Giacomo Pezzano

Ripensare (con) Marx:

la natura umana tra filosofia, scienza e capitale

editrice petite plaisance

 

Indice

0. Tra natura e storia: per un’antropologia materialistica e «generica»

1. Lavorare per diventare umani: apertura al mondo come relazione

2. Né degenere né genetica: una natura umana complessamente generica

3. Paradise Lost: una vita da alieni umani

4. Cervelli genericamente programmati per estendersi relazionalmente:

per un’antropobiologia marxiana

5. Il gene e il clinamen: de-ideologizzare il determinismo genetico

Bibliografia

 

0. Tra natura e storia: per un’antropologia materialistica e «generica»

0.1. Com’è noto, per Marx il lavoratore sfruttato nel modo di produzione capitalistico è a tutti gli effetti un uomo animalizzato, che agisce meccanicamente e ripetitivamente, al ritmo di una macchina che marcia a sua volta assecondando l’inesorabile incedere del capitale (cfr. Marx 2008: 243-371), facendo dell’attiva e pianificata «responsività» propria dell’umano (cfr. p.e. Waldenfels 1994: 320-636; Waldenfels 2008) una mera passiva e irriflessa «reattività»; ancor più, l’ossimoro che prende il nome di «uomo capitalistico» diventa non solo un essere cui vengono meno i bisogni umani, ma addirittura anche quelli animali (cfr. p.e. Marx 2004b: 122 s.): alienazione/estraniamento significa così animalizzazione, o – meglio e più radicalmente – dis-umanizzazione (se non appunto persino dis-animalizzazione), significa cioè che l’essenza umana viene intaccata e messa in pericolo, significa che la natura umana è esposta al rischio di essere veementemente negata, di andare perduta irrimediabilmente.

0.2. Uno dei concetti più centrali e discussi nella prospettiva marxiana (se non il più centrale), quello di alienazione/estraniamento, rimanda dunque al compito preliminare di definire la specificità della natura umana all’interno di quella stessa prospettiva: nelle pagine che seguono, sonderò la portata concettuale ed euristica della definizione marxiana dell’uomo in termini di Gattungswesen, che intenderò come «ente naturale generico». La natura umana è, in altri termini, descrivibile come una natura generica. In particolare, intendo la genericità: i) come esposizione al fuori, come socialità nel senso della necessità del rapporto con l’alterità e l’esterno (Gemeinwesen e Gattungswesen vengono così a coincidere laddove si conferisce centralità non tanto a una qualche «comunità organica» o all’insieme del «genere umano», quanto prima di tutto alla relazione in senso ampio e profondo); ii) come consegna a una dimensione potenziale dell’essere al mondo, come una forma di determinazione né genetica né tantomeno degenere, che comporta necessariamente storicità e modalizzazione – libertà.

Il punto da tenere ben presente è però che i) e ii) rappresentano le due facce della stessa medaglia, vale a dire che l’esposizione al fuori è immediata espressione della mancanza di un dentro necessario e prefissato e viceversa: è cioè proprio in ragione dell’assenza di una natura univocamente e definitivamente prestabilita che l’uomo è chiamato ad agire, ad aprirsi alla storia, a consegnarsi al rapporto dialettico con l’insieme di ciò che incontra, con l’alterità «umana» come con quella «non-umana» (§§ 1-2).

0.3. Queste due affermazioni possono portare a concludere che in certa misura alienazione ed estraniamento non solo appartengono all’essenza dell’uomo, ma anzi ne esprimono in maniera eminente la natura, la realizzano nel modo più profondo1: si tratta allora paradossalmente di ribaltare la visione secondo cui il problema del capitalismo sarebbe semplicemente quello di alienare/estraniare l’uomo (la sua essenza e la sua natura), perché piuttosto il vero problema è che il capitalismo pretende di impedire ogni ulteriore e sempre possibile forma di alienazione/estraniamento dell’uomo, irrigidendo l’apertura relazionale al mondo costitutiva dell’umano (Mitweltoffenheit), contenendola cioè in un’unica forma socio-economica e bloccandola in un’unica determinazione storico-politica. Ossia: facendo credere che esista un solo modo di essere umani, quello capitalisticamente inteso. Il che – più semplicemente ma nel senso che a essere in gioco è proprio l’essenza semplice dell’uomo, il nucleo intimo del suo esistere – è un modo per dire che il capitalismo cerca di corrodere la libertà umana impedendone la compiuta espressione. Il capitalismo dunque dis-umanizza l’uomo perché lo animalizza, cioè cerca di fare della sua Mitweltoffenheit una Umweltgebundenheit, cerca, se così posso dire, di alienare l’alienazione/estraniare l’estraniamento, allontanandoli da se stessi, dall’uomo, per consegnarli alla realtà destinale, monodimensionale eppure «una e trina» Denaro/Merce/Mercato.

0.4. In questo senso allora, sarebbe errato credere che nella visione marxiana il comunismo rappresenterebbe semplicemente la «fine dell’alienazione/estraniamento», e questo perché – come cercherò di mostrare (§ 3) – la prospettiva marxiana si oppone nella sua struttura concettuale al tentativo di pensare la storia e il cammino dell’uomo come il tentativo di restaurare un’essenza perduta, di tornare a quel Paradiso dal quale l’uomo sarebbe stato espulso in seguito al Peccato Originale/Originario. L’essenza generica è essenza storica, ed è per questo che se anche si può (anzi si deve) affermare che la libertà appartiene alla sua natura – è la sua natura –, non per questo si può affermare che l’uomo sarà senza dubbio libero, ossia che realizzerà concretamente tale sua natura in maniera necessaria e infallibile: proprio da questo fatto deriva la possibilità-necessità dell’alienazione/estraniazione.

L’antropologia marxiana va colta come un’antropologia a pieno titolo insieme storica e naturale perché materialista, in quanto pensare materialisticamente significa pensare a partire dalla costituzione biologico-organica dell’uomo, la quale ci dice che l’uomo è corpo/cervello genericamente aperto al mondo, potenziale ed esposto alla relazione con l’altro da sé.

Concentrandomi qui soprattutto sul secondo polo della comunque inscindibile «unità duplice» corpo/cervello (§ 4)1 bis, nella convinzione che «essere materialista significa ammettere che la costruzione cerebrale è capace di registrare la storia individuale» (Prochiantz 2009: 115), miro ad argomentare come un’antropologia materialistica (marxiana), rifiutando appunto qualsiasi tentazione ideologica di narrazione te(le)ologica (che assume oggi la forma della celebrazione della natura deterministica del gene), metta al centro della scena, dell’esistenza umana, la dimensione del possibile, la necessaria possibilità della libertà (§ 5).

1. Lavorare per diventare umani: apertura al mondo come relazione

1.1. In alcuni dei più noti passaggi del Capitale troviamo espresso un concetto analogo a quello che la tradizione culturale e filosofica occidentale aveva già delineato attraverso, tra i tanti, Aristotele e Kant2: l’uomo viene descritto come toolmaking animal, come l’animale che lavora, laddove il lavoro va colto come l’istituzione di un rapporto mediato con la natura, come quel rapporto peculiare intrattenuto dall’animale che agisce per dar forma al proprio mondo ma anche per dar forma a se stesso, differenziandosi da tutti gli altri animali che agiscono per istinto e non in modo pianificato e finalizzato a uno scopo, restando incapaci dunque di dar vita anche al più semplice strumento e di estendersi così tramite la creazione e l’utilizzo di mezzi (di protesi). Infatti, se un’ape e un ragno costruiscono certo opere perfette e impressionanti, non sono però in grado di prefigurare le loro opere nella loro testa, non sono cioè in grado di pianificare e progettare, di immaginare il campo del possibile per portarlo a realizzazione, di sviluppare possibilità e facoltà altrimenti solo latenti, anzi non sono nemmeno in grado di coglierle in quanto tali, in quanto latenti (cfr. Marx 2008: 146-150; nonché Gould-Gould 2008; Ingold 1994): l’uomo è in ultima battuta «come un architetto che edifica la “cultura” con materiale da costruzione naturale» (Gehlen 1990: 202).

1.2. Detto in altri termini, quello che Marx afferma è che l’uomo si differenzia dall’animale perché se quest’ultimo agisce guidato dall’istinto all’interno del proprio ambiente specifico (Umwelt), il primo conduce attivamente e liberamente la propria esistenza aprendosi al mondo (Welt) e alle diverse possibilità che esso offre nel rapporto dialettico con esso (Weltoffenheit). L’uomo è produttore3, produce la propria esistenza, questa è la sua natura, e allo stesso tempo può fare ciò solamente a partire dalla e nella natura, che rappresenta per lui il mondo esterno sensibile, materia su cui e con cui si realizza il suo lavoro, su cui e con cui il suo lavoro agisce, dal quale e per mezzo del quale produce. Se certo per Marx in certa misura non esiste una natura «an sich» senza l’intervento mediatore umano, è però anche vero che egli ritiene che il lavoro sia «nur die Äußerung einer Naturkraft», nel senso che agendo e producendo l’uomo mette «gegenüber» alla «Naturstoff» nient’altro che «eine Naturmacht», quella paradossale forza biologica che è esplicabile compiutamente soltanto attraverso un processo di attiva e relazionale produzione, dunque non immediatamente naturale (cfr. Schmidt 1969).

Pertanto, nella prospettiva marxiana l’uomo è quella parte della natura che vive della trasformazione della natura, la quale è «unorganische Leib» dell’uomo, con cui restare in costante rapporto per sopravvivere e che si fa organo nel momento in cui entra a far parte del sistema di «prolungamenti» di cui si compone la cultura (dalla lancia al diritto, dalla freccia all’iPhone). L’uomo che «si congiunge» alla natura trasformandola per sopravvivere è natura che si congiunge con se stessa, l’uomo è l’essere universale e generico in quanto si relazione all’intera natura e a se stesso in quanto appartenente al genere: l’uomo marxiano «fa teoreticamente e praticamente della propria specie e di quella delle altre cose il proprio oggetto», le coglie come poste-di-fronte e dunque le coglie in quanto tali proprio quando ne prende le distanze, ed è dunque – soprattutto – «in grado di comportarsi verso se stesso come verso la specie presente e vivente, di comportarsi verso se stesso come verso un essere universale e dunque libero» (cfr. Marx 2004b: 69-74). Se la misura dell’animale viene a coincidere con «Maß und Bedürfnis der species, der es angehört» (ossia con quella della propria Unwelt specifica), l’uomo è universale, è «misura di tutte le cose», è in grado di fare dell’intera natura il regno della propria vita, materialmente e spiritualmente, produce prima di tutto «la sua vita attiva» perché contraddistinto da una Weltoffenheit che lo slega dalla «Herrschaft des unmittelbaren physischen Bedürfnisses», dall’immediatezza naturale (cfr. ivi: 74 s.): se il bisogno naturale dell’animale è ciò che lo rinchiude nell’immediatezza naturale dell’Umwelt, va riconosciuto – come cercherò di mostrare – che è sempre il «bisogno naturale» (questa volta però naturalmente innaturale) dell’uomo a consegnare questo all’immediata/naturale mediatezza/in-naturalità della Weltoffenheit.

1.3. La vita stessa è per Marx «l’attività con cui l’uomo trasforma il mondo e se stesso, conformemente a certi scopi “presenti idealmente” nella sua mente. La “vita” è il “lavoro” stesso dell’uomo!» (Severino 2006: 21): il lavoro è l’inserimento di un processo mediato e mediatore come mezzo fra l’uomo e il processo naturale immediato, è produzione di qualcosa «che non esiste nella natura» (Marx 2008: 58), conseguenza di un procacciamento attraverso «un’attività speciale, produttiva e conforme a uno scopo, che adatta particolari materiali naturali a bisogni umani» (ibidem). Il lavoro è «formatore di valori d’uso» (ibidem), «condizione d’esistenza dell’uomo, indipendente da ogni altra forma della società; è una perenne necessità della natura che ha lo scopo di mediare lo scambio materiale tra uomo e natura, cioè di mediare la vita umana» (ibidem) – dando vita a oggetti che rappresentano così la «combinazione di due elementi, materia naturale e lavoro» (ibidem), di un sostrato materiale fornito dalla natura unito alla produzione co-operativa dell’uomo, nel senso che quest’ultimo «può agire solo come la stessa natura, cioè solo modificando le forme dei materiali» (ibidem), anzi tramite il costante aiuto delle forze naturali – ma senza per questo poter mai sganciarsi del tutto dalla natura stessa4.

Per Marx il lavoro in quanto attività specificamente umana possiede una natura generale e indipendente (ossia: generica) rispetto alle singole forme di organizzazione del lavoro, comune a tutte le forme di società della vita umana (ossia: a tutte le modalità che lo specificano): l’agire coincide così con la «ewige Naturbedingung des menschlichen Lebens», perché senza lavoro, senza produzione, senza azione, non può esistere uomo. Il lavoro, dunque, è descritto come attività mediatrice che «verwirklicht» nell’elemento naturale gli scopi umani, consegnando loro «Form des Seins» e «des Daseins»: il lavoro con-forma le cose conferendo loro esistenza in cor-rispondenza all’idea pre-fissata nella mente, è quell’attività che effettua e rende reale (realizza mostrando tutta la sua efficacia) lo scopo fra-ponendosi tra concetto e materia per collegarli. Certo, l’attività umana (in questo pienamente mimetica rispetto a quella naturale, secondo il paradigma classico) non è semplicemente creativa (non crea ex nihilo), ma è tras-formatrice e tras-figuratrice, ossia è in grado di mutare e cambiare le forme dei materiali (è creatio ex aliquo), tuttavia tale cambiamento è ugualmente produttivo, fa passare dal non-essere all’essere, dal non-essere-presente-in-natura all’esistenza, quella forma che rappresenta il bene e l’utile prima prefigurati e poi prodotti (cfr. anche Severino 2006: 21-24).

Soprattutto, è questo un punto che mi preme particolarmente sottolineare, quella di lavorare, di trasformare e oltrepassare cioè la natura entrando in rapporto mediato con essa, è dipinta da Marx come una vera e propria eterna necessità naturale per l’uomo, rappresenta cioè la paradossale natura immediata dell’uomo: la mediatezza è la forma in cui si esprime l’immediatezza nel e dell’uomo – l’oltre-naturalità (la «meta-fisicità») è la forma in cui si esprime la naturalità (la «fisicità») nel e dell’uomo.

1.4. Proprio per questo il lavoro umano «loslöst» le cose dal loro «unmittelbaren Zusammenhang mit dem Erdganzen», le scioglie cioè dalla loro con-nessione/di-pendenza im-mediata con l’intera natura5: l’attività umana è ben esemplificata dal solcare la terra di cui parlava già Sofocle (Antigone, vv. 332-375), è la messa in opera di uno spezzare i vincoli della natura, di un oltrepassare la natura nella sua semplice immediatezza, di un superare la semplice sfera dell’immediato (che è tanto superamento dell’immediatezza naturale «esterna», quanto l’abbandono di quell’immediatezza che governa la vita animale nel ciclo funzionale dell’istinto e che l’uomo continua sempre a sentire come quell’«interno» che non ha mai posseduto), di un intervenire operando una scissione decisiva e definitiva che apre separando e separa aprendo6.

L’agire umano si compie attraverso la decisione (Entscheidung) che istituisce differenza (Unterscheidung), tramite una decisione differante potremmo anche dire derridianamente, non da ultimo in quanto figlia di quella capacità specificamente umana (che è l’uomo) di dif-ferire il soddisfacimento pulsionale frap-ponendo la mediazione (concettuale o riflessiva, una volta che si è compiutamente strutturato lo spazio psichico) tra impulso e sua soddisfazione (lo iato della libertà: cfr. Gehlen 2010: 40-70), capacità che permette il superamento dell’indistinzione (naturale, animale e divina) e l’apertura del ventaglio di possibilità, del campo del possibile, dei diversi scopi e delle differenti modalità di realizzarli.

L’uomo incontra le cose nel mondo in una determinata condizione, ma può – deve – intervenire su di esse per soddisfare i propri bisogni, alterando così tale condizione, sciogliendo i nessi delle cose con il loro ambiente (l’albero dal suo nesso immediato con il bosco, il pesce dal suo nesso immediato con l’acqua) per farle diventare altro rispetto a ciò che sono: è l’animale che oltrepassa l’ambiente per aprirsi al mondo, l’animale sempre diverso da come è, l’animale mediato che non conosce immediatezza, l’essere agente – volente, desiderante, pianificante e trasformatore, che vede le cose del mondo e progetta la loro trasformazione, che rimastica le cose per assimilarle e digerirle restituendole alla natura in un’altra forma (anche la contemplazione, in questo senso ampio, è una forma di relazione mediata e attiva con ciò che sta di fronte, co-sciente e con-sapevole e proprio per questo slegata dall’immediatezza).

L’uomo marxiano appare a tutti gli effetti come l’animale che trasforma se stesso trasformando quanto lo circonda, che trasforma le cose per trasformare se stesso, per raggiungere se stesso nel suo protendersi verso un mondo che è dato a partire da una sottrazione originaria, quella di un’Umwelt specie-specifica armonicamente definita (cfr. anche Godelier 1984: 2-26). La via dello spirito (come Hegel aveva sapientemente compreso e messo al centro di tutto il suo itinerario speculativo) è «traversa», è la via della mediazione, la strada indiretta, in cui a farla da padrone sono fatica e lavoro – la temporalità e l’obliquità.

1.5. Il concetto con cui Marx nomina una natura umana così intesa è quello noto di «essenza generica», Gattungswesen: l’essere generico dell’uomo significava per Marx che l’essere umano è naturalmente sociale, immediatamente comunitario, e questo non solo o non tanto nel senso spesso sottolineato per cui l’uomo è feuerbachianamente cosciente di appartenere a un genere, è cosciente cioè di essere umano e con ciò anche di appartenere a un più ampio ordine universale e oggettivo. C’è un senso ancora più radicale per il quale parlare di Gattungswesen non significa parlare soltanto di Gemeinwesen in un senso socio-politico, ed è quello preliminare per cui l’uomo è costitutivamente in rapporto con il «fuori» e l’«altro da sé». L’animale per Marx, come abbiamo ricordato, «è immediatamente una cosa sola con la sua attività vitale. Non si distingue da essa. È quella stessa» (Marx 2004b: 74), vale a dire che nell’esplicare la sua attività vitale «si basa su abilità innate, abilità che non deve imparare, che non sono fuori di lui» (Cimatti 2011b: 101): l’essenza dell’animale è dentro l’animale, vale a dire che ogni individuo coincide con il proprio essere individuale, con il suo essere dentro se stesso e «questo non significa che non sia importante anche l’esperienza né che tutto il comportamento animale sia innato; il punto è che ciò che l’animale può imparare è vincolato in modo più o meno rigido dalla sua costituzione biologica innata» (ibidem). L’uomo, invece, non è vincolato da una natura immediata e necessaria, predeterminata in maniera rigida e intrascendibile, e proprio per questo è definibile come Gattungswesen:

fa della sua attività vitale l’oggetto stesso della sua volontà e della sua coscienza. Ha un’attività vitale cosciente. Non c’è una sfera determinata in cui l’uomo immediatamente si confonda. L’attività vitale cosciente dell’uomo distingue l’uomo immediatamente dall’attività vitale dell’animale [es ist nicht eine Bestimmtheit, mit der er unmittelbar zusammenfließt. Die bewußte Lebenstätigkeit unterscheidet den Menschen unmittelbar von der tierischen Lebenstätigkeit]. Proprio soltanto per questo egli è Gattungswesen (Marx 2004b: 74).

1.6. Che l’uomo debba produrre «Lebens-mittel» attesta proprio il fatto che vive al di là dell’immediatezza, che tale produzione differenzi l’uomo «unmittelbar von der tierischen Lebenstätigkeit» attesta proprio che è la stessa immediatezza naturale dell’uomo ad aprirlo alla dimensione mediale e consapevolmente produttiva. Per l’animale umano dunque ogni attività presuppone una presa di coscienza, ossia «fin dall’inizio si trova nella situazione di doversi chiedere che fare, dove farlo e perché farlo» (Cimatti 2011b: 102), può perché non-può, perché può non-potere (cfr. p. e. Agamben 2004; Agamben 2005; Agamben-Deleuze 1993), e «soltanto per ciò la sua attività è un’attività libera» (Marx 2004b: 74), di modo che «l’essenza della specie umana è nell’insieme delle attività di questa specie, sia di quelle effettivamente esistenti che di quelle ancora soltanto possibili» (Cimatti 2011b: 103). Per poter eseguire la propria libera attività, l’uomo non può, come l’animale, «seguire il programma innato che è già dentro di sé» (ibidem), ma deve imparare, e «questo significa che l’essenza umana si trova al di fuori del singolo individuo umano, nell’insieme delle relazioni sociali umane» (ibidem).

Ma attenzione: «non è soltanto che l’animale umano è un animale fortemente sociale, perché molte altre specie animali sono fortemente se non più sociali: il punto è che l’umano diventa umano soltanto al di fuori di sé, nelle relazioni sociali con gli altri umani» (ibidem). Vale a dire attraverso un processo che ha come punto di partenza la peculiare «potenzialità biologica di ricevere il “trapianto” delle relazioni sociali esterne» (ivi: 108), ossia una «predisposizione, che di per sé non predetermina lo sviluppo successivo» (ibidem): non c’è dunque alcuna «essenza interna che debba poi soltanto maturare e riversarsi all’esterno» (ibidem), ma ogni operazione umana è al contempo naturale e storico-culturale proprio perché la predisposizione naturale (l’interno) è tale da richiedere una specificazione e determinazione mediata e dunque non naturale (l’esterno).

1.7. Con altre parole, il genoma umano «non contiene tutto ciò che è necessario per renderlo umano» (ivi: 35), non lo contiene al suo interno, ma richiede l’istituzione di un rapporto con l’esterno, richiede relazione con tutto ciò che circonda, richiede cioè un contesto esterno che lo completi e lo esprima compiutamente: il genoma (il dentro) umano spinge immediatamente al rapporto con il non-genetico (il fuori), il fenotipo non è una conseguenza immediata e necessaria del genotipo. Proprio per questo si può affermare che «la società è l’unità essenziale, giunta al proprio compimento, dell’uomo con la natura, la vera risurrezione della natura, il naturalismo compiuto dell’uomo e l’umanismo compiuto della natura» e che «è un’attività sociale la mia stessa esistenza, onde quel che io faccio da me, lo faccio da me per la società e con la coscienza di essere un essere sociale», di modo che «l’individuo è l’essere sociale» perché «le sue manifestazioni di vita – anche se non appaiano nella forma immediata di manifestazioni di vita in comune, cioè compiute a un tempo con altri – sono quindi una espressione e una conferma della vita sociale» (Marx 2004b: 109 s.).

Il punto è che tale «società» va letta come «relazione», nel senso dell’apertura relazionale al mondo, della necessità naturale di mettersi in rapporto con quanto circonda (oltrepassando così la semplice naturalità) per determinare e specificare una natura che non è fatta tutta di «dentro», che non è fatta di soli geni (una natura per la quale è il gene stesso a richiedere di essere specificato e declinato riferendosi all’ambiente e all’alterità).

1.8. Esempio emblematico di quanto detto è la coscienza in quanto auto-coscienza, mediata e resa possibile dal linguaggio – e viceversa –, espressione del più generale fatto che per l’uomo la vita va prodotta e tale espressione è a sua volta espressione del fatto della relazione (è già in principio un «duplice rapporto»):

la produzione della vita, tanto della propria nel lavoro quanto dell’altrui nella procreazione, appare già in pari tempo come un duplice rapporto: naturale da una parte, sociale dall’altra, sociale nel senso che si attribuisce a una cooperazione di più individui […]. Solo a questo punto […] troviamo che l’uomo ha anche una “coscienza”. Ma anche questa non esiste fin dall’inizio, come “pura” coscienza. Fin dall’inizio lo “spirito” porta in sé la maledizione di essere “infetto” dalla materia, che si presenta qui sotto forma di strati d’aria agitati, di suoni, e insomma di linguaggio. Il linguaggio è antico quanto la coscienza, il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno [Bedürfnis], dall’esigenza di stringere relazioni con altri uomini. Là dove un rapporto esiste, esso esiste per me: la fiera non “ha relazioni” [verhält] con alcunché e non ha per niente relazioni. Le sue relazioni con altri non esistono, per la fiera, come [als] relazioni. La coscienza è dunque fin dall’inizio un rapporto sociale e tale resta in tanto che in genere esistono uomini (Marx-Engels 2011: 352 s.).

Questo passaggio è ricco e richiederebbe un saggio a sé stante, mi limito qui a sottolineare che il concetto centrale mi sembra essere prima di tutto non tanto quello di «struttura materiale», nemmeno tanto quello di linguaggio: piuttosto, quest’ultimo è solo un caso (per quanto emblematico, per quanto il caso) di quell’elemento ancor più fondamentale che è il fatto naturale (un vero e proprio «bisogno») del porsi in relazione con gli altri, facendo così esistere e cogliendo il rapporto in quanto tale (als). Siamo di fronte all’affermazione che «già in base all’esistenza essenziale della coscienza umana anche la società è in qualche modo internamente presente a ogni individuo» (Scheler 1980: 327), perché è grazie alla relazione che questo ha potuto determinarsi in quanto tale: «società» va però ancora una volta letta come «relazione», come Weltoffenheit nella forma della Mitweltoffenheit. Non è affatto secondario peraltro che il termine Verhältnis, cui qui i due pensatori tedeschi danno soprattutto il senso di «relazione» appunto, indichi anche l’«azione», la «condotta» e il «comportamento»7: il termine esprime cioè in maniera significativa il fatto che l’essere che agisce è l’essere che si relaziona e viceversa, è cioè l’essere respons-abile in quanto capace di rispondere-a e di rispondere-di, è l’essere la cui azione ha sempre la forma di un rapportarsi responsivamente al mondo (alle cose e agli altri uomini) – la forma dunque di re(l)azione.

1.9. È a partire da un tale scenario che occorre rileggere una delle più celebri e apparentemente problematiche asserzioni marxiane, in cui viene delineata la radice materiale (economica) della società civile, dei rapporti giuridici e delle forme dello stato – di tutto ciò che, più in generale, appartiene allo «spirito oggettivo»:

nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono determinate forme sociali della coscienza. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza (Marx 2009: 16 s.).

L’essere degli uomini altro non è, dunque, che il processo reale della loro vita, il loro concreto operare, in modo tale che ogni prodotto «spirituale» (lo spirito stesso, prima di tutto) altro non è che un riflesso dell’attività materiale, eco e sublimazione dei processi materiali di trasformazione della natura. Occorre però fare attenzione: quando Marx afferma che è l’«essere sociale» a determinare la coscienza non sta tanto affermando che l’individuo non esisterebbe in quanto semplice momento della vita organica comunitaria, non sta nemmeno tanto prima di tutto affermando che la coscienza è un mero sottoprodotto dell’attività materiale: sta innanzitutto affermando che è la relazione (che per Marx si esercita da principio nell’attività di produzione materiale delle condizioni di sussistenza), il rapporto con il fuori, l’esposizione all’esteriorità, a essere essenziale per la determinazione della coscienza, per il dentro, per l’apertura dello spazio dell’interiorità. Ed è proprio questo essere aperti al mondo e dunque «in rapporto con» e «riferiti a» a caratterizzare l’essenza dell’uomo, a rappresentare la natura umana; in tal senso, «kein Selbstverhältnis ohne Weltverhältnis und kein Weltverhältnis ohne Selbstverhältnis» (Sturma 2006: 209), ma potremmo dire, ancor più radicalmente, «kein Mensch ohne Verhältnis (und kein Verhältnis ohne Mensch)».

1.10. Un essere come l’animale infatti, immerso nel torpore e nello stordimento, preso nel suo essere-preso (rapito dalla sua Genommenheit), non fa esperienza del mondo ma è come incastrato e incastonato nell’ambiente (cfr. Heidegger 1992; Scheler 2004; Uexküll 2010): è cioè chiuso nella sua Umwelt e non conosce Welt come frutto della propria azione, e dunque non conosce nemmeno se stesso come colui che si sta ritagliando tale Welt. L’uomo marxiano, invece, agisce e trasforma la natura, trasforma la propria condizione, e può fare tutto questo solamente in quanto aperto al mondo, ed è aperto al mondo nella forma dell’apertura generica al mondo, apertura al mondo che prende forma solamente come esposizione al mondo-comune, o meglio come esposizione comune al mondo, come Verhältnis e come storia. Credo che sia a partire da questo sfondo che Marx possa affermare, in alcuni dei suoi più celebri passaggi, che «l’uomo è nel senso più letterale uno zoon politikon, non soltanto un animale socievole, ma un animale che solamente nella società può isolarsi [der Mensch ist ein zoon politikon, nicht nur ein geselliges Tier, sondern ein Tier, das nur in der Gesellschaft sich vereinzeln kann]» (Marx 1997: I, 5), potendo giungere a farlo «soltanto attraverso il processo storico» (ivi: II, 123), tanto che «nel momento stesso in cui l’uomo in quanto individuo isolato si riferisce ormai solamente a se stesso, i mezzi per porsi come individuo isolato sono diventati il suo processo di trasformazione in senso universale e comunitario» (ivi: II, 124) e «l’epoca che genera questo modo di vedere dell’individuo isolato [des vereinzelten einzelnen], è proprio l’epoca dei rapporti sociali (generali da questo punto di vista) finora più sviluppati» (ivi: I, 5)8.

L’uomo marxiano è un animale relazionale e (perché) razionale (e viceversa), è r(el)azionale, e può realizzare tale sua natura solamente in maniera storicamente determinata – ricordando che è il libero sviluppo di ciascuno a essere condizione del libero sviluppo di tutti, e non viceversa9. Se l’uomo, in ultima istanza, «umanizza la natura» per affermare anche sensorialmente la propria natura nel mondo oggettivo liberando i sensi dalla loro dimensione meramente biologica e dunque animale (cfr. Marx 2004b: 113-115), è solo perché è proprio inscritto nella sua natura di umanizzare se stesso umanizzando – trasformando – la natura attraverso la sua artificializzazione, è solo perché la sua biologia lo espone al rapporto con il fuori, alla relazione attiva con tutto quanto lo circonda. L’uomo modifica la natura esterna per modificare quella interna, modifica la natura interna per modificare quella esterna – conosce distinzione tra natura interna ed esterna solamente attraverso il processo storico di modificazione-differenziazione dell’apertura generica al mondo. Se per il Marx dei Manoscritti già in generale «ein Wesen, welches seine Natur nich außer sich hat, ist kein natürliches, nimmt nicht Teil am Wesen der Natur», ciò si rivela ancora più vero nel caso dell’uomo, per il quale lo «Stoffwechsel» con la natura è necessario per sopravvivere e bene vivere, prendendo la forma di un’attiva e consapevole «Vermittlung» tanto biologico-naturale quanto storico-culturale.

2. Né degenere né genetica: una natura umana complessamente generica

2.1. La natura umana concepita in termini marxiani è pertanto una natura non genetica, perché non possiede «caratteristiche biologiche ben definite» (Cimatti 2011a: 11); non è nemmeno però degenere, perché non è una tabula rasa semplicemente «priva di natura» (ibidem). Detto altrimenti, l’uomo non è né irrimediabilmente predeterminato e preprogrammato, ma non è nemmeno infinitamente duttile e malleabile, resta però il fatto che possiede una sua propria natura: la natura umana, pertanto, non è genetica (2.1.1.) e nemmeno degenere (2.1.2.), bensì generica, e il concetto marxiano di Gattungswesen nomina proprio questa paradossale «specificazione per la genericità» che è la natura nel e dell’uomo.

2.1.1 La storia genetica umana non è in grado di prefissare uno scopo, non dà imperativi: il passato evolutivo non fissa il futuro storico, né la natura umana è qualcosa di originario, un passato ancestrale che l’evoluzione avrebbe fissato e dal quale nel migliore dei casi l’uomo si starebbe problematicamente allontanando. La mente non è un insieme di moduli innati, di istinti meccanicamente progettati dalla selezione naturale per rispondere a uno scopo e a uno soltanto, per rivestire una funzione e una soltanto, per attivarsi in maniera automatica e inevitabile (cfr. Fodor 1999; Pinker 1997; Pinker 2002; Pinker 2006), siamo anzi talmente poco modulari da essere aperti all’apprendimento e all’attiva modifica dell’ambiente, così come le nostre operazioni – in quanto sensate – non hanno esito predeterminato perché questo va anzi attivamente costruito muovendo da un orizzonte aperto di possibilità (cfr. Cimatti 2004; Gazzaniga 2009). Occorre opporsi all’idea che la mente «is organized like a università, with innate knowledge domains corresponding to different departments» (Prinz 2012: 108), perché la mente non è un «coltellino svizzero multiuso», fatta di utensili pronti a rispondere ognuno a una situazione diversa (la mente umana è multidimensionale):

nel caso della mente umana, quasi tutti i moduli istintivi sono fatti per essere modificati dall’esperienza. Alcuni di essi continuano ad adattarsi per tutta la vita, altri si modificano rapidamente con l’esperienza e poi si irrigidiscono – come cemento che si rapprenda. Altri ancora si limitano a svilupparsi seguendo una loro tabella di marcia (Ridley 2005: 110).

Non ha senso continuare a sostenere che anche l’uomo vivrebbe in una Umwelt in cui agisce «modularmente» semplicemente assecondando i suoi svariati istinti se poi si aggiunge che la prima sarebbe composta da «entità non predeterminate» e i secondi sarebbero in certa misura plastici, flessibili, programmabili e dunque «intaccati» dalla dimensione temporale (cfr. Mazzeo 2003: 119 s.; Mazzeo 2005: 206). L’uomo «valuta» le situazioni, ossia è in relazione a un con-testo, dipende da circostanze: per questo può (deve) scegliere, il suo comportamento può variare, orientarsi verso il cambiamento e aprirsi al futuro (cfr. Cimatti 2011a: 22 s.).

D’altronde era per esempio lo stesso Marx a notare che non c’è solo un modo di soddisfare la fame per l’uomo, perché se certo la fame è sempre fame, essa può però essere appagata tanto cucinando e mangiando delle posate quanto non cucinando e mangiando con le mani (o cucinando in moltissimi modi e mangiando in altrettante e altrettanto imprevedibili modalità): sono il modo di produzione e la maniera di consumazione a fare la differenza nel caso dell’uomo, non tanto il presunto quid dell’impulso/istinto immediato. In tal senso, potremmo anche dire che nell’uomo l’istinto si fa tendenza generica (non a caso, per esempio, anche Freud prima e Lacan poi parleranno di semplice Trieb e non di Instinkt), qualcosa cioè che non solo è aperta a diverse possibilità espressive e realizzative, ma che per sua stessa natura richiede e comporta una molteplicità di modi che la soddisfino e la conformino (cfr. anche Heller 1978: 33-38): se a differenza degli altri animali, l’uomo «dispone solo di generiche e imprecise pulsioni e non di quegli istinti che articolano un determinato modo di essere al mondo» (Galimberti 1999: 89 – corsivi miei), se cioè caratteristica dell’uomo è la «disponibilità a risposte generiche e molto spesso disorganizzate che l’apprendimento gradatamente codifica» (ivi: 117 – corsivi miei), per lui, attraverso l’istituzione di «un mondo originale fra le proprie tendenze e l’ambiente esterno», la tendenza stessa viene «soddisfatta attraverso mezzi che non dipendono da essa» (Deleuze 2002: 29-33). Per questo l’uomo non ha solo un modo di vivere codificato dal corredo genetico: l’uomo non è unidimensionale (cfr. Cimatti 2011a: 12-23). La natura umana non è piena.

2.1.2. L’uomo non è però semplicemente «privo di specializzazioni»: possiede un cervello predisposto all’apprendimento e un corpo aperto alla plasticità motoria. L’uomo è complesso, tremendamente più complicato di qualsiasi altra specie animale, non può essere semplicemente dipinto come Mängelwesen, come creatura inadatta all’esistenza, come un essere nudo e indifeso per il quale cultura e azione rappresentano un rivestimento che non solo ricopre ma anzi nega quella natura originariamente così parca, se non indifferente o persino maligna (cfr. Marchesini 2002: 9-42).

Una tale «Ontologie/Anthropologie des Mangels», «Mythos vom Mängelwesen» (cfr. Bischof 1985: 512), vera e propria «Fiktion» del «homo sapiens pauper» (cfr. Sloterdijk 2004b: 699-711) animata da quel Konservatismus che rappresenta «die politische Form der Melancholie» (ivi: 671), ripropone infatti dal versante opposto la tensione verso il passato che anima la visione «genetista» della natura umana: il lavoro (l’azione) diventa sì occasione di rivalsa rispetto alla sprovvedutezza originaria, ma viene biblicamente colto come una fatica, come qualcosa di malgradito, non come qualcosa di espressivo, come qualcosa cioè che realizza e oggettiva delle capacità e delle potenzialità umane. Il lavoro in tale ottica sarebbe dunque qualcosa da superare, l’animale condotto con infallibile sicurezza dall’istinto viene guardato con occhio languido, con nostalgia e con rimpianto: l’animale rappresenta il paradiso sperato da chi vede la natura umana inerme e completamente gettata, con gli strumenti extra-organici e artificiali che dovrebbero assolvere per l’uomo quel compito che per l’animale è assolto dagli strumenti organici e naturali. Inoltre, in questa prospettiva l’esposizione cui è consegnato l’uomo lo rende non solo incessantemente in pericolo, assalito da profluvi di stimoli e da scariche di impulsi, ma anche e soprattutto costitutivamente pericoloso, per sé e ancor più per gli altri: la natura umana così concepita diventa qualcosa da tenere a freno, da contenere, da imbrigliare, qualcosa che richiede un katechon10. Diventa cioè qualcosa da disciplinare tramite un appoggio esterno, un surrogato esonerante che ricopre la prima natura negandola tramite una seconda natura stabilizzatrice che imita la sicurezza, la regolarità e la ripetitività della natura animale: tramite quelle istituzioni che fondano la vita in comune a partire dallo scioglimento (s-legame) del legame sociale, data la pericolosità degli umani (concepiti come «individui») gli uni rispetto agli altri.

La natura umana è colta come inerme e vuota, esposta a ogni possibilità in senso degenere, aperta sempre e soltanto alla degenerazione: per questo deve stabilizzarsi e prendere una forma determinata e chiusa. Tutto questo però non corrisponde alla (se così possiamo esprimerci) «determinazione (all’apertura) al possibile» che contraddistingue l’esistenza dell’uomo, il quale dunque non solo non deve «in die Schutzhülle eines prothetischen Kulturpanzers zurückziehen, um seine biologische Unmöglichkeit zu kompensieren» (ivi: 705), ma anzi può essere connotato come «ein Luxuswesen, das durch seine […] Kompetenzen hinreichend gesichert war, um angesichts aller Gefährdungen zu überleben und gelegentlich zu prosperieren» (ivi: 706)11. Per questo l’uomo non ha un solo modo di vivere richiesto dalla sua condizione degenere: l’uomo non è unidimensionale (cfr. Cimatti 2011a: 23-34). La natura umana non è vuota.

2.1.2.1. In tal senso, quando anche si veda con più fiducia il fatto che la totale mancanza per l’uomo di un’univoca natura consegni l’informità umana all’azione modellante e conformante della società, non si è perciò fatto alcun passo in avanti, perché la natura umana viene ugualmente colta come vuota e così aleatoriamente affidata a relazioni socio-culturali che si può solo sperare siano non alienanti e capaci di soddisfare le esigenze umane (che in tale prospettiva restano però sostanzialmente indefinite e indefinibili, se non in ultima istanza inesistenti). Ecco che allora se l’essenza umana è nella sua intima realtà «das Ensemble der gesellschaftlichen Verhältnisse», ciò va inteso come quella relazione che esprime ad ampio raggio la particolare intima natura umana e non come l’inerme consegna all’esteriorità «plasmatrice», di modo che non è in alcun modo possibile affermare semplicemente che «die Menschen Produkte der Umstände und der Erziehung, veränderte Menschen also Produkte anderer Umstände und geänderter Erziehung sind», ossia ridurre l’uomo a pura esteriorità – come non si può, dall’altra parte, chiamare in causa una «Allgemeinheit» soltanto «innere, stumme» che è in grado di unire gli esseri umani al più «bloß natürlich», ossia senza esporli compiutamente al loro «fuori» consegnandoli così alla concreta e materiale dialettica storica (cfr. Marx 1972).

2.2. Parlare di natura umana, in altri termini, significa parlare di Gattungswesen come Möglichkeitswesen. Tanto che si parta da una natura non infinitamente malleabile perché anzi rigidamente «cablata», quanto che si parta da una natura in cui tutto è pericolosamente o speranzosamente possibile, si giunge infatti alla conclusione secondo la quale non si può che vivere secondo strutture e recinti rigidi, istintivi (naturali perché rispondono alla geneticità della natura umana) nel primo caso, istituzionali (artificiali perché rivestono la degenericità della natura umana) nel secondo caso, ma ugualmente automatizzanti: «se la natura umana è intesa come una specie di scatola, piena di istinti in una eventualità, completamente vuota nell’altra, le conseguenze politiche dei diversi modi di intendere questa premessa alla fine, paradossalmente, convergono: c’è un solo modo di vivere» (Cimatti 2011a: 34).

Né vuota né piena, la natura umana è piuttosto «vuoto promettente», vuoto invitante e provocante, fecondo e generativo, in cui è implicita quella pienezza aurorale di un nuovo e imprevedibile inizio (cfr. Cusinato 2008: 309 s.). Quella della natura umana è una pienezza che si sottrae per far spazio e che viene meno per assecondare il movimento della libertà (similmente all’Essere heideggeriano, non a caso concepito soprattutto in termini di physis dal filosofo tedesco), è la natura che si ritrae e nasconde nella sua immediatezza per aprir(si) tramite l’uomo a una «natura alla seconda», mediata e relazionale:

la libertà degli individui di una data specie nasce dalla complessità dei loro circuiti regolativi, in particolare nervosi, che sottendono le loro scelte comportamentali. Quando, nel corso dell’evoluzione, questi circuiti hanno raggiunto livelli molto avanzati di complessità non è stato più possibile per il patrimonio genetico di ogni singolo individuo controllarne tutti i possibili aspetti. Il genoma si è riservato il controllo di alcune risposte fondamentali, necessarie per la sopravvivenza, e ha organizzato le cose in modo tale che gli spazi lasciati liberi dal controllo biologico codificato dal genoma potessero essere occupati dagli effetti dell’interazione fra biologia e ambiente, ambiente nel quale l’organizzazione sociale a cui l’organismo appartiene diviene una parte sempre più predominante. La libertà è quindi il prodotto di una certa quantità di indeterminazione biologica che emerge insinuandosi fra le maglie del controllo esercitato dal patrimonio genetico, anche se è comunque permessa e sostenuta da quello. La nostra libertà è un regalo, o un dispetto, del nostro patrimonio genetico e del suo alto grado di articolazione (Boncinelli 2000: 64 s.; cfr. anche Dennett 2009: 197-220 e 459-479; nonché più diffusamente Dennett 2004).

Né genetica né degenere ma generica, ecco dunque la natura umana: genericità significa possibilità, potenzialità e modalità, significa potius, cioè che le cose si sarebbero potute presentare in modo diverso, o non presentarsi affatto, che potranno presentarsi in modo diverso o non presentarsi affatto (cfr. Cimatti 2011a: 143). Genericità significa libertà, giacché «non c’è libertà senza possibilità» (ivi: 35): significa dunque che un mondo diverso sarebbe stato possibile e dunque è possibile, perché è nella libertà umana che possa essere tale. Va però compreso che è proprio la natura umana a fissare biologicamente la capacità di pensare e realizzare il non(ancora)reale, di poter cambiare la contingenza: «non c’è caratteristica anatomica o cognitiva che Homo sapiens non possa cambiare, o almeno desiderare di poter cambiare. […] La possibilità esiste, ed essa appare nelle nostre esistenze come diretta e principale conseguenza di una caratteristica biologica della nostra specie» (ivi: 42 s.). Questa «capacità innata si realizza soltanto mediante forme storiche» (ivi: 44), ossia in modi diversi e che richiedono l’istituzione di un rapporto con tutto ciò che appare come «fuori», vale a dire che, come già detto, «la natura umana si realizza attraverso gli altri, non è dentro di me. L’essenza umana è sociale» (ibidem).

Si tenga ben presente quello che è qui un punto centrale: natura e cultura nell’uomo coincidono, rimandano l’una all’altra (è la sua natura generica a chiamarlo ad agire e a plasmarsi una «seconda natura»), ma allo stesso tempo cultura e socialità coincidono, rimandano l’una all’altra (cultura significa essenzialmente prima di tutto «relazione», necessità di un rapporto con tutto ciò che è altro da sé), di modo che in ultima istanza nell’uomo natura e socialità coincidono, rimandano l’una all’altra (il «dentro» umano è per natura ciò che consegna al «fuori» e abbisogna di esso): quanto Aristotele (pensatore cui non a caso Marx è molto debitore) affermava quando affermava che l’uomo è katà physin lo zoon politikon.

2.3. L’antropologia marxiana si oppone così alla concezione sostanzialistica di una natura umana fissa ed eguale a se stessa, data una volta per tutte, perché ogni comportamento umano è da leggere in chiave sociale, culturale e storica, perché la natura umana è quella di essere storico. Come visto però, l’affermazione che l’uomo non è una tabula scripta è congiunta a quella per cui egli non è per questo una tabula rasa, è piuttosto una tabula scrivenda perché scrivibile: proprio in questo senso la natura specifica umana è quella della non-specificità, della plasticità, dell’apertura, perciò l’uomo è «ente naturale generico» (Gattungswesen). È per questo che ciò che nell’uomo sembra istintivo si rivela essere «il risultato di un processo di apprendimento» (Heller 1978: 39), vale a dire che ogni apparente comportamento istintuale e meccanico è «sempre legato a un processo di apprendimento» (ibidem), tanto che al più si può ritenere l’«istinto» semplicemente «il punto di avvio del processo di apprendimento» (ibidem), ma «non ne è il risultato finale» (ibidem). Non bisogna confondere l’innato con l’istinto, credendo che «a disposition is innate only if it is in no way acquired or socially and envinronmentally determined» (Thomson 1987: 32), soprattutto in ragione del fatto che l’innato specifico dell’uomo – in quanto «innato generico», potremmo dire – equivale al non possesso di istinti, essendo anzi espressione e risultato della demolizione degli istinti:

si può considerare – sia pure soltanto in senso metaforico – come “sostituto” dell’istinto (cioè tale da assumere su di sé la funzione dell’istinto, funzione di direzione e di controllo nel mondo-ambiente) qualche cosa che si costituisce in conseguenza dell’appropriazione di qualcosa d’altro – e cioè di esperienze con il mondo-ambiente? (Heller 1978: 47).

2.4. Essere aperti al mondo significa non possedere «alcuna coordinazione di movimento specifica del genere in rapporto all’azione» provocata da stimoli interni ed esterni definiti (ivi: 117), ossia essere destinati, nel bene e nel male, all’«invece di»: l’uomo invece di agitare minacciosamente il pugno può reagire avvicinando al corpo il pugno serrato, invece di gridare può stringere le labbra, invece di picchiare e colpire con la sua mano differenziata può far male con il veleno, la freccia, l’arco, la spada, il revolver, la mazza, la pietra, la bomba atomica, adattando oltretutto le sue coordinazioni di movimento al mezzo usato, e così via (cfr. ivi: 116 s.). L’uomo è consegnato a essere se stesso fuoriuscendo da se stesso, riferendosi all’alterità, la sua apertura non è quella propria di una blank page, perché – per così dire – nella pagina dell’uomo c’è scritto, perlomeno, che deve colorarsi attraverso l’incontro con il mondo, né semplicemente inner-directed né semplicemente other-directed (cfr. ivi: 51): l’uomo conduce la sua esistenza non semplicemente rispondendo in modo irriflesso e immediato a determinati stimoli, ma autodeterminandosi e ponendo domande al mondo per selezionare gli stimoli e decidere se rispondervi o meno sulla base della propria capacità.

Plasticità, apertura e libertà significano così che diversi uomini reagiscono diversamente a stimoli simili, così come reagiscono ugualmente a stimoli diversi: non c’è allora dubbio che l’uomo sia, come ogni vivente, geneticamente connotato, ma «nei geni sono racchiuse innumerevoli facoltà e inclinazioni che non vengono mai realizzate in mancanza di una “situazione” corrispondente, si atrofizzano, nel senso buono come in quello cattivo del termine» (ivi: 130). Ecco perché «l’umanità si autocrea» (ivi: 69), e può farlo parallelamente all’arretramento dei limiti naturali: «l’organismo umano è, dal punto di vista del comportamento, infinitamente plastico per la costruzione della “seconda natura”» (ibidem), in ragione dell’apertura di uno spazio dato dal sottrarsi della prima natura nella sua dimensione vincolante e rigidamente determinante.

2.5. Così, se «noi tutti, in quanto esseri umani siamo nati con certe capacità» (Heller 2009: 81), che «sono innate, poiché determinano la nostra appartenenza al genere umano» (ibidem), ciò non significa che esse siano innate nel senso che sono già preformate e rigidamente codificate:

noi nasciamo in “questo” mondo con un a priori genetico, che è il nostro codice genetico in cui sono scritte le notizie che riguardano la nostra costituzione biologica; sono elementi che, pur non avendo carattere determinante, condizioneranno però la nostra vita. Accanto a questo a priori genetico vi è poi il carico determinato dalla nostra esperienza, esperienza che è anch’essa problematica, perché può non essere del tutto consapevole. Infine vi è il nostro a priori sociale, costituito dalla cultura, dalla famiglia, dal contesto che precede la nostra nascita: in questo senso il nostro a priori genetico deve entrare in sinergia con il nostro a priori sociale. […] A priori genetico e a priori sociale determinano la nostra cultura e i confini entro cui possiamo sviluppare la nostra personalità e sviluppare le potenzialità e le capacità che appartengono al nostro codice genetico. Gli uomini nascono con la capacità di parlare, con la capacità di vivere in un contesto sociale, ma se è vero che queste capacità fanno parte del nostro codice genetico, devono però anche essere messe in pratica, altrimenti si atrofizzano. […] Questo significa che l’a priori genetico deve entrare in relazione con l’a priori sociale (ivi: 72 s.).

L’esistenza umana è un’esistenza ambivalente perché lo è prima di tutto la sua condizione biologico-naturale, che fa sì che l’uomo debba modellare il proprio innato e formare il proprio preformato per poter sopravvivere e prendere forma (diventare ciò che è), vale a dire che l’uomo è l’essere che si accultura e apprende perché è in modo paradossale «programmato deterministicamente» a farlo (cfr. ivi: 118 s.; Heller 1983: 140-145).

2.6. Si può in questo senso connettere l’Abbau dell’istinto (della forma-istinto in quanto tale, dell’immediatezza naturale e della predeterminazione genetica: la demolizione dell’istinto è un modo di esprimere la regressione di comportamenti determinati in maniera esclusivamente genetica, l’opposizione al determinismo istintuale è opposizione al determinismo genetico)12 alla possibilità tipicamente umana di einbauen la propria forma e di strutturare di conseguenza la propria posizione nel mondo e la propria storia in maniera relazionale (cfr. Heller 1978: 84 s.): «la “natura umana” non è ciò che si sviluppa dall’interno, bensì ciò che si costruisce. […] Le possibilità della “natura umana” sono illimitate e quindi l’uomo del futuro non si può estrapolare da quello del presente, o almeno non è obbligatorio compiere tale estrapolazione» (ivi: 86).

Tra le caratteristiche essenziali del Gattungswesen troviamo socialità, coscienza, oggettivazione, universalità e libertà, le quali sono certamente «qualità che contraddistinguono l’umanità fin dall’origine in contrapposizione all’animale» (ivi: 87), ma lo sono in quanto «possibilità dell’uomo» (ibidem): questo è il senso della storia, è per questo che la storia è la natura umana, questo significa parlare di essenza generica. Certo, «nella personalità umana c’è una possibilità infinita di costruzione» (ivi: 159), ma questo può avvenire «solo in una “direzione”: in direzione dell’essenza umana, della sostanza conforme al genere» (ibidem); ogni individuo può e deve appropriarsi dell’essenza generica, non semplicemente realizzandone tutte le possibilità, ma aprendosi alla capacità di realizzare consapevolmente una (o più) qualunque di esse.

2.6.1. L’essenza generica umana è fatta di non naturalità, nel senso che socialità, cultura e arretramento della natura sono sinonimi:

sociale è ciò che “non è naturale”; lo sviluppo della socialità è perciò a un tempo arretramento dei limiti naturali, compresi i limiti della natura sia interna che esterna. Ne derivano due conseguenze: da un lato, che la specificità del genere uomo, la sua “essenza generica”, non si può dedurre dalle premesse biologico-naturali, dall’altro, però, che non è possibile isolare tale “essenza “generica” dalle condizioni naturali, che ne costituiscono il presupposto e il cui processi di arretramento coincide con la sua costante ricostituzione (ivi: 88).

2.6.2. L’uomo è cosciente, per lui l’intelligenza gioca un ruolo preminente orientando e addestrando, rendendo possibile l’agire teleologico e mediato, l’agire libero e trascendente rispetto al chiuso recinto dell’ambiente, l’agire che sceglie e decide, guidato dallo Sprachdenken, dal pensiero-linguaggio (ma anche calcolo-proporzione: dal logos) che permette la presa di distanza in vista dell’oltrepassamento dell’immediatezza e della conseguente apertura alle più svariate possibilità (cfr. ivi: 88 s.).

2.6.3. L’uomo si oggettiva tramite la cultura, che prende forma in prodotti «generici» nel senso che risultano essere indipendenti dal singolo ed espressione del genere ma anche in quello per cui sono l’immediata espressione della sua natura generica e mediata; ogni singolo riproduce tali prodotti in maniera però sempre soggettiva, ossia facendo dell’attività riproduttiva qualcosa di «filtrato» attraverso la coscienza individuale, in un circolo ambiguo che è il circolo della vita dell’uomo, presa tra egoità e alterità, tra proprietà e improprietà, tra appropriazione ed espropriazione (cfr. ivi: 89).

2.6.4. Che l’uomo sia universale significa prima di tutto che «l’uomo è l’unico essere non specializzato» (ivi: 90), e dunque «non produce solo secondo i criteri della sua specie» (ibidem) – giacché, a rigore, non ne possiede nemmeno –, bensì, come voleva Marx, secondo quelli «di tutte le specie» (ibidem) – è l’animale mimetico: l’uomo non può ispirarsi a sé e alla propria natura, non possiede una natura come modello di riferimento specifico –, deve ispirarsi alla natura nella sua universalità; l’uomo è l’essere nel quale la natura si presenta in tutta la sua varietà, in tutta la sua ampia universalità pur (proprio) sottraendosi alla sua presa. Inoltre, universalità significa che l’uomo si apre «alla creazione di sfere di oggettivazioni – sfere strutturate, dotate di regole – che non si riferiscono più assolutamente al biologico, bensì alla soddisfazione socialmente mediata di bisogni biologici» (ibidem): che l’uomo sia un essere universale significa dunque anche che «le sue facoltà diventano bisogni e viceversa i suoi bisogni diventano facoltà» (ivi: 90 s.).

2.6.5. La natura umana reca l’impronta della libertà, ossia dell’«apertura verso il futuro, capacità finalistico-realistica di realizzazione del nuovo, del non-ancora-esistito» (ivi: 91), capacità di autocreazione, che è tale soltanto quando coinvolge tutti gli individui in relazione: «la libertà non è mai possibile, è impossibile, senza la libertà degli individui» (ivi: 92), la quale può essere favorita solamente da una società il cui sistema di oggettivazioni non è opprimente o sfruttatore, ma aprente e in grado di consentire diverse e attivamente ritagliate possibilità (cfr. anche Fadini 2002).

2.7. Insomma, «la natura umana può essere costruita fino all’infinito […], ma non tutto può essere costruito in essa. Se il terreno o l’irradiazione solare non “corrispondono” a tale natura, essa perisce» (Heller 1978: 161 s.). L’uomo è l’«in via di principio possibile», è possibilità, dunque non già realtà realizzata o che necessariamente si realizzerà ma nemmeno «irrealtà» o «irrealizzabile»: è realtà potenziale e che dunque va scelta, e la possibilità di scelta è la più grande realtà esistente. La natura umana esiste, ma va costruita storicamente scegliendola liberamente:

l’uomo non viene al mondo con istinti immutabili, dal momento che non ha istinti innati. D’altra parte, non è una “tabula rasa”, non è condizionabile in tutto e per tutto. Né egli è l’incarnazione dell’essenza umana (innata), della sostanza umana. L’uomo ha una “seconda natura”. La quale ha origine storica, e si incarna nell’interazione tra le oggettivazioni e i singoli che vivono nel mondo attuale. A questa “natura” appartengono anche le possibilità concrete immanenti al presente, possibilità rivolte in egual misura ad alternative positive e negative. La costruzione dell’essenza generica nella seconda natura ci sembra possibile e desiderabile; non perché siamo ottimisti, ma in virtù della nostra scelta (ivi: 175).

Da un punto di vista marxiano pertanto, «human beings can exist in many different forms» (Held 2009: 143), le quali però rappresentano declinazioni, determinazioni e specificazioni della sua generica e potenziale natura – per la quale «human beings are dynamic» (ibidem) in quanto «free-conscious activity is the essence of humankind, not any specific form of activity» (ivi: 144) –, ossia tentativi di realizzarla compiutamente e pienamente: se ogni «existent humanity» rappresenta «merely one form of a myriad of possible actualizations of human essence» (ibidem), ciò non cancella il fatto che alla sua radice, alla radice di ogni umana cosa, ci sia pur sempre – come proprio Marx voleva – l’uomo, la natura umana.

Quella marxiana è dunque un’antropologia pienamente unitaria ma allo stesso tempo plurale, è un’antropologia che proprio in quanto unitaria permette di cogliere che le definizioni «piene» o «vuote» della natura umana non rappresentano la sua verità ma l’ipostatizzazione ideologica di specifici tratti delle relazioni sociali plasmate sulla base delle modalità di produzione vigenti, e che proprio in quanto plurale permette di rifiutare l’identificazione di un qualsiasi particolare stadio dello sviluppo umano con la realizzazione definitiva della natura umana (cfr. anche Santilli 1973; Wartenberg 1982). Ossia, l’antropologia del Gattungswesen permette insieme di «naturalizzare la storia (umana)» e di «storicizzare la natura (umana)»: che non ci sia un modo soltanto di essere naturalmente umani significa proprio che a essere specificamente (naturalmente) umana è la possibilità generica di diventare liberamente umani storicamente, che non c’è una particolare forma di attività naturale che distingue l’uomo, perché a distinguere l’uomo è proprio la dynamis naturale di determinarsi liberamente (dunque di realizzarsi, di inverarsi) attraverso molteplici particolari e imprevedibili modalità storiche. Risulta dunque quanto mai pertinente la penetrante osservazione di Adorno:

se si vuol porre seriamente la questione che verte sul rapporto di natura e storia, essa ci apre la prospettiva di una risposta solo se riusciamo a concepire l’essere storico nella sua massima determinatezza storica, cioè laddove esso risulta massimamente “storico”, come essere naturale; e, viceversa, se riusciamo a concepire la natura come essere storico laddove essa ci ostina a persistere nel modo apparentemente più profondo come natura (Adorno 1977: 99).

3. Paradise Lost: una vita da alieni umani

3.1. Quanto sin qui detto permette di richiamare con forza l’importanza del punto di incontro tra i due punti centrali in queste pagine, ossia la connessione tra la genericità intesa come natura non-specifica e dunque aperta e la genericità intesa come consegna alla dimensione insieme sociale, culturale e storica, come apertura all’azione e alla relazione. Il concetto in grado di nominare questa unione tra i due momenti è come visto quello di Gattungswesen inteso come «ente naturale generico», secondo il quale l’uomo, a differenza degli altri animali, non ha un’essenza specifica che si trasmette per eredità naturale, ma ha un’essenza aperta che gli permette così di costituire forme diversissime di socialità, ed è proprio questo a caratterizzare la sua natura:

la parola “generico” si contrappone alla parola “specifico”. Le termiti non si alienano assolutamente nel loro termitaio, così come le api non si alienano assolutamente nel loro alveare. Il concetto di essenza umana non deve essere confuso con quello di natura umana, che è più ampio, e comprende una sintesi di naturale e di storico, mentre l’essenza umana è solo storica, e chi si ferma ad essa sbocca in un povero sociologismo. Anche la natura è ovviamente storica, ma la sua storicità è più lenta, e dunque l’uomo antropologicamente è l’unione di due temporalità distinte anche se interconnesse (Preve 2002: 105 s.).

È per questo che «non esiste una natura umana originaria» (Preve 1994: 37): la natura è d’altronde in generale e aristotelicamente «principio di movimento», cosa che, in merito a quella umana in particolare, impedisce che esista e possa esistere «uno stato di quiete originaria, ottimista o pessimista, buona o cattiva, che abbia dato successivamente origine a un processo spaziotemporale di espansione progressiva di questo nucleo statico, buono come il pane per alcuni, cattivo come un serpente per altri» (ibidem). Si deve dunque parlare di «storicità della natura umana» (ivi: 38), intendendo questa come «essenza caratterizzata da movimento» (ivi: 47), intendendo cioè l’uomo come Gattungswesen, essenza generica, «ente naturale generico» (cfr. ivi: 54-67).

3.2. Tutto il discorso marxiano sull’alienazione/estraniazione va pensato proprio a partire da una tale concezione della natura umana: Marx infatti riteneva che a differenza degli animali, che sono biologicamente specifici, cioè predeterminati a ruoli e comportamenti direttamente dettati dal loro imprinting biologico, l’uomo è generico, non è vincolato a nessuna riproduzione fissa e specifica, ed è proprio per questo che si può alienare, estraniare, ma anche deificare, cosa che ovviamente l’animale non può fare (cfr. anche Preve 1999). In tal senso, l’uomo che mette i suoi simili in un forno crematorio è dis-umano, mentre la tigre che divora un neonato non è affatto un dis-animale (convinzione che da Aristotele a Konrad Lorenz percorre tutta la riflessione filosofica e scientifica occidentale)13:

l’uomo come ente naturale generico […] si specifica storicamente solo sulla base di una genericità costitutiva precedente. In quanto ente naturale generico, l’uomo non è geneticamente prefissato a dar luogo a una e una sola forma di oggettivazione sociale. Le api, le formiche e le termiti non costruiscono alveari, formicai e termitai romanici, gotici, barocchi e postmoderni, l’uomo sì. Noi diciamo che Hitler è stato dis-umano, ma non diremmo mai che una tigre o un leone che divorano un bambino innocente sono delle dis-tigri e dei dis-leoni. L’ente naturale generico, cioè la Gattungswesen, che costituisce l’uomo come essere inscindibilmente naturale e sociale, permette all’uomo la storicità, che non è soltanto l’infinita produzione di configurazioni storiche e sociologiche diverse, ma è anche il luogo della perdita e del ritrovamento di se stesso (Preve 2004: 160).

L’uomo è, in altri termini, quell’essere dotato di un’«anima» paradossalmente «specificamente generica» che lo rende «un essere intermedio fra gli dèi e le bestie» (Preve 2006: 69), concezione già delineata dal pensiero classico e che venne ripresa e valorizzata tra i tanti da Cusano in alcuni folgoranti passaggi:

potest igitur homo esse humanus deus atque deus humaniter, potest esse humanus angelus, humana bestia, humanus leo aut ursus, aut aliud quodcumque. Intra enim humanitatis potentiam omnia suo existunt modo. In humanitate igitur omnia humaniter, uti in ipso universo universaliter, explicata sunt, quoniam humanus existit mundus (Cusano, De coniecturis, II, 14).

Preve commenta il brano evidenziando in particolare due aspetti:

in primo luogo, l’uomo può essere aliud quodcumque, qualsiasi altra cosa. Non è dunque programmato come gli altri animali dalla sua costituzione genetica a essere una cosa particolare. Come dirà più tardi il neoplatonico moderno Marx, l’uomo è un ente naturale generico (Gattungswesen), traduzione in tedesco del quodcumque del suo compatriota tedesco Nicolò da Cusa (Kues). In quanto quodcumque e Gattungswesen l’uomo, sia pure sulla imprescindibile base del suo corredo genetico, può dar luogo a configurazioni familiari, sociali e politiche diversissime. In secondo luogo, tuttavia, il “qualunque cosa” non deve essere inteso in modo nichilistico e relativistico come qualsiasi cosa in generale. L’uomo è infatti un essere intermedio fra due entità opposte ontologicamente definibili, e cioè da un lato l’humanus deus atque deus humaniter, e dall’altra invece l’humana bestia, l’humanus leo aut ursus, con tutte le conseguenze sociali e comportamentali del caso (Preve 2006: 69).

3.3. Pertanto, esiste una natura umana, esiste la natura umana, e ciò – seguendo ancora Preve – significa che la genericità umana non è un mero riempimento, indifferenziato e generale, di qualsivoglia contenuto politico e sociale: piuttosto, essa è hypokeimenon di una potenzialità ontologica, di un dynamei on (In-Möglichkeit-Seiende, il blochiano essente-in-possibilità: cfr. Bloch 1952; Bloch 1984; Bloch 2005) e dunque non di un’aleatorietà completamente affidata alle sorti del cieco caso (ossia non è kata to dynaton)14. Si apre così la possibilità della scelta se voler diventare una bestia (leo aut ursus) piuttosto che un microcosmo che imita e partecipa (mimesis e metexis) della ragione divina (humanus deus atque deus humaniter): diventa allora possibile un’«interpretazione multilineare della storia umana» (cfr. Preve 2004: 119-125).

In altri termini, parlare di Gattungswesen a giudizio di Preve significa affermare che i) in quanto Gattung, l’uomo può diventare qualunque cosa, orso, leone o uomo; ii) l’uomo può anche perdere la sua natura generica, alienandola (dando vita all’Entfremdung), vale a dire che se l’orso e il leone non possono mai diventare rispettivamente dis-orso o dis-leone, l’uomo può diventare dis-umano, o perfino in-umano, ossia perdere la capacità di poter usare la propria genericità in funzione della propria emancipazione e della propria liberazione; iii) la genericità non è mai solo potenzialità astratta, ma sempre potenzialità concreta di passare dal leone e orso umani all’uomo divino. Preve può così opporre alla concezione «funzionalistico-descrittiva» della natura umana, per la quale essa viene a coincidere con l’insieme delle relazioni prevedibili all’interno della società (di quella mercantile in particolare), quella «sostanzialistico-normativa», per la quale la natura umana è universalisticamente presente e conseguentemente definibile, essendo una sostanza composta di razionalità, socialità e idealità di buona vita individuale e collettiva che se certo può anche perdersi – alienarsi/estraniarsi –, può però anche realizzarsi e determinarsi compiutamente (cfr. Preve 2007b: 101 s.). Proprio per questo, parlare di «sostanza» generica non solo non significa cancellare la dimensione della storicità, in quanto una sostanza intesa «genericamente» va considerato «invece il presupposto» della dimensione storica dell’esplicitarsi della natura umana (cfr. ivi: 102).

L’uomo è libero, vale a dire che «la libertà esiste veramente, ed è una proprietà ontologica indivisibile dell’essere umano come ente naturale generico» (Preve 2006: 165), ossia la libertà riposa nel «carattere generico e aperto dell’ente naturale umano (Gattungswesen)» (ivi: 17)15. Nella storia, stando a quanto detto, l’uomo realizza se stesso, solo nella storia l’uomo scopre chi è e si umanizza, esponendosi al contempo al rischio dell’inumanità: la storia è lo svolgimento (esplicazione, estrinsecazione) delle potenzialità umane, lo sviluppo di un inviluppo aperto alle possibilità (cfr. Kosík 1976: 145 s.), è lukacsianamente il «luogo del perdersi o trovarsi dell’uomo» (cfr. p.e. Lukács 1981).

3.4. Simili affermazioni rendono dunque quantomeno problematico il tentativo di pensare l’alienazione/estraniamento semplicemente «nei termini di una grande-narrazione incentrata sull’abbandono progressivo e peccaminoso dell’Origine cui si tratterebbe di ritornare e di restaurare in tutta la sua incorrotta purezza» (Lucchini 2010: 125). L’Entfremdung va allora concepita non nei termini di una natura lapsa, di un’origina perduta nel ciclo della peccaminosità umana, ma – più sobriamente – come estraneazione dalle «concrete possibilità ontologiche di una vita sensata» (Preve 2007c: 106): non si muove dall’archè intesa come origine che determina il cammino necessitandolo, ma dalla dynamis che è l’uomo, e proprio per questo «l’alienazione è tale solo in rapporto alle potenzialità immanenti (dynamei on) dell’ente naturale generico (Gemeinswesen, Gattungswesen)» (ivi: 143). Non c’è dunque un ritorno a una supposta origine incorrotta, l’alienazione va piuttosto concepita come impedimento sociale allo sviluppo di possibilità ontologiche presenti nella costituzione naturale generica dell’uomo, uno sviluppo che però è a sua volta in quanto tale «alienato/estraniato» in quanto deve necessariamente fare riferimento all’altro da sé (cfr. ivi: 104-119).

Questo significa infatti concepire la natura umana in termini di Gattungswesen inteso come «ente naturale generico»: «ente» e non «Essere» perché non può che definirsi in relazione ad altro, «naturale» perché è la sua dotazione biologico-organica a definirlo come tale, ossia come «generico», come non rigidamente predeterminato rispetto ai comportamenti e dunque aperto alla vita storica in comune e allo sviluppo di una personalità singolare (cfr. anche Preve 2011). L’uomo non è dunque geneticamente prefissato a dar luogo a una e una sola forma di oggettivazione sociale, deve specificarsi storicamente sulla base della sua genericità costitutiva, e perciò la storia va intesa non come restaurazione dell’incorrotta Origine, ma come eventuale inveramento di possibilità ontologiche umane, ossia appunto come luogo del trovarsi o perdersi dell’uomo: proprio in questo senso la storia va interpretata in maniera multilineare, non postulando alcun approdo finale a uno stato terreno edenicamente redento da ogni male, imperfezione o disarmonia, né tantomeno facendo riferimento a una qualche essenziale verità originaria che il corso storico ha il compito di dispiegare compiutamente o di ripristinare.

Questa connessione tra naturalità determinata e capacità di produzione storico-sociale alternativa permette però di pensare ciò che meglio si adatta alla natura umana, ciò che meglio la realizza (cfr. Lucchini 2010: 127-131), permette cioè di cogliere i molteplici contenuti socio-culturali come momenti (positivi o negativi, riusciti o falliti) dell’«attivazione storicamente mediata di specifiche predisposizioni della natura umana» (ivi: 137), come cioè «modulazioni storico-sociali di inclinazioni e facoltà di base costitutive della specie» (ibidem). In altri termini, se parlare di Gattungswesen significa comunque parlare di un’essenza sostanziale dell’uomo, di una natura umana, questo non comporta di per sé il fatto che esista un unico modello di natura umana cui riferirsi o da ripristinare, un qualche ideale rispetto al quale adeguarsi e una qualche perfezione verso cui tendere, da realizzare o da ristabilire. D’altronde, Marx stesso aveva di mira prima di tutto la critica dell’idea di Hegel (o, meglio, «hegeliana») di un’identità finale di Soggetto e Oggetto, vale a dire, nel nostro caso, la convinzione che il significato ultimo dell’uomo e la sua compiuta armonica riconciliazione con l’Intero siano «non ancora» presenti e «latenti» e così semplicemente di là da venire: il materialismo non può essere in alcun modo ricondotto a una metafisica orientata escatologicamente o teleologicamente (cfr. Schmidt 1969).

3.5. Alla luce di quanto sin qui sostenuto, «se è vero che l’uomo è un “ente naturale generico” (Gattungswesen) allora è “alienata” qualunque situazione che gli vuole imporre come cosa irrigidita, immutabile e deificata, una situazione storica determinata (che sia lo stalinismo o la globalizzazione)» (Preve 2004: 165 s.), vale a dire che la natura umana «per realizzarsi, ha bisogno di una determinazione, ma non esaurisce in essa la sua essenza totale» (Plessner 2000: 238), soprattutto quando questa ha la veste della merce capitalisticamente prodotta: pur nella persistenza di una base biologica universale, l’essere umano può vivere in molti mondi, può aprirsi (a) un mondo diverso, non è mai costretto a vivere in un solo mondo e in un solo modo, in un solo mo(n)do.

Detto altrimenti, se si muove dalla considerazione che c’è una natura umana, un insieme di caratteristiche biologiche che contraddistingue la specie animale umana, e che questa natura è però «non nascosta dentro di noi, al contrario, è una natura che ci porta fuori di noi, fuori del nostro corpo, all’aria aperta delle relazioni con i nostri simili» (Cimatti 2011b: 77), ne consegue che essa «è una potenzialità che può realizzarsi soltanto nella vita della comunità» (ivi: 78), che «non possiamo realizzare la nostra natura in isolamento, abbiamo necessariamente bisogno dell’aiuto della comunità per diventare ciò che possiamo diventare» (ibidem)16. È allora proprio per questo che «non ogni vita è una vita giusta per l’animale umano, perché non ogni vita permette a quell’animale di realizzare le sue potenzialità naturali; al contrario, sarà giusta quella vita in cui l’umano esalta le sue predisposizioni biologiche» (ibidem), vale a dire che «è pienamente umana quella società che crea le condizioni politiche per lo sviluppo delle potenzialità biologiche di ogni singolo animale umano» (ivi: 147). Se «non c’è una sola vita che gli umani possano vivere» (ibidem), «una vita può divenire umana» solo quando «le è concessa l’opportunità di esplorare lo spazio delle vite umane possibili» (ibidem). È così che un’affermazione come la seguente è la radicale ma coerente espressione a tutto tondo dell’antropologia marxiana:

l’umano è un animale naturalmente ricco di potenzialità, è l’animale che biologicamente non ha una sola vita predeterminata davanti a sé; al contrario, è l’animale che può sperimentare e provare abilità ed esistenze diverse. La natura dell’animale umano è di non avere, paradossalmente, una sola vita naturale di fronte a sé. La nostra biologia è quella di poterci costruire la nostra vita. Di tutte queste potenzialità il capitalismo ne esalta e ne sviluppa soltanto una, l’avere cose. […] Il problema biologico del capitalismo è propriamente quello di una specie vivente, Homo sapiens, che sempre più rinuncia alle proprie potenzialità umane per diventare – indirettamente, attraverso il temporaneo possesso delle merci, e direttamente mediante l’accumulo di ricchezza finanziaria – puro intermediario del denaro (Cimatti 2011a: 5 s.).

4. Cervelli genericamente programmati per estendersi relazionalmente: per un’antropobiologia marxiana

4.1. Il percorso sin qui svolto può essere riassunto e al contempo riallargato attraverso alcune straordinarie note manoscritte in calce all’Ideologia tedesca, che commentano e ampliano le affermazioni sopra ricordate circa il fatto che a caratterizzare l’uomo è il Verhältnis nel duplice aspetto dell’«azione» e della «relazione», dove l’azione è appunto da concepire come relazione, ossia in quanto (rel)azione, unitamente al fatto che l’uomo è in grado di cogliere l’Als, l’in quanto tale della relazione, ossia di prendere le distanze da quell’ambiente in cui pur sembra immerso. Marx scrive (note IX e X): «die Menschen haben Geschichte, weil sie ihr Leben produzieren müssen, und zwar müssen auf bestimmte Weise: dies ist durch ihre physische Organisation gegeben; ebenso wie ihr Bewußtsein. […] Mein Verhältnis zu meiner Umgehung ist mein Bewußtsein» (cfr. Marx-Engels 2011: 1578 s.).

In queste poche righe troviamo condensati tutto un insieme di elementi sin qui emersi, perché Marx in poche concise ma profondissime proposizioni lega in maniera esplicita fattori quali: l’umanità, la storia, la prassi, l’antropopoiesi, la specificazione della genericità della natura attraverso l’attiva produzione del mondo, la naturalità della tecnicità e dell’agire in rapporto alle condizioni biologico-organiche dell’uomo, la coscienza intesa come prodotto relazionale, come prodotto del Verhältnis inteso come l’insieme del comportamento-azione-relazione, l’azione come espressione della relazione al mondo, l’apertura come riferimento all’alterità (dell’Umgehung in generale e degli altri uomini in particolare), il bisogno come condizione specificamente umana e la conseguente esposizione al «fuori» e all’«esterno», la capacità umana di cogliere l’in quanto (la relazione in quanto tale, il fatto che una relazione sussiste «per me», ossia nel momento in cui c’è una qualche apertura, un qualche riferimento-a, un qualche rimando, un qualche eteroriferimento) e dunque di distaccarsi dall’ambiente per aprirsi liberamente all’ulteriorità – ossia, più in generale, la mancanza di una misura e di una modalità naturale di conduzione dell’esistenza che spinge l’uomo a dovere reperire anzi istituire una pluralità imprevedibile di modi diversi di sopravvivere e ben vivere, selezionandone di volta in volta uno in grado di specificare e determinare la genericità che caratterizza la sua natura, senza però che tale modus risulti e possa mai risultare quello definitivo.

«L’animale sa di cosa ha bisogno e di quanto ne ha bisogno; l’uomo, che è indigente per davvero, non sa di che cosa e di quanto ha bisogno» (Democrito, DK 68, B198); «l’animale ha una cerchia limitata di mezzi e modi per l’appagamento dei suoi bisogni, i quali sono anch’essi limitati», l’uomo, invece, «anche in questa dipendenza, dimostra a un tempo di oltrepassarla, e in tal modo manifesta la propria universalità» (Hegel 2006: 347): l’uomo è quell’essere che per natura è chiamato ad agire, ad avere un rapporto mediato con quanto lo circonda, all’esposizione con il fuori e con l’altro da sé per cercare di trovare e determinare attivamente se stesso, è in «rapporto a» e in «relazione con» (è zoon politikon in senso ontologico e radicale). L’uomo ha storia (è storia), ha coscienza (è coscienza), ha linguaggio (è linguaggio), solo in quanto si pone in rapporto con l’alterità, solamente in quanto la sua natura non è né degenere né genetica, bensì generica – detto in una sola parola, libertà: l’uomo ha libertà, è libertà.

4.2. Di conseguenza, come già più volte affermato, il «dentro» proprio dell’uomo è tale perché espone alla relazione con il «fuori», il che equivale a dire – con altre parole – che l’uomo è preso tra una «genericità muta» e una «genericità in sé»: per la prima, al momento della nascita l’organismo umano «quanto a “informazioni” trasmesse attraverso il codice genetico contiene semplicemente le precondizioni dell’appropriazione dell’esistenza umano-generica» (Heller 1983: 29), ossia le precondizioni per l’interiorizzazione autonoma, mentre per la seconda «tutto ciò che de facto umanizza gli uomini, cioè le informazioni che costituiscono la nostra vita generica, al momento della nascita si trovano al di fuori dell’organismo: vanno cioè ricercate nell’ambito delle relazioni umane in cui siamo nati» (ibidem). La «macchina» cerebrale è programmata ad ap-prendere letteralmente il proprio fuori, ha la capacità di compiere operazioni che è però il rapporto con il mondo a «inserire» nel cervello, di relazionarsi con l’esterno per costruire un interno, ed è proprio questo che Marx intendeva dire quando scriveva, come visto, che è l’uomo e solo l’uomo a essere caratterizzato dal Verhältnis nei confronti dell’Umgebung:

neanche la “macchina” (il cervello) che rappresenta la genericità muta al momento della nascita è già del tutto compiuta, essa si completa solo nel rapporto con il mondo, cioè con l’appropriazione della genericità in sé. […] L’uomo dunque fin dalla nascita comincia ad appropriarsi il mondo dal suo proprio organismo. […] L’uomo si rapporta al mondo, mentre l’animale no (ivi: 30 s.).

Il punto è che tale antinomia per cui l’uomo trova in sé quanto lo spinge a rivolgersi fuori di sé, per cui la sua dotazione genetica lo programma sostanzialmente per l’apprendimento, e dunque per cui la sua creatività è al contempo espressione di necessità e di libertà, è una caratteristica specificamente umana:

negli animali una tale antinomia non esiste. L’organismo animale già al momento della nascita possiede nel suo codice genetico la totalità delle informazioni della sua specie. Con l’apprendimento potrà ampliarle e impiegarle, tuttavia, saranno sempre gli istinti biologici a dirigerlo. Un cavallo allevato in mezzo agli uomini resta un cavallo (un membro della sua specie). Un uomo cresciuto tra i cavalli (è assurdo persino ipotizzarlo) non è un uomo, non è un membro della sua specie (ivi: 29).

4.3. Pertanto e come sopra accennato, l’uomo si distingue dall’animale in ragione del fatto che la sua dotazione cerebrale è certamente complessa, ma di una complessità a-specifica in quanto espressione di una struttura plastica, modificabile dall’esperienza e in grado di permettere una serie di diversi movimenti e di diverse possibili azioni. Il cervello umano, in tutta la sua complessità, è quel paradossale meccanismo attraverso cui l’élan vital oltrepassa la dimensione esclusivamente meccanica in favore del dispiegarsi della libertà e dell’apertura eteroreferenziale al mondo (cfr. Bergson 2002: 216; Deleuze 2006; Ansell Pearson 2007), all’interno di un vero e proprio processo di naturale «genericizzazione» della natura, nel senso che l’apertura al mondo è espressione di una non-specificità legata alla mancanza di armi di difesa naturali, di coazione istintuale e di programmazione genetica rigida e intrascendibile (esprime dunque plasticità, programmazione per l’apertura):

le aree motorie sono state superate da zone di associazione, dalle caratteristiche molto diverse che, invece di orientare il cervello verso una specializzazione tecnica sempre più accentuata, l’hanno aperto a possibilità di generalizzazione illimitate, almeno in confronto a quelle dell’evoluzione zoologica. Per tutto il corso della sua evoluzione, a partire dai Rettili, l’uomo appare l’erede di quelle creature che sono sfuggite alla specializzazione anatomica. Né i denti, né le mani, né i piedi, e neppure il cervello hanno raggiunto in lui l’alto grado di perfezione del dente del mammut, della mano e del piede del cavallo, del cervello di taluni uccelli, sicché egli è rimasto capace di quasi tutte le azioni possibili, può mangiare in pratica qualsiasi cosa, correre, arrampicarsi e utilizzare quell’organo inverosimilmente arcaico che la mano rappresenta nel complesso dello scheletro per operazioni guidate da un cervello super specializzato nella generalizzazione. […] L’uomo ha spinto la propria specializzazione verso la conservazione di attitudini molto generiche. Questo va molto al di là della struttura fisica; è vero che corriamo meno velocemente del cavallo, che non digeriamo la cellulosa come la vacca, che non sappiamo arrampicarci come lo scoiattolo e che, infine, tutto il nostro meccanismo osteomuscolare è super specializzato solo per continuare a essere idoneo a fare tutto, ma il fatto più importante è che il cervello umano ha subito una tale evoluzione che resta adatto a pensare tutto, e nasce praticamente vuoto. […] La specie umana sfugge periodicamente, limitandosi al ruolo di animazione, a una specializzazione organica, che la legherebbe in modo definitivo. […] Il tratto genetico distintivo dell’uomo è costituito dall’inadattabilità fisica (e mentale); tartaruga, quando si ritira sotto un tetto, granchio quando prolunga la mano con una pinza, cavallo quando diventa cavaliere, l’uomo ridiventa ogni volta disponibile per la memoria trasferita nei libri, la forza moltiplicata nel bue, il pugno perfezionato nel martello (Leroi-Gourhan 1977: 140 s., 269 e 289 – corsivi miei).

4.4. La somma ma a-specifica complessità del cervello, quindi, conferma appieno la visione marxiana qui prospettata: il cervello è infatti il luogo più importante in cui l’esteriorità e la relazione con il fuori che contraddistinguono l’essere umano si manifestano come espressione della genericità biologica di partenza. Il cervello difatti, organo complesso che coordina centralmente il comportamento, le attività e le funzioni fondamentali dell’uomo, non è un organo specifico17: se «talvolta si dice che il cervello sarebbe l’organo specialistico dell’uomo» (Gehlen 1990: 154), occorre però poi «sapere che “specializzazione” acquista in tal caso un altro significato rispetto a quello valido per gli animali» (ibidem), nel senso che se «la specializzazione degli organi incatena ogni specie animale a un ambiente determinato» (ibidem), il cervello rende «al contrario l’uomo libero da ogni particolare costellazione di condizioni ambientali» (ibidem). Quella della mente umana è a tutti gli effetti «la specialità della non specializzazione» (Mumford 2011: 58-63), e il cervello è così specializzato nella non specializzazione, la sua plasticità è emblema della plasticità del comportamento, uno sviluppo anche estremo e complesso non è di per sé sinonimo di specializzazione se è parallelo all’aumento del ventaglio di possibilità da determinare attivamente, attraverso un attivo rapporto con quanto circonda. D’altronde, come notato anche sopra con Heller, il cervello deve, da un punto di vista strettamente ontogenetico, maturare in un processo lungo e che ha luogo soprattutto «al di fuori dei confini dell’organismo» (Remotti 2011: 67), processo che caratterizza a tutto tondo l’esistenza umana:

tra tutti gli animali l’uomo è la specie i cui piccoli conoscono il più lungo periodo di dipendenza e di maturazione, nel corso del quale essi debbono apprendere a usare correttamente gli arti inferiori per camminare, le mani per manipolare gli oggetti e portarsi il cibo alla bocca, le emissioni verbali per parlare e comunicare in modo significativo ed efficace (ibidem).

4.5. Il cervello è allora certo uno degli organi più complessi dell’organismo umano, se non uno dei sistemi più complessi dell’intero globo – in particolare la corteccia cerebrale umana rappresenta «il trionfo della complessità […] l’oggetto più complesso dell’universo» (Boncinelli 2000: 67; cfr. anche Gandolfi 2008) –, è però (anzi: proprio per questo) anche notevolmente plastico, e proprio per questo «riplasma se stesso in relazione agli stimoli e alle esigenze del corpo e dell’ambiente in cui opera» (Biuso 2009: 117). In tal senso, «rispetto ad altre parti del corpo umano, il cervello non è un organo unico e monocorde ma rappresenta un insieme plastico e variegato di strutture» (ibidem), che «legato all’intera corporeità vivente, interagisce costantemente con il mondo, con l’insieme di stimoli, colori, odori, suoni, forme ed eventi che la corporeità percepisce e al quale il cervello insieme a tutto il corpo cerca di dare un significato unitario e coerente» (ibidem).

Il cervello «è un organo in parte specializzato, senza che questo significhi però diviso» (ibidem), vale a dire che la sua «specializzazione» è «funzionale, non strutturale» (ibidem), e la funzione è qualcosa che si attiva e parzialmente determina solamente attraverso l’apprendimento e la relazione con l’esterno – che il cervello sia programmato per apprendere e progettato per fare esperienza non significa nulla di diverso da questo.

Cervello e cultura (intesa, come sopra ricordato e come bisogna tenere presente nella lettura dei prossimi paragrafi, come il peculiare incontro tra oltre-naturalità, naturalità e socialità che avviene nell’uomo e tramite lui) risultano come le due facce opposte ma complementari della stessa medaglia: «se è indispensabile il cervello per apprendere e agire culturalmente, altrettanto indispensabili sono l’apprendimento e l’azione culturale per garantire l’adeguato sviluppo e la maturazione di questo organo» (Remotti 2011: 67); «per vedere qual è il contenuto di una mente non si deve guardare dentro un cervello, ma fuori di esso verso gli eventi che stanno costituendo il suo contenuto» (Manzotti-Tagliasco 2001: 454). «La nostra esperienza è sempre esperienza di qualcosa» (Manzotti-Tagliasco 2008: 124), è sempre un «essere in relazione con» (ibidem): infatti, «nel fare esperienza è insito il concetto di relazione: conoscere significa riuscire a stabilire delle relazioni con il mondo esterno» (ivi: 124 s.), tanto che «se, per assurdo, si pretendesse di abolire la natura relazionale dell’esperienza, ci si ritroverebbe chiusi in noi stessi» (ivi: 125). In realtà, «in quanto soggetti, facciamo esperienza poiché ci modifichiamo; andiamo oltre noi stessi» (ibidem): «conoscere il mondo è uguale a espandere noi stessi, non metaforicamente ma letteralmente. Fare una nuova esperienza vuol dire inglobare un nuovo processo fisico; far sì che la parte di mondo che corrisponde a noi stessi sia un pochino più ampia. Imparare è crescere» (ivi: 142).

La mente, «the nature’s great mental chameleon» (Clark 2003: 197) secondo l’immagine già cara a Pico della Mirandola, è in tal senso letteralmente estesa, i suoi confini sono extraorganici ed extrasomatici, extracranici potremmo anche dire (tanto da poter essere descritti come «natural born cyborgs»), in quanto essa è da subito e per natura inserita in un tessuto relazionale al di fuori di sé: la corteccia cerebrale, per esempio, si riplasma in relazione a stimoli ed esigenze sfruttando la sua peculiare plasticità, è il luogo di iscrizione dell’esperienza, è la traccia della realtà esterna, è la realtà esterna che si fa traccia aprendo l’interno (cfr. p.e. Dreifuss 1987). La res cogitans è tale solo in quanto extensa (cfr. anche Deacon 2001; Donald 2011; Noë 2010; Vygotskij 1972; Vygotskij 1992; Vygotskij-Lurija 1997), e proprio per questo non è una res chiusa in se stessa e causa sui, ma è aperta al mondo e dipendente dall’alterità, in ragione dell’immaturità con cui si presenta all’appuntamento con il mondo:

il funzionamento sia del cervello sia del sistema nervoso in generale richiede un ambiente sociale e culturale. Il cervello funziona solo entro un habitat culturale: se da un punto di vista organico esso è inserito e protetto nella scatola cranica, da un punto di vista funzionale opera in un contesto assai più ampio, non organico ma sociale. Alla nascita il cervello di ogni essere umano è molto immaturo, giacché i neuroni non hanno ancora portato a termine la loro crescita: i prolungamenti che ne stabiliscono i contatti non sono stati completati e non sono ancora ricoperti dalla mielina che solo più tardi assicurerà una propagazione accelerata dell’informazione nervosa. Solo dopo la nascita lo sviluppo cerebrale si completa, e questa ‘rifinitura’ tardiva è ciò che consente alle prime esperienze vissute dall’individuo di influire, in modo favorevole o sfavorevole, sullo sviluppo del programma genetico, nello stesso tempo in cui conferisce un ruolo decisivo all’apprendimento del linguaggio (Remotti 2011: 68).

the ancient fortress of skin and skull has been built to be breached; it is a structure whose virtue lies in part in its capacity to delicately gear its activities in order to collaborate with external […] sources […]. What is special about human intelligence, is precisely their ability to enter into deep and complex relationship [...]. It is because our brains, more than those of any other animal on the planet, are primed to seek and consummate such intimate relations […] that we end up as bright and as capable of abstract thought as we are. […] We have been designed, by Mother Nature, to exploit deep neural plasticity […]. Minds like ours were made for mergers. [...] We already are: creatures whose minds are special precisely because they are tailormade for multiple mergers and coalitions. […] A plastic evolutionary overlay yields a constantly moving target, an estende cognitive system whose constancy lies mainly in its continual openness to change. […] What makes us distinctively human is our capacity to continually restructure and rebuild our own mental circuitry […]. Mind like ours are complex, messy, contested, permeable, and constantly up for grabs. The neural difference that makes all this possible is probably not very large, but its effects are beyond measure […]. What the human brain is best at is learning […]. The brain is many ways special, but it is not special in the sense of providing a privileged arena such that certain operations must occur inside that arena […]. The biological desing innovations that make all this possible include the provision (in us) of an unusual degree of cortical plasticity and the (related) presence of an unusually extended period of development and learning (childhood). These dual innovations enable the human brain, more than that of any other creature on the planet, to factor and open-ended set of biologically external operations and resources deep into its own basic modes of operation and functioning. It is the presence of this unusual plasticity that makes humans (but not dogs, cats, or elephants) […] beings primed by Mother Nature to annex wave upon wave of external elements and structures as part and particle of their own external minds. […] The human neocortex and prefontal cortex, along the estende developmental period of human childhood, allows the contemporary environment an opportunity to partially redesign aspects of our basic neural hardware itself. […] The whole sensory, linguistic, and technological environment in which the human brain grows and develops in thus poised to function as one of the anchor points around which such flexible neural resources adapt and fit. […] Our brains do appear to be far and away the most plastic of all. Combined with this plasticity, however, we benefit from a unique kind of developmental space: the unusually protracted human childhood. […] The long human childhood provides a unique window of opportunity […] which […] opens up new […] possibilities. […] It is a mistake to posit a biologically fixed “human nature” with a simple wrap-around of tools and culture; the tools and culture are indeed as much determiners of our nature as products of it. Ours are (by nature) unusually plastic and opportunistic brains […]. From this neurologically and ecologically unique whirlpool, we humans emerge. We are beings factory-tweaked and primed in order to be ready to partecipate in hybrid cognitive and computational regimes, able to think and learn in ways that take us, bit-by-bit, far beyond the scope and limits of our basical biological endowments (Clark 2003: 5-8, 10 s., 26, 31 e 84-86).

4.6. Quanto intendo con ciò mettere in evidenza è che biologicamente l’uomo è il risultato di due movimenti intersecantesi, uno filogenetico, uno ontogenetico: il rallentamento del processo evolutivo (fetalizzazione)18, che lo rende quasi una scimmia «abortita» e «destrutturata» (Melandri 2007: 71), è legato alla formazione di precedenti nicchie proto-socio-culturali19 ed è connesso a un’accelerazione della partenogenesi (neotenizzazione/pedomorfosi) che lo rende «parto prematuro», un animale «nudo» biochimicamente e fisiologicamente immaturo e indifeso, bisognoso di cure e di contatto per sopravvivere20.

All’uterogestazione si affianca così l’esterogestazione: l’uomo fa esperienza per specificare la propria apertura generica al mondo. Esistere in modo «immediatamente mediato» significa realizzarsi – già nella vita intrauterina21 – tramite rapporti, riferimenti, possibilità a cui agganciarsi, relazioni di senso: significa dipendere da, essere in relazione con. L’inettitudine natale è certo un ostacolo serio e protratto alla sopravvivenza e all’indipendenza, ma anche un’opportunità unica per differenziarsi dal modo d’essere delle specie biologicamente più vicine a quella umana: l’uomo è così un paradossale «nonostante che si fa poiché»22. Era d’altronde già Aristotele a notare che se l’animale viene al mondo completo, l’uomo (il bambino) viene al mondo incompleto, con delle caratteristiche non già sviluppate ma da sviluppare (cfr. Aristotele, Problemi, X, 58, 897b 30-32; Aristotele, Storia degli animali, I, 1, 488b 25-26 e VIII, 1, 589a 1-2). In tal senso, tutto l’insieme delle dotazioni che caratterizzano l’uomo e lo rendono superiore a tutti gli altri animali non sono un possesso stabile e già acquisito, bensì – come visto – qualcosa che va sviluppato o quantomeno «attivato». A proposito del linguaggio, esempio evidentemente per Aristotele particolarmente emblematico, lo stagirita notava:

il linguaggio [dialektos], che è un modo in cui si manifesta la voce, si altera apparentemente con molta facilità, e arriva alla perfezione con molta difficoltà. Ne è un indizio il fatto che rimaniamo muti per lungo tempo dopo la nascita: all’inizio non siamo affatto capaci di parlare, e solo più tardi cominciamo a balbettare. […] Nessun altro animale parla eccetto l’uomo, che pure comincia a farlo tardi (Aristotele, Problemi, XI, 1, 898b 30-899a 3).

Proprio per questo l’uomo, la cui natura è generica e potenziale, è l’unico animale a potere diventare balbuziente (o muto): egli non possiede il linguaggio già dalla nascita, e dunque può tanto svilupparlo in modo efficace quanto in modo incompleto e imperfetto. Dover articolare e declinare una natura solo genericamente determinata significa proprio venire al mondo affetti da una cronica immaturità:

perché l’uomo è il solo animale che può diventare balbuziente? Forse perché solo lui partecipa della parola [logou koinonei], mentre gli altri animali hanno solo la voce [phones]? Chi balbetta parla, certamente, ma non riesce a connettere le parole [logon dè ou dynantai syneirein]. […] Perché, fra gli esseri dotati di voce, nell’uomo essa raggiunge la perfezione [teleioutai] più tardi che in ogni altro? Forse a causa delle sue molteplici differenze e forme [pleistas diaphoras kaì eide]? Gli altri animali non articolano nessuna lettera o poche. Ora, ciò che è multiforme e molto diversificato [poikilotaton kaì pleistas echon diaphoras] ha bisogno di moltissimo tempo per perfezionarsi [ananke en pleistoi chronoi apoteleisthai] (ivi, XI, 55 e 57, 905a 20-34).

L’uomo è il più complesso animale proprio perché possiede una complessità da sviluppare, perché possiede una dotazione da perfezionare, a cui dar forma attivamente, tramite il costante e sempre rinnovato esercizio, nell’incertezza circa il conseguimento del risultato finale. È lo sviluppo delle potenzialità umane a essere il vero e proprio katà physin per l’uomo, la vera e propria natura umana è il non completo e non immediato padroneggiamento di tutta la dotazione che la natura stessa ha fornito all’uomo (a partire anche dalle mani e dai piedi, giacché i più piccoli non possono camminare: cfr. ivi, XI, 27 e 30, 902a 5-35 e 902b 16-21)23. Per esempio, se «gli altri animali nascono coi denti o l’analogo dei denti, salvo che accada qualcosa contro natura [parà physin], perché vengono al mondo più compiuti dell’uomo [geneseos tetelesmena tou anthropou mallon]; l’uomo invece, salvo che accada qualche cosa contro natura [parà physin], non ne ha quando nasce» (ivi, II, 6, 745b 10-14), oppure – «appena nati i piccoli di tutti gli animali, ma soprattutto di quelli che generano prole incompiuta [atele], sono soliti dormire» (ivi, V, 1, 778b 21-22) e i bambini «trascorrono dapprincipio nel sonno più tempo degli altri animali, perché vengono al mondo più incompiuti di tutti gli altri animali compiuti [atelestata gennatai ton tetelesmenon]» (ivi, 779a 24-26). Se dunque l’essere parà physin dell’animale è il venire al mondo a-telos, l’essere katà physin dell’uomo è invece proprio il venire al mondo a-telos, non compiuto, incompleto, e questo proprio per quella natura che opera come un buon amministratore (oikonomos agathos), non scartando nulla da cui è possibile produrre qualcosa di utile per la specie (cfr. ivi, II, 6, 744b 16-17):

l’uomo viene alla luce incompleto [ateles], e per questo l’ombelico è umido e sanguinolento. Che alcuni animali vengano al mondo completi [teteleiomena], altri no [atele], è dimostrato dal fatto che alcuni hanno subito le risorse per vivere [semeion oti tà men euthys dynatai zen], mentre i bambini hanno bisogno di cure [tà dè paidia epimeleias deitai] (ivi, X, 46, 896a 16-19).

È proprio in questo contesto che già lo stesso Aristotele poteva riconoscere che il cervello dell’uomo impiega più tempo a seccarsi, condensarsi e raffreddarsi, tanto che le suture craniche restano presenti e che l’osso del cervello si solidifica molto tardivamente: questo esprime il fatto che l’uomo è, in generale, il solo animale che ha bisogno di un lungo periodo di cure prima di poter condurre autonomamente la propria esistenza, tanto che alla nascita è incapace di nutrirsi da solo e completa la propria formazione più lentamente (cfr. Aristotele, Problemi, X, e 9, 891b 25-28 e 58, 897b 30-33). Insomma, se «gli altri esseri fin dalla nascita, si può dire, bastano a se stessi per quel che riguarda la loro sopravvivenza», l’uomo «viene al mondo in condizione tale, che per molto tempo dipende interamente dall’assistenza altrui» (Erasmo 1980: 201).

Proprio in questo senso «l’uomo è zoon politikon, come diceva Aristotele, physei: per necessità di nascita, egli deve completare nel grembo sociale quel processo di maturazione che le specie inferiori hanno in gran parte dietro di sé non appena vedano la luce» (Melandri 2004: 743): è sulla base della visione «neotenica» e «generica» della natura umana che diventa da ultimo possibile anche rileggere alcune tra le righe più celebri del pensiero aristotelico e dell’intera filosofia occidentale, quelle in cui viene cioè definita la natura umana in termini di «politicità» in ragione di una «dotazione generica» del logos inteso come l’insieme delle capacità cognitive-logico-matematiche-sociali di ragione-calcolo-ragionamento-proporzione-linguaggio-dialogo – di una razionalità concepita radicalmente come relazionalità, come r(el)azionalità (cfr. Aristotele, Politica, I, 2, 1252b 29-1253a 31).

4.7. Al di là di questa che resta ancora una semplice indicazione, il punto che può essere con ciò valorizzato è che la lentezza dello sviluppo ontogenetico dell’uomo, inteso come l’animale ultraneotenico24, risulta dunque favorevole alla e favorita dalla attitudine ad apprendere e a organizzare lo sviluppo cerebrale in un rapporto di complementarietà con stimoli esterni e spinte culturali che rimane parzialmente sempre produttivamente aperto:

cerebralizzazione, giovanilizzazione, regresso dei comportamenti innati sono tutti elementi che si combinano e si richiamano tra loro e insieme sono a loro volta connessi al ruolo preponderante della cultura. Un cervello che per la maggior parte cresce e si sviluppa nella vita postnatale e dunque immerso direttamente in un ambiente culturale; organismi i cui caratteri infantili e adolescenziali vengono a lungo mantenuti (neotenia), così da consentire da un lato lo sviluppo cerebrale e dall’altro l’apprendimento linguistico e culturale; correlativamente, una contrazione e rarefazione di meccanismi innati di comportamento, così da lasciare spazio all’esplorazione, all’innovazione, alla sperimentazione culturale […]. L’incompiutezza è tipica dell’infanzia e della giovinezza, per cui il loro prolungamento dà luogo a un prolungamento dell’incompiutezza; inoltre, la sostituzione dei caratteri giovanili con quelli adulti non avviene mai del tutto e il processo in quanto tale rimane incompiuto, facendo sì che l’incompiutezza giovanile si spinga a caratterizzare buona parte della vita adulta (Remotti 2011: 153).

Il cervello generico umano si sviluppa dopo la nascita (solo così, d’altronde, può aprirsi alla temporalità vissuta) e al di fuori dai confini del cervello e dell’organismo, e lo fa attraverso un processo di selezione, di riduzione e di sfrondamento rispetto all’iniziale e confusa ricchezza di neuroni e di connessioni sinaptiche, secondo un meccanismo di «stabilizzazione selettiva» che riduce e sfronda drasticamente e progressivamente l’iniziale ridondanza di connessioni sinaptiche, perché per attivare certe connessioni è necessario che il loro numero generale si riduca drasticamente: «così come un cespuglio di rose deve essere potato per crescere sano e con la forma desiderata, allo stesso modo, nel cervello dei bambini, le sinapsi vengono gradualmente sfoltite fino a raggiungere i livelli stazionari caratteristici dell’età adulta» (Robertson 1999: 184). È così che la cultura, la storia umana, può essere intesa come riduzione e specificazione, particolarizzazione e determinazione, di un’iniziale genericità, di una potenzialità ancora indeterminata ma proprio per questo determinabile – come modalizzazione che muove ed è resa possibile da una complessa genericità di partenza (cfr. Remotti 2011: 120, 203 e 208):

l’esperienza seleziona, fissa, riduce la plasticità che è massima nei primi periodi di vita (o nei cosiddetti “periodi critici”), quando vi è nel cervello umano una straordinaria ridondanza di connessioni possibili tra le cellule-base del sistema nervoso. Se i geni sono responsabili della costruzione della “materia” cerebrale, fenomeni epigenetici provvedono a conferirle una forma, “scegliendo” e “selezionando” alcune connessioni a scapito di altre […]. Il modellamento che la cultura svolge sulla natura biologica si configura come un’opera di “sfrondamento”, di “selezione”, di “irrigidimento”, di “scelta” di alcune possibilità e di abbandono di altre (Favole-Allovio 2002: 198 s.).

Si può così sostenere che «même si les éléments naturels sont déterminés par le patrimoine génétique, il faut que le milieu culturel actualise et oriente les potentialités plastiques du cerveau en construction» (Andrieu 1999: 146), ossia che «si l’être humain naît avec un cerveau inachevé, c’est précisément pour que la culture soit l’élément nécessaire à sa qualification» (ivi: 147).

4.8. Certo, «nasciamo con tutti i neuroni, ma devono ancora accadere due cose fondamentali, ovvero si devono stabilire, e successivamente espandere, i contatti sinaptici che collegano i diversi neuroni e molti dei loro assoni devono rivestirsi di mielina» (Boncinelli 2011: 7 s.): un assone, appena formato, «è sempre nudo» (ivi: 7), ossia privo della guaina mielinica che rende possibile il veloce passaggio del messaggio del messaggio nervoso, ripropone cioè quella stessa nudità che caratterizza l’immaturo parto umano, quella stessa genericità che contraddistingue l’intera sua natura. Pertanto, «neben der Überproduktion und anschließenden Reduktion von Synapsen ist auch die Myelinisierung der Nervenfasern für das Ausreifen der Hirnfunktionen bedeutsam» (Roth 2003: 388), necessaria proprio perché il cervello non si presenta già formato e pronto all’uso:

beim Prozess der Myelinisierung bildet sich um ein Axon eine so gennante Myelinscheide aus, die in peripheren Nervensystem von einer Schwannzelle, im Zentral nervensystem von einem Oligodendrozyten (beiden sind Arten von Gliazellen) gebildet wird. […] Ohne eine massive Myelinisierung im Gehirn würden die Prozesse der Erregungsverarbeitung sehr viel langsamer ablaufen, insbesondere würde dies die Großhirnrinde mit ihren Billionen an axonalen verbindungen stark beeinträchtigen und viele komplexe kognitive Leistungen unmöglich machen. Deshalb ist der Prozess der Mylinisierung der Großhirnrinde eine wichtige Komponente in der Entwicklung höherer kognitiver Leistungen (ibidem).

Se dunque il cervello e la corteccia cerebrale in particolare vengono al mondo contenendo praticamente già tutte le cellule nervose, molte delle connessioni e dei meccanismi che caratterizzano l’attività cerebrale mancano o sono presenti e operano in maniera ancora molto labile. Le strutture cerebrali possiedono così caratteristiche dinamiche e non statiche (in senso della dynamis, della potenzialità), non sono completamente predeterminate ma sono suscettibili di modifiche notevoli, possibilità che è la radice delle differenze comportamentali: le sinapsi non rispondono a regole prefissate ma si comportano plasticamente, possono affermarsi o soccombere, tanto che si può parlare di una vera e propria lotta sinaptica, di un processo epigenetico che è stato descritto alla stregua di un vero e proprio «darwinismo», in un continuo processo di formazione di nuove sinapsi, di soppressione di alcune vecchie e di rimodellamento della loro forza individuale (cfr. in particolare Edelman 1993a; Edelman 1993b; Edelman 2004; Edelman 2007).

In questo senso, c’è una stabilizzazione di quei contatti sinaptici che vengono utilizzati e una recessione e morte di quelli che non competono in maniera efficiente e che vengono rimpiazzati da altre sinapsi, si passa per così dire «attraverso piccole morte cerebrali» (Deleuze 1989: 234) legate «a una forza del fuori che si scava, ci afferra e attira il dentro» (ibidem): la «connectivité maximale de contacts synaptiques encore labiles procure une chance sans égale pour que puissent s’effectuer des choix, des tris, des renforcements en relation avec les apports du monde extérieur» (De Boysson-Bardies 1996: 25), e proprio perciò «le cerveau se “sculpte” ainsi sous l’influence interne et externe qui en détermine l’architecture finale et le modes de fonctionnement» (ibidem – corsivi miei). Le connessioni cerebrali non sono dunque prestabilite, come guidate su rotaie che seguono una direzione preliminare, non seguono cioè un programma che ha uno specifico fine ma si compongono in un «piano» che dipende dai rapporti istituiti con il mondo: il cervello è più «rizomatico» che «arboreo», perché non si sviluppa diretto da qualcosa di esterno che traccerebbe in maniera trascendente cammino e meta del percorso da compiere (cfr. Deleuze-Guattari 2002: 211-223; Deleuze-Guattari 2010: 48-73).

In ultima istanza, per quanto si possa certo parlare di plasticità in molti sensi diversi, si può dire in generale che «il cervello è un organo plastico, aperto alle esperienze, in grado di assumere diverse connotazioni strutturali e funzionali a seconda delle basi genetiche ed esperienziali che caratterizzano il singolo individuo» (Oliverio 1989: 83). Imparare, provare una sensazione o un’impressione nuova, significa modificare l’architettura neurale, significa «scolpire» la mente, «organo neotenico» (Prochiantz 2009: 115), rimodellare le connessioni sinaptiche: «alcune si dissolvono, altre si creano, altre si allentano, altre ancora si rinsaldano, ogni ora di ogni giorno della nostra vita» (Boncinelli 2011: 6). Alla luce di ciò, «nonostante il determinismo che caratterizza il cablaggio iniziale del cervello, l’esperienza ha un ruolo essenziale nel perfezionamento dei circuiti cerebrali» (Ridley 2005: 220), dando vita a una sorta di addestramento il cui scopo «consiste nell’esercitare i circuiti cerebrali che potrebbero essere necessari nella vita – e non riempire la mente di dati», di modo che «così esercitati, i circuiti fioriscono» (ivi: 221): «verso la fine dell’adolescenza e l’inizio dell’età adulta, il cervello subisce estesi rimaneggiamenti. Molte delle sue connessioni vengono isolate per la prima volta, e molte subiscono un processo di “potatura”: diverse sinapsi interneuronali sono cancellate, e rimangono solo le più forti» (ivi: 181).

4.9. Il cervello è così esposto al proprio «fuori», è il «risultato di una complessa interazione tra biologia e cultura, tra dotazione genetica e influenze dell’ambiente fisico e culturale circostante» (Favole-Allovio 2002: 167), a fare la differenza è il «modo in cui la cultura si “inscrive” nel cervello umano» (ibidem – corsivo mio): non c’è coscienza, come voleva proprio Marx, che non sia frutto di un processo relazionale con quanto circonda, a partire da una natura generica che si specifica in modalità ogni volta diverse e imprevedibili, tanto che persino lo stesso cervello è prodotto di interazione e interrelazione. L’umanità deve costruire se stessa, fabbricarsi a partire da apparenti incompletezza e carenza che non significano però semplicemente l’assenza di una qualche natura, perché piuttosto significano la presenza di una natura «esuberantemente generica» che va specificata attraverso la relazione con l’alterità. Il «vuoto promettente» che è l’uomo è così perfettamente espresso dalla plasticità cerebrale (della corteccia cerebrale in particolare), che esprime al contempo apertura all’eccedenza di possibilità e mancanza di specificità che obbligano alla specificazione dello strato biologico attraverso l’esperienza e l’azione (cfr. ivi: 174). Si può in questo senso parlare della «porosità dell’essere umano» (ivi: 176), di una «leaky mind» (cfr. Clark 2003: 53), stante il fatto che come ricordato la natura umana non è né vuota né piena, non è cioè «uno scrigno vuoto e neppure uno zoccolo biologico duro e impenetrabile» (Favole-Allovio 2002: 177), quanto piuttosto «una superficie porosa in grado di assorbire e farsi ulteriormente specificare e determinare dalle informazioni esterne di ordine culturale» (ibidem – corsivi miei). L’uomo come Gattungswesen, appunto, la natura umana né degenere né genetica, bensì generica:

il terreno della dotazione biologica non è né evanescente e sottile, ma neppure così duro e granitico; tutt’al più, […] tale terreno risulta “poroso”, in quanto il concetto […] della porosità permette di andare oltre all’idea di un substrato (zoccolo) duro e impenetrabile su cui si erge la seconda natura (ibidem).

Non solo la biologia umana non è specificamente determinata, ma che sia disposizione all’apprendimento e all’esperienza (programmazione all’attesa di un’interazione che ha la forma della specificazione) significa che è essa stessa aperta alla contaminazione e all’ibridazione culturale – alla relazione, al Verhältnis:

non c’è un vuoto da riempire (tutto è apprendimento, esperienza, cultura, informazioni esterne), ma non c’è neppure una natura umana sufficientemente definita dalle “informazioni interne” genetiche e biologiche. Ci sono piuttosto interdipendenza e compenetrazione fra le due dimensioni. L’uomo non si definisce solo con l’accumulo di esperienza, oppure solo con la propria dotazione bio-genetica. Il risultato è dato dall’azione modellante della prima dimensione sulla seconda. Tuttavia, ciò che importa sottolineare non è l’ovvia azione modellante della cultura (il dare forma), bensì il ruolo di questa azione modellante nel definire la stessa materia biologica. In altre parole, la dotazione bio-genetica non è refrattaria e indifferente all’esperienza e alle informazioni esterne (cultura) e l’organismo biologico non si limita ad accogliere cultura ma assorbe da essa nutrimento e materiale attraverso cui costruirsi (ibidem).

4.10. Sto cioè cercando di affermare che il cervello generico si impregna di cultura, di socialità, di «esterno», specificandosi e declinandosi storicamente ossia moralmente sin a partire dai primi momenti successivi alla nascita, attraverso un processo che investe prima di tutto selettivamente l’esuberante plasticità sinaptica iniziale:

la grande maggioranza delle sinapsi della corteccia cerebrale si formano dopo la messa al mondo del bambino. Il proseguimento, molto tempo dopo la nascita del periodo di proliferazione sinaptica permette una “impregnazione” progressiva del tessuto cerebrale da parte dell’ambiente fisico e sociale. Come si attua questa impronta culturale? L’ambiente “istruisce” il cervello come un sigillo di bronzo lascia la propria impronta su un pezzo di cera? O, piuttosto, si limita a stabilizzare selettivamente combinazioni di neuroni e di sinapsi via via che appaiono, spontaneamente e per ondate successive, nel corso dello sviluppo? (Changeaux 1983: 281).

In poche parole, un «determinismo strettamente genetico» non è in grado di rendere conto «integralmente della “complessità” d’assemblaggio dell’encefalo umano» (ivi: 241), anche perché in maniera eminente nell’uomo quell’involucro genetico che delimita i caratteri invarianti soggetti allo stretto determinismo genetico rispetto a quelli oggetto di variabilità fenotipica «si apre alla variabilità individuale» (ivi: 249), aprendo così al mondo l’uomo:

il cervello delle neuroscienze appare come un organo ovviamente dotato di una sua consistenza (il patrimonio genetico da cui si sviluppano le cellule di cui è composto, le mappe, gli emisferi e così via, ovvero la “materia” della mente), il quale tuttavia assume la sua configurazione matura o adulta grazie all’interazione tra la “materia” plastica di cui è composto e l’azione trasformatrice e modellante dell’ambiente fisico e culturale in cui cresce l’individuo (Favole-Allovio 2002: 181).

Il cervello dunque non è «un organo perfettamente e definitivamente formato alla nascita (o comunque nei primi mesi di vita)» (ivi: 182) ma «un’entità dinamica, capace di regressione ma anche di creare continuamente nuove connessioni tra le sue cellule» (ibidem): è un’entità dinamica nel senso della dynamis appunto, della potenzialità-genericità che abbisogna di specificazione e di determinazione attraverso la relazione che quasi scolpisce la struttura sinaptica, tramite un «processo di scultura cerebrale – la forgia del tessuto nervoso, morbido materiale plastico, a opera del mormorio e tremolio del mondo esterno catturato dai […] sensi» (Robertson 1999: 13), in modo tale che «l’esperienza è scolpita nella complessa struttura di connessioni tra neuroni» (ivi: 18). Va così tenuto sempre presente che parlare di potenzialità-genericità significa negare ogni visione della natura e dell’esistenza umana in termini di necessità, significa dunque in ultima istanza e come già ribadito a più riprese opporsi a ogni qualforma di determinismo, sia quello naturale-biologico (natura umana «piena»), sia quello culturale-sociale (natura umana «vuota»):

la natura umana è “plastica” in relazione all’ambiente esterno perché può costruirsi solo in interazione con esso. […] La cultura non può non intervenire nel processo di costruzione biologica dell’essere umano, così come la base biologica (e neuronale) non può non condizionare i costrutti culturali. […] Se l’essere umano si completa, anche da un punto di vista biologico (e […] da un punto di vista ontogenetico), soltanto in quanto interagisce con l’ambiente fisico e culturale che lo circonda, allora non ha più senso parlare di determinismo biologico. Allo stesso tempo, però, diviene insensato parlare di determinismo (o relativismo) culturale: la cultura non è un’entità a sé, compiuta in se stessa e capace di colmare i “vuoti” della biologia come un liquido che invade un recipiente in ogni sua parte. La cultura è di per sé incompleta come la base biologica con cui è costretta a interagire. […] Per radicarsi negli esseri umani essa deve inscriversi nella biologia e, in modo particolare, interagire con una materia neuronale. Se la plasticità è una caratteristica intrinseca dell’essere umano, Natura e Cultura non possono più concepirsi come entità distinte, ma soltanto come dinamismi in interazione (Favole-Allovio 2002: 185 s.).

Il cervello di quell’animale ultraneotenico che è l’uomo viene dunque plasmato selettivamente, tramite cioè un processo che permette la stabilizzazione di alcune connessioni sinaptiche a discapito di altre, processo che altro non è che interazione con il mondo e con l’alterità, esperienza e dunque relazione con il fuori, con la società e con la cultura: è un processo di vera e propria modulazione che ha la forma di una modalizzazione, perché «sebbene in ciascun individuo le funzioni cognitive sono localizzate, tale localizzazione avviene in individui diversi in modi differenti» (Favole-Allovio 2002: 194 – corsivo mio), tanto che «due individui non possono dare luogo a sistemi nervosi identici, in quanto la crescita sinaptica avviene in un ambiente competitivo e determina grandiosi cambiamenti cognitivi, cosicché ciascun cervello sviluppa un’organizzazione funzionale sua propria» (ibidem). Nell’uomo «l’interazione con l’ambiente fisico e culturale influenza il numero delle cellule cerebrali e, in maniera ben più sostanziale, la formazione delle reti sinaptiche» (ivi: 197), ossia «il sistema nervoso prende forma a partire dall’interazione tra il patrimonio genetico e l’ambiente circostante» (ibidem): l’esterno «interviene a dare forma e a differenziare il patrimonio genetico» (ivi: 198 – corsivo mio). Una differenziazione che avviene appunto prima di tutto per selezione, per «stabilizzazione selettiva»:

il cervello appare come una struttura ridondante, programmata per eccesso cioè con un numero di neuroni e di sinapsi interneuroniche superiori alle necessità. […] L’apprendimento consiste in un’opera sistematica di “sfrondamento”, di “potatura” a partire da periodi in cui la “chioma” risulta particolarmente folta. […] Apprendere significa eliminare. […] La cultura completa lo sviluppo biologico interagendo con la “materia” cerebrale messa a disposizione del patrimonio genetico: essa è (letteralmente) scritta o incisa nell’organizzazione sinaptica del cervello (ivi: 199 s.).

4.11. In altre parole, la natura generica umana si esprime prima di tutto nel fatto che il cervello non è né programmato in maniera rigida dal corredo genetico, né però è una massa informe e degenere di neuroni e sinapsi destinata a rimanere perennemente indefinita, è più semplicemente variabile attraverso l’esperienza, la relazione con l’esterno che ne definisce di volta in volta limiti e possibilità:

nei primi anni di vita le possibilità per il sistema nervoso di variare, in opportune condizioni, connessioni e grandezza di alcune strutture, magari a scapito di altre, sono veramente notevoli, considerando anche che il numero di neuroni e di sinapsi è molto maggiore nella prima infanzia che nell’età adulta (Maffei 2011: 137).

Deve dunque avvenire una «progressiva diminuzione del numero dei neuroni» (ivi: 138), delle connessioni intersinaptiche e dunque della plasticità, che però è proporzionale all’aumento della stabilità e della protezione da variazioni funzionali o strutturali del sistema nervoso troppo facili, in risposta quasi a ogni messaggio proveniente dal mondo esterno (cfr. ibidem). D’altronde, «in una situazione di eccessiva plasticità non potrebbe esistere una stabilità di pensiero» (ibidem), e per questo «i gradi di libertà, presenti allo stato potenziale alla nascita, vengono diminuiti dall’esperienza» (ivi: 140): l’apertura generica al mondo va modulata e misurata, ossia determinata e limitata, declinata e specificata, senza però annullare del tutto la potenzialità che la connota (pena il rischio di scivolare nella visione degenere della natura umana), ma anzi per portarla a espressione e realizzazione. Maggiore complessità strutturale significa così per il cervello umano minore autonomia rispetto all’alterità (allo stesso modo per cui per l’uomo non può esservi etica – ossia possibilità dell’autonomia – senza eteronomia, rapporto all’altro: cfr. Preve 2007a: 31 e 86)25, ragione per cui esso «per poter funzionare (e persino esistere) ha bisogno di qualcosa di esterno: di una realtà – la cultura – che dall’esterno lo condiziona, lo impregna e provvede a ridurne le possibilità, nel momento stesso in cui le porta a realizzazione» (ivi: 199).

Occorre definitivamente abbandonare «l’idea che il cervello dell’Homo sapiens sia capace di funzionamento autonomo» (Geertz 2001: 211), perché anzi esso, «come il cavolo a cui tanto somiglia, essendo sorto nel contesto organizzato della cultura umana, non sarebbe efficiente al di fuori di essa» (Geertz 1987: 114). Occorre invece accettare il paradosso per cui (secondo quanto propone anche la biologia dei sistemi) a una maggiore complessità corrisponde una maggiore dipendenza dall’esterno, per cui una maggiore organizzazione interna richiede una maggiore eteroreferenzialità, di modo che il cervello viene a dipendere da «qualcosa di eterogeneo e di esterno rispetto ai neuroni e alle sinapsi» (Remotti 2011: 201): la sua plasticità e malleabilità richiedono il drastico intervento dell’esteriorità, un intervento che deve appunto prima di tutto ridurre progressivamente le possibilità, rendendo possibile la funzionalità attraverso la creazione di scarti e di perdite. È in questo senso peraltro che «le culture si specializzano» (ivi: 282) e specializzano, ossia selezionano aspetti del reale sui quali investire, da trattare e su cui concentrarsi, a discapito di altri.

4.12. Alla luce di quanto sin qui detto, si può addirittura affermare che «tra i vari organi dell’uomo il cervello è indubbiamente l’organo più culturale», perché «è il più malleabile e plastico, è il più adeguato a esprimere e realizzare la complessità culturale, ed è l’organo il cui sviluppo è stato maggiormente stimolato dall’evoluzione culturale» (ivi: 152). Il cervello umano, consegnato al fuori della cultura e della società, impregna di cultura persino la percezione («le conoscenze possono cambiare l’interpretazione percettiva che deriva dai sensi»: Maffei 2011: 18), interpreta e modifica se stesso e il mondo, cambia gli stimoli che provengono dal mondo a seconda del contesto e della dinamica dei circuiti neurali in un determinato momento, è di per sé meno abile ma più scaltro nell’interpretare i messaggi (aporos pantoporos, facendo riecheggiare le splendide parole di Sofocle), possedendo una struttura che lo prepara ad apprendere e a modificarsi come effetto dell’apprendimento: il cervello, sollecitato com’è dall’esterno, è un vero e proprio creatore di realtà, è un organo attivo nel sonno non meno che nella veglia – tanto da consumare, pur costituendo solo il 2% dell’intero peso corporeo, più del 20% delle risorse dell’intero organismo (cfr. ivi: 23-25 e 38 s.).

«Gli umani, senza le zanne della tigre o l’agilità delle scimmie o il morso velenoso dei serpenti, se la sono cavata assai bene nel guadagnarsi un posto di rilievo nel regno animale grazie alla potente arma del cervello» (ivi: 53): verissimo, ma dall’altro lato è un’arma che «si modifica vivendo» (ivi: 71), che dunque non può essere ridotta ad arma organica come le altre armi animali, che non può essere ridotta a una semplice questione di genetica, poiché l’azione del gene nell’uomo viene «cambiata, corretta e perfino stravolta dalle diverse influenze di una vita» (ibidem). Infatti, «per lo sviluppo ben definito della proprietà della selettività all’orientamento, l’esperienza è necessaria» (ivi: 72), perché appunto definisce e affina un insieme di proprietà nel migliore dei casi «già pronte a sbocciare al livello della struttura ma bisognose di un calcio di inizio dell’insegnante esperienza» (ibidem).

In questo senso, «possiamo conoscere, apprendere e ricordare solo perché il cervello ha la magica proprietà di cambiare funzione e struttura in risposta all’ambiente, cioè in risposta alle informazioni che da esso riceve attraverso i recettori» (ivi: 73) – ossia grazie alla sua plasticità, «potenzialità a variare funzione e struttura, […] incredibilmente alta e quasi inquietante» (ivi: 137) in particolare nel periodo subito dopo la nascita (quel sentimento di inquietudine che nuovamente Sofocle associava all’uomo, to deinotaton), che permette di cambiare il testo cerebrale che descrive ciò che viene «stampato» nei circuiti neuronali e dunque le risposte a un dato segnale «in base alle necessità o a precedenti informazioni depositate in memoria» (ivi: 106). Certo, «nessuno può mettere in discussione l’influenza dei geni» (ivi: 11) e «sicuramente i geni determinano le caratteristiche della specie […]: statura eretta, occhi in posizione frontale e soprattutto un grande sviluppo della corteccia cerebrale» (ibidem): esiste indubbiamente «un laccio di base alla nostra libertà, che non ci permette di cambiare le nostre caratteristiche e relega nel mondo dei desideri irrealizzabili la possibilità di volare come un’aquila o profumare come una rosa» (ibidem).

Ma il punto decisivo da tenere presente è che allo stesso tempo l’uomo è biologicamente caratterizzato dall’«affrancamento dalle catene della biologia: tra tutte le nostre azioni importanti, assai poche sono preprogrammate e preordinate nei nostri geni» (Robertson 1999: 299), siamo capaci «di plasmare il nostro cervello in un numero di modi pressoché infinito […] in mille maniere» (ivi: 300 – corsivi miei), per quanto appunto «sempre entro determinati limiti biologici» (ibidem). «L’espressione di molti geni è soltanto possibile dato il giusto tipo d’esperienza» (ibidem): se certo «i nostri geni pongono dei limiti a quello che il cervello può e non può fare» (ivi: 186), è però vero che «invece di specificare tutti i nostri possibili comportamenti, i geni hanno trasmesso al cervello una sensibilità alle impronte dell’esperienza» (ibidem – corsivi miei). Il cervello si arricchisce «di elementi nuovi, non previsti dal codice genetico: in questo vediamo come la specie trascende il proprio patrimonio genetico per scolpire il cervello usando i mezzi della cultura» (ivi: 178). La «predisposizione biologica» (ivi: 179) genetica, anche quando interviene più direttamente, fornisce «basi […] che ci comunicano […] capacità» (ibidem) che «necessitano poi del nutrimento dell’esperienza per esprimere al meglio le potenzialità dei geni» (ibidem):

l’uomo è programmato geneticamente, ma è programmato per apprendere. […] Anche se i geni e gli ormoni orientano lo sviluppo cerebrale, i circuiti neurali sono essenzialmente costruiti grazie alla nostra storia personale. […] L’essere umano è l’unico a poter sfuggire alle leggi dettate dai geni e dagli ormoni […]. Perché noi non siamo vincolati dai limiti del determinismo biologico (Flamigni 2008: 223 s.).

Il cervello umano presenta così una peculiare programmazione che ha il tratto specifico della «generality» (Prinz 2012: 85), e dunque di una genericità, di una mancanza di specificità che apre alla possibilità di ogni possibile determinazione e specificazione, nel senso che, lungi dall’essere «a blank slate», esso «is equipped with powerful mechanisms for learning, and cognitive resources for putting accumulated knowledge to work in deliberation and problem solving» (ivi: 111), e dunque «we may come into the world without knowledge of any object, category or domain», ossia «we are not born knowing who God is, what puppy dogs are or the basic laws of physics; instead, we are good learners» (ibidem). Il cervello è «flexible and capable of operating independently of the stimuli that happen to be impinging on us at any given time» (ivi: 112) proprio perché la sua programmazione genetica «is largely domain-general», vale a dire che per esempio «we don’t come equipped with one set of learning mechanisms for physics, another for maths and a third for biology», quanto piuttosto con «general-purpose perception, attention and memory»: proprio per questo carattere di intrinseca (e, si badi, genetica e pertanto non degenere) genericità si può di conseguenza affermare che il cervello «is not a university, pre-parcelled into specialized subfields, but an active and hungry learner that discovers different domains through observation and investigation» (ivi: 113).

Siamo così programmati per essere potenzialmente aperti al mondo: non tanto geneticamente quanto genericamente programmati, appunto – e proprio in quanto «programmati», non siamo degenericamente connotati. Proprio in questo senso la natura umana non è né genetica né degenere, bensì generica, cioè l’uomo è Gattungswesen (cfr. anche Agamben 1996: 92; Agamben 2001a: 104-109 e 127): «ente naturale generico», essenza generica intesa come apertura potenziale del/al mondo che si determina modalizzandosi temporalmente, specificandosi storicamente e declinandosi relazionalmente.

4.13. La cultura, pertanto, in quanto esterno e medium determinante e specificante tramite relazione, permette all’uomo di sopravvivere, permette al cervello di funzionare, stante «l’incapacità del nostro apparato nervoso e cerebrale a dirigere il nostro comportamento e a organizzare la nostra esperienza» (Remotti 2011: 21). Il Verhältnis al contempo permette ed è reso possibile da versatilità, flessibilità e mutabilità delle forme di controllo comportamentale, è espresso da ed esprime la liberazione dalla rigidità e inesorabilità della genetica (cfr. Geertz 1987: 90). Esiste cioè uno iato (il già ricordato gehleniano «iato della libertà») «tra quello che ci dice il nostro corpo» (ivi: 92) – ossia le «informazioni genetiche inadeguate perché troppo generiche» (Remotti 2011: 22 – corsivo mio) – e «quello che dobbiamo sapere per funzionare» (Geertz 1987: 92): c’è cioè un «gap between human behaviour and human gene» (cfr. Medina 2000). La risposta ai bisogni e alle tendenze umane avviene per questo in diversi modi: l’uomo può (deve) rispondere ai propri bisogni in molteplici maniere, è tale possibilità, espressione della mancanza di una risposta predeterminata al bisogno e di una soddisfazione immediata della tendenza. Non c’è connessione automatica tra esigenza e sua soddisfazione nell’uomo, e proprio questo apre al fuori, all’esteriorità e alla socialità, alla relazione, all’eteroriferimento, al riferimento a (cfr. anche Remotti 2011: 24 s.) – la pulsione che si apre viene dif-ferita e così ri-ferita-a, rendendo possibile il pre-ferire.

4.14. Tirando le fila del percorso sin qui svolto, in affermazioni come le seguenti possiamo riscontrare la presenza dei tratti fondamentali dell’antropologia marxiana sin qui descritti e fornire loro un’ulteriore sostegno e caratterizzazione:

noi siamo animali incompleti o non finiti che si completano e si rifiniscono attraverso la cultura – e non attraverso la cultura in genere, ma attraverso forme di cultura estremamente particolari. […] Diventare umani è diventare individui, e noi lo diventiamo sotto la guida di modelli culturali, sistemi di significato creati storicamente, nei cui termini noi diamo forma, ordine, scopo e direzione alla nostra vita. E i modelli culturali coinvolti non sono generali ma specifici […]. Essere umani non significa essere un qualsiasi uomo: vuol dire essere un particolare tipo di uomo, e naturalmente gli uomini sono diversi (Geertz 1987: 92, 94 e 96 – corsivi miei).

Tali affermazioni possono ancora accostate ad alcuni passaggi di Lévi-Strauss, per il quale il «pensiero infantile», inteso come «fondo universale [dunque generico], infinitamente più ricco di quello di cui dispone ciascuna cultura particolare» (Lévi-Strauss 1969: 150 – aggiunta e corsivo miei), «fornisce a tutte le culture un fondo comune e indifferenziato [dunque generico] di strutture mentali e di schemi di sociabilità, dal quale ciascuna cultura attinge gli elementi che le permetteranno di costruire il suo modello particolare» (ivi: 140 – aggiunta e corsivo miei):

nascendo, ogni fanciullo porta con sé, in forma embrionale, la somma totale delle possibilità di cui ogni cultura e ogni periodo della storia si limitano a scegliere una parte, per mantenerle e svilupparle. Nascendo, ogni fanciullo porta con sé, sotto forma di strutture mentali abbozzate, l’integralità dei mezzi di cui l’umanità dispone da tempo immemorabile per definire le sue relazioni con il Mondo e le sue relazioni con gli Altri. Ma queste strutture sono esclusive: ognuna di esse può integrare soltanto alcuni elementi tra tutti quelli che sono dati. Ogni tipo di organizzazione sociale rappresenta dunque una scelta, che il gruppo impone e perpetua. In rapporto al pensiero dell’adulto, il quale ha scelto e ha respinto conformemente alle esigenze del gruppo, il pensiero del fanciullo costituisce dunque una specie di sostrato universale, al cui livello non si sono ancora prodotte le cristallizzazioni, e dove resta ancora possibile la comunicazione tra forme ancora non completamente solidificate. […] La molteplicità di strutture di cui il pensiero e gli atteggiamenti del fanciullo ci offrono l’abbozzo nel campo delle relazioni inter-individuali, non ha ancora valore sociale: si tratta di materiali bruti che sono adatti alla costruzione di sistemi eterogenei, ma che ciascuno di questi potrà conservare solo in numero limitato, se vorrà raggiungere un valore funzionale. Questa selezione si produce attraverso l’integrazione del fanciullo entro i quadri della sua specifica cultura. […] La diversità dei suoni che l’apparato vocale può articolare è praticamente illimitata; ogni lingua però conserva solo un piccolissimo numero di suono tra tutti quelli possibili. Ora, durante il periodo del balbettio che precede l’inizio del linguaggio articolato, il bambino produce la totalità dei suoni realizzabili dal linguaggio umano, alcuni dei quali soltanto saranno conservati dalla sua propria lingua. […] Ogni lingua opera dunque una selezione, e da un certo punto di vista questa selezione è regressiva: a partire dal momento in cui essa si instaura, le illimitate possibilità che erano aperte sul piano fonetico sono irrimediabilmente perdute. D’altra parte il balbettio non ha senso, mentre il linguaggio permette agli individui di comunicare tra loro, così che l’espressione è in ragione inversa della significazione (ivi: 150 s. – corsivi miei).

Certo, qui l’antropologo francese insiste troppo sull’irrimediabilità della perdita conseguente alla specificazione selettiva, ma allo stesso tempo riesce a cogliere anche l’elemento paradossale insito nella modalità: è ciò che declina e determina l’apertura e la possibilità, ma allo stesso tempo così facendo ne circoscrive l’orizzonte limitandola nella sua realizzazione. Il punto è che se si fa, come Lévi-Strauss tende a fare, della modalità una sorta di «necessitizzazione» e di «sostanzializzazione», non si coglie che essa sì determina e particolarizza la potenzialità, mantenendola però sempre aperta e incompiutamente realizzata. Se chi crede che sia possibile, auspicabile o semplicemente reale la costruzione della Torre di Babele (il recupero e il ripristino dell’Origine Perduta) ha un’ambizione che lo porta a rifiutare la condizione umana nella sua deficienza iniziale, ossia la legge immanente all’essere umano che per sua natura è lontano dalla perfezione divina (cfr. Zumthor 1998: 23, 164 e 196), lo stesso fa chi – come Lévi-Strauss – vede nella costruzione umana qualcosa che se non può arrivare all’universalità della Torre, potrebbe però giungere a una qualche forma di compimento, particolare e specifico ma pur sempre definitivamente condotto a termine.

Non è che semplicemente l’uomo è nudo e viene rivestito-riempito una volta per tutte dalla cultura, anche perché se può essere nudo è evolutivamente possibile solo grazie alla precedente esistenza della cultura, in modo che questa diventa ciò che gli permette di sopravvivere e di determinarsi storicamente, dando vita a quel processo antropogenico in cui la cultura non tanto si aggiunge alla natura umana come rivestendola per coprirla in maniera definitiva, ma «in qualche modo e misura ne prende il posto» (Remotti 2011: 72) su suo stesso invito per esprimerla e realizzarla. Ed esprimerla e realizzarla significa farsi portatrice dell’elemento di potenzialità che la permea e che fa sì che, nuovamente, non ci sia solo un modo di essere umani, anzi essere umani significa poterlo essere in molti, diversi e imprevedibili modi, senza che ciò nulla tolga al fatto che questi modi possono e debbano essere a pieno titolo «umani». Questo processo in cui – in altre parole – l’uomo deve in qualche modo e misura darsi una forma, costruirsi e inventarsi, è un processo che non può incancrenirsi in un’unica e definitiva forma, se vuole essere un processo di vera antropogenesi:

se in tutte le società gli esseri umani hanno da costruire la loro umanità, comunque decidano di intenderla, è ammissibile che tale costruzione possa essere concepita, a sua volta, in modi difformi. In quali modi, insomma, gli uomini “fingono” la loro natura, in quali modi inventano il rapporto tra natura e cultura, in quali modi affrontano e trattano la faccenda della costruzione di sé? (ivi: 78).

4.15. È l’affermazione dell’interpretazione radicalmente e corentemente multilineare della storia sopra chiamata in causa. In che modo l’uomo si determina? Come specifica la sua esistenza? Quale moda segue e insegue per sopravvivere e vivere? «Ogni cultura ha da elaborare una qualche ‘antropologia’, ovvero una concezione dell’essere umano che tenga conto di una molteplicità di fattori, di principi e di criteri» (ivi: 73): l’uomo in qualche modo, con qualche espediente, deve e-laborarsi e giungere a es-primersi. Per questo, «in tutte le condizioni e in tutte le società, l’uomo non ha potuto aver altro disegno, non ha potuto costruire altro che l’Umanità, comunque la intendesse» (Herder 1992: 289 s.): ossia, in qualunque modo si possa declinare il disegno di essere umani, comunque si voglia essere umani, resta il fatto che si vuole costruire l’umanità e l’uomo, che si deve dar vita a una qualche umanità, in uno spazio di libertà (auto)poietica che è aperto a una molteplicità di forme «che l’uomo può assumere, edificanti o aberranti, condivisibili o incompatibili, fruibili, aperte, disponibili al mutamento, oppure chiuse, elitarie, rigide, cieche, rovinose» (Remotti 2011: 78). Se l’uomo «non può sottrarsi a questa cultura che forma e deforma», essa è una «seconda genesi dell’uomo, che dura per tutta la vita», tanto che «noi non siamo ancora uomini, ma lo diventiamo ogni giorno» (Herder 1992: 158-160), anzi l’uomo «deve imparare da capo tutto ciò che appartiene all’Umanità» (ivi: 91): in qualsiasi modo si scelga di essere umani, non si cessa mai di diventarlo.

L’uomo si presenta come «un ente il cui essere consiste non in ciò che già è, ma in ciò che ancora non è, un essere che consiste nel non essere ancora», realtà e potenzialità in lui non coincidono e per questo è un essere potenziale, «è una pretesa, la pretesa di essere questo o quest’altro», di modo che «ogni epoca, ogni popolo, ogni individuo, modulano in modo diverso la pretesa generale [generica] umana» (Ortega y Gasset 2012: 62 – aggiunta e corsivi miei); ossia la «pretesa generica che è l’uomo in quanto specie» (ivi: 63 – corsivo mio). Per questo, «a differenza di tutti gli altri enti, l’uomo deve farsi la propria esistenza esistendo […], lo voglia o no, deve sempre farsi da sé, auto-fabbricarsi» (ivi: 64), e «tutte le attività umane […] non sono altro che specificazioni, concrezioni di questo aspetto generale [generico] di auto-fabbricazione proprio del nostro vivere» (ivi: 66 – aggiunta e corsivi miei). L’uomo, ente naturale generico, deve finger(si), ossia farsi e costruirsi, senza poter far riferimento ad alcun modello prefissato, l’antropopoiesi è un processo che dura per tutta la vita, sempre aperto e sempre esposto, in cui a fare – letteralmente – la differenza è il modo in cui tale divenire si declina e si indirizza: le forme di umanità assumono un «carattere sempre particolare e determinato» (Remotti 2011: 101), ma comunque sempre indirizzato da e verso l’umanità.

4.16. Esiste dunque, in ragione dell’«inesorabile particolarizzazione» (ivi: 157) cui la natura umana generica è esposta, un «vincolo della particolarità» (cfr. Remotti 2009: 181-190): l’uomo non può che essere particolare e determinato (prima socialmente poi individualmente)26, dunque non può che essere aperto (d)alla breccia dell’alterità, che irrompe per mostrare prima di tutto l’insieme di possibilità scartate ma non per questo impossibili, andando a esibire le strade diverse che non sono state prese. Particolarità significa essere così in questo modo e non in un altro modo, ma significa anche avere il «senso delle possibilità», significa che si avrebbe potuto essere diversamente (in un modo differente) e che ancora lo si può, significa essere consegnati a una costitutiva precarietà ed esposizione relazionale all’alterità che da un lato impediscono ogni determinatezza stabile e necessaria, ma dall’altro consentono la specificazione sempre diversa e la modalizzazione differenziale.

Modalità, potenzialità e rapporto all’alterità vengono così a coincidere e a trovare radice nella genericità dell’apertura esposta al mondo: Gattungswesen e Mitweltoffenheit sono modi diversi e complementari di nominare l’uomo e l’umanità, l’umanità dell’uomo, la dynamis di modificarsi e tras-formarsi per realizzarsi in relazione alla contaminazione alimentatrice con l’alterità. In altri termini, apertura, possibilità, alterità, rapporto con il fuori, modalità e differenza vengono a coincidere, e possono farlo perché conseguenze ed espressioni di una «genericità» da leggere non tanto come incompletezza o carenza di realtà rispetto a una qualche sostanza quanto come coacervo di potenzialità: maggiore è la complessità, maggiori sono l’incompletezza e l’etero-riferimento, vale a dire che l’aumento di complessità è proporzionale all’impossibilità di trovare «tutto dentro» e all’esigenza conseguente di «rivolgersi verso l’esterno», di «rinviare al fuori» e di «ricorrere ad altro» – «tutto sta a vedere come si intende occupare e organizzare lo spazio lasciato libero dall’incompletezza» (Remotti 2011: 124 – corsivi miei; cfr. anche ivi: 104, 208 s. e 229; Remotti 2002: 7; Geertz 1987: 95 s.).

La vita è una questione di come si sceglie di viverla, che l’uomo abbia un Verhältnis significa che la condotta della sua vita è una questione di «modi di essere», perché comportarsi riguarda il come agire in una determinata situazione: per l’uomo «tutto quello che è, è in qualche modo», in una qualche maniera (Peirce 1992: 8; cfr. anche Stohr 2011). Insomma, come voleva proprio Marx, l’uomo ha prodotto la propria vita aprendo e aprendosi alla storia, in ragione di una configurazione fisica che lo chiama a relazionarsi attivamente con quanto lo circonda per specificare e modalizzare in maniera plurale, imprevedibile e temporalmente estesa la sua natura potenziale e generica.

5. Il gene e il clinamen: de-ideologizzare il determinismo genetico

5.1. Stante quanto sin qui detto, si può parlare del determinismo genetico come di un vero e proprio «equivoco», un equivoco che però ha portato, tramite la creazione ideologica di una vera e propria «poetica del gene» (cfr. Benoit-Vidal 2006; Roof 2007), a una sorta di «santificazione del gene», che ha fatto del genoma il sostituto della divinità (cfr. Kupiec-Sonigo 2009) e ha appiattito il concetto di eredità su quello di «meccanismo genetico»: la formazione del patrimonio ereditario, invece, vede giocare un ruolo fondamentale da parte della componente ambientale (cfr. soprattutto Kamin-Lewontin-Rose 1983; Lewontin 1993; Lewontin 2001; Lewontin 2002; Lewontin 2004, nonché gli interventi in Ganten-Gerhardt-Heilinger 2008), tanto che il rapporto genotipo/fenotipo può essere colto come quello tra un testo e la sua interpretazione. In tal senso, «il genoma umano è un testo che necessita di un commento» (Lehrer 2008: 39), perché «quel che ci rende umani, e ciò che rende ciascuno di noi un determinato essere umano, non sono semplicemente i geni che abbiamo sepolti nelle nostre coppie di basi, ma il modo in cui le nostre cellule, dialogando con l’ambiente, operano un feedback con il nostro DNA, cambiando il modo in cui leggiamo noi stessi» (ibidem – corsivo mio) – ossia: «la vita è dialettica» (ibidem). Proprio per questo «il cervello umano non si è sviluppato seguendo un programma rigidamente genetico che ne specifica il destino» e i «neuroni plastici sono progettati per adattarsi alle nostre esperienze», di modo che «la mente è definita dalla sua malleabilità»: paradossalmente però, «è il trionfo del DNA: ci crea senza determinarci. L’invenzione della plasticità neuronale, che è codificata dal genoma, ci permette di trascendere il genoma stesso» (ivi: 40 – corsivi miei).

La mente, la natura umana in generale, «non è scolpita nel marmo – non è qualcosa di solido e inalterabile», ma «è qualcosa di vivo e mutevole» (Eliot 1995: 753), il cervello, come visto, non è un organo impervio agli effetti ambientali, non è rigidamente programmato dai geni e dunque dotato di un numero prefissato di neuroni non in grado di andare incontro a mitosi post-natale: va superata la visione per cui il cervello «presenta delle caratteristiche strutturali, dei rapporti tra i neuroni e dei circuiti [...] considerati come degli invarianti, assolutamente non passibili di modifiche» (Oliverio 1989: 79). Ecco allora che il codice genetico può essere descritto alla stregua di uno spartito di un brano jazz, che chiama in causa un rapporto tra testo e interpretazione molto complesso, nel senso che quest’ultima è molto libera e solo scarsamente legata al testo: c’è infatti spazio per quell’elemento di improvvisazione che non è una semplice negazione dello spartito iniziale, quanto un vero e proprio «incremento d’essere» rispetto a esso e all’opera iniziale.

In tal senso, il fenotipo è il prodotto di un’interpretazione del DNA inteso come copione, interpretazione che si svolge secondo i diversi meccanismi dell’alternative splicing, della metilazione come trasmissione di uno «stile interpretativo», delle mutazioni come trascrizioni cartacee di particolari esecuzioni di un brano: non bisogna dunque sovrastimare il peso del genotipo nella formazione del fenotipo, il quale è figlio di una storia, di una serie di interpretazioni storicamente connotate del messaggio testuale di cui il DNA si fa portatore (cfr. in particolare Vineis 2006). Detto altrimenti, «il DNA non è l’organismo; esso è solo l’informazione per l’organismo, il piano di costruzione. Quanto poco si può ascoltare la musica tenendo un’audiocassetta vicino all’orecchio, tanto poco il DNA, preso per sé, significa una struttura vivente» (Cramer 2002: 423).

5.2. In altre parole, lo sviluppo è soprattutto una faccenda epigenetica, e per questo nel caso dell’uomo e delle sue facoltà è più opportuno parlare di «epigenesi» che non di «maturazione» o «sviluppo»: infatti, «se il processo di maturazione è guidato completamente dalle strutture innate, nell’epigenesi la forma sviluppata (il fenotipo) si costruisce nella relazione fra le potenzialità genetiche e i diversi ambienti in cui quelle potenzialità si possono realizzare» (Cimatti 2011b: 29 s.). In generale, «con la nozione di epigenesi entra in crisi l’idea stessa che esista qualcosa come un fenotipo di “default”, cioè un fenotipo che sia l’esito naturale di un certo genotipo» (ivi: 30), l’idea cioè che «ogni genotipo, in assenza di condizioni particolari, maturi in un tipo determinato (di default, appunto) di fenotipo» (ibidem): epigenesi significa che la relazione tra genotipo e fenotipo «non è più lineare e predeterminata» (ibidem), e dunque che diventa «impossibile sostenere che un certo gene è specifico per una certa funzione» (ibidem). «Non di soli geni» dunque si vive (cfr. Kagan 2011; Richerson-Boyd 2008; Schaffner 1998), «there are many different ways to read a genome» (Noble 2006: 8):

gli organismi complessi non possono essere interpretati come la soma dei loro geni, né di per se stessi i geni sono in grado di produrre, da soli, aspetti particolari dell’anatomia o del comportamento. La maggior parte dei geni influenza aspetti diversi dell’anatomia e del comportamento, operando attraverso interazioni complesse sia con altri geni e con i loro prodotti, sia con fattori ambientali, all’interno e all’esterno dell’organismo in via di sviluppo. Quando parliamo di geni “per” un particolare aspetto dell’anatomia o del comportamento non ci limitiamo a un’innocua quanto eccessiva semplificazione, ma cadiamo in un gravissimo errore (Gould 2009: 244).

Se dunque è vero che «hidden in every cell of the human body, there is a genetic instruction book» (Prinz 2012: 17), ciò non significa che «human behaviour is genetically controlled, and environment plays a negligible role» (ibidem), non c’è infatti in generale alcun gene che «codifica per» un qualche specifico tratto, al più si può dire che lo fa genericamente e dunque richiedendo la relazione con il «fuori»:

the relationship between genes and behaviour is indirect and complex. Variations in certain genes correlate to some degree – usually negligible – with behavioural traits, but many other factors make contributions as well. Crucially, genes do not exert any influence on their own. The activity of a gene depends on many other genes, on biological materials outside the genome and ultimately on factors outside the organism. […] Genes produce organisms by guidind protein production, but they do not do it alone. […] A single gene can be used in the production of more than one protein. […] Some of the genes are like switches. Within any given cell, some genes will be turned on and some will be turned off. […] Similar genes can produce totally different creatures, just a single box of Lego can be used to produce a castle or a rocket, and everything in between. With genes, things are a little bit more constrained, but not much. […] A similar stock of genes can lead to startling differences (ivi: 17, 19 e 21).

Dunque non alcun «gene that codes directly for a trait» (ivi: 24), vale a dire che «there is almost never a one-to-one mapping between genes and traits», piuttosto questi «can be influenced by many different genes, and by interactions between genes and environment», tanto che «in most cases, the environment contributes as much or more than genes» (ibidem). Credere invece che vi sia un qualche «gene per» significa essere vittima di almeno tre «fallacie genetiste», la «Fallacy of Genetic Causation», quella della «Genetic Necessity» e quella della «Genetic Sufficiency», che insieme contribuiscono a promuovere e rinforzare l’idea del determinismo genetico in merito al comportamento e all’agire:

the Fallacy of Genetic Causation is the mistake of thinking that a gene somehow codes for, and is thus directly responsible for, a particular psychological trait. […] First of all, what genes really code for are amino acids […]. Second of all, the impact that a gene has on behaviour is often an accidental by product of the fact that it has an impact on something other than behaviour. […] The Fallacy of Genetic Necessity is the idea that you need to have a particular gene in order to have a particular psychological trait. […] First of all, different genes can have the same effects. […] Consequently, no single can serve as the “red flag for” […]. For the Fallacy of Genetic Sufficiency, when we read that there is a gene for a psychological trait, we tend to think that the gene is sufficient for that trait – we think the trait is inevitable if someone has the gene. But an individual gene is never sufficient for a trait. Every gene depends on other genes and on contributions from the environment (ivi: 24-26).

5.3. In ultima battuta quindi, «the genes don’t directly code for psychological traits, usually aren’t necessary for those traits and usually aren’t sufficient for those traits» (ivi: 27): dietro l’apparentemente neutra e «scientifica» espressione «gene per» si nasconde l’incoraggiamento a pensare che ci sono tratti «genetically determined», mentre se certamente «genes are a precondition for human learning», cionondimeno essi «may not be directly responsible for anything we do» (ivi: 30). In altre parole, «like other creatures, we certainly have some genetic predispositions», ma la determinazione di queste predisposizioni «owe more to experience», come mostra la semplice constatazione che «genes do not dictate what you believe, what political values you have, what occupation you pursue, what cloting you wear or what you eat for breakfast» (ivi: 31):

one reason for this is that most complex traits are multigenic: they are influenced by more than one gene. Identifying a single gene for a single trait is often impossible. Another problem is that the links between genes and behaviour are indirect, so we can find genes that are correlated with psychological traits without having any idea how or whether they are causally related to those traits (ivi: 32).

Tutto ciò, tradotto nella terminologia qui utilizzata, significa che un gene può essere al più genericamente determinante rispetto a una qualche funzione, non c’è alcun dispiegamento di una struttura preformata ma la forma finale si costruisce nello sviluppo, il corredo genetico è dunque generico e non specifico, ma proprio per questo non degenere, in quanto è comunque un dato biologico, il dato biologico umano. Potremmo anche dire che se nessun gene specifica di per sé rigidamente per una determinata attività, resta però sempre vero che esso offre le condizioni di possibilità per lo sviluppo di questa, per lo sviluppo di diverse attività: che ci sia un qualche «gene per il linguaggio» non significa d’altronde altro se non che l’uomo ha la facoltà di parlare (ossia, abilita al possesso di una competenza), ma non specifica né quale determinata lingua possa o debba parlare, né tantomeno quale determinata cosa possa o debba dire, in quale modo e in quale situazione ciò avvenga etc. (ossia, non è mai in grado di stabilire e determinare le innumerevoli e imprevedibili specifiche prestazioni: cfr. Virno 2003a; Virno 2003b). In questo senso, rispetto alla generica «ability to learn a language», «it is not genetically determined that humans are language users; it is genetically determined that if a human baby is subject to the right kind of environment and social conditions, then it will have the ability to learn a language» (Thomson 1987: 32; cfr. anche De Mauro 2002; Prinz 2012: 137-169).

Insomma, «genes do not unconditionally determine any characteristics of an organism» (Thomson 1987: 32), anzi «the effects of genetic structure are always relative to the organism’s upbringing, social environment, and past actions», tanto che «we can only understand the innate nature of an organism by seeing how it responds, and what its capabilities are in different envinronmental and social conditions» (ibidem).

Il punto è però sempre tenere ben presente che se «the only way of knowing what our innate nature consists of is through the way we are in different social settings», è solo e proprio perché «that is what our innate nature is […] our genetic nature is just the way we are variously affected by different social conditions» (ibidem). «The effects of our inheritance and environment are inseparable» (ibidem), nel senso che sono proprio i primi a rendere possibile anzi a richiedere l’istituzione di un rapporto attivo con il secondo: «learning rely on both gene expression and epigenetic conditions» (Churchland 2002: 323), con la prima che richiede le seconde e viceversa (cfr. ivi: 322-328), perciò «we are neither blank slates [natura degenere/vuota] nor bundles of instincts [natura genetica/piena]» (ivi: 327; cfr. anche i saggi in Gove-Russel Carpenter 1982).

Ossia: il corredo genetico umano è generico perché può essere specificato in molteplici diversi modi, non è degenere perché deve essere così determinato, perché è questa la sua paradossale specifica espressione biologica (una volta aperta la relazione, un essere umano non può che imparare a parlare, e lo farà parlando una determinata lingua e in peculiare modo individuale – la cadenza, l’accento, il tono, la gestualità, ecc. –, ma senza la relazione la sua facoltà resterà letteralmente muta, l’uomo rimarrà un in-fante e non diverrà mai umano: cfr. anche Agamben 2001b: 42-61 e 127-135). Pertanto «i geni da soli non bastano» (Cimatti 2011b: 83), una stessa sequenza proteica d’altronde prende parte in numerosi e indipendenti processi di sviluppo, contribuendo così alla formazione e strutturazione di parti dell’organismo diverse e disparate: in altre parole, «il significato funzionale di una stessa sequenza proteica non è uguale in tutti i genomi in cui compare: la sequenza S nell’organismo O nell’ambiente A ha la funzione F, mentre la stessa sequenza S nell’organismo O1 nell’ambiente A1 ha, invece, la funzione F1» (ibidem). Ne consegue che il genoma «non è un’essenza immutabile: ogni genoma permette diverse possibili traiettorie di sviluppo: quale traiettoria effettivamente dipende dal particolare contesto in cui lo sviluppo avviene» (ibidem). Il gene sembra cioè non solo ammettere ma più significativamente addirittura richiedere che il suo moto lineare venga spezzato e «dinamizzato» dal clinamen. Tutto ciò appartiene alla logica evolutiva generale della vita stessa, ma raggiunge nel caso dell’uomo una piena e visibile espressione:

non intendo certo negare che ogni organismo cominci la vita dotato del suo DNA nel genoma. Tuttavia, perché il genoma possa codificare qualsiasi tipo di specifico modello, sarebbe necessario supporre che esiste un qualche modo di leggere queste specifiche informazioni dalla sequenza di basi del DNA indipendentemente dal processo di sviluppo. Questi modi non sono stati trovati. Vi è in verità solo un modo di “leggere” il genoma, e questo è il processo di sviluppo ontogenetico stesso. Ne segue che non ci può essere un disegno formale dell’organismo altro dalla sua forma fenotipica, come essa emerge in un particolare contesto di sviluppo. Quindi il fenotipo, concepito come uno specifico modello indipendentemente dal contesto, non esiste. […] Ciò significa in generale che le forme e le capacità degli esseri umani e di altri organismi sono attribuibili, in ultima analisi, non all’eredità genetica ma alle potenzialità generative del sistema evolutivo, cioè dell’intero sistema di relazioni costituito dalla presenza dell’organismo, compresi i suoi geni, in un particolare ambiente. […] Analogamente, nel caso degli esseri umani, non si può determinare cosa sia un essere umano, o cosa sia la natura umana, al di fuori dei modi molteplici in cui gli esseri umani divengono, nel vivere le proprie vite in comunità e ambienti diversi (Ingold 2001: 62).

5.4. Pertanto, «i geni certamente non controllano il nostro destino» (Marcus 2008: 5), perché il genoma «non è uno schema elettrico per la mente o una fotografia di un prodotto finito» (ivi: 8), in quanto manca quella corrispondenza diretta fra gli elementi del disegno e gli elementi dell’edificio ideato che caratterizza un progetto: per questo motivo non ha alcun senso contrapporre innato e appreso (nature e nurture) nell’essere umano, in quanto il suo innato è la possibilità di apprendere, e può apprendere dunque solo in ragione del suo innato non rigidamente predeterminato nelle possibilità espresse. In particolare, il luogo fisico in cui emerge la paradossalità della condizione umana è proprio il cervello, con la sua paradossale specifica flessibilità, cervello che, non compiutamente condotto dalla «memoria genetica della specie» (Prochiantz 1999: 148), «non è geneticamente umano che nella sua incredibile propensione a essere modulato nella sua stessa forma» (Prochiantz 1995: 144):

il paradosso della flessibilità, la tensione fra la struttura apparentemente complicata del cervello di un neonato e l’enorme flessibilità con cui esso si sviluppa. La natura conferisce al neonato un cervello notevolmente complesso, ma uno che si può considerare predisposto (pre-disposto biologicamente, prewired) – flessibile e soggetto al cambiamento – più che programmato (programmato biologicamente, hardwired), fisso e immutabile (Marcus 2008: 16).

L’uomo, in altri termini, è nato per imparare, nasce con meccanismi mentali sofisticati (innati) che consentono di trarre il meglio dalle informazioni che sono fuori nel mondo (appreso), possiede (come ancora una volta già il pensiero classico aveva colto) in particolare una capacità peculiare di imitare, che sembra innata e che apre all’acquisizione della cultura, della diversità e della comunicazione (cfr. ivi: 23-37): «la natura, l’innato, fornisce un modo per fare un uso sensato dell’appreso» (ivi: 43), ossia «fornisce una prima bozza che poi l’esperienza rivede» (ibidem). Ciò significa che «il destino di un neurone non è fissato nel momento in cui viene alla luce» (ivi: 47), perché anzi la «flessibilità del cervello umano» (ivi: 48) rende possibile una riconfigurazione, un «riprogrammare, ricablare, riavviare, riconfigurare» (ivi: 49):

non c’è alcune ragione per vedere la plasticità in contrasto con l’idea di una struttura congenita. “Congenita” non significa non malleabile, significa solo organizzata prima dell’esperienza. La plasticità non ci dice che gli embrioni hanno bisogno di esperienza per formare la struttura iniziale del cervello, piuttosto che la struttura iniziale può essere modificata in seguito in risposta all’esperienza. […] Se una cosa è programmata non significa che non possa essere riprogrammata (ivi: 50).

D’altronde, la stessa plasticità è «conseguenza delle procedure grazie alle quali l’organismo si assembla» (ivi: 51 s.), vale a dire che «per molti aspetti, lo sviluppo del cervello è semplicemente un caso particolare dello sviluppo dell’organismo» (ivi: 80) e «i neuroni sono pur sempre cellule, specializzazioni di un programma cellulare generale, largamente condiviso all’interno del corpo» (ivi: 81 s.), e sia i «nativisti» che gli «antinativisti» hanno entrambi ragione su qualcosa:

i nativisti hanno ragione nell’affermare che parti significative del cervello sono organizzate anche senza che vi sia esperienza, e i loro oppositori hanno ragione a ribadire che la struttura del cervello è molto sensibile all’esperienza. La natura è stata proprio ingegnosa, infatti, dotandoci di un dispositivo non solo così fantastico che può organizzarsi da sé, ma anche così flessibile che si può raffinare e ricalibrare ogni giorno (ivi: 56, cfr. anche ivi: 105-130 e 174-186).

La natura umana non è qualcosa come un progetto statico, ma un complesso dinamico (potenziale), non è una dittatrice ostinata, ma una coccinella scout, flessibile e preparata con piani di emergenza per ogni evenienza (cfr. ivi: 197):

quello che una creatura vivente può imparare dipende da quali gene possegga. Senza i geni, l’apprendimento non esisterebbe. I geni sostengono l’apprendimento guidando la crescita delle strutture neurali che rendono l’apprendimento possibile e partecipando (almeno in alcuni casi) all’atto stesso dell’imparare. […] Non ci può essere appreso senza innato. […] Dove c’è apprendimento, c’è un meccanismo genetico sottostante, e dove c’è un’abbondante regolazione genica, c’è la possibilità di un apprendimento abbondante (ivi: 198 s.).

La natura umana si presenta in ultima istanza come generica perché il suo programma è un programma per la (ri)programmazione attiva, perché la sua attrezzatura specifica è un’attrezzatura per scovare attivamente nuovi attrezzi, perché la sua predeterminazione è una determinazione all’apertura:

ciò che chiamiamo apprendere, memorizzare e capire è regolato da una vera e propria grammatica molecolare che è prestampata in noi dall’evoluzione biologica. Prestampata, però, non vuol dire “rigida”. Un cervello non è un computer. […] Certamente è compito del genoma regolare sia la formazione di un sistema nervoso, sia le sue interconnessioni con gli organi di senso e con il corpo. Ma, nello stesso tempo, il processo formativo e la rete delle interconnessioni si sviluppano con modalità plastiche. La crescita delle connessioni sinaitiche non è deterministicamente prefissata dal genoma, poiché dipende anche da miriadi di interazioni fra una singola cellula e gli eventi tipici dell’ambiente in cui questa singola cellula sta agendo. Esistono varie classi di cellule nervose, ma, in seno a una data classe, non si danno due cellule tra loro identiche. Si instaura così una pletora di differenze: i cervelli umani sono tra loro simili e grandi linee, ma non ci sono due cervelli tra loro eguali. […] Il cucciolo d’uomo, nelle prime settimane di esplorazione della sua nicchia, esibisce comportamenti regolati da aspettative innate, e si avvia a ristrutturare quelle aspettative attraverso procedure di learning per le quali è già attrezzato (Bellone 2006: 115-117).

Se l’uomo non può così essere paragonato a una sorta di computer pre-programmato, un hardware su cui sarebbe stato già installato ogni software necessario, è certo perché in generale i sistemi biologici operano in maniera diversa rispetto a quelli strettamente computazionali, ma anche e soprattutto perché il cervello umano ha la specificità di essere ancora da-determinare tramite relazione (determinabile), di essere così esposto a quel processo di apprendimento che «colma» e insieme però «realizza» la specificazione solo generica della sua conformazione, che non indica già come compiere quelle funzioni per le quali predispone:

die Analogie zwischen Computer und Gehirn ist bestenfalls eine oberflächliche. Beide Systeme können zwar logische Operationen ausführen, aber die Systemarchitekturen sind radikal verschieden. Das Problem liegt vor allem darin, dass Computer nach anderen Algorithmen arbeiten als biologische Systeme. […] Das grundlegend andere Prinzip von Gehirnen ist, dass diese als sebstaktive, hochdynamische Systeme angelegt sind. In ihrer Organisation, die wiederum genetisch vorgegeben ist, liegt ungeheuer viel Wissens über die Welt gespeichert. Das Programm, nach welchem Gehirne arbeiten, ist durch die Verschaltung der Nervenzellen vorgegeben. Diese Verschaltungen haben sich in einem Jahmillionen währenden evolutionären Prozess entwickelt, sind optimiert bzw. durch Versuch und Irrtum umgestaltet worden. Dabei ist ein System entstanden, das nicht nur vom Aufbau, sondern auch von den Verarbeitungsprinzipien her grundsätzlich anders organisiert ist als ein Computer. […] Seit der Homo sapiens aufgetreten ist und Bilder an die Wände von Höhlen gemalt hat, wird sich an den Gehirnstrukturen, mit denen man geboren wurde, nicht viel gerändert haben – soweit es genetisch determinierte Architekturmerkmale sind. Aber die Gehirnenwicklung vollzieht sich ja nach der Geburt beim Menschen weiter, bi shin zur Pubertät, muss man vermuten. Und das bedeutet, dass das Gehirn zum Zeitpunkt der Geburt – also die Hardware, wie du sagt – nicht fertig ist. Dazu muss ich gleich einschränkend sagen, dass man im Gehirn zwischen Hard- und Software nicht unterscheiden kann. Das Programm für die Funktionen, welches determiniert, wie wir wahrnehmen, wie wir denken, entscheiden, handeln – dieses Programm liegt in der Verknüpfungsarchitektur der Nervenstränge. Wie diese miteinander verschaltet sind, wie stark die einzelnen Verbindungen untereinander sind, bestimmt letztendlich das Programm. Deshalb kann man sagen, dass das Hirn genetisch vorprogrammiert ist für ganz bestimmte Leistungen, aber beim Menschen, weil sich die Entwicklung der Hardware über so lange Zeit nach der Geburt erstreckt, dann die Architektur durch Erfahrungen verändert und ein Teil des Programms installiert warden. Das vollzieht sich nachweisbar: Man kann zeigen, dass Verbindungen, die nach Geburt angelegt warden, zunächst im Überschuss angelegt sind und dann unter dem Einfluss von Erfahrung die passenden nach funktionellen Kriterien herausgesucht warden. Diese bleiben erhalten, währende die, welche wir nicht benötigen, wieder eingeschmolzen warden. Auf diese Weise kommt zum Schluss, also wenn das Gehirn ausgereift ist, also zum Zeitpunkt der Pubertät, eine Architektur heraus, die sowohl genetische Determinanten hat als auch stark mitbestimmt und mitgestaltet wurde durch die Inhalte der Erziehung (Singer 2003: 35 e 97 s.).

5.5. Con un’ulteriore immagine, si può allora parlare del DNA come di una ricetta, come qualcosa cioè che risulta irriducibile a un piano che prefissa e predetermina tramite un insieme di istruzioni che formano un modello da realizzare passo per passo: in questo senso, «di per sé, i geni dicono ben poco» (Ridley 2005: 63), perché un organismo «non viene costruito, ma si sviluppa» (ibidem), e perciò «rispetto all’organismo, il genoma non è tanto un progetto quanto una ricetta» (ibidem), uno stesso gene può attivarsi e si attiva «in configurazioni diverse» (ivi: 62). Alla luce di ciò, «non si tratta più di contrapporre eredità e ambiente – non più nature versus nurture –, ma di considerare invece come la prima si esprima attraverso il secondo: nature via nurture» (ivi: 17), e «più solleviamo il velo che copre il genoma, più i geni ci appaiono vulnerabili all’esperienza» (ibidem), nel senso che «i geni sono fatti per raccogliere i suggerimenti dell’ambiente» (ibidem), così come però questi possono essere significativi per lo sviluppo solo in quanto si rapportano al corredo genetico di base (nurture via nature). Sono dunque proprio i geni che mettono l’uomo «in condizione di apprendere, ricordare, imitare, “improntarsi”, assorbire cultura ed esprimere istinti» (ivi: 21), geni che «non sono burattinai – e nemmeno progetti» (ibidem), ma nemmeno «sono semplicemente i veicoli dell’informazione ereditaria» (ibidem), perché si attivano e disattivano nel corso dello sviluppo e della vita, reagendo all’ambiente: «possono dirigere la formazione del corpo in generale e del cervello in particolare già nel grembo materno; poi, però, in risposta all’esperienza, si accingono quasi immediatamente a smantellare e ricostruire quanto hanno appena edificato. I geni sono al tempo stesso causa e conseguenza delle nostre azioni» (ibidem).

Perciò, «la natura umana è una combinazione di molti elementi» (ivi: 20), e se «spesso i geni sono considerati dei vincoli all’adattabilità del comportamento umano» (ivi: 107), è piuttosto «vero il contrario» (ibidem), ossia che «i geni non vincolano, ma conferiscono capacità» (ibidem): il compito generico del genoma è dunque quello di dotare di facoltà, di aprire possibilità, nel senso che i geni inducono a esporsi all’ambiente, in-clinano verso un ambiente che poi de-clina a sua volta persino i geni stessi. Dunque gli organismi «non vengono costruiti come fossero modelli di aeroplani» (ivi: 182), ma si sviluppano, sempre però sotto la direzione dei geni, che a loro volta «reagiscono alle reciproche influenze, ai fattori ambientali e agli eventi casuali» (ibidem), tanto che «affermare che nella dicotomia eredità-ambiente i geni rappresentano l’eredità e tutto il resto è ambiente è quasi sicuramente sbagliato» (ibidem), in quanto i geni rappresentano «il tramite con cui si esprimono tanto l’eredità quanto l’ambiente» (ibidem), o – detto altrimenti – «i geni sono servi dell’ambiente proprio come lo sono dell’eredità» (ivi: 226).

5.6. Non c’è appunto «alcuna contrapposizione nature versus nurture» (ivi: 147), tutt’anzi, e questa consapevolezza è già antica, come può testimoniare (tra i tanti possibili esempi) un passaggio in cui Clemente di Alessandria afferma che gli uomini giusti si formano non «per natura [physei]» ma «per apprendimento [mathesei]» (Stromata, I, 34, I), salvo poi però affermare che se Dio «per natura ci creò animati di giustizia», però «non si deve certo inferire che la giustizia si manifesti in noi per effetto del solo dato», perché è «mediante la disciplina» che «l’anima si educa a voler scegliere il meglio [mathesei paideutheises]» (cfr. ivi, IV, 29, I): emerge il lucido anche se forse ancora solo parziale riconoscimento di un rapporto paradossale ma reciproco tra elemento strettamente naturale e elemento culturale, tra interno ed esterno, che configura dunque una natura generica che ha bisogno di specificazione e di determinazione storico-culturale e sociale (cfr. anche Stimilli 2011).

Che è quanto viene oggi espresso affermando che «il programma genetico è flessibile» (Ridley 2005: 197), ossia agile tanto rispetto allo sviluppo anatomico quanto a quello comportamentale, di modo che «lo sviluppo si adegua all’ambiente: è in grado di far fronte a circostanze diverse e di ottenere comunque un risultato funzionale» (ibidem), e che «se lo stesso gruppo di geni può dar luogo, nello sviluppo, a risultati diversi, allo stesso modo geni diversi potrebbero portare allo stesso risultato» (ibidem): i geni operano e costruiscono «non direttamente, ma attraverso un processo flessibile di sviluppo» (ibidem). Il che significa certo dare risalto al ruolo «epigenetico» e «relazionale» dello sviluppo, ma significa anche proprio radicare questo nella sua necessaria base genetica: «per quanto se ne enfatizzino le complicazioni e la flessibilità, anche lo sviluppo è alla fine un processo genetico» (ibidem), vale a dire che «l’ambiente esercita la sua influenza solo mediante l’attivazione e disattivazione di geni – geni che consentono plasticità e apprendimento» (ibidem), ossia che «la capacità di apprendere dall’esperienza […] è sotto controllo genetico» (ibidem), per quanto resta sempre vero che «fra geni e comportamento non esiste una corrispondenza uno-a-uno (piuttosto, si tratta di corrispondenze molti-a-molti)» (ivi: 212).

5.7. Il genoma così rappresenta in generale espressione paradossale della «capacità innata […] di apprendere dall’ambiente attraverso l’esperienza, un istinto naturale ad acquisire cultura» (ivi: 255): «per poter assorbire ciò che viene dall’ambiente, occorrono i geni» (ivi: 260), così come però per poter dar voce a quanto reclamano i geni occorre assorbire ciò che viene dall’ambiente; «l’apprendimento ha bisogno dei geni quanto l’eredità» (ivi: 269), così come però i geni hanno bisogno dell’apprendimento – senza esperienza i geni sono vuoti, senza geni l’esperienza è cieca27. I geni dunque vanno intesi «non come fattori deterministici inflessibili, ma come raffinati dispositivi progettati dalla selezione ancestrale per estrarre esperienza dal mondo» (ivi: 364), ossia come «un dispositivo per estrarre informazione dall’ambiente» (ivi: 365):

di per sé i geni sono piccolo implacabili deterministi che sfornano messaggi completamente prevedibili. Ma a causa del modo in cui i loro promotori si attivano e disattivano in risposta alle istruzioni esterne, sono ben lungi dall’agire rigidamente. Piuttosto, sono dispositivi per estrarre informazione dall’ambiente. A ogni minuto – a ogni secondo – la configurazione dei geni espressi nel nostro cervello si modifica, spesso rispondendo direttamente o indirettamente a eventi che hanno luogo fuori dall’organismo. I geni sono i meccanismi dell’esperienza. […] I geni, più che vincolare, rendono capaci di agire. Non riducono le opzioni a disposizione dell’organismo, ma gli offrono nuove possibilità. […] Possibilità aperte all’esperienza, e non predeterminate. I geni non vincolano la natura umana più di quanto un programma aggiuntivo vincoli un computer. […] I geni, a differenza degli dèi, sono “ipotetici”. Sono straordinariamente efficienti nel mettere in atto la semplice logica del “se… allora”: se per ipotesi ti trovi in un determinato ambiente, allora sviluppati in un certo modo (ivi: 366-368).

Insomma, i geni sono «la quintessenza della sensibilità, i mezzi con cui gli organismi possono essere flessibili, i vassalli stessi dell’esperienza» (ivi: 408): per questo, «la contrapposizione nature versus nurture ha fatto il suo tempo. Lunga vita, dunque, a nature via nurture, l’alleanza fra geni e ambiente» (ibidem).

5.8. Per un’antropologia generica, un’antropologia intesa in senso radicalmente materialistico, «i risultati sono grandemente diversi dai programmi» (Timpanaro 1975: 89), perché «la “natura umana essenziale” non prescrive un unico modo in cui divenire umani», piuttosto «fissa i limiti (essi stessi variabili e mobili) alla variabilità con cui le diverse culture umane articolano il potenziale genetico ed evolutivo della specie» (Cimatti 2011b: 49 s.): «c’è il genoma, ma non come insieme chiuso e predefinito di istruzioni, piuttosto come bacino di possibilità che la relazione con […] l’ambiente esterno coglie e favorisce, oppure ignora e trascura» (ivi: 64), vale a dire che «il genoma definisce più che un progetto preciso un ampio spazio di manovra biologico, che contiene un insieme molto ampio di possibili percorsi di individuazione» e «soltanto uno di questi percorsi, di volta in volta, si realizza», presupponendo sempre però «un ventaglio molto più ampio di percorsi di individuazione possibili che non si sono realizzati» (ibidem). Insomma, «il genoma della nostra specie propone un bacino di possibilità, che poi le diverse forze sociali e culturali selezionano e plasmano, e quindi in questo senso “costruiscono”», tuttavia «è una costruzione che in nessun momento può prescindere tanto dalle opportunità quanto dalle costrizioni che il genoma della specie Homo sapiens ripropone ad ogni generazione» (ivi: 65). Se «no behaviour would be possible were it not for our biological constitution» (Prinz 2012: x), resta vero il fatto che nonostante ciò «biology is not the complete story» (ibidem), perché «from the start of life, we are moving beyond nature, and our transcendence of natural determination is our most striking trait» (ivi: xi): anzi ciò avviene proprio in ragione della nostra biologia, nel senso che «we need very sophisticated biological resources to be as flexible as we are […], nature and nurture conspire together» (ivi: 5).

Gli esseri umani sono dunque certo programmati e dunque non degeneri, ma lo sono genericamente, e non sono allora in alcun modo «robots in the grip of their genes» (Bateson 2005: 93). Affermare allora l’essenza umana in termini di «ente naturale generico» significa ricordare che per contrastare la «DNA-mania» (cfr. Pichot 1999)28, «the pervasive idea of genetic determinism, that we are our genes» (Lewis 2011: 23), va dato pieno valore al fatto che nel cammino dell’uomo «several scenarios might come true […] for we can and do change our genes» (ivi: 24), perché persino i geni stessi vengono retro-modificati sulla base della relazione intrattenuta con l’ambiente. Se certo «under normal circumstances, all of our basic anatomy and physiology, and eye colour, height, intelligence and basic personal traits, are ingrained in our DNA sequences», resta cionondimeno sempre vero che «this is not to say that out genomes dictate our lives» (Lesk 2007: vii), perché «our talents have many opportunities to nurture themselves and develop in novel ways, and we can meet and survive brutal stresses», ricordando sempre che paradossalmente «these are gifts of our genomic endowment» (ibidem). Il corredo genetico umano dunque, in quanto generico e potenziale, va concepito in termini di dinamicità, di dynamis: «more than a static information store, our genomes are dynamic, tightly-regulated collections of genes, which switch on and off in many combinations» (ivi: 420).

5.9. Ho cercato di fare emergere come «i geni e la cultura sono collegati in modo inscindibile» (Wilson 1999: 144), un collegamento che è però insieme «flessibile» e «tortuoso», «i geni codificano regole epigenetiche», di modo che la mente assorbe porzioni di mondo «avvalendosi di selezioni guidate dalle regole epigenetiche ereditate» (ibidem): ecco così che per l’uomo la possibilità di migliorare fa tutt’uno con la sua apparente imperfezione, che a ben vedere si presenta dunque come possibilità di migliorarsi e di andare oltre all’immediato (cfr. Eibl-Eibesfeldt 1992; Frey-Störmer-Willführ 2011; Montalcini 1987). Insomma, «l’uomo è predisposto dalla sua costituzione genetica all’apprendimento e alla comunicazione, quindi all’evoluzione culturale» (Cavalli Sforza 2008: 105; cfr. anche Biuso 2002; Changeux 2007; Duncker 2005; Ferry-Vincent 2005; Tomasello 2005; Tomasello 2009; Tomasello 2010): parlare di Gattungswesen, in conclusione, significa allora proprio tentare di nominare quel paradossale e «ossimorico»29 intreccio tra «ipercomplessità» e «imperfezione» che caratterizza la natura umana in quanto generica, potenziale e pertanto da declinare. Significa cioè tentare di comprendere il reciproco richiamarsi di dimensione genetica e culturale, oltrepassare così una visione genetista o degenere della specificità – non per questo specialità, perché in fondo «we are not just rather like animals; we are animals» (cfr. Ferretti 2007; Midgley 1985; Quinton 2011) – umana (cfr. Morin 1974; Morin 2002); significa, da ultimo, comprendere che l’uomo può proprio per questo trovarsi come perdersi.

D’altronde, essere coscienti non vuol dire altro che essere esposti tanto all’errore quanto al suo opposto, significa cioè essere aperti alla possibilità di errare nel senso letterale: se la coscienza «tende a eliminare l’errore [erreur]», lo fa solo per «illuminare l’erranza [errance]» (cfr. Morin 1974: 137), perché «we do not know what our nature permits us to be, […] “our nature” does not answer the question of what it means to be a human being, or dictate what it is that we should become» (Kompridis 2009: 20). Già solo per il perdurare del comportamento esplorativo sino ancora alle ultime fasi della vita, si può affermare che «l’uomo è, e rimane, un essere in divenire» (Lorenz 1990: 255): perciò, «es ist schwer, ein Mensch zu sein» (Scheler 1957-1997: B. XII, 127), ma proprio per questo ci si può anche chiedere con sempre rinnovato stupore «was kann ein Mensch wann lernen?» (cfr. Singer 2002: 43-59). Essere in cammino (essere per la via: aporos), senza una meta prestabilita ma mai senza una direzione (capaci di scegliere la propria umana via: pantoporos): ecco cosa significa diventare esseri umani – e se «essere-uomo significa divenire uomo» (Jaspers 2010: 61) e «impariamo ogni giorno a essere umani […] come tante piccole spugne» (Boncinelli 2011: 47), «occorre essere almeno in due per essere umano» (Kojève 1996: 214), vale a dire che «l’uomo [...] diviene uomo soltanto tra gli uomini» (Fichte 1994: 39).

Note

1 Secondo un principio ben presente già nel pensiero hegeliano e fichtiano. Cfr. però anche p. e. Gehlen 1990: 425-438; Gehlen 1994: 113 e 277; Gehlen 2003: 40; Plessner 1985; Sloterdijk 1993; Gualandi 2002; Gualandi 2003; Gualandi 2010a: 180; Blumenberg 1987: 85-112.

1 bis Sulla necessità di non perdere di vista l’unità “mente/corpo” cfr. Pezzano 2012f.

2 Cfr. Aristotele, Parti degli animali, I, 1, 640a 32-34; Aristotele, Metafisica, VII, 7, 1032a 27-28, 1032a 35-1032b 2, 1032b 10 e 15-17; Kant 1997: passim.

3 Scrive Marx tra il 1879 e il 1880 nelle Randglossen zu Adolph Wegners Lehrbuch der politischen Oekonomie: «gli uomini non cominciano affatto “a stare in questo rapporto teoretico con cose del mondo esterno”. Gli uomini cominciano come ogni animale a mangiare, a bere, ecc., e dunque non a “stare” in rapporto, bensì a comportarsi attivamente, a impadronirsi di certe cose del mondo esterno mediante l’azione e così a soddisfare il loro bisogno. (Essi cominciano dunque con la produzione)» (Marx-Engels 1956-1969: XIX, 362 s.). Per Marx «l’uomo ha bisogno di una “creazione di mano umana” per poter consumare produttivamente le forze naturali allo stesso modo che abbisogna di un polmone per respirare. Per sfruttare la forza motrice dell’acqua è necessaria una ruota a pale; è necessaria una macchina a vapore per sfruttare l’elasticità del vapore. Come avviene per le forze naturali, così per la scienza. […] In questo modo, da minuscolo strumento dell’organismo umano, lo strumento si estende, in volume e in numero, a strumento di un meccanismo creato dall’uomo» (Marx 2008: 287).

4 Ciò valeva perlomeno all’epoca di Marx, che certo non poteva avere in mente l’ingegneria genetica, ma resta – crediamo – ancora oggi vero il fatto che persino qualora si creasse addirittura la vita in laboratorio, si dovrebbe comunque partire dalla ricombinazione – certamente ora quasi creatrice – di «materiale» già pre-esistente in natura.

5 Con un atto di vera e propria ri-soluzione (Entschließung) figlia di quella de-cisione (Entscheidung) che re-cide, ossia che ci dà un taglio (Scheidung).

6 In questo senso, decisione è tanto Beschluss – atto con-clusivo, che si incarica di chiudere (schließen) – quanto Entschluss – atto dis-chiudente, che si incarica di dis-chiudere (ent-schließen), ossia di aprire alle diverse possibilità, attraverso un’Erschließung (apertura nel senso di rendere accessibile, sfruttabile e utilizzabile – erschließen).

7 Significati su cui insiste molto Heidegger 1992 proprio nel tematizzare la diversità del rapporto che l’animale e l’uomo intrattengono rispettivamente con l’ambiente e con il mondo, con una particolare insistenza sul fatto che essere aperti al mondo significa per l’uomo essere in grado di tematizzare l’in quanto tale dell’apertura al mondo (als), nel complesso delle possibilità che gli si schiude dinnanzi.

8 In generale pertanto «la produzione dell’individuo isolato all’esterno della società – una rarità, un fatto che può effettivamente accadere a un individuo civilizzato che il caso ha condotto in un luogo selvaggio, a un individuo che in sé possiede già dinamicamente le forze sociali – è un’assurdità pari al formarsi di una lingua senza che esistano individui che vivano e parlino assieme» (ibidem). Che l’uomo katà physin sia zoon politikon in quanto logon echon e sia logon echon in quanto zoon politikon non significa nulla di diverso.

9 Il comunismo è quell’associazione «in cui il libero sviluppo di ciascuno [freie Entwicklung eines jeden] è condizione del libero sviluppo di tutti» (Marx-Engels 1994: 121). Sulla «libera individualità» marxiana si vedano in particolare Basso 2008; Fusaro 2009; Pezzano 2011c: 213 s., e soprattutto Preve 1998.

10 Punto su cui ha particolarmente insistito Roberto Esposito: su ciò mi permetto di rinviare a Pezzano 2011b; Pezzano 2012a; Pezzano 2011d.

11 L’autore prosegue ribadendo: «homo sapiens ist ein basal verwöhntes, polymorph luxurierendes, multipel steigerungsfähiges Zwischenwesen, zu dessen Bildung genetische und symbolisch-technische Formkräfte zusammengewirkt haben. Sein biomorphologischer Befund deutet auf eine lange Geschichte autoplastischer Verfeinerung. Seine Verwöhnungschancen sind von weither ererbt. Zugleich bleibt er mit einer durchaus animalischen Zähigkeit ausgerüstet, mehr noch, begabt mit einer über das Tiererbe hinausgehenden, vom Zeitbewußtsein der Hoffnung illuminierten Kapazität zum Ausharren unter kargsten Umständen. […] Der Mensch ist durch seine Plastizität etwa in dem Sinn belastet, wie Millionäre unter die Not gebeugt sind, ihr Vermögen verwalten zu müssen» (ivi: 706 e 708). Il che va però letto nel senso peculiarmente paradossale per il quale, come scrive Waldenfels proprio in riferimento alla prospettiva marxiana, «der Mensch sich bewegt von Anfang in all seinen Äußerungen und Betätigungen zwischen Mangel und Überfülle. Demgemäß sind die beiden Aspekte des Nicht und des Mehr nicht voneinander zu trennen, auch nicht in Form eines Zweistufenmodells» (Waldenfels 1990: 183).

12 Cfr. p. e. Jacob 1971; Jacon 1983; Jacob 1998; Jonas 1999; MacLean 1984; Monod 1971; Morpurgo 1987; Pievani 2005; Prochiantz 1992; Prochiantz 1995; Prochiantz 1999; Prochiantz 2009; Teilhard de Chardin 1995; Tinbergen 1994.

13 Cfr. p.e. Lorenz 1990; Lorenz 1995; Lorenz 2005.

14 Su ciò si vedano anche Pezzano 2012d; Pezzano 2012e; per un’interpretazione generale del pensiero marxiano incentrata sulla categoria di potenzialità ontologica (dynamis) si veda l’importante Vadee 1992.

15 Persino la filosofia può trovare spiegazione e giustificazione solamente a partire da una tale concezione dell’umano, come argomenta Preve sempre in riferimento a Marx: «la filosofia è un’attività sociale, e come tutte le altre attività sociali emerge direttamente dal lavoro e dal linguaggio umani, lavoro e linguaggio che hanno una peculiare caratteristica “generica” rispetto al lavoro di molti animali (castori, api, termiti, eccetera). […] Mentre l’architetto deve anticipare nel suo pensiero il progetto della costruzione che si accinge a fare, l’ape invece non costruisce l’alveare sulla base di una progettazione libera preventiva, ma sulla base di un suo corredo genetico integralmente programmato. […] In quanto architetti del peculiare e differenziato legame sociale che costruiscono, gli uomini filosofeggiano, mentre le api non lo fanno. […] L’uomo indubbiamente filosofeggia “per natura”, perché questo deriva appunto dalla sua specifica natura di architetto e non di ape, ma a questa potenziale natura deve anche aggiungersi “in atto” uno spazio sociale particolare, integralmente storico, in cui questa potenzialità naturale possa esplicarsi» (ivi: 11 s.).

16 Dove qui comunità è da intendere, vale la pena ribadirlo, non tanto nel senso organicistico, quanto in quello preliminare della relazione con l’altro da sé e con l’altro essere umano in particolare; come non bisogna dimenticare che la realizzazione della propria natura è qualcosa che avviene necessariamente attraverso ogni singolo, è cioè l’individuo (sociale, il «dividuo») a realizzare le proprie potenzialità naturali, mai una qualche supposta comunità organica.

17 Cfr. anche Begley-Schwartz 2002; Doidge 2007; LeDoux 2002; Mascie Taylor-Barry 1995; Medina 2009; Oliverio 2008; Penrose 1992: 474-511; Penrose 1998: 97-143; Rose 2008.

18 Cfr. p.e. Bolk 2006; Gould 1977: 209-404: 352-404; Gould 2008; Boncinelli 2011: 10-30; Gehlen 1990: 119-131 e 200 s.; Gehlen 2010: 130-150; Morin 2002: 8-13; Riccio 2005.

19 Cfr. Capra 2006: 283-290; Falk 2011; Morin 1974; Morin 2002; Morin 2008; Sloterdijk 2004a: 113-184, 217-238 e 249-256; Remotti 2011: 148-155; Claessens 1980; Fischer 2008: 419-424 e 546-548; Lestel 2001.

20 Giusto per citare alcuni riferimenti, cfr. Portmann 1989; Portmann 2004; Fischer 2008: 197-205, 239-242, 348-350, 361-363 e 571-573; Bossi 2005: 275-286; Gualandi 2009; Gualandi 2010b; Krogman 1972: 2; Pinker 1997: 280 s.; Pinker 2007: 73-75; Sloterdijk 2010: 51-74; Lorenz 2007: 252-257; Simondon 1964: 150-164; Simondon 2004; Simondon 2010: 37 s.; Marchesini 2002: 56-69; Medina 2011: 25-27; Montagu 1981: 43-63; Morris 2007; Anolli 2006: 60-80; Poulain 1991; Poulain 2001; Serres 1980; Serres 2001; Chodorow 1991: 275 s.; Nussbaum 2002: 37-40, 83 e 108-110; Nussbaum 2011: 47-49; Kittay 2010: 49-52, 198 e 239; Cavarero 2003: 190-208; Bloch 1975: 535-537; Anassimandro, DK12, A10; Eraclito, DK22, A18; Ippone, DK38, A16.

21 Cfr. p.e. Mancuso-Zezza 2010; Sloterdijk 2009: 294-324; Violi 2010; Mancia 1989; Irigaray 1992: 35-39; Irigaray 2007: 21-26; Fouque 1999: 77-81; Rich 1996: 47 e 314 s.; Piussi 1992: 21-31; Robertson 1999: 191 s.; Maffei 2011: 62 s.; Bateson 2001; Bateson-Martin 2002.

22 Cfr. Plessner 2000: 71, 112 e 218-220; Blumenberg 2007: 550 e 862; Mazzeo 2003: 70-120 e 230-260; Boncinelli 2011: 13 s.; Morin 2002: 15-18; Macho 2002: 53; Maffei 2011: 23-25.

23 Per la capacità specificamente umana di camminare in seguito a un processo fatto di tentativi, ossia in seguito a un apprendimento conseguente all’esercizio che se rende l’uomo l’unico animale in grado di stare eretto, gli richiede anche una notevole dose di energia e di conseguenza di riposare seduto di tanto in tanto, cfr. anche Aristotele, Storia degli animali, II, 1, 500b 26-501a 3; Aristotele, Parti degli animali, IV, 10, 689b 19-21, nonché tra gli altri Adolph 1997; Cimatti 2011b: 43-71; Hegel 2007: 689-699; Ingold 2004; Plessner 2008: 23-25; Straus 2010: 46-51; Tobias 1992.

24 Cfr. Mazzeo 2003: 104-107, 122-127, 195-235 e 256; Mazzeo 2004; Flores d’Arcais 2005; Flores d’Arcais 2006; Portmann 1989: 15 e 188; Gilbert 2005; Levi Montalcini 1987: 222; Vrba 1996; Zumthor 1998.

25 In generale, per Preve l’etica non può che essere colta in relazione alla «specifica genericità» della natura umana, nella convinzione che la morale stia all’uomo come gli strumenti di difesa stanno alle altre specie animali, laddove la prima però a differenza dei secondi non è semplicemente naturale e immodificabile: «l’etica, in sostanza, non è che l’etologia umana, o meglio quel particolare tipo di etologia di quell’ente naturale generico e non specifico (Gattungswesen) che è l’uomo. […] Per sopravvivere e riprodursi l’uomo deve prima di tutto adattarsi all’ambiente esterno. […] Dal momento però che antropologicamente l’uomo è un animale sociale e comunitario, e quindi politico (politikon zoon), e in più è un animale dotato di ragione, linguaggio e capacità di calcolo (zoon logon echon), a fianco del proprio adattamento all’ambiente esterno esiste anche uno specifico auto-adattamento riflessivo, e cioè un adattamento al proprio ambiente interno comunitario, che deve riuscire in qualche modo a riprodurre e anche ad assicurare una convivenza stabile e regolare. Questo adattamento interno, preliminare e funzionale all’adattamento all’ambiente esterno, è per l’appunto il “costume” (ethos, mos), e il costume si identifica con la cosiddetta “etica”, che non ne è in alcun modo separata» (ivi: 28 s.).

26 Il clinamen marxiano, «a-specifico e al di là della necessità» (cfr. Badiou 1982: 77), afferma proprio la capacità di ogni singolo di declinare liberamente e creativamente la natura in quanto generica andando oltre i fati foedera, capacità di de-viare e s-viare rispetto alla «linea retta» della necessità senza la quale d’altronde non potrebbe avvenire nemmeno alcun incontro tra gli individui: cfr. Marx 2004a; Cooper 2011: 143-145.

27 Il che permette forse di giungere ad affermare che il trascendentale ricercato da Kant risiede proprio nel Gattungswesen, nella natura umana genericamente intesa, in quanto è a partire da questa che può essere adeguatamente colto il piano trascendentale come piano che rende possibile l’esperienza (non è ciò che è immediata natura: genetica) essendo in essa e non separato da essa ma senza ridursi a essa (non è ciò che non possiede alcuna natura: degenere): trascendentale è il piano del naturale-artificiale (né semplicemente trascendente rispetto all’esperienza – dimensione innata e «interna» – né semplicemente immanente rispetto all’esperienza – dimensione appresa ed «esterna»), della dimensione generico-potenziale che supera riarticolando quelle genetica e degenere, è il piano del faktum della libertà noumenica che possiede consistenza propria (naturale) ma non può però trovare espressione al di fuori di quanto è fenomenico (culturale), è quell’oltre-natura all’interno della natura che rende possibile la piena esplicazione della natura (umana). Per un più generale tentativo di ripensare alcune fondamentali categorie concettuali ed esperienze umane che muova dalla tematizzazione preliminare della natura umana nei termini qui esplicitati rinvio a Pezzano 2011a; Pezzano 2012b; Pezzano 2012c.

28 Che è poi la versione contemporanea di quel naturalismo estremo che sin dall’eugen(et)ismo antico ha cercato paradossalmente di pensare la perfettibilità dell’uomo partendo dalla possibilità di cogliere i tratti essenziali della sua natura per poi giungere a manipolarli – cfr. anche Passmore 1970: 171-259.

29 «Die menschliche Natur ist ein Oxymoron» (cfr. Heyd 2005), perché «es ist ein Charakteristikum der “Natur” des Menschen, dass er nicht nur (wie Tiere) einer evolutionären veränderung unterliegt, sondern sich verändert; in diesem Sinne ist er “von Natur aus Künstlich”. Seine “Natur” ist daher nichts stabiles und konstantes, sondern veränderlich. Genauer: Sie ist selbst-veränderlich» (Bayertz 2009: 204).

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