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Arthur Schopenhauer
Il mondo come volontà
e rappresentazione
Tomo I
Indice generale
PROEMIO ALLA PRIMA EDIZIONE
LIBRO PRIMO
IL MONDO COME RAPPRESENTAZIONE
PRIMA CONSIDERAZIONE
Rappresentazione sottomessa al principio della ragione: l'oggetto
dell'esperienza e della scienza.
LIBRO SECONDO
IL MONDO COME VOLONTÀ
PRIMA CONSIDERAZIONE
L'obiettivazione del volere.
PROEMIO ALLA PRIMA EDIZIONE
Mi sono qui proposto d'indicare come sia da leggere questo libro,
perché si riesca possibilmente a capirlo. Quel che per suo mezzo
dev'esser comunicato, è un unico pensiero. Eppure, malgrado ogni
sforzo, non ho potuto trovare per comunicarlo nessuna via più breve
che questo libro intero. Io considero quel pensiero come ciò, che
per sì gran tempo s'è cercato sotto il nome di Filosofia, e la cui
scoperta sembra quindi ai dotti in istoria altrettanto impossibile
quanto quella della pietra filosofale, sebbene loro già dicesse
Plinio: Quam multa fieri non posse, priusquam sint facta,
judicantur? (Hist, nat., 7, 1).
Secondo l'aspetto da cui si considera quell'unico pensiero ch'io ho
a comunicare, esso si mostra come ciò che s'è chiamato Metafisica, o
Etica, o Estetica: e invero dovrebbe essere tutto codesto insieme,
se fosse quel ch'io, come ho già affermato, ritengo che sia.
Un sistema di pensieri deve sempre avere un organismo
architettonico, ossia tale, che sempre una parte sostenga l'altra,
ma non questa anche sostenga quella: la pietra fondamentale sostiene
tutte le parti, senza venir da esse sostenuta; il vertice è
sorretto, senza sorreggere. Invece un pensiero unico deve, per
quanto comprensivo esso sia, conservare la più perfetta unità. Si
lasci pure, per il fine della propria comunicabilità, scomporre in
parti: ma tuttavia deve la concatenazione di queste parti essere
organica, ossia tale, che ogni parte altrettanto regga il tutto,
quando viene retta dal tutto; nessuna è la prima e nessuna è
l'ultima; l'intero pensiero guadagna in chiarezza mediante ogni sua
parte, ed anche la più piccola particella non può venir compresa
appieno, se già prima non è stato compreso l'insieme. Ma un libro
deve intanto avere un primo ed un ultimo rigo, e per questo rimarrà
sempre molto dissimile da un organismo, per quanto si mantenga
somigliante a questo il suo contenuto: di conseguenza staranno qui
in contrasto forma e contenuto.
Risulta da sé che, in tali circostanze, non v'ha altro consiglio,
per vedere a fondo nel pensiero qui esposto, se non leggere il libro
due volte, e a dir vero la prima volta con molta pazienza; la quale
si può attingere soltanto dalla spontanea fiducia che il principio
presupponga la fine, quasi altrettanto come la fine il principio; e
così ogni parte che sta innanzi presupponga quella che segue, quasi
altrettanto come questa quella. Io dico «quasi»: perché non è così
in tutto e per tutto; e quanto era possibile di fare, per mettere
innanzi ciò che meno richiede d'esser chiarito dal seguito, come del
resto quanto poteva contribuire alla più facile comprensibilità e
chiarezza possibile, è stato fatto onestamente e coscienziosamente.
Anzi, questo sarebbe fino a un certo punto riuscito, se il lettore,
ciò che è molto naturale, invece di fermarsi solo a quel che è detto
di volta in volta, non pensasse anche alle deduzioni possibili:
dalla qual cosa, oltre ai molti contrasti effettivamente esistenti
con l'opinione dell'epoca e presumibilmente del lettore medesimo,
tanti altri ancora possono sorgere anticipati ed arbitrari, che per
conseguenza deve presentarsi come vivace disapprovazione ciò che
ancora è semplice malinteso. Ma tanto meno si riconosce il
malinteso, quando la limpidezza faticosamente raggiunta
dell'esposizione e la chiarezza dell'espressione non lasciano forse
mai in dubbio sul senso immediato d'ogni luogo del testo; sebbene
non possano simultaneamente esprimere i suoi rapporti con tutto il
complesso dell'opera. Perciò adunque richiede la prima lettura, come
ho avvertito, una pazienza attinta alla fiducia, che nella seconda o
molto o tutto sarà visto in ben altra luce. Inoltre il meditato
sforzo di raggiungere una più piena e perfino più agevole
comprensibilità in un argomento molto difficile dev'esser di scusa
se qua e là si trova una ripetizione. Già la struttura del
complesso, organica e non disposta a mo' di catena, ha reso
necessario il toccar talora due volte lo stesso argomento. Appunto
questa struttura, e la strettissima coerenza di tutte le parti, non
ha consentito la divisione, d'altro canto per me così apprezzabile,
in capitoli e paragrafi; e invece m'ha obbligato a contentarmi di
quattro partizioni capitali, come a dire quattro aspetti dell'unico
pensiero. In ciascuno di questi quattro libri bisogna specialmente
guardarsi dal perdere di vista, disopra dai punti particolari de'
quali per necessità si tratta, il pensiero essenziale cui quelli
appartengono, e il procedere dell'esposizione nel suo complesso. Con
ciò è formulata la prima richiesta, indispensabile come l'altra che
seguirà, che io rivolgo al lettore malevolo (malevolo verso il
filosofo, appunto perché il lettore è filosofo anch'esso).
La seconda è questa, che prima del libro si legga l'opera che gli
serve d'introduzione, sebbene non stia qui unita, essendo comparsa
cinque anni prima, col titolo: «Sulla quadruplice radice del
principio della ragione sufficiente: trattazione filosofica». Senza
la conoscenza di questa introduzione e propedeutica, la vera
comprensione del presente scritto è del tutto impossibile; e il
contenuto di quella è qui ognora presupposto, come se facesse parte
dell'opera. D'altronde, se quella non avesse preceduto già di
parecchi anni l'opera presente, non le starebbe ora innanzi come un
proemio, bensì sarebbe incorporata nel primo libro; il quale ora,
mancandogli ciò ch'è detto in quella trattazione, dimostra una certa
incompiutezza per le lacune che di continuo deve riempire
riferendosi ad essa. Era tuttavia così grande la mia ripugnanza a
copiare me stesso, o a presentare un'altra volta faticosamente con
altre parole ciò che già una prima volta avevo detto a sufficienza,
che ho preferito questa via, quantunque avessi ora potuto dare al
contenuto di quella memoria un'esposizione alquanto migliore,
soprattutto sgombrandola di parecchi concetti derivati dalla mia
troppa suggezione d'allora alla filosofia di Kant: categorie, senso
interno ed esterno, e simili. Nondimeno codesti concetti si trovano
colà, soltanto perché fino allora non m'ero profondamente addentrato
in essi, e vi stanno quindi come elementi accessori, senz'alcun
vincolo con l'essenziale; sì che la rettificazione di cotali luoghi
in quella memoria si farà benissimo da sé nel pensiero del lettore,
con la conoscenza dello scritto presente. Ma solo quando per mezzo
di quella memoria si è conosciuto appieno ciò che sia e significhi
il principio di ragione, dove si estenda e dove no il suo vigore, e
come esso non preceda tutte le cose, per modo che il mondo venga ad
esistere solo in conseguenza e conformità sua, essendone quasi il
corollario; bensì non sia altro che la forma in cui l'oggetto sotto
condizione del soggetto, di qualunque specie quello sia, viene
ovunque conosciuto, in quanto il soggetto è un individuo conoscente:
solo allora sarà possibile penetrare a fondo nel metodo di
filosofare qui per la prima volta tentato, affatto diverso da tutti
i precedenti.
Ma la medesima riluttanza a copiare me stesso parola per parola, o
anche a dire una seconda volta proprio lo stesso con altre peggiori
parole, dopo che avevo già la prima volta usato le migliori, ha
prodotto ancora un'altra lacuna nel primo libro di quest'opera;
avendo io tralasciato quanto si trova nel primo capitolo della mia
memoria Sopra la vista e i colori, e che altrimenti avrebbe qui
trovato posto integralmente. Quindi anche la conoscenza di questo
piccolo scritto anteriore viene qui presupposta.
Finalmente la terza richiesta da fare al lettore potrebbe anche
esser sottintesa: perché non è altra se non quella di conoscere la
più importante apparizione che sia avvenuta da due secoli nella
filosofia: intendo gli scritti principali di Kant. L'azione, che
essi esercitano sullo spirito al quale effettivamente parlino, io la
trovo invero paragonabile, come forse è già stato detto,
all'operazione della cateratta sui ciechi: e se vogliamo continuare
il paragone, il mio intento si può designare dicendo, che a coloro
ai quali quell'operazione è riuscita ho voluto porre in mano gli
occhiali che adoprano gli operati di cateratta, per l'uso dei quali
è adunque prima condizione quell'atto operativo. Ma per quanto io
prenda le mosse da ciò che il gran Kant ha fatto, tuttavia appunto
lo studio serio delle sue opere mi ha fatto scoprire in quelle
notevoli errori, ch'io dovevo staccare dal resto e mostrare come
condannabili, per poter presupporre e adoprare puro e purgato da
essi quanto nella dottrina kantiana è di véro e di eccellente.
Tuttavia, per non interrompere e confondere la mia propria
esposizione con la frequente polemica contro Kant, ho concentrato
questa in una speciale appendice. Ora, secondo ho detto, come la mia
opera presuppone la conoscenza della filosofia kantiana, così
presuppone dunque pur la conoscenza di quella appendice: perciò
sotto questo riguardo sarebbe consigliabile di leggere prima
l'appendice, tanto più che il suo contenuto ha precisi rapporti
proprio col primo libro dell'opera presente. D'altra parte non si
potè evitare, per la natura della cosa, che anche l'appendice qua e
là si riferisse all'opera stessa: da ciò nient'altro consegue se non
che anch'essa, come il corpo dell'opera, deve esser letta due volte.
La filosofia di Kant è dunque la sola, di cui assolutamente si
suppone una conoscenza a fondo per ciò che qui verrà esposto. Ma se
per di più il lettore s'è ancora intrattenuto alla scuola del divino
Platone, tanto meglio ne riuscirà preparato e disposto ad udirmi. Se
poi anche è diventato partecipe del benefizio dei Veda, l'accesso ai
quali, apertoci mediante le Upanisciade, è a' miei occhi il maggior
privilegio che questo ancor giovine secolo può vantare sul
precedente, in quanto io ritengo che l'influsso della letteratura
sanscrita non sarà meno profondo che il rinascimento della cultura
greca nel secolo xv, se adunque, io dico, il lettore ha già ricevuto
e accolto con animo ben disposto anche la consacrazione
dell'antichissima saggezza indiana, allora è nel miglior modo
preparato a udire ciò che io ho da esporgli. La materia non sembrerà
allora a lui, come a qualche altro, straniera o addirittura ostica;
perché io, se non suonasse troppo superbo, vorrei affermare che
ciascuna delle singole sentenze staccate, le quali costituiscono le
Upanisciade, si lascia dedurre, come conclusione, dal pensiero ch'io
devo comunicare; sebbene questo pensiero viceversa non si possa in
alcun modo trovare colà.
Ma già sono i più de' lettori scattati con impazienza, prorompendo
nel rimprovero a stento trattenuto per tanto tempo, come mai io
possa osar di presentare al pubblico un libro con esigenze e
condizioni, delle quali le due prime sono presuntuose e affatto
immodeste: e questo in una epoca sì ricca di singolari pensieri, che
in Germania soltanto per mezzo della stampa ve n'ha i quali
diventano annualmente dominio comune in tremila opere dense di
contenuto, originali, assolutamente indispensabili, e inoltre in
periodici innumerevoli, o addirittura nei giornali quotidiani; in
un'epoca, nella quale soprattutto non v'ha punto difetto di filosofi
pienamente originali e profondi: sì che nella sola Germania vivono
tanti di essi a un tempo, quanti prima potevan produrre varii secoli
l'un dopo l'altro. Come mai dunque, interroga l'irato lettore, si
può venirne a capo, se bisogna darsi tanto da fare per un libro
solo?
Poiché non ho la minima obiezione da fare contro tali rimproveri, da
questi lettori non m'attendo qualche gratitudine, se non per averli
avvertiti in tempo, affinché essi non perdano un'ora con un libro la
cui lettura non potrebbe dar frutto senza la soddisfazione delle
esigenze formulate, e perciò è da tralasciare affatto; massime
essendovi d'altronde anche da scommetter grosso, che il libro non
piacerebbe loro; che piuttosto esso sarà sempre soltanto paucorum
hominum, e perciò paziente e modesto deve attendere i pochi, la cui
maniera di pensare non comune lo trovi leggibile. Perché, anche
astraendo dall'ampiezza d'idee e dallo sforzo che domanda al
lettore, quale uomo colto del nostro tempo, in cui il sapere è
arrivato vicino a quel mirabile punto dove paradosso ed errore sono
tutt'uno, potrebbe sopportar di trovare quasi ad ogni pagina
pensieri, che francamente contrastano con ciò che egli stesso, una
volta per sempre, ha stabilito per vero e indubitato? E poi, come
taluno si troverà spiacevolmente deluso, non imbattendosi qui in
nessun discorso di ciò che egli proprio qui pensa di dover cercare,
perché il suo modo di speculare s'incontra con quello di un grande
filosofo vivente1, il quale ha scritto libri davvero commoventi, ed
ha soltanto la piccola debolezza di veder pensieri fondamentali,
innati nello spirito umano, in tutto quanto egli ha imparato e
accettato prima del suo quindicesimo anno! Chi potrebbe sopportare
tutto ciò? Quindi il mio solo consiglio è di metter via il libro,
ancora una volta. Ma temo io stesso di non uscirne così. Il lettore,
una volta arrivato al proemio che lo respinge, ha pur comprato il
libro a denaro sonante, e domanda che cosa ne lo risarcirà. Mio
ultimo riparo è ora il rammentargli che egli può utilizzare un libro
in vari modi, senza bisogno di leggerlo. Può, come tanti altri,
riempire un vuoto della sua biblioteca, dov'esso, ben rilegato, farà
certo buona mostra di sé, O anche deporlo sulla toilette o sul
tavolino da the della sua dotta amica. O infine egli può ancora, ciò
che di certo è il meglio di tutto ed io particolarmente consiglio,
farne una recensione.
E così, dopo che mi son permesso lo scherzo, al quale non c'è pagina
per quanto seria che non debba far posto in questa vita, la quale
sempre e ovunque mostra una duplice faccia, offro con intima gravità
il libro, con la fiducia che presto o tardi raggiungerà coloro, ai
quali solo può esser rivolto; e d'altronde tranquillamente
rassegnato a vedergli toccare in piena misura il destino, che sempre
toccò alla verità, in ogni dominio del sapere, e tanto più in quello
che più importa: alla quale verità è destinato solo un breve
trionfo, fra i due lunghi spazi di tempo in cui ella è condannata
come paradossale o spregiata come banale. E il primo destino
colpisce insieme colui che l'ha trovata. Ma la vita è breve, e la
verità opera lontano e lungamente vive: diciamo la verità.
(Scritto in Dresda nell'agosto 1818).
LIBRO PRIMO
IL MONDO COME RAPPRESENTAZIONE
PRIMA CONSIDERAZIONE
Rappresentazione sottomessa al principio della ragione: l'oggetto
dell'esperienza e della scienza.
Sors de l'enfance, ami, réveille-toi!
Jean-Jacques Rousseau
§ 1.
«Il mondo è mia rappresentazione»: – questa è una verità che vale in
rapporto a ciascun essere vivente e conoscente, sebbene l'uomo
soltanto sia capace d'accoglierla nella riflessa, astratta
coscienza: e s'egli veramente fa questo, con ciò è penetrata in lui
la meditazione filosofica. Per lui diventa allora chiaro e ben
certo, ch'egli non conosce né il sole né la terra, ma appena un
occhio, il quale vede un sole, una mano, la quale sente una terra;
che il mondo da cui è circondato non esiste se non come
rappresentazione, vale a dire sempre e dappertutto in rapporto ad un
altro, a colui che rappresenta, il quale è lui stesso. Se mai una
verità può venire enunciata a priori è appunto questa: essendo
l'espressione di quella forma d'ogni possibile e immaginabile
esperienza, la quale è più universale che tutte le altre forme, più
che tempo, spazio e causalità; poi che tutte queste presuppongono
appunto quella, E se ciascuna di tali forme, che noi abbiamo tutte
riconosciute come altrettante determinazioni particolari del
principio della ragione, ha valore solo per una speciale classe di
rappresentazioni, la divisione in oggetto e soggetto è invece forma
comune di tutte quelle classi: è la forma unica in cui qualsivoglia
rappresentazione, di qualsiasi specie, astratta o intuitiva, pura o
empirica, è possibile ed immaginabile. Nessuna verità è adunque più
certa, più indipendente da ogni altra, nessuna ha minor bisogno
d’esser provata, di questa: che tutto ciò che esiste per la
conoscenza, – adunque questo mondo intero, – è solamente oggetto in
rapporto al soggetto, intuizione di chi intuisce; in una parola,
rappresentazione. Naturalmente questo vale, come per il presente,
così per qualsiasi passato e qualsiasi futuro, per ciò che è
lontanissimo come per ciò che è vicino: imperocché vale finanche per
il tempo e lo spazio, dentro i quali tutto viene distinto. Tutto
quanto è compreso e può esser compreso nel mondo, deve
inevitabilmente aver per condizione il soggetto, ed esiste solo per
il soggetto. Il mondo è rappresentazione.
Questa verità è tutt'altro che nuova. Ella era già nella concezione
degli scettici, donde mosse Cartesio. Ma Berkeley fu il primo ad
esprimerla risolutamente, e si acquistò così un merito immortale
verso la filosofia, quantunque il resto delle sue dottrine non possa
reggere. Il primo errore di Kant fu la negligenza di questo
principio, come verrà esposto nell'appendice. Quanto remotamente
invece tal fondamentale verità fosse riconosciuta dai saggi indiani,
apparendo come base della filosofia Vedanta attribuita a Vyasa, ci
attesta W. Jones, nell'ultima sua memoria On the philosophy of the
Asiatics; «Asiatic Researches», vol. IV, p. 164: «the fundamental
tenet of the Vedanta school consisted not in denying the existence
of matter, that is of solidity, impenetrability, and extended figure
(to deny which would be lunacy), but in correcting the popular
notion of it, and in contending that it has no essence independent
of mental perception; that existence and perceptibility are
convertible terms»2. Queste parole esprimono sufficientemente la
coesistenza della realtà empirica con l'idealità trascendentale,
Dunque solo dal punto di vista indicato, solo in quanto è
rappresentazione, noi consideriamo il mondo in questo primo libro.
Che nondimeno questa considerazione, malgrado la sua verità, sia
unilaterale, e quindi ottenuta mediante un'astrazione arbitraria, è
fatto palese a ciascuno dall'intima riluttanza ch’ei prova a
concepire il mondo soltanto come sua pura rappresentazione; al quale
concetto d'altra parte non può mai e poi mai sottrarsi. Ma
l'unilateralità di questa considerazione verrà integrata nel libro
seguente con un'altra verità, la quale non è di certo così immediata
come quella da cui qui muoviamo; bensì tale che vi si può esser
condotti solo da più profonda indagine, più difficile astrazione,
separazione del diverso e riunione dell'identico – una verità che
deve apparire molto grave e per ognuno, se non proprio paurosa,
almeno meritevole di riflessione: ossia questa, che egli appunto può
dire e deve dire: «il mondo è la mia volontà».
Ma per ora, in questo primo libro, è necessario considerare,
senz'allontanarsene, quell'aspetto del mondo da cui prendiamo le
mosse – l'aspetto della conoscibilità – e perciò, lasciando ogni
riluttanza, esaminare tutti gli oggetti esistenti, compreso perfino
il nostro corpo (come sarà spiegato meglio ben presto),
esclusivamente quali rappresentazioni; e quali pure rappresentazioni
definire. In tal modo si viene a fare astrazione, unicamente e
sempre, dalla volontà, secondo più tardi sarà per apparire evidente,
spero, a tutti; come da quella che da sola costituisce l'altro
aspetto del mondo: perché come il mondo è da un lato, in tutto e per
tutto, rappresentazione, così dall'altro, in tutto e per tutto,
volontà. Una realtà invece che non sia né questa né quella, ma sia
bensì un oggetto in sé (com'è purtroppo divenuta la cosa in sé di
Kant degenerando nelle sue mani) è una chimera di sogno, e la sua
assunzione un fuoco fatuo della filosofia.
§ 2.
Quello che tutto conosce, e da nessuno è conosciuto, è il soggetto.
Esso è dunque che porta in sé il mondo; è l'universale, ognora
presupposta condizione d'ogni fenomeno di ogni oggetto: perché ciò
che esiste, non esiste se non per il soggetto. Questo soggetto
ciascuno trova in sé stesso; ma tuttavia solo in quanto conosce, non
in quanto è egli medesimo oggetto di conoscenza. Oggetto è già
invece il suo corpo: ed anch’esso perciò, secondo questo modo di
vedere, chiamiamo rappresentazione. Invero il corpo è oggetto fra
oggetti, e sottoposto alle leggi degli oggetti, sebbene sia oggetto
immediato3. Esso sta, come tutti gli oggetti dell'intuizione, nelle
forme d'ogni conoscimento, nel tempo e nello spazio, per mezzo dei
quali si ha pluralità. Ma il soggetto, il conoscente, non mai
conosciuto, non sta anch'esso in quelle forme, dalle quali appunto
viene invece sempre già presupposto: non gli tocca perciò né
pluralità né il contrapposto di quella, unità. Giammai lo
conosciamo, ma esso è che conosce, dovunque sia conoscenza.
Il mondo come rappresentazione, adunque – e noi non lo consideriamo
qui se non sotto questo aspetto – ha due metà essenziali, necessarie
e inseparabili. L'una è l'oggetto, di cui sono forma spazio e tempo,
mediante i quali si ha la pluralità. Ma l'altra metà, il soggetto,
non sta nello spazio e nel tempo: perché essa è intera e indivisa in
ogni essere rappresentante; perciò anche un solo di questi esseri,
con l'oggetto, integra il mondo come rappresentazione, sì appieno
quanto i milioni d'esseri esistenti. Ma, se anche solo quell'unico
svanisse, cesserebbe d'esistere pure il mondo come rappresentazione.
Queste metà sono perciò inseparabili, anche per il pensiero; perché
ciascuna di esse consegue solo mediante e per l'altra significazione
ed esistenza, ciascuna esiste con l’altra e con lei dilegua. Esse si
limitano a vicenda direttamente: dove l'oggetto comincia, finisce il
soggetto. La comunanza di questi limiti si mostra appunto in ciò,
che le forme essenziali e perciò universali d'ogni oggetto, le quali
sono tempo, spazio e causalità, possono, muovendo dal soggetto,
venir trovate e pienamente conosciute anche senza la conoscenza
stessa dell'oggetto; il che val quanto dire, nel linguaggio di Kant,
che esse stanno a priori nella nostra coscienza. L’aver ciò scoperto
è un capitale merito di Kant, un immenso merito. Io affermo ora in
più, che il principio di ragione è l'espressione comune per tutte
queste forme dell'oggetto, delle quali siamo consci a priori; e che
perciò tutto quanto noi sappiamo puramente a priori, non è nulla se
non appunto il contenuto di quel principio e ciò che da esso deriva;
in esso adunque propriamente viene formulata tutta quanta la nostra
conoscenza certa a priori. Nel mio scritto intorno al principio di
ragione ho ampiamente mostrato che qualsivoglia oggetto possibile è
a quello sottomesso; vale a dire, sta in una relazione necessaria
con altri oggetti, da un verso come determinato, dall'altro come
determinante: ciò va tanto lungi, che l'intera esistenza di tutti
gli oggetti, in quanto oggetti, rappresentazioni e null'altro, in
tutto e per tutto fa capo a quel loro necessario, scambievole
rapporto; e solo in esso ella consiste, dunque è affatto relativa.
Ma su ciò si dirà presto di più. Io ho inoltre mostrato che a
seconda delle classi nelle quali gli oggetti si ripartiscono avendo
riguardo alla loro possibilità, si presenta in vario modo quel
necessario rapporto che il principio di ragione genericamente
esprime; dal che si conferma la giusta ripartizione delle classi
medesime. Qui sempre suppongo già conosciuto e presente al lettore
quanto ho detto in quella trattazione; perché, se non fosse già
stato detto colà, qui dovrebbe per necessità avere il suo posto.
§ 3.
La differenza capitale fra tutte le nostre rappresentazioni è quella
dell'intuitivo e dell'astratto. Astratta e una classe sola di
rappresentazioni, che sono i concetti: e questi sulla terra sono
patrimonio speciale dell'uomo. Tale capacità, che lui distingue da
tutti gli animali, fu dai più remoti tempi chiamata ragione4.
Esamineremo a parte in seguito codeste rappresentazioni astratte, ma
dapprima si discorrerà esclusivamente della rappresentazione
intuitiva. Questa adunque comprende l'intero mondo visibile, o il
complesso dell'esperienza, oltre le condizioni di possibilità della
medesima. È, come ho detto, un'assai importante scoperta di Kant,
che appunto queste condizioni, queste forme dell'esperienza (ossia
ciò che v'ha di più generale nella sua percezione, ciò che in egual
modo è proprio di tutti i suoi fenomeni – intendo il tempo e lo
spazio) possono per se stesse, disgiunte dal loro contenuto, venir
non pure pensate in abstracto, ma anche immediatamente intuite; e
che tale intuizione non sia per avventura un fantasma ricavato
dall'esperieza5 mediante il suo ripetersi, bensì dall'esperienza sia
tanto indipendente, da doversi questa viceversa pensare piuttosto
come dipendente da quella: per ciò che le proprietà dello spazio e
del tempo, quali li riconosce a priori l'intuizione, valgono come
leggi per ogni possibile esperienza; leggi, a cui questa deve
ovunque conformarsi. Per questo motivo nella mia memoria sul
principio di ragione ho considerato tempo e spazio, in quanto
vengono intuiti puri e privi di contenuto, come una classe
particolare di rappresentazioni, esistente di per sé. Ora, per
quanto importante sia pure codesta natura, scoperta da Kant, di
quelle forme universali dell'intuizione, che cioè le si possano
intuire in sé e indipendenti dall'esperienza, e conoscere dalla loro
piena legittimità (sul che si fonda la matematica con la sua
infallibilità), non è tuttavia meno osservabile quest’altra loro
proprietà, che il principio di ragione (il quale determina
l'esperienza come legge della causalità e motivazione, e il pensiero
come legge del fondamento dei giudizi) si presenti qui sotto un
aspetto tutto speciale, a cui ho dato il nome di ragione
dell'essere; e che è, nel tempo, il succedersi dei suoi momenti, e
nello spazio la posizione delle sue parti vicendevolmente
determinantisi all'infinito.
Quegli a cui dalla mia dissertazione introduttiva sia risultata
chiara la piena identità di contenuto del principio di ragione,
malgrado tutta la varietà delle sue modificazioni, sarà pur convinto
di quanto importi, a penetrar nella sua più intima essenza, la
nozione della più semplice tra le sue forme, come tali: e per tale
abbiamo riconosciuto il tempo. Come nel tempo ciascun attimo esiste
solo in quanto ha cancellato l'attimo precedente – suo padre – per
venire anch'esso con la medesima rapidità alla sua volta cancellato;
come passato e avvenire (facendo astrazione dalle conseguenze del
loro contenuto) sono illusori a modo di sogni, e il presente non è
che un limite tra quelli, privo di estensione e durata: proprio così
riconosceremo la stessa nullità anche in tutte le altre forme del
principio di ragione. E comprenderemo che come il tempo, così anche
lo spazio, e come questo, così tutto ciò che è insieme nello spazio
e nel tempo, tutto, insomma, ciò che proviene da cause o motivi, ha
un'esistenza solo relativa, esiste solo mediante e per un'altra cosa
che ha la stessa natura, ossia esiste anch'essa soltanto a quel
modo. La sostanza di questa opinione è antica: Eraclito lamentava
con essa l'eterno fluire delle cose; Platone ne disdegnò l'oggetto
come un perenne divenire, che non è mai essere; Spinoza chiamò le
cose puri accidenti della unica sostanza, che sola esiste e permane;
Kant contrappose ciò che conosciamo in tal modo, come pura
apparenza, alla cosa in sé; e infine l'antichissima sapienza indiana
dice: «È Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei
mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che
esista, né che non esista; perché ella rassomiglia al sogno,
rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da
lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata a
terra, che egli prende per un serpente» (Questi paragoni si trovano
ripetuti in luoghi innumerevoli dei Veda e dei Purana). Ma ciò che
tutti costoro pensavano, e di cui parlano, non è altro se non quel
che anche noi ora, appunto, consideriamo: il mondo come
rappresentazione, sottomesso al principio della ragione.
§ 4.
Chi ha conosciuto quella forma del principio di ragione che
apparisce nel tempo puro in quanto è tale, e su cui poggia ogni
numerazione e calcolo, ha con ciò appunto conosciuto anche l'intera
essenza del tempo. Esso non è se non proprio della forma del
principio di ragione, e non ha alcun'altra proprietà. Successione è
la forma del principio di ragione nel tempo, successione è tutta
l'essenza del tempo. Chi poi ha conosciuto il principio di ragione
quale esso domina nell'intuizione pura dello spazio, ha con ciò
stesso dato fondo all'intera essenza dello spazio; perché questo in
tutto e per tutto niente altro è se non la possibilità delle
vicendevoli determinazioni delle sue parti, la quale si chiama
posizione. Lo studio ampio di questa, e la fissazione in concetti
astratti, per più comodo uso, dei risultati che ne seguono, è il
contenuto di tutta la geometria. Ora appunto così, chi ha conosciuto
il modo del principio di ragione che regge il contenuto di quelle
forme (il tempo e lo spazio) e la loro percettibilità, cioè la
materia, e ha quindi conosciuto la legge della causalità; quegli ha
pur conosciuto proprio con ciò l'intera essenza della materia come
tale: perché questa è in tutto e per tutto nient'altro che
causalità: ciò che ognuno immediatamente vede, appena vi rifletta.
Poiché il suo essere è la sua attività: nessun altro suo essere si
può anche solamente pensare. Solo come agente riempie essa lo
spazio, riempie il tempo: la sua azione sull'oggetto immediato (che
pur esso è materia) determina l’intuizione, senza la quale non
esiste materia: il risultato dell’azione di ogni oggetto materiale
sopra un altro è solo conosciuto in quanto quest'ultimo agisce alla
sua volta diversamente che innanzi sull'oggetto immediato; e in ciò
solo consiste. Causa ed effetto è dunque tutta la essenza della
materia: il suo essere è la sua attività. (Su ciò più minutamente
nella dissertazione intorno al principio di ragione, § 21, p. 77).
Giustissimamente perciò in tedesco il concetto di tutto ciò che è
materiale vien chiamato6 Wirklichkeit, da wirken, agire, la qual
parola è molto più precisa che non realtà. Ciò su cui la materia
agisce, è ancora e sempre materia: tutta la sua sostanza consiste
adunque nella regolare modificazione che una parte di essa produce
nell'altra, e perciò del tutto relativa, relazione vigente solo
dentro i suoi confini; adunque proprio come il tempo, proprio come
lo spazio.
Ma tempo e spazio, ognuno per sé, sono anche senza la materia
intuitivamente rappresentabili; invece non la materia senza quelli.
Già la forma, che da lei è inseparabile, presuppone lo spazio; e la
sua attività, in cui sta tutto il suo essere, concerne sempre un
cambiamento – e perciò una determinazione – del tempo. Ma tempo e
spazio non vengono isolatamente, ciascuno per sé, presupposti dalla
materia; bensì l'unione d'entrambi costituisce l'essenza di questa;
appunto perché tale essenza, com'è dimostrato, consiste
nell'attività, nella causalità. Tutti gli immaginabili, innumerevoli
fenomeni e stati potrebbero invero nello spazio infinito, senza
darsi impaccio, l'un presso l'altro coesistere, o anche nel tempo
infinito, senza disturbarsi, l'un l'altro seguire; perciò dunque una
necessaria relazione fra loro ed una regola che li determinasse in
conformità di questa relazione non sarebbe in niun modo
indispensabile, e nemmeno applicabile: non si avrebbe dunque allora,
malgrado ogni giustapposizione nello spazio e ogni mutamento nel
tempo, ancora nessuna causalità, fin che ciascuna di quelle due
forme avesse la sua esistenza e il suo corso di per sé, senza
connessione con l'altra. E poiché la causalità costituisce
propriamente l'essenza della materia, non si avrebbe nemmeno
materia. Ora invece la legge di causalità trae la sua significazione
e necessità solo da ciò, che l'essenza del cambiamento non sta nel
puro mutar degli stati in sé, bensì piuttosto nel fatto che nello
stesso punto dello spazio è ora uno stato e successivamente un
altro, e in uno stesso momento determinato è qui questo stato, là un
altro: solo questa reciproca limitazione del tempo e dello spazio da
significato e insieme necessità ad una regola, secondo la quale deve
svolgersi il cambiamento. Ciò che viene determinato mediante la
legge di causalità non è adunque la successione degli stati nel
tempo puro, ma codesta successione riguardo a uno spazio
determinato, e non la presenza degli stati in un luogo determinato,
ma in questo luogo in un tempo determinato. La modificazione, ossia
il cambiamento sopravveniente secondo la legge causale, concerne
perciò ogni volta una determinata parte dello spazio e una
determinata parte del tempo, simultaneamente e insieme, Quindi la
causalità congiunge lo spazio col tempo. Ma noi abbiamo trovato che
nell'attività, e perciò nella causalità, consiste l'intera essenza
della materia: di conseguenza devono anche in questa spazio e tempo
esser congiunti, ossia essa deve avere simultaneamente in sé le
proprietà del tempo e dello spazio, per quanto queste si
contrastino; e ciò che in ciascuno di quelli è da solo impossibile,
deve essa in sé riunire, ossia l'inconsistente fuga del tempo con la
rigida, immutabile persistenza dello spazio: la divisibilità
infinita essa l'ha da entrambi. In tal modo noi troviamo primamente
per suo mezzo prodotta la simultaneità, che non poteva essere né nel
tempo puro, il quale non conosce alcuna giustapposizione, né nel
puro spazio, il quale non conosce alcun innanzi, dopo, e ora. Ma è
appunto la simultaneità di molti stati che costituisce l'essenza
della realtà [Wirklichkeit]: perché dalla simultaneità in primissimo
luogo è resa possibile la durata, essendo questa conoscibile solo al
variar di ciò che è insieme presente e durevole: com'anche solo
mediante il durevole nella variazione prende questa il carattere
della modificazione, ossia del mutamento di qualità e forma nel
perdere della sostanza, cioè della materia7. Nello spazio puro il
mondo sarebbe rigido ed immobile: nessuna successione, nessuna
modificazione, nessuna attività: ma appunto con l'attività è anche
tolta via la rappresentazione della materia. D’altra parte, nel
tempo puro tutto sarebbe fuggitivo: nessun persistere, nessun
coesistere, e perciò nulla di simultaneo, quindi nessuna durata:
ossia anche in questo caso niente materia. Solo dall'unione di tempo
e spazio risulta la materia, vale a dire la possibilità della
esistenza simultanea e quindi della durata; mediante questa poi, la
possibilità del permanere della sostanza nel mutar degli stati8.
Avendo la sua essenza nell'unione di tempo e spazio, la materia reca
sempre l'impronta d'entrambi. Ella attesta la sua origine dallo
spazio, in parte con la forma, che da lei è inseparabile, ma
soprattutto (perché il cambiamento appartiene solo al tempo, ed in
questo, considerato in sé e per sé, non è nulla di stabile) col suo
permanere (sostanza); la cui certezza a priori va perciò derivata in
tutto e per tutto da quella dello spazio9: invece la sua origine dal
tempo manifesta ella con la qualità (accidente) senza la quale mai
non appare, e che non è altro se non causalità (azione sopr'altra
materia, ossia cambiamento, che è un concetto di tempo). Ma la
legittima possibilità di questa azione si riferisce sempre
simultaneamente a spazio e tempo, e appunto da ciò soltanto acquista
un senso. Quale stato debba aversi in un dato tempo e luogo è la
sola determinazione su cui s'estende la giurisdizione della
causalità. Su questa provenienza delle determinazioni fondamentali
della materia dalle forme a priori della nostra conoscenza, poggia
il riconoscimento a priori che noi facciamo in lei di talune
proprietà, come quella di riempir lo spazio, ossia impenetrabilità,
ossia attività; inoltre estensione, infinita divisibilità,
permanenza, ossia indistruttibilità, e infine mobilità: la gravità
invece, malgrado ammetta eccezioni, sarà da attribuire alla
conoscenza a posteriori, sebbene Kant nei Principi metafisici della
scienza della natura, p. 71 (ed. Rosenkranz, p. 372) la ponga come
conoscibile a priori.
Ma come l’oggetto esiste solo per il soggetto, quale sua
rappresentazione, così ogni speciale classe di rappresentazione
esiste nel soggetto soltanto per un'altrettanta speciale
determinazione, che si chiama facoltà conoscitiva. Il correlato
subiettivo di tempo e spazio in sé, come forme vuote, fu da Kant
chiamato sensibilità pura, e questa espressione, poiché qui Kant
aperse la via, può esser mantenuta; sebbene non convenga
perfettamente, per ciò che sensibilità presuppone già materia. Il
correlato subiettivo della materia o causalità, le quali sono
tutt'uno, è l'intelletto, che non altro è fuori di questo. Sua
esclusiva funzione, sua unica forza è conoscere la causalità – ed è
una forza grande, che molto abbraccia, di svariata applicazione, ma
di non disconoscibile identità in tutte le sue manifestazioni.
Viceversa ogni causalità, perciò ogni materia, e quindi l'intera
realtà esiste soltanto per l'intelletto, mediante l'intelletto,
nell'intelletto. La prima, più semplice, sempre presente
manifestazione dell'intelletto è l'intuizione del mondo reale:
questa non è altro se non conoscenza della causa dall'effetto:
perciò ogni intuizione è intellettuale. Non vi si potrebbe tuttavia
pervenire mai, se un effetto qualsiasi non fosse conosciuto
immediatamente, servendo con ciò da punto di partenza. E questo è
l'effetto sui corpi animali. In tale senso sono questi gli oggetti
immediati del soggetto: l'intuizione di tutti gli altri oggetti si
ha per loro mezzo. Le modificazioni che ogni corpo animato subisce
sono immediatamente conosciute, ossia provate; e in quanto codesto
effetto viene tosto riferito alla sua causa, nasce l'intuizione di
quest'ultima come di un oggetto. Questo riferimento non è una
conclusione di concetti astratti, non accade per mezzo di
riflessione né con arbitrio, ma immediatamente, necessariamente e
sicuramente. Esso è il modo di conoscere del puro intelletto, senza
il quale non si verrebbe mai all’intuizione; ma s'avrebbe una
coscienza ottusa, vegetativa, delle modificazioni dell'oggetto
immediato, che si succederebbero prive in tutto di senso, se non
avessero forse un senso di dolore o di piacere per la volontà. Ma
come, con l'apparir del sole, il mondo visibile si scopre, così
l'intelletto con la sua unica, semplice funzione trasforma d'un
tratto in intuizione la confusa e bruta sensazione. Ciò che sente
l'occhio, l'orecchio, la mano, non è l'intuizione, ma sono appena i
dati dell'intuizione. Solo allor che l'intelletto risale
dall'effetto alla causa, apparisce il mondo, esteso nello spazio
come intuizione, mutevole nella forma, eterno in quanto materia:
perché l'intelletto congiunge spazio e tempo nella rappresentazione
di materia, ossia di attività. Questo mondo come rappresentazione
esiste solo mediante l'intelletto, e solo per l'intelletto. Nel
primo capitolo della mia dissertazione «sulla vista ed i colori», ho
già spiegato come sui dati, che i sensi forniscono, l'intelletto
foggi l'intuizione; come dal confronto delle impressioni che i vari
sensi ricevono dal medesimo oggetto il bambino apprenda
l'intuizione; come soltanto ciò fornisca la spiegazione di tanti
fenomeni dei sensi: la visione unica con due occhi; la doppia
visione nello strabismo, o nella ineguale distanza di oggetti posti
l'uno dietro l'altro, che l'occhio veda simultaneamente; e tutte le
illusioni prodotte da un'improvvisa modificazione negli organi
sensorii. Molto più estesamente e più a fondo ho tuttavia studiato
questo importante argomento nella seconda edizione dello scritto sul
principio di ragione (§ 21). Tutto ciò che là vien detto avrebbe qui
di necessità il suo luogo, dovrebbe quindi in verità esser qui
ripetuto: ma poi che io ho quasi altrettanta ripugnanza a copiare me
stesso che gli altri, né sono in grado di esporre le mie idee meglio
di quanto abbia fatto colà, vi rinunzio; e invece di ripeterle qui,
le do per già conosciute.
L'apprendimento della visione da parte dei bambini e dei ciechi nati
che siano stati operati, la visione unica di ciò che vien percepito
doppio con due occhi, il doppio vedere o la doppia sensibilità
tattile nello spostamento degli organi sensorii dalla loro posizione
ordinaria, il veder l’oggetto diritto mentre l’immagine sta
capovolta nell’occhio, l’attribuzione del colore – che è solo una
funzione interna, una divisione polare dell'attività dell'occhio –
agli oggetti esterni e infine anche lo stereoscopio – tutte queste
sono salde e indiscutibili prove del fatto che ogni intuizione non è
puramente sensibile, bensì intellettuale, ossia pura conoscenza
intellettiva della causa dall'effetto, e quindi presuppone la legge
di causalità. Dal conoscimento di quella dipende ogni intuizione, e
perciò ogni esperienza, nella sua prima e intera possibilità; e non
viceversa il conoscimento della legge causale dall'esperienza,
secondo voleva lo scetticismo di Hume, che per la prima volta viene
confutato con questa dimostrazione. Poiché l'indipendenza della
cognizione della causalità da ogni esperienza, ossia la sua
apriorità, non può venir dimostrata se non col dipendere di tutta
l'esperienza da lei e questo alla sua volta può solamente accadere
quando si provi nel modo qui indicato, e ampiamente svolto nei
luoghi più sopra citati, che la nozione di causalità è già
universalmente implicita nell'intuizione, nel cui dominio sta tutta
l'esperienza; sì che quella nozione sussiste pienamente a priori in
rapporto all'esperienza, e viene da questa presupposta, non la
presuppone. Ciò non si può invece dimostrare nel modo tentato da
Kant e da me criticato nella dissertazione sul principio della
ragione (§ 23).
§ 5.
Ma bisogna guardarsi dal grande equivoco di pensare che, poiché
l'intuizione richiede la nozione della causalità, ne sorga di
conseguenza fra oggetto e soggetto il rapporto di causa ed effetto;
mentre questo rapporto ha sempre luogo invece fra oggetto immediato
e mediato, quindi sempre soltanto fra oggetti. Appunto su quella
falsa premessa poggia l'insana contesa intorno alla realtà del mondo
esterno, nella quale stanno di fronte dogmatismo e scetticismo, e
quello interviene ora come realismo, ora come idealismo. Il realismo
pone l'oggetto come causa, e il suo effetto pone nel soggetto.
L'idealismo di Fichte fa invece l’oggetto del soggetto. Ma non
potendo esservi alcun rapporto fra soggetto ed oggetto secondo il
principio di ragione – ciò che non sarà mai ribadito abbastanza –
non poté venir provata né l'una né l'altra di quelle affermazioni, e
contro entrambe fece vittoriosi assalti lo scetticismo. Invero come
la legge di causalità già precede, essendone condizione,
l'intuizione e l'esperienza, e quindi non può venir ricavata da
queste (secondo Hume pensava); così oggetto e soggetto, già quali
prime condizioni, precedono ogni conoscenza e quindi in genere il
principio di ragione, perché questo non è se non la forma di tutti
gli oggetti, il modo costante del loro apparire. Ma l'oggetto già
presuppone sempre il soggetto: fra i due non può adunque sussistere
alcun rapporto di causa ed effetto. Il mio scritto sul principio di
ragione mira appunto a questo, a esporre il contenuto di quel
principio come la forma essenziale di ogni oggetto, ossia come il
modo universale di ogni esistenza oggettiva, come qualcosa che
appartiene in proprio all'oggetto in quanto è tale; ma in quanto è
tale, l'oggetto presuppone ognora il soggetto come suo necessario
correlato: questo rimane perciò sempre fuori del dominio in cui ha
valore il principio di ragione. La contesa sulla realtà del mondo
esterno si fonda appunto su quella falsa estensione di valore data
al principio di ragione fino a comprendere anche il soggetto; e
muovendo da questo equivoco non potè mai chiarirsi. Da un lato il
dogmatismo realistico, considerando la rappresentazione come effetto
dell'oggetto, vuole separare queste due cose – rappresentazione ed
oggetto – che sono invece una cosa sola, ed ammettere una causa
affatto differente dalla rappresentazione, un oggetto in sé
indipendente dal soggetto: qualcosa del tutto inconcepibile perché
appunto come oggetto presuppone sempre il soggetto e sempre rimane
perciò una semplice rappresentazione di questo. Al dogmatismo
realistico lo scetticismo oppone, con la stessa falsa premessa, che
nella rappresentazione si ha sempre unicamente l’effetto, mai la
causa, perciò non si conosce mai l'essenza, ma soltanto l'azione
degli oggetti. L'azione poi potrebbe forse non avere alcuna analogia
con l’essenza; anzi in genere sarebbe questa analogia un’opinione
del tutto falsa, poiché la legge di causalità non è ricavata che
dalla esperienza, la cui realtà alla sua volta dovrebbe poi poggiare
su quella legge. Ora a questo proposito conviene ad entrambe le
dottrine l’ammonimento, in primo luogo, che oggetto e
rappresentazione sono tutt'uno; poi, che l'essenza degli oggetti
intuibili è appunto la loro azione; che proprio nell’azione consiste
la realtà dell'oggetto, e la pretesa di un esistenza dell'oggetto
fuori della rappresentazione del soggetto, e anche di un'essenza
della cosa reale diversa dalla sua azione non ha senso di sorta,
anzi è una contraddizione; che per conseguenza il conoscimento del
modo d'agire d'un oggetto intuito lo esaurisce, in quanto è oggetto,
ossia rappresentazione, perché all'infuori di ciò nulla rimane in
esso per la conoscenza. Sotto questo rispetto adunque il mondo
intuito nello spazio e nel tempo, il mondo che si manifesta come
pura causalità, è pienamente reale, ed è in tutto come esso si dà: e
si dà intero e senza riserve come rappresentazione, disposta secondo
la legge di causalità. Questa è la sua realtà empirica. Ma d'altro
lato ogni causalità è soltanto nell'intelletto e per l'intelletto;
quindi tutto quel mondo reale, ossia attivo, è come tale
condizionato ognora dall'intelletto, e non è nulla senza di questo.
E non solo per tale motivo, ma perché generalmente non si può, a
meno di cadere in contraddizione, pensare un oggetto senza soggetto,
al dogmatico che spiega la realtà del mondo esterno con la sua
indipendenza dal soggetto noi dobbiamo negare francamente codesta
realtà. L'intero mondo degli oggetti è e rimane rappresentazione, e
appunto perciò in tutto ed eternamente relativo al soggetto: ossia
ha una idealità trascendentale. Tuttavia il mondo non è per questo
né menzogna né illusione: si dà per quello che è, come
rappresentazione, e precisamente come una serie di rappresentazioni,
il cui vincolo comune è il principio di ragione. Come tale esso è
comprensibile, fin nel suo senso più intimo, da un intelletto sano,
e gli parla una lingua che questi comprende pienamente. Soltanto ad
uno spirito contorto dal sofisticare può venir l'idea di contendere
sulla realtà del mondo; il che sempre accade per una inesatta
applicazione del principio di ragione, il quale collega, è vero,
tutte le rappresentazioni di qualsiasi specie fra loro, ma non mai
collega quelle col soggetto, o con qualcosa che non sia né soggetto
né oggetto, ma solo ragione dell'oggetto: uno sproposito, perché
soltanto oggetti possono essere cause, e cause sempre di altri
oggetti. Se andiamo a investigare più attentamente l'origine di
questo problema della realtà del mondo esterno, troviamo che oltre
quel falso riferimento del principio di ragione a ciò che sta fuori
del suo dominio, si aggiunge ancora una speciale confusione delle
sue forme: ossia la forma ch'esso assume esclusivamente riguardo ai
concetti o rappresentazioni astratte, viene trasportata alle
rappresentazioni intuitive, agli oggetti reali, e si pretende una
ragione di conoscenza da oggetti che non possono avere se non una
ragione di divenire. Imperocché sulle rappresentazioni astratte, sui
concetti collegati in giudizi, domina il principio di ragione
siffattamente, che ciascuno di quelli ha il suo valore, la sua
portata, la sua intera esistenza – chiamata qui verità –
esclusivamente mediante la relazione del giudizio con qualcosa che
ne sta fuori, ossia il suo principio di conoscenza; al quale bisogna
dunque sempre far capo. Sugli oggetti reali invece, sulle
rappresentazioni intuitive, il principio di ragione non domina come
principio di ragione della conoscenza, ma del divenire, come legge
di causalità: ciascuno di quegli oggetti gli ha già pagato il suo
debito pel fatto che è divenuto, ossia è stato prodotto come effetto
da una causa: la pretesa d'un principio di conoscenza non ha dunque
qui nessun valore e nessun senso, bensì appartiene a tutt'altra
classe di oggetti. Perciò il mondo dell'intuizione non suscita,
finché si rimane nei suoi confini, né scrupolo né dubbio in chi
l'osserva: qui non v'ha né errore né verità; che sono confinati nel
dominio dell'astratto, della riflessione. Qui invece sta il mondo
aperto ai sensi ed all'intelletto, dandosi con ingenua verità per
ciò che è, per una rappresentazione intuitiva che legittimamente si
svolge sul filo della causalità.
Il problema della realtà del mondo esterno, come l'abbiamo
considerato finora, era sempre generato da uno smarrimento della
ragione che andava fino a misconoscere se stessa, e sotto questo
rispetto il problema era da risolvere con la semplice dilucidazione
del suo contenuto. Dopo investigata tutta l'essenza del principio di
ragione, la relazione fra oggetto e soggetto e la vera natura
dell'intuizione sensitiva, esso doveva cadere da sé, appunto perché
non gli rimaneva più alcun significato. Ma il problema ha ancora
un'altra origine, affatto diversa da quella, tutta speculativa,
indicata finora: un'origine propriamente empirica, sebbene essa
anche in questa forma sia ancor sempre messa in campo con
intendimenti speculativi. Ed esso ha in questo senso un significato
molto più intelligibile che in quel primo, venendo a formularsi
così: noi abbiamo sogni; non è forse tutta la vita un sogno? – o più
precisamente: non c'è un criterio sicuro per distinguere sogno e
realtà, fantasmi ed oggetti reali? – L'addurre la minor vivacità e
chiarezza del sogno in confronto dell'intuizione reale non merita
alcuna considerazione, perché nessuno finora ha avuto presenti
contemporaneamente l'uno e l'altro per confrontarli, ma soltanto il
ricordo del sogno si poteva confrontare con la realtà presente. Kant
scioglie il problema così: «II rapporto delle rappresentazioni fra
di loro secondo la legge di causalità distingue la vita dal sogno».
Ma anche nel sogno ciascun particolare dipende egualmente in tutte
le sue forme dal principio di ragione, e questo rapporto si spezza
soltanto fra la vita e il sogno e fra i singoli sogni. La risposta
di Kant potrebbe quindi suonare soltanto così: il lungo sogno (la
vita) ha connessione costante in sé secondo il principio di ragione,
ma non l'ha coi sogni brevi; sebbene ciascuno di questi abbia in sé
la stessa connessione; fra questi e quello è adunque rotto il ponte,
e in base a ciò vengono distinti. Tuttavia l'intraprendere una
investigazione secondo questo criterio, per sapere se qualcosa sia
sognato o veramente accaduto, sarebbe assai difficile e spesso
impossibile; perché non siamo in alcun modo in grado di seguire
anello per anello la concatenazione causale fra quella circostanza
passata e il momento presente, e tuttavia non possiamo per questo
affermare che sia un sogno. Quindi nella vita reale, per distinguere
sogno da realtà, non ci si serve ordinariamente di quel modo
d'investigazione. Il solo criterio sicuro per distinguere il sogno
dalla realtà è in verità quello affatto empirico del risveglio, col
quale infatti la concatenazione causale fra le circostanze sognate e
quelle della vita cosciente viene espressamente e sensibilmente
rotta. Un ottimo esempio di ciò è fornito dall'osservazione che fa
Hobbes nel Leviathan, cap. 2, che cioè allora noi teniamo facilmente
i sogni per realtà, anche dopo il risveglio, quando senza farlo di
proposito abbiamo dormito vestiti; ma soprattutto quando si aggiunge
che un'impresa o un proposito assorbe tutti i nostri pensieri e ci
occupa nel sogno come nella veglia: perché in questi casi il
risvegliarsi viene avvertito quasi tanto poco quanto
l'addormentarsi, il sogno confluisce nella realtà e si confonde con
questa. Allora non rimane in verità altro che l'applicazione del
criterio kantiano: ma se poi, come spesso accade, in nessun modo può
venire scoperto il nesso causale col presente, oppure la sua
mancanza, in tal caso deve per sempre rimaner dubbio se un fatto sia
sognato o accaduto. Qui in verità ci salta agli occhi la stretta
parentela fra vita e sogno: e non ci vergogneremo di confessarla,
dopo che è stata riconosciuta e dichiarata da molti grandi spiriti.
I Veda ed i Purana per l'intera conoscenza del mondo reale, che essi
chiamano il velo di Maya, non conoscono miglior paragone né altro
usano più di frequente, che quello del sogno. Platone dice spesso
che gli uomini non vivono che in sogno, e il solo filosofo
s'affatica a svegliarsi. Pindaro dice (ii, η, 135): σχιας οναρ
ανθρωπος [umbrae somnium homo] e Sofocle:
Ὅρω γαρ ἡμας ουδεν οντας αλλο, πλην
Ειδωλ’, ὁσοιπερ ζωμεν, η χουφην
σχιαν.
Ajax 125,
[Nos enim, quicumque vivimus, nihil aliud esse comperio, quam
simulacra et levem umbram.]
Accanto ai quali sta più degnamente di tutti Shakespeare:
We are such stuff
As dreams are made on, and our little life
Is rounded with a sleep.
Temp., a. 3, sc. 110.
Finalmente era Calderon così profondamente preso da questo pensiero,
che cercò di esprimerlo in un dramma in certo modo metafisico, La
vita è sogno.
Dopo tutti questi passi di poeti sia ora anche a me concesso di
esprimermi con un paragone. La vita e i sogni sono pagine di uno
stesso libro. La lettura continuata si chiama vita reale. Ma quando
l'ora abituale della lettura (il giorno) viene a finire e giunge il
tempo del riposo, allora noi spesso seguitiamo ancora fiaccamente,
senza ordine e connessione, a sfogliare or qua or là una pagina:
spesso è una pagina già letta, spesso un'altra ancora sconosciuta,
ma sempre dello stesso libro. È vero che una pagina letta così
isolatamente è senza connessione con la lettura ordinata: tuttavia
non sta molto indietro a questa, se si pensa che anche il complesso
della lettura ordinata comincia e finisce egualmente all'improvviso,
e si deve quindi considerare come un'unica pagina più lunga.
Sebbene adunque i singoli sogni siano distinti dalla vita reale per
questo, che non entrano nella connessione della esperienza,
connessione che si prosegue costante nella vita, e il risveglio
riveli questa differenza; tuttavia appunto quella connessione
dell'esperienza appartiene già come sua forma alla vita reale, ed
anche il sogno ha da palesare egualmente una connessione, che è a
sua volta in se stesso. Ora, se per giudicare si prende un punto di
vista fuori d'entrambi, non si trova nella loro essenza alcuna
distinzione precisa, e si è costretti a concedere ai poeti, che la
vita sia un lungo sogno.
Volgendoci ora da questa origine empirica, di per sé stante, del
problema circa la realtà del mondo esteriore, per tornare alla sua
origine speculativa, abbiamo bensì trovato che questa si fonda
primamente sulla falsa applicazione del principio di ragione (ossia
nel vederlo anche fra soggetto e oggetto) e poi ancora sulla
confusione delle sue forme, ossia sul fatto che il principio di
ragione della conoscenza veniva trasportato nel dominio dove vige il
principio di ragione del divenire: ma tuttavia difficilmente quel
problema avrebbe potuto occupar così a lungo i filosofi, se fosse
del tutto senza vero contenuto, e non si celasse nel suo intimo,
come vera origine di esso, un qualche pensiero e senso giusto – del
quale si dovesse poi ammettere che, penetrando nella riflessione e
cercando la propria espressione, fosse degenerato in quelle assurde,
incomprensibili forme e quistioni. Così è veramente, secondo io
penso: e come pura espressione di quell'intimo senso finora
inafferrabile del problema, io pongo la domanda: Che cosa è questo
mondo dell'intuizione, oltre ad essere la mia rappresentazione? Il
mondo di cui io sono conscio in un solo modo, cioè come
rappresentazione, non sarebbe, analogamente al mio proprio corpo, di
cui sono conscio in duplice modo, da un lato rappresentazione,
dall'altro volontà? La chiara spiegazione e la risposta affermativa
a questa domanda formerà il contenuto del secondo libro; e le
conclusioni che ne derivano occuperanno il resto dell'opera.
§ 6.
Frattanto consideriamo per ora in questo primo libro il tutto come
semplice rappresentazione, come oggetto per il soggetto: e come ogni
altro oggetto reale, guardiamo anche il nostro corpo, dal quale in
ciascuno muove l'intuizione del mondo, sotto il solo rispetto della
conoscibilità; per il quale è anch'esso una semplice
rappresentazione. È vero che la coscienza comune, la quale già si
rivoltava contro il dichiarar pure rappresentazioni gli altri
oggetti, ancor più si ribella quando il proprio corpo dev'essere
nient'altro che una rappresentazione; il che proviene dal fatto che
ad ognuno la cosa in sé è conosciuta immediatamente in quanto si
manifesta come il suo proprio corpo, e solo mediatamente, in quanto
viene oggettivata negli altri oggetti dell'intuizione. Ma
l'andamento della nostra ricerca rende necessaria questa astrazione,
questa maniera di considerazione unilaterale, questa violenta
separazione di ciò che sostanzialmente è insieme connesso: perciò
quella riluttanza dev'essere provvisoriamente soffocata e
tranquillata dall'attesa che le considerazioni seguenti compiano
l'unilateralità della presente, per venire alla piena cognizione
dell'essenza del mondo.
Il corpo è adunque qui per noi oggetto immediato, ossia quella
rappresentazione, che serve di punto di partenza al conoscimento da
parte del soggetto, per ciò che essa, con le sue modificazioni
immediatamente percepite, precede l'applicazione del principio di
causalità e fornisce a questo i primi dati. Tutta l'essenza della
materia consiste, come s'è dimostrato, nella sua attività. Ma causa
ed effetto esistono solamente per l'intelletto, come quello che non
è altro se non il loro correlato soggettivo. L'intelletto tuttavia
non potrebbe mai pervenire all'applicazione, se non vi fosse
qualcos'altro da cui esso muove. Questa cosa è la sensazione
semplice, la coscienza immediata delle modificazioni del corpo, per
la quale il corpo è oggetto immediato. La possibilità della
conoscenza del mondo dell'intuizione noi la troviamo dunque in due
condizioni. La prima è, se l'esprimiamo oggettivamente, l'attitudine
dei corpi ad agire l'uno sull'altro, producendo reciproche
modificazioni; senza la qual generale proprietà di tutti i corpi
anche mediante la sensibilità dei corpi animali non sarebbe punto
possibile alcuna intuizione. Ma se vogliamo esprimer soggettivamente
questa stessa prima condizione, diciamo: l'intelletto anzitutto
rende possibile l'intuizione: perché soltanto da esso procede e per
esso soltanto vige la legge di causalità, la possibilità di causa ed
effetto; e soltanto per esso e mediante esso esiste quindi il mondo
dell'intuizione. La seconda condizione è invece la sensibilità dei
corpi animali, ossia la proprietà che certi corpi hanno, di essere
oggetti immediati del soggetto. Ora le semplici modificazioni che
subiscono gli organi dei sensi mediante l'azione esterna
specificamente adatta ad essi, sono invero già da chiamare
rappresentazioni, fin quando codeste azioni non producono né dolore
né piacere, ossia non hanno alcun significato per la volontà, e
tuttavia vengono percepite; quindi esistono solo per la conoscenza.
In questo senso dunque io dico che il corpo è conosciuto
immediatamente, è oggetto immediato. Nondimeno il concetto di
oggetto non va qui preso in senso proprio: poiché mediante questa
immediata conoscenza del corpo, la quale precede l'applicazione
dell'intelletto ed è pura sensazione, non il corpo esiste
precisamente come oggetto, bensì soltanto i corpi che agiscono su di
esso; essendo che ogni conoscenza di un vero e proprio oggetto,
ossia di una rappresentazione percettibile nello spazio, può
esistere unicamente mediante e per l'intelletto – quindi non prima,
bensì appena dopo l'applicazione di questo. Quindi il corpo come
vero e proprio oggetto, ossia come rappresentazione intuibile nello
spazio, vien conosciuto solo mediatamente, al modo di tutti gli
altri oggetti, per mezzo dell'applicazione della legge di causalità
all'azione di una delle sue parti sulle altre, quando, per esempio,
l'occhio vede il corpo, o la mano lo tocca. Conseguentemente la
forma del nostro corpo non ci è nota per mezzo della semplice
sensibilità generale; bensì solo per mezzo della conoscenza, solo
nella rappresentazione; ossia solo nel cervello il nostro corpo
viene rappresentato come un che di esteso, di articolato, di
organico. Un cieco nato non riceve questa rappresentazione che a
poco a poco, per mezzo dei dati che il tatto gli fornisce; un cieco
senza mani non conoscerebbe mai la propria forma, o al più la
ricaverebbe e costruirebbe gradualmente dall'azione di altri corpi
su di lui. Con questa restrizione bisogna adunque intendere, quando
chiamiamo il corpo oggetto immediato.
Per altro, in conseguenza di ciò che si è detto, tutti i corpi
animati sono oggetti immediati, ossia punto di partenza per
l'intuizione del mondo, da parte del soggetto che tutto conosce e
appunto perciò non è mai conosciuto. Il conoscere, col muoversi
secondo motivi determinati dalla conoscenza, è quindi il carattere
proprio dell'animalità, come il movimento per effetto di stimoli è
il carattere della pianta: i corpi inorganici invece non hanno altri
movimenti che quelli prodotti da vere e proprie cause nel senso più
stretto. Ho spiegato più ampiamente tutto ciò nello scritto sul
principio di ragione, 2a ed. (§ 20), nell'Etica, prima dissert. (§
3), e in Sulla vista e i colori (§ 1); ai quali luoghi rinvio il
lettore.
Da ciò che ho detto risulta che tutti gli animali hanno intelletto,
anche i più imperfetti: perché tutti conoscono oggetti, e questa
conoscenza determina come motivo i loro movimenti. L'intelletto è in
tutti gli animali e in tutti gli uomini il medesimo, ha sempre la
stessa semplice forma: conoscenza della causalità, passaggio
dall'effetto alla causa e dalla causa all'effetto, e nient'altro. Ma
i gradi della sua acutezza e l'estensione della sua sfera
conoscitiva sono estremamente diversi, variati e in più modi
sviluppati: dal grado più basso, che conosce soltanto il rapporto
causale fra l'oggetto immediato e il mediato, bastando così appena,
col passaggio dall'azione che il corpo subisce alla causa di essa, a
intuire questa come oggetto nello spazio; fino ai gradi più alti
della conoscenza del nesso causale dei semplici oggetti mediati fra
loro – conoscenza che va fino a intendere le più complicate
concatenazioni di cause ed effetti nella natura. Perché quest'ultima
capacità appartiene ancor sempre all'intelletto, non alla ragione; i
cui concetti astratti servono ad accogliere, fissare e collegare ciò
che è stato inteso immediatamente, ma non mai a produrre
l'intendimento medesimo. Ogni forza e ogni legge della natura, ogni
caso in cui quelle si manifestano, deve essere immediatamente
conosciuto dall'intelletto, afferrato intuitivamente, prima di
entrare in abstracto per la ragione nella coscienza riflessa.
Intuitiva, immediata comprensione mediante l'intelletto fu la
scoperta fatta da R. Hookes della legge di gravitazione, e il
ricondurre tanti grandi fenomeni a quest'unica legge, come poi
confermarono i calcoli di Neuton11; tale fu anche per Lavoisier la
scoperta dell'ossigeno e della sua importante funzione nella natura;
tale per Goethe la scoperta del modo di formazione dei colori
naturali. Tutte queste scoperte non sono altro che un esatto,
immediato risalir dall'effetto alla causa, cui tosto segue il
riconoscimento dell'identità della forza naturale manifestantesi in
tutte le cause dello stesso genere: e questa intera penetrazione è
un atto, diverso soltanto nel grado, della medesima ed unica
funzione dell'intelletto, per cui anche un animale intuisce come
oggetto nello spazio la causa agente sul suo corpo. Perciò anche
tutte quelle grandi scoperte sono, proprio come l'intuizione e ogni
manifestazione dell'intelletto, una penetrazione immediata, e, come
tali, l'opera di un attimo, un appergu, un'idea improvvisa, e non il
prodotto di lunghe deduzioni in abstracto; le quali ultime servono
invece a fissare per la ragione, deponendola nei suoi concetti
astratti, l'immediata conoscenza intellettiva, ossia a mettersi in
grado di spiegarla, dichiararla ad altri. Quell'acume
dell'intelletto nell'afferrare le relazioni causali dell'oggetto
conosciuto immediatamente, trova la sua applicazione non solo nella
scienza naturale (che gli deve tutte le sue scoperte), ma anche
nella vita pratica, dove prende il nome di avvedutezza; mentre
invece nel primo uso vien meglio chiamato acutezza, penetrazione e
sagacità: in senso preciso, avvedutezza indica esclusivamente
l'intelletto che sta al servizio della volontà. Tuttavia i limiti di
questi concetti non devono esser tracciati troppo recisamente,
perché si tratta sempre di un'unica funzione del medesimo intelletto
che opera in ogni animale con l'intuizione degli oggetti nello
spazio. Questa nel suo più alto grado ora investiga rettamente nei
fenomeni della natura la causa ignota, partendo da un dato effetto,
e dà così alla ragione la materia per escogitar regole universali,
come leggi della natura; ora, con l'impiego di cause conosciute per
fini prestabiliti, inventa complicate, ingegnose macchine; ora,
applicandosi alla motivazione, o penetra e rende vani sottili
intrighi e macchinazioni, oppure quegli stessi motivi e gli uomini,
che a ciascuno di essi sono sensibili, dispone convenientemente e
mette in moto a suo piacere come macchine mosse da leve e ruote,
guidandoli ai suoi fini. Mancanza d'intelletto si chiama in senso
proprio stupidità, ed è appunto ottusità dell'applicazione della
legge causale, incapacità d'afferrare immediatamente le
concatenazioni di causa ed effetto, motivo ed azione. Uno sciocco
non vede il nesso dei fenomeni naturali, né dove si presentano
abbandonati a se stessi, né dove sono diretti intenzionalmente,
ossia utilizzati nelle macchine: perciò crede volentieri ad arte
magica ed a miracoli. Uno sciocco non osserva che diverse persone,
in apparenza indipendenti le une dalle altre, in realtà agiscono
secondo un accordo prestabilito, e perciò si lascia facilmente
mistificare e raggirare; non osserva i celati motivi di consigli
dati, di giudizi espressi, e così via. Questo solo gli manca
costantemente: acume, sveltezza, facilità nell'applicare la legge di
causalità, ossia gli manca la forza dell'intelletto. Il maggiore, e
per l'argomento che ci occupa più istruttivo esempio di stupidità,
che mi sia mai capitato, era un ragazzo di circa undici anni, del
tutto idiota, al manicomio: il quale aveva sì l'uso di ragione,
perché parlava ed ascoltava, ma per intelletto stava al di sotto di
più di un animale. Imperocché ogni volta ch'io venivo, osservava un
paio d'occhiali che portavo al collo e in cui si riflettevano le
finestre della stanza con le cime degli alberi prospicienti: di ciò
aveva ogni volta maraviglia e gioia grande, né si stancava di
contemplare con stupore; perché non comprendeva questa causalità
affatto immediata del riflesso.
Come negli uomini sono assai differenti i gradi dell'acume
intellettuale, così fors'anche più differenti sono fra le varie
specie animali. Ma in tutte, e perfino in quelle che stanno più
vicine alla pianta, è tuttavia tanto intelletto quanto basta per il
passaggio dell'azione sull'oggetto immediato all'oggetto mediato
come causa: quanto basta dunque per l'intuizione, per
l'apprendimento di un oggetto; perché l'intuizione appunto fa che
siano animali, porgendo loro la possibilità di muoversi secondo dati
motivi e quindi di cercare o almeno di ghermire il nutrimento. Le
piante invece hanno solo un moto prodotto da stimoli, di cui debbono
attendere l'azione diretta, oppure languire, senza poterne andare in
traccia o afferrarle. Negli animali più perfetti ammiriamo la grande
sagacia: per esempio nel cane, nell'elefante, nella scimmia, nella
volpe, la cui astuzia ha così magistralmente descritta il Buffon. In
questi animali più intelligenti possiamo con sufficiente precisione
misurare quanto possa l'intelletto senza l'aiuto della ragione,
ossia della conoscenza astratta per concetti; in noi stessi non
possiamo giudicar di questo egualmente, perché in noi intelletto e
ragione si sorreggono sempre a vicenda. Perciò troviamo sovente le
manifestazioni d'intelligenza presso gli animali ora sopra ora sotto
la nostra aspettazione. Da un lato ci sorprende la sagacia di
quell'elefante il quale, dopo esser passato su molti ponti durante
il suo viaggio in Europa, si rifiuta un giorno di varcarne uno, sul
quale vede tuttavia passar come al solito la carovana di uomini e
animali di cui fa parte, sol perché gli sembra troppo leggermente
costruito per il suo peso; ma dall'altra parte ci meravigliamo che
gli intelligenti oranghi non alimentino, aggiungendovi legna, il
fuoco da essi trovato sul camino, al quale si scaldano: prova che
questo richiederebbe già una riflessione, la quale senza concetti
astratti è impossibile. Che il conoscimento di causa ed effetto,
come forma universale dell'intelletto, sia insito a priori negli
animali, è invero già pienamente sicuro pel fatto che quel
conoscimento è per essi, come per noi, la condizione prima d'ogni
conoscimento intuitivo del mondo esterno. Se poi si vuole averne
ancora una prova particolare, basti considerar per esempio come
finanche un giovanissimo cane non osi saltar giù dalla tavola, per
quanto desiderio ne abbia, perché prevede l'effetto del peso del suo
corpo; pur senza aver prima sperimentato questa caduta. Nel giudicar
l'intelletto degli animali, noi dobbiamo tuttavia guardarci
dall'attribuirgli ciò che è manifestazione dell'istinto; proprietà
la quale, sebbene affatto diversa dall'intelletto, com'anche dalla
ragione, pure opera spesso in modo assai analogo all'azione
combinata dell'intelletto e della ragione. La spiegazione di ciò non
appartiene a questo luogo, ma troverà il suo posto nel secondo
libro, dove si tratta della armonia o cosiddetta teleologia della
natura; ed a tale spiegazione è consacrato esclusivamente il 27°
capitolo dei Supplementi12.
Mancanza d'intelletto si chiama stupidità; mancato impiego della
ragione nel campo pratico riconosceremo in seguito per insania; così
anche mancanza di giudizio, per scempiaggine; e infine parziale o
completa mancanza di memoria per follia. Ma d'ogni cosa si tratterà
a suo luogo. Ciò che dalla ragione vien riconosciuto esatto è
verità, ossia un giudizio astratto con ragion sufficiente
(Dissertazione sul principio di ragione, § 29 sgg.): ciò che vien
riconosciuto esatto dall'intelletto è realtà, ossia legittimo
passaggio alla causa dall'effetto prodotto nell'oggetto immediato.
Alla verità si contrappone l'errore come inganno della ragione, alla
realtà l'illusione come inganno dell'intelletto. L'illustrazione più
ampia di tutto ciò è da leggersi nel primo capitolo del mio scritto
sopra la vista ed i colori. Illusione si ha quando uno stesso
effetto può esser prodotto da due cause del tutto diverse, delle
quali l'una agisce molto spesso, e l'altra raramente: l'intelletto,
che non ha alcun dato per distinguere quale causa agisca in quel
caso, poiché l'effetto è proprio il medesimo, presuppone allora una
volta per tutte la causa più frequente; e non essendo la sua
attività riflessiva e discorsiva, ma diretta ed immediata, quella
falsa causa sta davanti a noi come oggetto intuito, il che, appunto
costituisce la falsa apparenza. Come sorga in questo modo la doppia
percezione visiva o tattile, quando gli organi sensorii sono
adoprati in una posizione non abituale, ho già mostrato nel luogo
citato; e appunto con ciò ho fornito una prova indiscutibile del
fatto che l'intuizione si ha solo mediante l'intelletto e per
l'intelletto. Esempi di questo inganno dell'intelletto, o illusione,
sono inoltre il bastone immerso nell'acqua, che sembra spezzato; le
immagini degli specchi sferici, che se la superficie è convessa
appariscono alquanto indietro di questa, e se la superficie è
concava appariscono davanti alla superficie stessa, a una certa
distanza. Qui anche va ricordata la dimensione apparentemente
maggiore della luna all'orizzonte che allo zenith, non per effetto
di ottica; perché, come dimostra il micrometro, l'occhio vede anzi
la luna allo zenith in un angolo visuale alquanto più grande che
all'orizzonte; ma per l'intelletto, il quale attribuisce il più
debole splendore della luna e delle altre stelle sull'orizzonte ad
una loro distanza maggiore, considerandole secondo la prospettiva
aerea come oggetti terrestri; perciò ritiene la luna all'orizzonte
molto più grossa che allo zenith, e anche la volta celeste ritiene
più ampia all'orizzonte, quasi fosse più distesa. Lo stesso falso
apprezzamento dovuto alla prospettiva aerea ci fa ritenere più
vicine dal vero, con pregiudizio della loro altezza, altissime
montagne, di cui la sola vetta è a noi visibile nella pura aria
trasparente, come per esempio il Monte Bianco visto da Salenche. E
tutte queste illusioni ingannatrici stanno davanti a noi come
intuizione immediata, che non si può allontanare per mezzo d'alcun
ragionamento. Quest'ultimo può solo impedir l'errore, ossia un
giudizio senza ragion sufficiente, contrapponendogli un giudizio
esatto: come per esempio il conoscere in abstracto che non la
maggior distanza, bensì i vapori più densi all'orizzonte sono cause
del più debole splendore della luna e delle stelle. Ma l'illusione
rimarrà incrollabile in tutti i casi citati, malgrado qualsivoglia
conoscenza astratta: perché l'intelletto è completamente e
nettamente separato dalla ragione – facoltà conoscitiva aggiuntasi
esclusivamente all'uomo – ed è in se stesso a dir vero irragionevole
anche nell'uomo. La ragione non può che sapere: al solo intelletto,
e libero dall'influsso di quella, rimane l'intuizione.
§ 7.
Sul proposito di tutta la nostra precedente considerazione è forse
ancora da osservare quanto segue. In essa non abbiamo preso le mosse
né dall'oggetto né dal soggetto; bensì dalla rappresentazione, la
quale già li contiene e presuppone entrambi; poiché la divisione in
oggetto e soggetto è la sua forma prima, più generale e più
essenziale. Abbiamo dunque dapprima considerato questa forma come
tale, dipoi (pur rinviando per la sostanza alla dissertazione
introduttiva) le altre forme a lei subordinate, tempo, spazio e
causalità; le quali appartengono soltanto all'oggetto. Ma poiché
esse sono essenziali a questo in quanto è tale, e l'oggetto a sua
volta è essenziale al soggetto in quanto soggetto, possono dal
soggetto stesso venir trovate, ossia conosciute a priori; e pertanto
sono da considerare come limite comune d'entrambi. Ma tutte si
lascian ricondurre ad una comune espressione – il principio di causa
– com'è ampiamente mostrato nella dissertazione introduttiva.
Ora, questo procedimento distingue affatto la nostra concezione
dalle filosofie tentate finora, come quelle che tutte partivano o
dall'oggetto o dal soggetto, e per conseguenza cercavano di spiegare
l'uno mediante l'altro, precisamente secondo il principio di
ragione, alla signoria del quale noi veniamo invece a sottrarre il
rapporto tra oggetto e soggetto, lasciandole solamente l'oggetto. Si
potrebbe considerar come non compresa nella suaccennata
contrapposizione di sistemi filosofici la filosofia della identità,
sorta a' nostri giorni e universalmente conosciuta; in quanto questa
non fa né l'oggetto né il soggetto il vero e primo punto di
partenza, bensì un terzo, l'Assoluto, conoscibile mediante
l'intuizione razionale; il quale non è né oggetto né soggetto, ma
identità di entrambi. Sebbene io, per assoluta mancanza d'ogni
intuizione razionale, non presuma entrare a discorrere con gli altri
della suddetta venerabile identità e dell'assoluto, devo tuttavia
osservare, fondandomi sui protocolli aperti a tutti, anche a noi
profani, di coloro i quali sanno intuire razionalmente, che la detta
filosofia non va eccettuata dalla opposizione di due errori più
sopra esposta. Perché essa, malgrado l'identità di soggetto e
oggetto – identità che non può esser pensata, ma solo intuita
intellettualmente o appresa mediante uno speciale assorbimento in
lei – non evita tuttavia quei due errori opposti, ma piuttosto li
unisce in sé, scindendosi ella medesima in due discipline: ossia in
primo luogo l'idealismo trascendentale, che è la teoria fichtiana
dell'io, e per conseguenza, secondo il principio di ragione, fa
venir l'oggetto fuori dal soggetto o svolto da questo come un filo
dalla rocca; e in secondo luogo la filosofia della natura, che
egualmente fa sviluppare a poco a poco il soggetto dall'oggetto, con
l'impiego di un metodo che vien chiamato costruzione. Di questo ben
poco m'è chiaro, ma abbastanza per vedere che esso è un avanzar
progressivo secondo il principio di ragione in forme svariate. Alla
profonda sapienza, che quella filosofia contiene, rinunzio; poiché
per me, cui manca del tutto l'intuizione razionale, tutti quei
discorsi che la presuppongono devono essere un libro chiuso con
sette suggelli. Il che poi anche è vero in tal grado, che – strano a
dirsi – davanti alla profonda saggezza di quelle dottrine ho
l'impressione di non ascoltar nient'altro che spaventose e per di
più noiosissime fanfaronate.
I sistemi che prendevano le mosse dall'oggetto si ponevano invero
sempre come problema tutto il mondo dell'intuizione e il suo
ordinamento; ma l'oggetto, che essi stabiliscono come punto di
partenza, non è sempre quel mondo, o la materia, suo elemento
fondamentale: piuttosto si può fare una partizione di tali sistemi
conformemente alle quattro classi di oggetti possibili, fissate
nella dissertazione introduttiva. Si può dire così che dalla prima
di quelle classi, ossia dal mondo reale, sono partiti: Talete e la
scuola jonica, Democrito, Epicuro, Giordano Bruno ed i materialisti
francesi. Dalla seconda, ossia dal concetto astratto: Spinoza
(precisamente dal puro concetto astratto di sostanza esistente
soltanto nella sua definizione) e innanzi a lui gli Eleati. Dalla
terza classe, ossia dal tempo, e conseguentemente dai numeri: i
Pitagorici e la filosofia chinese dell'I-king. Finalmente, dalla
quarta classe, ossia dall'atto di volontà motivato dalla conoscenza:
gli scolastici, che insegnano una creazione dal Nulla, mediante
l'atto di volontà di un essere personale fuori del mondo.
Il metodo obiettivo si può sviluppare con maggior conseguenza e
condur più lontano quando si presenta come vero e proprio
materialismo. Questo pone la materia, e con lei tempo e spazio, come
esistenti assolutamente, e trascura il rapporto col soggetto, senza
pensare che materia, tempo e spazio esistono solo in questo. Prende
poi per filo conduttore la legge di causalità, e con essa vuole
avanzare, considerandola come un ordine delle cose in sé esistente,
veritas aeterna; passando così sopra all'intelletto, nel quale e per
il quale esclusivamente esiste causalità. Poi cerca di trovare il
primo, più semplice stato della materia, e quindi ricavare da esso
gli altri, salendo dal puro meccanismo al chimismo, alla polarità,
alla vegetazione, all'animalità: e supposto che ciò riesca, ultimo
anello della catena sarebbe la sensibilità animale, il conoscere:
che comparirebbe quindi a questo punto come una semplice
modificazione della materia, uno stato di questa prodotto dalla
causalità. Ora, se noi avessimo seguito fin là, con rappresentazioni
intuitive, il materialismo, appena giunti con esso al suo vertice
saremmo stati presi da un accesso del riso inestinguibile degli
Olimpi: accorgendoci d'un tratto, come svegliati da un sogno, che il
suo ultimo risultato così faticosamente raggiunto – la conoscenza –
era già presupposto come condizione assoluta fin dal primissimo
punto di partenza, dalla semplice materia; e noi c'eravamo figurati
di pensare col materialismo la materia, mentre in realtà nient'altro
avevamo pensato che il soggetto, il quale rappresenta la materia,
l'occhio che la vede, la mano che la sente, l'intelletto che la
conosce. Così sarebbe venuta inaspettatamente a scoprirsi l'enorme
petitio principii: quando all'improvviso l'ultimo anello si fosse
presentato come il punto d'appoggio dal quale già pendeva il primo,
e la catena come un circolo; il materialista avrebbe rassomigliato
al Barone di Munchhausen, il quale, nuotando a cavallo nell'acqua,
con le gambe solleva il cavallo, e solleva se stesso tirandosi pel
codino della propria parrucca ripiegato sul davanti. Perciò
l'assurdità fondamentale del materialismo consiste in questo, che
parte dall'oggettivo, e un oggettivo prende come termine: sia poi
questo la materia, in abstracto, come essa viene solamente pensata,
o la materia data empiricamente, che già ha preso forma, ossia la
materia costitutiva, come per esempio i corpi chimici semplici, con
le loro combinazioni più elementari. Cotali cose prende il
materialismo come esistenti in sé e assolutamente, per farne
scaturire la natura organica e infine il soggetto conoscente, dando
con ciò piena spiegazione di quella e di questo – mentre in realtà
ogni elemento oggettivo, già in quanto tale, ha in varia maniera per
condizione il soggetto conoscente, secondo le forme della sua
conoscenza, e quelle forme presuppone; sì che svanisce del tutto, se
si toglie di mezzo il soggetto. Il materialismo è adunque il
tentativo di spiegar ciò che ci è dato immediatamente con ciò che ci
è dato mediatamente. Tutto l'oggettivo, l'esteso, l'agente, cioè
tutta la materialità, che dal materialismo è ritenuta così solido
fondamento delle sue spiegazioni da non potersi più altro desiderare
dopo essere stati ricondotti a quella (massimamente se mette capo da
ultimo alla legge di azione e reazione), tutto questo, dico io, è
qualcosa che è dato più che mediatamente e condizionatamente, sì da
avere un'esistenza appena relativa: perché è passato attraverso il
meccanismo e la fabbricazione del cervello, e penetrato così nelle
forme di questo, tempo, spazio, causalità; in grazia delle quali
comincia a presentarsi come esteso nello spazio ed agente nel tempo.
Con un tal dato pretende il materialismo di spiegare persino il dato
immediato ossia la rappresentazione (in cui quello è tutto compreso)
e finalmente la volontà stessa, con la quale piuttosto sono in
realtà da spiegare tutte quelle forze elementari che si manifestano
legittimamente, seguendo il filo conduttore delle cause.
All'affermazione, che il conoscere sia modificazione della materia,
si contrappone sempre con egual diritto l'altra, che ogni materia
non è se non modificazione del conoscere nel soggetto, come
rappresentazione di questo. Nondimeno il fine e l'ideale di tutta la
scienza della natura è una compiuta attuazione del materialismo.
Ora, l'opinione che riconosce questo come palesemente impossibile è
confermata da un'altra verità, che sarà per risultare dal seguito
della nostra indagine: che cioè nessuna scienza nel significato
preciso della parola – con la quale io intendo la conoscenza
sistematica secondo il principio di ragione – può raggiungere una
mèta finale né una spiegazione che soddisfi del tutto; perché non
coglie mai la più intima essenza nel mondo, né mai può andare oltre
la rappresentazione; bensì piuttosto null'altro insegna, in fondo,
che il rapporto d'una rappresentazione con l'altra.
Ciascuna scienza parte sempre da due dati fondamentali. Di questi,
l'uno è costantemente il principio di ragione, in una forma
qualsiasi come organo; l'altra, il suo oggetto particolare, come
problema. Così ad esempio la geometria ha per problema lo spazio, e
come organo il principio d'esistenza nello spazio; l'aritmetica ha
come problema il tempo, e il principio dell'essere nel tempo come
organo; la logica ha per problema il collegamento dei concetti come
tali, e per organo il principio di conoscenza; la storia ha come
problema i fatti accaduti agli uomini nel loro complesso, e il
principio di motivazione come organo; la scienza naturale infine ha
la materia come problema, e come organo la legge di causalità. Sua
mèta e suo scopo è quindi ricondurre l'uno all'altro e finalmente ad
uno stato unico, seguendo il filo conduttore della causalità, tutti
i possibili stati della materia; poi viceversa dedurli gli uni dagli
altri, e alla fine da un unico stato. Due stati si trovano adunque
come estremi nella storia naturale: lo stato in cui la materia è nel
minor grado, e quello in cui essa è nel maggior grado oggetto
immediato del soggetto: ossia la bruta, inerte materia, la materia
primitiva, da una parte; e dall'altra l'organismo umano. La scienza
naturale in quanto è chimica studia la prima, in quanto fisiologia
il secondo. Ma finora questi due estremi non sono stati raggiunti, e
s'è conquistato solo qualche punto fra di essi. Anzi, le prospettive
sono alquanto disperate. I chimici, in base alla premessa che la
divisibilità qualitativa della materia non vada all'infinito come la
quantitativa, cercano di ridurre sempre più il numero dei suoi corpi
semplici, che sono ancora circa 60: e li avessero pure ridotti a
due: ancora vorrebbero ricondur questi due ad uno solo. Imperocché
la legge d'omogeneità conduce alla ipotesi di un primo stato chimico
della materia, che solo appartiene alla materia in quanto tale, ed
ha preceduto tutti gli altri, come quelli che alla materia in quanto
materia non sono essenziali, bensì appaiono forme e qualità casuali
di essa. Per altro non si riesce a vedere come un tale stato, non
essendovene un secondo in grado di agire su di esso, abbia potuto
subire una trasformazione chimica; dal che nasce qui nel campo
chimico il medesimo imbarazzo in cui cadde in fatto di meccanica
Epicuro, quand'ebbe da mostrare come il primo atomo fosse deviato
dalla direzione originaria del suo moto. Questa contraddizione, che
sorge di per se stessa e non si può né impedire né risolvere,
potrebbe benissimo esser presentata come un'antinomia chimica: e
come essa si trova qui al primo dei due estremi della scienza
naturale, così verrà a mostrarsi all'altro estremo una
contraddizione corrispondente. Altrettanto poca speranza v'ha di
raggiungere quest'altro estremo; perché sempre più si comprende che
non può un fenomeno chimico essere ricondotto ad un fenomeno
meccanico, né un fenomeno organico ad un fenomeno chimico o
elettrico. E coloro che oggi s'incamminano di nuovo per questo
sentiero fallace dovranno ben presto ritrarsene quatti quatti, come
tutti i loro predecessori. Di ciò sarà fatto più ampio discorso nel
libro seguente. Le difficoltà qui ricordate di sfuggita si oppongono
alla scienza naturale nel suo stesso territorio. Presa come
filosofia, ella sarebbe inoltre materialismo: ma questo porta fin
dalla nascita, come abbiamo veduto, la morte nel cuore, perché passa
sopra al soggetto e alle forme della conoscenza; le quali nondimeno
vanno premesse tanto per la più bruta materia, da cui il
materialismo vorrebbe muovere, quanto per la materia organica, a cui
vuol pervenire. Imperocché «nessun oggetto senza soggetto» è il
principio, che rende per sempre impossibile ogni materialismo. Sole
e pianeti, senza un occhio che li veda e un intelletto che li
conosca, si possono bensì esprimere a parole: ma queste parole sono
per la rappresentazione un sideroxylon. È vero d'altra parte che la
legge di causalità e l'osservazione e la ricerca della natura, che
su quella si fonda, ci conducono necessariamente alla certezza che
ogni più perfetto stato organico della materia ha seguito nel tempo
uno stato più grossolano: che cioè gli animali sono comparsi prima
degli uomini, i pesci prima degli animali terrestri, le piante anche
prima dei pesci, la materia inorganica prima della organica; che
quindi la materia primitiva ha dovuto traversare una lunga serie di
modificazioni, innanzi che il primo occhio si aprisse. E tuttavia
l'esistenza del mondo intero rimane sempre dipendente da questo
primo occhio che si è aperto – fosse pure stato l'occhio di un
insetto – come dall'indispensabile intermediario della conoscenza,
per la quale e nella quale esclusivamente il mondo esiste, e senza
la quale esso non può nemmeno essere pensato: perché il mondo è
semplicemente rappresentazione; e tale essendo, abbisogna del
soggetto conoscente come fondamento della sua esistenza. Anzi,
quella medesima lunga successione di tempi, riempita da innumerevoli
trasformazioni, attraverso cui la materia si elevò di forma in forma
fino all'avvento del primo animale conoscente, può esser pensata
soltanto nell'identità di una coscienza: di cui essa costituisce la
serie delle rappresentazioni e la forma della conoscenza. Senza
quest'identità, tale successione perde ogni senso e non è più nulla.
Così vediamo da un lato l'esistenza del mondo intero dipendere di
necessità dal primo essere conoscente, per quanto sia quest'ultimo
ancora imperfetto; e dall'altro lato con la stessa necessità questo
primo animale conoscente dipendere in tutto e per tutto da una lunga
catena anteriore di cause e di effetti, alla quale esso viene ad
aggiungersi come un piccolo anello. Queste due opposte vedute, a
ciascuna delle quali siamo invero condotti da una pari necessità, si
potrebbero dire anch'esse un'antinomia nella nostra facoltà
conoscitiva, e porre a riscontro dell'antinomia trovata alla prima
estremità della scienza naturale; mentre la quadrupla antinomia di
Kant sarà dimostrata una inconsistente illusione nella critica della
filosofia kantiana che fa da appendice all'opera presente. La
contraddizione che qui da ultimo ci è necessariamente risultata si
risolve tuttavia osservando che, per parlare nel linguaggio di Kant,
tempo, spazio e causalità non appartengono alla cosa in sé, bensì
esclusivamente al suo fenomeno, del quale essi sono forma; il che
nel linguaggio mio viene a dire che il mondo oggettivo, il mondo
come rappresentazione non è l'unico, bensì è uno degli aspetti, anzi
l'aspetto esteriore del mondo; il quale ha poi un tutt'altro
aspetto, che è la sua intima essenza, il suo nocciolo, la cosa in
sé: e questo noi esamineremo nel libro seguente, dandogli il nome
della più immediata fra le sue oggettivazioni – volontà. Ma il mondo
come rappresentazione, il solo che qui consideriamo, comincia
veramente dall'aprirsi del primo occhio, senza il quale mezzo della
conoscenza esso non può esistere, e quindi non esisteva
anteriormente. Ma senza quell'occhio, ossia senza la conoscenza, non
c'era neppure nulla di anteriore, non c'era il tempo. Tuttavia non
per ciò il tempo ha un principio, essendo invece ogni principio in
esso: ma poi che il tempo è la forma più generale della conoscenza,
in cui tutti i fenomeni vengono a connettersi mediante il vincolo
della causalità, anche il tempo comincia ad esistere, in tutta la
sua bilaterale infinità, con la prima conoscenza. Il fenomeno che
riempie questo primo presente deve esser conosciuto come causalmente
collegato e dipendente da una serie di fenomeni, che si stende
all'infinito nel passato; il qual passato tuttavia è anch'esso
altrettanto sotto condizione di questo primo presente, come
viceversa questo di quello. Sicché, come il primo presente, anche il
passato da cui esso deriva dipende dal soggetto conoscente e non è
nulla senza di questo. Tuttavia il passato genera la necessità, che
questo primo presente non apparisca come veramente primo, ossia come
principio del tempo, senz'avere alcun passato per padre, bensì come
seguito del passato, secondo il principio d'esistenza nel tempo. E
così anche il fenomeno che lo riempie apparirà come effetto di stati
anteriori, che riempivano quel passato secondo la legge di
causalità. Chi ama le sottigliezze simboliche della mitologia può
considerare come l'immagine del momento qui rappresentato, in cui
principia il tempo, che tuttavia non ha principio, la nascita di
Kronos (χρόονος‘) il più giovine titano; col quale, avendo egli
evirato il padre, cessano i mostruosi prodotti del cielo e della
terra, e viene in iscena la razza degli dèi e degli uomini.
Questa esposizione, nella quale siamo venuti seguendo le tracce del
più conseguente fra i sistemi filosofici che prendono le mosse
dall'oggetto – il materialismo, – serve nello stesso tempo a fare
intuire l'indissolubile dipendenza reciproca, accompagnata da
un'opposizione indistruttibile, fra soggetto ed oggetto; la qual
conoscenza è di guida a cercare l'intima essenza del mondo, la cosa
in sé, non più in uno di quei due elementi della rappresentazione,
ma piuttosto in alcunché di affatto diverso dalla rappresentazione,
che non sia partecipe di tale originaria, essenziale e quindi
insolubile contraddizione.
Contro il su esposto dipartirsi dall'oggetto, per fare sviluppare da
questo il soggetto, sta il partire dal soggetto per far spuntar
fuori da questo l'oggetto. Se frequente e generale è stato in tutte
le filosofie fino al giorno d'oggi quel primo sistema, del secondo
si trova invece un unico esempio, e recentissimo: la pseudofilosofia
di J. G. Fichte. Il quale merita quindi di venir notato sotto questo
rispetto, per quanto poco genuino pregio e intimo contenuto abbia
avuto la sua dottrina in sé stessa; essendo stata in verità
nient'altro che un vaniloquio, il quale, esposto tuttavia con aria
di profondissima gravità, tono sostenuto e vivo calore, e difeso con
abile polemica contro deboli avversari, poteva brillare e aver
l'apparenza d'essere qualche cosa. Ma a questo come a tutti gli
altri somiglianti filosofi, che si conformano alle circostanze,
mancava affatto la vera serietà, che insensibile a tutti gli
influssi esteriori tien l'occhio fisso imperturbabilmente alla sua
mèta – la verità. Né a lui di certo poteva capitare altrimenti.
Imperocché il filosofo diventa sempre tale in virtù di una
perplessità, che egli cerca di superare, e che è il θαυμαζειν di
Platone,che Platone medesimo chiama μαλα φιλοσοφικον παθος. Ma qui i
falsi filosofi si distinguono dai veri, in questo, che nei veri
quella perplessità nasce dalla vista diretta del mondo; negli altri
invece soltanto da un libro, da un sistema, che si trovano già belli
e pronti. E questo era anche il caso di Fichte, che divenne filosofo
solo a proposito della cosa in sé di Kant e senza di questa
probabilissimamente si sarebbe occupato di tutt'altre cose con molto
miglior successo, poiché possedeva un notevole talento retorico. Ma,
se fosse almeno penetrato un po' addentro nel senso del libro che
fece di lui un filosofo – la Critica della ragion pura – avrebbe
capito che lo spirito della dottrina fondamentale della Critica è il
seguente: che il principio di ragione non è, come vuole tutta la
filosofia scolastica, una veritas aeterna, ossia non ha un valore
incondizionato, fuori e sopra del mondo: bensì soltanto un valore
relativo e condizionato, valido esclusivamente nel fenomeno, sia che
si presenti come nesso necessario dello spazio o del tempo, o come
legge di causalità o come legge del principio di conoscenza; che
quindi l'essenza interna del mondo, la cosa in sé, non può mai
essere trovata seguendo il principio di ragione, ma tutto ciò, a cui
questo conduce, è ancora alla sua volta dipendente e relativo, è
sempre soltanto un fenomeno, non cosa in sé; che inoltre il
principio di ragione non si applica punto al soggetto, ma è solo
forma degli oggetti, i quali appunto perciò non sono cose in sé; e
con l'oggetto si presenta immediatamente insieme il soggetto, e
quello con questo; sì che né l'oggetto può venir dopo il soggetto né
questo dopo quello, come un effetto viene dopo la sua causa. Ma
nulla di tutto ciò è minimamente penetrato in Fichte; la sola cosa
che lo interessava in questo era il partire dal soggetto; via scelta
da Kant per dimostrare falso il partire dall'oggetto, come s'era
usato fino allora, il quale oggetto era perciò diventato la cosa in
sé. Invece Fichte prese il partir dal soggetto per la cosa
importante; suppose, come tutti gli imitatori, che se egli in ciò
andasse più lontano di Kant, perverrebbe a superarlo; e ripetè in
quest'indirizzo gli errori, che fino allora aveva commesso il
dogmatismo, provocando appunto con ciò la critica di Kant. Così
nulla era mutato nella sostanza; e il vecchio errore fondamentale,
l'ammissione di un rapporto di causa ed effetto tra oggetto e
soggetto, continuò come per l'innanzi; quindi il principio di
ragione conservò, proprio come prima, un valore incondizionato. E la
cosa in sé, invece di stare come al solito nell'oggetto, veniva ora
trasferita nel soggetto della conoscenza; ma la completa relatività
di entrambi – la quale indica che la cosa in sé, ossia l'intera
essenza del mondo, non va cercata in essi, bensì fuori di questa
come d'ogni altra esistenza condizionata – seguitò a rimanere, come
per l'innanzi, sconosciuta. Proprio come se Kant non fosse esistito,
il principio di ragione è in Fichte ancora quel che era in tutti gli
scolastici, una aeterna veritas. Imperocché, come imperava sugli dèi
degli antichi l'eterno fato, così imperavano sul Dio degli
scolastici quelle aeternae veritates, ossia le verità metafisiche,
matematiche e metalogiche, e presso alcuni anche la validità della
legge morale. Queste sole verità erano affatto indipendenti da
tutto: e in virtù della loro necessità esistevano tanto Dio che il
mondo. In virtù adunque del principio di ragione, come d'una tale
veritas aeterna, è l'Io per Fichte causa del mondo, ossia del
Non-io, dell'oggetto: il quale appunto è sua conseguenza, sua
produzione. Perciò si è ben guardato dall'esaminare o controllare
più oltre il principio di ragione. Ma s'io dovessi indicare la forma
di quel principio, seguendo la quale Fichte fa venir fuori il Non-io
dall'Io, come dal ragno la sua tela, troverei che è il principio
della ragione dell'essere nello spazio: perché solo riferendosi a
questo acquistano un qualche senso e significato quelle tormentose
deduzioni del modo come l'Io produce dal suo seno e fabbrica il
Non-io – deduzioni le quali costituiscono il contenuto del più
insensato e, anche solo per questo, del più noioso libro che mai sia
stato scritto. La filosofia fichtiana, pel resto neppur degna di
ricordo, c'interessa soltanto come il vero e proprio contrapposto,
comparso tardi, dell'antichissimo materialismo; il quale era il più
conseguente sistema che partisse dall'oggetto, come quella il più
conseguente fra i sistemi che partono dal soggetto. Come il
materialismo non s'accorgeva, che insieme col più semplice oggetto
veniva a stabilire contemporaneamente anche il soggetto, così non
s'accorgeva Fichte che insieme col soggetto (lo chiamasse poi come
voleva) aveva già stabilito anche l'oggetto, perché nessun soggetto
può esser pensato senza oggetto; e inoltre gli sfuggiva il fatto che
ogni deduzione a priori, anzi in generale ogni dimostrazione, poggia
sopra una necessità, ma ogni necessità si fonda esclusivamente sul
principio di ragione. Imperocché l'esser necessario e il derivare da
una data causa sono concetti equivalenti13. E gli sfuggì che il
principio di ragione non è altro se non l'universal forma
dell'oggetto come tale, sì che già presuppone l'oggetto, né può
viceversa, vigendo all'infuori e prima di quello, produrlo e farlo
nascere conformemente alla propria legge. Insomma, adunque, il
partir dal soggetto ha in comune col su esposto partir dall'oggetto
il medesimo errore, di ammettere in anticipazione ciò che afferma di
dedurre solo in seguito, ossia il necessario correlato del suo punto
di partenza.
Ora, da codesti due contrari equivoci il nostro metodo si distingue
toto genere, in quanto noi non partiamo né dall'oggetto né dal
soggetto, ma dalla rappresentazione, come primo fatto della
coscienza, di cui è essenzialissima forma fondamentale lo sdoppiarsi
in oggetto e soggetto. La forma dell'oggetto alla sua volta è il
principio di ragione nelle sue differenti forme, ciascuna delle
quali domina talmente la classe di rappresentazioni a lei spettante,
che, come s'è mostrato, con la conoscenza di tale forma è conosciuta
insieme l'essenza dell'intera classe; non essendo questa (come
rappresentazione) nient'altro per l'appunto che quella forma
medesima. Così il tempo non è altro che il principio dell'essere nel
tempo, ossia successione; lo spazio nient'altro che il principio di
ragione nello spazio, ossia posizione; la materia nient'altro che
causalità; il concetto (come sarà subito dimostrato) niente altro
che relazione col principio di conoscenza. Questa integrale e
costante relatività del mondo come rappresentazione, sia nella sua
forma più generale (soggetto e oggetto), sia in quella sottoposta
alla prima (principio di ragione), ci richiama, come s'è detto, a
cercar l'intima essenza del mondo in un aspetto di esso del tutto
diverso dalla rappresentazione – un aspetto che il libro seguente
dimostrerà come cosa non meno immediatamente certa in ogni essere
vivente.
Tuttavia bisogna dapprima esaminare ancora quella classe di
rappresentazioni, che appartiene soltanto all'uomo: classe che ha
per materia il concetto, e per correlato soggettivo la ragione; come
correlato delle rappresentazioni finora considerate erano intelletto
e sensibilità, che sono proprii di tutti gli animali14.
§ 8.
Come dalla diretta luce del sole al derivato riflesso della luna,
passiamo ora dalla rappresentazione intuitiva, immediata, che
sostiene e garentisce se stessa, alla riflessione: agli astratti,
discorsivi concetti della ragione, che tutto il loro contenuto hanno
solo da quella conoscenza intuitiva ed in rapporto a lei. Fino a
quando noi restiamo nella pura intuizione, tutto è chiaro, solido e
sicuro. Non ci sono problemi, né dubbi, né errori: non si domanda di
più, non si può andar oltre; si ha riposo nell'atto d'intuire,
soddisfazione nel presente. L'intuizione basta a se stessa: quindi
ciò che da lei scaturisce puro ed a lei è rimasto fedele, come per
esempio la genuina opera d'arte, non può mai essere falso, né essere
giammai confutato: perché non si tratta di opinione, bensì della
cosa stessa. Con la conoscenza astratta invece, con la ragione,
penetrano nel campo teoretico il dubbio e l'errore, nel campo
pratico l'ansia e il pentimento. Se nella rappresentazione intuitiva
l'apparenza può per qualche istante deformare la realtà, viceversa
nella rappresentazione astratta l'errore può dominare per secoli,
imporre a popoli interi il suo giogo di ferro, soffocare le più
nobili aspirazioni dell'umanità; e perfino colui, ch'esso non riesce
a ingannare, può far mettere in ceppi dai proprii schiavi, vittime
dell'inganno. Esso è il nemico, contro il quale i più saggi spiriti
d'ogni tempo sostennero una lotta disuguale; e soltanto ciò, che
quelli hanno a lui strappato, è divenuto patrimonio della umanità.
Per questo è bene richiamar subito l'attenzione su di esso, mentre
cominciamo a mettere il piede sul suolo ove si estende il suo
dominio. Per quanto sia stato detto sovente che bisogna seguir le
tracce della verità, anche dove non c'è da sperare alcun vantaggio,
potendo questo essere indiretto e venire quando non lo si aspetta:
tuttavia io qui voglio ancora aggiungere che in egual modo bisogna
darsi da fare per iscoprire e disperdere ogni errore, pur dove non è
da attenderne alcun danno: anche il danno potendo essere indiretto,
e comparire inaspettatamente, perché ogni errore ha nel suo interno
un veleno. Se è lo spirito, se è la conoscenza che fa l'uomo signore
della terra, non possono esservi errori inoffensivi, e ancor meno
errori rispettabili o sacri. Ed a conforto di coloro, i quali in
qualsivoglia maniera ed occasione dedicano forza e vita alla
difficile e così aspra guerra contro l'errore, non posso astenermi
dall'aggiungere qui, che l'errore può bensì aver libero giuoco, come
civette e pipistrelli nella notte, fin che la verità non è apparsa:
ma è più facile attendersi di veder civette e pipistrelli respingere
il sole verso l'oriente, che veder la verità, una volta riconosciuta
e chiaramente, compiutamente affermata, esser di nuovo respinta,
perché l'antico errore riprenda daccapo, indisturbato, il suo comodo
posto. Tale è la potenza della verità: di cui è difficile e faticosa
la vittoria; ma questa, una volta raggiunta, non può più esserle
strappata.
Oltre le rappresentazioni fin qui considerate – le quali, per la
loro costituzione, si potevan ricondurre a tempo, spazio e
causalità, ponendo mira all'oggetto; ed a pura sensibilità ed
intelletto (ossia conoscimento della causalità) ponendo mira al
soggetto – è dunque penetrata nell'uomo, unico fra tutti gli
abitatori della terra, ancora un'altra facoltà conoscitiva: è sorta
una conscienza affatto nuova, molto calzantemente e con profonda
giustezza chiamata riflessione. Imperocché essa è in verità un
riflesso, un derivato di quella conoscenza intuitiva, pure avendo
natura e costituzione fondamentalmente diversa; non conosce le forme
di quella, ed anche il principio di ragione, che impera su tutti gli
oggetti, assume in lei un aspetto del tutto diverso. È solo questa
nuova coscienza di secondo grado, questo astratto riflesso
dell'intuitivo in un concetto di ragione non intuitivo, che dà
all'uomo la riflessione, per cui la sua coscienza è così nettamente
distinta da quella degli animali, e tutto il suo passaggio sulla
terra si compie in modo così diverso da quello de' suoi fratelli
irragionevoli. Molto anche l'uomo li supera in potenza e in dolore.
Essi vivono solo nel presente, mentre l'uomo per di più vive
contemporaneamente nell'avvenire e nel passato. Essi soddisfano il
bisogno momentaneo; egli provvede con le più accorte disposizioni al
proprio avvenire, anzi perfino ad epoche che non giungerà a vedere.
Essi sono in tutto sottoposti all'impressione del momento, alla
azione del movente intuitivo; egli è guidato da concetti astratti
indipendenti dal presente. Perciò esegue piani meditati, oppure
agisce secondo massime prestabilite, senza riguardo all'ambiente e
alle impressioni fortuite dell'istante. Può, per esempio, prendere
con calma le complicate disposizioni per la propria morte, può
infingersi, fino a rendersi impenetrabile, e portar con sé nella
tomba il suo segreto; ha finalmente una vera scelta fra numerosi
motivi: perché solo in abstracto possono vari motivi, l'un presso
l'altro, esser presenti nella coscienza, trarre con sé il
conoscimento che l'uno esclude l'altro, misurando così in contrasto
il loro potere sulla volontà; quindi il motivo preponderante, dando
il tratto alla bilancia, diventa meditata risoluzione della volontà,
e manifesta come certo indizio la sua natura. Al contrario, la sola
impressione momentanea determina l'animale: soltanto la paura di una
costrizione immediata può domare le sue cupidigie, finché quella
paura finisce col diventare abitudine, e allora lo determina come
tale: questo significa ammaestramento. L'animale sente e intuisce;
l'uomo per di più pensa e sa: entrambi vogliono. L'animale comunica
la sua sensazione e disposizione per mezzo di movimento e suono:
l'uomo comunica all'altro uomo pensieri, per mezzo del linguaggio, o
nasconde pensieri, per mezzo del linguaggio. Il linguaggio è il
primo prodotto e il necessario strumento della sua ragione; per
questo in greco ed in italiano linguaggio e ragione vengono indicati
con la stessa parola: ὁ λογος, il discorso15. In tedesco Vernunft
(ragione) viene da vernehmen, che non è sinonimo di hóren, udire, ma
indica la comprensione del pensiero comunicato per mezzo di parole.
Solo con l'aiuto del linguaggio può la ragione eseguire i suoi
compiti importantissimi, come sarebbe la concorde azione di molti
individui, la metodica collaborazione di molte migliaia d'uomini, la
civiltà, lo stato; e inoltre la scienza, la conservazione
dell'esperienza anteriore, l'aggruppamento delle note comuni in un
concetto, la partecipazione della verità, la diffusione dell'errore,
il pensare e il poetare, i dogmi e le superstizioni. L'animale
conosce la morte solo nella morte: l'uomo s'appressa di ora in ora
coscientemente alla morte sua, e questo rende talvolta pensosa anche
la esistenza di chi non ha ancora riconosciuto alla vita intera
questo carattere di perenne distruzione. Soprattutto per questo ha
l'uomo filosofie e religioni: ma rimane tuttavia incerto, se sia
frutto di quelle ciò che noi a buon diritto stimiamo in più alto
grado nel suo operare, la volontaria giustizia e l'animo generoso.
Invece come indubbi, esclusivi germogli delle filosofie e delle
religioni, e prodotti della ragione, appaiono le più stravaganti e
arrischiate opinioni filosofiche delle diverse scuole, e le
stranissime, talora anche crudeli costumanze dei preti delle diverse
religioni.
Che tutte queste sì svariate ed estese manifestazioni provengano da
un principio comune, da quella particolare facoltà dello spirito,
che è privilegio dell'uomo in confronto dell'animale e che fu
chiamata ragione, ὁ λογος το λογιστικον, το λογιμον, ratto, è
opinione unanime di tutti i tempi e di tutti i popoli. E anche sanno
tutti gli uomini benissimo riconoscere le manifestazioni di questa
facoltà, e dire ciò che è ragionevole e ciò che è irragionevole, e
dove la ragione viene a conflitto con le altre facoltà e proprietà
dell'uomo, e finalmente ciò che non ci si potrà mai attendere anche
dal più intelligente degli animali, per la mancanza di ragione. I
filosofi di tutti i tempi anche si esprimono generalmente in armonia
con quell'universale conoscenza della ragione, ed oltre a ciò
mettono in rilievo qualche sua manifestazione più importante, come
sarebbe il dominio sugli affetti e sulle passioni, la capacità di
giudicare e di porre principi generali con una certezza che talvolta
precede ogni esperienza, e così via. Nondimeno tutte le loro
spiegazioni intorno alla vera essenza della ragione sono
traballanti, non determinate nettamente, prolisse, senza unità né
centro, intese a mettere in rilievo or questa or quella
manifestazione, e perciò spesso divergenti l'una dall'altra. Si
aggiunga, che molte partono dal contrasto fra ragione e rivelazione,
il quale è del tutto estraneo alla filosofia, e non serve che ad
accrescere la confusione. È oltremodo sorprendente, che finora
nessun filosofo abbia rigidamente ricondotto quelle svariate
manifestazioni della ragione ad una funzione semplice, la quale sia
da riconoscere in tutte, e tutte le spieghi, e costituisca perciò la
vera intima essenza della ragione. L'esimio Locke indica bensì molto
giustamente nell'Essay on Human Understanding, libro 2, cap. 11, §§
10 e 11, come carattere distintivo fra animale ed uomo, i concetti
universali astratti, e Leibniz ripete lo stesso con pieno accordo
nei Nouveaux essays sur l'entendement humain, libro 2, cap. 11, §§
10 e 11. Ma quando Locke nel libro 4, cap. 17, §§ 2, 3, viene alla
vera e propria spiegazione della ragione, perde affatto di vista
quel semplice carattere fondamentale, e cade anche lui in una
oscillante, imprecisa, incompiuta esposizione di manifestazioni
derivate e frammentarie di quella: anche Leibniz, nel luogo
corrispondente della sua opera, si contiene in complesso nel
medesimo modo, solo con maggior confusione ed oscurità. E fino a
qual punto abbia poi Kant confuso e falsato il concetto dell'essenza
della ragione, ho detto ampiamente nell'appendice. Ma chi voglia
darsi la pena di scorrere sotto questo riguardo la massa di scritti
filosofici venuti in luce da Kant in qua, riconoscerà che, come gli
errori dei principi sono scontati da popoli interi, gli errori dei
grandi spiriti distendono la loro influenza dannosa su intere
generazioni anche per secoli; anzi, crescendo e propagandosi,
finiscono col degenerare in mostruosità: e tutto questo deriva dal
fatto che, come dice Berkeley: «Few men think; yet all will have
opinions»16.
Come l'intelletto ha soltanto una funzione: immediata conoscenza del
rapporto di causa ed effetto: e l'intuizione del mondo reale, come
anche tutta l'avvedutezza, sagacia, facoltà inventiva – per quanto
sia molteplice la loro applicazione – non sono tuttavia
evidentemente null'altro che manifestazioni di quella funzione
semplice; così anche la ragione ha una sola funzione: formare il
concetto. In base a quest'unica funzione si spiegano molto
facilmente, e compiutamente, e spontaneamente tutti i fenomeni sopra
citati, che distinguono la vita dell'uomo da quella dell'animale. E
all'uso o al non-uso di quella funzione si riconduce sempre ciò che
ovunque e in ogni tempo si è chiamato ragionevole o irragionevole17.
§ 9.
I concetti formano una classe speciale di rappresentazioni, che si
trova solo nello spirito dell'uomo, toto genere diversa dalle
rappresentazioni intuitive esaminate finora. Perciò non possiamo mai
raggiungere una conoscenza intuitiva, assolutamente evidente, del
loro essere; ma soltanto una conoscenza astratta e discorsiva.
Sarebbe quindi assurdo pretender che venissero provati con
l'esperienza, in quanto s'intende per esperienza il mondo reale
esterno, che è appunto rappresentazione intuitiva; o che fossero
portati davanti agli occhi, o davanti alla fantasia, come oggetti
d'intuizione. Essi si lasciano esclusivamente pensare, non intuire;
e soltanto gli effetti che per mezzo di quelli l'uomo produce, sono
materia di vera e propria esperienza. Tali sono la lingua, l'azione
metodica e meditata, e la scienza; e dipoi tutto quanto nasce da
queste. Evidentemente il discorso, come oggetto dell'esperienza
interna, non è altro che un telegrafo molto perfezionato, il quale
comunica segni convenzionali con rapidità massima e delicatissima
precisione. Ma che cosa significano questi segni? Come vengono
decifrati? Forse che noi, mentre un altro parla, traduciamo
immediatamente il suo discorso in immagini della fantasia, le quali
con la rapidità del lampo ci trasvolano innanzi e si muovono, si
concatenano, si trasformano e si colorano a seconda delle fluenti
parole e delle loro flessioni grammaticali? Quale tumulto sarebbe
allora nel nostro capo all'atto d'ascoltare un discorso o di leggere
un libro! Ma non accade punto così. Il senso del discorso viene
compreso immediatamente, afferrato con precisione e determinatezza,
senza che di regola si confondano i fantasmi. È la ragione che parla
alla ragione, mantenendosi nel proprio dominio; e ciò che essa
comunica o riceve, sono concetti astratti, rappresentazioni non
intuitive, le quali, formate una volta per sempre e relativamente
scarse di numero, comprendono, contengono e rappresentano nondimeno
tutti gli innumerevoli oggetti del mondo reale. Solo con ciò si
spiega che non mai un animale può parlare o comprendere, sebbene
abbia comuni con noi gli strumenti del linguaggio ed anche le
rappresentazioni intuitive; appunto perché le parole esprimono
quella classe affatto speciale di rappresentazioni, di cui è
correlato soggettivo la ragione, esse sono per l'animale prive di
valore e di significato. Pertanto il linguaggio, come ogni altro
fenomeno che noi ascriviamo alla ragione, e come tutto ciò che
distingue l'uomo dall'animale, va spiegato mediante quest'una e
semplice origine: i concetti – le rappresentazioni astratte, non
intuitive; universali, non individuate nel tempo e nello spazio.
Solo in alcuni casi passiamo dai concetti alla rappresentazione,
formandoci fantasmi che sono intuitivi rappresentanti di concetti,
ai quali tuttavia non sono mai adeguati. Questi sono stati
particolarmente illustrati nella memoria sul principio della
ragione, § 28, né voglio quindi ripetermi ora. Con ciò che è detto
colà va confrontato quanto scrive Hume nel dodicesimo dei suoi
Philosophical Essays, p. 244, e Herder nella Metacritica (libro
d'altronde cattivo), Parte I, p. 274. L'idea platonica, che diventa
possibile mediante l'unione di fantasia e ragione, forma l'argomento
principale del terzo libro dell'opera presente.
Ora, per quanto i concetti siano adunque fondamentalmente diversi
dalle rappresentazioni intuitive, stanno tuttavia in un necessario
rapporto con queste, senza di cui non esisterebbero; il qual
rapporto costituisce quindi tutta la loro essenza ed esistenza. La
riflessione è necessariamente imitazione, riproduzione
dell'originario mondo intuitivo, per quanto imitazione di tutt'altro
genere, in una materia del tutto eterogenea. Perciò i concetti si
posson benissimo chiamare rappresentazioni di rappresentazioni. Il
principio di ragione ha qui egualmente una forma particolare; e come
la forma con cui esso domina in una classe di rappresentazioni
costituisce ed esaurisce tutta l'essenza di questa classe in quanto
è formata di rappresentazioni, – sì che, come abbiamo veduto, il
tempo è in tutto e per tutto successione, e nient'altro, lo spazio
in tutto e per tutto posizione, e nient'altro, la materia in tutto e
per tutto causalità e nient'altro – così anche tutta l'essenza dei
concetti, ossia della classe delle rappresentazioni astratte,
consiste esclusivamente nella relazione che in essi esprime il
principio di ragione. Ed essendo questa la relazione col principio
di conoscenza, la rappresentazione astratta ha tutta la sua essenza
unicamente, esclusivamente nel suo rapporto con un'altra
rappresentazione, che è il suo principio di conoscenza. Ora questa
può essere alla sua volta un concetto, o rappresentazione astratta,
ed anch'essa può avere ancora un altrettale principio di conoscenza
astratta. Ma non si continua così all'infinito: bensì alla fine la
serie dei principi di conoscenza deve chiudersi con un concetto, che
ha la sua base nella conoscenza intuitiva. Imperocché tutto il mondo
della riflessione poggia sul mondo dell'intuizione come suo
principio di conoscenza. Quindi la classe delle rappresentazioni
astratte ha di fronte alle altre la seguente nota distintiva: che in
queste il principio di ragione esige sempre soltanto un rapporto con
un'altra rappresentazione della medesima classe, mentre nelle
rappresentazioni astratte esige alla fine un rapporto con una
rappresentazione di altra classe.
Quei concetti che, come si è detto or ora, non direttamente, bensì
solo mediante l'intermediario di uno o anche più altri concetti si
riferiscono alla conoscenza intuitiva, vengono chiamati di
preferenza abstracta; e concreta viceversa quelli che hanno il loro
fondamento immediato nel mondo intuitivo. Ma quest'ultima
denominazione non conviene se non molto impropriamente ai concetti
da lei indicati, perché ancor questi sono pur sempre abstracta, e
non già rappresentazioni intuitive. Tali denominazioni sono venute
solamente da una coscienza molto confusa del divario che si voleva
così esprimere; ma con l'interpretazione qui indicata possono
tuttavia sussistere. Esempi della prima maniera, ossia abstracta in
senso eminente, sono concetti come «relazione, virtù,
investigazione, inizio», etc. Esempi della seconda maniera, ossia
impropriamente chiamati concreta, sono i concetti «uomo, pietra,
cavallo», etc. Se non fosse un paragone troppo figurato e perciò
tendente allo scherzo, si potrebbe con immagine calzante chiamare
gli ultimi concetti il pianterreno, mentre i primi sarebbero invece
i piani superiori dell'edifizio della riflessione18.
Che un concetto comprenda molto sotto di sé, ossia che molte
rappresentazioni intuitive o magari anche astratte stiano con lui
nel rapporto del principio di conoscenza, cioè vengano pensate per
suo mezzo, non è, come solitamente si ammette, proprietà essenziale
di quel concetto, bensì solamente secondaria e derivata; la quale
può addirittura non sempre trovarsi di fatto, per quanto ognora
possibile. Codesta proprietà deriva da ciò, che il concetto è
rappresentazione di una rappresentazione, ossia ha tutta la sua
essenza esclusivamente nella sua relazione con un'altra
rappresentazione; ma il concetto non è tale rappresentazione, ed
anzi questa addirittura appartiene di solito a tutt'altra classe di
rappresentazioni: avendo carattere intuitivo, può di conseguenza
aver determinazioni di tempo, di spazio, ed altre. Può insomma aver
molte relazioni, che nel concetto non vengono punto pensate: quindi
più rappresentazioni, fra loro diverse in ciò che non è sostanziale,
possono venir pensate con lo stesso concetto, ossia venir assunte
sotto di questo. Ma questo valer per oggetti vari non è proprietà
essenziale, bensì accidentale, del concetto. Si possono adunque dare
concetti, coi quali vien pensato un solo oggetto reale, ma che sono
tuttavia astratti ed universali, e non già rappresentazioni isolate
ed intuitive. Tale è per esempio il concetto che si ha d'una città
determinata, la quale ci è nota solo dalla geografia: sebbene con
codesto concetto venga pensata quella sola città, sarebbero tuttavia
possibili più città, pur differenti in alcune parti, alle quali
tutte converrebbe il concetto medesimo. Non per essere astratto da
più oggetti acquista universalità un concetto: bensì al contrario,
essendo per esso, in quanto rappresentazione astratta della ragione,
essenziale l'universalità, ossia la non-determinazione del singolo,
possono diverse cose esser pensate per mezzo del medesimo concetto.
Da quanto s'è detto risulta che ogni concetto, appunto perché è
rappresentazione astratta, non intuitiva e quindi non in tutto
determinata, ha quel che chiamiamo una estensione circolare o sfera,
perfino nel caso che gli corrisponda un solo oggetto reale. Ora, noi
troviamo costantemente che la sfera d'ogni concetto ha qualcosa di
comune con quelle d'altri concetti: ossia, che in esso viene
parzialmente pensato ciò che si pensa in quegli altri, e viceversa;
sebbene, quando sono davvero concetti differenti, ciascuno o per lo
meno uno dei due contenga qualcosa che l'altro non ha. In questo
rapporto sta ogni soggetto col suo predicato. Riconoscere questo
rapporto, dicesi giudicare. La rappresentazione di quelle sfere
mediante figure geometriche è stata un pensiero felicissimo. L'ha
avuto forse per primo Goffredo Plouquet, il quale si servì a tal
fine di quadrati; il Lambert, sebbene venuto dopo, usò ancora
semplici linee, che disponeva l'una sotto l'altra; l'Euler
perfezionò la figurazione valendosi di cerchi. Su che cosa poggi in
fondo questa sì precisa analogia fra i rapporti dei concetti e
quelli delle figure geometriche, non so dire. Ma intanto è per la
logica un'assai favorevole circostanza questa, che tutti i rapporti
dei concetti, perfino secondo la loro possibilità, ossia a priori,
si possano rappresentare intuitivamente per mezzo di tali figure,
nel modo che segue:
1. Le sfere di due concetti sono identiche: per esempio il concetto
della necessità e quello dell'effetto prodotto da una data causa;
così quello di ruminantia e di bisulca (ruminanti e animali con
l'unghia fessa); e similmente il concetto di vertebrati e d'animali
a sangue rosso (al che sarebbe tuttavia qualcosa da opporre a
proposito degli anellidi). Tutti codesti sono concetti equivalenti.
Li rappresenta un unico circolo, il quale indica tanto l'uno quanto
l'altro.
2. La sfera di un concetto chiude interamente in sé quella d'un
altro:
3. Una sfera ne racchiude due o più, che si escludono e
contemporaneamente riempiono la prima:
4. Due sfere includono ciascuna una parte dell'altra:
5. Due sfere sono comprese in una terza, senza riempirla:
Quest'ultimo caso vale per tutti i concetti, le cui sfere non hanno
una comunione immediata: perché ve n'è sempre una terza, se pur
sovente assai ampia, che li racchiude entrambi.
A questi casi si potrebbero ricondurre tutte le combinazioni dei
concetti, e se ne ricava l'intera dottrina dei giudizi; con la loro
conversione, contrapposizione, reciprocazione, disgiunzione
(quest'ultima conformemente alla terza figura). E così anche le
proprietà dei giudizi, sulle quali Kant stabiliva le pretese
categorie dell'intelletto; facendo nondimeno eccezione della forma
ipotetica, che non è più una combinazione di puri concetti, bensì di
giudizi, ed eccettuando inoltre la modalità: della quale, come
d'ogni proprietà dei giudizi che serve di fondamento alle categorie,
da conto distesamente l'appendice. Circa le possibili combinazioni
di concetto sopraindicate, è solo da aggiungere che esse possono
anche venir combinate variamente; per esempio la quarta figura con
la seconda. Solo quando una sfera, la quale ne contiene un'altra in
tutto o in parte, viene a sua volta contenuta tutta in una terza, le
tre insieme rappresentano il sillogismo della prima figura, ossia
quella combinazione di giudizi mediante la quale viene riconosciuto
che un concetto, contenuto in tutto o in parte in un altro, è anche
contenuto egualmente in un terzo concetto che contenga quest'altro:
o anche rappresentano il caso opposto, la negazione; la cui
espressione figurata può naturalmente consistere solo in due sfere
congiunte, che non sono comprese in una terza. Quando molte sfere si
comprendono l'una nell'altra in questa maniera, ne vengono lunghe
catene di sillogismi. Questo schematismo dei concetti, il quale già
in molti trattati è abbastanza bene esposto, può esser messo come
fondamento alla dottrina dei giudizi, com'anche a tutta la
sillogistica; dal che l'esposizione d'entrambe sarà resa assai
facile e semplice. Imperocché tutte le regole di quelle ne vengono
approfondite, dedotte e spiegate secondo la loro origine. Ma il
sovraccaricar di queste regole la memoria non è necessario; perché
la logica non ha pratica utilità, ma solo importanza teorica per la
filosofia. Poiché sebbene si dica che la logica si comporta riguardo
al pensiero raziocinativo come il basso fondamentale riguardo alla
musica, o anche, se vogliamo esser meno precisi, come l'etica
riguardo alla virtù, o l'estetica all'arte; tuttavia bisogna
riflettere che nessuno è divenuto artista per lo studio
dell'estetica, né un nobile carattere s'è formato con lo studio
dell'etica; che da gran tempo prima del Rameau fu composta musica
corretta e bella, e che inoltre non c'è bisogno di sentirsi padroni
del basso fondamentale per accorgersi delle disarmonie: similmente
non occorre saper la logica per non lasciarsi trarre in inganni da
sofismi. Si deve tuttavia convenire che, se non per l'apprezzamento,
il basso fondamentale è di grande utilità per la pratica della
composizione musicale: e perfino l'estetica o addirittura l'etica
possono, sebbene in misura assai minore, esser nella pratica di
qualche utilità – per quanto sia un'utilità più che altro negativa –
sì che non può esser loro negato ogni valore pratico. Ma della
logica non può dirsi nemmeno questo. Essa non è se non la
consapevolezza in abstracto di ciò che ognuno sa in concreto.
Quindi, come non se n'ha bisogno per respingere un falso
ragionamento, così non si ricorre alle sue regole per farne uno
giusto; e finanche il più addottrinato dei logici le lascia affatto
da canto nell'atto del suo effettivo pensare. Questo si spiega con
l'osservazione che segue. Ogni scienza consiste in un sistema di
verità, leggi e regole generali, e quindi astratte, relative a un
qualche genere d'oggetti. Ciascun nuovo caso particolare, che venga
a capitare fra questi, viene di volta in volta determinato secondo
quella nozione generale, che vale una volta per tutte; perché questa
applicazione della regola generale è infinitamente più facile che
non l'investigare da capo, per sé, ogni sopravveniente caso isolato;
essendo che la general conoscenza astratta, una volta raggiunta, ci
è ognora più agevole che l'investigazione empirica del caso singolo.
Ma con la logica accade il contrario. Essa è la consapevolezza
generale del modo di procedere della ragione, raggiunta mediante la
diretta osservazione della ragione stessa, e l'astrazione da ogni
contenuto. Ma un tal modo di procedere è per la ragione necessario
ed essenziale: in nessun caso ella se ne può rimuovere, non appena
sia abbandonata a se stessa. È adunque più facile e più sicuro in
ogni caso speciale lasciarla procedere conformemente alla sua
natura, che non metterle innanzi, in forma di legge esteriore,
venuta dal di fuori, una teoria tratta appunto da quel suo
procedere. È più facile: perché, se in tutte le altre scienze la
regola generale ci è più comoda che l'investigazione del singolo
caso da solo o in se medesimo, invece nell'uso della ragione il suo
natural modo di comportarsi in un dato caso ci vien più spontaneo
sempre che non la regola generale tratta da quello: poi che
l'elemento pensante in noi è per l'appunto la ragione stessa. Ed è
più sicuro: perché molto più agevolmente può capitare un errore in
quel sapere astratto o nella sua applicazione, che non possa
subentrare un processo della ragione, il quale ripugni alla sua
essenza, alla sua natura. Da ciò proviene il fatto singolare, che se
di regola nelle altre scienze si prova la verità del caso
particolare con la regola, nella logica all'opposto la regola viene
sempre sperimentata nel caso singolo: ed anche il logico più
esercitato, accorgendosi che in un singolo caso viene a concludere
differentemente dal modo imposto da una regola, cercherà sempre
l'errore nella regola, prima che nella deduzione da lui fatta. Voler
fare uso pratico della logica, sarebbe dunque un voler derivare, con
indicibile pena, da regole generali, ciò di cui noi siamo
immediatamente consci, con la massima sicurezza, caso per caso:
sarebbe come un voler prender consiglio nei propri movimenti dalla
meccanica, e nella digestione dalla fisiologia. E chi apprende la
logica per fini pratici somiglia a colui che voglia insegnare a un
castoro la costruzione del suo nido. Sebbene la logica sia adunque
senza pratica utilità, deve nondimeno venir conservata, perché ha
importanza filosofica, come speciale conoscenza dell'organismo e
attività della ragione. Nella sua qualità di disciplina chiusa,
esistente di per sé, in sé compiuta, perfetta, e affatto sicura, è
in diritto di essere trattata scientificamente, da sola, e senza
dipender da tutte le altre scienze, venendo anche insegnata nelle
università: ma non acquista il suo effettivo valore se non nel
complesso dell'intera filosofia, nell'esame della conoscenza, e
precisamente della conoscenza razionale o astratta. Perciò la sua
esposizione non dovrebbe aver tanto la forma di una scienza rivolta
alla pratica, né contener soltanto nude regole pel giusto modo di
formular giudizi, sillogismi e così via; bensì esser piuttosto
indirizzata a meglio riconoscer l'essenza della ragione e del
concetto, ed ampiamente esaminare il principio di ragione della
conoscenza. Imperocché la logica è una semplice parafrasi di questo,
e precisamente per il solo caso, in cui il principio che dà verità
ai giudizi, non sia empirico o metafisico, ma logico o metalogico.
Accanto al principio di ragione della conoscenza, sono quindi da
porre le tre rimanenti leggi fondamentali del pensiero, ossia
giudizi di verità metalogica, a quello così strettamente affini; e
su questa base si forma a poco a poco l'intera tecnica della
ragione. L'essenza del pensare vero e proprio, ossia del giudizio e
del sillogismo, va spiegata con le combinazioni delle sfere dei
concetti, conformemente allo schema geometrico, nel modo sopra
accennato; e da questo, per costruzione, vanno derivate tutte le
regole del giudizio e del sillogismo. In un sol modo si può far uso
pratico della logica: quando nel disputare si dimostrano
all'avversario non tanto le sue conclusioni veramente errate, quanto
quelle intenzionalmente false, chiamandole col loro nome tecnico di
paralogismi e sofismi. Ma per codesto rigetto dell'indirizzo pratico
e per la messa in rilievo della connessione che ha la logica con
l'intera filosofia, come un capitolo di questa, non dovrebbe quella
divenir tuttavia più trascurata che oggi non sia; poi che al giorno
d'oggi deve aver studiato filosofia speculativa ciascuno il quale
non voglia rimanere incolto in ciò che più importa, e confuso nella
massa ignorante ed opaca. Imperocché questo secolo decimonono è un
secolo filosofico; con la qual cosa non si deve tanto intendere che
esso possegga una filosofia o che la filosofia vi domini, quanto
piuttosto che per la filosofia il secolo è maturo, e appunto perciò
ne ha bisogno assoluto. Questo è un segno di cultura molto elevata,
anzi addirittura un punto fermo sulla scala della civiltà19.
Per quanto poca utilità pratica possa avere la logica, non si può
tuttavia negare che essa fu inventata per un fine pratico. Io mi
spiego la sua origine nel modo che segue. Quando fra gli eleatici,
megarici e sofisti il gusto del disputare si fu sempre più
sviluppato, arrivando fin presso alla mania, la confusione in cui
quasi ogni disputa cadeva dovè far loro presto sentire la necessità
di un procedimento metodico: e, come introduzione a questo, era da
cercare una dialettica scientifica. La prima cosa da osservare era
che le due parti contendenti dovevano sempre essere d'accordo sopra
un principio qualunque, a cui eran da ricondurre i punti controversi
nell'atto del disputare. L'inizio del procedimento metodico è
consistito nel fatto, che questi principi da tutti ammessi vennero
formalmente dichiarati tali, e posti a capo dell'investigazione. Ma
tali principi concernevano dapprima soltanto il lato materiale di
questa. Presto si comprese che, pur nella maniera di rifarsi dalla
verità universalmente riconosciuta, e tentar di derivarne le proprie
affermazioni, si seguivano certe forme e leggi, intorno alle quali
anche senza precedente intesa non mai si dissentiva; dal che
apparve, che quelle dovevano essere il procedimento proprio ed
essenziale della ragione, ossia il lato formale dell'investigazione.
Ora, sebbene questo non fosse esposto al dubbio e al disaccordo, un
cervello sistematico fino alla pedanteria venne nondimeno a pensare,
che farebbe un bel vedere, e sarebbe il compimento della dialettica
metodica, se codesto lato formale d'ogni disputa, codesto sempre
regolare procedimento della ragione medesima venisse anch'esso
formulato in principi astratti; i quali, appunto, al modo di quei
principi universalmente riconosciuti, che concernono il lato
materiale dell'investigazione, si ponessero a capo di questa, come
un canone fisso del disputare, al quale si dovesse ognora volger
l'occhio e riferirsi. Nel mentre in tal modo si voleva
coscientemente riconoscer per legge, e formalmente dichiarare,
quello che fino allora s'era seguito in virtù di tacito accordo o
praticato come per istinto, si trovarono a poco a poco espressioni
più o meno perfette per i principi logici, come il principio di
contraddizione, di ragion sufficiente, del terzo escluso, il dictum
de omni et nullo, e poi le speciali regole della sillogistica, come
per esempio ex meris particularibus aut negativis nihil sequitur, a
rationato ad rationem non valet consequentia, etc. Ma come di ciò si
venisse a capo solo lentamente e con molta fatica, e come tutto
fosse rimasto assai imperfetto prima di Aristotele, vediamo in parte
dal modo impacciato e prolisso con cui vengono portate alla luce le
verità logiche in alcuni dialoghi platonici; e ancor meglio da ciò
che ci riferisce Sesto Empirico sulle contese dei megarici intorno
alle più facili e semplici leggi logiche, ed alla faticosa maniera
con cui le chiarivano (Sext. Emp. adv. Math. 1. 8, p. 112 sgg.).
Aristotele raccolse, ordinò, corresse quanto aveva trovato innanzi a
sé, e lo portò ad una perfezione incomparabilmente più alta. Se si
considera in questo modo come il cammino della cultura greca aveva
preparato e provocato il lavoro di Aristotele, si sarà poco disposti
a prestar fede alla testimonianza di scrittori persiani comunicataci
da Jones, il quale vi dà molto peso: che cioè Callistene abbia
trovata presso gl'Indiani una logica bell'e fatta, e l'abbia inviata
a suo zio Aristotele («Asiatic Researches», vol. IV, p. 163). Si
comprende facilmente, che nel triste medioevo la logica aristotelica
sia stata oltremodo bene accetta allo spirito degli scolastici,
avido di contese e, nella mancanza d'ogni conoscenza positiva,
nutrito soltanto di formule e parole; e da quello cupidamente
ghermita, malgrado la mutilazione araba, e tosto elevata a centro di
tutto il sapere. Decaduta poi dalla sua gloria, si è nondimeno
conservata fino al nostro tempo nella rinomanza d'una scienza
indipendente, pratica, ed utilissima; finanche a' nostri giorni la
filosofia kantiana, la quale propriamente tolse dalla logica la
propria base, ha fatto nascer daccapo un nuovo interesse per lei;
interesse ch'ella d'altronde merita sotto questo rispetto, ossia
come mezzo per conoscere l'essenza della ragione.
Se alle giuste e severe conclusioni si perviene osservando con cura
il rapporto delle sfere concettuali, e sol quando una sfera è
precisamente contenuta in un'altra, e questa a sua volta è tutta
contenuta in una terza, si riconosce anche la prima come contenuta
appieno nella terza; l'arte della persuasione, invece, poggia sul
fatto, che i rapporti delle sfere concettuali sono sottoposti a una
considerazione appena superficiale, e si determinano in modo
unilaterale, a seconda delle nostre intenzioni. Ciò accade
soprattutto quando – mentre la sfera di un concetto preso in esame è
solo parzialmente compresa in un'altra, ed il resto è compreso
invece in una sfera affatto diversa – la si fa passare come tutta
compresa nella prima, o tutta nella seconda, come conviene a chi
parla. Se, per esempio, si discorre di passione, questa si può far
entrare a piacere nel concetto della maggior forza e del più
poderoso agente che sia al mondo, oppure nel concetto
dell'irragionevolezza; e questo, a sua volta, nel concetto
dell'impotenza, della debolezza. Questo sistema potrebbe esser
continuato e applicato ad ogni concetto, sul quale cada il discorso.
Quasi sempre nella sfera di un concetto s'incrociano più sfere,
ciascuna delle quali contiene nel proprio dominio una parte del
dominio del primo concetto, ma abbraccia inoltre anche altro
dominio: e di queste ultime sfere concettuali si mette in evidenza
solo quella, sotto di cui si vuole assumere il primo concetto;
lasciando le altre inosservate, o tenendole nascoste. Su questo
artifizio poggiano precisamente tutte le insidie della persuasione,
tutti i più sottili sofismi: poiché i sofismi logici, come il
mentiens, velatus, cornutus, etc. sono evidentemente troppo
grossolani per l'impiego effettivo. Non constandomi che finora
l'essenza d'ogni sofisticazione e persuasione sia stata ricondotta a
quest'ultimo principio della sua possibilità, e additata nella
particolare natura dei concetti, ossia nel modo di conoscenza della
ragione; voglio, or che il mio discorso m'ha condotto a questo
punto, chiarire la cosa – per quanto essa sia di facile comprensione
– mediante uno schema esposto nella tavola qui annessa [v. pp.
90-1].
Il quale schema intende mostrare come variamente s'intreccino le
sfere concettuali, offrendo campo all'arbitrio di passar da ogni
concetto a questo o a quell'altro. Soltanto, non vorrei che dalla
tavola si fosse falsamente indotti ad attribuire a questa piccola
dilucidazione incidentale maggiore importanza di quella che per sua
natura le compete. Come esempio, ho scelto il concetto del
viaggiare. La sua sfera s'interseca col campo di altre quattro, in
ciascuna delle quali può passare a volontà chi parli col proposito
di persuadere; queste, alla lor volta, s'intersecano con altre
sfere, e talune di esse contemporaneamente con due o più, tra le
quali colui che parla sceglie arbitrariamente la propria via, sempre
come se ve ne fosse una sola – e così alla fine perviene – a seconda
del suo proposito, o al Bene o al Male. Ma nel procedere da sfera a
sfera si deve sempre andar dal centro (ossia da un dato concetto
fondamentale) verso la periferia, e non camminare all'indietro.
Questa sofistica può assumere la forma del discorso filato o anche
quella del rigido sillogismo, secondo consiglia il lato debole
dell'ascoltatore. In fondo, la più parte delle dimostrazioni
scientifiche e specialmente filosofiche non sono fatte molto
diversamente. Altrimenti, come sarebbe possibile che tante cose, in
tempi diversi, non solo siano state erroneamente accettate (perché
l'errore in se stesso ha un'altra origine), ma dimostrate e provate,
e nondimeno più tardi riconosciute falsissime; per esempio la
filosofia di Leibnitz e di Wolff, l'astronomia tolemaica, la chimica
di Stahl, la dottrina dei colori di Newton, etc., etc.?20.
§ 10.
In tutto questo ci si fa sempre più vicina la domanda, come mai sia
da raggiungere la certezza, come siano da fondare i giudizi, in che
consistano il sapere e la scienza, che noi, accanto al linguaggio e
all'agire con riflessione, vantiamo come il terzo grande privilegio
ottenuto mediante la ragione.
La ragione è di natura femminile: ella può dare soltanto dopo di
aver ricevuto. Da per sé sola non ha se non le vuote forme del suo
operare. Non v'è altra conoscenza razionale in tutto pura, fuori dei
quattro principi, ai quali io ho attribuito verità metalogica, ossia
i principi di identità, di contraddizione, del terzo escluso e di
ragion sufficiente. Imperocché perfino il resto della logica non è
già più conoscenza razionale affatto pura, presupponendo i rapporti
e le combinazioni delle sfere dei concetti. E concetti in genere si
hanno soltanto in seguito a precedenti rappresentazioni intuitive;
essendo tutta l'essenza di quelli costituita dalla lor relazione con
queste, sì che i concetti presuppongono le rappresentazioni. Ma
poiché codesta presupposizione non si estende al contenuto
determinato dei concetti bensì soltanto ad un'esistenza di essi in
genere, può tuttavia la logica, presa nel suo complesso, valere come
una pura scienza razionale. In tutte le altre scienze la ragione ha
preso il suo contenuto dalle rappresentazioni intuitive: nella
matematica dalle relazioni, intuitivamente conosciute prima d'ogni
esperienza, dello spazio e del tempo; nella scienza naturale pura,
ossia in quello che noi sappiamo sul corso della natura
anteriormente ad ogni esperienza, il contenuto proviene dal puro
intelletto, cioè dalla conoscenza a priori della legge di causalità
e del suo collegamento con le pure intuizioni dello spazio e del
tempo. In ogni altro sapere tutto ciò che non è tolto dalle
intuizioni or ora indicate appartiene all'esperienza. Sapere, in
generale, significa aver in potere della propria mente, per
riprodurli a volontà, quei giudizi, che hanno il lor principio
sufficiente di conoscenza in qualcosa fuori di se stessi, ossia sono
veri. Solo la conoscenza astratta è quindi un sapere; questo è
perciò sotto condizione della ragione; e parlando degli animali, per
esser precisi, non possiamo dire che essi sappiano, sebbene abbiano
conoscenza intuitiva e, quindi, anche memoria, e perciò fantasia: il
che d'altronde dimostrano i loro sogni. Riconosciamo loro la
coscienza; il concetto della quale, per conseguenza, sebbene la
parola derivi da scire, viene a coincidere con quello di
rappresentazione, di qualunque specie questa poi sia. Perciò anche
s'attribuisce bensì da noi vita alla pianta, ma non coscienza.
Sapere è adunque la conscienza astratta: l'aver fissato in concetti
della ragione ciò che è stato conosciuto per altra via.
§ 11.
Ora, da, questo punto di vista il vero contrapposto del sapere è il
sentimento, del quale dobbiamo a questo punto introdurre l'esame. Il
concetto espresso dalla parola sentimento ha un contenuto del tutto
negativo, ossia significa che qualcosa, presente nella coscienza,
non è concetto, non è conoscenza astratta della ragione. Sia poi
d'altronde quel che vuole, sempre va nel concetto di sentimento, la
cui sfera smisuratamente ampia comprende le cose più eterogenee;
delle quali non si viene a capo di scorgere come possano accozzarsi
insieme, fin quando non si sia riconosciuto che s'accordano soltanto
per questo rispetto negativo, di non essere concetti astratti.
Imperocché gli elementi più disparati, anzi i più contrastanti
stanno tranquillamente l'un presso l'altro in quel concetto; per
esempio, sentimento religioso, sentimento del piacere, sentimento
morale, sentimento corporeo come tatto, come dolore, come sentimento
dei colori, dei suoni, e delle loro armonie e disarmonie; sentimento
dell'odio, della ripugnanza, della contentezza di sé, dell'onore,
dell'onta, del diritto, del torto; sentimento della verità,
sentimento estetico, sentimento di forza, debolezza, sanità,
amicizia, amore, etc. etc. Nessuna affinità passa tra questi
sentimenti, se non quella negativa di non essere conoscenze astratte
di ragione. Ma è ancor più sorprendente, quando perfino la
conoscenza intuitiva a priori delle relazioni spaziali, e oltre a
ciò la conoscenza puramente intellettiva, vengon ricondotte al
concetto di sentimento; e in genere d'ogni conoscenza, d'ogni
verità, della quale si sia consci solo intuitivamente, ma che non
anco è deposta in concetti astratti, vien detto che la si sente. Di
ciò intendo, a mo' di chiarimento, riferire alcuni esempi tolti a
libri recenti, perché sono prove efficaci della mia spiegazione. Mi
rammento d'aver letto nel proemio d'una traduzione tedesca di
Euclide, che ai principianti in geometria si debbano far disegnare
tutte le figure, prima di procedere alle dimostrazioni; affinchè in
tal modo essi sentano la verità geometrica, ancor prima che la
dimostrazione dia loro la conoscenza compiuta. Similmente nella
Critica della dottrina dei costumi di F. Schleiermacher si parla di
sentimento logico e matematico (p. 339), e anche del sentimento
d'identità o differenza di due formule (p. 342); inoltre nella
Storia della filosofia di Tennemann, vol. I, p. 361, si legge: «Si
sentiva, che i sofismi erano sbagliati, ma non si poteva tuttavia
scoprirne il difetto». Fin quando questo concetto di sentimento non
venga considerato da un giusto punto di vista, e non si riconosca
quell'unica caratteristica negativa che gli è propria, esso deve
costantemente fornir materia d'equivoci e di contese, per
l'eccessiva ampiezza della sua sfera, e per il suo tenue contenuto,
affatto negativo e solo unilateralmente determinato. Poiché noi
abbiamo in tedesco la voce abbastanza corrispondente Empfindung
(sensazione), sarebbe utile riservar questa per i sentimenti
corporei, come una sottospecie. Ma l'origine di quel concetto di
sentimento, senza paragone sproporzionato in confronto di tutti gli
altri, è fuor d'ogni dubbio la seguente. Tutti i concetti – e
soltanto concetti sono espressi dalle parole – esistono
esclusivamente per la ragione, da questa prendono le mosse: si sta
dunque con essi già da un punto di vista unilaterale. Ma guardando
da questo punto, ciò che è vicino apparisce chiaro, e viene
stabilito come positivo; ciò ch'è lontano si confonde, e vien presto
a esser considerato solo negativamente. Nello stesso modo ogni
nazione chiama straniere le altre, il greco chiama barbari gli altri
popoli, l'inglese chiama continent e continental ciò che non è
Inghilterra o non è inglese, il devoto chiama eretici o pagani tutti
gli altri, pel nobile sono tutti roturiers, per lo studente tutti
Philister (filistei), e così via. In questa medesima unilateralità,
o si può dire in questa medesima grossolana ignoranza proveniente da
orgoglio, incorre anche la ragione, per quanto ciò possa parere
strano, quando comprende sotto l'unico concetto di sentimento ogni
modificazione della coscienza, che non spetti immediatamente alla
sua maniera di rappresentazione, cioè che non sia concetto astratto.
E finora, non essendosi resa conscia del suo stesso procedimento per
mezzo d'una profonda conoscenza di se medesima, ha dovuto scontare
ciò con equivoci e smarrimenti nel suo proprio dominio; perché s'è
perfino stabilita una particolare facoltà del sentimento, e se ne
sono costruite le teorie.
§ 12.
Sapere – il cui opposto contraddittorio è il concetto di sentimento
or ora chiarito – è, come ho detto, ogni conoscenza astratta, ossia
conoscenza di ragione. Ora, poiché la ragione offre sempre alla
conoscenza solo ciò che ha ricevuto per altro mezzo, non allarga
propriamente i confini della conoscenza, bensì non fa che darle
un'altra forma. Ossia ciò ch'era stato conosciuto intuitivamente, in
concreto, lo fa conoscere in modo astratto e universale. Ma ciò è
senza confronto più importante che non sembri, così formulato, a
tutta prima. Imperocché ogni sicura conservazione, ogni possibile
comunicazione, ogni precisa e ampia applicazione della conoscenza al
campo pratico dipende dall'esser divenuta un sapere, una conoscenza
astratta. La conoscenza intuitiva vale sempre solamente per un caso
solo, si riferisce solo a ciò ch'è più vicino, ed a questo si ferma,
perché senso e intelletto possono propriamente afferrare un solo
oggetto alla volta. Ogni attività durevole, coordinata, sistematica
deve perciò muovere da principi, ossia da un sapere astratto, ed
esser guidata secondo quelli. Per esempio, la conoscenza che ha
l'intelletto del rapporto di causa ed effetto è invero in sé molto
più compiuta, profonda ed esauriente di quanto possa esserne pensato
in abstract o: l'intelletto solo conosce per intuizione,
immediatamente e compiutamente, il modo d'agire d'una leva, d'una
carrucola, d'una ruota d'ingranaggio, la stabilità d'una volta etc.
Ma per la proprietà or ora toccata della conoscenza intuitiva, di
riferirsi solo a ciò ch'è immediato e presente, l'intelletto non
perviene da solo alla costruzione di macchine e di edifizi: qui deve
piuttosto intervenire la ragione, porre concetti astratti in luogo
d'intuizioni, quelli prendere a guida dell'azione; e il buon
successo verrà, se i concetti son giusti. Così nella pura intuizione
noi conosciamo perfettamente l'essenza e la regolarità d'una
parabola o iperbole o spirale; ma per fare nella realtà una sicura
applicazione di tale conoscenza, questa deve dapprima esser
diventata sapere astratto; nel che essa perde, è vero, il carattere
intuitivo, ma guadagna in compenso la certezza e la determinatezza
del sapere astratto. Così ogni calcolo differenziale non allarga
punto la nostra conoscenza delle curve, e nulla contiene che già non
contenesse la semplice intuizione pura di quelle; bensì cambia il
modo della conoscenza, trasmuta la conoscenza intuitiva in astratta,
e questo è di grandissima importanza per l'applicazione. Ma qui è il
momento di trattar d'un'altra proprietà del nostro potere
conoscitivo, che non si poteva bene osservare finora, non essendo
del tutto chiarita la distinzione tra conoscenza intuitiva ed
astratta. Ed è questa: che le relazioni di spazio non possono essere
trasferite immediatamente, e come tali, nella conoscenza astratta;
bensì sono a ciò adatte soltanto le grandezze di tempo, ossia i
numeri. I numeri soli, non le quantità spaziali, possono venire
espressi in concetti astratti, che loro perfettamente corrispondano.
Il concetto mille è altrettanto diverso dal concetto dieci, quanto
entrambe le grandezze temporali sono diverse nell'intuizione: noi
pensiamo nel mille un determinato multiplo del dieci; nel quale
possiamo scomporre quello a piacere per l'intuizione nel tempo,
ossia possiamo contarlo. Ma fra il concetto astratto d'un miglio e
quello d'un piede, senza nessuna rappresentazione intuitiva
d'entrambi e senz'aiuto del numero, non c'è una distinzione netta e
corrispondente a quelle grandezze. In entrambe viene pensata solo
una quantità spaziale; e se debbono venir distinte con sufficiente
precisione, bisogna in ogni modo o ricorrere all'intuizione
spaziale, abbandonando perciò il dominio della conoscenza astratta,
o pensare la differenza in numeri. Se si vuol quindi avere una
conoscenza astratta delle relazioni spaziali, queste prima devon
esser ridotte a relazioni temporali, ossia in numeri: perciò
solamente l'aritmetica, e non la geometria, è dottrina universale
delle quantità; e la geometria dev'esser tradotta in aritmetica, se
vuole avere comunicabilità, determinazione precisa, e possibilità
d'applicazione al campo pratico. È vero che una relazione di spazio
si può pensar come tale anche in abstracto, per esempio: «il seno
cresce in ragione dell'angolo»; ma se la quantità di questa
relazione dev'essere indicata, ha bisogno del numero. È questa
necessità di convertir lo spazio con le sue tre dimensioni nel
tempo, che ha una dimensione sola, quando si voglia aver una
conoscenza astratta (ossia un sapere e non una semplice intuizione)
delle sue relazioni; è questa necessità che rende così difficile la
matematica. La cosa diventa chiarissima, se paragoniamo l'intuizione
delle curve col loro calcolo analitico, o anche soltanto le tavole
dei logaritmi delle funzioni trigonometriche con l'intuizione delle
relazioni variabili delle parti del triangolo, le quali vengono
espresse mediante quelle tavole. Ciò che l'intuizione afferra qui in
un'occhiata, pienamente e con la massima precisione, ossia come il
coseno diminuisca col crescer del seno, come il coseno di un angolo
sia il seno dell'altro, il rapporto inverso del diminuire o crescere
dei due angoli, etc.; di quale immane contesto di numeri, di qual
faticoso computo abbisognerebbe, per esprimersi in abstracto! Come
deve tormentarsi il tempo, si potrebbe dire, con la sua unica
dimensione, per rendere le tre dimensioni dello spazio! Ma questo
era necessario, se volevamo, all'effetto dell'applicazione pratica,
posseder le relazioni dello spazio formulate in concetti astratti.
Quelle non potevano passare direttamente in questi, ma solo per la
trafila della quantità puramente temporale, del numero, come quello
che immediatamente si muta in conoscenza astratta. Inoltre è da
notare, che mentre lo spazio è tanto atto all'intuizione, e, per
mezzo delle sue tre dimensioni, lascia facilmente scorgere relazioni
anche complicate, esso si sottrae invece alla conoscenza astratta.
Viceversa il tempo rientra facilmente nei concetti astratti, ma dà
invece ben poco all'intuizione. La nostra intuizione dei numeri nel
loro proprio elemento, il tempo puro, senza aggiungervi lo spazio,
giunge appena fino a dieci; più in su abbiamo solamente concetti
astratti, ma non conoscenza intuitiva dei numeri: al contrario
colleghiamo con ciascun numero e con tutti i segni algebrici
concetti astratti precisamente determinati.
Va qui notato di sfuggita, che taluni spiriti trovano piena
soddisfazione solo in ciò che viene conosciuto intuitivamente. Causa
ed effetto dell'essere nello spazio, intuitivamente manifesto, è ciò
ch'essi cercano: una dimostrazione euclidea, o una soluzione
aritmetica di problemi geometrici non li attira. Altri spiriti
all'opposto domandano i concetti astratti, che soli si prestano
all'applicazione e alla comunicazione: essi hanno pazienza e memoria
per i principi astratti, formule, dimostrazioni in lunghe serie di
sillogismi, e calcoli, i segni dei quali rappresentano le più
complicate astrazioni. Questi cercano determinatezza: quelli,
intuitività. La differenza è caratteristica.
Il sapere, la conoscenza astratta, ha il suo maggior pregio nella
comunicabilità e nella possibilità di venir conservato in forma
fissa: con ciò solo diventa così inestimabilmente importante per la
pratica. Taluno può avere nel puro intelletto una conoscenza
immediata, intuitiva del nesso causale dei cambiamenti e dei moti
dei corpi naturali, e trovare in quella una piena soddisfazione; ma
essa diviene atta ad esser comunicata, solo dopo che egli l'ha
fissata in concetti. Per la pratica è sufficiente una conoscenza
della prima maniera, fin tanto che colui assume tutto solo
l'attuazione, e quando sia un'azione da eseguirsi allor che ancora è
viva la conoscenza intuitiva; ma non più, se egli abbisogna d'aiuto
estraneo, o anche di una propria azione personale da attuarsi in
diverse epoche, e quindi d'un piano meditato. Così, per esempio, può
un esercitato giocator di bigliardo avere soltanto nell'intelletto,
soltanto per l'intuizione immediata, una piena conoscenza delle
leggi che riflettono l'urto di corpi elastici l'un contro l'altro; e
con ciò raggiungere appieno le sue mire: all'opposto solo uno
scienziato della meccanica ha una vera e propria scienza di quelle
leggi, ossia ne ha una conoscenza in abstracto. Perfino alla
costruzione di macchine basta la conoscenza intellettuale puramente
intuitiva, quando l'inventore della macchina la costruisce egli
medesimo da solo, come si vede spesso fare a ingegnosi operai
senz'alcuna scienza: invece non appena son necessari più uomini ed
una loro attività coordinata, esercitantesi in momenti diversi, pel
compimento d'una operazione meccanica, d'una macchina, d'una
costruzione, allora deve colui che li dirige aver tracciato il piano
in abstracto, e solo mediante il contributo della ragione divien
possibile una tale attività collettiva. Notevole è tuttavia che in
quella prima maniera d'attività, dove taluno deve eseguir da solo
qualcosa in una ininterrotta operazione, il sapere, l'uso della
ragione, la riflessione possono essergli perfino d'impedimento; per
esempio nel gioco del bigliardo, nella scherma, nel suono d'uno
strumento, nel canto. Qui dev'esser la conoscenza intuitiva a
guidare direttamente l'attività: il passare per la riflessione la
rende malsicura, per il fatto che scinde l'attenzione confonde
l'uomo. Perciò selvaggi e uomini incolti, i quali sono pochissimo
avvezzi a pensare, eseguono vari esercizi corporali, lotta con le
belve, tiro dell'arco e simili, con una sicurezza e rapidità, che il
riflessivo europeo non raggiunge mai, appunto perché la sua
riflessione lo fa tentennare ed esitare: poi ch'egli cerca di
trovar, per esempio, il posto buono, o il momento opportuno a pari
distanza da due falsi estremi; mentre l'uomo semplice li coglie
immediatamente, senza deviazioni. Così non m'è d'aiuto il saper
indicare in abstracto per gradi e per minuti l'angolo in cui ho da
adoperare il rasoio, se non lo conosco intuitivamente, ossia non lo
formo naturalmente impugnando il rasoio. Nella stessa maniera ci
disturba l'uso della ragione nell'apprezzamento della fisonomia:
questo anche deve avvenire direttamente, mediante l'intelletto. Si
dice, che l'espressione, il significato dei lineamenti si può solo
sentire, ossia che appunto non rientra nei concetti astratti.
Ciascun uomo ha la sua immediata fisiognomica e patognomica
intuitiva: ma l'uno riconosce più chiaramente che l'altro quella
signatura rerum. Una fisiognomica in abstracto, che si possa
insegnare ed apprendere, non si può costruire; perché le sfumature
sono qui tanto fine, che il concetto non vi può discendere. Quindi
il sapere astratto si comporta di fronte a quelle come una figura a
mosaico di fronte a una di van der Werft o Denner; come, per fino
che sia il mosaico, rimangono tuttavia sempre visibili i contorni
d'ogni pietruzza e non è perciò possibile il passaggio continuo da
una tinta all'altra; così anche i concetti con la loro rigidità e la
lor netta limitazione, per quanto sottilmente si possano suddividere
mediante una più minuta determinazione, sono pur sempre incapaci di
raggiungere le fine sfumature dell'intuizione, che son quelle che
importano appunto nella fisiognomica qui addotta ad esempio21.
Questa medesima costituzione dei concetti, che li fa simili alle
pietruzze della figura musiva, e grazie alla quale l'intuizione
rimane sempre la loro asintote, è anche il motivo, per cui nell'arte
nulla vien fatto di buono con essi. Se il cantante, il musicista
vuol prodursi con la guida della riflessione, si demolisce. Lo
stesso vale per il compositore, il pittore, il poeta stesso: il
concetto rimane sempre infruttuoso per l'arte. Esso non può guidare
in lei che la tecnica: suo dominio è la scienza. Nel terzo libro
esamineremo più da vicino, perché ogni vera arte provenga dalla
conoscenza intuitiva, non mai dal concetto. Perfino riguardo al modo
di contenersi, alla piacevolezza nei rapporti sociali, il concetto
non serve se non negativamente, per trattenere le grossolane
esplosioni dell'egoismo e della bestialità, come d'altra parte è suo
lodevole frutto la cortesia: ma ciò che attira, ciò che è grazioso,
avvincente nel contegno, amorevole e gentile, non deve provenire dal
concetto: in caso contrario
fühlt man Absicht und man ist verstimmt
[si sente il voluto e si è male disposti].
Ogni finzione è frutto di riflessione; ma alla lunga e di continuo
la finzione non può durare: nemo potest personam diu ferre fictam,
dice Seneca, nel libro De clementia: inoltre essa viene il più delle
volte smascherata, e manca il suo effetto. In un alto fervore di
vita, dove occorre veloce risoluzione, azione ardita, rapida e ferma
iniziativa, è bensì la ragione necessaria; ma può facilmente
guastare tutto se prende il sopravvento. Allora, generando
confusione, impedisce la trovata intuitiva, diretta, puramente
intellettiva, la pronta e giusta risoluzione, ed è causa
d'irresolutezza.
Finalmente, anche virtù e santità non provengono dalla riflessione,
ma dall'intima profondità del volere e dalla sua relazione col
conoscere. Il dimostrar ciò spetta a tutt'altro luogo di
quest'opera: qui voglio soltanto osservare, che i dogmi riferentisi
al mondo etico possono essere i medesimi nella ragione di popoli
interi, ma diverso l'agire in ogni individuo, e viceversa. Si
agisce, come suol dirsi, per sentimenti: ossia non per concetti,
ossia non secondo il lor contenuto etico. I dogmi tengono occupata
la pigra ragione: l'azione procede indipendente da quelli pel suo
cammino, il più delle volte secondo massime non astratte, ma
inespresse, di cui è espressione appunto tutto l'uomo, medesimo.
Quindi, per quanto diversi siano i dogmi religiosi dei popoli, pure
è per tutti causa d'inesprimibile contento la buona azione, e la
cattiva è accompagnata da orrore infinito. Nessun dileggio scuote
quel contento; nessuna assoluzione del confessore libera da
quell'orrore. Tuttavia non si vuol negare con questo, che l'uso
della ragione sia necessario nella pratica continuata della virtù:
soltanto, la ragione non è la fonte di questa; bensì la sua funzione
è subordinata, e consiste nell'osservanza di deliberazioni già
prese, nel tener presenti le massime, per resistere alle debolezze
momentanee e agire conseguentemente. Lo stesso ufficio compie la
ragione anche nell'arte, dov'essa non ha bensì alcun potere
sostanziale, ma sorregge l'esecuzione; appunto perché il genio non
sta a disposizione in tutti i momenti, mentre l'opera dev'essere
compiuta in ogni sua parte e arrotondata in un tutto22.
§ 13.
Tutte queste considerazioni, sì intorno all'utilità che allo
svantaggio dell'impiego della ragione, devono servire a render
chiaro, che sebbene il sapere astratto sia il riflesso della
rappresentazione intuitiva e si fondi su questa, non è tuttavia in
alcun modo identico a lei, sì da poter fare ovunque le sue veci.
Anzi, non le corrisponde mai perfettamente; quindi, come abbiamo
veduto, è vero che molte delle azioni umane vengono a buon termine
solo con l'aiuto della ragione e della condotta meditata, ma talune
riescon meglio senza. Appunto quella incongruenza del conoscere
intuitivo e dell'astratto, in grazia della quale quest'ultimo
s'agguaglia al primo solo approssimativamente, come il mosaico alla
pittura, è anche il motivo d'un fenomeno molto singolare; il quale,
appunto come la ragione, è proprio esclusivamente della natura
umana. Le spiegazioni sempre nuove che ne furon tentate finora sono
tutte insufficienti: intendo parlare del riso. In virtù di questa
sua origine, non possiamo sottrarci qui ad una spiegazione di esso,
sebbene ne venga ancora ritardato il nostro cammino. Il riso volta
per volta nasce da nient'altro che da un'incongruenza,
improvvisamente percepita, fra un, concetto e gli oggetti reali, che
erano pensati mediante quel concetto, in una relazione qualsiasi: ed
esso medesimo è proprio solamente l'espressione di tale
incongruenza. Questa è prodotta sovente da ciò, che due o più
oggetti reali sono pensati mediante un unico concetto, la cui
identità è trasportata in essi: ma tosto una completa dissomiglianza
loro nel resto rende palese che il concetto conveniva ad essi sotto
un solo punto di vista. Tuttavia è altrettanto frequente un unico
oggetto reale, la cui incongruenza col concetto, a cui da un lato
era stato sussunto con ragione, divien sensibile d'un tratto. Quanto
è più giusta da un lato la sussunzione di tali oggetti reali sotto
un concetto, e più grossa e stridente dall'altro la loro discordanza
da quello; tanto più forte è l'azione del ridicolo emergente a
questo contrasto. Ogni riso è provocato quindi da una sussunzione
paradossale e quindi inattesa, si esprima questa in parole od in
atti. Tale è, in breve, l'esatta spiegazione del ridicolo.
Non m'indugierò qui a narrare aneddoti ed esempi per chiarire la mia
spiegazione, essendo questa tanto semplice e agevole, da non averne
bisogno; e ciascun caso ridicolo, di cui si sovvenga il lettore,
serve in egual modo di prova. Ma forse la nostra spiegazione riceve
conferma e chiarimento insieme dalla distinzione di due generi del
ridicolo, che appunto ne risultano. Può accadere che si siano
trovati prima nella conoscenza due o più oggetti reali meno diversi
(rappresentazioni intuitive) e li si abbia arbitrariamente
eguagliati nell'unità di un concetto che li racchiude entrambi:
questo modo di ridicolo si chiama spirito. O, viceversa, il giudizio
è primo a trovarsi nella conoscenza, e si parte da esso per venire
alla realtà e all'azione sulla realtà, alla pratica. In questo caso
oggetti nel resto fondamentalmente diversi, ma tutti pensati sotto
quel concetto, vengono ora riguardati e trattati ad un modo, fin
quando la lor grande diversità in tutto il rimanente balza fuori,
producendo sorpresa e stupore in chi agisce: questo genere di
ridicolo si chiama buffoneria. Per conseguenza ogni ridicolo è una
trovata umoristica, oppure un'azione buffonesca, a seconda che si
proceda dalla discrepanza degli oggetti all'identità del concetto, o
viceversa. Il primo caso è sempre volontario, il secondo sempre
involontario ed imposto esteriormente. Aver l'aria di permutare
questi punti di partenza, e mascherare l'umorismo da buffoneria, è
l'arte del buffone di corte e del pagliaccio: di chi, pur essendo
ben conscio della diversità degli oggetti, li ravvicina, con celata
arguzia, sotto un concetto; e partendo poi da questo, ricava dalla
diversità degli oggetti, in seguito scoperta, quella sorpresa che
egli stesso s'era preparata. Da questa breve, ma sufficiente teoria
del ridicolo appare che (facendo astrazione dall'ultimo caso citato
del burlone), lo spirito si deve mostrar sempre a parole, la
buffoneria invece il più sovente nei fatti, sebbene a volte si
mostri anche a parole, come quando non fa che esporre il suo
proposito invece di eseguirlo, o si manifesta soltanto in giudizi ed
opinioni.
Alla buffoneria appartiene anche la pedanteria. Essa proviene
dall'aver poca fiducia nel nostro intelletto, e dal non poterlo
lasciar libero di trovare immediatamente la via giusta in ogni
singolo caso; quindi lo si colloca in tutto e per tutto sotto la
tutela della ragione, e ci si vuol servire sempre di questa: ossia
muover sempre da concetti universali, regole, massime; ed
attenervisi esattamente nella vita, nell'arte, perfino nella buona
condotta morale. Di qui l'attaccamento, caratteristico della
pedanteria, alla forma, alla maniera, all'espressione, alla parola;
che per lei si sostituiscono all'assenza della cosa. Allora non si
tarda a veder l'incongruenza del concetto con la realtà; si vede
come quello non scende mai fino al particolare, e come quella
universalità e rigida determinatezza non possa mai adattarsi alle
fine sfumature e alle variate modificazioni della realtà. Quindi il
pedante con le sue massime generali si trova sempre al disotto nella
vita, e si mostra inetto, insulso, inservibile; nell'arte, per la
quale il concetto è sterile, produce aborti esanimi, rigidi,
artificiosi. Perfino il rispetto etico il proposito d'agir
giustamente o nobilmente non può sempre essere attuato secondo
massime astratte; perché in molti casi la natura delle circostanze
con le loro infinite, delicate sfumature richiede una scelta della
vita giusta emersa lì per lì dal carattere dell'individuo. Invece
l'applicazione di pure massime astratte in parte da cattivi
risultati, perché queste non convengono che a metà; in parte non si
può fare, quando le massime sono estranee al carattere individuale
di chi agisce, e questi non può rinnegar del tutto se stesso: da ciò
possono derivare inconseguenze. Non possiamo assolvere pienamente
Kant dall'accusa di pedanteria, quando pone a condizione del valore
morale di un atto, che questo si faccia secondo pure massime
astratte razionali, senz'alcuna inclinazione o eccitazione del
momento; accusa che è anche il senso dell'epigramma schilleriano
«Scrupolo di coscienza». Quando, soprattutto in cose politiche, si
parla di dottrinari, teorici, eruditi, etc., s'intendono sempre
pedanti: ossia persone che conoscono bensì le cose in abstracto, ma
non in concreto. L'astrazione consiste nel cancellar dal pensiero le
circostanze particolari: mentre sono appunto queste, che hanno
grande importanza nella pratica.
Per compiere la teoria è da ricordare ancora un falso genere di
spirito: il giuoco di parole, calembourg, pun, al quale si può
ravvicinare anche il doppio senso, l’équivoque, usato principalmente
per l'oscenità. Come lo spirito forza due oggetti reali ben diversi
a stare sotto un concetto, così il giuoco di parola riunisce con
l'aiuto del caso due concetti differenti in un'unica parola. Ne
viene lo stesso contrasto, ma molto più fiacco e superficiale,
essendo sorto non dall'essenza delle cose, bensì dal caso delle
denominazioni. Il vero spirito ha identità nel concetto, differenza
nella realtà; col giuoco di parole invece si ha differenza nei
concetti e identità nella realtà, considerando come tale il suono
della parola. Sarebbe un paragone un po' troppo ricercato, il dire
che il giuoco di parole sta allo spirito come la parabola del cono
superiore rovesciato sta a quella dell'inferiore. Il fraintendimento
della parola poi, ossia il quid pro quo, è il calembourg
involontario, e sta a questo proprio come la buffoneria
all'umorismo. Perciò un uomo duro d'orecchi può, come il buffone,
dar materia al riso; e i commediografi scadenti se ne servono in
luogo di quello.
Ho considerato qui il riso unicamente dal lato psichico; sotto
l'aspetto fisico si vegga quanto se ne dice nei Parerga, vol. II,
Cap. 6, § 96, p. 134 (prima ediz.)23.
§ 14.
Dopo tutte queste varie considerazioni (le quali è sperabile abbian
posto in piena luce la differenza e la relazione fra il modo di
conoscere della ragione, ossia il sapere, il concetto, da un lato, e
dall'altro la conoscenza immediata nella pura intuizione sensibile e
matematica, nonché il suo apprendimento da parte dell'intelletto); e
quindi dopo le dilucidazioni episodiche intorno al sentimento ed al
riso – cui siamo stati condotti quasi inevitabilmente attraverso
l'esame di quella singolare relazione dei nostri modi di conoscenza
– riprendo ora a spiegare che cosa sia la scienza: come quella che
accanto al linguaggio e all'azione meditata, è il terzo privilegio
concesso all'uomo dalla ragione. L'esame generale della scienza, che
qui c'incombe, toccherà per una parte la sua forma, per l'altra il
fondamento dei suoi giudizi, e finalmente anche il suo contenuto.
Abbiamo veduto che – facendo eccezione del fondamento della logica
pura – nessun altro sapere ha la sua origine nella ragione; bensì,
attinto da altra sorgente in qualità di conoscenza intuitiva, nella
ragione viene depositato, passando così in un modo di conoscenza
affatto diverso: la conoscenza astratta. Ogni sapere, ossia ogni
conoscenza elevata alla coscienza in abstracto, sta alla vera e
propria scienza come un frammento sta al tutto. Ciascun uomo, sia
per esperienza, sia per considerazione dei singoli dati, ha
raggiunto un sapere intorno ad oggetti svariati: ma solo chi
s'impone d'acquistare compiuta conoscenza in abstracto d'una data
specie d'oggetti, aspira veramente alla scienza. Solo per mezzo del
concetto può isolare quella specie: quindi al sommo d'ogni scienza
sta un concetto, mediante il quale dal complesso di tutte le cose
viene staccata una parte, di cui la scienza promette una piena
cognizione in abstracto. Per esempio il concetto delle relazioni
spaziali, o dell'azione reciproca dei corpi organici, o della natura
delle piante e degli animali, o delle successive trasformazioni
della superficie della terra, o dell'evoluzione complessiva del
genere umano, o della formazione d'una lingua, e così via. Se la
scienza volesse acquistar cognizione del suo campo, indagando ad una
ad una tutte le cose pensate col concetto, e venendo così a poco a
poco a conoscere il tutto, né la memoria umana basterebbe allo
scopo, né si raggiungerebbe mai la certezza d'aver tutto conosciuto.
Perciò la scienza si vale della proprietà, più sopra illustrata, che
hanno le sfere concettuali, di esser comprese l'una nell'altra; e
considera principalmente le sfere più ampie fra quelle che si
trovano racchiuse nel concetto del suo oggetto. Quando ha
determinato le loro relazioni reciproche, ha contemporaneamente
determinato in genere tutto ciò che in quelle sfere viene pensato e
che ora sarà determinato con sempre maggiore precisione, man mano
che si vengano ad isolare sfere concettuali più ristrette. Così
diventa possibile ad una scienza di abbracciare completamente il suo
oggetto. E questa via, che conduce alla conoscenza procedendo
dall'universale verso il particolare, distingue la scienza dal
sapere comune: quindi la forma sistematica è una caratteristica
essenziale della scienza. Il collegamento delle più vaste sfere
concettuali d'ogni scienza, ossia la conoscenza dei suoi principi
superiori, è condizione assoluta del suo apprendimento: rimane poi
ad arbitrio dello scienziato il punto a cui vuol pervenire,
scendendo da quei principi superiori a principi di mano in mano più
limitati; con ciò si accresce non la profondità, ma l'estensione
della scienza. Il numero dei principi superiori, ai quali sono tutti
subordinati i rimanenti, è molto diverso a seconda delle varie
scienze, tanto che in alcune si ha più subordinazione, in altre più
coordinazione; sotto il qual punto di vista quelle richiedono più
forza di giudizio, queste più memoria. Era già noto agli
scolastici24 che, richiedendo il sillogismo due premesse, nessuna
scienza può muovere da un unico principio superiore, che non sia a
sua volta derivabile da un altro; ma deve averne parecchi; o almeno
due. Le scienze di classificazione vera e propria: zoologia,
botanica, ed anche fisica e chimica, in quanto queste due ultime
riconducono a poche forze elementari ogni azione inorganica, hanno
la massima subordinazione; viceversa la storia non ne ha punto,
perché in lei l'universale consiste appena nel prospetto delle
epoche principali maggiori, da cui tuttavia non si posson derivare
le circostanze particolari. Queste sono a quelle subordinate solo
per il tempo, ma coordinate in quanto al concetto. Perciò la storia,
presa in senso preciso, è bensì un sapere, ma non una scienza. Nella
matematica gli assiomi sono, secondo la trattazione euclidea, i soli
principi superiori non dimostrabili, e tutte le dimostrazioni sono
di grado in grado rigidamente subordinate a quelli: tuttavia questo
modo di trattazione non è essenziale alla matematica, e in realtà
ogni teorema fa sorgere una nuova costruzione spaziale, che in sé è
indipendente dalle precedenti e può invero indipendentemente da
quelle esser conosciuta, di per se stessa, nella pura intuizione
dello spazio, nella quale anche la più complicata costruzione ha in
realtà la stessa immediata evidenza dell'assioma. Ma di ciò sarà
trattato ampiamente in seguito. Frattanto, ogni principio matematico
rimane pur sempre una verità universale, applicabile ad innumerevoli
casi singoli; alla matematica è anche essenziale un graduato
procedere dai principi semplici ai meno semplici, e questi vanno
ricondotti a quelli. Perciò la matematica è sotto ogni rispetto una
scienza. La perfezione d'una scienza in quanto tale, ossia nella sua
forma, consiste nell'aver quanto più è possibile subordinazione di
principi, e poca coordinazione. Quindi il talento scientifico in
genere è l'attitudine a subordinare le sfere concettuali, secondo le
loro varie determinazioni; affinchè, come ripetutamente esorta
Platone, non costituisca scienza un solo principio universale, sotto
cui siano giustapposti una sterminata varietà di casi singoli, ma
bensì la conoscenza proceda gradualmente dal più universale al
particolare, attraverso concetti intermedi e partizioni, fatte
secondo determinazioni sempre più strette. Con le parole di Kant,
questo si chiama soddisfare egualmente la legge di omogeneità e
quella di specificazione. Ma appunto dal fatto che ciò costituisce
la vera perfezione scientifica, deriva che scopo della scienza non è
una maggiore certezza, la quale può esser altrettanto data anche
dalla più limitata conoscenza singola; bensì una maggior facilità
del sapere mediante la forma di esso, o per tal via la possibilità
di un sapere compiuto. È quindi opinione corrente ma sbagliata, che
il carattere scientifico della conoscenza sta nella maggior
certezza, ed altrettanto falsa è l'affermazione che ne deriva, che
soltanto la matematica e la logica siano scienze in senso proprio;
essendo solo in quelle, a causa della loro completa apriorità,
un'incrollabile certezza della conoscenza. Quest'ultimo privilegio
non si può contrastare: ma esso non dà loro nessuno speciale
monopolio del carattere scientifico, poiché questo consiste non già
nella certezza, bensì nella sistematica forma della conoscenza
fondata sul graduale discendere dal generale al particolare. Codesto
cammino della conoscenza proprio delle scienze (ossia il discender
dal generale al particolare), porta con sé che molto in esse poggia
sulla derivazione da principi anteriori, e quindi su dimostrazioni.
E questo ha provocato l'antico errore, esser vero soltanto ciò che è
provato, ed ogni verità abbisognar d'una prova; mentre al contrario
ogni prova abbisogna piuttosto d'una verità non provata, che appoggi
la prova stessa o anche, alla lor volta, le prove di questa. Perciò
una verità direttamente accertata è da preferire a quella fondata su
una dimostrazione, come l'acqua della sorgente è preferibile a
quella dell'acquedotto. Intuizione – o pura, a priori, come quella
della matematica, o empirica, a posteriori, come quella di tutte le
altre scienze – è la sorgente d'ogni verità e il fondamento d'ogni
scienza. (Va eccettuata solo la logica, fondata sulla conoscenza non
intuitiva, sebbene sia anche immediata conoscenza che la ragione ha
delle sue proprie leggi). Non i giudizi provati, né le loro prove:
bensì quelli direttamente attinti dall'intuizione e fondati su
questa, in luogo d'ogni prova, sono nella scienza quel ch'è il sole
nell'universo: perché da essi deriva tutta la luce, dalla quale
illuminati splendono gli altri alla lor volta. Fondar direttamente
sull'intuizione la verità di codesti giudizi primi; estrarre
dall'infinita moltitudine di oggetti reali codesti cardini della
scienza: tale è il compito della facoltà giudicante; la quale
consiste nel trasferire con giustezza e precisione nella coscienza
astratta ciò che è conosciuto intuitivamente, e quindi è
intermediaria tra intelletto e ragione. Solo una forza di giudizio
eccezionale, superiore alla media, in un individuo, può far davvero
avanzare le scienze: ma derivare principi da principi, dimostrare,
sillogizzare può ciascuno, sol che abbia sana ragione. All'opposto,
deporre e fissare in concetti convenienti, per riflessione, la
conoscenza intuitiva; sì che da un lato i caratteri comuni di molti
oggetti reali siano pensati con un concetto, e dall'altro con
altrettanti concetti i loro caratteri differenti; per modo che il
differente, malgrado una parziale concordanza, sia conosciuto e
pensato come differente, e l'identico alla sua volta come identico,
malgrado una parziale differenza (sempre secondo lo scopo e il punto
di vista che in ogni singolo caso predomina), tutto questo fa il
giudizio. Mancanza di giudizio è stoltezza. Lo stolto misconosce ora
la parziale o relativa differenza di ciò che per un altro riguardo è
identico, ora l'identità del relativamente o parzialmente diverso.
D'altronde a questa spiegazione del giudizio si può applicare la
partizione che fa Kant in giudizio riflettente e sussumente, a
seconda ch'esso proceda dagli oggetti intuitivi verso il concetto, o
da questo a quelli; ma, nell'un caso e nell'altro, sempre facendo da
intermediario tra la conoscenza intuitiva dell'intelletto e quella
riflessa della ragione. Non esiste nessuna verità, che possa
incondizionatamente essere ricavata solo mediante sillogismi; e il
bisogno di fondarla coi soli sillogismi è sempre relativo, anzi
subiettivo. Essendo sillogismi tutte le dimostrazioni per una verità
nuova, non si deve cominciare a cercar una prova, bensì l'evidenza
assoluta; e solo finché questa viene a mancare, è da costruire in
via provvisoria una dimostrazione. Nessuna scienza può esser provata
in tutto e per tutto, come un edifizio non può reggersi in aria:
tutte le sue prove devono risalire ad un fatto intuitivo e quindi
non più dimostrabile. Imperocché l'intero mondo della riflessione
poggia e ha le sue radici nel mondo intuitivo. Ogni evidenza ultima,
ossia originaria, è intuitiva: la parola stessa lo dice. Può essere
empirica, oppure fondata sull'intuizione a priori delle condizioni
dell'esperienza possibile: ma in entrambi i casi essa fornisce
conoscenza immanente, non trascendente. Ogni concetto ha il suo
valore e la sua essenza soltanto nella relazione, sia pur molto
indiretta, con una rappresentazione intuitiva. E, ciò che vale pei
concetti, vale anche per i giudizi, che son composti di concetti, e
per tutte le scienze. Dev'esser dunque possibile, in qualche modo,
di conoscer direttamente, senza sillogismi e senza prove, ciascuna
verità che sia stata trovata con sillogismi e comunicata con prove.
La cosa è più difficile per certi complicati principi matematici,
cui perveniamo solo attraverso catene di sillogismi, come per
esempio il calcolo delle corde e delle tangenti per tutti gli archi,
cui si perviene, per mezzo di sillogismi, dal teorema di Pitagora.
Ma anche codesta verità non può poggiare sostanzialmente ed
esclusivamente su principi astratti, e così le relazioni spaziali,
che le servono di fondamento, devono poter esser ricavate con la
pura intuizione a priori, in modo che la loro astratta enunciazione
venga fondata direttamente. Ma della dimostrazione matematica si
tratterà subito distesamente.
Si parla spesso in tono enfatico di scienze, le quali poggiano
esclusivamente su deduzioni esatte da sicure premesse, e quindi
devono essere incrollabilmente vere. Ma con una serie puramente
logica di deduzioni, siano pur vere le premesse quanto si voglia,
non si otterrà mai altro che una maggior chiarezza e dimostrazione
di ciò, che già si trova bell'e pronto nelle premesse: non si farà
quindi che esporre explicite ciò che si trova implicite colà. Quelle
scienze così vantate sono in ispecial modo le scienze matematiche, e
soprattutto l'astronomia. Ma la certezza dell'astronomia proviene
dal fatto, ch'ella ha per fondamento l'intuizione a priori, e quindi
infallibile, dello spazio; mentre tutte le relazioni spaziali si
svolgono l'una dall'altra con una necessità (principio dell'essere)
che dà certezza a priori, e si posson quindi dedurre successivamente
con sicurezza. A queste determinazioni si aggiunge qui una sola
forza naturale, la gravità, che agisce nella precisa relazione delle
masse e del quadrato della distanza; e finalmente ancora la legge
d'inerzia, che è certa a priori, perché derivante dalla causalità,
accanto al dato empirico del movimento impresso una volta per sempre
a ciascuna di quelle masse. Questo è tutto il materiale
dell'astronomia; il quale, tanto per la sua semplicità quanto per la
sua certezza, conduce a risultati fermi, e molto interessanti a
causa della grandezza e importanza degli oggetti. Se io, per
esempio, conosco la massa d'un pianeta e la distanza del suo
satellite, potrò con certezza determinare il tempo di rivoluzione di
quest'ultimo, in conformità della seconda legge di Keplero: ma il
principio di questa legge è che, ad una data distanza, una data
velocità può insieme tener legato il satellite al pianeta ed
impedirgli di cadere in questo. Quindi solo su tal fondamento
geometrico, ossia per mezzo di un'intuizione a priori, e inoltre con
l'applicazione d'una legge naturale, si può andar così lontano con
le deduzioni; perché queste sono qui nient'altro che ponti da
un'intuizione ad un'altra. Ma non altrettanto si può fare con
semplici e pure deduzioni per via esclusivamente logica. L'origine
delle prime verità fondamentali dell'astronomia è propriamente
induzione, ossia riunione di ciò ch'è dato da molte intuzioni in un
giudizio esatto, direttamente fondato. Su quest'ultimo vengono poi
formate ipotesi, la cui conferma mediante l'esperienza – induzione
molto prossima alla compiutezza – fornisce la prova di quel primo
giudizio. Per esempio, l'apparente moto dei pianeti è conosciuto
empiricamente: dopo molte false ipotesi sulla connessione spaziale
di questo moto (orbita dei pianeti) fu trovata infine la giusta;
poi, subito, le loro leggi (leggi di Keplero); e finalmente anche la
loro causa (gravitazione universale). Ed a tutte le ipotesi diede
piena certezza l'accordo, empiricamente conosciuto, di tutti i casi
avveratisi con le ipotesi stesse e con le loro conseguenze – ossia
l'induzione. La scoperta delle ipotesi era compito del giudizio, che
afferrò esattamente, e convenientemente espresse, i dati di fatto;
ma l'induzione, ossia intuizione molteplice, ne confermò la verità.
Questa poteva tuttavia poggiare anche direttamente sopra un'unica
intuizione empirica, se noi fossimo stati in grado di trasvolar
liberamente per gli spazi, avendo occhi telescopici. Per conseguenza
anche qui le deduzioni non sono l'essenziale ed unica sorgente della
conoscenza, ma sempre un semplice espediente.
Finalmente, per citare un terzo esempio d'altra natura, vogliamo
ancora osservare, che neppur le cosiddette verità metafisiche –
ossia quelle che Kant enumera nei Principi metafisici della scienza
detta natura – devono alle dimostrazioni la loro evidenza. Ciò che è
certo a priori, lo conosciamo direttamente: come forma di ogni
conoscenza, ha per noi il carattere della massima necessità. Per
esempio, che la materia persista, cioè non abbia principio né fine,
ci è noto direttamente come verità negativa: perché la nostra
intuizione pura dello spazio e del tempo dà la possibilità del moto,
e l'intelletto dà, nella legge di causalità, la possibilità del
cambiamento di forma e qualità; ma le forme dell'intuizione
possibile ci mancano per un nascere o svanire della materia. Quindi
codesta verità fu sempre, dovunque ed a tutti evidente, né mai posta
seriamente in dubbio; il che non potrebbe essere, se il suo
principio di conoscenza non fosse ben diverso dalla dimostrazione
così difficile di Kant, che sembra procedere su punte di spilli.
Oltre a ciò, la prova di Kant l'ho trovata falsa (com'è spiegato
nell'appendice); ed ho più sopra mostrato che la permanenza della
materia non va dedotta dalla partecipazione che ha il tempo alla
possibilità della esperienza, ma da quella che v'ha lo spazio. La
vera base di tutte le verità chiamate in questo senso metafisiche,
ossia espressioni astratte delle forme necessarie e universali della
conoscenza, non può stare alla sua volta in principi astratti; ma
solo nella coscienza diretta delle forme della rappresentazione. La
qual coscienza si manifesta a priori mediante affermazioni
apodittiche, più forti di qualunque obiezione. Se nondimeno si vuol
darne una prova, questa può consister solo nel dimostrare che la
verità da provarsi è già contenuta – sia come parte, sia come
premessa – in qualche altra verità non mai contestata. Così io ho
dimostrato, per esempio, che ogni intuizione empirica già contiene
l'applicazione della legge di causalità; la cui cognizione è quindi
base d'ogni esperienza, e non può per tal motivo esser data e
condizionata da questa, come Hume affermava. Le dimostrazioni
d'altronde servono meno a chi impara, che non a chi vuol disputare.
Questi ultimi negano con ostinazione ogni certezza direttamente
conseguita. Ma la verità sola può esser conseguente da tutti i lati:
si deve quindi mostrare a costoro, che essi in un modo e
direttamente concedono ciò, che in un altro modo e indirettamente
negano; ossia mostrare la necessaria connessione logica fra quel
ch'è negato e quel ch'è concesso.
Inoltre la forma scientifica, che è subordinazione di tutto il
particolare al generale e così via, salendo sempre più alto, ha per
conseguenza, che la verità di molti principi sia fondata solo
logicamente, cioè in virtù della loro dipendenza da altri principi;
quindi per mezzo di deduzioni, che fanno insieme le veci di
dimostrazioni, Ma non va mai dimenticato, che tutta codesta forma
scientifica è semplicemente facilitazione della conoscenza, e non
mezzo per raggiungere una maggiore certezza. È più facile conoscere
la natura di un animale dalla specie a cui esso appartiene, e questa
via via dal genere, dalla famiglia, dall'ordine e dalla classe, anzi
che studiare volta per volta ogni animale isolatamente; ma la verità
di tutti i principi derivati da deduzioni è sempre appena relativa,
e alla fine dipendente da un'altra verità, la quale riposa non sopra
deduzioni, ma sopra l'intuizione. Se questa fosse sempre così
accessibile come una deduzione per sillogismi, sarebbe in tutti i
modi da preferire. Poiché ogni deduzione da concetti è – per la
varia intersecazione delle sfere più sopra mostrata, e per la
determinazione spesso incerta del loro contenuto – esposta a molti
sbagli; dei quali sono esempi tante dimostrazioni di false dottrine,
e sofismi d'ogni genere. I sillogismi sono invero certissimi quanto
alla forma, ma assai malsicuri quanto alla loro materia, che sono i
concetti; perché in parte le sfere di questi non sono spesso
determinate con sufficiente nettezza, in parte s'intrecciano così
variamente, che una sfera è in modo frammentario contenuta in molte
altre, e da lei si può liberamente passare all'una o all'altra di
queste e così via; come fu già esposto. O con altre parole: il
terminus minor ed anche il medius possono sempre venir subordinati a
differenti concetti, fra' quali si sceglie a volontà il terminus
maior ed il medius: dal che dipende la diversità della conclusione.
Sempre è adunque la diretta evidenza da preferire di gran lunga alla
verità dimostrata; e questa va accolta solo quando l'altra s'avrebbe
a cercar troppo lontano, ma non quando sono egualmente vicine o è
più vicina l'evidenza. Perciò vedemmo, che in realtà anche nella
logica, dove la conoscenza diretta in ogni singolo caso ci è più
prossima che la derivata conoscenza scientifica, guidiamo il nostro
pensiero sempre secondo la conoscenza immediata delle leggi del
pensiero stesso, e lasciamo la logica stessa in disparte25.
§ 15.
Ora, se noi con la nostra fede che l'intuizione sia la fonte prima
d'ogni evidenza, e sola assoluta verità sia la diretta o mediata
relazione con lei; che inoltre la via più sicura per giungere alla
verità sia sempre la più breve, perché ogni frapposizione di
concetti può esser causa di inganni – se noi, dico, con questa fede
ci volgiamo alla matematica, quale è stata eretta a scienza da
Euclide e rimasta in complesso fino al giorno d'oggi, non possiamo
fare a meno di giudicar singolare, anzi assurda, la via che questa
percorre. Noi pretendiamo che ogni argomentazione logica sia
ricondotta ad un'intuizione; la matematica invece si sforza a gran
fatica di rigettare temerariamente l'evidenza intuitiva che le è
propria e le sta sempre a portata di mano, per sostituire
un'evidenza logica. Questo a noi fa l'effetto di qualcuno che si
tagli le gambe, per camminare con le grucce; o del principe che nel
«Trionfo della sensibilità» rifugge dalla vera, bella natura, per
compiacersi d'una decorazione teatrale che la imita. Devo qui
richiamare quel che ho detto nel sesto capitolo della memoria sopra
il principio di ragione, e che suppongo fresco nella memoria al
lettore e ben presente, sì da potervi riannodare le mie osservazioni
senza spiegar daccapo il divario tra il semplice principio di
conoscenza di una verità matematica, che può esser dato logicamente,
e il principio dell'essere, che è la connessione diretta,
conoscibile solo intuitivamente, delle parti dello spazio e del
tempo. Solo il penetrare in questa dà vero appagamento e piena
conoscenza; mentre il semplice principio di conoscenza rimane sempre
alla superficie, facendoci sapere che qualcosa è così, ma non perché
è così. Euclide ha seguito questa seconda via, con palese svantaggio
della scienza. Imperocché, ad esempio, fin dal principio, dove
dovrebbe dimostrare una volta per sempre che nel triangolo angoli e
lati si determinano a vicenda, e sono reciprocamente causa ed
effetto gli uni degli altri, secondo la forma che ha il principio di
ragione nello spazio puro e che produce quivi, come ovunque, la
necessità che una cosa sia così com'è, perché un'altra, da quella
affatto diversa, è così com'è – invece di rivelare in questo modo a
fondo l'essenza del triangolo, stabilisce alcune proposizioni
frammentarie sul triangolo, scelte a suo modo, e ne dà un principio
logico di conoscenza con una dimostrazione faticosa, logica,
condotta secondo il principio di contraddizione. Da ciò, invece
d'una conoscenza a fondo di codeste relazioni spaziali, si vengono
ad avere solo alcune risultanze di quelle, comunicate ad arbitrio; e
ci si trova nelle condizioni di colui al quale si mostrino le
differenti operazioni d'una macchina, ma tacendone la costituzione
interna ed il funzionamento. Che tutto sia come Euclide dimostra,
bisogna concedere, costretti dal principio di contraddizione: ma
perché sia così, non si apprende. Si ha quindi press'a poco la
stessa impressione spiacevole che ci lascia un giuoco di destrezza;
e in verità a questi somigliano in massima parte le dimostrazioni
euclidee. Quasi sempre la verità irrompe da una porticina
secondaria, risultando per accidens da qualche circostanza
accessoria. Sovente una dimostrazione apagogica chiude tutte le
porte, l'una dopo l'altra, e ne lascia aperta una sola, nella quale
s'ha quindi da entrare per forza. Spesso, come accade nel teorema di
Pitagora, vengono tirate certe linee senza che si sappia perché:
dipoi si apprende che erano lacciuoli destinati a stringersi
all'improvviso, per imprigionar l'assenso del discepolo: il quale
ora, stupito, deve accettare un fatto che gli rimane ancora del
tutto incomprensibile nel suo intimo nesso. Tanto incomprensibile,
ch'egli deve studiare Euclide da capo a fondo senza potersi render
davvero conto delle leggi delle relazioni spaziali, e imparandone
invece a memoria appena pochi risultati. Questa conoscenza, empirica
e non scientifica, somiglia a quella del medico, il quale conosce
bensì malattia e rimedio, ma non la connessione d'entrambi. Tutto
ciò è prodotto dal respinger capricciosamente il modo di
dimostrazione e l'evidenza propri d'un genere di conoscenza,
introducendo invece per forza un metodo eterogeneo. Nondimeno la
maniera in ciò adoperata da Euclide merita tutta l'ammirazione, che
per secoli le è stata tributata, e che è giunta tant'oltre da farla
proclamare il prototipo d'ogni dimostrazione scientifica, sul quale
si cercò di modellare tutte le altre scienze. Più tardi s'è cambiata
opinione, senza saper bene perché. Ai nostri occhi tuttavia quel
metodo euclideo nella matematica apparisce non altrimenti che una
brillantissima stortura. Ma di ogni grande aberrazione, seguita con
proposito e con metodo, sia che tocchi la vita o la scienza, si
troverà sempre il principio nella filosofia corrente al suo tempo.
Gli Eleatici furono i primi a scoprire il divario, anzi il frequente
contrasto, fra l'intuito, φαινομενον, e il pensato, νοουμενον 26, e
se ne servirono variamente pei loro filosofemi, ed anche per
sofismi. A loro tennero dietro poi Megarici, Dialettici, Sofisti,
Neoaccademici e Scettici; questi attirarono l'attenzione
sull'apparenza, ossia sull'illusione dei sensi, o piuttosto
dell'intelletto, che i loro dati trasforma in intuizione; la quale
illusione ci fa spesso veder cose di cui la ragione con certezza
nega la realtà, per esempio il bastone spezzato nell'acqua e così
via. Si comprese che non c'è da fidarsi incondizionatamente
dell'intuizione sensibile, e con troppa fretta si concluse che
soltanto il razionale, logico pensiero fosse fondamento di verità;
sebbene Platone (nel Parmenide), i Megarici, Pirrone e i
Neoaccademici dimostrassero con esempi (come fece più tardi Sesto
Empirico), come d'altra parte anche sillogismi e concetti inducano
in errore, generando paralogismi e sofismi molto più facili a
sorgere e più difficili a disperdere che non sia l'illusione
nell'intuizione sensibile. Frattanto, adunque, quel razionalismo,
sorto in opposizione all'empirismo, mantenne il sopravvento, e sulle
sue tracce elaborò Euclide la matematica: poggiando per necessità
sull'evidenza intuitiva (φαινομενον) i soli assiomi, e tutto il
resto su illazioni (νοουμενον). Il suo metodo rimase a dominare per
tutti i secoli, e così doveva essere, fin quando l'intuizione pura a
priori non venne distinta dall'intuizione empirica. È vero che già
Proclo, commentatore d'Euclide, sembra aver conosciuto appieno
quella distinzione, come dimostra il passo di lui tradotto in latino
da Keplero nel suo libro de harmonia mundi: ma Proclo non diede
abbastanza peso alla cosa, la presentò troppo isolatamente, rimase
inosservato e non ebbe successo. Quindi solo due secoli dopo, la
dottrina di Kant, cui tocca in sorte di produrre così grandi
trasformazioni in tutto il sapere, il pensiero e l'azione dei popoli
europei, provocherà la stessa trasformazione anche nella matematica.
Poiché soltanto dopo aver appreso da questo grande spirito che le
intuizioni dello spazio e del tempo sono affatto diverse dalle
intuizioni empiriche, affatto indipendenti da ogni impressione dei
sensi, essendo essi condizione dell'impressione e non viceversa; che
sono in altri termini a priori, e quindi inaccessibili all'illusione
dei sensi – soltanto ora possiamo comprendere, che la trattazione
euclidea della matematica fondata sulla logica è una provvidenza
inutile, una gruccia per gambe sane. E rassomiglia ad un pellegrino,
che, scambiando per acqua nella notte una bella strada chiara, si
guardi dal posarvi il piede, e la vada fiancheggiando sul terreno
disuguale, contento d'imbattersi di tanto in tanto nell'acqua
supposta. Ora soltanto possiamo con certezza affermare, che quando
ci si rivela necessario nell'intuizione di una figura non viene
dalla figura stessa, disegnata forse molto male sulla carta, e
nemmeno dal concetto astratto che noi ce ne facciamo, bensì
direttamente dalla forma d'ogni conoscenza, forma di cui siam consci
a priori. Questa è, in tutto, il principio di ragione. Qui essa come
forma dell'intuizione, ossia spazio, è principio di ragione
dell'essere; la cui evidenza e validità è altrettanto grande ed
immediata come quella del principio di ragione di conoscenza, ossia
della certezza logica. Non abbiamo dunque bisogno né dobbiamo, per
creder solo alla logica, abbandonare il dominio proprio della
matematica, venendo a dimostrare questa sopra un dominio che le è
affatto estraneo – quello dei concetti. Se ci teniamo sul terreno
proprio della matematica, ne ricaviamo il grande vantaggio, che
quivi il sapere che qualcosa sta in un certo modo, è tutt'uno col
sapere perché sta così. Mentre invece il metodo euclideo separa
nettamente questi due termini, e fa conoscere solo il primo, non il
secondo. Ma, dice ottimamente Aristotele negli Analyt. post, I, 27:
Ακριβεστερα δ’επιστημη επιστημης και προτερα ἡτε του ὁτι και του
διοτι ἡ αυτη, αλλα μη χωρις του ὁτι, της του διοτι (Subtilior autem
et praestantior ea est scientia, qua quod aliquis sit, et cur sit
una simulque intelligimus, non separatim quod, et cur sit). In
fisica siamo pur soddisfatti sol quando la conoscenza che qualcosa è
in un certo modo, si congiunge con quella del perché è così. Che il
mercurio del tubo torricelliano s'alzi a 28 pollici, è un povero
sapere, se non si aggiunge che vien trattenuto a quel limite dal
contrappeso dell'aria. Ma ci dovrà bastare in matematica quella
qualitas occulta del circolo, per cui i segmenti d'ogni due corde
intersecantisi in esso formano sempre rettangoli uguali? Che sia
così, dimostra invero Euclide nella 35a proposizione del terzo
libro: il perché sta ancora nell'ombra. Nello stesso modo c'insegna
il teorema di Pitagora a conoscere una qualitas occulta del
triangolo rettangolo; ma la dimostrazione zoppicante, anzi insidiosa
di Euclide ci lascia senza il perché; e la semplice figura che qui
segue, già nota, ci fa in un solo sguardo veder la cosa molto più
addentro che non faccia quella dimostrazione; e ci dà la intima,
ferma persuasione di quella necessità, e della dipendenza di quella
proprietà dell'angolo retto.
Anche se i cateti sono disuguali, si deve pervenire a codesta
convinzione intuitiva, e così nel caso di tutte le verità
geometriche possibili: anche solo per questo, che la loro scoperta
derivò sempre da una consimile necessità d'intuizione, e la
dimostrazione ne fu pensata soltanto in seguito. Basta dunque
un'analisi del processo mentale nella prima scoperta d'una verità
geometrica, per conoscere intuitivamente la sua necessità. Il
metodo, che in genere io preferisco per l'esposizione della
matematica, è l'analitico, e non il metodo sintetico che ha usato
Euclide. È vero tuttavia che, quando si tratta di verità matematiche
complicate, quello offre grandi difficoltà: ma non insuperabili. Già
si comincia qua e là in Germania a modificare l'esposizione della
matematica, seguendo più spesso questa via analitica. L'ha fatto più
risolutamente il signor Kosack, insegnante di matematica e fisica
nel ginnasio di Nordhausen, nell'accompagnare il programma d'esame
del 6 aprile 1852 con un diffuso tentativo di trattazione geometrica
secondo i miei principi.
Per migliorare il metodo della matematica, si richiede soprattutto
di rinunziare al pregiudizio che la verità dimostrata abbia una
qualsivoglia preminenza sulla verità conosciuta intuitivamente: o
che la verità logica, fondata sul principio di contraddizione,
prevalga sulla verità metafisica, la quale è di evidenza diretta, ed
a cui appartiene anche l'intuizione pura dello spazio.
Quel che c'è di più certo, né mai può essere spiegato, è il
contenuto del principio di ragione. Imperocché questo, nei suoi vari
atteggiamenti, esprime la forma universale di tutte le nostre
rappresentazioni e conoscenze. Ciascuna spiegazione è un risalire a
codesto principio; un constatare nel caso singolo il nesso delle
rappresentazioni, che quello esprime in genere. Esso è quindi il
principio d'ogni spiegazione, e perciò non può avere spiegazione
alla sua volta, né di spiegazioni ha bisogno: poi che ciascuna
spiegazione lo presuppone, e solo per suo mezzo acquista un senso.
Ma nessuna delle sue manifestazioni ha preminenza sulle altre: esso
è a un modo certo e indimostrabile in qualità di principio
dell'essere, o del divenire, o dell'agire, e del conoscere. Nell'una
come nell'altra delle sue forme, è sempre necessaria la relazione di
causa ed effetto; anzi è questa l'origine, nonché l'unico
significato, del concetto di necessità. Non c'è altra necessità che
quella dell'effetto, allorché è data la causa; e non v'ha causa che
non generi la necessità dell'effetto. Con la stessa certezza con cui
dal principio di conoscenza, dato nelle premesse, deriva la
conseguenza espressa nella proposizione finale, determina il
principio d'essere nello spazio la sua conseguenza nello spazio: e
quando ho conosciuto intuitivamente quest'ultima relazione, ho una
certezza altrettanto grande quanto una certezza logica. Ma qualsiasi
teorema geometrico esprime una tal relazione egualmente bene, come
un de' dodici assiomi: perché è una verità metafisica, e come tale
immediatamente certo, al modo stesso del principio di
contraddizione, il quale è una verità metalogica e serve di base
universale a tutte le dimostrazioni logiche. Chi nega la necessità
intuitivamente manifestata delle relazioni spaziali espresse in un
qualsiasi teorema, può con lo stesso diritto negare gli assiomi, e
con lo stesso diritto la derivazione della conclusione dalle
premesse, o addirittura il principio di contraddizione: perché in
tutto ciò sono egualmente relazioni indimostrabili, d'immediata
evidenza, e conoscibili a priori. Se quindi la necessità delle
relazioni spaziali, conoscibile intuitivamente, si vuol derivare
attraverso una dimostrazione logica dal principio di contraddizione,
gli è come se al diretto signore d'una terra volesse un altro
conceder la stessa terra in feudo. E proprio questo ha fatto
Euclide. Soltanto i suoi assiomi egli fa per forza poggiare
sull'immediata evidenza: tutte le verità geometriche, che ne
derivano, vengono dimostrate logicamente, ossia con la premessa di
quegli assiomi, mediante l'accordo con le ipotesi fatte nel teorema,
o con un teorema precedente; o anche mediante la contraddizione
dell'opposto del teorema con le ipotesi, gli assiomi, i teoremi
precedenti, o addirittura con se stesso. Ma gli assiomi stessi non
hanno evidenza diretta maggiore d'ogni altro teorema geometrico,
bensì soltanto maggiore semplicità a causa del minor contenuto.
Se si interroga un delinquente, si stende un verbale delle sue
dichiarazioni, per giudicarne la verità dalla loro concordanza. Ma
questo è un semplice espediente, del quale certo non ci si
appagherebbe, se si potesse indagare a parte la verità di ciascuna
delle sue dichiarazioni: tanto più ch'egli potrebbe mentire con
conseguenza dal principio alla fine. Eppure è proprio con quel primo
metodo, che Euclide ha indagato lo spazio. È vero ch'egli partì in
ciò dalla giusta premessa che la natura dappertutto – e quindi anche
nella sua forma principale, lo spazio – dev'esser conseguente, e
quindi – perché le parti dello spazio stanno reciprocamente in
relazione di causa ed effetto – neppure una determinazione spaziale
può esser diversa da quel che è, senza trovarsi in contraddizione
con tutte le altre. Ma questo è un deviar dalla via diritta, molesto
e poco soddisfacente; che preferisce la conoscenza mediata a quella
– altrettanto certa – immediata; e con danno grave della scienza
separa la cognizione che qualcosa esista, da quella del perché
esista. E, infine, impedisce del tutto al discepolo la penetrazione
nelle leggi dello spazio, anzi, lo distoglie dalla vera e propria
indagine del fondamento e dell'intimo nesso delle cose, avviandolo
invece a contentarsi d'un sapere storico, che la cosa stia in un
certo modo. L'esercizio d'acume mentale, tanto incessantemente
vantato in questo metodo, consiste solo in ciò, che lo scolaro si
esercita a sillogizzare, ossia a usare il principio di
contraddizione; ma soprattutto affatica la propria memoria, per
ritenere quei dati dei quali deve giudicare l'accordo.
Va notato inoltre, che questo metodo dimostrativo è stato applicato
soltanto alla geometria e non all'aritmetica. In questa
effettivamente la verità si lascia svelare dalla sola intuizione,
che qui consiste nel puro contare. Poi che l'intuizione dei numeri è
nel tempo solamente, e non può quindi venir rappresentata da uno
schema sensibile, come la figura geometrica, non si ebbe qui il
sospetto che l'intuizione fosse solo empirica e quindi soggetta
all'illusione; sospetto che soltanto il metodo della dimostrazione
logica ha potuto introdurre nella geometria. Il contare è – poi che
il tempo ha una sola dimensione – l'unica operazione aritmetica,
alla quale sono da ricondurre tutte le altre: e questo contare non è
tuttavia altro, che un'intuizione a priori, alla quale ci si
richiama qui senz'alcuna riluttanza; e per suo mezzo viene da ultimo
confermato tutto il resto, ogni equazione, ogni calcolo. Non si
dimostra, per esempio, che ; ma ci si riferisce alla pura intuizione
nel tempo, al contare. Ogni singola proposizione diventa dunque un
assioma. Invece delle dimostrazioni che riempiono la geometria,
tutto il contenuto dell'aritmetica e dell'algebra è quindi un
semplice metodo per abbreviare il conto. La nostra intuizione
immediata dei numeri nel tempo non arriva, come fu detto, più in là
del dieci all'incirca: più oltre deve già un concetto astratto del
numero, fissato mediante una parola, fare le veci dell'intuizione;
la quale perciò non è più effettivamente attuata, ma soltanto
indicata con tutta determinatezza. Tuttavia anche così, col valido
aiuto dell'ordine dei numeri, che fa sempre rappresentare i numeri
grandi per mezzo dei piccoli, è resa possibile un'evidenza intuitiva
d'ogni calcolo; perfino là dove si ricorre tanto all'astrazione, che
non solo i numeri ma anche indeterminate quantità ed intere
operazioni sono pensate unicamente in abstracto, e in cotal forma
espresse; come ad esempio []; sì che non si eseguono, ma vengono
appena accennate.
Con lo stesso diritto e la stessa certezza, come nell'aritmetica, si
potrebbe anche nella geometria lasciar la verità fondata soltanto
sulla pura intuizione a priori. In verità è pur sempre questa
necessità conosciuta intuitivamente, secondo il principio di ragione
dell'essere, che dà alla geometria la sua grande evidenza, e su cui
poggia nella coscienza d'ognuno la certezza delle sue proposizioni:
e non è di certo la prova logica, avanzante faticosamente sui
trampoli. Questa, estranea sempre al vivo della cosa, il più sovente
vien subito dimenticata senza danno della persuasione, e potrebbe
essere eliminata del tutto, senza che ne fosse diminuita l'evidenza
della geometria, essendo questa affatto indipendente dalla prova
logica; la quale dimostra soltanto ciò di cui già si ha piena
certezza mediante un altro modo di conoscenza. Somiglia sotto questo
rispetto ad un soldato, che vibrasse un colpo al nemico già ucciso
da altri e si vantasse d'averlo abbattuto27.
In seguito a tutto ciò, spero non vi sia più alcun dubbio sul fatto
che l'evidenza della matematica, la quale è diventata modello e
simbolo d'ogni evidenza, per propria natura non poggia su
dimostrazioni, bensì sull'immediata intuizione: e questa in
matematica come dappertutto è base, è la prima base e la sorgente
d'ogni verità. Tuttavia l'intuizione che sta a fondamento della
matematica ha un gran privilegio su ciascun'altra, quindi anche
sull'intuizione empirica. Ossia, ella è a priori, e perciò
indipendente dall'esperienza, che vien data sempre soltanto in modo
frammentario e successivo: tutto è vicino egualmente, e si può a
volontà partir dalla causa o dall'effetto. Ora, questo le dà una
piena infallibilità, per il fatto che in lei l'effetto viene
conosciuto dalla causa, la qual conoscenza è la sola ad aver
necessità: per esempio l'eguaglianza dei lati vien conosciuta come
fondata sull'eguaglianza degli angoli. All'opposto, ogni intuizione
empirica e la maggior parte di tutta l'esperienza procede invece
dall'effetto alla causa – modo di conoscere non infallibile, perché
la necessità appartiene solo all'effetto quando è data la causa, e
non alla conoscenza della causa dall'effetto; potendo questo effetto
provenire da cause differenti. Quest'ultimo modo di conoscenza non è
altro che induzione: ossia movendo da molti effetti, che fanno capo
ad una causa, viene ammessa la causa come certa. Ma poiché i casi
non possono mai esser raccolti tutti, la verità non è qui mai
assolutamente certa. Eppur questo è il solo genere di verità che
appartenga alla conoscenza raggiunta mediante intuizione sensibile,
ed alla massima parte dell'esperienza. L'impressione d'un senso
provoca un passar dell'intelletto dall'effetto alla causa: ma poi
che il passaggio dal causato alla causa non è mai sicuro, sempre
rimane possibile e si ha sovente una falsa apparenza, come inganno
dei sensi; secondo è sopra dimostrato. Solo quando più sensi, o
tutti e cinque, ricevono impressioni che fan capo alla stessa causa,
solo allora diventa minima la possibilità dell'inganno, per quanto
ancor sussista; poi che in taluni casi, per esempio con monete
false, s'ingannano tutti quanti i sensi. Nella stessa condizione si
trova tutta la conoscenza empirica, e quindi l'intera scienza della
natura, lasciandone fuori la parte pura (o metafisica, secondo
Kant). Anche qui le cause vengono conosciute attraverso gli effetti:
quindi ogni dottrina naturale è fondata su ipotesi, che spesso son
false, e solo a poco a poco cedono il posto a dottrine più esatte.
Solo negli esperimenti disposti con un dato proposito la conoscenza
va dalla causa all'effetto, seguendo la via sicura: ma anch'essi
sono dapprima intrapresi in conseguenza di ipotesi. Perciò non
poteva nessun ramo della scienza naturale, come fisica, o
astronomia, o fisiologia, essere scoperto d'un tratto, come furono
matematica e logica: bensì fu ed è necessaria l'esperienza comparata
di molti secoli. Solo una molteplice conferma empirica porta
l'induzione – su cui poggia l'ipotesi – tanto vicina alla
compiutezza, che questa per la pratica prende il posto della
certezza. Ed alla ipotesi reca la propria origine così poco danno,
quanto ne reca all'applicazione della geometria l'incommensurabilità
delle linee rette e curve, o all'aritmetica l'impossibilità di
raggiunger l'assoluta esattezza del logaritmo. Imperocché come la
quadratura del cerchio e il logaritmo si possono accostare
all'esattezza fino ad esserne separati da una distanza
infinitesimale, così l'induzione, ossia conoscenza della causa
dall'effetto, mediante molteplici esperienze viene accostata
all'evidenza matematica, per modo che ne la divida una distanza non
proprio infinitesimale, ma tuttavia minima; sì che la possibilità
dell'errore si riduca tanto da poterla trascurare. Ciò nondimeno,
tale possibilità sussiste: ad esempio, quando da innumerevoli casi
l'induzione conclude per tutti i casi, ossia precisamente per la
causa ignota, da cui tutti dipendono. Quale fra le conclusioni di
tal sorta ci appare più sicura di questa, che tutti gli uomini hanno
il cuore a sinistra? Tuttavia ci sono, come rarissime, isolate
eccezioni, uomini che hanno il cuore a destra. Intuizione sensibile
e scienza sperimentale hanno dunque la stessa maniera d'evidenza. Il
privilegio che matematica, scienza naturale pura e logica in quanto
conoscenza a priori hanno su di quelle, consiste solo in ciò, che il
lato formale delle conoscenze, sul quale ogni apriorità si fonda, è
dato per intero e tutto in una volta, e quindi si può qui sempre
passare dalla causa all'effetto, mentre là si passa generalmente
dall'effetto alla causa. In sé d'altronde la legge di causalità, o
principio di ragione del divenire, che guida la conoscenza empirica,
è tanto certa, quanto quelle altre forme del principio di ragione,
cui seguono le citate scienze a priori. Dimostrazioni logiche
dedotte da concetti, o sillogismi, hanno, nello stesso modo come la
conoscenza per intuizione a priori, il privilegio di passar dalla
causa all'effetto: per la qual cosa essi sono in se stessi, ossia
rispetto alla lor forma, infallibili. Questo ha molto contribuito a
procacciar tanto rispetto alle dimostrazioni. Ma codesta loro
infallibilità è relativa: essi non fanno che sussumere sotto i
principi superiori della scienza: ma son pur sempre questi, che
contengono tutto il fondo di verità della scienza stessa, né si
possono alla lor volta dimostrare: bensì devono fondarsi
sull'intuizione, che se è pura in quelle poche scienze a priori
citate, è invece sempre empirica altrove, e solo mediante induzione
è stata elevata dal particolare al generale. Se adunque anche nelle
scienze empiriche il singolo viene provato col generale, il generale
alla sua volta ha ricevuto tutta la sua verità dal singolo. È un
magazzino carico di provviste, non un suolo di per sé fecondo.
Questo basti intorno al fondamento della verità. Circa l'origine e
la possibilità dell'errore, molte spiegazioni sono state tentate, a
partir dalle soluzioni figurate di Platone, come quella della
colombaia, dove invece del colombo desiderato se ne ghermisse un
altro, e così via (Theaetet., p. 167 sgg.). La vaga, indeterminata
spiegazione dell'origine dell'errore fatta da Kant mediante
l'immagine del moto diagonale si trova nella Critica della ragion
pura, p. 294 della prima, e p. 350 della quinta edizione. Essendo la
verità relazione d'un giudizio col suo principio di conoscenza, è un
vero problema come avvenga che colui, il quale giudica, creda
d'avere effettivamente codesto principio, mentre invece non l'ha;
ossia, come sia possibile l'errore, l'inganno della ragione. Io
trovo questa possibilità affatto analoga a quella dell'illusione, o
inganno dell'intelletto, che più sopra è stata chiarita. La mia
opinione invero è (e perciò trova qui posto la mia spiegazione) che
ogni errore è una conclusione dall'effetto alla causa, conclusione
che ha valore. quando si sa che l'effetto può avere quella causa e
nessun'altra; ma non in altri casi. Chi sbaglia, o attribuisce
all'effetto una causa, che quello non può punto avere; nel che
dimostra vera mancanza di intelletto, ossia incapacità di conoscer
direttamente il nesso tra causa ed effetto: oppure, come accade più
spesso, dato l'effetto determina bensì una causa possibile, ma alla
maggior premessa del sillogismo, con cui va dall'effetto alla causa,
aggiunge che codesto effetto costantemente proviene dalla causa
attribuitagli. In ciò potrebbe esser giustificato solo da una
compiuta induzione, che egli bensì presuppone, ma che non ha fatta.
Quel costantemente è dunque un concetto troppo ampio, invece del
quale potrebbe star solo un talvolta, o il più sovente; sì che la
conclusione verrebbe ad esser problematica, e come tale non sarebbe
erronea. Un tal modo di procedere da parte di chi sbaglia può essere
effetto di precipitazione, oppure di troppo limitata conoscenza
della possibilità; per cui ignora la necessità dell'induzione da
fare. L'errore è quindi affatto analogo all'illusione. Entrambi sono
conclusioni dall'effetto alla causa: l'illusione si compie sempre
nel puro intelletto, e secondo la legge di causalità, quindi
direttamente nell'intuizione stessa; l'errore si compie dalla
ragione, secondo tutte le forme del principio di ragione (quindi nel
pensiero vero e proprio), ma più spesso secondo la legge di
causalità, come mostrano i tre esempi seguenti che si posson
considerare come tipi o rappresentanti di questa classe d'errori. 1.
L'illusione dei sensi (inganno dell'intelletto) genera errore
(inganno della ragione), per esempio, quando si scambia una pittura
per un altorilievo e veramente per tale la si tiene. Questo accade
mediante una deduzione dalla seguente premessa maggiore: «Se il
grigio oscuro qua e là passa nel bianco attraverso tutte le
sfumature, di ciò è sempre causa la luce che diversamente batte i
rilievi e le cavità: ergo ...». 2. «Se manca denaro nella mia cassa,
ne è sempre cagione il fatto che il mio domestico ha una chiave
falsa: ergo ..», 3. «Se l'immagine del sole rotta, ossia sospinta
all'insù o all'ingiù dal prisma, appare allungata, il motivo è
sempre questo: che nella luce si trovano raggi omogenei variamente
colorati e variamente rifrangibili; i quali, separatisi per la loro
varia rifrangibilità, mostrano ora un'immagine allungata e insieme
variopinta: ergo... bibamus!». Ogni errore va ricondotto ad una
consimile deduzione da una premessa maggiore spesso soltanto
falsamente generalizzata, ipotetica, sorta dall'ammetter una data
causa per un dato effetto. Fanno eccezione gli errori di calcolo,
che non sono per l'appunto errori veri e propri, ma semplici sbagli.
Non l'operazione, che i concetti dei numeri indicavano, è stata
eseguita nell'intuizione pura, nel calcolo; bensì un'altra in sua
vece.
Per quanto riguarda il contenuto delle scienze in genere, questo è
sempre in relazione scambievole dei fenomeni del mondo, in
conformità del principio di ragione e sulle orme del perché; il
quale da esso principio unicamente trae significazione e valore.
L'indicar quella relazione si chiama spiegazione. Questa non può
dunque mai far di più, che mostrar due rappresentazioni nel loro
reciproco rapporto, secondo la forma del principio di ragione
dominante nella classe a cui tali rappresentazioni appartengono.
Arrivati a questo punto, non si può domandare altro perché: poiché
la relazione indicata non si può in nessun modo rappresentare
altrimenti, ossia è la forma d'ogni conoscenza. Quindi non ci si
domanda perché 2 + 2 = 4; o perché eguaglianza d'angoli nel
triangolo determini eguaglianza di lati; o perché a una data causa
segua il suo effetto; o perché dalla verità delle premesse brilli la
verità della conclusione. Ogni spiegazione, che non faccia capo ad
un rapporto, oltre il quale non si possa pretendere alcun perché, si
arresta davanti a una supposta qualitas occulta: e di tal sorta è
ogni forza elementare della natura. Davanti a queste deve alfine
arrestarsi ogni spiegazione scientifica: ossia davanti ad alcunché
affatto oscuro. Deve quindi lasciare tanto inesplicata l'intima
essenza d'una pietra, quanto quella dell'uomo; non può dar conto
della gravità, della coesione, delle proprietà chimiche, che la
pietra manifesta, più di quanto possa dar conto del conoscere e
dell'agire dell'uomo. Così per esempio la gravità è una qualitas
occulta: perché si può fare a meno di pensarla, e non sorge quindi
come una necessità dalla forma del conoscere. Questo invece è il
caso della legge d'inerzia, in quanto deriva da quella di causalità:
quindi il richiamarvisi è una spiegazione del tutto sufficiente. Due
cose invero sono proprio inesplicabili, non si possono cioè
ricondurre alla relazione formulata dal principio di ragione: in
primo luogo, il principio stesso di ragione, nelle sue quattro
forme, perché esso è il principio d'ogni spiegazione, quello in
rapporto al quale ogni spiegazione ha senso; e, in secondo luogo,
ciò che non è raggiunto dal principio di ragione, ma da cui proviene
l'elemento primordiale in tutti i fenomeni – ossia la cosa in sé, la
cui conoscenza non è punto subordinata al principio di ragione.
Quest'ultima deve rimaner per ora nell'ombra, perché diventerà
comprensibile solo col libro seguente, nel quale riprenderemo anche
questa considerazione della capacità delle scienze. Ma là, dove la
scienza naturale, anzi ogni scienza, s'arresta davanti agli oggetti,
e non solo la spiegazione che ne dà, ma perfino il principio di
questa spiegazione – il principio di ragione – non oltrepassa quel
punto: là viene la filosofia a prender codesti oggetti e li
considera a suo modo, con metodo affatto diverso dalla scienza.
Nella memoria sul principio di ragione, § 51, ho mostrato che nelle
varie scienze è principal filo conduttore l'una o l'altra forma di
quel principio: e invero si potrebbe far su questa base la miglior
suddivisione delle scienze. Ma ogni spiegazione data seguendo quel
filo è, come ho detto, sempre relativa: spiega gli oggetti in
reciproca relazione, lasciando sempre qualcosa d'inesplicato, che
appunto già presuppone. Questo è il caso, per esempio, di spazio e
tempo nella matematica; così nella meccanica, nella fisica e nella
chimica la materia, le qualità, le forze elementari, le leggi
naturali; nella botanica e nella zoologia la varietà delle specie e
la vita stessa; nella storia la razza umana, con le sue proprietà
del pensare e del volere; – in tutte, il principio di ragione; nella
forma che volta per volta è applicata. La filosofia ha questo di
caratteristico, che non presuppone nulla di già noto, ma tutto le è
in egual misura estraneo e costituisce un problema: non solo le
relazioni dei fenomeni, ma anche i fenomeni stessi, e lo stesso
principio di ragione, al quale le altre scienze s'appagano di tutto
ricondurre. Da codesto risalire al principio di ragione la filosofia
non avrebbe nulla da guadagnare, perché un anello della catena le è
sconosciuto come l'altro, e quella stessa maniera di connessione è
per lei un problema pari al problema dei termini che essa congiunge;
e questi rimangono problemi dopo rilevato il loro rapporto, come
prima. Perché, come ho detto, appunto ciò, che le scienze
presuppongono e mettono a base delle loro spiegazioni e si
stabiliscono come limite, è il vero problema della filosofia; la
quale per conseguenza comincia, dove le scienze finiscono.
Dimostrazioni non possono essere il suo fondamento: perché queste
ricavano principii ignoti dai noti, mentre a lei tutto è ad un modo
ignoto e straniero. Non vi può esser nessun principio, in base del
quale abbia preso esistenza il mondo con tutti i suoi fenomeni:
perciò non si può per via di dimostrazioni dedurre, come Spinoza
voleva, una filosofia ex firmis principiis. La filosofia è anche il
sapere più universale, i cui principi fondamentali non possono
perciò esser derivazioni da un altro più universale ancora. Il
principio di contraddizione stabilisce semplicemente la concordanza
dei concetti; ma non da esso medesimo concetti. Il principio di
ragione spiega i collegamenti dei fenomeni, ma non i fenomeni:
perciò la filosofia non può andar a cercar una causa efficiens o una
causa finalis del mondo intero. La filosofia moderna, almeno, non
indaga punto l'origine e la finalità del mondo; bensì soltanto che
sia il mondo. Ma il perché è qui subordinato al che cosa: poiché
esso già fa parte del mondo, sorgendo unicamente dalla forma in cui
questo appare – il principio di ragione – e solo per tal rispetto
acquista significato e valore. Si potrebbe dire bensì, che ciascuno
senz'altro aiuto conosce da sé che cosa sia il mondo, essendo egli
medesimo il soggetto della conoscenza, del quale il mondo è
rappresentazione: ed anche questo sarebbe vero in tal senso. Ma
quella conoscenza è di natura intuitiva, in concreto: riprodurla in
abstracto, elevare a sapere astratto, chiaro, durevole l'intuizione
successiva e mutabile, e specialmente tutto ciò, che il vasto
concetto del sentimento abbraccia ed indica appunto in modo negativo
come un sapere non astratto, confuso – ecco la missione della
filosofia. Ella dev'esser quindi una dichiarazione in abstracto
dell'essenza del mondo intero, del suo complesso come di tutte le
sue parti. Ma tuttavia, per non perdersi in una massa infinita di
giudizi singoli, deve servirsi dell'astrazione, ed ogni singolo
pensare in forma generale, ed in forma generale anche le sue
differenze: quindi in parte separerà, in parte congiungerà, per
trasmettere al sapere, condensata in pochi concetti astratti, tutta
la molteplicità del mondo nella sua essenza. Con quei concetti, in
cui ella fissa l'essenza del mondo, deve nondimeno, come il
generale, anche il particolarissimo venir conosciuto, e la
conoscenza d'entrambi esser quindi collegata strettissimamente:
perciò l'attitudine alla filosofia consiste appunto là dove Platone
la poneva, nel conoscer l'uno nel molteplice, e il molteplice
nell'uno. La filosofia sarà dunque una somma di giudizi molto
generali, il cui principio di conoscenza è direttamente il mondo
medesimo nel suo complesso, senza alcuna esclusione: ossia tutto ciò
che si trova nella coscienza umana. Ella sarà una completa
ripetizione, e quasi un riflesso del mondo in concetti astratti,
possibile solo mediante la riunione di ciò ch'è essenzialmente
identico in un concetto, e l'isolamento del diverso in un altro
concetto. Questo compito assegnava già Bacone da Verulamio alla
filosofia, dicendo: «Ea demum vera est philosophia, quae mundi
ipsius voces fidelissime reddit, et veluti dictante mundo conscripta
est, et nihil aliud est, quam ejusdem simulacrum et reflectio, ncque
addit quidquam de proprio, sed tantum iterat et resonat» (De augm.
scient., 1. 2, e. 13). Noi prendiamo tuttavia la cosa in senso più
ampio di quanto potesse allora pensare Bacone.
La reciproca concordanza che hanno fra loro tutti gli aspetti e le
parti del mondo, appunto perché appartengono ad un tutto, deve
ritrovarsi anche in quell'astratta riproduzione del mondo. Così fu
possibile in quella somma di giudizi derivare in certo modo l'uno
dall'altro; e viceversa, sempre. Ma per ciò devono i giudizi in
primo luogo esistere, e dunque prima venir stabiliti, come
direttamente fondati in concreto sulla conoscenza del mondo; tanto
più che ogni fondamento immediato è più sicuro che il mediato. La
loro armonia reciproca, in grazia della quale confluiscono perfino
nell'unità di un pensiero, e che sgorga dall'armonia ed unità del
mondo intuitivo medesimo, che è il lor comune principio di
conoscenza, non è adunque adoprata come primo argomento per la loro
dimostrazione; ma verrà solo come una conferma della loro verità:
Tuttavia questo compito può diventar ben chiaro solo mediante la sua
attuazione28.
§ 16.
Dopo tutto questo esame sia della ragione, come d'una forza
conoscitiva propria, particolare dell'uomo soltanto, sia delle
operazioni e dei fenomeni anche proprii dell'umana natura, che da
quella derivano, mi rimarrebbe a parlar della ragione in quanto
guida le azioni degli uomini; e sotto tal rispetto può definirsi
pratica. Ma la maggior parte di ciò, che qui andrebbe detto, ha
trovato luogo altrove, ossia nell'appendice di quest'opera, dove mi
propongo di combattere l'esistenza della cosiddetta ragion pratica
di Kant; la quale egli (invero molto comodamente) rappresenta come
sorgente immediata d'ogni virtù, e come sede di un dovere assoluto
(ovvero caduto dal cielo). La diffusa e radicale confutazione di
questo principio della morale kantiana io l'ho fatta più tardi, nei
Problemi fondamentali dell'etica. Perciò non ho che poco da dire qui
ancora sull'effettivo influsso che la ragione – nel vero senso della
parola – ha sull'azione. Già sul principio del nostro esame della
ragione abbiamo in generale osservato quanto la condotta dell'uomo
si distingua da quella dell'animale, e come codesta distinzione sia
unicamente da considerare come dovuta alla presenza di concetti
astratti nella coscienza. L'influsso di questi su tutto il nostro
essere è così penetrante e significativo, che in certo modo ci pone
davanti agli animali nella stessa situazione, in cui si trovano gli
animali veggenti in confronto di quelli privi della vista (alcune
larve, vermi e zoofiti). Questi ultimi conoscono solo mediante il
tatto ciò, che si trova nello spazio immediatamente presso di loro,
e li tocca; mentre i veggenti dispongono di un'ampia sfera da presso
e da lungi. Similmente l'assenza della ragione limita gli animali
alle rappresentazioni intuitive, ossia agli oggetti reali, che son
loro immediatamente presenti nel tempo: mentre noi, grazie alla
conoscenza in abstracto, abbracciamo, di là dal ristretto presente
della realtà, anche tutto il passato ed il futuro, oltre l'ampio
dominio della possibilità; noi dominiamo con lo sguardo la vita,
liberi da ogni parte, fino a grandissima distanza dal presente e
dalla realtà. Quel che l'occhio è nello spazio, e per la conoscenza
sensibile, è in certo modo la ragione nel tempo, e per la conoscenza
interiore. Ma, come la visibilità degli oggetti ha valore e
significato solo perché ne denota la tangibilità, così sempre
l'intero valore della conoscenza astratta consiste nella sua
relazione con la conoscenza intuitiva. Quindi l'uomo conforme alla
natura dà sempre maggior peso a ciò che ha conosciuto immediatamente
ed intuitivamente, che non ai concetti astratti, ossia a ciò che ha
soltanto pensato: egli preferisce la conoscenza empirica alla
conoscenza logica. Opposta è la disposizione di coloro che vivono
più in parole che in fatti, che hanno guardato più alla carta ed ai
libri che al mondo reale, e nella loro grandissima degenerazione
diventano pedanti e spulciatori di vocaboli. Così soltanto si
comprende come Leibniz e Wolff e tutti i loro seguaci si potessero
tanto smarrire, sull'esempio di Duns Scoto, da dir che la conoscenza
intuitiva non è che una conoscenza astratta ingarbugliata! Ad onore
di Spinoza devo ricordare che il suo buon senso ha viceversa
ritenuto tutti i concetti comuni come sorti dalla confusione della
conoscenza intuitiva (Eth., II, prop. 40, schol. 1). Da quella
assurda concezione è anche derivato che si rigettasse il genere
d'evidenza proprio della matematica, per far valere la sola evidenza
logica; che in genere ogni conoscenza non astratta si comprendesse e
si trascurasse sotto l'ampio nome di sentimento; che finalmente
l'etica kantiana dichiarasse senza valore e senza merito, come puro
sentimento ed emozione, quella volontà buona, che si fa
immediatamente sentire con la conoscenza dei fatti, e spinge al
giusto operare ed al bene – mentre invece attribuiva valore morale
soltanto alla condotta guidata da massime astratte.
Il privilegio, che l'uomo in grazia della ragione ha sull'animale,
di dominar da ogni parte con lo sguardo la vita nel suo complesso,
si può anche paragonare ad un disegno geometrico, incolore,
astratto, rimpicciolito, del corso della sua vita. L'uomo con ciò
sta rispetto all'animale, come il navigatore, il quale con l'aiuto
della carta di navigazione, della bussola e del quadrante sappia con
precisione il suo percorso ad ogni punto del mare, sta rispetto alla
ciurma ignara, la quale non vede che le onde e il cielo. Ne consegue
un fatto notevole, anzi mirabile: che l'uomo, accanto alla propria
vita in concreto, ne conduce una seconda in abstracto. Nella prima è
dato in balia a tutte le tempeste della realtà e all'influenza del
presente: deve lottare, soffrire, morire come l'animale. Ma la sua
vita in abstracto, qual'essa sta davanti alla sua ragionante
riflessione, è quel disegno ridotto, qui sopra accennato. Quivi, nel
dominio della pacata meditazione, gli appare freddo, incolore ed
estraneo al momento presente ciò, che colà tutto lo possiede e
violentemente lo agita: quivi egli è un semplice spettatore ed
osservatore. In codesto ritrarsi nella riflessione egli rassomiglia
ad un attore, il quale ha recitato la sua scena, e, fino al momento
di ricomparire, prende posto fra gli spettatori; donde contempla
indifferente qualunque cosa possa accader nel dramma, foss'anche la
preparazione della propria morte. Poi, al momento dato, torna sulla
scena e agisce e soffre come deve. Da questa doppia vita sorge
quell'umana calma – tanto diversa dall'animale spensieratezza – con
la quale taluno per ben ponderata riflessione, per una risoluzione
presa o una riconosciuta necessità, lascia freddamente venir su di
sé o compie egli medesimo cose per lui essenzialissime, spesso
terribili: suicidio, supplizio, duello, temerità mortali d'ogni
specie e, in genere, cose contro le quali si ribella tutta la sua
natura animale. Qui si vede, in qual misura la ragione si renda
padrona della natura animale, e gridi all'uomo forte: σιδηρειον νυ
τοι ητορ! (ferreum certe tibi cor!) Il, 24, 521. E qui può dirsi che
davvero si manifesti la ragione praticamente: quindi, ovunque l'atto
è guidato dalla ragione, dove i moventi sono concetti astratti, dove
il motivo determinante non è costituito da isolate rappresentazioni
intuitive né dall'impressione momentanea, che guida gli animali, –
qui si mostra ragione pratica. Ma che tutto ciò sia affatto diverso
ed indipendente dal merito etico della condotta; che condotta
razionale e condotta virtuosa siano due cose del tutto distinte; che
la ragione possa unirsi sì con grande cattiveria come con grande
bontà, e questa come quella renda attive con la propria presenza;
che la ragione sia ugualmente pronta e valevole per l'attuazione
metodica e conseguente d'un nobile proposito come d'un cattivo, di
una massima intelligente come d'una massima stolta (il che proviene
dal suo carattere femminile, atto a ricevere e conservare, ma non a
produrre direttamente); – tutto ciò ho ampiamente spiegato
nell'appendice e illustrato con esempi. Le cose quivi dette
dovrebbero invero trovarsi in questo luogo; ma han dovuto esser
trasportate colà per la polemica contro la pretesa ragion pratica di
Kant. Perciò torno a rinviare all'appendice.
Il più perfetto svolgimento della ragione pratica nel vero e proprio
senso della parola; il più alto culmine a cui l'uomo può elevarsi
col semplice impiego della sua ragione, e sul quale più evidente
appare la sua diversità dagli animali, è come ideale rappresentato
nel sapiente stoico. Imperocché l'etica stoica originariamente ed
essenzialmente non è punto una dottrina di virtù, ma semplice
avviamento alla vita razionale, di cui è meta e scopo la felicità
ottenuta con la calma dello spirito. La condotta virtuosa vi si
trova solo come per accidens, come mezzo, non come scopo. Perciò
l'etica stoica, in tutta la sua essenza e nella sua concezione, è
radicalmente diversa dai sistemi etici, che spingono direttamente
alla virtù, come sarebbero le dottrine dei Veda, di Platone, del
Cristianesimo e di Kant. Il fine dell'etica stoica è la felicità:
τελος το ευδαιμονειν (virtutes omnes finem habere beatitudinem) si
legge nell'esposizione della Stoa presso Stobeo (Ecl, 1. II, e. 7,
p. 114, ed anche p. 138). Tuttavia l'etica stoica insegna, che la
felicità si può trovar con certezza solo nella pace interiore e
nella calma dello spirito (αταραξια), e la calma alla sua volta si
raggiunge esclusivamente con la virtù: questo appunto significa
l'espressione, che bene supremo sia la virtù. Ma se poi a poco a
poco si dimentica il fine per il mezzo e la virtù viene raccomandata
in modo da rilevar tutt'altro interesse che quello della propria
felicità, sì da star con quest'ultima in aperto contrasto; abbiamo
in ciò una delle inconseguenze, per le quali in ogni sistema la
verità direttamente conosciuta (o, come suol dirsi, sentita)
riconduce sul diritto cammino, facendo violenza ai ragionamenti. La
qual cosa si vede chiaramente, per esempio, nell'etica di Spinoza,
che dall'egoistico suum utile quaerere deriva, mediante sofismi da
toccarsi con mano, una pura dottrina della virtù. Secondo il modo in
cui ho inteso lo spirito dell'etica stoica, la sua origine sta nel
pensare, se il grande privilegio dell'uomo – la ragione, che,
mediatamente, per mezzo della condotta sistematica e di ciò che ne
deriva, di tanto gli allevia la vita ed i suoi pesi – non sarebbe
anche capace di sottrarlo d'un tratto direttamente, ossia per
conoscenza pura, ai mali ed ai tormenti d'ogni specie che gli
riempiono la vita: sottrarlo del tutto, ovvero quasi del tutto. Si
ritenne non conveniente al privilegio della ragione, che l'essere,
il quale ne è dotato, e per suo mezzo abbraccia e domina un'infinità
di cose e di fatti, fosse nondimeno in balia di tanto dolore, di sì
grande angoscia e sofferenza, quanta ne può sorgere dal tumultuoso
impeto della brama o dell'avversione: e ciò per l'effetto del
momento presente, e per i casi che i pochi anni d'una sì breve,
fugace, incerta vita possono contenere. E si pensò che il
conveniente uso della ragione potesse elevar l'uomo sopra a questo
male, renderlo invulnerabile. Disse perciò Antistene: Δει̃ κτα̃σθαι
νου̃ν, ἣ βρόχον (aut mentem parandam, aut laqueum, Plut., De sthoic.
repugn., e. 14), ossia: la vita è così piena di tormenti e di
molestie, che conviene o collocarsene fuori mediante la saviezza del
pensiero, o abbandonarla. Si comprese che la privazione, il
soffrire, non nascono direttamente e necessariamente dal non avere,
bensì dal voler avere e non avere; che quindi questo voler avere è
la condizione necessaria, per la quale il non avere diventa
privazione, e genera il dolore. Ου πενια λυπην εργζεται, αλλ
επιθυμια (non paupertas dolorem efficit, sed cupiditas, Epict.
fragm. 25). Si conobbe inoltre dall'esperienza, che solo la
speranza, l'idea d'aver diritto ad una cosa, genera ed alimenta il
desiderio; perciò né i molti mali a tutti comuni ed inevitabili, né
gl'irraggiungibili beni ci agitano e tormentano: bensì solo
l'insignificante misura maggiore o minore di ciò che l'uomo può
raggiungere o evitare. Si conobbe anzi, che perfin quanto non è
irraggiungibile in modo assoluto, ma soltanto relativo, ci lascia
del tutto tranquilli; perciò i mali, che stabilmente si sono
associati alla nostra individualità, o i beni, che per necessità a
lei devono rimanere negati, si considerano con indifferenza; ed in
grazia di questa proprietà dell'uomo, ogni desiderio tosto muore né
può più generare dolore, non appena la speranza cessa d'alimentarlo.
Da questo risultò, che tutta la felicità consiste solo nella
proporzione delle nostre aspirazioni con ciò che ci viene accordato:
la maggior o minor misura delle due grandezze di questa proporzione
è indifferente, e la proporzione può esser ristabilita sia con
l'impiccolir la prima grandezza, sia con l'ingrandir la seconda.
Egualmente risultò, che ogni dolore invero nasce dalla sproporzione
di ciò, che pretendiamo ed aspettiamo, con ciò che ci è dato; la
qual sproporzione tuttavia sta evidentemente solo nella
conoscenza29, e potrebbe esser tolta di mezzo appieno, mediante una
miglior valutazione. Disse perciò Crisippo: δει ζην κατ’εμπειριαν
των φυσει συμβαινοντων (Stob., Ecl., 1. il, e. 7, p. 134), ossia: si
deve vivere con opportuna conoscenza dell'andamento delle cose del
mondo. Imperocché ogni volta che un uomo in qualsiasi modo perda il
dominio di sé, o è schiacciato da un dolore, o s'infuria, o si
scoraggia; egli dimostra così di trovar le cose diverse da quel che
s'attendeva; dimostra quindi d'essere stato impigliato nell'errore,
di non aver conosciuto il mondo e la vita; non aver saputo come la
natura inanimata intralci ad ogni passo la volontà di ciascuno per
mezzo del caso, e la natura animata l'intralci sia con l'opporle
fini contrari, sia con la malvagità. Adunque egli o non s'è servito
della sua ragione per venire ad una generale consapevolezza di
questa condizione della vita, oppure ha mancato di giudizio,
disconoscendo nel caso particolare quel che conosceva in generale; e
perciò appunto si sorprende, e perde il dominio di sé30. Nello
stesso modo è ogni viva gioia un errore, un vaneggiamento; perché
nessun desiderio appagato può soddisfare a lungo, e perché ogni
possessione, ogni felicità ci è concessa dal caso per un tempo
indeterminato – e quindi ci può esser tolta nello spazio di un'ora.
Ma intanto ogni dolore proviene dal dileguarsi di codesto
vaneggiamento. Questo e quello derivano adunque da manchevole
conoscenza. Perciò dal saggio rimangono gioia e dolore sempre
lontani e nessun evento scuote la sua αταραξια.
Conformemente a tale spirito ed a tal mira della Stoa, Epitteto
parte dal principio – e vi torna sopra continuamente, come al
nocciolo della sua sapienza – che occorra ben meditare e distinguere
ciò che dipende e ciò che non dipende da noi, e non contare mai su
quest'ultimo. In questo modo si può fiduciosamente tenersi liberi da
ogni dolore, sofferenza ed angoscia. Ciò che dipende da noi, è
solamente la volontà; e qui si viene a fare un graduale passaggio
alla dottrina della virtù, mentre si osserva che, come il mondo
esterno da noi indipendente determina gioia e dolore, così dalla
volontà nasce interna soddisfazione o insoddisfazione di noi stessi.
In seguito poi si domandò, se nel primo o nel secondo caso si
convenissero i nomi di bene e di male. Questo era invero un problema
arbitrario, da risolversi a piacere e non mutava nulla alla cosa.
Eppure su di esso contesero incessantemente Stoici con Peripatetici
ed Epicurei, si baloccarono con l'impossibile paragone di due
quantità affatto incommensurabili e con le opposte, paradossali
sentenze che ne derivavano, scagliandosele vicendevolmente addosso.
Un'interessante raccolta, dal punto di vista stoico, ce n'è
tramandata nei Paradoxa di Cicerone.
Zenone, il fondatore, sembra aver seguito in origine un cammino
alquanto diverso. Il suo punto di partenza era questo: che per
raggiungere il massimo bene, ossia la felicità mediante la calma
dello spirito bisognerebbe vivere d'accordo con se stessi.
(ὁμολογουμενως ζην τουτο δ’εστι καθ’ ἑνα λογον και συμφωνον ξην.
Consonanter vivere: hoc est secundum unam rationem et concordem sibi
vivere; Stob. Ecl, eth., L. II, c. 7, p. 132. Così ancora: αρετην
διαθεσιν ειναι ψυχης συμφωνον ἑαυτῃ περι ὁλον τον βιον. Virtutem
esse animi affectionem secum per totam vitam consentientem, ibid.,
p. 104). Ma questo era possibile solo informando tutta la propria
vita alla ragione, secondo concetti, non secondo mutevoli
impressioni e fisime. E poi che né il successo, né i fatti esterni,
ma solo le massime direttive sono in nostro potere, si doveva fare
di queste sole, non di quelle il proprio scopo, se si voleva rimaner
conseguenti; entrando così per quest'altra via nella dottrina della
virtù.
Ma già agl'immediati successori di Zenone parve il suo principio
morale – vivere armonicamente – troppo formale e privo di contenuto.
Gli diedero perciò un contenuto materiale, con quest'aggiunta:
«vivere in armonia con la natura» (ὁμολογουμενως τῃ φυσει ξῃν.); la
quale aggiunta, secondo c'informa Stobeo nel luogo indicato, venne
fatta dapprima da Cleante ed allargò di molto il principio, per
l'ampia sfera del concetto e l'indeterminatezza dell'espressione.
Imperocché Cleante intendeva tutta la natura in generale, Crisippo
invece la natura umana in particolare (Diog. Laert., 7, 89). La cosa
conforme solo a quest'ultima doveva quindi esser la virtù, come la
soddisfazione degl'istinti animali è conforme alla natura dei bruti.
E così si rientrava di nuovo risolutamente nella dottrina della
virtù; l'etica – venisse pure a piegarsi o a rompersi – doveva esser
fondata sulla fisica. Imperocché gli Stoici miravano soprattutto
all'unità del principio; Dio e il mondo non essendo per loro punto
distinti.
L'etica stoica, presa in complesso, è veramente un pregevolissimo e
considerevolissimo tentativo di giovarsi della maggior prerogativa
umana – la ragione – per uno scopo importante e salutare com'è
quello di elevarsi sopra i patimenti e i dolori toccati in sorte a
ciascuna vita, con un ammonimento:
Qua ratione queas traducere leniter aevum:
Ne te semper inops agitet
vexetque cupido,
Ne pavor et rerum mediocriter utilium spes.
Con ciò l'etica stoica tendeva a far l'uomo partecipe in altissimo
grado della dignità che a lui, essere ragionevole, spetta in
confronto dell'animale – dignità che solo in questo senso e in
nessun altro va presa. Questo mio modo di considerar l'etica stoica
mi ha condotto a doverne parlare qui, dove tratto di ciò che la
ragione è, e di ciò che può compiere. È certamente vero, che quello
scopo è fino a un dato punto raggiungibile con l'uso della ragione,
e con un'etica esclusivamente razionale; perché anche l'esperienza
dimostra, che gli uomini di carattere puramente razionale, i quali
si soglion chiamare filosofi pratici (e con ragione, perché, come il
filosofo vero, ossia teorico, trasporta la vita nei concetti,
trasportano essi il concetto nella vita) sono forse i più felici.
Tuttavia moltissimo manca, perché si possa in questa maniera
giungere ad alcunché di perfetto, e la ragione esattamente applicata
possa davvero liberarci da tutto il peso, da tutti i patimenti della
vita, conducendoci alla felicità. C'è piuttosto una assoluta
contraddizione nel proposito di voler vivere senza soffrire;
contraddizione che reca in sé anche il comune modo di dire: «vita
felice». Questo brillerà ben chiaro a chi avrà compresa fino
all'ultimo l'esposizione seguente. Codesta contraddizione si rivela
già in quell'etica della ragione pura, pel fatto che lo Stoico è
costretto ad intercalare nel suo avviamento ad una vita felice (e
tale rimane pur sempre la sua etica) la raccomandazione del suicidio
– come nel sontuoso corredo dei depositi orientali si trova anche
una preziosa fiala di veleno – per il caso che i dolori del corpo, i
quali non si lasciano sopprimere da nessun principio o ragionamento
filosofico, prendano il sopravvento e siano incurabili. Allora il
fine unico – la felicità – viene a mancare; e per sottrarsi al
patimento, non altro rimane che la morte, la quale va presa in tal
caso indifferentemente, come una medicina. Qui si fa manifesta una
forte opposizione fra l'etica stoica e quelle altre sopra citate, le
quali pongono a scopo della vita la virtù in se stessa,
direttamente, anche fra le più penose sofferenze; né ammettono che
per sottrarsi ai patimenti si dia termine alla vita – sebbene
nessuna di loro abbia saputo esprimere il vero argomento contro il
suicidio, e tutte invece siano venute accozzando faticosamente
motivi illusori. Nel quarto libro quell'argomento risulterà in
relazione col nostro sistema. Ma il contrasto su riferito palesa e
conferma appunto il dissidio essenziale e fondamentale tra la Stoa,
che in sostanza non è se non una particolar forma d'eudemonismo, e
quelle dottrine citate; sebbene l'una e le altre s'accordino spesso
nei risultati, ed abbiano un'apparente parentela. La surriferita
contraddizione inerente all'etica stoica, perfino nel suo pensiero
sostanziale, si mostra inoltre anche in questo: che il suo ideale,
il Sapiente stoico, non potè neppur da lei medesima rappresentato,
conseguir mai vita, o intima poetica verità; bensì rimane un
legnoso, rigido fantoccio, del quale non si sa cosa fare, che non sa
egli stesso dove voglia andare con la sua saggezza; e la cui calma
perfetta, contentezza, felicità stanno in aperto contrasto con la
natura umana, né possono darci di sé una rappresentazione intuitiva.
Come differenti appaiono, accanto a questo fantoccio, i Superatori
del mondo e volontari Penitenti, che la sapienza indiana ci presenta
ed effettivamente ha prodotti; o anche il Salvatore cristiano –
quella magnifica figura, piena di vita profonda, d'immensa verità
poetica e di altissimo significato, la quale nondimeno, malgrado la
sua perfetta virtù, santità ed elevatezza, viene davanti a noi in
istato di altissimo dolore31.
LIBRO SECONDO
IL MONDO COME VOLONTÀ
PRIMA CONSIDERAZIONE
L'obiettivazione del volere.
Nos habitat, non tartara, sed nec sidera coeli:
Spìritus, in nobis qui viget, illa facit.
§ 17.
Nel primo libro abbiamo esaminato la rappresentazione solo come
tale, ossia nella sua forma generica. Tuttavia, per ciò che riguarda
la rappresentazione astratta – il concetto – questa ci fu nota anche
nel suo contenuto, in quanto essa riceve ogni contenuto e
significato solamente dalla sua relazione con la rappresentazione
intuitiva; senza la quale sarebbe priva di valore e di contenuto.
Dovendo quindi far capo esclusivamente alla rappresentazione
intuitiva, cercheremo di conoscere anche il contenuto suo, le sue
più precise determinazioni e gli atteggiamenti ch'essa ci presenta.
Baderemo particolarmente a chiarire con precisione il suo vero
significato: quel significato, che di solito è soltanto sentito, ed
in grazia del quale le immagini della rappresentazione non sfilano
davanti a noi, come altrimenti accadrebbe, del tutto straniere e
mute; bensì ci parlano direttamente, vengono comprese ed acquistano
un interesse, che avvolge tutto il nostro essere.
Dirizziamo lo sguardo alla matematica, alla scienza naturale ed alla
filosofia; ciascuna delle quali ci fa sperare che ci darà una parte
della luce desiderata. Ora, la filosofia ci appare a tutta prima
come un mostro dalle molte teste, ognuna parlante una lingua
diversa. È vero che non tutte sono discordi sul punto che qui si
tocca, il significato della rappresentazione intuitiva: perché,
eccezion fatta degli scettici e degli idealisti, tutte le altre,
nella sostanza, parlano con sufficiente accordo di un oggetto, che
sta a base della rappresentazione, e che, pur essendo dalla
rappresentazione affatto distinto nell'essere e. nell'essenza, le
somiglia d'altra parte tanto per ogni verso, quanto un uovo ad un
altro uovo. Ma con ciò non siamo tratti d'impaccio: perché noi non
sappiamo punto distinguere un tale oggetto dalla rappresentazione,
anzi troviamo che questa e quello sono tutt'uno, poiché ogni oggetto
sempre e perennemente presuppone un soggetto, e rimane quindi
rappresentazione; così pure abbiamo conosciuto il fatto d'essere
oggetto, come appartenente alla più general forma della
rappresentazione, che è appunto la scissione in oggetto e soggetto.
Inoltre il principio di ragione, al quale ci si riferisce in tale
proposito, è per noi similmente la pura forma della
rappresentazione, ossia il regolare collegamento di una
rappresentazione con un'altra, e non collegamento dell'intera,
finita o infinita serie delle rappresentazioni con qualcosa che non
sia rappresentazione, né sia quindi rappresentabile. Degli scettici
e degl'idealisti si è parlato più sopra, spiegando la contesa
intorno alla realtà del mondo esteriore.
Se domandiamo ora alla matematica la desiderata, precisa conoscenza
della rappresentazione intuitiva, che conosciamo solo in generale,
nella sua pura forma; la matematica ci parlerà solo di codeste
rappresentazioni in quanto riempiono tempo e spazio, ossia in quanto
sono quantità. C'indicherà con perfetta esattezza il «quanto» e il
«quanto grande»; ma poi che questo è sempre relativo, ossia è un
confronto d'una rappresentazione con un'altra, e consiste solo in
quell'unilaterale riguardo della quantità, non potrà darci la
nozione a cui principalmente miriamo.
Se guardiamo infine all'ampio, in molti campi diviso, territorio
della scienza naturale, possiamo subito distinguere due partizioni
fondamentali. Essa è o descrizione di forme – ch'io chiamo
morfologia – o spiegazione dei cambiamenti – ch'io chiamo etiologia.
La prima considera le forme permanenti, la seconda considera la
materia evolvente secondo le leggi del suo passaggio da una forma
all'altra. La prima è ciò che vien chiamato, sia pure
impropriamente, storia naturale, nel suo senso più ampio.
Specialmente come botanica e zoologia c'insegna a conoscere le
diverse forme organiche, permanenti, e quindi nettamente
determinate, nell'incessante mutar degli individui, le quali
costituiscono gran parte del contenuto della rappresentazione
intuitiva. Esse vengono da lei classificate, isolate, riunite,
ordinate in sistemi naturali ed artificiali, raccolte sotto
concetti, che rendono possibile uno sguardo d'insieme e una
conoscenza di tutte. Viene inoltre mostrata un'analogia, nel
complesso o nelle parti, che fra tutte le forme passa con infinite
sfumature (unité de plan), in grazia della quale esse rassomigliano
a molteplici variazioni di un tema non formulato. Il passaggio della
materia in quelle forme, ossia il sorgere degli individui, non è la
parte principale da considerare, perché ogni individuo deriva da un
suo simile per via di generazione; la quale, sempre egualmente
misteriosa, si sottrae finora a una chiara nozione: ed il poco, che
se ne sa, trova posto nella fisiologia, che già appartiene alla
scienza etiologica della natura. Anche la mineralogia, che pure,
nella sostanza, appartiene alla morfologia, tende verso l'etiologia,
specie là dove diventa geologia. Vera e propria etiologia sono poi
le branche della scienza naturale rivolte soprattutto alla causa e
all'effetto: queste insegnano, come, secondo una legge infallibile,
ad uno stato della materia necessariamente un altro determinato
consegua; come un determinato cambiamento sia condizione e causa di
un altro, egualmente determinato: la qual prova si chiama
spiegazione. Qui troviamo in primo luogo meccanica, fisica, chimica,
fisiologia.
Ma, se ci mettiamo alla lor scuola, non tardiamo ad accorgerci, che
la cognizione a cui soprattutto miriamo non ci vien data
dall'etiologia più che dalla morfologia. Quest'ultima ci mostra
forme innumerevoli, – per noi, rappresentazioni – infinitamente
varie, e pur affini per un'innegabile aria di famiglia; le quali per
questa via ci rimangono eternamente estranee e, guardate in questo
solo modo, ci stanno davanti come incomprensibili geroglifici.
L'etiologia viceversa c'insegna che, secondo la legge di causa ed
effetto, un certo stato della materia ne produce un altro; e con ciò
ha spiegato, ed ha fatto il suo compito. Così, in sostanza, non fa
altro che mostrare l'ordine regolare, col quale gli stati si
presentano nello spazio e nel tempo, e per tutti i casi insegnare
quale fenomeno debba necessariamente prodursi in un dato tempo, in
un dato luogo. Assegna quindi ai fenomeni il loro posto nel tempo e
nello spazio, secondo una legge, il cui contenuto preciso viene
rivelato dall'esperienza, ma della cui generale forma e necessità
siamo consapevoli indipendentemente da quella. Tuttavia, sull'intima
essenza d'uno qualsiasi tra codesti fenomeni non riceviamo con ciò
la minima luce: tale essenza vien chiamata forza naturale, e sta
fuor del dominio della spiegazione etiologica; la quale chiama legge
naturale l'immutabile costanza nell'apparir della manifestazione di
codesta forza, ogni qual volta si presentino le condizioni che
l'etiologia ha riconosciute. Ma questa legge naturale, queste
condizioni, questo apparir d'un fenomeno in luogo determinato, a
tempo determinato, è tutto ciò che essa conosce e potrà conoscere.
La forza in sé, che si manifesta, l'intima essenza dei fenomeni,
producentesi secondo quelle leggi, rimane per lei sempre un segreto,
alcunché di straniero ed ignoto, tanto nei fenomeni più semplici,
quanto nei più complicati. Imperocché, sebbene l'etiologia abbia
finora meglio conseguito il suo fine nella meccanica, e meno
compiutamente nella fisiologia; la forza, in virtù della quale una
pietra cade a terra o un corpo ne urta un altro, non ci è meno
estranea e misteriosa di quella che produce i movimenti e lo
sviluppo di un animale. La meccanica presuppone come imperscrutibili
materia, gravità, impenetrabilità, comunicabilità del moto mediante
urto, rigidità, etc.; e tutto ciò chiama forze naturali; chiama
leggi naturali il loro necessario e regolare prodursi in date
condizioni. E da questo punto soltanto comincia la propria
spiegazione, la quale consiste nell'indicar con fedele e matematica
esattezza come, dove, quando ciascuna forza si estrinseca; e nel
ricondurre ad una di codeste forze ogni fenomeno che a lei si
presenti. Lo stesso fanno fisica, chimica, fisiologia nel loro
territorio, con la sola differenza, che presuppongono ancor più, e
spiegano ancor meno. Perciò anche la più completa spiegazione
etiologica di tutta la natura non sarebbe propriamente altro, che un
elenco delle forze inesplicabili, ed una sicura indicazione delle
regole, secondo cui i fenomeni di quelle forze si producono, si
succedono, si sostituiscono vicendevolmente nel tempo e nello
spazio: ma l'intima essenza delle forze in tal modo manifestantisi
verrebbe a rimaner sempre nell'ombra, perché la legge, che
l'etiologia segue, non conduce a spiegar quell'essenza: essa deve
fermarsi al fenomeno ed alla sua classificazione. La spiegazione
etiologica si potrebbe quindi paragonare al taglio di un marmo, il
quale mostra molte venature l'una accanto all'altra, ma non lascia
seguire il loro corso dall'interno del blocco fino alla superficie.
Oppure – se mi è consentito, perché calzante, un esempio scherzoso –
davanti all'etiologia completa della natura intera, l'indagatore
filosofo dovrebbe sentirsi sempre come qualcuno il quale capiti,
senza saper come, in una società a lui del tutto sconosciuta, dove
ciascuno degli astanti a turno gli presenti un altro come suo amico
o cugino, senz'altra spiegazione: e frattanto quegli, mentre ogni
volta si dichiara felice di farne la conoscenza, ha sempre sulla
punta della lingua la domanda: «Ma come diavolo sono capitato in
questa società?».
Dunque, nemmeno l'etiologia può darci su quei fenomeni che chiamiamo
nostre rappresentazioni la luce desiderata, capace di farci avanzare
oltre i fenomeni stessi. Anche dopo tutte le sue spiegazioni, essi
seguitano a starci davanti, del tutto sconosciuti, come pure
rappresentazioni, delle quali non comprendiamo il significato. Il
nesso causale ci dà soltanto la regola e la relativa disposizione
del loro prodursi nello spazio e nel tempo, ma non ci fa conoscere
da vicino che cosa sia ciò che in tal modo si produce. Inoltre la
stessa legge di causalità vige soltanto per rappresentazioni, per
oggetti d'una determinata classe; ha significato solo con la
presupposizione di quelli: è adunque sempre, come gli oggetti
medesimi, esclusivamente in relazione col soggetto, ossia non si ha
se non condizionatamente: per la qual cosa viene conosciuta
egualmente, sia che si parta dal soggetto, ossia a priori, o
dall'oggetto, ossia a posteriori, come Kant ci ha insegnato.
Ma ciò, che ora ci spinge all'indagine, è appunto questo: che non ci
basta saper che abbiamo rappresentazioni, che le rappresentazioni
sono così e così, e che si collegano secondo queste o quelle leggi,
delle quali è sempre espressione generale il principio di ragione.
Noi vogliamo sapere il significato della rappresentazione: noi
domandiamo, se questo mondo non sia altro che rappresentazione; nel
qual caso dovrebbe passare davanti ai nostri occhi come un sogno
inconsistente, o uno fantastica visione, indegna della nostra
attenzione; o se non sia qualcosa d'altro, qualcosa di più, e che
cosa sia. Si vede subito, che questo, a cui miriamo, è alcunché di
sostanzialmente diverso dalla rappresentazione, e che devono
essergli del tutto estranee le forme e le leggi di questa: sì che,
partendo dalla rappresentazione, non si può giungere ad esso
seguendo il filo di quelle leggi, le quali collegano soltanto fra
loro oggetti, rappresentazioni; leggi che sono poi le forme del
principio di ragione.
Vediamo già a questo punto, che all'essenza delle cose non si potrà
mai pervenire dal di fuori: per quanto s'indaghi, non si trova mai
altro che immagini e nomi. Si fa come qualcuno, che giri attorno ad
un castello, cercando invano l'ingresso, e ne schizzi frattanto le
facciate. Eppur questa è la via tenuta da tutti i filosofi prima di
me.
§ 18.
In verità, il senso tanto cercato di questo mondo, che mi sta
davanti come mia rappresentazione – oppure il passaggio da esso, in
quanto pura rappresentazione del soggetto conoscente, a quel che
ancora può essere oltre di ciò – non si potrebbe assolutamente mai
raggiungere, se l'indagatore medesimo non fosse nient'altro che il
puro soggetto conoscente (alata testa d'angelo senza corpo). Ma egli
ha in quel mondo le proprie radici, vi si trova come individuo:
ossia il suo conoscere, che è condizione dell'esistenza del mondo
intero in quanto rappresentazione, avviene in tutto e per tutto
mediante un corpo; le cui affezioni, come s'è mostrato, sono per
l'intelletto il punto di partenza dell'intuizione di quel mondo.
Codesto corpo è per il puro soggetto conoscente, in quanto tale, una
rappresentazione come tutte le altre, un oggetto fra oggetti: i suoi
movimenti, le sue azioni non sono da lui, sotto questo rispetto,
conosciute altrimenti che le modificazioni di tutti gli altri
oggetti intuitivi; e gli sarebbero egualmente estranee ed
incomprensibili, se il loro senso non gli fosse per avventura
svelato in qualche modo affatto diverso. In caso contrario, vedrebbe
la propria condotta regolarsi con la costanza d'una legge naturale
sui motivi che le si offrono, proprio come le modificazioni degli
altri oggetti sono regolate da cause, stimoli, motivi. Ma non
comprenderebbe l'influsso dei motivi meglio di quanto comprenda il
nesso di ogni altro effetto, a lui visibile, con la causa
rispettiva. All'intima, per lui incomprensibile essenza di quelle
manifestazioni ed operazioni del suo corpo, egli seguiterebbe allora
a dare i nomi di forza, qualità, carattere, a piacere: e non
vedrebbe più addentro. Ma le cose non stanno così: al soggetto
conoscente, che appare come individuo, è data la parola dell'enigma;
e questa parola è volontà. Questa, e questa sola, gli da la chiave
per spiegare il suo proprio fenomeno, gli manifesta il senso, gli
mostra l'intimo congegno del suo essere, del suo agire, dei suoi
movimenti. Al soggetto della conoscenza, il quale per la sua
identità col proprio corpo ci si presenta come individuo, questo
corpo è dato in due modi affatto diversi: è dato come
rappresentazione nell'intuizione dell'intelletto, come oggetto fra
oggetti, e sottomesso alle leggi di questi; ma è dato
contemporaneamente anche in tutt'altro modo, ossia come
quell'alcunché direttamente conosciuto da ciascuno, che la parola
volontà esprime. Ogni vero atto della sua volontà è immediatamente e
ineluttabilmente anche un moto del suo corpo: egli non può voler
davvero l'atto, senz'accorgersi insieme ch'esso appare come
movimento del corpo. L'atto volitivo e l'azione del corpo non sono
due diversi stati conosciuti oggettivamente, che il vincolo della
causalità collega; non stanno fra loro nella relazione di causa ed
effetto: bensì sono un tutto unico, soltanto dati in due modi
affatto diversi, nell'uno direttamente, e nell'altro mediante
l'intuizione per l'intelletto. L'azione del corpo non è altro, che
l'atto del volere oggettivato, ossia penetrato nell'intuizione.
Nel seguito vedremo, che ciò vale per ogni movimento del corpo, non
solo per quelli provocati da motivi, ma anche per quelli arbitrarii
provocati da semplici stimoli; vedremo, anzi, che il corpo intero
non è altro se non la volontà oggettivata, ossia divenuta
rappresentazione – tutte cose che risulteranno e appariranno
evidenti dalla successiva trattazione. Chiamerò dunque qui il corpo,
sotto questo punto di vista, l'obiettità della volontà; mentre nel
libro precedente e nella memoria sopra il principio di ragione
l'avevo chiamato – secondo il punto di vista colà assunto
intenzionalmente (quello dell'intuizione) – l'oggetto immediato. In
un certo senso si può quindi anche dire: la volontà è la conoscenza
a priori del corpo, e il corpo la conoscenza a posteriori della
volontà. Decisioni della volontà, riferentisi anche al futuro, sono
semplici riflessioni della ragione su ciò che si vorrà che allora
avvenga, e non veri e proprii atti volitivi: soltanto l'attuazione
suggella la risoluzione, che, finché non sia attuata, è ancor sempre
un proposito soggetto a variare, ed esiste soltanto nella ragione,
in abstracto. Nella semplice riflessione, volere ed agire sono
distinti: nella realtà sono tutt'uno. Ogni vero, genuino, immediato
atto volitivo è subito e direttamente anche un visibile atto del
corpo: e corrispondentemente, d'altra parte, ogni azione sul corpo,
subito e direttamente, è anche azione sulla volontà; come tale si
chiama dolore, se ripugna alla volontà; benessere, piacere, se è a
questa conforme. Assai diverse sono le gradazioni del dolore e del
piacere. Ma si ha pieno torto, se si dà il nome di rappresentazioni
al dolore ed al piacere, che non sono punto tali, bensì affezioni
dirette della volontà nella sua manifestazione fenomenica, ch'è il
corpo: un forzato, istantaneo volere o non volere l'impressione, che
questo subisce. Sono da considerar semplici rappresentazioni, e
vanno quindi eccettuate da quanto or ora s'è detto, soltanto alcune
poche impressioni corporee che non eccitano la volontà, e per le
quali il corpo diventa immediato oggetto della conoscenza, mentre
come intuizione è già oggetto mediato nell'intelletto, al pari di
tutti gli altri oggetti. S'intendono con ciò le affezioni dei sensi
puramente oggettivi: della vista, dell'udito e del tatto; e solo in
quanto codesti organi sono impressionati nella maniera specialmente
caratteristica, specifica, naturale di ciascuno. Codesta è
un'impressione così estremamente debole della sensibilità aumentata
e specificamente modificata di tali organi, da non toccare la
volontà; e, non turbata da nessuna eccitazione di quest'ultima, non
fa che fornire all'intelletto i dati dai quali nasce l'intuizione.
Ma ogni affezione di questi organi più intensa o di altra natura è
dolorosa, ossia contraria alla volontà, all'oggettità della quale
anch'essi dunque appartengono. Debolezza di nervi si manifesta in
quanto le impressioni, le quali dovrebbero aver solo il grado di
forza, che basti a farne dati per l'intelletto, raggiungono il grado
più elevato, in cui muovono la volontà, ossia producono dolore o
piacere; più sovente, invero, dolore, il quale in parte è ottuso ed
indistinto, quindi non solo singoli suoni e forte luce fa
dolorosamente avvertire, bensì produce anche una generale
disposizione di malessere ipocondrico, senza venir chiaramente
conosciuto. Inoltre, l'identità del corpo e della volontà si mostra
fra l'altro anche nel fatto, che ogni movimento vivace ed eccessivo
della volontà, ossia ogni affetto, scuote direttamente il corpo ed
il suo intimo meccanismo, disturbando l'andamento delle sue funzioni
vitali. Ciò si trova in modo speciale spiegato nella Volontà nella
natura, p. 27 della seconda edizione.
Finalmente la conoscenza che io ho della mia volontà è, sebbene
immediata, tuttavia inseparabile da quella del mio corpo. Conosco la
mia volontà non nel suo complesso, non come unità, non appieno nella
sua essenza; ma la conosco soltanto nei suoi singoli atti, e quindi
nel tempo, ch'è forma del fenomeno del mio corpo, come d'ogni
oggetto: sì che il corpo è condizione per la conoscenza della mia
volontà. Questa volontà, senza il mio corpo, io non riesco invero a
rappresentarmela. Nella memoria sul principio di ragione è bensì la
volontà, o piuttosto il soggetto del volere, presentata come una
speciale classe di rappresentazioni o oggetti: ma già quivi vedemmo
codesto oggetto coincidere col soggetto, ossia cessar di essere
oggetto. Noi chiamammo questa coincidenza il miracolo κατ’ εξοχην:
in certo modo tutta l'opera presente è spiegazione di quello. In
quanto conosco veramente la mia volontà come oggetto, la conosco
come corpo: ma allora mi ritrovo daccapo nella prima classe di
rappresentazioni stabilita in quello scritto, ossia fra gli oggetti
reali. Verremo scorgendo sempre meglio, in seguito, che quella prima
classe di rappresentazioni trova appunto la sua sola chiave e
spiegazione nella quarta classe, anche colà stabilita, la quale non
si contrappone più, propriamente, come oggetto al soggetto. E, in
corrispondenza con ciò, dovremo arrivare a capire, attraverso la
legge di motivazione che governa la quarta classe, l'intima essenza
della legge di causalità, dominante nella prima, e di quanto accade
in conformità della legge medesima.
L'identità, ora esposta in via provvisoria, della volontà e del
corpo, può soltanto essere mostrata come qui per la prima volta s'è
fatto e sempre più si farà in seguito; ossia dalla coscienza
immediata, dalla conoscenza in concreto, venir elevata a nozione
razionale, o trasportata nella conoscenza in abstracto. Viceversa
non può, per la sua natura, venir provata, ossia esser dedotta come
conoscenza mediata da un'immediata, appunto perché essa è la più
immediata; e se non la prendiamo e teniamo per tale, attenderemo
invano di riceverla in qualche modo mediatamente, come conoscenza
derivata. Essa è una conoscenza di genere affatto speciale, la cui
verità appunto perciò non può esser propriamente disposta sotto una
delle quattro rubriche, in cui ho distinto ogni verità nello scritto
sul principio di ragione, § 29 sgg.: ossia verità logica, empirica,
metafisica e metalogica. Imperocché non è, come quelle, la relazione
d'una rappresentazione astratta con un'altra rappresentazione, o con
la forma necessaria della rappresentazione intuitiva od astratta:
bensì è il rapporto di un giudizio con la relazione tra una
rappresentazione intuitiva – il corpo – e ciò che non è punto
rappresentazione, ma alcunché da questa toto genere diverso:
volontà. Vorrei dunque distinguere questa verità da tutte le altre,
e chiamarla verità filosofica κατ’ εξοχην. L'espressione di questa
può esser formulata variamente, dicendo: il mio corpo e la mia
volontà sono tutt'uno; oppure, ciò, che io chiamo mio corpo come
rappresentazione intuitiva, chiamo mia volontà in quanto ne sono
conscio in maniera del tutto diversa, non paragonabile a
nessun'altra; oppure, il mio corpo è l'oggettità della mia volontà;
oppure, prescindendo dal fatto che il mio corpo è mia
rappresentazione, esso non è altro che mia volontà; e così via32.
§ 19.
Se nel primo libro, con intima riluttanza, dichiaravamo il nostro
proprio corpo esser pura intuizione del soggetto conoscente, come
tutti gli altri oggetti di questo mondo intuitivo, ormai ci si è
fatto chiaro ciò che nella coscienza di ciascuno distingue la
rappresentazione del proprio corpo da ogni altra, pel resto simile a
quella. Ossia, che il corpo si presenta alla coscienza anche in
tutt'altra maniera, toto genere diversa, la quale viene indicata con
la parola volontà, e che questa doppia conoscenza, che abbiamo del
nostro corpo, ci dà sopra di esso, sopra il suo operare e muoversi
in seguito a motivi, come anche sul suo risentirsi dell'azione
esterna – in una parola, sopra ciò ch'esso è, non in quanto
rappresentazione, ma in se stesso – quella luce, che non possiamo
avere immediatamente sull'essenza, l'attività, l'impressionabilità
di tutti gli altri oggetti reali.
Il soggetto conoscente è appunto un individuo per questa speciale
relazione con un corpo, il quale, considerato fuori di tal
relazione, non è che una rappresentazione eguale a tutte le altre.
Ma la relazione, in virtù della quale il soggetto conoscente è
individuo, appunto perciò sussiste unicamente fra lui e una sola di
tutte le sue rappresentazioni. Di questa sola egli è quindi conscio
non semplicemente come d'una rappresentazione, bensì in pari tempo
anche in tutt'altro modo, ossia come d'una volontà. Ma, se si astrae
da quella speciale relazione, da quella duplice ed eterogenea
conoscenza di un tutto uno ed identico, – essendo quell'uno, il
corpo, una rappresentazione eguale a tutte le altre – l'individuo
conoscente, per orientarsi a questo proposito, deve ammettere che
l'elemento distintivo di quell'unica rappresentazione stia
esclusivamente nel fatto, che la conoscenza, ch'egli ne ha, si trovi
in codesta duplice relazione con quella rappresentazione sola, e che
solo di quest'unico oggetto intuitivo egli possa aver nozione in due
modi; ma che ciò non va spiegato con la differenza di tale oggetto
da tutti gli altri, bensì con una differenza della relazione
esistente tra la sua conoscenza e quest'unico oggetto, da quella
ch'essa ha con tutti gli altri. Oppure, deve ammettere che
quest'unico oggetto sia essenzialmente diverso da tutti gli altri,
solo fra tutti sia contemporaneamente volontà e rappresentazione; e
gli altri, invece, semplice rappresentazione, ossia puri fantasmi;
che il suo corpo adunque sia l'unico individuo reale nel mondo,
ossia l'unico fenomeno di volontà e l'unico oggetto immediato del
soggetto. Che gli altri oggetti, considerati come semplici
rappresentazioni, siano eguali al nostro corpo, ossia come questo
riempiano lo spazio (che anch'esso esiste solo in possibilità come
rappresentazione), e come questo operino nello spazio, si può
dimostrare con tutta certezza con la legge di causalità, che per le
rappresentazioni è certa a priori. Questa non ammette effetto senza
causa. Ma, prescindendo dal fatto che dall'effetto si può risalire
solo ad una causa in genere, e non ad una causa eguale, qui si è
sempre nel dominio della pura rappresentazione, sol per la quale
vige la legge della causalità, né si può andare oltre. Se poi gli
oggetti noti all'individuo come semplici rappresentazioni siano
tuttavia, come il suo proprio corpo, fenomeni d'una volontà; questo
è, come già fu detto nel libro precedente, il vero senso della
quistione intorno alla realtà del mondo esterno. Negare ciò, è
seguire il pensiero dell'egoismo teoretico, che appunto per questo
ritiene fantasmi tutti i fenomeni, eccettuato il proprio individuo,
precisamente come fa, sotto il rispetto pratico, l'egoismo pratico;
il quale considera e tratta la persona propria come la sola persona
reale, e tutte le altre come puri fantasmi. L'egoismo teorico non si
potrà mai confutare con prove: tuttavia filosoficamente non è di
certo altro che un sofisma scettico, ossia dedotto per pura
apparenza. Come convinzione seria, lo si potrebbe trovare soltanto
al manicomio; dove a combatterlo non occorrerebbe tanto una prova
quanto una cura. Per questo non ci indugiamo ancora a trattarne, ma
lo consideriamo unicamente come l'ultima fortezza dello scetticismo,
che è sempre polemico. Ora adunque, se la nostra conoscenza, sempre
legata all'individualità e perciò stesso limitata, reca con sé la
necessità che ogni individuo sia bensì uno, ma possa tutto il resto
conoscere (la qual limitazione appunto fa sorgere il bisogno della
filosofia); noi, che appunto perciò ci sforziamo d'allargar mediante
la filosofia i limiti della nostra conoscenza, considereremo
l'argomento dell'egoismo scettico, che qui ci si oppone, come una
piccola fortezza di confine, la quale è per sempre inespugnabile, ma
il cui presidio non ha modo d'uscirne, sì che si può passarle
davanti e senza pericolo lasciarsela alle spalle.
La doppia conoscenza, ormai assurta a chiarezza, e raggiunta in due
modi affatto eterogenei, che noi abbiamo dell'essenza e
dell'attività del nostro corpo, ci servirà d'ora innanzi come una
chiave per aprirci l'essenza d'ogni fenomeno nella natura; e
sull'analogia del nostro corpo giudicar tutti gli oggetti, che non
come quel corpo, ossia non in duplice modo, ma soltanto come
rappresentazioni sono dati alla nostra coscienza; e quindi
ammettere, che com'essi da un lato, a mo' del corpo, sono
rappresentazioni, e perciò della stessa sua natura, così d'altra
parte quel che rimane, quando si metta in disparte il loro essere in
quanto rappresentazioni del soggetto, sia nella sua intima essenza
identico a ciò che in noi stessi chiamiamo volontà. Invero, quale
altra specie d'esistenza o di realtà dovremmo attribuire al
rimanente mondo corporeo? donde prender gli elementi, coi quali
metterlo insieme? All'infuori di volontà e rappresentazione,
nient'altro conosciamo, né possiamo pensare. Se al mondo reale, che
esiste immediatamente sol nella nostra rappresentazione, vogliamo
attribuire la massima realtà a noi nota, gli diamo la realtà, che
per ciascuno di noi ha il suo proprio corpo: poiché questo è per
ciascuno quanto v'è di più reale. Ma se poi analizziamo la realtà di
questo corpo e delle sue azioni, all'infuori del fatto d'essere
nostra rappresentazione, non altro vi troviamo che la volontà: e con
ciò viene ad essere esaurita la sua realtà. Non possiamo quindi
trovare in niun luogo una realtà differente per attribuirla al mondo
corporeo. Se il mondo corporeo adunque dev'essere qualcosa di più
che nostra semplice rappresentazione, dobbiamo dire ch'esso, oltre
che rappresentazione, e quindi in se medesimo e nella sua più intima
essenza, è ciò che troviamo direttamente in noi stessi come volontà.
Io dico, nella sua più intima essenza: ma codesta essenza della
volontà dobbiamo prima conoscerla meglio, per saper distinguere ciò
che appartiene a lei da ciò che già spetta al suo fenomeno nei vari
gradi di esso. Così, per esempio, l'essere in compagnia della
conoscenza e il relativo agir per determinazione di motivi non
appartiene, come vedremo in seguito, all'essenza della volontà,
bensì semplicemente al suo fenomeno visibile in quanto uomo o
animale. Se io quindi dirò: la forza, che fa cadere a terra la
pietra, nella sua essenza, in sé, e fuori d'ogni rappresentazione, è
volontà; non si attribuirà a quest'affermazione l'insano
significato, che la pietra si muova secondo un motivo conosciuto,
perché nell'uomo la volontà si manifesta in questo modo33. Ma oramai
ci proponiamo di mostrare, fondare con più estensione e chiarezza, e
sviluppare in tutta la sua ampiezza, quanto fin qui fu esposto in
maniera provvisoria e generica34
§ 20.
Come essenza in sé del nostro corpo, come ciò che questo corpo è,
oltre all'esser oggetto di intuizione o rappresentazione, si palesa
la volontà primamente, secondo s'è detto, nei movimenti volontari
del corpo medesimo, in quanto questi non sono altro che la
visibilità dei singoli atti volitivi.
Con tali atti, i movimenti si producono in diretta e immediata
concomitanza, formando un tutto unico; distinti da quelli solo nella
forma di conoscibilità in cui sono passati, diventando
rappresentazione. Codesti atti della volontà hanno sempre un
principio fuori di se stessi, nei motivi. Questi tuttavia non
determinano se non ciò che io voglio in un dato tempo, in un dato
luogo, in date circostanze: non il fatto generico del mio volere, né
ciò che io genericamente voglio, ossia la massima a cui s'impronta
tutto il mio volere. Quindi il mio volere non si può spiegare in
tutta la sua essenza coi motivi; ma questi determinano soltanto la
sua manifestazione in un dato momento, sono la semplice occasione,
in cui la mia volontà si manifesta. Essa rimane nondimeno fuor del
dominio assegnato alla legge di motivazione: solo il suo rivelarsi
in ciascun istante è determinato necessariamente da quest'ultima.
Esclusivamente con la premessa del mio carattere empirico il motivo
è una spiegazione sufficiente della mia condotta: ma s'io faccio
astrazione dal mio carattere, e poi domando perché io voglio questa
cosa e non quell'altra, nessuna risposta è possibile; appunto perché
soltanto il fenomeno della volontà è sottomesso al principio di
ragione, e non la volontà stessa, che sotto questo rispetto può
dirsi non abbia ragione. Qui da una parte presuppongo nota la
dottrina kantiana del carattere empirico ed intelligibile, come
anche il chiarimento ch'io ne diedi nei miei Problemi fondamentali
dell'etica, pp. 48-58, e p. 178 sgg. della prima edizione; per altra
parte avremo a discorrere ampiamente di ciò nel quarto libro. Per
ora ho solo richiamato l'attenzione sul fatto, che l'essere un
fenomeno fondato sull'altro (in questo caso dunque l'azione sul
motivo) non esclude punto che la sua essenza sia, in sé, volontà; la
quale non ha alla sua volta nessun fondamento, perché il principio
di ragione in tutte le sue applicazioni è semplice forma della
conoscenza, ed estende la sua validità alla sola rappresentazione,
ch'è il fenomeno, la visibilità del volere, ma non al volere
medesimo, che diventa visibile.
Ora, se ogni azione del mio corpo è fenomeno di un atto volitivo,
nel quale, in seguito a determinati motivi, si riflette la mia
volontà genericamente ed in complesso, ossia il mio carattere;
dev'esser anche condizione e premessa immancabile d'ogni azione un
fenomeno della volontà. Imperocché il fenomeno della volontà non può
dipendere da qualche cosa che non esista direttamente e per solo
mezzo di lei, che sia rispetto a lei dovuto al solo caso, sì che
diverrebbe semplicemente casuale anche il fenomeno stesso: ma quella
condizione è il corpo intero. Il corpo deve dunque già essere
fenomeno della volontà, e comportarsi di fronte alla mia volontà
generica, – ossia al mio carattere intelligibile, del quale è
fenomeno nel tempo il mio carattere empirico – come la singola
azione del corpo si comporta di fronte al singolo atto della
volontà. Dunque, non deve tutto il corpo essere altro che la mia
volontà, diventata visibile; dev'essere la mia volontà stessa, in
quanto questa è oggetto intuitivo, rappresentazione della prima
classe. Come conferma di ciò, fu già osservato che ogni impressione
ricevuta dal nostro corpo eccita istantaneamente e direttamente
anche la nostra volontà, e sotto questo rispetto si chiama dolore o
piacere; oppure, in un grado inferiore, sensazione piacevole o
spiacevole. E fu anche osservato che, viceversa, ogni moto violento
della volontà, affetto e passione, scuote il corpo e turba
l'andamento delle sue funzioni. Si può, è vero, spiegare
etiologicamente (sia pure in maniera assai incompleta) la nascita,
e, un po' meglio, lo sviluppo e la conservazione del corpo; tale è
il compito della fisiologia. Ma questa risolve il suo problema, così
come i motivi spiegano la condotta. Quindi, come la spiegazione dei
singoli atti mediante il motivo, e il necessario derivar di quelli
da questo, non contrastano col fatto che l'azione in genere e nella
sua essenza è fenomeno di una volontà, in se stessa priva di
spiegazione; così la spiegazione fisiologica delle funzioni corporee
non reca nocumento alla verità filosofica, per cui l'intera
esistenza del corpo e la serie compiuta delle sue funzioni è
soltanto l'obiettivazione di quella volontà appunto, che appare
determinata da motivi nelle azioni esterne del corpo medesimo. La
fisiologia si studia bensì di far risalire a cause proprie
dell'organismo codeste azioni esterne, i moti direttamente
volontari; – spiegar per esempio il movimento dei muscoli con un
afflusso di succhi («come la contrazione d'una corda inumidita»,
dice Reil, nel suo Archivio di fisiologia, vol. VI, p. 153) – ma,
pur concedendo che si venisse davvero a una radicale spiegazione di
tal sorta, questa non escluderebbe mai la verità direttamente certa,
che ogni moto volontario (functiones animales) è fenomeno di un atto
volitivo. Nello stesso modo la spiegazione fisiologica della vita
vegetativa (functiones naturales, vitales), per quanto si possa
spingere avanti, non perverrà a cancellare la verità, che
quest'intera vita animale, così come si svolge, è fenomeno della
volontà. In genere, com'è spiegato più sopra, qualsiasi spiegazione
etiologica non può darci altro che il punto, necessariamente
determinato nel tempo e nello spazio, d'ogni singolo fenomeno, e il
suo necessario prodursi in quel punto secondo una regola fissa: ma
l'intima essenza d'ogni fenomeno rimane per questa via sempre
imperscrutabile, venendo presupposta da ciascuna spiegazione
etiologica, e semplicemente designata col nome di forza, o legge
naturale, o, se si tratta d'azioni, carattere, volontà. Sebbene
adunque ogni singola azione, essendo presupposto un determinato
carattere, si svolga necessariamente secondo i motivi presentatisi,
e sebbene lo sviluppo, il processo nutritivo, e tutte le
modificazioni della vita animale avvengano secondo cause (stimoli)
necessariamente operanti; nondimeno la serie compiuta delle azioni
(quindi anche ogni azione singola, e così la condizione di queste,
ossia tutto il corpo medesimo che le compie; e per conseguenza anche
il processo, pel quale e nel quale il corpo sussiste) non è altro
che il fenomeno della volontà, l'estrinsecazione visibile,
l'obiettità della volontà. Su questo fatto poggia la piena
concordanza del corpo umano ed animale con l'umana ed animale
volontà; somigliante a quella – pur sopravanzandola di molto – che
uno strumento costruito per un certo scopo ha con la volontà del
costruttore; e perciò apparendoci come finalità, ossia spiegabilità
ideologica del corpo. Le parti del corpo debbono quindi corrisponder
perfettamente ai bisogni principali, in cui la volontà si manifesta,
debbono essere la visibile espressione di quelli: denti, esofago e
canale intestinale sono la fame oggettivata; i genitali, l'istinto
sessuale oggettivato; le mani prensili, i piedi veloci corrispondono
al già più mediato bisogno della volontà, che mani e piedi
rappresentano. Come la general forma umana alla general volontà
umana, così alla volontà individualmente modificata, al carattere
dell'individuo singolo corrisponde la forma individuale del corpo;
la quale è perciò nel suo complesso, come in ciascuna parte,
caratteristica ed espressiva. È assai notevole che già Parmenide
l'abbia detto, nei seguenti versi citati da Aristotele (Metaph. III,
5).
Ως γαρ ἑκαστος εχει κρασιν μελεων πολυκαμπτων,
Τως νοος ανθρωποισι
παρεστηκεν ˙ το γαρ αυτο
Εστιν, ὁπερ φρονεει, μελεων φυσις
ανθρψποισι,
Και πασιν και παντι ˙ το γαρ πλεον εστι νοημα.
(Ut enim cuique complexio membrorum flexibilium se habet, ita mens
hominibus adest: idem namque est, quod sapit, membrorum natura
hominibus, et omnibus et omni: quod enim plus est, intelligentia
est.)35.
§ 21.
Attraverso tutte queste considerazioni, chi può aver raggiunto anche
in abstracto – quindi con chiarezza e certezza – la conoscenza che
ciascuno ha direttamente in concreto, ossia come sentimento: che
cioè l'essenza in sé del nostro proprio fenomeno (il quale come
rappresentazione ci si offre sia nelle nostre azioni, sia nel
permanente loro substrato: il nostro corpo) è la nostra volontà; e
che questa costituisce l'elemento immediato della nostra coscienza,
ma come tale non è tutta passata nella forma della rappresentazione,
in cui si contrappongono soggetto ed oggetto; bensì si manifesta in
una maniera immediata, nella quale soggetto ed oggetto non sono
distinti nettamente; e tuttavia non è conoscibile nel suo complesso
dall'individuo, ma solo nei suoi singoli atti: chi, io dico, è
arrivato con me a codesta persuasione, troverà che questa è per lui
come la chiave per conoscere l'intima essenza della natura intera;
applicandola anche a quei fenomeni che non gli son dati, come i suoi
propri, in conoscenza immediata oltre che mediata, ma solo in
quest'ultima, quindi solo unilateralmente, come semplice
rappresentazione. Non soltanto in quei fenomeni che sono affatto
simili al suo proprio – negli uomini e negli animali – egli dovrà
riconoscere, come più intima essenza, quella medesima volontà; ma la
riflessione prolungata lo condurrà a conoscer anche la forza che
ferve e vegeta nella pianta, e quella per cui si forma il cristallo,
e quella che volge la bussola al polo, e quella che scocca nel
contatto di due metalli eterogenei, e quella che si rivela nelle
affinità elettive della materia, come ripulsione ed attrazione,
separazione e combinazione; e da ultimo perfino la gravità, che in
ogni materia sì potentemente agisce e attrae la pietra alla terra,
come la terra verso il sole – tutte queste forze in apparenza
diverse conoscerà nell'intima essenza come un'unica forza, come
quella forza a lui più profondamente e meglio nota d'ogni altra
cosa, che là, dove più chiaramente si produce, prende nome di
volontà. Solo quest'impiego della riflessione non ci fa più
arrestare al fenomeno, bensì ci conduce fino alla cosa in sé.
Fenomeno è rappresentazione, e non più: ogni rappresentazione, di
qualsivoglia specie, ogni oggetto è fenomeno. Cosa in sé invece è
solamente la volontà: ella, come tale, non è punto rappresentazione,
bensì qualcosa toto genere differente da questa: ogni
rappresentazione, ogni oggetto, è fenomeno, estrinsecazione
visibile, obiettità di lei. Ella è l'intimo essere, il nocciolo di
ogni singolo, ed egualmente del Tutto: ella si manifesta in ogni
cieca forza naturale; ella anche si manifesta nella meditata
condotta dell'uomo. La gran differenza, che separa la forza cieca
dalla meditata condotta, tocca il grado della manifestazione, non
l'essenza della volontà che si manifesta.
§ 22.
Questa cosa in sé (vogliamo mantener come formula fissa
l'espressione di Kant), che in quanto tale non è mai oggetto,
appunto perché ogni oggetto è invece semplice fenomeno di quella, e
non è più lei medesima, doveva, per poter esser nondimeno pensata
oggettivamente, prendere a prestito nome e concetto da un oggetto,
da alcunché oggettivamente dato, quindi da uno dei suoi fenomeni. Ma
questo, per servir di mezzo di comprensione, non poteva esser altro
se non il più perfetto di tutti i fenomeni, ossia il più chiaro, il
più sviluppato, dalla conoscenza direttamente illuminato: la volontà
umana. Bisogna tuttavia osservare, che qui usiamo invero solo una
denominatio a potiori, mediante la quale, appunto perciò, il
concetto di volontà acquista una ampiezza maggiore di quella finora
avuta. Conoscenza dell'identico in fenomeni diversi, e del diverso
nell'identico è, come spesso nota Platone, condizione per far della
filosofia. Non s'era finora conosciuta come identica con la volontà
l'essenza di tutte le forze agitantisi e operanti nella natura; e si
consideravan quindi come eterogenei gli svariati fenomeni, che sono
invece specie differenti d'un medesimo genere. Perciò non poteva
aversi alcuna parola, che indicasse il concetto di codesto genere.
Io quindi indico il genere col nome della più nobile specie; la cui
immediata conoscenza, la più facile per noi, ci è guida alla
conoscenza mediata delle altre specie.
Si troverebbe quindi impigliato in un perenne equivoco chi non fosse
capace di applicar la richiesta estensione del concetto, e con la
parola volontà seguitasse ancora ad intendere soltanto la specie con
essa comunemente indicata, ossia la volontà diretta dalla conoscenza
e manifestantesi esclusivamente in seguito a motivi, anzi a soli
motivi astratti, e quindi sotto la guida della ragione – volontà
speciale, che, come s'è detto, non è se non il più evidente fenomeno
della volontà intesa nel senso più vasto. Ma è appunto l'intima
essenza di codesto fenomeno, che noi dobbiamo isolare col pensiero,
e trasportarla poi in tutti i più deboli, meno chiari fenomeni
dell'essenza medesima, venendo così a compiere la desiderata
estensione del concetto di volontà. Cadrebbe nell'equivoco opposto,
chi pensasse che sia alla fin fine indifferente chiamar
quell'essenza in sé di tutti i fenomeni col nome di volontà, o con
un altro nome qualsiasi. Sarebbe questo il caso, se quella cosa in
sé fosse il semplice frutto d'una deduzione, e quindi conosciuta
solo mediatamente, in abstracto. La si potrebbe allora chiamar con
un nome purchessia; il nome sarebbe il semplice segno d'una entità
incognita. Invece la parola volontà, che a noi, come una formula
magica, deve svelar la più intima essenza d'ogni cosa nella natura,
non indica punto una entità sconosciuta, un quid ottenuto per via di
deduzioni, bensì alcunché direttamente conosciuto, e così ben noto,
che noi sappiamo ciò che sia volontà, meglio di qualsivoglia altra
cosa. Finora si assumeva il concetto di volontà sotto quello di
forza: io faccio il contrario, e voglio che ogni forza della natura
sia pensata come volontà. Non si creda che questa sia una
logomachia, o una quistione indifferente; perché anzi è di altissima
significazione ed importanza. Infatti, a base del concetto di forza,
come di tutti gli altri concetti, sta la conoscenza intuitiva del
mondo oggettivo, ossia il fenomeno, la rappresentazione: ed esso con
quella si esaurisce. Tale concetto è ricavato dal territorio in cui
imperano causa ed effetto, ossia dalla rappresentazione intuitiva;
ed indica appunto il carattere causale della causa, nel punto in cui
esso non è più oltre spiegabile etiologicamente, ma diventa proprio
la necessaria premessa d'ogni spiegazione etiologica. Viceversa, il
concetto di volontà è l'unico, fra tutti i concetti possibili, che
non abbia la propria origine nel fenomeno, non nella semplice
rappresentazione intuitiva; ma derivi dall'intimo, dalla coscienza
immediata di ciascuno; nella qual coscienza ciascuno
contemporaneamente conosce ed insieme è il suo proprio individuo,
nella sua essenza, immediatamente, senz'alcuna forma, neppur quella
di soggetto ed oggetto: perché qui il conoscente e il conosciuto
coincidono. Se riportiamo quindi il concetto di forza a quello di
volontà, abbiamo effettivamente ricondotto un'incognita ad un quid
infinitamente più noto, anzi, all'unico che a noi sia davvero
direttamente e compiutamente noto; e la nostra conoscenza ne viene
grandemente, allargata. Se invece sussumiamo, come s'è fatto finora,
il concetto di volontà sotto quello di forza, veniamo a rinunziare
all'unica conoscenza immediata, che abbiamo dell'intima essenza del
mondo, lasciandola perdere sotto un concetto ricavato dal mondo
fenomenico, col quale non possiamo quindi superar la cerchia del
fenomeno.
§ 23.
La volontà come cosa in sé è affatto diversa dal suo fenomeno, e
pienamente libera da tutte le forme di questo, nelle quali appunto,
ella passa all'atto del suo manifestarsi; sì che codeste forme
riguardano la sua obiettità, ma le sono sostanzialmente estranee. La
stessa forma più generale d'ogni rappresentazione – quella
dell'oggetto per un soggetto – non la tocca; ed ancor meno le forme
subordinate alla prima, le quali hanno collettivamente la loro
espressione comune nel principio di ragione. Ad esse appartengono,
com'è noto, anche tempo e spazio, e per conseguenza pur la
pluralità, che solo mediante il tempo e lo spazio esiste e diventa
possibile. Da quest'ultimo punto di vista chiamerò tempo e spazio –
con espressione tolta all'antica scolastica propriamente detta – il
principium individuationis: il che prego di notare una volta per
sempre. Imperocché, per mezzo del tempo e dello spazio ciò che è
tutt'uno nell'essenza e nel concetto apparisce invece diverso, come
pluralità giustapposta e succedentesi; tempo e spazio sono quindi il
principium individuationis, l'oggetto di tante disquisizioni e
contese degli scolastici, le quali si trovan raccolte presso Suarez
(Disp. Metaph., disp. v, sect. 3). Per le ragioni sopraddette, la
volontà come cosa in sé sta fuor del dominio del principio di
ragione in tutte le sue forme, ed è quindi assolutamente senza
ragione, sebbene ogni sua manifestazione sia in tutto sottomessa al
principio di ragione; sta fuori inoltre di ogni pluralità, sebbene
le sue manifestazioni nel tempo e nello spazio siano innumerevoli.
Ella è una, ma non com'è uno un oggetto, la cui unità può esser
conosciuta solo in contrasto con la possibile pluralità; e nemmeno
com'è uno un concetto, che è sorto dalla pluralità mediante
astrazione: bensì è una in quanto sta fuori del tempo e dello
spazio, fuori del principium individuationis, ossia della possibile
pluralità. Solo quando tutto ciò ci sarà diventato intelligibile
appieno, attraverso la seguente considerazione dei fenomeni e delle
varie manifestazioni della volontà, comprenderemo interamente il
senso della dottrina kantiana, per cui tempo, spazio e causalità non
appartengono alla cosa in sé, ma sono semplici forme della
conoscenza.
La mancanza di ragione nella volontà si è effettivamente conosciuta
là, dov'essa si manifesta in modo più palese, come volontà
dell'uomo; e la volontà fu detta libera, indipendente. Ma nello
stesso tempo, appunto per codesta mancanza di ragione, si trascurò
la necessità, a cui è sempre sottomesso il suo fenomeno: e gli atti
furon dichiarati liberi, mentre non sono tali; perché ogni singolo
atto proviene con stretta necessità dall'azione del motivo sul
carattere. Ogni necessità è, come s'è detto, relazione tra causa ed
effetto, e non altro. Il principio di ragione è forma generale di
ciascun fenomeno, e l'uomo nella sua attività, come ogni altro
fenomeno, dev'essergli sottomesso. Ma poiché nella coscienza
personale la volontà vien conosciuta direttamente ed in sé, in
codesta coscienza v'è anche la consapevolezza della libertà.
Nondimeno si dimentica che l'individuo, la persona, non è volontà
come cosa in sé, bensì fenomeno della volontà; e come tale già
determinato, già passato nella forma del fenomeno, nel principio di
ragione. Di qui viene il fatto singolare, che ciascuno a priori si
ritiene del tutto libero, anche nelle sue singole azioni; e ritiene
di poter iniziare ad ogni momento un nuovo indirizzo di vita quasi
diventando un altro. Ma a posteriori, attraverso l'esperienza,
s'accorge con suo stupore di non esser libero, bensì sottomesso alla
necessità; che malgrado tutti i propositi e le riflessioni, non muta
il suo modo d'agire, e dal principio alla fine di sua vita è
costretto a trascinar quel carattere ch'egli medesimo disapprova,
quasi recitasse fino all'ultimo una parte. Non posso qui sviluppare
più a lungo questa considerazione, che per la sua natura etica
spetta ad altro luogo della presente opera. Qui voglio intanto
semplicemente ricordare, che il fenomeno della volontà in sé, priva
di ragione, è tuttavia, in quanto fenomeno, sottomesso alla legge di
necessità, ossia al principio di ragione. E voglio ricordarlo,
perché la necessità, con cui avvengono i fenomeni della natura, non
sia d'impedimento a vedere in questi le manifestazioni della
volontà.
Finora furon considerati fenomeni della volontà solo quelle
modificazioni, le quali non hanno altra causa che un motivo, ossia
una rappresentazione. Perciò in tutta la natura si attribuiva una
volontà soltanto all'uomo, e tutt'al più agli animali; perché il
conoscere, il rappresentare, come ho già notato altrove, è la
genuina ed esclusiva caratteristica dell'umanità. Ma che la volontà
agisca anche là dove nessuna conoscenza la guida, vediamo subito
dall'istinto e dalle tendenze meccaniche degli animali36. Che essi
abbiano rappresentazioni e conoscenza, non è cosa che ora ci
riguardi; imperocché lo scopo, al quale essi dirigono la loro azione
quasi fosse un motivo conosciuto, rimane ad essi del tutto ignoto.
Perciò il loro agire avviene in quel caso senza motivo, non è
guidato dalla rappresentazione, e ci mostra immediatamente e
chiarissimamente, che la volontà agisce anche senz'alcuna
conoscenza. L'uccello di un anno non ha nessuna rappresentazione
delle uova, per le quali costruisce un nido; un giovine ragno non ne
ha della preda, per la quale tesse una rete; non il formicaleone
della formica, a cui per la prima volta scava una fossa; la larva
del cervo volante fora il legno, dove vuol compiere la sua
metamorfosi; e quando essa vuol diventare un insetto mascolino, il
foro è doppio di quando vuol diventare femmina, per dar posto alle
corna, delle quali non ha ancor nessuna rappresentazione. In tali
atti di codesti animali è pur palesemente in gioco la volontà, come
nelle altre loro azioni; ma essa agisce in un'attività cieca, la
quale è bensì accompagnata dalla conoscenza, ma non ne è guidata.
Ora, se ci siamo persuasi che la rappresentazione, come motivo, non
è punto necessaria ed essenziale condizione dell'attività del
volere, conosceremo più facilmente l'effetto della volontà in casi
dov'è meno appariscente. Per esempio, non attribuiremo il guscio
della chiocciola ad una volontà guidata da conoscenza, ma estranea
alla chiocciola stessa, come non pensiamo che la casa da noi stessi
costruita sorga per effetto d'una volontà che non sia la nostra; ma
questa casa e la casa della chiocciola conosceremo quali opere della
volontà, oggettivantesi in entrambi i fenomeni; volontà, che opera
in noi secondo motivi, e nella chiocciola ciecamente, come un
impulso costruttivo rivolto al di fuori. Anche in noi la stessa
volontà agisce in vari modi ciecamente: in tutte le funzioni del
nostro corpo, che nessuna conoscenza guida, in tutti i suoi processi
vitali e vegetativi, digestione, circolazione del sangue,
secrezione, sviluppo, riproduzione. Non solo le azioni del corpo, ma
il corpo medesimo è in tutto e per tutto, come abbiamo mostrato,
fenomeno della volontà, volontà oggettivata, volontà concreta: tutto
ciò, che in esso accade, deve quindi accadere per effetto di
volontà; sebbene qui codesta volontà non sia diretta dalla
conoscenza, né determinata da motivi, ma agisca ciecamente in
seguito a cause che in tal caso prendono il nome di stimoli.
Chiamo causa, nel senso più stretto della parola, quello stato della
materia che, mentre ne produce necessariamente un altro, subisce a
sua volta una modificazione grande come quella ch'esso produce; la
qual cosa si esprime con la regola «azione e reazione si
equivalgono». Inoltre, con una vera e propria causa l'azione cresce
in proporzione della causa, e così anche la reazione; sì che, una
volta conosciuto il modo d'agire, dal grado d'intensità della causa
si può misurare e calcolare il grado dell'effetto, e viceversa. Tali
cause propriamente dette agiscono in tutti i fenomeni del
meccanismo, chimismo, e così via; insomma, in tutte le modificazioni
dei corpi inorganici. Chiamo invece stimolo quella causa, la quale
non subisce nessuna reazione proporzionata alla sua azione, e la cui
intensità non procede punto parallela di grado con l'intensità
dell'azione, la quale perciò non può esser misurata su quella: anzi
una piccola diminuzione dello stimolo può produrne una grandissima
nell'azione, o anche distruggere del tutto l'azione precedente, etc.
Di tal maniera è ogni azione su corpi organici come tali: da stimoli
dunque, non da semplici cause, procedono tutte le modificazioni
veramente organiche e vegetative nel corpo animale. Ma lo stimolo,
come del resto ogni causa, e com'anche il motivo, non determina mai
altro che il punto, in cui prende a manifestarsi ciascuna forza nel
tempo e nello spazio, non già l'intima essenza della forza
manifestantesi, che noi, secondo la precedente deduzione, conosciamo
per volontà; alla qual volontà riferiamo quindi tanto le consapevoli
quanto le inconsapevoli modificazioni del corpo. Lo stimolo tiene la
via di mezzo, fa da transizione tra il motivo, che è la causalità
penetrata dalla conoscenza, e la causa in senso stretto. Nei singoli
casi lo stimolo s'accosta ora al motivo, ora alla causa, ma si può
tuttavia distinguer sempre da entrambi. Per esempio, il salire dei
succhi nelle piante avviene per stimolo e non si può spiegar con
pure cause, secondo le leggi dell'idraulica o della capillarità;
tuttavia è da queste leggi aiutato, e sta già molto vicino alla pura
modificazione causale. Invece, i movimenti dell'hedysarum gyrans e
della mimosa pudica, per quanto prodotti da semplici stimoli, sono
già molto prossimi a quelli prodotti da motivi, e sembrano quasi
esser passaggio dagli uni agli altri. Il restringersi delle pupille
all'aumentar della luce accade in virtù di stimolo, ma passa già fra
i movimenti prodotti da motivi: esso accade perché la luce troppo
forte impressionerebbe dolorosamente la retina, e noi, per
impedirlo, restringiamo la pupilla. La spinta all'erezione è un
motivo, essendo una rappresentazione; tuttavia essa agisce con la
necessità di uno stimolo, ossia non vi si può resistere, e bisogna
allontanarla per renderla inefficace. Lo stesso si dica degli
oggetti disgustosi, che eccitano tendenza al vomito. Come un vero
intermediario, di tutt'altro genere, tra il movimento prodotto da
stimolo e l'agire in forza d'un motivo conosciuto, abbiamo or ora
considerato l'istinto degli animali. Quale altro intermediario dello
stesso tipo si potrebbe ancora esser tentati di ritener la
respirazione: essendosi discusso se appartenga ai movimenti
volontari o involontari, ossia precisamente se si produca per motivo
o per eccitazione; sì che la si potrebbe forse porre nel mezzo fra
questa e quello. Marshall Hall (On the diseases of the nervous
system, § 293 sg.) dichiara che è una funzione mista, stando sotto
l'influsso parte dei nervi cerebrali (volontari), parte degli
spinali (involontari). Frattanto noi dobbiamo finir tuttavia per
attribuirla alle manifestazioni della volontà prodotte da motivi:
perché altri motivi, ossia semplici rappresentazioni, possono
determinar la volontà a rallentare o accelerare la respirazione; e
questa, come ogni altra azione volontaria, da l'impressione che la
si possa del tutto interrompere, e volontariamente morire
asfissiati. E questo si potrebbe veramente fare, qualora un altro
motivo qualsiasi determinasse con tanta forza la volontà, da vincere
l'imperioso bisogno dell'aria. Secondo alcuni, avrebbe Diogene
effettivamente posto in tal guisa termine alla propria vita (Diog.
Laert., vi, 76). Anche taluni negri pare l'abbiano fatto (F. B.
Osiander, Sul suicidio [1813], pp. 170-80). Avremmo in ciò un forte
esempio dell'influsso di motivi astratti, ossia della prevalenza del
volere propriamente razionale, sul semplice volere animale. In
favore della dipendenza, almeno in parte, della respirazione
dall'attività cerebrale sta il fatto, che l'acido prussico uccide
paralizzando il cervello, e così fermando indirettamente la
respirazione; ma se questa vien prolungata artificialmente, finché
sia passato quello stordimento del cervello, la morte viene evitata.
In pari tempo la respirazione ci fornisce qui incidentalmente il più
bell'esempio del fatto che i motivi agiscono con altrettanto grande
necessità, quanto gli stimoli e le semplici cause in senso
ristretto; e appunto sol da opposti motivi – come pressione da
contropressione – possono esser privati della loro forza. Imperocché
nella respirazione, la possibilità apparente di poterla interrompere
è senza confronto minore che in altri movimenti prodotti da motivi;
essendo il motivo di quella imperioso, presente, di facilissima
soddisfazione, a causa dell'infaticabilità dei muscoli respiratorii;
nulla in generale opponendovisi, ed essendo il tutto favorito dalla
inveterata abitudine dell'individuo. Eppure tutti i motivi agiscono
con la stessa necessità. Il conoscer che la necessità è comune tanto
ai movimenti prodotti da motivi, quanto a quelli prodotti da
stimoli, ci renderà più facile comprendere, che anche quanto avviene
nel corpo organico per effetto di stimoli ed in modo affatto
regolare è tuttavia, nella sua intima essenza, volontà. La quale,
non già in sé, ma in tutti i suoi fenomeni è sottomessa al principio
di ragione, ossia alla necessità37. Non ci fermeremo quindi a
riconoscer che gli animali, come nel loro agire, così in tutto
quanto il loro essere, nella forma del corpo, nell'organizzazione,
sono fenomeni di volontà; ma questa conoscenza immediata, a noi soli
concessa, dell'essenza in sé delle cose, noi trasporteremo anche
alle piante, i cui movimenti avvengono tutti per effetto di stimoli:
poiché la privazione di conoscenza, e del conseguente muoversi per
impulso di motivi, costituisce il solo divario essenziale fra la
pianta e l'animale. Ciò che alla nostra rappresentazione della
pianta apparisce pura vegetazione, cieca forza, noi lo apprezzeremo
nella sua essenza per volontà; e vi riconosceremo quella medesima
forza, che costituisce la base del nostro proprio fenomeno, quale
essa si palesa nella nostra attività, e primieramente in tutta
l'esistenza del nostro corpo.
Un ultimo passo ci rimane da fare: l'estensione del nostro sistema
anche a quelle forze, che agiscono nella natura secondo leggi
generali ed immutabili, conformemente alle quali si producono i
movimenti di tutti quei corpi che, affatto privi di organi, non sono
sensibili allo stimolo e non possono conoscere motivi. La chiave per
l'intendimento delle cose nella loro sostanza in sé – chiave che
sola poteva darci l'immediata cognizione della nostra propria
essenza – dobbiamo ora applicarla anche a questi fenomeni del mondo
inorganico, che sono i più remoti da noi stessi. Ora, se noi li
osserviamo con occhio indagatore; se vediamo il veemente, incessante
impeto, con cui le acque precipitano verso il profondo; la costanza,
con cui il magnete torna sempre a volgersi al polo; lo slancio, con
cui il ferro corre alla calamita; la vivacità, con cui i poli
elettrici tendono a congiungersi, vivacità che viene aumentata dagli
ostacoli, proprio come accade ai desideri umani; se vediamo il
cristallo formarsi quasi istantaneamente, con tanta regolarità di
conformazione, la quale evidentemente è solo una risoluta e precisa
tendenza verso differenti direzioni, irrigidita e fissata d'un
tratto; se osserviamo la scelta, con cui i corpi sottratti ai
vincoli della solidità, e fatti liberi dallo stato liquido, si
cercano, si sfuggono, si congiungono, si separano; se infine
sentiamo direttamente che un peso, la cui tendenza verso terra sia
trattenuta dal nostro corpo, grava e preme incessantemente su di
questo, seguendo la propria unica tendenza; – non ci costerà un
grande sforzo di fantasia il riconoscere, anche a sì gran distanza,
la nostra medesima essenza: quella stessa, che in noi opera secondo
i suoi fini alla luce della conoscenza, mentre qui, nei più deboli
de' suoi fenomeni, opera in modo cieco, sordo, unilaterale ed
invariabile. Ella è sempre una e sempre la stessa in così diverse
manifestazioni, e perciò – come il primo crepuscolo partecipa coi
raggi del pieno meriggio del nome di luce solare – in queste ed in
quelle deve prendere il nome di volontà: il quale contrassegna ciò
che è essenza di ciascuna cosa nel mondo, ed unica sostanza di ogni
fenomeno.
Tuttavia la distanza, o addirittura l'apparenza di un completo
divario tra i fenomeni della natura inorganica, e la volontà, che
noi percepiamo come l'intimo della nostra propria essenza, viene
principalmente dal contrasto fra la regolarità ben determinata
dell'una e l'apparente arbitrio sregolato dell'altra classe di
fenomeni. Nell'uomo l'individualità si afferma poderosamente:
ciascuno ha il suo proprio carattere. Quindi lo stesso motivo non ha
su tutti lo stesso potere, e mille circostanze accessorie, che hanno
posto nell'ampia sfera di conoscenza d'ogni individuo, ma rimangono
ignote agli altri, modificano la sua azione per modo che dal solo
motivo non si può determinare in precedenza l'azione; poiché manca
l'altro fattore, la precisa cognizione del carattere individuale e
della conoscenza che lo accompagna. Invece mostrano qui i fenomeni
delle forze naturali l'altro estremo: queste operano secondo leggi
generali, senza deviazione, senza individualità, in base a
circostanze palesi sottomesse alla più esatta predeterminazione; e
la stessa forza naturale si manifesta identicamente in milioni dei
suoi fenomeni. Per chiarire questo punto, per mostrare l'identica
natura dell'una e indivisibile volontà in tutti i suoi fenomeni
tanto diversi – nei più deboli come nei più forti – dobbiamo in
primo luogo considerare il rapporto, che la volontà come cosa in sé
ha col proprio fenomeno, ossia il rapporto, che il mondo come
volontà ha col mondo come rappresentazione. Ci si aprirà così la
miglior via verso un'indagine profonda di tutta la materia trattata
in questo secondo libro38.
§ 24.
Dal grande Kant abbiamo imparato, che tempo, spazio e causalità, in
tutta la loro legittimità e nella possibilità di tutte le loro
forme, esistono nella nostra conscienza affatto indipendenti dagli
oggetti, che in essi appariscono e ne costituiscono il contenuto.
Ossia, con altre parole, essi possono venir conosciuti sia che si
parta dal soggetto o dall'oggetto: e' si posson quindi denominare,
con egual diritto, modi d'intuizione del soggetto, o anche qualità
dell'oggetto, in quanto è oggetto (per Kant: fenomeno), ossia
rappresentazione. Quelle forme si possono anche considerare come
l'indivisibile confine tra oggetto e soggetto: perciò è bensì vero
che ogni oggetto deve mostrarsi in quelle, ma anche il soggetto –
indipendente dall'oggetto rappresentato – le possiede e le domina
appieno. Ora, se gli oggetti rappresentati in codeste forme non
fossero vuoti fantasmi, ma avessero un significato, dovrebbero
riferirsi a qualcosa, essere espressione di qualcosa, che alla sua
volta non fosse egualmente oggetto, rappresentazione, esistente di
un'esistenza solo relativa al soggetto: di qualcosa, che esistesse
senza dipender da un elemento che le sta di fronte come condizione
essenziale, e dalle forme di questo – ossia non fosse più
rappresentazione, ma cosa in sé. Quindi si potrebbe almeno
domandare: sono quelle rappresentazioni, quegli oggetti, qualche
altra cosa di più, prescindendo dall'essere rappresentazioni,
oggetti del soggetto? E che cosa sarebbero in questo senso? Che
cos'è quell'altro loro aspetto, toto genere diverso dalla
rappresentazione? Che è mai la cosa in sé? La volontà: è stata la
nostra risposta, che tuttavia per ora metto in disparte.
Checché sia la cosa in sé, Kant ha giustamente stabilito che tempo,
spazio e causalità (riconosciuti in seguito da noi come varietà del
principio di ragione, il quale fu alla sua volta riconosciuto come
espressione generale delle forme del fenomeno) non sono sue
determinazioni, ma le vengono attribuiti solo e in quanto la cosa in
sé è divenuta rappresentazione; ossia appartengono solo al suo
fenomeno, e non a lei medesima. Invero, poiché il soggetto li
conosce e costruisce da sé, indipendenti da ogni oggetto, debbono
quelli essere inerenti all'atto di rappresentare in quanto è tale, e
non a ciò che diventa rappresentazione. Debbono esser la forma della
rappresentazione come tale, e non proprietà di ciò che ha assunto
questa forma. Debbono già esser dati con la semplice
contrapposizione di soggetto ed oggetto (non nel concetto, bensì nel
fatto); debbono quindi esser soltanto la precisa determinazione
della forma della conoscenza in genere; della quale codesta
contrapposizione è appunto la determinazione più generale. Ora, ciò
che nel fenomeno, nell'oggetto, è sotto condizione del tempo, dello
spazio e della causalità, in quanto sol per loro mezzo può venir
rappresentato – ossia pluralità, per mezzo di giustapposizione e
successione; mutamento e durata, per mezzo della legge di causalità
e della materia, la quale è rappresentabile unicamente sotto
condizione della causalità; e infine quant'altro non si può
rappresentare senza cotali forme – tutto ciò, in complesso, non è
proprio essenzialmente di quello che apparisce, che è passato nella
forma della rappresentazione: bensì è inerente solo a questa forma
medesima. Viceversa, ciò che nel fenomeno non è sotto condizione di
tempo, spazio e causalità, né si può a questi ricondurre, né con
questi spiegare, sarà appunto l'elemento, nel quale si manifesta
direttamente l'essenza del fenomeno, la cosa in sé. Per conseguenza
la più perfetta conoscibilità, ossia la massima chiarezza, limpidità
ed esauriente perscrutabilità debbono necessariamente toccare a ciò
che è proprio della conoscenza in quanto tale, ossia alla forma
della conoscenza: e non a ciò che, in sé non essendo
rappresentazione, non oggetto, è diventato conoscibile (cioè è
diventato rappresentazione, oggetto) soltanto col passare in tali
forme. Adunque solo quel che dipende dal fatto come tale d'esser
conosciuto, d'esser rappresentato (non da ciò che viene conosciuto
ed è diventato rappresentazione); quel che quindi s'appartiene senza
distinzione a quanto vien conosciuto; quel che per conseguenza può
esser trovato sia muovendo dal soggetto sia dall'oggetto – quello
solo può dar senza riserva una sufficiente e fino al fondo
esauriente conoscenza. E non consiste in altro che nelle forme
d'ogni fenomeno, delle quali siamo consci a priori, che si esprimono
collettivamente nel principio di ragione: le varietà del quale,
riferentisi alla conoscenza intuitiva (con la quale esclusivamente
abbiamo qui da fare), sono tempo, spazio e causalità. Su questi
ultimi soltanto poggia l'intera matematica pura e la pura scienza
naturale a priori. Perciò la conoscenza non trova in queste
discipline alcuna oscurità, non va a urtare contro l'imperscrutabile
(l'infondato, ossia la volontà), contro ciò che non può esser più
dedotto: e sotto questo rispetto anche Kant, come ho detto, voleva
dare di preferenza, anzi esclusivamente a cotali discipline, oltre
che alla logica, il nome di scienze. Ma d'altra parte, siffatte
discipline non ci mostrano altro che semplici rapporti, relazioni
d'una rappresentazione con l'altra, forma senza contenuto. Ciascun
contenuto ch'esse ricevano, ciascun fenomeno che riempia quelle
forme, comprende già qualcosa di non più conoscibile appieno in
tutta la sua essenza, non più spiegabile in tutto mediante un'altra
cosa: ossia alcunché privo di base, per cui la conoscenza
immantinenti perde in evidenza, e si vede mancar la sua perfetta
trasparenza. E questo elemento, che si sottrae all'indagine, è la
cosa in sé; è ciò che essenzialmente non è rappresentazione, non
oggetto di conoscenza, ma che è diventato conoscibile solo passando
in quelle forme. La forma è ad esso dapprima estranea, né esso può
mai diventar tutt'uno con lei, non alla semplice forma venir
ricondotto; e – poiché la forma è il principio di ragione – non può
dar piena ragione di sé. Quindi, se anche tutta la matematica ci dà
compiuta conoscenza di ciò, che nei fenomeni è grandezza, posizione,
numero – in breve, ogni relazione spaziale e temporale –; se tutta
l'etiologia ci indica per intero le regolari condizioni, in cui si
producono i fenomeni, con tutte le loro determinazioni, nel tempo e
nello spazio (senza insegnarci altro con ciò, se non perché ogni
volta ciascun determinato fenomeno debba mostrarsi appunto in un
certo momento in un certo spazio, ed appunto in un certo spazio in
un certo momento): col loro aiuto tuttavia non penetreremo mai
nell'intima essenza delle cose. Rimane sempre alcunché
d'inaccessibile ad ogni spiegazione, che anzi ogni spiegazione deve
presupporre: ossia le forze della natura, il determinato modo
d'agire delle cose, la qualità, il carattere di ciascun fenomeno,
ciò che non ha perché, ciò che non dipende dalla forma del fenomeno,
dal principio di ragione; ciò a cui questa forma in sé è estranea,
ma che è entrato in lei e si manifesta secondo la sua legge. La
quale legge determina nondimeno soltanto il fenomeno, e non
l'essenza del fenomeno; la forma, e non il contenuto. Meccanica,
fisica, chimica insegnano le regole e le leggi, secondo le quali
agiscono le forze dell'impenetrabilità, gravità, solidità, fluidità,
coesione, elasticità, calore, luce, affinità elettive, magnetismo,
elettricità etc.: ossia quella legge, quella regola che codeste
forze seguono, ogni qual volta si manifestano nel tempo e nello
spazio. Ma le forze in se stesse rimangono, per quanto si faccia,
qualitates occultae. Imperocché la cosa in sé, la quale nel
manifestarsi presenta quei fenomeni, è per l'appunto da essi affatto
diversa: in tutto soggetta bensì, nel suo manifestarsi, al principio
di ragione come alla forma della rappresentazione, ma tale da non
potervi esser ricondotta ella medesima, e quindi etiologicamente
inesplicabile a fondo, né mai suscettibile d'essere spiegata
appieno; comprensibilissima tuttavia in quanto è fenomeno, ossia in
quanto ha assunto quella forma, ma per nulla spiegata da codesta
comprensibilità. Per conseguenza, quanta più necessità trae seco una
conoscenza, quanto più è in lei di ciò che non può esser pensato e
rappresentato altrimenti – come per esempio le relazioni spaziali –,
quanto più chiara e soddisfacente ella diviene: tanto meno contenuto
oggettivo comprende, o tanto minore realtà è in lei data. O
viceversa, quanto più in lei può essere giudicato del tutto
contingente, quanto più ci viene offerto di puro dato empirico,
tanto più di vero elemento oggettivo ed effettivamente reale è in
codesta conoscenza: ma in pari tempo, tanto più d'inesplicabile,
ossia non deducibile da altro.
In tutti i tempi, invero, un'etiologia ignara del proprio fine si è
sforzata di far risalire ogni vita organica a chimismo, o
elettricità; ogni chimismo, ossia qualità, a meccanismo (azione
mediante la forma degli atomi); e quest'ultimo, in parte all'oggetto
della foronomia (ossia al tempo e allo spazio congiunti per la
possibilità del movimento), in parte alla geometria pura (ossia
posizione nello spazio); – press'a poco come, a buon diritto, si
costruisce in geometria pura il decrescere di un'azione in ragione
del quadrato della distanza, e la teoria della leva. La geometria
finalmente si risolve nell'aritmetica; la quale, a causa dell'unità
di dimensione, è la forma del principio di ragione più facile a
comprendere, a dominare. Prove del metodo qui indicato in generale
sono: gli atomi di Democrito, il vortice di Cartesio, la fisica
meccanica di Lesage, che sulla fine del secolo scorso tentò di
spiegare meccanicamente, mediante l'urto e la pressione, tanto le
affinità chimiche quanto la gravitazione, come si può più
minutamente vedere nel Lucrèce Neutonien. A quella mira tende anche
Reil con la dottrina della forma e del miscuglio, come causa della
vita animale: della stessa natura è anche il rozzo materialismo
appunto ora, a mezzo il secolo XIX, nuovamente ravvivato, e per
ignoranza reputantesi originale. Il materialismo, con una stupida
negazione della forza vitale, vorrebbe dapprima spiegare i fenomeni
della vita con forze fisiche e chimiche, e queste alla lor volta far
provenire dall'attività meccanica della materia, dalla situazione,
dalla forma, e dal movimento di certi sognati atomi; e così tutte le
forze della natura far risalire all'urto ed alla ripercussione, che
sarebbero la «cosa in sé» del materialismo. Per conseguenza,
dovrebbe perfino la luce esser la vibrazione meccanica, o
addirittura l'ondulazione di un etere immaginario e postulato a tal
fine: il quale, per così dire, suona il tamburo sulla retina, dove
per esempio 483 bilioni di colpi di tamburo al secondo danno il
color rosso, e 727 bilioni il violetto, e così via. I daltonici
sarebbero dunque coloro, che non possono contare i colpi di tamburo:
non è vero? Cotali crasse, meccaniche, democritee, pesanti e
veramente informi teorie sono degne di gente che, cinquant'anni dopo
l'apparir della teoria goethiana dei colori, crede ancora alle luci
omogenee di Neuton e non si vergogna di dirlo. Costoro
apprenderanno, come ciò che si perdona al fanciullo (a Democrito)
non può essere scusato nell'uomo. Un giorno potrebbero perfino
finire molto male: ma ognuno allora se la svigna, con l'aria di
dire: io non c'ero! Dovremo presto riparlar di questo falso ricondur
le forze naturali l'una all'altra: qui basti di ciò. Ammesso che le
cose andassero così, sarebbe invero tutto spiegato a fondo, anzi
ricondotto da ultimo ad un problema di calcolo, che verrebbe ad
essere il Santissimo nel tempio della sapienza, cui arriveremmo
guidati felicemente dal principio di ragione. Ma tutto il contenuto
del fenomeno sarebbe svanito, rimanendo la semplice forma: il che
cosa appare, sarebbe ridotto al come appare; e questo come sarebbe
il conoscibile a priori, quindi in tutto dipendente dal soggetto,
solo pel soggetto esistente; e per conseguenza, infine, un puro
fantasma, rappresentazione e forma della rappresentazione in tutto e
per tutto: non si potrebbe più andare in cerca di nessuna cosa in
sé. Posto che così fosse, allora veramente sarebbe il mondo intero
dedotto dal soggetto: e si farebbe effettivamente ciò che Fichte con
le sue ciarle vuote voleva fingere di fare. Ma la cosa non sta così:
a quel modo si costruivano fantasie, sofisticazioni, castelli in
aria, ma non scienza. Si è riusciti – e fu, ogni volta, un vero
progresso – a far risalire i molti e svariati fenomeni della natura
a poche forze originarie; molte forze e qualità, prima ritenute
diverse, sono state dedotte le une dalle altre (per esempio, il
magnetismo dall'elettricità), diminuendone così il numero:
l'etiologia avrà toccato la meta, quando avrà conosciuto e fissato
come tali tutte le forze elementari della natura, e stabilito i loro
modi d'agire; ossia la regola, con cui si producono nel tempo e
nello spazio i loro fenomeni, seguendo il filo conduttore della
causalità, determinandosi a vicenda il loro posto. Ma sempre
avanzeranno forze prime; sempre avanzerà, come insolubile residuo,
un contenuto dei fenomeni, che non si può ridurre alla loro forma,
ossia spiegare con qualcos'altro secondo il principio di ragione.
Imperocché in ogni cosa della natura è alcunché, la cui ragione non
può mai essere indicata, di cui nessuna spiegazione è possibile,
nessuna causa è da cercare più oltre: e ciò è il modo specifico
della sua attività, ossia appunto il modo del suo essere, la sua
essenza. Si può certamente d'ogni singola azione dell'oggetto
mostrare una causa, dalla quale deriva ch'esso debba agire proprio
in un dato momento, in un dato luogo: ma del fatto ch'esso in genere
agisca, e agisca così, nessuna. Se anche non ha nessun'altra
proprietà, se è un atomo di polvere nel sole, mostra tuttavia nel
peso e nell'impenetrabilità quel quid imperscrutabile. Ora questo,
io dico, è ad esso, quel che all'uomo è la volontà; e, come questa,
non è nella sua intima essenza soggetto a spiegazione, anzi è in sé
identico a lei. Certo, che per ogni manifestazione del volere, per
ogni singolo atto di questo in un certo tempo e luogo, si può
indicare un motivo a cui quell'atto, dato il carattere dell'uomo,
doveva necessariamente seguire. Ma dell'aver l'uomo questo
carattere, anzi della facoltà stessa di volere; e del fatto, che fra
molti motivi per l'appunto questo e nessun altro, o addirittura che
un qualunque motivo muova la sua volontà: di tutto ciò non si può
dar ragione alcuna. Quel ch'è per l'uomo il suo proprio
imperscrutabile carattere, presupposto indispensabile d'ogni
spiegazione dei suoi atti condotti da motivi, è per ogni corpo
organico la sua essenziale qualità, il modo della sua attività. Le
manifestazioni di codesta attività sono provocate da un'influenza
esterna; mentre il suo modo, ossia la qualità essenziale, non è da
nulla determinato fuor che da se stesso, ed è quindi inesplicabile.
I suoi singoli fenomeni – ne' quali soltanto ella diviene visibile –
sono sottomessi al principio di ragione: ma ella non sottosta a
ragione. Ciò avevano già gli scolastici esattamente riconosciuto, e
chiamato forma substantialis (si veda Suarez, Disp. metaph., disp.
XV, sect. 1).
È un errore tanto grosso quanto comune, il pensar che siano i più
frequenti, più generali e più semplici fenomeni quelli, che noi
meglio comprendiamo: mentre sono semplicemente quelli, a cui si sono
meglio abituati il nostro sguardo e la nostra ignoranza. Che una
pietra cada in terra, ci è tanto inesplicabile quanto il vedere
muoversi un animale. Si è ritenuto, com'è detto più sopra, che
partendo dalle più generali forze di natura (per esempio
gravitazione, coesione, impenetrabilità) si potessero spiegare con
esse le forze più rare ed operanti solo in circostanze combinate
(per esempio qualità chimica, elettricità, magnetismo); poi
finalmente con queste l'organismo e la vita degli animali, e perfino
dell'uomo. Ci si accordò tacitamente nel proposito di partire da
pure qualitates occultae, che si rinunziava a chiarire, avendo
intenzione di costruirci sopra e non di scavarle da sotto. Impresa
siffatta non può, come ho detto, riuscire. Ma, anche prescindendo da
ciò, un simile edifizio sarebbe sempre campato in aria. A che
giovano spiegazioni, che da ultimo conducono ad un termine
altrettanto sconosciuto quanto il primo problema? Si arriva forse,
alla fine, a capir dell'intima essenza di quelle universali forze
della natura più che non si capisse dell'intima essenza d'un
animale? Non è l'una cosa inesplicata quanto l'altra?
Imperscrutabile, perché senza ragione, perché è il contenuto, la
sostanza del fenomeno, la quale non può mai esser ridotta alla forma
di esso, al come, al principio di ragione. Ma noi, che qui abbiamo
di mira non l'etiologia, bensì la filosofia, ossia non la relativa
ma l'assoluta cognizione dell'essenza del mondo, battiamo la via
opposta, e muoviamo da quel che conosciamo direttamente, nel modo
più pieno, e che ci è più famigliare; moviamo da quel che ci sta più
vicino, per comprendere ciò che ci è noto solo da lontano,
unilateralmente e mediatamente: e dal fenomeno più vivace, più
significante, più chiaro vogliamo apprendere a capire il meno
compiuto e più debole. Di tutte le cose – eccettuato il mio proprio
corpo – è a me conosciuto un solo aspetto, quello della
rappresentazione: la loro intima essenza mi rimane chiusa, ed è un
profondo mistero, anche se io conosco tutte le cause, in seguito a
cui si producono le loro modificazioni. Solo dal confronto con ciò
che accade in me se, mentre un motivo mi scuote, compie il mio corpo
un'azione – il che è l'intima essenza delle mie proprie
modificazioni prodotte da fattori esterni – posso penetrare il modo
con cui quei corpi inanimati si modificano sotto azione di cause, e
comprendere così che cosa sia l'intima essenza loro; poiché il
conoscer la causa, per cui quell'essenza si manifesta, mi dà
semplicemente la regola del suo entrar nel tempo e nello spazio, ma
non più. E questo confronto posso fare, perché il mio corpo è
l'unico oggetto del quale io non un solo aspetto – quello della
rappresentazione – conosca: bensì anche l'altro aspetto, che si
chiama volontà. Invece adunque di credere, ch'io capirei la mia
propria organizzazione, e quindi il mio conoscere e volere e
muovermi in seguito a motivi, se io potessi tutto ridurre a
movimento prodotto da cause quali elettricità, chimismo, meccanismo:
io devo viceversa – in quanto cerco filosofia, e non etiologia – dai
miei propri movimenti, effetto di motivi, imparare a capir dapprima,
nella loro intima essenza, anche i più semplici e comuni movimenti
del corpo inorganico, ch'io vedo provocati da cause; e le
imperscrutabili forze, che in tutti i corpi della natura si
manifestano, riconoscere identiche, nel modo, con ciò che in me è la
volontà, e solo per grado diverse da questa. In altre parole: la
quarta classe di rappresentazioni, stabilita nella memoria sul
principio di ragione, deve fornirmi la chiave per la conoscenza
della prima classe; e dalla legge di motivazione devo apprendere a
capire la legge di causalità, nel suo intimo significato.
Dice Spinoza (Epist. 62) che la pietra lanciata nell'aria
crederebbe, se avesse coscienza, di volare per sua propria volontà.
Io aggiungo soltanto, che la pietra avrebbe ragione. Il lancio è per
lei, quel che per me è il motivo; e ciò che nella pietra apparisce
come coesione, peso, permanenza nello stato acquisito, è,
nell'intima essenza, il medesimo, ch'io conosco in me come volontà,
e che anch'essa come volontà conoscerebbe, se acquistasse
conoscenza. Spinoza, in quel passo, aveva rivolta l'attenzione alla
necessità, con cui la pietra vola; e cercò, con ragione, di
ragguagliarla alla necessità dei singoli atti volontari d'una
persona. Io ho di mira invece l'intima essenza, che è la sola a dar
significato e valore ad ogni necessità reale (ossia effetto da
causa) come suo presupposto; e chiamandosi nell'uomo carattere,
nella pietra qualità, è nondimeno la stessa in entrambi. Là, dov'è
immediatamente conosciuta, si chiama volontà; e ha nella pietra il
più debole, nell'uomo il più alto grado di visibilità, di obiettità.
Quest'essenza, identica nella nostra volontà e nell'attività di
tutte le cose, già conobbe con giusto sentimento sant'Agostino, e
non posso astenermi dal riportare qui la sua ingenua espressione del
fatto: «Si pecora essemus, carnalem vitam et quod secundum sensum
ejusdem est amaremus, idque esset sufficiens bonum nostrum, et
secundum hoc si esset nobis bene, nihil aliud quaereremus. Item, si
arbores essemus, nihil quidem sentientes motu amare possemus:
verumtamen id quasi appetere videremur, quo feracius essemus,
uberiusque fructuosae. Si essemus lapides, aut fluctus, aut ventus,
aut fiamma, vel quid ejusmodi, sine ullo quidem sensu atque vita,
non tamen nobis deesset quasi quidam nostrorum locorum atque ordinis
appetitus. Nam velut amores corporum momenta sunt ponderum, sive
deorsum gravitate, sive sursum levitate nitantur: ita enim corpus
pendere, sicut animus amore fertur quocumque fertur» (De civ. Dei,
xi, 28).
Merita ancora d'esser notato, che già Euler comprese dover l'essenza
della gravitazione esser ricondotta ad una particolare «tendenza e
brama» dei corpi – quindi volontà (nella 68a lettera alla
Principessa). Questo lo allontana anzi dal concetto della
gravitazione, quale è formulato da Neuton; ed egli è disposto a
tentarne una modificazione secondo l'anterior teoria cartesiana:
derivar cioè la gravitazione dall'urto di un etere sui corpi.
Diventerebbe così «più razionale e più confacente a coloro che amano
principi chiari ed afferabili». L'attrazione egli vuol vederla
bandita, come qualitas occulta, dalla fisica. Il che è appunto
conforme alla morta concezione della natura che dominava ai tempi di
Euler, come correlato dell'anima immateriale; ma è nondimeno degna
di nota, sotto il rispetto della verità fondamentale da me
stabilita. La vedeva balenar da lungi, questo fine cervello: ma
tosto s'affrettò a volgersi da un'altra parte e, nel suo timore di
veder minacciate tutte le capitali concezioni d'allora, cercò
perfino salvezza in vecchie e già smesse assurdità.
§ 25.
Sappiamo che la pluralità in genere è necessariamente determinata da
tempo e spazio, e può esser pensata solo in questi, che noi per tal
rispetto chiamiamo prindpium individuationis. Ma tempo e spazio
abbiamo conosciuti come forme del principio di ragione, nel qual
principio si esprime tutta la nostra conoscenza a priori. E questa,
come abbiamo più sopra spiegato, appunto in quanto tale, si
riferisce solo alla conoscibilità delle cose, non alle cose stesse;
ossia è solamente la nostra forma di conoscenza, non proprietà della
cosa in sé. La cosa in sé, in quanto tale, è libera da ogni forma
della conoscenza, anche da quella più generale dell'essere oggetto
per il soggetto; ossia è qualcosa d'affatto diverso dalla
rappresentazione. Ora, se la cosa in sé, com'io credo d'aver
sufficientemente provato e reso chiaro, è la volontà; questa,
considerata in quanto tale e isolata dal suo fenomeno, sta dunque
fuori del tempo e dello spazio, e non conosce quindi alcuna
pluralità: essa è una. Non tuttavia, secondo ho già detto, com'è uno
un individuo o un concetto: bensì come alcunché, a cui sia estranea
la condizione della pluralità possibile, il principium
individuationis. La pluralità delle cose nello spazio e nel tempo,
che insieme formano la sua obiettità, non tocca perciò la volontà; e
questa rimane, senza riguardo a quelli, indivisibile. Né per
avventura è una minor parte di lei nella pietra, una maggiore
nell'uomo: imperocché il rapporto di parte e di tutto appartiene
esclusivamente allo spazio, e non ha più senso quando si prescinda
da codesta forma d'intuizione. Il più e il meno è cosa che tocca
solo il fenomeno, ossia la visibilità, la obiettivazione.
Quest'ultima è in più alto grado nella pianta che nella pietra,
nell'animale che nella pianta: la volontà resa visibile, la sua
obiettivazione, ha tante infinite gradazioni, quante ne passano tra
il più incerto crepuscolo e la più sfolgorante luce solare, tra il
più forte suono e l'eco più impercettibile. Torneremo a considerare
in seguito questi gradi della visibilità, che appartengono
all'obiettivazione della volontà, al riflesso della sua essenza. Ma
meno ancora di quanto i gradi della sua obiettivazione tocchino
direttamente la volontà, la tocca la pluralità dei fenomeni in tali
diversi gradi, ossia la massa degli individui d'ogni forma, o delle
singole manifestazioni d'ogni forza; poiché codesta pluralità è
immediatamente sottoposta alla condizione del tempo e dello spazio,
che rimangono fuori della volontà. La volontà si palesa tutta e con
egual forza in una quercia, come in milioni di querce. Il lor
numero, la loro moltiplicazione nello spazio e nel tempo, non ha
significato alcuno rispetto a lei, ma solo rispetto alla pluralità
degli individui conoscenti nello spazio e nel tempo, ed appunto
perciò moltiplicati e dispersi, ma la cui pluralità alla sua volta
riguarda solo il fenomeno della volontà, non la volontà medesima.
Perciò si potrebbe anche affermare che se, per impossibile, un unico
essere – fosse pure l'infimo – venisse del tutto annientato, sarebbe
con lui annientato il mondo intero. Col sentimento di questa verità
dice il grande mistico Angelus Silesius:
Ich weiss, dass ohne mich Gott nicht cin Nu kann leben:
Werd'ich
zunicht; er muss von Noth den Geist aufgeben.39
Si è tentato in vari modi di rendere accessibile alla comprensione
di ciascuno la smisurata grandezza dell'universo, e toltone motivo a
considerazioni edificanti, come per avventura quella intorno alla
relativa piccolezza della terra, ed anche dell'uomo; poi d'altra
parte – in contrasto con la prima – quella intorno alla grandezza
dello spirito in quest'uomo così piccolo, che può avvertire e
comprendere, anzi misurare, l'immenso mondo. Benissimo! Per me
intanto, nel misurar l'incommensurabilità del mondo, è questo il
principale: che l'essenza in sé, della quale il mondo è fenomeno –
sia poi essa quel che le piace – non può di certo aver così spezzato
e disperso il suo vero essere nello spazio infinito; questa infinita
estensione appartiene unicamente al suo fenomeno, mentr'essa è
presente in ciascun essere vivente, tutta intera e indivisa. Non si
perde quindi nulla, quando ci si ferma ad un solo individuo; né la
vera sapienza s'acquista col misurare a fondo lo sconfinato
universo, o col trasvolar di persona – il che sarebbe ancor più atto
al proposito – lo spazio infinito. Ma s'acquista bensì indagando
bene addentro un qualsivoglia singolo, cercando di comprenderne
appieno la vera e propria essenza.
Sarà perciò materia d'ampia trattazione nel libro seguente un
argomento, che già dev'essersi qui affacciato con forza ad ogni
scolaro di Platone: che cioè questi differenti gradi
d'obiettivazione del volere – i quali, espressi in individui
inumerevoli, stanno come gl'irraggiungibili modelli di questi, o
come le forme eterne delle cose, senza rientrar nel tempo e nello
spazio, che sono il medium degli individui: stanno fermi, a nessun
mutamento soggetti, sempre esistenti, mai divenuti, mentre
gl'individui nascono e periscono, sempre diventano e non mai sono –
che, dicevo, questi gradi d'oggettivazione della volontà altro non
siano, se non le idee di Platone. Vi accenno qui di sfuggita, per
poter usare d'ora innanzi la parola idea in questo senso, la quale
dunque, usata da me, è sempre da comprendere nel suo vero e
originario significato, attribuitole da Platone, né va punto confusa
con quegli astratti prodotti della ragione scolasticamente
dogmatizzante, riferendosi ai quali Kant abusò in modo sì
inopportuno come inesatto d'una parola, che Platone aveva fatta
propria ed usata ottimamente a proposito. Per idea intendo adunque
ogni determinato ed immobile grado di obiettivazione della volontà,
in quanto esso è cosa in sé, e sta quindi fuor della pluralità.
Codesti gradi stanno ai singoli oggetti, come le loro forme eterne,
o i loro modelli. La più breve e precisa espressione di quel celebre
dogma platonico ci è data da Diogene Laerzio (in, 12): ὁ Πλατων
φησι, εν τη φυσει τας ιδεας ἑσταναι, καθαπερ παραδειγματα τα δ‛αλλα
ταυταις εοικεναι, τουτων ὁ μοιωματα καθεστωτα. (Plato ideas in
natura velut exemplaria dixit subsistere; cetera his esse similia,
ad istarum similitudinem consistentia.) Sull'abuso kantiano non mi
diffondo: il necessario in proposito è detto nell'Appendice.
§ 26.
Come infimo grado dell'obiettivazione della volontà, si presentano
le forze più generali della natura; le quali per una parte
appariscono in ogni materia senza eccezione (come peso,
impenetrabilità), e per l'altra si sono ripartite alla rinfusa in
tutta la materia esistente, sì che alcune dominano su questa, altre
su quella materia, la quale appunto da ciò viene ad essere
specificata. Queste ultime sono, per esempio, solidità, fluidità,
elasticità, elettricità, magnetismo, proprietà chimiche e qualità
d'ogni sorta. In sé, esse sono fenomeni immediati della volontà,
altrettanto quanto l'attività umana; e come tali non hanno
fondamento di ragione, a modo del carattere dell'uomo; solo i loro
singoli fenomeni sono sottomessi al principio di ragione, come le
azioni umane. Non possono adunque mai avere il nome di effetto o di
causa, ma sono invece le antecedenti e presupposte condizioni di
tutte le cause e di tutti gli effetti, per mezzo dei quali si svolge
e palesa la loro intima essenza. È dunque cosa stolta domandar la
causa del peso, dell'elettricità: sono codeste forze originarie, le
cui manifestazioni si producono bensì per causa ed effetto, in modo
che ogni loro singolo fenomeno ha una causa, la quale a sua volta è
un consimile fenomeno singolo, e fa sì che quella forza debba
manifestarsi producendosi nel tempo e nello spazio; ma non è mai la
forza stessa effetto d'una causa, né causa d'un effetto. Quindi è
anche falso il dire: «il peso è causa della caduta della pietra»;
causa è piuttosto la vicinanza della terra, che attira la pietra. La
forza in sé sta completamente fuori della catena delle cause e degli
effetti, la quale presuppone il tempo, avendo significato soltanto
in ordine a questo: mentre quella sta anche fuori del tempo. La
singola modificazione ha per causa, ogni volta, un'altra singola
modificazione; ma non così la forza, che in lei si palesa. Poiché
ciò, che appunto fornisce l'attività ad una causa – agisca pure
questa innumerevoli volte – è una forza naturale, priva come tale
del fondamento di ragione; ossia sta del tutto fuor della catena
delle cause, e in genere fuor del dominio del principio di ragione.
E viene conosciuta filosoficamente come immediata obiettità del
volere, che è l'in-sé di tutta la natura. Nell'etiologia – nel caso
presente, nella fisica – è indicata come forza primitiva, ossia
qualitas occulta.
Nei gradi superiori dell'obiettità della volontà, vediamo farsi
efficacemente avanti l'individualità, in particolar modo nell'uomo,
come gran distinzione di caratteri individuali, ossia compiuta
personalità; espressa anche esteriormente da una fisonomia
individuale nettamente segnata, la quale comprende l'intera
conformazione del corpo. Un tal grado di personalità non hanno
nemmeno alla lontana gli animali; soltanto gli animali superiori ne
hanno una lieve impronta, sulla quale domina tuttavia ancora in
tutto e per tutto il carattere della specie, sì che perciò appena si
disegna la fisonomia individuale. Quanto più si discende, tanto più
ogni traccia di carattere individuale si perde nel carattere
generale della specie, la cui fisonomia finisce col regnare da sola.
Si conosce il carattere psicologico della specie, e se ne deduce ciò
che bisogna attendersi dall'individuo; mentre invece nella specie
umana ogni individuo vuol essere studiato e scrutato per sé. E
questo è difficilissimo, quando si voglia determinare in
anticipazione con qualche sicurezza la condotta di un uomo; perché
con la ragione è sottentrata la possibilità della finzione.
Verosimilmente con questa differenza della specie umana da tutte le
altre ha rapporto il fatto, che i solchi e le circonvoluzioni del
cervello, i quali negli uccelli mancano del tutto e nei roditori
sono ancora molto deboli, negli animali superiori sono dalle due
parti molto più simmetrici e costanti che nell'uomo40. Inoltre è da
considerar come un fenomeno di quello special carattere individuale,
distinguente l'uomo da tutti gli animali, il fatto che presso gli
animali l'istinto sessuale cerca di soddisfarsi senza una visibile
scelta; mentre codesta scelta nell'uomo – e in modo istintivo,
indipendente da ogni riflessione – è spinta tant'oltre, da salir
fino alla possente passione. Così, mentre ciascun uomo va guardato
come un fenomeno della volontà particolarmente determinato e
caratterizzato, anzi in certo modo come un'idea a parte, negli
animali questo carattere individuale manca del tutto, avendo la
specie sola un significato caratteristico; e la sua traccia sempre
più svanisce, man mano che gli animali si allontanano dall'uomo; le
piante finalmente non hanno più alcuna particolarità individuale, se
non quelle che si possono spiegare con i favorevoli o sfavorevoli
influssi esterni del suolo e del clima, e con altre circostanze
casuali. Così ogni individualità finisce con lo svanire del tutto
nel regno inorganico della natura. Soltanto il cristallo è ancora in
certo modo da considerarsi come individuo: esso è l'unità d'una
tendenza verso determinate direzioni, irrigidita, che rende duratura
l'orma di tale tendenza; esso è in pari tempo un aggregato
risultante da una figura centrale, costituito a unità da un'idea,
proprio come l'albero è un aggregato venuto dalla singola
germogliante radice, che si riproduce e si ripete in ogni nervatura
di foglia, in ogni foglia, in ogni ramo: ed in certo qual modo
ciascuna di queste parti appare come un vegetale a sé, il quale da
parassita si nutre del vegetale grande: sì che l'albero, come il
cristallo, è un aggregato sistematico di piccole piante – sebbene il
tutto sia la compiuta presentazione di un'idea indivisibile, ossia
d'un certo determinato grado d'obiettivazione della volontà. Ma
gl'individui della stessa specie di cristalli non possono aver fra
loro altra distinzione, che quella prodotta da accidentalità
esteriori: si può perfino far cristallizzare ogni specie, a piacere,
in cristalli grandi o piccoli. L'individuo come tale, ossia con le
impronte d'un carattere individuale, non si trova assolutamente più
nella natura inorganica. Tutti i fenomeni di questa sono
manifestazioni di forze naturali generali, ossia di quei gradi
d'obiettivazione della volontà, i quali non si obiettivano punto
(come nella natura organica) nelle varie individualità, che
esprimono parzialmente la totalità dell'idea; bensì si manifestano
soltanto nella specie, e tutte intere in ogni singolo fenomeno,
senz'alcuna deviazione. Poiché tempo, spazio, pluralità e
determinazione causale non appartengono alla volontà, né all'idea
(al grado d'obiettivazione della volontà), ma soltanto ai singoli
fenomeni di questa, deve in tutti i milioni di fenomeni di una tra
cotali forze naturali (per esempio del peso o dell'elettricità)
prodursi questa esattamente nello stesso modo, e solo le circostanze
esterne possono modificare il fenomeno. Tale unità della sua
essenza, in tutte le sue manifestazioni, tale incrollabile costanza
della sua presenza, non appena, seguendo il filo conduttore della
causalità, se ne trovino raccolte le condizioni, si chiama legge
naturale. Conosciutane una sperimentalmente, si può con esattezza
prevedere e calcolare la manifestazione della forza naturale, il cui
carattere è in quella espresso e registrato. È appunto questa
regolarità dei fenomeni nelle classi inferiori della obiettivazione
della volontà, che dà loro un aspetto tanto diverso dalle
manifestazioni della volontà medesima nei gradi più alti, ossia più
distinti, della sua obiettivazione – negli animali, negli uomini e
nella loro attività. Qui il maggiore o minor rilievo del carattere
individuale, e l'impulso dei motivi (i quali, stando nella
conoscenza, rimangono spesso celati allo spettatore), hanno fatto
finora misconoscere del tutto l'identità dell'intima essenza nei due
generi di fenomeni.
L'infallibilità delle leggi naturali ha – se si muove dalla
conoscenza del singolo e non da quella dell'idea – alcunché di
sorprendente, anzi, a volte, di quasi terrificante. C'è da stupire,
che la natura non dimentichi neppure una volta le sue leggi: che,
per esempio, se è conforme ad una legge naturale che nell'incontro
di certe sostanze, in determinate condizioni, abbia luogo una
combinazione chimica, uno sviluppo di gas, una combustione;
ripetendosene le condizioni sia per nostra volontà, sia per caso
(dove la regolarità è tanto più sorprendente quanto più
inaspettata), oggi come mille anni fa si produca immediatamente e
senza indugio il fenomeno determinato. Questa meraviglia proviamo
più vivacemente per certi rari fenomeni producentisi solo in
circostanze molto complicate, ma preannunziatici per quando codeste
circostanze si offrano; come, per esempio, se certi metalli si
toccano a vece alterna tra loro e con un liquido acido, e foglioline
d'argento poste fra le estremità di questa concatenazione devono
improvvisamente consumarsi in verdi fiamme; o come il duro diamante,
che sotto certe condizioni si trasforma in acido carbonico. È la
magica onnipresenza delle forze naturali, che allora ci sorprende; e
qui osserviamo quel che non ci colpisce più nei fenomeni quotidiani,
ossia come la relazione tra causa ed effetto sia in verità
misteriosa quanto quella, di cui si favoleggia, tra una formula
magica e lo spirito che da lei evocato deve necessariamente
comparire. Se invece siano penetrati addentro nel comprendere
filosoficamente, che una forza naturale è un determinato grado
nell'obiettivazione della volontà, cioè di quella che noi stessi
riconosciamo come nostra più intima essenza; e che codesta volontà
in sé, e distinta dal suo fenomeno e dalle forme di questo, sta
fuori del tempo e dello spazio, sì che la pluralità, da tempo e
spazio determinata, non a lei, né direttamente al grado della sua
obiettivazione (ossia all'idea) compete, bensì soltanto ai suoi
fenomeni; mentre la legge di causalità invece ha significato
soltanto in relazione col tempo e con lo spazio, assegnando in
questi il posto dovuto ai molteplici fenomeni delle diverse idee in
cui la volontà si manifesta, e determinando l'ordine in cui devono
prodursi; – se a noi, io dico, si è così svelato l'intimo senso
della grande teoria kantiana, che tempo, spazio e causalità non
appartengano alle cose in sé, ma esclusivamente al fenomeno, e siano
forme della nostra conoscenza, non qualità della cosa in sé: in tal
caso ci renderemo conto, che quello stupirsi della regolarità e
puntualità, con cui agisce una forza naturale, e della piena
identità di tutti i suoi milioni di fenomeni, e del loro immancabile
prodursi, è invero paragonabile allo stupore d'un bambino o d'un
selvaggio, il quale, guardando per la prima volta un fiore
attraverso un cristallo faccettato, si meravigli della perfetta
identità degli innumerevoli fiori che vede, e conti ad uno ad uno i
petali d'ogni fiore.
Ogni general forza primitiva della natura è adunque nella sua intima
essenza nient'altro che l'obiettivazione della volontà in un grado
inferiore: cotal grado chiamiamo idea eterna, nel senso platonico.
Invece la legge naturale è la relazione dell'idea con la forma del
suo fenomeno. Codesta forma è tempo, spazio e causalità – i quali
hanno fra loro necessario, indissolubile nesso e rapporto. Mediante
tempo e spazio si moltiplica l'idea in fenomeni innumerevoli; e
l'ordine, con cui questi rientrano in quelle forme della
molteplicità, è rigidamente determinato dalla legge causale. Questa
è come la norma del limite tra quelle manifestazioni d'idee diverse;
in base alla quale sono ripartiti tra' fenomeni il tempo, lo spazio
e la causalità. Tale norma si riferisce quindi necessariamente
all'identità di tutta una data materia, la quale è il sostrato
comune di quei differenti fenomeni. Se questi non fossero tutti in
rapporto ad una materia comune, nel cui possesso vanno distribuiti,
non occorrerebbe più una tal legge per fissare i loro diritti:
potrebbero tutti contemporaneamente, gli uni presso gli altri,
riempire lo spazio infinito per un tempo infinito. Quindi solo per
il fatto che tutti quei fenomeni delle eterne idee appartengono ad
una stessa materia, doveva sorgere una regola del loro prodursi e
del loro cessare; altrimenti nessuno farebbe posto all'altro.
Pertanto la legge di causalità è collegata essenzialmente con quella
della permanenza della sostanza: entrambe acquistano sol nel
reciproco rapporto un significato; né diversamente si comportano
rispetto ad esse tempo e spazio. Imperocché la pura possibilità di
opposte determinazioni nella stessa materia è il tempo; la pura
possibilità del permaner della stessa materia in tutte le opposte
determinazioni è lo spazio. Perciò dichiarammo nel precedente libro
esser la materia una combinazione di tempo e spazio; la qual
combinazione si mostra come mutar d'accidenti nel permanere della
sostanza, di cui è possibilità generale appunto la causalità, ossia
il divenire. Pertanto dicemmo anche esser la materia in tutto e per
tutto causalità. L'intelletto dichiarammo correlato soggettivo della
causalità, e dicemmo esister la materia (quindi il mondo intero come
rappresentazione) soltanto per l'intelletto, essendo questa la
condizione, il suo sostegno, come suo necessario correlato. Tutto
ciò non è che un rapido ricordo di quanto è esposto nel primo libro.
Il por mente all'intimo accordo dei due libri è richiesto per la lor
piena comprensione; imperocché, ciò che nel mondo reale è
indissolubilmente congiunto, costituendone i due aspetti – volontà e
rappresentazione – è in questi due libri con violenza separato, col
fine di poter ciascuno aspetto più esattamente conoscere, quando sia
isolato dall'altro.
Non sarebbe forse superfluo render più evidente con un esempio come
la legge di causalità abbia significato solo in rapporto al tempo,
allo spazio ed alla materia, che risulta dalla combinazione
d'entrambi; questa essendo la legge che determina i confini, entro
cui le manifestazioni delle forze naturali si dividono il possesso
della materia; mentre le naturali forze originarie medesime, come
immediate obiettivazioni della volontà, la quale in quanto cosa in
sé non è sottomessa al principio di ragione, stanno fuor di quelle
forme. Intanto solo in quelle forme ha valore e significato ogni
spiegazione etiologica, ed appunto perciò l'etiologia non può mai
condurre fino all'intima essenza della natura. Immaginiamoci, a tal
fine, una macchina costruita secondo le leggi della meccanica. Pesi
di ferro danno principio al movimento; ruote di rame resistono con
la loro rigidità, si urtano e sollevano l'una con l'altra e muovono
le leve, in grazia della propria impenetrabilità, e così via. Peso,
rigidità, impenetrabilità sono qui forze primitive non dimostrate:
la meccanica dà soltanto il modo, con cui tali forze si manifestano,
entrano in campo, dominano una data materia, un dato tempo e luogo.
Intanto, per avventura può una forte calamita agire sul ferro dei
pesi, vincere la gravità; allora il moto della macchina s'arresta, e
la materia è d'un tratto il campo d'una nuova forza affatto diversa,
il magnetismo: ma anche questa volta la spiegazione etiologica non
sa dirci altro, se non le condizioni in cui quella si presenta.
Oppure, i dischi di rame di quella macchina vengono poggiati su
lamine di zinco, introducendovisi frammezzo un liquido acido:
immediatamente la materia della macchina cade in potere di un'altra
forza primitiva, del galvanismo, che la domina ora secondo le
proprie leggi, ed in lei si palesa mediante i propri fenomeni, dei
quali egualmente l'etiologia altro non può dire, se non le
circostanze in cui si mostrano e le leggi che li governano. Lasciamo
ora crescere la temperatura, e prodursi del puro ossigeno: tutta la
macchina arde; ossia ancora una diversa forza naturale, il chimismo,
ha in questo istante, in questo luogo, l'incontrastata padronanza di
quella materia, e in lei si manifesta come idea, come un determinato
grado nell'obiettivazione della volontà. Ora, l'ossido metallico in
tal guisa formatosi, lo combino con un acido: un sale si forma, si
dispone in cristalli; questi sono il fenomeno di un'altra idea, a
sua volta affatto imperscrutabile, mentre il comparir della sua
manifestazione dipendeva da quelle condizioni che l'etiologia sa
indicare. I cristalli si disgregano, si mischiano con altre
sostanze, una vegetazione vi spunta: una nuova manifestazione di
volontà; – e così la stessa permanente materia si potrebbe seguire
all'infinito, e vedere come ora l'una, ora l'altra forza naturale
acquisti un diritto su di lei e ineluttabilmente lo ghermisca, per
entrare in campo e manifestare la propria essenza. La legge di
causalità fa conoscere la determinazione di questo diritto, il punto
del tempo e dello spazio in cui esso divien valido; ma la
spiegazione fondata su di lei non va più oltre. La forza in se
stessa è un fenomeno della volontà, e come tale non sottomessa al
principio di ragione, ossia senza fondamento di ragione. Essa sta
fuori di tutti i tempi, è onnipresente, e sembra attender
costantemente il presentarsi delle circostanze, nelle quali può
prodursi ed impadronirsi d'una data materia, respingendo la forza
che fino a quel momento vi dominava. Il tempo tutto esiste solo per
il suo fenomeno, ma non ha importanza per lei; le forze chimiche
sonnecchiano per millenni in una materia, prima d'esser liberate dal
contatto dei reagenti. Allora appariscono: ma il tempo esiste solo
per questa manifestazione, non per le forze medesime. Per millenni
sonnecchia il galvanismo nel rame e nello zinco, e questi giacciono
quietamente accanto al ferro; il quale, non appena tutti e tre si
toccano nelle condizioni volute, deve andare in fiamme. Perfino nel
regno organico vediamo un seme disseccato conservare per tremila
anni la forza addormentata, che, presentandosi finalmente le
circostanze favorevoli, si sviluppa in pianta41.
Ora, se dopo codesta considerazione ci si è fatta chiara la
differenza della forza naturale da tutti i suoi fenomeni; se abbiamo
compreso, che quella forza è la volontà stessa in un dato grado
della sua obiettivazione, ma che ai soli fenomeni, mediante tempo e
spazio, appartiene la pluralità, e la legge di causalità non è altro
che la determinazione dei singoli fenomeni in un punto del tempo e
dello spazio: conosceremo allora anche la piena verità ed il senso
profondo della dottrina di Malebranche intorno alle cause
occasionali. Questa dottrina, com'egli la espone nelle Recherches de
la vérité, particolarmente nel terzo capitolo della seconda parte
del sesto libro e negli éclaircissements aggiunti al medesimo
capitolo, vale la pena di confrontarla con la mia presente
esposizione, notando il perfettissimo accordo delle due dottrine,
malgrado tanta diversità nel procedimento del pensiero. Anzi, mi
stupisce che Malebranche, tutto irretito nei dogmi positivi, che
l'età sua irresistibilmente gl'imponeva, abbia tuttavia saputo,
malgrado quei vincoli, sotto un tal peso, coglier con tanta
giustezza il vero ed accordarlo con quei dogmi – o almeno con la
lettera di essi.
Gli è che il potere della verità è incredibilmente grande e
d'indicibile tenacia. Ne troviamo le tracce frequenti in tutti,
anche nei più bizzarri o addirittura più assurdi dogmi di età e
paesi diversi: spesso, è vero, in singolare compagnia, in mescolanze
stupefacenti – ma tuttavia riconoscibili. La verità rassomiglia a
una pianta, che germogli sotto un mucchio di grosse pietre, e
tuttavia s'inerpichi verso la luce, affannandosi, con mille rigiri e
contorcimenti, deformata, impallidita – ma pur verso la luce.
Malebranche ha senza dubbio ragione: ogni causa naturale è solo
causa occasionale, dà solo occasione, spinta, alla manifestazione di
quell'una e indivisibile volontà, che è l'in sé di tutte le cose; e
la cui graduale obiettivazione costituisce tutto questo mondo
visibile. Il solo prodursi, farsi visibile in un dato luogo, in un
dato tempo, è provocato dalla causa, e da questa per tal rispetto
dipendente; ma non l'insieme del fenomeno, non la sua intima
essenza. Questa è la volontà medesima, su cui non ha potere il
principio di ragione, ed è quindi senza fondamento di ragione.
Nessuna cosa al mondo ha un'assoluta e generica causa della sua
esistenza: bensì soltanto una causa per cui essa appare per
l'appunto in un dato luogo e in un dato tempo. Che una pietra or
mostri peso, ora solidità, ora elettricità, ora proprietà chimiche,
dipende da cause, da influenze esterne, e con queste si spiega; ma
quelle qualità medesime, ossia la sua essenza, che di tali qualità
risulta, e si manifesta per conseguenza in tutti quei modi indicati:
e il fatto d'esser la pietra quale è, anzi il fatto d'esistere in
genere, non ha ragione alcuna, bensì è la manifestazione della
incausata volontà. Ogni causa è quindi causa occasionale. Così
abbiamo veduto stare le cose nella natura incosciente: ma non
diversamente stanno anche là, dove non più cause e stimoli, ma
motivi sono, che determinano il prodursi dei fenomeni: ossia nella
condotta degli animali e degli uomini. Imperocché qui come colà è
una medesima volontà, che si palesa, diversissima nei gradi della
sua manifestazione, moltiplicata nei fenomeni di questa, e per
rispetto a questa sottomessa al principio di ragione, ma in sé del
tutto libera. I motivi non determinano il carattere dell'uomo, ma
soltanto la manifestazione di codesto carattere, ossia gli atti; la
configurazione esteriore del suo cammino vitale, non l'intimo
significato e contenuto di esso: i quali provengono dal carattere,
che è immediato fenomeno della volontà, ossia non fondato su
ragione. Che un uomo sia cattivo, un altro buono, non dipende da
motivi e da influenza esterna, né da dottrine e prediche; ed è in
questo senso assolutamente inesplicabile. Ma se un cattivo mostra la
sua cattiveria in meschine ingiustizie, in vili macchinazioni, in
basse furfanterie, esercitate nella ristretta cerchia che lo
circonda, o se da conquistatore opprime i popoli, e tutto un mondo
precipita nella disperazione, e versa il sangue di milioni d'uomini:
questa è la forma esteriore, con cui la volontà si manifesta, la sua
parte non essenziale, dipendente dalle circostanze in cui il destino
ha posto quell'uomo, dall'ambiente, dagl'influssi esteriori, dai
motivi. Sempre inesplicabile rimarrà invece il fatto di obbedire a
tali motivi: esso risulta dalla volontà, di cui quell'uomo è
manifestazione. Di ciò si tratterà nel quarto libro. Il modo onde il
carattere dispiega le sue qualità si può esattamente paragonare a
quello, onde ogni corpo della natura incosciente mostra le proprie.
Con tutte le sue insite qualità, l'acqua rimane acqua, sia che
essendo lago tranquillo rifletta le proprie rive, sia che
spumeggiando precipiti sulle rocce, o per forza d'artificio sprizzi
con alto zampillo verso il cielo. Queste varie disposizioni
dipendono dalle circostanze esterne, l'una le è naturale come
l'altra; e l'acqua mostra o l'una o l'altra secondo le circostanze,
egualmente disposta a tutto, ma in ogni caso fedele al proprio
carattere e sempre questo solo carattere manifestando. Non
altrimenti si manifesterà in qualsivoglia circostanza ciascun
carattere umano: ma saranno diverse le sue manifestazioni, come
diverse saranno le circostanze.
§ 27.
Se da tutte le precedenti considerazioni sopra le forze della natura
e le lor manifestazioni ci si è reso chiaro fin dove possa giungere
la spiegazione fondata sulle cause, e dove bisogna che s'arresti, se
non vuol precipitar nell'insensato sforzo di ridurre tutti i
fenomeni alla loro semplice forma, sì che alla fine nulla rimanga se
non la forma; potremo ora fissare in generale ciò che si può
pretendere da ogni etiologia. L'etiologia deve per tutti i fenomeni
della natura indagare le cause, ossia le circostanze in cui
costantemente i fenomeni si producono: ma poi deve ricondurre i
fenomeni, diversamente atteggiati da multiformi circostanze, a ciò
che in ogni fenomeno agisce e dalla causa viene presupposto, alle
elementari forze della natura; nettamente distinguendo, se una
differenza del fenomeno proviene da una differenza della forza, o
soltanto da una differenza delle circostanze in cui la forza si
manifesta; e guardandosi bene sì dal creder fenomeno di forze
diverse ciò, che è manifestazione di una forza unica in circostanze
diverse, sì viceversa dal creder manifestazioni di un'unica forza
ciò, che in origine appartiene a forze differenti. Ora, a questo
occorre immediato giudizio; perciò così pochi uomini sono capaci di
allargare le cognizioni nella fisica, mentre tutti sono capaci di
allargare l'esperienza. Pigrizia ed ignoranza dispongono a
richiamarsi troppo presto alle forze originarie: come si vede, in
un'esagerazione che sembra ironia, nelle entità e quiddità degli
scolastici. Niente è più lontano dal mio intendimento, che il
favorire un ritorno di queste. Non è lecito riferirsi
all'obiettivazione della volontà, invece di dare una spiegazione
fisica, più che non sia lecito riferirsi alla forza creatrice di
Dio. Imperocché la fisica esige cause, e la volontà non è mai causa.
Il suo rapporto col fenomeno non è mai conforme al principio di
ragione. Ma ciò che è in sé volontà, per un altro verso esiste come
rappresentazione, ossia è fenomeno: come tale segue le leggi, che
costituiscono la forma del fenomeno: perciò deve ad esempio ogni
movimento, sebbene sia ognora fenomeno di volontà, aver tuttavia una
causa, in base alla quale esso è da spiegare in relazione ad un
determinato tempo e luogo, ossia non in generale nella sua intima
essenza, ma come fenomeno singolo. Questa causa è meccanica nella
pietra, è un motivo nel movimento dell'uomo: ma mancare non può mai.
Invece, l'universale, la comune essenza di tutti i fenomeni d'una
data specie, ciò senza la cui premessa non avrebbe senso né
significato alcuna spiegazione causale – questo è la general forza
naturale, che nella fisica deve rimaner come qualitas occulta,
appunto perché qui la spiegazione etiologica s'arresta e la
metafisica incomincia. Ma la catena delle cause e degli effetti non
viene mai spezzata da una forza primitiva, a cui ci si debba
riferire, né risalire a questa come a suo primo anello; bensì tanto
il più prossimo quanto il più lontano anello della catena già
presuppone la forza originaria, senza la quale non potrebbe nulla
spiegare. Una serie di cause ed effetti può esser la manifestazione
delle forze più differenti, il cui successivo prodursi nella
visibilità è guidato da quella serie, come ho sopra spiegato con
l'esempio d'una macchina metallica; ma la varietà di queste forze
primitive, non deducibili l'una dall'altra, non interrompe in nessun
modo l'unità di quella catena di cause e la connessione fra tutti i
suoi anelli. L'etiologia della natura e la filosofia della natura
non si pregiudicano vicendevolmente mai, ma procedono parallele, il
medesimo oggetto guardando da differenti punti di vista. L'etiologia
dà conto delle cause, che hanno prodotto necessariamente il singolo
fenomeno da spiegarsi, e mostra a fondamento di ogni sua spiegazione
le forze generali attive in tutte codeste cause ed effetti,
determina tali cause con precisione, il loro numero, le lor
differenze, e quindi tutti gli effetti, in cui ciascuna forza,
secondo la diversità delle circostanze, si produce diversamente ma
sempre in conformità del suo speciale carattere dispiegato secondo
una regola infallibile, che si chiama legge naturale. Quando la
fisica ha compiutamente sotto ogni rispetto esaurito questo compito,
è giunta alla mèta: poiché nessuna forza nella natura organica
rimane ignota e nessuna azione sussiste, che non sia dimostrata
fenomeno d'una di quelle forze, sotto certe determinate condizioni.
Per conseguenza una legge naturale non è se non la semplice regola,
osservata nella natura, secondo cui questa si comporta ogni volta in
determinate circostanze, tosto che si mostrino; quindi si può invero
definire la legge naturale come un fatto formulato in forma
generale, un fait généralisé, sì che una completa esposizione di
tutte leggi naturali non sarebbe che un completo registro di fatti.
L'esame di tutta la natura viene dunque compiuto mediante la
morfologia, la quale enumera, paragona ed ordina tutte le forme
costanti della natura organica; sulla causa dell'apparirvi dei
diversi esseri ha poco da dire, essendo questa per tutti la
generazione (la cui teoria sta a sé) e in rari casi la generatio
(equivoca. A quest'ultima, in senso stretto, appartiene anche la
maniera, con cui si manifestano nel caso singolo tutti i gradi
inferiori dell'obiettità della volontà, ossia i fenomeni fisici e
chimici; e l'indicar le condizioni di codesto manifestarsi è appunto
compito dell'etiologia. La filosofia invece considera dovunque – e
quindi anche nella natura – soltanto l'universale: qui sono suo
argomento le forze primitive stesse, ed in queste ella conosce i
diversi gradi d'obiettivazione della volontà che è l'intima
sostanza, l'in-sè del mondo; il quale mondo è dalla filosofia
dichiarato – se prescinde dalla volontà – semplice rappresentazione
del soggetto. Ora se l'etiologia, invece di aprire il cammino alla
filosofia e fornire le prove applicate delle sue dottrine, tiene per
propria mèta il negar tutte le forze primitive meno forse una sola,
la più generale, per esempio l'impenetrabilità, immaginandosi di
comprenderla a fondo ed a lei riconducendo con violenza tutte le
altre; viene con ciò a sottrarre a se stessa la propria base, e può
soltanto fornire errore in luogo di verità. Il contenuto della
natura viene allora cacciato, per mettere al suo posto la forma;
tutto viene attribuito alle circostanze agenti, nulla all'intima
essenza delle cose. Se veramente si venisse a questo, il problema
del mondo finirebbe con l'esser risolto, come ho detto, a modo d'un
problema d'aritmetica. E tal via si percorre, quando, come fu già
osservato, ogni azione fisiologica dev'essere ricondotta a forma e
combinazione, quindi per avventura ad elettricità; questa poi a
chimismo, e questo ancora a meccanismo. Tale fu l'errore per esempio
di Cartesio e di tutti gli atomisti, che riducono il movimento dei
corpi celesti all'urto di un fluido, e la qualità alla connessione
ed alla forma degli atomi; ed in tal caso lavorano a spiegare tutte
le manifestazioni della natura come semplici fenomeni di
impenetrabilità e coesione. Per quanto ci si sia ricreduti di questo
errore, fanno tuttavia lo stesso anche ai nostri giorni i fisiologi
elettrici, chimici e meccanici, che ostinatamente vogliono spiegare
tutte le funzioni dell'organismo con la «forma e combinazione» dei
suoi elementi costitutivi. Che fine della spiegazione fisiologica
sia il ridur la vita organica alle forze generali studiate dalla
fisica, si trova ancor detto nell'Archivio di fisiologia del Meckel,
1820, vol. 5, p. 185. Anche Lamarck nella sua Philosophte
zoologique, vol. 2, cap. 3 definisce la vita quale un semplice
effetto del calore e dell'elettricità: «le calorique et la matière
électrique suffisent parfaitement pour composer ensemble cette cause
essentielle de la vie» (p. 16). Calore ed elettricità sarebbero
quindi propriamente la cosa in sé, e fenomeno di questa il mondo
animale e vegetale. L'assurdità di quest'opinione salta crudamente
fuori a p. 306 della stessa opera. È universalmente noto che ai
nostri giorni tutte quelle concezioni così spesso balzate fuori,
sono tornate in campo con nuova audacia. A guardar bene, hanno per
supremo presupposto, che l'organismo sia solamente un aggregato di
fenomeni di forze fisiche, chimiche e meccaniche, le quali riunitesi
per caso avrebbero prodotto l'organismo, come un giuoco di natura,
senz'altro significato. L'organismo di un animale o dell'uomo non
sarebbe quindi, filosoficamente considerato, rappresentazione di una
idea a sé, ossia non sarebbe obiettità immediata della volontà, in
un dato grado superiore; bensì apparirebbero in esso unicamente
quelle idee, che obiettivano la volontà nell'elettricità, nel
chimismo, nel meccanismo. E l'organismo sarebbe quindi a caso
accozzato dall'incontro di queste forze, come le figure d'uomini e
d'animali formate dalle nuvole o dalle stalattiti, né più
interessanti di queste. Vedremo subito fino a qual segno le
spiegazioni fisiche e chimiche applicate all'organismo entro certi
limiti possano esser lecite ed utili, man mano ch'io verrò
esponendo, come la forza vitale si valga bensì e faccia uso delle
forze della natura inorganica, ma non sia costituita da esse, più
che il fabbro non sia costituito dall'incudine e dal martello.
Perciò nemmeno la semplicissima vita vegetale può essere spiegata
con quelle forze, come per esempio con la capillarità e l'endosmosi,
e tanto meno la vita animale. La considerazione che segue ci apre la
via a questa difficile trattazione.
È veramente – in virtù di quanto s'è detto – una aberrazione della
scienza naturale, il voler ridurre i più alti gradi dell'obiettità
della volontà ai più bassi; poiché il misconoscere e negare forze
naturali primitive e di per sé esistenti è altrettanto errato,
quanto l'ammetter senza fondamento forze speciali, quando si ha
semplicemente una special manifestazione di forze già note. Kant
dice adunque con ragione essere assurdo lo sperare in un Neuton del
filo d'erba, ossia in colui, che saprà ridurre il filo d'erba a
fenomeno di forze fisiche e chimiche, delle quali esso sarebbe una
concreazione casuale, come un semplice giuoco di natura, in cui non
apparisse alcuna idea speciale, ossia nessuna volontà si
manifestasse immediatamente in grado elevato e particolare; ma
soltanto come nei fenomeni della natura organica, e fissato per caso
in quella forma. Gli scolastici, i quali non avrebbero in nessun
modo concesso alcunché di simile, avrebbero detto con piena ragione,
che questo sarebbe un negar del tutto la forma substantialis, e un
abbassarla a forma accidentalis. Imperocché la forma substantialis
d'Aristotele designa appunto ciò ch'io chiamo grado
dell'obiettivazione della volontà in un oggetto. D'altra parte, non
va dimenticato che in tutte le idee, ossia in tutte le sfere della
natura inorganica ed in tutti gli aspetti dell'organica, è una
volontà unica che si manifesta, ossia passa nella forma della
rappresentazione, nell'obiettità. La sua unità deve quindi darsi a
conoscere anche a traverso un'intima parentela fra tutte le sue
manifestazioni. Ora, questa parentela si palesa nei gradi più alti
della sua obiettità, dove tutta la manifestazione è più chiara,
ossia nel regno vegetale ed animale, con analogia ovunque diffusa di
tutte le forme, col tipo fondamentale, che si ritrova in tutti i
fenomeni: questo è perciò diventato il principio direttivo
dell'eccellente sistema zoologico iniziato in questo secolo dai
francesi, e vien dimostrato nel modo più perfetto nell'anatomia
comparata, come l'unite du pian, l'uniformité de l'élément
anatomique. L'andarne in cerca è stata anche la principale impresa o
almeno il più lodevole sforzo dei filosofi naturali della scuola di
Schelling, che hanno vari meriti in questo proposito, pur se in
molti casi la loro caccia alle analogie nella natura degeneri in
pura sottigliezza forzata. Con ragione hanno mostrata quella general
parentela ed aria di famiglia anche nelle idee della natura
inorganica, per esempio fra elettricità e magnetismo (la cui
identità fu più tardi constatata), fra attrazione chimica e peso, e
così via. In particolar modo hanno richiamata l'attenzione sul fatto
che la polarità, ossia lo sdoppiarsi di una forza in due attività
qualitativamente diverse, opposte, e tendenti a ricongiungersi (il
che si rivela il più delle volte anche nello spazio mediante una
scissione verso direzioni opposte) è tipo fondamentale di quasi
tutti i fenomeni della natura, dal magnete e dal cristallo fino
all'uomo. Questa conoscenza è dai più remoti tempi corrente in Cina,
nella dottrina del contrasto del Yin e del Yang. Anzi, appunto
perché tutte le cose del mondo sono obiettità di un'unica identica
volontà, identiche quindi nell'intima essenza, non solo deve
trovarsi fra loro quell'innegabile analogia, e deve in ogni fenomeno
meno perfetto apparir la traccia, l'accenno, la preparazione del più
prossimo fenomeno d'ordine superiore; ma ancora, poiché tutte quelle
forme insomma non appartengono al mondo se non come
rappresentazioni, si può perfino ammettere, che già nelle più
generali forme della rappresentazione, in questa vera e propria
armatura di sostegno del mondo visibile, ossia nello spazio e nel
tempo, sia da cercare e mostrare il tipo fondamentale, l'accenno, la
preparazione di tutto ciò che quelle forme riempie. Sembra che un
oscuro presentimento di questa verità abbia dato origine alla
Cabbala ed a tutta la filosofia matematica dei Pitagorici, nonché
dei cinesi nel Y-king: ed anche nella ricordata scuola di Schelling
troviamo, fra gli svariati sforzi per mettere in luce l'analogia di
tutti i fenomeni della natura, anche qualche tentativo, sia pure
infelice, di derivar leggi di natura dalle semplici leggi dello
spazio e del tempo. Intanto non si può sapere fino a che punto un
intelletto geniale potrà un giorno attuare queste tendenze.
Ora, sebbene non si debba mai perder di vista la differenza tra
fenomeno e cosa in sé, né quindi possa mai l'identità della volontà
obiettivata in tutte le idee esser volta falsamente a identità delle
singole idee in cui si manifesta (perché ha gradi determinati della
propria obiettità), sì che per esempio l'attrazione chimica o
elettrica non possa esser ricondotta all'attrazione della gravità –
quand'anche se ne riconosca l'intima analogia, e le prime possano
quasi esser considerate come più alte potenze di quest'ultima – più
di quanto l'intima analogia della struttura animale consenta di
confondere e identificare le specie, considerando le più perfette
come varietà delle meno perfette; se dunque infine anche le funzioni
fisiologiche non son mai da ricondurre a processi chimici o fisici,
è lecito nondimeno, a giustificazione di codesto metodo entro dati
limiti, ammettere con molta verisimiglianza quanto segue.
Se fra i fenomeni della volontà, nei gradi più bassi della sua
obiettivazione, ossia nel regno inorganico, vengono a conflitto fra
loro alcuni di quei fenomeni, volendo ciascuno impadronirsi d'una
data materia secondo la legge di causalità, balza fuor d'una tal
contesa la manifestazione di un'idea più elevata, la quale domina
tutte le meno perfette idee precedenti; ma tuttavia sì da lasciarne
sussistere l'essenza in maniera subordinata, accogliendone in sé un
riflesso analogo; il qual procedimento è comprensibile solo in
ragione dell'identità della volontà manifestantesi in tutte le idee,
e della tendenza, che ha la volontà, verso un'obiettivazione sempre
più alta. Vediamo per esempio nell'indurirsi delle ossa
un'innegabile analogia con la cristallizzazione, quale dominava fin
dall'origine della calce – sebbene l'ossificazione non possa esser
ricondotta alla cristallizzazione. Più debole appare l'analogia nel
solidificarsi della carne. Così la miscela dei succhi nel corpo
animale e la secrezione sono analoghi alla combinazione e
separazione chimica; anzi le leggi di queste vigono ancora in
quelle, sebbene subordinate, assai modificate, signoreggiate da
un'idea più alta, per modo che semplici forze chimiche, fuori
dell'organismo, non produrrebbero mai quei succhi; ma
Encheiresin naturae nennt es die Chemie,
Spottet ihrer selbst und
weiss nicht vie42.
L'idea od oggettivazione della volontà di grado superiore, balzata
da questa vittoria su più idee di grado inferiore, acquista –
appunto perché accoglie in sé da quelle idee vinte alcunché
d'analogo elevato a più alta potenza – un carattere del tutto nuovo:
la volontà si obiettiva in un nuovo modo più netto: sorge, dapprima
per generatio aequivoca, poi per assimilazione a un dato germe, il
succo organico, la pianta, l'animale, l'uomo. Adunque dalla contesa
di fenomeni inferiori proviene il fenomeno più elevato, che tutti li
divora, ma nondimeno attua in sé in grado più alto la tendenza di
tutti. Domina quindi già qui la legge: serpens, nisi serpentem
comederit, non fit draco.
Vorrei che mi fosse riuscito di vincer con la chiarezza
dell'esposizione l'oscurità di questi pensieri, inerente
all'argomento: ma vedo benissimo, che deve venirmi largamente in
aiuto la meditazione personale del lettore, se non voglio rimanere
incompreso o mal compreso. In conformità del punto di vista
accennato, si potranno bensì mostrar nell'organismo le tracce di
azioni chimiche e fisiche, ma non mai spiegare quello con queste;
non essendo esso punto un fenomeno prodotto dall'azione combinata di
tali forze, ossia venuto su per caso, ma un'idea più alta, la quale
ha sottomesso a sé le idee inferiori mediante una vittoriosa
assimilazione. Poiché l'unica volontà, obiettivantesi in tutte le
idee, nel mentre tende ad un'obiettivazione la più alta possibile,
depone qui i gradi più bassi del proprio fenomeno, dopo un loro
conflitto, per apparir di tanto più forte in un grado più elevato.
Nessuna vittoria senza lotta: l'idea superiore, o superiore
obiettivazione della volontà, pur, potendo venire soltanto dalla
sconfitta delle inferiori, deve subir la resistenza di queste; le
quali, sebbene ridotte a servitù, tendono ancora sempre a pervenire
alla libera e compiuta manifestazione della loro essenza. Come la
calamita, che ha sollevato un pezzo di ferro, sostiene una lotta
continuata contro la gravità – la quale, essendo la più bassa
obiettivazione della volontà, ha un diritto originario sulla materia
di quel ferro –; ed in questa permanente battaglia la calamita si
rafforza, quasi eccitata dalla resistenza ad uno sforzo maggiore:
così ogni fenomeno di volontà – anche quello che si presenta
nell'organismo umano – sostiene una diuturna lotta contro le molte
forze fisiche e chimiche, le quali, essendo idee inferiori, hanno un
precedente diritto su quella materia. Cade perciò il braccio, che
per un po' s'è tenuto sollevato facendo violenza alla gravità; e
quindi il piacevole senso di salute, esprimente la vittoria che
l'idea dell'organismo conscio di sé riporta sulle leggi fisiche e
chimiche, le quali in origine dominavano gli umori vitali, è così
spesso interrotto, anzi a dir vero sempre accompagnato da un certo
maggiore o minore malessere, che nasce dalla resistenza di quelle
forze. Così anche la parte vegetativa della nostra vita è legata
perennemente ad una leggera sofferenza. Anche la digestione deprime
tutte le funzioni animali, assorbendo tutta la forza vitale per
domare con l'assimilazione le forze naturali chimiche. Da ciò
proviene in genere il peso della vita fisica, la necessità del sonno
e poi della morte, quando finalmente, col favore delle circostanze,
quelle forze naturali soggiogate riprendono all'organismo, stanco
per la stessa sua continuata vittoria, la materia già loro
strappata, e pervengono alla libera esplicazione della loro essenza.
Si può pertanto dire che ogni organismo rappresenti l'idea di cui è
immagine, solo facendo la tara delle parti di sua forza, impiegate a
vincere le idee inferiori che gli contendono la materia. Questo
sembra esser balenato a Jacob Bohm, quand'egli dice essere in verità
mezzo morti tutti i corpi degli uomini e degli animali, ed anche
tutte le piante. Secondo che all'organismo riesca più o meno di
vincer quelle forze naturali, esprimenti i gradi inferiori
dell'obiettità della volontà, esso diventa espressione più o meno
perfetta della propria idea, ossia sta più vicino o più lontano
dall'ideale, che nella specie di codesto organismo rappresenta la
bellezza.
Così vediamo dappertutto nella natura contesa, battaglia, e
alternanze di vittorie; ed in ciò appunto conosceremo più
chiaramente d'ora innanzi l'essenziale dissidio della volontà da se
medesima. Ogni grado nell'obiettivazione della materia contende
all'altro la materia, lo spazio, il tempo. Senza tregua deve la
permanente materia mutar di forma, mentre, seguendo il filo
conduttore della causalità, fenomeni meccanici, fisici, chimici,
organici, facendo avidamente ressa per venire alla luce, si
strappano l'un l'altro la materia stessa – poiché ciascuno vuol
rendere manifesta la propria idea. Nella natura intera si continua
questa lotta; anzi, solo per essa la natura sussiste: ει γαρ μη ην
το νεικος εν τοις πραγμασιν, ἑν αν ην ἁπαντα, ὡς φησιν Εμπεδοκλης.
(nam si non inesset in rebus contentio, unum omnia essent, ut ait
Empedocles. Arist., Metaph., B, 5): essendo appunto questa lotta la
rivelazione del dissidio essenziale tra la volontà e se stessa.
Questa lotta universale raggiunge la più chiara evidenza nel mondo
animale, che ha per proprio nutrimento il mondo vegetale; ed in cui
inoltre ogni animale diventa preda e nutrimento d'un altro; ossia
deve cedere la materia, in cui si rappresentava la sua idea, per la
rappresentazione d'una idea diversa, potendo ogni animale conservar
la propria esistenza solo col sopprimerne costantemente un'altra. In
tal modo la volontà di vivere divora perennemente se stessa, ed in
diversi aspetti si nutre di sé, finché da ultimo la specie umana,
avendo trionfato di tutte le altre, ritiene la natura creata per
proprio uso. E nondimeno questa stessa specie umana, come vedremo
nel quarto libro, rivela ancora con terribile evidenza in se
medesima quella lotta, quel dissidio della volontà; e diventa homo
homini lupus. Intanto riconosceremo la stessa lotta, la stessa
violenza egualmente nei gradi inferiori dell'obiettità della
volontà. Molti insetti (particolarmente gl'icneumonidi) depongono le
loro uova sulla pelle o addirittura nel corpo delle larve d'altri
insetti, la cui lenta distruzione è il primo compito del
vermiciattolo uscito dall'uovo. Il giovine polipo tentacolato, che
si sviluppa come un ramo dal vecchio e poi se ne separa, contende
già con esso, quando ancora vi aderisce, l'offertasi preda, sì che
l'uno deve strapparla di bocca all'altro (Trembley, Polypod., II, p.
110 e III, p. 165). Ma il più singolare esempio del genere ci è dato
dalla formica (bulldog ant) in Australia: quando la si taglia,
comincia una lotta fra la parte del corpo e quella della coda;
quella ghermisce questa col morso, questa si difende validamente col
pungere quella. La battaglia dura di solito una mezz'ora, finché le
due parti muoiono, o vengono trascinate via da altre formiche. Il
fatto si ripete ogni volta. (Da una lettera di Howitt, nel «W.
Journal», riportata nel «Messenger» di Galignani del 17 novembre
1855). Sulle rive del Missouri si vede talvolta una poderosa quercia
avvolta, legata e stretta nel tronco e nei rami da una gigantesca
vite selvatica, sì che deve inaridirsi come soffocata. Lo stesso si
osserva perfino negl'infimi gradi, per esempio dove per
assimilazione organica acqua e carbone si trasformano in succo
vegetale, oppure vegetali e pane si trasformano in sangue, e così
dovunque si abbia una secrezione animale con limitazione delle forze
fisiche ad un subordinato modo d'attività. Similmente anche nella
natura inorganica, là dove per esempio i cristalli nel formarsi
s'incontrano, s'incrociano e si ostacolano a vicenda, sì che non
possono pervenire alla pura loro forma (quasi tutte le druse sono
immagine d'una tal battaglia della volontà in quel grado sì basso
della sua oggettivazione); oppure quando una calamita impone al
ferro la sua forza magnetica per rappresentare anche là la propria
idea; o quando il galvanismo fa violenza alle affinità elettive, le
più salde combinazioni dissolve, e le leggi chimiche annulla, sì che
l'acido d'un sale, disgregatosi al polo negativo, deve passare al
positivo senza combinarsi con gli alcali che attraversa per via, né
poter fare arrossire il girasole con cui s'incontra. Ciò appare in
grande nel rapporto tra corpo celeste centrale e pianeta: questo,
sebbene in aperta dipendenza, resiste pur sempre, come le forze
chimiche nell'organismo: dal che proviene la permanente tensione tra
forza centripeta e forza centrifuga, la quale tiene in moto
l'universo, ed è già di per se stessa un'espressione di
quell'universal battaglia essenziale al fenomeno della volontà,
della quale discorrevamo. Invero, poiché ciascun corpo dev'essere
considerato come fenomeno d'una volontà, e volontà si presenta
necessariamente come lotta, non può essere il riposo lo stato
originario d'ogni corpo celeste conglobato in una sfera; bensì il
movimento, la spinta a proceder oltre nello spazio infinito, senza
posa e senza mèta. Né a ciò si oppone la legge d'inerzia o quella di
causalità. Infatti, poiché secondo quella la materia come tale è
indifferente rispetto al riposo ed al moto, può il moto come il
riposo essere il suo stato originario; quindi, se la troviamo in
moto, non ci è lecito presupporre un anteriore stato di riposo, né
viceversa, se la troviamo in riposo, presupporre un movimento
anteriore a quel riposo, e chieder perché quello sia cessato. Non
bisogna perciò cercare nessun primo impulso alla forza centrifuga:
questa è nei pianeti – secondo l'ipotesi di Kant e di Laplace –
residuo dell'ordinaria rotazione del corpo centrale, da cui si sono
quelli distaccati nel suo concentrarsi. Ma il corpo celeste centrale
è mobile per essenza: esso ruota pur sempre ed insieme trasvola
nello spazio infinito, o meglio gira intorno ad un altro maggior
corpo centrale a noi invisibile. Questa concezione s'accorda
pienamente con la congettura che gli astronomi fanno d'un sole
centrale, come anche con l'avvertito spostarsi di tutto il nostro
sistema solare, e forse dell'intero gruppo stellare cui il nostro
sole appartiene; dal che si può da ultimo dedurre un generale
spostamento di tutte le stelle fisse, insieme col sole centrale.
Tale spostamento perde, a dir vero, ogni significato nello spazio
infinito (perché nello spazio assoluto non si distingue moto da
riposo); e così appunto diventa – com'era già direttamente per il
suo agitarsi e correre senza mèta – l'espressione di quel nulla, di
quella mancanza d'un fine ultimo, che noi dovremo riconoscere alla
volontà, in tutte le sue manifestazioni, nel concludere quest'opera.
Dovevano quindi essere appunto spazio infinito e tempo infinito le
più generali ed essenziali forme del complessivo manifestarsi della
volontà, come quelle che ne esprimono l'essenza intera. La lotta, da
noi presa a considerare, di tutti i fenomeni fra loro, si può
riconoscer perfino nella semplice materia in quanto tale, nei limiti
in cui la sua essenza fu giustamente formulata da Kant come forza di
repulsione e di attrazione; sì che anch'essa ha esistenza soltanto
in una lotta di forze contrastanti. Se facciamo astrazione da ogni
varietà chimica della materia, o risaliamo tanto lungi la catena
delle cause e degli effetti da non trovar più alcuna differenza
chimica, ci rimane la pura materia, il mondo conglobato in una
sfera; la cui vita, ossia obiettivazione della volontà, è costituita
da quella battaglia tra forza d'attrazione e di repulsione: la prima
come gravità, da tutte le parti spingendo verso il centro, l'altra
resistendo alla prima come impenetrabilità, sia mediante solidità
sia mediante elasticità. Codesto perenne premere e resistere può
esser considerato come l'obiettità della volontà nel suo infimo
grado, e pur già esprimere il carattere di questa.
Così vediamo dunque qui, nell'infimo grado, la volontà presentarsi
come un cieco impulso, un'oscura, sorda agitazione, lungi da ogni
immediata percettibilità. È il più semplice e più debole modo della
sua obiettivazione. Ed ancor come cieco impulso ed inconscia
aspirazione appare in tutta la natura inorganica, in tutte le forze
elementari, che fisica e chimica s'occupano a conoscere, fissandone
le regole, e ciascuna delle quali si presenta in milioni di fenomeni
affatto simili e regolari, che non rivelano alcuna traccia di
carattere individuale, ma sono semplicemente moltiplicati per mezzo
del tempo e dello spazio, ossia del principium individuationis, come
un'immagine viene moltiplicata dalle faccette d'un cristallo.
Sempre più chiaramente obiettivandosi di grado in grado, la volontà
agisce tuttavia ancor del tutto incosciente, come oscura forza
impulsiva, nel regno vegetale, dove non più vere e proprie cause, ma
stimoli sono il legame dei suoi fenomeni, e così anche, finalmente,
nella parte vegetativa del fenomeno animale, nella produzione e
nello sviluppo d'ogni animale e nella conservazione della sua
interna economia, dove il fenomeno di esso viene necessariamente
determinato da semplici eccitazioni. I gradi di mano in mano più
alti dell'obiettità della volontà conducono da ultimo al punto, in
cui l'individuo che rappresenta l'idea non può più ricevere in
seguito a semplici movimenti provocati da stimoli il nutrimento che
deve assimilarsi: perché lo stimolo bisogna attenderlo, mentre qui
il nutrimento è determinato in modo speciale, e nella varietà sempre
crescente dei fenomeni si è fatta così grande la ressa e la
confusione, che quelli s'intralciano a vicenda; ed il caso, da cui
deve attendersi il proprio nutrimento l'individuo mosso da semplici
stimoli, sarebbe troppo sfavorevole. Il nutrimento deve quindi esser
cercato, scelto, a partire dall'istante in cui l'animale s'è
disciolto dall'uovo o dal corpo materno, in cui vegetava
inconsciamente. Perciò diventa qui necessario il movimento regolato
da motivi, e per esso la conoscenza; la quale adunque interviene
come un aiuto – μηχανή – fattosi necessario a questo grado di
obiettivazione della volontà, per la conservazione dell'individuo e
la propagazione della specie. Ella entra in iscena, rappresentata
dal cervello o da un grosso ganglio, appunto come ogni altra
aspirazione o determinazione dell'obiettivantesi volontà è
rappresentata da un'organo; ossia si offre alla rappresentazione
come un organo43. Ma con questo aiuto, con questa (μηχανή), ecco
balzar fuori, d'un tratto, il mondo come rappresentazione, con tutte
le sue forme, oggetto e soggetto, tempo, spazio, pluralità e
causalità. Il mondo mostra ora il Suo secondo aspetto. Era finora
semplice volontà: adesso è, insieme, rappresentazione, oggetto del
soggetto conoscente. La volontà, che finora seguiva il suo impulso
nelle tenebre, sicuramente ed infallibilmente, ha in questo grado
acceso a se stessa una fiaccola, come un mezzo resosi necessario per
impedire lo svantaggio, che sarebbe venuto crescendo dalla ressa e
dalla complicata natura dei suoi fenomeni, e soprattutto dei più
perfetti. La sicurezza e regolarità fino allora infallibile, con cui
la volontà operava nella natura inorganica e puramente vegetativa,
derivava dal suo operar nella propria essenza primitiva, come cieco
impulso, volontà; senz'aiuto, ma anche senza l'intralcio di un altro
mondo del tutto diverso, del mondo come rappresentazione; il quale è
bensì soltanto l'immagine dell'essenza di quella, ma pur tuttavia è
di ben altra natura, e viene ora a introdursi nella connessione dei
suoi fenomeni. Cessa ora perciò la sua infallibile sicurezza. Gli
animali sono già esposti all'illusione, all'errore. Ed essi
frattanto non hanno se non rappresentazioni intuitive: nessun
concetto, nessuna riflessione. Sono legati al presente, non possono
tener conto del futuro. Sembra che questa conoscenza irrazionale non
sia stata in tutti i casi sufficiente al proprio scopo, ed abbia
talvolta provato quasi il bisogno di un soccorso. Imperocché ci si
offre il notevolissimo fatto, che la cieca attività della volontà e
l'attività illuminata della conoscenza, in due classi di fenomeni,
invadono l'una il dominio dell'altra. Da un lato troviamo
nell'attività degli animali, guidata dalla conoscenza intuitiva e
dai suoi motivi, un'attività compientesi senza di quella, e cioè
compiuta con necessità della ciecamente operante volontà: la
troviamo in quegli istinti meccanici che, pur non essendo guidati da
alcun motivo né da conoscenza, hanno l'apparenza di compier le loro
operazioni in virtù di motivi astratti, razionali. Il caso opposto è
quando, viceversa, il lume della conoscenza penetra nell'officina
della ciecamente operante volontà ed illumina le funzioni vegetative
dell'organismo umano: nella chiaroveggenza magnetica. Finalmente, là
dove la volontà è giunta al sommo grado della sua obiettivazione,
non basta più agli animali la conoscenza razionale, cui offrono i
sensi i loro dati, generando semplici rappresentazioni vincolate al
presente: l'essere complicato, multilaterale, plasmabile, pieno di
bisogni ed esposto ad innumerevoli danni, doveva, per poter
resistere, essere illuminato da una doppia conoscenza, e quasi una
potenza più elevata della conoscenza intuitiva doveva aggiungersi a
quest'ultima, come un suo riverberamento: dico la ragione, come
patrimonio di concetti astratti. Con la ragione incomincia la
riflessione, che abbraccia il futuro ed il passato; ed in seguito
vengono la meditazione, la preoccupazione, la capacità d'una
condotta premeditata, indipendente dal presente; e infine una
coscienza in tutto chiara delle proprie decisioni volontarie, in
quanto tali. Ora, se già con la semplice conoscenza intuitiva s'era
avuta la possibilità dell'illusione e dell'errore – dal che era
distrutta l'anteriore infallibilità nell'inconsapevole agire della
volontà; sì che istinto ed abito meccanico, quali manifestazioni
incoscienti della volontà in mezzo alle manifestazioni guidate dalla
conoscenza, dovettero alla volontà stessa venire in aiuto – con
l'apparire della ragione va quasi del tutto perduta quella sicurezza
e infallibilità con cui la volontà veniva a manifestarsi (la quale
sicurezza all'estremo opposto, nella natura inorganica, apparisce
addirittura come regola assoluta). L'istinto si ritrae
completamente; la riflessione, che ora deve sostituire tutto il
resto, genera (com'è spiegato nel primo libro) esitazione ed
incertezza; diventa possibile l'errore, il quale in molti casi
impedisce l'adeguata obiettivazione della volontà in atti. Perché,
sebbene la volontà abbia già preso nel carattere la sua determinata
ed immutabile direzione, in rispondenza con la quale il volere
medesimo opera infallibilmente dietro la spinta dei motivi, può
tuttavia l'errore falsarne le manifestazioni, allorché motivi
illusori somiglianti ai reali s'introducono e prendono il luogo di
questi44: così, per esempio, quando la superstizione insinua motivi
immaginari, dai quali l'uomo è spinto a tenere una condotta proprio
opposta a quella che altrimenti la sua volontà seguirebbe in quelle
circostanze. Agamennone uccide sua figlia; un avaro largisce
elemosine, per puro egoismo, nella speranza di un centuplicato
compenso futuro, e così via.
Adunque la conoscenza in genere, sia razionale o sia puramente
intuitiva, nasce originariamente dalla volontà, appartiene
all'essenza dei più alti gradi della sua obiettivazione, come una
semplice (μηχανή), un mezzo per la conservazione dell'individuo e
della specie, a modo d'ogni altro organo del corpo. In origine
destinata quindi al servizio della volontà, pel raggiungimento dei
suoi fini, rimane a questa pressocché costantemente schiava: così in
tutti gli animali ed in quasi tutti gli uomini. Vedremo tuttavia nel
terzo libro, come in alcuni uomini la conoscenza si sottragga a
questa servitù, ne spezzi il giogo, e, libera da tutti i fini della
volontà, stia a sé come un semplice, chiaro specchio del mondo. Così
nasce l'arte. E vedremo finalmente nel quarto libro, come per mezzo
di questa maniera di conoscenza, quand'ella agisce di riflesso sulla
volontà, possa aversi la soppressione della volontà stessa; ossia la
rassegnazione, che è lo scopo supremo, o anzi la più intima essenza
d'ogni virtù e santità, ed è la redenzione del mondo.
§ 28.
Abbiamo considerato la grande molteplicità e varietà dei fenomeni,
nei quali viene ad obiettivarsi la volontà; anzi, abbiamo veduta
l'irreconciliabile lotta senza fine che fra loro si combatte. Ma la
volontà stessa, come cosa in sé – secondo appare da tutta la nostra
esposizione – non è punto compresa in quella molteplicità ed in
quella varietà. La diversità delle idee (platoniche), ossia i gradi
dell'oggettivazione, la folla degli individui, in cui ciascuno di
questi si presenta, la battaglia delle forme per la materia: tutto
ciò non riguarda la volontà, ma solo il modo della sua
obiettivazione; e solo mediante questa ultima ha con la volontà una
relazione mediata, in grazia della quale diventa espressione della
sua essenza per la rappresentazione. Come una lanterna magica fa
apparire molte e diverse immagini, ma una sola è la fiamma, che
quelle immagini rende visibili, così in tutti i molteplici fenomeni,
che o l'uno accanto all'altro riempiono il mondo, o l'un dopo
l'altro s'incalzano in forma d'avvenimenti, è nondimeno la volontà
unica, che si disvela; il tutto non è se non visibilità e oggettità
di lei, ed ella immota rimane in ogni mutamento, ella sola è la cosa
in sé: mentre ogni oggetto è apparizione, o fenomeno, per parlare
nel linguaggio di Kant. Per quanto la volontà, come idea
(platonica), abbia la sua più chiara e perfetta obiettivazione
nell'uomo, non potrebbe tuttavia questa da sola esprimere l'essenza
di esso. L'idea dell'uomo doveva, per apparir nel significato che le
si conviene, non presentarsi sola ed isolata, bensì essere
accompagnata da tutta la scala discendente dei gradi, attraverso le
forme animali ed il regno vegetale, fino al regno inorganico. In
tutti questi gradi si ha la compiuta obiettivazione della volontà:
essi vengono presupposti dall'idea dell'uomo, come i fiori
dell'albero presuppongono foglie, rami, tronco e radici. Essi
formano una piramide, della quale è vertice l'uomo. Se si amano i
paragoni, si può anche dire: la loro manifestazione accompagna
quella dell'uomo con la stessa necessità, con cui la piena luce è
accompagnata da tutte le gradazioni della penombra, attraverso le
quali va a perdersi nell'oscurità. O anche si possono definire l'eco
dell'uomo, e dire: animali e piante sono la quinta e terza minore
dell'uomo, il regno inorganico è l'ottava inferiore. Ma l'intera
verità di quest'ultimo paragone ci sarà evidente sol quando nel
libro seguente cercheremo di approfondire l'alta significazione
della musica. Vedremo come la melodia, procedente ben connessa di
alti, agili toni, sia in un certo senso da considerare quale
un'immagine della vita e dell'agitazione umana, che procede col
nesso della riflessione; mentre invece il grave e lento basso, dal
quale si ha l'armonia necessaria alla compiutezza della musica, dà
immagine della rimanente natura animale o inconsapevole. Ma di ciò a
suo tempo, quando non avrà più un aspetto così paradossale. Quella
interna necessità della serie dei fenomeni, inseparabile
dall'adeguata obiettità della volontà, la troviamo anche espressa
nell'insieme dei fenomeni stessi, mediante una necessità esterna: in
virtù della quale l'uomo per la propria conservazione ha bisogno
degli animali, questi di grado in grado l'uno dell'all'altro, e
finalmente delle piante; che, alla lor volta, hanno bisogno del
suolo, dell'acqua, degli elementi chimici e delle loro combinazioni,
del pianeta, del sole, della rotazione e della rivoluzione intorno a
quello, dell'inclinazione dell'eclittica e così via. In fondo,
questo stato di cose proviene dal fatto che la volontà deve divorare
se stessa, perché nulla esiste fuori di lei, ed ella è una volontà
affamata. Di qui la caccia, l'ansia e la sofferenza.
Come il conoscer che la volontà è una, in quanto cosa in sé,
nell'infinita varietà e molteplicità dei fenomeni, può da solo dirci
il vero perché di quella stupefacente, innegabile analogia di tutte
le produzioni della natura, di quell'aria di famiglia, che ci
ricorda le variazioni d'uno stesso tema non formulato: così in certo
modo mediante la chiara e profonda conoscenza di quell'armonia, di
quell'intimo nesso, che lega tutte le parti del mondo, di quella
necessaria loro gradazione, che or ora abbiamo esaminata, ci si
rivelerà in modo sincero e sufficiente l'intima essenza
dell'innegabile finalità di tutti i prodotti organici della natura;
la quale finalità noi addirittura presupponiamo a priori nell'esame
e nel giudizio di quei prodotti.
Codesta finalità è duplice. Da un lato è interna, ossia è una così
ordinata armonia di tutte le parti d'un singolo organismo, che la
conservazione di questo e della sua specie ne deriva, presentandosi
quindi come scopo di quell'armonia medesima. Dall'altro lato è
esterna: ossia è una relazione della natura inorganica con
l'organica in genere, o anche di singole parti della natura organica
fra loro; relazione che rende possibile la conservazione di tutta
quanta la natura organica, o anche di singole specie animali, e
quindi appare al nostro giudizio come un mezzo per la conservazione
stessa.
La finalità interna si connette col nostro ragionamento nel modo che
segue. Se, conformemente a quanto abbiam detto finora, tutti i
differenti aspetti della natura e tutta la pluralità degli individui
non appartengono alla volontà, ma alla sua obiettità ed alle forme
di questa, ne segue necessariamente, che la volontà è indivisibile,
e tutta intera presente in ogni fenomeno; sebbene siano molto
diversi i gradi della sua obiettivazione, ossia le idee
(platoniche). Per maggior chiarezza, possiamo considerare queste
diverse idee come singoli, ed in sé semplici atti di volontà, nei
quali più o meno si manifesta l'essenza della volontà medesima: ma
gli individui sono alla lor volta manifestazioni delle idee, cioè di
quegli atti, nel tempo, nello spazio e nella pluralità. Ora un tale
atto (o idea) nei gradi inferiori dell'obiettità conserva la sua
unità, anche diventando fenomeno; mentre nei gradi superiori per
manifestarsi ha bisogno di tutta una serie di stati e di sviluppi
nel tempo, i quali soltanto se presi nel loro insieme compiono
l'espressione della sua essenza. Così, per esempio, l'idea che si
palesa in qualsivoglia forza generale di natura ha sempre una sola e
semplice manifestazione, sebbene questa si presenti variamente a
seconda delle relazioni esteriori: altrimenti non si potrebbe
dimostrar la sua identità, ciò che appunto si fa rimuovendo la
varietà prodotta unicamente dalle relazioni esterne. Così il
cristallo ha una sola manifestazione vitale: il cristallizzarsi; e
questo ha poi nella forma irrigidita, nel cadavere di quella vita
momentanea, la sua compiuta ed esauriente espressione. Ma già la
pianta esprime l'idea, di cui è fenomeno, non più in un sol tratto e
mediante una manifestazione semplice, bensì in una successione di
sviluppi dei propri organi, nel tempo. L'animale non soltanto
sviluppa nello stesso modo, in una successione di forme spesso
differenti (metamorfosi), il suo organismo; bensì questa forma
medesima, sebbene già sia obbiettità della volontà in un dato grado,
non basta tuttavia alla compiuta manifestazione della sua idea.
L'idea viene invece integrata mediante le azioni dell'animale, nelle
quali viene ad esprimersi il suo carattere empirico, che è il
medesimo in tutta la specie, e compie la manifestazione dell'idea;
nel qual compimento questa presuppone un determinato organismo, come
condizione fondamentale. Presso l'uomo, il carattere empirico ha già
in ogni individuo una speciale natura (anzi, come vedremo nel quarto
libro, questo arriva fino a sostituir del tutto il carattere della
specie, sopprimendo spontaneamente la volontà intera). Ciò che dal
suo necessario sviluppo nel tempo e dal conseguente frangersi in
singole azioni vien conosciuto come carattere empirico, è – fatta
astrazione da questa forma temporale del fenomeno – il carattere
intelligibile (secondo l'espressione di Kant, il quale nel
dimostrare questo divario e nell'esporre il rapporto tra libertà e
necessità, ossia propriamente tra la volontà come cosa in sé e il
suo fenomeno nel tempo, da a conoscere in modo particolarmente
felice il proprio merito immortale)45. Il carattere intelligibile
coincide quindi con l'idea, o più precisamente con l'originario atto
di volontà, che in lei si manifesta: sotto questo rispetto, adunque,
non solo il carattere empirico dell'uomo, ma anche quello d'ogni
specie animale, anzi d'ogni specie vegetale e perfino d'ogni forza
originaria della natura inorganica, è da considerar come fenomeno
d'un carattere intelligibile, ossia d'un atto di volontà
indivisibile, che sta fuori del tempo. Vorrei qui di sfuggita
richiamar l'attenzione sull'ingenuità, con cui ciascuna pianta
esprime e rivela intero tutto il proprio carattere mediante la
semplice forma, e tutto il proprio essere e volere fa manifesto; la
qual cosa rende tanto interessanti le fisonomie delle piante.
L'animale invece, per esser conosciuto nella sua idea, ha già
bisogno d'essere osservato in tutte le sue azioni, e l'uomo, infine,
va studiato bene addentro e sperimentato: imperocché la ragione lo
fa in alto grado capace di fingere. L'animale è tanto più ingenuo
dell'uomo, quanto la pianta è più ingenua dell'animale. Nell'animale
vediamo la volontà di vivere come se fosse più nuda che nell'uomo,
dov'è rivestita di tanta conoscenza, e per di più avvolta nella
capacità della finzione; sì che la sua vera essenza non si palesa se
non per caso e frammentariamente. Affatto nuda, ma anche più debole
si mostra la volontà di vivere nella pianta, come semplice, cieca
tendenza ad esistere, senza scopo e senza mèta. Infatti la pianta
disvela tutta la sua essenza al primo sguardo e con perfetta
innocenza; né si perita di estendere al proprio vertice gli organi
della generazione, che in tutti gli altri animali si trovano invece
nel luogo più nascosto. Questa innocenza della pianta è fondata
sulla sua incoscienza: non nel volere, bensì nel volere cosciente
risiede la colpa. Ogni pianta ci narra, a tutta prima, della propria
patria, del clima di questa, della natura del suolo da cui è uscita.
Perciò anche l'inesperto conosce facilmente se una pianta esotica
appartenga alla zona tropicale, o temperata, e se ella cresca
nell'acqua, nella palude, sui monti, o nella landa. Inoltre, ogni
pianta esprime ancora la volontà speciale della sua specie, e dice
qualcosa, che non si può esprimere in nessuna altra lingua. Ma
passiamo ora ad applicar ciò che s'è detto alla considerazione
ideologica degli organismi, in quanto questa tocca la loro finalità
interiore. Se nella natura inorganica l'idea – la quale va
considerata ovunque come un unico atto di volontà – si manifesta
anche in un'unica e sempre eguale espressione, e si può quindi dire,
che in ciò il carattere empirico partecipa direttamente dell'unità
del carattere intelligibile, e quasi coincide con esso, sì che non
può qui mostrarsi alcuna finalità interna; se invece tutti gli
organismi estrinsecano la loro idea mediante una successione di
sviluppi, condizionata da una molteplicità di parti differenti l'una
accanto all'altra, ossia la somma delle manifestazioni del loro
carattere empirico non è espressione del carattere intelligibile se
non nel complesso: questo necessario giustapporsi delle parti o
succedersi dello sviluppo non sopprime punto l'unità dell'idea
manifestantesi, dell'esprimentesi atto di volontà. Piuttosto,
codesta unità trova ora la sua espressione nella necessaria
relazione e concatenazione di quelle parti e di quegli sviluppi fra
loro, secondo la legge di causalità. Essendo l'unica e indivisibile
volontà, ed appunto perciò sempre concorde con se stessa, quella che
si manifesta in tutta quanta l'idea come in un atto, deve il suo
fenomeno, pure dividendosi in una varietà di parti e di stati,
continuar tuttavia a mostrare la propria unità in una costante
armonia di quelle parti e di quegli stati: e ciò accade mediante una
necessaria relazione e dipendenza rispettiva, sì che anche nel
fenomeno viene ricostituita l'unità dell'idea. Per conseguenza, noi
conosciamo le diverse parti e funzioni dell'organismo,
reciprocamente, come mezzo e scopo le une delle altre, e l'organismo
stesso come il supremo scopo di tutte. Quindi tanto il suddividersi
della idea – in sé semplice – nella pluralità delle parti e degli
stati dell'organismo, da un lato, quanto dall'altro la
ricostituzione della sua unità mediante il necessario collegamento
di quelle parti e funzioni, che per esso divengono causa ed effetto,
ossia mezzo e scopo reciprocamente; sono caratteristici ed
essenziali non della volontà pura, della cosa in sé, ma solamente
del suo manifestarsi nello spazio, nel tempo e nella causalità
(tutte varietà del principio di ragione, della forma del fenomeno).
Appartengono al mondo come rappresentazione, non al mondo come
volontà; si riferiscono alla maniera, con cui la volontà diventa
oggetto, ossia rappresentazione, in un dato grado della sua
obiettità. Chi ha colto il senso di questa esposizione forse
alquanto difficile, potrà ora comprendere esattamente la dottrina
kantiana, la quale tende a mostrar che tanto la finalità del mondo
organico quanto la finalità del mondo inorganico è introdotta nella
natura dal nostro intelletto; motivo per cui si riferiscono entrambe
al solo fenomeno, e non alla cosa in sé. Lo stupore, di cui s'è
detto più sopra, di fronte all'infallibile costanza della regolarità
della natura inorganica, è sostanzialmente identico a quello che si
prova davanti alla finalità della natura organica: perché in ambo i
casi quel che ci sorprende è il veder l'originaria unità dell'idea,
la quale, diventando fenomeno, ha preso la forma della pluralità e
della diversità46.
Per ciò che riguarda poi la seconda specie di finalità, secondo la
partizione fatta più sopra, – ossia la finalità, esteriore, la quale
si mostra non già nell'intera economia degli organismi, bensì
nell'appoggio e nell'aiuto, che questi ricevono dal di fuori, tanto
dalla natura inorganica, quanto gli uni dagli altri – anch'essa
viene genericamente spiegata dall'esposizione fatta or ora; essendo
il mondo intero, con tutti i suoi fenomeni, obiettità della volontà
una ed indivisibile – l'idea – la quale sta a tutte le altre idee
come l'armonia sta alle singole voci, sì che quella unità della
volontà deve anche mostrarsi nell'accordo di tutti i suoi fenomeni.
Ma possiamo elevar questa cognizione a molto maggior chiarezza, se
ci facciamo a guardare un po' più da vicino i fenomeni di quella
finalità esterna e di quell'armonia delle diverse parti della
natura: il quale esame rifletterà contemporaneamente nuova luce su
ciò che precede. Vi perverremo nel miglior modo con l'esaminare
l'analogia seguente.
Il carattere d'ogni singolo uomo può, in quanto è affatto
individuale e non tutto compreso nel carattere della specie, esser
considerato come un'idea particolare, corrispondente ad uno speciale
atto d'obiettivazione della volontà. Questo atto medesimo sarebbe
quindi il suo carattere intelligibile; e il suo carattere empirico
sarebbe la manifestazione di quello. Il carattere empirico è in
tutto e per tutto determinato dall'intelligibile, il quale è volontà
priva del fondamento di ragione, ossia come cosa in sé non è
sottomesso al principio di ragione (forma del fenomeno). Il
carattere empirico deve render nel corso d'una vita l'immagine del
carattere intelligibile, e non può riuscir diverso da come richiede
l'essenza di quest'ultimo. Ma questa determinazione si estende solo
all'essenziale, non a ciò che non è essenziale, nel corso della vita
così determinata. Non essenziale è la determinazione precisa degli
eventi e delle azioni, che sono il campo in cui si esplica il
carattere empirico. Eventi ed azioni sono determinati da circostanze
esteriori, che producono i motivi su cui reagisce il carattere,
conformemente alla propria natura; e potendo essere diversissimi, si
dirigerà sotto la loro influenza l'esterno atteggiamento del
carattere empirico nel suo fenomeno, ossia il determinato
atteggiamento effettivo o storico del corso vitale. Questo potrà
riuscir molto diverso, sebbene rimanga identico il nucleo
essenziale, il contenuto di tal fenomeno: così, per esempio, non è
essenziale il giuocare a noci od a soldi; ma essenziale bensì il
barare al giuoco, o l'agire onesto; l'essenziale viene determinato
dal carattere intelligibile, l'inessenziale dall'influenza esterna.
Come il medesimo tema si può presentare in cento variazioni, così il
medesimo carattere in cento diversissime vie di vita. Ma, per quanto
svariata possa essere l'influenza esterna, il carattere empirico
manifestantesi nel corso della vita, comunque riesca, deve pur
tuttavia obiettivare esattamente il carattere intelligibile,
adattando la sua obiettivazione alle circostanze reali che gli si
offrono. Dobbiamo ammettere alcunché di analogo a quell'influsso di
circostanze esterne sulla vita, pur determinata essenzialmente dal
carattere, se vogliamo pensare al modo, con cui la volontà,
nell'atto originario della sua obiettivazione, determina le diverse
idee nelle quali si obiettiva; ossia le diverse forme d'esseri
naturali d'ogni specie, fra cui ripartisce la sua obiettivazione, e
che devono quindi aver necessariamente una reciproca relazione nel
fenomeno. Dobbiamo ammettere, che fra tutti quei fenomeni dell'unica
volontà abbia luogo un generale e reciproco adattarsi e accomodarsi
– escludendo tuttavia, come presto vedremo più chiaramente, ogni
determinazione di tempo; perché l'idea sta fuori del tempo. Ogni
fenomeno ha dovuto perciò adattarsi alle circostanze in cui s'era
trovato, e queste adattarsi a quello, sebbene molto più recente nel
tempo; e dappertutto noi vediamo cotal consensus naturae. Quindi è
ogni pianta adatta al suo terreno ed al suo cielo, ogni animale al
suo elemento ed alla preda che deve nutrirlo, oltre ad essere in
certo modo protetto contro i suoi naturali persecutori; adatto è
l'occhio alla luce ed alla sua frangibilità, il polmone ed il sangue
all'aria, la vescica natatoria all'acqua, l'occhio della foca al
mutar dell'ambiente, le cellule acquifere nello stomaco del cammello
all'aridità dei deserti africani, la vela del nautilo al vento che
deve spinger la sua barchetta – e così giù giù fino alle più
particolari e sorprendenti finalità esteriori47. In tutto ciò
bisogna astrarre da ogni relazione temporale, perché questa può
riferirsi soltanto al fenomeno dell'idea, e non all'idea medesima.
Conseguentemente, quel modo di spiegazione può anche valere in senso
inverso, facendoci ammettere, che se ogni specie si conformò alle
circostanze, queste circostanze presentatesi in antecedenza ebbero
altrettanto riguardo agli esseri che dovevano venire più tardi.
Imperocché è pur sempre la volontà una ed identica, che si obiettiva
nel mondo intero: ella non conosce tempo, poiché questa forma del
principio di ragione non a lei appartiene né alle idee, sua
obiettità originaria: bensì solamente al modo, con cui le idee
vengono conosciute dagli effimeri individui, ossia al fenomeno delle
idee. Quindi nel nostro presente esame del modo, con cui si
ripartisce fra le idee l'obiettivazione della volontà, è affatto
priva di significato la successione del tempo. Quelle idee, le cui
manifestazioni – conformemente alla legge di causalità cui sono, in
quanto fenomeni, sottomesse – entrarono dapprima nella successione
del tempo, non hanno alcun diritto di precedenza sulle altre, il cui
fenomeno v'entrò più tardi; anzi queste ultime sono appunto le più
perfette obiettivazioni della volontà, e le prime vi si dovettero
adattare, così come le ultime alle prime. Quindi il corso dei
pianeti, la inclinazione dell'eclittica, la rotazione della terra,
la separazione della terraferma e del mare, l'atmosfera, la luce, il
calore e tutti i consimili fenomeni, i quali nella natura sono ciò
che il basso fondamentale è nell'armonia, si adattarono presaghi
alle future specie d'esseri viventi, ch'essi erano destinati a
sostenere e conservare. Similmente si adattò il terreno alla
nutrizione delle piante, queste alla nutrizione degli animali,
questi ancora alla nutrizione d'altri animali, così come pur questi
a quelli. Tutte le parti della natura si fanno incontro, perché una
è la volontà che in tutte si manifesta; ma la successione temporale
è del tutto estranea alle idee, che della volontà sono l'originaria
ed esclusivamente adeguata obiettità (il libro seguente chiarisce
quest'espressione). Ancora adesso, quando le specie non hanno più
che da conservarsi, e non da iniziarsi, vediamo qua e là estendersi
al futuro, quasi astraendo dalla successione temporale, una cotal
provvidenza di natura, un adattarsi di ciò che esiste a ciò che
verrà. Così costruisce l'uccello il nido per i piccoli, che non
conosce ancora; alza il castoro una casa, della quale gli è ignoto
il perché; la formica, la marmotta, l'ape raccolgono provviste per
lo sconosciuto inverno; il ragno, il formicaleone rizzano, quasi con
meditata astuzia, trappole per una preda futura, che non sanno;
gl'insetti depongono le loro uova là, dove la futura larva troverà
futuro alimento. Quando, alla stagione della, fioritura, il fiore
femminile della Valisneria distende le curve spire del suo stelo,
dalle quali era stata fino allora trattenuta in fondo all'acqua, e
sale in tal modo alla superficie; allora il fiore maschile,
cresciuto in fondo all'acqua sopra un breve stelo, si strappa da
questo per venir così, col sacrifizio della propria vita, a galla,
dove nuotando intorno va in cerca del fiore femminile. E questo,
fecondato, si ritrae di nuovo, contraendo le sue spire, nel fondo,
dove il frutto si matura48. Anche qui devo ricordare un'altra volta
la larva del cervo volante maschio, la quale scava rodendo, per la
sua metamorfosi, un buco nel legno, due volte più grosso del buco
scavato dalla femmina, perché v'abbiano spazio le sue future corna.
In generale, adunque, l'istinto degli animali ci dà il migliore
avviamento a capir tutta la teleologia della natura. Imperocché come
l'istinto è un agire simile a quello provocato da un concetto di
finalità, pur non avendone alcuno, così ogni cosa formata dalla
natura rassomiglia a quelle guidate da un concetto di finalità,
anche quando ne è priva. Nell'esteriore come nell'interior
teleologia della natura ciò che noi dobbiamo pensare come mezzo e
come scopo è sempre unicamente la manifestazione – venuta a
scindersi per la nostra maniera di conoscenza nel tempo e nello
spazio – dell'unità dell'unica volontà, per questo rispetto concorde
con se stessa.
Frattanto il reciproco adattarsi e accomodarsi dei fenomeni,
derivato da questa unità, non può cancellare l'intimo dissidio sopra
esposto, rivelantesi nell'universale lotta della natura, ed alla
volontà inerente. Quell'armonia perviene solamente a render
possibile l'esistenza del mondo e degli esseri viventi, che senza di
lei sarebbero da tempo periti. Quindi ella si estende solo
all'esistenza della specie ed alle generali condizioni di vita, ma
non agli individui. Quindi, se in grazia di quell'armonia ed
adattamento le specie nel mondo organico e le generali forze di
natura nel mondo inorganico sussistono le une presso le altre,
sorreggendosi anzi a vicenda, l'intimo dissidio della volontà
obiettivato in tutte quelle idee si rivela invece nell'incessante
guerra sterminatrice degli individui appartenenti alle varie specie,
e nel perenne lottare delle forze naturali fra loro, com'è sopra
esposto. Campo ed oggetto di questa guerra è la materia, che gli
avversari cercano di strapparsi a vicenda; o anche il tempo e lo
spazio, la cui combinazione sotto la forma della causalità
costituisce propriamente la materia, com'è spiegato nel primo
libro49.
§ 29.
Chiudo qui la seconda parte della mia trattazione, con la speranza
che – per quanto è possibile nel comunicar per la prima volta un
pensiero nuovissimo, al quale non riesce quindi di liberarsi del
tutto dalla personalità che l'ha prodotto – mi sia riuscito di
mostrar con chiara certezza come questo mondo, nel quale viviamo ed
esistiamo, sia nella sua intera essenza in tutto e per tutto
volontà, e contemporaneamente in tutto e per tutto rappresentazione;
inoltre, come questa rappresentazione, in quanto tale, presupponga
una forma – ossia oggetto e soggetto – e sia quindi relativa. E se
ci domandiamo che cosa rimanga, sopprimendo questa forma e tutte le
altre a lei subordinate, espresse dal principio di ragione,
quest'avanzo, come alcunché toto genere diverso dalla
rappresentazione, non può essere altro che la volontà, che è perciò
la vera cosa in sé. Ognuno sente di essere codesta volontà, così
come sente d'altra parte di essere soggetto conoscente, di cui è
rappresentazione il mondo intero; il quale esiste solo in rapporto
alla sua coscienza, che n'è il necessario sostegno. Ognuno è
adunque, per questo duplice rispetto, tutto quanto il mondo: è il
microcosmo; ed i due aspetti del modo trova interi, compiuti in se
stesso. E ciò ch'egli conosce in tal modo come sua propria essenza,
costituisce pur l'essenza del mondo intero, del macrocosmo: anche
questo è, come lui, in tutto e per tutto volontà, in tutto e per
tutto rappresentazione; e niente di più. Così vediamo qui coincidere
la filosofia di Talete, che considerava il macrocosmo, e quella di
Socrate, che considerava il microcosmo, poiché unico si rivela
l'oggetto d'entrambe. Ma tutta la cognizione rivelata nei due primi
libri guadagnerà in compiutezza ed evidenza nei due libri che
seguiranno; nei quali, spero, talune quistioni, sollevate fin qui
nettamente od oscuramente, troveranno piena risposta.
Frattanto, una di codeste quistioni va discussa a parte, potendo
esser posta solo in quanto non s'è ancor penetrato del tutto il
senso della trattazione fatta finora, e appunto perciò potendo
servire a chiarirla. Essa è la seguente. Ogni volontà è volontà di
qualche cosa, ha un oggetto, una mèta del suo volere: che cosa vuol
dunque alla fin fine quella volontà, che noi abbiamo rappresentata
come essenza in sé del mondo? Questa domanda si fonda, come tante
altre, sulla confusione della cosa in sé col fenomeno. Al fenomeno,
non alla cosa in sé si estende il principio di ragione; una forma
del quale è anche la legge di motivazione. Si può dare una ragione
dei fenomeni in quanto tali, dei singoli oggetti, ma non mai della
volontà medesima, né dell'idea, in cui questa adeguatamente si
obiettiva: Nello stesso modo, d'ogni singolo movimento, o in genere
d'ogni modificazione nella natura si deve cercar la causa, ossia uno
stato, che l'abbia necessariamente prodotta: ma non mai della forza
naturale, che si manifesta in quel fenomeno, come in altri
innumerevoli fenomeni eguali. Ed è una vera dissennatezza,
proveniente da mancanza di riflessione, il voler conoscere una causa
della gravità, della elettricità e così via. Per avventura, sol
quando si fosse dimostrato che gravità, elettricità non sono vere e
proprie forze naturali originarie, bensì soltanto aspetti fenomenici
di una forza di natura più generale e già nota, allora si potrebbe
voler conoscere la causa, per cui codesta forza producesse qui il
fenomeno della gravità e dell'elettricità. Tutto ciò è ampiamente
spiegato più sopra. Nello stesso modo, ogni singolo atto di volontà
di un individuo conoscente (il quale è anch'esso semplice fenomeno
della cosa in sé) ha necessariamente un motivo, senza il quale
quell'atto non si sarebbe mai prodotto: ma come la causa materiale
contiene soltanto la determinazione per cui in un dato tempo, in un
dato luogo, in una data materia deve prodursi una manifestazione di
questa o quella forza naturale, così anche il motivo determina
soltanto l'atto di volontà di un individuo conoscente in un dato
tempo, in un dato luogo, in date circostanze, come fatto singolo; né
mai determina genericamente che quell'essere voglia, e che voglia in
tal modo. Codesta è invece manifestazione del suo carattere
intelligibile, il quale come la volontà stessa – la cosa in sé – è
senza fondamento di ragione, stando appunto fuor del dominio del
principio di ragione. Quindi ciascun uomo ha sempre finalità e
motivi, in base ai quali dirige la propria condotta, e sa ognora
render conto delle proprie azioni: ma, se gli si domandasse perché
egli in genere voglia, o perché in genere egli abbia volontà di
esistere, non avrebbe da dar risposta alcuna; piuttosto la domanda
gli parrebbe stolta. Ed in ciò appunto verrebbe ad esprimersi la
coscienza dell'essere egli medesimo niente altro se non volontà;
volontà, che si comprende da se stessa, e soltanto nei suoi singoli
atti, nei singoli momenti abbisogna di una più precisa
determinazione.
Infatti la mancanza d'ogni finalità e d'ogni confine s'appartiene
all'essenza della volontà in sé, che è una tendenza infinita. Questo
punto fu già toccato più sopra, quando s'accennò alla forza
centrifuga: e nel modo più semplice si rivela nell'infimo grado
dell'obiettità della volontà, ossia nella gravità; il cui perenne
tendere, malgrado la palese impossibilità di una mèta ultima, è
evidente. Foss'anche, per sua volontà, tutta la materia esistente
riunita in un'unica massa compatta, la gravità seguiterebbe tuttavia
nel suo interno a lottare pur sempre, tendendo verso il centro,
contro l'impenetrabilità, palesantesi sia come rigidità, sia come
elasticità. Questa tendenza della materia può essere quindi appena
frenata, ma non mai appagata. E lo stesso accade ad ogni tendenza di
tutti i fenomeni della volontà. Ogni mèta raggiunta è alla sua volta
principio di un nuovo percorso, e così all'infinito. La pianta
solleva la propria manifestazione dal germe, attraverso tronco e
foglie, fino al fiore ed al frutto, che alla sua volta non è che il
principio di un nuovo germe, di un nuovo individuo, il quale
un'altra volta segue l'antico cammino, e così per un tempo infinito.
Non diversa è la vita dell'animale: suo vertice è la generazione, e
dopo averlo raggiunto, la vita del primo individuo decade presto o
tardi, mentre un nuovo individuo garantisce alla natura la
conservazione della specie, e ripete lo stesso fenomeno. Anzi, qual
semplice fenomeno di codesta perenne aspirazione e mutazione è pur
da considerare il continuo rinnovarsi della materia in ciascun
individuo, che i fisiologi hanno ora cessato di tener per necessaria
compensazione della materia consumatasi nel movimento; imperocché il
possibile logorio della macchina non può esser punto equivalente al
continuo afflusso proveniente dalla nutrizione: eterno divenire,
infinito fluire appartengono al manifestarsi dell'essenza della
volontà. Lo stesso si può anche vedere, finalmente, nelle
aspirazioni e voglie umane, che sempre c'illudono mostrandoci il lor
compimento come supremo fine del volere; ma, non appena raggiunte,
non sembrano più le stesse, e quindi tosto dimenticate, invecchiate,
vengono sempre – anche se non vogliamo subito convenirne – messe da
parte come miraggi dileguati. Felici ancora, se qualche cosa rimane
al nostro desiderio ed alla nostra aspirazione, per alimentare il
giuoco del perenne passaggio dal desiderio all'appagamento, e da
questo ad un novello desiderio – passaggio, che si chiama felicità
quand'è rapido, dolore quand'è lento –; invece di cadere in quella
paralisi, che si rivela come orribile, stagnante noia, confusa
aspirazione senza oggetto preciso, mortale languore. Da tutto ciò
appare che la volontà, illuminata dalla conoscenza, sempre sa ciò
che vuole in un dato momento, in un dato luogo; ma non sa ciò che
vuole in genere. Ogni singolo atto ha un fine: la volontà nel suo
insieme non ne ha alcuno. Appunto come ogni singolo fenomeno della
natura viene determinato, nel suo prodursi in un dato luogo, in un
dato tempo, da una causa sufficiente; mentre la forza, che in esso
si manifesta genericamente, non ha una causa, poiché codesta causa è
un grado nella manifestazione della cosa in sé, della volontà senza
fondamento di ragione. L'unica conoscenza di sé, che abbia la
volontà in genere, è la rappresentazione nel suo complesso, la
totalità del mondo intuitivo. Questo mondo è la sua obiettità, la
sua rivelazione, il suo specchio. Che cosa significhi il mondo in
questa sua qualità, sarà oggetto della nostra seguente
considerazione50.