser considerati come
svoltisi gradatamente dalla massa del pianeta; questa è il loro
sostegno come la loro sorgente: e la medesima relazione hanno i
suoni acuti col basso fondamentale. La profondità ha un termine,
oltre il quale un suono non è più percettibile: e ciò corrisponde al
non esservi materia percepibile senza forma e qualità, ossia senza
manifestazione d'una forza, che non può esser meglio spiegata, e in
cui un'idea si esprime; anzi corrisponde più generalmente al non
esservi materia in tutto scevra di volontà. Come adunque dal suono,
in quanto tale, è inseparabile un certo grado di altezza, così lo è
dalla materia un certo grado di manifestazione della volontà. Il
basso fondamentale è quindi per noi nell'armonia quel che il mondo
nella natura inorganica: la massa più rude, su cui tutto posa e da
cui tutto s'innalza e si sviluppa. Procedendo, in tutte le parti
costituenti l'armonia, tra il basso e la voce guida che canta la
melodia, riconosco l'intera scala delle idee, in cui la volontà si
oggettiva. Quelle più vicine al basso corrispondono ai gradi
inferiori, ossia ai corpi ancora inorganici ma già in più modi
estrinsecantisi: le più alte mi rappresentano il mondo vegetale ed
animale. I determinati intervalli della scala sono paralleli ai
gradi determinati nell'oggettivazione della volontà, alle
determinate specie della natura. Il discostarsi dall'aritmetica
esattezza degl'intervalli, o mediante una qualsiasi tempera, o
indotto dalla prescelta tonalità, è analogo al discostarsi
dell'individuo dal tipo della specie: e anzi le dissonanze impure,
che non danno un determinato intervallo, si posson paragonare ai
mostri venuti da due specie animali, o da uomo e animale. A tutte
codeste parti di basso e medie, che formano l'armonia, manca
nondimeno quell'organismo nella progressione, che soltanto ha la
parte superiore, ond'è cantata la melodia; la qual parte è la sola a
potersi muovere rapida e leggera nelle modulazioni e digressioni,
mentre tutte le altre hanno un andare più lento, senz'avere in
ciascuna per sé un organismo costante. Più pesante di tutte si muove
il basso fondamentale, il rappresentante della massa bruta: il suo
salire e discendere si fa solo per grandi passaggi, in terze,
quarte, quinte, e non mai d'un tono solo; che allora sarebbe, per
contrappunto doppio, un basso trasportato. Questo tardo moto è a lui
anche fisicamente naturale: un rapido passaggio o un gorgheggio
nelle note gravi non si può neppure immaginare. Più svelte, ma ancor
senza nesso melodico e significante progressione si muovono le parti
più elevate, che corrono parallele al mondo animale. Il movimento
isolato e la destinazione regolata di tutte le parti sono analoghi
al fatto, che in tutto il mondo irrazionale, dal cristallo
all'animale più perfetto, nessun essere ha una conscienza
propriamente sistematica, che faccia della sua vita un complesso
sensato; e nessuno ha una successione di sviluppi mentali, nessuno
si perfeziona con la cultura; bensì tutti rimangono in ogni tempo
eguali, secondo la propria natura, determinati da rigida legge.
Finalmente nella melodia, nella voce principale, alta, canora, che
il tutto guida, e libera, spontanea procede dal principio alla fine
con l'organismo ininterrotto e significativo d'un pensiero unico,
formando un tutto ben delineato, riconosco il grado supremo
dell'oggettivazione della volontà, la conscia vita e lotta
dell'uomo. Come l'uomo ognora guarda, egli solo essendo fornito di
ragione, davanti o dietro a sé, sul cammino della propria realtà e
delle possibilità innumerabili, compiendo un corso vitale
consapevole, in cui tutto si collega e forma un insieme: così ha la
melodia sola una significativa, voluta connessione da capo a fondo.
Ella narra quindi la storia della volontà illuminata dalla
riflessione, volontà che si manifesta nel reale con la serie degli
atti suoi; ma dice di più, narra della volontà la storia più
segreta, ne dipinge ogni emozione, ogni tendenza, ogni moto, tutto
ciò, che la ragione comprende sotto l'ampio e negativo concetto di
sentimento, né può meglio accogliere nelle proprie astrazioni.
Perciò fu sempre detto esser la musica il linguaggio del sentimento
e della passione, come le parole sono il linguaggio della ragione.
Già Platone la dichiara ή των μελων κινησις μεμιμημενη, εν τοις
παθημασιν όταν ψυχη γινηται (melodiarum motus, animi affectus
imitans), De leg. VII; e anche Aristotele dice: δια τι οί ρυθμοι και
τα μελη, φωνη ουσα, ηθεσιν εοικε; (cur numeri musici et modi, qui
voces sunt, moribus similes sese exhibent?); Probl, c. 19.
Ora, come l'essenza dell'uomo sta nel fatto, che la sua volontà
aspira, viene appagata e torna ad aspirare, e sempre così continua;
anzi sua sola felicità, solo suo benessere è che quel passar dal
desiderio all'appagamento e da questo a un nuovo desiderio proceda
rapido, poi che il ritardo dell'appagamento è dolore, e il ritardo
del nuovo desiderio è aspirazione vuota, languor, noia; così
l'essenza della melodia è un perenne discostarsi, peregrinar lontano
dal tono fondamentale per mille vie non solo verso i gradi armonici,
la terza e la dominante, ma verso ogni tono, fino alla dissonante
settima ed ai gradi eccedenti; eppur sempre succede da ultimo un
ritorno al tono fondamentale. Per tutte codeste vie esprime la
melodia il multiforme aspirar della volontà; ma col ritrovare infine
un grado armonico, o meglio ancora il tono fondamentale, esprime
l'appagamento. Trovar la melodia, scoprire in lei tutti i segreti
più profondi dell'umano volere e sentire, è l'opera del genio: la
cui azione è qui più facile a vedersi che altrove, libera da ogni
riflessione e meditato intento – e potrebbe chiamarsi inspirazione.
Qui, come ovunque nel dominio dell'arte, il concetto è infruttifero:
il compositore disvela l'intima essenza del mondo, in un linguaggio
che la ragione di lui non intende: come una sonnambula magnetica da
rivelazione di cose, delle quali sveglia non ha concetto alcuno. In
un compositore quindi, meglio che in ogni altro artista, è l'uomo
dall'artista in tutto separato e distinto. Perfino
nell'illustrazione di quest'arte mirabile il concetto lascia
scorgere la propria povertà e i propri limiti: ma io voglio
nondimeno tentar d'esporre fino all'ultimo l'analogia da me
indicata. Come il rapido passaggio dal desiderio all'appagamento, e
da questo a un nuovo desiderio, è felicità e benessere, così sono
gioiose le melodie rapide, senza grandi deviazioni: tristi sono
invece se lente, deviate in penose dissonanze, e solo attraverso
molte battute facenti ritorno al tono fondamentale; sì da
paragonarsi a un tardivo, contrastato appagamento del desiderio. Il
ritardo della nuova eccitazione della volontà, il languore, non
potrebbe esprimersi altrimenti che nel prolungato tono fondamentale,
il cui effetto sarebbe ben presto intollerabile: già di molto
s'avvicinano a ciò le monotone, inespressive melodie. I brevi,
facili periodi d'una rapida musica a danza sembrano parlar d'una
gioia comune, agevole a raggiungersi; mentre l'Allegro maestoso, in
lunghi periodi, lenti passaggi, ampie deviazioni, esprime una più
alta, più nobile aspirazione verso una meta lontana, e il suo finale
conseguimento. L'Adagio parla del dolore d'una grande e nobile
aspirazione, la quale disdegna ogni felicità meschina. Ma come
mirabile è l'effetto del Minore e Maggiore! Come stupisce, che il
mutar d'un semitono, il subentrar della terza minore in luogo della
maggiore, c'inspiri immediatamente e inevitabilmente un senso
d'angoscia e di pena, dal quale con la stessa rapidità ci libera il
modo maggiore! L'Adagio raggiunge nel modo minore l'espressione del
più alto spasimo, diviene il più sconvolgente lamento. Musica a
ballo in minore sembra indicare la perdita d'una felicità mediocre,
che piuttosto si dovrebbe disdegnare; sembra parlar d'un fine basso,
conseguito con travagli e tribolazioni. L'inesauribile ricchezza di
possibili melodie corrisponde all'inesauribile ricchezza della
varietà d'individui, fisonomie e carriere vitali nella natura. Il
passaggio da una tonalità a un'altra affatto diversa, venendo a
toglier la connessione con ciò che precede, somiglia alla morte, in
quanto ella è fine dell'individuo: ma la volontà, che in costui si
palesava, vive dopo come prima, in altri individui palesandosi, la
cui conscienza tuttavia non ha connessione di sorta con quella del
primo.
Nel mostrar tutte queste analogie, non si deve tuttavia mai
dimenticare che la musica non ha con esse una relazione diretta, ma
soltanto indiretta: non esprimendo ella il fenomeno, ma l'intimo
essere, l'in-sé d'ogni fenomeno, la volontà stessa. Non esprime
adunque questa o quella singola e determinata gioia, questo o quel
turbamento, o dolore, o terrore, o giubilo, o letizia, o serenità;
bensì la gioia, il turbamento, il dolore, il terrore, il giubilo, la
letizia, la serenità in se stessi, e, potrebbe dirsi, in abstracto,
dandone ciò che è essenziale, senza accessori, quindi anche senza i
loro motivi. Perciò noi comprendiamo la musica perfettamente, in
questa purificata quintessenza. Di là procede che la nostra fantasia
venga dalla musica con tanta facilità eccitata, tenti allora di dar
forma a quel mondo di spiriti, che direttamente ci parla, invisibile
e pur sì vivamente mosso, e di vestirlo con carne e ossa, cioè
impersonarlo in un esempio analogo. Questa è l'origine del canto
accompagnato da parole, e finalmente dell'opera, – la quale appunto
perciò non dovrebbe mai abbandonare questa situazione subordinata
per salire al primo luogo, e ridurre la musica a semplice mezzo
della propria espressione; la qual cosa è un grosso errore e una
brutta stortura. Imperocché sempre la musica esprime la quintessenza
della vita e dei suoi eventi, ma non mai questi medesimi; le cui
distinzioni quindi non hanno il minimo influsso sopra di lei.
Appunto tale universalità, che a lei esclusivamente appartiene,
malgrado la determinatezza più precisa, le dà l'alto valore, ch'ella
possiede come panacea di tutti i nostri mali. Se quindi si vuol
troppo adattar la musica alle parole, e modellarla sui fatti, ella
si sforza a parlare un linguaggio che non è il suo. Da questo
difetto nessuno s'è tenuto lontano come Rossini: perciò la musica di
lui parla sì limpido e puro il linguaggio suo proprio, da non aver
punto bisogno di parole, ed esercitare quindi tutto il suo effetto,
anche se eseguita dai soli strumenti.
In conseguenza di tutto ciò possiamo considerare il mondo fenomenico
(o la natura) e la musica come due diverse espressioni della cosa
stessa; la quale è adunque il termine di unione dell'analogia che
passa fra loro, la cui conoscenza si richiede per vedere addentro
quell'analogia. La musica quindi è – guardata come espressione del
mondo – un linguaggio in altissimo grado universale, che addirittura
sta all'universalità dei concetti press'a poco come i concetti
stanno alle singole cose. Ma la sua universalità non è punto
quell'universalità vuota dell'astrazione, bensì ha tutt'altro
carattere, ed è congiunta con una perenne, limpida determinatezza.
Somiglia in ciò alle figure geometriche ed ai numeri: che, quali
forme universali di tutti i possibili oggetti dell'esperienza ed a
tutti applicabili, non sono tuttavia astratti, ma intuitivi e sempre
determinati. Tutte le possibili aspirazioni, eccitazioni e
manifestazioni della volontà; tutti quei fatti interni dell'uomo,
che la ragione getta nell'ampio concetto negativo di sentimento,
sono da esprimere nelle infinite melodie possibili; ma ognora
nell'universalità di semplice forma, senza la materia; ognora
nell'in-sé, e non nel fenomeno: quasi la più profonda anima di
questo, senza il corpo. Da quest'intima relazione, che la musica ha
con la vera essenza di tutte le cose, si trae pur la spiegazione del
fatto che se a qualsivoglia scena, azione, evento, ambiente
s'accompagna una musica adatta, questa sembra dischiudercene il
senso più segreto, ed esserne il più esatto, il più limpido
commentario; e nello stesso tempo pare a quegli, che intero
s'abbandona all'effetto d'una sinfonia, di vedere innanzi a sé
passare le vicende tutte della vita e del mondo: ma nondimeno non
gli è possibile, quando vi rifletta, trovare una somiglianza tra
quella musica e le cose che ondeggiavano a lui nella fantasia.
Imperocché quivi la musica differisce, come ho detto, da tutte le
altre arti: nell'essere non già una riflessa immagine del fenomeno
o, meglio, l'adeguata oggettità della volontà, bensì l'immediato
riflesso della volontà medesima; e per tutto ciò ch'è fisico nel
mondo rappresentare il metafisico, per ogni fenomeno rappresentare
la cosa in sé. Tanto si potrebbe quindi chiamare il mondo musica
materiata, quanto materiata volontà. Così si spiega, perché la
musica faccia apparire in più forte rilievo ogni quadro, anzi ogni
scena della vita reale e del mondo: e tanto più, per quanto più
analoga è la melodia di lei all'intimo spirito del dato fenomenico.
Di qui viene che una poesia possa, come canto, venir sottomessa alla
musica: o una rappresentazione intuitiva come pantomina; o questa e
quella insieme, come opera. Tali scene isolate dell'umana vita,
fatte soggetto all'universale linguaggio della musica, non sono mai
con questa congiunte o a lei corrispondenti per una fissa necessità;
bensì v'hanno il rapporto che un qualsivoglia esempio può avere col
concetto generale: rappresentano con la determinatezza della realtà
quel che la musica esprime nell'universalità della forma pura.
Perché le melodie sono, in un certo modo, così come i concetti
universali, un'astrazione della realtà. Quest'ultima, invero,
fornisce l'intuitivo, il particolare e individuale, il caso singolo,
in corrispondenza sia all'universalità dei concetti, sia
all'universalità delle melodie; le quali universalità sono tuttavia,
sotto un certo rispetto, contrarie: poiché i concetti contengono
soltanto le forme primamente astratte dall'intuizione, quasi il
vuoto guscio esterno delle cose, e sono quindi astrazioni vere e
proprie; mentre la musica da invece il nocciolo più interno,
precedente a ogni formazione, ossia il cuore della cosa. Questo
rapporto si potrebbe esprimere benissimo nella lingua degli
scolastici, dicendo: i concetti sono gli universalia post rem,
mentre la musica dà gli universalia ante rem, e la realtà gli
universalia in re. Al senso universale della melodia, posta ad
accompagnare una poesia, potrebbero corrispondere egualmente altri
esempi, scelti a piacere, dell'universale in quella espresso, nello
stesso grado; perciò la stessa composizione s'adatta a più strofe, e
perciò si può avere il vaudeville. Ma in genere l'esser possibile un
rapporto tra una composizione musicale e una rappresentazione
intuitiva poggia, come ho osservato, sul fatto che l'una e l'altra
sono espressioni differentissime della stessa intima essenza del
mondo. Ora, quando s'abbia davvero nel caso singolo un tal rapporto,
e il compositore abbia saputo esprimere nell'universale lingua della
musica quei moti della volontà, che formano il nocciolo di un
evento, allora la melodia della canzone o la musica dell'opera è
altamente espressiva. L'analogia, dal compositore trovata fra quel
linguaggio e quei moti, deve nondimeno procedere dall'immediata
cognizione dell'essenza del mondo, senza consapevolezza della
ragione; non dev'essere imitazione fatta consapevolmente, mediante
concetti, che allora non esprimerebbe la musica l'intima essenza, la
volontà medesima, e non farebbe che imitare insufficientemente il
fenomeno di quest'ultima, come ognor fa la musica imitativa, qual è
per esempio Le stagioni di Haydn e anche la sua Creazione, in molti
luoghi ove fenomeni del mondo intuitivo sono direttamente imitati. E
così anche in tutte le descrizioni di battaglie: tutta roba da
gettar via.
L'ineffabile senso intimo d'ogni musica, in grazia del quale ella ci
passa davanti come un paradiso a noi ben famigliare e pure
eternamente lontano, affatto comprensibile e pur tanto
incomprensibile, proviene dal riflettere tutti i moti del nostro
essere più segreto, ma senza la realtà loro, e tenendosi lungi dal
loro tormento. Similmente la gravità essenziale alla musica, per cui
è il ridicolo escluso affatto dal suo diretto dominio, si spiega con
l'esser suo oggetto immediato non la rappresentazione, che sola può
apparire illusoria e ridicola, ma la volontà stessa. E questa è per
sua natura ciò che esiste di più grave, come ciò da cui tutto
dipende. Come ricco di contenuto e di significanza sia il linguaggio
musicale, provano perfino i segni di ripetizione, oltre al da capo,
che in opere letterarie sarebbero intollerabili, mentre in quello
appaiono opportuni e vantaggiosi, dovendosi udire due volte per
afferrarlo appieno. In tutta questa trattazione intorno alla musica
mi sono sforzato di render chiaro, come ella in un linguaggio
universalissimo esprima l'essenza intima, l'in-sé del mondo, che
noi, muovendo dalla sua manifestazione più limpida, significhiamo
sotto il concetto di volontà; e l'esprima in una materia
particolare, ossia con semplici suoni, con la massima determinatezza
e verità. E d'altra parte, secondo io vedo e tendo, la filosofia non
è se non compiuta, esatta riproduzione ed espressione dell'essenza
del mondo, in concetti molto generali; sol con questi potendosi
avere una visione, per ogni verso sufficiente e servibile, di tutta
quell'essenza. Chi adunque m'ha seguito ed è penetrato nel mio
pensiero, non mi troverà tanto paradossale, quando dico che, posto
si potesse dare una spiegazione della musica, in tutto esatta,
compiuta e addentrantesi nei particolari, ossia riprodurre
estesamente in concetti ciò ch'ella esprime, questa sarebbe
senz'altro una sufficiente riproduzione e spiegazione del mondo in
concetti; oppur le equivarrebbe in tutto, e sarebbe così la vera
filosofia. Né il motto di Leibniz sopra citato, giustissimo da un
inferior punto di vista, suonerebbe paradossale venendo a esser
parodiato nel senso della nostra superiore concezione della musica,
così: Musica est exercitium metaphysices occultum nescientis se
philosophari animi. Imperocché scire, sapere, significa sempre aver
deposto la conoscenza in concetti astratti. E poi che la musica, per
la verità da più parti confermata del motto leibniziano, non è
altro, astraendo dal suo significato estetico, o interno, e
guardandola in modo affatto esteriore ed empirico, che il mezzo di
afferrar direttamente, e in concreto, numeri più grandi e relazioni
numeriche più complesse, quali di solito possiam conoscere solo
indirettamente per mezzo di concetti, ne viene che, riunendo quelle
due sì diverse e pure esatte concezioni della musica, possiamo farci
un concetto sulla possibilità d'una filosofia dei numeri, qual era
quella di Pitagora e anche dei Cinesi nel Y-King; e in questo senso
interpretare il detto di Pitagora riferito da Sesto Empirico (adv.
Math., 1. VII): τω αριθμω δε τα παντ’ επεοικεν (numero cuncta
assimilantur). Ma se infine applichiamo questo modo di vedere alla
nostra precedente dimostrazione dell'armonia e della melodia,
troveremo che una filosofia morale pura, senza spiegazione della
natura, come Socrate la voleva introdurre, è affatto analoga a una
melodia senz'armonia, come Rousseau in modo esclusivo la voleva; e
all'opposto, una fisica e metafisica pura, senza etica, corrisponde
a una pura armonia senza melodia. A queste osservazioni incidentali
mi sia lecito annodarne alcune altre, riferentisi ancora
all'analogia della musica col mondo fenomenico. Trovammo nel
precedente libro, che il grado supremo d'oggettivazione della
volontà, l'uomo, non può apparir solitario e distaccato dagli altri
gradi inferiori; ma li presuppone, come questi presuppongono
gl'infimi. Così pure la musica, la quale, proprio come il mondo,
oggettiva la volontà direttamente, è perfetta soltanto nell'armonia
completa. La voce acuta, che fa da guida alla melodia, abbisogna,
per produrre tutto il suo effetto, dell'accompagnamento di tutte le
altre voci, fino al basso più profondo, il quale è da considerarsi
come principio di tutte; la melodia entra qual parte integrante
nell'armonia, come questa in quella. E come soltanto nell'insieme di
tutte le voci la musica esprime ciò che d'esprimer si propone, così
l'unica volontà, che sta fuori del tempo, trova la sua perfetta
oggettivazione soltanto nella completa unione di tutti i gradi, che
lungo un'infinita scala di progressiva evidenza manifestano il suo
essere. Molto notevole è ancora l'analogia che segue. Abbiamo nel
precedente libro veduto che, malgrado il reciproco adattamento,
rispetto alle specie, di tutti i fenomeni della volontà (il che dà
luogo alla considerazione teleologica), rimane tuttavia un non
eliminabile contrasto tra quei fenomeni individualmente; il quale è
in tutti i lor gradi visibile, e riduce il mondo a un perenne campo
di battaglia tra i fenomeni tutti dell'una e identica volontà,
facendo palese così l'intimo dissidio di quest'ultima con se
medesima. A ciò pur si trova corrispondenza nella musica. Invero un
sistema armonico di suoni interamente puro è impossibile non solo
fisicamente, ma già perfino aritmeticamente. I numeri stessi, co'
quali si esprimono i toni, hanno irrazionalità non riducibili:
nessuna scala sarebbe mai possibile a calcolare, entro la quale ogni
quinta stesse al tono fondamentale come 2 sta a 3, ogni terza
maggiore come 4 a 5, ogni terza minore come 5 a 6, e così via.
Perché, se i toni sono esatti rispetto al tono fondamentale, non lo
son più reciprocamente, che allora, per esempio, dovrebbe la quinta
esser la terza minore della terza, etc. I toni della scala
rassomigliano ad attori, che debbano rappresentare or questa or
quella parte. Una musica perfettamente esatta non si può adunque
pensare, nonché eseguire, e dalla purezza piena si discosta ogni
possibile musica. Questa può solamente celare le dissonanze in lei
essenziali, distribuendole fra tutti i toni, ossia per mezzo di
tempera. Si veda a questo proposito l'I di Chladni, § 30, e del
medesimo la Breve esposizione della teoria dei suoni e dell'armonia,
p. 1234. Avrei ancor parecchio da aggiungere sul modo onde la musica
vien percepita, ossia unicamente nel tempo e per il tempo, con
assoluta esclusione dello spazio, ed anche senz'influsso della
conoscenza di causalità, ossia dell'intelletto: imperocché i suoni
musicali già producono come effetto l'impressione estetica, senza
che si debba risalire alla loro causa, come accade nell'intuizione.
Ma non voglio prolungar questi discorsi, che probabilmente già a
taluno sono apparso nel mio terzo libro troppo prolisso, o troppo mi
sono addentrato nei particolari. Ciò era tuttavia necessario per il
mio scopo, e tanto meno sarà biasimato, quanto più ci si rappresenti
l'importanza, di rado conosciuta abbastanza, e l'alto valore
dell'arte; riflettendo che se, a nostro modo di vedere, tutto il
mondo visibile non è se non oggettivazione, specchio della volontà,
e accompagna questa alla conoscenza di sé, anzi, come tosto vedremo,
alla sua possibile redenzione; e riflettendo in pari tempo, che il
mondo come rappresentazione, quando lo si consideri a parte, ed
essendo svincolati dal volere lo si lasci occupare esso solo la
conscienza, è il più gioioso e l'unico innocente aspetto della vita;
di tutto ciò noi dobbiamo considerar l'arte come il più alto grado,
il più completo sviluppo, poi che ella sostanzialmente fa quel
medesimo che fa il mondo visibile, ma con più concentrazione,
compiutezza, consapevole intento; e può quindi nel pieno significato
della parola esser chiamata la fioritura della vita. Se il mondo
intero quale rappresentazione non è che la visibilità della volontà,
l'arte è quella, che fa più limpida codesta visibilità, la camera
oscura, che gli oggetti fa apparire più puri e meglio vedere e
abbracciar con lo sguardo. È lo spettacolo nello spettacolo, la
scena sulla scena, come nell'Amleto.
Il godimento del bello, il conforto che l'arte può dare,
l'entusiasmo dell'artista, che gli fa dimenticare i travagli della
vita, unico privilegio del genio, il solo che lo compensi del dolore
cresciuto di pari passo con la chiarità della conscienza, e della
squallida solitudine fra una gente eterogenea, – tutto ciò poggia
sul fatto che, come ci si mostrerà in seguito, l'in-sé della vita,
la volontà, l'essere medesimo sono un perenne soffrire, in parte
miserabile, in parte orrendo; mentre l'essere medesimo quale
semplice rappresentazione, puramente intuita, o riprodotta
dall'arte, libera da dolore, offre un significante spettacolo.
Quest'aspetto del mondo puramente conoscitivo, e la riproduzione sua
in un'arte qualsiasi è l'elemento dell'artista. Egli è incatenato
dallo spettacolo dell'oggettivata volontà: vi si indugia, non si
stanca di guardarlo e di riprodurlo, e talora ne fa egli medesimo le
spese, ossia egli medesimo è la volontà, che in quel modo
s'oggettiva e perdura in continuo dolore. Quella pura, vera e
profonda conoscenza dell'essere del mondo gli si fa scopo di per se
stessa: ed egli a lei si ferma. Non diviene ella adunque per lui,
come vedremo nel seguente libro accadere per il santo arrivato alla
redenzione, un quietivo della volontà; non lo redime per sempre
dalla vita, ma solo per brevi istanti, e non è ancor una via a uscir
dalla vita, ma solo a volte un conforto nella vita stessa; fin che
la sua forza, così accresciuta, stanca alfine del giuoco, non si
volga al serio. Come simbolo di questo passaggio si può considerar
la Santa Cecilia di Raffaello. Al serio ci volgeremo adunque noi
pure nel libro seguente.
LIBRO QUARTO
IL MONDO COME VOLONTÀ
SECONDA CONSIDERAZIONE
Affermazione e negazione della volontà di vivere, dopo raggiunta la
conoscenza di sé.
Tempore quo cognitio simul advenit, amor e medio supersurrexit.
Oupneck' hat, studio Anquetil Duperron,
vol. II, p. 216
§ 53.
L'ultima parte del nostro esame si annunzia come la più grave, poi
che tocca le azioni degli uomini: oggetto che a ciascuno
direttamente importa, e a nessuno può essere straniero o
indifferente. Anzi, tanto è conforme alla natura dell'uomo il
riferire a quello tutte le altre cose, che in ogni indagine di varie
parti contesta egli terrà sempre la parte riferentesi alle azioni,
almeno fin dove l'interessa, per il risultato ultimo di tutto quanto
in quell'indagine si contiene; ed a questa sola porrà seria
attenzione, anche se non bada a nessun'altra. Sotto il rispetto
indicato, la parte del nostro esame che ora segue si potrebbe
chiamare, secondo il comune modo d'esprimersi, filosofia pratica; in
opposizione alla filosofia teoretica finora trattata. Ma ogni
filosofia è a mio avviso teoretica sempre, essendo a lei essenziale,
qualunque sia l'oggetto immediato della ricerca, il rimaner nel
campo della considerazione pura e l'investigare, non già il dar
precetti. Invece il diventar pratica, il guidar la condotta, il
modificare il carattere, sono vecchie pretese cui ella, con più
maturo giudizio, dovrebbe alfine rinunciare. Imperocché qui, dove si
tratta del valore e del non valore d'un'esistenza, di salvazione o
di condanna, non sono i suoi morti concetti a dare l'esito, bensì lo
dà l'essenza più intima dell'uomo medesimo, il demone che lo guida e
che non lo ha scelto, ma che da lui è stato scelto, come dice
Platone – il suo carattere intelligibile, come Kant si esprime. La
virtù non s'insegna, più che non s'insegni il genio: per lei è il
concetto tanto infruttifero, e solo valevole come strumento, quanto
è infruttifero per l'arte. Altrettanto stolti saremmo
nell'attenderci, che i nostri sistemi morali e le nostre etiche
suscitassero uomini virtuosi, nobili e santi, come nel chiedere alle
nostre estetiche di suscitare poeti, scultori, musici.
La filosofia non può in nessun caso fare altro, se non chiarire e
spiegare ciò che è dato; recare alla limpida, astratta conoscenza
della ragione, sotto ogni rispetto e da ogni punto di vista,
quell'essenza del mondo che a ciascuno si esprime intelligibile in
concreto, ossia come sentimento. Ora, come nei tre libri precedenti
s'è cercato d'operar questo passaggio alla consapevolezza razionale
nel modo generico proprio della filosofia, e muovendo da altri
principi; così nel presente libro sarà in egual modo considerata la
condotta dell'uomo: il quale aspetto del mondo dovrebbe non solo,
secondo osservai, per giudizio soggettivo, ma anche oggettivo,
essere riguardato come di tutti il più importante. Mi terrò in
questo fedele al metodo finora seguito; mi fonderò su quanto ho
esposto innanzi, come necessaria premessa; anzi propriamente
quell'unico pensiero, che forma il contenuto di tutta la mia opera,
svolgerò in relazione con la condotta umana, come l'ho svolto fin
qui in relazione con tutti gli altri oggetti: venendo così a far
l'ultimo sforzo ch'io posso, per la comunicazione il più possibile
compiuta del pensiero medesimo.
Il punto di vista indicato, e l'annunziato metodo d'indagine, già
lasciano capire che in questo libro di etica non bisogna attendersi
ad alcuna prescrizione, ad alcuna teoria dei doveri: ancor meno vi
sarà formulato un principio morale universale, quasi universale
ricetta per la produzione di tutte le virtù. Né discorreremo di un
«dovere assoluto», perché questo, secondo si espone nell'Appendice,
contiene una contraddizione; né di una «legge per la libertà», che
si trova nello stesso caso. In genere non discorreremo punto di
dovere: poiché si parla così a bambini e a popoli in istato
d'infanzia, ma non a coloro che han resa propria tutta la cultura di
un'età fatta maggiorenne. Gli è pure una contraddizione che
s'afferra con mano, proclamar libera la volontà e tuttavia
prescrivere a lei leggi, in base alle quali ella deve volere: –
«deve volere!» – come chi dicesse: ferro fatto di legno! Invece,
come appare da tutto il nostro modo di vedere, è la volontà non
soltanto libera, bensì onnipotente: da lei procede non pure la sua
condotta, ma anche il suo mondo; e quale ella è, tale appare la sua
condotta, tale appare il suo mondo: sua conscienza di sé sono quella
e questo, e null'altro: ella determina se stessa, e determina con
ciò condotta e mondo: perché nulla è fuori di lei, e condotta e
mondo sono lei medesima. Così soltanto ella è veramente autonoma;
eteronoma è invece secondo ogni altra concezione. Il nostro sforzo
filosofico può appena pervenire a interpretare e spiegare la
condotta dell'uomo, le massime sì diverse, anzi contraddittorie, di
cui quella condotta è vivente espressione, in rapporto con le
considerazioni che abbiam fatte finora, nel modo stesso in cui
abbiam cercato d'interpretare gli altri fenomeni del mondo,
recandone l'essenza più intima nel dominio della limpida conoscenza
astratta. La nostra filosofia affermerà in ciò quella stessa
immanenza, affermata nelle considerazioni precedenti: non userà,
venendo meno alla grande dottrina kantiana, le forme del fenomeno,
di cui è espressione universale il principio di ragione, come un
bastone da salto, per oltrepassare il fenomeno, che solo dà a quello
un senso, e approdare allo sconfinato dominio delle vuote finzioni.
Questo reale mondo della conoscibilità, nel quale noi stiamo e che
sta in noi, rimane non soltanto materia, ma limite del nostro
studio: ed è sì ricco di contenuto, che non potrebbe esaurirlo
neppur l'indagine più profonda, di cui fosse capace lo spirito
umano. Poiché adunque il mondo reale, conoscibile, non lascerà mai
argomento e realtà venir meno alle nostre considerazioni etiche,
come già non ne lasciò mancare alle considerazioni precedenti; nulla
ci sarà più inutile che il far ricorso a vuoti, negativi concetti, e
poi far credere a noi stessi d'aver detto qualcosa, quando con
solenne cipiglio abbiam parlato d'«assoluto», d'«infinito», di
«soprasensibile», e di quant'altre pure negazioni consimili possan
darsi ancora (ουδεν εστι, η το της στερησεως ονομα, μετα αμυδρας
επινοιας.— nihil est, nisi negationis nomen, cum obscura notione.
Jul. or. 5); in luogo delle quali si potrebbe dir, più brevemente,
«nubicuculia» (νεφελοκοκκυγία). Piatti di tal fatta, ben coperti ma
vuoti, non avremo noi bisogno di mettere in tavola. Insomma, anche
qui come per il passato ci guarderemo dal raccontare storie
gabellandole per filosofia. Imperocché noi siamo d'avviso, che da
una filosofica cognizione del mondo sia oltre ogni misura lontano
chi pensi di poterne coglier l'essenza, e sia pur sotto i più bei
trucchi, storicamente. E questo è il caso, non appena nel concetto,
che colui ha del mondo in sé, venga a trovarsi un qualsiasi
divenire, o esser divenuto, o esser per divenire; e un prima e poi
acquisti la pur minima importanza, e quindi in modo palese o
nascosto si cerchi e trovi un principio e una fine del mondo, e una
via da quello a questa. Codesto isterico filosofare da il più spesso
una cosmogonia, la quale consente molte varietà, ma può dare anche
un sistema di emanatismo, una dottrina della caduta; oppure, se
disperando dei vani tentativi per quelle strade si riduce a
prenderne un'altra, ultima, dà viceversa una teoria dell'eterno
divenire, del nascere, del sorgere, del balzar alla luce dalle
tenebre, dall'oscuro fondo, dal fondo dei fondi, dal fondo senza
fondo, e quanti sono vaniloqui di tal sorta. Tutte cose le quali si
tolgono di mezzo con l'osservare, che essendo un'eternità intera,
ossia un tempo infinito, già trascorsa fino all'attimo presente,
tutto quel che può e deve accadere deve anche essere già accaduto.
Poiché codesta filosofia storica, per quante arie voglia darsi,
prende, come se Kant non fosse mai esistito, il tempo per una
determinazione della cosa in sé: e s'arresta quindi a ciò che Kant
chiama fenomeno, in opposizione alla cosa in sé, e Platone chiama il
divenire che mai non è, in opposizione all'essere che mai non
diviene; s'arresta a ciò, insomma, che gl'Indiani chiamano il velo
di Maja. E quest'è appunto la conoscenza vincolata al principio di
ragione, con la quale mai non si giunge all'essenza intima delle
cose, ma non si fa che perseguire all'infinito i fenomeni, muovendo
intorno senza fine e senza meta, come fa lo scoiattolo nella gabbia
a ruota; finché per avventura stanchi alla fine o sopra o sotto in
un punto qualsiasi ci si ferma, e si pretende di far rispettare
questo punto anche dagli altri. La vera considerazione filosofica
del mondo, ossia quella che c'insegna a conoscere l'essenza intima,
e ci conduce così di là dal fenomeno, è appunto quella che non
chiede il donde e il dove e il perché, ma sempre e in tutto domanda
esclusivamente il che cosa del mondo: ossia quella, che le cose
considera non già in una lor qualunque relazione, non già nel loro
principiare e finire, non già insomma secondo una delle quattro
forme del principio di ragione; ma viceversa ha per oggetto proprio
quel che avanza, quando abbiamo tolto via tutta la conoscenza
sottomessa al principio medesimo, quel che in tutte le relazioni si
manifesta senza esser da loro dipendente, l'essenza del mondo ognora
eguale a se stessa, le idee del mondo. Da tal conoscenza essenziale
procede, come l'arte, anche la filosofia; anzi, come vedremo in
questo libro, ne procede pur quella disposizione dell'animo, che
sola conduce alla vera santità e alla redenzione del mondo.
§ 54.
I tre primi libri avranno fatto veder chiaramente e sicuramente,
spero, che nel mondo quale rappresentazione la volontà ha il proprio
specchio, in cui se stessa conosce, per gradi progressivi di
limpidità e di compiutezza; de' quali il più alto è l'uomo. Ma
l'essere dell'uomo raggiunge la sua piena espressione sol mediante
la serie coerente delle sue azioni. E il conscio nesso delle azioni
è reso possibile dalla ragione, che da mezzo all'uomo di dominarne
con lo sguardo il complesso in abstracto.
La volontà considerata in se stessa è inconsciente: è un cieco,
irresistibile impeto, qual noi già vediamo apparire nella natura
inorganica e vegetale, com'anche nella parte vegetativa della nostra
propria vita. Sopravvenendo il mondo della rappresentazione,
sviluppato per il suo servigio, ella acquista conoscenza del proprio
volere e di ciò ch'ella vuole, che altro non è se non il mondo, la
vita, così come si presenta. Perciò il mondo fenomenico l'abbiam
chiamato specchio della volontà, e sua oggettità: e ciò che la
volontà sempre vuole è la vita, appunto perché questa non è altro
che il manifestarsi di quel volere per la rappresentazione; perciò è
tutt'uno, e semplice pleonasmo, quando invece di «volontà»
senz'altro diciamo «volontà di vivere».
Essendo la volontà la cosa in sé, l'interna sostanza, l'essenza del
mondo, mentre la vita, il mondo visibile, il fenomeno è solamente lo
specchio della volontà; ne viene che il fenomeno accompagna la
volontà sì fedelmente, come l'ombra il corpo; e dov'è volontà, sarà
pur vita, mondo. Alla volontà di vivere è adunque la vita
assicurata; e fin quando pieni siamo della volontà di vivere, non
dobbiamo trovarci in ansia per la nostra esistenza – neppure in
vista della morte. Vediamo bensì l'individuo nascere e perire: ma
l'individuo è soltanto fenomeno, non esiste se non per la conoscenza
irretita nel principio di ragione, nel principio individuationis: in
virtù di questo invero riceve la propria vita come un dono, vien
fuori dal nulla, soffre poi per morte la perdita di quel dono, e al
nulla fa ritorno. Ma noi vogliamo invece considerar la vita
filosoficamente, ossia nelle sue idee; e troveremo allora che né la
volontà, la cosa in sé di tutti i fenomeni, né il soggetto del
conoscere, quegli che guarda tutti i fenomeni, da nascita e morte
sono in alcun modo toccati. Nascita e morte toccano per l'appunto al
fenomeno della volontà, ossia alla vita; e di questa è proprio il
manifestarsi in individui, i quali nascono e periscono come effimere
apparenze, palesantisi nella forma del tempo, di ciò che in sé
nessun tempo conosce, ma deve tuttavia nel modo suddetto
manifestarsi, per oggettivare il suo vero essere. Nascita e morte
toccano in egual maniera alla vita, e si fanno equilibrio come
reciproche condizioni l'una dell'altra: o, se si preferisce il
termine, come poli di tutto il fenomeno vitale. La più saggia di
tutte le mitologie, l'indiana, ciò esprime attribuendo a quel
medesimo Dio, che simboleggia la distruzione e la morte (come Brama,
il più peccaminoso e basso Dio della Trimurti, simboleggia la
generazione, la nascita, e Visnu la conservazione), attribuendo a
Shiva, dico, in pari tempo il collare di teschi ed il Lingam,
simbolo della generazione, la quale si presenta quivi adunque come
adeguamento della morte. La qual cosa significa, che generazione e
morte sono per natura correlati, che a vicenda si neutralizzano e
sopprimono. Ed è lo stesso pensiero, che Greci e Romani indusse a
ornare i preziosi sarcofagi come ancora li vediamo, con feste,
danze, nozze, cacce, lotte d'animali, baccanali, ossia con
rappresentazioni del più impetuoso ardore vitale: ardore che non
solo essi ci mostrano in codeste scene festive, ma perfino in gruppi
voluttuosi, arrivando fino all'accoppiamento di satiri e di capre.
Loro scopo era palesemente quello di rivolgere la mente dalla morte
dell'individuo compianto all'immortal vita della natura, e con ciò
indicare, sia pure senz'averne astratta conscienza, che tutta la
natura è fenomeno ed anche adempimento della volontà di vivere.
Forma di tal fenomeno sono tempo, spazio e causalità, e quindi, per
lor mezzo, individuazione; la qual cosa fa sì, che l'individuo debba
nascere e morire; ma essa non tocca la volontà di vivere, della cui
manifestazione l'individuo non è che un singolo esempio o saggio,
più che il complesso della natura non venga toccato dalla morte di
un individuo. Poiché non l'individuo, ma la specie sola importa alla
natura, la quale per la conservazione della specie si affatica con
ogni sforzo, a quella provvedendo con sì larga prodigalità, mediante
la smisurata sovrabbondanza dei germi e la gran forza della
fecondità. Invece l'individuo non ha per lei valore alcuno, perché
tempo infinito, infinito spazio, e, in tempo e spazio, infinito
numero di possibili individui, sono il regno della natura; quindi
ella è ognor pronta a lasciar cadere l'individuo, il quale non solo
in mille modi, per i più piccoli accidenti, è esposto alla rovina,
ma alla rovina è fin da principio destinato e dalla natura stessa
condotto, a partir dall'istante, in cui esso è servito alla
conservazione della specie. Apertissimamente esprime in ciò la
natura medesima quel grande vero, che le idee soltanto, e non gli
individui, hanno effettiva realtà, cioè sono compiuta oggettità
della volontà. Ora, essendo l'uomo la natura stessa, nel più alto
grado della sua autoconscienza, e la natura non essendo se non
l'oggettivata volontà di vivere, può l'uomo, che abbia bene
afferrato questa concezione e vi si tenga stretto, consolarsi a
giusta ragione della morte sua e degli amici suoi, contemplando
l'immortal vita della natura, la quale è lui stesso. Così va dunque
inteso Shiva con il Lingam, e così quegli antichi sarcofagi, i quali
con le lor figure della più fervida vita ammoniscono il dolorante
contemplatore: Natura non contristatur.
Che nascita e morte vadano considerate come alcunché spettante alla
vita, ed essenziale a codesto fenomeno della volontà, risulta anche
dal fatto, che l'una e l'altra ci si presentano semplicemente come
espressioni, elevate a più alta potenza, di ciò, in cui pur tutta la
rimanente vita consiste. Questa invero è in tutto e per tutto
nient'altro che un perenne mutar della materia in un fisso permaner
della forma: e non altra è la caducità degli individui di fronte
all'eternità della specie. La continuata nutrizione e riproduzione
si distingue dalla nascita soltanto per il grado; e soltanto per il
grado si distingue la continuata escrezione dalla morte.
La prima di codeste analogie si mostra, nel modo più semplice e
chiaro, nella pianta. Questa è unicamente la ripetizione costante di
uno stesso impulso, della sua più semplice fibra, che si aggruppa in
foglia e ramo; è un sistematico aggregato di piante consimili, l'una
con l'altra sostenentisi, la cui costante riproduzione è il suo
unico impulso: per soddisfarlo appieno ella da ultimo ascende,
attraverso la scala delle metamorfosi, fino al fiore e al frutto,
compendio del suo essere e della sua aspirazione, nel quale per la
via più breve consegue ciò ch'era sua meta unica, e d'un tratto
compie in mille ciò ch'avea fino allora operato in un solo
esemplare: la riproduzione di se stessa. Il suo sviluppo prima di
pervenire al frutto sta a questo, come la scrittura alla stampa.
Evidentemente il medesimo accade pur tra gli animali. Il processo
nutritivo è un perenne generare, il processo generativo è una
nutrizione innalzata a più alta potenza: la voluttà nel generare è
il benessere, elevato a più alta potenza, del sentimento vitale. E
d'altra parte la escrezione, il continuo esalare e rigettar materia,
è il medesimo di quel ch'è in più alta potenza la morte, l'opposto
della generazione. E come in ciò basta a noi conservar la forma,
senza rimpianto per la rigettata materia, così dobbiamo in egual
maniera contenerci, quando per morte accade in più alta potenza e
nella totalità, ciò che ciascun giorno e ciascuna ora accade in
parte con l'escrezione: come siamo indifferenti nel primo caso, così
non dovremmo sbigottirci davanti al secondo. Sotto questo rispetto
apparisce altrettanto stolto il pretender la durata della propria
individualità, la quale vien sostituita da altri individui, quanto
il pretendere che perduri intatta la materia del nostro corpo, la
quale da materia nuova è continuamente sostituita. Imbalsamare i
cadaveri non è meno stolto, che non sia il conservare con cura i
propri escrementi. Per ciò che tocca la conscienza individuale
congiunta con l'individuale corpo, si avverta ch'essa viene
quotidianamente interrotta in modo completo dal sonno. Il sonno
profondo non è, nel tempo della sua durata, diverso dalla morte, in
cui sovente va a finire, per esempio, nei casi di assideramento;
diverso n'è soltanto per l'avvenire, ossia per la possibilità del
risveglio. La morte è un sonno, nel quale si dimentica
l'individualità: ma tutto il rimanente si risveglia, o piuttosto non
s'è mai addormentato35.
Prima d'ogni altra cosa dobbiamo ben persuaderci, che la forma del
fenomeno della volontà, ossia la forma della vita o della realtà, è
invero il solo presente, non l'avvenire, né il passato: questi
esistono unicamente nel concetto, unicamente nella concatenazione
della conoscenza, in quanto ella segue il principio di ragione. Nel
passato nessun uomo è vissuto, e nell'avvenire nessuno vivrà: il
presente solo è forma d'ogni vita, ed è sicuro dominio, che alla
vita non può mai essere strappato. Il presente è ognora qui, col suo
contenuto: l'uno e l'altro tengon fermo, senza vacillare; come
l'arcobaleno sulla cascata. Imperocché alla volontà è la vita, alla
vita il presente sicuro e certo. È vero, che se pensiamo ai
trascorsi millennii, ai milioni d'uomini che in quelli vissero, ci
domandiamo: Che cosa furono? che cosa ne è accaduto? Ma dobbiamo
invece richiamarci alla memoria il passato della nostra esistenza
personale, e vivacemente riprodurcene le scene nella fantasia, e poi
domandarci ancora: Che cosa è stato tutto ciò? che cosa ne è
accaduto? La stessa sorte è toccata al nostro passato e alla vita di
quei milioni. O dovremmo noi pensare, che il passato acquisti
un'esistenza nuova, per avere avuto il suggello della morte? Il
nostro individuale passato, anche il più prossimo, quello di ieri,
non è più che un sogno della fantasia, fatto di nulla, e così è il
passato di tutti quei milioni d'esseri. Che cosa fu? che cosa è? La
volontà: di cui è specchio la vita; e il conoscere scevro di
volontà, che in quello specchio limpidamente la volontà vede
riflessa. Chi non ancora ha ciò compreso, o non vuole comprenderlo,
deve alla domanda fatta più sopra, intorno al destino delle
generazioni trapassate, aggiungere quest'altra: perché proprio lui,
lui che interroga, ha la gioia di posseder questo prezioso,
fuggitivo presente, che solo è reale, mentre quelle centinaia di
generazioni, e perfino gli eroi e i sapienti delle età trascorse,
sono caduti nella notte del passato e perciò ridotti a nulla,
quand'egli, col suo insignificante io, esiste di fatto? O più
brevemente, ma senza diminuir la stranezza della cosa: perché questo
presente, il suo presente, si ha proprio ora e non fu invece già da
tempo? Con queste domande strane, vede il suo essere e il suo tempo
come indipendenti l'uno dall'altro, e quello come gettato in questo;
egli ammette in verità due presenti, l'uno dei quali appartiene
all'oggetto, l'altro al soggetto, e si stupisce per il caso felice
della loro coincidenza. Ma in verità (come si vede nel mio scritto
sopra il principio di ragione), il presente è formato soltanto dal
punto d'incontro dell'oggetto, la cui forma è il tempo, col
soggetto, che non ha per forma nessun modo del principio di ragione.
Ora, ogni oggetto è volontà, in quanto questa è divenuta
rappresentazione, e il soggetto è il necessario correlato
dell'oggetto; ma oggetti reali si danno soltanto nel presente;
passato e futuro contengon semplici concetti e fantasmi, sì che il
presente è l'essenzial forma del fenomeno della volontà, e da questa
inseparabile. Il presente solo è ciò che sempre esiste, e
incrollabile perdura. Mentre, guardato empiricamente, esso è quanto
v'ha di più soggettivo, all'occhio metafisico, il quale guarda oltre
le forme dell'intuizione empirica, si mostra come l'unico
Permanente, il Nunc stans degli scolastici. Principio e fondamento
del suo contenuto è la volontà di vivere, o la cosa in sé, – che
siamo noi stessi. Ciò che sempre nasce e perisce, mentre o è già
stato o sarà in futuro, appartiene al fenomeno come tale, in virtù
delle forme di questo, che rendono possibile il cominciare e il
finire. Bisogna dunque pensare: Quid fuit? Quod est. Quid erit? Quod
fuit. E si prenda l'espressione nel senso preciso della parola,
intendendo non già simile bensì idem. Imperocché alla volontà è
certa la vita, alla vita il presente. Quindi può anche dire ognuno:
«Io sono una volta per tutte signore del presente, e per tutta
l'eternità questo mi accompagnerà come la mia ombra: perciò non mi
maraviglia il come esso sia venuto fino a me, e come accada che ora
ap punto sia qui». Possiamo paragonare il tempo a un cerchio che
gira senza fine: la parte ognora discendente sarebbe il passato,
quella sempre ascendente, il futuro: il punto in alto, indivisibile,
che la tangente tocca, sarebbe il presente, che non ha estensione:
come la tangente non ruota col cerchio, così non ruota il presente,
il punto di contatto dell'oggetto, di cui è forma il tempo, col
soggetto, che non ha forma, perché non appartiene al dominio
conoscibile, bensì d'ogni conoscibile è condizione. Oppure: il tempo
somiglia a un'infrenabile corrente, e il presente a una roccia,
contro cui quella si frange, senza pervenire a trascinarla con sé.
La volontà, come cosa in sé, non è sottomessa al principio di
ragione più che non vi sia sottomesso il soggetto della conoscenza,
il quale poi finalmente in un certo senso è la volontà medesima, o
la sua manifestazione. E come alla volontà è certa la vita, suo
proprio fenomeno, così è certo anche il presente, unica forma della
vita reale. Non abbiamo dunque da indagar né il passato innanzi la
vita, né il futuro dopo la morte: invece come unica forma in cui la
volontà si svela dobbiamo conoscere il presente36. Tale forma non
verrà mai meno alla volontà, ma neppur questa a quella. Chi s'appaga
quindi della vita qual è, chi in tutte guise la vita afferma, può
fiducioso considerarla come infinita, e il timor della morte bandire
come un inganno, che a lui inspiri lo stolto timore di poter un
giorno perdere il presente, e gli ponga innanzi agli occhi la
prospettiva di un tempo senza presente: inganno che nel rispetto del
tempo corrisponde all'altro nel rispetto dello spazio, per cui
ciascuno nella propria fantasia ritiene il posto della sfera
terrestre da lui occupato essere il punto superiore della sfera
stessa, e tutto il rimanente vede al disotto. Proprio così collega
ciascuno il presente con la propria individualità, e ritiene abbia
con questa ogni presente a cessare; e passato ed avvenire siano
senza presente. Ma, come sulla sfera terrestre ogni dove sta
disopra, così pure è presente la forma d'ogni vita; e il temer la
morte, perché questa ci strappa il presente, non è più saggio che il
temer si possa scivolare giù dal globo della Terra, sul quale per
fortuna ci si trovi ora proprio al punto superiore.
All'oggettivazione della volontà è essenziale la forma del presente,
che qual punto senza estensione divide il tempo di qua e di là
infinito, e immobilmente sta fermo, pari a un eterno meriggio, senza
la rinfrescante sera; così come il sole in realtà arde senza
interruzione, mentre in apparenza cade nel seno della notte. Perciò,
quando un uomo teme la morte come annientamento di sé, gli è come se
altri pensasse poter il sole alla sera lamentarsi: «Ahimè! io
sprofondo nell'eterna notte»37. E viceversa: chi è oppresso dai pesi
della vita, chi la vita bensì vorrebbe, e la vita afferma, ma ne ha
in orrore i tormenti, e soprattutto più non sa tollerare il duro
destino, che a lui proprio è toccato, questi non ha da sperar
liberazione nella morte, né si può salvare col suicidio: sol con
falsa illusione lo trae a sé l'oscuro, freddo Orco qual porto di
riposo. La terra si volge dal giorno verso la notte; l'individuo
muore; ma il sole brilla senza posa in eterno meriggio. Alla volontà
di vivere è certa la vita: la forma della vita è un presente senza
fine; né importa il come nascano e periscano nel tempo gl'individui,
fenomeni dell'idea, comparabili a sogni fugaci. Il suicidio ci
apparisce già da questo un'azione vana e quindi stolta: e quando
saremo progrediti più oltre nella nostra indagine, ci si presenterà
in una luce ancor più sfavorevole.
I dogmi mutano, e il nostro sapere è illusorio, ma la natura non
sbaglia: il suo corso è sicuro, ed ella non lo cela. Ogni cosa è
tutta in lei, ed ella è tutta in ogni cosa. In ciascun animale ha
ella il suo centro: ogni animale ha trovato sicuramente la propria
via dell'essere, come sicuramente la troverà per uscirne: frattanto
vive senza tema di annientamento e libero da preoccupazioni,
sorretto dalla conscienza di essere egli la natura medesima, e come
lei eterno. Soltanto l'uomo trae seco in concetti astratti la
certezza della propria morte: tuttavia questa, ed è molto strano,
può angustiarlo solo per momenti isolati, quando una circostanza la
richiama alla fantasia. Contro la poderosa voce della natura può la
riflessione ben poco. Anche in lui, come nell'animale che non pensa,
impera come durevole stato quella certezza, proveniente dalla più
intima conscienza, ch'egli è la natura, è il mondo medesimo; per la
qual certezza il pensiero della morte sicura e mai lontana nessun
uomo inquieta visibilmente, che ciascuno invece vive come dovesse
vivere in eterno. E questa condizione di cose va tanto lontano, da
potersi dire che nessuno abbia una vera, vivente persuasione della
certezza della propria morte, perché altrimenti non potrebb'essere
una sì gran differenza tra la sua disposizione d'animo e quella d'un
condannato a morte; ma che l'uomo, pur riconoscendo quella certezza
in abstracto e teoricamente, la mette in disparte come altre verità
teoriche, inservibili nella pratica, senza punto accoglierla nella
sua vivente conscienza. Chi ben consideri questa particolarità dello
spirito umano, vedrà che le sue spiegazioni psicologiche, fondate
sull'abitudine o sull'adattamento all'inevitabile, non sono in
nessun modo sufficienti, e che la ragione è quella, più profonda,
indicata. Con quella va pur spiegato, perché in tutti i tempi,
presso tutti i popoli si trovino e stiano in onore dogmi d'un
qualsivoglia perdurar dell'individuo dopo la morte, sebbene le prove
dovessero sempre esserne insoddisfacenti, mentre forti e numerose
son le prove del contrario; anzi, il contrario veramente non ha
bisogno di prove, bensì da un intelletto sano vien riconosciuto come
un fatto, e come tale confermato dalla fiducia, che la natura né
smentisce né erra, ma la sua azione e il suo essere apertamente
manifesta, o addirittura ingenuamente esprime: mentre siamo noi
stessi che col nostro vaneggiare l'intorbidiamo, per ricavarne
arzigogolando ciò che ai nostri occhi miopi per l'appunto si confà.
Ma la verità, che ora abbiamo recata a chiara conscienza, che, per
quanto il singolo fenomeno della volontà abbia nel tempo principio e
nel tempo fine, la volontà stessa come cosa in sé non viene da ciò
punto toccata, e neppure il correlato d'ogni oggetto, il conoscente
e mai conosciuto soggetto; e similmente il fatto che alla volontà di
vivere è sempre certa la vita: tutto ciò non va confuso con quelle
dottrine della persistenza individuale. Imperocché alla volontà,
considerata come cosa in sé, com'anche al puro soggetto del
conoscere, all'eterno occhio del mondo, non tocca un perdurare più
che non tocchi un perire, queste essendo determinazioni che valgono
solamente nel tempo, mentre quelli stanno fuori del tempo. Perciò
l'egoismo dell'individuo (di questo singolo fenomeno della volontà
illuminato dal soggetto del conoscere) può dalla nostra concezione
suesposta tanto poco alimento e conforto ricavare per il suo
desiderio di esistere in un tempo infinito, quanto poco ne ricava
dal conoscer che dopo la sua morte il rimanente mondo esterno
seguiterà nondimeno a esistere nel tempo; il che esprime proprio la
stessa concezione di sopra, ma da un punto di vista oggettivo e
quindi temporale. Imperocché è bensì vero, che ogni individuo è
effimero solo in quanto fenomeno, mentre come cosa in sé è fuori del
tempo, e perciò non ha fine; ma pur soltanto come fenomeno è
distinto dalle altre cose del mondo, mentre come cosa in sé esso è
la volontà, che in tutto si palesa, e la morte cancella l'illusione
che separa la sua conscienza dall'universale: questa è la vera
eternità. Il suo non esser toccato dalla morte è proprietà di lui in
quanto cosa in sé, mentre per il fenomeno coincide col permanere del
rimanente mondo esteriore38. Da ciò procede che l'intima conscienza,
non altro che sentita, di quanto abbiamo or ora elevato a chiara
cognizione, impedisce bensì, come s'è detto, che il pensiero della
morte avveleni la vita al consapevole essere razionale, essendo tale
conscienza la base di quell'ardore vitale, che sorregge ciascun
vivente, e lo fa procedere animoso nell'esistenza, quasi morte non
fosse, almeno fin tanto ch'egli ha la vita innanzi agli occhi e alla
vita è rivolto; ma non impedisce tuttavia che quando la morte si
presenta all'individuo o nella realtà o anche soltanto nella
fantasia, e questo deve guardarla in faccia, un tremendo terrore lo
colga, ed esso cerchi in tutte le maniere di sfuggire. Perché al
modo che quando la sua conoscenza era rivolta alla vita come tale,
doveva di questa riconoscer l'eternità, così, quando la morte gli si
fa innanzi, deve riconoscerla per quel ch'essa è, la temoral fine
del singolo fenomeno temporale. Ciò che temiamo nella morte, non è
punto il dolore: in parte, perché questo sta di qua dalla morte; in
parte, perché sovente dal dolore ci rifugiamo nella morte, come
d'altronde all'opposto affrontiamo talvolta il più atroce dolore,
sol per isfuggire un momento alla morte, fosse pur rapida e lieve.
Distinguiamo adunque dolore e morte come due mali affatto diversi;
ciò, che nella morte temiamo, è in realtà la fine dell'individuo,
che tale apertamente ci si palesa la morte; e poi che l'individuo è
la volontà di vivere medesima, in una singola oggettivazione, tutto
l'esser suo contro la morte si ribella. Ma, dove in siffatta maniera
il sentimento ci lascia senza difesa, può nondimeno subentrare la
ragione, e per massima parte vincere le ripugnanze di quello,
elevandoci ad una considerazione più alta, dove noi, invece del
singolo, abbiamo davanti agli occhi il tutto. Perciò una cognizione
filosofica dell'essenza del mondo, la quale fosse pervenuta fino al
punto in cui ci troviamo nella nostra indagine, ma non andasse più
oltre, già potrebbe superare i terrori della morte: nella misura, in
cui la riflessione avesse per un dato individuo il sopravvento sul
diretto sentire. Immaginiamo un uomo, che le verità finora esposte
abbia ben fissate nella mente, ma non sia insieme arrivato, né per
esperienza propria, né per visione larga delle cose, a riconoscer
come essenziali in ogni vita un diuturno dolore, bensì nella vita
trovi soddisfazione, e ci si senta a suo pieno agio, e con
tranquilla riflessione desideri veder continuata indefinitamente la
sua vita, quale fu in passato, o aver sempre nuovo principio. E sia
il suo ardor vitale sì grande, che per le gioie del vivere egli
accetti volenteroso tutti i fastidi e le pene, a cui il vivere è
soggetto. Un tale uomo starebbe «con salde ben midollate ossa sulla
bene arrotondata, durabile terra», e non avrebbe nulla da temere:
armato della conoscenza, che noi gli diamo, indifferente guarderebbe
la morte sulle ali del tempo rapida appressantesi, contemplandola
come una falsa apparenza, un impotente fantasma, che può far paura
ai deboli, ma nessuna forza ha su quegli, che sa d'esser egli
medesimo quella volontà, la cui oggettivazione o immagine è il mondo
intero; quegli, cui rimangono perciò sicuri sempre la vita ed il
presente, la vera, l'unica forma del fenomeno della volontà; quegli,
cui nessun passato o avvenire infinito, nel quale e' non si
trovasse, può sbigottire, poiché li considera come il vano miraggio
ed il velo di Maja; quegli, che non dovrebbe quindi temer la morte,
più che il sole non tema la notte. A questa concezione innalza
Krishna nella Bhagavat Gita il suo principiante discepolo Arjuna,
allorché questi alla vista dell'esercito pronto per la battaglia
(circa nella stessa guisa di Serse) colto da pensosa tristezza
sbigottisce e vorrebbe desister dalla lotta, per iscongiurar la
distruzione di tante migliaia di vite: a quella concezione lo
innalza Krishna, e la morte delle migliaia non val più a
trattenerlo: egli dà il segnale della battaglia. La stessa
concezione esprime il Prometeo di Goethe, soprattutto quando dice:
Qui io sto, uomini formo
A immagine di me,
Una razza, che eguale mi
sia
Nel soffrire, nel piangere,
Nel godere e rallegrarsi,
E di te
non curarsi,
Come me!39.
Ed alla stessa concezione ancora potrebbero la filosofia di Bruno e
quella di Spinoza condurre chi non si sentisse disturbato o scosso
nella persuasione dai loro errori e difetti. La filosofia di Bruno
non contiene una vera etica, e quella ch'è nella filosofia di
Spinoza non nasce punto dall'essenza della sua dottrina, bensì, pur
essendo in sé apprezzabile e bella, v'è collegata sol con deboli e
troppo visibili sofismi. Alla concezione suddetta finalmente
perverrebbero forse molti uomini, se la loro conoscenza andasse di
pari passo con il loro volere, ossia se liberi d'ogni falso
miraggio, fossero in grado d'aver chiara e limpida conscienza di sé.
Imperocché qui sta, per la conoscenza, la base dell'intera
affermazione della volontà di vivere.
La volontà afferma se stessa, s'è detto: mentre nella sua oggettità,
ossia nel mondo e nella vita, la sua propria essenza viene a lei
data compiutamente e limpidamente, codesta conoscenza non impedisce
punto il suo volere; anzi appunto quella vita in siffatto modo
conosciuta viene anche come tale dalla volontà voluta, con
cognizione, in maniera consapevole e meditata, come prima era voluta
senza cognizione, quale cieco impulso. Il contrario, la negazione
della volontà di vivere, si mostra quando, raggiunta quella
cognizione, la volontà finisce; allor che i singoli fenomeni
conosciuti non agiscono più come motivi della volontà, ma invece
tutta intera la cognizione, maturata con l'afferrar le idee,
dell'essenza del mondo, il quale rispecchia la volontà, diventa un
quietivo della volontà stessa, e così la volontà liberamente si
sopprime. Questi concetti affatto sconosciuti, e difficilmente
comprensibili in questa forma generica, diventeranno chiari, spero,
con l'esposizione, che tosto seguirà, dei fenomeni, o, nel caso
nostro, modi di agire, ne' quali da un lato s'esprime
l'affermazione, nei suoi diversi gradi, e dall'altro la negazione.
Imperocché entrambe procedono bensì dalla conoscenza, ma non da
quella astratta, che si rivela in parole, bensì da una conoscenza
vivente, la quale unicamente si rivela nei fatti e nel tenore di
vita; e rimane indipendente dai dogmi, che in proposito, come
conoscenza astratta, occupano la ragione. Semplicemente l'una e
l'altra esporre, e recare a limpida conoscenza della ragione, può
essere mio scopo: e non prescrivere o raccomandar questa o quella;
il che sarebbe stolto non meno che inutile, perché la volontà è in
sé assolutamente libera, da sola determina se stessa, né sono leggi
per lei. Questa libertà e la sua relazione con la necessità dobbiamo
nondimeno in primo luogo, e prima di procedere alla suindicata
esposizione, illustrare e in maniera precisa determinare; e inoltre
sulla vita, la cui affermazione o negazione forma il nostro
problema, avanzare alcuni pensieri generici, riferentisi alla
volontà e ai suoi oggetti. Da tutto tutto ciò verrà a noi alleviata
la conoscenza, che ci proponiamo, del valore etico delle azioni, a
seconda della loro più intima essenza.
Poiché, come s'è detto, tutta quest'opera non è se non lo sviluppo
di un pensiero unico, ne deriva, che tutte le sue parti hanno la più
stretta connessione tra loro, e non solo ciascuna sta in necessaria
relazione con quella, che immediatamente precede, e quindi quella
sola vuol presente al lettore come immediata premessa, secondo
accade in tutte le filosofie, le quali consistono in una serie di
deduzioni; ma ogni parte dell'opera intera è con tutte le altre
connessa, e le presuppone. Si richiede adunque, che dal lettore sia
ricordato non soltanto ciò che immediatamente precede, ma tutta la
trattazione anteriore: sì che di volta in volta egli possa sempre
riannodarne ogni parte alla pagina che ha davanti, stianvi pur
molt'altre cose frammezzo. Ammonimento, che anche Platone ha fatto
al suo lettore, per i tortuosi avvolgimenti dei suoi dialoghi, che
il pensiero fondamentale riprendon sol dopo lunghi episodi, ma da
ciò appunto fatto più limpido. Da parte nostra è tale ammonimento
necessario, perché il frazionar l'unico nostro pensiero in molte
considerazioni è bensì il solo modo che abbiamo di comunicarlo, ma è
un dar forma artificiosa e non naturale al pensiero stesso. A render
più facile l'esposizione e l'intendimento giova l'aver distinto, in
quattro libri, quattro principali punti di vista, come giova
l'attentissimo ravvicinar ciò che è affine e omogeneo: tuttavia la
materia non permette assolutamente un andare in linea retta, come fa
il procedimento storico, ma invece rende necessaria un'esposizione
più complicata. E questa, a sua volta, richiede un ripetuto studio
dell'opera; soltanto così diviene chiaro il nesso d'ogni parte con
ciascun'altra, e alla fine tutte insieme s'illuminano a vicenda e
splendono in piena chiarità40.
§ 55.
Che la volontà come tale sia libera, già risulta dal fatto che a
nostro modo di vedere ella è la cosa in sé, la sostanza di tutti i
fenomeni. Questi li sappiamo invece in tutto soggetti al principio
di ragione, nei suoi quattro modi: e conoscendo noi, che necessità
ed effetto di una data causa sono concetti identici, e convertibili,
tutto ciò che è fenomeno, ossia oggetto per il soggetto conoscente
in quanto individuo, è per un verso causa, e per l'altro effetto; e
in quest'ultima qualità è determinato necessariamente, né può quindi
esser diverso da quel che è. Tutto il contenuto della natura, il
complesso dei suoi fenomeni, è adunque assolutamente necessario, e
la necessità di ogni parte, di ogni fenomeno, di ogni fatto si può
ciascuna volta scoprire, dovendosi trovar la causa, da cui quelli
come effetti provengono. Ed a ciò non v'ha eccezione: consegue
dall'illimitato potere del principio di ragione. Ma d'altra parte
questo mondo medesimo, in tutti i suoi fenomeni, è per noi anche
oggettità della volontà; la quale, non essendo né fenomeno né
rappresentazione o oggetto, bensì cosa in sé, non è al principio di
ragione, forma d'ogni oggetto, sottomessa: e quindi non è
determinata come effetto da una causa, e non conosce necessità,
ossia è libera. Il concetto di libertà è dunque propriamente
concetto negativo, essendo il suo contenuto nient'altro che
negazione della necessità, ovvero del rapporto di causa ed effetto,
conforme al principio di ragione. Ora, qui ci sta innanzi nel modo
più palese il punto d'eliminazione d'un grande contrasto, l'unione
di libertà e necessità, onde sovente s'è in questi tempi parlato,
ma, per quanto io mi sappia, non mai con chiarezza e proprietà.
Ciascuna cosa è in quanto fenomeno, in quanto oggetto, assolutamente
necessaria: ma la stessa cosa è in sé volontà, e questa è del tutto
libera in eterno. Il fenomeno, l'oggetto, è necessariamente e
immutabilmente determinato nella catena delle cause e degli effetti,
la quale non può avere interruzione alcuna. Ma l'essere in genere di
questo oggetto, e la maniera del suo essere, ossia l'idea che vi si
palesa, o, con altre parole, il suo carattere, è fenomeno immediato
della volontà. Per la libertà ch'è propria, di codesta volontà, esso
potrebbe non essere, o anche essere originariamente e
sostanzialmente affatto diverso; nel qual caso l'intera catena,
della quale esso è un anello, ma che a sua volta è fenomeno della
medesima volontà, sarebbe tutt'altra. Ma da che ha preso ad
esistere, l'oggetto è entrato nella serie delle cause e degli
effetti, vi è determinato con necessità, né può quindi più diventare
un altro, ovvero modificarsi, né uscir dalla serie, ovvero sparire.
L'uomo è, come ogni altra parte della natura, oggettità della
volontà: perciò quanto s'è detto vale anche per lui. Come ciascuna
cosa nella natura ha le sue forze e qualità, che a un dato stimolo
reagiscono in un dato modo, e costituiscono il suo carattere, così
l'uomo ha pure il carattere suo, secondo il quale i motivi provocano
le sue azioni con necessità. Ed è in questo modo d'agire, che si
palesa il suo carattere empirico; mentre in questo poi si palesa il
suo carattere intelligibile, la volontà in sé, della quale egli è
fenomeno determinato. Ma l'uomo è della volontà il fenomeno più
perfetto; il quale, per sussistere, com'è dimostrato nel secondo
libro, dovè essere illuminato da un sì alto grado di conoscenza, che
in questa si rese possibile addirittura, come abbiam veduto nel
libro terzo, una riproduzione in tutto adeguata dell'essenza del
mondo, sotto la forma della rappresentazione; il che si ha mediante
la percezione delle idee, ed è il vero specchio del mondo. Nell'uomo
adunque può la volontà pervenire alla piena conscienza di sé, alla
chiara ed esauriente cognizione del suo proprio essere, quale nel
mondo intero si rispecchia. Dall'effettiva presenza di codesto grado
di cognizione procede l'arte, come abbiam visto nel libro che
precede. Ma alla fine di tutto il nostro studio risulterà, che
mediante la cognizione medesima, quando la volontà la riferisce a se
stessa, diventa possibile una soppressione e autonegazione della
volontà, nel suo fenomeno più perfetto: sì che la libertà, la quale
altrimenti, spettando solo alla cosa in sé, non può mai mostrarsi
nel fenomeno, stavolta anche nel fenomeno si rivela; e sopprimendo
l'essenza che del fenomeno è base, mentr'esso pur continua a durare
nel tempo, genera un dissidio del fenomeno con se medesimo, e perciò
appunto ci offre i casi di santità e di abnegazione. Tutto questo si
potrà intendere appieno soltanto alla fine del presente libro. Per
ora non si fa che accennare genericamente, come l'uomo da tutti gli
altri fenomeni della volontà si distingua, pel fatto che la libertà,
ossia indipendenza dal principio di ragione, la quale spetta
unicamente alla volontà come cosa in sé e sta col fenomeno in
contrasto, in lui può nondimeno apparire anche nel fenomeno,
dov'ella tuttavia di necessità si presenta come un dissidio del
fenomeno da se medesimo. In questo senso non può non solo la volontà
in sé, ma perfino l'uomo esser chiamato libero, e distinto così da
tutti gli altri esseri. Ma, come ciò sia da intendere, apparirà
chiaro nel seguito; e per adesso ancora dobbiamo lasciare del tutto
in disparte questo argomento. Imperocché preme piuttosto mettere in
guardia contro l'errore, che le operazioni dell'uomo singolo,
determinato, non siano soggette a necessità di sorta, ossia la forza
del motivo sia meno certa che la forza della causa, ovvero la
conseguenza dedotta dalle premesse. La libertà della volontà come
cosa in sé non si trasmette punto in modo diretto al suo fenomeno,
prescindendo, come s'è detto, dal caso accennato più sopra, che fa
eccezione; neppur là dove essa raggiunge il grado massimo di
visibilità, ossia neppure all'animale ragionevole, che abbia
carattere individuale, cioè alla persona. Questa non è mai libera,
per quanto sia fenomeno di una libera volontà; perché appunto di tal
libero volere ella è già il fenomeno determinato; e con l'entrar,
che questo fa nella forma di tutti gli oggetti, nel principio di
ragione, frange l'unità di quella volontà in una pluralità di
azioni, la quale non di meno a causa dell'unità, sita fuor del
tempo, di quel volere in sé, si presenta regolare come una forza di
natura. Ma poiché tuttavia quel libero volere è, che si rende
visibile nella persona e in tutta la sua condotta, stando a questa
come il concetto sta alla definizione, così va pure ogni singolo
atto della persona medesima attribuito alla libera volontà, e come
tale s'annunzia immediatamente alla conscienza: perciò, com'è detto
nel libro secondo, si ritiene ognuno libero a priori (ossia, nel
caso attuale, in virtù del suo sentimento originario) in tutte le
azioni sue; nel senso che a lui, in ciascun dato caso, ogni azione
sia possibile. E solo a posteriori, per esperienza e per meditazione
dell'esperienza, riconosce che la sua condotta risulta determinata
con necessità dell'incontro del carattere coi motivi. Di là
proviene, che i più rozzi uomini, seguendo i loro sentimenti,
sostengano nel modo più vivo la piena libertà delle singole azioni,
mentre i grandi pensatori di tutti i tempi, anzi perfino le dottrine
religiose più profonde, l'abbiano negata. Tuttavia a quegli, cui s'è
reso chiaro che l'intera essenza dell'uomo è volontà, e ch'egli
medesimo non è che fenomeno di questa volontà, fenomeno avente il
principio di ragione per forma necessaria, conoscibile già dal
soggetto stesso, la quale in questo caso si presenta come legge
della motivazione, a quegli un dubbio circa la possibilità di non
compiere una certa azione, dato un certo carattere e un certo
motivo, farà lo stesso effetto che un dubbio sull'eguaglianza fra i
tre angoli d'un triangolo e due retti. La necessità di ciascuna
singola azione ha con sufficienza illustrato Priestley nella sua
Doctrine of philosophical necessity; ma il coesistere di questa
necessità con la libertà del volere in sé, ossia fuori del fenomeno,
l'ha per il primo dimostrato Kant41, il cui merito è in ciò
particolarmente grande, facendo la distinzione tra carattere
intelligibile ed empirico. Distinzione, che io in tutto e per tutto
mantengo, essendo il primo la volontà come cosa in sé, in quanto si
manifesta in un determinato individuo, e in un determinato grado; ed
essendo l'altro questa manifestazione medesima, qual ella si
presenta con la condotta, nel tempo, e già con la propria forma
corporea, nello spazio. Perché s'intenda bene la relazione loro,
nessuna espressione val meglio di quella usata nel mio scritto
introduttivo: il carattere intelligibile di un uomo doversi
considerare come un atto di volontà, che sta fuori del tempo, ed è
quindi indivisibile e immutabile; mentre il fenomeno di quello,
sviluppato e frazionato nel tempo e nello spazio e in tutte le forme
del principio di ragione, è il carattere empirico, quale si palesa
sperimentalmente in tutta la condotta e in tutta la vita dell'uomo
medesimo. Come tutto l'albero non è che il fenomeno sempre ripetuto
dell'unico e identico impulso, il quale nel modo più semplice si
presenta nella fibra e si ripete nell'aggregamento di fibre, onde
risultano foglia, picciuolo, ramo, tronco, essendovi facilmente
riconoscibile: così tutte le azioni dell'uomo non sono che la
manifestazione ripetuta ognora, al quanto diversa sol nella forma,
del suo carattere intelligibile; e l'induzione risultante dalla
somma di quegli atti ci dà il carattere empirico di lui. Ma non mi
metterò qui a riprodurre, rimaneggiandola, l'esposizione magistrale
di Kant, bensì faccio conto che sia già conosciuta.
Nel 1840 ho trattato a fondo e distesamente l'importante capitolo
sulla libertà del volere, nella mia premiata memoria per concorso su
quel tempo; ed ho soprattutto scoperta la cagione dell'inganno, per
cui si crede di trovar nell'autoconscienza, come fatto reale,
un'assoluta libertà del volere data empiricamente, ovvero un liberum
arbitrium indifferentiae: che proprio a ciò mirava, acutamente, il
problema messo a concorso. Nel mentre io rinvio adunque il lettore a
quello scritto, e così pure al cap. 10 della memoria sui problemi
fondamentali dell'etica, pubblicata insieme con l'altra sotto il
titolo I due problemi fondamentali dell'etica, tralascio qui
l'imperfetta argomentazione sulla necessità degli atti volitivi,
data nella prima edizione; e voglio invece chiarire ancora con una
breve spiegazione l'inganno esposto più sopra, che ha come premessa
il 19° capitolo del nostro secondo volume e non poteva quindi
trovarsi nella memoria citata.
Se prescindiamo dal fatto, che essendo la volontà, come vera cosa in
sé, per sua natura alcunché di originario e di indipendente, deve
anche nell'autoconscienza il sentimento di quella originarietà e
indipendenza accompagnare i suoi atti, sebbene essi quivi siano già
determinati – l'illusione d'una libertà empirica del volere (in
luogo della libertà transcendentale, che solo gli si può
attribuire), proviene dalla situazione isolata e subordinata
dell'intelletto di fronte alla volontà: situazione esposta nel
capitolo 19° del secondo volume, specialmente al numero 3. Perché
l'intelletto apprende le risoluzioni della volontà solo a
posteriori, ed in maniera empirica. Quindi non ha, al momento di
scegliere, nessun dato per saper ciò che la volontà deciderebbe. Non
entra nella conoscenza dell'intelletto il carattere intelligibile,
in virtù del quale, dati questi o quei motivi, una sola decisione è
possibile, e perciò necessaria; ma soltanto il carattere empirico
gli divien noto a grado a grado, per i suoi singoli atti. Sembra
perciò alla conoscente conscienza (all'intelletto) che, in un dato
caso, siano alla volontà due opposte risoluzioni in pari modo
possibili. Invece è come se davanti a una sbarra fissata
verticalmente ma scossa nel suo equilibrio e oscillante si dicesse
che «può abbattersi a destra o a sinistra»; il qual «può» non ha
tuttavia che un valore soggettivo, e in verità vuol dire: «secondo i
dati che a noi constano»; mentre oggettivamente è la caduta già in
modo necessario determinata, non appena ha principio l'oscillazione.
Similmente è la decisione della propria volontà sol per il suo
osservatore, ossia il proprio intelletto, indeterminata, e quindi
relativa e soggettiva; mentre in se stessa e oggettivamente, ad ogni
scelta che si offra, la decisione è già determinata e necessaria. Ma
codesta determinazione non sale alla coscienza, se non con la
decisione che ne deriva. Ne abbiamo perfino una prova empirica,
quando ci sta davanti una scelta difficile e importante, e tuttavia
soggetta a una condizione che noi speriamo, ma che non s'è ancora
avverata; sì che lì per lì non possiamo far nulla, e dobbiamo
attender passivamente. Allora prendiamo a riflettere qual sarà la
nostra decisione, quando si saranno presentate le circostanze, che
ci permettano libera azione e scelta d'un partito. Il più sovente a
favor dell'uno parla più forte la lungi veggente, ragionevole
riflessione; ed a favor dell'altro la spontanea inclinazione. Fino a
quando noi, costretti, restiamo passivi, sembra che la parte della
ragione abbia il sopravvento; ma già prevediamo con qual violenza
l'altra parte ci tirerà, non appena sarà venuto il momento d'agire.
Fino allora ci siamo affaticati, con fredda meditazione del pro e
contro, a porre nella miglior luce i motivi dell'una e dell'altra
parte, affinchè ciascuno possa agire con tutta la sua forza sulla
volontà, quando sarà il momento, e un errore da parte
dell'intelletto non abbia per avventura a disviare la volontà,
facendo ch'ella si risolva altrimenti da come si risolverebbe quando
tutto vi avesse egualmente influito. Ma questo limpido prospettare i
contrastanti motivi è tutto ciò che l'intelletto può far per la
scelta. La scelta vera esso l'attende con la medesima passività, con
la medesima curiosità intenta, come se attendesse quella d'una
volontà estranea. Ben possono a lui, dal suo punto di vista,
entrambe le risoluzioni apparire come egualmente possibili: questa è
appunto l'illusione dell'empirica libertà del volere. Che in modo
affatto empirico entra la risoluzione, come un tratto finale, nella
sfera dell'intelletto; tuttavia essa proviene dalla natura intima,
dal carattere intelligibile della volontà individuale nel suo
conflitto con certi dati motivi; e quindi ha forza d'assoluta
necessità. In ciò l'intelletto non può altro fare, che lumeggiar da
ogni parte e ben chiaro la natura dei motivi, ma non già determinare
la volontà medesima; essendo questa a lui inaccessibile, anzi, come
abbiamo veduto, insondabile.
Se un uomo potesse, in pari circostanze, agire una volta in un modo
e una volta in modo diverso, ciò significherebbe essersi la sua
volontà frattanto mutata; e la volontà starebbe adunque nel tempo,
che sol nel tempo può aversi mutazione. Sarebbe, così, o la volontà
un semplice fenomeno, oppure il tempo una determinazione della cosa
in sé. Quindi la contesa intorno alla libertà dell'azione
individuale, intorno al liberum arbitrium indifferentiae, rientra
propriamente nella quistione se la volontà stia o no nel tempo. Se
ella, come appar dimostrato dalla dottrina kantiana e da tutta la
mia esposizione, è la cosa in sé, fuori del tempo e d'ogni altra
forma del principio di ragione, non soltanto deve l'individuo agire
in egual modo in casi eguali, non soltanto ogni sua mala azione sarà
sicura garanzia d'altre innumerevoli, che egli deve compiere e non
può tralasciare: ma ben si potrebbe anche, come dice Kant, sol che
fossero conosciuti appieno il carattere empirico e i motivi,
prevedere il futuro, come si prevedono eclissi di sole o di luna.
Come è conseguente la natura, così è il carattere: ciascuna singola
azione deve essergli conforme, come ogni fenomeno accade secondo la
legge naturale: la causa, nel fenomeno, e il motivo, nell'azione,
sono semplicemente gli impulsi occasionali, com'è dimostrato nel
secondo libro. La volontà, di cui è fenomeno l'intero essere e
l'intera vita dell'uomo, non può in un caso particolare venir meno a
se stessa, e ciò che l'uomo vuole in complesso, vorrà pur sempre di
volta in volta.
L'affermazione d'una libertà empirica del volere, d'un liberi
arbitrii indifferentiae, è strettissimamente connessa col fatto
d'aver posto l'essenza dell'uomo in un'anima, la quale in origine
sarebbe un essere conoscente, anzi proprio astrattamente pensante, e
solo in seguito anche un essere volitivo: attribuendo così alla
volontà natura secondaria, mentre secondaria è invece la conoscenza.
La volontà fu perfino considerata come un atto di pensiero e
identificata col giudizio; particolarmente per opera di Cartesio e
Spinoza. Ciascun uomo sarebbe adunque diventato quel ch'egli è, solo
per effetto della sua conoscenza. Al mondo e' verrebbe come una
nullità morale; quivi conoscerebbe le cose, e si risolverebbe allora
a esser questo o quello, ad agire così o così; potrebbe, anche in
seguito a nuova conoscenza, scegliere una nuova linea di condotta,
ossia diventare affatto un altro. Inoltre, quando così fosse, ei
dovrebbe un oggetto riconoscer per buono, e come tale volerlo,
invece che prima volerlo, e sol per effetto di codesto suo volere,
chiamarlo buono. Secondo la mia concezione fondamentale, tutto ciò è
un capovolger lo stato vero delle cose. La volontà è l'elemento
primo e originario; la conoscenza non sopraggiunge che più tardi,
appartenendo al fenomeno della volontà, come strumento di questa.
Ciascun uomo è quindi quel ch'egli è, per la sua volontà, e il suo
carattere è originario; essendo il volere la base del suo essere.
Dalla sopravveniente conoscenza apprende, nel corso dell'esperienza,
ciò ch'egli è; ossia, apprende a conoscere il proprio carattere. Se
stesso conosce adunque per effetto e in conformità della natura del
suo volere: e non già vuole, secondo l'antica concezione, per
effetto e in conformità del suo conoscere. Se questa fosse vera,
basterebbe ch'egli riflettesse sul come più gli piacerebbe essere, e
così sarebbe: tale è la libertà del volere, secondo la concezione
suddetta. La quale adunque consiste propriamente nel ritener che
l'uomo si faccia da sé, nella luce della conoscenza. Io viceversa
dico: l'uomo si fa da sé prima d'ogni conoscenza, e questa
interviene per dar lume a quel ch'è già fatto. Quindi non può l'uomo
decider d'esser fatto in un modo piuttosto che altrimenti, né può
diventare un altro: bensì egli è, una volta per sempre; e quel che
sia, conosce successivamente. Pei seguaci della vecchia dottrina,
egli vuole ciò che conosce; per me, conosce quel che vuole.
I Greci chiamarono il carattere ηθος, ed ηθος le manifestazioni del
carattere, ossia i costumi; ma questa parola deriva da εθος,
abitudine: la scelsero quindi per indicare metaforicamente la
costanza del carattere con la costanza dell'abitudine. Το γαρ ηθος
απο του εθους εχει την επωνυμιαν. ηθικη γαρ καλειται δια το
εθιζεσθαι (a voce εθος, i. e. consuetudo, ή̃θος est appellatum:
ethica ergo dicta est απο του εθιζεσθαι, sive ab assuescendo), dice
Aristotele (Eth. magna, i, 6, p. 1186, e Eth. End., p. 1220, e Eth.
Nic., p. 1103, ed. berlinese). Stobeo attesta: οί δε κατα Ζηνωνα
τροπικως˙ ηθος εστι πηγη βιου, αφ’ ής αί κατα μερος πραξεις ρεουσι
(Stoici autem, Zenonis castra sequentes, metaphorice ethos definiunt
vitae fontem, e quo singulae manant actiones). II, cap. 7. Nella
dottrina cristiana troviamo il dogma della predestinazione,
riferentesi alla scelta della grazia o della dannazione (San Paolo,
Epist. ai Romani, 9, 11-24); dogma nato evidentemente dal concetto
che l'uomo non muti, e la sua condotta nella vita, ossia il suo
carattere empirico, non sia che la manifestazione del carattere
intelligibile, lo sviluppo di ben definite tendenze, già nel bambino
evidenti e immutabili: sì che all'uomo già dalla nascita sia la sua
condotta precisamente determinata, ed in sostanza rimanga la
medesima fino all'ultimo. Questo è pure il concetto nostro, ma non
m'assumo certo di sostenere le conseguenze, che vennero dall'unione
di tal concetto giustissimo coi dogmi, che lo avevan preceduto nella
dottrina ebraica, e che generarono la difficoltà massima,
l'eternamente indistricabile nodo gordiano, intorno a cui s'aggira
la più gran parte delle dispute ecclesiastiche. Una tal difesa è
assai male riuscita perfino all'apostolo Paolo, col suo apologo del
vasaio, introdotto per questo fine: il risultato sarebbe quello
espresso nei versi che seguono:
Tema gl'Iddii
L'umana razza!
Han nelle eterne
Mani il
potere:
Possono usarlo
Come a lor piace42.
Ma siffatte considerazioni sono in verità estranee al nostro
soggetto. Più appropriati saranno alcuni chiarimenti sul rapporto
tra il carattere e la conoscenza, nella quale stanno tutti i motivi
di quello.
I motivi, che determinano la manifestazione del carattere, ossia
l'azione, sul carattere medesimo agiscono pel tramite della
conoscenza. Ma la conoscenza è mutevole, sovente oscilla tra errore
e verità, sebbene di regola venga sempre più a rettificarsi, se pure
in grado assai diverso, col proceder della vita. Perciò è possibile,
che la condotta di un uomo venga osservabilmente cambiata, senza che
si possa inferirne un cambiamento del suo carattere. Quel che l'uomo
veramente e genericamente vuole, l'aspirazione del suo più intimo
essere e la meta, a cui seguendo quell'aspirazione egli è diretto,
tutto ciò non possiamo mai modificare né con influenze esteriori né
con ammonimenti: per riuscirvi, dovremmo rifarlo di pianta. Seneca
dice benissimo: vette non discitur, mostrando con ciò di anteporre
la verità ai suoi cari Stoici, che ammonivano διδακτην ειναι την
αρετην (doceri posse virtutem). Dall'esterno si può influir sulla
volontà solo mediante motivi. Ma questi non posson mai mutare la
volontà medesima, che su lei hanno potere solo a condizione ch'ella
sia qual è. Il lor potere si riduce adunque a modificare la strada
della sua aspirazione; ossia a far ch'ella cerchi per un'altra via
quel che immutabilmente s'è proposto. Ammonimenti, o più retta
conoscenza, insomma tutti gl'influssi esteriori, possono bensì
avvertirla d'aver sbagliato nei mezzi, e far ch'ella persegua per
tutt'altra via, o addirittura in tutt'altro oggetto, il medesimo
scopo, a cui già mirava secondo la propria intima natura: ma non
posson mai fare ch'ella voglia davvero cosa diversa da quella fino
allora voluta; la quale rimane immutabile, essendo per l'appunto
tutt'uno con quella volontà medesima, che altrimenti dovrebbe esser
soppressa. Invece la mutevolezza della conoscenza, e quindi della
condotta, va tant'oltre, che la volontà si sforza di raggiungere il
suo scopo immutabile, per esempio il paradiso di Maometto, or nella
vita reale, ora in un mondo immaginario; disponendo a ciò i mezzi
opportuni, e quindi nel primo caso adoprando astuzia, violenza e
inganno, nel secondo astinenza, giustizia, elemosina, pellegrinaggio
alla Mecca. Ma per questo non è mutata la sua aspirazione, e tanto
meno egli stesso. Quindi, anche se il suo operare può esser molto
diverso in diverse epoche, è il suo volere tuttavia rimasto il
medesimo. Velle non discitur.
Perché i motivi agiscano, si richiede non soltanto la loro
esistenza, ma anche l'esser conosciuti: perché, come dice
l'eccellente espressione degli scolastici, già ricordata, causa
finalis movet non secundum suum esse reale, sed secundum esse
cognitum. Perché, ad esempio, si palesi il rapporto, che
reciprocamente hanno in un dato uomo egoismo e compassione, non
basta che costui possegga delle ricchezze e vegga la miseria di
altri; egli deve anche sapere, che cosa può farsi con la ricchezza,
sia per sé, sia per altri; e non solo rappresentarglisi l'altrui
pena, ma deve anch'egli sapere che cosa sia pena, e pur che cosa sia
gioia. Tutto ciò non saprebbe egli forse tanto bene in un primo
incontro, quanto in un secondo; e se in occasione simile agisce
differentemente, questo dipende solo dall'esser diverse, in realtà,
le circostanze: soprattutto nella parte che dipende dal suo
conoscimento; anche se paiano esser le medesime. Come l'esser
ignorate toglie a circostanze effettivamente esistenti ogni maniera
d'azione, così posson d'altra parte circostanze affatto immaginarie
agire al modo delle reali; non solo per effetto d'una illusione
isolata, ma anche nel loro complesso, e durevolmente. Se per esempio
un uomo viene fermamente convinto che ogni buona azione gli sarà a
cento doppi ripagata nella vita futura, codesta persuasione vale e
vige come una sicura cambiale a lunghissima scadenza, ed egli per
egoismo può dare, come, sotto altri riguardi, per egoismo
prenderebbe. Né con ciò è cambiato: velle non discitur. In virtù di
questo grande influsso della conoscenza sulla condotta, pur
rimanendo immutata la volontà, accade che solo a poco a poco si
sviluppi il carattere e vengano in luce i suoi vari tratti. Perciò
apparisce esso in ogni età della vita diverso: ed alla vivace,
impetuosa giovinezza può seguire una posata, misurata, virile
maturità. Specialmente il lato cattivo del carattere si manifesta
col tempo sempre più; ma talora invece le passioni, a cui ci
abbandonammo nella giovinezza, vengono più tardi spontaneamente
frenate, sol perché si sono allora mostrati alla conoscenza i motivi
che possono far loro ostacolo. Ed è perciò che noi tutti siamo, in
sulle prime, innocenti: la qual cosa significa che noi non
conosciamo, né altri conosce, il lato cattivo della nostra propria
natura: solo incontrandosi coi motivi questo si palesa, e solo col
tempo entrano i motivi nella nostra conoscenza. Alla fine impariamo
a conoscere noi stessi, come affatto diversi da quel che ritenevamo
a priori; e sovente abbiamo di noi medesimi orrore.
Rimorso non proviene mai dall'essersi mutata la volontà (cosa
impossibile), bensì la conoscenza. Ciò che v'ha d'essenziale e di
proprio in quanto io ho potuto per l'innanzi volere, debbo volere
oggi ancora; perché io medesimo sono codesta volontà, la quale sta
fuor del tempo e fuor del mutamento. Non posso quindi pentirmi mai
di ciò che ho voluto, ma posso bensì di ciò che ho fatto; perché, da
falsi concetti guidato, ho fatto cose non conformi alla mia volontà.
L'accorgersene, in grazia di più esatta conoscenza, costituisce il
rimorso. Ciò non s'estende per avventura soltanto al saper vivere,
alla scelta dei mezzi e al giudizio se un dato scopo convenga alla
mia propria volontà, ma anche al dominio etico in senso vero e
proprio. Posso per esempio aver agito con più egoismo di quanto sia
conforme al mio carattere, fuorviato da esagerate rappresentazioni
della necessità in cui mi trovavo, o anche dall'astuzia, falsità,
malvagità altrui, o anche dalla mia precipitazione; ovvero mancanza
di riflessione; determinato da motivi non già chiaramente conosciuti
in abstracto, ma semplicemente intuiti, sotto l'influenza del
presente e della commozione che ne risultò: così forte, che a dir
vero non possedevo più l'uso della mia ragione. In questo caso, il
ritorno della riflessione non è se non rettificata conoscenza, dalla
quale può sorgere rimorso, che poi si manifesta ognora nel rimediare
al mal fatto, fin dove sia possibile. Va tuttavia osservato, che per
illuder noi stessi ci predisponiamo apparenti precipitazioni, le
quali in realtà sono atti meditati in segreto. Perché nessuno
inganniamo e lusinghiamo con sì fini artificii quali usiamo per noi
medesimi. Può darsi anche il caso opposto: un eccesso di fiducia
verso altri, o ignoranza del valore relativo da attribuire ai
diversi beni della vita, o un qualsiasi dogma astratto, al quale io
cessi poi di prestar fede, possono avermi indotto ad agire con meno
egoismo di quanto il mio carattere richieda; preparandomi così
rimorso d'altra natura. Sempre è adunque il rimorso rettificata
conoscenza del rapporto tra l'azione e il vero e proprio intento.
Come alla volontà manifestantesi nel solo spazio, ossia con la
semplice figura, resiste la materia già da altre idee, in questo
caso le forze naturali, dominata, e di rado lascia apparire in tutta
la sua purezza e limpidità la figura che qui tendeva a farsi
visibile; così la volontà, che si rivela solo nel tempo, ossia con
azioni, trova analogo ostacolo nella conoscenza, che a lei di rado
fornisce esatti i dati, per modo che l'azione non riesce ben
corrispondente alla volontà, e quindi ci prepara il rimorso. Il
rimorso proviene perciò sempre da conoscenza fattasi più retta, e
non da mutazione della volontà, che è impossibile. Il tormento della
coscienza per un atto commesso è tutt'altro che rimorso: è dolore
per l'aver conosciuti noi stessi nel nostro vero essere, ossia nella
nostra volontà. Si fonda sulla certezza d'aver tuttora la medesima
volontà. Fosse questa mutata, e fosse quindi semplice rimorso il
tormento della coscienza, questo cadrebbe da sé: imperocché
l'accaduto non potrebbe più dare inquietudine, riflettendo le
manifestazioni d'una volontà, la quale non è più quella dell'uomo
che si è pentito. Chiariremo più oltre ampiamente il valore del
tormento di coscienza.
L'influsso che la conoscenza, in quanto mezzo dei motivi, esercita
non proprio sulla volontà medesima, ma sul suo manifestarsi nelle
azioni, è anche base del principale divario tra l'azione dell'uomo e
quella dell'animale, essendo in entrambi diverso il modo di
conoscere. L'animale ha soltanto rappresentazioni intuitive; l'uomo,
per via della ragione, possiede anche rappresentazioni, astratte, o
concetti. Ora, sebbene animale e uomo vengano con pari necessità
determinati dai motivi, l'uomo ha nondimeno in più dell'animale una
completa facoltà di scelta; la quale spesso venne anche presa per
una libertà del volere nei singoli atti, mentre non è se non la
possibilità di un conflitto combattuto fino in fondo tra più motivi,
de' quali il più forte determina alla fine con necessità il volere.
Occorre a ciò, che i motivi abbian preso la forma di pensieri
astratti; perché sol per mezzo di questa è possibile una vera e
propria deliberazione, ossia il pesare gli opposti motivi d'agire.
Nell'animale può la scelta aver luogo soltanto tra motivi presenti
all'intuizione, sì che essa è limitata alla stretta sfera della sua
attuale, intuitiva apprensione. Perciò la necessità, onde il volere
è determinato dal motivo, necessità eguale a quella dell'effetto,
data la causa, può solo presso gli animali esser mostrata
intuitivamente e immediatamente, avendo qui anche lo spettatore
davanti agli occhi nella stessa immediatezza i motivi e l'effetto
loro; mentre nell'uomo quasi sempre i motivi sono rappresentazioni
astratte, delle quali non è partecipe lo spettatore; e perfino a
colui, che agisce, il conflitto dei motivi nasconde la necessità
dell'azione. Imperocché solamente in abstracto possono più
rappresentazioni, in forma di giudizi o catene d'illazioni,
coesistere nella conscienza, e poi, libere da ogni determinazione
temporale, l'una contro l'altra agire, finché la più forte predomini
sulle rimanenti e determini la volontà. Questa è la perfetta facoltà
di scelta, o capacità di deliberazione, privilegio dell'uomo di
fronte all'animale; per essa fu all'uomo attribuita libertà del
volere, ritenendosi che il suo volere sia un semplice risultato
delle operazioni intellettive, senza che un determinato impulso
serva all'intelletto di base; mentre, in verità, la motivazione non
fa che agir sulla base ed a condizione del determinato impulso di
lui, che è individuale, ossia è un carattere. Una più ampia
esposizione di quella capacità deliberativa, e della derivante
varietà dell'arbitrio umano e animale, si trova nell'opera I due
problemi fondamentali dell'etica (1a ed., pp. 35 sgg.), alla quale
rinvio dunque per tale soggetto. D'altronde codesta capacità
deliberativa dell'uomo appartiene anch'essa alle cose, che fanno la
sua vita tanto più tormentosa di quella degli animali; perché i
nostri maggiori dolori in genere non stanno nel presente, come
rappresentazioni intuitive o sentimento immediato, bensì nella
ragione, come concetti astratti, torturanti pensieri, da cui è
affatto libero l'animale, che vive soltanto nel presente, e quindi
in invidiabile assenza di pensiero.
La suesposta dipendenza dell'umana capacità deliberativa della
facoltà del pensare in abstracto, e quindi del giudicare e dedurre,
sembra esser quella che ha traviato tanto Cartesio quanto Spinoza,
facendo loro identificar le decisioni della volontà con la facoltà
di affermare e negare (che è il giudizio), dal che Cartesio dedusse
esser la volontà, secondo lui indifferentemente libera, responsabile
anche di ogni errore teorico. Spinoza ne dedusse invece esser la
volontà determinata necessariamente dai motivi, come il giudizio
dalle ragioni43; il che ha del resto il suo valore, ma tuttavia si
presenta come una conclusione esatta da false premesse.
La dimostrata varietà del modo onde l'animale e l'uomo vengono mossi
da motivi, estende di molto la sua influenza sull'essere d'entrambi,
ed è causa precipua del profondo e visibilissimo divario nella loro
esistenza. Che mentre l'animale vien sempre mosso da una
rappresentazione esclusivamente intuitiva, s'affatica l'uomo ad
escludere del tutto questo genere di motivazione, e farsi condurre
soltanto da rappresentazioni astratte; traendo in ciò tutto il
possibile vantaggio dal suo privilegio della ragione, e, senza
dipender dal presente, non già l'effimero godimento o dolore
scegliendo o fuggendo, ma considerando dell'uno e dell'altro le
conseguenze. Nella più parte dei casi, all'infuori delle azioni
affatto insignificanti, ci determinano motivi astratti, pensati, e
non già impressioni momentanee. Quindi è per noi ogni singola
privazione abbastanza lieve a sopportare nel momento, ma
orribilmente grave ogni rinunzia: perché quella tocca soltanto
l'attimo che fugge, questa invece tocca l'avvenire, e chiude in sé
privazioni innumerevoli, delle quali è l'equivalente. La causa del
nostro dolore, come della nostra gioia, per lo più non sta adunque
nel reale presente, ma sol negli astratti pensieri: sono questi, che
spesso ci gravano insopportabilmente, e creano pene, di fronte alle
quali assai piccole sono tutte le sofferenze dell'animalità, poi che
il nostro stesso dolore fisico non viene spesso neppur sentito
vicino a quelle; ed anzi, soffrendo di violenti dolori morali, noi
ci produciamo dolori fisici solo per distogliere con ciò dai primi
l'attenzione: tale è il motivo per cui, nel massimo dolore morale,
ci strappiamo i capelli, battiamo il petto, laceriamo il volto,
rotoliamo per terra; tutte cose che propriamente non sono se non
violente distrazioni da un pensiero che pare intollerabile. Appunto
perché il dolore morale, essendo di gran lunga il maggiore, ci rende
insensibili al dolore fisico, diventa facilissimo il suicidio al
disperato, o a chi è consumato da un morboso travaglio, anche se
costui per l'innanzi, in condizioni tranquille, davanti al pensiero
del suicidio s'arretrava sbigottito. Similmente la pena e la
passione, ossia il travaglio del pensiero, consumano il corpo più
spesso e più a fondo che le sofferenze fisiche. Perciò dice a
ragione Epitteto: Ταρασσει τους ανθρωπους ου τα πραγματα, αλλα τα
περι των πραγματων δογματα (Perturbant homines non res ipsae, sed de
rebus decreta) (V), e Seneca: «Plura sunt, quae nos terrent, quam
quae premunt, et saepius opinione quam re laboramus» (Ep. 5). Anche
Eulenspiegel satireggiava benissimo la natura umana, quando in
salita rideva, in discesa piangeva. Perfino bimbi, che si son fatti
del male, non piangono per il dolore, ma piangono quando li si
compiange, per il pensiero, in tal maniera suscitato, del dolore.
Così gran divarii nell'agire e nel soffrire provengono dalla varietà
nel modo di conoscenza animale ed umano. Inoltre il presentarsi del
limpido e deciso carattere individuale, che soprattutto distingue
l'uomo dall'animale, avendo quest'ultimo quasi unicamente il
carattere della specie, è in egual modo determinato dalla scelta tra
più motivi, possibile solo mediante i concetti astratti. Che solo
dopo precedente scelta sono le risoluzioni diverse nei diversi
individui un segno del carattere individuale di questi, in ciascuno
variato; mentre l'azione dell'animale dipende solo dalla presenza, o
assenza, dell'impressione, premesso poi che questa sia per la sua
specie un motivo. Perciò finalmente nell'uomo soltanto è la
decisione, e non il semplice desiderio, un valido segno del suo
carattere, per lui stesso e per gli altri. Ma la risoluzione diventa
certa, per lui stesso come per gli altri, solamente con l'azione. Il
desiderio è semplice effetto necessario dell'impressione presente,
sia per uno stimolo esterno, sia per una passeggera disposizione
interiore; ed è quindi così immediatamente necessario e privo di
riflessione come l'agir delle bestie: perciò esprime, a mo' di
questo, il carattere della specie, e non l'individuale. Ossia mostra
ciò che l'uomo in genere, e non l'individuo, che prova quel
desiderio, sarebbe capace di fare. L'azione soltanto, come quella
che già per essere un atto umano richiede sempre una certa
riflessione, e perché l'uomo di regola è signore della propria
ragione, e quindi è riflessivo, ossia si risolve secondo motivi
astratti pensati, è l'espressione della massima intelligibile della
sua condotta, il risultato del suo interno volere; e sta come una
consonante della parola, che indica il suo carattere empirico, il
quale a sua volta non è che l'espressione temporale del suo
carattere intelligibile. Perciò in uno spirito sano gravano la
coscienza solamente azioni, e non desiderii e pensieri. Imperocché
solamente le nostre azioni ci tengono innanzi lo specchio della
nostra volontà. L'azione più sopra accennata, punto meditata, ed
effettivamente commessa nel cieco impeto, è in un certo modo un che
di mezzo tra il semplice desiderio e la decisione: quindi essa
mediante vero pentimento, ma che si mostri anche in azione, può come
una linea mal disegnata venir soppressa nell'immagine della nostra
volontà; la quale immagine è la nostra vita. Del resto può qui, come
un singolare raffronto, trovar luogo l'osservazione, che il rapporto
tra desiderio e atto ha un'analogia affatto fortuita, ma precisa,
con quello che passa tra distribuzione elettrica ed elettrica
comunicazione.
In virtù di tutta codesta indagine sulla libertà del volere e su
quanto vi si riferisce, troviamo che, sebbene la volontà in sé e
fuor del fenomeno si possa chiamar libera, anzi onnipotente, vien
poi nei suoi singoli fenomeni illuminati dalla conoscenza, ossia
negli uomini e negli animali, determinata da motivi, contro i quali
ciascun carattere reagisce sempre nello stesso modo, regolarmente e
necessariamente. Vediamo l'uomo, in grazia della sopraggiuntagli
conoscenza astratta, o di ragione, avere in più dell'animale una
facoltà di scelta, la quale tuttavia fa di lui un campo di battaglia
per il conflitto dei motivi, senza sottrarlo al loro dominio; essa è
condizione quindi, perché il carattere individuale si manifesti
appieno, ma non va punto considerata come libertà del volere
singolo, ossia indipendenza dalla legge di causalità; la cui
necessità si estende all'uomo come ad ogni altro fenomeno. Fino al
punto indicato, adunque, e non oltre, va il divario che la ragione,
o conoscenza mediante concetti, fa nascere tra il volere umano e
l'animale. Ma qual tutt'altro fenomeno della volontà umana,
all'animalità affatto estraneo, possa prodursi, quando l'uomo
abbandona l'intera, al principio di ragione sottomessa conoscenza
delle singole cose in quanto tali, e mediante conoscenza delle idee
egli va oltre il principium individuationis, ove un effettivo
palesarsi della vera e propria libertà della volontà come cosa in sé
diventa possibile, sì che il fenomeno finisce col trovarsi in un
certo dissidio con se medesimo, espresso con la parola abnegazione,
ed anzi alla fine l'in-sé del suo essere viene soppresso: questa
verace ed unica immediata manifestazione della libertà della volontà
in se stessa, anche nel fenomeno, non ancora può qui venire esposta
chiaramente, bensì formerà da ultimo l'oggetto della nostra
indagine.
Intanto, dopo che ci si è fatta chiara, attraverso le presenti
dimostrazioni, l'immutabilità del carattere empirico, in quanto essa
è semplice manifestazione del carattere intelligibile posto fuori
del tempo; e così pure la necessità, con cui le azioni procedono
dall'incontro del carattere coi motivi: dobbiamo ora in primo luogo
rimuovere una deduzione che molto facilmente se ne potrebbe trarre a
favore delle nostre tendenze riprovevoli. Dovendosi considerare il
nostro carattere come estrinsecazione temporale d'un atto di volontà
posto fuori del tempo, e quindi indivisibile e immutabile, ossia di
un carattere intelligibile, da cui immutabilmente è determinato e
conformemente a cui s'esprime nel suo fenomeno (il carattere
empirico) quanto v'ha d'essenziale nella nostra condotta, ossia il
contenuto empirico di essa; mentre l'inessenziale di codesto
fenomeno, l'esterno atteggiamento della nostra vita, dipende dalle
forme in cui si presentano i motivi; si potrebbe concluderne, che
sia fatica vana il lavorare a un miglioramento del proprio
carattere, o il resistere alla forza delle cattive tendenze: tal che
meglio sarebbe sottomettersi all'ineluttabile, e immediatamente
cedere a ogni inclinazione, sia pur malvagia. Ma le cose stanno a
questo proposito come stanno per la teoria dell'ineluttabile destino
e della conseguenza derivatane, detta αργος λογος, e a' nostri
giorni fatalismo musulmano: la cui refutazione, quale si attribuisce
a Crisippo, è esposta da Cicerone nel libro de fato, capp. 12, 13.
Che sebbene tutto si possa considerar come irrevocabilmente
predeterminato dal destino, ciò non accade se non mediante la
concatenazione delle cause. In nessun caso può esser destinato, che
si abbia un effetto senza la sua causa. Non è già predeterminato,
adunque, un fatto qualsiasi senz'altro: ma come effetto di cause
preesistenti; non l'effetto solo, cioè, ma anche i mezzi, cui esso
dovrà succedere come risultato, per disposizione del destino.
Mancando i mezzi, manca sicuramente anche il risultato: questo e
quelli sempre secondo la determinazione del destino, che tuttavia
noi veniamo a conoscere solo dopo l'evento. Come gli eventi saranno
sempre conformi al destino, ossia all'infinita concatenazione delle
cause, così saranno le nostre azioni conformi sempre al nostro
carattere intelligibile; ma, come non abbiamo cognizione anticipata
di quello, così non ci è dato di guardare a priori dentro di questo;
bensì unicamente a posteriori, con l'esperienza, veniamo a conoscere
tanto gli altri quanto noi stessi. Se il nostro carattere
intelligibile comporta, che noi prendiamo una buona risoluzione solo
dopo lunga lotta contro un'inclinazione cattiva, bisogna che questa
lotta preceda e che se ne attenda la fine. La riflessione
sull'immutabilità del carattere, sull'unità della sorgente, da cui
derivano tutte le nostre azioni, non ha potere d'indurci a
precorrere, a favor dell'una o dell'altra parte, la decisione voluta
dal carattere: solo a decisione presa, potremo vedere di qual fatta
noi siamo, e specchiarci nelle nostre azioni. Da ciò appunto è
spiegata la soddisfazione oppure l'angoscia, con cui guardiamo
indietro al cammino percorso nella nostra vita: soddisfazione e
angoscia non procedono dall'esistere tuttora quelle azioni
trapassate; che esse sono svanite, furono e non sono più; ma la lor
grande importanza per noi proviene dal loro significato, proviene
dall'esser codeste azioni l'immagine del carattere, lo specchio
della volontà, contemplando il quale noi conosciamo il nostro più
intimo io, il nocciolo della nostra volontà. Poiché questo non ci è
noto in antecedenza, ma soltanto dopo, ci tocca affaticarci e
combattere nel tempo, affinchè l'immagine, che veniamo a creare con
le nostre azioni, riesca tale, che la sua vista ci rassereni il più
possibile, e non ci travagli. Ma il valore di questa serenità o
angoscia sarà, come dicemmo, indagato in appresso. A questo luogo
spetta invece ancora la seguente, per sé stante, considerazione.
Accanto al carattere intelligibile e all'empirico ne va ricordato un
terzo, da entrambi diverso, il carattere acquisito, che si acquista
vivendo, con l'uso del mondo; e di questo si parla, quando un uomo è
lodato per aver carattere, o biasimato per mancarne. Si potrebbe in
verità ritenere, che il carattere empirico, come fenomeno del
carattere intelligibile, essendo immutabile, e, come ogni fenomeno
naturale, in sé conseguente, anche l'uomo dovrebbe similmente
apparir sempre eguale a se stesso e conseguente; né aver quindi
necessità di acquistare artificialmente un carattere mediante
esperienza e riflessione. Ma altro è il caso dell'uomo: e, pur
essendo ognora il medesimo, non sempre tuttavia comprende se stesso,
bensì sovente si misconosce, fin quando non abbia in un certo grado
acquistata la vera e propria conoscenza di sé. Il carattere empirico
è, come semplice istinto naturale, in sé irragionevole: anzi, le sue
manifestazioni vengono per di più dalla ragione turbate; e
maggiormente turbate, per quanta maggior riflessione e forza di
pensiero ha l'uomo. Imperocché queste gli tengono ognora davanti ciò
che all'uomo in genere, in quanto carattere della specie,
s'appartiene, e sì nel volere, sì nell'oprare è a lui possibile. In
tal modo gli è resa più difficile la comprensione di quel che
veramente egli vuole e può per effetto della individualità propria.
Trova in sé le disposizioni per tutte, siano pur diverse, le umane
tendenze e forze; ma il vario grado di quelle nella sua
individualità non gli si fa chiaro senza esperienza; e quand'egli
invero ha dato opera a soddisfar le aspirazioni, che sole al suo
carattere sembrano conformi, sente tuttavia, soprattutto in qualche
momento e in talune disposizioni, la spinta verso aspirazioni
addirittura opposte e inconciliabili con le prime; e quelle, se le
prime vuol seguire indisturbato, devono essere soffocate appieno.
Poiché, come il nostro fisico andare sulla terra è sempre una linea,
e giammai una superficie, così dobbiamo nella vita, quando
afferriamo qualcosa e vogliamo possederla, innumerevoli altre
lasciarne, rinunziandovi, a destra e sinistra. Non ci possiamo
risolvere a ciò, e invece andiamo afferrando, come bimbi al mercato,
tutto quanto ci seduce al passaggio; allora gli è lo sforzo
insensato, di trasformare in una superficie la linea della nostra
via; andiamo correndo a zig-zag, vagolando come fuochi fatui qua e
là, e non perveniamo a nulla. O, per usare un'altra immagine, come,
secondo la teoria hobbesiana del diritto, originariamente ciascuno
ha un diritto sopra ciascuna cosa, ma su nessuna esclusivo; e
quest'ultima si può pervenire ad avere tuttavia su talune cose, col
rinunziare al proprio diritto su tutte le rimanenti, mentre gli
altri fanno lo stesso per ciò che noi abbiamo scelto; così proprio
accade nella vita, dove noi una qualunque aspirazione determinata,
sia essa verso godimento, onore, ricchezza, scienza, arte o virtù,
possiamo allora soltanto seguire con serietà e con fortuna, quando
abbiam fatto getto d'ogni aspirazione estranea a quella, e
rinunziato a tutto il resto. A tanto non basta né il semplice
volere, né, in sé, il potere: un uomo deve anche sapere ciò che
vuole, e sapere ciò che può: solo così mostrerà carattere, e
riuscirà a qualcosa di buono. Prima di giungere a questa
consapevolezza, egli, malgrado la natural conseguenza del carattere
empirico, è nondimeno privo di carattere; e, sebbene trascinato dal
suo demone debba restar fedele a se stesso e percorrer la sua via,
non seguirà una linea diretta, bensì oscillante e disuguale;
esiterà, devierà, tornerà sui propri passi, preparando a sé
pentimento e dolore. Tutto questo, perché nel grande e nel piccolo
tante cose vede come possibili e raggiungibili dall'uomo, e tuttavia
non sa quanto di ciò a lui solo s'adatti, e possa da lui venir
compiuto o anche semplicemente goduto. Invidierà quindi taluno per
una situazione e per condizioni, che sono bensì adatte al carattere
di quegli, ma non al suo, e nelle quali si sentirebbe infelice, o
addirittura non potrebbe reggere. Imperocché come il pesce solamente
nell'acqua, l'uccello solamente nell'aria, la talpa solamente sotto
la terra sta bene, così ogni uomo sta bene solamente nell'atmosfera
a lui propizia; per esempio, l'aria della corte non è respirabile
per tutti. Per mancanza di sufficiente giudizio a questo proposito
molti compiranno ogni sorta di tentativi destinati a fallire,
faranno in caso particolare violenza al proprio carattere, mentre in
generale dovranno pure seguirlo; e quanto avranno in tal modo,
contro la natura propria, faticosamente raggiunto, non darà loro
alcun piacere; quanto avranno in tal maniera appreso, resterà cosa
morta; perfino sotto il rispetto morale un'azione troppo nobile per
il loro carattere, venuta non da un puro, immediato impulso, ma da
un concetto, da un dogma, perderà ogni valore, ai loro stessi occhi,
per l'egoistico pentimento che le succederà. Velle non discitur.
Come dell'irremovibilità dei caratteri altrui ci rendiamo persuasi
sol con l'esperienza, e prima di persuadercene crediamo
infantilmente di poter con ragionevoli argomentazioni, con preghiere
e suppliche, con esempio e generosità, indurre altri a smuoversi
dalla sua natura, a cambiare il suo modo d'agire, a discostarsi dal
suo modo di pensare, o addirittura d'allargare le sue capacità; così
ci accade anche di fronte a noi medesimi. Solo per esperienza
possiamo apprendere ciò che vogliamo e ciò che possiamo; prima, non
lo sappiamo, non abbiamo carattere e dobbiamo sovente venir
rigettati, da duri urti esteriori, sulla nostra via. E quando alla
fine l'abbiamo appreso, allora s'è conseguito quel che nel mondo si
chiama carattere, ossia il carattere acquisito. Il quale non è altro
che la conoscenza il più possibile compiuta della propria
individualità: è l'astratta, e quindi limpida consapevolezza del
proprio carattere empirico, e della misura e direzione delle sue
capacità intellettuali e corporee, ovvero di tutte le forze e
debolezze della propria individualità. Questo ci mette in grado di
adempiere con riflessione e metodo il compito individuale, in sé
immutabile, che per l'innanzi sregolatamente abbandonavamo alla
natura; e le lacune, che capricci o debolezze nostre producevano,
riempire con l'aiuto di saldi concetti. La condotta, resa
assolutamente necessaria dalla nostra natura individuale, veniamo a
formularla in massime chiaramente conosciute, a noi ognora presenti,
secondo le quali noi quella pratichiamo sì consapevolmente, come
fosse una condotta appresa, senza mai venir confusi da una
passeggera disposizione o da un'impressione momentanea, senza venire
inceppati dall'amaro o dal dolce di un singolo incidente occorso per
via, senza incertezza, senza esitazione, senza inconseguenze. Non
più, come novizi, aspetteremo, proveremo, andremo a tentoni, per
vedere ciò che propriamente vogliamo e ciò che possiamo; questo ci è
noto una volta per sempre, in ogni scelta abbiamo principii generali
da applicare ai casi singoli, e subito veniamo alla decisione.
Conosciamo la nostra volontà in genere, e non ci lasciamo sviare né
da disposizioni fugaci né da pressioni esterne, a prendere in un
caso particolare una decisione che sia contraria alla nostra volontà
generica. Conosciamo egualmente la natura e la misura delle nostre
forze e delle nostre debolezze, e ci risparmieremo così molti
dolori. Che in verità non esiste godimento se non nell'uso e
sentimento delle proprie forze, e il maggior dolore è la
riconosciuta mancanza di forze, là dove se n'avrebbe bisogno. Avendo
bene indagato dove le nostre forze stiano, e dove le nostre
debolezze, svilupperemo, useremo, cercheremo di adoprare in tutti i
modi le nostre spiccate naturali attitudini, sempre volgendoci dalla
parte ove queste giovano e hanno valore; ma rigidamente e con
dominio di noi stessi evitiamo gli sforzi, a cui da natura abbiamo
poche disposizioni: ci guarderemo dal tentar ciò che in nessun modo
ci riuscirebbe. Solo chi è giunto a questo, sarà sempre con piena
consapevolezza tutto intero se stesso, né mai da se stesso sarà
lasciato in asso, poi che sempre ha saputo di che fosse capace.
Proverà dunque sovente la gioia di sentire le proprie forze, e
raramente avrà il dolore d'esser richiamato alle proprie debolezze:
umiliazione che forse produce il peggior dolore morale. Molto meglio
si può sopportare di veder limpidamente la propria sfortuna, che la
propria inettitudine. Una volta che noi siamo resi consapevoli
appieno delle nostre forze e debolezze, non tenteremo più di
mostrare capacità che non abbiamo, non giocheremo con falsa moneta,
perché alla fine codesta ciurmeria vien pure a fallire. Essendo
l'uomo intero un semplice fenomeno della sua volontà, nulla può
darsi di più stolto che, rimuovendosi dalla riflessione, voler esser
altro da quel che si è: poi che gli è una diretta contraddizione
della volontà da se medesima. Imitare qualità e caratteristiche
altrui è molto più vile che portare altrui vesti: che il giudizio
sulla nostra insignificanza viene così pronunziato da noi stessi.
Conoscenza della propria natura e delle sue capacità d'ogni maniera
e dei suoi inalterabili confini è sotto questo rispetto la più
sicura via, per arrivare alla maggior possibile soddisfazione di se
medesimo. Imperocché vale per le circostanze interne, quel che vale
per le esterne, non essere a noi nessun conforto più efficace che la
piena certezza dell'immutabile necessità. Non tanto ci strazia un
male, che ci abbia colti, quanto il pensiero delle circostanze, le
quali avrebbero potuto stornarlo; nulla quindi conferisce a
tranquillarci, come il considerar l'accaduto dal punto di vista
della necessità, secondo cui tutti gli eventi accidentali
appariscono strumenti d'un sovrano destino, sì che noi riconosciamo
il male occorsoci come prodotto ineluttabilmente dal conflitto di
circostanze interne ed esterne. Il fatalismo, adunque. In verità noi
ci lamentiamo e infuriamo sol fin quando abbiamo speranza con ciò o
di influire su altri, o di eccitare noi stessi ad uno sforzo
inaudito. Ma ragazzi e adulti sanno benissimo rassegnarsi, non
appena vedano chiaramente che il male è irreparabile:
θυμόν ὲνὶ στὴθεσσι φίλον δαμάσαντες ὰνάγκη
(Animo in
pectoribus nostro domito necessitate).
Noi somigliamo agli elefanti presi prigionieri, i quali per molti
giorni orrendamente infuriano e lottano, fin quando scorgono che
tutto è vano, e quindi d'un tratto calmi offrono il collo al giogo,
per sempre domati. Siamo come il re David, il quale, mentre ancora
viveva suo figlio, incessantemente investiva Jehovah con suppliche,
e disperatamente si dimenava: ma, non appena il figlio fu morto, non
ci pensò più. Di qui proviene, che innumerevoli mali permanenti,
come deformità, miseria, bassa condizione, bruttezza, spiacevole
luogo di residenza, siano da innumerevoli uomini sopportati affatto
indifferentemente, né vengano più sentiti, come cicatrizzate ferite,
sol perché questi uomini sanno che interna o esterna necessità non
lascia quivi adito a mutamento; mentre i felici non comprendono come
si possan sopportare quei mali. Ora, come con l'esterna, così con
l'interna necessità nulla ci riconcilia tanto bene, quanto l'averne
chiara contezza. Quando abbiamo una volta per sempre conosciuto
chiaramente sì le nostre buone qualità e forze, sì i nostri difetti
e debolezze, e conformemente a tal conoscenza abbiam segnata a noi
la nostra meta, e ci siam rassegnati all'irraggiungibile, sfuggiamo
con ciò nel più sicuro modo, finché la nostra individualità lo
consente, all'amarissimo tra tutti i mali, al malcontento di noi
stessi, inevitabile conseguenza del non conoscer la propria
individualità, della falsa opinione e della presunzione che ne
deriva. Agli amari capitoli, in cui è raccomandata la cognizione di
sé, si applica eccellentemente il distico ovidiano:
Optimus ille animi vindex laedentia pectus
Vincula qui rupit,
dedoluitque semel.
E ciò basti intorno al carattere acquisito, il quale invero non
tanto importa per l'etica propriamente detta, quanto per la vita
sociale; ma la cui illustrazione andava qui posta presso quella del
carattere intelligibile e dell'empirico, come terza specie
coordinata. Sulle prime abbiamo dovuto indugiare con un esame
alquanto più esteso, per renderci chiaro come la volontà sia in
tutti i suoi fenomeni soggetta alla necessità, pur potendo nondimeno
esser chiamata in se stessa libera, anzi onnipotente.
§ 56.
Questa libertà, questa onnipotenza, di cui l'intero mondo visibile,
suo fenomeno, è manifestazione ed immagine, e progressivamente si
svolge secondo le leggi che porta seco la forma della conoscenza –
può anche, e propriamente là ove a lei, nel suo più perfetto
fenomeno, è venuta la conoscenza in tutto adeguata del suo proprio
essere, novellamente manifestarsi: o nel volere ancor qui, al
vertice della riflessione e della consapevolezza di sé, quel che già
da cieca e di sé inconscia voleva, e in tal caso la conoscenza, sia
particolare, sia generale, rimane per lei sempre motivo; oppur,
viceversa, codesta conoscenza diventa a lei un quietivo, il quale
ogni volere sopisce e cancella. Si ha così l'affermazione o
negazione, già più sopra genericamente stabilita, della volontà di
vivere; la quale, essendo rispetto alla condotta dell'individuo una
generica, non particolare manifestazione della volontà, non altera
con modificazioni lo sviluppo del carattere, né trova la sua
espressione in singoli atti; bensì o con un sempre più forte rilievo
di tutta la condotta precedente, o all'opposto con la soppressione
di quella, esprime in forma vivente la massima che, dietro
conoscenza alfine raggiunta, la volontà liberamente ha fatto sua. Il
più chiaro svolgimento di tutto ciò, principal soggetto di
quest'ultimo libro, ci è ora alquanto alleviato e preparato dalle
considerazioni sulla libertà, sulla necessità e sul carattere, che
sono venute qui a intercalarsi; ma più sarà, se, discostandosi
ancora una volta dal soggetto primo, avremo innanzi rivolta la
nostra attenzione alla vita medesima, volere o non voler la quale è
la grande quistione. E ciò in maniera, da cercar di conoscere in
generale, che cosa propriamente venga alla volontà medesima, la
quale in tutto è di questa vita la più intima essenza, dalla propria
affermazione, e come e fino a che punto tale affermazione l'appaghi,
anzi possa appagarla; in breve, che cosa genericamente e
sostanzialmente sia da considerare come suo stato in questo mondo
che è suo, ed a lei sotto ogni rispetto appartiene.
In primo luogo desidero, che si richiami qui la considerazione con
cui abbiamo chiuso il secondo libro, indottivi dalla domanda colà
formulata, intorno alla meta e allo scopo della volontà. Invece di
trovar risposta, ci risultò evidente che la volontà, in tutti i
gradi del suo fenomeno, dai più bassi ai più alti, manca affatto
d'un fine ultimo e d'uno scopo; continuamente aspira, perché
aspirare è la sua unica essenza, a cui non pone termine alcun fine
raggiunto; non è quindi capace d'alcun appagamento finale, e solo
per una costrizione può esser trattenuta, ma in sé si estende
nell'infinito. Questo vedemmo nel più semplice di tutti i fenomeni
naturali, nella gravità, che non ha posa nel tendere e non cessa di
premere verso un punto centrale senza estensione, il cui
raggiungimento segnerebbe l'annientarsi di essa e della materia: non
cessa, foss'anche l'universo tutto concentrato in una densa sfera.
Questo vediamo ancora negli altri fenomeni semplici della natura: il
solido tende, sia liquefacendosi o dissolvendosi, alla fluidità,
dove tutte le sue forze chimiche diventano libere; mentre la
solidità è come una loro prigione, in cui vengono chiuse dal freddo.
Il liquido tende allo stato gassoso, nel quale tosto passa, non
appena sia libero da ogni pressione. Nessun corpo è senza affinità,
ossia senza un suo tendere; ovvero senza desiderio e bramosia, come
direbbe Jakob Böhm. L'elettricità propaga nell'infinito la sua
interna scissione, pur se la massa terrestre ne assorbe l'effetto.
Il galvanismo è egualmente, finché la pila vive, un atto
incessantemente senza scopo rinnovato di scissione e di
riconciliazione. Appunto un consimile diuturno tendere, non mai
soddisfatto, è la vita della pianta, un incessante svilupparsi,
attraverso forme sempre più elevate, finché il punto ultimo, il
seme, diventi alla sua volta principio. E questo si ripete
all'infinito: mai un termine, mai definitivo appagamento, mai un
riposo. In pari tempo rammenteremo, dal secondo libro, che ovunque
le svariate forze naturali e forme organiche si contrastano la
materia in cui vogliono spiccare, ciascuno possedendo solo quel che
all'altro ha rapito; e così viene alimentato un perenne battagliar
per la vita e la morte, dal quale appunto sgorga precipuamente la
resistenza, che ognora tien frenata quell'aspirazione, ond'è
costituita l'essenza più intima di tutte le cose. E questa preme
invano, ma tuttavia non può venir meno alla propria natura, e si
tormenta, fin quando il suo fenomeno perisce, mentre tosto altri ne
afferrano avidi il posto e la materia.
Da tempo conoscemmo quest'aspirazione, costituente l'in-sé di ogni
cosa, come identica e tutt'una con ciò che in noi, dov'essa si
manifesta con la maggior chiarezza, alla luce della più piena
conscienza, si chiama volontà. La sua compressione mediante un
ostacolo, che si mette fra lei e una sua mira, chiamiamo quindi
dolore; viceversa il suo conseguir la mira chiamiamo appagamento,
benessere, felicità. Cotali denominazioni possiamo pur riferire ai
fenomeni del mondo privo di conoscenza, più deboli di grado, ma
nell'essenza identici. Questi vedremo allora presi da perenne
soffrire, senza durabile felicità. Perché ogni aspirare proviene da
mancanza, da insoddisfazione del proprio stato: è quindi dolore,
finché non sia appagato; ma nessun appagamento è durevole, anzi non
è che il principio di una nuova aspirazione. L'aspirazione vediamo
ovunque in più forme compressa, diuturnamente pugnando; quindi
sempre come dolore. Non ha termine l'aspirare, non ha dunque misura
e termine il soffrire.
Ma quel che così sol con più acuta attenzione ed a fatica scopriamo
nella natura priva di conoscenza, limpido ci appare nella
conoscente, nella vita animale; il cui perenne soffrire è facile a
dimostrarsi. E, senza indugiare in codesto grado intermedio, ci
volgeremo là, dove, dalla più luminosa conoscenza rischiarato, tutto
nel modo più chiaro si disvela: nella vita dell'uomo. Imperocché
come il fenomeno della volontà diventa più compiuto, così diventa
anche più e più palese il dolore. Nella pianta non è ancora
sensibilità, e quindi punto dolore: un grado certamente tenue di
sofferenza è insito negli animali infimi, infusori e radiari;
perfino negl'insetti è la capacità di sentire e di soffrire ancor
limitata: solo col perfetto sistema nervoso dei vertebrati la si
presenta in alto grado, e sempre più alto, quanto più l'intelligenza
si sviluppa. Nella stessa misura dunque, onde la conoscenza perviene
alla chiarezza, e la conscienza si eleva, cresce anche il tormento,
che raggiunge perciò il suo massimo grado nell'uomo; e anche qui
tanto più, quanto più l'uomo distintamente conosce ed è più
intelligente. Quegli, in cui vive il genio, soffre più di tutti. In
questo senso, ossia rispetto alla conoscenza in genere, e non già al
semplice sapere astratto, io intendo e adopro qui quel detto del
Kohelet: Qui auget scientiam, auget et dolorem. Tal preciso rapporto
tra il grado della conscienza e quel dolore ha oltremodo bellamente
espresso in un disegno quel filosofo pittore, o dipingente filosofo,
che fu Tischbein. La superior metà del suo foglio rappresenta donne,
alle quali vengono rapiti i figli, e che in diversi gruppi e
atteggiamenti manifestano il profondo materno dolore, angoscia,
disperazione, variamente; l'inferior metà del foglio mostra, in
affatto pari disposizione e aggruppamento, pecore, a cui si portano
via gli agnellini: sì che a ogni umana testa, a ogni umano
atteggiamento sulla metà superiore del foglio, corrisponde là sotto
un'animalesca analogia. E quivi si vede chiaramente, come il dolore
possibile all'ottusa conscienza animale si comporti di fronte al
possente strazio, che solo fu reso possibile dalla limpidità del
conoscere, dalla chiarità della conscienza.
Studieremo perciò nell'umana esistenza l'intimo ed essenziale
destino della volontà. Ciascuno ritroverà facilmente nella vita
dell'animale le stesse condizioni, soltanto più deboli, espresse in
gradi diversi; e, guardando anche la sofferente animalità, avrà di
che convincersi abbastanza che sostanzialmente ogni vita è dolore.
§ 57.
In ogni grado, che la conoscenza illumina, apparisce a sé la volontà
come individuo. Nell'infinito spazio e infinito tempo vede l'umano
individuo se stesso come finito, e per conseguenza, come una
quantità evanescente di fronte a quelli, in essi gettata; e, per la
loro sconfinatezza, ha sempre un relativo quando e dove della sua
esistenza, non mai assoluto: perché il suo luogo e la sua durata
sono parti finite di un infinito e di un illimitato. Il suo vero e
proprio essere è soltanto nel presente, la cui non trattenuta fuga
verso il passato è un perenne passar nella morte, un perenne morire;
che la sua vita trascorsa, prescindendo dalle sue eventuali
conseguenze nel presente, com'anche dalla testimonianza che dà della
volontà di lui, la quale v'è dentro impressa, è già del tutto
chiusa, morta, e ridotta a nulla: quindi ragion vuole che gli sia
indifferente, se angosce o gioie fossero il contenuto del suo
passato. Il presente sfugge ognora dalle sue mani diventando
passato: l'avvenire è affatto incerto e sempre corto. È dunque la
sua esistenza, anche se guardata soltanto sotto l'aspetto formale,
un perenne precipitar del presente nel morto passato, un perenne
morire. Ma ora guardiamola anche sotto l'aspetto fisico; è chiaro
che, come il nostro camminare si sa essere nient'altro che un
costantemente trattenuto cadere, così la vita del nostro corpo è un
costantemente trattenuto morire, una morte sempre rinviata: e nello
stesso modo, per concludere, l'attività del nostro spirito è un
costante allontanare la noia. Ciascun respiro rimuove la morte
ognora premente, con la quale noi veniamo così a combattere in tutti
i minuti; come la combattiamo, a maggiori intervalli, con ciascun
pasto, ciascun sonno, ciascun riscaldamento, e così via. Alla fine
la morte deve vincere: perché a lei apparteniamo già pel fatto
d'essere nati, ed ella non fa che giocare alcun tempo con la sua
preda, prima d'inghiottirla. Frattanto continuiamo la nostra vita
con grande interesse e gran cura, fin quando è possibile, come si
gonfia più a lungo e più voluminosamente che si può una bolla di
sapone, pur con la ferma certezza che scoppierà.
Già vedemmo la natura priva di conoscenza avere per suo intimo
essere un continuo aspirare, senza meta e senza posa; ben più
evidente ci apparisce quest'aspirazione considerando l'animale e
l'uomo. Volere e aspirare è tutta l'essenza loro, affatto simile a
inestinguibile sete. Ma la base d'ogni volere è bisogno, mancanza,
ossia dolore, a cui l'uomo è vincolato dall'origine, per natura.
Venendogli invece a mancare oggetti del desiderio, quando questo è
tolto via da un troppo facile appagamento, tremendo vuoto e noia
l'opprimono: cioè la sua natura e il suo essere medesimo gli
diventano intollerabile peso. La sua vita oscilla quindi come un
pendolo, di qua e di là, tra il dolore e la noia, che sono in realtà
i suoi veri elementi costitutivi. Tal condizione s'è dovuta
singolarmente esprimere anche col fatto, che quando l'uomo ebbe
posti nell'inferno tutti i dolori e gli strazi, per il cielo non
rimase disponibile se non appunto la noia.
Ma il permanente aspirare, ond'è costituita l'essenza d'ogni
fenomeno della volontà, ha nei gradi superiori dell'oggettivazione
il suo primo e più general fondamento, pel fatto che quivi la
volontà a se stessa appare come un corpo vivo, con l'obbligo ferreo
di nutrirlo: e ciò che dà impero a quest'obbligo, gli è appunto
l'esser codesto corpo nient'altro se non la stessa oggettivata
volontà di vivere. L'uomo, come la più compiuta oggettivazione di
quella volontà, è per conseguenza anche il più bisognoso di tutti
gli esseri: è in tutto e per tutto un volere, un abbisognare reso
concreto, è il concremento di mille bisogni. Con questi egli sta
sulla terra, abbandonato a se stesso, incerto di tutto fuor che
della propria penuria e delle proprie necessità: l'ansia per la
conservazione di quell'esistenza, fra tante sì gravi e ogni giorno
rinnovantisi esigenze, riempie di regola l'intera vita umana. Vi si
collega immediatamente la seconda imperiosa brama, quella di
continuare la specie. In pari tempo minacciano l'uomo da ogni parte
i più svariati pericoli, per isfuggire ai quali occorre permanente
vigilanza. Con cauto passo, e ansiosamente spiando intorno, va egli
per la sua via, perché mille accidenti e mille nemici lo insidiano.
Così camminava nelle foreste, e così cammina nella vita civilizzata:
non v'ha per lui sicurezza di sorta:
Qualibus in tenebris vitae, quantisque periclis
Degitur hocc'aevi,
quodcunque est!
Lucr., II, 15.
La vita dei più non è che una diuturna battaglia per l'esistenza,
con la certezza della sconfitta finale. Ma ciò che li fa perdurare
in questa sì travagliata battaglia non è tanto l'amore della vita,
quanto la paura della morte, la quale nondimeno sta inevitabile
nello sfondo, e può a ogni minuto sopravvenire. La vita stessa è un
mare pieno di scogli e di vortici, cui l'uomo cerca di sfuggire con
la massima prudenza e cura; pur sapendo, che quand'anche gli riesca,
con ogni sforzo e arte, di scamparne, perciò appunto si accosta con
ogni suo passo, ed anzi vi drizza in linea retta il timone, al
totale, inevitabile e irreparabile naufragio: alla morte. Questo è
il termine ultimo del faticoso viaggio, e per lui peggiore di tutti
gli scogli, ai quali è scampato.
Ma qui ci si presenta subito come molto notabile, che da un lato i
dolori e strazi dell'esistenza possono facilmente accumularsi a tal
segno che la morte stessa, nel fuggir la quale consiste l'intera
vita, diviene desiderata, e spontaneamente le si corre incontro;
dall'altro, che non appena miseria e dolore concedono all'uomo una
tregua, la noia è subito vicino tanto, che quegli per necessità ha
bisogno d'un passatempo. Quel che tutti i viventi occupa e tiene in
molto, è la fatica per l'esistenza. Ma dell'esistenza, una volta che
sia loro assicurata, non sanno che cosa fare: perciò il secondo
impulso, che li fa muovere, è lo sforzo di alleggerirsi dal peso
dell'essere, di renderlo insensibile, di «ammazzare il tempo», ossia
di sfuggire alla noia. Quindi vediamo, che quasi tutti gli uomini al
riparo dei bisogni e delle cure, quand'abbiano alla fine rimosso da
sé tutti gli altri pesi, si trovano esser di peso a se stessi, e
hanno per tanto di guadagnato ogni ora che passi, ossia ogni
sottrazione fatta a quella vita appunto, per la cui conservazione il
più possibile lunga avevano fino allora impiegate tutte le forze. E
la noia è tutt'altro che un male di poco conto: che finisce con
l'imprimere vera disperazione sul volto. Essa fa sì che esseri, i
quali tanto poco s'amano a vicenda, come gli uomini, tuttavia si
cerchino avidamente, e diviene in tal modo il principio della
socievolezza. Anche contro di essa, come contro altre universali
calamità, vengono prese pubbliche precauzioni, e già per ragion di
stato; perché questo male, non meno del suo estremo opposto, la
fame, può spingere gli uomini alle maggiori sfrenatezze: panem et
circenses vuole il popolo. Il severo sistema penitenziario di
Filadelfia fa strumento di punizione la semplice noia, per mezzo di
solitudine e inazione: ed è sì terribile, che già ha condotto i
reclusi al suicidio. Come il bisogno è il perpetuo flagello del
popolo, così è flagello la noia per le classi elevate. Nella vita
borghese è rappresentata dalla domenica, come il bisogno dai sei
giorni di lavoro.
Tra il volere e il conseguire trascorre dunque intera ogni vita
umana. Il desiderio è, per sua natura, dolore: il conseguimento
genera tosto sazietà: la mèta era solo apparente: il possesso
disperde l'attrazione: in nuova forma si ripresenta il desiderio, il
dolore: altrimenti, segue monotonia, vuoto, noia, contro cui è la
battaglia altrettanto tormentosa quanto contro il bisogno. Quando
desiderio e appagamento si susseguono senza troppo brevi e senza
troppo lunghi intervalli, n'è ridotto il soffrire, ch'entrambi
producono, ai minimi termini, e se n'ha la più felice vita.
Imperocché quel che fuori di ciò si potrebbe chiamar la parte più
bella, la più pura gioia della vita, appunto perché ci solleva
sull'esistenza reale e ci trasmuta in sereni spettatori di questa:
ossia il puro conoscere, cui ogni volere è estraneo, il godimento
del bello, il genuino piacere dell'arte, richiedendo attitudini già
rare, è dato solo a pochissimi, ed anche a' pochissimi soltanto come
un effimero sogno. E la più elevata forza intellettuale fa proprio
costoro capaci di ben maggiori sofferenze, di quante non possano mai
sentire i più ottusi, e inoltre solitarii li lascia tra esseri molto
da loro diversi: sì che pur quel vantaggio si compensa. Ma alla più
parte degli uomini sono le gioie puramente intellettuali
inaccessibili; del piacere, che consiste nel puro conoscere, sono
quasi affatto incapaci: in tutto sono confinati nel volere. Quindi,
se cosa alcuna vuol destar la loro attenzione, esser per loro
interessante, deve (e ciò è insito nel valore stesso della parola)
stimolare in qualche modo la loro volontà, sia pur soltanto per un
remoto e anche meramente possibile rapporto con lei; la volontà non
può mai restare affatto fuori del gioco, perché l'esser loro sta di
gran lunga più nel volere che nel conoscere: azione e reazione è il
loro unico elemento. Le ingenue manifestazioni di questa lor natura
si possono cogliere anche in piccolezze e in fatti ordinari: per
esempio, scrivono nei luoghi notabili, che vanno a visitare, il loro
nome, per così reagire, per agire sul luogo, poi che il luogo non ha
agito su di loro; inoltre non sanno facilmente contentarsi di
contemplare un esotico, raro animale, ma devono stuzzicarlo,
provocarlo, scherzare con esso, per sentire nient'altro che azione e
reazione. Quel bisogno d'eccitazione della volontà si mostra
soprattutto nell'invenzione e nella pratica del giocare alle carte,
che benissimo esprime l'aspetto lamentevole dell'umanità.
Ma per quanto la natura, per quanto la fortuna abbia operato;
chiunque noi siamo, e qualunque cosa possediamo; il dolore ch'è
essenza della vita non si lascia rimuovere:
Πηλειδης δ’ω̣μωξεν, ιδων ουρανον ευρον
(Pelides autem ejulavit, intuitus in coelum latum).
E ancora:
Ζηνος μεν παις ηα Κρονιονος, αυταρ οιζυν
Ειχον απειρεσιην
(Jovis quidem filius eram Saturni!, verum aerumnam
Habebam
infinitam).
Gl'incessanti sforzi di bandire il dolore non servono che a mutarne
l'aspetto. Questo è dapprima mancanza, bisogno, ansia per la
conservazione della vita. Quando sia riuscito, il che è assai
difficile, lo scacciare il dolore in questa sua forma, ecco che
tosto si ripresenta in mille altre, variando secondo età e
circostanze, come istinto sessuale, appassionato amore, gelosia,
invidia, odio, paura, ambizione, avarizia, infermità, ecc. ecc. E se
finalmente non riesca a trovar via in nessun'altra forma, viene
sotto la malinconica, grigia veste del tedio e della noia, contro
cui si tentano rimedii variati. Quando poi si pervenga da ultimo a
discacciare anche quelli, sarà difficile che accada senza riaprir
con ciò la via al dolore in una delle precedenti forme, e
ricominciar così il ballo da principio; imperocché tra dolore e noia
viene ogni vita umana di qua e di là rimbalzata. Per disanimante che
sia questa considerazione, voglio tuttavia richiamare
accessoriamente l'attenzione sopra un suo lato, dal quale si può
attingere conforto, o anzi addirittura trarre forse una stoica
indifferenza per il proprio male. Che la nostra intolleranza di esso
procede massimamente dal fatto, che noi lo riteniamo venuto per
caso, provocato da una catena di cause, la quale potrebbe
agevolmente essere diversa. Per il male immediatamente necessario e
affatto universale, come è per esempio la necessità della vecchiaia
e della morte e di molti quotidiani disagi, non usiamo rattristarci.
È piuttosto il considerar l'accidentalità delle circostanze, le
quali ci produssero un dolore, che dà a questo il pungolo. Se invece
abbiamo conosciuto, che il dolore come tale è inerente all'essenza
della vita, od è inevitabile, ed unicamente la sua figura, la forma
in cui si presenta, dipende dal caso; che insomma il nostro dolore
attuale riempie uno spazio, nel quale, se quello non fosse,
immediatamente un altro subentrerebbe, per ora impedito dal primo;
che quindi, in sostanza, ben poco potere ha su noi il destino;
allora potrebbe una cotal riflessione, facendosi persuasione
vivente, portar seco un notevole grado di stoica imperturbabilità, e
diminuir l'angosciosa inquietudine per il nostro bene. Ma in realtà
una sì efficace signoria della ragione sopra il dolore direttamente
sentito, la si trova di rado, o mai.
D'altronde codesta considerazione sull'inevitabilità del dolore, e
sul fatto che un dolore scaccia l'altro, e che il dolore nuovo
interviene con lo sparir dell'antico, potrebbe condurci alla
paradossale, ma non stolta ipotesi, che in ciascun individuo la
misura del dolore in lui sostanziale venga una volta per sempre
determinata dalla sua natura: la qual misura né potrebbe rimaner
vuota, né superata, per varia che fosse la forma del dolore. Il suo
soffrire o godere non sarebbe quindi determinato punto dal di fuori,
ma solo da quella misura, da quella disposizione, la quale bensì
potrebbe, per lo stato fisico, aver qualche diminuzione o
accrescimento secondo le epoche, ma in complesso resterebbe la
medesima e non altro sarebbe, se non ciò che si chiama il
temperamento dell'individuo, o, meglio, il grado in cui questi,
secondo s'esprime Platone nel primo libro della Repubblica, è
εΰκολος oppure δύσκολος, ossia d'animo leggero o grave. In favor di
questa ipotesi non soltanto parla la ben nota esperienza, secondo
cui i grandi dolori ci rendono affatto insensibili ai minori, e,
viceversa, nella assenza di dolori grandi, anche le minime molestie
ci tormentano e contristano; ma l'esperienza ci ammonisce ancora,
che se una grande sventura, la quale ci faceva rabbrividire solo a
pensarla, è effettivamente sopravvenuta, il nostro animo resta
nondimeno, tosto superato il primo schianto, pressoché immutato; e
così, all'opposto, dopo l'avvento d'una felicità a lungo sognata,
non ci sentiamo in complesso e alla lunga notevolmente meglio e più
soddisfatti di prima. Il momento solo in cui quelle mutazioni si
presentano ci scuote con particolar forza, sia come profondo dolore,
sia come alta gioia; ma questa e quello rapidamente svaniscono,
perché si fondavano sopra un'illusione. Sorgono invero non già
dall'immediatamente attuale godere o patire, ma dall'aprirci un
nuovo avvenire, che viene in essi anticipato. Sol prendendo a
prestito dall'avvenire hanno potuto essere sì anormalmente intensi:
e quindi non durano. In favor dell'ipotesi formulata, per cui, come
nel conoscere, così anche nel sentimento del soffrire o del godere
una grandissima parte è soggettiva e determinata a priori, possono
ancora essere addotte come prove le osservazioni, secondo le quali
l'umana gaiezza, o tristezza, palesemente non da circostanze
esteriori è determinata, da ricchezza o condizione sociale; poiché
noi incontriamo altrettante facce liete tra' poveri, quanto tra'
ricchi: e inoltre, i motivi pe' quali accadono i suicidii sono così
profondamente diversi; non potendo noi indicare nessuna sventura
grande abbastanza da dover provocare con molta verosimiglianza in
ciascun carattere il suicidio, e poche tanto piccole, che
nessun'altra di egual peso non l'abbia già altra volta provocato. Se
dunque il grado della nostra letizia o malinconia non è tuttodì il
medesimo, ciò attribuiremo, in virtù di quest'opinione, non al mutar
delle circostanze esterne, ma a quello dello stato interno, delle
condizioni fisiche. Che quando si produce una vera, se pur sempre
temporanea, elevazione della nostra gaiezza, sia pur fino alla
gioia, questo suol essere senz'alcuna ragione esteriore. Sì, sovente
vediamo il nostro dolore provenir solo da un determinato fatto
esterno, e solo da questo siamo visibilmente oppressi e turbati:
allora crediamo che, se esso venisse meno, ne seguirebbe la massima
contentezza. Ma è un'illusione. La misura del nostro dolore e
benessere è in complesso, secondo la nostra ipotesi, determinata
soggettivamente per ogni istante, e in rapporto ad essa è ogni
esterna cagione di turbamento appena ciò ch'è pel corpo un
vescicante, verso il quale traggono tutti gli umori cattivi, che
altrimenti restan dispersi pel corpo. Il dolore nel nostro essere,
prodotto da un dato motivo per questo spazio di tempo, e quindi non
rimovibile, sarebbe senza quella determinata causa esteriore di
sofferenza distribuito in cento punti, e comparirebbe in forma di
cento piccole molestie e fastidi a proposito di cose, che invece
allora trascuriamo del tutto, perché la nostra capacità di soffrire
è già riempita da quella pena centrale, che tutta la sofferenza
altrimenti dispersa ha concentrata in un punto. A ciò corrisponde
anche l'osservazione, che se alla fine una grande, conturbante
angoscia ci vien tolta dal petto mediante un esito felice, tosto
subentra un'altra al suo posto, la cui materia già c'era tutta, ma
non poteva entrar come angoscia nella conscienza, perché questa non
aveva capacità disponibile per lei, sì che quella materia d'angoscia
rimaneva appena come oscura, inosservata parvenza nebbiosa
all'estremo limite del suo orizzonte. Ma tosto che lo spazio è
libero, ecco questa materia pronta farsi subito innanzi, e occupare
il trono della dominante (πρυτανευουσα) angoscia del momento: pur
se, nella sua sostanza, è molto più leggera che la materia di
quell'angoscia svanita; nondimeno sa tanto gonfiarsi, da farlesi
eguale in apparente grandezza, e in tal modo, come precipua angoscia
del momento, rimpie appieno il trono.
Smisurata gioia e molto vivo dolore si ritrovano sempre soltanto
nella stessa persona: imperocché l'una è condizione dell'altro, ed
entrambi poi han per condizione una vivacità grande dello spirito.
Entrambi sono prodotti, come or ora vedemmo, non dal puro presente,
ma da anticipazione dell'avvenire. Ed essendo il dolore alla vita
essenziale, ed anche, nel suo grado, determinato dalla natura del
soggetto, sì che subitanee modificazioni non possono, essendo sempre
esteriori, mutare veramente quel grado; ne viene, che all'eccessivo
giubilo o dolore sempre è base un errore e vaneggiamento: onde
quelle due sovreccitazioni dell'animo si potrebbero evitar con
l'intendimento. Ogni immoderato giubilo (exultatio, insolens
laetitia) poggia sempre sull'illusione d'aver trovato alcunché nella
vita, che non vi si può punto trovare, ossia durevole riposo dei
torturanti, ognora rinascenti desideri o affanni. Da ogni singola
illusione di tal fatta bisogna più tardi inevitabilmente far
ritorno, e poi, quando scompare, pagarla con dolori altrettanto
amari, per quanto gioia aveva recato il suo apparire. Somiglia sotto
questo rispetto interamente ad un'altura, dalla quale si possa venir
giù solo cadendo; perciò la si dovrebbe evitare: ed ogni improvviso,
immoderato dolore è proprio nient'altro che la caduta da una cotale
altezza, lo svanire d'una tale illusione: e quindi questa è
condizione di quello. Si potrebbero perciò evitare entrambi, qualora
si avesse sopra di sé il potere di veder con tutta chiarezza le
cose, sempre nel loro complesso e nella lor connessione, e
fermamente guardarsi dall'attribuir loro in effetti il colore, che
si vorrebbe avessero. L'etica stoica mirava soprattutto a liberar
l'animo da tutta codesta illusione e dalle sue conseguenze, e dargli
invece incrollabile imperturbabilità. Di quest'intendimento è pieno
Orazio, nella celebre ode:
Aequam memento rebus in arduis
Servare mentem, non secus in bonis
Ab insolenti temperatam
Laetitia.
Ma il più delle volte vogliamo sottrarci alla conoscenza, simile ad
amara medicina, che il dolore è essenziale alla vita, e quindi non
dal di fuori fluisce in noi: bensì ciascuno ne porta nel suo proprio
interno l'inesauribile sorgente. Noi cerchiamo piuttosto ognora una
singola causa esterna, quasi un pretesto, al dolore che mai da noi
si rimuove; come l'uomo libero si forma un idolo, per avere un
signore. Imperocché infaticabilmente andiamo di desiderio in
desiderio, e sebbene ogni soddisfazione raggiunta, per quanto ci
promettesse, tuttavia non ci appaga, anzi il più sovente non tarda a
mostrarci come un mortificante errore, non vediamo, ciò malgrado,
che attingiamo con la botte delle Danaidi, e invece corriamo
incontro a desiderii sempre nuovi:
Sed, dum abest quod avemus, id exsuperare videtur
Caetera; post
aliud, quum contigit illud, avemus;
Et sitis aequa tenet vitai
semper hiantes.
Lucr., III, 1095
E così o continua all'infinito, oppure, il che è più raro, e
presuppone già una certa forza di carattere, continua fin quando
capitiamo in un desiderio, che non può essere appagato, ed a cui
tuttavia non si rinunzia: allora gli è come se avessimo quel che
cercavamo, cioè qualcosa che in ogni istante possiamo accusar come
sorgente dei nostri mali, invece d'accusarne la nostra propria
natura, e per cui noi, in dissidio col nostro destino, veniamo in
compenso riconciliati con la nostra esistenza, allontanandosi di
nuovo la cognizione, che a codesta esistenza sia essenziale il
dolore, e impossibile un vero appagamento. La conseguenza di
quest'ultima maniera di sviluppo è una cotal disposizione
malinconica, il perpetuo portar con sé un unico, grande dolore, e il
derivantene disdegno di tutti i minori dolori o godimenti; quindi
una condizione già più degna, che non sia il continuo correre in
caccia di sempre nuovi fantasmi, il che è molto più comune.
§ 58.
Qualsiasi soddisfacimento, o ciò che in genere suol chiamarsi
felicità, è propriamente e sostanzialmente sempre negativo, e mai
positivo. Non è una sensazione di gioia spontanea, e di per sé
entrata in noi, ma sempre bisogna che sia l'appagamento d'un
desiderio. Imperocché desiderio, ossia mancanza, è la condizione
preliminare d'ogni piacere. Ma con l'appagamento cessa il desiderio,
e quindi anche il piacere. Quindi l'appagamento o la gioia non può
essere altro se non la liberazione da un dolore, da un bisogno: e
con ciò s'intende non solo ogni vero, aperto soffrire, ma anche ogni
desiderio, la cui importunità disturbi la nostra calma, e perfino la
mortale noia, che a noi rende un peso l'esistenza. Ora, è
difficilissimo raggiungere e menare a compimento alcunché: a ogni
nostro proposito contrastano difficoltà e fatiche senza fine, e a
ogni passo si accumulano gli ostacoli. Quando poi finalmente tutto è
superato e raggiunto, nient'altro ci si può guadagnare, se non
d'essere liberati da una sofferenza, o da un desiderio: quindi ci si
trova come prima del loro inizio, e non meglio. Direttamente dato è
a noi sempre il solo bisogno, ossia il dolore. Invece l'appagamento
e il piacere non li possiamo conoscere che mediatamente, per
ricordar la passata sofferenza e privazione, venuta meno
all'apparire di quelli. Da ciò proviene, che dei beni e vantaggi,
che possediamo in effetti, non siamo punto ben persuasi, né li
apprezziamo, bensì ci sembra naturale l'averli; che essi ci
letiziano solo indirettamente, con l'impedir sofferenze. Bisogna
averli perduti, per sentirne il pregio: perché il bisogno, la
privazione, il soffrire è la sensazione positiva, che si manifesta
direttamente. Perciò anche ci rallegra il ricordo di angustia,
malattia, bisogni superati, che tal ricordo è l'unico mezzo per
godere dei beni presenti. Nemmeno è da negare, che sotto questo
rispetto e dal punto di vista dell'egoismo, il quale è la forma
della volontà di vivere, lo spettacolo o la descrizione di mali
altrui ci dà soddisfazione e piacere appunto per quella via, secondo
esprime in bel modo e sincero Lucrezio, al principio del secondo
libro:
Soave, mari magno, turbantibus æquora ventis,
E terra magnum
alterius spectare laborem:
Non, quia vexari quemquam est jucunda
voluptas;
Sed, quibus ipse malis careas, quia cernere suave est.
Tuttavia ci si mostrerà in seguito, che questa maniera di gioia,
proveniente da siffatta mediata conoscenza del nostro benessere, sta
molto vicina alla sorgente della vera e propria malvagità positiva.
Che ogni felicità sia di natura soltanto negativa, e non positiva;
che non possa quindi esser mai durevole appagamento o letificazione,
ma sia sempre nient'altro che liberazione da un dolore o bisogno, al
quale o un nuovo dolore oppur languore, vuota nostalgia e noia deve
seguire; è provato anche in quel fedele specchio dell'essenza del
mondo e della vita, che è l'arte, e soprattutto nella poesia. Che
ogni poesia epica o drammatica ha soltanto capacità di rappresentare
uno sforzo, un'aspirazione attiva, una lotta per la conquista della
felicità, e non mai la felicità stessa durevole e compiuta. Conduce
il suo eroe attraverso mille traversie e pericoli fino alla mèta:
appena questa è raggiunta, lascia tosto cadere il sipario. Che altro
non le resterebbe, se non mostrare che la luminosa mèta, in cui
l'eroe sognava di trovare la felicità, era una beffa; e quando l'ha
toccata, egli non si trova meglio di prima. Poiché una vera,
durevole felicità non è possibile, non può nemmeno essere oggetto
dell'arte. È vero, che l'idillio precisamente si propone di
rappresentarla: ma si vede, appunto, che l'idillio come tale non si
può reggere. Sempre, nelle mani del poeta, o diventa epico, ed è
allora semplicemente un epos di poco rilievo, intessuto di piccoli
dolori, piccole gioie, e piccoli sforzi: e questo è il caso più
frequente; o si riduce a poesia descrittiva, descrive la bellezza
della natura, cioè propriamente il puro conoscere fuor della
volontà, che invero è in effetti il solo bene reale, cui né
sofferenza né bisogno precede, né rimorso, né dolore, né vuoto, né
tedio necessariamente segue. Ma un tal bene non può riempir tutta la
vita, bensì appena qualche istante. Quel che vediamo nella poesia,
ritroviamo nella musica, nella cui melodia già riconoscemmo,
genericamente espressa, la più intima storia della volontà resa
consapevole di sé, la più segreta vita, aspirazione, sofferenza,
gioia, il flusso e riflusso dell'umano cuore. La melodia è sempre
una deviazione dal tono fondamentale, con mille strani andirivieni,
fino alla più dolorosa dissonanza, indi ritorna da ultimo al tono
fondamentale, che esprime l'appagamento e il rasserenarsi della
volontà, ma col quale non c'è più in seguito altro da fare, e
prolungato a lungo genererebbe solo una pesante e inespressiva
monotonia, analoga alla noia.
Tutto quanto dovevano chiarire queste considerazioni,
l'irraggiungibilità di durevole soddisfazione e il valore negativo
d'ogni felicità, trova spiegazione in ciò ch'è mostrato alla fine
del secondo libro; che cioè la volontà, di cui è oggettivazione la
vita umana come ogni fenomeno, è un aspirar senza mèta e senza fine.
L'impronta di questa infinità troviamo stampata anche in tutte le
parti del suo intero fenomeno, dalla forma più generale di questo,
spazio e tempo senza fine, al più perfetto di tutti i fenomeni, alla
vita e all'ansia degli uomini. Si possono teoricamente ammettere tre
estremi della vita umana, e considerarli come elementi della vita
realmente umana. In primo luogo, il poderoso volere, le grandi
passioni (Ragia-Cuna). Apparisce nei grandi caratteri storici; è
rappresentato nell'epos e nel dramma: ma può mostrarsi anche in una
piccola sfera, perché la grandezza degli oggetti si misura qui solo
secondo il grado, in cui quelli muovono la volontà, e non secondo i
loro rapporti esterni. Indi, in secondo luogo, il puro conoscere, il
percepir le idee, che ha per condizione una conoscenza emancipata
dal servigio della volontà: la vita del genio (Sattva-Guna).
Finalmente, in terzo luogo, la massima letargia della volontà, e
quindi della conoscenza che ne dipende: vuota aspirazione,
paralizzante noia (Tama-Guna). La vita individuale, lungi dal
permanere in uno di codesti estremi, appena raramente li tocca, ed
il più spesso non è che fiacco e vacillante appressarsi ora a questa
ora a quella parte, un povero volere oggetti meschini, che ognora si
rinnova e così ci sottrae alla noia. È davvero incredibile, come
insignificante e priva di senso, vista dal di fuori, e come opaca e
irriflessiva, sentita dal di dentro, trascorra la vita di quasi
tutta l'umanità. È un languido aspirare e soffrire, un sognante
traballare attraverso le quattro età della vita fino alla morte, con
accompagnamento d'una fila di pensieri triviali. Gli uomini
somigliano a orologi, che vengono caricati e camminano, senza sapere
il perché; ed ogni volta, che un uomo viene generato e partorito, è
l'orologio della vita umana di nuovo caricato, per ancora una volta
ripetere, frase per frase, battuta per battuta, con variazioni
insignificanti, la stessa musica già infinite volte suonata. Ciascun
individuo, ciascun volto umano e ciascuna vita non è che un nuovo
breve sogno dell'infinito spirito naturale, della permanente volontà
di vivere; non è che una nuova immagine fuggitiva, che la volontà
traccia per gioco sul foglio infinito dello spazio e del tempo,
lasciandola durare un attimo appena percettibile di fronte
all'immensità di quelli, e poi cancellandola, per dar luogo ad
altre. Nondimeno, e in ciò è l'aspetto grave della vita, ognuna di
tali immagini fugaci, ognuno di tali insipidi capricci dev'essere
pagato dalla intera volontà di vivere, in tutta la sua violenza, con
molti e profondi dolori, e in ultimo con un'amara morte, a lungo
temuta, finalmente venuta. Per questo ci fa così subitamente
malinconici la vista d'un cadavere.
La vita d'ogni singolo, se la si guarda nel suo complesso,
rilevandone solo i tratti significanti, è sempre invero una
tragedia; ma, esaminata nei particolari, ha il carattere della
commedia. Imperocché l'agitazione e il tormento della giornata,
l'incessante ironia dell'attimo, il volere e il temere della
settimana, gli accidenti sgradevoli d'ogni ora, per virtù del caso
ognora intento a brutti tiri, sono vere scene di commedia. Ma i
desideri sempre inappagati, il vano aspirare, le speranze calpestate
senza pietà dal destino, i funesti errori di tutta la vita, con
accrescimento di dolore e con morte alla fine, costituiscono ognora
una tragedia. Così, quasi il destino avesse voluto aggiungere lo
scherno al travaglio della nostra esistenza, deve la vita nostra
contenere tutti i mali della tragedia, mentre noi non riusciamo
neppure a conservar la gravità di personaggi tragici, e siamo invece
inevitabilmente, nei molti casi particolari della vita, goffi tipi
da commedia.
Ma per quanto i grossi e piccoli tormenti riempiano ogni vita umana,
tenendola in perenne inquietudine e moto, non possono tuttavia
coprir l'insufficienza della vita rispetto alla soddisfazione dello
spirito, e il vuoto e l'insulsaggine dell'esistenza, né bandire la
noia, ch'è sempre pronta a empire ogni pausa lasciata dall'angoscia.
Di là è venuto, che lo spirito umano, non ancora contento delle
angosce, amarezze e occupazioni impostegli dal mondo reale, si crea
per di più, in forma di mille variate superstizioni, un mondo
immaginario, col quale si affatica in tutti i modi, dissipandovi e
tempo e forze, non appena il mondo reale gli lasci un riposo ch'egli
non sa gustare. Codesto è anche spessissimo, in origine, il caso di
quei popoli, cui la dolcezza del clima e del suolo fa agevole la
vita; soprattutto degli Indù, e poi dei Greci, dei Romani, e più
tardi degl'Italiani, Spagnuoli e così via. Demoni, Dei e santi si
crea l'uomo a propria immagine; a essi devono incessantemente venire
tributati sacrifizi, preci, adornamento di templi, voti e
conseguenti offerte, pellegrinaggi, saluti, addobbo delle loro
immagini, etc. Il loro culto s'intreccia dappertutto con la realtà,
anzi l'oscura: ogni avvenimento della vita vien preso allora come un
effetto dell'azione di quegli esseri: i rapporti con loro riempiono
metà della vita, alimentano diuturnamente la speranza e diventano
spesso, pel fascino dell'illusione, più interessanti dei rapporti
con la vita reale. Sono l'espressione e il sintomo del doppio
bisogno, che spinge l'uomo da una parte verso aiuto e sostegno,
dall'altra verso occupazione e passatempo: e quand'anche operino
spesso all'opposto contro il primo di codesti bisogni, facendo sì
che, in caso di sventure e pericoli, vengano e tempo prezioso e
forze non già usati a difendersene, bensì vanamente sciupati in
preghiere e sacrifizi, appunto per questo servono ancor meglio al
secondo bisogno, mediante quella fantastica comunicazione con un
sognato mondo di spiriti. E questo è il frutto, tutt'altro che
disprezzabile, d'ogni superstizione.
§ 59.
Siamo ormai persuasi a priori, per le generalissime considerazioni
fatte, per avere investigato i primi fondamenti elementari della
vita umana, che questa già per sua generica disposizione è incapace
d'ogni vera felicità, anzi è essenzialmente un dolore in molteplici
forme, e uno stato al tutto infelice. Potremmo adesso suscitare
questa persuasione molto più vivacemente in noi, se, procedendo più
a posteriori, venissimo a esaminare casi meglio determinati,
presentassimo immagini alla fantasia, e volessimo con esempi
raffigurare il martirio senza nome, che esperienza e storia ci
offrono, da qualunque parte si guardi, e sotto qualsivoglia aspetto
s'investighi. Ma il capitolo non avrebbe mai fine, e ci
allontanerebbe dal punto di vista della generalità, che è essenziale
alla filosofia. Inoltre una cotale analisi potrebb'esser forse
tenuta per semplice declamazione sull'umana miseria, come se ne son
fatte tante, e come tale accusata d'essere unilaterale, perché
procederebbe da fatti singoli. Da codesto rimprovero e sospetto va
perciò esente la nostra affatto fredda e filosofica dimostrazione,
procedente dall'universale, e condotta a priori, dell'inevitabile
dolore radicato nell'essenza della vita. La conferma a posteriori è
facile averla dovunque. Ciascuno, che si sia svegliato dai primi
sogni di giovinezza, e abbia osservato la propria e l'altrui
esperienza, e guardato intorno nella vita, nella storia del passato
e del tempo suo, come infine nelle opere dei grandi poeti, troverà
per risultanza, quando un pregiudizio incancellabilmente impresso
non paralizzi il suo giudizio, che quest'umano mondo è il regno del
caso e dell'errore, i quali senza pietà vi imperano, nelle grandi
come nelle piccole cose; e accanto a quelli agitano inoltre follia e
malvagità la sferza. Di là deriva, che ogni cosa buona si faccia
strada solo a fatica, e alcunché di nobile e di saggio ben raramente
venga alla luce, raggiungendo efficacia o attenzione; mentre
l'assurdo e lo stolto nel dominio del pensiero, il triviale e lo
scipito nel dominio dell'arte, il malvagio e l'insidioso nel dominio
delle azioni, soli tengono il campo, appena turbati da brevi
interruzioni. E viceversa l'eccellenza in ogni genere è sempre
un'eccezione, un caso tra milioni; sì che, quando s'è manifestata in
un'opera durevole, questa, dopo esser sopravvissuta al rancore dei
suoi contemporanei, rimane isolata, e la si conserva come un
aerolite, caduto da un ordine di cose diverso da quello che qui
regna. Per ciò che tocca poi la vita individuale, ogni storia di
vita è una storia di dolore; che ogni corso vitale è, di regola, una
prolungata serie di grandi e piccole sventure, che ciascuno cela del
suo meglio, perché sa come altri raramente ne proverebbero simpatia
o compassione, bensì quasi sempre soddisfazione, vedendo un'immagine
delle pene da cui sono essi in quel momento immuni. E forse non si
darà mai il caso che un uomo, al termine della sua vita, se capace
di riflessione e in pari tempo sincero, desideri di ricominciarla;
ma invece ben più volentieri sceglierà il completo non essere. Il
contenuto essenziale del celeberrimo monologo nell'Amleto è, ridotto
in breve, questo: il nostro stato è così miserabile, che un completo
non essere dovrebbe senz'altro essergli preferito. Ora, se il
suicidio ci portasse veramente al non essere, sì che l'alternativa
«essere o non essere» ci stesse innanzi nel pieno significato della
parola, sarebbe assolutamente da scegliere, come una
desiderabilissima conclusione (a consummation devoutly to be
wish'd). Ma in noi è qualcosa, che ci dice, non stare il fatto così;
tutto non sarebbe finito, la morte non è un assoluto annientamento.
Corrisponde a ciò quanto attesta il padre della storia44, né mai fu
contraddetto da allora, non essere esistito uomo alcuno, il quale
più d'una volta non abbia desiderato di non vedere il dì seguente.
Quindi la brevità della vita, tanto spesso lamentata, potrebbe forse
essere quel che la vita ha di meglio. Se finalmente a ciascuno si
volessero porre sottocchio gli orrendi dolori e strazi, a cui è la
sua vita perennemente esposta, lo coglierebbe raccapriccio: e se si
conducesse il più ostinato ottimista attraverso gli ospedali, i
lazzaretti, le camere di martirio chirurgiche, attraverso le
prigioni, le stanze di tortura, i recinti degli schiavi, pei campi
di battaglia e i tribunali, aprendogli poi tutti i sinistri covi
della miseria, ove ci si appiatta per nascondersi agli sguardi della
fredda curiosità, e da ultimo facendogli ficcar l'occhio nella torre
della fame di Ugolino, certamente finirebbe anch'egli con
l'intendere di qual sorte sia questo meilleur des mondes possibles.
Donde ha preso Dante la materia del suo Inferno, se non da questo
nostro mondo reale? E nondimeno n'è venuto un inferno bell'e buono.
Quando invece gli toccò di descrivere il cielo e le sue gioie, si
trovò davanti a una difficoltà insuperabile: appunto perché il
nostro mondo non offre materiale per un'impresa siffatta. Perciò non
gli rimase se non trasmetterci, in luogo delle gioie paradisiache,
gli ammaestramenti, che a lui furono colà impartiti dal suo
antenato, dalla sua Beatrice, e da differenti santi. Da ciò
apparisce abbastanza chiaro, di qual natura sia questo mondo. È vero
bensì che nella vita umana, come in ogni cattiva mercanzia, il lato
esterno è mascherato con falso splendore: sempre si cela ciò che
soffre; mentre quanto può ciascuno procacciarsi di pompa e di lustro
porta in evidenza, e quanto più interna contentezza gli manca, tanto
più desidera nell'opinione altrui passare per felice. A tanto giunge
la stoltezza: e l'opinione altrui è una mira essenziale per le
fatiche di tutti, sebbene la sua completa insignificanza sia già di
per sé espressa dal fatto che in quasi tutte le lingue la parola
vanità, vanitas, significa in origine il vuoto e il nulla. Ma anche
sotto codesto orpello possono gli affanni della vita crescere in tal
modo (e ciò accade tutti i giorni), che la morte, d'ordinario temuta
soprattutto, viene ghermita con avidità. O addirittura, se il
destino vuol mostrare tutta la sua malizia, anche quel rifugio può
esser chiuso a chi soffre; e questi, nelle mani di nemici
infelloniti, rimanere esposto a lunghi, lenti martiri senza scampo.
Invano il tormentato chiede allora aiuto a' suoi Dei: rimane
implacabilmente in preda al suo destino. Ma codesta impossibilità di
scampo è appunto lo specchio dell'indomabilità del suo volere, di
cui è oggettità la sua persona. Come non può una forza esterna
mutare o sopprimere questo volere, così non può alcuna forza
estranea liberarlo dai tormenti, che produce la vita, la quale è
fenomeno di quel volere. Sempre l'uomo è ridotto a contar su se
stesso, e in ogni cosa e nella sostanza delle cose. Invano si forma
Dei, per mendicare e carpire con adulazioni ciò che solo può dargli
la sua forza di volontà. Se il Vecchio Testamento aveva fatto del
mondo e dell'uomo l'opera d'un Dio, si vide il Nuovo Testamento
costretto, per insegnar che salvezza e redenzione dal dolore di
questo mondo può solo dal mondo stesso partire, a far di quel Dio un
uomo. La volontà dell'uomo è, e rimane, ciò da cui tutto per l'uomo
dipende. Saniassi, martiri, santi d'ogni fede e nome, hanno
spontaneamente e volentieri sofferti quei martiri, perché era in
loro soppressa la volontà di vivere; fin la lenta distruzione del
suo fenomeno fu quindi a loro gradita. Ma non voglio anticipare il
discorso che dovrà venire in seguito. Non posso però tenermi dal
dichiarare, che a me l'ottimismo, quando non sia per avventura il
vuoto cianciar di cotali sotto la cui piatta fronte non altro
alberga se non parole, sembra non pure un pensare assurdo, ma anche
iniquo davvero, un amaro scherno dei mali senza nome patiti
dall'umanità. Né si pensi, poi, che la fede cristiana sia favorevole
all'ottimismo; che per contro negli Evangeli le parole mondo e male
sono usate quasi come sinonimi45.
§ 60.
Or che abbiamo terminate entrambe le spiegazioni, ch'era necessario
intercalare, intorno alla libertà della volontà in sé, insieme con
la necessità del suo fenomeno, e intorno alla sorte di lei nel
mondo, che ne rispecchia l'essenza (mondo nella cognizion del quale
ella deve affermarsi o negarsi); or possiamo portare a maggior
chiarezza quest'affermazione o negazione, che più indietro
esaminammo e spiegammo sol genericamente, con l'esporre le maniere
di condotta, in cui quelle trovano la loro espressione, e
considerarle nel loro intimo significato.
L'affermazione della volontà è il volere stesso permanente, non
turbato da nessuna conoscenza, qual suol riempire la vita dell'uomo
in generale. Essendo già il corpo dell'uomo l'oggettità della
volontà, quale questa appare in un dato grado e in un dato
individuo; così il suo volere svolgentesi nel tempo è quasi la
parafrasi del corpo, il commento che illustra il senso del tutto e
delle sue parti; è un altro modo di presentarsi della stessa cosa in
sé, di cui è già fenomeno anche il corpo. Potremmo quindi, invece
che affermazione della volontà, dire affermazione del corpo. Il tema
fondamentale di tutti gli svariati atti di volontà è il
soddisfacimento dei bisogni, che dall'esistenza corporale nella sua
salute sono inseparabili, e già nel corpo hanno la loro espressione
e si riducono alla conservazione dell'individuo, alla continuazione
della specie. Ma mediatamente, per questo mezzo, i più molteplici
motivi acquistano impero sulla volontà, e producono i più diversi
atti di volontà. Ognuno di questi è solo un saggio, un esempio,
della volontà generica qui manifestantesi: di qual natura sia tal
saggio, qual parvenza abbia il motivo e quale comunichi ad esso, non
è distinzione essenziale; essenziale è soltanto, che alcunché si
voglia, e l'intensità del volere. La volontà può diventar visibile
solo in relazione coi motivi, come l'occhio soltanto nella luce
mostra la sua forza visiva. Il motivo sta davanti alla volontà come
un multiforme Proteo: promette ognora piena soddisfazione,
estinzione della sete della volontà; ma una volta raggiunto, eccolo
tosto riapparire in altra forma, ed in essa eccitar daccapo la
volontà, sempre secondo il grado di vivezza che questa possiede, e
la sua relazione con la conoscenza; grado e relazione, che appunto
mediante codesti saggi ed esempii diventano palesi come carattere
empirico.
Fin dall'inizio della sua conscienza, l'uomo si trova in atto di
volere, e la sua conoscenza rimane di regola in costante relazione
con la sua volontà. Egli cerca dapprima di conoscere appieno gli
oggetti del volere, quindi i mezzi per raggiungerli. Fatto questo,
sa quel che gli tocca di fare, e d'ordinario non tende ad altro
sapere. Attivamente agisce: la conscienza di lavorar sempre per lo
scopo della sua volontà lo regge e mantiene operoso: il suo pensiero
va soltanto alla scelta dei mezzi. Tale è la vita di quasi tutti gli
uomini: vogliono, sanno ciò che vogliono, vi tendono con tanto
successo, quanto basta a proteggerli dalla disperazione, e con tanto
insuccesso, quanto occorre a proteggerli dalla noia e dalle sue
conseguenze. Di là viene una certa letizia, o almeno tranquillità, a
cui né ricchezza né povertà nulla propriamente tolgono: che il ricco
e il povero godono non ciò ch'essi hanno, che, come s'è mostrato,
agisce sol negativamente; ma ciò che con la loro attività sperano di
conseguire. Vanno innanzi dandosi da fare, con molta gravità, e anzi
con aria d'importanza: non altrimenti fanno i loro giuochi i
ragazzi. È sempre un'eccezione, quando il corso d'una tal vita è
deviato per effetto d'un conoscere indipendente dal servigio della
volontà, e rivolto all'essenza del mondo in genere: sia che se ne
produca il bisogno estetico della contemplazione, o il bisogno
morale della rinunzia. I più incalza attraverso l'esistenza il
travaglio, senza lasciare loro tempo a riflessione. Sovente,
all'opposto, la volontà s'infiamma ad un grado, che di gran lunga
trascende l'affermazione del corpo: grado che poi vivaci slanci e
poderose passioni rivelano, nelle quali l'individuo non pure afferma
il suo proprio essere, ma quel degli altri nega, e cerca di
sopprimere, dove gl'intralcia la via.
La conservazione del corpo mediante le sue stesse forze è un così
minimo grado dell'affermazione della volontà, che se ci si fermasse
volontariamente a questo, noi potremmo ritener cessata, con la morte
del corpo, anche la volontà che in esso si manifestava. Ma già la
soddisfazione dell'istinto sessuale va oltre l'affermazione della
nostra esistenza, la quale empie un sì breve spazio di tempo, e
afferma la vita oltre la morte individuale, per un tempo indefinito.
La natura, sempre vera e conseguente, e in questo punto addirittura
ingenua, ci disvela apertamente l'intimo significato dell'atto
generativo. La nostra conscienza, la vivacità dell'istinto,
c'insegna che in codesto atto s'esprime la più risoluta affermazione
della volontà di vivere, pura e senza ulteriore aggiunta (come per
avventura sarebbe la negazione d'altri individui); e così nel tempo
e nella serie causale, ossia nella natura, appare quale effetto
dell'atto una nuova vita: di contro al generatore viene a porsi il
generato, diverso da quello nel fenomeno, ma in sé, nell'idea,
identico ad esso. È quindi per codesto atto, che le generazioni dei
viventi si collegano l'una con l'altra in un tutto, e si perpetuano.
La generazione è, per ciò che tocca il generante, semplice
espressione e simbolo della sua risoluta affermazione della volontà
di vivere; per ciò che tocca invece il generato, essa non è punto la
cagione della volontà che in lui si manifesta, non conoscendo la
volontà in sé né vera causa sostanziale, né effetto; bensì è, come
ogni causa, soltanto l'occasione pel manifestarsi di codesta volontà
in un dato tempo e in un dato luogo. In quanto cosa in sé, non è la
volontà del generante diversa da quella del generato: che unicamente
il fenomeno, e non la cosa in sé, è soggetto al principio
individuationis. Con quell'affermazione che va oltre il nostro
corpo, fino alla produzione fenomenica di un corpo nuovo, sono anche
dolore e morte, in quanto appartenenti al fenomeno della vita,
novellamente affermati; e la possibilità della redenzione, che può
venir da una più perfetta capacità di conoscere, è in tal caso
proclamata infeconda. Qui sta la profonda ragione della vergogna
onde si cela il traffico generativo. Questo concetto è rappresentato
miticamente nel dogma della dottrina cristiana, secondo il quale noi
tutti siamo partecipi del peccato di Adamo (che evidentemente non
era se non la soddisfazione della voglia sessuale), e per esso
andiamo soggetti a soffrire e morire. Con ciò quella dottrina va
oltre il modo di vedere fondato sul principio di ragione, e penetra
l'idea dell'uomo; l'unità della quale viene ricostituita dal suo
frazionamento negl'innumerevoli individui, mediante il vincolo della
generazione che tutti li riunisce. Vede così da un lato ogni
individuo come identico ad Adamo, al rappresentante
dell'affermazione della vita, e in questa qualità destinato al
peccato (peccato originale), al dolore, e alla morte: dall'altro
lato, la conoscenza dell'idea le fa apparire ogni uomo come identico
al Redentore, a quegli che rappresenta la negazione della volontà di
vivere, e sotto questo rispetto partecipe del sacrificio di Lui, per
merito di Lui redento, e salvato dai vincoli del peccato e della
morte, ossia del mondo (Epist. ai Romani, 5, 12-21).
Un'altra mitica rappresentazione del nostro concetto intorno
all'appagamento sessuale, visto come affermazione della volontà di
vivere di là dalla vita individuale, come un lasciarsi cader preda
della vita con quell'atto, o quasi come un rinnovato impegno verso
la vita stessa, è il mito greco di Proserpina; alla quale era ancor
possibile il ritorno dal mondo sotterraneo, fintanto che ella non ne
avesse gustati i frutti: ma che a quel mondo appartenne intera, non
appena ebbe gustata la melagrana. Dall'incomparabile narrazione, che
Goethe fa di questo mito, ne risulta ben chiaro il significato,
soprattutto quando, immediatamente dopo l'assaggio della melagrana,
improvviso irrompe l'invisibile coro delle Parche:
Tu sei nostra!
Digiuna dovevi ritornare:
Ed il morso nel pomo ti fa nostra46.
È notevole che Clemente Alessandrino (Strom., ni, e. 15) esprima la
cosa con la stessa immagine e gli stessi termini: Οί μεν
ευνουχισαντες ὲαυτους απο πασης αμαρτιας, δια την βασιλειαν των
ουρανων, μακαριοι ούτοι εισιν, οι̃ του κοσμου νηστευοντες (Qui se
castrarunt ab omni peccato, propter regnum coelorum, ii sunt beati,
a mundo jejunantes).
L'istinto sessuale si conferma essere la risoluta, la più forte
affermazione della vita, anche pel fatto che per l'uomo naturale,
come per l'animale, esso è il fine ultimo, il supremo scopo della
vita sua. Sua prima aspirazione è conservar se stesso: e non appena
v'ha provveduto, non tende più ad altro che alla continuazione della
specie: più in là di questo non può, in quanto semplice essere
naturale, aspirare. Anche la natura, la cui essenza intima è appunto
la volontà di vivere, trascina con ogni sua possa l'uomo, come
l'animale, alla continuazione della specie. Ella ha con ciò
raggiunto lo scopo, a cui l'individuo poteva servirle, ed è oramai
affatto indifferente al suo perire; che a lei, come alla volontà di
vivere, soltanto la conservazione della specie importa, e
l'individuo è un nulla. Poiché nell'istinto sessuale l'intima
essenza della natura, la volontà di vivere, nel modo più forte si
palesa, dissero gli antichi poeti e filosofi – Esiodo e Parmenide –
con molto senso, che Eros è il Primo, il Creatore, il Principio, dal
quale ebbero origine tutte le cose. (Si vegga Arist. Metaph., i, 4).
Ferecide ha detto: Εις ερωτα μεταβεβλησθαι τον Δια, μελλοντα
δημιουργειν (Jovem, cum mundum fabricare vellet, in cupidinem sese
transformasse). Proclus ad Plat. Tim. 1. III. Un'estesa trattazione
di questo soggetto abbiamo avuta di recente da G. F. Schoemann, De
cupidine cosmogonica, 1852. Anche la Maja degl'Indiani, della quale
è opera e tessuto l'intero mondo apparente, viene parafrasata con la
parola amor.
I genitali sono, molto più di qualsivoglia altra parte del corpo,
alla semplice volontà e non alla conoscenza soggetti: anzi, la
volontà vi si mostra pressoché altrettanto indipendente dalla
conoscenza, quanto nelle parti che, dietro semplici stimoli, servono
alla vita vegetativa, alla riproduzione; parti in cui la volontà
agisce cieca, come nella natura priva di conoscenza. Imperocché il
generare non è che una riproduzione trapassata in un nuovo
individuo, quasi riproduzione in seconda potenza, come la morte non
è che escrezione in seconda potenza. In conseguenza di tutto ciò i
genitali sono il vero e proprio fuoco della volontà, e quindi il
polo opposto al cervello, al rappresentante della conoscenza, ossia
all'altra parte del mondo, al mondo come rappresentazione. Quelli
sono il principio conservatore della vita, che vita senza fine
assicura al tempo; e in tal qualità furon dai Greci venerati nel
Phallus, dagl'Indiani nel Lingam, i quali sono adunque il simbolo
dell'affermazione della volontà. La conoscenza invece rende
possibile la soppressione del volere, la redenzione mediante
libertà, il superamento e l'annientamento del mondo.
Già al principio di questo quarto libro abbiamo estesamente
studiato, come la volontà di vivere abbia da guardare nella sua
affermazione il proprio rapporto con la morte: questa non la tocca,
perché sta nella vita come alcunché d'implicito in lei, e che a lei
spetta. Alla morte fa da eguale contrappeso il suo opposto, la
generazione; la quale, malgrado la morte dell'individuo, assicura e
garantisce per sempre la vita alla volontà di vivere. Per ciò
esprimere, diedero gl'Indiani il Lingam come attributo al Dio della
morte Shiva. Colà abbiamo pure dimostrato come chi stia con piena
consapevolezza fermo nella risoluta affermazione della vita, guarda
senza paura la morte.
Su ciò adunque non altre parole. Senza chiara consapevolezza, la
maggior parte degli uomini è di questo sentimento, e afferma
costantemente la vita. Come specchio di tale affermazione sussiste
il mondo, con individui innumerabili, in tempo infinito e infinito
spazio, e infinito dolore, tra generazione e morte senza fine. Ma di
ciò da nessuna parte è lecito alzare altri lamenti: perché la
volontà esegue a sue spese la grande tragedia e commedia, ed è anche
il suo proprio spettatore. Il mondo è per l'appunto quello che è,
perché la volontà, di cui esso è fenomeno, è quella che è; perché la
volontà così vuole. Per i dolori la giustificazione è che la volontà
anche quivi afferma se stessa; e quest'affermazione è giustificata e
compensata dal fatto, che la volontà quei dolori patisce. Ci si apre
già qui un'occhiata sulla eterna giustizia, in complesso; in seguito
la conosceremo più da vicino e più chiaramente anche nel
particolare. Tuttavia occorre prima parlare della giustizia
temporale o umana47.
§ 61.
Ci sovviene, dal secondo libro, che nella natura intera, in ogni
grado dell'oggettivazione della volontà, necessariamente era una
lotta perenne tra gli individui di tutte le specie, e con ciò
appunto si esprimeva un intimo contrasto della volontà di vivere con
se medesima. Nel grado supremo dell'oggettivazione anche quel
fenomeno si presenterà, come ogni altro, con maggiore chiarezza, e
si lascerà quindi indagare più addentro. A tal fine andremo in primo
luogo a rintracciar nella sua sorgente l'egoismo, quale origine di
tutte le lotte.
Tempo e spazio chiamammo principium individuationis, perché sol per
loro mezzo, ed in loro, è possibile pluralità dell'identico. Sono le
forme essenziali della conoscenza naturale, ossia procedente della
volontà. La volontà deve quindi manifestarsi ovunque in pluralità
d'individui. Ma questa pluralità non tocca la volontà in sé, bensì i
suoi fenomeni: è intera e indivisa in ciascuno di essi, e si vede
intorno innumerabili volte ripetuta l'immagine della sua propria
essenza. Ma codesta, ch'è la vera realtà, ella non trova tuttavia
direttamente se non dentro di sé. Perciò vuole ciascuno aver tutto
per sé, vuol tutto possedere, o almeno dominare, ed ogni cosa, che
gli si opponga, vorrebbe distruggere. A ciò s'aggiunge, negli esseri
conoscenti, che l'individuo rappresenta il soggetto conoscente,
contiene cioè il mondo intero; ossia, che tutta la natura
all'infuori di lui, e quindi anche tutti i rimanenti individui,
esistono soltanto nella sua rappresentazione; soltanto come di sua
rappresentazione egli n'è consapevole, ossia sol mediatamente, e
come d'alcunché dipendente dal suo proprio essere individuale; che
venendogli meno la conscienza, per necessità gli vien meno anche il
mondo; vale a dire, l'esistere o non esistere di questo diventano
per lui termini equivalenti e non distinguibili. Ogni individuo
conoscente è adunque in verità, e si riconosce per tale, tutta
intera la volontà di vivere, ovvero l'in-sé del mondo medesimo; ed è
anche la condizione integrante del mondo quale rappresentazione. È
per conseguenza un microcosmo, che s'ha da valutare egualmente come
il macrocosmo. La natura stessa, sempre e ovunque veritiera, fin
dall'origine e all'infuori d'ogni riflessione gli fa semplicemente e
direttamente sicura tale conoscenza. Ora, con entrambe le necessarie
determinazioni surriferite si spiega come ogni individuo, per quanto
infinitamente piccolo nello sterminato mondo e quasi evanescente nel
nulla, si faccia nondimeno centro dell'universo, la propria
esistenza e il proprio benessere consideri innanzi a ogni altra
cosa, anzi, dal punto di vista naturale, ogni altra cosa sia pronto
a sacrificare a codesta esistenza; pronto a distruggere il mondo,
sol per conservare un po' più a lungo il suo proprio io, che è
appena una goccia nel mare. Tale disposizione è l'egoismo, proprio
d'ogni cosa nella natura. Ma esso è pure la via, per cui l'interno
contrasto della volontà con se medesima perviene alla più terribile
manifestazione. Imperocché questo egoismo si fonda per essenza sul
riferito antagonismo tra microcosmo e macrocosmo: cioè sul fatto che
l'oggettivazione della volontà ha per forma il principium
individuationis, sì che la volontà in egual modo si riflette in
numero infinito d'individui; intera e compiuta sotto i due aspetti
(volontà e rappresentazione) in ciascuno di essi. Mentre adunque
ogni individuo è dato a se medesimo, direttamente, come tutta quanta
la volontà e tutta quanta la capacità rappresentativa, i rimanenti
individui gli son dati sol come rappresentazioni sue; perciò importa
a lui il proprio essere e la propria conservazione più di tutto
l'altro insieme. Alla propria morte guarda ciascuno come alla fine
del mondo, e invece accoglie come una cosa abbastanza indifferente
quella dei suoi conoscenti, s'egli non v'è per avventura interessato
di persona. Nella conscienza salita al suo più alto grado, la
conscienza umana, deve anche l'egoismo, come la conoscenza, il
dolore, la gioia, aver toccato il vertice più alto, e deve nel modo
più terribile palesarsi il contrasto degli individui, da esso
determinato. Ciò vediamo dappertutto, nel piccolo come nel grande;
ciò vediamo ora sotto l'aspetto terrificante, nella vita di grandi
tiranni e uomini scellerati, e nelle guerre che devastano il mondo,
ora sotto l'aspetto ridicolo, dov'è fatto tema di commedia; e in
particolar modo si rivela nella presunzione e nella vanità, le quali
Rochefoucault ha come nessun altro colto e rappresentato in
abstracto: tale ci appare nella storia del mondo e nella nostra
propria esperienza. Ma nel modo più evidente balza fuori, non appena
una qualche turba di uomini sia sciolta da ogni legge e ordinamento:
allora si mostra subitamente con tutta evidenza il bellum omnium
contra omnes, che Hobbes, nel primo capitolo De cive, mirabilmente
ha descritto. Appare, che non soltanto ciascuno cerca di rapire
all'altro ciò ch'egli stesso vuol avere, ma spesso addirittura v'ha
chi, per accrescere d'un trascurabile incremento il proprio
benessere, tutto il bene o la vita dell'altro distrugge. Questa è
l'espressione suprema dell'egoismo, i cui fenomeni, sotto tale
rispetto, possono venir superati soltanto da quelli della malvagità
vera e propria, la quale affatto disinteressatamente, senz'alcun
proprio vantaggio, cerca il danno e il dolore altrui. Ma di ciò in
seguito. Con questo scoprimento della fonte dell'egoismo si ponga a
riscontro la descrizione di esso, fatta nella mia memoria per
concorso a premio, intorno al fondamento della morale, § 14.
Una tra le principali sorgenti del dolore, il quale abbiamo veduto
essenzialmente ed inevitabilmente connaturato a tutta la vita, non
appena questa in realtà e con determinata figura si mostri, è quella
Eris, la lotta fra gl'individui tutti, l'espressione del dissidio
interiore, da cui è travagliata la volontà di vivere, e che per
mezzo del principii individuationis viene alla luce: mezzo barbaro
di render visibile direttamente e crudamente tale dissidio sono le
lotte tra gli animali. In questo originario contrasto risiede una
sorgente inesauribile di dolore, malgrado le misure che si son prese
per combatterlo, e che ora esamineremo da vicino.
§ 62.
Fu già spiegato, che la prima e semplice affermazione della volontà
di vivere non è se non l'affermazione del proprio corpo, ossia
esplicazione della volontà mediante atti nel tempo, fin dove il
corpo, nella sua forma e natura disposta a' suoi fini, rappresenta
la stessa volontà spazialmente – e non oltre. Codesta affermazione
si dimostra sotto specie di conservazione del corpo, usando a ciò
tutte le forze di esso. A lei si collega direttamente la
soddisfazione dello stimolo sessuale; anzi, questa appartiene a
quella, in quanto i genitali al corpo appartengono. Perciò la
volontaria, da nessun motivo determinata rinunzia alla soddisfazione
di quello stimolo, è già un rinnegar la volontà di vivere, è una
spontanea autosoppressione di esso stimolo in seguito a sopravvenuta
conoscenza che agisce come quietivo: perciò tal rinnegamento del
proprio corpo si presenta già come un'opposizione della volontà
contro il suo proprio fenomeno. Imperocché sebbene qui il corpo
oggettivi nei genitali la volontà della propagazione, questa non
viene tuttavia voluta. Appunto perciò, ossia per essere rinnegamento
o soppressione della volontà di vivere, tale rinunzia è una grave e
dolorosa vittoria su noi stessi; ma di questo sarà detto in seguito.
Ora, mentre la volontà presenta quell'autoaffermazione del proprio
corpo in un numero infinito d'individui coesistenti, può, in grazia
dell'egoismo connaturato in ciascuno, molto facilmente in un
individuo andar oltre codesta affermazione, fino alla negazione
della stessa volontà, manifestantesi in un altro individuo. La
volontà del primo irrompe nei confini dell'altrui affermazione di
volontà, sia in quanto l'individuo l'altrui corpo distrugge o
ferisce, sia in quanto costringe le forze dell'altrui corpo a servir
la volontà propria, invece della volontà che in quello stesso altrui
corpo si palesa; come, per esempio, quando alla volontà, palesantesi
in forma d'altrui corpo, le forze di codesto corpo sottrae, e con
ciò accresce la forza a servizio della volontà propria oltre i
termini naturali di questa; sì che afferma la volontà propria oltre
il suo proprio corpo, mediante negazione della volontà
manifestantesi in un corpo estraneo. Quest'irrompere nei confini
dell'altrui affermazione di volontà fu chiaramente conosciuto dai
più remoti tempi, e il suo concetto espresso con la parola
ingiustizia. Imperocché le due parti interessate riconoscono
istantaneamente la cosa; non già, invero, come l'abbiamo qui esposta
in limpida astrazione, bensì come sentimento. Chi subisce
l'ingiustizia sente l'irromper nella sfera dell'affermazione del suo
proprio corpo, mediante negazione di essa da parte di un individuo
estraneo, sotto forma d'un dolore diretto e morale, affatto distinto
e diverso dal male fisico, provato in pari tempo per l'azione
stessa, o dal rammarico del danno. D'altra parte, a quegli che
commette l'ingiustizia si affaccia la cognizione ch'egli è, in sé,
la volontà medesima, la quale anche in quell'altro corpo si
manifesta, e nell'un fenomeno s'afferma con tale veemenza, da farsi
negazione appunto della volontà stessa nell'altro fenomeno,
oltrepassando i confini del proprio corpo e delle sue forze; quindi
egli, considerato come volontà in sé, combatte per l'appunto con la
sua veemenza contro se medesimo, se medesimo dilania; anche a lui
s'affaccia questa cognizione istantaneamente, non già in astratto,
ma come oscuro sentimento: e questo è chiamato rimorso, ossia, più
precisamente nel caso sopraddetto, sentimento della commessa
ingiustizia.
L'ingiustizia, il cui concetto abbiamo così analizzato nella più
generica astrazione, si esprime in concreto nel modo più compiuto,
più caratteristico e più tangibile col cannibalismo: questo è il suo
tipo più chiaro ed evidente, l'orrenda immagine del massimo
contrasto della volontà con se medesima, nel grado supremo della sua
oggettivazione, che è l'uomo. Subito dopo viene l'assassinio: al cui
compimento segue perciò il rimorso, del quale abbiamo indicata or
ora in maniera astratta e arida la significazione, immediatamente,
con terribile evidenza; ed alla pace dello spirito reca un colpo
insanabile per la vita intera; essendo il nostro orrore per
l'assassinio commesso, com'anche il nostro arretrarci davanti
all'assassinio da commettere, prodotto dallo sconfinato attaccamento
alla vita, che penetra ogni essere vivente, appunto in quanto è
fenomeno della volontà di vivere (del resto, quel sentimento che
accompagna l'atto dell'ingiustizia e del male analizzeremo in
seguito più distesamente, e innalzeremo alla limpidità del
concetto). Sostanzialmente identica all'assassinio, e sol per grado
diversa, è da considerarsi la consapevole mutilazione, o anche
semplice lesione del corpo altrui, o addirittura ogni colpo
infertogli. Inoltre si manifesta l'ingiustizia nella sottomissione
dell'altrui individuo, nel costringerlo a schiavitù; e finalmente
nell'attacco contro l'altrui proprietà; il quale, ove la proprietà
stessa si consideri come frutto del lavoro dell'aggredito, è in
sostanza identico al ridurre a schiavitù. La spoliazione sta alla
schiavitù, come la semplice ferita sta all'assassinio.
Imperocché proprietà, la quale non si strappi all'uomo senza
ingiustizia, può, secondo la nostra spiegazione dell'ingiustizia,
esser soltanto quella che l'uomo ha conquistata con le proprie
forze: strappandogliela, veniamo a sottrarre le forze del suo corpo
alla volontà in codesto corpo oggettivata, per farle servire alla
volontà oggettivata in un altro corpo. Invero l'autor
dell'ingiustizia, mediante assalto non dell'altrui corpo, ma di una
cosa inanimata, da quel corpo affatto diversa, irrompe tuttavia
nella sfera dell'altrui affermazione di volontà, solo in quanto con
la cosa sono quasi confuse e identificate le forze e l'attività del
corpo stesso. Ne segue che ogni genuino, ossia ogni morale diritto
di proprietà, poggia in origine unicamente sull'acquisto mediante il
lavoro; come già s'ammetteva press'a poco generalmente anche prima
di Kant, e addirittura come già esprime chiaramente e bellamente il
più antico di tutti i codici: «I saggi, cui è nota l'antica età,
dichiarano che un campo coltivato appartiene a colui il quale ne
rimosse gli sterpi, lo nettò ed arò; come un'antilope appartiene al
primo cacciatore che l'abbia ferita a morte» – Leggi Manu, IX, 44.
Solo con l'affievolimento senile di Kant posso spiegarmi tutta la
sua dottrina del diritto, singolare intreccio di errori germinati
l'un dall'altro, ed il fatto ch'egli voglia fondare il diritto di
proprietà sulla presa di possesso. Come mai potrebbe la semplice
affermazione della mia volontà, d'escluder altri dal possesso d'una
cosa, costituire a ciò un immediato diritto? È chiaro, che
quest'affermazione abbisogna alla sua volta d'una base di diritto;
mentre invece Kant ammette ch'ella sia un diritto di per sé. E in
qual modo allora agirebbe con ingiustizia, nel significato morale,
colui il quale non rispettasse quelle pretese all'esclusivo possesso
di un oggetto, fondate unicamente sulla lor propria dichiarazione?
Perché dovrebbe turbarlo in tal caso la sua coscienza? essendo tanto
chiaro, e facile a comprendere, che non vi può essere alcuna
legittima presa violenta di possesso, ma semplicemente una legittima
approvazione, conseguimento dell'oggetto, con l'impiegarvi forze che
originariamente ci appartengono. Quando, per esempio, un oggetto
viene mediante un qualsivoglia sforzo altrui, sia pur minimo,
coltivato, migliorato, protetto contro i rischi, conservato, e si
riducesse pur codesto sforzo a coglier dal ramo o sollevar dal suolo
un frutto selvatico, è palese che chi s'attacca secondo a tale
oggetto toglie al primo il risultato del lavoro ch'egli vi ha speso,
e fa che il corpo di questi serva alla propria volontà, invece che a
quella di lui, afferma la sua propria volontà oltre la sfera del
fenomeno a lei spettante, e nega la volontà dell'altro: ossia,
commette ingiustizia48. Viceversa il semplice godimento d'un
oggetto, senz'alcun lavoro o difesa del medesimo contro la
distruzione, non costituisce diritto su di esso più che non
costituisca diritto al possesso esclusivo l'affermazione della
propria volontà. Se quindi una famiglia ha essa sola esercitata la
caccia in una riserva, sia pure durante un secolo, ma senz'avervi
introdotto alcun miglioramento, non può senza morale ingiustizia
contrastarla a un intruso straniero, che voglia per l'appunto colà
andare a caccia. Il cosiddetto diritto del primo occupante, secondo
il quale per il semplice godimento avuto di un oggetto si pretende
di avere in più anche una ricompensa, ossia un esclusivo diritto al
godimento futuro, è moralmente del tutto infondato. A chi su esso
unicamente s'appoggia potrebbe il nuovo venuto opporre con molto
miglior diritto: «Appunto perché tu già sì a lungo ne hai goduto, è
giusto che ora anche altri ne godano». Di ogni cosa, che non si
presti a lavoro alcuno, sia per miglioramento, sia per difesa contro
i rischi, non può aversi esclusivo possesso moralmente fondato, se
non mediante volontaria cessione da parte di tutti gli altri, o come
ricompensa di servigi altrimenti prestati; il che già presuppone una
comunità governata da convenzioni, ossia lo Stato. Il diritto di
possesso moralmente fondato, quale s'è dedotto più sopra, dà per sua
natura al possessore un diritto sulla cosa posseduta altrettanto
illimitato, quanto è quello ch'egli ha sul proprio corpo; ne viene,
ch'egli può trasmettere il suo possesso, per mezzo di cambio o
donazione, ad altri; i quali allora posseggono l'oggetto col suo
medesimo diritto morale.
Venendo a ciò che concerne in genere l'attuazione dell'ingiustizia,
questa può farsi mediante violenza, o mediante insidia; che, dal
punto di vista morale, sostanzialmente sono la stessa cosa. In primo
luogo è nell'assassinio moralmente tutt'uno, se io mi servo del
pugnale o del veleno; e così in ogni lesione corporale. I rimanenti
casi di ingiustizia si posson tutti ridurre al fatto che io, con
l'attuar l'ingiustizia, obbligo l'individuo estraneo a servir la mia
volontà, in luogo della sua; ad agir secondo la mia, e non secondo
la sua. Tenendo la via della violenza, conseguo questo risultato
mediante causalità fisica; tenendo la via dell'insidia, lo conseguo
invece mediante motivazione, ossia causalità procurata dalla
conoscenza; col porre innanzi alla volontà altrui motivi illusori,
in virtù dei quali l'individuo ingannato, credendo di seguir la
volontà sua, segue la mia. Poiché il terreno in cui stanno i motivi
è la conoscenza, io posso arrivare a quel risultato solo falsando
l'altrui conoscenza, e questa falsificazione è la menzogna. Essa
tende ognora a influire sull'altrui volontà; e non sull'altrui
conoscenza sola, in sé e in quanto tale, ma sulla conoscenza come
mezzo, ossia in quanto determina la volontà. Imperocché il mio
stesso mentire, procedendo dalla mia volontà, ha bisogno d'un
motivo: ma tale può esser soltanto la volontà altrui, non l'altrui
conoscenza in sé e per sé; poi che questa come tale non può aver mai
un influsso sulla volontà mia, né, per conseguenza, muoverla, né
essere un motivo dei suoi fini: bensì tale può essere unicamente
l'altrui volere ed agire; e l'altrui conoscenza invece non è tale se
non mediatamente. Ciò vale non solo per tutte le menzogne sgorgate
da un palese vantaggio personale, ma anche per quelle prodotte da
pura malvagità, la quale voglia pascersi delle dolorose conseguenze
d'un errore altrui da lei generato. Perfino la semplice fanfaronata
mira, mediante l'aumento di stima che ne viene, o una più favorevole
opinione da parte degli altri, ad esercitare un'influenza più o meno
grande sul loro volere ed agire. Il rifiutarsi a dire una verità,
ossia, in genere, a un'asserzione, in sé non costituisce un torto;
mentre invece è tale ogni credito aggiunto a una menzogna. Chi allo
smarrito viandante si rifiuta d'additar la buona via, non gli fa
alcun torto; glielo fa quegli che lo mette sulla via falsa. Da
quanto s'è detto risulta che ogni menzogna, al pari d'ogni violenza
è, in quanto tale, torto; avendo in quanto tale per fine di
allargare il dominio della mia volontà su altri individui, cioè di
affermar la volontà mia negando la loro, proprio come fa la
violenza. Ma la più compiuta menzogna è il patto infranto; perché
quivi tutte le determinazioni suriferite sono raccolte compiutamente
e limpidamente. Invero, quando io stringo un patto, la prestazione
che altri mi promette è, direttamente ed esplicitamente, il motivo
della mia, che dovrà tosto seguire. Le promesse vengono scambiate
consapevolmente, e in tutta forma. La verità della dichiarazione
fatta con quelle da ciascuno si intende che stia in suo potere. Se
l'altra parte rompe il patto, essa m'ha ingannato e, insinuando
nella mia conoscenza motivi solo illusori, ha diretto la mia volontà
secondo i propri fini, ha esteso il dominio della volontà propria
sopra un altro individuo, e quindi ha compiuto una vera e propria
ingiustizia. Su ciò si fondano la legittimità morale e la validità
dei contratti. Ingiustizia mediante violenza non è per chi la
commette tanto obbrobriosa, quanto è l'ingiustizia mediante insidia;
perché quella attesta forza fisica, la quale, in ogni circostanza,
fa grande effetto sugli uomini; mentre questa, andando per via
obliqua, è prova di debolezza, ed abbassa chi la compie, sì come
individuo fisico che come individuo morale; ancor più lo abbassa, in
quanto menzogna e inganno possono riuscire solo a condizione, che
chi li adopra manifesti in pari tempo ripugnanza e disprezzo verso
tali armi, per guadagnarsi fiducia, e la sua vittoria sta nel farsi
attribuire la lealtà che non possiede. La profonda ripugnanza, che
malizia infedeltà e tradimento destano ognora, viene dall'esser
fedeltà e lealtà il vincolo, che ricongiunge esteriormente in unità
la volontà sparpagliata nella folla degli individui, ponendo così un
limite alle conseguenze dell'egoismo prodotto da quel frazionamento.
Infedeltà e tradimento spezzano quest'ultimo vincolo esterno, e
aprono con ciò alle conseguenze dell'egoismo un campo senza confini.
Nella concatenazione del nostro pensiero abbiamo trovato il
contenuto del concetto d'ingiustizia nella particolar natura
dell'azione, con cui un individuo tanto allarga l'affermazione della
volontà manifestantesi nel suo corpo, da farne la negazione della
volontà manifestantesi nei corpi altrui. Abbiamo anche mostrato con
esempi affatto generici i limiti ove ha principio il dominio
dell'ingiusto, determinandone insieme le gradazioni, dalle massime
alle minime, con pochi concetti fondamentali. Da ciò risulta, che
originario e positivo è il concetto dell'ingiusto: mentre l'opposto
concetto del giusto è derivato, negativo. Imperocché non alle parole
dobbiamo tenerci, ma ai concetti. In verità, non si sarebbe mai
fatta parola del giusto, se non vi fosse l'ingiusto. Il concetto di
giustizia contiene semplicemente la negazione dell'ingiustizia, e in
esso viene compresa ogni azione, che non sia trasgressione del
confine su esposto, ossia negazione dell'altrui volontà per maggiore
affermazione della propria. Quel confine partisce adunque, rispetto
a una determinazione puramente e semplicemente morale, l'intero
campo delle azioni possibili in azioni ingiuste o giuste. Un'azione
che non vada a ficcarsi, al modo spiegato più sopra, nella sfera
dell'affermazione della volontà altrui, tale affermazione negando,
non è ingiusta. Perciò il negare aiuto in caso di stringente
necessità altrui, l'indifferente contemplar chi muore di fame,
mentre noi stiamo nell'abbondanza, è bensì crudele e perverso, ma
non è un far torto: soltanto si può dir con tutta certezza, che
colui il quale è capace di spingere a tal punto la sua insensibilità
e durezza, sicuramente saprà compiere anche ogni ingiustizia, non
appena le sue voglie lo chiedano e nessuna costrizione l'impedisca.
Il concetto di diritto, come negazione dell'ingiusto, ha nondimeno
trovato la sua principale applicazione, e senza dubbio anche la sua
prima origine, nei casi in cui tentata ingiustizia viene impedita
con violenza: il quale impedimento alla sua volta non può essere
ingiustizia, bensì è diritto: anche se la violenza impiegatavi,
considerata in se stessa e isolatamente, sarebbe ingiustizia, e qui
venga giustificata sol dal suo motivo, diventando diritto. Se un
individuo nell'affermazione della sua volontà va tanto lontano, da
irrompere nella sfera dell'affermazione di volontà inerente alla mia
persona in quanto tale, e viene con ciò a negar l'affermazione mia,
il mio difendermi da tale violenza è solo un negar quella negazione;
e quindi, da parte mia, non altro è che l'affermar la volontà per
essenza e originariamente manifestantesi nel mio corpo, e già
implicite esprimentesi col semplice fenomeno del corpo stesso: non è
quindi ingiustizia, bensì diritto. Il che vai quanto dire: io ho
allora un diritto, di negar quella negazione con ogni forza atta a
toglierla di mezzo; diritto che, si vede facilmente, può arrivare
fino all'uccisione dell'individuo estraneo, il cui atto a mio danno,
quale premente violenza esteriore, può essere impedito mediante una
reazione alquanto più forte di esso, senza commettere ingiustizia di
sorta, e quindi con diritto; imperocché tutto quanto vien fatto da
parte mia sta sempre esclusivamente nella sfera dell'affermazione di
volontà inerente alla mia persona come tale, e già in lei espressa
(sfera che è il teatro della battaglia); né irrompe nella sfera
altrui: sì che è solo negazione della negazione, ossia affermazione
e non negazione. Io posso adunque, senza ingiustizia, costringer la
volontà estranea che nega la volontà mia quale si manifesta nel mio
corpo e nell'uso delle forze di esso per la propria conservazione,
senza negare io perciò un'altrui volontà contenuta in eguali
confini, a desister da codesta negazione: ossia ho, in siffatta
misura, un diritto di coercizione.
In tutti i casi nei quali io ho un diritto di coercizione, un pieno
diritto di usar violenza contro gli altri, posso egualmente, secondo
le circostanze, opporre all'altrui violenza anche l'astuzia, senza
commettere ingiustizia; ed ho quindi un vero e proprio diritto alla
menzogna, nella stessa misura in cui ho diritto alla coercizione
violenta. Perciò, chi assicuri al malandrino che lo sta frugando, di
non aver null'altro su di sé, agisce con pieno diritto; così anche
colui, il quale attiri con una menzogna in cantina il ladro
entratogli di notte in casa, e ve lo rinchiuda. Chi sia trascinato
prigione da malfattori, per esempio, da pirati barbareschi, ha il
diritto, per liberarsi, di ucciderli non soltanto con aperta
violenza, ma anche con inganno. Similmente una promessa strappata
con diretta violenza corporale non lega in nulla; perché quegli, che
subisce una tal costrizione, può con pieno diritto liberarsi di chi
gli usa violenza, con l'uccisione, nonché con l'insidia. Chi non può
riprender con la forza il bene rubatogli, non commette ingiustizia
se lo riacquista con inganno. Perfino, se taluno dissipa al gioco il
denaro che m'ha involato, ho diritto di barare a suo danno: perché
quanto io gli tolgo, già mi appartiene. Chi ciò volesse negare,
dovrebbe ancor più negar la legittimità dell'insidia guerresca, la
quale è addirittura una menzogna in azione, e conferma il motto
della regina Cristina di Svezia: «Le parole degli uomini non vanno
calcolate per nulla: grazia se si può credere ai loro atti». Così da
presso il limite del giusto sfiora quello dell'ingiusto! Del resto,
credo superfluo dimostrare, che tutto ciò concorda appieno con
quanto è detto più sopra intorno all'illegittimità della menzogna
come della violenza: può anche servir d'illustrazione alle singolari
teorie sopra la menzogna necessaria49.
In virtù di tutto quanto ho esposto finora, torto e diritto sono
semplicemente determinazioni morali; tali, cioè, che abbian valore
rispetto alla considerazione dell'umana attività in se stessa, e in
rapporto all'intimo significato di codesta attività in sé. Questo
valore si rivela direttamente nella conscienza, in primo luogo, per
il fatto che l'agire contro giustizia è accompagnato da un interno
rammarico, il quale in chi commette l'ingiustizia è la conscienza,
semplicemente sentita, dell'eccessiva forza onde s'afferma in lui la
volontà, arrivando fino al punto di negare il fenomeno della volontà
altrui. E l'autor dell'ingiustizia, essendo bensì distinto come
fenomeno della sua vittima, le è nondimeno identico nell'essenza.
L'ulteriore esplicazione di codesto intimo significato d'ogni
fenomeno potrà seguire solo più tardi. Per un altro verso, chi
patisce l'ingiustizia è dolorosamente consapevole della negazione
della propria volontà, quale essa volontà è già espressa mediante il
corpo di lui, ed i suoi naturali bisogni, pel cui appagamento la
natura lo fa contar sulle forze di questo corpo medesimo. Anche è
consapevole, in pari tempo, che senza commettere ingiustizia
potrebbe opporsi in tutti i modi a quella negazione, se non gliene
mancasse la forza. Cotal valore puramente morale è l'unico, che
diritto e ingiustizia abbiano per l'uomo come uomo (non come
cittadino nello Stato); l'unico, quindi, che sussisterebbe anche
nello stato di natura, senz'alcuna legge positiva; l'unico, che
costituisce la base e il contenuto di tutto quanto s'è perciò
chiamato diritto naturale, ma meglio si chiamerebbe diritto morale:
estendendosi il suo valore non già al subire, alla realtà esterna,
ma solo all'agire e alla consapevolezza del proprio volere
individuale, che l'agire fa nascere nell'uomo; consapevolezza, che
si chiama coscienza. La quale nello stato di natura non in tutti i
casi può farsi valere anche al di fuori, sopra altri individui, ed
impedire che violenza regni in luogo del diritto. Nello stato di
natura dipende invero semplicemente da ciascuno, di non agire in
nessun caso con ingiustizia, ma non già di non subire in nessun caso
ingiustizia, poiché ciò dipende da quella forza esteriore che ci è
toccata. Perciò sono i concetti di giusto e ingiusto bensì validi
anche per lo stato di natura, e punto convenzionali; ma quivi
valgono sol come concetti morali, per l'autoconscienza che ciascuno
ha della propria volontà. Ovvero sono, sulla scala dei
differentissimi gradi d'intensità, con cui la volontà di vivere
s'afferma negli individui umani, un punto fermo, simile al punto di
congelazione nel termometro: il punto, ove l'affermazione della
volontà propria diventa negazione dell'altrui, ossia con l'agire
ingiustamente indica il grado della sua vivacità congiunto col grado
dell'irretimento della conoscenza nel principio individuationìs (il
quale è la forma della conoscenza posta per intero al servigio della
volontà). Chi voglia ora porre da canto la considerazione puramente
morale degli atti umani, o negarla, e gli atti stessi guardar
soltanto sotto il rispetto del loro effetto esteriore e del loro
successo, potrà invero chiamar con Hobbes giustizia e ingiustizia
convenzionali determinazioni, arbitrariamente assunte, e punto
esistenti all'infuori della legge positiva; né mai potremmo noi
fargli intendere per esteriore esperienza ciò che non all'esteriore
esperienza s'appartiene. Così al medesimo Hobbes, il quale
caratterizza in modo singolarissimo quel suo pensiero affatto
empirico, negando nel suo libro De principiis geometrarum tutta la
matematica pura vera e propria, e ostinato affermando avere il punto
estensione, e aver larghezza una linea, non potremo metter mai sotto
gli occhi un punto senza estensione e una linea senza larghezza, per
provargli l'a priori della matematica, più di quanto possiamo fargli
intendere l'a priori del diritto: perché egli si è asserragliato
contro ogni conoscenza non empirica.
La pura filosofia del diritto è dunque un capitolo della morale, e
si riferisce in modo diretto soltanto all'azione che si compie, non
già a quella che si subisce. Che solo la prima è esplicazione della
volontà, e la morale non considera se non la volontà. Il subire è un
semplice accidente: solo in via indiretta la morale può
considerarlo, ed esclusivamente per dimostrare, che quanto si fa con
l'unico fine di non patire un'ingiustizia, non è atto ingiusto. Quel
capitolo della morale, sviluppato, avrebbe come contenuto la precisa
determinazione del limite, fino al quale un individuo può arrivare
nell'affermazione della volontà già oggettivata nel suo corpo, senza
che codesta affermazione diventi negazione di quella volontà
medesima, rilevantesi in un altro individuo; ed inoltre dovrebbe
determinar le azioni, che andando oltre il limite sopraddetto sono
ingiuste, e tali quindi da poter essere impedite senza commettere
ingiustizia. Sempre rimarrebbe così oggetto dell'indagine l'azione
sola.
Ma nell'esperienza esteriore, come accidente, si presenta il fatto
dell'ingiustizia patita: e vi si manifesta più limpido che altrove,
come già fu detto, il fenomeno dell'opposizione della volontà di
vivere contro se stessa, risultante dalla pluralità degli individui
e dall'egoismo; l'una e l'altro determinati dal principio
individuationis, che è la forma del mondo quale rappresentazione per
la conoscenza individuale. Abbiamo anche visto più sopra, che
un'assai gran parte del dolore inerente all'umana vita ha in quel
contrasto degl'individui la sua perenne sorgente.
Ma la ragione, a tutti codesti individui comune, la quale fa sì
ch'essi non conoscano, come gli animali, soltanto il caso singolo,
ma anche la connessione dell'insieme, in astratto, ha presto
insegnato loro a conoscer la sorgente di quel male, e li ha
richiamati a considerare i mezzi di farlo minore, o, quando fosse
possibile, di sopprimerlo, mediante un sacrificio comune, che
tuttavia vien vantaggiosamente compensato dal profitto che a tutti
ne deriva. Per quanto gradevole sia invero all'egoismo individuale,
capitandone il caso, il commettere un'ingiustizia, tale atto ha
nondimeno un correlato necessario nel patir che altri fa
l'ingiustizia medesima, avendone un grande dolore. E quando la
ragione, considerando genericamente, si innalzò sul punto di vista
unilaterale dell'individuo a cui appartiene, sciogliendosi per un
istante dal vincolo che a lui la lega, vide che il godimento,
provato da ciascuno individuo per l'atto ingiusto commesso, è
superato ognora da un dolore relativamente più grande, che prova chi
quell'atto subisce. E vide, inoltre, come tutto essendo in ciò
affidato al caso, ciascuno avrebbe avuto da temere, che a sé il
dolore dell'ingiustizia sofferta toccasse ben più frequente del
piacere per un'eventuale ingiustizia commessa. E la ragione ne
ricavò che, tanto per diminuire il male su tutti disteso, quanto per
distribuirlo quanto più fosse possibile uniformemente, il migliore e
unico mezzo fosse risparmiare a tutti il dolore di subire
l'ingiustizia, per questa via: rinunziar tutti anche al piacere di
commetterla. Questo mezzo adunque, che l'egoismo per mezzo della
ragione facilmente trovò, e gradatamente perfezionò, procedendo con
metodo e abbandonando il proprio unilaterale punto di vista, è il
contratto sociale o la legge.
L'origine, ch'io qui gli assegno, esponeva già Platone nella
Repubblica. In verità è tale origine essenzialmente l'unica, e posta
dalla natura della cosa. Né può lo Stato averne avuta altra, in
nessun paese, che gli è appunto codesta maniera di nascita, codesta
finalità, a farne uno Stato; ed è poi indifferente se in questo o in
quel popolo l'abbia preceduto la condizione d'una moltitudine di
selvaggi indipendenti (anarchia), o di schiavi dominati per arbitrio
dal più forte (dispotismo). Nell'un caso e nell'altro non s'aveva
Stato: lo Stato sorge solo mediante quel comune accordo; ed a
seconda che tale accordo sia più o meno puro da anarchia o
dispotismo, è anche lo Stato più o meno perfetto. Le repubbliche
tendono all'anarchia, le monarchie al dispotismo, e la via
intermedia della monarchia costituzionale, che per ovviare a quei
mali s'è escogitata, tende al predominio delle fazioni. Per fondare
uno Stato perfetto, si deve incominciar dal creare esseri, cui
Natura consenta di sacrificare il bene proprio al bene pubblico. Ma
frattanto qualcosa già s'ottiene, dall'esservi una famiglia, il cui
bene sia da quello del paese affatto inseparabile: sì che ella,
almeno nelle cose essenziali, non possa mai vantaggiar l'uno senza
l'altro. Qui sta la forza e il pregio della monarchia ereditaria.
Se la morale mira esclusivamente all'azione giusta o ingiusta, e
può, a quegli il quale sia per avventura risoluto di non fare atto
ingiusto, stabilir nettamente i confini delle sue operazioni; la
dottrina dello Stato, invece, la scienza della legislazione, mira
soltanto all'ingiustizia patita, né mai si occuperebbe
dell'ingiustizia commessa, se non fosse per l'ognor necessario
correlato di questa, ossia la patita: la quale è l'oggetto della sua
attenzione, quasi il nemico contro cui ella si affatica. Ove si
potesse concepire un atto ingiusto, col quale non fosse d'altra
parte congiunta un'ingiustizia sofferta, lo Stato conseguentemente
non lo punirebbe in nessun modo. Inoltre, poiché nella morale è
oggetto di considerazione ed unica realtà l'animo, l'intenzione, per
essa la volontà risoluta di commettere ingiustizia, quando pur sia
arrestata e resa impotente da una forza estranea, equivale in tutto
all'ingiustizia effettivamente commessa; e la morale condanna nel
suo tribunale, come ingiusto, chi quell'intenzione aveva. Viceversa
lo Stato non toccano animo e intendimento, sol come tali, né punto
né poco; bensì solamente l'atto (sia esso poi tentato o compiuto),
in ragione del suo correlato, del patire, che ne viene dall'altra
parte: per lo Stato è una realtà l'azione, il fatto accaduto;
l'intendimento, il volere non s'indaga se non in quanto da esso vien
reso manifesto il significato dell'atto. Quindi lo Stato non vieterà
ad alcuno di meditar permanentemente violenza omicida o veleno a
danno altrui, non appena sia persuaso che il timore della pena
capitale e della tortura arresteranno sempre gli effetti di
quell'intenzione. E lo Stato non ha pur minimamente il folle
proposito di distruggere l'inclinazione all'ingiustizia, la malvagia
intenzione; bensì ad ogni possibile impulso verso il compimento di
un torto vuol porre accanto una prevalente ragione di non
commetterlo, la qual consiste nell'ineluttabile punizione: perciò è
il codice penale un elenco, il più possibile completo, di
contromotivi opposti a tutte le azioni delittuose presupposte come
possibili. La scienza statale, o legislazione, per questo suo fine
torrà a prestito dalla morale il capitolo, che costituisce la
filosofia del diritto, e che oltre a dar l'intimo significato del
giusto e dell'ingiusto ne determina i netti confini; ma
esclusivamente per adoprarne il rovescio, e tutti quei termini, che
la morale pone come insormontabili da chi non voglia commettere
ingiustizia, considerar sotto l'aspetto opposto: come termini, il
cui valicamento da parte d'altri non va tollerato, se non si vuol
patire ingiustizia, e da cui s'ha il diritto di respingere altrui.
Tali termini vengono così sotto codesto rispetto, fin dove si può
passivo, barricati dalle leggi. Ne risulta che, come molto
argutamente lo storico fu definito un profeta a rovescio, così è un
moralista a rovescio il giurista; e quindi anche la scienza del
diritto in senso proprio, ossia la dottrina dei diritti, che si
possono affermare, è una morale a rovescio nel capitolo, in cui
questa insegna i diritti che non si possono violare. Il concetto
dell'ingiustizia e della sua negazione, della giustizia, il quale è
in origine concetto morale, diventa giuridico trasportando il punto
di partenza dall'aspetto attivo al passivo, ossia mediante un
capovolgimento. Ciò, aggiunto alla dottrina giuridica di Kant, il
quale molto falsamente deriva dal suo imperativo categorico
l'istituzione dello Stato come un dovere morale, ha prodotto anche
nell'età più moderna di tanto in tanto il singolarissimo errore, che
lo Stato sia un istituto per l'incremento della moralità, nasca da
un tendere verso di essa e sia quindi rivolto contro l'egoismo. Come
se l'interno animo, l'eternamente libero volere, al quale soltanto
si riferiscono moralità o immoralità, si potesse dal di fuori
modificare, e per influsso esterno mutare! Ancor più stolto è il
teorema, secondo il quale lo Stato è condizione della libertà nel
senso morale e quindi della moralità: mentre invece la libertà
risiede di là dal fenomeno, altro che di là dalle umane istituzioni!
Lo Stato, come ho detto, è sì poco rivolto contro l'egoismo in
genere e in quanto tale, che viceversa per l'appunto dall'egoismo è
originato: da quell'egoismo bene inteso, metodicamente procedente,
salito dal punto di vista individuale al generale, e assommante in
sé l'egoismo di tutti. A servizio di questo è lo Stato: poggiando
sulla retta premessa, che non sia da attendersi moralità pura, ossia
un giusto agire per principi morali; che se così non fosse, esso
diventerebbe superfluo. Non punto, adunque, contro l'egoismo, bensì
esclusivamente contro gli effetti dannosi dell'egoismo, che dalla
folla degli individui egoisti si producono a svantaggio reciproco di
tutti, e ne turbano il benessere, è lo Stato rivolto: il quale a tal
benessere mira. Perciò diceva già Aristotele (De Rep., III): Τελος
μεν ουν πολεων το ευ ζη̣ν˙ τουτο δε εστιν το ζη̣ν˙ ευδαιμονως και
καλως (Finis civitatis est bene vivere, hoc autem est beate et
pulchre vivere). Anche Hobbes ha giustissimamente e in modo
eccellente esposto quest'origine e finalità dello Stato, quali
vengono d'altronde espresse dall'antico principio di tutti i gli
ordinamenti statali, salus publica suprema lex esto. Se lo Stato
raggiungesse appieno il suo fine, produrrebbe lo stesso effetto come
se universalmente regnasse perfetta giustizia d'intenzioni. Ma
l'intima essenza, l'origine di codeste due condizioni di cose
sarebbero l'una l'opposto dell'altra. Imperocché nel secondo caso
s'avrebbe, che nessuno voglia compiere ingiustizia; nel primo,
invece, che nessuno voglia patire ingiustizia; e a tal fine
sarebbero appieno adoprati i mezzi opportuni. Così può la medesima
linea venir tracciata da opposte direzioni, e un animale da preda
con la museruola è innocuo come un erbivoro. Ma più in là di questo
punto lo Stato non può andare: non può quindi mostrarci un aspetto
pari a quello, che risulterebbe da generale, reciproca benevolenza
ed amore. Poiché, come abbiamo or ora notato che esso, per propria
natura, non vieterebbe un atto ingiusto, dal quale non risultasse
dall'altra parte alcun patimento d'ingiustizia, ed ogni ingiustizia
vieta sol perché tale condizione sarebbe impossibile; così viceversa
assai volentieri farebbe sì, conformemente alla propria tendenza
rivolta al benessere generale, che ciascuno ricevesse benevolenza e
ogni maniera d'atti d'amor del prossimo; se nondimeno anche questi
atti ricevuti non avessero un correlato inevitabile nella
prestazione di benefizi e di opere altruistiche. Ma invece ogni
cittadino dello Stato vorrebbe in ciò assumere la parte passiva, e
nessuno l'attiva; e quest'ultima per nessun motivo si potrebbe
pretenderla dall'uno piuttosto che dagli altri. Perciò si può
imporre il negativo soltanto, che appunto costituisce il diritto, e
non il positivo, che va sotto il nome di doveri d'amore, o doveri
imperfetti.
La legislazione toglie a prestito, come s'è detto, la dottrina pura
del diritto, ossia dottrina intorno all'essenza ed ai limiti del
diritto e del torto, dalla morale, per adoprarla capovolta secondo i
fini proprii, che alla morale sono estranei, e su questa base
stabilire la legislazione positiva coi mezzi per sostenerla, ossia
lo Stato. La legislazione positiva è adunque la dottrina morale del
diritto puro, applicata a rovescio. Quest'applicazione può accadere
con riguardo alle speciali condizioni e circostanze di un
determinato popolo. Ma sol quando la legislazione positiva nella
sostanza è costantemente guidata dal principio del diritto puro, ed
ogni sua sanzione ha nella dottrina del diritto puro la propria
base, può dirsi che codesta legislazione siffattamente formata sia
davvero un diritto positivo, e lo Stato un'associazione giuridica:
Stato nel vero senso della parola, istituzione moralmente
ammissibile, e non immorale. In caso contrario la legislazione
positiva è viceversa il fondamento di una positiva ingiustizia, è
essa medesima un'ingiustizia imposta, pubblicamente ammessa. Di tal
fatta è ogni dispotismo, e la costituzione della più parte degli
Stati musulmani; di tal natura sono perfino talune parti di molte
costituzioni, come per esempio la schiavitù, il lavoro obbligato, e
così via. La dottrina pura del diritto, o diritto naturale, anzi
meglio diritto morale, sta, neppur sempre a rovescio, a base d'ogni
legislazione giuridica positiva, come la matematica pura sta a base
d'ogni ramo dell'applicata. I punti più importanti della dottrina
pura del diritto, quali la filosofia deve trasmetterli, pei fini
suddetti, alla legislazione, sono i seguenti: 1. Spiegazione
dell'intimo e proprio valore nonché dell'origine dei concetti di
giusto e d'ingiusto, e della loro applicazione e del loro posto
nella morale. 2. Deduzione del diritto di proprietà. 3. Deduzione
del valore morale dei contratti: essendo questo il fondamento morale
del contratto sociale. 4. Spiegazione dell'origine e finalità dello
Stato, della relazione di codesta finalità con la morale, e della
conseguente trasposizione della dottrina morale del diritto,
invertita, alla legislazione. 5. Deduzione del diritto penale. Il
rimanente contenuto della teoria del diritto non è se non
l'applicazione di quei principii, più precisa determinazione dei
confini del giusto e dell'ingiusto per tutte le possibili
contingenze della vita, le quali vengono perciò riunite e suddivise
sotto speciali riguardi e titoli. In queste dottrine particolari
s'accordano quasi del tutto i manuali del diritto puro: sol nei
principii suonano assai diversi; imperocché i principii sono sempre
in relazione con qualche sistema filosofico. Ora che noi, in
conformità del sistema nostro, abbiamo esposto in forma breve e
generica sì, ma tuttavia netta e chiara, i primi quattro di quei
punti essenziali, ci tocca ancora di parlar nello stesso modo del
diritto penale.
Kant gettò la falsissima affermazione, che fuori dello Stato non
esista alcun diritto perfetto di proprietà. Secondo la deduzione
fatta più sopra, esiste invece proprietà anche nello stato di
natura, con pieni diritti naturali, ossia morali; la quale non può
senza ingiustizia venire offesa, e senza ingiustizia può esser
difesa fino all'estremo. Invece è certo, che fuori dello Stato non
c'è diritto di pena. Ogni diritto di punire è fondato unicamente
sulla legge positiva, la quale prima dell'atto compiuto ha sancito
per questo una pena; la cui minaccia, come contromotivo, dovrebbe
prevaler su tutti gli eventuali motivi di quell'atto. Codesta legge
positiva si deve considerare come sanzionata e riconosciuta da tutti
i cittadini dello Stato. Si fonda dunque sopra un patto comune, al
cui adempimento in ogni circostanza, ossia all'esecuzione della pena
da una parte e al sofferimento di essa dall'altra, i membri dello
Stato sono vincolati: perciò la pena può con diritto venire imposta.
Conseguentemente l'immediato fine della pena nel singolo caso è
adempimento della legge come d'un contratto. Ma scopo unico della
legge è il trattenere, col timore, dalla violazione degli altrui
diritti: poi che appunto, perché ciascuno sia protetto contro
l'ingiustizia, ci si è riuniti nello Stato, i pesi del suo
mantenimento assumendo su di sé. La legge adunque e la sua
esecuzione, la pena, sono essenzialmente rivolte al futuro, non al
passato. Ciò distingue pena da vendetta, la quale ultima è motivata
esclusivamente dal fatto accaduto, ossia dal passato, in quanto
tale. Ogni imposizione di dolore fatta, senza mirare al futuro, per
un'ingiustizia commessa, è vendetta, e non può avere altro fine, se
non confortare se stesso del male sofferto, mediante la vista di un
male altrui, da noi cagionato. Ciò costituisce cattiveria e
crudeltà, né si può eticamente giustificare. L'ingiustizia, che
altri compie verso me, non mi dà minimamente il diritto di
commettere ingiustizia a suo riguardo. Pagar male con male,
senz'altra mira, non è cosa da giustificarsi moralmente né in altro
modo in virtù di qualsivoglia principio ragionevole; ed il jus
talionis, eretto a principio indipendente ed a finalità ultima del
diritto penale, è vuoto di senso. Perciò è in tutto priva di base e
assurda la teoria di Kant intorno alla pena, concepita qual semplice
compensazione per la compensazione. E nondimeno la viene ancor fuori
negli scritti di molti giuristi, in mezzo a ogni maniera di frasi
pompose, che si riducono a una vuota filastrocca, come ad esempio:
venire il delitto per mezzo della pena espiato, neutralizzato,
cancellato, e così via. Ma nessun uomo ha la facoltà di stabilirsi
giudice e compensatore in senso puramente morale, ed i misfatti di
un altro punire con dolori da sé causati, ed a quegli imporre così
espiazione per ciò che ha fatto. Questa sarebbe arrogantissima
presunzione; onde il detto biblico: «Mia è la vendetta, esclama il
Signore, e voglio io compensare». Ha bensì l'uomo il diritto di
provvedere alla sicurezza della società; ma ciò può accadere solo
mediante interdizione di tutti quegli atti che indica la parola
«criminale», per impedirli col mezzo dei contromotivi, che sono le
minacciate pene; la qual minaccia può avere efficacia sol con
l'esecuzione, quando il caso sia, malgrado l'interdizione, avvenuto.
Che perciò scopo della punizione o più precisamente della legge
punitiva, sia il trattenere altrui col timore dal compiere un reato,
è una verità così universalmente riconosciuta, anzi di per se stessa
luminosa, che in Inghilterra fu perfino già espressa nell'antica
formula d'accusa (indictment), di cui oggi ancora si serve nei
processi criminali l'avvocato della corona; la quale termina: «if
this be proved, you, the said N. N., ought to be punished with pains
of law, to deter others from the like crimes, in ali time coming»
50. Servire al futuro è ciò che distingue la pena dalla vendetta; e
la pena ha questa finalità sol quando viene applicata come
esecuzione di una legge; la quale esecuzione, solo siffattamente
annunziandosi come inevitabile in ogni altro caso futuro, dà alla
legge la forza d'intimidazione in cui sta appunto la sua finalità.
Qui un kantiano immancabilmente osserverebbe, che secondo questo
modo di vedere il delinquente punito viene adoprato «sol come
mezzo». Ma questo principio, così infaticabilmente ripetuto da tutti
i kantiani, «che si debba sempre trattar l'uomo sol come fine, mai
come mezzo», è bensì un principio che suona con aria d'importanza, e
quindi appropriatissimo per tutti coloro, i quali amano d'avere una
formula, che tolga loro la fatica di continuare a pensare; tuttavia
guardato alla luce è una sentenza oltremodo vaga, indeterminata, la
quale per ciascun caso, in cui debba essere applicata, richiede
dapprima particolare spiegazione, determinazione e modificazione,
mentre, presa così in maniera generica, è insufficiente, poco
concludente, e per di più problematica. L'assassino, che per virtù
di legge è consacrato alla pena capitale, deve invero ed a buon
diritto essere usato come semplice mezzo. Perché la sicurezza
pubblica, scopo principale dello Stato, è da lui turbata anzi
soppressa, se la legge rimane ineseguita: lui, la sua vita, la sua
persona devono essere ora il mezzo per l'esecuzione della legge, e
quindi per la restaurazione della pubblica sicurezza; e un mezzo
egli diviene a pieno diritto, per l'adempimento del contratto
sociale, che da lui medesimo, in quanto egli era cittadino dello
Stato, aveva avuto sanzione, e per effetto del quale, col fine
d'aver sicurtà di godere la propria vita, la propria libertà, i
propri possessi, aveva questa vita, questa libertà, questi possessi
dati in pegno. Ed il pegno è ora scaduto. La teoria della pena qui
esposta, che balza evidente per ogni sana ragione, è in verità
sostanzialmente un pensiero tutt'altro che nuovo; bensì un pensiero
quasi messo al bando da nuovi errori, sì ch'era necessario chiarirlo
limpidissimamente. La sua spiegazione è, nella sostanza, già
contenuta in ciò che a tal proposito dice Puffendorf, De officio
hominis et civis, 1. 2, cap. 13. Vi si accorda egualmente Hobbes,
Leviathan, capp. 15 e 28. Ai nostri giorni l'ha sostenuta, come si
sa, Feuerbach. La si trova d'altronde già nei detti dei filosofi
antichi: Platone l'espone chiaramente nel Protagora (p. 114, ed.
Bip.), e anche nel Gorgia (p. 168), e finalmente nell'undecimo libro
delle Leggi. Seneca esprime appieno il pensiero di Platone e la
teoria di tutte le pene nelle brevi parole: «Nemo prudens punit,
quia peccatum est; sed ne peccetur» (De Ira, I, 16).
Abbiamo dunque conosciuto nello Stato il mezzo, mediante cui
l'egoismo armato di ragione cerca di sfuggire ai suoi proprii
perniciosi effetti rivolgentisi contro se medesimo; ciascuno
favorisce il bene di tutti, perché vi vede compreso il bene suo
proprio. Ove lo Stato raggiungesse appieno il suo fine, potrebbe
aversi da ultimo, poiché esso mediante le forze umane in sé
congiunte sa ognor più trarre a suo servigio anche la rimanente
natura, con la rimozione d'ogni maniera di mali alcunché d'analogo
al paese di Cuccagna. Ma per un verso esso è tuttora sempre lontano
da questo termine; per l'altro innumerevoli mali, alla vita
necessariamente inerenti, manterrebbero come prima la vita in
dolore; tra i quali, fossero pur tutti gli altri eliminati, da
ultimo la noia occuperebbe ogni posto da quelli lasciato; per un
altro verso ancora la discordia degli individui non può mai dallo
Stato esser tolta in tutto di mezzo, che essa stuzzica nel piccolo,
dov'è interdetta nel grande, ed infine Eris, felicemente cacciata
dall'interno, si volge ancora al di fuori: bandita per mezzo
dell'ordinamento civile dalle contese degli individui, ritorna
dall'esterno in forma di guerra dei popoli, e pretende allora in
grosso e tutto in una volta, come debito accumulato, le sanguinose
vittime, che mediante saggia provvidenza le si erano sottratte
singolarmente. E ammesso finalmente, che tutto ciò si potesse
superare e toglier di mezzo, con una saggezza fondata
sull'esperienza di millennii, il risultato ultimo sarebbe l'eccesso
di popolazione sull'intero pianeta; terribile male, che oggi solo
un'audace fantasia riesce a rappresentarsi51.
§ 63.
Abbiamo conosciuta la giustizia temporale, che ha sua sede nello
Stato, quale compensatrice o punitrice; e abbiam visto, ch'essa
divien giustizia solo riguardo al futuro; imperocché senza tale
riguardo ogni punizione e compensazione d'un delitto sarebbe
ingiustificata, anzi sarebbe non altro che l'aggiunta di un secondo
male al male accaduto, senza ragione e significato. Tutt'altra
condizione si ha con la giustizia eterna, già innanzi ricordata; la
quale regge non lo Stato, bensì il mondo, non dipende da umani
ordinamenti, non è soggetta al caso ed all'errore, mai insicura,
oscillante ed errante, bensì infallibile, ferma e sicura. Il
concetto della compensazione racchiude già il tempo in sé: quindi
non può l'eterna giustizia punire con determinata misura; non può,
come la giustizia penale, concedere dilazioni e fissar termini, e,
sol per mezzo del tempo sanando il misfatto con le cattive
conseguenze di esso, del tempo aver bisogno per sussistere. La pena
dev'esser qui col misfatto siffattamente congiunta, da formare
tutt'uno.
Δοκειτε πηδα̣ν τ’αδικηματ’ εις θεους
Πτεροισι, κα̉πειτ’ εν Διος δελτου πτυχαις
Θνητοις δικάζειν: Ουδ’ ό πας ουρανος,
Διος γραφοντος τας βροτων άμαρτιας,
Εξαρκεσειεν, ουδ’ εκεινος αν σκοπων
Πεμπειν έκαστω̣ ζημιαν˙ αλλ’ή Δικη
Ενταυθα που 'στιν εγγυς, ει βουλεσθ’ όρα̣ν.
Eurip., ap. Stob. Ed. i, e. 4
(Volare penis scelera ad aetherias domus
Putatis, illic in Jovis tabularia
Scripto referri: tum Jovem lectis super
Sententiam proferre? – sed mortalium
Facinora cœli, quantaquanta est, regia
Nequit tenere; nec legendis Juppiter
Et puniendis par est. Est tamen ultio,
Et, intuemur, illa nos habitat prope).
Ora, che una tal divina giustizia veramente esista nell'essenza del
mondo, risulterà presto luminosamente appieno, da tutto il nostro
pensiero finora svolto, a chi lo abbia afferrato.
Il fenomeno, l'oggettità dell'unica volontà di vivere è il mondo, in
tutta la molteplicità delle sue parti e figure. L'essere, e il modo
dell'essere, nel tutto come in ciascuna parte, è costituito solo
dalla volontà. Essa è libera, essa è onnipotente. In ogni cosa
appare la volontà, quale essa medesima in sé e fuori del tempo si
determina. Il mondo non è che lo specchio di questo volere; ed ogni
limitazione, ogni male, ogni tormento, che il mondo contiene,
appartengono all'espressione di ciò che la volontà vuole: sono quali
sono, perché essa così vuole. È rigorosa giustizia, quindi, che ogni
creatura sopporti l'essere in genere, e quindi l'essere della sua
specie e della sua particolare individualità, interamente com'essa
è, e in condizioni quali esse sono, in un mondo quale esso è,
governato dal caso e dall'errore, temporaneo, effimero, ognora
sofferente: e qualunque sorte le tocchi, qualunque le possa toccare,
sarà sempre giustizia. La responsabilità dell'essere e della
costituzione del mondo può essa solamente, e nessun altro, portare:
poiché come potrebbe un altro assumerla per sé? Se si vuol vedere
ciò che gli uomini, moralmente considerati, sono in tutto e per
tutto, si consideri in tutto e per tutto il loro destino. Esso è
penuria, miseria, strazio, tormento e morte. L'eterna giustizia
impera: s'essi non fossero, presi collettivamente, così dappoco, non
sarebbe neppure il lor destino, collettivamente preso, così triste.
In questo senso possiamo dire: il mondo stesso è il giudizio
universale. Se si potesse mettere in un piatto di bilancia tutto il
dolore del mondo, e tutta la colpa del mondo nell'altra, la bilancia
starebbe sicuramente in bilico.
Certo che alla conoscenza, quale essa, dalla volontà in proprio
servizio generata, si forma nell'individuo in quanto tale, il mondo
non appare come da ultimo si disvela all'osservatore, ossia come
oggettità dell'una e unica volontà di vivere, che è l'individuo
medesimo; invece il velo di Maja, come dicono gl'Indiani, turba lo
sguardo dell'inconscio individuo: a lui, in luogo della cosa in sé,
apparisce solo il fenomeno nel tempo e nello spazio, nel principio
individuationis, e nelle rimanenti forme del principio di ragione.
In questa limitata cognizione non vede l'essenza delle cose, che è
unica, bensì i suoi fenomeni, distinti, disgiunti, innumerevoli,
contraddittori. Gli apparisce allora il piacere come alcunché di
affatto diverso dal dolore; in un uomo vede l'aguzzino e
l'assassino, in un altro il paziente e la vittima, distinte come due
unità indipendenti sono per lui la cattiveria e la sofferenza. Vede
taluno vivere nella gioia, nella sovrabbondanza, nei piaceri, e
contemporaneamente altri morire di penuria e di freddo innanzi alla
sua porta. Allora si domanda: dov'è la compensazione? Ed egli
medesimo, nel violento impulso della volontà, che è sua origine e
sua essenza, si aggrappa ai piaceri e ai godimenti della vita, vi si
tiene fortemente stretto, non sapendo, che appunto per questo atto
della sua volontà egli afferra e stringe a sé tutti quei dolori e
tormenti della vita, alla cui vista rabbrividisce. Vede la
sofferenza, vede la malvagità nel mondo: ma lungi dal riconoscere,
che entrambe non sono se non diverse facce del fenomeno dell'unica
volontà di vivere, le crede molto diverse, anzi addirittura opposte,
e cerca spesso mediante la malvagità, ossia cagionando il male
altrui, di sfuggire al dolore, alla sofferenza del proprio
individuo, circoscritto nel principio individuationis, ingannato dal
velo di Maja. Imperocché, come sull'infuriante mare che, per tutti i
lati infinito, ululando montagne d'acqua innalza e precipita, siede
in barca il navigante e sé affida al debole naviglio; così siede
tranquillo, in mezzo a un mondo pieno di tormenti, il singolo uomo,
poggiandosi fidente sul principio individuationis, ossia sul modo
onde l'individuo conosce le cose, in quanto fenomeno. Lo scofinato
mondo, pieno di mali ovunque, nell'infinito passato, nell'infinito
futuro, è a lui straniero, anzi è a lui come una fiaba: la sua
infinitesima persona, il suo presente privo d'estensione, il suo
momentaneo benessere hanno soli realtà ai suoi occhi; e per
conservarli fa di tutto, fin quando una miglior conoscenza non
gl'illumini la vista. Fino allora vive appena nella più intima
profondità della sua conscienza l'oscurissimo sentore, che quel
mondo non gli sia poi veramente tanto straniero, bensì abbia con lui
una relazione, dalla quale il principium individuationis non può
proteggerlo. Da codesto presentimento viene quell'invincibile
terrore, comune a tutti gli uomini (e fors'anche agli animali più
intelligenti) che li coglie all'improvviso, quando per un caso
purchessia smarriscono la guida del principii individuationis,
allorché il principio di ragione in una qualunque delle sue forme
sembra avere un'eccezione: per esempio, quando pare che si produca
una mutazione senza causa, o un morto ritorni, o in qualsiasi
maniera il passato o il futuro si faccian presenti, o il lontano
vicino. L'orribile sbigottimento per tali cose si fonda sul fatto,
che essi si smarriscono rispetto alle forme conoscitive del
fenomeno, le quali sole tengono distinto il lor proprio individuo
dal resto del mondo. Ma tale distinzione sta semplicemente nel
fenomeno, e non nella cosa in sé: su ciò appunto poggia l'eterna
giustizia. In effetti ogni godimento temporale si basa ed ogni
saggezza si muove sopra un terreno minato. Godimento e saggezza
proteggono l'uomo dalle sventure e gli procacciano piaceri; ma la
personalità è semplice fenomeno, e la sua varietà dagli altri
individui, nonché l'esser priva dei dolori che questi sopportano,
dipendono dalla forma del fenomeno, dal principio individuationis.
Secondo la vera essenza delle cose, ciascuno ha da considerar come
propri tutti i dolori del mondo, anzi tutti i dolori possibili avere
come reali per sé, fin quando egli è deliberata volontà di vivere,
ossia afferma con ogni forza la vita. Per la conoscenza, che vede
più lontano del principii individuationis, una vita temporale
felice, donata dal caso, o a lui strappata con saggezza, fra dolori
innumerevoli altrui, è nient'altro che il sogno d'un mendico, in cui
questi si vegga re, ma per apprendere al risveglio, che solo una
fuggitiva illusione l'aveva separato dai dolori della sua vita.
Allo sguardo circoscritto nella conoscenza che segue il principio di
ragione, nel principio individuationis, si sottrae l'eterna
giustizia: quello non ha punto cognizione di lei, a men che non la
consegua mediante finzioni. Vede il malvagio, che ha commesso
misfatti e crudeltà d'ogni maniera, vivere nei piaceri e uscirsene
indisturbato dal mondo. Vede l'oppresso trascinare una vita piena
fino all'ultimo di dolori, senza che si mostri un vendicatore, un
compensatore. Ma l'eterna giustizia sarà compresa sol da colui, che
si eleva su quella conoscenza procedente sulla traccia del principio
di ragione e legata ai singoli oggetti: da colui, che conosce le
idee, penetra con l'occhio oltre il principium individuationis, e
comprende che alla cosa in sé non toccano le forme del fenomeno.
Questi solamente, in grazia della stessa conoscenza, può comprendere
la vera essenza della virtù, secondo ci verrà presto chiarito in
rapporto con la presente trattazione; sebbene per la pratica della
virtù non sia punto domandata codesta conoscenza in abstracto. Chi
adunque è pervenuto alla suddetta conoscenza, intende chiaramente
che, essendo la volontà l'in-sé di tutti i fenomeni, l'affanno
inflitto altrui o personalmente sofferto, la malvagità e il dolore
colpiscono pur sempre l'una e identica essenza; anche se i fenomeni,
in cui questa e quella condizione si manifestano, esistono come
individui distinti e addirittura separati da tempi e spazii lontani.
Intende, che la differenza da ciò che produce il dolore a ciò che
deve sopportarla è semplice fenomeno e non tocca la cosa in sé,
ossia è la volontà in entrambi vivente; la quale, ingannata dalla
conoscenza avvinta al suo servigio, se stessa disconosce, in uno dei
propri fenomeni cercando accresciuto benessere, mentre nell'altro
produce gran dolore; e così con violento impulso, ficca i denti
nella sua carne medesima, non sapendo che ognora se stessa
unicamente ferisce, palesando in tal modo, per il mezzo
dell'individuazione, il contrasto interiore ch'ella trae nel suo
intimo. Il tormentatore e il tormentato sono tutt'uno. Quegli erra
nel non ritenersi partecipe del tormento, erra questi nel non
ritenersi partecipe della colpa. Ove si aprissero a entrambi gli
occhi, quegli, che infligge dolore, conoscerebbe di vivere in tutto
quanto sul vasto mondo patisce tormento e invano si chiede, se
dotato di ragione, perché sia stato chiamato a esistere in sì grandi
dolori, che non sa d'aver meritati; e il tormentato conoscerebbe,
che ogni malvagità, la quale viene commessa o fu un giorno commessa
sulla terra, procede da quella volontà, che costituisce anche
l'essere suo, che anche in lui si manifesta. Mediante codesto
fenomeno e per la sua affermazione egli ha preso su di sé tutti i
dolori, che da tale volontà promanano; e giustamente li soffre fin
quando egli è quella volontà. Da questa conoscenza muove il veggente
poeta Calderón in La vita è sogno:
Pues el delito mayor
Del hombre es haber nacido52.
Come non dovrebbe essere una colpa, poi che per una eterna legge
sopra v'incombe la morte? Calderón non fece che esprimere in quel
versetto il dogma cristiano del peccato originale.
La vivente conoscenza dell'eterna giustizia, del bilanciere, che
inseparabilmente congiunge il malum culpae col malo poenae, richiede
completa elevazione sulla individualità e sul principio che la fa
possibile: essa rimarrà quindi alla più parte degli uomini ognora
inaccessibile, com'anche l'affine cognizione pura e limpida
dell'essenza di tutte le virtù, la quale verrà tosto chiarita.
Perciò i sapienti primi padri del popolo indiano l'espressero, sì,
nei Veda, i quali eran permessi soltanto alle tre caste rigenerate,
ossia nella dottrina esoterica, direttamente, fin dove concetto e
lingua l'afferrano e la loro maniera d'esposizione, ancora
immaginativa e anche rapsodica, consente; ma nella religione
popolare, o dottrina exoterica, l'hanno comunicata sol miticamente.
La rappresentazione diretta la troviamo in varie guise espressa nei
Veda, il frutto della più alta conoscenza e sapienza umana, il cui
nocciolo è finalmente pervenuto a noi nelle Upanishad; espressa
particolarmente nel fatto, che davanti allo sguardo del discepolo si
fanno sfilare per ordine tutti quanti gli esseri del mondo, viventi
e inanimati, e per ciascuno viene ripetuto quel detto ch'è divenuto
una formula e si chiama, come tale, mahavakya: Tatoumes, o, più
esattamente tat tvam asi, che significa: questo tu sei53. Ma al
popolo questa grande verità venne tradotta, fin dove esso poteva
afferrarla con la propria limitazione, nel modo di conoscenza retto
dal principio di ragione; il qual modo, per sua natura, non può
punto accoglier tale verità pura ed in sé, che anzi sta con essa in
diretta opposizione, bensì ne ha ricevuto un surrogato nella forma
del mito. Il surrogato era sufficiente come regola per l'azione,
rendendo afferrabile mediante rappresentazione figurata il valore
etico di quella, pur nella forma di conoscenza regolata dal
principio di ragione, che a tal valore rimane eternamente straniera.
E codesto è lo scopo di tutte le dottrine religiose, essendo esse in
genere rivestimenti mitici delle verità impenetrabili dalla rozza
mente umana. Quel mito si potrebbe in questo senso chiamare, nel
linguaggio di Kant, un postulato della ragion pratica: ma come tale
considerato ha il grande vantaggio di non contenere nessun elemento,
che non ci stia davanti agli occhi nel dominio della realtà, e
quindi può tutti i suoi concetti documentare con intuizioni. Il
mito, a cui alludo, è quello della migrazione delle anime. Esso
insegna, come tutti i dolori, che nella vita s'infliggono ad altri
esseri, in una vita successiva su questo stesso mondo devono essere
scontati precisamente coi medesimi dolori; e ciò va tanto lontano,
che chi uccide anche un semplice animale, rinascerà un giorno nel
tempo infinito con la forma di codesto animale e subirà la stessa
morte. Insegna, che cattiva condotta trae con sé una futura vita, in
questo mondo, in forma d'esseri miseri e spregiati; che si rinascerà
quindi in caste inferiori, o donna, o animale, o Paria, o Ciandala,
o lebbroso, o coccodrillo e così via. Tutti gli affanni che il mito
minaccia, documenta con intuizioni tratte dalla vita reale, mediante
creature dolorose, le quali neppur sanno come abbiano meritata la
lor pena; e non gli abbisogna di prender per appoggio nessun altro
inferno. Come ricompensa invece promette rinascita in forme migliori
e più nobili, quale bramano, quale sapiente, quale santo. La più
alta ricompensa, che attende gli animi più nobili e la più compiuta
rassegnazione, ricompensa concessa anche alla donna, che in sette
vite successive volontariamente sia morta sul rogo del marito, come
all'uomo la cui bocca pura non abbia mai pronunziato una sola
menzogna, può il mito esprimerla solo negativamente nel linguaggio
terreno, mediante la promessa tanto spesso ripetuta, di non più
rinascere: «non adsumes iterum existentiam apparentem». Oppure come
l'esprimono i Buddhisti, che non ammettono né i Veda né le caste:
«Tu raggiungerai il Nirvana, ossia uno stato, in cui non sono
quattro cose: nascita, età, malattia e morte».
Non mai un mito s'è accostato più strettamente, non mai s'accosterà
alla verità filosofica, cui sì pochi uomini possono salire, come fa
questa remotissima dottrina del più nobile e più antico popolo; nel
quale essa, per quanto in molte parti tralignata, regna nondimeno
tuttora come fede generale ed ha sulla vita un effettivo influsso,
oggi come quattro millenni or sono. Questo non plus ultra di
rappresentazione mitica hanno quindi di già Pitagora e Platone
accolto con ammirazione, e tratto dall'India, o dall'Egitto, e
onorato, e applicato, e, non sappiamo fino a qual punto, essi stessi
creduto. Noi invece spediamo oramai ai bramani, clergymen inglesi e
fratelli moravi esercenti la tessitura, per ammonirli
compassionevolmente d'una verità superiore e spiegar loro, che son
creati dal nulla, e che di ciò devono con gratitudine rallegrarsi.
Ma ci succede come a chi tira una palla contro una roccia. In India
non potranno metter mai radice le nostre religioni: la sapienza
originaria dell'uman genere non sarà soppiantata dagli accidenti
successi in Galilea. Viceversa torna l'indiana sapienza a fluire
verso l'Europa, e produrrà una fondamentale mutazione nel nostro
sapere e pensare.
§ 64.
Ma ora procediamo dalla nostra posizione non mitica, bensì
filosofica, dell'eterna giustizia, alle connesse considerazioni sul
valore etico dell'azione e della coscienza, la quale è il
conoscimento sentito di quel valore. Voglio solo, in questo luogo,
richiamar dapprima l'attenzione su due particolarità dell'umana
natura, le quali posson contribuire a render chiaro come ciascun
uomo abbia la consapevolezza, almeno come sentimento oscuro,
dell'essenza di quella eterna giustizia, e del suo fondamento, ch'è
l'unità e l'identità della volontà in tutti i suoi fenomeni. Affatto
indipendentemente dallo scopo, che dimostrammo aver lo Stato
nell'infliggere la pena, scopo su cui poggia il diritto punitivo,
quando una cattiva azione è stata commessa dà soddisfazione non solo
all'offeso (il quale di solito è acceso da sete di vendetta), ma
anche allo spettatore più indifferente, il vedere che quegli, il
quale cagionò altrui un dolore, patisca a sua volta dolore in egual
misura. A me pare che qui si esprima nient'altro se non la
conscienza di quella eterna giustizia; conscienza che tuttavia da
una mente non purificata vien tosto malcompresa e falsata; perché
questa, irretita nel principio individuationis, cade in un'anfibolia
di concetti, e pretende dal fenomeno ciò che spetta solo alla cosa
in sé. Né comprende, come in sé l'offensore e l'offeso siano
tutt'uno, e sia una medesima essenza la quale, non riconoscendo se
stessa nel suo proprio fenomeno, porta tanto l'affanno quanto la
colpa. Invece, domanda di riveder anche l'affanno in quello stesso
individuo a cui tocca la colpa. Quindi vorrebbero i più pretendere
ancora, che un uomo fornito d'un alto grado di malvagità, grado che
può trovarsi in molti uomini, ma non congiunto come in costui con
altre qualità, il quale per non comune forza d'ingegno fosse agli
altri di gran lunga superiore e quindi indicibili dolori procurasse
a milioni d'uomini, per esempio come conquistatore; vorrebbero
pretendere, dico, che un tal uomo espiasse quando che sia e comunque
tutti quei dolori con una misura di dolori eguale. Imperocché non
sanno, che in sé il tormentatore e i tormentati sono tutt'uno, e la
medesima volontà, mediante la quale questi esistono e vivono, è pur
quella, che nel tormentatore apparisce, e che appunto per mezzo di
lui perviene alla più chiara manifestazione della propria essenza, e
che soffre negli oppressi come nell'oppressore, anzi soffre in
quest'ultimo tanto più, quanto più alta chiarezza e limpidità ha la
conscienza di lui, e più grande veemenza ha la sua volontà. Che
tuttavia codesta disposizione a chiedere tal forma di giustizia
cessi d'ottenebrare la conoscenza più approfondita, non più
imprigionata nel principio individuationis, conoscenza da cui viene
ogni virtù e nobiltà d'animo, dimostra già l'etica cristiana, la
quale vieta senz'altro di render male per male e fa operare l'eterna
giustizia come fosse nel dominio della cosa in sé, diverso dal
fenomeno («Mia è la vendetta, io voglio punire, dice il Signore»:
Rom., 12, 19).
Un carattere molto più sorprendente, ma anche molto più raro
nell'umana natura, esprime quell'aspirazione a trarre l'eterna
giustizia nel dominio dell'esperienza, ossia dell'individuazione; e
in pari tempo è indice d'una consapevolezza sentita, ma non ancora
limpida, del fatto che, come ho detto più sopra, la volontà di
vivere recita a proprie spese la grande tragedia e commedia, e che
la medesima ed unica volontà vive in tutti i fenomeni. Tale
carattere è il seguente. Vediamo talvolta un uomo per una grande
iniquità subita, o di cui forse è stato semplice testimone,
infuriarsi a tal segno, che impegna la sua propria vita,
consapevolmente e senza possibile salvezza, per prendere vendetta di
chi quell'iniquità ha commessa. Lo vediamo per esempio ricercare
durante anni un potente oppressore, ucciderlo alfine e quindi morire
egli medesimo sul patibolo, come aveva preveduto, e che anzi spesso
non aveva punto cercato d'evitare; avendo la sua vita conservato
valore per lui soltanto come mezzo per la vendetta. Specialmente fra
gli spagnoli si trovano questi esempi54. Se noi adunque osserviamo
attentamente lo spirito di quella sete di compensazione, la troviamo
assai differente dalla vendetta comune, che vuole mitigare il male
sofferto mediante la vista del male provocato. Troviamo, anzi, che
il suo scopo merita d'esser chiamato non tanto vendetta quanto
punizione: poi che in lei si ritrova propriamente l'intento di
un'azione sul futuro, mediante l'esempio, e senza alcun fine di
proprio vantaggio, né per l'individuo vendicatore, perché esso vi
soccombe, né per una società, la quale foggia a sé con leggi la
sicurezza; che essendo quella pena inflitta da un singolo, non dallo
Stato, e neppure in esecuzione d'una legge, colpisce invece sempre
un'azione, che lo Stato non voleva e non poteva punire, e di cui
disapprova la pena. Mi sembra che lo sdegno, il quale spinge un
siffatto uomo sì lungi oltre i confini d'ogni egoismo, balzi dalla
più profonda con scienza, che esso sia la volontà stessa di vivere,
la quale in tutti gli esseri, in tutti i tempi si rivela; che ad
esso il più lontano avvenire appartenga in egual maniera che il
presente, e non possa essere indifferente. Affermando questa
volontà, pretende che nello spettacolo, in cui è rappresentata
l'essenza di lei, non riapparisca una così mostruosa iniquità, e
vuole, con l'esempio d'una vendetta contro la quale non esiste
difesa, che il timor della morte non trattiene il vendicatore,
sbigottire ogni malfattore futuro. La volontà di vivere, pure
affermandosi ancora, non si lega qui più al singolo fenomeno,
all'individuo, bensì abbraccia l'idea dell'uomo e vuol conservarne
il fenomeno puro da codesta mostruosa, rivoltante iniquità. È un
raro, significante, anzi elevatissimo tratto di carattere, mediante
il quale il singolo si sacrifica, aspirando a farsi braccio
dell'eterna giustizia, di cui ancora disconosce la vera essenza.
§ 65.
Con tutte le considerazioni fatte finora sulle azioni umane abbiamo
preparata l'ultima, e molto alleviato il compito che ci rimane:
elevare a chiarezza filosofia e concatenare nel nostro sistema il
vero significato etico dell'azione, che nella vita si indica con le
parole buono e cattivo, con le quali ci s'intende perfettamente.
Ma voglio dapprima ricondurre al lor senso verace quei concetti di
buono e cattivo, che dagli scrittori filosofici dei nostri giorni
vengono trattati, cosa singolarissima, come concetti semplici, e
quindi non atti ad analisi alcuna. Questo farò, affinchè non s'abbia
per avventura a restare nella nebbiosa illusione, ch'essi contengano
più di quanto contengono in effetti, e già esprimano in sé e per sé
quanto occorre al nostro argomento. E posso farlo, perché io stesso
son così lontano dal cercarmi nell'etica un riparo dietro la parola
buono, quanto lontano fui dal cercarlo finora dietro le parole bello
e vero; per poi far credere mediante l'appiccicamento di un – tà –
che oggi si pretende ch'abbia una speciale σεμνότης e quindi in
molti casi può servire, e mediante un'aria solenne, d'aver con la
formulazione di codeste tre parole fatto più che indicar tre
concetti assai ampi ed astratti, e quindi punto ricchi di contenuto,
i quali hanno ben diversa origine e diverso valore. A quale uomo
invero, cui sian noti gli scritti dei dì nostri, non son venute
finalmente a nausea quelle tre parole, per quanto riferentisi in
origine a sì nobili cose, allor ch'egli ha dovuto mille volte
vedere, come i più inetti all'esercizio del pensare credano che
basti averle emesse, a bocca spalancata e con l'aria d'una pecora
inspirata, per aver rivelato una solenne saggezza?
L'esplicazione del concetto di vero è già data nello scritto sul
principio di ragione, cap. 5, §§ 29 sgg. Il contenuto del concetto
di bello ha per la prima volta trovato la sua giusta illustrazione
in tutto il nostro terzo libro. Ora ricondurremo al suo significato
il concetto di buono, cosa che può farsi con molto poco. Questo
concetto è essenzialmente relativo, e indica la conformità di un
oggetto con una qualsivoglia determinata aspirazione della volontà.
Quindi tutto ciò che conviene alla volontà in qualunque delle sue
manifestazioni, e soddisfa la sua mira, vien pensato sotto il
concetto di buono, per quanta varietà vi possa essere nel rimanente.
Perciò noi diciamo buon cibo, buone strade, tempo buono, buone armi,
buon presagio, etc.: in breve, chiamiamo buono tutto ciò che è come
noi vogliamo che sia; quindi per l'uno può esser buono ciò che per
l'altro è addirittura l'opposto. Il concetto di buono si suddivide
in due sottospecie: quella cioè della soddisfazione immediata e
quella della mediata, vale a dire la soddisfazione della volontà nel
futuro: e sono il piacevole e l'utile. Il concetto opposto viene
espresso con la parola cattivo, e più raramente e astrattamente con
la parola male, che indica così tutto quanto non si confaccia a
ciascuna aspirazione della volontà. Come tutti gli altri esseri, che
posson venire in relazione con la volontà, si son poi detti buoni
anche uomini, ai desiderati fini favorevoli, servizievoli,
amicamente disposti, benefici; buoni adunque nel medesimo senso, e
sempre con la riserva della relatività di codesto senso, quale si
mostra per esempio nella frase: «Costui è buono verso di me, e non
verso di te». Coloro invece, il cui carattere comportava di non
porre ostacolo in genere alle altrui aspirazioni, e costantemente
erano servizievoli, benevoli, amichevoli, benefici, furon chiamati
uomini buoni per cotale relazione della loro condotta con la volontà
degli altri. Il concetto opposto s'indica in tedesco, e da forse
cent'anni anche in francese, riferendosi ad esseri conoscenti
(animali e uomini) con parola diversa da quella usata per gli esseri
privi di conoscenza – ossia la parola böse (malvagio), méchant,
mentre in quasi tutte le altre lingue codesto divario non esiste, e
κακος, malus, cattivo, bad vengono usati sì per gli uomini sì per le
cose inanimate, quando si oppongano ai fini di una determinata,
individuale volontà. Partita adunque in tutto e per tutto dal lato
passivo del buono, l'indagine poteva solo più tardi volgersi
all'attivo, e studiar la condotta dell'uomo chiamato buono non più
in rapporto ad altri, bensì a lui medesimo, proponendosi in
particolar modo la spiegazione sì della stima puramente obiettiva,
che quella condotta visibilmente produceva in altri, sì della
singolar contentezza di sé prodotta in lui stesso; come, al
contrario, dell'intimo dolore, che accompagna la cattiva intenzione,
per quanti vantaggi esteriori produca a chi la nutre. Ora, di qui
ebbero origine i sistemi etici, tanto filosofici quanto religiosi.
Gli uni e gli altri cercan sempre di collegare in qualche modo la
felicità con la virtù; i primi, o in virtù del principio di
contraddizione, o anche in virtù del principio di ragione, ma sempre
sofisticamente; gli ultimi invece affermando l'esistenza d'altri
mondi da quello che può esser conosciuto dall'esperienza55.
Viceversa per l'indagine nostra l'intima essenza della virtù si
rivelerà come una tendenza in direzione affatto opposta a quella che
conduce alla felicità, ossia al benessere e alla vita.
In virtù di quanto fu detto più sopra, il buono è, considerato nel
suo concetto, των προς τι,sia è ogni cosa buona essenzialmente
relativa, avendo la sua essenza sol nel suo rapporto con una volontà
in atto. Bene assoluto è quindi una contraddizione: sommo bene,
summum bonum, significa ancora lo stesso, cioè propriamente il
finale appagarsi della volontà, dopo il quale nessun volere nuovo
subentri: un ultimo motivo, il cui raggiungimento produca una
indistruttibile soddisfazione della volontà. Per le considerazioni
fatte finora in questo quarto libro, un tal bene non si può
concepire. La volontà non può per qualsivoglia appagamento cessar di
ricominciare ognora a volere, più di quanto possa il tempo
cominciare o finire: una durevole soddisfazione, che appaghi appieno
e per sempre la sua sete, non esiste per lei. Ella è la botte delle
Danaidi: non v'ha per lei alcun sommo bene, alcun bene assoluto,
bensì ognora appena un bene provvisorio. Ma se frattanto piacesse
mantenere un posto onorifico a un'antica espressione, la quale per
abitudine non si vorrebbe del tutto sopprimere, come a un
funzionario emerito, allora si potrebbe chiamar bene assoluto,
summum bonum in modo tropico e figurato, la completa soppressione e
negazione della volontà, la vera assenza di volontà, che unica per
sempre placa e sopprime la sete del volere, unica da quella pace la
quale non può più esser turbata, unica ci redime dal mondo. Di lei
tratteremo alla fine di tutta la nostra opera, considerandola come
unico radicale rimedio della malattia, di fronte alla quale tutti
gli altri beni non sono che palliativi anodini. In tal senso il
greco τελος, com'anche il latino finis bonorum, corrisponde ancor
meglio alla verità. E questo basti intorno alle parole buono e
cattivo; veniamo ora al sodo.
Se un uomo, non appena ne abbia l'occasione e nessun potere esterno
lo trattenga, è sempre inclinato a commettere ingiustizia, lo
chiamiamo cattivo. Secondo la nostra spiegazione dell'ingiustizia,
ciò significa che costui non solo afferma la volontà di vivere,
quale essa si manifesta nel suo corpo, ma in codesta affermazione va
tanto oltre, da negare la volontà manifestantesi in altri individui.
Egli pretende con ciò le forze loro pel servigio della volontà
propria, e l'esistenza loro cerca di sopprimere, quando della
volontà di lui essi contrariano le aspirazioni. Di ciò è sorgente
prima un alto grado di egoismo, la cui essenza fu esposta più sopra.
Due cose son qui subito palesi: primo, che in un tale uomo si
esprime una volontà di vivere estremamente impetuosa, oltrepassante
di gran lunga l'affermazione del suo proprio corpo; secondo, che la
conoscenza di lui, tutta presa dal principio di ragione e
prigioniera nel principio individuationis, rimane attaccata alla
distinzione completa messa da quello tra la sua persona e tutte le
altre. Perciò egli cerca solo il benessere proprio, affatto
indifferente a quello di tutti gli altri, il cui essere è a lui del
tutto estraneo, separato dal suo mediante un ampio abisso. Gli altri
vede egli addirittura come larve senza realtà. E codeste due note
sono gli elementi fondamentali del carattere malvagio.
Quella grande vivacità del volere è intanto già in sé e per sé una
perenne fonte di dolore. Dapprima, perché ogni volere, in quanto
tale, deriva dalla privazione, ossia dal dolore (perciò, come il
lettore ricorderà dal terzo libro, il momentaneo tacere della
volontà, che si produce appena noi come puro, privo di volontà
soggetto del conoscere – correlato dell'idea – ci abbandoniamo alla
contemplazione estetica, è già per l'appunto un elemento principale
della gioia provata davanti al bello). In secondo luogo, perché, in
forza della causale concatenazione delle cose, quasi tutte le
aspirazioni rimangono inappagate, e la volontà viene ben più spesso
ostacolata che soddisfatta; sì che, anche per questo, vivace e forte
volere trae sempre con sé vivace e forte soffrire. Imperocché ogni
soffrire non è null'altro se non inappagato e contrariato volere: lo
stesso dolore del corpo, quando questo vien ferito o distrutto, è in
quanto dolore unicamente possibile pel fatto, che il corpo non è se
non la volontà medesima fattasi oggetto. Perciò adunque, poi che
molto e vivo soffrire da molto e vivo volere è inseparabile, già
l'espressione del volto in uomini assai cattivi ha l'impronta
dell'interno dolore. Quand'anche abbiano raggiunto ogni felicità
esteriore, hanno sempre aspetto d'infelici, a meno che non si
trovino in uno stato di giubilo momentaneo o che s'infingano. Da
questo interno tormento, che in loro è proprio direttamente
essenziale, vien prodotta in ultimo perfino quella gioia del male
altrui, non più causata dal semplice egoismo, ma addirittura
disinteressata, che è la malvagità vera e propria, e sale fino alla
crudeltà. Per essa l'altrui dolore non è più un mezzo a ottenere il
conseguimento dei fini della propria volontà, bensì scopo a se
stesso. La precisa spiegazione di questo fenomeno è la seguente.
Essendo l'uomo fenomeno della volontà, illuminato dalla più chiara
conoscenza, paragona sempre l'effettivo, provato appagamento della
sua volontà con quello, solamente possibile, che la conoscenza gli
pone davanti agli occhi. Da ciò nasce l'invidia: ogni privazione
viene infinitamente esasperata dall'altrui godimento, e sollevata
dal sapere che anche altri patiscono la privazione medesima. I mali
a tutti comuni, e dalla umana vita inseparabili, poco ci turbano: e
similmente quelli che al clima, al paese tutto appartengono. Il
ricordo di mali maggiori, che non siano i nostri, placa il dolore di
questi: attenua i nostri la vista dei dolori altrui. Ora, un uomo
preso da un estremo, impetuoso impeto della volontà, con ardente
cupidigia vorrebbe tutto abbracciare per ispegnere la sete
dell'egoismo; ma intanto, com'è fatale, deve sperimentar che ogni
appagamento è illusorio, né il bene conseguito mai corrisponde a
ciò, che il bene desiderato prometteva, ossia definitivo cessare
della rabbiosa sete; perché invece il desiderio con l'appagamento
non fa che mutar di forma, e in forma nuova torturare ancora; anzi
da ultimo, quando tutte le forme sono esaurite, la sete della
volontà pur senza aspirazione consapevole permane, manifestandosi
come insanabile martirio, qual sentimento della più atroce
desolazione e del vuoto universale. Tutto questo, che nei gradi
ordinari della volontà, sentito solamente in più tenue misura,
produce anche solo un grado ordinario di turbamento dell'animo, in
colui, che invece è fenomeno della volontà spinto fino all'aperta
cattiveria, sviluppa necessariamente un'estrema tortura intima,
eterna inquietudine, insanabile dolore. Allora costui cerca in modo
indiretto quel sollievo, che non può raggiungere in modo diretto,
ossia cerca di lenire il male suo con la vista dell'altrui, che egli
in pari tempo vede come una manifestazione della propria forza.
Altrui dolore gli diviene scopo in se stesso, è uno spettacolo nel
quale egli esulta: e così nasce il fenomeno della vera e propria
crudeltà, della sete di sangue, che la storia tanto spesso ci
mostra, nei Neroni, nei Domiziani, nei Robespierre, etc.
Alla malvagità è già affine la sete di vendetta, che il male paga
col male, non per riguardo al futuro, il che costituisce il
carattere della pena, ma solo per il fatto accaduto, passato; quindi
senza vantaggio; non come mezzo, ma come fine, per letiziarsi nel
tormento, da noi stessi inflitto l'offensore. Ciò che distingue la
vendetta dalla pura malvagità, e in qualche po' la scusa, è
un'apparenza di giustizia; in quanto lo stesso atto, che stavolta è
vendetta, quando fosse legale, ossia compiuto secondo una regola
fissa e notoria, e in seno a una collettività, da cui questa fosse
sanzionata, si chiamerebbe pena, cioè diritto. Fuori delle
sofferenze descritte, nate con la malvagità da una stessa radice,
l'eccessiva volontà, e quindi da quella inseparabili, alla malvagità
è ancora associata un'altra sofferenza affatto diversa e
particolare, la quale si fa sensibile ad ogni cattiva azione
commessa, sia poi questa una semplice ingiustizia per egoismo, o
malvagità pura; e secondo il tempo della sua durata si chiama breve
rimorso o duratura angoscia della coscienza. Chi abbia presente
nella memoria quanto si contiene finora in questo quarto libro, e
particolarmente la verità illustrata in principio, che alla volontà
di vivere è assicurata ognora la vita stessa, qual semplice immagine
e specchio di lei – quegli troverà che, conformemente alle
considerazioni fatte, il rimorso non può avere altro significato se
non questo che ora seguirà. Ossia, il suo contenuto, astrattamente
espresso, è il seguente, nel quale si distinguono due parti, che
nondimeno devono da ultimo essere riunite e pensate come affatto
congiunte.
Per quanto fitto sia il velo di Maja che avvolge l'animo del
malvagio, ossia per quanto chiusa sia la prigionia di lui nel
principio individuationis, in virtù del quale egli tiene la propria
persona come distinta assolutamente, e da ogni altra separata
mediante un ampio abisso, la qual cognizione, perché è la sola
conforme al suo egoismo e ne forma il sostegno, egli tien ferma con
tutta forza, essendo quasi sempre la cognizione corrotta dalla
volontà, si agita tuttavia nell'intimo della sua coscienza l'occulta
sensazione, che un siffatto ordine di cose sia nondimeno nient'altro
che fenomeno; e che in sé la cosa sia tutt'altra. Dividano pur tempo
e spazio lui medesimo da altri individui e dai tormenti inenarrabili
ch'essi soffrono, anzi per cagion sua soffrono, e veda egli pur
costoro come affatto stranieri a lui medesimo, tuttavia è l'unica
volontà di vivere che in sé, prescindendo dalla rappresentazione e
dalle sue forme, in essi tutti si palesa; ella è, che se stessa
disconoscendo, contro sé volge le proprie armi; e mentre cerca con
un dei propri fenomeni un maggiore benessere, perciò appunto
infligge a un altro il maggior dolore. E l'uomo malvagio è per
l'appunto codesta volontà tutta intera, sì ch'ei viene a essere non
solo il tormentatore, ma anche il tormentato, dal cui dolore egli è
separato e si crede libero sol mediante un sogno illusorio, che ha
per forma il tempo e lo spazio. Ma il sogno svanisce; ed egli, per
forza della verità, deve il piacere pagare col dolore; tutta la
sofferenza ch'egli conosce solo in quanto possibile, lui colpisce
effettivamente, in quanto egli è volontà di vivere; imperocché sol
per la conoscenza individuale, solo per virtù del principii
individuationis, e non già in sé, sono distinte possibilità e
realtà, lontananza e vicinanza di tempo e di spazio. È questa la
verità, che miticamente, ossia conformata al principio di ragione e
tradotta con ciò nella forma del fenomeno, viene espressa dalla
dottrina della migrazione delle anime: ma la sua espressione più
pura da ogni mescolanza l'ha per l'appunto in quell'angoscia
oscuramente sentita, eppure inconsolabile, che si chiama rimorso. Ma
questo procede inoltre da una seconda, immediata conoscenza, con
quella prima esattamente congiunta: ossia dalla conoscenza del
vigore, con cui nell'individuo malvagio la volontà di vivere si
afferma; vigore che va ben oltre l'individuale fenomeno di lui, fino
alla completa negazione della medesima volontà rivelantesi in altri
individui. Quindi l'interno orrore del malvagio per la sua propria
azione, orrore ch'ei cerca di celare a se stesso, contiene, oltre
quel vago sentimento della nullità e della pura apparenza sì del
principio di ragione sì della distinzione, ch'esso mette tra lui e
gli altri, contiene, dico, in pari tempo anche la cognizione della
violenza della propria volontà, dell'impeto con cui questa ha
ghermito la vita, e l'ha succhiata. Questa vita appunto, di cui egli
vede la faccia orrenda nell'angoscia di chi è da lui oppresso; e con
la quale è nondimeno così strettamente avvinto, che perciò appunto
il più tristo orrore proviene da lui medesimo, qual mezzo per la
compiuta affermazione della sua propria volontà. Egli si riconosce
come concentrato fenomeno della volontà di vivere, sente fino a qual
punto ei sia in potere della vita, e quindi anche degli innumerabili
dolori, che a questa sono essenziali, avendo essa infinito tempo e
infinito spazio per cancellare il divario tra possibilità e realtà,
e tutti i mali da lui per ora sol conosciuti convertire in mali
provati. I milioni d'anni delle continue rinascite sussistono in
verità soltanto nel concetto, come soltanto nel concetto esistono
tutto il passato ed il futuro: il tempo realmente pieno, la forma
del fenomeno della volontà è solo il presente, e per l'individuo è
il tempo ognora nuovo: egli si ritrova sempre come nato allora.
Imperocché dalla volontà di vivere è inseparabile la vita, e sua
unica forma è l'adesso. La morte (mi si scusi la ripetizione del
paragone) somiglia al tramonto del sole, il quale solo in apparenza
viene inghiottito dalla notte, mentre in realtà, esso ch'è sorgente
unica d'ogni luce, senza interruzione arde, a nuovi mondi reca nuovi
giorni, in ogni attimo si leva e in ogni attimo tramonta. Principio
e fine toccano solo all'individuo, per mezzo del tempo, forma del
fenomeno individuale per la rappresentazione. Fuori del tempo non è
che la volontà, la cosa in sé di Kant, e la sua adeguata oggettità,
ossia l'idea di Platone. Perciò non dà il suicidio salvazione di
sorta: ciò che ciascuno nel suo più intimo vuole, ciò deve egli
essere: e ciò che ciascuno è, ciò appunto egli vuole. Quindi accanto
alla cognizione soltanto sentita della pura apparenza e della
nullità delle forme della rappresentazione, per cui vengono distinti
gli individui, gli è l'autocognizione della propria volontà e del
suo grado quella che dà pungolo alla coscienza. Il corso vitale
produce l'immagine del carattere empirico, di cui è originale il
carattere intelligibile, ed il malvagio ha orrore di questa
immagine: sia essa tracciata a grosse linee, sì che il mondo
partecipi al suo proprio orrore, o sia tracciata invece in linee
così sottili, ch'egli solo le veda: che lui unicamente essa immagine
tocca in modo immediato. Il passato sarebbe indifferente, come
semplice fenomeno, e non potrebbe angustiare la coscienza, se il
carattere non si sentisse sciolto da ogni tempo e, attraverso il
tempo, immutabile, finch'esso non abbia rinnegato se medesimo.
Perciò azioni commesse anche da gran pezzo pesano pur sempre sulla
coscienza. La preghiera: «Non m'indurre in tentazione», significa:
«Non lasciarmi vedere che io mi sia». Dalla forza, con cui il
malvagio afferma la vita, e che gli si manifesta nei dolori da lui
inflitti ad altri, egli misura quanto lontane siano da lui appunto
la rinunzia e la negazione di quella volontà, che sono l'unica
redenzione possibile dal mondo e dal suo male. Vede, fino a che
punto egli al mondo appartiene ed è con esso avvinto: il conosciuto
dolore altrui non è giunto a scuoterlo: della vita e del dolore
direttamente provato egli è in pieno potere. Tralasciamo per ora di
vedere, se questa diretta prova infrangerà e vincerà la violenza del
suo volere.
Quest'illustrazione del valore e dell'intima essenza del malvagio,
la qual sol come sentimento, ossia non come chiara, astratta
conoscenza, è il contenuto del rimorso, acquisterà ancor maggior
limpidità e compiutezza mediante l'analisi, condotta nel medesimo
modo, del buono, come proprietà dell'umano volere; e poi, da ultimo,
della rassegnazione e santità, la quale proviene da quella
proprietà, quand'essa ha raggiunto il grado più alto. Imperocché i
contrari s'illuminano sempre vicendevolmente, e il giorno rivela
insieme se medesimo e la notte, secondo ha detto eccellentemente
Spinoza.
§ 66.
Una morale senza fondamento, ossia un semplice moraleggiare, non può
aver effetto, perché non fornisce motivi. Ma una morale che dia
motivi, può farlo solo con l'agire sull'amore di sé. Ed il frutto di
codesto amore non ha alcun valore morale. Ne deriva, che per la via
della morale, e della conoscenza astratta in genere, nessuna genuina
virtù può essere prodotta; bensì questa deve provenire dalla
conoscenza intuitiva, la quale nell'individuo estraneo riconosce
l'essenza medesima che è in noi stessi.
La virtù procede invero dalla conoscenza; ma non dall'astratta,
comunicabile per mezzo di parole. Se così fosse, la si potrebbe
insegnare; e proclamandone qui astrattamente l'essenza, e la
cognizione che alla virtù servisse di fondamento, avremmo migliorato
ognuno che ciò avesse compreso. Ma non è punto così. Con etiche
conferenze o prediche non si fabbrica un virtuoso, più di quanto
tutte le estetiche, a cominciar da quella d'Aristotele, abbian mai
fabbricato un poeta. Che per la vera e propria essenza intima della
virtù il concetto è infruttifero, come per l'arte, e solo in maniera
affatto subordinata può render servigio nell'esecuzione e
conservazione di quanto s'è per altra via conosciuto e deciso. Velle
non discitur. Sulla virtù, ossia sulla bontà dell'animo, non hanno i
dogmi astratti in realtà effetto alcuno: non la turbano i falsi, e
difficilmente la favoriscono i veri. E sarebbe d'altronde gran male,
se la cosa più importante dell'umana vita, il suo valore etico, da
valere per l'eternità, dipendesse da elementi, il cui acquisto è
tanto soggetto al caso, come sono dogmi, religiosi, filosofemi. I
dogmi hanno per la moralità questo semplice valore, che in essi chi
è già virtuoso in virtù d'una diversa conoscenza la quale
spiegheremo, trova uno schema, un formulario, secondo il quale rende
conto, conto il più delle volte immaginario, alla propria ragione
degli atti non egoistici da lui compiuti, dei quali la ragione,
ossia egli medesimo, non comprende l'essenza. E di tal conto egli ha
abituato la ragione a contentarsi.
Forte influenza possono bensì avere i dogmi sulla condotta,
sull'agire esterno; così pure l'abitudine e l'esempio (quest'ultimo,
perché l'uomo comune non fida nel giudizio proprio, di cui conosce
la fiacchezza, bensì segue soltanto la propria o l'altrui
esperienza); ma con ciò non è mutato l'animo56. Ogni conoscenza
astratta non da che motivi: i motivi tuttavia possono, com'è
mostrato più sopra, cambiar solamente l'indirizzo della volontà, e
non la volontà medesima. Ma intanto ogni conoscenza mediata può
sulla volontà agire sol come motivo; perciò, comunque la guidino i
dogmi, nondimeno quel che l'uomo propriamente e genericamente vuole
rimane sempre il medesimo: egli ha solo ricevuto altri pensieri
intorno alle vie, per cui la sua volontà va attuata, e motivi
immaginari lo guidano come i reali. Quindi è per esempio affatto
indifferente, rispetto al suo valore morale, se egli faccia grandi
donazioni a indigenti, persuaso di riavere in una vita futura,
decuplicato, il suo dono, o se impiega quella stessa somma a
migliorare una tenuta che gli frutterà interessi bensì tardivi, ma
perciò appunto più sicuri e considerevoli: – e un assassino, non
meno del bandito, che si guadagna col delitto un compenso, è anche
quegli che ortodossamente consegna l'eretico alle fiamme, o
addirittura, guardato nel suo intimo, anche colui che scanna i
Turchi in Terrasanta, se, come l'altro, ciò propriamente fa perché
crede di guadagnarsi così un posto nel cielo. Imperocché solo a se
stessi, al proprio egoismo, voglion costoro pensare; proprio come
quel bandito, da cui essi si distinguono unicamente per l'assurdità
dei mezzi. Dal di fuori, come abbiam detto, si perviene alla volontà
solo per mezzo di motivi: nondimeno questi mutano esclusivamente il
modo con cui la volontà si manifesta, e non mai la volontà stessa.
Velle non discitur.
Nelle buone azioni, il cui autore si fonda su dogmi, bisogna però
sempre distinguere, se codesti dogmi sono poi veramente il motivo
dell'azione, o se, com'io dicevo poc'anzi, non sono che l'apparente
giustificazione, con cui quegli cerca di appagare la propria ragione
intorno ad una buona azione originata da tutt'altra sorgente,
ch'egli compie perché è buono, ma che non sa sufficientemente
spiegarsi, perché non è filosofo, e pur vorrebbe pensar qualcosa in
proposito. Ma la differenza è assai difficile a scorgere, perché sta
nell'intimo dell'animo. Perciò non possiamo quasi mai rettamente
giudicare il valore morale delle azioni altrui, e raramente delle
nostre. Gli atti e i modi d'agire del singolo, come d'un popolo,
possono da dogmi, esempii e abitudine essere di molto modificati. Ma
in sé son tutte le azioni (opera operata) nient'altro che vuote
immagini, e soltanto l'animo, che a quelle mena, dà loro il valore
morale. E questo può in realtà essere il medesimo, anche sotto ben
diversa apparenza esteriore. Pur possedendo lo stesso grado di
malvagità, che presso un popolo si esprime in grossi tratti, con
l'assassinio e il cannibalismo, e nell'altro invece sottilmente e
delicatamente en miniature con intrighi di corte, oppressioni e
astute manovre d'ogni maniera: l'essenza rimane la stessa. Si
potrebbe immaginare che uno stato perfetto, o addirittura fors'anche
un dogma di ricompense e pene nell'al di là, a cui si prestasse fede
assolutamente piena, impedisse ogni delitto: ora, politicamente
sarebbe questo un gran risultato, ma nullo moralmente; anzi si
sarebbe solo interdetto alla vita di riflettere la volontà.
La genuina bontà dell'animo, la disinteressata virtù e la pura
generosità non provengono adunque da conoscenza astratta, ma bensì
tuttavia da una conoscenza: ossia da una conoscenza immediata ed
intuitiva, che non si può cancellare né eccitare con arzigogoli di
ragione; da una conoscenza, che appunto perché non è astratta, non
si lascia comunicare, ma deve in ognuno nascere spontanea, e che
perciò trova la sua vera, adeguata espressione non già in parole,
bensì esclusivamente in atti, nella condotta, nel corso vitale
dell'uomo. Noi, che qui cerchiamo la teoria della virtù, e quindi
dobbiamo anche esprimere astrattamente l'intimo essere della
conoscenza, che le serve di base, non potremo tuttavia fornire in
tale espressione quella conoscenza in sé, bensì esclusivamente il
suo concetto. Sempre dovremo partire dalla condotta, sol nella quale
essa diviene visibile, e alla condotta riferirci come alla sua sola
espressione adeguata, che noi possiamo appena chiarire e spiegare,
ossia formulando astrattamente ciò che propriamente in lei accade.
Ma prima che noi, in contrasto con la trattazione fatta del
malvagio, veniamo a trattare di ciò ch'è propriamente buono, ci
tocca accennare, come grado intermedio, alla semplice negazione del
malvagio: alla giustizia. Che cosa siano giusto e ingiusto, abbiamo
sufficientemente spiegato: potremo quindi dire ora in breve, che
colui il quale volontariamente riconosce e rispetta quel confine
puramente morale, anche dove nessuno stato o altra forza lo difende,
e perciò, secondo la nostra spiegazione, non arriva mai
nell'affermazione della propria volontà fino a negar quel che si
palesa in un altro individuo – colui è giusto. Non infliggerà dunque
dolori ad altri, per accrescere il suo proprio benessere: ossia non
commetterà nessun crimine, rispetterà i diritti, rispetterà il bene
altrui. E noi vediamo, ora, che per un tale uomo giusto, il
principium individuationis non è già più, come per il malvagio,
un'immobile parete divisoria; vediamo ch'egli non afferma, come il
malvagio, solamente il suo proprio fenomeno di volontà, e tutti gli
altri nega; che gli altri uomini non sono per lui semplici larve, la
cui essenza sia affatto diversa dalla sua. Viceversa con la sua
maniera d'agire dimostra ch'egli la sua propria essenza, ossia la
volontà di vivere, in quanto cosa in sé, riconosce anche nel
fenomeno estraneo, dato a lui esclusivamente come rappresentazione;
ritrova in quello se stesso, fino a un certo grado, il grado del non
commettere ingiustizia, del non ferire. In questo grado appunto egli
penetra di là dal principio individuationis, dal velo di Maja:
considera l'essenza, ch'è fuori di lui, pari, fino a questo segno,
alla propria: non fa ingiuria.
In codesta giustizia, quando la si guardi nel suo intimo, già si
trova il proposito di non andar nell'affermazione della volontà
propria tant'oltre, ch'essa neghi gli estranei fenomeni di volontà,
obbligandoli a servirci. Si vorrà dunque agli altri tanto concedere,
quanto da loro si riceve. Il grado supremo di tale giustizia
dell'animo, che sempre nondimeno già s'accoppia con la bontà vera e
propria, il cui carattere non è più soltanto negativo, arriva fino a
porre in dubbio i propri diritti su di un patrimonio ereditato, a
voler mantenere il corpo sol mediante le forze proprie,
intellettuali o corporali, ad accogliere ogni altrui prestazione di
servigi, ogni lusso come un rimprovero, e ad abbracciare da ultimo
la volontaria povertà. Così vediamo Pascal, quando prese l'indirizzo
ascetico, non poter più sopportare d'essere servito, sebbene avesse
servi a sufficienza; non badando alla permanente cagionevolezza
della sua salute, si rifaceva da sé il letto, toglieva egli stesso
il suo cibo dalla cucina, e così via (Vie de Pascal par sa soeur, p.
19). In piena corrispondenza con ciò si narra che taluni Hindù, e
addirittura dei Rajà, pur possedendo molta ricchezza, questa
impiegano solo nel mantenimento della famiglia, della corte dei
servi, mentr'essi con rigido scrupolo osservano la massima di nulla
mangiare che non abbiano con le lor mani seminato e raccolto. In
fondo a questo è nondimeno un certo malinteso: imperocché il singolo
uomo può, appunto essendo ricco e potente, al complesso dell'umana
società rendere servigi sì considerevoli, da corrispondere
all'ereditata ricchezza, della cui sicurtà egli va debitore allo
Stato. Propriamente quell'eccessiva giustizia di cotali hindù è già
più che giustizia: è reale rinunzia, negazione della volontà di
vivere, ascesi; del che tratteremo da ultimo. Viceversa può il
semplice far niente e il vivere delle forze altrui, con una
proprietà ereditata, senza nulla operare, esser già considerato come
moralmente ingiusto, anche se deve rimaner giusto secondo le leggi
positive.
Abbiamo trovato, che la giustizia volontaria ha la sua più profonda
origine in un certo grado di superamento del principii
individuationis, mentre in questo principio riman sempre del tutto
prigioniero l'uomo ingiusto. Codesto superamento può aver luogo non
soltanto nel grado a ciò richiesto, ma anche in un grado maggiore,
che spinge al benvolere e al benfare attivi, all'amor del prossimo:
e questo può accadere per quanto forte ed energica sia in sé pur la
volontà manifestantesi in tale individuo. Sempre può la conoscenza
tenerlo in equilibrio, insegnargli a resistere alla tentazione
dell'ingiustizia, fino a produrre tutti i gradi della bontà e
addirittura della rassegnazione. Perciò l'uomo buono non va punto
considerato come un fenomeno di volontà, il quale sia dall'origine
più debole dell'uomo cattivo: bensì è la conoscenza, che in lui
governa il cieco impeto della volontà. Vi sono invero individui, che
sembrano buoni sol per la debolezza della volontà in essi
palesantesi: ma quel ch'essi veramente sono appare presto dal fatto,
che sono incapaci d'ogni notevole sforzo su se medesimi per compiere
un'azione giusta o buona.
Se poi ora ci capita, come rara eccezione, un uomo, il quale per
avventura possegga una considerevole rendita, ma di questa poco
prenda per sé, e tutto il rimanente dia ai miseri, mentr'egli
medesimo di molti godimenti e comodi si privi; e se noi cerchiamo di
spiegarci la condotta di quest'uomo; troveremo, prescindendo affatto
dai dogmi ond'egli vuol forse far comprensibile alla propria ragione
il suo agire, essere questa la più semplice, generica espressione, e
questo il carattere essenziale della sua condotta: che egli minor
differenza pone, di quanto solitamente si faccia, tra sé e gli
altri. Se per l'appunto codesta differenza, agli occhi di tanti
altri, è sì grande, che altrui dolore è al malvagio diretta gioia,
all'ingiusto è gradito mezzo per conseguire il benessere proprio; e
se quegli ch'è semplicemente giusto si limita a non causar quel
dolore; e se in genere la maggior parte degli uomini vede e conosce
in sua prossimità innumerabili dolori altrui, ma non si risolve a
mitigarli, perché dovrebbe a tal fine patire a sua volta qualche
privazione; se adunque a ciascuno di cotali uomini sembra che un
forte divario passi tra il proprio io e l'altrui; a quel generoso
invece, che noi immaginammo, non pare quel divario sì considerevole.
Il principium individuationis, la forma del fenomeno, non lo tiene
più così stretto; invece il dolore, ch'ei vede in altri, lo tocca
quasi come il suo proprio: egli cerca perciò di tener tra questo e
quello l'equilibrio, si rifiuta godimenti, si assume privazioni, per
attenuare i mali altrui. Si persuade, che la distinzione tra lui e
gli altri, la quale è per il malvagio un sì grande abisso, è in
realtà prodotta da un effimero, illusorio fenomeno; conosce,
direttamente e senza bisogno di sillogismi, che l'in-sé del suo
proprio fenomeno è pur quel dell'altrui, ossia è quella volontà di
vivere, che costituisce l'essenza d'ogni cosa e in tutto vive;
conosce, anzi, che quest'essenza si estende fino agli animali e alla
natura intera: perciò non tormenterà mai un animale57. Egli è oramai
così poco in grado di lasciar che altri stenti la vita, mentr'egli
possiede financo il superfluo, come a nessuno verrebbe in mente di
soffrire una giornata di fame, per avere il dì seguente più di
quanto possa mangiare. Imperocché a quegli, che pratica le opere
dell'amore, il velo di Maja si è fatto trasparente; da lui è svanita
l'illusione del principii individuationis. Se stesso, il suo io, la
sua volontà egli conosce in ogni essere, e quindi anche in chi
soffre. Da lui è fuggita la stoltezza, con la quale la volontà di
vivere, se medesima disconoscendo, qui gode in un individuo
fuggitivi, finti piaceri, mentre in cambio là soffre e stenta; e
così affanno cagiona ed affanno patisce; senza conoscere che, come
Tieste, la propria carne avido divora, e poi qui geme sopra un
immeritato dolore, là folleggia senza timpr della Nemesi, sempre e
sempre sol perché se stesso disconosce nell'altrui fenomeno, e
quindi non percepisce l'eterna giustizia, essendo prigioniero del
principii individuationis, ossia ognora di quel modo di conoscenza,
che il principio di ragione governa. Esser guarito da questo errore
illusorio del velo di Maja, e praticar le opere dell'amore, è
tutt'uno. Questa pratica è l'immancabile sintomo di quella
guarigione.
Il contrario del rimorso, del quale furon chiariti più sopra
l'origine e il valore, è la buona coscienza, la soddisfazione che
noi proviamo dopo ogni azione, quale viene generata dal diretto
riconoscer la nostra propria essenza in sé anche nell'altrui
fenomeno, dà di rimando a noi la conferma di codesta conoscenza: la
conoscenza, cioè, che il nostro vero io non risiede soltanto nella
persona nostra, la quale è un fenomeno isolato, ma bensì in tutto
quanto ha vita. Da ciò si sente il cuore fatto più ampio, come
viceversa per l'egoismo si sente più stretto. Imperocché, come
l'egoismo concentra la nostra partecipazione nel singolo fenomeno
del nostro individuo, nel quale stato la conoscenza ci tiene ognora
presenti i pericoli innumerevoli, onde questo fenomeno è minacciato,
sì che ansia e preoccupazione divengono il fondo dell'animo nostro,
la conoscenza invece che ogni cosa vivente è per l'appunto la nostra
stessa essenza in sé com'è nostra la nostra persona, estende
viceversa la nostra partecipazione a tutto quanto vive; ed il cuore
ne è allargato. Mediante questo diminuito interesse al nostro io,
l'angosciosa ansia a suo riguardo viene intaccata e limitata nella
radice: di là proviene la tranquilla, fiduciosa letizia, che animo
virtuoso e buona coscienza ci danno; di là viene il loro sempre più
chiaro manifestarsi ad ogni azione buona, perché l'azione buona ci
conferma la verità di quella disposizione. L'egoista si sente
circondato da fenomeni estranei ed ostili, ed ogni sua speranza
poggia sul bene proprio. Il buono vive in un mondo di fenomeni
amici: il bene d'ognuno di questi è il suo bene. Quindi, se pur la
cognizione dell'umano destino universale non può far lieto il suo
animo, nondimeno il saldo riconoscer l'essenza propria in tutto ciò
che vive gli dà un certo equilibrio, e perfino serenità d'animo.
Perché l'interesse diffuso su innumerevoli fenomeni non può
angustiare come l'interesse concentrato sopra uno solo. I casi
accidentali ond'è colta l'universalità degli individui si
compensano, mentre quelli occorrenti a un individuo isolato
apportano felicità o sventura.
Se altri, adunque, potè stabilire principi morali, gabellandoli come
regole di virtù, e leggi da seguirsi per obbligo, non posso invece
io, come ho detto, fornirne di altrettali: perché all'eternamente
libera volontà non ho da prescrivere dovere né legge. Invece,
nell'organismo del mio sistema ciò che in certo modo corrisponde
analogicamente a quel proposito è la verità, puramente teoretica, di
cui è semplice sviluppo il complesso di questa mia esposizione.
Ossia, che la volontà è l'in-sé d'ogni fenomeno, e quindi, come
tale, sciolta dalle forme fenomeniche e dalla pluralità; la qual
verità io, riguardo alla condotta, non so esprimere più degnamente
che con la citata formula del Veda: «Tat tvam asi!» («questo sei
tu!»). Chi sa ripeterla a se stesso con limpida cognizione e ferma,
intima persuasione innanzi a ciascun essere con cui venga in
contatto, è certo con essa di conseguire ogni virtù e beatitudine, e
si trova sulla via diritta che conduce alla redenzione.
Ma, prima che io proceda oltre e mostri, come termine della mia
trattazione, in qual modo l'amore, di cui già conosciamo essere
origine ed essenza il poter guardare di là dal principio
individuationis, conduca alla redenzione, ossia alla cessazione
completa della volontà di vivere, cioè d'ogni volere; ed in qual
modo vi conduca pure un'altra via, meno dolce, eppur più frequente;
deve ancora venir formulato e chiarito un paradosso: non perché sia
tale, ma perché è vero, ed entra nella compiutezza del pensiero
ch'io voglio esporre. Esso è il seguente: «Ogni amore τελος,
caritas) è compassione».
§ 67.
Abbiamo veduto come dall'oltrepassamento del principii
individuationis venisse, nel grado minore, la giustizia, e nel
maggiore la bontà vera e propria dell'animo, la quale ci si mostrò
come puro, ossia disinteressato amore per gli altri. Dove
quest'amore si fa perfetto, rende l'individuo estraneo e il suo
destino affatto pari al nostro: più in là non si può andare, non
essendovi ragione di preferire l'altrui individuo al nostro. Può
nondimeno la massa degli individui estranei, il cui benessere o la
cui vita siano in pericolo, prevalere sui riguardi del bene
individuale. In tal caso il carattere asceso all'altissima bontà e
alla perfetta generosità sacrifica in tutto il suo bene al bene dei
più: così periva Codro, così Leonida, così Regolo, così Decio Mure,
così Arnoldo di Winkelried, così ciascuno, che volontariamente e
consapevolmente per i suoi, per la patria va a morte sicura. Alla
medesima altezza sta chiunque di buon animo affronti dolore e morte
per l'affermazione di ciò che all'umanità intera giova ed a buon
diritto spetta, ossia per verità generali e importanti, e per
l'estirpazione di grossi errori. Così periva Socrate, così Giordano
Bruno, così trovarono tanti eroi della verità la morte sul rogo, tra
le mani dei preti.
Ma riguardo al paradosso più sopra formulato ho da rammentare, che
noi già per l'addietro trovammo essere inerente alla vita, nel suo
complesso, il dolore, e dalla vita inseparabile. Vedemmo pure, come
ogni desiderio nasca da un bisogno, da una mancanza, da una
sofferenza; che quindi ogni appagamento è appena un dolore tolto di
mezzo, e non già un piacere positivo; che le gioie appariscono
menzogneramente al desiderio come un bene positivo, mentre in verità
non sono che negative, quali cessazioni d'un male. Quel che adunque
bontà, amore e nobiltà posson fare per altri, è sempre nient'altro
che lenimento dei loro mali; e quel che per conseguenza può muoverle
alle buone azioni e opere dell'amore, è sempre soltanto la
conoscenza dell'altrui dolore, fatto comprensibile attraverso il
dolore proprio, e messo a pari di questo. Ma da ciò risulta che il
puro amore (αγαπη, caritas) è, per sua natura, compassione, sia pur
grande o piccolo (è tra questi ogni desiderio inappagato) il dolore
ch'esso lenisce. In diretto contrasto con Kant, il quale ogni vera
bontà e ogni virtù ammette come tali sol quando siano originate
dalla riflessione astratta, e precisamente dal concetto del dovere e
dell'imprativo categorico, mentre dichiara debolezza, e non virtù,
la compassione provata, non esiteremo a dire: il puro concetto è per
la virtù genuina tanto infecondo, quanto per la genuina arte: ogni
vero e puro amore è compassione, e ogni amore che non sia
compassione è egoismo. Egoismo è l'ερως; compassione è l'αγαπη). I
due si trovano spesso frammisti. Perfino la vera amicizia è sempre
mescolanza di egoismo e compassione: quello sta nel compiacersi
della presenza dell'amico, la cui individualità corrisponde con la
nostra, e costituisce dell'amicizia quasi sempre la massima parte;
questa invece, la compassione, si manifesta nel partecipar
sinceramente al suo bene e al suo male, e nei sacrifizi
disinteressati che per lui si fanno. Perfino Spinoza dice:
benevolentia nihil aliud est, quam cupiditas ex commiseratione orta.
(Eth., II, pr. 27, cor. 3, schol.). A conferma del nostro paradosso
si può osservare, che accento e parole della lingua, e carezze del
puro amore coincidono in tutto col tono della compassione: e
inoltre, di passata, che in italiano compassione e puro amore
vengono indicati con la stessa parola: pietà.
Qui è pure il luogo di spiegare un'altra delle più sorprendenti
proprietà dell'umana natura, il pianto, il quale, come il riso,
appartiene alle manifestazioni ond'è l'uomo distinto dall'animale.
Il piangere non è punto, senz'altro, espressione del dolore:
imperocché i dolori pei quali si piange sono i meno. Anzi, secondo
me, non si piange mai direttamente per un dolore provato, ma bensì
sempre per il riprodursi di esso nella riflessione. Cioè, dal dolore
provato, pur quand'è corporale, si passa a una pura rappresentazione
di esso, e si trova allora sì compassionevole il proprio stato, che,
se altri fosse a soffrire, siamo fermamente e sinceramente persuasi
che l'aiuteremmo con tutta pietà e amore. Ma intanto siamo noi
stessi l'oggetto di quella nostra sincera pietà: col più
soccorrevole animo sentiamo d'essere proprio noi i bisognosi
d'aiuto; si sente di patir più di quanto potremmo resistere a veder
patire un altro; e in tal situazione singolarmente complessa, in cui
il dolore direttamente sentito ritorna alla percezione sol con un
doppio rigiro, rappresentandocisi come estraneo, come tale
compassionato, e quindi immediatamente ripercepito come nostro, la
natura si da sollievo mediante quella strana convulsione corporea.
Il pianto è adunque pietà di se stesso, ossia pietà che torna
indietro al suo punto di partenza. Perciò esso ha per condizione la
capacità dell'amore e della compassione, e la fantasia; quindi né
uomini duri di cuore né uomini privi di fantasia piangono
facilmente, ed il pianto vien'anzi ognora considerato come segno
d'un certo grado di bontà del carattere, e disarma l'ira, perché si
sente, che chi può ancora piangere, deve per necessità essere anche
capace d'amore, ossia di pietà verso altri; questo essendo che ci
mette, nella maniera descritta, in quella disposizione la quale al
pianto conduce. Affatto conforme a questa spiegazione, è il modo
come Petrarca, esprimendo spontaneo e vero il proprio sentimento,
descrive l'origine delle sue lagrime:
I' vo pensando: e nel pensar m'assale
Una pietà sì forte di me
stesso,
Che mi conduce spesso
Ad alto lagrimar, ch'i' non soleva.
Quanto abbiam detto trova conferma nel fatto che bambini, i quali
abbian patito un dolore, si mettono di solito a piangere solo quando
li si compassiona; ossia non per il dolore, ma per la
rappresentazione di esso. Quando noi non siam mossi al pianto da
nostri, bensì da altrui dolori, ciò accade perché vivacemente ci
mettiamo con la fantasia al posto di chi soffre, oppure nel suo
destino scorgiamo la sorte dell'umanità intera e quindi
principalmente di noi stessi; e così per un ampio giro pur sempre
veniamo a piangere su di noi, di noi abbiam pietà. Questo sembra
anche essere il motivo principale del comune, e quindi naturale,
pianto nei casi di morte. Chi piange un morto non piange ciò che ha
perduto; che si vergognerebbe di lagrime sì egoiste; mentre invece a
volte si vergogna di non piangere. Piange in primo luogo invero la
sorte del defunto: nondimeno piange anche quando in seguito a
lunghe, gravi e insanabili sofferenze la morte è per quegli una
desiderabile liberazione. Principalmente lo stringe adunque
compassione per il destino dell'umanità intera, la quale è in potere
d'un fato di morte, in cui ogni vita per quanto attiva e spesso
ricca d'azioni dovrà spegnersi e ridursi al nulla. E in questo fato
dell'umanità egli vede soprattutto il fato proprio: tanto più,
quanto più vicino era a lui il morto: più che mai, quanto il morto
era suo padre. Fosse pure a quest'ultimo per età e malattia divenuta
un tormento la vita, fosse pure il padre nel suo stato d'impotenza
ridotto un carico grave per il figlio, questi piange pur sempre
vivamente la sua morte: per il motivo che s'è detto58.
§ 68.
Dopo questa digressione sull'identità del puro amore e della pietà,
la quale ultima facendo ritorno a noi medesimi ha per sintomo il
fenomeno del pianto, riprendo il filo della nostra esposizione
riguardante il valore etico della condotta; per venire a mostrare
come dalla sorgente medesima, da cui proviene ogni bontà, amore,
virtù e nobiltà, si origini infine anche quella, ch'io chiamo
negazione della volontà di vivere.
Come vedemmo odio e malvagità aver per condizione l'egoismo, e
questo poggiar sulla conoscenza circoscritta nel principio
individuationis; così trovammo essere origine ed essenza della
giustizia, nonché, salendo più in su, dell'amore e della nobiltà
fino ai gradi più alti, l'oltrepassamento di quel principii
individuationis. Che solo il guardar di là da questo sopprime la
distinzione tra l'individuo nostro e gli altri, e rende possibile e
spiega la perfetta bontà dell'animo, fino al più disinteressato
amore e al più generoso sacrificio di sé.
Ma, dato in alto grado di chiarezza questo superamento del principii
individuationis, data questa diretta cognizione della volontà
identica in tutti i suoi fenomeni, essa eserciterà immediatamente
sulla volontà un influsso procedente ancor più lontano. Se invero
davanti agli occhi d'un uomo quel velo di Maja, che è il principium
individuationis, s'è tanto sollevato, che quest'uomo non ponga più
l'egoistico divario tra la sua persona e l'altrui, bensì agli altrui
dolori tanta parte prenda, quanta ai propri, e quindi non soltanto
sia in altissima misura soccorrevole, ma pronto addirittura a
sacrificar se stesso non appena più individui estranei sian da
salvare col sacrificio suo; allora ne consegue spontaneamente che un
tale uomo, il quale in tutti gli esseri il suo più intimo e più vero
io riconosce, anche gl'infiniti mali d'ogni vivente tiene come suoi,
e così fa suo il dolore del mondo intero. Nessun dolore gli è più
straniero. Tutti gli affanni altrui, ch'egli vede e può sì raramente
lenire; tutti gli affanni, di cui ha notizia indiretta, o che
semplicemente conosce come possibili, agiscono sullo spirito di lui
come i suoi propri. Non è più l'alterno bene e male della sua
persona, quel ch'egli ha in vista, com'è il caso degli uomini ancor
prigionieri dell'egoismo; invece, scorgendo egli di là dal principio
individuationis, tutto gli è ugualmente vicino. Conosce il tutto, ne
comprende l'essenza, e la trova sempre involta in un continuo
perire, in un vano aspirare, in intimo contrasto e in perenne
dolore; vede, dovunque guardi, la sofferente umanità e la sofferente
animalità, e un mondo evanescente. E tutto è a lui così vicino,
com'è vicina all'egoista la sua propria persona. Ora, come
potrebb'egli mai, con tal conoscenza del mondo, questa vita
affermare con continui atti di volontà, e in siffatto modo sé ognora
più strettamente alla vita avvincere, sempre più forte a sé
stringerla? Se adunque colui il quale ancor prigioniero nel
principio individuationis, nell'egoismo, soltanto singole cose
conosce, e il rapporto di esse con la sua persona; e quelle diventan
poi motivi sempre rinnovati del suo volere; viceversa quella
cognizione del tutto, dell'essenza delle cose in sé, diventa un
quietivo della volontà in genere e in particolare. La volontà si
distoglie oramai dalla vita: ha orrore dei suoi piaceri, nei quali
riconosce l'affermazione di quella. L'uomo perviene allo stato della
volontaria rinunzia, della rassegnazione, della vera calma e della
completa soppressione del volere. A noi, che ancora avvolge il velo
di Maja, traluce a momenti, in mezzo a dolori nostri pesantemente
sofferti o a dolori altrui vivacemente percepiti, la conoscenza
della vanità e amarezza della vita, e allora con piena,
definitivamente risoluta rinuncia vorremmo strappare al desiderio il
suo pungolo, a ogni dolore sbarrare il cammino, purificarci e
santificarci; ma tosto ci riafferra nelle sue maglie l'illusione del
fenomeno, e di nuovo i suoi motivi mettono in moto la volontà: né
perveniamo a districarcene. Gli adescamenti della speranza, la
lusinga del presente, la dolcezza dei piaceri, il benessere, ond'è
partecipe la nostra persona in mezzo al travaglio d'un mondo
doloroso, in balìa del caso e dell'errore, ci traggono novellamente
a sé e stringono di nuovo i legami. Perciò dice Gesù: «È più facile
a una gomena passare attraverso una cruna d'ago, che a un ricco
venire nel regno di Dio». Paragoniamo la vita a un'orbita fatta di
carboni ardenti, con pochi spazi freddi, orbita che noi dobbiamo
senza posa percorrere: a chi in quell'orbita è preso da conforto il
piccolo spazio freddo, sul quale per il momento egli si trova, o che
vicino innanzi a sé vede, e continua a percorrere l'orbita. Ma
quegli che, guardando oltre il principium individuationis, conosce
l'essenza delle cose in sé, e quindi il tutto, non è più sensibile a
quel conforto: vede se stesso contemporaneamente su tutta l'orbita,
e ne viene fuori. La sua volontà muta indirizzo, non afferma più la
sua propria essenza, rispecchiantesi nel fenomeno, bensì la rinnega.
Il processo, con cui ciò si manifesta, è il passaggio dalla virtù
all'ascesi. Non basta più a quell'uomo amare altri come se stesso, e
far per essi quanto fa per sé; ma sorge in lui un orrore per
l'essere, di cui è espressione il suo proprio fenomeno, per la
volontà di vivere, per il nocciolo e l'essenza di quel mondo
riconosciuto pieno di dolore. Quest'essenza appunto, in lui medesimo
palesantesi e già espressa mediante il suo corpo, egli rinnega; il
suo agire sbugiarda ora il suo fenomeno, entra con esso in aperto
contrasto. Egli, che non altro è, se non fenomeno della volontà,
cessa di volere, si guarda dall'attaccar la sua volontà a una cosa
qualsiasi, cerca di rinsaldare in se stesso la massima indifferenza
per ogni cosa. Il suo corpo, sano e forte, esprime per mezzo dei
genitali l'istinto sessuale, ma egli rinnega la volontà e sbugiarda
il corpo: non vuole la soddisfazione del sesso, a nessun patto.
Volontaria, perfetta castità è il primo passo nell'ascesi, ovvero
nella negazione della volontà di vivere. Essa rinnega così
l'affermazione della volontà, che va oltre la vita individuale; e
con ciò dà segno che con la vita di questo corpo la volontà, di cui
esso è fenomeno, è soppressa. La natura, sempre vera e ingenua, dice
che, se questa massima diventasse universale, perirebbe il genere
umano: e dopo quanto fu detto nel secondo libro intorno alla
connessione di tutti i fenomeni della volontà, credo di poter
ammettere, che col fenomeno di volontà più alto svanirebbe anche
quel più debole riflesso che è il mondo animale: come in piena luce
svaniscono anche le penombre. Con la piena soppressione della
conoscenza, si perderebbe da sé nel nulla anche il rimanente mondo:
che non v'ha oggetto senza soggetto. A ciò potrei perfino riferire
un passo del Veda, che dice: «Come in questo mondo bambini affamati
si stringono intorno alla madre, così attendono tutti gli esseri il
santo sacrificio» «Asiatic researches», vol. 8: Colebrooke, On the
Vedas, nell'estratto del Sama-veda: si trova anche in Colebrooke,
Miscellaneous Essays, vol. I, p. 88). Sacrificio significa
genericamente rassegnazione, e la residua natura deve attendere la
sua redenzione dall'uomo, ch'è nel medesimo tempo sacerdote e
vittima. E merita d'esser notato come cosa singolarissima, che
questo pensiero fu espresso anche dall'ammirabile e
incommensurabilmente profondo Angelus Silesius, nel versetto
intitolato l'uomo porta tutto a Dio, che suona così:
Uomo! tutto ti ama; a te intorno è gran ressa:
Tutto verso te corre,
per così giungere a Dio59.
Ma un mistico ancor più grande, Meister Eckhard, le cui mirabili
opere sono or finalmente rese accessibili dall'edizione di Franz
Pfeiffer (1857), scrive (ibid., p. 459), proprio nel senso qui
illustrato: «Io confermo ciò con Cristo, che dice: quando vengo
sollevato dalla terra, voglio tutte le cose trarre dietro a me
(Giov., 12, 32). Similmente deve l'uomo buono tutte le cose elevare
a Dio, alla loro origine prima. Questo ci confermano i Maestri, che
tutte le creature sono fatte per la volontà dell'uomo. Questo
verificate in tutte le creature, che una creatura all'altra giova:
al giovenco l'erba, al pesce l'acqua, all'uccello l'aria, alla
bestia selvatica il bosco. E così tutte le creature portano
giovamento all'uomo buono: e l'una creatura nell'altra è portata
dall'uomo buono a Dio». Vuol dire: l'uomo mette a profitto gli
animali in questa vita, per il fine di redimerli in sé e con sé. Mi
sembra che perfino il difficile passo della Bibbia in Romani, 8,
21-24 sia da interpretarsi a questo modo.
Anche nel Buddhismo non mancano espressioni di ciò: per esempio,
quando Buddha, ancora in forma di Bodhisattva, fa sellare un'ultima
volta il suo cavallo, per la fuga dalla paterna residenza verso il
deserto, dice ad esso queste parole: Già lungo tempo tu fosti nella
vita e nella morte: ma ora devi cessar di portare e di trascinare.
Sol questa volta ancora, o Kantakana, portami via di qua, e quando
io avrò conseguita la legge (diventato Buddha), non mi dimenticherò
di te (Foe Koue Ki, traduz. di Abel Rémusat, p. 233).
L'ascesi si rivela inoltre nella volontaria, meditata povertà, che
non sopravviene per accidens, in quanto il patrimonio venga donato
per lenir mali altrui, ma è già scopo a se stessa, serve di
permanente mortificazione della volontà, affinchè l'appagamento dei
desideri e la mollezza della vita non tornino ad eccitar la volontà,
della quale ha concepito orrore la vera conoscenza. Chi è pervenuto
a tal segno, sente ancor sempre, come corpo animato, come concreto
fenomeno di volontà, la disposizione al volere in tutte le sue
forme: ma meditatamente la soffoca, costringendosi a nulla fare di
quanto vorrebbe, e viceversa a tutto fare quanto non vorrebbe, anche
se non abbia altro fine, che quello di servire alla mortificazione
della carne. Poiché egli medesimo rinnega la volontà palesantesi
nella sua persona, non resisterà se altri fa lo stesso, ossia se gli
fa un torto: ogni sofferenza, che a lui venga dall'esterno, sia per
caso, sia per altrui malvagità, è la benvenuta; e così ogni danno,
ogni smacco, ogni offesa. Tutto accoglie gioiosamente, come
occasione di dare a se medesimo la certezza, ch'egli la volontà più
non afferma, bensì lieto prende le parti di ciascun nemico sorto
contro quel fenomeno di volontà, ch'è la sua propria persona. Tale
onta e dolore sopporta quindi con inesauribile pazienza e dolcezza,
paga senza ostentazione il male col bene, e non tollera che il fuoco
dell'ira si risvegli in lui, più che non tolleri il fuoco della
brama. Come mortifica la volontà, così mortifica la sua forma
visibile, l'oggettità di lei: il corpo. Scarsamente lo nutre,
affinchè il suo rigoglioso fiorire e prosperare non torni a far più
viva e forte la volontà, di cui esso è semplice espressione e
specchio. Similmente pratica il digiuno, anzi la macerazione,
l'autoflagellazione, per sempre più uccidere mediante perenne
privazione e sofferenza la volontà, ch'egli conosce ed aborrisce
qual sorgente del proprio doloroso essere come di quello del mondo.
Viene finalmente la morte, a disciogliere questo fenomeno di quella
volontà, la cui essenza qui, già da gran tempo, per libera negazione
di se medesima, fuori del fioco resto che ne appariva in mantener
vita al corpo, era spenta. E la morte, come invocata redenzione, è
altamente ben venuta, e lietamente viene accolta. Con lei non
termina in questo caso, com'è per gli altri, il solo fenomeno; bensì
l'essenza medesima è soppressa, la quale qui ancor soltanto nel
fenomeno, e per suo mezzo, aveva una pallida vita60: ultimo fragile
vincolo, ora anch'esso spezzato. Per quegli, che così finisce, è il
mondo insieme finito.
E ciò, ch'io qui con debole lingua e solo in termini generali ho
descritto, non è per avventura una fiaba filosofica di mia
invenzione, e che solo da oggi duri: no, era invece l'invidiabile
vita di numerosi santi e di belle anime tra i Cristiani, e ancor più
tra gli hindù e i Buddhisti, e pure in altre confessioni. Per quanto
fossero diversi i dogmi impressi nella loro ragione, nell'identica
guisa venne tuttavia ad attuarsi, mediante il modo di vivere,
l'intima, diretta, immediata conoscenza, da cui esclusivamente può
procedere ogni virtù e santità. Imperocché anche qui si mostra il
grande divario tra la conoscenza intuitiva e l'astratta, finora
troppo poco osservato, ma in tutto il nostro sistema così importante
e penetrante in ogni dove. Tra le due conoscenze è un ampio abisso,
attraverso il quale, riguardo alla cognizione dell'essenza del
mondo, la sola filosofia può condurre. Intuitivamente invero, ossia
in concreto, ogni uomo è consapevole di tutte le verità filosofiche:
ma portarle nel suo sapere astratto, nella riflessione, è affare del
filosofo: il quale, oltre a questo, nulla deve, nulla può.
Forse qui adunque per la prima volta, in forma astratta e pura
d'ogni mito, l'intima essenza della santità, negazione di sé, morte
della volontà, ascesi, è formulata come negazione della volontà di
vivere; la quale subentra dopo che la compiuta conoscenza del
proprio essere è divenuta quietivo d'ogni volere. Viceversa l'hanno
direttamente conosciuta ed espressa nella realtà tutti quei santi e
asceti che, pur avendo la stessa intima cognizione, parlavano una
lingua assai diversa, secondo i dogmi che avevano accolti nella loro
ragione, e in virtù dei quali un santo indiano, cristiano, lamaico
devono render diversissimo conto della propria azione; il che è, per
la sostanza, del tutto indifferente. Un santo può esser pieno della
più assurda superstizione, o esser viceversa un filosofo: i due si
equivalgono. Soltanto il suo modo d'agire prova ch'egli è santo:
perché esso, sotto il riguardo morale, non proviene dalla conoscenza
astratta, bensì dall'intuitiva, immediata conoscenza del mondo e
della sua essenza; e da quegli sol per appagamento della sua ragione
viene spiegato con un dogma purchessia. Che il santo sia un
filosofo, è tanto poco necessario, quanto poco necessario che il
filosofo sia un santo: come necessario non è che un uomo bellissimo
sia un grande scultore, o che un grande scultore sia pure un
bell'uomo. Sarebbe d'altronde singolare il pretendere da un
moralista, ch'egli non deva raccomandare se non le virtù da lui
stesso possedute. Rispecchiare astrattamente, universalmente e
limpidamente in concetti l'intera essenza del mondo; e così, quale
immagine riflessa, deporla nei permanenti e ognora disposti concetti
della ragione: questo e non altro è filosofia. Richiamo alla memoria
il passo, citato nel primo libro, di Bacone da Verulamio.
Ma appunto, esclusivamente astratto e generico e quindi freddo è il
modo, ond'io ho più sopra descritta la negazione della volontà di
vivere, ossia la condotta di una bell'anima, di un santo rassegnato,
che faccia volontaria penitenza. Essendo intuitiva e non astratta la
conoscenza, da cui nasce la negazione della volontà, non può trovar
la sua espressione compiuta in concetti astratti, bensì
esclusivamente nell'azione e nella condotta. Quindi, per meglio
comprendere ciò che noi esprimiamo filosoficamente col concetto di
negazione della volontà di vivere, si devono conoscere esempi tolti
all'esperienza e alla realtà. Non li incontreremo di certo
nell'esperienza di tutti i giorni: nam omnia praeclara tam
difficilia quam rara sunt, dice benissimo Spinoza. Se adunque non si
è stati testimoni oculari per una sorte particolarmente benigna,
bisognerà contentarsi di legger le biografie di quegli uomini. La
letteratura indiana, come già possiam vedere dal poco che finora ne
conosciamo in traduzioni, è assai ricca di biografie dei santi, dei
penitenti, detti Samani, Saniassi, e così via. Anche la nota, sebben
tutt'altro che in tutto lodevole, Mythologie des Indous di Mad. de
Polier contiene molti eccellenti esempi di tal genere (specialmente
nel 13° cap. del 2° volume). Né mancano esempi tra i cristiani. Si
leggano le biografie, di solito scritte male, di coloro che or
vengono chiamati anime sante, ora pietisti, quietisti, pii
visionarii, etc. Raccolte di tali biografie si fecero in diverse
epoche, per esempio dal Tersteegen, Vite di anime sante, dal Reiz,
Storia dei Rigenerati; a' nostri giorni si ha una raccolta del
Kanne, che tra molta roba cattiva ne contiene pure alcuna buona, e
specialmente, secondo me, la Vita della beata Sturmin. In modo
particolarissimo va qui ricordata la vita di san Francesco d'Assisi,
vera personificazione dell'ascesi, e modello di tutti i monaci
mendicanti. La vita di lui, descritta dal suo contemporaneo,
alquanto più giovane, e celebre anche come filosofo scolastico, san
Bonaventura, è comparsa recentemente in nuova edizione (Soest,
1847): Vita S. Francisci a S. Bonaventura concinnata, poco dopo
ch'era uscita in Francia una biografia di san Francesco accurata,
ampia, e condotta su tutte le fonti: Histoire de S. Francois
d'Assise, di Chavin de Mallan (1845). Come paralleli orientali di
codesti scritti claustrali abbiamo il libro interessantissimo di
Spence Hardy: Eastern Monachism, an Account of the Order of
Mendicants founded by Gotama Budha (1850). Ci mostra la stessa cosa
in altra veste. E vi si vede, come sia alla cosa indifferente il
prender le mosse da una religione teista o atea. Ma soprattutto
posso raccomandare, come speciale, amplissimo esempio e
illustrazione effettiva dei concetti da me formulati,
l'autobiografia di Madame de Guyon. Conoscere quella bella e grande
anima, il cui ricordo mi riempie ognora d'ammirazione, e render
giustizia all'eccellenza delle sue disposizioni spirituali, pur
facendo riserve sulla superstizione della sua mente, dev'essere per
ogni uomo bennato una gioia, come invece quel libro starà sempre in
cattiva luce presso il comune volgare, ch'è costituito dai più;
perché sempre e dovunque ciascuno può ammirar solo quel ch'è a lui
in certa maniera analogo, e per cui ha una sia pur debole tendenza.
Questo vale sì pel dominio intellettuale e sì nel morale. In un
certo senso, si potrebbe ravvicinare a questi esempi anche la nota
biografia francese di Spinoza, se si adopra come chiave per
penetrarvi la magnifica introduzione a quella molto scadente opera
di lui ch'è il De emendatione intellectus: introduzione, che posso
consigliare come il più efficace mezzo ch'io mi conosca per placare
la tempesta delle passioni. Finalmente, anche il gran Goethe, per
quanto greco egli sia, non ha stimato indegno di sé mostrar questo
bellissimo aspetto dell'umanità nel chiarificante specchio della
poesia, col rappresentarci idealizzata nelle Confessioni di una
bell'anima la vita della signorina Klettenberg; e più tardi, nella
propria autobiografia, diede anche notizia storica di lei; come pure
ci ha raccontato ben due volte la vita di san Filippo Neri. La
storia del mondo tacerà invero sempre, e deve tacere, degli uomini
la cui condotta è la migliore, l'unica soddisfacente illustrazione
di questo punto essenziale della nostra indagine. Perché la materia
della storia del mondo è tutt'altra, anzi è l'opposto: non è il
negare, il rinunciare della volontà di vivere, ma è per l'appunto
l'affermarla, il rilevarsi di lei in individui innumerabili. E
quivi, in codesto affermarsi, apparisce con tutta chiarezza, al
vertice supremo della sua oggettivazione, il suo dissidio interiore;
ponendoci davanti agli occhi ora la prevalenza del singolo mediante
l'intelligenza, ora la violenza della folla mediante la massa, ora
il potere del caso personificato nel destino, ma sempre la caducità
e nullità di tutti i desideri. Ma noi, che non dobbiamo qui seguire
nel tempo il filo dei fenomeni, bensì come filosofi abbiam da
investigare il valore etico delle azioni, e di questo il criterio
unico per misurare quanto è per noi significativo e importante, noi
non tratterrà nessun timore della volgarità e della scipitaggine
raccolte in perpetua maggioranza, dal proclamare che il più alto, il
più importante, il più significativo fenomeno, che il mondo possa
mostrare, non è chi il mondo conquista, ma chi il mondo supera.
Ossia è in verità la silenziosa, inosservata condotta di un uomo, al
quale sia venuta tal conoscenza, che per effetto di lei egli getti
via da sé e rinneghi quell'avida volontà di vivere, che tutto
riempie e in tutto si agita. Solo in lui la volontà apparisce allora
libera: ma la sua condotta diviene opposta alla condotta comune. Per
il filosofo sono adunque sotto questo riguardo incomparabilmente più
istruttive e importanti, quanto riguardo alla significazione del
contenuto, le biografie di santi uomini, per male che sian scritte
di solito, e presentate con un misto di superstizione e di
stoltezza, che non siano Plutarco e Livio.
Alla migliore e più compiuta conoscenza di quel che noi,
nell'astrazione e nell'universalità del nostro modo d'esporre,
chiamiamo negazione della volontà di vivere, molto contribuirà,
inoltre, lo studio delle massime etiche le quali in questo senso
furon date da uomini pieni di cotale spirito. Esse ci mostreranno
insieme, come antica sia la nostra concezione, per quanto nuova
possa essere la sua formula filosofica. Più dappresso a noi sta il
cristianesimo, la cui etica è tutta animata da quello spirito, e non
solo conduce al più alto grado dell'amore verso il prossimo, ma
anche alla rinunzia. Quest'ultima è già ben visibile in germe negli
scritti degli Apostoli, ma tuttavia solo più tardi si sviluppa
appieno e viene explicite enunciata. Troviamo che gli Apostoli
prescrivono: amor del prossimo eguale all'amor di sé; carità, amore
e benevolenza in cambio di odio; pazienza, mitezza, sopportazione
d'ogni possibile offesa senza opporvisi: sobrietà nel cibo per
mortificare il piacere; resistenza all'istinto sessuale, ove sia
possibile, completa. Vediamo qui già i primi gradi dell'ascesi, o
propriamente negazione della volontà. E questa nostra espressione
indica proprio ciò che negli Evangeli si chiama rinnegar se medesimo
e prender su di sé la croce (Math. 16, 24.25; Mare. 8, 34.35; Lue.
9, 23.24; 14, 26.27.33). Quest'indirizzo si sviluppò presto sempre
più, e diede origine ai penitenti, agli anacoreti, al monachismo; il
quale era in sé puro e santo, ma appunto perciò in nulla adatto alla
maggioranza degli uomini, per modo che soltanto finzione e
turpitudine potè venirne: imperocché abusus optimi pessimus. Col
Cristianesimo meglio sviluppato possiam poi vedere quel germe
ascetico aprirsi nel suo pieno fiore, negli scritti dei santi e
mistici cristiani. Costoro predicano, oltre il puro amore, anche
rassegnazione intera, volontaria, assoluta povertà, verace calma,
completa indifferenza riguardo a ogni cosa terrena, morte della
volontà individuale e rinascita in Dio, perfetto oblio della propria
persona e assorbimento nella contemplazione divina. Di ciò si ha una
compiuta esposizione in Fénelon, Explication des maximes des Saints
sur la vie intérieure. Ma forse mai lo spirito del Cristianesimo in
questo suo sviluppo fu espresso con tanta perfezione e vigore come
negli scritti dei mistici tedeschi, e quindi di Meister Eckhard e
nel libro a ragione celebrato Die deutsche Theologie (la teologia
tedesca), di cui Lutero, nella prefazione che vi fece, disse di non
aver da nessun altro libro, eccettuati la Bibbia e sant'Agostino,
imparato meglio che da questo, che cosa siano Dio, Cristo e l'uomo.
Ma il suo testo genuino l'abbiamo avuto solo il 1851, nell'edizione
di Stuttgart curata da Pfeiffer. I precetti e ammaestramenti quivi
impartiti sono la più completa illustrazione, inspirata dalla più
intima e profonda certezza, di ciò ch'io ho presentato come
negazione della volontà di vivere. Colà bisogna quindi imparare a
meglio conoscerla, prima di sdottrineggiarvi su con
ebraico-protestante saccenteria. Scritta nel medesimo, altissimo
spirito, sebbene non tale da mettersi proprio a paro di quell'opera,
è l'Imitazione della povera vita di Cristo (Nachfolgung des armen
Leben Christi) di Tauler, e anche, dello stesso autore, la Medulla
animae. Secondo me gl'insegnamenti di questi genuini spiriti
cristiani sono rispetto a quelli del Nuovo Testamento ciò che
l'alcool è rispetto al vino. Ossia: ciò che nel Nuovo Testamento ci
appare come attraverso velo e nebbia, ci si fa incontro nelle opere
dei Mistici scopertamente, in piena chiarità ed evidenza. E si
potrebbe, per concludere, considerare il Nuovo Testamento come la
prima consacrazione, i Mistici come la seconda σμικρα και μεγαλα
μυοτηρια.
Ma ancor più sviluppato, sotto più aspetti formulato, e più
vivacemente rappresentato che non fosse possibile nella Chiesa
cristiana e nel mondo occidentale, troviamo ciò che noi chiamammo
negazione della volontà di vivere nelle antichissime opere della
lingua sanscrita. Che quella grave considerazione etica della vita
potesse colà raggiungere uno sviluppo ancora più ampio, e più
risoluta espressione, è forse principalmente da attribuire al fatto,
che quivi essa non fu limitata da un elemento a lei del tutto
estraneo, com'è nel Cristianesimo la religione ebraica, alla quale
l'alto fondatore di quello dovè per necessità, parte consapevolmente
e parte forse inconsapevolmente, conformarsi e adattarsi: per modo
che il Cristianesimo risulta di due elementi molto eterogenei, dei
quali io l'elemento ch'è soltanto etico amerei di preferenza, anzi
in modo esclusivo, chiamar cristiano; e vorrei distinguerlo dal
dogmatismo ebraico ch'esso trovò innanzi a sé. Se, come già spesso,
e in particolar modo nell'età presente si è temuto, quell'alta e
redentrice religione dovesse un giorno decadere del tutto, io
troverei di ciò la ragione nel fatto, ch'ella consta non già di un
elemento semplice, bensì di due elementi in origine eterogenei, e
venuti a collegarsi sol per il corso degli eventi. La loro
scomposizione, causata dalla naturale disuguaglianza e dal contrasto
col progredito spirito di quest'età, non mancherebbe di produrne lo
scioglimento; ma in seguito rimarrebbe tuttavia integra la parte
puramente morale, perché questa è indistruttibile. Venendo all'etica
degli hindù, quale noi già ora, per incompiuta che sia la nostra
cognizione di quella letteratura, la troviamo espressa nel modo più
vario e più vivace nei Vedas, nei Puranas, nelle opere poetiche, nei
miti, nelle leggende dei santi indiani, nelle massime e regole di
vita61, vediamo che vi si prescrive: amore del prossimo con piena
rinunzia ad ogni egoismo; amore non limitato al genere umano, ma
estendentesi a ogni cosa viva; carità spinta fino a dare lo stentato
guadagno quotidiano; illimitata pazienza verso tutti gli offensori;
bontà e amore in cambio d'ogni male, per duro che sia; volontaria e
gioiosa tolleranza d'ogni umiliazione; astinenza da ogni nutrizione
animale; completa castità e rinunzia a tutti i piaceri da parte di
chi aspira alla vera santità; donazione d'ogni patrimonio, abbandono
d'ogni domicilio, e di tutti i parenti; profonda, assoluta
solitudine, trascorsa in silenziosa contemplazione, con volontaria
penitenza e terribile, lenta macerazione, per venire alla compiuta
mortificazione della volontà, mortificazione che giunge fino alla
morte volontaria per fame, o con l'esporsi ai coccodrilli, o col
precipitarsi da una sacra vetta dell'Himalaja, o col farsi
seppellire vivi, o col gettarsi sotto le ruote dell'immane carro
recante attorno in processione le immagini degli Dei tra canto,
giubilo e danza delle bajadere. E a codeste regole, la cui origine
risale indietro di quattro millenni, s'informa oggi ancora la vita
di quel popolo, per quanto in molte cose degenerato; taluni le
seguono addirittura fino agli ultimi eccessi62. Ora, quel che sì a
lungo, in un popolo comprendente tanti milioni d'uomini, è stato
praticato, sebbene imponga i più gravi sacrifici, non può essere
un'ubbia inventata a capriccio, ma deve avere il suo fondamento
nell'essenza dell'umanità. A ciò si aggiunga, che non ci si
meraviglierà mai abbastanza della somiglianza uniforme, che si trova
quando si legge la vita di un penitente o santo cristiano, e quella
di un indiano. Con dogmi, costumi e luoghi sì fondamentalmente
diversi, affatto identica è l'aspirazione e l'interna vita di
entrambi. Lo stesso si dica per le loro prescrizioni. Per esempio,
Tauler parla dell'assoluta povertà, che bisogna ricercare, e che
consiste nel disfarsi appieno di tutto ciò da cui potrebbe trarsi un
conforto o una soddisfazione terrena: evidentemente, perché tutto
ciò da sempre nuovo alimento alla volontà, che si mira invece a
spegnere del tutto. Ora, come analogia indiana troviamo nelle regole
del Fo raccomandato al Saniassi, il quale non deve aver domicilio né
proprietà alcuna, di non adagiarsi, per di più, troppo sovente sotto
lo stesso albero, affinchè non abbia a concepire per quest'albero
qualche preferenza o inclinazione. I mistici cristiani e i maestri
della filosofia Vedanta s'incontrano anche nel considerar superflue
tutte le opere esteriori e pratiche religiose, per colui che abbia
raggiunto lo stato perfetto. Tanta concordanza, in tempi e popoli sì
diversi, è una prova di fatto che quivi non si esprime, come
volentieri afferma l'ottimistica insulsaggine, una stramberia e
stoltezza dell'animo, bensì un lato essenziale dell'umana natura, il
quale sol per la sua eccellenza di rado si manifesta. Oramai ho
indicata la fonte, dalla quale si posson direttamente conoscere,
attingendo alla vita stessa, i procedimenti in cui si palesa la
negazione della volontà di vivere. In un certo modo è questo il
punto più importante di tutto il nostro studio: nondimeno io l'ho
esposto tenendomi sempre sulle generali, meglio essendo rimandare a
quelli, i quali ne parlano per diretta esperienza, che non
ingrossare senza bisogno questo libro con l'affievolita ripetizione
di ciò ch'essi hanno detto.
Ma poco altro voglio aggiungere per definire genericamente il loro
stato. Vedemmo più indietro il malvagio, per vivacità del suo
volere, soffrire perenne, divorante intimo affanno, e da ultimo,
quando tutti gli oggetti del volere sono esauriti, placar la
rabbiosa sete dell'egoismo con la vista della pena altrui; quegli
viceversa, in cui s'è affermata la negazione della volontà di
vivere, per quanto povero, scevro di gioia, di privazioni pieno sia
il suo stato visto dal di fuori, è pieno d'intima gioia e di vera
calma celeste. Non sono più l'irrequieto impulso vitale,
l'esuberante gioia, che ha per condizione precedente o successiva un
vivo dolore, quali costituiscono la vita di un uomo amante
dell'esistenza; ma è invece un'incrollabile pace, una profonda
quiete ed intima letizia, uno stato che noi, se ci vien posto
davanti agli occhi o alla fantasia, non possiamo guardare senza
altissimo desiderio, perché tosto lo riconosciamo come l'unico a noi
conveniente, di gran lunga superiore a ogni altra cosa, e verso di
esso il nostro spirito migliore ci spinge col grande sapere aude.
Sentiamo allora come ogni appagamento dei nostri desideri strappato
al mondo è appena simile all'elemosina, che oggi tiene in vita il
mendico perché domani ancor soffra la fame. La rassegnazione
somiglia invece alla proprietà ereditaria, che libera per sempre il
possessore da tutte le angustie.
Ci sovviene il terzo libro, che la gioia estetica del bello consiste
per gran parte nel fatto che noi, entrando nello stato della pura
contemplazione, siamo pel momento liberati da ogni volere, ossia da
tutti i desideri e gli affanni, quasi fossimo sciolti da noi
medesimi; non più individuo dotato d'una conoscenza in servizio del
suo perenne volere, non più correlato dell'oggetto singolo, a cui le
cose divengono motivi; bensì eterno soggetto del conoscere, liberato
dalla volontà, correlato dell'idea. E sappiamo come gl'istanti, in
cui sciolti dal feroce impulso della volontà veniamo quasi a tenerci
sollevati sulla greve aria terrestre, siano i più beati che noi
conosciamo. Da ciò possiam ricavare, come felice debba esser la vita
di un uomo, la cui volontà sia non per fugaci istanti domata, come
accade nel godimento del bello, ma per sempre, e sia anzi spenta del
tutto, eccettuata solamente l'ultima estinguentesi scintilla, che
regge il corpo e con questo si estinguerà. Un siffatto uomo, che
dopo molte amare lotte contro la propria natura, riporta finalmente
piena vittoria, non sopravvive più se non come semplice essenza
conoscente, come limpido specchio del mondo. Nulla più perviene ad
angustiarlo, nulla a scuoterlo: perché tutte le mille fila del
volere, che ci tengono legati al mondo, e di qua e di là in forma di
sete, paura, invidia, ira ci trascinano dilaniandoci, con assiduo
dolore, egli le ha tagliate. Sereno e sorridente egli si volge ora a
guardare le finte immagini del mondo, che un tempo sapevano scuotere
e affliggere anche l'animo suo, ma ora gli stanno innanzi
indifferenti come i pezzi d'una scacchiera a giuoco finito, o come
al mattino i vestiti da maschera smessi e dispersi, le cui parvenze
ci avevano stuzzicati ed eccitati nella notte di carnevale. La vita
e le sue forme ondeggiano oramai davanti a lui come una fuggitiva
visione, o come appare nel dormiveglia un lieve sogno mattutino,
attraverso il quale già traluce la realtà, e che più non perviene ad
illuderci: e appunto come questo sogno svaniscono, senza un brusco
passaggio. Da queste considerazioni possiamo intendere in qual senso
si esprima spesso così M.me de Guyon, verso la fine della sua
autobiografia: «Tutto m'è indifferente; io non posso più nulla
volere: spesso non so, se esisto o non esisto». Mi sia anche
concesso, per esprimere come, dopo la morte della volontà, pur la
morte del corpo (il quale non è che il fenomeno della volontà,
soppressa la quale perde anch'esso ogni significato) non abbia più
nulla d'amaro, e sia anzi la benvenuta –, di trasportar qui le
parole stesse di quella santa penitente, sebbene non siano formulate
con eleganza: «Midi de la gloire; jour où il n'y a plus de nuit; vie
qui ne craint plus la mort, dans la mort même: parce que la mort a
vaincu la mort, et que celui qui a souffert la première mort, ne
goûtera plus la seconde mort» (Vie de M.me de Guyon, vol. Il, p.
13).
Non dobbiamo tuttavia ritenere che, una volta subentrata, attraverso
la conoscenza ridotta a quietivo, la negazione della volontà di
vivere, questa non tentenni mai più, e si possa su lei posare come
su d'una proprietà guadagnata. Invece dev'essere con diuturna
battaglia sempre di nuovo riconquistata. Perché il corpo è la
volontà medesima, ma sol nella forma dell'oggettità, ossia fenomeno
nel mondo quale rappresentazione; quindi, finché il corpo vive,
sussiste ancora nella propria possibilità tutta intera la volontà di
vivere, e tende perennemente a entrar nella realtà, ad ardere di
nuovo in tutto il proprio ardore. Quindi troviamo, che nella vita
dei santi quella descritta calma e beatitudine è come il fiore, che
sorge dalla continua vittoria sulla volontà; il suolo, da cui essa
germoglia, è la permanente battaglia con la volontà di vivere:
imperocché durevole calma non può aver nessuno sulla terra. Perciò
vediamo le narrazioni della vita interna dei santi esser piene di
lotte spirituali, tentazioni, e abbandoni della grazia: ossia
offuscamenti di quel modo di conoscenza, che facendo inefficaci
tutti i motivi doma come universal quietivo tutti i voleri, dà la
pace più profonda e apre la porta della libertà. E vediamo quindi
anche coloro, i quali son giunti alla negazione della volontà,
tenersi con tutti gli sforzi su questo cammino, costringendosi a
rinunzie d'ogni maniera, con una espiante dura regola di vita e con
la ricerca di ciò che loro spiace: tutto per soffocare la volontà
sempre divampante. Da qui vengono infine, poiché essi già conoscono
il pregio della redenzione, la loro cura angosciosa per la
osservazione del bene raggiunto, i loro scrupoli di coscienza per
ogni innocente piacere, e per ogni piccol moto della vanità, che
anche in essi è l'ultima a morire, essendo di tutte le inclinazioni
umane la più tenace, la più attiva e la più stolta. Con la parola
ascesi, già spesso da me usata, io intendo, nel senso più stretto,
il deliberato infrangimento della volontà, mediante l'astensione dal
piacevole e la ricerca dello spiacevole, l'espiazione e la
macerazione spontaneamente scelta, per la continuata mortificazione
della volontà.
Ora, se noi vediamo questa mortificazione praticata da chi già è
giunto alla negazione della volontà, per mantenervisi, è poi il
dolore in genere, quale ci viene inflitto dal destino, una seconda
via (δευτερος πλους) per arrivare a quella negazione. Possiamo anzi
ritenere, che i più solo da questa vi arrivano, e che è il dolore
direttamente provato, non quello semplicemente conosciuto, a
produrre la piena rassegnazione, spesso solamente in prossimità
della morte. Che solo in pochi basta a ciò la semplice conoscenza,
la quale, penetrando oltre il principium individuationis, produce
dapprima la perfetta bontà dell'animo, e finalmente fa riconoscer
come proprii tutti i mali del mondo, per dar luogo alla negazione
della volontà. Anche in colui che a tale stato si avvicina, quasi
sempre le condizioni tollerabili della sua persona, la lusinga
dell'attimo, l'ingannevole richiamo della speranza e l'ognora
offrentesi appagamento della volontà, ossia del piacere, sono un
continuo ostacolo alla negazione della volontà stessa, e una
continua tentazione di riaffermarla: perciò sotto tale riguardo
tutte codeste tentazioni vennero personificate in diavoli. Il più
delle volte deve quindi la volontà venire spezzata da un fortissimo
dolore personale, prima che pervenga a negarsi. Vediamo allora
l'uomo, quando per tutti i gradi della crescente angoscia è giunto,
resistendo con violenza, all'orlo della disperazione,
improvvisamente tornare in sé, sé e il mondo conoscere, mutare tutto
il proprio essere, elevarsi sopra sé stesso e sopra il dolore, e,
come fosse da questo dolore purificato e santificato, in non
attaccabile calma, in beatitudine e sublimità di spirito rinunziare
a tutto quanto prima egli bramava con la massima violenza, e gioioso
accogliere la morte. Questo è il corrusco metallo della negazione
della volontà di vivere, ossia della redenzione, che all'improvviso
balza fuori dalla fiamma purificatrice del dolore. Perfino coloro,
che furono molto malvagi, vediamo talora purificati fino a questo
grado dai più profondi dolori: sono diventati altre persone da quel
che furono, e completamente trasformati. I misfatti prima commessi
non angosciano quindi nemmen più la loro coscienza; tuttavia li
espiano volentieri con la morte, e di buon animo vedono volgersi al
termine il fenomeno di quella volontà, che ora è ad essi straniera
ed oggetto d'orrore. Di questa negazione della volontà prodotta da
grande sventura e nessuna speranza di salvezza, ci ha dato una
limpida e intuitiva rappresentazione, tale ch'io non ne conosco pari
nella poesia, il gran Goethe, nel suo immortale capolavoro, il
Faust, nella storia del dolore di Margherita. Essa è un esempio
perfetto della seconda via, la qual conduce alla negazione della
volontà mediante un personale, terribile dolore da noi stessi
provato; e non, come la prima, mediante la semplice cognizione del
dolore di un mondo intero, che volontariamente si fa dolore proprio.
È vero, che molte tragedie conducono da ultimo il loro eroe pieno
d'impetuosa volontà a questo punto di completa rassegnazione, in cui
di solito si spengono insieme la volontà di vivere ed il suo
fenomeno: ma nessuna rappresentazione, ch'io conosca, mi mette
innanzi agli occhi ciò ch'è essenziale in quel rivolgimento con
tanta limpidità e così puro d'ogni accessorio, come la storia citata
del Faust.
Nella vita reale vediamo quegl'infelici, i quali han da vuotare la
più gran misura di dolore, allorché è tolta loro del tutto ogni
speranza, e in piena lucidità di spirito vanno incontro a una
vergognosa, violenta, spesso tormentosa morte sul patibolo, molto
spesso trasmutarsi nel modo suddetto. Non penseremo davvero, che tra
il carattere loro e quello della maggior parte degli uomini sia
tanta differenza, come dà a credere il loro destino, e invece
attribuiremo quest'ultimo, il più delle volte, alle circostanze: ma
pur tuttavia sono colpevoli, e malvagi in grado considerevole. E
intanto vediamo molti di loro, una volta perduta affatto la
speranza, convertiti come dicemmo. Dimostrano allora una reale bontà
e purezza d'animo, hanno orrore d'ogni atto minimamente malvagio o
privo d'amore; ai loro nemici perdonano, fossero pur questi gli
autori d'una pena che innocentemente essi soffrono, non solo a
parole e forse per ipocrita paura dei giudici dell'al di là, bensì
effettivamente, e con intima gravità; né voglion vendetta alcuna.
Anzi, il soffrire e morire finisce col diventar loro gradito,
imperocché è subentrata la negazione della volontà di vivere;
respingono spesso l'offerta salvezza, volentieri muoiono,
tranquilli, beati. Nell'eccesso del dolore si è loro palesato il
segreto ultimo della vita, che cioè il dolore e la malvagità, la
sofferenza e l'odio, il tormentato e il tormentatore, per quanto
diversi appariscano alla conoscenza, che segue il principio di
ragione, sono in sé tutt'uno, fenomeno di quell'unica volontà di
vivere, che il proprio dissidio con se medesima oggettiva mediante
il principium individuationis: essi hanno appreso a conoscerne in
piena misura le due facce, la malvagità e il dolore, e scorgendone
da ultimo l'identità, entrambe le rigettano da sé, rinnegano la
volontà di vivere. In quali miti e dogmi diano poi conto alla loro
ragione di questa intuitiva e diretta conoscenza, e del proprio
mutamento, è cosa, come osservammo, affatto indifferente.
Testimone di una simile trasformazione morale fu, senza dubbio,
Matthias Claudius, quando scrisse quel singolare saggio che nel
Wandsbecker Boten (parte I, p. 115) si trova sotto il titolo Storia
della conversione di ***, e si chiude così: «Il modo di pensare
dell'uomo può passar da un punto della periferia al punto opposto, e
tornar poi al punto precedente, se le circostanze ve lo spingano. E
tali mutamenti non sono nell'uomo nulla di grande e d'interessante.
Ma quella strana, cattolica, trascendentale trasformazione, per cui
tutto il circolo viene irrevocabilmente lacerato, e tutte le leggi
della psicologia diventan vane e vuote; dove il vestimento è tolto
alla pelle, o almeno rovesciato, e all'uomo sembrano cadere squame
dagli occhi, quella trasformazione è tal cosa che ciascuno, il quale
abbia in qualche modo coscienza del fiato nel suo naso, abbandona
padre e madre, se ha occasion di udire e apprendere alcunché di
sicuro intorno a quest'argomento».
Prossimità della morte e perdita della speranza non sono d'altronde
punto necessarie per codesta purificazione prodotta dal dolore.
Anche senza di quelle può, mediante grande sventura e grande dolore,
la cognizione del contrasto della volontà di vivere con se medesima
prodursi vigorosamente, e fare scorgere il nulla d'ogni aspirazione.
Per questo si videro sovente uomini, i quali avevano menato una vita
assai travagliata nel tumulto delle passioni, re, eroi, cavalieri di
ventura, improvvisamente mutare, darsi alla rassegnazione e alla
penitenza, farsi eremiti e monaci. Quivi vanno comprese tutte le
storie genuine di conversione, ad esempio, anche quella di Raimondo
Lullo, il quale da una bella, a cui aveva lungamente fatto la corte,
invitato finalmente a raggiungerla in camera sua, si vedeva presso
al compimento di tutti i desideri, quand'ella, slacciandosi il
corpetto, gli mostrò il seno orribilmente divorato da un cancro. Da
quest'istante, com'avesse spinto l'occhio nell'inferno, si convertì;
abbandonò la corte del re di Majorca e andò nel deserto, a far
penitenza63.
A questa conversione somiglia molto quella dell'abate Rancé, che io
ho brevemente narrata nel cap. 48 del secondo volume. Se
consideriamo come in entrambi il passaggio avvenisse dal piacere
agli orrori della vita, abbiamo in ciò una spiegazione del fatto
sorprendente, che la nazione più mondana, più allegra, più sensuale
e più leggiera d'Europa, ossia la francese, sia pur quella in cui è
sorto l'ordine monastico di gran lunga più rigido, la Trappa, poi
restaurato dopo la sua decadenza da Rancé, e malgrado rivoluzioni,
evoluzioni ecclesiastiche e propagata incredulità, fino al dì d'oggi
sopravvivente nella sua purezza e terribile severità.
Ma una cognizione della natura del mondo, quale quella più sopra
ricordata, può nondimeno allontanarsi nuovamente dall'uomo, quando
cessi l'occasione che l'ha prodotta; ritorna allora la volontà di
vivere, e con lei il carattere antecedente. Così vediamo l'impetuoso
Benvenuto Cellini, una volta in prigione e altra volta ammalato di
grave malattia, trasmutarsi nel modo suddetto; ma, scomparsi i mali,
tornar nell'antico stato. In genere, poi, la negazione della volontà
non è prodotta dal dolore con la stessa necessità con cui un effetto
è prodotto dalla sua causa; la volontà resta libera. Anzi è proprio
questo l'unico punto, in cui la sua libertà entri direttamente nel
fenomeno; di qui la sorpresa così vivamente espressa dall'Asmus
sulla «conversione trascendentale». Accanto a ogni dolore si può
immaginare una volontà ad esso superiore in forza, e quindi
incoercibile. Così Platone racconta nel Fedone di cotali, che fino
all'istante del loro supplizio banchettano, bevono, godono Afrodite,
fino alla morte affermando la vita, Shakespeare ci pone innanzi nel
cardinale Beaufort64 la terribile fine di uno scellerato, che muore
al colmo della disperazione, non potendo dolore alcuno né morte
infrangere la sua volontà spinta fino alla malvagità più estrema.
Quanto più vivace la volontà, quanto più stridente il fenomeno del
suo contrasto, tanto è più forte il dolore. Un mondo, il quale fosse
fenomeno di una volontà di vivere molto più vivace della presente,
ci mostrerebbe dolore d'altrettanto più grande: sarebbe adunque un
inferno.
Poiché ogni sofferenza, essendo una mortificazione e un richiamo
alla rassegnazione, ha la possibilità d'essere una forza
purificatrice, si spiega con questo che una grande sventura e
profondi dolori già di per sé ispirino un certo rispetto. Ma del
tutto degno di venerazione ci appare colui che soffre, sol
quand'egli, guardando al corso della sua vita come a una catena di
mali, o soffrendo per un grande, insanabile dolore, non s'indugi a
mirar precisamente la concatenazione di circostanze, onde fu
precipitata in doglia la sua vita, e non s'arresti a quel singolo
grande dolore che l'ha colpito: che entro questi limiti la sua
conoscenza seguirebbe ancora il suo principio di ragione e
rimarrebbe attaccata al singolo fenomeno, egli vorrebbe ancor sempre
la vita, purché in condizioni diverse dalle sue; ma invece, dico,
degno di venerazione egli appare veracemente sol quando il suo
sguardo s'è elevato dal particolare all'universale, quando egli il
suo dolore personale considera come esempio del Tutto, e per lui,
diventato ormai geniale sotto il rispetto etico, un caso val quanto
mille; sì che il complesso della vita, visto come essenziale dolore,
lo conduce alla rassegnazione. In questo senso è degna di
venerazione nel Torquato Tasso di Goethe la Principessa, quando si
effonde a narrar come sempre mesta e senza gioia fosse la vita sua e
quella dei suoi, e ciò facendo guarda al dolore universale.
Un carattere molto nobile ce lo immaginiamo sempre con una certa
apparenza di muta tristezza; la quale è tutt'altro che un permanente
cattivo umore per le contrarietà quotidiane (che questo non sarebbe
un tratto nobile, e darebbe a temere malvagità d'animo); bensì è
conscienza, nata da cognizione, della vanità di tutti i beni e del
dolore d'ogni vita, non della propria soltanto. Nondimeno questa
cognizione può esser dapprima destata da mali personalmente
sofferti, soprattutto da un unico grande dolore. Così un'unica,
inappagabile brama ha condotto Petrarca a quella rassegnata mestizia
nel considerar la vita intera, che tanto ci commuove nelle sue
opere: imperocché la Dafne ch'egli inseguiva doveva sfuggire dalle
sue mani, per lasciare a lui, in luogo di se stessa, l'alloro
immortale. Quando la volontà, per un tal grande e irreparabile
diniego del destino, è rotta ad un certo grado, non viene quasi più
null'altro desiderato, e il carattere si mostra dolce, triste,
nobile, rassegnato. Quando infine il dolore non ha più una casa
determinata, ma si estende sul complesso della vita, allora esso è
in certo modo un rientrare in sé, un ritirarsi, un graduale svanire
della volontà. E la visibilità di questa, il corpo, finisce con
l'essere a poco a poco, ma nel più profondo, minata dal dolore; in
ciò l'uomo sente una certa liberazione dai suoi ceppi, un dolce
presentimento della morte annunziantesi insieme col dissolvimento
del corpo e della volontà. Perciò tale dolore s'accompagna con una
segreta gioia, quella, secondo me, che il più malinconico di tutti i
popoli ha chiamato the joy of grief. Tuttavia si trova proprio qui
lo scoglio della sensibilità, sia nella vita, sia nella
rappresentazione poetica di questa: se cioè si soffre sempre, e
sempre ci si lamenta, senza elevarsi alla rassegnazione e
fortificarsi, ci si trova ad aver perduto insieme terra e cielo,
conservando solo una lagrimosa sensibilità. Il soffrire è via di
redenzione, e degno quindi d'alto rispetto solo in quanto prende la
forma della semplice, pura conoscenza; e questa allora, fattasi
quietivo della volontà, produce vera rassegnazione. Sotto tale
riguardo proviamo alla vista di ciascun grande infelice un certo
rispetto, affine a quello che virtù e nobiltà ci inspirano; innanzi
a lui ci sembra un rimprovero la nostra condizione felice. Non
possiamo trattenerci dal considerare ogni dolore, sia nostro che
altrui, come un ravvicinamento, per lo meno possibile, alla virtù e
santità; e considerare invece i piaceri e le soddisfazioni terrene
come un allontanamento da quelle. Ciò arriva al punto, che ogni uomo
il quale patisca una grande sofferenza corporea, o una grave
sofferenza morale; o anche addirittura ogni uomo, che compia col
sudore nel volto e con visibile sfinimento un semplice lavoro fisico
richiedente il massimo sforzo; e tutto ciò sopporti pazientemente e
senza mormorare; quest'uomo, dico, quando lo guardiamo con profonda
attenzione, ci appare come un malato: il quale faccia una cura
dolorosa, ma sopportando di buon animo e addirittura con piacere il
dolore, che da quella gli viene, perché sa che quanto più soffre,
tanto più sarà estirpata la causa del male. Il dolore presente è la
misura della sua guarigione.
Da quanto s'è detto finora apparisce che la negazione della volontà
di vivere, la quale è quel che si chiama rassegnazione completa o
santità, proviene sempre dal quietivo della volontà, ossia dalla
cognizione dell'intimo dissidio a questa inerente, e della sua
essenziale vanità, che si manifestano nei dolori d'ogni essere
vivente. La differenza, che noi indicammo con l'immagine delle due
vie, è questa: se quella cognizione è generata dal dolore
semplicemente conosciuto, con spontanea adozione di esso, mediante
il superamento del principii individuationis; oppure dal dolore
direttamente, personalmente provato. Vera salvezza, redenzione dalla
vita e dal dolore non può essere immaginata senza completa negazione
della volontà. Prima di giungere a quel punto, noi non siamo altro
che quella volontà stessa, il cui fenomeno è un'esistenza
evanescente, è un sempre nullo, vano aspirare, è l'intero doloroso
mondo della rappresentazione, al quale tutti in egual modo
irrevocabilmente appartengono. Imperocché noi vedemmo più sopra, che
alla volontà di vivere è ognor sicura la vita, e sua unica forma
reale è il presente: a cui gli esseri, per quanto nascita e morte
imperino sul fenomeno, mai si sottraggono. Questo esprime il mito
indiano, dicendo: «essi tornano a nascere». Il gran divario etico
dei caratteri ha il significato seguente. Il malvagio è
infinitamente lontano dal raggiungere la conoscenza, da cui si
genera la negazione della volontà, e quindi è effettivamente in
balìa di tutti gli affanni che nella vita appaiono come possibili:
essendo anche la casuale sua presente condizione felice null'altro
se non un fenomeno mediato dal principio individuationis, ossia
un'illusione della Maja, il sogno felice del mendicante. I dolori,
ch'egli nella violenza e nella rabbia della sua sete infligge
altrui, sono la misura dei dolori da lui personalmente provati, che
non pervengono a infrangere la sua volontà e a guidarlo verso la
finale negazione. Ogni vero e puro amore, invece, ed anche ogni
libero senso di giustizia, provengono già dal superamento del
principii individuationis; il qual superamento, quando avvenga con
pieno vigore, ha per effetto la completa santità e redenzione. Il
processo di questa è lo stato di rassegnazione sopra descritto,
l'incrollabile amore, che tale rassegnazione accompagna, e la
suprema letizia nella morte65.
§ 69.
Da questa negazione della volontà di vivere, oramai sufficientemente
esposta nei limiti del nostro studio; negazione, che è l'unico atto
di libertà possibile al fenomeno, e costituisce quindi, come Asmus
la chiama, la metamorfosi trascendentale, nulla si discosta tanto
come l'effettiva soppressione del proprio singolo fenomeno: il
suicidio. Lungi dall'esser negazione della volontà, esso è invece un
atto di forte affermazione della volontà stessa. Imperocché la
negazione ha la sua essenza nell'aborrire non già i mali, bensì i
beni della vita. Il suicida vuole la vita, ed è solo malcontento
delle condizioni che gli sono toccate. Egli non rigetta perciò in
nulla la volontà di vivere, ma soltanto la vita, distruggendone il
singolo fenomeno. Vuole la vita, vuole la libera esistenza ed
affermazione del corpo; ma ciò non gli è consentito dall'intreccio
delle circostanze, e gliene viene un grande dolore. La volontà di
vivere viene a trovarsi in questo singolo fenomeno tanto
compromessa, da non poter più svolgere la propria tendenza. Allora
essa prende una risoluzione conforme alla propria essenza in sé; la
quale sta fuor delle forme del principio di ragione, e tiene quindi
per indifferente ogni isolato fenomeno, essendo ella medesima
intangibile da nascita e da morte, e costituendo l'intimo della vita
di tutte le cose. Quella medesima salda, profonda certezza, la quale
fa sì che noi tutti viviamo senza il continuo terror della morte,
ossia la certezza che alla volontà non verrà mai meno il suo
fenomeno, sorregge anche il gesto del suicida. La volontà di vivere
si palesa dunque altrettanto nel suicidio (Shiva), quanto nel
benessere della propria conservazione (Visnù) e nella voluttà della
generazione (Brahma). Questo è il significato profondo dell'unità
della Trimurti, la quale è tutta in ciascun uomo sebbene ella nel
tempo alzi ora l'una, ora l'altra delle sue tre teste. Come
l'oggetto singolo sta all'idea, così sta il suicidio alla negazione
della volontà: il suicida nega soltanto l'individuo, non la specie.
Già vedemmo che, essendo alla volontà di vivere sicura sempre la
vita, ed essenziale alla vita il dolore, il suicidio o arbitraria
distruzione di un fenomeno isolato è azione in tutto vana e stolta:
che sopprimendo il fenomeno rimane intatta la cosa in sé, come
sussiste l'arcobaleno, per veloci che si succedano le gocce le quali
nell'attimo lo sostengono. Quell'azione è inoltre il capolavoro
della Maja, essendo la più clamorosa espressione del contrasto della
volontà di vivere con se stessa. Come già osservammo, tale contrasto
nei fenomeni più bassi della volontà, nella lotta permanente
combattuta da tutte le manifestazioni delle forze naturali e da
tutti gl'individui organici per la materia, per il tempo e per lo
spazio; e come quel contrasto vedemmo sempre più visibile apparire,
con tremenda evidenza, nei gradi dell'oggettivazione della volontà
man mano più alti; così finalmente raggiunge nel grado supremo, ch'è
l'idea dell'uomo, questo vertice, in cui non soltanto gl'individui
rappresentanti della stessa idea si distruggono l'un l'altro, ma
addirittura l'individuo dichiara guerra a se medesimo. E allora
quella stessa vivacità con cui l'individuo vuole la vita e fa impeto
contro l'oppressore di essa, il dolore, lo riduce a distruggere se
medesimo: sì che la volontà individuale sopprime con un atto
volontario il corpo, il quale è appunto la propria manifestazione
visibile, prima che il dolore infranga la volontà. Appunto perché il
suicida non può cessar di volere, cessa di vivere; e la volontà
s'afferma qui proprio con la soppressione del proprio fenomeno, non
potendosi più altrimenti affermare. Ma poiché precisamente il dolore
a cui il suicida in tal modo si sottrae era quello che avrebbe
potuto, qual mortificazione della volontà, condurlo alla negazione
di se stesso ed alla redenzione, somiglia sotto questo riguardo il
suicida ad un malato, il quale non lasci condurre a termine una
dolorosa operazione che lo guarirebbe radicalmente, e preferisce
tenersi la malattia. Il dolore gli s'accosta, e gli apre la
possibilità di venire alla negazione del volere: ma egli lo respinge
da sé, distruggendo il fenomeno della volontà, il corpo, affinchè la
volontà rimanga intatta. Questa è la ragione, per cui quasi tutte le
etiche, sia filosofiche, sia morali, condannano il suicidio; sebbene
non possano giustificar la condanna se non con strani sofismi. Ma se
mai un uomo potesse venir trattenuto dal suicidio con una semplice
incitazione morale, il senso intimo di codesta vittoria su se stesso
(quali che fossero poi i concetti di cui la sua ragione rivestisse
quel senso) sarebbe il seguente: «Io non voglio sottrarmi al dolore,
affinchè esso possa contribuire a spegnere la volontà di vivere, il
cui fenomeno è sì pieno d'affanno, rafforzando in me la già
balenantemi cognizione dell'essenza del mondo fino a tal segno,
ch'essa diventi un finale quietivo della mia volontà e mi redima per
sempre». È noto che di tanto in tanto si danno casi in cui il
suicidio si estende ai propri figli: il padre uccide i figli, che
egli ama, e poi se medesimo. Riflettiamo che coscienza, religione e
tutti i concetti appresi gli fanno scorgere nel delitto il più grave
misfatto, e nondimeno ei lo commette nell'ora della sua propria
morte, senza poter avere in ciò il minimo motivo egoistico. Il suo
atto si spiega solo pensando, che qui la volontà dell'individuo si
riconosce direttamente nei figli, ma prigioniera tuttavia
dell'errore che scambia il fenomeno con la cosa in sé; e così,
profondamente scossa dalla cognizione del dolore inerente a ogni
vita, ritiene allora di sopprimere col fenomeno l'essenza. Quindi se
stessa ed i figli, nei quali si vede direttamente rivivere, vuol
salvare dall'esistenza e dal suo tormento. Un errore del tutto
analogo a questo sarebbe il pensare che la stessa mèta, a cui si
perviene mediante volontaria castità, possa venir raggiunta con
l'impedire i fini della natura nell'atto del generare, o addirittura
col procurar la morte del neonato, in considerazione
dell'inevitabile dolore della vita, invece di far viceversa il
possibile, perché la vita sia assicurata a ognuno che nella vita
vuole entrare. Imperocché quando esiste volontà di vivere, nessuna
forza può distruggerla, essa che è la sola realtà metafisica, la
cosa in sé; ma unicamente può distruggere il suo fenomeno nello
spazio e nel tempo. La volontà non può venir soppressa che dalla
conoscenza. Perciò unica via di salvazione è che la volontà si
palesi liberamente, per poter conoscere, in questo suo palesarsi, la
propria essenza. Solo quando tale cognizione è raggiunta può la
volontà sopprimere se stessa e quindi anche dar termine al dolore,
che dal fenomeno di lei è inseparabile: ma non vi si perviene invece
con violenza fisica, come sarebbe distruzione del germe, uccisione
del neonato, o suicidio. La natura mette appunto alla luce la
volontà, perché questa nella luce soltanto può trovare la sua
redenzione. Quindi tutti i fini della natura vanno aiutati in ogni
modo, non appena si è decisa ad agire la volontà di vivere, che
della natura è l'intima essenza.
Affatto diversa dal suicidio comune sembra essere una particolar
forma di esso, la quale tuttavia non venne fino ad ora abbastanza
constatata. È la morte per fame, volontariamente scelta dal grado
più alto dell'ascesi. Ma essa fu sempre accompagnata da molta
esaltazione religiosa e addirittura da superstizione, che l'han
fatta poco chiara. Sembra nondimeno, che la completa negazione della
volontà possa raggiungere il punto, in cui vien meno perfino la
volontà occorrente a mantener mediante il cibo la vegetazione del
corpo. Tal maniera di suicidio proviene da tutt'altro che dalla
volontà di vivere: quell'asceta rassegnato appieno cessa di vivere
sol perché ha cessato affatto di volere. Altra forma di morte che
per fame non sarebbe, in questo caso, immaginabile (a meno che non
fosse determinata da una particolare superstizione); perché
l'intendimento di abbreviare la sofferenza sarebbe già in effetti un
grado d'affermazione della volontà. I dogmi, che empiono a quel
penitente la ragione, gli prospettano l'errore, che un essere di
natura superiore gli abbia imposto il digiuno, a cui lo spinge
invece l'intimo impulso. Non recenti esempi di queste morti si
posson trovare nella Breslauer Sammlung von Naturund Medicin
Geschichten, settembre 1719, p. 363; presso Bayle, Nouvelles de la
république des lettres, febbraio 1685, pp. 189 sg.; presso
Zimmermann, Ueber die Einsamkeit, vol. I, p. 182; nella Histoire de
l'Académie des Sciences del 1764 si trova una relazione di Houttuyn;
questa è riprodotta nella Sammlung für praktische Aente, vol. I, p.
69. Relazioni posteriori si trovano nel Journal für praktische
Hilkunde di Hufeland, vol. x, p. 181, e vol. 48, p. 95; anche nella
«Zeitschrift für psychische Aerzte» di Nasse, 1819, fasc. 3, p. 460;
nell'«Edinburgh medicai and surgical Journal», 1809, vol. 5, p. 319.
Nell'anno 1833 tutti i giornali riferirono, che lo storico inglese
dr. Lingard, di gennaio, a Dover, era volontariamente morto di fame;
secondo notizie successive non si trattava di lui, ma di un suo
parente. Nondimeno in queste relazioni cotali individui vengono
generalmente dati come pazzi, e non c'è più modo di stabilire fino a
che punto pazzi fossero veramente. Ma una notizia nuova dello stesso
genere voglio riferire anch'io, dovesse pur servire soltanto a
conservare il ricordo d'un de' più rari esempi di codesta
straordinaria singolarità dell'umana natura. La notizia sembra
appartener proprio ai fatti, tra i quali io vorrei annoverarla, e
sarebbe altrimenti difficile a spiegare. La si trova nel Nurnberger
Korrespondenten del 29 luglio 1813, come segue:
«Si annunzia da Berna, che presso Thurnen in un folto bosco fu
scoperta una capannuccia, e dentro di questa un cadavere maschile
giacente in putrefazione da circa un mese, con abiti che poco danno
a comprendere sulla condizione del loro proprietario. Due camicie
assai fini gli stavano da presso. L'oggetto più importante era una
Bibbia, con fogli bianchi intercalati, i quali in parte erano
scritti di mano del morto. Questi vi segna il giorno della sua
partenza da casa (ma il luogo d'origine non è nominato), poi dice
ch'egli è sospinto dallo spirito di Dio in un deserto, per pregare e
digiunare. Ha già digiunato in viaggio sette giorni, poi ha di nuovo
mangiato. Ma nel suo romitaggio ha ripreso a digiunare, ed indica i
giorni. Ogni giorno è indicato con un trattolino, e ve ne son
cinque; trascorsi i quali, il pellegrino verisimilmente sarà morto.
Si trovò inoltre una lettera a un sacerdote, intorno a una predica
che il morto aveva udita da lui; ma quivi pur mancava l'indirizzo».
Fra questa morte provocata da un estremo dell'ascesi e il comune
suicidio mosso dalla disperazione, potranno essere più gradi
intermedi e forme miste, la qual cosa è difficile a chiarire; ma
l'animo umano ha abissi, tenebre e avvolgimenti, che sono di estrema
difficoltà ad illuminare e dispiegare.
§ 70.
Tutta questa nostra esposizione, oramai compiuta, di ciò ch'io
chiamo negazione della volontà, si potrebbe ritenere inconciliabile
con l'esame, fatto più indietro, della necessità, la quale
appartiene alla motivazione come ad ogni altra forma del principio
di ragione. In virtù di quella necessità i motivi, come tutte le
cause, sono semplicemente cause occasionali, per cui mezzo il
carattere dispiega la propria essenza e la manifesta con la
necessità d'una legge di natura: sì che noi negammo allora
senz'altro la libertà come liberum arbitrium indifferentiae. Ben
lungi dal cancellar qui tutto codesto, vi richiamo la memoria.
Invero la libertà propriamente detta, ossia indipendenza dal
principio di ragione, appartiene soltanto alla volontà come cosa in
sé, e non al suo fenomeno, la cui forma essenziale è sempre il
principio di ragione, l'elemento della necessità. Ma l'unico caso,
in cui quella libertà può direttamente apparire anche nel fenomeno,
è quello, in cui essa al fenomeno mette fine; e poiché nondimeno
allora il semplice fenomeno, in quanto esso è un anello nella catena
delle cause, ossia il corpo animato, continua a sussistere nel
tempo, il quale non contiene che fenomeni, sta allora la volontà, in
codesto fenomeno manifestantesi, in contrasto con lui: poiché ella
nega ciò che esso esprime. Esistono, per esempio, in questo caso,
reali e sani, i genitali; come manifestazione visibile dell'istinto
sessuale; ma tuttavia la volontà non vuol più, anche nel suo più
intimo, nessuna soddisfazione di sensi: ed il corpo tutto non è se
non espressione visibile della volontà di vivere, e tuttavia non
agiscono più i motivi corrispondenti a questa volontà. Anzi, il
dissolvimento del corpo, la fine dell'individuo, e con essa
l'ostacolo maggiore opposto alla volontà naturale, è benvenuta e
invocata. Questa reale contraddizione, proveniente dal diretto
attacco, che la libertà del volere in sé, la quale non conosce
necessità di sorta, muove contro la necessità inerente ai fenomeni
del volere, viene riflessa filosoficamente dalla contraddizione fra
quanto affermammo, per un lato, intorno alla necessaria
determinazione della volontà mediante i motivi, nella misura imposta
dal carattere; e, per l'altro, intorno alla possibile soppressione
completa della volontà, soppressione che toglie forza ai motivi. La
chiave per accordare queste contraddizioni è la seguente: lo stato,
in cui il carattere si trova ad esser sottratto all'impero dei
motivi, non viene direttamente dalla volontà, ma da un mutato modo
di conoscere. Finché non si possiede altra conoscenza, che quella
irretita nel principio individuationis e asservita tutta al
principio di ragione, l'impero dei motivi è irresistibile; ma quando
il principium individuations è superato, e le idee, o anzi l'essenza
delle cose in sé, come volontà unica ovunque, vengon direttamente
conosciute, e da tal conoscenza proviene un general quietivo del
volere, allora perdono ogni possa i singoli motivi, perché il modo
di conoscenza, che ad essi corrisponde, è venuto a offuscarsi, a
scomparire davanti a un modo affatto nuovo. È vero adunque, che un
carattere non può mai mutarsi parzialmente, e deve, con la
conseguenza di una legge di natura, obbedire di volta in volta alla
volontà, di cui è in complesso il fenomeno: ma appunto questo
complesso, il carattere medesimo, può esser tolto via del tutto
dalla sopraddetta trasformazione della conoscenza. Tale soppressione
indica Asmus, come dicemmo, come «cattolica, trascendentale
metamorfosi», e ne stupisce: essa è quel che nella Chiesa cristiana
vien chiamato molto opportunamente la rigenerazione; e la conoscenza
che ne deriva è detta azione della grazia. Appunto perché non si
tratta di un mutamento, ma di una completa soppressione del
carattere, ne viene che, per diversi che fossero prima della
soppressione i caratteri, a cui questa è toccata, essi mostrano in
seguito una grande somiglianza, sebbene ciascuno parli ancora molto
diversamente, secondo i propri concetti e i propri dogmi.
In questo senso non è adunque infondato il vecchio, sempre discusso
e sempre affermato filosofema della libertà del volere; e non è
neppure privo di senso e di valore anche il dogma ecclesiastico
della grazia operante e della rigenerazione. Li vediamo fusi in
unità, il filosofema e il dogma, e possiamo adesso comprendere qual
significato intendesse l'eccelso Malebranche con le parole: La
liberté est un mystère. Aveva ragione. Quel che i mistici cristiani
chiamano azione della grazia e rigenerazione, è per noi l'unica
diretta manifestazione della libertà del volere. Questa si ha quando
la volontà, pervenuta alla cognizione della propria essenza in sé,
riceve da questa un quietivo e appunto perciò è sottratta all'impero
dei motivi, il quale sta nel dominio d'un altro modo di conoscenza,
i cui oggetti sono esclusivamente fenomeni. L'esser possibile la
libertà, manifestantesi in questo modo, è il più alto privilegio
dell'uomo, privilegio che all'animale non sarà mai conceduto, avendo
per condizione la capacità riflessiva della ragione, la quale fa
vedere il complesso della vita, indipendentemente dall'impressione
dell'attimo. L'animale non ha libertà possibile, com'è del resto
addirittura privo della possibilità d'una scelta vera e propria,
ossia riflessa, che ponga termine a un precedente conflitto di
motivi: perché a ciò occorrerebbe che i motivi fossero
rappresentazioni astratte. Quindi con la stessa necessità, con cui
la pietra cade a terra, pianta il famelico lupo i denti nella carne
della selvatica preda, senza possibilità di conoscere ch'egli è
tanto il divorato quanto il divoratore. Necessità è il regno della
natura; libertà è il regno della grazia.
Ora, poiché, come vedemmo, quella autosoppressione della volontà
procede dalla conoscenza, ed ogni conoscenza, in quanto tale, è
indipendente dall'arbitrio; così anche quella negazione del volere,
quell'entrar nella libertà non si può ottenere con deliberato
proposito, bensì viene dal più intimo rapporto del conoscere col
volere nell'uomo. Viene perciò d'un tratto, quasi arrivasse volando.
E questa è la causa per cui fu chiamata dalla Chiesa azione della
grazia: ma come la Chiesa fa inoltre dipender l'azione della grazia
dall'accoglimento della grazia, così anche l'azione del quietivo è
infine un atto di libertà del volere. E poiché in conseguenza di
codesta azione della grazia l'intero essere dell'uomo viene dalle
fondamenta trasformato e convertito, sì ch'egli più nulla vuole di
quanto finora con tanta forza voleva, e quindi è in lui veramente
quasi un uomo nuovo sorto al posto dell'antico, la Chiesa chiamò
rigenerazione quest'effetto della grazia operante. Quel ch'essa
chiama l'uomo naturale, a cui nega ogni capacità di bene, è appunto
la volontà di vivere; la quale va negata, se si vuole aver
redenzione da una esistenza com'è la nostra. Dietro la nostra
esistenza si cela invero qualche altra cosa, che si fa a noi
accessibile sol quando abbiamo rimosso il mondo da noi stessi.
Guardando non agli individui, in conformità del principio di
ragione, bensì all'idea dell'uomo nella sua unità, la religione
cristiana simboleggia la natura, l'affermazione della volontà di
vivere, in Adamo: il peccato di lui, disceso ereditariamente fino a
noi, ossia l'unità nostra con lui nell'idea, unità che si manifesta
nel tempo col vincolo della generazione, ci fa tutti partecipi del
dolore e della morte eterna. E simboleggia invece la grazia, la
negazione della volontà, la redenzione, nel Dio incarnato: il quale,
libero da ogni peccato, ossia da ogni volontà di vivere, non può
come noi provenire dalla più risoluta affermazione della volontà, né
avere come noi un corpo, che in tutto e per tutto è esclusivamente
volontà concreta, fenomeno della volontà; ma invece, generato dalla
pura Vergine, ha solo un corpo apparente. Così almeno pretendono i
doceti, ch'erano certi padri della chiesa molto conseguenti nel loro
pensare. L'insegnò soprattutto Apelle, contro il quale, e contro i
successori suoi, si levò Tertulliano. Ma lo stesso Agostino commenta
quel passo (Rom., 8, 3): «Deus filium suum misit in similitudinem
carnis peccati»; quindi «non enim caro peccati erat, quae non de
carnali delectatione nata erat: sed tamen inerat ei similitudo
carnis peccati, quia mortalis caro erat» (Liber 83 quaestion., qu.
66). Lo stesso Agostino insegna nell'opera, che ha per titolo Opus
imperfectum, I, 47, che nel peccato originale si trova a un tempo
peccato e punizione. Si trova già nei neonati, ma apparisce solo col
loro crescere. Quindi l'origine di questo peccato sta, secondo lui,
nella volontà del peccatore. E il peccatore, dice, fu Adamo, ma in
lui siamo tutti esistiti: Adamo divenne infelice, e tutti divenimmo
infelici con lui. Sicuramente la dottrina del peccato originale
(affermazione della volontà), con quella della redenzione (negazione
della volontà), è la gran verità che forma il nocciolo del
cristianesimo; mentre il rimanente è il più delle volte una veste e
un velo, o un accessorio. Quindi Gesù Cristo va sempre preso in
generale come simbolo, o personificazione, della negazione della
volontà di vivere; e non già individualmente, sia nella sua storia
mitica, com'è negli Evangeli, sia nella storia presumibilmente vera,
che serve a quella di base. Né l'una né l'altra appagherebbe
facilmente appieno. Questo non è che il tramite per salire a quella
concezione: tramite ad uso del popolo, che domanda sempre qualcosa
di materiale. Che poi il Cristianesimo nell'età moderna abbia
dimenticato il suo vero senso, degenerando in uno scipito ottimismo,
è cosa che qui non ci riguarda.
C'è poi un'altra dottrina dell'originario ed evangelico
Cristianesimo, che Agostino, col consenso dei capi della Chiesa,
sostenne contro le stoltezze dei pelagiani; purificarla da errori e
metterla in vigore fu il principale scopo dell'attività di Lutero,
com'egli espressamente dichiara nel suo libro De servo arbitrio. È
la dottrina, che la volontà non sia libera, ma dall'origine soggetta
all'inclinazione del male; che perciò son le sue opere sempre
peccaminose, e non posson mai soddisfare la giustizia; che
finalmente non già le opere, ma la fede sola salva; e codesta fede
non nasce da proposito e da libera volontà; bensì per l'azione della
grazia, senza il nostro concorso, viene a noi quasi giungesse dal di
fuori. Non soltanto i dogmi più sopra riferiti, ma anche
quest'ultimo, genuinamente evangelico, appartengono a quelli, che
oggi una rozza e insulsa concezione rigetta come assurdi, o
nasconde. Soggetta a quel borghesismo intellettuale pelagiano, che è
appunto il razionalismo odierno, codesta concezione, malgrado
Agostino e Lutero, mette fra le anticaglie proprio i dogmi più
intimamente ed essenzialmente cristiani, e invece tien fermo
soltanto e pone in primo luogo il dogma originato e conservato dal
giudaismo, collegato col cristianesimo esclusivamente per la via
della storia.66
Noi viceversa riconosciamo nella dottrina citata la verità
corrispondente appieno al risultato delle nostre osservazioni.
Vediamo cioè, che la genuina virtù e santità dell'animo ha la sua
prima origine non già nel meditato arbitrio (nelle opere), bensì
nella conoscenza (nella fede): proprio secondo noi pure concludemmo,
muovendo dal nostro pensiero centrale. Se conducessero alla
beatitudine le opere, le quali emanano da motivi e da meditato
proposito, sarebbe ognora la virtù null'altro che un sottile,
metodico, lungimirante egoismo: si giri pur la cosa come si vuole.
La fede invece, a cui la Chiesa cristiana promette la beatitudine, è
questa: che, come per il peccato originale del primo uomo siamo del
peccato tutti partecipi, e destinati alla morte e alla perdizione,
tutti saremo egualmente salvati sol per la grazia e perché il divino
propiziatore ha assunto su di sé il nostro immane peccato. Saremo
salvati senz'alcun nostro merito personale; perché ciò che può venir
dall'agire intenzionale (determinato da motivi) dell'individuo,
ossia le opere, non potrebbe esserci di giustificazione mai in
nessun modo e per propria natura, appunto essendo agire
intenzionale, determinato da motivi, opus operatum. In questa fede è
primo principio, che il nostro sia originalmente ed essenzialmente
uno stato di perdizione, dal quale dobbiamo essere redenti. Vien poi
l'altro principio, che noi apparteniamo per essenza al male, e siamo
ad esso così strettamente legati, che le nostre opere, fatte secondo
legge e secondo prescrizione, ossia secondo motivi, né possono
soddisfare la giustizia, né salvarci. La redenzione s'acquista
soltanto con la fede, ossia mediante un mutato modo di conoscenza; e
questa fede non può venire che dalla grazia, cioè dal di fuori: ciò
vuol dire che la salvazione è alcunché d'affatto estraneo alla
nostra persona, e indica come necessario per quella salvazione
appunto il negare, il sopprimere la persona stessa. Le opere,
adempimento della legge in quanto tale, non posson mai giustificare,
perché sono sempre un agire per effetto di motivi. Lutero vuole (nel
libro De libertate christiana) che, una volta penetrata la fede, le
buone opere ne emanino spontanee, come sintomi, come frutti di lei:
non già pretendendo d'avere in sé diritto a merito, giustificazione,
o ricompensa, ma producentisi invece affatto spontaneamente e
disinteressatamente. Così anche noi facemmo sorgere, dalla
penetrazione sempre più limpida che va oltre il principium
individuationis, dapprima la semplice libera giustizia, poi l'amore,
fino alla completa soppressione dell'egoismo, e finalmente la
rassegnazione, o negazione della volontà.
Questi dogmi della religione cristiana, che sono in sé estranei alla
filosofia, li ho qui introdotti per mostrare, che l'etica risultante
da tutto il nostro sistema, e accordantesi e connettentesi in tutto
con le varie parti di esso, non è punto nuova e inaudita nella
sostanza, se pur tale può parere nella sua formulazione. Essa
coincide invece appieno coi veri dogmi cristiani, ed ora anzi già in
essi, sostanzialmente, contenuta e presente; così come in tutta
precisione coincide con le dottrine e le prescrizioni morali,
sebbene presentate anch'esse in tutt'altra forma, dei libri sacri
indiani. Inoltre il richiamo ai dogmi della Chiesa cristiana servì a
illustrare e dirimere il contrasto apparente tra la necessità di
tutte le manifestazioni del carattere in seguito a dati motivi
(regno della natura) da una parte, e dall'altra la libertà, che
possiede la volontà in sé, di negare se medesima e sopprimere il
carattere, con tutta la necessità dei motivi che su di esso si fonda
(regno della grazia).
§ 71.
Dando qui termine ai fondamenti dell'etica, e con essi all'intero
sviluppo di quell'unico pensiero, ch'io mi proponevo di comunicare,
non voglio punto tener celato un rimprovero che tocca quest'ultima
parte della trattazione; intendo anzi mostrare, ch'esso è inerente
alla sostanza della cosa, e sarebbe del tutto impossibile
rimuoverlo. Eccolo: giunta la nostra indagine al punto da farci
vedere nella perfetta santità la negazione e l'abbandono d'ogni
volere, e quindi la redenzione da un mondo, la cui essenza intera ci
si presentò come dolore, tale condizione ci appare come un passare
al vuoto nulla.
A questo proposito devo in primo luogo osservare, che il concetto
del nulla è essenzialmente relativo, e si riferisce sempre ad
alcunché di determinato, ch'esso nega. Codesta relatività fu
attribuita (specie da Kant) soltanto al nihil privativum, indicato
col segno – in opposizione al segno +; il qual segno –, capovolgendo
il punto di vista, poteva diventare +; e in contrasto con quel nihil
privativum, si stabilì un nihil negativum, che fosse il nulla sotto
tutti i rapporti, per esempio, del quale si cita la contraddizione
logica, distruggente se stessa. Ma, guardando più da vicino, un
nulla assoluto, un vero e proprio nihil negativum non si può neppure
immaginare: ogni nihil negativum, guardato più dall'alto o sussunto
ad un più ampio concetto, rimane pur sempre un nihil privativum.
Ciascun nulla è pensato come tale solo in rapporto a qualche cosa, e
presuppone codesto rapporto, ossia quella cosa. Perfino una
contraddizione logica è un nulla relativo. Non è un pensiero della
ragione: ma non perciò è un nulla assoluto. Imperocché essa è
un'accozzaglia di parole, è un esempio del non pensabile, di cui
nella logica si ha bisogno per mostrar le leggi del pensare: quindi,
allorché si ricorre con quel fine a un esempio siffatto, si bada
all'insensato, che è la cosa positiva di cui si va in cerca,
trascurando il sensato, come negativo. Così adunque ogni nihil
negativum, o nulla assoluto, quando venga subordinato a un concetto
più alto, apparirà sempre qual semplice nihil privativum, o nulla
relativo, che può sempre scambiare il suo segno con ciò ch'esso
nega, sì che questo diventi a sua volta negazione, ed esso viceversa
diventi posizione. Con noi s'accorda anche il risultato della
difficile indagine dialettica intorno al nulla, che Platone
istituisce nel Sofista (pp. 277-287, ed. Bip.): Την του έτερου φυσιν
αποδειξαντες ουσαν τε, και κατακεκερματισμεηνη ετι παντα τα οντα
προς αλληλα, το προς το ον έκαστου μοριον αυτης αντιτιθεμενον.
Ετολμησαμεν ειπειν, ώς αυτο τουτο εστιν αυτως το μη ον (Cum enim
ostenderemus, alterius ipsius naturam esse, perque omnia entia
divisam atque dispersam invicem; tunc partem ejus oppositam ei, quod
cujusque ens est, esse ipsum revera non ens asseruimus).
Ciò ch'è universalmente ammesso come positivo, che noi chiamiamo
l'ente, e la cui negazione è espressa dal concetto del nulla nel suo
significato più universale, è appunto il mondo della
rappresentazione, che io ho indicato come oggettità, specchio della
volontà. E questa volontà e questo mondo sono poi anche noi stessi,
e al mondo appartiene la rappresentazione in genere, come una delle
sue facce: forma di tale rappresentazione sono spazio e tempo,
quindi ogni cosa, che sotto questo riguardo esista, dev'esser posta
in qualche luogo e in qualche tempo. Negazione, soppressione,
rivolgimento della volontà è anche soppressione e dileguamento del
mondo, ch'è specchio di quella. Se non vediamo più la volontà in
codesto specchio, invano ci domanderemo dove si sia rivolta; e
lamentiamo allora ch'ella non abbia più né dove né quando, e sia
svanita nel nulla.
Un punto di vista invertito, qualora fosse possibile per noi,
scambierebbe i segni, mostrando come il nulla ciò che per noi è
l'ente, e quel nulla come l'ente. Ma, finché noi medesimi siamo la
volontà di vivere, il nulla può esser conosciuto da noi solo
negativamente, perché l'antico principio d'Empedocle, potere il
simile esser conosciuto soltanto dal simile, ci toglie qui ogni
possibilità di conoscenza; come viceversa poggia su quel principio
la possibilità di tutta la nostra conoscenza reale, ossia il mondo
come rappresentazione, o l'oggettità della volontà. Imperocché il
mondo è l'autocognizione della volontà.
Quando si volesse tuttavia insistere nel pretendere in qualche modo
una cognizione positiva di ciò, che la filosofia può esprimere solo
negativamente, come negazione della volontà, non potremmo far altro
che richiamarci allo stato di cui fecero esperienza tutti coloro, i
quali pervennero alla completa negazione della volontà; stato al
quale si son dati i nomi di estasi, rapimento, illuminazione, unione
con Dio, e così via. Ma tale stato non può chiamarsi cognizione vera
e propria, perché non ha più la forma del soggetto e dell'oggetto, e
inoltre è accessibile solo all'esperienza diretta, né può essere
comunicato altrui.
Noi, che restiamo fermi sul terreno della filosofia, dobbiamo qui
contentarci della conoscenza negativa, paghi d'aver raggiunto il
limite estremo della positiva. Avendo riconosciuto nella volontà
l'essenza in sé del mondo, e in tutti i fenomeni del mondo
null'altro che l'oggettità di lei; avendo quest'oggettità perseguito
dall'inconsapevole impulso delle oscure forze naturali fino alle più
lucide azioni umane, non vogliamo punto sfuggire alla conseguenza:
che con la libera negazione, con la soppressione della volontà,
vengono anche soppressi tutti quei fenomeni e quel perenne premere e
spingere senza mèta e senza posa, per tutti i gradi dell'oggettità,
nel quale e mediante il quale il mondo consiste; soppressa la
varietà delle forme succedentisi di grado in grado, soppresso, con
la volontà, tutto intero il suo fenomeno; poi finalmente anche le
forme universali di quello, tempo e spazio; e da ultimo ancora la
più semplice forma fondamentale di esso, soggetto e oggetto. Non più
volontà: non più rappresentazione, non più mondo.
Davanti a noi non resta invero che il nulla. Ma quel che si ribella
contro codesto dissolvimento nel nulla, la nostra natura, è
anch'essa nient'altro che la volontà di vivere. Volontà di vivere
siamo noi stessi, volontà di vivere è il nostro mondo. L'aver noi
tanto orrore del nulla, non è se non un'altra manifestazione del
come avidamente vogliamo la vita, e niente siamo se non questa
volontà, e niente conosciamo se non lei. Ma rivolgiamo lo sguardo
dalla nostra personale miseria e dal chiuso orizzonte verso coloro,
che superarono il mondo; coloro, in cui la volontà, giunta alla
piena conoscenza di sé, se medesima ritrovò in tutte le cose e
quindi liberamente si rinnegò; coloro, che attendono di vedere
svanire ancor solamente l'ultima traccia della volontà col corpo,
cui ella dà vita. Allora, in luogo dell'incessante, agitato impulso;
in luogo del perenne passar dal desiderio al timore e dalla gioia al
dolore; in luogo della speranza mai appagata e mai spenta, ond'è
formato il sogno di vita d'ogni uomo ancor volente: ci appare quella
pace che sta più in alto di tutta la ragione, quell'assoluta quiete
dell'animo pari alla calma del mare, quel profondo riposo,
incrollabile fiducia e letizia, il cui semplice riflesso nel volto,
come l'hanno rappresentato Raffaello e Correggio, è un completo e
certo Vangelo. La conoscenza sola è rimasta, la volontà è svanita. E
noi guardiamo con profonda e dolorosa nostalgia a quello stato,
vicino al quale apparisce in piena luce, per contrasto, la miseria e
la perdizione del nostro. Eppur quella vista è la sola, che ci possa
durevolmente consolare, quando noi da un lato abbiam riconosciuto
essere insanabile dolore ed infinito affanno inerenti al fenomeno
della volontà, al mondo; e dall'altro vediamo con la soppressione
della volontà dissolversi il mondo, e soltanto il vacuo nulla
rimanere innanzi a noi. In tal guisa adunque, considerando la vita e
la condotta dei santi, che raramente ci è concesso invero
d'incontrar nella nostra personale esperienza, ma che dalle loro
biografie e, col suggello dell'interna verità, dall'arte ci son
posti sotto gli occhi, dobbiamo discacciare la sinistra impressione
di quel nulla, che ondeggia come ultimo termine in fondo a ogni
virtù e santità e di cui noi abbiamo paura, come della tenebra i
bambini. Discacciarla, quell'impressione, invece d'ammantare il
nulla, come fanno gl'Indiani, in miti e in parole prive di senso,
come sarebbero l'assorbimento in Brahma o il Nirvana dei Buddhisti.
Noi vogliamo piuttosto liberamente dichiarare: quel che rimane dopo
la soppressione completa della volontà è invero, per tutti coloro
che della volontà ancora son pieni, il nulla. Ma viceversa per gli
altri, in cui la volontà si è rivolta da se stessa e rinnegata,
questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue
vie lattee, è – il nulla.