I.
Italia e Inghilterra nel Risorgimento
    
I.
La politica inglese in Italia nell'età del Risorgimento1
    
    Il problema mediterraneo comincia a presentarsi all'Inghilterra fino
    dal principio del secolo XVI, fino da quando cioè essa pone
    le basi della sua potenza marittima e allaccia i primi rapporti
    commerciali con gli scali dell'Europa meridionale. Nella seconda
    metà di quel secolo, dominata dal conflitto anglo-spagnuolo
    che si risolve nel suo trionfo, l'Inghilterra vede questi suoi
    traffici nel bacino mediterraneo intensificarsi con ritmo costante.
    Durante il secolo XVII essa afferma con ripetute spedizioni navali
    il suo diritto e il suo interesse a prender parte alle lotte che si
    combattono fra Spagna, Francia, Olanda e Stati minori, per la
    supremazia o almeno per l'equilibrio nel Mediterraneo. Ma non
    è che nel secolo XVIII che, insediatasi dapprima a
    Gibilterra, indi a Minorca, l'Inghilterra diventa vera e propria
    potenza mediterranea, avviandosi rapidamente al deciso predominio in
    quel mare, che le permetterà di stroncare, sui primi del
    secolo successivo, il piano francese, e quindi innanzi di dominarvi,
    se non incontrastata, vittoriosa sempre.
    
    L'Italia, per la sua posizione geografica e per la sua struttura,
    è in qualche modo il perno della politica mediterranea: fino
    dalla seconda metà del secolo XVI, dunque, l'Inghilterra
    guarda con interesse a questo paese, nel quale non ha (e non
    avrà mai) dirette aspirazioni territoriali, ma che considera,
    oltreché un ricco mercato di assorbimento per i suoi
    manufatti e in genere per le sue importazioni da altre parti del
    mondo, il piú idoneo pontile di sbarco per la diffusione
    delle sue merci in tutta l'Europa centro-meridionale. I migliori
    affari, in questo periodo, essa li conclude in particolare con i
    minori Stati della penisola, Toscana, Venezia, Piemonte, i quali,
    tutti circondati e stretti dall'Italia spagnuola, concedono senza
    troppe difficoltà le piú ampie facilitazioni
    commerciali pur di attirare o di riattirare nei loro porti le grandi
    correnti sviate del traffico. Colonie di mercanti inglesi si
    stabiliscono con profitto a Livorno e a Nizza. Ma è con lo
    Stato sabaudo che le relazioni si annodano specialmente cordiali:
    alle ragioni economiche che fanno di Nizza, in concorrenza con
    Genova, dapprima irretita nel giuoco spagnuolo, poi in quello
    francese, lo scalo migliore per i mercati dell'Italia
    settentrionale, verrà ben presto ad aggiungersi, infatti,
    l'interesse politico, che all'Inghilterra consiglierà di
    tenersi amico in ogni occasione il portiere delle Alpi, facendogli
    balenare la possibilità di lauti compensi territoriali,
    qualora tenga ben chiusa la porta ai Francesi.
    
    Cosí per tutto il Seicento. La penetrazione pacifica
    dell'Inghilterra si svolge con crescente successo: l'Italia viene
    progressivamente inondata di prodotti inglesi; tra non molto si
    dirà con ragione che l'Inghilterra vi esercita un vero e
    proprio monopolio commerciale.
    
    Via via che si accrescono i suoi interessi nel Mediterraneo e si
    consolida la sua potenza, l'Inghilterra sarebbe naturalmente indotta
    a desiderare, e quindi a favorire, un ordinamento italiano che
    escludesse il controllo assoluto della penisola da parte di uno o
    dell'altro dei grandi Stati mediterranei. Le ambizioni della Francia
    la obbligano invece a farsi conservatrice dello status quo: tra la
    Spagna, la cui potenza volge visibilmente al declino, e che comunque
    ha dovuto piegare dinanzi alla superiorità marittima inglese,
    e la Francia, forte come non mai, ed ora nuovamente mirante
    all'egemonia europea, l'Inghilterra non può infatti esitare a
    preferire la prima; tanto piú che, mentre questa non si
    oppone in sostanza alla sua penetrazione commerciale nella penisola,
    la Francia, che verso la fine del secolo XVII comincia a ravvisare
    appunto nell'Inghilterra il principale ostacolo alle sue mire
    espansionistiche, non mancherebbe certo, una volta padrona d'Italia
    o di una parte d'Italia, di chiudergliene le porte.
    
    Ma la situazione si complica inaspettatamente non appena alla
    tradizionale rivalità franco-ispana accenna a sostituirsi
    (con Luigi XIV) un accordo fra quelle due potenze, tendenti ad
    assicurarsi l'assoluto controllo del Mediterraneo. Di questo
    pericolo l'Inghilterra, che non possiede ancora una sua base in quel
    mare, e che vitali necessità extramediterranee
    costringerebbero comunque a misurarsi con la Francia, si rende conto
    senza indugio e immediatamente si dispone a reagire. Ancora
    piú gravemente colpito, perché compresso e minacciato
    di schiacciamento ai due fianchi, si sente il duca di Savoia:
    gl'interessi inglesi e sabaudi, per quanto in sfere di ben diversa
    ampiezza, coincidono dunque perfettamente. Siamo al tempo delle
    prime coalizioni antifrancesi, sul cadere del secolo XVII, nelle
    quali Inghilterra e Savoia militano appunto nel medesimo campo.
    
    Apertasi, poi, con la successione al trono di Spagna, la questione
    del possesso d'Italia, l'Inghilterra, conformemente al suo vecchio
    programma, propenderebbe a spartire quei dominî, ad esclusione
    sia dei Borboni che degli Absburgo, fra principi minori italiani o
    forestieri, in primo luogo i Savoia; senonché, piuttosto che
    vedervi insediato Luigi XIV o una sua longa manus, essa preferirebbe
    pur sempre che il regno di Napoli, la Lombardia, la Sardegna
    cadessero tutti in mano dell'Austria, con la quale non ha interessi
    in contrasto e che, soprattutto, non è e non aspira a
    diventare potenza marittima: tanto piú che anche in questo
    caso sarebbe possibile profittare del rimaneggiamento per assicurare
    allo Stato sabaudo un ingrandimento atto a conferirgli maggiore
    efficienza nella essenziale sua funzione di antemurale alla Francia.
    Con questo programma l'Inghilterra prende parte alla guerra. Non
    è in giuoco soltanto la posta italiana, né si combatte
    unicamente sul Po: eppure fino da allora, chi ben guardi, si
    delinea, rispetto all'Italia, quel giuoco d'influenze
    austro-franco-inglesi che poi si protrarrà in pieno secolo
    XIX, quel giuoco d'influenze del quale, dopo ripetute, dolorose
    esperienze, gl'Italiani, una volta maturi a risolvere in senso
    autonomo e unitario il loro problema nazionale, finiranno per
    profittare. La pace di Utrecht consacra il pieno trionfo della tesi
    inglese: l'Inghilterra, infatti, a parte i vantaggi diretti che
    ottiene, sia nel Mediterraneo (Gibilterra e Minorca), sia
    nell'Europa nord-occidentale, vede l'Austria subentrare alla Spagna
    in tutti i suoi possessi italiani, salvo la Sicilia (poi tramutata
    con la Sardegna) assegnata all'alleato sabaudo. La Francia resta
    fuori d'Italia: la quale esclusione costituisce ormai, per il
    gabinetto di Londra, una delle garanzie fondamentali per la pace
    d'Europa. Anche il successivo trattato di Vienna, per quanto
    concluso in assenza e, apparentemente, a scapito dell'Inghilterra,
    obbedisce in sostanza a questa direttiva suprema: giacché
    l'innegabile vantaggio che potrebbe pur derivare alla Francia
    dall'avvenuto insediamento sul trono di Napoli di un rampollo
    borbonico è ampiamente controbilanciato dal passaggio della
    Toscana, con i Lorena, sotto l'immediata influenza dell'Austria, e,
    ancora una volta, da notevoli concessioni territoriali fatte al
    Piemonte.
    
    Il governo di Londra è ormai definitivamente interessato al
    mantenimento dello status quo nella penisola: l'ordinamento del
    1738, infatti, non gli conviene soltanto sotto il rapporto politico,
    ma anche sotto il rapporto commerciale, in quanto né
    l'Austria in Lombardia, né il Borbone di Napoli, né,
    tanto meno, gli altri Stati italiani possono rappresentare per
    l'Inghilterra dei concorrenti temibili. Austria e Borbone, anzi,
    prendendo possesso dei rispettivi dominî, che trovano
    dissanguati dalla secolare occupazione spagnuola, non solamente
    necessitano delle forniture inglesi, ma, come il Piemonte, trovano
    il loro vantaggio nel favorire, in via di massima, l'espansione
    economica di quell'unica potenza mediterranea che ha tutto
    l'interesse di garantirli reciprocamente nel pacifico possesso dei
    loro territori. Ogniqualvolta dunque si presenterà una crisi
    mediterranea minacciante lo status quo italiano, la politica
    dell'Inghilterra sarà quella di stringere i propri rapporti
    con l'Austria da un verso, col regno di Sardegna dall'altro, in modo
    da opporre una resistenza efficace all'ingresso nella penisola di
    altre forze straniere. Questa politica presuppone naturalmente
    l'esistenza di rapporti, se non proprio di amicizia, almeno di
    normale collaborazione tra Austria e Sardegna (cosa non sempre
    facile ad ottenersi, ché a Torino non si può non
    guardare con gelosia e anche con diffidenza a chi detenga la
    Lombardia); come altresí presuppone – e questa condizione si
    verificherà quasi costantemente, ma non senza clamorose
    eccezioni – opposizione d'interessi e quindi tensione di rapporti
    tra Francia ed Austria. Se l'Austria, d'altronde, profittando della
    stragrande superiorità di forze, attenterà
    all'indipendenza degli altri potentati italiani, l'Inghilterra
    avrà buon giuoco, per contrastare queste sue mire, sia
    ricattandola con lo spettro di un possibile intervento francese, sia
    favorendo i perpetui disegni d'ingrandimento del Piemonte, sia
    finalmente incoraggiando i risentimenti antiaustriaci, che alla
    metà del secolo, come ognun sa, già cominciano a
    serpeggiare fra gl'Italiani.
    
    Questo meccanismo appare in piena funzione fin dalla guerra di
    successione d'Austria: la guerra, si sa, sconvolge profondamente la
    carta d'Italia, ma nella pace del 1748, mentre l'Austria, sotto gli
    auspici inglesi, vien reintegrata in quasi tutte le sue posizioni
    italiane e la Sardegna compie un nuovo passo innanzi verso il
    Ticino, la Francia continua pur sempre ad essere esclusa d'Italia.
    
    Negli anni successivi, gigantesco sforzo del sistema
    franco-spagnuolo per escludere dal Mediterraneo la grande, la sempre
    piú minacciosa competitrice: l'inaudito rovesciamento delle
    alleanze (Francia ed Austria e poi Spagna e Russia e Svezia contro
    Prussia e Inghilterra) fa sí che l'Inghilterra, paralizzata
    nel Mediterraneo, veda completamente annullata la sua influenza in
    Italia; ma ancora una volta la pace (di Parigi) ristabilisce nel
    Mediterraneo la situazione antecedente alla guerra, e ancora una
    volta chi paga le spese è la Francia. Solo la crisi
    d'America, in tutta l'immensa sua gravità, potrà far
    sí che, dopo tanto lottare per l'equilibrio mediterraneo,
    l'Inghilterra, troppo fidando nelle posizioni raggiunte, trascuri i
    suoi interessi nel nostro mare: ed ecco che subirà senza
    reagire, e forse senza intenderne tutta la portata, lo scacco
    dell'insediamento francese in Corsica, ed ecco che perderà
    Minorca e verrà furiosamente assalita a Gibilterra. La pace
    del 1783 non potrà che consacrare la sua retrocessione nel
    Mediterraneo, il primo suo passo indietro dopo una serie
    ininterrotta di affermazioni e di conquiste. Dura lezione, ma non
    senza benefici effetti: il governo di Londra esperimenterà
    infatti, una volta per sempre, che il padrone del Mediterraneo
    è il padrone del mondo; e da allora in poi si regolerà
    in conseguenza.
    
    L'umiliazione dell'Inghilterra, d'altronde, trova qualche compenso
    nelle incessanti vittorie riportate nel campo commerciale: dal 1700
    al 1787, il valore delle sue esportazioni si è quintuplicato
    nel mondo, e in Italia in particolare si è straordinariamente
    accresciuto. Allarmate voci italiane, ma piú ancora francesi,
    si alzano con sempre maggiore frequenza a denunziare il danno
    gravissimo che alla penisola deriva dal controllo economico inglese;
    e già molti lamentano che dalla soggezione spagnuola
    gl'Italiani non si sian liberati che per cadere politicamente in
    quella dell'Austria, commercialmente dell'Inghilterra. Nuove
    stazioni commerciali inglesi sono state fondate, infatti, a Messina,
    a Napoli, a Cagliari, che aggiunte a quelle piú vecchie di
    Livorno, di Savona, di Nizza, inevitabilmente concorrono a deprimere
    le poche industrie locali esistenti, a scoraggiare l'impianto di
    nuove, a spremere con gli alti prezzi una clientela già
    impoverita. Ond'è che la Francia, svolgendo nella penisola la
    violenta e tenace sua propaganda anglofoba, non manca d'argomenti
    per insinuare agl'Italiani che la rinascita politica del loro paese
    è impedita, oltre tutto, e forse prima di tutto, dalla
    presenza di questa piovra insaziabile.
    
    Rinascita italiana, e anche indipendenza italiana: parole, concetti
    e aspirazioni che da una piccola cerchia di gente colta si erano
    andati negli ultimi tempi diffondendo in una sfera piú ampia
    di politici, di pubblicisti, di commercianti, di aristocratici,
    prendendo l'abbrivo dalla cessazione del dominio spagnuolo, favoriti
    e incoraggiati altresí dalla nuova politica riformatrice
    audacemente svolta da alcuni principi italiani. Miraggi e speranze
    cui anche l'azione ormai tutta italiana e volta all'Italia dei re di
    Sardegna, valeva a conferire slancio e concretezza e quasi un
    presentimento di effettuabilità; mentre sul fuoco soffiava,
    come si è detto, la Francia, insofferente della sua
    esclusione dalla penisola, ben certa che un eventuale rivolgimento
    antiaustriaco (e in conseguenza anche antiinglese) non avrebbe
    potuto essere che d'ispirazione e di segno francese e non avrebbe
    potuto non condurre, sia pure per vie indirette, ad un aumento
    dell'influenza sua. Notarono, i diplomatici inglesi, questo nuovo
    fervore italiano, questa diffusa aspettazione di un avvenire diverso
    e migliore, questi primi accenni a uno spontaneo confluire di
    volontà principesche e di esigenze dei ceti piú
    elevati della popolazione italiana? E fino a qual punto seppero
    tenerne conto nello svolgimento del loro giuoco politico?
    
    Si può dire che quasi non se ne accorsero, e che agli effetti
    pratici non ne tennero, comunque, il minimo conto. Tutto ciò
    non era ai loro occhi che vacua retorica o pretesto e artificiosa
    creazione della propaganda francese. Le riforme principesche erano
    una cosa, e andavano incoraggiate se non altro perché
    valevano a radicare nel terreno italiano quelle dinastie di recente
    importazione, e quindi ad aumentare le garanzie di conservazione
    dello status quo; un'altra cosa erano i sogni utopistici di una
    nazione italiana. La caratteristica dei diplomatici inglesi non eran
    allora, come non fu mai nel seguito, l'antiveggenza, la
    facoltà cioè, o almeno il desiderio, di anticipare il
    possibile corso degli avvenimenti futuri coordinando e tentando di
    interpretare i segni incerti e magari contraddittori del presente. I
    diplomatici francesi, imaginosi e attivissimi, stavano sempre
    all'erta, e figurandosi che ogni giorno si presentassero per la
    Francia superbe occasioni, che bisognava non lasciarsi sfuggire;
    ogni loro rapporto dall'Italia conteneva quasi sempre, è
    vero, una versione arbitraria e parziale degli avvenimenti del
    giorno, ma almeno vi si notava un perenne sforzo di penetrazione e
    di sintesi dei mille dati d'ogni sorta che cadevano sotto al loro
    mobilissimo sguardo; continuamente costoro facevano e disfacevano
    l'Italia, pronti a trarre partito anche dalle circostanze piú
    avverse. Gli osservatori inglesi non tenevano davvero il Foreign
    Office in cosiffatta perpetua agitazione, né ambivano punto
    di esporsi, come i loro colleghi e antagonisti, a essere il
    piú delle volte smentiti, nelle loro previsioni, dal corso
    degli avvenimenti: cauti e riservati, ripetevano per lo piú,
    nei loro rapporti, quello che nelle varie corti si diceva
    ufficialmente o veniva loro comunicato da personaggi autorevoli; non
    interrogavano mai il paese, e, se anche si occupavano di letteratura
    o avevano contatti con gli uomini di scienza, non mescolavano mai le
    nozioni che da queste letture o incontri potevano loro derivare con
    la politica o con la diplomazia. E perciò quello che maturava
    nel sottosuolo italiano e che, pur manifestandosi talvolta per segni
    anche evidenti, non formava oggetto di comunicazioni e di
    transazioni ufficiali, generalmente sfuggiva loro, e comunque essi
    non sapevano apprezzarne l'importanza o il valore di sintomo. Vero
    si è che intanto, da essi protetti, prosperavano in tutta
    Italia gli uffici consolari e le agenzie commerciali inglesi.
    
    I documenti provano, insomma, che durante l'intero corso del secolo
    XVIII, o almeno fino agli ultimissimi anni, l'Inghilterra ufficiale
    (giacché si vuole qui parlare sempre e soltanto di quella,
    tralasciando d'indagare i rapporti, tutt'altro che remoti, fra
    cultura inglese e cultura italiana, e le vivissime simpatie per
    l'Italia, non solamente artistiche e letterarie, diffuse nel gran
    mondo inglese) ignorò candidamente l'esistenza di un
    «problema» italiano: ed è inutile dire che se in
    qualche caso essa si trovò a dover sancire, o proporre, o
    combattere rimaneggiamenti in un senso o nell'altro della carta
    d'Italia, ciò fece non preoccupandosi affatto che questi
    corrispondessero a un piano conforme agl'ideali dei piú
    progrediti fra gl'Italiani, ma solo in quanto essi contribuivano a
    mantenere o a turbare l'equilibrio della penisola, e quello generale
    mediterraneo, e favorivano o compromettevano il quieto e proficuo
    svolgersi della attività commerciale britannica.
    
    Un vero problema italiano, in senso nazionale, non si pose del resto
    all'Inghilterra, come è ben noto, neanche in quei venticinque
    anni dell'ultimo Settecento e del primo Ottocento, che furono
    dominati dal gigantesco tentativo della Francia rivoluzionaria e
    napoleonica di realizzare, specie nel bacino del Mediterraneo, le
    antiche aspirazioni della distrutta monarchia borbonica. Nel corso
    di quella lotta, che segna la conclusione di un secolo e mezzo di
    rivalità franco-inglese, l'Inghilterra, invariabilmente alla
    testa delle successive coalizioni antifrancesi, e, in Italia,
    solidale di ogni effettivo o potenziale nemico o vittima della
    Francia, può anche farsi, come occasionalmente si fa,
    predicatrice e suscitatrice di idealità
    «italiane» in contrasto con le imposizioni e le
    depredazioni francesi, agitando magari anche la bandiera
    dell'autonomia e della indipendenza nazionale, e promuovendo, nelle
    regioni italiane libere dalla soggezione francese, ampie riforme
    progressiste; salvo però a farsi, con altrettanta
    spregiudicatezza e risolutezza, se e quando ciò possa giovare
    alla causa suprema, puntello e stimolo di reazione, e a sostenere,
    di contro alla propaganda rivoluzionaria francese, la
    necessità e la ineluttabilità di un ritorno, sic et
    simpliciter, all'ordinamento territoriale sancito nei trattati della
    prima metà del secolo XVII. Politica dell'opportunismo
    integrale, giustificata soltanto se la si confronti con quell'unico
    fine che in realtà si proponeva, e al cui perseguimento ogni
    altra considerazione doveva subordinarsi: il fine non pure di
    distruggere la nuova egemonia francese, ma di rendere impossibili
    per l'avvenire nuovi tentativi in quel senso, sia da parte della
    Francia che di qualunque altra potenza europea. Nelson a Napoli nel
    '99, Bentinck in Sicilia nel '12 sembra, sí, che
    rappresentino due mentalità diametralmente opposte, due
    sensibilità, e insomma due epoche: l'ancien régime, e
    il secolo della religione liberale. Ma nella realtà e l'uno e
    l'altro, e con loro la folta schiera dei diplomatici e dei militari
    e degli agenti segreti britannici che percorrono l'Italia in quegli
    anni, non sono che due momenti di un unico processo dialettico, non
    hanno di mira che un solo obiettivo al cui raggiungimento, nelle
    diverse circostanze di tempo e di luogo, piegano con mirabile
    duttilità (per noi latini ragione di sincera meraviglia e di
    scandalo) i mezzi in loro potere e il loro linguaggio e le loro
    ideologie.
    
    Lo studio della politica inglese in Italia dagli anni delle prime
    campagne napoleoniche alla vigilia del Congresso di Vienna non ha
    dunque molto valore per la determinazione di quelle che furono nel
    seguito le sue linee di sviluppo o, diciam pure, le sue costanti.
    Non è che una grande parentesi entro la quale lo
    sconvolgimento totale dell'equilibrio mediterraneo fa sí che
    l'Inghilterra non veda salvezza, sia nell'ordine politico che in
    quello economico, se non, come si è detto, nel ritorno allo
    status quo ante, respingendo, in definitiva, nonostante provvisorie
    apparenze in contrario, qualunque forma di compromesso.
    Senonché si deve considerare come la politica economica
    svolta dalla Francia in Italia, e in particolare la proclamazione
    del blocco continentale, con l'impoverire la nostra penisola e col
    sottrarle i benefici tradizionali del commercio inglese, tanto
    d'importazione che d'esportazione, vengano a porre in mano
    dell'Inghilterra argomenti eloquentissimi e popolarissimi di
    propaganda antifrancese, pienamente coincidenti col perseguimento
    dei suoi propri interessi commerciali. L'Inghilterra, che dalla
    Sardegna sabauda, dalla Sicilia, da Malta dirige il grande traffico
    di contrabbando in Italia, è naturalmente e sistematicamente
    portata a incoraggiarvi ovunque quelle stesse idealità
    liberali, quelle stesse aspirazioni nazionali o d'indipendenza che i
    Francesi hanno agitato un decennio innanzi per conquistare la
    solidarietà o assicurarsi l'acquiescenza degli italiani alla
    politica di eversione dell'antico ordinamento territoriale e
    politico. Le parti si sono adesso invertite: e quella assimilazione
    medesima che piú o meno spontaneamente l'Italia ha fatto in
    quegli anni dei principî della rivoluzione francese, fa
    sí che la propaganda inglese (cui, entro certi limiti di
    sostanza e di forma, si associa e partecipa il governo di Vienna)
    trovi un terreno singolarmente preparato ad accoglierla, a farla sua
    propria, a nutrirsene; e susciti in molti Italiani la speranza e,
    piú, la persuasione che, una volta abbattuto l'ordinamento
    francese, saranno proprio quei principî che presiederanno
    all'instaurazione dell'ordine nuovo. Questo processo di conversione
    all'Inghilterra di quegli appunto fra gli Italiani che, sul cadere
    del secolo XVIII, hanno piú entusiasticamente abbracciato le
    idee nuove venute di Francia, si precisa e si accentua
    nell'ultimissima fase delle guerre napoleoniche. Nei primi mesi del
    1814, in Italia, non si parla che di libertà e di
    indipendenza. S'intende perciò quanto grave e amara dovesse
    essere la delusione del ceto pensante italiano di fronte alla fredda
    realtà del Congresso di Vienna e all'abbandono, anzi al
    «tradimento», dell'Inghilterra. Ma se in alcuni dei
    patrioti questa delusione e il disgusto che ne derivò
    superarono ogni altra impressione e vietarono ogni speranza
    superstite, generandosi una diffidenza invincibile per la
    «perfida Albione», in molti altri andò
    radicandosi invece la consolante opinione che l'Inghilterra medesima
    fosse stata tradita, e sorpresa la sua buona fede, e che le fosse
    stato forza piegarsi, suo malgrado, ai superiori interessi della
    coalizione europea; e che perciò, negli anni avvenire,
    l'Inghilterra non avrebbe lasciato mezzo intentato per favorire in
    Italia l'affermazione, lo sviluppo e il trionfo finale delle
    idealità liberali e nazionali.
    
    Del radicarsi di tali aspettazioni e, per converso, di tali
    risentimenti, anche la tarda diplomazia inglese non poteva mancare
    di accorgersi e di farne il suo conto; e in quanto non conveniva in
    alcun modo scoraggiare una fiducia che era pur sempre «una
    carta in mano» e che nell'avvenire avrebbe potuto dare i suoi
    frutti, e in quanto premeva, d'altra parte, anche ai piú
    modesti fini di una ripresa e di un incremento del traffico
    commerciale, di dissipare quei risentimenti. In questo senso si
    può anche dire che l'eredità di quegli anni di crisi
    europea pesò sugli svolgimenti ulteriori della politica
    inglese in Italia, e in parte ne influenzò le movenze, e in
    qualche caso perfino giunse a forzarne il ritmo, il corso e gli
    obiettivi.
    
    Ma, in tesi generale, se l'Inghilterra si era già affermata
    nella seconda metà del secolo XVIII come la potenza
    piú interessata al mantenimento dello status quo
    mediterraneo, si deve dire che l'esperienza napoleonica valse
    soltanto a trasformare questa sua esigenza in un inderogabile dogma.
    La conservazione della pace e dell'ordine, o – come allora si diceva
    – del «riposo d'Europa», questo è l'unico
    argomento che ormai potrà spingere il governo inglese alla
    guerra: che vuol dire che anche in questa occasione il Foreign
    Office giudicava il nuovo assetto territoriale del continente di sua
    piena soddisfazione. Nel Mediterraneo, in particolare, il suo
    prestigio politico aveva infatti raggiunto il vertice della
    parabola: il possesso di Malta e delle isole Jonie, il controllo
    cioè anche del bacino orientale di quel mare, non erano in
    realtà che le due piú vistose pedine venute a
    rinforzare il suo giuoco. Non meno cospicui erano i vantaggi
    indiretti che aveva saputo conseguire. E a chi mai, se non in
    primissimo luogo all'Inghilterra, doveva l'Austria il riacquisto
    integrale dei suoi possedimenti italiani, con l'aggiunta di Venezia?
    A chi il Piemonte la sospirata annessione di Genova? E quando mai
    per l'innanzi aveva il pontefice romano contratto tanto debito di
    gratitudine ed espressa cosí viva e sincera la sua
    riconoscenza alla protestante Inghilterra? Chi, se non
    l'Inghilterra, aveva salvato ai Borboni il trono di Napoli e
    garantito loro il possesso di quella Sicilia che essi, e non essi
    soltanto, avevano a piú riprese temuto che l'Inghilterra non
    avesse difeso se non per riservarne a se stessa il possesso?
    
    Generosa politica, certo; ma insieme, si ripete, pienamente
    corrispondente agl'interessi inglesi. L'Austria forte, intanto, era
    un vecchio precetto pel Foreign Office, cui adesso aumentavan valore
    le preoccupazioni vivissime che a Londra cominciava a destare la
    politica russa. Giacché se da tempo ormai la Russia si
    volgeva all'Europa, non mai come negli ultimi anni essa aveva
    portato il suo gran peso nelle vicende continentali, non mai mirato
    cosí visibilmente agli Stretti. Non era l'Austria il naturale
    baluardo antirusso e non assicuravano le secolari sue aspirazioni
    balcaniche quella rivalità fra le due potenze che
    all'Inghilterra, sollecita di una libera via per l'Oriente, stava
    massimamente a cuore?
    
    Altro punto obbligato della politica inglese restava l'ingrandimento
    sabaudo. Non già che la condotta del governo di Torino, in
    qualche caso troppo palesemente opportunistica, fosse sempre stata
    tale, anche durante l'ultima crisi, da meritare la riconoscenza
    dell'Inghilterra; ma le stesse ricorrenti debolezze sabaude per il
    vicino francese non additavano forse la gravità del rischio
    che si correva lasciando a guardia delle Alpi un portiere male in
    gambe? Il caso di Cherasco non era stato una lezione per tutti?
    Ond'è che l'Inghilterra aveva perfino caldeggiato, durante le
    conferenze di Vienna, l'annessione della Lombardia al Piemonte,
    previo compenso all'Austria in Italia o, meglio, fuori d'Italia, e
    alla Francia, eventualmente, in Savoia. Questa combinazione si era
    rivelata impossibile, ma l'annessione di Genova era stata operata
    proprio con questo fine, nonostante le proteste della repubblica,
    che dopo cinquant'anni pagava il fio d'aver venduto alla Francia la
    Corsica, quella Corsica ond'era uscito Napoleone: l'annessione di
    Genova al Piemonte assicurava d'altronde alla flotta inglese, in
    caso di guerra, un rifugio sicuro, nel contempo sottraendo alla
    Francia la piú efficiente e pericolosa sua base di appoggio
    nella penisola; in tempo di pace, poi, il porto di Genova in mani
    amiche non solamente equivaleva al controllo commerciale della
    intera vallata del Po, ma costituiva un eccellente punto di partenza
    per un piú razionale e integrale sfruttamento dei mercati
    svizzeri e tedeschi.
    
    Quanto agli Stati della Chiesa, non era soltanto la spina irlandese
    che aveva spinto il Foreign Office a propiziarsi in ogni senso il
    Vaticano, appoggiandone le rivendicazioni territoriali: il problema
    cattolico a Malta ed in altre colonie costituiva infatti un potente
    incentivo all'adozione di quella stessa politica; non mai si era
    stati tanto vicini ad un ristabilimento delle normali relazioni
    diplomatiche fra Londra e Roma, interrotte ab antiquo.
    
    E finalmente, che gl'interessi inglesi imponessero, piú che
    non consigliassero, la restaurazione borbonica sul trono di Napoli,
    resulta evidente a chi rifletta ai lauti proventi che l'Inghilterra
    aveva cavati dal mezzogiorno d'Italia fino da quando vi si era
    stabilita la dinastia borbonica. Subito dopo la restaurazione, che
    aveva fatto del residente inglese il padrone di Napoli, non venne
    firmato, del resto, fra i due governi, un accordo commerciale
    cosí apertamente parziale per l'Inghilterra che non a torto i
    migliori napoletani ravvisarono in esso, nel seguito, una delle
    cause precipue del deficiente progresso economico del loro paese?
    Quanto alla Sicilia, non c'era via di scelta: questa isola, sotto
    l'aspetto commerciale, si era trasformata ormai in una mezza
    dipendenza inglese; le principali aziende, commerciali, minerarie e
    industriali, due su tre erano inglesi; ma inglese, sotto il rapporto
    politico, l'isola non avrebbe potuto essere. Di chi dunque?
    Indipendente, no: ché, nella sua debolezza, avrebbe
    esercitato un'eccessiva attrazione sugli appetiti francesi,
    fors'anche russi, e comunque troppo facile esca avrebbe fornito ad
    un conflitto fra le potenze marittime. E se doveva andare annessa a
    qualche minore potenza, non era meglio ridarla ai Borboni cui dopo
    tutto si era mantenuta fedele e che per la sua vicinanza grandissima
    ai loro dominî di terraferma l'avrebbero piú facilmente
    potuta difendere?
    
    Dal 1815 ai primi mesi del 1859, l'Inghilterra, dunque, consacra
    ogni sua energia alla salvaguardia dello status quo territoriale
    italiano, di continuo turbato e minacciato da una serie di fattori
    interni ed esterni. Interni, l'inquietudine crescente degli strati
    socialmente piú elevati della popolazione italiana, tra i
    quali sempre piú si diffonde, dopo l'esperienza francese,
    l'intolleranza degli anacronistici regimi dispotici e della diretta
    o indiretta dominazione straniera; il malcontento del ceto
    commerciante per le divisioni della penisola che, concretandosi in
    varietà di leggi e di regolamenti, in pluralità di
    barriere doganali e di sistemi monetari, in molteplicità
    d'intoppi alla circolazione, si risolvono in un gravissimo danno
    alla loro attività e alle loro iniziative; e finalmente le
    gelosie fra i principi italiani, o aventi dominio in Italia,
    travagliati pressoché tutti da smanie d'accrescimento.
    Fattori esterni, per non citarne che due, operanti negli anni
    immediatamente successivi al Congresso di Vienna, la sollecita
    ripresa della politica francese mirante a sostituire la propria
    influenza a quella dell'Austria presso le varie corti italiane e, in
    caso d'insuccesso, a screditare nella popolazione i regimi
    esistenti; e la piú che dubbia attività liberale e
    costituzionale svolta dagli agenti politici russi: ai quali due
    fattori ben presto si aggiungeranno gli errori compiuti dall'Austria
    nell'amministrazione dei suoi possessi italiani.
    
    Gli sforzi dell'Inghilterra per neutralizzare l'azione sovvertitrice
    di questi diversi elementi si esercitano naturalmente in piú
    direzioni e variano d'intensità a seconda delle mutevoli
    esigenze della politica inglese su altri scacchieri, ed
    altresí a seconda dei programmi politici dei vari gabinetti
    che si succedono a Londra; ma seguono pur sempre alcune direttive
    essenziali. Per sopire l'irrequietezza dei ceti colti italiani (tra
    i quali è pure frequente il richiamo all'esempio politico
    inglese, invocandosi in particolare il precedente della costituzione
    siciliana del '12, modellata su quella britannica, garantita
    agl'isolani da un rappresentante del governo di Londra e poi
    abrogata con l'aperto assenso del costui successore), il Foreign
    Office si fa, a Vienna, a Torino, a Firenze, a Roma, a Napoli,
    consigliere instancabile di progressive e caute riforme
    amministrative e politiche, che mentre valgano ad esaudire i voti
    piú ragionevoli della parte migliore della cittadinanza,
    mirino ad occupare, e quindi a sottrarre al facile e pericoloso
    esercizio della critica, quelle energie nuove che il periodo
    francese ha rivelato e messo in valore. Per contentare i ceti
    commercianti (le cui lagnanze trovano eco nei rapporti dei suoi
    consoli e nelle sempre piú vivaci rimostranze della colonia
    inglese in Italia) il governo di Londra, quale che possa essere
    l'esempio contrario che esso offre con la sua propria legislazione,
    fa continue, energiche pressioni perché gli Stati italiani,
    attenuino la politica protezionistica ovunque instaurata dopo la
    crisi europea, e magari provvedano a stringere fra di loro intese
    commerciali (ciò che, fra parentesi, assai gioverebbe allo
    sviluppo dei traffici inglesi...) Negli ambienti del Foreign Office,
    nel contempo, comincia ad acquistare qualche credito una corrente
    secondo la quale l'Inghilterra dovrebbe prepararsi a favorire, in un
    piú o meno lontano avvenire, e unicamente per via di
    negoziati pacifici, una semplificazione della carta d'Italia basata
    sull'assorbimento, da parte degli Stati piú forti, delle
    piccole formazioni del centro della penisola e ancora, e in primo
    luogo, sulla dilatazione piemontese in Lombardia: rimuovere insomma
    dall'edificio, per salvarne la stabilità, le parti piú
    evidentemente caduche.
    
    Quanto agli attriti e alle gelosie fra i principi italiani,
    l'Inghilterra si presenta quasi costantemente in veste di mediatrice
    e di promotrice di accordi; amica dell'Austria, ma diffidente essa
    stessa di certa sua politica invadente, agisce energicamente su
    Vienna in senso moderatore, e anzi, ogniqualvolta se ne presenti il
    destro, non manca di prepararla al sacrificio, sempre piú
    opportuno e un dí o l'altro indispensabile, di una porzione
    dei suoi dominî italiani; a Firenze si studia di eccitare lo
    spirito di indipendenza; di Parma e Lucca non ha quasi mai ragione
    di occuparsi; con Modena, antesignana della politica reazionaria,
    finirà col rompere affatto. A Torino, generalmente
    antiaustriaca, e anzi freneticamente tale, prende le difese
    dell'Austria; salvo a riesumare e svolgere essa stessa le
    tradizionali cause di attrito fra i due paesi, nei rari casi in cui
    Torino inclini ad eccessiva intimità con l'Austria. A Roma e
    a Napoli, nei cui confronti non tarda ad adottare un'attitudine
    visibilmente scettica quanto ai sistemi di governo che vi prevalgono
    e alla possibilità di promuoverne l'evoluzione, combatte di
    volta in volta il prevalere d'influenze straniere esclusive o
    tendenti all'esclusività.
    
    Restano, una volta rimosse le vaghe inquietudini per le non chiare
    tendenze della politica russa in Italia (ciò che si verifica
    tra il 1819 e il 1820), le preoccupazioni costanti per la politica
    francese: alle quali il Foreign Office reagisce secondo le direttive
    tradizionali, seppure il suo giuoco si faccia piú scaltro e
    affinato. In questo senso non sarebbe forse avventato considerare
    come un successo, e quasi un capolavoro della diplomazia inglese, la
    spedizione francese di Ancona nel '32. Sul momento, invero, ben
    pochi intuirono quale interesse potesse mai spingere il Foreign
    Office a lasciar siffattamente mano libera alla Francia: non era un
    canone della politica inglese quello di non consentire in alcun caso
    un insediamento francese in Italia? Ci si attese a uno sbarco
    inglese a Civitavecchia, si fantasticò di un preteso piano
    rivoluzionario franco-inglese. Non fu che parecchio tempo piú
    tardi che i piú si resero conto dei riposti motivi di quella
    strana e inusata passività inglese: quando cioè
    poterono considerare la profonda impopolarità che da quella
    spedizione era derivata alla monarchia di luglio in Italia, ed anzi
    alla vera e propria distruzione del «mito» francese che
    essa aveva operato fra noi. Entro certi limiti, si potrebbe dire
    altrettanto per la seconda spedizione francese negli Stati romani,
    nel '49, sebbene opposto in apparenza ne fosse l'oggetto. Ché
    se ci si obiettasse che in realtà il merito del finale
    insuccesso francese (se merito fu) risale piuttosto, nell'uno e
    nell'altro caso, al ministero degli esteri austriaco, risponderemo
    che, a parte la conservazione dello status quo italiano, che ne
    usciva profondamente turbato, quelle due spedizioni, attraverso
    l'occupazione di due vitali punti strategici nell'Adriatico e nel
    Tirreno, venivano a modificare altresí l'intero equilibrio
    mediterraneo: un fatto, questo, relativamente al quale l'Inghilterra
    non poteva certo contentarsi dei sottili affidamenti dell'Austria,
    potenza quasi esclusivamente terrestre, ma le bisognava regolarsi da
    sé, consultando soltanto i suoi propri interessi. Il caso del
    1859, del resto, può prestarsi, come vedremo, ad analoghe
    considerazioni.
    
    Insomma, è pur sempre il timore di una durevole espansione
    della Francia in Italia, o anche soltanto di un considerevole
    aumento della sua influenza fra noi, che, unitamente alla non mai
    trascurata considerazione dei suoi interessi commerciali, ci
    dà la chiave della politica inglese nella penisola, dal 1815
    in poi. Le conferme, o le prove, non mancano, e sono nella mente di
    ognuno. Crisi del 1820-1821: l'Inghilterra, seppure non si assenti
    del tutto dalla trattazione degli affari italiani, ed anzi si
    esprima e si muova, in quella occasione, secondo schemi suoi propri,
    sforzandosi di pacificare l'Italia mercé misure di
    conciliazione soltanto, ed enunciando la tesi del non intervento,
    dopo tutto lascia mano libera all'Austria. Perché?
    Perché l'assiste la sicurezza che la Francia non si
    muoverà; perché di fronte agli Stati italiani in
    subbuglio non si erge che l'Austria. I suoi interventi effettivi,
    risoluti e diretti, l'Inghilterra li riserba per quando si profili
    il pericolo di una complicazione francese. 1830: rivoluzione di
    luglio: minaccia grave, nei mesi seguenti, di una discesa francese
    contro gli austro-sabaudi sul Po; il Foreign Office agisce
    prontamente ed energicamente a Parigi, a Vienna, a Torino, e ad esso
    si deve, o massimamente si deve, se la pace d'Europa è
    salvata. 1831-32: crisi romana: l'Inghilterra, dopo aver lasciato
    impegnare la Francia, non esita a varcare ufficialmente la soglia
    del Vaticano e si fa centro di un'azione diplomatica volta alla
    trasformazione del governo papale; comunque, contribuisce
    efficacemente a risolvere per vie pacifiche la pericolosa vertenza
    austro-franco-romana. 1838: il re delle Due Sicilie, che dopo tutto
    è il sovrano assoluto di uno Stato indipendente, si attenta a
    cedere ad una compagnia francese il monopolio degli zolfi:
    l'Inghilterra immediatamente protesta, fa la voce grossa, e tra lo
    stupore del mondo non s'acquieta fin tanto che il pericolo della
    prevalenza economica della Francia in Sicilia non sia eliminato del
    tutto. 1840: crisi europea determinata dalle complicazioni
    orientali: l'Inghilterra dimentica affatto le non lievi cagioni di
    attrito che nei quattro o cinque anni precedenti hanno intorbidato
    le sue relazioni col Piemonte, e per assicurare l'attiva
    cooperazione (o almeno la benevola neutralità armata) di
    questo Stato alla sua politica di accerchiamento e
    d'immobilizzazione della Francia, protettrice di Mehemet Alí,
    gli fa, in pieno accordo con l'Austria, profferte e promesse,
    né solamente di garanzia territoriale; nel contempo, timorosa
    dell'intimità franco-napoletana, rivelata dalla questione
    degli zolfi e, piú, dall'ufficiale mediazione della Francia
    nella disputa anglo-napoletana, tenta un ravvicinamento col governo
    delle Due Sicilie, mentre dichiara all'Austria che essa stessa si
    assume il mantenimento dello status quo e dell'ordine in Italia.
    
    Gli avvenimenti del '46-47 offrono all'Inghilterra un'occasione
    mirabile per perseguire questo suo giuoco politico e insieme per
    raccogliere in Italia amplissima popolarità, facendo
    dimenticare agl'italiani decenni d'indifferenza per le loro
    aspirazioni nazionali. Cobden, lord Minto: l'occasione è
    eccezionale perché tali aspirazioni si presentano, allora, in
    contrasto non pure con l'Austria (la quale, stringendosi con la
    Russia e con la Francia, tradisce la funzione assegnatale
    dall'Inghilterra), ma altresí con la Francia, in eclissi
    conservatrice. L'Inghilterra appare, e in qualche misura è
    davvero, l'arbitra della penisola. Gli evviva all'Inghilterra non
    sono che un sinonimo degli evviva all'Italia degl'Italiani; da
    Torino a Napoli si moltiplicano e s'inseguono le riforme
    principesche tenute a battesimo dai diplomatici inglesi; questi
    riparano in fretta alla ottusità dimostrata dai loro
    predecessori o da essi stessi negli anni della vigilia, uscendo fuor
    dal chiuso delle corti e dei ministeri e allacciando relazioni con
    uomini nuovi, che, pur non coprendo posti ufficiali, esercitano da
    tempo un'indiscussa autorità morale sui loro concittadini, e
    sono adesso alla testa dei vari partiti; e già il Foreign
    Office ritiene che sia giunto il momento opportuno per negoziare una
    revisione dell'assetto italiano in base ai suoi vecchi disegni, e
    già s'adopra a quell'uopo, quando – febbraio 1848 – scoppia
    la rivoluzione a Parigi, con le conseguenze che tutti sanno:
    automaticamente la Francia si pone e s'impone come la protettrice
    naturale d'ogni movimento progressista nella penisola,
    automaticamente essa riprende in Italia le posizioni perdute.
    L'Inghilterra, assalita dal dubbio di avere negli ultimi due anni
    lavorato, in realtà, a pro della sua grande antagonista, fa
    precipitosamente (e con l'usata disinvoltura) macchina indietro, si
    riaccosta all'Austria, tende tutte le sue energie all'intento di
    sopire l'effervescenza italiana. Scoppiata poco dopo, e a suo
    dispetto, la guerra austro-sarda, sua mira suprema sarà
    quella d'impedire un intervento francese: ed anche per questo,
    seppure invano, essa si sforzerà di far comprendere
    all'Austria la convenienza di una sollecita cessione della Lombardia
    al Piemonte, indipendentemente dalle sorti del conflitto. Mediazione
    inglese, armistizio. Nel '49, riaccesasi, contro gli amichevoli e
    insistenti suoi consigli a Torino, la guerra, il Foreign Office, sia
    perché tien fermo alla direttiva d'un Piemonte efficiente,
    sia perché nutre sempre il timore di un possibile intervento
    francese, s'adopra a Vienna per far rispettare la linea del Ticino.
    La crisi è finalmente superata: l'Inghilterra del marzo '49
    non è certo sulla linea del '47, delle prime settimane del
    '48; la sua popolarità effimera è naturalmente svanita
    del tutto; eppure essa non sente di aver perduto la partita. Il
    mancato intervento nel nord della penisola di una Francia tornata
    alle tradizioni rivoluzionarie è quel che le basta;
    né, come già si è osservato, le duole o le
    nuoce che la seconda repubblica vada a spegnere a Roma la face della
    libertà.
    
    Ma veniamo alla crisi risolutiva. Il programma di Plombières
    non contraddirebbe nella sostanza alle note vedute inglesi sul
    problema italiano, se – a parte la prevista cessione di due
    provincie italiane alla Francia – esso non contemplasse il possibile
    insediamento di dinastie francesi o devote alla Francia, a Firenze e
    a Napoli; piú ancora se non implicasse la guerra. Di fronte
    alla guerra, e alla guerra francese, il Foreign Office punta i
    piedi: tanto piú che il terzo Napoleone si è
    assicurato il preventivo consentimento russo. Non mai come in quei
    primi mesi del '59 la causa italiana ebbe cosí cattiva stampa
    in Inghilterra, governo tory e opposizione whig. È forse la
    caduta del ministero conservatore, l'avvento del binomio
    Palmerston-Russel che rovescia questa presa di posizione? Neanche
    per idea: l'Inghilterra inverte la rotta non appena si avvede che la
    guerra sul Po, con le complicazioni che suscita nell'Italia
    centrale, promette di liquidare, nella penisola, la Francia,
    ricattata dalla Prussia e profondamente agitata, nell'interno, della
    rivolta dei conservatori cattolici. Villafranca non è davvero
    un successo inglese, ma innegabilmente lo è lo sfruttamento
    che di Villafranca l'Inghilterra conduce con abilità
    consumata e una duttilità che si riallaccia alle migliori sue
    tradizioni politiche. Ora sí che il programma revisionista
    inglese, seppure dilatato al di là di ogni previsione, si
    attua a dovere: e cioè a tutte spese della Francia. Né
    importa se l'Austria esce da quella guerra mutilata: da tempo il
    Foreign Office è andato avvertendola, infatti, che la
    potatura di un ramo gioverà a rinforzare il suo stracco
    organismo; da tempo essa anticipa il vantaggio che all'Inghilterra
    deriverà dalla conseguente maggiore efficienza dell'Austria
    nel settore balcanico. Se nell'Italia centrale le restaurazioni
    restano un pio desiderio, questo è in gran parte merito
    inglese; come merito inglese è la spinta alle annessioni,
    sbaragliamento definitivo di effettivi o supposti piani di Napoleone
    in vista di sostituire al granduca un suo luogotenente. Gl'Italiani
    sanno di dovere agli amici inglesi se quel promettente principio
    dell'opera di riconquista della loro indipendenza e, ormai, della
    loro unità nazionale, ha potuto attuarsi senza provocare
    ritorni offensivi dell'eterno nemico e fors'anche dell'alleato di
    ieri.
    
    Quanto agli avvenimenti del 1860, essi, certo, colsero di sorpresa
    il Foreign Office, come del resto anche la Francia e tutte le
    cancellerie europee. Francia e Inghilterra da tempo si trovavano con
    Napoli in relazioni assai tese; senonché, mentre questa non
    ad altro mirava che ad una radicale riforma in senso costituzionale
    del governo borbonico, quella (come si è già
    ricordato) era sospettata di spiare e possibilmente anticipare la
    decadenza della dinastia borbonica per soppiantarla con un ramo
    collaterale della sua casa regnante. Ond'è che, allo scoppiar
    della crisi, il Foreign Office, già indignatissimo per la
    pattuita cessione alla Francia di Nizza e della Savoia, si
    adombrò soprattutto per il timore di nuovi intrighi francesi.
    Di poi, assicurato che non un palmo di territorio nazionale sarebbe
    stato d'ora innanzi barattato o ceduto, non solamente si
    acconciò all'occupazione della Sicilia, ma lasciando via
    libera, di contro alle vedute e alle proposte francesi, al passaggio
    dei volontari da quell'isola sul continente, si fece apertamente
    solidale dell'estremo colpo inferto ai Borboni. Di qui, nella stessa
    Inghilterra, ed anzi in altissimo luogo, dubbi e scrupoli e
    rimbrotti al ministero: d'altronde ben presto caduti. E infatti la
    diplomazia inglese aveva offerto in quella congiuntura una luminosa
    conferma delle proprie capacità: che non consistevano
    proprio, ripetiamolo ancora, nella fertilità delle iniziative
    e nell'acutezza delle previsioni, ma per l'appunto nel sapersi
    rapidamente acconciare all'inevitabile, ricavando tutto il vantaggio
    possibile da esso, come, e piú, dai fatti compiuti. Tardi, ma
    sempre in tempo, il governo di Londra aveva dunque percepito come la
    costituzione di un nuovo Stato unitario nel Mediterraneo
    (costituzione che, per parte sua, esso non aveva mai auspicato
    né ritenuto possibile) non solamente non avrebbe leso i suoi
    permanenti interessi, ma anzi, e per il modo e per le circostanze
    medesime attraverso le quali si andava verificando, e per la
    speciale situazione diplomatica che ne veniva a determinarsi in
    Europa, e per le inderogabili esigenze del nuovo Stato, li avrebbe
    singolarmente favoriti, aumentando, di conseguenza, la sua influenza
    nel Mediterraneo; e come, per contro, il perdurare di una causa
    permanente di disordine e d'inquietudine nel mezzogiorno d'Italia
    avrebbe finito per offrire alla Francia l'occasione e il pretesto
    non solamente per esercitare a Napoli un'influenza forse esclusiva,
    ma piú vastamente, per sostituirsi all'Austria nel controllo
    di un'Italia divisa, e, verosimilmente, discorde.
    
    Quanto all'orientamento politico del nuovo Stato unitario, dati
    evidenti permettevano di presumere che, almeno in una prima fase,
    esso non avrebbe potuto appoggiarsi né su Parigi né su
    Vienna. Finché la Venezia ed altre province
    incontestabilmente italiane restavano in mano dell'Austria, il
    pericolo di una eccessiva intimità italo-austriaca non era
    neanche da prendersi in considerazione; la virulenza del problema
    romano e la stessa difficoltà di comporlo valevano d'altronde
    ad accertare che, ove pure non avessero agito in quel senso altri e
    piú gravi e permanenti motivi, il fatale compimento ultimo
    del programma unitario si sarebbe ormai svolto contro la Francia. Ma
    poi: quali interessi avrebbero potuto anche nel seguito legare
    siffattamente Italia e Francia da costituire una seria minaccia alle
    posizioni inglesi nel Mediterraneo? La Corsica e Nizza in mani
    francesi rivestivano in questo senso, agli occhi inglesi, lo stesso
    valore che la Venezia o il Trentino in mani austriache; la
    spartizione, già iniziata, delle coste dell'Africa
    settentrionale avrebbe inevitabilmente formato oggetto di
    controversie non lievi tra Francia e Italia, specie dopo che il
    taglio dell'istmo di Suez, avviato nel '59, avesse restituito al
    Mediterraneo gran parte della perduta importanza; anche
    l'inevitabile concorrenza in Levante avrebbe messo di fronte Francia
    e Italia. La Francia aveva ben piú vasti interessi nel mondo
    che non l'Italia, né solo sul Mediterraneo gravitava la sua
    potenza; ma l'Italia, dovunque avesse scorto interessi suoi da
    tutelare, dovunque avesse fermato lo sguardo, avrebbe fatalmente
    incontrato la «sorella latina» sul suo cammino. A chi
    dunque si sarebbe rivolta per tutelare la sua sicurezza e per essere
    assistita nello svolgimento di un programma di modesta, graduale
    espansione? I politici inglesi capivano perfettamente che, tra la
    Francia e l'Austria, la nuova potenza non avrebbe potuto appoggiarsi
    che all'amica Inghilterra; e caso mai, per parte di terra, alla
    Prussia, allora in pieno cammino ascensionale; capivano
    altresí che, posto l'immenso e indifeso e in parte
    indifendibile suo sviluppo costiero, l'Italia sarebbe stata
    costretta, in caso di guerra generale, o addirittura a schierarsi
    dalla parte della potenza piú forte per mare o almeno ad
    impegnarsi nei suoi confronti ad una benevola neutralità.
    Insomma, l'Italia sabauda, nel piú complesso giuoco europeo
    della fine del secolo XIX, era dall'Inghilterra destinata a calcare,
    volente o nolente, le orme tradizionali dell'antico Piemonte;
    senonché ben altro avrebbe potuto essere, all'occorrenza,
    l'apporto del nuovo Stato, in paragone dei servizi necessariamente
    modesti resi nei secoli da quello che n'era stato il nucleo
    originario; come ben altra s'annunziava la stabilità del suo
    giuoco politico.
    
    Del resto la nuova Italia, mancante di materie prime, poverissima di
    capitali, sprovvista di un'adeguata marina da guerra e mercantile,
    bisognosa di farsi al piú presto una sua attrezzatura
    industriale e di dare incremento alla sua produzione agricola, e di
    ottenere perciò vasto credito, se non altro per dare lavoro
    all'esuberante sua popolazione, questa Italia senza dubbio si
    sarebbe dimostrata una preziosa cliente dell'Inghilterra; e anche
    questa era una considerazione non priva d'importanza per i politici
    inglesi.
    
    Gli avvenimenti degli ultimi decenni del secolo XIX, e quelli dei
    primordi di questo nostro, attestano che il Foreign Office, pur
    (concludendo) assai poco benemerito della unificazione italiana nel
    periodo della sua penosa maturazione, non si era sbagliato quando,
    all'ultimo, le aveva impresso la spinta definitiva. Spetta ai
    politici odierni e agli storici di domani di valutare fino a qual
    punto le vitali necessità dell'Italia grande potenza, in
    un'Europa profondamente sconvolta dalla crisi del '14-18, e nella
    quale tutti i problemi di equilibrio sono rimessi in questione
    dall'avvenuta rivoluzione nelle armi e nei mezzi di trasporto,
    possano ulteriormente coordinarsi con gl'interessi essenziali
    dell'impero britannico.
    
    2.
Nuovi documenti inglesi su Carlo Alberto
principe di Carignano
    
    Niccolò Rodolico, nel suo bel libro su Carlo Alberto2, ha
    giustamente attribuito molta importanza a taluni documenti del
    Record Office di Londra, da lui per primo rinvenuti e dati alla
    luce3: sono i dispacci del ministro d'Inghilterra a Torino, e si
    riferiscono segnatamente a due distinti periodi della vita del
    principe, il periodo immediatamente successivo alla bufera
    rivoluzionaria, cioè, e quello immediatamente precedente alla
    sua ascesa al trono.
    
    Ci proponiamo, in questo breve studio (limitato, per esigenze di
    spazio, al solo anno 1821) di portare alla conoscenza dei lettori
    qualche altro documento della stessa provenienza, che un sistematico
    spoglio dei fondi del Record Office ci ha posto in grado di
    rintracciare; ben lieti di cogliere questa occasione per rendere al
    Rodolico l'omaggio piú serio che possa rendersi a uno
    studioso della sua tempra: l'esaminare e il discutere taluni dei
    resultati cui egli è giunto, integrando con nuovi apporti il
    materiale documentario da lui cosí abilmente sfruttato.
    
    Premettiamo che, pur dissentendo dal Rodolico in qualche punto
    minore della sua tesi (di moderata e intelligente rivalutazione di
    Carlo Alberto), accettiamo nel complesso il suo punto di vista e le
    sue conclusioni. Il processo al Carignano, rifatto, da cent'anni in
    qua, innumerevoli volte, non venne infatti istruito mai con tanta
    equità, con un cosí scrupoloso esame di tutte le
    testimonianze attendibili, con un cosí disinteressato ardore
    per la verità, come dal Rodolico.
    
    Senonché la scelta dei dispacci inglesi fatta con molta
    accortezza dal nostro autore rivela, a chi conosca l'intera serie,
    il difetto fatalmente inerente a ogni scelta, specie quando si
    tratti di documenti riflettenti le opinioni, che non possono non
    essere in qualche misura provvisorie e mutevoli, di un diplomatico
    circa persone che vivono ed eventi che si svolgono sotto i suoi
    occhi. L'uso di queste fonti dev'essere estremamente cauto;
    può accadere altrimenti che a un dispaccio trionfalmente
    addotto a conferma di una finissima ipotesi altri possa contrapporre
    un altro dispaccio vergato pochi giorni o anche poche ore piú
    tardi dalla medesima mano, il quale a quella ipotesi tolga
    senz'altro ogni base4.
    
    Difetto d'informazione (ben comprensibile in chi ha dovuto
    sintetizzare in un volume di medie dimensioni il resultato di
    innumerevoli ricerche antecedenti, e non ha forse avuto diretto
    accesso alle fonti) che in qualche caso si complica con una
    interpretazione forse un poco sforzata data ai singoli documenti.
    
    Veniamo al concreto. I documenti inglesi sfruttati dal Rodolico
    nella prima parte dell'opera sua consistono, si è detto, in
    alcuni dispacci spediti al Foreign Office dalla legazione inglese a
    Torino. William Hill, che n'era il titolare già da piú
    anni, non si trovava in sede nel marzo 1821: era partito in licenza
    un anno innanzi, e – nonostante la gravità della situazione
    italiana ed europea – non riprese il suo posto che alla fine di
    aprile del 1821 (strana combinazione: quando scoppia la rivoluzione
    in Piemonte, tanto la legazione inglese a Torino che quella sarda a
    Londra e a Parigi sono affidate a semplici incaricati d'affari). Lo
    aveva sostituito il segretario di legazione Algernon Percy5, alle
    cui informazioni, perciò dovette necessariamente attingere lo
    Hill quando, tornato in Piemonte, cercò di farsi un giudizio
    indipendente sulla portata e la vera entità dell'episodio
    rivoluzionario, e in particolare sulla asserita
    responsabilità di Carlo Alberto.
    
    Che atteggiamento tenne il Percy durante le giornate di marzo e
    quali furono i suoi rapporti con Carlo Alberto? Queste domande
    involgono l'annoso problema dell'attitudine inglese di fronte alle
    convulsioni italiane: problema al quale l'autore di queste note ha
    dedicato un ampio studio, ormai prossimo alla stampa. Ricordiamo qui
    poche circostanze essenziali.
    
    Nella seconda metà del 1820, e piú ancora nei primi
    due mesi del 1825, il Foreign Office era stato ripetutamente
    prevenuto della minacciosa situazione interna del regno di Sardegna.
    Prima di tutti dal Percy: il quale andava sottolineando la doppia
    natura del male, crescente tensione antiaustriaca e impazienti
    velleità costituzionali. Il 2 agosto 1820 egli cosí
    scriveva:
    
    Mi dicono aver Sua Maestà dichiarato che niente potrà
    indurla ad accedere alla domanda di una costituzione; che
    abbandonerà i suoi dominî continentali e si
    ritirerà di bel nuovo in Sardegna piuttosto che
    assoggettarvisi a rinunziare ai suoi diritti, o anche ammettere che
    venga posto qualunque controllo alla sua autorità6.
    
    Informazioni alquanto diverse, ma non meno preoccupanti, mandava al
    Castlereagh suo fratello lord Stewart, ambasciatore a Vienna. Il 25
    luglio, ad esempio, egli scriveva da Baden:
    
    Si crede che il re di Sardegna sia pronto a concedere una
    costituzione; non v'è dubbio infatti, che ci si attende una
    rivoluzione in Piemonte, a Genova, e (in genere) nel nord d'Italia7.
    
    E quattro giorni dopo, da Vienna:
    
    A Torino regna una grande agitazione, e il re ha mandato qui (un suo
    incaricato) per fare comunicazioni confidenziali all'imperatore
    d'Austria. Sua Maestà Imperiale ha scritto personalmente al
    re di Sardegna... esprimendogli la sua ferma decisione di assisterlo
    nel conservare l'ordine attuale8.
    
    Anche lord Burghersh, per quanto ministro a Firenze, si sentiva in
    obbligo di richiamare l'attenzione del Foreign Office su quel
    «gran focolaio di gelosia contro gli austriaci in
    Italia» che era il Piemonte9. L'opinione del Metternich,
    d'altronde, era ben nota a Londra: e il cancelliere austriaco faceva
    di tutto per comunicare al collega inglese le sue vive apprensioni
    circa la sorte del Piemonte affidato a un re «debole e
    ondeggiante» e dotato di un esercito altrettanto agguerrito
    che infido10.
    
    Nonostante questi ripetuti avvertimenti, lord Castlereagh, si sa,
    deliberatamente e sistematicamente si astenne dall'esercitare in un
    senso o nell'altro la propria influenza presso quella corte sabauda,
    che pure contava fra le piú antiche e le piú fedeli
    alleate dell'Inghilterra sul continente, e che in ogni contingenza
    difficile aveva sempre beneficiato degli incoraggiamenti e dei
    consigli britannici. La legazione inglese a Torino rimase – alla
    lettera – senza istruzioni durante i mesi che precedettero lo
    scoppio della rivoluzione, nonché durante l'intero
    svolgimento della pericolosissima crisi.
    
    Solo alla fine di aprile del '21 giunse a Torino lo Hill, munito
    delle istruzioni scritte e verbali di Downing Street. Invano il
    governo francese scongiurò lord Castlereagh di esternare il
    suo punto di vista sulla questione piemontese11. Lord Castlereagh
    stava allora elaborando, in relazione alla questione di Napoli, la
    sua dogmatica formulazione del principio del non intervento,
    ufficialmente enunziato nel gennaio '2112, del quale pareva che si
    piccasse di voler dare una interpretazione preventiva e
    singolarmente estensiva, assistendo con passiva indifferenza al
    maturarsi di una situazione rivoluzionaria in un paese, come il
    Piemonte, minacciato sempre, in occasione di torbidi interni,
    dall'intervento di una o di entrambe le potenze finitime. Non pareva
    rendersi conto che l'unico mezzo per impedire sicure violazioni di
    quel principio da parte di altri governi poteva talvolta consistere
    appunto in tempestivi interventi diplomatici; non pareva rendersi
    conto (e in questo aveva ben ragione il Metternich) che la stessa
    solenne sua enunciazione non avrebbe mancato di provocare in Italia,
    in quelle particolarissime circostanze di tempo, le conseguenze
    piú indesiderate.
    
    Fatto sta che a Londra il Castlereagh evitò perfino di
    discutere la situazione piemontese coi diplomatici sardi. Con essi
    parlava solo dei casi napoletani o di politica generale13. Non
    già che egli non seguisse con preoccupazione le vicende
    dell'Italia settentrionale dalle cui complicazioni era evidente che
    poteva scoccare la scintilla generatrice di un conflitto europeo e
    perciò anche, a tutto danno inglese, di una possibile
    modificazione dello status quo mediterraneo: ma il Castlereagh
    statista e Ministro degli esteri subiva adesso, si direbbe,
    l'impaccio del Castlereagh teorico politico. Troppo improvvisato,
    come teorico, e perciò troppo rigido e ostinato, per trovare
    un ragionevole accordo fra la teoria e la pratica.
    
    Nella imminenza del Congresso di Lubiana lo Stewart, tra l'altro,
    gli fece sapere essere intenzione dell'Austria d'intendersi con le
    altre potenze italiane per una contemporanea riforma dei loro
    ordinamenti statali. Era un'occasione opportuna per l'Inghilterra
    per esercitare la propria influenza in senso cautamente
    progressista.
    
    Ma il Castlereagh non volle averci nulla a che fare, adducendo che
    il suo paese non avrebbe mai potuto incoraggiare una «lega
    italiana»: in realtà egli sospettava le coperte mire
    dell'Austria; ma il suo disinteressamento era proprio il mezzo
    piú adatto a sventarle?14.
    
    Algernon Percy si limitò quindi, contro diffuse aspettazioni
    e speranze, a tenere minutamente informato il Foreign Office degli
    sviluppi della situazione in Piemonte, astenendosi accuratamente dal
    pronunziare giudizi o dall'avventare prognostici; quel che è
    peggio, ondeggiando assai spesso, nella incertezza del punto di
    vista londinese, fra opposti pareri e consigli.
    
    Ma torniamo a Carlo Alberto. Ci furono rapporti fra palazzo
    Carignano e la legazione d'Inghilterra anteriormente al marzo '21?
    Nel primo semestre del '20 Carlo Alberto è nominato una volta
    sola nella corrispondenza ufficiale Torino-Londra: in occasione
    della nascita del piccolo Vittorio. E neanche quella volta si dicono
    di lui cose peregrine. Dopo di allora si capisce che il Percy
    dev'essere entrato in rapporti diretti, relativamente frequenti, col
    discusso abitatore di palazzo Carignano. In un dispaccio del 13
    marzo '21, infatti, l'incaricato inglese si farà un merito
    col Castlereagh di aver «sempre avuto maggiore intimità
    col principe Carignano che non il resto del corpo
    diplomatico». Ma si dovette trattare di contatti meramente
    personali ed extra-ufficiali: fatto sta che non lasciarono
    pressoché traccia nei dispacci diretti al Foreign Office.
    Sarebbe azzardato supporre che, anziché per il consueto
    tramite di corte, il Percy entrasse in rapporti amichevoli col
    principe mercé le conoscenze che contava nel piccolo mondo
    della nobiltà liberale? Certo è che nel dispaccio 5
    aprile 1820 si legge essersi egli spesso incontrato con «un
    piccolo gruppo» di liberali, o piuttosto (che il Castlereagh
    non avesse a prendere ombra!) di «individui, i quali si
    chiamano liberali piú per desiderio di originalità,
    credo, che non per effettivi principî».
    
    In un caso, però, l'incaricato inglese avverte l'obbligo di
    riferire al suo ministro degli esteri le confidenze di Carlo
    Alberto. Siamo nell'ottobre del '20. Ed ecco le parole del Percy:
    
    Durante una visita che ho avuto l'onore di fare a S. A. Serenissima
    il principe di Carignano per complimentarlo della nomina a Gran
    Mastro dell'artiglieria15, la conversazione si volse sull'ingresso
    delle truppe austriache in Italia. S. A. si espresse con molto
    calore e non senza qualche ostinazione contro il governo austriaco,
    ciò che avrebbe potuto stupire una persona meno al corrente
    (di me) dei sentimenti dei piemontesi in genere; disse che sperava
    che sarebbero rimasti dove si trovavano; che non potevano venire in
    Piemonte se non per due ragioni: per tentare di conquistarlo,
    cioè, o per prestargli assistenza; che la loro assistenza non
    era affatto necessaria; e che egli era pienamente persuaso che la
    sola cosa la quale avrebbe suscitato disordini nel paese sarebbe
    stata l'ingresso di un soldato austriaco in territorio piemontese.
    Oso dire che questi sentimenti sono universalmente diffusi tra i
    militari, e invero che molti li esprimono troppo apertamente16.
    
    Il dispaccio Percy non ci rivela nulla di nuovo. Analoghe
    professioni di fede, analoghi sfoghi Carlo Alberto andava facendo in
    quel torno di tempo, né solo oralmente. Grave è
    però il constatare come egli non si facesse riguardo di
    palesare questo suo stato d'animo a un membro del corpo diplomatico
    recatosi da lui in visita ufficiale, e piú particolarmente al
    rappresentante di quella Inghilterra castlereaghiana, notoriamente
    in eccellenti rapporti con la corte di Vienna.
    
    Ma il Percy non si stupiva. Già da tempo egli andava
    segnalando a Londra la pericolosa effervescenza antiaustriaca
    determinatasi nei circoli politici e militari in Piemonte,
    già da tempo egli sapeva che il re medesimo, anziché
    porvi freno, ne era, inconscio, il primo istigatore17. Il Foreign
    Office, per altro, non pareva preoccuparsene. Anche se il Percy,
    qualche settimana piú tardi, scriveva che «il terrore
    dell'artiglio austriaco... viene espresso ogni giorno piú
    apertamente»18, il Castlereagh pareva pensare che a tutto
    ciò avrebbero posto rimedio, quanto prima, i cannoni
    austriaci destinati, senza il suo consenso ufficiale, ma col suo
    espresso incoraggiamento ufficioso, a soffocare la rivoluzione di
    Napoli19.
    
    Dalla corrispondenza del Percy non ci risulta che nel gennaio e
    febbraio del 1821 egli avesse altri abboccamenti col principe: la
    cui attività e il cui contegno venivano per altro
    attentamente seguiti. Ed ecco qui confermata la palese
    disapprovazione di Carlo Alberto per la violenta repressione dei
    moti studenteschi dell'11 gennaio20, ecco la notizia inedita di una
    dimostrazione improvvisata in suo onore, la notte del 15 gennaio,
    dinanzi al teatro, da un centinaio di persone21, ecco finalmente i
    preoccupati ragguagli sul sequestro di corrispondenza settaria
    operato il 3 di marzo, con conseguente compromissione del Carignano,
    «che il partito liberale tiene come un idolo e considera come
    il principe adatto per venir messo alla testa del governo italiano
    che esso si propone d'instaurare»22. Siamo ormai alla vigilia
    della rivoluzione. Il Percy segue la crisi con crescente
    ansietà, con pessimismo marcato, l'occhio fisso alle mosse
    dell'Austria impegnata nel Sud. Al primo sintomo di pronunciamento
    militare prevede la defezione di tutto l'esercito; ben presto
    confesserà di non veder altra salvezza pel paese, né
    altra alternativa, che in una guerra all'Austria!23. Come
    osservatore è eccellente: i suoi rapporti con palazzo
    Carignano, le sue frequenti visite a corte e alla segreteria degli
    Esteri gli permettono di riempire i dispacci, che quasi
    quotidianamente detta pel Castlereagh, d'informazioni aggiornate e
    sicure. Ma come diplomatico, si può dire, il Percy non
    esiste: la sua consegna è di stare a vedere. Chi si aspetta
    (e son molti) una presa di posizione da parte dell'Inghilterra,
    resta crudelmente deluso. Quel che il Percy può fare si
    è (conformemente a un'inveterata e non troppo compromettente
    abitudine inglese) di scrivere a Napoli perché il suo collega
    A'Court spedisca a Genova una nave da guerra britannica con l'ordine
    di accogliere a bordo, in caso di bisogno, la famiglia reale24. Non
    altro. Nessuno sa da che parte sia l'Inghilterra. Il ministro
    d'Austria la dà, senz'altro, per solidale col suo governo, e
    il Percy lo tiene in rispetto facendogli osservare che Inghilterra e
    Francia, unite, «potevano aver qualche peso nella bilancia
    europea»25.
    
    Il 13 marzo «uno degl'intimi» del principe reggente
    cerca invece di dimostrargli «che l'Inghilterra dovrebbe
    mandare truppe a guernir Genova, e aiutare il Piemonte a liberare
    l'Italia dal giogo austriaco»; il Percy verosimilmente
    protesta, e riferisce a Londra26.
    
    Ma veniamo ai contatti con Carlo Alberto. Il Rodolico cita di lui un
    dispaccio 16 marzo, recante il resoconto di un importante colloquio
    col principe27. Sebbene anche da precedenti dispacci possano trarsi
    notizie di qualche interesse circa il costui atteggiamento28,
    esaminiamo questo documento.
    
    Carlo Alberto, reggente suo malgrado, lamenta di essere stato
    abbandonato da tutti, specie da quelli che piú hanno
    insistito perché assumesse la reggenza; auspica l'ora
    dell'arrivo di Carlo Felice; invoca l'appoggio diplomatico inglese a
    Vienna, e l'invio a Genova di una o due navi da guerra britanniche:
    i suoi propositi appaiono incerti e contradittorî. È un
    documento davvero impressionante, che induce a viva pietà per
    il giovanissimo principe, anche se possa sorprenderci un poco, in
    bocca a lui, la seguente intemerata, omessa dal Rodolico:
    «Egli sconfessò e riprovò energicamente la
    condotta del signor di Caraglio e di altri, i quali, per usare le
    sue espressioni, si alzarono dalla tavola del re per tradirlo e
    commettere degli atti di brigantaggio». Non avrebbe dovuto
    Carlo Alberto serbare in proposito piú misurato linguaggio?
    Ma il Percy non azzardò commenti né nel dispaccio al
    Castlereagh, né, tanto meno, nella prudente risposta fatta
    all'imbarazzatissimo principe:
    
    Osservai a S. A. che non avevo alcuna autorità per darle
    anche le piú lievi speranze di successo in questo negoziato;
    ... che tuttavia, e pel mio personale attaccamento e per la mia
    radicata convinzione che la nazione piemontese non desiderasse la
    rivoluzione, ero premurosamente disposto a sollecitare la
    presentazione della sua domanda a V. S. (al Castlereagh
    cioè); ma che ero fermamente persuaso che qualunque misura
    ostile non provocata contro l'Austria avrebbe portato a conseguenze
    di grave pregiudizio al compimento dei suoi voti29.
    
    Fu allora che Carlo Alberto, per dimostrare che non subiva la
    volontà degli insorti, pregò il suo interlocutore di
    far sapere al Binder, ministro d'Austria, come non solamente egli
    non avesse autorizzato, ma anzi disapprovasse «tutte le misure
    adottate contro la nazione austriaca e tutte le grossolane invettive
    (lanciate) contro di essa». A prova di che egli si dichiarava
    disposto a mettere in esecuzione qualunque provvedimento atto a
    proteggere la persona del Binder, cominciando con l'istituzione di
    un servizio di guardia alla sua residenza.
    
    Il Percy accettò volentieri l'incarico, che eseguí
    senza indugio: riconosceva infatti che il suo collega austriaco si
    trovava «in una situazione tutt'altro che piacevole, non
    potendo egli uscire di casa durante il giorno senza il timore di
    venire insultato». Non che il Binder non se lo fosse un po'
    meritato: al Percy stesso riuscivano da tempo insopportabili le sue
    «altezzose» e «sofistiche» argomentazioni
    circa la «missione» dell'Austria in Europa30. Ma adesso
    occorreva difenderlo. Cosa rispose il Binder? Ce lo dice il
    Rodolico, osservando:
    
    Le notizie dei fatti date dal Binder al Metternich concordano con
    quelle date dal Percy al Castlereagh; in un punto solo vi è
    discordanza (ed è umano): scrive il Percy che trovò il
    Binder tappato a casa morto di paura; tiene il Binder a dire che non
    ha affatto paura, e che ha fatto il bel gesto di rinunziare alla
    guardia che il principe avrebbe voluto mandargli31.
    
    Ci rincresce dover dichiarare che a questo punto l'austrofobia ha...
    preso la mano al nostro storico. Ecco infatti il testuale rapporto
    del Percy quale si legge nel già citato dispaccio del 16
    marzo:
    
    Credo fermamente che il barone (il Binder) sia rimasto molto
    piacevolmente sorpreso della mia commissione: egli era infatti
    estremamente agitato quando io cominciai la mia comunicazione.
    Rifiutò ciò nondimeno una cospicua protezione32,
    pregandomi di esprimere la sua gratitudine al principe, e di
    chiedergli che in caso di disordini venisse impartito alla polizia
    l'ordine di proteggere la sua casa e le persone della sua missione
    da eventuali attacchi dei male intenzionati.
    
    Nessun contrasto, dunque, tra i due rapporti del Binder e del Percy:
    e di quel «tappato a casa morto di paura», neanche la
    minima traccia!33.
    
    Un successivo colloquio col principe l'incaricato inglese ebbe il 17
    marzo. Soggetto: le voci diffuse di un imminente sconfinamento
    dell'esercito sardo in Lombardia. Riferí il Percy, quel
    giorno medesimo:
    
    Il principe, dal quale mi sono ancora una volta recato questa
    mattina, mi ha di bel nuovo assicurato esser sua ferma intenzione di
    adoprarsi per evitare le ostilità e di richiamare le truppe
    all'ordine.
    
    Ma il Percy, pur persuaso della buona fede di Carlo Alberto, non si
    era del tutto tranquillizzato.
    
    Se l'esercito – scriveva infatti due giorni appresso – porta la
    guerra in Lombardia contrariamente alle proteste fattemi dal
    principe reggente, credo che nessuno o almeno pochissimi oseranno
    straniarsi dalla causa italiana, nel timore di venir bollati di
    codardia, e in forza del principio, che si è affermato,
    secondo il quale l'atto stesso di tradire il proprio re per una
    causa cosí gloriosa sarebbe perdonabile34.
    
    Era pervenuto intanto a Torino, si sa, il duro proclama emanato il
    16 marzo, a Modena, da Carlo Felice. Il ministro inglese, in un
    secondo dispaccio del 19, lo censurò apertamente, facendo
    notare come esso venisse a «gettare il principe reggente nella
    piú grande perplessità e minacciasse di suscitare una
    guerra civile in tutto il paese» (di questa opinione non era
    il Gordon, sostituto dello Stewart a Lubiana, il quale – dopo
    essersi fatto eco delle piú gravi accuse contro Carlo Alberto
    – accertava che il proclama aveva prodotto la piú favorevole
    impressione, rivelando in Carlo Felice una energia di carattere
    molto superiore a quella che non ci si aspettasse da lui)35. In
    questa occasione (era, verosimilmente, il 18 marzo) il Percy si
    recò per la terza volta presso il reggente, che
    attestò poi di aver trovato comprensibilmente sfiduciato e
    depresso.
    
    Voleva già allora rinunziare alla reggenza, ma ne era stato
    dissuaso da tutti i ministri ed ex ministri36. Lo rivide il giorno
    20: la sera prima aveva avuto luogo una violenta e, a giudizio del
    Percy, altamente impolitica dimostrazione contro l'Austria37;
    l'incaricato inglese la deplorava tanto piú che egli aveva
    mancato, la mattina del 19, di trasmettere al principe, dietro
    richiesta del Binder, «una delle numerose lettere anonime di
    minaccia» da questo ricevuti (in quei frangenti non era
    assurdo addurre a pretesto le soverchie occupazioni per esimersi da
    siffatte incombenze?) Carlo Alberto, comunque, esibí al Percy
    
    una lettera che aveva appena ricevuto dal Binder, insieme con una
    risposta di sua mano, che diceva come, in conformità al
    desiderio espresso nella lettera del barone, gli sarebbero stati
    mandati i passaporti38.
    
    Nient'altro. Il Binder, è noto, partí in giornata.
    
    Il suo collega inglese, intanto, s'impietosiva sulla sorte del
    principe, e quasi quasi pareva auspicare che il paese in rivolta si
    stringesse intorno a lui per resistere alle imposizioni del nuovo
    sovrano.
    
    È da stupirsi – scriveva infatti – che, nello stato di
    assoluta anarchia nel quale versiamo attualmente, non vengano
    commessi piú gravi eccessi: il proclama di re Carlo Felice,
    condannando senza speranza di perdono tutti coloro che si sono in
    qualunque modo dipartiti dall'antica forma di governo, pare infatti
    concepito apposta per suscitare il piú sanguinoso
    sommovimento in tutto il paese.
    
    Sua Maestà non riconosce neanche il principe reggente, per
    quanto egli sia stato positivamente nominato a quel posto dall'ex re
    suo fratello. Ho sentito dire che, a chi gli osservava che una
    protesta siffatta (il proclama cioè) avrebbe provocato una
    guerra civile nei suoi dominî, S. M. abbia risposto: tanto
    meglio cosí39.
    
    Vane speranze, sterili sdegni. La rivoluzione era in pieno tramonto,
    mentre da Napoli giungeva la nuova del troppo facile, definitivo
    successo austriaco. La mattina del 21 Carlo Alberto in persona
    comunicava al Percy l'avvenuta partenza della sua famiglia,
    giustificandola con «ragioni di sicurezza»40. La sera
    stessa abbandonava anch'egli Torino, diretto a Novara. Onde il
    Percy, che verosimilmente ignorava come, cosí facendo, il
    principe avesse eseguito un perentorio ordine pervenutogli dal re41,
    e a cui resultava che anche il principe della Cisterna aveva preso
    il largo, accorato scriveva: «È melanconico osservare
    come quelli che hanno cosí attivamente contribuito a portare
    il loro paese allo stato attuale, siano i primi ad
    abbandonarlo».
    
    Cessavano cosí i rapporti diretti fra la legazione inglese e
    Carlo Alberto, il quale, da allora in poi, non verrà nominato
    che di passaggio nel carteggio ufficiale del Percy, pur ansioso
    osservatore di quel che accade ad Alessandria e a Novara42.
    
    Saranno le truppe fedeli sufficienti a soffocare gli estremi aneliti
    della rivoluzione, o dovrà il Piemonte soggiacere alla
    tremenda iattura dell'intervento austriaco, se non austro-russo?
    L'incaricato inglese lamenta a tal punto «la distruzione
    totale di questo bel paese, inevitabile nel caso che alle truppe
    straniere si permetta di entrarvi», che, di sua propria
    iniziativa, propone al Castlereagh di «offrire la mediazione
    dell'Inghilterra per appianare il dissidio che esiste fra S. M.
    Sarda e i suoi sudditi insorti, e per indurre il re a declinare
    l'intervento dell'Austria e della Russia»43. Ma il Castlereagh
    non intende esporsi troppo. Si limita, il 5 aprile, a esprimere al
    Gordon, a Lubiana, la sua speranza che il Piemonte possa venire a
    capo della crisi con forze proprie; che se poi un intervento
    straniero si renderà necessario, meglio far marciare in
    Piemonte le soldatesche dell'imperatore Alessandro che non quelle
    austriache44.
    
    Questo dispaccio è appena partito che, il 7 aprile, gli
    Austriaci già varcano il Ticino! L'Inghilterra, cosí
    non ha al suo attivo neanche un tentativo indiretto per salvare
    l'autonomia del Piemonte. Che piú? Di lí a qualche
    giorno il Percy dovrà declinare perfino l'invito fattogli dal
    generale La Tour d'intervenire in favore del governatore di Genova,
    minacciato dagli insorti di un processo sommario: non altro egli si
    sente di fare, per conformarsi alle direttive del suo governo, che
    d'ingiungere al console inglese di Genova di negare il passaporto
    per l'Inghilterra agl'individui eventualmente implicati nel
    deprecato processo...45.
    
    Due mesi piú tardi, rievocando i vani sforzi compiuti dallo
    stesso La Tour per ricondurre la quiete in Piemonte col solo ausilio
    delle truppe realiste, il ministro Hill scriverà (11 giugno):
    
    il generale ritiene però che se egli fosse stato appoggiato
    da qualunque altra autorità, sarebbe riuscito allo scopo
    senza l'aiuto austriaco; egli ha dichiarato altresí che se io
    fossi stato a Torino e avessi potuto appoggiarlo energicamente nei
    suoi propositi, questo resultato sarebbe stato indubbiamente
    raggiunto. Ma egli era quasi solo a nutrire quel desiderio e quella
    certezza, e venne soverchiato dalle opinioni di altre persone di
    pari autorità ed influenza.
    
    Lord Castlereagh poteva, invero, recitare il mea culpa.
    
    William Hill era tornato in sede agli ultimi di aprile. Quali
    istruzioni gli erano state impartite? Le seguenti46: a) favorire con
    ogni sforzo il ritorno al trono di re Vittorio; b) nel caso in cui
    ciò fosse risultato impossibile, sollecitare l'arrivo a
    Torino di re Carlo Felice, e indurlo a seguire i consigli del suo
    mite e assennato fratello; c) suggerire al governo sardo la
    opportunità di usare la massima indulgenza compatibile con la
    propria sicurezza verso i responsabili dei passati disordini.
    Relativamente alla questione dinastica cui già allora pareva
    dovesse dar luogo il dubbio contegno tenuto dal principe di
    Carignano di fronte alla crisi rivoluzionaria, era logico che lo
    Hill giungesse a Torino sfornito d'istruzioni precise. Troppo poco
    se ne sapeva ancora, troppo contraddittorie erano le informazioni
    fornite dalle due legazioni di Torino e di Vienna. Suo compito
    precipuo era anzi quello di raccogliere in proposito dati e
    testimonianze attendibili, sí da facilitare una eventuale
    presa di posizione da parte del Foreign Office: la cui norma
    tradizionale era per altro contraria a ogni mutamento nell'ordine
    sancito dai trattati per le successioni dinastiche.
    
    Tralasciamo qui di proposito l'attività svolta dal ministro
    inglese in tutti gli altri settori: basterà dire che a
    consigliargli prudenza e riservatezza intervenne la voce, sparsasi
    nella capitale al suo arrivo, che egli avesse la missione «di
    cacciare gli austriaci dal Piemonte»47. Tanto tenaci, malgrado
    tutto, duravano insensate illusioni sulla politica inglese!
    
    Vediamo piuttosto lo Hill all'opera per accertare le
    responsabilità di Carlo Alberto. I primi e i piú
    notevoli accenni in proposito si trovano nel suo dispaccio del 9
    maggio, malauguratamente sfuggito al Rodolico, il quale, crediamo,
    avrebbe potuto giovarsene per temperare talune fra le sue
    argomentazioni. Ne riportiamo i brani piú significativi:
    «Grande è il mio rincrescimento nel (dover) confermare,
    su informazioni dello stesso conte Revel, che da principio (i
    rivoluzionari) ebbero per loro capo S. A. S. il principe di
    Carignano... Sebbene tutti quanti (alla lettera: tutti i partiti)
    siano convinti che il principe Carignano abbia avuto parte nella
    cospirazione, si hanno in proposito, a quel che sembra, piú
    asserzioni che non particolari (concreti). S. A. S. venne
    compromesso dalle carte sequestrate nella carrozza del principe
    della Cisterna, in seguito a un'informazione fornita dal ministro
    sardo a Parigi al ministro di polizia a Torino. Si dice che
    quest'ultimo si sia immediatamente recato presso S. A. S. per darle
    la prima notizia della scoperta. Sia ciò vero o non vero, il
    principe di Carignano si recò quel giorno dal re nella sua
    residenza di campagna48 e, a quanto pare, svelò tutto quel
    che sapeva di questo complotto, compromettendo cosí tutti i
    suoi giovani amici. Per tal motivo il suo nome, già idolo di
    popolarità, non è stato da allora in poi pronunziato
    da tutti (alla lettera: da tutti i partiti) che con esecrazione e
    disprezzo. Fu tale l'effetto di questo mutamento improvviso, tale il
    turbamento per la condotta arrogante di alcuni ufficiali, che il
    principe disse al Percy che non avrebbe mai consentito a regnar sul
    Piemonte, e ad altri parlò perfino di andarsene in
    America...49.
    
    So che S. A. S. ha scritto a un amico, il quale si è molto
    distinto nel (servizio del) la causa reale a Genova per dire che
    egli è in grado di giustificarsi pienamente; ad ogni modo si
    deve tener presente che egli non ha che ventidue anni.
    
    Quando S. A. S. lasciò Torino, in seguito al primo proclama
    del duca del Genovese, e raggiunse l'esercito reale a Novara, il
    generale La Tour fece quanto poté per liberare il principe da
    questa macchia sul suo onore; ma sia perché si diceva che S.
    A. S. fosse minacciato d'assassinio se fosse ritornato (a Torino)
    con l'esercito reale, sia per qualche altra ragione, egli si
    ritirò, attraverso Milano, a Modena... e a Firenze, dove V.
    S. avrà inteso che da principio non venne troppo bene
    ricevuto dal granduca suo suocero...50.
    
    Il vecchio re Vittorio Emanuele non ha divulgato quel che è
    accaduto fra lui e il principe a Moncalieri, si dice però che
    il re abbia immediatamente accordato il suo reale perdono51. Sebbene
    ciò possa essere stato determinato semplicemente dalla
    bontà di cuore del vecchio re, le conseguenze politiche che
    ne derivano sono importanti in quanto impediscono che si possa
    gettare un cosí manifesto marchio d'infamia sull'onore
    dell'unico erede riconosciuto della Corona...52.
    
    Il lettore avrà notato da sé quel tanto di nuovo che
    questo dispaccio rivela, e talune sue inesattezze evidenti. A noi
    preme soltanto di rilevare come il ministro inglese non dubitasse
    affatto, in sede morale, diremmo, della colpevolezza del principe53,
    al quale, tuttavia, accordava l'attenuante della giovanissima
    età; in sede politica, invece, lo Hill pareva ritenere che la
    piena confessione fatta a re Vittorio, il conseguente perdono da
    questo accordato, e la savia condotta tenuta dal principe durante la
    sua tempestosa reggenza, eliminassero ogni questione circa la
    pretesa indegnità di Carlo Alberto a succedere al trono.
    
    Questa presa di posizione, equa e ragionevole, sebbene ispirata dal
    piú tenace antagonista del principe, il conte Revel, non ebbe
    a subire, vedremo, sostanziali mutamenti nel seguito, anche dopo che
    il ministro inglese attinse per la sua indagine a piú serene
    fonti: ad esse si ispirò il Foreign Office per regolare la
    sua condotta durante la prima fase della questione Carignano,
    essendo interesse inglese evidente che il ristabilimento dell'ordine
    in Italia non venisse comunque ritardato da complicazioni
    conseguenti a una crisi ormai chiusa54.
    
    Consacrati vari dispacci del maggio e del giugno a ricostruire le
    fasi della rivoluzione, a discutere il piano di occupazione
    austriaca e a sondare lo stato d'animo dei sudditi di Carlo Felice,
    lo Hill tornò a Carlo Alberto il 25 giugno, con un dispaccio
    che è stato, nella parte essenziale, pubblicato dal
    Rodolico55.
    
    In esso il ministro inglese, che ha avuto diversi altri colloqui col
    conte Revel, riferisce, in base alle costui affermazioni, essere le
    prove del «tradimento» del principe ormai innumerevoli,
    e in particolare s'indugia sui rapporti corsi tra Carlo Alberto e il
    Revel il giorno innanzi allo scoppio della rivoluzione. Quali i
    commenti dello Hill? Nel complesso non troppo sfavorevoli al
    principe: nonostante tutto non gli è riuscito ancora di
    appurare fino a qual punto egli sia stato effettivamente compromesso
    dal carteggio Cisterna; e non gli sembra credibile che egli mirasse
    davvero alla detronizzazione del re; e l'autorevole ministro di
    Prussia non gli sarebbe cosí amico se fosse vero tutto quello
    che si dice di lui. Ma l'argomento principe di cui si serve lo Hill
    per revocare in dubbio l'implacabile condanna pronunziata dal Revel
    è un altro. Leggiamolo nel testo tradotto, datoci dal
    Rodolico: «Mi si dice che la regina Maria Teresa sia tuttora
    favorevole al principe; e Sua Maestà sarebbe certamente
    l'ultima a perdonare il principe se fosse sicura che S. A. avesse
    avuto tali idee». Quali idee? Non si capisce. Forse quella di
    detronizzare il re suo consorte? Ricorriamo al testo autentico.
    Tradotto alla lettera, ecco quel che esso ci reca: «... e Sua
    Maestà sarebbe l'ultima persona a perdonare se perfettamente
    convinta che S. A. S. avesse avuto anche delle mire costituzionali
    precedenti (il sottolineato è nel testo) alla
    rivoluzione». Ora comprendiamo perfettamente. L'argomento
    piú forte usato dallo Hill per scagionare Carlo Alberto
    è dunque invalidato dalla falsa supposizione sulla quale si
    basa: sappiamo tutti infatti che mire di quel genere, e sia pur
    contestate dal presunto consenso del re, Carlo Alberto ebbe
    effettivamente anche prima del marzo fatale. Non era vero, allora,
    che Maria Teresa avesse perdonato il nipote? Oppure il perdono era
    stato concesso perché la regina ignorava tale sua colpa?
    Né l'una né l'altra cosa; il problema, ecco tutto, non
    va posto in questi termini cosí rigorosi. La regina, lo
    vedremo meglio piú oltre, credette effettivamente in una
    generica colpevolezza pre-rivoluzionaria, diciamo cosí, del
    principe, e ciò non di meno si erse in sua difesa quando
    tutti lo abbandonarono, peggio, gli si scagliarono contro,
    perché ammirata del suo coraggioso contegno durante la bufera
    rivoluzionaria. Tale il suo stato d'animo, necessariamente ignorato,
    ancora, dallo Hill. Comunque, perché mai il Rodolico ha
    soppresso l'errata illazione del dispaccio inglese? Non riusciamo a
    comprenderlo.
    
    Ho dato tutti questi particolari cosí minuziosi (seguita il
    dispaccio Hill) attesoché la questione del ritorno in
    Piemonte dell'erede presuntivo della Corona può diventar
    molto seria; tuttavia, pur senza esprimere adesso alcun desiderio in
    proposito, non posso credere che l'esilio di S. A. S. abbia ad
    essere cosí lungo come s'imagina il conte Revel (la cui
    opinione era «che non si sarebbe tollerato il ritorno del
    principe nel paese per periodo assai lungo, e forse mai piú
    finché vivesse il re»): la cosa dipenderà in
    gran parte dai futuri ministri del re e da altre circostanze.
    
    Pur continuando ad attingere principalmente al Revel per le sue
    informazioni, lo Hill – si vede – comincia a formarsi un giudizio
    indipendente e fondamentalmente ottimistico. Di lí a poco,
    trasferendosi a Genova, egli ebbe modo di considerare anche
    piú oggettivamente le cose. Al Rodolico è
    malauguratamente sfuggito il dispaccio Hill del 15 luglio, datato
    appunto da Genova, che avrebbe potuto fornirgli non inutili
    ragguagli. Leggiamo quel tanto che ci può interessare:
    
    Il conte Des Geneys (governatore della città, cui Carlo
    Alberto reggente aveva aperto con tutta fiducia l'animo suo: un
    personaggio non certo sospetto di cosciente acrimonia contro di
    lui56) mi ha confermato l'intenzione del re circa il principe di
    Carignano...: a S. A. S. non si permetterà di ritornare a
    Torino. Sua Maestà ha confessato al conte Des Geneys che, fra
    tutti i casi della rivoluzione, nessuno lo ha imbarazzato o toccato
    al vivo quanto la situazione attuale e la precedente condotta del
    principe. Avendo chiesto al conte con quale pretesto il re potrebbe
    continuare (a esercitare) la sua severità nei confronti del
    principe, posto che il re abdicato lo aveva non solamente perdonato,
    ma nominato reggente, egli mi ha risposto che S. M. Vittorio
    Emanuele, quando aveva perdonato il principe, non era a conoscenza
    delle prove esistenti circa il suo tradimento antecedente. Nel
    lasciare questa città (Genova) per Lucca, re Vittorio
    Emanuele deviò dalla sua strada, perdendosi perciò per
    qualche ora fra i monti, per timore d'incontrare il principe che, a
    quanto si diceva, aveva deciso di muover da Firenze a questo
    scopo57.
    
    Certo che la corte deve trovarsi nel piú grave dilemma circa
    S. A. S.: giacché se il principe venisse perdonato, si
    farebbe, in qualche misura, ingiustizia a molti ufficiali già
    condannati... D'altra parte il principe è erede presuntivo
    della Corona, e ha un bambino... Si pensa forse di trasmettere i
    suoi diritti ai suoi cugini di Francia, fin qui ignorati dalla corte
    per le loro mésalliances? C'è chi lo dice.
    
    La testimonianza del Des Geneys è molto importante: contro di
    essa non valgono, infatti, gli argomenti abilmente usati dal
    Rodolico per infirmare la versione Revel. È il Des Geneys che
    per il primo insinua nell'animo del ministro inglese il dubbio che
    il perdono di re Vittorio, da lui fino allora considerato
    sufficiente a chiarire giuridicamente la posizione del principe,
    possa considerarsi come non avvenuto, perché accordato in
    seguito a una confessione reticente. Di piú: che le
    circostanze medesime nelle quali esso è stato accordato,
    possano costituire una singolare aggravante per la posizione del
    principe. L'aver re Vittorio evitato con tanta cura, a rischio di
    perdersi fra i monti, un incontro con lui, non autorizzava il
    sospetto, e quasi la certezza, che il duro contegno di Carlo Felice
    verso l'erede presuntivo fosse, piú che giustificato,
    pienamente approvato dal suo bonario fratello? Il ministro Hill,
    è ben naturale, restò sconcertato e dubbioso. Perfino
    il conte d'Aglié (l'equilibrato rappresentante sardo presso
    la corte inglese), allora di passaggio per Genova, gli aveva
    espresso la sua «cattiva opinione» di Carlo Alberto58.
    
    Solo un colloquio diretto con i due sovrani poteva ormai chiarire la
    complessa questione. Per l'appunto in quei giorni lo Hill aveva
    ricevuto dal Foreign Office le ritardatissime credenziali per Carlo
    Felice59. Si mise dunque in viaggio (il 25 luglio) per Modena, dove
    soggiornava allora la famiglia reale al completo. Passò da
    Firenze, donde – scrisse il 18 d'agosto – «per fortuna il
    principe era assente».
    
    Non ci teneva a incontrarsi con lui! La prima persona che vide, a
    Modena, fu il generale La Tour; venne poi ricevuto da re Carlo
    Felice, che lo trattenne amichevolmente a colloquio per quasi
    un'ora. Si capisce che lo Hill aveva dovuto nutrire di lui, fino
    allora, una ben povera opinione (come tutti, del resto) se, nel
    rendere conto di questo colloquio, sentí il bisogno di
    attestare che il re aveva parlato «con buon senso, gusto,
    sentimento, e senza alcuna durezza»!60. Quel che gli disse di
    Carlo Alberto già sappiamo dal Rodolico61: Carlo Felice
    rievocò i rapporti d'intimità che nel passato lo
    avevano unito a lui, accennò poi all'improvviso
    raffreddamento verificatosi da parte del principe già un anno
    innanzi, e che a quel tempo era stato spiegato con motivi inerenti
    alla sua condotta privata; ma adesso il re supponeva «che il
    principe stesse già allora cospirando, e che fosse, o troppo
    occupato per potersi mostrare, o che se ne vergognasse». Fin
    qui il brano riprodotto dal nostro storico. Ma il testo prosegue:
    
    Avendo udito a Firenze... che il principe Carignano aveva deciso di
    domandare che la sua condotta venisse giudicata da una corte
    marziale62, e che la Russia l'avrebbe appoggiato in questa domanda,
    menzionai la prima di queste voci a S. M.; S. M. immediatamente
    rispose: verrebbe certamente condannato se mai (la corte marziale)
    gli venisse concessa.
    
    E lo Hill, a commento:
    
    Non citerei questi piccoli particolari se essi non avessero
    contribuito, insieme con le altre circostanze piú flagranti,
    alla ferma e importante determinazione, cui adesso si è
    giunti, di non piú permettere il ritorno del principe a
    Torino.
    
    Anche in questo caso, ne conveniamo senz'altro, il brano omesso dal
    Rodolico non ci rivela proprio nulla di nuovo: la questione della
    corte marziale e l'altra del ritorno di Carlo Alberto erano
    già state, infatti, affrontate e, almeno pareva, risolte,
    durante il viaggio di Carlo Felice in Toscana, nel mese di giugno.
    Il lettore però potrà darci torto se ci permetteremo
    di dire che, a nostro giudizio, quella secca, perentoria risposta
    del re circa l'inevitabile esito di un giudizio marziale istituito a
    carico di Carlo Alberto meritava di venir riportata? Se non altro
    per giustizia verso Carlo Felice, che non è equo
    rappresentare come unicamente intento, in un colloquio con un
    diplomatico straniero, a dar sfogo ai suoi malevoli e generici
    risentimenti contro l'erede al trono. La di lui convinzione assoluta
    della inescusabile colpevolezza di Carlo Alberto può e deve
    venire ampiamente discussa; ma è pur doveroso rendergli atto
    che egli ben seppe esprimerla al ministro d'Inghilterra con
    dignitosa, regale fermezza.
    
    E a questo proposito ci si permetta una breve parentesi. Tanto il
    Luzio che il Lemmi63, e dietro a loro molti altri storici, osservano
    che con la lettera diretta a Carlo Alberto il 31 marzo 1821 Carlo
    Felice pareva aver perdonato il nipote, o quanto meno che dal
    contesto di quella lettera egli pareva animato verso di lui da
    sentimenti ben piú indulgenti di quelli manifestatigli nel
    seguito. Come si spiega un siffatto mutamento?
    
    Secondo essi Carlo Felice sarebbe rimasto profondamente urtato dai
    tentativi di Carlo Alberto successivamente compiuti per persuadere
    re Vittorio a riassumere la corona, per interessare alle sue sorti
    le corti estere (Memoriale dell'aprile '21, ecc.). Il che è
    indubitabile; e se ne ha una ennesima riprova nelle dichiarazioni
    fatte dal Della Valle (reggente la segreteria degli esteri) allo
    Hill nell'aprile del '22, secondo le quali se il Carignano si fosse
    astenuto dall'intrigare a suo proprio vantaggio e, soprattutto,
    dall'aprire, per iscritto, la discussione sul problema della sua
    responsabilità, Carlo Felice si sarebbe trovato, nei suoi
    confronti, in una posizione incomparabilmente piú
    difficile64. Non si dimentichi per altro che, il 21 marzo '21, Carlo
    Felice ignorava ancora i retroscena della rivoluzione e non nutriva
    che presunzioni generiche contro il contegno tenuto da Carlo Alberto
    innanzi l'11 marzo; il principale capo d'accusa che a quell'epoca
    egli poteva formulare contro di lui era quello di avere abusato
    delle sue provvisorie funzioni di reggente per promulgare la
    costituzione di Spagna. Ben altre informazioni dovettero pervenirgli
    nel seguito, piú che sufficienti, invero, a ispirargli un
    invincibile risentimento verso il suo nipote ed erede, anche se
    questi, confinato a Firenze, avesse serbato quell'atteggiamento di
    contrita riservatezza che ci si aspettava da lui. Perdonato una
    prima volta da re Vittorio, una seconda, seppure assai meno
    esplicitamente, dal suo successore, Carlo Alberto, comunque, non
    beneficiò degli effetti né dell'uno né
    dell'altro perdono, essendo entrambi stati accordati in piena
    tempesta rivoluzionaria, a conclusione di una indagine
    necessariamente affrettata e incompleta delle circostanze di fatto.
    
    Che era giusto, dopo tutto. Solamente un lungo corso di anni,
    vissuti da Carlo Alberto in penosa ma fruttuosa macerazione di
    spirito, poteva giustificarlo agli occhi del suo re, e, che
    piú importa, del suo popolo: anni durante i quali le
    drammatiche antinomie del processo nazionale italiano, che avevano
    travolto il giovane principe, si sarebbero di continuo ripresentate,
    maturando cosí lentamente nuovi svolgimenti e nuove
    soluzioni, superanti e integranti quelle esigenze in contrasto.
    
    Ma torniamo allo Hill. Congedatosi da Carlo Felice, egli si
    presentò alla regina regnante, e quindi all'ex re Vittorio,
    il quale, accoltolo con l'usata cordialità65, lo trattenne a
    lungo colloquio. È un vero peccato che il Rodolico non abbia
    analizzato il resoconto che lo Hill ne dette in quello stesso
    dispaccio del 12 agosto già da lui esaminato per le
    dichiarazioni di Carlo Felice. Ne giudichi, del resto, il lettore:
    
    Sua Maestà – cosí scriveva il ministro inglese –
    confermò l'opinione del suo regale fratello, secondo la quale
    il principe di Carignano verrebbe condannato se gli fosse concessa
    una corte marziale. Il re dichiarò che quando il principe,
    giunta la prima notizia della rivolta di Alessandria, si era recato
    da lui a Moncalieri insieme col generale Gifflenga66, egli lo aveva,
    sí, perdonato per ogni sua colpa antecedente a
    quell'episodio; ma a quel tempo, osservò Sua Maestà,
    egli ne sapeva ben poco, giacché il principe non era stato
    gran che compromesso dalle carte sequestrate al principe della
    Cisterna. Senonché S. A. S., non appena tornato a Torino, si
    era compromesso di bel nuovo con i complotti dei cospiratori. Sua
    Maestà non spiegò se di questo fosse già stato
    informato quando aveva nominato il principe Carignano reggente, o se
    le circostanze l'avessero obbligato a quel passo.
    
    Il re mi disse che nella notte fatale dell'abdicazione egli era
    stato tradito dalla sua stessa anticamera, giacché ogni
    risoluzione adottata o modificata veniva sull'istante a conoscenza
    della folla fuori del palazzo. I suoi cavalli per recarsi presso le
    truppe erano pronti, ma egli era stato soverchiato da cattivi
    consigli. La grandissima maggioranza della moltitudine era composta
    di persone innocenti, attirate dalla curiosità: S. M. avrebbe
    desiderato, perciò, che si emanasse un proclama per
    disperdere il popolo, o almeno per separare i curiosi dai rivoltosi;
    dopo di che avrebbe ordinato alle sue truppe di caricare o anche di
    far fuoco67. Il re aggiunse tuttavia che a questo punto egli aveva
    chiesto al colonnello del reggimento Aosta se poteva fidarsi del suo
    reggimento; questi aveva risposto che poteva fidarsene per tutto
    fuor che per far fuoco su compatriotti; (il re) aveva poi rivolto
    quella domanda al colonnello delle guardie, il quale aveva risposto
    che il suo reggimento avrebbe obbedito qualunque ordine fosse
    piaciuto a S. M. di impartire. Il re si era allora rivolto al
    principe Carignano per chiedergli se poteva contare
    sull'artiglieria: il principe aveva dichiarato che si trovava nella
    necessità di dare l'identica risposta del colonnello del
    reggimento Aosta.
    
    Tali le dichiarazioni di re Vittorio riguardanti Carlo Alberto.
    Senonché diversi mesi piú tardi, annotando ad uso di
    lord Castlereagh la celebre prima autodifesa del principe68, lo Hill
    si sovvenne di un particolare importante del suo colloquio di
    Modena, che nel dispaccio del 12 agosto aveva dimenticato di
    riferire. Carlo Alberto, è noto, attestava in quel suo
    scritto di avere, l'11 marzo '21, vanamente espresso in Consiglio
    parere favorevole alla concessione della costituzione francese; il
    giorno appresso (sempre nel suo racconto), urgendo gl'insorti per
    ottenere la costituzione di Spagna, e opponendovisi il re, la
    regina, dopo aver consigliato, caso mai, l'adozione di quella
    inglese,
    
    mi disse in presenza di tutti quei signori che si meravigliava come
    io avessi suggerito il giorno prima la costituzione francese, mentre
    qualche giorno addietro avevo detto al re che la costituzione di
    Spagna era il maggior guaio che potesse toccare ad un paese e che un
    sovrano non deve mai umiliarsi. Risposi allora a Sua Maestà
    che tale era tuttora il mio modo di pensare69.
    
    Sembra un qui pro quo: la regina che rimprovera il principe per
    avere consigliato la costituzione francese dopo avere sconsigliato
    quella spagnuola; forse che v'era contraddizione fra i due
    propositi? Lo Hill chiarí la cosa nel dispaccio 9 febbraio
    1822:
    
    A conferma di questo aneddoto re Vittorio mi disse a Modena che,
    alcune sere prima della rivoluzione, il principe, trovandosi nel
    palco reale al Gran Teatro, aveva condannato nei termini piú
    energici qualunque sistema costituzionale70; e il re lo aveva
    ricordato a S. A. S. allorquando la regina gli aveva rivolto
    quell'attacco.
    
    Ora sí che s'intende lo sdegno della regina!71.
    
    Un altro punto nel quale la narrazione di Carlo Alberto non coincide
    con quella di re Vittorio redatta dallo Hill, è quello
    riguardante il «Consiglio di guerra» dell'11 marzo.
    Abbiamo veduto la versione del re; quella del principe sostiene
    invece: a) che il principe era stato interrogato pel primo; b) che
    aveva dichiarato «che rispondeva interamente dell'artiglieria
    leggera e che in quanto all'artiglieria a piedi poteva assicurare
    che si sarebbe fatta ammazzare per difendere la persona del re, ma
    che non poteva risponderne per agire»; c) che oltre al
    colonnello delle guardie anche il colonnello del Piemonte Cavalleria
    aveva dichiarato che rispondeva interamente del suo reggimento.
    Quale la verità? Difficile accertarla72; ci sembra comunque
    non privo d'interesse il riportare a questo proposito la versione
    d'un testimone oculare, pur sospettissimo, il Della Valle, il quale
    fece molti mesi piú tardi le sue confidenze allo Hill.
    Secondo il Della Valle (dispaccio Hill 3 agosto 1822) il primo a
    parlare, in quella occasione, era stato il colonnello Ceravegna, del
    reggimento Aosta, nel senso già noto.
    
    Il Della Valle, udito ciò e veduto il principe secondare
    quella dichiarazione con cenno di approvazione, si volse al Vallesa,
    che assisteva al Consiglio quella notte fatale, osservando anche lui
    quel che stava succedendo, e tutti e due dissero a un tempo:
    «Non fosse la presenza del re, dovremmo buttarli dalla
    finestra».
    
    Grottesca spavalderia, d'accordo; alla verità della scena
    sembra, per altro, dare una indiretta conferma la testimonianza di
    un terzo testimone oculare, il Saluzzo. Questi, è noto, venne
    da Carlo Felice mandato, nel '22, ministro a Pietroburgo. In uno dei
    primi colloqui che ebbe col ministro degli esteri russo, il
    Nesselrode, avendogli questo domandato «perché gli
    ufficiali che circondavano il re la notte dell'abdicazione non
    avessero immediatamente arrestato il colonnello del reggimento
    Aosta», il Saluzzo (ci riferisce lo Hill nel già citato
    dispaccio 3 agosto 1822)
    
    rispose con grande presenza di spirito: Vostra Eccellenza sa che non
    avremmo potuto arrestare il colonnello di quel reggimento senza
    arrestare un personaggio di rango molto piú elevato73; al che
    il conte Nesselrode mutò immediatamente argomento.
    
    Rinunziando comunque a contrapporre le deposizioni di Carlo Alberto
    e di re Vittorio per pronunziarci sul maggior grado di
    attendibilità dell'una o dell'altra, questo solo ci preme di
    rilevare: che nell'agosto del 1821 re Vittorio giudicava la condotta
    del Carignano con altrettanta se non addirittura con maggiore
    severità di Carlo Felice; al punto da ritenerlo
    indiscutibilmente condannabile da una corte marziale; al punto da
    considerare il perdono di Moncalieri come moralmente invalidato
    dalle circostanze nelle quali era stato concesso74; al punto (e
    questo è l'elemento piú grave) da ritenere opportuno
    di influenzare in senso contrario agl'interessi del principe il
    ministro di quella grande potenza che, per essere antica alleata del
    Piemonte e, insieme, non sospetta di voler esercitare indebite e
    interessate pressioni sulle sue direttive politiche, era forse la
    piú idonea a pronunziare nel consesso europeo una parola di
    serena giustizia, atta a risolvere nel modo piú prudente e
    piú equo la questione dinastica sarda75.
    
    Piú favorevole a Carlo Alberto era invece, si sa, l'ex regina
    Maria Teresa. Essa precorreva l'equo giudizio della posterità
    asserendo che la coraggiosa condotta da lui tenuta nei giorni del
    pericolo e delle responsabilità, quando cosí facile
    era stato, e cosí comodo, ai severi censori del poi il
    ritirarsi ad aspettare gli eventi, meritasse pure riconoscimento, e,
    insieme, riscattasse in gran parte i suoi torti antecedenti. La
    testimonianza della regina riveste certo un valore notevole;
    ond'è che ben a ragione il Rodolico v'insiste di continuo.
    Siamo lieti, perciò di potergli segnalare un'altra prova
    significativa della di lei parzialità per Carlo Alberto. Essa
    si trova nello stesso dispaccio Hill del 12 agosto:
    
    Dopo aver preso congedo da S. M. – egli scriveva – ottenni una
    udienza dalla regina Maria Teresa, una principessa di grande ingegno
    e capacità. Il discorso di S. M. fu in gran parte dedicato a
    giustificare l'abdicazione del re... Usando un linguaggio assai
    epigrammatico, essa disse che, nonostante una lunga negoziazione e
    l'abuso di falsi colori nel dipingere la situazione, il re si era
    trovato nelle condizioni seguenti: i ribelli nella Cittadella
    minacciavano di bombardar la città e il palazzo (reale) se il
    re non avesse immediatamente firmato la costituzione di Spagna; il
    re, tenendo sempre presente la provvidenziale assenza di suo
    fratello, aveva preso (allora) la decisione, del tutto inaspettata,
    di abdicare: ciò che aveva sconvolto completamente i piani
    dei rivoluzionari e l'intera rivoluzione76. In un precedente
    dispaccio ho detto che la regina passava per essere un po'
    piú favorevole al principe del rimanente della famiglia
    reale. (In questa occasione) S. M. non mi disse che poche parole
    relativamente al principe; senonché, esprimendosi severamente
    sul conto degli Spagnuoli e della costituzione di Spagna, S. M.
    osservò che tutt'al piú le idee del principe Carignano
    non erano mai andate piú in là della Carta francese77.
    
    Anche in successivi dispacci piacque allo Hill insistere sulla
    indulgenza della regina per Carlo Alberto78. Conviene a questo punto
    domandarci se tale indulgenza, pur spontanea, non coincidesse per
    avventura con gli interessi di Maria Teresa, che già vedemmo
    – la sera del 12 marzo – vivacemente ostile al principe. Orbene, a
    noi sembra abbastanza probabile che proprio lo stesso motivo che
    piú d'ogni altro contribuí a inviperire Carlo Felice
    contro di lui (i reiterati tentativi da lui compiuti per persuadere
    re Vittorio a riascendere il trono) sia stato quello che valse a
    riconquistargli le simpatie di Maria Teresa. La regina era
    ambiziosa, di carattere attivo ed energico; passata la bufera
    rivoluzionaria, è verosimile che due sentimenti lottassero in
    cuor suo: il desiderio di veder abrogato l'atto di abdicazione, e la
    preoccupazione per la salute di re Vittorio che esigeva assoluto
    riposo. La premurosa insistenza di Carlo Alberto, ad ogni modo,
    soddisfaceva il suo amor proprio. Piú tardi essa lottò
    virilmente, oltreché contro minori pretese del nuovo re suo
    cognato, contro quella, apparentemente ingiustificata e inumana, di
    tener lontani dal Piemonte re Vittorio e lei stessa (ciò
    risulta con sufficiente evidenza dall'insieme del carteggio di
    Hill). Occorre dire che Carlo Alberto non poteva non seguire con la
    piú viva simpatia questi suoi sforzi diretti contro il comune
    loro persecutore, sforzi dei quali il ministro inglese si era fatto
    caloroso sostenitore e campione?
    
    Una tal quale comunanza di risentimenti e solidarietà
    d'interessi li univa dunque; quella solidarietà che fece
    perfino temere allo Hill, il giorno in cui parve che re Vittorio e
    Carlo Alberto, benché per opposti motivi, fossero entrambi, e
    forse per sempre, banditi dalla patria loro, che «la corte
    abdicataria potesse entrare in Piemonte con intenzioni ostili,
    accompagnata dal principe di Carignano». La mitezza di re
    Vittorio, per fortuna, rendeva quei timori infondati; ma, come
    scriveva lo Hill, «dal talento e dal risentimento della regina
    v'è tutto da temere»79.
    
    Una quinta udienza ottenne il ministro inglese a Modena:
    dall'arciduca Francesco. L'influenza da lui notoriamente esercitata
    su Carlo Felice, il prestigio di cui godeva a Vienna, le voci che
    erano corse su una possibile devoluzione a sua moglie, e quindi a
    lui, dei diritti di successione alla Corona sarda, tutto ciò
    rendeva particolarmente importante il conoscere il suo punto di
    vista sulla questione Carignano. Ma il duca di Modena, se a lungo
    intrattenne lo Hill su argomenti di politica generale,
    scandalizzando il suo interlocutore (che ricordava di avere udito da
    lui, non troppi anni innanzi, ben diversi propositi!) con le
    smaccate sue professioni antiliberali80, «evitò
    accuratamente l'argomento del principe di Carignano; una sola volta,
    essendo ricorso il suo nome, S. A. R. si serví di espressioni
    piuttosto sprezzanti».
    
    Tiriamo le somme. Reduce dal viaggio di Modena, William Hill si
    confermò in sostanza nel primitivo suo atteggiamento circa la
    questione Carignano. Egli riteneva ormai: a) che, nonostante le
    innegabili colpe del principe nella fase preparatoria della
    rivoluzione, non sussistessero a suo carico elementi di tale
    gravità da giustificarne l'esclusione dalla successione al
    trono sabaudo; b) che la situazione dinastica, considerata in se
    stessa, rendesse ad ogni modo estremamente sconsigliabile tale
    esclusione, anche se operata, secondo l'opinione e il desiderio
    prevalenti81, a beneficio del diretto discendente di Carlo Alberto;
    c) che, nonostante i fieri propositi per allora nutriti da Carlo
    Felice, questi avrebbe o prima o poi accordato al Carignano il
    definitivo perdono; d) che, ammesso che Carlo Alberto avesse dovuto
    un giorno regnare, sarebbe stato opportuno di non prolungare di
    troppo il periodo della sua «disgrazia» ufficiale82.
    Tale il suo punto di vista, tali le direttive alle quali, nei mesi
    seguenti, egli ispirò la sua molto prudente, ma non meno
    tenace azione politica83. Conosciuto un po' meglio il nuovo sovrano,
    lo Hill non tardò a comprendere come, «nel caso che S.
    M. potesse un giorno disporsi a perdonare il principe di Carignano,
    sarebbe stato suo desiderio che questo atto apparisse (compiuto)
    interamente di sua propria iniziativa»84. I governi alleati
    potevano dunque (e forse dovevano) adoprarsi a vantaggio di Carlo
    Alberto, procurando di aiutarlo a vincere i sincerissimi scrupoli
    del re di Sardegna; ma non mai illudersi di poter indurre
    quest'ultimo a un non sentito perdono: a meno che non si decidessero
    – ipotesi assurda – a forzar su di lui la volontà dei
    piú forti85.
    
    Non aveva egli ripetutamente minacciato di abdicare piuttosto che
    lasciarsi imporre dalle potenze adunate a Lubiana indesiderate
    riforme da introdurre nei suoi Stati? E non avevano in quel caso, le
    potenze, receduto, non essendo conforme ai desideri di alcuna di
    esse che Carlo Alberto salisse cosí presto sul trono?86.
    
    Prudenza e pazienza, dunque: specie dopo quella intervista di
    Hannover (ottobre '21) che aveva ristabilito fra il Castlereagh e il
    Metternich un'intesa completa, basata sui comuni interessi
    dell'Inghilterra e dell'Austria nel vicino Oriente e in Spagna87.
    
    D'accordo con i miei colleghi ho sempre pensato – scriveva lo Hill
    in un dispaccio segretissimo del 23 febbraio '22 – che, se mai S. A.
    S. il principe di Carignano tornerà (in patria) tanto prima
    avrà luogo questo ritorno, tanto meglio; ho anche giudicato
    severo il provvedimento di esclusione contro un cosí giovane
    principe; ma conoscendo i forti pregiudizi del re, l'effettiva
    colpevolezza del principe, e la poca speranza o opportunità
    di vincere un punto di questa importanza con la fretta o la
    violenza, non solamente ho serbato io stesso il silenzio, ma, se
    mai, ho dissuaso altri dall'abbandonarsi a un'attività troppo
    spinta88.
    
    Senonché sul cader del '21 Carlo Felice improvvisamente
    deliberava di sottoporre ai suoi augusti alleati l'inderogabile
    determinazione cui era pervenuto di escludere Carlo Alberto dal
    trono. La legazione inglese non ne venne informata (in tutta
    segretezza) che nel febbraio dell'anno successivo. Alla segreteria
    degli esteri, volendosi giustificare tanta severità del re,
    si ebbe cura di far osservare allo Hill, dal quale ci si aspettava
    un congruo appoggio a Londra89, come la grandissima maggioranza
    della nobiltà piemontese fosse notoriamente, risolutamente
    ostile a Carlo Alberto: del che il ministro inglese non poteva,
    allora, non convenire90. Ma qual era nei suoi confronti lo stato
    d'animo degli altri ceti sociali? Né il Revel, il quale si
    atteggiava a uomo superiore alle meschine vicende della questione
    Carignano91, né il Della Valle, né il Saluzzo92,
    né il re medesimo parevano preoccuparsene. Non cosí il
    ministro Hill, il quale – 23 febbraio – scriveva a lord Castlereagh
    che, anziché con orrore,
    
    molte persone del ceto inferiore avrebbero forse accolto il ritorno
    del principe con indifferenza, se non con piacere, scorgendo qualche
    attenuante (a suo favore) nella sua giovane età, e giudicando
    eccessivamente severa la sua definitiva espulsione93.
    
    Cosí avvenne di fatto. E a noi piace di additare nella
    sintomatica anticipazione di quel diplomatico un lontano e sia pur
    vago presagio di quella fruttuosa intesa fra monarchia e ceti medi,
    che costituí forse la piú profonda innovazione del
    regno di Carlo Alberto, e, in quanto quel sovrano la volle e la
    mantenne, uno dei principali motivi della sua tormentata grandezza.
    
    Ma non il solo Hill, allora, avventurava profezie. Al conte Della
    Valle, il nemico piú meschino e piú acerrimo che Carlo
    Alberto contasse in Piemonte, va forse il merito d'averne dettate
    due anche piú luminose: quella che se mai, per disgrazia, il
    Carignano fosse salito sul trono, «la miglior speranza per il
    Piemonte sarebbe consistita in un qualche sistema
    costituzionale»94; e l'altra, men vera nella sua materiale
    accezione, eppure anche piú profondamente vera, che, in quel
    caso, l'Austria in Lombardia non sarebbe certo rimasta piú di
    due anni95.
    
    II.
Giuseppe Montanelli
    
    1.
Frammento della incompiuta vita
di Giuseppe Montanelli
    
    La giovinezza.
    
    Fucecchio è un antico borgo che, armoniosamente, toscanamente
    disposto sulle pendici di una collinetta, domina la vallata
    dell'Arno fra Empoli e Pontedera. La piana, ai suoi piedi, è
    maravigliosamente bella e feconda. In lontananza, a ponente, sfumano
    i monti di Pisa, e a mezzogiorno le stanno di fronte le torri di San
    Miniato, col lunghissimo corteggio di case allineate in doppia fila
    sul crinale di un poggio. Dalla parte opposta, sono le giogaie
    dell'Appennino, macchiate di castagneti, piú sotto il famoso
    padule, oggi in gran parte prosciugato. Borgo antico, Fucecchio come
    attestano i mozziconi di mura e le due torri rossastre, coronate di
    verde che la sovrastano; come attestano certi suoi palazzotti, e le
    viuzze sinuose e scoscese. La gente è industriosa, fiera,
    risentita; cattolica, ma libera; povera, ma con altissimo senso di
    sé. Dopo le chiese, piú numerosi vi sono le osterie e
    i caffè: luoghi di ritrovo e questi e quelle, ché i
    fucecchiesi amano di radunarsi a crocchio, per parteggiare e
    motteggiare e accapigliarsi, o anche per implorare il Signore e
    festeggiare, chiassosamente, il carnevale o il santo patrono.
    
    In questo luogo, vero nodo strategico tra Firenze, Siena, Pisa,
    Lucca e Pistoia, e dominante le tre vallate dell'Arno, della Pesa,
    della Nievole; a due passi da Vinci e a mezz'ora di vettura dalla
    Certaldo di Giovanni Boccaccio, in questo luogo, il 21 gennaio del
    1813, nasceva Giuseppe Montanelli. La casa dei suoi, piú che
    decente, sorgeva proprio nel centro, schiacciata in mezzo ad altre
    case bige, un po' cupa, senza sfondo di giardini o di larghi,
    tipicamente provinciale nel suo decoroso prospetto a pietrami, con
    un gran tetto spiovente. Il padre, Alessandro, era un piccolo
    possidente di terra e di case, ma soprattutto maestro dilettante di
    violino, organista e compositore d'occasione, personaggio importante
    in un paese in cui la passione musicale è sentitissima in
    tutti, e in una regione in cui l'orgoglio di possedere una banda, e
    di misurarla in periodiche sfide con l'altre del circondario,
    apporta tradizionalmente magri bilanci municipali. Luisa Pratesi, la
    madre, proveniva da una famiglia di grossi negozianti livornesi:
    avvenente della persona, d'animo e di temperamento dolcissimi, e
    d'intelligenza particolarmente vivace. La imaginiamo di fattezze un
    po' esili, di poca salute, e forse un po' spaesata in quel borgo di
    gente grossa e rumorosa, in cui le parentele erano e sono
    vastissime, e anzi metà della popolazione portava quello
    stesso casato dei Montanelli.
    
    Giuseppe, toscanamente Beppe, fu il primogenito: seguirono due
    femmine, Teresa e Gegia. Prima infanzia senza storia nella bambagia
    della casa paterna, mentre la patria vedeva senza rimpianti e senza
    entusiasmi crollare la prestigiosa impalcatura francese e rientrare
    a palazzo Pitti, dalle brume del Nord, il bonario granduca, in tiro
    a quattro. Girate pei colli, a diporto o per visitare i poderi, e
    lunghe soste in chiesa, col padre rapito all'organo o con la madre
    in preghiere. Le due grandi passioni della sua vita, l'aperta
    campagna e la musica, mentre il problema religioso fu sempre il suo
    piú profondo e costante tormento: che eran poi tre modi
    diversi di avvicinarsi a quel Dio che gli riempiva l'anima del suo
    mistero, quando anche, fatto grande, volle provarsi a negarlo:
    certo, vie migliori e piú attraenti che non gli sapesse
    additare, dall'alto della sua professionale imperturbabilità,
    lo zio prete, fratello del padre, che viveva in famiglia, all'ombra
    della Collegiata, un po' pedagogo e un po' persecutore dei tre
    nipotini.
    
    Con l'alfabeto, Beppe impara le note: sillabario e gorgheggio son la
    sua dose di tutti i giorni. Ha una bella vocina perfettamente
    intonata, che il babbo e un altro musicista del luogo – il maestro
    titolare della banda – badano a educargli: a otto o nove anni
    già trilla, in chiesa, negli assolo, tanto che i paesi vicini
    se lo disputano per cantare nelle grandi solennità religiose.
    Spesso, quando è in campagna, improvvisa secondo il suo
    estro, o anche seduto al piano: e il padre sogna di mandarlo, un
    giorno, a studiare nel celebre conservatorio di Napoli, che ha dato
    al mondo il prodigio di un Bellini.
    
    Lo zio prete, che ha fama di erudito e di poeta sacro, e che
    comunque passa alcune ore del giorno rintanato fra i molti suoi
    libri, è il suo primo maestro; o almeno è lui che,
    oltre ad infliggergli i rudimenti del latino, lo inizia ai misteri
    della versificazione.
    
    Nove anni, bella vita: e se una precoce e malinconica
    maturità vela talvolta il suo sguardo, se la fragilità
    della sua complessione fa sí che in famiglia si trepidi
    sempre un poco per lui, non per questo gli sono ignote le bande dei
    monelli, e il libero errare in quella liberissima terra, e le
    spedizioni nei paesi vicini, Castelfranco di Sotto, San Pierino,
    sulla grande strada pisana, Lamporecchio, patria dei brigidini. Ma
    il culto per la mamma – un culto spinto fin quasi alla
    morbosità – sovrasta in lui ogni altro sentimento.
    
    Cerca le carezze di lei con un abbandono e uno slancio che i
    piú dei coetanei considerano indegno, ormai, della loro
    adolescenza incipiente; e in lei si rifugia freneticamente, quasi
    presago di un prossimo abbandono.
    
    La bella vita, infatti, è al suo termine. Un altro zio prete,
    che in Pisa è salito in grado eminente – rettore del collegio
    di Santa Caterina – insiste perché il fanciullo gli venga
    affidato: il collegio è il migliore di Pisa, se Beppe ha
    ingegno là si farà le ali. Beppe inizia il suo volo
    col cuore grosso; mai ragazzo di provincia soffrí tanto allo
    stacco. Pisa è una risplendente meteora e vi ha sede la
    famosissima università, che sforna medici e avvocati e
    impiegati di governo; ma non è senza sgomento che da
    Fucecchio ci si avventura in quel mare, e il collegio può
    sembrare una prigione a chi è avvezzo a tanta aria, a tanto
    moto, a tanto verde.
    
    Addio Fucecchio, addio marmaglia giocosa, addio babbo e mamma e
    sorelle: dalla diligenza che vola via tra suon di bubbole e
    schiocchi di frusta, il «signorino» avviato alla tonaca
    o alla toga, converte in lacrime l'invidia dei compagni, mentre gli
    sfilan davanti le care cose di tutti i giorni.
    
    Lo zio rettore lo accoglie bene in collegio, ma da uomo positivo
    comincia subito a levargli i grilli dal capo: latino e grammatica
    han da essere, e il pianoforte vien severamente proibito: la musica
    non è che uno spasso lecito a tempo perduto.
    
    Imprigionato in quelle alte mura, tra gente sconosciuta, privato di
    quella divina armonia che gli parla la lingua della sua casa e dei
    suoi colli nativi, Beppe si consuma in tristezza. Passano lunghi
    mesi invernali, grigi come l'anima sua, cui già nella vita
    non par di scorgere che dolore e rinunzia. Gli studi procedono
    cosí fiacchi e mediocri che lo zio rettore risolve di
    rimandarlo a casa per qualche mese, a ritemprarsi. E finalmente
    Beppe ritorna a Pisa col sospirato permesso del pianoforte, la prima
    battaglia vinta: ché se non si giunge a concedergli un
    maestro di musica, come vorrebbe, pure si industria a esercitarsi da
    sé e del resto è già in grado, fra i tasti e la
    voce, di saziare quel bisogno di pura bellezza che lo tormenta e lo
    esalta. Si procura musica nuova, altra ne compone da sé, e
    cosí rasserenato attende agli studi, di latino, di greco, di
    filosofia, che segue senza sforzo e non senza successo, ma con la
    marcata indifferenza di chi ha il capo ad altre cose.
    
    Collegio di preti, quello di Santa Caterina96: preti insegnanti,
    preti prefetti, e obbligatorietà di un culto che è
    troppo esterno ed imposto perché possa conquidere i ragazzi.
    
    D'altronde la continua convivenza con quegli ecclesiastici non giova
    a persuadere i convittori del carattere sacro della loro missione.
    Uno scetticismo, ora allegro e ora musone, che in particolare si
    manifesta in una tenace repugnanza alla confessione (intesa
    piú come sistema disciplinare che non come atto puramente
    religioso) e alle estenuanti pratiche di devozione si impadronisce
    di Beppe, come, del resto, dei piú fra i suoi compagni. La
    religione ufficiale soffoca e svia, come accade, la
    religiosità naturale, che quanto a lui, tuttavia, trova il
    suo sfogo o piuttosto la sua perfetta espressione nel linguaggio
    musicale, rifugio frequente di tanti mancati credenti.
    
    Nel 1826, quando Beppe lascia finalmente il collegio per fare il suo
    ingresso all'università (a tredici anni giusti, età
    non infrequente allora per l'inizio degli studi superiori: quali
    studi e quanto «superiori» è facile imaginare!),
    quando, esordendo alla libera vita, piú gli occorrerebbe la
    remora di un culto e di una fede, egli è adunque peggio che
    un ribelle, uno scettico, cui la frettolosa imbottitura erudita e,
    piú, l'età immatura non hanno ancora consentito di
    cercare altrove, in sede filosofica, una nuova certezza interiore.
    Cosí disarmato, e senza transizione, egli entra nella vita
    libera e indipendente della università.
    
    È uno sbandato. I suoi, cedendo ai consigli dei due zii
    canonici, vogliono che studi legge; lui preferisce la medicina, ma
    intanto non pensa che a godere della sospirata libertà: e
    sono amicizie sperticate con altri studenti, entusiasmanti
    scorpacciate di musica97 (l'organo della chiesa del Carmine è
    il suo preferito; a un certo punto, anzi, si offre e viene accettato
    come organista fisso, seppure dilettante), frequenza saltuaria alle
    lezioni della Sapienza, di medicina e di legge. Dal collegio di
    Santa Caterina lo zio reverendo veglia come può, cioè
    poco e male, soprattutto mercé periodici rabbuffi, sullo
    scapestrato matricolino. Il quale, per quanto tenuto a stecchetto da
    casa, assapora con delizia la vita studentesca, con quel che essa
    comporta – e piú comportava allora, in una città come
    Pisa – di scioperato, di senza pensieri, di baldanzoso fino a
    credersi, i sapientoni, i padroni del mondo, in genere, e in ispecie
    della città e delle sue bellezze, non solamente quelle di
    marmo. La precocità di Beppe nella musica e nella poesia (con
    quanta facilità non gli vien fatto di sciorinare versi, o sia
    per solennizzare, su commissione, una ricorrenza sacra, o sia per
    altri piú futili motivi!) lo rendono uno dei compagni
    piú ricercati. Ma gli slanci romantici, e i romantici pudori,
    che se non fossero in lui connaturali, basterebbero a instillargli
    le gran letture che fa e il malioso mito romantico che tuttora
    perdura a Pisa di uno Shelley e di un Byron, stati a lungo a poetare
    su quei Lungarni e a riempir di stupore e di fragore e di scandali
    le quiete vie della città, fan sí che Beppe s'accosti
    e s'accomuni piú volentieri con quelli tra i condiscepoli cui
    la gaia vita della Sapienza è, come per lui, non altro che un
    mezzo per meglio vibrare e conoscere e amare, e non già mero
    sbrigliamento dei sensi e occasione per quotidiane bisbocce.
    
    Che gl'ispirava la musa? Fin dal 1827 – non aveva che quattordici
    anni – tre delle sue poesie molto immeritatamente salivano agli
    onori della pubblica stampa: Per S. Omobono; Conversione di S.
    Ranieri; L'Annunciazione di Maria Vergine. Sapevano, a dir il vero,
    un po' troppo di sacrestia, e per fortuna altre corde sostituirono
    presto, sulla sua lira, quella chiesastica:
    
    Qual son di gioia e chi soverchia il giorno
    
    con tanti rai? Voi siete angeli ardenti?
    
    siete voi sí che con festosi accenti
    
    all'augusto Omobon volate intorno.
    
    Quell'«augusto Omobon» e quegli «angeli
    ardenti» erano una peregrina trovata che meglio sarebbe stato
    confidare alla discrezione, non dirò del cassetto, ma d'un
    cestino, ingiustamente privato, anzitempo, delle sue spettanze...
    
    Peggio trattato quel povero san Ranieri, che, messo in guardia dal
    poeta, per la sua vita indegna:
    
    ... comprendi appieno
    
    qual densa nebbia intorno ti circonda!
    
    cosí, nel sonetto, improvvisamente si decideva a mutare
    strada:
    
    Sí, disse Alberto. Allo splendor del giorno
    
    schiuse, riscosso dal letargo, il ciglio
    
    e fe' Ranieri al sommo Iddio ritorno.
    
    Dove il lettore può consolarsi pensando che l'autore di quei
    rimati misfatti li aveva perpetuati per mera esercitazione, non
    sentendo affatto il suo tema; e insieme costernare nel constatare
    che si trovassero allora delle pie persone disposte a prestarsi alla
    stampa di quelle sacre mostruosità, e, peggio ancora, a
    leggerle!
    
    Con l'Annunciazione siamo, fortunatamente, in un'altra sfera, se non
    proprio nel cielo dell'arte, lasciamo andare, ma certo meno remoti:
    
    Stupí, tremò la Verginella Ebrea
    
    all'apparir del messagger celeste
    
    che librato sull'ali e preste
    
    d'inusato chiaror raggi spandea
    
    E poi:
    
    Disse e cosí come penetra il sole
    
    entro l'onda, nel sen di lei s'ascose
    
    dell'eterno Signor l'augusta prole.
    
    Riser le sfere e la sembianza amara
    
    la squallida Natura allor depose...
    
    tanto bella umiltade al Ciel fu cara.
    
    Sí, noi avremmo preferito qualunque altro verbo, in questa
    occasione, a quello «spandere» prescelto dal poeta, e la
    «sembianza amara» ci fa pensare piuttosto a qualche
    ingrata droga che non all'inverno o al maltempo; ma chi vorrà
    negare che per quattordici anni, via, non c'era male? La donna,
    anche se col D maiuscolo, sapeva suggerire al poeta imagini
    piú felici, e un versificare piú spontaneo e semplice
    che non gli esempi dell'astratta virtú o le gloriose vicende
    dei santi virili. Giacché la donna gli era nel cuore e nella
    fantasia di ragazzo sognatore e romantico, mentre la storia sacra,
    come tale, non gli diceva assolutamente piú nulla.
    
    Non stampati, se Dio vuole, ma tra le poesie di quel tempo, troviamo
    altri sonetti del Montanelli. Un Temistocle al soglio di Serse, che,
    accusando di lontano un miglio la bravura di un primo della classe,
    non saprebbe che infastidire quando il primo endecasillabo, col
    richiamarci alla memoria l'offenbachiana Belle Hélène,
    non ci mettesse, piuttosto, di buon umore:
    
    Quel Temistocle io son che un dí sostegno...
    
    Il giovane arcade era, s'intende, un pacifista convinto: grave
    sventura della causa antibellica quella di non riuscire a ispirare
    di sé che trilustri!
    
    Chi fu, chi fu colui che armò primiero
    
    l'omero e il fianco di faretra e d'arco?
    
    Quanto spietato ei fu, qual grave incarco
    
    sovrappose di mali all'orbe intero!
    
    Senonché a qualche maggior indulgenza vuole indurci il
    sospetto che di questi e altrettali sonettucci Beppe imbrattasse le
    carte ancor prima del 1827. Si veda, ad esempio, quello consacrato
    alla morte del Canova (e il Canova, si sa, morí nel 1822)
    dove non sapresti se piú ammirare le «onorate
    porte» dell'artista o il suo «mesto in letto»
    giacere o il librare «le penne» dell'inesorabile
    giustiziera. Indimenticabile la chiusa:
    
    Pianse allor la Scultura e ebra di sdegno
    
    gridar parve alla morte: – Ahi qual splendore
    
    involasti, o crudele, al mio bel regno!
    
    Ma se l'autore lo scrisse a nove anni, chi non vorrà
    perdonargli?
    
    Lo lasceremmo comunque senza rimpianti alle sue fatiche poetiche,
    augurandogli una benefica maturazione, se non ci piacesse di
    cogliere, prima, un altro aspetto della sua lira, quello scherzoso:
    per allora senza dubbio il migliore. Due esempi soltanto.
    S'approssimano le solennità natalizie, e il giovanissimo
    studente è squattrinato: perciò si rivolge allo zio
    canonico:
    
    Prossimo è il giorno in cui per nostro amore
    
    volle farsi bambino il sommo Iddio;
    
    ve lo rammento, o mio signore Zio.
    
    E perché mai? già vel predice il cuore
    
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    
    Voi siete perspicace e m'intendete,
    
    sicché mi taccio e dal Ciel prego a voi
    
    cento anni e piú di vita, e se volete
    
    sempre buono appetito, e corpo sano
    
    e quanto puossi piú bramar; di poi
    
    verrò a baciarvi, o caro zio, la mano.
    
    La vigilia di Pasqua siamo alle solite:
    
    Pensai che i miei compagni in allegria
    
    celebreran di Pasqua or or la festa,
    
    lieti mangiando alla presenza mia.
    
    Ed io dovrò (che acerba pena è questa)
    
    leccarmi intanto i baffi ed andar via
    
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    
    Il giorno avanti Pasqua ormai s'abbuia,
    
    sicché voglio spiegarvi i desir miei,
    
    ma, o caro Zio, questa rimaccia in ria
    
    non mel permette dir... Cantar vorrei
    
    al suon delle monete l'Alleluja.
    
    Ché se lo zio canonico era un tipo da allentare i cordoni
    della borsa a una richiesta cosí... disinvolta, buon pel
    Montanelli; ma allora dovremmo inferirne che il bigottismo imperante
    nel collegio di Santa Caterina fosse temperato alquanto dalla
    bonarietà del suo rettore! Ed ora voltiamo pagina.
    
    Chi furono, tra il '27 e il '30, gli amici del Montanelli? Ne
    conosciamo alcuni. Si chiamavano Giuseppe Giusti98, Vincenzo
    Malenchini, Giovanni Fabrizi99, Leopoldo Galeotti, Tommaso Corsi,
    tutta gente della quale, detto il nome, s'è detto tutto al
    lettore. Ma poi anche fra i meno noti all'università e
    tuttavia tutt'altro che ignoti ai conoscitori della storia italiana,
    civile e politica, dell'Ottocento, un Giuseppe Barellai, un Leopoldo
    Pini, un Adriano Mari100, un Adriano Biscardi, un Luigi Tonti, un
    Dell'Hoste: tutti studenti di legge, meno il Barellai; tutti
    coetanei del Montanelli, meno il Giusti e il Biscardi, di
    quattr'anni maggiori, e il Corsi e il Fabrizi piú giovani
    d'un anno101. Bella infornata, via, per l'università di Pisa,
    nel 1826, due anni dopo la laurea di Francesco Domenico Guerrazzi!
    Dal piú al meno quegli studenti in erba vi portavano tutti
    una gran voglia di studiare... la vita, e poco le pandette; un
    entusiasmo per la poesia e in genere per le letture
    «geniali», che le panche della Sapienza, se mai le
    avessero assiduamente scaldate, avrebbero certo trattenuto e sviato
    e, forse, spento del tutto. Legga chi vuole lo scintillante esordio
    del Giusti studente regalatoci da Ferdinando Martini, dove per vero
    piú si parla delle bizzarrie d'altri scolari (uno dei quali
    battezzato con l'eloquente soprannome di Stravizio) e anche di
    professori, che non dei primi studi del poeta valdinievolino. Se il
    Giusti, da Pisa, faceva disperare quel povero cavalier Domenico, che
    in Pescia predicava bene ma, come si sa, razzolava malissimo, gli
    altri gli tenevan bordone; e per esempio Leonetto Cipriani, che del
    Montanelli era stato compagno, se non amico, negli anni claustrali
    di Santa Caterina, seppe accozzarne tante che non solamente il
    collegio gli toccò lasciare, ma bensí anche Pisa e ben
    presto l'Italia...102.
    
    Il Malenchini non era neppure lui quel che si dice uno stinco di
    santo, nei suoi giovani anni, né il Biscardi, né il
    Fabrizi. Luigi Tonti, pistoiese, poetava e sognava cosí
    romanticamente col suo fraterno amico Montanelli, e tanta luna,
    pallida naturalmente, era nei suoi versi, che questi, al confronto,
    avrebbe potuto dirsi inclinato addirittura all'epica!
    
    Cosí le matricole; cosí, se non peggio, gli anziani:
    tra i quali non possono dimenticarsi Michele Carducci, babbo di
    Giosuè, ed un Giovanni Frassi, e Giuseppe Mazzoni di Prato:
    ai quali vorrei aggiungere Francesco Forti, il grandissimo giurista,
    di soli sette anni maggiore al Montanelli, e come lui allievo del
    Carmignani103, e il Guadagnoli, che per quanto assai piú
    vecchio di costoro, già laureato da alcuni anni, seguitava a
    vivere e a folleggiare a Pisa, in compagnia degli studenti, eterno
    studente lui pure, nei modi di vita e in quel suo prender
    cosí sul serio le filastrocche che scompisciava con troppo
    piú brio che arte. Un altro, che studente non era piú
    da molto tempo, ma che a Pisa capitava di tanto in tanto, e che –
    soprattutto – il Montanelli incontrava durante le vacanze a
    Fucecchio, era Silvestro Centofanti: un uomo di gran sapere, certo,
    e di grandissimo entusiasmo per gli studi, cui però la
    soverchia opinione di sé e il facile eclettismo tolsero di
    segnare in un campo o nell'altro quel profondo solco fecondatore che
    non ha proprio nulla a che vedere coi successoni mondani, libreschi
    o cattedratici. Montanelli, studente svogliato di legge, ma lettore
    appassionato e assetato di coltura extra accademica, gli si
    attaccò, a Fucecchio, con quello smisurato slancio che era
    una delle piú belle e anche delle piú pericolose
    caratteristiche del suo temperamento. Scorgeva in lui il rinnovatore
    della filosofia italiana, il genio vivificatore che dominava le
    scienze le piú disparate e ne illuminava i nessi e i rapporti
    reciproci, la mente somma che con la ragione aveva superato, non
    bestemmiato, la fede104. Gli si metteva alle costole per intere
    giornate – sdegnando gli ammonimenti degli zii canonici che lo
    avevano in sospetto di ateismo – e, alla lettera, pendeva dalle sue
    labbra. Correvano quasi vent'anni fra loro; pure il Centofanti non
    sgradiva affatto la compagnia del ragazzo, che capiva a volo anche
    le astruserie e che, d'ingegno precoce, ma duttile e influenzabile
    quanto si può esserlo a quell'età, prometteva di
    diventare piú ancora che un valido araldo dei suoi sistemi
    filosofici, addirittura come figlio suo spirituale, un'opera sua, e
    magari un capo d'opera. Centofanti parlava tutto il tempo, e di
    tutto: a un tratto, passeggiando, si arrestava di colpo, e imponendo
    silenzio al discepolo: – Zitto – gli diceva – mi passa un pensiero
    filosofico... sorprendo la natura nell'atto... un giorno sentirai il
    mio nome ripeterlo da tutti gli echi del mondo... Io sono il
    Napoleone del pensiero –. Bum! Senonché l'implume Montanelli,
    sprovvisto ancora del vivo senso dello humour, invece di sbottare in
    una risata omerica, compreso di ammirazione obbediva, pago, e anzi
    orgoglioso di assistere in tutta umiltà alla misteriosa
    genesi dell'Idea. E non pure ascoltava reverente e commosso, ma si
    prestava in mille modi a facilitare il geniale lavoro del suo
    «maestro»: procurandogli libri, copiandogli manoscritti
    ed anche scrivendo dietro dettatura105.
    
    L'esempio del Centofanti, le immense soddisfazioni interiori che
    costui ricavava o pareva ricavare dalla sua applicazione, e che si
    traducevano in quella tranquilla, incrollabile sicurezza della sua
    superiorità, persuasero il Montanelli a gettarsi a capofitto,
    sotto la guida di lui, negli studi di filosofia. Legge? Medicina?
    Musica? Poesia? Bazzeccole, minuscole sfaccettature d'un prisma che
    solo la filosofia poteva abbracciare nel suo insieme, come
    altresí scomporre e ricomporre. La religione? Un'impostura
    per i poveri di spirito: o una giustificazione per i pigri di mente.
    Cosí, fra i tredici e i sedici anni, piú che alla
    Sapienza di Pisa il Montanelli fu a scuola da quella, non meno
    enciclopedica, gli pareva, e senza dubbio piú unitaria, del
    Centofanti.
    
    Principiò col D'Alembert, introduzione, appunto, alla
    Enciclopedia, e poi giú a tutto spiano, illuministi e
    sensisti, Volney e d'Holbach, il nuovo verbo. Destino consueto degli
    ex seminaristi e dei nipoti di canonici.
    
    Non ci voleva un gran che a levare dalla testa una religione che non
    era nel cuore e che quantunque si chiamasse cristiana, aveva a che
    fare col cristianesimo precisamente quanto il paganesimo
    
    Cosí il Montanelli nelle Memorie, rievocando la sua
    adolescenza;
    
    religione tutta di pratiche esterne, di genuflessioni alle immagini,
    di scappellature ai preti, di rosari, di messe, di vespri, di
    viacrucis, religione che identificava con tutti i ricordi di tedio e
    d'oppressione domestica, subita da noi fanciulli in quel barbaro
    sistema d'educazione pretesca vigente nei nostri collegi e nelle
    famiglie dette religiose. Una ruttata di Holbach e di Volney bastava
    a persuaderci che, per essere uomini davvero, non dovevamo credere
    né a Dio, né all'anima, né a Cristo, né
    al diavolo, ma solamente alla ragione e alla natura106.
    
    L'importante si fu che il Montanelli non studiava per far pompa,
    all'«Ussero» o sui Lungarni, della scienza cosí
    trangugiata, ma proprio per verace amore dello studio. Anzi, al
    caffè degli studenti capitava ben poco, ormai, e come sopra
    pensiero; e all'università ci andava per dovere d'ufficio,
    con la benigna sopportazione di chi, avvezzo a volare per l'aria,
    sia costretto di tanto in tanto a prender terra e ad accomunarsi col
    vile pedone. Prendeva delle solenni indigestioni di libri, sepolto
    giorno e notte a tavolino fra pile di volumi e catafalchi di
    appunti. L'Alfieri rinsavito s'era fatto legare alla seggiola; lui,
    malato di troppa saviezza, si legava alla vita un cordone con una
    campanella, perché, caso mai si fosse addormentato, il
    movimento solo del chinare il busto sul tavolo valesse a destarlo.
    La filosofia lo rimandava alle scienze particolari, a tutte le
    scienze107; perciò si muniva di trattati elementari di ogni
    disciplina, e ingurgitava anche quelli con la furia frenetica di chi
    dovesse a tutti i costi giungere a un momento determinato a un
    determinato traguardo, e magari s'aspettasse un premio supplementare
    per ogni secondo d'anticipo.
    
    Invece del Centofanti, che per lettera o a voce lo spronava a
    seguitare per quella strada, col rischio e anzi con la preventiva
    certezza che gli accadesse quel che accade a noi del XX secolo che
    per piú vedere viaggiamo a cento chilometri all'ora, salvo a
    dover rifare a piedi, more antiquissimo, quel tanto di paese che
    veramente vogliam conoscere, invece del Centofanti, gli ci sarebbe
    voluto, io penso, un buon amico sensato che avesse saputo levargli
    di sotto quel troppo di libri e condurlo seco a zonzo per la
    città, e la campagna, e magari un Giuseppe Giusti innamorato
    e fannullone, che gli avesse procurato l'occasione di una prima
    cotta a dovere, tanto meglio se per qualche donnetta di quelle che a
    Pisa, allora, si specializzavano in studenti a spasso. Non si
    accorgeva che quell'imparaticcio affannato gli logorava i nervi e
    gli occhi e gli affinava il già esile petto?
    
    La sapienza è un po' come il vino, che a mezzi litri e litri
    interi puoi anche, se lo stomaco è all'ordine, pasteggiar
    tutti i giorni, e anzi ti fa pro', ma lo stravizio prima ti
    dà alle gambe, poi alla testa, e finalmente, se
    séguiti, ti ringrullisce davvero e per sempre.
    
    Il Montanelli lo salvò una malattia, che sarà stata,
    come si dice oggi, un bell'esaurimento nervoso: ma allora
    chissà come l'avranno chiamata; certo stette male, e dovette
    curarsi a lungo, e a lungo riposarsi. Morale: si persuase che
    «est modus in rebus», e che, se proprio a lui non poteva
    parere che fosse meglio un asino vivo che un dottore morto, per
    morire dottore era pur d'uopo, intanto, vivere per addottorarsi.
    Natura gli aveva dato, s'è detto, poco giro di petto, e un
    corpo secco e allungato, coi nervi a fior di pelle e due occhi
    malinconicamente cerchiati e profondi, di quelli che fan pensare al
    mal sottile in agguato. Una gran fronte li sormontava, continuata,
    in alto, dalle stempiature precoci: dissero poi che assomigliava al
    Mazzini (e piú gli somigliò quando, come lui, si
    lasciò crescere una barbetta stenta e i due baffi a ricasco),
    e, a giudicar dai ritratti, bisogna riconoscer che è vero:
    né tanto in questo o quel particolare della figura quanto nel
    suo complesso e negli atteggiamenti e nel rapporto tra le membra e
    in quel caratteristico contrasto tra la fragilità
    dell'aspetto e l'impressione di solidissima forza interiore che ne
    promana irresistibilmente.
    
    Riprese a studiare, ma con piú metodo e calma; non sembra, ma
    a riempir la cisterna fa piú una pioggia continuata e calma
    che non un grande scroscio calamitoso, il quale, anche se il cielo
    incomba gonfio e nero, già si sa che dura poco, senza contare
    che per la troppa sua forza rischia d'ingorgare i condotti e
    cosí sperder l'acqua all'intorno, inutilizzata e
    inutilizzabile. Ancora i suoi filosofi, sí, ma forse con
    minor presunzione di scoprire in loro la chiave buona per tutte le
    toppe, forse con piú gusto per i problemi che non per la loro
    soluzione, con piú intelligenza insomma. E non piú il
    Centofanti unico nume, seppur tuttavia al posto d'onore nel
    Pantheon, ma in associazione e in contrasto con altri:
    giacché era legge del Montanelli studente, come del resto dei
    piú fra i suoi colleghi d'allora, di prima e di poi, di
    concepire e di imparare ad amare la scienza in funzione e quasi per
    tramite di un particolare scienziato, e di aver sempre, per
    cosí dire, un santo di settimana. Che è poi, anche
    quello, un modo di espandere il prepotente bisogno d'amare e di
    credere che tutti i giovani incalza, e chi non abbia una fede o una
    donna, crederà nel maestro e amerà lui, e disgraziato
    quello che, fra i quattordici e i diciotto, non abbia adorato un
    sistema o un'idea o un ideale di vita personificandoli di volta in
    volta in uomini vivi assunti a specchio di perfezione.
    
    Aveva ormai sedici anni il Montanelli quando al Centofanti scriveva,
    il 15 di giugno del '29, invocandolo a Fucecchio: «... Ella
    solo può mettermi nella buona strada per giungere al tempio
    vero della sapienza». Sí, ma nel contempo dandogli
    conto, oltre che delle letture in corso (ideologia del Traus) del
    buon proseguimento dei suoi studi legali, lo informava di vittoriosi
    esami sostenuti alla Sapienza108: s'era dunque messo di buona lena,
    finalmente, al suo curricolo universitario, trovando anche
    là, come accade nonostante le ostentate espressioni di
    scherno che saran sempre di prammatica tra gli studenti di
    piú robusta e sveglia vita intellettuale, pan pei suoi denti,
    e non affatto insipido o secco. Certo, l'università di Pisa
    non era allora proprio nel suo fiore; tramontati da tempo i suoi
    astri maggiori (l'ultimo, il celebre Pacchiani, aveva appena
    lasciato la cattedra di fisica), rimanevano riditori e
    accademizzatori; cosicché, un po' per colpa di qualche
    singolo docente e un po' perché dal '15 in poi tanti germi di
    libera vita, cioè di cultura, erano stati, anche in Toscana,
    sistematicamente soffocati e isteriliti – non per nulla le
    università sono i registratori piú certi, e direi
    quasi i termometri, d'ogni minima oscillazione della temperatura
    spirituale di un determinato paese – la Sapienza poteva già
    dirsi in lento, ma certo decadimento. Comunque, qualche bel nome
    continuava ancora ad adornare di sé le liste professorali: e
    basterà citare un Rosini e un Ragnoli, a lettere, un
    Carmignani e un Del Rosso, a legge109, alle cui lezioni accorreva
    sempre una gran folla non di soli studenti, e delle cui opere si
    parlava non pure in Toscana, ma in tutta la Italia dotta, e anche al
    di là delle Alpi. Al Rosini (vedremo come si facesse rider
    dietro per le sue correzioni... al Manzoni) proverbiato per la sua
    prosopopea, tutti perdonavano sorridendo la mania di scrivere
    romanzi e commedie, che lui soltanto considerava immortali,
    perché come insegnante, era indubbiamente assai dotto e
    infaticabile, e come uomo d'una bontà e d'un candore a tutta
    prova. Certo, il Montanelli frequentava i suoi corsi e, se non la
    sua casa, certo, o al caffè o in altre conversazioni, lo
    avvicinò di frequente. Per quanto attempato e togato, per
    quanto lo chiamassero Pompa, il Rosini sapeva mettersi in confidenza
    con i giovani d'ingegno, con taluni dei quali non sdegnava –
    cosí col Giusti – di scambiar versi per darne o riceverne
    impressioni e consigli; e con i giovani scrittori talvolta anche
    polemizzava o s'imbizziva per la recisione dei loro giudizi critici,
    come accadde ad esempio col Montanelli qualche anno piú
    tardi, a proposito di una sua non so quale sentenza intorno alla
    nuova e alla vecchia scuola in un articolo di rivista110. Allora il
    Montanelli si mostrava severo col vecchio maestro, che aveva la
    debolezza di far recitare a Pisa, a un pubblico composto in gran
    parte di suoi studenti, commediole da strapazzo, come – nel marzo
    del '36 – I nipoti e la zia, che fu un memorabile fiasco111; ma
    prima d'allora, negli anni della formazione, non era stato
    cosí, s'è detto, e anzi gli si era sinceramente
    legato.
    
    Ma il maestro cui piú dovette il Montanelli, e in primo luogo
    il gusto degli studi legali, fu senza dubbio il Carmignani, titolare
    di diritto penale, legittimo vanto della facoltà pisana, uomo
    di prodigiosa erudizione e versatilità, allora all'apogeo
    della sua grande carriera d'insegnante e di avvocato. Era una bella
    tradizione dell'università di Pisa quella che il piú e
    il meglio dell'insegnamento, per gli studenti volonterosi, non si
    facesse in aula, dalla cattedra, ma in casa dei singoli professori,
    che anticipavano cosí, all'infuori dei regolamenti, i moderni
    seminari di facoltà. Il Montanelli fu tra gli assidui del
    Carmignani, dal quale si disse allora che non sapeva staccarsi mai,
    seguendolo a casa, allo studio, al caffè, alle veglie serali
    presso questa o quella famiglia pisana, sfruttando la sua
    biblioteca112; affettuosa ammirazione da una parte, fiducioso
    incoraggiamento dall'altra: il Montanelli non piú se ne
    scordò, quand'anche, piú tardi, il Carmignani, grave
    di anni e intellettualmente diminuito, mutasse assai d'umore nei di
    lui confronti, ingelositosi dei suoi successi, quasi che il merito
    primo non ne spettasse per l'appunto a lui.
    
    Si veda a riprova di questa riconoscente equità del
    Montanelli l'altissimo encomio che al suo maestro egli
    tributò, venti anni dopo, nelle sue Memorie, sottolineando la
    novità e l'importanza delle sue dottrine giuridiche e
    filosofiche113.
    
    Scorsero cosí, tra maestri, libri ed amici, gli anni
    dell'università: anni quieti e fruttuosi pel Montanelli,
    almeno a giudicare dal tono e dal contenuto delle sue lettere e dal
    pochissimo ch'egli credette di dovercene dire, appunto nelle
    Memorie. Anche la grande scossa del 1830, che pure infiammò
    tanto la gioventú italiana, se certamente lasciò
    traccia nel suo spirito, risvegliandovi un mondo di idee e di
    aspirazioni fino allora o immature o inespresse, non valse a
    distorglierlo dagli studi. Il suo nome, ad esempio, non comparve
    mai, per allora, tra quelli, registrati dal Buon Governo, degli
    studenti piú infiammati o imprudenti: vero è che non
    aveva che 17 anni. Pure si furon proprio quei libri, quelle
    abitudini di disciplina intellettuale, quel frequentare
    l'élite della intelligenza toscana che di lui, come di tanti
    altri, suoi amici e compagni, fecero il patriota italiano nel senso
    moderno della parola. La generazione che nel '48 si mostrò
    matura ad affrontare, se non proprio a risolvere, il problema
    italiano, era quella appunto che intorno al 1830 sedeva ancora sui
    banchi dell'università e che – le poche eccezioni confermano
    la regola – assisté senza direttamente parteciparvi al grande
    esperimento fallito del '30-31. Prendiamo i nomi dei giovani
    compromessi, in Toscana, nei disordini di quel biennio, e
    constateremo che salvo il Guerrazzi e pochissimi altri, nessuno di
    costoro prese parte attiva, nell'età matura, alle risolutive
    vicende del successivo ventennio: molti, anzi, fra i giovani
    liberali del '30, nel '48 erano diventati codini... La generazione
    del Montanelli cominciò ad agire politicamente, cioè a
    dar daffare alla polizia, disorientata dai nuovi metodi di
    cospirazione e di propaganda, proprio dopo il tramonto delle
    illusioni del 1830-31.
    
    Ma si deve a questo punto rilevare un carattere
    dell'università pisana che non è senza importanza per
    determinare il tipo di patriottismo e, in genere, di passione
    politica che furono del Montanelli e di moltissimi fra i suoi
    condiscepoli. Questa università, se ancora non contava fra i
    suoi docenti scienziati di altre regioni d'Italia, come ben presto
    fu suo vanto e fortuna (una fortuna dovuta proprio all'ondata di
    repressioni che investí il mondo intellettuale della penisola
    all'indomani del '30, ma che in Toscana ben presto s'andò
    attenuando fin quasi a scomparire del tutto), già da tempo si
    era segnalata e come specializzata nella larghissima
    ospitalità che accordava agli studenti forestieri, né
    solamente italiani. Era un poco la tradizionale mitezza e
    liberalità del governo toscano, in materia politica,
    commerciale, di culto, che attirava gli studenti stranieri, molti
    dei quali già stabiliti con le loro famiglie in Toscana, o
    destinati a prendervi radice una volta laureati; era un poco il
    portato del magico clima e della magica bellezza della Toscana; e
    finalmente era un poco l'effetto della comparativa indulgenza che,
    all'indomani della grande crisi italiana del 1820-21, si era usata
    verso i relitti, qualche volta illustri, di quel drammatico
    naufragio di speranze: in quale altro Stato della penisola sarebbe
    stato tollerato un gabinetto letterario di fama europea come quello
    Viesseux dove, attorno ad uno svizzero, si fossero riuniti
    sistematicamente i rappresentanti dell'intelligenza locale con un
    Colletta, un Pepe, un Leopardi, un Tommaseo, un Poerio, un Montani,
    un Giordani, ospiti semi-permanenti della città di Firenze? E
    quale altro governo avrebbe permesso che costoro accogliessero, come
    facevano, ogni straniero di distinzione che fosse di passaggio,
    senza riguardo per le dottrine politiche che professasse, e anzi
    tanto piú gradito e onorato se di sentimenti liberali? Il
    Buon Governo, si sa, si limitava a sorvegliare, a prender nota degli
    incontri, di tanto in tanto a sussurrare, non mai a intimare,
    consigli di prudenza: le filze dell'archivio segreto ingrossavano,
    delizia degli storici futuri, ma le riunioni seguitavano
    tranquillamente, alimentate dal rigoglioso fiorire
    dell'«Antologia», e a loro volta alimentatrici di quella
    famosa rivista.
    
    L'università di Pisa, dunque, era un po' il frutto di quel
    sistema e di quelle abitudini: ed appariva, in qualche modo, come
    una specie d'immenso gabinetto Vieusseux per gli studenti. Gli
    studenti toscani non costituivano, anno piú anno meno, che
    all'incirca una metà della popolazione studentesca – gli
    altri eran lombardi e piemontesi ed emiliani e romani; piú,
    con qualche francese o tedesco, due grossi nuclei distinti, uno
    straniero e di nazione e di lingua, l'altro soltanto per
    appartenenza politica: quello dei greci e quello dei corsi, che si
    contavano di anno in anno a parecchie diecine, e in qualche anno
    salivano a piú centinaia. Che i corsi, legati alla Toscana da
    antichissimi vincoli, e da perduranti interessi commerciali,
    mandassero i loro figliuoli a studiare a Pisa, nulla di strano:
    tanto piú che il francese, ancora, lo masticavano poco (ma fu
    una circostanza, quella, di decisiva importanza per l'avvenire della
    Toscana, e ben lo seppe il Mazzini che seppe mirabilmente sfruttare
    ai suoi fini quella periodica migrazione di cittadini francesi);
    piú singolare, invece, l'afflusso dei greci, fattosi
    particolarmente intenso col crescente peggiorare delle relazioni fra
    governo e governati, nelle province cristiane dell'impero turco, e
    poi con lo scoppio e il prolungarsi della irresistibile rivolta. Li
    dicevano greci tutti quanti, ma venivano da Corfú come
    dall'Albania, dal Dodecanneso come dai principati di Moldavia e
    Valacchia o dall'Armenia. Portavano a Pisa la nostalgia della loro
    patria schiava, il fascino di un'antichissima civiltà
    soffocata, la dolcezza della loro lingua, il loro gusto agli studi,
    alle sètte, agli intrighi. Se dai compagni corsi gli studenti
    di Pisa apprendevano quel che fosse fierezza e solidarietà
    regionale e in piú ne derivava interesse ai problemi della
    politica interna francese, quelli greci davano loro il senso vivo di
    come la questione nazionale premesse non pure l'Italia, ma mezza
    Europa, e perciò solo si imponesse la necessità di una
    stretta unione fra combattenti per la libertà nazionale, a
    qualunque paese appartenessero, di contro al fronte unico della
    Santa Alleanza. La loro università, insomma, era un poco lo
    specchio d'Italia e d'Europa: e in nessun altro luogo veniva fatto
    cosí naturalmente ai giovani colti di discorrere della grande
    politica, di sprovincializzarsi, di cogliere il lato universale di
    certi problemi che altrove venivano posti con esclusivo riferimento
    alle vicende e alle necessità italiane.
    
    Questo carattere cosmopolitico dell'università pisana non
    è stato sufficientemente rilevato o rammentato sin qui:
    eppure ebbe decisiva importanza nella formazione del patriottismo
    toscano. E ancora non bene si sa quanta parte l'ateneo pisano, a un
    passo dal porto franco di Livorno, prendesse alla organizzazione e
    alla alimentazione della rivolta greca; né con quanta
    commozione vi si seguissero le vicende della infelice Polonia. E in
    quale altro centro italiano si era meglio informati delle cose
    francesi? E dove piú rapidamente e frequentemente potevano
    pervenire le notizie della emigrazione italiana, che, col fissarsi
    numerosissima in Corsica, pareva voler serbare la speranza o
    l'illusione di un piú facile e prossimo ritorno in patria,
    mentre piú agevole le riusciva di mantenere di là
    contatti con i gruppi cospiranti all'interno?
    
    A Pisa il Byron aveva concepito la generosa sua spedizione, e vi era
    rimasto, nell'aria, un profumo di gentile eroismo; a Pisa si erano
    rifugiati, per ritemprarsi, sfortunati campioni della lotta
    antiturca; a Pisa, famosa allora pel clima di eccezionale mitezza,
    usavano svernare personaggi stranieri, inglesi i piú,
    cioè protestanti, liberali, umanitari, e per giunta gran
    propagandisti delle loro dottrine.
    
    Questo l'ambiente, estremamente vivo e stimolante, nel quale si
    formò il futuro triumviro del 1849: del quale vedremo ben
    presto come si andasse scegliendo gli amici piú intimi non
    solamente fra i piú congeniali dei compatrioti toscani, ma
    tra studenti d'ogni parte d'Italia, e fra i Corsi e Greci.
    Anticipazione di un internazionalismo tutto spontaneo, che fu sempre
    uno dei fondamenti incrollabili della sua ideologia politica.
    
    Ed ora avviciniamoci un poco di piú al Montanelli tra i
    diciotto e i vent'anni, subito prima e subito dopo la laurea,
    ottenuta a pieni voti nell'estate del 1831»114.
    
    Le lettere di lui, che si conservano copiose, seppur disperse, a
    partir da quest'epoca, ci permetteranno di tratteggiare con qualche
    maggior precisione la sua indole, le sue inclinazioni, i suoi sogni.
    Con piú abbandono, con piú frequenza che a chiunque
    altro, scrive sempre al Centofanti, a Firenze, quando non sono
    insieme a Fucecchio, e a lui, sicuro della sua comprensione e della
    sua simpatia, traccia, di lettera in lettera, un quadro anche troppo
    minuto e fedele del mutevole suo stato d'animo e delle minime
    perturbazioni che valgono a modificarlo. Del resto è la gran
    moda, quella, intorno al '30: quasi tutti gli epistolari del tempo
    offrono una documentazione concorde della mania introspettiva che si
    è impadronita del ceto colto, contagiato dalle tendenze
    romantiche della letteratura corrente. Il che vale a dire che, nel
    piú dei casi, quegli epistolari sono tutt'altro che
    dilettevoli, a leggersi oggi: tanta è la ingenua sicurezza
    che anima gli scrittori di non aver proprio nulla di piú
    urgente da raccontare che le private vicende dell'io interiore,
    registrate col compiaciuto apparente distacco di chi osservi le fasi
    di un imponente fenomeno naturale. E non già, badiamo bene,
    raccontarle in sede di confidenza e d'espansione amorosa, lui a lei,
    e lei a lui, ma da uomo a uomo, con una serietà e una
    compunzione che, quando, ed è quello che accade piú
    spesso, non t'infastidiscono, ti fanno sorridere.
    
    Ed ecco qui il Montanelli che, sulla fine del '30, fa parte al
    Centofanti della sua irrequietezza interiore, del suo spasimante
    desiderio d'amore, del palpito patriottico che tutto lo pervade.
    Ogni due righe una fila di punti esclamativi e una manciata di
    puntolini e da principio a fine un tono da febbricitante, che si
    estrinseca nelle concitate proteste d'eterna amicizia e in un
    perpetuo altalenare tra la compassione e l'orgoglio del proprio
    stato, il cui privilegio sembra essere la precocità del
    dolore. Quanto al dolore, passi. Ma l'eterna amicizia... Verso la
    fine del '31 i due hanno un primo passaggio d'armi in seguito al
    quale, offesissimo, il Centofanti non vuole aver piú nulla a
    che fare col Montanelli. Tocca a questo, cinque mesi dopo, venire a
    Canossa:
    
    Dopo le cose che son passate fra noi io non ardirei di scriverle se
    l'interesse della patria, e della scienza, non me lo imponesse... Mi
    prevarrò di questa occasione per parlarle di me, dello stato
    terribile in cui mi trovo da cinque mesi in poi, e del bisogno che
    sento di riottenere la sua affezione? Il cuore mi consiglierebbe a
    farlo... ma quando rifletto alla giustizia del suo sdegno,
    quantunque, ingenuamente lo ripeto, per parte mia non sia stato
    provocato maliziosamente, mi perdo di coraggio. Che le dirò
    dunque? Le dirò che non ho cessato un momento di amarlo..., e
    lo amerò sempre finché io vivo, come il mio padre,
    come il mio amico, come il mio tutto.
    
    E il Centofanti, toccato, perdona: ... «io aspetto con
    desiderio – e tu vorrai non ritardare... la tua venuta in questa
    città». Onde il Montanelli, che sospira allora un
    giornale nel quale lavorare sotto la direzione di «quell'uomo
    straordinario»: «Noi tutti saremo a sua disposizione –
    senza altro scopo che quello di riflettere nell'Italia la luce che
    riceveremo da lei»115.
    
    Altra volta il Montanelli discorre, sempre col Centofanti, e non
    senza enfasi, del dovere di prodigarsi per l'umanità e la
    patria, che egli avverte prepotentissimo: «Ancora pochi anni,
    ed io pure mi vedrò circondato da giovanetti, che, nuovi alla
    vita, mi domanderanno di ciò che feci per il bene
    dell'umanità e della patria, e mi interrogheranno sulle
    passate vicende». Il Centofanti gli risponde in chiave: non
    vede l'ora che «il suo giovane amico» lo raggiunga a
    Firenze, gli magnifica l'accoglienza che da tutti riceverà:
    «Io ti aspetto con ansietà! Parliamo ogni giorno di te,
    dei nostri cari e ardenti cooperatori, e della futura vita
    letteraria che condurremo!»116. E qualche mese dopo:
    
    Se tu sapessi le seccature che mi hanno tanto impedito in questi
    ultimi giorni, avresti già nell'anima quell'impeto generoso
    con cui spesso avrei voluto liberarmi da quei vincoli... E il Tonti
    che fa? Sveglialo con un bacio in mio nome... Nel cuore rimane il
    sentimento di quella armonia di divina bellezza del mondo morale al
    cui concento godo ora di poterti abbracciare col desiderio117.
    
    L'amore pel Montanelli era grande; ma piú grande ancora
    l'amore di sé. Una volta fu chiamato d'urgenza a Fucecchio
    per qualche guaio successo in famiglia. «Ho voluto darti
    questa nuova testimonianza di amore comunicando teco questi miei
    dolori, prima di entrare in carrozza», scrisse subito al
    Montanelli, aggiungendogli con tutta semplicità che quel
    contrattempo gli aveva impedito, come desiderava, di cominciare
    finalmente «l'edificio della sua vera gloria», cui si
    sentiva ormai maturo «riposando su fondamenta di
    ferro»118.
    
    E quattro giorni dopo: «Tu, mio dolce amico, non sei stato
    meco in questi amarissimi giorni! Oh se tu avessi saputo le mie
    pene, saresti volato da me per reggere sul tuo seno questo mio capo
    non oppresso, ma grave de' piú tremendi pensieri!»119.
    
    Per fortuna il dialogo epistolare non toccava sempre e unicamente
    questi vertici di lirismo; spesso era questione di libri e d'idee,
    ché il Montanelli, appena laureato, si cibava di Filangieri,
    di Vico120, di Romagnosi e di Rousseau e amava scambiare col
    Centofanti le impressioni di codeste sode letture121. Talvolta,
    respiriamo, era anche questione di piú lievi interessi:
    pettegolezzi universitari122, interessi legali dal Centofanti
    affidati al suo giovane amico123, o interessi del cuore; ché,
    a forza di praticare quel dotto suo amico, il Beppe, o piuttosto
    Geppino, come egli lo chiamava, aveva finito, sembra, con
    l'innamorarsi, ricambiato, di una sorella di lui, Antonietta124: la
    quale, forse, si accompagnava talvolta a loro, nelle quotidiane
    passeggiate a Fucecchio125.
    
    Ma il cerchio di conoscenze e d'amicizie del giovane fucecchiese si
    andava allargando: notevole come egli inclinasse sempre verso
    persone di piú di lui e per età e per cultura;
    notevole come riuscisse a cattivarsi, di costoro, non pure quel
    bonario incoraggiamento che dall'alto si suole concedere ai giovani
    di belle speranze, ma addirittura un affettuoso ricambio di stima,
    da pari a pari. Uno dei «grossi calibri» che fin
    d'allora corrispose col Montanelli è Niccolò Tommaseo.
    Si conoscono nel principio del '32126 e alla metà d'anno
    già si dànno confidenzialmente del tu127: il dalmata
    sollecita il giovane amico a scrivere, gli colloca articoli, lo
    incarica di traduzioni, gli propina consigli letterari, che quegli
    dichiara «savissimi» e si propone di «praticare
    per sempre»: anche gli comunica la passione per la purezza
    della lingua («Mi occupo indefessamente dello studio della
    lingua – gli scrive infatti il Montanelli, da Fucecchio, il 22
    d'ottobre del '32 – ed ho preso grand'amore ai trecentisti, e
    principalmente al Cavalca») e stimola in lui gli scrupoli
    religiosi:
    
    A questa occupazione, – continua il Montanelli, – congiungo lo
    studio dei Santi Padri, e principalmente di sant'Agostino. Non son
    contento finché non ho inteso il sistema cristiano in tutta
    la sua integrità. La profonda cognizione e comprensione di
    questo sistema è necessaria in tutti coloro i quali altamente
    convinti della verità delle idee religiose vogliono rialzarle
    nei popoli, e proporzionatamente ai bisogni della nuova
    civiltà.
    
    Il Tommaseo gli ha proposto di collaborare a una raccolta di
    biografie: il Montanelli accetta con entusiasmo. «Il desiderio
    di poter giovare in qualche parte alla umanità m'infiamma
    talmente che son pronto a fare qualunque cosa, ove mi sia indicata.
    Ti prego a disporre di me in tutto ciò che ti
    piace»128. Attraversa quel periodo beato dal quale si crede
    che il mondo non sia che un gigantesco laboratorio per le proprie
    impazienze risanatrici: ad ogni male un rimedio e, perché
    torni piú efficace, non altro che il fermo volere dei
    «buoni».
    
    Nel novembre del '32 Montanelli legge sull'«Antologia»
    un articolo del Tommaseo sulle cose italiane. È fuori di
    sé, l'entusiasmo suo e dei suoi «giovani amici
    egualmente infiammati d'amore per la umanità» non
    conosce piú limiti. Saluta in Tommaseo un maestro nella
    piú vera ed estesa accezione del termine129.
    
    Credimi – continua – che fra i tanti giovani che frequentano
    l'università alcuni ve ne sono dai quali può molto
    sperare la nostra patria. Se i precettori sapessero fecondare questi
    germi che natura ha posto nel cuore di molti, il numero dei buoni
    sarebbe anco maggiore, perché oh quanto male rispondono, mio
    caro Tommaseo, allo slancio della gioventú i metodi degli
    insegnamenti!, e se tu domandassi a quelli che hanno intrapresa la
    rischiosa via della sapienza da chi abbiano ricevuto l'impulso al
    ben fare, ben di rado ti sarà risposto che questo impulso fu
    dato da un istitutore. Io m'ingegno di trasferire in tutti i miei
    compagni quei nobili sentimenti dai quali sono infiammato, e tale
    è lo scopo dei miei pensamenti e delle mie opere giornaliere.
    Ci occupiamo nel risolvere i grandi problemi sociali, e ci
    addestriamo all'arte della parola. È fra noi unione veramente
    fraterna e la nostra mente è governata da una sola idea, come
    il nostro cuore non palpita che d'un solo affetto. Nella
    dissoluzione universale dei vincoli sociali ci congratuliamo ben
    sovente con noi medesimi nel sentirci stretti dai dolci nodi
    dell'amore, e della fratellanza, e ci sforziamo di avvalorare con
    l'esempio le nostre parole...130.
    
    Subito dopo il Tommaseo fu a Pisa, e vide a lungo il Montanelli e i
    suoi amici (al Montanelli, e forse al Bianchi, alluse senza dubbio
    in un passo di quella sua Gita a Pisa che si legge nella
    «Antologia» del novembre '32: «Con questo
    sentimento (di religioso raccoglimento) io passeggiava stasera nelle
    tenebre la piazza di Santa Caterina131..., dove mi aspettavano due
    cari giovani di belle speranze, perché il cuor loro è
    in armonia con l'ingegno».
    
    La tua presenza – gli scrisse per parte sua il Montanelli il 5
    dicembre132 – lasciò un gran vuoto nei nostri cuori, ma
    sebbene lontani noi siamo uniti, e in questa unione consiste la
    felicità della nostra vita. Molti giovani si sono avvicinati
    a me, e sebbene non tutti siano dotati del medesimo ingegno, in
    tutti però è grande l'entusiasmo, e in te abbiamo
    riposto grandi e belle speranze... Mio caro Tommaseo – amami –
    consigliami – dirigimi – ed io consiglierò e dirigerò
    i miei amici. Cosí adoprando potremo in poco tempo
    impadronirci della gioventú e rendere un grande servizio
    all'umanità e alla patria.
    
    Analoghe professioni di fede, analoghi slanci in altre lettere di
    quei giorni133: in una delle quali Montanelli accenna ai due suoi
    amici, e amici del Tommaseo, il Tonti134 e il Monzani135,
    chiamandoli «nostri fratelli»; in un'altra, dopo avergli
    parlato d'altri due comuni amici, il Tolomei e il Bianchi, il
    secondo dei quali «assisteva alle nostre conversazioni»,
    gli raccomanda di «compiegare in modo le tue lettere da non
    poter essere lette da qualche occhio profano. Sarei dispiacente di
    una infrazione di sigillo»136 In una terza, infine, il
    Montanelli, discorrendo con lode delle Mie prigioni del Pellico, di
    fresco pubblicate:
    
    Non ci stanchiamo di ripetere – scrive – che le verità
    religiose sono la principalissima garanzia della felicità
    individuale e sociale. Impadroniamoci per quanto è possibile
    d'un terreno che oggi occupano uomini ignoranti, superstiziosi e
    codardi e l'ufficio del letterato sia un vero sacerdozio morale. La
    libertà dei popoli, come altra volta tu osservavi,
    sarà frutto non d'odio ma d'amore. E non ameranno veramente,
    e potentemente i loro simili se non che gli uomini persuasi
    fermamente delle grandi verità della vita.
    
    E prosegue: «I vincoli fra i giovani si stringono sempre con
    maggiore intimità».
    
    Il lettore avrà già notato da sé quanto
    siffatte espressioni trascendano il valore di generiche affermazioni
    di fede o di semplici attestazioni di una sia pur calorosa
    colleganza spirituale. Qui c'è qualcosa di piú. Ci son
    dei «fratelli», v'è un apostolato di fede,
    v'è una sistematica azione svolta fra gli studenti, vi son
    ritrovi tra elementi di diverse città e di diversa
    provenienza, v'è insomma, chiara e evidente, una
    organizzazione nascente. Di che si tratta? Il nome della Giovane
    Italia sorge spontaneo alla mente: ma allora quell'insistere
    piuttosto sui doveri verso l'umanità che su quelli verso la
    patria? Quella preminenza accordata ai valori religiosi? No, siamo
    su altro e ben diverso terreno. Siamo precisamente in presenza di un
    tentativo, uno fra i pochissimi mai compiuti in Italia, di
    trapiantare a Pisa una «chiesa» cioè, una sezione
    del movimento sansimonista. Qualche notizia in proposito del resto,
    ce l'aveva già data il Montanelli medesimo, pur naturalmente
    restío, negli anni successivi, a ricordare un cosí
    «superato» episodio della sua vita giovanile. Leggiamo
    le sue Memorie, nel capitolo dedicato al Liberalismo cattolico:
    descritto magistralmente il suo passaggio dall'ingenuo cattolicismo
    dell'infanzia al disinvolto materialismo e sensismo degli anni
    universitari, il Montanelli prosegue osservando che per alcun tempo
    l'eccitazione politica verificatasi nel 1830 fece sí che egli
    non sentisse il «vuoto desolante» dovuto alla morte
    della fede religiosa.
    
    Cosí non mi avvidi della sterilità di una dottrina che
    abbassava il pensiero alla sensazione, e i sentimenti morali al
    tornaconto, altro che quando, andate a rovescio le rivoluzioni
    italiane del '31, e mancate le promesse di Francia, e immolata
    l'eroica Polonia, all'ebbrezza divina dei primi entusiasmi concepiti
    nell'amore della libertà, e nella certezza del suo trionfo,
    sottentravano le amarezze del disinganno, e le cupe riflessioni
    suggerite dallo spettacolo delle umane sventure. Avventuratamente ai
    primi del 1832 mi caddero in mano i libri della scuola sansimoniana,
    non ancora bamboleggianti nelle sguaiataggini teocratiche del padre
    Enfantin. E questa dottrina che ci conciliava col nome di religione,
    bandito dalle scuole materialiste, e a difetto di sintesi religiosa
    attribuiva i mali presenti, e separando i periodi critici dai
    periodi organici, un nuovo periodo organico prometteva a ricomporre
    l'armonia fra la materia e lo spirito, l'individualità e
    l'associazione, la libertà e l'autorità, la
    conservazione e il progresso, dottrina siffatta dai pantani del
    gretto materialismo mi sollevò a piú spirabil aere; e
    colla certezza di cooperare alla sintesi religiosa futura partecipai
    alla piccola chiesa sansimoniana nel 1832 formatasi
    nell'università di Pisa, e seguitai dipoi con altri miei
    compagni di studi il movimento delle questioni chiamate sociali137.
    
    Cosí il Montanelli stesso, nel 1853; ma già sei anni
    innanzi, conversando col sopraintendente dell'università di
    Pisa, gli aveva confessato di avere «nei tempi andati seminato
    nel popolo gli errori del sansimonismo»138.
    
    Nel maggio del '32, del resto, lo stesso Montanelli aveva scritto al
    Centofanti:
    
    Da quattro mesi in poi ho abbracciato interamente con molti altri
    miei amici la dottrina di Saint-Simon, ed ho sofferto ancora delle
    vessazioni. Fin da questa epoca il vecchio uomo è in me
    interamente disperso. La mia vita è cangiata – essa ha uno
    scopo139.
    
    Queste notizie vennero confermate dai biografi del Montanelli, prima
    di tutti dalla moglie di lui140, la quale, attingendo, senza dubbio,
    alle confidenze verbali del consorte, raccontò altresí
    come rapidamente e miseramente quel tentativo andasse a finire.
    
    Lo zio rettore (di Santa Caterina) lo invigilava seriamente. Una
    sera lo chiama nel suo appartamento del collegio, ciò che
    indicava male e rimescolava tutto il giovane Montanelli...;
    chiudendo la stanza gli disse con molto mistero che la polizia
    conosceva esistere una società di giovani sansimoniani e lo
    avvertiva che se gliene fosse parlato badasse bene di non andarci.
    Siccome questa società si riuniva in casa sua avvisò
    gli amici che erano sorvegliati e sapendosi scoperti non poterono
    piú riunirsi.
    
    Gli archivi del Buon Governo, compulsati in proposito, non rivelano,
    a dir vero, alcuna traccia di questa pur importante vicenda141. Di
    sansimonismo, ch'io sappia, vi si parla una volta sola, e diversi
    mesi piú tardi, e con riferimento a Firenze, ed è
    comico osservare come sotto quel nome la polizia toscana registrasse
    non già, come ci si aspetterebbe, una conventicola
    politico-religiosa-sociale, ma una specie di società
    malfamata tra giovani sfruttatori per... la tratta delle bianche!
    Eterno, poco invidiabile destino dei partiti o delle sette malvisti
    dai governi che il loro nome venga usato a designare ogni sorta di
    birbonate che con la politica o la religione non hanno proprio nulla
    a che fare...
    
    Comunque, non c'è alcun dubbio, nei primi mesi del 1832 il
    Montanelli fu sansimonista, come ebbero ad attestare piú
    tardi anche taluni suoi confidenti ed amici, tra gli altri il
    Minghetti e il Levi.
    
    La sua mente – scrisse quest'ultimo – fu colpita dalla grandezza
    come dalla novità del sistema... Malgrado i divieti della
    censura sospettosa il Montanelli ebbe modo di procacciarsi i libri
    del maestro, e le molte pubblicazioni che venivano allora in luce a
    Parigi sulla dottrina. La sua mente affettuosa e appassionata
    s'infervorò per essa; raccolse intorno a sé un nucleo
    di seguaci fra i giovani e la scolaresca di Pisa. Si scorgeva nel
    genio del Montanelli una cotale affinità con quella del padre
    Enfantin, il san Paolo del sansimonismo... E il Montanelli
    fondò in Pisa una chiesuola, la quale teneva adunque adunanze
    regolari, aveva ministri e riti. Ogni giorno vi si facevano letture
    per insegnare il sistema dal punto di vista storico, filosofico ed
    economico; già cominciavano le dottrine a propagarsi fra la
    scolaresca... quando la polizia fu messa in sull'avviso: ne
    spiò i convegni, li scopi, sostenne in carcere alcuni
    discepoli, soppresse il tempio, ed i credenti vennero dispersi142.
    
    Chi mise la polizia sull'avviso? Non lo sappiamo; certo è che
    la studentesca veniva sistematicamente sorvegliata, né era
    facile nascondere dei ritrovi frequenti e affollati. Conoscendo
    però le abitudini della polizia toscana, e tenendo presente
    il silenzio degli archivi del Buon Governo in proposito, non
    è da escludere (a parziale correzione del postumo del Levi)
    che l'unica misura adottata dalle autorità pisane fosse
    quella di suggerire al canonico Montanelli di dare al nipote una
    buona lavata di capo, accompagnata da precisi riferimenti alle
    «scoperte» della polizia. Né il metodo, a quel
    che pare, si dimostrò sbagliato...
    
    Ho sotto gli occhi alcune delle pubblicazioni di propaganda messe in
    giro, proprio sui primi del '32, dalla «centrale»
    parigina della chiesa sansimonista. Probabilmente furono quelle che
    capitarono in mano al vero dottore in utroque. Una, di un 180
    pagine, s'intitola: Religion Saint-Simonienne. Economie politique et
    politique. Articles extraits du «Globe», Paris, marzo
    1832. Un'altra, sempre intestata alla stessa Religion: Politique
    industrielle. Système de la Méditerranée, di
    Michel Chevalier, Paris, marzo 1832. La terza, dell'aprile,
    piú voluminosa di tutte (pp. 207): Morale. Réunion
    générale de la famille. Enseignements du Père
    Suprême. Les trois familles. In copertina vedo richiamati i
    fascicoli già usciti: Exposition de la doctrine; Lettres sur
    la religion et la politique; Reveil de predications; Appel aux
    artistes, ecc. Leggo anche un avviso di un certo interesse:
    «Les publications de la réligion S. S. ne sont pas une
    spéculation, mais une œuvre d'apostolat. L'enseignement
    qu'elles renferment est distribué aux mêmes conditions
    que les autres enseignements, c'est à dire
    gratuitement».
    
    Siamo al tempo in cui la chiesa sansimoniana, giunta all'apice
    dell'effimera sua popolarità, inizia la parabola della
    decadenza, affrettata dai profondi e clamorosi dissensi che dividono
    i suoi dirigenti. Trionfa padre Enfantin, ma è un trionfo che
    condurrà ben presto al ridicolo e alla dissoluzione
    definitiva. Comunque qual è, ancora nel '32, il messaggio del
    sansimonismo? Frutto della sete di religiosità seguita alle
    perentorie negazioni del secolo XVIII, tentativo di armonizzare la
    fede e la scienza, la rivelazione e la ragione, la libertà e
    l'autorità, il rinnovato dogma dell'eguaglianza sociale e
    politica con la necessità dell'ordine, esso pareva rispondere
    alle esigenze fondamentali e pure antitetiche di ogni spirito colto,
    cioè libero, nell'Europa della restaurazione. Era un generoso
    tentativo di anticipar sulla terra, mediante una progressiva
    riforma, essenzialmente sociale, le beatitudini relegate dal
    cristianesimo nell'al di là: un sogno di bontà e di
    bellezza basato su una concezione ottimistica dell'umanità e
    inteso appunto a rendere alla vita terrena le attrattive negate, o
    piuttosto respinte, dal dogma teocratico. La grande forza morale
    fino allora sottratta ai suoi compiti vitali, sviata dalle sue mete,
    incapsulata, isterilita nella contemplazione di un avvenire
    inconoscibile, la fede religiosa veniva finalmente chiamata a
    facilitare il raggiungere di quel massimo di giustizia sociale e
    quel minimo di benessere per tutti senza dei quali l'umanità
    non avrebbe mai trovato un suo stabile e precipuo assetto.
    Emancipazione del proletariato, emancipazione della donna, queste le
    maggiori rivelazioni del nuovo verbo. Tutto l'afflato romantico del
    principio del secolo tradotto ed espresso in un secondo Vangelo,
    integrazione e avveramento di quello del Cristo. L'amore universale,
    l'armonia spontanea, la fine d'ogni egoismo individuale di classe,
    di patria, come leva e meta insieme del grande rivolgimento pacifico
    profetizzato. Tale, nelle sue linee maestre, il messaggio
    sansimonista, cui particolari approfondimenti teorici, specie nel
    campo dell'economia, valevano a conferire una tal quale apparenza
    scientifica atta a sedurre, oltre alle coscienze bramose di un
    accordo fra religione e vita, fra spirito e materia, anche la mente
    degli zelatori di una mera riforma sociale.
    
    Venne in Italia qualche apostolo del sansimonismo? Venne a Pisa? O
    bastò al Montanelli e ai suoi amici la semplice lettura del
    «Globe», giornale del movimento, e delle altre
    pubblicazioni di propaganda? Chi furono, nella università
    pisana, i componenti di quell'effimera chiesa? Si misero essi in
    rapporto con la «centrale» di Parigi? Tutte domande alle
    quali, sin qui, non siamo in grado di dare alcuna risposta, salvo
    che ci sembra probabile che il Bianchi, il Monzani, il Tonti e forse
    il Tolomei, che sono i nomi piú spesso citati nella
    corrispondenza montanelliana del tempo, e taluni di essi, come
    vedemmo, qualificati «fratelli», facessero parte del
    gruppo. E il Tommaseo? Seppe mai precisamente a qual titolo i suoi
    giovani seguaci di Pisa avessero stabilito tanta reciproca
    fraternità? Fu anch'egli, sia pur per breve tempo, un
    simpatizzante sansimonista? Altra domanda alla quale non ci sentiamo
    di rispondere perentoriamente: invitiamo però i biografi di
    lui a tenere il massimo conto delle strane, ripetute allusioni a un
    sodalizio di giovani fattegli da Montanelli. Se egli restò
    all'infuori del sansimonismo, qual senso esse avevano per lui?
    
    Scioltasi nel modo che si è detto quella comunità, non
    per questo gli affiliati rinunziarono alla reciproca
    intimità, agli studi e alle aspirazioni comuni. Il Levi ci
    assicura che quando egli giunse la prima volta a Pisa (e dovette
    essere nel 1837)143, «il Montanelli me ne espose le dottrine
    (del sansimonismo) con l'entusiasmo del credente, la fantasia del
    filosofo-poeta»; in lui, «come in pochi altri spiriti
    piú ardenti, sopravviveva nel fondo dell'anima la fede alla
    idea sansimonista, e si adoperava ancora a propagarla nei cuori
    aperti ai facili entusiasmi... Il sansimonismo aveva smesso la forma
    autoritaria di religione, ma era divenuto una dottrina, una scuola
    sociale; non si posava piú come domma, ma presentavasi come
    un corpo di dottrine filosofiche, economiche e religiose, che
    chiedeva di essere discusso»144. Il seme aveva dunque
    germogliato, lasciando negli adepti, come derivato di quella breve e
    sfortunata esperienza, alcuni punti fermi, ai quali il Montanelli,
    se non altri, si manteneva poi fedele per sempre: l'ansia di
    pacificare il penoso dissidio interiore fra la istintiva
    incoercibile religiosità del cuore e l'insoddisfacente
    dogmatismo cattolico, cosí inadeguato a risolvere, e fin
    anche a percepire, i problemi fondamentali del secolo; l'assillo di
    un piú equo e razionale assetto sociale; l'insoddisfazione
    per una impostazione meramente politica della grande lotta allora in
    pieno corso per l'affermazione dei valori nazionali.
    
    È cosí che, seppure non sotto il segno proibito del
    sansimonismo, vediamo il Montanelli avvicinarsi, dal '32 in poi, a
    tutte quelle forze che, nella Toscana del tempo, agiscono nella
    medesima direzione, spinte da analoghe necessità ideali.
    
    Sulla fine dell'anno, a Pisa, un gruppo di giovani, capitanati dal
    livornese Enrico Mayer (si noti bene, un protestante-mazziniano) e
    del quale fan parte il professor Rossellini, il Tonti, il Monzani,
    il Corinaldi e il Montanelli, decide di fondare un giornaletto
    settimanale145 dal titolo significativo di «Educatore del
    povero»: il giornale (che forse non è altro che
    l'estrinsecazione di un vecchio progetto già da mesi
    caldeggiato dal Montanelli)146 è dedicato alle «classi
    inferiori», alle quali si vuole instillare il culto del
    dovere, della patria, della moralità all'infuori di ogni
    influenza chiesastica; soprattutto si vuole abituarle a pensare147.
    «Si spera che tu sarai uno dei piú assidui
    collaboratori», scrive il Montanelli al Tommaseo; «se
    hai qualche cosa preparata mandala, e la stamperemo nei primi
    numeri»148. E qualche giorno dopo:
    
    Ho letto, e meditato la tua lettera. Io non sono né il capo,
    né il direttore dell'impresa – ma nulladimeno potrò
    insinuare molti buoni principî al giovane Leondarachis, il
    quale è il centro di tutto. – I miei articoli
    procurerò sieno scritti secondo quei principî che tu
    raccomandi... Il tuo articolino sarà inserito nel terzo
    fascicolo. – Io faccio un dialoghetto diretto a togliere dalla mente
    del popolo quel pregiudizio comune – che si debbano rispettare le
    cose le quali ci sono state lasciate dai nostri antenati.
    
    Il Leondarachis era un giovane greco, amico del Montanelli, che
    allora dirigeva, a Pisa, la tipografia Capurro. Ben presto lo
    vedremo sorvegliato dalla polizia come sospetto editore di stampe
    clandestine patriottiche. Sui primi di gennaio del '33 nuova lettera
    del Montanelli al Tommaseo per esprimere talune sue riserve a due
    articoli da lui mandati all'«Educatore». Non aveva
    ancora vent'anni, il redattore del giornaletto, eppure si sentiva
    già da tanto da dire schiettamente la sua al già
    illustre Tommaseo; uno di questi articoli non gli pareva
    «accomodato alle circostanze attuali» dell'Italia.
    
    Non bisogna predicare confidenza nello straniero al popolo – di cui
    vogliamo servirci per liberare questa povera patria dall'invasione
    ecc. ecc. – Verrà un tempo in cui il principio della
    fratellanza dei popoli risuonerà sul labbro di tutti. Per ora
    può giovare un poco d'egoismo nazionale... Ti dirò
    ancora che il linguaggio dei tuoi articoli mi sembra un poco troppo
    ascetico. Bisogna valersi delle idee religiose, e rieccitarle in
    tutti i cuori profondamente – ma ci sono certe formule che non
    convengono agli scritti d'un giornale, e che potrebbero renderci
    ridicoli nel cominciamento dell'opera. Ti parlo con libertà
    fraterna. Del resto la semplicità dei tuoi articoli mi piace
    molto.
    
    L'«Educatore del povero» vide effettivamente la luce nel
    gennaio del '33. Ma nacque morto. Fossero dissensi fra i redattori,
    o tra questi e lo stampatore, fosse l'improvvisa partenza
    dall'Italia, nel marzo, del Mayer, che verosimilmente lo finanziava,
    o fosse un veto piú o meno formale della censura, certo
    è che ne uscí un numero solo149, – e il povero
    restò senza... educazione! Il tentativo, comunque, era stato
    importante: sarebbe proprio un errore il sostenere che fu quello,
    nell'Italia della restaurazione, il primissimo esperimento di un
    giornale tutto per il popolo, volto a studiare e a illustrare la
    questione sociale? Noi non diremo. Del dialoghetto montanelliano,
    rimasto fra gli inediti del disgraziato giornale, non altro sappiamo
    che quanto ce ne dice l'autore medesimo: e sarà inutile
    sottolineare il caratteristico soggetto in tutto degno di uno
    zelante neofita di un sansimonismo purgato da ogni eccesso
    teocratico.
    
    Siamo venuti a parlare di un sansimonismo dell'«Educatore del
    povero» di sulla traccia fornitaci dal catalogo del Montanelli
    col Tommaseo. Adesso seguiamo un altro filone di non minore
    importanza: i rapporti Viesseux-Montanelli.
    
    Nella Nazionale di Firenze, fondo Viesseux, si conservano ben 140
    lettere del Montanelli al veramente benemerito creatore
    dell'«Antologia», del «Gabinetto
    letterario», dell'«Archivio storico italiano»:
    cominciano dal 1831, finiscono soltanto con la morte di uno dei due
    corrispondenti. La prima lettera è del 25 novembre 1831150 e
    s'inizia con un riferimento alla conoscenza fatta dal Viesseux, a
    Firenze, due mesi prima. Il Montanelli aveva poco piú di
    diciotto anni ed era appena laureato: pure lo si era già
    ammesso agli onori della collaborazione all'«Antologia»,
    l'unica rivista italiana che varcasse allora le Alpi, l'unica che
    stacciasse ben bene, prima di accettarli, i candidati collaboratori.
    Erano stati molto probabilmente il Centofanti e il Carmignani a
    procurare al loro discepolo questa soddisfazione, certo piú
    ambita e invidiabile di uno straccio di laurea. Scrivere
    nell'«Antologia» voleva dire, infatti, allinearsi nella
    stessa schiera col fior fiore dell'intelligenza italiana, saper la
    propria prosa messa sott'occhio di lettori di primissima scelta e di
    gusto veramente raffinato; scrivere nell'«Antologia»
    valeva anche una distinzione d'altra natura, non meno ambita: una
    distinzione politica. Non era giornale di parte, ché anzi fu
    merito del Viesseux il mantenerlo sempre sulla linea di quello
    spregiudicato eclettismo che era valso ad assimilarle un cosí
    denso pubblico, ma era inteso, o per lo meno si risapeva, che firme
    dell'«Antologia» erano tutte di patrioti provati, con
    l'Italia in cima dei pensieri e non importa se proprio l'Italia una,
    ma certo l'Italia: purgata dai barbari, e riconsacrata ai suoi
    antichi, alti destini.
    
    Il Viesseux – come del resto tutti i buoni direttori di riviste –
    cominciava cosí, con le reclute: le metteva al banco di prova
    delle recensioni, per poi – se meritavano – promuoverle al rango di
    articolisti. Anche il Montanelli seguí la trafila. Il primo
    suo scritto accettato dal Viesseux fu una severa recensione a due
    operette di un certo abate Orlandi, Apologia delle Scienze e delle
    Arti. Elogio delle principali scoperte. Firenze 1831. Fu pubblicata
    nel fascicolo di dicembre 1831151, non senza prima aver subito, a
    sua volta, l'esperta critica del Viesseux. «Tanto mi sono
    dispiaciute le cose discorse da questo Autore, che non ho potuto
    fare a meno di stendere alcune idee in una notizia
    letteraria», scriveva il Montanelli al Viesseux, il 16
    dicembre; e cinque giorni dopo:
    
    Con sommo piacere ho inteso dalla sua gentilissima lettera del 20
    corr., che il mio articolo ha incontrato la di lei approvazione.
    Ciò mi incoraggisce non poco, e mi anima a seguire con ardore
    la carriera che ho intrapresa. Modificherò volentieri quelle
    espressioni un poco pungenti che mi sono sfuggite nell'impeto della
    composizione. Fu il lavoro di una mattinata e non ebbi tempo di
    riflettervi sopra gran cosa. Ma è troppo giusto e ragionevole
    che nella critica si conservi sempre quella dignità, che
    conviene allo stato attuale delle cognizioni ed è il
    carattere distintivo della vera sapienza. La prego ad indicarmi i
    luoghi che desidera precisamente mutati nella stampa che mi
    rimetterà152.
    
    Cosí il «patriarca del giornalismo italiano»,
    come assai piú tardi lo definirà il Montanelli,
    insegnava il mestiere ai «pivellini»153.
    
    L'articolino, cosí, riuscí una buona cosa, senza
    pretese, ma chiaro e suadente: anche oggi, a leggerlo, si capisce
    che il Montanelli aveva ricavato dagli studi fatti un'abitudine alla
    precisione e alla concretezza, anche filosofica, non proprio comune.
    L'abate Orlandi sapeva certo un monte di cose e molte delle sue
    osservazioni erano buone; «ma assai maggiore sarebbe stato il
    loro pregio – cosí il giovanissimo critico – se alla
    erudizione e alla dottrina si fosse aggiunta una disposizione
    piú metodica nel soggetto, una analisi piú severa
    nelle investigazioni parziali, una elocuzione insomma meno retorica
    e piú filosofica». Ma di che si occupano, precisamente,
    gli opuscoli incriminati? Lasciamo stare, amico lettore: non
    turbiamo il divino silenzio dell'oblio che li ha pietosamente
    ricoperti d'un velo; ti seccheresti tu, e piú dovrei seccarmi
    io se volessimo, per ogni quisquilia, risalire pedantescamente alle
    fonti...
    
    Una seconda recensione del Montanelli fu pubblicata
    sull'«Antologia» del febbraio '32: Sul giornaletto
    poetico stampato in Corfú, osservazioni di Achille
    Delviniotti corcirense, Pisa 1832154. Anche questa volta non ci
    occupiamo dell'opera presa in esame se non per avvertire che
    l'autore era un amico del Montanelli e fu ben presto un sospetto
    politico; cerchiamo invece di scoprire il recensore nel suo mondo
    ideale, tanto piú che, acquistata qualche maggiore
    franchezza, il Montanelli abbordò in questo articolo,
    cosí particolare, sfere piú ampie e piú alte, o
    vogliamo dire questioni di carattere generale. Ascoltiamolo, senza
    dimenticare la contemporanea esperienza del sansimonismo:
    
    Il fondamento principalissimo dell'ordine sociale sta nella
    rettitudine dei costumi. Chiunque intende a promuovere il
    perfezionamento della morale, e a consolidare l'impero della
    virtú, merita dunque la riconoscenza della società.
    È dolce il vedere che a questo santissimo scopo mirano le
    opere piú celebri dei nostri giorni: ma piú dolce
    ancora si è il considerare che una gran parte di tali opere
    appartiene alla gioventú... Noi, che partecipiamo con
    l'autore al desiderio di vedere la poesia compagna indivisibile
    della morale, non possiamo se non che far eco a tutte le cose da lui
    discorse contro un genere di scritti diretti a corrompere i costumi
    e la gioventú. Il poeta è l'interprete dei sentimenti
    piú generosi e sublimi che onorano la umanità.
    Inspirando agli uomini le affezioni virtuose e sociali con le forme
    della bellezza, egli può cooperare mirabilmente ai progressi
    della civiltà... Sarebbe tempo una volta che le arti del
    bello adempissero ai bisogni del secolo, e si mostrassero le vergini
    custodi delle fiamme del sentimento, e le umane propagatrici della
    luce della virtú.
    
    Dove, a parte le piú ampie riserve sulla... verginità
    delle arti, ben si discopre il caloroso afflato idealistico che
    tutto animava il Montanelli e, meglio ancora, come l'argomento di
    questi suoi primi scritti non fosse che un pretesto, piú o
    meno trasparente, per proclamare certi veri che gli fremevano
    dentro.
    
    Mentre sfornava le recensioni, il Montanelli pensava, s'intende, a
    farsi onore con qualche articolo originale. Anzi, si era fatto
    coraggio fin dalla prima sua lettera al Viesseux:
    
    Già da qualche mese – gli aveva scritto – ho concepito la
    idea di una opera, il soggetto della quale si è «una
    introduzione allo studio di diritto, per servire ai giovani che
    vogliono dedicarsi al medesimo». Ho già preparato
    moltissimo materiale, ne ho distribuito tutte le parti, e non molto
    tempo né molta fatica mi costerebbe il condurle a termine...
    Vorrei pertanto far conoscere il mio piano, e le mie idee in un
    articolo di codesto giornale l'«Antologia». E se Ella me
    lo permettesse, me ne occuperei immediatamente.
    
    Viesseux, che anche coi giovani era un puntualissimo corrispondente,
    rispose subito: non s'impegnava mai, per sistema, a pubblicare
    articoli che non avesse letti, ma il Montanelli scrivesse, ed egli,
    una volta veduto l'articolo, s'augurava di poterlo stampare155.
    D'altronde i suoi amici lo consigliavano, molto saggiamente, a
    portar prima a compimento l'opera progettata (mirante a
    «supplire in qualche modo al difetto delle nostre
    scuole», rivolgendosi ai «giovani che si dedicano allo
    studio del Diritto, e si trovano in una provincia del tutto nuova
    senza che gli si mostri né come ci sono entrati, né a
    quale scopo, ecc.»), e poi ad annunziarla nelle riviste.
    Montanelli fece al Viesseux un caldo elogio
    dell'«Antologia», il cui capo «non potrebbe essere
    né piú lodevole, né piú adatto alle
    condizioni attuali dei tempi e dell'Italiana società...
    Chiunque ama la Italia, e desidera il perfezionamento della
    umanità dee professarle la piú viva gratitudine per
    una impresa sí utile e bella»; reiterò le sue
    proteste di voler aiutare, nonostante la sua
    «tenuità» il sempre maggior successo della
    rivista, essendo «animato dal piú vivo desiderio di
    giovare alla mia patria, studiandomi di conoscere la
    verità»156; e della introduzione al diritto non
    parlò piú.
    
    Il 28 dicembre tornò alla carica: si proponeva questa volta
    di dar conto di una nuova Philosophie du droit del Germinier, uno
    scrittore col quale, diceva, «io simpatizzo molto»157;
    ma il Viesseux gli rispose158 che l'opera era già stata
    affidata, per la recensione, ad altro collaboratore. E il
    Montanelli:
    
    Mi dispiace che sia già impegnato il relatore dell'opera del
    Germinier. Se Ella ha altri libri dei quali desideri che sia reso
    conto nell'«Antologia», la prego a prevalersi di me
    liberamente. Le Scienze che hanno particolarmente formato per
    l'addietro il soggetto dei miei studi sono la Filosofia razionale,
    la Morale, il Diritto, e la Scienza sociale. Mi sono occupato ancora
    di Storia, e non ho tralasciato le lettere. Ma non ne ho fatto uno
    studio cosí esclusivo come delle prime159.
    
    Sorrise il buon Viesseux? Speriamo di sí; ma era, il suo, un
    sorriso indulgente, che non disarmava i giovani, anche quelli che
    avrebbero meritato una lezioncina di modestia...
    
    Comunque, il Viesseux non rispose. E allora il Montanelli, che non
    lasciava presa (7 febbraio, inedita): «Ho quasi terminato un
    articolo sull'ultima opera del Romagnosi che contiene: Una raccolta
    dei principali sistemi di filosofia morale presso gli
    antichi», lo voleva l'«Antologia»? No,
    l'«Antologia» non lo voleva, perché del Romagnosi
    si era già occupato il Marzucchi. «Pazienza! –
    cosí l'infaticabile critico. – Il signor professore
    avrà trattato l'argomento assai meglio di quello che avrei
    potuto fare io»160. Ma il Viesseux aveva saputo indorare la
    pillola:
    
    Io le manderò con piacere – gli aveva scritto infatti l'11
    febbraio (lettera inedita) – la prima opera della quale potrò
    disporre... Quando le verrà fatto di scrivere qualche cosa
    del tutto originale su qualche punto di quei rami delle scienze
    morali delle quali ama d'occuparsi, mandi pure, io le dirò
    ingenuamente se ciò che m'avrà mandato potrà
    convenire pel mio giornale.
    
    Finalmente, era... la promozione!
    
    Giacché Ella mi dice che posso spedire anco qualche articolo
    originale in scienze morali e politiche – rispose a volta di
    corriere il Montanelli – ho pensato di trattare un argomento che
    forse non le dispiacerà: La esposizione del sistema Bentham e
    la storia delle sue vicende. La rapidità con la quale il
    sistema Bentham si diffuse in Europa, e la eguale rapidità
    con la quale è caduto in discredito ai nostri giorni, possono
    fornire soggetto di bellissime ricerche sulla direzione che lo
    studio del Diritto ha preso in questi ultimi tempi.
    
    E chiedeva un'opera del Compte che gli sarebbe servita per
    l'articolo in questione161.
    
    Questa volta andò bene: Viesseux, di massima, accettò,
    non senza rinnovare raccomandazioni e consigli di lavorare con la
    massima calma e di mostrarsi un po' piú severo nella critica
    di... se stesso, spedí il Compte162. Il 3 marzo Montanelli
    scriveva: «Il mio lavoro su Bentham progredisce. Ma seguo il
    suo consiglio. Faccio e rifaccio – e volentieri imbratto molta
    carta»163. E a novembre: «Quando in qualche giornale
    inglese capiterà la biografia di Bentham la prego di
    avvisarmi perché desidererei di parlare di questo grand'uomo
    dopo aver molto meditato sulle sue opere»164. Un buon
    discepolo, via.... Cosí buono e dimesso che, a quanto pare,
    finí per spaventarsi della gravità dell'assunto, tanto
    che all'ultimo momento vi rinunciò.
    
    Era fra i suoi difetti quello di affrontare alla leggera temi troppo
    diversi e impegnativi. Una toscana facilità e fluidità
    di scrittore, benissimo identificata dal direttore
    dell'«Antologia», gli nuoceva piú di tutto. Non
    venne fuori, il 21 di novembre, con due nuove proposte di
    pubblicazione, una d'un articolo già scritto, nientedimeno
    che sulla Critica sistematico-universale e Guida alla rinnovazione
    della filosofia di un Giovanni Maggi, «giovane italiano, il
    quale alla docilità dell'ingegno congiungeva ardentissimo
    desiderio del bene dell'umanità, l'altro ancora da scrivere
    sulle ultime vicende e lo stato attuale della musica, trovandone le
    cagioni nelle grandi trasformazioni sociali»?165. Viesseux
    strabilia:
    
    Io non posso fare a meno di osservare quanto vi seducano gli
    argomenti piú difficili a trattarsi...166. Basta, vedremo.
    Checché ne sia, devo ammirate la vostra lodevolissima
    ambizione, e la facilità della quale mi date prova... Se
    avessi saputo che siete intelligente della storia della musica e
    della sua filosofia vi avrei mandato un'operetta sulla quale mi
    è stato chiesto un articolo di rivista. Ora ve la mando167.
    
    Ebbe dal Centofanti, che già lo aveva letto ed approvato, e
    che del resto vi era citato con lode, il primo articolo del
    Montanelli; glielo rimandò con preghiera di... rifarlo168, e
    poi lo pubblicò nel fascicolo di dicembre.
    
    L'articolo era degno dell'«Antologia». Del Maggi, al
    solito, non c'importa nulla; ma vediamo Montanelli al lavoro,
    vediamo come in pochi mesi l'aquilotto avesse fatto le sue penne al
    volo.
    
    Ecco lo slancio d'una bell'anima che volge intorno lo sguardo, che
    apprende la dissoluzione universale dell'epoca in cui viviamo, che
    cerca un rimedio ai tanti mali che ne circondano, e non lo trovando
    nelle antiche dottrine domanda una nuova ma magnifica rigenerazione
    di principî filosofici.
    
    Il desiderio del signor Maggi è il desiderio di tutte le
    anime generose: e noi pure e come uomini e come italiani lo abbiamo
    comune con lui. Ma sotto molti aspetti anco in questo punto le
    nostre idee sono dalle sue essenzialmente diverse... si attende una
    nuova scienza sociale in cui siano rigorosamente dimostrate le
    conseguenze del principio dell'eguaglianza morale di tutti gli
    uomini, promulgato dal cristianesimo... Quando affermiamo essere
    necessaria una rinnovazione filosofica, vogliamo dire che un nuovo
    sistema di principî generali dee sorgere dalle scoperte, e
    dalle osservazioni parziali della moderna sapienza... Ma la italiana
    gioventú, anziché applicare l'ingegno a queste grandi
    creazioni filosofiche, le quali richiedono maturità
    d'intelletto e lungo corso d'osservazione e d'esperienza, può
    essere in altro modo assai piú utile alla patria comune,
    intraprendendo specialmente una sistematica illustrazione del nostro
    passato filosofico... È pur tempo che l'Italia nella
    conoscenza del passato acquisti il sentimento dei suoi futuri
    destini. È pur tempo che noi sappiamo ciò che ci deve
    l'Europa, e superbi delle nostre glorie nazionali occupiamo il posto
    che ci conviene nella storia della moderna filosofia. È
    impresa lunga e difficile: ma guai se gli ostacoli e le
    difficoltà dovessero diminuire l'ardore dell'italiana
    gioventú!
    
    Amico lettore, cosí scriveva il Montanelli non ancora
    ventenne: con questa altezza di concetti, con questa coscienza di
    patria, con questa serietà di studioso e di cittadino. Non
    vorremmo perdonargli allora il peccato veniale d'un ostentato
    enciclopedismo da strapazzo? E non vorremo finalmente intendere
    come, pur muovendo dai piú diversi lidi egli drizzasse, e pur
    sempre, la prora, o almeno proponesse di farlo, verso quell'unica
    meta, la grandezza auspicata della patria restituita al suo glorioso
    destino?
    
    Ma proseguiamo nella lettura del carteggio Montanelli-Viesseux. Per
    tutto il gennaio e una buona metà di febbraio del '33,
    silenzio. Il 22 febbraio, Montanelli:
    
    Bisognerebbe che io vi potessi significare le cause del mio silenzio
    perché voi interamente mi scusaste. Vi basti il sapere che
    già da un mese non ho aperto un libro, e che ora solamente il
    mio cuore comincia a riacquistare un poco di calma dopo tante
    agitazioni sofferte. Nulladimeno, quantunque, oppresso dai
    piú tristi pensieri, mi sono spesso ricordato di voi... Avrei
    già fatto da qualche tempo l'articolo sulla musica. Ma non ho
    potuto applicare. Spero però di mandarvelo quanto prima.
    D'ora in poi son tutto per voi169.
    
    Perché questa crisi? Perché questi tristi pensieri?
    Tenteremo piú oltre di venirne a capo. Il 13 marzo, sempre il
    Montanelli: «Vi manderò l'articolo sulla musica
    unitamente ad altre cose... Vi ripeto che mi vergogno di questo
    prolungamento...» E, a una proposta del Viesseux di retribuire
    i suoi scritti:
    
    Mi dispiace che le circostanze nelle quali mi trovo mi obblighino ad
    accettare la vostra graziosissima offerta... Mi sforzerò di
    scrivere sempre in modo che ne siate contento... Sono circondato da
    alcuni giovani i quali con un poco piú di coltura potranno
    essere ottimi collaboratori. Speriamo che gli ostacoli frapposti ad
    un'opera cosí utile, e cosí generosa saranno presto
    distrutti. Speriamo!170.
    
    Era l'«Antologia», si sa, che cominciava a... far acqua
    in parte anche per quell'articolo del Tommaseo che al Montanelli era
    tanto piaciuto non senza, tuttavia, suscitare la sua meraviglia che
    la censura lo avesse permesso. A Firenze la gran battaglia per la
    salvezza o la perdita della rivista era ormai in pieno corso,
    scatenata dalla «Voce della verità».
    
    Viesseux ostentava ancora la sua bella tranquillità: tanto
    che il 14 marzo spediva al Montanelli due nuovi libri da recensire –
    la versione di due manuali giuridici tedeschi annotati dal Romagnosi
    – e altri da consegnare, per lo stesso oggetto, a un amico171.
    Montanelli accettava volonteroso l'incarico: «Avrò
    occasione di dir qualche cosa relativamente alla filosofia tedesca,
    ai pregiudizi che impediscono in Italia lo studio di quella
    filosofia, e alla necessità di conoscerla, perché il
    movimento intellettuale italiano possa associarsi al movimento
    generale europeo»; e nel contempo spediva al Viesseux il
    famoso articolo musicale172.
    
    Ma il governo toscano aveva vinto (o piuttosto perduto) intanto la
    sua battaglia: l'«Antologia» era morta, un lutto
    nazionale piú doloroso, piú grave e piú
    universalmente sentito che se fosse scomparso, davvero, un grande
    italiano. «Già da qualche tempo io prevedevo ciò
    che realmente è avvenuto!» scrisse, ai dieci d'aprile,
    il Montanelli, costernato e indignato. «Potete immaginare
    però di qual dolore mi riescisse la notizia della
    soppressione dell'"Antologia" sebbene aspettata! Presto verrò
    a Firenze. Ho bisogno di discorrere molto con voi»173. Era
    tutto un periodo della sua vita che si chiudeva; era una pia
    illusione – quella di un compromesso possibile fra governo e
    governati, fra conservatorismo e progresso, fra autorità e
    libertà – che s'infrangeva; era anche, per lui, una via
    luminosa che gli veniva sbarrata proprio allorquando avrebbe potuto
    cominciare a percorrerla piú speditamente e non senza frutto,
    anche materiale e immediato. Vero è che l'esperienza
    dell'«Antologia», per quanto breve, gli era stata
    preziosa. Non invano si andava a scuola da quel maestro del buon
    senso, dell'equilibrio, del contenuto ardore, della disinteressata
    probità scientifica che si chiamava Viesseux.
    
    Vent'anni piú tardi, riconoscente, lo scolaro illustre
    doverosamente scriveva:
    
    Se Firenze un giorno vorrà temperare sulla piazza di Santa
    Trinità i funesti coi grati ricordi, inalzerà ivi, in
    nome della filosofia educatrice, un monumento alla operosità
    instancabile, perseverante e modesta del fondatore
    dell'«Antologia»174.
    
    L'«Antologia», del resto, non era stata la sola palestra
    aperta al Montanelli per dar le prime prove del suo ingegno.
    Già nell'estate del 1831, diciottenne, egli era venuto a
    Firenze per leggervi, nell'Imperiale e Reale Ateneo Italiano, due
    suoi discorsi: quelli stessi che, a quanto pare, attiraron su di lui
    l'attenzione dell'«Antologia»175. Un ragazzo prodigioso
    in una assemblea di parrucconi: certo, dovette fare impressione.
    Tanto piú che questi due discorsi, subito dopo stampati, non
    avevano nulla a che fare con le solite, inutili e asfissianti
    comunicazioncelle erudite. Nel primo: Della morale e della critica
    considerate nei loro rispetti scambievoli, oltre alla chiara
    impostazione storica e filosofica, quel che piú c'interessa
    è la decisa professione di fede idealistica e romantica,
    antiutilitaria e antisensistica, del giovanissimo oratore.
    
    ... il fatto primitivo della morale è il bisogno della
    virtú; il fatto primitivo dell'Estetica è il bisogno
    della creazione dell'arte... Questi bisogni sono ambedue una
    emanazione di quella forza mirabile per cui l'animo esce in certa
    guisa fuori di se stesso, e si diffonde negli oggetti che lo
    circondano.
    
    Passando a parlar di poesia come massima espressione di morale in
    azione, il Montanelli accettava la teoria dell'Ancillon, secondo la
    quale la grande distinzione fra poesia antica e moderna era quella
    che l'antica intendeva principalmente a «dipingere l'uomo nel
    contrasto delle sue affezioni»: che era poi l'antinomia
    maggiore fra paganesimo e cristianesimo. «Che cosa è la
    vita nel sistema del cristianesimo se non un contrasto continuo
    della libertà con le passioni, dello spirito e del mondo? E
    come può in questo contrasto dilettar l'uomo l'aspetto della
    natura, e delle bellezze dell'universo?» Perciò la
    poesia moderna era «sentimento e malinconia, dipingendo l'uomo
    con tutti i suoi contrasti». La vita moderna, col progresso
    dell'industrialismo, spingeva l'uomo sempre piú al
    perseguimento del suo materiale interesse: ed ecco il compito
    supremo degli artisti, correggere quelle tendenze, rialzare l'umana
    dignità «con le forme della bellezza tenere vivo quel
    fuoco sacro da cui si partono tutti quei sentimenti che onorano
    l'umanità». Ingenuità di poeta? E sia pure: ma,
    in questo caso, benedetta ingenuità!
    
    A non dissimile meta tendeva l'altro discorso: Dell'amore nella
    poesia antica e moderna176: dove, seppure con illazione assai
    contestabile nella sua perentorietà, il Montanelli stabiliva
    che «l'amore come bisogno puramente fisico signoreggia nella
    poesia degli antichi, ed è l'anima della moderna (massimo
    campione il Petrarca) come sentimento eminentemente morale... Il
    sentimento morale dell'amore... nacque con la formazione della
    novella civiltà». Quale il compito dei novissimi poeti?
    Quello di rivolgere principalmente le potenze dell'arte alla riforma
    dei costumi, alla rigenerazione morale dell'umanità...
    Cantarono d'amore gli antichi, ne cantarono i moderni poeti. Ma
    questo affetto fu nei primi un semplice bisogno della natura, fu
    negli altri uno slancio egoistico del cuore. A voi (giovani poeti)
    è riserbata la nobilissima missione di riunire i pregi degli
    antichi a quelli dei moderni». La missione della poesia era
    dunque assai altamente sentita dal Montanelli: il quale, come
    accade, sapeva per allora altrettanto bene ragionar su di essa,
    quanto mal gli riusciva di applicar nella pratica, in veste di poeta
    egli stesso, quei troppo superbi dettami.
    
    Giurista, filosofo, critico, poeta, musico. Che piú?
    
    2.
Giuseppe Montanelli e il problema toscano nel 1859
    
    A Giuseppe Montanelli, agitatore politico, scrittore, statista,
    soldato, tutto fu perdonato dai suoi contemporanei – anche
    l'infelice prova ministeriale del '48-49, anche le oscillazioni,
    vere o presunte, del suo pensiero politico, e perfino la
    mediocrità dei suoi versi – ma non l'atteggiamento che
    assunse nell'anno decisivo per le sorti della Toscana e d'Italia. Il
    contrasto determinatosi allora fra la sua azione politica e le
    direttive del nuovo governo toscano raggiunse infatti tal
    gravità, tale asprezza che il Montanelli, si sa, ne
    uscí letteralmente stroncato nella sua fama di patriota; la
    morte, sopraggiunta nel giugno del 1862, quando egli aveva appena
    potuto riprendere la sua attività, gl'impedí d'altra
    parte di fruire di quella piena riabilitazione la cui
    doverosità cominciava ad imporsi agli stessi suoi piú
    accaniti avversari. Scomparso lui dalla scena del mondo, si
    poté anche inalzargli monumenti e variamente onorarne la
    memoria, ma un processo di revisione di quella specie di condanna
    morale che lo aveva colpito e atterrato negli ultimi anni non venne
    mai piú.
    
    Intenti a ritracciare in base a nuovi documenti la vita di lui,
    singolarmente bistrattata quasi piú da incauti apologisti che
    non dai suoi stessi denigratori, vorremmo adesso non proprio
    avviarlo noi, questo processo di revisione, ma per lo meno radunarne
    gli elementi necessari: persuasi come siamo che il chiarimento di
    questo episodio possa giovare altresí a mettere in luce,
    piú generalmente, certi modi e certe forme, altamente
    caratteristici, del glorioso rivolgimento toscano.
    
    Il 27 aprile del 1859, esattamente alla stessa ora nella quale a
    Firenze aveva luogo la pacifica cacciata del granduca, Giuseppe
    Montanelli, esule in Francia ormai da dieci anni, partiva per
    l'Italia, deliberato, nonostante la non piú giovane
    età (egli era nato a Fucecchio nel 1813) e la malferma
    salute, a prender parte alla guerra, arruolandosi fra i volontari
    toscani177. Giornata di vibrante entusiasmo, a Parigi: truppe in
    partenza, inni ed acclamazioni, l'Italia in tutti i cuori e su tutte
    le labbra. L'ex triumviro della Toscana, l'illustre autore delle
    Memorie, l'applaudito poeta della Tentazione e di Camma, a buon
    diritto poteva dar libero sfogo alla sua esultanza, giacché
    quel che accadeva gli appariva come una solenne conferma delle sue
    previsioni e in qualche modo come un altissimo premio alla sua
    incessante propaganda politica, costantemente ispirata al concetto
    fondamentale della complementarità del problema italiano con
    quello generale europeo. In particolare – e pur fra comprensibili
    dubbiezze e oscillazioni determinate dall'estrema fluidità
    della situazione – il suo punto fermo in politica era rimasto, dal
    '49 in poi, quell'uno: che senza l'aiuto di Francia, cioè, la
    libertà e l'indipendenza d'Italia sarebbero rimaste un bel
    sogno inattuabile. Questo aveva detto e scritto agli amici italiani
    di qua e di là delle Alpi, questo si era studiato di
    dimostrare nelle numerose pubblicazioni date alle stampe in quegli
    anni, e in questo senso aveva orientato la sua propaganda negli
    ambienti politici della capitale. Parlava ai Francesi d'Italia e
    agli Italiani di Francia; né mai si era stancato di ricercare
    e di additare i motivi e i modi di un allineamento franco-italiano,
    quand'anche i dati concreti della situazione fossero parsi
    contrastar nettamente con quei suoi piani politici.
    
    Le innumerevoli e cospicue sue relazioni ed amicizie francesi – dal
    Lamartine all'Hugo, dal Michelet al Lamennais, dal Quinet al
    Légouvé, dal Martin al Perrens – non erano state da
    lui ricercate e coltivate proprio in vista di questa indispensabile
    illuminazione della «intelligenza» francese sui dati
    della questione italiana? Oggi sappiamo bene quanto merito risalga
    all'emigrazione politica italiana nell'attuazione del piano
    napoleonico concepito e stimolato dal Cavour: ma certo ben pochi fra
    gli emigrati erano al pari di lui riusciti ad introdursi (grazie
    anche ai clamorosi suoi successi letterari e teatrali) nei
    piú esclusivi ambienti della capitale, nessuno conosceva
    cosí a fondo le redazioni dei grandi giornali. Nel
    «Siècle», nella «Presse», gli organi
    piú apertamente italofili della stampa francese, parecchie
    erano state le «corrispondenze d'Italia» da lui fornite
    su dati che sistematicamente si procurava da Firenze, da Milano, da
    Torino178. Nella «Revue des Deux Mondes», nella
    «Revue de Paris» e in altre minori il suo nome era
    familiare. E gli amici toscani, quelli stessi che pur sovente
    dissentivano da lui circa l'azione da svolgere nel granducato in
    previsione di complicazioni politiche, a chi se non a lui si
    rivolgevano quando occorresse loro denunziare sulla stampa francese
    la situazione del loro paese?
    
    In quei primissimi mesi del 1859, poi, l'attività spiegata da
    Montanelli aveva raggiunto un ritmo addirittura febbrile. Egli
    sperava ormai nella guerra, sí179, ma, introdotto com'era nel
    sancta sanctorum della politica imperiale (il Pietri e il Baciocchi
    eran fra le sue conoscenze), non poteva non registrarne tutte le
    oscillazioni, valutando l'entità delle resistenze che contro
    la guerra si andavano affermando in Francia, un po' in tutti i
    settori. «Qui l'opinione ha bisogno d'essere scaldata, –
    scriveva sul principio dell'anno ad un suo corrispondente, a Torino,
    l'Homodei, incitandolo a procurargli un sempre piú nutrito
    notiziario lombardo da trasmettere ai giornali amici, – ... Tutta la
    borghesia è spaventata»: orleanisti, cattolici,
    repubblicani, tutti all'opposizione, tutti contrari alla guerra!180.
    Pur di travolgere quelle opposizioni, pur di popolarizzare l'impresa
    italiana, il Montanelli si era messo a piena disposizione del conte
    di Cavour, relegando provvisoriamente in sott'ordine ogni sua
    prevenzione circa le finalità ultime della politica
    sabauda181: era entrato in rapporti indiretti con lui e conversando
    e scrivendo contribuiva per parte sua a realizzarne il serrato
    giuoco diplomatico. Suggeriva, per la Toscana, una energica ripresa
    del movimento di agitazione liberale, in vista di costringere il
    granduca a consentire ad un ministero costituzionale il quale
    preparasse la partecipazione della Toscana alla guerra auspicata:
    ché se il granduca vi si fosse opposto, per appellarsi
    all'Austria (scriveva e faceva scrivere, nel gennaio e nel febbraio,
    al Puccioni, al Parra, al Visconti Venosta e ad altri ancora), ecco
    trovato un eccellente pretesto per un contro-intervento
    franco-sardo, cioè appunto per provocare la guerra182. Da
    Torino, invece, gli si scriveva autorevolmente perché
    procurasse anche lui di persuadere i suoi amici toscani a
    organizzare piuttosto un moto insurrezionale che avrebbe dovuto
    scoppiare non appena in Piemonte i preparativi per la guerra fossero
    stati compiuti; e, insieme, s'invocava la sua presenza animatrice
    nella capitale sabauda183. Era quello il tempo nel quale sembrava
    che gli energici sforzi della politica inglese per scongiurare il
    conflitto dovesse trionfare, impantanando la questione italiana in
    un congresso delle potenze.
    
    Il Montanelli frattanto s'adoperava a sollecitare l'afflusso di
    volontari dalla Toscana in Piemonte: l'indifferenza o la freddezza
    degl'italiani nell'imminenza della crisi presumibilmente risolutiva
    lo preoccupavano immensamente184. Si rendeva conto infatti che
    solamente sui campi di battaglia l'Italia avrebbe potuto fornire la
    prova decisiva della sua maturità nazionale: e i sintomi,
    già manifesti, di una rinnovata abdicazione dei suoi
    compatrioti del centro e del mezzogiorno di fronte all'attesa azione
    franco-sabauda lo inducevano ai piú tristi presagi. Il
    mirabile esempio lombardo – e con i lombardi egli si teneva da tempo
    in assiduo contatto – restava malauguratamente isolato185.
    
    Innumerevoli lettere, innumerevoli articoli e pseudo-corrispondenze
    italiane, redatti in quel suo stile caldo, imaginoso, poetico,
    seppure talvolta un poco prolisso, uscivano dalla sua penna. Si
    poneva in rapporto col principe Gerolamo Napoleone186, si recava –
    per la prima volta in dieci anni – a intervistare l'imperatore nella
    vana speranza di penetrarne gl'intendimenti finali circa l'assetto
    che si sarebbe potuto dare all'Italia dopo la guerra187; studiava,
    d'intesa con gli amici di Firenze e di Torino, la possibile
    immediata fondazione, a Parigi di un giornale in lingua francese
    consacrato alla causa italiana188; si occupava a far tradurre e a
    diffondere il celebre opuscolo Toscana e Austria189; dettava
    manifesti alla nazione tedesca per incitarla a seguire con simpatia
    o almeno con minor diffidenza l'imminente impresa liberatrice
    d'Italia, imaginava, allo stesso scopo, un indirizzo dei protestanti
    italiani ai correligionari inglesi e tedeschi190; scriveva al
    Poerio, di fresco sbarcato in Inghilterra, reduce dalle galere
    borboniche, suggerendogli di sfruttare l'immensa sua
    popolarità in quel paese per indurre il governo a farsi
    banditore, nel temuto Congresso, della restituzione ai Toscani e ai
    Napoletani delle costituzioni del '48, illegalmente abrogate191.
    
    Fu, ripetiamo, un periodo ansioso e attivissimo, durante il quale il
    Montanelli, trascurando ogni altro suo interesse192 e
    differenziandosi dai piú dei colleghi in repubblicanismo,
    clamorosamente ostili ad una guerra voluta dal despota napoleonico,
    si prodigò con incessante entusiasmo. E finalmente fu la
    guerra, la sospirata partenza per l'Italia.
    
    Il Montanelli era cosí mal ridotto in salute193 che, pur
    avendo interrotto il suo viaggio a Chambéry194, appena giunto
    a Torino195, ammalò. Riavutosi, volle, prima di partire pel
    campo, conferire col Cavour (oltre che con vecchi suoi amici quali
    il La Farina, il Pallavicino, il Farini). I due, che fino allora non
    si erano mai incontrati – avrebbero dovuto vedersi a Parigi, un mese
    innanzi, ma poi l'affrettata partenza del Cavour aveva fatto mancare
    il ritrovo196, – ebbero un esauriente colloquio, e a quanto pare si
    lasciarono soddisfatti l'uno dell'altro. Il Cavour, anzi,
    ripetutamente insistette perché, rinunciando all'idea di
    prender parte alla guerra, il Montanelli – il quale non poteva
    servirsi del braccio sinistro, malamente ferito nel '48, a Curtatone
    – si disponesse ad accettare un qualche ufficio politico meglio atto
    a sfruttare le sue capacità197; anche gli amici francesi lo
    avevano scongiurato di non esporsi a fatiche troppo superiori alle
    sue deboli forze (come non capiva che, di fronte al nemico, un
    robusto contadino valeva mille volte piú di un intellettuale
    incurvato sui libri?)198. Ma il Montanelli che, come si è
    detto, avrebbe voluto vedere quella guerra trasformata dagli
    italiani in una specie di crociata nazionale, e che sentiva come
    vergogna e sciagura d'Italia che le truppe francesi avessero a far
    l'esperienza delle imbelli virtú della maggioranza dei suoi
    compatrioti, rifiutò netto: e con lo slancio di undici anni
    prima, soltanto men giovane e forte, partí per il campo,
    resistendo finanche al desiderio nostalgico di rivedere al
    piú presto la sua Toscana; ma invero il meglio della Toscana
    non erano proprio quei volontari che egli si apprestava a
    raggiungere?199. Si trovavano costoro ad Acqui, ordinati (per usare
    un'espressione eufemistica) nel corpo dei Cacciatori degli
    Appennini, sotto il comando dapprima di Girolamo Ulloa, intimo amico
    del Montanelli, quindi del Boldoni200: fra di essi il Montanelli
    prendeva il suo rango come semplice milite, rifiutando la nomina a
    sottotenente201; era un suo vecchio principio quello che la
    responsabilità del comando spettasse esclusivamente agli
    esperti, e non mai agli ufficiali improvvisati.
    
    Qual era allora il suo punto di vista sulla situazione politica e in
    particolare sulle sorti della Toscana «protetta» dal re
    sabaudo? Egli partiva dalla premessa, ovvia a quei giorni, esser la
    Francia arbitra assoluta dei destini d'Italia; occorrer quindi non
    contrastare apertamente il programma imperiale, notoriamente mirante
    ad assicurare l'indipendenza alla penisola sulla base di una
    costituzione federale. Soprattutto premeva che sui primordi del
    conflitto non venissero sollevate discussioni e questioni
    concernenti il problema dinastico in Toscana, atte a smorzare lo
    slancio guerresco dell'imperatore, con l'insinuargli dei dubbi circa
    possibili deviazioni del governo di Torino dal piano concertato a
    Plombières.
    
    Nel primo periodo della guerra dell'indipendenza, dalla scesa dei
    francesi in Italia fino all'entrata loro in Milano –
    preciserà piú tardi lo stesso Montanelli202 – mi parve
    inopportuno ogni movimento il quale accennasse alla formazione d'un
    solo Stato italiano retto da Vittorio Emanuele: ciò per due
    precipue ragioni. La prima delle quali era di non contradire al
    disegno federale convenuto a Plombières...; la seconda di non
    accrescere difficoltà a un moto napoletano, il quale
    costringesse il Borbone ad unire alla Francia e al Piemonte le sue
    milizie contro l'Austria. Ciò non vuol dire che il disegno
    federale francese mi sembrasse preferibile all'unità regia
    bene intesa.
    
    Dove immediatamente si scorge come fino da allora il Montanelli
    subordinasse la soluzione del problema che piú gli stava a
    cuore, quello toscano, alla soluzione integrale del problema
    d'Italia; e anche come in lui durasse viva e cocente la memoria del
    '48, allorquando l'affrettata annessione della Lombardia al Piemonte
    aveva in qualche modo trasformato la guerra «nazionale»
    in una impresa ad apparente, esclusivo profitto della dinastia di
    Savoia.
    
    Senonché si volle e si vuole dai suoi detrattori che fino da
    quella prima metà di maggio egli andasse invece già
    intrigando negli ambienti imperiali, ad Alessandria, per propugnare
    la candidatura del principe Napoleone al trono toscano203. Somma
    ingiustizia degli uomini e delle cose! Mentre il Montanelli militava
    in Acqui, felice di trovarsi fra quella gioventú animosamente
    impaziente di entrare in linea204, e risoluto a non occuparsi per
    allora di cose politiche, un influente personaggio toscano,
    già vecchio amico suo, ma poi tra gli oppositori del suo
    ministero e quind'innanzi sempre contrarissimo a lui, il Salvagnoli,
    si presentava, come ognun sa, il 17 maggio, all'imperatore,
    formalmente richiedendolo, fra l'altro, di mandare un corpo di
    truppe francesi in Toscana, per salvarla dai temuti eccessi
    dell'estremismo mazziniano. Di qui la destinazione in Toscana del
    5° corpo d'armata, comandato dal principe Napoleone, di qui le
    innumerevoli gravissime complicazioni che sono nella memoria di
    tutti, di qui gli esiziali sospetti sulle intenzioni francesi,
    ravvivati dal fatto, non ignoto ai piú, che era proprio il
    Salvagnoli quegli che nel novembre del '58 aveva presentato
    all'imperatore un progetto di riordinamento della penisola
    comprendente la cessione dell'Italia centrale al principe
    Gerolamo!205. Di qui, finalmente, né proprio si riesce a
    intendere con qual fondamento, certe accuse... al Montanelli, anche
    di recente echeggiate da pur coscienziosi scrittori di cose
    toscane206.
    
    In realtà quella missione del Salvagnoli costituiva una prova
    caratteristica del disorientamento che aveva colto, a Firenze,
    quella minoranza medesima dalla quale era pur stato promosso, o
    guidato, o volonterosamente accettato, l'ordine nuovo instaurato in
    Toscana alla fine d'aprile. E infatti se l'accordo fra quei patrioti
    era stato agevolmente raggiunto, e agevolmente si sosteneva quanto
    al lato negativo del loro programma (il bando definitivo al
    granduca), una disorientante varietà di propositi li divideva
    quanto ai criteri e alle finalità della ricostruzione. Lo
    stesso programma dell'annessione al Piemonte, che pure si
    presentava, fra tutti, come il piú concreto e maturo ed
    attuabile, dava luogo a profondi dissensi circa il tempo e il modo
    della sua attuazione. Annessionisti ad oltranza, postulanti la
    fusione immediata, e in qualche modo l'annullamento della
    personalità politica toscana nell'organismo piemontese, di
    contro ad annessionisti dell'ultima ora, solleciti invece di
    salvare, nell'operare l'unione, quanto piú si potesse delle
    tradizioni e delle leggi e insomma del patrimonio politico toscano;
    dissensi nel ministero, e poi fra i singoli ministri e i capi
    piú autorevoli della parte nazionale, e accuse incrociate di
    autonomismo o, per converso, di scarso amore della
    «patria» toscana; e, accanto agli annessionisti, i
    fautori di un piú modesto programma di rinnovamento, affidato
    ad una nuova dinastia, o addirittura gli unitari
    «italiani», i quali, parimenti opposti agli
    annessionisti ed agli autonomisti, assegnavano alla Toscana la
    missione e la funzione di centro iniziatore di una integrale
    unificazione italiana.
    
    Divisi gli animi a questo modo nel partito «nazionale»,
    la gran massa del paese supinamente indifferente, quando non ostile,
    alle novità dell'aprile e a quelle in corso di sviluppo; con
    una stampa non ancora adeguata e informata al nuovo clima politico
    ed alle nuove possibilità che ne derivavano; non è
    meraviglia davvero che l'annunzio del prossimo arrivo del principe
    Napoleone in Toscana gettasse a Firenze e a Torino allarme e
    subbuglio vivissimi. Impaccio del governo toscano, fulminea
    contromanovra del Cavour, lí per lí determinatosi,
    nonostante le tranquillanti dichiarazioni e dell'imperatore e del
    principe, a neutralizzare la malaugurata mossa francese, premendo
    sul Boncompagni e, attraverso quello, sul Ricasoli, perché
    senza indugio venisse proclamata l'annessione della Toscana al
    Piemonte.
    
    Dichiaratamente contrario a che le questioni del futuro ordinamento
    dell'Italia centrale venissero pregiudicate finché durava la
    guerra, il Montanelli fin qui non si era mosso da Acqui.
    Senonché parve anche a lui che la spedizione del principe
    Napoleone venisse a creare una situazione nuova del tutto,
    suscettibile di decisivi sviluppi: e anch'egli si domandò se
    non si correva per caso il rischio di trovarsi, alla fine della
    guerra, dinanzi ad un irrimediabile fatto compiuto. 23 maggio,
    sbarco a Livorno del cugino dell'imperatore; due giorni appresso il
    Montanelli, recatosi in Alessandria, chiede ed ottiene udienza da
    Napoleone III. Il colloquio (il secondo fra loro) verte da principio
    sulla situazione toscana, intorno alla quale l'imperatore riceve da
    piú parti le informazioni piú desolantemente
    contraddittorie. «Mi sforzai di mostrargli – cosí il
    Montanelli in una sua relazione inedita207 – che quanto al non
    volere i Toscani divenir provincia del Piemonte, il Boncompagni
    poteva avere forse ragione». (Proprio cosí! Il
    Boncompagni, infatti, ignaro ancora della manovra cavourriana, e
    personalmente alieno dal forzar la mano ai Toscani, scriveva e
    operava allora in senso tutt'altro che annessionistico, mentre
    l'imperatore, per parte sua, deplorava o figurava di deplorare
    quello che gli sembrava, di tutto quell'«imbroglio»,
    l'unico dato di fatto incontrovertibile: e cioè l'assoluta
    contrarietà dei toscani a rinunziare alla loro autonomia).
    
    Ma quanto all'idea unitaria monarchica – cosí ancora, il
    Montanelli – la Toscana, e soprattutto le città di provincia,
    la sentivano profondamente... Idee di separazione in Toscana non ce
    ne erano davvero. E dalla Toscana il discorso s'elevò a tutta
    l'Italia, ed ebbi a persuadermi come li statisti italiani che
    avvicinavano l'imperatore erano lontani dall'avergli o per ignoranza
    o per malizia fatto apprezzare l'indole e la portata del nostro
    movimento unitario208.
    
    Ecco dunque il preteso separatista, il francomane, il
    «plonplonista» Montanelli fare in altissimo loco
    propaganda unitaria, e, come tutti i propagandisti, del resto,
    accomodare ai suoi fini la verità di fatto, sostenendo
    imperturbabile non esservi in Toscana idee autonomistiche (!),
    esservi anzi l'idea unitaria profondamente radicata e diffusa...
    Avrebbe potuto affermar cosa meno esatta, ma, insieme, alterare la
    verità per un piú nobile oggetto? Avrebbe potuto, lui
    repubblicano, sacrificare piú di cosí al programma
    della unità monarchica? Protestandosi assolutamente
    disinteressato quanto alla soluzione da darsi al problema dinastico
    toscano, l'imperatore poteva essere in buona o in malafede: il
    Montanelli per parte sua lo credeva perfettamente sincero, riteneva
    comunque che, una volta sollevata, con la spedizione del principe
    Napoleone, la questione generale dei futuri destini d'Italia,
    tant'era prendere alla lettera quelle sue proteste, affacciando
    senza indugio e con spregiudicata franchezza la soluzione piú
    radicale e integrale. Al qual proposito sarà opportuno
    osservare come, bene o male ispirato che fosse nello scoprire
    siffattamente il programma della completa unificazione italiana, il
    Montanelli agisse in piena indipendenza e da Torino e da Firenze,
    nettamente precorrendo atteggiamenti e prese di posizione assai
    piú tardi diffusisi tra i suoi concittadini: salvo che allora
    gli si muoverà rimprovero di non volervisi associare, anzi di
    essere sordo al richiamo dell'unità italiana!
    
    Riconoscendo la legittima dittatura morale del Cavour esercitata su
    tutta l'Italia, volle il Montanelli che il gran ministro venisse, a
    sua norma, puntualmente informato del suo colloquio con
    l'imperatore: ond'è che l'intendente d'Acqui, dietro sua
    espressa richiesta, gliene trasmise una precisa relazione209. Noi
    non conosciamo questa relazione, ma che il Cavour restasse
    soddisfatto dell'attività da lui svolta, dimostra appieno, ci
    sembra, la circostanza che il Montanelli venisse allora
    ufficialmente e calorosamente raccomandato, a nome del governo
    reale, alle locali autorità di Acqui e di Alessandria210.
    Piú tardi, del resto, anche Giorgio Pallavicino, spintovi dal
    Montanelli, suo vecchio amico, trasmise al Cavour un resoconto del
    colloquio imperiale211. Dal quale il Montanelli non usciva, a dire
    il vero, gran che ottimista circa la possibilità d'indurre
    l'imperatore a rivedere e a modificare il suo programma di
    ordinamento federalistico per l'Italia. Lo scrisse, fra gli altri,
    al Michelet: «Giorni sono ad Alessandria ebbi una conferenza
    con l'imperatore. Quanto alla questione dell'ordinamento politico
    non mi parve disposto di tener conto della opinione che su questo
    manifesterà a suo tempo l'Italia. Ma ora è vivamente
    preoccupato della guerra»212. Senonché gli argomenti
    usati dal Montanelli per avvalorare la tesi unitaria dovevano aver
    suscitato qualche impressione nell'animo del suo interlocutore.
    Pochi giorni dopo, infatti, avendo questi designato due personaggi
    del suo seguito, il senatore Pietri e il professor Rapetti, a
    studiare sul luogo la situazione toscana e a riferirgli in merito,
    uno di costoro, il Rapetti, ebbe ordine di recarsi innanzi tutto a
    interpellare, ad Acqui, il Montanelli. Resultato del loro incontro
    fu non solamente che il messo imperiale si dichiarò, e a voce
    e per iscritto, «persuaso della necessità di edificare
    su questa base» (cioè sulla base unitaria), ma che a
    Napoleone III egli rimise, del Montanelli un memorandum scritto al
    medesimo oggetto: memorandum che, al pari della relazione al Cavour,
    noi non conosciamo, ma che, ci si assicura, incontrò
    l'approvazione dell'imperatore213. In un suo appunto autografo,
    ahimè frammentario, il Montanelli, del resto, precisa che i
    due principali argomenti da lui svolti in quel documento erano, da
    un verso, l'ormai dimostrata incompatibilità del dominio
    temporale del papa con l'idea nazionale e con i principî dello
    Stato moderno, dall'altro (citiamo le sue parole) «il consenso
    ampiamente diffuso che, al di sopra d'ogni altra differenza di
    pareri, collegava gli animi italiani nell'ossequio
    all'autorità unitaria del re Vittorio Emanuele»214.
    
    Il contegno del Montanelli, come si vede, non avrebbe potuto essere
    piú... italiano di cosí; del che gli era buon
    testimone, fra gli altri, il vecchio amico Vincenzo Malenchini,
    già ministro della guerra nel governo provvisorio toscano, ed
    ora suo commilitone, anzi suo superiore gerarchico nei Cacciatori
    degli Appennini215, in pieno accordo col quale il Montanelli andava
    svolgendo la sua azione politica. Eppure, come abbiamo piú
    sopra accennato, non mancavano già fino d'allora altri...
    amici, i quali si compiacevano di spargere, a Firenze, brutte voci
    sul suo conto. Lo sapevano francofilo convinto; giungeva l'eco dei
    suoi colloqui con l'imperatore e con i suoi emissari. Non ce n'era
    dunque piú che a sufficienza per bollarlo sostenitore segreto
    della pretesa candidatura del principe Napoleone al trono
    toscano?216. Egli era ad Acqui, ma non vi fu perfino chi scrisse
    «essere il Montanelli venuto a Firenze col principe Napoleone
    per il quale voleva fare un partito», o chi riuscí ad
    identificarlo frammisto a quella piccola folla che, la sera del
    1° di giugno, improvvisava a Plon-Plon una dimostrazione di
    simpatia?217. In realtà egli univa allora in una medesima
    inequivocabile deplorazione autonomisti e plonplonisti218.
    
    Propagandista presso l'imperatore di unità monarchica, il
    repubblicano Montanelli non ristava, nel contempo, dall'incuorare i
    suoi concittadini a pensare per allora unicamente alla guerra. Tale,
    oltre alla dichiarata fiducia nella efficienza dell'ausilio
    francese, della quale la recentissima vittoria di Montebello aveva
    fornito una prova quanto mai luminosa, era, ad esempio, il contenuto
    di un suo opuscoletto politico pubblicato a Livorno in quei giorni:
    Il ventinove maggio in Toscana219. In esso il Montanelli dichiarava
    che l'ottimo ordinamento per la sua Toscana era semplicemente quello
    il quale permettesse e promuovesse il piú largo afflusso di
    contingenti armati sul teatro delle operazioni. Era, questa, una
    censura al governo di Firenze che, mentre aveva sollecitato il
    presidio delle truppe francesi, non sapeva fare un esercito della
    gioventú toscana? Senza dubbio lo era, seppure il Montanelli
    non la esprimesse che sotto la forma di un incitamento per
    l'avvenire; e come tale Il ventinove maggio non era destinato di
    certo ad aumentare la già scossa popolarità da lui
    goduta in patria. Ma a noi quel suo scritto interessa in special
    modo in quanto ci fornisce la prova indiscutibile che, anche dopo il
    colloquio con l'imperatore, il Montanelli non altro aveva in mente,
    appunto, che la sorte della guerra e l'avvenire unitario d'Italia:
    l'antico banditore della Costituente, infatti andava giornalmente
    cedendo all'elettrizzante contagio monarchico, che si sprigionava,
    vorremmo dire, dai campi lombardi.
    
    L'idea dell'indipendenza – scriveva egli in quegli stessi giorni a
    un amico – signoreggia tutte le altre: e perché a capo
    dell'indipendenza sono un imperatore e un re, sarebbe considerato
    come partigiano dell'Austria chiunque recasse nel moto attuale idee
    politiche contrarie all'autorità regia ed imperiale. Si
    è tanto detto che l'Italia s'è perduta per discordie e
    indisciplina, che ciascuno si fa come scrupolo di divenire causa di
    dissenzione o di scandalo220.
    
    Palestro, 31 maggio; Magenta, 4 giugno; le porte di Milano si aprono
    al vittorioso esercito franco-sardo. Qual fremito di ricordi per
    chi, ora per ora, aveva vissuto, undici anni prima, autentico
    combattente, la tragedia lombarda! Il Montanelli, che con i suoi
    Cacciatori si è trasferito intanto da Acqui ad Alessandria221
    – preludio forse dell'invocata entrata in campagna pei volontari
    toscani? – ha la suprema soddisfazione di constatare come il
    programma unitario stia apparentemente conquistando anche
    l'imperatore, galvanizzato dal successo.
    
    I municipali di Milano – cosí si legge, infatti, in certi
    suoi appunti inediti222 – andavano incontro a Vittorio Emanuele
    rinnovando davanti all'imperatore dei Francesi il patto col quale la
    Lombardia erasi unita al Piemonte nel 1848. Questo era un ostacolo
    di piú al disegno d'una federazione di principati
    costituzionali... Il tacito consenso dell'imperatore a cotesto
    assetto, e piú il famoso suo bando di Milano, col quale
    chiamava gl'Italiani tutti a combattere sotto lo stendardo di
    Vittorio Emanuele, mi fecero pensare che ormai l'idea dell'opuscolo
    federativo [il celebre opuscolo del La Gueronnière,
    pubblicato a Parigi nel febbraio e notoriamente ispirato
    dall'imperatore] fosse per lui abbandonata, e che voleva soldati, e
    nulla gl'importava se l'Italia a lui li inviasse accoppiando
    all'impresa dell'indipendenza l'impresa dell'unità. Allora mi
    feci un dovere di predicare come opportune quelle dimostrazioni
    unitarie che avanti il proclama di Milano io avrei biasimate.
    
    In altri termini: fu il proclama di Milano quello che lo indusse a
    uscire dalla riserva nella quale si era fino ad allora tenuto per
    passare alla propaganda diretta delle idee unitarie in Toscana.
    
    Si vorrà censurarlo per aver egli dichiaratamente regolato la
    sua azione politica sui cenni imperiali? Per aver atteso,
    cioè, l'implicito consenso di Napoleone III prima di
    determinarvisi? Sarebbe senz'altro un errore: in tutta Italia,
    infatti, e tra gli stessi patrioti piú indipendenti,
    universale era allora la convinzione che l'arbitro della guerra
    sarebbe poi stato l'arbitro supremo della pace; che, per dirla con
    parole di G. B. Giorgini, «in Toscana [non] potrebbe
    consumarsi o reggersi un fatto qualunque non consentito dalla
    Francia»223. Il Montanelli che aveva ancora fresco il ricordo
    delle dichiarazioni antiunitarie fattegli pochi giorni innanzi
    dall'imperatore, non si sarebbe aspettato di certo una cosí
    brusca sua conversione; ma è inutile dire che l'accolse con
    esultanza; tanto piú che forse si lusingava di avere in
    qualche misura personalmente contribuito, con le sue parole e col
    suo memorandum, a questa improvvisa (e ahimè ingannevole)
    adesione imperiale al programma unitario.
    
    Qual era allora la situazione in Toscana? Disorientato, da un verso,
    dalle insistenti pressioni piemontesi in senso annessionistico
    (missione Nigra-Cipriani, vivamente deplorata dal Ricasoli), quindi
    dall'improvviso loro abbandono in sulla fine di maggio (una volta
    accortosi il Cavour d'aver battuto una pista falsa); e, dall'altro
    verso, dalla conturbante presenza delle truppe francesi, il governo
    toscano si era accuratamente astenuto, nelle ultime settimane, da
    ogni concreta manifestazione di principî o di propositi sia
    nel senso dell'annessionismo che in quello autonomistico o unitario.
    Il rinvio di ogni decisione a guerra ultimata si rivelava ormai ben
    piú che un programma preordinato, il portato di una
    incoercibile repugnanza e quasi impossibilità collettiva, in
    seno al governo, a operare una scelta fra quei diversi partiti. La
    Toscana pareva davvero quella donnetta disputata da un gruppo di
    soldatacci, cui l'aveva amaramente paragonata il Capponi.
    Giudicò il Montanelli, cosí stando le cose, che fosse
    giunto il momento opportuno non solamente per iniziare, o
    riprendere, in Toscana manifestazioni unitarie extra-governative, ma
    per imprimer loro, possibilmente, quel carattere di autentica
    «popolarità» che fino ad allora era ad esse
    mancato, come l'imperatore gli aveva fatto espressamente notare in
    occasione del colloquio alessandrino, e che ben piú di ogni
    assicurazione di un Corsini o di un Ricasoli avrebbe valso a
    dimostrare la loro corrispondenza ai voti della cittadinanza. L'idea
    del Montanelli, in concreto, fu quella di promuovere, da parte dei
    municipi toscani, clamorose manifestazioni in favore della
    costituzione di un grande regno unito d'Italia, cui la Toscana, un
    giorno, avrebbe dovuto congiungersi. Anche il Cavour, allorquando
    aveva sperato di ottenere dalla Toscana un solenne voto
    annessionistico, aveva suggerito al Boncompagni di sollecitare quel
    voto dai municipi toscani: nell'assenza di una regolare assemblea
    legislativa (cos'era la Consulta dell'11 maggio se non un vero e
    proprio consiglio di Stato emanante dal potere esecutivo?), gli
    unici organismi rappresentativi del popolo toscano potevano dirsi
    infatti i consigli municipali. Essi erano composti, è vero,
    di membri nominati dal governo, e per giunta dal cessato governo
    granducale, ma in ragione della loro stessa molteplicità
    potevano ancora considerarsi, entro certi limiti, quasi uno specchio
    della cittadinanza o almeno del ceto possidente. Il Cavour, mutata
    la rotta, aveva finito col rinunziare al suo progetto, tanto
    piú che, a suo giudizio, esso avrebbe reso necessaria una
    preventiva ricomposizione dei consigli municipali mercé nuove
    elezioni amministrative; lo ripigliava adesso il Montanelli, con
    questo di mutato: che egli si diceva convinto di poter raccogliere
    larghe adesioni ad un programma unitario anche dai consigli
    esistenti.
    
    Discusso il suo piano con taluni suoi colleghi di corpo, e prima di
    tutti col Malenchini224, il Montanelli lo sottopone al senatore
    Plezza, che nella sua qualità di commissario regio riveste in
    Alessandria la suprema autorità politica. Costui, che
    evidentemente divide le impressioni allora quasi universalmente
    diffuse a Torino circa le velleità autonomistiche del governo
    toscano, non solo approva incondizionatamente il progetto
    montanelliano, ma apertamente si associa alla sua attuazione.
    Sollecita l'approvazione del Cavour? Sembra di sí ma ad ogni
    modo il suo appoggio implica naturalmente quello del suo governo.
    Occorre mandare in Toscana una persona ben vista, pratica
    dell'ambiente, capace di tentare la conversione sul programma
    unitario di tutte le correnti «italiane», dagli uomini
    di governo fino all'estrema ala sinistra repubblicana. È il
    Montanelli che propone il nome d'un suo amico residente in
    Alessandria, Bartolomeo Aquarone, professore in quel liceo, noto
    giornalista e letterato, che ha lungamente soggiornato a Firenze.
    L'Aquarone accetta, vien fornito di mezzi pecuniari e di
    lasciapassare dal Plezza, di commendatizie, d'istruzioni e di
    abbozzi di proclami dal Montanelli225, e parte immediatamente. Quali
    sono le istruzioni del Montanelli? Ne abbiamo rinvenuto un frammento
    fra le sue carte226:
    
    Fa d'uopo ripigliare la tradizione napoleonica del regno d'Italia.
    Fa d'uopo togliere ai separatisti il loro piú forte
    argomento, mostrando con qual magno nome di regno d'Italia che non
    si tratta d'incorporare Toscana né altre province di Italia
    al Piemonte, secondo che potrebbero dare ad intendere le errate
    formole unitarie che ora s'adoperano di fusione e d'annessione, ma
    d'unire Piemonte, Lombardia, Toscana, Liguria, e quante altre
    province italiane di mano in mano acquisteranno libertà di
    manifestarsi, in un regno d'Italia. La Toscana, dichiarando che
    vuole il regno d'Italia, renderà alla causa nazionale due
    servigi. 1) sostituirà la formola piú vasta e
    piú simpatica di regno d'Italia a quello di regno dell'alta
    Italia, che offende giustamente l'aspirazione unitaria. 2)
    rannoderà il movimento attuale italiano alla tradizione
    napoleonica. Sarei d'avviso che fin d'ora si rendesse popolare
    l'idea di adottare per codice civile del nuovo regno il codice
    Napoleone. Sarà una soddisfazione data alla Francia, e un
    benefizio per noi... L'imperatore dei Francesi potrà mostrare
    che le armi della Francia spianano la via a idee progressive. Le
    parole sacramentali del pronunciamento municipale sarebbero adunque:
    Viva il regno di Italia; viva Vittorio Emanuele re d'Italia; viva il
    codice Napoleone227.
    
    La mossa montanelliana è, come si vede, tutt'altro che
    inabile: giacché d'un sol colpo essa mira ad atterrare i
    molteplici ostacoli che in Toscana si oppongono alla propaganda
    unitaria: agli annessionisti mostrando che l'unità
    verrà realizzata nel nome e a profitto della dinastia di
    Savoia; agli antiannessionisti che il Piemonte al pari della Toscana
    si fonderà a suo tempo nel nuovo regno; ai francofili che ci
    si riattaccherà alla tradizione napoleonica; e finalmente ai
    diffidenti della politica francese che l'omaggio alla Francia
    sarà puramente morale (codice Napoleone), in nessun modo
    implicando soddisfazione di presunti suoi appetiti territoriali, ai
    quali del resto il Montanelli non crede228.
    
    Munito di cosí fatte istruzioni (cui, diversi mesi piú
    tardi, sviati apologisti del Montanelli pretesero attribuire,
    né si riesce ad intendere come, carattere di propaganda
    annessionistica229), l'Aquarone si dirige in Toscana: siamo ai primi
    di giugno, e presumibilmente al 9 del mese230. Quali sono i
    resultati della sua missione? Non ne sappiamo che poco. Vediamo
    comunque di orizzontarci alla meglio, sfruttando i pochi dati
    attualmente a disposizione. L'Aquarone, crediamo, non
    pubblicò relazioni di questo suo importantissimo viaggio
    politico; ma tra le carte del Montanelli si conserva una sua lettera
    del 12 giugno (da Livorno?) che contiene qualche notizia in
    proposito231:
    
    Pare, come scrissi ieri al Plezza, che il Ricasoli sia interamente
    sulla nostra linea. A Firenze il Morandini232 e il Monzani mi
    diedero assicurazione di ciò; e in Livorno la cosa mi viene
    confermata da altri233. Dio sia lodato. Andremo insieme, potendo; se
    no, andremo da noi. Ma pare che s'abbia ad aspettare. Dicono che i
    municipi attuali, composti dal cessato governo, forse non
    corrisponderanno: e che però il Ricasoli vuole tosto
    procedere alla formazione dei nuovi, per le elezioni... Bene.
    Frattanto ho dato commissione di studiare i consigli municipali
    quali sono: e se que' di Firenze, Livorno, Pisa, Lucca, Pistoia,
    Siena e Arezzo possono corrispondere, o volentieri, o sotto la
    pressione, sono d'avviso che s'abbia a andare innanzi subito. Con
    questo fine andrò dimani, lunedí, a Pisa; e diman
    l'altro a Lucca; e indi anche a Pistoia; ché ad Arezzo, a
    Siena, e a Firenze, pensano Morandini e Monzani. Se abbiamo questi
    sei o sette municipi, a me paiono bastare: ché al voto
    universale ricorrerei a malincuore; e si ricorrerà,
    abbisognando, poi. Ora una cosa abbisognerebbe, un giornale che
    indirizzasse il paese... Vi sono alcune repugnanze che giova
    ottundere; alcune prevenzioni che vogliono essere dissipate; insomma
    abbisogna acchetare gli spiriti intorno ad alcuni sospetti,
    fomentati, soffiati, gonfiati, e inaspriti dall'amore delle
    personalità politiche toscane. Mi si parlò, e da uomo
    di polso, di centralità tirannica... Risposi che Firenze
    sarebbe pur sempre Firenze, il centro, la sede del Bello e delle
    Arti... Vedi che c'è dell'invidia in tali argomenti...; la
    quale gioverebbe fosse combattuta... da un giornale. Lo vuol fare il
    Cavour?
    
    Da questo documento risaltano bene, non che certi stati d'animo
    allora ampiamente diffusi in Toscana, il carattere della propaganda
    italianissima svolta dall'Aquarone dietro precise istruzioni del
    Montanelli: e dire che ben presto quest'ultimo verrà
    gabellato per un autonomista, per antiunitario! Proprio lui che,
    quello stesso 12 giugno, scriveva all'amico Turchetti:
    
    ... Se la Provvidenza mi vorrà strumento utile al
    riordinamento civile del regno d'Italia che spero si farà
    volenti o nolenti gli eunuchi autonomisti toscani, come mi diede
    forza a resistere agli spasimi dell'esiglio, mi proteggerà
    nella gloriosa tempesta del campo...234.
    
    Ma torniamo ai resultati della missione Aquarone, e vediamo in
    proposito la versione del Montanelli. Il 21 di giugno egli scriveva
    al Pallavicino a Torino, perché a sua volta questi ne
    informasse il Cavour, che il «lavoro unitario» da lui
    iniziato in Toscana era già a buon punto: «ben presto,
    aggiungeva, se ne vedranno i frutti»235. E poi, specificando:
    
    Il pronunciamento per la formazione del regno d'Italia è
    cominciato. Spero che il governo piemontese ne apprezzerà
    l'importanza e sentirà che per acquistare autorità
    unificatrice è d'uopo che presto incominci ad unificare,
    lasciando per ora da parte le legazioni, e ritenendo come massa
    unificabile il vecchio Stato piemontese, la Lombardia, lo Stato
    parmense e la Toscana.
    
    In un secondo tempo il nuovo regno
    
    alle province che vi facessero adesione comunicherebbe la sua
    unità; si sposterebbero le antiche supremazie di capitali, si
    farebbe sentire alle province il vantaggio di questo spostamento, si
    cercherebbe la maggiore uniformità possibile delle nostre
    istituzioni civili con le francesi.
    
    Diversi mesi piú tardi, facendo la storia della sua azione
    politica236, il Montanelli scriveva, della missione Aquarone, che
    proprio ad essa si era dovuta la prima, la decisiva spinta a quel
    memorabile movimento unitario dei municipi toscani, che si era
    svolto nella seconda metà di giugno e piú specialmente
    nei giorni immediatamente precedenti e seguenti a Villafranca.
    
    Prima il municipio di Siena..., quindi il municipio di Livorno
    cominciarono la manifestazione unitaria della Toscana. Nelle
    adunanze che Aquarone promosse fu deciso di unire alla
    manifestazione municipale un movimento di firme che in alcune
    città prese colossali proporzioni. Il municipio di Livorno
    proferí primo la parola di Regno d'Italia. Nelle altre
    dichiarazioni municipali seguitava a prevalere l'errata e insidiosa
    formola di fusione o annessione al Piemonte.
    
    Questa versione è integrata da un passo degl'inediti Cenni
    biografici dedicati al Montanelli dalla sua vedova:
    «Montanelli indirizzava Aquarone agli amici Antonio Parra237,
    Biscardi238, per cooperare alla riuscita, e si ebbe il bel resultato
    delle 25 000 firme dei Livornesi, che furono i primi e trascinarono
    gli altri municipi».
    
    Senonché la storia delle manifestazioni municipali toscane fu
    invero assai piú complessa che non appaia dalla narrazione
    montanelliana. La propaganda immediatamente iniziata dall'Aquarone
    era venuta infatti a sovrapporsi, e in parte a confondersi con
    analoghe iniziative o spontaneamente presentatesi in Toscana, o
    introdottevi e caldeggiate da esponenti della Società
    Nazionale accorsi a Firenze all'incirca nel medesimo tempo, con la
    missione di promuovere, invece, manifestazioni annessionistiche.
    Fino dal 6 giugno, intanto, e come per contraccolpo dell'entusiasmo
    sollevato dalla vittoria di Palestro, aveva cominciato a circolare
    in Firenze, e poi in tutta la Toscana, il noto indirizzo a re
    Vittorio, acclamato «re d'Italia»239, il quale,
    apertamente appoggiato da due dei ministri in carica, il Ricasoli e
    il Salvagnoli, era andato rapidamente coprendosi di migliaia di
    firme240. A questo indirizzo si erano evidentemente ispirati
    parecchi municipi, affrettatisi a votare, in omaggio al re sabaudo,
    ordini del giorno non meno calorosi seppure, in genere, assai
    piú prudentemente indeterminati nella formulazione241. Fu
    questa, in realtà, la prima manifestazione unitaria
    extragovernativa svoltasi in Toscana, e indubitatamente essa venne
    promossa e si svolse affatto indipendente dall'iniziativa
    montanelliana: si deve per contro riconoscere che la formola
    proposta dall'Aquarone presentava, di fronte a questa prima, una
    notevolissima accentuazione in senso unitario. Altro era infatti
    acclamare a un re d'Italia, che era del resto nelle tradizioni della
    innocua rettorica patriottica, altro promuovere una manifestazione
    sistematica in favore di un definito e concreto regno d'Italia.
    
    Il 12 giugno, allorquando la propaganda svolta dall'Aquarone era
    ancora nella sua fase iniziale, una seconda manifestazione unitaria
    aveva luogo a Firenze: dove il consiglio dei ministri approvava un
    decreto (di poi né pubblicato né sottoposto
    all'approvazione della consulta, attesa l'opposizione del Cavour)
    proclamante in Toscana la sovranità di re Vittorio,
    «onde cooperare alla formazione d'una Italia una e
    forte». Questa volta era la tendenza annessionistica che
    prendeva nettamente il di sopra; e, con essa, il radicato
    presupposto ricasoliano di disporre delle sorti del paese senza
    ricorrere alla consultazione piú o meno indiretta della
    volontà popolare.
    
    Contro questa tendenza veniva adesso ad urtare la propaganda
    dell'Aquarone, il quale, messaggero, sí, del Montanelli, ma
    insieme coperto da una sia pur generica autorizzazione del governo
    sabaudo, non si peritava di sollevare pubblicamente il problema
    unitario nella sua interezza, cioè il problema non pure della
    Toscana, ma, seppur gradualmente, di tutta l'Italia e delle sue
    sorti future, partendo dalla dichiarata premessa che la
    manifestazione della volontà toscana avrebbe dovuto svolgersi
    dal basso all'alto, e, se non all'insaputa, certo senza il diretto
    intervento delle autorità di governo. Il ragionamento del
    Montanelli-Aquarone filava, invero, perfettamente: che valore
    avrebbe mai rivestito, ragionavano essi, il voto unitario o
    annessionistico pronunziato o provocato da un ministero
    gerarchicamente dipendente dal commissario del governo piemontese? E
    come si poteva mai sperare che l'imperatore avesse a prenderlo in
    seria considerazione? Ond'è che l'Aquarone, evitando i
    circoli ufficiali, «batteva» soprattutto i ritrovi della
    democrazia militante, come non senza scandalo e allarme si dovette
    ben presto constatare a Palazzo Vecchio. Ci si trovava senza dubbio
    di fronte ad uno dei piú seri tentativi che fossero stati
    messi in opera dal 27 aprile in poi per sottrarre al governo
    l'iniziativa e la direzione della grande politica in una col
    controllo della cosí detta «volontà»
    popolare. Il ministero toscano si trovò, o ritenne di
    trovarsi, a mal partito; temette davvero un bis del '48;
    fantasticò che la «piazza» stesse per
    sopraffarlo242. Furono i contatti dell'Aquarone e dei suoi accoliti
    col gruppo dolfiano che lo preoccuparono? Credette davvero che il
    governo di Torino, mal ragguagliato delle cose toscane, avesse
    macchinato di rovesciarlo per sostituirgli degl'intriganti
    interessati appunto a dipingere l'oligarchia fiorentina come
    tendenzialmente autonomistica? E l'uno e l'altro motivo
    contribuirono certo a determinare all'azione il binomio
    Ricasoli-Salvagnoli243, ma forse piú che tutto il nome (ben
    presto rivelatosi, nonostante gli sforzi del Montanelli per tenersi
    nell'ombra244) di colui che nell'ottobre del '48 aveva
    «rovinato» la Toscana con la sua rivoluzione
    democratica, e che adesso, dal Piemonte, dirigeva le fila del nuovo
    complotto. Cedendo alla suggestione, o piuttosto alla «grande
    paura» del '48, non ci s'immaginava forse che allato del
    Montanelli, e consapevole, anzi solidale dei suoi progetti, fosse
    anche adesso il Guerrazzi?
    
    Di tutto ciò ben poche tracce si trovano nel carteggio
    Ricasoli (almeno in quella parte che fin qui ci è stata resa
    nota), abbondantissime invece in quello del Cambray-Digny, allora in
    missione a Torino, che qualche intimo teneva, come si sa,
    giornalmente al corrente di tutto quello che né le gazzette
    né i dispacci d'ufficio potevano lasciar trapelare.
    «È positivo che ieri doveva esservi (a Firenze) gran
    dimostrazione in piazza», gli si scriveva ad esempio il 15 di
    giugno; aggiungendosi che solo a gran fatica si era potuto,
    all'ultim'ora, impedirla. Tra i promotori della dimostrazione,
    principalissimo l'Aquarone «che è stato a Livorno, a
    Lucca, a Pisa, a Siena ecc... È venuto anche lui per
    intrigare nel solito senso». (Solito? La contessa Digny doveva
    ben presto accorgersi che era quello un aggettivo singolarmente
    fuori di posto). «Chi ha portato a galla questa gente conviene
    si affretti a rimetterla all'ordine, altrimenti ne andremo tutti di
    sotto»245. Nuovi ragguagli il giorno appresso, con precisa
    denunzia delle «insinuazioni del Montanelli e del Guerrazzi,
    che si dice siano stati, e siano ascoltati a Torino piú di
    quello che credi. In sostanza, questi agenti spargono che il governo
    non deve prender parte alla cosa (cioè alla diffusione e alla
    votazione degl'indirizzi unitari); ma che se il paese vuol la cosa e
    la fa, cosa fatta capo ha»246. E il 17: «... pare certo
    che il partito estremo abbia avuto gran parte in questa faccenda,
    sia scrivendo di qua agli esaltati ed agli esuli Montanelli,
    Guerrazzi e compagni costà, sia ascoltando i consigli che dai
    medesimi riceveva. Forse anche questi stessi sono stati ascoltati da
    chi è al potere costà, e che sarà rimasto
    ingannato dalle fandonie che avranno raccontato»247. Alle
    quali informazioni, e alle vive sollecitazioni perché
    l'Aquarone ed altri agitatori della sua risma venissero
    immediatamente richiamati in Piemonte, il Cambray-Digny per parte
    sua rispondeva, il 18: «Pur troppo credo che l'agitazione
    nuova per la fusione non parta da Torino, ma finora da Acqui, ora da
    Piacenza (e cioè dal Montanelli, che – come vedremo – si era
    trasferito intanto, con i Cacciatori, in quest'ultima città,
    subito dopo lo sgombro austriaco). E credo che si faccia
    direttamente spendendo il nome del Cavour». Egli, per altro,
    poteva in coscienza attestare che il Cavour non c'entrava per nulla,
    che anzi deplorava del pari e le imprudenti manifestazioni
    annessionistiche del governo di Firenze, e quei pericolosi
    pronunciamenti unitari248. Ma il Nocchi, segretario del Ridolfi, di
    rimando (20 giugno):
    
    Insisti sul fatto che Malenchini249 e Montanelli hanno ingiustamente
    e per passione svisato le cose nostre, e mandato da loro, contro un
    governo piemontese (e intendeva il governo toscano invigilato dal
    Boncompagni), il piemontese Aquarone, che, con un indirizzo e mene
    tendenti ad agitare il paese contro il governo, è venuto
    credendo di trovare tutti contrari alla fusione..., e ha spacciato
    ripetutamente di venire a nome e per commissione di Cavour. Mostra
    la convenienza di far cessare, potendo, queste mene250.
    
    La quali «mene», ripetiamo, ponevano il gabinetto
    ricasoliano nel piú crudele imbarazzo. Come reagire se non in
    qualche modo impadronendosi delle idee diffuse nella
    «piazza» per tentare di controllarne l'attuazione,
    strappando cosí l'iniziativa agli agitatori? Tale fu in
    effetti la sapientissima manovra concepita ed eseguita dal Ricasoli
    indipendentemente affatto dalle istruzioni torinesi, se non proprio
    in contrasto con esse251. L'impressione che si ricava dai documenti
    fin qui venuti alla luce è che il progetto montanelliano
    dell'indirizzo municipale venisse insomma adottato nella sostanza,
    ma abilmente modificato, per mano del Salvagnoli, in quella che era
    la sua formulazione unitaria: l'espressione di «re
    d'Italia», la quale d'altronde era già stata usata in
    precedenza, venne, sí, mantenuta, ma s'introdusse al posto
    dell'altra «Regno d'Italia», quella, generica, di
    «famiglia italiana»252, sopprimendo altresí ogni
    accenno alla Francia e, in particolare, al codice Napoleone253.
    Cosí alterato, l'indirizzo cominciò a circolare in
    Firenze il 16 di giugno: gli amici del ministero provvedevano
    intanto a trasmetterlo in provincia con raccomandazione ai
    gonfalonieri di farlo votare dai rispettivi consigli. All'insaputa
    dello stesso Salvagnoli, suo alter ego, il Ricasoli fece anche di
    piú: si mise cioè d'accordo col Dolfi perché
    questi diramasse per suo conto e apparentemente di sua propria
    iniziativa una circolare ai gonfalonieri toscani, invitandoli a
    fargli recapitare gli ordini del giorno di approvazione del
    patriottico indirizzo254.
    
    Le reazioni da parte degli autonomisti e in particolare del gruppo
    dei cosí detti «georgofìli» furono, si sa,
    vivacissime255; comunque fu proprio questo, a quel che sembra, il
    punto di partenza delle poi tanto celebrate manifestazioni
    municipali toscane: le quali, iniziatesi a Siena, il 17 di
    giugno256, indi seguite a Montepulciano, a Livorno, a Pistoia, a
    Pisa, a Fucecchio (patria del Montanelli)257, e in piú luoghi
    accompagnate da plebiscitarie adesioni della popolazione (onde si
    poté dire che costituirono in certo modo una prima prova del
    suffragio universale in Toscana)258, vennero ad assumere un ritmo
    precipitoso, e, vorremmo dire, «totalitario», nei giorni
    immediatamente seguenti all'armistizio. Che poi la formola
    effettivamente votata dalla maggioranza dei municipi fosse
    altrettanto diversa da quella del Salvagnoli quanto questa si era
    distaccata dal primitivo modello montanelliano; che insomma questa
    manifestazione municipale, ad opera segnatamente di zelantissimi
    agenti della Società Nazionale, si rivolvesse in pratica in
    un plebiscito per l'annessione della Toscana al Piemonte, questo
    è altro conto: senonché giova forse il notare che
    perfino il Ricasoli, e con lui, implicitamente, il Salvagnoli,
    ebbero in un primo tempo a deplorare, quasi con le identiche parole
    che vedemmo usate dal Montanelli, quelle formole, che «non
    rappresentavano il concetto grande d'un'Italia una e
    forte»259.
    
    Dell'iniziativa Montanelli-Aquarone, comunque, chi piú si
    ricordava? La manifestazione municipale passava alla storia come
    concepita, organizzata, attuata esclusivamente a Palazzo Vecchio.
    Tanto che l'Aquarone, giunto a Firenze in veste di missus dominicus,
    ne ripartiva ben presto, cioè verso il 20 di giugno, con la
    fama di un temibile arruffapopoli, le cui prave intenzioni si erano
    fortunatamente spuntate contro l'insonne vigilanza del governo e la
    patriottica disciplina del paese260: peggio ancora, apertamente
    sconfessato da quel governo piemontese che pure aveva in qualche
    modo approvato la sua missione261, ma al quale nel frattempo si era
    fatto notare, dal quartier generale francese, quanto pericoloso e
    inopportuno si fosse l'andar sollevando, in piena guerra, con una
    propaganda unitaria, il delicatissimo problema di Roma e di
    Napoli262. «Il pericolo delle dimostrazioni – si scriveva il
    20 giugno appunto da Firenze al Cambray-Digny – pare allontanato: il
    sig. Aquarone se ne partí con le trombe nel sacco»; e
    quegli, il 22: «Non dubito che alla disperazione dell'Aquarone
    e degli altri non abbia contribuito il sapere che la loro condotta
    non era approvata qua»263.
    
    Se l'Aquarone se n'era partito con le trombe nel sacco, il
    Montanelli, dopo questo episodio, venne investito da una prima
    ondata di recriminazioni e di accuse. «Domani spero potremo
    trattare gli affari della Toscana – scriveva ad esempio il 28 giugno
    il Digny, – ed ho fiducia che presto gl'imbroglioni politici avranno
    una prova materiale che qui (a Torino) non si vuole per ausilio il
    disordine. Spero che presto vedrete rimettere il capo nel guscio
    guerrazziani, montanelliani ecc.»264. E il Ricasoli, 5 luglio,
    al fratello Vincenzo, che lo aveva informato della imperiale
    disapprovazione al «pronunciamento» nazionale toscano:
    «Se il governo attuale non si fosse disegnato come ha fatto,
    oggi la Toscana sarebbe in mano di Guerrazzi e Montanelli»265.
    Il Guerrazzi, per parte sua, difendeva il Montanelli in una lettera
    al Corsi:
    
    Non so di M...; ch'ei si dolga è probabile, ma impedire alla
    vittima un lamento, e darlo ad intendere parricidio penso sia arte
    di quei nuovi Neroncini da 16 alla crazia, che vorrebbero anco
    essere adulati, e ringraziati. Che faccia opera cattiva, non lo
    posso credere: infermo e non giovane va a offrire il suo sangue:
    altro non può: sarebbe anco questo un tradimento alla
    Indipendenza?266
    
    Tito Menichetti, che a quel tempo era ancora grande amico del
    Montanelli, rispondendo ad una sua lettera, affermava l'8 di luglio,
    che essa gli era giunta tanto piú opportuna e gradita in
    quanto «in quel momento alcuni amici tuoi (!) ti facevano la
    lunga mano di certi rigiri antinazionali. Io... per mostrare che tu,
    tutt'altro che preoccuparti delle questioni interne, tiravi innanzi
    diritto diritto nella tua via, portai la tua lettera al Ricasoli,
    che fu contentissimo d'aver in mano quella prova parlante del tuo
    indirizzo politico». (Il Ricasoli abbandonò dunque, da
    allora in poi, le sue prevenzioni contro il Montanelli? Neanche per
    immaginazione! E ne vedremo piú avanti le prove). Il
    Menichetti, comunque, non esitava a deplorare, per parte sua, che
    fosse stata cosí intempestivamente sollevata la questione
    della fusione della Toscana al Piemonte: «Ma io rammento –
    aggiungeva – quello che mi dicesti a Goito nel '48 quando venne
    fuori la questione albertista: È una piaga che non andrebbe
    scoperta, (ma ormai) va medicata»267, e cosí dico qui.
    Ormai che è messa fuori non va avversata»268. Il quale
    ultimo accenno conferma appieno, seppur ve ne fosse ancora bisogno,
    come alla radice di quelle accuse al Montanelli fosse appunto
    l'opinione da lui francamente professata dover la Toscana mantenere
    la sua autonomia fino alla costituzione di un regno unito, che
    andava intanto preparato nello spirito degl'Italiani e soprattutto
    dei Toscani269. L'«antinazionale» era dunque colui che,
    mentre tanti suoi concittadini eminenti si dichiaravano rassegnati a
    priori a qualunque soluzione della questione dinastica toscana,
    eccezion fatta soltanto per una restaurazione lorenese, informava la
    sua azione politica, come sempre aveva fatto, del resto, alla
    piú grande unità nazionale; colui che dal campo stava
    offrendo un esempio non comune di umile dedizione alla causa
    italiana!
    
    Lontano, materialmente e, piú, spiritualmente da quel
    focolaio d'intrighi, sereno nella sua coscienza, il Montanelli si
    era trasferito frattanto, come già abbiamo detto, da
    Alessandria a Piacenza270. Certo, non era quella la guerra, la
    guerra combattuta che aveva sognato e cui si era consacrato! La vita
    delle retrovie lo esasperava: se aveva rinunziato con immenso suo
    sacrificio, non solo sentimentale, a ritornare in Toscana271, non lo
    aveva fatto davvero per seguire a quel modo, a rispettosa distanza,
    l'avanzante corpo d'operazioni. Giorno per giorno promettevano ai
    Cacciatori una prossima partenza pel fronte, ma intanto le settimane
    passavano, battaglie gloriose e decisive si susseguivano senza che
    quella promessa venisse mai mantenuta: in Italia, e anche in
    Francia, si sorrideva dei compiti «turistici» affidati
    alle truppe toscane...272. Il 21 di giugno, da Piacenza, il
    Montanelli scongiurava il Pallavicino, a Torino, d'interporsi
    perché i Cacciatori venissero finalmente riuniti all'esercito
    operante: «t'assicuro – scriveva – ... che urge prendere una
    risoluzione. Questi giovani si sentono umiliati di non avere avuto
    il battesimo del fuoco. Il primo e il secondo battaglione sono in
    ordine»273. Il giorno appresso, sempre a Piacenza, ebbero
    luogo le esequie di un volontario livornese, Giovanni Seteri,
    prosaicamente morto di malattia: nelle frementi parole pronunziate
    dal Montanelli sul feretro del suo compagno chi non sentí
    l'anelito verso quell'altra morte che già aveva sfiorato
    l'oratore nel '48, la morte gloriosa sul campo?274. Quel medesimo
    giorno truppe francesi del 5° corpo d'armata, in provenienza
    dalla Toscana, lasciavano Piacenza, dopo una breve sosta, dirette,
    esse, in prima linea. Era un immeritato avvilimento pei volontari
    toscani vedersi ancora una volta precedere al fuoco dalle truppe
    alleate! Il Montanelli, che pure, a Piacenza, ha occasione
    d'importanti e fruttuosi contatti e colloqui politici275, e
    benché non ignori affatto come proprio in quei giorni si
    stiano concludendo le trattative per la congiunzione dei Cacciatori
    degli Appennini con i Cacciatori delle Alpi, allora operanti in
    Valtellina276, si risolve finalmente a precedere i suoi commilitoni.
    
    Generale – scrive al Garibaldi, che ha conosciuto a Firenze nel
    novembre del '48 e per le cui virtú militari nutre vivissima
    ammirazione277 –, non vi chiedo gradi, ma parte ai pericoli. La
    ferita che a Curtatone riportai nella spalla sinistra non mi
    consente maneggiare il fucile; ma posso col braccio destro
    maneggiare la sciabola... L'esilio m'incanutí il pelo, non
    l'anima. Mi ritrovo ardente soldato d'Italia come ai piú bei
    giorni dell'ultima impresa, e mi sento degno di ricominciare per lei
    le prove al vostro fianco, o prode condottiero di prodi.
    
    Cosa gli rispondesse il Garibaldi ignoriamo: sappiamo solo che alla
    fine di giugno il Montanelli, in compagnia del suo Malenchini278,
    giunse a Tirano, festosamente accolto dal generale279.
    «Garibaldi lo teneva sempre seco, e facevano insieme le
    escursioni», scriveva qualche anno dopo, rievocando quel
    tempo, la vedova del Montanelli280. Verosimile, perciò, che
    il 5 e l'8 di luglio egli partecipasse personalmente alle brillanti
    scaramucce d'alta montagna svoltesi sullo Stelvio (le ultime di
    quella campagna!) e che il 9 del mese, quando, come un colpo di
    fulmine, pervenne al campo la notizia dell'armistizio, egli si
    trovasse a fianco del generale. Sorpresa, delusione, sdegno, dei
    volontari. E il Montanelli? «Quando accadde l'armistizio –
    cosí egli in un suo inedito appunto281 – io mi trovava a
    Tirano... Garibaldi mi mandò a Torino a trattare con Cavour
    di diversi negozi282; per via seppi la pace di Villafranca».
    Da un lasciapassare rimessogli dall'autorità militare resulta
    infatti che il Montanelli partí da Tirano il 10 di luglio,
    che il giorno appresso transitava da Sondrio, il 12 da Como e che
    quindi si arrestava a Milano. Fu a Milano, appunto, che venne a
    conoscenza delle inaspettatissime deliberazioni di Villafranca, e in
    particolare di quelle concernenti le restaurazioni nell'Italia
    centrale: «avrei voluto che coloro i quali non credono a
    comunione italiana mirassero, come a me avvenne, il tragico
    commovimento che all'annunzio delle condizioni di pace levossi in
    Milano»283. Col Garibaldi il Montanelli non aveva preso, in
    vista dell'armistizio, che delle intese molto generiche284.
    L'annunzio delle stipulate restaurazioni lo spinse naturalmente a
    concepire progetti piú circostanziati. In concreto:
    «ordinare l'Italia centrale a resistenza, dando a Garibaldi il
    generalato della lega»285; fare cioè di un'Italia
    centrale armata e indipendente il fulcro per la dilatazione del
    movimento nazionale in tutto il resto della penisola286. Montanelli
    comunicò senza indugio il suo piano al Garibaldi, ottenendone
    piena, immediata adesione287: indi (era il pomeriggio del 14 luglio)
    proseguí per Torino, dove avrebbe potuto intendersi col
    Cavour, dimissionario già dal giorno innanzi, e dove di ora
    in ora si attendevano l'imperatore ed il re288.
    
    Esposi arrivato a Torino il mio disegno a Valerio, a Kossuth; chiesi
    a Cavour che ci desse Garibaldi: disse non potere come ministro di
    un re che aveva accettato la pace di Villafranca mandare nell'Italia
    centrale Garibaldi con la veste di generale piemontese; chiedesse
    egli il congedo; lo chiedessero i suoi soldati; e i governi
    dell'Italia centrale facessero il resto289.
    
    Invero, egli si trovava allora nell'identico stato d'animo e
    sull'identica linea del Cavour, il quale dubitava di esercitare
    l'estremo suo potere per spronare i suoi agenti a Bologna, a Parma,
    a Modena, a Firenze a organizzare la resistenza contro le
    restaurazioni, a istituire governi forti, a richiamare dalla
    Lombardia le rispettive truppe, a suscitare insomma la rivolta
    armata delle popolazioni contro gl'iniqui deliberati di Villafranca:
    del resto era quello l'ovvio programma di tutti gli uomini della
    sinistra, dal Mazzini (le cui previsioni sui limiti e i resultati di
    quella guerra ricevevano purtroppo una impressionante conferma) al
    Guerrazzi. Ma se ovvio era il programma, e agevole il convenire
    della sua opportunità, meno ovvio e meno agevole era
    l'additarne un'attuazione possibile, cioè commisurata alle
    gravissime difficoltà della situazione. Nonostante le
    assicurazioni e gl'incitamenti del Cavour, restava intanto da
    appurare un punto di fondamentale importanza: cioè se Francia
    ed Austria si fossero accordate per un eventuale intervento militare
    in vista d'imporre le restaurazioni nell'Italia centrale o se si
    fossero limitate a sancirle in diritto. La mattina del 15, a Torino,
    si viveva ancora, a questo proposito, nella piú ansiosa
    incertezza. Anche Celestino Bianchi, che il Boncompagni e il
    Ricasoli avevano mandato d'urgenza nella capitale sabauda per
    esaminare la situazione e significare l'assoluta contrarietà
    dei toscani a piegarsi alla restaurazione granducale290, si
    dimostrava passabilmente all'oscuro e di questo e di molti altri
    dati essenziali concernenti le sorti del suo paese. In attesa di
    informazioni sicure, egli e il Montanelli, due vecchie
    conoscenze291, incontratisi nel primo pomeriggio del 15292,
    convennero in massima circa l'opportunità, anzi l'urgenza di
    armare la Toscana per prepararla a resistere contro eventuali
    imposizioni straniere293. A questo proposito, anzi, il Bianchi,
    com'è ben noto, ebbe subito una serie di decisivi colloqui
    con influenti personalità piemontesi: in seguito ai quali si
    sentí di spedire a Firenze un primo dispaccio
    tranquillizzante294. Pochi istanti dopo giungevano a Torino i due
    sovrani alleati. Nel corso della loro conversazione circa
    l'armamento della Toscana, tanto il Bianchi che il Montanelli
    avevano ravvisato l'opportunità di proporre il trasferimento
    sulle rive dell'Arno di quella legione ungherese che si era andata
    ordinando in Piemonte, ma che non aveva avuto il tempo di prender
    parte alla guerra (vecchia idea fissa dei democratici toscani quella
    di ricorrere, in caso di estremità, a volontari stranieri!)
    La sera stessa il Montanelli condusse l'amico, che già si era
    abboccato con alcuni esponenti ungheresi, dal Kossuth in persona, da
    lui conosciuto a Piacenza. Ma il vecchio agitatore non era affatto
    dell'opinione che la Toscana abbisognasse di straordinari
    apprestamenti difensivi. «Voi avete bisogno d'un plebiscito,
    di una urna per lo scrutinio, e non d'un esercito», diceva. Al
    che i due patrioti toscani opponevano l'eventualità di un
    intervento austriaco o austro-francese. Un intervento? Ma era
    un'ipotesi assurda, replicava il Kossuth. Del resto perché
    non se ne sinceravano il Bianchi e il Montanelli, sollecitando
    esplicite assicurazioni a Palazzo reale? Fu allora, secondo la
    versione dello stesso Kossuth, che il Montanelli annuendo al
    consiglio, si precipitò in piazza Castello «agitando
    furiosamente il suo unico (?!) braccio. Una mezz'ora dopo ritorna,
    irrompe nella mia stanza, mi getta le braccia al collo: Niente
    intervento! niente intervento! Il re mi ha dato la sua parola
    d'onore!»295.
    
    Scrivendo parecchi anni piú tardi i suoi ricordi di quegli
    anni fortunosissimi, il Kossuth si lasciò sfuggire parecchie
    inesattezze; in questo caso, oltre a... tagliare un braccio al
    nostro Montanelli, egli scambiò l'imperatore col re, o almeno
    il Montanelli col Bianchi; il Montanelli infatti ottenne udienza, la
    sera del 15, da Napoleone III296, mentre fu il Bianchi che l'ebbe da
    Vittorio Emanuele. Ma, a parte questo, il suo racconto, colorito e
    vivace, resta sostanzialmente esatto. Come si svolse il colloquio
    fra il Montanelli e l'imperatore? E dal suo augusto interlocutore
    non altro seppe il Montanelli se non che le restaurazioni non
    sarebbero state imposte «armata manu»? Il Kossuth a
    questo proposito tace: bisogna dunque ricorrere ad altre
    testimonianze. Le dichiarazioni imperiali, integranti quelle
    già fatte al Pepoli e al Cavour297, ebbero in realtà
    tale importanza e furon causa, nel seguito, di cosí aspre
    polemiche che il lettore vorrà consentirci di entrare al
    proposito in qualche particolare.
    
    La relazione piú diffusa della quale disponiamo circa questo
    colloquio è quella che ne dette, fino dal giorno appresso, il
    Bianchi in un suo dispaccio al Boncompagni:
    
    Imperatore ha detto a Montanelli: la restaurazione della dinastia di
    Lorena non dee farsi con aiuti stranieri: soldati austriaci non
    possono adoperarsi fuori dei paesi attribuiti all'Austria.
    S'istituisca in Toscana un governo provvisorio; interroghi per
    sí o per no il paese, se voglia o no casa Lorena; plebiscito
    trasmettasi Congresso europeo, coi voti del paese qualora respinga
    lorenesi. Imperatore promette farsene sostenitore al Congresso.
    Insiste forte non accadano disordini e passioni demagoghe. Toscana
    farà bene richiamare tutti i suoi volontari... L'imperatore
    fattagli da Montanelli la questione cosa sarebbe avvenuto se la
    Toscana si fosse pronunziata per l'annessione ha risposto:
    impossibile!298.
    
    Questa versione viene integrata da quella piú tardi redatta
    da un amico del Montanelli, il Redi:
    
    Presa la parola per primo, l'imperatore gli svelò senza
    mistero la ragione per la quale si era fermato (Prussia),
    aggiungendo dover ritenersi la indipendenza d'Italia stabilita come
    base di un nuovo diritto pubblico europeo; non potersi però
    conseguire se non in due fasi, delle quali la prima aveva avuto
    luogo, e per la seconda si sarebbe poi presentata l'occasione
    opportuna. Mettendo nei preliminari per la pace il patto del non
    intervento ci aveva posti in grado di prepararci per quella.
    Richiesto dal Montanelli che cosa credesse doversi fare in attesa di
    questa seconda fase, egli rispose di adottare quelle istituzioni che
    sarebbero reputate piú confacenti al genio italiano e di
    farsi forti. Allora il Montanelli gli comunicò com'egli
    opinasse doversi intendere all'unità d'Italia.
    «L'unità? mai!»299, piuttosto irritato
    l'imperatore riprese: «Pensate che Roma è necessaria al
    papa». E informandolo di avere nei preliminari convenuto che
    avrebbe favorito una confederazione italiana, a quella gli disse
    bisognava attenersi. Osservatogli dal Montanelli siccome egli stesso
    avesse consigliato di rendersi forti, e siccome le confederazioni
    riescano generalmente deboli, dopo alcuni istanti di riflessione
    aggiunse: «Nel caso l'unità non potrebbe essere
    possibile che dal centro: ma non se ne può parlare per
    ora». E lo confortò a tornare in Toscana e ad usare di
    tutta la sua influenza per far adottare una politica che conducesse
    al risultato da lui suggerito300.
    
    In base ad una terza versione, anche questa spettante ad un amico
    del Montanelli, il Pini, l'imperatore avrebbe inoltre esplicitamente
    dichiarato al suo interlocutore che la politica delle annessioni
    poteva riuscire assai pericolosa per l'Italia: «franche parole
    (le quali) produssero una forte sensazione sull'anima di
    Montanelli»301.
    
    Tralasciamo altre versioni o calcate su queste302 o visibilmente
    inventate303, tralasciamo del pari l'accenno che al colloquio
    imperiale il Montanelli stesso dedicò in una sua lettera
    apologetica data alle stampe due anni piú tardi304. Nel
    complesso il punto di vista di Napoleone III resulta infatti
    già sufficientemente chiarito da quel che ne scrissero il
    Bianchi, il Redi, il Pini; mentre le loro narrazioni corrispondono a
    quanto, circa le intenzioni dell'imperatore all'indomani di
    Villafranca, ci resulta da altri suoi colloqui o lettere.
    Particolarmente importante a noi sembra, e lo additiamo al lettore
    in quanto vale a chiarire il successivo indirizzo dell'azione
    politica montanelliana, l'accenno del Redi circa la possibile
    unificazione «dal centro» (come contrapposto alla
    unificazione per via di annessioni al Piemonte) ammessa
    dall'imperatore, ancorché aggiungesse che non era il caso di
    occuparsene per allora.
    
    Si parlò, nel colloquio, del principe Napoleone? A giudicare
    dai resoconti fin qui riportati, sembrerebbe di doverlo escludere;
    senonché in una lettera pubblicata sui giornali, nel gennaio
    del '61, dal Mariscotti, lancia spezzata del Montanelli, questi,
    polemizzando col Bianchi, che accusava il Montanelli di essersi
    rassegnato a quella candidatura fino dal suo primo ritorno a Firenze
    alla fine di luglio del '59305, ebbe a scrivere:
    
    Il Montanelli non poteva promuovere la candidatura del principe
    Napoleone, come quegli che nell'ultimo abboccamento avuto a Torino
    con l'imperatore, era stato da quegli avvertito... che al tempo
    stesso che sarebbe stato consentito ai popoli dell'Italia centrale
    di eleggersi nuova dinastia, non pensassero per altro a nessun
    principe della casa imperiale di Francia, perché egli, lo
    imperatore, non avrebbe potuto accettare la elezione senza esporsi
    al pericolo di una guerra europea.
    
    Questo e non altro avrebbe il Montanelli riferito al Bianchi,
    recisamente attenendosi al punto di vista imperiale306. Anche la
    testimonianza del Mariscotti deriva, certo, da confidenze del
    Montanelli: a renderla attendibile vale tuttavia la circostanza che
    essa non solamente non contrasta con informazioni d'altra
    provenienza sulle intenzioni allora nutrite dall'imperatore circa il
    principe Napoleone, ma anzi ne riceve integrale conferma. Prima di
    Villafranca e per diverse settimane dopo l'8 di luglio, l'imperatore
    infatti espresse invariabilmente la sua decisa contrarietà a
    progetti del genere: che poi il suo giuoco politico mirasse a
    rendere impossibile ogni altra soluzione della questione toscana e
    per questa via a far sí che la stessa diplomazia europea
    finisse col forzargli la mano sul punto della candidatura
    «plonploniana», resta da vedersi (invero noi crediamo
    che sulla astuzia sopraffina di Napoleone III si sia alquanto
    esagerato...); comunque ciò non ha a che fare col nostro
    assunto immediato.
    
    Il colloquio con l'imperatore dette al Montanelli l'impressione che
    non convenisse in alcun modo opporsi alle sue vedute, o, come si
    dice, «prenderlo di punta». Napoleone aveva dichiarato
    formalmente impossibili le annessioni; su altre possibili soluzioni,
    per contro, non si era pronunciato con altrettanta risolutezza.
    Perché dunque, adottando il programma delle annessioni,
    sfidare apertamente quell'unico fra i potentati europei il quale,
    seppure aveva deluso, all'ultimo, le speranze degl'Italiani, aveva
    in concreto iniziato l'opera dell'indipendenza della patria loro?
    Questo programma annessionistico, d'altronde, non era mai stato
    veduto, già lo sappiamo, con particolare favore dal
    Montanelli: era forse logico attendersi che vi si convertisse
    proprio allorquando l'imperatore gli dichiarava d'esservi
    recisamente contrario? Lasciata a se stessa, certo la Toscana
    avrebbe potuto correre gravissimi pericoli, e l'esperienza del '49
    era anche troppo eloquente in proposito; ma la garanzia del non
    intervento, da un lato, e la possibilità di una lega militare
    e politica con le altre regioni dell'Italia centrale non bastavano
    forse a eliminare ogni eccessiva ansietà al riguardo?
    
    Villafranca, del resto, non aveva modificato l'opinione del
    Montanelli, quanto all'onnipossenza napoleonica nel fissare le
    condizioni della pace definitiva per l'Italia. Villafranca, se mai,
    additava sempre piú nell'imperatore il vero padrone d'Europa.
    Lo si era accusato di debolezza, di ondeggiamenti, d'irresolutezza;
    ma gli avvenimenti non dimostravano forse precisamente il contrario?
    L'imperatore aveva voluto la guerra, ed alla guerra era giunto
    nonostante le fortissime opposizioni scatenatesi in tutta la
    Francia, ne aveva fatto annunziare il programma ed i limiti in una
    celebre pubblicazione, e a quel programma e a quel limiti si era
    tenuto sostanzialmente fedele, nonostante che i travolgenti successi
    riportati lo avessero fatto temporaneamente pencolare verso
    soluzioni non prevedute; vittorioso, aveva saputo troncare la
    guerra; aveva sfidato l'Europa, ed ora aveva la saggezza di
    sacrificare all'Europa l'immensa popolarità che si era
    acquistato in Italia. Non dimostrava tutto ciò
    irrecusabilmente che l'imperatore sapeva quel che voleva, e quel che
    voleva sapeva ottenere? Conoscere tempestivamente i suoi effettivi
    propositi circa il riassetto italiano, e disporsi a secondarli,
    nella prevedibile impossibilità di una efficace opposizione,
    significava dunque mettersi in grado di ricavarne il massimo
    vantaggio.
    
    Il quale ragionamento apparirebbe incontestabile se Napoleone III
    fosse stato davvero l'uomo che il Montanelli, in base alle
    apparenze, non poteva non supporre che fosse307, se Villafranca non
    avesse determinato in Italia una situazione estremamente dinamica e
    tale da imporre a tutta la penisola, o prima o poi, l'alternativa
    fra due, e soltanto due, soluzioni estreme, lo status quo ante,
    cioè, o la compiuta unità nazionale; se, finalmente,
    la politica napoleonica non avesse provocato nelle cancellerie
    europee, e piú particolarmente in quella inglese, le reazioni
    piú imprevedute. Perché il Montanelli non seppe
    preveder tutto ciò dovremo noi tacciarlo, per usare di una
    espressione moderna, di rinunciatarismo? No davvero. Pur costernato
    per la brusca interruzione della guerra, egli era infatti
    sinceramente persuaso che il programma della integrale indipendenza
    italiana sarebbe stato, in un secondo tempo, completato dallo stesso
    Napoleone, e che l'ormai inevitabile instaurazione e il libero
    funzionamento di regimi costituzionali in tutte le regioni d'Italia
    avrebbe fatalmente condotto, da ultimo, in un modo o nell'altro,
    all'unità nazionale. Condizione essenziale perché
    ciò potesse verificarsi era il non intervento: e si doveva
    rischiare che l'imperatore, contrariato dalle velleità
    annessionistiche degl'italiani lasciasse mano libera all'Austria o,
    peggio ancora, si concertasse con essa per procedere, a mano armata,
    ad eventuali occupazioni dell'Italia centrale al fine di sottrarla
    al Piemonte?
    
    Il Montanelli, insomma, pur brancolando anch'egli nel buio, fu dei
    primi a intuire tutto il partito che si poteva e si doveva trarre da
    quell'armistizio che anche a lui si era presentato, in un primo
    tempo, come una tremenda iattura; dei primi a intuire, sia pure
    confusamente, che proprio su Villafranca avrebbe potuto imperniarsi
    la seconda fase della rivoluzione italiana: a condizione però
    che il centro propulsivo si spostasse ormai dal Piemonte all'Italia
    centrale. Giacché se con le annessioni si fosse liquidato il
    problema dell'Italia centrale, l'unità della penisola tutta,
    correva il rischio di non piú realizzarsi, determinandosi
    ormai un equilibrio possibile fra il regno dell'alta Italia, gli
    Stati della Chiesa e il regno delle Due Sicilie: il dinamismo
    rivoluzionario italiano avrebbe potuto in quel caso allentarsi fino
    anche ad annullarsi del tutto. Invece se l'Italia centrale,
    liberamente e fortemente governata, avesse conservato
    provvisoriamente la sua autonomia, ponendosi di fronte all'Europa
    come campione dell'indipendenza e della futura unificazione della
    penisola, la questione italiana sarebbe rimasta all'ordine del
    giorno della diplomazia mondiale, i sedimenti rivoluzionari
    serpeggianti nelle province romane, napoletane e siciliane ne
    sarebbero stati automaticamente stimolati e ravvivati, i governi di
    Roma e di Napoli si sarebbero sollecitamente trovati nel dilemma o
    di trasformarsi conformemente ai voti della popolazione (e quindi
    anche di compiere passi nel senso dell'unificazione italiana) o di
    affrontare a breve scadenza una rovinosa rivoluzione.
    
    Tali le riflessioni che al Montanelli vennero suggerite dal
    colloquio con l'imperatore ed alle quali, come già si
    è detto, egli ispirò nel seguito la sua azione
    politica. Né gioverebbe qui di contrapporre ad esse le altre,
    non meno evidenti, che avrebbero pur potuto derivarsene, e che
    infatti ne derivarono i piú, pervenendo a conclusioni opposte
    alle sue: quelle appunto che vennero poi coronate dai fatti. Ma a
    noi deve bastare per adesso di avere accennato come un animo
    italianissimo potesse, all'indomani di Villafranca, oppugnare
    strenuamente la politica delle annessioni, non già – come si
    volle – in ragione ed in nome di nostalgie autonomistiche o, peggio,
    d'imperdonabili preferenze per etichette o per ordinamenti
    stranieri, ma per l'appunto in ragione ed in nome di quegli stessi
    principî unitari, o nazionali, ai quali obbediva allora ogni
    italiano cosciente. Accenno, ahimè, tutt'altro che superfluo,
    quando per un poco si tengan presenti le inaudite deformazioni e i
    camuffamenti che il programma bandito dal Montanelli ebbe allora a
    subire per parte dei suoi avversari politici.
    
    Ma torniamo a Torino e a quella notte del 15 luglio. Uscito da
    palazzo reale, il Montanelli si affrettò dunque dal Kossuth,
    dal Valerio, dal Bianchi, ai quali riferí le dichiarazioni
    imperiali308. L'indomani egli riprendeva, con raddoppiata lena, le
    trattative per l'armamento dell'Italia centrale: non aveva, è
    vero, alcuna posizione ufficiale, ma mentre in qualche modo poteva
    dirsi il rappresentante dell'ala sinistra del patriottismo toscano
    rallié alla monarchia, poteva parlare altresí nel nome
    di Garibaldi. E Garibaldi alla testa di un esercito dell'Italia
    centrale non era già di per sé un apporto d'immensa
    importanza oltreché tutto un programma politico? Celestino
    Bianchi concordava con lui pienamente, almeno per allora: al punto
    che, essendosi il Montanelli, quella stessa mattina del 16 luglio,
    profferto di servire la causa toscana nel miglior modo che a lui
    fosse possibile ormai, recandosi cioè in missione a Parigi,
    dove avrebbe potuto mobilitare tutte le preziose sue aderenze,
    specie nel mondo giornalistico, e insieme fruttare a beneficio del
    suo paese la confidenza ripetutamente dimostratagli dall'imperatore,
    lo stesso Bianchi senz'altro s'impegnò di riferirne a Palazzo
    Vecchio, aggiungendo «che sperava che l'offerta dei suoi
    servigi non sarebbe stata respinta». Riteneva il Bianchi
    davvero utile il conferimento di un incarico del genere al
    Montanelli, oppure non ad altro mirava che ad allontanarlo dalla
    Toscana, dove – il Montanelli stesso doveva convenirne – egli
    avrebbe potuto diventare, suo malgrado, «bandiera di
    agitazione a causa dei suoi precedenti?»309. Chi sa. Diversi
    mesi piú tardi, invero, il Bianchi affermò che quel 16
    luglio il Montanelli «era con noi», in altri termini che
    conveniva in pieno col programma del governo di Firenze, il quale
    «persisteva, quanto era in lui, nella sua politica
    unitaria»310. Ma che significava «politica
    unitaria»? Si poteva benissimo essere annessionisti-unitari,
    come antiannessionisti-unitari. Del resto, col propugnare
    apertamente il suo piano di una lega fra gli Stati dell'Italia
    centrale (quella lega che il Ricasoli, per parte sua, vide sempre di
    mal occhio), il Montanelli, ci sembra, chiariva abbastanza quali
    fossero, al proposito, le sue vedute politiche. Sarebbe assurdo
    presumere, d'altra parte, che, mentre gli risuonava ancora
    nell'orecchio quell'«impossibile» dell'imperatore, egli
    s'impegnasse col Bianchi nel senso annessionistico.
    
    No: il Montanelli si limitò ad offrire, quali che fossero, i
    suoi servigi; e la prova indiscutibile l'abbiamo proprio nella
    lettera che, probabilmente dietro invito del Bianchi, egli ebbe a
    scrivere, il 17 luglio, al Ricasoli: nella quale invano si
    cercherebbe una professione di fede annessionistica. Essa311 non
    conteneva, in realtà, che una cavalleresca quanto generica
    raccomandazione della causa italiana al capo del ministero toscano,
    unitamente ad una esplicita presa di posizione contro quelle
    restaurazioni, che (bisogna pur ricordarlo) uomini come il
    Lamarmora, successore del Cavour, come il Minghetti, il Rattazzi e
    il Desambrois, primo plenipotenziario sardo al convocato Congresso,
    stimavano e dichiaravano in quei giorni difficilmente evitabili312.
    Sulle annessioni, «ne quidem verbum»!
    
    Sarebbe spettato, dunque, al governo toscano di esigere da lui, nel
    caso, una preventiva professione di fede in tutto conforme alle sue
    direttive: non si era dato tanto addosso al Montanelli, a Firenze,
    per la missione Aquarone e per le pretese sue mene in favore del
    principe Napoleone? È il Bianchi stesso, invece, che ci
    assicura, non senza nostra legittima meraviglia, che «il
    governo della Toscana accettò le proposizioni del Montanelli
    e m'incaricò di trattare per l'assegnamento». Strano
    che un incarico di tanta fiducia si assegnasse ad un... avversario
    politico! Nuova riprova del grave (seppure comprensibilissimo)
    smarrimento che colpí il governo di Firenze nei giorni
    immediatamente seguenti all'armistizio: allorquando, diciamolo pure,
    alle speranze annessionistiche si temette di dover ormai rinunziare.
    
    Ma c'è di piú: incaricato di trattare col Montanelli
    per l'assegnamento, il Bianchi a sua volta aveva delegato l'incarico
    al «comune amico avvocato Menichetti», del quale vedemmo
    già, piú sopra, la lettera 8 luglio al Montanelli. Era
    costui, quel che si dice una «creatura» del Montanelli
    stesso; ma nel '59 egli era diventato un pezzo grosso, a Palazzo
    Vecchio! Esponente della Società Nazionale, già
    commissario governativo in provincia, ben presto redattore della
    «Nazione», poteva definirsi un fiduciario del governo
    toscano. Ebbene, in che senso si esprimeva allora costui nelle sue
    trattative col Montanelli? Leggiamo un'altra sua lettera del 18
    luglio:
    
    Di fusione si capisce che non è a parlarsi – scriveva –: pure
    forse non sarà male esprimere questo voto. In qualunque modo
    la nostra professione di fede deve essere contro la passata
    dinastia; per la dinastia mi pare, della principessa Clotilde col
    principe Napoleone, per l'ingrandimento della Toscana313.
    
    Che dire, di fronte a questo singolare documento, se non che il
    tanto deprecato possibilismo del Montanelli incontrava negli
    ambienti di governo, a Firenze, una... concorrenza temibile?
    
    Il 18 di luglio, intanto, il Montanelli, dopo avere annunziato al
    Ricasoli il prossimo arrivo a Firenze del Siccoli, noto emissario
    garibaldino, verosimilmente incaricato di allacciare le trattative
    per la lega militare e per il comando a Garibaldi314, partiva alla
    volta di Lovere per riferire al suo generale circa le prime intese
    strette a Torino315. L'abboccamento ebbe luogo il giorno 19316 e il
    resultato ne fu che il Garibaldi gli rilasciò la nota
    dichiarazione: «In caso che i governi provvisori di Modena,
    Toscana, e Bologna, mi offrissero il comando in capo delle truppe
    dell'Italia centrale, io lo accetterò volentieri»317.
    Senza indugio il Montanelli riprese perciò (il 20 luglio) il
    suo viaggio in direzione di Piacenza, Modena e Bologna318, dove,
    munito di questa dichiarazione e accompagnato, a quanto sembra, dal
    Malenchini319, si proponeva di entrare in rapporti col Farini e col
    Pepoli320.
    
    Senonché non si era ancora separato dal Garibaldi, si
    può dire, che da Torino il Peruzzi si affrettava a
    telegrafare e a scrivere al Ridolfi, a Firenze: «Dicesi parta
    da Milano per Toscana il Montanelli. Qui consigliano d'impedire lui
    e Guerrazzi»; «conviene impedire il ritorno del
    Montanelli e del Guerrazzi non tanto per quel che farebbero, quanto
    per quello di cui potrebbero essere il pretesto, e per il cattivo
    effetto che i loro nomi farebbero all'estero. Perciò mi
    varrò dell'azione confidenziale ed amichevole dei loro
    amici...»321. Questa era la lusinghiera accoglienza che
    all'esule impaziente, dopo dieci anni, di rivedere la patria, si
    preparava! Ignorava dunque il Peruzzi – il quale, il 21 del mese,
    partiva da Torino per Parigi, investito della nota missione
    diplomatica – che il Montanelli era stato designato a seguirvelo, e,
    verosimilmente, a collaborare con lui? Vedremo piú oltre che
    il Peruzzi, in realtà, stimava, sí, pericoloso il
    Montanelli in Toscana, utilissimo invece a Parigi. Senonché
    ed egli ed altri toscani eminenti, come lui timorosi della
    popolarità di un Montanelli in Toscana, non sapevano e non
    ricordavano che proprio l'imperatore (sul quale affettavano di
    credere che il nome del Montanelli, evocante il '48, potesse
    suscitare sfavorevole impressione) lo aveva spinto a recarsi in
    Toscana?
    
    L'ex triumviro, intanto, ignaro di tutto ciò, proseguiva nel
    suo viaggio diplomatico. Ottenuto senza difficoltà l'assenso
    del Farini e del Pepoli alla proposta lega e al
    «generalato» del Garibaldi322, varcava gli Appennini,
    ansioso di conferire personalmente col Ricasoli, oltreché di
    rivedere finalmente la sua terra e la sua casa323. Giunse a Firenze
    il 25 o il 26 di luglio, e subito si recò a Palazzo Vecchio,
    dove – attestò il Corsi in una lettera al Guerrazzi, del 27 –
    «tutti gli hanno stretta la mano, e con ciò solo furono
    sopite tutte le vecchie ruggini»324. Altro che sopite, come
    vedremo! Altro che «riconciliazioni con tutti o quasi tutti
    gli antichi amici» come, per parte sua, ebbe a scrivere il
    Cambray-Digny!325.
    
    Moltissime, e di tutti i partiti, furono le personalità
    politiche che si affrettarono a visitarlo, tanto che quasi subito
    egli si trovò nel bel mezzo degli affari toscani, adesso
    particolarmente agitati per l'imminenza delle elezioni
    dell'assemblea: autonomisti piú o meno lorenesi in cuor loro,
    fautori di un regno separato dell'Italia centrale, napoleonisti326,
    annessionisti, sostenitori di una candidatura sabauda indipendente,
    malcontenti e intriganti. «Non citerò le molte persone
    che appena arrivato in Firenze vennero a trovarmi... e mi parlarono
    nello stesso senso della lettera menichettiana», scrisse
    piú tardi il Montanelli stesso327; e il Redi: «Gli
    davano pensiero i popolani del Dolfi i quali chiedevano con
    insistenza la fusione al Piemonte..., avendo (egli) preso impegno di
    fare della Toscana il centro egemonico della futura
    unità»328. Celestino Bianchi non fu degli ultimi a
    visitarlo; ma ormai le loro vie divergevano: «Non
    entrerò in molti particolari sul nostro colloquio –
    cosí il segretario generale del governo toscano, quando, nel
    gennaio del '61, gli stava a cuore di «silurare» la
    candidatura del Montanelli al Parlamento nazionale329 –: dirò
    solo che lasciandomi conchiuse dicendo: bisogna persuadersi che
    l'idea dell'unità era un bel sogno al quale è forza
    rinunziare. Non c'è che una volontà in Europa che sia
    rispettata; non c'è che una parola che sia ascoltata: quella
    dell'imperatore dei Francesi: la Toscana ormai nella sua mente
    è destinata: sapete a chi: bisogna piegare la testa... Da
    quel giorno in poi non ebbi mai piú occasione di trovarmi col
    professor Montanelli, né di parlare con lui». Orbene:
    è verosimile che il Montanelli tenesse col Bianchi un
    discorso di questo genere? Innanzi tutto si deve osservare che non
    una sola parola scritta dal Montanelli allora, prima di allora o
    dopo di allora, ci permette di credere che egli rinunziasse mai alla
    vagheggiata unità d'Italia, seppure si vedesse o si credesse
    costretto a relegarne l'attuazione in un avvenire piú o meno
    lontano (e sí che la censura postale, accuratamente eseguita
    nell'ufficio stesso del Bianchi, non si faceva troppo riguardo nel
    sequestrare la corrispondenza dei personaggi sospetti; figuriamoci
    se al Montanelli, fatto segno ad accuse cosí aspre e
    persistenti, si fosse potuto contestare la prova provata di questa
    sua rinunzia: lo si sarebbe senz'altro ridotto al silenzio!)
    Sembrerebbe inconcepibile, d'altronde, che proprio allorquando il
    Montanelli andava tenendo discorsi cosí poco... ortodossi, i
    governanti toscani (vedi testimonianza del Corsi) lo accogliessero
    con tanta cordialità, almeno apparente...
    
    Come si difese il Montanelli da questa accusa del Bianchi? Nel modo
    piú ragionevole: riconoscendo francamente, cioè, quel
    tanto di vero che in essa si conteneva.
    
    Il Bianchi, – egli rispose infatti330, – non fu narratore
    veridico... quando della conversazione che avemmo in Firenze
    riferí parole che non ricordo avere pronunciate, e non
    pronunciai certo nel senso che egli volle dar loro, per insinuar
    dubbi sulla indipendenza del mio carattere, e sulla schiettezza dei
    miei sentimenti italiani. Sbaglia poi grandemente il signor
    Celestino Bianchi, se mi stima uomo da aver paura di dichiarare che
    dopo la pace di Villafranca vi furono momenti sí incerti, e
    sí perigliosi, nei quali anch'io potei credere salutare
    all'Italia l'eventualità di una Reggenza del principe
    Napoleone, benché nulla oprassi a tal uopo, e non contraessi
    alcun impegno.
    
    Or dunque, esclamerà a questo punto il lettore,
    «habemus confitentem reum!» A che continuare, dopo
    questa franca ammissione, a contestare la versione del Bianchi?
    Senonché ci si permetterà di osservare che,
    quand'anche fosse dimostrato che fino dalla seconda metà di
    luglio del '59 il Montanelli optasse per la soluzione napoleonica
    del problema toscano, questa non implicava affatto, almeno nelle sue
    intenzioni, una definitiva rinunzia al programma unitario.
    «Reggenza», infatti, non significa che temporanea
    occupazione del trono nel nome e nell'attesa del legittimo e
    definitivo suo detentore. Orbene, in nome di chi il principe
    Napoleone sarebbe stato proclamato reggente se non, notoriamente, in
    quello di re Vittorio suo suocero? E qual meraviglia che a molti
    patrioti toscani l'idea di quella reggenza si presentasse allora
    spontanea come la sola via d'uscita dalla gravissima situazione
    determinatasi dopo Villafranca, in quanto su di essa si sarebbero
    potuti raccogliere i consensi sia del Piemonte che della Francia? Si
    è visto già come il Menichetti fosse per l'appunto di
    quella opinione; uomo di secondo rango costui? E sia pure; ma che
    dite di fronte a documenti ineccepibili dimostranti che personaggi
    politici di prima grandezza, come il Peruzzi, il Matteucci, il
    Corsi, il Ridolfi, ed altri ancora331, inclinarono nettissimamente,
    in quel torno di tempo, verso la candidatura napoleonica al trono
    toscano, se non addirittura verso altre ben piú di quella
    straniere all'Italia? Sbagliarono anch'essi, si dirà; e in
    ogni caso il loro errore non può certo addursi a discolpa del
    Montanelli. Verissimo: a condizione però che il giudizio di
    condanna o di assoluzione sia uguale per tutti...
    
    È nostra opinione, comunque, che alla fine di luglio del '59
    il Montanelli, pur non scartando a priori l'ipotesi napoleonica, non
    si esprimesse in concreto che in senso antilorenese,
    antiannessionistico332, e in favore della costituzione di un forte
    organismo politico nell'Italia centrale. Il suo programma immediato
    era pur sempre quello di far designare il Garibaldi a comandante
    degli eserciti collegati. E che? Poteva mai il Montanelli
    immaginarsi che il generale si sarebbe messo al servizio del
    principe Napoleone? Le altre testimonianze delle quali disponiamo
    non contraddicono al nostro assunto. Non quella del Capponi
    («ora il Montanelli promette, o minaccia, o annunzia PlonPlon;
    ma senza però raccomandarlo»)333, non quella del
    Cambray-Digny («non manca chi faccia partito per altre
    dinastie. La napoleonica è messa avanti da diversi, tra i
    quali primeggia il Montanelli. Io, per dire il vero, non l'ho udito
    proporla decisamente, ma mi parve che andasse per quella
    via»)334, e neanche quella del Peruzzi, che da Parigi
    riportava, sul conto del Montanelli, pretese rivelazioni del
    ministro francese a Firenze335. Solo il Massari e il La Farina,
    entrambi, allora, fieri avversari del Montanelli, ce lo dipingeranno
    sordamente intrigante, non appena rientrato in Firenze, in favore
    del principe Napoleone: senonché non si dovranno prendere con
    ampio beneficio d'inventario le costoro asserzioni? Il La Farina
    intanto, non si fece eco di queste accuse che alla fine di
    settembre, retrospettivamente cioè, e proprio allorquando la
    canéa antimontanelliana ebbe raggiunto il suo apice336;
    quanto al Massari, questi, pur attribuendo a re Vittorio in persona
    il severo giudizio sul Montanelli supposto campione di
    «plonplonismo», non dubitò di metterlo in fascio
    col Cipriani e col Farini337: or chi non sa quanto sospetti, a dir
    poco, siano i giudizi torinesi del tempo sull'attività,
    nonché di costoro, di chiunque non si mostrasse rigidamente
    ossequente ai cenni del governo piemontese?
    
    Quale si fosse, sulla fine di luglio del '59, l'effettivo programma
    del Montanelli noi sappiamo di già; ma in base a qualche
    altro documento ci è dato entrare al proposito in qualche
    maggiore precisazione. Ecco ad esempio lo schema di un discorso da
    lui pronunziato nella sua Fucecchio, il 28 del mese:
    
    So che qualcuno volle farmi delitto d'amare la Francia. Lo
    compatisco. Non li vide partire (i soldati francesi) come li ho
    veduti io. Non passò con loro come ho passato io le Alpi.
    Tutto il mio credo si riepiloga in tre principali principî, e
    in tre uomini. Principî: 1) Indipendenza; 2) Unità
    nazionale; 3) Alleanza con la Francia. Il resto sono espedienti. Gli
    uomini: 1) Napoleone III: mosse la questione italiana. Senza di lui
    non saremmo qui. Difficoltà immense: le vincerà. 2)
    Vittorio Emanuele: fermo allo Statuto; strinse la alleanza con la
    Francia. 3) Garibaldi, personificazione della democrazia, il
    capitano del popolo. Mano di Garibaldi a Vittorio, mano di Vittorio
    a Napoleone; o con l'annessione o senza, tutto anderà. Guai
    se il nodo si scioglie338.
    
    Dove, a parte l'insistenza probabilmente eccessiva sui
    beneficî dell'alleanza francese, ben si vede come il
    Montanelli, nonché abbandonare il caposaldo
    dell'unità, vi si afferrasse tutto, anzi, su di essa
    imperniando la sua propaganda. Ma – si dirà – come prevedeva
    il Montanelli che questa unificazione sotto gli auspicî
    francesi potesse realizzarsi? Ci viene qui in soccorso, ancora una
    volta, la testimonianza del Redi339: secondo il quale l'idea
    montanelliana sarebbe stata, fino d'allora, quella di ottenere
    dall'imperatore e, mercé i suoi buoni uffici, dal Congresso
    delle potenze, che, in cambio della volontaria rinunzia da parte
    dell'Italia centrale ad annettersi al Piemonte, venisse concessa al
    Veneto l'autonomia amministrativa e politica, oltre alla
    facoltà di ordinare un suo esercito. L'uscita delle truppe
    austriache dai confini d'Italia avrebbe d'altronde permesso di
    sollecitare il ritiro anche del corpo di occupazione francese a
    Roma, cioè il definitivo conseguimento dell'indipendenza e
    della nazionalità italiane.
    
    Riconosciute esse nel diritto pubblico europeo (ragionava il
    Montanelli), l'unificazione d'Italia, non avversata dalla Francia,
    diviene una questione d'ordine interno, e la Toscana non
    tarderà ad attrarre a sé a una a una tutte le membra
    della patria italiana. Se torniamo con la mente a quel tempo –
    cosí il Redi – ... il concetto non apparirà tanto da
    nemici del proprio paese come si fece passare340.
    
    Senonché questa presa di posizione, in pieno contrasto con
    quelle che erano allora le direttive del governo responsabile, non
    era destinata di certo a migliorare le relazioni del Montanelli, con
    i circoli ministeriali.
    
    I governi dell'Italia centrale, intanto, primo in ordine di tempo
    quello di Firenze, offrivano al generale Garibaldi, conformemente
    agli accordi presi e col Montanelli e col Malenchini341, il famoso
    comando in capo. Il Garibaldi, superate talune difficoltà che
    si opponevano alla sua accettazione342, si dirigeva immediatamente
    in Toscana343; ben presto veniva formalmente conclusa la lega
    militare fra gli Stati dell'Italia centrale. Erano, entrambi,
    avvenimenti della piú alta importanza (in buona parte dovuti,
    come sappiamo, all'opera personale svolta dal Montanelli); i quali,
    preceduti dalla convocazione dei collegi elettorali in Toscana e in
    quegli altri Stati, venivano a determinare in questa parte d'Italia
    una situazione nuova, cosí suscettibile di prevedibili
    sviluppi rivoluzionari, che il Montanelli non si sentí
    piú di lasciar la Toscana come avrebbe dovuto fare se avesse
    accettato la nota missione in Francia. Gli pareva, adesso, che la
    causa italiana si potesse servire assai piú efficacemente a
    Firenze che non a Parigi nelle anticamere dei ministeri o nelle
    redazioni dei grandi giornali; e ciò tanto piú che la
    diplomazia francese pareva allora sviarsi, con le successive
    missioni De Reiset e Poniatowski344 – con le quali, diciamolo subito
    ben chiaro e ben alto, il Montanelli non ebbe assolutamente nulla a
    che fare345 – in assurdi e sterili tentativi volti a persuadere i
    toscani ad accettare una restaurazione lorenese.
    
    Tramontata dunque la prospettiva di un impiego diplomatico, e
    tramontata, sembra, unicamente per volontà del Montanelli346,
    l'ex triunviro si presentò candidato alle elezioni politiche.
    Che gli ambienti ufficiali non vedessero con soverchio entusiasmo
    questo suo divisamento (il Montanelli era pur sempre l'uomo della
    Costituente: una volta membro dell'assemblea non avrebbe cercato di
    riesumare l'antico progetto?) è piú che comprensibile,
    e del resto ci consta sicuramente347: si deve per altro riconoscere
    che nulla di men che corretto fu tentato dal governo per escluderlo
    dall'assemblea: tanto che il 7 d'agosto egli otteneva, nella sua
    Fucecchio, una votazione quasi plebiscitaria348.
    
    Eccolo adunque deputato; eccolo investito, con gli altri suoi
    colleghi, di una immensa responsabilità di fronte all'Italia
    e all'Europa. Ben si sapeva, a Palazzo Vecchio, che si poteva
    contare su di lui per la progettata solenne votazione antilorenese;
    c'era da aspettarsi perciò, che gli amici del governo
    facessero di tutto, in quella prima metà d'agosto, per
    convertire lui e i molti altri deputati antiannessionisti anche al
    programma dell'unione al Piemonte. Quindi lusinghe, pressioni,
    intercessioni autorevoli. Pel Montanelli, in particolare, vennero
    messi di mezzo, fra gli altri, perfino il Manzoni e il Garibaldi, ai
    cui consigli si pensò che egli si sarebbe, per deferenza,
    inchinato349. Ma il Montanelli non piegò. Era forse legato da
    impegni assunti personalmente con l'imperatore? Cosí si
    sussurrò da molti, i quali evidentemente ignoravano come un
    uomo di fede possa, per non tradire le sue convinzioni, sfidare
    sereno l'impopolarità e, peggio, gli oltraggiosi sospetti
    anche degli amici. Ma sarà proprio necessario ricorrere a
    supposizioni del genere, quand'anche si voglia considerare la sua
    mancata adesione, in seno all'assemblea, al voto dell'immensa
    maggioranza dei deputati, un gravissimo errore?
    
    Le accuse di «plonplonismo» al suo indirizzo si erano
    andate intensificando e aggravando. Le echeggiavano a gara, ormai,
    da Parigi il Pasolini350 e il Peruzzi351, da Londra il Corsini352 e
    a Firenze un po' tutti quanti, dal Capponi353 al Mazzini, di fresco
    giuntovi, come si sa, in un incognito parecchio trasparente354.
    Queste accuse acquistavano adesso tanta maggior consistenza in
    quanto resultava che alla corte imperiale, nonostante le recise
    smentite degli ambienti ufficiali, il progetto
    «plonploniano» cominciava ad essere favorevolmente
    gustato355. Non si venne perfino a sapere che il 19 d'agosto eran
    partiti da Parigi alla volta d'Italia due agenti del principe
    Napoleone, uno dei quali, il Texier, amico personale del Montanelli,
    e l'altro, il Sarda Garuga, espressamente incaricato dal principe di
    visitare diverse personalità dell'Italia centrale356, fra le
    quali il Farini, il Cipriani, il Pepoli, il Matteucci,
    l'Albéri, il Montanelli?357.
    
    Sembrerebbe dunque di dover convenire che, se non alla fine di
    luglio, almeno verso la metà del mese successivo il
    Montanelli «scoprisse le sue batterie». Viceversa
    è nostro preciso parere che, nonostante l'imponente mole di
    prove a suo carico, il suo atteggiamento restasse anche allora
    quello che già avemmo a chiarire per l'addietro: e
    cioè che né egli né gli altri
    «francesizzanti» promuovessero attivamente la
    candidatura napoleonica, ma nel contempo neanche la scartassero,
    ritenendosi positivamente obbligati, per il bene stesso del loro
    paese, a indagare la convenienza e la probabilità di riuscita
    nel modo stesso che adoperavano per le altre soluzioni proposte del
    problema toscano358. Il Montanelli si era tenuto, nel complesso, in
    riserva fin quando i destini di questa parte d'Italia erano rimasti
    impregiudicati; ma ormai che, riunita l'assemblea, si voleva dal
    governo sforzarla a votare un partito definitivo, egli avvertiva
    l'imprescindibile dovere di uscire da quel riserbo per definire il
    suo punto di vista: il quale comportava l'attiva collaborazione
    delle quattro assemblee dell'Italia centrale in vista di addivenire
    alla formazione di un unico Stato da sottoporsi, in attesa degli
    eventi ad una dittatura o reggenza provvisoria. Questo era e
    restava, del suo programma immediato, il punto essenziale; mentre
    era di secondaria importanza – una volta escluso il pericolo di un
    ritorno dei Lorena – la questione a qual principe affidare, sempre
    nel nome di re Vittorio, l'ufficio. Le sue personali preferenze,
    già si è visto, cadevano sul principe Napoleone,
    simbolo vivente della indispensabile alleanza italo-francese; ma il
    Montanelli non s'impegnava sul nome suo, come s'impegnava invece,
    aperto e risoluto, sulla questione della provvisoria autonomia
    dell'Italia centrale359; e ne abbiamo la riprova nel coscienzioso
    voto da lui dato, nella seduta dell'assemblea del 9 novembre, al
    progetto di reggenza di Eugenio di Carignano360.
    
    Tale era allora e tale in sostanza rimase, checché
    pretendessero in contrario i suoi detrattori, il suo punto di vista
    sulla questione toscana361. Solo si deve aggiungere come a radicarlo
    in quella opinione contribuisse essenzialmente una constatazione che
    al suo cuore di soldato dell'indipendenza dovette riuscire
    particolarmente penosa: quella cioè che i suoi concittadini
    non sembravano invero troppo disposti ad affrontate virilmente i
    rischi, anche di guerra, che da una proclamazione annessionistica
    fatta contro la volontà della Francia, avrebbero potuto
    derivare, ed anzi sarebbero derivati con tutta probabilità.
    Garibaldi, sí, giungeva in Toscana (per venire, del resto, di
    lí a poco, sostituito dal Fanti nel comando in capo degli
    eserciti collegati) e la lega militare era, sulla carta, conclusa;
    ma che perciò? Né il popolo toscano si mostrava,
    allora, risoluto a difendere a qualunque costo e contro chiunque la
    sua libertà, né il suo governo, conveniamone, andava
    apprestando con la dovuta sollecitudine i mezzi per rendere
    possibile, in qualunque evenienza, quella difesa. In cosí
    fatte circostanze – osservava il Montanelli – l'attentarsi a
    sfidare, con la Francia, l'Europa tutta sarebbe stato un gesto
    sublime, ma inutilmente temerario: giacché, per quanto
    ingrossato dai contingenti dei volontari, per quanto valorosissimo,
    l'esercito sardo non avrebbe potuto di certo resistere contro
    eventuali interventi offensivi di una o di entrambe le potenze
    firmatarie dei patti di Villafranca362.
    
    Ma torniamo all'assemblea toscana; della quale non importa davvero
    di ricordare in questa sede, come il 16 agosto procedesse unanime
    alla votazione della proposta Ginori proclamante la decadenza
    definitiva della dinastia lorenese. Forse non furono molti i
    deputati che, in quella solenne occasione, sentirono, come il
    Montanelli sentí, di compiere un sacro dovere: giacché
    pochi avevano, come lui, lealmente servito il granduca, e
    sinceramente sperato di farne un principe italiano; pochi, come lui,
    erano stati in grado di valutare tutta l'irrimediabile sua
    inadeguatezza di fronte all'alta missione assegnatagli; pochi, come
    lui, avevano, finalmente, dal 6 febbraio del '49 in poi, realizzata
    l'assoluta incompatibilità e di quel principe e in genere di
    tutta la sua casata con la resurrezione italiana. Per breve ora,
    dunque, il Montanelli provava l'ebbrezza, solitamente negata agli
    spiriti piú alti, dell'unanime consentimento. Per breve ora:
    ché già fino dal 13 agosto egli aveva creduto di
    doversi opporre alla votazione della proposta Romanelli per una
    mozione di plauso al governo in carica ed al cessato governo
    provvisorio363; e quello stesso 16 agosto non aveva potuto
    nascondere la sua contrarietà a che la proposta Mansi e
    Massei per l'annessione della Toscana al Piemonte venisse rinviata
    agli uffici. La discussione di queste due proposte si svolse, come
    è noto, la mattina del 20, nel segreto delle sezioni: in seno
    alle quali il Montanelli non dubitò, naturalmente, di
    svolgere i motivi della sua opposizione364, salvo ad astenersi,
    d'intesa con altri due deputati, dall'intervenire alla successiva
    seduta pubblica, nel corso della quale l'annessione della Toscana al
    Piemonte venne approvata all'unanimità. Era il piú
    gran sacrificio che il Montanelli potesse fare alla causa
    governativa, quello di rinunziare ad esporre pubblicamente le
    ragioni del suo atteggiamento, per non turbare la manifestazione
    della maggioranza365. Ma nessuno gliene fu grato366: ed anzi furono
    proprio taluni fra i suoi colleghi i quali l'annessione avevano
    votato pur convintissimi che fosse quella una manifestazione
    platonica, dopo la quale ci si sarebbe dovuti acconciare ad un
    qualsivoglia altro partito, e magari anche all'accettazione della
    duchessa di Parma, furon proprio costoro i piú accaniti
    contro il Montanelli: che senza altro accusarono di lesa patria,
    cominciando con l'accreditare la falsa leggenda che egli avesse
    votato contro l'annessione.
    
    È esagerato di certo, anzi è positivamente infondato
    quel che scrisse il D'Ancona – che del Montanelli ebbe a pubblicare,
    da par suo, parte del carteggio, – che cioè da quel 20
    d'agosto in poi il Montanelli «perdette ogni autorità,
    e quel resto di popolarità della quale si lusingava essere
    ancora in possesso si dileguò del tutto. Morí
    fisicamente ai 17 giugno 1862; politicamente, era già morto
    dopo quel voto»367. Ma è pure indubitato che dopo il 20
    d'agosto il Montanelli, già poco grato ai potenti della sua
    terra, si trasmutò ai loro occhi in un vero e proprio nemico
    pubblico, piú infido e dannoso d'un Poniatowski, piú
    temuto, e, certo, meno rispettato d'un Mazzini. Perché mai
    tanto risentimento e, diciamolo aperto, tante persecuzioni contro un
    oppositore cosí solitario? Che mai poteva rappresentare
    costui, e con lui i due suoi compagni di astensione, di fronte
    all'assemblea unanime? Si aveva forse il dubbio che quel voto di
    un'assemblea eletta a suffragio ristretto non corrispondesse che
    assai imperfettamente ai propositi ed alle aspirazioni della
    maggioranza dei cittadini pensanti? La verità si è che
    quella voce isolata, o piuttosto quella voce rimasta silenziosa nel
    coro, veniva a costituire come una frattura in quella facciata di
    unanimità formale che da tempo ormai i governanti toscani si
    erano preoccupati di edificare nel loro paese per opporla a
    un'Europa diffidente; che essa rappresentava un principio pericoloso
    d'indipendenza, mal tollerabile fintanto che durasse quello stato di
    pericolosa incertezza sulle sorti toscane: tanto piú che era
    la voce di un patriota antico, ben noto nel mondo straniero, contro
    il quale si spuntavano, in definitiva, le assurde insinuazioni, che
    pur si osava da taluno rivolgergli, di venduto allo straniero e
    perfino di segreto fautore delle restaurazioni!368.
    
    Dal 20 d'agosto, perciò, il Montanelli avrà la vita
    difficile, nella sua Toscana. I giornali governativi (e cioè
    quasi tutta la stampa) non gli daranno piú tregua369; la
    censura postale sorveglierà accuratamente la sua
    corrispondenza; le sue parole ed ogni suo movimento verranno
    controllati e riferiti a Palazzo Vecchio; ogni sua passata o
    presente benemerenza verrà dimenticata o svisata; ogni suo
    gesto sarà cagione di sospetto. I documenti in nostro
    possesso ed altri che ci siamo procurati (e che a suo tempo
    pubblicheremo) non lasciano dubbi a questo proposito. Pian piano gli
    si farà davvero il vuoto d'intorno, un po' pel timore che
    molti proveranno di frequentare la compagnia di un oppositore
    sorvegliato, un po' anche perché le calunnie diffuse contro
    di lui370 finiranno con l'alienargli effettivamente ogni simpatia.
    Montanelli sperimenterà come sia piú amaro l'esilio in
    patria che non lo stesso esilio materiale dal proprio paese! Non si
    giunse perfino a negargli la restituzione di quella cattedra pisana
    che aveva pur abbandonato, nel '48, dopo sette anni di celebrato
    insegnamento, per andare a combattere?371. Non gli si vietò
    con ogni mezzo l'ingresso nel Parlamento nazionale radunato a
    Torino, rendendogli ancora piú amaro questo ostracismo col
    contrapporgli, nei singoli collegi un dopo l'altro tentati,
    concorrenti affatto ignoti ed oscuri?372. I suoi scritti – e ve ne
    furono di bellissimi, profusi in giornali minori o in opuscoli,
    attestanti non solamente l'usata acutezza della sua mente e la
    profondità e l'estensione del suo sapere, ma anche il
    coscienziosissimo studio delle questioni prese in esame373 – vennero
    sistematicamente ignorati o, peggio ancora, sommariamente stroncati.
    Caso tipico fra tutti, quello del suo volumetto L'Impero, il papato,
    e la democrazia in Italia, pubblicato nel novembre del '59, il quale
    non provocò nella stampa toscana che recensioni beffarde e
    sprezzanti: eppure v'era in quel suo scritto, che, fra innegabili
    divagazioni e genericità, ricercava e additava un possibile
    componimento dei troppi dati contraddittori del problema italiano,
    v'era in esso tanto nobile fervore, tanta altezza di concetti, tanta
    sottigliezza di argomentazioni, da fornire non pure la
    giustificazione ideale del suo contegno politico, ma bensí la
    conferma di come il Montanelli andasse annoverato fra le piú
    fini e originali e nutrite menti politiche dell'Italia d'allora. Ma
    chi pensò, ad esempio, dopo il 5 maggio del 1860, a ricordare
    che in quelle pagine si conteneva tra l'altro un presagio
    chiarissimo della spedizione garibaldina nell'Italia del sud?
    
    Tutto ciò non contava. Il peccato del Montanelli, già
    colpevole di rappresentare i brucianti ricordi del '49, era senza
    remissione per gli unitari dell'ultima ora. Ond'è che questo
    geniale pubblicista, questo cittadino sempre e soprattutto sollecito
    del bene del proprio paese, questo antico antesignano
    dell'unità italiana, poté venir condannato, nella
    propria terra, alla morte morale; cioè ad assistere,
    inoperoso, alla grande fatica, sempre sognata, del costruire in
    concreto la nazione italiana, appena sbozzata nei campi di
    battaglia. Al quale tormento, sí, lo sottrasse la morte
    fisica, ben presto sopraggiunta.
    
    3.
Un giorno a Fucecchio
    
    Sono andato a Fucecchio a cercar Montanelli. Da mesi e mesi,
    propostomi di ricostruire la vita di lui, turbinosissima, mi son
    messo a raccogliere e ad annotare le carte e memorie sue; e a un
    certo punto ho sentito che non avrei potuto penetrare a pieno il mio
    personaggio senza respirare la sua aria nativa, contemplar la sua
    terra, discorrere con i suoi compaesani.
    
    Quante volte, nei quinternacci d'appunti del vecchio patriota
    toscano, quante volte scorrendo le sue lettere d'esilio, o
    rileggendo i suoi versi, non m'è tornato sotto gli occhi,
    accompagnato da un aggettivo nostalgico, questo toscanissimo nome:
    Fucecchio!
    
    Allor che di lontano al guardo apparve
    
    il nativo castello, e sulle antiche
    
    torri, e sui rudi tetti,
    
    e sulle verdi collinette apriche
    
    morir vidi del sole il raggio estremo,
    
    la piena degli affetti
    
    con piú tumulto m'ondeggiò nel seno.
    
    Forse chi m'era appresso
    
    nelle tronche parole in quell'istante,
    
    il commosso sentía spirto ondeggiante.
    
    La Fucecchio dei suoi anni d'infanzia, quando il futuro triumviro
    della Toscana, un monello estasiato di musica, tirava i mantici
    dell'organo nella chiesa della Collegiata, o quella degli anni
    universitari quando, nelle vacanze, accodato al «sommo»
    filosofo Centofanti, egli pure un fucecchiese, il Montanelli errava
    pei poggi umanissimi (i poggi di Leonardo...) sognando spirituali
    trionfi. Fucecchio che lo piangeva morto all'indomani di Curtatone,
    per festeggiarlo quattro mesi piú tardi, redivivo, con
    incontenibile slancio paesano, e memorabile spreco di mortaretti e
    lumini: poi la gloria improvvisa del ministero (un di Fucecchio
    arbitro della Toscana tutta, e quasi piú potente dello stesso
    granduca!) e il piú improvviso crollo, l'amara parentesi di
    quei dieci anni francesi. Come lontana la rossa torre Bernarda
    circondata d'olivi, come lontane le carciofaie di San Pierino, sulle
    rive dell'Arno! Calunnie infami inseguivano l'esule: quanti fra i
    molti, fra i troppi amici del buon tempo osavano ormai difendere il
    condannato all'ergastolo del 1853? Solo a Fucecchio, egli amava
    pensare, solo nella sua terra remota e schietta gli umili sapevano
    restargli fedeli: contadini e artigiani, e gli antichi compagni di
    giuochi su pei gradini della cattedrale. E forse non era vero; ma
    quel pensiero lo aiutava a vivere, ad aspettare. Nell'imagine del
    borgo nativo – un poco assopito nella sua storia illustre – gli si
    concretava, quasi, l'imagine stessa della patria da resuscitare.
    Pensava all'Italia e vedeva Fucecchio. E come sovente, coi Michelet,
    coi Lamennais, coi Du Camps non gli accadeva, dimenticando per un
    istante letteratura o politica, di parlar di Fucecchio, come fosse
    stata la città di Dio, a fronte di quel prodigio tutto
    razionale, Parigi!
    
    Venne il '59. Venne il ritorno. E la tentazione tante volte
    avvertita, negli anni d'esilio, di andarsene a rimirare l'Italia
    rinata o rinascente procul negotiis, da quel sereno cantuccio
    provinciale, dove gli sarebbe stato cosí dolce recuperare la
    sanità perduta, la sanità del corpo, e piú,
    quella dello spirito troppo provato dalla ingratitudine umana; la
    tentazione egoistica non visse, già s'intende, un istante. Fu
    il campo dei volontari prima, furono poi le corse affannose a
    Torino, a Firenze, e di nuovo a Parigi, e a Pisa: a Fucecchio appena
    qualche comparsa fuggevole, per ritrovarvi la lena, appena il tempo
    di spalancar le finestre di quella bella sua casa, là in cima
    al paese, per contemplare la sottostante valle verdissima e poi
    ripartire. Chi avrebbe mai potuto prevedere che quel ritorno in
    Italia avrebbe coinciso col periodo piú triste della sua
    vita? Che lo avrebbero perfino tacciato, perché non voleva
    l'unità al modo di tutti, di non amare il suo paese? Che lo
    avrebbero escluso dal parlamento, dove sognava di rappresentare
    Fucecchio?
    
    E venne, tre anni dopo, un giorno d'aprile in cui il Montanelli,
    precocemente vecchio, febbricitante, velato di mestizia quel suo
    sguardo splendente, tornò per sempre a Fucecchio. Moriva ogni
    giorno, e non sapevan di che; ma lo sentiva anche lui e, pur
    religioso com'era, non poteva darsene pace. C'era tanto da fare, in
    Italia, per un uomo della sua tempra! Tanti problemi urgevano, che
    gli pareva avrebbe saputo risolvere. Guardava dalla sua poltrona
    quei monti, quei colli, quei campi fervidi d'opere, e non voleva
    credere che avrebbe dovuto ben presto lasciarli per sempre. Nella
    stanza s'ammonticchiavano le carte su cui, con quella scrittura
    chiara e ordinata dapprima, poi sempre piú precipitosa e
    arruffata via via che premevan le idee nell'ansia di non finire,
    sudava affrontando le grandi questioni del giorno e dell'avvenire,
    abbozzando discorsi e articoli, e disegnando ampi studi metodici
    sull'ordinamento della nazione italiana. Quell'ordinamento, pensava,
    cui solo l'esperto della sua storia nei secoli e il conoscitore
    profondo delle tendenze vive del suo popolo sarebbe mai pervenuto.
    
    Fucecchio, fiera d'averlo finalmente per sé, questo suo
    figlio illustre, e insieme rispettosa di quel privilegio, lo
    circondava di reverente silenzio.
    
    Morí, non rassegnato, ai 17 giugno: né piú di
    lui rassegnati i fucecchiesi tutti, che come una grande famiglia
    avevano diviso e sofferto, senza comprenderle, le sue amarezze:
    mormoravano adesso che gli avversari suoi lo avessero fatto morir di
    veleno, e diffidavano quasi di quelle stesse manifestazioni
    d'omaggio che alla sua memoria si largivan di fuori; anticipavano
    con appassionato rancore il giorno in cui, crollati i falsi idoli,
    il Montanelli, inquieto nella sua tomba laggiú nel chiostro
    dei frati, avrebbe avuto pace con la vendetta di una piena
    riabilitazione.
    
    Son passati da allora settantacinque anni: e accanto al Montanelli
    riposano ormai tutti quelli della generazione sua, e i figli loro.
    Eppure il senso di quella iniquità della sorte, di quella
    morte indebita, e quasi di quel torto fatto al paese tutto, è
    vivo a Fucecchio come nel '62. La storia, si può e si deve
    riconoscerlo, non ha ancor dato al Montanelli tutto quel che gli
    spetta: Fucecchio attende ancor oggi con piena fiducia che sorga il
    biografo riparatore. Per lui nelle case che furono degli amici si
    conservano gelosamente ritratti e lettere; per lui si trasmettono di
    padre in figlio memorie e dicerie; per lui l'arciprete custodisce il
    calamaio di bronzo in cui il concittadino illustre intinse negli
    estremi giorni la penna. I fucecchiesi, in sua attesa, hanno pagato
    la loro passione con l'erigere al Montanelli un gran monumento
    marmoreo, giú nella piazza dedicata al suo nome, e nel
    tempestare di lapidi la casa dove nacque, visse, morí. Nel
    Municipio, in una vetrina dorata, campeggia come una sacra reliquia
    la sua uniforme di combattente del '48, del '59.
    
    Tutto questo ho ben sentito arrivando a Fucecchio, non appena
    svelatomi nella mia qualità d'aspirante biografo. Dal
    bambinetto che mi s'è messo alle costole e non mi ha lasciato
    un minuto, tutto fiero di render un servizio al gran Montanelli,
    all'avvocato X, uno di quei legali di provincia che ingannano il
    tedio delle giornate senza clienti ricostruendo sulle pergamene del
    vescovado la storia del loro paese, a un paffuto canonico che alla
    gloria locale sa perdonare perfino le deviazioni massoniche, tutti
    vivono ancora nel riflesso di quella luce. Con quanto scandalo,
    putacaso, non hanno veduto alcuni giorni addietro partir da
    Fucecchio, prosaicamente ingabbiata con su l'indirizzo del
    compratore, la vecchia poltrona sulla quale il Montanelli soleva
    sedere...
    
    Giro pel paese, in traccia di questi ricordi. E mi sembra che, a
    parte qualche restauro o qualche fabbrica nuova, Fucecchio dovesse
    esser proprio cosí, anche tre quarti di secolo fa. Il
    caffè «Iris», certo, si sarà chiamato
    altrimenti; e dove ora è il Fascio ci sarà stata la
    Società operaia, intitolata a Montanelli, suppongo, con
    sull'uscio la fatidica insegna del mutuo soccorso, due mani che si
    stringono. Beati i paesi che nascono in groppa a un dirupo, a
    rispettosa distanza sia dalla strada ferrata che dalla via
    nazionale! Son quelli che conservano immutati nei secoli i loro
    caratteri esterni, il tipo etnico, la lingua.
    
    Fucecchio, l'ho detto, sorge tutta su quel dirupo, del quale occupa
    la scarpata a mezzogiorno e ponente: solo poche case, fra le
    piú vecchie, ma in compenso quasi tutte le nuove son
    sciorinate in pieno, quasi ad accogliere al loro arrivo le strade
    diritte e alberate che giungono da Castelfranco di Sotto, da Santa
    Croce, da Altopascio, dopo un viaggio avventuroso tra i poggi, il
    piano, il padule. A levante, sul pendio, le due torri quadrate, un
    cinquanta passi una dall'altra, parlano, coi pochi avanzi delle
    antiche mura, di Fucecchio medievale, terra contesa tra Lucca e
    Firenze.
    
    La casa nativa del Montanelli è a mezza costa, semplice e
    grigia in una via traversa; l'altra che poi fu sua, e nella quale
    morí, quasi un palazzo (ora è deserta; ma l'hanno
    adocchiata per farne un asilo d'infanzia) s'inalza invece, in pieno
    mezzogiorno, sull'orlo del dirupo. Sfido io che il Montanelli,
    alloggiasse sui Lungarni di Pisa o a Palazzo Vecchio, o anche in un
    boulevard di Parigi, non riuscisse né a Parigi né a
    Firenze né a Pisa a trovar qualcosa di comparabile con quel
    suo belvedere! In faccia, all'ultima quinta, i monti di Pisa con la
    Verruca scapozzata; piú qua, a limite della pianura solcata
    d'acque e di strade, i colli di Castelfranco; a sinistra, contro il
    cielo, il profilo di San Miniato, con lo smozzichío delle sue
    torri, come la mascella d'un vecchio dai pochi denti guasti; a
    settentrione le montagne turchine di Pescia. Per un poeta – e il
    Montanelli era nato poeta, seppure le troppe disparate ambizioni,
    poeta, filosofo, storico, giurista, politico, non gli permettessero
    d'abbandonarsi tutto alla sua limpida vena – per un poeta c'era di
    che sognare ad occhi aperti; c'era di che lasciarsi prendere, per
    sempre, da non so quale arcana malinconia, quella malinconia che il
    Montanelli aveva negli occhi e che tanto contribuí a
    circondarlo d'un fascino irresistibile. Accanto alla casa, e sullo
    stesso livello, una chiesa, preceduta da un portico, arena di
    ragazzi; e un altro chiesone alle spalle, con una sua gran scalinata
    (quante chiese, quante campane, quanto pensiero dell'Infinito!); di
    qui un vicoletto tortuoso e precipitoso, che mena al piano, fra alte
    case e piccoli orti. A un crocevia un tabernacolo, con entro, in
    terracotta azzurra, l'imagine dell'Immacolata ed una iscrizione per
    ricordare che vi fu posta, nel 1833, proprio dal Montanelli. Non
    aveva che vent'anni, a quel tempo: e già conosceva i trionfi
    della scuola di Pisa e gli erano amici il Giusti e il Capponi, e
    sull'«Antologia» s'erano potuti leggere certi suoi
    scrittarelli eruditi. Ma al suo paese si rifugiava, e poi sempre
    amò rifugiarsi, nella piú candida semplicità.
    Lecito era con i sapienti delle città disputare, dubitare
    magari, delle cose divine ed umane; a Fucecchio non si poteva se non
    adorare, cantando e quasi rimpiangendo la troppo sublime bellezza
    del creato. 1833: l'anno in cui gli era morta la madre; ed era stato
    per lui un dolore cosmico, di quelli che abbuiano per sempre la
    vita: davanti al quale, irreparabilmente sgomento, non aveva potuto
    reagire, si vede, che con quell'umile gesto. L'Immacolata si
    confondeva per lui con la madre.
    
    E tu perché sí presto, o Madre mia,
    
    abbandonasti sulla terra un figlio
    
    che dolorosamente ti desia?...
    
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
    
    O rimembranze del sereno aspetto,
    
    e delle voci dall'amor dettate,
    
    e degli amplessi del materno affetto;
    
    voi nell'anima mia vi riposate,
    
    come nel sen di giovinetto ardente
    
    verginali sembianze innamorate.
    
    Percorro il vicolo fino al suo sbocco in piano, poi mi faccio
    indicare il convento dei frati, che dà sulla campagna aperta.
    M'apre un converso imberbe, quasi un ragazzo, dall'aria attonita.
    Giro giro, nel chiostro, una fila di tombe qualunque: nel mezzo,
    pochi arbusti si godono un gran quadrato di cielo. Ed ecco qua la
    tomba di Montanelli, segnata da una brutta lapide grigia. Ricordate
    le virtú dell'estinto prosegue: «Il 1° luglio 1867
    – meditando l'eroica impresa che finí a Mentana – Giuseppe
    Garibaldi – Il gran cavaliere dell'umanità – Memore del
    perduto amico – venne a deporre una lagrima su questa tomba
    gloriosa»; mi volgo al converso, e vorrei domandargli se non
    trova un po' strano che in quella sede venga glorificato il
    sacrilego attacco a Roma papale. Ma non voglio turbarlo. Ora mi
    s'avvicina misteriosamente: «Sa lei, mi dice, che nella bara
    vennero nascosti dei documenti segreti?» Non lo sapevo, no,
    né lo credo: ma la leggenda mi piace; quasi che nella
    minaccia implicita di disseppellire un dí o l'altro quei
    fogli la fiera Fucecchio abbia assaporato per tutti questi anni la
    sua vendetta sui nemici del Montanelli!
    
    Esco al sole, rivedo dinanzi a me le due torri. È il
    mezzogiorno, e da quel fitto di comignoli neri arrampicati sull'erta
    escono esili tracce di fumo a suggerire desinari da povera gente.
    Alla locanda due o tre commercianti, con le loro borse rigonfie,
    assaporano lo stufatino. Penso che ai tempi di Canapone eran proprio
    costoro – vestiti di nero o di verde, giacchetta fino ai ginocchi e
    il cravattone di traverso sotto il mento – proprio costoro che
    facevano circolare la stampa clandestina o trasmettevano le notizie
    proibite; e il Buon Governo li teneva d'occhio, pur non vedendo
    nulla.
    
    Poi finisco al caffè: con un poncino all'«Iris»
    si può bene concludere la gita a Fucecchio, tanto piú
    che i borghigiani autentici stan lí, mezzi sull'uscio e mezzi
    dentro, col bicchiere in mano, a ragionar di politica. Pare non
    sappiano che non conviene o non s'usa, altrove, di questi tempi. Ma
    loro discutono forte, accalorati e convinti: toscani, senza
    affettazione, all'eloquio, romagnoli all'aspetto un tantino
    spavaldo, e ai discorsi. Centellino il mio punch, e imagino il
    professor Montanelli, il «professore» a Fucecchio, per
    antonomasia, in mezzo al gruppo, pari fra pari, a parlar di
    Ricasoli, di Garibaldi o Cavour o, prima ancora, della Costituente.
    Ora s'è fatto piú in là e piú in alto,
    su quel gran piedistallo ingombro di libroni di marmo, ma si
    direbbe, da come guarda malinconico, con quel braccio al collo,
    all'insegna dell'«Iris», che scambierebbe ben volentieri
    quel podio solenne con uno scanno nel caffè di Fucecchio.
    
    4.
Ancora di Montanelli e Cernuschi
    
    Proprio negli stessi giorni nei quali la «Nuova Rivista
    Storica» pubblicava l'articoletto di Giuseppe Leti,
    L'evoluzione di G. Montanelli dal federalismo all'unitarismo (fasc.
    V del 1936), basato su tre importanti lettere inedite del Montanelli
    al Cernuschi, vedeva la luce nel fiorentino «Archivio storico
    italiano» (fasc. IV dello stesso anno) un mio piú
    diffuso saggio sull'identico argomento: entrambi, per strano caso,
    intesi a chiarire l'attività svolta dal discusso patriota
    toscano nell'anno 1859. Come questi due scritti si completino a
    vicenda, o piuttosto – dirò immodestamente – come quello del
    Leti valga in sostanza a confermare a puntino la tesi da me
    sostenuta circa la fondamentale coerenza politica del Montanelli,
    lascio al lettore accorto di giudicare. A me preme soltanto
    rettificare talune circostanze addotte dal Leti, sí che il
    giudizio non abbia a fondarsi su dati in parte inesatti.
    
    «Cernuschista» ad oltranza – come ci conferma il bel
    volume da lui recentemente pubblicato: Henri Cernuschi, patriote,
    financier, philanthrope, apôtre du bimétallisme. Sa
    vie, sa doctrine, ses œuvres, Paris 1936 – il Leti non si è
    mostrato, infatti, del tutto equo nei suoi apprezzamenti sul
    Montanelli: cedendo anch'egli inconsciamente alla forza di quella
    tenacissima leggenda antimontanelliana, che purtroppo è
    tuttora avvalorata da molti studiosi del Risorgimento italiano. Tra
    il Montanelli e il Cernuschi, rimasto l'uno a Parigi, nel '59,
    comodamente assiso nella sua poltrona di spettatore e di critico
    delle vicende italiane, e l'altro partitone precipitosamente per
    arruolarsi volontario e poi per gettarsi a capofitto nell'aspra
    lotta politica seguita alla guerra, fra i due sarà facile
    dire, di certo, che il secondo salvò appieno la sua coerenza
    ideale e la sua intransigenza politica, mentre al primo fu
    giuocoforza adattarsi a piú di un compromesso e abbandonare
    per via piú d'uno dei suoi postulati. Sarebbe ingiusto,
    peraltro, e antistorico, non rendersi conto di come l'atteggiamento
    del Cernuschi, pur altamente rispettabile, presupponesse un notevole
    distacco dalle cose italiane, l'assenza cioè di quella
    disperata volontà di contribuire a risolver una volta per
    sempre ed a qualunque costo il problema italiano, la quale ben vale
    a giustificare le oscillazioni e le evoluzioni imputabili a presso
    che tutti i patrioti italiani nel decennio successivo alle delusioni
    del '49. Cernuschi salva la sua coerenza, ma si strania
    definitivamente all'Italia, almeno in quanto a concreta azione
    politica; Montanelli agisce, lotta, s'impegna, si piega ad ogni
    sacrificio, pur di collaborare anch'esso alla grande fatica finale.
    Cernuschi può scrivere, tranquillamente: «Per noi non
    c'è nulla da fare: abbiamo aspettato dieci anni, ne
    aspetteremo dieci altri»; Montanelli invece affronta la
    realtà qual'è per acquistare il diritto di concorrere
    a modificarla: «Tornare in esiglio non me la sento!»,
    risponde con ingenuo abbandono. Sí, l'Italia si va facendo
    per vie e con mete in parte diverse da quelle da lui auspicate; ma
    è pur sempre l'Italia degli Italiani, che nasce, e ci vuole
    una bella dose di astrattismo politico per non cedere alla potente
    suggestione che emana dai campi lombardi, per non sentire che in
    taluni solenni momenti della vita nazionale ogni assenza è
    una colpa.
    
    Le tre lettere del Montanelli al Cernuschi pubblicate dal Leti vanno
    dunque valutate sotto questo angolo visuale: e allora cadranno da
    sé i commenti poco benevoli con i quali egli ha creduto di
    doverle accompagnare. Altre sue notazioni si debbono, per contro, a
    non perfetta conoscenza dell'argomento: cosí l'accenno alla
    diffidenza nutrita dal Gioberti pel Montanelli, esattissimo se
    riferito al '49-50, ma non per i due anni seguenti, nei quali i due
    patrioti riallacciarono e anzi intensificarono le antiche e tanto
    proficue relazioni di mutua stima ed amicizia; cosí la
    notizia che il Montanelli sarebbe rientrato in Italia nel '58,
    mentre non ripassò le Alpi che allo scoppio della guerra,
    nell'aprile dell'anno seguente; cosí l'affermazione, grave e
    infondata, essere stato il Poniatowski (quello stesso che poco dopo
    doveva screditarsi nello sterile tentativo di rappattumare i toscani
    con l'esule granduca) a porre in contatto il Montanelli con
    Napoleone III, mentre è risaputo che intermediari furono i
    due còrsi Pietri e Rapetti (a questo proposito voglia il Leti
    notare che mentre la prima lettera del Montanelli al Cernuschi non
    può certo recar la data di Firenze, dove il Montanelli non si
    recò che alla fine di luglio, la seconda dev'essere del 26 e
    non del 23 di maggio, giacché venne scritta all'indomani del
    colloquio con l'imperatore, svoltosi, appunto, il 25 di quel mese).
    Quanto poi al deprecato «feticismo» del Montanelli, per
    le cose e gli uomini di Francia, mi permetta l'egregio Leti di
    definire alquanto sommaria e frettolosa la sua sentenza, calcata
    piuttosto su partigiani giudizi emessi nel calore dell'azione da
    avversari politici del Montanelli, che non su un pacato riesame
    dell'effettiva attività da lui svolta: senonché,
    volendo risparmiare al lettore una non breve dissertazione su questo
    punto, mi limiterò a rinviare il Leti al citato mio articolo,
    primo saggio di una completa biografia critica che sul Montanelli io
    vado preparando.
    
    Un ultimo punto. Ritiene il Leti che, dopo la discussione epistolare
    del maggio-giugno '59, l'ex triunviro toscano e l'eroe delle Cinque
    giornate cessassero i loro «buoni rapporti»: il che
    farebbe presumere che il dissenso fra costoro avesse attinto
    notevole gravità ed asprezza. Ma anche questo è un
    dato insussistente. Io non so se l'archivio Cernuschi consultato
    dall'autore sia piú o meno completo; so bensí che fra
    le carte del Montanelli si conservano almeno due lettere del
    Cernuschi a lui dirette in data susseguente al '59, entrambe
    attestanti il perdurare di una calorosa amicizia cementatasi negli
    anni del comune esilio (una terza, non datata, potrebbe benissimo
    attribuirsi allo stesso periodo). Credo che possa interessare, oltre
    che il Leti, i lettori di questa rivista il conoscere i brani
    piú significativi e di queste due lettere e di altre due del
    Cernuschi al Montanelli, anche queste sfuggite al biografo del
    Cernuschi: la prima in risposta alla lettera del Montanelli del 30
    dicembre '58; l'altra, assai piú importante, in risposta a
    quella dell'11 maggio '59. Cosí reintegrato, il carteggio fra
    i due banditori del federalismo – quello che accettava l'iniziativa
    unificatrice della monarchia di Savoia col dichiarato proposito di
    temperare gl'inconvenienti mediante l'immissione del massimo
    compatibile di spirito e di ordinamenti federalistici nell'organismo
    unitario, e quello che da lungi perseguiva il vano sogno di una
    applicazione «totalitaria» dei principî
    federalistici ad una Italia che non ne voleva sapere – assume
    indubbiamente un ben piú alto interesse.
    
    Cernuschi a Montanelli, Parigi, 31 ottobre 1858 (Biblioteca
    Labronica, Livorno, Autografoteca Bastogi, cass. 14, ins. 1362).
    
    L'anno sembra finir discretamente. Che il '59 dovesse riuscire il
    miglior anno dal '48 in qua?
    
    Né animo, né anima ci mancano. Venga del serio e ci
    vedranno te e me all'opera. Caro amico, ho nel capo che un giorno o
    l'altro faremo qualche bella cosa insieme. Non ci fu mai nessuna
    nube tra noi due. Caso raro nell'emigrazione, e che segnalo come
    augurio felice del capo d'anno. Tuo di cuore.
    
    Cernuschi a Montanelli, Parigi, 11 maggio (1859) (ibid.).
    
    Ho ben veduto quello che mi dici, che la mutazione toscana è
    opera torinese. Il governo provvisorio spedito da Cavour non era
    ancor giunto a Sarzana, quando era già proclamato a Firenze.
    Deboli governi, quelli che vengono dal di fuori. Ma noi chiediamo
    molto per contentarci di poco, ti disse La Farina. Dunque il capo
    degli unitari tradisce gli unitari. Gli perdono, l'unità
    è condannata a tradire. In realtà il comitato non
    è unitario né federalista, ma commesso viaggiatore
    della casa di Stupinigi.
    
    Ho letto che i tuoi amici di Palazzo Vecchio si sono degnati di
    perdonarti e amnistiare le offese da te e altri fatte al g. duca. Il
    che vuol dire che senza l'amnistia di Malenchini e Ulloa, Montanelli
    non sarebbe potuto tornare a Fucecchio. No, e nemmeno con l'amnistia
    ci deve tornare...
    
    Quello che mi accora è di vedere che in questa lotta fra i
    due imperatori, l'Italia fa la parte meschina di legione straniera.
    I liberali elettoratici d'Italia smettono l'antica boria del far da
    sé. Seguono in questo il pensiero nostro e fan bene. Ma per
    noi c'è nulla da fare. Abbiamo aspettato dieci anni, ne
    aspetteremo dieci altri... Sarà ben lecito, anche espulsa
    l'Austria, di serbare dignità e convinzioni... Reazionario o
    rivoluzionario, il moto intimo delle città d'Italia
    sarà sempre federalista, i conati unitari sempre sterili e di
    breve durata. Firenze votava la fusione colla Repubblica romana nel
    '48. Gran parole; sarà lo stesso col Buoncompagni.
    
    Ma tocca agli eventi di ragionare oramai, e al dittatore che salpa
    da Genova...
    
    Tienti d'acconto caro amico; la vita che fai mi dispiace molto per
    molte ragioni; ma il poeta segue il suo genio.
    
    Cernuschi a Montanelli, Parigi, 29 giugno 1861 (ibid.).
    
    Pubblico (senza venderla) anche un'edizione francese [della nota
    risposta all'accusa del Cavour]. Sotto l'usbergo del sentirmi puro,
    sono tranquillo. Non pertanto mi sarà oltremodo grato di
    sapere la tua opinione. Leggo la «Nuova Europa»; parmi
    che non sarebbe impossibile inserirvi la mia risposta, che infine
    è la parola d'un uomo che fu oltraggiato dinanzi un'assemblea
    eletta da tutta Italia. Mi rimetto al tuo senno, alla tua amicizia.
    
    ... Ti abbraccio, come a Milano, quando c'incontrammo la prima volta
    nel marzo '48...
    
    Cernuschi a Montanelli, Parigi, 7 luglio 1861 (ibid.).
    
    Rivoluzionari avanzati, e reazionari mi fanno complimenti [per la
    risposta all'accusa di Cavour]. I Piemontesi no, ben inteso. Hoc
    erat in votis. Gli editori mi chiedono a gara una ristampa. Esito...
    Comunque, né sincerità né convinzione mi
    mancano. Ma sono certo che senza fisionomia federale non si
    farà nulla di buono. L'unità è parola adottata,
    è vero, dai piú caldi, ma è una maschera sul
    volto della dea: l'Italia...
    
    III.
La Destra storica
    
    L'opera della Destra
    
    Quando la Destra, nel 1861, cominciò la sua opera di governo,
    l'Italia era un paese povero, malsicuro, ignorante, scarso di
    risorse, diviso e fragile nella sua neonata unità,
    indipendente solo di nome.
    
    E invero: unificati sette quasi tutti zoppicanti bilanci statali374,
    si trovò che il primo bilancio italiano presentava un
    disavanzo effettivo di oltre 500 milioni (le entrate erano inferiori
    allo stesso disavanzo!)
    
    L'esercito era composto degli elementi piú eterogenei:
    vincitori e vinti, regolari e irregolari, pochi contenti e molti
    scontenti; la marina militare era quasi tutta di legno, quasi tutta
    velica, ossia tutta da rifare.
    
    Gli analfabeti costituivano circa il 78% dell'intera popolazione, le
    scuole elementari eran poche e pochissimo frequentate.
    
    Pessime le comunicazioni in tutto il regno: basti dire che non
    c'erano che 1983 chilometri di strada ferrata375.
    
    Infuriava la reazione nel mezzogiorno, a fondo sociale, a etichetta
    politica; e se i Piemontesi consideravano l'Italia da Napoli in
    giú una colonia da redimere376, i meridionali trattavano
    quelli né piú né meno che come invasori
    stranieri.
    
    Si è accennato ai guai piú grossi o piú
    appariscenti. S'aggiunga che in Europa l'Italia, improvvisamente
    costituitasi piú grande del previsto, era guardata con
    generale diffidenza e sospetto.
    
    La Destra faticosamente individuò, fermamente affrontò
    i problemi essenziali che minacciavano la compagine dello Stato o ne
    ostacolavano lo sviluppo. Li risolse? Non so. Fatto sta,
    però, che nel 1876 poté consegnare alla Sinistra, che
    le succedette, un'Italia che con quella di quindici anni addietro
    non aveva, come si vedrà, piú niente a che fare.
    
    Sulla via della prosperità, perché col bilancio
    risanato377 (che si fosse finalmente raggiunto il pareggio
    annunciò Minghetti nel marzo del '76), con le entrate
    pressoché triplicate (da 480 milioni nel 1862 a 1123 nel
    1876), con una popolazione duramente avvezzata a pagar gravi
    imposte378.
    
    Forte e rispettabile, perché munita di un esercito
    severissimamente disciplinato (fucilazione del Barsanti, 1870), a
    base nazionale (sistema della leva generale imposto al paese con
    fermezza spietatamente necessaria), modernamente ordinato
    (ordinamenti Fanti, Ricotti); e di una marina quasi tutta nuova (a
    vapore e in ferro), con naviglio meno numeroso che nel '61, ma
    piú scelto e assai ingente come tonnellaggio (da 112 000
    tonnellate a 152 000).
    
    Meno ignorante, perché con una percentuale di analfabeti
    discesa dell'8% e con un numero di scuole elementari aumentato
    sensibilmente; ma quel che piú conta, messa in grado di
    rovesciare rapidamente l'ancora umiliante rapporto proporzionale tra
    letterati e illetterati mercé il principio sancito e
    applicato della obbligatorietà e gratuità
    dell'istruzione elementare.
    
    Incomparabilmente piú ricca di risorse: si pensi solo che si
    costruirono oltre 5400 km (erano 7804 nel 1876) di ferrovie,
    obbedendo piú che al criterio di farle servire a un traffico
    già avviato, a quello, eroico in tempi di economie fino
    all'osso, di sollecitare un traffico inesistente; si pensi che la
    marina mercantile fu portata al quarto posto in Europa, al quinto
    nel mondo (da 10 000 t a vapore nel 1862 a 1 milione nel 1877).
    
    Definitivamente assicurata nella sua unità, dopo la dolorosa,
    ma definitiva lotta contro il brigantaggio, causa d'infiniti e
    astiosi dibattiti nella stampa e in Parlamento, dopo l'ingrata, ma
    indispensabile contenzione e compressione del volontarismo, dopo una
    serie di valide prove militari, dopo la creazione di una efficiente
    burocrazia raccolta in tutto il paese, dopo la promulgazione di
    ottimi codici nuovi, in sostituzione di quelli fino ad allora
    vigenti, regionali e l'uno all'altro opposti.
    
    Nella considerazione europea, poi, l'Italia aveva compiuto passi da
    gigante: la piccola nazione audace, sbarazzina e inquietante del
    1861 era tenuta nel '76 per un organismo robusto, serio e
    resistente, suscettibile dei piú grandi progressi, elemento
    di pace nel mondo. Due anni dopo la caduta della Destra (1878)
    l'Italia sedeva da potenza sovrana e indipendente al Congresso di
    Berlino379; quattro anni piú tardi (1882) poteva negoziare
    quel trattato della Triplice Alleanza che le riconosceva, in
    effetto, il rango di grande potenza e gliene assicurava i
    corrispondenti vantaggi.
    
    Questa maggior considerazione, si badi bene, veniva tributata ad un
    paese il quale, ottenuto a fatica negli anni tra il 1861 e il 1866
    il suo riconoscimento ufficiale380, non aveva mai cessato pertanto
    di riaffermare e non solo teoricamente e ipoteticamente, i suoi
    diritti su Roma; finché, svincolandosi a poco a poco dal
    pesante vassallaggio verso la Francia, e pur riuscendo a evitare di
    rompere le buone relazioni con quello Stato, non aveva osato
    prendersela, Roma381, e imporre al Vaticano un modus vivendi (legge
    della quarta votazione il 2 maggio 1871: 185 favorevoli e 206
    contrari), la cui saggezza si è dimostrata appieno in presso
    che 60 anni di esercizio382. Ad un paese il quale, venuto appena
    all'onor del mondo, si era permesso di turbare la pace d'Europa,
    d'accordo con la Prussia, guerreggiando contro l'Austria e
    annettendosi l'assai sospirata Venezia.
    
    Presunte passività.
    
    Abbiam visto, nelle sue linee essenziali, l'attivo raggiunto dai
    governi della Destra. C'è un passivo?
    
    Altro che. Secondo taluni anzi esso soverchierebbe di gran lunga
    l'attivo. Unità? Sí, ma a spese delle distrutte
    autonomie locali383 e spargendo a piene mani germi di pericoloso
    malcontento. Pareggio? Sí, ma con danno gravissimo anzi
    irreparabile dell'economia nazionale e mercé una politica di
    grettezze, inintelligente e arbitraria384. (Nel 1870 l'illustre
    Cialdini scagliava in faccia al ministero le sue dimissioni
    dall'esercito, motivandole con le economie eccessive che
    all'esercito appunto si erano volute imporre: «monumento della
    nostra politica insufficienza»; economie fino all'osso che
    «tagliano nervi, arterie, muscoli al corpo cui sono applicate,
    e lo lasciano quindi senza moto e senza vita»). Politica
    estera debole e incerta385; interna, scorretta, e oscillante tra una
    sconfinata libertà e una ingiustificata reazione. Politica
    scolastica? Senza larghe vedute e con risultati inferiori
    all'universale attesa. Scarso impulso alle magnifiche
    possibilità del Nord, annientamento di quelle del Sud. Nessun
    grande principio nuovo da opporre a quello, nei primi tempi
    necessariamente nemico, millenario e augusto, proclamato dal
    Vaticano.
    
    I fatti noti, e quel che è diventata l'Italia, e alcune
    considerazioni che sarà opportuno svolgere in seguito
    dimostrano l'infondatezza sostanziale di tali riserve, le quali
    tutte si spiegano peraltro col desiderio paradossale, ma umano, dei
    contemporanei di veder la nuova Italia di fresco liberata dai ceppi
    della dominazione straniera e dello spezzettamento, balzare alla
    testa delle nazioni civili, e col rimpianto e quasi la vergogna dei
    posteri che ci volessero tanti anni per renderla pari a quelle, pari
    soltanto e non mai superiore. Mirabile in realtà è il
    ritmo di progresso che la Destra seppe imprimere in tutti i campi
    alla vita del paese; ed è proprio in quel ritmo ancor meglio
    che nel dettaglio delle opere compiute che va ravvisato il suo
    merito precipuo.
    
    Altri invece, pur riconoscendo le tremende difficoltà
    incontrate e superate dalla Destra, le rimproverò e
    rimprovera quel che si potrebbe dire, e che essa veramente in un
    certo senso si propose e attuò, imborghesimento della
    rivoluzione, soffocamento cioè di un processo ideale sotto
    motivi prosaici, prevalentemente economici: acquisto e non conquista
    di Roma e della Venezia, prudente e ingloriosa guerra del '66 e
    finalmente Aspromonte e Mentana, prove supposte di una deplorevole
    inadeguatezza di fronte al sognato coronamento romantico, eroico
    dell'epoca del Risorgimento386.
    
    Come se la dote essenziale degli uomini di Stato non fosse, per
    dirla con parola di moda, il tempismo: quel loro spontaneo e
    immediato adeguarsi, cioè, al mutare di talune profonde
    esigenze della vita del paese, contro le quali è follia
    lottare. Come se, in concreto, la Destra non si fosse trovata, nel
    '61, di fronte a una Europa arcigna, pronta a disfar l'Italia al
    primo suo barcollamento o segno di immaturità. Come se non
    fosse stato piú che necessario, urgente sottrarre gli
    Italiani a quell'atmosfera di irrealtà, di fantasia, di
    improvvisazione che produce in un certo istante i miracoli (o quelli
    che tali appaiono), ma è, nel tempo, creatrice prima di
    irrequietezza e di delusioni, e dunque di improduttività.
    Come se lo spettacolo di un paese che, non appena costituitosi a
    nazione, tra le piú straordinarie vicende, si impone e segue
    un regime di vita severo e produttivo, che della nazione gli dia,
    oltre che il nome, la fisionomia e l'interiore aspetto, non fosse il
    piú straordinario ed «eroico» che possa vedersi.
    
    Quanto poi alla guerra del '66 e ad Aspromonte e Mentana, le facili
    critiche che a quegli episodi si muovono rivelano un doppio errore
    di valutazione assoluto e relativo (relativo appunto alle
    necessità del tempo).
    
    La guerra del 1866.
    
    Fummo soverchiati, è vero, a Custoza e non riuscimmo a fare
    di Lissa la prima vittoria che costituisse come il solenne atto di
    nascita dell'Italia grande potenza. Ma son, questi, accidenti se pur
    dolorosi, frequenti nella vita delle nazioni attive e operose; e il
    criterio per giudicare della loro gravità va ricercato, ci
    sembra – quando, naturalmente, non si tratti di sciagure rovinose
    per l'esistenza stessa del paese – non tanto nella entità
    delle perdite subíte in scontri poco fortunati, ma nelle
    conseguenze profonde, positive o negative, elevanti o deprimenti,
    suscitatrici d'energia, o viceversa, che recano nella vita della
    nazione. Se cosí è, né Custoza né Lissa
    vanno deprecate: disavventure di una guerra che, dichiarata a soli
    sei anni di distanza dalla costituzione del regno – ed erano appena
    cessati i violenti e minacciosi conati antiunitari –
    rappresentò una vittoria gigantesca già di per
    sé, per il solo fatto che un governo avesse avuto l'audacia
    di volerla e il paese di farla. E poi: una guerra nostra contro
    l'Austria, e cioè contro una grande potenza per davvero,
    d'antica e ancor salda consistenza unitaria, militarmente forte,
    politicamente ricca di prestigio in Europa387.
    
    Nessun precedente. Non il '48, che aveva colta l'Austria di sorpresa
    e attaccata dal di fuori quando già minata all'interno:
    rivolta, e poi guerra e guerriglia, gloriosissime, sí, ma non
    guerra vera. Non il '49, temeraria partita d'onore d'un piccolo
    Stato a tradizione militare, che non poteva dopo tutto finire troppo
    male, appunto per la piccolezza del Piemonte, certo che l'Europa non
    avrebbe mai tollerato una sua troppo onerosa sconfitta388. Non il
    '59, senza dubbio pagina splendida per noi, ma troppo francese e
    cioè troppo poco rischiosa per noi. Non il '60, che si
    combatté di sorpresa e con mezzi eccezionali contro uno Stato
    già morto nella coscienza politica d'Europa, o almeno
    mortalmente isolato.
    
    1866: per la prima volta dunque l'Italia, allietata di
    sproporzionate speranze, e cioè già minorata nella sua
    capacità di resistenza, promuove una guerra pericolosa della
    quale assume virilmente tutti i rischi; e pur sa che nel caso di
    rovescio nessuno in Europa le farà scudo di sé389.
    Diplomaticamente e militarmente, l'Italia, finalmente maggiorenne,
    agisce di sua esclusiva iniziativa.
    
    C'era, sí, la Prussia; ma l'alleanza (da quanto tempo non
    s'era perduto lo stampo?) venne negoziata da pari a pari, do ut des
    (e se mai con prevalente vantaggio della Prussia, che otteneva la
    garanzia del nostro intervento nel caso che venisse attaccata e non
    ci accordava, né noi insistemmo troppo per ottenere, la
    reciprocità); una volta negoziata, mantenuta da noi con
    scrupolo che qualcuno giudicò anche eccessivo (nell'aprile
    1866, con nobile temerarietà, La Marmora rifiutò senza
    discuterle le lusinghe dell'Austria, che avrebbe acconsentito a
    cederci senza condizioni la Venezia purché avessimo
    abbandonato l'alleanza prussiana390; e ce ne dette atto solenne il
    Bismarck, 20 dicembre 1866, alla Camera prussiana).
    
    La guerra non volse bene per noi. Che perciò? Fu guerra
    onorevolissima e le nostre cosiddette sconfitte restarono inulte
    solo perché la guerra terminò precipitosamente negli
    altri settori. Ma la vittoria grande, vera e profonda la riportammo
    pure, e pochi se ne accorsero (se ne accorse l'Austria, che si
    piegò a riconoscere il regno solo dopo la guerra)391. E fu
    che il paese, cosí fragile, cosí recente, cosí
    diviso pur ieri, sopportò bene la prova. Ne uscí
    cioè piú robusto, piú maturo, piú unito,
    come provò la stolta minacciosa rivolta di Palermo,
    condannata dalla coscienza unanime e schiacciata inesorabilmente tra
    la generale soddisfazione, quasi il paese volesse ammonire i
    rivoltosi che i problemi interni italiani, per gravi che fossero,
    s'avevano ormai a risolvere pacificamente tra noi, l'Italia
    superandoli tutti, non essi l'Italia e la sua indissolubile
    unità.
    
    Gli italiani non valutarono allora l'enorme importanza della guerra,
    anzi si diffuse per tutti un senso di disagio e quasi di vergogna,
    come se portassimo via la Venezia, che da quella guerra ci venne,
    alla Prussia orgogliosa di vittoria392. Superba crisi, dimostrativa
    nel piú alto grado di quanta strada il paese in pochi anni
    avesse percorsa, di come la coscienza nazionale s'andasse formando e
    diffondendo il senso geloso dell'onore nazionale – e cioè di
    quanto quella guerra fosse stata, meglio che opportuna,
    indispensabile.
    
    La Destra, dichiarandola, aveva dimostrato di riporre nel paese una
    fiducia che a molti, sul momento e anche piú tardi, era parsa
    intinta di eccessivo ottimismo393. Ma il paese aveva risposto
    magnificamente e non tanto o non solo con la condotta tenuta durante
    la guerra, ma meglio e soprattutto con quello scoramento virile,
    orgoglioso, che lo prese a guerra finita. Un paese il quale non si
    fermava infatti nella considerazione, pur consolante, che a Lissa –
    dopo secoli di storia municipale o regionale – la marina italiana,
    timida certo nel disegnare l'attacco, si fosse rivelata saldissima,
    eroica anzi nel fronteggiarlo; e non si confortava nel pensiero
    della difficoltà dell'impresa superata, ma arrossiva e
    imprecava, e di scontri incerti faceva addirittura sconfitte sue; –
    questo paese rivelava in sé qualità eccezionali, nella
    sua compagine una coesione insospettata, e giustificava le
    piú grandi speranze per l'avvenire.
    
    E fu bello che gli uomini della Destra non tentassero loro di
    risollevare artificialmente l'animo del paese, difendendo la guerra,
    magnificandone i risultati, strombazzandone le sicure benefiche
    conseguenze future. Fu bello che anch'essi, i quali pur vedevano la
    compiutezza delle cose, si fermassero severi a giudicare i dettagli
    e del giudizio fornissero al paese tutti gli elementi. Sapevano che
    solo il tempo avrebbe rivalutata l'opera loro, e saggiamente lo
    preferivano.
    
    Scriveva l'inviato inglese a Roma, Odo Russel, allo zio John, da
    Ariccia, 27 agosto 1866:
    
    La Venezia è stata ceduta, l'Italia è compiuta, gran
    fatto nella storia! Tutte le questioni estere sono esaurite per
    l'Italia fin da questo momento. Essa può permettersi di
    stabilire rapporti amichevoli con tutte le nazioni e di volgere la
    sua attenzione soltanto alle questioni interne... Lasciate che
    dimostri la sua buona volontà procedendo la prima al disarmo,
    che provveda alla pace, all'industria e al commercio, e tutto il
    resto verrà da sé.
    
    Aspromonte e Mentana.
    
    Non dunque la guerra del '66 al passivo. Aspromonte?394. E Mentana?
    Se la prima fu l'esame di stato della nuova Italia, Aspromonte fu
    quello di maturità – quello di maturità soprattutto
    per gli uomini di governo (e analogamente Mentana). Fin da
    principio, per fortuna, tali uomini ebbero, né mai piú
    smarrirono, quella sensazione cui già si è accennato,
    che l'Europa avrebbe rispettato l'Italia solo se questa fosse
    riuscita a far dimenticare i suoi torbidi natali e si fosse imposta
    una politica normale, prosaica395, stroncando inesorabilmente
    qualunque tentativo di garibaldinismo in azione.
    
    Si accusa generalmente di doppiezza e peggio chi non seppe prevenire
    Aspromonte o Mentana; si osserva che se il governo non intendeva
    appoggiare questi tentativi, avrebbe dovuto soffocarli al loro primo
    disegnarsi. E non s'intende che, se in qualche dettaglio la politica
    italiana del 1862 e del 1867 non è da approvarsi, come quella
    che – per dirla con espressione volgare ma efficace – troppo
    mostrò la corda, nell'insieme, nell'ordito, fu savia e
    opportunissima. Bisognava infatti far capire all'Europa che c'era in
    Italia un governo abbastanza forte per contenere tutti gli
    estremismi, ma insieme dare la sensazione della popolarità
    grande goduta dagli estremismi (e quasi d'un loro continuo e
    minaccioso e male evitabile sovrapporsi al governo); e quindi della
    necessità e della urgenza che si lasciassero risolvere con
    mezzi legali i problemi apparentemente impostati e infiammati dalla
    piazza396.
    
    Apparentemente. Poiché nessuno nutriva in Italia piú
    vivo il desiderio e piú acuto sentiva il bisogno di
    completare l'unità italiana che gli uomini responsabili della
    Destra. E forse il loro problema massimo fu appunto quello di
    suscitare con ogni mezzo nel paese quel desiderio e quel bisogno, e
    insieme di far apparire che fosse il paese a suscitarli, anzi a
    imporli al governo397. (Quanto e quanto inutilmente faticò
    Rattazzi nel '62 per far scoppiare a Roma una rivolta
    «spontanea»!398). Giuoco complicato e pericoloso che
    riuscí quasi sempre a meraviglia399.
    
    E per ciò vanno rivalutati in pieno gli uomini meno popolari
    della Destra, i quali debbono la loro fama non invidiata all'essere
    rimasti scoperti, e a volte anche malamente scoperti400,
    nell'esecuzione di questo giuoco, onde ne vennero loro facili
    contumelie e facili recriminazioni, non dei soli contemporanei.
    (Novembre 1862: alla Camera, discutendosi e palleggiandosi le
    responsabilità di Aspromonte, un deputato della Sinistra
    chiede addirittura che il gabinetto Rattazzi venga messo in stato
    d'accusa!)401.
    
    Ma, si dirà, fu il loro giuoco cosciente? O non piuttosto,
    fidenti nella fortuna, si lasciarono quegli uomini della Destra
    governare da una serie di elementi contrastanti e inconciliabili,
    quali ad esempio gli umori di una piccola minoranza rumorosa e
    faziosa e la granitica volontà determinata402 delle grandi
    potenze, abbandonandosi ora in braccio a quelli passivamente e ora,
    per obbedire a questa, violentandoli e additandoli alla generale
    esecrazione?
    
    Se ad alcuno saltasse in mente di dire a un uomo il quale, su
    fragilissima imbarcazione, abbia saputo a gran forza di remi
    reggersi su un mare tempestoso, evitando sapientemente gli scogli
    onde è cosparso, che la sola fortuna lo ha assistito e che
    egli, tra i marosi, non sapeva quel che si facesse, noi lo terremmo,
    giustamente, per uno che non conosce il mare. In verità non
    conosce la politica chi può sostenere che gli uomini della
    Destra, pienamente consapevoli dei dati contraddittori della loro
    politica, non governarono, ma si lasciarono governare.
    
    Si osservi che sarebbe bastato un passo falso a compromettere il
    tutto e a svelare troppo sfacciatamente la commedia che s'andava
    rappresentando in faccia al mondo, d'un governo che di nascosto
    spinge e poi grida d'esser trascinato403; sarebbe bastato un nulla a
    rovesciare l'equilibrio fittizio ma sufficiente che per dieci anni o
    quasi si riuscí a mantenere tra le forze apparentemente
    armoniche e quelle apparentemente disarmoniche. Per dieci anni; ora,
    se è possibile che in un dato momento un uomo di Stato,
    incerto sul da farsi, venga assistito da un singolare colpo di
    fortuna, sarebbe stolto attribuire al caso una politica decennale,
    ferma e immutabile nelle sue volute apparenti incertezze. (Quanto a
    me io non credo neppure al colpo di fortuna. Si dice: il tale
    è fortunato perché, in dubbio tra vari partiti, ha
    scelto, senza troppa riflessione e senza conoscerli ben tutti,
    proprio quello che si è poi rivelato il migliore. Ma l'uomo
    non rinasce e non si riforma innanzi a ciascun problema che turba la
    sua coscienza. Tutta la sua esperienza anteriore, e l'istinto, che
    non è in buona parte che un derivato incosciente di tale
    esperienza, lo assistono inavvertitamente quando egli agisce).
    
    Ma torniamo ad Aspromonte e a Mentana e diciamo pure, per quanto
    strana possa suonare tale affermazione, e quasi irriverente, che
    costituirono anch'esse un successo della Destra404, quanto doloroso
    e sofferto, non è chi non sappia. Si doveva fermare Garibaldi
    sulla via di Roma, e a volte i garibaldini e perfino il loro duce
    finsero di non intenderne le ragioni, ma bisognava pure che
    Garibaldi – ossia l'incarnazione della esasperata e indocile
    volontà popolare, quale in parte fu, e in parte assai
    maggiore si volle far credere che fosse – sulla via di Roma si
    avviasse. E ci si avviò due volte, e la prima fu arrestato
    dagli schioppi italiani, l'altra dai piú efficaci e moderni
    francesi. Tutte e due le volte, pur nell'ansia e nel lutto, l'Italia
    sentí che si era avvicinata in effetto all'agognata meta e
    che ormai, con quel sangue versato, se l'era meritata anche di
    piú, Roma.
    
    Russia e Prussia riconobbero il regno solo dopo Sarnico, che fu il
    prologo di Aspromonte405. Palmerston scriveva a Russell, presidente
    del Consiglio dei ministri d'Inghilterra – il quale opinava, 6
    ottobre 1862, che nessun ministro italiano avrebbe potuto condursi
    meglio di Rattazzi (lettera a Hudson, 6 ottobre) – che gli pareva
    che questo «Garibaldi affair» offrisse una ottima
    opportunità per chiedere con qualche energia, a Napoleone se
    non gli pareva giunto il momento di sgombrare Roma. E il governo
    italiano, a carico del quale i Nicotera e compagni sbraitavano
    perché, dopo aver dato prove non dubbie di incoraggiamento a
    Garibaldi, lo aveva trattato poi d'improvviso come un nemico,
    poteva, il 10 ottobre, valersi di Aspromonte per scrivere alle
    legazioni all'estero che se gli era riuscito di dominare il
    movimento insurrezionale, bisognava pur riconoscere che la parola
    d'ordine dei volontari era stata questa volta «l'espressione
    di un bisogno piú imperioso che mai». Quello stesso
    governo che prodigava segretamente armi e denari per suscitare
    ovunque la passione di Roma, poteva, ancora, valersi di Aspromonte
    per domandare in tono di seria preoccupazione se le potenze
    avrebbero mai compreso «quanto sia irresistibile il movimento
    che trascina la nazione verso Roma»406.
    
    Risvegliare le masse, farne udire all'estero la poderosa voce – e
    insieme tener con mano ferma il timone e non farselo strappare di
    mano: ecco il punto difficile che la Destra seppe brillantemente
    superare. L'Italia voleva esser grande e pari in civiltà ai
    piú potenti paesi d'Europa: non spedizioni irregolari,
    dunque, e confusione di poteri e salti nel buio e dittature opposte
    alla solenne indiscussa e suprema autorità e volontà
    regia – tutte cose che s'eran viste nel '60, ma allora l'Italia non
    c'era, né c'era un esercito italiano né un re
    italiano; e del resto s'erano anche allora troncate e liquidate in
    fretta e furia, forse con ingratitudine, certo con somma
    virtú politica e scienza dei frutti amari che competono a un
    paese il quale vuole imporsi nel mondo civile e nel tempo stesso
    ignora o fa mostra d'ignorare che la compostezza, la dignità,
    l'ordine, il rispetto delle proprie leggi sono il presupposto della
    civiltà e la condizione dell'altrui rispetto.
    
    Sí, noi vogliamo andare a Roma – disse Ricasoli in
    Parlamento, il 10 luglio 1861 – ... Ma come dobbiamo andarci?... Non
    con moti insurrezionali, intempestivi, temerari, folli, che possano
    mettere a rischio gli acquisti fatti e compromettere l'opera
    nazionale...
    
Politica per tutti.
    
    Quando Ricasoli (giugno 1861) fu costretto ad assumere la tremenda
    eredità di Cavour, la popolazione italiana poteva, per
    riguardo al suo atteggiamento di fronte al regime, dividersi presso
    a poco in quattro categorie: una, non cospicua ma numerosissima,
    costituita da quanti eran vogliosi di seguitare sulla via rischiosa
    e fruttuosa del '59-60407; l'altra, la media, da gente cui pareva
    miracolo, e fors'anche mal sostenibile, quel che era diventata
    l'Italia e non volevano che pace e lavoro408; la terza, meno esigua
    in verità della prima, se pur non cosí rumorosa, e
    anzi coll'andar del tempo sempre piú tacita e isolata, che
    raccoglieva tutti gli scontenti non di questo o quel provvedimento,
    ma del regime, i lodatori del tempo che fu. La quarta, finalmente,
    la massima, degli indifferenti ed estranei, ahimè vastissima,
    come quella che raccoglieva il grosso della popolazione, ignorante,
    sfiduciato, e misero409.
    
    In quindici anni, con questa gente410, i governi della Destra fecero
    quel che sappiamo, conquistarono cioè all'Italia una
    situazione interna e internazionale incomparabilmente piú
    forte che all'indomani della costituzione del regno. E non è
    da dirsi che la prima categoria di cittadini, di quelli solleciti
    d'un rapido progresso politico del paese, si fosse allargata – se
    mai, tutt'altro. Né furon questi, nel complesso, accarezzati
    dai governi, i quali d'altronde, si mostrarono inesorabili con i
    reazionari; spaventarono piú di una volta e non contentarono
    quasi mai, nel dettaglio delle cose, la grande categoria intermedia;
    né si preoccuparono di legare al loro carro gli indifferenti.
    Con ciò, e nonostante ciò, perseguirono una loro
    chiara politica, che era poi politica per tutti411 (e non conta se
    pochissimi furon quelli che, sul momento, la riconobbero come loro o
    adeguata ai loro interessi). Per gli estremisti, che videro
    compiersi il sogno unitario; per i reazionari che, una volta
    rinunciato alle loro vane speranze, si sentirono accolti e confusi
    con gli altri tutti, e dovettero riconoscere che l'Italia non era il
    piccolo Stato vendicativo e implacabile che dapprima avevano
    temuto412; per la categoria intermedia, che senza quasi scosse o
    giuochi d'azzardo, si trovò lieta di una maggiore
    prosperità e garantita nelle sue esigenze da condizioni di
    stabilità e solidità infinitamente migliori (si
    può dire che la borghesia manifatturiera, commerciante,
    produttiva, di tipo moderno, si formò in Italia proprio negli
    anni della Destra – certo, non esisteva nel 1861 ed operava
    già largamente intorno al 1880); per gli indifferenti,
    finalmente, che iniziarono, e furono anche dall'alto sospinti a
    iniziare quel processo di differenziamento, di autoripartizione in
    categorie d'interessi, coordinate e partecipanti agli interessi
    collettivi, che dura ancor oggi.
    Governo costituzionale.
    
    Politica tragica, in un certo senso; cosí assoluta era
    l'inadeguatezza dei mezzi ai compiti prefissi, cosí accanita
    la resistenza opposta da taluni ceti sociali (brigantaggio, dal 1860
    al 1865 circa; renitenza alla leva, con migliaia e migliaia di
    disertori negli stessi anni; rivolta contro la tassa sul macinato,
    1868-69), cosí supina e gelida l'indifferenza della massa
    ogniqualvolta si trattasse di realizzare cosa che richiedesse non
    tanto l'unanime consenso, ma almeno un po' di buona volontà
    da parte di tutti; cosí implacabile, assai spesso,
    l'opposizione delle minoranze di Sinistra413. Questa politica e i
    suoi risultati e i suoi modi e limiti non si possono rammemorare
    oggi senza provare, per non dire altro, un senso di profonda
    stupefazione. Perché, chi guardi l'opera della Destra
    dall'alto, nel suo insieme, non può non cogliere quel suo
    granitico aspetto di cosa rettilinea, coerente, organica, quel suo
    carattere di amministrazione severa nella quale non è
    consentito lo spreco e i fini sono raggiunti con i minimi mezzi, che
    la resero cosí adeguata al tempo e alle necessità
    sostanziali del paese e degli uomini. Quasi ci sembra, quell'opera,
    oggi frutto di un pensamento originale, indipendente, individuale e
    di una azione personale libera e ininterrotta. Quasi si direbbe che
    il realizzatore di tale politica, assorto nella sua non lieve
    fatica, non abbia avuto a soffrire intralci di sorta, che al suo
    genio operante il paese si sia assoggettato o lasciato assoggettare
    come il corpo addormentato sul tavolo d'operazione, ai ferri del
    chirurgo.
    
    E invece! In quindici anni, otto mutamenti di ministero e non so
    quanti anche radicali rimpasti414; rigidissima osservanza delle
    regole sancite dalla costituzione415. (Nessuno dimenticava le
    celebri parole di Cavour morente: «Non mezzi eccezionali, non
    stato d'assedio; cogli stati d'assedio tutti sanno governare
    bene»; e se in qualche rara occasione fu giuocoforza
    sospendere in qualche luogo e temporaneamente le franchigie
    costituzionali, non si derogò mai alla savia massima del
    Rattazzi, giustificarsi tali sospensioni solo quando servissero
    «per salvare le franchigie stesse, non per
    distruggerle»). Un Parlamento attivissimo e sensibilissimo,
    punto disposto a inchinarsi di fronte al potere esecutivo416; una
    classe politica estremamente nervosa e inquieta, una libertà
    di parola e di stampa quale noi oggi non riusciamo neanche a
    concepire. Partiti e gruppi di opposizione, come si è detto,
    tenaci, elastici, e combattivi, generalmente rispettati e, quando
    toccati nel fondamento della loro libertà, indiavolati nella
    difesa e nell'attacco, onde la violazione temporanea delle
    libertà statutarie da parte del governo serví sempre,
    come deve accadere in un paese sano, a distogliere il potere
    esecutivo dal ripeterla, a rinvigorire i gruppi perseguitati417
    (tipico il celeberrimo episodio di Villa Ruffi). Diversità
    profonda di cultura, di educazione, di ambiente, opposizione netta
    di interessi tra gli uomini succedutisi al potere418. Uno scontro
    perpetuo di tendenze, anche tra gli aderenti ai medesimi gruppi,
    quale soltanto può verificarsi in un paese che non ha ancora
    suturato i distacchi, le opposizioni e le gelosie (d'altronde non
    tutti facilmente suturabili neppure in decenni di vita unitaria) tra
    i sette Stati che poco innanzi lo dividevano419; donde la
    necessità, poi diventata assurdamente tradizionale in Italia,
    di equilibrare regionalmente la composizione dei Ministeri, causa
    prima dell'ascesa degli incompetenti al potere420.
    
    Difficoltà grosse, contrasti gravi per la Destra421; e non
    sarà male addurne qualche esempio tipico; comunque le une e
    gli altri scaturivano direttamente e necessariamente dalla
    concezione stessa che gli uomini della Destra si erano fatti,
    inculcavano agli altri e soprattutto rispettavano in pratica, della
    vita politica in un paese civile.
    
    Le elezioni422 non di rado cagionarono le piú strabilianti
    sorprese agli stessi ministri dell'Interno, proverbiali, in massima,
    per la neutralità assoluta che mantenevano durante il loro
    svolgimento. Lanza, piemontese corretto e scrupoloso, si
    sentí perfino in diritto, nel 1865, all'indomani di una
    campagna elettorale che era stata una vera ecatombe per gli amici
    del governo, di affrontare il La Marmora, allora presidente del
    Consiglio, rimproverandogli di essere stato un po' troppo con le
    mani alla cintola, dando cosí prova di una «insipienza
    di cui non si trova esempio negli annali di nessun governo
    costituzionale»423. Dopo il '70, pare, i ministri dell'Interno
    ruppero qualche volta la bellissima tradizione di codesta
    «insipienza». Ma quanto furiosamente e clamorosamente
    non vennero denunciati! Si legga in proposito lo Zini.
    
    L'osservanza delle regole costituzionali era cosí rigida
    generalmente (primissimi nell'esigerla e nel richiamare ad essa
    continuamente e quasi pedantescamente il governo, quelli di
    Sinistra; e non di rado era comico veder quelli stessi che nel paese
    si credevano lecito di violare allegramente la costituzione,
    diventarne i piú severi glossatori in Parlamento. Bene, del
    resto, perché in tal modo a poco a poco perdevano l'abito
    dell'opposizione di principio e si preparavano alla diretta
    amministrazione del paese)424, era dunque cosí rigida tale
    osservanza che, 1° dicembre 1862, si trovò enorme e
    contro ogni consuetudine parlamentare, e anzi offesa nuova e
    gravissima al Parlamento, che il Rattazzi, in difficoltà per
    i postumi di Aspromonte, liquidasse il suo ministero senza aspettare
    il voto prammatico di condanna della Camera.
    
    Ricasoli, tra gli uomini della Destra, fu forse quello che
    piú sentí la necessità di addivenire a un
    accordo pacifico con il Vaticano, che tranquillasse la coscienza
    degli italiani cattolici e assicurasse il libero sviluppo
    cosí agli interessi spirituali e materiali della nazione
    italiana, come a quelli della Santa Sede. Ai suoi progetti di
    sistemazione di tali questioni teneva piú che a ogni altra
    cosa. Sui primi del 1867, essendo egli al potere, l'opposizione di
    Sinistra suscitò in tutto il paese rumorosissimi comizi
    popolari contro un progetto di legge da lui presentato sulla
    libertà della Chiesa e la liquidazione dell'asse
    ecclesiastico. Ricasoli, l'uomo del «reprimere, non
    prevenire», l'uomo che aveva bollato (febbraio 1862) il
    sistema preventivo come «proprio specialmente del governo
    dispotico», dimenticò per un istante i savi
    principî e si permise di ordinare ai prefetti che vietassero
    tali comizi. Non l'avesse mai fatto! La Sinistra gli sollevò
    un tale putiferio nella Camera, seppe cosí bene rinfrescargli
    la memoria sui canoni da lui medesimo enunciati intorno alla
    politica interna dei governi costituzionali, che – definite
    «teorie russe» le sue deboli giustificazioni – lo
    costrinse alle dimissioni.
    
    La libertà di parola non si contestava certo a nessuno; quel
    che non fu detto in quegli anni contro i governi della Destra!
    (allora non vigevano le disposizioni sulle prerogative del primo
    ministro ecc.). «Voi siete figli della paura», osava
    dire Crispi, novembre 1864, ai ministri e ai ministeriali,
    sostenitori della convenzione di settembre. Il governo italiano
    è un «mucchio di canaglie e di ladri», andava
    proclamando Menotti Garibaldi425 nel 1870, in seguito alla
    repressione dei moti repubblicani, scoppiati in vari punti d'Italia.
    Che non si scagliò in faccia a Sella426, il cireneo della
    finanza italiana, per il suo «feroce» tassare, tassare,
    tassare?427. Rimando il lettore che voglia farsene un'idea ai
    resoconti parlamentari.
    
    Quanto alla libertà di stampa428 di che allora si godeva,
    tralasciamo i pamphlets, gli opuscoli, i volumi che a centinaia si
    lasciarono stampare, svelanti e deprecanti le «vergogne»
    della Destra (assai istruttivo il leggerseli, ora che sono spente le
    passioni che li hanno ispirati: cosí tenui e giustificabili
    ci appaiono quelle vergogne o cosi prontamente rimediate...);
    tralasciamo i giornali di sinistra, non perché fossero
    temperanti, ma perché si potrebbe pensare che ad essi molto
    si perdonasse per riguardo alla loro disapprovata, sí, ma pur
    sempre patriottica attività. Si scorrano invece le collezioni
    dei giornali clericali. Quelli eran giornali che apertamente
    invitavano alla sedizione contro i poteri dello Stato, che
    notoriamente si tenevano in contatto, erano anzi agli ordini di
    potenze o potentati, o ex potentati stranieri congiuranti ai danni
    d'Italia. Sequestri? Ben di rado: e tanto meno soppressioni. E
    allora? Ottusità del governo? Può darsi. Fatto sta che
    la stampa clericale anti-italiana tanto sbraitò che
    finalmente, un bel giorno, pensò di mutar registro, e
    cessando di fare il processo all'Italia, si mise a far quello ai
    problemi italiani: ossia iniziò il suo collaborazionismo, che
    è poi quello piú utile e qualche volta anche
    piú gradito ai governi, il collaborazionismo della
    opposizione.
    
    Ma un governo che si lascia anche vilipendere non è un
    governo spregevole? Gli uomini della Destra evidentemente non
    pensavano cosí. Forse pensavano che non serve a nulla ed anzi
    riesce quasi sempre dannoso il porre e mantenere il governo della
    cosa pubblica troppo au dessus de la mêlée, il farne un
    alcunché di sacro, di intangibile, di infallibile e
    perciò lontano dalla vita del paese. Volevano serbar sempre
    immediata la sensibilità delle passioni, degli umori, dei
    bisogni dei governati, per soddisfarli se del caso, per correggerli
    se necessario, per non straniarsene mai. Meglio il vilipendio, se
    prova nell'offensore un caldo interesse per la cosa pubblica, che il
    reverenziale silenzio, prova d'indifferenza o sicuro mezzo per
    determinarla al piú presto. Se poi ci solleviamo dal
    dettaglio e guardiamo all'insieme, troviamo che non ci fu mai
    governo cosí universalmente rispettato, pur tra le
    appassionate ingiurie momentanee, come quello della Destra.
    Collaudi.
    
    Difficoltà e contrasti non gli furon dunque risparmiati, come
    s'è visto e meglio si vedrà nel seguito. Ma la
    solidità e insieme l'elasticità dell'opera sua furon
    determinate, come suole, appunto dalle difficoltà, appunto
    dai contrasti. Il suo programma, dapprima maturato nel pensiero
    individuale, ne venne chiarito, inciso, potenziato. Le battaglie che
    ogni proposta degli uomini di governo suscitò tutt'intorno e
    le veementi discussioni e il confronto a cui venne piegata con le
    esigenze dei piú vari interessi le assicurarono naturalmente,
    se concretata poi nella realtà pratica, oltre al consenso
    ponderato e vorrei dire alla corresponsabilità di quanti alla
    discussione avevano partecipato, una poliedricità, una
    capacità intima di resistenza, una adeguatezza alle dissimili
    necessità del paese, nelle sue varie regioni, che forse in
    Italia ha pochi riscontri.
    
    La Destra ottenne tutto ciò seguendo un sistema analogo a
    quello generalmente seguito nelle buone officine, le quali, innanzi
    di lanciare i loro prodotti sul mercato, li sottopongono a una
    prova, che sia la piú severa di quante non possano venir loro
    imposte nel normale funzionamento. Prodotti meccanici, o d'altra
    sorta, in tal modo verificati si impongono e resistono. Analogamente
    le provvidenze dei governi. Mentre è giusto diffidare e
    presagire gravi e forse mortali difficoltà future a quelle
    che, o per la indifferenza degli elementi politici chiamati alla
    verifica, o in seguito alla soffocazione, tra di essi, delle voci
    discordi, concepite pur con travaglio e buon volere grandissimi, non
    conoscono al loro primo affacciarsi alla realtà concreta se
    non facili vie e facili consensi.
    Opera educativa.
    
    Se meravigliosa appare a noi la efficienza e continuità che
    la macchina costituzionale mantenne, attraverso le circostanze
    piú gravi forse che il nostro paese abbia mai attraversato
    negli ultimi sessanta anni, non certo parve tale agli uomini del
    tempo; tra i quali era universalmente diffusa la pacifica e
    pacificante sensazione che la costituzione e le sue garanzie fossero
    non un abito da festa da fare indossare al paese in tempi quieti e
    normali salvo poi a buttargli addosso bruscamente nei periodi di
    crisi la camicia di forza dei provvedimenti eccezionali429 e,
    peggio, della inconfessata ma effettiva violazione delle norme
    statutarie; sibbene uno strumento utile e potentemente educativo e
    normalizzatore solo se usato ininterrottamente, in tutti i casi,
    gravi o non gravi, comodi o non comodi. Strumento sapientemente
    concepito, che corregge automaticamente gli abusi, frena le corse
    pazze, diffonde in tutti calma e fiducia. Strumento che non permette
    né sorprese né imposizioni e a tutte le
    attività lecite, a tutti i programmi ragionevoli, a tutti gli
    interessi confessabili assicura sviluppo e tutela, tutti
    assoggettando a un lento e saggissimo ritmo, ottimo per mettere in
    rilievo le cose vitali e meditate, ottimo altresí per
    lasciare inaridite dietro di sé le precipitose e caduche.
    
    Sí che la Destra, attaccandosi disperatamente alla
    costituzione nei momenti piú gravi, non solo vi trovò,
    come accade, salvezza, ma insieme compí una profonda
    indimenticabile opera di educazione del paese tutto. Gettando, come
    essa non mai cessò di fare, luce piena e meridiana sulle
    questioni e gli episodi piú complessi e delicati, e su di
    essi e le loro cause e soluzioni impostando esaurienti dibattiti,
    non solo acquistò sempre indicazioni e argomenti utili alla
    determinazione della migliore politica da seguirsi, ma anche forza
    indiscutibile e impareggiabile nell'eseguire, ma anche e soprattutto
    la generale fiducia. (Prova mirabile gl'incredibili sacrifici
    finanziari che sostenne, negli anni tra il '60 e l'80, il popolo
    italiano; lamenti generali contro gl'implacabili tassatori, è
    vero, ma la pubblicità della politica governativa, la
    sicurezza che ogni nuovo introito non sarebbe stato usato che per lo
    scopo per il quale era stato richiesto, l'esistenza di numerosi
    controlli all'opera ministeriale430, congiunti al lento ma sicuro
    miglioramento del bilancio, finivano col placar tutti, nella
    certezza che ogni loro sacrificio si traduceva in vantaggio
    immediato per il paese).
    
    In tal modo tutti quelli che occupavano posti di
    responsabilità e tutti quelli che modestamente faticavano la
    vita si sentirono piú legati a un'unica impresa nella quale
    non dovesse essere lecito ai pochi di compromettere impunemente la
    pace e il lavoro dei molti, e ai molti incombesse il dovere di non
    isolare i pochi nella loro aspra fatica, ma di dar loro la ragionata
    convinta definitiva solidarietà, che è poi quella che
    irrobustisce i popoli, li fonde in una sempre piú tenace
    unità e li rende capaci di segnare un'orma nella storia del
    mondo.
    Esperienza viva.
    
    I metodi seguiti dalla Destra sono, è vero, quelli stessi
    all'osservanza dei quali sono tenuti, si sa, tutti i governi
    parlamentari; ma si deve pensare che essi costituivano una
    novità assoluta per due terzi d'Italia e che il loro retto
    funzionamento era gravemente ostacolato dagli umori e dai residui
    rivoluzionari che fino a tutto il 1870 continuarono a serpeggiare
    per il paese. Eppure si potrebbe obiettare: la fatica costituzionale
    della Destra, di fronte a quella analoga dei moderni governi
    parlamentari, non era singolarmente agevolata dall'allora vigente
    suffragio ristretto (mezzo milione di elettori) e dall'assenza dei
    grandi partiti di masse? In altri termini: non si presenta
    l'esperienza della Destra ormai come qualcosa di definitivamente
    chiuso, non costituisce essa un buon campo di sfruttamento
    unicamente per gli storici eruditi? Non è forse da negarsi
    qualunque stretta continuità, e interdipendenza tra quella
    esperienza e quella che viviamo noi, ora che il governare si fonda,
    generalmente, sul consenso e il controllo della grande maggioranza
    della popolazione? Niente di tutto questo. Suffragio universale
    presuppone generalmente organizzazione, piú o meno
    progredita, delle masse le quali, individuati i loro interessi di
    categorie, li perseguono in contrasto piú o meno accentuato
    con gli interessi di altre categorie; significa cioè
    riconoscimento politico (legalizzazione) di un mutamento di
    posizione verificatosi nell'ordine sociale. Ma com'è noto,
    esso porta con sé, come naturale conseguenza, una generale
    diminuzione di interesse per le questioni politiche propriamente
    dette, di fronte al porsi e all'imporsi delle grandi questioni
    sociali. I governi hanno avuto in politica assai piú libere
    le mani dal giorno in cui hanno cominciato a funzionare gli annessi
    e connessi del suffragio universale o comunque a larghissima base.
    Può sembrare un paradosso, e non è, sol che si
    rifletta un istante alla storia politica di tutti i paesi moderni.
    
    Oggi l'attività dei gruppi politici non è polarizzata
    ad un unico intento, ma si disperde intorno ad una serie assai vasta
    e varia di problemi, collimanti tutti, s'intende, con quelli
    politici, ma che in essi non si esauriscono. Non era cosí
    sessant'anni addietro; e agli uomini della Destra, ai quali
    incombevano formidabili problemi di natura politica, non si
    presentò mai la comoda possibilità dei diversivi,
    buoni a smorzare l'interesse veramente morboso suscitato da quei
    problemi nei gruppi politici. Tutti sanno invece quanto accorti e
    sagaci siano diventati gli uomini di governo del nostro secolo nella
    manovra di agitare alternativamente questioni politiche e questioni
    sociali e di acquistare con le concessioni nell'un campo la mano
    libera nell'altro.
    
    La Destra non conobbe riposo. Il programma di lavoro esposto nel
    1861 è sostanzialmente ancor quello che forma la base delle
    discussioni dieci anni dopo, salvi, s'intende, quei punti che ne
    sono già stati tradotti in pratica e che per altro continuano
    anche essi a fornire motivo di incontri e scontri per il modo della
    esecuzione.
    
    È vero che il mondo politico dei tempi nostri è
    incomparabilmente piú vasto che non fosse un sessant'anni or
    sono; è vero che in oggi i governi, se sono tenuti a
    rispondere, per costituzione, alle sole Camere, in realtà
    subiscono un controllo continuato ed efficacissimo attraverso la
    stampa, i comizi, i congressi dei partiti, da parte di tutte le
    forze pensanti del paese; ma è per lo meno incerto se la
    ristrettezza del mondo politico costituisca o no una facilitazione
    per l'opera loro. (S'intende che questo parallelo non riguarda che i
    governi costituzionali. Quelli che sono al di fuori, al disopra, al
    di sotto del sistema costituzionale non conoscono controlli e i
    gruppi politici che essi lasciano sussistere non sono in
    realtà che organi del potere esecutivo, se pur qualche volta
    il loro ufficio non si riduce a salvare delle inutili apparenze).
    Almeno per l'Italia, si può dir questo: che la Destra fu
    sottoposta al severo e continuo controllo del Parlamento, quando
    questo era sovrano non di nome, ma di fatto esercitava la sua
    funzione con instancabile zelo, ed era davvero incorruttibile; che
    invece i governi succedutisi dopo la concessione del suffragio
    universale, se conobbero tutte le difficoltà del sistema
    nuovo, conobbero anche e seppero largamente sfruttare tutti gli
    artifici e tutte le astuzie che la novità appunto del sistema
    e la impreparazione politica del paese suggerivano o permettevano.
    Il Parlamento.
    
    Il Parlamento di sessant'anni fa era una accolta di competenti431,
    eletti da competenti, attraverso un sistema che portava alla ribalta
    non rappresentanti di categorie di interessi, ma di categorie
    ideali432. Costituendo esso l'unico tramite tra il governo e il
    paese, essendo esso solo incaricato del geloso compito del controllo
    al potere esecutivo, sentiva profondamente la sua
    responsabilità ed esercitava scrupolosamente il suo mandato
    consultivo e correttivo. Oggi, quando pur funziona, il Parlamento
    non è che un prisma nel quale si riflette – o dovrebbe
    riflettersi – l'intensa vita politica e sociale del paese; agendo
    sulla stampa, usando dei sempre piú larghi mezzi che sono a
    sua disposizione, giovandosi dell'influenza che esercita su tutte le
    grandi organizzazioni, il governo può in determinati casi
    infirmare, attenuare, spezzare l'eventuale irriducibile opposizione
    parlamentare. Ma allora il Parlamento assommava e, si può
    dire, esauriva in sé l'attività politica del paese433;
    e col Parlamento, e con lui solo, bisognava fare i conti, senza
    possibilità di appello a chicchessia434. Il governo era
    costretto ad agire nelle condizioni del consiglio di amministrazione
    di una società, che fosse non teoricamente ma effettivamente
    invigilato in perpetuo dall'assemblea dei soci435.
    
    Donde difficoltà estrema del governare, ma anche
    amministrazione trasparente (quante inchieste parlamentari! O non si
    giunse nel 1867 a domandare un'inchiesta perfino sull'uso dei fondi
    segreti del ministero dell'Interno?); politica avveduta e non mai
    precipitosa, e finalmente quella caratteristica impareggiabile dei
    governi parlamentari non corrotti, ed è che tu non puoi mai
    distinguere l'opera compiuta dal potere esecutivo da quella del
    legislativo. Non che i due poteri non siano distinti, ma tale
    è il controllo che l'uno esercita sull'altro, e tale, in
    effetto, la collaborazione, pur fra i contrasti, che tra i due si
    stabilisce, che, all'ultimo, l'opera del governo appare rifusa nel
    bagno parlamentare e l'opera parlamentare fa blocco con la prima.
    Sicché, quando si parla di quel che ha fatto la Destra, non
    già si deve intendere quel che han fatto ministeri di Destra,
    ma bensí tutte le forze del paese sotto l'amministrazione
    della Destra: opposizioni comprese.
    
    La quale Destra era, si sa, dichiaratamente avversa a un
    allargamento del suffragio436; pure fu essa che, con il tono
    impresso alla vita politica del paese, rese possibile la non remota
    introduzione di quella riforma (1882; il censo è portato da
    40 a 19 lire, l'età dai 25 ai 21 anni, il titolo di studio
    alla licenza di seconda elementare; gli elettori passano da 504 263
    a 3 milioni)437. Nelle elezioni, allora pochissimi erano chiamati a
    dare il voto, ma era diffusa la sensazione che quei pochi dovevano
    considerarsi come eletti di primo grado, come interpreti provvisori
    di piú vaste categorie di interessi. Di qui il rivolgersi
    evidente che facevano i candidati, i quali pur nella lettera si
    dirigevano ai soli loro elettori, al paese tutto; e i discorsi
    programmatici che tenevano spesso non solo nelle limitate adunanze
    degli elettori, ma in riunioni pubbliche, e i manifesti politici che
    spargevano largamente, quasi volessero compiere la prima educazione
    politica di quelle masse che un giorno sarebbero state chiamate a
    partecipare alla vita pubblica, e intendessero iniziarle alla
    conoscenza dei grandi interessi collettivi438. Sotto la Destra,
    scrive Oriani, il «popolo cominciò a comprendere che il
    governo non era piú un nemico come pel passato». E se,
    ad esempio, fin dal 1860, i ministri dell'Interno vietavano
    assolutamente che nelle adunanze delle associazioni operaie di mutuo
    soccorso si ragionasse di politica, pure nella stessa, poi sempre
    ripetuta proibizione, poteva ravvisarsi il riconoscimento da parte
    loro della opportunità che gli operai se ne occupassero,
    poiché la motivavano coll'espresso timore che le associazioni
    non avessero a guastarsi convertendosi in conventicole politiche; ma
    si affrettavano a soggiungere che nessuno perciò si sognava
    di contestare agli operai il diritto di radunarsi fuor di quelle per
    discutere questioni politiche.
    
    La Destra insomma con quel che fece o volutamente lasciò fare
    in questo campo, s'adoperò in modo che alla riforma legale
    che essa riteneva ancora intempestiva, precedesse una riforma
    spontanea nella concreta realtà dei fatti; e che in
    un'atmosfera di purezza e di fedeltà a una carta che
    sintetizzava l'aspirazione costante di generazioni e generazioni di
    italiani a un sistema di libertà e di civiltà, le
    grandi masse sorgessero alla vita politica e si preparassero a
    dividerne i pesi e i vantaggi.
    I partiti.
    
    Non sussistevano, a quei tempi, i grandi partiti di masse; l'Italia
    non conosceva ancora, cioè, la sovrapposizione tanto
    lamentata in oggi degli interessi di partito o di categoria a quelli
    collettivi o nazionali, e le conseguenti paralisi della vita del
    paese, pauroso scoglio per i regimi costituzionali. È vero;
    ma se, pur tralasciando di soffermarsi su quei casi noti e
    gravissimi nei quali la Destra ebbe ad urtare contro la resistenza
    rabbiosa opposta da vaste porzioni del sottosuolo sociale al proprio
    coordinamento e subordinamento all'ordine statale439, si esamina la
    situazione dei partiti tra il 1861 e il 1876, nell'ambito della
    Camera, si riconoscerà che, in un piú ristretto
    cerchio, questi non costituivano per la Destra una difficoltà
    minore dei partiti odierni. Qual piú qual meno numeroso, eran
    tutti infatti profondamente consci della propria storica importanza
    e del diritto esclusivo di governare la cosa pubblica. A ciascuno di
    essi il paese andava in parte debitore del proprio costituirsi a
    nazione o almeno ciascuno di essi gli rinfacciava il debito
    presunto: dai repubblicani che sostenevano risalisse al loro gruppo
    l'onore di avere suscitata l'iniziativa del Risorgimento, ai
    cavourriani persuasi di averlo essi soli reso possibile, era un
    digradare di frazioni politiche fieramente avverse le une alle
    altre, tutte benemerite, fra le quali era forza al governo
    destreggiarsi e tirare innanzi senza disgustar seriamente
    nessuno440. E ai disgusti non erano davvero alieni né
    difficili quei partiti se, nel novembre 1863, una ventina di
    deputati della Sinistra presentavano le dimissioni per essersi
    trovati in minoranza alla Camera nel deplorare la politica
    repressiva.
    Il sistema della Destra.
    
    Ma qualcuno potrebbe domandare: quale fu dunque questo mitico
    governo di Destra, tutto e soltanto saggio e avveduto, senza
    macchia, infallibile, sempre pari a se stesso? E quali questi uomini
    di Destra tutti disinteressati, modesti, e accorti? O non accaddero
    anche allora ingiustizie, scandali, brogli? o non si compierono
    anche allora pesanti errori in ogni ramo della pubblica
    amministrazione?
    
    Errori, sí, scandali, ingiustizie, sí; uomini insomma
    di carne ed ossa, sí. Dio ci guardi dall'idealizzare. Ma qui
    si discorre, piú che degli uomini, del sistema; e piú
    dell'insieme che del dettaglio. E si vuol dire, e dirà, che
    era quello un sistema siffatto che, se non poteva evitare gli errori
    e le colpe, almeno riusciva, col tempo, a convertire gli uni e le
    altre in qualcosa di bene. Perché era fatale, nell'aperto
    contrasto di tendenze e nella libertà che da tutti allora si
    godeva, che niente – e di male e di bene – restasse celato e potesse
    operare inavvertito; ma tutto si risapesse e su tutto si esigesse, e
    fosse forza concedere, l'indagine piena. L'errore diventava colpa, e
    si scontava; l'ingiustizia, nota a tutti, nuoceva in ultima analisi
    non a chi l'avesse subita, ma provocata; lo scandalo, perché
    denunziato da chi aveva interesse e diritto di denunziarlo, si
    rendeva insostenibile. L'imperizia non poteva reggersi ai posti di
    comando di fronte a una libera anzi incoraggiata concorrenza. E via
    di seguito. Questo sistema che non poteva, certo, mutare la natura
    degli uomini, ma che li rendeva forzatamente migliori nell'agire,
    sottoponendoli a un controllo e a una concorrenza ininterrotti e
    ininterrompibili, era il sistema liberale seguito dal governo nella
    irrequieta Sicilia, se nel febbraio 1867, sciolta la Camera, 72
    deputati accusano il ministero441, in un violentissimo manifesto
    diffuso nel paese, di violare le pubbliche libertà; se
    nell'agosto 1870 si ventilarono le dimissioni in massa dei deputati
    della Sinistra per protestare contro il governo che non si decideva
    alla spedizione su Roma. E via cosí442.
    
    Parlamento agitato. Eppure la convivenza qualche volta anche
    tumultuosa di queste frazioni infiammate e suscettibili e
    intransigenti giovò straordinariamente anche a loro medesime,
    e cioè a far sí che a poco a poco esse riuscissero a
    comporsi in una unità se non armonica (che dopo tutto non
    è neanche desiderabile), almeno sempre meglio capace di
    collaborare ai fini comuni, di subordinare a questi le singole
    pregiudiziali443.
    La tradizione recente e quella remota.
    
    Tali i tempi, tali i modi della Destra. Ai quali dunque possiamo
    riconoscere, almeno in ordine alle difficoltà incontrate e
    superate, uno stretto legame di parentela con quelli moderni dei
    paesi retti a sistema costituzionale. Ma contro la Destra si
    è stretta da tempo in Italia la universale congiura del
    silenzio. Quasi essa non altri titoli avesse al nostro ricordo che
    la presa di Roma o il pareggio o altrettante utilissime cose, ma
    contingenti, e cioè morte e sepolte per noi. E non si pensa
    che il modo che si è tenuto per governare il paese e renderlo
    capace di raggiungere questi e molti altri pregevoli risultati
    supera le caduche circostanze esterne, né può mai
    perdere la sua ognora freschissima attualità.
    
    Comunque, se pur negletta, grande tradizione, quella della Destra,
    nella sua severa umiltà, misura e perseveranza in uno sforzo
    incessante; grande anche se quanti giorno per giorno la vissero, di
    questi suoi meriti non ebbero coscienza444. Ma tale grandezza – la
    piú vera profonda e duratura – oggi non s'intende e anzi si
    disprezza e appunta di meschinità, preferendosi generalmente
    il richiamo a un passato assai piú remoto, del quale si
    levano a cielo e propongono e impongono come sprone e modello taluni
    isolati aspetti gloriosi chiassosi e attraenti. Accade perciò
    che Sella, Ricasoli o Minghetti sian piú antichi, piú
    lontani da noi che non, per esempio, Caio Gracco e Giulio Cesare; e
    che, per citare un fatto curioso, essendosi or non è molto
    riesumato a fini di propaganda il Crispi, si siano i piú
    posti ad osservarlo con la stessa compiaciuta meraviglia con la
    quale in un papiro nuovamente rinvenuto avrebbero letto di un fin
    qui ignoto e fiabesco faraone. Mentre il mondo non è
    piú quello dei Gracchi ed è ancora, e sarà, chi
    sa per quanto tempo, quello dei Sella e dei Crispi.
    
    Accade altresí che, avvezzandosi a sognare un ipotetico
    avvenire di grandezza, ispirato da un lato alla esaltazione di un
    remoto e mal conosciuto passato, dall'altro alla sprezzante
    ignoranza della storia d'ieri, molti perdano nonché il senso
    vivo di quel che accade nel presente, la nozione del dovere che a
    tutti incombe di contribuire alla elaborazione del comune domani.
    
    IV.
Origini del movimento operaio in Italia
    
    I.
L'atteggiamento dei clerico-reazionari
    
    Un vero e proprio movimento di organizzazione operaia si determina
    in Italia soltanto dopo il 1860. La risoluzione del problema
    politico è un presupposto necessario all'impostazione del
    problema sociale. L'avvenuta unificazione dimostra chiaramente agli
    artigiani e agli operai, ossia alle piú intelligenti frazioni
    del proletariato, che la rivoluzione politica non ha mutato
    né si è preoccupata di mutare le loro condizioni
    economiche; si dimostrano fallaci, quindi, le promesse degli
    agitatori politici.
    
    Col 1861, la organizzazione operaia si intensifica, le
    società di mutuo soccorso si moltiplicano e si diffondono; i
    tentativi di riunire i vari nuclei in uno solo, diventano fatti di
    una importanza non piú trascurabile. Questo fervore appare
    tanto piú notevole quanto piú si conoscono le tremende
    condizioni morali e materiali dei nostri operai di sessant'anni fa
    (analfabetismo a un livello altissimo; salari di fame, orari di
    lavoro prolungatissimi). Il numero degli scioperi aumenta, e, in
    alcuni gruppi piú progrediti (esempio, i tipografi) si fa
    strada l'idea delle casse di resistenza; qua e là si
    cominciano a imporre tariffe di lavoro.
    
    Gli elementi mazziniani cercano di prendere la direzione del
    nascente movimento operaio, dando una spinta vigorosa all'incerta
    tendenza organizzatrice, additando via via soluzioni pratiche ai
    molti problemi della vita operaia individuale e collettiva; ma essi
    credono fermamente che la risoluzione del problema operaio non
    potrà venire che da una grande rivoluzione morale, religiosa,
    istituzionale del paese tutto, dalla repubblica democratica che
    è il fine di questa rivoluzione. E quindi tentano di servirsi
    dei nuclei operai come di centri di propaganda delle loro dottrine
    politiche insurrezionali, abbinano insomma il problema politico col
    problema sociale; con questo, non dànno tutto il possibile
    incremento alle nuove iniziative sorte nel campo operaio (tali le
    cooperative di consumo e di produzione), suscitano urti e scismi.
    
    La maggior parte delle organizzazioni operaie li segue, nella
    fiducia, non ancora sufficientemente scossa dalla recente
    esperienza, che il miglioramento delle condizioni della classe
    lavoratrice dipenda dal «completamento» della
    rivoluzione.
    
    La minoranza, che rifiuta il programma mazziniano ma che non
    è capace di far da sé, cade in braccio ai
    conservatori.
    
    La delusione successiva al conseguimento della unità politica
    costituí, per gli operai, la base necessaria al primo
    formarsi di un vago sentimento di classe; la sensazione precisa che
    i decantati vantaggi di questa unità non riguardavano affatto
    le masse popolari, sibbene le classi borghesi e che, se mai, al
    popolo era riservato di sopportare il peso del nuovo ordine di cose,
    creò nel cuore degli umili il risentimento contro la
    borghesia, determinò o rafforzò la sensazione della
    società nettamente divisa in classi, antagonistiche fra loro.
    
    Questo sentimento di classe si evolve con molta lentezza, fra i
    nostri operai, dopo il 1860, e per i primi anni possiamo
    rintracciarlo solo negli operai della grande industria, la quale
    comincia a svilupparsi con un certo successo, nel Nord, verso il
    1865.
    
    Molti elementi contribuirono al precisarsi, al consolidarsi, al
    diffondersi del sentimento di classe; io voglio qui fermarmi ad
    illustrarne uno, del quale credo non si sia tenuto sufficiente
    conto, sin qui: la propaganda clerico-reazionaria che, allo scopo di
    creare imbarazzi al nuovo governo e determinare magari una crisi
    definitiva con conseguente ripristino dei vecchi regimi, si studia
    di aizzare l'astio e l'odio dei lavoratori contro le classi
    dominanti.
    
    La forma piú pericolosa, e piú nota, di questa
    propaganda è quella che i clericali, attraverso la loro
    formidabile organizzazione, compiono nelle campagne, tra i contadini
    ignoranti, sfruttandone e stimolandone il profondo malcontento, che
    le novità politiche hanno accentuato. Ne nasce il
    brigantaggio nelle province meridionali, e, piú tardi, nel
    1869, la pericolosa rivolta contro la tassa sul macinato, alla
    quale, peraltro, contribuirono – oltre la propaganda clericale –
    molti altri elementi.
    
    Nelle città, i clerico-reazionari disponevano di un gran
    numero di giornali e pubblicazioni periodiche di ogni genere, assai
    diffusi, specie nel popolo. Furono questi un magnifico mezzo di
    reazione.
    
    I clericali ebbero l'accortezza di misurare l'importanza via via
    crescente che l'elemento operaio andava assumendo nel paese; e
    compresero quale tremendo pericolo quell'elemento, debitamente
    aizzato, potesse costituire contro l'ordine sociale. In questo, si
    mostrarono molto piú intelligenti dei moderati e dei
    conservatori, i quali, si può dire, ignorarono in quegli anni
    il problema operaio, limitandosi a sabotare il programma sociale
    degli uomini di sinistra, a emettere, ogni tanto, e sempre per bocca
    di isolati, timidi progetti di riforma o calorosi inviti alla
    rassegnazione e alla calma dedicati agli operai, salvo poi ad
    agitarsi smisuratamente, in presenza di qualche episodio piú
    appariscente del processo di organizzazione operaia o di qualche
    esplosione del malcontento popolare.
    
    In quei loro giornali, i clericali si rivolsero soprattutto ai
    poveri, agli sfruttati, ai disgraziati lavoratori, compiangendone la
    sorte.
    
    Bisogna confessare che, a quei tempi, regnava in Italia la
    piú sconfinata libertà di stampa e di parola; tale che
    a noi, che viviamo nel 1924, è ragione, almeno, di stupore.
    
    La base della speculazione clericale è ben nota: il nuovo
    regime, partorito dalla rivoluzione, è sorto sulle rovine
    della religione e, quanto meno, la sua esistenza riposa sulla
    negazione dei valori religiosi. Orbene, la religione costituisce
    l'unico conforto per i diseredati, i quali si contentano di patire
    in questo mondo, nella speranza e certezza di una migliore vita
    ultraterrena. Togliete la religione alle plebi, e queste cadranno in
    preda al piú gretto materialismo, si cureranno solo della
    vita presente, né piú tempereranno la visione delle
    ingiustizie terrene nel concetto di una giustizia superiore;
    reclameranno perciò la soddisfazione immediata dei loro
    diritti, si rivolteranno contro i potenti e daranno retta a chi
    nella violenza additerà loro l'unico scampo per risolvere la
    questione sociale.
    
    Leggiamo «La Giovane Italia», strenna per l'anno 1862
    (Bologna, Tipografia di Santa Maria Maggiore, 1861).
    
    Chi ha allevato questo popolo senza Dio, senza Religione, educato
    alla sfrenatezza? Chi gli ha ripetuto all'orecchio le mille volte
    che egli è indipendente, e sciolto dai legami dei pregiudizi
    antichi?... Non sono stati i moderni padroni? Il popolo li ha
    intesi, e docile si mostra alle loro istruzioni, ed avendo imparato
    che la libertà consiste per l'uomo nell'operare a suo
    talento, fa ogni sforzo per porre alla pratica questa dottrina (p.
    86).
    
    Non è lecito invocare, solo fino a un certo punto, il Dio
    della Libertà; ché quello, una volta messo al centro
    dell'altare, incalza:
    
    Predicaste la Libertà, la fratellanza, ed il vostro dire mi
    piacque; siete dunque tutti fratelli. Voi proletari faccio ministri
    del mio supremo volere. Andate, dividete, spartite e se essi... non
    cedono alla forza delle teorie da essi predicate, sgominate tutto,
    confondete, sperperate, ed in mio ed in loro nome superando gli
    ostacoli, versate sangue, trucidate (p. 88).
    
    Dal liberalismo al socialismo, al comunismo, il passo è
    breve; piú che breve, logico. Ecco la giustificazione postuma
    della lotta tenace che il papa e i principi cristiani hanno condotto
    contro le nuove idee, sulle quali il nuovo regime si è
    basato. Si tratta di «salvare l'Italia dal socialismo»,
    proclama un opuscolo intitolato La Italia disfatta dalla rivoluzione
    piemontese, stampato a Malta nel 1862 (p. 33).
    
    Stolte, oltreché illogiche, le classi dirigenti che si
    illudono di far argine al dilagare del socialismo col proporre alle
    plebi dei palliativi.
    
    Il socialismo – scrive «Il Conservatore», mensile
    stampato a Bologna, all'insegna di Dante, anno I, n. 2, febbraio
    1863 – non si combatte che riconducendo l'uomo a Dio, che
    ricordandogli i legami che egli ha con lui, che illuminandolo con la
    fede della sua origine e del suo fine, che confortandolo tra le
    miserie di questo esiglio, colle dolci attrattive di una piú
    dolce speranza.
    
    L'uomo che non riconosce piú il diritto divino si
    rifiuterà di star soggetto a un altro uomo, vorrà fare
    a suo modo e «se è piú forte degli altri si
    usurperà gli altrui diritti, violerà la libertà
    degli altri, e cosí il disordine e l'anarchia saranno la
    conseguenza inevitabile di una società atea».
    («Il Conservatore», maggio 1863).
    
    In queste linee è già il nucleo fondamentale della
    propaganda clericale. O tornare indietro, alla religione e ai regimi
    che sulla religione e la legittimità si fondano, o avanti, ma
    fino in fondo, fino al comunismo.
    
    Quando, nel 1871, scoppia a Parigi la rivoluzione comunarda, i
    clericali italiani gongolano di fronte allo sbigottimento generale.
    Trovano che i signori liberali sono, in verità, poco logici.
    E la «Civiltà Cattolica», s. VIII, q. 501, 6
    maggio 1871, scrive:
    
    Non si capisce che, senza dare nel comico, pretendano di
    rimproverare, in nome della società e della civiltà,
    gli aderenti della Comune di essere troppo dialettici nell'applicare
    gl'insegnamenti e troppo attivi nell'imitare gli esempi delle loro
    signorie liberali e conservatrici. Noi soli che abbiamo sempre
    detto: o cattolici col papa, o barbari col socialismo, abbiamo il
    diritto di giudicare e vituperar Parigi, senza mutare
    improvvisamente il nostro modo di pensare.
    
    Dall'enunciazione di questi principî piú generali, si
    passa alla propaganda spicciola. Cito qui alcuni passi tolti dal
    giornale fiorentino «La Vespa», avvertendo che in molti
    altri giornali e pubblicazioni reazionarie del tempo si trovano
    espressi i medesimi concetti e, inoltre, che gli articoli di
    «La Vespa» sono largamente e compiacentemente riportati
    da altre pubblicazioni, periodiche o no, redatte appunto da
    clerico-reazionari.
    
    Si attaccano le basi del nuovo regime. Ecco quel che della patria
    italiana scrive «La Vespa», il 4 novembre 1864:
    
    Santa cosa è la patria, quando, madre amorosa, provvede
    egualmente benefica a tutti i suoi figli, e vuole in eguali
    proporzioni distribuiti i premi, i compensi, i sacrifizi. Dove
    però sotto il nome di patria si consumano i piú neri
    eccessi, dove la libertà si vende e si traffica..., dove ogni
    giorno si assiste al miserando spettacolo di vedere il galantuomo
    nudo e il farabutto in carrozza, qual senso può avere mai
    questa parola sulle ingannate moltitudini?
    
    Questo concetto della patria matrigna ai piú dei suoi figli,
    lo ritroveremo poi pari pari nel bagaglio di propaganda dei
    socialisti.
    
    Si stuzzicano i poveri nel punto piú delicato: le tasse.
    L'avete voluto, il nuovo regime – dicono agli operai i clericali. E
    ora godetevene le inique tasse. Prima, sotto gli altri regimi, le
    tasse le pagavano solo gli abbienti. Ora si è piantata la
    massima «che tutti i singoli cittadini, avessero o no
    ricchezze, dovessero essere tributari dello Stato, qualunque fossero
    i suoi bisogni, qualunque fossero i vantaggi che i cittadini
    potessero aspettarsi da questi sacrifizi» («Il
    Conservatore», luglio 1863).
    
    Ecco il destino del popolo credenzone e balordo, sotto i nuovi
    regimi. «Dopo aver fatto sgabello col suo corpo a chi agognava
    ricchezze e poteri, egli ha visto il miserabile sfuggito come un
    lebbroso, la povertà perseguitata e punita come un
    delitto» («La Vespa», 2 giugno 1864).
    
    Ci troviamo di fronte ad una vera e propria propaganda di odio. Il
    popolo è dipinto come «l'asino che s'abbevera d'acqua,
    mentre si tronca la schiena per portare agli altri i barili del
    vino» (ivi, 17 giugno 1864).
    
    Il nuovo regime vuole peggiorare sempre piú le condizioni del
    popolo, vuol vederlo soffrire. «Invece di stabilimenti di
    carità si sono dischiuse le carceri, invece delle scuole, i
    postriboli. Ma niuno ha steso la mano al proletariato, niuno si
    è ricordato di lui, fuorché l'agente municipale per
    mandargli la cartella delle tasse, il precetto e il
    gravamento» (ivi, 25 novembre 1864).
    
    L'hanno proclamato sovrano, il povero popolo; ma ora, che i
    maneggioni si sono messi a posto, «il popolo sovrano, dal gran
    trono dove te lo avevano insediato, te lo piantano a sedere a
    bischetto» (ivi, 16 gennaio 1865).
    
    E i clericali dal cuore largo non possono trattenersi dal piangere
    sulla sorte della classe operaia «cosí mal conosciuta,
    cosí iniquamente spregiata, cosí barbaramente, nel
    tempo della libertà e della filantropia, tiranneggiata ed
    oppressa» (ivi, 2 giugno 1864), e «sui malanni della
    povera gente sempre perseguitata». E concludono
    cristianamente: «Finché la dura!» (ivi, 17 giugno
    1864).
    
    Bisogna far entrare sempre piú questi pii concetti nella
    testa degli ignorantoni. Si fabbricano perciò dei versi,
    apposta. I versi s'imparano a memoria. Ed ecco:
    
    ... Fiorin d'alloro,
    
    la libertà ci costa gran denaro,
    
    tutti hanno fame e avean a star nell'oro!
    
    ... Fiorin di pioppo,
    
    per certe gole ci vorrebbe un tappo;
    
    chi non ha da mangiare e chi ne ha troppo.
    
    («La Vespa», 13 giugno 1864).
    
    ... Pagate, pagate, pagate, buffoni,
    
    vogliamo milioni, vogliamo milioni,
    
    ... Qua le tue spoglie, o popolo,
    
    nulla aver devi addosso...
    
    arroterem le forbici,
    
    finché avrai sano un osso!
    
    (Ivi, 5 luglio 1864).
    
    Si incitano i poveri alla rassegnazione, spiegando che, nel beato
    regno d'Italia, tutto si deve pagare: la luce, l'aria, l'acqua, la
    terra: si deve pagare per vivere, morire, lavorare, per avere
    diritto di essere lenoni e infami, per cacciare le donne nelle case
    di prostituzione. Oh, invano il popolo domanda «pane e
    lavoro» (ivi, 1° agosto 1864).
    
    Ma hanno scritto: «Finché la dura!» Perché
    il povero lavoratore «che si tronca la schiena col lavoro per
    mangiare un tozzo di pane ammuffito, che si logora insomma la vita
    per provvedere agli agi ed al lusso del milionario»,
    finirà, alla prima occasione, per «migliorar la propria
    posizione mediante un delitto» (ivi, 11 novembre 1864).
    
    Il momento della rivolta non può essere lontano. È
    logico che giunga e che giunga presto: la società,
    «infiammata dalle moderne dottrine, partorirà un'ira di
    comunismo che già, come cane alla catena voi sentite
    latrare» («La Giovane Italia», p. 81). E ben venga
    dunque.
    
    Ah, sospirano i clericali, se il popolo conoscesse la sua potenza e
    se ne sapesse servire! «Non sarebbe tanto spesso calpestato,
    deriso e ingannato» («La Vespa», 23 agosto 1864).
    
    Parole di questo genere venivano, non dirò a determinare, ma
    a rinforzare e a giustificare, nei nostri operai, il nascente
    sentimento d'odio contro gli abbienti, ad aumentare la loro
    diffidenza contro gli agitatori politici i quali pretendevano ancora
    il loro aiuto per disegni rivoluzionari di carattere politico, dando
    a sperare in conseguenti miglioramenti economici.
    
    Ciò non significa che i clericali tendessero, come ultimo
    fine, a scatenare la guerra di classe. Ché anzi, essi
    sognavano la restaurazione degli antichi cristianissimi regimi nei
    quali di questione sociale non si ragionava neppure, o la si
    considerava tutt'al piú come un affare di beneficenza;
    infatti – si legge nel citato opuscolo L'Italia disfatta, ecc., p.
    11 – «quando un popolo trova ne' mercati come provvedere alla
    vita, né il prezzo di generi che abbisognano alla sua
    sussistenza è lasciato all'arbitrio di pochi monopolisti ed
    incettatori, questo popolo benedice sempre al principe che lo
    regge».
    
    Tuttavia, pur di creare seri imbarazzi al governo italiano,
    suscitando nel paese un minaccioso problema e ponendo il governo
    nella necessità di affrontarlo, i clericali seppero piegarsi
    a fare della vera e propria propaganda suscitatrice dell'odio di
    classe.
    
    La quale, unita a molti altri elementi, forní ai nostri
    operai la preparazione sufficiente a far loro comprendere, qualche
    anno piú tardi, il contenuto della propaganda socialista; e a
    far loro abbandonare, quasi in massa, le prime guide del loro
    risorgimento morale e materiale.
    
    2.
La prima «Internazionale» e la crisi del
    mazzinianismo
    
    Il problema sociale in Italia tra il 1860 e il 1870.
    
    Tra il 1860 e il 1870 i partiti politici italiani si trovano faccia
    a faccia, per la prima volta, col problema sociale. Certo, sarebbe
    stolto sostenere che, innanzi il 1860, i soli problemi nazionali e
    costituzionali abbiano interessato le nostre classi colte;
    ciò significherebbe dimenticare gli scritti notissimi di
    Mazzini, Ferrari, Pisacane, per non citare che i maggiori; ignorare
    i primi tentativi di organizzazione operaia, soprattutto in Piemonte
    dopo il 1850; non dare la dovuta importanza ai molti giornali sorti
    con un programma di piú o meno disinteressata tutela degli
    interessi operai, sempre innanzi al 1860; dei quali giornali, tra
    parentesi, sarebbe utilissima una raccolta sistematica. Ma è
    chiaro che un paese, il quale non ha ancora raggiunto la soluzione
    dei problemi dell'indipendenza e della pubblica libertà, non
    può considerare urgente la questione sociale.
    
    La preoccupazione per il problema sociale nella borghesia italiana
    innanzi il 1860 esiste senza dubbio, ma è preoccupazione
    saltuaria, nata in seguito a improvvise ed effimere agitazioni di
    operai o di contadini, o imposta dagli scritti di qualche pensatore
    isolato, che si tiene informato dell'assiduo travaglio sociale dei
    paesi stranieri: preoccupazione spesso rinnovata e presto
    dimenticata.
    
    Tra il 1860 e il 1870, invece, l'interesse e la preoccupazione per
    la questione sociale crescono progressivamente per intensità
    e per ampiezza, si fanno costanti; cresce e si diffonde, in
    corrispondenza, in larghi strati della popolazione quel doloroso
    malcontento, che trova la sua causa nel dileguarsi di tutte le
    speranze di miglioramento, che aveva concepite per l'immediato
    avvenire, innanzi il 1860, aggiunto alla non variata miseria. Di
    fronte a certe manifestazioni piú violente del disagio
    popolare la preoccupazione borghese si converte in incubo pauroso.
    
    Nelle città, progredisce la organizzazione operaia. Iniziato
    dai moderati, ripreso e tenacemente incoraggiato dai mazziniani, il
    mutuo soccorso associa operai, artigiani, qualche volta contadini,
    nel nord e nel centro d'Italia; piú lentamente si diffonde
    nel mezzogiorno. Dal mutuo soccorso per malattia, vecchiaia,
    infortuni si sviluppa, nascostamente perché non tollerato,
    quello per la disoccupazione involontaria e volontaria, crescono
    rapidamente per numero e per importanza gli scioperi; si tentano le
    prime cooperative di consumo e di produzione, assai numerose le
    prime, raramente fortunate entrambe. Alcune minoranze di operai
    della grande industria si mostrano, intorno al 1870, già
    provviste di un vero e proprio sentimento di classe.
    
    Le grandi masse agricole, invece, hanno in generale accolto con
    ostilità le novità politiche e i pesi del regime
    nazionale; giacciono inerti in una plumbea immobilità, rotta
    soltanto da disordinati sfoghi di malcontento, ignare di ogni
    organizzazione, incapaci di attirare l'attenzione durevole delle
    classi dirigenti sui propri bisogni, gravate dalla secolare
    ignoranza. Troveranno una nuova vita nell'emigrazione transoceanica;
    ma questa, intorno al 1870, si presenta piú come una promessa
    per l'avvenire che come un immediato vantaggio.
    I partiti politici e il problema sociale.
    
    Tentar di classificare i punti di vista sotto i quali, fra il 1860 e
    il 1870, era considerata in Italia la questione sociale è un
    po' arbitrario: la classificazione suppone una certa
    immobilità di posizioni, che in realtà sono mutevoli,
    e non può tener conto delle zone intermedie tra partito e
    partito; ma una classificazione, sia pure sommaria e grossolana,
    è tuttavia utile a chiarire quello che avviene in Italia nel
    1871. Con queste cautele, mi sembra di poter precisare le varie
    posizioni come segue:
    
    a) Clericali. Del disagio in cui versano le classi povere, sono
    responsabili tutti coloro che hanno cooperato a fondare l'Italia una
    e indipendente rovesciando gli antichi regimi e spogliando il
    papato; scalzando il sentimento religioso, essi hanno tolto alle
    masse l'unico conforto. Di qui nasce il problema sociale; la
    soluzione non può trovarsi che in un ritorno al
    cristianesimo, che dà ai diseredati la rassegnazione, e ai
    potenti il sentimento di carità. Mostrando i guai del regime
    inaugurato nel '59, i clericali si soffermano volentieri sui mali
    del proletariato, esagerandoli e accentuando le inquietudini ai
    danni del governo e delle classi dirigenti. Di color nero è
    dunque la prima seminagione del sentimento classista tra le masse.
    
    b) Conservatori e moderati. È impossibile distinguerli
    nettamente, li accomuna uno scarso calore per il problema sociale in
    tempo di calma: discussioni sul mutuo soccorso, sulla cooperazione,
    qualche volta sull'arbitrato, che vengono additati agli operai come
    mezzi atti a raggiungere la progressiva soluzione del problema
    sociale, e poco piú. In tempi grossi (esempio: scioperi)
    nasce lo spauracchio della questione sociale; moderati e
    conservatori si agitano, gridano al pericolo, usano parole gravi, ma
    raramente affrontano i problemi con decisa volontà di
    risolverli. Gli uni e gli altri non ostacolano la nascita e lo
    sviluppo delle organizzazioni operaie, spesso anzi le incoraggiano;
    vogliono però che esse siano dirette o vigilate da uomini del
    loro partito, non ammettono che fazioni sovversive se ne servano a
    fini politici. Ma, mentre i moderati riconoscono, in qualche
    occasione, non essere perfetta la costituzione della società,
    ed essere loro dovere proteggere le classi operaie, studiando la
    possibilità di accogliere una parte delle loro richieste, ai
    conservatori il problema operaio appare sotto la veste di un puro e
    semplice problema di beneficenza: non si parla ai lavoratori di
    pretesi loro diritti. Nell'educazione e nella istruzione diffuse
    fidano entrambe queste correnti: l'operaio diventerà
    ragionevole e fuggirà i demagoghi.
    
    c) Mazziniani. Nei gruppi di sinistra o «d'azione», il
    problema sociale è agitato prevalentemente dai mazziniani:
    non hanno essi idea di un proletariato vero e proprio, come quello
    che si forma dovunque si sviluppano le grandi industrie; in tutta
    Italia non vedono che artigianato e non pensano che a questo. Il
    problema sociale è uno degli elementi del problema di
    rinnovamento generale che incombe al paese.
    
    Le classi operaie conquisteranno il diritto all'emancipazione
    partecipando alla lotta politica; questa, realizzata la completa
    unità della patria, darà la cosa pubblica in mano ai
    repubblicani. Le organizzazioni operaie, promosse e favorite con
    fervore, debbono essere specialmente centri di propaganda e di
    azione unitaria e repubblicana. Suggerendo agli operai tutte quelle
    provvidenze atte a migliorare i rapporti tra capitale e lavoro, i
    mazziniani condannano generalmente lo sciopero, nutrono fiducia
    nell'aiuto che le classi medie volontariamente presteranno alla
    elevazione delle classi artigiane; il principio della lotta di
    classe viene respinto. Ma il proletariato non speri in un radicale
    miglioramento delle sue condizioni se non da un radicale mutamento
    della costituzione politica del suo paese. Il massimo impulso, che i
    mazziniani imprimono al moto operaio, si ha tra il 1861 e il 1865.
    
    d) Bakunisti. Il programma anarchico collettivista di Bakunin (il
    quale soggiorna in Italia tra il 1864 e il 1867) si propaga dapprima
    segretamente tra pochi isolati e viene attenuato notevolmente non
    appena trovi modo di farsi noto pubblicamente. Nell'attesa di un
    moto rivoluzionario, che si prepara in segreto, la propaganda
    pubblica si riduce a un blando riformismo che domanda, per esempio,
    l'istituzione di una imposta unica sul reddito, in sostituzione di
    ogni altra. Ma i bakunisti appoggiano gli scioperi, comprendono per
    i primi, come gruppo politico, l'importanza delle masse agricole
    italiane; sono, infine, i primi importatori in Italia
    dell'Internazionale (fondata a Londra nel '64); di una
    Internazionale, però, che ha ben poco a che fare con quella
    marxista e ha un programma al tutto confuso con quello bakunista.
    Essa si diffonde con lentezza tra il 1867 e il 1870, trovando
    seguaci quasi esclusivamente nel mezzogiorno dove Bakunin aveva
    soggiornato piú a lungo e aveva trovato favorevole terreno in
    piccole zone della borghesia intellettuale. Il primo periodo di
    acclimatazione dell'Internazionale in tutta Italia corrisponde a
    quegli anni, fra la Convenzione di settembre (1864) e la presa di
    Roma (1870), durante i quali i mazziniani, preoccupati dal problema
    politico e istituzionale, trascurano assai il campo operaio.
    
    All'infuori di queste correnti ideologiche, poche minoranze operaie
    del nord e centro d'Italia, alla ricerca di un effettivo
    miglioramento delle proprie condizioni economiche, si organizzano
    esercitando istintivamente la resistenza, in netto antagonismo con
    la classe proprietaria e industriale. I primi esempi di
    organizzazione di resistenza sono dati dai tipografi.
    La Comune e Mazzini.
    
    Tra le crescenti preoccupazioni conservatrici da un lato, e il
    moltiplicarsi delle organizzazioni operaie e la lenta infiltrazione
    dell'internazionalismo dall'altro, la Comune di Parigi del 1871
    è come una scintilla che produce il corto circuito: essa ha
    in Italia enorme ripercussione, porta alla crisi l'evoluzione
    dell'intero decennio, obbliga partiti e coscienze ad assumere un
    atteggiamento preciso, dissipa molti equivoci.
    
    La Comune fu generalmente e falsamente interpretata da noi come una
    insurrezione di carattere nettamente socialista. In realtà,
    di socialista, a Parigi, ci fu ben poco: ma gli Italiani, detrattori
    o apologisti che fossero, trascinati da opposte passioni, avvolsero
    immediatamente «la Comune» in un velo di leggenda. Se il
    «Monitore di Bologna» (moderato democratico), nel numero
    del 25 marzo 1871, scrive che si tratta addirittura «di
    abolire l'incomodo del tuo e del mio, si tratta di sostituire la
    forza al diritto, la barbarie alla civiltà», il
    «Gazzettino Rosa» (repubblicano garibaldino, prossimo ad
    abbracciare i principî dell'Internazionale) (Milano, 1°
    aprile 1871) inneggia alla rivoluzione del 18 marzo: «Salve, o
    aurora della libertà, io ti veggio già spuntare
    all'orizzonte nel color della fiamma». Se la
    «Nazione» (conservatore) (Firenze, 3 maggio 1871) trova
    che il «socialismo, il comunismo, tutti i delirî delle
    sette piú sfrenate minacciano la società», la
    «Civiltà Cattolica» (6 maggio 1871) ride di tanto
    sbigottimento, vantandosi: «Noi soli, che abbiam sempre detto:
    – O cattolici col papa o barbari col socialismo – abbiamo il diritto
    di giudicare o vituperare Parigi, senza mutare improvvisamente il
    nostro modo di pensare».
    
    Garibaldi, generoso, impulsivo, irreflessivo, esalta i soli uomini
    che «in questo periodo di tirannide, di menzogna, di codardia
    e di degradazione hanno tenuto alto, avvolgendovisi morenti, il
    santo vessillo del diritto e della giustizia».
    
    L'atteggiamento di Mazzini è assai complesso. Lodi,
    sí, all'eroismo degli insorti, e alle loro aspirazioni
    repubblicane; indulgenza per i loro, in parte giustificabili,
    eccessi; vergogna eterna alla codarda assemblea versagliese; in
    guardia però da ogni esaltazione per il programma parigino,
    che, applicato integralmente, annienterebbe la Francia come nazione,
    riducendola ad una federazione di comuni autonomi. Di mano in mano
    che Mazzini s'accorge della crescente infiltrazione delle idee
    comunarde in Italia, la sua condanna si fa sempre piú aspra e
    radicale. Le conseguenze di questo suo atteggiamento furono
    gravissime. Tra i partiti politici italiani, quello
    mazziniano-garibaldino aveva costituito, fino al 1871, l'estrema
    sinistra; e non soltanto nel campo politico, ma anche in quello
    sociale. Fino allora le prime incerte, e a malapena precisabili,
    infiltrazioni internazional-bakuniste non avevano occupato un posto
    considerevole nella vita pubblica italiana. Fino allora, quasi tutti
    i rivoluzionari di temperamento, i malcontenti, i sognatori
    romantici di una società migliore o diversa si erano stretti
    intorno a Mazzini, uniti nel nome di repubblica, sinonimo di
    rivoluzione, discordi in ogni altra questione, e soprattutto nei
    presupposti morali e religiosi. Ma la discordia si manteneva
    generalmente latente; non aveva avuto modo di manifestarsi, o, ancor
    meno, di approfondirsi. Il programma mazziniano era l'unico che
    promettesse novità sostanziali, richiedesse audacia di
    propositi e di mezzi, calmasse quel bisogno di agire in un modo o
    nell'altro, ma, comunque, d'agire, che, specie dopo il '67,
    assillava quanti fino allora avevano sfogato la loro energia
    esuberante nella cospirazione e nelle campagne di guerra. Mazzini
    era stato per interi decenni l'iniziatore o il sicuro alleato di
    tutte le battaglie per la libertà; amici e nemici lo
    consideravano ormai come il rivoluzionario per antonomasia, come il
    prototipo del ribelle; lo seguivano, quindi, anche tutti quei
    rivoluzionari per temperamento che un'assidua propaganda e la
    naturale inclinazione andavano spingendo al materialismo,
    all'ateismo, ossia – e non riuscivano ad accorgersene – agli
    antipodi del sistema mazziniano.
    
    Quando Mazzini condannò la Comune di Parigi, molti fra i suoi
    seguaci, specialmente i piú giovani, rimasero profondamente
    delusi. Non era Mazzini repubblicano? Non era anch'egli nemico delle
    disuguaglianze sociali? Sorpresi dapprima, finirono coll'esserne
    indignati; almeno non pretendesse, Mazzini, di tenere ancora lui,
    fra le sue mani, lo stendardo della repubblica e della rigenerazione
    sociale!
    
    È inutile che Mazzini ripeta che si devono condannare tanto i
    comunardi quanto i versagliesi: egli apparisce come l'alleato della
    reazione di tutta Europa. I fogli di estrema destra non si lasciano
    sfuggire la buona occasione per gabellare come loro alleato
    l'ex-irriducibile nemico. Il «Corriere di Milano» (26
    giugno 1871) in un articolo intitolato Mazzini codino, afferma che
    l'esule è ormai molto meno lontano dai cosiddetti
    conservatori che dai suoi pretesi discepoli; la
    «Nazione» di Firenze, che ha ancora fresche di stampa le
    peggiori calunnie sul conto di Mazzini, ammette (10 luglio 1871) che
    egli ha detto in questa occasione «gravi e solenni
    verità», che egli ha cuore «di patriotta e di
    uomo onesto», che le sue invettive sono
    «eloquenti». La stampa conservatrice tutta, realizza un
    doppio vantaggio: dimostra che il ribelle ha messo giudizio, e ne
    ricava la conseguenza che la Sinistra, divisa, è prossima a
    sfasciarsi. Molti giovani, ai quali la Comune di Parigi dà
    per la prima volta la sensazione della possibilità di
    abbracciare un sistema d'idee piú avanzato di quello
    mazziniano, e non davvero nebuloso o incerto poiché
    già ha dato luogo a un grandioso tentativo di realizzazione
    pratica, reagiscono abbandonando Mazzini.
    Crisi tra i mazziniani.
    
    Una volta distaccatisi dal mazzinianismo, in che senso poteva
    dirigersi, quella minoranza ardente? Quali ideali servire? La via
    era chiaramente indicata: all'Associazione Internazionale dei
    Lavoratori venivano concordemente attribuite le glorie o le colpe
    della Comune. Tra noi, l'Internazionale si era frattanto diffusa qua
    e là (specie nel mezzogiorno), attraverso una propaganda
    abbastanza attiva esercitata da agenti di Bakunin, non ancora
    entrato in aperto conflitto con Marx. Inoltre Mazzini, non appena
    lanciata la scomunica contro l'insurrezione parigina, aveva sentito
    il dovere di spiegare con una causa generale i perturbamenti sociali
    del suo tempo, e l'aveva rintracciata (e del resto l'andava
    additando da un pezzo) nel materialismo, che minacciava, secondo
    lui, le fondamenta della civiltà intera.
    
    Creatura e incarnazione del materialismo era l'Internazionale dei
    Lavoratori. Il materialismo, la Comune, l'Internazionale, erano
    dunque fulminati dall'istessa condanna; a quest'ultima, quindi, si
    rivolgono tutti i mazziniani eterodossi anche nei riguardi del
    problema religioso.
    
    Mazzini conserva durante tutta la crisi, che si determina nello
    scorcio del '71 e perdura nella sua fase piú acuta fino al
    marzo '72, ossia fino alla morte di lui, un'ammirevole
    intransigenza. Le ire e le polemiche divampano in tutta la stampa,
    perché quanto piú recenti e fulminee sono le
    conversioni anti-mazziniane, tanto piú caloroso è
    l'entusiasmo per la nuova fede.
    
    Non v'è, credo, letteratura piú viva e varia di quella
    dei giornaletti internazionalisti che pullulano in Italia tra il
    1871 e il 1872. Lettura purtroppo tutt'altro che agevole; tanto
    è difficile rintracciarli e seguirli in collezioni complete.
    Giornaletti di piccolo formato, i piú con testate chiassose,
    iscrizioni di grande effetto; generalmente colti da malattie mortali
    dopo pochi numeri; sempre tormentati da angustie finanziarie e dagli
    artigli del fisco. Trascinati da un impeto di entusiasmo a lodare la
    Comune si sentono dapprima, di fronte alla condanna mazziniana, come
    spaventati dalla loro audacia. Ma noblesse oblige: bisogna difendere
    la posizione, anche se difficile. Cercano di spiegare
    l'atteggiamento di Mazzini, osservando che egli non ha forse tutti
    gli elementi necessari per giudicare equamente la Comune.
    Protestando la loro devozione a lui, che li ha educati al culto
    della libertà, e della giustizia, e da cui li divide una
    momentanea aberrazione, non vogliono sentire parlare di una
    scissione, o, comunque, ne respingono ogni responsabilità. Ma
    non intendono sacrificare al rispetto, alla gratitudine per il
    Maestro, la loro propria indipendenza di giudizio. Frattanto
    l'intransigenza e lo sdegno di Mazzini e del suo stato maggiore li
    obbliga ad assumere posizioni sempre piú nette; superato il
    disagio iniziale, si sentono alfine nello stato d'animo di minorenni
    usciti di tutela. Alla fermezza di Mazzini oppongono da parte loro
    una fermezza corrispondente e crescente. Li urta, soprattutto, la
    pretesa del Maestro di non concedere patente di repubblicano a chi
    non accetta in blocco il suo sistema: non si può, secondo
    lui, essere atei e repubblicani. Protestano: – Siamo repubblicani
    convinti e lo mostreremo alla prova; siamo forse per questo
    obbligati a credere nei fantasmi? Dio, se mai esiste, sta nei cieli
    e non ha niente a che fare con il regime politico-sociale. Non si
    rallegrino, però, i nemici comuni; s'accorgeranno se non
    saremo di nuovo tutti d'accordo quando si tratterà di fare la
    rivoluzione. Ora che abbiamo calma e tempo, ne approfittiamo per
    discutere tra di noi.
    
    Mazzini fa il processo all'Internazionale, che si preoccupa, egli
    dice, dei soli interessi materiali. Ma che cosa hanno guadagnato gli
    operai finché si sono attenuti alle moralissime teorie
    mazziniane? Un uomo che ha formulato il suo sistema da oltre
    trent'anni non può pretendere di tenervi aggiogate
    eternamente le nuove generazioni. È vecchio, si è
    cristallizzato; è incapace ormai di seguire il progresso. Lo
    nega, anzi, e con ciò distrugge la base stessa del suo
    sistema. Siamo atei e materialisti, e ce ne vantiamo; stufi di
    quella odiosa abitudine di trasportare sempre nelle piú alte
    sfere della morale, della giustizia, del dovere questioni
    d'interesse immediato, questioni di pane; abitudine che serve a
    ingarbugliare i problemi piú semplici, e a nasconderne la
    soluzione.
    
    «Siamo patrioti? Può darsi. Unità e indipendenza
    hanno portato vantaggi a iosa ai signori; ma al proletariato? Forse
    che le sue condizioni sono mutate? La patria è del lavoratore
    di tutto il mondo, perché patria vuol dire interessi,
    aspirazioni comuni».
    
    Queste in sintesi, le accuse piú caratteristiche e le
    corrispondenti professioni di fede che la stampa internazionalista
    rovescia addosso a Mazzini, fra il 1871 e il 1872, con un crescendo
    impressionante. Liberatisi dal peso dell'autorità mazziniana,
    rotta la lunga tradizione di sommissione, sembra che questi
    transfughi o reietti del mazzinianismo traggano come un sospiro di
    sollievo, si sentano piú leggeri, piú agili,
    piú liberi nei loro movimenti; che provino una gioia
    infantile nel gridare, contro tutto e contro tutti, le loro audaci
    negazioni, le loro nuove aspirazioni. Rigettano tutto quello che del
    mazzinianismo hanno ingerito (non digerito) negli anni durante i
    quali di necessità hanno dovuto farne parte.
    
    Hanno a noia soprattutto quell'uniforme misticismo (come essi
    scrivono), quel velo di mistero, quella nebulosità che
    ravvolgono sempre Mazzini; quei suoi ragionari sono cosí
    complessi, quelle sue premesse cosí confuse, tutto il suo
    sistema è tale un intreccio di logica e di sentimento, che i
    cervelli semplici e sani non possono né comprenderlo,
    né seguirlo.
    
    I successi degli internazionalisti. Morte di Mazzini.
    
    L'esito di questa crisi è indicato molto eloquentemente dai
    fatti. Nel luglio del 1871 Mazzini, con un certo ottimismo, constata
    che l'unica città italiana dove l'Internazionale abbia messo
    piede, è Napoli445. Ma le cose mutano rapidamente. Il 5
    novembre tre delegati internazionalisti fanno una prima parata al
    XII Congresso operaio, convocato a Roma dai mazziniani; Marx scrive
    a Sorge, annunciandogli che in Italia «noi facciamo progressi
    vertiginosi. Grande trionfo sul partito di Mazzini»446. Il 19
    dicembre 1871 si tiene a Bologna il primo comizio dei fasci operai
    aderenti all'Internazionale, presenti sei sezioni; il 18 febbraio
    '72, altro comizio internazionalista a Villa Cambellara:
    intervengono le sezioni e i gruppi romagnoli, in numero di undici.
    
    Il 17-19 marzo 1872 a Bologna altro congresso regionale, presenti
    diciotto sezioni. Il 5 aprile 1872, Bakunin scrive a Francesco Mora
    che l'Internazionale ha preso grande sviluppo in Italia, tanto che
    questa, con la Spagna, «è forse il paese piú
    rivoluzionario in questo momento»447.
    
    Il 3 agosto 1872, a Rimini, si aduna il primo Congresso generale,
    nel quale gli internazionalisti italiani, separandosi violentemente
    e con grande leggerezza dal Consiglio Generale di Londra, ossia da
    Marx, si stringono attorno al Bakunin, ossia al collettivismo
    anarchico; vi partecipano ventuno sezioni, di ogni parte d'Italia.
    Da ricerche fatte nei giornali del tempo, mi risulta che verso la
    metà del '72 esistevano in Italia almeno 50 sezioni
    internazionaliste!
    
    Chi rilegga oggi i giornali mazziniani del tempo, come la
    «Roma del Popolo» (Roma) o l'«Unità
    Italiana» (Milano), ammira, sí, la fermezza con la
    quale Mazzini e i suoi fedeli sostengono l'urto; ma si avvede di un
    certo sgomento da cui sono presi di fronte alla grandezza della
    valanga, tanto piú funesta quanto piú improvvisa;
    valanga sospinta e ingrossata, da un lato, dal curioso atteggiamento
    di Garibaldi; dall'altro, dalla polemica scatenata con il consueto
    ardore da Michele Bakunin.
    
    Mazzini muore sconfortato, in piena crisi del suo partito,
    abbandonato dalle piú giovani e promettenti forze, convinto
    della intima debolezza dei suoi piú fidi, quasi tutti vecchi
    e sfiduciati, divisi da dissensi, talora non lievi, e da rancori
    personali. L'amarezza sua è cosí profonda che a volte
    anche la lotta gli pare inutile; unico bene il suo riposo eterno.
    «Le delusioni di ogni genere – egli scrive a un repubblicano
    in Svizzera nell'ottobre 1871 – hanno ucciso in me l'entusiasmo e
    ogni capacità di gioia o di solo conforto, fuorché
    quello che viene dagli affetti; non il senso del dovere. Tento quel
    poco che tento per un'Italia ideale e per uomini ch'oggi non sono. E
    se questo senso religioso non si fosse per ventura serbato in me, mi
    sarei ucciso...»448.
    
    Sí, aveva ragione Agostino Bertani quando, la sera dei
    funerali di Mazzini, agli amici raccolti e pensosi dell'avvenire,
    diceva che, morto il Maestro, l'Internazionale «sarebbe
    entrata a scindere il partito repubblicano e assai presto se ne
    sarebbe sentita l'azione..., sarebbe forse venuto del sangue,
    sarebbe cominciata l'età delle ire, che, invece di
    affrettare, avrebbe ritardato di chi sa quanto l'attuazione degli
    ideali sociali emananti dalla dottrina del Maestro»449.
    
    Ma, qualche mese piú tardi, Marx ed Engels s'accorgono che la
    crisi del mazzinianismo, dalla quale essi hanno tanto sperato per il
    vantaggio della loro corrente, si è risoluta a tutto favore
    del collettivismo anarchico: Bakunin, sfruttando il malcontento
    generale e la sua perfetta conoscenza dell'ambiente italiano, ha
    tirato verso di sé il rivoluzionarismo verboso degli
    internazionalisti italiani. «Bignami – scrive malinconicamente
    Engels a Sorge il 2 novembre 1872, – è il solo individuo che
    abbia preso il nostro partito in Italia»450; e allude
    all'esiguo gruppo che fa capo al giornale «La Plebe» di
    Lodi.
    
    Avevano commesso, in realtà, un formidabile errore fondando
    serie speranze per l'avvenire del socialismo in un'idea, che era
    nata quasi dal nulla in conseguenza della Comune di Parigi e che
    aveva raccolto, in pochissimi mesi, un impressionante numero di
    seguaci. Lo stesso Bakunin sopravvalutava la potenza rivoluzionaria
    dei giovani italiani; alla distanza di due anni, anch'egli doveva
    accorgersi che si trattava soltanto di un'effimera
    infatuazione,destinata ad esaurirsi in vani tentativi di sommossa.
    
    3.
Repubblicani e socialisti in Italia
    
    I.
    
    Si ragiona molto oggi, in sordina e no, di un desiderabile
    riavvicinamento fra repubblicani e socialisti. Il connubio
    porterebbe a una maggior valutazione del fatto politico da parte
    socialista (della cui necessità i socialisti piú
    intelligenti si rendono oggi perfettamente conto) e a una maggiore
    valutazione del fatto sociale e a un piú stretto contatto con
    le esigenze e le aspirazioni del proletariato, da parte
    repubblicana. Lascio ai politici di determinare la convenienza del
    connubio: io vado ripensando alla storia dei due partiti in Italia e
    alle ragioni riposte o evidenti che valsero a separarli dapprima, e
    poi a mantenerli divisi e corrucciati. C'è una vecchia
    ruggine fra di loro, ci sono astiosità e malintesi: non
    sarà forse del tutto inutile indagare quando e come si
    formarono e se per caso la comune disavventura dei partiti
    democratici non potrebbe costituire l'auspicata occasione di un
    chiarimento.
    
    Premetto ch'io non son di quelli che ritengono contenere il
    programma di Mazzini la soluzione integrale del problema sociale;
    credo anzi che tale programma, quale Mazzini lo delineò, non
    possa piú informare di sé un partito vivo e operante,
    profondamente innestato nelle radici vitali della nazione. Parlo
    volutamente di Mazzini, trascurando gli altri teorici nostrali del
    repubblicanesimo, perché da lui son discese e a lui si son
    costantemente ispirate la dottrina e la prassi del partito
    repubblicano italiano nel campo sociale, che è quello che
    presentemente c'interessa. Mazzini, non v'è dubbio, sta ai
    repubblicani come Marx ai socialisti, e forse piú ancora;
    ché un revisionismo mazziniano paragonabile sia pure alla
    lontana con quello marxista non s'è mai avuto; nel che sta,
    per me, la massima prova d'insufficienza del mazzinianismo.
    
    Credo per contro che di un bagno di mazzinianismo – e se volete solo
    o soprattutto di spirito mazziniano, rettamente inteso – possa molto
    avvantaggiarsi il movimento socialista, che ora, ricco di una
    durissima esperienza, va dolorosamente riprendendo il suo cammino;
    se non altro è ormai chiaro a tutti che la pregiudiziale
    repubblicana è destinata a diventare comune denominatore di
    tutte le correnti sinceramente democratiche.
    
    Il fascismo, che ha salutarmente aperto gli occhi a molta gente e
    affrettato processi di composizione e di decomposizione lentamente
    maturantisi, ha in sostanza, io penso, segnato la vittoria del
    principio repubblicano e, nello stesso tempo, probabilmente firmato
    l'atto di morte di un partito repubblicano italiano; d'ora innanzi,
    invece di repubblicani tout court, avremo dei socialisti
    repubblicani, dei democratici repubblicani, e perché no?, dei
    cattolici repubblicani. Dire: io sono repubblicano e basta,
    sarà dire assai poco, equivarrà cioè a
    esprimere una quanto mai generica fede democratica.
    
    Di necessità dunque, a parer mio, si giungerà o prima
    o poi a un connubio tra socialisti e repubblicani, o meglio tra
    socialisti e una frazione di repubblicani; connubio che non
    avrà niente di transeunte, niente di opportunistico; che non
    si opererà cioè in vista della formazione di un
    provvisorio fronte unico di battaglia.
    
    Ma sono andato fuor di strada, ché il mio intento è
    solamente quello di riandare le vicende e studiare le relazioni
    corse tra repubblicani e socialisti negli ultimi sessant'anni.
    
    Di propaganda socialista in Italia non si principiò a parlare
    prima del 1865: il partito repubblicano era allora forte e
    combattivo; era il piú intransigente dei partiti
    d'opposizione e, per quanto disposto a compromessi e a transazioni,
    il piú sinistro; era, in una parola, il partito sovversivo.
    Socialismo era parola vaga, mal compresa dai piú, usata a
    designare correnti in Italia ancora di là da venire, da
    qualche scrittore politico: fra i quali, deplorandola, se ne serviva
    Mazzini. C'era un modesto movimento operaio, conteso fra democratici
    moderati e repubblicani, che si limitava a raccogliere élites
    di lavoratori nelle fila del mutuo soccorso, a convocare di quando
    in quando i loro rappresentanti a congresso, a pubblicare
    giornaletti popolari, a fondare e a incoraggiare le società
    cooperative. Qua e là, nei centri industriali, v'eran gruppi
    di operai che stavan scoprendo l'arma della resistenza e
    principiavano a proclamare con crescente frequenza gli scioperi –
    spontanei perché non suggeriti da alcun partito politico.
    
    Il programma mazziniano (che ritengo superfluo riassumere qui sia
    pure per sommi capi) era l'unico programma concreto di
    rivendicazione che si offrisse alla classe lavoratrice. Attorno a
    Mazzini si stringevano perciò, con e anche senza riguardo
    all'aspetto politico e religioso della sua propaganda, tutti i
    democratici degni di questo nome, che non avessero con lui
    particolari troppo vive ragioni di dissenso. Mazzini, per quanto
    prevalentemente assorbito dalle cure del partito, poteva
    fondatamente sperare di riuscire in un giorno non lontano a
    organizzare sotto la sua insegna l'intera classe lavoratrice
    italiana, contadiname escluso.
    
    Capita in Italia il primo socialista di marca: il Bakunin,
    introdotto e presentato da Mazzini il quale ignora le sue nuove
    tendenze anarchico-socialiste. Bakunin d'altronde si è fino
    allora curiosamente ingannato, come molti altri conoscitori per
    sentito dire di Mazzini, sui fini e sui metodi del partito
    repubblicano in Italia; lo ritiene un partito di opposizione
    intransigente che si sforzi di introdurre in tutte le manifestazioni
    della vita pubblica quel medesimo spirito di libertà su cui
    ha fatto leva per cacciar d'Italia le dinastie straniere. Non ci fu
    dunque né dabbenaggine da parte di Mazzini nell'unger le
    ruote a Bakunin, né tradimento nero da parte di quest'ultimo
    nell'immediato rivoltarsi contro Mazzini, che fece non appena
    orientatosi un poco nell'ambiente italiano: non senza amarezza, come
    provano le sue lettere di quegli anni. Ma è tuttavia notevole
    il fatto (esaurientemente dimostrabile) che la prima propaganda
    socialista in Italia fu facilitata da repubblicani e si
    compié massimamente in ambiente repubblicano. Forse molti
    ignorano ancora che Mazzini fu per quattro anni un amico
    dell'Internazionale.
    
    Strano a dirsi, Bakunin, un forestiere, riesce in un battibaleno a
    radunare intorno a sé e al suo programma di rivoluzione
    sociale, direi a rivelare a sé medesimi, un non esiguo
    gruppetto di democratici, mazziniani e garibaldini. Gli è che
    la propaganda attivissima del libero pensiero e la fortuna
    incontrata dalle correnti positivistiche che, fuori dagli ambienti
    piú colti, si traducevano in gretto materialismo, hanno
    preparato al socialismo un terreno assai favorevole. Bakunin non fa
    che approfittarne con abilità e con fortuna, rivolgendosi
    dapprima a una ristretta élite di intellettuali, quindi a un
    piú vasto pubblico di operai e di artigiani, ai quali riesce
    a insinuare il sospetto che Mazzini non ad altro tenda, col suo
    programma sociale a scartamento ridotto, che a solleticare i
    lavoratori per ottenere l'aiuto nella lotta per la conquista del
    potere politico.
    
    Dell'opera piuttosto sotterranea svolta da Bakunin si cominciarono a
    scorgere le conseguenze un paio d'anni dopo la sua partenza
    dall'Italia, avvenuta nel 1867: si videro sorgere qua e là
    robuste sezioni dell'Internazionale, si sentí parlare di una
    società segreta tra democratici socialisti con ramificazioni
    all'estero, fece capolino qualche primo giornaletto di propaganda
    socialista, si videro italiani partecipare ai congressi
    dell'Internazionale, s'intensificarono certi attacchi contro Mazzini
    da parte di suoi gregari poco ortodossi, evolventi non more solito
    verso destra, sibbene verso un'estrema sinistra, scorto dalla quale
    il programma mazziniano pareva addirittura roba da conservatori.
    Fondamento di tutte le accuse il suo misticismo religioso, la sua
    visione di un Dio autoritario, primo gradino di una scala
    d'autorità, di padroni e di sfruttatori cioè, che dal
    cielo si prolungava in terra, fra gli uomini. Di qui, a torto o a
    ragione, pigliava le mosse, e a quella come a punto centrale si
    richiamava, ogni altra critica, fino al 1870, per altro, piú
    mormorata che detta, timidamente affacciata e non sostenuta:
    
    Mazzini si è cristallizzato in formule di quarant'anni
    addietro. Mazzini ciancia di emancipazione operaia, ma dopo tutto
    gli basta e gliene avanza dell'innocuo mutuo soccorso e di qualche
    cooperativetta; Mazzini imborghesisce il movimento operaio; Mazzini
    non capisce che la rivoluzione sociale, come tale, comprende e
    quindi risolverà col problema sociale anche quello politico e
    non viceversa, e che solo nella speranza della prima si moveranno
    gli infimi strati sociali; Mazzini, infine, seguita a predicar la
    rivoluzione, e sia pure una rivoluzione meramente politica, ma in
    sostanza, come Bertoldo l'albero, non trova mai il momento opportuno
    per scatenarla; per non mollare sulla questione monarchia o
    repubblica, Mazzini perde insomma di vista faccende di assai maggior
    rilievo.
    
    Accuse velate e a mezza bocca, diserzioni alla chetichella scoppiano
    in aperta rivolta nel 1871, quando tutta Italia è corsa da un
    fremito rivoluzionario che è un riflesso, una conseguenza e
    un contagio della Comune di Parigi: le masse operaie s'affollano
    nelle neonate sezioni internazionaliste, i ceti possidenti si
    buttano al conservatorismo reazionario, raddolcito da prudenti
    proteste di pseudo-democraticismo, un gruppo d'intellettuali e
    d'intellettualoidi inizia con entusiasmo la carriera degli
    organizzatori; i mazziniani, disorientati, attraversano una penosa
    crisi d'incertezze, che si traduce e si risolve in fierissima lotta
    contro i socialisti non appena questi accennano a voler conquistare
    le società operaie, tentando di travolgere la invidiabile
    posizione fino allora goduta dai mazziniani, di quasi monopolisti
    del movimento operaio italiano: repubblicani e socialisti sentono,
    primi in Italia e per la prima volta, che la forza dei partiti da
    ora innanzi sarà commisurata all'entità della loro
    penetrazione nelle masse lavoratrici. Mazzini e Bakunin polemizzano
    clamorosamente, mentre un'improvvisata stampa socialista copre tutta
    l'Italia.
    
    La rapida fortuna del socialismo è a tutte spese del
    mazzinianismo: lo prova il fatto, documentabile, che quasi tutti i
    capi del movimento socialista sono transfughi delle file
    repubblicane; è tutta gente venuta su con Mazzini e che,
    turbata per l'aspra condanna da Mazzini pronunciata contro la Comune
    repubblicana, se prima sospettava, ora sostiene apertamente che
    Mazzini, per incomprensione senile, tradisce il suo stesso
    programma, che non ne intenda piú i logici necessari
    sviluppi. Mazzini ribatte che repubblica non vuol dire comunismo;
    quei giovani (che tali sono pressoché tutti) concludono che
    ormai per Mazzini l'aspirazione repubblicana importa un semplice
    mutamento nella forma del governo: il resto, immutato.
    
    È proprio nel 1871, dunque, che si determina l'incomprensione
    fra i due partiti; forse Mazzini avrebbe saputo in progresso di
    tempo eliminarla e, calmati gli spiriti, passata la raffica
    rivoluzionaria, trovare un punto d'accordo durevole; ma purtroppo
    morí nel '72, in piena battaglia, e quel che è ancora
    piú grave, senza poter lasciare il partito in mani vigorose.
    Poiché credo si possa andare tutti d'accordo nel negare ai
    Saffi, ai Campanella, ai Quadrio, ecc. (bravissime persone del resto
    sotto molti altri punti di vista) un acuto temperamento politico,
    una consapevole energia, la capacità insomma d'intender nello
    spirito e non, come troppo spesso accadde, di osservare
    bigottescamente l'insegnamento di Mazzini.
    
    La frazione giovanile del partito repubblicano si gettò con
    vera e propria voracità sugli ideali banditi
    dall'Internazionale; con la voracità di chi da tempo ha sete,
    insoddisfatta, d'ideali. Era un pezzo che il mazzinianismo non le
    bastava piú. Nel 1871 la sua inadeguatezza alle aspirazioni
    della gioventú intellettuale apparve evidente. Scriveva
    Cafiero, l'ardente rivoluzionario pugliese, ad Engels:
    
    Il povero vecchio (Mazzini) non vuole comprendere... che il suo
    concetto di unità e libertà nazionale – grande al suo
    tempo – impallidisce ora come la luce di una candela innanzi alla
    luce del sole, venendo paragonato al sublimissimo concetto
    dell'unità... di tutti i popoli nella nuova organizzazione
    sociale, che avrà per base l'eguaglianza.
    
    Sí, al programma mazziniano mancava ormai un mito, mancava un
    orizzonte lontano e magari irraggiungibile cui tendere. Il mito di
    Mazzini era stato l'unità d'Italia e Mazzini aveva avuto la
    fortuna (o la sfortuna) di vederlo bruscamente realizzato, se pur
    non secondo le sue aspirazioni, per un colpo di bacchetta magica.
    Dopo il '60, nonostante il rinforzo dato alla parte di
    rivendicazioni sociali, il suo programma era rimasto come svuotato:
    poco seguite e poco comprese erano le sue aspirazioni religiose, che
    gli davano una luce vivissima d'idealità e lo proiettavano in
    un lontano futuro; poco chiara era la sua visione della
    trasformazione sociale, a mezzo della riunione nelle stesse mani del
    capitale e del lavoro; evidentemente utopistico, nella sua
    realtà immediata, il suo vagheggiato collaborazionismo tra
    borghesi e operai. Ai giovani che hanno bisogno di guardar lontano,
    parve che il mazzinianismo avesse terminata la sua trentennale
    funzione di propulsore della vita italiana e che si riducesse ormai,
    in sede politica, a un ripicco da vecchio intransigente, ripicco al
    cui soddisfacimento non meritava davvero si dedicassero fresche
    energie, ansiose di provarsi (tanto piú dopo che si era
    dimostrato parto di mente settaria il ripetutissimo ammonimento non
    potersi giungere né a Venezia né a Roma con l'Italia
    monarchica e dopo l'infelice esito delle ultime spedizioni militari
    repubblicane); e in sede sociale si riducesse a un metodo di lenta e
    severa educazione di alcune élites operaie, ossia a un loro
    progressivo imborghesirsi – metodo comunque incapace d'affrontare in
    pieno e risolvere la questione appassionante del conflitto di
    classe, appena disegnato in Italia, già in atto da tempo in
    altri paesi d'Europa.
    
    Fra il 1860 e il 1870, certo, Mazzini non si preoccupò
    abbastanza del necessario reclutamento di forze giovani, ossia non
    pensò alle esigenze comprensibili dei giovani; non li
    appassionò alla repubblica, presentando loro un suggestivo e
    compiuto programma di rinnovamento politico e sociale, non seppe
    appassionarli al lavoro di organizzazione degli operai, ravvivando
    quei congressi, quei giornali, quegli istituti che andava convocando
    e creando. Gli mancarono i collaboratori, è vero, ma egli
    stesso perse il senso per l'innanzi cosí vivo in lui,
    dell'ambiente, perse in sensibilità; si ostinò sulla
    questione religiosa, senza avvertire che su quella strada, in quegli
    anni, nessuno lo avrebbe seguito e non capí quel che di buono
    e di sfruttabile anche a fini idealistici era in quell'ondata di
    materialismo che lo rendeva furioso e a volte ingiusto e che pur
    rispondeva a sentite necessità della vita italiana e
    precisamente a quella fase della sua evoluzione nella quale gli
    italiani dovevano guardarsi intorno, studiarsi, conoscersi,
    acquistar la positiva nozione del proprio stato, delle proprie
    possibilità economiche, provvedere con sollecitudine agli
    immensi bisogni di una moltitudine priva di tutto.
    
    La sua ostinazione, la sua sicurezza, la sua mancanza di
    elasticità – ben comprensibile del resto, posta la sua
    avanzata età – lo compromisero irrimediabilmente agli occhi
    dei giovani, non appena questi giunsero, faticosamente, a liberarsi
    del tradizionale fascino che egli esercitava su di loro, lo misero
    in urto, in seno al suo partito, con quelle forze a cui teneva di
    piú e nelle quali per l'avvenire fidava di piú.
    Scatenò la sua battaglia, nel 1871, sicuro di vincere; e
    invece morí quando volgeva a male. Questa fu la sua tragedia.
    
    In un prossimo articolo cercherò di lumeggiare altri aspetti
    di questa crisi, proseguendo la succinta storia delle relazioni fra
    repubblicani e socialisti, dalla morte di Mazzini fino ai giorni
    nostri.
    
    II.
    
    Dopo il 10 marzo 1872 il dissidio fra internazionalisti e
    repubblicani, vivacissimo di già, inferocí: polemiche
    violente sui giornali, risse per le strade.
    
    Ma non tardò molto a cambiar vento: appunto perché
    cosí aspro e acuto, il dissidio non poteva prolungarsi
    troppo. Una volta affermatisi nonostante i repubblicani, gli
    internazionalisti si buttarono alla positiva propaganda
    insurrezionale, agendo in piccoli gruppi di artigiani, operai e
    piccoli borghesi, risoluti, piú per disperazione che per
    convinzione, a passare ai fatti: era dunque naturale che la lotta
    con i repubblicani passasse in seconda linea. (Dell'atteggiamento
    dei socialisti evoluzionisti non è il caso di parlare: troppo
    esigua era ancora la loro forza perché potesse pesare sulle
    sorti della battaglia politica e sociale, e ben lo seppero Marx ed
    Engels). Un altro incentivo alla pacificazione degli animi venne da
    una nuova ondata di quel confusionismo, che Mazzini aveva tanto
    virilmente combattuto e che costituiva invece la riconosciuta
    specialità dei garibaldini, i quali si vantavano socialisti e
    repubblicani, ma – Garibaldi in testa – da un lato castravano
    placidamente il socialismo dei suoi «eccessi» (ossia di
    quanto lo distingue da un radicalismo di maniera), dall'altro
    dimostravano d'avere in uggia grandissima Mazzini e la sua scuola.
    Garibaldi essendo dunque il duce della democrazia italiana (tot
    capita tot sententiæ) volle tentare il pateracchio fra le due
    ali estreme. E nel novembre del 1872, in un congresso torre di
    Babele fece varare un mastodontico Patto di Roma, che avrebbe dovuto
    essere il loro minimo denominatore comune. Questo Patto è
    senza dubbio un documento di notevole interesse; programma d'azione
    di quella democrazia repubblicana che trovava ridicolo ormai il voto
    di castità politica degli intransigenti, ebbe un solo
    difetto: che ai filo-socialisti parve troppo blando e reticente; ai
    mazziniani – che si dilettavano a declinare candidamente passato
    presente futuro del verbo insorgere – e agli antisocialisti
    arrabbiati in genere, troppo acceso; ci si accennava nientedimeno
    che alla repubblica sociale e al lavoro come unica sorgente della
    proprietà. Il pateracchio andò a monte; e invece di
    confusionismo, portò alla democrazia repubblicana: almeno per
    allora, distinzione netta. Distinzione cioè fra quattro
    gruppi: 1) mazziniani puri (giornalismo un po' educativo e un po'
    barricadiero; comizi e comizi; sindacalismo operaio;
    antiparlamentarismo); 2) repubblicani transigenti, alla Bertani
    (partecipazione alla lotta politica, rinvio sine die dell'attuazione
    del programma integrale); 3) repubblicani alla Alberto Mario (voto
    di castità, ma interessamento vivissimo alla politica; ottimi
    giornali, e idee chiare in testa); 4) repubblicani alla Garibaldi
    (filo-socialismo, confusione).
    
    La storia delle relazioni fra socialisti e repubblicani negli ultimi
    trent'anni del secolo XIX è la storia dell'alterno prevalere,
    nella democrazia di sinistra, della prima, della seconda o
    dell'ultima di queste frazioni. Parrebbe, a prima vista, che con
    tutte i socialisti potessero accordarsi, meno che con quella dei
    mazziniani, legata per l'eternità al verbo antisocialista del
    Maestro. E invece fu proprio essa che – passata la bufera del
    1871-72 e finché prevalsero fra i socialisti i rivoluzionari
    – si dimostrò la piú sensibile alle loro seduzioni.
    Gli è che i socialisti rivoluzionari erano in gran parte
    ex-mazziniani i quali del mazzinianismo avevano ereditato la
    frenesia per la cospirazione e per il «tentativo»,
    nonché i metodi di lotta; gli è anche che i
    mazziniani, pur condannando fermissimamente le loro intemperanze
    teoriche, li consideravano come preziosi alleati per quell'eventuale
    colpo di forza che avrebbero pur tentato, un giorno o l'altro, al
    fine di rovesciare il regime monarchico. I socialisti avrebbero dato
    una mano col disegno di scatenare la rivoluzione sociale
    addirittura, ma si sarebbero poi dovuti necessariamente arrestare
    alla prima tappa, e cioè alla repubblica mazziniana, che
    almeno assicurava l'instaurazione di un serio regime democratico. Di
    qui, fra diffidenza e sospetti, Villa Ruffi (1874); e ci vuole una
    bella dose d'ingenuità per credere che soltanto a un
    inqualificabile arbitrio fossero dovuti gli arresti di repubblicani
    eminenti ivi eseguiti dal governo; per credere insomma che in un
    momento nel quale i socialisti rivoluzionari preparavano
    l'insurrezione armata, invocando anche pubblicamente l'adesione o
    almeno la neutralità benevola di tutti i democratici sinceri,
    i capi del movimento repubblicano si sarebbero adunati segretamente
    in campagna per avvisare ai modi atti a intensificare la lotta
    antisocialista! Bubbole.
    
    Ma il mancato successo, con gli arresti e la sospensione della
    libertà d'associazione che ne seguirono, rinnovò i
    rancori: gl'internazionalisti non dimenticarono mai piú che i
    deputati repubblicani alla Camera – Ferrari eccettuato – nel gran
    chiasso d'interpellanze e discorsi, si limitarono a scagionare il
    loro partito dall'accusa di cospirazione, buttando a mare
    l'Internazionale; fra i repubblicani si fecero avanti – colla voce
    grossa e con gravi «l'avevamo detto noi» –
    gl'intransigenti antisocialisti, che ebbero, da allora in poi,
    almeno fino al 1880, larghissimo seguito.
    
    Quali in Parlamento, quali fuori (i comizi popolari per agitar nel
    paese questioni di larga risonanza furono invenzione repubblicana
    rivelatasi efficacissima e a torto abbandonata), i repubblicani in
    questi anni furono attivissimi: si lottò per il suffragio
    universale, per la laicizzazione dello Stato, per
    l'obbligatorietà della scuola primaria, e via discorrendo. I
    mazziniani puri, alieni dal parlamentarismo, partecipavano sí
    a questa lotta, ma ribadendo periodicamente la pregiudiziale; non
    potendo altro, sfogavano il loro rivoluzionarismo impotente in
    dimostrazioni di piazza, coronate da discorsi sovversivi, con largo
    sfoggio di bandiere vietate. Era questo il loro modo di tener viva
    la scintilla, ma con tali sistemi si attirarono addosso il ridicolo,
    un ridicolo che li circondò poi sempre, aureola di maniera;
    se ne allontanavano gli uomini seri che ne avevano abbastanza di
    buffonate e di alfierianismi, gli scontenti e i rivoluzionari per
    davvero che, tanto, preferivano il positivo sovversivismo dei
    seguaci di Bakunin.
    
    Un merito per altro va riconosciuto a questi mazziniani, e
    grandissimo: che portarono tutti nella lotta politica una
    onestà, una purità d'intenti e uno spirito di
    sacrificio personale, che si può senz'altro dichiarare senza
    esempio in Italia. In periodi di piú sozza corruzione
    politica, si poté e si può rivolgersi alla loro scuola
    con un senso di vero sollievo. Peccato che alle eccezionali doti di
    moralità i discepoli di Mazzini non unissero doti altrettanto
    eccezionali di vivacità e originalità intellettuale.
    Proverbiale ad esempio divenne la indeterminatezza del loro
    programma massimo: ripetevano instancabili le formule di Mazzini, ma
    chi avesse domandato loro particolari precisi sull'ordinamento e il
    funzionamento della repubblica futura, avrebbe dovuto contentarsi di
    frasi, di certe frasi per giunta che parevano uscir tutte da un
    identico conio, tanto si trasmettevano identiche e immutabili di
    bocca in bocca, di penna in penna, d'anno in anno. Questa
    indeterminatezza favorí naturalmente le diserzioni di destra
    e di sinistra; ché i mazziniani si trovavano fra due
    calamite: l'una, quella parlamentaristica (dell'inserirsi,
    cioè) attirava soprattutto gli anziani che, a seguitar
    nell'intransigenza, vedevan tramontare qualsiasi possibilità
    di carriera; l'altra, socialista rivoluzionaria, soprattutto i
    giovani, piú spregiudicati, meno tradizionalisti, piú
    bisognosi d'azione. Reazione e causa ad un tempo, di qui nacque e
    prosperò la famosa e deprecata ortodossia mazziniana
    (carattere sacro attribuito alle virgole nei testi del Maestro). Con
    una falla a prua e una a poppa, i Saffi, i Quadrio e loro satelliti
    si chiusero a chiave nel punto di mezzo della nave, tappandosi le
    orecchie per non sentirsi chiamare da una parte o dall'altra (Dio sa
    se ce ne volle, per esempio, perché ammettessero, con
    infiniti ma e se, la partecipazione del partito alle urne!) Sapevano
    per esperienza che, quando si stabilivano contatti fra repubblicani
    e socialisti o fra repubblicani e gente di governo, chi ci perdeva
    era sempre il loro partito: come matrimoni fra ebrei e cattolici,
    che i figli, novantanove su cento, vengono su cattolici. Ciò
    nonostante il mazzinianismo fu sempre roso – o ravvivato, secondo i
    punti di vista – da un dissidentismo di destra e uno di sinistra.
    Gli è che in certe regioni – prima l'Emilia – si nasceva
    allora, di regola, repubblicani; si facevano le prime armi in quel
    partito e poi, da entro il medesimo, si mostravano le vere tendenze
    individuali. Chi, fra il '70 e il Novecento, non esordí alla
    vita politica con una milizia piú o meno breve tra le file
    repubblicane? (a guardarlo in prospettiva, il movimento repubblicano
    di quegli anni assomiglia un poco a quelle stazioni ferroviarie di
    smistamento nelle quali gli innumerevoli viaggiatori si trattengono
    quel tanto che basta per prendere il treno; e vi sono treni per
    tutte le direzioni).
    
    Se sul terreno dell'azione internazionalisti e mazziniani avevano
    considerato tuttavia di quando in quando la possibilità
    d'accordi, sul terreno teorico il disaccordo era completo e
    inesauribile; piú ancora su quello sindacale. I mazziniani
    circondavano d'ogni cura le associazioni operaie aderenti al Patto
    di fratellanza mantenendole sul terreno della cooperazione e della
    mutualità; gl'internazionalisti facevano la concorrenza,
    incoraggiando ovunque lo sciopero.
    
    A leggere oggi i resoconti dei vari congressi che il Patto
    radunò dal 1872 in poi, non si può a meno di ammirarne
    la saggezza, la moderazione; qualche volta, la praticità.
    Senza dubbio vi si tennero a balia gran parte di quegli istituti la
    cui propaganda e imposizione rappresenta l'immensa benemerenza del
    movimento socialista, e di quello solo. Perché mai nessuno ne
    va grato agli organizzatori del Patto? La risposta – fatta la debita
    parte alla consueta ignoranza delle cose di casa nostra – è
    semplice: le deliberazioni dei congressi mazziniani eran bellissime,
    ma non uscirono mai dai congressi, a confrontarsi con la
    realtà; o se uscirono, se ne accompagnò la prova con
    uno spirito eccessivamente timido e timoroso; né informarono
    mai di sé – si eccettui la bellissima campagna
    cooperativistica – una propaganda vivace e attraente. E fu
    cosí che il mazzinianismo preparò, il socialismo si
    appropriò ed attirò, ma imprimendo a tutto, anche a
    ciò che era sembrato meno moderno, un suo potente spirito
    vitale, una sua profondissima forza di rinnovamento, un suo
    eccezionale senso della realtà.
    
    Altro errore dei mazziniani fu, io penso, la condanna degli scioperi
    (nel congresso del 1882 si decisero a considerarlo come una non
    sempre evitabile iattura!); e gli scioperi son la chiave del
    successo socialista. L'esservisi opposti, il non averne compresa
    l'indispensabilità e l'altissima funzione, anche morale,
    almeno nella prima fase dell'organizzazione operaia, condannò
    il sindacalismo mazziniano a morir dissanguato, nonché ad
    attirare su di sé la dolorosa ingratitudine della massa
    lavoratrice.
    
    Nel 1879 il partito repubblicano, la cui ala sinistra aveva
    attraversato nei due anni precedenti e specie nel 1878 (attentato
    contro Umberto) un periodo di relativa stasi e di
    impopolarità, ebbe un impulso di vita piú fervida.
    
    Gli giovavano la decadenza precipitosa dell'Internazionale
    rivoluzionaria, il sempre piú diffuso malcontento del paese
    (anche la sinistra, dopo tante promesse, ora che era al potere
    seguitava a picchiar tasse su tasse) e anche una maggior
    vivacità degli stessi dirigenti suoi, fra i quali si andavano
    rivelando personalità notevoli, battagliere, dotate di fine
    senso politico, venute su alla scuola di Mazzini e di Cattaneo, ma
    con cultura e mentalità indipendenti (aprile 1879, fondazione
    a Roma della Lega della democrazia). Un valido aiuto la causa
    repubblicana ricevette anche dalla rinascita massonica (quanti erano
    i repubblicani che non bazzicassero in Loggia? e dove, se non in
    Massoneria, si troverà la spiegazione di certe
    riconciliazioni, di una piú intensa propaganda, di una
    maggiore organicità?) e dall'agitazione irredentistica,
    patrocinata calorosamente, ma anche sfruttata a fini propri, dai
    repubblicani; agitazione che il supplizio di Oberdan portò ad
    un alto grado di passione.
    
    Il partito operaio (fondato nel 1882) venne a dar nuovo indirizzo e
    nuovo tono alle relazioni fra socialisti e repubblicani: preoccupato
    di conquistar benefici economici e politici al proletariato, con un
    programma pratico antidottrinario e antirivoluzionario, il partito
    operaio – a parte il riconoscimento dello sciopero – può
    sembrar figlio, se si vuole illegittimo, della scuola repubblicana,
    e invece le si contrapponeva nettissimamente per la dichiarata
    intransigenza di fronte a tutti gli altri partiti sul terreno
    economico (sul politico eran previsti accordi) e per l'esclusivismo
    antiborghese: si sa che i mazziniani avevano tirato avanti le
    società operaie a forza di soci onorari factotum:
    consiglieri, delegati ai congressi, sovvenzionatori, ecc. Era un
    brusco colpo di timone; ed era, in sostanza, il primo serio
    tentativo di concorrenza al sindacalismo democratico in quanto che
    il partito operaio lottava sul suo terreno legalitario. La guerra si
    dichiarò quasi subito contro Milano. Le due organizzazioni si
    rubarono i soci, si oppugnarono nei congressi regionali e nazionali,
    si contrastarono il terreno perfino nelle elezioni politiche,
    tendendo i repubblicani ad allearsi con la democrazia radicale, i
    dirigenti del partito operaio a lasciare candidature indipendenti di
    lavoratori. Sono arcinote le accuse furibonde scagliate dai
    demo-repubblicani lombardi ai loro oppositori di aver applicato il
    tradizionale «non olet» alle interessate lusinghe dei
    gruppi di governo, pronti a gonfiare la nuova frazione pur di
    indebolire la temibile coalizione di sinistra: primo accenno a una
    politica antidemocratica di parte socialista, primo scontro di una
    lunghissima battaglia antisocialista condotta dai repubblicani in
    anni piú vicini ai nostri.
    
    Non mancarono anche, tra i repubblicani e quelli del Partito
    operaio, provvisori accordi. Ma la nuova tendenza sindacale che
    questi ultimi rappresentavano, modificatasi sotto l'influsso dei
    socialisti intellettuali imbevuti di Marx, i quali, attraverso il
    partito operaio operarono la loro conversione tattica verso il
    proletariato militante, era destinata a portare un fierissimo colpo
    al movimento repubblicano, conducendo a morte il vecchio Patto di
    fratellanza che ne costituiva la base granitica; condannandolo
    cioè, per molti anni, a essere un partito essenzialmente se
    non unicamente politico, disinteressato o ridotto a vivere in
    margine alla rigogliosa attività sociale che da allora in poi
    caratterizzò la vita italiana. Di fronte al rigoglio d'idee
    nuove, di metodi nuovi, di forze nuove, il vecchio Patto, capitanato
    dagli stessi uomini del 1871, ma inquinato da elementi sospetti
    vagheggianti un accordo tra il mazzinianismo e il collettivismo
    socialista, non seppe resistere; posto di fronte alla
    necessità di adeguarsi alle mutate esigenze dell'ambiente
    operaio, non fu elastico, non fu politico; si contrasse,
    s'irrigidí e fu travolto. Che i mazziniani vedessero con
    orrore il collettivismo acquistar diritto di cittadinanza nel Patto
    creato da Mazzini, è comprensibile; ma non è
    piú comprensibile ancora che i giovani, gli uomini nuovi
    provassero un irresistibile desiderio di sbarazzarsi di certi Catoni
    oltrepassati che – come il Minuti, ad esempio – erano ancora nel '90
    o giú di lí contrari all'agitazione per le otto ore?
    
    Con la morte del Patto sparivano dall'orizzonte operaio alcuni
    postulati, sui quali, come sul nucleo della dottrina sociale
    mazziniana, i suoi dirigenti avevano costantemente battuto; e ai
    quali dopo tanti anni di lotta e di esperienze gli operai italiani –
    cadute le attuali elefantesche soprastrutture bestemmiatrici dello
    spirito medesimo di un sano associazionismo – dovranno pur tornare:
    non voglio citare che l'indispensabile conciliazione fra
    emancipazione del lavoro e senso nazionale; e l'importanza
    straordinaria del fatto politico.
    
    Nel 1895 nacque il partito repubblicano italiano; ma di ciò e
    delle successive relazioni fra socialisti e repubblicani, altra
    volta.
    
    Mi preme per ora concludere rilevando la sempre piú netta
    distinzione che, dopo il 1890, va operandosi tra repubblicani alla
    vecchia e repubblicani moderni: Bovio, Colajanni, Ghisleri,
    Imbriani, Papa, per non citare che i piú eminenti, ricchi
    d'idee e di attività, stretti intorno a giornali che ancor
    oggi si rileggono imparandovi, hanno infatti ben poco a che fare,
    per esempio, col d'altronde rispettabilissimo gruppo che si riunisce
    intorno alla Fratellanza artigiana di Firenze. «Cuore e
    Critica», «L'Italia del Popolo», rappresentano
    degnamente la generazione repubblicana che seppe fondere e integrare
    le idealità mazziniane col positivismo di Cattaneo; e
    cioè con una vigile coscienza dei sempre nuovi complessi
    problemi della vita nazionale.
    
    4.
Di una storia da scrivere e di un libro recente
    
    La storia del movimento operaio in Italia negli anni che corrono
    dalla morte di Mazzini alla fondazione del partito socialista (1892)
    è ancora da scrivere: e sarebbe un lavoro di prima importanza
    e, direi, necessità. È vero che sull'argomento noi
    disponiamo di una bibliografia vastissima: vecchie storie
    dell'Internazionale, memorie documentarie e aneddotiche, biografie e
    autobiografie, pubblicazioni di propaganda degli anarchici, dei
    socialisti, dei repubblicani, qualche monografia di carattere
    regionale, qualche studio obiettivo sulle organizzazioni economiche,
    e via discorrendo; ma il tentativo di radunare le sparse membra, di
    superare la cronaca, di basare solidamente una sintesi, e non
    è stato compiuto o è stato compiuto senza adeguata
    preparazione, e, forse, troppo presto. Licenziando nel 1927 il mio
    Mazzini e Bakunin. Dodici anni di movimento operaio in Italia
    (1860-72), scrissi un po' alla leggera che a quel primo studio avrei
    fatto ben presto seguire un altro volume che avrebbe condotto il
    filo della narrazione «almeno fino alle soglie del secolo
    XX». Svariati motivi m'impedirono poi di tener fede a quella
    promessa, ma certo il piú serio sarà stato quello che
    non ero ancora maturo a un'opera di cosí vasto respiro,
    né sufficientemente distaccato dalle cose di quel tempo per
    poter affrontare un'esposizione obiettiva. Preferii piuttosto
    indagare la preistoria del nostro movimento operaio e rifarmi alle
    fonti italiane e premarxiste del pensiero socialistico. Per chiarire
    l'azione politica e sociale svolta dall'ultima generazione nata nel
    clima preunitario occorreva d'altronde penetrare assai piú a
    fondo ch'io non avessi potuto fare fino allora il modo della sua
    formazione spirituale, e con quali premesse e con quali
    finalità, e, da ultimo, con quali residui essa avesse
    partecipato alla fase conclusiva del processo unitario italiano. Di
    dove venivano, cosa avevano operato, quali esperienze positive e
    negative avevano attraversato nei loro giovani anni gli uomini della
    prima Internazionale, i continuatori del «socialismo»
    mazziniano, i primi cooperativisti, i primi apostoli del verbo
    marxista? Fino a qual punto la loro nuova attività obbediva a
    profonde esigenze della vita italiana, fino a qual punto invece a
    sollecitazioni dall'esterno?
    
    Era giusto il loro assunto che lo Stato italiano, quale si era
    venuto concretando sotto il governo della Destra, non rispondeva
    alle mete proposte da coloro che piú avevano contribuito alla
    sua formazione e che perciò proprio ad essi aspettava
    l'imporne una radicale trasformazione? Cosa c'era di vero nella
    formola da essi usata della «delusione» provata dalle
    «masse» pei risultati dell'unità? Altrettanti
    interrogativi ai quali bisognava rispondere meditatamente e non
    già ad orecchio, ricalcando schemi consunti.
    
    Ho l'immodestia di ritenere che questi dieci anni d'infedeltà
    al tema primamente propostomi non siano da considerarsi, in questo
    senso, interamente perduti; d'altra parte l'approfondimento notevole
    che gli studi di storia del Risorgimento hanno registrato da ultimo
    ha senza dubbio giovato a maturare i problemi storici posti dalle
    vicende italiane dell'ultimo trentennio del secolo XIX. La prima
    storia del movimento operaio in Italia può inoltre
    solidamente basarsi, ormai, sulle ricerche d'archivio; possibili, a
    tutt'oggi, solo fino al 1867, ma in certi casi, forse, prolungabili
    fino ad anni piú prossimi a questi nostri. E non verrà
    voglia, ad esempio, di rettificare la narrazione, che fin qui si
    è fatta del primo diffondersi dell'Internazionale nell'Italia
    del sud, in base ai dossiers della questura napoletana che di
    recente son stati segnalati e ordinati? Non penserà qualcuno
    a estendere siffatte ricerche negli archivi di Firenze, di Milano,
    di Torino? Dei primi processi contro l'Internazionale non si
    conoscono, fin qui, che gli atti di accusa e le sentenze, oltre alle
    poco attendibili versioni degli interessati: non vorremo adesso
    compulsare addirittura le filze processuali?
    
    C'è molto da lavorare, dunque, in questo campo; e in certo
    senso occorre affrettarsi se vogliamo valerci delle testimonianze
    dei pochi superstiti fra i veterani della vecchia organizzazione
    operaia, e in altro senso occorre procedere con molta cautela e
    andare a rilento prima di trar conclusioni. Da lavorare per chi,
    come me si proponga di dare un seguito, ormai, a un'opera bene o
    male già avviata, e per chi intenda incominciare daccapo e
    con diversi criteri; abbandonando tutti la rotta indicata da
    precedenti «storici» per segnarci una via nuova
    attraverso ricerche di prima mano. Cominciano ad essere possibili,
    ad esempio, certe biografie critiche di un Cafiero, di un Costa, e –
    perché no? – di un Malatesta o di un Cipriani; e si potrebbe
    studiare la prima Internazionale sui suoi innumerevoli giornaletti
    di propaganda, se non addirittura tentare la storia della stampa
    sovversiva in Italia dal '70 in poi; anche si potrebbero studiare i
    rapporti di filiazione e d'incrocio fra i vari partiti e gruppi:
    come si passi, che so io, dalla «Plebe» alla
    «Critica sociale», da Bignami e Gnocchi Viani a Turati e
    alla Kuliscioff; e quale sia stato, in concreto, l'apporto del
    mazzinianismo con la sua tradizione e la sua pratica
    cooperativistica al sindacalismo socialista. O anche la storia del
    movimento operaio, nelle sue varie fasi, in una singola
    città, o regione: Milano socialista, ad esempio, dai tempi
    del «Gazzettino rosa» fino al tramonto del partito
    operaio. Bellissimo tema, in particolare, sarebbe la storia di un
    piccolo centro provinciale che abbia sentito, per tempo, l'influenza
    o il contraccolpo della propaganda socialistica: un tema che
    potrebbe venire affrontato dagli studiosi di provincia (i quali
    lamentano, nel loro isolamento, di non poter lavorare) col semplice
    ausilio, il piú delle volte, della biblioteca e dell'archivio
    comunale. Bisognerebbe cominciare col rendersi conto di quale fosse,
    agli albori della vita unitaria, la costituzione sociale del paese
    prescelto: proporzioni fra i vari ceti, rapporti reciproci, risorse
    locali, condizioni economiche e morali della classe lavoratrice,
    ecc.; e poi, o prima ancora, ricercare l'atteggiamento assunto dai
    vari gruppi di fronte ai problemi della organizzazione politica
    (contributo positivo o negativo o nullo alla creazione dello Stato
    unitario; stato d'animo della popolazione di fronte alla realizzata
    unità; divisione in partiti politici; influenza della Chiesa,
    e via discorrendo); tener d'occhio, a mezzo della stampa locale e di
    memorialisti paesani – ce ne furono tanti, in Italia, anche in tempi
    recenti, e son cosí poco sfruttati – o di carteggi
    particolari, il primo disegnarsi di una organizzazione autonoma fra
    i lavoratori, e le reazioni da essa suscitate, e l'urto eventuale,
    in seno ad essa, di tendenze diverse; seguire le successive prese di
    posizione della classe lavoratrice di fronte a importanti
    avvenimenti della vita nazionale, e i progressi delle organizzazioni
    e il loro entrare in rapporto con altre consimili della provincia e
    della regione; indagare l'effettivo grado di autonomia dei
    lavoratori organizzati (rapporti con gli intellettuali
    propagandisti), e, pian piano, le forme e i limiti della loro
    partecipazione alle lotte politiche e amministrative, e via
    cosí. La storia di dieci o dodici paesi di provincia, a
    economia agraria o industriale o marittima, del nord, del centro o
    del sud, di pianura o di montagna, questa storia, narrata di su
    fonti autentiche, con scrupolo di verità, senza intenzioni di
    «rivendicazione», non ci fornirebbe forse un materiale
    prezioso per la piú grande storia d'Italia negli ultimi tre o
    quattro decenni del secolo passato?
    
    Pensavo tutto questo, leggendo il primo volume della Vita di
    Mussolini, di fresco pubblicata, pei tipi Mondadori, da Ivon de
    Begnac. Son 355 pagine fitte, le quali arrivano al 1902 e nelle
    quali si parla soprattutto del padre di Mussolini, Alessandro (molto
    anche della Romagna in genere). Alessandro Mussolini, nato nel 1854,
    fece, si sa, di professione il fabbro, e fu nella sua Predappio (e,
    per maggior esattezza, nella frazione di Dovia) uno dei primi e
    piú attivi operai socialisti: autodidatta, amico devoto e
    ammiratore del Costa, e del Cipriani – non forse chiamò il
    suo primogenito, oltreché Benito, in memoria del Juarez,
    anche Andrea e Amilcare in omaggio ai due idoli della sua
    giovinezza? –, partecipe, nel '74, a quella «marcia su
    Bologna», che alcuni anni or sono ha fornito la trama a un
    buon romanzo italiano; fieramente anticlericale, garibaldino a
    oltranza come tutti i primi internazionalisti; patriota e nel tempo
    stesso antimilitarista; propagandista indefesso delle sue dottrine,
    e perciò carcerato due volte (nel 1878 e nel 1902) e per
    quattr'anni ammonito (dal 1878 al 1882); attentissimo ai problemi
    della organizzazione economica: fondatore e capo, nonché di
    una società dei bevitori, arguto travestimento di un gruppo
    sovversivo, di una cooperativa di braccianti, e per ciò
    assuntore di lavori pubblici, e finalmente e per parecchi anni fra
    gli amministratori del suo comune. Il De Begnac, che è uno
    scrittore, sa presentarcelo vivo e naturale, il suo personaggio, e
    con lui la sua Predappio con le sue lotte intestine, con la sua
    miseria, con le sue insoddisfatte aspirazioni di accrescimento e di
    potenziamento, nella cornice di quella Romagna eternamente
    appassionata e violenta, civilissima e sovversiva. Nulla di
    piú suggestivo e di piú illuminante, per uno studioso
    dell'età recentissima; nulla di piú comprensibile,
    s'aggiunga, delle ingenue contraddizioni nella vita e nel pensiero
    di questo operaio socialista di ceppo repubblicano, il quale, mentre
    sogna la rivoluzione sociale (e, quando è possibile, la
    tenta), non per questo si sente meno nel solco della tradizione del
    Risorgimento; di questo anticlericale nato, il quale pur manda i
    suoi figli in collegio dai salesiani; di questo estremista
    intransigente il quale accetta cariche pubbliche; di questo tardo
    legalitario che, quando le elezioni volgano sfavorevoli al suo
    partito, non troppo s'adonta che i suoi seguaci fracassino le urne.
    
    Il torto dell'autore (oltre a quello di annegare in troppo colorismo
    strapaesano, troppe diversioni introspettive un soggetto di tanta
    umana schiettezza), il torto dell'autore, anzi, è proprio
    quello di non avere inteso come siano appunto cotali contraddizioni
    e, con esse, taluni atteggiamenti non ortodossi del suo personaggio,
    quelli che valgono ad accentuarne ai nostri occhi il singolare
    interesse, facendone un tipo piú nettamente rappresentativo
    di un'età e di un costume. Giacché il problema non
    è davvero quello di rappresentare Mussolini padre come
    precursore di tempi allora impreveduti e di correnti ideologiche
    allora inconcepibili; ma piuttosto quello di conferire tanta
    verità alla sua figura, tanta necessità, direi, alle
    sue azioni, da farne un interprete fedele e immediato e quasi un
    simbolo di certe esigenze, di certe aspirazioni, di certi motivi
    ideali del suo ceto, nell'Italia d'allora. Se nella vicenda di lui
    noi dobbiamo vedere non solo la premessa e il punto di partenza per
    il singolare cammino percorso dal figlio, ma anche un poco – come
    è certamente nei desideri del De Begnac – la storia delle
    masse operaie e contadine che finalmente entrano, sia pur da
    ribelli, nella vita della nazione e via via acquistano coscienza dei
    suoi multiformi problemi, e piú in generale, della immensa
    distanza che sempre separa ideale e realtà, programma e
    prassi, ben s'intende come sia erroneo, oltreché inutile, lo
    stendere un velo su talune sue limitazioni e, talvolta, deviazioni.
    Tutte le esperienze son necessarie e in ultima analisi preziose alla
    vita di un popolo, tutte le riconquiste presuppongono un antecedente
    abbandono, tutte le affermazioni una negazione o almeno un dubbio:
    tutto sta nel saper ricostruire e tenere realisticamente presente il
    processo dialettico che lega questi vari momenti con un vincolo
    reciproco di indispensabilità. È cosí che, ad
    esempio, io non avrei affatto temuto di riferire integralmente certi
    passi caratteristici della prosa rivoluzionaria del primo Mussolini:
    sia le invettive contro i milioni del «povero prigioniero
    Gioachino Pecci»451, che l'invito ai preti a gettare la
    «tonaca alla fiamma purificatrice del progresso per indossare
    il farsetto onorato dell'operaio»452, o il contesto della
    infiammata corrispondenza «Cos'è il socialismo?»
    («il socialismo... è la scienza che illumina il
    mondo..., è una sublime armonia di concetti, di pensiero e di
    azione che precede al gran carro dell'umano progresso... Diceva un
    giorno il grande Brunelleschi: datemi un punto di appoggio per la
    manovella, che io vi solleverò il mondo. Ebbene, diciamo noi,
    uniamoci tutti pel comun bene e prementi tutti come un sol uomo
    nella gran manovella – la rivoluzione sociale – daremo l'ultimo
    colpo a questo mostruoso e crollante edificio...»)453. Il De
    Begnac addita in Mussolini uno dei pochi socialisti di allora
    sensibili a un patriottismo monarchico e, per cosí dire,
    nazionalistico: ma la dichiarazione da lui fatta in consiglio
    comunale all'indomani del regicidio di Monza («... nel
    prendere parte al lutto nazionale protestiamo contro l'insulso ed
    efferrato assassinio commesso contro la vita di un galantuomo,
    dichiariamo, per essere coerenti ai nostri principî, e per
    ragioni di partito, di astenerci dalla votazione»)454 non
    corrisponde forse all'atteggiamento ovunque assunto in quella
    occasione dai socialisti italiani? Questa figura di popolano serba
    tutta la sua attrattiva a condizione che se ne rispetti
    scrupolosamente la primitiva semplicità: orbene, scrivendo
    che una letterina di Mussolini alla «Lotta» di
    Forlí per dissuadere il partito dal riunire un congresso a
    Lugano costituisce «un documento importantissimo per la storia
    del socialismo in Italia»455, oppure che «se la storia
    non parla ancora di quest'uomo ciò si deve al fatto che
    nessuno storico ha ancora scrutato nella vita di Romagna dal 1880 al
    1900»456, non si rischia forse di svisare i lineamenti e
    l'azione di questo ardente e modesto e sincero militante dell'idea
    socialistica?
    
    Il De Begnac ricorre forse un po' troppo a queste amplificazioni, a
    queste omissioni: direi, in genere, che ha troppo il gusto della
    «interpretazione». Perché sorvolare, ad esempio,
    sulla circostanza, pur nota, che la forlivese
    «Rivendicazione», cui Mussolini di quando in quando
    mandò qualche sua cronachetta predappiese (rapporti succinti,
    quali poteva scriverli, negl'intervalli del suo lavoro, un autentico
    operaio, non mai articoli veri e propri), era un giornale anarchico
    rivoluzionario, tra i cui assidui collaboratori figurava un
    Malatesta?457. Perché, ancora, non affrontare con storica
    obiettività il problema dell'atteggiamento assunto dai
    socialisti nostrani di fronte al primo tentativo coloniale
    dell'Italia d'allora? Pareva a costoro che i partiti di masse
    avrebbero in qualche modo tradito le loro idealità se, in un
    paese afflitto da grande miseria, com'era allora il nostro, e quindi
    dalla impossibilità di risolvere sollecitamente i suoi
    piú gravi e piú urgenti problemi interni, avessero
    aderito a una costosa politica espansionista. Il che non implica
    affatto che i socialisti non amassero il loro paese: lo amavano
    bensí, ma in quanto si mantenesse fedele a quella bandiera di
    libertà cui pur doveva il suo costituirsi a nazione; bandiera
    di libertà alla cui ombra i socialisti italiani avevano, dal
    piú al meno, militato tutti, nei loro giovani anni, e
    sarebbero stati pronti ad impugnare ancora le armi, se dall'esterno
    si fosse comunque minacciato l'integrità nazionale. Garibaldi
    non era (o almeno non si reputava) dei loro? E quando Oberdan
    salí il patibolo, non furono i socialisti appunto che meglio
    ne compresero il disperato gesto e ne onorarono poi, di anno in
    anno, la memoria?458 Cosí per Crispi: dal fatto che un certo
    giorno, vista respinta una prima domanda d'impiego presentata al
    comune di Predappio dal figlio giovinetto, Mussolini gli gridasse,
    in piazza: «Non ti avvilire, tu sarai il Crispi di
    domani», non mi sembra si possa senz'altro dedurre che il
    fabbro rivoluzionario nutrisse qualche inconfessata simpatia pel
    «gran vecchio». La lettura del «Risveglio»,
    l'altro giornaletto cui Mussolini collaborava in quegli anni,
    legittima comunque qualche dubbio in proposito.
    
    Questi pochi miei appunti ad un libro, il quale, indiscutibilmente,
    ha in sé qualcosa di assai stimolante e rappresenta un
    meritorio sforzo di documentazione in un campo fin qui disertato
    dagli studiosi, vogliono significare invito all'autore a proseguire
    nelle ricerche adesso iniziate, raccogliendo ulteriori documenti e
    ulteriori testimonianze sul protagonista di questo suo primo volume
    (del quale, del resto, egli ci parlerà di certo anche nel
    secondo volume: Alessandro Mussolini, infatti, morí nel
    novembre del 1910, a pochi mesi di distanza dal «suo»
    Andrea Costa)459. A tale proposito mi permetto di segnalare fin
    d'ora al De Begnac quei pochi accenni sul Mussolini, a lui sfuggiti,
    che ho potuto rintracciare fra le mie note:
    
    «Sole dell'avvenire», Ravenna, 30 settembre 1883:
    corrispondenza da Predappio. Circa la visita compiuta il 12
    settembre a Predappio e a Dovia dal Costa; suo discorso di
    propaganda socialista a Dovia, suo incoraggiamento a partecipare
    alle elezioni amministrative; grande spiegamento di forze compiuto
    nell'occasione dall'autorità: «tanta forza
    quassú era uno spettacolo straordinario; dapprima le donne
    nostre temevano chi sa che diavoleria, poi risero». La
    corrispondenza non è firmata: che sia di Mussolini?
    
    «Sole dell'avvenire», 1° dicembre 1883: cronaca del
    Congresso dei socialisti rivoluzionari di Romagna, riunitosi a
    Forlí il 18 novembre: tra i delegati figura, per Dovia,
    Mussolini.
    
    «Rivendicazione», Forlí, 20 novembre 1886:
    corrispondenza da Predappio firmata da diversi «socialisti di
    Predappio», non da Mussolini, circa i disordini verificatisi
    in paese il 23 ottobre (altra, su analogo argomento, a firma
    Ravajoli, il 29 settembre 1888).
    
    «Rivendicazione», 6 agosto 1887: corrispondenza da
    Predappio circa la situazione comunale: anche questa non firmata da
    Mussolini.
    
    «Rivendicazione», 17 settembre 1887: corrispondenza da
    Predappio circa i funerali del «compagno» Antonio
    Bartoletti, svoltisi in forma puramente civile («In Predappio
    o si è socialisti o cattolici; i monarchici o democratici
    sono pochissimi, ed avvi un sol repubblicano»). È
    firmata «I compagni».
    
    «Rivendicazione», 7 dicembre 1888: «La Federazione
    socialista rivoluzionaria di Predappio e sezione di Dovia, liete del
    felice avvenimento che ha commosso tutti i compagni, vale a dire
    della liberazione dell'indomito Carlo Cafiero, salutano in lui
    affettuosamente l'eroe ribelle dei moti di Benevento, e il futuro
    campione delle lotte economiche. Per la Federazione: Chiadini,
    Lombardi, Mussolini, Marani, Girelli».
    
    «Rivendicazione», 23 febbraio 1889: lettera aperta a
    firma «Molti lavoratori di Predappio e comuni vicini per
    invocare la costruzione di un certo tratto di strada che dovrebbe
    congiungere la vallata del Rabbi con quella del Savio».
    
    «Rivendicazione», 30 marzo 1889: corrispondenza a firma
    Mussolini, da Predappio, 18 marzo: «Ieri sera, vigilia della
    gloriosa rivoluzione parigina del 71, la nostra Federazione
    socialista nel locale sociale fra molti invitati commemorò il
    18° anniversario del comune parigino. Vari compagni
    pronunciarono discorsi di circostanza e tutti applauditissimi. Si
    finí inneggiando alla prossima rivoluzione sociale e inviando
    un saluto all'eroico colonnello del comune, il valoroso
    rivoluzionario Amilcare Cipriani, glorioso avanzo di tanta
    grandezza».
    
    «Sole dell'avvenire», 6 luglio 1889: cronaca della
    riunione del partito socialista rivoluzionario della Romagna
    tenutasi a Forlí, il 30 giugno: per la federazione di
    Predappio e Dovia sono presenti Mussolini, Brusaporci e Balducci. Si
    discute della partecipazione ai due congressi socialisti che si
    riuniranno a Parigi nel luglio; Mussolini prende parte alla
    discussione.
    
    «Rivendicazione», 1° maggio 1891: lettera aperta de
    «Gli operai disoccupati» da Predappio 28 aprile, alla
    deputazione provinciale di Forlí: domandano lavori pubblici;
    «è in nome della fame che domandiamo di essere
    occupati».
    
    «Rivendicazione», 27 giugno 1891: corrispondenza da
    Predappio, 3 giugno, a firma Mussolini, circa la visita compiuta a
    Predappio dai componenti la detta deputazione per studiare lavori
    stradali; gradito ricordo lasciato in tutti, speranze degli operai,
    ecc.
    
    «Risveglio», Forlí, 31 marzo 1894: corrispondenza
    da Predappio, 28 marzo, circa l'arresto verificatosi alla domenica
    dei compagni Capelli, Raggi, Brusaporci, rei di aver cantato l'inno
    dei Lavoratori; Castagnoli è riuscito a fuggire.
    
    «Risveglio», 10 maggio 1896: corrispondenza da
    Predappio, non firmata, circa questioni stradali.
    
    «Risveglio», 7 giugno 1896: cronaca del IV Congresso
    regionale socialista romagnolo tenutosi a Forlí il 31 maggio.
    Manca qualunque rappresentante di Predappio. In relazione a
    ciò si noti che in calce alla corrispondenza da Predappio
    pubblicata il 26 gennaio si legge: «I socialisti di Predappio
    hanno aderito al partito? [N. d. R.]».
    
    «Risveglio», 29 luglio 1899: cronaca del XXIII Congresso
    socialista romagnolo tenutosi a Forlí il 23. Manca, ancora
    una volta, qualunque rappresentante di Predappio.
    
    «Risveglio», 5 maggio 1900: la corrispondenza da
    Predappio, 29 aprile, non firmata (ma che il De Begnac attribuisce a
    Mussolini), si occupa anche della bicchierata fatta a Dovia il
    1° maggio: «Si inneggiò all'Estrema Sinistra per
    l'energica lotta che ha sostenuto e sosterrà... e si fecero
    auguri perché la vittoria finale assicuri l'indipendenza e la
    libertà al forte popolo boero».
    
    Termino augurando che l'esempio del De Begnac venga seguito da
    altri: cioè che s'inizi una fervida opera di raccolta e
    d'illustrazione di documenti spettanti alla storia del movimento
    operaio italiano negli ultimi trent'anni del secolo XIX.
    
    Dopo la pubblicazione del volume qui segnalato non è da
    dubitarsi che studi siffatti non abbiano ad incontrare il plauso ed
    anzi l'incoraggiamento generale.
    
    ----
    
    1 L'autore di questo articolo sta per pubblicare in volume la prima
    parte di un suo studio, compiuto nel periodo del suo alunnato alla
    Scuola di Storia Moderna in Roma, condotto su documenti degli
    archivi di Londra, Torino, Firenze e Napoli, intorno alla politica
    svolta dall'Inghilterra in Italia fra il 1815 e il 1847 [Inghilterra
    e regno di Sardegna dal 1815 al 1847, a cura di P. Treves, Torino
    1954]. In questi rapidissimi appunti egli ha inteso di prospettare
    storicamente il problema dei rapporti Italia-Inghilterra quale si
    pone fino dal secolo XVII e di chiarire, della politica inglese, le
    premesse fondamentali e taluni sviluppi piú caratteristici
    fino alla crisi risolutiva dell'unità italiana. Sia qui detto
    che la Scuola di Storia Moderna ha cercato, fin dal suo nascere
    (anno 1926) di promuovere lo studio della storia d'Italia nel
    piú ampio quadro della storia europea [L'articolo comparve
    nella «Rivista storica italiana», 1936].
    
    2 Carlo Alberto principe di Carignano, Firenze 1930. Del seguito,
    vivamente atteso, di questa pregevole opera è stato
    pubblicato il volume su Carlo Alberto negli anni di regno 1831-43,
    proprio mentre si stava ultimando la stampa di quest'Annuario.
    
    3 Prima di lui nessuno si era preoccupato di consultare, in merito
    alla questione di Carlo Alberto, i carteggi conservati nel Record
    Office. Il Vayra (La leggenda di una corona: Carlo Alberto e le
    perfidie austriache, Torino 1896) si era limitato, a suo tempo, a
    tradurre – né sempre con esattezza – i dispacci spediti da
    Verona dal Wellington, i quali erano già stati pubblicati da
    lungo tempo in Inghilterra.
    
    4 Un esempio tipico di questa mutevolezza dei diplomatici si ricava,
    nei confronti di Carlo Alberto, dal dispaccio del ministro inglese a
    Torino, William Hill, a lord Londonderry, 9 febbraio 1822 (Public
    Record Office, Sardinia, 65; dispaccio segreto e confidenziale, n.
    4), e riguarda la legazione di Francia. Da esso risulta che nel
    settembre del 1820 la legazione di Francia era contraria al ritorno
    di Carlo Alberto in Piemonte; in ottobre, invece, lo favoriva; sui
    primi del '22 vi si manifestava di bel nuovo contraria. Ci
    auguriamo, fra parentesi, che questo accidentale rilievo non abbia a
    procurare un nuovo piacere al francese César Vidal, noto
    studioso del Risorgimento, il quale, scottato per una innocente
    recensioncina al suo Charles-Albert et le Risorgimento italien
    (Paris 1930), ci ha fatto l'onore, in un suo successivo volume, di
    attribuirci (per combatterle, naturalmente) opinioni mai espresse da
    noi circa Carlo Alberto e la politica della Francia e dell'Austria
    (Louis-Philippe, Metternich et la crise italienne de 1831-32, Paris
    1931, pp. 20 nota c 285). Ci rincresce dover confessare che di
    questo argomento non ci siamo mai occupati fin qui se non, appunto,
    per temperare il soverchio zelo francese del signor Vidal.
    
    5 Nell'indice dei nomi di persone che chiude il volume del Rodolico,
    il Percy non figura: per un banale errore egli è stato
    registrato sotto il suo nome di battesimo, Algernon.
    
    6 P(ublic) R(ecord) O(ffice), Sardinia, 61, n. 9 (a lord
    Castlereagh). D'ora innanzi, dei dispacci della legazione inglese a
    Torino daremo soltanto il numero e la data; salvo indicazioni in
    contrario s'intende che sono tutti diretti a lord Castlereagh (lord
    Londonderry dall'aprile 1821) e che appartengono tutti alla serie
    Sardinia, che nel catalogo del Foreign Office reca il numero
    d'ordine 67. Del Percy si vedano anche i dispacci 13 settembre, 3 e
    24 ottobre, 25 novembre, 24 dicembre 1820.
    
    7 P. R. O., Austria, 151.
    
    8 P. R. O., Austria, 151. È vero che nei mesi seguenti le
    informazioni dello Stewart parvero improntate a un maggiore
    ottimismo: conseguenza dei rapporti giunti a Vienna, da Torino, dal
    generale Ficquelmont. Cfr. ad esempio il dispaccio Stewart 22 agosto
    1820.
    
    9 P. R. O., Tuscany, 35, dispaccio 2 ottobre 1820.
    
    10 Cfr. il dispaccio Stewart, Vienna, 8 agosto 1820 (loc. cit.):
    «Ho trovato il principe (Metternich), oggi, piú
    visibilmente agitato che mai per l'innanzi circa l'attuale
    situazione... Egli mi ha comunicato in particolare i suoi allarmi
    per il Piemonte e mi ha detto che crede il re di Sardegna debole e
    ondeggiante». Nel seguito il cancelliere austriaco mutò
    parere circa re Vittorio: ché la sua abdicazione gli parve
    atto di grande energia (cfr. Mémoires, documents et
    écrits divers, Paris 1880-84, III, p. 463). Tutto ciò
    dimostra che ha torto il Webster, autore di magistrali studi sul
    Castlereagh quando (The Foreign Policy of Castlereagh (1815-22),
    London 1925, p. 328) scrive che la rivoluzione in Piemonte giunse
    «inaspettata, per quanto nel 1820 il nord d'Italia fosse stato
    considerato assai piú pericoloso del sud. Ma per nord si era
    intesa la Lombardia». Si deve per altro riconoscere che i
    timori concepiti nel corso del 1820 si acquetarono un poco nei primi
    mesi dell'anno seguente grazie al cieco ottimismo dimostrato dal San
    Marzano a Lubiana.
    
    11 Dispaccio Stuart (ambasciatore inglese a Parigi) a Castlereagh,
    22 marzo 1821 (P.R.O., France, 250, n. 84).
    
    12 Cfr. Webster, Op. cit. , pp. 303 sg., 321 sg. Il Gordon,
    sostituto dello Stewart alla Conferenza di Lubiana, assicura che il
    dispaccio circolare del Castlereagh piacque moltissimo al delegato e
    ministro degli esteri sardo, San Marzano (ivi, 325). In
    realtà questi scriveva al suo re, il 15 febbraio, che la
    protesta del gabinetto di Londra «non cambia nulla nel sistema
    adottato dall'Inghilterra, e non può influire sugli affari
    generali; essa fornisce solo un testo alle declamazioni dei
    liberali» (Avetta, Al Congresso di Lubiana coi ministri di re
    Vittorio, in «Il Risorgimento italiano», 1923, pp.
    215-18). Il Percy, a Torino, si sforzava intanto di neutralizzare le
    conseguenze evidenti della circolare Castlereagh, ripetendo che di
    essa non dovevano gloriarsi né i radicali inglesi né i
    liberali francesi né i carbonari italiani (Negri, La
    rivoluzione piemontese del '21 nel carteggio della diplomazia
    pontificia, in La Rivoluzione piemontese del '21. Studi e documenti
    pubblicati dalla Società Storica Subalpina, 1924, II, 469).
    
    13 Ciò si ricava dai dispacci del conte d'Agliè, e del
    conte Pollone, da Londra, al San Marzano (l'Agliè, è
    noto, partí per Parigi e Torino ai primi d'agosto del 1820, e
    non tornò in sede che molti mesi piú tardi, dopo avere
    esperito importanti missioni a Lubiana e a Napoli). Il 23 luglio
    1820 l'Agliè, rendendo conto di un suo colloquio col
    Castlereagh, scriveva: «Quanto a noi, egli mi disse che
    sentiva essere la nostra situazione molto difficile, ed esigere
    molta prudenza e vigilanza; ma evitò di entrare in
    particolari» (Bianchi, Storia della diplomazia europea in
    Italia, II, pp. 307-8. Il Bianchi attribuisce erroneamente a questo
    dispaccio la data di Parigi). Non si può escludere è
    vero, che dispacci riservati dell'Agliè o del Pollone
    manchino dalle filze esibite agli studiosi nell'Archivio di Torino,
    né che il segreto pensiero del Castlereagh venisse
    dall'Agliè convogliato oralmente al San Marzano; quel che si
    può escludere quasi con certezza si è invece che,
    partito l'Agliè, il Castlereagh si aprisse confidenzialmente
    col giovane incaricato Pollone.
    
    14 Cfr. i dispacci Stewart del 21 e 27 dicembre 1820 (loc. cit.) e
    Castlereagh a Stewart, 19 gennaio 1821 (P. R. O., Austria, p. 158,
    n. 6).
    
    15 Tale nomina ebbe luogo in settembre e non nel giugno, come scrive
    il Rodolico a p. 99. Piú tardi lo Hill riferí che a
    Torino «molti erano rimasti sorpresi che il re avesse affidato
    a una persona cosí giovane un posto considerato della
    piú alta importanza in questo paese» (dispaccio 25
    giugno 1821).
    
    16 Dispaccio Percy 3 ottobre 1820.
    
    17 Dispaccio Hill 17 maggio 1821: «In realtà
    l'antipatia del vecchio re (per gli austriaci) era cosí viva
    che per due anni dopo che essi ebbero evacuato il paese egli non
    cessò mai di parlare su questo soggetto sia con me che con
    qualunque viaggiatore inglese io gli presentassi a corte; ora si
    afferma perfino che, a forza di tenere lo stesso linguaggio dinanzi
    ai suoi ufficiali, egli abbia in qualche misura determinato
    quell'animosità che ha tanto contribuito ai recenti
    avvenimenti».
    
    18 Dispaccio Percy 8 dicembre 1820.
    
    19 Istruzioni San Marzano ad Agliè (che è in viaggio
    per Napoli), Lubiana, 28 febbraio 1821: «Conoscete
    perfettamente... le vedute e l'opinione del gabinetto di St James,
    sapete che esso, malgrado la sua neutralità assoluta,
    è antirivoluzionario» (Avetta, op. cit., p. 246). Il
    contegno assunto dall'Inghilterra a Lubiana è troppo noto
    perché occorra riferirne qui.
    
    20 Narrando che il principe «manda ogni giorno all'ospedale
    per assumere informazioni sul conto dei feriti e per offrire loro
    ogni assistenza», il Percy viene a dare piena conferma al
    racconto del Rodolico (p. 122) contro le risibili fandonie del
    Brofferio. Cfr. il dispaccio Percy 19 gennaio 1821.
    
    21 Questa notizia, vera o non vera, non è stata fin qui
    registrata, ch'io mi sappia, da altre fonti. Dispaccio Percy cit.,
    19 gennaio 1821.
    
    22 Dispaccio segreto Percy 6 marzo 1821. Il Percy è
    già informato di quanto, nelle lettere sequestrate, riguarda
    Carlo Alberto, qualificato dal principe della Cisterna decisamente
    inferiore «a siffatta incombenza».
    
    23 Dispaccio Percy 10, 11 e 13 marzo 1821.
    
    24 Dispaccio cit. 11 marzo 1821; egli sta per mandare all'uopo un
    corriere a Napoli quando gli giunge notizia che il re e la regina
    hanno abdicato e sono partiti per Nizza. Dispaccio cit. 13 marzo
    1821.
    
    25 Dispaccio cit. 13 marzo 1821.
    
    26 Dispaccio cit. 13 marzo 1821. A Torino e in tutto il Piemonte
    è diffusa l'idea che l'Inghilterra interverrà
    militarmente per impedire un'eventuale occupazione straniera. Lo
    attesta lo stesso Percy (dispaccio 15 marzo 1821): si crede che
    «qualora la Russia mandasse truppe in appoggio dell'Austria in
    Italia, la Francia di concerto con l'Inghilterra agirebbe
    immediatamente contro i dittatori del nord in pro dell'indipendenza
    italiana». Se ne parla in Lombardia, come dimostra un rapporto
    31 marzo della polizia di Como alla direzione di polizia a Milano: i
    liberali piemontesi vanno spargendo che «gli Inglesi abbiano
    sbarcato un corpo di truppe per soccorrere i Napoletani»
    (Colombo, La rivoluzione del 1821 secondo fonti austriache, in La
    rivoluzione piemontese del 1821. Studi e documenti cit., II 717).
    Ancora il 13 aprile il Laneri scriveva al sindaco di Savona:
    «Quindici bastimenti inglesi sono giunti a Genova per
    sostenerci in questa circostanza» (Luzio, Carlo Alberto e
    Mazzini, Torino 1923. pp. 31-32).
    
    27 In due luoghi: a pp. 185-86 e a p. 197, nota.
    
    28 Segnaliamo qualche punto piú interessante. Nel dispaccio
    11 marzo il Percy afferma che Carlo Alberto si è rifiutato di
    recarsi, conformemente all'ordine di S. M., fra le truppe ribelli ad
    Alessandria, «adducendo di sapere che lo si sarebbe forzato a
    mettersi alla testa degli insorti e a figurare cosí d'agire
    d'accordo con loro». Questa versione contrasta con quella
    piú generalmente accettata (basata sui Memoriali di Carlo
    Alberto e sulla testimonianza del Balbo: cfr. Rodolico, p. 157)
    secondo la quale tale linguaggio sarebbe stato tenuto dal Gifflenga,
    che Carlo Alberto aveva designato ad accompagnarlo nel viaggio;
    è confermata però dal ministro d'Austria, Binder
    (dispaccio 12 marzo 1821 pubblicato dal Rinieri, La rivoluzione in
    Piemonte. Le società segrete, ecc., nella cit. silloge La
    rivoluzione piemontese. Studi e documenti, I, pp. 622-23) e dal
    biografo del conte Revel (Introduction à la guerre des Alpes,
    ecc., p. XLIV). Nello stesso dispaccio dell'11 marzo il Percy dava
    circostanziata notizia della convocazione fatta dal re quel giorno
    stesso degli ufficiali comandanti i corpi armati di stanza a Torino
    per interpellarli circa l'assegnamento che poteva farsi sulle
    rispettive truppe. Orbene, questo episodio è stato fin qui
    generalmente attribuito al giorno seguente, 12 marzo. La
    testimonianza del Percy, il cui dispaccio – ripetiamo – è
    datato 11 marzo, sembrerebbe inoppugnabile, a meno che non si pensi
    (cosa niente affatto inverosimile) che, giacché non tutti i
    giorni si presentava l'occasione di far partire dispacci, egli
    figurasse soltanto di scriverli (in quelle gravi circostanze)
    quotidianamente; e che in realtà li scrivesse tutti insieme,
    salvo ad apporre a ciascuno di essi date diverse. Quanto alle
    dichiarazioni fatte dagli ufficiali convenuti, il resoconto Percy
    collima con la versione tradizionale, secondo la quale il colonnello
    del reggimento Aosta e il principe di Carignano avrebbero risposto
    che sulle loro truppe, pronte a difendere il re, non era da fare
    assegnamento quanto a un'azione contro i rivoltosi (Carlo Alberto,
    è noto, scrisse nel suo primo Memoriale in modo alquanto
    diverso; ma di ciò piú oltre). Senonché il
    Percy aggiunge che, uditi quegli scoraggianti rapporti, «il re
    scoppiò in lacrime». E ancora: nel dispaccio 12 marzo
    il Percy, vagliando le voci che corrono nella capitale circa il
    contegno tenuto da Carlo Alberto alla Cittadella (chi diceva dentro
    di essa e chi dinanzi ad essa), esclude che egli possa essersi unito
    ai rivoltosi nel grido di «W la Costituzione», e
    ciò «quali che siano gl'intimi sentimenti del
    principe».
    
    Non sembra che la notte fatale dell'abdicazione del re, il Percy
    avesse colloqui con questo o col neo-reggente: egli si limitò
    probabilmente, come gli altri suoi colleghi del corpo diplomatico, a
    recarsi quella notte alla Segreteria degli esteri, dove le
    drammatiche novità vennero loro comunicate (all'Archivio di
    Stato di Torino, Lettere Ministri. Gran Bretagna, Registro lettere
    della Segreteria degli esteri, si conserva infatti copia di un
    biglietto, datato 12 marzo, ore 11,30 p., con cui il San Marzano
    invitava il Percy a recarsi d'urgenza alla Segreteria). Il Percy
    comunicò l'avvenuta abdicazione del re con dispaccio al
    Castlereagh scritto alle due di mattina del 13 marzo. Un colloquio
    col re e col reggente ebbe invece, all'alba del 13, l'ambasciatore
    di Francia, La Tour du Pin: su di esso e sulle dichiarazioni fatte
    da quel diplomatico molto si è scritto e fantasticato. Ma il
    Segre nel suo Vittorio Emanuele I, Torino 1930, pp. 241-42, ci
    accerta di non averne trovato traccia nel carteggio La Tour du Pin,
    da lui consultato a Parigi. Stimiamo opportuno perciò
    registrare in proposito la testimonianza dello Stuart, ambasciatore
    inglese in Francia. Il cui dispaccio 17 marzo 1821 (P. R. O.,
    France, 250, n. 79) in sostanza conferma appieno la nota versione
    del De Reiset (cfr. in Rodolico, p. 180), tacendo di un supposto
    colloquio del La Tour con re Vittorio e riferendo solo, di quello
    con Carlo Alberto, le dichiarazioni di quest'ultimo in senso
    favorevole alla promulgazione della Costituzione francese. Il
    Gordon, invece, che attingeva a fonti austriache, accertava, nel suo
    dispaccio 22 marzo 1821 (P. R. O., Austria, 163, n. 27) che il La
    Tour avrebbe «consigliato il principe di Carignano di adottare
    la Costituzione francese, impegnandosi, con questa condizione, ad
    assicurargli l'appoggio del governo francese». Già che
    siamo a parlare del Gordon, della cui assennatezza, ossia
    antiliberalismo, tesseva gli elogi il San Marzano, contrapponendolo
    al bollente Stewart (dispaccio cit. 15 febbraio 1821), citiamo qui
    il primo giudizio che di Carlo Alberto reggente egli trasmetteva al
    Castlereagh (dispaccio 17 marzo, loc. cit.): «Il principe di
    Carignano è sospettato di avere favorito la rivoluzione, e
    anzi di averla in qualche misura istigata, di concerto con
    autorevoli agenti, riuniti in club a Parigi... Circola la voce che
    il principe di Carignano stia per assumere il titolo di re
    d'Italia».
    
    29 Abbiamo riprodotto in extenso la risposta del Percy perché
    il Rodolico l'ha omessa.
    
    30 Da molti mesi il Binder coltivava assiduamente il suo collega
    inglese, gratificandolo di «espressioni che – scriveva il
    Percy il 24 ottobre 1820 – potrei quasi dire di venerazione per
    l'Inghilterra». Ma il Percy non lo ricambiava di ugual moneta:
    riteneva che col suo contegno il Binder facesse di tutto per rendere
    sempre piú impopolare l'Austria in Piemonte, era urtato, si
    è detto, delle sue elucubrazioni sulla missione austriaca
    (dispaccio 19 febbraio 1821), lo stimava insomma una vera
    calamità per la pace d'Europa (cfr. anche l'altro dispaccio
    13 marzo), Né era egli solo a pensarla cosí. Il La
    Tour du Pin qualificava infatti il suo collega austriaco «un
    vero pazzo» (dispaccio 18 gennaio 1821, in Segre, op. cit., p.
    225).
    
    31 Op. cit., p. 191, nota.
    
    32 Il che è confermato dallo stesso Carlo Alberto nel suo
    primo Memoriale e dalla sua lettera 29 marzo 1821 a re Vittorio
    (Scritti di Carlo Alberto, a cura di V. Fiorini, Roma 1900, pp. 37,
    163). Il dispaccio Binder, cui allude il Rodolico, è stato
    pubblicato dal Rinieri, op. cit., pp. 624-26: esso contiene ampli
    particolari sulla missione Percy e su una successiva missione De
    Maistre mandatagli quel giorno stesso dal principe: il Binder non
    crede alla buona fede del reggente (circa la sua intenzione di far
    credere a una imminente guerra all'Austria al solo scopo di
    guadagnare tempo) e assicura che neanche il ministro di Russia vi
    crede.
    
    33 Con questo non intendiamo dire che il Binder fosse un eroe (ci
    accerta del contrario l'incaricato d'affari pontificio, Valenti, in
    un dispaccio dell'11 dicembre 1820, pubblicato dal Rinieri, op.
    cit., p. 588); ma solo ristabilire la verità su questo punto
    particolare.
    
    34 Dispaccio 19 marzo 1821, n. 21. Era stato il proclama di Carlo
    Alberto del 15 marzo quello che aveva diffuso la sensazione che egli
    intendesse davvero dichiarare la guerra all'Austria. Cfr. in
    proposito il dispaccio Stuart 23 marzo 1821 (P. R. O., France, 250,
    n. 86).
    
    35 Dispaccio Gordon 19 marzo 1821 (P. R. O., Austria, 163, n. 26).
    Il proclama venne da Carlo Alberto comunicato, come è noto,
    ai ministri; d'accordo coi quali (18 marzo) ne sospese la
    pubblicazione. Di qui la leggenda (raccolta, ma non creduta dallo
    Hill), che egli se lo fosse «tenuto in tasca per due
    giorni» e che non lo avrebbe «pubblicato né si
    sarebbe recato a Novara se non avesse successivamente ricevuto da un
    corriere, in via privata, la notizia della completa disfatta dei
    Napoletani» (dispaccio Hill 25 giugno 1821). Su questo
    proclama e sulla ritardata pubblicazione cfr. Dallari, L'alba di un
    regno. Carlo Felice a Modena, in «Rassegna storica del
    Risorgimento», 1924, pp. 944-47.
    
    36 Cfr. Rodolico, p. 194, nota. Sulla depressione del reggente cfr.
    il dispaccio Metternich a Stadion, 26 marzo 1821: «La
    révolte en Piémont va mal comme révolution...
    Son principal champion, le prince de Carignan, ne fait que
    pleurer». (Mémoires cit., III, p. 493).
    
    37 Cfr. in Rodolico, pp. 197-98, il brano del cit. dispaccio Percy
    che ad essa si riferisce. In un altro luogo dello stesso dispaccio
    l'incaricato inglese notava che l'attacco al Binder aveva alienato
    molti consensi alla causa costituzionale.
    
    38 Dispaccio Percy 20 marzo 1821. Il Rinieri, op. cit., p. 627, dice
    che manca la risposta del reggente alla richiesta di passaporti
    fatta dal Binder. Eccocela adesso riassunta dal Percy.
    
    39 L'ultimo periodo di questo passo del dispaccio Percy è
    stato pubblicato dal Rodolico a p. 193, nota.
    
    40 Dispaccio Percy 23 marzo 1821.
    
    41 Lo s'ignorava evidentemente anche a Parigi donde, il 28 marzo,
    scriveva lo Stuart che il reggente aveva rinunziato al suo rango il
    giorno medesimo nel quale la legazione francese aveva ufficialmente
    smentito che il suo governo intendesse appoggiare il movimento
    antiaustriaco in Italia (P. R. O., France, 250, n. 91). Ma dai
    dispacci Percy e Stuart si è lasciato influenzare il Webster
    quando ha scritto (op. cit., p. 331) «che Carlo Alberto (dopo
    qualche esitazione) abbandonò una causa che era evidentemente
    diventata disperata dopo che Napoli era stata disfatta e la Francia
    aveva rifiutato di aiutare in qualunque modo».
    
    42 Cfr. i due suoi dispacci del 24 marzo (nn. 26 e 27) e l'altro del
    26 di quel mese.
    
    43 Dispaccio cit. 26 marzo 1821. Questo passo compiuto dal Percy
    è ignorato dal Webster, il quale scrive soltanto (p. 330) che
    l'idea di una mediazione franco-inglese avanzata dal governo di
    Parigi venne senz'altro scartata dal Foreign Office. Il Percy non
    dà che notizie generiche, piú tardi, dei noti passi
    compiuti dal ministro di Russia, Mocenigo, per portare a un accordo
    fra gl'insorti e il governo legittimo; né troviamo conferma
    nei suoi dispacci dell'affermazione dell'incaricato pontificio
    secondo cui il negoziato Mocenigo avrebbe dato «ombra ai due
    rappresentanti di Francia e d'Inghilterra, che avrebbero voluto
    essere invitati a prendervi parte» (dispaccio 29 marzo 1821
    pubblicato dal Negri, op. cit., II, p. 497).
    
    44 Dispaccio Castlereagh a Gordon 5 aprile 1821, segreto e
    confidenziale (P. R. O., Austria, 161, n. 2); il Webster, op. cit.,
    p. 330, ne ha pubblicato solo un brevissimo estratto. Sul proposto
    intervento russo in Piemonte si vedano le giuste considerazioni
    svolte in contrario dal Gordon (dispaccio 15 marzo 1821) e dallo
    Stuart (dispaccio 26 marzo e 5 aprile 1821) e quel che scrive lo
    Hill nel dispaccio 17 maggio 1821. Il 22 aprile il Metternich
    scriveva allo Stadion: «Ne jugez pas l'Angleterre sur rien de
    ce que vous dit lord Stewart: tout ce qu'il dit est faux. Il vous
    aura fièrement niée la marche d'un corps russe en
    Piémont; eh bien, son Cabinet le demande à cor et
    à cri, car il voit juste...»
    
    45 Dispaccio Percy, 11 aprile 1821. Sulle intenzioni, a vero dire
    rientrate, di taluni fra i capi degli insorti genovesi d'intentare
    un processo al Des Geneys, allora recluso a Palazzo Ducale, cfr.
    Bornate, L'insurrezione di Genova nel marzo 1821, Torino 1923, pp.
    63, 109.
    
    46 Cfr. il dispaccio Castlereagh a Hill, 7 maggio 1821, in gran
    parte pubblicato dal Webster, op. cit., p. 331.
    
    47 Dispaccio Hill 17 maggio 1821: «voce non innaturale,
    commentava egli, giacché la speranza e l'aspettazione sono
    spesso il resultato di un desiderio generale».
    
    48 Questa parte del racconto Hill è cronologicamente
    inesatta: fra l'altro, re Vittorio non si recò a Moncalieri
    che il 7 di marzo, mentre Carlo Alberto venne a conoscenza delle
    famose lettere sequestrate il giorno 5.
    
    49 Il Luzio, op. cit., p. 47, trovando la notizia di questa
    intenzione del principe nella citata biografia del Revel, strabilia
    e inclina a ritenerla inventata. La testimonianza dello Hill
    dimostra invece che il Revel palesò la cosa fino dal maggio
    1821, se era lui la fonte dello Hill; se poi non era lui, è
    chiaro che la notizia acquista ancora maggiore importanza.
    
    50 Sullo stesso argomento tornava lo Hill nel dispaccio 18 agosto
    1821: «Il granduca di Toscana è scontento della
    condotta privata del principe di Carignano e sarebbe felice di
    qualunque accomodamento che ne facilitasse l'allontanamento da
    Firenze». La corrispondenza del ministro inglese a Firenze,
    lord Burghersh, non getta alcuna luce sulla questione, ancora
    controversa, del contegno tenuto da Carlo Alberto a Firenze; per
    quanto da documenti toscani (ci assicura il Masi, Carlo Alberto
    nell'esilio di Firenze, in Studi Carlo-Albertini, Torino 1933, p.
    59) il Burghersh resulti un simpatizzante per il Carignano. Sul
    medesimo soggetto ritornava lo Hill a un anno di distanza. Il
    principe – scriveva il 3 agosto 1822 – «conduce adesso a
    Firenze una vita della piú grande regolarità e anche
    di bigotta devozione; ma Sua Maestà e la corte non sono
    disposte a ritenere sinceri questi ed altri segni di
    contrizione». Anche lo Hill diffidava dei racconti troppo
    edificanti fatti al proposito dalla contessa di Truchsess.
    
    51 Il Rodolico, pp. 152-55, sembra considerare la storia del perdono
    di Moncalieri come una maligna fantasia messa in giro dal Revel.
    Ammettiamo volentieri che questa conferma dello Hill non sia da
    ritenersi probante in quanto di netta derivazione revelliana; ma ne
    vedremo piú oltre ineccepibili riprove. A una confessione di
    Carlo Alberto al re si allude del resto nello stesso Simple
    récit, ecc., notoriamente composto da amici del principe su
    dati in gran parte forniti da lui (Scritti di Carlo Alberto cit.,
    pp. 87-88).
    
    52 La data del colloquio di Moncalieri è, si sa, quella del
    10 marzo; lo Hill in un annesso al dispaccio 9 maggio 1821 (Ordine
    cronologico degli avvenimenti che ebbero luogo durante la
    rivoluzione in Piemonte) afferma invece che esso si sarebbe svolto
    l'8 di marzo. Errore evidente: forse lo Hill confondeva fra il
    colloquio del 10 e la cavalcata fatta il 7 da Carlo Alberto per
    accompagnare il re a Moncalieri.
    
    53 Della stessa opinione era allora la legazione di Francia; cfr. il
    tono dei giudizi espressi dal La Tour du Pin su Carlo Alberto in
    Matter, Cavour et l'unité italienne, Paris 1922, I, p. 39.
    
    54 Giuste al proposito le considerazioni del Rodolico, p. 327;
    sebbene la richiesta fatta da Carlo Alberto al Percy agli inizi
    della reggenza perché venisse inviata una squadra inglese a
    Genova non possa davvero addursi a prova dell'interesse inglese a
    impedire un predominio austriaco in Italia: altrimenti la
    circostanza del mancato invio della squadra potrebbe addursi
    senz'altro a prova del contrario. Il Webster, op. cit., p. 332,
    scrive che «in questa faccenda (la questione Carignano) il
    Castlereagh non prese parte alcuna»: il che è esatto,
    purché si ricordi, tuttavia, che le istruzioni ai
    plenipotenziari inglesi al Congresso di Verona, consacrato fra
    l'altro all'esame di quella questione, vennero vergate da lui.
    
    55 Alle pp. 168-70. Nella prima parte del dispaccio lo Hill afferma
    che il «tradimento» imputato al principe deve riferirsi
    all'attività da lui svolta in qualità di gran mastro
    dell'artiglieria: «Il principe non era ancora da un anno in
    possesso del suo ufficio; operò certamente vari mutamenti fra
    gli ufficiali, trasferendone molti affezionati alla vecchia corte, e
    circondandosi dei suoi amici particolari, e in confidenza con lui, o
    piuttosto di cattivi consiglieri». A questo punto s'inizia la
    trascrizione del Rodolico: il quale precisa che il dispaccio venne
    vergato dallo Hill dopo i colloqui avuti a Modena; senonché
    il ministro inglese, il 25 di giugno, non si era ancora mosso da
    Torino. Per esser pedanti noteremo che l'affermazione dello Hill –
    il ministro di Prussia «ritiene che S. A. S. si troverà
    in grado di giustificarsi in gran misura» – è stata
    tradotta dal Rodolico con omissione delle tre ultime parole, le
    quali hanno pure un qualche valore.
    
    56 Carlo Alberto aveva, si sa, grande stima pel Des Geneys e
    riponeva in lui illimitata fiducia, come dimostra la lettera che gli
    scrisse, ancora reggente, il 20 marzo 1821. Cfr. Boselli, Carlo
    Alberto e l'ammiraglio Des Geneys nel 1821, estratto dagli
    «Atti della R. Accad. delle Scienze di Torino», vol.
    XXVII; Prasca, L'Ammiraglio Des Geneys, Pinerolo 1926.
    
    57 A conferma di questo particolare (per quanto sia forse esagerato
    l'asserire che re Vittorio si perse fra i monti) cfr. Segre, Note e
    documenti sui casi e sui profughi del 1821, nella citata silloge La
    Rivoluzione piemontese, I, p. 242; e Dallari, op. cit., p. 958.
    
    58 Cfr. dispaccio Hill 6 novembre 1821; e sui rapporti fra
    l'Aglié e Carlo Felice (Lemmi, Carlo Felice, Torino 1931, pp.
    166-67).
    
    59 Ne accusava ricevuta quello stesso 15 luglio. Motivo del ritardo,
    si sa, la speranza, a lungo nutrita dal Foreign Office, che re
    Vittorio si lasciasse indurre a riascendere il trono. I ministri
    delle altre grandi potenze si erano già tutti recati a Modena
    fin dal mese di aprile (Dallari, op. cit., P. 949).
    
    60 Carlo Felice era tutt'altro che una personalità di
    eccezione; ma era assistito da un vigoroso buon senso, da non comune
    energia di carattere, e aveva altissima coscienza dei doveri di un
    sovrano, come ci ha ben mostrato il Lemmi nel suo bel libro, citato,
    a lui dedicato. Nel dispaccio 6 novembre 1821 lo Hill giungeva,
    quasi suo malgrado, ad ammettere che Carlo Felice «possa
    essere piú fermo e aver maggiori attitudini per
    regnare» di suo fratello.
    
    61 pp. 269-70. Il dispaccio Hill reca la data del 12 agosto.
    
    62 Si veda in proposito il dispaccio Castellalfero (ministro sardo a
    Firenze), 20 giugno 1821, in Luzio, op. cit., pp. 49-50; e quello
    del Maisonfort (ministro francese a Firenze), 19 giugno 1821, in
    Gualterio, Gli ultimi rivolgimenti italiani, Memorie storiche,
    Firenze 1852-61, III, p. 322.
    
    63 Luzio, op. cit., p. 42, nota; Lemmi, op. cit., p. 192.
    
    64 Dispaccio Hill 5 aprile 1822, segretissimo.
    
    65 La personale devozione dello Hill per re Vittorio (risaliva ai
    tempi del soggiorno della corte sabauda in Sardegna) era ben nota;
    cfr. su di essa il riconoscimento del Saluzzo nel suo Memoriale
    pubblicato dallo Zucchi, nella silloge cit., I, p. 454.
    
    66 Il generale Gifflenga, si sa, non si recò a Moncalieri
    insieme col principe; è esatto comunque che la mattina del 10
    marzo anch'egli si trovava colà. Sul di lui conto scrisse lo
    Hill, nel dispaccio 7 dicembre 1821, essersi molto meravigliati che
    re Vittorio lo avesse scelto, il 13 marzo, per accompagnar lui e la
    regina nel viaggio di Nizza; ma che la regina al ministro austriaco,
    il quale si era fatto eco di queste impressioni, aveva replicato:
    «Quando si attraversa una foresta di notte, non c'è
    miglior protettore o guida del capo dei banditi». L'aneddoto,
    in termini leggermente diversi, è riportato dal Lemmi (op.
    cit., p. 193, nota), il quale lo ha da tutt'altra fonte.
    
    67 È noto che quel proclama era già stato perfino
    stampato. Dagli archivi ne trasse una copia, molti mesi piú
    tardi, il Della Valle per mostrarla al ministro inglese, il quale la
    spedí a Londra. Cfr. il suo dispaccio 5 aprile 1822.
    
    68 Il Rapport et détails de la Révolution, ecc., in
    Scritti di Carlo Alberto cit., pp. 3-30. Lo Hill ne aveva già
    dato notizia nel dispaccio 18 agosto 1821; ma solo parecchi mesi
    piú tardi fu in grado di procurarsene una copia.
    
    69 Op. cit., p. 25.
    
    70 Questa dichiarazione di Carlo Alberto era certo in contraddizione
    con i suoi veri sentimenti; del che si ha una riprova indiscutibile
    nella lettera che il 21 novembre 1821 egli stesso scriveva al
    Sonnaz: «J'ai dit, et telle fut toujours ma manière de
    penser, qu'un gouvernement tempéré, comme celui de la
    France, ou dans le même genre, était le
    meilleur...» (Scritti di Carlo Alberto cit,, p. 182). Ma che
    il principe si fosse proprio espresso, qualche tempo prima dello
    scoppio della rivoluzione, nel senso esposto da re Vittorio dimostra
    anche questa lettera di Maria Teresa al duca di Modena, 28 febbraio
    1821: «Il re è... nemico del regime costituzionale, e
    questo è ugualmente odioso al duca e al principe (Carlo
    Alberto); dunque spero in Dio che per qua non vi sia nulla da
    temere» (Dallari, op. cit., p. 940). Sulle discussioni
    relative alla costituzione in quel drammatico Consiglio della
    Corona, cfr. Passamonti, Prospero Balbo e la rivoluzione del 1821,
    nella cit. silloge, I, pp. 330-31; e Zucchi, op. cit. pp. 477-78.
    
    71 Il Rodolico, nella parte del suo libro dedicata alla narrazione
    critica degli eventi rivoluzionari, non accenna neppure a queste
    discussioni in extremis svoltesi fra i sovrani, il principe e i
    ministri a proposito della costituzione. E non s'intende il
    perché.
    
    72 Si noti che il Balbo, nelle sue Memorie (Passamonti, ed. cit,, p.
    323) non menziona la presenza di Carlo Alberto quando ci riferisce
    le dichiarazioni dei vari comandanti. Il Saluzzo, riferita la
    risposta del Ceravegna, si limita a scrivere: «le chef de
    l'artillerie prit la parole et dit qu'il en était de
    même de ses cannoniers» (Zucchi, op. cit., p. 475).
    
    73 Cfr. il Saluzzo nel suo Memoriale: «On a reproché au
    ministère de n'avoir pas fait arrêter le col. Ceravegna
    au sortir du cabinet du roi et peut-on croire que la pensée
    n'en soit venue à personne! Mais une considération de
    la plus grave importance, que c'est devoir de taire même pour
    la justifier, arrêta cette pensée au moment même
    où elle fut conçue» (Zucchi, loc. cit.).
    
    74 Analoga era l'opinione del generale La Tour, dallo Hill riportata
    nel già citato dispaccio 18 agosto 1821: «Parlando
    della voce secondo la quale il principe avrebbe determinato di
    chiedere una corte marziale, il generale La Tour mi ha detto che
    nessun ufficiale piemontese potrebbe o vorrebbe condannarlo per atti
    della sua reggenza; un siffatto processo dovrebbe basarsi
    sull'attività precedente di S. A. S., attività che,
    eccettuato l'intervallo di pochi giorni o piuttosto di poche ore,
    era stata già perdonata da S. M. Vittorio Emanuele sebbene S.
    M. fosse allora all'oscuro di molte cose accadute pel tramite di S.
    A. S.». Il La Tour era, ciò nondimeno, favorevole, si
    sa, a un sollecito ritorno di Carlo Alberto in Piemonte.
    
    75 Sugli addebiti fatti da re Vittorio a Carlo Alberto, cfr. in
    particolare Masi, op. cit., p. 141; Dallari, op. cit., pp. 957-58;
    Luzio, op. cit., pp. 12, 29; Segre, Vittorio Emanuele cit., p. 248,
    oltre ai noti dispacci del Maisonfort pubblicati dal Gualterio, op.
    cit., III, passim. Resulta chiaro da innumerevoli documenti che re
    Vittorio era profondamente risentito con Carlo Alberto; ond'è
    che non ci spieghiamo come il Luzio dopo avere tentato di attenuare
    l'importanza degli addebiti mossi da re Vittorio, possa scrivere
    (op. cit., p. 51) che «sarebbe indubbiamente assai
    grave» se quel sovrano avesse davvero nutrito «un
    giudizio sfavorevole al principe». Il dispaccio Hill,
    comunque, toglie ogni dubbio in proposito.
    
    76 Anche il Metternich riconobbe che l'abdicazione aveva fiaccato la
    rivoluzione (a Rechberg, 25 marzo 1821; Mémoires cit., III,
    p. 490). Glielo aveva fatto notare il Binder già il 17 marzo
    (dispaccio pubblicato dal Rinieri, op. cit., p. 623).
    
    77 Il che, d'altronde, coincideva con i suoi interessi: la
    costituzione di Spagna, se adottata tal quale, lo avrebbe privato
    infatti, dei diritti di successione in favore delle figlie di re
    Vittorio.
    
    78 Cfr. i suoi dispacci 13 gennaio e 9 febbraio 1822.
    
    79 Dispaccio Hill cit., 13 gennaio 1822; cfr. anche l'altra del 24
    dello stesso mese: egli si è adoperato per sollecitare il
    ritorno di re Vittorio in patria, ritenendo che «dato il
    risentimento della regina, e la sua intesa col principe Carignano,
    vi fosse piú da temere dalla sua assenza» che non dal
    suo ritorno. Si veda anche Rodolico, pp. 292 sg. Circa lo stato
    d'animo della regina Maria Teresa di fronte alle prospettive di
    riassumere il trono siamo poco informati. Il Saluzzo (Zucchi, op.
    cit., p. 521) attesta che essa insistette col marito perché
    rifiutasse qualunque offerta in proposito; il Maisonfort, invece, in
    un dispaccio del 31 agosto 1821, riferiva che la conversazione della
    regina gli aveva dato l'impressione che essa rimpiangesse di non
    piú esser sul trono (Gualterio, op. cit., III, p. 324). Da un
    dispaccio Daiser (nuovo ministro d'Austria a Torino) al Metternich,
    24 maggio 1822, sembrerebbe lecito dedurre che egli ritenesse aver
    Maria Teresa spinto re Vittorio a sollecitare, malgrado tutto, il
    ritorno in Piemonte (Rinieri, op. cit., p. 649).
    
    80 Lo Hill aveva conosciuto l'arciduca a Cagliari, negli anni della
    lotta antinapoleonica. «M'è rincresciuto di notare –
    cosí riferiva questo suo colloquio – che, pur discorrendo
    egli con la sua solita abilità, il suo linguaggio è
    molto mutato relativamente ai sistemi liberali... S. A. R. era
    allora un candidato al posto di capo della Lega italiana, in quel
    tempo in progetto..., adesso è uno dei piú abili
    agenti di suo cugino l'imperatore. Trattandosi di un sovrano
    italiano... sono rimasto piuttosto sorpreso di udire con che tono
    sarcastico e spregiativo l'arciduca parlava degli italiani...
    Facendo un paragone fra il suo real suocero Vittorio Emanuele e la
    presente Maestà Sarda, l'arciduca mi ha detto con palese,
    viva approvazione, che S. M. Carlo Felice non è soltanto
    fermo, ma severo!»
    
    81 Dispaccio Hill, 18 agosto 1821, in parte pubblicato dal Rodolico,
    pp. 310-11.
    
    82 Dispaccio Hill, 3 marzo 1822: «Il re ritiene che, essendo
    egli e il principe vissuti un tempo come padre e figlio, riuscirebbe
    parimenti penoso ad entrambi risiedere (adesso) uno vicino
    all'altro; se in questo caso (infatti) il re non ricevesse mai il
    principe, il marchio d'infamia (su di lui) resterebbe forse anche
    piú indelebile che non nel caso di una prolungata assenza del
    principe». Al che, però, lo Hill obiettava che
    «se S. M. dovesse vivere molti anni, il principe, che ha
    ricevuto la prima educazione in Francia sotto Bonaparte, finirebbe,
    con un altro lungo esilio, col cessare quasi di essere un
    piemontese».
    
    83 Alla prudenza lo Hill venne consigliato dall'infortunio
    capitatogli a proposito del ritorno di re Vittorio in Piemonte, pel
    quale egli si era battuto fino al punto di incorrere nel
    risentimento di Carlo Felice, che lo aveva fatto richiamare
    all'ordine dal Castlereagh. Si noti come il punto di vista dello
    Hill sulla questione Carignano coincidesse con l'opinione formulata
    dal Metternich in un dispaccio del 6 dicembre 1821 (Mémoires
    cit., III, pp. 525-27).
    
    84 Dispaccio Hill 13 novembre 1821; cfr. anche l'altro del 9
    febbraio 1822.
    
    85 Dispaccio Hill 25 novembre 1821.
    
    86 Dispaccio Hill 24 ottobre, 6 e 13 novembre 1821.
    
    87 Cfr. Webster, op. cit., pp. 367 sg.; Metternich, Mémoires
    cit., III, p. 524.
    
    88 Identiche istruzioni aveva mandato il Metternich al Daiser; onde
    questi, 13 dicembre 1821, assicurava che si sarebbe «imposto
    il silenzio piú assoluto su questo affare» (Rinieri,
    op. cit., p. 638). Il Truchsess (ministro di Prussia) seguiva
    invece, si sa, una politica opposta. Dispaccio Hill 24 ottobre 1821:
    «Il mio collega prussiano è sempre assente, a Napoli,
    donde ho ricevuto ier sera una (sua) lettera confidenziale nella
    quale mi prega di adoperarmi in favore del principe di Carignano; ma
    io temo che nulla sarà fatto per S. A. S. fino alla riunione
    del Congresso a Firenze, l'anno prossimo, seppure anche allora mi si
    dice infatti da parte russa che S. M. Sarda usa verso i sovrani
    alleati un tono quasi altrettanto altezzoso che verso i suoi
    sudditi...»
    
    89 Il Della Valle insinuava allo Hill che «se due o tre degli
    alleati fossero stati disposti ad ascoltare l'appello del re, il
    principe avrebbe abbandonato le sue pretese al trono e la questione
    di legittimità e primogenitura sarebbe stata salvata dalla
    successiva adozione del suo figliuoletto». Dispaccio Hill 5
    aprile 1822.
    
    90 Dispaccio Hill 9 e 23 febbraio 1822. Successivamente lo Hill si
    ricredette anche su questo punto, non senza merito, sembra,
    dell'infaticabile sostenitore del principe, Luigi d'Auzers.
    Dispaccio Hill 3 agosto 1822: dice il d'Auzers (fine psicologo,
    invero) che «nonostante la violenza dei piú contro di
    lui (Carlo Alberto), egli è sicuro che se il principe
    arriverà, non ci saranno cinque famiglie a Torino che non si
    mostreranno ansiose di partecipare al primo ricevimento a palazzo
    Carignano». Ragguagli sul d'Auzers dava lo Hill nel dispaccio
    segretissimo e confidenziale del 3 marzo 1822.
    
    91 Dispaccio Hill 9 febbraio 1822: il Revel «dice che se il re
    è incline al perdono, quanto prima il principe
    tornerà, in vista di regnare, tanto meglio; ma a lui consta
    che il re è del tutto contrario a S. A. S. Ciò
    nonostante, aggiunse il governatore, se il re dovesse morire domani,
    sarebbe mio dovere proclamare il principe e naturalmente lo farei.
    Il conte Revel mi ha informato che, poco dopo il suo ritorno, il re
    gli ordinò di raccogliere tutte le prove che erano emerse a
    carico del principe nei processi dei ribelli. Quando esse vennero
    sottoposte a S. M., il re disse che ve n'erano troppe, e, insieme,
    non abbastanza; ciò che il conte Revel interpretò:
    troppe per l'onore del principe, ma non abbastanza per processarlo.
    Dice tuttavia il conte che, se ancora adesso il re desse ordini in
    proposito, si raccoglierebbero prove imponenti, ma che col passar
    del tempo riuscirà piú difficile trovar prove dirette.
    Sua Eccellenza mi ha anche detto in confidenza avergli nientemeno
    che il generale Ecuyer (uno dei favoriti del re) domandato
    perché non avesse sottoposto a processo il principe insieme
    agli altri ribelli; al che egli aveva immediatamente risposto che in
    una questione concernente non soltanto un principe di casa Savoia,
    ma l'erede presuntivo della Corona, ciò sarebbe stato
    impossibile senza ordini espliciti del re. Il conte, mi è
    parso, sospetta fosse desiderio del re che egli avesse preso su di
    lui questa responsabilità quando era luogotenente generale o
    viceré: egli non l'ha fatto, eppure dice che un esempio di
    questo genere riuscirebbe utile di fronte ai tanti principi
    ereditari che, di recente, sono stati i primi traditori nei loro
    rispettivi paesi».
    
    92 Dispaccio Hill 9 febbraio 1822: «Il Saluzzo mi ha detto
    confidenzialmente che fin quando il principe Carignano
    resterà erede presuntivo, nessun ufficiale oserà
    condannarlo, e che il re dovrebbe in prima e non in seconda istanza
    consultare in proposito i suoi alleati».
    
    93 Anche in un'altra occasione lo Hill si era preoccupato dello
    stato d'animo della moltitudine, in contrapposto a quello diffuso
    nei ceti piú alti: a proposito del ritorno di re Vittorio in
    Piemonte, che egli auspicava ritenendolo ardentemente desiderato
    dalla massa del popolo, checché ne pensassero i nobili. Cfr.
    il suo dispaccio 6 novembre 1821. Alle opinioni delle masse in
    Piemonte aveva alluso anche lo Strassoldo in un dispaccio al
    Metternich del 29 aprile 1821 (Colombo, op. cit., pp. 738-40).
    
    94 Cosí nel noto dispaccio circolare diramato alle Missioni
    all'estero, su cui cfr. dispaccio Hill 3 marzo 1822.
    
    95 Dispaccio Hill 23 febbraio 1822.
    
    96 Cfr. su di esso quel che ne scrisse il Cipriani, nelle Avventure
    della mia vita, I, pp. 27 sgg.: Leonetto v'era entrato, di dodici
    anni, nel '24, e vi rimase, col fratello Pietro, quattr'anni. Da lui
    impariamo che il vicerettore era un buon maestro di latino; che
    l'italiano v'era insegnato, male, da un prete Rocchi, e da un tal
    Cardella; e il francese da un Giannoni, non meno antipatico e
    ridicolo del Cardella; e che due dei prefetti si chiamavano Bachi e
    Lecori. Vero è che alla testimonianza del Cipriani, un vero
    energumeno, da ragazzo, non è da credersi alla lettera.
    
    97 David Levi, che lo conobbe nel '37, attesta che della musica il
    Montanelli fu «non solo amante, ma cultore insigne»
    (Vita di pensiero, p. 118).
    
    98 Veramente il Giusti, che all'università di Pisa
    entrò, come il Montanelli, nel novembre del 1826, e che
    perciò sembra difficile non lo avvicinasse fino d'allora,
    ebbe a scrivergli piú tardi (nel '47): «quando ti
    trovai a Pisa nel 1832»... Errore di memoria? O volle il
    Giusti accennare al '32 come all'anno nel quale, tornato egli
    all'università dopo una triennale parentesi oziosa, ebbe
    inizio l'amicizia fraterna col Montanelli? Cosí mi sembra
    probabile.
    
    99 Si laureò nel '31.
    
    100 Entrò all'università nel '29.
    
    101 Altro compagno di Montanelli, Giuseppe Bianchi, col quale ebbe
    poi studio legale.
    
    102 Per le bravate del Cipriani a Santa Caterina, culminanti col
    ferimento del prefetto Bachi, si vedano le citate sue Avventure:
    dalle quali risulta che anche il Montanelli, che un bel giorno,
    stomacato, ebbe a chiamarlo «corsaro», s'ebbe da lui una
    scarica di violentissimi pugni nel viso. Del rettore don Valerio il
    Cipriani non traccia un brutto quadro: il povero sacerdote, colpito
    a seggiolate e a calci dal riottoso scolaro perché, dopo quel
    ferimento, gli aveva dato, non a torto, invero, della «bestia
    feroce», dell'«assassino», venne soccorso – dice
    sempre il Cipriani – da una dozzina di preti; dopodiché,
    «disteso sopra una poltrona, alzando le braccia
    esclamò: "Curavimus Bahylonem non est sanata, derelinquamus
    eam". E senza perdere un momento fu ordinata una carrozza, e
    Leonetto rimandato dal padre».
    
    103 Sul Forti si veda quel che, con intelletto d'amico, scrisse il
    Montanelli stesso nelle Memorie, I, p. 23, presagendo
    l'immortalità addirittura ai suoi due libri delle istituzioni
    civili, pubblicati postumi, essendo morto costui giovanissimo nel
    1838- Cfr. anche le pagine che gli dedicò il Martini
    nell'Epistole del Giusti, IV, pp. 136 sg.
    
    Forse fu amico del Montanelli anche Girolamo Poggi, altro eminente
    giurista, strappato alla scienza nel 1837, di soli trentaquattro
    anni, su cui cfr. Memorie, I, p. 23.
    
    104 Per una sommaria revisione critica del Centofanti si cfr.
    Memorie, I, p. 63.
    
    105 Si veda in proposito la curiosa lettera del Montanelli al
    Centofanti, 26 novembre 1830 (inedita) nella quale cercava di
    ricordare tutto quello che, in relazione «al sistema ideale e
    storico» il Centofanti gli aveva detto «una mattina di
    domenica mentre passeggiavano per la via di Santa Croce»; dopo
    di che aggiungeva: «Se potrò richiamarmi alla memoria
    qualche altra cosa gliela scriverò».
    
    106 Memorie, I, p. 64.
    
    107 Cfr. un'altra lettera inedita – forse ancora del '29 – del
    Montanelli al Centofanti nella quale, ricorrendo a lui «come
    suo unico protettore per domandargli schiarimenti sopra varie
    difficoltà che gli correvano nel corso dei suoi studi»
    gli esponeva dubbi eruditi sorti in lui dalla lettura di una opera
    del Boggelli e della Storia antica e moderna dello Schlegel.
    
    108 Diritto civile e canonico.
    
    109 Altri professori di discipline giuridiche erano allora il Dal
    Borgo, di istituzioni civili, forse piú attivo e piú
    noto, a torto o a ragione, come poeta che non come giurista; e il
    Cantini, di diritto canonico.
    
    110 Cfr. Montanelli a Vieusseux, 3 dicembre 1834.
    
    111 Cfr. Montanelli a Vieusseux, 24 marzo 1836.
    
    112 Cfr. Montanelli a Vieusseux, 13 febbraio 1831.
    
    113 Memorie, I, p. 22.
    
    114 Tutti i biografi concordano nell'asserirlo laureato nel 1831.
    Che fosse già laureato nell'estate di quell'anno dimostra il
    titolo dottorale apposto alla stampa dei suoi Due discorsi,
    piú avanti citati. A conferma si vede del resto la lettera
    del Centofanti a lui (inedita), 4 giugno 1831.
    
    115 Inedita, 21 maggio 1832.
    
    116 Lettera 30 maggio 1832 (?).
    
    117 Lettera 6 gennaio 1833.
    
    118 Lettera 11 gennaio 1833.
    
    119 Lettera 15 gennaio 1833.
    
    120 Notare che al Vico il Tonti, amico del Montanelli, dedicò
    nel '36 un saggio, stampato a Lugano (Carteggio Tommaseo-Capponi, I,
    p. 357).
    
    121 Cfr. lettera del Centofanti 30 maggio 1832; e del Montanelli 2
    dicembre 1832.
    
    122 Cfr. ad esempio le tre lettere (inedite) del Montanelli, 20, 21,
    29 novembre 1832, circa la stizza del Carmignani per un severo
    articolo su di lui del Centofanti.
    
    123 Molte lettere del 1832 e '33 vertono appunto su un complicato
    affare dei due fratelli Centofanti (la vendita di una
    proprietà da loro ereditata a Pisa), nel quale troviamo
    mescolato il canonico Della Fanteria, piú tardi diventato la
    bestia nera dei liberali pisani. Cfr. Montanelli a Centofanti, 20
    novembre, 29 novembre 1832 e altre lettere del 1833.
    
    124 Cfr. ad esempio la lettera Centofanti, del 30 maggio 1832:
    «E se l'Antonietta oggi non rispondesse, tu vorrai scusarla.
    Ella t'ha già risposto con l'anima»...
    
    125 Su queste passeggiate lettera Montanelli a Tommaseo, ottobre
    1832. Del resto anche il Centofanti teneva il Montanelli al corrente
    di certe sue vicende intime, come si rileva dalla lettera (inedita)
    dal 16 gennaio 1833.
    
    126 In una lettera non datata del Montanelli al Tommaseo si legge:
    «La tua conoscenza farà sí che l'anno 1832 segni
    un'epoca notabilissima nel corso della mia vita...» Del
    Tommaseo, comunque, il Montanelli faceva già elogi sperticati
    in una lettera del 12 gennaio 1832 al Vieusseux (inedita),
    relativamente a un suo articolo sul veltro allegorico pubblicato
    nell'«Antologia» articolo che gli era bastato per
    abbandonare in proposito, diceva, «la mia opinione conforme a
    quella del Troia».
    
    127 Cfr. Lettera di Montanelli, senza data, ma del 1832.
    
    128 Lettera 22 ottobre 1832.
    
    129 Al Vieusseux scrive, il 21 novembre: «Molto piú
    ancora mi è piaciuto l'articolo di Tommaseo che ho letto tre
    volte e sempre con piacere, e con frutto. Non so come la censura
    abbia potuto permettere la stampa di molte cose contenute in
    quell'articolo! Ma la confutazione di coloro che vogliono la
    unità materiale dell'Italia ha servito di passaporto alle
    (parole indecifrabili) contro la legittimità, e alle
    bellissime idee sull'unione intellettuale, morale e religiosa degli
    italiani, senza la quale tutti i nostri sforzi non potranno giammai
    riuscire a buon fine...» (Marradi, op. cit., p. 168).
    
    130 Lettera 21 novembre 1832.
    
    131 Si noti che il Montanelli abitava allora – come ebbe a scrivere
    al Vieusseux, 22 febbraio 1832 – appunto in piazza di Santa
    Caterina, in casa della vedova Tami: lo zio rettore, si vede, voleva
    averlo sott'occhi!
    
    132 E al Vieusseux, 28 novembre (inedita): «Tommaseo vi
    parlerà dell'università. Assistemmo insieme ad una
    lezione sul Diritto di natura; e potrete farvi raccontare le cose
    notabili della medesima»; e il 12 dicembre (inedita), allo
    stesso: «Qua si parla ancora della visita da lui (Tommaseo)
    fatta alla università – e molti di questi professori mi hanno
    fatto domandare qual giudizio avesse recato delle loro
    lezioni».
    
    133 Del dicembre 1832 è certamente una delle lettere non
    datate del Montanelli al Tommaseo e precisamente quella già
    citata in una nota precedente: «... stringendo fra noi un
    dolce vincolo di unione gioveremo alla causa dell'umanità
    piú con l'esempio che con le parole. È tempo di
    dimostrare agli uomini egoisti che sono ancora dei cuori nei quali
    arde la sacra fiamma dell'amore – e che può esistere una
    unione vera, sincera, e operosa – nella dissoluzione universale dei
    vincoli sociali».
    
    134 Del Tonti, pistoiese, il Tommaseo pensava assai bene: «Ha
    ingegno e animo meno menci di quel che dia la Toscana, per
    solito», scrisse nel gennaio '35 al Capponi (Carteggio I, p.
    210); nel '36 lodò un suo saggio sul Vico (p. 357); nel '37
    gli dedicò perfino dei versi (p. 210).
    
    135 Cirillo: si occupò di studi storici.
    
    136 Questa lettera è certo del gennaio '33, come si rileva
    dal confronto con altra che reca impressa quella data. In
    quest'ultima, infatti, il Montanelli chiedeva al Tommaseo:
    «È stato a ritrovarti il giovane di cui ti parlava
    nella passata lettera?». E nell'altra: «... Si
    presenterà da te a mio nome un mio amico Giovanni Bertolani
    che potrai considerare come fratello».
    
    137 Memorie, I, p. 65.
    
    138 Cosí si legge in un rapporto 16 agosto 1847 del
    soprintendente Boninsegni. Marradi, Montanelli, ecc., p. 179.
    
    139 Inedita, datata sull'autografo 30 maggio 1832, ma indubbiamente
    di parecchi giorni innanzi (come dimostra la risposta del Centofanti
    in data 20 maggio e la replica del Montanelli stesso, del 21). Il
    Centofanti non si scandalizzò per nulla: «Abbraccia
    affettuosamente per me tutti i giovani che hanno teco una
    vicendevole trasmissione di alte e nobili simpatie – gli scrisse
    infatti. – Occupiamoci della grand'opera alla quale dovremo
    coraggiosamente applicarci!»
    
    140 Cfr. la breve biografia che essa scrisse del marito in Marradi,
    op cit., p. 172. E anche Pemens, op. cit., p. 359.
    
    141 Si noti altresí che allorquando, nel '47, la polizia
    toscana raccolse sul Montanelli tutto quanto resultava a suo carico
    per gli anni precedenti, dell'episodio sansimonistico si
    dimostrò del tutto ignara.
    
    142 Levi, Vita di pensiero, pp. 117 sgg.
    
    143 Il Levi, veramente, scrive che ciò avvenne nel 1840; ma
    dal carteggio montanelliano noi sappiamo che già nel '37 si
    era stretta fra loro quella fervida amicizia che durò poi
    cosí a lungo, ed alla quale il Levi ispirò, moltissimi
    anni piú tardi, il commosso, postumo elogio del Montanelli
    (in Vita di pensieri, cap. I).
    
    144 Op. cit.
    
    145 Che per prudenza chiamano, anziché giornale, «opera
    che si dispensa ogni settimana». Montanelli a Tommaseo, senza
    data, ma dicembre 1832.
    
    146 «Vi è una società che paga 5 paoli al mese
    onde mantenere l'impresa, e chiunque vuole entrare in questa
    società avrà 5 dispense – scrive il Montanelli al
    Tommaseo. – Il prezzo poi d'associazione per tutti è di lire
    4 all'anno», Cfr. sull'«Educatore», Linaker,
    Mayer, I, pp. 184 sgg.
    
    147 In questo progetto di un giornale letterario, artistico e
    scientifico che avrebbe dovuto pubblicarsi a Livorno sotto gli
    auspici di quel Gabinetto scientifico e letterario, e per esso dal
    professor Doveri, ma con la collaborazione di un gruppo di giovani
    capitanati dal Montanelli e sotto la direzione del Centofanti, cfr.
    due lettere del primo al secondo (inedite), maggio 1832, e la
    risposta favorevole del Centofanti in data 20 maggio. «Il
    giornale deve esser fatto – scriveva infatuato il Montanelli... –
    perché questa gioventú ha bisogno di impiegarsi
    utilmente in una grande intrapresa». Il Centofanti non meno
    pronto del suo «discepolo» a scambiare le fantasie con
    la realtà, dopo qualche giorno vedeva già tutto fatto;
    «Parliamo ogni giorno di te – gli rispondeva da Firenze il 30
    maggio, – dei nostri cari ed ardenti cooperatori, e della futura
    vita letteraria che condurremo!» Perché poi il progetto
    fallisse, non sappiamo; ma forse non ultimo motivo ne fu la...
    doccia fredda sul sansimonismo del gruppetto pisano.
    
    148 Lettera non datata, ma certamente degli ultimi di dicembre,
    giacché trasmette gli auguri pel capo d'anno.
    
    149 Cfr. su di esso le impressioni del Centofanti in lettera
    Montanelli, 18 gennaio 1833 (inedita).
    
    150 Veramente nella Nazionale si trova una lettera del Montanelli al
    Vieusseux in data 13 febbraio '31 (già pubblicata, mutila
    dell'ultimo paragrafo, del Marradi, op. cit., p. 165); ma il suo
    tono e il contenuto dimostrano che deve essere del 13 febbraio '32.
    Del resto è chiaro che la lettera del 25 novembre '31
    (inedita) è la prima che il Montanelli diresse al Vieusseux
    («Giacché negli ultimi giorni del settembre decorso
    trovandomi in Firenze ebbi il piacere di fare la sua conoscenza, mi
    prendo la libertà di dirigerle questa mia...»)
    
    151 A firma M. G. Il fascicolo – si vede che anche allora usava
    cosí – non comparve però che a principio di febbraio
    del '32.
    
    152 Lettera pubblicata in Marradi, op. cit., p. 177 F.
    
    153 Scriveva del resto il Montanelli in altra lettera del 12 gennaio
    '32 (inedita): «Si meraviglierà forse osservando tante
    correzioni nelle stampe del mio piccolo articolo... Ma queste
    correzioni hanno avuto la sua ragione, Orlandi, giacché ho
    saputo essere egli un giovane pieno di buona intenzione, e d'amore
    per lo studio. Queste sue disposizioni meritavano un riguardo. Mi
    è stato detto di piú che è perseguitato
    moltissimo dai preti del suo paese, i quali cercano ogni modo per
    attaccarlo sia nella sua condotta, sia nella sua produzione
    scientifica. Anco questa ragione mi ha fatto usare verso di lui
    maggior riguardo, senza defraudare però in alcuna parte
    l'amore del vero, e della Scienza». Al che il Vieusseux, 11
    febbraio (inedita): «Ella fece bene di mitigare alcune
    espressioni che erano un poco pungenti, ma sarebbe stato meglio,
    forse, il non mitigare tanto. Ci combineremo meglio un'altra
    volta».
    
    154 Il Montanelli la spedí al Vieusseua con lettera (inedita)
    3 marzo '32.
    
    155 Il 13 febbraio 1832, tornando sull'argomento, scriveva:
    «... Il principio che Ella professa di non impegnarsi prima
    d'aver letto, è troppo giusto e ragionevole perché
    ciascuno [non] debba sottomettercisi senza difficoltà! Senza
    di esso il giornale mancherebbe d'unità e di scopo».
    
    156 Lettera inedita.
    
    157 Lettera 21 dicembre 1831 pubblicata in Marradi, op. cit., pp.
    166-67.
    
    158 In data 5 gennaio 1832 (in margine alla lettera del Montanelli).
    
    159 Lettera inedita.
    
    160 Sull'articolo del Marzucchi, una volta pubblicato, cfr. le
    impressioni del Montanelli nella lettera a Vieusseux 21 novembre
    1832 (Marradi, op. cit., pp. 167-68).
    
    161 È questa la lettera del 13 febbraio 1832 pubblicata dalla
    Marradi con la data erronea del 1831. Basta il semplice
    avvicinamento con quella del 7 febbraio per capire che le due
    lettere furono scritte una di seguito all'altra.
    
    162 Si veda la lettera (inedita) del Montanelli in data 22 febbraio
    1832.
    
    163 Lettera inedita.
    
    164 Lettera 21 novembre, pubblicata in Marradi, pp. 167-68.
    
    165 Lettera pubblicata in Marradi, pp. 167-68.
    
    166 Equivocando il buon Vieusseux aveva creduto, addirittura, che il
    Montanelli volesse scriver lui una guida alla rinnovazione della
    filosofia: di qui la rettifica del Montanelli in lettera (inedita)
    28 novembre.
    
    167 Lettera 27 novembre pubblicata in Marradi, pp. 168-69.
    Successivamente il Montanelli avvertí che si sarebbe
    contemporaneamente occupato anche di un volume su la Musique mise
    à la portée de tout le monde, stampato in Francia nel
    '30 (lettera inedita dell'11 dicembre 1832).
    
    168 Cfr. la lettera (inedita) di Vieusseux a Montanelli, 18
    dicembre, contenente oltre alle sue critiche sull'articolo, una
    tirata contro il Centofanti, troppo borioso e imperativo.
    Montanelli, al solito, si mostrò remissivo:
    «Seguirò in tutto e per tutto i vostri consigli,
    perché vi stimo molto... Anzi vi sarò gratissimo degli
    avvertimenti che mi darete, come sono grato a tutti quelli che mi
    correggono, che mi istruiscono, che mi dirigono» (lettera
    inedita 22 dicembre). Il 29 dicembre (inedita) gli rimandò
    l'articolo accorciato e modificato: «Quanto diritto avete, o
    mio caro Vieusseux, alla riconoscenza della nostra patria!»
    
    169 Lettera inedita.
    
    170 Lettera inedita.
    
    171 Lettera inedita.
    
    172 Lettera inedita 18 marzo 1833.
    
    173 Lettera inedita.
    
    174 Memorie, I, p. 25.
    
    175 Marradi, op. cit., p. 172.
    
    176 Entrambi vennero pubblicati a Pisa nel 1831: Due discorsi del
    dottor G. Montanelli, ecc.
    
    177 Cfr. Il 29 maggio in Toscana. Parole di Giuseppe Montanelli,
    Livorno 1859. Era stato l'annunzio della partenza pel Piemonte dei
    volontari toscani comandati dal Malenchini che lo aveva indotto ad
    arruolarsi: «Fossi stato moribondo quest'annunzio mi avrebbe
    trattenuto sull'orlo del sepolcro», p. 2.
    
    178 Abbiamo qui sotto gli occhi l'autografo di una sua
    «corrispondenza» relativa alla situazione toscana,
    datata «Florence, 18 mars 1859». Per la
    cordialità e la continuità dei suoi rapporti con la
    redazione del «Siècle» cfr. nella
    «Nazione», Firenze, 1° settembre 1859, la lettera
    con la quale il Montanelli aderiva entusiasticamente all'iniziativa
    bandita da quel giornale per un dono nazionale al
    «Siècle».
    
    179 A Giovanni Dragonetti scriveva l'8 gennaio: «Mi pare che
    questa volta qualche cosa certamente vedremo. L'eccitazione d'Italia
    è ormai irresistibile. Il Piemonte dovrà agire e il
    resto verrà dietro... Speriamo rivederci presto... sui campi
    lombardi». G. Dragonetti, Spigolature nel carteggio letterario
    e politico di L. Dragonetti, Firenze 1886, pp. 320-21.
    
    180 Minuta di lettera che si conserva fra le carte Montanelli-Parra,
    nell'Autografoteca Bastogi della Biblioteca Labronica di Livorno,
    cass. 40, ins. 2242. D'ora innanzi citeremo questa importantissima
    raccolta con le iniziali B. L.
    
    181 Alla politica del Cavour il Montanelli aveva cominciato ad
    accostarsi fino dal 1856: di qui polemiche vivacissime con taluni
    dei suoi compagni di emigrazione, e per esempio con Girolamo Ulloa.
    
    182 Puccioni, Il risorgimento italiano nell'opera, negli scritti,
    nella corrispondenza di Piero Puccioni, Firenze 1932, pp. 12 sg.
    Lettera del Parra e del Visconti Venosta in risposta ad altre del
    Montanelli in B. L.; taluna del Parra (che era figliastro del M.)
    anche in nostro possesso (Raccolta Rosselli, che indicheremo con le
    iniziali R. R.).
    
    183 Lettera dell'Homodei da Torino, il febbraio 1859 in B. L., cass.
    231, ins. 197. Superfluo rammentare come a Torino si temesse che
    l'eventuale successo di un'agitazione per la costituzione, in
    Toscana, potesse consolidare la dinastia lorenese.
    
    184 Verosimilmente fu sua l'idea, suggerita il 21 aprile dal Tommasi
    Crudeli al Puccioni, a Firenze, di promuovere in Toscana il rifiuto
    delle imposte per devolvere l'ammontare al Piemonte sotto forma di
    contributo di guerra. Puccioni, op. cit., p. 48.
    
    185 Fino dal gennaio 1859 il suo corrispondente Homodei gli aveva
    confidato il piano cavourriano tendente a provocare la diserzione in
    massa dei coscritti lombardi, nella speranza d'indurre l'Austria
    «a cercar di riprenderli, dal che una dichiarazione di
    guerra». B. L., c. 31, i. 197.
    
    186 Il 20 febbraio una deputazione di esuli italiani si recava,
    com'è noto, a rendere omaggio al principe, reduce, con
    l'augusta sua sposa, dal Piemonte. Il Montanelli, quantunque
    designato a «capitanare» la deputazione, non vi
    partecipò, forse perché ammalato: cfr. in B. L., c.
    40, i. 2220, la minuta autografa di una sua lettera, senza data, al
    «Monitore Toscano»; lettera che va probabilmente
    assegnata al gennaio del 1861 e che non venne pubblicata (si
    vedrà piú oltre come altre due lettere del Montanelli
    venissero pubblicate da quel giornale in quell'epoca). È
    certo comunque che il Montanelli ebbe un abboccamento col principe
    prima della sua partenza per l'Italia.
    
    187 Redi, Ricordi biografici su Giuseppe Montanelli, Firenze 1883,
    pp. 53-54.
    
    188 Cfr. il carteggio col Visconti-Venosta in B. L., c. 60, i. 781.
    
    189 Lettera del Montanelli al Corsi, 30 maggio 1859, in Biblioteca
    Nazionale di Firenze, Nuovi Acquisti, 588.
    
    190 Montanelli, L'Impero, il Papato e la Democrazia in Italia,
    Firenze 1859, p. 21. Tra le carte montanelliane in R. R. troviamo
    anche l'abbozzo di un'ode Italia all'Alemagna, scritta evidentemente
    allo stesso fine e nello stesso tempo. Comincia cosí:
    «Lamagna, che temi se sfolgoro in armi, / se rompo la nube che
    vieta mostrarmi / con serto di stelle qual fecemi Iddio / signora
    del santo terreno natio?» In B. L., c. 40, i. 2221, è
    invece l'abbozzo autografo dell'indirizzo I protestanti italiani ai
    protestanti inglesi e tedeschi.
    
    191 La minuta della lettera, in data 28 marzo, in B. L., c. 40, i.
    2236.
    
    192 Tra l'altro le prove del Poliuto, che egli aveva tradotto in
    versi italiani su preghiera della Ristori, sua amicissima, e che
    questa si apprestava a mettere in scena.
    
    193 La salute del Montanelli era sempre stata estremamente
    cagionevole; fra l'altro egli era tormentato da una grave malattia
    oftalmica, peggiorata sui primi del '59.
    
    194 Le tappe di questo suo viaggio resultano dal suo passaporto (B.
    L., c. 40, i. 2259). Sulla fermata a Chambéry troviamo
    ragguagli in un quinternetto manoscritto di Cenni biografici del
    Montanelli, scritti dalla moglie di lui, Laura Cipriani, vedova Di
    Lupo Parra (R. R.). Da Chambéry, d'altronde, il Montanelli
    datò, il 29 aprile, una patriottica lettera alla
    «Gazette de Savoie» (B. L., c. 40, i. 2242).
    
    195 Sul suo arrivo cfr. De La Varenne, Les chasseurs des Alpes et
    des Appennins, Firenze 1860, p. 315.
    
    196 Cfr. il biglietto del Cavour al Montanelli, da Parigi, 30 marzo,
    in D'Ancona, Ricordi storici del Risorgimento italiano, Firenze
    1914, p. 310.
    
    197 Su questo colloquio cfr. Redi, op. cit., p. 54; Cenni
    biografici, ms cit. Molti particolari anche in certi appunti di mano
    del Montanelli, ora in R. R., e negli Schiarimenti elettorali,
    Firenze 1861, p. 14, della stesso Montanelli. Fu il Pallavicino che
    presentò il Montanelli al Cavour, il 1° maggio: cfr.
    Pallavicino, Memorie, III, Torino 1895, p. 516. Cfr. per contro il
    Diario del Massari, Beltrani, Bologna 1931, p. 325, sotto la data
    del 4 maggio: al Massari stesso e al Farini che gli parlavano del
    Montanelli, il Cavour avrebbe detto: «Fa bene ad andare ad
    Acqui. A me pare sia matto». Il lettore tenga presente,
    però, che il Massari, già amicissimo del Montanelli,
    si era violentemente urtato con lui fino dal 1849, tanto che i due,
    scambiatisi lettere quasi di sfida, erano stati lí lí
    per battersi a duello. Cfr. «Il Nazionale», Firenze, 13
    ottobre 1849; Collezioni di documenti per servire alla storia della
    Toscana dei tempi nostri e alla difesa di Guerrazzi, Firenze 1853,
    p. 62. Un'altra lettera del Montanelli al Massari, 30 settembre
    1849, trovasi in B. L., c. 40, i. 2264. Vedremo anche piú
    oltre come il diario Massari formicoli di maligne e non sempre
    fondate insinuazioni a carico del Montanelli.
    
    198 Cosí il Perrens, le cui lettere al Montanelli trovansi in
    B. L., c. 45, i. 898.
    
    199 Della Toscana gli riapriva le porte, dopo la condanna riportata
    nel '53, l'amnistia decretata il 3 maggio 1859 dal governo
    provvisorio: quell'amnistia contro la quale un altro esule illustre,
    il Guerrazzi, scagliava, com'è risaputo, i suoi strali,
    né, a dir vero, ingiustificatamente.
    
    200 Sull'Ulloa, che alla fine d'aprile era stato trasferito in
    Toscana, cfr. Doria, La vita e il carteggio di Girolamo Ulloa,
    Napoli 1930, p. 33; sul Boldoni e gli altri ufficiali di quel corpo
    De La Varenne, op. cit., passim.
    
    201 Il brevetto di nomina a sottotenente nel corpo dei Cacciatori
    venne notificato al Montanelli, a Fucecchio, da Edolo, 30 luglio;
    sulla busta, di mano del Montanelli stesso, si trova scritto
    «Rifiuta la carica». B. L., c. 40, i. 2259. L'esempio di
    modestia e di coraggio dato dal Montanelli suscitò larga
    ammirazione. Cfr. ad esempio le attestazioni del Verdi, che gli era
    personalmente amico, ne I copialettere di Giuseppe Verdi, pubblicati
    da Cesari e Luzio, Milano 1913, pp. 443-44.
    
    202 Negli appunti autografi, inediti, già piú sopra
    cit.
    
    203 Cfr., ad esempio, Della Torre, L'evoluzione del sentimento
    nazionale in Toscana dal 27 aprile 1859 al 15 marzo 1860, Roma 1915,
    pp. 94-96.
    
    204 Al Corsi, 30 maggio (lettera cit.): «Sembra che presto
    anche noi Cacciatori degli Appennini entreremo in campagna. Questa
    gioventú lo desidera con grande ardore. Non ti sto a dire
    quanto io goda trovarmi fra amici cosí potentemente
    infiammati d'amore di patria». E al Michelet, 1° giugno:
    «Per intendere il moto attuale d'Italia bisogna vivere in
    mezzo a questa gioventú... L'amore dell'Italia fa di tutti
    una sola famiglia, un'anima sola. Io era lontano a Parigi
    dall'immaginarmi i progressi che il sentimento nazionale ha fatto in
    quest'ultimo decennio» (Tacchini, Michelet et Montanelli,
    Carrara 1931, pp. 13-14).
    
    205 Il memoriale del Salvagnoli all'imperatore, in Bianchi, Storia
    della diplomazia europea in Italia, vol. VIII, Torino 1872, pp.
    15-16.
    
    206 Cfr., ad esempio, Calamari, L. Galeotti e il moderatismo
    toscano, Modena 1935, p. 124.
    
    207 Trovasi in R. R.
    
    208 In un altro documento, anch'esso inedito (B. L., c. 40, i.
    2220), il Montanelli scrive: «Conferii con l'imperatore in
    Alessandria nel 25 maggio, e mentre due toscani, i quali poi hanno
    figurato tra i caporioni dell'annessione, gli avevano fatto credere
    che il principio unitario repugnava al nostro paese, io distinguendo
    unità da unità cercai lasciarlo persuaso del
    contrario». Cfr. a riprova Salvagnoli a Ricasoli, 17 maggio
    1859: l'imperatore «ha convenuto meco della necessità
    di conservare l'autonomia (della Toscana) e della opportunità
    d'ingrandirla». Doria, Carteggio inedito Salvagnoli-Ricasoli,
    in «Il Risorgimento italiano», luglio-dicembre 1925, p.
    658. Il 14 maggio il segretario del ministro Ridolfi aveva scritto
    al Cambray-Digny, a Torino, che la grande maggioranza degli uomini
    politici conosciuti erano per un regno separato! Carteggio politico
    Cambray-Digny, Milano 1913, pp. 26-29.
    
    209 Lettera inedita cit. del Montanelli al «Monitore
    Toscano».
    
    210 Ciò resulta da piú carte conservate negl'inserti
    montanelliani in B. L.
    
    211 Cfr. Montanelli a Pallavicino, 21 giugno 1859, e Pallavicino a
    Cavour, 26 giugno, in Pallavicino, Memorie, Torino 1882 sg., vol.
    III, pp. 527-29, 532.
    
    212 Lettera cit. Nella lettera al Corsi, cit., il Montanelli si
    mostrava assai lieto dell'ardore guerresco dimostrato
    dall'imperatore. Nella lettera 21 giugno al Pallavicino, cit., il
    Montanelli, precisando, scriveva che dall'insieme della conferenza
    aveva recato questa persuasione: «... Che l'imperatore dei
    francesi non sarebbe punto contrario alla unificazione politica
    d'Italia, quando l'opinione italiana si dimostrasse decisamente
    favorevole a quella... Che noi siamo piú padroni della nostra
    politica di quello che non avrei creduto. Questa persuasione mi
    venne confermata da persone che hanno il carico di fare a conto
    dell'imperatore dei rapporti sulle opinioni italiane».
    Senonché è evidente che l'ottimismo qui dimostrato dal
    Montanelli deriva piuttosto dagli avvenimenti svoltisi
    successivamente al colloquio imperiale che non dalle impressioni che
    quello gli aveva lasciato.
    
    213 Redi, op. cit.; lettera inedita, cit., del Montanelli al
    «Monitore Toscano».
    
    214 Si conserva in R. R. Quanto allo svolgimento della missione
    Pietri-Rapetti, non è qui certo il caso di soffermarvisi,
    tanto essa è nota nei suoi particolari agli studiosi del
    periodo. Ma forse non è privo d'interesse il notare come lo
    stesso Montanelli provvedesse a munire di lettere di raccomandazione
    per suoi amici influenti i due messaggeri imperiali. Cfr. su
    ciò la cit. lettera al Corsi (il Pietri – gli scriveva –
    «è uomo d'ingegno, e di cuore, e ama infinitamente
    l'Italia, e ci potrà essere molto utile appresso
    l'imperatore... per le opinioni che dovranno prelevare nel periodo
    di riordinamento»). È probabile, del resto, che anche
    al Guerrazzi, il quale vide il Pietri a due riprese (Lettere,
    Carducci, Livorno 1880, II, pp. 445, 452), costui fosse stato
    presentato dal Montanelli.
    
    215 Lettera cit. del Montanelli al Corsi.
    
    216 Candidatura contro la quale, come è ben noto, il principe
    stesso si dichiarava allora in termini inequivocabili, tanto da
    sospingere il governo fiorentino a proclamare senz'altro
    l'annessione al Piemonte. Carteggio Cavour-Nigra dal 1858 al 1861,
    Bologna 1926, II, passim, e specialmente pp. 209-16.
    
    217 Memorie di Vittoria Giorgini, in Manzoni intimo, Milano 1923, I,
    134; Giannelli, Cenni autobiografici e ricordi politici, Milano
    1926, pp. 217, 363. Del principe Napoleone, in realtà, il
    Montanelli non sapeva per allora che poco o nulla, e col suo
    entourage, a Livorno o a Firenze, non aveva il benché minimo
    contatto. Notizie molto generiche intorno a lui e al contegno dei
    toscani a suo riguardo non gli pervenivano che da qualche privato
    corrispondente, come il Masi (il noto emigrato romano, suo compagno
    d'esilio), che da Firenze invidiava la nobile vita del campo scelta
    dal Montanelli. (Cfr. la sua lettera al Montanelli, 7 giugno in B.
    L., c. 37, i. 1128; «il 1848 – costui gli scriveva in un
    accesso di amarezza – non è titolo a noi, ma peccato
    originale!»).
    
    218 Lettera cit. a Pallavicino.
    
    219 L'opuscolo, già cit., recava la data di Acqui, 22 maggio,
    e si pubblicava «a benefizio dei volontari toscani».
    
    220 Lettera cit. al Michelet.
    
    221 Il reggimento operava il trasferimento in data 2 giugno (De La
    Varenne, op. cit. p. 680), il Montanelli lo seguiva il giorno
    appresso, come resulta da un foglio di via allora rilasciatogli (B.
    L., c. 40, i. 2259)
    
    222 Cit., R. R.
    
    223 Giorgini a Ricasoli, 7 giugno, in Lettere e documenti del barone
    Ricasoli, a cura di Tabarrini e Cotti, Firenze 1887 sg., III, p. 90.
    Cfr. anche, ivi, la lettera 19 giugno del Lambruschini:
    «Qualunque cosa si dica e si faccia, sarà di noi quel
    che Napoleone III crederà ben fatto e vorrà».
    
    224 Sulla cui attività politica nel '59 troviamo ben pochi
    ragguagli nel vol. di Puccioni, Vincenzo Malenchini nel Risorgimento
    Italiano, Firenze 1930.
    
    225 Mariscotti, Il prof. G. Montanelli e gli esclusivi, Firenze
    1861, p. 106; Pini, Lettere di un elettore di S. Miniato ad alcuni
    suoi amici, San Miniato 1861; Marradi, G. Montanelli e la Toscana
    dal 1815 al 1862, Roma 1909, pp. 136-37 (è, quest'ultima,
    l'unica biografia che fin qui sia stata scritta del Montanelli;
    giacché non si possono onorar di tale titolo precedenti
    opericciuole apologetiche. Ma quante lacune anche in questa e come
    malamente inquadrata la figura del Montanelli nella storia del suo
    tempo! Sulla azione politica da lui svolta nel '59 i dati forniti
    sono, in particolare, assolutamente inadeguati).
    
    226 R. R.
    
    227 Cfr. queste istruzioni col programma tracciato dal Montanelli
    nella cit. sua lettera 21 giugno al Pallavicino: «Il mio
    programma è: a) Regno d'Italia. 2) Vittorio Emanuele capo
    costituzionale del regno (non toccando questioni di capitale). 3)
    Codice Napoleone. Quand'anche il regno d'Italia non dovesse per ora
    comporsi che dell'alta Italia e della Toscana sarebbe un fatto
    immenso». Occorrerà comunque dare al nuovo Stato
    «tale una prevalenza unitaria da ridurre gli altri Stati a un
    satellizio che li costringa a fondersi o piú presto o
    piú tardi nel regno d'Italia».
    
    228 Dal colloquio imperiale egli aveva ricavato la netta impressione
    che, se Napoleone teneva «molto a lasciare in Italia tracce
    delle istituzioni francesi... non aveva tenerezze dinastiche per i
    suoi». Lettera cit. al Pallavicino.
    
    229 Cosí il Pini, op. cit. Sostenendo su questo come su molti
    altri punti l'inverosimile, il Pini (come anche il Mariscotti)
    finí col nuocere positivamente al suo eroe, se non altro
    provocando acide repliche da parte dei suoi informatissimi
    detrattori.
    
    230 Nei suoi appunti inediti il Montanelli pone in relazione,
    infatti, la missione Aquarone col proclama di Milano dell'8 giugno;
    d'altra parte, l'Aquarone scrive già una prima relazione al
    Plezza, da Firenze, l'11 del mese.
    
    231 Questa lettera (B. L., c. 2, i. 721) reca soltanto la data
    «domenica 12»; ma nel '59 una domenica 12 non cadde che
    nel mese di giugno. Un breve estratto ne fu pubblicato dal Pini, op.
    cit., ma con la data evidentemente erronea 12 luglio.
    
    232 Parecchie lettere del Montanelli al Morandini, intimissimo suo
    (nella giornata di Curtatone, egli si era fatto prendere prigioniero
    per non abbandonarlo), si trovano nella Biblioteca del Risorgimento,
    Firenze.
    
    233 Il «Monitore Toscano», organo ufficiale, recava
    d'altronde nel numero del 9 giugno un editoriale, che venne assai
    notato, nel quale si accennava alle legittime speranze della
    costituzione di una nazione italiana, deplorando per contro le
    «chiacchiere» di fusioni e di autonomie.
    
    234 Pini, op. cit., p. 14.
    
    235 Quest'altra lettera del Montanelli al Pallavicino si trova,
    inedita, nel Museo del Risorgimento di Torino, 165, n. 188.
    
    236 Appunti inediti cit.
    
    237 Figlio di primo letto della moglie del Montanelli, il Parra,
    pressoché coetaneo del Montanelli, gli fu sempre
    esemplarmente devoto.
    
    238 Adriano Biscardi, livornese, fu probabilmente il piú
    intimo e costante amico del Montanelli, del quale divise sempre le
    idealità politiche.
    
    239 Rubieri, Storia intima della Toscana, Prato 1861, pp. 389-90. Il
    «Monitore Toscano» dell'8 giugno invitava la
    cittadinanza e sottoscriverlo.
    
    240 Della Torre, op. cit., pp. 137 sg.; Zobi, Cronaca degli
    avvenimenti d'Italia nel 1859, Firenze 1859, I, pp. 379-82.
    
    241 Nessun accenno in essi al «re d'Italia», ma solo al
    magnanimo campione dell'indipendenza, ecc. Cfr. «Monitore
    Toscano», 11 giugno.
    
    242 Salvagnoli a Cambray-Dignv, 25 giugno 1859 in Carteggio politico
    Cambray-Digny cit., pp. 120-22.
    
    243 Baccini, Carteggio politico del conte e della contessa
    Cambray-Digny, Firenze 1910, pp. 58-60.
    
    244 «Non ho bisogno d'avvertirti che per ora la mia mano nel
    programma unitario toscano non si deve conoscere», scriveva il
    21 giugno il Montanelli al Pallavicino (brano omesso nelle Memorie
    del Pallavicino).
    
    245 Baccini, op. cit., pp. 45-46.
    
    246 Ibid., pp. 48-50.
    
    247 Ibid., pp. 50-52.
    
    248 Al Nocchi, 3 giugno e in altre lettere, Carteggio politico cit.,
    pp. 90 sg. e Baccini, op. cit., p. 52.
    
    249 Il testo, veramente reca «Mazzini», ma è
    evidentemente un errore che noi crediamo di poter correggere con
    «Malenchini».
    
    250 Carteggio politico cit., pp. 108-10. Cfr. anche Cambray-Digny a
    Corsini, 24 giugno: «Ho avuto la certezza che i vecchi nomi
    del '49 incominciano a farsi vivi», p. 124.
    
    251 Baccini, op. cit., pp. 50-52. Su questo punto, del resto, le
    citazioni si potrebbero moltiplicare, ma senza pro. Il 18 giugno il
    Cambray-Digny scriveva da Torino: «Se la Toscana deve
    pronunziarsi per l'unione, qui si vorrebbe che lo facesse legalmente
    per mezzo di indirizzi spontanei dei municipi, piuttosto che
    tumultuariamente, ma soprattutto non si vorrebbe che la Toscana
    venisse a sollevare questioni gravi come quella del papa e di
    Napoli», pp. 56-58. Un consiglio, questo, del quale il
    Ricasoli, non aveva davvero bisogno.
    
    252 «Non ho veduto l'indirizzo, so che è stato molto
    modificato, giacché il primo progetto era avversissimo al
    governo attuale», scriveva la contessa Cambray-Digny al marito
    fin dal 16 giugno. Ibid., pp. 48-50.
    
    253 L'influenza del Montanelli si potrebbe forse ravvisare nelle
    deliberazioni prese dal municipio di Lucca, ostentatamente
    improntate a un francofilismo accentuato. Cfr. il «Monitore
    Toscano», 29 giugno 1859.
    
    254 Puccioni, L'Unità d'Italia cit., pp. 74-75; Valeggia, G.
    Dolfi, Firenze 1913, p 36; Zobi, op. cit., I, pp. 379-81; Rubieri,
    op. cit., pp. 390-91; Doria, Carteggio cit., p. 659.
    
    255 Cfr. per tutti il Lambruschini nella lettera 28 giugno al
    Cambray-Digny. Carteggio politico cit., p. 137-39.
    
    256 Puccioni, L'Unità d'Italia cit., pp. 78-79; Carletti, La
    Fusione, Firenze 1859, pp. 22-24; Rubieri, op. cit., p. 166.
    
    257 Ond'è che lo stesso Montanelli, redigendo, alcuni mesi
    piú tardi, per conto, sembra, di quel suo comune, un
    indirizzo a re Vittorio (B. L., c. 40, i. 2222), ne sottolineava con
    orgoglio il primato patriottico e unitario.
    
    258 A Livorno vennero raccolti oltre 20 000 voti, 6000 a Pisa, ecc.
    Sulla autenticità di queste cifre qualcuno sollevò i
    suoi dubbi; il Lambruschini, ad esempio, parlò senza ambagi
    di firme false (nella cit. lettera al Cambray-Digny).
    
    259 Ricasoli a Ricci, 22 giugno: «Una sola parola non mi piace
    (nella formola senese), ed è annessione; convien preferire
    l'altra: unione. Le due parole annessione, fusione, non
    rappresentano il concetto d'un'Italia una e forte». Puccioni,
    L'Unità cit., p. 81. Sulle preferenze unitarie del
    Montanelli, cfr. anche Cambray-Digny a Corsini, 20 giugno, in
    Carteggio politico cit., p. 99; ivi anche (pp. 120-22) accenni al
    Salvagnoli.
    
    260 Occorrerà far luce, comunque, sugl'indubitati contatti
    che l'Aquarone ebbe, a Firenze, col Salvagnoli: per ora cfr. Diario
    Massari cit., p. 390.
    
    261 Fors'anche perché il Plezza, nel frattempo, era decaduto
    dal suo ufficio di commissario regio ad Alessandria.
    
    262 Diario Massari cit., p. 409; Carteggio politico Digny cit., pp.
    157-58.
    
    263 Baccini, op. cit., pp. 62, 72. Ulteriori accenni all'Aquarone,
    trasferitosi a Torino, ibid., pp. 76, 97.
    
    264 Onestamente il Cambray-Digny aggiungeva però che della
    confusione regnante in Toscana tutti erano un poco responsabili
    nessuno eccettuato. Da allora in poi non ci si doveva occupare che
    della guerra, «e finché parlano di guerra e vanno alla
    guerra applaudiamo anche il Montanelli e compagnia». Baccini,
    op. cit., pp. 94-95.
    
    265 Lettere e documenti cit., III, p. 140. Di questa disapprovazione
    imperiale si era già fatto autorevole interprete il Pietri:
    al quale il Salvagnoli aveva «detto che il governo non
    c'entrava» (nell'agitazione unitaria). «Menzogna»,
    prorompeva il Tabarrini, 21 giugno, nel suo inedito Libro di
    ricordi: Puccioni, L'Unità cit., p. 74.
    
    266 Lettera autografa nella Biblioteca Nazionale di Firenze, Nuovi
    Acquisti, 588: senza data, ma, dal contesto, sicuramente
    attribuibile a questo periodo.
    
    267 Le parole fra parentesi non figurano nel testo, ma è da
    supporsi che siano state omesse nella trascrizione.
    
    268 Marradi, op. cit., pp. 242-44.
    
    269 «Chi parla adesso di fusione e d'unità italiana...
    è un traditore della patria», scriveva la contessa
    Digny il 26 giugno. Baccini, op. cit., p. 87.
    
    270 Il 1° e 2° battaglione dei Cacciatori partirono per
    Piacenza l'11 giugno; un secondo scaglione non giunse invece a
    Piacenza che il 21. Il Montanelli partí certamente col primo
    scaglione unitamente al Malenchini, comandante del 1°
    battaglione. Il 18, infatti, il Cambray-Digny, alludendo a lui, lo
    diceva a Piacenza; e il 19 lo vide in questa città «un
    povero prete» che portò i suoi saluti al Verdi, a
    Busseto: Cori, Galeotti, Mari e Montanelli. Commemorazione, Firenze
    1913, p. 35.
    
    271 Dieci anni di esilio avevano ridotto allo stremo l'esiguo suo
    patrimonio; le vicende processuali di una eredità contestata
    avrebbero reso indispensabile e urgente il suo ritorno a Fucecchio.
    
    272 Cfr., ad esempio, Perrens a Montanelli, 11 agosto 1839, in B.
    L., c. 45, i. 898.
    
    273 Lettera cit. nel Museo del Risorgimento, Torino. Cfr., della
    stessa data, anche l'altra lettera, cit., nelle Memorie del
    Pallavicino.
    
    274 Il discorso del Montanelli nella Lente, Firenze, 27 luglio 1859;
    cfr. anche (Provenzal), Alla cara memoria di Giuseppe Montanelli,
    Livorno 1862, p. 34, e le patetiche informazioni del Bourbon del
    Monte, in De La Varenne, op. cit., pp. 682-83.
    
    275 Cosí, il 26 del mese, s'incontra col Kossuth, di
    passaggio per Piacenza. Kossuth, Souvenirs et écrits de mon
    exil, Paris 1880, p. 285. È verosimile che il Montanelli
    s'incontrasse altresí con l'Ulloa, giunto a Reggio, con i
    volontari toscani, il 24 e col Pallieri, commissario regio a Parma.
    
    276 I Cacciatori degli Appennini giungevano infatti a Milano il 4
    luglio, e a Sondrio l'8.
    
    277 Troviamo questa minuta di lettera, non datata, in B. L., c. 40,
    i. 2239. È presumibile però che il Montanelli la
    scrivesse appunto da Piacenza.
    
    278 Il quale venne ben presto chiamato, come si sa, a prendere il
    comando dei Cacciatori degli Appennini.
    
    279 Cfr. le Memorie di Garibaldi, redazione definitiva, Bologna
    1932, p. 387; e De La Varenne, op. cit., p, 666.
    
    280 Cenni biografici cit.
    
    281 Lettera inedita cit., al «Monitore Toscano».
    
    282 Pini, Lettera cit., 15: si trattava di affari concernenti i
    Cacciatori.
    
    283 L'Impero, il Papato cit., p. 3.
    
    284 Un brano delle istruzioni impartitegli dal Garibaldi, in Pini,
    op. cit., p. 15: «Nelle lamentazioni dirette al governo ed al
    quartier generale del re si deve osservare che non vi sia
    gesuitismo, tendente a gettare la discordia tra genti che devono
    rimanere concordi ad ogni costo... Che vi sia tregua, o che diavolo
    si voglia, non tralasciamo di fare l'esercito italico grosso,
    grossissimo».
    
    285 Lettera cit., al «Monitore Toscano».
    
    286 Pini, Elogio storico del professor Giuseppe Montanelli, San
    Miniato 1862 e Lettera di un elettore cit., passim.
    
    287 Garibaldi a Mordini, 17 luglio: «Io diedi già la
    mia adesione al Montanelli circa le idee vostre, che sono le mie.
    Aspetto dal suddetto mi dica qualche cosa». Rosi, Il
    Risorgimento italiano e l'azione di un patriota cospiratore e
    soldato, Roma 1906, p. 176.
    
    288 Anche il Massari partiva per Torino col medesimo convoglio.
    Diario cit., p. 419: «Entro nel vagone e veggo Montanelli
    (infausto augurio), che entra in un altro. Chi sa cosa va a
    rimestare questo imbroglione!» (sic!)
    
    289 Lettera cit. al «Monitore Toscano».
    
    290 Lettere e documenti Ricasoli cit., III, p. 156; Bianchi, Storia
    della diplomazia cit., VIII, pp. 536-38.
    
    291 Col Bianchi, direttore del «Nazionale», il
    Montanelli si era tenuto in assidui rapporti nel primo periodo del
    suo esilio.
    
    292 Cfr. il telegramma del Bianchi al Boncompagni, 15 luglio, ore 4
    pom., in Lettere e documenti Ricasoli cit., III, p. 157.
    
    293 Lettera del Bianchi al direttore del «Monitore
    Toscano», 26 gennaio 1861: col Montanelli «non si
    parlò se non di armamenti».
    
    294 Chiala, Lettere di Cavour, Torino 1884, III, p. CCXXIII.
    
    295 Kossuth, op. cit., pp. 317-18.
    
    296 «Presentatosi al palazzo reale vestito dell'assisa dei
    Cacciatori, si accorse (il Montanelli) esser preso in sospetto, ma
    dato ad un uffiziale il suo nome, fu all'Imperatore annunziato. Esso
    lo fece tosto passare». Redi, op. cit., p. 62.
    
    297 Cavour a Lamarmora, 16 luglio, in Chiala, op. cit., III, pp.
    110-11; Tivaroni, L'Italia degli italiani, 1883, II, pp. 114-15.
    
    298 Lettere e documenti Ricasoli cit., II, p. 158.
    
    299 Al Pepoli l'imperatore aveva detto: «Se l'annessione
    valicasse gli Appennini l'unità sarebbe fatta, e io non
    voglio l'unità, voglio l'indipendenza soltanto».
    
    300 Redi, op. cit., pp. 62-63.
    
    301 Pini, Elogio cit., pp. 21-22; Lettera cit., pp. 10-11 (qui per
    altro il Pini avverte che «le parole dell'augusto personaggio
    non possono tutte essere riferite»).
    
    302 Mariscotti, op. cit., pp. 117-18. Diario Massari cit., p. 421:
    «Napoleone III ha veduto stasera anche Montanelli! Gli ha
    parlato del voto popolare: è proprio l'uomo degno di stare a
    paro con quel figuro (sic!) del Montanelli».
    
    303 Tale quella contenuta in una lettera del La Farina al Franchi,
    24 settembre '59 (Epistolario La Farina, Franchi, Milano 1869, II,
    pp. 209-10), secondo la quale subito dopo il colloquio il Montanelli
    avrebbe dichiarato al La Farina «che bisognava insistere per
    l'annessione della Toscana al Piemonte, che eravamo tutti d'accordo,
    che bisognava fare in modo che la deliberazione dell'assemblea
    toscana riuscisse all'unanimità» (ma se l'assemblea
    toscana era ancora in mente Dei!) Dunque l'imperatore avrebbe spinto
    il Montanelli sulla via delle annessioni?! Il lettore tenga presente
    che nel settembre del '59 il La Farina era divenuto fierissimo
    avversario del Montanelli.
    
    304 «Monitore Toscano», Firenze, 29 gennaio 1861.
    
    305 «Monitore Toscano», 26 gennaio 1861.
    
    306 Lettera del Mariscotti nel «Monitore Toscano», 29
    gennaio 1861.
    
    307 È vero che gli amici francesi del Montanelli, che erano
    quasi tutti dei democratici fieramente antinapoleonici, non avevano
    mancato di metterlo in guardia contro il pericolo del riporre
    eccessiva fiducia nell'imperatore: cosí, ad esempio, il
    Perrens; ma non fu se non molti mesi piú tardi che il
    Montanelli dovette rimpiangere di non avere prestato loro piú
    ascolto!
    
    308 Sulla soddisfazione dimostrata dal Bianchi per questa
    assicurazione del non intervento e sulla sua costernazione per il
    veto alle annessioni, cfr. le contrapposte asserzioni del Bianchi
    stesso e del Montanelli nelle citate lettere pubblicate sul
    «Monitore Toscano», 26 e 29 gennaio 1861.
    
    309 Cit. lettera del Bianchi al «Monitore Toscano».
    
    310 Cfr. il Montanelli nella cit. sua lettera inedita al
    «Monitore Toscano»: «al governo da lui (dal
    Bianchi) rappresentato io non poteva non palesarmi amico, e
    desideroso di cooperazione, quando c'incontravamo sulla medesima
    via».
    
    311 Vedila in Lettere e documenti Ricasoli cit., III, pp. 167-68.
    
    312 Lo stesso Massari, tanto severo col Montanelli, si prese di
    lí a poco la bella responsabilità di dichiarare allo
    Hudson, ministro inglese a Torino, il quale lo aveva interpellato a
    nome e per conto del suo ministro degli esteri, che a suo giudizio i
    toscani avrebbero accettato sul trono granducale la dinastia
    borbonica di Parma! (Diario cit., p. 458).
    
    313 Questo brano di lettera venne dal Montanelli pubblicato – con la
    data «lunedí luglio 1859» – nella cit. sua
    lettera al «Monitore Toscano», 29 gennaio 1861.
    Senonché essa non può essere che di lunedí 18
    luglio, giacché il lunedí precedente la missione da
    affidarsi al Montanelli era ancora fuor di questione, mentre il
    lunedí successivo il Montanelli si trovava già a
    Firenze.
    
    314 Lettera cit. del Montanelli al Ricasoli, 18 luglio.
    
    315 Il 17 luglio il Garibaldi era ancora all'oscuro dei resultati di
    quelle trattative, come dimostra la citata sua lettera al Mordini.
    
    316 Il Montanelli dovette lasciare Torino il giorno 18 (data della
    sua lettera al Ricasoli), giungendo in serata a Bergamo (annotaz.
    sul suo foglio di via cit.).
    
    317 Puccioni, Malenchini cit., p. 85. La lettera del Garibaldi reca
    invero l'indirizzo del Montanelli a Torino, ma il Montanelli stesso,
    nella cit. sua lettera inedita al «Monitore Toscano»,
    scrive: «Tornato al q. g. di Garibaldi ebbi da lui una
    lettera...»
    
    318 Cfr. le annotazioni delle varie tappe del viaggio, iniziatosi a
    Brescia il giorno 20, nel foglio di via cit.
    
    319 Lettera inedita cit., al «Monitore Toscano».
    
    320 Il Pepoli venne sostituito il giorno 23 dal Cipriani, nominato
    commissario straordinario per la Romagna; ma il Montanelli che col
    Cipriani era in grave urto già da piú anni, non ebbe
    contatti che col primo.
    
    321 Lettere e documenti Ricasoli cit., III, pp. 170-72.
    
    322 Pini, Lettera cit., p. 11.
    
    323 Il 28 luglio Fucecchio lo accoglieva con commoventi
    dimostrazioni di affetto. Fra le carte montanelliane in B. L., c.
    40, i. 2262, si conservano, fra l'altro, due epigrafi stampate in
    quell'occasione in suo onore. L'annunzio di queste onoranze che si
    preparavano al Montanelli aveva dato sui nervi al Ricasoli:
    «Vedrai pure come, in mezzo ai nostri pensieri, si pensi da
    quegli sciocchi di Fucecchio di fare sciocchezze al ritorno di
    Montanelli. La risposta del governo non può essere dubbia, ma
    dev'essere dignitosa»: cosí il barone al Salvagnoli, il
    23 di luglio (Doria, Carteggio cit., p. 687). Sembra dunque che la
    comunità di Montanelli avesse richiesto l'adesione del
    governo alle onoranze al Montanelli: questo, invero, era troppo
    pretendere!
    
    324 Guerrazzi, Proemio all'appendice degli scritti politici, Milano
    1861, p. 24. Onde il Guerrazzi al Corsi, 30 luglio: «Sento che
    Montanelli comparso riconciliavasi con gli emuli: di ciò non
    lo biasimo, anzi lo lodo» (Biblioteca Nazionale di Firenze,
    Nuovi Acquisti, 588).
    
    325 Carteggio politico cit., pp. 198-99.
    
    326 Che un movimento napoleonista si fosse dichiarato a Firenze
    assai prima del ritorno del Montanelli, sarebbe invero superfluo
    attardarsi a dimostrare. Basti qui citare, a riprova, l'opuscolo
    anonimo L. Napoleone dopo l'11 luglio 1859 uscito per le stampe, a
    Firenze, pochissimi giorni dopo l'armistizio.
    
    327 Lettera inedita cit., al «Monitore Toscano».
    
    328 Op. cit., pp. 67-68; cfr. anche Pini, Lettera cit., p. 11.
    
    329 Lettera cit. al «Monitore Toscano», 26 gennaio 1861.
    
    330 Lettera al «Monitore Toscano» in data 30 gennaio
    1861, pubblicata il 2 febbraio seguente.
    
    331 Cfr. Bianchi, Matteucci e l'Italia del suo tempo, Torino 1874,
    p. 282 e passim; Diario Massari cit., pp. 445, 451, 466; Della
    Torre, op cit., pp. 230-31; Carteggio politico Digny cit., p. 191.
    
    332 Come ben sapeva e, per parte sua, deplorava il Malenchini, che
    lo scongiurava a voler ulteriormente riflettere su quell'essenziale
    problema: cfr. la sua lettera 30 luglio al Montanelli, in Puccioni,
    Malenchini cit., pp. 92-93.
    
    333 Capponi a Matteucci, 29 luglio, in Lettere di G. Capponi e di
    altri a lui raccolte e pubblicate da A. Carraresi, Firenze 1882-90,
    III, p. 279.
    
    334 Lettera cit,, 6 agosto, al Massari; anche in una successiva
    lettera del 23 agosto al Peruzzi, il Cambray-Digny accennava alla
    possibile, ma non provata attività plonploniana del
    Montanelli. (Carteggio politico cit., p. 206).
    
    335 Secondo il Peruzzi (al Ridolfi, 2 agosto, in Poggi, op. cit.,
    III, p. 88) il Walewski, ministro degli esteri francese, gli avrebbe
    segnalato l'attività plonploniana svolta dal Montanelli a
    Firenze e dal Matteucci a Torino, aggiungendo che il ministro
    francese a Firenze non aveva mancato di «richiamare» il
    Montanelli e che questi aveva ammesso di «non poter affermare
    che tale (cioè favorevole alla nota candidatura) fosse
    realmente la volontà imperiale». Ma cosa si può
    onestamente desumere da questa apertura del Montanelli, se non che
    le voci a carico del Montanelli erano giunte fino all'orecchio del
    ministro di Francia? In linea di fatto l'unico dato positivo
    riguardante il Montanelli è costituito, ci sembra, dalle sue
    dichiarazioni a discarico dell'Imperatore.
    
    336 Lettera cit, del La Farina al Franchi, 24 settembre 1859.
    
    337 Diario cit., pp. 460-61.
    
    338 Lo schema di discorso in R. R.
    
    339 Cfr. del resto anche gli Schiarimenti elettorali del Montanelli
    stesso, cit.: dove, riferendosi appunto al periodo successivo a
    Villafranca, egli scriveva che gli era parso meglio, allora,
    «circoscrivere la rivoluzione ad acquisto di libertà
    unificatrice sotto guarentigia della Francia, che aspirare ad unica
    monarchia abbandonata alle sole sue forze. E mi pareva che le
    autonomie del centro e del mezzogiorno, governate da uomini di parte
    nazionale unite col Piemonte in sodalizio militare, politico,
    economico, rappresentate in un Parlamento comune, potessero tanto
    bene provvedere alle unificazioni necessarie all'indipendenza, per
    lo meno quanto l'unità emanuelliana».
    
    340 Redi, op. cit., pp. 69-71. Lo stesso Redi ci assicura che questo
    suo progetto venne dal Montanelli trasmesso all'imperatore a mezzo
    di uno dei suoi amici, fatto partire espressamente per Parigi.
    «Da questa missione, il 20 ottobre, venne fuori la lettera
    dell'imperatore al re Vittorio Emanuele». Degno di fede questo
    racconto? Chi sa. Certo che in quella lettera l'imperatore, se
    affacciava l'idea di una amministrazione separata per il Veneto,
    prospettava pur sempre la restaurazione granducale in Toscana e il
    riconoscimento di Modena alla duchessa di Parma!
    
    341 Pini, Lettere cit., p. 11.
    
    342 Malenchini a Montanelli, 10 agosto, in D'Ancona, op. cit., p.
    312.
    
    343 Nelle sue Memorie il Garibaldi scrive che il Montanelli e il
    Malenchini, reduci dal loro giro nell'Italia centrale, sarebbero
    venuti a sollecitare la sua accettazione: «Quando io risposi a
    Montanelli, che marcerei senza indugio..., egli m'abbracciò
    commosso». In realtà il solo Malenchini si recò
    in quella occasione dal Generale, il quale, scrivendo, dovette
    confondere l'incontro col Malenchini in agosto con quello col
    Montanelli il 20 luglio. Secondo il Puccioni, Il Risorgimento cit.,
    p. 95, sarebbero stati, invece, il Malenchini e il Cempini a
    suggerire al Ricasoli l'idea della lega militare e del comando a
    Garibaldi; ma la testimonianza del generale rende al Montanelli quel
    che gli spetta.
    
    344 Il De Reiset (Souvenir, Parigi, 1902-903) giungeva a Firenze il
    10 agosto; otto giorni piú tardi il Poniatowski.
    
    345 Il Planat de la Faye, che al Montanelli non perdonava d'aver
    dissentito dal suo Manin, in una lettera da Parigi, 27 agosto,
    all'Ulloa (Doria, op. cit., p. 61), insinuò che il Montanelli
    «scontento di non essere nulla e di vedersi screditato in
    patria, intrigasse col Poniatowski in favore del granduca
    decaduto». Accusa ingiuriosa e gratuita che neanche i
    piú fieri nemici del Montanelli osarono pronunziare! Per
    quanto avesse avuto, in passato, rapporti con lui (non lo aveva
    forse nominato, nel novembre del '48, ministro toscano a Parigi?)
    sembra infatti che il Montanelli non vedesse neanche il Poniatowski
    durante la sua breve e ingloriosa permanenza a Firenze.
    
    346 Perfino il Bianchi dovette ammettere, sia pure a denti stretti,
    che al lusinghiero incarico il Montanelli preferí il posto di
    deputato all'assemblea. (Lettera cit. al «Monitore
    Toscano»); cfr. anche Mariscotti e Redi, op. cit. Ancora il 29
    luglio, del resto lo stesso Peruzzi segnalando, da Parigi, il
    contegno ostile al governo toscano di una parte della stampa
    francese, scriveva al Ricasoli: «A me pare che adesso un
    giornale che propugnasse la causa dell'Italia centrale sarebbe
    utilissimo...; consiglierei di profittare delle disposizioni del
    Montanelli che dicono desideri di venire qui a lavorare nella stampa
    per la causa italiana: e ciò mi scrive anche il Matteucci. Mi
    pare che cosí fareste un viaggio e due servizi».
    Lettere e documenti Ricasoli cit., III, p. 186. Cfr. anche Poggi,
    op. cit., III, p. 98. Ma il Ricasoli, come si sa, era sfavorevole a
    questo progetto giornalistico: Ibid., p. 94.
    
    347 Cfr. la lettera del Fabrizi, prefetto di Livorno e un tempo
    amico e collaboratore del Montanelli, al Ricasoli, 25 luglio, in
    Lettere e documenti Ricasoli cit., III, pp. 182-83. Il Rosso,
    Lettere inedite di G. Mazzoni ad A. Vannucci, Torino 1905, p. 27,
    scrive addirittura che il Montanelli, nel '59, tentò
    «di rimettere fuori la sua proposta di una Costituente»,
    ma non sappiamo dove abbia pescato questa notizia del tutto
    infondata.
    
    348 Della Torre, op. cit., p. 283; Poggi, op. cit., III, pp. 78 sg.
    Del resultato complessivo delle elezioni si rallegrava il Massari:
    «Sono tutti liberali; ma mi spiace vederci il Montanelli: lui
    che è per Napoleone!». Diario cit., p. 464.
    
    349 Cfr. Malenchini a Montanelli, 10 agosto, cit.; e Garibaldi a
    Montanelli, 15 agosto, in D'Ancona, op. cit., p. 314.
    
    350 Pasolini, Memorie, Torino 1887, I, p. 310.
    
    351 Poggi, op. cit., III, pp. 100, 104; Morpurgo-Zanichelli, Lettere
    politiche di Ricasoli, Peruzzi, Corsini e Ridolfi, Bologna 1898, pp.
    95-96. Il Peruzzi, del resto, doveva buscarsi i rimproveri del suo
    governo per non essersi mostrato abbastanza risolutamente contrario
    al disegno, attribuito appunto al Montanelli, di una reggenza
    napoleonica nell'Italia centrale.
    
    352 Poggi, op. cit., III, pp. 123-24; Morpurgo, op. cit., pp.
    141-42.
    
    353 Carteggio inedito Tommaseo-Capponi, Bologna 1911-32, IV (2), pp.
    176-78.
    
    354 Mazzini, Scritti editi ed inediti, Edizione nazionale, Imola,
    LXIII, p. 317.
    
    355 È noto come il periodo del massimo favore per quel
    progetto fosse a Parigi quello che andò dalla metà di
    agosto alla fine di settembre del '59. Verso la metà di
    ottobre tanto il principe che l'imperatore mostrarono per chiari
    segni di aver definitivamente rinunziato ad ogni speranza in
    proposito.
    
    356 Diario Massari cit., p. 479, Peruzzi a Galeotti, 24 agosto, in
    Morpurgo, op. cit., pp. 97-105, Vincenzo a Bettino Ricasoli, 28 e 30
    agosto, in Sapori, Dalla rivoluzione del 27 aprile all'annessione,
    Firenze 1926, pp. 39, 42. Che tra il Sarda Garuga e il Montanelli
    corressero effettivamente dei rapporti è dimostrato da una
    lettera del primo al secondo, in data 10 settembre, inclusa in altra
    del Biscardi, che trovasi in B. L., c. 7, i. 1497.
    
    357 Fra le carte del Montanelli abbiamo trovato tracce di cordiali
    ma generici suoi rapporti epistolari col Farini; di piú
    intimi e seguitati, invece, con 1'Albéri: questi ultimi
    meritano di venire esaurientemente chiariti.
    
    358 Un incidente caratteristico: il 13 agosto un giornale
    fiorentino, l'«Indipendenza», stampava, desumendolo da
    un foglio piemontese, il seguente trafiletto: «L'imperatore
    Napoleone fece un gran bene verso all'Italia centrale con
    l'ammonizione severa data al Montanelli di cessare da ogni
    propaganda in favore del principe figlio di re Girolamo». Il
    Montanelli non si lasciò intimidire: «Ricorro al suo
    pregiato giornale – scrisse al direttore della «Nazione»
    – per dichiarare pretta menzogna quanto sul conto mio fu riferito
    dall'«Indipendenza» (cfr. «Nazione», 17
    agosto). Dopo di che, l'«Indipendenza» si
    affrettò a lasciar presa, gettando la responsabilità
    della informazione sul confratello piemontese. A che si riferiva la
    smentita del Montanelli: alla pretesa ammonizione imperiale, o
    piuttosto alla pretesa propaganda da lui svolta? Non si capisce
    bene. Quel che è evidente si è che la tattica del
    Montanelli consisteva allora nell'impedire che un'eventuale
    candidatura napoleonica potesse venir definitivamente pregiudicata:
    bisognava tenere in piedi anche quella possibilità, pur senza
    promuoverla attivamente.
    
    359 A questo impegno del Montanelli di fronte all'imperatore fecero
    allusione i deputati toscani recatisi in missione a Torino, durante
    il loro colloquio col Cavour, 3 settembre '59: poco caritatevolmente
    aggiungendo che il Montanelli stesso definiva il Cavour «una
    donna isterica». Il Giorgini, anzi, avrebbe specificato
    (cosí il Massari nel suo Diario cit., pp. 493-494) avere il
    Montanelli «a lui per tre ore spifferato che con Plon-Plon
    farebbe in Toscana un esperimento di principato
    democratico-sociale». All'onesto Giorgini crederemmo
    senz'altro: ma ad un Giorgini raccontato dal Massari siamo proprio
    tenuti a prestar fede piena?
    
    360 Per le dichiarazioni da lui fatte in quella occasione (egli
    considerava la concorde designazione del principe di Carignano da
    parte delle diverse assemblee dell'Italia centrale un passo decisivo
    verso la formazione di quel nuovo Stato che avrebbe facilitato
    l'ulteriore unificazione della penisola tutta) cfr. Assemblee del
    Risorgimento. Toscana, III, Roma 1911, pp. 727 sg.
    
    361 D'altronde il Montanelli era persuaso che Napoleone III sarebbe
    stato in ogni caso costretto a rifiutare la corona dell'Italia
    centrale per il cugino, né piú né meno come
    Luigi Filippo aveva dovuto rifiutare quella belga offerta a suo
    figlio. Ma gli sembrava che la semplice offerta della reggenza o del
    trono sarebbe bastata ad assicurare la neutralità benevola
    della Francia agli ulteriori sviluppi della rivoluzione italiana nel
    centro e nel mezzogiorno. «Mi si potranno citare parole
    animate da cotali intendimenti – scrisse nella cit. lettera inedita
    al «Monitore Toscano» – ma sfido a provare, o che io
    spendessi in senso favorevole alla candidatura del principe
    Napoleone la parola imperiale, o che muovessi la benché
    minima pratica per sostenere che quando pure s'avesse a rinunziare
    all'unità fosse da preferire nel regno centrale il principe
    Napoleone a un principe della casa di Savoia... Prima che la
    reggenza del principe di Carignano fosse proposta mi era stata fatta
    parola di reggenza che il principe Napoleone avrebbe accettato...
    d'accordo col re Vittorio Emanuele. Certo io non avrei combattuto
    cosiffatto partito».
    
    362 Cfr. a questo proposito i particolari datici dal Brofferio di un
    colloquio ch'egli ebbe col Montanelli, a Firenze, sui primi di
    settembre (Una visita all'Italia centrale, estratto da I miei tempi,
    Italia 1860, pp. 75-84). Si tenga presente che il Brofferio, pur
    amico e in qualche misura compagno di lotta politica del Montanelli,
    dissentí apertamente dal suo atteggiamento nella questione
    delle annessioni: ciò che aumenta valore alla sua
    testimonianza.
    
    363 Questa proposta venne approvata per alzata e seduta: due soli
    deputati, i cui nomi non figurano nei resoconti ufficiali, non si
    alzarono: sembra proprio che uno di essi fosse il Montanelli (cfr.
    Poggi, op. cit., I, pp. 211-12).
    
    364 Di queste discussioni segrete non sappiamo che ben poco (cfr. in
    particolare Carletti, op. cit., 140-46). Ma forse fu in questa
    occasione che il Montanelli sottopose ai colleghi due sue proposte
    di voto (per un indirizzo all'imperatore Napoleone e per una
    riunione plenaria di tutte le assemblee dell'Italia centrale), le
    cui minute si trovano fra le carte montanelliane in B. L., c. 40, i.
    2248.
    
    365 Cfr. le considerazioni svolte dal Montanelli in una lettera ad
    un suo ignoto corrispondente (forse il Farini?), evidentemente del
    marzo o aprile 1860, in B. L., c. 40, i. 2234.
    
    366 Sosterranno, sí, gli apologisti del Montanelli
    (Mariscotti, op. cit., p. 125; Pini, Lettera cit., p. 12) che il
    Ricasoli gli fu personalmente riconoscente per l'astensione dal
    voto; tanto che glielo mandò a dire, a nome del governo, a
    mezzo del Menichetti. Ma non si può dire davvero che, nel
    seguito, il barone adeguasse a riconoscenza il suo atteggiamento
    verso il Montanelli.
    
    367 Op. cit., p. 314.
    
    368 Cfr., ad esempio, le allusioni anche troppo scoperte della
    «Nazione», 22 agosto.
    
    369 Verso la fine d'agosto, ad esempio, l'agenzia Stefani
    comunicò ai giornali (cfr. L'«Indipendenza» del
    29) che gli elettori di Fucecchio erano scontentissimi
    dell'atteggiamento assunto dal loro deputato. Informazione
    notoriamente infondata: a Fucecchio la parola del Montanelli era
    vangelo addirittura!
    
    370 Montanelli ad un giornalista francese, il Morin, novembre 1859
    (B. L., c. 40, i. 2234): «Quiconque ne partage pas les
    illusions des annexionnistes est calomnié somme
    réactionnaire... Nous n'avons pas de liberté. Le parti
    annexionniste a confisqué à son profit toutes les
    armes de la presse... Dans la Toscane ainsi que dans toute l'Italie
    centrale nous vivons sous le règne le plus dictatorial...
    Dans nos assemblées on a tout organisé d'une
    façon à empêcher qu'une parole libre puisse se
    faire entendre».
    
    371 Cosí enorme parve quella esclusione che non mancarono
    contro di essa veementi proteste. Cfr., ad esempio, Vessillo della
    libertà, Vercelli, 11 ottobre 1860; e Unità Italiana,
    Firenze, 14 ottobre 1860. Non fu se non nella primavera del '62,
    caduto il Ricasoli, che il Montanelli, ormai sull'orlo del sepolcro,
    poté ottenere dal Matteucci, ministro dell'Istruzione nel
    gabinetto Rattazzi, l'estrema soddisfazione di vedersi reintegrato
    nell'insegnamento universitario.
    
    372 A sentire il Menichetti, che fu eletto in sua vece, nel gennaio
    del '61, nel suo collegio natío, dopo una lotta d'indicibile
    asprezza, lo stesso Cavour, poche settimane prima di morire, avrebbe
    testualmente dichiarato: «Alla Camera, meno Montanelli, ci
    sono tutti coloro che hanno contribuito a fare l'Italia. Mi disse
    anche che ne avrebbe combattuto a oltranza la candidatura»
    (Puccioni, Il Risorgimento cit., p. 249). Senonché
    converrebbe conoscere a quali confidenze del Menichetti facesse
    seguito questo sfogo del gran conte!
    
    373 Memorabile fra tutti la serie di articoli sull'Ordinamento
    nazionale, pubblicati sulla «Nuova Europa», Firenze, nel
    1861-62: al loro uscire nessuno li notò o parve notarli;
    salvo che, morto il Montanelli, pensarono gli amici a raccoglierli
    in opuscolo, sotto quel titolo (Firenze 1862): e allora se ne fece
    gran caso!
    
    374 Soprattutto 7 debiti pubblici! Legge 4 agosto 1861, presentata
    come progetto dal Bastogi il 27 giugno. Scriveva il deputato
    Galeotti: «il regno d'Italia ereditò dagli antichi e
    dai nuovi governi un disavanzo ordinario di 102 milioni; un debito
    pubblico di 22 481 870 000; una quantità cospicua di leggi e
    di decreti organici, che dovevano essere posti in esecuzione; un
    personale esuberante nei pubblici uffici, oltre a quelli che la
    mitezza di una rivoluzione aveva collocato fra i pensionati: i
    pubblici introiti dappertutto diminuiti» (La prima
    Legislazione del Regno d'Italia da Zoli, Saggio, pp. 279-80).
    
    375 Secondo Petruccelli della Gattina, 2561: Storia d'Italia, p.
    476. Nel 1860, su quaranta province, solo sei eran provviste di
    ferrovie. Ibid.
    
    376 Giustino Fortunato dice (1928) che si è molto esagerato
    sul contegno dei Piemontesi nel mezzogiorno; e anzi vorrebbe
    scrivere qualcosa per dimostrare che fecero quanto di meglio era
    possibile.
    
    377 «Vero prodigio! quando si pensi che una tanta impresa non
    veniva coadiuvata da alcuna riforma amministrativa ispirata al
    decentramento amministrativo, la quale sviasse una parte degli
    interessi locali dal far ressa e dal far tratta, senza ritegno,
    sulle risorse del bilancio nazionale» (Jacini, Pensieri sulla
    politica italiana, p. 29).
    
    378 La preoccupazione finanziaria impedí che si provvedesse
    alla soluzione di molte altre questioni. Jacini propugnando la sua
    riforma politico-amministrativa sostiene che soltanto con la sua
    attuazione si può sperare di risolvere definitivamente la
    questione finanziaria.
    
    379 Considerazione giustissima sul Congresso di Berlino svolge
    Jacini, Pensieri sulla politica italiana, pp. 76 sg., stigmatizzando
    l'indignazione che contro di esso si diffuse in Italia perché
    non ci aveva portato nessun ingrandimento territoriale (eppure
    l'Italia non aveva mica partecipato alla guerra d'Oriente!)
    «Mentre sopra un tale risultato si era fatto assegnamento
    sicuro, non per altro titolo che perché ciò sarebbe
    stato cosa desiderabile...» Eppure attraverso le discussioni
    in parlamento e al senato risultò chiara
    l'impossibilità di tale ingrandimento per noi. La frase –
    «lo smacco del trattato di Berlino» – diventò
    nondimeno tradizionale (e quanto male ci ha fatto!). E non si
    pensò che era «già un motivo di grande
    compiacenza per l'Italia l'avere seduto, per la prima volta, a
    titolo di grande potenza, in un congresso europeo».
    
    380 Inghilterra, 30 marzo 1861; Francia, 15 giugno 1861; Russia, 12
    luglio 1862.
    
    381 Uno degli atti piú scaltri fu forse la Convenzione di
    settembre, che si riuscí a render cosí poco chiara da
    giustificare, per parte italiana, una interpretazione letterale in
    aperta contraddizione col suo spirito (int. La Marmora e Dronin de
    Lhuis).
    
    382 Jacini, Pensieri sulla politica italiana, svolge il concetto
    della neutralizzazione internazionale della Santa Sede.
    
    383 Contro l'accentramento se la prende Jacini – che lo dichiara
    ineluttabile fino al '66; ma dopo perniciosissimo.
    «L'accentramento amministrativo trae dunque con sé per
    necessaria conseguenza l'accentramento delle discussioni in
    Parlamento di ogni piú piccolo incidente» (Jacini,
    Sulle condizioni della cosa pubblica, p. 24).
    
    In sostanza Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica, vorrebbe
    tornare (1870) al progetto delle regioni che forse fu bene rigettare
    nel '61, ma che ora s'impone. Dieci anni di rigido accentramento
    eran forse necessari date le condizioni del paese; e ora gioveranno
    come correttivo del regionalismo. Jacini vince l'obiezione che si
    fa, della diversa prosperità delle varie regioni, dicendo che
    niente impedirebbe da parte dello Stato un equo calcolo di dare e
    avere fra l'erario nazionale e le singole regioni.
    
    Curioso che Jacini, il quale propugna il suffragio universale a
    doppio grado per le elezioni politiche, voglia invece il suffragio
    ristretto per i corpi regionali «per schivare che il medesimo
    collegio racchiuda un contrasto naturale e permanente di interessi
    locali»?! (p. 98).
    
    Il progetto di riforma di Jacini è caratterizzato da un
    governo piú forte, attraverso il modo di elezione dei
    deputati e la limitazione delle loro competenze, e da un grande
    discentramento amministrativo, reso possibile appunto dalla
    esistenza di un governo forte.
    
    Rattazzi, in una lettera a Vittorio Emanuele, 1860, ricordando le
    tradizioni del mezzogiorno raccomanda «pas de hâte
    enragée de trop administrer et d'une façon
    préconçue, pas de zèle dans l'unification.
    Voilà le danger contre lequel nous allons peut-être
    nous heurter...» (Rattazzi et son temps, pp. 537 sg.).
    
    Ricasoli (sul principio del '62) operò alcune riforme
    amministrative, nel senso del decentramento.
    
    384 Jacini, Pensieri sulla politica italiana, p. 39, lamenta che –
    dopo il '66 – non si sia voluto parlare di riforma amministrativa
    (che tra l'altro avrebbe sanato il Parlamento) perché
    incombeva il problema finanziario. E non si capí che quella
    avrebbe facilitato la risoluzione di questo.
    
    385 Vedi parafrasata (e smontata) questa accusa in Jacini, Pensieri
    sulla politica italiana, p. 70. Molti lamentano che il Piemonte
    facesse piú grande politica estera del regno d'Italia e si
    domandano: «L'esperienza non ci insegna forse che una politica
    intraprendente e inframettente è quella che ci conviene?
    Eravamo intraprendenti e inframettenti da piccini, perché
    ora, divenuti grandi dovremmo cessare d'esserlo?» La risposta
    è contenuta nel capitolo sulla Megalomania politica in Italia
    nel citato volume di Jacini (un piccolo Stato può arrischiare
    e poi, eventualmente, ritirarsi, cedendo all'intimazione di una o
    piú grandi potenze. Una grande potenza non potrebbe senza
    gravissimo danno sottoporsi a quest'onta ecc.). Lo stesso, pp. 26
    sg., dice che la posizione internazionale d'Italia dopo il '66 era
    meravigliosa e che il principale assunto del suo governo in politica
    estera avrebbe dovuto essere il mantenimento dello status quo
    europeo.
    
    1869, accuse della Sinistra al governo perché ha pagato (in
    oro) alla Francia il debito pontificio per le province occupate,
    giustificando quel che scrive la stampa cattolica, ossia con quel
    pagamento l'Italia riconosce di essersi appropriata dei beni altrui.
    Fu debolezza? O necessità? (Rattazzi et son temps, II, pp.
    303 sg.).
    
    386 La critica che fa Jacini, Pensieri sulla politica italiana, pp.
    28 sg., è che se fu giusto che dal 1860 al 1866 i problemi di
    politica interna restassero subordinati a quelli della estera, male
    fu che dopo il '66 non si invertissero i rapporti. E che in
    sostanza, dopo il '66, auspici la megalomania e lo pseudo
    parlamentarismo, si sbagliò l'indirizzo politico.
    
    387 Ancor piú significativa tale guerra quando si pensi alle
    condizioni del paese, nel dichiararla. Tali condizioni sono
    riassunte (assai pessimisticamente invero) da Rattazzi in un
    colloquio col principe di Carignano, giugno 1866: 1) cattiva
    situazione all'estero; 2) popolo scontento; 3) amministrazione
    incapace; 4) minacce all'unità; 5) clero antipatriottico; 6)
    aristocrazia a sé; 7) borghesia piovra dello Stato; 8) scarse
    individualità eminenti, anche nel governo; 9) rivalità
    del passato risuscitate nel 1864; 10) parlamento povero di
    personalità; 11) senato - ricovero di pensionati; 12) stampa
    venale e ignorante; 13) regime fiscale insensato (?); 14) ignoranza
    diffusa e quel po' di istruzione, pretesca; 15) giovinezza senza
    principî e senza fede, un po' mazziniana e un po' loiolesca;
    16) nessuna preparazione alla guerra, nessuna fede nei capi; 17)
    marina sconnessa, mai trovatasi assieme agli ordini d'un ammiraglio;
    18) nel mezzogiorno ignoranza totale dei fini della guerra. Questo
    quadro fatto da Rattazzi ha molta importanza (Rattazzi et son temps,
    II, pp. 52 sg.).
    
    388 Lo dice benissimo Jacini, Pensieri sulla politica italiana, p.
    71: «Il regno di Sardegna era una creazione del Congresso del
    1815 della quale l'Europa non avrebbe mai permesso la distruzione.
    Era un cuscinetto indispensabile, posto nell'interesse europeo,
    insieme alla Svizzera, tra la Francia e l'Austria. Il Piemonte
    poteva permettersi una politica audacissima, colla certezza di
    guadagnare immensamente in caso di vittoria, e di restare come prima
    in caso di sconfitta, salvo a pagare qualche indennizzo di guerra al
    vincitore...»
    
    389 Ancora Jacini, ibid.: «In caso di sconfitta, la certa
    prospettiva che si presenterebbe al regno d'Italia sarebbe quella di
    andare in frantumi. Parecchi dei grandi stati d'Europa, possono
    avere interesse a che il territorio italiano non divenga piú
    la preda di alcuno dei popoli vicini; ma è indifferente per
    loro che rimanga o non rimanga costituito in un solo Stato».
    Solo che Jacini addita questi pericoli all'Italia di dopo il '66,
    non prima, quasi dando a credere che l'Europa vedeva volentieri il
    suo annettersi la Venezia. Ciò che non mi pare dimostrato.
    
    390 Jacini, Pensieri sulla politica italiana, p. 20, dice che noi
    rifiutammo il 5 maggio.
    
    391 Lo stesso, loc. cit., sottolinea il contegno cavalleresco
    dell'Austria verso di noi dopo la guerra e i «modi leali e
    cordiali del suo riconoscimento».
    
    392 Rattazzi et son temps, II, p. 310, accenna, 1867, a 93 milioni
    che l'Italia doveva pagare all'Austria per il valore del materiale
    bellico nelle fortezze cedute. Ma come? anche quello si pagò?
    o non soltanto ci si assunse il debito pubblico di Venezia? Nel
    primo caso, sarebbe stata una grande umiliazione.
    
    Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica, p. 52, riconosce
    l'accasciamento generale che prese dopo la guerra del '66. Ma si
    rifiuta di spiegare con esso quel certo rallentamento nell'opera del
    governo, quella diminuita adeguatezza di quell'opera alle
    necessità negli anni immediatamente seguenti al '66.
    «Che un'intera nazione si abbia a dare per perduta,
    perché le mancò il prestigio della gloria militare,
    tanto piú dopo aver conseguito i medesimi vantaggi materiali
    che la gloria militare avrebbe potuto procacciarle, è la cosa
    piú inverosimile che si possa immaginare».
    
    393 Nel valutare l'iniziativa per la guerra, tener conto delle
    trattative segrete fra Vittorio Emanuele e Mazzini appunto per
    promuoverla. Mazzini, quando gli pareva che si rallentasse il fuoco
    sacro per il Veneto, agitava la minaccia della repubblica.
    
    394 Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica, p. 67, dice in
    sostanza che Rattazzi fu rovesciato nel '62 «per aver osato
    mantener forza alla legge ad Aspromonte». Mi pare
    un'interpretazione un po' futurista.
    
    395 Sviluppare questo punto. Jacini, Pensieri sulla politica
    italiana (1889), sviluppa benissimo, in contrapposto a certe pretese
    di megalomania, una linea di politica estera misurata attiva e
    proficua. In sostanza noi dovremmo convertire il valore virtuale che
    ci viene dal possesso della piú splendida posizione nel
    Mediterraneo, in valore effettivo. «Non corriamo dietro alle
    fantasticherie. Egli è restituendo il manto delle foreste
    alle nostre Alpi ed ai nostri Appennini denudati, prosciugando le
    sterminate paludi... sviluppando le nostre risorse interne,
    migliorando i nostri porti, la nostra navigazione, la nostra
    attività, agraria, industriale e commerciale...;
    rinforzandoci e consolidandoci in casa nostra, che avremo fatta la
    miglior politica estera del Mediterraneo».
    
    396 Il discorso Rattazzi, 18 dicembre 1867, è volto a
    dimostrare che il governo fece quanto poté per impedire
    l'arruolamento dei volontari, ma che questi andavano spontaneamente,
    alla spicciolata alla frontiera, senza armi, ecc. Insomma, il
    discorso vuol dimostrare che il governo è incapace di
    dominare un movimento cosí vasto e spontaneo e da tutti
    appoggiato.
    
    Settembre 1867, Rattazzi fa dire da Nigra a Napoleone che la
    popolazione di Roma ha una attività rivoluzionaria e che
    l'Italia si troverà forse nella necessità
    d'intervenire per salvare l'ordine, il Vaticano, ecc. Risposta di
    Napoleone 4 ottobre (attraverso Nigra): non crede allo spirito
    rivoluzionario in Roma e si riserva ogni decisione.
    
    Rattazzi è stato mal servito anche dai suoi apologisti.
    Rattazzi et son temps, II, p. 184, dice che a un certo punto
    Rattazzi lasciò fare Garibaldi nel '67, forse perché
    aspettava «de la leçon que Garibaldi allait recevoir de
    la main des Français la vengeance de tous les maux que
    l'héroïque aventurier lui avait causés».
    
    397 Rattazzi, 18 dicembre 1867, parla dei volontari che alla
    frontiera pontificia riescivano a sottrarsi alla vigilanza delle
    truppe italiane anche perché favoriti dalle popolazioni.
    (?!...)
    
    398 Vedi Rattazzi et son temps, II, p. 172. Ma i romani in fondo si
    contentavano del governo bonaccione dei preti e non si muovevano,
    col pretesto di non creare imbarazzi al governo italiano. Avevano
    una matta paura dei garibaldini!
    
    399 Che fosse terribilmente complicato risulta dalle stesse
    imbarazzate dichiarazioni di Rattazzi alla Camera, il 18 dicembre
    1867, là dove dice che siccome in Italia non ci sono leggi di
    repressione preventiva, cosí nessuno poteva, innanzi Mentana,
    impedire ai garibaldini di propagandare l'imminenza della
    convenzione di settembre.
    
    400 Contraddizioni del discorso Rattazzi, 18 dicembre 1867.
    L'arresto di Garibaldi a Sinalunga fu forse anticostituzionale, ma
    una necessità politica. Poco oltre: lo stesso arresto prova
    che il governo è uguale di fronte a tutti e non rincula mai
    dinanzi alla legge.
    
    401 Fu il deputato Sirtori. Ma in Rattazzi et son temps, pp. 630-31,
    si dice che dopo qualche mese si constatò che era pazzo.
    
    Su Rattazzi però bisogna andare a fondo: lettera sua a
    Vittorio Emanuele, 1861: «Ce n'est pas non plus le moment, il
    me semble, de songer à Venise ni à Rome, même
    par allusion, comme le but final de la révolution que nous
    venons d'accomplir. A chaque jour sa tâche. Le tour de Venise
    et de Rome viendra dans un quart de siècle
    peut-être» (Rattazzi et son temps, pp. 187 sg.).
    
    402 Scrive il marchese di Villamarina (ex ambasciatore sardo a
    Parigi) al Morelli, autore di uno Studio politico su Rattazzi:
    «Nel 1867 Napoleone III aspettava con una certa impazienza
    l'annunzio del fatto compiuto rispetto a Roma... fu un momento solo,
    ma quel momento non ci è mancato, se avessimo voluto e saputo
    approfittarne. Ignoro se Rattazzi fosse consapevole di ciò
    quando voleva passare il confine, e trovò opposizione fra gli
    stessi suoi colleghi del ministero; ma ripeto, che se egli fosse
    stato meno compiacente nell'accettare nel suo gabinetto uomini le
    cui idee e le cui aspirazioni non erano in perfetta armonia con le
    sue sarebbe riuscito con sua lode e con plauso utile della
    patria» (Petruccelli della Gattina, Storia d'Italia, P. 183).
    
    403 La stessa commedia, in certa misura, si giuocò ancora nel
    '70, quando – dopo Sédan – il governo italiano non si decide
    ad andare a Roma se non in seguito alle petizioni di varie
    città papali, che chiedono l'occupazione italiana per
    troncare l'anarchia che già infierisce. Il gabinetto voleva
    aver l'aria di farsi forzar la mano!
    
    404 Il vero insuccesso di Mentana fu per Napoleone. Al quale Pepoli
    scriveva (credo sul principio del '67) incitandolo a facilitare
    l'andata dell'Italia a Roma: «L'alleanza italiana poi è
    pure di qualche peso. Fra non guari, la spada del nostro esercito
    peserà anch'essa sulla bilancia dei destini di Europa. Io non
    so immaginare che V. M. respinga il concorso dei suoi piú
    fidi amici per appoggiarsi su Roma...»
    
    Il principe Napoleone a Sainte-Beuve, 15 dicembre 1867, deplorando
    la politica di Napoleone III: «... restando a Roma noi
    perdiamo un alleato devoto ed utile, il frutto della guerra 1859 – e
    tutto ciò pel potere temporale del papa!» (ibid., p.
    32).
    
    405 Dietro sollecitazioni e assicurazioni di Napoleone – dice
    Rattazzi alla Camera. La Russia soprattutto in grazia delle misure
    rigorose prese da Rattazzi contro i Polacchi della scuola militare
    di Cuneo, che abusavano dell'ospitalità italiana; la Prussia
    per mostrar la sua indipendenza dall'Austria e in seguito a una nota
    insolente di Rechberg.
    
    406 Circolare cit. alle legazioni. Questa circolare di Durando
    urtò Napoleone, che fece scrivere L'Europe et la
    Papauté, ripresentando la vecchia sua idea della federazione
    in Italia.
    
    Pepoli, ministro, dopo Aspromonte andò a Parigi e vide
    Napoleone: «... non gli dissimulai la verità:
    disapprovai le parole e gli atti di Garibaldi, formulai la speranza
    che avremmo dominato la situazione, ma non dissimulai che ciò
    avremmo fatto con grande scapito delle nostre proprie forze... che
    vinto Garibaldi, ci saremmo trovati a fronte delle idee di Garibaldi
    piú gagliarde di prima e che il governo per tal vittoria
    ottenuta avrebbe assunto l'obbligo di sciogliere la questione romana
    in breve spazio di tempo; anzi, se avesse mancato a quest'obbligo
    egli sarebbe miseramente perito...» (Petruccelli della
    Gattina, Storia d'Italia, pp. 8 sg.).
    
    Ibid. (Pepoli all'imperatore). «Ma che debbo dire al
    re?» Imperatore: «Che sia forte; che tenga salda in sua
    mano l'autorità». Io: «Sí! Ma Egli mi
    dirà: che V. M. fece il 2 dicembre per salvare la Francia dal
    socialismo, ma che dopo, per consolidarsi, fece del buon
    socialismo». Imperatore: «È vero». Io:
    «Ebbene, il re, dopo aver domato Garibaldi, è forza
    faccia del buon garibaldismo... che vada a Roma contro
    chiunque...»
    
    Benedetti, Ma mission en Prusse, pp. 245 sg., suppone che Bismarck
    incoraggiasse il partito d'azione italiano nella marcia su Roma per
    metter male tra Francia e Italia.
    
    407 Sono i «megalomani» contro i quali strepita Jacini,
    Pensieri sulla politica italiana.
    
    408 Lo stesso dice che una frazione della classe dirigente italiana
    raggiunta col '66 l'unità disertò la politica,
    perché non si era interessata di politica che fin quando essa
    coincideva col fine dell'unità! Un'altra frazione
    conseguí tanti vantaggi che le mancò ogni stimolo a
    occuparsi ulteriormente di cose politiche.
    
    409 Vedi discussione esauriente alla Camera in precedenza della
    nuova legge, nel 1872. Un dato: dal 1861 al 1870 non si poterono
    eseguite 75 000 mandati di arresto! La Camera discusse lungamente in
    comitato segreto. Il deputato Carrara (giurista): «Il n'y a
    pas en Europe un peuple civilisé où la
    sûreté publique soit dans un état aussi
    misérable et aussi grave qu'en Italie!» (Rattazzi et
    son temps, II, pp. 508 sg.).
    
    410 Diceva Lanza a Rattazzi, dicembre 1871, dipingendogli le
    difficoltà della situazione: «... nous sommes à
    Rome, avec le pape qui nous bombarde de front, Naples qui nous mine
    par derrière, les Romagnes mazziniennes qui nous mordent aux
    flancs...» (Rattazzi et son temps, II, p. 484).
    
    411 Sulla larghezza d'idee della Destra, Jacini, Sulle condizioni
    della cosa pubblica, p. 67: «Uno dei capi del partito avanzato
    di una repubblica democratica, mi diceva un giorno, 1863: "Diamine!
    sono costretto a dichiararmi un codino, in confronto di qualcuno dei
    vostri burgravi di estrema Destra della Camera di Torino!"».
    
    412 Ricasoli, durante il suo ministero, permise perfino la raccolta
    in tutta Italia dell'obolo di San Pietro! E si sapeva dove andavano
    a finire quei denari...
    
    Tipico ultimo rappresentante della mentalità clericale di
    fronte all'Italia in cammino, il diplomatico francese d'Ideville (v.
    il suo libro Piémontais à Rome).
    
    413 Lanza a Rattazzi (colloquio), dicembre 1871: «... On nous
    crie: réforme, réforme! Libertés,
    économies, ordre, justice, égalité... et que
    sais-je encore? Tout cela est-il possible dans la situation
    présente? Franchement, je vous défie de mener à
    bien une réforme quelconque avec un parlement tracassier
    comme le nôtre, sans discipline, sans principes, sans
    programme. Donnez donc de la liberté à une nation que
    ne vous en demande point... ce qu'elle veut, c'est du pain à
    bon marché, c'est la suppression de l'impôt sur le sel,
    du papier-monnaie et des douanes. Faites donc des économies,
    quand vous avez un budget qui se salde avec 200 mill. de
    déficit... Donnez donc l'égalité et la justice
    à une nation qui verrait dans cette concession un aveu de
    faiblesse de la part du gouvernement... et essayerait des
    échauffourées, comme celles de Palerme... Je suis las;
    je deviens tous les jours plus sceptique» (Rattazzi et son
    temps, II, p. 487).
    
    414 Jacini lamenta (Sulle condizioni della cosa pubblica) l'estrema
    instabilità dei ministeri; tanto che si sente da tutti
    ripetere «che, messi insieme nove uomini, scelti per ciascun
    ramo della pubblica amministrazione, fra coloro che al governo
    già fecero men buona prova e lasciati tre o quattro anni alla
    direzione dello Stato, se ne avrebbero risultati assai migliori che
    non da un ministero composto da nove geni, ma colla spada di Damocle
    sospesa ogni giorno sul capo ed esposti ad ogni pié
    sospinto... alle insidie delle chiesuole parlamentari». –
    Tant'è vero che fra i deputati si contano ormai una
    sessantina di ex ministri. I continui cambiamenti «hanno per
    effetto di indebolire vieppiú il potere esecutivo, di ridurlo
    incapace a fissare un determinato progresso (che in quanto al
    metterne poi in atto uno qualsiasi è inutile parlarne) mentre
    hanno alimentato nel pubblico la credenza che la sala dei 500 non
    sia altro fuorché una giostra di passioni personali...»
    
    p. 31: «Non essendovi stabilità di governo, avviene che
    diventino sempre peggiori la pubblica amministrazione e lo stato
    delle finanze. La cattiva amministrazione e il dissesto delle
    finanze, rimaste in permanenza e perciò in continuo aumento,
    ingenerano il disagio. Il disagio produce il malcontento. Il
    malcontento promuove la nomina dei deputati piú idonei a
    rendere sempre piú instabile il governo. Quindi, da
    capo».
    
    p. 80: «Il problema da risolvere in Italia consiste dunque
    nell'assicurarle un governo forte, senza il quale essa
    precipiterebbe nell'anarchia: ma conservandole nello stesso tempo la
    libertà, senza la quale la nostra nazione suol sempre
    degenerare».
    
    Per sanare la piaga dei governi deboli e effimeri, in Italia, molti
    sognano la repubblica. Illusione! Altri, un colpo di Stato che
    abolisca lo Statuto e instauri la dittatura regia.
    
    Jacini (pp. 79 sg.), trova che ciò tradirebbe gli scopi
    assegnati al Risorgimento e darebbe perciò ragione ai
    sostenitori dei passati regimi, che sostenevano esser gl'italiani
    immaturi a un regime libero.
    
    «Il rimedio del ritorno al dispotismo non è un rimedio
    da medico, bensí da maniscalco di campagna, il quale non sa
    far altro che recidere il membro ammalato, perché ignora
    l'arte di guarirlo, conservandolo intatto. Gli Italiani amano un
    governo forte, egli è vero, ma sono abbruttiti (?) dal
    dispotismo. E infatti tutte le cose grandi nella storia del nostro
    paese furono create dalla libertà; e il dispotismo invece o
    spense od avvilí le migliori doti naturali della
    nazione...»
    
    415 Jacini (ibid., p. 35), deplora nella sua critica del sistema di
    governo, non lo Statuto e le sue conseguenze, fortunatamente
    assicurate all'Italia, ma «il modo affatto esotico per
    l'Italia» con cui si sono applicati.
    
    416 Jacini (Pensieri sulla politica italiana) critica il sistema
    parlamentare italiano (che è poi quello piemontese il quale a
    sua volta è quello copiato in furia nel '48 dal francese di
    Luigi Filippo) che chiama pseudo-parlamentare.
    
    417 Ma le sedute delle «Società emancipate»
    posavano addirittura a controparlamento, o meglio a parlamento di un
    partito (Rattazzi et son temps, p. 617).
    
    418 Un re come Vittorio Emanuele II, che troppo spesso faceva il suo
    comodo e seguiva una sua politica, attraverso suoi privati emissari
    (Rattazzi et son temps, II, pp. 325 sg.). Bismack piú d'una
    volta si rifiutò di parlate con questi inviati del re,
    negando che un re costituzionale potesse valersi della loro opera.
    
    1871, febbraio, Lanza vorrebbe Rattazzi nel suo ministero; questi
    però vorrebbe tre o quattro portafogli per i suoi amici, tra
    cui gli esteri. Lanza: «Cela est impossible, aux affaires
    étrangères surtout. Le roi est son propre ministre
    dans ce département-là, et il s'inspire... des
    correspondances directes et secrètes qu'il entretient avec
    les ambassadeurs, avec Napoléon (?) et avec dix autres. Cela
    n'est pas constitutionnel, certes, mais cela n'en existe pas moins.
    – Oui, malheureusement...» (Rattazzi et son temps, II, P.
    407).
    
    Ibid., p. 408, si legge che anche il ministro della guerra in quel
    tempo era completamente asservito al re, che seguiva i consigli di
    La Marmora.
    
    419 Notare, fra il '61 e il '66, l'opposizione netta tra i
    piemontesi, e, specialmente, i tosco-emiliani: caso tipico, gli
    avvenimenti seguiti alla convenzione di settembre.
    
    420 Jacini (Pensieri sulla politica italiana p. 43) dice che questo
    fu lo sfogo del regionalismo compresso e non sfogato nel necessario
    decentramento amministrativo.
    
    Il primo esempio di un ministero equilibrato regionalmente lo dette
    Cavour, marzo 1861, ricorrendo a ministri d'ogni regione d'Italia.
    
    Per avere un'idea della diffidenza che ancora nel '70 divideva i
    nordisti e i sudisti, si veda il colloquio tra Vittorio Emanuele e
    Rattazzi, autunno 1870, in cui Rattazzi fa le piú fosche
    previsioni basate sulla sua sfiducia per gl'italiani del mezzogiorno
    (Rattazzi et son temps, II, pp. 424 sg.).
    
    421 Non mi pare esatto quanto scrive Jacini (Pensieri sulla politica
    italiana, p. 15) che «l'indirizzo del governo italiano, fra la
    metà del '59 e la fine del 1866, era prestabilito nelle sue
    linee principali. L'indole di quel governo doveva consistere in una
    specie di dittatura, assunta, con assenso istintivo della
    moltitudine, dagli uomini che, nelle diverse classi colte, erano in
    grado di formarsi un'idea piú netta della situazione
    eccezionale del paese». Non vedo né la dittatura
    né l'assenso istintivo. Idee simili nelle sue Condizioni
    della cosa pubblica, 1870.
    
    422 Studiare le elezioni del febbraio-marzo 1867, imperniate sul
    diritto di riunione, violato da Ricasoli.
    
    423 Rattazzi et son temps, II, pp. 24 sg., si dice veramente che il
    ministro dell'interno, Natoli, «se mêla des
    élections... en faisant sentir son influence aux
    préfets, aux syndics et aux magistrats... La majorité
    antipiémontaise de Turin fut battue... En somme, un tiers de
    l'ancienne majorité ministérielle resta sur le
    carreau...» E ancora (p. 34), a proposito delle dimissioni di
    Natoli il quale «avait perdu la partie aux élections
    par l'excès de zèle qu'il y avait
    apporté».
    
    424 A questa evoluzione costituzionale della Sinistra molto
    giovò Rattazzi; glielo riconobbe, dopo morto, lo stesso suo
    nemico Bonghi (Nuova Antologia), Riflessioni in Rattazzi et son
    temps, II, p. 579: «On lui doit de voir le parti radical le
    plus forcené ramené à l'obéissance des
    lois et au respect du droit. Lorsqu'il fut au pouvoir, ce parti lui
    rendit toujours difficile l'exercice de ce pouvoir; et il ne lui
    arriva jamais d'être ministre sans que quelque grave
    désordre ne survint...»
    
    425 Lasciamo andare, per carità di patria, quel che diceva
    suo padre!
    
    426 2 gennaio 1866, a Firenze, attentato contro Sella.
    
    427 Lo stesso Rattazzi, nel 1871, diceva «disastrosa» la
    politica finanziaria di Sella (Rattazzi et son temps, II, p. 408).
    
    A che non arrivò la propaganda di stampa repubblicana sotto
    il ministero di quel «reazionario clericale» di Menabrea
    (1868). Incitamento all'insurrezione, necessaria per fondar subito
    la repubblica in Campidoglio; impulso alle sommosse di Milano,
    Palermo, Roma (Petruccelli della Gattina, Storia d'Italia, p. 43).
    
    428 Critiche di Jacini, Pensieri sulla politica italiana, pp. 44
    sg., sulla stampa – che, assodata l'unità, tese a sviare la
    pubblica opinione dalle questioni serie e abituò il pubblico
    a considerar la politica un teatro di virtuosismi.
    
    429 Fa eccezione il provvedimento di sospensione dello Statuto che
    si votò al principio del 1866, al principio della guerra. La
    Camera però respinse una legge sui sospetti che si propose
    nella stessa occasione e che, mirando ai fautori dei Borboni, era
    cosí vaga che poteva colpire chiunque.
    
    430 Contro al progetto Ferrara (1867) sul prestito anticipante il
    gettito di vendita dei beni ecclesiastici, si schierano moltissimi
    alla Camera: ottanta oratori s'iscrivono a parlare, quasi tutti
    contrari. Ferrara dimissiona (Rattazzi et son temps, II, p. 168).
    
    431 Sui deputati che diventano galoppini degli elettori, Jacini,
    Sulle condizioni della cosa pubblica. E ancora: «la capitale
    accentra nel Parlamento tutte le competenze del paese – e il paese
    ne resta cosí privo; tutte le incombenze pubbliche si
    appioppano al deputato che si ritiene idoneo a tutto. Gli uomini
    d'ingegno anziché darsi seriamente agli studi li disertano
    per aspirare alle facili popolarità del Parlamento. Troppa
    intelligenza e troppa cultura nel Parlamento, che vengono
    completamente sciupate e dovrebbero tesaurizzarsi nella libera
    attività».
    
    p. 98: «L'esercizio della deputazione qual è
    attualmente è cosí gravoso che molti competenti non
    possono occuparsene e preferiscono lasciarlo ai dilettanti.
    Diversamente accadrebbe con le regioni e il parlamento centrale
    ridotto alle sole grandi attribuzioni».
    
    432 Petruccelli della Gattina, Memorie di un ex deputato, racconta
    briosamente di un tale che si guadagna un collegio (1866) con una
    bella lotteria a sue spese. Ma il Petruccelli era un famoso
    scanzonato e il suo libercolo è uno spiritoso paradosso. A
    pp. 58-59: «Bisogna esser resistenti per non diventare idioti
    da quel mestiere di deputato! Dalle dieci del mattino alle sette
    circa del pomeriggio, vedere le stesse facce, udire le stesse voci;
    parlare degli stessi subbietti ogni dí; respirare la stessa
    aria mefitica materiale e morale; sorbire le stesse osservazioni sui
    ministri, sui partiti, sulle persone, sulle intenzioni; discutere
    sempre le stesse questioni; leggere gli stessi giornali, le stesse
    relazioni, subire le stesse vanagl. interess...; scorgere sotto la
    pelle patriottica di quasi tutti, gli stessi interessi privati,
    sorridere ad uomini di cui non si stimano... essere vittima delle
    stesse esorbitanze di elettori e di governo...» In complesso,
    il libretto tende a mostrare che il deputato è il galoppino
    degli elettori.
    
    433 «La vita politica, non pertanto, si concentrava tutta
    intera nel Parlamento, il quale, a volta sua, ne aveva poca, o
    nessuna coscienza...» (Petruccelli della Gattina, Storia
    d'Italia, p. 211).
    
    Al punto, dice Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica, che si
    era creato un distacco netto tra Italia «legale» e
    Italia «reale».
    
    434 Critiche di Jacini, Pensieri sulla politica italiana, al sistema
    parlamentare italiano (latino in genere) che chiama
    pseudo-parlamentare perché copiato da quello inglese, ma
    senza il largo decentramento inglese. Il regime parlamentare per lui
    non è concepibile disgiunto dal decentramento perché
    falsa la vita pubblica, determina instabilità di governo e
    corruzione (tutti gli interessi anche i piú minuti facendo
    capo al centro, i deputati diventano agenti d'interessi) e prepotere
    del Parlamento. Insomma, o si vuole un regime accentrato, e allora
    bisogna svincolare almeno in parte il potere esecutivo dal controllo
    minuto del Parlamento; o si vuole il vero regime parlamentare, e
    allora bisogna decentrare. Lo pseudo-parlamentarismo stanca e delude
    le moltitudini e le porta a desiderare le dittature parlamentari (p.
    50).
    
    435 Critica del funzionamento della Camera:
    «"Un'interpellanza, una crisi ministeriale e un esercizio
    provvisorio; poi da capo, una crisi ministeriale, un esercizio
    provvisorio ed un'interpellanza!" Ecco come il "Times", alcuni mesi
    fa, definiva argutamente la situazione parlamentare d'Italia»
    (Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica, p. 21).
    
    Sulla crisi del Parlamento dopo il '66 (e in generale crisi
    politica), alcuni pensano che col tempo tutto s'accomoda, basta non
    aver fretta, ché tutti i paesi liberi hanno traversato crisi
    analoghe. Altri pensano che basterebbero alcune modificazioni nel
    regolamento della Camera per accomodare tutto; altri vorrebbero la
    costituzione di solidi partiti politici, perno della vita politica
    parlamentare. Ma la prima soluzione è evidentemente smentita
    dai fatti (quanta furia, Jacini!); la seconda evidentemente
    insufficiente; la terza esigerebbe come prima base la formazione di
    un partito conservatore, ma questo non può nascere se prima
    non si sistemano un po' le faccende della cosa pubblica. Se no, cosa
    conservare? Lo Statuto? Ma nella sua orbita si muovono tutti i
    partiti (ibid.).
    
    436 Jacini, ibid., propugna il suffragio universale a due gradi e
    l'attribuzione al Parlamento delle sole grandi questioni d'interesse
    nazionale.
    
    437 Studiare l'interesse degli elettori per le elezioni (frequenza
    degli elettori). Nel 1871 ci fu ballottaggio, a Siena, fra due
    candidati: uno ebbe 50, l'altro 60 voti. A Firenze il candidato del
    governo ebbe 153 voti ed entrò in ballottaggio con uno che
    non ne ebbe che 6. A Roma, su 7800 elettori, solo 198 si
    presentarono (Rattazzi et son temps, II, p. 455, che però
    attribuí questi risultati alla propaganda astensionista
    contro Lanza dei partiti di sinistra e clericale).
    
    «Giammai meno della metà, ma spesso i due terzi, e
    piú ancora, degli elettori inscritti (come è avvenuto
    nelle elezioni parziali le piú recenti) suol astenersi dalle
    urne elettorali, cosicché vi è un gran numero di
    deputati al Parlamento i quali sebbene rappresentanti di collegi
    popolati da 500 000 anime, pure non furono eletti che da 80 o da 100
    voti...» (Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica, p.
    16).
    
    438 Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica in Italia, spiega
    che non ha accettato l'elezione a deputato di Terni perché ha
    voluto studiare un po' dalla platea l'effetto di quel che si
    è fatto e si fa sul palcoscenico, insomma «mescolarsi a
    lungo, spogliandosi d'ogni idea preconcetta, colla folla»;
    «verificare quali siano, riguardo alle cose del governo, i
    giudizi di essa», conoscere «i gusti della massa».
    Se un uomo di governo non si prende ogni tanto questa briga
    «anche il suo giudizio sulla cosa pubblica deve riuscire
    necessariamente unilaterale e fallace...» (pp. 12-13). E
    ancora: «Eccellenti le masse, come fu solennemente dimostrato
    dalla facilità con cui si poté introdurre la
    coscrizione militare in molte province dove prima era sconosciuta e
    dalla pochissima resistenza, relativamente parlando, alla tassa
    impopolare del macinato...» (p. 15).
    
    439 Jacini, Pensieri sulla politica italiana, pp. 23 sg., un po'
    sviato dall'intento di dimostrare certe magagne del sistema politico
    italiano dopo il '66, dipinge a colori troppo rosei i dati
    realistici con i quali esso dové fare i conti. E per esempio,
    allude a «un paese docilissimo e che non chiedeva altro se non
    di essere assecondato nel suo desiderio di un migliore avvenire da
    conseguirsi senza troppo violentarlo...» (1867).
    «Partout des émeutes; là, à cause du
    choléra, ici pour des motifs religieux, ailleurs pour
    protester contre la conscription, contre la cherté du
    blé» (Rattazzi et son temps, II, p. 169).
    
    440 Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica. Partiti non ce ne
    sono. Le frazioni in cui si divide la Camera non esprimono che il
    regionalismo che informa di sé i sedicenti partiti oppure si
    fondano su distinzioni che non hanno radice nel paese, ma nella
    ristrettissima classe politica. La Destra si formò,
    com'è noto, e raccolse, fino al 1866, anche parecchi
    rivoluzionari (d'altronde l'opera governativa della Destra fino al
    '66 fu squisitamente rivoluzionaria); ora è rimasta
    cosí, un amalgama di gente diversa, che si fraziona dietro a
    nomi o a indirizzi contingenti. La Sinistra è la minoranza
    del primo Parlamento italiano e il risultato del malcontento
    espresso dalle elezioni del '65 e del '67, finora senza progresso
    positivo. Ora si va un po' costituendo, ma manca di una Destra
    oppositrice chiara. Per cui non riesce a distinguer chiaramente il
    suo progresso dai molti espressi da Destra e si perde finora in
    agguati e scaramucce. Niente di impossibile che, se la Sinistra
    riuscisse a esprimere un progresso accettabile, divenisse un giorno
    il partito conservatore. I centri sono formazione esclusivamente
    parlamentare e contingente. V'è poi l'estrema Sinistra,
    composta dagli irreconciliabili di Sinistra e dai prodotti del
    malcontento.
    
    441 Fra essi Garibaldi.
    
    442 Bisognerà studiare a fondo la genesi dei partiti politici
    in Italia. Jacini (Pensieri sulla politica italiana), distingue due
    periodi; uno dal 1860 al 1866 (partiti concordi nel volere il
    completamento dell'unità e in esso assorbiti; differenze fra
    di loro solo di metodo); l'altro dopo il '66 in cui ogni politica
    è possibile e sbocciano i programmi. (Io credo che questo
    secondo periodo debba spostarsi a dopo il 1870).
    
    443 Sulla necessità dei partiti, che sian vivi e robusti, per
    la prosperità delle istituzioni, vedi le parole di Crispi, in
    morte di Rattazzi, alla Camera, 5 giugno 1873.
    
    444 Anzi, eran convinti d'esser nel fango fino agli occhi! Scriveva
    bene Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica, p. 58, che se gli
    italiani viaggiassero di piú, sarebbero stati meno numerosi,
    certo, i seguaci del primato giobertiano, «ma è anche
    certo che oggi sarebbero assai meno frequenti coloro che si
    abbandonano all'avvilimento, supponendo altrove cammini ottimamente
    tutto ciò che appare loro inappuntabile, soltanto
    perché veduto da lontano...»
    
    A leggere le discussioni alla Camera e le confessioni degli stessi
    uomini di governo, pare sempre che le cose vadano male! Rattazzi,
    1871 (o 1872?) dice alla Camera che in dieci anni si sono spesi
    tredici miliardi «et nous n'avons encore une armée
    solide, ni marine, ni sécurité publique, ni
    frontières en état de défense, ni surtout
    d'écoles... Personne en Europe ne nous considère comme
    une grande puissance. Nous n'avons presque pas de chemins de fer.
    Nous ne sommes pas au niveau des autres nations européennes,
    pas plus qu'au niveau des besoins économiques de la vie
    nationale. Notre magistrature est d'une infériorité
    intellectuelle et morale déplorable. L'Autriche nous a battus
    sur mer et sur terre. Nous n'aurions pas été en
    état d'aller au secours de la France...» (Rattazzi et
    son temps, II, pp. 506-7).
    
    445 Agli operai italiani, in «Roma del popolo», 13
    luglio 1871.
    
    446 Lettera del 9 novembre: Briefe an Sorge, Dietz, Stuttgart 1909,
    p. 34.
    
    447 Marx, L'Alleanza della democrazia sociale e l'Associazione
    Internazionale dei Lavoratori; sta in Opere di Marx,
    «Avanti!», Milano 1901, vol. II, pp. 117-19.
    
    448 Da «L'Alleanza» (Bologna), 6 aprile 1872.
    
    449 G. C. Abba, Cose garibaldine, Società Editrice Nazionale,
    Torino 1905.
    
    450 Guillaume, L'Internationale. Documents et souvenirs, 4 voll.,
    Paris 1905-907, vol. III, pp. 21-22.
    
    451 «Rivendicazione», Forlí, 4 maggio 1889.
    
    452 Ivi, 25 maggio 1889.
    
    453 Ivi, 28 febbraio 1891.
    
    454 Vita di Mussolini cit., pp. 319-20.
    
    455 Ibid., p. 164.
    
    456 Ibid., p. 102.
    
    457 «Noi non siamo della scuola marxista perché
    anarchici sin dal 1871», scrive «La
    Rivendicazione» il 12 novembre 1887; per gli articoli del
    Malatesta, cfr. ad esempio, i nn. del 21 febbraio, 18 marzo, 11
    aprile, 23 maggio 1891.
    
    458 Cfr. «La Plebe», Lodi, 24 dicembre 1882:
    «Ammiratori dei forti e generosi caratteri, dinanzi al
    cadavere di G. Oberdan ci scopriamo reverenti il capo e pensiamo con
    dolore e nausea a quell'Italia redenta...» «La
    Rivendicazione», 23 dicembre 1886: «Noi socialisti, noi
    gli abolitori della Patria, sapemmo combattere, ancora sedicenni,
    per l'intangibilità di essa; noi traditori saremmo al nostro
    posto domani, se qualche tiranno volesse conquistare la terra ove
    viviamo». Cfr. anche ivi 5 e 19 febbraio 1887, 25 giugno 1887.
    
    459 Il II volume (che conduce la biografia fino a tutto il 1909) mi
    giunge mentre correggo le bozze, ma non vi sono che frettolosi cenni
    sulle ultime vicende di Alessandro Mussolini.